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Italian Pages [253] Year 2014
Ladri di Biblioteche Progetto Fascismo 2019
Conversione pdf: FS, 2020
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eBook Laterza
Alessio Gagliardi
Il corporativismo fascista
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© 2010, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: giugno 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858115251 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
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Sommario
Introduzione Note
1. Cultura, idee, ideologia 1. La «civiltà dei produttori» 2. La ricerca della terza via 3. I diversi corporativismi Note
2. L’autoritarismo sindacale 1. La lunga preparazione 2. Nel segno di Alfredo Rocco 3. Un ministero per lo Stato nuovo 4. Dal sindacato alla corporazione Note
3. Corporativismo senza corporazioni 1. Il Consiglio nazionale delle corporazioni 2. Lo «Stato maggiore dell’economia» 3. Politiche sociali e legislazione del lavoro 4. La «normalizzazione» Note
4. Le corporazioni entrano in funzione 1. Nella teoria e nella realtà 2. Effetti sull’economia 3. Un nuovo sindacalismo 4. La politica degli industriali 5. Il corporativismo realizzato 6. Delusioni e mancate riforme Note
Sigle e abbreviazioni 5
a Marco, che ha reso onore alla vita
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Introduzione
Quando Mussolini, al cospetto di una Camera dei deputati gremita di gerarchi del Partito nazionale fascista, di imprenditori e di dirigenti sindacali, presentò la legge che istituiva le corporazioni, era il 15 gennaio 1934. Oltre undici anni erano trascorsi dalla marcia su Roma; nove dalla svolta del gennaio 1925, con cui si abbandonava ogni residua garanzia costituzionale; otto dall’approvazione dell’ordinamento sindacale, al cui vertice erano inserite proprio le corporazioni; quattro dalla nascita del Consiglio nazionale delle corporazioni, nato proprio per coordinarne le attività. Le corporazioni videro la luce quando già da anni altri pezzi della legislazione sindacale e corporativa erano entrati in vigore. E divennero realtà quando già da tempo erano oggetto di proclami, studi, libri, congressi, che ne celebravano la carica innovatrice e il ruolo fondamentale nello «Stato nuovo» fascista. Per anni fiumi di parole erano stati spesi per analizzare, commentare e discutere un oggetto che non esisteva. La distanza fra le parole e le azioni, fra i programmi e le realizzazioni, d’altra parte, fu un dato ricorrente nel ventennio fascista: basti solo pensare alle politiche demografiche, al ruralismo, alla costruzione di un fascismo «oltremare» o al mito del «popolo in armi». Quella distanza venne segnalata già dalle analisi degli antifascisti e dalle denunce dei fascisti «delusi» e sarebbe stata in seguito 7
ampiamente scandagliata dalla ricerca storica. L’enfasi posta sul divario fra teoria e fatti, e il travisamento del suo significato, ha però contribuito ad alimentare, già all’indomani della caduta del regime, una particolare attitudine nei riguardi del fascismo: l’attitudine a ridimensionarne i connotati più forti, a deprivarlo dei suoi caratteri totalitari, razzisti e imperialisti e a vedere in esso poco più di una messa in scena, un bluff, un «regime da operetta». Da questo atteggiamento, tuttora fortemente radicato in una parte dell’opinione pubblica, non è stata e non è del tutto immune neanche la storiografia1. Si tratta naturalmente di un travisamento. Rilevare la discrepanza tra programmi e realizzazioni non dovrebbe comportare, di per sé, un giudizio riduttivo sul fascismo. Molti studiosi hanno infatti messo in luce quanto rilevanti siano stati i programmi, le teorie e le ideologie e quanto il fascismo, pur con limiti e contraddizioni, riuscì a metterli in pratica. La migliore storiografia sul ventennio ha mostrato come il fascismo si fosse dotato di una propria cultura e di un’autonoma dimensione politica, come fosse riuscito a formare una classe dirigente e a creare un’adesione di massa, e ha messo in evidenza il carattere totalitario delle idee e delle pratiche: ha, in altre parole, preso il fascismo sul serio. Su nessun’altra questione la distanza tra teoria e fatti fu rilevante come nel corporativismo. L’intervento dello Stato nell’economia si svolse infatti prevalentemente al di fuori delle procedure e delle istituzioni corporative. La costruzione dell’apparato, poi, fu segnata da lentezze e contraddizioni: il Consiglio nazionale delle corporazioni, previsto dai regolamenti della legge sindacale del 1926, fu istituito solo nel 1930, con il compito di coordinare i lavori delle corporazioni, che però vennero costituite dopo altri quattro anni. Proprio l’enorme divario tra i programmi e le realizzazioni e l’indiscutibile pochezza di queste ultime 8
hanno impresso al corporativismo l’indelebile marchio del fallimento, probabilmente il maggiore e più appariscente del regime fascista. Limitarsi a registrare l’inconcludenza e l’insuccesso non esaurisce però la questione. L’importanza dei programmi e dell’ideologia ne risulterebbe ridimensionata. Fu infatti soprattutto attraverso l’idea del corporativismo che il fascismo tentò di proporre se stesso, agli italiani e al mondo intero, come una «terza via» alternativa tanto al capitalismo quanto al socialismo, come un esperimento rivoluzionario artefice di uno «Stato nuovo» e di un diverso modello di società. Il fatto che oggi l’idea corporativa ci possa apparire mistificante, fragile culturalmente, in contraddizione con il formarsi di una moderna società di massa, volta a semplificare forzatamente una realtà complessa, non toglie che quella prospettiva potesse apparire credibile a molti e che essa costituì il canale attraverso il quale il dibattito italiano poté raccordarsi alla riflessione che si svolgeva nell’Europa tra le due guerre sui problemi, i cambiamenti e le contraddizioni delle moderne società industriali. La questione del corporativismo, d’altra parte, si raccorda direttamente al problema centrale della politica moderna: il problema di come conciliare la pluralità di interessi presenti nella società con la costruzione dell’unità del comando dello Stato. È un problema fortemente avvertito dal fascismo, che proprio sull’affermazione di un potere statale «totale» e sull’unificazione della nazione costruì il suo progetto politico e ideologico2. Il corporativismo fu lo strumento con cui il fascismo si prefisse di mettere in relazione lo Stato autoritario e totalitario con la diversità e pluralità di interessi presenti nella società, espressi soprattutto dalle organizzazioni sindacali. La soluzione corporativa consisteva nel tentativo di far prevalere l’«interesse nazionale» (coincidente naturalmente 9
con gli obiettivi del fascismo e dei suoi alleati) sugli interessi particolari e particolaristici presenti nella società (classi, ceti e categorie), reprimendo la natura conflittuale e centrifuga di questi ultimi. La strada scelta non fu però la negazione dei gruppi di interesse ma la loro «istituzionalizzazione» e «fascistizzazione», che voleva dire riconoscere loro la legittimità politica e una rappresentanza nelle strutture dello Stato attraverso una completa assimilazione al regime. Se sul versante ideologico la soluzione corporativa comportò l’aprirsi di una vasta e partecipatissima riflessione sul superamento dello Stato liberale e dell’economia capitalistica di mercato, sul versante politico-istituzionale essa diede luogo a una duplice linea di intervento: la disciplina dei rapporti di lavoro e la regolazione e gestione dell’economia. La seconda non rispose alle aspettative dei corporativisti e alle dichiarazioni ufficiali; la prima invece venne pienamente messa in atto. La disciplina dei rapporti di lavoro ebbe infatti una completa realizzazione già alla metà degli anni Venti, con l’approvazione dell’ordinamento sindacale disegnato da Alfredo Rocco. Lo sciopero e la serrata vennero vietati e le libertà sindacali e il pluralismo delle organizzazioni furono abrogati, a favore del monopolio della rappresentanza concesso alle organizzazioni fasciste. L’obiettivo perseguito era la soppressione della lotta di classe e l’instaurazione di una società ordinata e armonica. L’apparato elaborato da Rocco non si limitò a varare una regolamentazione fortemente autoritaria dei rapporti di lavoro e dell’attività sindacale ma diede vita a un vero e proprio sistema di controllo e disciplina delle relazioni tra le classi sociali. Quel sistema – rigido e al tempo stesso estremamente «moderno» – era fondato sul completo «imbrigliamento» della società, sulla rigida classificazione dei diversi gruppi sociali e sull’inquadramento di ogni individuo all’interno della specifica categoria di 10
appartenenza. Ogni categoria era organizzata in un sindacato. I sindacati, a loro volta, dovevano ottenere il riconoscimento statale, che ne sanciva la subordinazione al governo. L’eliminazione del conflitto sociale – ed era qui la modernità del sistema – avveniva quindi non negando la divisione in classi della società e la legittimità delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, ma riconducendo i sindacati entro la sfera statale. In altre parole, i gruppi di interesse «privati», rappresentati dai sindacati fascisti legalmente riconosciuti, acquisivano il sigillo di istituzioni «pubbliche». La soppressione delle organizzazioni non fasciste e l’eliminazione della libertà di associazione e di sciopero non davano perciò luogo a un semplice e irrealistico ritorno al passato, a una reciproca estraneità tra Stato e società. La presenza di un complesso reticolo organizzativo veniva assunta come dato ineliminabile in una moderna società di massa. Nel fascismo, d’altra parte, il momento della distruzione, della violenza e della repressione fu sempre inscindibilmente saldato e sovrapposto a quello della costruzione di norme, procedure e apparati nuovi. La costruzione e il consolidamento dell’adesione al regime avvenne quindi non soltanto attraverso i miti unificanti, la mobilitazione politica, il riempimento degli spazi di vita da parte delle strutture associative facenti capo al Pnf, ma anche affermando un legame positivo tra gli interessi specifici e particolari delle categorie e gli obiettivi unitari, «nazionali» promossi dal regime. Assai meno soddisfacenti, per i fautori dello Stato corporativo, furono i risultati conseguiti sul terreno della gestione dell’economia. Contrariamente alle attese e ai proclami ufficiali, gli organi corporativi non riuscirono a indirizzare e coordinare le scelte degli imprenditori, a limitare il potere dell’iniziativa privata, a imporre una 11
programmazione pubblica degli investimenti. Tuttavia, le istituzioni corporative non risultarono affatto ininfluenti, perché costituirono la sede in cui vennero discussi provvedimenti relativi alla politica economica e industriale e ai temi del lavoro e dell’assistenza. Nella mediazione formalmente paritaria tra classi e tra categorie offerta dalle corporazioni si trasferirono le dinamiche conflittuali e rivendicative, altrimenti represse e condannate all’illegittimità. Attraverso le discussioni corporative prese forma una modalità non democratica di mediazione e contrattazione tra gruppi di interesse e Stato. I sindacalisti e gli imprenditori poterono valersi delle nuove procedure per far pesare le proprie ragioni nei confronti delle controparti o dei concorrenti ma anche per avanzare richieste al governo. La crescita simultanea della spesa pubblica e dell’intervento statale negli anni Trenta e la parallela riduzione del potere del mercato richiamarono la partecipazione dei gruppi di interesse. Fu anche attraverso l’apparato corporativo – indipendentemente dall’esito e dalla reale portata delle discussioni – che i rappresentanti di quei gruppi furono ammessi sistematicamente e istituzionalmente al tavolo delle trattative. Non si trattava, nelle linee generali, di un fenomeno completamente nuovo. Già durante la prima guerra mondiale e negli anni del dopoguerra, nelle società europee si era progressivamente affermato il principio che le misure di natura economica o socioassistenziale potevano essere elaborate e discusse con la diretta partecipazione delle organizzazioni di rappresentanza degli imprenditori, dei lavoratori e, in diversi casi, delle classi medie (professionisti, impiegati pubblici, piccoli commercianti). L’esperimento corporativo si caratterizzò però per due aspetti peculiari e pienamente innovativi: da un lato, il carattere istituzionale di quella partecipazione, il fatto che 12
essa avveniva in sedi ufficiali e secondo modalità regolate dalla legge; dall’altro, la compartecipazione delle organizzazioni degli interessi al processo decisionale vero e proprio, vale a dire alla formulazione di leggi e decisioni politiche. Se per i sindacati dei lavoratori – rappresentativi di un settore della società duramente colpito dal fascismo – le nuove opportunità rimasero per lo più sulla carta, le organizzazioni degli imprenditori seppero invece approfittarne abbondantemente, in virtù della propria forza contrattuale e della propria autonomia. Le corporazioni furono, per le organizzazioni imprenditoriali, uno dei canali privilegiati attraverso i quali entrare nella «cittadella» dello Stato e tentare di cogestire lo spostamento del potere dal mercato alle istituzioni pubbliche e, nel contempo, inserirsi nel processo della decisione politica e dell’azione amministrativa. Il fascismo non riuscì dunque a sopprimere l’assetto conflittuale ereditato dalla società di massa degli anni precedenti la marcia su Roma, ma lo interiorizzò. Si trattò, almeno all’apparenza, di una contraddizione, che rappresentò però la specifica «traduzione italiana» della nuova dimensione sociale e corporativa del potere politico che allora tutti i paesi industrializzati (democratici, autoritari o totalitari) stavano, ognuno a suo modo, sperimentando. Alla luce di queste considerazioni appare opportuno collocare il giudizio di totale fallimento – comunque indiscutibile se si pongono in relazione i proclami e gli esiti – in un quadro interpretativo più ampio, misurato attraverso un’analisi nel merito dell’effettivo operato delle istituzioni corporative. È quanto questo libro si propone di fare. Si intende, in questo modo, colmare una lacuna. La dimensione ideologica del corporativismo (da ritenere a tutti gli effetti un aspetto fondamentale e non una finzione o una 13
raccolta di promesse non mantenute) e la costruzione legislativa appaiono infatti ampiamente dissodate, mentre esigue e parziali sono state le indagini sul funzionamento «reale» del corporativismo, vale a dire sulla vita e sull’attività dell’apparato. Si pensi al fatto che, a parte qualche frammento, disponiamo di conoscenze ancora molto limitate sulla composizione degli organi, sui temi trattati, sulle modalità e sugli esiti delle discussioni. Questo libro si propone proprio di offrire una prima ricostruzione dell’effettiva attività svolta dal Consiglio nazionale delle corporazioni e dalle corporazioni: una ricostruzione volutamente incentrata sul funzionamento generale del sistema più che sulle ricadute minute, sul rapporto tra istituzioni e organizzazioni di rappresentanza più che su quello tra istituzioni e soggetti sociali; una ricostruzione, inoltre, inevitabilmente «a campione», vista anche la lacunosità delle fonti a disposizione dello storico (sono infatti andati persi molti archivi degli organi corporativi, del ministero delle Corporazioni e dei sindacati fascisti). I numerosi archivi consultati hanno comunque reso possibile mettere a fuoco momenti e aspetti rilevanti dell’attività dell’apparato corporativo e, attraverso l’esame più approfondito di alcune discussioni e procedure, hanno consentito di far emergere le linee generali del funzionamento complessivo del sistema. Naturalmente con questo non si vuole rovesciare o ridimensionare l’idea di un assoluto divario tra le ideologie corporative e le realizzazioni pratiche, perché l’esito fallimentare di quella vicenda è indubbio. Si è voluto, invece, esaminare la realtà del corporativismo nella convinzione che la chiave di lettura del fallimento costituisca non tanto la risposta conclusiva alla domanda su cosa sia stato il corporativismo, quanto un problema da indagare e che – a fronte del grande impegno dottrinario e 14
propagandistico e delle insistite prese di posizione degli uomini di punta del fascismo – deve essere a sua volta spiegato3. Si tratta, insomma, di rimettere in gioco la questione del corporativismo nella riflessione generale sul fascismo. Nel corso di questo lavoro ho contratto numerosi debiti. Un ringraziamento particolare va a Sabino Cassese: i suoi suggerimenti e l’attenzione dimostrata hanno costituito uno stimolo di incommensurabile rilevanza. Guido Melis e Alfio Signorelli hanno letto il manoscritto, fornendomi indicazioni e consigli e, soprattutto, confortandomi e sostenendomi con la loro stima. Sono grato alla Fondazione Luigi Firpo e a Pier Giorgio Zunino per avermi permesso di portare avanti la ricerca, e ai funzionari e al personale degli archivi e delle biblioteche presso i quali ho condotto le ricerche. Con gli amici e colleghi Giulia Albanese, Margherita Angelini, Valeria Galimi, Gian Lugi Gatti, Chiara Giorgi, Matteo Pasetti si è intessuto negli anni un dialogo proficuo e ormai irrinunciabile. Giovanni Sabbatucci ha seguito costantemente questo lavoro in tutti i suoi passaggi, dall’idea iniziale alla stesura finale. Con lui ho accumulato un debito speciale, che va ben oltre queste pagine. Un grazie infinito a Chiara, senza bisogno di aggiungere altro.
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Note 1 Emilio Gentile parla opportunamente di «defascistizzazione del fascismo». Per un’efficace messa a punto della questione cfr. in particolare Id., Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. V-VIII. 2 Cfr. le considerazioni sviluppate in S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000, pp. 23-25. 3 Suggerimenti in questo senso sono anche in S. Cassese, Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in «Quaderni storici delle Marche», 1968, ora in Id., La formazione dello Stato amministrativo, Giuffrè, Milano 1974, p. 88.
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1. Cultura, idee, ideologia
1. La «civiltà dei produttori» Nessuna questione più del corporativismo riuscì ad animare il dibattito culturale e ideologico dell’Italia fascista. Il miraggio di una società armonica, non più infuocata e divisa dalla lotta di classe, attirava e coinvolgeva ampi settori del mondo intellettuale. Tra la metà degli anni Venti e la fine degli anni Trenta videro la luce migliaia di volumi, articoli, opuscoli divulgativi e riviste dedicate appositamente al tema; furono organizzati convegni di studio e innumerevoli incontri di propaganda; vennero create apposite istituzioni culturali; furono infine modificati gli insegnamenti universitari nelle materie economiche e giuridiche per inserire istituzionalmente il verbo corporativo. L’impressionante mole delle pubblicazioni è perfettamente testimoniata dalla Bibliografia sindacalecorporativa pubblicata da Alfredo Gradilone nel 1942, composta di oltre millecento pagine e di circa dodicimila voci bibliografiche1. Tra gli innumerevoli contributi si annoverano non solo quelli dei dirigenti fascisti di primo piano e di molti dei più noti intellettuali del periodo. Il tema circolò ampiamente anche presso gli intellettuali non inseriti nell’accademia e nei grandi istituti culturali, presso le riviste a diffusione provinciale e le piccole case editrici. Il corporativismo fu infatti, durante il fascismo, pressoché l’unico argomento sul 17
quale in Italia si potessero esprimere posizioni difformi2. Già negli anni precedenti numerosi filoni culturali e politici avevano manifestato e variamente sviluppato l’esigenza di un superamento dello Stato liberaldemocratico e il sostegno a modelli corporativi. L’aspirazione a una riforma dello Stato incentrata sulla presenza nel parlamento di rappresentanze delle categorie produttive e il vagheggiamento di una conciliazione dei diversi interessi sociali attraversavano infatti gli schieramenti. Il corporativismo, come forma di difesa dalla lotta di classe ma anche dall’invadenza dello Stato, rappresentava dall’ultimo ventennio dell’Ottocento uno degli aspetti costitutivi della dottrina sociale della Chiesa e del programma del movimento cattolico. Nel primo dopoguerra, sulla scia anche dell’esperienza della mobilitazione industriale durante la prima guerra mondiale, la questione della collaborazione tra le classi aveva esercitato significative suggestioni nel mondo imprenditoriale, nella minoranza turatiana del Partito socialista e in alcuni settori della dirigenza sindacale3. Evidenti richiami al corporativismo permearono la Carta del Carnaro, la costituzione dello «Stato libero di Fiume». L’invocazione di una «trasformazione del Parlamento mediante un’equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti al Governo del Paese» appariva anche nel Manifesto del Partito futurista italiano stilato da Marinetti all’inizio del 19184. Il corporativismo fu soprattutto un elemento decisivo dell’ideologia e del programma politico dei nazionalisti – principalmente per opera di Alfredo Rocco, che ne realizzò una torsione in senso statalista – e di quella componente del sindacalismo rivoluzionario approdata, attraverso la scelta interventista, alla nuova esperienza del sindacalismo nazionale dell’Unione italiana del lavoro, guidata da Alceste De Ambris ed Edmondo Rossoni5. 18
Fu proprio da questi due precedenti politici e ideologici che il fascismo trasse gli architravi su cui fondare la propria idea di corporativismo. Il primo era il produttivismo, che sostituiva la lotta per la distribuzione della ricchezza tra le classi con l’obiettivo dell’aumento al massimo grado della capacità produttiva dell’economia nazionale. La figura di riferimento diveniva quella del «produttore», che racchiudeva tutte le componenti che partecipavano alla produzione, dall’operaio al tecnico fino all’imprenditore. Il secondo, legato strettamente al presupposto produttivistico, era il rifiuto del sistema di rappresentanza liberale, incentrato sul meccanismo elettorale e sull’atomismo individuale, e il conseguente sostegno a un nuovo sistema di rappresentanza basato sulle categorie produttive. Non il cittadino ma il produttore era dunque posto al centro del sistema corporativo. L’individuo veniva in questo modo inchiodato a una dimensione unica, identificato strettamente con il suo status professionale e con la sua condizione lavorativa6. Vale la pena rilevare come un’identificazione di questo genere appaia, almeno a prima vista, difficilmente conciliabile sia con la mobilitazione ideologica promossa dal regime, fondata sull’identificazione diretta di individuo e Stato fascista e connotata da marcati accenti antimaterialisti e spiritualisti, sia con l’allargamento e la differenziazione delle esperienze di vita di ampi settori delle classi medie, prodotto di una prima limitata diffusione dei consumi e di una nuova disponibilità di tempo libero. Solo una storia sociale delle idee potrebbe illuminarci non solo su come queste diverse spinte si sommarono l’una all’altra ma anche sull’interazione con i diversi strati della società. La riflessione degli intellettuali, da parte sua, non contribuì certo a sciogliere il nodo, di cui anzi si mostrò generalmente poco consapevole. 19
In ogni caso, fortemente radicata nella temperie degli anni a cavallo della grande guerra, quando numerosi filoni culturali e politici furono in varia misura contagiati dall’ottimismo della «civiltà dei produttori», la prospettiva produttivistica sarebbe apparsa assai poco realistica nel pieno della crisi economica degli anni Trenta. La caduta di quella prospettiva avrebbe perciò costretto molti interpreti dell’idea corporativa ad abbandonare la strada del culto dell’efficienza tecnica e della razionalità organizzativa per percorrere quella dell’antimaterialismo e dell’antiutilitarismo. L’idea di un sistema fondato sull’eliminazione del conflitto fra le classi faceva parte sin dall’inizio del bagaglio ideologico e programmatico del fascismo. Fu però solo dalla metà degli anni Venti che prese avvio il vero e proprio dibattito sul corporativismo. Da quel momento infatti il tema iniziò a uscire dalla vaghezza e dalla nebulosità. Cominciarono a diradarsi alcuni equivoci concettuali e semantici che ne avevano accompagnato la messa a punto. Basti pensare al fatto che, ancora fino alla legge sindacale del 1926, il termine «corporazione» veniva utilizzato nelle riviste e nei documenti ufficiali per indicare indistintamente le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori e gli organismi pubblici che avrebbero dovuto sovrintendere all’operato delle une e degli altri e coordinarne le attività in funzione di un comune obiettivo. La fase di maggiore intensità e apertura delle discussioni sul corporativismo si ebbe nella prima metà degli anni Trenta. Coincise quindi con gli anni della crisi economica e della costruzione delle istituzioni corporative e iniziò a segnare il passo con la guerra d’Etiopia e la svolta imperialista, cui fece da contrappunto, nella politica e nell’ideologia economica, l’adozione dell’indirizzo autarchico7. 20
Nel corso di questo periodo il corporativismo costituì l’alveo entro cui venne ricondotta la produzione intellettuale sul tema della regolazione dell’attività economica, della «fine del laissez-faire», del controllo del progresso tecnologico, di una nuova legittimazione sociale dello Stato di massa, del carattere istituzionale assunto dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi sociali. Per la scienza economica e per il pensiero giuridico degli anni Trenta le discussioni sul corporativismo furono anche l’occasione per tentare il rinnovamento di teorie e paradigmi interpretativi. Nell’ambito della cultura economica, i cosiddetti «corporativisti integrali» – Ugo Spirito, Gino Arias, Filippo Carli, Nino Massimo Fovel, tra i più rilevanti – tentarono, in termini diversi l’uno dall’altro, di porre in atto un’ambiziosa quanto velleitaria opera di demolizione della teoria classica e neoclassica, per costruire una «nuova scienza economica»8. Della dottrina marginalista, presto sbrigativamente denominata «liberale», i corporativisti misero in discussione soprattutto le premesse individualistiche, di cui era espressione l’astrazione dell’homo oeconomicus9. In quelle premesse vedevano l’origine della scissione di economia e politica, ritenuta «quasi una sorta di peccato d’origine»10. A legittimare le posizioni dei teorici della nuova scienza economica era lo stesso Mussolini. Per il capo del governo, infatti, il rifiuto della teoria dell’«uomo economico» era parte della costruzione dell’«uomo integrale» («che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero»), con cui si superavano le scissioni prodotte dalla civiltà liberale e si concretizzava l’«uomo nuovo» teorizzato e agognato dall’ideologia del fascismo11. Sebbene la maggior parte degli studiosi accademici preferì rifugiarsi nel «nicodemismo» della separazione della teoria dalla politica economica o, come per l’agguerrita e 21
autorevole minoranza liberista in cui spiccavano Luigi Einaudi, Pasquale Jannaccone e Costantino BrescianiTuroni, nell’intransigente difesa della tradizione, è tuttavia significativo che un drappello di figure di indubbia autorevolezza – quali Rodolfo Benini, Alberto De Stefani, Luigi Amoroso e, più timidamente, Celestino Arena – seguisse la strada di una rivisitazione dei principi della disciplina alla luce della sfida portata dal corporativismo, cercando di coniugare l’abbandono del paradigma walrasiano della concorrenza perfetta e dell’individualismo metodologico con quanto di valido era conservato dalla teoria marginalista. Anche la cultura giuridica partecipò attivamente al dibattito sul corporativismo. Questo rappresentava infatti una sorta di contenitore nel quale convergevano temi e suggestioni da lungo tempo centrali nella scienza del diritto, come le riflessioni sulla crisi dello Stato o le influenze dell’antindividualismo e dell’organicismo, frequentemente evocate nel pensiero giuridico italiano tra Otto e Novecento12. L’incontro della scienza giuridica con il tema del corporativismo fu favorito anche dal fatto che l’esperimento corporativo costituì per i giuristi una sorta di detonatore per avviare un ripensamento del proprio ruolo e dei contenuti della disciplina13. Da un lato fu uno stimolo per uno svecchiamento della scienza del diritto, ancora largamente votata al culto ottocentesco dei testi normativi; dall’altro, impresse ancora più forza al tema del protagonismo sociale dello Stato e del superamento della tradizionale distinzione tra diritto, politica ed economia, e quindi tra diritto pubblico e diritto privato. Anche in questo caso ci si trova davanti a un ampio ventaglio di riflessioni e analisi. Ai due estremi si collocavano i «giuristi di regime», o «giuristi militanti», 22
partecipi alla costruzione dello «Stato nuovo» fascista e disposti a inserire l’ideologia politica all’interno del discorso giuridico (era il caso tra gli altri di Rocco, Costamagna, Panunzio, Volpicelli) e, sul versante opposto, i «giuristi della tradizione», ancorati al modello individualistico di convivenza e alla tradizione disciplinare (Del Vecchio, Ranelletti, Filippo Vassalli, Chiarelli, Asquini)14. Tra le nutrite schiere dei primi e dei secondi si segnalò poi un gruppo di autori che, pur respingendo la proposta totalitaria, vide nel corporativismo la possibilità di salvare alcuni elementi irrinunciabili del passato senza sposare completamente le soluzioni liberali, di ribadire la strutturale limitatezza del potere statuale, di sviluppare il tema della presenza pubblica nell’economia e nella società e, infine, di liberare il giurista dall’obbligo esclusivo dell’esegesi (fu il caso, tra gli altri, di Mossa, Cesarini Sforza, Finzi, Greco, Grechi, Capograssi)15.
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2. La ricerca della terza via La gran parte degli scritti e delle riflessioni sul corporativismo puntava però non solo a rifondare teorie e paradigmi culturali ma anche, soprattutto, a progettare un nuovo modello di società e di Stato. In quasi tutti i contributi confluivano infatti idee, analisi e proposte che inerivano direttamente alla ricerca degli elementi costitutivi e fondamentali dell’ideologia e del progetto politico del fascismo. Il fascismo volle proporsi come «terza via» alternativa al capitalismo e al socialismo, come esperimento rivoluzionario fondatore di uno «Stato nuovo» e di un sistema sociale basato su un diverso equilibrio tra Stato, società e mercato16. Della terza via fascista, nei termini con cui fu costruita ideologicamente, propagandata e percepita negli anni tra le due guerre mondiali, il corporativismo fu uno degli aspetti principali e maggiormente appariscenti17. L’ideale corporativo di una società armonica, nella quale tutte le sue parti cooperassero per il raggiungimento del fine comune era infatti visto come un principio autenticamente rivoluzionario, in grado di consegnare alla storia la lotta di classe predicata da socialisti e comunisti e di fronte alla quale il liberalismo si era dimostrato debole e inadeguato. Solo il nuovo sistema avrebbe potuto portare a termine la missione storica dello Stato unitario, non realizzata dal liberalismo né dal socialismo. Soltanto il corporativismo, scrisse Giulio Colamarino, sarebbe stato in grado di realizzare un «accanito lavoro di accumulazione di forze materiali e di strumenti tecnici, diretto a riparare le deficienze di una nazione nata troppo tardi, e che non può offrirsi il lusso di sperperi attraverso disordini civili che, nell’assenza di tradizioni e di costumi liberali, le 24
riuscirebbero fatali»18. La fortuna del corporativismo non si spiega solo con la capacità di mobilitazione intellettuale dall’alto del regime, con la preesistente sedimentazione di spunti e tradizioni culturali o con la vaghezza concettuale e semantica che rendeva quella dottrina aperta a interpretazioni differenti e quindi compatibile con diversi impianti ideologici. La fortuna nazionale e internazionale della suggestione corporativa deve essere ricondotta soprattutto alla circolazione in Italia e in Europa, a cavallo della prima guerra mondiale, di riflessioni sui problemi prodotti dalle lacerazioni sociali, dalla crisi del pluralismo individualistico e dal crollo del mito del mercato autoregolato. Il corporativismo rispondeva infatti all’esigenza di individuare le soluzioni a quei problemi e, più in generale, di affrontare la fragilità dello Stato nella società di massa. Le società occidentali – e specialmente quelle dell’Europa continentale – avevano sperimentato, già dal primo dopoguerra, il profilarsi di nuovi assetti istituzionali e di nuovi meccanismi alla base della formazione della decisione politica. Con la crescita del potere delle grandi organizzazioni private – vale a dire le confederazioni sindacali, le associazioni di rappresentanza imprenditoriale, i grandi gruppi industriali e finanziari e i cartelli –, la ricerca del consenso passava ormai non solo attraverso i parlamenti elettivi ma anche, in misura crescente, attraverso una contrattazione permanente tra interessi organizzati. Si verificò il passaggio del potere dalle rappresentanze elette e dalla burocrazia di carriera alle maggiori forze organizzate della società e dell’economia, che esercitavano la propria influenza attraverso un parlamento indebolito e, soprattutto, trattavano con i governi e partecipavano alle decisioni che questi prendevano. Quelle organizzazioni assunsero di conseguenza una rilevanza pubblica19. 25
Di queste trasformazioni la cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica italiana aveva mostrato, già nel primo quindicennio del secolo, una crescente consapevolezza, non disgiunta però dalla difficoltà a valutarne le conseguenze politiche e istituzionali20. In quei processi vedeva più che altro la radice della dissoluzione dell’unicità degli ordinamenti giuridici e della sovranità. Si sviluppò da qui un dibattito apertamente articolato intorno alla formula della «crisi dello Stato», che ebbe un’influenza decisiva nella riformulazione dei paradigmi del pensiero politico e costituzionale. In Italia erano stati Vittorio Emanuele Orlando e i suoi allievi Oreste Ranelletti e Santi Romano ad avviare tra i primi una riflessione sul tema. La celebre prolusione di Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, del 1910, ne costituisce la formulazione più nota. In essa Romano osservava come la «crisi dello Stato attuale» fosse caratterizzata dalla convergenza di due fenomeni: «il progressivo organizzarsi sulla base di particolari interessi della società che va sempre più perdendo il suo carattere atomistico, e la deficienza dei mezzi giuridici e istituzionali, che la società medesima possiede per fare rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello Stato»21. Con la crisi dello Stato sullo sfondo, nel primo dopoguerra furono elaborati diversi progetti di riforma delle istituzioni politiche fondati sulla sostituzione parziale della tradizionale rappresentanza politica con una rappresentanza degli interessi. I progetti di modifica – proposti non solo dal fascismo ma anche, tra gli altri, dalla Confederazione generale del lavoro (Cgdl) – prevedevano la trasformazione della Camera dei deputati in un «parlamento del lavoro». Gli esiti però furono inconsistenti, e non si arrivò neanche al rilancio della funzione del Consiglio superiore del lavoro22. Quei temi e quelle suggestioni non videro impegnati 26
soltanto la cultura e la politica italiane. L’attenzione alla crisi dello Stato e una generale sensibilità, forte soprattutto tra le due guerre, a vedere nel mondo produttivo, nel lavoro, nei ceti, nelle categorie e nelle professioni la radice di una possibile nuova rappresentanza, coinvolsero infatti una parte significativa del pensiero politico e giuridico europeo. In Francia Léon Duguit, Adolphe Prins, Guillame de Greef, Charles Benoist e Joseph Paul-Boncour, tra gli altri, già dalla fine del secolo precedente avevano annunciato la «morte dello Stato» o quantomeno della sua forma liberale23 e, conseguentemente, avevano «impugnato la bandiera della rappresentanza degli interessi contro le ‘inefficienze’ o le ‘degenerazioni’ del sistema parlamentare»24. In Germania la questione della crisi dell’ordinamento statuale e della rappresentanza era al centro di tutti i progetti di riforma degli istituti parlamentari-liberali; tanto Weber quanto Kelsen vi si soffermarono a lungo e con particolare attenzione25. Che questo fosse lo sfondo di ogni vagheggiamento di una rappresentanza corporativa, in Italia come altrove, era presente ai fascisti, e apertamente affermato26. Furono però i nazionalisti, con Alfredo Rocco in testa, a costituire sul versante ideologico il principale canale di comunicazione tra la riflessione sulla crisi dello Stato e la costruzione istituzionale e ideologica del regime27. Nel superamento della crisi dello Stato il fascismo individuava la ragione del suo carattere universale e la funzione storica del corporativismo. Nel discorso pronunciato il 27 ottobre 1930, per il rapporto alle gerarchie nazionali e provinciali del Pnf, Mussolini affermò che il fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti […]. Si può quindi prevedere una Europa fascista, una Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista,
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il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo. Il fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema di rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati28.
Al tema della crisi dello Stato si sovrappose prepotentemente la crisi del mercato e quell’insieme di fenomeni per i quali all’epoca, in area tedesca, venne coniata e largamente utilizzata la formula «capitalismo organizzato». Il potere acquisito dai grandi gruppi industriali e finanziari, la riorganizzazione del mercato nel segno dei cartelli, la mobilitazione industriale durante la prima guerra mondiale e la sfida lanciata al capitalismo dalla pianificazione sovietica rendevano palesemente inadeguata e anacronistica l’idea di un mercato basato sulla «concorrenza perfetta». La crisi economica degli anni Trenta finì col travolgere definitivamente, nei fatti e sul terreno delle idee, il mito di una società fondata sugli automatismi della «mano invisibile». Già nel 1926, d’altra parte, Keynes aveva lanciato il suo celeberrimo avvertimento sulla «fine del laissez-faire», cioè della capacità autoregolativa del mercato e, per converso, dello Stato liberale29. Il periodo tra le due guerre mondiali costituì di conseguenza la fase di più intenso ripensamento del rapporto tra economia, società e politica. Si sedimentò allora una letteratura sterminata, nella quale convivevano impostazioni, ascendenti, orizzonti ideologici e culturali diversissimi. La gran parte delle più influenti opere dedicate all’esame di quel rapporto – in molti casi autentici classici del pensiero sociale e politico del Novecento – vide la luce proprio a conclusione di questo periodo: nel 1936 fu pubblicata la Teoria generale di Keynes, nel 1942 Capitalismo, socialismo e democrazia di Schumpeter, nel 1944 La grande trasformazione di Polanyi e La via della schiavitù di von Hayek e nel 1945 La società aperta e i suoi 28
nemici di Popper. Il dibattito italiano sul corporativismo fece parte a tutti gli effetti, con i suoi limiti e le sue specificità, di questo segmento della storia novecentesca delle idee. Una figura centrale come Giuseppe Bottai sostenne emblematicamente che «l’ordine economico, nella cui saldezza s’è fin qui creduto, è rotto per sempre; che il tentare di ricostruirlo sarebbe una vana impresa; che s’à da sostituirlo con un ordine economico nuovo»; e che, di conseguenza, «l’ordinamento corporativo, considerato dai più come un mero ordinamento giuridico, appare ormai il sistema ideale di una nuova civiltà politica. Discutibile nei particolari della sua pratica attuazione, esso è indiscutibile nella sua essenza di ordinamento rinnovatore della politica economica moderna»30. L’operazione ideologica tentata dal fascismo consistette insomma nell’accreditare il corporativismo come la migliore risposta ai problemi storici prodotti dal fallimento del liberalismo e dalla crisi della civiltà occidentale. Si trattò, a riguardarla oggi, di un’operazione velleitaria e, in molte delle voci che vi presero parte, culturalmente debolissima. Non pochi dei contemporanei le accordarono però un credito consistente, non solo tra gli intellettuali di regime e non solo in Italia. La circolazione delle idee corporative ebbe infatti una dimensione europea e coinvolse anche figure intellettuali e forze politiche estranee al fascismo. Basti pensare all’attenzione e all’interesse con cui quelle idee furono accolte e seguite non solo in Portogallo e Spagna ma anche in Francia, in Germania, negli Stati Uniti e in Inghilterra31.
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3. I diversi corporativismi All’interno della vastissima produzione intellettuale italiana sul corporativismo si delinearono impostazioni diverse. Ne derivò un confronto relativamente aperto, che in alcuni casi raggiunse asprezze polemiche inusitate nel clima illiberale e conformista dell’epoca. Assai labile fu però il rapporto tra il dibattito intellettuale e l’effettiva messa in opera del sistema corporativo. Infatti, solo per gli esponenti del fascismo più direttamente impegnati in quella realizzazione l’elaborazione teorica ebbe una connessione diretta con la creazione del nuovo ordinamento. È il caso soprattutto di Alfredo Rocco e di Giuseppe Bottai, i due massimi interpreti politici e istituzionali del corporativismo. Entrambi affiancarono all’azione nel governo e nel Pnf l’elaborazione di una propria dottrina corporativa. Quelle elaborazioni, consegnate a un gran numero di interventi ufficiali e di scritti teorici, produssero due differenti sistemi dottrinari, basati su una diversa concezione di fondo dello Stato fascista e dei rapporti tra Stato e società. Le varianti di corporativismo di Rocco e Bottai si scontrarono, a loro volta, con la posizione progressivamente assunta dai dirigenti del sindacalismo fascista, anch’essa rilevante ai fini degli esiti pratici. La prima di queste dottrine, quella di Rocco, si caratterizzava per l’assoluto primato assegnato allo Stato. Si differenziava profondamente dalle teorie corporative di origine cattolica, nate al contrario per salvaguardare l’autonomia dei ceti e delle categorie produttive dal potere dello Stato centralizzato32. Lo statalismo integrale, d’altra parte, fu la vera stella polare di Rocco. Era infatti allo Stato, e non al popolo, che Rocco assegnava la sovranità: le libertà individuali non erano considerate un diritto preesistente 30
dell’individuo ma il risultato di una sorta di «autolimitazione» dello Stato33. Rocco sviluppò la propria dottrina corporativa con particolare precocità. Le linee generali vennero abbozzate già negli scritti dell’immediato dopoguerra34. La sua concezione muoveva dal rifiuto radicale tanto del liberalismo quanto del socialismo, considerati 35 manifestazioni speculari dell’individualismo . Su questo presupposto fondava un’idea dello Stato che voleva essere «organica, dinamica, e storica», contrariamente a quella liberale, ritenuta «meccanica, statica, ed antistorica»36. Il fine dell’organismo statale era individuato nel raggiungimento della massima coesione sociale mediante l’organizzazione giuridica e poteva essere realizzato solamente da quella particolare forma di Stato che era lo Stato fascista. Lo Stato fascista – scrisse Rocco – è infatti lo Stato che realizza al massimo della potenza e della coesione l’organizzazione giuridica della Società. E la società, nella concezione del fascismo, non è una pura somma di individui, ma è un organismo, che ha una sua propria vita e suoi propri fini, che trascendono quelli degli individui, e un proprio valore spirituale e storico. Anche lo Stato, che della società è la giuridica organizzazione, è per il Fascismo un organismo distinto dai cittadini, che a ciascun momento ne fanno parte, il quale ha una sua propria vita e suoi propri fini, superiori a quelli dei singoli, a cui i fini dei singoli debbono essere subordinati37.
Con questo modello di Stato autoritario la conflittualità sociale e i liberi sindacati erano evidentemente incompatibili. Per Rocco però la soluzione non risiedeva nella soppressione del movimento sindacale ma semmai – come aveva sostenuto già alcuni anni prima della marcia su Roma – nella sua irregimentazione. Il sindacato era infatti un «fenomeno grandioso della vita moderna» divenuto ineliminabile e che doveva essere giudicato per sé e non per le sue degenerazioni. Le cause di quelle degenerazioni erano individuate nella «passività» dello Stato, derivante dai preconcetti liberali. Lo Stato avrebbe perciò dovuto 31
comportarsi con i sindacati come si era comportato con le corporazioni medievali: doveva assorbirli e farli suoi organi. «Per ottenere questo risultato – proseguiva – il semplice riconoscimento non basta, occorre una trasformazione ben più profonda. Occorre da un canto proclamare la obbligatorietà dei sindacati e dall’altro porli risolutamente sotto il controllo dello Stato»38. Soprattutto, però, essi dovevano diventare, da strumenti di lotta per interessi particolaristici, organi di collaborazione per il perseguimento del benessere generale. A questo fine – aveva sostenuto Rocco già nel Programma politico dell’associazione nazionalista del 1919 – i sindacati dei lavoratori e quelli degli industriali si sarebbero dovuti riunire nelle corporazioni «per tutelare gli interessi comuni, per dirimere controversie, per trovare dei contemperamenti che soddisfino non solo agli interessi particolari delle classi produttrici, ma a quelli generali della produzione»39. Il corporativismo era dunque il sistema giuridico e istituzionale in grado di realizzare la subordinazione dei soggetti economici e sociali all’interesse nazionale espresso dallo Stato. Solo grazie alle corporazioni diveniva possibile perfezionare al meglio il processo produttivo ed evitare «le inutili concorrenze interne, per affrontare, nelle condizioni di massima efficienza economica, le lotte della concorrenza mondiale»40. Nella dottrina corporativa di Rocco convergevano finalità e temi differenti, non interamente riducibili al vagheggiamento di un ordine medievale o della restaurazione dell’ancien régime. La negazione delle libertà e l’eliminazione della dialettica sociale si accompagnavano infatti a una visione moderna e dinamica del capitalismo. Da un lato, Rocco assegnava apertamente un valore positivo al rigido ordine gerarchico della società: «Il prevalere degli interessi delle classi più potenti e meglio organizzate è un 32
fenomeno sociale necessario», scrisse nel 1928, nei Principi di diritto commerciale41. Dall’altro, però, il culto della gerarchia era coniugato con «la sua tendenza immanente a rimodellare l’intero corpo sociale secondo la struttura dei grandi imperi industriali che progressivamente si vengono assoggettando le masse»42. Culto dello Stato e «razionalizzazione cartellistica» erano dunque i due elementi con cui Rocco componeva la sua concezione del corporativismo. Emerge già da qui con chiarezza come la terza via fosse da lui intesa – così come dalla grande maggioranza delle teorie corporative – come un’alternativa non al capitalismo ma al liberalismo. Il corporativismo e l’«economia fascista» si basavano infatti sulla vigilanza e sul controllo dello Stato tanto quanto sulla competenza e sull’interesse dei ceti produttivi, in base al principio secondo il quale «le categorie produttrici non governano se stesse, governano la produzione, che è anche un loro interesse, ma è soprattutto un interesse collettivo»43. Per Rocco dunque il corporativismo era la forma concreta che avrebbe dovuto assumere lo Stato autoritario nella nuova fase storica segnata dalle organizzazioni sindacali di massa e dalle grandi concentrazioni industriali. Alle masse non era riconosciuta nessuna autonomia né alcun diritto di partecipare alla direzione politica: «la massa è un eterno fanciullo», scrisse nel 191444. Le corporazioni dovevano dunque essere lo strumento con cui integrare le masse nello Stato, in condizioni di passività e totale subordinazione. Per Bottai, al contrario, il corporativismo rappresentava l’elemento principale di un fascismo «partecipe» e «a base popolare»45. Nella sua concezione il fascismo, come è stato opportunamente osservato, doveva «reinventare» una «democrazia di tipo particolare, diversa dalle forme storiche in cui si era manifestata, soprattutto in Italia». Per questo le sue affermazioni sono «all’interno del fascismo quelle che 33
più si avvicinano al concetto, di per sé non limpido ed esposto a interpretazioni discordanti, di ‘democrazia totalitaria’»46. Con i nazionalisti Bottai condivideva la fede nel regime a partito unico, basata sulla convinzione che il pluralismo partitico in una società di massa inevitabilmente produceva fratture nel corpo sociale. Diversamente dai nazionalisti, però, sosteneva l’idea che all’interno del fascismo il confronto tra posizioni diverse dovesse essere consentito se non addirittura promosso e organizzato47. Il corporativismo assumeva, in questo contesto, la funzione di strumento di governo e regolamentazione della dialettica sociale e di confronto tra interessi sociali e Stato. Emblematico è, in questo senso, quanto sostenne nel 1932 durante il convegno di studi corporativi di Ferrara: «La lotta di classe esiste. Bisogna venire al Ministero delle corporazioni per vedere come urga a tutte le nostre porte, per vedere come sia viva e appassionata e come solo dal suo fervore nasca un’armonia che non è un ordine del governo, esteriore, ma un ordine interiore degli individui e delle categorie»48. Le corporazioni erano concepite come strumento di composizione e politicizzazione delle categorie economiche. Attraverso i nuovi organismi queste avrebbero potuto fondere, o quantomeno porre in stretta e sistematica relazione, il loro carattere «particolare» con la «generalità» dell’interesse nazionale. Secondo Bottai, dunque, l’ordinamento corporativo voleva dare «un riconoscimento e una personalità alle forze economiche; una personalità, morale, giuridica, politica, alle categorie sociali» e quindi «considerare come un interesse pubblico gli interessi delle categorie». Corporativismo, in altre parole, significava «riconoscere il profondo valore politico della vita sociale, portare la vita sociale nel pieno della vita politica, far coincidere società e Stato. Il principio 34
corporativo, dunque, è il principio dell’organizzazione e personificazione delle forze economiche, perché partecipino coscientemente alla vita della comunità politica»49. La partecipazione attiva della società ai destini dello Stato, e non l’inglobamento passivo, era il principio su cui si incardinava la sua concezione. Si potrebbe dire, a costo di qualche schematismo, che se Rocco elaborò la più coerente versione di un corporativismo integralmente autoritario, Bottai tentò di farsi interprete di un corporativismo totalitario50. Si inscrive in questo quadro teorico anche il recupero dello spirito originario della Rivoluzione francese. Bottai non nascose, soprattutto negli scritti degli anni Venti, la propria integrale opposizione ai principi dell’Ottantanove. L’avversione al principio individualistico e alla sovranità popolare, cioè ai fondamenti del pensiero liberaldemocratico, fu per altro un atteggiamento comune a tutto il fascismo51. Bottai giunse tuttavia, negli scritti dell’inizio degli anni Trenta, a vedere nel corporativismo il completamento del processo di costruzione e sviluppo dello Stato moderno iniziato proprio con la Rivoluzione francese. Con un ardito rovesciamento interpretativo, il significato profondo dell’Ottantanove era ora individuato nel fatto che larghi strati di cittadini volevano vivere l’appartenenza allo Stato sin «nella propria coscienza», che «l’individuo vuole diventare Stato». Lo Stato liberale («ente isolato e impotente») non aveva però realizzato quest’aspirazione. La «conclusione e la soluzione esauriente dei principi dell’89» erano al contrario rappresentate da «uno Stato in cui si realizzi davvero e completamente la vita del cittadino, in cui il cittadino trovi e componga davvero la sua personalità morale, in cui trovi una regolamentazione effettiva e totale della sua vita». Questo era appunto «lo Stato che il Fascismo ha concepito e attuato: lo Stato corporativo che è, 35
dunque, davvero, lo sbocco fatale della storia moderna, la forma che, sola, possa racchiudere la vita moderna»52. Bottai esprimeva in questo modo l’esigenza di fare dello Stato corporativo fascista un’esperienza sì nuova e in fieri ma non effimera. A suo avviso, «l’ordinamento corporativo, considerato dai più come un mero ordinamento giuridico, appare ormai il sistema ideale di una nuova civiltà politica»53. Più in concreto, il progetto di Bottai fu connotato da chiari intenti dirigisti e si legò all’ambita realizzazione di un’integrale riforma dello Stato e del sistema amministrativo. Il corporativismo era considerato lo strumento per attuare politiche di programmazione economica in una società non socialista54. La creazione degli apparati corporativi era vista da Bottai innanzitutto come il mezzo per liberare lo Stato fascista dai condizionamenti esercitati dal potere economico e per imporre criteri e obiettivi politici anche al governo delle questioni economiche. A partire dal 1932, con la fine dell’esperienza alla guida del ministero delle Corporazioni, le sue formulazioni teoriche andarono accentuando questi tratti e si colorarono di una retorica genericamente anticapitalistica: in un articolo dell’ottobre 1934 su «Critica fascista», giunse a parlare di «morte del capitalismo» e di «impostazione anticapitalistica del corporativismo», in grado di sostituire il produttore-lavoratore al capitalista55. La terza formulazione del progetto corporativo, tra quelle che contribuirono in qualche misura a definire contenuti e caratteri del nuovo ordinamento, proviene dal mondo sindacale. Più che agli scritti e agli interventi degli intellettuali vicini al sindacato, come Agostino Lanzillo, Angelo Oliviero Olivetti o Sergio Panunzio, è alle posizioni dei dirigenti che vale la pena guardare. Ci si trova di fronte in questo caso a formulazioni meno rigorose e coerenti sul 36
piano dottrinario e tuttavia strettamente legate alla dialettica interna al fascismo e all’effettiva condotta delle organizzazioni sindacali. Naturalmente, nella dirigenza sindacale coesistevano punti di vista differenti. Il succedersi di diverse fasi nella costruzione del nuovo ordinamento indusse poi cambiamenti e revisioni nelle posizioni sostenute. Nonostante questo, è possibile rintracciare, almeno in termini generali, una peculiare idea di corporativismo promossa dai sindacati. Quell’idea si caratterizza per la compresenza da un lato di un atteggiamento difensivo, dettato dalla necessità di salvaguardare l’autonomia del sindacato se non la sua stessa esistenza e, dall’altro, dell’attivo sostegno all’attuazione del corporativismo, visto come un’opportunità per concretizzare le ambizioni rivoluzionarie del fascismo. La discussione sul corporativismo e il lento processo di costruzione degli apparati lasciarono a lungo irrisolta la questione del ruolo delle organizzazioni sindacali nel nuovo ordine. I dirigenti del sindacato videro inizialmente nel nascente edificio corporativo una struttura che rischiava di usurpare compiti e attribuzioni, e nel ministero delle Corporazioni un soggetto gerarchicamente superiore, capace di limitare la loro azione. L’entrata in vigore della legge sindacale e la nascita del ministero nel 1926 e lo scioglimento della Confederazione generale dei sindacati fascisti nel 1928 rappresentarono effettivamente altrettante tappe nella progressiva emarginazione delle organizzazioni dei lavoratori. In una prima fase la partecipazione dei sindacalisti al dibattito sul corporativismo fu perciò dettata soprattutto dall’esigenza di salvaguardare le proprie strutture e l’autonomia residua. Fu Edmondo Rossoni – il maggiore dirigente del sindacalismo fascista dalle origini allo «sbloccamento» – a incarnare per circa un decennio il ruolo di principale 37
difensore delle organizzazioni dei lavoratori. «Il Sindacalismo», sostenne in ripetute occasioni, «deve essere fatto dai sindacati. È lapalissiano. La rappresentanza delle classi organizzate spetta ai sindacati e non agli organi burocratici dello Stato»56. Sarebbe stato a suo avviso un «errore grave diminuire l’efficienza del Sindacalismo che rappresenta, muovendosi nell’atmosfera della Rivoluzione fascista, il respiro delle classi e l’allenamento alle loro responsabilità. Niente di male pertanto se si farà più sindacalismo che corporativismo, poiché è il sindacalismo che vien prima e deve concludere nella Corporazione e non viceversa»57. La polemica dei dirigenti sindacali – Rossoni, ma anche Del Giudice, Razza, Landi, Casini, Chilanti58 – ebbe, fino ai primissimi anni Trenta, il principale destinatario nel ministero delle Corporazioni: «il Ministero ama troppo spesso – anziché limitarsi ad esercitare un’azione di controllo secondo le sue competenze – sostituirsi agli organi sindacali nelle loro funzioni e nella loro precipua ragione di essere», sono le parole di Rossoni riportate in un rapporto di polizia dell’aprile 193159. Dai primi anni Trenta si sarebbe tuttavia realizzata una progressiva convergenza con l’iniziativa del ministero. Costante fu invece lo scontro con i teorici più radicali del corporativismo; scontro che si prolungò fino all’inizio del 1936 ed ebbe il principale e più accanito interlocutore polemico in Ugo Spirito, che alla «fine del sindacato» dedicò alcuni scritti60. Fu nel periodo successivo allo sbloccamento che l’interpretazione del progetto corporativo elaborata dai dirigenti sindacali si fece progressivamente più articolata: nel sistema corporativo iniziarono a vedere non solo una minaccia ma anche la cornice istituzionale per una possibile trasformazione dei rapporti di forza nella società e nel 38
regime e per un rilancio del ruolo delle proprie organizzazioni. Furono in questo modo recuperate posizioni espresse già alla metà degli anni Venti e poi abbandonate negli anni successivi. La svolta fu sostenuta, soprattutto dopo i primi anni Trenta, da una nuova generazione di dirigenti sindacali, meno legata ai retaggi liberisti e antiburocratici del sindacalismo rivoluzionario. Agli organi corporativi fu allora assegnata la funzione di sede istituzionale entro cui «forzare» l’approvazione di riforme in ambito sociale, previdenziale e assistenziale, per compensare quanto perduto sul terreno salariale e contrattuale. Al tempo stesso si fece forte l’insistenza con cui il sindacato sostenne la necessità che il corporativismo realizzasse un controllo sulla produzione, introducendo politiche di programmazione e controlli sull’iniziativa privata e sul mercato61. Le corporazioni avrebbero dovuto imporre «una disciplina permanente che utilizzi l’iniziativa individuale, proteggendola anche dagli egoismi dei concorrenti, nell’interesse collettivo del Paese, consumatori compresi», dichiarava tra gli altri Luigi Razza62. Dopo i primi anni Trenta il sindacato abbandonò l’atteggiamento puramente difensivo e giocò apertamente la sua partita a sostegno di una piena realizzazione dei caratteri rivoluzionari e antiborghesi del fascismo, che proprio nel corporativismo avrebbero dovuto trovare espressione63. Costruì in questo modo la sua centralità all’interno di quella realtà composita e dai confini assai sfumati che fu il «fascismo di sinistra»64. Le posizioni di Rocco, di Bottai e dei dirigenti sindacali costituirono le principali e le più rilevanti teorizzazioni sul corporativismo prodotte all’interno della classe dirigente fascista. Mancò invece un punto di vista di Mussolini. Il capo del governo fu, infatti, come è stato scritto recentemente, un «grande assente»65. Intervenne in 39
numerose occasioni ma non arrivò mai a formulare una concezione originale né tutto sommato coerente. La presenza di alcuni motivi ricorrenti – l’esaurimento di una concezione liberale della rappresentanza e la necessità di sostituirla con una rappresentanza degli interessi, il raggiungimento della pace sociale grazie all’autorità dello Stato, la «terza via», il corporativismo come modello da esportare anche negli altri paesi – si limitava generalmente a pure esibizioni retoriche, slogan privi di effettivo approfondimento66. A volere individuare un percorso, si potrebbe dire che Mussolini fece propria la versione di Rocco – che infatti ebbe un’applicazione quasi integrale – ma per un certo periodo fu tentato da quella di Bottai; e che lasciò ampi margini di dibattito e consentì posizioni anche fortemente eterodosse, come quella di Spirito. In concreto, il capo del fascismo concepì il corporativismo più che altro come una nuova concezione del governo dell’economia, che a suo avviso doveva essere sottratto al vincolo delle considerazioni tecniche e sottoposto a un’integrale politicizzazione. Come sostenne nel marzo 1936 davanti all’assemblea nazionale delle corporazioni, «quasi tutti i problemi dell’economia non si risolvono se non portandoli su un piano politico»67. In merito al significato effettivo di questi principi e alle modalità per la loro concreta attuazione, tuttavia, Mussolini non offrì mai alcun contributo, limitandosi appunto ad asserzioni generiche. Mussolini insomma alimentò il mito del corporativismo ma al tempo stesso ne perpetuò la persistente incertezza dei contenuti. Preferì orientare la politica corporativa in base a quanto le circostanze politiche e le esigenze del suo potere personale di volta in volta richiedevano68. Si può vedere in questa soluzione la scelta di interpretare anche in questo caso il ruolo di «duce del fascismo» principalmente nei 40
termini di un arbitro e di un mediatore tra i diversi settori del Pnf, gli apparati istituzionali e le forze sociali che sostenevano il regime. Al tempo stesso, Mussolini giocò a lungo la carta del corporativismo per ottenere un progressivo allentamento dei condizionamenti esercitati dal mondo economico e dai settori conservatori sull’azione di governo. Intorno alle concezioni sin qui esaminate si sviluppò la dialettica interna al regime che orientò le scelte sulla costruzione del corporativismo. Ai margini o all’esterno di queste controversie si svolse il dibattito culturale e ideologico, scarsamente o per nulla influente sui reali sviluppi del nuovo ordinamento e però ricco di articolazioni e di posizioni. Gli intellettuali infatti elaborarono concezioni teoriche non necessariamente riconducibili a quelle dei protagonisti istituzionali. Vale la pena soffermarsi sulla figura di Ugo Spirito, animatore con Arnaldo Volpicelli del gruppo pisano riunito intorno alla rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica». La sua rilevanza non nasce tanto dalla profondità culturale dell’elaborazione – che rimase sempre piuttosto astratta e non priva di nebulosità – quanto dalla disponibilità a interpretare il tema della «terza via» non nei termini rigorosamente anticomunisti di una maggiore presenza dello Stato nell’economia capitalistica, ma come commistione di liberalismo e socialismo. Spirito approdò all’elaborazione di un’originale concezione del corporativismo muovendo dall’attualismo (e sotto le bandiere dell’idealismo gentiliano era nato e si era sedimentato il solidissimo sodalizio con Volpicelli) e da un’intransigente messa in discussione dei principi filosofici e ideologici della scienza economica69. Il corpus dei numerosissimi scritti di Spirito sul corporativismo mostra significative variazioni nelle 41
formulazioni e in alcune soluzioni teoriche e però, al tempo stesso, una sostanziale continuità nei temi di fondo. Al centro della sua concezione è la tesi dell’identità di individuo e Stato. Secondo Spirito era infatti intorno alla mancata risoluzione del problema dei rapporti tra Stato e individui che la teoria economica liberale e quella marxista avevano, in modo opposto e speculare, misurato il loro fallimento. La soluzione integrale del problema era offerta dall’ordinamento corporativo fascista70. Considerare l’iniziativa privata come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della nazione e, quindi, rendere l’imprenditore responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato – come affermato dalla Carta del lavoro – equivaleva per Spirito a eliminare alla radice ogni differenza tra pubblico e privato. Assegnando finalità e caratteri pubblici alla proprietà privata, il corporativismo elevava il proprietario a organo costitutivo dello Stato. Per Spirito il significato storico dell’ordinamento corporativo risiedeva proprio in questo «tentativo di rendere sempre più concreta l’organicità statale della vita della nazione, e cioè di rendere lo Stato sempre più immanente alla vita dell’individuo»71. Il «vero Stato» doveva infatti totalitariamente coincidere con la stessa realtà dell’individuo ed esprimersi non in particolari organi e istituti ma nella vita stessa di ogni cittadino72. Il corporativismo superava in questo modo l’antitesi tra liberalismo e statalismo, non negando i due termini ma, al contrario, riconoscendo e soddisfacendo al massimo grado le esigenze ineliminabili che essi portavano con sé. Spirito accompagnò la propria teorizzazione con formule a effetto che però non apportavano alcuna effettiva chiarificazione: definì allora il corporativismo come «liberalismo assoluto e socialismo assoluto» o come «comunismo gerarchico», capace di «negare lo Stato 42
livellatore e insieme l’individuo anarchico» e di negare «la gestione burocratica burocratizzando tutta la Nazione, ossia facendo di ogni cittadino un funzionario»73. Fuori dal discorso strettamente filosofico il corporativismo di Spirito rimase però in una sostanziale indeterminatezza. Si risolveva per lo più nel sostegno a politiche di intervento pubblico in economia, secondo argomenti largamente affini a quelli del nazionalismo, e in una riformulazione della funzione dei corpi intermedi (la corporazione come «termine dialettico medio» capace di comporre la volontà dei singoli nell’unità del tutto)74. Spirito si spinse più avanti, nel dare concretezza all’unità di individuo e Stato, con la relazione al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara nel maggio 1932. Fu in quell’occasione che enunciò la tesi della «corporazione proprietaria», senza dubbio l’intervento nel ventennale dibattito sul corporativismo che suscitò le reazioni più accese ed esasperate e, tutt’oggi, quello su cui principalmente si soffermano le ricostruzioni storiografiche. Spirito in quell’occasione sostenne che per giungere a un ordine veramente armonico si sarebbe dovuto procedere a una radicale trasformazione del sistema di proprietà aziendale e di tutti i rapporti economici: l’azienda doveva essere trasformata in corporazione, organo dello Stato; il capitale doveva passare dagli azionisti ai lavoratori, che così diventavano proprietari della corporazione proporzionalmente alla posizione ricoperta nella gerarchia interna. In questo modo, «il capitalista non è più estraneo e non ignora come si amministra la sua proprietà, ma l’amministra egli stesso coincidendo con la figura del lavoratore: e il lavoratore, d’altra parte, viene ad essere immediatamente interessato al rendimento del suo capitale». L’imprenditore, a sua volta, «non si presenta più ai margini del capitale e del lavoro, ma passa, nella stessa identità dei 43
termini e quindi nello stesso piano degli altri corporati, al vertice della gerarchia corporativa»75. Con la tesi della «corporazione proprietaria» Spirito portò alle estreme conseguenze il tema della terza via e dell’universalità del fascismo. Il rapporto del fascismo con il comunismo era da lui concepito nei termini del superamento e non dell’antitesi. Riecheggiando con evidenza il pensiero di Giovanni Gentile, Spirito invitava a riconoscere i lati positivi del comunismo per inglobarli nella sintesi superiore rappresentata dal fascismo76. Se oggi le energie in cui si esprime il nuovo orientamento politico sono fascismo e bolscevismo – sostenne al convegno di Ferrara –, è chiaro che il domani non sarà di uno di questi due regimi in quanto avrà negato l’altro, ma di quello dei due che avrà saputo incorporare e superare l’altro in una forma sempre più alta. E nulla può esservi di più pericoloso, ai fini di questo superamento, che l’insistere in un’astratta contrapposizione che svaluta il fascismo agli occhi dei simpatizzanti del movimento socialista e bolscevico, e insieme ingrandisce e innalza l’ideale bolscevico agli occhi di chi va in cerca del nuovo. Di fronte ai ribelli e agli scontenti, che dipingono il fascismo come reazione e che in tutta Europa guardano con aperto o con malcelato compiacimento agli eventi della Russia, e di fronte ai giovani, che, sempre protesi al futuro, sono in qualche modo accarezzati dal fascino di una esperienza più radicale, il fascismo ha il dovere di far sentire che esso rappresenta una forza costruttrice che va storicamente all’avanguardia e che si lascia alle spalle, dopo averli riassorbiti, socialismo e bolscevismo77.
L’intensità e l’ampiezza delle polemiche che già durante il convegno di Ferrara seguirono all’intervento – con le prevedibili accuse di filocomunismo – indussero Spirito a lasciar cadere la tesi della «corporazione proprietaria». Lo sviluppo che da allora Spirito impresse alla sua teoria andò in direzione di una concezione del corporativismo come forma di pianificazione e di «economia programmatica» e nell’adozione di espliciti obiettivi di industrializzazione e modernizzazione78. Proprio il richiamo a questi obiettivi consente di notare come, pur con accezioni ed esiti spesso anche molto distanti, essi abbiano segnato in profondità il dibattito sul corporativismo. A legare la gran parte delle teorizzazioni era infatti l’intento di dare al nuovo 44
ordinamento una funzione dinamica e acceleratrice. La dottrina corporativa di Spirito fu – con quella per altri aspetti distante di Fovel, teorico di una concezione fordista che faceva del corporativismo un’«economia di produttori» – la più marcatamente industrialista79. Proprio l’idea di un rapporto di consequenzialità tra corporativismo e industrialismo costituì, al contrario, il maggiore elemento di differenziazione con il corporativismo cattolico. Il solido patrimonio dottrinario del pensiero sociale cattolico ottocentesco e primonovecentesco – apertamente richiamato nell’enciclica Quadragesimo Anno del 1931 – si sviluppava infatti secondo un’impronta culturale difficilmente componibile con quella che veniva emergendo nel dibattito italiano degli anni Venti e Trenta, dominata da un generalizzato culto per lo Stato e per la modernizzazione industriale. Il corporativismo cattolico tradizionale vedeva nella corporazione un organo intermedio tra Stato e società, un organo naturale che doveva difendere la società dall’invadenza dello Stato e, al tempo stesso, dagli eccessi dell’individualismo. È vero che nel confronto con la nuova congiuntura storica, e proprio nel dibattito impostato dal fascismo, la cultura cattolica ridefinì in parte i presupposti del proprio corporativismo, superando il rifiuto della modernità e le chiusure verso l’intervento statale80; questa graduale revisione fu sviluppata sia da chi scelse di estraniarsi dalla vita pubblica e di maturare un distacco dal fascismo (era il caso in primo luogo di De Gasperi) sia da chi invece si mosse rigorosamente entro i binari del clericofascismo (gli economisti dell’Università Cattolica, riuniti intorno alla «Rivista internazionale di scienze sociali», e la «Civiltà cattolica»)81. Tuttavia, il ripensamento non comportò mai un’aperta adesione all’industrialismo e allo statalismo totalitario né un effettivo distacco dalla precedente 45
tradizione dottrinaria82. Tra gli innumerevoli contributi sul sistema corporativo sono infine da ricordare quelli dei liberisti. Che dalle pagine della «Riforma sociale», la rivista diretta da Luigi Einaudi e Pasquale Jannaccone, si entrasse nel merito di un progetto dichiaratamente e radicalmente antiliberista può apparire paradossale. La partecipazione a una discussione alla quale i liberisti erano destinati a rimanere sostanzialmente estranei nasceva con tutta probabilità dall’esigenza di segnalare la validità dei propri principi anche nei tempi nuovi83. Fu Einaudi a proporre, tra il 1933 e il 1934, un originale punto di vista che rovesciava integralmente i termini del dibattito in corso. Secondo Einaudi la corporazione avrebbe dovuto assumere il ruolo di garante del mercato, attraverso l’intervento contro le «trincee» costituite da dazi, cartelli, consorzi e ogni sorta di limitazione posta all’iniziativa individuale e alla libera concorrenza; la corporazione, di conseguenza, avrebbe dovuto evitare l’irrigidimento e la chiusura in se stessa: si sarebbe dovuta mantenere «aperta» perché «tutti, s’intende tutti coloro a cui la legge non vieta […] di lavorare, devono poter entrare nella corporazione»84. Poteva infatti svolgere la sua funzione a sostegno del mercato solo se si fosse presentata come «l’opposto del gruppo ristretto, della oligarchia, dei cartelli, dei consorzi, dei privilegi, del trincerismo economico», e si fosse quindi mantenuta «sciolta, aperta a tutti, semenzaio di nuove energie, poco rispettosa delle posizioni economiche acquisite le quali non trovino in se stesse la fonte delle proprie vittorie ma la derivino da privilegi o favori od accordi dannosi all’interesse collettivo»85. Il discorso liberista di Einaudi, così radicalmente eccentrico rispetto a tutta la pubblicistica coeva, rimase completamente inascoltato. Esso costituisce però 46
un’indiretta testimonianza della pervasività del tema e dell’irrisolta ambiguità politica e concettuale che fino all’ultimo caratterizzò la questione del corporativismo.
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Note 1 A. Gradilone, Bibliografia sindacale-corporativa (1923-1940), Istituto nazionale di cultura fascista, Roma 1942. 2 F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961, p. 87; P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1995, p. 246. 3 A. Lay, M.L. Pesante, Produttori senza democrazia. Lotte operaie, ideologie corporative e sviluppo economico da Giolitti al fascismo, Il Mulino, Bologna 1981; G. Berta, Il governo degli interessi. Industriali, rappresentanza e politica nell’Italia del Nordovest 1906-1924, Marsilio, Venezia 1996. 4 E. Gentile, «La nostra sfida alle stelle». Futuristi in politica, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 60. 5 Cfr. rispettivamente P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Morcelliana, Brescia 1963 e M. Pasetti, Tra classe e nazione. Rappresentazioni e organizzazione del movimento nazionalsindacalista (1918-1922), Carocci, Roma 2008. 6 G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Carocci, Roma 2006, p. 252. 7 E. Zagari, Introduzione, in O. Mancini, F.D. Perillo, E. Zagari (a cura di), Teoria economica e pensiero corporativo, vol. I, Il corporativismo e la scienza economica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1982, pp. 24-30. 8 Ancora utile per la completezza e per l’acutezza dell’analisi è la rassegna coeva di G. Bruguier, Il corporativismo e gli economisti italiani, in «Archivio di studi corporativi», 1936, nn. II e III. 9 R. Faucci, Un’epoca di transizione? Le coordinate teorico-istituzionali del periodo, in «Quaderni di storia dell’economia politica», n. 2-3, 1990, pp. 3-22; D. Cavalieri, Il corporativismo nella storia del pensiero economico italiano. Una rilettura critica, in «Il pensiero economico italiano», 1994, n. 2, pp. 3233. 10 L. Ornaghi, Stato e corporazione. Storia di una dottrina nella crisi del sistema politico contemporaneo, Giuffrè, Milano 1984, p. 137. 11 B. Mussolini, Discorso per lo Stato corporativo (1933), in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini, vol. XXVI, La Fenice, Firenze 1958, p. 95. 12 P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Giuffrè, Milano 1986, pp. 11-12, 40. 13 B. Sordi, Corporativismo e dottrina dello Stato in Italia. Incidenze costituzionali e amministrative, in A. Mazzacane, A. Somma, M. Stolleis (a cura di), Korporativismus in den südeuropäischen Diktaturen, Klostermann, Frankfurt am Main 2005, pp. 129-146. 14 Maurizio Fioravanti, Costituzione, amministrazione e trasformazioni dello Stato, in A. Schiavone (a cura di), Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 43-50; P. Costa, La giuspubblicistica dell’Italia unita. Il paradigma interdisciplinare, ivi, pp. 126-128; I. Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffrè, Milano 2007, pp. 46-48. 15 Sull’individuazione di questi diversi percorsi cfr. lo studio, definitivo, di Stolzi, L’ordine corporativo cit. 16 Sul concetto di «Stato nuovo» cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982. 17 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 10. 18 G. Colamarino, Natura storica del corporativismo italiano, in «Nuovi problemi di politica, storia ed economia», 1932, gennaio-marzo, p. 39. 19 C.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale (1975), Il Mulino, Bologna 1999, p. 30.
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20 S. Cassese, B. Dente, Una discussione del primo ventennio del secolo. Lo Stato sindacale, in «Quaderni storici», 1971 n. 18, pp. 943-961. 21 S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi (1910), ora in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1969, p. 23. 22 G. Gozzi, Modelli politici e questione sociale in Italia e Germania fra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 255-267. 23 Cfr., tra gli altri, C. Benoist, De l’organisation du suffrage universel. La crise de l’Etat moderne, Firmin-Didot, Paris 1895; C. François, La représentation des intérêts dans les corps élus, A. Rousseau, Paris 1899; L. Duguit, Le droit social, le droit individuel et la transformation de l’Etat, F. Alcon, Paris 1908. 24 Ornaghi, Stato e corporazione cit., p. 12. 25 Cfr., tra gli altri, C.S. Maier, «Vincoli fittizi… della ricchezza e del diritto». Teoria e pratica della rappresentanza degli interessi, in S. Berger (a cura di), L’organizzazione degli interessi nell’Europa occidentale, Il Mulino, Bologna 1983, pp. 47-101. 26 Zunino, L’ideologia del fascismo cit., pp. 216-221. 27 Ungari, Alfredo Rocco cit., in particolare pp. 32-42. 28 B. Mussolini, Messaggio per l’anno nono (1930), in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXIV, p. 283. 29 J.M. Keynes, La fine del laissez-faire (1926), in Id., La fine del laissez-faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 30 G. Bottai, Ripresa rivoluzionaria, in «Critica fascista», 1° aprile 1931, pp. 121-122. 31 M. Palla, Fascismo e Stato corporativo. Un’inchiesta della diplomazia britannica, Franco Angeli, Milano 1991; J.P. Diggins, L’America, Mussolini e il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1972, pp. 206-213; M. Vaudagna, Il corporativismo nel giudizio dei diplomatici americani a Roma (1930-1935), in «Studi storici», 1975, n. 3, pp. 764-796; G. Parlato, Il convegno italo-francese di studi corporativi (1935) con il testo integrale degli atti, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1990. 32 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 44. 33 Ivi, pp. 45-46. 34 G. Simone, L’organizzazione delle masse al servizio dello Stato. Alfredo Rocco e l’origine del corporativismo, in «Clio», 2007, n. 3, pp. 439-464; S. Battente, Alfredo Rocco. Dal nazionalismo al fascismo 1907-1935, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 165-169. 35 A. Rocco, Economia liberale, economia socialista ed economia nazionale, in Id., Scritti e discorsi politici, vol. I, La lotta nazionale della vigilia e durante la guerra (1913-1918), prefazione di B. Mussolini, Giuffrè, Milano 1938. 36 Id., Manifesto di «Politica», in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. II, La lotta contro la reazione antinazionale (1919-1924), p. 537. 37 Id., La trasformazione dello Stato, in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. III, La formazione dello stato fascista (1925-1934), p. 778. 38 Id., Crisi dello stato e Sindacati, in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. II, pp. 640-641. 39 Id., Il programma politico dell’associazione nazionalista, ivi, p. 479. 40 Id., Il momento economico e sociale, ivi, p. 586. 41 Id., Principi di diritto commerciale, cit. in Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 46. 42 Ungari, Alfredo Rocco cit., p. 27. 43 A. Rocco, Costituzioni e funzioni delle Corporazioni, in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. III, p. 1011. 44 Id., La lezione dei fatti, in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. I, p. 194.
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45 Cfr. E. Gentile, Bottai e il fascismo, in Id., Il mito dello Stato nuovo cit., pp. 205-230; Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 56. 46 Ivi, p. 53. 47 Ivi, p. 54. 48 G. Bottai, Intervento, in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi. Ferrara 5-8 maggio 1932, vol. III, Tipografia del Senato, Roma 1932, pp. 315-318. 49 G. Bottai, La concezione corporativa dello Stato, in «Archivio di studi corporativi», 1930, 1, pp. 7-8. Cfr. anche Id., L’ordinamento corporativo nella costituzione dello Stato, in Atti del primo convegno di studi sindacali e corporativi. Roma 2-3 maggio 1930, vol. I, Edizioni del «Diritto del lavoro», Roma 1930, pp. 25-26. 50 La distinzione intende richiamare quella tra «fascismo autoritario» e «fascismo totalitario» proposta in E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2001, pp. 136-140. 51 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 53. 52 G. Bottai, Dalla Rivoluzione francese alla Rivoluzione fascista, in «Archivio di studi corporativi», 1930, 3, pp. 425-426. 53 Id., Ripresa rivoluzionaria cit., p. 122. 54 S. Cassese, Un programmatore degli anni Trenta: Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», 1970, ora in Id., La formazione dello Stato amministrativo, Giuffrè, Milano 1974, pp. 175-224. 55 G. Bottai, Giustizia sociale corporativa, in «Critica fascista», 15 ottobre 1934. Cfr. anche Id., Il cammino delle corporazioni. Manifesto introduttivo alla collezione, Poligrafica universitaria, Firenze 1935. 56 E. Rossoni, Riflessioni sulla Rivoluzione Fascista. La corporazione come Idea, in «La Stirpe», marzo 1931, p. 99, ma anche in «Popolo d’Italia», 28 marzo 1931. Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce, vol. I, Gli anni del consenso 1929-1936, Einaudi, Torino 1975, pp. 16-77 e Santomassimo, La terza via fascista cit., pp. 94-95. 57 E. Rossoni, Il sindacalismo e l’economia eroica del fascismo, in «La Stirpe», maggio 1930, p. 226. 58 Cfr., tra gli altri, i testi riportati nella parte antologica in G. Parlato, Il sindacalismo fascista, vol. II, Dalla «grande crisi» alla caduta del regime (1930-1943), Bonacci, Roma 1989, pp. 187-263. 59 ACS, Spd, Cr, fasc. W/R, «Rossoni Edmondo», sottofasc. 2: Rapporto di Ps, Esplicite dichiarazioni di Rossoni sull’attuale situazione sindacale e corporativa, 4 aprile 1931. Si trattava di un’«intervista» a Rossoni che prendeva spunto dal suo articolo Riflessioni sulla Rivoluzione Fascista cit. 60 U. Spirito, Verso la fine del sindacalismo, in Id., Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1933, p. 119. 61 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938. 62 L. Razza, La Corporazione nello Stato fascista, Tipografia del «Lavoro fascista», Roma 1934, p. 33. 63 Le ambizioni «rivoluzionarie» del sindacalismo fascista trovarono in Luigi Fontanelli il maggiore interprete. Fu Fontanelli infatti a inserire la «sborghesizzazione completa dell’Italia» tra i compiti principali del fascismo (Mussolini, lo spirito della borghesia e le nuove generazioni, Società editrice del «Lavoro fascista», Roma 1933, p. 79) e a indicare nella «maggiore giustizia sociale», nella «partecipazione attiva di tutte le classi e categorie, nessuna esclusa, alla vita dello Stato» – uno «Stato moderno, integrale e popolare» – «un’imprescindibile necessità storica» (Id., Sindacato in movimento, Novissima, Roma 1936, pp. 51-22). Si trattava, con il loro eccesso polemico e antiborghese, di posizioni minoritarie anche all’interno del sindacato, e tuttavia indicative di un clima ideologico e dei possibili sviluppi delle posizioni sindacali. 64 G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Il Mulino, Bologna 2000; S. Lanaro, Appunti sul fascismo «di sinistra». La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in «Belfagor», 1971, ora in A. Aquarone, M. Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Il Mulino, Bologna 1974, pp. 357-387. 65 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 31.
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66 Ivi, pp. 32-35. 67 B. Mussolini, Il piano regolatore della nuova economia italiana (1936), in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXVII, 1959, p. 247. 68 De Felice, Mussolini il duce cit., p. 175. 69 Sulla concezione del corporativismo di Spirito cfr. Lanaro, Appunti sul fascismo «di sinistra» cit.; G. Santomassimo, Ugo Spirito e il corporativismo, in «Studi storici», 1973, n. 1, pp. 61-113; Marco Fioravanti, Il fascismo dei corporativisti: Ugo Spirito, in «Giornale di storia contemporanea», 2006, n. 1, pp. 57-79. 70 U. Spirito, La nuova economia, in Id., I fondamenti della economia corporativa, Treves, Milano 1932, p. 14. 71 Id., L’identificazione di individuo e Stato, ivi, p. 43. 72 Id., La nuova economia cit., p. 17. 73 Id., Il corporativismo come liberalismo assoluto e socialismo assoluto, in Id., Capitalismo e corporativismo, Sansoni, Firenze 1933, p. 42. 74 Ivi, p. 40. 75 Id., Individuo e Stato nella concezione corporativa, in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi cit., vol. I, pp. 188-189. 76 Sulle posizioni di Giovanni Gentile cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista. 1918-1925, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 438-439. 77 Spirito, Individuo e Stato cit., pp. 191-192. 78 Id., Economia programmatica, in Id., Capitalismo e corporativismo cit., pp. 79-92; Id., L’economia programmatica corporativa, ivi, pp. 93-109; Id., Ruralizzazione o industrializzazione?, ivi, pp. 137-156. 79 N.M. Fovel, Struttura teorica del corporativismo come «economia di produttori», in «Nuovi problemi di politica, storia ed economia», 1932, 2, pp. 235-236; Id., Corporazioni, costi, prezzi e consumatori, in «Nuovi problemi di politica, storia ed economia», 1934, n. 3, p. 626. 80 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 89. 81 C. Vallauri, Le radici del corporativismo, Bulzoni, Roma 1971; P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 12-26. 82 Cfr., tra i tanti, A. Brucculeri, L’economia corporativa, in «La civiltà cattolica», 16 dicembre 1933; Id., Dal corporativismo dei cristiano-sociali al corporativismo integrale fascista, parte II, in «La civiltà cattolica», 3 febbraio 1934. 83 Zunino, L’ideologia del fascismo cit., pp. 247-248. 84 L. Einaudi, La corporazione aperta, in «La riforma sociale», 1934, marzo-aprile, p. 146. 85 Id., Trincee economiche e corporativismo, in «La riforma sociale», 1933, novembre-dicembre, p. 654.
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2. L’autoritarismo sindacale
1. La lunga preparazione Il corporativismo appare precocemente nell’ideologia e nelle enunciazioni politiche del fascismo. Già nel programma dei Fasci di combattimento del giugno 1919 si accennava all’abolizione del Senato, all’«istituzione di un Consiglio Nazionale tecnico del lavoro intellettuale e manuale, dell’industria, del commercio e dell’agricoltura» e alla «partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria»1. Precoce, infatti, e profonda era stata l’influenza esercitata negli anni della guerra mondiale dal sindacalismo nazionale su Mussolini e sul suo interventismo. Ben prima della costituzione dei Fasci di combattimento, il «Popolo d’Italia» aveva sempre più frequentemente richiamato e vagheggiato la «nuova società dei combattenti» e, appunto, «dei produttori». L’orientamento venne poi confermato anche dopo la costituzione, nel novembre 1921, del Partito nazionale fascista. Il programma approvato al momento della fondazione, nonostante fosse largamente segnato dall’apertura a parole d’ordine di natura liberista («lo Stato va ridotto alle sue funzioni essenziali di ordine politico e giuridico»), riproponeva il tema della rappresentanza corporativa. Recitava infatti: Lo Stato deve investire di capacità e di responsabilità le Associazioni conferendo anche alle corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al corpo dei Consigli Tecnici Nazionali.
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Per conseguenza debbono essere limitati i poteri e le funzioni attualmente attribuiti al Parlamento. Di competenza del Parlamento i problemi che riguardano l’individuo come cittadino dello Stato e lo Stato come organo di realizzazione e di tutela dei supremi interessi nazionali; di competenza dei Consigli Tecnici Nazionali i problemi che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori […]. Il Fascismo non può contestare il fatto storico dello sviluppo delle corporazioni, ma vuol coordinare tale sviluppo ai fini nazionali2.
Nel denominare le organizzazioni sindacali con il termine «corporazione» il documento voleva evidenziarne il carattere conciliativo e marcare una netta discontinuità con il sindacalismo di classe e conflittuale. Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fu proprio il nome scelto nel gennaio 1922 dai sindacati fascisti per la loro struttura confederale. La confusione che ne derivò sarebbe stata sciolta soltanto alcuni anni dopo, quando «corporazioni» vennero chiamati gli organi pubblici per l’arbitrato e la rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro. Nell’insieme, il programma del Pnf offriva elaborazioni e indicazioni quanto mai vaghe e indefinite, poco più che la semplice enunciazione di alcuni generici obiettivi, quali l’eliminazione della conflittualità di classe, l’estensione delle funzioni del sindacato e la radicale riforma della rappresentanza, da fondare non più sul cittadino ma sul produttore. Ci sarebbe voluto del tempo – almeno la seconda metà del decennio – perché la questione del corporativismo fosse sviluppata nelle sue implicazioni teoriche e assumesse contorni meno incerti. Nei primi tre anni al potere, l’esigenza di procedere alla creazione di un nuovo Stato e di un nuovo modello di organizzazione sociale si associò, per il fascismo, all’assai più impellente necessità di fare i conti con le opposizioni sindacali, di consolidare e allargare la propria base sociale e di mettere fine alle tensioni tra le sue stesse file. A rendere ancora più urgente, nella prima fase, il ripensamento della 53
natura dell’azione del sindacato e del rapporto con lo Stato furono infatti anche il protrarsi dello scontro sociale, nuovamente radicalizzatosi tra il 1924 e il 1925, e le tensioni all’interno dello stesso fascismo, tra sindacato e Pnf ma anche dentro il sindacato per il controllo delle federazioni. L’iniziativa di Mussolini e dei suoi uomini seguì di fatto due strade. La prima fu quella portata avanti direttamente, seppur con l’intervento del governo, dalla Confederazione delle corporazioni sindacali guidata da Rossoni e finalizzata ad acquisire il monopolio della rappresentanza dei lavoratori. Un primo significativo passo in quella direzione fu compiuto con il patto di Palazzo Chigi, siglato il 19 dicembre 1923 dalla Confederazione e dalla Confindustria. Le due organizzazioni affermavano di riconoscersi nelle direttive del governo, che aveva indicato la «concorde volontà di lavoro dei dirigenti delle industrie, dei tecnici, degli operai, come il mezzo più sicuro per accrescere il benessere di tutte le classi e le fortune della Nazione» e, di conseguenza, si impegnavano a intensificare l’opera di organizzazione rispettivamente degli industriali e dei lavoratori «con reciproco proposito di collaborazione». Oltre a riaffermare l’obiettivo della conciliazione tra le classi, il patto di Palazzo Chigi ebbe altri effetti più diretti e immediati: in primo luogo, «ufficializzò» i rapporti tra fascismo e Confindustria e gettò le basi affinché alle elezioni della primavera successiva gli industriali si schierassero a favore della «lista nazionale»3; in secondo luogo, confermò l’esigenza che datori di lavoro (la formula ufficiale per indicare proprietari e imprenditori) e lavoratori fossero rappresentati separatamente e non da un’unica organizzazione, come invece previsto dal progetto di «sindacalismo integrale» sostenuto da Rossoni e dalla dirigenza sindacale4; infine, riconosceva al sindacato fascista una condizione privilegiata per la contrattazione, e di 54
conseguenza assestava un duro colpo al sindacalismo confederale di stampo riformista. In questo modo venivano definiti, sebbene ancora in via generica e informale, i primi tasselli del sistema sindacale fascista: la presenza di organizzazioni distinte per datori di lavoro e lavoratori, il ruolo di interlocutore pressoché unico dei sindacati fascisti verso il mondo imprenditoriale e, naturalmente, la rinuncia al conflitto sociale. Nonostante i proclami sulla fine della lotta di classe, tuttavia, nessuna delle due organizzazioni rinunciava alla propria autonomia né cadevano i reciproci motivi di diffidenza e i propositi di modificare la situazione a proprio vantaggio5. Il sindacalismo fascista, inoltre, fino al 1925 continuò a scontare una condizione di sostanziale debolezza. Ancora nel 1924 subì numerose sconfitte nei rinnovi delle commissioni interne, a fronte di una Cgdl che ritrovava forza e consensi. Oltre alla realizzazione di un nuovo sistema sindacale, il fascismo seguì anche una seconda strada, più complessa e ambiziosa: l’elaborazione di un progetto di riforma costituzionale capace di caratterizzare in senso non conservatore il nuovo governo e di definire le caratteristiche dello Stato nuovo; di quella riforma non solo il ruolo del sindacato ma anche i cambiamenti del sistema di rappresentanza costituivano altrettanti snodi decisivi. Tra il 1923 e il 1925 vennero costituite alcune commissioni e gruppi di lavoro. Nel novembre 1923 da una decisione interna al Pnf nascevano i consigli tecnici nazionali, sulle ceneri dei «gruppi di competenza», le aggregazioni degli esperti in materie economiche e amministrative iscritti al Pnf, ideati da Massimo Rocca e successivamente sciolti. I consigli tecnici nazionali, animati da Carlo Costamagna, avanzarono alcune proposte, estremamente sommarie, che andavano dal riconoscimento giuridico dei sindacati alla creazione di una camera 55
corporativa, eletta «per presentazione dei corpi e degli istituti interessati», con competenza «sulle materie di interesse aziendale e professionale». La nuova camera si sarebbe affiancata alla Camera dei deputati da eleggere a suffragio universale, e al Senato, che avrebbe svolto una non meglio specificata funzione di raccordo6. Per quanto riguardava i sindacati, Costamagna assegnava loro un ruolo limitato, all’insegna di un’integrale subordinazione allo Stato. In particolare, proponeva il riconoscimento giuridico delle organizzazioni e, al tempo stesso, sconfessava le tesi del sindacalismo integrale: «L’obiettivo dell’integrazione nazionale – scrisse nella relazione sui consigli tecnici – […] poteva essere ripreso […] nei più larghi adattamenti di un sistema di rappresentanze pubbliche che rispettasse la indipendenza delle organizzazioni economiche contrapposte e semplicemente ne utilizzasse le formazioni rispettive ai fini di una collaborazione politica»7. La proposta di Costamagna scontentava però quasi tutti: la confederazione di Rossoni per l’abbandono del sindacalismo integrale, i corporativisti per la mancata abrogazione della rappresentanza politica, i fiancheggiatori liberali per l’alterazione del sistema costituzionale vigente, il Pnf e lo stesso Mussolini per la timidezza e le ambiguità delle innovazioni suggerite. Nell’estate 1924, in piena crisi Matteotti, si passò a tentativi più organici e risoluti. Il 4 settembre Mussolini istituì, su designazione del direttorio del Pnf, una commissione composta da quindici membri: cinque senatori (Giovanni Gentile, Enrico Corradini, Matteo Mazziotti, Nicolò Melodia ed Emanuele Greppi), cinque deputati (Gioacchino Volpe, Fulvio Suvich, Edmondo Rossoni, Pier Francesco Leicht e Agostino Lanzillo) e cinque studiosi (Francesco Ercole, Santi Romano, Arturo Rocco, Silvio 56
Longhi e Angelo Oliviero Olivetti). Il consesso era composto quindi interamente da fascisti o filofascisti, senza alcuna concessione al pluralismo. La commissione, d’altra parte, non aveva alcun carattere ufficiale. Era infatti un’iniziativa del Partito fascista più che del governo. Il compito assegnato da Mussolini era quello di rinnovare, non di sovvertire, lo Statuto albertino8. I membri della commissione, presto ribattezzati «soloni» dalla stampa – termine che nei mesi successivi avrebbe assunto una sempre più marcata connotazione negativa –, avrebbero dovuto affrontare tre ordini di problemi: l’equilibrio tra esecutivo e parlamento; i controlli sulla stampa, i partiti internazionali, le società segrete e le banche; i sindacati e la legislazione sul lavoro9. Premeva infatti al fascismo assicurarsi una maggiore stabilità del potere, sottraendosi a eventuali cambiamenti negli equilibri parlamentari, e al tempo stesso controllare il paese attraverso una limitazione delle libertà. In relazione ai sindacati, la commissione aveva l’obiettivo di favorire l’inquadramento di tutti i lavoratori nelle corporazioni fasciste, creando dunque le condizioni, in sintonia con i dirigenti del sindacalismo fascista, per la realizzazione del monopolio sindacale10. Nel discorso di apertura della seduta inaugurale, Gentile, il principale animatore del consesso, richiamò apertamente l’importanza del tema corporativo della conciliazione degli interessi, con formule che però rimanevano nebulose e generiche: «Spetta al fascismo – sostenne in quell’occasione –, spetterà a noi, di avvisare gli organi di conciliazione degli interessi particolari dei sindacati con l’interesse generale e quindi colla potestà suprema dello Stato; conciliazione pacificatrice delle classi sociali attraverso il dibattito e la risoluzione legale di tutti i conflitti e potenziatrice continua della forza dello Stato»11. 57
La commissione non approdò a molto e venne sciolta pochi mesi dopo. Nel breve tempo avuto a disposizione, riuscì solo a elaborare una relazione, firmata da Santi Romano, sui rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo. Tra le diverse indicazioni che essa formulava vi era anche la riforma della Camera dei deputati, in cui sarebbero dovuti essere presenti, per un terzo, i rappresentanti degli interessi economici12. I quindici avevano inoltre fissato alcune linee guida per la riforma dei sindacati, basata sulla libertà delle organizzazioni, vincolata però alla concessione di un riconoscimento giuridico dal quale erano escluse le associazioni che si fossero poste contro le leggi e i fini della nazione e dello Stato; era poi previsto che i lavoratori e i datori di lavoro venissero inquadrati in organizzazioni diverse13. Al posto della commissione dei quindici, alla fine del gennaio 1925 ne venne nominata una nuova, la commissione dei diciotto, anch’essa presieduta da Gentile. L’iniziativa non era più del partito, come in precedenza, ma del governo, sebbene la distinzione cominciasse ormai a perdere di significato. Le modifiche nella composizione erano marginali: uscì Silvio Longhi ed entrarono l’economista Gino Arias, il consigliere di Stato Domenico Barone, il pubblicista Francesco Coppola e lo statistico Corrado Gini14. Cambiava invece profondamente il contesto in cui il nuovo consesso si trovava a operare. Il passaggio alla dittatura esplicita, sancito dal discorso di Mussolini del 3 gennaio, rendeva ormai superfluo ogni tentativo di rassicurare l’opinione pubblica moderata e di valorizzare una presunta fedeltà costituzionale del fascismo. Non per questo, però, risultavano più chiari e definiti i termini della discussione e la natura dei cambiamenti da introdurre. Ancora nella prima metà del 1925, infatti, il dibattito interno al fascismo sulla riforma istituzionale – e 58
dunque anche la discussione tra i diciotto – rimaneva segnato da una profonda indeterminatezza e aperto a esiti molto diversi15. I membri della commissione, peraltro, pur se tutti interni al fascismo o alle forze fiancheggiatrici, avevano diversa formazione culturale e provenienza politica. Si riproduceva perciò, come già nei precedenti consessi, il confronto tra i moderati, che continuavano a vedere la riforma costituzionale come una «rispettosa» revisione conservatrice dello Statuto, e le figure più radicali, che invece si proponevano di sovvertire gli equilibri costituzionali e ridisegnare integralmente le strutture dello Stato16. Il problema del sindacato e dell’ordinamento corporativo fu anche per i diciotto l’elemento decisivo. Nella relazione inviata a Mussolini a conclusione dei lavori, Gentile sostenne infatti che «l’Ordinamento Corporativo in verità è l’idea più innovatrice tra quelle prevalse attraverso gli studi e i dibattiti della Commissione». L’idea corporativa era «la sola che possa indicare un modo di contenere effettivamente dentro il circolo dell’azione statale le forze produttive nazionali», la sola capace di far «aderire lo Stato alla realtà di cui esso è forma e da cui non può astrarre e separarsi […] senza perdere la sua base concreta e insieme con essa la propria forza organica e organizzativa»17. In relazione al sindacato, i diciotto sostanzialmente si limitarono a ribadire le conclusioni dei quindici: fu infatti accettato il principio del riconoscimento giuridico dei sindacati – da concedere però solo alle organizzazioni operanti nell’ambito della «vita nazionale» e non vincolate a partiti internazionali – ma non quello del sindacato unico per ciascuna categoria. Ancora una volta, dunque, usciva sconfitto il sindacalismo fascista, che puntava al monopolio della rappresentanza. Sul problema della rappresentanza corporativa la 59
discussione fu ancora meno risolutiva. Nella stessa relazione conclusiva di Gentile si faceva esplicitamente cenno alle difficoltà e alle divisioni: «era perciò naturale che [il corporativismo] suscitasse già dentro la stessa Commissione dubbi, perplessità, preoccupazioni e obbiezioni. Gli stessi proponenti di quest’idea o aderenti hanno lungamente meditato prima di abbracciarla. Qualcuno de’ suoi più convinti e caldi fautori ed elaboratori sulle prime ne fu critico radicale ed avversario»18. Sebbene tutti i membri della commissione si dichiarassero favorevoli a una riforma su base corporativa della rappresentanza, esistevano profonde divergenze sui modi della realizzazione. A conclusione dei lavori, in luglio, furono perciò presentate tre diverse relazioni. La relazione di maggioranza, stesa da Gino Arias, con il contributo determinante di Angelo Oliviero Olivetti, proponeva che metà della camera fosse eletta dagli organi corporativi, mentre per l’altra metà sarebbe dovuto rimanere in vigore il criterio territoriale19. Una seconda relazione, presentata da Coppola, Melodia, Mazziotti e Suvich, accusava la prima di rispondere a «una concezione materialistica, assai più affine a quella del socialismo che a quella del fascismo», e quindi respingeva l’idea che i sindacati e gli organi professionali, da considerare come formazioni spontanee limitate al campo tecnico, potessero partecipare alla sovranità statuale e alla politica20. La terza, infine, firmata da Corrado Gini, era favorevole all’inserimento delle rappresentanze corporative nel Senato, anziché nella Camera, in base a un criterio rigidamente gerarchico e censitario, secondo il quale ogni organizzazione avrebbe avuto un peso diverso dalle altre, in misura proporzionale all’importanza assunta nella vita dello Stato21. I lavori della commissione furono seguiti con grande interesse dalla stampa e diedero origine, prima della loro 60
conclusione e nelle settimane successive, a vivaci polemiche22. Le proposte finali rimasero tuttavia lettera morta. Il Gran consiglio, nella seduta dell’8 ottobre, prese in esame le proposte avanzate dai diciotto e accolse le tesi di Gini, in una formulazione più estensiva di quella originaria. Approvò infatti un ordine del giorno nel quale si prospettava di rendere il Senato elettivo attraverso il voto degli enti e delle corporazioni23. La decisione però non ebbe alcun seguito. Il fascismo infatti si portò dietro, lungo quasi tutta la sua esistenza, il problema della rappresentanza corporativa. Nel 1928 avrebbe attuato un completo stravolgimento del sistema elettorale solo in minima parte qualificabile come corporativo (eliminazione delle elezioni, introduzione dei plebisciti e coinvolgimento di sindacati e organizzazioni padronali nell’indicazione dei deputati), per poi risolvere definitivamente la questione solo sul finire del 1939, con la trasformazione della Camera dei deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni. Anche sul fronte dell’ordinamento sindacale le proposte dei diciotto rimasero lettera morta. Se il riconoscimento giuridico, vale a dire la creazione di un nesso stabile tra Stato e sindacato, era un principio generalmente condiviso, il pluralismo sindacale appariva sempre meno realistico nel nuovo contesto e incontrava consensi sempre più scarsi. Non solo i sindacati, da tempo fautori dell’organizzazione unica, ma anche una larga parte del Partito fascista, incluso lo stesso Mussolini, ritenevano ormai superata quella soluzione. Alla metà del 1925, peraltro, il governo si trovava ad affrontare una ripresa delle agitazioni dei lavoratori, riconducibili sia alle difficoltà economiche e all’inflazione sia ai tentativi di diversi settori dell’antifascismo di alimentare con le rivendicazioni il movimento di opposizione spentosi con l’Aventino. La situazione sociale tutt’altro che pacificata, pur nel 61
pieno della stabilizzazione politica seguita al discorso del 3 gennaio, spinse Mussolini a cercare una definitiva normalizzazione della questione sindacale. Si giunse così, il 2 ottobre, a Palazzo Vidoni, sede del Pnf, alla stipulazione di un patto fra i rappresentanti della Confindustria e quelli della Confederazione delle corporazioni fasciste, in base al quale ciascuna delle due confederazioni riconosceva all’altra la rappresentanza esclusiva per la stipulazione dei contratti, rispettivamente dei datori di lavoro e dei lavoratori. L’accordo aveva conseguenze rilevanti soprattutto per i lavoratori. La confederazione degli industriali infatti era già l’unica rappresentante dei datori di lavoro, mentre le corporazioni fasciste avevano fino a quel momento condiviso la rappresentanza dei lavoratori con le organizzazioni non fasciste. A queste ultime venne così sottratto ogni spazio di azione. Fu compiuto in questo modo un passo decisivo in direzione dello smantellamento della libertà sindacale, iniziata dal fascismo già al suo sorgere. Il patto di Palazzo Vidoni stabilì inoltre l’abolizione delle commissioni interne. I sindacati fascisti ottennero il monopolio della rappresentanza ma pagando il prezzo elevato della perdita di qualsiasi possibilità di intervento e di iniziativa diretta nell’ambito dell’azienda. Veniva affermato, in questo modo, un modello fortemente autoritario di impresa, contraddistinto da una rigida gerarchia interna e dall’impossibilità per i lavoratori di poter avanzare rivendicazioni o di verificare l’attuazione degli accordi stipulati.
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2. Nel segno di Alfredo Rocco Il patto di Palazzo Vidoni indicava la direzione presa dal programma di costruzione del sistema corporativo, almeno in relazione al nodo dell’ordinamento sindacale, in quel momento il più delicato. Il patto rappresentava inoltre un colpo decisivo alle timide e contraddittorie conclusioni dei soloni. Il monopolio sindacale era infatti in completa antitesi col sistema aperto elaborato da Arias. In autunno, mentre erano in preparazione le «leggi fascistissime», il lavoro dei soloni appariva ormai, a poca distanza dalla conclusione, già completamente superato dai fatti. A prendere in mano l’iniziativa per la riforma dello Stato, sostituendosi a Gentile, fu Alfredo Rocco, dall’inizio del 1925 ministro della Giustizia. Rocco rimandò l’intervento sul sistema di rappresentanza e la riforma di Camera e Senato e aggredì invece il nodo dell’ordinamento sindacale. Avviata tra agosto e settembre, la sua iniziativa decollò in ottobre. Dopo un pronunciamento del Gran consiglio del fascismo, che auspicava l’eliminazione del pluralismo sindacale e del diritto di sciopero, alla fine del mese Rocco presentò alla Camera un disegno di legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, approvato infine il 3 aprile 192624. La legge, insieme al decreto attuativo approvato in luglio, fissava i principi fondamentali del sistema sindacale fascista. Una serie di diritti faticosamente acquisiti dai lavoratori nei decenni precedenti veniva cancellata. Lo sciopero e la serrata erano vietati e, di conseguenza, le organizzazioni si vedevano private del principale e più efficace strumento di lotta. L’intera vita sindacale era subordinata ai principi e alle finalità dello Stato fascista. Venne infatti adottato il 63
principio del riconoscimento giuridico delle associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, da concedere solo alle associazioni in possesso della «garanzia di capacità, di moralità e di sicura fede nazionale». Tra gli scopi delle associazioni doveva essere non solo la tutela degli interessi economici degli iscritti, ma anche la loro assistenza, istruzione ed «educazione morale e nazionale». Gli statuti dovevano includere la buona condotta politica tra i criteri mediante i quali regolare l’ammissione dei soci e ogni nomina dirigenziale sarebbe stata vincolata all’approvazione dei ministri delle Corporazioni e dell’Interno. L’accertamento della presenza o meno di questi requisiti era interamente lasciato alla discrezione degli organi dello Stato. Per ottenere il riconoscimento, inoltre, le associazioni avrebbero dovuto raccogliere le adesioni di almeno un decimo dei lavoratori del settore o delle imprese che impiegavano almeno un decimo dei lavoratori. Il riconoscimento legale poteva essere concesso a una sola associazione per ogni categoria. Veniva in questo modo sancito di fatto il monopolio della rappresentanza a favore dei sindacati fascisti. Anche se la grande maggioranza dei lavoratori fosse infatti rimasta fedele ai sindacati non fascisti, sarebbe stato comunque possibile trovare un sindacato fascista capace di vantare un numero sufficiente di adesioni. I sindacati legalmente riconosciuti acquisivano il diritto di rappresentare tutti i datori di lavoro, o lavoratori, o artisti e professionisti della categoria per cui erano costituiti, e nel territorio nel quale operavano, indipendentemente dal fatto che quelli fossero o meno iscritti. Di conseguenza, i sindacati riconosciuti potevano siglare contratti collettivi validi erga omnes, cioè aventi effetto per tutti i datori di lavoro e i lavoratori delle categorie cui il contratto si riferiva25. La legge delineava una precisa gerarchia del campo 64
sindacale. Era previsto infatti che rappresentanze contrapposte di ogni settore si riunissero in «organi di collegamento». Il decreto attuativo, del 1° luglio, precisava caratteri e funzioni di questi organi, identificandoli espressamente con le corporazioni, organi dello Stato aventi il compito di conciliare le controversie, promuovere e coordinare la produzione, istituire uffici di collocamento e regolare il tirocinio. Distinguendo tra sindacati (rappresentativi di interessi specifici e di parte) e corporazioni (organi pubblici in cui i diversi interessi erano presenti), la legge scioglieva le ambiguità terminologiche degli anni precedenti, alimentate soprattutto dalla confederazione di Rossoni. Con la legge Rocco veniva anche costituita la magistratura del lavoro, cui spettava la risoluzione di tutte le controversie relative alla disciplina dei rapporti di lavoro. L’ordinamento sindacale venne completato con un secondo decreto, del 2 luglio, con il quale era costituito il ministero delle Corporazioni, al quale venivano affidate tutte le funzioni in campo sindacale. Presso il nuovo ministero era costituito il Consiglio nazionale delle corporazioni. L’organo, dotato solamente di poteri consultivi, era composto dal ministro delle Corporazioni, dai rappresentanti degli altri dicasteri, delle confederazioni sindacali legalmente riconosciute, dell’Opera nazionale dopolavoro, dell’Opera nazionale balilla e dell’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia. Il Consiglio nazionale delle corporazioni rimase tuttavia sulla carta per oltre tre anni, per poi vedere la luce sulla base di una nuova legge solo nel 1930, nel momento di vero e proprio inizio del corporativismo fascista. Un destino ancora più irto di ostacoli ebbero le corporazioni, per la cui istituzione si sarebbero dovuti attendere quasi otto anni. Con la legge sindacale il fascismo bloccava una volta per tutte la dialettica sindacale e realizzava un controllo solido e 65
capillare sui rapporti di lavoro e sull’intera società. Si trattava sicuramente, sulla scia del patto di Palazzo Vidoni, di una risposta ai fermenti e alle agitazioni di quei mesi, nati in reazione all’aumento della disoccupazione e al peggioramento delle condizioni di vita di larghe masse prodotti dalla politica deflazionistica di «quota 90». Il nuovo ordinamento non nasceva però solo sull’onda di circostanze contingenti. Rappresentava, al contrario, la coerente traduzione sul terreno sindacale della costruzione della «dittatura a viso aperto». Non vi potevano essere ormai alternative al riconoscimento giuridico, al monopolio della rappresentanza o alla funzione conciliativa dei sindacati. La negazione delle libertà politiche e associative, posta in atto proprio in quei mesi, rendeva impossibile continuare a garantire il pluralismo sindacale e la presenza di forme legali e legittime di conflittualità sociale. Lo dimostra anche il generale consenso che, all’interno del fascismo e delle alte gerarchie istituzionali, accompagnò il varo della legge, a parte poche, inevitabili e isolate eccezioni26. Se non vi erano alternative realisticamente praticabili, in quello specifico contesto, alla soppressione della libertà sindacale e all’irreggimentazione delle rappresentanze sociali, si sarebbe invece potuto assegnare al sindacato un ruolo diverso nell’equilibrio dei poteri che si andava delineando, un ruolo più incisivo e meno rigidamente subordinato al governo e all’amministrazione statale. In questo caso, però, fu operata una scelta. Si decise infatti di assegnare una sostanziosa compensazione agli interessi degli industriali, mentre era in corso la delicata partita della rivalutazione a «quota 90»27. Tra le molte possibili impostazioni della questione del corporativismo e della regolamentazione dei rapporti sociali si impose quella rigidamente statalista che faceva capo a 66
Rocco, vale a dire al principale giurista e, in quella fase, al principale ideologo dello Stato fascista. Di quella concezione la legge sindacale – del cui testo Rocco fu non solo ideatore ma anche estensore in prima persona28 – costituì l’organica e integrale traduzione legislativa. La legge del 1926 rappresentava per Rocco addirittura il principale architrave dello Stato fascista. Lo sostenne con chiarezza in uno dei suoi più importanti scritti politici, quando osservò che «la riforma […] che ha maggiormente contribuito a dare allo Stato fascista la sua fisionomia e alla sua azione un concreto contenuto sociale è pur sempre quella realizzata mediante la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro e il relativo regolamento legislativo»29. Naturalmente, questo significava la sconfitta, almeno provvisoriamente, dei fautori di altre concezioni dello Stato corporativo: vale a dire, per gli anni intorno al 1926, innanzitutto del mondo sindacale, il più distante dalle idee del guardasigilli e il più penalizzato dalla riforma. Vista alla luce di queste considerazioni, l’intera vicenda del corporativismo fascista ci appare diversa da come generalmente viene disegnata: non la storia di un’irrimediabile e profondissima distanza tra progetti e realizzazioni, di un inequivocabile fallimento, ma la concreta e piena attuazione di una delle sue possibili versioni. Almeno in riferimento all’interpretazione del corporativismo di Rocco «è infatti possibile parlare di congruenza tra intenti dichiarati, intenti normativamente formalizzati e risultati conseguiti»30. Ovviamente, si tratta di leggere nella sua interezza e complessità la struttura istituzionale e legislativa messa in piedi con la legge sindacale, e non ridurla ai soli aspetti, pure centrali e concretissimi, della soppressione delle libertà e del progetto reazionario dell’integrale predominio dello Stato sulla società. Nella concezione teorica di Rocco, come 67
si è visto, il corporativismo aveva un carattere fortemente autoritario e, al tempo stesso, moderno. La soppressione della lotta di classe e l’instaurazione di una società ordinata e organica, infatti, non avvenivano negando gli elementi costitutivi delle moderne società industriali. Lo Stato doveva prendere atto dell’ineliminabile presenza dei sindacati e perseguire, di conseguenza, non la loro abolizione ma l’assorbimento entro la propria sfera. La legge del 3 aprile 1926 intendeva proprio ricondurre, per via subordinata, gli interessi parziali e particolaristici rappresentati dai sindacati nella totalità espressa dallo Stato. Le organizzazioni sindacali entravano così a far parte pienamente, e ufficialmente, del complesso e sempre più articolato sistema dei poteri dello Stato nuovo, con un esito ambivalente e non privo di conseguenze: mentre svuotava la capacità di rappresentanza dei sindacati e ne impediva la libertà di movimento, il nuovo ordinamento offriva loro una piena e inedita legittimazione istituzionale. È a questa ambivalenza che si riferì Gramsci, in quella che è probabilmente la più lucida e acuta analisi del corporativismo elaborata dall’antifascismo, parlando di «incorporamento» da parte dello Stato di soggetti a esso esterni se non antagonisti31. Naturalmente, il processo di «incorporamento» e assimilazione alla dittatura fu, per il sindacato più che per qualsiasi altra istituzione del regime, preceduto e accompagnato dall’uso esteso e sistematico della violenza. Le osservazioni svolte sin qui sul nuovo rapporto tra sindacato, Stato e società si attagliano alla particolare situazione che, con il varo della legge del 1926, vissero le organizzazioni dei lavoratori. Diversa fu invece la situazione delle organizzazioni padronali, che poterono disporre di un’autonomia organizzativa e di una libertà d’azione sconosciuta alle prime. Il compromesso sociale del regime 68
fascista, d’altra parte, era fortemente squilibrato a favore dei settori imprenditoriali: fu il mondo del lavoro a subire un drastico peggioramento delle proprie condizioni materiali, concretizzatosi in decurtazioni salariali, controllo del mercato del lavoro, abolizione dei rappresentanti all’interno delle fabbriche, eliminazione dei sindacati non fascisti, soppressione del diritto di sciopero, insufficiente vigilanza sul rispetto dei contratti e dei sistemi di tutela. Contrariamente ai sindacati dei lavoratori, le organizzazioni padronali riuscirono a conservare ampi poteri discrezionali nella nomina e nel controllo dei propri organi dirigenti, una forte continuità nel rapporto con gli associati e con l’intera base sociale e una notevole libertà nel definire obiettivi e linee di condotta32. Solo le strutture organizzative vennero cambiate dalla legge del 1926, in direzione di un maggiore accentramento. Le confederazioni – e soprattutto la più importante, la Confindustria – acquisirono inediti poteri di controllo sui funzionari e sugli organi dirigenti delle associazioni di categoria e territoriali. A questo corrispose l’estensione e il rafforzamento della burocrazia centrale, grazie anche alle maggiori entrate garantite dal versamento associativo obbligatorio da parte delle imprese33. Il maggiore accentramento finiva, di fatto, col favorire i grandi gruppi a discapito delle imprese minori34. La Confindustria e le altre confederazioni padronali rafforzarono la propria dimensione nazionale e, al tempo stesso, accentuarono il legame con lo Stato. Dal 1926 le organizzazioni si diffusero più capillarmente sul territorio nazionale, seguendo una localizzazione territoriale su scala provinciale che riproduceva quella dello Stato, incentrata sulle prefetture: le unità territoriali intersettoriali, a livello provinciale, aderenti alla Confindustria erano soltanto 16 nel 1925, prima della legge sindacale, e passarono a 63 nel 69
192835. I cambiamenti della struttura organizzativa rispondevano, nell’insieme, «all’esigenza dello Stato di avere come interlocutori (e possibilmente come collaboratori)» associazioni «in grado di garantire il controllo sui loro iscritti, di assicurare il loro consenso e di creare una fitta rete di interazioni tra organizzazioni private e istituzioni pubbliche ramificate su tutto il territorio nazionale»36. Sebbene il nuovo ordinamento sindacale intervenisse sull’organizzazione, sulla burocrazia, sul rapporto tra confederazione, federazioni e associazioni territoriali e di categoria, l’autonomia delle organizzazioni imprenditoriali, così come la loro capacità di rappresentare e tutelare gli interessi della propria base sociale, rimase in larga parte impregiudicata37. Si può allora concordare con quanto sostenuto nell’immediato dopoguerra dall’annuario della Confindustria, laddove si affermava che, nonostante la legislazione corporativa del fascismo, la confederazione era «riuscita a salvare nelle sue linee generali, ed anche nei particolari, con espedienti diversi, tutto il suo originario sistema collaudato – in regime di libertà di associazione – da una ormai lunga e collaudata esperienza»38. Forti discontinuità con il passato, sul versante delle relazioni con il governo e con la politica economica, sarebbero semmai emerse negli anni Trenta, con l’entrata in funzione delle corporazioni. Neanche quei cambiamenti, tuttavia, avrebbero ridotto in misura significativa i poteri e le capacità della Confindustria e delle confederazioni minori. L’ordinamento sindacale disegnato da Rocco ereditava il preesistente squilibrio nella forza organizzativa di imprenditori e lavoratori e, al tempo stesso, lo acuiva, dal momento che i vincoli giuridici e politici che esso imponeva limitavano soprattutto le organizzazioni in partenza meno forti. Per i sindacati dei lavoratori la legge del 1926 instaurava un nuovo ordine. Cambiavano non soltanto la 70
cornice giuridica e le regole generali dell’attività sindacale, ma anche gli apparati, gli uomini, gli obiettivi, le mentalità e le modalità d’intervento. Le organizzazioni non fasciste erano condannate a una presenza puramente simbolica, preludio allo scioglimento avvenuto nei mesi successivi. Giungeva in questo modo a compimento il processo, iniziato negli anni precedenti, di distruzione del sindacalismo libero e di assimilazione forzata del mondo del lavoro; un processo in cui il fattore «violenza» risultò decisivo. D’altra parte, per nessun’altra componente del regime fascista il rapporto tra distruzione violenta degli oppositori, inglobamento nelle strutture del nuovo Stato e costruzione di una nuova legalità fu stretto come per il sindacato. Con il nuovo ordinamento cambiava anche la fonte della legittimazione delle strutture sindacali: non più i lavoratori, se non in misura subordinata, ma lo Stato, a cui competeva la concessione del riconoscimento giuridico e il cui intervento diveniva decisivo nella regolazione della dialettica sociale. Fu un cambiamento profondo, che sconvolse il rapporto tra i dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori e la loro base sociale. Una buona parte del mondo sindacale vide nel nuovo ordinamento un limite troppo stretto alla propria azione, peraltro non compensato da alcun disciplinamento dell’iniziativa privata e dell’impresa. Nel corso degli anni non mancarono attacchi alla legge Rocco e l’invocazione, di contro, dell’«autogoverno delle categorie»: attacchi e invocazioni che furono dapprima velati e sottotraccia per dare luogo, sul finire degli anni Trenta, a esplicite rivendicazioni di cambiamento39. D’altra parte, la storia del sindacalismo fascista non è circoscrivibile alla sola funzione, per quanto fondamentale, di controllo e irreggimentazione dei lavoratori40. La natura 71
di organizzazione di massa, come attestano le centinaia di migliaia di iscritti41, rendeva infatti i sindacati un organismo estremamente complesso: da un lato «strumento del controllo sociale e cinghia di trasmissione attraverso cui realizzare la ‘mobilitazione dall’alto’ delle masse lavoratrici»; dall’altro, canale di espressione dei bisogni e delle rivendicazioni dei lavoratori, soprattutto per il tramite degli organizzatori di più basso livello42. I sindacati fascisti furono di conseguenza attraversati dalla distanza, forte soprattutto nei frangenti più delicati, tra le parole d’ordine e le linee d’azione elaborate dai vertici nazionali, da un lato, e la condotta seguita a livello periferico, nei singoli luoghi di lavoro o nelle singole categorie, dall’altro43. L’alternativa tra consenso e conflitto – irrisolta nell’attuazione del progetto totalitario del fascismo – finì dunque per riprodursi all’interno degli stessi sindacati. La legge sindacale non si limitava a inquadrare nel regime i fronti opposti dei datori di lavoro e dei lavoratori. I suoi effetti si estendevano anche alla vasta e frastagliatissima galassia delle classi medie. Il progetto corporativo, d’altra parte, aveva proprio nei settori intermedi della società un proprio fondamentale destinatario. La presenza di larghi strati di classi medie rappresentava per il fascismo non solo un contraltare alla forza acquisita dal proletariato ma anche l’evidente smentita degli schematismi classisti, basati sulla polarizzazione tra capitale e lavoro. Già prima della marcia su Roma il fascismo aveva voluto valorizzare – come ebbe a scrivere Rossoni – la centralità nella vita sociale delle «categorie medie», «sintesi delle funzioni di tutte le classi», «più numerose dello stesso proletariato e […] la forza più consistente – per le qualità intrinseche – della Nazione»44. Parlare di classi medie – da intendere rigorosamente al plurale – significa, naturalmente, fare riferimento a uno strato sociale dai confini non facilmente tracciabili, 72
composito e fortemente variegato per condizioni, collocazione sociale, interessi e cultura. Non solo gli impiegati pubblici, i liberi professionisti, i tecnici, i commercianti, i giornalisti o gli insegnanti vivono situazioni differenti gli uni dagli altri, ma ciascuna categoria risulta profondamente diversificata al proprio interno. Se questo dato caratterizza l’esperienza concreta delle classi medie, suggerendoci quanto possano essere fuorvianti le generiche semplificazioni, il ventennio della dittatura vide acuirsi le differenze. L’opera di inquadramento sindacale, e più in generale di inserimento nelle strutture del regime, fu infatti condotta dal fascismo disaggregando la galassia delle classi medie e riaggregandola intorno a categorie circoscritte e compartimentate. La legge dell’aprile 1926 coronò la prima fase di questo processo. Innanzitutto, separò i dipendenti pubblici. Gli impiegati dello Stato, delle province, dei comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, delle ferrovie, delle poste, della Banca d’Italia, della Cassa depositi e prestiti, degli enti parastatali, delle banche di diritto pubblico e delle casse di risparmio non potevano infatti far parte delle associazioni di lavoratori legalmente riconosciute, né di conseguenza erano soggetti alle disposizioni sui contratti collettivi e sulla giurisdizione della magistratura del lavoro. Sebbene negli anni precedenti l’attività associativa dei dipendenti pubblici fosse stata condotta all’interno del movimento sindacale (nel 1923 era stata costituita la corporazione dell’impiego, aderente alla Confederazione generale delle corporazioni sindacali fasciste)45, la legge sindacale fissava un ordine delle cose pienamente coerente con la realtà ideologica e istituzionale del regime. Per il fascismo, infatti, non erano ammissibili i sindacati degli impiegati pubblici, perché avrebbero comportato la contrapposizione di una «parte», vale a dire l’impiegato 73
pubblico, alla «totalità» rappresentata dallo Stato, custode e garante dell’interesse generale. Vennero perciò costituite alcune organizzazioni dei dipendenti pubblici, collegate al Pnf e prive delle prerogative dei sindacati. Di queste organizzazioni, l’Associazione generale fascista del pubblico impiego (Agfpi) fu quella con il più alto numero di iscritti. All’Agfpi – di cui potevano fare parte solo gli impiegati che avessero dato prova sicura di fedeltà al regime fascista – erano assegnate funzioni assistenziali, prevalentemente attraverso il dopolavoro, e compiti cosiddetti «morali» e «culturali», come curare «tra i propri iscritti la formazione di una salda coscienza civile e nazionale», promuovere tutte le iniziative tendenti «alla perfetta conoscenza dei problemi riguardanti i servizi e al perfezionamento professionale degli associati» e svolgere «propaganda dei principi fondamentali del Fascismo per quanto riflette l’ordinamento e il funzionamento dello Stato e di tutte le pubbliche Amministrazioni»46. L’Associazione non poteva invece intervenire, con rivendicazioni e vertenze, sullo svolgimento dell’attività lavorativa o sulla retribuzione e, soprattutto, contrariamente ai sindacati dei lavoratori, non poteva svolgere alcuna funzione di natura contrattuale. L’inquadramento degli impiegati pubblici nello Stato corporativo, così come formulato nel nuovo ordinamento, si fondava dunque su una politicizzazione senza sindacalizzazione. La realtà avrebbe però stentato a conformarsi a un disegno così rigido. A partire dalla fine degli anni Venti, le associazioni fasciste dei dipendenti pubblici furono progressivamente attraversate da tensioni analoghe a quelle che segnarono i sindacati dei lavoratori, sebbene in misura meno lacerante e con modalità solo velatamente conflittuali: da un lato agirono come cinghia di trasmissione per avvicinare gli associati e i rappresentati al partito e al regime; dall’altro, come canale entro cui, 74
nonostante tutto, si esprimevano i bisogni, le aspettative e le richieste degli impiegati47. L’operato dell’Agfpi rientrò nel più generale processo di «unificazione nazionale dell’impiegato statale» perseguito dal fascismo. All’Associazione potevano o dovevano aderire i dipendenti dello Stato, delle province, dei comuni, delle istituzioni pubbliche di beneficenza, degli enti parastatali, delle Casse di risparmio. La rappresentanza di tutte queste categorie del pubblico impiego, fino a quel momento sottoposte a regimi giuridici diversi e inquadrate in differenti organizzazioni, si concentrava ora nella medesima associazione. Dunque, gli stessi programmi, le stesse parole d’ordine, gli stessi organizzatori si rivolgevano a categorie in precedenza distinte e separate. Gli impiegati pubblici apparivano di conseguenza «unificati più dal loro status giuridico di dipendenti pubblici che dall’Idea fascista (per definizione, a questo punto, tutti gli impiegati pubblici sono fascisti in quanto al servizio di uno Stato fascista)»48. Ed è attraverso quest’unificazione, e mediante il rafforzamento del senso di appartenenza alla categoria, che avvenne il loro inquadramento nel regime fascista e nelle strutture dello Stato corporativo. Se per i dipendenti pubblici l’ordinamento fascista, nonostante le contraddizioni, interruppe il processo di sindacalizzazione degli anni precedenti, per l’organizzazione sindacale dei professionisti favorì, al contrario, un’accelerazione. L’interesse del fascismo per questo settore della società era stato precoce. Fin dall’inizio si era mostrato capace di raccogliere riscontri positivi su tutto il territorio nazionale, grazie anche all’assenza di un intervento da parte dei socialisti e dei cattolici. Nel 1920 era stata costituita la Corporazione sindacale fascista delle professioni intellettuali, che ebbe tra i primi organizzatori Dino Grandi e che alla fine del 1924 contava 910 sindacati con 57.200 75
tesserati, escluso il settore medico organizzato nella corporazione sanitaria49. L’attenzione e l’apertura verso il mondo delle professioni furono interamente confermate dopo la marcia su Roma, quando all’azione sindacale si affiancò l’intervento legislativo. Nel 1923-24 il governo Mussolini concesse infatti il riconoscimento giuridico alle professioni che ne erano sprovviste, prevedendo anche per esse la creazione di ordini e albi50. La prima fase di questo processo si chiuse nel 1926. La legge sindacale rafforzò in misura rilevante il controllo statale sulle professioni, con la proibizione dell’iscrizione agli albi a chi avesse svolto attività pubblica contraria agli «interessi superiori della Nazione». Per queste ragioni, stando a quanto riporta Salvemini, circa duemila avvocati furono radiati dagli albi51. Venivano mantenuti in vita gli ordini, i collegi e gli albi professionali ma a questi veniva affiancata, per ciascuna categoria, una rappresentanza sindacale unica e valida per tutti, iscritti e non iscritti, con compiti di tutela degli interessi dei rappresentati e di assistenza e istruzione. I sindacati avevano poi la facoltà di nominare la metà dei membri dei consigli degli ordini e, per le professioni prive di propri ordini o collegi per le quali era comunque necessaria l’iscrizione a un albo, di esercitare le funzioni di custodia dell’albo e controllo degli iscritti. Proprio queste prerogative sancivano l’avvio di un processo di svuotamento del potere degli ordini e dei collegi esistenti a tutto vantaggio dei sindacati fascisti. Gli ordini professionali costituivano infatti realtà autonome e svincolate dal controllo delle istituzioni fasciste. Per questo erano ritenuti incompatibili con la disciplina del regime, dal momento che «anche gli apolitici» partecipavano all’elezione dei dirigenti, senza alcuna certezza «della loro capacità, della loro moralità e, peggio, della loro fede nazionale»52. Per le categorie professionali che ottennero il 76
riconoscimento giuridico dopo la legge dell’aprile 1926, la tutela morale e materiale dei rappresentati fu affidata al solo sindacato. Per le professioni più «vecchie» la sostituzione degli ordini con il sindacato avvenne più tardi: nel 1934 per gli avvocati, nel 1935 per i medici e nel 1938 per tutti gli altri, a eccezione dei notai che furono equiparati alle altre categorie solo nel 194053. La nuova situazione favorì ovviamente la crescita dei sindacati dei professionisti. Crebbero gli iscritti in misura notevole, grazie alla massa di nuovi ingressi registrati da tutte le categorie, mentre l’organizzazione si estese a ogni provincia. La Federazione nazionale dei sindacati intellettuali ottenne il riconoscimento giuridico, come struttura aderente alla Confederazione dei sindacati fascisti dei lavoratori. Alla fine del 1928 la Federazione venne riconosciuta come Confederazione a sé stante, denominata Confederazione nazionale dei sindacati fascisti dei professionisti e degli artisti. In essa confluivano le organizzazioni di rappresentanza di tutte le attività professionali e artistiche, a eccezione di quelle esercitate alle dipendenze dello Stato54. Con l’acquisizione di funzioni precedentemente svolte dagli ordini, i sindacati si trovarono progressivamente investiti di una duplice funzione. Da un lato, erano incaricati di difendere gli interessi economici e professionali degli aderenti e di migliorarne lo status: questo significava, in concreto, tutela del titolo, estensione della legislazione previdenziale, difesa dei professionisti dalla pletora dei nuovi laureati e, quindi, dalla minaccia della disoccupazione o della sottoccupazione55. Dall’altro, i sindacati dovevano garantire lo stretto collegamento tra le funzioni delle professioni e la sfera statale56. Il principio era stato enunciato da Rocco a proposito delle professioni di avvocato e procuratore, ma le 77
considerazioni possono essere estese alle altre categorie: «gli ordini professionali, anche i più nobili e di più grandi tradizioni, come gli ordini forensi, non sono che parte dell’organismo dello Stato; hanno pubbliche funzioni, che esercitano in vece e in nome dello Stato e quindi non possono sottrarsi al suo controllo»57. Il fascismo estese il riconoscimento giuridico ai tecnici (ingegneri, architetti, commercialisti), affermando per la prima volta la loro utilità sociale e valorizzandone le credenziali, come nel periodo postunitario era avvenuto per i professionisti del diritto58. In nome dell’interesse pubblico delle professioni rafforzò poi per tutte le categorie, per le «vecchie» come per le «nuove», il controllo governativo sugli accessi e sulle modalità d’esercizio e nel 1938 estese a tutte l’obbligo dell’iscrizione all’albo. I sindacati, perciò, furono chiamati a garantire la «restaurazione della sovranità dello Stato» sulle professioni. L’esito della sindacalizzazione autoritaria fu il rafforzamento dell’adesione dei professionisti allo Stato fascista; un’adesione mediata da un intenso senso di appartenenza alla categoria. Ancor più che per altri settori della società, infatti, per i professionisti l’inserimento nelle strutture del regime avvenne rafforzando il legame dei singoli con gli interessi del proprio specifico gruppo. Nonostante la progressiva uniformazione legislativa e la creazione di una confederazione unitaria, il livello di adesione e di partecipazione alle organizzazioni sindacali e al partito si differenziò, in misura significativa, da una categoria all’altra. Lo dimostra il variare delle adesioni ai sindacati: sul finire degli anni Trenta la percentuale degli iscritti sul totale dei rappresentati andava dal 63% dei ragionieri all’85% di giornalisti e notai, dal 62% di avvocati e procuratori al 77% dei medici, dal 59% dei periti industriali al 76% dei geometri e all’81% dei farmacisti59. Con modalità ancora differenti fu realizzato 78
l’inquadramento sindacale e corporativo di un’altra componente delle classi medie, i piccoli commercianti. Contrariamente a quanto generalmente si ritiene, la categoria dei commercianti al dettaglio – particolarmente corposa in Italia – non era stata inizialmente un’accesa sostenitrice del fascismo. Aveva infatti espresso «accenti di autonomia politica insospettati e coerentemente sostenuti fin quando i tempi lo consentirono», fino cioè alla completa soppressione delle libertà politiche e associative60. Non di un vero e proprio antifascismo ideologico si era trattato, ma della «corretta percezione dell’appoggio che grande industria e grande commercio avevano offerto a Mussolini»; quell’appoggio «suscitava nei piccoli commercianti forti diffidenze e fondate preoccupazioni di vedersi impedita per il futuro la tutela in prima persona dei loro interessi, spesso contrastanti con quelli del grande commercio fiancheggiatore del fascismo»61. I timori furono pienamente confermati. Con la riorganizzazione del sistema sindacale prodotta dalla legge dell’aprile 1926 e dagli interventi degli anni successivi, gli interessi del commercio al dettaglio vennero sacrificati a quelli dei traffici di maggiore dimensione. La Confederazione generale del commercio italiano – costituita nel 1919, dal febbraio 1923 aderente al movimento sindacale fascista e largamente condizionata dal grande commercio – divenne la Confederazione nazionale fascista dei commercianti e ottenne il monopolio della rappresentanza. La Confederazione nazionale piccoli industriali, commercianti ed esercenti (Pice, fondata nel 1921), che riuniva oltre 30.000 associati, principalmente piccoli negozianti, non ottenne invece il riconoscimento giuridico e si sciolse definitivamente nel 192862. La nuova organizzazione della rappresentanza degli interessi sanciva dunque una precisa gerarchia tra le diverse 79
categorie e tra i diversi gruppi sociali. Nonostante costituisse di gran lunga il settore più numeroso per addetti tra tutte le attività ascritte alla Confederazione dei commercianti, alla distribuzione al dettaglio venne riservata una sola Federazione su nove, che ancora nel 1933 risultava in via di costituzione. Almeno fino a quella data, i problemi specifici del commercio al minuto non trovarono quindi una diretta espressione negli organi direttivi della Confederazione. A questa debolezza si aggiunse quella relativa al fatto che i «piccoli» non poterono contare, nei posti chiave dell’organizzazione, su propri rappresentanti, espressione diretta della categoria63. La selezione e le gerarchie tra interessi sancite dall’organizzazione sindacale avevano naturalmente effetti rilevanti sull’attività perseguita dall’organizzazione stessa e, di conseguenza, sulle politiche del governo. Basti pensare che, di fronte alla legislazione punitiva nei confronti della piccola distribuzione varata alla fine del 1926, con cui tra l’altro veniva introdotta la limitazione delle licenze e la possibilità di revoca, la Confederazione, influenzata dal grande commercio, non si oppose e acconsentì alla sconfitta dei piccoli64. Il nuovo ordinamento sindacale, dunque, non includeva solo i «produttori». Accanto ai datori di lavoro e ai lavoratori dell’industria e dell’agricoltura, una precisa collocazione giuridica era assegnata alle classi medie: in alcuni casi ne veniva valorizzata la funzione attraverso un processo di sindacalizzazione sub specie fascista (ceti medi intellettuali e professionisti), in altri l’imposizione di un inquadramento subordinato comportava una perdita di prerogative e di capacità di difesa (piccoli commercianti e impiegati pubblici). In generale, la legge sindacale dell’aprile 1926 costituì la piena realizzazione dell’ideale corporativo di Rocco, 80
finalizzato alla riaffermazione della sovranità dello Stato e del suo assoluto e incontrastato dominio sulla società mediante l’inglobamento, entro lo Stato autoritario, delle strutture associative presenti nella società e nell’economia. Due furono gli effetti immediati: da un lato, l’irreggimentazione autoritaria dei rapporti di lavoro e della dialettica sociale, attraverso la magistratura del lavoro e il divieto di sciopero; dall’altro, l’imposizione di precise gerarchie e di rapporti di forza tra classi e tra categorie. Con la legge sindacale veniva soprattutto messo a punto un aspetto di fondamentale importanza del modo d’essere dello Stato fascista e del suo rapporto con la società. Nel perseguire il pieno dominio sui diversi gruppi sociali e il loro inserimento nello Stato, risultò decisiva la gestione, o la creazione, della vasta rete di associazioni sindacali: una gestione condotta, vale la pena ribadirlo, attraverso il combinato di violenza, controllo e riconoscimento ufficiale. In questa operazione, nel modo in cui fu condotta, risiede tuttavia un paradosso profondo, che segnò l’intera esperienza della dittatura e del suo progetto totalitario. È vero che il fascismo voleva unificare intorno all’«Idea» fascista la comunità post-materialistica e guerresca dei «nuovi italiani», non più contaminata e indebolita dalle divisioni e dalle lotte intestine, come invece era avvenuto nel passato. L’ingresso delle masse nel sistema istituzionale del regime fu però realizzato non solo affermando la loro subalternità alla totalità rappresentata dallo Stato ma anche organizzando, disgregando e riaggregando le molteplici realtà sociali. In questo modo, non solo vennero determinati in maniera più rigorosa i confini giuridici delle diverse categorie ma, riconducendole interamente entro la sfera del «pubblico», fu riconosciuta la loro ineliminabilità, la funzione fondamentale che esse ricoprivano nello Stato nuovo. 81
L’esperienza dell’adesione a un’organizzazione sindacale di rappresentanza degli interessi fu, per un lavoratore della fabbrica o dei campi, per un proprietario o un imprenditore, per un professionista o un commerciante, invariabilmente un’esperienza non più solo privata ma, appunto, pienamente pubblica. Ciascuna organizzazione fu infatti dotata, con il riconoscimento statale, del suggello dello Stato fascista. Aderire a un sindacato e partecipare alle sue attività voleva perciò dire aderire e partecipare a organizzazioni che, per legge e di fatto, costituivano una componente del sistema associativo del regime. Questo processo, nel legittimare la partecipazione alla vita sindacale, finiva però con il legittimare anche il senso di appartenenza al proprio gruppo sociale: non alla «classe», la cui rilevanza era anzi dal fascismo negata in nome del principio della concordia corporativa, ma alla «categoria». La politica corporativa del fascismo distinse e separò le diverse categorie. Si rivolse, almeno per quanto riguardava l’organizzazione sindacale, più agli operai di fabbrica, ai tessili, ai braccianti, agli addetti al commercio che ai «lavoratori salariati»; più ai meccanici, ai chimici, ai proprietari terrieri, alle società commerciali che alla classe possidente e imprenditoriale; più agli avvocati, ai notai, agli ingegneri, ai giornalisti, ai piccoli commercianti, agli impiegati pubblici che alla «classe media». L’esperienza della sindacalizzazione fascista fu condotta attraverso una progressiva parcellizzazione delle organizzazioni: il ruolo degli organismi di unificazione a più alto livello (le confederazioni) fu man mano ridimensionato mentre venne esaltata la funzione delle federazioni di categoria. L’ordine che il fascismo volle imporre al corpo sociale, prima attraverso il sistema sindacale e poi con le istituzioni corporative, insomma, «non escludeva, ma al contrario presupponeva la rigida separazione (tra operai e impiegati, 82
tra lavoratori dei campi e dell’industria, tra lavoratori manuali e del pensiero), lo spirito di corpo, l’istanza di categoria, la logica rionale. Il tutto portava con sé il particolare»65. La vita pubblica di una parte consistente della società italiana si svolse perciò non solo attraverso il processo di nazionalizzazione fascista guidato dal partito e orientato alla celebrazione del culto del duce e del regime, ma si realizzò anche con l’adesione e la partecipazione ad associazioni di categoria, rigorosamente suddivise le une dalle altre. Rimane da capire quanto e come, nella concreta esperienza degli italiani – con inevitabili profonde differenze tra i vari strati sociali e tra le diverse aree del paese –, l’appartenenza integrale alla comunità nazionale e la subordinazione a uno Stato che voleva essere totalitario potesse integrarsi con la conservazione di un senso di appartenenza a uno specifico gruppo e ai suoi interessi. Quel che è certo è che, già a un primo esame dell’impalcatura istituzionale creata nel 1926, appaiono parziali e poco adeguate quelle interpretazioni che vedono nel totalitarismo l’azzeramento della pluralità delle classi e degli interessi al fine di frammentare la società, privarla della sua autonomia di giudizio e di coscienza e quindi renderla più facilmente controllabile66. I meccanismi di correlazione tra gli individui e lo Stato appaiono ben più complessi e diversificati e fondati non solo su masse atomizzate ma anche su una società fortemente organizzata67. Il funzionamento delle istituzioni corporative confermerà in pieno questa tendenza. Le organizzazioni degli interessi avrebbero infatti agito negli anni Trenta, all’interno della pur depotenziata arena corporativa, come forze almeno in parte centrifughe rispetto all’ordine statocentrico e monistico del fascismo.
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3. Un ministero per lo Stato nuovo Tutte le funzioni di organizzazione, coordinamento e controllo create dalla legge sindacale furono affidate, con un decreto del 2 luglio 1926, a una nuova istituzione, il ministero delle Corporazioni. Titolare del dicastero all’inizio fu lo stesso Mussolini. Sottosegretario venne nominato Giacomo Suardo, sostituito in novembre dal più giovane e assai più intraprendente Bottai. L’organo nasceva con compiti e poteri fortemente limitati. A differenza di altri ministeri, aveva non tanto funzioni di amministrazione attiva ma di coordinamento generale e di controllo delle associazioni sindacali68. Un «ministero di coordinamento», che «riceve, coordina, disciplina e irradia le energie sociali, che in esso convergono e si dispongono da tutti gli ordini, per essere immesse nello Stato», lo definì Bottai69. Lo stesso Mussolini, nel discorso di inaugurazione, volle sottolineare che «il ministero delle Corporazioni non [era] un organo burocratico e nemmeno [voleva] sostituirsi alle organizzazioni sindacali nella loro azione necessariamente autonoma» ma era, invece, l’organo che attuava «gli equilibri fra gli interessi e le forze del mondo economico»70. Il ministero nasceva dunque per attuare la legge Rocco. I primi tempi della sua attività furono assorbiti dall’inquadramento delle categorie professionali, dall’approvazione degli statuti delle associazioni, dalla pubblicazione dei contratti collettivi e dall’esame delle inosservanze contrattuali. La regolamentazione della contrattazione collettiva, con cui si stabilivano le condizioni lavorative e salariali dei lavoratori, ebbe grande parte in questa prima fase. Non solo perché il numero di contratti stipulati e pubblicati andò 84
crescendo in misura rilevante di anno in anno (poche decine all’inizio, ammontavano a 472 nel 1928, crebbero a 1.495 nel 1929 e a 2.676 nel 1930), ma anche perché il ministero vi svolse un ruolo attivo71. Intervenne infatti in maniera discrezionale sui contenuti degli accordi, interferendo nelle relazioni tra le organizzazioni dei lavoratori e i datori di lavoro. Attraverso gli ispettorati dell’industria e del lavoro, poi trasformati in ispettorati corporativi, il ministero aveva anche la possibilità di esercitare un pieno controllo sull’effettiva applicazione degli accordi e sull’intera attività dei sindacati. La contrattazione collettiva in questo modo finiva con l’allinearsi alla politica del regime e trasferiva nelle aziende le scelte politiche ed economiche del governo72. Questa situazione fu particolarmente evidente nel corso dei primi anni, coincidenti con una fase di debolezza dei sindacati dei lavoratori. In generale, sul piano retributivo «i contratti tradussero fedelmente gli orientamenti della politica salariale del regime, con arbitrarie riduzioni di paga»; sul piano disciplinare e normativo, «i contratti ratificarono nelle fabbriche un’organizzazione autoritaria e gerarchica»; su un piano più generale, coerentemente con l’orientamento complessivo della politica corporativa, assecondarono la frammentazione delle classi sociali e la rottura dei vincoli di solidarietà, introducendo differenziazioni fra le diverse categorie e sperequazioni di trattamento per settore produttivo, territorio e genere73. Il ministero si dimostrò subito però un soggetto ben più attivo e intraprendente rispetto a quanto previsto dalle norme istitutive. L’indirizzo impresso da Bottai – il vero artefice della politica ministeriale, considerata la scarsa presenza di Mussolini nell’attività amministrativa ordinaria – portò l’organismo ad andare oltre i compiti formalmente assegnatigli e le forti limitazioni nei poteri e nelle 85
dimensioni, tanto che ancora nel marzo 1928, nella relazione alla Camera della giunta generale al bilancio, il relatore, il futuro guardasigilli Arrigo Solmi, avvertiva l’esigenza di riaffermare che il ministero delle Corporazioni aveva un compito «prevalentemente giuridico»; che «non intende costituire una nuova organizzazione amministrativa» né «sostituirsi nelle funzioni tecniche ai varii Ministeri». Il compito del ministero delle Corporazioni, insomma, secondo Solmi «non è compito di provvedimenti amministrativi od economici, non è compito di indagini tecniche o di risoluzioni sostanziali, nel complesso campo della produzione; ma è compito giuridico di organizzazione, di coordinazione e di controllo sull’assetto corporativo e professionale»74. Il richiamo di Solmi agli intendimenti originari, ai limiti precisi posti all’azione del nuovo organo, serviva a tranquillizzare quanti (gli imprenditori, i sindacati, gli altri ministeri) si sentivano minacciati nelle proprie prerogative. Si trattava, tuttavia, di un richiamo destinato a cadere nel vuoto, perché si scontrava con i disegni di Bottai. Il sottosegretario – che nel settembre 1929 sarebbe stato promosso ministro – evidentemente sostenuto da Mussolini, volle infatti fare del ministero delle Corporazioni il centro propulsore della costruzione del sistema corporativo e del rinnovamento dello Stato. Le ambizioni innovatrici investivano innanzitutto gli aspetti organizzativi. La struttura inizialmente disegnata da Bottai era «in deroga al sistema tradizionale delle amministrazioni dello Stato» e ambiva a fare del ministero delle Corporazioni il «ministero nuovo» per eccellenza dello Stato fascista, sotto tutti i punti di vista75. Il nuovo dicastero non poteva «paragonarsi con esattezza a nessuna delle grandi Amministrazioni dello Stato» e doveva costituire il modello di un profondo rinnovamento76. 86
Particolare importanza, coerentemente con le posizioni più generali espresse da Bottai, fu attribuita alla formazione del gruppo dirigente. La burocrazia del ministero delle Corporazioni avrebbe dovuto costituire la «burocrazia fascista» per eccellenza (i «funzionari dinamici», come auspicato da Augusto De Marsanich)77. La formazione e la scelta dei funzionari, almeno per i primi tempi, furono effettivamente diverse da quelle delle altre amministrazioni dello Stato: vi confluirono infatti uomini partecipi degli scopi politici del corporativismo, provenienti dal sindacato, dagli studi corporativi o dalla pubblica amministrazione. Le norme sui ruoli organici del personale stabilivano, tra l’altro, la facoltà, per il ministero, di escludere dai concorsi, senza essere tenuto a dichiararne i motivi, coloro che «non affidino di indirizzo conforme agli obiettivi speciali del Ministero»78. Intorno a sé Bottai costituì un nucleo di funzionari direttamente interessati alla realizzazione del corporativismo, tra i quali figurava anche il giurista Carlo Costamagna79. Dopo il primo periodo, però, la composizione della dirigenza burocratica finì col corrispondere sempre meno ai propositi iniziali. Quasi solo i funzionari provenienti dalle altre amministrazioni furono inquadrati stabilmente, mentre per gli altri erano previste assunzioni temporanee, non sempre rinnovate negli anni successivi. Più che a una vera e propria immissione di personale nuovo, politicamente e culturalmente omogeneo, si procedette infatti, vista anche l’insormontabilità di principi e schemi organizzativi consolidati, ad attirare nel nuovo ministero funzionari già inseriti in altre burocrazie ministeriali o nell’ordinamento giudiziario. Ci si premurò, tutt’al più, di aggregare elementi culturalmente omogenei e fare del ministero un catalizzatore di forze sparse nelle diverse amministrazioni80. Con il consolidamento del regime gli stessi criteri di 87
selezione di natura politica e ideologica persero progressivamente di efficacia. La variazione delle materie di concorso, con l’introduzione del diritto corporativo e dell’economia corporativa, non risultò un adeguato strumento di selezione. Le materie in questione furono infatti istituzionalizzate, dalla fine degli anni Venti, negli ordinamenti universitari ed entrarono a far parte dell’ordinario percorso di studi nelle facoltà giuridiche ed economiche (nel novembre 1935 tutte le cattedre di «economia politica» furono trasformate in cattedre di «economia politica corporativa»), perdendo dunque l’originaria connotazione «militante». Il tentativo di costituire una «burocrazia fascista» sarebbe perciò andato incontro, negli anni successivi, a un sostanziale fallimento. Con l’uscita di scena di Bottai dal ministero, nel 1932, i propositi innovatori furono definitivamente abbandonati. Nel 1937, oltre dieci anni dopo l’istituzione, nessuno dei trenta direttori generali, ispettori generali e capi divisione del ministero delle Corporazioni era entrato nell’amministrazione dopo il 191681. Neanche il «ministero fascista» per eccellenza riuscì dunque a promuovere un avanzamento di carriera più rapido per i funzionari selezionati con i nuovi concorsi, e a far loro «scavalcare» gli elementi anziani, culturalmente meno omogenei. Le anzianità e le regole formali e informali che regolamentavano le carriere furono sostanzialmente rispettate. Le tradizioni e la «vischiosità» della burocrazia alla fine prevalsero82. Il ministero delle Corporazioni voleva essere innovativo anche nella propria struttura interna. In un primo momento non erano neanche previste le direzioni generali, intorno alle quali da decenni era costruita l’organizzazione interna delle amministrazioni centrali83. Anche in questo caso, tuttavia, i propositi più radicalmente innovatori rimasero sulla carta e 88
l’attività fu da subito organizzata in due direzioni generali, per le associazioni professionali e per i servizi amministrativi delle corporazioni. A differenziarlo dagli altri dicasteri furono semmai i costanti rimaneggiamenti dell’organizzazione, segno della difficoltà a definire un assetto stabile. Il ministero vide quasi ogni anno modificarsi l’articolazione delle direzioni generali e degli uffici, anche ai livelli più elevati84. A far rientrare i propositi più radicali di innovazione dell’organizzazione e della burocrazia furono soprattutto le diffuse ostilità incontrate, sin dai primissimi tempi, nel resto della pubblica amministrazione. La Ragioneria generale dello Stato e gli altri ministeri interessati (Finanze, Interno ed Economia nazionale) contestarono a più riprese al nuovo dicastero di eludere l’ordinamento gerarchico delle amministrazioni statali, di istituire strutture estranee alle tradizioni ministeriali e di adottare criteri di reclutamento e di gestione del personale troppo flessibili85. Bottai e il suo entourage risposero a più riprese che l’amministrazione delle Corporazioni costituiva il motore e l’esempio per la trasformazione della burocrazia e dello Stato: «esistono persone, anzi personaggi – denunciava nell’aprile 1928 «Critica fascista» – per cui l’ordinamento corporativo è appena un problema di spettanza del Ministero delle Corporazioni, anziché essere un sistema di organizzazione dello Stato che tocca ed investe tutti i Ministeri»86. Ad alimentare le accuse, più o meno dirette, erano però soprattutto gli sconfinamenti di campo del ministero. La funzione innovatrice che gli era stata assegnata non si limitava infatti all’assetto istituzionale e alla costituzione di una nuova dirigenza burocratica. Bottai e gli uomini a lui vicini volevano dar vita a un ordinamento corporativo che avesse un’accezione più larga rispetto a quanto realizzato con la legge sindacale: un corporativismo fondato non solo 89
sulla disciplina dei rapporti di lavoro ma anche su una vera e propria regolazione dell’economia. Il ministero delle Corporazioni, di conseguenza, non si poteva limitare a coordinare la vita sindacale ma si doveva porre al centro della politica economica italiana. Inevitabile era dunque il timore delle altre amministrazioni dello Stato di un’invasione delle proprie competenze e dei propri interessi. Il gabinetto dell’Interno denunciò la tendenza del ministero delle Corporazioni ad arrogarsi funzioni di carattere generale – come il coordinamento delle iniziative di assistenza e di educazione sociale, la promozione e il rafforzamento della «concordia nazionale» – che sembravano competere piuttosto al capo del governo: si temeva che quelle funzioni avrebbero potuto dar vita a «un organo supergovernativo, quale sarebbe quello a cui spettasse effettivamente il compito di mantenere i contatti tra il ‘Governo’ e ‘le forze operanti della Nazione’»87. Lo scontro più acceso si ebbe nel 1927 con il ministro dell’Economia nazionale, Giuseppe Belluzzo, direttamente minacciato nelle proprie competenze sull’industria e sugli interventi in ambito produttivo. Belluzzo difese le prerogative del proprio dicastero, riaffermando l’«elementare differenza» fra i problemi tecnici della produzione e quelli sindacali, rivendicando per sé l’intervento sui primi e restringendo il campo d’azione del dicastero concorrente ai secondi: nelle questioni tecniche, scrisse Belluzzo a Bottai nel settembre 1927, «con tutto il rispetto per te e per il tuo valoroso collaboratore Costamagna, voi non potete capire niente, per la semplice ragione che siete degli avvocati valorosi, ma in fatto di tecnica non potete avere la competenza necessaria»88. La disputa si trascinò per un biennio, e fu alla fine vinta da Bottai: nel settembre 1929 il ministero dell’Economia 90
nazionale fu sciolto e le sue competenze, a eccezione di quelle in campo agricolo, passarono al ministero delle Corporazioni. Il nuovo dicastero non riuscì tuttavia ad allargare ulteriormente il proprio ambito di intervento: l’edilizia popolare, rivendicata da Bottai per il suo carattere sociale, rimase di pertinenza dei Lavori pubblici; alla metà degli anni Trenta, anzi, avrebbe perso le prerogative in materia di commercio con l’estero, sempre più rilevanti. Malgrado le vaste attribuzioni nominali comunque acquisite, sarebbe sempre rimasta «una sostanziale indeterminatezza» della sua sfera di competenza e il centro della politica economica del regime continuò a essere occupato dal ministero delle Finanze89. Al cuore dell’iniziativa di Bottai, comunque, era non solo l’allargamento delle competenze del ministero delle Corporazioni ma l’identificazione di questo con il progetto, ben più vasto nelle intenzioni dei promotori, di una «rivoluzione corporativa». Il sottosegretario voleva fare del dicastero il centro propulsore della costruzione di una versione più ampia del corporativismo, diversa, come si è visto, da quella voluta da Rocco e sostanzialmente realizzata con la legge sindacale. In assenza degli organi corporativi, ancora da costituire e in linea teorica deputati proprio a regolamentare l’attività economica e a subordinare l’iniziativa privata agli interessi dello Stato fascista, spettava al ministero delle Corporazioni promuovere, se non realizzare, il compimento del corporativismo. Gli sforzi compiuti da Bottai ai vertici del ministero, prima come sottosegretario e poi come ministro, i programmi politici e amministrativi, i risultati e i fallimenti devono dunque essere valutati soprattutto alla luce di questa prospettiva più generale. Fino alla creazione del Consiglio nazionale delle corporazioni, avvenuta nel 1930, il progetto 91
corporativo rimase però piuttosto incerto nei suoi contenuti. Nella prima fase tre momenti o aspetti appaiono comunque rilevanti: l’avvio di una politica culturale improntata specificamente all’edificazione del corporativismo, la Carta del lavoro e il rapporto con i sindacati. Con l’arrivo di Bottai l’intervento in ambito culturale venne a rappresentare un impegno di primissimo piano. Solo attraverso una vera e propria politica culturale, d’altra parte, era possibile fare del corporativismo, e del connesso progetto di trasformazione dello Stato, un obiettivo politico e non solo propagandistico e quindi avviare, intorno a esso, la costruzione di un’egemonia culturale consona a un regime capace di durare nel tempo. La politica culturale del ministero non solo inseriva a pieno titolo il corporativismo tra le mete del regime, e non più di singole componenti, ma ambiva a «definire nientemeno che l’essenza della rivoluzione, l’obiettivo verso cui la nuova Italia doveva indirizzarsi»90. L’ampiezza dell’impegno e il fatto che muovesse dal presupposto del carattere totale e totalizzante del regime venivano inevitabilmente a segnare una profonda discontinuità con la mentalità squadristica e minoritaria, che continuava a connotare molti gerarchi. È solo con la nascita del ministero delle Corporazioni perciò che si può parlare di un’organica politica culturale del fascismo91. L’impegno del ministero nel suscitare e coordinare iniziative intellettuali, nell’attrarre e organizzare le forze più attive e interessanti sorte all’interno del movimento sindacale e corporativo fu costante e intenso. Con quello scopo fu appositamente costituita la commissione permanente di studi corporativi. All’inizio l’intervento fu perseguito con maggiore attenzione nel campo del pensiero giuridico, mentre più lento fu l’avvio della penetrazione tra gli economisti. Il primo atto fu infatti la creazione nel gennaio 1927 della rivista il «Diritto del lavoro». Nata con 92
lo scopo di promuovere una riflessione sulla dimensione giuridica e istituzionale del regime, mettendo al centro proprio l’evoluzione del diritto sindacale e corporativo, la rivista rappresentò la tribuna più influente per gli orientamenti del fascismo in ambito giuridico e si dimostrò capace di coinvolgere una parte significativa degli studiosi di diritto92. Il ministero si fece anche promotore di incontri e congressi, con pretese di scientificità e grandi ambizioni culturali, culminati nei due convegni di studi sindacali e corporativi tenutisi a Roma nel 1930 e a Ferrara nel 1932. Dette inoltre impulso alla costituzione di una rete non trascurabile di cattedre e scuole richiamantesi al corporativismo, con cui andava incontro al duplice scopo di «invadere» la cultura universitaria, improntandola progressivamente al nuovo verbo, e curare la formazione delle giovani generazioni. Tra le diverse iniziative, figurano la costituzione alla fine del 1927, nell’università di Ferrara, della prima cattedra di Diritto corporativo, di cui fu titolare Costamagna, l’apertura nel 1928 della Scuola superiore di scienze corporative a Pisa e la fondazione nel 1931 del Collegio Mussolini, presso la stessa Scuola, per incentivare e sostenere gli studenti. Tutte queste realizzazioni portano forte il segno non solo della burocrazia di vertice del ministero delle Corporazioni ma, specificamente, di Bottai, alla cui iniziativa individuale alcune di esse sono direttamente riconducibili. D’altra parte, è probabile che sulla scelta mussoliniana di puntare su Bottai e non su un altro gerarca abbia influito proprio la capacità sempre mostrata dal direttore di «Critica fascista» di assicurare un elevato tono del dibattito intellettuale93. All’attività di organizzatore culturale il sottosegretario e poi ministro affiancò peraltro la sua personale attività pubblicistica, che fu intensissima per tutto il periodo e si 93
concretizzò in un’ingente mole di articoli e note, apparsi su riviste e giornali e poi in buona parte raccolti in volumi. Appare perciò difficile – ma questa considerazione vale non solo per l’intervento in ambito culturale – distinguere l’operato del ministero delle Corporazioni, negli anni dal 1926 al 1932, dalle iniziative più strettamente personali di Bottai. La necessità di definire con maggiore precisione e concretezza i contorni del futuro Stato corporativo fu all’origine anche dell’elaborazione della Carta del lavoro. Sebbene la propaganda lo abbia presentato come il manifesto del corporativismo e il fondamento ideologico della dimensione sociale dello Stato fascista, il documento ebbe in realtà contenuti generici e non sempre incisivi, fu privo di valore normativo e non costituì mai un’effettiva fonte di indirizzo per l’azione del governo. Nonostante questo, la Carta del lavoro appare significativa per due motivi: per l’ampia risonanza politica e propagandistica che ebbe e perché la sua formulazione è rivelatrice dello stato dei rapporti di forza nel regime e tra il fascismo e le forze sociali. Renzo De Felice ha ricostruito accuratamente l’iter di formazione della Carta, che si svolse interamente nel giro di pochi mesi, tra la fine del 1926 e l’aprile 192794. Iniziò Rossoni, prima lanciando l’idea di un documento che enunciasse «l’etica e i principi sociali del fascismo» e riassumesse la legislazione del lavoro e quindi facendo pressioni su Mussolini affinché lo sostenesse95. Il segretario del Pnf, Augusto Turati, avviò poi consultazioni preliminari con i dirigenti delle confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Si trovò però di fronte a posizioni contrapposte e alla scarsa disponibilità al compromesso. Particolarmente rigidi si dimostrarono gli industriali, preoccupati che la Carta del lavoro potesse introdurre oneri troppo pesanti e 94
rafforzare la posizione dei sindacati. Fu a questo punto che entrò in gioco Bottai. Mussolini infatti avocò a sé la questione e delegò al sottosegretario alle Corporazioni la redazione di un primo schema. Bottai preparò un questionario articolato in dieci punti da sottoporre a tutte le confederazioni. Le risposte, come era prevedibile, risultarono ispirate da concezioni generali e da interessi particolari diversissimi e spesso antitetici96. Nell’impossibilità di conciliare le diverse posizioni e proporre un documento condiviso, il sottosegretario si vide costretto a formulare due progetti distinti, che rispecchiavano l’uno il punto di vista della confederazione di Rossoni e l’altro il punto di vista della Confindustria. Così Bottai sintetizzò a Mussolini la situazione, nella lettera con cui ne dava conto rimettendo la decisione nelle mani del duce: la Confederazione dei sindacati fascisti «intende realizzare nella ‘Carta’ concrete garanzie dei lavoratori, legate, per altro, ad un sistema un po’ troppo rigido che renderebbe difficili i naturali sviluppi del contratto collettivo, concepito come istituto caratteristico dell’ordinamento sindacale»; la Confindustria, invece, «tende ad assumere fin d’ora una posizione antagonistica nei confronti della Corporazione, che è invece di un’importanza fondamentale nella concezione fascista»97. Significative appaiono le indicazioni fornite, nella stessa lettera, da Bottai, che andavano in direzione opposta al tanto celebrato «autogoverno delle categorie»: A questo proposito devesi tener presente che il congegno dell’ordinamento corporativo non può riposare che parzialmente sul consenso delle parti. Al suo funzionamento è indispensabile l’intervento risolutivo della volontà politica, l’azione dello Stato forte, che riserba a sé la responsabilità della decisione98.
Mussolini, dopo un primo tentativo di modificare il testo confindustriale, ripiegò su una soluzione di compromesso. Il vero artefice di questa mediazione fu Rocco, autore – in stretto contatto con Bottai e probabilmente con la 95
collaborazione di Turati e Belluzzo – di un terzo testo, assai vicino alle tesi della Confindustria. Nella sua elaborazione definitiva la versione di Rocco subì alcune modifiche, finalizzate a contemperarne il tono conservatore con alcune concessioni ai sindacalisti, nei cui confronti Mussolini rischiava di trovarsi scoperto99. Si giunse così al testo definitivo della Carta del lavoro, finalmente approvato dal Gran consiglio nella notte tra il 21 e il 22 aprile, contemporaneamente a un ordine del giorno che invitava il governo a darne presto una traduzione legislativa100. Il primo articolo della Carta costituisce un’efficace sintesi di quella visione organica e antindividualista su cui si sarebbe dovuto fondare il corporativismo: «La nazione italiana – recita – è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione, superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascista». Le gambe sociali su cui avrebbe dovuto poggiare l’organismo nazionale erano il lavoro e l’iniziativa privata. Il primo era considerato un «dovere sociale», solo a questo titolo tutelato dallo Stato. La seconda era ritenuta «lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della nazione»; di conseguenza, se da un lato si riconosceva che la direzione dell’impresa era di esclusiva pertinenza della proprietà, dall’altro gli imprenditori erano dichiarati responsabili dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Si era però ben lontani da una statalizzazione della proprietà. L’intervento dello Stato era infatti ammesso solo in funzione suppletiva, cioè «soltanto quando manchi, o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato». Si cercava, insomma, di conciliare lo statalismo e l’antiliberalismo del fascismo con l’integrale salvaguardia della proprietà privata. 96
La Carta inglobava poi gli elementi più importanti della legge sindacale dell’aprile 1926 per quanto concerneva il riconoscimento pubblico dei sindacati, il contratto collettivo di lavoro e la magistratura del lavoro; ribadiva inoltre la presenza delle corporazioni, organi dello Stato, con il compito di assicurare «l’uguaglianza giuridica tra datori di lavoro e lavoratori» e costituire «l’organizzazione unitaria della produzione», anche attraverso l’emanazione di norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e sul coordinamento della produzione. Numerosi articoli erano dedicati al diritto del lavoro. Oltre a fissare diritti e doveri del lavoratore, introducevano l’idea del «giusto salario», cioè della retribuzione determinata non solo dal mercato ma dalle «normali esigenze di vita» e dal rendimento del lavoro. La parte finale era incentrata sulla previdenza e sulle assicurazioni sociali. La rilevanza assegnata al tema costituiva per molti aspetti una novità. Come sarebbe apparso chiaro negli anni successivi, il regime intravedeva nel sistema previdenziale e assicurativo uno strumento sia per allentare le tensioni sociali sia per compiere «un percorso di riconversione dello Stato verso una dimensione economico-sociale alternativa a quella liberale»101. Il fascismo, infatti, cercò nella previdenza sociale «un campo di prova dell’identità che intendeva offrire agli italiani» e il fondamento della propria dimensione sociale102. La Carta del lavoro fu pubblicata sulla «Gazzetta ufficiale». Con quell’atto il regime voleva dare valore e solennità al documento. La Carta era però priva di valore giuridico. Si trattava di un manifesto, una sorta di «libro bianco» che enunciava idee generali103. Intorno a essa si sviluppò tuttavia un profluvio di esegesi ed esaltazioni tanto imponente quanto surreale. Per circa un decennio fu costantemente e ossessivamente evocata dalla propaganda e 97
dalla discussione dottrinaria. Nonostante lo scarso valore effettivo della Carta, tutta la vicenda – sia la preparazione del testo sia la redazione finale – è fortemente rivelatrice delle diverse spinte che si agitavano nel fascismo e nelle forze fiancheggiatrici. I rapporti di forza esistenti nella società e nel regime non permettevano in quel momento di andare molto oltre a quanto messo in atto con la legge sindacale104. Fu probabilmente proprio la presa d’atto delle fratture ancora esistenti nella società e delle resistenze che il progetto corporativo incontrava a indurre Bottai a presentare due testi senza tentare una soluzione più avanzata nei contenuti e più efficace nella forma. Tanto le organizzazioni padronali quanto la confederazione sindacale guidata da Rossoni rappresentavano, per motivi profondamente diversi, ostacoli insormontabili per la realizzazione dell’edificio corporativo. In un primo momento, fino almeno alla costituzione del Consiglio nazionale delle corporazioni, l’azione di Bottai tralasciò sostanzialmente le prime, anche perché era in corso di consolidamento il compromesso tra mondo economico e fascismo. I sindacati furono invece oggetto di ripetuti interventi, finalizzati a intaccarne la forza e l’autonomia residue. Le organizzazioni dei lavoratori avevano riposto inizialmente grandi aspettative nel ministero delle Corporazioni. Confidavano, come forma di compensazione all’abolizione del diritto di sciopero e delle commissioni interne, di giocare un ruolo di punta nel neonato ministero e Rossoni sperava di diventarne sottosegretario105. Le aspettative però non si realizzarono. La Confindustria, attraverso il segretario generale Gino Olivetti, si era opposta energicamente all’ipotesi della nomina di Rossoni e aveva ottenuto che l’interim fosse assunto da Mussolini106. 98
L’orientamento del ministero si rivelò nel complesso assai poco favorevole alla confederazione dei lavoratori e finì con il rendere ancora più strette le maglie della legge Rocco. Il governo e i gerarchi del Pnf, d’altra parte, una volta compiuto il passaggio alla dittatura «a viso aperto» erano sempre meno disposti a tollerare l’indipendenza dei sindacati e il ricorso da parte di Rossoni e degli altri dirigenti a pratiche e discorsi poco compatibili con la concordia corporativa. Su questa generale insofferenza si inseriva poi la contrapposizione tra Bottai e Rossoni, esponenti, come si è visto, di due diverse e lontanissime concezioni del sindacato e del corporativismo. Già negli anni precedenti non erano mancati momenti di polemica tra i due. Particolarmente duro era stato lo scontro che aveva accompagnato la fase conclusiva della commissione dei soloni, con scambi di accuse di scarsa fedeltà al fascismo e deferimenti alla corte di disciplina del Pnf107. Dopo il 1926 la contrapposizione si fece ancora più accesa. Da sottosegretario alle Corporazioni, Bottai non mancò di richiamare la distanza tra quella che considerava la corretta concezione corporativa e la concezione sostenuta dai sindacalisti: La concezione corporativa – sosteneva un editoriale di «Critica fascista» del 1928 – è quella appunto per cui lo Stato si afferma non come somma di individui o di sindacati, ma come entità superiore al Sindacato, opposta e superiore al Sindacato stesso, perché lo Stato a sua volta, nel concetto della dottrina fascista e corporativa, è precisamente un «corpus», cioè una persona morale, viva e vera, irriducibile agli «atomi», siano essi sindacalisti, siano essi individualisti108.
E poi, un articolo di poco successivo: Il sindacalismo, fine a se stesso, con pretese di dottrina politica, non deve esistere, perché si verrebbe a porre in dubbio lo sviluppo unitario delle forze produttive, che, nei sindacati o associazioni professionali, realizzano la prima forma della disciplina corporativa109.
In più occasioni, nei discorsi ufficiali o sulle colonne di «Critica fascista», il sottosegretario segnalò la «tendenza allo sconfinamento» dei sindacati, che costituiva un «preludio 99
irregolare all’azione corporativa»110. Benché il discorso potesse essere riferito sia alle organizzazioni dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori, nella realtà era indirizzato solo verso queste ultime. Bottai si prefisse perciò di limitare il sindacalismo fascista, già comunque ampiamente normalizzato, attraverso un controllo rigoroso non solo dei contratti stipulati, tanto al centro quanto in periferia, ma anche dei regolamenti e delle piante organiche. Molte attenzioni furono appuntate sui dirigenti. Il tema della formazione di una nuova classe dirigente, adeguata alle esigenze e agli obiettivi del regime, costituiva d’altra parte uno dei cavalli di battaglia di Bottai. L’obiettivo era, in primo luogo, l’attuazione di controlli rigidi e selettivi e l’epurazione di funzionari politicamente non allineati, così come sancito dal Gran consiglio nel novembre 1927111. La forte presenza nelle organizzazioni fasciste, ancora dopo la metà degli anni Venti, di un numero consistente di vecchi organizzatori, per lo più provenienti dal sindacalismo rivoluzionario, era ammessa peraltro dallo stesso Rossoni112. La questione non si esauriva però in un generico ricambio di uomini, che pure fu largamente perseguito, ma chiamava in causa elementi più complessi, come la definizione della figura del dirigente e dei suoi compiti, il grado di autonomia dagli organi di partito o le modalità della designazione, per nomina o per elezione. Per Bottai si trattava di dar vita a una nuova figura di dirigente, il «dirigente-funzionario». Si doveva infatti superare l’«arretrato concetto del dirigente sindacale, animatore ed agitatore di folle, che organizza il mondo del lavoro a scopo di conquista». Il dirigente avrebbe dovuto non solo «agitare», ma anche «disciplinare», «educare», «scegliere», «perfezionare». Nuovi compiti si affiancavano o sostituivano ai vecchi: «la determinazione del salario, in base alle possibilità della produzione, alle esigenze normali della 100
vita, al rendimento del lavoro»; l’applicazione delle leggi del lavoro, l’osservanza della Carta del lavoro, il contratto collettivo. I dirigenti avrebbero dovuto «formarsi un’autorità tecnica e morale insieme», se volevano «essere quella legittima gerarchia di valore, di capacità, di intelletti e di spiriti da cui può ogni consiglio, ogni ammonimento, ogni ordine discendere, con la sicurezza di essere ascoltato»; in altre parole, secondo Bottai i dirigenti sindacali avrebbero dovuto comporre l’«aristocrazia attiva della società italiana riorganizzata», per diventare «nelle organizzazioni gli interpreti del regime»113. In concreto, il sottosegretario si prefisse di spezzare, o quantomeno di allentare, il legame tra la dirigenza sindacale e la base sociale dei rappresentati. Si rivolse soprattutto alle nuove generazioni delle classi medie intellettuali, cui suggeriva di adottare «la nuova professione di dirigente sindacale in luogo di altre professioni liberali, ormai sature»: «Ai giovani che si avviano a accrescere le riserve inutilizzate e inutilizzabili dei professionisti senza professione, questa nuova professione bisogna indicare, precisandone gli attributi e i caratteri, definendone gli sviluppi e la dignità»114. La netta posizione di Bottai rispecchiava in buona parte la realtà del sindacato fascista, che attingeva ampiamente al serbatoio delle classi medie intellettuali disoccupate115, ma si scontrava con il punto di vista di Rossoni. Per il segretario della confederazione dei lavoratori, infatti, era indispensabile che «la direzione di un Sindacato provinciale o locale [fosse] tenuta non da elementi estranei ma da uomini della stessa categoria»: «Abbiamo organizzato anche gli avvocati, gli ingegneri – sostenne intervenendo al congresso della Federazione nazionale dell’agricoltura –, ma gli avvocati devono dirigere i Sindacati degli avvocati, non quelli dei contadini, o dei metallurgici»116. 101
Coerentemente con l’obiettivo del ricambio della dirigenza, alla fine degli anni Venti vennero istituite, per iniziativa del ministero delle Corporazioni e del Pnf, le prime scuole sindacali, con il compito di formare dirigenti «nuovi» da contrapporre a quelli «corridoniani» ancora attivi117. L’intervento di riforma sul sindacato non si limitava naturalmente alla formazione di un nuovo gruppo dirigente. Il problema di fondo era infatti l’elevata concentrazione di potere in una sola organizzazione. Di quel problema Bottai non fu il solo a farsi carico. Diverse forze, con motivazioni anche molto lontane tra loro, esprimevano sempre più accesi malumori verso Rossoni e la sua confederazione: il Pnf di Turati (il cui obiettivo era affermare la funzione sindacale del partito e subordinare a esso le organizzazioni dei lavoratori), la Confindustria, gruppi fascisti minori e alcuni organizzatori sindacali in dissenso con la maggioranza118. La confederazione divenne, per tutta la seconda metà del 1927 e nei primi mesi dell’anno successivo, il bersaglio di sempre più insistiti attacchi sulla stampa119. Fu comunque Bottai a condurre l’offensiva, negli ultimi mesi del 1928, in quello che Tullio Cianetti nelle sue memorie avrebbe indicato come l’«anno fatale» per il sindacalismo fascista120. In un rapporto inviato in settembre al Gran consiglio chiese apertamente lo smembramento dell’organizzazione guidata da Rossoni. La situazione esistente, che vedeva una sola confederazione dei lavoratori e 6 distinte confederazioni dei datori di lavoro, era ritenuta non compatibile con la legge sindacale e fonte di «disquilibrio che può rendere difficile l’esempio di quella collaborazione tra capitale e lavoro che è la sintesi del regime corporativo»121. Le richieste furono accolte da Mussolini e alla fine di novembre fu approvato il cosiddetto 102
«sbloccamento»: la confederazione venne sciolta e le federazioni che la componevano trasformate in altrettante confederazioni, completamente autonome l’una dall’altra (confederazioni dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti terrestri e della navigazione interna, del credito e delle assicurazioni, della gente del mare e dell’aria). Lo sbloccamento sanciva la sconfitta del sindacalismo e completava il sistema sindacale disegnato dalla legge dell’aprile 1926. Per Mussolini rappresentava «un passo innanzi sulla via delle realizzazioni corporative»122. Molteplici erano le ragioni che avevano indotto Mussolini ad approvare il provvedimento: svuotare il sindacato della sua forza e subordinarlo al partito, anche perché, con l’approvazione alcuni mesi prima della cosiddetta «riforma della rappresentanza politica», esso sembrava destinato ad acquisire un maggiore peso politico; limitare il potere personale di Rossoni, l’unico potenzialmente in grado, dopo l’uscita di scena di Farinacci, di interpretare il ruolo di vice duce; tranquillizzare gli imprenditori, ancora inquieti per come il governo aveva gestito l’operazione di «quota 90» e preoccupati della residua aggressività dei sindacati; dare un avvertimento agli organizzatori sindacali più combattivi; affermare il pieno controllo sul mondo del lavoro, anche per poter gestire il salario come vera e propria «variabile dipendente»123. Lo scioglimento della confederazione unitaria e l’uscita di scena di Rossoni e della vecchia dirigenza – con l’unica eccezione di Luigi Razza, nominato alla testa della Confederazione dell’agricoltura – avviarono un ricambio ai vertici dei sindacati. L’arrivo di nuovi elementi, provenienti dalle più disparate esperienze, comportò il forte ridimensionamento dei quadri che provenivano dal sindacalismo rivoluzionario e nazionale di impronta 103
«corridoniana»124. Soprattutto, lo sbloccamento sancì il momento di massima debolezza del sindacalismo fascista. Diviso, privato dei suoi mezzi d’azione e sottoposto a vincoli e controlli sempre più stretti, il sindacato non sarebbe comunque caduto nella definitiva irrilevanza. Negli anni successivi, pur senza raggiungere più l’influenza e la forza della confederazione unitaria, avrebbe faticosamente recuperato un proprio ruolo all’interno del regime.
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4. Dal sindacato alla corporazione Lo sbloccamento suggellava la prima fase della costruzione corporativa. In pochi anni era stato realizzato un sistema per la disciplina dei rapporti di lavoro e per la regolamentazione autoritaria della dialettica sociale. Degli organi corporativi non c’era invece ancora traccia, a parte i vaghi cenni presenti nella legge sindacale e nella Carta del lavoro. Tale non poteva infatti essere considerato il Comitato intersindacale centrale (l’organo costituito nel 1927 dal Pnf con la partecipazione paritetica delle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori), sia per la scarsa rilevanza sia perché il potere effettivo era riservato al partito125. Il sistema sindacale, a sua volta, non appariva affatto esente da contraddizioni. Nonostante tutto, i sindacati dei lavoratori non abbandonavano le residue pulsioni rivendicative, anche perché rinunciarvi li avrebbe inevitabilmente condannati all’abbandono da parte degli aderenti. I dirigenti della Confederazione dei lavoratori dell’industria, in particolare, pochi mesi dopo lo sbloccamento tentarono un rilancio del sindacato, soprattutto attraverso la richiesta, non accolta, di propri rappresentanti all’interno dei luoghi di lavoro, i «fiduciari di fabbrica». Le organizzazioni imprenditoriali, da parte loro, si mostravano restie a integrarsi completamente nelle strutture del regime, e non apparivano disposte a rinunciare alla difesa dei propri interessi particolari e a esprimere un autonomo punto di vista in merito alla politica economica e sociale. Nel corso del 1929 si iniziò a passare dalla «fase sindacale» alla «fase corporativa». Il dibattito teorico entrò nel vivo e si spostò gradualmente dai temi relativi al 105
sindacato alla discussione sulle corporazioni. In marzo Bottai presentò al Gran consiglio il progetto per l’istituzione del Consiglio nazionale delle corporazioni, il primo organo corporativo. Nel bel mezzo del percorso per l’istituzione del Consiglio, in luglio, si svolsero due sedute del Comitato intersindacale, presenti Mussolini, Bottai, Turati, i sottosegretari Lessona (Economia nazionale) e Bianchi (Interno) e i presidenti delle confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. Si tratta di incontri di grande interesse, non perché furono rilevanti ai fini della costruzione dello Stato corporativo – la questione anzi vi apparve solo marginalmente – ma perché la schiettezza della discussione, lontanissima dai toni e dai contenuti del dibattito ufficiale, ci restituisce un quadro più preciso degli equilibri interni al regime e tra questo e le forze fiancheggiatrici nel momento in cui si stava procedendo alla costituzione del primo organo corporativo. Ad animare la prima riunione, tenuta il 6 luglio, fu innanzitutto l’insofferenza verso i sindacati. Mussolini e il presidente di Confindustria, Antonio Stefano Benni, criticarono vivacemente l’atteggiamento di molti sindacalisti. Il capo del governo era particolarmente contrariato dal congresso provinciale dei sindacati dei lavoratori dell’industria di Milano, tenuto qualche giorno prima, e dai resoconti che ne aveva fatto il giornale dei sindacati, «Il lavoro fascista». Come si legge nel verbale, sostenne che «la discussione non gli [era] piaciuta affatto» e che aveva «rilevato poi frasi e periodi che lo avrebbero fatto rabbrividire se non avesse la pelle calatafata [sic] a ben altre impressioni». Lamentava che si fosse «auspicata nuovamente una fase sindacale», si fosse «parlato di finalità dei sindacati», si fosse «usata una nomenclatura demagogica (classi padronali, ceti padronali, padroni) che può dirsi anteriore all’epoca di Carlo Marx» e si fossero «usate delle 106
sviolinature alle masse che disapprova in pieno». Il problema non era però individuato solo nei discorsi dei dirigenti e nella cultura politica che questi sottintendevano ma nel modo in cui si svolgeva il rapporto tra le organizzazioni e la classe lavoratrice: È il risultato fatale delle adunate, dove bisogna pure sempre dire e promettere qualche cosa. […] L’on. Fioretti [presidente della Confederazione dei sindacati dell’industria] ha manifestato il proposito di tenere ancora molte adunate del genere; egli [Mussolini] pensa invece che Fioretti vorrà convincersi che non ve ne è per nulla bisogno. L’intonazione dell’adunata è stata nettamente demagogica. Vi si nota una concezione esagerata del valore del numero degli associati. Egli non la pensa così: non è col peso del numero che le masse debbono segnalare i loro problemi agli organi competenti; non vi è necessità di ciò. Ci se ne accorge e se ne è al corrente lo stesso per mezzo dei naturali organi informatori (Prefetti, Questori, R.R. Carabinieri, ecc.)126.
La discussione rivelò poi come il sistema dei contratti collettivi, perno delle relazioni tra imprese e lavoratori, non fosse sempre riuscito a garantire un’atmosfera di collaborazione e di reciproca fiducia fra gli interessi economici contrapposti. Le organizzazioni dei lavoratori, in particolare, lamentavano ritardi nella stipulazione, mancate applicazioni degli accordi e bassi salari. Lo stesso Mussolini segnalava un forte disagio della classe lavoratrice ed episodi di protesta verificatisi in alcune province. I sindacalisti mettevano anche in evidenza i limiti generali del sistema sindacale. Il presidente dei lavoratori dell’industria, Arnaldo Fioretti, ammise lo stato di «depressione» prodotto dallo sbloccamento e chiamò in causa lo strutturale squilibrio tra le organizzazioni dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori: La situazione dei lavoratori ha attraversato periodi molto delicati come quello della rivalutazione della lira, l’applicazione dei sistemi scientifici (Bedaux ecc.). È necessario uno spirito di collaborazione più sentito che, devo confessarlo, è più facile e più frequente trovare presso i singoli industriali che presso la loro organizzazione. Ciò deriva anche da una questione di ordinamento perché mentre i dirigenti delle Unioni Provinciali dei lavoratori dell’Industria, sono dei gerarchi che assumono dirette responsabilità e sanno disciplinare le categorie organizzate, i Segretari della Confindustria non sempre sanno e possono imporsi alle pretese dei
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loro associati127.
Neanche i rapporti tra il fascismo e gli industriali erano pienamente risolti. Tra i due soggetti si era consolidato un compromesso, ma si era ancora lontani da quell’integrazione del mondo economico nel nuovo Stato voluta e perseguita dal fascismo. Mussolini precisò che non era possibile ritenere gli industriali interamente convertiti al fascismo ma, al tempo stesso, si doveva evitare di considerare la categoria nella sua interezza come un nemico. A proposito della fedeltà al regime di molti industriali, comunque, il capo del governo esprimeva le sue riserve, e fece alcuni esempi: Cita allora il Senatore Agnelli, il quale è un ottimo liberale giolittiano che cura la sua industria e come tale va rispettato; ma, dichiara, il primo a non credere di essere fascista è l’Agnelli stesso. Per essere fascisti ci vogliono molti requisiti anche dal lato morale, intellettuale, fisico. Bisogna inoltre esserci nati. Il Sen. Agnelli è evidentemente nato troppo presto. Fa notare che queste cose egli sarebbe pronto a dirle di fronte agli stessi interessati. Come essi, gli risultano essere molti industriali genovesi e triestini, mentre più permeati di fascismo sono gli ambienti di Milano (dove è Benni), di Bologna, di Verona, Venezia, Brescia. Anche in questi ambienti però, vi sono delle eccezioni: come il Ministro plenipotenziario Pirelli, che egli considera un elemento tecnico di primo ordine, a cui ha dato molti incarichi importanti, ma che non valuta come fascista perché non lo è. Dichiara che tutti questi saranno industriali potenti, attivi, geniali ma in quanto a fascismo sono per lo meno dei rimorchiati128.
Mussolini concluse la disamina del «grado di fascismo» del mondo industriale con alcune considerazioni generali di grande interesse: Il Duce conclude dicendo che i Sindacati non debbono però, fondandosi sulle eccezioni, gettare l’ombra sull’intera classe industriale. Bisogna saper aspettare. Il problema è di durare, parola veramente romana. Quando gli individui, dopo otto, nove anni si accorgeranno che l’ostacolo contro cui cozzano è un macigno, per lo meno si rassegneranno. Il riavvicinamento verrà da sé. Gli uomini contano quello che contano. L’organizzazione industriale, col suo appellativo Confederazione Generale Fascista dell’Industria Italiana, deve essere considerata come fascista129.
I timori di Mussolini furono confermati nella successiva riunione del Comitato intersindacale, tenuta il 10 luglio. In quell’occasione Benni segnalò l’incombente peggioramento della situazione economica e avanzò a nome della Confindustria una serie di proposte. Si trattava di una sorta 108
di programma di governo dell’economia, che di fatto si poneva in contrasto con il ruralismo, con l’aumento della spesa pubblica, con le politiche di incremento demografico, con la creazione di nuove istituzioni pubbliche con cui governare e controllare la società – insomma, con alcuni degli indirizzi fondamentali del governo, a dimostrazione di quanto ancora si fosse lontani da una completa saldatura tra il regime e i suoi alleati130. Molte erano insomma le questioni aperte e molti i nodi irrisolti nel momento in cui si iniziava a mettere in piedi i primi pezzi dell’edificio corporativo. Nel mezzo dell’iter costitutivo del Consiglio nazionale delle corporazioni, la forte tensione tra Confindustria e sindacati, l’incompleto imbrigliamento di questi ultimi e l’insufficiente «fascistizzazione» del mondo imprenditoriale costituivano ancora problemi rilevanti. Mussolini – come ci lasciano intendere i verbali dei due incontri del Comitato intersindacale – aveva piena consapevolezza della situazione. Possiamo allora vedere nella scelta di procedere alla costituzione del Consiglio non solo un semplice espediente propagandistico o il frutto di uno schematismo ideologico ma anche, probabilmente, il tentativo di dotarsi di nuovi strumenti istituzionali per governare i rapporti con le forze sociali e poter prevenire il sorgere di tensioni e conflitti.
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Note 1 Programma dei Fasci di Combattimento (giugno 1919), in R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo. Antologia dei testi fascisti (1919-1945), Einaudi, Torino 2001, p. 17. 2 Programma del Partito Nazionale Fascista (1921), ivi, p. 92. 3 R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. I, La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 557-558. Nel cosiddetto listone furono inseriti una ventina di industriali, tra cui Benni e Olivetti, rispettivamente presidente e segretario generale della Confindustria. 4 Sul sindacalismo integrale cfr. F. Perfetti, Il sindacalismo fascista, vol. I, Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), Bonacci, Roma 1988, pp. 42-59. 5 De Felice, Mussolini il fascista cit., p. 557. 6 ACS, Pcm, Gab., 1924, fasc. 1.3.12.236: C. Costamagna (vicesegretario generale per i consigli tecnici nazionali), A S.E. il presidente del consiglio (Rapporto riservato), 18 dicembre 1923. 7 Ivi, Il problema dei consigli tecnici nazionali. Relazione del segretariato generale per i CTN, 10 marzo 1924. 8 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 39. 9 Il programma d’azione fascista per le riforme legislative e i limiti del compito assegnato alla Commissione dei Quindici, in «L’Idea nazionale», 9 settembre 1924. 10 F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti. 1918-1926, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 304-305. 11 Gentile inizia i lavori per rinnovare la Costituzione, in «La Stampa», 29-30 ottobre 1924. 12 Cordova, Le origini cit., p. 389. 13 Ivi, pp. 389-390. 14 A. Aquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1995 (1a ed. 1965), pp. 5354. 15 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 40. 16 Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 53-60; Santomassimo, La terza via fascista cit., pp. 39-43. 17 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 27, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 3, inserto A: G. Gentile, A S.E. l’On. Benito Mussolini Presidente del Consiglio dei Ministri, 5 luglio 1925. 18 Ibid. 19 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 1.1.2.6163: Presidenza del consiglio, commissione per lo studio delle riforme legislative, Relazione del Prof. Gino Arias sul problema sindacale e sull’ordinamento corporativo, s.d. [ma 1925]; cfr. anche Perfetti, Il sindacalismo fascista cit., pp. 102-107. 20 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 27, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 3, inserto C: M. Mazziotti, N. Melodia, F. Suvich, F. Coppola (relatore), Sull’ordinamento corporativo dello Stato. Relazione di minoranza. Il testo della relazione non fu mai pubblicato. 21 Relazioni e proposte della commissione per lo studio delle riforme costituzionali, Le Monnier, Firenze 1932, p. 217. 22 Aquarone, L’organizzazione cit., p. 54. 23 Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni, Nuova Europa, Roma 1933, pp. 208-209. 24 Cfr. A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929 (1973), Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 517-536; Cordova, Le origini cit., pp. 424-434; Battente, Alfredo Rocco cit., pp. 413-425. 25 Lyttelton, La conquista del potere cit., pp. 517-536 e Cordova, Le origini cit., pp. 434-442. 26 Se ne ebbe qualche eco nella discussione al Senato sul disegno di legge. Achille Loria, in
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particolare, contestò l’idea del sindacato unico, mettendo in luce le incongruenze che vi erano alla base: AP, Senato, Legislatura XXVII, Sessione 1924-1926, Discussioni, vol. IV, pp. 4664-4665. 27 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 48. 28 G. Vassalli, Passione politica di un uomo di legge, in A. Rocco, Discorsi parlamentari, Il Mulino, Bologna 2005, p. 49. 29 A. Rocco, La trasformazione dello Stato, in Id., Scritti e discorsi politici cit., vol. III, p. 782. 30 Stolzi, L’ordine corporativo cit., p. 25. 31 Sull’analisi gramsciana del corporativismo cfr. A. Gagliardi, Il problema del corporativismo nel dibattito europeo e nei «Quaderni», in F. Giasi (a cura di), Gramsci nel suo tempo, vol. 2, Carocci, Roma 2008, pp. 631-656. 32 G.C. Jocteau, Gino Olivetti: la Confindustria e il corporativismo. Il ruolo dell’ideologia nel sindacalismo padronale italiano, in «Annali di storia dell’impresa», 1992, p. 367. Cfr. anche M., La battaglia economica, in «I problemi del lavoro», 1° settembre 1927, p. 5. 33 L. Lanzalaco, Dall’impresa all’associazione. Le organizzazioni degli imprenditori: la Confindustria in prospettiva comparata, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 138-141. 34 R. Sarti, Fascismo e grande industria 1919-1940, Moizzi, Milano 1977, pp. 103-113. 35 Lanzalaco, Dall’impresa all’associazione cit., p. 133. 36 Ivi, p. 143. 37 Il presidente di Confindustria, Antonio Stefano Benni, espresse le proprie riserve su alcuni dettagli della legge e del regolamento d’attuazione (ACS, Pcm, Atti 1919-36, 1927, b. 297, fasc. 3/5: Lettera di Benni a Mussolini sul regolamento di attuazione della legge sindacale, 1° maggio 1926). 38 Annuario. Confederazione generale dell’industria italiana, 1947, p. 235. 39 Parlato, La sinistra fascista cit., p. 239. 40 Per una lettura del sindacalismo fascista incentrata sulla sola dimensione repressiva, cfr. D. Preti, Per una storia del sindacato fascista negli anni Trenta, in Id., Economia e istituzioni nello Stato fascista, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 261-386; cfr. anche il «classico» E. Rossi, I padroni del vapore, Laterza, Bari 1955. 41 Non disponiamo di dati certi sugli iscritti ai sindacati. Quelli ufficiali non appaiono sufficientemente attendibili né le fonti consentono di elaborare stime accurate. Comunque, nel 1927, prima dello sbloccamento, le stime ufficiali accreditavano ai sindacati fascisti dei lavoratori oltre due milioni di iscritti: F. Cordova, Verso lo Stato totalitario. Sindacati, società e fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 76-77. 42 A. De Bernardi, Operai e nazione. Sindacati, operai e Stato nell’Italia fascista, Franco Angeli, Milano 1993, p. 17. 43 È la nota tesi di Togliatti: cfr. P. Togliatti, Lezioni sul fascismo (gennaio-aprile 1935), ora in Id., Sul fascismo, a cura di G. Vacca, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 114-236. Spunti in questa direzione anche in A. Aquarone, M. Vernassa, Introduzione, in Iid. (a cura di), Il regime fascista cit., pp. 27-30; L. Rapone, Il sindacalismo fascista. Temi e problemi della ricerca storica, in «Storia contemporanea», 1982, n. 4-5, pp. 635-696. 44 E. Rossoni, Forze di governo, in «Il lavoro d’Italia», 4 maggio 1922. 45 I meriti sindacali della corporazione furono pienamente riconosciuti anche da Mussolini: Id., Fascismo e sindacalismo (1925), in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXI, 1956, pp. 333-334. 46 Cfr. Statuto dell’Associazione generale fascista del pubblico impiego, allegato a Rd 23 febbraio 1927, «Gazzetta Ufficiale», 1927, n. 57. 47 Mi permetto di rinviare ad A. Gagliardi, Il sindacato negato. Gli impiegati pubblici e l’organizzazione dello Stato fascista, in P. Iuso (a cura di), La sindacalizzazione del pubblico impiego. Dalle origini delle rappresentanze alla Funzione Pubblica CGIL, Ediesse, Roma 2006, pp. 233-288. Cfr. inoltre
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F. Piodi, Per la storia della burocrazia. L’Associazione generale fascista del pubblico impiego (1927-1931), in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 1977, n. 1, pp. 326-356 e M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Roma-Bari 1992. 48 Salvati, Il regime e gli impiegati cit., p. 203. 49 G. Di Giacomo, L’organizzazione sindacale dei lavoratori intellettuali, Imperia, Milano 1924, p. 29. 50 G. Turi, Le libere professioni e lo Stato, in Id. (a cura di), Libere professioni e fascismo, Franco Angeli, Milano 1994, p. 25. 51 G. Salvemini, Sotto la scure del fascismo, in Id., Opere, vol. VI, Scritti sul fascismo, vol. III, a cura di R. Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1974, p. 81. 52 C. Chiaria, La scelta non può essere dubbia, in «Il lavoro d’Italia», 30 gennaio 1930. 53 Turi, Le libere professioni cit., p. 30. 54 Pnf, Ufficio stampa, Venti anni, II, L’ordine corporativo e la difesa sociale, Roma 1943, p. 181. 55 Sulla professione forense durante il fascismo cfr. A. Meniconi, La «maschia avvocatura». Istituzioni e professione forense in epoca fascista (1922-1943), Il Mulino, Bologna 2006. 56 G. Turi, La presenza del fascismo e le professioni liberali, in Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia, Cultura e società negli anni del fascismo, Cordani, Milano 1987, pp. 11-30; Turi, Le libere professioni cit. 57 A. Rocco, La trasformazione dello Stato. Dallo Stato liberale allo Stato fascista, La Voce, Roma 1927, p. 31. 58 M. Malatesta, Professioni e professionisti, in Storia d’Italia. Annali, 10, I professionisti, a cura di Id., Einaudi, Torino 1996, p. XXI. 59 F. Coscera, Professioni e arti nello Stato fascista, Trinacria, Roma 1941, p. 41. 60 V. Zamagni, La distribuzione commerciale fra le due guerre, Franco Angeli, Milano 1981, pp. 87-88. 61 Ivi, p. 88. 62 Sull’associazionismo dei piccoli commercianti tra dopoguerra e fascismo, cfr. M. Anastasia, Interessi di bottega. I piccoli commercianti italiani nella crisi dello Stato liberale, 1919-1926, Zamorani, Torino 2007. 63 Ivi, pp. 211-212. 64 Zamagni, La distribuzione commerciale cit., p. 96. 65 M. Degl’Innocenti, La società unificata. Associazione, sindacato, partito sotto il fascismo, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 1995, p. XXIII. 66 Cfr., tra i tanti, H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1951), Einaudi, Torino 2004. 67 Cfr., in questo senso, Gentile, La via italiana cit. 68 Aquarone, L’organizzazione cit., p. 136. 69 G. Bottai, Discorso alla Camera dei deputati (1° giugno 1927), in Id., Esperienza corporativa, Edizioni del «Diritto del lavoro», Roma 1929, p. 290. 70 B. Mussolini, Per l’inaugurazione del Ministero delle Corporazioni, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXII, 1957, p. 182. 71 I dati sono tratti da ACS, Pcm, 1931-33, fasc. 18.2.207: Ministero delle Corporazioni, Segretariato generale del Consiglio nazionale, Ufficio contratti, Relazione sull’attività contrattuale delle Associazioni Professionali, 1930-IX, 31 dicembre 1930. 72 G.C. Jocteau, La contrattazione collettiva. Aspetti legislativi e istituzionali, 1926-1934, in G. Sapelli (a cura di), La classe operaia durante il fascismo, in «Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli», 1979-80, pp. 130-132. 73 O. Bianchi, Il sindacato di Stato (1930-1940), in Storia del sindacato in Italia nel ’900, diretta da A. Pepe, vol. II, La CGdL e lo Stato autoritario, Ediesse, Roma 1999, p. 228; G.C. Jocteau, La magistratura e
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i conflitti di lavoro durante il fascismo, 1926-1934, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 59-65. 74 AP, Camera, Legislatura XXVII, Sessione 1924-1929, Disegni di legge e relazioni, vol. XXXI, n. 1874 A (seduta dell’8 marzo 1928). 75 ACS, Pcm, Gab., 1927, fasc. 1.1.2.1102: Relazione sullo schema di un disegno di legge relativo allo ordinamento del personale e dei servizi del ministero delle Corporazioni, 29 gennaio 1927. 76 Bottai, Discorso alla Camera cit., p. 291. 77 A. De Marsanich, La riforma dello Stato, in «Critica fascista», 1° giugno 1926, p. 202; cfr. anche Le parole e i fatti della Rivoluzione, in «Critica fascista», 15 novembre, pp. 411-413. 78 Cfr. il decreto del 28 aprile 1927, n. 898. 79 G. Melis, Due modelli di amministrazione tra liberalismo e fascismo. Burocrazie tradizionali e nuovi apparati, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Pubblicazioni degli archivi di Stato, Roma 1988, p. 178. 80 Ivi, pp. 170-179. 81 Ministero delle Corporazioni, Ruoli di anzianità del personale, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1937. Sempre utili le considerazioni in T. Cole, Italy’s Fascist Bureaucracy, in «American Political Science Review», 1938, n. 6, pp. 1143-1157. 82 Cfr. G. Melis, Le élites nei Ministeri economici, in «Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione», 2005, n. 2, pp. 5-16. 83 ACS, Pcm, Gab., 1927, fasc. 1.1.2.1102: Appunto per S.E. il conte Suardo, 3 febbraio 1927; ivi, Disegno di legge per l’ordinamento dei servizi e del personale del Ministero delle Corporazioni. 84 Una preziosa evidenza empirica è offerta in G. Melis (a cura di), L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, vol. III, I Ministeri economici, a cura di L. Giuva, M. Guercio, Il Mulino, Bologna 1992. 85 I documenti sulle contestazioni mosse dalle diverse amministrazioni e le risposte del ministero delle Corporazioni sono in ACS, Pcm, 1927, fasc. 1.1.2/1102. Cfr. anche Melis, Due modelli cit., pp. 170-179. 86 Lo Stato senza aggettivi, in «Critica fascista», 1° aprile 1928, p. 121. 87 ACS, Pcm, Gab., 1927, fasc. 1.1.2.1102: Ministero dell’Interno, Gabinetto, Ufficio studi e legislazione, Disegno di legge per l’ordinamento dei servizi e del personale del Ministero delle Corporazioni, s.d. [ma 1927]. 88 Ivi, Riservata del ministro dell’Economia nazionale Belluzzo a S.E. Bottai, sottosegretario alle Corporazioni, 23 settembre 1927. Sul ministero dell’Economia nazionale cfr. E. Neri, Per una storia del Ministero dell’Economia Nazionale. Documenti e prime interpretazioni in tema di amministrazione economica (1923-1929), in «Annali di storia moderna e contemporanea», 1998, pp. 181-200. 89 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 102. 90 Lupo, Il fascismo cit., p. 228. 91 Cfr. Santomassimo, La terza via fascista cit., pp. 101-109. 92 Cassese, Un programmatore cit., pp. 191-192. 93 Lupo, Il fascismo cit., p. 228. 94 De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Einaudi, Torino 1968, pp. 286-296. 95 E. Malusardi, Elementi di storia del sindacalismo fascista, Drocchi, Genova 1932, p. 159. 96 De Felice, Mussolini il fascista cit., vol. II, p. 291. 97 Il documento, del 9 aprile, conservato nell’archivio di Giuseppe Bottai, è riportato ivi, p. 292. 98 Ibid. 99 Ivi, pp. 293-294. 100 Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni cit., p. 272.
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101 F. Bertini, Le parti e le controparti. Le organizzazioni del lavoro dal Risorgimento alla Liberazione, Franco Angeli, Milano 2004, p. 205. 102 Id., Il fascismo dalle assicurazioni per i lavoratori allo Stato sociale, in M. Palla (a cura di), Lo Stato fascista, La Nuova Italia, Milano 2001, p. 208. 103 U. Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo ed i suoi interpreti (Appunti per una storia delle idee giuridiche), in «Storia contemporanea», 1970, n. 1, pp. 105-121; Id., Il diritto del lavoro durante il fascismo: uno sguardo d’insieme, in Mazzacane, Somma, Stolleis (a cura di), Korporativismus cit., pp. 225249. 104 Cfr. le utili considerazioni in R. Faucci, Mussolini tra grande industria e sindacati, in «Quaderni storici delle Marche», 1969, n. 12, pp. 403-423. 105 Lyttelton, La conquista del potere cit., p. 527. 106 Olivetti fece presente le obiezioni della confederazione degli industriali in una lettera a Mussolini del 1° maggio 1926. La lettera, conservata nell’Archivio storico dell’Unione industriale di Torino, è parzialmente pubblicata in M. Abrate, La lotta sindacale nella industrializzazione in Italia 1906-1926, Franco Angeli, Torino 1967, p. 459. 107 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 4, fasc. 64/R «Giuseppe Bottai», sottofasc. 2: All’On. Presidente della Corte di disciplina e d’onore del Partito Nazionale Fascista, 18 aprile 1925; G. Bottai, Il caso Rossoni, in «L’Epoca», 15 aprile 1925; Id., La «Corporazione di Stato» proposta dai Diciotto, in «L’Epoca», 19 aprile 1925. 108 Lo Stato senza aggettivi cit., p. 123. 109 Chiarificazione necessaria, in «Critica fascista», 1° maggio 1928, p. 162. 110 G. Bottai, Discorso al Senato (31 maggio 1928), in Id., Esperienza corporativa cit., p. 70. 111 Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni cit., pp. 288-291. 112 Le direttive dell’organizzazione tracciate dall’on. Rossoni, in «Il lavoro d’Italia», 5 maggio 1928. 113 G. Bottai, Discorso alla Camera dei deputati (15 marzo 1928), in Id., Esperienza corporativa cit., pp. 229-230. 114 Ivi, p. 230. 115 Cfr. Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 193, 210-211. 116 Le direttive dell’organizzazione tracciate dall’on. Rossoni cit. 117 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 30, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 6, inserto B: Relazione Bottai, s.d. [ma settembre 1929]. 118 De Felice, Mussolini il fascista cit., vol. II, p. 329; Cordova, Verso lo Stato totalitario cit., pp. 100101. 119 A.O. Olivetti, Le corporazioni e la loro formazione naturale, in «Il diritto del lavoro», gennaio 1928; Sindacati e burocrazia, in «Corriere della sera», 3 novembre 1927; A.M. [A. Mussolini], Complementi necessari, in «Il Popolo d’Italia», 17 novembre 1927. 120 T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Rizzoli, Milano 1983, p. 151. 121 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 30, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 6, inserto B: Relazione Bottai cit. 122 B. Mussolini, 250a riunione del Consiglio dei ministri, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXIII, 1957, p. 260. 123 Cfr. De Felice, Mussolini il fascista cit., vol. II, pp. 326-336; Perfetti, Il sindacalismo fascista cit., pp. 155-165; Cordova, Verso lo Stato totalitario cit., pp. 82-106. 124 Cfr. O. Cilona, La confederazione fascista dei lavoratori dell’industria negli anni Trenta, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», 1988, p. 267. 125 Sui comitati intersindacali provinciali cfr. Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 139-141; De Felice, Mussolini il fascista cit., vol. II, p. 333.
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126 ACS, Carte Cianetti, b. 5, fasc. 64: Partito nazionale fascista, Direttorio nazionale, Comitato centrale intersindacale. Seduta del 6 luglio 1929-VII. Al palazzo Viminale. 127 Ibid. 128 Ibid. 129 Ibid. Cfr. anche P. Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Longanesi, Milano 1972, pp. 294-301. 130 ACS, Carte Cianetti, b. 5, fasc. 64: Partito nazionale fascista, Direttorio nazionale, Comitato centrale intersindacale. Seduta del 10 luglio 1929-VII. Al palazzo Viminale.
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3. Corporativismo senza corporazioni
1. Il Consiglio nazionale delle corporazioni Il Consiglio nazionale delle corporazioni vide la luce al termine di un lungo percorso. Sebbene già uno dei decreti attuativi della legge sindacale del 1926 ne avesse previsto l’istituzione, soltanto nell’estate del 1928 il sottosegretario alle Corporazioni Bottai presentò a Mussolini una proposta concreta. Questa fu poi discussa dal Gran consiglio del fascismo il 7 marzo 1929, sottoposta in seguito alla consultazione delle organizzazioni sindacali per essere ridiscussa, in una versione modificata, dal Gran consiglio il 9 aprile 1929. Fu quindi esaminata dai ministeri interessati, approvata il 30 settembre dal Consiglio dei ministri, discussa alla Camera (17-21 dicembre) e al Senato (12-15 marzo 1930). Divenne infine legge il 20 marzo 1930. Il provvedimento aveva in Bottai il principale ispiratore e promotore. Peraltro, nel mezzo del lungo iter, nel settembre 1929, Bottai era subentrato a Mussolini nella carica di ministro delle Corporazioni, ruolo che avrebbe ricoperto fino al 1932. In base alla legge istitutiva, la presidenza del Consiglio nazionale delle corporazioni era assegnata al capo del governo e, in sua assenza, al ministro delle Corporazioni. La nuova istituzione era composta da tre organi: le sette sezioni (professioni libere e arti, industria e artigianato, agricoltura, commercio, trasporti terrestri e navigazione interna, 116
trasporti marittimi e aerei, banche), i cui membri erano designati dalle rispettive confederazioni, sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori, e dai sindacati delle categorie interessate; l’assemblea generale, incaricata di intervenire nei casi che interessavano l’intero ordinamento sindacale e corporativo e composta da tutti i membri delle sezioni, dai ministri, dai sottosegretari e dai direttori generali delle Corporazioni e dell’Agricoltura e foreste, dal segretario e dai vicesegretari del Partito nazionale fascista, dai rappresentanti delle associazioni degli impiegati pubblici, dai presidenti di alcuni enti pubblici e da dieci «esperti» di nomina ministeriale1; infine, il Comitato corporativo centrale, assai più esiguo nelle dimensioni, la cui funzione consisteva nel sostituire, nell’attività ordinaria, l’assemblea generale nell’intervallo delle sue riunioni. Nell’insieme il Consiglio nazionale delle corporazioni era composto da 150 persone. Al nuovo organismo era assegnata una funzione consultiva in materia sindacale, di legislazione del lavoro e in rapporto a qualsiasi questione che interessasse la produzione nazionale. A differenza sia della prima versione proposta dal decreto del luglio 1926 che di altri organismi presenti all’estero (il Consiglio economico del Reich in Germania, il Consiglio nazionale economico in Francia, il Consiglio economico consultivo in Gran Bretagna), il Consiglio nazionale delle corporazioni era poi dotato anche di poteri normativi: poteva infatti, su richiesta dei sindacati di categoria, determinare le tariffe per le prestazioni professionali ed emanare regolamenti professionali con carattere obbligatorio per tutti gli appartenenti alla categoria, formare norme per il coordinamento dell’attività assistenziale esercitata dai sindacati legalmente riconosciuti e per la disciplina dei rapporti di lavoro. Soprattutto, ed era l’aspetto sul quale si appuntarono le 117
principali attenzioni, al Consiglio era assegnata la facoltà di produrre norme per regolare i rapporti economici collettivi fra le varie categorie della produzione. Erano queste, secondo alcuni giuristi, le «norme corporative in senso vero e proprio», quelle cioè relative non ai «rapporti di lavoro» tra datore di lavoro e lavoratori ma ai rapporti «orizzontali» tra produttori2. La legge precisava che per le norme concernenti i rapporti lavorativi il potere d’intervenire era conferito al Consiglio dal capo del governo, e quindi dipendeva da una decisione che Mussolini poteva assumere in piena autonomia. Per quanto riguardava i rapporti economici, invece, l’eventuale iniziativa normativa dell’organo corporativo era subordinata alla volontà delle associazioni direttamente interessate alle decisioni. Il fatto che il potere normativo dipendesse dalla volontà dei soggetti che avrebbero dovuto subire la regolamentazione costituiva tuttavia un vincolo rilevante all’azione del nuovo organo. Testimoniava dell’estrema cautela nei riguardi dell’iniziativa privata con cui era condotta la costruzione del sistema corporativo. La questione del potere normativo costituiva il punto nodale e più controverso3. Già durante la discussione alla Camera sul disegno di legge si era avuta un’infiammata contrapposizione tra i deputati esponenti delle categorie imprenditoriali, favorevoli alla soluzione poi adottata, e quelli provenienti dalle file del sindacato, fautori, al contrario, di un Consiglio dotato di pieni poteri, in grado di governare l’economia nazionale. Si trattava di una questione di grande rilievo perché contribuiva a definire gli spazi di libertà dell’iniziativa privata, le capacità di intervento degli organi corporativi e, più in generale, i limiti dell’azione dello Stato in campo economico e sociale. Non sorprende allora che il dibattito alla Camera sia stato uno dei più aperti e intensi degli anni del regime. Colpiscono, a rileggerne gli 118
atti, i toni insolitamente accesi e assai poco reticenti, così in contrasto con la spenta e irreggimentata routine della vita parlamentare del ventennio. Ad animare la discussione erano stati, non casualmente, i massimi esponenti dei due fronti, vale a dire Luigi Razza, presidente della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti dell’agricoltura e in quel frangente il più combattivo e autorevole esponente del sindacalismo fascista, e Antonio Stefano Benni, presidente della Confederazione dell’industria. Secondo Razza il Consiglio avrebbe dovuto disporre di pieni poteri normativi, non subordinati all’assenso delle associazioni interessate. Solo in questo modo il nuovo organismo avrebbe potuto evitare di rimanere sopraffatto dall’«immaturità» e dall’«egoismo» delle associazioni di categoria; «egoismo» che «da parte delle organizzazioni operaie, è più facile a superarsi, ed è meno facile a superarsi nei quadri delle organizzazioni dei datori di lavoro»4. Nel discorso di Razza – coerentemente con le sue origini di sindacalista rivoluzionario – il richiamo all’ideale corporativo della collaborazione tra gli interessi sociali aveva assunto argomenti e toni apertamente «classisti». L’intervento aveva dato voce allo spirito non propriamente corporativo che permeava la struttura profonda delle associazioni dei lavoratori. Privi del diritto di sciopero ed estromessi dai luoghi di lavoro, i sindacalisti cercavano il necessario contrappeso nel rafforzamento della loro presenza all’interno dell’apparato statale. Dal Consiglio nazionale delle corporazioni si attendevano due risultati: da un lato una piena legittimazione politica dopo lo sbloccamento e, dall’altro, la disponibilità di un luogo istituzionale nel quale prendere parte alle scelte sui temi economici e sociali5. La posizione del sindacato in merito al nuovo sistema 119
corporativo tuttavia non si esauriva qui. Il corporativismo infatti appariva non solo un’opportunità per un rafforzamento del proprio ruolo politico ma anche una fonte di pericolo per l’autonomia organizzativa e decisionale6. La campagna antisindacale lanciata proprio allora da Ugo Spirito costituiva un campanello d’allarme, simbolico come tutte le campagne intellettuali e giornalistiche ma comunque temibile. Spirito aveva infatti sostenuto, a partire da un articolo dall’inequivocabile titolo, Verso la fine del sindacalismo, la necessità che il sindacato, «residuo del socialismo e dell’ideologia della lotta di classe», venisse «mangiato» dalla corporazione7. Oltre agli attacchi al sindacato in quanto tale, roboanti ma relativamente circoscritti, ci furono quelli alla struttura confederale, vale a dire alla dimensione politica del sindacalismo8. All’ostilità di una parte del mondo intellettuale si sommò quella, mai sopita, del Pnf. All’inizio del 1930, cioè proprio mentre la fase costitutiva del Consiglio nazionale delle corporazioni entrava nelle battute finali, il segretario del partito, Augusto Turati, aveva proposto in una lettera a Mussolini di smantellare gli apparati burocratici dei sindacati e di ricondurre tutte le confederazioni al controllo diretto del Pnf9. La polemica antisindacale non era nuova. Se ne era avuta una prima manifestazione con l’approvazione della legge sindacale del 1926 e sarebbe stata riproposta, per successive ondate, anche negli anni seguenti. La differenza stava nel fatto che, all’inizio degli anni Trenta, l’antisindacalismo corporativo coglieva il sindacato nel momento di sua massima debolezza, a causa degli effetti non ancora riassorbiti dello sbloccamento. L’approvazione della legge costitutiva del Consiglio nazionale delle corporazioni finì allora per rappresentare, per il sindacalismo confederale, la garanzia della 120
sopravvivenza. Erano infatti le confederazioni a comporre, con i loro dirigenti, il nuovo organismo e ad animarne, con le loro proposte e iniziative, l’attività. Il sindacato entrava addirittura ancora più stabilmente nel sistema di poteri pubblici e veniva coinvolto in un ulteriore avanzamento di quel processo di istituzionalizzazione avviato con la legge dell’aprile 1926. Superato il rischio di uno scioglimento, almeno per il momento, i sindacati poterono dunque vedere nel corporativismo il tramite istituzionale per un riequilibrio almeno parziale dei rapporti di forza con la controparte imprenditoriale e per l’attuazione dei contenuti sociali dello Stato nuovo fascista. Di tenore opposto, naturalmente, era la posizione degli imprenditori. Durante il dibattito sulla legge istitutiva del Consiglio, il presidente della Confindustria Benni aveva sostenuto che lo «stimolo all’iniziativa privata» era quello di cui aveva «maggiormente bisogno un Paese dinamico, pieno di volontà e di necessità di espansione come l’Italia»10. Di conseguenza, il compito del Consiglio nazionale delle corporazioni non poteva che essere quello di valorizzare l’iniziativa privata, «mettere ogni produttore in condizione di potenziare sempre più e sempre meglio la sua capacità e i suoi mezzi, orientandoli e dirigendoli a vantaggio del Paese»11. Erano proprio questi, in fondo, per Benni, i «canoni fondamentali» del fascismo. Una rafforzata facoltà normativa del Consiglio, perciò, avrebbe potuto solamente condurre all’imposizione di accordi che si sarebbero ben presto mostrati inutili o dannosi: «Se, come taluno ha detto – aveva sostenuto il presidente di Confindustria –, vi fosse la possibilità che un organo superiore – sia pure rappresentato dalle organizzazioni sindacali – venisse a stabilire che cosa e quanto si deve produrre, che cosa, come e a che prezzo si deve vendere, è facile vedere come l’iniziativa privata verrebbe ad essere non eccitata, ma rattenuta ed 121
impedita»12. La soluzione adottata, alla fine, riproduceva integralmente quella sostenuta dalla Confindustria e dalle altre organizzazioni padronali. Naturalmente, non sorprende che fosse proprio la dirigenza di Confindustria a sostenere in questa fase un integrale e generico liberismo. Ciò che invece deve essere rilevato è come, pochi anni dopo, quelle posizioni sarebbero state profondamente modificate e gli industriali avrebbero visto nell’intervento pubblico gestito dal regime una risorsa, nella legislazione vincolistica una garanzia, negli enti pubblici un’ancora di salvezza, nelle misure di limitazione della concorrenza un confortevole riparo dalle incertezze del mercato e nel corporativismo non tanto la minaccia di un’invasione della sfera del privato da parte dello Stato ma l’opportunità di intervenire nelle scelte del governo. Su questo però si tornerà in seguito. Il dibattito parlamentare sul Consiglio nazionale delle corporazioni fece dunque emergere con rara chiarezza la presenza di posizioni diverse e inconciliabili all’interno del fascismo e tra le forze sociali fiancheggiatrici. Il nodo fu colto, e autorevolmente sottolineato, da Giovanni Gentile. Proprio nel commentare «a caldo» quel dibattito, Gentile pose il problema della presenza nel fascismo di una «doppia anima». Da una parte vi era chi tendeva ad assegnare al Consiglio, così come a ogni organo corporativo, la facoltà di emanare norme giuridiche; dall’altra, chi voleva ridurre quegli organi a semplici strumenti tecnici dello Stato al fine di rendere l’economia privata compatibile con l’interesse pubblico. Da una parte si tendeva «a negare la sostanza etica dello Stato, e perciò lo stesso Stato; dall’altra, a negare il suo contenuto economico»13. Gentile definiva le due posizioni, rispettivamente, dei «sindacalisti» e dei «conservatori». Più che due tendenze, a suo avviso erano «due anime diverse», le quali si affacciavano, «malgrado la forza e la sincerità 122
della disciplina e la devozione al Capo, in ogni questione politica fondamentale», facendo sentire la loro diversità e il loro dissidio: per semplificare potevano essere definite «la tendenza di sinistra e quella di destra»14. Con la questione corporativa emergeva dunque con chiarezza la pluralità di posizioni e punti di vista all’interno dello Stato fascista. L’istituzione del Consiglio nazionale delle corporazioni fu naturalmente accolta da un profluvio di interventi di tono celebrativo ma anche di riflessioni sull’effettiva natura del nuovo organo. In molti vollero vedere nel Consiglio la prefigurazione di una nuova camera legislativa, sostitutiva dell’«anacronistica» Camera dei deputati15. Per Sergio Panunzio la creazione del Consiglio era addirittura da ritenere la riforma più importante fino a quel momento, perché dava vita alla «funzione corporativa» dello Stato, accanto alle tradizionali funzioni legislative, giuridiche e amministrative, mentre Carlo Costamagna dava ormai per realizzata la parità fra le classi sociali, in una comune subordinazione allo Stato, «affermazione nel medesimo tempo di potenza politica e di giustizia sociale»16. Nonostante gli entusiasmi apologetici, tuttavia, sin nella costruzione legislativa e istituzionale il Consiglio nazionale delle corporazioni rivelava alcune fragilità, che non sfuggirono agli osservatori più equilibrati. Importanti giuristi, come Mariano D’Amelio e Guido Zanobini, ponendo l’accento sulla dipendenza del potere normativo del Consiglio dalla volontà delle organizzazioni, degradarono il nuovo organo a «collegio di arbitratores» o soggetto dotato di mera «funzione regolamentare»17. Il ministro delle Corporazioni Bottai, nel presentare alla Camera la legge istitutiva, tentò di nascondere i limiti della nuova istituzione e di prevenire le osservazioni dei delusi invocando l’«attitudine necessariamente sperimentale» e l’«incertezza» propria a «quasi tutte, anzi tutte, le 123
legislazioni rivoluzionarie»18. Osservò in quell’occasione: Le legislazioni, come quasi tutta la legislazione fascista fino ad ora, che interpretano un movimento ancora in marcia, non solo non possono evitare le lacune, ma le devono lasciare, perché attraverso di esse penetra la vita. Talora, è solo attraverso qualche incertezza della legge, che si può raggiungere la concretezza dello spirito nella sua attuazione. (Applausi) Il diritto vivente è un sistema di contraddizioni19.
Limiti all’attività del primo organo corporativo erano creati non solo dai vincoli posti al potere normativo ma anche dalla collocazione assunta nell’articolata struttura dello Stato fascista. Come ogni nuovo istituto, il Consiglio si inseriva in una fitta trama di poteri pubblici interdipendenti e al tempo stesso subordinati gerarchicamente a Mussolini. Era infatti connotato dalla dipendenza dal capo del governo, che del nuovo organismo era presidente e che, oltre a partecipare attivamente alla formazione delle norme corporative, prestava il suo assenso alla richiesta dei sindacati o alla proposta ministeriale e rendeva obbligatorie le norme mediante la loro pubblicazione sulla «Gazzetta ufficiale». È un punto importante, su cui vale la pena soffermarsi. La dipendenza dal capo del governo, infatti, è stata spesso indicata, nelle interpretazioni storiografiche, come un segno evidente della strutturale incapacità del Consiglio di funzionare, del suo carattere di istituzione fittizia priva di reali poteri20. In realtà, la dipendenza da Mussolini costituiva, nel regime fascista, un dato di fatto inevitabile e insopprimibile. Rimandava direttamente alla natura profonda del fascismo e del suo progetto totalitario. Nella dittatura del capo del governo e del partito unico ogni segmento dell’apparato istituzionale e della società doveva essere inquadrato all’interno di una gerarchia che aveva al suo vertice, appunto, Mussolini, indipendentemente dal fatto che questo legame fosse sancito o meno da un’apposita norma legislativa. Evidenziare la dipendenza del Consiglio 124
nazionale delle corporazioni dal capo del governo, dunque, equivale a constatare la sua appartenenza alla realtà dello Stato fascista. Non sorprende allora, proprio alla luce di questi elementi, osservare come il legame diretto degli organi corporativi con il capo del governo fosse al contrario da molti corporativisti auspicato e salutato con entusiasmo21. Soffermarsi sul dato giuridico e formale, dunque, non è sufficiente. Queste considerazioni – ma il discorso vale in generale per l’esame di tutta la struttura dello Stato fascista – ci suggeriscono infatti che per comprendere l’effettivo funzionamento delle istituzioni, per analizzare il grado di autonomia o di subordinazione, è necessario andare oltre la forma e il semplice dato normativo e guardare invece all’effettivo svolgimento dei rapporti e dei legami tra i diversi soggetti. L’esercizio di un reale potere, più o meno largo e sostanziale, non derivava infatti solo da un testo di legge o da una dichiarazione di Mussolini ma era il risultato della sotterranea e complessa dialettica tra le forze politiche, istituzionali e sociali. Detto questo della subordinazione al capo del governo, è da notare come invece, sul piano amministrativo, il Consiglio fosse totalmente dipendente dal ministero delle Corporazioni. Non disponeva infatti di uffici e personale propri, che avrebbero invece consentito un’attività effettivamente autonoma e indipendente da quella del governo e della burocrazia ministeriale. Il disbrigo delle pratiche, la scelta dei temi da discutere, la preparazione delle relazioni e dei materiali introduttivi erano interamente demandati agli apparati del ministero, all’interno del quale già nel marzo 1929 era stato istituito il segretariato del Consiglio nazionale delle corporazioni, poi posto alle dipendenze di una direzione generale delle corporazioni, inizialmente affidata ad Anselmo Anselmi22. Un ulteriore elemento di potenziale debolezza 125
istituzionale del Consiglio derivava dalla selezione degli interessi sociali inseriti nella rappresentanza corporativa. Il sistema rappresentativo che prese forma con la creazione del Consiglio fu basato su una struttura paritetica, che vedeva da un lato i datori di lavoro e dall’altro i lavoratori. In questo modo il corporativismo finiva con il riprodurre un’immagine rigidamente bipolare della società, proprio quella che il fascismo – con i suoi insistiti richiami all’unità della nazione e al superamento della lotta di classe – voleva negare. La rappresentanza corporativa così impostata imponeva una forzata semplificazione alla complessa struttura della società. Gli sforzi compiuti negli anni precedenti per inquadrare autonomamente i diversi settori delle classi medie trovavano un riscontro molto parziale. Le categorie e i settori sociali che sfuggivano alla rigida polarizzazione tra lavoratori e datori di lavoro ebbero infatti una collocazione marginale nel nuovo organismo. Ciò è tanto più sorprendente se si considera che proprio tra gli anni Venti e gli anni Trenta gli impiegati e i funzionari pubblici, i quadri e i dirigenti delle società private e il vasto e stratificato mondo delle professioni videro accrescere le proprie dimensioni. Gli impiegati pubblici, a cui era stata negata la possibilità di iscrizione al sindacato, furono ampiamente sottorappresentati. Solo tre furono i rappresentanti dell’Associazione generale fascista del pubblico impiego inseriti nel Consiglio: il fiduciario nazionale Aldo Lusignoli, Lare Marghinotti e Carlo Sforza23. Più ampia fu invece la presenza dei professionisti e degli artisti. Su 150 membri del Consiglio nazionale delle corporazioni, a fronte dei 44 in rappresentanza dei datori di lavoro e dei 41 per i lavoratori (la differenza tra gli uni e gli altri era costituita dai 3 membri di Confindustria inseriti nella sezione delle professioni libere 126
e delle arti), gli esponenti dei sindacati fascisti dei professionisti e degli artisti erano 20, in rappresentanza tra gli altri degli avvocati, dei medici, dei ragionieri, degli ingegneri, dei geometri, degli architetti e, con Kurt Suckert (Curzio Malaparte), dei giornalisti. Vale la pena osservare come nella sezione dei professionisti e degli artisti fosse presente anche una donna, Maria Vittoria Luzzi, alla testa del sindacato delle ostetriche, la prima entrata a far parte di un organo rappresentativo, benché non elettivo. I delegati dei professionisti e degli artisti, tuttavia, erano quasi interamente inseriti nella sezione delle professioni libere e delle arti. Rappresentavano cioè solo le figure che esercitavano la libera professione. Tutta la miriade di professionisti e tecnici impiegati all’interno di aziende, il cui numero in quegli anni stava subendo una crescita rilevante, non aveva infatti rappresentanza autonoma ma doveva aderire alle associazioni dei datori di lavoro24. L’enfasi posta con tanta insistenza sui tecnici e sul lavoro intellettuale dal fascismo delle origini, di conseguenza, non trovava alcuna corrispondenza nell’ordinamento corporativo. La soluzione dell’inquadramento di tecnici e dirigenti nelle organizzazioni dei datori di lavoro era stata vittoriosamente sostenuta, contro il parere degli imprenditori, dai sindacati dei lavoratori, durante la discussione sulla legge istitutiva del Consiglio. I sindacalisti volevano infatti evitare che nella struttura «binaria» e paritetica dell’organo corporativo si inserisse un terzo elemento, per di più portato, a loro avviso, ad assumere come proprio il punto di vista della proprietà e a schierarsi con essa25. La questione fu poi nuovamente affrontata nella prima seduta dell’assemblea generale del Consiglio, senza alcun esito. In quella sede alcuni delegati dei sindacati dei professionisti e artisti fecero notare come il «terzo 127
elemento» della produzione, vale a dire la tecnica e la competenza, fosse rimasto schiacciato tra i primi due, il capitale e il lavoro. Gli «intellettuali» chiedevano quindi di essere rappresentati dai propri sindacati di categoria. Confluendo nelle organizzazioni dei datori di lavoro, infatti, rischiavano di trovarsi senza adeguata rappresentanza. Il segretario del sindacato degli ingegneri, Giuseppe Gorla, notò con asprezza: «Si è sempre affermato come l’inquadramento del lavoro intellettuale fosse una delle più originali conquiste del Regime e siamo arrivati al punto che […] questo terzo elemento, questa conquista originale, l’elemento intellettuale considerato nel suo complesso, è scomparso», perché il ministero delle Corporazioni, «sensibile solo al vecchio richiamo dei due classici antagonisti, capitale e lavoro, ha dimenticato semplicemente che esiste questo terzo elemento e quando se ne è ricordato, l’ha spezzettato fra l’una e l’altra organizzazione ed è rimasto col moncone del professionismo puro, che se si chiedesse che cosa è veramente, si dovrebbe rispondere che non esiste»26. Vale la pena sottolineare le forti assonanze che le osservazioni dei sindacati di professionisti e artisti hanno con quelle, culturalmente più avvertite, che Camillo Pellizzi avrebbe esposto alcuni anni più tardi e riproposto dopo la caduta del fascismo27. La vicenda ci mostra inoltre come la questione del ruolo dei tecnici nel sistema corporativo si fosse realmente affacciata non solo nella riflessione degli intellettuali più consapevoli ma anche nella costruzione stessa dell’ordinamento, per poi essere, nonostante tutto, sbrigativamente liquidata. Le conseguenze che ne derivarono per i professionisti e i tecnici e, a maggior ragione, per gli impiegati pubblici non erano soltanto simboliche. Una presenza marginale nel sistema corporativo rischiava di comportare una riduzione 128
della capacità di contrattazione con il governo e con gli altri interessi e, quindi, una minore forza nella difesa della propria categoria. A dominare, nel Consiglio, erano dunque i datori di lavoro e i sindacati dei lavoratori, che contavano complessivamente 85 membri su un totale di 150. Per quanto riguarda i primi, fecero parte del consesso i maggiori dirigenti delle organizzazioni imprenditoriali e alcuni esponenti del mondo economico. Le confederazioni dei datori di lavoro, contrariamente a quelle dei lavoratori, non avevano subito l’azione repressiva del fascismo e, salvo alcuni omaggi formali, quali l’inserimento dell’aggettivo «fascista» nel nome, qualche forzato cambiamento nella struttura organizzativa e rari veti in merito a singoli dirigenti, avevano conservato pressoché intatta la propria autonomia e forza contrattuale. Le figure presenti nel Consiglio erano perciò diretta espressione delle categorie rappresentate. Per la Confindustria, tra tutte la più forte e influente, si trovano i nomi di Giovanni Balella e Felice Guarneri, i direttori generali, Gino Olivetti e Antonio Stefano Benni, gli industriali in quel momento alla testa dell’organizzazione, cui si aggiungeva Alberto Pirelli, alla guida dell’Associazione fra le società per azioni (Assonime). Diversa, naturalmente, era la situazione delle organizzazioni dei lavoratori. Con lo sbloccamento si era avuto un rilevante avvicendamento alla testa dei sindacati e ai vecchi dirigenti erano subentrate figure non sempre competenti o dotate di adeguata esperienza. Non infrequentemente si trovavano funzionari di partito, dirigenti della pubblica amministrazione, alti ufficiali della milizia, professori, «esperti» di economia corporativa, per i quali l’ingresso negli organismi corporativi costituiva una benemerenza utile per la carriera e per l’accrescimento del potere personale28. Rilevante fu in particolare l’osmosi tra 129
sindacato, partito e pubblica amministrazione. Soprattutto all’inizio degli anni Trenta, prima che prendesse avvio un lento recupero della capacità di iniziativa, furono numerosi gli uomini della burocrazia o provenienti da cariche politiche destinati alla guida di federazioni e confederazioni: emblematico il caso di Bruno Biagi, «simbolo di quel sottobosco di clientelismo e di corruzione» consolidatosi all’interno del regime, nominato nel giugno 1931 commissario della Confederazione dei lavoratori dell’industria benché privo di esperienza sindacale29. Tra queste figure, comunque, non mancavano i sindacalisti «puri», spesso provenienti dall’esperienza del sindacalismo rivoluzionario e del sindacalismo nazionale. Scorrendo l’elenco dei membri del Consiglio si trovano il leader dei lavoratori agricoli, Luigi Razza, all’inizio degli anni Trenta la figura più carismatica del sindacalismo fascista, Riccardo Del Giudice, allora nella Confederazione dell’industria, e Giuseppe Landi, nella Confederazione del commercio, entrambi destinati a una significativa ascesa all’interno di altre categorie. Un’ultima questione, infine, si legò alla messa in opera del Consiglio nazionale delle corporazioni: le pressioni da parte di enti e istituzioni per ottenere una propria rappresentanza nel consesso. Il Consiglio, infatti, costituiva almeno sulla carta il luogo in cui potevano confluire le richieste e le rivendicazioni avanzate dai vari settori del fascismo e dai sempre più numerosi e diversificati apparati dello Stato. Nei mesi successivi all’istituzione, numerosi enti chiesero di entrare a far parte dell’assemblea generale. Si trattava, tra gli altri, del Cnr, dell’Istituto centrale di statistica, dell’Eiar e persino della presidenza del Consiglio dei ministri, come soggetto dunque distinto dal presidente del Consiglio30. Le richieste, talvolta insistite e pressanti, testimoniavano come la forte dinamica centrifuga innestata dal «processo 130
creativo» istituzionale attuato in quegli anni alimentasse nel contempo una dinamica centripeta, per cui qualsiasi ente o organo cercava l’inserimento nelle strutture di rappresentanza o coordinamento per poter conservare o rafforzare prerogative, attribuzioni e poteri, a volte a discapito di qualsiasi coerenza e plausibilità (come nel caso dell’Eiar) o con evidenti forzature costituzionali (la presidenza del Consiglio dei ministri). Partecipare a consessi di rappresentanza o coordinamento significava anche, per i dirigenti di ciascun organismo, fregiarsi di un ulteriore titolo (e relativi emolumenti) spendibile nel mercato politico e utile ai fini di eventuali future promozioni o «ricollocazioni».
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2. Lo «Stato maggiore dell’economia» Nella seduta inaugurale, Mussolini definì il Consiglio nazionale delle corporazioni lo «stato maggiore dell’economia», il «cervello pensante che prepara e coordina»31. I risultati sarebbero stati però ben lontani dalle ambizioni iniziali. Basti pensare al fatto che del potere normativo in materia di «rapporti economici», pur fortemente vincolato e ridimensionato, il Consiglio non fece uso quasi mai, limitandosi a produrre due sole norme, per giunta dalla portata non proprio determinante per i destini dell’economia italiana: la prima regolamentava la disciplina della vendita del latte a Roma mentre la seconda definiva la natura giuridica del rapporto che legava le imprese assicuratrici agli agenti di assicurazione32. In materia di «rapporti economici» l’assemblea generale effettuò soltanto due discussioni. La più rilevante fu quella del novembre 1931 sulla politica doganale e sul commercio estero33. La discussione – conosciuta soprattutto attraverso il resoconto fornito da quello che apparve subito come il «vincitore», il direttore generale di Confindustria Felice Guarneri – vide contrapporsi i sostenitori di una politica basata sull’apertura ai mercati internazionali e sul primato delle esportazioni (era la posizione in particolare delle organizzazioni industriali, sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori) e quanti, in particolare le categorie agricole, chiedevano provvedimenti protezionistici e un maggiore intervento statale34. Il dibattito fu tra i più accesi e partecipati del Consiglio nazionale. Ci furono infatti ben 29 interventi e vennero presentati 9 ordini del giorno, oltre alle mozioni delle sezioni. Per l’unica volta fecero fronte comune rappresentanze imprenditoriali e dei lavoratori di ciascun settore. Si trattò di una discussione per molti versi 132
«accademica», dal momento che il governo, circa due mesi prima, aveva stabilito un innalzamento del 15% dei dazi per diverse categorie merceologiche. Proprio il fatto che il Consiglio nazionale delle corporazioni si fosse riunito in seduta plenaria per affrontare un argomento rispetto al quale erano già state prese importanti decisioni ha costituito il più ricorrente esempio portato a riprova, dagli osservatori contemporanei e dagli storici, dell’assoluta inefficacia del Consiglio stesso35. Tuttavia, se è vero che l’assemblea generale si riunì dopo che erano stati adottati i provvedimenti in questione, è altrettanto vero che tra il maggio e il giugno 1931, cioè alcuni mesi prima della promulgazione del decreto sui dazi, tutte le sezioni, a eccezione di quella delle professioni libere e delle arti, dedicarono alla questione del commercio estero e della politica doganale apposite sedute. Tutte riuscirono a superare divisioni interne e contrapposizioni tra datori di lavoro e lavoratori e quindi ad approvare ordini del giorno unitari. Se dunque il lungo e acceso dibattito in assemblea generale – nel quale intervennero, oltre a Guarneri, alcuni dei massimi esponenti delle organizzazioni imprenditoriali e dei sindacati dei lavoratori – servì, con tutta probabilità, soltanto a far raffreddare a posteriori una materia ancora «calda» (ma probabilmente anche, almeno negli intendimenti del ministero delle Corporazioni, a tentare di accreditare il rilievo istituzionale del Consiglio, impegnandolo su un tema in quel momento cruciale), le sezioni svolsero di fatto una vera e propria fase «istruttoria». Contribuirono, infatti, a preparare una decisione dagli effetti rilevanti e, soprattutto, a delineare un indirizzo generale di politica economica. Già questo primo evento mette in luce un aspetto peculiare dell’andamento delle discussioni in seno al Consiglio, e cioè che – se non ci si vuole fermare alla 133
constatazione delle mancate realizzazioni – non è possibile limitarsi a osservare l’attività della sola assemblea generale. Non si può prescindere, in altre parole, dalle articolazioni «minori»: inizialmente infatti le sezioni e il Comitato corporativo centrale svolsero un ruolo significativo nella formulazione di importanti provvedimenti36. Ciò tra l’altro, come è stato osservato, corrisponde alla «naturale vocazione autoritaria del movimento fascista, e trova conferma sia all’interno che al di fuori dell’ordinamento corporativo nel progressivo esautoramento degli organismi collegiali (e per ciò stesso più strettamente legati allo Stato-società)» e «nel continuo rafforzamento degli istituti meno 37 rappresentativi» . Per quanto riguarda invece i contenuti delle discussioni, è innanzitutto da osservare come, nella prima fase, le attività del Consiglio fossero strettamente legate all’iniziativa politica di Bottai. Nel periodo in cui fu ministro delle Corporazioni, fino al luglio 1932, Bottai tentò, attraverso gli organi corporativi, di forzare i veti e i vincoli posti dalle organizzazioni padronali, con l’obiettivo di conquistare un maggiore spazio d’intervento per lo Stato in ambito economico e sociale. Anche provvedimenti minuti e all’apparenza marginali appaiono funzionali, nelle intenzioni del ministro, a scardinare il peso delle forze fiancheggiatrici, per imporre il primato degli obiettivi politici dello Stato totalitario. Nel perseguimento del suo disegno, Bottai poté incontrare il sostegno dei sindacati dei lavoratori. Si trattò di un’alleanza sui generis tra due soggetti che fino a quel momento avevano provato reciproca diffidenza. Bottai, come si è visto, negli anni precedenti non aveva mancato di manifestare ostilità verso la residua autonomia dei sindacati. All’inizio degli anni Trenta i dirigenti sindacali si trovarono tuttavia a convergere con le sue posizioni in merito 134
all’esigenza di un rafforzamento della forza d’intervento dello Stato fascista in campo economico e sociale. Entrambi, seppur per ragioni diverse, si posero l’obiettivo di allargare la base di consenso dello Stato fascista, liberandolo dai condizionamenti, dai costumi e dal potere di veto esercitato dalle élites borghesi e liberali. Profondamente divergenti erano però i motivi ispiratori. Per Bottai la costruzione di uno Stato forte, sottratto all’influenza e al potere di singole componenti della società, aveva, come si è già avuto modo di vedere, connotati integralmente politici che, in concreto, non escludevano soluzioni fortemente conservatrici in materia sociale ed economica. Il suo progetto corporativo era dunque pienamente compatibile con la salvaguardia, per quanto riguardava l’esercizio del potere all’interno dell’azienda, della rigida osservanza del principio della gerarchia e dell’unicità di comando38. Per i dirigenti del sindacalismo, al contrario, gli obiettivi politici erano inscindibili da quelli sociali. Costruire lo Stato nuovo fascista equivaleva ad attuare una rottura radicale con la borghesia e il liberalismo, e dare vita alla «rivoluzione fascista» significava cambiare in misura sostanziale i rapporti di forza nella società. A questo si accompagnava la messa in discussione dell’azienda come struttura «totalitaria», chiusa a ogni compartecipazione dei lavoratori. Se le posizioni di Bottai e dei sindacalisti divergevano in merito agli assetti che lo Stato fascista avrebbe dovuto assumere, su alcuni aspetti di fondo, comunque, erano rinvenibili indiscutibili assonanze. Il sostegno che, nel corso delle discussioni corporative, i sindacati dei lavoratori diedero ai progetti di Bottai fu spesso decisivo per contrastare le resistenze opposte dalle rappresentanze imprenditoriali. Il ministro delle Corporazioni non solo elaborò una serie di provvedimenti vicini alle corde dei 135
vertici confederali ma fu in quella fase il gerarca più pronto a difendere il ruolo e l’identità del sindacato39. Entrando nel merito dell’attività del Consiglio, è da osservare in primo luogo l’attività delle sezioni. Queste affrontarono principalmente problemi legati alla situazione economica e alla politica economica, svolgendo, come nel caso dei provvedimenti doganali, un lavoro preparatorio per le discussioni plenarie. Consentivano in questo modo alle confederazioni di incidere sull’elaborazione della proposta, più o meno concreta, che il ministero avrebbe portato poi all’esame dell’assemblea generale. Le sezioni costituirono però anche la sede di un confronto continuativo tra le organizzazioni dei datori di lavoro e quelle dei lavoratori del settore interessato, sia su questioni specifiche di natura contrattuale sia su misure di portata generale. Fu nella sezione dell’agricoltura, probabilmente la più attiva, che furono elaborate le importanti norme generali regolanti il rapporto di mezzadria, e in quella dell’industria venne preparato il disegno di legge sui nuovi impianti industriali e discussa la spinosa questione della riduzione dell’orario di lavoro40. Di maggiore efficacia appare dotato il Comitato corporativo centrale. Molto meno inclusivo dell’assemblea generale, vi partecipavano comunque rappresentanze del governo, del Pnf, della pubblica amministrazione e degli interessi economici e sociali41. L’equilibrio tra rappresentatività, ridotto numero dei componenti e agilità operativa fece del Comitato il punto di equilibrio istituzionale di tutto il sistema. L’organo aveva il compito di sostituire l’assemblea generale nell’intervallo tra una sessione e l’altra per tutte le deliberazioni d’urgenza, a eccezione della formazione di norme, e di dar pareri sulle questioni «riflettenti gli orientamenti politici dell’azione sindacale rispetto ai problemi nazionali della produzione ed 136
ai fini morali dell’ordinamento», come dichiarava la legge del 1930. Fino all’inizio del 1934 il Comitato fu il luogo in cui vennero discusse e messe a punto alcune misure per fronteggiare gli effetti della crisi economica e l’aumento della disoccupazione. Intervenne, tra tanti temi, sull’esame dell’attività contrattuale delle associazioni sindacali, sull’andamento delle principali vertenze, sull’imponibile di ricchezza mobile sui salari operai, sull’istituzione dei consigli provinciali dell’economia, sulla situazione degli uffici di collocamento, sulle indennità di licenziamento, sulla cooperazione, sui livelli salariali, sulla costituzione delle corporazioni di categoria, sul piano del ministero delle Corporazioni per la riduzione dell’orario di lavoro come mezzo di difesa contro la disoccupazione, sulla disciplina degli impianti industriali e sulla costituzione di consorzi obbligatori42. Fu all’interno del Comitato corporativo centrale che si confrontarono, non senza durezza, le posizioni dei datori di lavoro e dei sindacalisti in merito alle misure di protezione sociale per i disoccupati. I primi chiedevano che l’indennità di disoccupazione venisse calcolata sulla media della carriera lavorativa e non sull’ultimo stipendio, con il nascosto obiettivo di mettere in discussione la stessa fondatezza giuridica dell’indennità per liberarsi dal pagamento dei contributi; i secondi, al contrario, si attestavano sulla difesa dell’esistente, rivendicando la necessità dei sussidi di disoccupazione e il fatto che venissero conteggiati sull’ultimo stipendio, generalmente più alto. Il Comitato scelse una soluzione di compromesso: mise un limite alla cifra e in questo modo salvò l’istituto dagli assalti liberisti del fronte imprenditoriale43. Nella seconda metà del 1931, invece, il Comitato discusse delle misure necessarie per fronteggiare l’aumento della disoccupazione e, in particolare, della richiesta avanzata dagli imprenditori di 137
ulteriori decurtazioni salariali come alternativa a nuove ondate di licenziamenti, senza però giungere a conclusioni definitive44. Sempre in seno al Comitato corporativo centrale, il ministero delle Corporazioni e le confederazioni discussero la «piccola riforma sindacale»45 del 1932, approvata con appositi decreti legge in dicembre. Veniva stabilita la revoca del riconoscimento giuridico alla maggior parte degli organismi sindacali. Alle confederazioni era così garantito un controllo amministrativo più efficace sugli organismi periferici che, fino a quel momento, avevano potuto godere di una larga autonomia finanziaria46. In molti casi, dunque, il Comitato corporativo centrale fu la sede nella quale il ministero delle Corporazioni poté svolgere la propria funzione di mediazione tra gli interessi socioeconomici. In alcune situazioni l’intervento del ministero si concretizzò nel tentativo di limitare il potere «autocratico» delle gerarchie aziendali e assunse quindi evidenti coloriture sociali. Si può inserire tra queste la decisione del Comitato corporativo centrale del novembre 1931 di risolvere l’aspra contesa sulla determinazione dei cottimi concedendo ai sindacati industriali il diritto di intervenire nella fissazione «di tutti quei fattori di tempo, di rendimento, di organizzazione tecnica» che concorrono a formare il salario. Così facendo, si limitava il potere discrezionale della proprietà aziendale costringendola, almeno sulla carta, a fissare insieme alle organizzazioni dei lavoratori i livelli delle retribuzioni. Ad analoghe sollecitazioni rispondeva poi un’altra decisione presa nella stessa riunione del Comitato, in base alla quale le riduzioni salariali non dovevano più applicarsi su scala nazionale ma solo su scala locale e settoriale e soltanto se avessero risposto a determinati criteri47. Decisioni di questo genere non cambiarono in misura significativa le condizioni dei 138
lavoratori, anche perché le applicazioni reali furono fortemente contrastate e diedero luogo a dure controversie. Tuttavia, ebbero il merito di infondere fiducia negli organizzatori sindacali, in un momento di acuta difficoltà per il mondo del lavoro, e di lasciare intravedere la possibilità di intervenire nei rapporti di forza con gli industriali48. Nel Comitato corporativo centrale vennero inoltre discussi ed elaborati due dei più rilevanti provvedimenti legislativi in materia industriale degli anni Trenta, autentici assi portanti della politica industriale italiana della prima metà del decennio: la legge sui consorzi obbligatori – che consentiva la costituzione, tramite decreto, di consorzi obbligatori tra imprese di uno stesso ramo di attività economica, allo scopo di disciplinarne la produzione e la concorrenza – e l’introduzione dell’obbligo, per gli imprenditori che intendevano avviare nuovi impianti industriali o allargare quelli esistenti, di chiedere e ottenere un’apposita autorizzazione dal ministero delle Corporazioni. Si trattava di due misure di notevole importanza per lo sviluppo industriale e per gli assetti di potere del capitalismo italiano, sulla cui attuazione si avrà modo di tornare più avanti. Il Comitato corporativo centrale ebbe un ruolo decisivo nella gestazione dei provvedimenti. Fu in quella sede che avvenne il confronto tra il governo, le organizzazioni dei lavoratori e le rappresentanze degli imprenditori. La genesi di quelle importanti misure di politica industriale fu dunque integralmente «corporativa». Paradossalmente, tuttavia, il contenuto dei provvedimenti finì col non riconoscere alcun potere agli organi corporativi. Una prima versione del decreto legge sui consorzi, discussa presso il Comitato corporativo centrale nel febbraio 1932 e che attribuiva alle sezioni del Consiglio nazionale delle corporazioni la vigilanza sull’attività dei consorzi, fu 139
modificata sulla base delle richieste degli industriali: la preparazione delle intese e l’elaborazione degli statuti consortili vennero demandate direttamente alla Confindustria e alle federazioni dipendenti49. Analogamente, la legge sui nuovi impianti industriali affidava alle associazioni degli imprenditori e a un’apposita commissione ministeriale il vaglio delle richieste per la concessione di autorizzazioni. L’esautoramento degli organi corporativi stabilito dai due provvedimenti rappresentò non solo una chiara smentita del celebrato «spirito corporativo» ma anche una sconfessione della politica di Bottai. Da qui le non velate rimostranze del ministro e le reiterate denunce del carattere «acorporativo» e «di emergenza» delle misure: Bottai ribadì in diverse occasioni il rifiuto della «tendenza monopolistica, mascherata dalla mentalità consorzialistica» e affermò – in piena consonanza con le proposte dei dirigenti dei sindacati dei lavoratori – la necessità di un controllo degli organi corporativi sui consorzi e sull’applicazione della legge sull’autorizzazione per gli stabilimenti industriali50. Delle intenzioni di Bottai e del ministero delle Corporazioni di porre qualche argine allo strapotere delle élites economiche si ebbe un’ulteriore prova a proposito della riforma della legge sulla proprietà industriale. Il disegno di legge prodotto dalla commissione ministeriale presieduta dal senatore Donato Faggella incontrò, durante la discussione nella terza sessione dell’assemblea generale, le ripetute obiezioni delle organizzazioni imprenditoriali. Faggella tuttavia difese il testo e, senza alcuna disponibilità ad aprire un vero confronto con gli industriali, negò la possibilità di apportarvi le modifiche richieste, evidentemente con il sostegno di Bottai se non direttamente su sua indicazione; per il ministro, d’altra parte, la questione era da considerare chiusa già prima della discussione al 140
Consiglio nazionale delle corporazioni (a suo avviso un dibattito puramente «tecnico»). Di fronte al muro eretto, gli industriali dovettero allora indirizzare le proprie rimostranze direttamente a Mussolini: Vittorio Valletta in particolare inviò un dettagliato promemoria contenente le critiche al testo e le proposte degli industriali51. Nel primo biennio, insomma, pur con iniziative di carattere conciliativo o tutt’al più pre-legislativo – senza cioè giungere mai a produrre norme –, i diversi organi del Consiglio nazionale delle corporazioni costituirono lo strumento utilizzato, con altalenante successo, da Bottai e dalla burocrazia del ministero delle Corporazioni per estendere progressivamente la sfera del proprio intervento. Il tentativo fu condotto con un approccio graduale. Ciò tuttavia non servì a evitare il richiamo all’ordine. Proprio la posizione tenuta da Bottai sui consorzi e sulla legge per gli impianti industriali e la gestione della vicenda del «progetto Faggella», con l’aperta ostilità dei grandi industriali, ebbero parte non secondaria nell’indurre Mussolini ad allontanarlo dal ministero nel luglio 193252. Il tentativo di allentare l’enorme capacità di condizionamento che le élites economiche esercitavano sulle politiche sociali ed economiche fu bloccato nel suo stadio iniziale. La costruzione del sistema corporativo non poté non risentirne.
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3. Politiche sociali e legislazione del lavoro Fu però nell’ambito della politica sociale e del lavoro che si svilupparono le maggiori iniziative del ministero delle Corporazioni guidato da Bottai e i dibattiti più rilevanti del Consiglio. I primi anni Trenta, d’altra parte, costituirono il periodo in cui l’intervento del regime nella politica sociale fu più intenso, dettato dall’esigenza di contenere gli effetti della crisi economica e al tempo stesso di allargare adesioni e fedeltà al fascismo. Naturalmente, non tutte le riforme dei sistemi di protezione sociale passarono attraverso la discussione corporativa. Si pensi, in particolare, alla riforma delle assicurazioni per la vecchiaia e alla creazione nel 1933 dell’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (Infps). Per molti degli interventi nella legislazione del lavoro e nelle politiche sociali il ministero delle Corporazioni riuscì comunque a salvaguardare la funzione, nel processo di formazione della decisione, degli organi corporativi. Fu anche in grado di conservare un ampio potere di indirizzo sui contenuti dei provvedimenti. L’azione del ministero risultò decisiva nella scelta non solo dell’ordine del giorno ma anche dei contenuti approvati e poi tradotti sul piano legislativo e politico. Le discussioni dell’assemblea generale finirono infatti quasi sempre con l’approvare la relazione introduttiva, opera del ministero stesso. O meglio, mancando una vera misurazione del consenso e dell’effettivo peso dei vari schieramenti, e bandite le votazioni sul modello parlamentare perché considerate di impronta «elettoralistica» (un attributo che nello Stato fascista poteva avere soltanto un’accezione negativa), i contenuti della relazione semplicemente venivano fatti propri dal presidente dell’assemblea, cioè 142
Mussolini o, in assenza di questi, dal responsabile del ministero delle Corporazioni. La partecipazione delle rappresentanze padronali e dei vertici sindacali alle discussioni contribuiva non tanto a determinare il contenuto dei provvedimenti quanto a dar forza politica e istituzionale ai progetti presentati. In particolare, il sostegno e l’approvazione dei sindacati dei lavoratori risultarono in molti casi decisivi per superare le resistenze del mondo imprenditoriale. Diverse furono le questioni affrontate dal Consiglio. Nella prima sessione dell’assemblea generale fu costituita un’apposita commissione incaricata di proporre un progetto per la riforma della legislazione del lavoro53. Questa risultava infatti caratterizzata, secondo la relazione ministeriale, da un lato da «una eccessiva frammentarietà, dovuta alla mancanza di qualsiasi coordinazione fra i vari provvedimenti che in tempi diversi [erano] stati emanati», da cui derivavano duplicazioni e contraddizioni che rendevano più impegnativa e costosa per le aziende la piena osservanza delle norme; dall’altro, dal fatto che le leggi spesso risalivano ad anni precedenti e si riferivano a condizioni superate o comunque modificate e prescindevano dai nuovi istituti giuridici e amministrativi creati dal fascismo54. Si trattava dunque di unificare e semplificare i testi legislativi, senza però «toccare la sostanza delle leggi». Sebbene la relazione del ministero non avesse escluso la formulazione di un vero e proprio «codice del lavoro», la commissione si limitò a elaborare cinque testi unici: sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sulla tutela della maternità della lavoratrice, sulla limitazione obbligatoria degli orari di lavoro, sul riposo domenicale e settimanale e sulla tutela dell’igiene del lavoro. Pur estendendo le garanzie per i lavoratori, la legislazione rimaneva decisamente più arretrata 143
rispetto a quella degli altri paesi industrializzati. L’allargamento delle tutele inoltre – rispecchiando l’ideologia del fascismo – non si riprometteva né di ridurre le disuguaglianze né tanto meno di introdurre nuovi diritti sociali. Aveva, semmai, l’obiettivo di tutelare la salute del corpo della nazione, anche attraverso forme di protezione dei soggetti ritenuti più deboli. La diretta connessione tra politica sociale e politica demografica risultava particolarmente evidente a proposito della legge sul lavoro «delle donne e dei fanciulli». Nella presentazione si sottolineava infatti l’«esigenza basilare d’ordine pubblico, fortemente intesa ed auspicata, riannodantesi direttamente alla conservazione della stirpe» e la «necessità della tutela delle deboli forze del minore e della donna» quale forma «di tutela demografica diretta alla potenza, non soltanto numerica, ma qualitativa della Nazione»55. In concreto, il progetto, divenuto legge nel 1934, introduceva una serie di disposizioni su orario di lavoro, lavoro notturno, divieto o limitazione di determinate lavorazioni, riposo settimanale, condizioni igieniche e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le disposizioni introducevano un sistema di tutele estremamente lacunoso a difesa del lavoro femminile e minorile ma assecondavano le esigenze demografiche del regime: l’aumento del costo dell’impiego della donna che inevitabilmente ne derivava finiva infatti con il favorirne l’auspicata espulsione dal mercato del lavoro56. Su alcuni punti, tra quelli maggiormente qualificanti, il ministero intervenne, a discussione conclusa, sollecitando una modifica del testo e un ampliamento delle tutele: propose tra l’altro di elevare il minimo di età per l’assunzione, portandolo da dodici anni, secondo la proposta della commissione, a quattordici57. Arretrato nei contenuti, in confronto alla legislazione di 144
altri paesi, fu anche il testo unico sull’orario di lavoro. La commissione si era astenuta dal presentare riforme sostanziali perché era in attesa della ratifica, da parte del parlamento, di precedenti convenzioni internazionali. Il disegno di legge lasciava dunque invariato il preesistente limite fissato a otto ore giornaliere e quarantotto settimanali e consentiva, laddove previsto dai contratti, di aggiungere due ore al giorno e dodici settimanali di lavoro straordinario. Il testo però era ritenuto, dai sindacalisti ma non solo, insoddisfacente. Esso infatti non registrava la tendenza di lungo periodo alla diminuzione della giornata lavorativa né si misurava con il preoccupante aumento della disoccupazione industriale, che costituiva in quel momento il principale punto debole dell’azione del sindacalismo. A dibattito concluso, l’assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni approvò un ordine del giorno, firmato da rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, nel quale si auspicava che fosse «prontamente esaminata la possibilità della diminuzione obbligatoria dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali in tutte le amministrazioni ed aziende, in vista di poter giungere a precisi impegni di carattere internazionale»58. L’ordine del giorno però non specificava se alla riduzione dell’orario dovesse accompagnarsi una proporzionale riduzione dei salari o se questi dovessero rimanere invariati. D’altra parte, il governo aveva scelto di subordinare l’adozione di provvedimenti impegnativi alla sottoscrizione di un accordo internazionale. Avviò quindi, più o meno in concomitanza con i lavori dell’assemblea generale, un’iniziativa diplomatica per una riforma dell’orario di lavoro che riducesse a quaranta le ore settimanali a parità di salario59. Il rimando alle sedi di confronto internazionale, in particolare le conferenze annuali dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), rispecchiava per ragioni 145
diverse le esigenze di tutte le parti in causa: gli industriali potevano infatti prendere tempo e, soprattutto, evitare l’approvazione di misure legislative nazionali penalizzanti in confronto a quelle in vigore negli altri paesi; i sindacalisti, e in fondo lo stesso ministero delle Corporazioni, giocavano una carta importante per ottenere la desiderata legittimazione internazionale, dal momento che i sindacati fascisti e le politiche del regime erano osservati speciali all’interno dell’Oil, a causa del carattere autoritario e liberticida del sistema sindacale varato nel 1926. La conclusione del dibattito in sede corporativa sulla durata dell’orario di lavoro non pose termine alla discussione sul tema. Circa due settimane dopo la chiusura della terza sessione dell’assemblea generale, Giovanni Agnelli, in un’intervista all’United Press, rilanciò l’idea di una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario da quarantotto a trentasei ore settimanali. Una misura di quel tipo avrebbe consentito, a suo avviso, di «combattere e vincere la disoccupazione» e superare lo «squilibrio tra produzione e consumo, cioè tra produzione e potere d’acquisto», all’origine della crisi economica60. La proposta di Agnelli non venne raccolta né da altri esponenti del mondo industriale e finanziario né dai politici. Anzi, il senatore rimase completamente isolato all’interno della Confindustria, e dopo aver esposto in forma più organica i propri argomenti – in risposta alle critiche mossegli da Luigi Einaudi –, constatato il totale insuccesso, evitò di rilanciarli61. La proposta della riduzione a trentasei ore a parità di salario ottenne invece apprezzamenti più che positivi da parte dei sindacati. «Il lavoro fascista», organo delle confederazioni dei lavoratori, sostenne apertamente la proposta di Agnelli, di cui ripubblicò integralmente l’intervista alla United Press. A questo sostegno si 146
accompagna anche un piccolo «giallo», relativo alla discussione corporativa. Nel sottolineare le «significative coincidenze del pensiero del sen. Agnelli con il nostro», un articolo del 1° luglio 1932 fece riferimento a un ordine del giorno dei presidenti delle confederazioni del lavoratori, presentato alla terza sessione dell’assemblea generale, in cui sarebbe stata avanzata la richiesta di una riduzione a quaranta ore a salario invariato62. Dell’ordine del giorno però i verbali e i resoconti non recano traccia, mentre al contrario riportano quello firmato insieme ai rappresentanti dei datori di lavoro, nel quale si invocava sì la riduzione d’orario a quaranta ore, ma non a salario invariato. Ora, delle due l’una: o la redazione del giornale si era malamente confusa, cosa in realtà assai poco probabile vista l’importanza del tema, oppure l’ordine del giorno presentato dai sindacati dei lavoratori venne ritirato e sostituito con un testo di compromesso, sottoscritto anche dai rappresentanti delle imprese. Se questa seconda supposizione fosse giusta, si spiegherebbe come mai «Il lavoro fascista» rimise in campo la proposta originaria solo dopo che questa era stata sostenuta, con grande clamore e ampia visibilità, da uno dei più autorevoli esponenti degli ambienti industriali, mentre non vi aveva mai fatto riferimento nei resoconti delle sedute dell’assemblea generale. Il dibattito nel Consiglio nazionale delle corporazioni portò inoltre allo scoperto un fermento più generale. Al congresso nazionale della Confederazione dei lavoratori dell’industria dell’aprile 1933, il nuovo segretario, Ugo Clavenzani, incluse la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario tra le principali richieste avanzate dall’organizzazione63. Tuttavia, le forti resistenze che accolsero la rivendicazione e, al tempo stesso, il drammatico aumento dei disoccupati (giunti nel 1934 a quota 900.000) 147
indussero nei mesi successivi una parte significativa della dirigenza sindacale a ripiegare sulla richiesta di misure finalizzate meramente all’assorbimento della disoccupazione, ripartendo il lavoro fra un numero maggiore di operai rispetto a quelli occupati, senza poter garantire la difesa dei livelli salariali64. Per quanto riguarda i risultati legislativi, fallita la prima iniziativa per la riduzione della giornata lavorativa, il governo si limitò a ratificare la Convenzione di Washington del 1919, i cui termini peraltro erano già stati introdotti in parte con un decreto del 1923, fissando il limite a otto ore giornaliere e a quarantotto settimanali, come indicato tra l’altro anche dalla commissione del Consiglio nazionale delle corporazioni65. L’obiettivo delle quaranta ore settimanali venne infine raggiunto nell’ottobre 1934, soltanto per l’industria, grazie a un accordo intersindacale per il riassorbimento della disoccupazione siglato dal commissario della Confindustria, Alberto Pirelli, e dal segretario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Tullio Cianetti. La riduzione dell’orario di lavoro avveniva con proporzionale decurtazione dei salari. Era però previsto un salario compensativo sotto forma di assegni familiari, erogati da un’apposita cassa nazionale, che consentiva di integrare il reddito del lavoratore che aveva una famiglia numerosa e che lavorava a orario ridotto, senza appesantire i bilanci aziendali. Si trattava di un istituto nuovo e con indubbi tratti di modernità, perché, sulla scia di quanto avveniva anche in altri paesi, sottraeva la regolazione salariale al semplice gioco della contrattazione tra le parti. L’accordo stabiliva anche l’abolizione del lavoro straordinario, salvo casi particolari, e la sostituzione, dove possibile, della forza lavoro femminile con quella maschile e di quella minorile con quella adulta. Su questi punti, 148
tuttavia, le inadempienze degli industriali, spesso viste con favore dagli operai già occupati, e le conseguenti rimostranze dei sindacati dei lavoratori sarebbero state numerose, a dimostrazione di quanto fosse difficile imporre nei fatti un clima di collaborazione66. Ritornando alla riforma della legislazione del lavoro preparata dal Consiglio nazionale delle corporazioni, è da rilevare come, più in generale, i limiti della proposta riformatrice della commissione derivavano non solo dalla natura autoritaria del regime fascista, con la sua costitutiva ostilità a una cultura dei diritti, ma anche dalle resistenze poste in quella sede dalle associazioni padronali. Di fronte a quello che appariva un ridimensionamento dell’iniziale proposta riformatrice, le categorie imprenditoriali – che quel ridimensionamento avevano contribuito a determinare – poterono trarre un sospiro di sollievo. In questo caso il ministero, e forse la stessa commissione, non erano evidentemente riusciti a trovare una sponda adeguata nei sindacati, fortemente divisi al proprio interno. L’iniziale proposta ministeriale di concepire la legge come «legge-cornice», che il contratto avrebbe dovuto poi adeguare ai casi concreti, suscitava infatti reazioni discordi all’interno del mondo sindacale. Alcuni dirigenti sostenevano il primato della legge, come strumento per sancire l’universalità di tutele e garanzie e per rimediare alla debolezza delle organizzazioni dei lavoratori. Ritenevano infatti che «lo spirito corporativo non [aveva] ancora abbastanza permeato di sé le categorie», e dunque risultava necessario «che la legge [fosse] tassativa e precisa»67. Altri invece, come Riccardo Del Giudice, privilegiavano un sistema basato sui contratti collettivi di lavoro con valore di legge, che implicavano un protagonismo del sindacato nella discussione e nell’approvazione68. 149
Era proprio quest’ultima posizione a rispecchiare l’orientamento del ministero delle Corporazioni. Nella Relazione sull’attività contrattuale delle Associazioni Professionali della fine del 1930, si leggeva che il contratto collettivo era oramai «indice non della sola attività contrattuale, ma, approssimativamente, di quasi tutta l’attività delle associazioni sindacali». Per mezzo di esso si attuava non soltanto «la disciplina dei rapporti di lavoro, ma anche gran parte delle finalità extra-economiche quali l’assistenza, l’istruzione professionale ed educazione nazionale»; inoltre, era «principalmente attraverso i risultati del contratto collettivo – espressione più frequente della subordinazione degli interessi particolaristici a quelli nazionali e che più direttamente ed immediatamente ha importanza per le classi produttrici – che si contribuisce a formare una coscienza nazionale ed una norma di condotta fascista»69. L’iniziativa di Bottai e del ministero delle Corporazioni non si limitò a una razionalizzazione della legislazione del lavoro. Si propose infatti anche di introdurre i primi elementi di un sistema assistenziale e previdenziale più moderno. Il primo passo in questa direzione fu costituito dall’importante riforma della legislazione sugli infortuni sul lavoro, varata nel marzo 1933. Gli aspetti qualificanti della riforma erano costituiti dall’estensione dell’obbligo di assicurazione a tutti i lavoratori impegnati in attività industriali, dall’introduzione del sistema automatico – vale a dire senza la stipulazione di un contratto privato, dipendente dall’esecuzione del datore di lavoro –, dalla creazione di un unico ente in luogo della pluralità di istituti assicuratori precedentemente esistenti (la Cassa nazionale infortuni e i diversi sindacati obbligatori e volontari di mutua assicurazione) e dalla sostituzione del sistema di indennizzo in capitale, o a forfait, con quello della 150
rendita. Si trattava di un ambizioso progetto finalizzato a statalizzare il sistema di garanzie e ad armonizzare le tutele dei lavoratori delle varie categorie, almeno di quelle industriali. La creazione di norme generali e di un unico ente pubblico minacciava però l’esistenza delle casse mutualistiche esistenti, gli interessi delle società assicuratrici private e la discrezionalità dei datori di lavoro. Le alte gerarchie del ministero delle Corporazioni erano consapevoli della posta in gioco e, più in generale, della necessità di trovare un nuovo equilibrio tra le asserite finalità sociali dello Stato fascista e gli interessi del mercato. Lo affermava apertamente la relazione ministeriale con cui il progetto venne presentato al Consiglio nazionale delle corporazioni: Con la premessa che l’assicurazione infortuni non ha carattere privatistico, ma carattere, natura, essenza e finalità eminentemente sociale, è in aperto contrasto il sistema attuale che, posto l’obbligo dell’assicurazione, lascia che la stipulazione di questa avvenga colle forme e colle norme privatistiche del normale contratto d’assicurazione, e così espone le garanzie, cercate e volute dal legislatore nell’interesse dell’operaio, all’alea e pericolo della diligenza o meno del datore di lavoro nella stipulazione e nella esecuzione del contratto70.
Ancora una volta le discussioni nelle sedi corporative, prima nelle sezioni e poi nella terza sessione dell’assemblea generale, rappresentarono uno strumento decisivo in mano a Bottai e alla dirigenza ministeriale per scardinare interessi compatti e consolidati. Il dibattito nel Consiglio nazionale delle corporazioni fece infatti emergere con chiarezza l’aperta opposizione delle compagnie assicuratrici private e di tutte le organizzazioni dei datori di lavoro. Gli argomenti utilizzati in quella sede costituiscono un vero e proprio compendio della posizione del mondo imprenditoriale di fronte all’estensione del sistema di protezione sociale. Fu infatti paventato il rischio di una burocratizzazione e di un conseguente aumento dei 151
costi. Si sottolineò come «solo sotto la pressione della concorrenza gli enti assicuratori possono essere spinti a dare le prestazioni migliori col costo minimo possibile»71; e come, di conseguenza, un organismo unico «agente in regime di monopolio e senza più lo stimolo dell’emulazione ed il pungolo della concorrenza, si adagerebbe fatalmente in una vita burocratica, anti economica, a costo crescente in proporzione alla mole»72. Fu inoltre osservato come il momento – il dibattito si svolse nel giugno 1932, nel pieno della crisi economica – fosse il meno propizio «per fare considerare con tutta la necessaria serenità il progetto di riforma»73. Le organizzazioni dei lavoratori, al contrario, sostennero integralmente la proposta riformatrice del ministero74. Consideravano infatti la concorrenza, auspicata dalle organizzazioni dei datori di lavoro, «fatta non già sulla base del minor costo dell’assicurazione, ma a danno dell’infortunato», e ritenevano l’istituto unico statale lo strumento migliore per «togliere all’assicurazione infortuni il marchio» di «assicurazione privatistica e padronale»75. Il progetto di riforma del ministero delle Corporazioni riuscì ad arrivare in porto, ancora una volta grazie al prezioso sostegno fornito dai sindacati. Nel marzo 1933 fu perciò costituito l’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail). L’Istituto assorbiva i vari enti sino a quel momento autorizzati alla tutela e si rivolgeva ai lavoratori dell’industria e a quasi tutti i dipendenti dello Stato soggetti alla norma infortunistica. La costituzione dell’Infail rappresentò un passo rilevante verso l’edificazione di un sistema di garanzie sociali basato, da un lato, sulla sottrazione di significativi flussi di capitale e quote di profitto alle compagnie assicurative private e, dall’altro, sul rafforzamento del ruolo delle istituzioni pubbliche. La 152
soluzione adottata era di chiara impronta statalista. Assegnava infatti la guida dell’Istituto a una dirigenza amministrativa legata alla dirigenza politica e a una struttura burocratica appositamente costituita. Il paradosso della riforma fu che a farne le spese furono anche i sindacati dei lavoratori, che con forza l’avevano sostenuta. Le loro pretese di svolgere una funzione attiva nelle istituzioni previdenziali rimasero infatti in larga parte inattuate76. La riforma inoltre introduceva una differenziazione tra le categorie. L’ammissione alla tutela dei soli lavoratori dell’industria, privata e pubblica, e l’esclusione dei lavoratori agricoli o dei trasporti derivava dal dato oggettivo che la quasi totalità degli infortuni si concentrava nell’industria. Le esclusioni erano però anche l’effetto della peculiare politica sociale del fascismo, frammentata e rivolta solo a singoli segmenti della società, tanto da creare o rafforzare differenziazioni tra le classi e all’interno di esse77. Anche i testi unici sulla legislazione del lavoro messi a punto dal Consiglio divennero leggi dello Stato78. Fece eccezione quello sull’orario di lavoro, che venne sostituito dal testo elaborato dalle commissioni parlamentari, consistente nella ratifica della Convenzione di Washington e limitato alle sole attività industriali79. A parte la limitazione alla sola industria, la legge non si differenziava molto, almeno negli aspetti sostanziali, dal testo proposto dalla commissione del Consiglio nazionale. La durata massima normale di lavoro effettivo degli operai e degli impiegati non poteva eccedere le otto ore al giorno e le quarantotto settimanali. Era possibile, in base ai contratti collettivi di lavoro, aggiungere alla durata massima normale di lavoro un periodo straordinario che non superasse le due ore al giorno e le dodici settimanali. In tutti i casi sin qui esaminati, il Consiglio nazionale delle corporazioni rappresentò la sede istituzionale del confronto 153
tra le rappresentanze degli interessi coinvolti; un confronto che anticipava e di fatto sostituiva il dibattito parlamentare, sempre più svuotato di contenuti. Decisivo risultò di volta in volta il sostegno che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori offrirono ai progetti del ministero, tanto da costituire un importante contrappeso all’azione esercitata, fuori e dentro gli organi corporativi, dalle organizzazioni imprenditoriali. Per i sindacati i progetti di intervento in campo sociale, assistenziale e previdenziale del ministero delle Corporazioni rappresentarono, nei primi anni Trenta, parziali ma rilevanti compensazioni alle riduzioni salariali e all’estromissione dai luoghi di lavoro. La gravità della situazione occupazionale prodotta dalla crisi economica indusse il sindacato a impegnarsi per migliorare il sistema di protezione sociale piuttosto che le condizioni economiche. All’inizio degli anni Trenta le questioni previdenziali divennero una parte essenziale nell’orizzonte strategico del sindacalismo fascista80. Si iniziò proprio allora a manifestare la tendenza, che sarebbe poi emersa definitivamente con il varo delle corporazioni, a tentare di recuperare sul terreno politico e legislativo quanto era inevitabilmente perso sul terreno contrattuale. Regolata dall’alto la dinamica salariale ed espulsi i quadri sindacali dai luoghi di lavoro, le rappresentanze dei lavoratori trovarono una nuova ragion d’essere nella costruzione di un sistema di tutele più avanzato. Questo tra l’altro rispecchiava pienamente la natura politica del sindacalismo fascista, la sua funzione non solo di rappresentanza di interessi sociali ma anche di soggetto politico. La maggiore attenzione ai temi della previdenza e dell’assistenza si giustificava infatti anche in nome della «rivoluzione fascista» e dello Stato forte, supremo regolatore dei contrasti sociali. L’importanza che 154
ebbe – e che ancora di più avrebbe avuto in seguito – per il sindacato la partecipazione agli organi corporativi si può dunque inquadrare meglio anche alla luce di queste considerazioni. L’attività del Consiglio nazionale delle corporazioni contribuì a portare in evidenza questa irriducibile complessità dei sindacati fascisti. Se infatti l’inserimento nel nuovo apparato corporativo presupponeva – in ossequio ai principi ideologici che ne erano alla base – l’abbandono delle velleità conflittuali e delle posizioni «classiste», al tempo stesso la polarizzazione tra lavoratori e datori di lavoro spingeva i dirigenti sindacali ad accentuare gli atteggiamenti antagonistici. Inoltre, nei dibattiti del Comitato corporativo centrale o nell’assemblea generale, riferiti non a questo o quel settore ma all’intera economia nazionale, si verificò la frequente convergenza delle posizioni delle diverse confederazioni dei lavoratori: si veniva dunque a creare, di fatto, nonostante lo sbloccamento del 1928, lo spazio per un’informale rappresentanza unitaria del mondo del lavoro. Nell’insieme, comunque, si trattò di cambiamenti rilevanti più ai fini di una ridefinizione del ruolo del sindacato che per i risultati concretamente conseguiti. La partecipazione al Consiglio nazionale delle corporazioni diede sì frutti significativi – si pensi tra l’altro alle decisioni sui livelli salariali e sui cottimi, alla revisione della legislazione del lavoro, alla riforma delle assicurazioni sugli infortuni – ma solo grazie alla convergenza con l’azione esercitata da Bottai al ministero delle Corporazioni. Non ebbe infatti luogo alcuna reale alterazione nei rapporti di forza con gli imprenditori, né l’acquisizione di una maggiore capacità contrattuale.
155
4. La «normalizzazione» Bottai venne allontanato dal ministero delle Corporazioni nel luglio 1932. In seguito avrebbe svolto il ruolo di principale coscienza critica del regime in relazione al funzionamento del corporativismo. Alla testa del dicastero subentrò lo stesso Mussolini. Sottosegretari furono nominati, per i servizi economici, Alberto Asquini (deputato e giurista) e, per i servizi sindacali, Bruno Biagi (deputato e presidente dell’Ente nazionale della cooperazione). A sancire la sconfitta di Bottai fu anche la nomina di Rossoni a sottosegretario alla presidenza del Consiglio: veniva infatti richiamato ai vertici del regime un suo avversario storico e, al tempo stesso, era testimoniata la rilevanza politica del mondo sindacale all’interno del fascismo. Con l’allontanamento di Bottai l’iniziativa del ministero delle Corporazioni subì un evidente ridimensionamento, e con esso il Consiglio nazionale, ora chiamato a intervenire su temi di portata più ridotta. Se nel primo biennio le discussioni avevano spesso avuto ricadute politiche significative, ora assumevano un carattere prettamente tecnico: erano finalizzate non più alla preparazione delle riforme in materia di legislazione sociale e del lavoro e di politica economica, ma a sanare lacune e incertezze legislative o a dirimere contrasti tra le burocrazie del regime. Nella quarta sessione, la prima senza Bottai alla guida del ministero, l’assemblea generale discusse una proposta di riforma della legge sulle controversie individuali di lavoro. Le controversie erano sempre più numerose: come è stato osservato, i «conflitti non risolti amichevolmente» furono «atomizzati nelle controversie individuali, con l’esito di svuotare il più possibile le vertenze di lavoro del loro contenuto di scontro di classe e di ridurle a contrasti quanto 156
più possibile ‘isolati’ ed individualizzati». Così, «mentre le controversie collettive si riducevano drasticamente in numero e in importanza», «quelle individuali si estendevano sino a includere di fatto le cause concernenti l’interpretazione e l’applicazione dei contratti collettivi»81. La questione veniva ampiamente dibattuta all’interno delle organizzazioni sindacali e sulle riviste giuridiche. Due erano i maggiori oggetti del contendere: l’ambito di competenza del giudice del lavoro, che la normativa faceva coincidere con i soli rapporti soggetti a contratti collettivi, e il ruolo del sindacato e del tentativo di conciliazione. L’assemblea generale approvò, quasi all’unanimità, l’introduzione dell’obbligo della denuncia al sindacato – in precedenza previsto soltanto per le controversie riguardanti il mancato adempimento – e del tentativo di conciliazione. Decise inoltre l’ampliamento dell’ambito di competenza dei giudici del lavoro. Le modifiche legislative richieste dal Consiglio nazionale, finalizzate a estendere le tutele del lavoratore, trovarono pratica attuazione in un decreto del maggio 1934. Il nuovo testo assegnava alla giurisdizione dei giudici del lavoro le controversie individuali derivanti da rapporti di lavoro che erano o potevano essere oggetto di contratti collettivi e sanciva l’obbligo del tentativo di conciliazione e della denuncia alle associazioni sindacali. Si intendeva con questa modifica «ampliare il controllo sindacale sulle vertenze di lavoro» e «ridurre la conflittualità giudiziale, che aveva assunto negli ultimi anni dimensioni quantitative assai ampie e tali da suscitare preoccupazioni circa la sussistenza effettiva della tanto celebrata ‘collaborazione di classe’»82. L’assemblea generale del Consiglio fu chiamata anche a pronunciarsi, sempre nella quarta sessione, sull’efficacia obbligatoria dei regolamenti collettivi di lavoro denunciati e scaduti e sulla situazione delle categorie non ancora regolate 157
da alcun contratto collettivo. In merito alla prima questione la relazione ministeriale – le cui proposte furono trasfuse, con lievi modifiche, nel testo di legge approvato nel gennaio 1934 – suggeriva di estendere l’efficacia dei contratti denunciati o scaduti fino alla conclusione di un nuovo accordo. Mirava, in altre parole, ad assicurare la «continuità» del contratto senza però pregiudicarne l’«elasticità»: rimanevano infatti intatte le possibilità di denunciare i contratti alla loro scadenza e di chiederne anche prima la revisione ricorrendo alla magistratura del lavoro83. Per quanto concerne la seconda questione, il ministero fu perfettamente allineato con le posizioni delle organizzazioni dei datori di lavoro. Non riteneva infatti che si dovesse introdurre l’obbligatorietà della stipulazione dei contratti. Non accolse dunque la richiesta, avanzata durante il dibattito dal presidente della Confederazione dei lavoratori del commercio De Marsanich, di stabilire per legge «l’obbligo a tutte le associazioni sindacali di stipulare il contratto di lavoro per tutte le categorie rappresentate entro un determinato periodo di tempo»84. Le motivazioni addotte nella relazione ministeriale sono indicative del nuovo corso «post-Bottai»: «Non sembra né indispensabile né opportuna – si leggeva – una soluzione legislativa […] in quanto trattasi di un campo in cui la volontà delle parti costituisce per così dire il principio motore, ed in quanto una statuizione imperativa del regolamento di rapporti di lavoro, in ogni caso di mancate trattative o di mancato consenso […], mentre vulnererebbe le stesse basi fondamentali del vigente sistema legislativo, contrasterebbe altresì con i principi che reggono il contratto collettivo e forse con la stessa natura dell’istituto». L’attività contrattuale doveva semmai essere «stimolata» dalle confederazioni e dal ministero delle Corporazioni mediante una «stretta vigilanza di carattere 158
politico-sindacale». Il provvedimento auspicato, e di cui la relazione ministeriale proponeva le linee generali, non avrebbe dovuto «trasferire la potestà imperativa, in materia contrattuale nel campo dei rapporti di lavoro, dalle associazioni sindacali agli organismi corporativi già esistenti o ad altri organi da costituirsi»85. Una netta frenata era dunque impressa all’estensione dei poteri e delle attribuzioni degli organi corporativi. La «normalizzazione» del ministero e dell’indirizzo impresso al Consiglio nazionale chiudeva la politica delle progressive forzature nei confronti delle resistenze delle organizzazioni imprenditoriali che Bottai aveva tentato gradualmente di attuare. L’attività del Consiglio fu dunque focalizzata in questa seconda fase sui più urgenti aggiustamenti del complesso ordinamento sindacale. Il Consiglio fu anche impegnato a dirimere controversie tra apparati del regime. All’interno della sempre più frastagliata organizzazione istituzionale dello Stato fascista, il sindacato costituiva non solo un organo di collegamento con la società ma anche un vero e proprio apparato burocratico; un apparato intento ad accrescere il proprio potere, a difendere quello già disponibile, a preservare l’autonomia e le competenze acquisite e a promuovere l’ascesa dei propri dirigenti. Le organizzazioni sindacali risultarono dunque impegnate non solo nel confronto con la controparte imprenditoriale ma dovettero anche difendersi dai tentativi condotti da altri apparati burocratici di sottrarre loro compiti e settori di intervento. Ricorrenti, in questo senso, furono gli scontri con il Pnf, l’organizzazione del consenso per eccellenza, o, su materie di più circoscritta rilevanza, con l’Associazione generale fascista del pubblico impiego. Lo scontro tra il sindacato e il Partito nazionale fascista, in particolare, raggiunse punte di elevata asprezza in 159
relazione al funzionamento degli uffici di collocamento, organizzati allora alle dipendenze delle confederazioni dei lavoratori. L’intervento sul collocamento era originato innanzitutto dalla necessità di fronteggiare l’elevato livello di disoccupazione prodotto dalla crisi e quindi dalla ricerca di un migliore collegamento tra offerta e domanda di lavoro. Da tempo si confrontavano e scontravano due posizioni: la prima favorevole al mantenimento del collocamento al sindacato, la seconda propensa a trasferirlo alla gestione diretta dello Stato, con la partecipazione degli esponenti del Pnf a livello locale86. Le due posizioni si riprodussero durante il dibattito in assemblea generale del gennaio 1933 e attraversarono le stesse confederazioni sindacali, dividendole tra chi – come il presidente della Confederazione dei sindacati dei bancari Nazareno Mezzetti – riteneva che la disoccupazione fosse un male temporaneo e straordinario che doveva essere curato non mediante l’attività ordinaria del sindacato ma per mezzo di un rafforzamento dello Stato e l’istituzione di un Commissariato nazionale del collocamento e dell’emigrazione, e chi – come Fontanelli e Razza – sottolineava come il collocamento dovesse essere esercitato dai sindacati, i soli ad avere una chiara visione degli interessi dei lavoratori87. Mussolini, in conclusione di dibattito, pur riconoscendo un ruolo al Pnf, sposò interamente la seconda posizione. L’assemblea approvò così la proposta ministeriale di lasciare gli uffici di collocamento alle dipendenze dei sindacati, unificando però le sedi provinciali dato che fino a quel momento ciascuna confederazione ne aveva una propria. Veniva in questo modo risolta una querelle che si trascinava ormai da tempo. La diatriba tra sindacato e Pnf, di cui il Consiglio nazionale delle corporazioni fu investito, indica che, in 160
alcuni momenti, le istituzioni corporative furono chiamate a svolgere una sorta di funzione di mediazione non solo tra gli interessi economici ma anche – in relazione naturalmente ai soli aspetti sindacali – tra le diverse burocrazie, alle quali offrirono, per la risoluzione delle controversie, una procedura formalizzata e riconosciuta da tutte le parti in causa, con l’avallo autorevole e dirimente di Mussolini, l’autentico «arbitro» in ultima istanza. Lo studio del corporativismo si ricollega allora a un altro rilevante elemento del regime, decisivo per comprenderne l’effettivo modo d’essere: il policentrismo dello Stato fascista, quella sorta di «totalitarismo pluralistico» sul piano istituzionale che vide convivere al suo interno istituzioni di natura e origine diversa, con una frammentazione degli apparati e una mai risolta tensione tra le istituzioni «vecchie», ereditate dall’Italia liberale, e quelle «nuove» create dal fascismo88. Gli organi corporativi parteciparono naturalmente a pieno titolo alla frammentazione istituzionale. Inaugurando la seduta dell’assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni dell’ottobre 1932, Mussolini toccò in termini quanto mai chiari la questione. Riferendosi al Consiglio, disse: Questo è nostro. Il Senato c’era e c’era anche la Camera, e resteranno perché del resto assolvono al loro compito. Tutti quelli che temevano che il Consiglio Nazionale delle Corporazioni dovesse, come si dice con una frase che non è veramente molto felice, «svuotare» gli altri organismi costituzionali dello Stato, si sono convinti che, se non c’è ancora la gloria per tutti, c’è almeno il lavoro per tutti89.
A dieci anni dalla marcia su Roma, era dunque ancora attuale la distinzione tra le «nostre» istituzioni, per usare le parole di Mussolini, e quelle che «già c’erano e resteranno», ed era necessario ribadire la necessità di un quadro di collaborazione tra le une e le altre90. Un’altra occasione in cui il Comitato corporativo centrale 161
e l’assemblea generale del Consiglio furono incaricati di dirimere conflitti di attribuzioni tra diverse istituzioni trasse origine dal problema dell’inquadramento dei dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato, dalle province e dai comuni. Al pari dei dipendenti dello Stato, questi non avevano un contratto di lavoro, ma, al contrario di quelli, svolgevano funzioni non dissimili da quelle svolte dai dipendenti privati, come nel caso delle casse di risparmio o delle aziende municipalizzate. Mentre l’impiegato privato, in caso di controversia, avrebbe potuto rivolgersi al giudice del lavoro, l’impiegato dell’ente pubblico avrebbe dovuto rivolgersi alla giustizia amministrativa, più lenta, più costosa e governata da procedure più complesse. In caso di questioni patrimoniali, avrebbe poi dovuto rivolgersi al giudice ordinario, generando di solito conflitti di competenza tra le due giurisdizioni. La questione fu affrontata dall’assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni, nella discussione sulle controversie individuali di lavoro del novembre 1932 e del gennaio 1933. In quella sede molti interventi sottolinearono la necessità di superare la differenza di trattamento e, come recitava una mozione presentata, di approvare l’«estensione della competenza del Magistrato del lavoro a giudicare di tutti i rapporti di lavoro, siano o non siano già regolati in concreto da un contratto collettivo ed indipendentemente dalla natura dell’Ente che assume la figura del datore di lavoro»91. La riforma del pubblico impiego varata da De Stefani nel 1923 aveva introdotto un’invalicabile separazione tra l’area dei rapporti d’impiego pubblici e quella del lavoro privato. Il Consiglio nazionale delle corporazioni, con l’avallo del sottosegretario alle Corporazioni Biagi, propose di rendere assai meno netta quella separazione e di introdurre delle differenziazioni all’interno della galassia dell’impiego 162
pubblico. Biagi, nell’intervento conclusivo, sostenne che, per i rapporti di lavoro privi di «un particolare stato giuridico di carattere pubblicistico», il compito di giudicare sarebbe dovuto spettare al giudice del lavoro e non al giudice amministrativo92. Al termine della discussione Mussolini sostanzialmente accolse la tesi del sottosegretario, affermatasi in seno al Consiglio93. Tuttavia, nonostante l’impegno assunto dal capo del governo, e nonostante la Camera avesse approvato l’apposito disegno di legge preparato dal ministero delle Corporazioni, della riforma non si fece nulla. Decisive risultarono le resistenze opposte dai ministeri dell’Interno e delle Finanze e, soprattutto, dal presidente del Consiglio di Stato Santi Romano, alla luce del principio dell’unitarietà indissolubile dell’impiego pubblico94. La questione sarebbe riaffiorata, sebbene in maniera meno evidente, negli anni successivi. Le corporazioni, soprattutto quella del credito, avrebbero affrontato il problema dei dipendenti delle banche di diritto pubblico, mentre il Comitato corporativo centrale sarebbe stato addirittura investito, nel 1937, del compito di approntare definizioni e tipologie classificatorie utili per una regolamentazione normativa unitaria della miriade di enti pubblici. Il Comitato fu impegnato in più occasioni sulla questione per oltre un biennio, al termine del quale ripropose il principio secondo cui «la disciplina sindacale e corporativa dovesse essere estesa a tutti gli enti pubblici economici ed ai lavoratori dipendenti», diversi dagli «enti pubblici istituzionali aventi carattere e finalità di organizzazione politica» (quali lo Stato, le province, i comuni e le istituzioni pubbliche di beneficenza). Alla fine degli anni Trenta, dunque, ritornava d’attualità il superamento del principio dell’unitarietà dei dipendenti pubblici e si ribadiva la necessità di distinguere il nucleo 163
centrale dello Stato (vale a dire i ministeri e l’amministrazione centrale) dai nuovi apparati istituzionali (in primo luogo, gli enti pubblici), ibridati da un rapporto organico e a volte concorrenziale con la società95. Il Comitato corporativo centrale, inoltre, si segnalava – almeno in riferimento alla legislazione economica e sindacale – come una delle sedi istituzionali incaricate di governare il policentrismo dello Stato fascista.
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Note 1 Gli esperti designati erano Gino Arias, Rodolfo Benini, Bramante Cucini, Gustavo Del Vecchio, Giuseppe De Michelis, Alberto De Stefani, Lando Ferretti, Agostino Lanzillo, Angelo Oliviero Olivetti ed Edmondo Rossoni. 2 L. Riva Sanseverino, Le norme corporative, in Trattato di diritto corporativo, diretto da G. Chiarelli, Società editrice libraria, Roma 1939, p. 860. 3 Per un esame dei poteri attribuiti agli organi corporativi cfr. Cassese, Corporazioni cit. 4 AP, Camera, Legislatura XXVIII, Sessione 1929-1930, Discussioni, vol. II, p. 1561. Su Razza cfr. G. Parlato, Luigi Razza tra confederazione e corporazione, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito», 1999, pp. 163-184. 5 Cfr. G. Casini, La riforma del Consiglio nazionale delle corporazioni, in «Il lavoro fascista», 2 ottobre 1929. 6 De Felice, Mussolini il duce cit., vol. I, pp. 16-18; Parlato, Il sindacalismo fascista cit., pp. 31-50 e la parte antologica, soprattutto le pp. 185-263. 7 Spirito, Verso la fine del sindacalismo cit., p. 119. 8 Cfr. A. De Marsanich, Sindacati e Confederazioni, in «Il lavoro fascista», 25 settembre 1930. 9 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 30, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 8, inserto A: Turati a Mussolini, 1° gennaio 1930. 10 AP, Camera, Legislatura XXVIII, Sessione 1929-1930, Discussioni, vol. II, p. 1628. 11 Ibid. 12 Ivi, p. 1631. 13 G. Gentile, Doppia anima, in «Politica sociale», 1929, p. 814. 14 Ibid. 15 La questione fu ripresa da Mussolini nell’ultima seduta dell’assemblea generale, il 14 novembre 1933: Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1933, p. 143. 16 S. Panunzio, Il processo di attuazione del principio corporativo, in «Politica sociale», maggio 1930, p. 434; C. Costamagna, Potenza politica e giustizia sociale, in «Politica sociale», maggio 1930, p. 453. 17 M. D’Amelio, L’attività giuridica del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, in «Politica sociale», gennaio-febbraio 1930, p. 4; G. Zanobini, Le funzioni normative del Consiglio Nazionale delle Corporazioni, in «Archivio di studi corporativi», II, 1930, p. 256. 18 AP, Camera, Legislatura XXVIII, Sessione 1929-1930, Discussioni, vol. II, pp. 1634 e 1642. 19 Ivi, p. 1634. 20 Cfr. Aquarone, L’organizzazione cit., p. 190 e Cassese, Corporazioni cit., pp. 74-75. 21 Cfr. Dal Comitato intersindacale al Consiglio delle corporazioni, in «Critica fascista», 1° agosto 1929. 22 Cfr. Melis (a cura di), L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica cit. 23 Nel 1931, in seguito alla riforma dell’Associazione, a Lusignoli subentrò Sciarra e a Marghinotti e Sforza Giuseppe Bleiner, fiduciario nazionale dell’Associazione postelegrafonica. 24 Cfr., per il caso degli avvocati, Meniconi, La «maschia avvocatura» cit. 25 AP, Camera, Legislatura XXVIII, Sessione 1929-1930, Discussioni, vol. II, pp. 1505-1506 (intervento di Luigi Borgo); p. 1508 (intervento di Davide Fossa). 26 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle
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Corporazioni. Sessione prima, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1931, p. 81. 27 C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata (1949), Il Mulino, Bologna 2009, in particolare pp. 93-100. 28 Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 195 e 211. 29 Cilona, La confederazione cit., p. 272. 30 Le lettere di richiesta sono in ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.8.9114/1. 31 B. Mussolini, Discorso del 21 aprile 1930, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXIV, p. 214. 32 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione seconda, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1931, pp. 11-25. 33 Questi gli argomenti posti all’ordine del giorno nelle cinque sessioni dell’assemblea generale. Prima sessione (1-3 ottobre 1930): 1) Revisione dell’inquadramento sindacale; 2) Riconoscimento giuridico di una Confederazione della cooperazione; 3) Costituzione della corporazione dello spettacolo; 4) Riforma della legislazione del lavoro. Seconda sessione (9-13 novembre 1931): 1) Accordi economici collettivi riguardanti la «disciplina della vendita del latte nella città di Roma» e gli «agenti di assicurazione»; 2) Contratti-tipo; 3) Problema dell’esportazione. Terza sessione (8-11 giugno 1932): 1) Riforma della legislazione sulla proprietà industriale; 2) Riforma della legislazione sugli infortuni sul lavoro; 3) Revisione della legislazione sul lavoro; 4) Regolamento interno del Consiglio nazionale delle corporazioni. Quarta sessione: Seduta straordinaria del 19 ottobre 1932, per la celebrazione del decimo anniversario della Marcia su Roma. Prima riunione (30 novembre 1932): 1) Riforma delle leggi sulla cooperazione; 2) Riforma delle disposizioni legislative riguardanti le controversie individuali di lavoro. Seconda riunione (18-21 gennaio 1933): 1) Riforma delle disposizioni legislative riguardanti le controversie individuali di lavoro; 2) Funzionamento degli uffici pubblici per il collocamento della mano d’opera disoccupata; 3) Proroga dell’efficacia obbligatoria dei regolamenti collettivi di lavoro denunciati e scaduti; 4) Riforma delle Camere di commercio italiane all’estero. Quinta sessione: Prima riunione (18 settembre 1933): 1) Istituzione delle corporazioni di categoria. Seconda riunione (8-14 novembre 1933): 1) Istituzione delle corporazioni di categoria; 2) Comunicazione delle norme generali per la disciplina del rapporto di mezzadria e dell’accordo economico collettivo per la vendita del latte a Roma. 34 Il resoconto di Guarneri è in Id., Battaglie economiche fra le due guerre (1953), a cura di L. Zani, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 360-362. Il testo integrale è in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione seconda cit., pp. 35-50 e 71160. 35 Salvemini, Sotto la scure cit., p. 99; L. Franck, Il corporativismo e l’economia dell’Italia fascista, a cura di N. Tranfaglia, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 36 e 177; Aquarone, L’organizzazione cit., p. 193. 36 Con il decreto ministeriale 27 gennaio 1931, n. 42, le sezioni assunsero la denominazione di corporazione, cosa che avrebbe ingenerato non poca confusione nel 1933 in occasione dell’istituzione delle corporazioni vere e proprie. 37 Cassese, Corporazioni cit., p. 99. 38 Cfr., per esempio, la dichiarazione di Bottai cit. in M. Montagnana, Il sistema Bedaux e la classe operaia, in «Lo stato operaio», 1933, n. 7, p. 184. 39 G. Bottai, Intervento, in Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi cit., vol. III, pp. 315-318. 40 I resoconti sono in «Informazioni corporative», 1930-32 e «Sindacato e corporazione», 1933-34. Per le norme sulla mezzadria: Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit., pp. 144-153. 41 Ne facevano parte i ministri delle Corporazioni, dell’Interno e dell’Agricoltura e foreste, il segretario del Partito nazionale fascista, i sottosegretari alle Corporazioni, i presidenti delle confederazioni nazionali dei datori di lavoro e dei lavoratori e dei liberi esercenti una professione o un’arte, il presidente dell’Ente nazionale della cooperazione, il presidente del Patronato nazionale di assistenza sociale e il segretario generale del Consiglio nazionale delle corporazioni. 42 Da «Informazioni corporative», 1930-32 e da «Sindacato e corporazione», 1933-34.
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43 Bertini, Le parti e le controparti cit., p. 216. 44 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.3.2752: Ministero delle Corporazioni, Appunto per S.E. il Capo del Governo, 5 ottobre 1931. 45 Cilona, La confederazione cit., p. 275. 46 Le modifiche agli statuti delle Associazioni sindacali fasciste dei lavoratori, in una circolare del Capo del Governo, in «Sindacato e corporazione», 1933, febbraio, p. 248. 47 La decisione del Comitato Corporativo Centrale, in «Il lavoro fascista», 1° novembre 1931 e 17 novembre 1931. 48 Cilona, La confederazione cit., p. 274. 49 AConf, Fondo Giovanni Balella, b. 90, fasc. 1: Argomenti generali sulla disciplina consortile. 50 AP, Camera, Legislatura XXVIII, I Sessione, Discussioni, tornata del 20 maggio 1930, pp. 27532754; ivi, tornata del 24 febbraio 1932, pp. 5791-5792; ivi, tornata del 30 aprile 1932, pp. 6764-6767; G. Bottai, Corporazioni e consorzi, in «Politica sociale», giugno 1932, pp. 361-364; g. b. [Giuseppe Bottai], Il ricatto liberale contro il corporativismo, in «Critica fascista», 15 giugno 1933, pp. 223-226. Cfr. anche Cassese, Un programmatore cit., pp. 200-201. 51 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 1.1.26.2324: Bottai a Mussolini, 29 agosto 1931; ivi, Beer a Perotti, 11 luglio 1932; ivi, Ministero delle Corporazioni, Direzione generale delle associazioni professionali, Ufficio della proprietà intellettuale al gabinetto della presidenza del Consiglio dei ministri, 6 agosto 1932. 52 Cassese, Un programmatore cit., pp. 199-202; De Felice, Mussolini il duce cit., vol. I, pp. 289-292; e F. Malgeri, Giuseppe Bottai, in F. Cordova (a cura di), Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma 1980, pp. 130-134. Sull’allontanamento di Bottai influì anche l’«incidente» provocato al convegno di Ferrara dalla tesi di Ugo Spirito sulla «corporazione proprietaria», che aveva generato timori e malumori nel mondo economico. Non è da escludere che il consenso preventivo dato da Mussolini alla relazione nascesse proprio dall’esigenza di indebolire la posizione di Bottai per facilitarne l’esautoramento: cfr. F. Perfetti, Ugo Spirito e la concezione della “corporazione proprietaria” al convegno di studi sindacali e corporativi di Ferrara del 1932, in «Critica storica», 1988, n. 2, pp. 202-243. 53 La commissione era composta da Alfieri, Anselmi, Antonioli, Arias, Balella, Boccadifuoco, Brunelli, Carnevali, Chiurazzi, D’Amelio, Del Giudice, Giardina, Grisostomi Marini, Landi, Pareschi, Roberti, Rossoni, Trevisani. 54 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione prima cit., pp. 57-58. 55 Id., Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza, vol. I, Relazioni, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1932, p. 176. 56 L. Gaeta, A. Viscomi, L’Italia e lo Stato sociale, in G.A. Ritter, Storia dello Stato sociale (1991), Laterza, Roma-Bari 2003, p. 244. 57 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.2.8797: Modifiche al disegno di legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, 27 marzo 1933. 58 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza, vol. II, Resoconti stenografici delle sedute, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1932, p. 149. 59 F. Piva, G. Toniolo, Sulla disoccupazione in Italia negli anni ’30, in «Rivista di storia economica», 1987, n. 3, pp. 362-364. 60 «Ridurre le ore di lavoro aumentando i salari operai» afferma il senatore Agnelli in un’intervista con l’«United Press», in «Il lavoro fascista», 30 giugno 1931. 61 Einaudi aveva replicato all’intervista di Agnelli con un ragionamento schiettamente liberista: G. Agnelli, L. Einaudi, La crisi e le ore di lavoro, in «La riforma sociale», 1933, n. 1, pp. 11-13. Cfr. P. Bolchini, Quando Giovanni Agnelli e Luigi Einaudi discutevano di 36 ore e di disoccupazione tecnologica, in «Rivista di storia economica», 1998, n. 3, pp. 315-330.
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62 Primo non ridurre i salari, in «Il lavoro fascista», 1° luglio 1932. 63 Confederazione nazionale sindacati fascisti dell’industria, Congresso nazionale. Relazione morale e finanziaria. Roma a. XI, Roma 1933. 64 Cfr. Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Convegno nazionale dei dirigenti dei sindacati fascisti dell’industria. Roma, 12 luglio 1934, Stabilimento tipografico del «Lavoro fascista», Roma 1935. 65 Legge 16 marzo 1933, n. 527. 66 Cilona, La confederazione cit., pp. 286-288. 67 Intervento di Bafatti, in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza cit., vol. II, p. 144. 68 G. Parlato, Riccardo Del Giudice dal sindacato al governo, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1992, p. 50 e Id., Il sindacalismo fascista cit., pp. 36-37. 69 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.2.207: Ministero delle Corporazioni, Segretariato generale del Consiglio nazionale, Ufficio contratti, Relazione sull’attività contrattuale delle Associazioni Professionali, 1930-IX, 31 dicembre 1930. 70 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza cit., vol. I, p. 120. 71 Intervento di Redenti, ivi, vol. II, p. 78. 72 Intervento di Gorla, ivi, p. 55. 73 Intervento di Pala, ivi, p. 56. 74 Da menzionare è, in particolare, l’intervento di Riccardo Del Giudice, in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza cit., vol. II, pp. 97-99. Sulla messa a punto della posizione sindacale, cfr. AFUS, Fondo Giuseppe Landi, b. 11: Lettera di Landi a Del Giudice, 24 febbraio 1932. 75 Intervento di Razza, in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione terza cit., vol. II, p. 105 e intervento di Giardina, ivi, p. 49. 76 G. Bronzini, Legislazione sociale ed istituzioni corporative, in Sapelli (a cura di), La classe operaia durante il fascismo cit., p. 322. 77 P. Frascani, I medici dall’Unità al fascismo, in Storia d’Italia. Annali, 10 cit. p. 177. 78 Legge 22 febbraio 1934, n. 370, sul riposo domenicale e settimanale; legge 26 aprile 1934, n. 653, sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli; legge 22 marzo 1934, n. 654, sulla tutela della maternità delle lavoratrici. 79 Legge 16 marzo 1933, n. 527. 80 Cfr. G. Landi, Il Sindacato nell’assistenza e previdenza sociale, in «Politica sociale», 1931, n. 1, pp. 104-105. 81 Jocteau, La magistratura del lavoro cit., p. 103. 82 Ivi, pp. 118-119. 83 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quarta, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1932, p. 40. Su tutta la questione cfr. Jocteau, La contrattazione collettiva cit., in particolare pp. 111-116. 84 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quarta cit., p. 115. 85 Ivi, pp. 38-39. 86 S. Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana (1888-2003), Rosenberg & Sellier, Torino 2004, pp. 226-230. 87 Cfr. rispettivamente Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio
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nazionale delle Corporazioni. Sessione quarta cit., pp. 100-102, 104-105 e 109. 88 La definizione di «totalitarismo pluralistico» è in M. Salvati, Il regime e gli impiegati cit., p. 118. Più in generale, cfr. Cassese, La formazione cit., e Melis, Due modelli cit. 89 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quarta cit., p. 11. 90 Cfr. G. Melis, Le istituzioni italiane negli anni Trenta, in Id. (a cura di), Lo Stato negli anni Trenta. Istituzioni e regimi fascisti in Europa, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 100-101. 91 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quarta cit., p. 85. 92 Ivi, p. 89. 93 Ivi, p. 91. 94 La vicenda è ricostruita in G. Melis, La giurisdizione sui rapporti di impiego negli enti pubblici. Nuovi documenti e quattro lettere inedite di Santi Romano (1933-1934), in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2007, n. 2, pp. 511-538. 95 ACS, Pcm, Gab., 1934-36, fasc. 18.2.3427, sottofasc. 4: Relazione al comitato corporativo centrale. Inquadramento sindacale di alcuni enti economici di diritto pubblico, s.d. [ma 1939].
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4. Le corporazioni entrano in funzione
1. Nella teoria e nella realtà I primi anni Trenta furono i più intensi per il dibattito culturale e ideologico sul corporativismo. La crisi economica e il conseguente ripensamento delle idee più consolidate sulla natura dello Stato e sulle potenzialità dell’economia di mercato avevano dato infatti un rinnovato slancio alla progettazione della terza via fascista. Almeno all’apparenza, tuttavia, pochi punti di contatto sembrano esserci tra il fervore intellettuale e la concreta realizzazione del sistema corporativo. Nonostante gli interventi realizzati e la partecipazione alla formulazione di alcuni importanti provvedimenti, l’attività del Consiglio nazionale delle corporazioni era indubbiamente stentata e relegata in una posizione marginale. Gli ostacoli che il Consiglio incontrava per affermare un ruolo effettivamente propositivo e i vincoli cui era sottoposta la sua azione iniziavano però a essere messi a fuoco e apertamente segnalati da alcuni settori del fascismo. In prima fila nel denunciare la deludente realizzazione delle aspettative si trovavano naturalmente gli ambienti che fino ad allora avevano puntato maggiormente sulla valenza innovatrice del corporativismo, innanzitutto i sindacalisti. Senza mezzi termini, Razza scriveva nel 1933: In fatto, mi si indichi un solo caso in cui un’amministrazione, che non sia il ministero delle Corporazioni, abbia chiesto il parere di un organo corporativo. E lo stesso ministero delle Corporazioni ad ogni consiglio dei ministri vara dozzine
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di provvedimenti in materia industriale e commerciale, di cui nessun organo Corporativo ha avuto notizia, dimostrando così con l’esempio come, in fatto di corporazioni, la parola d’ordine sia: parliamo sempre e non pensiamoci mai; anzi non ricorriamoci mai1.
La nascita dell’Iri aveva reso ancora più stridente la marginalità degli organi corporativi. Il problema venne sollevato, anche in questo caso senza reticenze, da Bottai e da tutto il gruppo di «Critica fascista». Noi – scrisse Bottai sempre nel 1933 – seguitiamo a battere un chiodo, sul quale, ne siamo profondamente convinti, dovrà, un giorno, imperniarsi la soluzione di molti problemi. Qual è questo chiodo? Eccolo: l’intervento corporativo dello Stato nella organizzazione economica nazionale. S’è, fino ad oggi, tale intervento avverato in Italia? No; tranne in qualche esperimento di non grande rilievo. In Italia, si sono avuti, invece, e si ànno, parecchi casi d’intervento dello Stato nella vita economica, condotti con metodo non corporativo, facendo astrazione dagli organi sindacali e corporativi (strumenti della medesima politica, corrispondenti a due fasi, diverse ma convergenti) e attenendosi alla prassi (sia detto senza spregio) burocratica, da tutti gli Stati liberali e democratici seguita in questi anni di crisi. Questa non è una critica. È una constatazione. Constatazione d’una politica economica necessaria, dettata da ferree e ineluttabili contingenze, che à dato e dà risultati almeno immediati innegabili; ma, sia detto ben chiaro, non corporativa2.
Il bilancio del primo triennio di realtà corporativa era reso ancora più critico dalla stridente assenza delle corporazioni, la cellula indispensabile del nuovo sistema. Il fatto che il Consiglio nazionale si fosse trovato a operare per quattro anni nella completa assenza di quegli organismi che era chiamato a coordinare è indice della macchinosità con cui fu condotta la costruzione del nuovo ordinamento e degli ostacoli che essa evidentemente incontrò. Si era di fronte, come disse un osservatore contemporaneo tra i più lucidi, Louis Franck, a un «corporativismo precorporativo» o, secondo una felice e fortunata formula coniata a posteriori dallo stesso Bottai, a un «corporativismo senza corporazioni»3. Fu in questo clima di entusiasmo ideologico e di delusione pratica che avvenne il varo delle corporazioni. Ad alimentare nuovamente le speranze sulla realizzazione della 171
«rivoluzione corporativa» e a rispondere implicitamente agli scontenti – nel mezzo del percorso istituzionale che portò alla legge istitutiva delle corporazioni – fu Mussolini. Il capo del governo annunciò il 14 novembre 1933 l’imminente varo delle corporazioni, in uno dei più noti e significativi dei suoi discorsi, quello conosciuto soprattutto per la tesi della «crisi del sistema». Più che nelle proclamazioni ideologiche e nell’usuale magniloquenza retorica, l’interesse dell’intervento di Mussolini risiede in quei passaggi nei quali ricollegava il corporativismo alla ricerca di un nuovo equilibrio nel rapporto tra Stato e società: Non mi soffermo – sostenne in quell’occasione – sui compiti conciliativi che la Corporazione può svolgere, e non vedo nessun inconveniente alla pratica dei compiti consultivi. Già adesso accade che tutte le volte che il Governo deve prendere dei provvedimenti di una certa importanza, chiama gli interessati. Se domani ciò diventa obbligatorio per determinate questioni, io non ci vedo alcun che di male, perché tutto ciò che accosta il cittadino allo Stato, tutto ciò che fa entrare il cittadino dentro l’ingranaggio dello Stato, è utile ai fini sociali e nazionali del Fascismo. Il nostro Stato non è uno Stato assoluto, e meno ancora assolutista, lontano dagli uomini ed armato soltanto di leggi inflessibili, come le leggi devono essere. Il nostro Stato è uno Stato organico, umano, che vuole aderire alla realtà della vita. La stessa burocrazia non è oggi, e meno ancora domani vuol essere un diaframma fra quella che è l’opera dello Stato e quelli che sono gli interessi e i bisogni effettivi e concreti del popolo italiano. Io sono certissimo che la burocrazia italiana, che è ammirevole, la burocrazia italiana, così come ha fatto fin qui, lavorerà con le Corporazioni tutte le volte che sarà necessario per la più feconda soluzione dei problemi4.
Il cantiere per la realizzazione delle corporazioni era entrato in funzione già nei mesi precedenti il discorso di Mussolini. Il percorso istituzionale che portò alla nascita dei nuovi organismi, sebbene non particolarmente lungo, fu estremamente articolato. Anche la sola elencazione dei principali passaggi istituzionali appare, di per sé – oltre che un indice della visibilità che si volle dare alla creazione dei nuovi organismi –, una manifestazione della complessità 172
degli apparati del regime. L’iter della legge sulle corporazioni investì infatti, in diversi momenti, quasi tutte le articolazioni dello Stato fascista: dalle strutture corporative e sindacali a quelle di partito per passare infine al potere legislativo delle Camere. La questione era stata rapidamente trattata nella terza sessione dell’assemblea generale del Consiglio nazionale delle corporazioni, nel giugno 1932. L’iter vero e proprio venne poi avviato dal Comitato corporativo centrale nel maggio 1933. Furono successivamente consultate le confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. I pareri raccolti vennero in seguito esposti nella seduta del 18 settembre 1933 dell’assemblea generale del Consiglio nazionale, alla quale seguirono, tra fine settembre e inizio ottobre, le riunioni delle sezioni. Dall’8 al 14 novembre, infine, l’ultima tornata di discussione dell’assemblea generale. Fu quello, peraltro, il «canto del cigno» del Consiglio5. Da quel momento, infatti, l’organo sarebbe stato completamente emarginato dalle corporazioni. Sulla base delle discussioni e delle mozioni del Consiglio nazionale, il ministero delle Corporazioni presentò un suo progetto di legge al Gran consiglio del fascismo. Questo a sua volta apportò ulteriori modifiche, cui si aggiunsero quelle proposte dal sottosegretario alle Corporazioni Biagi6. L’ultimo passaggio fu quello parlamentare. Il progetto modificato dal Gran consiglio e da Biagi costituì il testo di partenza su cui lavorò la commissione parlamentare incaricata di preparare il disegno di legge, presieduta da Rocco, con Razza nel ruolo di segretario e una composizione ampiamente rappresentativa delle diverse posizioni7. La discussione più accesa comunque si svolse all’interno degli organi corporativi. I voti e le mozioni espresse dalle sezioni e gli interventi in assemblea generale offrirono un quadro ampiamente rappresentativo degli indirizzi e dei 173
punti di vista delle organizzazioni sindacali, tanto da sostituire di fatto il dibattito parlamentare. Durante quest’ultimo furono infatti registrati soltanto nove interventi al Senato, di contenuto prevalentemente apologetico e celebrativo, e addirittura nessuno alla Camera, se si escludono quelli di Rocco e Razza per la presentazione della proposta di legge. Nel corso dei dibattiti nel Consiglio nazionale delle corporazioni emersero diversi motivi di disputa e di contesa, che videro in alcuni casi contrapporsi le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori e, in altri, le differenti categorie economiche8. I più accesi contrasti si ebbero in merito ai criteri in base ai quali costituire i nuovi organi. Due proposte si fronteggiarono: per la prima ciascuna corporazione avrebbe dovuto prendere a riferimento un settore della produzione e, quindi, basarsi sulle categorie sindacali esistenti. La seconda ipotesi propendeva invece per corporazioni costituite sulla base del ciclo produttivo. In questo caso non si sarebbero avute tante corporazioni quante le fasi della produzione ma molte di meno, perché nel ciclo produttivo era incluso l’insieme delle trasformazioni necessarie a ottenere il prodotto finito, comprese dunque le lavorazioni intermedie. La differenza tra le due ipotesi non è immediatamente evidente, benché non priva di conseguenze rilevanti. La relazione ministeriale provava a chiarirla ricorrendo all’esempio della seta: il seme-bachi era un prodotto, il baco da seta un altro prodotto, ossia la seconda tappa del ciclo produttivo, il filo di seta una terza, il tessuto una quarta; a queste seguiva poi una quinta fase, quella commerciale. In questo caso, se le corporazioni fossero state costituite per categoria, sarebbe stato necessario crearne tre: una nel campo industriale per la trattura, la torcitura e la tessitura, 174
una seconda nel campo agricolo per la bachicoltura, una terza per il commercio dei prodotti serici. Se invece fosse stato adottato il criterio del ciclo produttivo, sarebbe stata istituita un’unica corporazione della seta, con la presenza, in essa, dei rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori delle varie categorie9. La scelta tra i due criteri può apparire a prima vista una questione tecnica e secondaria. Aveva invece implicazioni rilevanti. Con l’adozione del sistema del ciclo produttivo veniva meno la separazione dei diversi settori (industria, commercio e agricoltura innanzitutto) e delle relative rappresentanze sindacali. Questo significava, in primo luogo, che le organizzazioni degli imprenditori dell’industria e degli altri settori avrebbero dovuto cooperare all’interno di ciascuna corporazione per formulare le proposte e le scelte in merito a ciascun tipo di produzione10. Una soluzione di questo tipo andava a discapito degli industriali, i cui interessi erano senza dubbio quelli meglio organizzati e capaci di influire sulle decisioni del governo e degli apparati amministrativi. Si spiega così la contrarietà della Confindustria al criterio del ciclo produttivo e, al tempo stesso, il parere favorevole delle altre organizzazioni imprenditoriali. In secondo luogo, la scelta del criterio risultava decisiva nell’impostare i rapporti tra le corporazioni e le organizzazioni sindacali. Le corporazioni di categoria avrebbero infatti ricalcato la struttura delle federazioni e delle confederazioni, rischiando di fare di queste un semplice doppione delle corporazioni. La struttura per ciclo produttivo, al contrario, rendeva possibile evitare che le corporazioni si sovrapponessero alla struttura sindacale. Il criterio della categoria rischiava insomma di ravvivare le mai del tutto sopite campagne dei corporativisti per l’eliminazione dei sindacati. Basti pensare al fatto che, 175
ancora alla fine del 1935, Ugo Spirito rilanciò l’obiettivo della «fine del sindacato»11. Alla fine, comunque, non venne scelto un criterio unico, ma la gran parte delle corporazioni fu costituita secondo il criterio del ciclo produttivo. Indipendentemente dalla scelta dei criteri per formare i nuovi organi, il nuovo sviluppo dell’ordinamento corporativo rischiava di apparire, così come il precedente, una minaccia per le organizzazioni sindacali. A rischiare di essere seriamente messo in pericolo dall’istituzione delle corporazioni era – ancora una volta – non tanto il sindacato in quanto tale ma la struttura confederale, l’autentico bastione della residua forza politica del sindacalismo. La questione riguardava soprattutto le organizzazioni dei lavoratori, le più esposte a un’eventuale ulteriore frammentazione. I discorsi dei sindacalisti, durante la fase istitutiva delle corporazioni, furono perciò incentrati proprio sulla rivendicazione dell’«opera educatrice, altamente politica» della confederazione, finalizzata a «permettere a tutte le categorie sociali di seguire con perfetta aderenza le innovazioni politico-economiche del Regime»12. Che si trattasse di un punto cruciale è testimoniato anche dalle discussioni svoltesi all’inizio del 1934 all’interno della commissione parlamentare incaricata di preparare il testo del disegno di legge13. Fu Rocco, presidente della commissione, a sostenere l’idea di un progressivo e tendenziale assorbimento della confederazione nello Stato. Il progetto incontrò però un’opposizione ferma ed evidentemente insuperabile, tanto che Rocco fu costretto a modificare la prima versione, già stampata, della relazione introduttiva al dibattito alla Camera, evidentemente su sollecitazione di altri membri. Il raffronto delle due versioni del testo rende bene conto sia dell’idea iniziale di Rocco sia della marcia indietro che 176
dovette compiere e, di conseguenza, delle capacità di difesa politica di cui evidentemente poteva ancora disporre il sindacalismo confederale. Nella versione iniziale si sosteneva che «le grandi Confederazioni vedranno certo ora diminuire i loro compiti», mentre il testo approvato si limita a parlare della necessità di «adeguare» i compiti «alle nuove esperienze corporative». Un’altra frase, ancor meno equivocabile nel significato, era invece interamente eliminata dalla versione finale della relazione: «Le Confederazioni non morranno: seppur con compiti più limitati di coordinamento, di studio, di propaganda esse continueranno nella loro opera benefica di consolidamento e di sintesi»14. Con il varo delle corporazioni, la questione del superamento della forma confederale fu sostanzialmente accantonata. I nuovi organi non comportarono nei fatti alcun ridimensionamento ulteriore della presenza del sindacato. Le nuove istituzioni corporative avrebbero anzi offerto nuovi spazi di iniziativa e intervento. Sullo sfondo delle discussioni sui criteri da adottare per formare le corporazioni e sul ruolo del sindacato, si agitava anche la questione, non meno sostanziosa, della funzione dei nuovi organismi nella vita economica e sociale. Da una parte vi era chi puntava ad assegnare alle corporazioni un effettivo ruolo dirigente nell’economia nazionale, dall’altra chi, al contrario, voleva circoscriverne il più possibile poteri e funzioni e tutelare la piena libertà dell’iniziativa privata. Ancora una volta era la «strana alleanza» tra il sindacalismo e quella componente del Pnf che faceva capo a Bottai a farsi promotrice di un avanzamento sulla strada della «rivoluzione corporativa». Sul fronte sindacale, già nei dibattiti del 1933 al Consiglio nazionale delle corporazioni alcuni presidenti confederali come De Marsanich e Razza avevano sostenuto la necessità che le corporazioni 177
assumessero la funzione di organi di programmazione dell’attività economica15. La corporazione, affermò in particolare De Marsanich, deve predisporre i programmi di produzione per ogni ramo dell’economia, eliminando o contraendo le attività esistenti o favorendone delle nuove; disciplinare i consorzi di produzione e la concorrenza, formare i contratti economici collettivi tra le categorie produttrici che forniscono, trasformano e consumano le materie prime e i prodotti. Per far questo si interviene in tutti i vecchi rapporti giuridici ed economici ed è quindi necessario costituire una Corporazione che detti delle norme cui dovranno sottomettersi gli individui e le imprese16.
Poche settimane dopo il varo delle corporazioni, alcuni dei maggiori dirigenti del sindacato dell’industria, come il commissario confederale Cianetti ed Edoardo Malusardi, ribadirono la richiesta di fare della corporazione l’ente direttivo dell’economia italiana, sostenendo che essa avrebbe dovuto sostituire l’Iri e tutti i consorzi e i comitati esistenti o, quantomeno, avrebbe dovuto regolamentarne l’attività17. L’ipotesi di una programmazione industriale che indirizzasse gli investimenti delle imprese fu poi sviluppata dalle singole categorie attraverso un’attività di studio e i primi abbozzi di piani programmatici di settore18. La battaglia fu rilanciata, con argomenti analoghi, dal gruppo di Bottai dalle pagine di «Critica fascista»19. A opporsi a quella che poteva apparire una fuga in avanti erano innanzitutto gli ambienti industriali e finanziari, che temevano un restringimento della libertà d’impresa e un’invasione nel territorio blindatissimo della proprietà privata20. Le polemiche scatenate pochi anni prima dalle tesi di Spirito sulla «corporazione proprietaria», così come i toni battaglieri della stampa sindacale, destavano evidentemente qualche preoccupazione. Una sotterranea ostilità verso il corporativismo – almeno nelle sue versioni più radicali – proveniva anche da consistenti settori del fascismo. Non pochi vedevano nel nuovo sistema la premessa per un’inevitabile ulteriore 178
burocratizzazione, per pericolosi scivolamenti verso il socialismo o per una torsione materialistica del modello di civiltà espresso dal fascismo, verso il trionfo di una «concezione economicistica della società e dell’individuo»21. Un’idea fortemente restrittiva delle funzioni delle corporazioni era presente soprattutto nel Pnf22. Se è vero che l’avversione alla politica corporativa del regime fu propria solo di alcuni – che certo pagarono politicamente quell’atteggiamento, come nel caso eclatante di Leandro Arpinati23 –, è altrettanto vero che la dirigenza del partito non nascose mai la volontà di ricondurre le manifestazioni corporative entro la propria sfera di influenza. Il corporativismo era, in questo senso, una potenziale risorsa per estendere il proprio potere a discapito delle forze sociali più conservatrici, ma era soprattutto una seria insidia, perché rischiava di rilanciare il ruolo e le prerogative del sindacato, che a sua volta ambiva ad assumere una funzione pienamente politica. L’insofferenza che reciprocamente nutrirono i dirigenti del partito e quelli del sindacato nasceva proprio da questa sorta di concorrenza tra burocrazie. Il corporativismo, in questo senso, era stato sin dall’inizio, come si è visto, un inevitabile terreno di contesa24. La struttura istituzionale delle corporazioni fu alla fine un compromesso tra queste diverse posizioni. Dopo il breve passaggio parlamentare e senza ulteriori modifiche, il testo messo a punto dalla commissione presieduta da Rocco divenne legge il 5 febbraio 1934. Tra gli ulteriori elementi qualificanti delle disposizioni legislative figurava l’attribuzione della presidenza delle corporazioni a un ministro, a un sottosegretario o al segretario del Partito nazionale fascista. Oltre l’ovvia preminenza del governo, era in questo modo sancita la meno scontata partecipazione del Pnf, che poteva inoltre contare su tre suoi rappresentanti in 179
ogni corporazione. Sugli 824 membri facenti parte, in totale, delle 22 corporazioni, 66 quindi erano gli esponenti del Pnf. La componente più numerosa era ovviamente costituita dai rappresentanti dei datori di lavoro (325) e dei sindacati dei lavoratori (319; nella corporazione della previdenza e del credito ne erano previsti 6 in meno rispetto ai datori di lavoro). Centoquattordici, infine, erano i rappresentanti di altri enti e organismi, come i ministeri o l’Associazione generale fascista del pubblico impiego. Per quanto concerneva le attribuzioni, la corporazione dava pareri su tutte le questioni di interesse per il ramo di attività economica per cui era costituita, ogni qualvolta fosse stato richiesto dalle pubbliche amministrazioni competenti; operava inoltre tentativi di conciliazione delle controversie collettive di lavoro e, infine, elaborava le norme per il regolamento collettivo dei rapporti economici, in seguito alla proposta dei ministeri o su richiesta di una delle associazioni collegate, con l’assenso del capo del governo: quest’ultima funzione, basata ora sulla richiesta di una sola associazione sindacale, rappresentava una versione più estesa e meno vincolata di quella che, a suo tempo, era stata attribuita allo stesso Consiglio nazionale delle corporazioni. Il capo del governo aveva poi la facoltà di ordinare che, per questioni concernenti rami diversi di attività economica, fossero convocate insieme due o più corporazioni. Alcuni mesi dopo, con i decreti del capo del governo del 29 maggio e del 9 e 23 giugno 1934, fu approvata la costituzione di 22 corporazioni, costituite secondo il criterio del ciclo produttivo, a eccezione di quelle del settore dei servizi25. La quasi completa rinuncia al criterio della categoria segnava il superamento dei sistemi di classificazione delle attività produttive disegnati in funzione delle organizzazioni sindacali. L’effetto fu una decisa 180
attenuazione, nonostante le premesse produttivistiche all’origine del corporativismo, della distinzione tra produttori e commercianti. L’integrazione tra i settori fu anzi, da quel momento, un ulteriore tema su cui fecero forza la mobilitazione corporativa del governo e l’azione delle amministrazioni economiche (si muovevano in questa direzione, tra l’altro, i progetti di riforma di classificazione dei rami di attività economica nel sistema statistico nazionale)26. Con un successivo decreto legge, del 18 aprile 1935, furono allargate le attribuzioni del Comitato corporativo centrale, che venne chiamato a esercitare, in seguito all’autorizzazione del capo del governo, tutte le funzioni assegnate agli altri organi del Consiglio nazionale delle corporazioni27. Il comitato monopolizzò sempre più l’esercizio delle funzioni del Consiglio, autonomizzandosi di fatto da questo ed esautorando in particolare l’assemblea generale, che per la sua struttura macchinosa ed elefantiaca era ritenuta inadatta a operare con decisione e tempestività28. Veniva in questo modo confermata la tendenza, propria dello Stato fascista, al progressivo esautoramento degli organismi collegiali e al corrispondente rafforzamento degli istituti meno rappresentativi. Rimaneva immutata, invece, la condizione di debolezza e marginalità del ministero delle Corporazioni, ai cui apparati e alla cui burocrazia le corporazioni facevano riferimento per lo svolgimento delle proprie attività. A determinare il limite più profondo del nuovo istituto, e dell’intero sistema corporativo creato dal fascismo, ancor prima dello scarso potere, era la strutturale irrealizzabilità di una vera rappresentanza degli interessi – fondata cioè sulla scelta dei rappresentanti da parte dei membri di ciascuna categoria – in un sistema dittatoriale e autoritario. A farne le spese furono ancora una volta le rappresentanze dei 181
lavoratori. Come già in precedenza, infatti, la presenza negli organi corporativi dei sindacalisti fascisti era il risultato di una nomina dall’alto, compiuta dai vertici delle federazioni e delle confederazioni, con l’avallo del governo e di Mussolini29. Diversa invece, ancor più che nel passato, era la situazione degli interessi imprenditoriali. È questo il principale elemento di novità rappresentato al loro nascere dalle corporazioni. Grazie alla sostanziale libertà di cui disponeva l’associazionismo padronale, esponenti di primo o di primissimo piano del capitalismo italiano divennero in prima persona membri delle corporazioni e, di conseguenza, facevano il loro ingresso ufficiale al centro della struttura pubblica. Scorrere la composizione delle ventidue corporazioni è, in questo senso, illuminante: si registra la presenza, per non citare che alcuni dei nomi più rappresentativi, di Gino Olivetti, Franco Marinotti e Senatore Borletti (corporazione dei prodotti tessili), di Vincenzo Ardissone, Arturo Bocciardo, Luigi Orlando, Agostino Rocca e Giuseppe Mazzini (corporazione della metallurgia e della meccanica), di Guido Donegani e Achille Gaggia (corporazione della chimica), di Giacinto Motta e Giuseppe Cenzato (corporazione dell’acqua, gas ed elettricità) e di Vincenzo Azzolini, Alberto Beneduce, Alberto Pirelli e Arturo Osio (corporazione della previdenza e del credito)30.
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2. Effetti sull’economia L’entrata in funzione delle corporazioni fu considerata, da larghi settori del fascismo e dalla dirigenza sindacale, l’inizio della tappa decisiva della «rivoluzione corporativa». Il sistema sembrava finalmente in grado di passare dalla sola disciplina dei rapporti di lavoro alla regolazione dell’attività economica31. Sia l’estensione dei poteri normativi, rispetto a quelli concessi al Consiglio nazionale, sia la diretta partecipazione di tutta la dirigenza sindacale e di esponenti degli ambienti economici apparivano indizi di una vera svolta. Per gli antifascisti, al contrario, cambiava ben poco. Dopo avere a lungo denunciato la menzogna del «corporativismo senza corporazioni» e le contraddizioni fra i programmi e la realtà, quasi tutti videro nelle corporazioni nient’altro che l’ennesima costruzione burocratica. Già nel numero del febbraio 1934 dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», in coincidenza con l’approvazione della legge istitutiva, Carlo Rosselli scrisse che «la corporazione è un nuovo macchinoso organo burocratico, senza alcuna autonomia, senza alcun nesso reale con la vita, dotato di limitatissime competenze effettive, impotente a mutare in nulla di essenziale la struttura sociale del paese, a spostare i reali rapporti tra le classi, a dare pane, lavoro, dignità nel lavoro a chi pane, lavoro e dignità nel lavoro non ha»32. Si formava già allora la tesi del corporativismo come mero bluff propagandistico, poi integralmente assunta dalla storiografia successiva e dalle rievocazioni a posteriori di molti dirigenti del fascismo. Come i fatti si sarebbero incaricati di dimostrare, i giudizi di Rosselli (ma anche di Rosenstock-Franck, Salvemini, Trentin e, con sfumature però assai diverse, Grifone, Curiel e Togliatti) coglievano in 183
gran parte nel segno. È indubbio che i risultati effettivamente conseguiti dalle corporazioni furono abissalmente distanti dagli obiettivi indicati dalla propaganda e da molta pubblicistica fascista. È forte infatti l’impressione, guardando gli ordini del giorno delle riunioni, di trovarsi di fronte a un grande apparato mobilitato per lo più per questioni secondarie e apparentemente insignificanti. Anche il controllo delle tariffe e dei prezzi – allora sbandieratissimo – produsse scarsi risultati pratici33. Tuttavia, appare riduttivo liquidare l’esperienza delle corporazioni sotto la sola chiave di lettura del fallimento. Se si abbandona infatti l’impietoso confronto con la «carta», con le declamazioni teoriche, con i proclami dei sindacalisti e con le roboanti dichiarazioni di Mussolini e degli altri gerarchi, e ci si misura invece con l’attività effettivamente svolta, emergono alcuni elementi di indubbio interesse. Risaltano innanzitutto le profonde trasformazioni cui andarono incontro, all’interno delle procedure corporative, le relazioni tra interessi socioeconomici e Stato. Emerge anche la partecipazione, spesso trascurata, delle corporazioni, con funzione sostanzialmente consultiva, ad alcuni importanti interventi di politica economica, che veniva a marcare una differenza con la precedente esperienza del Consiglio nazionale. Il cambiamento più evidente nelle discussioni corporative è costituito proprio nella differenza dei problemi trattati: non solo la politica sociale e del lavoro ma anche, a pieno titolo, la politica economica34. Nel 1934, d’altra parte, la fase più acuta della crisi sembrava sostanzialmente superata e il regime aveva mostrato di sapere contenere il disagio sociale. Gli interventi nella politica previdenziale e assistenziale apparivano dunque meno urgenti o, quantomeno, meno pressante la loro celebrazione nelle sedi corporative. 184
Nelle corporazioni si produsse inoltre una frammentazione della rappresentanza. In precedenza il fronteggiarsi delle confederazioni dei datori di lavoro e delle confederazioni dei lavoratori nel Consiglio nazionale aveva per molti aspetti evocato e simulato lo scontro di classe: frequentemente, come si è visto, la discussione si era articolata in base alla contrapposizione tra i rappresentanti degli imprenditori e quelli dei lavoratori. La frammentazione della rappresentanza nelle 22 corporazioni, al contrario, ricondusse la dialettica a questioni inerenti al settore di appartenenza. Prendendo in esame gli interventi delle corporazioni, è innanzitutto da osservare come esse abbiano occupato un ruolo centrale nella politica autarchica, che avrebbe dovuto costituire, nelle intenzioni del regime, la tendenziale subordinazione della produzione agli interessi nazionali. Spettò infatti a ogni singola corporazione l’elaborazione del piano autarchico per il proprio specifico settore di competenza, mentre fu devoluto al Comitato corporativo centrale, costituito in Commissione suprema dell’autarchia, il coordinamento dei singoli piani. La politica autarchica si intrecciò strettamente con il corporativismo, non solo sul piano istituzionale ma anche su quello ideologico e politico-economico, senza tuttavia mai identificarvisi: se l’autarchia fu, in sostanza, un ambizioso progetto di programmazione industriale, finalizzato a riorientare i legami internazionali della struttura produttiva italiana e ridefinire la gerarchia e le interdipendenze tra settori, il corporativismo costituì, per lo più, il tentativo di ripensare le forme, i principi e i contenuti della rappresentanza e i confini tra Stato e attori economici35. I piani autarchici furono redatti tra il 1936 e il 1937 e fissavano per singole produzioni gli obiettivi da raggiungere entro il 1941. Le corporazioni tennero nel complesso 45 185
riunioni dal maggio al settembre 1937; 80 comitati tecnici corporativi già esistenti o commissioni speciali appositamente costituite esaminarono, in 310 sedute, i problemi parziali loro sottoposti e contribuirono alla preparazione delle 40 relazioni riassuntive36. Soprattutto nell’iniziale fase «istruttoria» fu determinante il ruolo delle associazioni imprenditoriali di categoria, cui era spesso demandato, per i rami di propria pertinenza, il compito fondamentale di approntare la raccolta dei dati e lo studio preliminare del problema37. I sindacati dei lavoratori ne risultavano, invece, di fatto esclusi. Sul risultato finale pesavano dunque non poco il «punto di vista» offerto dalle organizzazioni degli imprenditori e gli equilibri tra le varie componenti del mondo confindustriale e tra imprese private e imprese pubbliche. Anche in questo caso dunque, la rappresentanza paritetica di imprenditori e sindacati dei lavoratori risultò puramente formale, nonostante l’impegno dimostrato dalla Confederazione dei lavoratori dell’industria guidata da Tullio Cianetti nel sollecitare la redazione dei piani e una loro piena attuazione38. La preparazione dei piani autarchici rappresentò un importante momento nell’attività delle corporazioni, per la rilevanza delle questioni affrontate e perché le scelte compiute in quella sede avrebbero contribuito a decidere le destinazioni dell’enorme impegno finanziario dello Stato39. Sappiamo però pochissimo sull’attività effettivamente svolta, sull’andamento delle discussioni e sul tipo di dialettica instauratasi tra le associazioni di categoria e tra queste e la stessa corporazione. Le fortissime lacune nelle fonti purtroppo non hanno consentito di riempire il vuoto di conoscenze storiografiche. L’eccezione è rappresentata dal piano siderurgico. È l’unico infatti per il quale possiamo disporre di un adeguato apparato documentario e di una rigorosa e dettagliata 186
ricostruzione storiografica40. In questo caso appare con chiarezza come la corporazione del settore sia stata effettivamente un foro di concertazione tra i maggiori gruppi industriali e finanziari cui presero parte, sebbene in posizione subordinata, i piccoli e medi imprenditori e i sindacati dei lavoratori. Vale allora la pena seguire nel dettaglio questa vicenda, perché ci fornisce indicazioni generali sulla funzione svolta dal sistema corporativo in relazione all’autarchia e al governo del sistema industriale. Intorno all’elaborazione del piano autarchico della siderurgia si sviluppò una lunga disputa che si trascinò per alcuni anni e che richiese un notevole sforzo di mediazione. Lo scontro vide contrapporsi le imprese pubbliche a quelle private. Al centro del contendere era il progetto dello sviluppo in Italia della siderurgia a ciclo integrale, vale a dire della produzione di acciaio direttamente dal minerale, con un procedimento che consente risparmi di combustibile e un controllo sull’intero ciclo produttivo ma che richiede una superiore dotazione tecnologica ed elevati investimenti. Il fronte della siderurgia dell’Iri, che si identificava con la Siac e la Dalmine guidate da Agostino Rocca e con la Terni di Arturo Bocciardo, sostenne un ambizioso programma, elaborato da Oscar Sinigaglia e da Rocca, per realizzare in Italia un grande impianto a ciclo integrale, capace di assicurare una quota significativa del fabbisogno nazionale limitando fortemente la dipendenza dall’estero per l’acquisto dei rottami di ferro, necessari invece per le altre tipologie di lavorazione. Per facilitare l’affermazione sul mercato interno della siderurgia a ciclo integrale, il piano dell’Iri prevedeva limitazioni alla produzione realizzata con gli altri procedimenti. Sul fronte opposto erano le grandi imprese private e le imprese padane minori, che temevano la perdita di quote di mercato e l’abbassamento dei prezzi generati 187
dall’impianto a ciclo integrale e che, di conseguenza, non accettavano le limitazioni alla crescita della loro capacità produttiva previste dal progetto Iri. Soprattutto intorno a quest’ultimo punto, naturalmente, lo scontro fu acceso. La disputa, apertasi con l’avvio della politica autarchica, si trascinò fino alla fine del decennio e richiese un confronto e una complessa mediazione tra le parti in causa. Le corporazioni, le commissioni tecniche corporative e il Comitato corporativo centrale furono, insieme alle organizzazioni di categoria e agli uffici ministeriali, le sedi in cui si sviluppò il confronto. Entrambi i fronti potevano infatti contare su qualche appoggio presso esponenti del governo o nella dirigenza burocratica. Era infatti necessaria, a ciascun contendente, una complessa politica delle alleanze, da costruire appunto anche dentro le corporazioni. La dirigenza dell’Iri guidata da Rocca fu più attiva e intraprendente: da un lato stabilì una diretta correlazione tra il piano siderurgico basato sul ciclo integrale e la piena attuazione dell’obiettivo indicato da Mussolini dell’«indipendenza economica nazionale»; in altre parole, riverniciò il suo progetto di razionalizzazione produttiva con le parole d’ordine e le motivazioni dell’autarchia. Dall’altro, puntò ad assicurarsi l’alleanza dei sindacalisti nella battaglia, attraverso la prospettiva di un aumento occupazionale nell’industria meccanica, come risultato dell’abbassamento dei costi dei prodotti siderurgici. Gli organi corporativi, come detto, furono tra le sedi in cui il confronto si sviluppò e le alleanze vennero messe a punto. La riunione della corporazione della metallurgia e della meccanica del giugno 1937, l’apposita commissione «per i piani dell’autarchia siderurgica» stabilita nel suo ambito (i cui lavori furono conclusi all’inizio di luglio), la nuova sessione della corporazione in settembre e infine, a 188
ottobre, la riunione del Comitato corporativo centrale, organo incaricato di ratificare le deliberazioni autarchiche delle singole corporazioni, costituirono momenti decisivi. Sebbene l’Iri e il ministero delle Finanze avessero in precedenza messo a punto un progetto – che impegnava quindi direttamente il governo –, le imprese private riuscirono, nella mediazione corporativa, a conseguire importanti contropartite: i primi ottennero che il progetto di un impianto a ciclo integrale divenisse il perno del piano autarchico per la siderurgia ma le seconde riuscirono a mantenere in attività tutti i propri impianti e a conservare i livelli di produzione41. Il compromesso tra i due fronti costituì una sostanziale sconfitta per la soluzione dirigistico-istituzionale disegnata dalla dirigenza Iri. La delibera approvata dalla corporazione e poi ratificata dal Comitato corporativo centrale tutelò infatti le imprese private, soprattutto le maggiori, garantendo che non venissero penalizzate dalla crescita della presenza pubblica. La corporazione funzionò insomma, in questo caso, come canale istituzionale nel quale i gruppi privati più rappresentativi potevano in qualche misura contrattare le modalità dell’intervento statale e le relazioni con le imprese pubbliche42. Anche le deliberazioni corporative, sebbene prive di qualsiasi efficacia normativa, svolsero una funzione rilevante. Ciascun contendente, infatti, assegnava notevole importanza alle statuizioni di carattere formale: queste potevano conferire ufficialità e autorevolezza alle proprie istanze, perché rappresentavano una legittimazione del proprio punto di vista da far valere nella contrattazione con il governo e con le amministrazioni economiche43. Lo scontro che si registrò in quest’occasione nella corporazione metallurgica testimonia il forte valore «politico» che in alcune situazioni potevano avere le deliberazioni 189
corporative. Si può plausibilmente ritenere che una dinamica del genere abbia caratterizzato non solo le discussioni sul piano siderurgico ma anche i dibattiti nelle altre corporazioni. Tornando alle discussioni sul piano siderurgico, con l’avvio della politica di riarmo e con il conseguente aumento del fabbisogno di acciaio le imprese private riuscirono progressivamente, a loro volta, ad accreditare il carattere autarchico dei propri procedimenti produttivi. Poterono in questo modo difendere con maggiore forza le proprie quote di mercato. In concreto, misero in atto un’«azione concertata di ostruzionismo» contro il piano autarchico, attraverso i consorzi e lo strumento delle autorizzazioni per i nuovi impianti industriali, gestito direttamente dall’apposito comitato nominato in seno alla corporazione. Le due posizioni arrivarono all’ultimo e decisivo atto della contesa nella primavera del 1940. La riunione della corporazione fu, ancora una volta, il contesto istituzionale in cui i diversi punti di vista trovarono espressione e poterono misurare i rapporti di forza. Tutti i contendenti ammantarono i propri argomenti con la fraseologia e la retorica del regime, tutti si richiamarono alle esigenze dell’autarchia, dell’impegno bellico e tutti, infine, disegnarono per il dopoguerra scenari che corroboravano le tesi sostenute. Ancora una volta il dibattito corporativo, su cui pesò la mediazione del ministro delle Corporazioni Renato Ricci, segnò la sostanziale affermazione della siderurgia privata – che addirittura riuscì a imporre forti limiti nella capacità produttiva del nuovo impianto a ciclo integrale – e il ridimensionamento dei piani dell’Iri. La legge emanata in giugno accolse interamente le deliberazioni corporative44. Il progetto messo inizialmente a punto dagli uomini dell’impresa pubblica, invece, avrebbe avuto attuazione nel dopoguerra, con il «piano Sinigaglia». 190
Non interessa qui naturalmente analizzare nel dettaglio i contenuti delle proposte né, in generale, la politica siderurgica degli anni Trenta o le strategie dell’Iri. Interessa invece osservare come uno scontro tra soggetti produttivi si sviluppi e cerchi una soluzione, nell’Italia degli anni Trenta, sin dentro le istituzioni, coinvolgendo tutti i settori dello Stato interessati e trovando nel sistema corporativo uno dei canali di ingresso. Fu infatti «con sanzioni corporative e legislative e con procedure amministrative che l’imprenditore degli anni Trenta […] [dovette] fare i conti, non disdegnando a sua volta di farvi ricorso come ad altrettanti strumenti che gli po[tessero] servire per far valere le proprie ragioni nei confronti dei suoi concorrenti». E furono di conseguenza «istituzionali» le sedi «scelte dai protagonisti per dare battaglia, aggirare ostacoli, neutralizzare ostruzionismi»45. Considerazioni analoghe possono essere fatte per la legge bancaria del 1936, tra le più importanti realizzazioni in campo economico dell’Italia fascista, rimasta in vigore per oltre un cinquantennio. Anche in questo caso, come per il piano siderurgico, la possibilità di disporre di un più adeguato apparato documentario (i verbali della corporazione) e di dettagliate e recenti ricostruzioni storiografiche consente un esame più ravvicinato46. Il ruolo marginale della corporazione del credito nell’elaborazione della riforma è generalmente citato, in sede storiografica, come uno dei più evidenti indizi dell’insignificanza del corporativismo47. Parallelamente all’attività della corporazione, e senza che questa venisse coinvolta, un piccolo gruppo di esperti dell’Iri, diretto da Donato Menichella, svolse infatti, nell’assoluto riserbo, una sorta di funzione pre-legislativa. Le ricostruzioni hanno messo in evidenza come questo intervento sia risultato decisivo nel modellare le linee guida della riforma e nel 191
preparare le prime versioni del testo. La «storia palese» della legge bancaria – fatta nelle sedi deputate – è stata dunque affiancata, e almeno in parte svuotata, da una sorta di «storia segreta», che vide appunto gli uomini dell’Iri assumere una funzione decisiva nel definire i contenuti della legge. La corporazione della previdenza e del credito si riunì il 12 e 13 giugno 1935 per discutere, tra l’altro, la «distribuzione funzionale e territoriale degli organi del credito». La mozione approvata al termine della seduta si limitava a indicare le linee guida della riforma, in particolare in relazione ai compiti della Banca d’Italia (limitazione degli impegni con i privati da un lato e, dall’altro, completamento della formazione di una moderna banca centrale) e alla distinzione tra le diverse tipologie di istituto di credito. A questo proposito, erano indicate tre categorie: istituti di diritto pubblico e casse di risparmio ordinarie, istituti di credito ordinario e istituti per il finanziamento industriale a lunga scadenza48. La corporazione decise di affidare l’elaborazione della riforma a un apposito comitato tecnico corporativo, composto da sei membri più il segretario, che avrebbe dovuto operare sulla base di quelle indicazioni generali. L’Iri tuttavia bruciò le tappe. Prima che il comitato entrasse in funzione, il presidente Beneduce presentò al ministro delle Finanze, Thaon di Revel, un documento contenente un disegno di legge, che risulta coincidente in maniera quasi completa con i primi sette titoli del testo definitivo. Con poche e marginali variazioni, la bozza preparata dall’Iri divenne decreto legge il 12 marzo 1936, poi convertito in legge il 7 marzo 1938. Tuttavia, se l’Iri mise a punto il progetto, la corporazione svolse comunque un’azione non irrilevante: offrì ai diversi interessi coinvolti la possibilità di esprimere ufficialmente rivendicazioni e proposte, consentendo quindi di calibrare i 192
diversi aspetti della riforma in relazione alle forze in campo. La corporazione, inoltre, non si limitò a seguire il lavoro del gruppo guidato da Menichella, perché fu attivata prima. Nel momento in cui, alla metà di aprile, fu effettuata la riunione in cui vennero messe a punto le linee guida del riordinamento del sistema creditizio – a cui sarebbe seguita la progettazione operativa dell’Iri –, la corporazione aveva già tenuto due sedute preparatorie, durante le quali tutte le posizioni in campo avevano avuto modo di esprimersi49. In quelle occasioni si era delineata da un lato la posizione maggioritaria, espressa in particolare dalla Confederazione delle aziende di credito, favorevole a un intervento che si limitasse ad accrescere la stabilità e l’efficienza delle aziende bancarie, e, dall’altra, quella del direttore generale della Banca nazionale del lavoro, Arturo Osio, che propendeva per una direzione pubblica del sistema creditizio50. L’Iri aveva dunque avviato lo studio del progetto alla luce già di questa ricognizione preliminare delle diverse forze in campo e dei rispettivi punti di vista. La sessione della corporazione del 12-13 giugno – durante la quale le posizioni espresse nelle riunioni di oltre due mesi prima furono ribadite e precisate – non segnò dunque l’«esordio» dell’organismo nella vicenda ma solo il suo ingresso ufficiale. La riforma bancaria tradusse poi in testo normativo le ultime indicazioni dell’Iri. Queste però erano differenti dalla proposta originaria dell’Istituto. Il progetto iniziale differiva da quello presentato in dicembre, da cui fu tratto il testo del decreto, sia per il ruolo della Banca d’Italia e del sistema di vigilanza del credito sia per la distinzione di funzione tra le banche (l’Iri tentò di impostare la riforma senza sostanziali distinzioni fra le diverse tipologie giuridiche di istituto di credito)51. L’abbandono delle posizioni originarie era determinato sicuramente dalla difficoltà di tradurre quelle 193
ipotesi in norme concrete redatte per articoli ma anche, con tutta probabilità, dall’esigenza di fare i conti con le diverse posizioni in campo52. Approvata la riforma bancaria, la corporazione tornò a occuparsi della questione nel febbraio 1937. Con il dibattito su «funzioni e compiti degli istituti di credito in relazione alle nuove esigenze dell’economia nazionale» vennero affrontati alcuni aspetti che la normativa non aveva risolto in maniera definitiva, soprattutto in riferimento alla distinzione tra credito a breve e a medio termine e, quindi, alla possibilità che le banche di credito ordinario potessero tornare a esercitare anche questa seconda attività. La corporazione venne dunque chiamata nuovamente a intervenire sul riordinamento del sistema creditizio, questa volta per far confrontare i diversi punti di vista sulle lacune della legislazione o sulla necessità di introdurre aggiustamenti e messe a punto53. La corporazione della previdenza e del credito fu anche la sede nella quale le realtà «minori» del sistema bancario – rimaste di fatto «schiacciate» nella fase di elaborazione e attuazione della riforma – poterono presentare le proprie istanze. Nella seduta del febbraio 1937, in particolare, si occupò delle casse rurali, preparando il terreno per l’approvazione del testo unico su quella tipologia di istituto54. Ancora una volta la corporazione – pur lontana dal realizzare la «terza via» – veniva «utilizzata» dagli interessi socioeconomici come uno dei canali istituzionali disponibili per il confronto.
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3. Un nuovo sindacalismo L’attuazione delle corporazioni ebbe immediati e profondi effetti sul sistema sindacale. Sebbene i tentativi di abolizione della struttura confederale fossero stati sconfitti, la legge istitutiva dei nuovi organi sanciva l’autonomia dalle confederazioni delle associazioni sindacali collegate dalle corporazioni. Gli appositi decreti approvati in maggio e i nuovi statuti confederali, sanciti per decreto in agosto, riordinarono integralmente le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il numero delle confederazioni fu ridotto da 13 a 9: le confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori delle comunicazioni terrestri, marittime e aeree vennero inquadrate in quelle dell’industria. Venne poi revocato il riconoscimento giuridico alle unioni provinciali e ai sindacati e concesso solo alle confederazioni e alle federazioni nazionali. Alle confederazioni erano assegnati poteri di controllo, coordinamento e rappresentanza nei confronti delle federazioni, ma solo a queste ultime era attribuita la facoltà di stipulare contratti collettivi55. Si trattava, almeno sul piano formale, di una sorta di «secondo sbloccamento»56. Ne derivava quindi il rafforzamento della rappresentanza per categoria rispetto a quella territoriale e l’ulteriore declino della rappresentanza confederale. In coincidenza con la riforma organizzativa fu attuato un completo ricambio delle gerarchie dei sindacati dei lavoratori. Nuovi uomini furono posti alla guida delle confederazioni, prima in qualità di commissari e poi di presidenti: Tullio Cianetti all’industria, Riccardo Del Giudice al commercio, Giuseppe Landi al credito e assicurazioni, Franco Angelini all’agricoltura, Nazareno Bonfatti alle comunicazioni interne e Alessandro Pavolini ai professionisti e artisti. 195
Il ridimensionamento della confederazione era finalizzato a evitare sovrapposizioni con i nuovi organi corporativi. I nuovi assetti non risolvevano però il problema del dualismo tra confederazione e federazioni, dal momento che non stabilivano una completa e chiara distinzione delle funzioni. La questione investiva integralmente le organizzazioni dei lavoratori e solo formalmente quelle dei datori di lavoro, le quali, operando pienamente come organi di rappresentanza di specifici interessi, erano comunque in grado di giungere autonomamente a un’efficace gerarchia interna. Nel corso dell’anno sulla stampa sindacale e politica ci si impegnò nel tentativo di delineare una soluzione soddisfacente57. Dai vertici sindacali provenne una prevedibile difesa delle prerogative confederali, altrimenti – come avrebbe scritto Cianetti nelle sue memorie – si rischiava di dar vita a un fenomeno ben più pericoloso della lotta di classe, la lotta delle categorie. Un’autonomia eccessiva delle federazioni avrebbe finito col compromettere tutto l’ordinamento corporativo, perché «le singole categorie sono fatalmente portate a restringere il proprio angolo visuale nei limiti della superficie dei propri interessi»58. Negli ambienti del Pnf, al contrario, l’indebolimento delle confederazioni era accolto con favore. Bottai, ancora una volta tra i più interessati ai cambiamenti in atto nel mondo sindacale, auspicava una maggiore audacia nel garantire autonomia alle federazioni. Solo così si sarebbe potuto «invertire, finalmente, il processo formativo dell’organizzazione sindacale»: non più soltanto dall’alto verso il basso ma anche dal basso verso l’alto, vale a dire «dai sindacati alla confederazione»59. In questo senso andava anche il progetto messo a punto dal sottosegretario alle Corporazioni Biagi, secondo il quale le confederazioni avrebbero dovuto assumere un nuovo ruolo: da organismi di 196
rappresentanza sindacale dovevano diventare semplici organi di collegamento tra le federazioni60. Ancora una volta – come già pochi mesi prima con Rocco – i tentativi più radicali di mettere in seria discussione le prerogative e il potere delle confederazioni ebbero esito negativo. I primi provvedimenti non ebbero seguito e il secondo sbloccamento rimase entro confini piuttosto ridotti. La riforma sindacale del 1934 lasciava sostanzialmente aperta la questione degli equilibri tra i diversi livelli dell’organizzazione sindacale. L’autonomia ottenuta dalle categorie nei nuovi statuti rimaneva infatti insufficiente per consentire loro di condurre una propria strategia contrattuale. Le confederazioni, alleggerite in parte da incombenze tecniche e contrattuali, proprio all’interno delle corporazioni avrebbero invece esercitato funzioni non più confinabili alla sola sfera sindacale. Lo stretto legame tra la nascita delle corporazioni e la riforma delle organizzazioni sindacali segnala come ai nuovi organi si legasse, di fatto, un cambiamento profondo nella prassi del sindacalismo italiano. Nelle corporazioni presero infatti compiutamente forma nuove modalità istituzionali di mediazione tra il governo e le rappresentanze dei diversi settori dell’economia e della società. Ne derivarono due conseguenze, destinate a segnare a lungo le concrete modalità di governo dello Stato italiano: da un lato, l’estensione di quella mediazione all’intero ambito delle politiche sociali ed economiche, ben oltre dunque il definito confine delle relazioni sindacali; dall’altro, il trascolorare degli interessi privati in un presunto interesse generale. Il varo delle corporazioni coincideva con una nuova fase del sindacalismo fascista, caratterizzata da una rinnovata capacità di iniziativa e da una maggiore forza negli equilibri interni al regime. All’inizio del 1934 si era infatti pienamente concluso il periodo di sostanziale emarginazione apertosi 197
con lo sbloccamento. Soprattutto la Confederazione dei lavoratori dell’industria, sotto la guida del segretario Clavenzani, era riuscita tra il 1932 e la metà del 1933 a rilanciare il proprio ruolo. Il congresso nazionale della Confederazione dell’aprile 1933 aveva dimostrato una nuova capacità di condurre la polemica nei confronti della Confindustria, non più limitata a una demagogia fine a se stessa ma concretizzata in un contraddittorio basato su un serio lavoro di documentazione61. La nomina nel gennaio 1934 di Cianetti alla guida della Confederazione, prima come commissario e poi come segretario, sancì un ulteriore avanzamento62. La campagna dell’estate 1936 sul cottimo e sui salari rappresentò per molti versi il culmine della nuova fase del sindacalismo industriale. Un analogo sviluppo fu peraltro vissuto anche dalle altre confederazioni, in particolare del commercio e del credito e assicurazioni, guidate da Del Giudice e Landi. La nascita delle corporazioni si inserì in questo importante passaggio della storia del sindacalismo fascista. All’interno delle corporazioni furono portate alcune delle controversie che da più tempo cercavano una composizione. Fu quanto accadde in primo luogo per le annose questioni del lavoro a domicilio e dell’apprendistato. La carenza, se non l’assenza, di regolamentazione contrattuale concedeva infatti ampi margini di arbitrio all’iniziativa degli industriali e, di conseguenza, lasciava senza tutele i settori più deboli della forza lavoro, principalmente i giovani e le donne. Benché il sindacato avesse iniziato ad affrontare questi problemi almeno dall’inizio del decennio, non era ancora riuscito a conseguire risultati apprezzabili. Le questioni furono perciò portate all’esame delle corporazioni più direttamente interessate. Il tema dell’apprendistato – per cui in molti casi i giovani assunti 198
come apprendisti non ricevevano un’effettiva formazione professionale ma svolgevano le mansioni degli operai adulti con un salario più basso – venne affrontato tra il marzo 1935 e il gennaio successivo dalle corporazioni della carta e della stampa, dell’abbigliamento, del vetro e della ceramica e dell’ospitalità. Si arrivò a un accordo, che soddisfaceva in parte le richieste sindacali, nei casi delle corporazioni dell’abbigliamento e dell’ospitalità63. La questione del lavoro a domicilio – svolto per lo più dalle donne per integrare il bilancio familiare, in condizioni salariali e normative generalmente peggiori64 – fu trattata dalla corporazione dell’abbigliamento, settore nel quale il fenomeno era maggiormente presente. Anche in questo caso si arrivò a un accordo parziale, che demandava una piena regolamentazione al contratto collettivo di categoria65. I risultati furono insomma parziali e limitati ma comunque segnavano un’inversione di tendenza e, soprattutto, misero il sindacato in condizione di avviare un confronto meno episodico con gli imprenditori sui problemi rimasti aperti66. Anche la corporazione della previdenza e del credito discusse e risolse questioni di una certa rilevanza per il sindacato. Fu soprattutto il caso del problema della sindacalizzazione delle diverse categorie di bancari. La legge bancaria del 1936 assimilava i dipendenti di alcune tipologie di istituto – le «banche di interesse nazionale» (Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma), gli istituti di diritto pubblico (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, San Paolo di Torino, Banco Santo Spirito di Roma e Banca nazionale del lavoro) e le casse di risparmio – ai dipendenti dello Stato. I lavoratori di quegli istituti erano di conseguenza privati della possibilità di far parte del sindacato. Pur svolgendo le stesse mansioni degli impiegati delle altre banche, disponevano di minori tutele e garanzie. Già nella fase preparatoria della 199
legge, durante le sedute della corporazione della previdenza e del credito, il sindacato dei bancari, con in prima persona il presidente Giuseppe Landi, si attivò per garantire che tutto il personale fosse posto sullo stesso piano. Erano in gioco da un lato il peso della confederazione, che avrebbe perso circa la metà degli aderenti se le fosse stato sottratto l’inquadramento delle banche pubbliche, e dall’altro il mantenimento dei livelli retributivi e assistenziali acquisiti negli anni precedenti dai dipendenti bancari: l’eventuale assenza di inquadramento sindacale e il passaggio all’assai più debole Associazione generale fascista del pubblico impiego avrebbero messo in discussione quelle conquiste e creato forti disuguaglianze tra i lavoratori del settore67. Nell’aprile 1936 la confederazione ottenne il parere favorevole del comitato tecnico corporativo e l’anno successivo conseguì il pieno risultato. Nel corso del 1937, infatti, una serie di decreti riconosceva il diritto all’inquadramento sindacale unitario per tutti i dipendenti degli istituti bancari, con la prevedibile eccezione della Banca d’Italia68. L’azione di Landi e della confederazione attraversò i dibattiti corporativi ma investì anche in varia misura le altre sedi istituzionali interessate al problema fino al coinvolgimento diretto delle personalità che avevano maggiore potere decisionale (i ministri delle Finanze e delle Corporazioni, dirigenti di primo piano del Pnf, parlamentari, esponenti della corporazione e degli istituti bancari, il fiduciario dell’Associazione generale fascista del pubblico impiego Domenico Sciarra, il presidente dell’Ina Giuseppe Bevione e quello dell’Iri Beneduce)69. Come per le altre situazioni ricordate in precedenza, anche in questo caso la presenza attiva nella corporazione risultò decisiva in quanto parte essenziale di una più ampia mobilitazione. Come prevedibile, la distanza che separava gli accordi 200
dalla loro reale applicazione e la dialettica sindacale a livello centrale dai concreti rapporti di forza nei luoghi di lavoro in molti casi rimaneva ampia. I risultati conseguiti nelle discussioni in ambito corporativo erano tuttavia indice di una parziale uscita del sindacato dall’emarginazione politica e istituzionale. In ogni caso, non bisogna dimenticare, come è stato correttamente osservato, che «salvo qualche rara eccezione, i successi del sindacato si realizzarono perché il regime consentì che si realizzassero». Quello che si verificò, in altre parole, fu la «restituzione al sindacato di momenti di influenza politica e sociale che negli anni precedenti erano al sindacato stesso stati tolti», per ragioni di stabilità politica ma anche per «una questione di dosaggio di influenza delle varie organizzazioni e dei vari settori del fascismo»70. L’attività di conciliazione delle corporazioni coincise con una maggiore efficacia dell’attività conciliativa del Comitato corporativo centrale, o forse contribuì a innescarla. Dal 1934, infatti, questo organismo riuscì a produrre risultati non irrilevanti nello svolgimento delle relazioni sindacali del periodo. Un primo risultato è rappresentato dalla mozione per la regolamentazione dei sistemi di cottimo, approvata dal Comitato nel novembre 1934. La mozione attribuiva la facoltà di fissare le tariffe alla contrattazione collettiva e non più ai soli datori di lavoro71. La mozione – sebbene mai applicata pienamente – assegnava ai sindacati una nuova possibilità di intervento. Inoltre, poneva in concreto le premesse per la progressiva abolizione del sistema Bedaux, il più rigido sistema di cottimo, fulcro dell’esperienza organizzativa dell’industria italiana degli anni Trenta e oggetto di un’accesissima battaglia sindacale72. La corporazione della meccanica fissò l’abrogazione negli stabilimenti Fiat di Torino mentre un accordo del maggio 1935 ne stabilì l’eliminazione alla Pirelli73. Gli aumenti salariali del 1937 rappresentarono un altro 201
risultato significativo. In aprile il Comitato corporativo centrale decise un aumento generalizzato delle retribuzioni dell’entità del 10-12%. Veniva consolidata in questo modo la tendenza agli aumenti salariali nell’industria che, dalla metà del decennio, aveva iniziato, sebbene molto parzialmente, a ribaltare i drastici tagli degli anni precedenti. Si trattava dell’effetto combinato di una ritrovata capacità combattiva del sindacato e della spinta dei lavoratori, soprattutto nei maggiori centri del Nord74. La nuova fase del corporativismo non offrì al sindacalismo soltanto la sede istituzionale nella quale portare alla ribalta le rivendicazioni e cercare un’interlocuzione con la controparte. Con la creazione delle corporazioni si rafforzò ulteriormente la tendenza, delineatasi già negli anni precedenti, che vedeva le organizzazioni sindacali spostare, o allargare, progressivamente il fuoco delle proprie iniziative dai rapporti di lavoro a una più ampia dimensione sociale75. Anche per questo le organizzazioni dei lavoratori si proposero alla guida di istituzioni quali gli enti comunali di assistenza, le colonie per i bambini e, dal novembre 1939, dopo un vittorioso braccio di ferro con il Pnf, l’Opera nazionale dopolavoro. Per quanto concerneva le politiche assistenziali e previdenziali – dopo le riforme dell’assicurazione per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro e la costituzione dell’Infps e dell’Infail –, il sindacalismo si concentrò soprattutto sull’assistenza di malattia. In questo campo, dopo numerosi provvedimenti parziali e lunghe discussioni dentro e fuori il Comitato corporativo centrale, si giunse infine alla riforma del dicembre 193976. L’impegno a favore delle politiche sociali si coniugò inoltre con l’elaborazione di nuove concezioni del salario. L’introduzione degli assegni familiari, nel 1934, fu vista 202
infatti dai dirigenti delle organizzazioni non solo come un compenso extrasalariale per i lavoratori con famiglia numerosa ma come una vera e propria trasformazione del salario: in altre parole, il salario avrebbe assunto, secondo un’idea diffusa nel mondo sindacale, una natura sociale e non più economica, consentendo di dare vita a una nuova concezione dell’economia, non più incentrata sul mercato e sul profitto77. La partita giocata sul tema del salario, come su quelli della previdenza e dell’assistenza, era finalizzata, ancora una volta, a far prevalere la dimensione «rivoluzionaria» del fascismo e, quindi, a realizzare in pieno l’«ideale» del corporativismo. All’interno delle corporazioni il sindacato compì inoltre un’ulteriore mutazione nel ruolo e nelle funzioni. Nei nuovi organismi venne infatti realizzato «il primo tentativo organico compiuto da un’organizzazione sindacale in Italia – sia pure nell’ambito di un regime totalitario – di partecipare ed in qualche modo di indirizzare le principali scelte di politica economica del governo»78. Naturalmente il sindacato non abbandonò la strada della rivendicazione in merito ai contenuti contrattuali. Tuttavia, fu la politica economica il vero perno della strategia dei sindacati all’interno delle corporazioni. L’idea che queste dovessero costituire il motore delle politiche di programmazione orientò l’azione delle organizzazioni fasciste dei lavoratori. Impegnandosi nel dibattito corporativo e nella politica economica, la dirigenza sindacale si prefiggeva di contribuire a introdurre una regolamentazione della produzione che garantisse equilibrio tra la produzione e il consumo e, sottraendo la determinazione delle retribuzioni agli automatismi del mercato, una piena equità dei salari79. Per giocare al meglio questa carta le confederazioni potenziarono gli strumenti statistici e di studio. La 203
Confederazione dei lavoratori dell’industria costituì al proprio interno un servizio economico, con lo scopo di studiare le condizioni dei diversi settori industriali, anche su scala locale80. Al tempo stesso il sindacato tornò con forza a rivendicare una sua presenza all’interno dell’azienda. La conoscenza diretta dei processi produttivi, infatti, diventava ora essenziale. Come sosteneva un articolo del «Lavoro fascista», il giornale delle confederazioni dei lavoratori, il sindacato avrebbe dovuto «discutere col datore di lavoro» non soltanto delle norme riguardanti le condizioni di lavoro e il salario «ma anche l’organizzazione dell’azienda, i metodi di lavorazione e tutto quello in cui il tener presente l’interesse e l’esperienza degli operai può costituire un elemento per correggere, modificare, aggiornare la produzione». Era necessario «far penetrare il Sindacato nell’azienda, per farne un collaboratore attivo dell’impresa, e per dargli nello stesso tempo la possibilità di presentarsi preparato nella Corporazione»81. L’attiva partecipazione alle discussioni relative agli indirizzi di politica economica era ritenuta, dai dirigenti sindacali, un mezzo per superare l’economia liberale di mercato. Si trattava anche, come scrisse Landi, di superare una concezione privatistica dell’azienda e favorire l’evoluzione del diritto privato e commerciale in un nuovo «diritto dei produttori»82. Al tempo stesso, quell’obiettivo convogliava pulsioni conflittuali mai soppresse del tutto, che vedevano nella borghesia e nelle élites economiche ostacoli alla piena realizzazione dello Stato totalitario. Le rivendicazioni sociali potevano così ammantarsi di motivazioni e obiettivi di carattere più generale, che andavano dalla corretta applicazione degli indirizzi e delle direttive del governo alla verifica della congruità tra vita economica e sindacale da un lato e i principi del corporativismo e del fascismo. 204
Emblematico è, in questo senso, il sostegno all’elaborazione dei piani autarchici. Di fronte ai ritardi e alle lentezze burocratiche, furono proprio i dirigenti sindacali a sollecitare a Mussolini una rapida attuazione. Nell’ottobre 1937, nel pieno della fase di messa a punto dei piani e in vista di un’importante riunione del Comitato corporativo centrale, il presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria, Cianetti, scrisse al capo del governo sostenendo che solo l’attuazione completa dei piani avrebbe reso possibile un controllo dello sviluppo industriale e, al tempo stesso, la vigilanza sui prezzi e la redistribuzione territoriale dell’occupazione attraverso la selezione dell’ubicazione degli impianti. Soprattutto, Cianetti mise in guardia Mussolini sul rischio che la politica autarchica avrebbe potuto trasformarsi in un’occasione di ulteriore arricchimento per gli imprenditori. Per evitarlo, era necessario innanzitutto procedere a un nuovo aumento dei salari – «sia in rispondenza al migliore andamento economico delle industrie, sia, in ispecie, per le categorie che hanno subito particolari decurtazioni dei guadagni nel periodo della crisi»; inoltre, di fronte al prevedibile incremento di domanda di forza lavoro specializzata indotto dai piani autarchici, si sarebbe dovuto costituire un ente per la formazione professionale dei lavoratori83. Un anno dopo Cianetti mise a punto un piano regolatore delle materie prime, della dislocazione degli stabilimenti e della distribuzione della manodopera tra i settori industriali più importanti ai fini bellici e della politica autarchica84. Invocò inoltre lo stretto controllo degli organi corporativi sulle imprese85. In termini pratici i risultati furono, ancora una volta, piuttosto esigui. Scarsa fu la considerazione mostrata da Confindustria nei riguardi del sindacato e delle velleità di «disciplinare la produzione» (sintomatici sono, in questo 205
senso, gli interventi pubblici del presidente, Giuseppe Volpi)86, e solo con ritardo e parzialmente vennero poi accolte da Mussolini le richieste di Cianetti87. Anche l’enfasi posta in sede corporativa sul controllo dei prezzi convogliava questa doppia motivazione: si ricollegava da un lato alla difesa del potere d’acquisto reale dei lavoratori e, dall’altro, assecondava di fatto le politiche antinflazionistiche del ministero delle Corporazioni ma anche le rimostranze avanzate da consistenti settori del mondo imprenditoriale per gli eccessivi aumenti di alcuni prodotti88. All’interno delle corporazioni, insomma, il recupero di una capacità di iniziativa sul versante rivendicativo si coniugava con il perseguimento di un presunto interesse generale. In diverse occasioni, anzi, nelle parole d’ordine sindacali il secondo prevalse nettamente sul primo. Facendosi portatori di un interesse generale, insomma, i sindacalisti interpretarono il ruolo di garanti del corretto funzionamento dei provvedimenti voluti dal governo e delle istituzioni economiche da esso create, anche in assenza di specifiche parole d’ordine riguardanti le condizioni dei lavoratori. Come è stato scritto, «doveva essere quello il momento della subordinazione piena degli interessi particolari al supremo interesse dello Stato, e ad esso avrebbero dovuto indirizzarsi le controparti delle relazioni industriali»89. I sindacati dell’industria impugnarono la bandiera dell’efficienza e della lotta al monopolio contro Confindustria, in nome di un sistema produttivo più equilibrato e non condizionato da manovre speculative, come nel caso della lunga querelle sulle misure di limitazione della concorrenza, su cui però si tornerà in seguito. L’organizzazione dei lavoratori del credito guidata da Landi seguì ancora più sistematicamente questa condotta. I 206
documenti confederali preparati in vista delle riunioni della corporazione, le discussioni svolte in quella sede e gli interventi effettuati all’esterno ne offrono ripetute dimostrazioni. I sindacati dei lavoratori del credito e delle assicurazioni intervennero, tra l’altro, nel merito di questioni quali la creazione dell’Istituto per l’esercizio del credito immobiliare nell’Africa orientale italiana, la tecnica delle operazioni bancarie, la raccolta dei depositi da parte di società finanziarie industriali e commerciali non sottoposte alla vigilanza dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito90; ogni volta si limitarono a giustificare il proprio intervento ricorrendo a generiche affermazioni antiplutocratiche o a favore dell’impero91. Come osservò Landi in preparazione di una riunione della corporazione, «la Confederazione delle Aziende ha da fare rivendicazioni affaristiche, noi non abbiamo nessuna rivendicazione da fare. Noi possiamo dire, la nostra opinione è questa»92. Le confederazioni dei lavoratori, insomma, invasero progressivamente uno spazio che non apparteneva loro, svolgendo la funzione di «guardiani della rivoluzione» in ambito economico. Mai come in questo frangente furono vicine a realizzare l’idea di Sergio Panunzio di un sindacato ispiratore di prospettive rivoluzionarie. Proprio Panunzio mostrò una particolare lucidità nel leggere questi processi. In un articolo del settembre 1937 scrisse: Non è difficile scorgere l’aspetto quasi prevalentemente politico nella fase attuale del Sindacato. Ma se ciò si riferisce in linea generale al Sindacato, si riferisce in modo più particolare e diretto al Sindacato dei lavoratori. Ché se […] il Sindacato dei datori di lavoro per due terzi esercita un’azione economica e per un terzo un’azione politica, quello dei lavoratori, per due terzi esercita un’azione politica, e per un terzo un’azione economica […]. Trattasi di mantenere vivo lo spirito politico fascista nelle masse93.
L’azione politica del sindacato, per usare le parole di Panunzio, non si limitava peraltro alle politiche economiche. Con la guerra d’Etiopia – e con la mobilitazione bellica delle 207
organizzazioni dei lavoratori a favore dell’«impero del lavoro» – fu il legame fra l’attività sindacale e la politica generale del regime a rafforzarsi come mai in passato. A testimoniarlo è anche il sempre più intenso passaggio, nella fase matura del fascismo, di elementi sindacali nei quadri del Pnf94. I cambiamenti nell’azione del sindacato generarono tuttavia l’accendersi di forti tensioni all’interno degli organismi confederali, come rilevarono anche i più attenti osservatori tra le file dell’antifascismo95. Si allargava infatti la distanza tra la dirigenza confederale, i quadri intermedi e gli organizzatori periferici: mentre la prima fu sempre più proiettata sui temi della politica sociale ed economica, gli altri dovettero fronteggiare condizioni di vita della classe lavoratrice sempre più insoddisfacenti e la conseguente impossibilità di far funzionare la «cinghia di trasmissione» del consenso. La difficile attuazione dei grandi accordi stipulati con la controparte – come l’accordo Pirelli-Cianetti del 1934 sulla riduzione dell’orario di lavoro nell’industria – complicava ulteriormente il quadro. Da un lato, infatti, gli accordi consentivano alla dirigenza confederale di dare per chiusi i contenziosi ma, dall’altro, mettevano i quadri sindacali periferici e di categoria di fronte alla difficoltà di ottenerne la piena applicazione in ogni stabilimento96. Le corporazioni rischiavano di essere percepite da questi ultimi come un’ulteriore causa di allontanamento dalla dimensione propriamente sindacale97. L’inefficace collegamento tra gerarchie confederali e unioni provinciali compromise, almeno inizialmente, anche il controllo dei prezzi, a cui le prime assegnavano un’importanza strategica nel difendere il potere d’acquisto dei lavoratori98. Anche i dirigenti di categoria, che pure all’attività corporativa prendevano parte, non sempre 208
assecondarono il nuovo corso. Nel congresso dei dirigenti dei sindacati industriali del novembre 1938, Cianetti esortò apertamente i dirigenti sindacali ad avere un atteggiamento maggiormente propositivo all’interno degli organi sindacali: «le Organizzazioni dei lavoratori – sostenne –, nelle Corporazioni, non devono essere delle rimorchiate, ma devono costituire la pattuglia di avanguardia, alla quale è preferibile porre dei freni, anziché incitarla con l’invito a marciare»99. I cambiamenti nella natura del sindacalismo ebbero effetti ridottissimi nella storia dell’economia del paese. Le organizzazioni dei lavoratori non riuscirono a mettere seriamente in discussione gli equilibri interni al regime, a limitare lo strapotere del fronte imprenditoriale, a strappare ulteriori funzioni al Pnf e a ottenere un sostegno meno rapsodico e superficiale dal governo e da Mussolini. Quei cambiamenti però lasciarono tracce significative nella storia sindacale. L’allargamento ai nuovi temi sociali ed economici, l’adozione dell’obiettivo di un rafforzamento del sistema produttivo e le diverse modalità di relazione con lo Stato produssero forti cambiamenti nella natura e nel modo d’essere delle confederazioni che non sarebbero scomparsi con la fine della dittatura e del sindacalismo di Stato100.
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4. La politica degli industriali Le trasformazioni che investirono le organizzazioni padronali ci appaiono più limitate. Tuttavia, anche per esse le corporazioni segnarono una svolta. Come per i sindacati dei lavoratori, la riforma organizzativa del 1934 sancì il passaggio da un sistema di rappresentanza fondato sulle unità territoriali a un nuovo sistema incentrato sulle categorie. Il numero delle confederazioni dei datori di lavoro fu inoltre ridotto da 6 a 4. Contestualmente, le confederazioni furono prima affidate a commissari provvisori e poi, in ottobre, ai nuovi presidenti. Di alto profilo fu soprattutto la scelta per la Confederazione dell’industria, alla cui guida fu designato Alberto Pirelli quale commissario e poi, in qualità di presidente, Giuseppe Volpi, protagonista di primissimo piano del capitalismo italiano, tra i più vicini al fascismo. Fu proprio la confederazione degli industriali, la più grande e influente tra le organizzazioni imprenditoriali, ad avvantaggiarsi maggiormente dei cambiamenti. Il suo peso politico ed economico crebbe ulteriormente a discapito delle altre strutture. Grazie ai nuovi accorpamenti, aderivano ora a Confindustria, oltre alle categorie industriali, anche le federazioni degli artigiani, dei dirigenti di aziende industriali, delle aziende industriali municipalizzate, delle aziende municipalizzate di trasporto e dei proprietari di fabbricati101. Nell’insieme, la riforma, completata dai nuovi statuti approvati per legge, produsse un cambiamento non irrilevante nell’associazionismo imprenditoriale. I cambiamenti organizzativi allentavano i rapporti tra la base e le strutture direttive delle associazioni. La differenza numerica tra l’insieme delle imprese rappresentate da 210
Confindustria e quelle effettivamente iscritte sta a testimoniarlo: nel 1936 gli industriali rappresentati (che cioè pagavano il contributo obbligatorio) erano 157.334, mentre gli associati (che oltre a pagare il contributo si erano iscritti volontariamente) erano solamente 82.380102. Il cambiamento non si limitava però agli assetti organizzativi. Ancora più gravido di effetti fu l’ulteriore rafforzamento del rapporto tra Confindustria e Stato. I contenuti della riforma erano infatti stati integralmente dettati dal governo, che aveva così riaffermato la natura autoritaria del sistema di rappresentanza degli interessi. L’ingerenza dello Stato era finalizzata a semplificare la struttura rappresentativa per renderla maggiormente rispondente e funzionale alle corporazioni103. Il rapporto più stretto tra Confindustria e Stato era, ovviamente, soprattutto una conseguenza della nuova fase dell’economia dell’Italia fascista. Alla metà degli anni Trenta il «compromesso autoritario» tra mondo economico e fascismo registrò infatti un ulteriore rafforzamento, dovuto da un lato al consolidamento del regime e alla crescita del consenso di cui esso godeva e, dall’altro, all’estensione dell’intervento pubblico e alle misure adottate dal governo per fronteggiare la crisi economica. Nel quadro delle nuove politiche «autarchico-belliche», le istituzioni pubbliche diventavano sempre più un interlocutore privilegiato per i grandi gruppi industriali e finanziari. I salvataggi, le commesse statali, le limitazioni delle importazioni, la restrizione della concorrenza e gli investimenti per l’attuazione dei piani autarchici offrirono un decisivo sostegno alle imprese, e principalmente alle maggiori. Al tempo stesso, gli obiettivi espansionistici e «imperiali» sempre più largamente presenti nella retorica del regime valorizzavano la funzione del potere economico: solo una potenza industriale poteva infatti ambire a recitare un ruolo 211
di potenza politica nello scenario internazionale. All’ombra del protezionismo e dell’intervento pubblico risultò accresciuto il peso dei grandi gruppi. Nonostante la retorica mussoliniana contro il «supercapitalismo», si rafforzò la posizione del nucleo di comando del capitalismo italiano. Si trattava di una sorta di «feudalesimo» o di «oligarchia», secondo le parole utilizzate da uno dei grandi protagonisti del mondo economico di quegli anni, Ettore Conti104. A rafforzarsi era anche, di conseguenza, il potere di questa oligarchia sulla confederazione e sulle federazioni industriali, a discapito delle imprese medie e piccole. Tra l’altro, questo spiega come mai spesso le piccole e medie imprese preferirono la relazione diretta con la pubblica amministrazione e con gli enti pubblici anziché la mediazione delle organizzazioni di categoria. Lo Stato, infatti, se non altro per salvaguardare almeno in parte la stabilità e gli equilibri esistenti, attuava una distribuzione delle risorse (commesse, finanziamenti, materie prime d’importazione) tendenzialmente più equa di quella in genere effettuata per tramite delle organizzazioni di categoria105. Fu soprattutto con la presidenza di Volpi che prese compiutamente forma una «nuova» Confindustria. La sua presidenza assunse apertamente l’obiettivo di stabilire rapporti più organici tra mondo economico e potere politico106. L’azione della dirigenza confindustriale si collocò, più sistematicamente e consapevolmente che in passato, al crocevia tra obiettivi diversi e all’apparenza contrastanti: guidare la fascistizzazione del mondo imprenditoriale, facendo delle strutture della confederazione un’ulteriore cinghia di trasmissione del consenso; difendere l’autonomia decisionale delle organizzazioni padronali dalle ingerenze del governo; osteggiare un’eventuale torsione in senso «sociale» e 212
«rivoluzionario» del regime; garantire il rispetto dell’iniziativa privata e dei pieni poteri delle dirigenze aziendali, minacciati dalla maggiore intraprendenza del sindacato e dall’intervento pubblico; partecipare alla realizzazione dell’autarchia anche al fine di trarne i maggiori vantaggi materiali. Volpi salvaguardò l’autonomia decisionale di cui Confindustria aveva goduto negli anni precedenti. Al tempo stesso accentuò le funzioni protocollari dell’organizzazione, impegnandola più attivamente che in passato nelle celebrazioni dei successi del regime, specialmente quelli «imperiali», e nella partecipazione ai suoi riti107. A differenza delle organizzazioni dei lavoratori, però – come già rilevava Panunzio –, la funzione economica di rappresentanza e difesa degli interessi rimase comunque prevalente. Da un lato, dunque, le dinamiche oligarchiche rafforzarono la forza politica dei maggiori esponenti economici e la loro capacità di influenzare, anche attraverso contatti «informali», le scelte del governo; dall’altro, i rapporti tra gli attori economici e il potere politico si istituzionalizzarono. Passarono, infatti, quei rapporti, in misura crescente attraverso un’organizzazione che aveva perso i suoi caratteri di associazione privata, la Confindustria, e attraverso apposite sedi istituzionali, le corporazioni. Mutò di conseguenza anche la posizione del mondo economico nei confronti del sistema corporativo. All’inizio degli anni Trenta l’atteggiamento delle associazioni imprenditoriali verso gli apparati corporativi e il crescente protagonismo delle istituzioni pubbliche era stato improntato a una generale diffidenza, come dimostravano i dibattiti sul e nel Consiglio nazionale delle corporazioni. Alla metà del decennio invece – superata con la crisi l’impronta «liberista» degli anni precedenti e verificata 213
l’esistenza di rapporti di forza favorevoli –, Volpi e la dirigenza confindustriale alternarono alla tradizionale diffidenza nei confronti degli organi corporativi una maggiore disponibilità a utilizzare anche quel canale per esercitare pressione sul governo. Tentarono infatti di servirsi delle corporazioni per legittimare la situazione esistente, per far approvare provvedimenti a proprio favore e per promuovere la cooperazione fra i diversi settori della produzione108. Il mondo industriale e finanziario, attraverso le proprie organizzazioni e i propri giornali, si richiamò proprio ai principi del corporativismo per legittimare istituti e scelte economiche che non avevano nulla di sostanzialmente diverso da quelli realizzati in altri paesi109. Questo cambiamento, insieme al prevalere nelle corporazioni delle discussioni sulla politica economica rispetto a quelle sulla politica sociale e sindacale, ebbe come conseguenza l’accentuazione della rappresentanza degli «uomini di affari» a discapito di quella dei «datori di lavoro»110. Nelle riunioni delle corporazioni le rappresentanze imprenditoriali tennero dunque un atteggiamento improntato al pragmatismo: osteggiarono con tutti i mezzi le forzature dei sindacalisti e dei corporativisti più radicali ma, al tempo stesso, in diverse occasioni sollecitarono le autorità competenti a demandare alle corporazioni stesse l’applicazione di legislazioni di settore e l’esecuzione delle procedure. La stampa di categoria e la documentazione ce ne offrono tracce significative, anche se per lo più indirette. Un appunto per il capo del governo del ministro dei Lavori pubblici del febbraio 1936 è, in questo senso, illuminante. Osservava (o, meglio, denunciava) il ministro Giuseppe Cobolli Gigli che in alcune riunioni di corporazione non solo i partecipanti, con scarso spirito corporativo, si erano spesi per la tutela delle categorie 214
interessate, ma avevano investito «problemi specifici dei rapporti tra le parti interessate e gli organi di Stato con richieste di modifiche delle leggi fondamentali, ma soprattutto con l’affacciare possibilità di interventi delle categorie che [avevano] rapporti con lo Stato in quelle che [erano] le prerogative degli organi di governo della cosa pubblica». In particolare, le organizzazioni imprenditoriali chiedevano di demandare alla competenza delle corporazioni, magari attraverso comitati corporativi, funzioni attribuite agli organi esecutivi dei ministeri. E citava i casi della compilazione o revisione dell’albo degli appaltatori – dalle evidenti implicazioni nella regolamentazione dei rapporti tra pubblico e privato nel settore dei lavori pubblici – e delle concessioni di acque pubbliche o di vari impianti idro o termo-elettrici, materia cruciale e particolarmente delicata in un momento di forte espansione degli investimenti dell’industria elettrica111. In quest’ultimo caso, più che per aggirare i vincoli della legislazione di settore – in particolare del testo unico del dicembre 1933, improntato a una «continuità liberista» –, l’invocazione di un maggiore protagonismo delle corporazioni aveva un carattere per così dire preventivo: la soluzione corporativa appariva la migliore alternativa alla temuta, e sempre più concreta, svolta dirigistica. Il governo in questo caso riuscì comunque a contenere le pressioni delle organizzazioni imprenditoriali e il cambiamento non venne realizzato112. L’episodio segnala, ancora una volta, come gli organi corporativi, anche quando non riuscirono ad acquisire competenze e poteri, fossero uno dei principali «campi di tensione» in cui si manifestò la turbolenta dialettica tra pubblico e privato negli anni Trenta. Se i contatti informali e diretti con funzionari della pubblica amministrazione e politici, fino allo stesso Mussolini, continuarono a costituire 215
per il novero ristretto dei grandi industriali e banchieri il principale canale per esercitare un’influenza individuale sulla politica e sull’amministrazione, le corporazioni apparvero la sede per realizzare «relazioni di influenza» collettiva, per conto dell’intera categoria113. Si può probabilmente capire, alla luce di queste considerazioni, il senso delle parole di Vittorio Cini quando definì il corporativismo «l’ultima trincea del capitalismo»114.
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5. Il corporativismo realizzato I cambiamenti degli orientamenti e delle funzioni del sindacato e delle organizzazioni padronali, sin qui richiamati, possono risaltare con particolare chiarezza dall’osservazione ravvicinata della politica industriale e della disciplina della concorrenza. All’inizio degli anni Trenta, in coincidenza con la crisi economica, il governo attuò una serie di misure a difesa degli interessi industriali. Vennero promossi e incentivati i cartelli, i consorzi e gli accordi tra le imprese, introdotte barriere all’entrata e adottato un sistema doganale rigidamente protezionistico, che prevedeva anche il ricorso alle licenze di importazione. La nuova legislazione si proponeva di controllare i livelli della produzione e della capacità produttiva per fronteggiare il calo della domanda. In sostanza, le imprese già presenti nel mercato, incluse quelle meno efficienti, venivano poste al riparo dall’ingresso di eventuali nuovi produttori. La vera e propria «negazione della concorrenza» messa in atto dal governo consolidava dunque gli equilibri interni al capitalismo italiano, a discapito di una maggiore efficienza complessiva e scaricando il costo sui consumatori115. Sebbene molte di queste misure, specialmente quelle relative ai consorzi e al protezionismo doganale, fossero comuni a gran parte delle nazioni capitalisticamente più avanzate, a caratterizzare la situazione italiana era il particolare intreccio tra potere economico e potere politico. La negazione della concorrenza venne ampiamente favorita da leggi dello Stato sollecitate e non di rado applicate dagli stessi produttori. Nonostante le misure di disciplina della concorrenza non prevedessero l’intervento diretto delle corporazioni, la loro attuazione costituì uno dei banchi di prova più significativi 217
del funzionamento reale del corporativismo, del ruolo assunto dalle rappresentanze degli interessi socioeconomici e, in generale, dell’intervento del fascismo nell’economia. I principi corporativi permearono la messa in atto della legislazione sui consorzi, sugli impianti industriali o sulle licenze di importazione, anche nei casi in cui l’intervento delle corporazioni era escluso. Ciascuna di queste misure prevedeva infatti che l’amministrazione statale e gli enti pubblici fossero affiancati o sostituiti dalle associazioni di categoria. Il senso reale di questo corporativismo – vale a dire le finalità da perseguire e il ruolo ricoperto da ciascun soggetto – fu al centro di un’accesa e prolungata disputa. Da un lato, la Confindustria e le più forti realtà imprenditoriali vedevano nelle nuove misure un puro strumento anticrisi, capace di mettere al riparo i gruppi industriali dai rischi di una concorrenza eccessiva e non regolata, senza però che venisse limitata la loro libertà di iniziativa. L’autentico corporativismo, secondo questa posizione, si risolveva nell’attribuire l’attuazione degli interventi direttamente ai soggetti coinvolti, vale a dire alle organizzazioni imprenditoriali. Per evitare appesantimenti burocratici e tentazioni dirigistiche, gli apparati statali e i sindacati dei lavoratori sarebbero dovuti rimanerne al di fuori. Dall’altro lato, i sindacalisti e le componenti fasciste più sensibili ai richiami del corporativismo videro nella nuova politica industriale e nella disciplina della concorrenza lo strumento per un rafforzamento del ruolo dello Stato e l’avvio di una programmazione economica sotto il controllo delle corporazioni. Al centro del contendere era dunque proprio l’intervento delle corporazioni e, più in generale, il modo in cui tradurre in realtà gli astratti principi del corporativismo. Le contese e le tensioni segnarono a lungo l’applicazione delle principali 218
misure di politica industriale varate dal governo fascista negli anni Trenta. Vale la pena soffermarsi su due di esse, tra le più innovative e rilevanti: il sistema delle autorizzazioni per gli impianti industriali e i consorzi. Per quanto riguarda la prima, la legge del gennaio 1933 aveva assegnato allo Stato il potere di autorizzare la creazione di nuovi impianti industriali e l’ampliamento di impianti esistenti. Gli obiettivi dichiarati erano comuni a quelli perseguiti dalle altre nazioni industrializzate: evitare sprechi e speculazioni; ridurre lo squilibrio tra la capacità di produzione e la capacità di assorbimento del mercato; orientare gli investimenti verso impianti in grado di affrontare la concorrenza estera; impedire eccessive cadute nel livello dei prezzi116. La nuova normativa appariva particolarmente rigida, dettata dalla volontà del potere politico di assumere poteri più estesi condizionando le iniziative degli industriali. Grazie a essa, l’amministrazione statale poteva selezionare gli investimenti meritevoli di avere corso e quelli invece da bloccare sul nascere. La legge venne tuttavia interpretata in maniera diversa. Il vaglio delle richieste per la concessione delle autorizzazioni era affidato a un’apposita commissione presso il ministero delle Corporazioni; la pratica, però, veniva istruita non dagli uffici ministeriali ma – con un generico ossequio ai principi del corporativismo – in prima istanza dalla Confindustria e dalla federazione di settore. Era dunque l’associazione di categoria che rappresentava legalmente coloro che avevano presentato le domande a raccogliere la documentazione necessaria e a compiere un primo esame. I rappresentanti degli industriali si venivano a trovare nella duplice posizione di arbitro e giocatore, perché erano chiamati a esprimersi sulle richieste avanzate da potenziali concorrenti. Si creò in questo modo una confusa commistione tra gli obiettivi fissati dal governo e quelli particolaristici degli imprenditori, 219
a tutto discapito dei primi. Gli esponenti delle associazioni industriali di categoria potevano infatti valutare le domande non in funzione di un qualche interesse generale, derivante dagli obiettivi fissati dal governo, ma per risolvere il confronto economico tra produttori concorrenti, negando le autorizzazioni a quelle imprese che minacciavano gli equilibri interni a ciascun settore. La commissione istituita presso il ministero delle Corporazioni, a cui partecipavano anche le organizzazioni dei lavoratori, aveva dunque un ruolo marginale, perché i pareri delle associazioni imprenditoriali indirizzavano in misura decisiva l’esito della domanda. Questi sviluppi alimentarono diffusi malumori. Diversi interventi sulla stampa politica e sindacale mostrarono dubbi soprattutto sul mancato coinvolgimento delle corporazioni117. Per Bottai, la legge sugli impianti industriali rappresentava uno dei «casi d’intervento dello Stato nella vita economica condotti con metodo non corporativo», perché «faceva astrazione degli organi sindacali e corporativi» e si atteneva «alla prassi burocratica»118. Ad avversare questa soluzione furono soprattutto i sindacalisti, i più attenti a saldare la rivendicazione del ruolo delle corporazioni con la battaglia produttivistica. Lo svuotamento di funzioni delle corporazioni – che avrebbero dovuto impedire il formarsi di condizioni di monopolio – si accompagnava, a loro dire, a un rafforzamento delle posizioni monopolistiche dei grandi gruppi, liberati dai rischi di un’effettiva concorrenza e dal possibile arrivo di nuovi competitori. La limitazione delle iniziative economiche realizzabili aveva inoltre ricadute negative sui livelli occupazionali e sul costo della vita. Opposti argomenti erano invece espressi, come prevedibile, dagli industriali e dal governo, a partire dal sottosegretario alle Corporazioni Asquini119. 220
All’inizio del 1937 il sistema fu riformato. La commissione venne sciolta e delle sue funzioni vennero investite le corporazioni. Le pratiche avviate dalla Confindustria sarebbero state discusse in sede corporativa dai rappresentanti di tutte le organizzazioni presenti e il parere elaborato sarebbe risultato definitivo. La situazione però non cambiò in misura significativa. A risultare determinante continuava a essere il ruolo di Confindustria, per l’autorevolezza dei suoi uomini e per la conoscenza «di prima mano» della situazione dei singoli settori industriali, conoscenza da cui i sindacalisti continuavano a essere esclusi. La tensione tra i sindacati e la Confindustria quindi non si attenuò. Sul finire del 1937, anzi, un articolo di Pietro Capoferri, pubblicato su «Gerarchia», riaccese la polemica, rilanciando tutte le accuse mosse fino a quel momento agli industriali. Il dirigente sindacale impostò la propria denuncia richiamandosi a una concezione tradizionale e ortodossa del mercato. A suo avviso si sarebbe dovuto evitare che la legge fosse uno «scudo protettivo contro i pericoli della concorrenza», impedire che i prezzi al consumatore mostrassero «un’artificiosità derivante dalla situazione di privilegio in cui una branca produttiva» si trovava e assicurare alle imprese il progresso tecnologico realizzato nelle nazioni più avanzate120. Gli industriali, a loro volta, continuarono a farsi forza con il richiamo alla terza via corporativa, che garantiva la regolazione della competizione economica e l’incontro della domanda e dell’offerta attraverso procedure istituzionali e non più esclusivamente mediante il mercato. In un lungo documento del 1938, redatto proprio in risposta a Capoferri, i rappresentanti degli industriali bollarono come «assurda l’idea di inquadrare i fatti economici del tempo fascista nelle leggi dell’economia liberale». Erano infatti da 221
abbandonare i «vieti schemi tradizionali» che finivano «con l’indulgere al ritorno di sconfessati postulati utilitaristici che sono in perfetta antitesi coi principi etici e politici della dottrina fascista»121. Assai lontani dall’impronta liberista erano anche gli argomenti utilizzati per difendere la legge sugli impianti industriali. Si ribadiva infatti l’«immutato convincimento dell’industria della necessità – che pure è un dovere verso la Nazione – di impedire gli eccessi della concorrenza distruttiva». Si contestavano le osservazioni dei sindacati sulle ricadute negative in termini di occupazione e livello dei prezzi: non si poteva infatti ragionevolmente sperare nell’aumento dell’occupazione operaia, perché le capacità produttive avevano ormai raggiunto le capacità di assorbimento dei mercati e quindi si doveva, al contrario, limitare il prodotto alle possibilità di consumo; per quanto riguardava i prezzi, si faceva osservare come nelle circostanze date neanche il frazionamento della produzione fra molti concorrenti avrebbe apportato benefici. Tutto il documento comunque esemplifica alla perfezione il punto di vista dell’organizzazione degli industriali. Per esempio, laddove si ricordava, con evidente condivisione, come la legge fosse stata «concepita anche per assicurare il sostegno delle sane forze della produzione contro la concorrenza di aziende marginali in un compito di difesa che non è soltanto di privati interessi ma anche del patrimonio nazionale»; o laddove si affermava essere «evidente che la preoccupazione di assicurare all’economia industriale una opportuna duttilità, non può far perdere di vista la necessità di evitare, per la efficienza economica del Paese, quanto più possibile lo spreco di energie e di mezzi che possono conseguire da una disordinata attività dei singoli: iniziative ed ardimento da un lato, disciplina e coordinamento dall’altro». Il documento è dunque un 222
florilegio di dichiarazioni assai distanti dall’ortodossia liberista. Si era inoltre lontanissimi dalle posizioni sostenute dalla Confindustria negli anni precedenti. Sulla precoce idea di un controllo governativo sui nuovi impianti industriali era infatti intervenuto, già nell’aprile 1930, l’allora presidente Benni, sostenendo che un’ipotesi di quel genere era da considerare una manifestazione di «deformazione dello spirito industriale» e di una mentalità volta a «trasformare le categorie in caste chiuse» per assicurare a coloro che erano arrivati «condizioni di privilegio e di monopolio»122. Lo scontro tra industriali e sindacati fu condotto non solo sul piano direttamente politico – intorno cioè ai contrapposti significati che i due contendenti assegnavano alle procedure corporative – ma anche all’interno delle corporazioni. I sindacalisti sostennero le domande delle imprese medie e piccole per evitare il consolidarsi di posizioni di monopolio da parte dei gruppi maggiori, e cercarono di favorire le richieste che prevedevano il maggiore incremento occupazionale e salvaguardavano gli equilibri produttivi delle aree interessate dagli investimenti. Per dare più efficacia alla propria battaglia, cercarono di inserirsi anche nella prima fase della procedura, avviando vere e proprie istruttorie parallele. Tentarono, in altre parole, di rompere il monopolio delle informazioni detenuto dagli industriali richiedendo dati e informazioni direttamente alle aziende interessate. La Confindustria denunciò a più riprese queste «interferenze», cercando di impedire la collaborazione delle aziende, e riuscì alla fine a ottenere il sostegno del ministero delle Corporazioni123. La partecipazione dei sindacati al dibattito corporativo e il loro diretto coinvolgimento nell’intervento sullo sviluppo industriale si scontrò quindi con la limitatezza dei propri mezzi istituzionali e conoscitivi. All’atto pratico, anche dopo 223
la parziale riforma, il sistema delle autorizzazioni per gli impianti finì col costituire – come ci segnalano anche le verifiche effettuate nel dopoguerra dalla commissione economica del ministero per la Costituente – uno strumento per la cristallizzazione delle posizioni di mercato e, al tempo stesso, un ulteriore vantaggio per le aziende di maggiori dimensioni, capaci di indirizzare le organizzazioni imprenditoriali124. Un’analoga azione di disturbo e di interferenza fu portata avanti dai sindacati in relazione ai consorzi. Alla fine del 1931, con un decreto di dicembre poi convertito in legge nel giugno del 1932, il governo aveva introdotto i consorzi obbligatori. Il fenomeno delle aggregazioni di imprese – i cartelli, secondo la definizione utilizzata a livello internazionale – non era affatto nuovo. La legislazione del 1931-32 però intendeva facilitarne l’estensione e, soprattutto, vincolarlo a un’autorizzazione statale. La norma introduceva infatti l’obbligo di costituzione del consorzio quando l’avesse chiesto un numero di imprenditori pari ad almeno il 70% del totale del settore o rappresentativi di almeno l’85% della capacità produttiva. La stessa legge prevedeva che il governo potesse delegare alla Confindustria la definizione dei nuovi accordi per la costituzione dei consorzi obbligatori, escludendo gli organi corporativi125. La dimensione corporativa della legislazione consortile fu naturalmente oggetto di disputa. Il Comitato corporativo centrale nel febbraio 1932 aveva messo a punto una prima versione della legge, assegnando alle sezioni del Consiglio nazionale delle corporazioni la vigilanza sull’attività dei consorzi126. Durante l’elaborazione finale della normativa, però, la scelta venne stravolta. La nuova versione del testo, poi approvata in via definitiva, demandava non agli organi corporativi ma direttamente alle organizzazioni imprenditoriali la preparazione delle intese, la ricerca di un 224
equilibrio tra tutti gli interessi coinvolti e l’elaborazione degli statuti consortili. Così come per il sistema delle autorizzazioni per gli impianti industriali, anche la legge sui consorzi obbligatori rischiava di costituire un elemento a favore degli elementi dominanti di ciascun settore produttivo e un ulteriore fattore di limitazione della concorrenza. I gruppi maggiori potevano infatti imporre alle aziende minori la costituzione del consorzio e, conseguentemente, le condizioni di produzione e vendita127. Anche in questo caso sia l’esautoramento degli organi corporativi sia le possibili conseguenze negative in termini di occupazione e di prezzi suscitarono reazioni negative. Bottai, allora ancora ministro delle Corporazioni, aveva denunciato apertamente il carattere «acorporativo» e «di emergenza» delle misure. Nell’intervento alla Camera per la presentazione del provvedimento e in diverse altre occasioni, sostenne di accettare la disciplina consortile solo come contingente ed eccezionale, dichiarò il rifiuto della «tendenza monopolistica, mascherata dalla mentalità consorzialistica» e affermò la necessità di un controllo degli organi corporativi128. L’interesse per un intervento diretto verso i consorzi rappresentò una parte significativa dell’impegno del sindacato nelle corporazioni. La richiesta di un controllo da parte delle corporazioni, capace di fare dei cartelli uno strumento della programmazione industriale, fu al centro di due convegni dell’autunno 1933, rispettivamente sul settore marmifero e su quello cotoniero, e del convegno dei dirigenti sindacali del marzo 1934, tutti organizzati dalla Confederazione dei lavoratori dell’industria129. L’obiettivo del controllo corporativo si saldava inoltre a quello della lotta ai monopoli e alle manovre dei grandi gruppi. Nel convegno del 1935 dei dirigenti dei sindacati industriali venne attaccata duramente la «speculazione 225
ingiustificata» che avveniva in alcuni consorzi e l’«ingiustificato prezzo d’imperio» che le intese rendevano possibile, a danno del consumatore130. Tra gli atti d’accusa nei confronti delle pratiche monopolistiche dei consorzi e dei gravi danni per i consumatori, uno dei più argomentati e documentati è quello del segretario della Federazione nazionale dei lavoratori dell’edilizia, Luigi Begnotti. Begnotti sostenne con forza che la politica commerciale dei consorzi portava alla formazione di monopoli, autentici «arbitri del mercato», in netta antitesi con il «sistema economico corporativo, ove l’armonia degli interessi contrastanti deve essere realizzata solo ai fini del superiore interesse nazionale». La mancanza della concorrenza a suo avviso impediva sia la garanzia del minor prezzo realizzabile con i miglioramenti tecnici introdotti nelle aziende sia l’eliminazione delle fabbriche a più alto costo: «Colla politica dei Consorzi – scrisse – il prezzo si è svincolato dal costo di produzione e segue quindi una traiettoria propria che tiene conto – è ancora una manifestazione dell’economia capitalistica – del massimo tornaconto di chi lo manovra»131. Begnotti rilevò inoltre come in molti casi l’adesione ai consorzi non fosse spontanea. Le aziende maggiori infatti spesso costringevano le minori ad aderire al consorzio, praticando nelle loro zone di attività prezzi particolarmente bassi. Una volta entrate nel consorzio le imprese minori erano poi private di qualsiasi potere decisionale: dal momento che avevano in assegnazione piccoli contingenti di produzione non potevano disporre di un proprio rappresentante in seno al consiglio d’amministrazione del consorzio132. Diversa era la posizione della Confindustria, per la quale i consorzi, obbligatori e volontari, costituivano «il miglior mezzo per frenare una concorrenza che, in molti casi, 226
portata al di là dei suoi naturali limiti, si era manifestata come elemento di disgregazione e dispersione di forze produttive», soprattutto in un periodo di crisi133. Si ergeva quindi a difesa della legislazione industriale italiana, che aveva «per caposaldo la disciplina della produzione», per «evitare la concorrenza quando essa, per particolari situazioni o per uno squilibrio fra potenzialità e consumo altrimenti irrimediabile, si manifesta in forme eccessive e si trasforma in una vera lotta, che non è più nobile gara o stimolo al perfezionamento tecnico ed economico, ma distruzione di ricchezza e disordine nel mercato»134. Il richiamo al corporativismo costituiva per gli interessi imprenditoriali un potente argomento a favore del provvedimento. A chi obiettava che la direzione dei consorzi rimaneva in mano agli industriali, questi rispondevano «che questo appunto costituisce la dimostrazione più evidente che non si tratta di un intervento qualunque, ma dell’avvento dello Stato Corporativo, che realizza se stesso nel principio dell’autodisciplina delle categorie come vuole la dichiarazione VII della Carta del Lavoro»135. La disputa non si limitava tuttavia alle petizioni di principio. Il sindacato infatti accompagnò le sue denunce con alcune precise proposte, che avevano al centro l’affermazione del potere di controllo delle corporazioni. In particolare, chiese a più riprese che all’interno di tutti i consorzi fossero presenti propri rappresentanti136. Nei mesi della guerra d’Etiopia i sindacati si spinsero a richiedere l’abolizione dei consorzi e la loro sostituzione con comitati tecnici corporativi, che voleva dire, di fatto, rendere pubblici organismi privati137. Come avvenne anche per la legge sulle autorizzazioni per gli impianti industriali, nei primi mesi del 1937 le pressioni dei sindacati ottennero un risultato simbolico. In marzo fu infatti approvata la legge sui consorzi volontari, in base alla 227
quale tutti i cartelli, non solo quelli obbligatori, avrebbero dovuto fornire bilanci e dati sui prezzi e sulle quantità vendute agli uffici delle segreterie delle corporazioni. Sulla carta le corporazioni avrebbero potuto perciò disporre dei dati e dei poteri sufficienti per realizzare un effettivo controllo sui consorzi, propedeutico a una vera e propria attività di indirizzo. Nella realtà non fu così. In diversi casi, infatti, talvolta anche contro le indicazioni della dirigenza confindustriale, i cartelli non comunicarono tempestivamente e in maniera completa le informazioni necessarie138. Le corporazioni si dovettero poi confrontare con i limiti e la vaghezza dei poteri di cui disponevano: non potevano infatti intervenire sulla costituzione dei consorzi né deciderne l’eventuale scioglimento139. Ancora più lontana dall’essere attuata fu la norma che prevedeva la possibilità che i consorzi assumessero funzioni di pubblico interesse e venissero posti alle dipendenze delle corporazioni. I formali controlli corporativi permisero se non altro ai sindacati di avviare una propria attività di studio e di raccolta di informazioni per conoscere da vicino le modalità di costituzione, il funzionamento e i risultati delle intese consortili140. Nonostante il difficile accesso alle informazioni, le iniziative scatenarono comunque gli allarmi della Confindustria, preoccupata per le «ingerenze» e i «propositi di invadenza»141. Un ultimo tentativo di realizzare integralmente il progetto di subordinare i consorzi alle corporazioni fu compiuto nell’ottobre 1939, quando nel Comitato corporativo centrale i dirigenti sindacali proposero di allargare il campo dei consorzi assoggettati alla legge, di attribuire adeguati poteri alle corporazioni e di rafforzare il ruolo degli ispettorati corporativi. Nonostante gli apprezzamenti da parte di Mussolini, anche questa volta però non se ne fece nulla142. L’intraprendenza dei sindacalisti, così come le richieste 228
dei fascisti più vicini al tema corporativo, approdarono a risultati assai esigui, sebbene le loro denunce cogliessero nel segno nell’indicare nella legislazione industriale, così come concepita, non uno strumento nelle mani del governo per imporre i propri obiettivi ma un mezzo a disposizione dei maggiori gruppi industriali e finanziari per consolidare le proprie posizioni e liberarsi di una concorrenza scomoda. I timori della Confindustria, la necessità di arginare le interferenze sindacali e le frequenti modifiche apportate a quelle normative dimostrano tuttavia che la partita relativa al ruolo delle corporazioni nel governo dello sviluppo industriale non era chiusa del tutto e, più in generale, testimoniano la presenza di elementi di tensione tra le rappresentanze sociali del regime e all’interno dello stesso fascismo.
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6. Delusioni e mancate riforme Con l’inizio, nel 1936, del secondo ciclo delle corporazioni la fase di rodaggio poteva dirsi conclusa e la direzione intrapresa dai nuovi organi appariva chiara agli osservatori. Quella direzione non poteva non provocare scontento nei settori del fascismo che sulla scommessa della «rivoluzione corporativa» avevano giocato la loro partita. I cambiamenti delle rappresentanze sociali e delle modalità di rapporto tra interessi socioeconomici e Stato costituivano novità significative ma non potevano certo essere ritenuti prove sufficienti e soddisfacenti dell’esistenza di un nuovo sistema. La chiusura del primo ciclo di attività delle corporazioni coincideva peraltro con l’avvio della «battaglia» per l’autarchia, proclamata da Mussolini il 23 marzo 1936 davanti alla seconda assemblea nazionale delle corporazioni143. La nuova parola d’ordine dell’autarchia e il tema dell’indipendenza economica nazionale dilagarono ben presto nella pubblicistica del regime, sovrapponendosi ai discorsi sul corporativismo. Questi, d’altra parte, dalla metà del decennio avevano iniziato a mostrare una crescente stanchezza e una sempre maggiore ripetitività di argomenti. Molti intellettuali del regime si affrettarono a parlare di «trapasso» se non, addirittura, di una «pausa corporativa», dal momento che la nuova politica degli scambi e degli investimenti per sostituire le importazioni avrebbe inevitabilmente tolto risorse alla politica sociale144. Uno dei giovani collaboratori del gruppo di Bottai, Agostino Nasti, scrisse che «l’azione per la potenza» doveva «primeggiare su quella per il rinnovamento sociale» e che, per gli obiettivi di potenza, il corporativismo si era rivelato uno strumento inadeguato145. Non tutti abbandonarono le istanze 230
anticapitalistiche, sociali e populiste del fascismo; quelle istanze conobbero anzi un rilancio nella campagna antiborghese del 1938. Tuttavia, sarebbero state sempre più svincolate, verso il finire del decennio, dal quadro corporativo, ritenuto ormai insufficiente a esprimere un effettivo cambiamento sociale146. In questo clima iniziarono ad affiorare le prime voci dei delusi. Il corporativismo si confermava infatti un tema sul quale le discussioni potevano conoscere una relativa apertura. In prima linea era ancora una volta «Critica fascista» – che pure ospitò, creando disorientamento, qualche intervento non allineato come quello di Nasti. Sulle colonne del giornale di Bottai apparvero articoli dai toni ben poco reticenti. Scrisse tra gli altri Federico Maria Pacces nel 1937: «Tuttora avulse dall’ordinamento amministrativo dello Stato, le Corporazioni s’adunano, discutono, approvano ‘dichiarazioni’, mentre le aziende producono come prima e i ministeri seguitano, come prima, a raccogliere […] copie in carta competente». La dottrina, da parte sua, «se ne sta, alquanto mortificata, a guardare: oppure spazia, eterea e irresponsabile, tra le nuvole dell’utopia»147. Interventi come questi anticipavano temi, toni e argomenti su cui ex post molti protagonisti avrebbero insistito, dando vita a una letteratura del rimpianto e delle occasioni mancate, di cui Bottai sarebbe stato assoluto protagonista. Proprio all’originario mito del corporativismo si aggrapparono nella seconda metà degli anni Trenta i diversi settori della «sinistra fascista», ritenendo il corporativismo non una costruzione in fieri, almeno in parte già realizzata e semmai da registrare, mettere a punto e interpretare; ma considerandolo invece un obiettivo ancora lontano dall’essere raggiunto, e il cui perseguimento significava rinverdire gli appannati spiriti rivoluzionari e contrapporsi 231
ai caratteri «conservatori» e «borghesi» assunti dal regime fascista. Proprio la radicalizzazione delle posizioni e la sempre più evidente distanza dagli orientamenti di Mussolini e della dirigenza del regime furono all’origine di quel cosiddetto «fascismo di fronda» che prese forma nella seconda metà del decennio e che ebbe nei giovani e in certi settori del sindacato i luoghi naturali dell’elaborazione e della pratica148; elaborazione e pratica che si incardinavano sull’attesa di una «nuova ondata», sulla ricerca non di un distacco dal fascismo ma di un fascismo diverso, dai tratti più accentuatamente sociali, più mussoliniani e più dittatoriali: di un fascismo, in altre parole, capace di esprimere un’accelerazione in senso totalitario149. La campagna antiborghese avviata nel 1938 avrebbe per un certo periodo alimentato le speranze dei «frondisti». La delusione albergava anche nei settori più istituzionali del fascismo. Il sottosegretario (dal gennaio 1935) e poi ministro (dal giugno 1936) alle Corporazioni, Ferruccio Lantini, non nascose la propria precoce disillusione. Intervenendo al convegno nazionale della Confederazione dei lavoratori dell’industria dell’ottobre 1936, ammise che poche erano state le questioni svolte e che vaghe erano le formulazioni di molte mozioni. Infatti, perché funzioni, «la Corporazione non basta metterla sugli altari per ammirarla un po’ da lontano magari attraverso gli incensi, le critiche, le varie interpretazioni della speculazione intellettuale». Il tempo avrebbe potuto portare rimedio. Tuttavia, la situazione che si era creata lasciava presagire un ulteriore arretramento rispetto alla realizzazione del corporativismo. Lantini notò infatti lucidamente che, con l’avvio dell’autarchia, alcuni «videro addirittura nelle Corporazioni un elemento di intralcio alla realizzazione della così detta indipendenza economica, mentre altri abbracciarono l’ideale autarchico con la speranza di far passare in seconda linea il 232
corporativismo fino poi a seppellirlo definitivamente»150. La denuncia delle distanze tra il progetto della terza via e l’effettivo funzionamento delle corporazioni diede luogo, nella seconda metà degli anni Trenta, ad alcune proposte di riforma. Gli stessi «delusi», infatti, in alcuni casi esposero a Mussolini piani di intervento attraverso cui riordinare l’assetto istituzionale delle strutture corporative e le attribuzioni di potere. Il progetto più sistematico è senza dubbio quello prodotto in ambito sindacale, elaborato in prima persona dal presidente della Confederazione dei lavoratori dell’industria, Cianetti. Il progetto, redatto nella primavera del 1937, si voleva inserire nella discussione allora in corso sulla riforma della struttura dello Stato, con l’obiettivo di dare a essa un’impronta corporativa. Costituiva infatti una rielaborazione ampliata e più netta della relazione presentata alla fine del 1936 dalla Confederazione alla commissione Solmi, incaricata di elaborare una riforma costituzionale incentrata sulla trasformazione della Camera dei deputati in camera corporativa151. Il testo di Cianetti del 1937 prevedeva l’accorpamento delle corporazioni, che dovevano passare da 22 a 9 ed essere costituite esclusivamente in base al criterio del ciclo produttivo; assegnava alla nuova camera la facoltà di emanare, tramite le corporazioni, «norme corporative concernenti l’autogoverno delle categorie in materia economica»; proponeva un riordino dei ministeri che avevano competenze su questioni economiche, sociali e sindacali; soprattutto, individuava le funzioni specifiche da assegnare alle corporazioni, e precisamente: a) la funzione legislativa e normativa; b) l’accertamento e il controllo dell’andamento economico delle aziende, dei consorzi, dei gruppi industriali ed enti operanti nel settore economico; controllo sull’osservanza delle leggi e delle norme corporative emanate; applicazioni di sanzioni; c) tentativo di conciliazione nei rapporti di lavoro, sia in sede di stipulazione contrattuale, che in sede di controversie collettive;
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d) formulazione di mozioni intese a segnare le direttive dello sviluppo economico152.
Il progetto di Cianetti si riprometteva dunque di riqualificare l’operato delle corporazioni, assegnando loro poteri estesi e ben definiti e facendone il fulcro della politica di programmazione economica. Le proposte non vennero prese in considerazione da Mussolini. Cianetti ritentò nuovamente – anche in questo caso senza risultati – un paio di anni dopo, nell’agosto 1939, quando, appena nominato sottosegretario alle Corporazioni, inviò al capo del governo un nuovo programma di riordino della struttura corporativa e sindacale153. Nominato ministro delle Corporazioni nell’aprile 1943, Cianetti avrebbe poi compiuto fuori tempo massimo l’ultimo inutile tentativo di imprimere una svolta radicale al sistema corporativo e sindacale. Subito dopo la nomina presentò infatti un ulteriore progetto di riforma, incentrato non solo sulla valorizzazione delle corporazioni ma anche sul rilancio del suo ministero, che tra l’altro – secondo un vecchio cavallo di battaglia dei corporativisti – avrebbe dovuto assumere anche il controllo dell’Iri154. Un altro progetto di riforma, ben più limitato e circoscritto, fu delineato dal ministro delle Corporazioni Lantini. Esso puntava non a una riforma del sistema corporativo ma, più modestamente, al rilancio del ruolo del suo dicastero. Il ministero delle Corporazioni, infatti, alla metà degli anni Trenta risultava annegato in una prassi burocratica di routine e di basso profilo, soppiantato da istituzioni di più recente formazione e privo di poteri significativi. Rispetto ai primi anni il ministero era ancora più debole politicamente e istituzionalmente. Con l’uscita di scena di Bottai, l’attività di studio, di intervento culturale e di progettazione politica e istituzionale si era progressivamente isterilita. Il fallimento dei tentativi di acquisire un controllo sull’Iri aveva sancito la sua 234
marginalità nella politica industriale, mentre la nascita delle corporazioni ne aveva ridimensionato le funzioni in campo sindacale. Da ultimo, con l’avvio dell’autarchia il ministero si era visto sottratte le rilevanti competenze in materia di commercio con l’estero e quasi tutta la direzione generale per gli scambi – organici e dirigenti inclusi –, ora assegnata al sottosegretariato per gli Scambi e le valute. Lantini tentò di compiere un ultimo tentativo per rilanciare l’azione e il ruolo del dicastero, in funzione della campagna autarchica. Propose, infatti, in un promemoria a Mussolini del luglio 1939, di costituire un sottosegretariato per i servizi industriali e autarchici, con il compito di garantire l’esecuzione dei piani autarchici, alla guida del quale proponeva Agostino Rocca, manager della siderurgia pubblica155. Anche quest’ultima proposta venne però lasciata cadere da Mussolini. Nonostante l’esito negativo, i progetti elaborati da esponenti di spicco delle istituzioni sindacali e corporative come Cianetti e Lantini testimoniano della tensione che continuò a caratterizzare la progettualità corporativa ancora nella seconda metà degli anni Trenta, almeno presso alcuni settori del fascismo. Parallelamente a questi tentativi fu infine avviata la riforma costituzionale del sistema rappresentativo. L’obiettivo di sostituire la Camera dei deputati con una nuova camera, basata sul principio corporativo, aveva costituito sin dall’origine un obiettivo del fascismo. Il tema era riemerso, seppur fugacemente, tra le pieghe del dibattito parlamentare sull’istituzione del Consiglio nazionale delle corporazioni. Fu in seguito via via riproposto da diversi dirigenti del partito e delle istituzioni156. L’obiettivo di creare una Camera dei fasci e delle corporazioni venne infine affermato da Mussolini nel discorso del marzo 1936 sul «piano regolatore per l’economia» e sull’«indipendenza 235
economica nazionale»157. In novembre il Gran consiglio del fascismo nominò perciò un’apposita commissione con l’incarico di formulare proposte relative alla formazione e al funzionamento della nuova Camera. La commissione, nota come commissione Solmi, dal nome del suo relatore, concluse i lavori nel luglio 1938158. Sulla base dei risultati raggiunti, all’inizio del 1939 vide la luce la Camera dei fasci e delle corporazioni, in sostituzione della Camera dei deputati. Nel contempo, venne approvata la riforma del Consiglio nazionale delle corporazioni: cambiava la composizione del consesso, ora formato dai membri del Comitato corporativo centrale e dai membri effettivi dei consigli delle corporazioni. L’approvazione della Camera dei fasci e delle corporazioni sanciva la fine del principio elettivo. I suoi membri infatti non erano eletti, neanche per tramite della «finzione» plebiscitaria, ma diventavano tali automaticamente, in virtù del ruolo ricoperto nel Pnf o nelle organizzazioni corporative, e appena decaduti da questi cessavano dalla carica nella nuova assemblea. A comporre la Camera dei fasci e delle corporazioni erano infatti, oltre al capo del governo, i membri del Gran consiglio del fascismo, del Consiglio nazionale del Partito nazionale fascista e del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Quest’ultimo dava il contributo più rilevante. Da lì, infatti, provenivano ben 525 dei complessivi 682 consiglieri nazionali, come vennero chiamati i membri della nuova Camera. I dirigenti politici del fascismo e i rappresentanti delle categorie presenti nelle corporazioni diventavano dunque direttamente, senza alcuna mediazione, rappresentativi della nazione. Il principio corporativo – benché mitigato dalla compresenza di quello partitico-politico – assumeva un rilievo costituzionale. Sulla nuova Camera si appuntarono le speranze residue 236
dei corporativisti delusi. La partita era ora giocata non più sulla scommessa di una politica di programmazione guidata e promossa dalle corporazioni ma sull’edificazione di un autentico sistema rappresentativo fondato sulle categorie produttive; un sistema capace, secondo Mussolini, di «garantire al popolo una rappresentanza diretta, attraverso gli uomini che sono con esso in più immediato contatto e che si trovano quindi in grado di conoscere più sicuramente i bisogni e le aspirazioni»159. Le speranze erano però destinate, anche in questo caso, a restare irrealizzate. Se la struttura operativa della nuova Camera – basata sulle commissioni legislative, che potevano approvare i disegni di legge al posto dell’assemblea plenaria – rendeva più agile e rapida l’approvazione delle leggi e dunque sembrava prefigurare un rilancio del ruolo dell’assemblea, nei fatti la riforma consacrò sul piano costituzionale l’abbandono definitivo della distinzione fra potere legislativo e potere esecutivo, con la completa subordinazione del primo al secondo. La legge istitutiva, infatti, affermava esplicitamente che la Camera dei fasci e delle corporazioni collaborava, per la formazione delle leggi, col governo, che diveniva di fatto la fonte effettiva della legislazione. Inoltre, ribadiva, all’interno dell’esecutivo, la posizione di assoluta preminenza, anche nella produzione legislativa, del capo del governo160. La riforma costituzionale che avrebbe dovuto celebrare il corporativismo quale nuovo sistema politico e istituzionale e quindi ratificare la natura corporativa dello Stato fascista, finì di fatto per confermare e rafforzare ulteriormente la dittatura carismatica di Mussolini e il ruolo sovrastante del «duce del fascismo». Di lì a pochi mesi lo scoppio della guerra e la preparazione dell’intervento italiano avrebbero assorbito ogni energia. L’«Italia in armi» e la concretizzazione delle mitologie belliche canalizzarono ogni residua tensione 237
ideologica, politica e istituzionale. La realizzazione del corporativismo passò decisamente in secondo piano e la Camera dei fasci e delle corporazioni finì così con il rappresentare, come avrebbe osservato Cianetti, un «ridicolo aborto»161. Con l’inizio della guerra le corporazioni furono esautorate, il ministero delle Corporazioni cedette ulteriori poteri e attribuzioni a quello della Produzione bellica, la politica sociale sparì dall’agenda del governo, la politica economica fu gestita direttamente da Mussolini secondo tradizionali moduli dirigisti e accentratori e in funzione delle necessità belliche, la politica sindacale fu limitata a una parzialissima difesa del potere contrattuale dei lavoratori dell’industria. La parabola del corporativismo si concluse ufficialmente poco dopo il 25 luglio: con il decreto legge del 9 agosto 1943, il governo Badoglio soppresse tutti gli organi corporativi. Il progetto corporativo non riconquistò spazio neanche a Salò. Il carattere sociale che Mussolini intendeva dare al nuovo Stato, richiamato sin nella denominazione, aveva ben poco a che vedere con le idee e le realizzazioni degli anni precedenti. I riferimenti al corporativismo furono esigui ed evanescenti tanto nella pubblicistica quanto nell’intervento politico e legislativo, e addirittura nessun cenno venne inserito nei 18 punti del Manifesto di Verona, il documento ideologico con cui veniva dato avvio all’esperienza della Repubblica sociale. Fu istituito, è vero, un ministero dell’Economia corporativa, sulle ceneri del dicastero delle Corporazioni162. Il mandato a esso affidato, però, prevedeva non il funzionamento di organi corporativi, disciolti e non più ricostituiti, ma – oltre al governo dell’apparato produttivo dell’Italia del Nord – la realizzazione dell’obiettivo, completamente diverso e ben più radicale, della «socializzazione». Al perseguimento 238
dell’armonia delle classi e alla costruzione della rappresentanza paritetica degli interessi si sostituiva dunque l’attacco diretto alla proprietà privata e alla borghesia industriale. Anche la socializzazione, ancor più del corporativismo, si sarebbe tuttavia rivelata un’idea priva di qualsiasi attuazione: un tentativo velleitario, in larga parte improvvisato e completamente fuori dal corso delle cose. I progetti elaborati dal ministro dell’Economia corporativa, Angelo Tarchi, «prospettavano un assetto assolutamente rispettoso della proprietà privata e delle gerarchie capitalistiche»163. Anche la ricostituzione, nel novembre 1943, di un’unica confederazione dei lavoratori (il «ribloccamento» a lungo auspicato dai sindacalisti fascisti) diede nell’immediato qualche speranza ai dirigenti confederali ma, a conti fatti, non fu seguita da nessun passo concreto né in direzione di una piena responsabilizzazione politica del sindacato né, tanto meno, di un risarcimento del mondo del lavoro164. Se non altro, l’estrema demagogia «anticapitalistica» di Salò testimonia il discredito in cui era caduta l’idea del corporativismo e l’impossibilità di riproporla al di fuori del regime fascista. Eppure, nonostante questo, nell’Italia del dopoguerra la liberazione da tutti i retaggi del corporativismo non fu né immediata né semplice. Il dibattito dell’Assemblea costituente ci offre numerose testimonianze. Il tema della rappresentanza corporativa fu al centro di un progetto organico presentato dal costituzionalista Costantino Mortati, del gruppo democristiano, che prevedeva di trasformare il Senato in una camera corporativa, fondata sulla rappresentanza di gruppi di interesse, professionali e sindacali. Lontanissimo da qualsiasi assonanza con l’ideologia e con la costruzione istituzionale del fascismo, il 239
progetto venne approvato in commissione, con l’astensione delle sinistre, per poi essere rapidamente abbandonato, dalla Democrazia cristiana innanzitutto, in sede di assemblea plenaria165. Anche altri istituti del corporativismo – come il riconoscimento pubblico, il sindacato unico per ogni settore, la presenza di organi paritetici con la facoltà di indirizzare la politica sociale ed economica – esercitarono, ridisegnati in senso democratico, suggestioni insospettabili e non sempre sotterranee, tanto nella Cgil unitaria quanto poi nell’attività della terza sottocommissione dell’Assemblea costituente166. La stessa costruzione del nuovo sistema sindacale fu influenzata da residue eredità corporative: l’impossibilità di riproporre un sistema come quello costruito nei primi due decenni del secolo, basato sulla reciproca autonomia di Stato e organizzazioni di rappresentanza sociale, e, nel contempo, il riconoscimento istituzionale delle nuove organizzazioni sindacali, garantito da una legislazione che ne regolamentava la funzione e dall’inserimento nei processi di formazione delle decisioni in materia economica e sociale, rendevano inevitabile il delicato confronto con l’esperienza fascista. Gli anni dell’immediato dopoguerra e della fase costituente ci appaiono perciò segnati, da questo punto di vista, dalla progressiva e non lineare liberazione dai lasciti istituzionali e culturali del corporativismo. Si trattò comunque, vale la pena precisarlo, delle ineliminabili vischiosità che sempre si accompagnano alle transizioni da un regime politico a un altro e delle continuità che inevitabilmente si propongono anche nelle situazioni di radicale cambiamento, e non certo del riproporsi nell’Italia repubblicana di un’eredità corporativa. Il corporativismo risultava infatti intimamente connotato dalla valorizzazione di identità rigide, dalla centralità dei 240
«produttori», dall’irrilevanza sociale e culturale del consumo e da un’integrazione strettissima tra Stato e società. Neanche una rielaborazione in senso democratico poteva renderlo attuale nella società del dopoguerra, che si apriva al pluralismo politico, all’autonomia dei soggetti sociali, all’enfasi posta sulla partecipazione più che sulla decisione, alla nuova dimensione del consumo. Soprattutto, il corporativismo appariva, agli occhi di tutte le culture politiche dell’Italia democratica, inscindibile dal modello ideologico e politico disegnato dal fascismo, e dunque da rifiutare senza condizioni167. C’è però un ultimo aspetto da richiamare. L’esperimento corporativo, nonostante contraddizioni e fallimenti, aveva costituito una componente decisiva dello Stato fascista: aveva rappresentato un ambizioso tentativo di conciliare il «particolare» dei numerosi e divergenti interessi presenti nella società con il «generale» rappresentato da uno Stato che ambiva a essere monolitico e totalizzante, attraverso l’inserimento dei primi nelle strutture del secondo. Gli interessi sociali venivano così subordinati allo Stato e però, al tempo stesso, acquisivano, almeno in via teorica, una dimensione istituzionale e politica che in precedenza non avevano raggiunto, o avevano raggiunto solo in parte. L’esito, come si è visto, fu di inserire dinamiche «pluralistiche» e spinte centrifughe all’interno del processo decisionale dello Stato fascista, con esiti che non furono deflagranti solo perché estremamente ridotto fu il peso realmente attribuito agli apparati corporativi e alla funzione istituzionale delle organizzazioni degli interessi. Pensato per realizzare il pieno dominio del tutto sulle parti, il corporativismo dunque sancì e legittimò l’ingresso delle parti nel tutto. Deriva anche da qui, probabilmente, l’ambiguità concettuale e semantica che oggi accompagna, nel linguaggio politico, sindacale e giornalistico e nel senso 241
comune, il termine «corporativismo», generalmente concepito come la gretta ed egoistica difesa di interessi di categoria, perseguiti nel disinteresse per obiettivi e considerazioni più generali. Possiamo vedere in questo slittamento semantico l’esito paradossale – un’autentica eterogenesi dei fini – della parabola del corporativismo fascista.
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Note 1 L. Razza, La corporazione nello Stato fascista, Quaderni di «La Terra», Roma 1933, p. 57. 2 G. Bottai, Verso un piano corporativo, in «Critica fascista», 15 marzo 1933, p. 105. 3 Franck, Il corporativismo cit., p. 117; G. Bottai, Verso il corporativismo democratico o verso una democrazia corporativa?, in «Il diritto del lavoro», 1952, n. 3-4, pp. 121-142. 4 Mussolini, Discorso per lo Stato corporativo cit., pp. 93-94. 5 Aquarone, L’organizzazione cit., p. 203. 6 I testi proposti all’esame del Gran Consiglio sono in ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 31, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 11, inserto D. Per le modifiche proposte a Mussolini da Biagi, e solo in parte approvate, cfr. ivi, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.1.11923: B. Biagi, Appunto per S.E. il Capo del Governo. Disegno di legge sulle Corporazioni, 20 dicembre 1933. 7 I verbali della commissione della Camera sono in ASCD, Disegni, proposte di legge e incarti delle commissioni, vol. 1305, fasc. 2059: Commissione per l’esame del disegno di legge n. 2059. 8 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit. 9 Ivi, p. 14. 10 Cfr. L. Razza, Superare la categoria, in «Il lavoro fascista», 3 ottobre 1933. 11 U. Spirito, Gerarchia del lavoro e fine del sindacato, in «La Stirpe», dicembre 1935, pp. 495-499. 12 Intervento di Livio Ciardi, presidente della Confederazione dei lavoratori delle comunicazioni interne, in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit., p. 68. 13 La commissione era composta da Rocco, Bottai, Costamagna, Fera, Lantini, Maraviglia, Martelli, Pala, Panunzio, Pennavaria, Razza, Serena, Teruzzi, Giuliano, Belluzzo, Manaresi, Morelli. 14 La prima versione del testo è in ASCD, Disegni, proposte di legge e incarti delle commissioni, vol. 1305, fasc. 2059: Commissione per l’esame del disegno di legge n. 2059; quella finale, invece, è in AP, Camera, Legislatura XVIII, Sessione 1929-1934, Documenti, disegni di legge e relazioni, n. 2059-A, pp. 45. 15 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit., pp. 71-74 e 107-114. Secondo De Felice, proprio queste posizioni sarebbero all’origine dell’allontanamento di Razza e De Marsanich dagli incarichi sindacali: De Felice, Mussolini il duce cit., vol. I, p. 291. 16 Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit., p. 73. 17 Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Convegno nazionale dei dirigenti dei sindacati fascisti dell’industria cit., pp. 10 e 47. Cfr. anche T. Cianetti, I lavoratori dell’industria e le corporazioni, in «Il lavoro fascista», 3 novembre 1934. 18 Fu, in particolare, il caso del settore marmifero e di quello cotoniero: Confederazione nazionale sindacati fascisti dell’industria, Atti del primo convegno dei lavoratori del marmo granito e pietre affini tenutosi a Carrara il 16-17 settembre 1933, F. Damasso, Roma 1933; La necessità di un coordinamento corporativo dell’industria, in «Il lavoro fascista», 21 novembre 1933. 19 g. b. [Giuseppe Bottai], Il ricatto liberale contro il corporativismo cit.; F.M. Pacces, Verso un piano economico-corporativo, in «Il lavoro fascista», 1° luglio 1933, pp. 259-260; Id., Lo spirito d’impresa nel sistema corporativo, in «Il lavoro fascista», 15 ottobre 1933, pp. 392-395. 20 Cfr. l’intervento di Alberto Pirelli al Consiglio nazionale delle corporazioni, in Ministero delle Corporazioni, Atti dell’Assemblea generale del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Sessione quinta cit.,
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pp. 102-104 e il discorso dello stesso Pirelli pronunciato a Napoli il 23 maggio 1934, in ACS, Spd, Co, fasc. 512.518. 21 A noi la rivoluzione, in «Il secolo fascista», 1-15 settembre 1933, p. 289. 22 Parlato, Il sindacalismo fascista cit., pp. 104-106. 23 Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 197-198. 24 Cianetti, Memorie cit., p. 210; P. Capoferri, L’ora del lavoro, Mondadori, Milano 1941, pp. 125126. 25 Le corporazioni erano le seguenti: Corporazioni a ciclo produttivo agricolo, industriale e commerciale: 1) dei cereali; 2) della orto-floro-frutticoltura; 3) della viti-vinicoltura; 4) olearia; 5) delle bietole e dello zucchero; 6) della zootecnia e della pesca; 7) del legno; 8) dei prodotti tessili. Corporazioni a ciclo produttivo industriale e commerciale: 9) della metallurgia e della meccanica; 10) delle industrie chimiche; 11) dell’abbigliamento; 12) della carta e della stampa; 13) delle costruzioni edili; 14) dell’acqua, del gas e dell’elettricità; 15) delle industrie estrattive; 16) del vetro e della ceramica. Corporazioni per le attività produttrici di servizi: 17) della previdenza e del credito; 18) delle professioni e delle arti; 19) del mare e dell’aria; 20) delle comunicazioni interne; 21) dello spettacolo; 22) dell’ospitalità. 26 S. Misiani, I numeri e la politica. Statistica, programmazione e Mezzogiorno nell’impegno di Alessandro Molinari, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 83-85. 27 Con il Rd 27 dicembre 1934, n. 2101, era stata riformata la composizione del Comitato. 28 Aquarone, L’organizzazione cit., p. 207. 29 G. Mazzoni, La «crisi» del diritto corporativo e la validità del corporativismo, in «Il diritto del lavoro», I, 1943, p. 131. 30 I componenti delle 22 Corporazioni Fasciste, in «Sindacato e corporazione», agosto 1937, pp. 349374. 31 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938. 32 C. Rosselli, Corporazione e rivoluzione (1934), in Id., Scritti dell’esilio, vol. I, «Giustizia e libertà» e la concentrazione antifascista (1929-1934), a cura di C. Casucci, Einaudi, Torino 1988, p. 275. Cfr. R. Chiarini, Il corporativismo paradigma del totalitarismo, in «Nuova storia contemporanea», 2000, n. 1, pp. 33-42. 33 Cfr. ACS, Spd, Co, fasc. 500.005/II: F. Lantini, Appunto per S.E. il Capo del Governo, 17 dicembre 1937. 34 Sempre utile, per uno sguardo d’insieme, L. Franck, Les étapes de l’économie fasciste italienne. Du corporatisme à l’économie de guerre, Editions du Centre polytechnicien d’études économiques, Paris 1939, pp. 242-266. 35 Come ha osservato Luciano Zani, l’autarchia, prima di divenire un tutt’uno armonico con il corporativismo, necessitò di analisi che tenessero conto del «trapasso» se non, addirittura, di una «pausa corporativa» (L. Zani, Fascismo, autarchia, commercio estero. Felice Guarneri un tecnocrate al servizio dello «Stato nuovo», Il Mulino, Bologna 1988, p. 119). Cfr., almeno in parte a contrario, A. Cardini, Le corporazioni continuano… Cultura economica e intervento pubblico nell’Italia unita, Franco Angeli, Milano 1993, pp. 149-151. 36 ACS, Iri, Serie nera, b. 83: Relazione riassuntiva dei piani autarchici al Comitato Corporativo Centrale, novembre 1937 («Riservatissima»); A. Gagliardi, L’impossibile autarchia. La politica economica del fascismo e il Ministero scambi e valute, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 125-148. 37 M. Saibante, Il fascismo e l’industria, Mondadori, Milano 1940, pp. 46-47. 38 O. Cilona, Alcuni temi di dibattito nel sindacato fascista dell’industria negli Anni Trenta. La regolamentazione del lavoro, la contrattazione nell’economia corporativa e la riforma organizzativa (19301938), in «Incontri meridionali», 1992, n. 1-2, pp. 361-363. 39 ACS, Iri, Serie nera, b. 83: Ministero delle Corporazioni, Segretariato generale del Consiglio
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nazionale delle corporazioni, Relazione riassuntiva dei piani autarchici, novembre 1937 («Riservatissima»), tabella VIII. Per un’interpretazione complessiva degli effetti a lungo termine della politica dei piani autarchici cfr. R. Petri, Von der Autarkie zum Wirtschaftswunder. Wirtschaftspolitik und industrieller Wandel in Italien 1935-1963, Niemeyer, Tübingen 2001. 40 F. Bonelli, A. Carparelli, M. Pozzobon, La riforma siderurgica Iri tra autarchia e mercato (19351942), in F. Bonelli (a cura di), Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, Einaudi, Torino 1982, pp. 217-333. 41 Ivi, pp. 247-255. 42 Ivi, p. 293. 43 Ivi, p. 287. 44 Ivi, pp. 307-311. 45 Ivi, pp. 326-327. 46 S. Cassese, Documenti sulla preparazione della legge bancaria del 1936, in «Storia contemporanea», 1974, n. 1, poi in Id., La formazione cit., pp. 127-174; Id., Come è nata la legge bancaria del 1936, Banca nazionale del lavoro, Roma 1988; V. Santoro, Separazione di gestioni tra credito a breve e lungo termine. Profili storici della formazione del «principio», in M. Porzio (a cura di), La legge bancaria. Note e documenti sulla sua «storia segreta», Il Mulino, Bologna 1981, pp. 31-81; G.F. Calabresi, L’Associazione bancaria italiana. Un caso di associazionismo economico, vol. I, 1919-1943, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 358-407. 47 Cfr., tra gli altri, R. Faucci, Appunti sulle istituzioni economiche del tardo fascismo, 1935-1943, in «Quaderni storici», 1975, n. 29-30, pp. 610-614. 48 Il testo della mozione è riportato integralmente in Calabresi, L’Associazione bancaria italiana cit., pp. 620-621. 49 Cfr. Resoconto della riunione del 12 aprile 1935, integralmente riportato in Porzio (a cura di), La legge bancaria cit., pp. 301-305. 50 Ibid.; Cassese, Come è nata la legge bancaria cit., pp. 106-122. 51 Per quanto attiene alla vigilanza, la proposta iniziale era stata descritta in un dettagliato documento del mese precedente (Osservazioni sulle partecipazioni industriali dell’Iri e sull’organizzazione di un controllo bancario nazionale, 18 novembre 1935, riprodotto integralmente in Porzio [a cura di], La legge bancaria cit., pp. 306-321). Il punto di vista sulla distinzione tra i diversi istituti di credito è espresso chiaramente negli appunti manoscritti relativi a una riunione del 3 dicembre tra i massimi dirigenti dell’Iri. 52 Santoro, Separazione di gestioni cit., p. 59. 53 Il dibattito è dettagliatamente ricostruito in Calabresi, L’Associazione bancaria italiana cit., pp. 390401. 54 Ivi, pp. 405-407. 55 Aquarone, L’organizzazione cit., p. 206 e Parlato, Il sindacalismo fascista cit., p. 46. 56 Parlato, Il sindacalismo fascista cit., p. 47. 57 Cfr. R. Del Giudice, Corporazione e revisione dell’ordinamento sindacale, in «Politica sociale», 1934, n. 5-6, pp. 165-172. 58 Cianetti, Memorie cit., p. 217. 59 G. Bottai, Confederazioni ed autonomia sindacale, in Id., Esperienza corporativa. 1929-1935, Vallecchi, Firenze 1935, p. 392. 60 ACS, Spd, Cr, 1922-43, b. 31, fasc. 242/R «Gran Consiglio», sottofasc. 11, inserto D: B. Biagi, Organizzazione corporativa e progetti di legge. Appunto per S.E. il Capo del Governo, 29 novembre 1933. 61 Cilona, La confederazione cit., p. 279. 62 Sulla figura di Tullio Cianetti cfr. Parlato, La sinistra fascista cit., pp. 225-227.
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63 I problemi sottoposti alla Corporazione della Carta e della Stampa, in «Sindacato e corporazione», marzo 1935, pp. 628-631; I lavori della Corporazione dell’Abbigliamento, in «Sindacato e corporazione», maggio 1935, pp. 1454-1455; I lavori della Corporazione del Vetro e della Ceramica, in «Sindacato e corporazione», dicembre 1935, pp. 1064-1065; I lavori della Corporazione dell’Ospitalità, in «Sindacato e corporazione», gennaio 1936, pp. 89-91. 64 Il lavoro a domicilio era considerato durante il fascismo una tipica occupazione femminile perché consentiva di conciliare lavoro e attività domestica: cfr. P. Greco, Il lavoro a domicilio nell’ordinamento corporativo, Edizioni del «Diritto del lavoro», Città di Castello 1928. 65 Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Le corporazioni nel primo anno di vita, Il lavoro fascita, Roma 1936, p. 177. 66 Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., pp. 341-342. 67 L’intera vicenda è ricostruita in Parlato, Il sindacalismo fascista cit., pp. 85-90. 68 Cfr. M. Pierro, L’inquadramento sindacale degli Enti di diritto pubblico che hanno per fine un’attività economica, in «Rivista del lavoro», 1938, n. 2, pp. 4-7. 69 Parlato, Il sindacalismo fascista cit., p. 87. 70 Ivi, p. 84. 71 E. Malusardi, Un’ultima parola sul sistema Bedaux, in «Il lavoro fascista», 11 novembre 1934; Parlato, Il sindacalismo fascista cit., pp. 74-77. 72 G. Sapelli, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell’Italia tra le due guerre, Rosenberg & Sellier, Torino 1978, p. 226. 73 Vittoria corporativa, in «Il lavoro fascista», 23 ottobre 1935; L. Riva-Sanseverino, Corporazione (diritto corporativo), in Enciclopedia del diritto, vol. 10, Giuffrè, Milano 1962, p. 681. 74 Cilona, La confederazione cit., p. 297. 75 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938; F. Angelini, Previdenza e assistenza sindacale, in «Il lavoro fascista», 23 ottobre 1935. 76 AFUS, Fondo Giuseppe Landi, b. 14: Il Comitato corporativo centrale, s.d. [ma 1939]. Le linee guida della riforma sono illustrate in un documento redatto dal ministro delle Corporazioni Lantini: ivi, Ministero delle Corporazioni, Direzione generale delle associazioni professionali, Problemi relativi all’assistenza malattia ai lavoratori, 11 ottobre 1939. Cfr. Parlato, Il sindacalismo fascista cit., pp. 128-133. 77 Tra i tanti interventi sul tema, L. Fontanelli, Degli assegni familiari e d’altro, in «Il lavoro fascista», 2 ottobre 1936; G. Suardi, Dal salario economico al salario sociale, in «Il lavoro fascista», 25 ottobre 1936; B. Biagi, La politica del lavoro nel diritto fascista, Le Monnier, Firenze 1939. 78 Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., p. 355. 79 Cfr. B. Biagi, La politica del lavoro nel diritto fascista, Le Monnier, Firenze 1939, pp. 29-30. 80 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938; Come la Confederazione dei lavoratori dell’industria provvede alla rilevazione dei dati economici, in «Il lavoro fascista», 21 aprile 1936. 81 Z.C., Azienda sindacato corporazione, in «Il lavoro fascista», 8 maggio 1934. Cfr. anche T. Cianetti, I lavoratori dell’industria e le corporazioni, in «Il lavoro fascista», 3 novembre 1934; G. Landi, Enti pubblici ed aziende di interesse nazionale nella economia corporativa, in «Rivista del lavoro», maggio 1938, pp. 13-23. 82 Landi, Enti pubblici cit., p. 23. 83 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: T. Cianetti, Alcune considerazioni sui piani autarchici elaborati dalle corporazioni, 9 ottobre 1937. 84 Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., p. 362. 85 ACS, Spd, Co, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938.
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86 Ivi, fasc. 509.486/I, sottofasc. 1: G. Volpi, Discorso sull’autarchia pronunciato all’adunata delle Confederazioni degli industriali e dei lavoratori dell’industria, 18 novembre 1937. 87 Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., p. 362. 88 ACS, Spd, Co, fasc. 500.005/II: F. Lantini, Appunto per S.E. il Capo del Governo, 17 dicembre 1937. 89 Bertini, Le parti e le controparti cit., p. 218. 90 AFUS, Fondo Giuseppe Landi, b. 5, fasc. 4: Istituto per l’esercizio del credito immobiliare nell’A.O.I.; ivi, b. 17: Riunione della Giunta Confederale del 2 febbraio 1937; ivi, b. 5: Confederazione fascista dei lavoratori delle aziende del credito e della assicurazione, Raccolta dei depositi da parte di società finanziarie industriali e commerciali non sottoposte alla vigilanza dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito. Memoria per la Corporazione della Previdenza e del credito, s.d. [ma 1939]. 91 Cfr. ivi, b. 17: Riunione della Giunta Confederale del 2 febbraio 1937. 92 Ibid. 93 S. Panunzio, Sindacati e partito, in «Il Maglio», 15 settembre 1937. 94 Parlato, Il sindacalismo fascista cit., p. 107. 95 E. Curiel, Correnti e contrasti in seno al sindacato fascista, in «Lo Stato operaio», 20 novembre 1938, ora in Id., Scritti. 1935-1945, a cura di F. Frassati, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 212-218; Togliatti, Lezioni sul fascismo cit., p. 172. 96 Di fronte alla resistenza del fronte imprenditoriale, a poco valevano le prese di posizione del Pnf: cfr. ACS, Spd, Co, fasc. 509.790, sottofasc. 2: Pnf, Direttorio nazionale, circolare ai segretari delle federazioni dei fasci di combattimento, 2 aprile 1935; ivi, C.A. Berti (Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria) a Sebastiani (segretario particolare del capo del governo), 10 aprile 1935. 97 Ivi, Spd, Cr, b. 80, fasc. W/R «Biagi Bruno»: Nota della Ps indirizzata a Mussolini, 31 agosto 1937; N. Palopoli, Lo Stato Corporativo e la Carta del Lavoro, in «L’economia italiana», 1937, n. 4, pp. 294328. 98 ACS, Spd, Co, fasc. 500.005/II: F. Lantini, Appunto per S.E. il Capo del Governo, 17 dicembre 1937. 99 Ivi, fasc. 509.790: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Rapporto dei dirigenti. Relazione del presidente, 16 novembre 1938. 100 A. Gagliardi, La Cgil unitaria e la nuova costituzione economica, in G. Monina (a cura di), 19451946. Le origini della Repubblica, vol. I, Contesto internazionale e aspetti della transizione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 349-381. 101 M. Maraffi, L’organizzazione degli interessi industriali in Italia, 1870-1980, in A. Martinelli (a cura di), L’azione collettiva degli imprenditori italiani, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 161. 102 Ivi, p. 157. 103 Lanzalaco, Dall’impresa all’associazione cit., pp. 142-143. 104 Annotò Conti nei suoi taccuini, alla data del 15 settembre 1939: «In questo periodo in cui si afferma quotidianamente di voler andare verso il popolo, si è venuta formando una oligarchia finanziaria che richiama, nel campo industriale, l’antico feudalesimo. La produzione è, in gran parte, controllata da pochi gruppi, ad ognuno dei quali presiede un uomo. Agnelli, Cini, Volpi, Pirelli, Donegani, Falck, pochissimi altri, dominano completamente i vari rami dell’industria» (E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Il Mulino, Bologna 1986, p. 432). 105 Cfr. ACS, Spd, Co, fasc. 500.005/I: Lettera a Mussolini, 8 luglio 1938. 106 S. Romano, Giuseppe Volpi. Industria e finanza tra Giolitti e Mussolini, Bompiani, Milano 1979, pp. 206-207. 107 Ivi, p. 207. 108 Sarti, Fascismo e grande industria cit., pp. 124-131.
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109 G. Gualerni, Industria e fascismo. Per una interpretazione dello sviluppo economico italiano tra le due guerre, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 188-189. 110 Le employers associations rappresentano gli imprenditori in quanto «datori di lavoro» nella sfera sociale (problemi sindacali e politiche sociali) mentre le trade associations li rappresentano in quanto «uomini d’affari» nella sfera d’azione economica e tecnica (questioni relative alla politica economica, industriale, commerciale e a tutto quanto concerne la produzione). In Italia le due funzioni hanno sempre convissuto nella stessa organizzazione, senza dar mai luogo a specializzazioni: cfr. Lanzalaco, Dall’impresa all’associazione cit., p. 19. 111 ACS, Pcm, Gab., 1934-36, fasc. 18.2.5997: Ministro dei Lavori pubblici, Appunto per S.E. il Capo del Governo. Rapporto fra le corporazioni e gli organi esecutivi dello Stato, 11 febbraio 1936. 112 Sul testo unico del 1933 e sui successivi interventi legislativi cfr. P. Ciarlo, Il testo unico del 1933 sulle acque e sugli impianti elettrici, in G. Galasso (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. 3, t. 1, Espansione e oligopolio. 1926-1945, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 61-88; L. Segreto, Giacinto Motta. Un ingegnere alla testa del capitalismo industriale italiano, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 209-228. 113 Sulla «logica dell’influenza» delle organizzazioni imprenditoriali cfr. A. Martinelli, L. Lanzalaco, L’organizzazione degli interessi imprenditoriali e il sistema politico. La logica dell’influenza, in Martinelli (a cura di), L’azione collettiva cit., pp. 317-363. 114 De Felice, Mussolini il duce cit., vol. I, p. 291. 115 P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 204-218. 116 Gualerni, Industria e fascismo cit., pp. 170-184; E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia (1977), a cura di A. Gagliardi, Carabba, Lanciano 2009, pp. 220-240. 117 A. Santarelli, Dati e considerazioni intorno alla disciplina corporativa delle nuove iniziative industriali, in «Rivista internazionale di scienze sociali», gennaio 1941, pp. 63-64. 118 G. Bottai, Verso un piano corporativo cit., p. 105. 119 Cfr. gli interventi dell’ex presidente di Confindustria, Gino Olivetti, e di Alberto Asquini, in AP, Camera, Legislatura XXVIII, Sessione 1929-1933, Discussioni, vol. 7, rispettivamente pp. 7590 e 7585. 120 P. Capoferri, Limiti e funzioni della legge sugli impianti industriali, in «Gerarchia», dicembre 1937, pp. 832-834 121 AConf, Fondo Giovanni Balella, b. 89, fasc. 1: La disciplina dei nuovi impianti industriali nell’ordine corporativo, s.d. [ma 1938]. 122 Lettera dell’on. Benni, in «Il Popolo d’Italia», 15 aprile 1930. 123 AConf, Fondo Giovanni Balella, b. 89, fasc. 1: La disciplina dei nuovi impianti industriali nell’ordine corporativo, s.d. [ma 1938]; ivi, Circolari della Confederazione fascista dell’industria alle Federazioni di categoria e alle Unioni provinciali n. 2726, 13 marzo 1937, n. 2995, 12 giugno 1937 e n. 3644/D.P., 25 febbraio 1938 («Riservata»). 124 V. Strinati, La legislazione corporativa sugli impianti industriali: interpretazioni e discussioni, in «Le carte e la storia», 2001, n. 1, pp. 196-208. 125 Gualerni, Industria e fascismo cit., pp. 151-170; Cianci, Nascita dello Stato imprenditore cit., pp. 209-217. 126 ACS, Pcm, Gab., 1931-33, fasc. 18.8.9114: Schema di decreto legge concernente la costituzione di consorzi per determinati rami di attività economica («Riservata»), 1932. 127 Sarti, Fascismo e grande industria cit., pp. 128-130. 128 AP, Camera, Legislatura XXVIII, I Sessione, Discussioni, pp. 2753-2754; ivi, tornata del 24 febbraio 1932, pp. 5791-5792; ivi, tornata del 30 aprile 1932, pp. 6764-6767. Cfr. anche G. Bottai, Corporazioni e consorzi cit.; Id., Verso un piano corporativo cit.; g. b. [Giuseppe Bottai], Il ricatto liberale cit. 129 Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Convegno nazionale dei dirigenti dei sindacati fascisti dell’industria cit.
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130 Cit. in Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., pp. 356-357. 131 AFUS, Fondo Giuseppe Landi, b. 5: Luigi Begnotti, La produzione e la distribuzione del cemento in Italia. La situazione attuale dell’industria del cemento, s.d. [ma 1937]. 132 Ivi, Id., Seguito alla relazione allegata alla nota sulla «disciplina della produzione e distribuzione del cemento» (lettera n. 1916 del 29/4/37). 133 AConf, Fondo Giovanni Balella b. 90, fasc. 1: Argomenti generali sulla disciplina consortile, s.d. 134 Ibid. 135 F. Chessa, Economia controllata ed economia corporativa, in «Annali dell’Università di Genova», 1936, p. 1. 136 Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Convegno nazionale dei dirigenti dei sindacati fascisti dell’industria cit. 137 Cilona, Alcuni temi di dibattito cit., pp. 360-361. 138 AConf, Fondo Giovanni Balella b. 90, fasc. 1: Confederazione generale fascista dell’industria italiana, Ufficio disciplina della produzione, Note per la riunione dei direttori, s.d. [ma 1937]. 139 Gualerni, Industria e fascismo cit., pp. 159. 140 AConf, Fondo Giovanni Balella b. 90, fasc. 1: Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Direzione dei servizi corporativi ed assistenziali (servizio economico) alla Unione provinciale di Campobasso e per conoscenza alle Federazioni nazionali, 17 marzo 1938. 141 Ivi, Confederazione generale fascista dell’industria italiana, Ufficio rilevazioni e studi, Influenza degli accordi consortili sulla dinamica dei prezzi, s.d. 142 Il Comitato corporativo centrale, in «L’economia nazionale», 1939, n. 10, pp. 31-33. Per l’appoggio da parte di Mussolini cfr. B. Mussolini, La funzione dei consorzi (1939), in E. e D. Susmel (a cura di), Opera omnia di Benito Mussolini cit., vol. XXIX, 1966, pp. 320-321. 143 Mussolini, Il piano regolatore cit., pp. 241-248. 144 Zani, Fascismo, autarchia cit., p. 119. 145 A. Nasti, Direttrici politiche del regime, in «Critica fascista», 1° novembre 1937, p. 3. 146 Santomassimo, La terza via fascista cit., pp. 232-235. 147 F.M. Pacces, Sbloccamento delle Corporazioni e riorganizzazione corporativa dei ministeri, in «Critica fascista», 1° gennaio 1937, p. 67. 148 Il riferimento canonico è rappresentato da R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Mursia, Milano 1998. Cfr. anche V. Panunzio, Il «secondo fascismo», 1936-1943. La reazione della nuova generazione alla crisi del movimento e del regime, Mursia, Milano 1988. 149 Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 227. 150 F. Lantini, Funzionamento delle corporazioni, in «Economia italiana», 1936, n. 11, pp. 832-833. 151 Il testo è pubblicato integralmente in F. Perfetti, La Camera dei fasci e delle corporazioni, Bonacci, Roma 1991, pp. 247-250. 152 ACS, Carte Cianetti, scat. 6, fasc. 76: Contributo agli studi per la riforma costituzionale, s.d. [ma 1937]. 153 Ivi, fasc. 75: Ministero delle Corporazioni, Il sottosegretario di Stato, 31 agosto 1939. 154 Ivi, scat. 5, fasc. 56: Cianetti (ministero delle Corporazioni), Appunto per il Duce, 15 maggio 1943. Il «lungo progetto» di Cianetti è dettagliatamente ricostruito in Parlato, La sinistra fascista cit., pp. 225288. 155 ACS, Spd, Co, fasc. 500.001: Appunto per il Duce del ministro delle Corporazioni Ferruccio Lantini, 7 luglio 1939. 156 Fine del Parlamento?, in «Critica fascista», 15 maggio 1933, p. 192; S. Longhi, Integrazione
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parlamentare, in «Il Popolo d’Italia», 15 aprile 1933. 157 Mussolini, Il piano regolatore cit., p. 242. 158 Cfr. l’esauriente resoconto in Perfetti, La camera dei fasci cit., pp. 174-195, e, soprattutto, pp. 239398, dove sono pubblicati gli atti della commissione. 159 AP, Camera, Legislatura XXIX, Sessione 1934-1939, Disegni di legge e relazioni, vol. XXVI, n. 2655, p. 2. 160 Aquarone, L’organizzazione cit., pp. 277-279. 161 Cianetti, Memorie cit., p. 281. 162 M. Borghi, Dal ministero dell’Economia corporativa al ministero del Lavoro, in «Rivista di storia contemporanea», 1993, n. 2-3, pp. 357-392. 163 L. Ganapini, La Repubblica delle camicie nere. I combattenti, i politici, gli amministratori, i socializzatori, Garzanti, Milano 1999, p. 14. 164 Ivi, pp. 390-452. 165 F. Astolfi, Democrazia corporativa. La proposta di Costantino Mortati in Assemblea costituente, in «Italia contemporanea», 2005, n. 239-240, pp. 225-247. 166 Cfr. il «classico» G. Giugni, Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, in «Il Mulino», 1956, n. 1, pp. 3-17. Mi permetto di rinviare anche a Gagliardi, La Cgil unitaria cit., pp. 349-381. 167 Considerazioni ben diverse valgono invece per il complesso apparato degli enti pubblici, indubbiamente connesso con l’ordinamento e la cultura del corporativismo ma non identificabile con essi, e destinato a indiscutibile fortuna nei decenni successivi: cfr. M. Salvati, The Long History of Corporatism in Italy. A Question of Culture or Economics?, in «Contemporary European History», 2006, n. 2, pp. 223-244.
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Sigle e abbreviazioni
AConf – Archivio storico Confindustria, Roma ACS – Archivio centrale dello Stato, Roma AFUS – Archivio storico Fondazione Ugo Spirito, Roma AP – Atti parlamentari ASCD – Archivio storico Camera dei Deputati Co – carteggio ordinario Cr – carteggio riservato Pcm – Presidenza del Consiglio dei ministri Pnf – Partito nazionale fascista Ps – Pubblica sicurezza Rd – Regio decreto Spd – Segreteria particolare del duce b. – busta cart. – cartella fasc. – fascicolo Gab. – Gabinetto scat. – scatola
251
INDICE Introduzione
7
Note
16
1. Cultura, idee, ideologia
17
1. La «civiltà dei produttori» 2. La ricerca della terza via 3. I diversi corporativismi Note
17 24 30 48
2. L’autoritarismo sindacale
52
1. La lunga preparazione 2. Nel segno di Alfredo Rocco 3. Un ministero per lo Stato nuovo 4. Dal sindacato alla corporazione Note
52 63 84 105 110
3. Corporativismo senza corporazioni
116
1. Il Consiglio nazionale delle corporazioni 2. Lo «Stato maggiore dell’economia» 3. Politiche sociali e legislazione del lavoro 4. La «normalizzazione» Note
116 132 142 156 165
4. Le corporazioni entrano in funzione
170
1. Nella teoria e nella realtà 2. Effetti sull’economia 3. Un nuovo sindacalismo 252
170 183 195
4. La politica degli industriali 5. Il corporativismo realizzato 6. Delusioni e mancate riforme Note
Sigle e abbreviazioni
210 217 230 243
251
253