Il concilio di Trento. Una introduzione storica 8806158775


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Il concilio di Trento. Una introduzione storica
 8806158775

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Piccola Biblioteca Einaudi Nuova serie

Storia e geografia

Adriano Prosperi Il C o n cilio di Trento: una in troduzione storica

© 2001 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it

ISBN 88-06-15877-5

Piccola Biblioteca Einaudi Storia e geografia

I n d ic e

p. ix

Premessa

Il Concilio di Trento: una introduzione storica 3

I.

12

II.

31

III.

44

IV .

5

i

V.

73

V I.

88

VII.

95

V ili.

La lotta per e contro il concilio La vittoria del papato Il primo problema del concilio: riforma della disciplina 0 confronto dottrinale ? La grande politica europea attraverso il sismografo del concilio Questioni dottrinali Questioni di riforma L ’interpretazione del concilio L ’attuazione dei decreti di riforma I sacramenti tridentini e i rituali sociali La storia che non passò da Trento Le fonti e la storiografia

114

IX .

143

X.

165

X I.

187

Indicazioni per ulterion letture

195

Indice dei nomi e dei toponimi

Elenco delle illustrazioni fuori testo

1.

Giovanni da Udine, Concilio di Trento, affresco, 1560. Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Loggia della Cosmografia. (Foto Archivio Scala).

2.

Erasmo da Rotterdam e Sebastiano Miinster censurati dall’In­ quisizione, incisione, 1550 . Dalla Cosmographia di Miinster, Basilea, 1550. Madrid, Biblioteca Nacional.

3.

«Erasm o... Sancho Panza... y su amigo Don Quijote», ritratto di Erasmo censurato dall’Inquisizione, incisione, 15 5 0 . Ibìd.

4.

Michelangelo, Giudizio universale, affresco, 15 3 5 -4 1, partico­ lare con i «braghettoni» dipinti da Daniele da Volterra nel 1564 per coprire le nudità. Città del Vaticano, Cappella Sistina. (Foto Archivio Scala).

5.

Antonio e Giulio Campi, San Carlo Borromeo istituisce i corsi del­ la dottrina cristiana, olio su tela, seconda metà x v i secolo. Milano, San Francesco da Paola. (Foto Archivio Scala).

6.

Giovanbattista Crespi detto Cerano, San Carlo Borromeo riceve i barnabiti e i gesuiti, tempera su tela, 16 03.

7.

Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone e Giovanni d ’Enrico, Ecce homo, scena affrescata con sculture, 16 0 8 -12 .

Milano, Duomo. (Foto Archivio Scala).

Varallo, Sacro Monte. (Foto Archivio Scala).

8.

Gian Domenico D ’Auria, Madonna delle Grazie ed anime del Pur­ gatorio, bassorilievo, 1550 . Capua, Museo Campano.

9.

Peter Paul Rubens, Trionfo della Chiesa, olio su tavola, 1626. Madrid, Museo del Prado.

10. Peter Paul Rubens, Trionfo della verità cattolica, olio su tavola, 1626. Ibid.

1 1 . Giuseppe Maria Crespi, San Giovanni Nepomuceno confessa la regina d ’ Ungheria, olio su tela, 1743. Torino, Galleria Sabauda. (Foto Archivio Scala).

Premessa Trento - geografia e storia di una scelta

Come per ogni oggetto di studio, geografia e cronolo­ gia sono le due ottiche che gli storici debbono esercitare per inquadrare il Concilio di Trento. Chiamiamo tradi­ zionalmente Concilio di Trento un’assemblea di uomini di Chiesa - vescovi, abati e generali di ordini religiosi, ope­ ranti sotto l’attento governo di legati papali, piu uno stuo­ lo di esperti in teologia e diritto al loro servizio e un con­ torno di ambasciatori e plenipotenziari politici - che si riunì prima a Trento (1545-47), poi a Bologna (1547), poi ancora a Trento (15 5 1-5 2 e 1561-63). La cosa più diffici­ le da spiegare - nello stesso tempo la piu apparentemente semplice - è racchiusa nel nome del luogo: Trento. Perché un concilio a Trento ? Il nome della città introduce un in­ solito scenario alpino sullo sfondo millenario dei concili del mondo cristiano. I nomi dei luoghi hanno una loro imme­ diata capacità evocativa e suggestiva; quelli della serie dei concili non sfuggono alla regola. C ’è un inizio remoto, se­ gnato da nomi che sembrano scritti a mosaici d’oro (Nicea, Costantinopoli, Efeso, Calcedonia), poi, in seguito al­ la rottura tra Oriente e Occidente cristiani, una lunga tra­ dizione medievale, col nome familiare e solenne di una grande basilica romana. Qui, «quando Laterano - come dice Dante - alle cose mortali andò di sopra», sembra sta­ bilizzarsi indefinitamente il sogno di una rinascita roma­ na legata al vescovo di Roma: Laterano I, II, III, IV . Poi, la serie si interrompe e comincia una migrazione inquieta tra le città dell’Europa, alla ricerca di un equilibrio stabi­ le tra poteri laici ed ecclesiastici, tra papato e concilio, tra papato e impero e monarchie nazionali. Ogni nome reca

X

PREMESSA

un segno politico e storico preciso: una piccola serie fran­ cese, conclusa e segnata dal torbido affare delle condanne dei Templari: Lione e Vienna (nel Delfinato); città impe­ riali: Costanza e Basilea. Il placido lago di Costanza ricor­ derà sempre il rogo di Hus. Lo scenario svizzero di queste due città è anche quello dove termina il turbinio di papi e antipapi ed emerge l’idea di un governo parlamentare del­ la Chiesa, attraverso la periodica convocazione del conci­ lio. Ma il concilio aperto a Basilea si chiude a Roma, dopo una lunga migrazione tra città italiane: Ferrara e Firenze. E mentre il concilio torna verso Roma, il papato riprende il suo posto al centro della struttura ecclesiastica e sembra realizzare anche il sogno dell’unità tra cristiani d ’Oriente e cristiani d’Occidente. Cosi, il nuovo concilio si terrà in Laterano e sarà il Lateranense V , convocato per rintuzza­ re la minaccia francese del Concilio «gallicano» di PisaMilano. Mossa politica di Giulio II, un papa che agi sem­ pre come un uomo politico e che ricorse senza scrupoli al­ l’uso di ogni tipo di arma, spirituale o temporale che fosse, per ampliare il dominio territoriale dello Stato della Chie­ sa e per stroncare per sempre la crescita politica e territo­ riale di Venezia, il Lateranense V fu tuttavia l’occasione perché risuonassero nell’aula conciliare appelli alla riforma della Chiesa: una riforma degli uomini, non un cambia­ mento delle «cose sacre» per opera umana, affermò il ge­ nerale degli Agostiniani, il dotto Egidio da Viterbo («refor­ mare homines per sacra, non sacra per homines»). Non mancavano uomini da riformare: le proteste delle coscien­ ze offese investivano soprattutto il papato e la sua marcia sul terreno di una politica di potenza statale in Italia e di alleanze spregiudicate con le dinastie degli emergenti Sta­ ti nazionali europei. M a di li a poco - del tutto impreve­ dibilmente - furono proprio le «cose sacre» a diventare problematiche e a lacerare l’unità dell’Europa cristiana. E non avvenne né a Roma né in Italia. Nell’era del giovane e splendido papa rinascimentale Leone X , mentre le vie di Roma si riempivano di scenari trionfali e artisti e poeti ac­ correvano alla sua corte, il papato celebrava nelle aule la-

TRENTO - GEOGRAFIA E STORIA DI UNA SCELTA

XI

teranensi la vittoria apparentemente definitiva sulle ten­ denze conciliariste. La Chiesa cristiana d’Occidente sem­ brava aver trovato finalmente nel papato l ’istituzione ade­ guata per tener testa al potere dello Stato, che stendeva la sua mano sui beni ecclesiastici e assoggettava gli episcopa­ ti nazionali. M a il prossimo concilio non si terrà a Roma e non vi sarà il papa. Perché il nome di Trento entri nella se­ rie dei luoghi di concilio debbono accadere cose nuove e sconvolgimenti inauditi, certo non prevedibili dall’osser­ vatorio del Laterano. Qui il potere papale celebrò anche formalmente la sua affermazione contro le tendenze con­ ciliariste: i deliberati del Lateranense non furono decreti approvati da assemblee ma testi di bolle papali. M a, men­ tre il Concilio Lateranense V si chiude, in un convento agostiniano della Sassonia un oscuro monaco sta per alza­ re la sua voce in una predicazione pubblica che porterà tempesta. E solo attraverso questa tempesta, che si chia­ ma Riforma protestante, guerra dei contadini, guerre d’I­ talia e Sacco di Roma, che la serie conciliare si apre di nuo­ vo, stavolta in direzione del limite geografico dello spazio italiano, e include tra i suoi nomi quello di Trento. Fu l’ affare politico fra tutti eminente; del resto, era sempre stato cosi nella storia dei concili delle Chiese cri­ stiane. Fin da quando Costantino aveva presieduto il Con­ cilio di Nicea, le decisioni della Chiesa avevano avuto im­ portanza somma per la vita politica. Solo la lunga latitan­ za di un efficace potere imperiale aveva conferito ai concili del tardo Medioevo un carattere di affare interno della società ecclesiastica, riunita per deliberare su se stessa. M a la crisi del papato, la fine dell’impero romano d ’O ­ riente, il nuovo peso politico delle monarchie nazionali e - con Carlo V - le ambizioni imperiali della casata d ’Asburgo crearono le condizioni perché il concilio potesse diventare di nuovo la suprema assemblea della cristianità. Di fatto, si trattò di una possibilità lungamente pre­ sente all’orizzonte che fini col non realizzarsi. Il concilio teoricamente ecumenico rimase l’ assemblea di una cri­ stianità doppiamente dimidiata: i cristiani d’Oriente e

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PREMESSA

quelli della Confessione augustana (luterani) vi fecero so­ lo capolino. Un censimento dei vescovi che vi furono pre­ senti registra vistose assenze perfino tra gli episcopati de­ gli Stati che si mantennero fedeli al papato romano. Una volta conclusi i lavori, solo una parte della cristianità eu­ ropea ne riconobbe l’opera, ne accolse e mise in pratica i deliberati; un’altra e assai cospicua parte non vi mandò rappresentanti e negò validità all’assemblea. Fu cosi che il concilio convocato a Trento per sanare la frattura nel cristianesimo europeo nel nome di un’unità superiore, sot­ to la protezione di un impero sovranazionale e multietnico, si concluse nel quadro di una divisione consolidata. Sotto il segno dei decreti tridentini si apri un’epoca della storia europea contrassegnata dal duro scontro di religio­ ne. L ’esito suo fu qualcosa che agli inizi era apparso esat­ tamente come il pericolo piu grande, per scongiurare il quale si ricorreva alla convocazione del concilio: una cri­ stianità europea divisa da barriere teologiche dietro le qua­ li si doveva svolgere da li in poi una lunga e logorante guer­ ra di posizione. Una guerra che investi in primo luogo la valutazione stessa dell’opera del Concilio di Trento e la documentazione dei suoi lavori. Scriverne la storia per in­ tenderne il significato non potè essere in nessun modo un’operazione relativamente pacifica: chi lo fece dovette innanzitutto superare gli ostacoli frapposti alla conoscen­ za della documentazione dal vincolo di segretezza e di esclusivo potere di interpretazione che il papato vi pose sopra. E dovette dichiarare la propria posizione in un con­ flitto che non era di semplice valutazione storica, ma di preliminare scelta confessionale e ideologica tra le due pro­ spettive fortemente divaricate che da quel momento in poi il mondo cristiano avrebbe visto aperte davanti a sé: obbedienza a Roma o ribellione. Quello di Trento fu dunque il concilio più lungo e tor­ mentato della storia: cosi lungo, complesso e carico di con­ seguenze da apparire per molto tempo come l’ultimo con­ cilio possibile perfino all’interno del mondo cattolico. Per secoli, l’interpretazione e l’applicazione dei suoi decreti e

TRENTO - GEOGRAFIA E STORIA DI UNA SCELTA

XIII

la rigida fedeltà ai suoi canoni dovevano dominare la vi­ ta della Chiesa d ’obbedienza romana, la Chiesa cattolica. Il concilio stesso come istituzione scomparve dall’oriz­ zonte per secoli, come se non avesse piu niente da fare o da dire; solo in tempi a noi piu vicini e dopo svolte profon­ de della storia, la Chiesa cattolica è tornata a convocare dei concili: ancora a Roma, naturalmente, a poca distan­ za dal Laterano, in Vaticano. Il Vaticano I, dominato dal­ la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale, ap­ parve come un completamento dottrinale di un percorso avviato dall’età tridentina; il Vaticano II, in condizioni radicalmente mutate del mondo e della presenza del cri­ stianesimo, fece parlare fin dalla sua convocazione di una fine del «Tridentinismo». Con lo sguardo lontano di chi si muove in un orizzonte remotissimo, i contemporanei del Concilio Vaticano II si sono trovati a considerare in prospettiva i caratteri dell’età dominata dal Tridentino: caratteri familiari nello scenario della vita quotidiana fi­ no a poco tempo prima e ora diventati rapidamente re­ perti di un mondo perduto. Insieme all’età «tridentina» se ne sono andati via via tanti di quei caratteri religiosi, giuridici, sociali in cui l’età si era incarnata. In quella ma­ teria dei sacramenti che aveva offerto il terreno specifico di scontro fra un corpo ecclesiastico organizzato per l’e­ rogazione giuridicamente regolata della Grazia divina e la negazione protestante del sacerdozio ministeriale, i mo­ delli tridentini del battesimo degli infanti, della confes­ sione e della comunione, del matrimonio e del sacerdozio avevano creato veri e propri «tipi ideali» che per secoli hanno dominato la vita delle società cattoliche. Si pensi, in particolare, a un’istituzione come il matrimonio tridentino, frutto peculiare di quella disciplina dei rapporti sociali che l’assemblea conciliare disegnò idealmente e che fu poi affidata alle istituzioni e alle pratiche dell’età suc­ cessiva. Tale disciplina riguardò in particolare il clero, il suo aspetto e l’onore a esso dovuto, in cambio di una par­ ticolare cura dedicata all’abito e alla preparazione cultu­ rale, alla severità e riconoscibilità dei suoi costumi come

XIV

PREMESSA

diversi da quelli di tutti gli altri, cioè i «laici». Il clero tridentino fu caratterizzato dal dovere della «cura d ’anime»: vescovi e parroci si videro richiamati al dovere di ricom­ porre «beneficio» e «ufficio», rendite ecclesiastiche e ob­ bligo di risiedere tra le «anime» da curare. Frutto pecu­ liare dei modelli che furono promossi dall’assemblea con­ ciliare fu l’invenzione del Seminario come istituzione, luogo di formazione separata e severa, dal punto di vista culturale e morale. D i quell’ideale di ordine e compostezza fu specchio vivente una Chiesa composta prima di tutto da chierici, uomini riconoscibili dall’abito e dal compor­ tamento, obbligati a incarnare i valori di una religione che tutti gli altri - i «laici» - dovevano semplicemente accet­ tare e venerare. E , oltre i confini della società cristiana cosi disegnata nei decreti di riforma del Tridentino, gli anatemi conclusivi dei canoni dottrinali proiettarono le presenze ostili da esorcizzare e da perseguire con ogni mezzo: l ’eresia, lo spirito ribelle e superbo di chi si sot­ traeva all’obbedienza della dottrina comune per seguire la propria opinione erronea. Maledizioni e benedizioni di­ videvano il mondo in buoni e cattivi. Lo scenario alpino evocato dal nome stesso del concilio aveva come materializzato i confini geografici dell’identità cattolica, portan­ doli a coincidere con l’opposizione tra mondo latino e mondo germanico. Le celebrazioni trentine dei centenari del concilio furono, fin dal Seicento, la risposta alle cele­ brazioni centenarie delle tesi di W ittenberg volute dal mondo tedesco luterano. Tutto questo è venuto appan­ nandosi fino a riuscire incomprensibile: un sistema com­ plesso nelle sue articolazioni interne, ma semplicissimo nello schema di fondo, si è come allontanato dalla realtà del mondo contemporaneo. Per questo, il compito dello storico del Concilio di Trento appare oggi piu agevole di quello che è stato nel passato, libero com’è dal condizio­ namento di una realtà incombente e dei valori in essa in­ carnati, alle prese solo col problema di conoscerne e com­ prenderne la realtà.

IL C O N C IL IO D I T R E N T O : U N A IN T R O D U Z IO N E S T O R IC A

Capitolo primo La lotta per e contro il concilio

Lutero, ripetendo un gesto che già molti altri aveva­ no compiuto prima di lui (il piu recente era stato G iro ­ lamo Savonarola), aveva reagito alla scomunica papale con un appello al concilio: aveva chiesto un «libero con­ cilio cristiano in terra tedesca», una definizione in cui ogni parola aveva un peso e mostrava il misto di radica­ lismo teologico e di realismo politico che caratterizzò il monaco sassone. Libero dal papa, s’intende. E , per es­ sere certi che cosi fosse, il luogo era indicato in Germ a­ nia, una scelta che solleticava l ’emergente orgoglio na­ zionale della cultura tedesca. L ’ appello di Lutero, com­ posto nell’estate del 15 2 0 , era indirizzato «alla nobiltà cristiana di nazione tedesca». A differenza di altri ap­ pelli precedenti, qui si era davanti a un programma ben definito nei suoi punti teologici e politici e nell’indivi­ duazione dei destinatari: i principi erano invitati a pren­ dere l’iniziativa della riforma. Se il papa tardava a con­ vocare il concilio, spettava alle autorità politiche farlo. Il concilio era dunque, per Lutero, la massima autorità nella Chiesa e l’unica alla quale spettasse il giudizio sul­ l’ortodossia della sua dottrina in materia di indulgenze: la formula usata nel primo appello, col quale ad Augu­ sta nel 1 5 1 8 si era sottratto al giudizio del legato papa­ le, il dotto cardinale di G aeta (Caietanus) Tommaso de Vio, aveva ripreso la definizione della superiorità del concilio sul papa quale si era affermata a Costanza e a Basilea. M a si era trattato allora di una semplice scap­ patoia giudiziaria, del tipo di quelle a cui si ricorreva ogni volta che si voleva sospendere la validità di atti com-

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CAPITOLO PRIMO

piuti dal papa. Ben altra cosa fu l’appello redatto nel 15 2 0 : qui la dottrina della superiorità del concilio sul pa­ pa cominciò tra l’altro a fare i conti con l ’elaborazione teologica dell’idea di Chiesa da parte di Lutero, che or­ mai tendeva a cancellare la differenza istituzionale fra sacerdoti e laici e a fondare l’identità del cristiano sulla Scrittura come unica fonte della Rivelazione divina. Ne derivavano conseguenze anche per i poteri dell’ assem­ blea conciliare: intanto, doveva essere composta da cri­ stiani, non da ecclesiastici, dato che per Lutero ogni cri­ stiano, in quanto battezzato e credente, era un sacerdo­ te. E questo faceva gravare sull’assemblea futura della cristianità il peso determinante di chi aveva tra i cristiani la posizione di maggiore responsabilità: i principi e i so­ vrani degli Stati territoriali. Presenti già nei concili, a fianco dei vescovi, ora erano invitati ad assumere ben altro peso. M a le singole proposte tennero conto so­ prattutto dello stato dell’opinione tedesca: era in gioco il miglioramento (Besserung) della condizione del cristia­ no. Tale miglioramento (o, come si diceva piu general­ mente, Riforma) doveva consistere nel ridurre le d i­ mensioni dello Stato papale e nell’accogliere le conse­ guenze della scoperta fatta da Lorenzo Valla circa la fal­ sità della cosiddetta «donazione di Costantino». Altre proposte furono: riduzione del collegio cardinalizio (non piu di dodici membri), degli uffici di Curia, degli ordi­ ni religiosi, della fiscalità pontificia, dei pellegrinaggi, delle fondazioni di messe e dell’uso della scomunica; ma­ trimonio per i parroci; restaurazione del potere di go­ verno dei vescovi sui benefici ecclesiastici e abolizione di riserve e pensioni sugli stessi. Era un programma v a­ sto, che riprendeva abilmente gran parte del contenuto delle lagnanze presentate dai rappresentanti della «na­ zione tedesca» ai concili contro i «gravam ina» - so­ prattutto contro l ’avidità dei cortigiani romani, accusa­ ti di rapinare le rendite dei benefici tedeschi. Lutero cal­ colava in centinaia di migliaia di ducati il flusso di da­ naro dalla Germ ania verso la burocrazia romana. Lo

LA LOTTA PER E CONTRO IL CONCILIO

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scritto stimolava i tedeschi a farsi giustizia da sé: invi­ tava senza mezzi termini a scaraventare in acqua i cor­ tigiani romani che si presentavano con le lettere di con­ cessione dei benefici. Il successo dello scritto fu travol­ gente: le 4000 copie della prima edizione furono esauri­ te in cinque giorni, fra il 18 e il 23 agosto 1520 . Toccò a Carlo V, giovane titolare di un coacervo mai vi­ sto prima di poteri sovrani, farsi portatore dell’esigenza di calare nella realtà l’idea di concilio. Lo fece per profonde convinzioni personali sui doveri di un sovrano cristiano, ma anche perché attraverso la disciplina religiosa passava l’unità del suo impero e il potere effettivo sui domini te­ deschi. Carlo d’Asburgo, diventato sovrano di Spagna per il gioco delle alleanze matrimoniali in cui la sua famiglia fu sempre maestra, fu anche eletto imperatore per il volgersi a suo favore del complicato gioco di interessi dei grandi elettori tedeschi nel loro rapporto con le altre potenze eu­ ropee; la gara elettorale coinvolse naturalmente il papato, con la conseguenza di garantire a Lutero, in quanto sud­ dito dell’importante elettore di Sassonia, un processo ro­ mano pieno di riguardi e di studiate lentezze. M a Carlo V, una volta eletto, si trovò davanti al problema dei fermen­ ti innescati nella società tedesca dalla Riforma luterana. Si trattava sia di ricomporre l’unità religiosa come compito e fondamento necessario del potere di un sovrano cristiano, sia di costringere un papato riluttante ad accettare l’al­ leanza stabile con la politica asburgica. M a se Adriano di Utrecht, già precettore di Carlo, una volta diventato papa Adriano V I (1522-23) non esitò a riconoscere le gravi re­ sponsabilità ecclesiastiche e la necessità di una riforma, il nuovo pontefice Giulio de’ Medici (papa Clemente V II, 1523-34) era ben determinato dalle sue origini fiorentine e dagli interessi medicei a coltivare i rapporti con la Fran­ cia e a seguire la tradizionale politica papale della «libertà d’Italia» (nel senso di libertà degli Stati italiani dal peso di una potenza oltremontana dominante). Carlo V, sorpreso nel momento del suo massimo trionfo militare e politico dal saldarsi dell’alleanza fra papato, Venezia e Francia con

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CAPITOLO PRIMO

la Lega di Cognac (1526), reagì con furore: si considerò tradito dal papa, che aveva scelto la via della politica ita­ liana piuttosto che quella del bene della Chiesa universa­ le, e segui i consigli del suo segretario Alfonso de Valdés, seguace delle idee riformatrici di Erasmo da Rotterdam, e quelli del gran cancelliere Bartolomeo da Gattinara, un ap­ passionato lettore della Monarchia di Dante Alighieri, con­ vinto del dovere dell’imperatore di rintuzzare le ambizio­ ni politiche del papato. Si appellò al concilio e inviò for­ malmente al collegio dei cardinali un suo irato documen­ to, in cui intimava al papa in forza dei suoi doveri di pa­ store di fissare i termini della convocazione «in una loca­ lità adatta e sicura». Il papa fece orecchio da mercante. In una Roma resa insicura dalla ribellione del potente cardi­ nale Pompeo Colonna, avviò misure di moralizzazione del clero che dovevano nelle sue intenzioni tacitare le critiche sempre piu diffuse. M a la parola decisiva toccò alle armi: la campagna militare che segui vide la sconfitta senza ap­ pello della Lega. E avvenne, dopo tempo immemorabile, un nuovo, terribile Sacco di Roma (maggio 1527): i solda­ ti tedeschi dell’imperatore cristiano depredarono e lorda­ rono i palazzi cardinalizi, le chiese e gli appartamenti pa­ pali, violarono monasteri e fecero provare insomma alla ca­ pitale della cristianità occidentale l’ira di Dio che da anni i predicatori di penitenza minacciavano profeticamente per i peccati del clero. Sugli affreschi di Raffaello, i lanziche­ necchi graffirono insulti al papa anticristo e scritte inneg­ gianti a Lutero. M a, com’è stato detto giustamente, «il pa­ pa non è mai tanto potente come quando è in catene»1. Nell’ agosto 15 2 7 , per iniziativa dell’ambizioso cardinale inglese Wolsey, i re di Francia e d’Inghilterra si impegna­ rono a impedire la convocazione del concilio; il papa fu li­ berato e l’imperatore si trovò costretto a cercare il suo con­ senso offrendogli alleanza e aiuto. Un esercito spagnolo ri­ consegnò Firenze al papa Medici dopo un duro assedio.1 1 H. jedin , Geschtchte des Konzils von Trient, 4 voli., Freiburg 1957-77 [trad. it. Storia del Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 1973-81, I, p. 273].

LA LOTTA PER E CONTRO IL CONCILIO

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L ’alleanza fu celebrata a Bologna, con la solenne cerimo­ nia dell’incoronazione di Carlo imperatore nella basilica di San Petronio da parte di un pontefice ormai legato com­ pletamente al partito imperiale. M a l’imperatore scopri che non poteva rinunciare al concilio, la cui urgenza gli fu ri­ proposta dalle condizioni della Germania. Le guerre d ’I­ talia si erano chiuse col successo asburgico e con un piu stretto legame tra i due luminari dell’Europa cristiana. Sembrava annunciarsi un ritorno all’ideale medievale di un’Europa retta dai due poteri, ma i tempi non erano fa­ vorevoli: la crescita degli Stati nazionali portava in altra direzione e ostacolava sia l’unità politica del continente sia quella religiosa. Ciò fu subito evidente nella questione ap­ parentemente minore dello scioglimento del matrimonio tra Enrico V ili, re d ’Inghilterra, e Caterina d’Aragona, zia di Carlo V: il rifiuto di dar corso alla richiesta di Enri­ co V i l i di passare a nuove nozze fu dovuto anche alla fer­ ma opposizione di Carlo V. Da li doveva nascere l’atto d’imperio con cui il re d ’Inghilterra si sostituì al papa al vertice della Chiesa d ’Inghilterra, creando così una Chie­ sa nazionale in tutto indipendente da Roma. Forze dello stesso genere erano all’opera in Germania, dove i principi territoriali e la grande nobiltà avevano trovato in Lutero l’alleato ideale nella feroce guerra dei contadini e nella re­ pressione sanguinosa di ogni tentativo di tradurre il cri­ stianesimo in regole di giustizia sociale. Alla strage imma­ ne dei contadini in armi nella battaglia di Frankenhausen (1525) seguirono l’assedio e la presa di Miinster in Westfalia, la «Nuova Gerusalemme» degli anabattisti (1535). L ’Europa centrale era in fiamme e, intanto, nelle città sviz­ zere e renane si susseguivano iniziative di reinterpretazio­ ne dell’identità cristiana e delle forme del culto. Era un grande movimento ideale mosso dal bisogno di tornare al­ la «forma» originaria del cristianesimo evangelico, can­ cellando tutte le aggiunte successive del diritto romano e del potere papale. M a c’erano anche validi fattori di pote­ re e di interessi economici che spingevano a un riassetto complessivo del corpo ecclesiastico, con la pressione deci­

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CAPITOLO PRIMO

siva dei principi territoriali che alla Riforma dettero il lo­ ro appoggio dopo le prove terribili della rivolta dei cava­ lieri e della guerra dei contadini. Sui beni del clero si diri­ gevano da tempo appetiti tanto piu robusti quanto piu va­ sto era il campo che si apriva. Particolarmente forti erano le ambizioni della grande nobiltà tedesca, alla quale intanto la dottrina luterana della libertà del cristiano come libertà esclusivamente interiore apriva la strada al dominio illi­ mitato sui sudditi (e ai sudditi apriva la via per passare «dalla servitù per costrizione alla servitù per devozione», secondo la celebre definizione di Karl Marx). Dopo gli anni della battaglia di idee si apriva un’età dedicata alla costruzione di istituzioni durevoli. I vescovi cattolici si vedevano sempre più invitati a risiedere nel­ le loro diocesi, a visitare le chiese, a controllare la pre­ parazione del clero. Lutero li aveva preceduti su questo terreno: «Fino ad ora ho operato in mezzo al popolo con libelli e con sermoni per sradicare dai cuori le empie opi­ nioni sulle cerimonie, ma per rispetto dei deboli mi so­ no astenuto dall’introdurre novità nel culto», aveva scritto nel 15 2 3 al vescovo Nikolas Hausmann; ora in­ vece era tempo di introdurre le giuste regole sul culto di­ vino, di cancellare la Messa cattolica come sacrificio e offerta, di stabilire quali canti e quali forme liturgiche si dovessero usare, di regolare le forme della comunione e della confessione, di stabilire se e come i pastori si do­ vessero distinguere nell’abito e come dovessero gover­ nare i loro popoli2. E nel 15 2 7 elaborò un’istruzione per la visita alle chiese della Sassonia, che riconosceva al po­ tere politico nella figura del principe elettore le funzio­ ni di governo ecclesiastico. Certo, la fedeltà alla Chiesa romana degli Asburgo, della Francia, del Portogallo e degli Stati italiani con­ sentiva al papato di conservare una certa sicurezza; la 2 M. luther , Formula Missae et communionis prò Ecclesia Wittembergensi 1 5 2 } , in E. sehling, D ie evangelische Kircbenordnungen des xvi. Jahrhunderts, I Abt., Leipzig 1902, pp. 4-9.

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Germania era lontana e se ne faceva poco conto. Lo spet­ tacolo delle divisioni interne del campo riformatore - tra lo zurighese Zwingli e Lutero, ad esempio - lasciava spe­ rare che la tempesta potesse passare senza conseguenze. Quando i propagandisti della Riform a fecero trovare dei manifesti (placards) contro la messa negli appartamenti del re Francesco I, la reazione durissima del re portò a processi sommari e a sentenze capitali; in quella occa­ sione, un giovane luterano francese, Jean Calvin (Calvi­ no) dovette andare in esilio. Accolto nella città vescovi­ le di Ginevra, che intanto aveva cacciato il vescovo e riformato le forme del culto, Calvino mise a punto un’e­ sposizione dei principi fondamentali della Riform a che pubblicò in latino e in francese (Institutio religionis chrìstianae, 1536). Dotato di un’intelligenza lucida e di so­ lida cultura umanistica, Calvino conquistò i suoi lettori a una religione sfrondata di ogni aspetto magico e di ogni ritualità, dove l’uomo peccatore e condannato per sua colpa affidava la sua speranza di salvezza agli imper­ scrutabili decreti di Dio. E ra il segno che, col passare degli anni e mancando una soluzione dei contrasti, cre­ sceva una seconda e più determinata generazione di riformatori. Nemmeno i confini italiani erano più sicu­ ri dalla penetrazione delle nuove idee: proprio in Italia, alla corte estense di Ferrara, la duchessa Renata ospitò Calvino e lo scandalo delle nuove idee esplose quando, nei riti della Pasqua, un suo valletto si rifiutò di adora­ re l ’Eucarestia (considerata nient’altro che un rito di me­ moria e non una ripetizione del Sacrificio della Croce). Si venivano organizzando cosi forme nuove e diverse di Chiese; nei Paesi della Riform a si aboliva il celibato ec­ clesiastico e monache e frati tornavano alla vita laicale: Lutero stesso ne dava l’esempio sposando una ex mona­ ca, Caterina von Bora. Si creavano cosi situazioni di fat­ to che sarebbe stato poi difficilissimo modificare; anzi, quando nel 15 4 1 il legato papale Gaspare Contarmi si recò in Germania al colloquio di Ratisbona, si rese con­ to che il clero locale si aspettava da Roma l’abolizione

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del celibato obbligatorio dei preti e che senza misure di quel genere difficilmente si sarebbe ripreso il controllo della situazione. Una volta lanciata la parola d’ordine del ritorno al puro testo delle Scritture, le interpretazioni dei sacri testi davano luogo a cambiamenti rivoluziona­ ri nella vita d ’ogni giorno. Sulla materia del culto e dei sacramenti tutto era in discussione e tutto veniva modi­ ficandosi e prendendo forme diverse a seconda dei luo­ ghi: a Zurigo Ulrico Zwingli dibatteva in pubblica as­ semblea con gli anabattisti se fosse opportuno e soste­ nibile il battesimo degli infanti; la confessione cessava di essere un sacramento ma veniva mantenuta per il suo valore di preparazione alla Cena. Le nuove Chiese con­ quistavano il consenso e l’ammirazione di molti, che con­ frontavano la serietà e la severità dei nuovi cristiani con lo spettacolo deprimente offerto dall’ amministrazione del culto nei Paesi cattolici. C ’era chi partiva dal pro­ prio Paese e si recava nelle comunità riformate, attirato dalle descrizioni di chiese costruite «sopra la Scritura»3. Dunque, se ad alcuni il concilio sembrava essere lo strumento capace di riportare l’unità fra le divergenti in­ terpretazioni del cristianesimo, per altri tutto era già de­ ciso e bisognava solo procedere contro gli «eretici» fa­ cendo funzionare le leggi in vigore. Su questa strada il più deciso fu l’ autorevole prelato napoletano G ian Pie­ tro Carafa che, mandato a Venezia come ambasciatore («nunzio») papale, fu sconvolto dalla libertà di opinio­ ni circolanti nella grande città e, in un memoriale al pa­ pa del 15 3 2 , propose la sua idea di riforma: una restau­ razione dei buoni costumi del clero e una «guerra spiri­ tuale» contro i luterani. Dal punto di vista dell’imperatore, però, l’unità dei 3 Cosi affermava nel 1526 il benedettino Simone da Bassano, alias Fran­ cesco Negri, che poi se ne andò a Strasburgo a controllare di persona e, pas­ sato alla Riforma, condusse battaglie di scritture contro la Chiesa cattolica (cfr. G. zonta, Francesco Negri l ’ eretico e la sua Tragedia « I l libero arbitrio», in «Giornale storico della Letteratura italiana», LX V II (1916), pp. 265-324, in particolare p. 275).

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cristiani era indispensabile per far fronte all’avanzata de­ gli eserciti turchi che avevano invaso le pianure unghe­ resi dopo la battaglia di Mohàcs (1526) e ora premeva­ no su Vienna. M a l’unità sembrava allontanarsi sempre piu dal mondo tedesco; alla Dieta di Spira (1526) l’editto di condanna di Lutero emanato da Carlo a Worms fu contestato e i rappresentanti dei ceti dichiararono di vo­ lersi comportare secondo coscienza fino alla convoca­ zione del futuro concilio. D i fatto, furono avviate ini­ ziative di riforma nelle città e negli Stati luterani. Alla successiva Dieta di Spira (1529), per quanto i successi militari di Carlo V avessero incoraggiato la parte catto­ lica, la reazione dei luterani al divieto imperiale di in­ trodurre novità religiose fu una protesta formale, depo­ sitata il 20 aprile e sottoscritta da sei principi territoria­ li e dal rappresentante delle città Jakob Sturm: nasceva­ no cosi i «protestanti», come termine e come realtà. La loro carta di riconoscimento fu elaborata da Filippo Melantone e sottoscritta alla successiva Dieta d ’Augusta (15 3 0 ), nella forma di una «Confessione di fede» che elencava i punti dottrinali accettati dal partito luterano. Era la frattura e solo un concilio poteva sanarla. Fu co­ si che la richiesta di convocarlo prese stabilmente posto nella politica imperiale per la Germ ania. Nello stesso tempo, si posero le cause che dovevano rendere la frat­ tura praticamente insanabile: le questioni dottrinali si erano ancorate a forze politiche che si muovevano in di­ rezioni opposte. Se qualcuno si poteva ancora illudere di conciliare la nuova figura del cristiano sacerdote di se stesso con una Chiesa gerarchicamente ordinata sotto il governo ecclesiastico, ben poche illusioni erano possibi­ li sulla frattura tra lo Stato territoriale e l’ Impero. In queste condizioni, il concilio futuro si annunciava indi­ spensabile ma nello stesso tempo chiedeva che si risol­ vessero preliminarmente i rapporti di forza.

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Capitolo secondo La vittoria del papato

Il 13 dicembre 15 4 5 si tenne a Trento la solenne ceri­ monia di apertura del concilio. Il cerimoniale, con la sua capacità di esprimere rapporti di forza e valori storica­ mente consolidati, offre in questo caso uno specchio elo­ quente dei mutamenti intervenuti tra il Concilio di Tren­ to e i grandi concili di riforma del Quattrocento. L ’as­ semblea che si riunì nel coro della cattedrale di Trento era composta quasi esclusivamente da ecclesiastici: 4 car­ dinali, 4 arcivescovi e 2 1 vescovi, ordinatamente schie­ rati con le loro bianche mitrie nei sedili predisposti alla destra dell’altare, e, accanto a loro, i generali degli ordi­ ni agostiniano, carmelitano e dei Servi di Maria, nonché dei due ordini francescani. Il personale diplomatico con­ sisteva nei due inviati dell’ arciduca Ferdinando d ’A u ­ stria, seduti sul banco davanti ai prelati, mentre il lato si­ nistro era occupato da 42 teologi (quasi tutti frati) e 8 giuristi1. Questa assemblea conciliare rappresentava dun­ que una cristianità composta quasi esclusivamente da ec­ clesiastici; in termini di rappresentanze nazionali, la qua­ si totalità dell’assemblea era costituita da italiani, con uno sparuto drappello di spagnoli; gli episcopati tedesco, fran­ cese e inglese avevano solo un rappresentante a testa. Ben altrimenti variopinta e ricca di articolazione era stata la rappresentanza della società cristiana che aveva animato i concili di riforma del secolo precedente. Non si erano 1 11 dati sono ripresi da H. jedin , Geschichte des Konzils von Trient, 4 voli., Freiburg 1957-77 [trad. it. Storia del Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 197319 8 1, I, p. 637].

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visti, allora, solo uomini di chiesa, ma tutta la serie di po­ teri, di gruppi e corporazioni dotati di autorità nell’E u ­ ropa cristiana: l’Impero, e sotto di lui le nationes, i rap­ presentanti diplomatici ma anche quelli delle università. Il Concilio di Trento, pur tenendosi in una città del­ l ’Impero, lontano da Roma, secondo le richieste lutera­ ne, era un concilio tutto italiano e papale: non solo la mag­ gioranza assoluta dei vescovi e dei teologi era formata da italiani, ma dei quattro cardinali presenti ben tre (Cer­ vini, Pole e Del Monte) erano li in veste di legati ponti­ fici. Molte domande sorgono spontanee davanti a un ta­ le scenario: attraverso quali vie dalla richiesta protestan­ te di «un libero concilio cristiano in terra tedesca», che era risuonata con enfasi in Germania dal 15 2 0 in poi, si era arrivati a un’assemblea di ecclesiastici per lo piu ita­ liani governati da delegati del papa ? E ancora: che cosa era successo nel secolo intercorso tra i concili riformato­ ri del Quattrocento e il Concilio di Trento ? Perché si era reso possibile che dai concili affollati, vigorosamente ca­ ratterizzati dalla presenza di laici e delle autorità politi­ che, dotati di pienezza di poteri sulla società cristiana e sul papa stesso, si passasse a un’assemblea cosi sparuta e cosi esclusivamente ecclesiastica, visibilmente soggetta al papa e quasi ignorata dalle autorità politiche ? La risposta alla seconda domanda ci aiuterà a rispon­ dere alla prima. La vittoria del papato sul concilio era sta­ ta ottenuta al prezzo di accordi diretti coi principi; gli Sta­ ti territoriali, la nuova realtà politica affermatasi in E u ­ ropa, trovarono piena convenienza in un rapporto bilate­ rale col papato il quale, in cambio del loro sostegno, era disposto a concedere una parte dei suoi diritti giuridici ed economici sulle chiese locali. Attraverso una serie di con­ cordati e indulti, il papato s’impose come interlocutore unico degli Stati emersi dalla crisi dell’Impero medieva­ le. Prima Eugenio IV poi Niccolò V sottoscrissero nume­ rosi documenti di questo tipo con sovrani come i duchi di Savoia e di Milano, il re di Francia, Alfonso I d ’Aragona, il re del Portogallo; su quella stessa strada si mantennero

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anche i loro successori. Una data capitale da questo pun­ to di vista è quella del concordato stipulato da papa Leo­ ne X con la Francia nel 15 16 : si trova qui il punto d ’arri­ vo di un percorso che aveva condotto il piu potente regno della cristianità dall’adesione piena alle tesi conciliariste al piu completo ed esclusivo rapporto col papato. A l termine del Concilio di Basilea, la Francia, con la «prammatica sanzione» di Bourges, aveva riconosciuto vigore di leggi dello Stato alla maggior parte dei decreti di quel concilio. E ra stato un episodio grave e preoccu­ pante per il papato, anche perché il modello francese ave­ va ispirato comportamenti analoghi da parte di altri Sta­ ti. La ripresa successiva del papato aveva ridotto la pre­ sa delle idee conciliariste, ma ancora nel 1 5 1 1 Luigi X II re di Francia, nel reagire al brusco cambiamento di poli­ tica e di alleanze militari da parte di papa Giulio II, non aveva trovato di meglio che scatenare un tentativo di con­ cilio antipapale. L a forza delle idee conciliariste era an­ cora cosi grande che il papa, per mettersi al sicuro dalla minaccia che veniva dalla Francia, dovette convocare egli stesso un concilio (che fu il Lateranense V). Il successo­ re di Giulio II, Leone X , portò a termine l’impresa di un concilio tutto dominato dal papa, svuotando definitiva­ mente di contenuto l’altra assemblea ecclesiastica con­ vocata a Pisa col sostegno francese. M a fu solo grazie al concordato del 1 5 1 6 tra il papato e il regno di Francia che la monarchia francese perse ogni interesse nei con­ fronti delle idee conciliariste come strumento di ricatto e di pressione su Roma. Nel concordato una serie di con­ cessioni papali accentuarono il carattere nazionale della Chiesa gallicana e riconobbero la subordinazione del cor­ po ecclesiastico all’autorità del re. Il conciliarismo si potè considerare cosi definitivamente sconfitto. L ’antefatto che permise di raggiungere questo obbiettivo fu il radi­ camento del papato nel contesto politico italiano e il rafforzamento dello Stato della Chiesa. Se il papato me­ dievale aveva perseguito sistematicamente l ’affermazio­ ne della pienezza dei suoi poteri spirituali su tutta la Chie­

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sa e aveva lottato con l’Impero ad armi pari, i pontefici che si succedettero dopo la crisi conciliarista dovettero risolvere il duplice problema di garantirsi una relativa si­ curezza politica e di pagare in qualche modo l’appoggio richiesto ai sovrani d ’Europa. A quest’ultimo scopo servi soprattutto l’autorità che il papato si era saputo conqui­ stare in materia beneficiaria: il papa, che la dottrina ca­ nonistica definiva da tempo «padrone di tutti i benefi­ ci», rivendicava a se stesso il potere di scegliere i candi­ dati da nominare ai benefici vacanti in ogni parte della cristianità. Era un potere che l’incessante azione della cu­ ria aveva riempito di contenuto effettivo e che adesso si faceva sempre piu prezioso agli occhi di sovrani territo­ riali desiderosi di gratificare i loro sostenitori e di co­ struirsi strutture di controllo ecclesiastiche di piena fe­ deltà. Un altro problema degli Stati territoriali in for­ mazione che il papato era in grado di aiutare a risolvere era quello finanziario: tutte le rendite delle chiese locali che affluivano tradizionalmente alla curia pontificia (e intorno alle quali era sorta da tempo una letteratura di proteste e lagnanze) sembravano fatte apposta per atti­ rare l’interesse di sovrani tanto privi di apparato fiscale e di rendite quanto ricchi di clienti e di alleati da ricom­ pensare. Ecco dunque trovata la moneta di scambio per distogliere gli Stati europei dall’adesione alle dottrine conciliariste. Tutto questo significava però un venir me­ no di una serie di voci d ’entrata per la curia papale e una riduzione concreta del suo raggio d ’azione. A i problemi finanziari si ovviò in vario modo. La fi­ scalità pontificia mutò natura2: se il flusso di tributi ver­ sati dal clero dei vari Paesi si inaridì fino a cessare quasi del tutto - ma questo non avvenne per gli Stati tedeschi, dove la protesta luterana trovò incentivo anche in que­ sta materia - altre fonti furono attivate. Il danaro che ve­ niva a mancare dovette essere cercato all’interno dello 2 Cfr. su questo la rassegna di A. gardi, La fiscalità pontificia tra Medioe­ vo ed età moderna, in «Società e storia», 1986, n. 33, pp. 509-57.

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Stato della Chiesa, riformandone l ’organizzazione se­ condo un modello statuale non diverso da quello delle monarchie nazionali (unica differenza, a tutto vantaggio dello Stato della Chiesa, fu la pienezza dei poteri tem­ porali e spirituali posseduti dal sovrano di Roma). Fonti ricchissime vennero aperte soprattutto potenziando ol­ tre misura gli uffici della burocrazia e dei tribunali cen­ trali della Chiesa. La Camera apostolica e la Penitenzieria moltiplicarono le occasioni di intervento e le materie di loro competenza, compensandosi a vicenda (per cui, a fronte di una diminuzione delle annate e delle pensioni, si registrò un costante aumento delle dispense per ma­ trimoni in grado proibito rilasciate - a pagamento, s’in­ tende - dalla Penitenzieria). G li uffici furono resi tutti vendibili: di fatto, con la sola esclusione, almeno forma­ le, del titolo di Penitenziere maggiore, si potè acquista­ re ogni tipo di carica e di ufficio, consentendo cosi alla tesoreria papale di accumulare ingenti capitali. Un altro settore delle strutture centrali della Chiesa romana che si venne allora fortemente dilatando fu quello della can­ celleria papale: le dimensioni assunte dalle attività d i­ plomatiche (in conseguenza delle continue esigenze di mediazione politica nei rapporti bilaterali tra papato e Stati territoriali) si tradussero in un potenziamento sia della rete di rappresentanti diplomatici stabili presso le varie corti, sia dell’organico di segreteria necessario per tenere le fila della corrispondenza su tutti gli affari cor­ renti. Se la burocrazia centrale metteva in moto, col si­ stema della vendita degli uffici, un’ingente quantità di capitali, ciò avveniva anche perché i titolari di quegli uf­ fici potevano contare, oltre che sulle entrate ordinarie, sulle occasioni di mettere le mani su qualche beneficio particolarmente redditizio. La vicinanza alla sede del po­ tere in materia beneficiaria costituiva una condizione di sicuro privilegio. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la rete sempre piu fitta di rappresentanti diplomatici che si venne allora impiantando e che doveva fare di Roma l’osservatorio internazionale piu importante dell’epoca.

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Si trattava di uno strumento fondamentale per il raffor­ zamento politico del papato: attraverso il canale delle nunziature pontificie passarono e vennero trattati accor­ di e alleanze politico-militari ma anche materie ecclesia­ stiche (dalla concessione di titoli cardinalizi al conferi­ mento di benefici piu minuti e dispersi): come i chierici della Camera apostolica o gli scrittori dei brevi papali, anche i nunzi trassero le loro entrate da qualche ricco be­ neficio (o dal cumulo di piu benefici minori). Ma, se que­ sta tendenza a rivalersi sui benefici ecclesiastici era spon­ tanea e connaturata alla sede papale, che da tempo si era arrogata il potere di disporne senza limiti, le resistenze delle Chiese nazionali e i privilegi concessi in numero sempre maggiore ai sovrani costituivano un grave osta­ colo: negli elenchi dei gravammo, che da secoli le nationes cristiane, e in particolare quella tedesca, elevavano con­ tro la sede papale, era ricorrente la protesta contro la con­ cessione di benefici a prelati di curia che si limitavano a riscuotere le rendite e a consumarle a Roma senza forni­ re l’ufficio ecclesiastico per il quale erano pagati. Lute­ ro, come abbiamo visto, seppe pescare abilmente da qui gli argomenti per scatenare l’opinione tedesca contro R o­ ma e guadagnarla alla propria causa. Di fatto, però, con la politica degli indulti e dei concordati, la libera dispo­ nibilità curiale dei benefici si era andata riducendo e con­ centrando nell’area italiana; i papi, del resto, furono sem­ pre piu esclusivamente di estrazione italiana e la curia si andò anch’essa italianizzando: fu cosi che si rese possi­ bile comporre gli interessi della burocrazia curiale con quelli dei principi e delle famiglie patrizie degli Stati ita­ liani, desiderosi di sistemare nell’area del beneficio se stessi o i propri clienti. Lo stesso collegio cardinalizio, che consentiva una specie di rappresentanza internazio­ nale al vertice della Chiesa, e attraverso il quale gli Sta­ ti europei facevano sentire il loro peso in occasione del­ l’elezione papale, si andò affollando di italiani. L ’italia­ nizzazione del papato significò soprattutto, come si è det­ to, la costruzione di un’entità statale nuova, da cui at­

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tingere sia le risorse finanziarie, che venivano meno dal­ le fonti tradizionali, sia il potere politico sempre piu ne­ cessario alla monarchia papale. Lo Stato della Chiesa forni la base a ciò necessaria: da qui partirono i progetti papali di costruire in ambito italiano degli Stati eredita­ ri per le proprie famiglie («grande nepotismo») e qui si esercitarono, nella lotta contro la grande feudalità, le ca­ pacità di progettazione politica del principato papale. A n ­ che la costruzione di una corte, in grado di attirare col suo splendido modello di vita Γ ammirazione e la curio­ sità dei contemporanei e di affermare la sua egemonia sul­ le altre corti europee, fu l’esito consapevolmente perse­ guito dai pontefici come signori rinascimentali. Le con­ seguenze di questa serie di trasformazioni, che portaro­ no il papato a trionfare sull’idea di concilio, si fecero av­ vertire a tutti i livelli della vita della Chiesa: se al verti­ ce della gerarchia ecclesiastica c’erano pontefici come Giulio II, che al posto dei paramenti sacri indossavano le armi di condottiero, all’altro estremo si veniva per­ dendo ogni distinzione tra chierici e laici grazie all’au­ mento indiscriminato di titolari di benefici ecclesiastici che coi soli ordini minori ottenevano il conferimento di parrocchie e vescovati. A piu riprese dagli ambienti fe­ deli alla tradizione e preoccupati a causa di questi aspet­ ti della vita della Chiesa giunsero lagnanze, appelli e me­ moriali tendenti a ricordare al papa i suoi doveri di capo religioso di una comunità di credenti che andava al di là dei limiti di un singolo Stato. Papa Leone X , in un me­ moriale (Libellus) redatto da Tommaso Giustiniani e Vin­ cenzo Querini, due nobili veneziani diventati monaci ca­ maldolesi dopo una profonda crisi religiosa, si vide ri­ chiamare alle sue responsabilità di guida religiosa nei con­ fronti di un mondo che le recenti scoperte geografiche oltre Atlantico allargavano a dismisura; il suo consan­ guineo e successore Clemente V II si senti rivolgere di­ rettamente subito dopo il Sacco di Roma un analogo ap­ pello a non comportarsi piu come «un principe de Italia» (e chi glielo rivolse fu un altro nobile veneziano, piu tar­

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di cardinale: Gaspare Contarmi3). Appelli e lagnanze si indirizzavano appunto al papa come titolare della piu pre­ stigiosa e solenne autorità all’interno della Chiesa; ma au­ torità e prestigio erano stati riconquistati dal papato, do­ po la gravissima crisi approdata alla vittoria del concilia­ rismo, solo facendo leva su quegli elementi mondani e po­ litici di cui si chiedeva ora l’eliminazione. Tuttavia, se la dottrina della superiorità del concilio sul papa - sancita dal decreto Sacrosancta del Concilio di Basilea - era stata battuta dalla vigorosa ripresa dell’autorità papale, rima­ neva pur sempre profondamente radicata l’esigenza di una riforma della Chiesa, da affidare allo strumento di una pe­ riodica e frequente convocazione del concilio (come pre­ visto dal decreto Frequens, pure approvato a Basilea). L ’opposizione papale fu a questo riguardo ferma e de­ cisa sul piano dei fatti quanto lo fu sul piano teorico con­ tro le dottrine conciliaristiche. Quando, dopo la caduta di Costantinopoli, Pio II convocò un congresso delle poten­ ze cristiane a Mantova, usò ogni cautela perché quel con­ gresso non assumesse caratteri di concilio; subito dopo con la bolla Execrabilis del 18 gennaio 1460 proibì, sotto mi­ naccia di scomunica, ogni futuro appello al concilio contro il papa. Ciò non valse a evitare che appelli di quel tipo ve­ nissero di volta in volta a riprodursi: vi fecero ricorso G i­ rolamo Savonarola e, dopo di lui, Martin Lutero; la con­ danna papale conferì a simili appelli una carica eversiva e un valore di ribellione. Piu difficile era invece disinnesca­ re richieste d ’altro tipo che non contrapponevano l’auto­ rità del concilio a quella del papa, ma si limitavano a pro­ porre a quest’ultimo l’esigenza di convocare di sua inizia­ tiva un concilio. Nelle capitolazioni elettorali sottoscritte in conclave da tutti i cardinali a partire dalla seconda metà del Quattrocento, si trova quasi sempre ripetuto l’impe­ gno richiesto al futuro pontefice di procedere alla riforma 5 Dal resoconto di un colloquio del 2 gennaio 1529 col papa (f . dittrich , Kegesten und Briefe des Cardinals Gasparo Contam i (14 8 3 -15 4 2 ), Braunsberg 18 8 1, pp. 41-46, in particolare p. 43).

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della curia e della Chiesa per mezzo di un concilio da con­ vocare entro termini spesso esattamente indicati e co­ munque urgenti. Richieste di questo tipo esprimevano esi­ genze profondamente radicate e molto diffuse; per questo, quando si ebbe la convocazione del Concilio Lateranense V, le speranze che si giungesse finalmente all’auspicata riforma furono molto forti: programmi dell’ampiezza di quello formulato nel Libellus di Querini e Giustiniani nac­ quero dalla fiducia che finalmente si fosse arrivati al mo­ mento, tante volte rinviato, della riforma della Chiesa. Il testo presentato a Leone X da Querini e Giustiniani, i due patrizi veneziani ritiratisi a vita contemplativa in un mo­ mento difficile della storia veneziana e italiana, è un do­ cumento significativo della vastità delle attese, alla vigilia dell’azione pubblica di Lutero. Riforma significava, per i due camaldolesi, l’instaurazione di un regime di cristianità rinnovata e conquistatrice sul mondo intero: dagli Ebrei d’Europa, che dovevano essere posti davanti all’alternati­ va se convertirsi o sparire, alle popolazioni del Nuovo Mondo e dell’Oriente lontano, che apparivano miti e ac­ coglienti, pronte a ricevere la predicazione del Vangelo. Al mondo ecclesiastico era riserbato un duro riassetto disci­ plinare: sciolti o contingentati gli ordini religiosi, riporta­ te a disciplina cristiana la Curia romana e la corte papale, doveva aprirsi una fase di rinnovata predicazione del Van­ gelo. Era un programma vasto e ambizioso, nel quale è pos­ sibile leggere l’ anticipazione delle realizzazioni più signi­ ficative che sarebbero seguite. Perché seguissero ci volle la dura scrollata della Rifor­ ma luterana. La delusione davanti ai risultati effettivi del Lateranense V alimentò la sfiducia nelle possibilità insite nella formula romana dell’assemblea ecclesiastica sotto il diretto controllo del papa. Per questo Lutero trovò ascol­ to quando, nel suo appello, risuscitò l’immagine e il ricor­ do del concilio di riforma convocato e presieduto dalle au­ torità politiche, lontano dall’influenza papale, capace di rappresentare non solo i vertici della gerarchia ecclesiasti­ ca ma tutta la cristianità. «Ognuno domanda et crida con­

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cilio, concilio, et lo voleno in Germania», scriveva coster­ nato il nunzio pontificio Girolamo Aleandro dalla Dieta di Worms nel 1 5 2 1 4. M a l’immagine terrificante (per il pa­ pato) di Costanza e di Basilea fece si che le resistenze ro­ mane a quel coro di richieste si mantenessero sostanzial­ mente irremovibili (pur celate dietro a concessioni e pro­ messe che erano semplici mosse del gioco diplomatico). So­ lo la vittoria militare di un imperatore (Carlo V), che risu­ scitava le antiche concezioni dell’impero universale e del diritto imperiale di protezione sulla Chiesa e che, oltre­ tutto, era incalzato dalle richieste dei principi territoriali tedeschi, riuscì a smuovere quelle resistenze. D ’altra par­ te, la determinazione con cui Carlo V - spirito profonda­ mente religioso, educato all’ideale erasmiano del principe cristiano - persegui l’obbiettivo di un concilio capace di ricomporre la frattura dell’unità della Chiesa aveva una ra­ dice che andava al di là delle personali convinzioni del­ l’uomo: era la stessa identità europea dell’Impero a ri­ chiederlo. Delle due grandi realtà della cristianità europea medievale, la Chiesa e l’Impero, la prima era ormai deci­ samente avviata a subire la divisione in tante Chiese na­ zionali e, se il papato romano sembrava sfuggire alla ten­ denza generale e riaffermava vigorosamente il suo carat­ tere «cattolico», cioè universale, lo faceva in realtà conso­ lidando con decisione caratteri e strutture di un proprio Stato territoriale all’interno di un’area di rispetto che coin­ cideva con la penisola italiana. Invece l’impero asburgico poteva sopravvivere solo dando corpo politico e culturale (cioè religioso) all’intera Europa, come entità superiore ca­ pace di inglobare e di far convivere pacificamente le di­ verse realtà politiche e culturali del continente. Per que­ sto il concilio appariva assolutamente necessario e, per ra­ gioni molto simili, l’idea di concilio continuò a ripresen­ tarsi a lungo nelle attese e nei desideri di molti anche do­ po la conclusione di quello che si celebrò a Trento. Nella 4 h . jedin , Storia del Concilio di Trento cit., I, p. 229 nota.

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lunga sopravvivenza dell’idea di concilio si trova un riflesso dell’idea stessa di Europa, con la sua irrisolta contraddi­ zione di fondo tra un’identità culturale unitaria e la realtà delle divisioni e dei conflitti tra gli Stati nazionali. Davanti a quell’idea di Europa, la resistenza del papato si sommò a quella dei principi territoriali e degli Stati na­ zionali. Si trattò di un’opposizione che ebbe motivi profon­ di, non riducibili alle circostanze occasionali del nepotismo mediceo o farnesiano, o dei timori di un ritorno alle teorie conciliariste. C ’erano le ragioni del radicamento dello Sta­ to papale nel contesto della penisola italiana. La politica del­ la «libertà d’Italia» mirò a impedire che una potenza di­ ventasse preponderante nella penisola (da qui la continua oscillazione del papato nella politica dell’equilibrio tra Fran­ cia e Spagna) o almeno a garantire alla Chiesa una sfera au­ tonoma di influenza sugli altri Stati italiani. Tra il grido di battaglia di Giulio II - «Fuori i barbari! » - e la folle av­ ventura militare di Paolo IV contro Filippo II ci fu una con­ tinuità di orientamenti politici; perciò, anche nei confron­ ti della politica conciliare di Carlo V le resistenze sorde del papato, dietro le apparenze di consenso e di collaborazio­ ne, presero di mira precisamente l ’idea imperiale di un’Eu­ ropa unita sotto uno stesso potere. Per molti, infine, la con­ vocazione stessa del concilio significava l’indebolimento di quel papato nel quale vedevano l’ultimo baluardo di un’I­ talia debole e divisa. Per questo si guardò con preoccupa­ zione all’avanzata del potere di Carlo V e se ne interpretò immediatamente l’appello al concilio come un semplice ri­ catto politico a cui non dare importanza: « Non vorrà si par­ li del Concilio che ha detto sin qui volere che si facci, - scri­ veva sollevato un alto personaggio della Curia romana nel dicembre 1526, - conoscendo che il mandare avanti detto Concilio serviria piu a generare confusione contro Nostro Signore /il papa/ che al servitio di Dio»5. 5Lettera di Gian Matteo Giberti, datario di Clemente VII del 29 dicem­ bre; si veda A . p r o s p e r i , Tra evangelismo e Controriforma. G .M . Giberti 14 9315 4 3 , Roma 1969, p. 77.

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Sul piano piu propriamente religioso, bisogna tener conto del fatto che per Roma i margini di confronto con la Riform a erano molto scarsi. D i questo si aveva co­ scienza, come mostra l’opinione, diffusa tra le figure piu autorevoli del mondo cattolico, che non ci fosse spazio per discutere coi protestanti in materia di fede e che si dovesse semplicemente far valere contro di loro il patri­ monio di leggi e di dottrine tramandato nei secoli. Dopo il Sacco di Roma, quando il papa dovette uffi­ cialmente accettare la politica imperiale che passava attra­ verso la convocazione del concilio, da Roma si fece ricor­ so a tutte le astuzie della diplomazia per sabotare le possi­ bilità reali di arrivare a tale obbiettivo. Clemente V II, fi­ glio illegittimo, forse papa simoniaco, aveva tutte le ragioni per temerlo: «Nel piu profondo dell’anima questo papa, ha scritto Jedin, - temeva e aborriva il Concilio»6. E quel timore era noto a tutti: il grande teologo domenicano Fran­ cisco de Vitoria, dalla sua cattedra di Salamanca, dichia­ rava che quella paura del papa era causa di grandi disgra­ zie per la religione. Non mancavano i mezzi per sostenere una politica basata sulla doppiezza, che ufficialmente di­ chiarava di volere quello che in segreto sabotava. Per la convocazione, il papa pose una condizione fondamentale difficilissima da raggiungere: che gli Stati cristiani fossero in pace. E cosi bastò l’ostilità di Francesco I a garantire che l ’obbiettivo non diventasse mai concreto. Solo con l’elezione di papa Paolo III (Alessandro Far­ nese) le cose cominciarono a cambiare: appena eletto, il nuovo papa dichiarò di voler convocare il concilio. E ra dif­ ficile credergli. Bisognò convincere gli interlocutori che le cose erano davvero cambiate: come ebbe a dire l’inviato papale al re di Francia, «non si negotia al modo usato e che questo è un altro tempo»7. M a arrivarono segni concreti delle intenzioni papali con la nomina cardinalizia di una personalità di grande prestigio: il patrizio veneziano Ga6H.

je d in

7Ibid., p.

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Stona del Concilio di Trento

339.

c i t .,

I, p. 255.

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CAPITOLO SECONDO

spare Contarini. La notizia della nomina lo raggiunse men­ tre era impegnato nei compiti ordinari di governo del pa­ triziato veneziano: fu un impulso alle speranze diffuse. In­ torno a lui si raccolsero altre figure eminenti, a significare un rinnovamento dei vertici della Chiesa. Un altro segno importante fu la convocazione di una commissione di pre­ lati a cui fu demandata la stesura di una proposta sulla rifor­ ma della Chiesa. Il memoriale o Consilìum de emendando. Ecclesia (1537) riconobbe che c’era stato un cavallo di Troia attraverso il quale si erano introdotti gravi abusi nel­ la Chiesa e questo era il principio del potere assoluto del papa nel conferimento dei benefici ecclesiastici: bisogna­ va riformare la prassi beneficiaria e ricongiungere ufficio ecclesiastico e beneficio, rendite e amministrazione dei sa­ cramenti. Era un’idea di riforma che niente aveva a che spartire coi principi di quella protestante: e tuttavia l’op­ posizione degli uomini di Curia fu immediata, col prete­ sto che si rischiava di fornire argomenti alla propaganda luterana (in effetti Lutero pubblicò una versione tedesca del Consilìum, commentata con sarcasmi, con la conse­ guenza che a Roma il documento fu messo sotto chiave e ne fu proibita la stampa e la circolazione). Quanto alla convocazione di un concilio, l’offerta pa­ pale era ben lungi dall’accogliere le richieste dei luterani. A Roma si pensava a un’assemblea di soli ecclesiastici da riunire in una città italiana; per il luogo, gli inviati papa­ li proposero un ventaglio di nomi di città italiane: M an­ tova, Torino, Piacenza e Bologna. Mantova era città di tradizionale appartenenza al partito di Carlo V , Torino sembrava più accessibile ai vescovi francesi, le città pa­ dane significavano un controllo diretto dell’imperatore (Piacenza) o del papa (Bologna). In ogni caso, era escluso in principio che si concedesse il «libero concilio cristiano in terra tedesca». La disponibilità papale al concilio era condizionata al rifiuto netto della proposta luterana. Emerse allora l’altro vero ostacolo alla rivitalizzazione del concilio universale come luogo di governo del cristia­ nesimo europeo: gli Stati territoriali, in particolare le mo­

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narchie nazionali. Mentre l’imperatore Carlo V restava l’unico sovrano veramente e vitalmente interessato al rag­ giungimento di quell’obbiettivo, tutti gli altri avevano ra­ gioni per impedirlo: cosi Francesco I, che si era alleato con i principi protestanti tedeschi della Lega di Smalcalda; e cosi anche Enrico V i l i, che intanto aveva proclamato l’Atto di Supremazia e fatto giustiziare John Fisher e Tho­ mas More. Anche i principi tedeschi erano ostili davanti a un disegno che non rispettava le loro richieste di un li­ bero concilio cristiano in terra tedesca e minacciavano di convocare un concilio nazionale. Il 2 giugno 15 3 6 si giun­ se comunque alla pubblicazione della bolla di convoca­ zione: il concilio si doveva aprire a Mantova di li a un an­ no e precisamente il 23 maggio 15 3 7 . Non fu cosi. A ll’ultimo momento il termine fu proro­ gato, adducendo come causa le difficoltà frapposte dal du­ ca di Mantova. M a le ragioni sostanziali del fallimento ri­ siedettero nell’ostilità di Francesco I davanti a un pro­ getto che implicava un’alleanza tra papa e imperatore. La bolla di convocazione non raggiunse mai i prelati france­ si. Fu in quella occasione che si vide come il consenso dei sovrani fosse decisivo per mandare ad effetto la convoca­ zione. Proprio allora venne indicato il nome di Trento co­ me luogo piu adatto a ottenere una partecipazione tede­ sca. Intanto, un’offerta della Repubblica di Venezia mi­ se a disposizione la sede di Vicenza. Ci fu una convoca­ zione in questa città e furono fatti dei preparativi, ma do­ po diverse proroghe si decise una sospensione sine die. Il concilio era stato convocato e rinviato per cinque volte. Ironia e scherno furono l’unico commento possi­ bile. Era emerso chiaramente che cosa si fosse disponibi­ li a concedere da parte romana: un’ assemblea addome­ sticata di vescovi quasi soltanto italiani da tenere vicino a Roma, che condannasse le dottrine di Lutero e in cam­ bio approvasse qualche misura di moralizzazione del mondo ecclesiastico, senza toccare però né l ’autorità del papa né la struttura del vertice romano. M a non c’era solo Lutero: i prelati e gli uomini di cui-



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tura italiani avevano stima di Filippo Melantone, uomo moderato, fine umanista, del tutto esente dagli scatti di violenza verbale e dall’intransigenza di Lutero. Alcuni era­ no convinti che si potesse raggiungere un’intesa sul punto piu controverso, l’articolo della giustificazione, separando le discussioni fra dotti dalla semplice vita religiosa del po­ polo. Si tentò la via dei «colloqui di religione», con la qua­ le Carlo V tentò di pacificare il mondo tedesco. Delega­ zioni di teologi cattolici e protestanti si incontrarono per cercare una soluzione praticabile alle divergenze dottrina­ li. Il piu importante si tenne a Regensburg (Ratisbona) nel 15 4 1: vi fu delegato da parte cattolica il più convinto so­ stenitore della via dell’accordo pacifico, il cardinale G a­ spare Contarmi, mentre l’altra delegazione fu guidata da Martin Butzer, un teologo letto e stimato anche in Italia (dove i suoi scritti circolavano, sia pure sotto false attri­ buzioni). L ’accordo sembrò sul punto di essere raggiunto grazie alla dottrina della doppia giustificazione, che cerca­ va di accordare il primato della giustificazione gratuita per fede con la risposta dell’uomo giustificato attraverso le ope­ re. M a l ’illusione svanì presto: ben altri ostacoli si parava­ no davanti ai volenterosi negoziatori sia per la dottrina (i sacramenti e in particolare il sacerdozio, l’eucarestia e la penitenza) sia per l’intransigenza delle retrovie. Lutero da Wittenberg e la Curia da Roma negarono il permesso di procedere e i negoziatori se ne tornarono a casa senza nes­ suna conclusione. La Dieta si concluse imponendo un ter­ mine di 18 mesi per la convocazione del concilio. I dele­ gati al colloquio consegnarono all’imperatore le loro pro­ poste in quello che si chiamò il Libro di Ratisbona. Conta­ rmi, accusato di essere «luterano», fu allontanato da Ro­ ma e mandato a governare Bologna come Cardinal legato. E qui assistette nei suoi ultimi giorni alla svolta repressiva della politica papale. Da questo momento in avanti il di­ segno del concilio fu concepito sempre più esclusivamen­ te da parte romana come strumento per condannare le dot­ trine della Riforma e per rafforzare il controllo papale sul­ la struttura ecclesiastica, contro le tendenze degli episco­

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pati nazionali a distaccarsi dall’obbedienza romana (a Ra­ tisbona, Contarmi aveva ascoltato dai vescovi tedeschi ri­ chieste di un concilio nazionale, insieme a richiami al de­ creto Frequens di sapore fortemente conciliarista). In man­ canza di concilio, l’imperatore minacciava di decretare la tolleranza ufficiale nei confronti dei seguaci della Rifor­ ma. Esisteva anche il problema di una «riforma cattolica» che cancellasse dal mondo ecclesiastico «in capite et in membris» (cioè nel vertice romano e nelle membra ad es­ so soggette) le macchie piu vistose (fiscalità esosa, igno­ ranza, avidità, immoralità, non residenza). Bisognava pro­ cedere in quella direzione, avvertivano gli osservatori piu attenti, almeno per «tappare la bocca» ai luterani. Il 22 maggio 1542 Paolo III lesse in concistoro la bol­ la di convocazione del concilio a Trento (Initio nostn huius pontificati). Il luogo era stato scelto per la sua collocazio­ ne giuridica all’interno dell’Impero e per quella geografi­ ca di confine, che ne consentiva l’accesso a Tedeschi, Spa­ gnoli, Francesi e Italiani. Sembrava giunta l’occasione buona. M a la situazione politica europea era fra le piu tur­ bolente per il conflitto franco-imperiale e di conseguenza anche gli Stati italiani erano in grande agitazione. Il io luglio Francesco I, alleato con l’Impero ottomano, di­ chiarò guerra a Carlo V; la bolla di convocazione non rag­ giunse nemmeno questa volta i vescovi francesi. In Italia, intanto, si aspettava la discesa dell’esercito francese; i fuo­ rusciti fiorentini guidati da Piero Strozzi si preparavano a un’iniziativa militare contro Cosimo I in Toscana. Le tensioni che prepararono la guerra erano ben note anche a Roma, tanto che Carlo V accusò il papa, con una lette­ ra adirata, di aver proceduto alla convocazione solo per fare una vuota dimostrazione di buona volontà. Invitato a dichiararsi alleato dell’imperatore, il papa si mantenne rigorosamente neutrale. I preparativi proseguirono stan­ camente in un clima avvelenato, tra i sospetti e le accuse; i cardinali inviati da Roma come legati al concilio, quan­ do arrivarono a Trento nel novembre 15 4 2 vi trovarono in tutto due vescovi (incluso quello di Trento). A sorpre­

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sa, comparve in città l’uomo di fiducia di Carlo V, Nico­ las de Perrenot, signore di Granvelle: l’imperatore lo ave­ va inviato per verificare di persona quanto quella convo­ cazione fosse di pura facciata. Esplose lo scandalo e par­ tirono accuse violentissime: il papa aveva solo fatto finta di convocare il concilio. Un incontro di Carlo V con Pao­ lo III a Busseto, presso Parma, nel 15 4 3 , non migliorò la situazione: la diffidenza del sovrano verso l’astuto pon­ tefice non si sciolse. Il papa non volle rinunziare alla sua neutralità politica tra Francia e Impero e, quanto al con­ cilio, propose di sospenderlo o di trasferirlo da Trento in luogo piu sicuro e piu vicino a Roma. E ra una musica che doveva accompagnare tutta la vicenda. La proposta mostrava che a Roma si riteneva defini­ tivamente chiusa la partita nei confronti del mondo del­ la Riforma e che si era ormai rassegnati alla perdita della Germania. Il sogno imperiale di una conciliazione era re­ moto dalla mente della grande maggioranza dei prelati che governavano la Chiesa di Roma; lo coltivavano pic­ cole minoranze, tra cui un gruppo di cardinali e di pre­ lati imbevuti di idee erasmiane e convinti sul piano del­ l ’esperienza religiosa del carattere totalmente gratuito della giustificazione dell’uomo peccatore, disposti per­ tanto a togliere ogni importanza alle opere. Anche nei loro confronti, però, la tolleranza stava per finire; nel mese di luglio del 15 4 2 , con la bolla L icetab initio, pre­ se corpo il progetto di costruire a Roma un tribunale su­ premo per accentrare e rendere piu efficiente la caccia agli «eretici» luterani, secondo il modello dell’Inquisi­ zione spagnola creata nel secolo precedente in Spagna contro i «giudaizzanti». A ffidata a una commissione di cardinali presieduta dal papa (la Congregazione del S. U ffizio dell’Inquisizione), essa entrò in azione imme­ diatamente convocando a Roma il piu celebre e popola­ re dei predicatori italiani dell’epoca, il frate cappuccino Bernardino Ochino, ammirato da Michelangelo e da Reginald Pole, ma segretamente convertito alle idee della Riforma. Ochino andò a trovare il Contarini per consi­

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gliarsi con lui e lo trovò in gravissime condizioni; pro­ segui allora il suo viaggio ma non per Roma: se ne andò a Ginevra, si tolse il saio fratesco e annunciò la sua in­ tenzione di abbandonare ogni simulazione e di predica­ re da allora in poi Cristo senza maschere. Sul piano europeo la questione del concilio fu riaper­ ta da Carlo V con l’aiuto di una grande destrezza diplo­ matica e di uno straordinario successo militare. Alla D ie­ ta di Spira ottenne l’ aiuto dei principi tedeschi contro la Francia promettendo loro una politica di tolleranza verso i luterani; cosi, potè affrontare militarmente Fran­ cesco I. La pace di Crépy (1544) lasciò la Francia inde­ bolita: isolata dagli alleati tedeschi, poco agevolata dal­ l’aiuto musulmano (anzi screditata tra i cristiani per aver accolto il pirata Barbarossa nel porto di Tolone nel 15 4 3 ), anche la sua politica verso il progetto imperiale di concilio dovette ammorbidirsi. T ra le clausole segre­ te di Crépy ci fu l’accordo per arrivare alla riunione e riforma («réunion et réformation») della cristianità, per mezzo del concilio o per altra via (« soit pour la voye du concile ou autrement»), A dimostrazione della serietà dei suoi intenti e del suo impegno personale, Francesco I convocò un colloquio di dodici teologi per preparare i lavori del concilio. Paolo III dovette fare buon viso a cattivo gioco e procedere alla convocazione. D ’ altra par­ te, il papa, che doveva adoperarsi per il concilio e per la riforma della Chiesa, era un perfetto rappresentante del papato mondano, corrotto e nepotista contro il quale era insorta la coscienza cristiana nel corso del secolo: perse­ guiva con ogni astuzia una politica di potenza per la sua famiglia, costruendo un avvenire di principe territoria­ le per il proprio figlio Pier Luigi, un soldataccio che si vantava fra l’altro di aver violentato un giovane vesco­ vo. Consigliere politico del papa era il Cardinal nipote Alessandro, grande mecenate e collezionista di opere d ’arte, del tutto insensibile nei confronti del problema della Riforma. Nei rapporti con gli Asburgo e con la mo­ narchia francese, i Farnese procedevano attraverso al­

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leanze matrimoniali per costruirsi un avvenire di casata sovrana. Ora, con la pace di Crépy, ogni obiezione contro il con­ cilio venne meno. La nuova bolla di convocazione (Laetare Jerusalem, 19 novembre 1544) indisse il Concilio a Tren­ to per il 15 marzo 154 5. Ci fu un accordo tra Paolo III e Carlo V che offri al papa ogni garanzia che a Trento non ci sarebbe stata un’incontrollabile assemblea episcopale ma un corpo sapientemente selezionato e costantemente con­ trollato dai rappresentanti politici dell’imperatore e so­ prattutto dai legati papali, titolari di poteri vastissimi. Alla cerimonia d ’apertura del 15 4 5 si giunse dunque solo per la vigorosa iniziativa politica e militare di Car­ lo V, che si propose di battere i principi protestanti riu­ niti nella Lega di Smalcalda e di portarli poi ad accetta­ re i deliberati del concilio. Si giunse cosi, come scrive il Sarpi, a «una convoca­ zione ecclesiastica, nel corso di 2 2 anni per diversi fini e con varii mezi da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni 18 ora adunata ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sorti­ ta forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha di­ sturbata: chiaro documento di rasignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana»8. 8 p. sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di C . Vivanti, 2 voli., To­ rino 1974, I, pp. 5-6.

Capitolo terzo Il primo problema del concilio: riforma della disciplina o confronto dottrinale ?

«Questo concilio, desiderato e procurato dagli uomi­ ni pii per riunire la Chiesa che comminciava a dividersi, ha cosi stabilito lo schisma et ostinate le parti, che ha fat­ to le discordie irreconciliabili; e maneggiato da li prencipi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la mag­ gior deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano, e dalli vescovi sperato per racquietar l ’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice ro­ mano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, ridu­ cendoli a maggior servitù: nel contrario temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta con varii progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha tal­ mente stabilita e confermata sopra la parte restatagli sog­ getta, che non fu mai tanta, né cosi ben radicata»1. Questo celebre giudizio del Sarpi è una pagina di ri­ flessione generale sull’imprevedibilità della storia. Esso introduce al carattere contraddittorio delle forze che avevano operato per arrivare all’esito dell’apertura del concilio. Le contraddizioni antiche perdurarono e altre se ne resero palpabili fin dalla cerimonia di apertura. Da­ vanti a un pubblico formato prevalentemente da gente del posto - il clero e i nobili trentini con le loro mogli il numero esiguo di padri conciliari (come si è detto, 2 1 vescovi e 4 arcivescovi) faceva risaltare la scarsa rappre­ sentatività dell’assemblea: mancava la quasi totalità di 1 p. sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, 2 voli., To­ rino 1974, I, p. 6.

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CAPITOLO TERZO

un corpo episcopale che, nei soli Paesi fedeli a Roma, «superava di gran lunga il mezzo migliaio»2. La partecipazione dei vescovi era regolata dai poteri statali e, nei minori Stati italiani, fortemente influenza­ ta dal papa. Il lavoro che dovevano svolgere a Trento era soggetto a programmi e volontà che non coincidevano con le attese di grandi masse di cristiani, anche se ne do­ vevano tenere conto. Ristrettissima la delegazione fran­ cese scelta personalmente dal sovrano: solo quattro pre­ lati. Francesco I sottolineava cosi che dal suo punto di vista il concilio era cosa che riguardava quasi esclusivamente gli affari tedeschi. Un irrigidimento successivo aveva portato a un complicato gioco di richiamo della de­ legazione, di proteste per la mancata presenza delle Chie­ se tedesche e, alla fine, del mantenimento di due prelati a Trento. Del tutto assente ovviamente la Chiesa ingle­ se; il fatto che il papa avesse nominato Cardinal legato a Trento un nemico personale di Enrico V i l i e suo paren­ te - Reginald Pole - era come una dichiarazione di guer­ ra. M a il dato fra tutti piu notevole fu quello dell’esigua partecipazione iniziale dei vescovi dei territori spagnoli: cinque in tutto, piu una delegazione di osservatori che vere e proprie rappresentanze dei corpi ecclesiastici. Tuttavia, bastò la dichiarazione solenne di apertura dei lavori perché la minuscola assemblea in una piccola città alpina diventasse un potere essa stessa, una realtà operante e vivente di cui tenere conto. Da qui l’impor­ tanza delle scelte che si dovettero compiere quando si affrontò il regolamento delle discussioni e delle votazioni e si stabili un programma. Il modo in cui fu regolato nei dettagli quel program­ ma documenta quanto fosse ormai remota l ’epoca delle tumultuose assemblee conciliari che deponevano ponte­ fici e dettavano regole a tutta Europa. Del regolamento e del programma dei lavori si discus­ 2 h . jedin , Geschichte desKonzils voti Trient, 4 voli., Freiburg 1957-77 [trad. it. Storia d el Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 1973-81, I, p. 637].

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se fin dalla prima riunione, con proposte e interventi che Girolamo Seripando, generale degli Agostiniani, bollò di «timidezza, ignoranza, anzi incredibile stupidità». L ’or­ dinamento del concilio fu definito solo nella congrega­ zione generale del 29 dicembre 15 4 5 . C ’era da decidere come regolare il diritto di voto; furono ammessi a eserci­ tarlo i vescovi presenti, senza possibilità di delegare pro­ curatori al loro posto: la questione era rilevante soprat­ tutto per i vescovi tedeschi che avevano le maggiori dif­ ficoltà ad essere personalmente presenti ma la cui voce, anche attraverso procuratori, poteva avere una grande im­ portanza negli orientamenti del concilio. Per protesta con­ tro la decisione, i procuratori dell’arcivescovo di Magon­ za se ne andarono sbattendo la porta; questo indusse il pa­ pa a prevedere possibili eccezioni alla regola proprio per i vescovi della Germania, lasciando però ad arbitrio dei legati il farne uso. M a questi completarono l ’opera deci­ dendo di concedere ad alcuni procuratori solo un voto con­ sultivo: e cosi si chiuse la questione. Ebbero diritto di voto anche i generali dei cinque or­ dini mendicanti, consacrando in tal modo il loro vincolo storico col papato. I tre abati benedettini ebbero diritto a un voto unico. Si parla di voti per testa; restò infatti esclusa la possibilità di un voto per «nazioni» e pour cau­ se. Per quanto non mancassero i precedenti in tal senso, la ragione che impose di evitare tale metodo era piuttosto evidente: la maggioranza dei vescovi era composta da ita­ liani, tutti piu o meno manovrati da Roma. Un voto per nazioni avrebbe annullato la loro preponderanza numeri­ ca e reso l’assemblea un campo di battaglia aperto alle vo­ ci piu duramente critiche verso la Curia romana. Assem­ blea di ecclesiastici italiani, quella tridentina non assomi­ gliava dunque per niente ai concili del secolo precedente, con la loro variegata e tumultuosa partecipazione dei cor­ pi della «repubblica cristiana» europea. Il problema dei problemi restava però uno solo: che fa­ re ? Non che mancassero proposte e suggerimenti; ben chia­ ri erano i motivi per cui si era desiderato un concilio e si

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era di fatto giunti alla convocazione a Trento. Prima di Lu­ tero, si era chiesto il concilio per la riforma della Curia, per il rafforzamento dell’autorità episcopale contro i privilegi dei regolari, per il rinnovamento della vita e dei costumi del clero, per la pace tra i principi cristiani e la crociata contro i maomettani e per molte altre cose ancora. Dopo l’appello di Lutero, fin dalla Dieta di Norimber­ ga (1523) la richiesta di concilio era stata avanzata dai prin­ cipi tedeschi (ed era stata ripresa in seguito dall’imperato­ re) in vista di una riforma della Chiesa che ponesse fine al­ le controversie religiose. La bolla di convocazione del con­ cilio a M antova, con cui papa Paolo III dette prova nel 15 3 6 della sua volontà di arrivare alla scadenza rinviata dai suoi predecessori, indicava cosi gli scopi della futura assemblea: identificazione ed eliminazione degli errori dot­ trinali (eresie), riforma dei costumi e della vita cristiana, restaurazione della pace tra i principi europei e crociata contro gli infedeli. In realtà era tutt’altro che chiaro qua­ le dovesse essere veramente l’oggetto centrale del futuro concilio: esclusi gli obbiettivi della pace e della crociata, che sempre venivano ricordati in questi casi e le cui leve non erano certamente nelle mani dei padri conciliari, gli altri due si ponevano in qualche modo come alternativi. Ancor prima che si arrivasse all’inaugurazione dell’ assem­ blea tridentina si era discusso a lungo a quale dei due ar­ gomenti si dovesse dare la priorità: una cosa era, ovvia­ mente, il punto di vista degli uomini di curia, del partito fedele al papa, altro quello del partito filoimperiale, per non parlare del punto di vista dei luterani. I primi aveva­ no accolto il concilio con fortissime resistenze e restavano convinti che fosse non solo inutile ma dannoso; in ogni ca­ so, il loro punto di vista era che ci si dovesse limitare a ri­ chiamare in vigore le leggi antiche del diritto canonico per garantire il risanamento della vita del clero. Quanto alla Riforma protestante, essa non era altro che la somma di eresie già condannate in antico dalla Chiesa, contro le qua­ li doveva intervenire ora tutto il rigore degli strumenti inquisitoriali. La bolla di scomunica di Lutero aveva indivi­

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duato le eresie antiche rinnovate dal monaco tedesco e dun­ que non c’era niente da discutere, si doveva solo procede­ re alla restaurazione delle buone norme antiche e alla «guerra spirituale». In un’assemblea siffatta non ci sareb­ be stato spazio né per una seria discussione delle dottrine controverse né per le misure di riforma in profondità del­ le istituzioni ecclesiastiche, ma solo per una compatta riaf­ fermazione dei valori tradizionali contro i «novatori». A l­ tro orientamento veniva espresso invece da parte di quei prelati che credevano nella possibilità di una conciliazio­ ne religiosa e che, di conseguenza, appoggiavano la poli­ tica religiosa di Carlo V: questi si rendevano conto della profondità della crisi religiosa e dell’impossibilità di risol­ verla con misure di tipo amministrativo e poliziesco. Non si poteva trattare la religione «per via di guerra»: questa convinzione, espressa nel 154 0 dal nunzio in Germania Giovanni Morone, nasceva dall’esperienza diretta della profondità della crisi che lacerava il corpo della cristianità e dalla volontà di non perdere il cuore tedesco dell’Euro­ pa. M a non erano in molti a pensarla cosi: il giovane e am­ bizioso cardinale Alessandro Farnese aveva attraversato allora i Paesi protestanti sfoggiando la sua cultura nelle di­ scussioni teologiche che gli capitava di fare nelle librerie, ma senza preoccuparsi molto del dissesto in cui versavano le forme tradizionali della vita religiosa. N ell’ottica roma­ na dei personaggi della Curia contava piu di ogni altra co­ sa la fortuna politica e finanziaria delle loro famiglie, per la quale era essenziale il mantenimento della criticatissima macchina burocratica e giudiziaria romana. O ra che il concilio era aperto, bisognava dunque af­ frontare di comune accordo le questioni dottrinali e disci­ plinari piu scottanti del momento. Il fallimento della poli­ tica dei «colloqui di religione» registrato a Ratisbona nel 15 4 1 dal cardinale Gaspare Contarmi - che aveva pagato col sospetto e con l’isolamento l’arrischiata formulazione teologica della dottrina della «doppia giustificazione» aveva allontanato la possibilità di una conciliazione. Ep­ pure, era bastato quel viaggio in Germania del cardinale

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Contarini a far nascere in mezzo al clero tedesco la spe­ ranza che da Roma giungesse l’attesa liberazione dall’obbligo del celibato per gli ecclesiastici; altra richiesta molto diffusa in Germania e nei Paesi toccati dalla Riforma era quella della concessione del calice ai laici. L ’urgenza di ri­ sposte concrete alla crisi era avvertita soprattutto in G er­ mania: qui, l’arcivescovo di Colonia Hermann von Wied procedette per suo conto alla riforma, aprendo con Roma una crisi che investiva una diocesi di grande importanza. E proprio per questa urgenza Carlo V, pur spronando le operazioni per il concilio, continuava intanto a percorrere la via dei colloqui di religione. M a il fallimento del collo­ quio di religione di Ratisbona (1546) e la morte di Lutero ridettero fiato all’assemblea tridentina: era li che bisogna­ va ormai affrontare le questioni della riforma disciplinare e della dottrina di fede. Era su problemi di questo tipo che l’opera del concilio era chiamata a misurarsi, secondo il punto di vista di uomini come il Morone: una severa rifor­ ma dei costumi ecclesiastici e della corte romana doveva dare, inoltre, segnali rassicuranti a chi trovava intollerabi­ li gli abusi della Curia. Occorreva insomma opporre alla Riforma di Lutero qualcosa di antitetico che fosse però al­ trettanto efficace e valesse a eliminare le ragioni stesse del consenso popolare verso i luterani. Il cardinale Contarini lo aveva detto molto chiaramente in una lettera da Rati­ sbona del 15 4 1 : il successo popolare delle idee luterane gli era apparso di tale portata da fargli temere la prossima con­ quista dei Paesi Bassi, della Francia e della stessa Italia (e qui Contarini sapeva bene che i simpatizzanti non man­ cavano). Per scongiurare il pericolo, secondo lui, bisogna­ va fare al piu presto una «buona reformatione» e convo­ care a tal fine il concilio, « altrimenti - concludeva Conta­ rini - io vedo perduta tutta questa provincia [cioè la G er­ mania] et tutto il resto della christianità in gran travaglio»3. 3 Lettera al cardinale Alessandro Farnese, io luglio 15 4 1; si veda f . dit Braunsberg 18 8 1, pp. 261-62.

trich, Regesten u n i Briefe des Cardinali Gasparo Contarini (14 8 3-15 4 2 ),

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E in Germania c’era chi ribadiva - come fece il prelato Johann Gropper - la necessità di una «reformatio pia et catholica». Si registra qui la prima formulazione di un con­ cetto che doveva avere in seguito larga fortuna nella let­ teratura controversistica prima di trovare impiego in sto­ riografia: riforma cattolica. Nel momento stesso in cui da Roma si dava il via al concilio si ammetteva implicitamente che la soluzione cara agli ambienti piu rigidamente con­ servatori della Curia non era praticabile: non bastava ri­ chiamare in vigore le norme antiche del diritto canonico e fare argine contro gli «eretici», bisognava anche procede­ re con iniziativa positiva e con tutta la solennità dell’as­ semblea conciliare all’eliminazione delle discordie religio­ se e alla riforma del popolo cristiano. Questi obbiettivi ven­ nero infatti elencati cosi nella bolla papale Laetare Jerusalem della seconda convocazione del concilio a Trento (1544), ma non era affatto chiaro il modo di procedere per perseguir­ li: si dovevano affrontare contemporaneamente oppure si doveva dare la precedenza a uno dei due ? E , in questo ca­ so, quale era il piu urgente ? I primi dibattiti conciliari e l’intero avvio del concilio furono dominati da questo pro­ blema. Non si trattava certo di materia lasciata alle libere determinazioni dei padri conciliari: come in tutte le occa­ sioni decisive del concilio, le esigenze della grande politi­ ca europea e dei suoi schieramenti si fecero avvertire pe­ santemente. Il partito imperiale era deciso a rinviare l’e­ same delle dottrine il piu lontano possibile, in attesa che la soluzione delle divisioni dottrinali uscisse dalla guerra che Carlo V, d ’accordo col papa, aveva segretamente de­ ciso di sferrare contro la Lega di Smalcalda. Era per que­ sto che l ’imperatore, attraverso il suo confessore Pedro de Soto, suggeriva al nunzio papale Fabio Mignanelli che in concilio non si permettesse di trattare le materie teologi­ che controverse coi luterani, almeno all’inizio. Nel piano di Carlo V il concilio era solo uno strumento tra gli altri in una manovra complessiva che prevedeva prima la sconfit­ ta militare dei principi protestanti e poi le proposte rifor­ matrici dell’assemblea tridentina. Questo piano suscitava

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però resistenze diffuse in chi temeva che per tale via l’au­ torità della Chiesa venisse offuscata dall’asservimento ai piani politici degli Asburgo. In molti, allora, era viva l’e­ sigenza di restaurare la funzione magisteriale del corpo ec­ clesiastico e di far fronte in maniera adeguata alla diffusa richiesta di precisazioni e definizioni dottrinali. Uomini come il Cardinal legato Marcello Cervini erano convinti che la crisi dell’unità religiosa fosse ormai irrimediabile e rite­ nevano che il compito piu urgente fosse quello di puntua­ lizzare nettamente quali fossero i limiti dell’ortodossia. Un altro legato, il cardinale Pole, pur movendo da convinzio­ ni assai diverse in materia di rapporti coi «novatori», af­ fermava che una buona riforma si poteva avviare solo do­ po aver ben chiarito quale fosse la dottrina ortodossa4. Era una posizione condivisa anche da quell’esiguo gruppo di prelati (tra i quali, probabilmente, l’abate benedettino Isi­ doro Chiari) che pregarono il cardinale Madruzzo di sol­ lecitare la venuta a Trento di Melantone per esaminare in­ sieme le questioni dottrinali controverse tra cattolici e pro­ testanti. La questione fu affrontata nelle prime sedute. Nella congregazione generale del 18 gennaio 1546, il car­ dinale Madruzzo, portavoce del partito imperiale, propo­ se che ci si occupasse all’inizio solo della questione del ri­ sanamento morale e disciplinare. Il partito fedele al papa propose invece di partire dalle dottrine o, tutt’al piu, di trattare contemporaneamente le due questioni. Nella se­ duta successiva del 22 gennaio, poiché il Madruzzo insi­ steva nella sua proposta, il Cardinal legato Del Monte, pre­ sidente del concilio, con una mossa ad effetto dichiarò che la riforma poteva cominciare subito se i prelati, che erano i titolari di piu benefici con cura d’anime, vi facevano im­ mediata e formale rinunzia. Era un vero e proprio attacco personale al Madruzzo, titolare dei due vescovati di Tren­ 4 Sui due cardinali legati, cfr. d . fenlon , Heresy and Obedience in Triden­ tine ltaly. Cardinal Pole and thè Counter Re/ormation Cambridge 1972, e w. v. hudon, Marcello Cervini and Ecclesiastical Government in Tridenàne ltaly DeKalb 1992.

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to e Bressanone, ma dopo questo avvio polemico si rag­ giunse una soluzione di compromesso decidendo di af­ frontare simultaneamente i due tipi di problemi. Non fu facile convincere il papa della bontà di una tale soluzione: a Roma si temeva moltissimo che, affrontando la questio­ ne della riforma e dell’abolizione degli abusi ecclesiastici, i padri tridentini finissero con l’attaccare direttamente la Curia, interferendo con l’organizzazione dei dicasteri cen­ trali della Chiesa. Anche se depurata di tutte le implica­ zioni teologiche di cui si era caricata dopo la predicazione di Lutero, la questione della riforma era capace di scate­ nare forti tensioni. Lo si era ben visto nella seduta del 22 gennaio: i principi della chiesa erano giunti allora a un pas­ so da una pubblica e solenne rinuncia ài cumulo dei bene­ fici, in un clima di tensione e di esaltazione tale da prefi­ gurare in qualche modo quello della celebre notte del 4 ago­ sto 1789 dell’Assemblea nazionale francese. Le attese che da piu di un secolo erano andate crescendo nella società europea intorno all’idea del concilio come scadenza deci­ siva per il rinnovamento della vita cristiana e della Chiesa erano tali da trovare alimento anche nel modesto scenario trentino. Lo prova il fatto che verso Trento si avviarono allora personaggi tra di loro diversissimi, come il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerlo (che, dopo una brillan­ te carriera ecclesiastica, si avviava a passare nel campo lu­ terano) e l’oscuro visionario siciliano Giorgio Rioli, alias Giorgio Siculo, un ex monaco benedettino convintosi di essere Cristo reincarnato. Davanti al vero e proprio mira­ colo di un concilio lungamente atteso, che si apriva ora in una città dell’Impero, sotto il segno dell’autorità di un im­ peratore cristiano dal travolgente valore militare e capace di imporre il suo disegno di riforma al riluttante e corrot­ to mondo della Curia romana, i sentimenti di chi assiste­ va a quelle prime sedute erano di gioiosa e palpitante at­ tesa. «Questo concilio è come un bambino, - scriveva Pier Paolo Vergerlo al duca di Ferrara il 26 gennaio 1546 - un bambino che anchora non sa mover i piedi, né parlare, et chi ha cura di nutrirlo va pian piano, insegnandoli parlar

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et mover la vita», ma si poteva sperare «che i membri si vadano fortificando, et la lingua slegando»5. Nel gioco fra i prelati dell’assemblea e i legati papali, Vergerlo vedeva la possibilità di quella riforma tanto attesa, destinata a ta­ gliare le unghie alla Curia romana, ma bisognava avere pa­ zienza, non affrettarsi. «M olte fiate tutti i prelati pronuntiano una oppenione et li legati un’altra, et questa bi­ sogna che prevaglia per adesso, e chi facesse altramente il bambino che io dico harrebbe troppo brieve la vita»6. Ma Vergerlo non attese cosi a lungo da veder crescere davve­ ro quel bambino; né Giorgio Siculo ottenne di poter fare davanti al concilio le sue rivelazioni. Le loro speranze an­ darono frustrate. Ciò nulla toglie al loro valore di testi­ monianza dei desideri e delle confuse aspirazioni che il con­ cilio, per il fatto stesso di esistere, aveva suscitato. A que­ sto si deve aggiungere l ’incontrollabile dinamica assem­ blare che spingeva ad assumere posizioni drastiche e poco conciliabili con la prassi curiale. Fu cosi che da parte di al­ cuni - tra i quali addirittura un membro della fidata pat­ tuglia italiana, il vescovo toscano Martelli - fu avanzata la proposta di dichiarare il concilio «rappresentante la Chie­ sa universale» («universalem Ecclesiam repraesentans»). Era una formula temutissima a Roma perché, ripresa alla lettera dai testi di Costanza e di Basilea, evocava l’argo­ mento giuridico che aveva sostenuto la fortuna delle idee conciliariste: la Chiesa poteva diventare davvero un orga­ nismo retto e governato da assemblee come i Parlamenti, le Diete, gli Stati generali. Non bastava, evidentemente, l’aver creato condizioni di subordinazione e controllo sia dell’intera assemblea sia dei singoli membri; non bastava il cordone ombelicale che teneva unita l’assemblea triden­ tina con Roma, dove una congregazione cardinalizia orien­ tava i lavori per mezzo di una regolare corrispondenza coi tre cardinali legati (si diceva ironicamente che lo Spirito 5 Cfr. p. paschini, Pier Paolo Vergerlo il giovane e la sua apostasia, Roma 1925, p. 117 . 6Ibid.

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Santo viaggiava nelle valigie della corrispondenza da R o ­ ma). Per controllare i singoli vescovi, si usarono condizio­ namenti economici: le sovvenzioni vennero concesse e au­ mentate anche per controbilanciare l’aumentato senso del loro potere e della loro dignità come padri conciliari. M a tutto questo non era sufficiente a cancellare i timori sugli effetti indesiderati di quella assemblea. Nel febbraio del 1546, per dimostrare di non essere soggetto al concilio, Paolo III decise - con gran dispiacere dei prelati piu sen­ sibili ai problemi di riforma - di concedere le criticatissime «aspettative» in materia beneficiaria. Ci fu chi osservò che si pretendeva di difendere l’autorità del papa con l’a­ buso di quella stessa autorità. Intanto, un uso accorto del potere della Sede romana sui vescovi di area italiana con­ sentiva di mantenere alta la partecipazione di una schiera di fedeli curiali. Nei momenti in cui s’intravedeva qualche pericolo, interventi ben mirati facevano accorrere vescovi disposti a far da contrappeso agli «spiriti maligni» che mi­ nacciavano di portare a fondo gli interventi di riforma. Fu­ rono ventilati propositi piu drastici, cioè di imporre che si trattassero solo questioni dottrinali, ma senza successo: la decisa opposizione dei legati, e in particolare del Cervini, valse a far ingoiare alla Curia la soluzione di compromes­ so della trattazione contemporanea di dogma e riforma, con l’argomento che altrimenti si sarebbe confermata l ’ac­ cusa protestante al papa di voler solo un concilio di con­ danna delle idee luterane. Si trattò comunque di un pas­ saggio difficile della vita del concilio: l’opposizione roma­ na costrinse i legati a rinviare sine die ogni approvazione formale in concilio del decreto proposto il 22 gennaio con cui si accettava di abbinare dogma e riforma. Il contrasto fra l’uso politico del concilio e l’esperien­ za di chi vi operava o ne attendeva con ansia i lavori è rap­ presentato al vivo dallo scenario di quei primi mesi. A l pa­ pa e all’imperatore, per ragioni diverse, importava unica­ mente che il concilio fosse stato aperto; ora doveva solo continuare a esistere, ma possibilmente senza compiere nessuna scelta importante. Per l’imperatore, le svolte ri­

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solutive dovevano avvenire altrove, nello scontro milita­ re coi principi protestanti; per il papa, ogni atto autono­ mo dell’assemblea rappresentava un pericolo o di dimi­ nuzione dell’autorità papale o di intervento riformatore nel funzionamento della criticatissima struttura burocra­ tica centrale. A dimostrare quanto la questione fosse cru­ ciale, una volta decollati i lavori del concilio su due que­ stioni fondamentali come la dottrina della giustificazione (piano dogmatico) e la questione della residenza (piano della riforma), la mutata situazione politico-militare in Germania rese di nuovo attuale il conflitto tra l’imposta­ zione voluta dall’imperatore e quella desiderata dal papa. Lo scoppio della guerra contro la Lega di Smalcalda sem­ brò ai legati papali al concilio un buon motivo per proce­ dere alla traslazione dell’assemblea da Trento a qualche altra città piu vicina a Roma e piu controllabile dal papa; mentre si dibatteva questo progetto (luglio-agosto 1546) Carlo V intervenne pesantemente nella questione chie­ dendo che il concilio non fosse spostato e che le materie dottrinali venissero il piu possibile posposte. Il suo ob­ biettivo era quello di non perdere di credibilità nei con­ fronti del mondo tedesco, dove le resistenze politiche do­ vevano essere battute con le armi e quelle religiose con la dimostrazione che a Trento si effettuava una reale rifor­ ma della Chiesa universale sotto l’egida dell’imperatore. Per questo, nella sua istruzione per l’ambasciatore al con­ cilio Juan de Mendoza del 28 ottobre 15 4 6 , Carlo V insi­ stette nella richiesta di rinviare la trattazione delle prin­ cipali divergenze dottrinali e impose che non si parlasse nemmeno di uno spostamento della sede da Trento ad al­ tra città. Ma i suoi desideri non vennero accolti: dottrine fondamentali come quelle sulla giustificazione, sulle fon­ ti della rivelazione e sui sacramenti - veri punti nodali del contrasto tra cattolici e protestanti - vennero affrontate dal concilio; inoltre, proprio quando la vittoria militare dell’imperatore sulla Lega di Smalcalda apri la porta alla possibilità di costringere i protestanti tedeschi ad accet­ tare i decreti conciliari, i legati fecero deliberare il trasfe­

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rimento del concilio a Bologna (io marzo 1547)· L ’auto­ revole avallo che un medico di gran fama, Girolamo Fracastoro, forni ai legati non ingannò nessuno, né allora né poi; non il «morbo petecchiale» impediva che il concilio continuasse i suoi lavori a Trento, ma una malattia di al­ tro genere. Erano motivazioni politiche quelle che spin­ gevano il papa a impedire un eccessivo rafforzamento di Carlo V . Furono quelle le ragioni che fecero trionfare, do­ po mesi di incertezze e di lungaggini procedurali, il pro­ getto romano di un concilio tutto subalterno al papa e de­ terminato a erigere una barriera dottrinale contro i pro­ testanti tedeschi. A ll’imperatore non rimase che regolare direttamente, con YInterim di Augusta (1548), le questio­ ni dottrinali in terra tedesca, con una soluzione di com­ promesso che accoglieva richieste diffuse (matrimonio de­ gli ecclesiastici, concessione del calice ai laici), ma non concedeva niente sul terreno dottrinale. Quanto al con­ cilio, le vibrate proteste di Carlo V ottennero che il tra­ sferimento a Bologna restasse provvisorio e inefficace, quasi una parentesi. M a la svolta impressa allora all’ope­ rato dell’assemblea fu decisiva nel senso di chiudere la porta a una effettiva conciliazione tra i gruppi confessio­ nali in disaccordo.

LA GRANDE POLITICA EUROPEA

Capitolo quarto La grande politica europea attraverso il sismografo del concilio

La storia tormentata del Concilio di Trento è la ripro­ va non solo e non tanto delle incertezze dottrinali e delle polemiche religiose del tempo ma anche - e soprattutto del permanere irrisolta di una grande questione esterna al concilio stesso: quella del potere in Europa e in Italia. L ’intera storia dei concili sta a dimostrare che solo la pre­ ventiva soluzione di tale questione ha potuto general­ mente garantire loro uno svolgimento ordinato. Quello di Trento fu, per tutta la sua durata, soggetto agli esiti del conflitto tra Impero e Francia, tra i piani egemonici di Carlo V , la forte rivalità della monarchia nazionale fran­ cese e le resistenze degli Stati territoriali germanici. Il pa­ pato non era piu l ’oggetto di queste contese, come al tem­ po dei concili di riforma del Quattrocento: poteva conta­ re su una struttura statale propria e su un consistente po­ tere finanziario, che gli consenti di assumersi il costo non indifferente dell’assemblea tridentina. M a questo, ben lungi dal semplificare il problema, lo complicò: il papato gettò il suo peso ora sull’uno ora sull’altro piatto della bi­ lancia in base a considerazioni di convenienza politica; di conseguenza, l’assemblea conciliare venne aperta, trasfe­ rita, sospesa e riaperta di volta in volta a seconda delle esi­ genze di uno scontro politico-militare che si mantenne fi­ no all’ultimo incerto e complesso. Tra le complicazioni di cui si deve tener conto, ci fu quella non secondaria del ne­ potismo papale: tutta la prima fase del concilio s’inscrive non solo alì’interno del piano imperiale di pacificazione religiosa della Germania, ma anche all’interno del tenta­ tivo di Paolo III Farnese di creare uno Stato per la pro­

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pria famiglia. Il conferimento del ducato di Parma e Pia­ cenza al figlio del papa, Pierluigi Farnese (26 agosto 1545) - sotto la finzione di uno scambio coi feudi farnesiani di Camerino e Nepi, passati allo Stato della Chiesa - e la creazione di uno Stato nuovo, nato «in una notte come nasce un fungo» (secondo le parole del cardinale Ercole Gonzaga, adirato e sconcertato testimone), aprirono un problema nuovo nel rapporto triangolare papa-ImperoFrancia e mostrarono con quanta spregiudicatezza Paolo III fosse disposto a giocare con l’alleanza allora stretta con Carlo V. L ’ i 1 settembre 15 4 7 si seppe a Roma che Pier­ luigi Farnese era stato assassinato a Piacenza. Nessuno eb­ be dubbi sulla mano che aveva armato il sicario: era la ri­ sposta dell’imperatore alla rottura dell’alleanza da parte del papa, che si era riavvicinato alla Francia appena i suc­ cessi di Carlo V in Germania avevano risuscitato l’antico spettro della «monarchia universale» degli Asburgo. M a il colpo inferto agli affetti e alle ambizioni familiari del papa fu decisivo anche per le sorti del concilio: quando apparve chiaro che Carlo V era ben deciso a non restitui­ re Piacenza, Paolo III rifiutò definitivamente di prende­ re in considerazione il ritorno a Trento dei padri conci­ liari trasferitisi a Bologna. Era la crisi conclusiva del pri­ mo periodo del concilio: poteva essere anche la causa di uno scisma nella Chiesa, dato che Carlo V era in grado di assumersi direttamente il compito della riforma. Sulla cau­ sa di questa crisi non ci sono dubbi: il rifiuto del papa fu dettato dal suo «rancore personale contro l ’imperatore a causa degassassimo di Piacenza e delle difficoltà create alla politica familiare dei Farnese » 1. 1 maligni commenta­ vano in Curia che, se Carlo V avesse restituito Piacenza, il papa sarebbe stato disposto a trasferire di nuovo il con­ cilio non solo a Trento ma perfino ad Augusta. Questo è, tuttavia, ben poco verosimile: accanto al nepotismo for­ tissimo, l’altra molla della politica papale era costituita ‘ h . jedin , Geschichtedes Konzils voti Trìent, 4 voli., Freiburg 1957-77, III [trad. it. Storia d el Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 1973-81, III, p. 167].

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CAPITOLO QUARTO

dall’ostilità nei confronti di ogni eccessivo rafforzamen­ to dell’impero asburgico; poiché la frattura politico-reli­ giosa della Germania era la spina piu consistente nel fian­ co dell’Impero, il papato non si prestò in alcun modo a eliminarla. Inoltre, il fatto che a Trento fosse stato deci­ so il baluardo teologico dell’articolo sulla giustificazione, faceva pensare che ormai la questione con la Germania lu­ terana fosse chiusa e che non restasse altro che combat­ tere gli eretici. Il concilio, insomma, una volta definita la dottrina romana sul punto decisivo, perdeva ogni impor­ tanza politica e poteva anche chiudere. La morte di E n ­ rico V i l i e di Francesco I, intanto, rimettevano in movi­ mento tutto il quadro europeo. Il papato perseguiva la sua politica, che partiva dal presupposto che la Germania lu­ terana era da considerare perduta. Il rifiuto di far torna­ re il concilio a Trento fu senz’altro l’atto piu gravido di conseguenze da questo punto di vista, ma ad esso si ag­ giunse il tentativo di un’alleanza politica con la Francia, la liquidazione del Concilio di Bologna e il sotterraneo sa­ botaggio dell’attuazione dell 'Interim in Germania. Alla morte del papa che lo aveva convocato (io novembre 1549), il concilio era sciolto e non si vedeva nessuna pro­ spettiva di riapertura. L ’imperatore regolava le questioni di fede per proprio conto, con la tiepida collaborazione pa­ pale e valendosi di un successo schiacciante sul piano mi­ litare al quale nessuno sembrava in grado di opporsi. Uno sguardo superficiale avrebbe allora potuto abbracciare un’Europa sostanzialmente unita sul piano religioso. L ’al­ tra grande questione, quella della riforma interna, di tipo morale e disciplinare, delle istituzioni ecclesiastiche, re­ stava invece del tutto aperta e sollecitava ancora lamenti e proteste e sogni di rinnovamento nel corpo cristiano: an­ che su questo punto il papato era tornato ai mezzi tradi­ zionali, convocando a Roma una commissione prelatizia col compito di studiare e avviare i provvedimenti di rifor­ ma. La voce del concilio, sgradita ai protagonisti della sce­ na politica, era stata messa a tacere. La forza delle ragioni politiche è evidente anche nel

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modo in cui si giunse alla seconda convocazione del con­ cilio a Trento. Il nuovo papa Giulio III, non avendo in­ teressi nepotistici nella questione di Parma e Piacenza, non vide alternative alla ripresa del concilio, riconvoca­ to a Trento per il i ° maggio 1 5 5 1 e affidato, per il suo successo, totalmente all’imperatore, la cui volontà sem­ brava allora destinata a non trovare ostacoli. La misera rappresentanza davanti a cui s’inaugurò questo secondo tempo trentino - solo una quindicina di prelati, tutti pro­ venienti dai domini imperiali - era tuttavia la prova v i­ sibile di una divisione che l’alleanza tra Enrico II e i pro­ testanti tedeschi doveva drammaticamente rivelare di li a poco. A l momento del massimo successo seguiva cosi a breve distanza il piu grave fallimento dell’egemonia imperiale: il progetto politico di una Chiesa tutta unita all’interno dell’Impero trionfante era impossibile e il suo esito negativo, prima ancora che sul piano delle allean­ ze politico-militari, era denunciato dalla consistenza mi­ serevole dell’aula conciliare. Lo scoppio delle ostilità, nella primavera del 15 5 2 , portò immediatamente alla so­ spensione del concilio (28 aprile): era uno sviluppo che, seppure imprevisto, non giungeva certo sgradito a G iu ­ lio III, il quale aveva si percorso fino in fondo la via del­ l’ accordo con l’imperatore (al quale egli, originariamen­ te filofrancese, giunse a proporre di destituire Enrico II), ma si era trovato doppiamente deluso per l ’orienta­ mento aggressivamente riformatore dei vescovi spagno­ li a Trento, oltre che per il riaprirsi cosi drammatico del­ la frattura politica della cristianità. Da quel momento i progetti di riforma rifluirono nel chiuso della Curia ro­ mana e la crisi dell’unità religiosa apparve irrimediabile e ben piu profonda di quanto molti non immaginavano. A testimonianza della delusione di chi si era impegnato fino ad allora nell’impresa conciliare, riportiamo quello che Girolamo Seripando scrisse il 9 maggio 15 5 5 , subi­ to dopo l’elezione al pontificato di M arcello Cervini, l’infaticabile legato del primo periodo tridentino:

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CAPITOLO QUARTO Me recordai non haver pregato Dio che costui [Cervini] nomi­ natamente fosse papa ma solo che fose uno il quale togliesse tan­ to opprobrio et tanta derisione quanta è quella nella qual molt’anni se truovano questi santi nomi: Chiesa, Concilio, Riforma2.

M a proprio quando il concilio sembrava lontano e di­ menticato, la nuova situazione politico-religiosa europea ne impose la ripresa: stavolta fu la Francia a riaprire la par­ tita, con la minaccia di un concilio nazionale per affronta­ re la questione del rapporto con gli ugonotti. Pio IV , per­ sonalmente ben poco interessato ai conflitti religiosi del suo tempo, non trovò migliore argomento contro una si­ mile minaccia che richiamare in vita il Concilio di T ren­ to. M a si doveva trattare proprio di una ripresa di un percorso piu volte interrotto o non era meglio un inizio ex novo ? Intorno a tale questione procedurale si accese una diatriba che da sola valse a mostrare quanto diver­ sa, piu varia e sfrangiata si presentasse allora la situa­ zione europea. Favorevole alla continuità era Filippo II di Spagna, per gli stessi motivi che invece spingevano l ’imperatore Ferdinando a richiedere che si ignorasse completamente il precedente lavoro del Concilio di Trento: per l’uno si trattava di convalidare un’opera di lotta senza quartiere contro le dissidenze religiose in­ terne, mentre per l’altro si riproponeva la questione del­ la pacificazione con forze protestanti che non avevano mai riconosciuto la validità dell’assemblea tridentina. Per questo tra la bolla di convocazione (29 novembre 1560) e l’apertura effettiva dei lavori (18 gennaio 1562) trascorse tanto tempo. Interesse delle maggiori potenze europee al concilio e aspettative contrastanti al riguar­ do: ecco perché la sua fase conclusiva fu la piu affollata di tutte ed ecco perché, nonostante la presenza di epi­ scopati indocili ai desideri di Roma come quelli spagno­ lo e francese, anche stavolta il papa potè imporre la pro­ pria volontà. Eppure, proprio l’adesione piu ampia del 2Lettere di Principi, a cura di G. Ruscelli, Venezia 1570, pp. 187-89.

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solito portò come conseguenza immediata una messa in discussione del meccanismo procedurale fino ad allora vigente, grazie al quale il concilio era stato guidato di­ rettamente da Roma. Il primo conflitto scoppiò infatti proprio a proposito del «diritto di proposta» dei cardi­ nali legati, momento formale piu evidente della dipen­ denza dell’intera macchina conciliare da ciò che veniva deciso a Roma. A ltra e piu grave questione, sulla quale il concilio rischiò di insabbiarsi definitivamente, fu quel­ la se l’obbligo di residenza da parte di chi deteneva be­ nefici con cura d ’anime fosse da ritenersi di «diritto di­ vino» (e quindi non aggirabile con dispense papali) o me­ no. Qui le aspirazioni a una radicale riforma morale e di­ sciplinare del clero, vive soprattutto negli episcopati spa­ gnolo e francese, entravano in urto con le necessità fi­ nanziarie e di potere della Curia romana. In ambedue i casi, lo scontro fu evitato di misura grazie a negoziati di­ plomatici nei quali risaltò l ’abilità del cardinale Giovanni Morone: con un accordo diretto con l’imperatore, egli indebolì l’opposizione anticuriale in concilio e potè ra­ pidamente portare a termine i dibattiti sulle questioni piu spinose. M a proprio nel momento della sua massima vitalità, il concilio rivelava tutta la sua potenziale ag­ gressività nei confronti del vertice romano della Chiesa; era evidente, dunque, che bisognava concludere quanto prima i lavori per evitare che diventasse una tribuna per­ manente di accuse contro Roma e di deliberazioni trop­ po eccessivamente riformatrici. Si trattava, anche in que­ sto caso, di togliere ai padri conciliari ogni supporto po­ litico esterno da parte dei sovrani cattolici: servi a tal fi­ ne la minaccia di affrontare in concilio un progetto di «riform a dei principi» - cioè di misure contro gli osta­ coli frapposti dai sovrani al libero funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche - che si aggiunse, come stru­ mento di pressione, agli altri argomenti di un quadro di­ plomatico animatissimo. M ai come in questo scorcio del­ la sua esistenza il concilio era apparso maggiormente do­ minato e determinato, fin nelle più riposte pieghe della

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CAPITOLO QUARTO

sua procedura, dal gioco diplomatico delle principali cor­ ti europee e dall’abilità politica di uomini come il cardi­ nale Morone e il giovanissimo Cardinal nipote di Pio IV, Carlo Borromeo. Cosi il progetto di «riform a dei prin­ cipi» non ebbe sorte migliore di quelli di riforma della Curia: fin dall’epoca del conciliarismo quattrocentesco, il papato aveva imparato a riservarsi intatto il campo dei rapporti coi sovrani, da potenza a potenza; di conse­ guenza, non fu difficile porre termine all’esistenza del concilio. Con una rapida, quasi frenetica, serie di sedu­ te e di deliberazioni, si procedette a una sommaria con­ clusione che lasciò aperte molte e non secondarie que­ stioni. Alcune furono esplicitamente rimesse al papa (re­ visione dell’Indice dei libri proibiti, redazione del cate­ chismo, riforma del messale e del breviario): altre, pro­ prio per il modo sommario in cui erano state trattate, ab­ bisognavano evidentemente di interpretazione. Ma proprio questo era quanto si desiderava a Roma: chiuso il concilio, si apriva la fase dell’interpretazione e dell’at­ tuazione nella quale il papato e la Curia si riservavano ampia libertà d ’azione.

Capitolo quinto Questioni dottrinali

Prima di affrontare la questione dell’attuazione e del­ l’interpretazione del concilio, vale la pena di chiedersi, tuttavia, quale fosse stato il livello dei dibattiti triden­ tini e quale la risposta data ai problemi della cristianità dalla pattuglia di prelati che si erano avvicendati nelle varie sessioni. Veniamo prima di tutto alle questioni dot­ trinali. Era qui che il concilio era atteso alla prova o, più esattamente, era qui che i nodi dei problemi erano par­ ticolarmente intricati e piu forte la divaricazione tra le attese e le speranze di un rinnovamento generale della Chiesa e della vita religiosa, da un lato, e l’innalzarsi di frontiere teologiche ed ecclesiastiche che molti ritene­ vano invalicabili dall’altro. Quando il concilio si apri, i contrasti si erano ormai fortemente radicati non solo in Germ ania ma anche in altre parti d ’Europa: erano nate nuove istituzioni ecclesiastiche, si erano andati asse­ stando nuovi modi collettivi di vivere il cristianesimo entro forme garantite e sorvegliate dalle autorità politi­ che, schieratesi a favore delle nuove «confessioni». Di tutto questo era ancora scarsa la percezione negli Stati italiani e a Roma. M a anche qui l’ombra inquietante di Lutero polarizzava l’attenzione e alimentava un diffuso desiderio di riform a che stentava a trovare un punto di riferimento in un concilio tante volte rimandato. Come scriveva nel 15 3 8 O ttaviano Lotti a Ercole Gonzaga, «gli homini, vedendo che i p reti... han bisogno di reform atione... et d all’altra banda essendo tanto cresciuta questa secta Lutheriana, et non si facendo concilio per chiarire ben tutte le partite», cercavano ormai diretta­

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CAPITOLO QUINTO

mente nella lettura della Bibbia «quel che li bisogna per la salute»1. Cosi, quando il concilio si apri davvero, non pochi avevano chiarito per proprio conto i problemi che stavano loro a cuore e avevano preso posizione nel gran­ de conflitto della Riforma. Questo non toglie, tuttavia, che le attese si facessero subito vivissime davanti alle de­ cisioni che i padri tridentini si avviavano a prendere: si trattava di sapere chi era nel giusto e chi nell’errore cir­ ca l’interpretazione della Parola di Dio. Naturalmente, altro era l’animo con cui si guardava al concilio dai Pae­ si guadagnati alle idee della Riforma, altro quello dei cat­ tolici. E una grande diversità di atteggiamenti caratte­ rizzava anche chi si muoveva all’interno dell’uno o del­ l ’altro fronte. Durissimi gli scritti polemici di Lutero e i toni dei «pasquilli» (gli opuscoli satirici e polemici del genere delle «pasquinate») messi in circolazione da chi considerava la convocazione di Paolo III una manovra diversiva e vedeva nel papato il «figlio di Anticristo» de­ stinato a portare alla rovina la Chiesa; altrettanto dure le risposte del partito cattolico. L ’odio diffuso trovò espressione quando la notizia della morte di Lutero giun­ se a Trento, all’inizio del marzo 15 4 6 ; si disse che era morto avvelenato dai suoi seguaci che avevano paura di una sua ritrattazione; si disse anche che era morto «be­ vendo e burlando fino all’ultimo», come ci si attendeva da un uomo posseduto dal diavolo. Dalla Germania, il cardinale Ott Truchsess scrisse ai legati che gli dispia­ ceva di quella morte perché sperava di farlo portare a Trento e «darli il mentissimo castigo dii focco, qual è il debito di questi desperati heretici»12. Esisteva anche una tendenza piu moderata: c’erano al­ cuni, ad esempio, che non accettavano le durezze della bat­ 1 Cfr. F. chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’ epoca di Carlo V, Torino 19 7 1, p. 307 nota. 2 Lettera del 14 marzo 1546 (i documenti citati sono editi in Concilium Tndentinum. Diariorum, Actorum, Epistolarum, Tractatuum nova Collectio, a cura della Gorres-Gesellschaft, Freiburg im Breisgau 1901 sgg., X (1916), a cu­ ra di G. Buschbell, pp. 4 17, 423 sg. e 431).

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taglia teologica perché pensavano che cosi si correva il pe­ ricolo di rinunciare allo spirito del Vangelo; per loro, la di­ scussione sulle dottrine non doveva incidere sulla pratica delle virtù cristiane. Era meglio, dunque, sospendere il con­ trasto dove si rivelava insolubile o riservarlo a discussioni fra esperti teologi, lasciando al popolo degli illetterati, dei «semplici», il compito di praticare le virtù cristiane senza bisogno di addentrarsi nei labirinti della teologia. Secon­ do l’opinione di questo gruppo, al quale diede voce l ’aba­ te benedettino Isidoro Cucchi da Chiari, al comune cre­ dente bastava conoscere e condividere alcuni principi fon­ damentali (fundamentalìa/idei). Erano opinioni maturate nella corrente degli ecclesiastici più influenzata dalle idee dell’Umanesimo cristiano di Erasmo da Rotterdam. C ’e­ ra poi chi era sensibile ad alcune delle esigenze fondamentali poste da Lutero e dai riformatori: la giustificazio­ ne per fede e il ritorno alle Scritture sacre contro il proli­ ferare di devozioni e di pratiche superstiziose. Due nomi fra tutti emersero nelle discussioni conciliari, quelli di Tommaso Sanfelice, vescovo di Cava dei Tirreni, e di G ia­ como Nacchianti, vescovo di Chioggia. M a si trattava di esigue minoranze. La massiccia preponderanza di vescovi di obbedienza curiale e l’attenta sorveglianza di Roma (informata non solo dai cardinali legati ma anche da ze­ lanti e ambiziosi membri del concilio, sempre pronti a ve­ dere il pericolo dell’eresia) li costrinse ben presto al silen­ zio, anche al prezzo di veri e propri processi di Inquisi­ zione. Una speranza di soluzione dei conflitti e di frater­ no incontro coi protestanti aleggiò intorno al concilio, ma non trovò molto spazio nelle preoccupazioni dei vescovi: molto più presente fu alla loro mente il problema dei rap­ porti tra l’autorità dei vescovi nel governo delle loro chie­ se e le altre forme di potere centralizzato che avevano pre­ so corpo nella Chiesa: il papato e gli ordini mendicanti. N ell’ affrontare le questioni dottrinali, furono via via battute le residue e tenaci speranze in una pacificazione religiosa e si affermò la volontà di sancire in maniera ir­ revocabile la condanna delle «eresie». L ’organizzazione

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dei lavori previde che le questioni venissero affrontate in commissioni separate («congregazioni particolari») per poi arrivare a un confronto e a una discussione colletti­ va nelle «congregazioni generali» che si tenevano di nor­ ma ogni venerdì. Le questioni venivano esaminate preli­ minarmente nelle riunioni degli esperti teologi, i quali pertanto, pur non avendo diritto di voto, condizionaro­ no con la loro cultura e col loro linguaggio gli orienta­ menti dei vescovi, generalmente di formazione giuridica e di superficiale cultura teologica. I teologi erano quasi esclusivamente membri degli ordini mendicanti e porta­ rono di conseguenza nelle elaborazioni dottrinali del con­ cilio il loro linguaggio di scuola. Ci fu anche un proble­ ma di libri a Trento: la città non era attrezzata per le esi­ genze dell’approfondimento teologico delle questioni controverse. La bolla di scomunica contro Lutero e i suc­ cessivi interventi dell’Inquisizione non avevano certo in­ coraggiato la lettura diretta degli scritti dei riformatori. D i fatto, anche se qualcuno aveva letto testi di Lutero, di Melantone, di Butzer o di Calvino, sui punti contro­ versi coi protestanti fecero testo le informazioni e le deformazioni raccolte negli scritti dei teologi controversisti, cioè di coloro che della polemica e del litigio dottrinale avevano fatto una vera professione: Dobneck (Cochlaeus), Eck e pochi altri. Un primo banco di prova fu costituito dalla questione del rapporto tra Sacra scrittura e Tradizione. Il problema era fondamentale: le dottrine necessarie alla salvezza era­ no tutte contenute nella Sacra scrittura oppure bisognava attingere a un deposito diverso, quello di tradizioni non scritte? Il 26 febbraio, una «congregazione generale» fis­ sò alcuni punti ed elesse dei deputati per la compilazione di uno schema di decreto. Si cominciò a trattare, accanto alla dottrina, la questione degli «abusi» da riformare a que­ sto riguardo, secondo un modo di procedere che doveva poi mantenersi fisso per tutta la durata dei lavori del con­ cilio. La questione circa l’uso non corretto che si faceva della Scrittura portava dritto ad affrontare un problema

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fondamentale: si poteva consentire la lettura della Bibbia nelle lingue («volgari») locali ? E quali traduzioni erano da considerare valide ? Dunque, bisognava prendere posizio­ ne nei confronti di Erasmo e di Lutero: da un lato, c’era tutto il lavoro filologico che l’Umanesimo aveva dedicato all’accertamento del testo originale della Bibbia e dall’al­ tro c’era l’impegno profuso da Lutero nel tradurre le Scrit­ ture nella lingua del popolo tedesco. I teologi sostennero che bisognava definire solennemente come autentica la tra­ duzione latina usata nei secoli nelle chiese e nelle scuole, «altrimenti sarebbe dare la causa vinta a’ luterani et aprir una porta per introdur all’avvenire innumerabili eresie e turbare continuamente la quiete della cristianità»5. Le di­ scussioni furono accese. Era diffusa l’opinione che proprio dalla lettura diretta della Bibbia in volgare fosse derivata la diffusione delle «eresie» luterane fra il popolo e si chie­ deva perciò di vietare ogni traduzione; altri prelati, inve­ ce, ancora affezionati alle idee dell’Umanesimo cristiano, ritenevano che si dovesse incoraggiare la conoscenza del­ le Scritture sacre. Il contrasto era netto: i legati preferiro­ no evitare la materia e lasciare in sospeso la questione. Ben diverso clima doveva caratterizzare invece la ripresa delle discussioni sull’argomento quando, nel 15 6 1, il concilio dovette occuparsi di nuovo della materia: l’Inquisizione romana aveva ormai imposto un regime di proibizione e di sospetto sulla lettura della Bibbia. Il concilio potè solo ten­ tare di limitare e moderare tali proibizioni. Intanto, nella discussione del 15 4 6 , i vescovi affron­ tarono anche una questione che stava loro molto a cuo­ re: si trattava di imporre regole ai predicatori e di stabi­ lire una forma di controllo sulla stampa tenendo conto, tra l’altro, che la norma prevista dal Concilio Lateranense V di affidare ai vescovi la censura libraria non aveva funzionato. Si dette cosi la stura alle lagnanze sugli abu­ si di predicatori ignoranti sui quali i vescovi non aveva} p. sarpi, Istoria d el Concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, 2 voli., To­ rino 1974, I, p. 260.

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no alcun potere, sullo scarso impegno di vescovi e sacer­ doti con cura d ’anime nell’insegnare la buona dottrina al loro popolo e sull’eccessiva libertà di artisti e letterati nel servirsi della Scrittura fino alla profanazione. Si udirono anche voci fortemente critiche sull’ignoranza del clero e sulla necessità di riordinare le forme della predicazione. Bisognava sottoporre i frati all’autorità dei vescovi, so­ stennero questi ultimi, perché altrimenti - affermò Brac­ cio Martelli, vescovo di Fiesole - era come lasciare che i lupi penetrassero negli ovili senza resistenza; i rappre­ sentanti degli ordini mendicanti si opposero, natural­ mente. D ’altra parte, era evidente che, se i vescovi con­ tinuavano a non risiedere nelle loro diocesi, era inutile dare loro maggiori poteri sulla predicazione. Tanti problemi emergevano e il gusto della discussio­ ne era evidente. Si trattava di una fase ancora sperimen­ tale. L ’8 aprile, con la quarta seduta plenaria e solenne («sessione») del concilio, si giunse all’atteso appunta­ mento dell’approvazione del primo decreto conciliare. Fu un rito solenne, alla presenza di 55 vescovi e dell’amba­ sciatore spagnolo, nonché di molti curiosi, soprattutto nobili, giunti fin da Venezia per l’avvenimento. Dopo il canto dell’ufficio dello Spirito Santo e la predica, fu da­ ta lettura dei due decreti: vi si affermava che la pura dot­ trina rivelata da Cristo era contenuta nei libri e nelle tra­ dizioni orali («in libris scriptis et sine scripto traditionibus») conservate dalla Chiesa; il decreto forniva poi l’e­ lenco ufficiale (il «canone») dei libri della Sacra scrittu­ ra. Il secondo decreto fissava nella Vulgata il testo au­ tentico della Scrittura e riserbava all’autorità ecclesiastica il potere di interpretarne il significato, stabilendo di con­ seguenza divieti e controlli sulla stampa non solo dei li­ bri della Bibbia ma di ogni interpretazione ed esposizio­ ne di essi. Sanzioni severe erano minacciate, in chiusu­ ra, contro coloro che si servivano di parole e frasi della Scrittura sacra per usi profani, irriverenti, superstiziosi o addirittura diabolici (per esempio negli incantesimi). Era la prima prova: i giudizi furono severi, da parte dei

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protestanti - ai quali l’inserimento delle tradizioni orali tra le fonti della Rivelazione non poteva certo essere gra­ dita - ma anche da parte romana. La deputazione che se­ guiva i lavori conciliari per conto del papa giudicò molto negativamente il decreto sulla Vulgata·, si sapeva da tem­ po che quella versione conteneva parecchi errori e si di­ scostava dal testo ebraico e da quello greco in molti pun­ ti; sembrò grave che il concilio l’avesse dichiarata auten­ tica. Inutilmente i legati spiegarono che si doveva distin­ guere fra l’attendibilità dottrinale della Vulgata - che dal punto di vista dogmatico era dunque da considerare cor­ retta - e l’ autenticità filologica del suo testo. D i fatto, la lunga questione di un’edizione filologicamente corretta del testo della Bibbia latina, di quella ebraica e di quella greca era da tempo all’ordine del giorno; ora, quel decre­ to, affermando che il testo dottrinalmente riconosciuto dalla Chiesa era quello della Vulgata («vetus et vulgata editio»), finiva con lo scoraggiare se non addirittura col bloccare il ricorso ai testi piu antichi e la correzione degli errori della Vulgata stessa. Come una nave in mezzo agli scogli, il concilio avan­ zava a vista, senza un programma. Ogni volta i legati do­ vevano discutere con la Congregazione papale sul conci­ lio e tener conto delle circostanze. Da Roma si premeva perché fossero affrontate le dottrine controverse; ma c’e­ rano molti scogli minacciosi da evitare, come per esem­ pio quello del problema dell’autorità dei concili e del pa­ pa. Inoltre, in materia di riforma, si era affacciata già nel­ le discussioni la questione della residenza dei vescovi: af­ frontarla voleva dire prendere di mira il potere papale nel conferire i benefici e i molti «impedimenti» alla residenza causati dal funzionamento della Curia romana. Da R o­ ma, il papa fece arrivare ai legati l’istruzione di trattare piuttosto una materia dottrinale scelta tra quelle di fron­ tiera coi protestanti. Era questo che si voleva a Roma: tracciare una netta linea di divisione tra la dottrina or­ todossa e l’eresia. La scelta era decisiva e portava in di­ rezione opposta rispetto alla volontà di Carlo V , che de­

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siderava si desse prova della capacità della Chiesa di at­ tuare riforme interne tali da dare soddisfazione al mon­ do tedesco. Il concilio, del resto, era come una nave go­ vernata con mano sicura dai legati e manovrata da un equipaggio quasi esclusivamente italiano e dipendente an­ che economicamente dalle sovvenzioni papali. C i si avviò cosi sulla strada della questione fra tutte capitale nel conflitto religioso: la dottrina della giustifi­ cazione. In primo luogo fu affrontato l’ argomento del peccato originale, della sua essenza e del modo in cui l ’uomo poteva liberarsene. Si trattava di una dottrina capitale per il confronto con la Riform a, tanto che da al­ cuni fu avanzata la proposta di ascoltare i protestanti prima di condannarli. Bisognava citarli formalmente per questo, ma non lo si fece. Quanto alla questione del pec­ cato originale, c’erano divergenze all’interno del mondo cattolico su talune questioni. Per esempio si dibatteva se la Madonna fosse stata concepita senza l’eredità del­ la colpa di Adamo: a questo proposito, poiché c’era aspra divisione tra i Francescani e i Domenicani, si decise di soprassedere. Si affrontò invece la questione capitale del­ la dottrina della concupiscenza: secondo Lutero, fedele seguace in questo dell’Agostino antipelagiano, anche nei battezzati restava una radice di peccato che rendeva il cristiano giusto e peccatore nello stesso tempo («simul peccator et iustus»). N ell’ assemblea tridentina, non mancavano consensi alla teologia di Lutero: si fini tut­ tavia per adottare la dottrina secondo la quale nel bat­ tezzato la concupiscenza sopravvive come un qualcosa che deriva dal peccato e inclina ad esso, ma non è di per sé peccato. Si affermò il principio per cui i meriti di C ri­ sto sono comunicati agli infanti nel battesimo: e questo contro gli anabattisti che facevano dipendere la validità del battesimo dal consenso interiore per fede del b at­ tezzato. Nella sessione quinta (17 giugno 1546) il de­ creto fu approvato quasi all’unanimità da un’assemblea lievemente piu numerosa della precedente. E ra una pie­ tra importante nella costruzione del muro contro i pro­

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testanti. Ora era aperta la strada per completare la co­ struzione col baluardo piu importante: la questione del­ la giustificazione. La dottrina della giustificazione per sola fede era il ca­ posaldo della Riforma, da quando Lutero aveva fatto la «scoperta del Vangelo», come la chiamò egli stesso: era una scoperta che aveva risolto la profonda crisi religiosa dell’uomo Lutero e che da lui era stata rivelata ai cristiani del suo tempo. La tesi luterana della giustificazione per so­ la fede aveva salde radici nella tradizione del cristianesi­ mo; essa radicalizzava la tesi affermata da san Paolo (con­ tro la religione ebraica dell’osservanza delle norme ceri­ moniali) e ribadita da sant’Agostino (contro l’ottimismo teologico del suo avversario Pelagio, convinto assertore della bontà della natura umana). San Paolo aveva scritto: «Il giusto vivrà per fede» (Rom. I li, 28). Lutero aveva tra­ dotto «per sola fede». Non era differenza da poco: erano in gioco tutte le forme di esercizio della pietà religiosa che avevano strutturato la società cristiana europea, dalla scel­ ta di perfezione (voti monastici) alle opere di carità con le quali i non perfetti (laici coniugati, «terzo ordine») si in­ gegnavano a pareggiare il conto dei peccati. Tentativi di composizione ce n’erano stati: il piu importante era stato quello dei «colloqui di religione» promossi da Carlo V. In quello di Ratisbona del 15 4 1 il cardinale Gaspare Contarini si era spinto, secondo alcuni, oltre i limiti dell’orto­ dossia accogliendo una definizione in materia di giustifi­ cazione che andava molto vicina a quella dei luterani. Si era parlato allora di una dottrina della «doppia giustifica­ zione»: il cristiano si rende giusto davanti a Dio attraver­ so la «giustizia inerente», conferitagli nel battesimo, che però da sola non basta a vincere l’impulso al male e richiede una seconda giustizia, quella «imputata» da Cristo, che ap­ plica al credente i meriti della sua Passione e lava via del tutto, cosi, la corruzione originale. In questo modo si sal­ vava la funzione delle «opere buone», care ai cattolici, ma solo per l’imputazione dei meriti di Cristo (come voleva­ no i protestanti). Il compromesso era saltato perché si era

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affacciato l’altro pur grave problema della presenza reale di Cristo nell’eucarestia. Intanto, però, la questione della giustificazione era diventata quella più largamente dibat­ tuta anche nelle città italiane e non soltanto nei circoli e nelle accademie dei dotti ma nelle chiese, sulle piazze, nel­ le botteghe artigiane, nei lavatoi. La situazione di incer­ tezza sui confini dell’ortodossia e di grande interesse per i dibattiti di religione si rifletteva nella confusione delle discussioni provocate da predicatori di grande richiamo, come il cappuccino fra Bernardino Ochino, e diffuse nel pubblico da una gran quantità di opuscoli in volgare, spes­ so anonimi (tra i quali spiccava il successo degli scritti di Juan de Valdés e dell’anonimo D el beneficio di Cristo cro­ cifisso p e ri cristiani). Anche i prelati tridentini, per quan­ to in massima parte ignari di teologia e provvisti solo di una strumentazione intellettuale giuridico-letteraria, era­ no consapevoli dell’importanza della definizione che si pre­ paravano ad elaborare: Seripando e Cervini lo scrissero a chiare lettere nel prologo del progetto di decreto presen­ tato il 23 settembre 1546 al concilio («cum hoc tempore nihil magis vexet ac perturbet ecclesiam Dei quam nova [...] de iustificatione doctrina»). Proprio perché questio­ ne rilevante, molti furono frenati dal prendere posizione o dalla consapevolezza della propria ignoranza o dal timo­ re di esporsi con posizioni non gradite o sospette. Tutta­ via, il metodo seguito dai legati in questa occasione - di­ scutere non un progetto definito ma affrontare la questio­ ne in termini generali e solo in seguito elaborare un testo - offri a tutti la possibilità di esporre il proprio punto di vista sul modo in cui l’uomo da ingiusto diventa giusto agli occhi di Dio. Trovarono cosi espressione anche le idee di quanti erano sostanzialmente d’accordo con l’antropolo­ gia pessimistica di Lutero nel contrapporre nettamente la gratuità dell’intervento di un Dio salvatore alla miseria e all’incapacità umana di produrre opere meritorie. Di giu­ stificazione «sola fide» o «per fidem sine operibus» par­ larono, in particolare, Tommaso Sanfelice, vescovo di C a­ va, e Giulio Contarmi, vescovo di Belluno. M a i loro in­

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terventi suscitarono polemiche e sospetti che mostrarono chiaramente in quale clima di esasperata diffidenza si svol­ gesse il confronto dottrinale. Subito dopo il suo interven­ to nella congregazione generale del 17 luglio 1546, il San­ felice fu apertamente accusato di eresia da un frate, Dio­ nisio Zanettini: ne nacquero un litigio e una colluttazione tra i due. Lo Zanettini ci rimise un po’ della sua barba, ri­ masta nelle mani dell’avversario per il quale però le con­ seguenze furono ben piu gravi: sospeso e scomunicato, San­ felice dovette lasciare il concilio e vi tornò solo molti anni piu tardi, senza riuscire a evitare le segrete del Sant’U ffi­ zio romano. G li atti del processo a cui fu sottoposto de­ scrivono una lunga inchiesta, estesa fino alla sua diocesi di Cava: i testimoni raccontarono con quale eccezionale de­ dizione Tommaso Sanfelice avesse svolto i suoi doveri epi­ scopali, visitando le chiese, predicando, correggendo il cle­ ro. M a il problema, per l’Inquisizione, non era di sapere se era stato un buon vescovo ma se dai suoi discorsi era possibile ricavare qualche opinione sospetta su fede e ope­ re. Un dibattito già di per sé difficile quale fu quello sulla giustificazione venne ancor piu complicato e prolungato dallo scoppio della guerra della Lega di Smalcalda in G er­ mania, e dalla necessità per l’imperatore di non erigere bar­ ricate teologiche verso i luterani. Mentre si discuteva sul­ la giustificazione, nell’estate del 1546 Carlo V e Paolo III resero pubblica la loro alleanza militare per una guerra con­ tro i principi protestanti tedeschi. Lo fecero in maniera che rese trasparente la loro diversa interpretazione di quel­ la guerra: per il papa si trattava di una vera e propria guer­ ra santa contro tutti gli eretici, per la quale fu indetto un giubileo straordinario; l’imperatore la considerava un’im­ presa limitata contro alcuni principi ribelli. Al primo pre­ meva accreditare l’interpretazione di guerra di religione per coprire i suoi interessi politici e l’alleanza anche fami­ liare dei Farnese con Carlo V (il nipote di Paolo III, O t­ tavio, aveva contratto matrimonio con una Asburgo); al secondo invece stava a cuore giungere a indebolire la for­ za militare e politica dei principali capi politici della Rifor­

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ma, mentre a Trento si doveva aprire la possibilità di una conciliazione dottrinale che completasse il suo disegno di riunificare anche religiosamente la Germania. Di fatto, Trento era sulla strada delle armate che si muovevano dal­ l’Italia verso le terre tedesche, mentre in Tirolo si affac­ ciavano soldatesche protestanti e i padri conciliari co­ minciavano ad avere paura. Su questo sfondo si giunse al­ l’approvazione solenne del decreto sulla giustificazione. La precisazione della dottrina ufficiale della Chiesa, av­ venendo in un momento in cui il dibattito teologico si era allargato a dismisura e frammentato in molteplici direzio­ ni, non poteva che risolversi - come temeva Carlo V - in una serie di scomuniche e di anatemi e, insomma, in un ir­ rigidimento delle posizioni confessionali. Per quanto con­ cerne la linea teologica del concilio, essa si era già precisa­ ta fin dal primo avvio dei dibattiti, con la soluzione data al problema delle fonti della rivelazione divina e a quello della dottrina del peccato originale. Q uest’ultimo argo­ mento era quello dal quale i legati avevano proposto di ini­ ziare i lavori ed era il punto cruciale di confronto con l’an­ tropologia luterana; ma prima ancora era apparso decisivo il nodo delle fonti della Rivelazione, perché dalla soluzio­ ne che gli si sarebbe data dipendeva non solo tutto il la­ voro del concilio ma anche, piu in generale, il fondamen­ to dell’autorità della Chiesa. Era qui infatti che si doveva definire il rapporto tra Chiesa e Spirito Santo e affermare il principio (negato da Lutero) di un’assistenza continua da parte di Dio alle scelte dottrinali della Chiesa. G ià al­ lora erano emerse opinioni, come quella di Giacomo Nacchianti vescovo di Chioggia, che erano apparse troppo vi­ cine a quelle luterane nel voler rigorosamente delimitare alla Sacra scrittura il carattere di deposito unico della ri­ velazione divina. L ’enfasi posta in funzione antiluterana su un’altra fonte della Rivelazione, la tradizione orale pos­ seduta e amministrata dalla Chiesa, era apparsa a molti ec­ cessiva, ma era stata il prodotto pressoché inevitabile del clima polemico in cui avveniva la definizione dei capisal­ di dottrinali. Anche a proposito della questione del pec­

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cato originale, la definizione della dottrina ortodossa era stata delineata tenendo presente in primo luogo la neces­ sità di chiarire i limiti oltre i quali si era attestato Lutero. Fissati questi capisaldi dottrinali, la questione della giu­ stificazione potè essere affrontata e risolta nel senso gra­ dito al partito romano piu intransigente. Accanto alla de­ finizione della dottrina ortodossa sulla giustificazione «l’atto col quale Dio fa passare l’uomo dallo stato di pec­ cato allo stato di grazia» - , furono elencati gli «anatematismi», cioè tutte le proposizioni da considerare eretiche e da condannare con la formula «anathema sit». La discus­ sione fu vivacissima: le scuole teologiche dominanti si af­ frontarono sul tema del rapporto tra la fede e le opere; con­ cordi nel condannare come eretica la dottrina che negava ogni valore all’ agire umano, si dividevano però quando si trattava di definire i meriti delle opere buone: erano da so­ le capaci di meritare la giustificazione ? Bastava un atto del libero arbitrio a salvare l’uomo oppure era necessario l’in­ tervento della grazia divina ? Quale spazio si doveva la­ sciare alla capacità della volontà umana di accogliere o ri­ fiutare la grazia ? Qui la dottrina agostiniana del valore pre­ minente della grazia divina nel processo della giustifica­ zione valse ad arginare il rischio di cadere nell’opposto pe­ ricolo del pelagianesimo. M a c’erano tante altre questioni non risolte nella tradizione teologica (per esempio se le ope­ re buone fatte per la sola paura dell’inferno avessero o no un qualche valore agli occhi di Dio). Si discusse sulla cer­ tezza dell’essere in stato di grazia e sul modo in cui la fe­ de si lega all’ardore di operare bene (fede «formata di ca­ rità»), distinguendo tra la fede «viva» che produce opere buone e la fede «morta». Alcuni volevano elencare som­ mariamente le dottrine eretiche da condannare, altri vo­ levano invece che si redigesse un elenco dettagliato che ser­ visse a identificare con sicurezza gli eretici. Un piccolo gruppo, all’interno e all’esterno del concilio, guardava con particolare attenzione al comportamento del Cardinal lega­ to Reginald Pole: in lui, i contemporanei videro giustamente il principale rappresentante del partito che fu detto allora

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degli «spirituali». Le opinioni di quel gruppo in materia di fede avevano trovato espressione nel Trattato utilissimo del beneficio di Gesù Cristo crocifisso per i cristiani, comparso anonimo nel 154 2 ma redatto dal benedettino don Bene­ detto Fontanini da Mantova e rivisto dal letterato M ar­ cantonio Flaminio, amico e familiare del Pole. La religio­ sità di quel testo consisteva in una forte accentuazione del­ la funzione della fede nella giustificazione del cristiano; tut­ tavia, dalla convinzione della giustificazione per fede gli «spirituali» non ricavavano le conseguenze («illazioni») che ne aveva tratto Lutero e continuavano a vivere in una Chie­ sa dove le istituzioni ecclesiastiche conservavano il loro po­ tere e le opere erano ritenute una necessaria conseguenza della giustificazione del cristiano. La religiosità di Reginald Pole e la sua personalità carismatica lo avevano reso il pun­ to di riferimento di tutto un gruppo, che comprendeva una poetessa illustre come Vittoria Colonna e un artista della cui straordinaria grandezza tutti i contemporanei furono convinti: Michelangelo Buonarroti. In lui, si vedeva il rap­ presentante principale della tendenza che - esaltando la gra­ tuità della giustificazione divina del peccatore e il valore della Redenzione - poteva portare a una conciliazione col mondo della Riforma. Ma i tempi non erano i piu adatti. Per di più nella personalità del Pole c’era un tratto di ab­ bandono mistico alla volontà di Dio che lo portava a ritrarsi piuttosto che a combattere nelle occasioni di conflitto. Fu quello che accadde nel momento decisivo dell’approvazio­ ne del decreto sulla giustificazione. L ’elaborazione del testo finale fu lunga e tormentata: a un primo progetto (luglio) ne seguirono un secondo (settembre) e un terzo (novembre), elaborati per conto e sotto la direzione dei legati. Attraverso i vari passag­ gi, ai canoni dottrinali veri e propri del decreto si ven­ nero aggiungendo dei capitoli introduttivi, dedicati a un’esposizione positiva della dottrina da credere e pre­ dicare. E ra una novità importante, con cui si veniva in­ contro a chi lamentava la situazione di incertezza dot­ trinale di predicatori e pastori d ’anime. Tuttavia, la par­

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te decisiva del testo rimaneva pur sempre quella in cui venivano condannate le dottrine della Riforma. La logi­ ca dello scontro finale si faceva qui inesorabile. Lungo tutto il percorso dell’elaborazione e discussione del de­ creto, furono via via stimolati e battuti i tentativi di mo­ dificarne i contenuti in una direzione più favorevole al­ le idee della Riform a o, comunque, a una teologia di­ versa da quella rappresentata dai grandi ordini mendi­ canti, sostanzialmente incontrastati a Trento. Posizioni religiose molto differenziate, come quelle del Pole, del Sanfelice, di Luciano degli O ttoni e del- Seripando, si trovarono una dopo l’altra costrette a fare i conti con una definizione dei limiti dell’ortodossia in cui non riu­ scivano a riconoscersi del tutto. A questo controllo in­ terno della linea teologica del concilio si aggiunse all’e­ sterno la resistenza alle esigenze dell’imperatore di rin­ viare la promulgazione solenne del decreto sulla giusti­ ficazione. La salda presa papale sul concilio si manifestò pubblicamente in occasione della sessione V I, il 13 gen­ naio 15 4 7 , quando i 59 vescovi convocati per la solenne approvazione del decreto si riunirono in assenza del rap­ presentante di Carlo V , ma anche di quello del re di Francia; evidentemente, solo Rom a aveva interesse a chiudere recisamente ogni dialogo coi protestanti tede­ schi. E ci fu un’altra assenza dal significato trasparente: Reginald Pole abbandonò il concilio, adducendo motivi di salute ai quali nessuno credette. La scelta di precisa­ re la dottrina ortodossa nel decreto aggiungendovi ben 33 canoni di condanna dura e dettagliata delle idee del­ la Riform a protestante, obbediva alla logica che il papa­ to aveva scelto: erigere una barriera invalicabile contro gli «eretici» e indicarne le dottrine maledette perché tut­ ti potessero riconoscerle. Ne segui il rilancio della con­ troversia dottrinale su larga scala. A questo punto il concilio aveva esaurito il suo compi­ to, almeno dal punto di vista romano. Un pretesto - la paura di un’epidemia di tifo petecchiale - offri l’occasio­ ne desiderata: i legati, ormai riconosciuti come coloro da

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cui dipendevano in tutto i lavori e gli orientamenti del concilio, decretarono il suo trasferimento a Bologna, la se­ conda città dello Stato della Chiesa. Quando Carlo V lo seppe, il 15 marzo, si alzò di scatto dalla tavola dove era seduto, incapace di nascondere la sua violenta irritazio­ ne. Ma inutilmente protestò col papa, ricordandogli: «A b ­ biamo offerto agli stati dell’Impero un concilio in terri­ torio imperiale, non nello Stato della Chiesa». La frattu­ ra si rivelò grave e non componibile. A Trento rimasero i vescovi di obbedienza imperiale; a Bologna andarono so­ lo quelli italiani di stretta osservanza romana, una picco­ la pattuglia che si ridusse progressivamente (nell’agosto del 1548 erano una ventina). Furono impegnati in lunghe ma inconcludenti riunioni di teologi sulla materia dei sa­ cramenti: dall’eucarestia alla penitenza all’estrema un­ zione e al matrimonio. Erano questioni dottrinali impor­ tanti nel confronto con la teologia del mondo protestan­ te. M a non si arrivò all’approvazione di nessun decreto: una sessione fissata per giugno andò a vuoto e fu neces­ sario andare avanti di proroga in proroga, nell’attesa che papa e imperatore componessero i loro contrasti. Intan­ to, il dissidio si aggravava: il papa era spinto da rancore personale contro Carlo V, perché colpito nei suoi affetti e nei suoi disegni nepotistici dall’assassinio del figlio Pier­ luigi e dalla perdita di Parma e Piacenza. Da parte di Car­ lo V si profilava il rischio che l’imperatore procedesse per suo conto a esautorare il papa e a convocare un concilio che facesse quella riforma della Chiesa promessa al mon­ do tedesco e mai esaminata seriamente a Trento. Alla Die­ ta di Augusta fu scelta la via di concedere ai protestanti - già vinti sul piano militare - il matrimonio del clero e la comunione sotto le due specie ai laici. In cambio, i pro­ testanti promisero di inviare una delegazione al concilio - quello di Trento - chiedendo come contropartita la ri­ discussione completa di tutto quanto vi era stato appro­ vato fino ad allora. La situazione era drammatica; i pochi vescovi rimasti a Bologna erano impazienti di ottenere il permesso di andarsene e più di tutti lo era il Cardinal le­

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gato Del Monte, terrorizzato da una predizione degli astrologi, che sostenevano che un prelato importante sa­ rebbe presto morto a Bologna. Il legato Marcello Cervini propose di trasferire il concilio direttamente a Roma. Il papa imboccò un’altra strada: far venire a Roma una de­ legazione di vescovi da Bologna e una da Trento, per far­ si consigliare sulle questioni piu importanti. Era un ritor­ no al modello delle commissioni consultive e significava che per il papa il concilio, una volta definite le dottrine capitali per condannare le «eresie» della Riforma, aveva finito il suo compito. M a tra quelli rimasti a Trento nes­ suno obbedì all’invito papale. La salute del papa ottan­ tenne declinava intanto rapidamente, soprattutto per i gravi dispiaceri familiari (la morte del figlio, la disobbe­ dienza dei nipoti ai suoi piani politici): due colpi apoplet­ tici lo portarono alla morte (io novembre 1549). Contrariamente alle previsioni degli astrologi bolo­ gnesi, toccò proprio al Cardinal Del Monte la sorte di di­ ventare papa, a sorpresa, al termine di un lunghissimo e drammatico conclave che vide brillare e declinare la stel­ la del candidato imperiale Reginald Pole, sconfitto da Gian Pietro Carafa con l’aiuto di un dossier raccolto dal­ la sua polizia segreta dell’Inquisizione. Del M onte era stato colui che aveva sostituito Pole come legato nella fa­ se bolognese: per quanto ritenuto di parte francese, la sua promessa di riprendere i lavori interrotti a Trento offri la garanzia attesa dall’imperatore. Naturalmente, l’esse­ re stato legato a Bologna comportò da parte sua la dife­ sa della legittimità della fase bolognese, che entrò cosi uf­ ficialmente a far parte del tormentato percorso del Tridentino. Il papa non sapeva che i protestanti tedeschi al­ la Dieta di Augusta, in cambio dell’Interim concesso da Carlo V, avevano promesso di mandare delegati a Tren­ to; e l’idea di un concilio dominato dall’imperatore ba­ stò al re di Francia Enrico II per reagire alzando la ban­ diera della Chiesa gallicana. Il 18 febbraio 1 5 5 1 ordinò a tutti i vescovi francesi di recarsi nelle loro diocesi, vi­ sitarle e riferire poi ai loro metropoliti in vista di un con-

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cilio nazionale da indire «pour le bien de l’Église galli­ cane»4. E ra un segno della debolezza politica e dei rischi di fallimento impliciti nel nuovo tentativo conciliare - ri­ schi che dovevano presto diventare evidenti con l’al­ leanza tra Enrico II e l’elettore Maurizio di Sassonia. La guerra, preparata nell’estate del 1 5 5 1 , esplose nella pri­ mavera successiva e segnò la fine precoce dei lavori che intanto erano ripresi a Trento dopo la riapertura, avve­ nuta solennemente il i ° maggio 1 5 5 1 . In questo breve secondo periodo trentino, la parte dottrinale affrontata fu quella già trattata ed elaborata a Bologna, cioè i sa­ cramenti: l’eucarestia, la penitenza, l’unzione degli in­ fermi. Si prendeva atto cosi dell’avanzarsi di un proble­ ma nuovo accanto a quello un tempo dominante della dot­ trina sulla giustificazione: si trattava del problema della presenza reale di Cristo nell’Eucarestia, punto fondamentale che caratterizzava la variante svizzera della Riforma fin dai tempi di Ulrico Zwingli ma che ora, gra­ zie alla diffusione del pensiero di Calvino, raccoglieva consensi anche in Italia e soprattutto in Francia. La dot­ trina della transustanziazione, formulata al Concilio Lateranense IV, fu solennemente ribadita: non di rito di memoria si trattava dunque, come volevano i calvinisti, ma di vera e propria ripetizione del sacrificio del Cristo e di distribuzione salvifica della sua carne e del suo san­ gue. L ’anatema colpi gli ormai numerosissimi negatori della presenza reale e sostanziale del Cristo nel sacra­ mento, con anima e corpo, umanità e divinità. D i segui­ to, fu elaborata e definita la dottrina del sacramento del­ la penitenza e dell’estrema unzione. Anche in questo ca­ so si trattò di riprendere, confermare e rielaborare i ca­ noni del Concilio Lateranense IV , definendo con preci­ sione i compiti e i poteri dei sacerdoti nell’amministrare la confessione sacramentale. Questa volta si giunse all’approvazione formale dei 4 A. tallon, La France et le Concile de Trente 15 18 - 15 6 3 , Rome 1997, p. 227.

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testi elaborati in concilio. M a nell’assemblea conciliare la presenza e la partecipazione attiva dei vescovi spa­ gnoli portarono a conflitti con l ’impostazione voluta dal Cardinal legato Crescenzio, poiché da parte dell’episco­ pato iberico si voleva affrontare la materia scottante dell’obbligo di residenza dei vescovi - una questione che riguardava la riforma della Chiesa ma sfiorava anche l ’a­ spetto dottrinale del rapporto tra papa e vescovi. Il le­ gato dovette appellarsi agli accordi segreti del papa con l’imperatore per impedire che la questione venisse af­ frontata e la cosa suscitò proteste vivacissime e accuse di mancanza di libertà nel concilio. Veniva meno, in­ tanto, la speranza di una partecipazione sostanziale del­ l’episcopato tedesco, trattenuto dal mettersi in viaggio sia dalla poca fiducia nel programma del concilio sia dal­ la difficoltà di lasciare le diocesi, dove la popolazione or­ mai guadagnata alla Riform a era tenuta a freno solo dal­ la forza militare di Carlo V. Anche la delegazione dei principi protestanti, la cui partecipazione al concilio era stata oggetto di lunghe trattative, si limitò a fare una breve comparsa e ad avanzare richieste che furono im­ mediatamente rigettate (come quelle della subordina­ zione del papa al concilio e della ripresa in esame delle questioni dottrinali affrontate nel primo periodo). Il 28 aprile 15 5 2 il legato decise la sospensione del con­ cilio. Sembrava ormai impossibile che la costruzione ar­ rivasse a compimento. Tra l’altro, le dottrine definite nel­ le sessioni tridentine erano prive di approvazione papale e restavano cosi sospese in un limbo di irrealtà. Papa G iu­ lio III concepì il proposito di compendiarle in una Bolla, ma non riuscì a realizzare tale intento. Dopo la breve pa­ rentesi del pontificato di papa Marcello II, il nuovo pon­ tefice, Gian Pietro Carafa, riprese un suo antico proget­ to: fare a Roma sotto diretto controllo papale un concilio come quello Lateranense. M a anche questo disegno abortì. Restava quella sospensione del Tridentino, come l’arcata di un ponte incompiuto e imbarazzante. Perché si riprendessero i lavori ci volle un cambiamento profon­

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do nel quadro politico e religioso dell’Europa: se la lotta fra Carlo V e Francesco I aveva impedito che si realizzasse la condizione fondamentale per un vero concilio - la pa­ ce tra i principi cristiani - l’abdicazione di Carlo V e la divisione dell’eredità spagnola da quella austro-imperiale fece cadere la causa delle guerre europee. Nello stesso tem­ po, nella Francia finalmente libera dalla morsa dell’Im­ pero asburgico esplose la questione religiosa ed emerse il volto nuovo dell’antagonista del papato cattolico: non piu le idee luterane fissate nella Confessione augustana, ma il pervasivo diffondersi della dottrina di Calvino. Nel mon­ do cattolico, peraltro, i metodi di un papa che lasciava la briglia sul collo all’Inquisizione avevano suscitato scon­ certo e disagio profondo anche nei piu fedeli. L ’Indice dei libri proibiti pubblicato da Paolo IV e l’ordine da lui da­ to ai confessori di rinviare all’Inquisizione tutti i penitenti che avevano qualcosa da dichiarare in materie inquisitoriali avevano creato situazioni di tensione; e intanto, la durissima campagna condotta dal papa contro i cardinali Morone e Pole, insieme al ritorno del piu sfacciato nepo­ tismo, avevano scandalizzato e irritato molta gente ai piu diversi livelli sociali. Tutto ciò fu evidente nel 1559 , quan­ do la morte del papa fu salutata da una violenta esplo­ sione di gioia popolare, con l ’apertura delle carceri e il saccheggio dell’archivio dell’ Inquisizione. Il nuovo pa­ pa Pio IV (1559-65) si trovò un’eredità pesante e voltò decisamente pagina: liberato e assolto il cardinale Moro­ ne, nominò una commissione per rivedere l’Indice di Pao­ lo IV . M a la svolta piu importante riguardò proprio il concilio. Con una bolla del 29 novembre 156 0, si ebbe la nuova convocazione a Trento. E fu al concilio che il papa affidò la questione dell’Indice dei libri proibiti, con un breve indirizzato ai legati (14 gennaio 156 2), in cui pregava di sciogliere i lacci che legavano le coscienze di molti a causa delle scomuniche per le proibizioni dei li­ bri. Era un segno dei problemi nuovi che la frattura del­ l’unità religiosa e la guerra di scomuniche e di polizie in­ quisii orlali avevano aperto.

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O stili l’ Inghilterra e i principi protestanti, assenti i vescovi tedeschi che non volevano turbare la conquista­ ta pace religiosa d ’Augusta, il concilio si apri tuttavia (il 18 gennaio 1562) con la partecipazione di una folla di vescovi (12 3 in tutto) tale che in confronto - scrisse il Cardinal legato Girolamo Seripando - la seduta inaugu­ rale del 15 4 5 sembrava un sinodo diocesano piuttosto che un concilio ecumenico. Sotto la presidenza del cardinale Ercole Gonzaga, per­ sonaggio di grande rilievo politico ed ecclesiastico, le di­ scussioni piu accese ebbero come oggetto non le questio­ ni dottrinali ma quelle di riforma. La volontà di procede­ re realmente a iniziative di riforma era diffusa soprattut­ to fra i vescovi spagnoli, il cui capo riconosciuto - Pedro Guerrero, vescovo di Granada - chiese che non si per­ desse tempo nella complicata questione della redazione di un nuovo Indice, vista l’importanza dei problemi della riforma. D i fatto, il compito fu affidato a una commis­ sione, che non terminò i suoi lavori talché l ’elaborazione finale passò dalle mani del concilio a quelle del papa, e l’Indice cosiddetto tridentino fu il prodotto di una riela­ borazione romana conclusasi nel marzo del 156 45. E un episodio significativo del cambiamento di clima e del fat­ to che i vescovi erano chiamati a fare i conti col potere dell’Inquisizione, cresciuto a dismisura non solo nei Pae­ si iberici ma anche in Italia. La soluzione adottata sul pia­ no dei poteri consistette nel riaffermare la decisione del Concilio Lateranense V di affidare ai vescovi e agli in­ quisitori locali l’esame preliminare dei libri da stampare. Sul fronte dottrinale, prevaleva ormai la difesa del­ l’ortodossia ai confini di una frattura teologica consoli­ data. G li anni trascorsi avevano intanto fatto crescere la preoccupazione per la capacità espansiva rivelata sempre

5 Sulla storia dei dibattiti conciliari e sul loro esito si rinvia a j. m . de a Index de Rome 15 5 7 , T5 5 9 , J5&4· Les premìers index romains et l ’index du Concile de Trente («Index des livres interdits», V ili), Genève 1990, pp. 51-99. bujanda , Introduction historique

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piu dalla variante calvinista della Riforma. Per rispon­ dere sul piano della dottrina, ci si rifece alle elaborazio­ ni precedenti non approdate all’approvazione definitiva. Fu cosi che fin dalle prime sessioni solenni si potè ratifi­ care la definizione di ciò che si doveva credere sull’eu­ carestia e sul sacrificio della messa. G ià negli schemi ela­ borati al tempo di Giulio III era stata messa a punto la dottrina che ancorava il sacramento dell’ordine e cioè l’e­ sistenza di un ordine ecclesiastico, alla celebrazione e am­ ministrazione dell’eucarestia e distingueva tra la forza espiatrice del sacrificio di Cristo applicata ai cristiani nel battesimo e la ripetizione incruenta dello stesso sacrifi­ cio nella messa per la remissione dei peccati commessi do­ po il battesimo. Ora, questa dottrina fu fissata definiti­ vamente e solennemente approvata. M a tutta la questio­ ne, come si vede, rinviava al sacramento dell’ordine e sul­ lo sfondo restava per i vescovi il problema di definire la natura del loro rapporto col papato e i limiti del potere papale. Il problema era quello dell’obbligo di residenza dei vescovi nelle loro diocesi: derivava direttamente da Dio oppure il papa poteva continuare a erogare le sue di­ spense da tale obbligo attraverso gli organismi della Cu­ ria ? E ra la questione piu grave e problematica che si fos­ se mai presentata, anche perché i vescovi resistevano ai tentativi di influenzare le loro scelte e facevano valere in questo caso il dovere di obbedire alla propria coscienza. Contro questo scoglio, il concilio rischiò di naufragare. Sullo sfondo c’era l’inevasa domanda di riforma della Chiesa: una riforma che doveva essere prima di tutto «in capite», risolvendo le questioni che impedivano l ’ attua­ zione dell’unico compito capace ormai di giustificare l’e­ sistenza di un corpo ecclesiastico, la cura delle anime.

Capitolo sesto Questioni di riforma

Nel suo celebre manifesto A lla nobiltà cristiana di na­ zione tedesca sul miglioramento dello stato cristiano (A n den christlichen A d el deutscher Nation, von des christlichen Standes Besserung), Lutero aveva sferrato un attacco violento contro la pretesa dell’ordine ecclesiastico di trincerarsi dietro i suoi privilegi separandosi dal resto dei cristiani; e che questo fosse il suo obbiettivo lo dimostrò anche piu chiaramente quando reagì alla consegna della bolla di sco­ munica Exsurge Domine dando alle fiamme non solo il te­ sto della bolla papale ma, insieme ad esso, due altri testi ben piu corposi: la Summa Angelica, diffusissima enci­ clopedia di casi di coscienza di Angelo da Chivasso, e il Corpus iuris canonici. Era l’intero sistema di giustizia ela­ borato dalla Chiesa nei secoli precedenti che veniva eli­ minato dalla prospettiva del riformatore e dei suoi se­ guaci. Ciò significava che non si riconosceva piu ai mem­ bri del clero nessun potere di «legare le coscienze» e che si toglievano di mezzo le regole di quel diritto canonico che aveva posto il corpo ecclesiastico e - all’interno di es­ so - il potere papale al di sopra della legge comune. Le conseguenze di quegli atti furono rivoluzionarie. Anche se i poteri politici statali non avevano atteso Lutero per avanzare nel campo del corpo ecclesiastico e dei suoi be­ ni con una politica di accordo diretto col papato (politi­ ca dei concordati), tutto questo aveva lasciato intatto il principio formale dell’autonomia e dell’unità sovrastata­ le del corpo ecclesiastico. M a le forze dominanti erano da un lato la struttura centralizzata della Curia romana, dall’altro la concorrente volontà accentratrice degli Sta­

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ti. Ne faceva le spese un corpo ecclesiastico largamente selezionato con criteri di fedeltà politica (dai sovrani) o di legami clientelari e cortigiani col papato e, di conse­ guenza, portato a trascurare il proprio ufficio di governo spirituale delle «anime», per ricambiare il potere che lo aveva scelto con attività di altro genere (diplomatico, cor­ tigiano, perfino militare). L ’esercizio del governo «pa­ storale» era delegato ad altri: l ’amministrazione dei sa­ cramenti era affidata a cappellani poco preparati e mal pagati; il momento formativo della predicazione e quel­ lo giudiziario di foro interno (la confessione) o esterno (l’inquisizione contro l’eresia) era diventato compito qua­ si esclusivo dei frati, ai quali, come propri strumenti, il papato aveva concesso grandi privilegi. L ’assemblea dei vescovi riunita per il concilio si tro­ vava di fronte, pertanto, in maniera del tutto naturale, il problema di come restaurare dignità, poteri e funzioni del corpo ecclesiastico e in modo speciale dell’episcopa­ to. Alla durezza dell’attacco di Lutero si reagì con pari durezza; era coscienza comune del corpo ecclesiastico che erano in gioco le sue prerogative e i suoi privilegi. Anzi, fu proprio la consapevolezza del pericolo che gravava sul­ le loro teste a rendere violenti i toni della reazione anti­ luterana della grande maggioranza dei vescovi e a far nau­ fragare fin dall’inizio ogni programma di conciliazione. A ll’offensiva si cercò di far fronte in concilio riconfer­ mando sul piano dottrinale tutti i principi su cui tradi­ zionalmente aveva poggiato quella pretesa. M a si era ben consapevoli che l’opera non poteva limitarsi al solo ver­ sante dottrinale: essa doveva affrontare anche quel pro­ blema della crisi delle istituzioni ecclesiastiche e del loro adeguamento al cambiamento della società che, già mol­ to tempo prima dell’attacco di Lutero, era stato al centro delle preoccupazioni di tanti movimenti di riforma e ave­ va alimentato una ricchissima letteratura di progetti e di lagnanze. L ’impresa non era facile: la società europea ave­ va vissuto negli ultimi secoli una trasformazione profon­ da che coinvolgeva ogni sua parte, dalle strutture demo­

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grafiche alle maniere di vivere e di pensare. L ’ordine ec­ clesiastico non era rimasto indenne dal mutamento: ave­ va registrato la sete di ascesa sociale e di arricchimento dell’emergente classe patrizia delle città, mentre conti­ nuava a offrire alla nobiltà feudale titoli di potere e for­ me di sistemazione per i figli cadetti. I conventi femmi­ nili si erano dilatati a dismisura per ospitare e sottrarre al mercato matrimoniale le figlie in eccesso, che minaccia­ vano col costo delle doti l’asse patrimoniale della famiglia. Queste istituzioni, affidate al governo dei frati, avevano il compito di tutelare la castità delle loro ospiti come fon­ damento dell’onore della famiglia: ovviamente, il rappor­ to tra i rami maschile e femminile degli Ordini dava luo­ go, in condizioni di verginità coatta, a episodi clamorosi e scandalosi che facevano protestare violentemente le fa­ miglie contro l’assenza di governo ecclesiastico e alimen­ tavano il discredito della scelta monastica. Scrittori come Chaucer (Canterbury Tales) e Boccaccio (Decameron) ne avevano tratto materia per rappresentazioni della società che godettero di larghissimo successo. Il passaggio da una cultura prevalentemente orale a una cultura del libro met­ teva intanto in crisi l’egemonia intellettuale sulle masse esercitata fino ad allora dai predicatori. I vescovi, anche quando erano consapevoli dei loro compiti e determinati ad affrontarli, non avevano nessun potere sui frati, che il papato aveva adottato come strumenti di una propria di­ retta presenza in tutto il mondo cristiano, con funzioni di insegnamento (predicazione) e di esercizio del potere di giudicare (Inquisizione) e di assolvere (confessione). D ’al­ tra parte, contro quelle pretese di dirigere i comporta­ menti individuali e di governare le coscienze si levavano i dubbi e le proteste di una società piu fiduciosa nelle sue capacità di dominare il mondo, piu portata all’individua­ lismo. La pretesa del mondo fratesco di essere una scelta di perfezione a fronte delle forme di indisciplina, igno­ ranza e avidità diffuse nei conventi suscitava le ironie di intellettuali di grande prestigio, come Lorenzo Valla ed Erasmo da Rotterdam («Monachatus non est pietas»). Lo

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spettacolo di frati vaganti fuori dai conventi, spesso veri e propri avventurieri protetti dai loro privilegi e garanti­ ti da dispense acquistate a pagamento dai compiacenti uf­ fici di Curia, alimentava lo scandalo e la domanda cre­ scente di una riforma della Chiesa. Il danaro poteva tut­ to a Roma, dove la Penitenzieria e la Dataria erano accu­ sate di nascondere sotto un linguaggio evangelico e pa­ storale la loro avidità; del gregge cristiano - si diceva importava loro solo la lana da tosare (secondo il motto: «Curia Romana non petit ovem sine lana»). L ’ascesa del papato e del suo apparato centrale di governo aveva tro­ vato nei beni di cui nei secoli la pietà religiosa aveva do­ tato chiese e conventi un deposito a cui attingere: col mec­ canismo della «commenda» clienti e alleati laici - i prin­ cipi e l’alta nobiltà in particolare - avevano ottenuto di mettere le mani sui beni di antiche abbazie. I diritti sa­ crali riconosciuti al clero, elaborati dalla cultura giuridica e teologica del cristianesimo europeo, erano stati trasfor­ mati in privilegi con l’avallo interessato degli organismi centrali della Curia. La materia dei benefici ecclesiastici era quella che ne offriva lo spettacolo piu evidente e scan­ daloso: una pletora di chierici si affollava nelle università e nelle emergenti corti principesche, vivendo delle rendi­ te di lontane parrocchie, diocesi, abbazie, i cui uffici re­ ligiosi erano affidati a vicari, cappellani o altri sostituti, privi di adeguata preparazione, mal pagati e dunque co­ stretti a esercitare mestieri non sempre dignitosi. Riformare la Chiesa poteva significare molte cose tra loro diverse: una secolarizzazione radicale, che ne can­ cellasse l’esistenza come potere separato e superiore, op­ pure una revisione e un adeguamento delle sue forme di governo alla diffusa esigenza di una spiritualizzazione e di un affinamento dell’offerta di servizi religiosi. M a an­ che questa seconda forma piu moderata di riassetto ur­ tava direttamente contro la struttura di governo centra­ le della Chiesa, le sue esigenze finanziarie e le forme del suo dominio. Come apparve subito evidente dagli elen­ chi degli impedimenta residentìae raccolti in concilio, al

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centro della rete di abusi che permetteva al clero delle diocesi e delle parrocchie di riscuotere rendite senza eser­ citare i suoi doveri di governo spirituale c’erano proprio la Curia romana e il sistema di dispense a pagamento con cui le norme canoniche venivano del tutto svuotate di contenuto. M a ogni tentativo di modificare quei mecca­ nismi era destinato ad andare a vuoto, né piu né meno del progetto (piu tardi) di operare una «riforma dei prin­ cipi». La critica intellettuale dei fondamenti del potere ecclesiastico era assimilata puramente e semplicemente all’ eresia. Cosi accadde, per esempio, a chi dava ascolto alla dimostrazione fatta da Lorenzo Valla della falsità del­ la pretesa «donazione di Costantino», il documento su cui si appoggiava il dominio temporale dei papi. Tuttavia, si aveva ben chiara coscienza del fatto che la Chiesa poteva mantenere la sua egemonia soltanto di­ mostrandosi capace di offrire alla società mutata un mo­ dello di governo delle anime all’altezza delle esigenze. Occorreva un corpo ecclesiastico dotato di buoni studi, capace di guidare individui, famiglie e collettività nelle loro scelte e nelle pratiche della vita quotidiana alla lu­ ce della morale cristiana, erogando la grazia attraverso un’ordinata vita sacramentale che facesse posto ai biso­ gni di legittimazione del mondo dei laici: per esempio, al riconoscimento della dignità del matrimonio. Il Con­ cilio di Trento fu la sede dove le esperienze dei vescovi vennero messe a confronto e dove i problemi del gover­ no religioso della società furono oggetto di attenta ri­ flessione. Fu per questa via, ad esempio, che si giunse alla misura piu significativa e innovatrice adottata dal concilio: la riforma del matrimonio, approvata nella ses­ sione X X IV ( 1 1 novembre 156 3). Piu della dottrina (i canoni dottrinali annoverarono il matrimonio fra i sa­ cramenti e ne definirono l’indissolubilità, accogliendo e legittimando sul piano religioso il sentimento naturale di amore come fondamento della società coniugale) eb­ be grande importanza il contenuto dei canoni di rifor­ ma: col decreto Tametsi si pose rimedio ai matrimoni

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clandestini (pur riconosciuti validi perché fondati sul li­ bero consenso), imponendo l ’obbligo di celebrare il ma­ trimonio davanti al parroco («in facie ecclesiae») dopo aver reiterato per tre giorni festivi successivi l’annuncio pubblico dell’intenzione di sposarsi, in modo da evitare il pericolo della poligamia. Fu una misura destinata a conseguenze profonde: perfezionando e attuando le nor­ me già stabilite relative al divieto del matrimonio al di sotto del quarto grado di parentela sia naturale sia spi­ rituale, il concilio stabili in quella occasione che il nu­ mero dei padrini ammessi a tenere a battesimo gli infanti non superasse il limite di due, in modo da ridurre il ri­ schio di impedimenti diffusi nelle piccole comunità. Per tutto questo, si richiedeva un corpo ecclesiastico istruito adeguatamente sulle norme giuridiche e sui con­ cetti teologici, dotato di buona cultura e preparato in mo­ do idoneo all’amministrazione dei sacramenti e alla cele­ brazione della messa e degli altri riti sacri. Occorreva in particolare che il nuovo clero fosse capace di intendere il latino. E proprio il concilio fu il luogo dove tale lingua co­ nobbe una vittoria storica destinata a segnare nei secoli dell’età moderna la cultura religiosa dei Paesi cattolici. L ’ottavo capitolo del decreto sul sacrificio della messa, ap­ provato nella sessione X X II (17 settembre 1562) stabili che non era lecito l’uso delle lingue volgari nella celebra­ zione; era consentito tutt’al piu illustrare nel corso della messa dei giorni festivi il significato di ciò che si leggeva, al fine di istruire il popolo. Dunque, l’insegnamento pre­ zioso che secondo il decreto era contenuto nel rito dove­ va rimanere quasi incomprensibile. Non era passato mol­ to tempo da quando, nel 1 5 1 3 , Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini avevano consigliato nel loro memoriale (.Libellus) a Leone X di incoraggiare il ricorso a versioni nelle lingue moderne per consentire al clero e ai fedeli la conoscenza delle Scritture e dei riti. La soluzione triden­ tina fu, al contrario, quella di imporre al clero lo studio del latino, vietando ai fedeli le versioni in volgare. G li anni della Riforma e della guerra dei contadini non erano pas­

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sati invano: lo spettacolo di un popolo di illetterati che trae­ va dalla lettura della Bibbia motivi di rivendicazioni poli­ tiche e sociali era fatto apposta per irrigidire nel rifiuto un episcopato di origini patrizie e dai titoli feudali, abituato a considerare il popolo come una bestia irragionevole da governare per mandato divino con adeguata durezza. Piu tardi, si trovò una giustificazione a quella scelta nell’esi­ genza di tutelare la maestà della parola di Dio e dei riti at­ traverso una lingua ignota ai piu e capace di avvolgere nel suo mistero la sacralità di ciò che si compiva sull’ altare: dunque, si accettò l’idea del latino come lingua sacrale1. In realtà, ai padri tridentini questo aspetto fu del tutto estra­ neo; fu invece familiare lo spettro della propaganda della Riforma che si svolgeva attraverso le versioni in volgare della Bibbia. Tanto bastò perché l-’esigenza di volgarizza­ zione e di avvicinamento del popolo alla comprensione di testi e riti passasse in secondo piano e si diffondesse inve­ ce il sospetto e l’accusa di eresia nei confronti di chi so­ steneva opinioni diverse. Si procedette su quella strada, tanto che in un secondo momento tutta la letteratura de­ vota in volgare fu colpita dal sospetto, ritirata dalla circo­ lazione e censurata. Papa Ghislieri proibì perfino di dire l’Ufficio in volgare: «in [lingua] italiana, o in francesa, o in tedesca, o in qualonche altra volgare»2. Sia pure coi limiti imposti da simili preoccupazioni di­ fensive, il modello di Chiesa a cui pensavano i padri tridentini raccoglieva ancora l’eredità delle correnti rifor­ m atrici pre-luterane nella preoccupazione per un mi­ glioramento morale e intellettuale del clero secolare, al fine di rendere piu efficace la «cura d ’anime». M a su questa strada, si incontrava un grave ostacolo istituzio­ nale e un ancor piu grave problema dottrinale. L ’ostacolo era costituito dai privilegi accumulati nel 1 Tra questi, Michel de Montaigne nei suoi Essais: lo nota f . waquet, Le latin ou l ’ empire d ’ un signe, x v f-x x ’ siècle, Paris 1998, p. 67. 2 G. fragnito, La Bibbia in volgare. La censura ecclesiastica e i volgarizza­ menti della Scrittura (14 7 1-16 0 5 ), Bologna 1997, p. 56.

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sidenza si risolse nell’unico modo consentito dai rappor­ ti di forza reali, cioè con la sconfitta dei sostenitori del diritto divino; le sue conseguenze furono decisive sul­ l’intero corpo delle deliberazioni tridentine in materia di riforma. A l centro di esse stava la struttura ordinaria di governo territoriale della Chiesa - vescovi e parroci - di cui si voleva in generale irrobustire la funzione e miglio­ rare la rappresentatività. Una fitta serie di provvedimen­ ti rivoluzionò i meccanismi di formazione e i sistemi di controllo relativi al clero secolare: l’istituzione dei semi­ nari fu solo uno fra i tanti3. Il modello ecclesiastico pro­ dotto dal concilio fu in buona misura nuovo rispetto a quello che aveva dominato la società cristiana dei secoli precedenti: esso caratterizzò la Chiesa cattolica per tut­ ta l’età successiva. Se nella società del tardo medioevo i confini tra laici ed ecclesiastici erano andati gradatamente scomparendo (si pensi per esempio all’incerta linea di con­ fine che separava i laici da tutti coloro che con la sem­ plice tonsura vivevano dei proventi di un beneficio ec­ clesiastico), ora essi furono drasticamente ristabiliti: af­ fermato solennemente il carattere sacramentale indele­ bile dell’ordine sacro, regole severe imposero limiti di età e controlli sulla preparazione per i candidati, uniformità e riconoscibilità immediata nell’abito e nei comporta­ menti per tutti gli appartenenti al corpo clericale. G li strumenti di controllo e di governo già esistenti e spora­ dicamente sperimentati prima di Trento furono ripresi e resi sistematici: tali, ad esempio, i registri per controlla­ re la prassi sacramentale dei fedeli all’interno della par­ rocchia, diventata la cellula base dell’intero edificio. Sul clero parrocchiale, la cura dell’ordinario diocesano do­ veva esercitarsi per mezzo della periodica ispezione del­ la «visita pastorale». Sinodi provinciali e sinodi diocesa­ ni, da tenersi regolarmente e a scadenze ravvicinate, do­

vevano diventare le sedi fondamentali per l’esercizio del­ le funzioni legislative e di governo della Chiesa. Un edi­ ficio del genere poggiava evidentemente sulla presenza regolare in diocesi di vescovi preparati e autorevoli: da loro dipendeva la trasmissione verso l’alto - il papato e verso il basso - i parroci e, per loro tramite, i laici - di tutto ciò che la società cristiana cosi strutturata richie­ deva per il suo funzionamento. Ora, a impedire che que­ sto avvenisse erano proprio i poteri esercitati dal gover­ no centrale della Chiesa attraverso gli uffici di Curia. Gli stessi vescovi, primi beneficiari del sistema, erano ben consapevoli del fatto che non era cosi conveniente né pos­ sibile ristrutturarlo dalle fondamenta. Lo si poteva solo modificare superficialmente, senza distruggerlo. Prima dell’inizio dell’ultima fase del concilio, Pio IV - sapendo che qualcosa bisognava fare in questo senso - deputò ad alcuni prelati e cardinali la riforma della Camera, della Penitenzieria e della Dataria: erano i dicasteri del siste­ ma che governava le finanze, amministrava la giustizia e distribuiva i benefici. M a la riforma fu affidata dal papa ai capi stessi degli uffici e questo «fa capire che egli non pensava ad interventi radicali»4. Davanti alla continua elusione della domanda di riforma «in capite», fu a Tren­ to, nella discussione sul decreto relativo all’obbligo di re­ sidenza dei vescovi, che il problema ecclesiologico del rapporto fra episcopato e papato emerse drammaticamente, minacciando di bloccare i lavori e di far fallire tut­ ta l’impresa. Se i vescovi non potevano governare le pro­ prie diocesi ciò si verificava a causa della prassi curiale che limitava e ostacolava il loro ministero. I progetti di riforma presentati a nome dell’imperatore Ferdinando e dai portavoce dell’episcopato francese avevano richia­ mato l’attenzione su questo punto capitale. A partire dal

3 Cfr. una recente messa a punto nell’ambito di una ricostruzione pun­ tuale del caso senese: m . sangalli (a cura di), Chiesa, chienci, sacerdoti. Cle­ ro e seminari in Italia tra x v i e x x secolo, Roma 2000.

4 h . jedin , Geschichte des Konzils von Trient, 4 voli., Freiburg 1957-77 [trad. it. Stona del Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 1973-81, IV, i,p . 129]. Alain Tallon ha osservato che «une destruction totale du système» era impossibile, per ra­ gioni politiche, economiche e sociali (Le Concile de Trente, Paris 2000, p. 69).

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CAPITOLO SESTO

dicembre 15 6 2 , i sostenitori del dovere di risiedere lo so­ stennero in forza del diritto divino (ius divinum) sot­ traendo cosi al papato in via di principio ogni possibilità di limitarlo o sospenderlo. La battaglia fu sostenuta con particolare vigore dai vescovi iberici, guidati da quello di Granada Pedro Guerrero e da Bartolomeu dos Martires, vescovo di Braga; ma ebbe notevole importanza anche l’ atteggiamento combattivo della pattuglia di vescovi francesi arrivati a Trento sotto la guida del cardinale di Lorena. Proprio quest’ultimo propose una formula che, pur non parlando esplicitamente di «diritto divino», af­ fermava che «i vescovi sono posti dallo Spirito Santo a guidare la Chiesa di Dio nella parte per la quale sono sta­ ti chiamati». Alle resistenze romane si rispose rispolve­ rando tesi sulla superiorità del concilio sul papa. La lace­ razione fu profonda e venne accentuata dall’intervento in prima persona dell’imperatore Ferdinando I, che il 3 febbraio 15 6 3 scrisse al papa due lettere, una pubblica e formale, l’altra personale, per esortarlo a fare il suo do­ vere di pastore d’anime e a lasciare che il concilio decre­ tasse l’obbligo di residenza dei vescovi decidendo anche se tale obbligo fosse di precetto divino. Lo stato di tensione che l ’iniziativa creò a Roma e a Trento fu altissimo: sembrava levarsi l’ombra di un’ini­ ziativa imperiale nei confronti di un papa inadempien­ te. Le tre maggiori potenze rimaste fedeli a Rom a Francia, Spagna e Impero - si trovavano d’accordo su di un punto essenziale e potevano mettere il papato davanti al fatto compiuto se portavano avanti la loro iniziativa. E ra in gioco la stessa autorità papale sulla Chiesa. La crisi fu risolta dalla mediazione del nuovo Cardinal legato inviato al concilio da Pio IV : il cardinale Giovan­ ni Morone che, abile e consumato diplomatico, godeva della fiducia dell’imperatore. Senza fermarsi a Trento, egli si recò alla corte di Ferdinando I e in una serie di incon­ tri ottenne dall’imperatore una sostanziale ritrattazione della minaccia di imporre al papa una soluzione al pro­ blema della riforma o addirittura un concilio imperiale.

QUESTIONI DI RIFORMA

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Sbloccata la situazione sul piano politico, la partita in con­ cilio si rivelò piu facile del previsto. Nella solenne sessio­ ne del 15 luglio 15 6 3, settima di questa fase e ventitreesima di tutto il concilio, i decreti proposti dai legati ven­ nero approvati senza difficoltà: l’ordine veniva ricono­ sciuto come un sacramento, la gerarchia ecclesiastica co­ me un ordinamento voluto da Dio al di sopra dei fedeli il cui sacerdozio universale, non negato in via teorica, era ridotto a formula generica. L ’ordine è coronato al più al­ to grado dal ministero episcopale. Nella definizione delle ragioni della superiorità del vescovo rispetto al semplice sacerdote e del suo rapporto col primato papale, i decreti non approfondivano troppo l’analisi; cosi pure, nell’affermare l’obbligo della residenza si dichiarava che questo era un comandamento di Dio, ma non si arrivava fino al­ l’affermazione dello ius divinum a cui tenevano in particolar modo gli spagnoli. La spaccatura del concilio sulla questione dottrinale era comunque evitata. Negli artico­ li di riforma, prendeva corpo la significativa richiesta di ancorare la preparazione del clero alla frequenza di scuo­ le presso le chiese cattedrali. Il modello a cui i padri tridentini si erano ispirati era quello di un progetto elabo­ rato dal cardinale Reginald Pole per il sinodo londinese del 15 5 6 , nel corso dell’effimera restaurazione cattolica inglese: Pole aveva parlato della scuola che aveva in men­ te definendola un vivaio (seminarium). Da qui doveva ge­ neralizzarsi in seguito il termine «seminario». Ma resta­ va del tutto nel vago la questione di come dar corpo a quel­ le scuole: il concilio fissò solo il sistema dei finanziamen­ ti da raccogliere tassando i beni delle chiese. Quanto a co­ sa insegnare e con quali insegnanti, la risposta era diffici­ le. Nella realtà, fu il modello del Collegio romano dei Gesuiti a imporsi e fu alla Compagnia di Gesù che molti vescovi si rivolsero per avere degli insegnanti capaci di preparare i futuri ecclesiastici nella scienza dei casi ne­ cessaria per amministrare le confessioni e, più in genera­ le, nella conoscenza del latino e della teologia. L ’ordinamento disegnato dal concilio fu quello di una

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CAPITOLO SESTO

Chiesa che aveva al centro della sua restaurata dignità il dovere della «cura delle anime». Un clero ben prepara­ to, controllato al momento della consacrazione e perio­ dicamente ispezionato dal vescovo, doveva amministra­ re la vita religiosa del suo popolo tenendone un conto preciso e verificabile attraverso l’uso dei registri par­ rocchiali: qui, in particolare, dovevano essere annotati il battesimo e il matrimonio, ma si doveva anche tener conto in genere della vita sacramentale dei laici. Ma, quando il concilio si sciolse, ben poco era stato fat­ to per garantire la condizione fondamentale della «rifor­ ma tridentina», cioè la residenza dei vescovi: il modello dominante di vescovo nei paesi cattolici - e in particolare negli Stati italiani - restava quello di un uomo di corte e di negozi, impegnato in attività diplomatiche, politiche o militari, oppure mantenuto a corte con funzioni di alta bu­ rocrazia o di lustro culturale. Le rendite delle mense epi­ scopali continuarono a venir distribuite a titolo di ricom­ pensa per meriti di fedeltà politica o di servizi resi a pon­ tefici e sovrani, con l’effetto inevitabile di rendere diffici­ le l’attuazione di quell’obbligo della residenza ribadito dal concilio. Se prima del concilio i casi di abbandono della corte per attuare la residenza in diocesi furono rarissimi e dovuti a circostanze eccezionali, dopo di esso le cose non cambiarono molto. Non è un caso se il modello piu cele­ bre di prelato post-tridentino fu rappresentato da Carlo Borromeo, convinto solo da motivi di coscienza ad ab­ bandonare la sua posizione di Cardinal nipote e la guida de­ gli affari politici del papato per recarsi nella sede dell’arcidiocesi milanese: lo scalpore destato da quella scelta la di­ ce lunga sulla difficoltà di rendere effettivi i modelli di comportamento che il concilio aveva disegnato. A questo punto, il concilio si avviò decisamente e qua­ si precipitosamente verso la sua conclusione. Il papa, do­ po aver vagliato ipotesi di sospensione nel momento di crisi più grave, ora che lo scoglio era stato superato vole­ va che si chiudesse quanto prima. Il momento era ben scel­ to: la rappresentanza dei vescovi a Trento non era mai sta­

QUESTIONI DI RIFORMA

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ta cosi numerosa (alla sessione di luglio parteciparono ben 236 vescovi, in stragrande maggioranza italiani ma con presenze significative di spagnoli, portoghesi e francesi). Erano assenti i vescovi tedeschi, un’assenza che da sola stava a dimostrare quanto poco la situazione della G er­ mania fosse stata tenuta presente in concilio. M a ormai si doveva concludere: la voce di una malattia del papa acce­ lerò il processo di chiusura. A l prezzo di un’intensa atti­ vità diplomatica si ottenne il consenso dell’imperatore e si limarono le resistenze del cardinale di Lorena, capo del­ la delegazione francese. Risolte in qualche modo (un «compromesso» pieno di debolezze, secondo Jedin)5 le questioni della riforma della Chiesa coi documenti ap­ provati nelle sessioni X X II I e X X IV , si dedicò un’ultima sessione a una finale puntualizzazione dottrinale su ma­ terie di primo piano nello scontro coi protestanti: la ve­ nerazione dei santi, le immagini e il Purgatorio. In tutti e tre i casi, le dottrine approvate dal concilio consolidaro­ no la muraglia opposta alle tesi della Riforma protestan­ te: rilanciarono con vigore contro ogni tendenza icono­ clasta il ricorso alle immagini devote; riconobbero la va­ lidità dell’intercessione dei santi e, soprattutto, sanciro­ no la dottrina dell’autorità della Chiesa anche sulle anime dei defunti in Purgatorio. Restavano sospese materie fon­ damentali: la redazione di un catechismo cattolico, la for­ mazione di un Indice dei libri proibiti e la risposta ai ve­ scovi tedeschi che chiedevano la concessione del calice ai laici. Compiti impegnativi e imbarazzanti, che si preferì lasciare ad altri e in particolare al papa. Il 4 dicembre 15 6 3 , in un’affollata e commossa ceri­ monia, il cardinale Morone potè decretare solennemente conclusi i lavori. Il Concilio di Trento era finito. I padri conciliari avevano definito dottrine, riordinato norme, ela­ borato proposte; restava solo da calare il tutto nella realtà. 5 « La riforma della chiesa, decretata nelle due ultime sessioni del conci­ lio, lasciò sostanzialmente intatto il sistema curiale formatosi nel tardo me­ dioevo [...] ciò che si definisce abitualmente la “ riforma tridentina” fu anzi­ tutto solo un’occasione, non una realtà» (ìbid., 2, p. 263).

L ’ IN TER PR ETAZIO N E DEL CONCILIO

Capitolo settimo L ’interpretazione del concilio

I protagonisti vissero il concilio di momento in mo­ mento, nel vivo contesto dei problemi religiosi e politi­ ci del loro tempo; ne consegue che canoni e decreti tridentini, non meno di ogni altro documento, necessita­ no, per essere letti e interpretati, di essere ricollocati in quel contesto. Si deve anzi parlare di contesti diversi, perché la lunga durata dell’ assemblea tridentina e la sua diversa composizione nei vari periodi comportarono cambiamenti non superficiali di obbiettivi, di linguag­ gio, di punti di vista. Si pensi, per fare solo un esempio, al mondo della Riforma col quale il concilio si venne con­ frontando in tutti quegli anni: se all’inizio esso era rap­ presentato in primo luogo da Lutero, in seguito fu Cal­ vino l’ avversario piu presente e piu noto. In quel pro­ cesso di cambiamento, del resto, un ruolo non seconda­ rio svolsero anche le decisioni del concilio e, in partico­ lare, i testi da esso approvati che cominciarono ben pre­ sto ad essere divulgati e a fornire punti di riferimento importanti e autorevoli. Tuttavia, le cose cambiarono proprio con la solenne chiusura dell’assemblea tridenti­ na, il 4 dicembre 15 6 3. Allora, l’intero corpus dei testi elaborati e approvati in tutti quegli anni si presentò nel suo insieme, compattamente, come l’opera del concilio e si pose il problema di che farne. L ’ultima battaglia che l’arcivescovo di Granada Pedro Guerrero, tenace soste­ nitore del diritto divino dell’obbligo di residenza, si trovò a combattere, si svolse proprio nella sessione fi­ nale del concilio: fu posta allora in votazione la doman­ da se si dovesse chiedere al papa l’approvazione dei de-

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creti. La richiesta fu approvata col solo voto contrario di Guerrero. Nemmeno questo isolato dissenso, tutta­ via, si riferiva alla vecchia questione della superiorità del concilio rispetto al papato: il conciliarismo era morto e sepolto. Semmai, c’era una certa resistenza (e non solo da parte di Guerrero ma anche di altri, per esempio del capo riconosciuto dell’episcopato francese, il cardinale di Lorena) a consegnare di nuovo in blocco l’opera del concilio nelle mani del papa, come se i singoli decreti non fossero stati elaborati sotto la guida dei legati papali e come se ciascuno di essi non fosse già entrato in cir­ colazione nel corpo della Chiesa col sostanziale assenso papale. C i fu chi propose che la bolla di approvazione pa­ pale venisse attesa e ratificata a Trento dai padri conci­ liari, ma la fretta di chiudere al piu presto i lavori fece si che si verificasse proprio ciò che qualcuno aveva te­ muto: un affidamento in blocco dell’opera del concilio al papa e ai suoi organi di governo. Naturalmente, poteva anche darsi che il papa si assu­ messe il ruolo di semplice esecutore del concilio, rispet­ tandone alla lettera la volontà. Era una possibilità che sembrò realizzarsi nel concistoro del 30 dicembre 15 6 3 , quando il papa richiamò vescovi e cardinali al loro do­ vere di risiedere in diocesi secondo i deliberati del con­ cilio. La prospettiva di un esodo massiccio di tutti quei membri della Curia e delle corti cardinalizie che aveva­ no obblighi di cura d’anime era terrificante per il mon­ do romano: le corrispondenze di quei giorni fanno in­ tuire preoccupazioni e descrivono preparativi per quel­ lo che minacciava di essere un vero e proprio esodo. Da questo dettaglio si può immaginare quanto sia stata du­ ra la battaglia in Curia sulla bolla papale di approvazio­ ne. La bolla Benedictus Deus è datata ufficialmente 26 gennaio 15 6 4 , ma in realtà fu emanata solo il 3 giugno di quell’anno. Il 26 gennaio, in un concistoro segreto, papa Pio IV dette ai decreti conciliari una conferma ora­ le. Quella scritta, invece, si fece attendere cosi a lungo per i gravi problemi che l’ attuazione del concilio pone-

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CAPITOLO SETTIMO

va fin dall’inizio. A ll’interno del collegio cardinalizio una forte opposizione a una ratifica pura e semplice dei de­ creti tridentini si avvalse, per influire sul papa, di una delle questioni che il concilio aveva lasciato a lui da ri­ solvere: la concessione del calice ai laici, molto deside­ rata nel mondo tedesco e anche in Francia. N ell’intervallo tra quelle due date, anche l’atteggia­ mento del papa si precisò: all’alternativa fra attuazione immediata e integrale dei deliberati conciliari e loro svuo­ tamento da parte della Curia, egli sfuggi imboccando una terza strada, quella per cui il papato, pur approvando in­ tegralmente e senza eccezioni l’opera del concilio, avo­ cava a sé ogni decisione in merito all’interpretazione e al­ l’attuazione. Nella bolla si legge infatti, subito dopo la ratifica e l’invito a prelati e sovrani ad accogliere e at­ tuare il concilio reprimendo ogni resistenza con la forza, una precisazione assai importante: sotto il pretesto di evi­ tare confusioni ed errori, si faceva divieto a chiunque di pubblicare senza autorizzazione papale qualsiasi tipo di commento, glossa, note o contributi interpretativi dei de­ creti conciliari, poiché la Sede apostolica si riservava ogni potere di intervenire in merito a eventuali dubbi in ma­ teria. Dunque, mentre le costituzioni dottrinali entrava­ no a far parte del patrimonio immutabile dei dogmi, i ca­ noni di riforma disciplinare restavano affidati all’inter­ pretazione del papa e della congregazione da lui eretta. Non era questione da poco: ci si discostava cosi dalla tra­ dizione e si concepiva la parte disciplinare un po’ come un corpo di leggi positive modificabili secondo la volontà di un potere sovrano, quello papale1. I fatti già si erano incaricati di dimostrare a quali conseguenze portasse la strada cosi imboccata. La prima era stata il blocco del­ l’edizione completa degli atti del concilio. Il segretario del concilio, Angelo Massarelli, aveva preparato per tem­ po i materiali per l’edizione, raccogliendo e mettendo a 1 Cosi osserva anche p. prodi, Una storia della giustizia : dal pluralismo dei fori a l moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000, pp. 277-78.

L ’INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO

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disposizione i verbali che aveva tenuto durante i lavori; lo stampatore dell’edizione ufficiale dei decreti, Paolo Manuzio, aveva annunziato nella prefazione a quell’edi­ zione (marzo 1564) la prossima stampa degli atti. Inve­ ce, l’edizione non ebbe luogo e una fitta cortina di se­ greto cadde su tutti i documenti originali del concilio. Si dovette attendere la fine del x ix secolo perché si avvias­ se il progetto di un’edizione completa di quei materiali, indispensabili per interpretare il significato e il valore dei decreti. Questo significa che per secoli l’interpretazione di quei documenti è stata affidata a un organismo buro­ cratico centrale, fornito di un’ autorità indiscutibile e inappellabile. Il compito dell’interpretazione venne cosi sottratto ai percorsi consueti in casi analoghi: i decreti tridentini non subirono la sorte dei concili precedenti e non entrarono in quel gioco conflittuale della grande tra­ dizione canonistica nel quale i loro margini di contrasto con la normativa esistente potevano essere regolati per le vie consuete dell’elaborazione e sistemazione del diritto canonico. Dubbi e incertezze interpretative furono risolti con un mezzo straordinario quale l’intervento diretto del­ la Sede papale e con la creazione di un apposito dicaste­ ro: la congregazione cardinalizia del concilio. Per tutta la durata dell’impresa tridentina, i pontefici si erano fatti coadiuvare da deputazioni di cardinali per dirigere at­ traverso i legati le attività di quella assemblea; ora, trat­ tandosi di redigere la bolla di conferma, l’incarico venne affidato a una commissione che riuniva gli ex legati (Morone e Simonetta) e il gruppo di cardinali che da Roma aveva già seguito gli affari del concilio (tra cui il Cardinal nipote Borromeo). Il 2 agosto 15 6 4 questa stessa com­ missione, allargata ad altri membri per un totale di otto cardinali, venne promossa a congregazione permanente, con l’incarico di controllare e promuovere l’esecuzione dei decreti tridentini. Nessuna soluzione di continuità distingueva l’organismo che aveva diretto da Roma lo svolgimento del concilio da quello che da allora in poi, fi­ no al x x secolo, doveva interpretarne autorevolmente i

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CAPITOLO SETTIMO

decreti2. In questo modo, ben lungi dal contrapporsi al­ la Curia mettendone in ombra autorità e prerogative, i decreti conciliari costituirono una nuova e straordinaria occasione di affermazione della sede romana sulle chiese particolari. Si dava cosi attuazione pratica al testo della bolla Benedictus Deus, nel quale si invitava chiunque aves­ se difficoltà e controversie da sollevare a proposito dei decreti a presentarle alla Sede apostolica, unica autorità per tutti i fedeli («omnium fidelium magistra»). La con­ gregazione dei cardinali «interpreti» del concilio era una semplice emanazione dell’autorità papale, alla quale si do­ veva ricorrere direttamente ogni volta che il testo da in­ terpretare presentasse qualche problema. Sequestrate e rese inattingibili le fonti relative al con­ cilio, il lavoro interpretativo assunse dimensioni di ec­ cezionale importanza: basti pensare che il diritto creato dai decreti tridentini innovava su ben 250 punti rispet­ to al diritto delle decretali e che sinodi diocesani e pro­ vinciali, chiamati a nuova vita dalle disposizioni conci­ liari, promettevano di produrre una quantità notevole di problemi interpretativi. Le situazioni, numerose e controverse, di conflitto tra gli obblighi imposti dal con­ cilio (come il dovere di residenza) e gli impegni romani di tipo diplomatico o politico degli ecclesiastici, invece di risolversi con l ’ abbandono della sede romana e col conseguente, temutissimo, crollo del movimento finan­ ziario connesso agli uffici curiali, portarono a Roma un numero ancor maggiore di postulanti rispetto al passa­ to. Il percorso dell’attuazione del concilio trovava a R o ­ ma qualcosa di piu di un incrocio obbligato: era li che si tracciavano gli orientamenti e si dettavano le regole di concreta realizzazione dei decreti. La decisione di riser­ 2 Sulle materie di cui la Congregazione si è occupata e sullo stato del suo archivio cfr. La Sacra Congregazione d el Concilio. Quarto centenario dalla fon ­ dazione (156 4 -19 6 4). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964, e p. caiazza, L ’archivio storico della Sacra Congregazione del Concilio (primi appunti per un problema di riordinamento), in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 1992,

n. 42, pp. 7-24.

L ’INTERPRETAZIONE DEL CONCILIO

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vare alla Santa sede il potere di interpretazione del con­ cilio e il conseguente divieto a chicchessia di chiosare i decreti hanno avuto, naturalmente, conseguenze im­ portantissime per la storiografia sul concilio. La costituzione della Congregazione del Concilio an­ dava in direzione diversa da quella di un’interpretazione storicamente fondata, ma non necessariamente opposta: tant’è vero che in un primo momento si continuò a stu­ diare il progetto di un’edizione degli atti che si pensò pri­ ma in forma ampia, poi ridotta. Angelo Massarelli, il vec­ chio segretario del concilio, pose a disposizione i suoi ma­ teriali e si adoperò a prepararne redazioni per la stampa. Intanto, mentre una commissione romana si occupava della questione, si accendeva la controversia sulla valu­ tazione dell’opera del Tridentino: nel 15 6 5 fu dato alle stampe VExamen Concila Tridentini del luterano Martin Chemnitz (1522-86), l’opera che avrebbe fornito nei se­ coli l’armamentario polemico ai protestanti. Era una re­ quisitoria teologica vera e propria organizzata secondo le parole chiave delle dottrine (Sacra scrittura, Tradizioni, Peccato originale, Concupiscenza, ecc.). Le polemiche dottrinali non favorivano la conoscenza storica. Le con­ troversie di fine Cinquecento in materia di grazia e libe­ ro arbitrio, riaprendo la questione teologica della giusti­ ficazione, furono l’occasione perché i due grandi ordini in contrasto (Domenicani e Gesuiti) chiedessero di acce­ dere alla documentazione sul concilio per approfondire meglio quale fosse stata la mente dei padri tridentini. Quelle richieste furono l’occasione per il definitivo bloc­ co di ogni consultazione dei tanti documenti conciliari conservati a Roma, sui quali cadde il piu totale segreto. Venivano meno, intanto, gli ultimi testimoni diretti del­ l’opera del concilio, molti dei quali avevano conservato documenti preziosi; uno di essi, il cardinale Gabriele Paleotti, aveva anche progettato di dare alle stampe una sto­ ria del concilio, frutto di una rielaborazione dei suoi ap­ punti di testimone, ma non ne fece poi niente. Intanto, al posto della conoscenza del contesto stori-

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CAPITOLO SETTIMO

co, l’interpretazione del concilio rimase affidata all’o­ pera della Congregazione del Concilio che dovette esa­ minare da allora in poi le incertezze e i dubbi proposti dal mondo cattolico3. Di fatto, i documenti del concilio si offrono alla nostra lettura sia come testimonianza di ciò che la gente di Chiesa ivi presente trovava nella pro­ pria esperienza e nel proprio passato, sia come strumento di un’azione condotta in prima persona dal papato a par­ tire dalla seconda metà del Cinquecento. ’ Una collezione delle decisioni della Congregazione del Concilio fu edita a cura della stessa: cfr. sacra congregatio cardinalium s . conciliii triden­ tini, Collectìo omnium conclusìonum et resolutìonum quae in causis propositis apud Sacram Congregationem cardinalium 5 . Concila Tridentini interpretum prodìerunt ab eius institutione anno m d l x i v ad annum m d c c c l x , Roma 1867-93.

Capitolo ottavo L ’attuazione dei decreti di riforma

Il papato che s’impadroniva totalmente del potere di in­ terpretare i decreti tridentini era anche l’unica forza inte­ ressata a realizzarne le indicazioni. I protestanti di G er­ mania avevano formalmente ricusato di riconoscere il con­ cilio fin dall’autunno del 156 2, né maggior favore si pote­ va attendere dai calvinisti. Dopo la breve parentesi della restaurazione cattolica, l’Inghilterra di Elisabetta I si al­ lontanava definitivamente dalla Chiesa di Roma. Quanto agli Stati cattolici, la volontà di accettare e attuare i de­ creti era tutt’altro che scontata. A parte gli Stati italiani, che non avevano né la forza né la convenienza di negare l’adesione al concilio, i sovrani cattolici d’Europa non si potevano considerare automaticamente impegnati a rico­ noscere e a realizzare i deliberati tridentini. Non servi a molto in tal direzione l’astuzia diplomatica del Morone che tentò, a concilio concluso, di far ratificare formalmente i decreti dai rappresentanti dei vari Stati con regolari atti notarili: gli ambasciatori del Portogallo, dello Stato vene­ ziano, dell’imperatore, del re di Polonia e dei duchi di Sa­ voia e di Firenze firmarono senza difficoltà, mentre il rap­ presentante del re di Spagna si rifiutò di farlo e quelli del re di Francia non lo fecero perché assenti. Ma una ratifi­ ca diplomatica di quel tipo non legava minimamente le ma­ ni ai veri titolari del potere. Per questo, il problema fu af­ frontato seriamente solo nel momento in cui da Roma, nel­ l’estate del 1564, partirono gli inviti agli Stati europei a ri­ cevere formalmente il testo dei decreti e a impegnarsi a operare per la loro attuazione.

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CAPITOLO OTTAVO

L’ATTUAZIONE DEI DECRETI DI RIFORMA

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I sovrani di Portogallo e di Spagna, Paesi che doveva­ no la loro identità al collante religioso, furono i primi a ri­ conoscere ufficialmente i decreti tridentini e a dar loro vi­ gore di leggi. Solenni riti di festeggiamento accompagna­ rono la pubblica lettura della bolla papale, nelle cattedra­ li affollate, alla presenza di sovrani e cortigiani. Il testo dei decreti, nell’edizione autentica spedita da Roma, fu subito tradotto nelle lingue nazionali e trasmesso uffi­ cialmente al clero, chiedendone l’osservanza e promet­ tendo l’aiuto del braccio secolare. Dalle capitali dei due grandi imperi coloniali, i decreti varcarono gli oceani e raggiunsero per la via più rapida il clero e le autorità dei viceregni e dei domini extra-europei. Particolarmente en­ tusiastica fu l’accoglienza riservata ai decreti in Portogal­ lo dal Cardinal infante don Enrico, reggente in nome del giovane re Sebastiano: da qui ne fu data notizia anche al re del Congo, nel contesto delle relazioni ufficiali esistenti allora tra le due dinastie1. Procedure analoghe furono se­ guite negli Stati italiani e in Spagna. Filippo II, tuttavia, pose qualche limitazione. Comunque, nell’enorme impe­ ro spagnolo, sulle due coste dell’Atlantico, il vicariato re­ gio sulla Chiesa non creò ostacoli all’ attuazione dei de­ creti. Invece né la Francia né l’impero asburgico accolse­ ro formalmente i decreti conciliari: in queste due aree rei­ terati tentativi di ottenere la sanzione ufficiale dei pote­ ri politici si scontrarono con persistenti rifiuti. In Fran­ cia, Caterina de’ Medici, in veste di reggente, nominò una commissione di cinque giuristi che redasse sulla questio­ ne un parere negativo: le tradizioni gallicane e le divisio­ ni religiose rendevano sconsigliabile un deciso impegno della monarchia in quella direzione. Le resistenze nei con­ fronti dell’accettazione formale, richiesta anche dalla bol­ la papale d ’approvazione, furono dettate da considera­ zioni di vario tipo, religiose ma anche e soprattutto poli­

tiche. Il giurista Charles Dumoulin dette voce alla dissi­ denza religiosa calvinista, ma anche alla difesa dell’auto­ rità della monarchia e dei privilegi dei corpi della società francese, nel suo Conseil sur le faìct du concile de Trente: accogliendo e riconoscendo i decreti tridentini, la Fran­ cia sarebbe diventata «un paese d’obbedienza papale», annullando d’un sol colpo «non soltanto la potenza so­ vrana del re, ma anche l’autorità degli Stati di Francia, le libertà e i diritti del popolo e della Chiesa gallicana». Un sovrano cattolico non poteva non tener conto del tipo di rapporti che si erano creati tra la monarchia e le chiese. D i fatto, l ’introduzione dei decreti tridentini conobbe un unico passaggio formale: il tardivo accoglimento da parte della sola assemblea del clero negli Stati generali del 16 14 . Qualcosa di simile accadde nell’impero asburgico, dove le divisioni religiose interne bloccarono la strada all’accet­ tazione ufficiale del concilio2. La pace religiosa di Augusta, nel 15 55 , aveva sancito il principio della divisione religio­ sa in termini che toglievano all’imperatore ogni potere in tal senso. Era nato allora un diritto religioso imperiale che garantiva la tolleranza di confessioni diverse: il papa Pao­ lo IV, impegnato nel conflitto con la Spagna (in funzione del quale suo nipote Carlo Carafa aveva addirittura offer­ to un’alleanza ai principi protestanti), aveva evitato di con­ dannare quella novità rivoluzionaria. Cosi, alla Dieta di Au­ gusta del 1566, si discusse del concilio da poco concluso, ma per iniziativa dei ceti imperiali protestanti che presen­ tarono un elenco di gravamina. Il documento si apriva con una lunga contestazione teologica del papato e delle dot­ trine approvate al concilio e si chiudeva rinnovando al­ l’imperatore l’invito di Lutero a procedere alla convoca­ zione di un concilio della nazione tedesca per attuare la riforma del popolo cristiano. I ceti imperiali cattolici repli­ carono con scritture di segno opposto e tutto fini li: l’im-

1 Cfr. m . c a e t a n o , Recepgào e execugdo dos decretos do Concilio de Trento em Portugal, in «Revista da Faculdade de diretto da Universidade de Lisboa»,

2 Cfr. su questo aspetto il saggio di K . r e p g e n , Impero e Concilio ( 15 2 1156 6 ), in II Concìlio di Trento e i l moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard,

X IX (1965), pp. 7-87, in particolare p. 1 1 nota.

Bologna 1996, pp. 55-99.

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peratore Massimiliano II (1564-76) aveva bisogno di aiuto per far fronte all’avanzata turca in Ungheria e aveva tutto l’interesse a confermare le clausole della pace del 15 5 5 , an­ che per mettere in difficoltà il principe elettore del Palati­ nato che aveva introdotto il calvinismo nell’Impero. Il Car­ dinal legato Giovanni Francesco Commendone convocò al­ lora un’assemblea separata dei ceti cattolici e propose loro, con un discorso molto elaborato e commosso, di accogliere i decreti dottrinali e quelli di riforma del concilio. I tre or­ dini deliberarono separatamente e conclusero con una ri­ sposta affermativa. Per questa via poco ufficiale, dunque, il Tridentino fece il suo ingresso nella situazione tedesca; il papato, davanti alla linea di comportamento seguita, dal­ l’autorità imperiale (formalmente cattolica) si limitò a dis­ simulare. Solo nel secolo seguente, di fronte all’esito della Guerra dei trent’anni, l’atteggiamento romano cambiò e si passò alle proteste pubbliche e vibrate. M a di fatto l’Im­ pero mostrò la sua nuova identità già in questa data: con una svolta storica significativa, quello di Trento fu il primo concilio a non venire accettato dall’Impero cristiano. Il papato rimaneva l’unica forza determinata ad at­ tuare i deliberati di Trento. Come si mosse per raggiun­ gere questo scopo ? La questione è evidentemente inse­ parabile da quella dell’interpretazione che del concilio fu data a Roma: si può agevolmente immaginare quan­ to predominassero in quella interpretazione le forme e le istanze di controllo gerarchico e le necessità di lotta all’eresia. A ll’attuazione del concilio, tuttavia, si dette da Roma un forte e deciso impulso. La ragione è sem­ plice: attraverso l’accettazione dei decreti del Concilio di Trento, confermati e fatti propri dal papato, passava anche il riconoscimento del potere romano di governo su tutto il mondo cattolico, al di sopra delle frontiere de­ gli Stati nazionali. Come ben capi fra Paolo Sarpi, quel che era stato temuto si rivelava ora il mezzo più effica­ ce del centralismo romano. Fu in questo quadro che si collocarono le iniziative romane dedicate al completa­ mento dell’opera lasciata interrotta dal concilio. Uno

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specifico compito di integrazione era stato affidato dal­ l’assemblea conciliare al papato per tre problemi che non si era riusciti a risolvere in tempo prima della chiusura: l’Indice dei libri proibiti, il catechismo e la riforma dei libri liturgici. U n ’altra integrazione, non prevista, fu la redazione della Professici fidei tridentina. Non si trattava di aggiunte di poco conto: nell’esperienza collettiva del­ l’epoca post-tridentina, l’opera del concilio si identificò per lo piu proprio con questi tre punti che il concilio non aveva affrontato ma che furono realizzati sotto il suo no­ me. La questione della censura come strumento di lotta contro la diffusione di idee protestanti era all’ordine del giorno. L ’opera dell’Inquisizione e il clima di guerra re­ ligiosa senza quartiere contribuivano a questo; d ’altra parte, le enormi difficoltà sollevate dall’Indice di Paolo IV per la sua drastica e indiscriminata violenza nei confronti della circolazione libraria richiedevano un intervento conciliare. A i legati erano giunte suppliche come quella di Francesco Maurolico, che proponeva non solo l ’eli­ minazione di tutti i libri di autori sospetti, ma anche un programma di edizioni romane di una biblioteca di au­ tori ortodossi3. La guerra di religione, intanto, conti­ nuava a lambire le aule conciliari, che però non osavano invadere ambiti già occupati dall’iniziativa papale per 5 Lo scienziato siciliano registrava la novità della situazione: si dovevano combattere non solo singoli eretici ma interi territori («magna oppida et ingentes provinciae»), E osservava anche che fin negli Abruzzi si era diffusa la «peste» della lettura di Erasmo, Melantone, Zwingli e di altri eretici tedeschi, da lui definiti veri e propri «antropophagi», presenti non solo con le loro ope­ re ma con prefazioni ed edizioni di testi altrui; la sua proposta, indicativa del clima che portò alle edizioni romane di Paolo Manuzio, era che si convocas­ sero a Roma uomini dotti, e con loro i migliori stampatori, e si procedesse al­ la stampa di tutto quel che atteneva ai riti sacri, all’educazione e alla storia sa­ cra («ad cerimonias, et ad morum instituta, quae ad sacras historias», F . m a u r o l i c o , A d reverendissimos Tridentinae synodi legatos et antistìtes, in Sicanicarum rerum compendium sive Sicanicae bistonde libri sex, Lugduni sumptibus Pe­ tti Vander s. d.,pp. 322-23, citato in m . r . l o f o r t e s c i r p o , Francesco Mau­ rolico: autobiografia e sapienza alla fine d el Medioevo, in L'autobiografia nel Medioevo, Atti del convegno storico internazionale, Spoleto 1998, pp. 307330, in particolare p. 318. Su Maurolico si veda R. m o s c h e o , Francesco Mau­ rolico tra Rinascimento e scienza galileiana. Materiali e ricerche, Messina 1988.

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mezzo di strumenti straordinari come l’Inquisizione. A n­ che la domanda di forme di compattamento ideologico e di uniformità rituale tali da permettere la riconoscibi­ lità delle parti in conflitto non trovò risposte soddisfa­ centi da parte del concilio: se è superfluo ricordare l’im­ portanza negativa di uno strumento come l’Indice dei li­ bri proibiti, non c ’è dubbio che un peso non minore eb­ bero, nella percezione dei contenuti positivi del cattoli­ cesimo post-conciliare, sia la liturgia rinnovata, sia quel catechismo e quella professione di fede che vennero sbri­ gativamente definiti «tridentini» senza che fossero sta­ ti prodotti dal concilio. Preoccupazioni di tipo contro­ riformistico (nel senso del controllo dell’ortodossia con una forte sospettosità verso tutto ciò che non risponde­ va a un modello unico e garantito) si insinuarono nel mo­ do in cui a Roma si portarono a termine quei lasciti del concilio; ciò è particolarmente evidente nel caso del ca­ techismo, che fu pubblicato nel 156 6 col titolo di Catechismus ex decreto Concila Tridentini e fu conosciuto con quello ben piu eloquente (anche se geograficamente con­ traddittorio) di Catechismo romano del concilio di Tren­ to. Nato col proposito di offrire un’alternativa valida a tutta quella varia letteratura catechistica del primo C in­ quecento, buona parte della quale era caduta sotto la scu­ re dell’Indice di Paolo IV , era stato inteso da alcuni pa­ dri conciliari come un testo breve e piano, ispirato a mo­ delli erasmiani; nella redazione che fu realizzata da una commissione di tre domenicani divenne una vera e pro­ pria summa teologica dal saldo impianto tomistico. Quanto alla Professio fidei, il concilio ne aveva trattato nel maggio 15 6 3 , proponendo che vescovi, curati, abati e altri ecclesiastici, prima della provvisione del loro be­ neficio, dovessero prestare giuramento recitando un bre­ ve testo (nel quale, forse dietro suggerimento dei vesco­ vi francesi, si insisteva sulla dottrina della presenza rea­ le con evidente funzione anticalvinista). Pio IV ne pro­ mulgò uno assai piu ampio (14 novembre 1564) che da allora in poi fece parte integrante delle edizioni dei de­

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creti tridentini e fu reso obbligatorio non solo per ve­ scovi, abati, priori e parroci all’atto dell’assunzione del loro ufficio, ma in una grande quantità di occasioni: in modo particolare, il giuramento della formula di fede fu presente nel mondo universitario, come parte integran­ te della laurea. Inoltre, vi si ricorse, in genere, per im­ pieghi pubblici come medico o maestro. La Professio fidei era tridentina nel senso che riassumeva tutte le dot­ trine affermate dal concilio, ma era anche romana per­ ché si concludeva con la promessa di obbedienza alla se­ de romana e al papa. Nel quadro delle confessioni di fe ­ de che caratterizzarono l ’intera epoca - giustamente definita per questo «età confessionale» - rappresentò la variante cattolica del nuovo modello di appartenenza re­ ligiosa ed ecclesiastica. Nel confronto con le confessio­ ni precedenti e coeve, dall’«augustana» del 15 3 0 alla «riform ata» o calvinista, risalta la compresenza in quel­ la cattolica dell’esposizione analitica e consapevole del­ le dottrine col principio sintetico dell’obbedienza al pa­ pa: fu soprattutto questo secondo elemento a diventare dominante, per esempio nelle abiure dei processati per eresia. La formula sintetica «Credo quod credit Sancta M ater Ecclesia» si impose come la maniera piu sempli­ ce ed efficace per cancellare ogni dubbio sulle tentazio­ ni del soggettivismo in materia di fede. Questa accentuazione degli aspetti di compattezza ge­ rarchica e dottrinale presente nelle integrazioni romane all’opera del concilio non era dovuta solo alla particolare ottica della sede papale, ma era anche da addebitare all’addensarsi dei conflitti religiosi, sempre piu sensibile col passare del tempo rispetto agli anni dell’avvio del conci­ lio. Lo si avverte, ad esempio, in quello che è certamente il frutto piu tardivo dei dibattiti tridentini: la revisione della Vulgata, uscita a stampa nel 159 3 e denominata Vul­ gata Clementina. Se ne era parlato in concilio fin dal 1546, nel contesto di proposte fortemente innovatrici in mate­ ria di predicazione e insegnamento del cristianesimo. A l­ lora era stata ventilata anche la redazione di un catechi­

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smo che fosse uno strumento di avvio a una teologia po­ sitiva e non litigiosa, imbevuta profondamente di testi evangelici e biblici. Questo era il modello verso il quale i padri tridentini volevano orientare la predicazione, ade­ rendo alle tendenze erasmiane ed evangeliche del primo Cinquecento. Per il catechismo, si è già visto che la rea­ lizzazione fu diversa da quei primi progetti; la Bibbia non ebbe sorte migliore. La Vulgata Clementina, se realizzò un’esigenza del concilio, lo fece in una situazione nella quale la Bibbia era totalmente uscita dall’esperienza reli­ giosa del cattolicesimo: i rigidi divieti delle Bibbie in vol­ gare dell’Indice di Paolo IV (1559) e di quello di Pio IV (1564), il piu generale sospetto verso ogni forma di ricor­ so alle Scritture sacre non mediata dal corpo ecclesiastico e - ultimo ma non meno importante - il discredito teolo­ gico dell’evangelismo del primo Cinquecento, estirpato con un massiccio impiego dell’Inquisizione, avevano reso la Bibbia una specie di oggetto pericoloso, da manipolare con molta cautela. Che la propaganda calvinista puntasse sulla diffusione di Bibbie in volgare per la conquista di terre cattoliche è un sintomo di questa situazione. Quanto agli strumenti creati o almeno utilizzati dal pa­ pato per l’attuazione del concilio, i piu significativi furo­ no quelli di tipo politico-diplomatico. Sul piano politico, come abbiamo visto, si erano incontrate le maggiori dif­ ficoltà per la ricezione dei decreti tridentini: Filippo II aveva esplicitamente fatto salvi i propri diritti regali nell’ accettare ufficialmente i decreti (1564), mentre in Fran­ cia il rifiuto era stato motivato dall’esigenza di evitare ce­ dimenti in materia di tradizionali diritti e «libertà galli­ cane», che sarebbero state sminuite dal riconoscimento del papa come «vescovo della Chiesa universale». Qui l’opposizione fu cosi ferma che solo nel 16 15 l’assemblea del clero di Francia accolse ufficialmente i decreti, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto da parte della monarchia di procedere alla pubblicazione ufficiale dei medesimi. Il duplice movimento per cui il papato romano tendeva a configurarsi come una monarchia temporale e gli Stati ter­

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ritoriali tendevano al controllo diretto dell’amministra­ zione della vita religiosa allontanava a vista d ’occhio le possibilità d ’intesa su questo terreno. Perciò si compren­ de bene la tendenza romana a far leva su strumenti di ti­ po, appunto, politico-diplomatico, tra cui, fondamentale, fu quello delle nunziature: alla rete diplomatica che già esisteva e che faceva di Roma un centro diplomatico d ’im­ portanza mondiale, furono aggiunte ulteriori nunziature con compiti specifici di coordinamento e di impulso per l ’attuazione dei decreti tridentini e la penetrazione reli­ giosa. In Germania, accanto alla nunziatura ordinaria, ne furono erette altre due, a Colonia e a Graz, con partico­ lari prerogative. Se il nunzio era lo strumento di trasmis­ sione delle direttive romane e di controllo sulla loro at­ tuazione, alle sue spalle esistevano organismi centralizza­ ti per il governo di tali materie: per la Germania, opera­ va una «congregazione tedesca» istituita da Pio V. M a in quegli stessi anni era tutta la forma del governo della Chie­ sa cattolica che subiva un generale riassetto, pili adegua­ to al carattere ormai raggiunto di vera e propria monar­ chia papale: se l’azione del papato si esplicava sul piano diplomatico attraverso le nunziature, senza distinguere le materie politiche in senso stretto da quelle di natura ec­ clesiastica e religiosa (come l’attuazione dei decreti tridentini), una trasformazione analoga avveniva nel siste­ ma centrale di governo della Chiesa: al posto del conci­ storo come organo supremo, dove il papa sedeva come primus inter pares, si venne sostituendo un sistema di con­ gregazioni che divisero e assorbirono il lavoro dei cardi­ nali, diventati cosi una sorta di alta burocrazia con funzioni di razionalizzazione e disbrigo di una gran mas­ sa di negozi. Il sistema delle congregazioni appare defini­ tivo e ufficiale nel 1588, quando Sisto V (bolla Immensa aetemi Dei, 22 gennaio) riorganizzò in tal modo l’intera Curia romana: nelle quindici congregazioni allora formalizzate non è facile distinguere quelle che si dovevano oc­ cupare del dominio temporale del papato da quelle pre­ poste agli affari ecclesiastici, e ancor piu difficile è di­

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stinguere quelle che in qualche modo avevano a che fare con l’attuazione dei decreti tridentini. L ’intreccio tem­ porale-spirituale vi appare in forma inestricabile, mentre la normativa tridentina vi svolge la funzione di punto di riferimento generale, o meglio di ordito su cui intessere una quantità esorbitante di interventi e deliberazioni, con l’effetto complessivo, certo non previsto né desiderato dai padri tridentini, di esautorare le chiese locali e di fonda­ re la supremazia romana. Il modello romano e l’iniziativa papale non furono cer­ to l’unico tramite di attuazione che i decreti tridentini ebbero a partire dalla seconda metà del x v i secolo. C ’e­ ra anche un percorso diverso, che fu seguito da molti e che può essere esemplificato dal comportamento di un prelato gallicano, il vescovo di Verdun Nicolas Pseaume: questi, appena avvenuta la chiusura del concilio, ne sot­ toscrisse gli atti e parti per la sua diocesi dove, il 23 gen­ naio 156 4, predicò al popolo per illustrare l’operato del concilio tenendo subito dopo il sinodo diocesano previ­ sto dai decreti tridentini. Comportamenti di questo ge­ nere furono piuttosto numerosi nei Paesi cattolici. Il ve­ scovo di Braga Bartolomeu dos Martires, convocò un con­ cilio provinciale nel 156 6 al quale sottopose un prome­ moria di grande ampiezza4. Scelte analoghe disegnano la linea fondamentale della «riforma tridentina», che si af­ fidò all’opera di uomini come questi, che tradussero i de­ creti in istituzioni e uniformarono - diocesi per diocesi e, talvolta, parrocchia per parrocchia - i comportamenti dei loro popoli alle regole fissate a Trento. Caratterizza­ re in maniera uniforme come «riformatori» tutti gli agen­ ti di quella messa in opera non aiuta però a capire e a di­ stinguere, porta anzi a confondere un clero di funziona­ ri ossequienti a direttive generali piovute dall’alto con quanti si mossero da convinti realizzatori di un modello 4Memorìaes para o S. C ondì, Bracarense Provincial, quepublicou o R m o sòr Dom frey Bartholomeu dos Martires ( i 566), edito in «Cartorio Dominicano Portugués», Bartholomeana Monumenta II, Porto 1972.

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di vita religiosa che, al contrario, faceva perno sulle isti­ tuzioni della chiesa locale. Il quadro d ’insieme che gli stu­ di esistenti permettono di delineare è ancora lacunoso e frammentario; non c ’è dubbio, tuttavia, che ne emergo­ no singoli casi significativi, come quelli già ricordati. Par­ ticolarmente noti e studiati sono quelli di san Carlo Bor­ romeo a Milano e di Gabriele Paleotti a Bologna, prota­ gonisti di un tentativo di vitalizzazione delle istituzioni diocesane a partire da quel modello di vescovo-pastore, preparato e residente in diocesi, che era stato evocato piu volte a Trento. Il vescovo, piu che il sospettoso guardia­ no dell’ortodossia del «gregge» o l’efficiente burocrate fedele a direttive altrui, era in questi casi (o aspirava a diventare) il punto di riferimento della vita religiosa col­ lettiva, l’animatore e la guida paterna dei fedeli, il pro­ tagonista di una conquista delle anime5: il che non signi­ fica che venisse meno la funzione di tutela dell’ortodos­ sia, che anzi assunse nell’opera di Carlo Borromeo aspet­ ti di notevole durezza. M a l’enfasi posta sull’importanza della figura del vescovo portava a mal tollerare l’imposi­ zione delle esigenze del potere politico centrale, fosse quello spagnolo su Milano o quello papale su Bologna. Sono celebri le controversie tra Carlo Borromeo e il go­ vernatore spagnolo in materie che si estendevano dal po­ tere giurisdizionale del tribunale vescovile al governo del­ la moralità collettiva. M a anche a Bologna, nel rapporto tra il vescovo e un papato che aveva pienezza di poteri spirituali e temporali, il primo si trovò costretto a lotta­ re per conservare un proprio autonomo potere di gover­ no della diocesi. Inutilmente Paleotti si rivolse alla Con­ gregazione del Concilio nella controversia che lo oppo­ neva al capitolo della cattedrale in materia di attuazione dei decreti del concilio stesso: l’appello d ei canonici a Ro­ ma e l’intervento del governatore mostrò che anche nel­ lo Stato della Chiesa restavano «impedimenti grandi» al 5 Cfr. Γimportante ricerca di w. de boer, The Conquest o f thè Soul. Confession, Discipline, and Public Order in Counter-Reformation Milan , Leiden 2001.

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vescovo che voleva fare solo « l’officio suo»6. Esistevano ancor minori possibilità per rivitalizzare il rapporto tra l ’elaborazione delle chiese locali e la sede papale. Dopo il concilio, lo sviluppo del diritto pontificio avvenne a tutto discapito della produzione legislativa dei sinodi dio­ cesani7. Mentre i poteri romani intervenivano pesante­ mente sulla vita delle chiese locali, restava del tutto esclu­ sa ai vescovi la possibilità di adoperarsi per quella rifor­ ma della Curia che il concilio aveva solo auspicato. Se questo accadeva nelle piccole realtà degli Stati italiani, non meno complicate erano le situazioni in cui si trova­ rono a operare i vescovi degli Stati maggiori dell’Europa cattolica. I protagonisti tridentini della difesa del potere e della dignità del vescovo dovettero sperimentare nel ri­ torno alle loro diocesi quanto poco il concilio avesse mo­ dificato la situazione. Tra coloro che si erano piu esposti nella discussione dell’estate 15 6 3 sui rapporti tra vesco­ vi e inquisitori, figuravano gli spagnoli Pedro Guerrero e Pedro Gonzàlez de Mendoza, nonché il portoghese Bartolomeu dos Martires: grazie alla loro opera era stato ot­ tenuto il riconoscimento del diritto dei vescovi di assol­ vere in foro penitenziale dal delitto di eresia, un punto capitale molto mal tollerato dall’Inquisizione spagnola e da Filippo II8. Una volta tornati in patria, essi dovettero fare i conti con i poteri che avevano sfidato e raggiunge­ re di volta in volta i compromessi che i rapporti di forza consentivano. Nel contesto italiano, particolarmente si­ gnificativo fu il tentativo di Carlo Borromeo di rivitaliz­ zare l’istituto della provincia ecclesiastica. Il percorso di 6Da una lettera di Paleotti a monsignor Giovanni Battista Castelli, 1 9 di­ cembre 1569 (cfr. p. prodi, I l Sovrano Pontefice. Un corpo e due anim ella mo­ narchia papale in età moderna , Bologna 1982, p. 279; ma si veda tutto il cap. v ii , pp. 251-93). 7 Cfr. id ., Note sul problema della genesi del diritto della Chiesa post-tndentina nell’ età moderna, in Legge e Vangelo, Brescia 1972, pp. 191-223. 8Cfr. s. pastore , Roma, il Concilio di Trento, la nuova Inquisizione : alcu­ ne considerazioni sui rapporti tra vescovi e inquisitori nella Spagna d el Cinque­ cento , in L'Inquisizione e gli storici:un cantiere aperto, Atti dei Convegni Lin­

cei, n. 162, Roma 2000, pp. 109-46.

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questo Cardinal nipote, che aveva governato da Roma l’ul­ timo periodo del concilio e che poi, diventato arcivesco­ vo di Milano, aveva attuato la norma tridentina dell’obbligo di risiedere personalmente in diocesi, offri allora un modello di grande efficacia di come si potesse intendere e realizzare la proposta tridentina. Piu tardi, la sua ca­ nonizzazione doveva rendere esemplari le sue virtù mo­ rali personali, contribuendo a mettere tra parentesi quel­ lo che nella sua esperienza di governo episcopale aveva portato a conflitti col centralismo romano: in questo rien­ trava appunto l’opera legislativa e di governo nel quadro della provincia ecclesiastica. Accanto ai sinodi diocesa­ ni, i concili provinciali furono fatti funzionare come stru­ menti di un governo della Chiesa non dominato esclusi­ vamente dal vertice romano. L ’analisi dei percorsi isti­ tuzionali di questo modello di riforma tridentina non può dirsi ancora completa; non c ’è dubbio, tuttavia, che uo­ mini come Borromeo, Paleotti, Guerrero, Bartolomeu dos M artires (de Martyribus) e altri ancora ebbero in mente un modello di Chiesa fondato sui vescovi come pa­ stori e giudici dei loro fedeli, residenti stabilmente in se­ de e capaci di un’azione efficace, cioè dura e spietata, contro eretici e streghe, ma anche contro pubblici pec­ catori, in grado insomma di esercitare una severa disci­ plina collettiva. M a proprio in nome della loro autorità sacrale tendevano ad attraversare i percorsi dei tribuna­ li dell’Inquisizione, che rispondevano ad autorità centrali e operavano con regole giuridiche e procedure burocra­ tiche. Uomini di questo genere non ebbero un rapporto facile con i rappresentanti delle autorità centrali dei loro Stati, fossero il re di Spagna o lo stesso pontefice, pro­ prio perché le ragioni dei governi accentratori ignorava­ no le prerogative episcopali e tendevano a ledere diritti e privilegi tradizionalmente riconosciuti al governo ec­ clesiastico locale. Conflitti particolari li opposero a emis­ sari e strumenti della trionfante centralizzazione papale, come i visitatori apostolici o i nuovi o rinnovati ordini religiosi. A questi ultimi si aprivano infatti nuove possi­

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bilità d’azione man mano che il papato si arrogava il com­ pito d ’interpretare e attuare i decreti tridentini. Se la riforma tridentina aveva avuto il suo nucleo ispiratore nel principio della «cura d ’anime» esercitata dal clero se­ colare preparato e residente, l’ampiezza dei problemi del­ la Chiesa cattolica e in particolare del papato nell’Euro­ pa del tardo Cinquecento fece tornare d ’attualità il ben diverso modello rappresentato dagli ordini religiosi come strumento privilegiato d ’intervento. Se qualche secolo prima era toccato a Francescani e Domenicani, questa volta fu la Compagnia di Gesù la struttura capace di la­ sciare la sua impronta sulla Chiesa intera: elevata prepa­ razione culturale, formazione secondo un modello unico, dedizione e spirito missionario, capacità di penetrazione ai livelli alti della società e, soprattutto, piena e totale di­ sponibilità agli ordini del papa furono le caratteristiche che assicurarono il loro successo. Tuttavia, su questo terreno le nostre conoscenze sono ancora incomplete: i meccanismi messi in opera dalla Chiesa dopo il Concilio di Trento furono tanti e diversi tra loro, oltre che diversamente adattati alle varie realtà. In Spagna, in Portogallo e in Italia, l’impatto dei model­ li di governo episcopale e l’applicazione delle norme tridentine fu piu sollecito che in Francia, dove solo nel cor­ so del Seicento si sviluppò l’azione dell’episcopato secon­ do modelli di «riforma pastorale» che si possono ricon­ durre al modello di san Carlo Borromeo9. M a i problemi che dovettero essere affrontati furono assai diversi da Pae­ se a Paese: in Spagna e in Portogallo la dissidenza dottri­ nale nel senso della Riforma fu rara, mentre fu molto gra­ ve il problema dell’uniformazione religiosa in presenza di minoranze ebraiche e musulmane. Le visite diocesane fu­ rono dedicate in pari misura al controllo della pratica cat­ tolica e all’individuazione dei «giudaizzanti», cioè dei con­ vertiti a forza che tornavano all’antica fede. L ’imposizio­

ne di rituali e comportamenti uniformi e il divieto di con­ tinuare a praticare costumi tradizionali (per esempio nei riti matrimoniali) fu all’origine di lunghi contrasti; in Spa­ gna, ad esempio, fece esplodere la reazione di comunità di moriscos. Negli Stati italiani le situazioni furono mol­ to diverse da luogo a luogo, ma in generale si può dire che in Italia il dissenso dottrinale fu un problema piu presen­ te, anche se non raggiunse mai i caratteri che conobbe la Francia durante le guerre di religione. La fine delle guer­ re d’Italia e il saldo predominio spagnolo nel segno del­ l’unità cattolica bloccarono lo sviluppo dei nuclei di dis­ senso, dove in maniera piu morbida altrove con l’elimi­ nazione fisica di singoli e di intere comunità. Processi ed esecuzioni stroncarono la comunità riformata a Faenza, una vera e propria guerra portò alla distruzione delle co­ munità valdesi di Calabria e all’eliminazione violenta dei suoi membri; in ambedue i casi le autorità ecclesiastiche e quelle statali operarono di concerto nella fase della re­ pressione. In seguito, però, spettò al governo diocesano e all’Inquisizione sorvegliare le aree sospette e impiantare le forme tridentine al posto di quelle sradicate10. Nel mu­ tato clima, l’azione capillare dei tribunali dell’Inquisizio­ ne si associò all’opera di restauro e rafforzamento delle istituzioni parrocchiali e diocesane, approdando alla for­ mazione di una rete capillare di controllo e di indottrina­ mento. I registri parrocchiali permisero di verificare le eventuali inadempienze agli obblighi sacramentali (la con­ fessione e comunione annuale, il battesimo degli infanti). Le differenze furono molte. Altro fu il caso delle campa­ gne dell’Italia meridionale, dove la rete parrocchiale tridentina ebbe scarsa efficacia per la presenza della tradi­ zionale istituzione delle «chiese ricettizie»11, mentre vi

9Cfr. p . b r o u t i n , La réforme pastorale en France au x v i f siècle: recherche sur la tradition pastorale après le concile de Trente, Paris 1956.

11 La chiesa ricettizia era dotata dalle famiglie dominanti della comunità, che vi collocavano come sacerdoti i propri membri e ne decidevano nomina e

10 Per Faenza, si veda F . l a n z o n i , La Contronforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza 1925; sulla lunga vicenda dei Valdesi di Calabria, cfr. ora l’im­ portante ricerca di p. s c a r a m e l l a , L ’Inquisizione romana e i Valdesi d i Calabrìa (15 5 4 -17 0 3 ), Napoli 1999.

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dominarono gli ordini religiosi e le loro iniziative devo­ zionali; altro fu quello dell’Italia centrale e di quella pa­ dana. Secondo alcuni, il cattolicesimo tridentino si pre­ sentò allora con una veste nuova e impose una forte mo­ difica al cristianesimo tradizionale delle campagne; se­ condo altri, si trattò di una vera e propria avanzata mis­ sionaria in terre vergini aU’interno dell’Europa, dove il cristianesimo non era mai penetrato e dove sopravviveva una religione folklorica dalle ascendenze pagane; quest’ultima tesi, cara a storici cattolici, permette di soste­ nere una visione trionfalistica di un cristianesimo che evangelizza progressivamente aree nuove e popolazioni prima trascurate, in una marcia storica che non conosce arresti o cambiamenti di rotta. La realtà fu certamente piu complicata, non solo in Europa ma anche nei mondi extra-europei, dove il confronto con le altre religioni im­ pose selezioni, adattamenti e modifiche che cambiarono di volta in volta l ’aspetto del cattolicesimo tridentino. La storia dell’applicazione del Tridentino è stata studia­ ta soprattutto attraverso una fonte: gli atti di visita delle dio­ cesi. Si tratta di documenti conservati non solo per il mon­ do cattolico ma anche per quello protestante. Tuttavia, l’in­ terrogazione di queste fonti si è sviluppata in maniera piut­ tosto unilaterale, riguardando prevalentemente l’area cat­ tolica e l’età tridentina, alla luce dell’idea che esista una rifor­ ma tridentina e che il suo tratto dominante sia la pastoralità. Il carattere ripetitivo e tendenzialmente uniforme dei regi­ stri di visita ha reso possibile l’avvio di repertori e regesti e di letture comparative dei dati12. Naturalmente, il problema rimozione (cfr. G. de rosa , Per una storia della parrocchia nel Mezzogiorno, id ., Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari 1978, pp. 21-46).

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12 Molto progredita la ricerca per la Francia, dove la concentrazione delle fonti ecclesiastiche in archivi di Stato ha reso possibile un Re'pertoire des visites pastorales de la France, a cura di D. Julia e M. Venard, I‘ serie, Paris 1977-85; si veda anche m . froeschlé-chopard, Atlas de la Réforme pastorale en France de 1550 à 179 0 . Les évèques en visites dans les diocèses, Paris 1986. In Germania, l’impresa ha proceduto con maggiori difficoltà e con diverso impianto: cfr. Repertorium der Kirchenvisitationsakten des 16 . und 1 7. Jahrhunderts aus Archiven der Bundesrepublik Deutschland, a cura di E. W. Zeeden, P. Th. Lang e altri, Stutt-

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principale è non fermarsi alle informazioni registrate come se si trattasse di una riproduzione esatta della realtà, ma cer­ care di capire su quali oggetti si posi lo sguardo del visitato­ re ecclesiastico e perché13. E un fatto appare ormai eviden­ te: lo sguardo del vescovo, nella prima fase più vicina al con­ cilio, si concentrò in genere soprattutto sulla parte ecclesia­ stica della realtà, il clero, la sua preparazione, gli arredi, le chiese. Intanto il clero parrocchiale, sulla scia dell’impulso dall’alto, mutava cultura, si preparava agli esami per otte­ nere i benefici o per superare le verifiche in occasione delle visite vescovili e impiegava sistematicamente gli strumenti di registrazione e controllo dei registri parrocchiali, talvol­ ta commisti alle registrazioni diaristiche e cronachistiche del­ le realtà locali14. M a la realtà dell’incontro tra il modello uniformante della religione ufficiale e le pratiche e i rituali della vita delle comunità d’antico regime è solo in minima parte rivelata dagli atti di visita: attente ricerche hanno sve­ lato la ricchezza delle pratiche religiose e la loro importan­ za per decifrare i conflitti di potere locali cosi come s’in­ scrivevano nel «consumo del sacro»15. gart 1982 sgg. Pili dispersa la situazione italiana, dove, soprattutto per impulso di Gabriele De Rosa, si è seguita la via della riproduzione integrale delle fonti o della loro piu o meno ampia regestazione. Si hanno cosi a stampa, in particola­ re, le visite di Giovan Matteo Giberti (Riforma pretridentina della diocesi di Ve­ rona, a cura di A. Fasani, Verona-Vicenza 1989) e molte altre dall’età medieva­ le all’Ottocento, raccolte nel Thesaurus Ecclesiarum Italiae, a cura di E. Massa e G. De Rosa, Roma 1966 sgg. Ma sono state avviate anche altre iniziative e si avanza sempre piu la pratica dell’informatizzazione dei dati: per un confronto di metodo cfr. Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d ’ Europa :xv-xvm secolo, a cura di C. Nubolae A. Turchini, Bologna 1999. Ancor piti dispersa tra diversi studi e iniziative è la situazione della ricerca sulle visite per la Spagna e il Portogallo: osservazioni importanti a questo proposito in A. M. hespanha, Da «iustitia» ά «disciplina» : textos, poder e politica no antigo regime, Coimbra 1989. 15 Cfr. d. baratti, L o sguardo d el vescovo. Visitatori e popolo in una pieve svizzera della diocesi di Como: Agno, x v i -x i x secolo, Cornano 1989. 14 Alcuni esempi di questa commistione si trovano soprattutto nella fase iniziale: cfr. i diari di d . tarilli , Notizie dal Cinquecento, a cura di D. Petti­ ni e T. Petrini, Locamo 1993, e di G. magni, I l diario d el Pievano Girolamo Magni. Vita, devozione e arte sulla montagna pistoiese nel Cinquecento, a cura di F. Falletti, Pisa 1999. ls E questa la proposta isolata e originale fatta da A. torre, I l consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien Regime, Venezia

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CAPITOLO OTTAVO

Anche nel caso delle visite pastorali fu decisiva l’as­ sunzione da parte del papato del compito di mandare a effetto i decreti tridentini. Come abbiamo visto dalle di­ scussioni conciliari, la soluzione data alla questione del diritto divino dell’obbligo di residenza e a quella degli impedimenti all’esercizio di quell’obbligo aveva lasciato i vescovi in una situazione di debolezza di fronte al fe ­ nomeno delle esenzioni dall’autorità dell’ordinario: gran parte della realtà diocesana sfuggiva alla loro giurisdizio­ ne, dai potenti capitoli canonicali agli ordini religiosi. Le soluzioni a cui si ricorse consistettero nel cercare aiuto nei poteri superiori, quello del papa o quello del sovrano temporale, per ottenere la riduzione a norma delle strut­ ture ecclesiastiche locali. I legami con le monarchie na­ zionali si fecero cosi ancora piu stretti. Nel rapporto con la Santa Sede, i vescovi ottennero di volta in volta il ti­ tolo di «delegati della Sede apostolica», grazie al quale poterono superare le difficoltà e le resistenze frapposte dagli esenti. L ’altro mezzo impiegato dal papato per l’at­ tuazione del concilio fu quello di nominare dei visitatori «apostolici», cioè inviati con poteri straordinari da R o­ ma. Le visite apostoliche furono impiegate sistematicamente durante il pontificato di Gregorio X III. La storia del cattolicesimo tridentino, proprio perché, per certi aspetti, è storia di lunga e lunghissima durata, rientra solo in minima parte nell’alone dell’epoca del concilio. La sistemazione dogmatica e disciplinare che allora fu messa in piedi rispose alle necessità del con­ fronto-scontro con le chiese e le tendenze della Riforma, elaborando un universo dottrinale che forni lo strumen­ to per definire l’identità del cattolicesimo moderno; ma soprattutto ridisegnò il profilo sociale dell’ecclesiastico come membro di un corpo che si distingueva dagli altri per l’abito e per la severità obbligatoria dei costumi ed era in grado di opporsi all’occorrenza ai poteri statali. A 1995. Cfr. ora, per la Sicilia, L. scalisi, A i piedi dell’altare. Politica e conflitto religioso nella Sicilia d ’età moderna, Roma 2001.

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lui fu affidato il compito di garantirsi il consenso con la presenza capillare e quotidiana nella vita del popolo cri­ stiano: un popolo composto ormai da «fedeli», laici le­ gati cioè dall’identità di fede e dall’obbedienza al go­ verno ecclesiastico. Modelli e idee dell’elaborazione con­ ciliare vera e propria erano destinati a riaffacciarsi nel­ la storia moderna della Chiesa cattolica con accentua­ zioni diverse a seconda dei contesti e dei problemi: nel­ l’età dell’assolutismo illuminato, ad esempio, la crisi della penetrazione romana attraverso gli ordini religiosi e l ’in­ tervento in materia ecclesiastica dei poteri statali, come pure il prevalere di un’idea di religione e di devozione ricondotte entro i limiti del ragionevole, portarono non solo allo scioglimento della Compagnia di Gesù (1774) ma anche al riemergere della figura del vescovo come ma­ gistrato preposto al governo dei popoli. Quanto all’Italia, l’età del concilio in senso proprio si chiuse sostanzialmente entro i primi decenni del x v i i se­ colo quando, scomparsi gli ultimi testimoni ed eredi di­ retti della fase conciliare vera e propria, si esaurirono an­ che tra le minoranze di visionari, mistici e dissenzienti gli ultimi rivoli dell’attesa di un «vero» concilio cristia­ no capace di portare la pace religiosa. Si tratta di un’at­ tesa e di un sentimento che rinviano alla durata storica dell’idea di concilio, che - come per altre rappresenta­ zioni e altre parole cariche di valori simbolici (per esem­ pio, quella di Crociata) - furono molto piu vasti e inde­ terminati dell’episodio storico concreto del Concilio di Trento. Su questo, intanto, con la stesura della Istoria del Sarpi e la sua pubblicazione a Londra da parte del­ l’esule Marcantonio de Dominis, si apriva l ’impresa del­ la conoscenza storica.

I SA CR AM EN TI TRIDEN TINI E I R ITU A LI SOCIALI

Capitolo nono I sacramenti tridentini e i rituali sociali

G li storici - anche e specialmente quelli della Chiesa e della vita religiosa - si sono ormai abituati a considerare il tempo come una variabile a piu dimensioni. Ci sono ac­ celerazioni e ritardi nel cambiamento; si verificano ritor­ ni di attualità di forme antiche che si credevano scom­ parse. E c’è soprattutto pluralità di tempi. Un conto è il tempo breve delle decisioni dei poteri, un altro è il modo in cui il ritmo della vita sociale le accoglie e interpreta. A ciò si deve aggiungere il fatto che, in una idea cristiana della storia della Chiesa come degradazione e deviazione dalla forma perfetta delle origini, le innovazioni del xv i secolo furono concepite e presentate come restaurazione della «form a» originaria, cioè come ritorno all’ antico. Questo fu quello che fecero Lutero, Calvino e gli altri riformatori e questo fecero anche le autorità ecclesiasti­ che del mondo cattolico. La legittimazione del nuovo con­ sistette per lo piu nel presentarlo come destinato a sosti­ tuire un «moderno» negativo per tornare alle origini apo­ stoliche della Chiesa e ai suoi fondamenti scritturali. Ma il processo di adattamento e di modifica delle istituzioni e delle pratiche fu quello che determinò il significato sto­ rico delle definizioni dottrinali e delle normative elabo­ rate da riformatori d ’ogni tipo. Uno studio comparato del­ le istituzioni e dei rituali è il solo che può illuminare il vol­ to reale dei mutamenti che allora segnarono la storia del cristianesimo occidentale. Solo di recente anche gli stori­ ci della Riforma protestante hanno avviato ricerche su co­ me le idee dei riformatori fecero lentamente i conti con

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le resistenze delle tradizioni e impiantarono nei rituali le novità delle loro proposte, modificando i riti del battesi­ mo, della comunione, del matrimonio, della confessione e cosi via1. Sul piano della comparazione storica, la storia dell’attività svolta dalle chiese per pacificare la società ha offerto un buon punto di vista per verificare in che mo­ do le riforme del Cinquecento modificarono la «tradizio­ ne morale» delle popolazioni2. Considerato sotto questo angolo visuale, il modello tridentino appare segnato da una riduzione della tradizionale sociabilità cristiana, espressa dalle confraternite, a vantaggio dell’affermazio­ ne dell’autorità gerarchica del corpo ecclesiastico. La que­ stione del conflitto tra vescovi tridentini e confraternite occupò molto spazio nella vita sociale dell’epoca; il mo­ dello tridentino espresso da san Carlo Borromeo portò al­ l ’estremo l ’ostilità verso le forme di associazione oriz­ zontale del popolo, che furono messe sotto controllo o ad­ dirittura eliminate a vantaggio di nuove confraternite destinate a svolgere solo un compito sussidiario alle di­ pendenze del clero (come le Compagnie del Santissimo Sacramento). Ma il mutamento può essere individuato an­ che nella semplificazione estrema del rito della pace al­ l’interno della messa, che ne abolì gli aspetti di pacifica­ zione attiva tra i fedeli, oppure nelle trasformazioni che subì l’arredo ecclesiastico che simboleggiava la pace e che veniva offerto al bacio dei fedeli3. Anche in Italia, dopo il Concilio di Trento, la perce­ zione delle novità introdotte nella vita sociale venne con­ siderata come restaurazione dell’antico. Naturalmente, tra la «forma primitiva» e la sua reformatìo c’era stata una 1 Cfr. s. karant -nunn, The Reformation o f Ritual. A n Interpretation o f Early Modem Germany, London - New York 1997. 2Cfr. j. bossy , Peace in thè Post-Reformation, Cambridge 1998. } Osservazioni molto interessanti sono contenute nel saggio di M. collareta , «Torma Tidei». I l significato dello stile negli arredi liturgici, in Ori e ar­ genti dei santi. I l tesòro d el Duomo di Trento, a cura di E. Castelnuovo, Tren­ to 19 9 1, pp. 21-33.

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decadenza, una de-formatio, che era durata fino all’arri­ vo dei vescovi tridentini. Tutte le fonti interne al mon­ do cattolico parlano in questi termini: «L i popoli vive­ vano senza legge, - scriveva Ambrogio Monico, curato in Valsassina, che ricordava come, nell’ archidiocesi di Milano, prima dell’arrivo di Carlo Borromeo, i preti ave­ vano moglie e figli, - i sacramenti non erano frequenta­ ti e molti restavano di confessarsi e comunicarsi», i pre­ ti «non sapevano la forma dell’assoluzione sacramentale della confessione né si sapeva se ci fossero casi riservati al vescovo, alla sedia apostolica, ma assolvevano d ’ogni cosa». E ancora: i preti non sapevano predicare, la gen­ te non sapeva recitare Pater, Ave, Credo, né farsi il segno della croce: «N on vi era quasi vestigio di disciplina né legge cristiana»4. In quel tempo in cui non c’era traccia di «disciplina cristiana», prima dell’avvento di Carlo Bor­ romeo, ciò che il curato della Valsassina ricordava era che la gente non sapeva recitare le preghiere o farsi il segno della croce e che non si confessava e comunicava, o me­ glio che «i sacramenti non erano frequentati». La fre­ quenza ai sacramenti indicava, per il testimone, il ritor­ no a un fervore antico e quel fervore trovava la sua mi­ sura proprio nel numero, nell’intensità quantitativamente misurabile dell’accostarsi ai sacramenti. U n’ altra diffe­ renza per lui notevole, come si è visto, risiedeva nel fat­ to che i preti prima avevano donne e figli e ora non piu. E la testimonianza di un uomo che registrò il cam­ biamento osservando le pratiche relative ai sacramenti: confessione e comunione, ordine sacro e matrimonio. Proviamo a seguire questa traccia per capire alcuni cam­ biamenti che, intorno al concilio e anche per suo effet­ to, si verificarono nella vita della gente. Sul sacramento dell’eucarestia, la dottrina messa a 4 Biblioteca Ambrosiana, ms G 29 ini., cc. 114 D -1151-, citato in A. tur ­ chini, I l governo della festa nella Milano spagnola di Carlo Borromeo , in A. CAscetta e R. carpani, La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Mila­ no in età spagnola, Milano 1995, pp. 509-44.

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punto dal Concilio di Trento fu preceduta e seguita da polemiche e dissensi molto numerosi, che possono esse­ re raccolti in due grandi filoni: da un lato, il dissenso di chi non accettava la dottrina della transustanziazione e seguiva o quella luterana della consustanziazione o quel­ la dei «sacramentari» zwingliani e calvinisti; dall’altro, le resistenze e le polemiche di coloro che non accettava­ no l’uso di comunicarsi spesso. Tutte e due queste ten­ denze richiamarono l ’attenzione dell’Inquisizione, anche se in misura molto diversa: naturalmente la negazione esplicita della presenza di Cristo, i dubbi e gli argomen­ ti popolari contro la possibilità che si potesse mangiare un Dio «di pasta» attirarono piu decisamente le misure di polizia. M a anche le tesi di chi sosteneva che ci si po­ tesse accostare continuamente all’eucarestia suscitarono molti sospetti e dettero luogo a interventi inquisitoriali. E tuttavia, in questo caso le nuove tendenze religiose precedettero i deliberati tridentini: rispetto a una devo­ zione eucaristica dominata dal senso del rispetto e del ti­ more, che si era preoccupata di limitare anche il contat­ to visivo5, la devozione documentata dal trattatello dell 'Imitazione di Cristo segnò il passaggio a un ritmo intensificato di frequenza eucaristica. G ià prima della convocazione del concilio furono numerosi i gruppi de­ voti che si avviarono su questa strada. In Italia il misti­ co e visionario Battista da Crema, domenicano, ispirato­ re del gruppo che diede vita all’ordine dei Barnabiti, co­ minciò a sostenere che si poteva seguire il modello della «primitiva giesia, quando tutti li christiani ogni giorno se communicavano»6. I Barnabiti si dettero costituzioni in cui la comunione era prescritta per ogni giorno festi5 Cfr. M. rubin , Corpus Còristi. The Eucharistin Late Medieval Culture, Cam­ bridge 1991, passim-, ihid., p. 73, si parla del valore sostitutivo, quasi sacramen­ tale, dell’elevazione, in una cultura che conosce solo la comunione annuale. 6battista da crema , Via de aperta verità, per Bastiano Vicentino, Vene­ zia 1532 (ma la prima edizione è del 1523), c. 49rv. Cfr. la fondamentale ri­ cerca di E. bonora, I conflitti della Controriforma. Santità e obbedienza nell’e­ sperienza religiosa dei primi Barnabiti, Firenze 1998.

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vo. Intanto, fuori d ’Italia, a Manresa, anche il giovane Ifiigo di Loyola si comunicava ogni giorno festivo7. Po­ chi anni dopo, il chierico Tullio Crispoldi da Rieti, de­ scrivendo le pratiche devote incoraggiate da lui e dal suo circolo di « spirituali», raccontò che a Verona c’erano per­ sone che «si comunicano ogni domenica», pur non es­ sendo sacerdoti, e difese questa pratica rifacendosi an­ che lui all’argomento del fervore della chiesa primitiva: «noi nel principio tutti ogni di ne comunicavamo: da poi raffreddandosi la divotione et lo amore verso Dio ne co­ municavamo solo il di delle dominiche: di poi venne la cosa si rara, che già appena si ottiene che si comunichi al­ meno una volta lo anno»8. Da diversi anni, a Verona, si stava alimentando una devozione all’eucarestia basata su un uso frequente, almeno domenicale. Ora, noi potrem­ mo considerarla come un aspetto marginale, una delle tante complicazioni della vita religiosa e delle idee cor­ renti prima del Concilio di Trento, quando, come scris­ se il cardinale Giovanni Morone per difendersi dall’ac­ cusa di eresia, «le cose della religione in Italia andavano con poca regola, perché non era istituito l’ufficio della santa Inquisitione». M a il Morone, che doveva giustifi­ carsi per aver letto, anzi «divorato con grande avidità», quel libretto D el beneficio di Cristo che è stato conside­ rato come il manifesto della Riforma in Italia, sostenne che quel libro gli era piaciuto proprio perché «parlava si bene del santissimo sacramento» che non poteva essere eretico9. E difatti il trattatello D el beneficio di Cristo de­ dica una buona parte del capitolo vi a difendere l’uso fre­ quente della comunione, «divinissimo sacramento»10*. 7Cfr. j. o’malley , TheFirst Jesuits, Cambridge (Mass.) - London 1993, p. 152. 8Alcune intenogatìoni delle cose della fede et del stato opero vivere de Christiani, per Tullio Crispoldo da Riete, per Antonio da Portese, Verona 1540, c. E IV r. ’ benedetto da mantova , D el beneficio di Cristo, con le versioni del seco­ lo x v i, documenti e testimonianze, a cura di S. Caponetto, Firenze-Chicago 1972, PP· 453-5510lbid., pp. 60-6 r.

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Larga parte del capitolo è tratta dall’Institutio di Calvi­ no: la comunione è intesa come mezzo per consolare le coscienze afflitte e come vincolo di unità tra i cristiani, membra di uno stesso corpo. Si ha qui la prova che - con la divergenza fondamentale sulla questione della presen­ za reale o meno di Cristo nell’eucarestia - si verificava una possibile convergenza nell’uso del sacramento come mezzo per consolare le coscienze afflitte. L ’Inquisizione romana dovette occuparsi molto del libriccino e dei suoi lettori, ma dovette occuparsi anche della pratica della comunione frequente, che intanto ave­ va trovato nella Compagnia di Gesù dei ferventi soste­ nitori11. Fu nel 15 5 4 , a Bologna: il vescovo Giovanni Campeggi sospese due sacerdoti che diffondevano la pra­ tica della comunione frequente, entrando cosi in conflit­ to con alcuni gruppi cittadini e in particolare con i G e ­ suiti, che si avvalevano molto di quella pratica. Il dome­ nicano Girolamo Muzzarelli dovette svolgere un’inchiesta per conto dell’Inquisizione romana e lo stesso litigo di Loyola fu chiamato a occuparsi della questione12, che non si chiuse li. M a di tutto il complesso problema della co­ munione frequente quel che si deve qui rilevare è il fat­ to che, ben prima del Concilio di Trento, la frequenza al sacramento della comunione conobbe un’intensificazio­ ne: non solo gli ecclesiastici, non solo i membri di con­ fraternite devote o i gruppi di devoti in cerca di perfe­ zione, ma anche i comuni cristiani si abituarono alla ri­ petizione frequente del sacramento. Se la regola ufficiale parlava dell’obbligo annuale, la pratica concreta inco­ raggiata da guide spirituali a stampa e da direttori di co­ scienza poteva essere quella di comunioni fatte anche piu volte per settimana. Le resistenze non mancarono: i di11 Cfr. p. dudon, Le «libellus» du P. Bobadilla sur la Communìon fréquente et quotidienne, in «Archivum historicum Societatis Jesu», II (1933), pp. 258-79. 12 Su questa vicenda e sui suoi protagonisti, si veda la ricchissima ricerca di G. zarri, I l carteggio tra don Leone Bartolini e un gruppo di gentildonne bo­ lognesi negli anni d el Concilio di Trento (15 4 5 -15 6 5 ), in «Archivio italiano per la storia della pietà», VII (1976), pp. 337-885.

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fensori della tradizione trovavano sconveniente, se non addirittura di sapore quasi ereticale, una tale confidenza nei rapporti con Dio. M a di fatto tali resistenze non im­ pedirono il diffondersi delle nuove forme di pratica sa­ cramentale, che trovarono un impulso indiretto anche nell’organizzazione di confraternite destinate dal corpo ecclesiastico a educare i laici alla devozione eucaristica13. La devozione promossa dall’ alto non significava neces­ sariamente un vero e proprio favore alla pratica del con­ sumo frequente dell’eucarestia; l’insistenza sul mistero e sui rischi di sacrilegio portavano piuttosto in direzione opposta. Anche la forte distinzione tra corpo ecclesiasti­ co e laici, accolta dal Concilio tridentino, tendeva a di­ varicare l’uso del sacramento; e tuttavia il decreto tridentino fini con l ’accogliere un sommesso invito alla fre­ quenza che corrispondeva a una tendenza piu generale della devozione14. Per il momento, fu soprattutto nel mondo dei monasteri femminili e in quello delle confra­ ternite che si fece strada la pratica devota di accostarsi spesso all’eucarestia. Sarebbe lungo elencare le nuove scansioni del tempo collegate con questo sacramento: gli appuntamenti furono fissati secondo il principio della ri­ tualità ritmata da determinati giorni della settimana o del mese, da devozioni particolari e da feste sacre di pecu­ liare importanza. Ne consegui l’appannarsi fino quasi a scomparire del ritmo collettivo della pietà eucaristica: al suo posto, emerse invece l’obbedienza ai bisogni indivi­ duali di ascesa spirituale e di perfezionamento devoto. L ’individualizzazione della pratica e la perdita di ogni rit­ mo comunitario risulta evidente dal dilagare del feno­ meno dell’«affettata santità» che aveva, com’è noto, tra i suoi caratteri essenziali proprio la pratica personale in­ 13 Cfr. G. barbiero , L e confraternite del Santissimo Sacramento prima del 1539, Treviso 1949. 14«Ut panem illum supersubstantialem frequenter suscipere possint» (sess. X III, «Canones de Eucharestia», cap. vm, Conciliorum CEcumenicorum De­ creta, a cura di G. Alberigo, G. Dossetti, P.-P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, p. 697).

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tensissima del sacramento dell’eucarestia. Le devote (e i devoti, sia pure in minor numero) che in gran quantità praticarono la comunione frequente, lo fecero sotto la guida di direttori spirituali, spesso in loro compagnia, al­ l’interno di un rapporto a due che appare assai vicino a quello di tipo domestico, di una famiglia spirituale unita da un vincolo di amore sacro (tanto che le autorità ec­ clesiastiche temettero e spesso dimostrarono la presenza di deviazioni affettive in direzione dell’amore profano). In attesa che ricerche piu approfondite verifichino che cosa avvenne esattamente nell’età tridentina a questo proposito, si deve intanto registrare la scomparsa di un carattere fondamentale della ritualità precedente: il rit­ mo, la ritualizzazione come divisione del tempo e di­ stribuzione delle pratiche rituali secondo un ordine. Nel secolo del concilio, il ritmo ordinato cede il posto a una ripetitività e a un consumo del sacro non privi di ansietà e di un qualche affanno. I tempi della vita sacramenta­ le perdono la loro diversa qualità, invadono quelli con­ finanti, si confondono con essi. Il cristiano del M edioe­ vo - è stato detto giustamente - era colui che «riceveva la comunione annuale, digiunava il venerdì e durante la Quaresima, pagava le decime e faceva battezzare i pro­ pri figli»15. La situazione che le fonti descrivono per l’età del concilio è diversa: sembra affiorare allora in modo evidente il risultato di un progressivo individualizzarsi del rapporto col sacramento e di un altrettanto progres­ sivo distaccarsi dei tempi individuali del sacro dal ritmo collettivo dell’ anno liturgico (che invece sembra so­ pravvivere significativamente nell’esperienza della Chie­ sa anglicana, in questo come in molti altri particolari un vero luogo di conservazione di caratteri tradizionali)16. Le devozioni che si sforzarono di ritmare la frequenza 15 c. walker bynum , Holy Feast and Holy Fast: thè Religious Significance o f Food to Medieval Women, Berkeley 1987 [trad. it. Sacro convivio sacro digiuno. Il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, Milano 2001, p. 55]. 16 Cfr. A. hunt , The Lord's Supper in Early Modem England, in «Past and Present», C LX I (1998), pp. 39-83.

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ai sacramenti parlarono sempre meno in termini di ri­ correnze dell’anno liturgico - le «quattro Pasque», pro­ poste come modello alla devozione monastica - e si av­ viarono a ritmi segnati dal tempo calendariale: i primi venerdì del mese, ad esempio. Il punto d ’arrivo di que­ sta tendenza - variamente avversata da ambienti rigori­ sti - fu la pratica sacramentale quotidiana, sulla base di un’idea che fu esplicitata dal gesuita francese Jean Pichon nel Settecento: «Il cibo va preso tutti i giorni e non una volta l ’anno, né una volta al mese, né una volta la settimana, il pane si mangia tutti i giorni. E d è lo stes­ so con l ’Eucarestia»17. Il cibo spirituale si adeguava com­ pletamente ai ritmi della nutrizione materiale; dalla me­ tafora alimentare si era passati alla perfetta sovrapposi­ zione di cibo dello spirito e cibo del corpo. Anche per il sacramento della confessione si ebbe un’ analoga perdita della ritualità ordinata tipica dei se­ coli medievali. Si tratta di un sacramento cruciale nella soluzione del problema fra tutti fondamentale per l ’e­ poca in questione: la giustificazione del peccatore. Da qui la sua importanza. D i fatto, la confessione fu la ri­ sposta cattolica alla Riform a luterana. A l di là delle di­ scussioni teologiche, è fuor di dubbio che alla tesi lute­ rana della giustificazione per fede si rispose nella prati­ ca individuando nella confessione sacramentale la risorsa cattolica per garantire a tutti la salvezza eterna. Lo dis­ se meglio di altri il gesuita Paolo Morigia: «Ogni spe­ ranza consiste nella confessione: la confessione giustifi­ ca l’huomo, et dona la remissione»18. E qualche anno do­ po il Catechismo Tridentino affermò addirittura che la Chiesa aveva sconfitto gli eretici proprio grazie alla con­ 17 Citato in l . chatellier , La religion des pauvres: les missions rurales en Europe et la formation du catholicisme moderne , Paris 1993 [trad. it. La reli­ gione deipoveri, Milano 1994, p. 152]. 18 p. morigia, Opera chiamata stato religioso, et vìa spirituale, stampata in Venetia per Nicolò Bevilacqua trentino 1559, p. 343.

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fessione, una cittadella che aveva respinto validamente ogni attacco19. Ma fra le discussioni tridentine e la pra­ tica effettiva del sacramento non ci fu molta sintonia. A Trento, la questione del sacramento della peniten­ za fu toccata di scorcio, fin dall’inizio, nel decreto De iustificatione, approvato nella sessione V I del 13 gennaio 15 4 7 , dove si parla della penitenza come «seconda tavo­ la» (dopo quella del battesimo) alla quale il cristiano può aggrapparsi dopo il naufragio del peccato. V i si tornò nel 1 5 5 1 , per esaminare le forme della «disciplina» del po­ polo cristiano, sottolineando la funzione giudiziaria e il carattere di tribunale della confessione, di contro all’in­ vito che la propaganda protestante faceva a confessare direttamente la propria ingiustizia a Cristo e a liberare le coscienze dai lacci posti dal governo ecclesiastico. L ’op­ posizione appare con chiarezza nella Dottrina verissima di Urbano Regio: la «dottrina nuova» (e da rifiutare pro­ prio per essere inventata di recente) a proposito della con­ fessione è quella dell’obbligo della confessione annuale stabilita dal canone del Concilio Lateranense IV «omnes utriusque sexus», a cui è associata la riserva dei casi; la dottrina antica - e cioè autentica, evangelica - è quella che consiste nel confessare la propria ingiustizia e nel ri­ correre piangendo ai piedi di Gesù Cristo20. La prima ge­ nera scrupoli per l’obbligo di ricordare tutti i peccati, la seconda rende liberi; inoltre, la distribuzione dei poteri e il sistema delle leggi « sono fatte per legare le conscien­ ze [...]. Sono inventioni che dannano le conscienze di molti»21. Era un conflitto tra due offerte di segno oppo19Catechìsmus ex decreto concila Tridentini ad Parochos, Manutius, Roma 1566, c. 172. 20Dottrina verissima, et bora nuovamente venuta in luce, tolta dal cap. quar­ to a ’ Romani a consolare fermamente le afflitte conscienze dal peso de i peccati gravato, autore U. R. 1347, pp. 3 sgg. Sul testo e sulla sua efficacia nel «far

penetrare il lettore nel cuore stesso della dottrina luterana della giustifica­ zione» cfr. s. cavazza , Libri in volgare e propaganda eterodossa: Venezia 154 315 4 7 , in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Modena 1987, pp. 9-28, in particolare le pp. 22-23. 21 Dottrina verissima cit., p. n .

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sto, rivolte a un mondo dove il problema delle coscienze afflitte, minacciate dalla disperazione, era vivissimo. La controversia apertasi allora è rimasta a lungo all’o­ rizzonte dell’età moderna. Insieme all’ Inquisizione, an­ che il tribunale della confessione è stato il piu analizzato e discusso in sede storica. Indagato dalla storiografia che ha cercato di capire lo spessore di sentimenti e di bisogni umani che si cela dietro le formule teologiche, è stato con­ siderato o come il luogo della consolazione degli afflitti e piangenti peccatori22 o come lo strumento dell’eteronomia delle coscienze in un paese cattolico. Il punto di vista del­ la storiografia liberale, espresso nella vecchia opera di Henry Charles Lea dedicata alla storia della confessione auricolare e delle indulgenze, è stato di recente ribadito da piu parti23. Il concilio, nel decreto del 25 novembre 1 5 5 1 , confermò quanto era stato stabilito dal Lateranense IV (canone «Omnes utriusque sexus») a proposito dell’obbligo di confessione annuale al sacerdote, sottoli­ neandone il carattere di atto giudiziario (actus iudicialis) di diritto divino24. Rispetto al decreto del 1 2 1 5 si omise l’indicazione dell’obbligo di confessarsi al proprio sacer­ dote, riconoscendo la realtà dell’esercizio diffuso del mi­ 22 Lo storico cattolico Jean Delumeau ha studiato il senso del peccato vi­ sto come fenomeno di «mentalità collettiva» (Le péché et la peur, Paris 1983 [trad. it. I l peccato e la paura. L ’ idea di colpa in Occidente dal x n i a l x v m se­ colo, Bologna 1987]) a cui avrebbero risposto «il discorso rassicurante della Chiesa romana» con la confessione e la Riforma con la giustificazione per fe­ de (j. delumeau , L ’aveu et le pardon. Les difficultés de la confession, Paris 1990 [trad. it. La confessione e i l perdono. L e difficoltà della confessione dal x m al x v m secolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 40]). Ma si vedano i dati sulla prati­ ca della confessione riportati da w. d . m yer s , "Poor, Sinning Folk” . Confes­ sion and Conscience in Counter-Reformation Gertnany, Ithaca-London 1996. 23 H. ch . lea , A History o f Auricolar Confession and Indulgences in thè L a­ tin Church, Philadelphia 1896; e si veda, oltre al fondamentale lavoro di th . n . tentler , Sin and Confession on thè Ève ofthe Reformatìon, Princeton 1977, l’acuto e suggestivo volume di h . d. kittsteiner , Die Entstehung des modernen Gewijlen, Frankfurt am Main - Leipzig 1995. 24 Cfr. in A. duval , Oes sacrements au Concile de Trente, Paris 1985, pp. 209 sgg., la discussione della tesi di P. Angelo Amato (I pronunciamenti tri­ dentini sulla necessità della confessione sacramentale nei canoni 6-9 della sessio­ ne X V (2 5 nov. 1 5 5 1 ) . Saggio di ermeneutica conciliare, Roma 1975) secondo cui lo ìus dìvinum si riferisce all’integrità della confessione.

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nistero della confessione da parte degli ordini religiosi che aveva sovvertito l’ordinamento territoriale della parroc­ chia25. Non si rinunciò, tuttavia, a mantenere e rafforza­ re l’uso della confessione come strumento di governo dei comportamenti o, come si disse allora, di «politia exter­ na», di «disciplina del popolo cristiano»: a tal fine fu pre­ vista la riserva dei casi26. Questo capitolo del documento conciliare fu oggetto di controversie. Il vescovo di Cadi­ ce Martin Pérez de Ayala raccontò nella sua autobiogra­ fia qualche dettaglio dell’animata discussione e degli in­ trecci di potere grazie ai quali era stato inserito nel de­ creto l’inciso sul potere di riserva, da lui interpretato come strumento di edificazione dei fedeli27. M a furono gli svi­ luppi successivi a mettere a confronto un’idea della con­ fessione come consolazione delle coscienze individuali con quella di chi la concepiva come mezzo di governo vesco­ vile dei comportamenti collettivi. L ’imposizione di «casi 25 Cfr. le precise indicazioni di p. prodi, Una storia della giustizia : dal plu­ ralismo dei fori a l moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000, pp. 286-87. Ma tutta l’opera è importante a questo proposito. 26«Magnopere vero ad christiani populi disciplinam pertinere sanctissimis patribus nostris visum est, ut atrociora quaedam et graviora crimina non a quibusvis, sed a summis dumtaxat sacerdotibus absolverentur, unde meri­ to pontifices maximi prò suprema potestate sibi in ecclesia universa tradita causas aliquas criminum graviores suo potuerunt peculiari iudicio reservare. Nec dubitandum est... quin hoc idem episcopis omnibus in sua cuique dioecesi “in aedificationem” tamen, “ non in destructionem” liceat prò illis in subditos tradita supra reliquos inferiores sacerdotes auctoritate» (cfr. De casuum reservatione, cap. vii della doctrina approvata nella sessione X IV : Conciliorum CEcumenicorum Decreta, p. 708). 27« E 1 obispo de Modena y yo la compusimos, y mudaron cierta cosa de sustancia el la doctrina acerca de los casos reservados, contra la voluntad de los diputados, y era yo uno de ellos y el que habia insistido en que se pusiese; es a saber: que el papa podria reservar casos ad aedificationem·, y, ofendido de este atrevimiento y tirania, cuando vine a tratarse la sesiòn de Ordine, que no se hizo, habiéndome senalado por diputado, no lo quise aceptar»; la questio­ ne era importante, per Ayala, che ne avverti l’imperatore attraverso il Vargas «de aquella clàusula y cuàn perniciosa era y cuàn escandalosa seria a los herejes» (l’autobiografia è stata edita da M. Serrano y Sanz, in NBAE, II, Ma­ drid s. d. [1927], pp. 2 11-38; qui si cita da M. pérez de ayala , Discurso de la vida, p . gonzalez de mendoza, E l Concilio de Trento, Buenos Aires 1947, p. 43. Cfr. h . jedin , Die Autobiographie des Don Martin Pérez de Ayala, in Kirche des Glaubens Kirche der Geschichte, Freiburg 1966, II, pp. 282-332).

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riservati», cioè di clausole restrittive sull’assoluzione di specifici peccati particolarmente scandalosi o socialmen­ te pericolosi, fu lo strumento messo a-disposizione per il governo dei popoli. La storia dei tentativi di far funzio­ nare questo meccanismo riempie le vicende del governo ecclesiastico dei Paesi cattolici dopo il concilio. Fu cosi che nelle visite diocesane dei vescovi portoghesi l’inchie­ sta sui peccati assunse una grande importanza28. M a an­ cor meglio nota è la strategia adottata da san Carlo Bor­ romeo, che nell’uso della riserva dei casi trovò uno dei suoi strumenti preferiti29. Che le intenzioni dei vescovi tridentini piu attenti ai loro doveri di governo delle coscienze fossero quelle di garantirsi pienezza di poteri nell’esercizio della confes­ sione, lo si vide nelle solenni affermazioni del sesto ca­ none «de reformatione circa matrimonium», approvato nella sessione X X I V d e lP n novembre 15 6 3. V i si leg­ ge che i vescovi possono assolvere i fedeli loro sudditi (direttamente o tramite un loro vicario) da qualsiasi pec­ cato occulto, anche se riservato alla Sede apostolica, e vi si aggiunge che questo principio è valido anche nei casi di eresia, sia pure con un’importante limitazione: che gli eretici possono essere assolti solo dal vescovo in perso­ na, senza possibilità di delega30. A questo punto tenne­ ro in particolar modo i vescovi spagnoli: come annotò Pedro Gonzàlez de Mendoza, i tempi richiedevano l’u­ so della misericordia evangelica dei vescovi piuttosto che quello del potere giudiziario degli inquisitori31. E da li 28 Cfr. carvalho e j. p. paiva , Les visites pastorales dans la diocèse de Coimbre aux x v i f et x v n f siècles. Recherches en court, in ha rechercbe en bistoire du Portugal, Paris 1989, pp. 49-55. 29 Cfr. w . de boer , The Conquest o f thè Soul. Confession, Discipline, and Public Order in Counter-Reformation Milan, Leiden 2001. « Idem et in haeresis crimine, in eodem foro conscientiae, eis tantum, non eorum vicariis, sit permissum» (Concìlìorum (ìicumemcorum Decreta, p. 764). 31 «Del sexto canon se quitò lo de la Inquisiciòn, porque en estos tiempos es grande inconveniente que los obispos non puedan absolver los herejes que vinieren a sus pies arrepentidos de su yerro, pidiendo misericordia, pues el inquisidor ordinario y el mas legitimo pastor de las almas es el obispo» (m .

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nacquero contrasti non secondari nell’amministrazione della giustizia ecclesiastica. M a l’orizzonte delle risposte tridentine e delle compli­ cazioni che nacquero allora intorno alla confessione è mol­ to complicato e non ancora del tutto esplorato. Si potreb­ be ripercorrere attraverso le varie voci che si levarono nel­ le aule conciliari la serie delle forze attive sul campo nella Chiesa cattolica: vi si raccoglie l’esperienza degli ordini mendicanti, tradizionalmente dediti alla pratica di massa delle confessioni nei cicli di prediche della Quaresima e al­ l’elaborazione di testi di preparazione (confessionali, libri devoti ecc.); quella delle nuove congregazioni e dei nuovi ordini - in particolare, dei Gesuiti, che si fecero sentire con le voci autorevoli di Laynez e di Salmeròn; quella dei vescovi piu attivi e impegnati nel governo pastorale (e qui troviamo i grandi spagnoli, soprattutto Pedro Guerrero ve­ scovo di Granada e Martin Pérez de Ayala vescovo di Ca­ dice, qualche italiano come Girolamo Seripando arcive­ scovo di Salerno, Egidio Foscarari vescovo di Modena e altri ancora). Quella della confessione era una pratica in rapida evoluzione in quegli anni: la novità piu importante consisteva nel controllo che i vescovi o i loro vicari co­ minciavano a esercitare sistematicamente sulla misura in cui i fedeli obbedivano al canone «Omnes utriusque sexus». Era attraverso la limitazione dei privilegi dei re­ golari che i vescovi cercavano di riprendere il controllo sul­ la predicazione e sulla connessa pratica della confessione come momenti essenziali della cura anìmarum. A ll’oriz­ zonte sorgeva intanto una nuova forza, che riduceva i po­ teri dei vescovi: il tribunale dell’Inquisizione, affidato a una nuova alleanza tra antichi partners, Roma da un lato, Domenicani e Francescani dall’altro. Nell’immagine della confessione come tribunale si rifletteva l’ingigantirsi di un vero e proprio tribunale, rivale della confessione, quello dell’Inquisizione. Nel contrasto tradizionale fra episcopapérez de ayala , Discurso de la vida,

Trento cit., p. 144).

p.

gonzàlez de mendoza , E l Concìlio de

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to e grandi ordini, s’inseriva ora una presenza nuova, quel­ la dei Gesuiti, che portavano una propria esperienza in ma­ teria di confessione e che, non solo per questo aspetto, rap­ presentavano una forza carica di futuro. Nella realtà italiana, dove le idee della Riform a ave­ vano trovato largo seguito, la questione assunse talvol­ ta caratteri drammatici. La volontà di sapere da cui la struttura ecclesiastica fu dominata in un momento di gra­ ve pericolo non si fermò davanti alle distinzioni forma­ li fra un tribunale e l’ altro. Il confessore era un giudice: il Concilio di Trento aveva ribadito questa definizione e aveva anche insistito sull’obbligo per i penitenti di de­ scrivere con precisione le loro colpe. Quale occasione mi­ gliore per sapere chi e quanti erano i nemici della Chie­ sa ? D all’idea che la confessione fosse uno strumento per governare la società discese anche l’uso del sacramento come un mezzo per conoscere e perseguire eretici e cri­ minali. Lo fece Paolo IV quando impose che i confesso­ ri interrogassero i penitenti in primo luogo su quel che sapevano in materia di libri e idee eretiche. Il 25 gen­ naio 15 5 9 il cardinale Michele Ghislieri scrisse al gene­ rale dei Francescani una lettera in cui gli si ordinava tas­ sativamente di trasmettere un ordine a tutti i frati con­ cepito dalla «mente di Nostro Signore» (che era allora Paolo IV Carafa). L ’ordine imponeva a tutti i frati che non debano né presumano assolver alcuno che habbi direttamente vel indirettamente, per propria o altrui udita cognitione di qual si voglia persona infetta over suspetta di heresia o che re­ tenga libri prohibiti se prima quella tal persona che sarà venuta per confessarsi non haverà denuntiato iuridicamente alli ministri del Officio dela Santa Inquisitione ciò che sa over ha inteso in preiudicio over periculo della Catholica Fede;

i contravventori « saranno gravemente castigati dal San­ to O fficio». E , per eliminare ogni rischio ma anche per approfittare della vastissima rete di contatti tra i frati e i penitenti, s’imponeva anche che li confessori, si come nel principio delle confessione adiman­ dano a’ penitenti se hanno casi reservati o se sono excomunicati,

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cossi adimandino parimente se conoscano huomo o donna alcuna infetta o sospecta di heresia o far vita men che catholica.

Era un comportamento reso necessario dal fatto che la maggior parte della gente - osservava il Ghislieri - «sti­ mano non esser obbligati di denuntia(re) inimici della fe­ de nostra né doversi confessare per non haver denuntiato, onde da sé noi diriano»32. Si trattò piuttosto, sul terreno della pratica, di moderare con interventi - all’occorrenza anche aspri - la smodata curiosità dei confessori. I rapporti di forza furono fin dall’inizio a favore del­ l’ Inquisizione. Le superiori esigenze della lotta contro gli eretici furono fatte valere con modi duri, senza la­ sciare alcuno spazio ai confessori. Prendiamo ad esem­ pio il caso di chi raccontava al confessore di aver man­ giato carne in giorni proibiti: ebbene, nel 15 5 9 frate Francesco Pincino (o Pinzino), vicario veneto dell’ In ­ quisizione, sostenne che in questo caso i confessori non dovevano chiedersi - o chiedere - se l ’infrazione era na­ ta da convinzioni ereticali o da altri motivi, ma rinviare decisamente il penitente all’Inquisizione. Forse che i giu­ dici criminali davanti a un caso di omicidio aspettavano prima di arrestare il colpevole di aver deciso se aveva uc­ ciso per legittima difesa o per rapina ? Prima lo si arre­ stava e poi si decideva se era da rimandare libero o no33. E ra una questione di potere e i rappresentanti dei po­ teri ecclesiastici si dilettavano di definire le cose in via 32Cfr. A. prosperi, Tribunali della coscienza, Torino 1996, pp. 230-31. 33 «Quanto si apartiene a coloro che ànno mangiato carne non si habbia a fare per li confessori alcuna distincione, non essendo loro giudici di questo [...]. Il simigliante si suol fare da e’ giudici secolari, li quali avenga che si possi ucci­ dere un huomo per difendere la propria salute del corpo, nondimeno vogliano et cusi costumano che lo ucciditore nelle loro forze si appresenti, et quando .trova­ no Thomicidio essere fato senza colpa ne’ casi dala lege civile et di natura permessi lo assolvano; cosi ancora faremo noi quando li confitenti faranno la loro ubidienza» (lettera di frate Francesco Pinzino, vicario generale dell’Inquisizione di Portogruaro, al capitano di Pordenone, 9 marzo 1559; cfr. A. prosperi, Tribunali della coscienza cit., pp. 232-33). Il vicario prevedeva la possibilità di denunzie

fatte per iscritto: «Ad essempio del paralitico deono mandare altri per loro fa­ cendo scrivere quello che facesse al proposto dela verità».

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astratta e generale. M a chi si trovava a vivere le stesse questioni dall’ altra parte, nell’incertezza e nel timore, ne faceva ben diversa esperienza. La complicata questione dei rapporti tra peccato e cri­ mine passò allora attraverso l’intreccio inestricabile di con­ fessione e inquisizione. Le esigenze di polizia ecclesiastica poterono fare conto sul passaggio della confessione pro­ prio per la sua importanza nella vita individuale e sociale. Alla confessione si ricorreva come a una tavola di salva­ taggio: la « seconda tavola», dopo quella del battesimo, per salvare il peccatore dal naufragio, come diceva la tradizio­ ne. M a il modo in cui ci si rivolse alla confessione in que­ sta epoca fu caratterizzato da un’intensità e da una fre­ quenza che testimoniano di una concentrazione nuova sul peccato e sulla salvezza individuale, di un senso di ango­ scia davanti alla pervasività del peccato, tanto piu minac­ cioso quanto piu abbandonava la sfera della vita sociale per insinuarsi nelle pieghe piu riposte dell’individuo, nelle pul­ sioni segrete, nelle intenzioni inespresse. Allo scavo inte­ riore per mezzo di esami di coscienza sempre piu complessi e raffinati, i penitenti furono guidati con mano esperta da specialisti dei «casi di coscienza» e da direttori spirituali che si adoperarono nel calmare i morsi degli scrupoli e nelΓ avviare sulla via che dal gradino inferiore dell’afflizione prometteva di condurre a vette ben altrimenti luminose. La confessione fu infatti lo strumento per cancellare le col­ pe ma anche per tendere alla perfezione e acquisire cosi quella certezza della giustificazione che il mondo della Riforma aveva trovato nella sola fede. Come l ’atto di fede giustificante dell’uomo della Riform a è quotidiano e coincide col ritmo della vita in­ dividuale, cosi pure la confessione d ell’età tridentina tende nella stessa direzione: non sacramento di ricom­ posizione annuale della comunità, ma riparazione delle colpe individuali quasi sul filo stesso dei giorni in cui quelle colpe avvengono. Questo offri il fondamento dot­ trinale al moltiplicarsi delle confessioni. Si sviluppò co­ si una pratica della confessione che affidava al sacra­

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mento una funzione di tutela costante, di tavola a cui aggrapparsi in ogni momento per salvarsi dal peccato. In questo si inserì, come ben vide Paolo Sarpi, il nuovo rap­ porto che si era venuto creando tra i laici e i confessori appartenenti a ordini religiosi34. Un ultimo, ma non secondario aspetto di quella che potrebbe essere definita l ’attuazione del Concilio di Trento in materia di confessione - la sua verità postuma - riguarda il meccanismo con cui fu messo sotto control­ lo il comportamento dei confessori con le penitenti. Pa­ pa Paolo IV tagliò quel nodo gordiano con la spada che gli era piu familiare: nel 15 59 sottopose quel reato alla giurisdizione dell’inquisitore. M a la cosa che va sottoli­ neata è che la decisione di Paolo IV fu presa in seguito alla richiesta dell’arcivescovo di Granada, Pedro Guerrero, il piu autorevole rappresentante dell’episcopato spa­ gnolo a Trento, certo non sospetto di simpatia per chi in­ taccava i poteri giurisdizionali dei vescovi. E la richiesta di Guerrero fu a sua volta l’esito di una richiesta fatta a lui da un gesuita di Granada che, nella Quaresima del 15 5 8 , si era trovato davanti al caso di una penitente in­ sidiata dal confessore e le aveva consigliato di denun­ ziarlo. Ne derivò una violenta polemica tra la Compagnia di Gesù e gli altri ordini, Domenicani e Francescani in primo luogo, e Guerrero, dietro invito del superiore dei Gesuiti, si rivolse all’arcivescovo e al nunzio papale. Nac­ que in questo modo una strategia di controllo della con­ fessione che subordinò il tribunale di foro interno al tri­ bunale di foro esterno. La sollicitatio non era un reato d ’eresia, ma lo poteva diventare sillogizzando sul fatto che se era commesso durante il sacramento della confes­ sione si configurava come una negazione ereticale del sa­ cramento stesso35. Il fatto che a provocare questa svolta 34 Cfr. il capitolo della Relazione del Sandys rielaborato da Sarpi e ripor­ tato in nota a p. sarpi, Istoria del concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, 2 voli., Torino 1974, I, pp. 565 sgg. 35 H. ch . lea , A History o f Auricolar Confession cit., I, p. 385. La bolla Cum

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fosse proprio il vescovo piu celebre per la difesa del po­ tere vescovile di governo mostra che la forza degli even­ ti era superiore alle intenzioni dei singoli. La società ec­ clesiastica, chiusa su se stessa, determinata a fornire di sé un’immagine di corpo perfetto, inventò un sistema po­ liziesco perché il sacramento della confessione non crol­ lasse nella stima sociale; lo stesso sacramento, intanto, si era trasformato in un passaggio obbligato e controllato da tutto un sistema burocratico e, soprattutto, era di­ ventato un momento in cui il fedele doveva rispondere essenzialmente a due domande: quella, preliminare, su questioni di eresia - da cui dipendeva la prosecuzione del­ la confessione o l’intervento dell’Inquisizione - e quella sui comportamenti sessuali, materia ormai dilagante in confessionale. Obbligare a discorsi di sesso tra uomo e donna e garantire che non si passasse dalle parole ai fat­ ti divenne il problema della società ecclesiastica. E si può aggiungere, a proposito del caso di Granada: oggi in Spa­ gna, domani in Italia. Infatti, la norma fu estesa da G ra­ nada a tutta la Spagna e da li all’Italia. Tutto questo appartiene alla cronaca degli usi a cui i po­ teri ecclesiastici piegarono il tribunale della confessione: un tribunale di cui il cardinale arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo, progettò e diffuse l’architettura36. Il suo confessionale esprime nella forma una concezione del pec­ cato di tipo strettamente individuale, sancendo la fine di un’epoca in cui la dimensione comunitaria era stata inve­ ce prevalente37. In questo, l’arcivescovo di Milano si acsicutnuper, 16 aprile 156 1, è in Bullarium Romanum, t. 4, II, p. 77. Sulla sto­ ria della questione in Spagna si veda ora lo studio di A. sarrión mora, Sexualidad y confesiòn.La solicitaciòn ante el Tribunal del Santo Oficio (siglos x v i -x i x ) ,

Madrid 1994, pp. 59 sgg. 56 Cfr. w . de boer, «A d audiendi non videndi commoditatem». Note sul­ l ’ introduzione del confessionale soprattutto in Italia, in «Quaderni storici», 77, agosto 19 9 1, pp. 543-72. 57j. bossy , The SocialHistory o f Confessìon in thè Age o f thè Reformatìon, in «Transactions of thè Royal Historical Society», X X V (1975), pp. 21-38 [trad. it. in id ., Balla comunità all'individuo. Per una storia sociale dei sacra­ menti nell’ Europa moderna, Torino 1998, pp. 59-85].

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cordava suo malgrado con i Gesuiti, dai quali lo divideva­ no molte cose e coi quali ebbe a Milano non poche ten­ sioni. Veri e propri professionisti della direzione delle co­ scienze, i Gesuiti fecero della confessione il luogo privile­ giato per l’ascolto e l’aiuto a chi ricorreva al sacramento per sciogliere dubbi e tormenti segreti. Nella loro opera si incontra il volto moderno di un sacramento che non era piu solo uno strumento di amministrazione della giustizia della Chiesa (in una delle sue forme) ma era diventato so­ prattutto un mezzo per la costruzione della persona lungo un itinerario di perfezionamento e di ascesa spirituale. Da questo derivò l’incoraggiamento che i Gesuiti dettero alla pratica della confessione frequente. A tale proposito, si po­ trebbero ripetere le considerazioni già fatte per la comu­ nione: dalla frequenza delle confessioni, e dalla loro orga­ nizzazione secondo le esigenze della persona che si affida­ va all’esperto padre spirituale, derivava l’abbandono del ritmo comunitario e della ritualità collettiva, sostituiti dal­ le pulsioni e dai bisogni dell’individuo.

Un sacramento tridentino che ebbe sulla religione e sui suoi rapporti con la società effetti profondi e che do­ vette imporsi a prezzo di una lunga lotta fu il matrimo­ nio. Quella del matrimonio come sacramento è una sto­ ria tante volte studiata e ripresa in esame ma che cela an­ cora non poche questioni che dovranno essere chiarite38. La svolta tridentina della normativa matrimoniale ebbe risvolti importanti sul terreno culturale non meno che su quello sociale. L ’accoglimento pieno e senza riserve del matrimonio come contratto coniugale nel contesto dei sa­ cramenti e il modo in cui lo si fece uscire dagli scenari fa­ miliari per immetterlo definitivamente nello spazio ec­ clesiastico significò, intanto, un’alterazione dell’econo­ mia che reggeva i rapporti tra società spirituale e mondo 38 Cfr. j. gaudemet , L e manage en Occident, Paris 1987 [trad. it. Ilm atùmonio in Occidente , Torino 1989].

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degli affetti e degli interessi mondani; com’è noto, la so­ cietà ecclesiastica medievale aveva abbassato a un livel­ lo di minor perfezione il mondo di chi si vincolava al ma­ trimonio e nell’opposizione a quel mondo, aveva creato un suo matrimonio. Il «matrimonio spirituale» dell’ani­ ma con Cristo, il rito di unione del vescovo con la sua chiesa; questi sono solo alcuni dei matrimoni spirituali i cui riti restano da studiare nel loro insieme39. Con l’ as­ sunzione franca e senza residui del matrimonio dell’uo­ mo e della donna come qualcosa che avveniva all’interno dello spazio della Chiesa, impallidirono probabilmente fino a svanire le rappresentazioni mentali e le pratiche ri­ tuali dell’altro matrimonio, quello spirituale40. A ltri ef­ fetti del matrimonio tridentino sono piu noti. Non par­ liamo dell’opposizione tra matrimonio e stato ecclesia­ stico, che in via di diritto era già stata stabilita ma che nella pratica non si era ancora affermata: ancora nel 1568, il clero della Sardegna praticava normalmente le nozze e la vita coniugale; anzi, c’era un rito speciale per il matri­ monio degli ecclesiastici, come riferì il gesuita catalano Baldassarre Pinnas in una relazione al generale Laynez41. Il caso non dovette essere isolato. M a vediamo piuttosto gli effetti della normativa tridentina sul matrimonio dei laici. E noto che qui il C on­ cilio di Trento cambiò profondamente la situazione esi­ stente e lo fece in due direzioni: portando il matrimonio all’interno della Chiesa e regolamentando fino a cancel­ larlo il rito degli sponsali o fidanzamento. Le due inno” Suggestive anticipazioni di una ricerca in corso sono state fornite da G. zarri, Orsola e Caterina. Il matrimonio delle vergini nel secolo xvi, in « Rivista di storia e letteratura religiosa», 1993, pp. 527-54, ora in id ., Recinti, Bolo­ gna 2000. Altra cosa è il matrimonio spirituale di cui si occupa d . elliott , Spi­

ritual Maniage. SexualAbstìnence in Medieval Wedlock, Princeton 1993, che si limita a una ricerca sulla pratica dell’astinenza sessuale nel matrimonio. 40L ’ipotesi è di G. zarri, Orsola e Caterina cit. 41 Cfr. A. marongiu, Nozze proibite, comunione dei beni e consuetudine ca­ nonica (a proposito di un documento sardo del 156 8), in id ., Saggi di storia giu­ ridica e politica sarda, Padova 1975, pp. 163-83 e R. turtas , Missioni popola­ ri in Sardegna tra '500 e ’6oo, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», X LIV (1990), pp. 369-412.

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vazioni risposero a un medesimo obbiettivo: rendere cer­ to e pubblicamente noto il passaggio di una persona al­ lo stato di coniugato. Per questo, bisognava far si che le nozze fossero annunziate pubblicamente - obbligo del­ le pubblicazioni - che si tenessero nella chiesa parroc­ chiale e se ne facesse debita registrazione in una raccol­ ta di atti ufficiali e che il passaggio da nubile a coniuga­ to avvenisse con atto puntuale, senza fasi intermedie di lunga durata. Cosi, gli sponsali, che figurano ancora nei trattati di diritto canonico del Cinquecento, finirono con lo scomparire dalle norme ufficiali rifluendo tra le pra­ tiche sociali non regolamentate e guardate con sospetto. D i fronte ai problemi che nascevano da matrimoni di fatto piu o meno clandestini, le nozze solennizzate dalla cerimonia pubblica davanti all’autorità ecclesiastica furo­ no l’unico rimedio che apparve adeguato. Non sappiamo ancora abbastanza dell’attività dei tribunali diocesani in materia matrimoniale: la documentazione che hanno la­ sciato è cosi vasta che scoraggia qualsiasi ricercatore, ma le ricerche che si stanno conducendo promettono di far compiere passi avanti significativi alla nostra conoscenza dello statuto reale del matrimonio42. Quel che sappiamo basta comunque per affermare che il matrimonio fu la ma­ teria più rilevante tra quante occuparono il mondo eccle­ siastico tridentino nel suo rapporto con la società; secon­ do un esperto, la riforma tridentina del matrimonio com­ portò una caduta verticale dell’enorme massa di cause matrimoniali da cui erano congestionati i tribunali vesco­ vili43. La definizione tridentina della materia matrimoniale va vista comunque sullo sfondo di un complesso e con42Una buona messa a punto in D. lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concìlio di Trento alle riforme settecentesche, in Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio e Ch. Klapisch-Zuber, Bari 1996, pp. 215-50. Sulla storia del matrimonio a Firenze, la città del sinodo provinciale del 15 17 che definì con particolare precisione la normativa matrimoniale, cfr. M. fubini leuzzi , «Condurre a onore». Famiglia, matrimonio e assistenza dotale a Firenze in età moderna, Firenze 1999. 43 E l ’opinione di J. segura davalos, Directorium iudicum ecclesiastici fo ­ ri, Venetiis apud Matthaeum Valentinum 1596, c. 95L.

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flittuale rapporto tra Chiesa e famiglia relativo a tutta la vastissima materia della determinazione del futuro delle nuove generazioni. La scelta matrimoniale e quella paral­ lela e opposta della monacazione femminile e delle car­ riere ecclesiastiche maschili erano state gestite fino ad al­ lora all’interno delle logiche parentali, i riti e i tempi ce­ rimoniali connessi erano stati quelli lenti e ritmati che erano richiesti dalla lunga maturazione delle strategie fa­ miliari nel contesto di una società innervata dalla presen­ za di legami di alleanza parentale. La scelta fatta dal Con­ cilio di Trento sostituì a quei riti di passaggio un sacra­ mento che nel momento stesso in cui avveniva cambiava bruscamente lo status di chi lo praticava; il deperimento degli sponsali ne fu la necessaria conseguenza. Si trattò di un fenomeno di prima grandezza nel panorama giuridico del tardo Cinquecento e, probabilmente, anche in quello sociale (ma qui si debbono interrogare le fonti). Il giureconsulto spagnolo Juan Segura Davalos, alla fine del xvi secolo, non ebbe alcun dubbio: dalla proibizione del ma­ trimonio clandestino conseguiva di necessità la proibizio­ ne degli sponsali, in quanto preambolo al matrimonio44. La cosa non era però cosi ovvia, né sul piano della dottri­ na né soprattutto nella vita della società. I manuali dei ca­ nonisti continuavano a registrare gli sponsali tra le mate­ rie della pratica corrente proprio perché nella pratica so­ ciale la questione coinvolgeva interessi vitali45. La zona di frizione e le sacche di resistenza nell’area del fidanza­ mento (o sponsali, o matrimonio «per verba de futuro») dovettero essere particolarmente ampie. Le famiglie vo­ levano continuare a controllare il momento dello scambio di promesse, lasciando alla Chiesa solo quello della solennizzazione del matrimonio davanti al prete. Ma, se si de­ ve dar credito alle immagini che quella società proiettava 44 «Prohibito matrimonio prohibentur etiam sponsalia, tanquam pream­ bula ad matrimonium» (ibid.). 45 Cfr. A . p . l a n c e l l o t t i , lnstìtutìones iuris canonici, Romae ex typographia Georgii Ferrarli 1583, pp. 15 1-6 1.

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di sé, la concezione del matrimonio si riassunse sempre piu nella forma contrattuale del consenso: un singolare te­ stamento di un pittore sordomuto, che fece ricorso alle immagini per indicare i destinatari dei suoi beni, rappre­ sentò la moglie e il matrimonio nella forma elementare della stretta di mano tra l’uomo e la donna, senza altri fi­ guranti46. E i processi per cause matrimoniali o per reati connessi - bigamia, sessualità prematrimoniale o extra­ matrimoniale -, conservati in grande abbondanza soprat­ tutto negli archivi delle curie vescovili (ma anche in quel­ li statali, laddove il potere civile affermò la sua compe­ tenza in reati relativi alla morale sessuale) descrivono un lento percorso di transizione47. Naturalmente, i decreti tridentini richiesero del tem­ po - e un tempo molto lungo - per diventare realtà so­ ciale effettiva. Ancora nell’Ottocento, nelle campagne toscane u n ’inchiesta sulle pratiche e sulle norme con­ suetudinarie rivelò che era diffusamente praticato il co­ stume di sposarsi solo dopo lunghi periodi di conviven­ za di coppia: praticamente, era la nascita di un figlio che concludeva il periodo del fidanzamento o sponsali48. Ciò mostra con quali difficoltà le norme ecclesiastiche si fa­ cessero strada su questo terreno. M a è ai punti estremi del percorso della vita, la nasci­ ta e la morte, che le modifiche di epoca tridentina ap­ paiono piu significative. Prendiamo in esame il battesi­ mo. M olti sono gli aspetti della storia del battesimo nel­ l’età del Concilio di Trento che si debbono segnalare: in primo luogo, il rapporto tra battesimo e governo eccle­ siastico territoriale, che usci rafforzato dalla divisione in 46Le immagini e il documento sono riprodotti in II testamento di Luca R i­ va, 9 settembre 16 24 , a cura di F. Chiappa, Milano 1970. 47 Cfr. Coniugi nemici. La separazione in Italia dal x n a lx v in secolo, a cu­ ra di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, 1 . 1 processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani, Bologna 2000. 48Debbo l’informazione al dottor Andrea Zanotto, che ha in corso di pub­ blicazione uno studio sull’argomento.

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piu chiese dell’Europa moderna49. Nel mondo cattolico, i tratti che emersero allora furono: l ’insistenza sulla neces­ sità del battesimo ai neonati, da praticarsi appena possi­ bile; la riduzione del numero dei padrini a uno o al mas­ simo due; infine il legame tra battesimo e catechesi. La storia dell’espansione missionaria extra-europea mostra come alla pratica dei primi grandi battesimi di massa, in Messico e in India, si venne sostituendo una diversa linea di comportamento che legava il battesimo alla catechesi e insisteva sull’uniformità e completezza del rituale. Una storia del sacramento del battesimo che veda nel loro insieme i dibattiti tridentini e le esperienze intellet­ tuali e pratiche del secolo della conversione forzata degli ebrei spagnoli e dell’evangelizzazione dei popoli extra­ europei ci permetterebbe di capire meglio la novità rap­ presentata dai sacramenti cattolici nella formulazione tridentina. L ’ingresso nella vita sociale del nuovo individuo fu contrassegnato da un percorso di apprendimento: la catechesi. Non sarebbe di scarso interesse seguire anche le vicende di aspetti apparentemente minori, come l ’e­ volversi della pratica del nome individuale secondo un’or­ todossia strettamente veterotestamentaria nei Paesi pro­ testanti e secondo una straordinaria libertà di invenzio­ ne legata al culto dei santi in quelli cattolici50. La polemica contro gli anabattisti spiega, natural­ mente, perché si tendesse a insistere sull’obbligo di bat­ tezzare il bambino appena nato. L ’urgenza del battez­ zare quanto prima i neonati fu una delle ragioni che por­ tarono a ridurre il numero dei padrini e i connessi festeggiamenti organizzati dalla famiglia. Su questo co­ 49 Su questo punto ha richiamato l’attenzione E . b r a m b i l l a , Battesimo e diritti civili dalla Riforma protestante algiuseppinismo , in «Rivista storica ita­

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me su altri punti, il rapporto tra le norme ecclesiastiche e le tradizionali pratiche sociali non fu né semplice né pacifico. Questa storia è stata studiata per quanto ri­ guarda il padrinaggio. Si è analizzato il rapporto tra la Chiesa e le famiglie: un rapporto difficile, perché al­ l’autorità superiore della Chiesa le famiglie opponevano il potere delle consorterie allargate e la tendenza a go­ vernare secondo il loro interesse materie come la scelta matrimoniale e quella del convento. Ridurre il numero dei padrini, come ha dimostrato Bossy, significava im­ pedire alle famiglie di approfittare del sacramento del battesimo per consolidare le loro alleanze e fare mostra del loro prestigio sociale. La tendenza della opinione dot­ ta all’interno della Chiesa, a partire dal Cinquecento, «ha mirato ad abolirlo completamente»51, ma anche in questo caso ha dovuto fare i conti con resistenze profon­ de. Secondo Bossy, esse erano causate dal sopravvivere di una concezione comunitaria della società cristiana: il padrino era l’amico e la possibilità aperta a tanti di par­ tecipare al padrinaggio era un modo per allargare e rafforzare i legami di amicizia. M a ci sono altre ragioni alla base delle resistenze delle popolazioni cattoliche al­ la riduzione dei padrini che portano piuttosto in dire­ zione di strati folklorici profondi. La questione è com­ plessa, come sempre quando le rappresentazioni religio­ se ufficiali e le dottrine teologiche della cultura scritta sono viste sullo sfondo di un’altra cultura, quella orale. Lo studio del padrinaggio nell’età pretridentina ha ri­ velato un mondo di rappresentazioni mentali e di riti in cui si esprimeva una nozione della vita di tipo ciclico: la porta che immetteva nella vita era aperta sul mondo dei morti. La figura del padrino scelto al crocicchio della strada, tra i poveri, celava dietro di sé - è stato giusta-

liana», CIX (1997), pp. 602-27. 50 Sulla storia dei nomi, cfr. ora M .

m i t t e r a u r e r , Ahnen u n i Heilige. Namengebungin der europàischen Geschichte, Miinchen 1993 [trad. it. Antenati e santi: l ’imposizione d el nome nella storia europea, Torino 2001]. Ma la gran­ de tradizione di studi aperta da H. Usener (Góttemamen , Bonn 1895) aspet­

ta ancora una ricerca adeguata per l ’età moderna.

5 1 j . b o s s y , Padrini e madrine : un'istituzione sociale d el cristianesimo popola­ re in Occidente, in «Past and Present», 41, maggio-agosto 1979, pp, 440-49, in particolare p . 447. Ma si veda anche i d ., Sangue e battesimo, in i d ., Oalla comunità all’individuo cit., p p . 37-58.

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mente suggerito - la figura della morte52*. Ora, questo mondo non scomparve di botto col secolo del Concilio di Trento. Un documento conservato in un archivio del­ l’Inquisizione offre una traccia consistente di questa con­ cezione e apre scenari insoliti intorno al tema della scel­ ta del padrino. Lo riportiamo qui per intero. Il 24 marzo 1668 un giovane fabbro di San Giorgio di Piano, Mariano Dini, si presentò all’Inquisizione di Pisa e rilasciò la seguente denuncia: Un anno fa in circa ritrovandosi in casa mia in su l’uscio del­ la bottega un tal Giovanni da Navacchio contadino, quale anco fa il misuratore di terra, et all’hora per l’apunto andava a misu­ rare della terra verso Cascina, apogiato sopra il bancho della fi­ nestra della mia botegha disse, che si ritrovò uno, una volta, sen­ za dirmi il nome, che havendo havuto un bambino cercava un compare che lo tenesse, ma voleva che questo compare fosse giu­ sto. S ’incontrò in un Duca, qual li addimandò dove andava. Li ri­ spose che cercava uno che fosse suo compare, essendoli nato un fanciullo. E rispose il Duca: «Io ti servirò». E t il padre del bambino rispose: «Io non vi voglio, perché fate far giustitia, fate appicare quel­ li che non lo meritano; e perché non sete giusto non vi voglio per compare». Di li a poco, s’incontrò in un Imperatore, al quale disse le sudette parole come haveva detto al Duca e lo licentiò per suo com­ pare. Di li a poco s ’incontrò in Dio benedetto, quale li domandò dove era inviato. Rispose che cercava un giusto che fosse suo com­ pare. Rispose Iddio: «Io sono giusto». A l che l ’uomo padre del bambino rispose: «Voi non sete giusto, perché chi fate riccho, e povero, si che non sete giusto». Camino un altro pezzo, si incontrò nella morte, quale disse a lui dove era inviato. Rispose che cercava uno che fosse suo compare, ma che voleva fosse giusto. L a morte li rispose che era giusta, per­ ché non perdonava né a ricchi né a poveri. E cosi elesse la morte per suo compare. E doppo s’inviò seco in casa della sudetta morte; et entrati che furono in casa, vidde che in una camera vi era gran­ dissima quantità di lumi da olio. Il che vedendo disse alla morte: 52 Cfr. ch . ki .apisch -zuber , La Maison et le nom, Paris 1990, capitolo Le «comparatico» à Florence, con le aggiunte di A. fine , Parrains, marraines. La parente spìrìtuelle en Europe, Paris 1994, capitolo La benne mort, pp. 225 sgg.

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«Che cosa vogliono significare tanti?» Li rispose che ogni christiano ci haveva il suo lume. E t egli re­ plicò: «Se questo è vero, dove sarà il mio?» Rispose la morte: «Questo è il vostro lume». Et vedendolo disse:« Perché negl’altri vasi o lampade vi è di molto olio, et in questo cosi poco?» Rispose la morte: «Perché voi havete da campare dieci anni solamente». Il che sentito dal huomo, disse: «Perché bene non vi agiunge­ te dell’olio, acciò io campi di piu?» Rispose la morte: «Non ti dissi io che ero giusta? E se agiun­ gessi olio alla lampada, sarei partiale e non giusta»” .

Perché quella denunzia ? La risposta è indicata dalla sommaria indicazione del notaio dell’Inquisizione: «Con­ tro Gio. Navacchio contadino, per racconto d ’una favo­ la nella quale mostra (che) Iddio non è giusto». Tra le car­ te inquisitoriali ci sono molti altri casi di persone pro­ cessate per aver detto che Dio non era giusto: erano casi che rientravano nella casistica della «bestemmia eretica­ le». M a Giovanni da Navacchio, contadino e agrimen­ sore pisano, non fu ulteriormente perseguito dall’inquisitore a quanto sembra. La sua era una favola. E come fa­ vola sfuggiva alle regole della correttezza dottrinale. Ora, la tradizione di questa favola è una delle piu studiate54. Negli studi storici, è stata resa celebre dall’analisi che ne ha fatto Le Roy Ladurie55. Al centro dell’indagine di questo studioso non è tanto il battesimo quanto il matri­ monio, come momento di ascesa sociale e di unione tra denaro e amore, o di ricomposizione del quadrato magi­ co (l’opponente, l’eroe, il padre, la ragazza). Per questo, la sua attenzione è rivolta ai passaggi successivi della vi53 Archivio Arcivescovile di Pisa, S. Uffizio, f. 17, 1664-70, cc. n.n. Il testo della denunzia è riportato da G. romeo, Aspettando il boia, Firenze 1993, p. 341. 54Nella classificazione dei motivi favolistici Aarne-Thompson è la n. 33 2, «la mort parrain» (a . aarne-stith Thompson, The Types o f thè Folktale, FolkloreFellows Communications, Helsinki X XV , 74, 1928, p. 59, favola n. 332, Goodfather Death; nuova edizione Helsinki 19 61, pp. 123-24). Come favola, è stata raccolta da Jacob e Wilhelm Grimm; la loro versione è molto piu am­ pia di quella del contadino toscano, ma i tratti fondamentali sono identici. 55 e . le roy ladurie , L ’argent, Tamour et la mort en pays d ’ oc, Paris 1980 [trad. it. I l denaro l ’amore la morte in Occitania, Milano 1983].

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cenda, quando, con l’aiuto della morte-padrino (che è an­ che il diavolo) l’eroe raggiunge il possesso del danaro. La tradizione raccolta dal narratore toscano si ferma al mo­ mento d’avvio della storia, quando l’eroe nasce e suo pa­ dre va in cerca del padrino e sceglie la morte. D i questa concezione folklorica del passaggio della na­ scita come necessario complemento dell’altro passaggio, quello della morte, sopravvissero a lungo tracce resi­ stenti; e la stessa storia della scelta dei nomi all’interno della famiglia, con la trasmissione ai neonati del nome di un antenato, ne è una traccia che sarebbe sbagliato trascurare. Chi poi volesse seguire le vicende del con­ flitto tra la nuova cultura ecclesiastica e le pratiche po­ polari si imbatterebbe in una quantità di tradizioni elen­ cate nei decreti sinodali che rinviano a una concezione della nascita come passaggio caratterizzato dalla minac­ cia dell’impurità, esattamente come quello della morte. In questo denso insieme di rappresentazioni aveva tro­ vato alimento una quantità di riti coi quali l’amministra­ zione dei sacramenti ecclesiastici aveva intrecciato com­ plesse alleanze. La forma tridentina diffusa nelle diocesi portò con sé una nozione della puntualità del passaggio e delle trasformazioni operate dal sacramento che entrò in conflitto con quelle pratiche e con quelle rappresenta­ zioni. Il «tempo della Chiesa» incarnato nell’amministrazione dei sacramenti conobbe un nuovo conflitto col tempo della società laica, ma questa volta sembra essere stata la Chiesa a farsi portatrice di una decisa individua­ lizzazione del tempo della salvezza e di un suo adegua­ mento al tempo calendariale del mutamento sociale.

Capitolo decimo La storia che non passò da Trento

1. L'Inquisizione e la repressione d ell’eresia. Come ha notato un attento lettore, nella storia della Chiesa post-tridentina scritta da Hubert Jedin, lo stori­ co che piu ha richiamato l’attenzione sul momento tridentino come momento di riforma cattolica, non si fa ver­ bo né dell’Indice né dell’Inquisizione1. In questo, Jedin ha seguito la sua concezione profondamente cattolica del concilio come momento positivo e creativo della vita del­ la Chiesa. Né l’Inquisizione né la censura libraria posso­ no essere considerati momenti creativi e positivi. M en­ tre la polemica da parte protestante e poi illuministica e liberale ha messo sotto accusa l’aspetto inquisitoriale del cattolicesimo moderno, una sordina è stata sempre posta dalla storiografia cattolica su questa presenza imbaraz­ zante nello scenario dell’età del concilio. Eppure, si trattò di una presenza che condizionò lo stesso svolgimento del­ le assemblee tridentine. L ’Inquisizione spagnola nell’età di Lutero dominò lo scenario europeo ed extra-europeo, accendendo roghi non solo in Spagna e nei Paesi Bassi ma anche nel Messico di recente conquistato. Quella isti­ tuita a Roma, come tribunale provvisorio nel 154 2 per coordinare l’azione antiereticale, venne giustificata nel­ la bolla istitutiva (Licet ab initio) come un rimedio occa­ sionale in attesa che si potessero affrontare i problemi re­ ligiosi in concilio. Ma la realtà fu ben diversa: la congre­ gazione cardinalizia dell’Inquisizione sopravvisse al con‘ j. w. o’m a lley , Trent ad AllThat.Renam ing Catholicism in thè Early M o­ dem Era, Cambridge (Mass.) - London 2000, p. 60.

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cilio, ne dominò i lavori perseguendo vescovi e cardina­ li dalle posizioni sospette (come Tommaso Sanfelice, G io­ vanni Morone, Reginald Pole e altri ancora) e condizionò in molti modi le scelte conciliari; la timidezza con cui l ’as­ semblea tridentina affrontò le questioni dei salvacondotti ai luterani e degli eventuali processi in materia di fede e fini col rimettere al papa la concessione del calice e la ste­ sura dell’Indice dei libri proibiti ne costituisce la prova più evidente. Il fatto è che proprio in quegli anni, mentre venivano dibattuti nelle aule tridentine e bolognesi i problemi dot­ trinali aperti dalla Riforma, si stava procedendo alla mes­ sa in opera di una rete di controllo per stroncare il dis­ senso dottrinale dovunque allignasse e per impedirne la riproduzione. Processi ed esecuzioni, di singoli e di inte­ re collettività, segnarono il panorama italiano ed europeo. Fu affare di istituzioni per lo piu dominate dalla volontà politica di compattare l’unità dei popoli e la loro fedeltà alla religione ufficiale. Esempio fra tutti celebre è quello dell’Inquisizione spagnola, che cercò allora di estendere la sua azione ai territori italiani e a quelli dei Paesi Bassi. Fu un tentativo frustrato da resistenze profonde che, in qualche caso, divennero vere e proprie rivolte. Cosi a Na­ poli nel 154 7; cosi soprattutto nei Paesi Bassi, dove la sol­ levazione portò a una guerra che logorò lungamente eser­ citi e finanze della Spagna e sboccò infine nella nascita di una nuova realtà politica, l’Olanda. M a fu allora genera­ le l’imposizione da parte degli Stati di un controllo sulla dissidenza religiosa, valutata come un vero tradimento del dovere di lealtà politica. Se Lutero condannò con parole durissime la rivolta dei contadini tedeschi all’ autorità del principe, non meno dura fu la persecuzione di cui furono generalmente oggetto gli anabattisti. N ei Paesi cattolici il papato cercò, spesso inutilmente, di rinvigorire i tribuna­ li ecclesiastici dell’Inquisizione. In Francia, la repressio­ ne del dissenso religioso fu guidata dalla monarchia con tribunali laici. Rimaneva l’area della penisola italiana; fu su questa che si estese l’attività dell’Inquisizione romana.

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La sua nascita, relativam ente tardiva, coincise col pontificato di Paolo III e con la decisione papale di met­ tere all’ordine del giorno la questione del confronto con la Riform a protestante. La diffusione del dissenso dot­ trinale nelle città italiane costituì il segnale d ’allarme che spinse a reagire. Che la rinascita dell’Inquisizione pre­ cedesse e accompagnasse lo svolgimento del concilio è la prova di quali fossero le intenzioni reali che si nutriva­ no a Roma nei confronti della Riforma. Si è visto del re­ sto come, secondo il punto di vista di molte persone, in­ cluse le supreme autorità della Chiesa romana, il conci­ lio fosse in buona misura solo una sgradevole necessità, mentre ad apparire urgente e importante era proprio la lotta contro l ’eresia. Per questo bastava rifarsi alla tra­ dizione: cultura giuridico-teologica e personale dell’In ­ quisizione esistevano già; in molte sedi i processi inquisitoriali si sedimentavano da tempo in filze ordinate e gli ordini religiosi francescano e domenicano agivano da rappresentanti di una struttura istituzionale centraliz­ zata. N ell’area italiana, piu legata al papato, si proce­ dette dunque a riattivare e potenziare quello strumen­ to2. L ’esigenza di un tribunale speciale delegato a occu­ parsi dei reati contro la «vera» fede era profondamente radicata nella tradizione e nella mentalità. Ancor prima dell’avvio della Riform a luterana l ’attività degli inquisi­ tori aveva avuto un’impennata verso l’alto: si erano in­ fittiti i processi per stregoneria e le tensioni diffuse con­ tro i gruppi etnici e religiosi di «diversi» - gli ebrei, per esempio - si erano tradotte nella ripresa di un’attività poliziesca e repressiva che nel tardo Medioevo era stata 2 Secondo l’efficace espressione di p . prodi, Una storia ie lla giustizia. D al pluralismo dei fori a l moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000, p. 96 nota, l’Inquisizione romana fu solo «un ultimo sussulto» di quella me­ dievale, che rivitalizzò nei territori ancora soggetti al papato i tribunali pree­ sistenti. Si vedano inoltre, nella nutrita letteratura che è stata anche alimen­ tata di recente dall’apertura degli archivi del S. Uffizio romano, A. prospe ­ r i , Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, e E. brambilla , A lle origini del Sant’ Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal Medioevo a l x v i secolo, Bologna 2000.

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piuttosto ridotta. Negli stessi anni in cui a Roma si in­ fittivano le proposte di galvanizzare l’ azione dell’Inqui­ sizione, anche in altri Stati si avvertiva il bisogno di ga­ rantire la sicurezza e la compattezza del corpo politico dai conflitti di religione. La tipologia delle istituzioni create allo scopo non è mai stata studiata nel suo insie­ me né sono chiari gli scambi e i rapporti creatisi fra di loro; è evidente, tuttavia, che non solo a Roma si pensò di affrontare il problema con uno strumento di control­ lo che fosse anche espressione di un forte potere cen­ trale. Se in Spagna operava già dalla fine del Quattrocento il tribunale dell’Inquisizione quale espressione di­ retta di uno Stato fondato sull’ideologia della Crociata, in altri Stati vennero costituite magistrature speciali in ordine ai problemi religiosi dopo il diffondersi delle idee della Riform a. A Venezia, ad esempio, nel dicembre 15 3 7 venne istituita la magistratura degli «esecutori con­ tro la bestemmia» e nel 15 4 7 , il 22 aprile, nacque quel­ la dei «Tre Savii sopra l ’eresia»: con quest’ultima si vol­ le rispondere alle sollecitazioni romane che puntavano a far accogliere anche a Venezia il modello accentrato del­ l’Inquisizione. I numerosi interventi, fatti di editti e di bandi ripetuti in materia di controllo preventivo e di cen­ sura della stampa, mostrano preoccupazioni dello stesso genere; anche istituzioni e forme tradizionali della vita religiosa che cadevano sotto le cure di autorità cittadi­ ne e principi, come l’organizzazione di cicli di prediche e la cura dedicata alla tutela dei monasteri femminili, ri­ sentirono in questo periodo dell’incertezza e del sospet­ to che circondavano ormai ogni aspetto della trasmis­ sione e della pratica dei principi cristiani. La parola al­ l ’ordine del giorno fu allora «disciplina»: dalle autorità civili come da quelle ecclesiastiche una cura speciale ven­ ne dedicata alla circolazione delle letture e delle idee, nel contesto di una chiara volontà di porre sotto controllo i comportamenti sociali. Insomma, non c ’è dubbio che, dopo una fase di diffuse e manifeste inquietudini dot­ trinali e religiose, gli anni d ’avvio del concilio coincise­

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ro con u n a gen erale ten d en za a p o rre so tto rig id o co n ­ tro llo q u esto gen ere d i m aterie, tem en d o che d a lla c riti­ ca d elle istitu z io n i ecclesiastich e si p assasse alla so v v e r­ sione e alla d isu b b id ien za p o litic a . A rg o m e n ti d i q u esto gen ere - che cio è il « c o n ta g io » d e ll’ ere sia fo sse u n a m i­ n accia d ire tta n ei c o n fro n ti d e ll’ a u to rità p o litic a e cau ­ sasse la scom parsa d ello sp irito d i su b o rd in az io n e su cui o g n i p o te re si re g g e v a - era n o del re sto fa tti v a le re di co n tin u o da p arte rom an a, fin d a ll’in iz io della q u e stio ­ n e lu teran a. T u tta v ia , an ch e se i tem pi erano fa v o r e v o ­ li a ll’ irrig id im e n to d elle p ra tic h e d i c o n tro llo , l ’ is tit u ­ zione d e ll’ In q u isizio n e ro m an a rap p resen tò u n salto di q u alità n o tevo le e c o n trib u ì alla g e n eralizzazio n e d i in ­ te rv e n ti au to rita ri e p o liziesch i n ella s fe ra della v ita re ­ lig io sa e cu ltu ra le . L a s c o n fitt a m ilita re d ella L e g a di S m alcald a fece il re sto , n el sen so che to lse o g n i in c e r­ tezza an ch e a q u eg li S ta ti (com e V en ezia) che, p er i lo ­ ro legam i p o litici ed eco n o m ici con i te rrito ri d ella G e r ­ m an ia lu te ra n a , av e va n o e sita to ad assu m ere a tte g g ia ­ m en ti d ra stic i in m ateria. L a b o lla del lu glio 15 4 2 con cu i fu istitu ita la co n g regazio n e card in a liz ia p er ese rci­ tare il s a n t’u ffic io d e ll’ In q u isiz io n e ra p p resen tò l ’ esito d i un co n trasto , fin o ad allo ra irriso lto , sui m eto d i piu a d a tti p e r a ffro n ta re il d issen so d o ttrin a le in sen o alla C h ie sa e co n trib u ì, in siem e co n il co n cilio e p rim a d i es­ so, all’ a v v io d i u n a fa se n u o va e d iv e rsa . C o n q uel d o ­ cu m en to v e n iv a co n fe rito a u n gru ppo d i card in ali, scel­ ti tra i p iu au to revo li della C u ria (ma an ch e tra q u elli che d a tem po in sistevan o p er l ’ ad ozion e di m isure d rastiche), il p o tere d i « co m m issari e in q u isito ri g e n e rali» p er la lo t­ ta co n tro gli e re tici in tu tta la cristia n ità . Q u e sta d e c i­ sion e fu l ’ esito d e ll’ in su ccesso in cui era n o in co rsi i te n ­ t a t iv i d i ave r ra g io n e d el d issen so co n p ra tic h e c o n c i­ lia n ti, in Ita lia e fu o ri: il fa llim en to del co llo q u io d i r e ­ ligio n e d i R a tisb o n a (13 4 1) e q uello su cce ssivo d el te n ­ ta tiv o d i alcun i p re la ti d i riso lv e re in v ia p a c ific a situ a ­ zio n i d i ap erto d ib a ttito relig io so (com e quella crea ta si a M o d e n a nel rap p o rto con l ’ « a c c a d e m ia » d egli u o m in i

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di lettere cittadini) avevano messo fuori gioco in Curia le figure piu eminenti dei sostenitori della tendenza mo­ derata, come il cardinale Contarini3. G li atti che seguiro­ no immediatamente la bolla mostrarono che la vittoria del partito degli intransigenti era piena e che i vincitori non intendevano limitarsi alle parole: il predicatore piu celebre d’Italia in quel momento, fra Bernardino Ochino - che era anche il generale del nuovo ordine religioso dei Cappucci­ n i- f u convocato a Roma e, dopo un ultimo incontro a Bo­ logna col morente cardinale Contarini, fuggì in terra rifor­ mata. Fu una svolta drammatica, che pose a tutti il pro­ blema di rivedere le proprie idee e fare scelte dolorose. È giusto, dunque, considerare questo momento come l’avvio vero e proprio della Controriforma, intesa come lotta sen­ za quartiere della Chiesa romana contro la dissidenza reli­ giosa rappresentata emblematicamente da Lutero. Tuttavia, non si è prestata attenzione sufficiente al fat­ to che il testo della bolla papale giustifica il ricorso allo stru­ mento eccezionale della congregazione cardinalizia facen­ do riferimento al ritardo della convocazione del concilio. Il documento papale è chiaro ed esplicito: il concilio doveva servire a condannare gli errori e a far tornare gli eretici al­ la Chiesa; poiché non si poteva riunire, ecco allora la ne­ cessità di ricorrere a strumenti di intimidazione piu rapidi ed efficaci. Era un’interpretazione della funzione del con­ cilio che in seguito doveva farsi sentire di continuo nel mo­ do in cui da Roma si orientarono i movimenti e le decisio­ ni di quella assemblea. Nell’immediato, era anche una ri­ sposta eloquente alla politica dell’imperatore Carlo V : la guerra spirituale a cui si dava avvio da Roma muoveva da una valutazione completamente diversa sulla possibilità di comporre il contrasto e preannunziava l’anatema che con­ cluse, con grido unanime, il concilio. I lavori stessi del con­ cilio furono punteggiati dal ricorrente invito a procedure 5 Questo è il contesto su cui ha richiamato l’attenzione M. firpo , Inquisi­ zione romana e Controriforma. Studi sul Cardinal Giovanni Morene e i l suo pro­ cesso d ’ eresia, Bologna 1992.

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drastiche contro gli eretici: quando fu effettuato il trasfe­ rimento a Bologna, si chiese da piu parti che il papa desse l’esempio ripulendo la seconda città del suo Stato da ogni macchia di eterodossia4. Nel contempo si procedette a im­ piantare dovunque possibile i terminali della struttura di controllo romana, modificando procedure, sostituendo per­ sone e aprendo con gli Stati una serie di trattative e di con­ troversie in materia di inquisizione. Le norme fondamen­ tali della nuova istituzione sottraevano del tutto alle auto­ rità politiche la possibilità di seguire i processi contro i lo­ ro sudditi in materia dottrinale e ferivano la sovranità sta­ tale con la pratica dell’estradizione a Roma. Resistenze de­ cise vennero dagli Stati repubblicani - Lucca e Venezia che cercarono di sottrarsi all’istituzione dell’Inquisizione romana con iniziative autonome nel campo della repres­ sione antiereticale, oppure ottennero (è il caso di Venezia) la garanzia di una presenza formale di rappresentanti dello Stato a fianco dell’inquisitore5. Ma la storia delle istituzio­ ni inquisitoriali è ancora un campo di ricerca aperto. Parti­ colarmente viva è la ricerca e la discussione fra gli studiosi per quanto riguarda l’Inquisizione romana: la dispersione degli archivi, la pratica del segreto impenetrabile intorno ai documenti del Sant’Ufficio romano (interrotta solo di re­ cente, con l’apertura annunziata pubblicamente il 22 gen­ naio 1998), il fatto stesso che gli studi si sono indirizzati piu verso i casi degli inquisiti che non verso le strutture del­ la repressione e del controllo, fanno si che queste ultime siano ancora poco studiate nel loro insieme e nella loro evo­ luzione6. E si che il peso da esse esercitato, non solo sui pic­ coli gruppi ma su intere collettività, fu enorme. Ci furono 4Sulla lunga storia del controllo inquisitoriale di Bologna, importante per la sua università e per il rapporto con Roma, cfr. ora la vasta indagine di G. dall ’ olio, Eretici e Inquisitori nella "Bologna del Cinquecento , Bologna 1999. ! Sull’originale soluzione lucchese, cfr. s. adorni-braccesi, «Una città in­ fetta» . La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze 1994. 6 Ma si veda ora la fondamentale raccolta di studi di j. tedeschi, The Prosecution ofH eresy, New York 1991 [trad. it. Il giudice e l ’eretico. Studi sul­ l ’Inquisizione Romana, Milano 1997].

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sollevazioni popolari contro la minacciata introduzione del­ l’Inquisizione, come avvenne a Napoli, o vere e proprie esplosioni collettive di gioia, come quella che salutò a Ro­ ma la morte di papa Paolo IV Carafa, che dell’Inquisizio­ ne era stato il principale fautore e l’utente piu accanito. In attesa di una registrazione quantitativa dei dati relativi al­ l’attività di tale istituzione si possono esprimere solo valu­ tazioni approssimative, che tuttavia permettono di intra­ vedere alcune punte piu alte della repressione antiereticale e un suo successivo declino. Dopo i primi e celebri casi di Bernardino Ochino, Giulio da Milano e altri meno illustri simpatizzanti della Riforma, fuggiti dall’Italia o imprigio­ nati, seguirono anni di lento avvio dell’istituzione durante i quali l’opera del concilio venne fornendo indicazioni teo­ logiche precise per la linea di discrimine dell’ortodossia. Un episodio particolarmente rilevante si verificò intorno alla metà del secolo: grazie a una bolla con cui papa Giulio III prometteva l ’impunità a chi, pentito, avesse denunziato en­ tro un determinato periodo se stesso e i propri complici di idee ereticali, si ebbe il caso piu importante dell’epoca. Il 17 ottobre 1 5 5 1 un prete marchigiano, Pietro Manelfi, si presentò all’inquisitore di Bologna e stese una dettagliata denunzia che permise di scoprire e distruggere tutta la re­ te dei gruppi e delle chiese anabattiste dell’Italia centro-set­ tentrionale. Fu un’operazione assai importante, che per­ mise tra l’altro di indebolire le riserve veneziane sull’In­ quisizione romana, mostrando come di fatto l’eresia potes­ se rappresentare un pericolo sul piano sociale e politico: le opinioni dei gruppi anabattisti veneti infatti erano di tipo radicale e investivano l ’assetto della società. Un ulteriore e fortissimo impulso all’attività dell’Inquisizione fu dato quando il Grande Inquisitore in persona, fra Michele Ghislieri, divenne papa col nome di Pio V. Furono anni di in­ tensa persecuzione della dissidenza religiosa ufficiale, che venne di nuovo attentamente censita sulla base dei proces­ si esistenti e subì un estremo e decisivo colpo. Il Te Deum che a Roma salutò la strage della notte di san Bartolomeo segnò l’acme di questa fase di forte ripresa del cattolicesi­

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mo romano, vittorioso non solo sui turchi con la battaglia di Lepanto, ma anche sui nemici interni. Dopo questi an­ ni, la struttura inquisitoriale dovette trovarsi altri obietti­ vi, dato che l’eresia manifesta e consapevole era o scom­ parsa o nascosta dietro atteggiamenti di ossequio e di ob­ bedienza di tipo nicodemitico. A partire dagli anni Ottan­ ta del Cinquecento l’attività degli inquisitori fu caratteriz­ zata dalla caccia a quelle che potremmo definire le eresie inconsapevoli: comportamenti e pratiche quotidiane ven­ nero indagati attentamente alla ricerca di quanto di impli­ citamente ereticale poteva celarvisi. In modo particolare, vennero prese di mira le bestemmie: bestemmiare la T ri­ nità non era forse negarne l’esistenza ? Offendere i santi non significava andare contro i decreti del Concilio di Tren­ to ? Su questa strada, si produsse anche una serie di con­ flitti con le autorità e i tribunali ai quali fino ad allora era stata delegata la cura di simili questioni, ma si spiegò so­ prattutto il ventaglio larghissimo delle questioni attinenti alle credenze popolari, alle pratiche magiche e alle tradi­ zioni folkloriche. Era un terreno sul quale il cattolicesimo post-conciliare aveva posto le condizioni di una presenza nuova della Chiesa: toccò all’Inquisizione approfittarne. Quanto ai vescovi, essi dovettero fare i conti continuamente con la nuova e decisiva presenza di un tribunale dai poteri vastissimi, dipendente direttamente da Roma, ben determinato a imporre i suoi metodi. Il luogo di incontro e di scontro fu il sacramento della penitenza, al quale il con­ cilio aveva riconosciuto una funzione decisiva per il gover­ no dei comportamenti. L ’amministrazione del sacramento contrastava con la norma imposta da Paolo IV, che subor­ dinava l’assoluzione dei penitenti a una verifica prelimina­ re, per decidere se dovevano prima denunziare se stessi o altri al tribunale dell’Inquisizione. E c’era poi un’altra que­ stione: potevano i vescovi assolvere nel segreto della con­ fessione da colpe di eresia, secondo la norma approvata a Trento ? Questioni di tal genere si trascinarono a lungo nel­ la vita dei Paesi di Inquisizione: il vasto impero spagnolo e quello portoghese, gli Stati italiani e pochi altri.

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Alla condizione di illibertà di queste aree cattoliche non corrispose altrove una situazione opposta di libertà: le forme della censura culturale e del controllo sociale che si praticarono in regime di cristianesimo protestan­ te disegnano profili non cosi dissimili, tanto da poterli raccogliere sotto lo stesso comun denominatore (si par­ la infatti sempre piu di un’età dominata dovunque dal­ le forme di disciplina collettivamente imposte dal pote­ re). M a su una cosa non si nutre alcun dubbio: non fu ai vescovi tridentini che appartenne il compito di guidare il popolo sulle vie lecite e di insegnar loro quali fossero quelle illecite. L a pedagogia negativa della religione fu messa nelle mani dell’Inquisizione, alla quale spettò de­ cidere cosa fosse corretto e cosa sospetto o decisamente ereticale nella vita sociale e nei pensieri delle persone; quali libri si potessero leggere; con chi si potesse avere rapporti (per esempio, non con gli ebrei né con i prote­ stanti); quali devozioni fossero lecite e quali no. D ’altra parte, da questa condizione derivarono alcuni aspetti non solo negativi: pur mantenendo in vigore l’interpre­ tazione religiosa dell’eresia come delitto contro la reli­ gione, spettò all’Inquisizione (quella spagnola come quel­ la romana) prendere cautamente le distanze dalla caccia alle streghe e imporre criteri giuridici oggettivi nella va­ lutazione delle prove a carico in processi di stregoneria. E un percorso che s’impose, in altre forme e sotto altri giudici, anche nei Paesi dove eresia e stregoneria furo­ no considerati delitti contro la società, reati di fellonia7.

2. Missioni : conquista e riconquista. A lla C h ie sa ch iu sa nei co n fin i delle d iocesi e delle p a r­ ro cch ie cattolich e, c a ta fra tta n ella sua orto d o ssia e isp e­ 7

Si vedano ora su tale questione le osservazioni di o.

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z io n a ta atte n tam e n te d a a u to rità sta b ili, q u ale em erge d ai d ecre ti trid en tin i, si o p p o n eva la realtà d i un vasto m ondo europeo ed extra-eu rop eo che n on o b b ed iva a R o ­ m a e n o n era in gran p a rte nem m eno cristia n o . E sis te v a un p ro b lem a d i in iz ia tiv a religio sa che il con cilio n on eb ­ b e q u asi per n ulla p resen te. L ’ assenza d ei v e sc o v i ted e­ schi, n on ché d i q uelli delle g ià n um erose d io cesi create d a ll’espan sion e spagn ola e po rto gh ese, è la p ro v a p iu e v i­ d en te d ei lim iti g e o g ra fic i e m en tali d e l con cilio. L e n u o­ v e fro n tie re religio se non en traro n o n el suo d iseg n o , d e ­ lim ita to d al m on d o c ristia n o m ed iterran eo . E p p u re il m ondo della C o n tro rifo rm a fu caratterizzato d a una gran ­ d e sp in ta m ission aria. C o n q u ista , rico n q u ista, m issione: q u este le p arole che d o m in aro n o non il con cilio m a l ’o ­ p era d e i n u o vi o rd in i, d o v e si in carn aro n o e tro varo n o esp ression e n u o ve e im p o rta n ti ten d en ze co llettive.

Anche in questo caso le capitali che governarono il mo­ vimento e gli fornirono strategie e mezzi, furono altre da Trento: dal mondo iberico, a lungo dominante nell’ela­ borazione simbolica e nel controllo dei processi di con­ quista, si passò nel corso del Cinquecento a una sempre piu importante presenza di Roma; per quanto riguarda il Nuovo Mondo americano, toccò a papa Paolo III affer­ mare con chiarezza in un documento ufficiale (Altitudo divini consilii, i ° giugno 15 3 7 ) la piena dignità umana di quelle popolazioni e la necessità di evangelizzarle; lo fece sotto l ’impulso dei Domenicani e toccò a un membro di questo ordine, Marco Laureo, evocare nella sua predica pronunziata all’ apertura della sessione V, il 17 giugno 1546, l’esistenza di quelle terre lontane8. Ma lo scenario extra-europeo rimase privo di influenza sui lavori. Eppu­ re, su diversi punti le decisioni del concilio influirono sul­ l’esperienza religiosa dei popoli americani. La questione dei sacramenti e in modo particolare della penitenza, ad esempio, fu quella dominante nei concili provinciali ame-

di Simplicio , in ­

quisizione, stregoneria, medicina. Siena e il suo Stato ( 15 8 0 -16 2 1), Monterig-

gioni 2000, pp. 59-68.

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8Cfr. f . mateos, Ecos de Amérìca en Trento, in «Revista de Indias», 1945, n. 22, pp. 559-605.

i5 4

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ricani tenutisi a Lima, il primo nel 15 5 2 , il secondo nel 156 7 (quando il Tridentino era stato ufficialmente rice­ vuto in tutto l’impero spagnolo). Ma le forze decisive per la penetrazione del cristianesimo tridentino là dove do­ minava quella che veniva definita l’«idolatria» furono espresse dagli ordini religiosi e in modo speciale dai G e ­ suiti. L ’«estirpazione dell’idolatria» fu compito affidato agli inquisitori e ai vescovi9, ma fu grazie ai missionari at­ tirati da un modello apostolico di predicazione che il cri­ stianesimo penetrò in profondità. La forza dell’idea missionaria si fece strada anche co­ me reazione alla frattura dell’unità religiosa europea e al ridursi dello spazio occupato dai cattolici. La coscienza della rottura religiosa europea e della perdita di aree cosi vaste, una volta acquisita, mise in moto una volontà di ri­ sarcimento che trovò nel personale degli ordini religiosi vecchi e nuovi gli strumenti atti all’uopo. A i fini dell’ef­ ficienza dell’opera di conquista religiosa nei territori pas­ sati alla Riforma o nelle terre extra-europee, la centraliz­ zazione romana e le istituzioni promosse dal papato furo­ no decisive. Furono creati a Roma speciali «collegi» per la preparazione del clero da mandare in Germania (Col­ legio germanico, 1552) o in Ungheria (Collegio unghere­ se, 1578), in Inghilterra, Irlanda e Scozia. Modello intel­ lettuale di eccezionale importanza fu il Collegio romano, fondato dai Gesuiti nel 15 5 6 e divenuto in seguito l’Uni­ versità Gregoriana. Per le terre extra-europee venne isti­ tuito nel 1622 a Roma il Collegio «D e Propaganda Fide». Meccanismi formativi di questo genere avevano il loro esi­ to inevitabile in un accentuato carattere cosmopolita im­ presso nel personale missionario che si rifletteva nel tipo di religione divulgata in terra di missione: era una reli­ gione caratterizzata dalla fedeltà a Roma e dalle aspira­ zioni universalistiche, ma priva di collegamenti coi tratti indigeni e con le tradizioni locali di vita religiosa.

L ’opera di conquista religiosa ebbe anche un risvolto europeo: qui si trattò di contrastare l’avanzata della Rifor­ ma mantenendo i contatti con le minoranze cattoliche e studiando i mezzi piu efficaci per attrarre i non cattolici. M a le vere frontiere dell’espansione missionaria furono quelle extra-europee, delle Indie orientali, del Giappone e della Cina, come pure quelle del Nuovo Mondo ameri­ cano. Il fascino esercitato dall’idea del martirio e del san­ gue versato per la conquista delle anime, fu allora straor­ dinario10; migliaia di candidati si affollarono alle porte del­ la Compagnia di Gesù per essere inviati nelle ìndie (fu­ rono chiamati Indipetae, cioè coloro che chiedono le Indie come destino). Si voleva andare altrove, in paesi ignoti, tra genti nuove, a conquistarle e a salvarne l’anima. «A l­ trove» significò il mondo extra-europeo, le terre degli im­ peri coloniali spagnolo e portoghese; ma significò anche il mondo delle campagne europee, dove la rete delle istitu­ zioni ecclesiastiche restaurate e rivitalizzate dal concilio portò a superare i confini delle città. Nelle parrocchie già esistenti e in quelle di recente costituzione un clero di ti­ po nuovo venne a risiedere stabilmente e ad esercitare la cura d ’anime secondo i criteri tridentini. Insieme al per­ sonale ecclesiastico vennero importati anche nuovi crite­ ri di ortodossia: il conflitto con la religione tradizionale fu inevitabile. L ’uso delle cose e degli spazi sacri, i riti di passaggio, le feste, le cure per la fertilità del suolo e per la salute degli uomini e delle bestie: non è facile stendere un catalogo completo delle pratiche e delle credenze che do­ vettero passare al vaglio di una religione piu rigorosa dot­ trinalmente nei suoi rapporti col mondo magico, ma an­ che piu complessa e difficile, oltre che fittamente presen­ te con le sue istituzioni e con i suoi rappresentanti oltre i limiti consueti del mondo cittadino europeo. N ell’opera di revisione delle pratiche tradizionali o di conquista di nuovi popoli svolsero un compito importante gli strumenti

9Per un bilancio, cfr. Catolicismo y Extirpaciòn de ìdo la trias. Siglos xvi-xvm . Cbarcas Chile Mexico Peni, a cura di G. Ramos e H. Urbano, Cusco 1993.

10 Per una ricostruzione di grande finezza cfr. G. c. roscioni, I l desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani, Torino 2001.

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messi a punto dal Tridentino, in primo luogo la confes­ sione. Attraverso il filtro dei manuali per questo sacra­ mento furono passati in rassegna i peccati delle popola­ zioni americane11. M a furono soprattutto le truppe mobili dei missionari a portare avanti gli esperimenti piu importanti nell’accultu­ razione e nella conquista. Bisognava fare i conti con le dif­ ferenze sociali e di cultura: c’erano le culture folkloriche, ma esistevano anche differenze religiose e culturali esplici­ te e profonde, come quelle che nel mondo iberico divide­ vano tradizioni ebraiche e musulmane da quelle cristiane. I missionari svilupparono tecniche di penetrazione capaci di portare la popolazione al momento della «conversione», facendo leva sulle tensioni interne e proponendo forme di pacificazione dei conflitti che si rivelarono particolarmen­ te efficaci nel mondo italiano come in quello iberico12. La repressione non bastava a risolvere il problema, che non era certo l’unico: bisognava offrire un volto accogliente della Chiesa ai poveri e guidare i cristiani nell’esercizio dell’esa­ me di coscienza preliminare alla confessione15. A tutto que­ sto si offrirono come candidati i missionari. Lo sguardo che fissarono sulle differenze non fu quello uniformatore che aveva dominato a Trento, ma quello che concepiva l’adat­ tamento al diverso come il modo migliore per operare il cambiamento. Per questo davanti allo scenario di un po­ polo delle campagne, che ignorava le dottrine messe a pun­ to dai teologi e sembrava lontanissimo dal cristianesimo, i missionari gesuiti parlarono di «altre Indie» («otras Indias »). Alla rete istituzionale delle parrocchie, quando e nel­ la misura in cui fu costruita, spettò un compito di controlu Cfr. M. azoulai, Les péchés au Nouveau M onde.Les manuels pour la confession des Indiens x v f - x v i f siècles, Paris 1993.

12Sul mondo iberico sono avviate ricerche promettenti; si veda intanto m .-

l . copete

e f . palomo, Des Carèmes après le Caréme. Stratégies de conversion et fonctiom politiques des missìons intérieures en Espagne et au Portugal (1540-1650), in «Revue de synthèse», IV (1999), nn. 2-3, pp. 359-80. 13 Cfr. L. chàtellier , La religion des pauvres, Paris 1993 [trad. it. La reli­ gione dei poveri, Milano 1994].

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lo territoriale, nel quale il parroco si trovò a collaborare con l’altro rappresentante istituzionale del mondo ecclesiasti­ co, l’inquisitore (di cui spesso divenne vicario). E anche in questo caso la confessione costituì un passaggio essenziale: chi andava a confessarsi in parrocchia, come era obbligato a fare dai decreti tridentini, veniva interrogato su una va­ sta gamma di materie; se dalla sua confessione emergeva qualcosa di poco consonante con l’ortodossia tridentina, fosse una bestemmia di tipo ereticale, fosse una giaculato­ ria recitata per guarire da una malattia, veniva rinviato sen­ za assoluzione e con l’obbligo di presentarsi davanti al vi­ cario dell’Inquisizione.

3. L e nuove form e d ell’esperienza religiosa. Il concilio affrontò velocemente, nella sua ultima ses­ sione dei giorni 3 0 4 dicembre 15 6 3, una gran quantità di temi: l’esistenza del Purgatorio, l’invocazione e la ve­ nerazione dei santi e delle loro reliquie, le immagini de­ vote e molte altre cose; l’ultimo tema - prima di affidare al papa le questioni della redazione dell’Indice, del cate­ chismo, del Breviario e del Messale - fu quello delle in­ dulgenze. Come vuotando un sacco si trovano in fondo gli oggetti messi dentro per primi, cosi non per caso alla fine dei suoi lavori il concilio incontrò proprio la questio­ ne delle indulgenze, che aveva mosso tutto il cataclisma del cristianesimo europeo. Con le indulgenze era unita la questione del Purgatorio: il concilio si pronunciò solen­ nemente sulla verità dell’esistenza di quel luogo, am­ pliando e precisando quel che aveva detto sulle «pene pur­ gatorie» nel 14 39 il Concilio Fiorentino. Il Purgatorio era un luogo reale, un carcere dove le anime erano rinchiuse e dove aspettavano dall’aiuto dei fedeli, e soprattutto dal­ le messe in suffragio, la possibilità di essere liberate. Era una risposta nettamente negativa su di un punto capitale del conflitto tra le varie interpretazioni del cristianesimo allora esistenti. La questione del Purgatorio era quella do­

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m in an te nelle polem iche religiose; d a li si p a rtiv a p er in ­ d ivid u are chi ad eriva alla R ifo rm a e chi no. E r a anche m a­ teria che toccava in p rofon d ità i sentim enti e i legam i um a­ ni: il rap p orto tra v iv i e m o rti p assava attraverso la p os­ sib ilità d ei prim i d i alleviare le pene d ei secondi. L ’ o rd i­ nam en to religioso terreno o b b ed iva a u n p ro fo n d o senso della giu stizia e a ffid a v a all’ altro m ondo il com pito d i p re­ m iare e punire. M a , m entre l ’in terpretazion e della R ifo r ­ m a lasciava a u n D io altissim o e in com pren sibile le d eci­ sio n i co n cern en ti la sorte etern a d egli esseri u m an i, la C h ie sa cattolica a v e v a tro v a to nella d o ttrin a del P u rg a­ torio il p u n to ch ia ve della sua concezione giu rid ica e teo ­ logica della giu stizia e del perd on o. L a «m on tagn a b ru n a» d an tesca era la costruzione piu facilm en te p ercep ib ile del­ l ’ in tero sistem a, quella d o ve tro vavan o p ien ezza d i senso tu tte le p ratich e d evo te, tu tti i vin coli sociali, tu tti i m ez­ zi e i p o teri d ell’ord in e sacerdotale. C o m e ogni p ra tic a d i giu stiz ia, anche q u ella delle in ­ du lgen ze e d ei s u ffra g i p er le anim e p u rg an ti era m in ac­ ciata d a ll’ astuzia d e i co rru tto ri e d a ll’ign o ran za d el p o ­ polo. Il con cilio segnalò il p ericolo d ello sfru tta m e n to a scopo d i lucro d i u n a sim ile d o ttrin a e sotto lin eò la n e­ cessità che la p leb e ign oran te ven isse ten u ta lo n ta n a d al­ le sp ecu lazion i sui suoi asp etti in tellettu alm en te d iffic ili e n on e d ific a n ti. P ro b le m i sim ili si affa c c ia n o nel d ecre­ to sui san ti e sulle im m agini: anche q u i si d o v e v a ten er co n to d ella n ascita d i una religion e severa , che rifiu ta v a i cu lti d elle im m agini m iracolose e delle v irtù tau m atu r­ g ich e d e lle re liq u ie in n om e di u n ’ a cc e n tu a z io n e d ella ce n tra lità d i C ris to 14. L ’U m an esim o cristia n o di E ra sm o a v e v a c ritica to severam en te gli in tre cci fra a v id ità eccle­ siastica e cred u lità p op olare e a v e va m ostrato il p erm a­ n ere d i p oliteism o e id o la tria an tich i so tto la v e rn ic e c ri­ stian a. In un suo d iv e rte n te e sarcastico Trattato delle re­ liquie C a lv in o a v e v a fatto u n in v en ta rio delle fo re ste di 14 Cfr. c.

m . n . eire , War against Idols. The Reformation o f Worship from

Erasmus to Calvin , Cambridge 1986.

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alb eri della V e ra C ro ce e d e i fiu m i d i la tte della V erg in e che si p o tevan o o tten ere m etten d o in siem e gli oggetti v e ­ n e rati n elle ch iese del suo tem po. U n v e sco v o che p o i sa­ re b b e d iven tato p ro te sta n te , P ier P ao lo V e rg e rlo , a v e v a te n ta to d i elim in are n ella sua d io cesi d i C a p o d istria un cu lto a S an G io rg io , d im o stran d o il cara ttere legg en d a­ rio d el perso n aggio . P iù v a sto in cen d io a v e v a su scitato e co n tin u ava ad alim en tare la q uestion e delle im m agini d e ­ vo te : l ’ ala rad icale della R ifo rm a ave va rid ato fo rza a te n ­ den ze icon oclaste p ro m u o ven d o la d istru zio n e delle im ­ m agin i d i san ti e m ado n ne nelle chiese. Il concilio chiuse som m ariam ente la questione sul p ia ­ no d ottrin ale: erano da condannare coloro che n egavan o che i san ti si dovessero in vo care e che le loro reliquie fo s­ sero fo n ti d i b e n efici per g li uom ini. B iso g n ava però ten er presen te che i p rim i e le seconde erano solo m ediatori d el­ la protezion e d ivin a. Q u an to alle im m agini, stesso discor­ so: l ’onore che si faceva lo ro era legittim o m a d o ve va es­ sere rivo lto a chi v i era raffigu rato . D ’ altra p arte, il p o p o ­ lo rice v e v a dalle im m agini la conoscenza della storia della R ed en zio n e e im parava a im itare i m odelli m orali che v i erano rappresen tati. U n ’id ea severa della disciplin a si ac­ com pagn ava alla d ifesa d ella p iena v alid ità d i tutto ciò che v e n iv a im pugnato dai riform atori. Q u ella stessa idea d i d i­ sciplin a ecclesiastica rito rn a in tu tti i docu m en ti d i ques t ’ultim a sessione relativi all’im m agine che il clero d o ve va o ffrire d i sé al popolo dei laici: frugalità, m odestia, bu on a am m inistrazione d ei lasciti p ii, una predicazion e fatta so­ p rattu tto di un esem pio d i v ita da im itare. L a re a ltà della v ita re lig io sa d e ll’ep o ca e d i q u ella su c ­ c e ssiv a eb b e p oco a che sp a rtire con q u esti te sti; e b is o ­ gn a ag giu n gere ch e chi h a p ro vato a legg ere lo svilu p p o d elle arti fig u ra tiv e m etten d o lo in rap p o rto co n le o rto ­ d o ssie religio se d o m in an ti h a d o v u to am m ettere che a r­ te e relig io n e sono realtà n on facilm en te c o n fro n ta b ili15. 15 s.

A questa osservazione fatta da Johann Huizinga si è richiamato anche

slive , Notes on thè Kelationship o f Protestantism to Seventeenth Century Dutch

Painting, in «The Art Quarterly», X IX (1956), pp. 3-15.

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L ’ attegg iam en to cau to e so sp etto so d e i v e s c o v i trid e n ­ tin i, m osso d a p reo ccu p azio n i p ed ag o g ich e e m o ra listi­ che, n o n fre n ò lo svilu p p o d ella gran d e p ittu ra , cosi c o ­ m e l ’ o stilità d ecisa d i un C a rlo B o rro m e o n on im p ed ì la v e r a e p ro p ria « fa s c in a z io n e d el te a tro » d e ll’ e p o c a 16. M a g g io re e ffic a c ia sem b ra ave r avu to l ’in te rv e n to c o n ­ ciliare in m ateria d i m u sica litu rgica, con la sua p re o c ­ cu p azio n e d i p ren d ere le d istan ze d alla m u sica p ro fa n a 17. E u n fa tto in co n tro vertib ile che l ’in ten to d i applicare una severa disciplina ai com portam enti sociali caratterizzò d iffu sam en te l ’op era delle chiese nell’E u ro p a d ell’ età con ­ fessio n ale18. N ella repression e dei gioch i, delle feste e d i quella che fu d e fin ita «la p azzia del b a llo » , si poteron o p e rfin o realizzare in con sap evoli form e d i collaborazion e tra rifo rm a to ri p ro testa n ti e cu ltura clericale cattolica19. M a in tanto, per restare al decreto trid en tin o, l ’ intento p e ­ dagogico d i usare le im m agini com e lib ro p er ch i non sa­ p e v a leggere portò allo sviluppo d i una p ittu ra di p ietà che riem p i d i ra ffig u razio n i le storie d i santi e legittim ò i ric ­ chi arred i ico n o g rafici delle chiese, che fu ro n o assogget­ tate allora a un restau ro sistem atico e a u n a revisio n e d ei corredi d i pitture pre-tridentine20. D ’ altra p arte, la volon tà d i co n trasta re le id e e icon oclaste d ei rifo rm a to ri p ro te ­ stan ti in coraggiò lo sviluppo del culto delle im m agini. D o ­ v e p iu fo rtem en te attecch iron o le idee della R ifo rm a , p iu 16 Cfr. f . taviani, La commedia dell’Arte e la società barocca. La fascina­ zione d el teatro, Roma 1969. Come osserva c. Bernardi, I l teatro fra scena e ritualità, in Trento. I tempi del Concilio, supplemento a « Economia trentina», X LIV (1995), n. 1, pp. 197-209, in particolare p. 197, «nei decreti del Con­ cilio di Trento il teatro non viene nominato». 17 Cfr. Musica e liturgia nella Riforma tridentina, a cura di D. Curti e M. Gozzi, Trento 1995. 18 Cfr. per la Germania il quadro sintetico offerto da R. po-chia hsia , So­ cial Discipline in thè Reformation: Central Europe 15 5 0 -17 5 0 , London - New York 1989. 15 E uno dei temi dell’innovatrice ricerca di a . arcangeli, Davide 0 Salomé? I l dibattito europeo sulla danza nella prima età moderna, Treviso-Roma 2000. 20 Cfr. G. palumbo , L ’ uso delle immagini e la diffusione delle idee religiose dopo il Concilio di Trento, in Trento. I tempi del Concilio cit., pp. 155-71· Sul­ la questione cfr. d. freedberg , The Power o f Images, Chicago 1989 [trad. it. I l potere delle immagini, Torino 1993].

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deciso fu l ’ im pulso dato in età p ost-trid en tin a al culto d el­ le im m agini m iracolose. E se m p lare il caso di F aen za d o ­ v e all’ esecuzione capitale degli « e re tic i» segui im m ed ia­ tam en te l ’organ izzazione d el culto d i u n ’e ffig ie cartacea della M ad o n n a scam pata a un in cen dio, ch iam ata la « M a ­ d o n n a del F u o co » . Q u an to alle reliqu ie, la distrib u zion e che ne v e n iv a fa tta da p arte d i R o m a segnò un acm e con la scoperta e la coltivazion e della « R o m a sotterran ea» d el­ le catacom be, d o ve in un prim o m om ento tu tti i resti u m a­ n i ven n ero con sid erati re sti di m artiri cristian i. L a logica d i quello che è stato d efin ito il «catto licesim o p o p o lare» è stata in d ivid u a ta nella ten d en za a costru ire rap p o rti di clien tela con le anim e dei m o rti attraverso la d evo zio n e e l ’ on ore m ostrato ai loro re sti21. M a è d iffic ile ign orare che su quella ten den za si im p ian tò allora un n u o vo rap p orto tra il popolo dei laici e u n m ondo ecclesiastico che n e ha ric a v a to un a legittim azion e p ro fo n d a, capace d i su rro ga­ re l ’ an tico vin co lo giu rid ico d i au to rità nel m om en to in cu i si an d ava in debo len do . A n ch e la ven erazio n e ai san ti e alla M ad o n n a d o v e va svilu p parsi im petu osam ente nella sto ria successiva della religio sità catto lica, con un im p e­ gno delle fo rze della C h iesa che andò b en al d i là delle cau­ tele trid en tin e. L e d evo zio n i alla M a d o n n a si m oltiplica­ ro n o co si com e i san tuari a lei ded icati, reg istrati a m età S eicen to in num ero altissim o in un ricco Atlas Marìanus re d a tto d al ge su ita W ilh e lm G u m p p en b erg . C o n la d e ­ vo z io n e alla M ad o n n a eb b ero uno stre tto legam e le co n ­ gregazio n i organ izzate d a i G e su iti, che stesero il lo ro re ­ tico lato d i solid arietà e d i p ellegrinaggi nelle città eu ro ­ pee. L a loro op era creò u n a rete a m aglie fitte capace di u n ire e d i istru ire nella c o n d o tta d i v ita m igliaia e m igliaia d i perso n e, racco lte secondo il m estiere, l ’età, la co n d i­ zio ne sociale. In B a v ie ra , il p rincipe eletto re M assim ilia­ no I depose un atto di con sacrazion e alla M ad o n n a p re s­ so il san tuario d i A ltò ttin g , m eta d i un freq u en tatissim o 21

Si veda m . carroll, Veiled Threats. The Logic ofPopular Catholicism in

Italy, Baltimore-London 1996.

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CAPITOLO DECIMO

pellegrinaggio mariale delle congregazioni22. Era una reli­ gione nuova, che niente aveva a che spartire con le espe­ rienze dei padri tridentini o con le loro proposte. Il suc­ cesso delle forme spettacolari della devozione, come le processioni e i pellegrinaggi, fu stimolato e indirizzato ver­ so Roma con la proposta dei Giubilei. Roma diventava cosi sempre piu la meta principale del pellegrinaggio e rin­ novava la sua urbanistica e i suoi percorsi, aprendo ai pel­ legrini i tesori sotterranei dei martiri del cristianesimo pri­ mitivo. La proposta del pellegrinaggio giubilare a Roma mirava a farla diventare il centro principale di quella vita religiosa che il modello tridentino aveva disegnato ben di­ sciplinata e composta aH’interno delle diocesi. Non parliamo, infine, dello sviluppo del linguaggio fi­ gurativo nella comunicazione del sacro. La questione del­ le immagini devote, affrontata dal concilio al termine dei suoi lavori, era solo un aspetto di un conflitto che in­ vesti allora il mondo dell’arte figurativa, a partire dal suo riconosciuto protagonista, Michelangelo. G li attac­ chi contro i nudi michelangioleschi della Sistina erano stati alimentati dal partito intransigente dei «chietini», cioè dalla fazione di Gian Pietro Carafa, ma avevano col­ pito l’artista che, nelle sue diverse interpretazioni della Crocefissione e della Pietà, aveva dato forma alla misti­ ca della Redenzione del gruppo dominato dal cardinale Reginald Pole, di cui facevano parte Giovanni Morone, Vittoria Colonna, Marcantonio Flaminio e altri lettori del Beneficio di Cristo. La soluzione di mettere i braghettoni ai nudi di Michelangelo simboleggiò bene il compromesso che i committenti ecclesiastici erano di­ sposti a raggiungere con la pittura, pur di potersi avva­ lere delle sue grandi capacità di comunicazione. U n ’in­ terpretazione dello spirito tridentino, teso a un uso di­ dattico delle immagini e dunque portato a un controllo puntuale dell’esattezza storica e teologica del loro con­ 22 Cfr. l . chàtellier , L ’Europe des dévots, Paris 1987, pp. 168-69.

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tenuto, fu quella di cui fu protagonista il cardinale G a­ briele Paleotti: a lui si dovette il progetto (incompiuto) di un vero e proprio Indice (ideale) delle immagini proi­ bite e di quelle consentite23. A pochi decenni dalla conclusione del concilio era già evidente la divaricazione di linguaggi, modelli e prati­ che che si era creata fra le due Europe - quella cattoli­ ca e quella della Riforma. Intanto, la vitalità del catto­ licesimo moderno si manifestava in forme di cui l ’as­ semblea conciliare tridentina non aveva avuto idea.

4. I l papato. Un argomento sul quale il concilio non osò dire nulla fu il papato. Su di esso si deve solo registrare il silenzio, appena interrotto da flebili lagnanze e calde raccoman­ dazioni come quelle che si rivolgono a un’autorità di ra­ gione superiore, che non dev’essere indagata. M a non si può parlare di distrazione dei vescovi di fronte al pro­ blema: non ci poteva essere distrazione o ignoranza da­ vanti a un’istituzione che era al centro della frattura del­ l ’unità cristiana sul piano europeo ed era ancor piu cen­ trale nella realtà politica che circondava e condizionava il concilio. Se ne occuparono allora altri concili. Fu un sinodo della Chiesa riformata di Francia (quella che da parte cattolica si indicava come della «pretesa riforma») a completare la confessione di fede con un articolo che definiva il papato come l ’Anticristo: e le ragioni, de­ scritte in linguaggio teologico, risiedevano in quelle di­ mensioni del potere papale in terra e in cielo che spin­ gevano allora fra Paolo Sarpi a parlare di «totatus»24. Nel 23 Cfr. p . prodi, Arte e pietà , Bologna 1982. 24 Si veda b . g . Armstrong, “Semper reformanda” : The Case o f thè French Reformed Church, 15 5 9 -16 2 0 , in La ter Calvinistn. International Perspectives, a cura di W. F. Graham, Sixteenth Century Essays and Studies, X X II, Kirksville (Mo.) 1994, pp. 119-38, in particolare le pp. 133 sgg.

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CAPITOLO DECIMO

silen zio d i T re n to è isc ritto il p assaggio d el m ondo c a t­ to lic o d a i co n cili p re c e d e n ti, che a v e v a n o p a rla to d e l­ l ’ u ffic io d e l p ap a e d el m od o d i svolgerlo e ne a ve va n o d e p re ca to e co n d an n ato il n ep otism o , al su ccessivo V a ­ tican o I, che a v re b b e d e fin ito teologicam en te le rag io n i d e l p rim ato p ap ale con la d o ttrin a d ell ’in fa llib ilità .

Capitolo undicesimo Le fonti e la storiografia

1. La conoscenza dei fa tti. Nelle condizioni di controllo romano sulla conoscen­ za e sull’interpretazione delle fonti che abbiamo sopra descritto, l’accesso alla documentazione storica fu un fat­ to raro, sorvegliato, per lo piu impossibile; solo per i pri­ mi sette decreti si poteva ricorrere al profilo di infor­ mazioni sommarie sull’ andamento delle sessioni com­ parso a stampa nel 154 8 insieme ai testi approvati1. E p ­ pure, molti nutrivano curiosità nei confronti della do­ cumentazione relativa al Tridentino, proprio a causa del­ l’importanza assunta da quei decreti nella vita degli individui e delle collettività. Nessuno meglio di fra Pao­ lo Sarpi ha espresso meglio il desiderio di conoscere quei documenti, quella storia: Io, subito ch’ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l ’intiero; e dopo l ’aver letto con diligenza quello che trovai scritto e li publici documenti usciti in istampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercar nelle reliquie d e’ scritti de’ prelati et altri nel concilio intervenuti, le memorie da loro la­ sciate e li voti o pareri detti in publico, conservati dagli autori proprii o da altri, e le lettere d ’avisi da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenza12.

Quella documentazione esisteva ma era di difficile ac­ cesso. L ’elenco sommario fornito da Sarpi indica i diver­ si dipi di documenti nati dal concilio o in funzione di es­ so: oltre agli atti «pubblici» - emanati dal concilio o da 1 L ’edizione fu pubblicata a Milano; cfr. s. kuttner , Decreta septem priorum sessionum Concila Tridentini sub Paulo III. Pont.Max., Washington 1945. 2p. sarpi, Istoria d el Concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, 2 voli., To­ rino 1974, I, p. 5.

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altre autorità e reperibili senza problemi - c’erano «le me­ morie»: i diari redatti durante il concilio, non solo quelli d ’ufficio del segretario Angelo Massarelli, ma quelli di tut­ ti coloro che avvertirono il bisogno di raccogliere infor­ mazioni sull’evento che vivevano, come pure la memo­ rialistica nata successivamente, talvolta in forma autobiografica (come l ’autobiografia del vescovo di Cadice Martin Pérez de Ayala)3. C ’erano i testi dei voti dei pa­ dri conciliari e quelli dei pareri teologici sulle questioni discusse; e c’erano le lettere, soprattutto quelle con le qua­ li Roma controllava e dirigeva i lavori del concilio, cioè le corrispondenze dei cardinali legati. Proprio su una parte di questa corrispondenza - com’è stato dimostrato - si fondò per un certo periodo l’esposizione del Sarpi, che le ebbe probabilmente grazie all’amicizia di Roberto B el­ larmino, nipote di un legato al concilio poi diventato pa­ pa, Marcello Cervini4. Documentazione preziosa, non tut­ ta conservata, quella relativa alla corrispondenza tra car­ dinali nipoti e cardinali legati: la corrispondenza d ’ufficio per il primo periodo del concilio era rimasta in possesso dei cardinali Alessandro Farnese e Marcello Cervini, quel­ la del secondo periodo nell’eredità dei cardinali Del M on­ te e Crescenzio, come di regola allora. Ma, al momento della conclusione del concilio, le regole cambiarono e la custodia dei documenti nell’Archivio segreto vaticano s’impose come garanzia del controllo e della gestione del­ le informazioni. La parte piu cospicua del dossier vatica­ no si formò intorno agli otto volumi degli atti del conci­ lio, raccolti dal segretario Angelo Massarelli e consegnati alla Santa Sede nel 1566. Alla data della morte di due per­ sonaggi che avevano avuto un’importanza decisiva nel go­ verno dell’ultima fase del concilio, il cardinale Morone 5 Su cui si veda H. j e d i n , Die Autobiogmphie des Don Martin Pérez de Ayala, inro., Kìrchedes GlaubensKircheder Geschichte, Freiburg 1966, II, pp. 282-92. 4 c . v i v a n t i , lina fonte dell’«Istoria del concilio tridentino», di Paolo Sarpi, in «Rivista storica italiana», LX X X III (1971), pp. 608-32, ha dimostrato con ri­ scontri puntuali come nella narrazione sarpiana siano cuciti brani di lettere dei legati testualmente riportati, con grande scrupolo di esattezza documentaria.

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(1580) e il cardinale Carlo Borromeo (1584), in Curia si fu molto attenti a garantire che le carte in loro possesso relative al concilio venissero assicurate alla custodia ro­ mana e conservate in uno specifico fondo archivistico: co­ me si è visto dagli studi e dalle edizioni che ne sono state fatte appena l’accesso all’Archivio è stato liberalizzato, si tratta di carte decisive per seguire la parte in ombra del concilio, quella che si svolgeva tra il Cardinal nipote e il legato’ . Ma, fino alla svolta di Leone X III, tutta la cospi­ cua documentazione romana è rimasta inaccessibile: la consultazione fu consentita prima di quella data solo per precisi e ben determinati scopi. La pubblicazione a Lon­ dra nel 16 19 dell’Istoria del Sarpi fece si che si mettesse­ ro le fonti vaticane a disposizione del gesuita Pietro Sfor­ za Pallavicino per rendere autorevole la risposta polemi­ ca di parte romana a quella interpretazione (un’« apologia mescolata d ’istoria», come la definì lo stesso autore)56. In un contesto di questo tipo, l’uso dei documenti tridenti­ ni restò eccezionale e alimentò piuttosto la controversia confessionale che la ricerca storica, almeno fino a quando - con l’ apertura degli archivi vaticani da parte di L eo ­ ne X III - non si rese possibile l’edizione completa e scien­ tificamente accurata degli atti. A partire dal 19 0 1, l’edi­ zione critica dei documenti relativi al concilio cominciò a essere pubblicata a cura della «Gòrres-Gesellschaft», una società di uomini di cultura cattolici nata nel 18 76 in una Germania agitata dallo scontro del Kulturkampf. Si trat­ ta dell’impresa erudita che ha occupato tutto il x x secolo e che ha cambiato la nostra conoscenza della storia del concilio, delle sue vicende religiose, politiche e perfino fi­ nanziarie7. Su questa nuova base documentaria ha preso

5 Cfr. j. s u s t a , Die Ròmische Kurie und das Ronzìi von Trient unter Pius I V . Aktenstiicke zur Geschichte des Konzils von Trient, 4 voli., Wien 1904-14. 6Istoria del Concilio di Trento... ove insieme rifiutasi con autorevoli testi­ monianze un 'Istoria falsa divolgata nello stesso argomento sotto nome di Pietro Soave Poiana, Roma 1636-37. 1 Concilìum Tridentinum. Diarìorum, Actorum, Epistolarum, Tractatuum no­ va collectio, 13 voli., Freiburg im Breisgau 1901-85. Gli aspetti finanziari ri-

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corpo un rinnovam ento delle ricerche e delle discus­ sioni che ha trovato nell’opera di H ubert Jedin , uno storico tedesco perseguitato per m otivi razziali nella Germ ania nazista e rifugiatosi in Vaticano, il momen­ to piu alto. L a sua storia del concilio, data alle stampe a partire dal primo dopoguerra contemporaneamente in Italia e in Germ ania8, ha offerto il panorama piu pre­ ciso e documentato della storia del concilio e, nello stes­ so tempo, quella risposta cattolica di grande respiro al­ l ’immagine del concilio stesso fissata nella grande ope­ ra di fra Paolo Sarpi che Pietro Sforza Pallavicino non era riuscito a creare. La controversia, però, come os­ servava Jed in nella conclusione dell’opera, non era più quella confessionale quanto piuttosto quella ecclesiale, cioè interna al mondo cattolico, impegnato nelle ri­ flessioni suscitate dal Concilio Vaticano II: secondo J e ­ din, il Concilio di Trento era allora considerato da al­ cuni «un ostacolo alla riunificazione delle chiese cri­ stiane, dagli altri come il baluardo della C ontrorifor­ ma, da altri ancora come la quintessenza dell’autenti­ ca tradizione cattolica»9.

2. I nomi delle cose. D i fronte al processo di distacco e di allontanamento storico del mondo cattolico dalle sue matrici tridentine, lo storico che aveva legato il suo nome con una vita di lavoguardano l’opera del tesoriere del concilio, Antonio Mannelli, nei cui libri di conti si trova l’indicazione dei versamenti attraverso i quali il papato assicurò i mezzi ai vescovi piu poveri e pili fedeli. Sullo stato delle fonti e sulla storio­ grafia rimane utilissimo lo studio di H. jedin , Das Konzilvon Trient. Ein Oberblick iiber die Erforschung seiner Geschichte, Roma 1948; si tratta del lavoro preliminare alla grande opera dello stesso autore - Geschichte des Konzils von Trient, 4 voli., Freiburg 1949-75 [trad. it. Storia d el Concilio di Trento, 4 voli., Brescia 1973-81] - che costituisce l’opera fondamentale sull’argomento. 8II volume I fu pubblicato nel 1949 nelle due versioni italiana e tedesca. Il IV e ultimo è stato pubblicato in Germania nel 1975 e in Italia nel 19 81. 5 H. JEDIN, Premessa a II Concìlio di Trento, IV cit., pp. 11, 8-9.

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ro all’età tridentina e al Concilio di Trento non poteva che registrare il mutamento in atto. Formatosi alla scuola del­ la grande storiografia etico-politica tedesca, aveva fatto suo il precetto di Leopold von Ranke: anche nella storia della Chiesa lo storico doveva ricostruire la verità dei fat­ ti, cosi come si erano realmente svolti. La storia della Chie­ sa, che per altri storici di formazione teologica come J o ­ seph Lortz era «storia del piano divino di salvezza» (Heihgeschichte), per Jedin restava una disciplina legata al­ le fonti e alle regole del mestiere, dove dunque la verità era solo quella accertabile sulla base dei documenti, lasciando fuori dalla porta i presupposti generali dello studioso. La storia del concilio proposta da Jedin, però, non è consistita solo in un piu approfondito scavo nelle fonti storiche; essa è stata dominata da un tentativo di siste­ mazione concettuale in un ambito che è stato sempre al centro di controversie. La sua proposta sintetica fu rac­ colta in un saggio scritto durante l’impresa della ricerca storica sul concilio e intitolato significativamente R ifor­ ma cattolica 0 Controriforma? Alla domanda posta nel ti­ tolo, dopo una ricostruzione della lunga vicenda di di­ battiti e contrasti sui vocaboli, Jedin rispose adottando tutti e due i termini per indicare con «Controriforma» la reazione di autodifesa e di riconquista da parte della Chiesa nei confronti della Riform a protestante, nel cor­ so della quale «il Papato si servi senza nessuno scrupolo dei mezzi costrittivi ecclesiastici e di stato di cui dispo­ neva»10; la Riform a cattolica invece era per Jedin «la ri­ flessione su di sé attuata dalla Chiesa in ordine all’idea­ le di vita cattolica raggiungibile mediante un rinnova­ mento interno»11. Nel disegno tracciato da Jedin, la R ifor­ ma cattolica è, rispetto alla Controriforma, un processo di piu lunga durata: si radica nel movimento dei secoli 10id ., Katbolische Reformation oder Gegenreformation ? Ein Versuch zur Klàrung der Begnffe nebst ein ]ubilàumsbetrachtung iiber das Trienter Ronzìi , Luzern 1946 [trad. it. Riforma cattolica o Controriforma?, Brescia 1957, p. 39]. 11 Ibid.f p. 43.

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precedenti per un rinnovamento dei costumi e della di­ sciplina e trova nella sfida di Lutero la forza per trasfor­ mare anche il papato, che da questo momento in poi sarà alla testa del movimento di riforma servendosi del Con­ cilio di Trento a questo scopo. Rivolgendosi ai lettori te­ deschi, Jedin suggeriva anche di distinguere tra Reform e Refortnation. Nel vocabolario storico, si è sedimentato definitivamente l ’uso del secondo termine per indicare la Riforma protestante; da qui la necessità di evitare equi­ voci e contrapposizioni. La «vera» riforma della Chiesa, quella cattolica, non dev’essere confusa, secondo Jedin, con una «rivoluzione» come quella protestante. Nel confronto tra le parole usate dai suoi storici, il Con­ cilio di Trento attraversa dunque tutta la gamma degli usi del termine «Riforma». Fra Paolo Sarpi, il primo vero sto­ rico del concilio, nel darne una definizione preliminare, sintetica quanto polemica, usò il termine opposto, defi­ nendola «deformazione», e non una qualsiasi, bensì «la piu grande» dagli inizi della cristianità12. Dunque per lui, che era un contemporaneo degli esiti del concilio, quel­ l’evento si era risolto in una svolta brusca quanto delu­ dente rispetto alle attese della società cristiana. Dal pun­ to di vista della sua concezione cristiana della storia, quel­ la svolta era tanto piu negativa e deformante quanto piu radicalmente innovava nel tessuto tradizionale della vita religiosa e nel modello antico della Chiesa. La sua propo­ sta non rimase isolata; caratteri dello stesso genere furo­ no individuati nel concilio dalla storiografia d’ispirazione filo-protestante e liberale dell’Ottocento, che li indicò sin­ teticamente col concetto di Controriforma e con la vo­ lontà programmatica della Chiesa romana di arroccarsi in posizione ostile rispetto all’ispirazione evangelica della Riforma promossa da Lutero, Zwingli e Calvino. Siamo davanti a un panorama singolare, per quanto ri­ guarda le parole: mentre la Riforma (protestante) conti12 P.

s a r p i,

Istoria d el concilio Tridentino

c it.,

I,

p. 6.

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nua da secoli a venir designata con questo termine13, sia pure tra le proteste dei cattolici (che preferirebbero par­ lare di «rivoluzione», come si è visto), ben diverso è il ca­ so della storia della Chiesa cattolica per l’epoca di cui qui stiamo parlando. Jedin ne è stato cosi consapevole che, ri­ flettendo sull’impianto del suo maggior lavoro, ha senti­ to il bisogno di ricostruire la tormentata storia dei termi­ ni e dei concetti utilizzati e di volta in volta proposti, di­ scussi, modificati, per definire la Chiesa cattolica nell’età di Lutero e del Concilio di Trento. Una storia di nomi, dunque: ma i nomi sono importanti. In quanto generaliz­ zazioni dei risultati della ricerca servono a renderne pos­ sibile la comunicazione e a riassumere quel che di nuovo si è scoperto. Ma per la carica simbolica propria dei no­ mi, ogni scelta è significativa della direzione che si segnala e del posto che si assegna all’oggetto specifico di studio all’interno di un disegno d ’insieme del processo storico. Nel caso del mondo cattolico e dei suoi orientamenti nel xv i secolo, si è parlato di volta in volta di Controriforma, Restaurazione, Riforma cattolica (o tridentina). Cosi fi­ no al tempo di Jedin; poi, i nomi sono andati cambiando. Ora, poiché Jedin stesso ha fornito in quel suo denso e fondamentale saggio una messa a punto delle vicissitudi­ ni dei termini, possiamo rifarci alla sua ricostruzione per seguire questa tormentata vicenda di alcune parole. Il termine «Controriforma» fu coniato da un giurista di Gottinga (Johann Stephan Piitter) nel 17 7 6 per desi­ gnare la ricattolicizzazione forzata di territori dell’Impe­ ro nell’età delle guerre di religione (1555-1648). Azioni militari e politiche di «Controriforme» (al plurale) erano i mezzi con cui era stato imposto il ritorno al cattolicesimo nella Germ ania della Riform a. Nel secolo successivo a quello di Piitter, la riflessione sulla capacità di ripresa del cattolicesimo, sulla sua vitalità politica e religiosa nel­ l’Europa del Romanticismo, ispirarono ad alcuni rappre1! Cfr. A . G. d i c k e n s e j . Cambridge (Mass.) 1985.

M . TO N K iN ,

The Refortnation in Historìcal Thought,

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sentanti della storiografia filoprotestante e liberale - pri­ mo fra tutti Leopold von Ranke - l’idea che il concilio e il mondo cattolico di quell’età potessero essere stati ani­ mati non solo dalla violenta e puramente negativa con­ trapposizione alla Riforma protestante, ma anche da idee e movimenti religiosi spontanei e originali: analizzando l’episodio dell’Oratorio del Divino Amore - un cenacolo religioso che raccoglieva i principali personaggi della Cu­ ria romana negli anni Venti del Cinquecento - Ranke vi riconobbe delle vere e proprie analogie con l’ispirazione religiosa del movimento luterano. Si apri la strada alla ri­ flessione sulle origini remote della ripresa cattolica del xvi secolo, vista come l ’erede di processi più lunghi e piu profondamente vitali: fu avanzata cosi da un protestante (Wilhelm Maurenbrecher, 1880) la proposta di vedere nel concilio il momento culminante di una «riforma cattoli­ ca» {katholische Reform) radicata in movimenti e idee an­ tecedenti rispetto al moto luterano. La storiografia catto­ lica, in un primo tempo ferma al rifiuto di riconoscere nel­ la Chiesa del concilio ogni elemento di novità rispetto al patrimonio tradizionale e quindi attestata sul concetto di «restaurazione» (Ludwig von Pastor) ha fatto poi suo il termine di Riform a cattolica, variamente coniugandolo con le realizzazioni conciliari - per cui si è parlato anche di «riforma tridentina» - e sottolineandone la contrap­ posizione alle Riforme luterana, zwingliana e calviniana, viste come eventi rivoluzionari. A l di là delle polemiche e delle controversie confessionali, resta il problema della posizione del Concilio di Trento nel quadro della storia della Chiesa: si trattò solo di confermare un patrimonio antico di dottrine e di regole contro la frattura dell’eresia o fu impresso un impulso in una direzione nuova ? Fu il concilio un punto di partenza di processi innovativi op­ pure un punto d ’arrivo di forze, tendenze e fermenti ra­ dicati nel passato? E un’ambiguità che non è facile scio­ gliere, anche per quel tanto di presupposti generali e di scelte prescientifiche che pesa in una materia del genere nelle valutazioni degli storici. Insieme al Concilio di Tren­

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to è un più vasto processo storico che si tratta di cercare di comprendere. G ià l’occhio acuto di Sarpi, del resto, quando non si trattava di dare definizioni sintetiche e po­ lemiche, ma di seguire l’evoluzione della Chiesa cristiana d ’Occidente attraverso i secoli, era portato a retrodatare di parecchio l’inizio di quella «deformazione» culminata a Trento, ritrovandone i primi e decisivi avvìi nelle frat­ ture dell’xi secolo tra Chiesa d’Occidente e Chiese d ’Oriente e nell’avvio, con papa Gregorio V II, dell’afferma­ zione del potere papale come potere totale («totatus»), E a quel momento, come reale data di avvio dei processi sto­ rici culminati poi nell’età della Riforma, rinviano ancora oggi gli storici delle trasformazioni storiche del papato e delle forme di governo della Chiesa: si parla di «rivolu­ zione papale» per indicare il momento originario del rias­ setto strutturale della Curia che scatenò in età successiva le proteste e la contrapposizione alla Chiesa di poteri sta­ tali che in una parte d ’Europa ne presero il posto14. Nella tradizione storiografica italiana ha pesato l’espe­ rienza storica di un paese nel quale la divisione politica eb­ be nel papato un fattore determinante. In Italia, nessuno degli Stati preunitari abbracciò la Riforma, anzi tutte le autorità politiche fecero a gara per presentarsi come fede­ li esecutori delle volontà romane nel reprimere ogni segno di dissenso dottrinale e di critica del clero. E tuttavia, an­ che in Italia si era sperimentato l’uso della forza in mate­ ria di religione: lo riscopri la cultura italiana nei momenti di crisi e di rigetto dell’invadenza clericale che si fecero particolarmente frequenti a partire dall’età delle riforme illuminate del Settecento e della Rivoluzione francese. Il processo di unificazione nazionale italiana e la «questione romana» divaricarono il rapporto col papato, aprirono le porte alla libera circolazione della letteratura protestante 14 Cfr. H . J . B E R M A N , Law and Revolution: thè Formation o f Western Legai Tradition, Harvard 1983 [trad. it. Diritto e rivoluzione. Le origini della tradi­ zionegiuridica occidentale, Bologna 1998], e p. p r o d i , Una storia della giustizia. D al pluralismo dei fori a l moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000.

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e portarono a rileggere il momento tridentino dell’egemo­ nia cattolica in modo aspramente critico, come momento di imposizione forzata della devozione e dell’ipocrisia e co­ me abbandono del percorso della «Civiltà moderna», quel­ la civiltà del libero pensiero e del libero commercio che in­ tanto veniva condannata da Pio IX nel Sillabo. Parlare di Controriforma in Italia valse perciò a indicare la somma dei tratti negativi della dominanza religiosa del cattolice­ simo dai tempi del Concilio di Trento e dell’Inquisizione romana: il servilismo degli intellettuali e la superstizione delle masse, l’ipocrisia, la devozione imposta a forza, l’in­ tolleranza, la repressione delle minoranze. Le cose non cambiarono col regime fascista, anzi: fu sintomatico il fat­ to che, di fronte all’alleanza politica tra Chiesa e Mussoli­ ni, nascesse un’esaltazione fascista della Controriforma co­ me creazione originale dello spirito italico da opporre al momento nordico, freddamente razionalistico della Rifor­ ma protestante. Ad essa rispose Benedetto Croce riba­ dendo il giudizio negativo della tradizione liberale e filo­ protestante: la Controriforma era stata - anche nelle sue espressioni piu eroiche - un moto di difesa di un’istitu­ zione, la Chiesa; non le spettava il valore autentico di un momento «ideale eterno» della storia dello Spirito. A ltri Paesi, non l’Italia, potevano ambire a genealogie piu nobili: la Germania, l’Inghilterra e la Francia aveva­ no storiografie nelle quali entrava di diritto la Riform a di Lutero, interpretata come l’inizio del mondo moderno e come l ’affermazione del principio della libertà di co­ scienza. M a proprio dalla Francia, in un saggio di grande intelligenza e di lunga efficacia, lo storico Lucien Febvre negò che quelle genealogie avessero un senso, al di là del semplice mascheramento del volto del nazionalismo, al­ lora (1929) piu minaccioso che mai13. La memoria delle 15 L . f e b v r e , Une question m alposée: les origines de la Réforme franqaise et le problème des causes de la Réforme, in «Revue historique», C LX I (1929) [trad. it. in nx, Studi su Riforma e Rinascimento e altri sentii di metodo e di geo­ grafia stonca, Torino 1966, pp. 5-70].

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Chiese nate dalla frattura del Cinquecento aveva opposto retrospettivamente due religioni, la cattolica e la rifor­ mata, l’una contro l’altra armata già nel xv i secolo, e gli Stati nazionali avevano costruito intorno a quello scontro un sistema di precursori e di eredi. Cosi, lo spirito di revanche dei francesi dopo il 18 7 0 li aveva portati a riven­ dicare contro i tedeschi il primato nell’avvio della R ifor­ ma. Niente di tutto questo aveva senso, secondo Febvre: la Riform a non era qualcosa che si potesse distribuire nel­ la cornice delle varie nazioni o delle varie chiese. Biso­ gnava indagare, dietro le formule dei teologi del Cinque­ cento, i sentimenti e le idee che animavano la vita dell’e­ poca. La giustificazione per fede e la Bibbia in volgare era­ no una «rivoluzione delle idee», che rinviava a una ben più importante «rivoluzione dei sentimenti». Quando Calvino irrideva crudelmente le preghiere per i defunti, dava voce a un «grande rivolgimento», quello «della vita che cessava di cercare nella morte il proprio punto pro­ spettico»1516. Il saggio di Febvre segnò una svolta fondamentale negli studi; raccolto dalla storiografia mondiale grazie anche al successo internazionale della «scuola de­ gli “ Annales” », ha ispirato ricerche di storia della sensi­ bilità che hanno illustrato il senso della morte e del pec­ cato, le forme della mentalità e della vita religiosa17. In Italia, nonostante un’isolata quanto acuta segnala­ zione del saggio di Febvre da parte dello storico Carlo Morandi, rimase indiscussa la preminenza dell’influsso tedesco e della discussione sui concetti e i termini. Co­ si, nell’Italia già fascista e cattolica, da poco diventata repubblica antifascista, la domanda di Hubert Jed in Riform a cattolica o Controriform a? - ebbe immediata e ampia risonanza. La cultura italiana aveva con la Con­ troriforma un rapporto antico: come per altri momenti 14Ibid., p. 58. 17 Ricordiamo a titolo d’esempio: A . t e n e n t i , I l senso della morte e l ’amo­ re della vita nel Rinascimento , Torino 1956; p h . a r i è s , L ’homme devant la mort, Paris 1977, e j. d e l u m e a u , La peuren Occident, Paris 1977.

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di questa discussione, si era verificato in Italia un rapi­ do passaggio dai dibattiti degli storici al contrasto delle parti politiche e delle scelte culturali e religiose in con­ flitto. La presenza del papato nella capitale dello Stato e le radici cattoliche della cultura della stragrande mag­ gioranza della popolazione hanno sempre conferito un aspetto speciale al dibattito storiografico sul tema, in­ clusa una speciale «coloritura» italiana di concetti di al­ tra origine. Il caso del termine «Controriforma» è esem­ plare da questo punto di vista e va al di là dell’ambito italiano. N ell’Italia che, dopo gli anni bui dell’occupa­ zione tedesca e della guerra civile, riscopriva i tratti profondi della sua identità, la discussione sulla Controriforma fu riaperta da Jedin, uno studioso cattolico te­ desco esiliato per motivi razziali. Fu sintomatico, allo­ ra, che il suo saggio suscitasse la pronta e positiva rea­ zione di Delio Cantimori, uno storico che si era forma­ to su M ax W eber ed Ernst Troeltsch e che aveva dedi­ cato le sue ricerche alla tradizione degli eretici italiani del Cinquecento come testimoni dei valori moderni del­ la libertà religiosa e vittime dell’intolleranza18. Le cose cambiavano rapidamente colore: l’opera del Concilio di Trento cosi come la ricostruì con lunga fati­ ca lo stesso Jedin appariva ora nella luce di una Riforma cattolica (Reform), diversa da quella protestante (Reformation), ma capace non meno di quella - e forse di piu di rispondere ai bisogni, di offrire soluzioni valide e ric­ che di futuro, non meramente negative. Ne segui una vi­ vace battaglia sui nomi, una logomachia a cui contribuì non poco la diffidenza del cattolicesimo italiano per tut­ to ciò che sapesse di modernità. Troppo recente era la vi­ cenda della condanna del Modernismo e troppo caratte­ rizzata in senso sociale e socialistico la parola «Riforma». Perciò fu una discussione per lo piu interna al mondo cat­

tolico quella che oppose i fautori del termine «Riform a cattolica» ai sostenitori di vocaboli come «Restaurazio­ ne», mentre dall’esterno si preferiva ancora l ’uso di «Controriforma», garantita dalla tradizione del pensie­ ro idealistico italiano, filoprotestante e liberale. Dietro le parole, si indagavano i fatti. L ’enfasi posta sugli aspetti positivi dell’impegno cattolico nel perfezio­ namento religioso proprio e altrui e nell’esercizio della carità spinse a studiare la storia dell’opera assistenziale e caritativa di confraternite, congregazioni e ordini reli­ giosi; l’attenzione alla diffusa presenza della rete di par­ rocchie e diocesi, che si era rivelata decisiva nel momen­ to di radicale cancellazione dello Stato attraversato dal­ l’Italia nel 19 4 3, si tradusse nello studio delle forme tridentine di governo delle diocesi e delle parrocchie. V e ­ niva anche messa in luce la diffusione nel mondo extra­ europeo del cristianesimo grazie allo slancio eroico e alla sete di martirio dei missionari. Nella ricerca delle fonti della devozione cattolica della prima età moderna, un po­ sto importante veniva riconosciuto alle visioni e alle de­ vozioni di profeti e mistici e al nuovo protagonismo del­ la religiosità delle donne. G li elementi repressivi della Controriforma restavano in ombra, erano meno interes­ santi. La Controriforma era esistita, certo, come negar­ lo ?, ma era stata meno importante di un processo di tra­ sformazione e di rinnovamento del cattolicesimo che come osservò Jean Delumeau19 - veniva da lontano e an­ dava lontano. Per questa via, però, si affermava intanto un motivo nuovo nella storiografia cattolica: l ’idea del cambiamento. N ell’età della controversia con la Riforma e in quella piu recente della lotta contro il «M oderni­ smo», l’unico termine ammesso a circolare tra gli storici cattolici era stato «Restaurazione»; l’unico cambiamen­ to concepibile per una Chiesa che si pensava come im ­ mobilmente fedele alla sua natura era il restauro di trat-

18 Per una rassegna dell’intera questione, si rinvia all’antologia di testi cu­ rata da p . G. c a m a i a n i , Interpretazioni della Riforma cattolica e della controriforma, in Grande Enciclopedia filosofica, VI, Milano 1964, pp. 329-490.

19j. d e l u m e a u , L e catholìcisme entre Luther et Voltaire, Paris 19 71 [trad. it. I l cattolicesimo dal x v i a l x v iii secolo, Milano 1976].

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ti antichi logorati dai vizi umani. Invece, nel corso del secondo Novecento questo baluardo venne progressiva­ mente cedendo e l’idea del cambiamento storico fece breccia. Con l ’opera di Jedin conquistò finalmente dirit­ to di presenza (storiografica) nel mondo cattolico l’uso di concetti e termini come Riforma cattolica e Riforma tridentina. Era il riflesso nella coscienza storica del movi­ mento che intanto portava il cattolicesimo come religio­ ne e i Paesi a cultura cattolica come realtà economiche e sociali su posizioni nuove, cancellando i tratti antichi di arretratezza sociale e di chiusura culturale. Da una diversa tradizione di studi, intanto, lo stori­ co inglese Henry Outram Evennett proponeva il termi­ ne «Controriforma» in un disegno dell’epoca che non ri­ serbava nessuna speciale attenzione all’opera del Conci­ lio di Trento20. La sua indagine cercava di cogliere ma­ nifestazioni di tendenze culturali e religiose caratteri­ stiche dell’epoca e significative della «m odernità» sia della Riform a sia della Controriforma, usando i termini per denotare i due campi cattolico e protestante ma sen­ za annettere alle parole un valore di classificazione o un giudizio positivo o negativo in rapporto a una «forma» ideale. N ell’indagine sulla modernità dell’epoca, non il concilio ma i G esuiti erano al centro del disegno. Su quella strada ha poi continuato il suo allievo John Bossy, che ha indagato i cambiamenti profondi affioranti nei rituali, nelle istituzioni e nella cultura. Cosi poco uti­ le gli è apparsa la terminologia legata all’idea di Riforma che ha provato a sostituirla con un’altra che sottolinea in­ vece le differenze portate dal mutamento storico: da un lato la «cristianità tradizionale» e dall’altro la «cristianità tradotta o trasformata», in un percorso di cambiamento che occupa l’arco di tempo dal 1400 al 170 0; da un can­ to, una vita di comunità rissosa, dall’altro l’imposizione di un ordine gerarchico; da un lato la spontaneità dall’al­ 20

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J. Bossy, Cambridge 1968.

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The Spint o f thè Counter-Reformation , a cura di

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tro la costrizione21. Proseguendo su questo percorso d ’in­ dagine, Bossy ha confrontato i riti di pacificazione nei Paesi della Riform a e in quelli della Controriforma, ri­ scontrando anche qui un andamento parallelo nella ri­ duzione del significato sociale della pace trasformata in imposizione dall’alto. Non è casuale che dal mondo an­ glosassone giungano segnali come questi, favorevoli a una terminologia non segnata dai conflitti delle Chiese e delle loro ortodossie, che sia capace proprio per que­ sta de-ideologizzazione di cogliere meglio il mutamento storico. Uno studioso cattolico ha suggerito di adottare, proprio a tale scopo, una denominazione del tutto neu­ trale che richiami però l’attenzione a quel che c’è di nuo­ vo e di caratteristico nell’epoca del concilio: quella di «cattolicesimo della prima età moderna»22. Il panorama dell’età del Concilio di Trento ha cono­ sciuto forti mutamenti negli ultimi decenni. Prendiamo a testimoni due recenti tentativi di fotografarlo nel suo insieme: Ronnie Po-chia Hsia, professore di storia alla New York University, ha intitolato The World ofCatholic Renew al un suo libro sulla storia del mondo cattolico tra il 154 0 e il 17 7 0 23. Il rinnovamento cattolico, secon­ do Po-chia Hsia, va dal Concilio di Trento alla soppres­ sione della Compagnia di Gesù e comprende tra l’altro la riaffermazione dell’autorità sacerdotale contro la nega­ zione protestante, un nuovo fervore religioso cattolico che si traduce in una forte spinta verso la santità da par­ te di semplici laici e soprattutto di donne, le espressioni istituzionali, culturali e artistiche della nuova religiosità e l ’impulso missionario verso il mondo non cristiano e non europeo. A questa vita religiosa, di cui Po-chia Hsia riconosce l ’intensità e l’importanza limitandosi però a 21 j . b o s s y , Chnstianity in thè West, 14 0 0 -17 0 0 , Oxford 1985 [trad. it. L'Occidente cristiano, 14 0 0 -17 0 0 , Torino 1990]. 22 j . w . O’ m a l l e y , Treni and A ll That. The World o f Catholic Renewal 154 017 7 0 , Cambridge 1998. 23 R . p o - c h i a h s i a , The World o f Catholic Renewal, Cambridge 1998.

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fornirne un profilo istituzionale, è dedicato un libro di O ttavia Niccoli24. Pur esso di sintesi, questo testo si po­ ne deliberatamente dal punto di vista della viva perce­ zione dei cambiamenti che esperirono donne e uomini: ne risulta un disegno delle realtà che si impiantarono nel­ la società italiana prima del Concilio di Trento e che vi durarono ben oltre il limite dell’Antico Regime. Basti un solo esempio: ricostruendo gli scenari delle processioni e delle pratiche pie come le visite rituali alle chiese per de­ terminate occasioni - la settimana santa, ad esempio, con la festa detta dei «sepolcri» - il libro della Niccoli fa ri­ ferimento a un mondo di pratiche che va ben al di là del Settecento scelto come limite e si spinge fino a realtà v i­ ve nella società italiana fino a pochi decenni fa. In questi due disegni d ’insieme, si può misurare l’esi­ to di un orientamento che prende le mosse da lontano ma che ha almeno due componenti: da un lato, una polemi­ ca contro la genealogia protestante del mondo moderno; dall’altro, un rivolgersi tutto italiano al «mondo che ab­ biamo perduto» - quel mondo descritto da Ottavia N ic­ coli, dove la misura del tempo e l’organizzazione della v i­ ta erano scandite dalle feste dei santi e dalle pratiche re­ ligiose. Sono processi che hanno la stessa durata: se la svolta è avvenuta in Italia con la Seconda guerra mon­ diale e con il «miracolo economico» - che non ha can­ cellato altri e più tradizionali miracoli - , è pur da quegli stessi anni che si è avviata una vigorosa discussione sto­ riografica, nutrita di nuove ricerche, sul posto e sul peso del cattolicesimo nella formazione dell’Italia e del mon­ do moderno. Ecco farsi avanti il tema del rinnovamento cattolico che Po-chia Hsia ha esteso a tutto il paesaggio. Qualcosa di simile è stato detto anche da W olfgang Reinhard in un saggio del 19 7 7 , ma con un’inflessione diversa: l’autore vi proponeva di guardare alla Controriforma come alla forma cattolica di un «processo di mo­ 24 o. 1998.

Nic c o

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La vita religiosa nell’Italia moderna. Secoli x v -x v m , Roma

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l8l

dernizzazione» che, per sfociare nel nostro presente e non nelle atmosfere tonificanti dell’Ottocento borghe­ se, non proiettava necessariamente luci rosee sul per­ corso25. L ’età della Riform a e della Controriforma ap­ pariva a Reinhard distinta fra un breve e ribollente im­ pulso rinnovatore - l’«età evangelica» - e un lungo pro­ cesso di «confessionalizzazione», e questi due momenti distinti si ritrovano nel mondo cattolico e nell’Europa protestante, come binari paralleli su cui avrebbero avan­ zato con movimenti simili i mondi protestante e catto­ lico. Nel disegno proposto da Reinhard, l’ accento cade­ va sulla divisione in due tempi, tra le fasi di movimento e di resistenza, cioè tra un iniziale impulso di rinnova­ mento evangelico della vita religiosa e un successivo lun­ go processo di costruzione di nuovi assetti di potere, con l’esercizio di una moderna razionalità. La sua «moder­ nità» era quella di un potere statale e/o ecclesiastico ca­ pace di esercitare una dura pedagogia nell’educare le masse all’obbedienza e alle regole della società «disci­ plinata». E una modernità inevitabile, dice Reinhard, ma non è per questo una modernità desiderabile: è, in­ somma, una modernità «sans connotation positive»26. L a proposta di Reinhard è stata una di quelle che han­ no animato discussioni e stimolato percorsi di ricerca; momento dedicato alla sintesi nella carriera di uno stori­ co che ha esplorato in anni di analisi l’espansione colo­ niale e missionaria dell’Europa cristiana, nonché le for­ me del potere nel vertice romano della Chiesa, essa è sta­ ta anche il prodotto di un percorso interno alla storio­ grafia tedesca del secondo dopoguerra. Tale percorso che 25 w . R e i n h a r d , Gegenreformation ah Modemisierung? Prolegomena zu einer Theorìe des konfessìonellen Zeitalters, in « Archiv fiir Reformationsgeschichte», 1977, n. 68, pp. 226-52 (si noti che nella traduzione italiana Gegenreforma­ tion non ha trovato il corrispettivo terminologico piu ovvio: Confessionaliz­ zazione forzata? Prolegomeni ad una teoria dell’età confessionale , in «Annali

dell’istituto storico italo-germanico in Trento», 1982, n. 8, pp. 13-37). 26R . d e s c i m o n , nell’Introduzione a w . r e i n h a r d , Papauté, confessions, modemité, Paris 1998, p. io.

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si è svolto a partire dal momento piu alto di riflessione che quella cultura aveva dato sul problema dei rapporti tra potere e società: M ax W eber. Formulando la sua ce­ lebre tesi sulla funzione della religione e in particolare dell’ascesi calvinista nella nascita del mondo moderno, W eber ha proposto un tema su cui la storiografia tede­ sca ha insistito, riprendendo nelle mutate condizioni sto­ riche del secondo Novecento la questione del «M oder­ no». La disciplina statale su grandi masse umane predi­ sposte all’obbedienza e alla mancanza di resistenza da una consuetudine interiorizzata: questo è il dato di realtà piu significativo per definire il «Moderno», secondo il punto di vista della cultura storica del Paese che ne ha fatto piu tragica esperienza. La formula proposta da Gerhard Oestreich fu quella di «disciplinamento socia­ le»; essa sintetizzava le forme di servizio allo Stato in campo civile, militare ed economico, come strumento di trasformazione della società, per attuare «il potere e l’au­ torità dello Stato assoluto della prima età moderna»27. Si fondava allora una capacità di sottoporsi alla disciplina in funzione di un’ autorità o di un fine superiore che do­ veva continuare a operare anche nelle società democra­ tiche. L ’attitudine all’obbedienza è il dato di una mo­ dernità ambigua, dove l’affermazione teorica della libertà nasconde una disposizione a operare come anelli di una macchina impersonale e disumana. Su queste basi si è proceduto affrontando la storia dell’età che un tempo si chiamava della Riform a e della Controriforma e che si è venuta definendo secondo generalizzazioni di tipo unifi­ cante: età confessionale, si è detto, come epoca in cui la religione cessa di essere un’esperienza vissuta comunita­ riamente e ritualmente per diventare identità assunta consapevolmente aderendo a una «confessione di fede» contenente tutti gli articoli da credere. E in questo dise27 Nel saggio Problemi di struttura dell'assolutismo europeo (1969), in E . ROe p . s c h i e r a (a cura di), Lo Stato moderno, I. D al Medioevo all'età mo­ derna, Bologna 19 7 1, pp. 173-91]. telli

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gno rientrano tanto Chiesa cattolica quanto Chiese del­ la Riforma28. Tutte le Chiese cristiane hanno svolto una funzione di battistrada all’avanzata dello Stato nel go­ verno delle masse, inventando e sperimentando disposi­ tivi di disciplina dei comportamenti collettivi: la confes­ sione, le scuole della dottrina cristiana, l’insegnamento delle buone maniere, la ritualizzazione della vita quoti­ diana, la definizione dei ruoli specifici di uomini, donne, bambini e cosi via. Di questa proposta terminologica e interpretativa ha sottolineato l’importanza Paolo Prodi, principale animatore in Italia - soprattutto con i suoi la­ vori, ma anche con una lunga opera di organizzatore e guida di ricerche altrui - di questo ambito di studi29. Nel panorama complessivo di questo scorcio di secolo, essa appare comunque la piu capace di mettere d ’accordo la volontà di rinnovamento e l’indubbio animo apologetico della storiografia cattolica con una de-enfatizzazione del­ la «modernità» che abbraccia un ben piu vasto senso co­ mune storiografico. Si possono considerare cosi definiti­ vamente chiuse le controversie antiche, che nascevano tutte dall’originario senso di «riforma», come ritorno al­ la forma originaria, e dall’idea cristiana della storia come corruzione e degradazione prodotte dalla malvagità uma­ na di una Chiesa perfetta disegnata dallo Spirito Santo attraverso l’opera degli Apostoli. La resistenza cattolica all’uso del termine «Riform a» per indicare tanto l’opera di Lutero, Calvino e altri fondatori di Chiese quanto quella di litigo di Loyola o di Carlo Borromeo nasceva dall’implicita ammissione che la Chiesa cattolica medie­ vale fosse un corpo corrotto e bisognoso di interventi chi­ rurgici. Ora, è vero che Lutero non accettò di parlare di 28 Cfr.

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r e in h a r d

e H.

s c h il l in g

(a c u r a d i) ,

D ie katholische Konfessio-

nalisierung, Miinster 1995.

29Cfr. p . p r o d i (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e di­ sciplina della società tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1994. E si veda del­ lo stesso autore Controriforma e/o Riforma cattolica superamento di vecchi sche­ m i nei nuovi panorami storiografici, in «Ròmische Historische Mitteilungen», X X X I (1989), pp. 227-37.

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«riform a» per la sua opera bensì di «scoperta del Van­ gelo», ma quel termine fu inalberato come bandiera di opposizione alla «corrotta» cristianità di obbedienza ro­ mana e, più tardi, come insegna della civiltà moderna. Ci sono voluti secoli di discussioni per giungere al ricono­ scimento che la Riform a (protestante) non nacque dagli abusi e dalla protesta contro la corruzione della dottrina e dei costumi, bensì da esigenze storiche peculiari di quel­ l’età. Come aveva dimostrato Lucien Febvre, alle origi­ ni della Riform a troviamo sentimenti ed esigenze di una società europea in rapido cambiamento: un sentimento nuovo dell’individuo e un complesso problema di giusti­ zia e di colpa, a cui Lutero fornì la risposta della giusti­ zia per fede e della lettura personale della Bibbia30. Superate le diatribe sul termine «Riform a», soprav­ vive tuttavia sul terreno degli studi l’uso di «Controriform a», come mostrano anche i bilanci e le rassegne31. Si continua a parlare di «età della Controriforma» nel concreto lavoro di ricerca. Lo fanno abitualmente gli sto­ rici spagnoli, che si trasmettono un uso del termine di­ ventato sinonimo di un modo ispanico di legare potere e religione; lo fanno anche gli studiosi della società ita­ liana32. Qui resta ancora ampio margine per non consi­ derare conclusa la vitalità di un filone di ricerca che ha altre radici e altri punti di riferimento: in un Paese che ha pagato la sua unità religiosa con un’intolleranza tan­ to più profonda quanto meno consapevole, vale la pena non abbandonare nell’oblio le vicende di figure e tradi­ zioni combattute e cancellate. Dagli eretici per libera e consapevole scelta alle culture comunque emarginate e combattute che si incontrano risalendo à rebours le vie dell’unificazione, il panorama delle differenze e degli Studi su Riforma e Rinascimento cit., pp. 5-70. Religion and Society in Early Modem Italy - Old Questions, New Insigbts, in «American Historical Review», CI (1996), pp. 783-804. 32 Cfr. w. d e b o e r , T he Conquest o f thè Soul, Confession, Discipline, and Rublic O rderin Counter-Reformation Milan, Leiden 2001. 30 L .

feb vr e

,

31 Cfr. w. v.

hudon,

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scarti è ben lungi dall’essere stato adeguatamente esplo­ rato. La storiografia filoprotestante e liberale ha fatto molto per riempire di nomi e di testi gli spazi censurati della foto di famiglia del passato italiano, ma molto re­ sta ancora da fare: la vittoria di una parte sulle altre ha significato anche la cancellazione della memoria dei vin­ ti e, accanto alle vittime che le varie Chiese cristiane pos­ sono rivendicare a loro martiri, tante altre ce ne sono state che non hanno lasciato eredi altrettanto solleciti. Per fare solo un esempio, dobbiamo ancora raccontare in maniera adeguata la storia delle comunità ebraiche ita­ liane dell’età moderna, senza cedere a tentazioni sepa­ ratiste, senza che ci sia una divisione dei compiti tra gli eredi delle minoranze che lasci inesplorato il tracciato degli scambi e dei prestiti tra comunità diverse unite però dallo stesso spazio - lo stretto, vivacissimo spazio sociale della penisola italiana. Accanto alla storia delle istituzioni di controllo - il carcere, la giustizia - e a quel­ la delle idee che hanno animato la vittoria dell’ortodos­ sia cattolica nell’Italia moderna, c’è la storia degli ereti­ ci, dei perseguitati e delle vittime.

Indicazioni per ulteriori letture

i. L a polemica intorno a l Concilio di Trento. E solo con l’opera del Sarpi che la controversia dottrinale intorno al Concilio di Trento cede il posto alla conoscenza storica: la prima edizione della Isto ria d e l c o n c ilio T rid e n tin o usci a Londra nel 16 19 a cura di M. A. De Dominis: si veda sulle vicende di quella edizione lo studio di f . a . yates , P a o lo S a r p i’s “H is to ry o f th è C o u n c il o f T r e n t ” , in «The Journal of thè Warburg and Courtauld Institutes», VII (1944). Da allora si è aperta la polemica sull’attendibilità del Sarpi, sulla sua tendenziosità, sulla sua conoscenza della documentazione e cosi via. Cfr. h . jedin , D as R o n z ìi v o n T rie n t. E in U b e r b lic k u b e r das E rfo rsc h u n g s e in e r G e s c h ic h te , Roma 1948. Alle accuse di tendenzio­ sità da parte cattolica e di veri e propri errori di fatto (elencati alla fi­ ne di ogni volume da p. s. palla vicino nella sua Isto ria d e l c o n c ìlio e segnalati da h . jedin , G esc h ic h te des K o n z ils v o n T rien t, Freiburg 19571977 [trad. it. S to ria d e l C o n c ìlio d i T re n to , 4 voli., Brescia 19 7 3-8 1; cfr. II) si è risposto individuando fonti a noi note intessute dal Sarpi nella sua esposizione: cfr. c. vivanti, U n a f o n t e d e l l ’ « Isto ria d e l c o n ­ c ilio trid e n tin o » d i P a o lo Sa rp i, in «Rivista storica italiana», L X X X III (1971). Quanto alla documentazione messa a disposizione del Palla­ vicino, cfr. h . jedin , D e r Q u e lle n a p p a ra t d e r K o n z ilsg es ch ìch te P a lla v ìc in o s, Roma 1940. Per l ’intera opera del Sarpi, la cui conoscenza è stata rinnovata grazie alle ricerche di G . Cozzi, cfr. p. sarpi, O p ere, a cura di G . e L. Cozzi, Milano-Napoli 1969. Per le due Storie le edi­ zioni migliori oggi disponibili sono le seguenti: id ., Isto ria d e l c o n c ilio T rid e n tin o , a cura di C. Vivanti, 2 voli., Torino 1974, e p . s. palla vicino, Istoria d e l c o n c ìlio d i T ren to , a cura di F. A. Zaccaria, 6 voli., Faenza 1792-97. Quanto alle fonti per la storia del concilio, lo stru­ mento indispensabile di lavoro è l’edizione critica in corso di pubbli­ cazione dal 19 0 1, a cura della Gòrres-Gesellschaft, nella serie dei dia­ ri, degli atti, delle lettere e dei trattati: C o n c iliu m T r id e n t in u m . D ia r io r u m , A c t o r u m , E p ìs t o la r u m , T ra c ta tu u m n o v a c o lle c t ìo , Freiburg 19 0 1 sgg. I decreti sono consultabili in C o n c ilio r u m C E cu m en ico ru m D ecreta , a cura di G . Alberigo, G . A. Dossetti, P. P. Joannou, C . Leo­ nardi e P. Prodi, Bologna 19 7 3’ . Sui rapporti tra la Curia romana e il concilio, una fonte importante è la corrispondenza dei legati con Ro­ ma edita da j. susta , D ie rò m isch e K u r ie a n d das R o n z ìi v o n T r ie n t un-

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terPius IV., 4 voli., Wien 1904-14; sul contesto diplomatico e politi­ co in cui il concilio si svolse si veda piu avanti; ma è connessa stret­ tamente con la storia del concilio quella della legazione di Giovanni Morone, su cui cfr. g . Constant, La légation du CardinalMoroneprès de l ’Empereuretle Concile de Trente, Paris 1922. Sulla storia degli epi­ scopati nazionali e del contributo dei diversi Stati europei al conci­ lio, c’è anche una vasta letteratura; si segnalano: per la Spagna, c. gutierrez , Espanoles en Trento, Valladolid 19 5 1; a . marin ocete, E l Arzobispo Dom Pedro Guerrero y la politica conciliar espanoh en el si­ glo xvi, Madrid 19 70; per la Francia, a . tallon, La France et le Con­ cile de Trente ( 15 18 -15 6 3 ), Rome 1997; per il Portogallo, j. de ca­ stro, Portugalno Concilo de Trento, 6 voli., Lisboa 1944-46.

π. La lotta intomo al concilio. Un quadro ampio e preciso della storia della Chiesa dalla crisi conciliaristica al Concilio di Trento si trova in h . jedin , Stona del Con­ cilio di Trento cit., I (2“ ed. e nuova trad.). Sul periodo cruciale del papato di Clemente V II cfr. g . m uller , Die Romische Kurie und die Reformation 15 2 3 -15 3 4 . Kirche und Politik wàhrend des Pontificates Clemens’ VII, Giitersloh 1969. Sulle istituzioni ecclesiastiche dell’e­ poca, occorre ancora rifarsi a l . thomassin, Ancienne et nouvelle di­ scipline de TEglise, 7 voli., Bar-Le-Duc 1864-67. Sulla curia romana cfr. E. goeller , Die Pàpstliche Pònitentiarie von ihren Ursprung bis zu ihre LSmgestaltung unterPius V., 2 voli., Roma 19 0 7 - n ; w. von Hof­ mann, Forschungen zur Geschichte derkurialen Behòrden vom Schisma bis zur Reformation, 2 voli., Roma 19 14 . Sul papato e lo Stato della Chiesa cfr. m . cara vale e A. caracciolo, Lo stato pontificio da Mar­ tino V a Pio IX, Torino 1978; p. prodi, I l sovrano pontefice. Un cor­ po e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982. Sui conflitti politici intorno al concilio durante il suo svolgi­ mento cfr. h . jedin , Krisis und Wendepunktdes TrienterKonzils 156 215 6 3 , Wurzburg 19 4 1; h . lutz , Christianitasafflieta. Europa,dasReich und dìe pàpstliche Politik ìm Niedergang der Hegemonie Kaiser Karls V., 15 52 -56 , Góttingen 1964; I l concilio di Trento come crocevìa del­ la politica europea, a cura di H. Jedin e P. Prodi, Bologna 1979. Su Trento nell’età del concilio, esiste una vasta letteratura. Si indicano in particolare: a . casetti , Guida storico-archivistica del Trentino, Trento 19 6 1; g . cristoforetti, La visita pastorale del Cardinale Ber­ nardo Clesìo alla diocesi di Trento 15 3 7 -15 3 8 , Bologna 1989; c. nubola, Conoscere per governare. La diocesi di Trento nella visita pasto­ rale di Ludovico Madruzzo (15-7 9 -158 1), Bologna 1993. c. mozza relli (a cura di), Trento, principi e corpi. Nuove ricerche di storia regionale, Trento 19 9 1; l . dal prà (a cura di), IMadruzzo e l ’ Europa 15 3 9 -16 3 8 . I principi vescovi tra Papato e Impero, Milano-Firenze

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19 9 3; B· steinhauf, Giovanni Ludovico Madruzzo (15 3 2 -16 0 0 ). Katholische Reformation zwischen Kaiser und Papst, Munster 1993. Sulle tendenze eterodosse a Trento e nell’area, cfr. v. zanolini, A p­ punti e documenti per una storia dell’eresia luterana nella diocesi di Tren­ to, in «Annuario V i l i del Ginnasio pareggiato pr. vesc. di Trento per l ’anno scolastico 1908-909»; id ., Eretici in ValSugana durante il Concilio di Trento. Appunti e documenti, Trento 19 27; G. politi, Gli statuti impossìbili. La rivoluzione tirolese del 15 2 5 e i l «programma» di Michael Gasmair, Torino 1995. Un acuto uso interpretativo della con­ dizione di confine della realtà di Trento è offerto da M. bellabar ba , La giustizia ai confini .I l principato vescovile di Trento agli inizi del­ l ’età moderna, Bologna 1996. Per un’introduzione storica all’età del­ la Riforma, cfr. j. delumeau e th . wanegffelen , Naissance et affirmation de la Réforme, Paris 1997.

n i. L ’ o pera d e l C o n c ilio d ì T re n to .

Per una valutazione d’insieme cfr. h . jedin , I l significato del con­ cilio di Trento nella storia della Chiesa, in «Gregorianum», X X V I (1946), ristampato con modifiche in id ., Katholische Reformation oder Gegenreformation? Ein Versuch zur Kldrung der Begriffe nebst ein Jubildumsbetrachtung iiber das Trienter Knnzil, Luzern 1946 [trad. it. Riforma cattolica o Controriforma?, Brescia 1957]. Su singoli decre­ ti cfr. id., Kirche des Glaubens Kirche der Geschichte. Ausgewàhlte Aufsàtzeund Vortrage, 2 voli., Freiburg-Basel-Wien 1966; cfr. inoltre A. Michel , Les décretes du concile de Trente, Paris 19 38; s. kuttner , Decreta Septem Priorum sessìonum concila Tridentini, Washington 1946; Das Weltkonzilvon Trient, a cura di G . Schreiber, 2 voli., Frei­ burg 19 5 1; G. Alberigo, I vescovi italiani al concilio di Trento 154 515 4 7 , Firenze 1959; sulla questione della giustificazione: h . ruckert, DieRechtfertigungslehreaufdem Tridentinische Konzil, Bonn 19 25; e . stakem eier , Glaube und Rechtfertigung, Freiburg 19 37; a . e . mc grath , lustitia Dei. A History ofthe Christian Doctrine ofjustification, Cambridge 1998. Sulla questione del calice ai laici cfr. g. Constant, Concession à l ’Allemagne de la communion sous les deux espèces, 2 voli., Paris 19 2 3; sulla questione della messa cfr. e . iserloh , Der Kampf um die Messe in den ersten Jahren der Auseinandersetzung mit Luther, Miinster 19 52; e . jamoulle , Le sacrìfìce eucharìstìque au Concile de Trente, in «Nouvelle Revue Theologique» L X V II (1945); f . x . Ar ­ nold, Vorgeschichte und Einfluss des Messopferdekrets aud die Behandlung des Eucharìstìschen Geheimnìssen in der Neuzeit, in Die Messe in der Glaubensverkundigung, Festschrift J. A. Jungmann, Freiburg 1950; f . buzzi, I l Concìlio di Trento (15 4 5 -15 6 3) .Breve introduzione ad alcuni temi teologici principali, Milano 1995. Sul progetto di «riforma dei principi» cfr. l . prosdocimi, I l prò-

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getto di «riforma dei principi» a l concìlio di Trento (15 6 }), in « Aevum», X III (1939); sul problema delle immagini sacre: h . jedin , Enstehung und Tragweìte des Trienter Dekrets iiber die Bilderverehrung, in «Tùbinger Theologische Quartalschrift», C X V I (1935); sull’istitu­ zione dei seminari: j. O’ donohoe, Tridentine Semìnary Legislation. Its sources and its formation, Louvain 19 57; sul rapporto tra primato pa­ pale e autorità dei vescovi: h . jedin , Delegatus Sedis Apostolicae und bischofliche Gewaltaufdem Ronzìi von Trient, in Testschrift Josef Card. Frings, Berlin-Koln i960; g . Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella chiesa universale, Roma 1964; I tempi del Concilio, sup­ plemento a «Economia Trentina», 19 9 5, n. 1 ; m . marcocchi, c . scarpati, a . acerbi e g . Alberigo, Concilio di Trento .Istanze di rifor­ ma e aspetti dottrinali, Milano 1997. Una chiara e intelligente sinte­ si dell’opera del concilio nel suo contesto storico è stata pubblicata di recente da a . tallon, Le Concile.de Trente, Paris 2000.

i v . L ’attuazione del concìlio. Un quadro d ’insieme in l . willaert , Après le concile de Treni: la restauration catholique (156 3-16 4 8 ), Tournai i9 60 [trad. it. La re­ staurazione cattolica dopo il Concilio di Trento (156 3-16 4 8 ), Torino 1966]. Sull’operato di alcuni vescovi cfr. p. prodi, I l cardinale G a­ briele Paleotti (15 2 2 -15 9 7 ), Roma 1959-67; h . g . molitor, Kirchliche Reformen im Turstbistum Paderbom unter Dietrich von Purstenberg 4 1( 15 8 5 -16 18 ), Miinchen-Paderborn 1974; sulla situazione post-tridentina a Brescia si vedano c. cairns, Domenico Bollani, Bishop o f Brescia, Nieuwkoop 1976 e d. montanari, Disciplinamento in terra veneta, Bologna 19 87; m . becker -huberti, Die TridentinischeReform im Bistum Miinster unter Piirstbischof Bernhard von Galen 16 5 0 bis 16 78 , Miinster 19 78; j. carvalho e j. p. paiva , Les visìtes pastorales dans la diocèse de Coìmbre aux x v if et x v n f siècles. Recherches en cours, in La recherche en histoire du Portugal, Paris 1989, pp. 49-55; w. hudon, Marcello Cervini and Ecclesiastical Government in Tridentine Italy, DeKalb (111.) 1992. Su san Carlo Borromeo cfr. w . de boer, The Conquest ofthe Soul. Confession, Discipline, and Public Order in CounterReformation Milan, Leiden-Boston-Kòln 2 0 0 1. Per la storia della Congregazione del Concilio cfr. La sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario della fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano 1964. Indicazioni bibliografiche ampie si trovano in P. prodi, Riforma cattolica e Controriforma, in Nuove questioni di storia moderna, I, Milano 1965; Handbuch der Kirchengeschichte, a cura di H. Jedin, V, Freiburg 1963 sgg. [trad. it. Storta della Chiesa, Milano 1983 sgg.); e in j. delumeau , L e catholicisme entre Luther et Voltai­ re, Paris 19 7 1 [trad. it. I l cattolicesimo dal x v i a l x v i i i secolo, Milano 1976 con aggiornamenti bibliografici]. Cfr. inoltre g. alberigo, Stu­

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di e problemi relativi a ll’applicazione del concilio di Trento in Italia (1945-19 58 ), in «Rivista storica italiana», L X X (1958); I l concìlio di Trento e la Riforma tridentina. Atti del convegno storico intemazio­ nale, Trento 1963, Roma-Freiburg 1965; j. bossy, The Counter-Reformation and thè People ofCatholic Europe, in «Past and Present», mag­ gio 1970 [trad. it. in id ., Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’ Europa moderna, Torino 1998; m . rosa, Per la storia della vita religiosa e della chiesa in Italia tra il '500 e il ’6oo. Studi recenti e questioni di metodo, in «Quaderni storici», 19 70, n. 15 ; l . donvito e b . pellegrino, L ’organizzazione ecclesiastica degli Abruzzi e Molise e della Basilicata nell’età postridentina, Firenze 19 73; Per la storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d ’Italia, a cura di G. Galasso e C. Russo, 2 v o li, Napoli 1980-82. Sull’edizione degli at­ ti di visite pastorali, cfr. Le vìsite pastorali, a cura di U. Mazzone e A. Turchini, Bologna 1985. Molto importanti furono quelle di G. M. Giberti a Verona, pubblicate a cura di A. Fasani, Riforma pre-tridentina della diocesi di Verona. Vìsite pastorali del vescovo G . M . G i­ berti 15 2 5 -4 2 , Vicenza 1989. U n’edizione di atti di visite è quella av­ viata nel Thesaurus Ecclesìarum Italiae, a cura di E . Massa e G . De Rosa, Roma 1966 sgg.; si veda ad esempio La visita apostolica di A n­ gelo Peruzzi nella Diocesi di Luni-Sarzana (1584), a cura di E . Freggia, Roma 1986; gli atti di una visita apostolica nella diocesi lituana di Samogizia del 157 9 , per opera del nunzio in Polonia Giovanni An­ drea Caligari, sono stati editi a cura di l . jovaisa , Zemaiciu vyskupijos vizitacija (157 9 ). Visitatìo Dioecesis Samogìtìae (A.D. 15 7 9 ), Aidai 1998. Singoli studi sull’opera di attuazione dei decreti tridenti­ ni in situazioni locali sono troppo numerosi perché si possano qui elencare. Sui concili provinciali cfr. p. caiazza , Tra Stato e Papato. Concili provinciali post-tridentini (1564-1648), Roma 1992. Molto uti­ le la rassegna di e . cochrane, New Light on Post-tridentine Italy : A Note on Recent Counter-Reformation Scholarship, in «The Catholic Historical Review», LV I (1970), pp. 2 9 1-319 . Sulle resistenze al con­ cilio in Francia si veda th . wanegffelen , One difficile fidelité. Catholiques malgré le Concile en Trance x v f-x viT siècles, Paris 1999.

v. Controriforma e Inquisizione. Una sintesi recente: e . bonora, La Controriforma, Roma-Bari 2001. d. cantimori, Galileo e la crisi della Controriforma, in id . , Storici e sto­ ria, Torino 19 7 1; A. rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d ’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivami, V. Idocumenti, To­ rino 19 73; j. a . tedeschi, The Prosecution ofHeresy, Collected Studìes on thè Inquìsition in Early Modém Italy, New Y ork 19 91 [trad. it. Il giudice e l ’eretico, Studi sull’Inquisizione Romana, Milano 1997]; J. bossy , The Social History o f Confession in thè Age ofthe Reformation,

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in «Transactions of thè Royal Historical Society», s. V, X X V (1975) [trad. it. in id., Dalla comunità a ll’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino 1998]; c. ginzburg, I l fo r­ maggio e iv e rm i.il cosmo di un mugnaio d e l’500, Torino 1976; T. ten tler , Sin and Confession on thè Ève o f thè Reformation, Princeton 19 77; P- F· GRENDLER, The Roman Inqutsition and thè Venetian Press, Princeton 1977 [trad. it. L ’Inquisizione romana e l ’editoria a Venezia (1540-160 5), Roma 1983]; LaInquisiciònespanola.Nueva visiòn,nuevos horizontes, a cura di J. P. Villanueva, Madrid r98o; m . firpo , Il processo inquisitoriale del cardinale Giovanni Morone, I. I l «Compendium», Roma 19 8 1, edizione critica; m . firpo e d . marcatto, llprocesso inquisitoriale del Cardinal Giovanni Morone, II-VI, Roma 19841995, edizione critica; id ., Iprocessi inquisìtoriali di Pietro Camesecchi, 15 5 7 -15 6 7 , Città del Vaticano 19 98 -2001, edizione critica; j. CONTReras , ElSanto Oficio de la Inquisiciòn en Galicia 15 6 0 -170 0 ,poder,sociedady cultura, Madrid 1982; a . d. wright, The Counter-Reformation. Catholic Europe and thè Non-Christian Word, London 1982; p. redondi, Galileo eretico, Torino 19 83. Di recente, la letteratura sull’Inquisizione (e in particolare su quella romana) ha conosciuto un notevole incremento. Si segnalano: g . romeo, Inquisitori esorcisti e streghe nell’Italia della Controriforma, Firenze 1990; h . d. kittsteiner , Die Entstehung des modemen Gewissen, Frankfurt am Main Leipzig 19 9 1; a . prosperi, Tribunali della coscienza, Inquisitori, con­ fessori, missionari, Torino 1996; L ’apertura degli archivi del Sant’ Uffi­ zio romano, Roma 1998; p. prodi, Una storia della giustizia, Bologna 2000; f . tamburini e l . schmugge, Hdresie und Luthertum. Quellen aus dem Archiv der Pónìtentiarie, Paderborn 2000; p. godman, Die Geheime Inquisition, Munchen 20 0 1; L ’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, Atti dei Convegni Lincei, Roma 2000.

Indice dei nomi e dei toponimi

Aarne-Stith Thompson, Antri, 14 1 n. Abruzzo, 99 n. Adorni-Braccesi, Simonetta, 149 n. Adriano di Utrecht, vedi Adriano VI. Adriano VI (Adrian Florensz Boeyens di Utrecht), papa (1522-23), 5. Agostino, Aurelio, vescovo d ’Ippona, santo, 58, 59. Alberigo, G., 120 n. Aleandro, Girolamo, arcivescovo, 21. Alessandro Farnese, duca di Parma e Piacenza (1586-92), 29, 35, 36 n, 166. Alfonso I (Alfonso Henriques), det­ to il Conquistatore, re del Porto­ gallo (1139-80), 13. Alighieri, Dante, vedi Dante Alighie­ ri. Altòtting, 16 1. Amato, P. Angelo, 124 n. America, 139, 155, 157. Andrea di Portogruaro, santo, 130. Angelo da Chivasso, 73. Arcangeli, Alessandro, 160 n. Ariès, Philippe, 175 n. Armstrong, Brian G ., 163 n. Asburgo, dinastia, 8, 29, 38, 45. Atlantico, oceano, 18, 96. Augusta, 3, 1 1 , 43, 45, 67, 7 1, 97. Azoulai, Martine, 156 n. Baratti, Danilo, 1 1 1 n. Barbarossa, vedi Khair-al-Din. Barbiero, Giovanni, 120 n. Bartolomeo da Gattinara, 6. Basilea, 3, 14, 19, 2 1, 40. Battista da Crema, frate domenica­ no, 1 1 7 e n. Baviera, 16 1.

Bellarmino, Roberto, cardinale, san­ to, 166. Benedetto da Mantova, 118 n. Berman, Harold J., 173 n. Bernardi, Claudio, 160 n. Boccaccio, Giovanni, 75. Bologna, 7, 24, 26, 43, 45, 46, 6668, 105, 119 , 148, 149 e n, 150. Bonora, Elena, 1 1 7 n. Borromeo, Carlo, arcivescovo di Mila­ no, santo, 50, 86, 91, 105, 106-8, 115 , 116 ,12 6 ,13 2 ,16 0 , 167, 183. Bossy, John, 1 1 5 η, 132 η, 139 e η, 179 e η ·

Bourges, 14. Brambilla, Elena, 138 n, 14 5 n. Bressanone, 39. Broutin, Paul, 108 n. Buschbell, Gottfried, 52 n. Busseto, 28. Butzer, Martin, 26, 54. Bujanda, Jesus Martinez de, 7 1 n. Bynum, Caroline Walker, 12 1 n. Caetano, Marcelo, 96 n. Caiazza, Pietro, 92 n. Calabria, 109 e n. Calvino, Giovanni (Jean Cauvin, Jean Calvin), 9, 54, 68, 88, 114 , 119 , 158, 170, 175, 183. Camaiani, Pier Giorgio, 176 n. Camerino, 45. Campeggi Giovanni, vescovo, 119 . Cantimori, Delio, 176. Capodistria, 159. Caponetto, Salvatore, 118 n. Carafa, Carlo, 97. Carafa, Gian Pietro, cardinale, vedi anche Paolo IV, io, 67, 69, 162.

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INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIMI

Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero (1519-58), I conte re di Spagna (1516-56), 5, 7 , 1 1 , 21, 22, 24-30, 35-37, 42-45, 57,59 , 61, 62, 65-67, 69, 70, 148. Carpari, Roberta, 116 n. Carroll, Michael, 16 1 n. Carvalho, Joaquim, 126 η. Cascetta, Annamaria, 116 n. Cascina, 140. Castelli, Giovanni Battista, 106 n. Castelnuovo, Enrico, 1 1 5 n. Caterina d’Aragona, regina d’In­ ghilterra (1509-33), 7. Caterina de’ Medici, regina di Fran­ cia (1557-86), 96. Caterina von Bora, 9. Cava dei Tirreni, 53. Cavazza, Silvano, 123 n. Cervini, Marcello, cardinale, vedi anche Marcello II, 13 , 39, 4 1,4 7 , 48, 60, 67, 166. Chabod, Federico, 52 n. Chàtellier, Louis, 122 n, 156 n, 162 n. Chaucer, Geoffrey, 75. Chemnitz, Martin, 93. Chiappa, Franca, 137 n. Chiari, Isidoro, vedi Cucchi, Isidoro. Cina, 155. Cittolini, Alessandro, 129. Clemente VII (Giulio de’ Medici), papa (1523-34), 5, 18, 22 n, 23. Cognac, 6. Collareta, Marco, 1 1 5 n. Colonia, 103. Colonna, Pompeo, cardinale, 6. Colonna, Vittoria, 64, 162. Commendone, Giovanni Francesco, cardinale, 98. Congo, 96. Contarmi, Gaspare, cardinale, 9, 19, 24, 26-28, 35, 36, 59, 148. Contarmi Giulio, vescovo di Bellu­ no, 60. Copete, Marie Lucie, 156 n. Cosimo I, granduca di Toscana, 27. Costantinopoli, 19. Costanza, 3, 2 1, 41. Crépy, 29, 30. Crescenzio, Marcello, cardinale, 69, 166.

Crispoldi, Tullio da Rieti, chierico, 118 . Croce, Benedetto, 174. Cucchi, Isidoro da Chiari, abate be­ nedettino, 38, 53. Curri, Danilo, 160 n. Dall’Olio, Guido, 149 n. Dante Alighieri, 6. De Biasio, Luigi, 129 n, 130 n. De Boer, Wietse, 105 n, 126 n, 132 n, 184 n. De Dominis, Marcantonio, arcive­ scovo di Spalato, 1 1 3 . De Giorgio, Michela, 135 n. Del Monte, Giovanni Maria, cardi­ nale, vedi anche Giulio III, 13,38 , 67, 166. Delumeau, Jean, 124 n, 175 n, 177 e n. De Rosa, Gabriele, n o n, i n n. Descimon, Robert, 18 1 n. De Soto, Pedro, 37. Dickens, Arthur G., 1 7 1 n. Dini, Mariano, 140. Di Simplicio, Oscar, 152 n. Dittrich, Franz, 19 n, 36 n. Dobneck, Johann Cochlaeus, detto,

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Dossetti, G ., 120 n. Dudon, Paul, 119 n. Dumoulin, Charles, 97. Duval, André, 124 n. Eck, Johann, 54. Eire, Carlos Μ. N., 158 n. Elisabetta I Tudor, regina d’Inghil­ terra (1557-1603), 95. Elliott, Dyan, 134 n. Enrico II di Valois, duca d’Orléans, re di Francia (1547-59), 47,67, 68. Enrico V ili Tudor, re d’Inghilterra (1502-47), 7, 25, 32, 46. Enrico di Aviz, detto il Cardinale, reggente (1557) e re del Porto­ gallo (1578-80), 96. Erasmo da Rotterdam, Desiderio, 6, 53, 55, 75, 99 n, 1 5 8 . Eugenio IV (Gabriele Coldulmer), papa (1431-47), 13. Europa, 7, 13 , 15, 20-22, 32, 35,

INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIMI 45, 46, 5 1, 70, 95, 106, 108, I I O , 138, 160, 1 7 1 , 173, 18 1. Evennett, Henry Outram, 178 e n. Faenza, 109 e n, 16 1. Falletti, Franca, n i n. Farnese, famiglia, 29, 45, 61. Farnese, Alessandro, vedi Alessan­ dro Farnese, duca di Parma e Pia­ cenza. Farnese, Ottavio, vedi Ottavio Far­ nese, duca di Parma e Piacenza. Farnese, Pierluigi, vedi Pierluigi Far­ nese, duca di Parma e Piacenza. Fasani, A., i n n. Febvre, Lucien, 174 e n, 177 e n, 184 e n. Fenlon, Dermot, 38 n. Ferdinando I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero (15311564), 12, 48, 83, 84. Ferrara, 9. Filippo II d’Asburgo, re di Spagna (1556-98), 22, 48, 96, 102, 106. Fine, Agnès, 140 n. Firenze, 6, 136 n. Firpo, Massimo, 148 n. Fisher, John, vescovo di Rochester,

25 ·

Flaminio, Marcantonio, 64, 162. Fontanini, Benedetto, abate bene­ dettino, 64. Foscarari, Egidio, vescovo di Mo­ dena, 127. Fracastoro, Girolamo, 43. Fragnito, Gigliola, 79 n. Francesco I di Valois, re di Francia (1515-47), 9, 23, 25, 27, 29, 32, 46, 70. Francia, 5, 6, 8, 13, 14, 22, 23, 28, 29, 36, 44-46, 48, 65, 67, 68, 70, 84, 90, 95, 97, 102, 108, 109, n o n, 144, 163, 174. Francisco de Vitoria, frate domeni­ cano, 23. Frankenhausen, 7. Freedberg, David, 160 n. Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène, n o n. Fubini Leuzzi, Maria, 135 n. Gardi, Andrea, 15 n. Gaudemet, Jean, 133 n.

199

Germania, 3, 4, 7, 9, n , 13, 2 1, 28, 3 3 ,35-37; 4 2 . 4 4 - 4 6 , 5 i . 5 2 , 6 i , 62, 87, 95, 103, n o n, 147, 154, 167, 168 e n, 1 7 1 , 174. Ghislieri, Antonio Michele, cardina­ le, vedi anche Pio V, 12 8 ,12 9 ,15 0 . Giappone, 155. Giberti, Giovan Matteo, 22 η, 1 n n. Ginevra, 9, 29. Giorgio, santo, 159. Giorgio Siculo, vedi Rioli, Giorgio. Giovanni da Navacchio, 140, 14 1. Giulio da Milano, 150. Giulio II (Giuliano della Rovere), papa (1503-13), 14, 18, 22. Giulio III (Giovanni Maria del Mon­ te), papa (1550-55), 47, 69, 72, 150. Giustiniani, Tommaso, 18, 20, 78. Gonzaga, Ercole, cardinale, 45, 5 1, 71 ■ Gonzàlez de Mendoza, Pedro, 106, 125 n, 126, 127 n. Gottinga, 17 1. Gozzi, Marco, 160 n. Graham, W. Fred, 163 n. Granada, 127, 1 3 1 , 132. Granvelle, Nicolas Perrenot de, 28. Graz, 103. Gregorio VII (Ildebrando di Soana), papa (1073-85), 173. Gregorio X III (Ugo Boncompagni), papa (1572-85), 112 . Grimm, Jacob, 14 1 n. Grimm, Wilhelm, 14 1 n. Gropper, Johann, 37. Guerrero, Pedro, arcivescovo di Gra­ nada, 7 1, 84, 88, 89, 106, 107, I 27, I 3 1· Guisa, Carlo di, detto il Cardinale di Lorena, 87, 89. Gumppenberg, Wilhelm, 16 1. Hausmann, Nikolas, vescovo, 8. Hespanha, Antonio Manuel, 1 1 1 n. Hudon, William V ., 38 n, 184 n. Huizinga, Johann, 159 η. Hunt, Arnold, 1 2 1 η . India, 138. Indie orientali, 155 . Inghilterra, 67, 7 1, 95, 154, 174.

200

INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIM I

Irlanda, 154. Italia, 5, 7, 9 ,18 , 22, 26, 27, 36, 44, 62, 68, 7 1, 108, 109, 1 1 3 , 115 , 1 1 7 , 1 1 8 , 13 2 ,14 7 , 148, i6 8 e n , 173-77. 180, 183. Italia centrale, n o . Italia centro-settentrionale, 150. Italia meridionale, 109. Jedin, Hubert, 6 n, 12 n, 2 1 n, 23 e n, 32 n, 45 n, 83 n, 86, 124 n, 143, r6 6en , 169, 170, I7 r , 175, 176, 178. Joannou, P.-P., 120 n. Julia, Dominique, n o n. Karant-Nunn, Susan, 1 1 5 n. Khair-al-Dln, detto Barbarossa, 29. Kittsteiner, Heinz D., r24 n. Klapisch-Zuber, Christiane, 135 n, 140 n. Kuttner, Stephen, 165 n. Lancellotti, Ambrogio Catarino Po­ liti de’ , 136 n. Lang, Peter Thaddaus, n o n. Lanzoni, Francesco, 109 n. Laureo, Marco, frate domenicano,

i5 3 -

Laynez, Diego, 127, 134. Lea, Henry Charles, 124 e n, 13 1 n. Leonardi, C., 120 n. Leone X (Giovanni de’ Medici), pa­ pa (i5t3-2 i), 14, 18, 20, 78. Leone X III (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa (1878-1903), 167. Lepanto, 1 5 1 . Le Roy Ladurie, Emmanuel, 14 1 e n. Lima, 154. Lo Forte Scirpo, Maria Rita, 99 n. Lombardi, Daniela, r35 n. Londra, ir 3 , 167. Lortz, Joseph, 169. Lotti, Ottaviano, 5 1. Loyola, litigo de Onez y, santo, r 18, 119 , 183. Lucca, Γ49. Luciano degli Ottoni, 65. Luigi XII, re di Francia (1498-1515),

14·

Lutero, Martino (Martin Luther), 37, 8 e n , 9, 1 1 , 1 7 , 1 9 , 20, 24-26,

34, 36, 39, 51-55, 58-60, 62-64, 73. 74, 88, 97, 114 , 14 3, 144, 148, r70, 1 7 1 , r74, 183, r84. Madruzzo, Cristoforo, vescovo-prin­ cipe di Trento (1539-78), cardi­ nale, 38. Magni, Girolamo, i n n. Magonza, 33. Manelfi, Pietro, 150. Mannelli, Antonio, 168 n. Manresa, 118 . Mantova, 19, 24, 25, 34, 64. Manuzio, Paolo, 91, 99 n. Marcello II (Marcello Cervini), pa­ pa (1555), 69. Marongiu, Antonio, 134 n. Martelli, Braccio, vescovo di Fieso­ le, 40, 56. Martyribus, Bartolomeo de (Bartolomeu dos Martires), vescovo di Braga, 84, 104, 106, 107. Marx, Karl, 8. Massa, E., n i n. Massarelli, Angelo, vescovo di Telese, 90, 93, 166. Massimiliano I d’Asburgo, re di Ger­ mania e imperatore del Sacro Ro­ mano Impero (1493-1519), 16 1. Massimiliano II d’Asburgo, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero (1564-1576), 98. Mateos, Francisco, 153 n. Maurenbrecher, Wilhelm, 172. Maurizio, elettore di Sassonia (15411553), 68. Maurolico, Francesco, 99 e n. Medici, Caterina de’ , vedi Caterina de’ Medici. Melantone, Filippo, Philippi Schwarzerd, detto, 1 1 , 26, 38, 54, 99 n. Mendoza, Juan de, 42. Messico, 138 , 143. Michelangelo Buonarroti, 28, 64, 162. Mignanelli, Fabio, 37. Milano, 105, 107, 116 , 132 , 165 n. Mitteraurer, Michael, 138 n. Modena, 12 5 n, 147. Mohàcs, 1 1 . Monico, Ambrogio, curato in Valsassina, 116 .

INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIMI Montaigne, Michel de, 79 n. Morandi, Carlo, 175. More, Thomas, vedi Tommaso Moro. Morigia, Paolo, 12 2 e n. Morone, Giovanni, cardinale, 35, 36, 48, 50, 70, 8 1, 84, 87, 9 1, 95, 118 , 144, 162, 167. Moscheo, Rosario, 99 n. Munster, 7. Mussolini, Benito, 174. Muzzarelli, Girolamo, frate dome­ nicano, 119 . Myers, W. David, 124 n. Nacchianti, Giacomo, vescovo di Chioggia, 53, 62. Napoli, 144, 150. Negri, Francesco (Simone da Bassano), io n. Nepi, 45. Niccoli, Ottavia, 180 e n. Niccolò V (Tommaso Parentucelli), papa (1447-55), Ο · Norimberga, 34. Nubola, Cecilia, i n a Ochino, Bernardino da Siena, frate, 28, 60, 148, 150. Oestreich, Gerhard, 184. O ’Malley, John W., 118 n, 143 n, 179 η. Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza (1547-86), 61. Paesi Bassi, 36, 143, 144. Paiva, José, 126 n. Paleotti, Gabriele, cardinale, 93,105, 106 n, 107, 163. Pallavicino, Pietro Sforza, cardina­ le, 167, 168. Palomo, Federico, 156 n. Palumbo, Genoveffa, 160 n. Paolo, santo, 59. Paolo III (Alessandro Farnese), pa­ pa (1534-49), 23, 27-30, 34, 41, 4 4 . 4 5 . 5 2 . 6 1, 145. 0 3 Paolo IV (Gian Pietro Carafa), pa­ pa (1555-59), 22, 70, 97, 99, 10 1, 102, 128, 1 3 1 , 150, 15 1. Paschini, Pio, 40 n. Pastor, Ludwig von, 172. Pastore, Stefania, 106 n.

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Parma, 28, 45, 47, 66. Pelagio, monaco bretone, 59. Pérez de Ayala, Martin, vescovo di Cadice, 12 5 e n, 127 e n, 166. Petrini, Dario, 1 1 1 n. Petrini, Tiziano, 1 1 1 n. Piacenza, 24, 45, 47, 66. Pichon, Jean, 122. Pierluigi Farnese, duca di Parma e Piacenza (1545-47), 4 5 , 66. Pincino (Pinzino), Francesco, frate, 129 e n. Pinnas, Baldassarre, 134. Pio II (Enea Silvio Piccolomini), pa­ pa (1458-64), 19. Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano), papa (1559-65), 48, 50, 70, 83, 84, 89, 99, 10 1. Pio V (Antonio Michele Ghislieri), pa­ pa (1566-72), santo, 79, 103, 150. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Fer­ retti), papa (1846-78), 174. Pisa, 14, 140. Po-chia Hsia, Ronnie, 160 n, 179 e n, 180. Pole, Reginald, cardinale, 13, 28, 32, 38, 63-65, 67, 70, 85, 144, 162. Pordenone, 129 n. Portogallo, 8, 95, 96, 108, n i n, Portogruaro, 129 n. Prodi, Paolo, 90 n, 97 n, 106 n, 120 n, 125 n, 145 n, 163 n, 173 n, 183 e n. Prosperi, Adriano, 22 n, 129 n, 147 n. Pseaume, Nicolas, vescovo di Ver­ dun, 104. Piitter, Johann Stephan, 17 1. Quaglioni, Diego, 137 n. Querini, Vincenzo, 18, 20, 78. Raffaello Sanzio, 6. Ramos, Gabriele, 154 n. Ranke, Leopold von, 169, 172. Ratisbona (Regensburg), 9, 26, 27, 3 5 . 36, 5 9 . τ4 Ί· Regio, Urbano, 123. Reinhard, Wolfgang, 97 n, 180, 18 1 e n, 183 n. Renata di Francia, duchessa di Fer­ rara, 9. Repgen, Konrad, 97 n.

202

INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIMI

Rioli, Giorgio, alias Giorgio Siculo, 40. Roma, 6, 7, 9, 1 3 ,1 4 , 16-18, 23-29, 3 1 -3 3 . 36, 3 7 . 3 9 , 40-42, 4 5 , 46, 48-51, 53, 57, 65, 67, 69, 76, 80, 84, 91-93, 95, 96, 98, 99 n, 100, 10 3 , 105, 107, 1 1 2 , 127, 143, 14 5, 146, 148, 149 e n, 150, 15 1, 15 3 , 154, 16 1, 162, 166. Romeo, Giovanni, 14 1 n. Roscioni, Gian Carlo, 155 n. Roteili, Ettore, 182 n. Rubin, Miri, 1 1 7 n. Ruscelli, Girolamo, 48 n. Salamanca, 23. Salmerón, P. Alfonso, 127. Sandys, Sir John Edwin, 13 1 n. Sanfelice, Giovanni Tommaso, ve­ scovo di Cava dei Tirreni, 53, 60, 6 1, 65, 144. Sangalli, Maurizio, 82 n. San Giorgio di Piano, 140. Sanz, M. Serano y, 12 5 n. Sardegna, 134. Sarpi, Paolo, 30 e n, 3 1 e n, 54 n, 8 1, 98, 1 1 3 , 1 3 1 e n, 163, 165 e n, 166-68, 170 e n, 173. Sarrión Mora, Adelina, 132 n. Sassonia, 5, 8. Savonarola, Girolamo, frate, 3, 19. Scalisi, Lina, 1 1 2 η . Scaramella, Pierroberto, 109 n. Schiera, Pierangelo, 182 n. Schilling, Heinz, 183 n. Scozia, 154. Sebastiano I di Aviz, re del Porto­ gallo (1559-78), 96. Segura Davalos, Juan, 135 e n. Sehling, Emil, 8 n. Seidel Menchi, Silvana, 137 n. Seripando, Girolamo, arcivescovo di Salerno, cardinale, 33, 47, 60, 65, 7 1, 127. Sicilia, 112 η. Simone da Bassano, vedi Negri, Fran­ cesco. Simonetta, Ludovico, cardinale, 91. Sisto V (Felice Peretti), papa (15851590), 103. Slive, Seymour, 159 n. Smalcalda, 5, 25,30, 37, 42, 6 1,14 7 .

Spagna, 22, 28, 84, 95-97, 107-9, n i n, 132 e n, 143, 144, 146. Spira, 1 1 , 29. Strasburgo, io n. Strozzi, Piero, 27. Sturm, Jakob, 1 1 . Susta, Josef, 167 n. Tallon, Alain, 68 n, 83 n. Tarlili, Domenico, i n n. Taviani, Ferdinando, 160 n. Tedeschi, John, 149 n. Tenenti, Alberto, 175 n. Tentler, Thomas N., 124 n. Titolo, 62. Tolone, 29. Tommaso de Vio, detto Caietano o Gaetano, cardinale di Gaeta, 3. Tommaso Moro (Thomas More), 25. Tonkin, John M., 17 1 n. Torino, 24. Torre, Angelo, i n n. Toscana, 27. Trento, 12 , 2 1, 25, 27, 28, 30, 32, 3 4 , 3 7 -3 9 , 4 2 -4 7 , 5 2, 5 4 , 62, 65, 66,68, 70, 80, 82-84, 86, 89, 99, 10 1, 104, 105, 12 3, 1 3 1 , 143, 15 1, 1 5 3 , 156, 164, 173. Troeltsch, Ernst, 176. Truchsess, Ott, cardinale, 52. Turchini, Angelo, n i n, 1 1 6 n. Turtas, Raimondo, 134 n. Ungheria, 98, 154. Urbano, Henrique, 154 n. Usener, Hermann, 138 n. Valdés, Alfonso de, 6. Valdés, Juan de, 60. Valla, Lorenzo, 4, 75, 77. Valsassina, 116 . Vargas, Francisco, 125 n. Venard, Marc, n o n. Venezia, 5, io , 25, 56, 146, 147, 149. Vergerlo, Pier Paolo, vescovo di Ca­ podistria, 39, 40, 159. Verona, 118 . Vicenza, 25. Vienna, n . Vivanti, Corrado, 30 n, 3 1 n, 166 n, 168 n.

INDICE DEI NOMI E DEI TOPONIMI Waquet, Fran?oise, 79 n. Weber, Max, 176, 182. Wied, Hermann von, 36. Wittenberg, 26. Wolsey, Thomas, cardinale, 6. Worms, 1 1 , 21. Zanettini, Dionisio, 61. Zanotto, Andrea, 137 n. Zarri, Gabriella, 119 n, 134 n. Zeeden, Ernst Walter, n o n. Zonta, Giuseppe, io n. Zurigo, io. Zwingli, Huldrych (Huldreich, Ulri­ co Zuinglio), 9, io, 68, 99 n, 170.

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Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso la Stamperia Artistica Nazionale, s.p . a., Torino nel mese di giugno 2 0 0 1

C.L. 15877 Anno

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