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Italian Pages 384 [388] Year 1988
PREMESSA
Una guida al concerto per pianoforte e orchestra, mi sembra, può essere pensata come storia del genere o come elenco-catalogo delle composizioni rimaste in repertorio. Nel primo caso il discorso critico è esauriente ma la discussione tocca spesso composizioni che il lettore non ha familiari e di cui non può procurarsi facilmente le partiture o i dischi. Nel secondo caso vengono discusse musiche che il lettore in genere conosce o sulle quali può comunque facilmente documentarsi; ma viene perduta una parte almeno dei nessi e delle situazioni storiche. Non essendo riuscito a scoprire una terza formula che riunisse i vantaggi delle prime due ho preferito dividere il volume in due parti: una succinta storia, un catalogo. La prima parte è breve ma completa, la seconda prende in esame un numero di composizioni un po’ più ampio di quello che forma il repertorio corrente. Nel catalogo ho in realtà tenuto sempre presente il discorso storico, facendo una specie di altra storia, la storia dei capolavori, e indicando quand’era opportuno — perché il volume potrà servire anche come opera di consultazione — i riferimenti alla prima parte. Che cosa sia capolavoro e che cosa non sia, è concetto in verità da prendersi con le molle. Assumendomi la responsabi lità della scelta dirò che ho piuttosto allargato che ristretto l’apertura dei cancelli attraverso i quali alcuni personaggi, sfilati nella prima parte, trovano nella seconda il loro piedistallo. Ma, anche se del tutto soggettivamente, sono convinto che la scelta avrebbe potuto esser ancora più ampia,
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Premessa
se i limiti dello spazio disponibile non me lo avessero impedito. Il catalogo contiene per ogni concerto una scheda, un insieme fisso di dati. I commenti non seguono invece uno schema costantemente ripetuto. Gli argomenti ricorrenti concernono le circostanze di composizione dell’opera, la sua fortuna, le sue caratteristiche di forma, di linguaggio, di scrittura. Ma di volta in volta ho scelto il taglio che mi sembrava più opportuno in relazione, diciamo così, con il tasso di conoscenza di cui l’una o l’altra opera godono oggi. Anche la lunghezza dei commenti, che non è uniforme, dipende dallo stesso motivo: non ho tanto insistito sui concerti già ampiamente e variamente discussi dalla pubblici stica, quanto su quelli (e segnalerò qui i tre di Saint-Saèns, il Secondo di Ciaikovsky, il Quarto di Rachmaninov, il Quarto di Prokofiev, il Terzo di Bàrtok, la Burlesca di Strauss) che a parer mio rappresentano ancora problemi critici poco o pochissimo esplorati. Una guida, sebbene possa essere utilizzata in ambito scolastico, non è un manuale didattico e si rivolge ad un pubblico di buona cultura generale, con interessi, ma non con conoscenze tecniche della musica. Pur non potendo evitare di impiegare termini tecnici, ho cercato sempre la strada della descrizione, ed essendo partito da una prima stesura che comprendeva moltissimi esempi musicali li ho poi depennati ad uno ad uno fino a ridurli a un unico superstite. Ho ritenuto di dovere operare così perché l’esempio musicale, se facilitava il compito a me, lo complicava per il lettore. Ed a maggior ragione il più delle volte ho eliminato i riferimenti ai numeri di battuta. Qualche parola, infine, sulla dedica. Alberto Mozzati e Carlo Vidusso furono, insieme con Vincenzo Vitale, i maestri della generazione precedente la mia che nella mia formazione contarono di più. Con Vidusso studiai dopo il diploma ed ebbi in seguito, per molti anni, frequenti occasioni di incontri. Mozzati, che conobbi quando studiavo con Vidusso, mi fu per lungo tempo amico prezioso, mi fece ascoltare dischi, mj parlò dei pianisti del passato e mi apri gli occhi, in sostanza, sulla
Premessa
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storia dell’interpretazione. Vitale, conosciuto poco più tardi, mi fu di guida nei problemi della didattica e mi fece capire il significato di certe fondamentali scelte culturali. A Vitale, che allora era in vita, dedicai nel 1982 la Storia del pianoforte. Con questa dedica alla memoria di Mozzati e di Vidusso intendo assolvere non tanto un debito quanto completare una testimonianza di profondo affetto resa a chi mi aiutò a trovare me stesso. Piero Rattalino
CORSI E RICORSI NELLA STORIA DEL CONCERTO
DELIZIE DEL ROCOCÒ
La letteratura per pianoforte solo è registrata nell’anagrafe della storia al 1732, anno in cui escono le Sonate op. 1 di Lodovico Giustini «da cimbalo di piano forte detto volgar mente di martelletti». La letteratura per pianoforte e orche stra non può invece vantare un adamo creato dalla polvere, ma solo un’eva che dalla costola d’adamo si stacca: intorno al 1770 cominciano ad apparire concerti «per clavicembalo o pianoforte», che vengono eseguiti sull’uno o sull’altro stru mento — come la musica per pianoforte solo, del resto — per almeno un decennio ancora. I concerti “per clavicembalo o pianoforte” degli anni 70 non differivano in genere dai concerti “per clavicembalo” del decennio precedente, durante il quale era morto il barocco ed era diventato adulto il rococò. Il concerto per clavicembalo, beninteso, aveva già toccato un culmine eccelso con Johann Sebastian Bach, scomparso nel 1750. Ma chi conosceva o ricordava ancora, verso il 1760, i concerti per clavicembalo del vecchio Bach? Li ricordavano solo i figli e pochi allievi. Un dottissimo musicista, Johann Philipp Kirnberger, che forse aveva studia to anche con il vecchio Bach e che era amico dei giovani Bach, pubblicò a Lipsia nel 1763 un Concerto in do minore. Questo concerto è attribuito a Johann Sebastian Bach in una raccolta di manoscritti che si trova ad Eisenach, e qualche studioso tende ad attribuirlo a Wilhelm Friedemann Bach, primogeni to di Johann Sebastian. Noi pensiamo che si tratti di opera del Kirnberger, ma è evidente che la stessa incertezza di
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attribuzione nasce da caratteri stilistici che suonano, rispetto al 1763, un po’ antiquati, démodés. Un po’ démodés, e non è — s’intende! — un titolo di demerito, sono due concerti di Christoph Nichelmann. Ma al di fuori della patriarcale famiglia Bach i mani di Johann Sebastian bisogna cercarli col lanternino. E anche in famiglia... I figli di Bach entrati in carriera come musicisti erano quattro: Wilhelm Friedemann, Carl Philipp Emanuel, Johann Christoph Friedrich, Johann Christian. Il primo viveva a Halle, il secondo a Berlino, il terzo a Biickenburg, il quarto a Milano: dei quattro, Wilhelm Friedemann aveva composto concerti saltuariamente, Johann Christoph Friedrich e Johann Christian non ne aveva ancora composti1, Cari Philipp Emanuel aveva già nel suo catalogo molti concerti ed era passato da strutture e linguaggio barocchi ad esperimenti arditi e vivaci. Al tramonto del barocco era lui il maggior compositore del genere, ma l’influenza del Bach berlinese sul gusto europeo era tuttavia limitata perché tre soli dei suoi concerti erano stati pubblicati e la sua lezione non era perciò penetrata al di là della corte prussiana e di piccoli circoli intellettuali. Non molto più numerose erano state le pubblicazioni del cembalista della corte imperiale austriaca Georg Christoph Wagenseil. Ma siccome Vienna era un centro politico di maggiori relazioni internazionali, il Wagenseil era divenuto l’iniziatore di un gusto che avrebbe dominato in Europa per più di due decenni. La tendenza impersonata per primo dal Wagenseil era quella della musica per dilettanti colti, concettualmente non troppo impegnativa ed esecutivamente semplificata rispetto alla tecnica di Johann Sebastian Bach e di altri claviccmbalisti barocchi: molta agilità leggera alla mano destra, giochetti spiritosi a mani alternate, niente che richiedesse un’intensa applicazione allo strumento. 1 A dire il vero, vengono attribuiti a Johann Christian alcuni concerti, che sarebbero stati da lui composti durante la sua permanenza a Berlino presso il fratello Cari Philipp Emanuel; l’attribuzione è peraltro molto incerta e probabilmente inattendibile. i
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Wagenseil e il suo allievo Josef Anton Stepan inventarono anche il termine Concettino, che metteva in maggior evidenza il disimpegno dell’esecutore. Ma siccome Wagenseil e Stepan erano musicisti di corte e potevano senza problemi disporre dell’orchestra completa, i loro concertini non bamboleggiava no e non erano stucchevoli perché, se era vero che il solista non vi faceva dimostrazione di bravura, era però altrettanto vero che alla varietà e alla piacevolezza elegante del quadro provvedevano i colori orchestrali. Si potrebbe dire che Wagenseil e Stepan creano il concerto come cerimonia in cui chi sta al centro dell’attenzione — imperatore o solista che sia — non deve necessariamente essere una presenza carismatica ma viene piuttosto creato, come presenza, dalla suntuosità e dalla pompa di ciò che verso di lui confluisce. Su questa strada, i due viennesi furono seguiti da Cari Philipp Emanuel Bach, che tra il 1762 e il 1764 scrisse quindici Sonatine nelle quali non mancavano esempi di geniale sperimentalismo nell’orchestrazione, con impiego di vari strumenti a fiato oltre che dei soliti archi. Più tardi (1774) il compositore tedesco Johann Friedrich Reichardt avrebbe trovato un ultimo titolo, fortemente... maschilista ed esatta mente emblematico del pubblico, dal gran tempo libero a disposizione, che compositori ed editori tenevano nel mirino: Concerts à Vusage du beau sexe (Concerti all’uso del bel sesso). Il bel sesso che pestacchiava i tasti partiva dall’empireo. L’imperatrice Maria Teresa d’Austria aveva studiato il clavi cembalo con il Wagenseil, la sua figliola principessina Maria Antonietta studiava con lo Stepan: la reputazione del maestro dipendeva anche dal rango dell’allieva, ed i nomi di un’impe ratrice d’Austria e più tardi di una principessa austriaca salita sul trono di Francia facevano da cassa di risonanza ad un Wagenseil ed alla sua scuola ben più di quanto potesse contare il nome della principessa Amalia di Prussia per il blasone di Cari Philipp Emanuel Bach. La doviziosa miniera scovata a Londra dal fratello minore di Cari Philipp Emanuel, Johann Christian, fu impersonata dalla regina Carlotta. A dire il vero, Johann Christian si era spostato da Milano a Londra, nel 1762, sull’onda del successo ottenuto dalla sua
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opera Catone in Utica, che gli aveva procurato una scrittura al Teatro Haymarket. Ma la pubblicazione, nel 1763, dei sei Concerti op. 1 “per clavicembalo” dedicati alla regina Carlotta fondò la fama europea del Bach londinese come grande clavicembalista e massimo fornitore di musica per dilettanti. I caratteri stilistici dei concerti di Bach erano quelli dei concerti di Wagenseil: semplicità concettuale e tecnica che non escludeva grazia e fluidità discorsiva. La riduzione degli strumenti accompagnanti a due parti di violino ed una parte di basso con la ulteriore possibilità di esecuzione a quartetto (clavicembalo, due violini e violoncello), riduzione che Cari Philipp Emanuel Bach aveva evitato e che con il fratello minore diventava invece la norma, apriva un campo di possibilità esecutive molto grandi perché poco dispendiose, ed allargava quindi l’area sociale del consumo. Johann Christian operava in un paese in cui la borghesia si era già impadronita del costume culturale dell’aristocrazia senza possederne i mezzi economici esorbitanti, e quindi puntava sulla composizione non solo facilmente fruibile, ma facilmente smerciabile. Essendo però artista, non mestierante, il Bach londinese non badava tuttavia meno alla qualità estetica ed al taglio sapiente nel susseguirsi di variati episodi, come in quei romanzi sentimentali dolci e scorrevoli che il bel sesso adorava. In quattro dei sei Concerti op. 1 Bach adottava la forma in due tempi, la più comune nella sonata rococò, e solo in due la forma in tre tempi. L’ultimo Concerto, in re maggiore, terminava con una serie di variazioni sull’inno nazionale inglese God save the King: era veramente il Dulcis in fundo che intrecciava insieme la regina Carlotta, l’orgoglio dinastico degli inglesi e il simbolo musicale della nazione in una sintesi di irripetibile eleganza. Bach non si sarebbe sostanzialmente scostato dai caratteri stilistici dell’op. 1 nelle altre due sue raccolte di sei concerti ciascuna: l’op. 7, pubblicata nel 1770, e l’op. 13, pubblicata nel 1777. Solo il Concerto op. 7 n. 5, che prevedeva la cadenza nel primo e nel secondo tempo, ampliava in modo evidente la struttura, e solo i Concerti op. 13 introducevano accanto agli
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archi una coppia di oboi e una coppia di corni ad libitum. Un’innovazione, di carattere più editoriale che stilistico, era la destinazione a “clavicembalo o pianoforte” adottata dall’op. 7. Il Bach londinese era stato del resto il primo esecutore che, il 2 giugno 1768, avesse adottato il pianoforte in un’esecuzione pubblica di un pezzo per strumento a tastiera. E il pianoforte comparve spesso negli anni successivi, nei concerti pubblici a pagamento, Accademie, che Bach e il violinista Cari Friedrich Abel programmavano nelle Almack Assembly Rooms in King Street. Il Concerto per pianoforte e orchestra come occasione di intrattenimento familiare, l’Accademia come vetrina di pezzi da far acquistare ai dilettanti. I due termini divennero col tempo così strettamente legati che V Accademia finì per chiamarsi anch’essa Concerto: la parte per il tutto, s’inten de,... con qualche difficoltà di comprensione per coloro che, non ancora avventuratisi nei segreti meandri della terminolo gia musicale, non ben distinguono la manifestazione pubblica e il pezzo di musica. Il doppio significato del termine, se può confondere gli inesperti, ci dice però anche quale fosse il successo del concerto come genere di musica: nelle accademie si eseguiva no e concerti e ouvertures e sinfonie, ma la parte dell’accade mia che alla fine diede il nome al tutto fu il concerto. E non solo genere ma, come vedremo, idea: idea di spettacolo, destinata ad evolversi con il mutare dei tempi, del pubblico, degli ingegni che vi si sarebbero applicati. Il concerto classico, che definisce le sue strutture formali tipiche insieme e in connessione con la sonata classica e con la sinfonia classica, si caratterizza soprattutto per l’adozione del cosiddetto allegro di sonata o forma-sonata. In sintesi, e senza tener conto di una ricca casistica, V allegro di sonata può essere così descritto:
I. Esposizione, composta da: a) primo tema in tonalità principale, b) transizione modulante;
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c) secondo tema, 1) in tonalità di dominante se la tonalità principale è di modo maggiore, o 2) in tonalità relativa maggiore se la tonalità principale è di modo minore, d) conclusione, 1) nella tonalità della dominante, oppure 2) nella tonalità relativa maggiore. IL Sviluppo dei temi o di parti o frammenti dei temi esposti. III. Riesposizione, composta da: a) primo tema in tonalità principale, b) transizione, non modulante ed abbreviata rispetto a quella dell’esposizione, c) secondo tema, 1) in tonalità principale, oppure 2) nella tonalità simigliante maggiore, d) conclusione nella tonalità principale, con eventuali amplia menti rispetto all’esposizione.
In confronto con quello della sonata e della sinfonia, V Allegro di sonata del concerto è caratterizzato dalla "doppia esposizione”, cioè da due esposizioni separate, una dell’orche stra sola, una del solista accompagnato dall’orchestra (le due esposizioni possono essere di struttura formale tonale identi ca, ma in genere l’esposizione orchestrale è abbreviata ed anticipa la struttura tonale della riesposizione). Altro carattere specifico dell’Allegro di sonata nel tipo-concerto è costituito dalla cadenza, collocata verso la fine della riesposizione, durante la quale è concesso al solista di eseguire, o di improvvisare, una fantasia sui temi del primo tempo. L’articolazione più frequente del concerto è quella in tre tempi secondo lo schema mosso-lento-mosso. Lo schema in due tempi venne adottato con notevole frequenza solo tra il 1760 e il 1780 circa e fu ripreso poi in casi del tutto eccezionali {Concerto n. 3 di Field, Concerto n. 1 di Glazu nov); lo schema in quattro tempi, che ripeteva lo schema ordinario della sinfonia, venne usato, e sempre per eccezione, a partire da Henry Litolff (il più noto concerto in quattro tempi è il Secondo di Brahms); rarissimo lo schema in cinque
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tempi (Concerto op. 39 di Busoni, Concerto n. 5 di Prokofiev). Anche lo schema in un tempo solo venne adottato raramente in composizioni per pianoforte e orchestra intitolate concerto (Concerto n. 2 di Liszt, Concerto n. 1 di Medtner, Concerto n. 2 di Schuloff, Concerto di Maderna, Concerto n. 3 di Scedrin, Concerto n. 1 di Balakirev, Concerto n. 3 di Ciaikovsky; nei due ultimi casi c’è però il dubbio che si tratti di lavori incompleti, di cui sia stato composto solo il primo tempo); non infrequente fu invece, a partire da Mendelssohn, la forma in più tempi collegati (Concerto n. 1 di Liszt, Concerto di Schonberg, ecc.), e non infrequente, dopo il Concerto n. 5 di Beethoven, la forma in tre tempi con secondo e terzo tempo collegati (Concerto op. 54 di Schumann, Concerto n. 3 di Rachmaninov, ecc.). Lo schema dell’allegro di sonata venne in genere adottato nel primo tempo (solo Mozart l’adottò volentieri anche nel secondo e nel terzo tempo). Nel secondo tempo venne di preferenza adottata la forma tripartita di canzone (primo tema, secondo tema, primo tema) e nel terzo la forma del rondò (tema principale o refrain, alternato con almeno altri due temi). Mozart usò talvolta, sia nel secondo che nel terzo tempo, la forma di tema con variazioni, molto rara invece dopo di lui (secondo tempo del Concertstuck di Volkmann, secondo tempo del Concerto di Scriabin, secondo tempo del Concerto n. 1 di Glazunov, secondo tempo del Concerto n. 3 di Prokofiev, secondo tempo del Concerto di Petrassi).
MOZART E IL CONCERTO CLASSICO
Mentre a Berlino e poi ad Amburgo Cari Philipp Emanuel Bach tirava diritto per la sua strada, e mentre a Parigi Johann Schobert manteneva nei suoi concerti per clavicembalo una ormai inconsueta complessità concettuale, il verbo del patriar ca Wagenseil e del profeta Johann Christian Bach invadeva l’Europa, determinando un’affannosa rincorsa al successo. Tra i compositori che a tutta possa si davano da fare per conquistarsi il mercato del bel sesso c’era un ragazzino che alla fine del 1762 aveva eseguito alla corte di Vienna, con l’autore in vesti di voltapagine, un Concerto del Wagenseil. Wolfgang Amadeus Mozart non aveva allora ancor compiu to i sette anni ed aveva già tentato di scrivere un concerto per clavicembalo, senza riuscirci. Due anni dopo, quand’era sui nove anni e soggiornava a Londra, Mozart trovò una chiave che gli apriva il forziere: «Tre Sonate del Sgr. Giovanni Bach ridotte in Concerti dal Sgr. Amadeo Wolfgango Mozart». Erano le sonate op. 5 n. 2, 3 e 4. Mozart le fece diventare concerti sfruttando il ritornello, cioè la ripetizione dell’esposi zione, per ottenere la dicotomia di esposizione puramente orchestrale ed esposizione con il solista, ed inserì, prima della fine del primo tempo, la fermata per la cadenza. Risolto questo problema strutturale, gli altri tempi delle sonate non presentavano difficolta ad essere riplasmati come tempi di concerto: il piccolissimo Amadeo Wolfgango fece un lavoro eccellente. A undici anni, tra l’aprile e il luglio del 1767, Mozart scriveva quattro concerti (K 37, 39, 40, 41), ripetendo lq già
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sperimentata operazione bachiana con tempi di sonate per clavicembalo di compositori tedeschi residenti a Parigi (Schobert, Honauer, Eckardt, Honauer) e con un pezzo di Cari Philipp Emanuel Bach. Nel dicembre del 1773 componeva il primo Concerto interamente di sua invenzione, in re maggiore K 175. Tra il 1767 e il 1773 erano stati pubblicati importanti concerti per clavicembalo di Johann Schobert, di Johann Christian Bach, di Cari Philipp Emanuel Bach; in Austria e in Baviera si erano segnalati Haydn, Leopold Hofmann, Carl Ditters von Dittersdorf, Johann Georg Albrechtsberger, Antonio Salieri, Ignaz von Beecke. Mozart, con il K 175, superava d’un colpo tutto ciò che nel genere, eccettuato Cari Philipp Emanuel Bach, si era scritto durante il periodo rococò. Le proporzioni del Concerto K 175 sono appena un poco più vaste di quelle del Concerto op. 7 ». 5 di Johann Christian Bach, ma lo spirito del rococò viene da Mozart superato con un curioso ritorno, nei tempi estremi, a stilemi barocchi, e con la comparsa, nel tempo centrale, di una personalità inconfondibile. Il ricorso a stilemi barocchi non significa minimamente ricorso a forme barocche: tutti i tre tempi sono infatti strutturati secondo la “moderna” forma-sonata. Barocca è però la sonorità dell’orchestra per la presenza e per il modo in cui sono impiegati, accanto al quintetto d’archi e ai due oboi e due corni del rococò e del protoclassicismo, le trombe e i timpani. Bastano lo squillo delle trombe e il rombare dei timpani nei tutti per richiamare alla memoria i tutti hàndeliani; e basta che trombe e timpani tacciano — nel secondo tempo — perché il timbro dei corni si ponga, con illuminazio ne preromantica, come termine intermedio fra gli archi e il solista. Barocca è l’innervatura ritmica del primo tempo, con gli squadrati movimenti del basso e con i blocchi massicci di sonorità che scandiscono le strutture. Barocca è, nell’ultimo tempo, l’esposizione del primo tema con il rigoroso canone all’ottava e con il severo contrappunto a tre voci. Barocco, infine, è lo strumento.
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Il Concerto è indicato nell’autografo “per il Clavicembalo”. L’indicazione potrebbe essere generica: Mozart conosceva del resto il pianoforte e ciò lo si nota in più momenti, soprattutto negli episodi cantabili del secondo tempo che sono anche i più personali. Ma la scrittura strumentale del Concerto pare rapportabile, in generale, più alle risorse del clavicembalo che a quelle del pianoforte, e la composizione, che apre la serie mirabile dei concerti originali di Mozart, non è in realtà un’opera prima ma un’opera conclusiva, un’opera meditata che sintetizza la storia del genere tra il 1750 e il 1770, tra il tramonto del barocco e l’alba del classicismo. Si può supporre un’influenza di Cari Philipp Emanuel Bach, tuttavia non documentata. Ma allo stato attuale degli studi critici resta in realtà irrisolto il problema della genesi di un concerto così singolare e affascinante: dai compositori viennesi, da Johann Christian Bach, dai concerti-trascrizione di Mozart si passa al Concerto K 238, ma non al Concerto K 175, le cui connotazioni stilistiche non appaiono ancora chiaramente spiegabili. Il Concerto K 238 è il primo del gruppo di quattro composti nell’arco di un anno, tra il ’76 e il ’77. L’adesione di Mozart alla poetica del rococò è certamente logica, in un giovane compositore che sta tentando di inserirsi nella vita musicale internazionale, ma nello stesso tempo, venendo dopo il Concerto K 175, appare veramente sorprendente. Nei concerti del 1776-77 l’orchestra è ridotta ad archi, due oboi e due corni, i passi virtuosistici sono pochi, la ricerca di un’intima cantabilità prevale nella scrittura del solista anche nei tratti rapidi, e lo stile dei quattro concerti appare evidentemente legato ad un immediato rapporto con un pubblico ben determinato o addirittura con un committente: è il caso del Concerto “a tre cembali” K 242, scritto per la contessa Antonia Lodron e le sue figlie Aloisia e Giuseppina, del Concerto K 246, scritto per l’allieva di Leopold Mozart contessa Liitzow, del Concerto K 271, grande capolavoro giovanile mozartiano, scritto per una pianista francese, una Mademoiselle Jeunehomme di cui non conosciamo altro che il cognome. Non risulta la committenza del Concerto K 238, che
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è però molto semplice e che venne quindi probabilmente composto per un*allieva di Leopold o per la sorella Nannerl. I concerti scritti per l’uso privato o semiprivato di un pubblico di dilettanti venivano anche eseguiti, come abbiamo accennato, dai professionisti: l’esecuzione del professionista costituiva anzi una specie di mostra, di vetrina, ed il professionista dava del resto dimostrazione della sua valentia aggiungendo alla composizione variazioni e varianti virtuosi stiche improvvisate. Mozart portò dunque con sé, nel viaggio a Parigi del Y177-7S, tutti i concerti che aveva composto e li fece ascoltare con successo ad Augusta, Monaco e Mannheim. Non riuscì però a “piazzarli” in un’esecuzione pubblica a Parigi e non trovò acquirenti tra i numerosi ed attivissimi editori parigini. Il viaggio, disastroso sotto l’aspetto finanziario e della ricerca di prestigio, drammatico e tragico sotto l’aspetto umano (l’infelice amore per la cantante Aloysia Weber, la morte della madre a Parigi), diede però al giovanissimo artista due certezze: votatosi definitivamente al pianoforte dopo aver suonato ad Augusta sugli strumenti del fabbricante Johann Andreas Stein, Mozart provò a se stesso che come pianista non era secondo a nessuno, e conoscendo la nuova produzione che si diffondeva in Europa potè capire che nessuno aveva nulla da insegnargli in fatto di concerti per pianoforte e orchestra. Nulla avevano da insegnargli i compositori della corte di Mannheim, i Mannbeìmer. nei concerti di Christian Cannabich e di Cari Stamitz trovò composizioni assai più semplici delle sue, dalle quali potè tutt’al più esemplare — l’orchestra di Mannheim era la migliore d’Europa — l’uso di affidare interventi concertanti ad uno o più degli strumenti accompa gnanti. Nulla aveva da insegnargli Ignaz von Beecke, temutissimo da babbo Mozart, ma che Mozart figlio, a detta di mamma Mozart, sbatteva come un tricorno. Né l’abate Vogler, che lesse a prima vista il Concerto K 246 di Mozart, cannando come un principiante. Né Johann Christian Bach: ritrovando a Parigi l’amico-maestro conosciuto a Londra quattordici anni
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prima Mozart incontrò l’artista che aveva appena pubblicato la sua ultima raccolta di concerti, forse paragonabile al Concerto K 238, certamente lontana dal Concerto K 271. Nulla infine aveva da insegnargli l’astro nascente di Johann Samuel Schroeter, il quale, trasferitosi da Lipsia a Londra, era diventato il cocco dell’aristocrazia e l’erede designato di Johann Christian Bach, a cui sarebbe ben presto succeduto nel posto di maestro della regina Carlotta. Mozart acquistò a Parigi i Concerti op. 3 di Schroeter, che ammirò e per i quali scrisse delle cadenze, ma né nell’op. 3, né nella posteriore e più matura op. 5 avrebbe potuto scoprire più di un aggraziato, di un delizioso — come dire? — premozartismo. Tuttavia, nell’attualità dell’anno di grazia 1778 Johann Christian Bach e Johann Samuel Schroeter contavano molto e Mozart contava meno del due di coppe, anche perché Mozart era a caccia di occasioni per scrivere opere teatrali e guardava al pianoforte come ad un grimaldello che gli aprisse le stanze del vero agognato tesoro. Il grimaldello, nel 1778, non funzionò. Cominciò a funzionare nel 1782. Tornato gonfio d’amarez za a Salisburgo, Mozart aveva scritto nel marzo del 1779 il Concerto “a due Cembali ” K 365, pensato probabilmente per sé e per la sorella. Il 16 marzo 1781, a seguito di un per lui fausto evento — la morte dell’imperatrice Maria Teresa, che aveva richiamato nella capitale l’arcivescovo di Salisburgo e la sua corte — Mozart era arrivato a Vienna; il 3 aprile aveva suonato con successo un concerto (forse il K 238, forse il K 271); il 9 maggio aveva presentato tempestosamente le dimissioni; il 9 giugno aveva incassato dal sovrintendente conte Arco la liquidazione («un calcio in culo... per ordine del nostro degno Principe Arcivescovo») e si era sistemato a Vienna come libero professionista. Trovati parecchi scolari, il 23 novembre Mozart eseguì il Concerto K 365 in casa della sua allieva Josephine von Aurnhammer che gli faceva da partner, e il 3 marzo 1782 presentò al pubblico il Concerto K 175 con un nuovo finale. Dopo altre due accademie nel 1782, Mozart si lanciò nel 1783 in una più grossa avventura. Il 5 gennaio 1783 com-
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pativa nel Wiener Diarium un annuncio: il signor Capellmeister Mozart aveva pronti tre concerti e li avrebbe ceduti in co pie manoscritte a chi avesse sottoscritto una prenotazione al costo di quattro ducati. Sembra che le prenotazioni non andassero tanto bene, ma i tre concerti — K 413, 414, 415 — furono poi acquistati dall’editore Artaria e almeno uno di essi, il K 415, ottenne tre successori, 1’11 marzo (presente Gluck), il 23 (presente l’imperatore Giuseppe II) e il 30 (presente di nuovo Giuseppe II, tornato a risentirlo). Scrivendo al padre il 28 dicembre 1782 Mozart diceva: «Questi concerti sono un buon medium tra ciò che è troppo facile e ciò che è troppo difficile; sono molto brillanti, piacevoli all’orecchio, e naturali senz’essere insipidi. Ci sono qua e là passaggi da cui i conoscitori possono cavare la loro soddisfazione; ma questi passaggi sono scritti in un modo che anche i meno colti non possono non essere contenti, senza sapere il perché». Lo sforzo di adeguamento di Mozart agli usi dei dilettanti era stato totale, tanto che il Concerto K 413 era addirittura più vicino allo stile medio rococò di quanto non lo fosse stato il K 238. L’orchestra, in tutti i tre concerti, era assai ricca di colori, ma il compositore indicava gli strumenti a fiato come ad libitum ed arrivava al punto di concedere l’esecuzione “a quattro”, cioè con due soli violini, una viola e un violoncello, precisamente come aveva fatto a suo tempo il vecchio volpone Johann Christian Bach. Se questa era la facciata, nella sostanza Mozart si allontanava però dal rococò con la velocità di una cometa: rococò il Concerto K 413, ma molto lirico il Concerto K 414 e nettamente sinfonico il K 415. Il Concerto K 415 non era più, in realtà, un concerto ad uso del bel sesso, ma era un concerto da professionisti, e fu infatti quello che piacque di più ad ascoltatori come Gluck e Giuseppe II. Partito dunque con l’intenzione di riprendere il vecchio discorso — la conquista del mercato — Mozart si trovò ben presto a fare un discorso nuovo: 1) livello professionistico del solista, non impegnato nella ornamenta zione virtuosistica di una parte tecnicamente semplice ma
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nella creazione di una struttura sonora complessa; 2) speri mentazione dei rapporti tra il pianoforte e Finterà orchestra o sezioni dell’orchestra; 3) struttura concertante estesa dal pianoforte agli strumenti a fiato, considerati, sia pure in momenti limitati, come co-solisti; 4) ricerca di strutture formali sempre rinnovate, pur nel quadro degli schemi tipici tradizionali; 5) conquista di un nuovo principio di polifonia, diverso dai principi barocchi e basato sullo sviluppo tematico. Il vero e proprio “manifesto” del nuovo — incorreggibil mente nuovo — Mozart è il poco noto Concerto in mi bemolle maggiore K 449, che converrà dunque esaminare qui piuttosto che nel contesto del Catalogo. Il Concerto, come Mozart scrisse al padre il 26 maggio 1784, «è d’un genere tutto speciale, pensato piuttosto per piccola che per grande orchestra». Mozart, aderendo per l’ultima volta agli usi correnti, scrive un concerto con orchestra formata da soli archi, due oboi e due corni ad libitum. Ma basta leggere la partitura del secondo tempo per capire che quellW libitum è una concessione al possibile acquirente, e che la sonorità dei corni è essenziale nell’equili brio strutturale del brano. Allo stesso modo, basta gettare un’occhiata sull’inizio del primo tempo per capire che i paesaggi del rococò, dopo la crisi rappresentata dal Concerto K 415, sono perduti per sempre. L’inizio del primo tema, non armonizzato, non stabilisce una precisa tonalità: il mi bemolle maggiore, il do minore, il si bemolle maggiore sono toccati e non affermati, poi viene toccato il fa minore, e solo alla fine del primo periodo prevale il mi bemolle maggiore. Il tema di transizione parte dal do minore, e tutta l’esposizione orchestrale è inquieta e dramma tica, ed animata da un discorso polifonico densissimo. Il superamento del rococò non avviene, come in parte nel Concerto K 175, con la riproposta del barocco, né con procedimenti contrappuntistici tra il neobarocco e la citazione erudita. Una polifonia di nuovo tipo, messa a punto nelle sinfonie (l’ultima delle quali, la Sinfonia di Linz K 425, composta all’inizio del novembre 1783), si impadronisce an che della forma del concerto, rovesciandone le connotazioni
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ideologiche: il concerto mozartiano tenderà d’ora in poi ad essere una sinfonia con pianoforte obbligato o, secondo la paradossale affermazione di Ludwig Spohr, un concerto per fiati con accompagnamento di pianoforte. Con il Concerto K 449 ha dunque inizio una seconda maniera mozartiana o, come diceva Pietro Lichtenthal, una “seconda specie” di concerto: «La seconda specie fu da lui stesso creata in tale perfezione quale non sussisteva né prima né dopo di lui. Questi concerti costituiscono i soliti tre tempi, ma elaborati; l’intera orchestra con tutti gli strumenti vi sono obbligati, predominando ognora il pianoforte. Questa è la specie più nobile e più artificiale, ed alcuni di questi concerti palesano tanta grandezza di sentimento e di profondità, che vengono paragonati meritatamente ad altrettanti drammi lirici» (P. Lichtenthal, Mozart e le sue creazioni, Milano 1842).
Per dare un’idea del tematismo sinfonico mozartiano analizzeremo brevemente la costruzione del primo tema. La dimensione è di sedici battute, suddivise per multipli di due e di quattro. Le battute 1 e 2 contengono il nucleo tematico generatore, formato dall’intervallo di terza minore discenden
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te; nelle battute 3 e 4 l’intervallo è rovesciato (terza minore ascendente) e “riempito” con un suono intermedio; la battuta 5 riprende, un tono sotto, la battuta 3; la battuta 6 riprende ed amplia l’unico suono della battuta 4, coprendo l’intervallo di terza maggiore; la battuta 7 riproduce con una lieve modificazione la battuta 6, un tono sopra; la battuta 8 conclude il primo periodo e dà inizio ad un contrappunto nuovo; le battute 9-12 sono identiche alle battute 5-8, ma con sovrapposto il seguito del contrappunto iniziato alla battuta 8; le battute 13 e 14 sono identiche, con solo una minima variante, alle battute 11 e 12; le battute 15 e 16 sono identiche alle battute 13 e 14, con una modificazione finale che porta alla tonalità di do minore. Non analizziamo la dinamica, la densità, la strumentazio ne, che introducono altri elementi di variabilità. E però evidente, ci sembra, il carattere essenziale della costruzione, e cioè il concetto di variazione di un modulo, di un nucleo generatore. La prima entrata del pianoforte non smentisce l’introduzio ne. Il pianoforte inizia con il primo tema e continua con coerenza, anche se il rapporto sinfonico solista-orchestra non raggiunge ancora il grado di maturità che toccherà fra breve. Una monumentale cadenza corona questo primo tempo teso e vario, che inaugura veramente una “nuova maniera” mozar tiana. Nel secondo tempo, in forma-sonata, l’inserimento del pianoforte in orchestra è anche più stretto; lo sviluppo tocca tonalità lontane dalla tonalità di base, rinnovando l’instabilità tonale del primo tempo. Una incantata coda lega emotivamen te il secondo e il terzo tempo, amplissimo rondò che si conclude con una ripresa del tema principale variata e in ritmo diverso. Sulle basi costruite con il Concerto K 449 si snoda la serie dei concerti della piena maturità, che Mozart presentò ai viennesi tra il marzo del 1784 e il dicembre del 1786 e che comprende alcuni tra i più celebri capolavori del genere, come il Concerto in re minore K 466, il Concerto in do maggiore K 467, il Concerto in la maggiore K 488, il Concerto in do minore K 491.
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Sarebbe difficile, in realtà, scegliere l’uno o l’altro dei concerti, come sarebbe difficile scegliere, se non per gusto personale, tra le fughe del Clavicembalo ben temperato di Bach o tra gli Studi di Chopin o tra gli Studi di Debussy. Nel caso di Bach, di Chopin e di Debussy, come del Mozart di questi tre anni, il compositore analizza da tutti i lati un problema di architettura musicale, trovando molteplici soluzioni. Si tratta di una ricerca che presenta caratteri speculativi e la cui logica sfugge necessariamente ai contempo ranei, tanto più a quei contemporanei di Mozart che dal termine stesso di Concerto traevano una ipotesi di collocazio ne nella musica di intrattenimento. Il Clavicembalo ben temperato era pensato per allievi professionisti, gli studi di Chopin e di Debussy per pianisti ad un grado avanzato di apprendimento della tecnica del suono; lo scopo speculativo e didattico non impedisce certamente la “udibilità” dell’opera e neppure la sua fluidità discorsiva, ma l’intenzione dell’autore è vòlta in questi casi alla ricerca di un rapporto con un pubblico indottrinato. La contraddizione di fondo dei concerti di Mozart — per lo meno per i contemporanei di Mozart — consisteva nel fatto che l’archetipo non veniva variato nell’ornato ma nella struttura, tanto da non acquistare mai una precisa fisionomia, subito riconoscibile e godibile dall’ascoltatore. Si possono certamente ricavare, a posteriori, certi schemi ricorrenti: i primi tempi non solo sono sempre in forma-sonata e con la cadenza, ma spesso la prima entrata del solista avviene quasi “a fantasia”, senza una netta cesura rispetto all’esposizione dell’orchestra; il graditissimo schema del tema con variazioni viene usato non di rado, sia nei secondi tempi che nei finali; lo schema del rondò ricorre spessissimo nei finali. Eppure l’ascoltatore non riesce mai a prevedere con certezza ciò che avverrà: la logica di Mozart non è stereotipa e formalista, ma dialettica, e tutti gli stimoli del pensie ro dialettico contrastano appunto, in modo radicale, con i concetti di intrattenimento, di mondanità, di facilità discor siva.
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Mozart, come abbiamo già detto, tentava di usare il pianoforte per aprirsi le porte del teatro, non per diventare pia nista di successo, ed i concerti gli servirono anche per affinare il suo mestiere di sinfonista e persino di operista, ma lo portarono insensibilmente verso un isolamento che gli impedì il ritorno al pianoforte quando il teatro gli aprì sì le porte, ma avaramente. Così, dopo il dicembre del 1786, Mozart suonò una volta a Dresda (1789), una volta a Lipsia (1789), una volta a Francoforte sul Meno (1790) ed una volta a Vienna (1791) in una accademia non organizzata neppure da lui ma dal clarinettista Joseph Bàhr. Dei quattordici grandi capolavori scritti dal 1784 in poi (cioè dopo il Concerto K 415), solo tre furono pubblicati vivente Mozart, la cui avventura terrena si chiudeva quindi con un bilancio che era tanto artisticamente positivo quanto professionalmente deficitario.
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Quando Mozart aveva scelto di vivere a Vienna non aveva trovato sulla piazza pianisti-compositori che potessero dargli fastidio. A corte, morto nel 1777 il Wagenseil, i posti di maestro ài tastiera erano tenuti dallo Stepan, da Leopold Hofmann, da Albrechtsberger, da Leopold Kozeluch. I primi tre erano vecchie conoscenze. L’ultimo, arrivato a Vienna nel 1778, si stava affermando ma non aveva ancora raggiunto la celebrità di cui avrebbe goduto a fine secolo. Salieri, potente a corte, non aveva più scritto concerti per clavicembalo dopo i due del 1773, Haydn stava già concludendo, con il Concerto in re maggiore, il corpus dei suoi concerti per tastiera. I competitori di Mozart potevano essere il boemo Jan Vanhal, l’austriaco Franz Anton Hoffmeister e lo slesiano Emanuel Aloys Forster, a Vienna dal 1779. Vanhal non aveva però scritto alcun concerto (il suo 'Primo è del 1785), Forster, che dal 1772 scriveva concerti di qualità tutt’altro che mediocre, non era un virtuoso della tastiera, e Hoffmeister, autore di concerti piacevolissimi, non era neppur lui un virtuoso e per di più stava per iniziare l’attività di editore. In campo europeo l’unico vero rivale di Mozart come pianista, Muzio Clementi, non scriveva concerti o, per lo meno, non ne pubblicava e non ne eseguiva nel suo giro sul continente del 1780-85; l’anziano Cari Philipp Emanuel Bach continuava a preferire il clavicordo e il clavicembalo al pianoforte, e solo nel 1788 avrebbe scritto il suo curioso, intelligente ed innocuo Concerto doppio per clavicembalo, fortepiano e orchestra.
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Per un paio d’anni Mozart tenne dunque'in pugno il pubblico di Vienna e si fece conoscere dal pubblico europeo attraverso la pubblicazione dei concerti K 413, 414, 413, 431. Ma nell’estate del 1784 Kozeluch pubblicava i suoi primi concerti, op. 13, e nel 1785 Vanhal pubblicava il Concerto op. 1. Kozeluch, già avvantaggiato dal suo incarico a corte che lo metteva in costante contatto con l’aristocrazia, fondava nel 1785 una casa editrice ed apriva intensi rapporti d’affari con i potenti editori inglesi, ed il fecondissimo Vanhal arrivava a catturare una vasta clientela e a non mollarla più, riuscendo là dove Mozart si stava avviando al fallimento. Kozeluch e Vanhal... rivitalizzano, riciclano il concerto rococò, tenendo conto dello sviluppo e del linguaggio classico e della tecnica pianistica ma badando bene a non allontanarsi mai dalle capacità di immediata comprensione di un pubblico per il quale la musica strumentale era sostanzialmente musica di intrattenimento. Su questa strada i due viennesi vennero affiancati da musicisti artigianalmente molto abili, come Johann Christian Kellner, Johann Christian Abeille, Johann Mederitisch, Johann Franz Xaver Sterkel, Giovanni Cambini. Negli anni 80 si veniva però affermando la musica pianistica come occasione di stupore. Clementi era prima di tutto un pianista che lasciava a bocca aperta gli intenditori — Mozart compreso — per la sua tecnica delle ottave e delle terze: «Ha composto alcune raccolte di Lessons in cui abbondano passaggi così particolari e difficili da dover essere stati studiati per anni prima della pubblicazione», scriveva nel 1780 l’anonimo estensore di un dizionarietto che s’intitolava ABC Diario Musico; «Ciò che fa veramente bene sono i suoi passaggi in terze. Ma a Londra ha dovuto sudarci sopra giórno e notte», scriveva Mozart a suo padre il 7 giugno 1783. Anche in Mozart si trova, specie nel Concerto K 303, qualche segno di ricerca virtuosistica o di non indifferenza alla ricerca virtuosistica. Ma la vera ricerca virtuosistica di Mozart si era esplicata piuttosto, ancora negli anni 70, in certe sonate (come la K 284) o in certe serie di variazioni (come le K 264). ,
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La ricerca virtuosistica di Clementi, del resto, si fissava anch’essa nelle sonate; o, per lo meno, così supponiamo perché non siamo in grado di parlare dei concerti, che Clementi eseguì a Londra nel 1790 ma dei quali non è rimasta traccia1. Suonar difficile, spostare l’interesse sulla figura dell’esecu tore quale scopritore di ciò che due mani possono fare sulla tastiera del pianoforte: è il nuovo verbo, che tuttavia si diffonde solo molto lentamente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’ottocento perché le guerre rivoluzionarie e le guerre napoleoniche bloccano o per lo meno non agevolano la circolazione internazionale degli strumentisti, mentre nella propagazione delle scoperte tecniche è essenziale non tanto la stampa dell’opera quanto la esemplificazione pratica dello scopritore. Ludwig van Beethoven aveva ventun anni quando udì suonare un pianista-compositore, Johann Franz Xaver Sterkel, che dopo aver navigato per anni nel rococò stava per pubblicare un virtuosistico Concerto op. 40. Beethoven, pare, ebbe qualche titubanza nel misurarsi con lo Sterkel, anche se subito dopo,! improvvisando su un tema di Vincenzo Righini, imitò ironicamente certe grazie un po’ effeminate che il sua antagonista aveva testé dispensato. Un altro pianista-composi tore, il boemo Josef Gelinek, che Beethoven conobbe quando si stabilì a Vienna, stava sviluppando un sorprendente vir tuosismo pianistico. Beethoven non aveva avuto però bisogno di aspettare lo Sterkel e il Gelinek per capire cosa fosse il virtuosismo, tanto che nel 1784, a quattordici anni, aveva scritto un Concerto in mi bemolle maggiore in cui non mancavano passaggi difficili e rischiosi che esigevano capacità tecniche non comuni. Nel 1 Si suppone che alcune sonate di Clementi siano trascrizioni di concerti andati perduti o distrutti dall’autore. Il Concerto in do maggiore, che ci è pervenuto in un manoscritto di mano di Johann Baptist Schenk, è a parer nostro una trascrizione per pianoforte e orchestra della Sonata op. 32 n. 3 di Clementi per pianoforte solo. Non dunque la Sonata come trascrizione dal Concerto, ma viceversa; e, secondo noi, per motivi troppo complessi perché possiamo esporli in questa sede, la trascrizione è da attribuirsi allo Schenk (vedi: Il concerto di Clementi è autentico? in P. Rattalino, La sonata romantica ed altri saggi sulla letteratura del pianoforte, Milano 1985).
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1784 Beethoven — o meglio, suo padre, che sapeva bene quanti ragazzi suonassero con successo al Concert spirituel di Parigi o ai Professional concerts di Londra — pensava di farsi un repertorio di pianista-compositore con cui girare l’Europa, ed aveva giustamente visto nello sviluppo del virtuosismo il mezzo adatto per ottenere lo scopo. Il Concerto in mi bemolle maggiore era in questo senso “giusto”, ma papà Beethoven non era quel manager accorto che papà Mozart era stato... Quando si stabilì a Vienna, per un soggiorno temporaneo di studio che sarebbe diventato definitivo, Beethoven aveva però già abbandonato il progetto di operare nell’attualità e si stava orientando verso la direzione indicata dal conte Waldstein nell’album che gli era stato donato nel 1792, al momento della partenza da Bonn: «Con l’aiuto di assiduo lavoro Lei riceverà lo Spirito di Mozart dalle mani di Haydn». Non doveva trattarsi di un semplice augurio ma di un programma di lavoro o addirittura di una scelta ideologica che il Waldstein e il ventiduenne Beethoven avevano discusso. A Vienna, dunque, Beethoven non si applicò a scalzare dal piedistallo i compositori di successo come Kozeluch o Vanhal, ma cercò prima di tutto, da pianista qual era, di diventare l’erede riconosciuto di Mozart, intorno alla cui postuma fama stavano lavorando allievi ed allieve devotissimi e colti ap passionati di musica. A Vienna, Beethoven si presentò il 29 marzo 1795 con il suo Concerto in si bemolle maggiore, il futuro n. 2 op. 19, che era quanto di più mozartiano si potesse immaginare. Il 31 marzo eseguì il Concerto in re minore di Mozart, collocandosi — consapevolmente ed intenzionalmente, si direbbe — in un campo austro-tedesco di epigoni mozartiani come Franz Christoph Neubauer, Franz Jakob Freystaedler, Anton Eberl, Johann Wilhelm Hassler, August Eberhardt Miiller. Al contrario di Mozart, che aveva dissennatamente investi to il suo pubblico con una valanga di concerti, Beethoven procedette con saggia prudenza e con calcoli esattissimi. Nel marzo del 1795 si era presentato facendosi scudo di un nome illustre, Antonio Salieri, direttore d’orchestra del Concerto* in si bemolle maggiore. Il 16 dicembre 1795 e 1’8 gennaio 1796
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rieseguì lo stesso Concerto avendo addirittura come direttore Joseph Haydn. Haydn era un grande musicista, era un artista di fama europea, era una gloria nazionale; Mozart, e i viennesi cominciavano a capirlo, era stato qualcosa di più di un provinciale con troppe idee troppo confuse. Presentarsi con Haydn direttore e con un concerto di tipo mozartiano significava dunque tradurre sul piano pratico, sul piano della costruzione della propria immagine l’alato auspicio del conte Waldstein, ricevere lo «spirito di Mozart dalle mani di Haydn». E Beethoven si rivelava anche — possiamo dirlo? — come geniale inventore della psicopubblicistica. Il Concerto op. 19 è mozartiano nella struttura del primo tempo: ad esempio, mozartiana è l’entrata del solista, che non espone subito il primo tema ma inizia a fantasia. Evidente è la somiglianza ritmica ed anche melodica tra i secondi temi del Concerto di Beethoven e del Concerto in re minore di Mozart, evidente è il rapporto tra gli “sviluppi” dei due concerti. Il secondo tempo è un grande Adagio, uno dei grandi adagi del primo Beethoven, ma appare imparentato con i grandi adagi di Mozart (del Concerto K 491, del Quartetto con pianoforte K 478). Il finale... Per la verità, quello che oggi conosciamo non è il finale originario, ascoltato dai bravi viennesi nel 1795 e nel 1796: il primo finale era un delizioso rondò pastorale mozartianissimo, con un episodio centrale in tempo moderato come nel Concerto K 482 di Mozart. L’esperienza del Concerto in do maggiore, l’attuale n. 1 op. 15, fece però riflettere Beethoven. Il Concerto op. 15, composto lentamente tra il 1795 e il 1798 ed eseguito per la prima volta, sembra, a Praga nell’ottobre del 1798, seguiva solo per due terzi lo schema collaudato: primo tempo militaresco, basato su ritmi di marcia, secondo tempo profon damente lirico e introspettivo, con disposizioni pianistiche che davano alle melodie un suono ampio, profondo, pieno. Il finale non era invece, come d’uso, né pastorale né grazioso né giocondo: era un brano fortemente umoristico, con bizzarri ritmi di danza molto marcati.
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Beethoven aveva così individuato un suo tipo di concerto, quasi una rappresentazione simbolica in tre scene: la vita attiva, la vita contemplativa, il gioco, o l’ordine, l’interiorità, la libertà. C’entrava forse, in questa scelta, la lontana origine olandese dei van Beethoven? Forse. Forse Beethoven coglieva ancora un riflesso della grande civiltà, mistica e realistica, che due secoli prima era fiorita nei Paesi Bassi, terra di origine della sua famiglia. Quel che è certo è la predilezione di Beethoven per il concerto come trittico polimorfo, come rappresentazione simbolica della realtà. Tanto lo predilesse, dopo averlo scoperto, che scartò il primo finale del Concerto op. 19 e lo rimpiazzò con un altro, quello oggi noto, che è tutto umoristico e che colora di tinte umoristiche anche un tema pastorale. Il Concerto n. 3 in do minore op. 37, scritto tra il 1800 e il 1803 — si noti la lentezza della creazione: in tre anni Mozart avrebbe scritto almeno nove concerti — ed eseguito da Beethoven a Vienna il 5 aprile 1803, non modifica questo carattere di fondo ma lo proietta in una dimensione dramma tica. La struttura solista-orchestra è ancora mozartiana ed integrata (lo sarà sempre, in un sinfonista come Beethoven), ma il tono del Concerto non è più colloquiale e discorsivo: Beethoven guarda ai due concerti drammatici di Mozart, il K 466 in re minore e il K 491 in do minore, e nello stesso tempo ne esaspera i caratteri, toccando un punto di equilibrio e di tensione che esprime insieme la conclusione di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. rapporti con la tradizione mozartiana, tanto evidenti che non è necessario analizzarli, suggellano l’eredità, lo “spirito di Mozart” ricevuto “dalle mani di Haydn”. Ma è altrettanto vero, all’inverso, che in nessun caso Mozart aveva fatto entrare il solista come Beethoven lo fa entrare nel Concerto n. 3. L’esposizione dell’orchestra non si lega all’entrata del pianoforte, né si spegne per favorire l’apparizione del solista: l’esposizione orchestrale è un magnifico pezzo chiuso, quasi
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una piccola ouverture teatrale che termina con una imperiosa riaffermazione del primo tema. Il solista attacca con lo stesso tema, facendolo precedere da tre volate, in un modo ancora più imperioso e più drammatico ed accentuando il dualismo violenza-implorazione su cui il tema è fondato. L’idea della contrapposizione solista-orchestra è sottolinea ta, per così dire, dalla sceneggiatura, e persino dalla gestualità, perché il solista attacca con doppie ottave che esegue mediante poderosi movimenti degli avambracci. E qui nasce l’epoca nuova, l’epoca in cui alla collaborazione-integrazione mozartiana di solista e orchestra si aggiunge la contrapposizio ne-separazione2. Parleremo tuttavia di ciò più avanti, perché Beethoven scopre ma non sviluppa questo concetto. Il Concerto n. 4 in sol maggiore, scritto tra il 1805 e il 1806 ed eseguito da Beethoven a Vienna il 22 dicembre 1808, non segna infatti un punto di ampliamento nell’espressione dram matica, e quindi non pone in antagonismo il solista e l’orchestra, ma si basa su una trovata inattesa; dopo aver iniziato da solo (invece di lasciar iniziare da sola l’orchestra), il pianoforte diventa un elemento dell’orchestra, un decorato re e un chiosatore di ciò che l’orchestra espone. L’inizio con il solo pianoforte non è tuttavia, semplicemen te, soltanto una trovata, una sorpresa per l’ascoltatore, e tanto più per l’ascoltatore del 1808. La sorpresa ha anche una funzione nella struttura, sonora più ancora che architettonica: essendo quella del pianoforte, non quella dell’orchestra, la prima sonorità udita dall’ascoltatore, l’orchestra è costretta a... cambiar pelle, ad adeguarsi alla sonorità del pianoforte. Nel Concerto n. 3 la contrapposizione, la lotta tra solista e orchestra veniva portata anche sul piano della sonorità; nel 2 Glenn Gould che, come tutti sanno, detestava il romanticismo, censurava il distacco di Beethoven dalla civiltà mozartiana: «Il Concerto n. 3 in do minore, malgrado la sua ampiezza e il suo vigore innegabili, è senza dubbio, in quanto costruzione, il più debole di tutti i concerti di Beethoven. Qui, il tutti quasi ripete alla lettera l’esposizione principale. Il secondo tema vi è presentato al relativo maggiore, cosa che gli fa perdere buona parte del suo sapore nella sua ulteriore esposizione da parte del solista, e l’entrata del pianoforte è una copia esatta delle prime battute del tutti» (G. Gould, Concertos, in Contrepoint à la ligie, a cura di B. Monsaingeon, Parigi 1985).
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Concerto n. 4 la sonorità del pianoforte coronerà sempre una sonorità orchestrale che è della sua stessa tinta. L’antagoni smo, anche sonoro, è riservato ad un momento solo, il breve e celeberrimo secondo tempo che è stato paragonato talora all’implorazione di Orfeo alle Furie. Il tono generale non è però né di commedia né di dramma, ma di incantamento, di féerie’, non più Come vi pare, non più Amleto, ma la Tempesta. Con il Concerto n. 5 op. 73, se è lecito proseguire il paragone, siamo alla pièce epico-celebrativa, siamo zSTEnrico Vili. Strutturalmente, il pianoforte diventa una sezione dell’orchestra; non dialoga più con essa, non le si sovrappone più con le sue volute, non le si contrappone antagonisticamen te, ma ne diventa un elemento che si combina variamente con gli altri. Il ruolo del solista e la sua importanza, nell’economia generale della composizione, dipendono semplicemente dal fatto che il pianista forma, da solo, un’intera sezione di un’orchestra articolata in tre sezioni autonome: archi, fiati (che potrebbero esser visti come due sezioni: strumentini, ottoni e timpani), pianoforte. Si noti però come la tipologia del concerto beethoveniano resti anche qui intatta: primo tempo militaresco, secondo tempo lirico, terzo tempo umoristico. Nei concerti — anche nel Concerto triplo e nel Concerto per violino — Beethoven dipinge sempre un carattere in tre ritratti: il concerto, pezzo da eseguire in pubblico e per il pubblico, è per Beethoven, in senso lato, teatro archetipico, esposizione e definizione di aspetti universali e mitici dell’uomo e della realtà, e nei cinque concerti di Beethoven, al contrario di quanto avviene nei concerti di Mozart, gli aspetti speculativi non prevalgono mai sugli aspetti spettacolari, tanto che l’allontanamento dal pubblico, come diremo subito, significherà per Beethoven rinuncia a comporre concerti. Beethoven non eseguì il Concerto n. 3, composto tra il 1808 e il 1810, perché la sordità gli rendeva difficile l’attività di esecutóre; lo eseguì per primo Friedrich Schneider, a Lipsia il 28 novembre 1811, e Carl Czerny lo presentò ai viennesi il 12 febbraio 1812.
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Insieme con il Concerto n. 5 Beethoven aveva abbozzato altri due concerti, in re minore e in fa minore. Non ne scrisse che poche note e dopo VImperatore al concerto non tornò più, mentre continuava a scrivere sinfonie, quartetti, sonate. Aveva forse esaurito le possibilità di variare lo schema prediletto? E possibile che sia così o è possibile, come ritiene qualcuno, che in Beethoven fosse venuta meno la fiducia del rapporto con il pubblico. Sta di fatto che, scrivendo cinque concerti in sedici anni, Beethoven articolava una specie di grande bassorilievo ripetitivo: mentre l’evoluzione del concer to, in Mozart, è multiforme e progressiva, in Beethoven gli stacchi sono netti ed ogni concerto ha una sua individualità, ma l’archetipo non muta mai. Beethoven cercò invece l’alternativa abbandonando la forma tradizionale del concerto per comporre la Fantasia op, 80, che fu da lui eseguita — improvvisando la parte iniziale — a Vienna il 22 dicembre 1808. Lo schema della Fantasia op, 80 è quello del tema con variazioni: ampia introduzione del solo pianoforte, tema, cinque variazioni ordinarie, tre variazioni amplificataci, finale. A parte i temi variati che si trovano nei concerti di Mozart e di altri compositori (ad esempio, nel Concerto in fa maggiore di Boieldieu), il tema variato per pianoforte e orchestra come pezzo indipendente era già stato sperimentato dall’abate Vogler nelle divertenti Variazioni sull*aria di Marl borough. La Fantasia op. 80 è però ben più di un tema con variazioni: è una mimesi concertistica delle cerimonie civili all’aperto della Rivoluzione Francese, e in questo senso inaugura nella storia del concerto un’idea non più di teatro profano ma di rappresentazione umanistico-religiosa. L’idea della cooperazione che trasforma il mondo è data dalla progressiva aggiunta di strumenti (prima il pianoforte solo, poi con pochi strumenti, poi con altri, poi con tutti); nel finale, agli strumenti s’aggiunge un coro misto che canta un testo di Christoph Kuffner, commissionato da Beethoven e concluso dalle parole «Quando Amore e Forza si uniscono, il favore di Dio ricompensa gli uomini». Il rapporto ideologico tra la Fantasia op. 80 e il Concerto op.
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73, scritti nello stesso periodo, potrebbe dar luogo ad un lungo dibattito, essendo molto arduo stabilire se le due composizioni siano da vedere in una linea di continuità o di superamento. Limitiamoci qui ad osservare che il tema ideologico della Fantasia, ed anche la sua struttura ed il suo tema musicale, saranno ripresi nel finale dell’opera conclusiva e profetica di Beethoven, la Nona Sinfonia.
DELIZIE DEL BIEDERMEIER
L’ultima idea di Beethoven fu imitata nel 1820 da Daniel Steibelt, pianista abile assai, compositore di talento, affarista per vocazione, imbroglione quando capitava la buona occasio ne. Il Concerto n. 8 di Steibelt prevedeva infatti l’aggiunta di un “coro bacchico”. Dioniso doveva aggirarsi in Europa, se qualche anno dopo Beethoven avrebbe pensato ad un “finale bacchico” per la progettata Decima Sinfonia... Prima del concerto con coro bacchico Steibelt aveva sfoderato un Gran Concerto Militare con due orchestre dans le genre des grecs (nel genere del greci), dedicandolo allo zar Alessandro I. Non sappiamo a quali mai greci alludesse Steibelt: moderni, antichi, del tutto fantastici. In concreto, il Gran Concerto Militare prevede che oltre all’orchestra e al pianista piazzati in palcoscenico, nel finale partecipi all’esecu zione una banda (ottavino, due oboi, due clarinetti, due corni, triangolo, tamburo), collocata nel palco centrale del teatro, il cosiddetto “palco reale”, o nella galleria. Se mancano il palco reale o la galleria, la banda può essere messa in un locale adiacente alla sala, purché le cose vadano in modo che il direttore dell’orchestra e il direttore della banda possano vedersi. A parte ciò, il Gran Concerto Militare nel genere dei greci è un’innocua cosuccia in due tempi (un allegro e un rondò), con radici stilistiche ancora ben piantate, addirittura!, nel rococò. Steibelt non andava mai troppo per il sottile, pur di eccitare la curiosità del pubblico o, meglio, pur di attrarre verso la musica strumentale un pubblico che aveva soprattutto
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dimestichezza con il melodramma. Le intenzioni di Steibelt erano mercantili, ma i suoi sforzi rispondevano ad un’evolu zione storica, e cioè coglievano il momento in cui, per evidenti ragioni, ' la musica strumentale cessava di essere appannaggio delle classi colte, aristocratiche ed altoborghesi, e si diffondeva nella media e piccola borghesia. Le orchestre, che erano state istituzioni di corte finanziate dalle casse reali o principesche, diventavano imprese commer ciali condotte da privati, e quindi la novità, la curiosità, anche l’eccentricità e la stravaganza diventavano mezzi per conqui stare il consenso di un pubblico che sosteneva l’impresa pagando il prezzo di un biglietto d’ingresso. Il maggior successo come pianista-compositore Steibelt lo aveva ottenuto nel 1799, con il Concerto n. 3 op. 33, il cui finale era un normalissimo rondò pastorale di tipo settecente sco, interrotto però da una Tempesta. Steibelt aveva scoperto che un tremolo (ribattitura rapidissima di uno o più suoni) molto fitto, combinato con l’azione del meccanismo comanda to dal “pedale di risonanza”, faceva uscire dalla cassa del pianoforte boati assai suggestivi e persino impressionanti. La “tempesta” del Concerto op. 33 non è in verità gran cosa: le solite scalette e i soliti arpeggi e le solite note ribattute che già erano servite a Vivaldi. Ma nel famoso tremolo, Steibelt — se le sue indicazioni per il pedale sono accurate — otteneva un particolare effetto anche “sporcan do” le armonie. Il tremolo alla Steibelt divenne cosa leggendaria, tanto che ancora mezzo secolo più tardi il buon Charles Hanon lo collocava nell’ultima pagina, e quindi al culmine del suo fortunatissimo metodo di esercizi II pianista virtuoso, dicendo che con esso il suo inventore sapeva far «fremere l’uditorio». Hanon, classe 1819, aveva avuto il tempo di conoscere virtuosi non certo da strapazzo come Thalberg, come Henselt, come Liszt: eppure citava Steibelt, che non aveva ascoltato, perché evidentemente gli effetti alla Steibelt erano passati nel regno delle favole. Dopo la “tempesta” del Concerto n. 3, Steibelt aveva ri sfoderato il suo terribile tremolo in un altro concerto,z ilI n. 6,'
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intitolato Viaggio sul monte S. Bernardo: viaggio con uragano, s’intende, e con un’orchestra completa di flauto piccolo, trombone basso, tamburo e triangolo... Il lettore non s’adonti se lo stiamo trattenendo su Steibelt quasi quanto l’abbiamo trattenuto su Beethoven. Tra i due non c’è paragone possibile, com’è più che evidente. Ma nell’attualità del primo ventennio dell’ottocento, nell’affer mazione del concerto sinfonico come istituzione della borghe sia imprenditoriale — affermazione che permise poi la sopravvivenza storica dei concerti di Beethoven e più tardi il recupero dei concerti dì Mozart — Steibelt contò molto più dì Beethoven. Avventuriero più che musicista, sia nel senso nobile che nel senso meno nobile, Steibelt era personaggio che sapeva come arrivare al successo immediato e che con la sua opera fece fare al pianoforte un poderoso balzo in avanti nella conquista della popolarità. Ma avventuriero era ed i suoi colleglli non lo seguirono volentieri nella corsa alla musica illustrativa. Tranne Weber, che dopo i due concerti del 1810 e del 1812, iniziando nel 1815 un terzo concerto non tanto lontano dalla poetica di Steibelt arrivò lentamente ad un’ope ra rivoluzionaria. Scrive Weber, nel 1815, al critico Johann Friedrich Rochlitz: «Ho progettato un concerto per pianoforte in fa minore. Ma siccome i concerti in modo minore, senza evidenti idee evocative, raramente piacciono al pubblico, ho istintiva mente inserito nel progetto una specie di storia che come un filo unisca e definisca il suo carattere, ed una storia così particolareggiata e allo stesso tempo così drammatica che mi trovo costretto ad esprimerla nei seguenti titoli: AllegroSeparazione, Adagio-Lamento, Finale-La più profonda miseria-consolazione-riunione-giubilo ». Curiosa l’opinione sul non gradimento del pubblico per i concerti di modo minore. Ma una semplice rilevazione statistica ci dice che di fronte ai due concerti (su ventisette) di Mozart e all’unico (su cinque) di Beethoven in modo minore stanno decine e decine di concerti in modo maggiore. Il Biedermeier capovolgerà questa tendenza — il lettore se ne accorgerà presto — ma nel 1815 il carattere celebrativo del
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concerto esigeva ancora il modo maggiore. Lo schema narrativo esposto da Weber al Rochlitz è generico: è quello, tanto per intenderci, dell’Addio-AssenzaRitorno, reso popolare dalla Sonata op. 81a di Beethoven ma ripreso anche da altri compositori. Nel 1821, ritornando sul progetto del 1815, Weber rinuncia prima di tutto allo schema formale tradizionale del concerto in tre tempi e scrive un Concertstiick, pezzo da concerto, in più parti collegate tra di loro. Anche in questo caso, come nel celeberrimo Invito alla danza dello stesso anno, la tendenza è quella di sviluppare lo schema narrativo in un poema musicale unitario, in cui le suddivisioni architettoniche non comportino soluzioni di continuità. Pezzo da concerto, dunque, invece di concerto, in modo minore. Che cosa è restato dello schema narrativo AddioAssenza-Ritorno? Weber non aggiunge alcun titolo o sottoti tolo programmatico, al contrario di Steibelt, e non premette alcun commento all’edizione a stampa del suo lavoro che esce nel 1823. La “storia” la racconterà molti anni più tardi, e cioè nel 1881, Julius Benedict, che di Weber era stato allievo. Benedict, che stava conversando con la moglie del suo maestro, vide il compositore uscire dal suo studio con il manoscritto del Concertstilck appena terminato. Weber suonò per la moglie e per l’allievo il pezzo, commentandolo in questi termini: La castellana è nella torre: fissa tristemente nella lontananza. Il suo cavaliere è stato per tanti anni in Terra Santa: lo rivedrà mai? Sa che molte battaglie furono combattute, ma nessuna novella ha avuta di colui che tanto è caro al suo cuore. Vane furono tutte le sue preghiere. Una paurosa visione si presenta alla sua mente: il suo cavaliere giace sul campo di battaglia, abbandonato e solo: si sta dissanguando rapidamente. Potesse essergli al fianco! potesse magari morire con lui! Ella cade esausta e priva di sensi. Ma, ascolta! cos’è questo suono lontano? cosa brilla nel bosco, sotto i raggi del sole? chi s’avvicina? Cavalieri e scudieri con l’insegna dei Crociati, bandiere sventolanti, acclamazioni del popolo: è così! è lui! Lei si precipita tra le sue braccia. L’amore trionfa. Felicità senza fine. I boschi e i flutti stessi cantano il canto d’amore; migliaia di voci proclamano la sua vittoria.
È probabile che il racconto del Benedict sia veritiero: ce lo confermano indirettamente la lettera al Rochlitz del 1815 e la
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struttura stessa della composizione, con quella marcia in lontananza che presuppone chiaramente una motivazione extramusicale. Tutto l’insieme del Concertstùck, del resto, risponde allo schema lamento-disperazione-marcia-giubilo su cui è basato il racconto del Benedict. Weber non ritenne tuttavia opportuno spiegare lo schema narrativo, forse temen do che un’interpretazione troppo letteraria potesse puerilmen te sviare l’ascoltatore dai valori musicali dell’opera, capolavo ro isolato del periodo 1810-30. Isolato, il Concertstùck di Weber, anche quantitativamente perché, come dicevamo, la maggioranza degli altri compositori non seguì Steibelt. Dovette provarcisi John Field per un semplice motivo: irlandese, ma stabilitosi in Russia e già molto ben piazzato presso la clientela locale, Field si trovò improvvisamente tra i piedi l’oriundo slesiano Steibelt, che succedeva a Boieldieu come direttore dell’opera Francese di S. Pietroburgo ed aveva tutte le intenzioni di scalzare ogni possibile rivale e dominare da tiranno. Ingaggiando la battaglia, verso il 1816 Steibelt presentò il Viaggio sul monte S. Bernardo, un successone; nel 1817 Field controbatte con un suo concerto, il n. 5, intitolato L’incendio par l’orage (L’incendio causato dalla tempesta), in cui aggiun geva ai mobili elementi dell’acqua e del vento quell’altro mobilissimo elemento che è il fuoco. Tuttavia il Concerto n. 5 non ebbe che un successo effimero e Field fu stimato per gli altri concerti, specialmente il n. 2 in la bemolle maggiore (1811 circa), che è un vero prototipo di concerto Biedermeier. Il termine Biedermeier, frequente nella pubblicistica tede sca ed anglosassone, non è ancora comunemente usato in Italia e richiede una breve spiegazione. Il “signor Bieder meier” fu inventato dagli scrittori tedeschi Adolf Kussmaul e Ludwig Eichrodt, che ne fecero il protagonista di certi elzeviri pubblicati, poco dopo la metà dello scorso secolo, nel giornale umoristico «Fliegende Blàtter» di Monaco; in essi venivano elogiati, sia pur con un pizzico di ironia, il tempo della Restaurazione, la parsimonia, l’amore al lavoro quotidia no, la vita senza grandi ambizioni e senza eroici furori romantici vissuta nel chiuso e nel tepore della famiglia. Con il
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termine Biedermeier si suole indicare sia un momento storico che una filosofia della vita borghese e, in musica, quei compositori che operarono con successo nel periodo che va dalla fine degli ideali rivoluzionari ai moti del 1830. Se Mozart aveva voluto e Beethoven avrebbe ancora voluto cambiare il mondo, Steibelt — più giovane di nove anni di Mozart, più vecchio di cinque di Beethoven — prendeva il mondo com’era, cercando di scavarcisi la nicchia più confortevole. E come lui, sebbene con più cura della dignità dell’arte, si comportarono quei compositori di concer ti, quei pianisti-compositori che ottennero il maggior successo nei primi trent’anni del secolo: Dussek, Cramer, Hummel, Field, Kakbrenner, Czerny, Ries, Moscheles. Non erano cinici cacciatori di fama ma musicisti che, un po’ intimoriti di fronte al vulcano Beethoven, amavano Mozart e stimavano Clementi. La struttura e lo stile dei concerti di Mozart sarebbe parsa però insieme rozza ed aristocratica all’inizio dell’ottocento. Di “mozartismo”, an che di un mozartismo relativo, simile a quello dei primi due concerti di Beethoven, si può parlare per pochissimi composi tori (Kuhlau, Simone Mayr, il figlio di Mozart Franz Xaver Wolfgang) e per pochissimi concerti di relativa importanza storica scritti tra la fine del Settecento ed il primo decennio dell’ottocento, come i primi tre di Hummel, i primi cinque di Johann Baptist Cramer, il n. 1 di Field, il n. 1 op. 18 di Jan Vaclav Tomasek ed il primo di Weber. All’incirca dopo il 1810 i concertisti di successo presero da Mozart la cantilena cantabile nei tempi lenti di certi concerti (per esempio dei concerti K 466 e K 467) e qualcosa della sua armonia, presero da Clementi i grandi tratti di agilità e le note doppie,... e inventarono il concerto Biedermeier. La cantilena, su cui Mozart esecutore improvvisava alcune fioriture, viene sistematicamente e ricchissimamente ornata, le combinazioni virtuosistiche si moltiplicano (spesso in modo ingegnoso) e la struttura finisce col diventare quella melo drammatica dell’“aria e cabaletta”, inquadrata però negli schemi classici dell’allegro di sonata, della canzone tripartita e del rondò. '
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Gli schemi formali sono, insomma, quelli della musica sinfonica classica, lo spirito è quello del melodramma in cui trionfavano i grandi virtuosi dell’ugola. Si potrebbe tuttavia discutere se il concerto per pianoforte mimasse il teatro melodrammatico direttamente, o se non si accodasse piuttosto al concerto per violino, che all’inizio dell’Ottocento (con Spohr, Lipinski e soprattutto Paganini) aveva imitato e poi ricreato i due momenti antitetici della vocalità, l’espressività patetica e il virtuosismo meccanico. In questo senso si potrebbe dire che il Concerto n. 8 di Spohr (1816), scritto per una esibizione alla Scala di Milano e con il sottotitolo «in modo di scena cantante», rappresenti il momento culminante e coscientemente calcolato di una generale tendenza, che nella letteratura pianistica si chiarisce in modo radicale solo nel Concertstuck di Weber. O si potrebbe infine prospettare l’ipotesi che il virtuosismo e strumentale e vocale fossero influenzati anche da un’altra forma di spettacolo teatrale, la danza, che proprio verso la fine del Settecento sviluppava la dicotomia “danza d’azione” e “danza meccanica” teorizzata da Jean-Georges Noverre fin dal 1760. Il problema dei rispettivi rapporti tra le poetiche e le tecniche della musica strumentale, del melodramma e della danza non è stato finora esaminato a fondo e non potrebbe del resto essere' adeguatamente discusso in questa sede. Basti l’avervi accennato. E basti osservare che, mentre in Mozart e in Beethoven si possono distinguere momenti “espressivi” e momenti “virtuosistici” che si integrano tuttavia in una molteplicità di soluzioni, di transizioni, di sfumature, di rapporti, nel concerto Biedermeier la cantilena ornata e il passo virtuosistico — si usa dire “passo”, come nella danza — si separano nettamente: la prima è ritmicamente varia, il secondo è ritmicamente uniforme, nella prima la pulsazione del tempo oscilla intorno ad una durata-base, nel secondo è rigidamente isocrona, nella prima il disegno è di linea lunga e nel secondo è breve e ripetuto, nella prima viene esplicato il concetto di plasticità dell’esecuzione e nel secondo il concetto di resistenza.
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Il rapporto con il gesto mimico-espressivo è del tutto evidente, ed il carattere sostanzialmente coreografico del concerto Biedermeier, rispetto al carattere sostanzialmente teatrale del concerto mozartiano-beethoveniano, sembra a noìx fuor di dubbio. Lo sviluppo del senso spaziale del suono e la tendenza^ coprire sistematicamente tutto lo spettro sonoro del pianofor te legando insieme le varie zone con l’uso pressoché costante del pedale di risonanza accrescono a tal punto l’importanza ed il rilievo del pianoforte da relegare rapidamente in secondo piano l’orchestra e persino, in certi casi, da farla definire ad libitum. L’enorme spazio lasciato al virtuosismo dell’esecutore e la funzione del tutto accessoria dell’orchestra portano anche all’abolizione del momento, la cadenza, in cui nel concerto classico si concentrava tutta l’attenzione del pubblico sul solista e sulla sua bravura1. Il concerto Biedermeier, come dicevamo, si sviluppa all’incìrca verso il 1810. Ladislav Dussek scrive nel 1810 il suo ultimo e di gran lunga più difficile concerto, in mi bemolle maggiore op. 70, «con grande orchestra ad libitum»; Joseph Woelfl, mozartiano di origine come Cramer e Hummel, è probabilmente il primo a comporre, nel primo decennio del secolo, un Concerto op. 20 con orchestra ad libitum e chiude la sua carriera con due spettacolosi concerti (op. 49, le coucou, e op, 64), Johann Nepomuk Hummel, allievo di Mozart e di Clementi, dopo aver scritto i tre concerti mozartiani già ricordati, compone verso il 1816 il Concerto in la minore op. 85 e nel 1819 il Concerto in si minore op. 89 che resteranno in repertorio fino alla fine del secolo. Il Concerto n. 2 di Field, a cui abbiamo già accennato, è del 1811 circa, del 1812 è lo splendido Concerto n. 2 di Weber; tra il 1815 e gli anni 20 si collocano il Concerto in la minore op. 214 e il curioso e graziosissimo Concerto in do maggiore op. 153 per pianoforte a quattro mani e orchestra di Carl Czerny, il Concerto n. 3 op. 55 dell’allievo di Beethoven Ferdinand 1 La cadenza è già abolita nel Concerto n. 1 di Field e nel Concerto Kn. 3 di Steibelt, entrambi composti nel 1799.
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Ries, destinato a rimanere a lungo in repertorio, il bellissimo Concerto n. 8 op. 70 di Cramer, il Concerto n. 1 op. 61 di Friedrich Kakbrenner, i concerti n. 2, n. 3 e n. 4 di Moscheles. Nel 1829 il Concerto op. 3 di Sigismondo Thalberg, autore che appartiene, anagraficamente se non ideologicamente, alla generazione romantica, chiude il perio do creativo del Biedermeier. Abbiamo citato solo, tra-le molte decine di concerti Biedermeier, quelli che, pur non facendo parte dell’odierno repertorio, potrebbero benissimo presentare motivi di reale interesse artistico anche per il pubblico di oggigiorno. Oggi i soli concerti Biedermeier che vengano comunemente eseguiti sono però i due di Chopin, in mi minore op. Ile in fa minore op. 21. I concerti di Chopin, più ricchi di invenzione musicale di quanto non siano i concerti di Field o di Hummel o di Kalkbrenner, ma che stilisticamente procedono direttamente da quelli e non ne rinnovano minimamente l’estetica, ci danno modo di far notare un particolare assai significativo. Il concerto Biedermeier predilige anch’esso, come il concerto beethoveniano, i primi tempi militareschi e i secondi tempi lirici, ma sviluppa invece fortemente i caratteri popolareschi dei finali. Già lo Stepan aveva impiegato stilemi del folclore boemo nei finali dei suoi concerti, già Haydn aveva concluso con un Rondò all'ungherese il suo celeberrimo Concerto in re maggiore ed era stato imitato da Cramer nel Concerto n. 3 op. 48. I finali “alla polacca” erano diventati frequenti tra il 1810 e il 1820 (Moscheles compose anzi il finale alla polacca del suo Concerto n. 2 prima degli altri tempi e lo eseguì spesso come pezzo staccato con il titolo Polacca). I finali dei due concerti di Chopin sono chiaramente ispirati non solo ad un polacchismo di maniera ma al folclore polacco colto dal primo compositore di statura europea che provenisse da una nazione di cultura non dominante; e il finale di tipo folclorico diverrà, dopo Chopin, un luogo tradizionale dei compositori non appartenenti alle due culture dominanti, la germanica e la francese (si pensi ai notissimi
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Concerto di Grieg e Concerto n. 1 di Ciaikovsky o ai meno noti Concerto n. 4 di Anton Rubinstein e Concerto op. 33 di Dvorak). Durante il Biedermeier il concerto divide con la variazione le preferenze del pubblico. La variazione comincia a contra stare la moda del concerto con le già citate Variations sur VAir de Marlborough di Georg Joseph Vogler, noto come abate Vogler. Le Variazioni-Marlborough, pubblicate nel 1791, ri spondevano a due essenziali canoni di popolarità: 1) il tema — la canzone francese Marlborough s'en va-t-en guerre — era celeberrimo; 2) le variazioni erano fortemente caratteristiche. Basta considerare le didascalie delle undici variazioni per capire le intenzioni del Vogler: Allegro marziale, Allegro scherzando, Minuetto grazioso, Allegro affettuoso e sensibile (La Carrozza), Larghetto patetico, Allegretto gentile con eleganza, Allegro molto (La Caccia). Dopo questo seguito di brevi quadretti policromi, che sembra illustrare una filastrocca popolaresca, l’abate Vogler conclude con un colpo di scena, un Capriccio formato da Fuga, Larghetto, Allegro, Larghetto (Les Adieux). La scrittura pianistica è fortemente virtuosistica, mentre l’orchestra è ridotta ad una comparsa che rispettosamente regge la coda senza turbare mai le glorie del protagonista. Caratteristiche che ritornano, in un clima di esaltazione che esclude la sottile ironia ancora presente nel Vogler, nelle Variazioni sulla marcia di Alessandro presentate da Moschelqs, il mercoledì delle ceneri, al pubblico internazionale che nel 1815 affollava la Vienna dell’omonimo Congresso2. La marcia — una cosuccia saltellante che ricorda la Marcia dì Radetzki di Johann Strauss senior — era quella del reggimento austriaco che portava il nome dell’autocrate russo, il seguito era spettacoloso in un grado mai visto: il successo 2 I concerti erano molto frequenti durante la quaresima, con i teatri d’opera inattivi, mentre si svolgevano saltuariamente durante il resto dell’anno. Il mercoledì delle ceneri, primo giorno di quaresima, era un po’ la giornata inaugurale di una stagione che all’inizio dell’ottocento cominciava ad andar molto di moda. E Moscheles, che aveva accortamente curato il patronage, potè contare su un pubblico tanto scelto quanto blasé. i
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delle Variazioni di Moscheles fu delirante. Moscheles seppe rinnovare i fasti del 1815 con le Variazio ni sull'aria «Au clair de la lune» op. 50, ma tutti i più importanti virtuosi ottennero almeno un successone anche con le variazioni: Czerny con le Variazioni su un tema di Haydn (cioè sull’inno nazionale austriaco) op. 73, Cramer con le Grandi variazioni brillanti «Le retour à Vienne», Hummel con le Grandi Variazioni op. 115, Ries con le Variazioni su un’aria svedese op. 52, Kakbrenner con le Variazioni brillanti su «Di tanti palpiti» di Rossini op. 83. Anche il giovanissimo Chopin, che nella provinciale Varsa via si stava preparando il corredino del pianista-compositore, non mancò di sacrificare all’altare del successo con le Variazioni su un tema del «Don Giovanni» op. 2, composte nel 1827, difficilissime e genialissime, che non gli valsero grandi trionfi in esecuzioni pubbliche ma che gli procurarono l’entusiastica recensione di Schumann, quella che inizia con le famose parole «Giù il cappello, signori, un genio». Basta dare un’occhiata alla struttura architettonica delle Variazioni di Chopin per capire che la formula era ancor sempre quella dell’abate Vogler: introduzione, tema, poi le variazioni molto caratterizzate — Brillante, Veloce ma accura tamente, Sempre sostenuto, Con bravura, Adagio — e per concludere il finale Alla Polacca. Esattamente come nelle Variazioni celeberrime di Moscheles, che del resto Chopin aveva studiato, l’orchestra partecipa un pochino nell’introdu zione, accompagna blandamente nelle variazioni, fa un suo piccolo ritornello tra una variazione e l’altra: la mimesi coreografica, il rapporto tra solisti e corpo di ballo è di evidenza palmare. La terza e meno fortunata forma usata durante il Bieder meier nei pezzi per pianoforte e orchestra è la fantasia. Poco a che vedere con la Pantasia op. 80 di Beethoven: la fantasia Biedermeier nasce dalla variazione su temi popolari e tende a spezzare lo schematismo della forma a variazioni per recupera re una maggiore fluidità discorsiva. La moda della fantasia cominciò quindi dopo che la moda delle variazioni aveva raggiunto l’apice. L’iniziatore fu anche
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questa volta Ignaz Moscheles con il Souvenir d'irlande op. 69 (1825) seguito dagli Echoes from Scotland op. 75 e dai Recollections of Denmark op. 83. Tra i non pochi compositori che seguirono l’esempio di Moscheles è da ricordare il solito volonterosissimo Chopin, che nel 1829 compose la Grande Fantasia su arie polacche op. 13. Subito dopo Chopin componeva il Krakowiak op. 14, che è un Gran Rondò da Concerto. E il rondò è un’altra — ma non l’ultima, perché ci sarebbero ancora da citare il capriccio, il divertimento, il pot-pourri — delle forme impiegate dai compositori del periodo Biedermeier: dal principe Louis Ferdinand di Prussia, autore all’inizio del secolo di un brillante Rondò in si bemolle maggiore, a Schubert, a Mendelsshon, a molti altri.
VERTIGINI ROMANTICHE
Il Biedermeier entra in crisi verso il 1830: ne fa esperienza amara il ventenne Chopin, che dopo essersi forgiata a Varsavia la balestra del pianista-compositore Biedermeier si accorge a Vienna che altri hanno nel frattempo inventato l’archibugio. Del resto, lo Chopin creatore di musica per pianoforte solo aveva inventato ben più dell’archibugio cominciando a scrive re gli Studi op. 10. Solo che Chopin non indirizzava le sue scoperte tecnico-coloristiche verso il concerto o verso la Fantasia drammatica (la fantasia su temi di melodrammi) per pianoforte solo, cioè verso la spettacolosa macchina che annullava definitivamente l’orchestra. Al contrario di Thalberg, che con la Fantasia sul «Mose» sbalordiva le folle, e al contrario di Liszt, che le sbalordiva con la Fantasia sulla «Niobe». Liszt aveva scritto verso il 1825 almeno un concerto, andato perduto: Thalberg aveva composto tra il 1829 e il 1830 il Concerto op. 5, concerto SuperBiedermeier in cui il virtuosismo brillante celebrava il suo trionfo e la sua morte. Dopo il 1830 Chopin, Liszt, Thalberg abbandonarono tutti e tre la forma del concerto: Liszt e Thalberg trovarono, come dicevamo, un’altra via di successo presso il pubblico formatosi con il Biedermeier, Chopin trovò un suo pubblico nei circoli intellettuali e mise da parte gli schizzi di un Concerto n. 3 che non avrebbe completato mai. Anche Schumann tentò invano negli stessi anni, per ben tre volte, di scrivere concerti, senza mai riuscire ad arrivare
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alla fine; Schumann decretò anzi il superamento del concerto classico e la sublimazione del concerto Biedermeier, in cui l’orchestra contava poco, quando scrisse il Concerto senza orchestra op. 14 (1835-36). L’unico, tra i giovani della generazione 1810, che riuscisse a superare subito V impasse in cui il concerto era finito fu Mendelssohn. Già autore di un classicheggiante e lunghetto Concerto in la minore (1823-24), di due classicheggiami e piacevoli concerti per due pianoforti (1823 e 1824) e del breve, spiritoso e divertente Capriccio brillante op. 22 (1825-26), Mendelssohn riuscì a prendere il toro per le cor na e a domarlo nel 1831 con il Concerto in sol mino re op. 25. La prima ragione del successo di Mendelssohn fu probabil mente dovuta alla sua competenza di direttore d’orchestra e di compositore di musica sinfonica, avendo egli diretto nel 1829 la Passione secondo Matteo di Bach ed avendo compo sto nel 1824 la Sinfonia n. 1 e nel 1826 Y Ouverture per il «Sogno di una notte di mezza estate». Il concerto Biedermeier era in crisi perché aveva ridotto l’orchestra a semplice caudataria; ma né Chopin né Liszt né Thalberg, che erano grandi pianisti, né Schumann, che era un pianista mancato, avrebbero potuto... rifondare l’orchestra. Mendelssohn fu invece in grado di: 1) riprendere la concezio ne classica del rapporto solista-orchestra basandosi in partico lare sul Concerto n. 4 di Beethoven (che come pianista ese guiva spesso); 2) rompere i massicci blocchi dei tre tempi tra dizionali basandosi sul Concertstiick di Weber (altro suo ca vallo di battaglia); 3) legare tematicamente tutta la compo sizione citando, nel finale, il primo tempo. Mendelssohn mantiene i tre tempi e le loro tradizionali caratteristiche, ma li collega tra di loro, elimina inoltre le pompose scansioni della struttura all’interno di ciascun tempo, taglia le lungaggini, e tratta insomma la forma con una fluidità, una leggerezza discorsiva, un’eleganza quale non si era più notata dai tempi di Mozart. I rapporti tra tonalità vengono rinnovati, la scrittura pianistica, brillantissima, non è però autosufficiente ma si integra all’orchestra: insomma,
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con il Concerto op. 25 di Mendelssohn il concerto per pianoforte e orchestra riacquista le ragioni della sua esistenza, anche se il pianoforte deve rinunciare ad un po’ della sua onnipotenza. Se il paragone non sembrerà bizzarro — se lo sembrasse ci scusiamo con il lettore — diremo che Mozart aveva trattato il solista come se facesse il ritratto di un personaggio colto in famiglia, che Beethoven era arrivato nel Concerto n. 5 al grande ritratto equestre, che Chopin aveva tolto al solista il destriero e che Mendelssohn glielo ridà,... sia pure mettendolo in sella ad un elegante puledrino più che ad uno stallone beethoveniano. Il Concerto di Mendelssohn metteva in evidenza, e già risolveva, tre problemi essenziali: 1) fare del concerto una composizione sinfonica, non una composizione solistica con accompagnamento; 2) trovare la continuità tra i diversi tempi; 3) unificare tematicamente tutta la composizione. Era il manifesto di una nuova poetica, che avrebbe dominato per una trentina d’anni. Né Chopin era in grado di seguire su questa via Mendels sohn, né lo era, per il momento, Liszt. Lo seguirono invece due giovani: il suo condiscepolo a Berlino Wilhelm Taubert {Concerto op. 18, favorevolmente recensito da Schumann, che mise in luce il rapporto Mendelssohn-Taubert) e l’inglese William Sterndale Bennett {Concerto n. 3 op. 9, 1835, Con certo n. 4 op. 19, 1838). Ma lo seguirono anche compositori più anziani, come Henri Herz {Concerto n. 2, 1832, definito dalla rivista «Le Pianiste», dopo la prima esecuzione a Parigi, Concerto en raccourci, concerto accorciato), e soprattutto l’amico-maestro Moscheles. Moscheles, che con le Variazioni sulla marcia d’Alessandro op. 32 del 1815 e con il Concerto n. 2 op. 56 del 1816 aveva contribuito in modo determinante ad indirizzare la poetica del Biedermeier, già nel Concerto n. 3 op. 60 del 1817 aveva in parte ripiegato verso ideali classicistici e nel Concerto n. 5 op. 87 del 1831 aveva addirittura preso lo slancio verso un neoclassicismo accademico. Con i concerti n. 6 op. 90, «Fantastique», n. 7 op. 93, «Pathétique», n. 8 op. 96, «Pastorale», Moscheles metteva a frutto le ricerche mendelssohniane.
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Nel Concerto n. 6 (1833), in quattro tempi collegati, il terzo tempo era basato sullo stesso materiale tematico del pri mo, nel Concerto n. 7 (1834) i temi ritornavano, trasformati, in più tempi, ed il n. 8 (1835), dice Moscheles nei suoi diari, era pensato nella «più breve, moderna forma in tre tempi collegati insieme», ed era «più agile e gaio dei suoi ultimi concerti». Si faccia attenzione al termine “moderna forma”. La crisi della sonata, forma che dòpo Schubert non veniva più abitualmente adottata, diventa crisi del concerto, e la via d’uscita dalla crisi è vista da Moscheles nel movimento continuato e nella trasformazione dei temi. Si innesca così un processo storico che, come vedremo, si concluderà dopo circa un quarto di secolo con Liszt. Per intanto, però$ i concerti Sesto, Settimo e Ottavo di Moscheles non ottengono il successo che aveva accompagnato il Secondo e il Terzo, e lo stesso Mendelssohn, nel Concerto n. 2 op. 40 (1837), non riesce a sviluppare le grandi novità del Concerto n. 1. Il giovane Alexander Dreyschock tenta senza molto succes so di riallacciarsi a Weber nel Concertstiick op. 27 (1840 circa), Liszt non esce dalla tradizione Biedermeier nella Grande Fantasia Sinfonica su due temi del «Lelio» di Berlioz (1834) e lascia per aria due concerti e un misterioso pezzo di cui completa solo, verso il 1840, un brano intitolato Maledic tion. Un geniale virtuoso francese, Charles-Valentin Alkan, immagina una paradossale condensazione del concerto Biedefmeier in due Concerti da camera per pianoforte e archi, nei quali i mastodontici mezzi pianistici della recente tradizione vengono bruciati in una durata di circa sette minuti invece della solita mezzora abbondante. Negli anni 30 la lotta resta così aperta: Hummel si congeda dignitosamente dal suo pubblico con un tipico concerto Biedermeier in fa maggiore (1833), la giovane virtuosa Clara Wieck, che sposerà Schumann nel 1840, scrive tra il 1833 e il 1835 il Concerto op. 7 di tipo nettamente Biedermeier, in cui l’esperienza mendelssohniana serve quasi esclusivamente ad eliminare l’ingombrante esposizione orchestrale del primo
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tempo1, il giovane virtuoso Adolph Henselt tenta addirittura il rilancio in grande stile del concerto Biedermeier nel suo spettacoloso Concerto in fa minore op. 162, reazionario nelle intenzioni ma talmente cavalleresco e baldanzoso, nella ricerca di un iperbolico virtuosismo, da diventare convincen te; dopo Hummel, altri due virtuosi Biedermeier concludono il loro catalogo di concerti negli anni 30: Field con il Concerto n. 7 op. 58 (1832), lodatissimo da Schumann ma che pare a noi squilibratissimo nel suo contrasto tra un drammatico, virile primo tempo e un secondo tempo leziosetto, e Kalkbrenner con il Concerto n. 4 op. 127 (1835). I più originali tentativi degli anni 30, dovuti a virtuosi di successo, sono quelli di chi cerca esperimenti di rapporti di timbri. Johann Peter Pixis, autore di due concertoni Bieder meier, scrive una Fantasia militare op. 121, dedicata a Chopin, per pianoforte, orchestra e “musica militare”: un pianoforte, una normale orchestra e, piazzata da qualche altra parte come in Steibelt, una fanfara reggimentale con due corni, due trombe, tre tromboni, timpani, triangolo, tamburo, cassa e piatti. Purtroppo, il Pixis prevede però che il pianoforte arrivi a far tutto e che orchestra e banda siano ad libitum. L’op. 120 dello stesso Pixis è un rondò, Le tre Campanelle, con orchestra e “tre campanelle obbligate”. E Adolfo Fumagalli scrive un Grande Concerto Fantastico intitolato Le Campanelle-, in realtà, introduzione, tema, variazioni e finale, in cui orchestra e pianoforte sono però impiegati per effetti coloristici, con gran spiegamento di acuti tintinnii. 1 Nel secondo tempo del Concerto di Clara Wieck, Romanza, si trova un bell’assolo di violoncello, suggerito forse da un analogo assolo che si trova nel Concerto op. 1 di Norbert Burgmuller, nato nel 1810 e morto nel 1836, che da Schumann e da Clara era molto stimato. Non è improbabile che il grande assolo di violoncello nel terzo tempo del Concerto op. 83 di Brahms sia una specie di devoto e affettuoso omaggio a Clara, compositrice di non mediocre talento. 2 II Concerto di Henselt fu pubblicato verso il 1840, ma figura nei suoi programmi concertistici già nel 1833. Si ignora se ne venisse soltanto ritardata la pubblicazione o se nel corso degli anni 30 la composizione venisse rielaborata o ritoccata. Più che alle esecuzioni dell’autore, limitatissime, la fama del Concerto fu legata alle esecuzioni di Liszt e di Clara Schumann (più tardi lo avrebbero eseguito Sauer e Busoni, e nel nostro secolo Petri).
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Chi tenta invece di riprendere il problema nei termini in cui lo aveva posto Mendelssohn e sviluppato Moscheles è Robert Schumann, che nel 1841 compone un pezzo intitolato Fantasia, in forma di primo tempo di concerto, il cui inizio cita un frammento del Concerto n. 4 op. 64 di Moscheles. Nel 1845 Schumann aggiunge alla fantasia un intermezzo e un finale, collegati, ed intitola il tutto Concerto, il suo unico concerto, in la minore op. 54. Nel Concerto di Schumann manca la continuità formale, perché il primo tempo conserva anzi la nettissima conclusione del brano nato come pezzo indipendente. Questo è un dato di cronaca, riportato in tutte le analisi e in tutti i commenti, sul quale non si è riflettuto criticamente e che merita invece, a parer nostro, qualche considerazione. Schumann collega tema ticamente i tre tempi del Concerto: nella transizione dall’Iwtermezzo al Finale egli cita, in modo riconoscibile persino da un sordo, il tema principale della Fantasia (primo tempo), ed il primo tema del finale, che appare subito dopo, è la sintesi del tema principale del primo tempo e del primo tema dell’Iwtermezzo. Il compositore intende quindi conferire all’opera un signifi cato complessivo; ma proprio questa sua volontà di unificazio ne denuncia in realtà l’artificiosità — non usiamo il termine in senso negativo — dell’operazione. Nessuno cerca di spiegarsi, perché è ineffabile, l’unità del Concerto K 466 di Mozart o del Concerto op. 37 di Beethoven, i cui tre tempi non sono tematicamente collegati. Schumann dà invece la dimostrazione dell’unità, spostando l’attenzione dal concetto alla struttura: l’unità non risiede nella volontà creatrice, ma nell’aspetto della creatura. Che in realtà non è però un concerto classicamente inteso ma una fantasia seguita da un intermezzo e da un finale. Già il titolo originale del primo tempo induce alla riflessione. Il pezzo riprende pari pari le strutture fondamen tali del bitematismo classico: esposizione, sviluppo, riesposi zione, cadenza, coda e, nell’esposizione, primo tema, collega mento, secondo tema, conclusione, con primo tema alla tonalità principale e secondo tema alla tonalità relativa
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maggiore nell’eposizione, con secondo tema alla tonalità simi gliente maggiore nella riesposizione. Potrebbe essere uno schema esemplificativo da trattato di composizione classica. Ma il significato classico del bitematismo viene completamente vanificato perché i due temi sono costruiti, in modo evidentissimo, sulla stessa cellula tematica di tre suoni, ed il collegamento e la conclusione sono in realtà sviluppi della cellula fondamentale. Dunque, una “fantasia su tre note in forma di allegro di sonata”. Le tre note sono do, s/, la. Non è chi non veda come si tratti delle lettere... musicabili del nome sCFlumAnn. E siccome la moglie Clara era detta Chiarina in quella specie di società segreta, inventata da Schumann, che è la Lega dei fratelli di Davide, non è chi non veda come la cellula tematica corrisponda anche a CHiArinA. In Chiarina ci sono due a, in Schumann una sola. Infatti, la cellula fondamentale do, si. la viene variata in diversi modi, il primo dei quali consiste proprio nella ripetizione dell’ultimo suono, il la (a). Se indichiamo le tre note con i numeri 1/2/3 troveremo nel pezzo le posizioni 1/3/2, 2/3/1, 2/1/3, 3/1/2, 3/2/1, e poi Iflfòlò, 2/3/2/1, òflflfò e così via: la cellula di tre suoni, in altre parole, si amplia a cellula di quattro suoni con la ripetizione di uno dei suoi elementi costitutivi. Il pensiero corre subito alle varie letture criptografiche del nome ASCH, da cui era nato sette anni prima il Camaval op. 9. Come nel Camaval, così nella Fantasia*, da un gioco fittissimo di simboli e di rimandi ermetici nasce una composi zione il cui significato profondo è poi affettivo. Il tempo è infatti indicato come Allegro affettuoso, e la Fantasia è il primo pezzo per pianoforte che Schumann scrive dopo il matrimonio con Clara/Chiarina, pianista professionista. Fu quattro anni dopo aver scritto questa magnifica Fantasia che Schumann pensò di costruire da essa un concerto, risolvendo in tal modo un problema che lo assillava da quasi vent’anni. Schumann aveva infatti tentato già almeno quattro volte (tre volte verso il 1830, una volta nel 1839) di scrivere un concerto, senza mai venire a capo dell’impresa. Nel 1839, recensendo il Concerto n. 2 di Mendelssohn, aveva anche
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detto, da storico e da teorico, che cosa e come avrebbe dovuto essere a parer suo un vero concerto per pianoforte. Ebbene, il Concerto op. 54 del 1845 non corrisponde affatto alla teorizzazione del 1839. Insomma per scrivere il concerto che agognava di scrivere, Schumann compositore dovette... far fesso Schumann critico attaccando dietro ad una fantasia un intermezzo ed un finale. Concerto? In realtà, un meraviglioso labirinto in cui annega la ragione dialettica e trionfa la maschera. La scrittura pianistica del Concerto op. 54 è integrata in orchestra, ma in modo meno stretto di quanto non fosse avvenuto con Mendelssohn, perché Schumann, agli inizi della sua attività di sinfonista, padroneggia meglio il pianoforte che non l’orchestra. Pur essendo un sommo inventore di sonorità pianistiche, e pur avendo precise idee di sonorità orchestrale, Schumann non riesce a mettere con sicurezza in rapporto i due termini, e l’equilibrio sonoro del Concerto è talmente sottile e precario da renderne difficilissima l’esecuzione,... a patto, s’intende, che il direttore non si limiti ad accompagnare il solista. Solo in interpretazioni curate con attenzione da grandi direttori — Furtwangler, Walter, Klemperer, de Sabata, Karajan, Szell, Giulini, Abbado — si riesce infatti a capire la qualità di “partitura sinfonica” del Concerto di Schumann, che di solito appare invece come assolo accompagnato. Il problema si ripresenta nei due altri pezzi di Schumann per pianoforte e orchestra, ^Introduzione e Allegro appassio nato op. 92 del 1849 e l'introduzione e Allegro concertante op. 134 del 1853. In queste composizioni Schumann si libera tuttavia della preoccupazione di dare occasione al solista di brillare e può meglio riprendere, in una partitura sinfonica, i caratteri intimistici della sua scrittura pianistica. Schumann si libera anche della preoccupazione di scrivere un concerto di vaste dimensioni e quindi si limita, come nella Fantasia del 1841, a valersi della struttura di primo tempo bitematico, con l’aggiunta di un’introduzione a fantasia. Il problema aperto da Mendelssohn non viene quindi chiuso da Schumann. Viene chiuso da Liszt. Ma prima di
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passare a Liszt bisogna ricordare il singolare tentativo del compositore svedese Franz Berwald. Dopo aver lentamente assorbito la cultura classica negli anni passati a Berlino svolgendo anche, per campare, il mestiere di fisioterapista, Berwald fa veramente il compositore tra. il 1841 e il 1845, tenta invano tra il 1846 e il 1849 di inserirsi nella vita musicale europea, diventa nel 1850 direttore di una vetreria nel nord della Svezia, continua a comporre per diletto per molti anni e solo un anno prima della morte, nel 1867, diventa professore nella Reale Accademia di Musica di Stoccolma. Nel 1855, a cinquantasei anni, Berwald scrive un Concerto per una sua allieva (che non lo eseguirà mai): un pezzo di taglio mendelssohniano, in tre tempi collegati, ma in cui i ricordi del Biedermeier e di Mendelssohn si collocano in una dimensione di decantazione nella quale pubblico e successo non contano più nulla e nella quale un genere eminentemente mondano come il concerto viene condotto nel mondo della musica contemplativa, paesistica, idilliaca. Un altro pezzo singolare, anch’esso mendelssohniano ma anch’esso privo di ambizioni di successo e di mondanità, è VOde alla primavera op. 76 che Joachim Raff scrive nel 1857. L’avvicinamento di Liszt al cuore del problema storico rappresentato dal concerto avviene con... manovre avvolgenti pluridecennali. Dopo Malédiction Liszt inizia nel 1842 la Fantasia sulle «Rovine d’Atene» di Beethoven (la completerà nel 1852); nel 1850 trascrive per pianoforte, senza ultimare il lavoro, il suo Grand Solo de Concert, nel 1851 la WandererFantaisie di Schubert e la Polacca brillante di Weber, nel 1852 compone la Fantasia ungherese. Periodicamente, Liszt riprende in mano gli appunti per un concerto, che aveva gettato sulla carta addirittura nel 1830: nasce così il Concerto in mi bemolle maggiore, che dopo due tappe intermedie vede finalmente la luce nel 1856. Il Primo Concerto di Liszt è in quattro tempi collegati, con l’ultimo tempo interamente formato da temi dei primi tre tempi; la scrittura pianistica è difficilissima, degna di quell’innarivabile virtuoso che Liszt era, ma la parte del pianoforte
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non potrebbe reggersi senza l’orchestra. Liszt sfrutta le risorse coloristiche del pianoforte per farne, come Beethoven nel Concerto n. 5, una sezione dell’orchestra, e l’orchestra è grande, con tre tromboni e persino — scandalo! — con il triangolo. Il Concerto in mi bemolle maggiore non è neppure un’opera di Liszt, ma è Liszt che mette in musica se stesso, è il prodigioso autoritratto che lo raffigura dalla giovinezza alla maturità. La prima entrata del pianista è fatta non solo di suono ma di gesto: le braccia si alzano in alto e piombano sui tasti come liberi stantuffi, strappando allo strumento prodi giose masse di suono che con la loro semplice presenza soggiogano, incatenano l’ascoltatore. Quando l’orchestra ri prende sappiamo già chi sarà il dominatore e non ci stupiamo se subito dopo il dominatore diventa schiavo, capace anche di accompagnare cortesemente un clarinetto e due violini che timidamente hanno risposto al suo richiamo. E il ritratto dell’eroe, quello che Liszt ci espone, dominato re del mondo e degli uomini, dolce e benigno con la donna: una specie di primo atto dell’ Otello di Verdi. Forse c’è un Jago, in questo Otello, ed è il terzo tempo, lo scherzo mefistofelico in cui ride a singhiozzo quel triangolo che mandava fuori della grazia di Dio i critici tedeschi, Hanslick in testa. E c’è, nel finale, una marcia trionfale dalla quale si sviluppa una sfilata di tutti i personaggi del dramma, tutti trasformati, trasfigurati, trascinati in una kermesse vorticosa. La composizione è compatta e trascinante, ma non va oltre i postulati mendelssohniani di cui rappresenta una perfetta soluzione. Il Concerto n. 2 in la maggiore porta invece all’estremo e conclude l’esperienza aperta da Mendelssohn. Liszt inizia il Concerto n. 2 nel 1839, al tempo delle sue più belle Fantasie drammatiche, lo riprende più volte, lo finisce nel 1861. Tra il Concerto n. 1 e Un. 2 termina però, nel 1859, una composizione progettata nel 1838, scritta nel 1849 e riveduta una prima volta nel 1853: il Totentanz (Danza di morti). L’idea del Totentanz nasce in Liszt durante una visita al Trionfo della morte che si trova nel Camposanto di Pisa. Il tema della morte è musicalmente rappresentato dal Dies irae
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ed il Totentanz, sublimazione prodigiosa e riscatto della variazione brillante del Biedermeier, consiste in una serie di variazioni sulla sequenza medievale. Il Concerto n. 2 rappresenta la sintesi di concerto e variazione. Non variazione di un tema, ma continua trasfor mazione di due temi contrastanti: il principio del contrasto di due temi, su cui erano sorte la sonata e il concerto classici, e il principio dell’unificazione tematica postulato dallo Schubert della Wanderer-Fantaisie e da Mendelssohn vengono sintetiz zati da Liszt. L’idea dei tre tempi resta come dato storico di fondo: tutti vedono il fantasma di un adagio, quando il violoncello comincia a cantare il suo grande assolo, e tutti, quando sentono la marcia, ricordano che nel Concerto n. 1 una marcia dava l’avvio al finale. Ma le transizioni sono talmente sfumate ed allusive da rendere continuo il flusso della musica ed inavvertibili i mutamenti del paesaggio. Confluiscono nel Concerto n. 2, oltre alle esperienze del Liszt pianista, le sue esperienze di strumentatore e di creatore del poema sinfonico, ed il risultato è un quadro di ariostesca varietà ed esuberanza, in cui tutto il romanticismo si rispecchia non come realtà ma come aspirazione, in una visione di magia, di irreale e irripetibile possesso del mondo, della storia, del mito.
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Irripetibile, dicevamo. Mentre i grandi melodrammaturghi della generazione 1810 — Verdi e Wagner — improntano di sé la seconda metà del secolo, i pianisti spariscono di scena verso il 1850: Mendelssohn muore nel 1847, Chopin nel 1849, Schumann nel 1856; verso il 1860 Thalberg si ritira dall’attività concertistica per diventare viticoltore a Posillipo e Henselt, gravatosi di molteplici cariche alla corte imperiale russa, da circa il 1855 alla morte (1889) si occupa di pratiche burocratiche e di lezioni private, sfogando con gli allievi l’ipocondria da cui è tormentato; Charles-Valentin Alkan, dopo aver guardato paradossalmente al concerto Biedermeier nei due Concerti da camera degli anni 30, nel 1857 ne celebra retrospettivamente la memoria con l’enorme Concerto per pianoforte solo che dura più di cinquanta minuti. C’è ancora chi sopravvive tranquillo al crollo dei miti romantici e continua a scrivere come aveva cominciato: Henri Herz, che scompare a ottantacinque anni, nel 1888, lascia cadere sul mercato, a giusta distanza, otto concerti, l’ultimo dei quali, op. 218 in la bemolle maggiore, è una piacevole chiacchierata in un salotto Biedermeier, con il melodramma belliniano a far da tappezzeria, e Alexander Dreyschock, che muore a cinquant’anni nel 1869, conclude la carriera con un Concerto in re minore op. 137 non meno difficile, non meno ruggente e non meno inoffensivo del Concertstuck op. 27 con cui l’Autore — detto il pianista con due mani destre a causa della sbalorditiva sinistra — aveva esordito. L’unica presenza nel mondo musicale, l’unico sopravvissu
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to della generazione 1810 è Liszt, che però, dopo aver finito il Concerto n. 2, non compone più per pianoforte e orchestra e non si occupa più, in generale, del pubblico delle sale di concerto1. Liszt chiude così la problematica aperta dalla generazione romantica e nessuno si affianca a lui per riprenderla o per innovarla. Solo Cesar Franck, ma un quarto di secolo più tardi, capirà veramente il significato storico del Secondo Concerto di Liszt e nelle Variazioni sinfoniche ne riprenderà la poetica. Alcuni compositori nati a ridosso della generazione 1810 cercano invece di staccarsi dai problemi del concerto romantico e di inventare nuove possibilità: nasce così, verso la metà del secolo, il Concerto sinfonico o Concerto-sinfonia. I compositori di concerti sinfonici portano nomi che neppur tutti i dizionari registrano: Charles Mayer, Auguste Dupont, Michael Bergson, Emile Prudent, Peter Benoit, Emil Wrobleski, Franz Bendel. L’unico, tra di essi, la cui fama abbia varcato le soglie del nostro secolo, ma in quanto didatta, non in quanto compositore, è Theodor Kullak, autore di una Symphonie de piano op. 27, e l’unico, le cui musiche vengano ancora talvolta eseguite è Henry Litolff, inglese di nascita ed allievo di Moscheles. L’azione di Litolff si sviluppa parallelamente a quella di Schumann e di Liszt e non in posizione programmaticamente antitetica: anzi, i rapporti personali di Liszt e Litolff furono amichevoli, tanto che Liszt dedicò a Litolff il Concerto in mi bemolle maggiore. Il concerto sinfonico rappresenta però un momento di almeno tentato superamento del concerto romantico e perciò, per comodità espositiva, lo tratteremo a parte. 1 Di recente è stato frettolosamente attribuito a Liszt, in una pubblicazione discografica, un cosiddetto Concerto in stile ungherese composto negli anni 80. Si tratta, per quanto era precedentemente noto, di un lavoro di una allieva prediletta di Liszt, Sophie Menter, la cui parte orchestrale fu strumentata da Ciaikovsky. Non c’è alcuna prova documentaria, e l’analisi stilistica esclude a parer nostro la tesi che si trattasse in realtà di un pezzo che Liszt aveva in progetto di scrivere ed i cui abbozzi sarebbero stati da lui donati alla Menter. Ci pare comunque che in difetto di solidissime prove nulla autorizzerebbe ad attribuire alla Menter, devotissima sempre al suo maestro, il furto di una composizione o di un abbozzo di composizione di Liszt.
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Alcuni dei postulati del concerto sinfonico possono già esser trovati in una osservazione critica di Schumann, che recensendo nel 1839 il Concerto n, 2 di Mendelssohn e il Concerto n. 7 di Moscheles, con ammirazione ma non senza riserve di fondo, diceva: Sarebbe certamente una spiacevole perdita per Parte se andasse completamente fuor d’uso il concerto per pianoforte e orchestra; d’altra parte non si può dar torto ai pianisti quando dicono: «Noi non abbiamo bisogno di nessun aiuto, anche da solo il nostro strumento è assolutamente completo». Così dobbiamo aspettare tranquillamente il genio che ci mostri come si possa unire l’orchestra al pianoforte in modo nuovo e scintillante, tanto da lasciare al virtuoso la possibilità di sviluppare la ricchezza della sua arte e del suo strumento, mentre però all’orchestra, potendo intervenire in scena ad arricchire la trama musicale con i suoi multiformi caratteri, sarebbe affidata una parte più importante di quella del semplice spettatore. [...] non si potrebbe introdurre efficacemente nel concerto anche lo scherzo, che ci è stato ormai reso familiare dalla sinfonia e dalla sonata? Sarebbe una bella lotta con le singole parti dell’orchestra, anche se la forma complessiva del concerto dovrebbe naturalmente subire qualche piccola modifica.
Di contro a Mendelssohn, Litolff riconferma la fiducia nella forma classica condotta da Beethoven a proporzioni monumentali, con le sue nette separazioni tra i tempi e senza preoccupazioni di unità tematica. Ripresa, dunque, della tradizione sinfonica classica, di quella tradizione a cui si riaccostava verso il 1845 anche Schumann, e ripresa del rapporto solista-orchestra a cui era pervenuto Beethoven nel Concerto n. 5, con il pianoforte che costituiva una sezione dell’orchestra. I punti di contatto con Liszt sono evidenti, ma mentre Liszt mira ad una sintesi storica che abbracci tutte le esperienze sviluppatesi durante il secolo intorno al concerto per pianoforte e orchestra, Litolff intende riallacciarsi ad un punto preciso, cioè alla conclusione della classicità rappresen tata da Beethoven. Aggiungendo ai tre tempi mozartiani e beethoveniani lo scherzo, come Schumann aveva preconizza to, Litolff accentuava l’intenzione di fondere i generi della sinfonia e del concerto. Nel 1844 Litolff presentò il suo primo concerto, intitolato Concerto-Sinfonia, di cui parla il critico Francois Fétis ma, che
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non fu pubblicato e di cui non è rimasta traccia. Il Concerto n. 2 op. 22, intitolato Concert-Symphonique, venne eseguito nel 1845 o 1846: è in quattro tempi, con uno scherzo che stilisticamente risente della scattante tensione degli scherzi mendelssohniani; la scrittura del pianoforte è complessa e virtuosistica, con tratti Biedermeier che in Litolff rimarranno sempre, ma non prevarica su un’orchestra numerosa e trattata con maestria. Il Concerto sinfonico n. 3 op. 45, eseguito nel 1847, divenne molto noto per alcuni anni; Litolff citava nello Scherzo una canzone popolare patriottica olandese e basava il quarto tempo sull’inno nazionale olandese (composto da Jan Willem Wilms, morto il 19 luglio 1847 e autore di un Concerto op. 3 per pianoforte). Sembra evidente che Litolff avesse di mira un risultato pratico perché il carattere nazionale del Concerto dà anche luogo ad episodi pomposi e fastosi che appaiono legati a circostanze celebrative. Tuttavia il Concerto n. 3 non è affat to, come direbbero i tedeschi, bombastico, ma si inserisce semmai nella linea della pièce epico-celebrativa rappresentata dal Concerto n. 5 di Beethoven e mantiene un magistrale rap porto sinfonico tra il pianoforte ed una grande orchestra. Del Concerto sinfonico n. 4 op. 120, eseguito per la prima volta nel 1851, rimase in repertorio per tutto il secolo lo Scherzo, che venne ancora eseguito da Paderewski e che venne più recentemente ripreso da vari pianisti. Lo Scherzo e il finale del Concerto sinfonico n. 4, come del n. 3, mostrano l’in fluenza di Litolff su Saint-Saéns, mentre i primi tempi e i tempi lenti — detto schematicamente — rappresentano a parer nostro un punto di transizione da Mendelssohn a Brahms. L’eredità del sinfonista Mendelssohn, che aveva reinterpre tato il classicismo e che nella seconda metà del secolo diventava un modello per tutti, nel campo del concerto per pianoforte e orchestra viene dunque trasmessa a due artisti antitetici come Saint-Saens e Brahms attraverso Litolff, che arricchisce indubbiamente l’esperienza mendelssohniana ma senza sentire fino in fondo, al contrario di Liszt, l’ampiezza del problema storico che Mendelssohn aveva impostato.
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Nell’ultimo Concerto sinfonico di Litolff, op. 123, composto verso il 1855, il “beethovenismo” si accentua e diventa vero e proprio ricalco stilistico nel tema principale del primo tempo e nel tema principale del finale (trattato anche a modo di fugato). Litolff, che non aveva ancora quarantanni, era in realtà giunto al termine della sua attività di creatore. Dopo essere scappato a diciassette anni a Gretna Green in Scozia — si usava anche allora — per sposare una ragazzina contro il volere dei genitori, dopo essersi separato dalla moglie, dopo aver fatto qualche po’ di galera per questioni concernenti il divorzio e dopo essere evaso con l’aiuto della figlia del suo carceriere, Litolff aveva sposato nel 1851 la vedova dell’edito re di musica Gottfried Meyer di Braunschweig e si era dedicato con impegno ad attività commerciali; avrebbe poi divorziato, si sarebbe risposato, sarebbe restato vedovo, avrebbe impalmato a cinquantacinque anni una fanciulla di diciassette... Pur indaffarato com’era, Litolff compose ancora (morì nel 1891) una decina di opere teatrali, ma lasciò perdere i concerti sinfonici che l’avevano consegnato alla storia. I concerti di Litolff sono Sinfonici, ma sono pur sempre Concerti. Nel 1853 il compositore danese Niels Gade presen tava al Gewandhaus di Lipsia, di cui era direttore stabile, una sua sinfonia che si sarebbe guadagnata l’onore della citazione nei manuali storici di strumentazione: la Sinfonia n. 5 op. 23, per un’orchestra comprendente il pianoforte. «La strumentazione del lavoro è bella, ma l’aggiunta del pianoforte è un’inutile innovazione perché il complesso orchestrale lo soffoca», scrisse nel suo diario Moscheles, attento testimone di tutto ciò che si muoveva intorno al pianoforte. Ed aveva ragione. Il pianoforte, strumento di enormi possibilità, può diventare componente dell’orchestra solo se il suono dell’orchestra è plasmato sul suo: nell’orche stra di Stravinsky, tanto per intendersi. Nell’orchestra dell’Ottocento, il cui suono è plasmato su quello degli archi, il pianoforte può essere sezione dell’orchestra, non strumento dell’orchestra. La sublimazione, l’olocausto del concerto nella sinfonia, insomma, non era praticabile, e l’unica strada nuova era quella aperta da Litolff. •
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Mentre Litolff scriveva il suo ultimo concerto sinfonico, stava già lavorando il compositore che avrebbe per il momento concluso la storia del “concerto come sinfonia”: Johannes Brahms. Mentre il neoclassicismo di Litolff è implicito nella sua poetica, il neoclassicismo di Brahms è programmatico. Le tre sonate per pianoforte sono esattamen te contemporanee alla Sonata in si minore di Liszt; ma, mentre Liszt fonde in uno i quattro tempi della sonata classica ed usa in tutto tre temi, Brahms riprende le forme beethoveniane, scavalcando alTindietro il romanticismo. E alla classicità beethoveniana Brahms fa riferimento quando, nel 1854, a ventun anni, inizia a scrivere una sinfonia: in quattro anni di lavoro, di ripensamenti, di pentimenti, la sinfonia diventerà il Concerto n. 1 op. 15 in re minore (sarà un caso, ma anche il Concerto n. 1 di Beethoven porta il numero d’opera 15). I rapporti Lìtolff-Brahms non sono stati studiati a fondo e non è qui il luogo per esaminarli. Non sarà però inutile ricordare i rapporti tra Brahms e il violinista Joseph Joachim, che dopo un periodo trascorso a Weimar presso Liszt stava diventando l’esponente di un classicismo tedesco antilisztiano e antiwagneriano. Dopo aver composto un Concerto op. 3 in un tempo solo, nel 1857 Joseph Joachim componeva un concerto per violino, il Concerto ungherese op. 11 e, pur essendo un grandissimo interprete del Concerto di Mendelssohn, non si ancorava alla forma mendelssohniana né seguiva le novità formali del Concerto n. 4 di Henry Vieuxtemps, terminato nel 1850 e già celebre. Joachim teneva probabilmente conto delle ultime medita zioni di Schumann, che dopo il Concerto per violoncello (1850), di struttura formale mendelssohniana, era tornato verso una più classica impostazione nel Concerto per violino (1853). Il Concerto ungherese di Joachim era in tre tempi, di impianto vastissimo: durava in complesso circa quaranta minuti (rispetto ai ventotto circa del Concerto di Mendels sohn), con un primo tempo che da solo superava i venti minuti: l’esatto equivalente, in campo violinistico, dei concer ti sinfonici per pianoforte.
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L’impianto architettonico del Concerto n. 1 di Brahms non è meno grandioso, monumentale2. Nel primo tempo Brahms ripristina innanzitutto l’esposizione orchestrale, che da Men delssohn in poi era stata abolita, facendo entrare il pianoforte in un modo colloquiale che ricorda le entrate dei concerti di Mozart. I temi sono complessi, cioè non sono neppur più temi ma gruppi tematici, e vengono ampiamente sviluppati. Il Concerto n. 1 non è tuttavia un vero e proprio concerto sinfonico né, tanto meno, una sinfonia con pianoforte obbligato. In Brahms si manifesta forse la stessa difficoltà che si era presentata a Schumann; non avendo ancora alle spalle un’esperienza di sinfonista ed avendo invece già raggiunto una grande maturità come creatore di musica per pianoforte, Brahms non pensa in termini pianoforte-orchestra ma riunisce pianoforte e orchestra. Il pianoforte acquista dunque una funzione che non aveva nei concerti di Litolff e che non ha nei concerti di Liszt: non è un componente l’insieme ma dell’insieme è l’elemento dominante, e non si pone come sezione dell’orchestra ma come alternativa all’orchestra, e con una tale imperiosità da non aver bisogno di affermare la sua superiorità con una cadenza. Lo schema classico e lo schema Biedermeier riaffiorano a volta a volta in una composizione che esprime una ambizione sovrumana e che non nasconde un fondo superbamente contradditorio: il compito storico che Brahms è già in grado di porsi a venticinque anni verrà in realtà esaurito solo più di vent’anni dopo, nel Concerto n. 2. Più equilibrati del ciclopico affresco del primo tempo sono il secondo e il terzo tempo. Il carattere del tema principale del secondo tempo, quasi un corale, permette a Brahms un più sicuro e meno problematico controllo della forma sonora. Nel terzo tempo il punto di riferimento è costituito dal finale del Concerto n. 3 di Beethoven. 2 Facciamo notare per curiosità che sia il Concerto n. 1 che il n. 2 di Liszt durano venti minuti circa: il Concerto n. 3 di Litolff dura circa trenta minuti, il n. 4 circa trentotto; la durata del Concerto n. 1 di Brahms, che si presta ad essere variamente interpretato, oscilla tra i quarantacinque e i cinquantadue minuti.
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I temi di Brahms, più complessi di quelli di Beethoven, consentono una dilatazione della forma senza che lo schema venga sostanzialmente modificato; ma Brahms riesce, miraco losamente, ad ampliare la conclusione, allargando la stringata chiusa di Beethoven in una specie di improvvisazione-cadenza a cui si unisce l’orchestra. Ultimo tratto programmaticamente classicistico: il pianoforte, che ha sostenuto la maggior parte del peso e dell’impegno, non suona nelle ultime battute, come nei concerti di Mozart e nei primi tre di Beethoven.
PUBBLICO, ISTITUZIONI, REPERTORIO
Se il Concerto n. 2 di Liszt conclude un ciclo storico irripetibile, il Concerto n. 1 di Brahms è troppo in anticipo sui tempi e gli insuccessi che accompagnano le sue esecuzioni, anche nella roccaforte classicistica di Lipsia, ne fanno fede. Dopo il 1860 il concerto per pianoforte e orchestra prende strade meno radicali di quelle lisztiane e brahmsiane anche per una questione, a parer nostro, di rapporti dei musicisti con le istituzioni. Le caratteristiche del concerto sinfonico come manifestazione pubblica a pagamento spiegano infatti, almeno in parte, le caratteristiche che il concerto per pianoforte e orchestra assume nella seconda metà dell’Otto cento. Al tempo di Mozart e di Beethoven il concerto sinfonico era manifestazione eccezionale nella vita musicale perché le orchestre pubbliche erano soprattutto impegnate nel melo dramma, mentre la musica sinfonica era soprattutto eseguita da orchestre private, finanziate da aristocratici. La creazione di organismi sinfonici e di stagioni pubbliche riguarda prima di tutto, negli ultimi decenni del Settecento, Londra e pochi altri centri (l’orchestra del Gewandhaus di Lipsia comincia a tener concerti nel 1781); l’iniziativa si estende lentamente nella prima metà dell’ottocento e si diffonde invece molto rapidamente dopo il 1850 h 1 Si considerino le date di inizio delle principali stagioni di concerti sinfonici. Durante il Settecento sono da segnalare solo i concerti di Amsterdam (dal 1777) e di Lipsia (dal 1781); la Philarmonic Society di Londra inizia la sua attività dal 1813, la Société des Concerts di Parigi nel 1828, i concerti di Amburgo nel 1828 e quelli di
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L’assetto sociale che esce dalla mancata rivoluzione demo cratica del 1848-49, cioè la conquista del potere da parte della borghesia capitalistica, favorisce la creazione di un’istituzione imprenditoriale qual è la “società dei concerti sinfonici”. La regolarità delle stagioni, ed anche il riconoscimento e la protezione del diritto d’autore consentono un lungo ed intensivo sfruttamento economico della creazione musicale e fanno quindi nascere interessi nuovi degli editori e dei compositori. Si tratta di un fenomeno molto complesso, e sarebbe puerile attribuire ad una congiura degli editori il mutamento radicale dell’indirizzo di gusto che si verifica dopo la metà del secolo. Sono comunque gli editori che, attraverso le riviste e attraverso pubblicazioni storico-critiche a costi accessibili a tutti favoriscono il lentissimo ma costante spostamento dell’interesse del pubblico dall’attualità al repertorio. Non si tratta ancora di un’affermazione dello storicismo, anche perché il ricorso a ciò che il genere del concerto aveva avuto di artisticamente più alto, i concerti di Mozart, non sarebbe stato possibile, sia perché le difficoltà meccaniche della scrittura pianistica di Mozart non potevano competere con quelle virtuosistiche del romanticismo, sia perché l’orche stra mozartiana era piccola. Neppure il concerto Biedermeier poteva d’altronde interes sare, perché l’orchestra vi era troppo poco impegnata. L’op portunità pratica, in questo caso, si rovescia: se nei primi trentanni del secolo il ruolo dell’orchestra era stato ridotto perché l’orchestra era costosa e difficilmente disponibile per i concerti, quando l’orchestra è impegnata in una stagione sinfonica regolare dev’essere adoperata in modo degno del suo alto livello professionale. La sopravvivenza della musica oltre il suo tempo, s’inten de, dipende anche dalla sua qualità, ma il riconoscimento della Praga dal 1840, la Philarmonic Society di New York e i Wiener Philarmoniker dal 1842; dal 1849 inizio stagioni di concerti sinfonici a Boston, dal 1850 a Chicago e Dresda, dal 1852 a Hannover, dal 1853 a Budapest, dal 1856 a Filadelfia, dal 1857 a Colonia e a Manchester, dal 1859 a S. Pietroburgo, dal 1860 a Mosca, dal 1861 a Zurigo, dal 1864 a Dusseldorf, dal 1865 a Bruxelles, ecc.
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qualità non è staccato dallo stato delle istituzioni e dalla cultura che attraverso le istituzioni si forma. Così, nella seconda metà del secolo entra veramente nel repertorio — altri vengono eseguiti saltuariamente — il solo Concerto in re minore di Mozart, considerato composizione preromantica e la cui strumentazione era stata ritoccata verso il 1830 dal pianista inglese Philip Hambly Cipriani Potter; di Beethoven entrano nel repertorio il Concerto n. 3, e specialmente il n. 4 e il n. 3, di Hummel, con una diffusione molto minore, i concerti in la minore e in si minore, di Weber il Concertstiick, e poi i due concerti di Mendelssohn (particolarmente gradito il Primo) e il Concerto di Schumann; vengono eseguiti i due concerti di Chopin, ma il n, 1, più diffuso, viene ristrumenta to da Cari Tausig, e il n. 2 da Karl Klindworth2; il Concerto n. 1 di Liszt viene eseguito dagli allievi di Liszt e il Concerto n. 1 di Brahms da Clara Schumann e da Hans von Biilow; po polari sono la Pantasìa ungherese di Liszt, la Wanderer-Pantaisie di Schubert-Liszt e la Polacca brillante di Weber-Liszt. Liszt, la cui attività di concertista si era conclusa nel 1848, aveva presentato questo repertorio di concerti e di pezzi per pianoforte e orchestra: Bach: Concerto in re minore per tre pianoforti; Beethoven: Concerto n. 3, Concerto n. 3, Fantasia op. 80, Chopin: Concerto n. 1, Concerto n. 2, Variazioni su un tema del «Don Giovanni» op. 2; Czerny: Variazioni sull'inno nazionale austriaco; Henselt: Concerto op. 16; Hummel: Concerto in la minore, Concerto in si minore; Mendelssohn: Concerto n. 1, Concerto n. 2; Moscheles: Concèrto n. 2, Concerto n. 3, Concerto n. 4, Variazioni sulla marcia di Alessandro, Variazioni su un tema austriaco; Pixis: Variazioni su un tema del «Barbiere di Siviglia»; Weber: Concertstùck.
2 Un curioso esempio di giudizio in suoni sul Concerto n. 2 di Chopin è il Concerto in fa minore op. 2 del ventunenne Anton Arensky (1882): Arensky ricalca Chopin “correggendolo” secondo il punto di vista del tardo Ottocento, quasi come se scrivesse non un suo concerto ma un saggio critico sul concerto di Chopin. *
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Il repertorio con orchestra di Ferruccio Busoni, nato cinquantacinque anni dopo Liszt e in cui manca uno solo dei concerti affermatisi definitivamente alla fine del secolo (il Secondo di Brahms), dà ragione delle permanenze, delle cadute, delle novità (si deve però tener conto del fatto che la maggior parte dei concerti di Mozart fu eseguita da Busoni solo negli ultimi anni della carriera, quando il repertorio si stava sempre più nettamente orientando verso il passato): Bach: Concerto in re minore (adattamento di Busoni); Beethoven: Concerto n. 1, Concerto n. 3, Concerto n. 4, Concerto n. 5, Fantasia op. 80;
Beethoven-Liszt: Fantasia sulle «Rovine d*Atene»; Brahms: Concerto n. 1; Busoni: Fantasia da Concerto op. 29, Konzertstiick op. 3la, Concerto op. 39, Fantasia indiana op. 44, Concertino op. 54; Chopin: Concerto n. 1; Ciaikovsky: Concerto n. 1; Grieg: Concerto op. 16; Henselt: Concerto op. 16; Hummel: Concerto in si minore; Liapunov: Concerto; Liszt: Concerto n. 1, Concerto n. 2, Totentanz; Liszt-Busoni: Rapsodia spagnola; Mendelssohn: Concerto n. 1; Mozart: Concerto K 271, Concerto K 453, Concerto K 466, Concerto K 467, Concerto K 482, Concerto K 488, Concerto K 491, Concerto K 503; Novacek: Concerto in mi bemolle maggiore; Rubinstein: Concerto n. 4, Concerto n. 5; Saint-Saèns: Concerto n. 5; Schubert-Liszt: Wanderer-Fantaisie; Schumann: Concerto op. 54; Weber: Concertstùck.
I concerti e pezzi eseguiti sia da Liszt che da Busoni sono otto; se vi si aggiungono il Concerto n. 4 di Beethoven, che Liszt, stranamente, non eseguì mai (mentre faceva parte del repertorio di Mendelssohn), nonché il Concerto di Schumann e il Concerto in re minore di Mozart, si ha un’idea del
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repertorio anteriore al 1850 che si consolida nella seconda metà del secolo. Una dozzina circa di composizioni “storiche” era in real tà poca cosa, rispetto alla quantità di concerti pubblici che si svolgevano regolarmente in Europa e negli Stati Uniti d’America. Restava quindi un ampio spazio per le nuove proposte, protette dal diritto d’autore. Le distanze di tempo tra l’uno e l’altro dei concerti composti dai pianisti di successo ci dicono che il periodo del primo e più intenso sfruttamento andava dai cinque ai dieci anni: Anton Rubinstein, dopo alcuni tentativi mal riusciti, scrisse il Concerto n. 3 nel 185354, il ». 4 nel 1864, il ». 5 nel 1874, il Capriccio russo nel 1878, il Concertstiick nel 1889; Carl Reinecke compose il Concerto n. 1 nel 1867, il ». 2 nel 1873, il ». 3 nel 1878, il ». 4 verso il 1900; Franz Xaver Scharwenka compose il Concerto n. 1 nel 1876, il ». 2 nel 1881, il ». 1 e il ». 4 nel primo decennio del Novecento. Si può ricordare, come termine di confronto, che Dussek scrisse sedici concerti in trentun’anni, Steibelt otto in ventiquattro anni, Hummel sei in ventidue anni. I tempi di sfruttamento minimo, con lo sviluppo dei trasporti e con il moltiplicarsi delle società di concerti, si allargano ed i concerti che vengono eseguiti da molti esecutori — come il Quarto di Rubinstein, il Primo di Reinecke, il Primo di Scharwenka — durano in repertorio per almeno trent’anni. Per ottenere una facile diffusione le nuove proposte dovevano però necessariamente rispondere ad alcune esigenze imprescindibili: 1) scrittura pianistica difficile, degna di un virtuoso di giro che si spostava da una città all’altra e da un continente all’altro e che riceveva compensi elevati; 2) scrittura orchestrale degna di un’orchestra professionale che sapeva affrontare partiture sinfoniche complesse; 3) struttura riferibile a modelli di valore riconosciuto. Entro questi limiti, come vedremo, e con poche deviazioni, tanto più significative in ragione della loro rarità, si sviluppa la storia del concerto per pianoforte e orchestra da circa il 1850 allo scoppio della prima guerra mondiale. L’organizzazione della vita musicale che si viene creando
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nella seconda metà del secolo e l’accrescimento progressivo del repertorio storico e la sua utilizzazione, con il conseguente sviluppo della ricerca interpretativa, fanno emergere una questione che, sebbene in pratica marginale, è in linea di principio fondamentale: chi comanda, nel concerto per piano forte e orchestra? Chi comanda? il pianista? il direttore? Negli anni 30 del nostro secolo, quando venne in Italia affrontato il problema dell’interpretazione musicale con predi sposizione intellettuale volta più all’analisi teorica deduttiva che all’indagine induttiva, vari critici dibatterono drammati camente un altro dilemma: ma chi comanda infine, nella musica eseguita? il compositore? l’interprete? L’interprete, si badi, non gli interpreti, perché si pensava all’interpretazione in termini di strumentista solista e di direttore d’orchestra. E in questi termini anche un filosofo con appena un’infarinatura di musica poteva scrivere il suo bravo saggio critico sull’interpretazione musicale. Il dilemma sarebbe parso un po’ più spinoso se si fosse pensato a come si interpreta un quartetto d’archi. Ma anche il problema dell’interpretazione di un concerto avrebbe potuto essere di ardua soluzione, in sede teorica. Noi lo riproponiamo senza toccare la teoria: racconteremo la pratica. La pratica ci porta certi binomi illustri: tutti sanno che Backhaus suonava di preferenza sotto la direzione di Karl Bòhm, che Fischer andava d’accordo ad occhi chiusi con Furtwangler, Gieseking con Bruno Walter, Lipatti con Ansermet, e che oggi non ci sono mai problemi con Abbado-Pollini e con Haitink-Brendel. Se andiamo a cercare nella storia troviamo binomi che ci mandano in estasi nirvanica, come Mendelssohn-Clara-Schumann, Berlioz-Liszt, Bulow-Brahms, Brahms-d’Albert, Saint-Saèns-Rubinstein, Rubinstein-Hofmann, Nikisch-Cortot, Richard Strauss-Schnabel, Kussevitzki-Scriabin, Mahler-Busoni, Mahler-Rachmaninov, per non andare a ripescare addirittura quello Haydn-Beethoven che, se fosse esistito il disco nel 1795, sarebbe oggi un pezzo forte dell’esecuzione registrata. Affinità di formazione musicale, comunanza di interessi culturali, amicizia personale portarono
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e portano in questi casi ad una sorta di simbiosi in cui nessuno cede in nulla e ciascuno contribuisce ad un risultato comune. Ma questi casi non sono frequenti. Non sempre, infatti, le cose marciano in modo idilliaco. Le liti alle prove tra direttore e solista non sono tanto insolite, i musi lunghi, i tiri mancini durante l’esecuzione capitano. In casi estremi, rari, il solista rinuncia al concerto o rifiuta di trovarsi ancora con il direttore con cui non va d’accordo; in qualche rarissima occasione — gli scontri tra Gustav Brecher e Ferruccio Busoni e tra Leonard Bernstein e Glenn Gould sono passati alla storia — il direttore dichiara che conduce l’esecuzione per obbligo di firma, senza condividere l’inter pretazione del solista. La “lite” fra Glenn Gould e Leonard Bernstein, che è emblematica e a suo modo esemplare, merita un breve esame. L’8 aprile 1962 alla New York Philarmonic — e il concerto era radiodiffuso e venne registrato — Bernstein dichiarò tra l’altro al pubblico, prima di dare il via all’esecuzione: ... la curiosa situazione che oggi si presenta merita a parer mio qualche parola di spiegazione. Ascolterete fra breve un’interpretazione, diciamo, non ortodossa del Concerto in re minore di Brahms; un’interpretazione diversa da tutte quelle che ho potuto ascoltare fino ad ora, e del resto da tutto quel che avevo potuto immaginare: diversa per i suoi tempi eccezionalmente trattenuti e per le sue frequenti deroghe alle indicazioni dinamiche di Brahms. Non posso dire di essere totalmente d’accordo con la concezione di Gould3, ed ecco dunque che si pone l’interessante domanda: perché, in questo caso, ho malgrado tutto accettato di dirigere il concerto? (risate del pubblico) Se l’ho fatto è perché Gould è un artista tanto qualificato e tanto serio che mi sembra indispensabile di considerare seriamente tutto quello che ha pensato in buona fede; in questo caso la sua concezione è così interessante da darmi la sensazione che sarebbe bene anche per voi di poterla conoscere. Malgrado tutto, la vecchia domanda sussiste: in un concerto, chi è infine il comandante? E il solista o il direttore d’orchestra? (risate del pubblico) La risposta è, si capisce: una volta l’uno, una volta l’altro, secondo le personalità. Ma i due arrivano quasi sempre ad accordarsi, con la persuasione, il fascino, o anche la minaccia, e a dare una interpretazione 3 Bernstein dice, qui e poi, «mister Gould»: non traduciamo con “il signor Gould”, che suonerebbe sussiegoso e che non renderebbe la sfumatura di rispetto dell’originale. t
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unificata dell’opera. Una sola volta in vita mia, prima di oggi, avevo dovuto sottomettermi ad idee totalmente nuove e totalmente inconciliabili di un solista, e ciò accadde l’ultima volta che accompagnai Gould! (risate del pubblico) Questa volta, tuttavia, le divergenze tra le nostre concezioni sono così grandi che sento di dover procedere a questa leggera messa a punto. Per ripetere la domanda: quale ragione mi porta a dirigefé il concerto? Perché non ho scelto di creare un mini-scandalo, di scritturare un altro solista, o di affidare la direzione al mio assistente? Perché sono affascinato, e felice di aver l’occasione di conoscere una maniera nuova di considerare quest’opera arcibattuta; perché, inoltre, ci sono dei momenti, nell’interpretazione di Gould, che emergono con freschezza e convinzioni stupefacenti; perché, in terzo luogo, tutti possiamo imparare qualcosa da questo artista straordinario, che è anche un pensatore della musica; e, infine, perché c’è in musica quel che Dimitri Mitropoulos chiamava «l’elemento sportivo», un fattore di curiosità, d’avventura, di sperimentazione. Vi posso assicurare che collaborare con Gould nel corso di questa settimana, nel Concerto di Brahms, fu effettivamente un’avventura. E con questo spirito che lo presenteremo ora {N'aimez-vous pas Brahms?, in Contrepoint à la tigne, cit.).
Bernstein ha già detto tutto l’essenziale e Gould, che riporta le sue dichiarazioni in un saggio, non glielo contesta. Una presa di posizione così radicale e così lucidamente motivata è però eccezionale, anzi, unica. Di solito, come dice lo stesso Bernstein, si arriva invece all’esecuzione con rinunce e accomodamenti e cedimenti un po’ da una parte e un po’ dall’altra o più da una parte (il direttore) e meno dall’altra (il solista), anche perché, nell’organizzazione della vita musicale, un direttore e un solista che non si conoscono o che si conoscono poco dispongono di una sola prova al pianoforte, in sala, e di una sola prova in orchestra. In questi casi, secondo l’aurea saggia massima di Backhaus, “cede il più forte”. L’ideale, per la tranquillità degli organizzatori, è il diretto re d’orchestra che “segue” con estrema duttilità il solista: Alceo Galliera o Malcolm Sargent o Josef Krips o Antonio Votto o Kirill Kondrashin, ad esempio, erano famosi “accom pagnatori” che si adeguavano alle più diverse personalità di solisti senza diventare mai mestieranti battisolfa. Che avrebbe potuto fare, del resto, Kondrashin, quando dirigeva dodici volte di seguito il Concerto n. 1 di Ciaikovsky, nelle finali del Concorso Ciaikovsky di Mosca, con dodici diversi finalisti?
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Con certi grandi direttori, s’intende, è invece il pianista a dover dimostrare di saper “seguire”: altrimenti non viene scelto. I sistemi possono essere i più cortesi o i più bruschi, senza che la sostanza cambi. Da una parte possiamo porre Richard Strauss, come racconta Fischer: «Richard Strauss mi chiese: “Perché si dà tanto da fare? Qui basta che lei lasci il suo biglietto da visita”, perché non suonavo con sufficiente semplicità l’inizio del Concerto in sol maggiore di Beethoven». Dall’altra potremmo porre, se l’episodio è vero, George Szell che, a quanto si racconta, una volta fece scarpinare un giovane pianista fino ad un suo casotto di pesca sui laghi canadesi per provarlo nel Concerto di Grieg, sotto la sua direzione, sul... tavolo di cucina. E fece un sacco di osservazioni, insoddisfatto del “tocco” (il giovane gli avrebbe così obbiettato: «E colpa del suo tavolo: sul mio tavolo mi riesce molto meglio»). Ma senza arrivare a tanto c’è modo per il grande direttore di trovare il pianista che “segue” e che si adegua con disin voltura a concezioni interpretative non sue: Herbert von Karajan, ad esempio, incise il Concerto n. 1 di Beethoven con Christoph Eschenbach e il Concerto n. 2 di Brahms con Géza Anda riuscendo a far suonare il solista come se appartenesse all’orchestra. Anche Klemperer o Knappertsbusch tenevano sotto la bacchetta il solista, per non parlare di Toscanini... Altro caso di direttore che prendeva autorevolmente e completamente in mano l’esecuzione — il caso non è purtroppo documentato dal disco — è quello di Gustav Mahler con Sergej Rachmaninov: Mahler diresse il Terzo Concerto di Rachmaninov, con Rachmaninov al pianoforte, come un direttore che dirige, senza preoccuparsi di avere al fianco un solista illustre che era per di più l’autore della composizione (Rachmaninov non ci trovò niente a ridire). E del resto i solisti non vanitosi sono sempre prontissimi a collaborare, come diceva il grande pianista Rudolf Ganzi «Non è forse l’esperto direttore il guardiano della partitura e la sola responsabile guida della sua lettura? Io, per lo meno, ho sempre ritenuto e ritengo che lo sia». Chi comanda dunque nel concerto o, detto in termini più
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rigorosi, chi ne è l’interprete? Non ci azzardiamo a formulare, in senso teorico, una risposta. Aggiungiamo invece, per chi si diletta di queste cose, un problemino sorto da non molto: chi comanda in Come una ola de fuerza y luz di Luigi Nono per pianoforte, soprano, orchestra e nastro magnetico? il diretto re, il pianista, la cantante? o il nastro?
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Avevamo prima parlato delle imprescindibili esigenze che, volente o nolente, si ponevano per chi ambiva a percorrere una carriera internazionale. Le regole non scritte e non esplicite, ma ferree, che guidano un’attività artistica di interesse economico rilevante possono essere tranquillamente intuite da chi viene educato nel milieu adatto e possono non essere conosciute dai provinciali. Abbiamo già visto come Mendelssohn, educato a Berlino, non fallisse un colpo nella impostazione e nello sviluppo della sua carriera, mentre Chopin, rimasto fino a vent’anni in una sede periferica come Varsavia, nella quale gli avvenimenti del mondo rimbalzavano con un ritardo di qualche lustro, si trovasse del tutto spiazzato quando andò a Vienna e poi a Parigi. Tra il 1855 e il 1856 il diciottenne Mili Balakirev, che viveva in un paese in cui il gusto fieldiano-henseltiano dettava ancora legge, compose il primo tempo di un Concerto op. 1 in fa diesis minore modellato sul concerto Biedermeier. Una cosa fuori dai tempi, che Balakirev, accortosi dell’errore, non finì neppure. Anche dopo aver capito dove stava il difetto non era però facile approntare i rimedi: Balakirev iniziò nel 1861 un Concerto in mi bemolle maggiore di fattura molto più à la page... e non riuscì a venirne a capo1. 1 II Concerto n. 2, lasciato incompiuto nel 1861, fu ripreso da Balakirev nel 1909. Alla morte di Balakirev — 1910 — la composizione non era terminata; fu completata da Liapunov e nella versione di Liapunov è stata eseguita qualche volta.
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Un errore analogo a quello di Balakirev l’aveva compiuto Anton Rubinstein, che pure aveva già girato l’Europa occidentale come fanciullo-prodigio, presentando il fieldiano Concerto op, 4 del suo maestro Alexandr Villoing. Nel 1847 Rubinstein aveva composto un tempo di concerto e nel 1849 un Concerto in do maggiore assai démodé, che alcuni anni più tardi riscrisse come ottetto. Nel 1850 Rubinstein scrive il Concerto op. 25 in mi maggiore, in cui la scrittura pianisti ca schiaccia l’orchestra, e nel 1851 il Concerto in fa maggiore op. 35, che comincia con una bella sorpresa (il pezzo, che è in fa maggiore, parte in sol minore), ma che poi non riesce a sciogliersi dalla pania di antiquate convenzioni. Rubinstein si prese la rivincita con il Concerto n. 3 in sol maggiore op. 45, composto nel 1853-54. Il modello — stilistico, non formale, perché il concerto è in tre tempi non collegati — non era celato, ma era un modello “giusto”: Mendelssohn. Certi tratti Biedermeier erano ancora visibilis simi, ma venivano adattati alla nuova orchestra sinfonica: ad esempio, la struttura dell’ultima pagina è identica a quella dell’ultima pagina del Concerto op. 11 di Chopin; ma là dove, in Chopin, l’orchestra accompagna semplicemente il passaggio virtuosistico del solista, Rubinstein fa invece raddoppiare il solista dall’orchestra, rendendo virtuosistica anche la parte orchestrale. La trovata veramente sorprendente era però costituita da un primo e un secondo tempo in cui ricorrevano costantemen te ritmi di valzer e da un finale danzante. Un concerto coreografico in cui si riversava il valzer quale simbolo della società borghese e che felicemente riprendeva l’idea del concerto Biedermeier senza tuttavia ricacciare nello sfondo l’orchestra2. Rubinstein fece anche di meglio nel 1864 con il Concerto n. 4 in re minore op. 70, che divenne celeberrimo (fu ancora . 2 Sembra che Rubinstein avesse in mente un “programma”, un “sogno”: gli strumenti dell’orchestra, raccolti in un tempio, sottopongono il pianoforte ad un esame di ammissione; l’esame non va bene perché il pianoforte dimostra di essere lui stesso un’qrchestra e viene perciò cacciato dal tempio.
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eseguito, in gioventù, da Wilhelm Backhaus, Edwin Fischer, Artur Rubinstein, ed è stato non di rado ripreso negli ultimi vent’anni). Nel Concerto op. 70 Rubinstein tornava all’arche tipo beethoveniano interpretato con russo fatalismo: primo tempo caratterizzato da un cupo tema di marcia, dolcissimo e amorosissimo secondo tempo, finale umoristico... alla russa. Solo l’archetipo è però beethoveniano; il compositore a cui Rubinstein guarda con maggior ammirazione è Schumann, ma lo Schumann ultimo che scriveva sinfonie e che anelava a riafferrare il fantasma della classicità. E siccome la sostanza, la stoffa musicale non è affatto priva di originalità, il Concerto n. 4 di Rubinstein rappresenta veramente il momento in cui la cultura russa fa sua la cultura classico-romantica tedesca, e rappresenta quindi un passaggio essenziale e necessario, e preliminare, verso l’apparizione di Ciaikovsky. Balakirev, nei suoi due tentativi, era rimasto più indietro di Rubinstein, Mussorgski era magari andato più avanti quando aveva capito la grandezza di Liszt ma non era riuscito a condurre a termine un lavoro per pianoforte e orchestra esemplato sul Totentanz, né gli altri dei Cinque avevano niente da dire nel campo del concerto. Il Concerto n. 4 di Rubinstein era quindi opera non di un semplice epigono ma di uno dei fondatori di una cultura nazionale, tanto da meritare non solo il successo che lo accompagnò a lungo, ma i ripescaggi che ne sono stati di recente tentati. Nel 1874 Rubinstein componeva il suo ultimo concerto, op. 74 in mi bemolle maggiore. Rubinstein forse capiva che Brahms aveva avuto ragione o forse ritornava alle sue vecchie aspirazioni: il grosso Concerto n. 5, che dura quasi cinquanta minuti, fu accolto con rispetto e ritenuto un poderoso capolavoro dai critici con i paraocchi. Nello stesso anno, però, Ciaikovsky cominciava a comporre il Concerto n. 1, che ai critici suddetti parve volgare, ma che segnava l’inizio di un mondo nuovo e che fece affondare Rubinstein e la sua epoca. Camille Saint-Saéns, parigino, educato e vissuto in un centro in cui si giocavano le carriere, non commise nessuno degli errori iniziali di Balakirev e di Anton Rubinstein, ma partì a ventitré anni, nel 1858, con un Concerto in re maggiore
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che iniziava con azzeccatissimi giochi d’eco dei corni e continuava con un seguito più convenzionale, più mendelssohniano, non senza qualche curioso rispecchiamento del Concerto n, 3 di Beethoven (forse ironico, ma è difficile capirlo); un suggestivo secondo tempo di colore notturno e un finale danzante completavano un lavoro gracile di contenuti ma giovanilmente vivace e fresco. Il Concerto n. 2 fu composto dieci anni dopo su invito di Anton Rubinstein, che dirigeva un concerto al Cirque d’Hiver. C’erano diciassette giorni di tempo, e in diciassette giorni Saint-Saèns terminò il lavoro, prendendo il tema principale del primo tempo da un compito scolastico del suo allievo Gabriel Fauré; Saint-Saéns confessa di aver eseguito molto male il Concerto, sotto la direzione di Rubinstein: aveva avuto il tempo di comporlo, ma non di studiarlo... Con il Concerto n. 2 op. 22 Saint-Saèns individua perfetta mente, non meno di Beethoven, un tipo di concerto che sarebbe stato poi sempre il suo, ed i cui caratteri comparivano già, embrionalmente, nel Concerto n. 1. In apparenza, il Concerto n. 2 è un’opera bizzarramente composita, con carat teri stilistici che vanno dal toccatismo organistico di Bach al Berlioz féerique, all’operetta di Offenbach. Ma proprio qui sta la genialità di Saint-Saèns: nel momento in cui il pubblico si volge, come dicevamo prima, verso la storia e verso la formazione del repertorio e tuttavia, per non affogare nella cultura, inventa anche la separazione tra serio e leggero ed affida a grandi specialisti, come Johann Strauss junior, come Offenbach, come Suppé, il compito di divertirlo, Saint-Saèns sdegna la separazione e rispecchia esattamente il momento sociologico che la civiltà musicale sta vivendo, procedendo da Bach, che intimidisce i francesi, verso Offenbach, che li delizia. Il successo del Concerto n. 2 procura a Saint-Saèns un invito a Lipsia, al Gewandhaus ricco di una quasi secolare tradizione. E Saint-Saèns scrive, nel 1869, il Concerto n. 3, con un maestoso inizio che sta tra Liszt e Wagner, una scrittura sinfonica che ricorda Litolff, una costruzione armo nica piena di sorprese, una forma ricca di trovate (con una
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cadenza nel primo tempo che arriva, quando nessuno se l’aspetta, alla fine dell’esposizione), un finale da operetta (e non delle più “fini”). Più saldo, più bello, più avventuroso del Concerto n. 2, il Concerto n. 3 spaventa il pubblico, che non vi si ritrova o che vi si ritrova troppo ben dipinto: l’esecu zione di Lipsia è un disastro da cui il lavoro non si risolle verà mai più. Tre anni dopo Saint-Saèns fece un’analoga esperienza, come esecutore, quando presentò il Concerto in re maggiore op. 12 di un allievo di Franck, Alexis de Castillon: un concerto in cui l’autore, di tre anni più giovane di Saint-Saens, guardava più verso il Saint-Saèns del Concerto n. 3 che verso il suo amatissimo maestro Franck. Il Concerto di Alexis de Castillon venne subissato di rumoreggiamenti e di fischi già durante l’esecuzione, e solo grazie alla freddezza di Saint-Saèns, che non perse la bussola e che continuò imperterrito a suonare, fu possibile arrivare alla fine. Nel nome della musica che supera le frontiere ed affratella gli uomini, il pubblico di Lipsia e il pubblico di Parigi avevano concordemente fischiato SaintSaèns e de Castillon, che non tenevano in sufficiente con siderazione la maestà della sala di concerto... Fatto accorto dagli sbagli suoi e del suo seguace Castillon, nel 1875 Saint-Saèns produsse il lavoro che gli avrebbe garantito gloria ed esecuzioni per quarantanni. Il Concerto n. 4 in do minore perseguì infatti obbiettivi di dichiarata “serietà” ed ottenne perciò ammirati riconoscimenti e fama indiscussa. Nel 1875 Saint-Saèns era impegnato fino al collo nella Société Nationale, fondata allo scopo di contrapporre una musica strumentale francese alla musica strumentale tedesca. In periodo di revanche, Saint-Saèns dimostrò la sua maestria nella trasformazione dei temi e terminò con un finale semplicemente giubilante, non operettistico. Nel 1884 Saint-Saèns, per distinguersi dai tedeschi, spinge il suo nazionalismo programmatico fino al punto di comporre, come facevano gli slavi, un lavoro folcloristico: la Rapsodie d'Auvergne op. 73. Ma il folclore francese non è abbastanza pittoresco. Saint-Saèns ritrova la chiave giusta nel 1891, quando va a solleticare il gusto dell’esotismo che, in tempi di
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colonialismo trionfante, si andava diffondendo a macchia d’olio nella borghesia europea: ecco Africa op. 89. Ed ecco, nel 1896, il capolavoro, il Concerto n. 5 in fa maggiore detto L'egiziano. Saint-Saèns, che si recava spesso a svernare in Algeria e in Egitto, delinea nel primo tempo un’atmosfera esotica e rievoca, nel secondo, una notte lunare sul Nilo; nel terzo ritorna senza più remore all’operetta, all’operetta fin de siècle, alla musica meccanica che di lì a poco accompagnerà i film di Georges Méliès. L’originalità dandistica e motteggiatrice del Concerto n. 3 viene ricoperta da un velo di mondanità affabilmente elegante e il Concerto n. 3 ha successo. Non quanto il Concerto n. 2, tuttavia, né quanto il n. 4: a prediligerlo saranno però due interpreti per niente naìves come Ferruccio Busoni e, più tardi, Sviatoslav Richter. Se Saint-Saéns attraversa la seconda metà dell’ottocento con gli occhi bene aperti, altri pianisti-compositori vengono più placidamente a patti con le regole dell’epoca e percorrono il secolo da professionisti il cui prestigio non viene mai messo in dubbio. Carl Reinecke, nato nel 1824, direttore dal 1860 al 1895 dei concerti del Gewandhaus e dal 1860 al 1902 professore nel conservatorio di Lipsia, ha il grande merito storico di proporre al pubblico i concerti di Mozart. Come compositore e come uomo di cultura è fieramente avverso a Wagner, devoto a Mendelssohn: il suo Concerto op. 72, composto nel 1860, è un lavoro di musicista serio e di uomo di mondo che non fa pesare il suo sapere, ed ottiene successo in tutta Europa; altri tre concerti — l’ultimo scritto alla fine del secolo — non fanno che ripetere, sempre più stancamente, il Primo. Reinecke è legato a due istituzioni di enorme prestigio, il conservatorio e il Gewandhaus, e gira poco. Gira poco anche il Kapellmeister della città di Colonia, Ferdinand Hiller, amicissimo di Mendelssohn ma non immune da frivolezze parigine quanto Mendelssohn avrebbe desiderato, che nel 1856 scrive un Concerto con un finale un po’ alla Saint-Saèns e che negli anni 60 termina con una tarantella il Concertstuck op. 113 (il primo concerto di Hiller, op. 3, negli anni 30
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aveva avuto... l’onore di una stroncatura di Schumann). Gira poco, dopo la morte del fratello Henryk, Jozef Wieniawski, che nel 1873 scrive il Concerto in sol minore op. 20. Gira poco Giovanni Sgambati, autore di un Concerto in sol minore op. 10 (1878-80), splendidamente pensato nella parte pianistica: Sgambati diviene direttore del “Quintetto della Regina Margherita” e fa il pianista di corte più che il concertista di giro. Franz Xaver Scharwenka, nato nel 1850, è invece pianistacompositore giramondo: tra il 1901 e il 1914 attraversa l’Atlantico ventisei volte, ed è di casa a Berlino come a Londra e come a New York. Tra i quattro concerti di Scharwenka si distingue soprattutto il n. 1 in si bemolle mino re op. 32, composto nel 1876: concerto in tre tempi, senza movimento lento, con un breve, trascinante e litolffiano scherzo tra due turgidi blocchi di musica appassionata. Un altro pianista-compositore, l’austriaco Ignaz Bruii, esordisce a quindici (!) anni con un Concerto in fa maggiore che viene eseguito dal suo maestro Julius Epstein e compone verso il 1864, sui diciott’anni, un delizioso Concerto in do maggiore op. 24 modellato sul Concerto n. 4 di Beethoven. Bruii, che era un concertista di valore, tanto da essere tra i primi ad affrontare le terribili Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, non aveva però molto interesse per il concertismo e non sfruttò il successo del Concerto op. 24 né cercò di rinnovarlo subito con altri lavori. E così pure Hans Bronsart von Schellendorf, primo interprete del Concerto n. 2 di Liszt sotto la direzione dell’autore, che scrisse negli anni 70 un Concerto in fa diesis minore op. 13, tributario di Liszt ma anche di Litolff, che terminava in modo assai poco tedesco con una tarantella; Bronsart, pianista eccellente e promettente compositore, divenne poi direttore del teatro di Hannover e più tardi di quello di Weimar, lasciò il concertismo e limitò la composizione a pochi lavori (tra cui un Concerto n. 2 op. 18, linguisticamente vicino a Wagner).
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Abbiamo parlato di coloro che scrivevano prima di tutto e soprattutto per svolgere in proprio il mestiere di concertista, assai più remunerativo del mestiere di compositore. Nella seconda metà del secolo il concerto per pianoforte e orchestra non è però solo cosa che riguardi i pianisti. Fin quasi alla metà dell’ottocento a nessuno, che non fosse stato pianista militante, sarebbe venuto in mente di scrivere un concerto per pianoforte e orchestra, e certe difficoltà di Schumann, di cui abbiamo già detto, provenivano anche dal fatto che Schu mann, grande creatore di musica per pianoforte solo, non era concertista. Schumann non è però il solo ad aprire una breccia in cui cammineranno altri compositori. Un amico di Liszt, l’unghe rese Mihàly Mosónyi, che è un grande contrabbassista, scrive nel 1844 un breve, succoso Concerto di taglio mendelssohnia no. Di Berwald e di Raff abbiamo già detto. Nel 1861 un tedesco residente a Budapest, Robert Volkmann, scrive un Konzertstiick che denota una sorprendente conoscenza del virtuosismo pianistico. Volkmann compone il Konzertstiick per incarico di un pianista, Anton Door, che non è compositore e che i concerti non se li può scrivere da solo. Si ripete un vecchio rapporto: Mozart aveva prestato la sua penna a cornisti, a flautisti, ad arpiste che sapevano ben eseguire ma non ben comporre, e Weber si era divertito a far piroettare clarinetti, corni, fagotti, viole, violoncelli. Nel Settecento e nella prima metà dell’ottocento il pianista invece era stato sempre composito
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re. Ma quando si affermano il repertorio ed il recital nasce anche il pianista-interprete, il non-creatore che sa dipanare le creazioni degli altri senza crearne in proprio. Il primo grande successo di un non-pianista arriva con il Concerto op. 16 di Grieg, scritto nel 1868 e dedicato al pianista norvegese Edmund Neupert. Grieg fece leggere il Concerto a Liszt, che lo decifrò dal manoscritto e l’approvò. Qualche volta Grieg, mediocre pianista, si azzardò ad eseguirsi da solo il suo Concerto, che camminò però nel mondo con il Neupert e soprattutto, negli ultimi due decenni del secolo, con Teresa Carreno e con Raoul Pugno. Né Neupert, né la Carreno, né Pugno erano virtuosi che sbalordissero per le loro capacità funamboliche, e Liszt, che era invece il più grande virtuoso del secolo, non dovette in verità fare troppa fatica a decifrare il Concerto dal manoscrit to, anche se l’impresa lasciò allibito un pianista timido come Grieg. Il Concerto di Grieg è infatti l’opposto di ciò che è il Concerto di Dvorak, di cui diremo fra poco: non è molto difficile ed è d’effetto, garantisce un immediato e sicuro reddito alla fatica, relativa, che richiede. Grieg, non-pianista, scriveva un concerto che risultava virtuosistico solo per i non pianisti, e quindi imbrogliava un po’ le carte. Ma la semplicità della struttura, la facilità dell’eloquio, il fascino dei temi intinti nel folclore norvegese erano tali da garantire al Concerto, se non l’ammirazione critica, certo l’affetto del pubblico. È di prammatica trattare un po’ a pesci in faccia il Concerto di Grieg: chi vi cerca un momento di storia della scrittura pianistica viene tutt’al più interessato dalla cadenza del primo tempo, chi vi cerca un momento di storia della musica vi nota, negativamente, il ricalco semplificato del Concerto di Schu mann. Tuttavia, l’aspetto positivo del Concerto — bisogna pur cercare un aspetto positivo in una composizione che da più di cent’anni resiste a tutte le frecciate critiche e che conserva un successo costante — risiede a parer nostro nel suo carattere di improvvisazione e nella freschezza dell’improvvisazione.
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L’improvvisazione in pubblico, che fu molto praticata nel secolo scorso, era possibile con strutture formali prederminate e con tecnica consolidata e non-inventiva. Grieg compì il piccolo miracolo di mantenere, in una struttura e con tecnica stereotipe, il carattere di non-elaborazione, di spontaneità, di genuinità dei temi, e quindi di improvvisazione, come se avesse fermato sulla carta un’improvvisazione collettiva pia noforte-orchestra. E questo carattere, a parer nostro, ancor oggi garantisce al Concerto la predilezione del pubblico e la considerazione dei pianisti. Anton Dvorak, che nel 1876 compose un Concerto a richiesta del pianista Karel Slavkovsky, si comportò invece da musicista sapiente per accorgersi alla fine che i conti non gli tornavano. A trentacinque anni Dvorak non era affatto privo di una vera sensibilità ai problemi che la storia consegna ai creatori di musica ed intuiva di dover tentare una sintesi tra un virtuosismo esasperato ed un rapporto tra il solista e l’orchestra che non vanificasse la presenza dell’orchestra. Il problema lasciato aperto da Brahms andava risolto, e Dvorak lo sapeva. Nasce così il Concerto in sol minore op. 33, scritto rapidamente nell’estate del 1876. Un pezzo che individua un problema senza risolverlo interamente e che apre la strada alla soluzione del problema, cioè al Concerto n. 2 di Brahms; un pezzo “sbagliato”, come sono sempre sbagliate, in una certa misura, le opere storicamente necessarie ma non totalmente riuscite. Questo “sbaglio” di origine pesò a lungo sul bellissimo Concerto di Dvorak. Lo Slavkovsky lo eseguì a Praga, Oscar Beringer e Charles Hallé lo ripresero a Londra e Anna Grosser-Rilke a Berlino, la partitura venne pubblicata, ma il Concerto non dimostrò di avere una presa sul pubblico e non decollò; ed era molto difficile da suonare, terribilmente difficile, con difficoltà che non risultavano proporzionate all’effetto. Dopo poco tempo scomparve dal repertorio. Solo più di quarant’anni dopo il pianista cecoslovacco Vilém Kurz provò a rilanciarlo tentandone una revisione tecnica che semplificasse la scrittura rendendola più agevo le per l’esecutore e più sonora e brillante. Ma anche nella
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versione Kurz il Concerto non divenne popolare perché la sua parte pianistica non era, in realtà, scritta maldestramente: era scritta con scarsa considerazione per le mani del pianista, ma da un artista capace di immaginare una sonorità pianistica di un colore del tutto particolare e non traducibile, quindi, in termini tecnici diversi da quelli originali. Nella versione Dvorak la scrittura pianistica presenta tratti di grande originalità accanto a reminiscenze, che sembrano addirittura citazioni, di Beethoven, di Chopin, di Brahms. Nella versione Kurz la parte pianistica viene aggiornata secondo moduli stilistici appartenenti a Liszt e al Busoni delle trascrizioni da Bach, e perde i suoi caratteri tra il nuovo e l’anacronistico per assumere quelli di un comune concerto di fine Ottocento. Toccò a Sviatoslav Richter dimostrare che la versione originale era quella giusta e far comprendere in tal modo al pubblico il valore e l’importanza storica del Concerto di Dvorak, dando inizio alla sua odierna, pur relativa, po polarità. Nessun rischio corrono invece i compositori che non vogliono inventare niente di nuovo in fatto di virtuosismo e che, pur non essendo concertisti, sono però pianisti esperti: il Concerto op. 18 di Hermann Goetz (1867), il Concerto op. 16 di Friedrich Gernsheim (1869), il Concerto op. 185 di Joachim Raff (1873), il Concerto op. 94 di Joseph Rheinberger (1876), il Concerto op. 18 di Julius Rontgen (1880), il Concerto n. 1 op. 31 di Benjamin Godard (1879), molto influenzato da Litolff, il Concerto in fa maggiore di Edouard Lalo (1889), che viceversa risente molto di Franck, il lisztianissimo Concerto op. 36 di Felix Draeseke (1885-86) e il nordico Concerto op. 6 di Christian Sinding rispondono bene, senza diventare popo lari, alle attese degli autori e “tengono” ancor oggi quando, raramente, vengono eseguiti. I concerti di Rheinberger e di Sinding, in particolare, sono lavori che in una vita musicale più varia e meno convenzionale di quella di oggi potrebbero ottenere una certa circolazione. Ma il difetto di Rheinberger e di Sinding, come di Raff e degli altri, sta in quella ponderatezza che proviene da un eccesso di competenza e quindi dalla mancanza di sorpresa. Di
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fronte agli ineccepibili parti di alcuni dei suoi contemporanei, caduti in oblio, vive e prospera in realtà il concerto di un compositore qualche po’ dilettantesco come Grieg, vive e scoppia di salute il Concerto op. 23 di un pianista molto dilettantesco come Ciaikovsky. Nel 1876 Ciaikovsky insegnava armonia nel conservatorio di Mosca diretto da Nicolai Rubinstein, fratello di Anton e pianista ammiratissimo. A Nicolai, Ciaikovsky propose il Concerto in si bemolle minore, che a dicembre era quasi finito, e glielo fece vedere la vigilia di Natale. Entrambi, Ciaikovsky e Rubinstein, erano invitati ad una festa in casa di un comune amico; prima di uscire dal conservatorio Ciaikovsky fece ascoltare al nume il Concerto, arrangiandosi a suonarlo come meglio sapeva e poteva. Tre anni più tardi Ciaikovsky avrebbe raccontato, in una lettera a Nadjiezda von Meck, come l’audizione fosse andata avanti in un silenzio minaccioso e come alla fine fossero scoppiate critiche radicali ed astiose. Ciaikovsky uscì agitatis simo dall’aula, Rubinstein lo seguì e lo raggiunse al piano superiore, riprendendo a parlare con più calma e dicendo di esser disposto a suonare il Concerto se l’autore avesse accettato suggerimenti su tutte le necessarie modifiche. Ciaikovsky rifiutò nettamente. Svanita così bruscamente la speranza che fosse Rubinstein ad eseguire per primo il Concerto, Ciaikovsky pensò di dedicare il lavoro al suo giovane allievo Sergej Tane’ev. Ma un’esecuzione del diciot tenne Tane’ev non avrebbe rappresentato per il Concerto un buon lancio pubblicitario ed avrebbe per di più messo Tane’ev in cattiva luce agli occhi di Rubinstein. Ciaikovsky offrì allora la partitura al pianista tedesco Hans von Biilow, che con Anton Rubinstein era il dominatore incontrastato delle sale da concerto di tutto il mondo. Bùlow accettò la dedica (addirittura, scrisse a Ciaikovsky, con riconoscenza) ed eseguì per la prima volta il Concerto a Boston il 25 ottobre 1875, bissando il finale. Forte di tanto battesimo, Ciaikovsky potè facilmente “piazzare” il Concerto anche in patria: a Mosca, dove fu diretto da Eduard Nàpravnik con Gustav Kross al pianoforte.
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Ciaikovsky continuava intanto ad insegnare nel conservatorio di Mosca, che Nicolai Rubinstein continuava a dirigere. I due si tennero il broncio per vari anni, finché Rubinstein cedette. Nel 1878 erano programmati concerti di musiche russe a Parigi: Nicolai, invitato a prendervi parte, scelse il Concerto di Ciaikovsky e lo eseguì con enorme succes so. Ciaikovsky dedicò così a Rubinstein il Concerto n. 2 (1879-80). La ribellione dì Nicolai Rubinstein sorgeva probabilmente come conseguenza della concezione ciaikovskiana del virtuosi smo pianistico; la difficoltà del Concerto era spesso elevatissi ma e rischiosissima, ma il pianoforte doveva sempre fare i conti con l’orchestra perché l’orchestra cominciava ad artico larsi in modo frazionato e sfaccettato: non concerto per pianoforte e orchestra, non sinfonia per orchestra con pianoforte concertante, ma concerto per orchestra con piano forte. Una concezione che rivalutava in realtà .la figura del direttore come virtuoso della direzione (e proprio allora, e proprio con il von Biilow, stava nascendo il direttore-virtuoso) e che negava il predominio assoluto di colui, il pianista, che dell’esecuzione portava pur sempre il peso maggiore. Questa concezione, embrionale nel Concerto n. 1 op. 23, venne coerentemente sviluppata da Ciaikovsky nel babilonese Concerto n. 2 op. 44 e raggiunse un entusiasmante punto di equilibrio nella Fantasia da concerto op. 36, che fu compo sta nel 1884. Nel 1884, dopo il Concerto n. 2 e la Sinfonìa n. 4, Ciaikovsky preferiva non ritentare le grandi forme tradiziona li e non riusciva del resto ad inventare temi ponderosi da sinfonia o da concerto ma solo temi da suite o da balletto. I quattro temi su cui è basato il primo tempo della Fantasia sono brevi, caratteristici, graziosi, piccanti temi da balletto, che non si prestano all’elaborazione. Ciaikovsky costruì con essi una piccola ouverture nella vecchia forma tradizionale all’ita liana che avrebbe più tardi impiegato nella ouverture dello Schiaccianoci', esposizione, riesposizione. Avrebbe potuto essere il pezzo d’apertura d’una suite, con un pianoforte che, pur assai impegnato, non assumeva
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funzioni di vero e proprio solista. Ma Ciaikovsky spezzò esposizione e riesposizione inserendo a metà un ampio episodio affidato al solo pianoforte: una cadenza o improvvi sazione, “molto capriccioso e rubato”, su un tema del tutto nuovo. L’originalità dell’idea formale è tale da lasciare stupefatto l’ascoltatore, soprattutto perché la cadenza non arriva come culmine di una progressione virtuosistica ma come rottura di un equilibrio architettonico tradizionale, e l’effetto è quello non di una forma coerentemente sviluppata, ma di montaggio, di intersecazione di due forme o eventi indipendenti. Il secondo tempo riprende, con una soluzione meno traumatica, la stessa idea, facendo intersecare un tema di canzone ed un tema di danza con veri e propri effetti di spazializzazione del suono. Nel Concerto n. 3 op. 75 in un tempo solo, composto nel 1893, la concezione è simile, senza le intersecazioni di forme diverse: per la maggior parte della composizione il pianoforte è inserito nell’orchestra, ma improvvisamente, a metà circa del lavoro, tutta l’orchestra tacet e il pianoforte snocciola un’enorme ed ardua “Cadenza, a suonare con brio ed anima”. Questa inconcepibile stranezza, di un pianista che quando suona con gli altri sta cheto e che quand’è solo si abbandona ad una delirante esaltazione della propria potenza suona paradossale, incomprensibile. Eppure, proprio questo caratte re costituisce la nota più singolare di un lavoro che si stacca dalla tradizione anche per l’impianto tonale e che anche nella scrittura perviene a sonorità asciutte e percussive alle quali si legherà Prokofiev. Insomma, Ciaikovsky termina su posizioni ricche di inquietudini e di presagi, certo più moderne di quelle da cui partiva in quegli anni il giovanissimo Rachmaninov. In questo mondo, in cui i pianisti-compositori amministra no abilmente il patrimonio aureo della tradizione ed in cui certi compositori-non-pianisti spingono il virtuosismo verso lidi insicuri, il traguardo massimo lo raggiunge l’unico artista che fosse un sommo compositore e che fosse stato un grande pianista: Brahms. Dopo aver dimostrato, con le Variazioni su un tema di Paganini, che cosa poteva essere il virtuosismo
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pianistico postlisztiano, dopo aver dimostrato, con le sinfonie n. 1 e n. 2, che cosa poteva essere la sinfonia postbeethoveniana, Brahms dimostra che cosa può essere la sintesi di concerto e sinfonia, quel concerto come sinfonia che era stata l’ultima spiaggia toccata e non conquistata. L’idea che apre la strada alla soluzione brahmsiana è di una genialità sconcertante: la sonorità complessiva del Concerto n. 2 non è plasmata né su quella del pianoforte né su quella degli archi, ma su quella degli strumenti a fiato. Inizia il corno: una frase spezzata in due semifrasi, su cui entra ad eco il pianoforte; proseguono (battuta 6) flauti, clarinetti e fagotti, a cui dolcemente s’uniscono (battuta 8) gli archi, lasciando la frase in sospeso. Qui entra decisamente il pianoforte con una cadenza, diciamo, alla Liszt, ma di sonorità non lisztiana, poi tutta l’orchestra espone il materiale tematico del primo tempo. «Alla prima lettura, parlando francamente, il lavoro mi è parso un po’ grigio di tono», scrisse Liszt a Brahms il 18 aprile 1882. E Liszt aveva ragione. La sonorità è “grigia” perché non possiede né la morbidezza pastosa degli archi né lo squillo aggressivo del pianoforte e degli ottoni: archi e pianoforte confluiscono nel termine intermedio, nella vibratile delicatez za degli strumentini e dei corni, ed il colore ha la translucida oleosità della pennellata di un Leonardo. Brahms ottiene questo straordinario risultato senza modifi care in pratica la sua scrittura orchestrale — «apparentemente uniforme, di tinte smorzate, in realtà di una delicatezza, d’un equilibrio e d’una sottigliezza superba» e dall’«impasto inarrivabile dei legni» (M. Mila) — e costringendo invece il pianista a mantenersi aderente ai tasti, a non sfruttare la caduta degli avambracci e i movimenti del busto, a muovere le dita con fatica e su posizioni allargate. Un pianista della levatura di Alfred Brendel ha cosi potuto parlare delle «aberrazioni pianistiche del Secondo Concerto di Brahms»; aberrazioni, come in Dvorak, nel rapporto difficol tà-risultato, sforzo-effetto: scrittura che riesce a legare insie me l’onnipotente orchestra di fine Ottocento e l’onnipotente pianoforte del dopo-Liszt e del dopo-Tausig. E con il Concerto
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n. 2 Brahms chiude la tematica neoclassica che si era aperta cinquant’anni prima, quando, al tempo di Berlioz e al tempo di Thalberg, era stata prospettata l’utopia di ritrovare, con i mezzi nuovi, il rapporto mozartiano-beethoveniano tra il pianoforte e l’orchestra. Se Brahms risolve il problema, altri compositori lo studiano parallelamente a lui: per esempio, Eduard Nàpravnik nel Concerto Symphonique op. 27 del 1877, Gabriel Fauré nella Ballata op. 19 del 1881, Rimski Korsakov, che ritorna verso Liszt nel suo breve Concerto op. 30 del 1883, Giuseppe Martucci nel Concerto op. 66 composto tra il 1884 e il 1885, il giovanissimo Richard Strauss nefla straordinaria Burlesca del 1885, il giovanissimo Gabriel Pierné nel Concerto del 1887, che curiosamente si riallaccia non solo a Saint-Saèns ma a Litolff, e Vincent d’Indy nella Symphonie Cévenole op. 25 del 1886. D’Indy basa tutta la sua composizione su un canto popolare delì’Alvernia, ritornando in tal modo — unità tematica — anche a poetiche lisztiane che erano state riprese dal suo maestro César Franck. Franck, nato nel 1822, agli inizi degli anni 30 aveva sacrificato alla moda con un Concerto in si minore op. 11 riscoperto di recente, un Concerto n. 2 in sol minore e due serie di Variazioni Brillanti (op. 5 e op. 8)\ nel 1885, cinquant’anni dopo, riprende il problema Biedermeier delle “variazioni e finale”. Nelle Variazioni sinfoniche Franck riesce nella sintesi delle due forme, le variazioni e l’allegro di sonata, impiegando due temi che vengono alternativamente variati e che, trasformati, danno origine nel finale ad un allegro bitematico. Anche il problema del rapporto solista-orchestra è risolto da Franck — sia nelle Variazioni sinfoniche che nel poema sinfonico Les Dijins del 1884 — senza sacrificare né l’un termine né l’altro. Solo, la sua scrittura pianistica non è così tremendamente impegnativa come quella brahmsiana e manca di quel tocco di follia, di quella “aberrazione pianistica” che fa del Concerto n. 2 di Brahms il compimento gigantesco di un’idea utopica nata dopo il tramonto della classicità.
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Se volessimo parlare di Concerto della Belle Epoque dovremmo partire dal Quinto di Saint-Saèns, di cui abbiamo già detto. Non c’è composizione che più del Quinto di SaintSaèns rispecchi l’ideologia di fine secolo, il gusto per il divertimento snobistico, il gusto per l’esotismo, il gusto per il piacere che inebria senza stordire, il gusto del sentimento reso oggetto e goduto in quanto tale. Ma Saint-Saèns è quasi il solo, tra i musicisti “seri”, che non abbia perso i contatti con l’arte leggera in cui meglio si riflette l’epoca; quasi il solo, diciamo, perché a fargli compagnia resta il più giovane e meno consapevole Moritz Moszkowsky, autore di uno spiritosissimo Concerto op. 59 composto nel 1898, nel quale la Mitteleuropa e un po’ di Napoli prendono il posto dell’Egitto e di Parigi. I musicisti “seri” sono invece passionali e muovono alla conquista del pubblico con fremiti di fronti aggrottate e con lampeggiamenti di sguardi byroniani, manovrando da condot tieri una cavalleria — il pianoforte — addestrata da Liszt ed un’artiglieria — l’orchestra — addestrata da Wagner. I non-concertisti devono lasciare il passo ai concertisti della generazione nata intorno al 1860: il mito vivente dalla fulva chioma, il polacco Ignaz Paderewski, esordisce nel 1888 con il Concerto op. 17 e ribadisce il successo nel 1893 con la Fantasia Polacca su temi originali op. 19, il grandissimo Eugène d’Albert esordisce nel 1884 con l’esuberante Concerto op. 2 dedicato a Liszt ed ottiene un duraturo successo nel 1893 con il breve e denso (e wagneriano) Concerto op. 12, il grande
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Emil von Sauer scrive due concerti, il grande Ernò Dohnànyi sbalordisce tutti, nel 1898, con il Concerto op. 5 che vince un concorso, ed anche concertisti meno osannati, come Louis Diémer, Arthur Friedheim, Bernhard Stavenhagen, o giovani che scelgono per l’esordio la “specializzazione” del pianistacompositore che poi abbandoneranno, come gli svedesi Wilhelm Stenhammar e Adolf Wiklund, dimostrano che qualcosa sanno fare pure loro. I non-concertisti tentano qualche esperimento, ma non trovano esecutori: Charles Gounod va a scovare il pianoforte con pedaliera, che unisce all’orchestra nella Fantasia sull'inno nazionale russo (1886) e nella Suite concertante (1888), Debus sy scrive nel 1889 un concerto in tre tempi che per pudore intitola Fantasia e che né lascerà eseguire né pubblicherà, il grande teorico André Gedalge ritenta il settecentesco concerto grosso nel suo Concerto op. 16 del 1899, Ottakar Novàcek scrive un Concerto eroico in do minore op. 8, di ambizioni titaniche, e un tremendamente arduo Concerto in mi bemolle maggiore che il solo Busoni gli esegue una volta sola, Frederick Delius scrive nel 1897 un Concerto in tre tempi che viene eseguito solo nel 1904, con un tale esito da consigliare all’autore di accorciarlo e snellirlo (tre tempi collegati) e di riutilizzare nel Concerto per violino la stoffa scartata. Nella sua nuova veste il Concerto di Delius viene eseguito nel 1907, e sebbene sia diventato un fascinoso saggio di arte liberty, non ottiene e non otterrà mai popolarità. Neanche Massenet riesce a sfruttare la sua grande fama di operista quando decide di terminare, nel 1902, un virtuosisti co Concerto che aveva schizzato quarantanni prima. Riescono invece a sopravvivere ancora i pianisti-compositori, cioè i pianisti che appaiono in concerti pubblici solo come esecutori delle loro composizioni. Eduard Schiitt gira in Europa con due concerti, la dolce Cécile Chaminade ha in carniere un Concertstiick in do minore op. 40 e l’americana Beach, Mrs. H.H.A. Beach, un mastodontico Concerto in do diesis minore op. 45 che salvano la reputazione del pianista-compositore al femminile, l’americano Edward Mac Dowell presenta nel 1885 il Concerto op. 15 e nel 1890 il difficilissimo Concerto
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op. 23, che ottiene però successo non sotto le dita dell’autore ma sotto le zampate della bella poderosa Teresa Carreno, il bizzoso Emanuel Moor comincia con il Concerto n. 1 nel 1886 e arriverà al Concerto n. 4 nel 1911, Scriabin scrive tra il 1896 e il 1897 l’affascinante Concerto op. 20, che lui stesso e Josef Hofmann eseguiranno in tutta Europa, Liapunov azzecca un piccolo terno al lotto con la Rapsodia su temi ucraini op. 28 (1907). Il pianista-compositore per eccellenza, nella Belle Epoque, è un altro russo, Sergej Rachmaninov. Rachmaninov termina a diciott’anni, nel 1891, il Concerto op. 1 in fa diesis minore che conosciamo oggi nella versione riveduta del 1917, ma che già nella prima versione metteva in vista un artista capace di eccitare il pubblico. Importa qui però osservare soprattutto che il modello stilistico fondamentale di Rachmaninov non è Ciaikovsky ma Rubinstein, e che di questa scelta iniziale si potranno ritrovare le tracce ancora nel Concerto n. 3. Il Concerto op. 1 è un buon successo, non un grande successo che faccia girare il suo autore nel circuito internazio nale. Solo nel 1899 Rachmaninov esordisce all’estero, a Londra, e viene invitato a ritornarvi. Per il ritorno in Inghilterra pensa di scrivere un nuovo concerto e si imbarca con il Concerto in do minore che gli darà un daffare da matti e che sarà terminato, con l’aiuto di un medico ipnotista, nel 1901. Il Concerto n. 2 di Rachmaninov è stato trattato a pesci in faccia almeno quanto il Concerto di Grieg. Strutturalmente è tagliato con l’accetta e la scrittura pianistica, sebbene incom parabilmente più scaltra di quella di Grieg, non è ricca di novità; il tono fatale, la malinconia ipocondriaca lo condanne ranno al disprezzo degli spiriti forti e allo sfruttamento degli scaltri, tanto da farlo diventare senza problema la colonna sonora del film Breve incontro (film, del resto, eccellente). Le qualità del Concerto op. 18 — dobbiamo ripeterci — sono le stesse del Concerto di Grieg: la forma non è l’articolazione vivente di un discorso dialettico ma lo schema convenzionale ed inerte di un’improvvisazione oratoria. Chi vuole vi può trovare, come in un’orazione classica, tutte le più
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efficaci figure della retorica senza che nel discorso si sviluppi la logica stringente di Cicerone, la logica del convincimento. La logica di Rachmaninov è invece tribunizia: manca di dialettica, ma possiede un grado altissimo di coinvolgimento emotivo. E Rachmaninov, toccando da grande retore il sentimento, vince la sua partita e diventa un pianistacompositore internazionale. Invitato negli Stati Uniti nel 1909, Rachmaninov decise di affrontare il pubblico ignoto del Nuovo Mondo, oltre che con Formai famosissimo Secondo, anche con un concerto nuovo di zecca. Lo cominciò in maggio, lo finì in agosto, lo studiò in settembre, lo tirò a lucido su una tastiera muta durante il viaggio in transatlantico, lo eseguì a New York il 28 novembre, più di tre settimane dopo aver esordito negli Stati Uniti. Il Terzo piacque meno del Secondo e neppure una nuova esecuzione a New York il 16 gennaio 1910, magnificamente diretta da Gustav Mahler, modificò la generale opinione. Né piacque molto, il Terzo, per altri vent’anni, fino a che non cominciò a trionfare quando ad eseguirlo fu, invece dell’auto re, Vladimir Horowitz. Rachmaninov aveva una mano grandissima, ma non la impegnava di norma nelle posizioni late di Brahms. La mano grandissima gli permetteva spostamenti laterali rapidi ed agevoli delle dita cosiddette “lunghe” (indice, medio, anulare) non costrette per lui a tensioni, e gli permetteva di sfruttare, nelle ottave, una eccezionale azione prensile di pollice e mignolo. Sono le caratteristiche della sua mano che portano il pianista-compositore Rachmaninov a creare una scrittura pianistica originale e straordinariamente interessante e ricca (e scomodissima per chi non ha una mano simile alla sua). Nel Concerto n. 3, che sta al culmine della sua ricerca, la quantità di note che il pianista esegue in una quarantina di minuti è esorbitante. Ma è proprio il numero esorbitante delle note a rendere non ovvio il discorso. L’elaborazione tematica è nel Concerto n. 3 minima, la forma, meno sbrigativa di quella del Secondo, è pur sempre la stessa di decine di concerti della seconda metà dell’ottocento,
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in gran parte basata sulla lezione di Mendelssohn. Come in ventore dì melodie Rachmaninov è molto fecondo ma non mol to originale, perché il suo melodismo, assai legato alla tra dizione russa occidentalizzata, lavora al tornio tedesco curve melismatiche stampate sul canto popolare russo. Le bordate critiche che vennero e vengono sparate sul Concerto n. 3 vedono l’opera di Rachmaninov nell’ottica, putacaso, del Concerto n. 4 di Beethoven o del Concerto n. 2 di Brahms. A parer nostro, questo è un errore: neppure i concerti di Chopin, la cui qualità musicale è altissima, vanno visti in quell’ottica. Non si deve paragonare il Secondo di Brahms con il Terzo di Rachmaninov (o il Concerto per violino di Beethoven con i concerti di Paganini). Ma nella storia della letteratura il Terzo di Rachmaninov conclude l’esperienza di coloro che pensavano la musica attraverso lo strumento, inventando suoni allo strumento: i pianisti-compositori del Biedermeier, i violinisti come Paganini, Vieuxtemps, Wieniawski, i violoncellisti come Servais e Popper. Il Concerto n. 3 di Rachmaninov arriva esattamente un secolo dopo il Concerto n. 3 di Beethoven e conclude una delle due strade che la storia aveva imboccato dopo {'Imperatore, opera ambivalente in cui la scrittura sinfonica non escludeva una forte componente virtuosistica nella parte del solista. Il Concerto n. 3 di Rachmaninov sopravvive così, a dispetto di tutte le sue denunciate magagne, proprio perché rappresenta, quasi al suo ultimo stadio, una specie che assolve ad una funzione storica molto importante. Curiosamente, paradossalmente, la stessa strada viene seguita da un artista che solitamente viene collocato tra i postbrahmsiani: Max Reger. Il Concerto op, 114 di Reger, com posto un anno dopo il Concerto n. 3 di Rachmaninov, non si pone affatto nella posizione che per un sapientissimo com positore tedesco sembrerebbe la più ovvia: nella scia di Brahms. Il Concerto n. 2 di Brahms, cima insuperabile, viene ac curatamente lasciato in disparte e Reger pensa piuttosto a riprendere, da tedesco, il discorso del Concerto n, 4 di Rubinstein: la tradizione classica, a cui Reger si collega, è
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quella, quasi intatta, Beethoven-Schumann, invece di quella sfruttatissima Beethoven-Mendelssohn o di quella chiusa Beethoven-Brahms. Forte di questa sua idea, Reger compie su di essa una riflessione storico-critica di perfetta consapevolezza, e cioè da grande manierista, nel Concerto in fa minore op. 114 composto nel 1910. Da buon manierista tedesco, beninteso, Reger non sa o non cura di coinvolgere emotivamente il pubblico, e il suo Concerto troverà così un appassionato campione solo in Rudolf Serkin. Il lettore avrà notato che non abbiamo ancora^ citato il nome di Ferruccio Busoni, artista che nella Belle Époque fu tra i maggiori pianisti e tra i maggiori compositori. Abbiamo tenuto per ultimo Busoni perché il suo Concerto op. 39 (190304), che segue il convenzionale Concertstìick del 1890, intende sintetizzare non una delle tendenze storiche, ma tutta la storia secolare del concerto, ed è perciò da trattare isolatamente e alla conclusione del capitolo. A denunciare le ambizioni del Concerto di Busoni bastano le sue caratteristiche esteriori: cinque tempi, più di un’ora di durata, grande orchestra, coro maschile finale. A dimostrare il suo carattere di “enciclopedia del sapere” basta l’analisi della scrittura pianistica. A dimostrare il suo carattere ideologico bastano le note di presentazione dell’autore, che converrà leggere in gran parte: Il titolo Concerto è qui usato nel suo senso originale, che significa cooperazione di mezzi diversi per produrre suono. Con il crescere del virtuosismo la parola rimase ristretta al significato che ha oggi comunemen te: un pezzo di bravura per un solo strumento, alla maggior gloria del quale l’orchestra, il più perfetto e potente mezzo musicale, viene subordinata. A scopo di rispettabilità questi morceaux à'occasion presero la forma esteriore della sinfonia; il primo tempo si metteva la maschera di una certa dignità, ma nei tempi seguenti la maschera era gradualmente smessa, finché il finale sfrontatamente rivelava la smorfia dell’acrobata. L’orchestra, ordinariamen te, non entrava con tutta la sua potenza finché il solista non era giunto ad una fermata, producendo allora la forma convenzionale del tutti\ altrimenti l’orchestra, come un leone addomesticato, ritirava gli artigli e seguiva il suo domatore bellimbusto. Il virtuosismo è ora al livello più basso, e quindi la caricatura della sinfonia, detta concerto, perde il diritto all’esistenza. Siccome la forma era assurda, Beethoven e Brahms e Liszt non poterono
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contribuire in essa a creare opere di bellezza e lavoro. Istintivamente si rivoltarono contro di essa, ma non poterono rompere le convenzioni della loro epoca. L’orchestra rimase ancora timida, il solista aggressivo. Questi compositori forzarono se stessi a restringere i loro impulsi sinfonici e a lavorare in ghirigori superflui, che non si trovano mai nelle altre loro opere (trad, di Fedele d’Amico e Laura Dallapiccola).
Se le affermazioni di Busoni vengono rapportate alla storia del concerto pianistico, è evidente che esse sono un seguito di paradossi, derivati da un principio posto apoditticamente e, curioso a notarsi, da una discutibile etimologia: non è accertato, infatti, che “concerto” significasse in origine “cooperazione”; è per lo meno altrettanto probabile che significasse “contesa”. Il paradosso viene spinto fino all’assur do, e tutto il discorso si vanifica nell’ultima parte. Al di là della provocazione violenta e paradossale, il ragionamento di Busoni assume però un preciso significato di critica al costume, più che di critica storica, là dove dice che «il virtuosismo è ora al livello più basso»: più basso in senso artistico, non tecnico. La polemica di Busoni svela i suoi veri e immediati obbiettivi se si considerano i concerti dei pianisti-compositori, dei quali abbiamo pocanzi detto. Il Concerto di Busoni è tuttavia scritto da un pianista di carriera e da un pianista grandissimo, che non può rinunciare a tentare una grandiosa, “ultima” sintesi di tutta la tecnica pianistica. La parziale ricaduta nel concetto tradizionale di virtuosi smo, ed è questa la prima contraddizione del Concerto, diventa così inevitabile: si osservino la prima entrata del solista nel primo tempo e la vertiginosa cadenza alla fine del quarto tempo (in questo senso, la negazione più radicale e più autentica del concetto ottocentesco di virtuosismo verrà raggiunta poco più tardi da Ives, nella Quarta Sinfonia — 1910-16 — che contiene una difficile parte di pianoforte solista costantemente sommersa nella sonorità dell’orchestra). Ciò non significa tuttavia che Busoni non raggiunga risultati concreti, nella sua provocatoria posizione: la difficol tà tecnica, che tocca limiti tra i più alti di tutta la letteratura pianistica, non appare evidente all’ascoltatore se non t per
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eccezione e il concetto tradizionale di virtuosismo solistico — cioè l’adozione di difficoltà tecniche disposte in modo da risultare palesi al normale pubblico delle sale di concerto — viene polemicamente negato nel suo aspetto sociologico, pur non venendo negato nel suo aspetto strettamente tecnico (la difficoltà non è colta dall’ascoltatore, ma il Concerto non è facile). La contraddizione che si può notare nella scrittura pianisti ca si rinnova quando si esamina il linguaggio, che mette maggiormente in evidenza una sproporzione tra una penetran te capacità di cogliere i nodi storici creatisi nella musica occidentale verso la fine dell’ottocento ed una spinta rivolu zionaria non sempre altrettanto profonda. Così, nel secondo tempo del Concerto Busoni cita la canzone napoletana «Fenesta ca lucive», nel quarto ancora «Fenesta ca lucive» e le canzoni bersaglieresche «E sì che la porteremo la piuma sul cappello» e «la dis che l’è malada». E queste semplici citazioni bastarono a mandare agli orsi la critica berlinese, stomacata, dice il Dent, per aver dovuto ascoltare tre canzonacce italiane «in una sala consacrata al nome di Beethoven». Busoni riuscì quindi ad ottenere un effetto fortemente provocatorio nei confronti di una critica estetizzante e sciovinistica e balorda. Ma non seppe o non volle tentare un’irruzione di musica d’uso nella musica d’arte e non denunciò l’assurdo delle due culture, la cultura tout-court e la cultura “popolare”: Busoni trattò infatti quei temi canzonettistici con mano finissima di artista consumato, impreziosendo li, rendendoli interessanti, privandoli di ogni autentica carica di volgarità. Nella gigantesca tarantella che forma il quarto tempo la chiarezza con cui sono realizzate le sovrapposizioni tematiche, l’ordine e la razionalità degli effetti, la mancanza di confusione e di frastuono portano ad una sterilizzazione del materiale popolaresco e ad un ritorno verso il manifesto turistico dell’ottocento: il Concertstiick di Hiller e il Concerto di Bronsart non sono lontanissimi, e meno lontano ancora è il Concerto n. 5 di Rubinstein, in cui veniva citata una Tarantella napoletana popolare.
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Nel Concerto di Busoni le tre canzonette ci appaiono oggi come gustoso recupero del Kitsch in un contesto raffinatamente aristocratico e non posseggono più alcuna forza provocatoria, al contrario di quanto avviene ancora con Mahler e con Ives, nei quali la provocazione si fa linguaggio. La rappresentazione storica non è dunque quella né di un vero ribelle, né di uno spirito che sintetizzi le contraddizioni del secolo, e così l’ultimo tempo, quando il coro intona un testo mistico del poeta danese Adam Oehlenschlager, non apre veramente uno squarcio verso un mondo nuovo ma si collega visibilmente ad un episodio della storia del genere, al finale della Fantasia op. 80 di Beethoven. La storia avrebbe potuto offrire ancora uno spunto creativo che la letteratura pianistica non aveva mai raccolto: il solista come personaggio, al modo àeWAroldo in Italia di Berlioz. Ci pensò per la verità Ives, che nel 1907 progettò un concerto per pianoforte e orchestra in cui il pianoforte avrebbe dovuto rappresentare Emerson: era la prima idea di quello che sarebbe stato poi il primo tempo della Concord sonata. Ci pensò Stravinsky, che nel 1910 cominciò a scrivere un Concertstiick in cui il pianoforte, con le sue “diaboliche cascate”, irritava l’orchestra che replicava con “minacciose fanfare”: era la prima versione di quello che, complice Diaghilev, sarebbe diventato il balletto Petruska. L’impiego del pianoforte come strumento d’orchestra, in Petruska, è tuttavia innovativo al massimo grado e dà veramente inizio ad una nuova epoca nella strumentazione, così come indicativi di una nuova concezione dell’orchestra sono gli usi del pianoforte nel Prometeo di Scriabin (1908-10) e nella già ricordata Sinfonia n. 4 di Ives, nonché in pagine meno note come il Poema pagano di Charles Martin Loeffler (1905-08). E giacché siamo in argomento ricorderemo anche l’uso del pianoforte nell’orchestra Dell'Arianna a Nassò di Richard Strauss (1911), formata da trentasette esecutori: geniale ripensamento manieristico della piccola orchestra classica. Al tramonto della belle époque, dunque, creatori come Debussy, Ives, Scriabin, Stravinsky non pensavano pi\i al
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concerto per pianoforte e orchestra, creatori come Busoni, Reger, Rachmaninov sembravano chiudere le strade dell’Ot tocento. Il concerto per pianoforte e orchestra si avviò così un po’ stancamente alla fine di un ciclo storico con i cinque concerti — centoquaranta minuti di musica! — scritti dal norvegese Halfdan Cleve nel giro di meno di dieci anni, con il Concerto n. 1 di Grazunov (1910-11), che reinseriva nella forma classica il tema con variazioni, con lo stupidissimo Concerto n. 1 di Sergej Bortkiewicz (1912), con la Fantasia indiana op. 44 (1913) con la quale Ferruccio Busoni faceva un buon passo in avanti come artigiano e un buon passo indietro come ideologo. Liszt dominava ancora, stilisticamente, la scrittura pianisti ca dei concerti, ma qualche giovane dimostrava già quale mito fosse diventato, per l’ultima generazione, il “grigio” Secondo di Brahms: brahmsiani sono il Concerto in la maggiore op. 21 del tedesco Walter Branufels (1912), il Concerto in re minore dell’australiano George Frederick Boyle (1912), il Concerto op. 21 del russo Georges Catoire o Catuar (1909), con grande orchestra senza corni. Sensibile alle suggestioni dell’impressio nismo francese, di Scriabin e, un po’, di Delius, è il Primo Concerto dell’inglese Cyril Scott (1913-14). Orchestra senza ottoni e con una importante parte di celesta, sonorità orientaleggianti (“di giada”, come dicevano, estasiandosi, gli inglesi), scrittura leggera, neocembalistica, tonalità di do maggiore che da decenni nessuno più amava: alla fine della Belle Epoque Scott era considerato la grande promessa del ventesimo secolo... Il Primo Concerto di Scott è stato di recente riproposto, ma non ha dimostrato di possedere, al di là di vari, indubitabili motivi di interesse critico, una nascosta vitalità. Né altre composizioni di quel tempo, tranne quelle di Busoni e di Reger, che pure non godono di troppa popolarità, sono veramente sopravvissute alla loro epoca. Un ciclo storico, come dicevamo, si avviava un po’ stancamente alla fine. Nel 1912 veniva però eseguita a Mosca una «energetica, ritmica, aspra, grezza, primitiva cacofonia» che rimetteva in corsa il concerto per pianoforte e orchestra.
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Il celebre critico Leonid Sabane’ev, che definì “cacofonia” il Concerto n, 1 op. 10 di Sergej Prokofiev, aveva applicato il sostantivo sbagliato ad una filza di aggettivi giusti. Energeti co, ritmico, aspro, grezzo, primitivo il Concerto di Prokofiev lo è, ed è uno tra i più esplosivi manifesti del talento di un ventenne. La forma è in tre tempi collegati, ma solo il secondo tempo è di costruzione tradizionale; il primo tempo è in sei episodi molto differenziati, più un episodio conclusivo che riprende il primo; il finale riprende in ordine inverso, e con l’inserimento di una frenetica cadenza, il primo tempo. Con tutto questo lusso di temi, di orchestra, di virtuosismo pianistico Prokofiev metteva insieme meno di quindici minuti di musica. Uno spreco, nell’ottica della vita concertistica di allora e non solo di allora, tanto che il Concerto n. 1 viene ascoltato all’incirca ad ogni morte di papa. Tutta la ricchezza di mezzi che aveva sfoderato nel Concerto n. 1 Prokofiev la mantenne nel Concerto n. 2 (1912-13), e l’accrebbe ancori un po’, perché la difficoltà della parte pianistica era tremenda, ma con una durata “giusta”: intorno a trentadue minuti1. 1 Perché il discorso non risulti astratto per chi non è esperto di vita musicale faremo qualche considerazione di ordine pratico. Non esistono in genere durate di concerti sinfonici stabilite da contratti di lavoro (tranne che per certe grandi orchestre americane), ma è consuetudine che il concerto non superi mai le due ore, ivi compreso un intervallo di circa trenta minuti. Un concerto di trentacinque-quaranta minuti e una sinfonia di quaranta-quarantacinque formano un programma senza problemi; un concerto più breve può stare con una più lunga sinfonia o con una sinfonia breve (Haydn o Mozart) ed una media; un pezzo solistico di circa quindi ci minuti dev’essere necessariamente unito ad un altro pezzo per il solista/ che
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Essendo nato nel 1891, Prokofiev non aveva potuto partecipare, nel 1910, al concorso di pianoforte per esecutori e per compositori fondato da Anton Rubinstein nel 1890, che si svolgeva ad ogni quinquennio e che era riservato a giovani di età compresa tra i venti e i venticinque anni. Al tempo della quinta edizione — il concorso si svolse a S. Pietroburgo — Prokofiev era “sotto” di un anno, e nel 1915, con Prokofiev nell’età giusta, ci pensò la guerra a mandare il concorso a picco... Nelle sue cinque edizioni il Concorso Rubinstein laureò nella sezione pianistica due tra i protagoni sti assoluti della vita concertistica (Lhevinne e Backhaus) e tre oscuri professionisti (Dubassov, Lalewicz, Hoehn). La storia della sezione riservata ai compositori-esecutori, con l’obbligo di presentare tra l’altro un concerto o pezzo da concerto per pianoforte e orchestra, è per noi istruttiva perché ci dice in qual modo il mondo accademico tendesse a riconoscere — o a non riconoscere — i nuovi talenti. Nel 1890 il premio fu assegnato a Busoni, che aveva presentato il suo lavoro di gran lunga più convenzionale, il Concertstiick op. 3la ricavato da un precedente poema sinfonico ed ideologicamente impostato come un saggio di alta eloquenza su argomenti già noti al pubblico (e alla giuria). Nel 1895 la vittoria fu conquistata dal giovane polacco, protégé di Paderewski, Henryk Melcer, con un concertone “monstre”, il n. 1 in mi minore, in cui c’era tutto quello che si chiedeva al concertista internazionale e tutto quello che si chiedeva al compositore internazionale, ivi compreso un fugatone2. Nel 1900 vinse il russo Alexandr Goedike con un altrimenti non figura convenientemente nella serata, e due pezzi solistici rompono terribilmente il cerimoniale — ingresso, sistemazione, esecuzione, applausi, bis — del rapporto rituale tra il solista e il pubblico. Per questo motivo è oggi diventata rara persino l’esecuzione di capolavori come il Concertstiick di Weber o le Variazioni sinfoniche di Franck. 2 Secondo ogni verosimiglianza, al concorso del 1895 avrebbe dovuto iscriversi Rachmaninov, che a ventidue anni aveva già al suo attivo il Concerto n. 1. Non conoscendo il regolamento del concorso, non sappiamo se fosse indispensabile presentare lavori non ancora eseguiti. Stupisce comunque che un giovane come Rachmaninov, aspirante ad una carriera di pianista, non si cimentasse nell’unico importante concorso allora esistente.
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altro macchinario virtuosistico del tipo di quelli che abbiamo prima descritto, il Concertstiick in si bemolle minore op. 11. Ma nel 1905 i due concorrenti che vennero presi in consi derazione erano autori di cose meno densamente impaginate e meno ponderose: Attilio Brugnoli aveva presentato un Concer to in do minore op. 2, Béla Bartók la Rapsodia op. 1. La giuria non assegnò né primo né secondo premio ma solo una menzione di primo grado a Brugnoli ed una di secondo grado a Bartók. «Le opere di Brugnoli sono dei componimenti raccogliticci senza alcun valore. Che la giuria non abbia visto quanto siano migliori le mie opere è cosa veramente scandalosa», scrisse Bartók alla madre 1’8 agosto 1905. E se c’è un caso in cui una giuria abbia preso un abbaglio colossale, questo è sicuramente costituito non solo dall’ordine di graduatoria, ma dalla mancata assegnazione del primo premio a Bartók. Nel 1910 vinse il concorso il pianista-compositore svizzero Emil Frey con un Konzertstiick op. 24 che non cercava il delirio del supervirtuosismo e che andava nella direzione già imboccata da Bartók cinque anni prima. Questa volta la giuria assegnò il premio. Stava cambiando il gusto? Parrebbe di sì. Con il Concerto n. 2 di Prokofiev, pezzo, nella sua radice ideologica, di grande tradizione e con una forte componente gestuale, l’antidiluviano concerto virtuosistico era in realtà bell’e rilanciato, e da uno degli enjants terribles che facevano imbestialire il pubblico con il loro “futurismo”. Il futurismo di Prokofiev consisteva solo, pensiamo, nell’aver capito il Concerto n. 3 di Ciaikovsky e nell’aver superato in curva il Concerto ». 3 di Rachmaninov3. Lo si intende bene dal suo Concerto n. 3. La guerra non aveva consentito a Prokofiev di sfruttare il successo — anche lo scandalo dei benpensanti, che è una forma di successo — del Concerto n. 2. La guerra sembrò anzi bloccare non solo la vita concertistica ma, si direbbe, la 5 Nella sua autobiografia Prokofiev cita i concerti che, da studente, lo appassio navano («Beethoven, Rachmaninov, Liszt, Rimski Korsakov, il Primo di Ciaikovsky, il Secondo e il Quarto di Saint-Saèns») e quelli che non gli interessavano molto («Chopin, Schumann, Brahms, Scriabin»); le scelte sono chiare e significative.
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creazione musicale, perché durante il conflitto mondiale un solo compositore portò lentissimamente a termine una partitu ra importante per pianoforte e orchestra iniziata nel 1911: Manuel de Falla, che nel 1915 dava l’ultimo tocco a Notti nei giardini di Spagna e che subito trovava in Artur Rubinstein un interprete ideale. Notti nei giardini di Spagna è forse l’unico grande pezzo per pianoforte e orchestra che possa essere definito impressioni stico4: tre Notturni, dice Falla, tre evocazioni della Spagna moresca, con un pianoforte che crepita come un’orchestrina di chitarre e che anela a ridiventare clavicembalo. La parte pianistica delle Notti è piuttosto facile che difficile, e già è segno di tempi nuovi il fatto che ciò malgrado il pezzo potesse essere eseguito con successo da un grande virtuoso come Rubinstein. I tempi cambiavano, e cambiavano perché stava arrivando — in Europa prima, in America poi — l’ora dei Bach e dei Mozart. Abbiamo parlato del repertorio di Busoni, dicendo che ai concerti di Mozart egli si votò nell’ultima parte della sua carriera, non prima. E se prendiamo a paragone il repertorio con orchestra di Artur Schnabel, nato nel 1882, abbiamo un’idea del clima che si andava creando nel dopo guerra: sedici concerti di Mozart, i cinque di Beethoven, il Concerto di Schumann, i due di Brahms, il Primo di Chopin, il primo di Liszt e il Concerto di Paderewski (i tre ultimi eseguiti solo prima della guerra). Edwin Fischer, nato nel 1886, eseguì prima della guerra i due concerti di d’Albert e il Concerto n. 4 di Rubinstein; poi eseguì tutti i concerti di Bach, il Concerto 4 Accanto alle Notti di Falla si può ricordare il quasi ignoto Mon Lac di G.M.Witkowski (1921), formato da preludio, variazioni e finale. Il preludio descrive le brezze mattutine, le variazioni si ispirano a boschi e lavori, giochi acquatici, rintocchi di campane funebri, colpo di vento, notte stellata', la scrittura pianistica inserisce lo strumento come punto di raccordo tra le arpe e gli strumentini. Di tipo impressionistico sono altresì la partitura della versione per pianoforte e orchestra del poema A notte alta di Alfredo Casella (1921), 1*Aurora borealis dell’americano Charles Wakefield Cadmann, Notti nelle strade di Mouravia del portoghese Ruy Coelho (che non nasconde l’imitazione da Falla), Sur les cimes Carpathiques di Stan Golestan. I primi esempi di scrittura impressionistica per pianoforte e orchestra risalgono a Louis Aubert (Fantaisie op. 8, 1899) e all’americano Frederick Shepherd Converse (Night and Day, 1905).
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in re maggiore di Haydn, molti concerti di Mozart, i cinque di Beethoven, i due di Brahms, il Concerto sinfonico di Furtwan gler. Il repertorio, in pratica, si fraziona: i pianisti tedeschi e anglosassoni pongono al centro dei loro interessi Mozart e Beethoven e limitano a Schumann e a Brahms il romantici smo, lasciano cadere Weber e Mendelssohn ed accettano con riserva Liszt e Grieg; i pianisti slavi si fanno un punto d’onore nel tenere in auge Ciaikovsky e Rachmaninov, eseguono Chopin, Liszt, il Concerto n. 2 di Saint-Saèns, affrontano in modo virtuosistico Beethoven, Schumann e Brahms; i pianisti francesi prediligono un Mozart da eseguire in modo controllatissimo e in punta di forchetta, tengono nel giro il Concerto n. 4 di Saint-Saèns e le Variazioni sinfoniche di Franck e poi scelgono ecletticamente qua e là. Ma le svolte grosse sono l’affermazione di Mozart e la caduta del pregiudizio che il concerto debba essere visibilmente, fisicamente impegnativo per il pianista. Concerti come il Primo di Ciaikovsky e il Secondo di Rachmaninov continuano ad andare a gonfie vele, e presto, di Rachmaninov, comincerà a galoppare anche il Terzo. Tutta via, se alcuni concerti virtuosistici del tardo Ottocento sopravvivono, il grosso cade dal repertorio ed alle novità si richiede di essere diverse, di distinguersi dal passato prossi mo. Il processo è lento: Alexander Glazunov scrive nel 1917 il sereno, estatico Concerto n. 2 op. 100, che nessuno direbbe nato durante la Rivoluzione, Nicolai Medtner presenta a Mosca nel 1918 il Concerto n. 1 di impostazione strutturale lisztiana, in un tempo solo e in più parti, di più di trenta minuti di durata e di rispettabile difficoltà meccanica, Joseph Marx scrive nel 1920 un Concerto romantico in mi minore, Hans Pfitzner dimostra la sua fede antimodernista anche con il Concerto in mi bemolle maggiore op. 31 del 1921, il barone Frederic d’Erlanger ripesca nel 1921 un mito antico nel suo Concerto symphonique, il direttore d’orchestra Hamilton Harty compone nel 1922 il Concerto in si minore che imita in modo simpaticamente sfacciato Rachmaninov. Anche Prokofiev, quando vuole sfondare — ma non sfonda
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— negli Stati Uniti, pensa bene di fare un po’ concorrenza a Rachmaninov e, invece di comporre un qualcosa dì simile alle neoclassiche sonate n. 4 e n. 5, prepara il Concerto n. 3, che è “moderno” in un modo del tutto particolare. Prokofiev pianista possedeva tutte le qualità del grande pianista tradizionale: le possedeva allo stato puro e, malgrado le apparenze in contrario e la sua polemica contro la tradizione più recente, non solo non ignorava nessuno dei valori sui quali sì era fondata la fortuna del concertismo pianistico, ma li faceva anzi rivivere in uno stile nuovo, sottraendoli alla cristallizzazione della tradizione accademica. Scandalo, non rivoluzione. Prokofiev pianista era un autentico, grande virtuoso romantico, il Concerto n. 3 è un autentico, grande concerto tardoromantico. Il contrasto con il pubblico e l’insuccesso momentaneo furono causati dal lin guaggio, non dalla struttura formale del Concerto. Se Proko fiev compositore fosse stato meno originale il pubblico americano del 1921 avrebbe capito che un pianista capace di suonare il Concerto n. 3 non aveva bisogno di controprove: bastava il Terzo a dimostrare le qualità carismatiche che il pubblico chiedeva al concertista. Ed era naturale che per raggiungere un fine così grandioso e così profondamente reazionario il compositore non potesse chiedersi se proprio tutti i colpi di scena fossero giustificati: la logica scricchiola, perché il compito è antistorico, ma l’orato ria dell’eroe è talmente trascinante da procurargli l’assoluzio ne della giuria popolare. E il Terzo, dopo qualche anno, entra trionfalmente nel repertorio per non uscirne più. Con il Terzo di Prokofiev, nel 1921, si chiude veramente, a livello di creazione di valore storico, il concerto del tardo romanticismo. Nello stesso anno Busoni, tornato paradossale e beffardo dopo esser stato “enfant sage” nella Fantasia indiana, riprende il suo vecchio Concertstiick del 1890 e gli aggiunge un Romanza e Scherzoso, mettendo insieme una specie di ieri e oggi di uno stridore stilistico da far arrotare i denti al più tollerante degli ascoltatori, come se Klimt avesse inzeppato in uno stesso quadro il Nudo femminile e animali in un paesaggio e l’Adamo ed Èva.
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Visti retrospettivamente, il Terzo di Prokofiev e il Concerti no di Busoni — così si chiama il Concertstùck con appiccicato Romanza e Scherzoso — sono come le pietre di confine di due epoche, ma ciò non significa, naturalmente, che nel 1921 un angelo con la spada infuocata fosse stato posto a guardia dell’Eden, dell’epoca morta con la guerra. Così, anche un compositore e pianista d’avanguardia come il cecoslovacco Erwin Schulhoff non vede nel Concertino di Busoni la liquidazione sarcastica del passato ma una proposta di contaminazione stilistica, e nel suo Concerto n. 2, del 1923, accosta bruscamente una scrittura che può ricordare Reinecke o Scharwenka e il fox-trot. Il linguaggio di Schulhoff, ben s’intende, non è quello di Reinecke: Schulhoff, in altre parole, non cita il passato ma ne estrae un dato, la scrittura strumentale, calandolo in un linguaggio diverso, e nello stesso tempo estrae dalla musica di consumo degli anni 20 i dati stilistici fondamentali del foxtrot. Come comune denominatore di due stili antiteci viene scelto un terzo dato stilistico, molto astratto: le scale musicali cinesi. Il Concerto n. 2 di Schulhoff diventa così una specie di rivisitazione orientale della musica dell’occidente, vista da una civiltà che non distingue il tardoromanticismo dal foxtrot. Uno dei capolavori del nostro secolo, a parer nostro; ma talmente cerebrale e talmente “repellente”, sia per orecchie d’avanguardia che per orecchie nostalgiche, da passare inosservato e da non venir più riscoperto neppure dopo mezzo secolo. Chi capisce invece come si possano indirizzare gli anni 20 verso obbiettivi immediati è Igor Stravinsky, che dopo aver terminato nel 1921 i tremendi Tre movimenti da «Petruska», per lui ineseguibili, scopre il pianoforte non virtuosistico e scopre la prospettiva di... guadagnarsi la vita con il pianoforte. Stravinsky si scioglie le dita, come dice lui, con gli studi di Czerny, e nel 1924 si presenta come solista nel suo Concerto per pianoforte e strumenti a fiato. La scelta di Stravinsky è genialissima: escludendo gli archi si salta a pie’ pari il problema principe dei rapporti di timbri, e la concezione di
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suono dei fiati viene plasmata sul suono percussivo (il che non vuol dir “pestato”) del pianoforte neoclassico. Il Concerto non è difficile, tanto che Stravinsky, modesto pianista, può suonarselo tranquillamente lui e sfruttarlo convenientemente per i rituali cinque anni. Non difficile, meccanicamente, è il gioiello purissimo che Stravinsky compone nel 1928-29, quel Capriccio in cui la qualità estetica e l’assunto ideologico raggiungono l’equilibrio miracoloso del capolavoro assoluto. Ma i tempi sono tali che anche un concerto difficile e barbarico come il n. 1 di Bartók (1926) suona limpido, ra zionalistico, fatto come un mosaico preciso in cui creatore ed esecutore non esercitano alcuna pressione psicologica nei confronti dell’ascoltatore; Persino Medtner, postumo cittadi no dell’adorata Belle Epoque, compone nel 1926-27 un concerto più leggerino, il suo Secondo, in tre tempi classicisti camente intitolati Toccata, Romanza, Divertimento. Persino Respighi, già autore di un grosso Concerto in modo misolidio (1924), va in cerca di antichità italiane nella Toccata del 1928. Persino Rachmaninov, ultimo pontefice massimo del virtuosi smo faraonico, si trucca da asceta nel Concerto n. 4 (1926), pezzo notevolissimo che non ottiene consensi perché non risponde più al volto familiare del suo autore. E figuriamoci i francesi, che avevano sempre tenuto al virtuosismo elegante: la Tailleferre con il Concerto del 1924, Poulenc con la Aubade del 1929, Markévitch con il Concerto del 1930 ci danno i più limpidi esemplari del neoclassico gallico. Nasce anche il concerto da camera, cioè la composizione per pianoforte e vari strumenti solisti, che si riallaccia ideologica mente a quella musica da camera del Biedermeier — il Settìmìno in re minore di Hummel, il Quintetto «La Trota» di Schubert, il Sestetto di Mendelssohn e tantissimi altri — nella quale un pianoforte molto impegnato e molto brillante dialogava con altri partners invece che con una massa, come un “primus inter pares”. Il Concertino di Janacek, la Rammermusik n. 2 di Hinde mith, il Rammerkonzert di Berg, il Concerto di Manuel de Falla (per clavicembalo o pianoforte) rispondono appunto a queste caratteristiche e con la forza di quattro capolavori tra i
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più alti del nostro secolo rappresentano quasi da soli (si possono ricordare ancora il Concerto per pianoforte, clarinetto e quartetto d'archi, di Roy Harris e il Concerto per pianoforte e ottetto di fiati di Colin McPhee) una tendenza che si esaurisce però rapidamente5. Lo spirito mozartiano del concerto come confinante e alleato della musica da camera prevale tuttavia, in genere, nei concerti degli anni 20. La Partita e la Scarlattiana di Casella, il Concerto n. 1 di Gian Francesco Malipiero, il Concerto grosso di Bloch, il Concerto di John Ireland, il Concerto di Albert Roussel, il Concerto di Willem Pijper, il Concerto n. 1 e il Concertino per la mano sinistra di Martinu, il Concerto di Reynaldo Hahn (perfetto esempio, di arte retro, ambientato com’è in una stilizzatissima Belle Epoque) rispondono tutti ai principi di chiarezza espositiva e di apolinneo dominio della materia che si riconosce a Mozart. L’invenzione strumentale non prevale neppure in un pezzo 5 Per curiosità, non perché sia stato storicamente importante, ricorderemo il “risveglio” del concerto ad uso dei dilettanti e del bel sesso, del concerto che non impegna il solista al di là di modestissime, quasi elementari esigenze tecniche. Il Concerto n. 1 dell’americano Sam Raphling, pubblicato nel 1944, è una specie di pezzo da concerto per bambini, di equivalente delle sonatine che la letteratura didattica non aveva mai cessato di sfornare, ma è nello stesso tempo pungente e spiritoso e fresco. Poco più tardi, nel 1952, Dmitri Kabalevsky scrisse il Concerto n. 3 op. 50, intitolato “Gioventù” e destinato ad essere eseguito anche da allievi, che sembra un po’ musica d’accompagnamento per un film di Topolino. Tra i numerosi concerti o concertini di facile esecuzione ricorderemo ancora quelli degli inglesi Philip Cannon (1951), Thomas B. Pitfield (1960) e Geoffrey Bush (1966, su temi di Arne), degli americani Wells Hively (1939) e Marcel Gustave Frank (1963), del tedesco Peter Herrmann (1973), dall’austriaco Paul Kont (1960), dei sovietici Nicolai I. Slivansky e Vladimir Tsytovic. Il francese Pierre Lantier, oltre a scrivere un pezzo facile, inventa un termine inedito con il suo Concertinetto (1960). Come si vede, il concerto facile viene affrontato nel nostro secolo, anche se con risultati complessivamente non paragonabili a quelli del tardo Settecento, da compositori appartenenti a diverse aree culturali. “Infantile” per definizione, ma indirizzato agli adulti è il Kinderkonzert, concerto infantile, di Franco Margola (1954). Un concerto sempre per adulti è il Secondo (secondo!) dell’americano Joseph Affidi, nato nel 1949. L’Alfidi, che vinse poi un premio al Concorso Regina Elisabetta del Belgio e che risiede ora a Bruxelles, esordì negli anni 50 come compositore, pianista e direttore d’orchestra con un album di due dischi contenente il Concerto ». 3 e la Sinfonia ». 8 di Beethoven, e il suo Concerto ». 2. Il Concerto ». 2 in sol minore rivela una maestria e una disinvoltura che certamente non denunciano l’età del compositore bambino. 1
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come la Rapsodia in blu di Gershwin, nella quale valgono soprattutto la piacevolezza dei temi e — nella versione originale, non in quella per orchestra sinfonica — l’uso dei jazz-band; anche il Concertino di John Carpenter, la Rhapsodie nègre di John Powell, il Concertino di Honegger, il Concerto di Jaroslav Jezek, il Concerto di Copland e Rio Grande di Constant Lambert, che riprendono modi del jazz, stanno attenti a tenere il jazz in linea con il classico. Anche il rivoluzionario Henry Cowell, che nel suo Concerto (1929) impiega largamente gli effetti allora nuovi e piccanti e provocatori dell’agglomerato di suoni indistinto o cluster, va più verso il civettuolo classicheggiante che verso l’inatteso, l’ignoto6. La poetica neoclassica raggiunge il culmine nel Concerto in sol di Ravel, composto tra il 1929 e il 1931. Il Concerto di Ravel, che in alcuni punti — la cadenza del primo tempo, ad esempio — è difficilissimo anche meccanicamente, è però difficile soprattutto perché richiede un sofisticatissimo con trollo della sonorità. Qualche pianista, come Weissenberg o Entremont, ha ritenuto che la smaltatura della sonorità sìa un artificio da denunciare e l’ha raschiata via, facendo suonare il Concerto di Ravel all’incirca come il Concerto di Gershwin. Ma il Concerto di Ravel viene consegnato al pubblico da Walter Gieseking e poi da Arturo Benedetti Michelangeli che — il secondo più del primo — delimitano rigorosamente la qualità timbrica del suono e su di essa lavorano, controllando ogni nota. Con Benedetti Michelangeli non solo la cadenza è di una qualità sonora che vale di per se stessa, ma anche i placidi accompagnamenti del secondo tempo, anche gli innocui arpeggi dell’inizio. Persino il movimento in cui il dito è più passivo non viene lasciato al caso, e così il glissando diventa nel Concerto di Ravel una cascatella di diamanti. 6 II Concerto di Cowell meriterebbe un’analisi, che qui sarebbe però fuor di luogo, per le invenzioni di scrittura pianistica. Né possono essere esaminati, in questa sede, il Concerto op. 11 (1928) e il Concerto n. 2 (1930) di Hans Barth, che impiegano il pianoforte a quarti di tono.
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Con un pianista come Benedetti Michelangeli, che del Concerto è l’interprete ideale, anche gli oggetti banali come lo spagnolismo, il jazz commerciale, l’ornamentazione a ghirigori diventano elementi di un gioco di prestigio in cui la sigaretta, il mazzo di carte, il fazzoletto si animano di una vita misteriosa e surreale. E la scarna gesticolazione dell’esecutore accentua l’eleganza, il distacco con cui Ravel riporta in una misura di classicismo parnassiano i materiali di scarto, spostando tutto l’interesse sullo straniamento del materiale. I cittadini emancipati degli anni 20 scoprono Mozart, buttano a mare il ciarpame tardoromantico e per non languire di cultura, come i borghesi del Secondo Impero, vanno a cercare un po’ di tonificante volgarità nel jazz, nel music-hall, nel circo. Del resto, come diceva Madame de Staèl, dopo aver abitato per anni nei pressi di una orangerie si desidera un po’ di sano lezzo di letame... Alla fine degli anni 20, però, jazz e compagni hanno già fatto la loro stagione, e Ravel li tratta come simboli straniati: cita il jazz ma non lo riproduce (il classico fagotto, non il jazzistico saxofono, canta nel Concerto la malinconia negra), ricorda il music-hall ma usa la tromba e gli archi invece della cornetta e del banjo, e dal circo prende solo la frusta, con cui apre e chiude il Concerto. Presentando il Concerto, Ravel sosteneva di aver voluto far capo a Mozart e a Saint-Saèns. Ed aveva in sostanza ragione, anche se non metteva in evidenza la differenza ideologica tra Mozart e Saint-Saèns e tra Saint-Saèns e Ravel, cioè tra Settecento, Ottocento e Novecento. Là dove Mozart non aveva conosciuto distinzione di “serio” e “leggero”, là dove Saint-Saèns aveva ricomposto la frattura di “serio” e “legge ro” senza nascondere la sua vena di ironico distacco, Ravel ri nuncia anche allo sgravio di coscienza dell’ironia: a quel mon do che aveva frequentato il circo e il music-hall e che s’era entusiasmato nell’ascolto dei dischi jazz, Ravel offre una ver sione mondanamente inappuntabile e intellettualmente ras sicurante dell’evasione dall’arte colta, giocando con la musica di consumo senza analizzarne le radici. L’operazione è perfet ta, il Concerto in sol ottiene il più alto numero di esecuzioni che un concerto del Novecento abbia saputo raggiungere.
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Breve stagione di follia sono gli anni 20, e quello che Massimo Mila chiama «mito della semplicità» fa presto a nascere e più presto ancora a morire. Ravel li liquida nel Concerto in sol e contemporaneamente, nell’altro suo concer to, ripropone la buona, grassa, borghese, materiale volgarità del virtuosismo pianistico. Il virtuosismo aveva tenuto duro anche negli anni 20, s’intende: ad esempio, Gershwin si era letto Ciaikovsky e Rachmaninov prima di comporre, nel 1925, il Concerto in fa, e il futuro direttore d’orchestra Paul Kletzki non aveva nasco sto la sua adorazione per Brahms nel Concerto in re minore op. 22 del 1930. Negli anni 20, tuttavia, il virtuosismo era out ed aveva avuto solo una giustificazione... umanitaria. Due pianisti, il cecoslovacco Otakar Hollmann e l’austriaco Paul Wittgenstein, avevano perduto in guerra il braccio destro. Hollmann chiese qualcosa per sola mano sinistra a Janàcek, il quale gli scrisse il Capriccio (1926) per mano sinistra e pochi strumenti; un pezzo geniale, che come il precedente Concertino non riprendeva però l’idea del concerto ma della musica da camera virtuosistica del periodo Bieder meier. Wittgenstein, fratello del filosofo ed appartenente a famiglia di cospicui mezzi di fortuna, affrontò il problema con spirito e con metodo imprenditoriali. Uscito dalla scuola di Leschetizki, che aveva licenziato Paderewski e una lunga schiera di virtuosi, virtuoso di istinto e di formazione mentale, ambizioso e tenace, Wittgenstein cominciò col trascriversi per mano sinistra e orchestra il
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Concerto n. 4 di Rubinstein... che però stava uscendo dal repertorio e che non era salvabile. Wittgenstein pensò quindi di offrire ad importanti compositori contemporanei una somma allettante in cambio di pezzi per mano sinistra e orchestra, con la esclusiva di esecuzione per un certo numero di anni. Richard Strauss, come sempre sensibile alle ragioni umani tarie, si ricordò subito di esser stato un pianista mica male e di aver scritto una Burlesca che era piaciuta a d’Albert, e per Wittgenstein scrisse due pezzi da concerto: il Parergon zur Symphonia Domestica (1924-25) e il Panathendenzug (1926-27). Il primo era un’improvvisazione-variazione sul tema del figlioletto della Sinfonìa domestica, il secondo (Corteo per le foste panatenaiche) era una serie di variazioni su un basso ostinato. Nel Parergon Strauss pensava al pianoforte un po’ come ad uno strumento a cui mancasse il registro basso: teneva la mano sinistra prevalentemente nella zona che dì solito è coperta dalla destra e scriveva un pezzo che sembrava pensato per un violino che avesse i suoni di cristallo del pianoforte. Pezzo d’effetto, comunque, ma un po’ troppo scopertamen te romantico-tenebroso. Nel Panathendenzug. Studi sinfonici in forma di Passacaglia, Strauss trovava una scrittura miracolosa, di perfetto equilibrio classicistico, ma affidata ad una sola mano. Chiunque non veda l’esecutore pensa ad una parte concertante di pianoforte, pungente e trasparente, suonata da un allievo; il pezzo è come una specie di gioco divertente e divertito, in cui Strauss mostra di sapersi allineare, se vuole, al neoclassicismo di moda,..., ma facendo intendere che per ottenere gli effetti pianistici di Stravinsky basta una sola mano. Wittgenstein non era però il tipo che sapesse apprezza re l’ironia suprema di Strauss e in cuor suo teneva per altre cose, più direttamente legate alla tradizione romantica: il Concerto scrittogli da Josef Labor, il suo preferito, i concerti di Bortkiewicz e di Korngold, il Concerto e le Variazioni su un tema di Beethoven di Franz Schmidt. Ma siccome non era tanto sciocco da non capire dove andasse il mondo, Wittgen stein sì rivolse a Ravel e a Prokofiev.
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L’esito dell’ordinazione non fu, per Wittgenstein, brillan te. Il Concerto n. 4 op. 53 di Prokofiev fu scritto nel 1931: Wittgenstein non lo mise addirittura mai in repertorio, tanto che la prima esecuzione ebbe luogo solo il 5 settembre 1956 a Berlino. Il Concerto in re di Ravel fu scritto anch’esso nel 1931: Wittgenstein lo eseguì a Vienna, ma dopo averne riscritti alcuni passi e dopo aver, per così dire, “retrodatato” il pezzo alla Belle Epoque. Marguerite Long, dedicataria e prima interprete del Con certo in sol, ha raccontato di un incontro a Vienna tra Ravel e Wittgenstein, durante il quale Wittgenstein avrebbe borbot tato «Sono un vecchio pianista e quella cosa là [il Concerto] non suona» e Ravel avrebbe seccamente replicato «Sono un vecchio orchestratore e quella cosa là suona». Vero o no che sia l’episodio (ma non c’è ragione di rite nerlo inventato), è evidente che il Concerto in re, pur estre mamente virtuosistico, urtava la jorma mentis di un virtuoso di gusto arcaico come il Wittgenstein, per il quale non era concepibile che il risultato sonoro non fosse direttamente proporzionale alla fatica e allo sforzo. Era un po’ la storia, che si ripeteva, del Primo di Ciaikovsky e del Secondo di Brahms. E, come un tempo, Ravel equilibrava la scrittura del solista e la scrittura dell’orchestra in un modo che esaltava le capacità professionali delle nuove compagini orchestrali esposte ai perìcoli delle esecuzioni radiofoniche e delle incisioni di dischi, e che, nello stesso tempo, esaltava il virtuoso che a quella massa sapeva tener testa, ... con una mano sola. Non si può dire che tutti i concerti scritti negli anni 30 siano virtuosistici: anche un pezzo scritto per Wittgenstein, come le variazioni Diversions di Britten, sono di scrittura leggera, neoclassica, così come di scrittura neoclassica sono il Concerto op. 13 di Britten, il Concerto di Petrassi, il Concerto per Muriel Couvreaux di Dallapiccola, il Concertino di Walter Piston, il Concerto op. 35 di Shostakovic per pianoforte, tromba e orchestra, il Concertino in stile classico di Lipatti, il Concertino di Martinu (per non parlare di lavori alieni da preoccupazioni di linguaggio e di stile, come il Concerto di Jean Fran^aix).
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Anche il Concerto n. 5 di Prokofiev, che è difficilissimo, si muove in prospettive neoclassiche, sfruttando l’impegno atletico dell’esecutore per ottenere sonorità taglienti invece che complesse combinazioni di timbri. Negli anni 30 il massiccio virtuosismo di fine Ottocento riacquista però pian piano diritto di cittadinanza, e non solo tra i compositori rimasti legati ad un’epoca tramontata. Se un compositore come Nicolai Medtner, nato nel 1880, scrive tra il 1942 e il 1943 un Concerto n. 3 in mi minore che avrebbe potuto tranquillamente essere presentato nel 1899 come saggio per ottenere nella Russia zarista la qualifica di “libero artista”, anche un cervello come Bartók torna nel 1930-31, nel Concerto n. 2y ad una concezione che sembrava aver fatto il suo tempo. La novità di linguaggio non significa ricerca dì una diversa concezione di struttura. La ricerca è spostata semmai sui timbri, perché nel primo tempo Bartók riprende la vecchia idea di Stravinsky (pianoforte e fiati) e nel secondo tempo lavora di preferenza su pianoforte e archi. Per quanto riguarda però l’idea di “concerto”, di cui ci stiamo qui occupando, nel Concerto n. 2 di Bartók non si tratta solo più di controllare la qualità di suono di ogni nota, ma di fare una fatica da pazzi per riuscire ad eseguire lo spaventoso numero di note che l’autore ha scritto: sono di nuovo necessarie le qualità atletiche del Concerto n. 1 di Ciaikovsky, del Terzo di Rachmaninov, del Secondo di Prokofiev, e persino Bartók, che esegue spesso il Totentanz di Liszt, dovrà confessare ad un’amica, dopo un’esecuzione a Bruxelles, di essersi trovato in difficoltà. Di una difficoltà tecnica da metter spavento è la Sinfonia concertante di Karol Szimanowski, difficilissimi sono il Con certo n. 2 op. 61 di Ernst Toch, il Concerto in si bemolle minore op. 31 di Kurt Atterberg, il Concerto n. 1 di Pavel Bofkovec, il Concerto sinfonico di Furtwangler, il Concerto di Arthur Bliss, il Concerto di Kathciaturian (neoromantico anche nelle scelte di linguaggio), il Concerto di Carlos Chavez. Il Concerto op. 42 di Arnold Schonberg (1942) rappresenta un caso a parte. Il virtuosismo strumentale aveva interessato
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Schonberg, che personalmente era modestissimo violoncelli sta, come gli interessava tutto ciò che aveva avuto una rilevanza storica. Nel 1932-33, trascrivendo per violoncello e orchestra un concerto per clavicembalo del composi tore barocco G.M.Monn, Schonberg aveva offerto ai violon cellisti contemporanei uno di quei rompicapo tecnici che un esecutore su dieci riesce a risolvere con disinvoltura; nel 1935-36 era tornato verso il virtuosismo nell’infernale Concer to per violino. Nel Concerto per pianoforte il virtuosismo è invece il punto di arrivo di una progressione, l’ultimo approdo di una panoramica sui rapporti tra il solista e l’orchestra. Il Concerto, che è in quattro tempi collegati, risente certamente del Concerto n. 1 di Liszt e più in generale della tradizione iniziata con la Wanderer-Fantaisie di Schubert, con la fusione in uno dei quattro tempi della sinfonia classica e con l’unificazione tematica. Schonberg, nel Concerto per pianofor te, combina però la continuità della forma con un diverso modo di trattare lo strumento solista nei vari momenti in cui la composizione si articola. NeW Andante iniziale il pianoforte comincia da solo, en trando subito con tono colloquiale in medias res ed attirando progressivamente intorno a sé, per così dire, un numero sempre maggiore di strumenti, finché l’insieme sonoro arriva a comprendere tutta l’orchestra ma sempre “al seguito” del pianoforte, come un grande corteggio1. Nel Molto Allegro (corrispondente allo scherzo) la scrittura è frastagliata e fratta, con interruzioni e sbalzi di registro e con una completa integrazione timbrica tra l’orchestra ed un pianoforte trattato, neoclassicamente, come strumento a percussione. Nell’Adflgzo l’integrazione timbrica avviene al contrario: qui è il pianoforte che riflette come in uno specchio una densa orchestra romantica, anche in uno splendido 1 La composizione è tutta calcolata per mettere in evidenza il solista: nelle note esplicative premesse alla partitura, Schonberg scrive tra l’altro: «Il pianoforte dev’essere distintamente udibile, sia che esegua una parte principale o una parte subordinata, o anche l’accompagnamento di una parte principale».
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episodio a solo. Nel finale, Gioioso, solista e orchestra vengono contrapposti, ed il pianoforte “vince” con una scrittura che riprende progressivamente le caratteristiche brahmsiane delle prime composizioni di Schonberg. L’“impaginazione” è molto netta ed i trapassi sono graduati solo nel finale; il contenuto emotivo del lavoro è sempre intensissimo, teso, certamente stupefacente in un uomo che stava per compiere i settantanni. Ma ancora più stupefacente è a parer nostro la capacità, in un non-pianista, di sintetizzare in poco più di venti minuti di musica un’esperienza storica secolare, riducendo all’essenziale una tradizione straordinariamente ricca e sfaccettata. Più che un concerto, potremmo dire, un saggio in forma di concerto, un romanzo-saggio: la più lucida sintesi, nel genere del concerto, che tutto il Novecento ci abbia dato. I compositori la cui collocazione storica si era definita nel periodo tra le due guerre concludono senza sommovimenti, nel dopoguerra, la loro attività creativa: così Poulenc scrive nel 1949 un Concerto più ancor neorococò che neomozartiano, Hindemith scrive il suo Concerto nel 1945, Ghedini nel 1946, Milhaud arriva al Concerto n, 5 nel 1955, Villa Lobos si scatena con cinque concerti tra il 1945 e il 1954; tra i “senatori” solo Stravinsky non si fa superare dai tempi nei brevi Movements del 1958-59. Possiamo dunque indicare il Concerto di Schonberg, lavoro di sintesi storica definitiva, come la composizione che chiude l’epoca tra le due guerre, tutta segnata da ripensamenti, da riflessioni, da analisi del passato. All’importanza della creazio ne non corrisponde di certo la popolarità, perché tutti i concertisti affermati degli anni 40 girano molto al largo dal Concerto di Schonberg ed anche oggi, tra i pianisti più celebri, solo Brendel e Pollini lo hanno in repertorio. L’ampliamento del repertorio, che si trova ad una svòlta decisiva quando vengono riscoperti i concerti di Mozart, porta del resto rapidamente ad una restrizione del campo aperto alle novità. Non tanto perché il repertorio limiti in assoluto le possibilità di esecuzione: sia presso le istituzioni sinfoniche, sia soprattutto presso le stazioni radiofoniche
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vengono eseguiti nell’ultimo sessantennio centinaia e centi naia di concerti e del più vario tipo, dal concerto parabachiano e paramozartiano al concerto paralisztiano al concerto parastravinskiano, fino all’Gaggio a Brahms che è il sottoti tolo del Concerto n. 3 del norvegese Geirr Tveitt. I concerti o pezzi nuovi che entrano in repertorio, e cioè che vengono rieseguiti ogni anno e da più esecutori, compresi i maggiori, sono però pochissimi, tanto che, si può dire, l’ultimo lavoro che fin dall’inizio ottenga una vera popolarità è la Rapsodia su un tema di Paganini di Rachmaninov (1934). Rachmaninov tornava a comporre per pianoforte e orche stra con quella prudenza e con quell’attenzione a non lasciarsi tacciare di sentimentaloide e di uomo di altri tempi che aveva già dimostrato nel Concerto n, 4: riprendendo il tema del Capriccio n. 24 di Paganini, già usato da Liszt e da Brahms, scriveva una serie di variazioni brillantissime ma di scrittura molto lineare e secca, un po’ alla Stravinsky2. Da grande esperto del gusto del pubblico, Rachmaninov citava però anche il Dies Irae, inserendo nel quadro burattine sco un tocco di umorismo nero, e a metà del lavoro, mascherandosi dietro un ineccepibile procedimento da alta scuola di contrappunto — tema per moto contrario — cavava fuori dal cappello una melodia di song che avrebbe potuto finir dritta dritta in un film di Grace Moore o di Deanna Durbin. E qui Rachmaninov citava tranquillamente, nella scrittura pianistica, il se stesso del Concerto n. 2. Lavoro di un’abilità e di un cinismo epici, degni di SaintSaèns e con un tocco di violenza slava a Saint-Saèns sconosciuto, la Rapsodia ottenne un successo travolgente e rimase in repertorio, conquistandosi una popolarità che va anche al di là del pubblico tradizionalmente legato alla musica “seria”. 2 Dopo Rachmaninov lavorò ancora sul Caprìccio n. 24 di Paganini il compositore italiano Enrico Bormioli (Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra, 1941). Sempre nel 1941 Witold Lutoslawski scrisse le Variazioni su un tema di Paganini per due pianoforti, basate in gran parte sulla versione lisztiana del Caprìccio n. 24; nel 1978 le Variazioni furono trascritte da Lutoslawski per pianoforte e orchestra.
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Avevamo detto prima che l’origine ideologica dei concerti di Rachmaninov è da ricercare più in Anton Rubinstein che in Ciaikovsky. Sfugge a Rachmaninov, o non gli interessa, il concetto di “concerto per orchestra con pianoforte” che costituisce a parer nostro il maggior contributo di Ciaikovsky alla storia del genere e che viene da Ciaikovsky coerentemen te sviluppato. Ciò è vero per ì primi tre concerti di Rachmaninov, scritti prima della guerra, ma non lo è più per il Concerto n. 4 e per la Rapsodia. Il carattere “moderno” del Concerto n. 4 non fu gradito dal pubblico e fu giudicato dalla critica troppo limitato e sospetto di opportunismo. Ma con il Concerto n. 4 — che proprio per questa ragione comincia oggi ad interessare anche criticamente — Rachmaninov modificava le sue conce zioni del rapporto tra pianoforte solista e orchestra, acquisen do il virtuosismo dell’orchestra che era già stato di Ciaikovsky e che era di Prokofiev. Questa concezione diventa matura nella Rapsodia su un tema di Paganini, in cui la forma a variazioni, con i suoi rapidissimi mutamenti di scena, consente a Rachmaninov di trattare in modo fortemente virtuosistico anche l’orchestra. L’uso della variazione come occasione di virtuosismo sui timbri era stato individuato, se non siamo male informati, da Ernò Dohnànyi nelle Variazioni su un tema infantile op. 25 del 1913, che non godono della notorietà a cui potrebbero legittimamente aspirare, ed era stato ripreso dal Gershwin delle Variazioni su «I got Rhytm» del 1934. Rachmaninov e Dohnànyi non simpatizzavano con le avanguardie, a cui era del resto indifferente anche Gershwin. Ma la variazione, occasione di virtuosismo coloristico, non diventa necessariamente occasione di disimpegno. In questo senso sono da segnalare soprattutto, oltre alle già citate Variazioni su un tema di Beethoven di Franz Schmidt (1923) e Diversions op. 21 di Britten (1940), entrambe per mano sinistra, le Variazioni e fuga op. 11 (1932) del compositore svedese ventiquattrenne Gunnar de Frumerie, lavoro di fortissimo impegno ideologico e di rilevanti esiti. Né la gaiezza divertita di Dohnànyi e di Gershwin, né la
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serietà e la sapienza artigianale degli altri colpirono tuttavia l’immaginazione del pubblico, al contrario di ciò che avvenne con quel cocktail di ironia, sentimentalismo e umorismo nero che è la Rapsodia di Rachmaninov. Rachmaninov fu del resto il compositore a cui guardarono le larghissime platee del cinema, negli anni 40 e 50, sia per quel Breve incontro di cui s’è già detto sia per quoti’Accadde in settembre in cui l’intellettualmente fatalissima Joan Fontaine studiava il Con certo n. 2 cacciandovi dentro le note di una canzone che le ricordava il tipo di cui era amoureuse alla follia. Un po’ di larga popolarità l’ottenne anche il Concerto di Grieg quando venne “suonato” in film da Ingrid Bergman, concertista in lite con il marito per svariati motivi, tra cui divergenze di opinione sull’interpretazione della cadenza, appunto, del Concerto di Grieg. La quale Ingrid Bergman salvava in un altro film Gregory Peck, preda di fantasmi freudiani, mentre nel sottofondo muggivano le note alla Rachmaninov dello Spellbound Concert composto per l’occasione da Miklos Rosza. Rachmanineschi erano due altri pezzi per pianoforte e orchestra che imperver sarono alla radio negli anni 40, la Comiscb Rhapsody di Hubert Bath e il “Negev” Concerto di Abraham Ellstein. E chi non ha almeno sentito citare il successo dei successi degli anni 40, il pezzo uscito pari pari dalla costola di Rachmani nov, cioè il mai abbastanza lodato Concerto di Varsavia di Richard Addinsel, di cui si discuteva persino in La Pelle di Curzio Malaparte? Rachmaninov divenne il padre putativo di uno stile di scrittura pianistica e di melodismo patetico talmente connatu rati alla civiltà americana che ancora negli anni 60, alla ripresa dei contatti con l’Occidente, un gruppo di compositori della Repubblica Popolare Cinese confezionò, seriamente, quell’orrendo pasticcio intitolato Concerto del Fiume Giallo che qualunque buon mestierante della Hollywood anni 40 avrebbe potuto scombiccherare in una settimana. Dopo la Rapsodia di Rachmaninov, solo il Concerto n. 3 di Bartók (1945) ottenne un numero ed una frequenza di esecuzioni tali da poterlo considerare come appartenente
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al comune repertorio. Molto più facile del Secondo — Bartók, ammalato di leucemia, lo aveva scritto perché sua moglie, pianista brava ma non bravissima, avesse disponibile una novità che le garantisse un certo numero di ingaggi —, il Terzo è un lavoro di strutture tradizionali razionalmente articolate e con un pianoforte che compostamente e dolce mente trova sonorità da antico organo nel commovente Andante religioso. Molto eseguito nei primi anni dopo la morte di Bartók, il Terzo fu poi lasciato in disparte, ma dalla fine degli anni 70 è stato ripreso frequentemente3.
3 Tra i “ricorsi storici” del concerto è da citare nei primi anni del dopoguerra un interesse, per la composizione, di interpreti molto noti: scrivono allora concerti Robert Casadesus, Yves Nat, Samuel Feinberg, Gino Gorini, Samson Francois, Pierre Sancan, Tatiana Nikolaieva. Più tardi — 1966-68 —John Ogdon comporrà un Concerto di notevoli qualità spettacolari, da grande virtuoso, più tardi ancora, nel 1975, uscirà un altro spettacolare lavoro virtuosistico dovuto ad un pianista, il Caprice sur le nom de Schonberg di Noel Lee. Dopo Bartók e Prokofiev non abbiamo però più, com’è evidente, nessun pianista che sia altrettanto grande come compositore e come interprete. t
DELIZIE, VERTIGINI, RIMPIANTI, CHIMERE
Con il Terzo di Bartók si chiude veramente Fattuale repertorio, che comprende circa una settantina di concerti e pezzi da concerto: quasi tutto Mozart e tutto Beethoven, qualcosa di Haydn, e Chopin, Schumann, Liszt, Brahms, Franck, Saint-Saèns, Grieg, Ciaikovsky, Rachmaninov, Ra vel, Bartok, Stravinsky, Prokofiev. I concerti di Mendelssohn e il Concertstuck di Weber sono eseguiti non di frequente, rare le esecuzioni del Concerto di Busoni. Una certa notorietà hanno ottenuto il Concerto n. 2 (1975) di Shostakovic in tutto il mondo, negli Stati Uniti la Sinfonia n. 2 «The age of anxiety» di Bernstein (1949), con pianoforte solista, e il neoromantico Concerto op. 38 di Samuel Barber (1962), nelTUnione Sovietica il Concerto n. 2 di Tichon Krennikov (1971) e il Secondo e il Terzo di Rodion Scedrin (1966 e 1973), in Inghilterra il Concerto n. 2 di Alan Rawsthorne (1951) e il Concerto di Michael Tippett (195355), nell’Europa centrale il Concerto n. 2 di Frank Martin (1968-69), in Nord e Sudamerica i due concerti di Alberto Ginastera (1961 e 1972). Negli ultimi quarant’anni i compositori che tengono conto del gusto medio del pubblico e delle condizioni organizzative delle istituzioni hanno potuto far circolare le loro composizio ni contando, come i loro colleghi di fine Ottocento, su un tempo di sfruttamento di circa dieci anni. Nessun nuovo concerto — al contrario di quanto era avvenuto con Grieg, con Ciaikovsky, con Brahms, con Franck, con Rachmaninov — ha però ottenuto una vera popolarità, ed all’opposto uno solo, per quanto è a nostra conoscenza, ha fatto evolvere un poco l’idea stessa di “concerto”.
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Tra i più interessanti lavori degli ultimi trentanni, se un difetto di informazione non ci fa velo, è in questo senso il Concerto di Eliott Carter, composto tra il 1964 e il 1965. L’idea di Carter è di una competizione o tenzone tra il pianoforte, un piccolo gruppo di strumenti, l’orchestra intera. Idea che, in verità, diventa evidente ed emozionante per l’ascoltatore solo nella parte finale di una composizione in due tempi e che dura più di venti minuti. Ma appunto negli ultimi minuti il lavoro si distingue per una capacità di coinvolgimen to emotivo molto alta, quando i blocchi violenti di suono dell’orchestra fanno progressivamente tacere il pianoforte e il piccolo complesso (ma chi termina è il pianoforte da solo, che riesce a “sopravvivere”). Altre composizioni hanno invece superato il concetto di “concerto” e impiegano semmai il pianoforte nel contesto di ricerche o linguistiche o timbriche significative nella recente creazione musicale. Noteremo intanto che pochi dei protago nisti della Nuova Musica impiegarono negli anni 50 il pianoforte con l’orchestra in un modo che possa qui interes sarci. John Cage scrisse nel 1951 il Concerto per pianoforte preparato e orchestra da camera e nel 1957-58 il Concerto per pianoforte e orchestra: il primo è da ricordare per l’impiego di uno strumento il cui timbro viene modificato e fissato quasi senza possibilità di variazione dovuta all’esecutore; nel secon do è da citare soprattutto il significato ideologico che nasce dal recupero della casualità del risultato in anni in cui si tendeva a fissare nell’atto della composizione tutti i parametri della struttura sonora. Nei due pezzi Cage usa comunque il termine Concerto in un senso generico che non tiene conto — ci si scusi il bisticcio verbale — della tradizione del genere, mentre invece il Concerto di Bruno Maderna è lavoro di sintesi storica, il primo ed unico dopo il Concerto di Schonberg. Scritto nel 1959, al tramonto di un decennio cruciale nella storia della musica del nostro secolo, il Concerto di Bruno Maderna è pagina non solo poeticamente di enorme fascino, non solo linguisticamente in linea con i postulati della Nuova
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Musica, ma è anche opera che si riallaccia ad idee della tradizione, a principi strutturali archetipici. Se il linguaggio e la tecnica pianistica non sarebbero rapportabili se non al gusto tutto maderniano per la sonorità, la costruzione, la sceneggia tura sarebbe rapportabile invece a molti concerti dell’Otto cento e dell’inizio del Novecento. Così, nel flusso ininterrotto di circa diciotto minuti di musica, non solo due cadenze del solista sono collocate nei punti che avrebbero potuto scandire la fine del primo tempo e la prossima fine dell’ultimo, ma le cadenze sono seguite da episodi affidati alla sola orchestra; in genere, anzi, l’alternarsi di brani per pianoforte e per orchestra sola viene bilanciato secondo proporzioni temporali tradizionali. Già l’inizio impagina la materia in un modo che ripercorre retrospettivamente certo rituale del concerto: a) orchestra sola, b) aggancio del pianoforte all’orchestra, c) pianoforte solo, d) aggancio dell’orchestra al pianoforte. Dopo questa introduzione viene l’esposizione orchestrale, quindi un lungo episodio di pianoforte e orchestra, quindi l’orchestra da sola, quindi la cadenza. Naturalmente, il Concerto non è tematico (e perciò anche i termini “introduzione” ed “esposizione” devono essere intesi in senso traslato), ma la presenza musicale mima con irresistibile suggestione un concerto della tradizione, mentre il gioco della memoria ancestrale e del superamento radicale delle poetiche tradizionali è condotto da Maderna in un modo che evita le lacerazioni dì cui avevano allora coscienza Boulez e Stockhausen. Si ripensa alla vertiginosa sintesi storica della Sonata di Liszt, che un secolo prima aveva colto in un irripetibile punto di equilibrio l’ansia di progredire senza rinunciare a ripensare il passato. E, non meno della Sonata di Liszt nel suo secolo, anche il Concerto di Maderna resta isolato nel nostro come miracolo di intuizione che non ha seguito ma che segna il momento culminante di un’epoca. Tra gli altri compositori legati all’esperienza della Nuova Musica, Jannis Xenakis scrive nel 1969, nel 1974 e nel 1986
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tre partiture per pianoforte e orchestra, Sinaphai, Erìkhthon, Keqrops, di una eccellente qualità estetica ma non segnalabili per particolari novità di concezione o di scrittura1. Molto notevoli erano state invece le ricerche di Olivier Messiaen sulla timbrica del pianoforte messa a confronto con i timbri di altri strumenti. Messiaen, che nella Turangalila Symphonic (1946-48) aveva affidato al pianoforte un’importante parte solistica, scrive poi ben quattro composizioni per pianoforte e orchestra: Le Réveil des oiseaux (1953), Oiseaux exotiques (1955-56), Sept Haikai (1962), Coulews de la cité céleste (1964). Non possiamo qui parlare della poetica di Messiaen, ma ricorderemo solo che la scelta del pianoforte per riprodurre i canti degli uccelli è dovuta per lui al fatto che il pianoforte è, «per l’estensione della sua gamma e l’immediatezza dei suoi attacchi, il solo strumento capace di lottare in velocità, nel tempo e negli spostamenti di altezze, con certi grandi virtuosi» [che si trovano tra gli uccelli]. Nel Réveil des oiseaux la parte pianistica è largamente preponderante e i rapporti di timbri tra il solista e gli altri strumenti sono appena accennati. Oiseaux exotiques è invece uno studio molto approfondito di rapporti e di amalgami timbrici che nascono da suoni brevissimi del pianoforte, con nettissima articolazione d’attacco e molto caratterizzati; nella piccola orchestra, in conseguenza della rigorosa delimitazione del timbro pianistico, vengono esclusi gli archi. Nei Sept Haikai il suono del pianoforte moderno, che con l’enorme tensione delle corde tende a diventare suono di lamina percossa, viene impiegato da Messiaen per timbri puri brevissimi o per agglomerati che creano timbri artificiali. Questa concezione del suono pianistico può entrare in rapporto solo con strumenti a lamine percosse e con strumenti a fiato; come in Oiseaux exotiques vengono escluse le cupe 1 Forse importante nel contesto della cultura sovietica, ma secondo noi non altrettanto in un panorama internazionale, è il Concerto di Edison Denisov (1974), che riprende le esperienze delle avanguardie occidentali in un paese rimasto a lungo culturalmente isolato.
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percussioni in pelle, le impressionistiche arpe e gli archi: restano però otto violini, che in uno spettro d’altezza ben delimitato espongono in due occasioni una melodia in sotto fondo («poco importante», dice Messiaen) e in altre occasioni creano un paesaggio appiattito e neutro. La qualità sonora della partitura — non si discute qui del linguaggio, né della poetica simbolista di Messiaen — è certamente assoluta ed i Sept Haikai rappresentano uno dei più coerenti impieghi del pianoforte in rapporto con un numeroso gruppo di altri strumenti. In Couleurs de la cité céleste le esperienze dei Sept Haikai vengono estese con lo studio dei rapporti tra il pianoforte ed un più grande gruppo di ottoni. Bisogna infine rammentare che Messiaen usa di nuovo un pianoforte solista in un’altra delle sue più complesse partiture, Des canyons aux étoiles (1971-74). Dopo Messiaen è da ricordare soprattutto, per l’attenzione con cui sceglie una sonorità pianistica delimitata e definita per metterla in rapporto con una sonorità dell’orchestra altrettan to esattamente calcolata, Salvatore Sciarrino. Clair de lune (1975) è un brevissimo pezzo in cui l’estrema difficoltà tecnica serve a rendere impossibile sia la sonorità cantante romantica sia la sonorità pungente del neoclassicismo; la difficoltà, in altre parole, non permette l’intervento dell’ese cutore nella scelta timbrica della sonorità, che viene invece univocamente fissata dall’autore. Lo stesso strettissimo rap porto tra scrittura e timbro si nota nel vastissimo Un"immagi ne di Arpocrate (1976-80), che risponde però più a concetti simili a quelli del Prometeo di Scriabin o della Quarta Sinfonia di Ives che a quelli tradizionali del concerto. La scrittura di Sciarrino si lega almeno indirettamente alla polemica contro gli arbitri degli esecutori iniziata negli anni del neoclassicismo da Stravinsky. La polemica stravinskiana era però — l’affermazione, speriamo, non parrà stravagante — di natura più morale che tecnica, perché la scrittura di Stravinsky non restringeva poi radicalmente il campo di possibilità dell’esecutore. La scrittura pianistica di Dallapicco la, ad esempio, era invece, sotto questo aspetto, molto più efficace di quella di Stravinsky, ed efficacissima è la scrittura
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di altri, tra i quali Sciarrino. Resterebbe da vedere se l’efficacia non sia però transitoria e se gli esecutori, sviluppan do ulteriormente la tecnica, non possano in futuro recuperare un campo di scelta. Un preciso, oggettivo e duraturo riferimento alla sonorità voluta dall’autore si ha invece quando la composizione prevede l’uso di materiale registrato. I primi lavori in cui al pianoforte e all’orchestra venga aggiunto il nastro magnetico con suoni preregistrati sono Eurhytmical Voyage di Bo Nilsson (1970) e Como una ola de fuerza y luz di Luigi Nono (1972). Nella composizione di Nono — partitura scritta in memoria del rivoluzionario cileno Luciano Cruz, di grande forza evocativa e simbolica — il nastro scorre anche quando non contiene suoni, e quindi il direttore d’orchestra deve calcolare il tempo con l’ausilio di un cronometro. La velocità di esecuzione resta così rigorosa mente fissata ed il suono “dal vivo” deve legarsi timbricamen te al suono “dal nastro”; il campo delle possìbili variazioni timbriche e dinamiche diventa quindi molto ristretto, ed il campo delle possibili variazioni agogiche viene limitato ad un leggero rubato intorno a scansioni cronometriche. La concezione tradizionale dell’esecuzione muta radical mente e, sebbene non si tocchino affatto quelle forme di automatismo che la nostra schematica descrizione potrebbe far supporre, la volontà creativa del compositore resta fissata anche in un dato concreto, la musica del nastro, di cui gli interpreti devono tener conto in ogni momento. Le composizioni con nastro magnetico non sono per ora frequenti, forse anche perché — e non stupisca la motivazione di ordine pratico — il nastro impone l’impiego di apparecchia ture che poche società di concerti hanno in dotazione permanente. Il concerto sinfonico, nato come istituzione culturale della borghesia imprenditoriale e voltosi alla conservazione di un repertorio storico, viene condizionato anche dall’evoluzione dei rapporti di lavoro; le società scritturano a condizioni stabilite da contratti collettivi il gruppo di strumentisti — tra ottanta e cento — che serve per eseguire il repertorio, tenendo come base fissa l’orchestra che si può definire
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brahmsiana; ogni deviazione da questo “organico”, ogni aggiunta, ogni utilizzazione in termini non sanciti dal costume tradizionale comporta problemi di interpretazione contrattua le che le società temono in modo addirittura patologico. A ciò s’aggiunge, nel caso del nastro registrato, il problema del reperimento e del noleggio delle apparecchiature e dei tecnici specializzati. Le difficoltà di diffusione che la musica contemporanea incontra nascono anche dalla sua incapacità di crearsi strumenti istituzionalmente atti alla sperimentazione, e la relativa diffusione che è garantita dai sindacati dei compositori e da regole stabilite o accettate dai sowenzionatori (sia pubblici che privati) finisce per favorire quei compositori che impiegano i mezzi tradizionali in modo non troppo difforme da quello tradizionale. Difficoltà organizzative e costi di esercizio maggiorati hanno quindi impedito che dalla fase della ricerca sperimenta le si passasse alla fase della normale utilizzazione di nastri preregistrati nel tradizionale rapporto pianoforte-orchestra. Dopo Nono si possono citare poche composizioni per piano forte, nastro e orchestra, e tra di esse, per quanto è a noi noto, è da segnalare soltanto Tristan (1973) di Hans Werner Henze, già autore di due tradizionali concerti2. Tristan è un polittico in sei tempi (Sei Preludi) che utilizza materiale sonoro di varia provenienza (un frammento della Sinfonia in do minore di Brahms, un frammento della Marcia funebre di Chopin eseguita su una pianola, un frammento del rinascimentale Lamento di Tristano, un pezzo per pianoforte preparato, il finale del Tristano e Isotta di Wagner, un frammento di Gottfried von Strassburg recitato da un bimbo), elaborato ed utilizzato come contenuto di valore simbolico-autobiografico, come citazione e testimonianza so nora più che come nuovo elemento di costruzione di una struttura musicale. 2 Anche la semplice amplificazione del suono pianistico, senza nastro preregistra to, ha avuto poche applicazioni a causa delle difficoltà tecniche che provoca: si può ricordare solo il Concerto n. 2, del 1974, di Charles Wuorinen. Si noterà che l’uso di apparecchiature elettroacustiche riguarda soltanto l’inizio degli anni 70.
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Il Tristan, opera di un compositore che aveva più volte cercato di interessare alla sua musica un pubblico vasto mediante indicazioni di natura programmatica facilmente comprensibili a tutti, ottenne al suo apparire una insolita notorietà. Ed una grande eco pubblicitaria ottenne lo “sconfi namento” verso la musica “seria” del celebre pianista jazz Keith Jarrett. In alcuni pezzi per pianoforte solo di Jarrett, come la suite The moth and the flame, si era notato lo studio ingenuo, e quindi fortemente creativo, della tradizione colta occidentale. L’interesse e la curiosità suscitate dai pezzi per pianoforte solo non si rinnovò però in un vasto lavoro per pianoforte e orchestra di Jarrett, Celestial Hawk (1980). Celestial Hawk (Il falcone celestiale), ispirato ad un uccello mitologico, vuol essere un vero e proprio concerto in tre tempi di concezione tradizionale. L’ingenuità, che nei pezzi per pianoforte solo diventava capacità di scoperta e forza di assimilazione ricreativa, viene in Celestial Hawk sostituita dal timore, dalla responsabilità di scrivere una partitura con tutti i crismi della professionalità, una partitura “presentabile” ad un’orchestra sinfonica e al pubblico delle stagioni sinfoniche. La parte pianistica, pur essendo quantitativamente rilevante, non è però di esecuzione veramente difficile senza che ciò significhi denuncia di una crisi del virtuosismo, ed il pezzo nel suo complesso non trova d’altra parte una definizione poetica tale da isolarlo nella secolare tradizione della composizione per pianoforte e orchestra. Le composizioni che, come quella di Jarrett, ambiscono programmaticamente all’inserimento nelle stagioni sinfoniche e che ricercano quindi un rapporto non conflittuale con l’organico delle orchestre, con la normativa dei contratti di lavoro e con quella media del gusto che è espressa collettiva mente dal pubblico degli “abbonati”, sono a parer nostro sociologicamente molto significative. Soprattutto perché gli sforzi che vengono operati in questa direzione non ottengono duraturo successo. Avendo parlato prima del Concorso Rubinstein possiamo qui accennare al Concorso Regina Elisabetta del Belgio: gara
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per esecutori, non anche per compositori-esecutori, ma che assegna ai dodici finalisti un concerto per pianoforte e orchestra, scritto appositamente, da preparare nel termine di due settimane. Si tratta per il compositore, più che di un atto creativo, della stesura di un test con cui si misurano certe capacità professionali del concorrente, ma che rivela anche, proprio per questa ragione, il quid medium che qualifica ai giorni nostri il concerto tradizionale per pianoforte e orchestra. Nella prima edizione del Concorso Regina Elisabetta del Belgio, 1938, il compositore scelto dagli organizzatori fu Jean Absil, che fornì il breve ma succoso Concerto n. 1 op. 30. Absil, nato nel 1893, era di formazione culturale francese ed aveva sottomano esempi recenti di concerti per pianoforte e orchestra — basti pensare ai due di Ravel — che stavano entrando trionfalmente in repertorio. Gli anni 30 erano stati del resto, come abbiamo visto, fecondissimi di concerti. L’esecuzione di un concerto inedito, stilisticamente riferibile a modelli recentissimi e virtuosisticamente impegnativo, diventava dunque la dimostrazione di una capacità del pianista di rispondere rapidamente e correttamente a richieste delle società di concerti sinfonici, ancora frequentemente interessate alla programmazione di nuovi lavori (il Concorso fu vinto da Gilels; tra i finalisti c’erano il diciottenne Benedetti Michelangeli, la Lympany, Flier). Come abbiamo già detto, nel dopoguerra il repertorio corrente cominciò però a svilupparsi verso la sola conservazio ne del passato e non più verso l’acquisizione di nuovi concerti. E la più netta separazione, anzi, l’“ incomunicabili tà” di tradizione ed avanguardia fece sì che i modelli stilistici a cui far riferimento, per i compositori di tradizione accade mica, si collocassero sempre più lontano nel tempo. Se esaminiamo alcuni dei concerti composti negli ultimi decenni per il Concorso Regina Elisabetta del Belgio — il Concerto n. 2 op. 50 di Raymond Chevreuille (1952), il Concerto n. 2 di Gaston Brenta (1968), il Concerto op. 31 di Jacques Leduc (1972), il Concerto di Jef Maes (1975), il Concerto op. 69 di Willem Kersters (1978), il Concerto n. 4 di
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Frédéric Devreese (1983) — notiamo che, indipendentemente dal linguaggio, la scrittura pianistica, competentissima, oscilla fra moduli ricavati da Rachmaninov e moduli ricavati da Bartók. Il pianista che ha lavorato su Rachmaninov e su Bartók è in grado di preparare in due settimane concerti come questi, indubbiamente difficili quanto alla tecnica (e nel 1952 il vincitore Leon Fleisher imparò a memoria non solo la parte del pianoforte ma anche quella dell’orchestra). Ma al pianista non si chiede di dimostrare un’altrettanto disinvolta cono scenza di moduli ricavati da Messiaen o da Stockhausen o da Boulez, le cui maggiori opere pianistiche si collocano nel decennio successivo alla morte di Rachmaninov e di Bartók, e tanto meno si chiede loro di conoscere moduli ricavati da opere degli anni 60-70, come quelle di Carter e di Xenakis o di Sciarrino. Così, limitando la cerchia degli inviti ai compositori nazionali, il Concorso Regina Elisabetta del Belgio non si rivolge mai all’unico compositore belga contem poraneo di fama internazionale, Henry Pousseur, troppo legato alle avanguardie. Né le considerazioni cambiano quando dal campo del concorso si passa al campo della vita musicale e si esaminano concerti, scegliendo un po’ a caso, come quelli dello svedese Erland von Koch o dell’americano Robert Suderburg, che hanno qualche ambizione di “modernità”, o come quelli di Miklos Rosza o del venerando Anatoli N. Alexandrov (che scrive il suo unico Concerto nel 1974, a ottantasei anni), che puntano a riproporre pari pari il buon tempo antico. Finora, questo sogno sembra esser riuscito al solo Evgenij Svetlanov, direttore d’orchestra prima che pianista e compositore, che alla metà degli anni 70 scrive un Concerto il cui linguaggio potrebbe essere del 1890, e che pure esprime una inequivoca bile forza creativa. Eccettuato Svetlanov, più ricco di potenzialità rispetto al ricalco stilistico, al ricalco dì moduli, si dimostra il ricalco, per così dire, sul campione. In questo senso è da segnalare il Concerto n. 1 di Hubert Stuppner, scritto nel 1983, che si rapporta palesemente al Concerto in sol di Ravel.
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La pubblicistica musicale non ha ancora inventato un termine che definisca sinteticamente il tipo dell’operazione condotta dallo Stuppner nel Concerto n. 1. Si può perciò prendere a prestito un termine largamente adottato dalla critica cinematografica: remake. Il remake è il rifacimento di un film in qualche modo esemplare, che parte e dalla sceneggiatura originale — canovaccio predisposto per la creazione del regista — e dalla realtà ultima della pellicola, del prodotto artistico finito. Considerando il Concerto in sol di Ravel come sintesi manieristica dell’idea stessa di concerto e quindi, in un certo senso, come ricalco di una astrazione, lo Stuppner riprende, dell’originale a cui fa capo, certi tratti della struttura formale e dell’impaginazione degli eventi, modificandone, scrivendo ne ex-novo la superficie. Ad esempio, nel primo tempo, dopo un’introduzionedivertimento, tematico, di dodici battute, il pianoforte inizia il caratteristico disegno in doppie terzine mentre il flauto piccolo fa sentire ripetutamente l’intervallo iniziale del primo tema del Concerto di Ravel. L’ascoltatore riconosce perfetta mente l’originale, che non risulta affatto ermeticamente celato, ed è in grado poi di prevedere quello che accadrà ma senza sapere come accadrà. Così nel primo e nel terzo tempo. Nel secondo tempo il remake non è invece diretto, ma è semmai, per così dire, di atmosfera: è l’idea della notte incantata nella cultura francese, l’idea in cui Ravel si ritrova con Saint-Saèns e con Bizet. Il lavoro dello Stuppner è in tutto il Concerto intellettualmente molto sottile e controllato, ma nasce da una fortissima affinità emotiva e non sfiora, nonché la caricatura, neppure il grottesco. Sebbene si possa parlare, in senso lato, di “ricom posizione” al modo del Pulcinella di Stravinsky, gli esiti poetici sono quelli di una disarmata naìveté, ed il Concerto si presenta con caratteristiche di novità quali da tempo non si riscontravano più nel genere. Da qualsiasi parte si consideri la realtà di oggi — dell’accademismo, del tradizionalismo, dell’avanguardia, della neoavanguardia — non si può affermare che la storia del
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pezzo per pianoforte e orchestra sia conclusa, ma si può dire che sembra finita la storia del concerto come opera di repertorio e come genere. La storia del repertorio finisce per ora con il Concerto n, 3 di Bartók, la storia del genere finisce a parer nostro con il Concerto di Maderna; continuano gli impieghi del pianoforte in orchestra, ma sono diventati sempre più rari, sempre più eccezionali i ritorni dei caratteri, ideologici se non formali, da cui il genere fu caratterizzato. Si scrivono e si eseguono molti concerti ed il genere sopravvive, soprattutto entro certe aree culturali, come residuo accademico, al modo del poema cavalleresco nel Seicento. Non è detto, naturalmente, che il genere non possa rivivere o che non possa piuttosto trovare, a celebrarne la scomparsa, il suo Cervantes.
CATALOGO DI CONCERTI
U commento di ogni concerto è preceduto nell’ordine dai seguenti dati: titolo, tonalità, numero d’opera o numero di catalogo; tempi e relative tonalità; dedica; data di composizione; luogo, data e interpreti della prima esecuzione; luogo, editore e data della prima edizione; formazione dell’or chestra.
Quando un dato non è noto ai dà — in suo luogo — una linea. I titoli vengono indicati di norma in italiano, a meno che il titolo nella lingua originale non assuma uno speciale significato. Le indicazioni di tempo sono quelle della partitura e sono seguite, in parentesi, dalla tonalità e dal metro. I tempi collegati sono separati mediante un trattino. Le indicazioni di tempo sono quelle della partitura, ma il C viene indicato con “tempo ordinario” e il c con “tempo tagliato”. Nelle dediche non vengono riportate, quando esistono, le formule di cortesia (ad esempio, «a... con amicizia»). Nell’elenco degli strumenti vengono impiegate le seguenti abbreviazioni: fi. ott. cl. fg. cr. tr. trb. tb. tp. pere. vi. I vi. Il v.le ve. cb.
flauto/i ottavino clarinetto/i fagotto/i corno/i tromba/e trombone/i tuba timpani strumenti a percussione violini primi violini secondi viole violoncelli contrabbassi
L’indicazione “archi” viene usata quando il complesso è formato da violini primi e secondi, viole, violoncelli, contrabbassi. »
JOSEPH HAYDN
(Rohrau, 31 matzo 1732 — Vienna, 31 maggio 1809)
CONCERTO IN RE MAGGIORE H (HOBOCHEN) XVIII: 11 • Vivace (re maggiore, tempo ordinario). □ Larghetto (la maggiore, 3/4). □ Rondo all’Ongharese. Allegro assai (re maggiore, 2/4) — Minore — Maggiore.
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Senza dedica. 1782 circa.
• •
Artaria, Vienna, 1784? 2 ob., 2 cr., archi.
Il Concerto in re maggiore “per clavicembalo o pianoforte” di Haydn venne forse pubblicato, ma la notizia non è del tutto sicura, a Vienna nel 1784; poi figurò nel catalogo di vari editori di fine Settecento. La sua destinazione al clavicembalo non sembra impro babile, anche se in quegli anni Mozart stava già componendo ed eseguendo in pubblico la grande serie dei suoi concerti viennesi per pianoforte. Si può ragionevolmente supporre che il Concerto di Haydn venisse scritto verso il 1782, quando Haydn non conosceva ancora i concerti di Mozart; ed è facile notare che dopo il Concerto in re maggiore, suo undicesimo per strumento a tastiera, Haydn abbandonò per sempre il genere, che con Mozart trovava uno sviluppo incredibilmente rapido. Mentre Mozart era un grande pianista, Haydn era direttore d’orchestra ed aveva allora familiare solo la tastiera del clavicemba lo. Da qui la supposizione che la destinazione al clavicembalo fosse primaria rispetto a quella alternativa, indicata nell’autografo, al pianoforte. Il Concerto di Haydn è comunque molto più semplice, e strutturalmente e strumentalmente, dei coevi concerti di Mozart. Più semplice strutturalmente, perché il primo tempo haydniano è basato su un solo primo tema principale ed uno secondario invece dei due o più di Mozart; strumentalmente, perché manca in Haydn
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Haydn: Concerto H XVIII:11
l’invenzione tecnica che fiorisce prodigiosamente nei concerti di Mozart. Strutturalmente e strumentalmente, ma anche concettualmente, il Concerto di Haydn era pensato per i dilettanti invece che per i professionisti, ed era perfettamente adeguato ai suoi fini. Eseguito da dilettanti o da allievi durante il Settecento e T Ottocento, nel nostro secolo fu trascritto per il pianoforte moderno, in un modo che, elevandone la difficoltà tecnica, riusciva a farlo apprezzare dai concertisti (a testimoniare questa fase resta l’edizione curata da un famoso didatta, Robert Teichmuller). Più tardi il Concerto, ormai molto gradito al pubblico, venne ripreso dai concertisti nella versione originale e, contemporaneamente, venne riproposto dai claviccmbalisti; oggi esso viene eseguito anche dagli specialisti del pianoforte settecentesco, il cosiddetto fortepiano. La storia dell’interpretazione del Concerto è dunque assai complessa e la sua riproposta, oggi, sul pianoforte moderno richiede scelte stilistiche molto difficili e delicate: paradossalmente, un pezzo scritto per il divertimento dei dilettanti è diventato alla fine un puzzle per i professionisti. La struttura del primo tempo, come già accennato, è quella tradizionale per quanto concerne la griglia delle tonalità; il secondo tema si articola però in una citazione del primo tema (in la maggiore nell’esposizione) e in un elemento tematico contrastante (in la minore). Lo sviluppo è elementare e la riesposizione non presenta novità. Esiste una cadenza originale che viene generalmente adottata dagli interpreti. Il secondo tempo è una forma-sonata in miniatura, ma di struttura molto ben definita e densa di contenuti; la cadenza è originale. Il finale “all’ongharese” è tra i più antichi esempi di inserimento di citazioni o di stilemi di musica popolare nella musica colta. Non solo il carattere melodico del tema principale richiama la musica ungherese che Haydn aveva ben conosciuto durante il lungo periodo della sua permanenza a Esterhàz: anche la costruzione delle frasi è “irregolare” (sei battute invece di quattro, con una tipica ripetizione delle prime due o delle seconde due battute di una frase “regolare” di quattro). La forma di rondò viene variata con l’inserimento di due temi in modo minore, uno in re minore ed uno in si minore. Non è prevista la fermata per la cadenza.
WOLFGANG AMADEUS MOZART
(Salisburgo, 27 gennaio 1752 — Vienna, 5 dicembre 1791)
CONCERTO IN FA MAGGIORE K (KÒCHEL) 37 (n. 1)
• Allegro (fa maggiore, tempo ordinario). Adattamento di Mozart dalla Sonata op. 1 n. 5 di Hermann Friedrich Raupach. □ Andante (do maggiore, 3/4). Adattamento da una composizione di autore sconosciuto. □ Senza indicazione di tempo, ma probabilmente Allegro (fa maggiore, 3/4). Adattamento dalla Sonata op. 2 n. 3 di Leontzi Honauer. Senza dedica. • Salisburgo, aprile 1767.
• Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1877. • 2 ob., 2 cr., archi. CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE K 39 (n. 2) • Allegro spiritoso (si bemolle maggiore, tempo ordinario). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 1 di Raupach. □ Andante (fa maggiore, tempo ordinario). Adattamento dalla Sonata op. 17 n. 2 di Johann Schobert. □ Molto Allegro (si bemolle maggiore, 2/4). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 1 di Raupach. • Senza dedica. • Salisburgo, giugno 1767.
• Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1877. • 2 ob., 2 cr., archi. CONCERTO IN RE MAGGIORE K 40 (N. 3) Allegro maestoso (re maggiore, tempo ordinario). Adattamento dalla Sonata op. 2 n. 1 di Honauer. □ Andante (la maggiore, 2/4). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 4 di Johann Gottfried Eckard. □ Presto (re maggiore, 3/8). Adattamento da un pezzo, W 117, di Cari Philipp Emanuel Bach. • Senza dedica. • Salisburgo, luglio 1767. •
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Mozart: Concerti K 37, K 39, K 40 K 41 K 175
• Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1877. • 2 ob., 2 cr., 2 tr., archi.
CONCERTO IN SOL MAGGIORE K 41 (N. 4) • Allegro (sol maggiore, 3/4). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 1 di Honauer. □ Andante (si bemolle maggiore, 2/4). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 1 di Raupach. □ Molto Allegro (sol maggiore, 3/4). Adattamento dalla Sonata op. 1 n. 1 di Honauer. • Senza dedica. • Salisburgo, luglio 1767.
• Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1877. • 2 fi. 2 cr., archi.
I primi quattro concerti, che dal Kòchel vennero classificati come opere originali e che perciò occupano ancora i primi quattro posti nella serie da 1 a 27, sono adattamenti per clavicembalo e orchestra da composizioni per clavicembalo solo di vari autori, tutti, eccettua to Cari Philipp Emanuel Bach, residenti a Parigi. L’adattamento consiste in una trascrizione “fedele”, che rompe la struttura originale solo in vista della trasformazione da sonata a concerto, e quindi senza episodi aggiunti, sviluppi, ecc. La due trombe in orchestra del Concerto K 40 rappresentano un timido tentativo di uscire dalle convenzioni del concerto rococò. CONCERTO IN RE MAGGIORE K 175 (N. 5)
• Allegro (re maggiore, tempo ordinario). □ Andante ma un poco adagio (sol maggiore, 3/4). □ Allegro (re maggiore, tempo tagliato). • Senza dedica. • Salisburgo, dicembre 1773. • Mannheim, febbraio 1778, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • Boyer, Parigi 1784 circa1. • 2 ob., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Si veda il commento alle pp. 21-22. 1 L‘editore Boyer pubblicò i primi due tempi del Concerto K 175 e, come finale, il Rondò K 382 (vedi p. 154). Il Concerto K 175, con il primo finale, venne pubblicato a Lipsia, da Breitkop & Hàrtel, nel 1879.
Mozart: Concerto K 238
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CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE K 238 (N. 6)
• Allegro aperto (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andante un poco adagio (mi bemolle maggiore, 3/4). a Rondeau, Allegro (si bemolle
maggiore, tempo tagliato). • Senza dedica. • Salisburgo, gennaio 1776. • Monaco, 4 ottobre 1777, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • Hummel, Berlino 1792. • 2 ob. (2 fi. nell’Andante), 2 cr., archi.
Come abbiamo accennato nella prima parte, non risulta una committenza per il Concerto K 238, ma non sembra improbabile, date le caratteristiche dell’opera, che una qualche allieva o la sorella Nannerl ne fosse la destinataria. La struttura del Concerto K 238 è semplice, il discorso è piano, affabile, affettuoso, in uno stile, per così dire, da commedia borghese. Si fanno notare nel primo tempo il secondo tema, costruito su due nuclei melodici (uno sospiroso, l’altro soavemente malizioso), e l’attacco della riesposizione, con il primo tema diviso tra orchestra e solista, in un modo che preannuncia lo straordinario colpo di scena con cui inizierà il Concerto K 271, Il secondo tempo, con il soffice e delicato sfondo orchestrale creato dagli archi in sordina e dalla sostituzione dei flauti agli oboi, è una melodiosa aria fiorita che ricorda, o che trasferisce sullo strumento a tastiera la cantabilità del violino. L’esposizione iniziale della melodia risponde però ad una concezione clavicembalistica (estensione su una decimaquarta dimi nuita), che viene in parte “corretta”, ma non del tutto, nella riesposizione. Mozart, a parer nostro, non considera ancora la disuguaglianza di suono nelle diverse zone del pianoforte, e si basa invece sulla omogeneità del clavicembalo2. Delicatissimo anche il Rondò finale, il cui primo tema ha movenze eleganti di gavotta. Il carattere non virtuosistico del Concerto è messo in luce dalla conclusione: si finisce in piano, e dopo un’ultima esposizione del tema affidata alla sola orchestra, senza il solista.
2 Nella piena maturità di Mozart i temi dei tempi lenti dei concerti si sviluppano in genere nello spazio di una nona; alcune importanti eccezioni (vigesimaquarta nel Concerto K 467, decimaquarta nel Concerto K 488) appartengono a momenti di tensione iper espressiva.
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Mozart: Concerto K 242
CONCERTO IN FA MAGGIORE K 242 (N. 7) PER TRE PIANOFORTI E ORCHESTRA
• Allegro (fa maggiore, tempo ordinario). □ Adagio (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Rondeau. Tempo di Minuetto (fa maggiore, 3/4). • Senza dedica. • Salisburgo, febbraio 1776. • Augusta, 27 ottobre 1777, pianisti Wolfgang Amadeus Mozart, J.M. Demmler, J.A. Stein, direttore W.A. Mozart. • André, Offenbach 1802. • 2 ob., 2 cr., archi.
U Concerto “à tre Cembali” K 242 fu composto nel febbraio del 1776 per la contessa Antonia Lodron e le sue figlie Aloisia e Giuseppina. La committenza traspare chiarissimamente dalla scrit tura strumentale: di media difficoltà per il primo e il secondo solista, più facile per il terzo. Mozart preparò più tardi, per ragioni di praticità, una seconda versione, nella quale la parte del terzo solista viene “riassorbita” («soli accomodati à Due», dice la partitura): è questa la versione che fu pubblicata nel 1802 con il titolo «Secondo Concerto per due pianoforti» e che viene ancora talvolta eseguita. La versione a tre venne pubblicata da vari editori nella prima metà dell’ottocento. Il Concerto risente delle limitazioni di un asserto tanto difficile qual è l’impiego solistico di ben tre strumenti a tastiera. Gli effetti ricercati da Mozart sono soprattutto quelli risultanti dalle risposte tra i solisti, cioè dalla stereofonia, e quelli risultanti dal volume inusitato di sonorità che possono dare le sovrapposizioni di tre strumenti a tastiera. L’orchestra viene quindi impiegata molto marginalmente, soprattutto in funzione di sostegno sonoro. L’inven zione musicale, come è stato più volte notato, non è tale da interessare sempre chi legge la partitura. Sarebbe però importante poter studiare quali effetti spaziali si proponesse Mozart, cioè quale fosse la dislocazione dei tre solisti e dell’orchestra, da lui immagina ta. La componente “teatrale” di una composizione come questa — dislocazione e distanze delle fonti sonore rispetto all’ascoltatore — pare a noi fondamentale per una valutazione del significato della creazione, ma le analisi che del Concerto K 242 sono state fatte, e che non hanno portato a giudizi del tutto positivi, non hanno tenuto conto di questo aspetto. A noi sembra che non se ne possa prescindere, e tuttavia uno studio non ipotetico non può aver luogo, appunto perché non sappiamo come Mozart avesse collocato il suo complesso strumentale. 1
Mozart: Concerto K 246
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CONCERTO IN DO MAGGIORE K 246 (N. 8)
• Allegro aperto (do maggiore, tempo ordinario). □ Andante (fa maggiore, 2/4). □ Rondeau. Tempo di Menuetto (do maggiore, 3/4). • Senza dedica. • Salisburgo, aprile 1776. • Monaco, 4 ottobre 1777, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1800. • 2 ob., 2 cr., archi,.
Il Concerto in do maggiore K 246 fu scritto nell’aprile del 1776 per la contessa Lùtzow, allieva di Leopold Mozart. Il primo tema di questo Concerto, come di tutti i concerti del 1776-77, è costruito iniziando dallo sviluppo melodico dell’accordo tonale. La tonalità — divenuta elemento preminente di unificazione strutturale nel mo mento in cui, con il pluritematismo classico, vengono a mancare l’elemento unificante del “soggetto” barocco e del ritmo di base uniforme — viene affermata e messa in evidenza con la massima cura. Il primo tema del Concerto K 246 è, sotto questo aspetto, veramente esemplare: a) prima fase tutta sull’accordo tonale di do maggiore, con ben quattro ripetizioni dell’inciso più caratteristico; b) seconda fase tutta sulla scala di do maggiore, con quattro cadenze perfette ed un solo passaggio sul quarto grado; c) ripetizione della seconda frase. La tonalità è a questo punto talmente chiara — non solo concettualmente, ma anche auditivamente — che qualsiasi modulazione non darà più luogo ad equivoci; rispetto a questa fase dello stile classico, la svolta rappresentata dal Concerto K 449 sarà subito resa evidente dall’ambiguità tonale dell’inizio, e più avanti Mozart si varrà anche dell’ambiguità modale. Altro carattere notevole del primo tempo del Concerto K 246 è la trasformazione in tema dei tradizionali passi strumentali intercalati dal solista tra il primo e il secondo tema, e non presenti nell’esposizione orchestrale. Il tema di transizione, che nella piena maturità Mozart farà esplodere in una serie di invenzioni tematiche, non contrasta né con il primo né con il secondo tema, e non turba quindi “drammaticamente” l’equilibrio dell’esposizione, ma la ravviva con un inatteso elemento di varietà. Il secondo tempo è una forma-sonata in miniatura, con sintetica esposizione orchestrale di due temi, più ampia riesposizione degli stessi (e aggiunta di un tema di transizione) da parte del solista, episodio centrale a fantasia, riesposizione, cadenza, coda conclusiva. Il Rondò finale è, come nel Concerto K 242, un Tempo di Menuetto. Nel concerto rococò il minuetto finale è molto frequente, ma in
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Mozart'. Concerto K 246, K 271
genere in composizioni in soli due tempi. Il minuetto come finale di un concerto in tre tempi esige dimensioni più ampie di quelle consuete verso il 1770, e Mozart imposta infatti il suo Rondò su un arco architettonico assai vasto. Nel Rondò del Concerto K 246 si notano inoltre momenti in cui il solista si integra in orchestra, raddoppiando all’ottava bassa l’oboe o accompagnando i fiati. E infine da osservare che anche nel Concerto K 246, come nel K 238, una lunga chiusa è affidata alla sola orchestra. CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE K 271 (N. 9) • Allegro (mi bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andantino (do minore, 3/4). □ Rondeau. Presto (mi bemolle maggiore, tempo tagliato) — Menuetto. Cantabile (3/4) — Tempo primo (tempo tagliato). • Senza dedica. • Salisburgo, gennaio 1777. • Monaco, 4 ottobre 1777, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1792. • 2 ob., 2 cr., archi.
Il Concerto K 271 fu composto alla fine del 1776 o più probabil mente all’inizio del 1777, su richiesta di una pianista francese, una Mademoiselle Jeunehomme di cui conosciamo solo il cognome, capi tata a Salisburgo durante un giro di concerti. Dovendo scrivere per una professionista Mozart non limita più la difficoltà tecnica, e nel finale fa sfoggiare al solista una notevole agilità e resistenza; il grado di difficoltà non è tuttavia paragonabile a ciò che Mozart scriveva per proprio uso, e cioè, in quegli anni, alla Sonata in re maggiore K 284. Non si può dire che il Concerto K 271 segni la raggiunta maturità dell’autore, perché già i concerti K 173, 238 e 246 sono da considerare, in diverso modo, opere mature. Ma è certo che tra il K 271 ed i concerti che immediatamente lo precedono si nota una considerevole diversità. La struttura è in sostanza quella tradiziona le, ma molti particolari distinguono questo da qualsiasi altro concerto di Mozart. I due temi principali del primo tempo vengono dapprima esposti dall’orchestra, ma il primo tema è preannunciato da sei battute a botta e risposta tra orchestra e pianoforte, quasi come se il compositore volesse esporre subito al pubblico tutta la sua troupe. Il pianoforte riappare poi quando l’esposizione orchestrale non si è ancora conclusa, ed è questo un modo cordiale, familiare di far entrare il solista, un modo che ritroveremo in vari concerti e che definisce il rapporto mozartiano tra solista e orchestra, non di
Mozart: Concerto K 271
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supremazia o di contrapposizione ma di integrazione. La conclusio ne dell’esposizione del pianoforte è sorprendente quanto l’inizio, perché viene ancora prolungata quando sembrerebbe finita. Lo sviluppo, come spesso in Mozart, è il momento in cui è messa particolarmente in mostra la bravura del solista (incrocio della mano destra sulla sinistra) e la riesposizione non presenta novità rilevanti. Dòpo la cadenza, che fu scritta da Mozart alcuni anni più tardi, il solista interviene ancora: particolare non tradizionale, che bilancia il non tradizionale inizio. Il secondo tempo, in do minore, è una grande e patetica aria strumentale, che impiega stilemi barocchi (imitazione a canone, all’inizio), ornamentazioni vocalistiche, passi di recitativo. Un’am pia cadenza, anche questa scritta da Mozart, accentua ulteriormente il carattere Sturm und Drang del pezzo. Il finale, in forma di rondò, è un moto perpetuo virtuosistico, tagliato a metà da un Menuetto che si inserisce improvvisamente, aprendo una parentesi non solo di contrastante espressione, ma di ricerca di speciali rapporti timbrici tra il pianoforte e l’orchestra (archi in pizzicato e con sordina). La scrittura pianistica del finale è virtuosisticamente molto ardita, e le cadenze scritte servono a collegare tra di loro gli episodi, scandendo i punti culminanti (non si comporterà diversamente, ad esempio, Liszt). Si può notare che solo nell’ultimo concerto, JC 595, Mozart impiegherà di nuovo la cadenza del solista in modo strutturalmente così significativo. Lo sviluppo del rapporto di integrazione solista-orchestra proce de vigorosamente nel Concerto K 271, dopo gli accenni dei concerti precedenti: si noti nel primo tempo l’accompagnamento del solista al secondo tema ripreso da oboe e violini primi in ottava, o il secondo tema (nella riesposizione) presentato da solista e corni; si noti l’episodio centrale del secondo tempo che, con la completa fusione di tutti gli strumenti, preannuncia certe soluzioni dei tempi lenti dei primi tre concerti di Beethoven; si notino infine lo studio dei timbri nel Menuetto dell’ultimo tempo. Il maggior virtuosismo del Concerto K 271 è messo in evidenza, oltre che dalla scrittura e dall’impegno del solista, anche dalla conclusione del terzo tempo, in cui il solista non solo suona fino al termine, ma esegue anche insieme con l’orchestra i due accordi finali.
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Mozart: Concerto K 365 (316a)
CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE K 365 (316A NELL’EDIZIONE RIVEDUTA) PER DUE PIANOFORTI E ORCHESTRA (N. 10) • Allegro (mi bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andante (si bemolle maggiore, 3/4). □ Rondeau. Allegro (mi bemolle maggiore, 2/4). • Senza dedica. • Salisburgo, inizio 1779. • Vienna, 23 novembre 1781, pianisti Wolfgang Amadeus Mozart e Josephine von Aurnhammer, direttore W.A. Mozart. • André, Offenbach 1800. • 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi (strumentazione 1779); 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi (strumentazione 1781).
Tornato da Parigi a Salisburgo nel gennaio del 1779, Mozart compose, forse per sé e la sorella, il Concerto K 365 “a due Cembali". I concerti per due strumenti a tastiera non furono molto frequenti, ma neppur rari durante il Settecento: basti ricordare i concerti per due clavicembali di Johann Sebastian Bach e di Cari Philipp Emanuel, tra i quali le due sonatine del 1762 e ’63 e il Concerto in mi bemolle maggiore (1788), ancor oggi in repertorio, in cui il declinante clavicembalo ed il trionfante pianoforte vengono posti a confronto3. Sia lo stile barocco che lo stile classico, con le loro strutture simmetriche e la netta articolazione delle masse sonore, si prestava no in modo eccellente al discorso, al dialogo tra due solisti. La successiva evoluzione del concerto, con la sempre più netta contrapposizione tra solista e orchestra e con la proiezione del solista in una dimensione di solitaria, eroica protervia, fece decadere il concerto doppio. Il concerto per due pianoforti non ha infatti una storia, nell’ottocento, ed il suo ritorno avviene nel Novecento, con il fiorire di uno stile neoclassico e neobarocco. Il Concerto K 365 è giustamente considerato — esclusi i concerti di Bach, che sono per due clavicembali — come il più bel concerto per due pianoforti. Nella versione del 1779 l’orchestra è formata da archi, due oboi, due fagotti e due corni; per la prima esecuzione documentata, a Vienna, Mozart aggiunse due clarinetti, due trombe e timpani. 3 Tra gli altri concerti del periodo classico o rococò si possono citare quello di Reichardt, quello di Josef Schuster, l’op. 45 di Anton Eberl, Vop. 63 di Jan Ladislav Dussek. Molto curiosi i concerti per due e per tre clavicembali del boemo Vincenz Masek, con orchestra di soli fiati. •
Mozart: Concerto K 365 (316a)
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Il Concerto K 365 nasce in un momento in cui l’autore si interessa a fondo delle potenzialità e dei problemi compositivi del concerto doppio: dell’aprile 1778 è infatti il Concerto per flauto e arpa, del novembre 1778 l’incompiuto Concerto per pianoforte e violino, dell’inizio del 1779, come detto, il Concerto per due pianoforti, e dell’estate 1779 la superba Sinfonia concertante per
violino e viola. Il Concerto per pianoforte e violino rimase incompiuto, probabil mente perché i problemi dei rapporti tra strumento a tastiera e strumento ad arco solisti erano pressoché insolubili (e non per nulla si ricordano, nel periodo classico, appena un concerto di Hummel, uno di Viotti, ed uno, giovanile, di Mendelssohn). Negli altri tre doppi concerti si nota una continua varietà di concezione compositi va, che si esplica in realtà in un costante progresso di livello artistico. Opera di intrattenimento e di gusto quasi salottiero è il Concerto per flauto e arpa, opera squisitamente sinfonica è la Sinfonia concertante. Il Concerto per due pianoforti non presenta un’architet tura spiccatamente sinfonica, ma mette invece a confronto i due solisti, appena sostenuti dall’orchestra, in una gara di bravura a botte e risposte. Nel primo tempo l’orchestra interviene come organismo sinfoni co nelle parti di introduzione e di collegamento, mentre, in presenza dei solisti, si limita a rispettosi cenni di incoraggiamento e di consenso; solo nello sviluppo si trova qualche rudimentale accenno di concezione sinfonica (alcuni brevissimi interventi concertanti degli oboi). La struttura non cambia nel secondo tempo, un andante molto ornamentato, e nel rondò finale, costruito su un tema principale di plastica evidenza, che si imprime subito nella memoria dell’ascolta tore e che costituisce, per il pubblico, il marchio distintivo di tutto il
Concerto. La tecnica pianistica del Concerto è nettamente più evoluta di quella dei concerti precedenti, e non solo perché, scrivendo per sé, Mozart non limita la difficoltà: l’impiego delle ottave, già inaugura te nel Concerto K 271, viene ampliato, e vengono impiegati blocchi di sesta e ottava in movimento rapido, a dimostrazione del fatto che Mozart non aveva mancato di capire — forse da Ignaz von Beecke, con il quale s’era trovato a dover competere ad Augusta? — l’utilità dei movimenti vibratori dell’avambraccio.
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Mozart: Rondò K 382, K 413
RONDÒ IN RE MAGGIORE K 382 • Allegretto grazioso (re maggiore, 2/4) — Adagio — Allegro (3/8).
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Senza dedica. Vienna, febbraio 1782. Vienna, 3 marzo 1782, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Boyer, Parigi 1784 circa. FI., 2 ob., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Si tratta del nuovo finale per il Concerto K 173, con il quale Mozart, dopo aver suonato nel novembre del 1781 in casa della sua allieva Josephine von Aurnhammer, esordiva a Vienna. Il Concerto K 173 rappresentava una scelta meditata e saggia: orchestra numerosa e brillante, primo tempo di trascinante vitalità ritmica, secondo tempo commovente e profondo, terzo tempo... Non sappiamo se Mozart discusse con amici o consiglieri sul finale del Concerto, o se arrivò da solo alla conclusione. Fatto sta che la sera del 3 marzo il pubblico di Vienna non ascoltò il finale fugato del Concerto K 173 ma un finale nuovo, il Rondò K 382. Vari commentatori, a cominciare dal patriarca Gilderstone, hanno tirato un po’ le orecchie a Mozart per la «disperante banalità» del nuovo finale, che fa «pietoso contrasto con la forte personalità degli altri due tempi». Noi, ed altri con noi, troviamo spiritosissimo questo rondò a variazioni, che preannunciava al pubblico viennese il Ratto dal serraglio a cui Mozart stava lavorando. Il tema del Rondò è una marcetta fatta apposta per mettere in evidenza i colori pettegoli degli strumenti a fiato. Le variazioni seguono il solito schema dell’aumento di densità ritmica per tre variazioni, della variazione patetica in modo minore, del finale molto sviluppato. Tra la variazione in minore e il finale Mozart inserisce però due variazioni, una tutta giocata sui trilli ed una fiorita, creando un momento di malinconia e di intimismo tra il primo blocco (tema e tre variazioni) ed il finale, entrambi burleschi e sfacciati. Malgrado il carattere estroverso e brillante del pezzo non mancano gli impasti pianoforte-orchestra, con veri e propri inseri menti sinfonici del pianoforte in orchestra. Il pezzo ottenne un successone e potè essere ripreso l’anno dopo. CONCERTO IN FA MAGGIORE K 413 (387A) (N. 11) • Allegro (fa maggiore, 3/4). □ Larghetto (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Tempo di Menuetto (fa maggiore, 3/4).
Mozart: Concerto K 413, K 414
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Senza dedica. Vienna, inverno 1782-83. Vienna, inverno 1783, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Artaria, Vienna 1785. 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi.
Il primo tempo del Concerto K 413 è stilisticamente prossimo a compositori come Johann Christian Bach o Johann Samuel Schroe ter. I temi, che spesso ricordano il minuetto, sono gradevoli e semplici, l’armonia è lineare, la scrittura pianistica non presenta alcuna difficoltà. Molto singolare è soltanto la prima entrata del solista, che inizia inserendosi in un piccolo canone degli archi per concludere in pratica l’esposizione orchestrale. Lo sviluppo, ad evitare l’eccesso di placidità e di grazia, e quindi quel tanto di zuccheroso che deriverebbe da una prosecuzione logica dell’esposi zione, è insaporito da Mozart con il ricorso al modo minore. Il secondo tempo, che ricorda il tempo centrale della Sonata K 332, è una tipica pagina rococò, con melodia cantabile su un basso albertino. Il finale è un vero e proprio minuetto, che viene frammentato con l’inserzione di nuovi episodi. Mentre in altri finali di Mozart o in concerti rococò troviamo un tema di minuetto che dà origine a un rondò, qui abbiamo un minuetto di trentadue battute esposto dall’orchestra e riesposto da pianoforte e orchestra alternati: nella seconda esposizione vengono però inseriti episodi diversi, che spezzano il fluire del minuetto, tanto che il numero delle battute sale a ottantaquattro. Questo tipo di costruzione viene mantenuto in tutto il brano e la struttura che ne consegue adombra in realtà la sintesi tra idue ultimi tempi della sinfonia classica, il minuetto e il finale. È da rilevare che se lo stile è vicino al rococò, la scrittura orchestrale si evolve ancora e che le viole, spesso assenti nel concerto rococò, sono qui impegnate in funzione non di raddoppio o di riempitivo. CONCERTO IN LA MAGGIORE K 414 (385 P) (N. 12) • Allegro (la maggiore, tempo ordinario). □ Andante (re maggiore, 3/4). □ Rondeau. Allegretto (la maggiore, 2/4).
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Senza dedica. Vienna, autunno 1782. Vienna, inverno 1783, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Artaria, Vienna 1785. 2 ob., 2 cr., archi.
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Mozart: Rondò K 386
RONDÒ IN LA MAGGIORE K 386
• Allegretto (la maggiore, 2/4).
• Senza dedica. • Vienna, 19 ottobre 17824. • Coventry, Londra 1838 (in trascrizione per pianoforte solo di Cipriani Potter). • 2 ob., 2 cr., archi.
Se il Concerto K 413 è arcadico, il Concerto K 414 è lirico. La qualità espressiva è certamente favorita dalla tonalità, che sulla tastiera esige l’impiego di più tasti neri e favorisce la posizione allungata delle dita e quindi una sonorità morbida. L’atmosfera non è però più rococò, ma preannuncia semmai le pagine incantate delle Nozze di Figaro, con un preciso accenno, nel momento più serioso dello sviluppo, all’aria del Conte. Il secondo tempo è una forma-sonata in miniatura, come Mozart usa talvolta e come anche Haydn prediligeva. Mozart non cerca la contrapposizione tra i due temi, ma il significato drammatico, beethoveniano della forma-sonata prende pur corpo perché la parte centrale, Io sviluppo, è turbato e commosso rispetto alla calma serenità delle due parti estreme. Il terzo tempo riprende in parte, ma più sentimentalmente intenerito, il carattere del Rondò K 382, che tanto era piaciuto ai viennesi. L’unica caratteristica strutturale degna di nota è la conclusione dopo la cadenza: terminata la cadenza (Mozart ne scrisse più tardi due, di diversa lunghezza), il pianoforte non riprende decisamente il tema principale per arrivare rapidamente alla fine, ma divaga come improvvisando, ed in pratica continua con una nuova cadenza sulla quale si inserisce anche l’orchestra. L’Einstein suppone che il Concerto K 414 sia stato composto prima del K 413, è cioè nell’autunno del 1782, perché il 19 ottobre 1782 Mozart aveva terminato il Rondò in la maggiore K 386, forse pensandolo come finale del Concerto in la maggiore K 414. Sia o no esatta questa supposizione, il Rondò K 386, di cimarosiana grazia un po’ fanée, non fu mai eseguito né pubblicato vivente Mozart. L’autografo fu acquistato nel 1840 da William Sterndale Bennett, che lo smembrò e lo regalò, foglio per foglio, ad amici. Tutti i fogli, tranne uno, sono stati faticosamente e fortunosamente ritrovati 4 La data di giorno, mese ed anno, che è quella in cui la composizione venne terminata, figura nel manoscritto autografo. t
Mozart: Concerti K 386, K 415
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negli ultimi cinquantanni, ed il Rondò è stato ricostruito con l’ausilio, per la parte mancante, di una trascrizione per pianoforte di Philip Hambly Cipriani Potter. Nessun interprete ha provato a collocare il Rondò K 386 al posto del finale del Concerto K 414; né il Concerto K 414, che è una costruzione assolutamente perfetta, tollererebbe la sostituzione. Ma molti pianisti — a cominciare da Béla Bartók, che lo prediligeva — hanno eseguito ed eseguono il Rondò come pezzo a sé stante. CONCERTO IN DO MAGGIORE K 415 (387B) (N. 13) • Allegro (do maggiore, tempo ordinario). □ Andante (fa maggiore, 3/4). □ Rondeau. Allegro (do maggiore, 6/8) — Adagio (2/4) — Allegro (6/8) — Adagio (2/4) — Tempo primo (6/8).
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Senza dedica. Vienna, inizio 1783. Vienna, 11 marzo 1783, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Artaria, Vienna 1785. 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
L’ultimo concerto della prima serie per sottoscrizione composta da Mozart, il K 413 in do maggiore, risale all’inverno del 1783. Di carattere estroverso e brillante, il Concerto inizia con un tema marziale, esposto a canone dagli archi, e prosegue con un’esposizio ne orchestrale cadenzata e sonora, con un unico episodio cantabile. Non è chi non veda come entri qui in scena il cosiddetto concerto militare, che con Dussek, Steibelt ed altri minori, ma anche con Beethoven e con Weber, avrebbe tenuto banco fin verso il 1815. E non è chi non veda come Beethoven dovesse rimaner colpito da questa esposizione, “prebeethoveniana” per eccellenza. La densità e l’impegno sinfonico della scrittura orchestrale non si riflettono però sulla scrittura pianistica. Mozart, che nel 1782 aveva composto il Preludio e Fuga K 394 e la Suite K 399, non trasferisce nel campo del concerto la scrittura polifonica per tastiera, forse per non venir meno al suo programma di attenta conquista del pubblico, forse perché una scrittura contrappuntistica del pianoforte avrebbe creato problemi di rapporto con l’orchestra. Abbiamo dunque, come è stato notato da Arthur Hutchings, un concerto in cui le idee più concettose e interessanti sono dell’orchestra, mentre il solista divaga frivolamente tra scale e passi ornamentali. L’impostazione iniziale lasciava supporre due possibilità diverse: una scrittura altrettanto densa della parte solistica, e quindi una contrapposizione tra solista
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Mozart: Concerto K 415
e orchestra, o una piena integrazione del solista, e quindi una sinfonia con pianoforte obbligato. La scelta di Mozart non ci sembra coerente con l’impostazione iniziale perché l’orchestra cede subito il passo ad un solista che sembra non aver sentito ciò che è successo prima della sua entrata. Può darsi però che Mozart risolvesse i problemi di equilibrio espressivo e formale del primo tempo da esecutore più che da compositore, e cioè con l’edonismo del suono, sfoggiando nelle scale una qualità di suono di per sé bella: questa era del resto la soluzione di Benedetti Michelangeli, nella cui esecuzione non si avvertivano problemi di equilibri! architettonici proprio perché il suono aveva un carattere incantatorio, mentre invece nella esecuzione di Clara Haskil, ad esempio, rimanevano tutte le perplessità che sorgono alla lettura della partitura. Il suono di Mozart è argomento sul quale, evidentemente, non si possono fare se non supposizioni, ma sembra improbabile che un compositore-esecutore come lui non trovasse una soluzione, sia pure provvisoria, com’è quella dell’edonismo. L’inizio della cadenza scritta più tardi da Mozart, con un canone strumentato in ottave sia alla mano destra che alla sinistra, ci dà un’idea di ciò che avrebbe potuto essere la prima entrata del solista in coerente prosecuzione dell’esposizione orchestrale. Ma in generale avvertiamo invece la rottura dell’equilibrio rococò, senza trovare ancora, tranne che in uno stupendo episodio dello sviluppo, un equilibrio nuovo. E tuttavia evidente che l’impostazione ideologica conciliante dell’in verno 1782-83 sta già per finire. Il secondo tempo, come il secondo tempo del Concerto K 413, ricorda il tempo di mezzo della Sonata K 332, e non presenta particolarità strutturali di rilievo, con l’eccezione della coda a fantasia che introduce la cadenza in modo graduale invece che, come di solito, ex abrupto: abbiamo qui, come nel finale del Concerto K 414, un riflesso delle fantasie del tardo 1782. Uno schizzo per un secondo tempo in do minore, molto drammatico, a cui il composito re rinunciò in favore del più consuetudinario Andante, ci rivela i dubbi e la circospezione di Mozart. Il più originale tra i tre tempi del Concerto è il finale. La struttura è quella, normale, del rondò-sonata, ma il secondo episodio è in do minore5, tempo Adagio, e in ritmo binario semplice (la prima parte, 5 II secondo episodio è in do minore, ma Mozart non cambia l’armatura della chiave; perciò non abbiamo indicato il cambiamento del modo nella scheda. ,
Mozart: Concerti K 449, K 430
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in do maggiore, è in ritmo binario composto). L’inserzione dell"Ada gio, che viene ripreso una seconda volta prima della fine, rompe l’atmosfera pastorale con una nota di malinconia inaspettata, e riequilibra sentimentalmente, come altre volte in Mozart, l’eccesso di serenità e la monotonia espressiva tanto frequenti nel rococò. Il tema principale, di tipo, come dicevamo, pastorale, è ravvivato da irregolarità ritmiche che lo caratterizzano e lo rendono, come si diceva un tempo, piccante. Incantevole la conclusione del pezzo, con le ripetizioni della testa del tema sui trilli misurati e mormoran ti. Beethoven si ricorderà di questa chiusa mozartiana nel suo
Concerto in si bemolle maggiore. CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE K 449 (N. 14) • Allegro vivace (mi bemolle maggiore, 3/4). □ Andantino (si bemolle maggiore, 2/4). □ Allegro ma non troppo (mi bemolle maggiore, tempo tagliato, poi 6/8). • Senza dedica. • Vienna, 9 febbraio 17846. • Vienna, 17 marzo 1784, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1792. • 2 ob., 2 cr., archi.
Si veda il commento alle pp. 26-28.
CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE K 450 (N. 15)
• Allegro (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andante (mi bemolle maggiore, 3/8). □ Allegro (si bemolle maggiore, 6/8).
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Senza dedica. Vienna, 15 marzo 1784. Vienna, 24 marzo 1784, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Artaria, Vienna 1798. FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi.
Rispetto al Concerto K 449 che immediatamente lo procede, il Concerto K 430 ha un’impostazione più estroversa, meno concentra6 II Concerto K 449 è il primo lavoro iscritto da Mozart nel catalogo manoscritto delle sue composizioni, iniziato appunto nel 1784.
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Mozart: Concerti K 450, K 451
ta e sinfonica: il tono colloquiale e l’uso dei fiati fa pensare al le serenate più che alle sinfonie. Il pianoforte, come nel Concerto K 271, entra sulla conclusione dell’esposizione prima di esporre il primo tema. Si noti la scrittura pianistica del primo tema: le terze della mano destra, in qualche momento raddoppiate all’ottava dalla sinistra, conferiscono alla linea tematica uno spessore inusitato. Passi rapidi a due mani, agilità della mano sinistra, arpeggi su grandi estensioni danno poi alla sonorità pianistica una luminosità ed una brillantezza nuove. La struttura del primo tempo è lineare, ma con una caratteristica veramente geniale: il secondo dei temi esposti dall’orchestra non compare nella esposizione del pianoforte, ma solo nella riesposizione, creando un equilibrio singolarissimo. Il secondo tempo è una delle pagine mozartiane, molto numerose del resto, che fanno gridare al miracolo. La forma è quella del tema con variazioni. Il tema, di struttura binaria con ripetizione di ciascuna delle due parti, viene esposto alternativamente dall’orche stra e dal pianoforte: l’orchestra espone la prima parte, il pianoforte la riespone con leggerissime varianti (un esempio, scritto, delle varianti che gli esecutori generalmente improvvisavano nelle ripeti zioni), quindi orchestra e pianoforte espongono la seconda parte. Segue una variazione ornamentale, con larghi arpeggi del pianoforte. La seconda variazione è doppia: variazione a volta a volta espressiva, con il tema in contrattempo, e variazione ornamentale, con il tema ai fiati, aeree fioriture al pianoforte, archi in pizzicato. Una breve coda quasi recitante si conclude in un assieme sfumatissi mo, da cui resta esclusa la pungente sonorità degli oboi. Il rondò finale è basato su un tema di stampo popolareggiante che, invece di essere semplicemente goduto nella sua piacevolezza melodica, dà origine a veri e proprii sviluppi sinfonici. Molto virtuosistica la scrittura pianistica, con trovate tra le più brillanti e spiritose che la musica pianistica di Mozart presenti. Nella conclu sione la sonorità del pianoforte si fonde progressivamente con quella di tutti gli strumenti a fiato: Mozart non fa ricorso al tradizionale crescendo, ma aggiunge strumenti un poco alla volta, ottenendo, sempre in pianissimo, un accumulo di sonorità che esplode poi in un forte improvviso, con un trascinante effetto paragonabile alla accensione di tutte le luci al termine di una tesissima scena teatrale. CONCERTO IN RE MAGGIORE K 451 (N. 16)
• Allegro assai (re maggiore, tempo ordinario). □ Andante (sol maggiore, tempo tagliato). □ Rondeau. Allegro di molto (re maggiore, 2/4, poi 3/8).
1. Il “Grande concerto ” di Raoul Dufy rileva con sottile ironia il rapporto tra il direttore d'orchestra e il pianista (Musée des Beaux Arts “Jules Cheret”, Nizza).
2. Alexandr Scriabin al pianoforte in un concerto diretto da Serge Koussewitzky (R. Steri, 1910).
3.
Guido Cantelli con Artur Rubinstein.
4.
'Wilhelm Backhaus con Guido Cantelli.
5. Erich Kleiber durante una prova con Svjatoslaw Richter.
6. Claudio Arrau con Sir Colin Davis.
7. Carlo Maria Giulini e Maurizio Pollini.
8. Claudio Abbado e Alfred Brendel.
9. Carlo Mana Glutini durante un'esecuzione con Arturo Benedetti Michelangeli e l'orchestra dei Wiener Symphoniker.
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Senza dedica. Vienna, 22 marzo 1784. Vienna, 31 marzo 1784, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. Boyer (?), Parigi 1785 circa. FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto in re maggiore K 451 rappresenta la sintesi tra il sinfonismo del K 449 e l’uso concertante degli strumenti nel K 450. L’orchestra è la più numerosa impiegata fino a quel momento nei concerti ed è sfruttata in tutte le sue potenzialità sonore e polifoniche, mentre il pianoforte si inserisce nella compagine strumentale con una molteplicità ed una funzionalità di rapporti che portano a perfezione la sinfonia con pianoforte obbligato. Il primo tempo parte con un tema militare, che subito si arricchisce di una figurazione nel cosiddetto “ritmo francese” di stampo barocco (agli archi), e quindi di una fanfara (agli ottoni). Il secondo tema è strumentato in modo ingegnosissimo, sfruttando prima l’impasto oboi-corni e poi flauto-violini; la coda è di nuovo marziale e trionfante, ma interrotta da una curiosa variante intimistica, quasi una parentesi di autoironia che manzonianamente spezza la conclu sione pomposa. Il pianoforte attacca con il tema, si scioglie le dita con figurazioni virtuosistiche e poi si getta nelle consuetudinarie scale e arpeggi; ma questa volta le figurazioni pianistiche sostituisco no la parte dei fiati dell’esposizione orchestrale, così da avere una variante strutturale in luogo di una esibizione del solista. E questa impostazione, che non possiamo qui analizzare in modo più ampio, vale per tutto il primo tempo, fino al punto di eliminare la tradizionale, netta scansione tra sviluppo e riesposizione. Il secondo tempo, eccezionalmente, è un rondò con un’ampia coda. Due episodi cantabili si alternano con il refrain, ed in entrambi Mozart sfrutta il registro medio-acuto per ottenere effetti di cantabilità in una zona del pianoforte ancora, ai suoi tempi, poco usata perché povera di sonorità. Il secondo di questi due episodi, in do maggiore, parve alla sorella “troppo nudo”, e Mozart scrisse una variante ornata, che conta tra i più preziosi esempi di un uso concertistico comune nel Settecento. Nell’ultima ripresa del refrain la scrittura pianistica si rinnova con una strumentazione in ottave legate, di sonorità molto bella; stupenda, per gli impasti timbrici prima di fiati e pianoforte, poi di tutti gli strumenti, è la coda conclusiva. Il finale è basato su un tema haydniano, forse un omaggio, conscio o inconscio, all’amico in cui onore Mozart stava componen-
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do i sei celebri Quartetti op. 10. Haydniana è anche la prima entrata del solista, che parafrasa, in modo molto allusivo ma evidentissimo, F attacco del Concerto in re maggiore di Haydn (che probabilmente, come abbiamo detto, veniva pubblicato nel 1784). Molto curioso un... commento filologico implicito nella scrittura pianistica: nella prima apparizione del tema l’accompagnamento è scritto clavicembalisticamente, alla Haydn (battute 21-28); successi vamente, l’accompagnamento viene scritto in modo rococò, cemba lo-pianistico (battute 104-111); poi, su una variante ornamentale del tema, l’accompagnamento diventa classico, alla Mozart (battute 214-222). In questo finale il solista riprende un po’ il sopravvento sull’orchestra, che è impiegata spesso in funzione coloristica più che sinfonica. Sinfonico è però lo sviluppo (il pezzo è in forma di rondòsonata), che tocca molte tonalità per concludersi in do diesis maggiore; il passaggio, rapidissimo, da do diesis maggiore alla lontanissima tonalità principale di re maggiore è di una genialità e di una semplicità insieme che lasciano attoniti. La chiusura riprende il procedimento già adottato varie volte nei finali: il tema principale viene ripresentato in un ritmo diverso, che conclude vorticosamente il brillantissimo finale. CONCERTO IN SOL MAGGIORE K 453 (N. 17) • Allegro (sol maggiore, tempo ordinario). □ Andante (do maggiore, 3/4). □ Allegretto (sol maggiore, tempo tagliato) — Pinate. Presto. • «per la Sigra Barbara Ployer». • Vienna, 12 aprile 1784. • Dobling, 10 giugno 1784, pianista Barbara Ployer, direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • Bossier, Spira 1787 circa. • Fi., 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi.
Scrivendo al padre dei concerti del 1784, Mozart diceva: «Fra questi due concerti [K 450 e K 451] non saprei quale scegliere. Li ritengo entrambi tali da ° far sudare”; e in fatto di difficoltà quello in si bemolle supera ancora quello in re» (26 maggio 1784). E si chiedeva se al padre e alla sorella sarebbe piaciuto di più il K 450 o il K 451, o il K 453. Crediamo che alla sorella di Mozart, pianista esperta ma non straordinaria, dovesse piacere più di tutto il Concerto K 453, strepitosamente bello quanto il K 450 e il K 451, ma pianisticamen te più agevole. Mozart aveva terminato il K 453 il 12 aprile,
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destinandolo a Barbara Ployer. Il Concerto fu eseguito da Barbara il 10 giugno: «Il signor Ployer [...] ha organizzato un concerto a Dóbling: la signorina Babette eseguirà il nuovo Concerto in sol, ed io il Quintetto [K 452]; subito dopo suoneremo assieme la grande Sonata per due pianoforti [K 448]. Ho intenzione di andare a prendere in carrozza Paisiello, perché voglio che senta la mia allieva e il mio Concerto» (lettera del 9 giugno 1784). Paisiello fu presente al concerto, e probabilmente ammirò l’allieva, e il maestro, e il Concerto K 453, che lasciava a distanza di anni-luce i paisielliani concerti in do maggiore e fa maggiore. Terminata una scrittura alla corte imperiale russa, il tarantino stava preparando il Re Teodoro in Venezia, che sarebbe andato in scena a Vienna il 23 agosto; Mozart aveva conosciuto Pillustre collega tramite il cantante Michael Kelly, e desiderava evidentemente stringere buoni rapporti di vicinato con una celebrità europea. Un’amicizia, o almeno una benevola considerazione ad alto livello, poteva sempre servire, s’intende. E ben lo sapeva Antonio Salieri che, mentre Mozart s’arrabatta va con i suoi concerti in abbonamento, nell’aprile del 1784 aveva esordito a Parigi con Les Danaides. Era stato Gluck a decidere l’investitura di Salieri, giungendo al punto di far passare per sue Les Danaides finché non si fosse consolidato il successo pieno. Con Les Danaides Salieri aveva costruito il primo blocco del suo Gradus ad Pamassum; con la Grotta di Trofonio, nel 1785, avrebbe preceduto e pareggiato le Nozze di Figaro, e con Tarare su testo di Beaumarchais, ancora a Parigi nel 1787, avrebbe coronato la giusta strategia per succedere nel 1788 a Bonno come direttore della cappella imperiale. Mozart, avendo dato dimostrazione di saper divertire la gente con i concerti, sarebbe arrivato nel 1787 all’incarico di compositore di corte per la musica dei balli di carnevale... Nel Concerto K 453 il pianoforte è spesso trattato come uno strumento dell’orchestra, e le difficoltà virtuosistiche sono concen trate in pochi momenti del finale. Per questa ragione, probabilmen te, non viene spesso scelto dai virtuosi, e quindi non è divenuto popolare; ma proprio la sua struttura lo rende invece quanto mai interessante e ricco di attrattive musicali. I concerti non virtuosistici, mancando di passi brillanti, sono molto caratterizzati tematicamente, e presentano un numero di temi superiore a quello ordinario. Nel primo tempo del Concerto K 453 l’invenzione tematica zampilla continuamente, in un serrato dialogo tra pianoforte e orchestra, tanto che riesce persino difficile riconoscere all’audizione il tradizionale secondo tema. Si noti il
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carattere operistico di parecchi temi, carattere che si accentuerà nei tempi successivi. Come ha notato il Hutchings, però, il Concerto K 453 preannuncia il più lontano Don Giovanni (1787) più che le prossime Nozze di Figaro (1786). Il secondo tempo, come in tutti i concerti dell’inverno 1784, è in movimento andante anziché adagio. La forma è quella dell’aria vocale, molto sviluppata, con un’ampia strofa introduttiva ochestrale: il tema iniziale deriva dall’«Et incarnatus est» della Messa in do minore composta nell’agosto del 1783. Di grande rilievo è l’uso degli strumenti a fiato in funzione concertante. L’ultimo tempo è in forma di tema con cinque variazioni e finale. Le cinque variazioni sono organizzate secondo un collaudatissimo schema: tre variazioni con aumento progressivo della densità ritmica, quarta variazione in modo minore, quinta variazione con alternanza di ritmo costante e di ritmo variabile. Il Presto conclusivo è un vero finale di opera buffa, con un inizio lontanamente riconducibile all’aria di Masetto “Ho capito” del Don Giovanni. CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE K 456 (N. 18)
• Allegro vivace (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andante un poco sostenuto (sol minore, 2/4). □ Allegro vivace (si bemolle maggiore, 6/8).
• Senza dedica. • Vienna, 30 settembre 1784. • Vienna, 12 febbraio 1785, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1792. • FI., 2 ob., fg., 2 cr., archi.
Il 30 settembre 1784 Mozart terminava il Concerto in si bemolle maggiore K 456. Non era ancora in vista la stagione di concerti, e Mozart non era avvezzo a preparare le musiche con molto anticipo: è dunque probabile, sebbene non sicuro, che questo sia il concerto scritto per la pianista cieca Maria Theresia Paradis, di cui parla Leopold in una lettera del successivo inverno. Il Concerto K 456 è un “concerto militare”, con un primo tempo scandito da ritmi di marcia. Non marcia trionfale e pomposa, tuttavia, ma secca e un po’ ironica, come le marcette delle Nozze di Figaro. L’orchestra non comprende del resto trombe e timpani; il colore strumentale è dunque ovattato, e a far da contrappeso alla marcia provvede il tema di transizione, che modula rapidamente a tonalità lontanissime prima di ritornare al si bemolle maggior^. La
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scrittura pianistica è anche meno difficile di quella del Concerto K 453, e probabilmente è calcolata sulle capacità della Paradis; lo sviluppo è un po’ schematico, e tutto il primo tempo pare pensato come un divertimento, disimpegnato, come una pausa riposante dopo la tensione dei concerti dell’inverno. Con il secondo tempo ritorniamo invece al clima degli ultimi concerti. Un tema in sol minore, in due parti con ripetizione e di insolito taglio strutturale (ventuno battute invece di sedici o ventiquattro) viene variato cinque volte in una dimensione del tutto sinfonica, nella quale il pianoforte è veramente una sezione dell’orchestra. La malinconia, la velatura sentimentale di questa pagina straordinaria ci apre il mondo notturno delle Nozze di Figaro (l’arietta di Barbarina, la scena del giardino), mentre non ci sembra tanto lampante il rapporto, da taluni commentatori asserito, con la drammatica Sonata in do minore K 457, terminata pochi giorni dopo il Concerto. Il finale è un “rondò di caccia”, che fa da pendant al primo tempo alla militare. Potrebbe anche trattarsi di un’imitazione, appena spruzzata di ironia, dei finali alla Kozeluch, suggerita forse dal fatto che la Paradis era allieva appunto di Kozeluch e che Kozeluch aveva appena pubblicato i suoi primi concerti, op. 12. Senonché il discorso, volubile e sempliciotto, prende improvvisa mente una piega drammatica quando, invece del preannunciato episodio in mi bemolle maggiore, si accenna al do minore e si finisce in un si minore da lasciar tramortiti. Bisognerà arrivare sino allo Scherzo della Sonata op. 106 di Beethoven, per ritrovare un simile colpo di scena! E non contento di giocare sulla tonalità, Mozart gioca anche sul ritmo, sovrapponendo un ritmo binario semplice ed un ritmo binario composto. Dopodiché si riprende con il temino alla Kozeluch (che ricorda un po’ “La morale in tutto questo” del Don Pasquale di Donizetti) e si va tranquilli alla fine, con tutte le prevedibili simmetrie e con una graziosa, salottiera conclusione. Questo finale pare fatto apposta per muovere commenti roman zanti: fortuna per Mozart che il Concerto K 456 non è celebre. Ma quale materia ci sarebbe, per spiegarlo! Intanto, alla prima rappre sentazione del Re Teodoro in Venezia di Paisiello, Mozart si prese un raffreddore pazzesco, che lo fece star male per un mese. Il 21 settembre nacque a Mozart il figlio Cari Thomas, quello che sarebbe vissuto a Milano come impiegato del regio imperiai governo, morendovi nel 1858. Poi, i coniugi Mozart, che dal gennaio del 1784 vivevano nel palazzo del libraio, editore e commerciante
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Mozart: Concerti K 456, K 459
Johann Thomas von Trattner, la cui seconda moglie, Therese, era allieva di Mozart, il 29 settembre cambiarono casa. Mozart scrisse in quel periodo, oltre al finale del Concerto K 456, la drammaticissima Sonata in do minore K 457, che dedicò a Therese von Trattner. La lettera di dedica non ci è pervenuta: perduta o fatta
sparire? che capitò tra i coniugi von Trattner e i coniugi Mozart? I coniugi Massin (Jean e Brigitte Massin, Mozart, Parigi 1970) hanno supposto che Mozart volgesse troppo vive attenzioni alla signora von Trattner, e che fosse d’uopo la lacerante separazione. La passione è ritenuta sentimento più nobile della gelosia: altrimenti si potrebbe supporre che fosse il signor von Trattner a rivolgere troppo vive attenzioni alla signora Mozart. Vero è che la signora Mozart era puerpera, e che il signor von Trattner aveva sessantasette anni, mentre Costanza Mozart ne aveva ventidue; comunque, il von Trattner, marito di una signora di lui più giovane di ben quarantun anni, non era tipo da poterlo considerare hors de combat. Si potrebbe anche supporre che le attenzioni fossero incrociate e che i Mozart traslocassero per non concluderla in un modo per cui il secolo non era ancora maturo. Ci sarebbero insomma motivi per vedere nella vicenda la stratificazione biografica di Così fan tutte, oltre che una sorta di Wagner-Wesendonck ante litteram. Ma non c’è dubbio che l’apparizione dell’episodio in si minore nel finale del Concerto colpisce violentemente l’ascoltatore, e che si è tentati di trovarne una spiegazione programmatica. A noi sembra che la parodia di Koèeluch, per quanto lieve ed elegante, non potesse non esser colta dai contemporanei: l’episodio in si minore, contrastante sia per il salto di tonalità che per il carattere espressivo, ci sembra aver l’effetto di un’apparizione macabra in un qualche quadro di festa campestre. Il finale assume a parer nostro il significato di un grottesco, e di una critica al mondo di cui Kozeluch stava diventando, e Mozart non voleva essere, il rappresentante. Vedremo presto come la critica alla società, che si evidenzia nella Nozze di Figaro, percorra anche la serie dei concerti per pianoforte, con una coerenza ed una progressione veramente stupefacenti. CONCERTO IN FA MAGGIORE K 459 (N. 19) • Allegro (fa maggiore, tempo ordinario). □ Allegretto (do maggiore, 6/8). □ Allegro assai (fa maggiore, 2/4). • Senza dedica. • Vienna, 14 dicembre 1784. 4 • Francoforte sul Meno, 15 ottobre 1790, pianista e direttore Wolfgang
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Amadeus Mozart. • Andre, Offenbach 1794. • Fl., 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi.
Il Concerto in fa maggiore K 459 fu terminato nel dicembre di quell’eccezionalissimo 1784, probabilmente già in vista della stagio ne di quaresima, per la quale Mozart aveva progettato nientemeno che sei concerti d’abbonamento. Non si ha però notizia di esecu zioni a Vienna del Concerto K 459, nell’inverno del 1785, ma solo, e indirettamente, di una esecuzione a Francoforte sul Meno nel 1790. Anche il Concerto K 459 è impostato, in modo ancor più diretto di quello del Concerto K 456, come “concerto militare”. Il ritmo di marcia predomina al punto che la struttura del primo tempo può essere considerata come una invenzione su un ritmo: nessuna complessità emotiva, nessuna deviazione verso tonalità inattese, nessun colpo di scena. E difficile spiegare questa assenza di varietà espressiva, non certo frequente nel Mozart maturo, e si può piuttosto parlare, a parer nostro, di una rivisitazione manieristica, intellettuale, lucidissima del rococò, i cui caratteri sono citati in una struttura pienamente e densamente sinfonica. Il senso del consapevole manierismo si accentua nel secondo tempo, basato su un tema pastorale, rococò fin nelle midolla, che Mozart distorce inserendo una battuta tra la seconda e la terza ed una battuta tra la sesta e la settima delle otto sacramentali battute. Qualcosa di simile era stato adombrato in un tema del finale del Concerto K 415; ma ciò che era là una piccola bizzarria, subito corretta, diventa qui un carattere portante della struttura. Altri caratteri insoliti: l’uso della imitazione canonica in luogo dello sviluppo, e il secondo tema in sol minore (poi, alla ripresa, in do minore). L’apparenza innocente, la tranquilla affettuosità nascondo no un’analisi della storia e della società che viene qui esercitata a livello di strutture musicali formalizzate, e che eserciterà fra breve, nelle Nozze di Figaro, a livello di cristallizzate strutture sociali. Il ritmo ossessivo caratterizza, dopo il primo tempo, il finale, fondato su un tema haydniano e ricco di sviluppi tematici e di procedimenti imitativi. Questa attenzione concentrata sul ritmo ci porta verso una ricerca di meccanicità, di automatismo espressivo che possono suggerirci un’analogia con ciò che Stendhal avrebbe definito comique absolu. E in questa comicità burattinesca si sublima il “concerto militare” che Mozart aveva inaugurato con il K 415. Se — ma la notizia non è del tutto certa — il Concerto K 459 fu eseguito a Francoforte durante le feste per l’incoronazione di
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Leopoldo II, bisogna dire che l’ironia di Mozart poteva toccare vertici metafisici. Il risvolto metafisico della comicità mozartiana non sfuggì tuttavia a Ferruccio Busoni, che nel Duettino concertante per due pianoforti trasportò questo finale in una dimensione sonora da pianola, trasformandolo in un brano adatto ad accompagnare un film di Ridolini. CONCERTO IN RE MINORE K 466 (N. 20)
• Allegro (re minore, tempo ordinario). □ Romance (si bemolle maggiore, tempo tagliato). □ Allegro assai (re minore — re maggiore, tempo tagliato). • Senza dedica. • Vienna, 10 febbraio 1785. • Vienna, 11 febbraio 1785, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1796. • FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto in re minore K 466 è certamente il più noto tra i concerti per pianoforte di Mozart ed uno tra i più celebri del repertorio pianistico, anche se, negli ultimi anni, il numero delle esecuzioni è sensibilmente diminuito. La notorietà del Concerto in re minore nacque però da un fondamentale fraintendimento, e cioè dalla convinzione che si trattasse di un’opera preromantica o per lo meno prebeethoveniana, di un’opera fuori del suo tempo e precorri trice di tèmpi nuovi. Tutto vero, certamente, ma in un senso diverso da quello a cui arrivavano le conclusioni critiche tradizionali, perché il Concerto in re minore rappresentava in realtà, a parer nostro, solo un momento della ricerca mozartiana su un genere, e acquistava il suo autentico significato non staccato dal contesto degli altri concerti ma in rapporto con essi. Mozart, musicista che adorava il teatro e che sentiva persino violentemente lo stimolo a rappresentare da drammaturgo la sua visione della vita, trovò nel concerto per pianoforte e orchestra una possibilità, e potremmo addirittura dire una valvola di sfogo ad aspirazioni che per le difficoltà della carriera non potevano consegui re un’adeguata estrinsecazione creativa nel loro luogo più proprio. Si guardino alcune date: la prima grande opera di Mozart, Idomeneo (K 366), va in scena a Monaco il 29 gennaio 1781, la seconda, Il ratto dal serraglio (K 384), va in scena a Vienna il 16 luglio 1782, la terza, Le Nozze di Figaro (K 492), è rappresentata per la prima volta a Vienna 1’1 maggio 1786. La grande serie dei concerti viennesi di Mozart — dal K 413 al K 491 — occupa gli anni
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dall’ottobre del 1782 al marzo del 1786, collocandosi esattamente fra il Ratto e le Nozze. Possiamo esser certi del fatto che, se tra il 1782 e il 1786 Mozart avesse trovato credito presso gli impresari di teatro e presso i teatri di corte, noi avremmo oggi qualche capolavoro teatrale in più e quattordici concerti in meno. Ma è nella serie prodigiosa dei quattordici concerti che maturano il drammaturgo delle Nozze di Figaro e il drammaturgo del Don Giovanni (rappresentato a Praga il 29 ottobre 1787). Il Concerto in re minore, per quanto prebeethoveniano e preromantico, è solo uno degli aspetti, una delle scoperte a cui Mozart — libero professionista a Vienna, sganciato da rapporti di dipendenza e di sicurezza garantita dal potere costituito, teso nella ricerca di una affermazione della dignità intellettuale del musicista — giunge riflettendo sulla società, sull’animo umano, su se stesso, con tutta la forza di chi, vicino ai trentanni ed avendo alle spalle una enorme esperienza di uomini e di ambienti, si sente libero e capace di esser libero. La fosca drammaticità del Concerto in re minore non può dunque a parer nostro venir disgiunta, se non impoverendola e riducendola a pura premonizione beethoveniana, dalla gaiezza del Concerto in do maggiore K 467, vdalla ironia deì Concerto in sol maggiore K 453, dalla gioia feroce del Concerto in fa maggiore K 459, dalla grazia e dai ripiegamenti elegiaci del Concerto in la maggiore K 488. Se il Concerto in re minore è l’Amleto di Mozart, Shakespeare non è solo l’Amleto, ma anche Otello, la Bisbetica domata, la Tempesta, e solo il complesso delle sue creazioni dà la misura della sua universalità. Nello scorso secolo vennero invece presi in considerazione quegli aspetti dell’arte di Mozart che si legavano ad esperienze creative attuali. I concerti per pianoforte furono scarsamente considerati dalla critica (ad esempio, uno dei primi esegeti mozartiani, l’Ulibicev, non ne parla neppure nella sua monografia in tre volumi dedicata a Mozart) e, quando furono considerati, l’unico concerto veramente apprezzato ed eseguito fu quello in re minore. A questa svolta contribuì per primo Beethoven, che eseguì il Concerto in re minore a Vienna nel 1795, componendo per l’occasione la cadenza per il primo tempo e la cadenza per il finale. Le due cadenze di Beethoven ci rivelano in modo chiarissimo l’“appropriazione” beethoveniana del Concerto di Mozart. Le cadenze di Alkan, Clara Schumann, Reinecke, Anton Rubinstein e Busoni, che coprono la seconda metà dell’ottocento, riflettono indirettamente la storia della sonorità e dell’espressione che di volta in volta vennero ritenute le più “mozartiane”. Sappiamo inoltre che un musicista
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Concerto K 466
inglese rispettato e rispettabile, Philip Hambly Cipriani Potter, riscrisse la strumentazione del Concerto K 466, e possiamo supporre che la modernizzazione e la romanticizzazione dell’opera fosse, nel sec. XX, radicale. Sebbene il nostro secolo abbia progressivamente riscoperto e rivalutato tutti i concerti di Mozart, il K 466 ha continuato a mantenere la sua “aura” particolare, di lavoro che occupa nella produzione di Mozart un posto a parte. Abbiamo già detto che ciò non dipende dall’opera ma dalla storia delle sue fortune. Ma sarebbe difficile negare che la storia delle fortune abbia impresso sul Concerto K 466 un marchio che ben difficilmente può esser cancellato. Non può esser cancellato anche perché la scelta del modo minore introduce una novità che, nel contesto del concerto classico, non può non colpire l’ascoltatore. Il modo minore non era stato inconsueto nel concerto barocco (si ricordino i concerti in re minore e in fa minore di Bach) e non sarà inconsueto nel concerto romantico. Nel concerto classico è del tutto eccezionale. E anche sotto questo punto di vista non colpisce tanto la riuscita estetica del Concerto K 466 quanto il coraggio di Mozart nella ricerca e la sua fiducia, che non sarà ripagata, nella capacità del suo pubblico di seguirlo. Il Concerto in re minore non presenta caratteri strutturali di assoluta novità. Tuttavia è da notare che il materiale tematico della prima entrata del pianoforte non era ancora stato esposto dall’orche stra; verrà usato anche nella transizione dal primo al secondo tema e tornerà più volte nel corso dello sviluppo, ma sempre al pianoforte. Di contro, il primo tema affidato all’orchestra comparirà solo incidentalmente nella parte del pianoforte: c’è, in altre parole, una tendenza a “personalizzare” nell’uno o nell’altro dei protagonisti un materiale tematico d’altronde perfettamente integrato. E questo sarà un motivo di suggestione per i romantici e per la contrapposi zione agonistica tra solista e orchestra. Nella Romanza non è tradizionale la scelta della tonalità: si bemolle maggiore invece di fa maggiore. La scelta è certamente da mettere in relazione con la parte centrale del pezzo, fortemente contrastante e in modo minore (sol minore). Se la Romanza fosse stata pensata in fa maggiore la parte centrale non avrebbe potuto essere che in re minore, e questa tonalità avrebbe nuociuto alla varietà del quadro. Mozart riprende qui lo schema che aveva già adottato nella Sonata in la minore K 310 e, nello stesso tempo, stabilisce un esempio che verrà seguito da Beethoven e da Schubert.
Mozart: Concerti K 466, K 467
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Il finale, molto ampio, si conclude in re maggiore. Ma il ricordo del brusco, surrealistico capovolgimento del finale del Don Giovanni si affaccia subito nella mente dell’ascoltatore: dal borbottio dei fagotti fino a quella specie di scambio di inchini cerimoniosi che vede impegnata tutta l’orchestra, e non il pianoforte, l’ultima parte del rondò è ironica e beffarda, e la conclusione in modo maggiore accresce la tensione invece di placarla. CONCERTO IN DO MAGGIORE K 467 (N. 21) • Allegro (do maggiore, tempo ordinario). □ Andante (do maggiore, tempo tagliato). □ Allegro vivace assai (do maggiore, 2/4). • Senza dedica. • Vienna, 9 marzo 1785. • Vienna, 12 marzo 1785, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • Breitkopf e Hartel, Lipsia 1800. • FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il primo tempo del Concerto K 467 inizia con la consueta esposizione dell’orchestra. Non si tratta però di una completa esposizione di tutto il materiale tematico del primo tempo, ma dell’esposizione del solo primo tema, che viene subito sviluppato fino a che, sulla conclusione dello sviluppo, entra il solista. Il pianoforte, conclusa elegantemente l’esposizione orchestrale, inizia la sua esposizione, facendo zampillare dal tema esposto prima dall’orchestra una miriade di altre idee. Sono in pratica — come studiosamente fece notare il Blume — ben sei le idee che il pianoforte espone come primo gruppo tematico, prima di arrivare al vero e proprio secondo tema in sol maggiore. Non si può qui parlare, in senso accademico, di un primo tema, di un ponte, di un secondo tema: il primo tema si apre come una scatola cinese e fa seguire un’idea all’altra, fino ad una sesta idea in sol minore, molto caratteristica, che sembra annunciare un secondo tema contrastante con il primo. Il secondo tema è invece gaio quanto il primo, e più innocente, più infantile; si lega subito ad un ulteriore sviluppo del primo tema e sbocca in un’ampia conclusione dell’esposizione, assai virtuosistica per l’impiego di entrambe le mani in rapidi passi di agilità granita. Anche nella conclusione gli episodi si susseguono l’uno all’altro, ingannando l’attesa dell’ascoltatore a cui due volte Mozart dà il segnale — trillo sulla dominante della dominante — che di solito annuncia la fine, mentre solo al terzo segnale finisce per davvero.
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Mozart: Concerto K 467
Una esposizione tanto ampia (193 battute) e articolata esige uno sviluppo molto impegnativo. Lo sviluppo del Concerto K 467 è di ottanta battute, ed è basato soprattutto sul virtuosismo del pianista. La riesposizione è molto abbreviata, specie nel primo gruppo tematico, che viene ridotto al solo primo tema. La chiusa del primo tempo prevede poi la cadenza, non scritta da Mozart né allora né poi, e la chiusa dell’orchestra, che inaspettatamente, in un concerto così festoso e brillante, termina in piano. Nel secondo tempo, in fa maggiore, Mozart cerca una sonorità contrastante con quella del primo, e l’ottiene rinunciando a trombe e timpani, facendo suonare agli archi sempre con sordina e sfruttando abbondantemente il pizzicato. In questo morbidissimo colore sonoro si snoda e ritorna una lunga commovente melodia, ritmata su terzine persistenti che durano per cento delle centoquattro battute complessive. La melodia di questo Andante è una specie di sonetto, che inizia serenamente, ascendendo per due volte al punto culminante, viene turbato da due sbalzi di registro, continua immalinconito in modo minore, si rasserena di nuovo nel finale, di intenerita commozione. Esposta dall’orchestra, ripresa con amplia menti dal pianoforte, questa melodia è talmente bella e pura che Mozart non le contrappone nuli’altro, ma introduce soltanto un breve intermezzo prima di riprenderla partendo da una tonalità di suono ancora più morbido (la bemolle maggiore). Il finale è di nuovo scintillante e virtuosistico, più ancora del primo tempo. Molto singolare è l’esposizione del primo tema: esposto quasi per intero dall’orchestra, ma concluso dal pianoforte. Questa insolita struttura espositiva annuncia un brano in cui il solista verrà integrato in un’orchestra tutta punteggiata di interventi solistici e di scambi virtuosistici, che lasciano scoperti tutti gli strumenti ed esigono una tensione insolita nell’orchestra. Si affaccia qui un’idea, più che di “concerto per pianoforte e orchestra”, e persino più che di “sinfonia con pianoforte obbligato”, di “concerto per orchestra con pianoforte”: idea che troverà rarissimi riscontri nella letteratura, ma che verrà ripresa, come abbiamo detto, da Ciaikovsky. In questa prospettiva si pone anche la conclusione che, insolitamente, vede il pianoforte suonare fino all’ultima battuta. Non è improbabile che i singolari caratteri del Concerto K 467 dipendano da un rapporto tra il K 467 e il K 466, e dalla preoccupazione di Mozart di aver rischiato il favore del pubblico. La drammaticità del concerto — lavoro per definizione mondano e di intrattenimento — poteva rappresentare un pericolo di disorienta mento nel pubblico. E dopo il dramma del Concerto in re minore
Mozart: Concerti K 467, K 482
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Mozart ritornava nel Concerto in do maggiore alla commedia degli equivoci, congegnata con tutte le sorprese, le trovate, i colpi di scena che abbiamo cercato di far notare. Tuttavia, malgrado l’occhio di riguardo che il compositore gettava al pubblico, la breve stagione del successo stava già volgendo al termine. La quaresima 1785 rappresenta comunque il culmine dell’attività concertistica di Mozart a Vienna. Sei concerti di abbonamento — 11, 18 e 25 febbraio, 4, 11 e 18 marzo — invece dei soliti tre, partecipazione ad altri concerti, esecuzioni in case private. Gli impegni completi ed i programmi dei concerti non ci sono ben noti perché in quell’anno Leopold Mozart era a Vienna e Wolfgang non doveva scrivergli per informarlo: abbiamo dunque, come fonti di notizie, alcune lettere di Leopold alla figlia (Leopold era un corrispondente meno preciso di Wolfgang) e scarne notizie nei giornali. Non sappiamo neppure quando fu eseguito il Concerto K 45% il Concerto K 456 fu eseguito, probabilmente, il 12 o 13 febbraio in una serata a beneficio della cantante Luisa Laschi; il Concerto K 466 aprì la serie dei concerti d’abbonamento 1’11 febbraio e fu ripetuto il 15; il Concerto K 467 fu eseguito in marzo. Sappiamo anche che Mozart utilizzò alcune volte un pianoforte con pedaliera, da lui fatto appositamente costruire. Alcuni passi del Concerto in re minore prevedono un basso che può essere eseguito solo su un pianoforte con pedaliera: l’effetto doveva essere impressionante, ma questo strumento non incontrò fortuna né allora né poi. CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE K 482 (N. 22)
• Allegro (mi bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andante (do minore, 3/8). □ Allegro (mi bemolle maggiore, 6/8) — Andantino cantabile (3/4) — Primo tempo (6/8). • Senza dedica. • Vienna, 16 dicembre 1785. • Vienna, 23 dicembre 1785, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1800. • FI.; 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Nella stagione 1785-86 Mozart presentò tre nuovi concerti, anticipando l’esordio a dicembre con il Concerto in mi bemolle maggiore K 482; alla prima esecuzione Mozart concesse il bis del secondo tempo.
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Mozart: Concerto K 482
Il Concerto K 482 segue direttamente, in senso stilistico, il Concerto K 467. La maggiore novità è rappresentata dalla formazio
ne dell’orchestra, che comprende, al posto dei due oboi, due clarinetti. Tutti sanno quale rilievo acquisti, nella tarda produzione mozartiana, il clarinetto, sia nella musica sinfonica che nella musica da camera (Trzo K 498, Quintetto K 581). Due clarinetti al posto di due oboi non possono cambiare completamente il colore orchestrale, ma certamente lo modificano, e lo modificano specialmente quando il loro inserimento rappresenta un esperimento e quindi una ricerca. La ricerca sperimentale è soprattutto evidente nel mirabile secondo tempo in do minore (in cui tacciono trombe e timpani). Il tema, piuttosto lungo (trentadue battute), viene esposto dagli archi in sordina e riesposto con variazioni dal pianoforte, accompagnato in due momenti dagli archi. Segue un secondo tema (ventotto battute), presentato dai soli fiati a sette parti: la completa indipendenza dei fiati, cioè la costituzione di una sezione di fiati non subordinata alla sezione degli archi viene qui affermata in termini che non erano ancora stati raggiunti in alcun concerto. Subentra quindi una variazione del primo tema. Nell’episodio successivo, in do maggiore, Mozart forma un nuovo complesso strumentale: flauto, fagotto, archi. E finalmente tutti gli strumenti vengono impegnati in una nuova variazione del primo tema. La lunga conclusione propone un impasto straordinaria mente suggestivo (pianoforte, archi, arpeggi del fagotto all’estremità grave della tessitura). Nel finale del Concerto si crea in più momenti un rapporto pianoforte-fiati, ma anche in un tutti orchestrale si avverte la presenza rinnovatrice dei due clarinetti. Lo studio dei timbri è però evidente soprattutto nella parte centrale, Andantino cantabile, inserito nel rondò in un modo che ricorda quello di un altro concerto in mi bemolle maggiore, il giovanile K 271. Nell’Andantino cantabile vengono di nuovo esclusi trombe e timpani, e per due terzi del brano anche il flauto. I notturni, vellutati colori di suono di clarinetti, fagotti, corni, violoncelli e contrabbassi, e del pianoforte con gli archi si alternano fino a che tutto il complesso viene impiegato con gli archi in pizzicato. Questo intermezzo in tempo più lento e con un così delicato colore di suono dà uno speciale significato al finale, che somiglia al finale del Concerto K 450, ma che rispetto a quello suona immalinconito, crepuscolare. Il secondo tempo (rondò a variazioni) e il finale sul tema di tipo popolaresco ricordano lo schema strutturale del Concerto K 450. Anche il primo tempo riprende la concisione strutturale e la
Mozart: Concerti K 482> K 488
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brillantezza del suono pianistico del Concerto K 450. Ma si può certamente dire che l’esperienza del Concerto in re minore K 466 separa i due concerti e determina i caratteri nuovi del Concerto
K 482. L’unità del Concerto K 482 non è però, almeno per noi, immediatamente evidente. Non è certamente facile definire, e dimostrare l’unità formale di molte delle sonate di Beethoven o di molti dei concerti di Mozart, perché l’analisi strutturale può ritrovare unità, in composizioni in più tempi, solo dove scopre il ritorno tematico o, al caso limite, la ciclicità. Si può dire però che, per ragioni che di solito sfuggono all’analisi strutturale, l’unità delle sonate di Beethoven o dei concerti di Mozart appare ugualmente chiara all’ascoltatore, almeno a livello emotivo. Se questo è vero, ripetiamo, per la maggior parte dei concerti mozartiani, non ci sembra vero nel caso del Concerto K 482. Può essere un’impressione, ma l’unità del Concerto K 482 ci è parsa sempre rispondente al principio non della continuità ma del contrasto, come un accosta mento di opera buffa (primo tempo), opera seria (secondo tempo), commedia pastorale (terzo tempo), e simile all’unità dei trittici di Debussy (Estampes, Images) o di Ravel (Gaspard de la nuit) più che a quella del Concerto K 467 o del Concerto K 488. CONCERTO IN LA MAGGIORE K 488 (N. 23) • Allegro (la maggiore, tempo ordinario). □ Adagio (fa diesis minore, 6/8). □ Allegro assai (la maggiore, tempo tagliato). • Senza dedica. • Vienna, 2 marzo 1786. • Vienna, marzo 1786 (?), pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1800. • FL, 2 cl., 2 fg., 2 cr., archi.
Il 2 marzo 1786 Mozart terminò il Concerto in la maggiore K 488, notissimo, meraviglioso pezzo che gode di una lunga celebrità. Noteremo soltanto alcuni particolari che ci sembrano significativi. Al febbraio-marzo 1786 risalgono un frammento di tempo di concerto in re maggiore e tre frammenti in la maggiore: la perfezione del Concerto K 488 fu dunque raggiunta anche attraverso un numero insolitamente alto di tentativi abbandonati. Specialmen te importante è l’abbandono di un frammento di secondo tempo in re maggiore e la scelta, per il secondo tempo, del modo minore (fa diesis minore).
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Mozart: Concerto K 488
Importante non per la tonalità con tre diesis: non possiamo seguire Jean e Brigitte Massin (op. cit.), che ritengono di vedere simboli massonici nella scelta delle tonalità dei concerti K 482, K 488 e K 491. I tre bemolli delle tonalità in cui sono impiantati tutti i tempi dei concerti K 482 e K 491, e i tre diesis del Concerto K 488 sarebbero segno di reverente omaggio alla Massoneria? Noi ne dubitiamo. La scelta del fa diesis minore è a parer nostro importante come scelta modale. Il modo minore nel secondo tempo di concerti in modo maggiore era stato adottato una sola volta da Mozart, nel Concerto K 271, prima dell’autunno 1784, e nessun concerto era stato prima di allora scritto in modo minore. Dall’autunno del 1784 alla primavera del 1786 Mozart compone due concerti in modo minore (K 466 e K 491) e adotta il modo minore nel secondo tempo di tre concerti in modo maggiore (K 456, K 482, K 488)-, due soli concerti (K 459 e K 467) sono interamente in modo maggiore. Questo equilibrio dei due modi in uso nella musica del suo tempo dimostra a parer nostro un approfondimento psicologico, una maggiore attenzione alla vita sentimentale, ed anche un progressivo abbandono dei caratteri “leggeri” e mondani che tradizionalmente erano stati assegnati al genere del concerto. Non è improbabile che proprio questo cambiamento di contenuto fosse la ragione dell’allon tanamento del pubblico da Mozart, allontanamento che si verificò appunto dopo la stagione di quaresima del 1786. Il secondo tempo del Concerto K 488, malinconica “siciliana” di tesa espressione, sfrutta a fondo il colore opaco dell’orchestra e, soprattutto, gli sbalzi di registro della melodia: lo sbalzo di registro, introdotto nel secondo tempo del Concerto K 467 come elemento di intensificazione dell’espressione, diventa nel Concerto K 488 un mezzo sistematicamente impiegato, e che crea un punto estremo nella poetica mozartiana, al limite di superamento della stilizzazione che Mozart assegna sempre all’espressione dei sentimenti, agli affetti. Non è nota la data della prima esecuzione del Concerto in la maggiore, che dovette comunque esser presentato ai viennesi in marzo. Il successivo concerto, in do minore K 491, fu terminato il 24 marzo, eseguito il 3 aprile e ripetuto il 7. Tutti e tre i concerti piacquero ancora, ed il nome di Mozart guadagnò altra popolarità con la prima esecuzione delle Nozze di Figaro, andate in scena 1’1 maggio. Ma il gusto dei viennesi si stava già allontanando da Mozart (ed accostando a Kozeluch), tanto che nell’estate del 1786 i circa centocinquanta sottoscrittori delle precedenti stagioni erano scesi ad... uno solo, il barone van Swieten! L’estate non era sicuramente
Mozart: Concerti K 488, K 491
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favorevole all’attività concertistica, perché la nobiltà se ne andava a villeggiare, e noi non sappiamo bene per quale motivo Mozart volle tentare una serie di concerti in una stagione inusitata. Ma questa fu l’ultima esperienza. Mozart, anche perché preso da altri impegni, non si preoccupò di riconquistare il pubblico, e praticamente concluse con il 1786 la sua carriera di concertista. CONCERTO IN DO MINORE K 491 (N. 24) • Allegro (do minore, 3/4). □ Larghetto (mi bemolle maggiore, tempo tagliato). □ Allegretto (do minore, tempo tagliato, poi 6/8). • Senza dedica. • Vienna, 24 marzo 1786. • Vienna, 3 aprile 1786, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1800. • FI., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto K 491 è da collocare al culmine dell’esperienza degli anni 1784-86, sia per quanto concerne il carattere espressivo e la struttura compositiva, sia per quanto concerne il rapporto tra il solista e l’orchestra. Il carattere espressivo radicalizza l’innovazione del Concerto in re minore K 466, primo concerto nettamente drammatico, e la struttura tende alla economia invece che alla sovrabbondanza del materiale. La struttura è inoltre caratterizzata dal fatto che il solista, nel primo tempo, suona anche dopo la cadenza: particolare che Mozart aveva abbandonato dopo il Concer to K 271, e che riprende in prospettive moderne, tanto da rapportarsi alla svolta stilistica del Concerto n. 3 di-Beethoven. Per quanto riguarda l’orchestra è da osservare che fin dai primi tempi del suo soggiorno a Vienna, come abbiamo visto, Mozart aveva cominciato ad ampliare il numero degli strumenti, e che nel Concerto K 482 aveva tentato la più significativa innovazione: al posto dei due oboi, di sonorità pungente e “barocca”, erano stati inseriti due clarinetti, di sonorità morbida e “moderna”. I due clarinetti al posto dei due oboi vengono mantenuti nel Concerto in la maggiore K 488 e nei frammenti di concerti composti tra il febbraio e il marzo del 1786. Con il Concerto K 491 ricompaiono i due oboi, ma accanto ai due clarinetti, tanto che l’orchestra acquista un colore nuovo. Colore non solo nuovo, ma unico nella produzione di Mozart perché nei tre ultimi concerti i clarinetti non verranno più impiegati. Come abbiamo già detto, il Concerto K 491 tende all’economia, e
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Mozart: Concerto K 491
quindi alla estrema caratterizzazione del materiale impiegato. Così, il primo tema è caratterizzato da brusche impennate (salti di settima e di sesta) e da drammatiche interruzioni, e nella esposizione orchestrale che precede l’entrata del solista viene utilizzato soltanto il primo tema. L’esposizione del solista, come spesso in Mozart, inizia con un breve episodio di carattere improvvisatorio, ed è completa, ma complementare all’esposizione orchestrale: il primo tema viene appena citato, e vengono poi esposti due temi in mi bemolle maggiore (invece di un solo secondo tema), collegati da un ampio episodio di transizione e seguiti da una vasta coda che utilizza il ppmo tema. E da notare che nella riesposizione Mozart inverte l’ordine dei due temi che nella esposizione erano stati presentati dopo il primo. I due temi sono quindi pensati come gruppo tematico, secondo una concezione compositiva che solo con Brahms giungerà a completa maturazione. Il secondo tempo è in una forma intermedia tra la canzone e il rondò: la struttura generale è chiaramente tripartita (canzone), ma la parte centrale è formata da due episodi invece di uno, inframmezza ti da una citazione del primo tema (rondò). Da notare quale partito Mozart sappia trarre dagli strumentini, impegnati sia da soli che in unione con il pianoforte. L’ultimo tempo è un tema con variazioni, strutturalmente simile al finale del Concerto K 453, ma con un carattere espressivo “serioso” assolutamente eccezionale in un concerto. Il tema, un Allegretto alla marcia, viene esposto dall’orchestra; la prima variazio ne è affidata al pianoforte accompagnato dagli archi, la seconda variazione, alternativamente, agli strumentini e al pianoforte accom pagnato dagli archi, la terza variazione, alternativamente, al piano forte solo e a tutta l’orchestra senza il pianoforte. Dopo il primo gruppo di tre variazioni Mozart cambia tonalità e modo: la quarta variazione è in la bemolle maggiore, quasi un intermezzo, ed è affidata alternativamente a clarinetti, fagotti, corni, e al pianoforte accompagnato dagli archi. Si ritorna al do minore con una variazione doppia, la quinta, assai complessa sul piano compositivo ed affidata quasi per intero al pianoforte solo. La sesta variazione, che amplifica leggermente il tema, è in do maggiore: lo schema è ancora quello alternante un gruppo di strumenti e il pianoforte accompagnato dagli archi, ma il gruppo di strumenti è leggermente modificato rispetto alle due precedenti varianti (flauto, oboi, fagotti, violoncelli, contrabbassi). La settima variazione, che alterna varie combinazioni ritmiche in una struttura
Mozart: Concerti K 491, K 303
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pienamente integrata tra il pianoforte e l’orchestra, abbrevia il tema e prepara il finale. Nel finale viene cambiato il metro ed il tema non è più variato, ma parafrasato a fantasia: evidentissima, qui come alla fine del primo tempo, l’influenza che questa conclusione eserciterà sul Beethoven del Concerto in do minore.
CONCERTO IN DO MAGGIORE K 503 (N. 25) • Allegro maestoso (do maggiore, tempo ordinario). □ Andante (fa maggiore, 3/4). □ Allegretto (do maggiore, 2/4). • Senza dedica. • Vienna, 4 dicembre 1786. • Vienna, dicembre 1787, direttore e pianista Wolfgang Amadeus Mozart. • Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 17987. • FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Quattordici concerti dal tardo 1782 alla primavera del 1786, tre concerti dal tardo 1786 all’inizio del 1791. La prima serie si colloca tra il Ratto dal serraglio e le Nozze di Figaro, la seconda inframmezza le Nozze di Figaro, il Don Giovanni e Così fan tutte. Abbiamo detto che Mozart vedeva nel pianoforte un mezzo di sussistenza, nel teatro la sede delle sue più profonde aspirazioni, ed è evidente che l’attività di operista lo distolse dal pianoforte. Non possiamo certo dolerci per quel che Mozart, dedicandosi al teatro, non fece nel campo del pianoforte; ma non possiamo non notare che nel momento in cui venivano in luce — con Sterkel, Gelinek, Dussek, Steibelt — nuove tendenze e nuove spinte verso il virtuosismo strumentale, nella storia del concerto per pianoforte e orchestra cessò l’apporto di Mozart. Alcuni passi nel finale del Concerto in do maggiore K 303, terminato il 4 dicembre 1786, dimostrano che Mozart non era contrario allo sviluppo del virtuosismo, e qualche momento nel primo tempo lascia intrawedere la scoperta della gestualità. Mozart compone però un lavoro nettamente sinfonico, in cui il rapporto solista-orchestra non viene minimamente incrinato in favore del solista. Il Concerto K 303 riprende in parte le caratteristiche del Concerto K 439: il primo tempo è infatti tutto dominato da un ritmo molto caratteristico, ma qui, al contrario che nel Concerto K 439, al ritmo 7 «Nr. 1 del retaggio del defunto publicato [sic] alle spese della vedova».
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Mozart: Concerto K 503
predominante si contrappone un altro ritmo, fastoso ed imponente, con cui il lavoro si apre. Mozart, a parer nostro, sintetizza in un unico movimento la divisione in andante e allegro ed i caratteri della ouverture teatrale, con un effetto nettamente rappresentativo e gestuale. Altra insolita caratteristica: il secondo tema dell’orchestra è presentato in modo minore prima che in modo maggiore; il secondo tema del pianoforte — che è, regolarmente, in sol maggiore — viene preceduto da un altro tema in mi bemolle maggiore; anche nella riesposizione il secondo téma, questa volta in do maggiore, è preceduto dal tema in mi bemolle maggiore, mentre il secondo tema dell’orchestra è ampiamente sfruttato nello sviluppo, sia in modo maggiore che in modo minore. Questi insoliti rapporti di tonalità e questo equilibrio nell’impiego dei modi rinnovano la struttura di un primo tempo che stilisticamente costituisce l’ultimo sviluppo delle esperienze del periodo 1783-86. Lo slittamento dal maggiore al minore ritorna nel finale, anche all’interno nel tema principale del rondò, che è costruito in modo singolarissimo: a) primo elemento, di otto battute, suddiviso in due parti (do maggiore); b) secondo elemento, di quattro battute (do maggiore); c) ripresa del primo elemento, unito ad una variante del secondo elemento (quattro battute, do maggiore); d) sviluppo del primo elemento e della variante del secondo, con contrappunti cromatici (otto battute, do minore); e) coda (otto battute, do maggiore). Il primo e il secondo elemento sono entrambi di carattere popolaresco, quasi una canzone infantile il primo, quasi una canzone contadina il secondo (affidato a oboi e corni), tanto popolareschi che non ci stupiremmo di trovarli nelle composizioni giovanili di Bartók. I caratteri popolareschi dei temi dei finali dei concerti non sono insoliti né in Mozart, come abbiamo già visto, né in altri compositori del suo tempo. Ma non a caso abbiamo or ora citato il nome di Bartók, perché nel finale del Concerto K 503 si passa dal popolaresco alla critica del popolaresco. Dopo i due elementi tematici popolareschi lo sviluppo — in modo minore, con cromatismi — simboleggia quasi la contaminazio ne di musica popolare e musica dotta; quando ci si aspetterebbe una riesposizione variata Mozart inventa invece una coda in ritmo diverso (terzine), nella quale le funzioni tonali sono prima ridotte alle due più semplici (tonica e dominante) e poi solo più sottintese (tre battute omofone). La costruzione del tema, a parer nostro, non è più soltanto musicale, ma è ideologica: gli elementi popolareschi (a, b, c) perdono
Mozart: Concerti K 503, K 531
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la loro ingenuità quando sono elaborati mediante procedimenti stilistici prodotti da una cultura diversa (d), ma il contrasto è risolto da una estrema semplificazione razionale (e): non ci sembra fuor di luogo — qui, piuttosto che a proposito dei tre bemolli o dei tre diesis — parlare di una simbologia massonica, o per lo meno di pensiero massonico. E questa potrebbe essere l’ultima ragione dell’allontana mento da Mozart del pubblico viennese aristocratico — tra le centocinquanta e le duecento famiglie — che per alcuni anni lo aveva protetto. Un finale tanto apparentemente gioioso, come il finale del Concerto K 503, avrebbe dovuto ottenere il successo del Rondò K 382 di felice memoria. Non lo ottenne, si può supporre, perché il pensiero ideologico di Mozart era ormai in contrasto con il pensiero dell’aristocrazia. L’ironia del Concerto K 459 era troppo sottile per poter essere colta come tale e per diventare offensiva. Ma dopo le Nozze di Figaro l’orientamento ideologico di Mozart diventava palese, ed i contemporanei non potevano non coglierlo anche nei concerti; il Concerto K 503 segna dunque la fine del concerto come tramite tra il musicista ed il pubblico aristocratico, e pare a noi il simbolo della sconfitta di Mozart nel suo tentativo di essere libero professionista in un paese dominato dalla classe aristocratica. Nella cadenza per il primo tempo del Concerto K 503, che Cari Philipp Hoffmann compose verso la fine del Settecento e pubblicò nel 1801, viene messa in evidenza la somiglianza del secondo tema con la Marsigliese8. Somiglianza certamente del tutto casuale, perché la Marsigliese fu composta nel 1792; ma la trovata dello Hoffmann non è priva di un significato simbolico, che coglie un momento profondo e decisivo del pensiero di Mozart. CONCERTO IN RE MAGGIORE K 537 (N. 26) • Allegro (re maggiore, tempo ordinario). □ Larghetto (la maggiore, tempo tagliato). □ Allegretto (re maggiore, 2/4). • Senza dedica. • Vienna, 24 febbraio 1788. • Dresda, 14 aprile 1789, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • André, Offenbach 1794. • FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi. 8 Le prime sette note dei due temi sono identiche nell’altezza, molto simili nel ritmo; Hoffmann fa notare la somiglianza “eroicizzando” il primo frammento del tema mozartiano con il trasporto in registro basso ed il raddoppio in ottava.
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Mozart: Concerto K 537
Nel dicembre del 1786 Mozart partecipò a quattro concerti: in uno di essi fu probabilmente eseguito il Concerto K 503, che venne forse ripetuto il 7 marzo 1787 dalla pianista Marianne Willmann. Mozart non suonò più a Vienna per quattro anni. Il Concerto in re maggiore K 537 fu terminato nel febbraio del 1788, probabilmente in previsione di un’esecuzione che non ebbe luogo. La prima esecuzione avvenne invece a Dresda, più di un anno dopo, durante il giro concertistico che toccò Dresda e Berlino, e che si concluse con un confortevole successo artistico ma senza alcuna prospettiva di futuro lavoro. Il Concerto K 537 non sembra segnare un ulteriore progresso né presenta novità rispetto alle esperienze culminate nel Concerto K 503, La gradevolezza dei temi, la chiarezza e la linearità dell’impian to architettonico fanno del primo tempo del Concerto un luogo di delizie in cui anche l’ascoltatore il meno preparato alle avventure intellettuali può ritrovarsi, le scalette e i tratti di virtuosismo non inseriti in strutture sinfoniche abbondano e sollevano lo spirito dello spettatore tra l’uno e l’altro dei teneri temi. Anche lo sviluppo torna verso il tipo della fantasia estemporanea, e solo qualche oscillazione modale e qualche accenno di imitazione contrappuntistica ci ricordano che abbiamo a che fare con un Mozart trentaduenne, non ventenne. Una valutazione esatta del Concerto non è facile, dato che il manoscritto è incompleto e che la scrittura pianistica non è ben giudicabile in quanto parzialmente dovuta all’editore André o a qualche musicista al servizio dell’editore. Si può tuttavia dire che il dolcissimo secondo tempo non sfiora neppure la pateticità e la seriosità degli ultimi tempi lenti dei concerti, e che è una specie di notturnino preromantico, nel quale già cominciano ad apparire i contorni della poetica di John Field. Notiamo che la cantilena centrale, tipica di Mozart, sfrutta una zona della tastiera più bassa di quella che era stata recentemente preferita per gli episodi cantabili, e suona più morbida e suadente. Il finale è aggraziato e frastagliato di finissime trine, ma il secondo tema oscilla di nuovo dal modo minore al modo maggiore, secondo quel modulo stilistico che ormai è carattere distintivo essenziale di Mozart. Alcune modulazioni inconsuete spostano inoltre il “naturale” ordine delle tonalità, così che il prevedibile episodio in si minore non c’è, ed è sostituito da un excursus che dal sol bemolle maggiore va al si bemolle maggiore, al si bemolle mino re, al si minore, al sol maggiore. Poi, dopo aver contemplato
Mozart: Concerti K 537, K 595
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dall’alto l’orrido, si riprende la passeggiata sul fiorito cammino, fino a raggiungere l’ultimo giubilo sull’accordo di re maggiore ripetuto per quattro battute. Se c’è un concerto prefieldiano e prechopiniano, che postula la rinuncia al tematismo ed il piacere della melodia, questo è il Concerto K 537. Ma il Concerto K 537 non gode in genere di buo na stampa, poiché è parso adombrare un ritorno all’indietro, un ten tativo di compiacere quel pubblico che aveva mostrato di preferire compositori più piacevoli e meno eversivi. Una valutazione anche parzialmente negativa del Concerto K 537 è, a parer nostro, il ri flesso di una valutazione negativa del Biedermeier storico e meta storico. Non pensiamo che nella maturità morale raggiunta da chi aveva creato il Don Giovanni ci fosse posto per un tentativo di riconciliazione con il pubblico aristocratico. Ma c’era forse posto per la rinuncia alla ribellione e per la rivalutazione degli affetti privati che caratterizzerà più tardi il Biedermeier. In Mozart il momento Biedermeier dura per un attimo, e sarà superato dal pessimismo di Così fan tutte, ma non rappresenta una deviazione: è, anche questo, un momento della grandezza, della universalità di Mozart. E in questo senso il Concerto K 537 merita, a parer nostro, una valutazione del tutto positiva. CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE K 595 (N. 27)
• Allegro (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Larghetto (mi bemolle maggiore, tempo tagliato). □ Allegro (si bemolle maggiore, 6/8). • Senza dedica. • Vienna, 5 gennaio 1791. • Vienna, 4 marzo 1791, pianista e direttore Wolfgang Amadeus Mozart. • Artaria, Vienna 1791. • FI., 2 ob. 2 fg., 2 cr., archi.
Il 5 gennaio 1791 Mozart terminava il suo ultimo concerto e lo eseguiva il 4 marzo in un concerto del clarinettista Joseph Bàhr. Si ignora se il Concerto K 595 fu scritto apposta per il concerto di Joseph Bàhr, ma sembra più probabile che sia stato composto su commissione di qualche dilettante. La supposizione è legittimata da tre circostanze: tra il termine della composizione e l’esecuzione corrono due mesi (mentre di solito Mozart terminava di scrivere i suoi concerti pochi giorni prima dell’esecuzione), la difficoltà tecnica è limitata (mentre i concerti che Mozart scriveva per suo uso sono difficili), e le cadenze furono scritte contemporaneamente al
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concerto (mentre Mozart usava improvvisare le cadenze). Pare quindi plausibile la supposizione che Mozart abbia scritto il Concerto su commissione, ed abbia deciso di eseguirlo lui stesso quando fu invitato a prender parte alla serata organizzata del Bàhr. Come tutte le composizioni scritte da Mozart nel suo ultimo anno di vita, anche il Concerto K 595 presenta quelle caratteristiche stilistiche che il Robbins Landon riassume nel concetto di “tardo stile”: «Abilità tecnica enorme ma agevole, una specie di passività lontana e leggera, e carattere sempre più astratto del pensiero musicale» (The Mozart Companion, Londra 1956). Il primo tema del primo tempo ha caratteristiche strutturali singolarissime: è costruito con frammenti melodici (affidati agli archi) organizzati al modo delle canzoni popolari, inframmezzati da una specie di fanfara, che molto probabilmente è una voluta citazione dell’aria di Osmino “Ha! wie will ich triumphiren» (Ah! così voglio trionfare) del Ratto dal serraglio. Alla terza volta la citazione cambia: viene ripreso un frammento del finale della Sinfonia "Jupiter”\ ed il tema principale procede poi con due nuovi frammenti melodici, affidati alternativamente agli archi e ai fiati. L’organizzazione del tema, come si vede, è molto complessa, e anche questo è un segno del “tardo stile” di Mozart. Nel primo tempo è ancora da segnalare la parte centrale, che tocca un giro di tonalità lontane dalla tonalità principale, presenta alcuni episodi di imitazione canonica ed impiega gli strumenti a fiato in funzione solistica: questo sviluppo verrà tenuto presente da Beethoven nella sezione centrale del secondo tempo del suo Concerto n. 3. Il secondo tempo è fondato su un tema di dolcissima cantabilità e di carattere popolare, organizzato strutturalmente nella classica forma della canzone. L’intero secondo tempo, a sua volta, è in forma, più complessa, di canzone. Popolaresco è il tema principale del finale, tema che Mozart usò, ancora nel gennaio del 1791, per il Lied «Sehnsucht nach dem Friihling» (Nostalgia di primavera). Anche il tema principale del finale è in forma di canzone, e ciò conferma il carattere generale del Concerto. Il finale del Concerto appartiene al tipo delle musiche settecente sche che avevano per argomento la caccia, e che celebravano, più che l’inseguimento e la cattura, l’amore per la natura e per la vita agreste: si osservino in particolare, dopo il primo tema, il tema di collegamento ed il secondo tema, che sono tipici temi di pastorale. Ci pare di non esagerare se riteniamo che, più che opera di addio (come fu detto spesso, in rapporto con l’imminente morte di Mozart), il Concerto K 595 sia da considerare come opera che dà
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voce alla utopia settecentesca della vita pacifica, simboleggiata da Voltaire nel mito del giardino da coltivare, e che in Haydn trova le sue più frequenti incarnazioni musicali. Con una riaffermazione della utopia illuministica Mozart si congeda dunque dal concerto per pianoforte: non dal mondo, a cui darà ancora l’allegoria profetica del
Flauto magico.
Nota sulle fortune dei concerti di Mozart Verso la fine della vita di Mozart, come già abbiamo detto incidentalmente, era iniziata la moda del concerto brillante. Ma per qualche tempo ancora i più importanti concerti mozartiani, che si andavano pubblicando negli anni 90, furono eseguiti con una certa frequenza, sebbene la vita concertistica internazionale decadesse con la Rivoluzione Francese e poi con il blocco continentale. Il più rilevante lavoro di interprete fu compiuto da August Eberhard Muller (1767-1818), che già prima del 1794 aveva eseguito a Lipsia tutti i concerti noti, e che nel 1796 pubblicò
YAnweisung zum genauen Vertrage del Mozartschen clavierconcerte (Guida per la corretta esecuzione dei concerti per pianoforte di Mozart); il Mùller scrisse inoltre cadenze, che talvolta si eseguono anche oggi, per i concerti K 455, 459, 466, 482, 488, 491, 503, 537. Johann Nepomuk Hummel, che aveva studiato con Mozart vivendo a pensione in casa del Maestro, il 10 marzo 1789, a undici anni, eseguì a Dresda il Concerto K 503; il 5 maggio 1792 Hummel eseguiva un concerto di Mozart al suo esordio a Londra. Johann Wilhelm Hàssler (1747-1822), che nel 1789 aveva sostenuto un pubblico confronto con Mozart a Dresda, Jan Wittasek (1770-1839), Johann Baptist Cramer (1771-1858) eseguirono con certi di Mozart negli anni 90; Beethoven, come già abbiamo detto, suonò a Vienna il Concerto in re minore il 31 marzo 1795 e, forse, 1’8 gennaio 1796. Non è improbabile che la von Aurnhammer, la Ployer, la Willmann e la Paradis eseguissero Mozart, ma non abbiamo notizie complete sulla reale diffusione dei concerti. La storia delle esecuzioni, alla fine del Settecento e fin verso il 1830, mette in evidenza due tendenze contrapposte (anche se, sul piano pratico, alleate). Da una parte si cercava, magari inconscia mente, di ricondurre il concerto di Mozart all’estetica del concerto rococò, del concerto da eseguire in casa o in piccole sale, e comunque con pochi mezzi. Si pubblicarono così versioni cameristi che anche dei concerti più nettamente sinfonici: un “mozartiano”
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per la pelle come Cramer pubblicò nel 1825 sei concerti, tra i quali il K 466, in versione per pianoforte, violino, flauto e violoncello, e un adoratore di Mozart come Pietro Lichtenthal preparò verso il 1830 una versione del K 466 per pianoforte e quartetto d’archi. Abbiamo citato due musicisti che ammiravano Mozart, non due mestieranti qualsiasi, per mettere in evidenza quella che è una tendenza storica più che una speculazione commerciale di editori. La trascrizione dall’orchestra aveva allora uno scopo eminentemente utilitaristico, ma nel caso dei concerti di Mozart la riduzione dell’orchestra al quartetto d’archi o al flauto ed archi aveva indubbiamente l’effetto di riportare le musiche in un ambito socio culturale dal quale Mozart era invece uscito. La tendenza contrapposta era quella di assimilare i concerti di Mozart all’estetica del concerto Biedermeier, che aveva ridotto progressivamente il ruolo dell’orchestra fino al limite dei concerti con orchestra ad libitum. A questa tendenza appartiene la trascrizio ne per pianoforte solo di sette concerti (K 365, 456, 466, 467, 482, 491, 537), pubblicata verso il 1830 da Hummel: la fama e il prestigio dell’autore procurarono a questa pubblicazione diffusione e autore volezza tali da farla durare per tutto il secolo (la trascrizione di Hummel è per pianoforte solo oppure con accompagnamento di flauto,'violino e violoncello: Hummel tiene dunque presenti entram be le possibilità, il concerto rococò e il concerto Biedermeier). Kalkbrenner trascrisse per pianoforte solo il Concerto K 503. Sia l’una che l’altra tendenza si preoccuparono molto di fissare sulla carta la tradizione esecutiva, cioè l’improvvisazione di orna menti, che risaliva certamente, almeno come posizione di principio, a Mozart stesso. VAnweisung di A.E. Muller offre esempi di ornamentazione per i concerti K 414, 415, 451, 595, ed una pubblicazione di Cari Philipp Hoffmann, uscita nel 1803, elabora i tempi lenti dei concerti K 467, 482, 488, 491, 503, 595. Hoffmann aveva conosciuto Mozart a Magonza nel 1790 ed aveva eseguito con lui la Sonata per pianoforte a quattro mani K 497: di qui la sua autorevolezza, che forse era un tantino usurpata. Certamente non usurpata era l’autorità di Hummel; ma le sue varianti sono spesso di un’ampiezza e di un’estensione tali da preannunciare Chopin, più che “completare” Mozart. Anche Cra mer, a quanto risulta dalla sua edizione e a quanto riferisce Ignaz Moscheles, aggiungeva fioriture in termini esorbitanti. La prudente annotazione che troviamo nel Concerto op. 70 di Dussek — «Ornamenti ad libitum, ma più tosto pochi e buoni!» — doveva essere dettata da una situazione generalizzata di uso che spesso e
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volentieri degenerava in arbitrio. Cramer è anche l’inventore di un’altra trovata: eseguiva due tempi di un suo concerto a cui aggiungeva, come finale, l’ultimo tempo del Concerto K 491\ Dopo il 1830 circa, e cioè dopo l’affermazione del virtuosismo romantico, non ci fu però più da discutere molto sulle ornamentazio ni per il semplice motivo che tutti i concerti di Mozart, eccettuato il K 466, uscirono completamente dal repertorio corrente, e né Chopin, né Liszt, né Thalberg, né Henselt li eseguirono. Liszt diresse una volta, nel gennaio del 1856 a Vienna, il Concerto in do minore K 491 con Joseph Dachs al pianoforte, e Mendelssohn eseguì, oltre al K 466, solo il Concerto K 365 per due pianoforti (con Moscheles e con Hiller). Affidato il Concerto K 466 ai virtuosi celebri, la cultura affidò gli altri concerti a pianisti che raramente si muovevano dalla loro abituale residenza: Saint-Saèns eseguì sedici concerti alla Salle Pleyel, in quattro serate, negli anni 60, Carl Reinecke fu molto attivo come interprete mozartiano a Lipsia, e così Charles Hallé a Londra e a Manchester, Julius Epstein e Joseph Dachs a Vienna, Fedinand Hiller a Colonia, Wilhelm Taubert a Berlino. Brahms, che non fu un concertista celebre, eseguì i concerti K 453 e K 491, e tra i virtuosi romantici soltanto Clara Schumann, in pratica, eseguì vari concerti nella seconda metà del secolo9. Un ampliamento del repertorio ebbe inizio negli ultimi due decenni, dapprima con il Concerto K 537 e poi con il K 491, di cui furono memorabili le esecuzioni di Richard Strauss (nel 1885, con Hans von Bulqw direttore), del belga Arthur de Greef (1862-1940) e del francese Edouard Risler (1873-1929). Nella nuova generazione di interpreti si segnalarono particolarmente, oltre al Risler, l’austra liano Ernest Hutcheson (1871-1951), l’inglese Donald Tovey (18751940), l’ungherese Ernò Dohnànyi (1877-1960), il russo Ossip Gabrilovic (1878-1936). Nel 1910, a Londra, Saint-Saèns promosse un importantissimo ciclo di tre serate, durante il quale eseguì i concerti K 413, 449, 453, 456, 466, 467, 482, 488, 491, 503, 537, 595, Ferruccio Busoni 9 Non è senza interesse notare che i maggiori interpreti mozartiani dello scorso secolo esordirono, come fanciulli-prodigio, con concerti di Mozart. Hiller esordì nel 1821, decenne, con il K 491, Clara Wieck Schumann nel 1827, a otto anni, con un concerto in mi bemolle maggiore (forse il K 449, dato che l’orchestra era formata da otto soli esecutori), Saint-Saèns nel 1846, a undici anni, con il K 450, Ferruccio Busoni, nel 1875 a nove anni, con il K 491. Anche Artur Rubinstein, il cui esordio — nel 1897, a undici anni — fu patrocinato da un classicista come Joseph Joachim, si presentò con il Concerto K 488. Nel nostro secolo Clara Haskil esordì nel 1903, a otto anni, con il K 488, e Solomon nel 1910, a otto anni, con il K 258.
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concluse questa fase storica presentando, dopo il 1918, i concerti
K. 271, 453, 466, 467, 488, 491, 503; le sue serate mozartiane a Berlino, nel 1921, suscitarono discussioni violente, ma furono determinanti per l’orientamento della generazione di interpreti successiva. Lo stile interpretativo della generazione di Busoni è scarsamente documentato dal disco. Abbiamo solo un’incisione del Concertò K 453, di Ernò Dohnànyi, una del K 537, di Wanda Landowska, ed una del K 488 di Marguerite Long, alle quali possiamo aggiungere l’importantissima incisione del Concerto K 466 con Bruno Walter direttore e solista. Un’incisione del Concerto K 459 di Isidor Philipp (1863-1958), allievo di Saint-Saèns, fu annunciata ma non pubblica ta: sarebbe stata molto interessante come testimonianza della tradizione francese dell’ottocento, anche per capire la misura di certe indicazioni — ad esempio, tranquillo, passionato, cedendo, segni di dinamica e di fraseggio, un curiosissimo glissando — che si trovano nella revisione del K 459 dal Philipp pubblicata. Sappiamo che Busoni modificava la scrittura pianistica di Mozart e che aveva intenzione di pubblicare un’edizione dei concerti con le due versioni, la sua e quella originale. Qualche indicazione sulle interpretazioni di Busoni si può ricavare dalle sue cadenze, specie da quella per il primo tempo del Concerto K 503, che è vastissima (dieci pagine a stampa) e che comprende una parte pianistica aggiunta nell’ultimo tutti orchestrale. Sono però notizie e documentazioni scarne, e dello stile di esecuzione degli interpreti nati tra il 1860 e il 1880 possiamo sapere solo per approssimazione. Molto ben documentate sono invece le esecuzioni dei maggiori interpreti delle successive generazioni: Fischer, Schnabel, la Hess, la Haskil, Gieseking, Serkin, la Kraus, ecc. ecc. Il disco fornisce oggi un ricco ventaglio di interpretazioni mozartiane, anche con strumen ti antichi10, che coprono un periodo storico di circa cinquant’anni. Non altrettanto si può dire della sala di concerto, dove concerti come il K 175, il K 246, il K 413, il K 415, il K 449, il K 451, il K 456 sono pressoché sconosciuti. Sono mancate e mancano, per evidenti difficoltà pratiche, le esecuzioni complete, le integrali (si ricorda in pratica solo quella di Yvonne Loriod nel 1964), le integrali che hanno dato popolarità a tutte le sonate di Beethoven o a tutte le musiche di Chopin. Manca così la coscienza del ruolo che nella storia della musica hanno svolto i concerti di Mozart, e non 10 La prima incisione sul cosiddetto “fortepiano”, quella di Ralph Kirkpatrick del Concerto K 453, è ormai vetusta, essendo stata pubblicata nel 1951.
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tanto come insieme, come collezione di belle opere, quanto come esperienza evolutiva totalizzante, che caratterizza e sintetizza tutta un’epoca. Ripercorrere, rivivere la storia dei concerti di Mozart significa, a parer nostro, comprendere le ragioni di una rottura non ricomposta in un nuovo equilibrio. Il paradigma spirituale di Beethoven — dalle Sonate op. 2 alle Variazioni su un valzer di Diabelli — e di Chopin — dal Rondò op. 1 alla Polacca-Fantasia — si trova già nei concerti di Mozart, ed è il paradigma di una ribellione, di un rifiuto dell’adesione acritica alla ideologia dominante, di una — potremmo dire — conquista dell’avanguardia, coerente nel suo sviluppo ed esemplare nelle sue motivazioni morali. E questo il punto su cui cerchiamo insistentemente di attirare l’attenzione del lettore: perché la grandezza musicale di Mozart non necessita di difensori, mentre il mito dell’eterno fanciullo, staccato dalla storia della società, continua ad escludere Mozart dal novero dei ribelli a cui la civiltà moderna può guardare con orgoglio.
LUDWIG VAN BEETHOVEN
(Bonn, battezzato il 17 dicembre 1770 — Vienna, 26 marzo 1827)
Il suo primo concerto per pianoforte e orchestra, come abbiamo visto, Beethoven lo scrisse nel 1784, quando non aveva ancora compiuto i quattordici anni. Di questo Concerto in mi bemolle maggiore, assai difficile e ricco di arditi passi virtuosistici, ci è pervenuta la sola parte del pianoforte con annotazioni per la strumentazione (la partitura fu ricostruita da Willy Hess, che pubblicò la sua versione una prima volta nel 1943, ed una seconda volta nel 1962). Svanito molto presto il miraggio del fanciullo-prodigio, che aveva mosso la composizione del Concerto in mi bemolle maggiore, Beethoven riprese a scrivere per pianoforte e orchestra alcuni anni dopo, quando gli si presentarono concrete occasioni per intraprende re la carriera del pianista virtuoso1. Al 1792-93 risalgono gli appunti per il tempo lento di un Concerto in la maggiore. E nel 1794, molto probabilmente, Beethoven cominciò a comporre il Concerto in si bemolle maggiore, più tardi pubblicato con il numero d’opera 19. Il Concerto in si bemolle maggiore fu quasi certamente eseguito da Beethoven, al Burgtheater di Vienna, il 29 marzo 1795, in un concerto diretto da Antonio Salieri; il programma e le recensioni giornalistiche parlano solo di un Concerto, senza precisare la tonalità, ma pare certo che si trattasse dell’op. 19. Beethoven rieseguì varie volte il Concerto nel 1795-96: due volte — 16 dicembre 1795 e 8 gennaio 1796 — avendo come direttore d’orchestra Joseph Haydn. La versione eseguita nel 1795-96 differiva da quella definitiva per alcuni particolari del primo tempo (frammenti di questa versione furono ritrovati e pubblicati nel 1 Ricordiamo che il Tempo di Concerto in re maggiore., in passato attribuito a Beethoven, è opera di Josef Rosier. t
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1960), ed aveva un finale diverso, un Rondò che, a detta del Wegeler, fu scritto alla vigilia del concerto, mentre quattro copisti, nell’anticamera dell*appartamento di Beethoven, ricavavano le parti d’orchestra dai fogli che il compositore passava loro a mano a mano che li riempiva di note. Basta dare un’occhiata al Rondò, molto bello e molto sviluppato, per capire che la storiella del Wegeler pecca per lo meno di eccessivo entusiasmo; non è improbabile invece — ciò succedeva spesso — che Beethoven terminasse la strumentazione alla vigilia dell’esecu zione. CONCERTO IN DO MAGGIORE OP. 15 (N. 1) • Allegro con brìo (do maggiore, tempo ordinario). □ Largo (la bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Rondò. Allegro (do maggiore, 2/4). • Barbara Odescalchi. • 1795-98 (prima versione); 1800 (seconda versione). • Praga, ottobre 1798, pianista Ludwig van Beethoven (prima versione); Vienna, 2 aprile 1800, pianista Ludwig van Beethoven (seconda versione). • Mollo, Vienna 1801. • FI., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Mentre sfruttava il successo ottenuto con la prima versione del
Concerto in si bemolle maggiore, Beethoven cominciò a lavorare molto lentamente ad un Concerto in do maggiore. Del Concerto furono fatti vari abbozzi tra il 1795 e il 1797; la composizione fu terminata nel 1798, e quasi certamente fu eseguita per la prima volta da Beethoven, a Praga, nella Konviktsaal, nell’ottobre del 1798. Una versione ritoccata fu eseguita da Beethoven, al Burgtheater di Vienna, il 2 aprile 1800, e nel 1801, finalmente, il Concerto fu pubblicato simultaneamente da tre editori, di Vienna, di Lipsia e di Francoforte sul Meno, con dedica alla principessa Barbara Odescal chi, allieva di Beethoven. Durante l’Ottocento il Concerto in do maggiore fu eseguito molto raramente. Ferruccio Busoni lo eseguì a Zurigo nel 1919, e più tardi il Concerto cominciò ad apparire più di frequente nelle “integrali” dei concerti di Beethoven (idea che fu proposta non da un interprete beethoveniano patentato, ma da Alfred Cortot, negli anni 20, negli Stati Uniti). Alla popolarità del Concerto contribuirono non poco anche le esecuzioni di Rachmaninov, verso il 1940, e di Cortot verso il 1950. Il Concerto op. 15 presenta un primo tempo in gran parte vicino
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Beethoven: Concerto op. 15, Concerto op. 19
alla tradizione del “concerto militare”, molto gradito al pubblico di fine Settecento. Al contrario di quanto aveva fatto nel Concerto in si bemolle, nelTop. 15 Beethoven impiega l’orchestra completa, con tanto di clarinetti, trombe e timpani. Il colore orchestrale è quindi brillante, il primo tema è in tempo di marcia, il pianista sfoggia staccati incisivi e molta agilità, anche alla mano sinistra: tutta la composizione è festosamente esteriorizzata, e molto decorativa, con pochi momenti di più raccolto intimismo. Come spesso avviene nelle composizioni giovanili di Beethoven, il Largo è il centro espressivo dell’opera, e supera per originalità e bellezza dell’invenzione musicale quanto precede e quanto segue. A dire il vero, la maggior parte del Largo è uno di quegli ampi e nobili movimenti, riccamente ornati, assai frequenti presso i classici, e anche in compositori non di primissimo piano. La particolarità notevole del Largo beethoveniano consiste innanzitutto nella ridu zione dell’orchestra, con esclusione non solo di trombe e timpani, ma anche dei flauti e degli oboi. La sezione dei fiati (clarinetti, fagotti, corni) acquista così un colore insolito e in essa emerge il primo clarinetto, che dialoga spesso col pianoforte. Ma il momento veramente “magico” del Largo è nella parte finale che, pur non staccandosi nettamente, nei caratteri lessicali, dalla tradizione, introduce un’atmosfera espressiva appartenente ad un mondo nuovo. Molto brillante, ma meno decorativo del primo tempo, è il Rondò finale. Tutti i tre temi impiegati hanno un carattere di danza; il terzo è una danza di tipo marcatamente popolare, che spesso i commentatori, tesi nello sforzo di avvicinare alla sacra musica il pubblico, paragonano alle danze sudamericane di oggi. Anche nel Rondò il momento musicalmente più sorprendente si trova verso la fine, quando il pianoforte, dopo la sua breve cadenza, inizia un tradizionalissimo trillo, ma lo fa poi divergere dalla prevedibile conclusione per indirizzarlo, con squisita modulazione, verso una tonalità lontana e inattesa.
CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE OP. 19 (n. 2) • Allegro con brio (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Adagio (mi bemolle maggiore, 3/4). □ Rondò. Molto allegro (si bemolle maggiore, 6/8). • Cari Niklas Edler von Niklesberg. • 1794-95 (prima versione); 1798-1800 (seconda versione). • Vienna, 29 marzo 1795 (prima versione), pianista Ludwig van Beetho-
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ven, direttore Antonio Salieri; Praga, ottobre 1798 (seconda versione), pianista Ludwig van Beethoven. • Hoffmeister & Kiihnel, Lipsia 1801. • FI., 2 ob., 2 fg., 2 cr., archi.
Il Concerto op. 19, composto tra il 1794 e il 1795, fu rimaneggiato nel 1798. Questa versione fu eseguita da Beethoven a Praga nell’ottobre del 1798, e a Vienna il 18 dicembre dello stesso anno. Dopo aver ancora ritoccata la parte pianistica, Beethoven pubblicò Vop. 19 a Lipsia, nel 1801, con dedica a un funzionario della corte imperiale. Eseguito a Vienna dalla debuttante (nove anni) Leopoldine Blahetka nel 1820, il Concerto in si bemolle maggiore apparve rarissimamente in pubblico nell’ottocento e nei primi decenni del Novecento. Tra le prime esecuzioni che richiamarono sull’opera l’attenzione del pubblico sono da ricordare quelle del grande pianista ungherese Ernò Dohnànyi. Il primo tempo del Concerto op. 19 è forse quanto di più mozartiano Beethoven abbia scritto. L’influenza del Concerto in re minore di Mozart è evidente, non tanto per il carattere espressivo dei due concerti, che è diversissimo, quanto per alcuni particolari della struttura: nel primo tempo di entrambi i concerti il solista, alla sua prima entrata, non espone il primo tema, ma inizia quasi a fantasia, con figurazioni che sono derivate dal materiale tematico già esposto dall’orchestra ma la cui derivazione è così indiretta da non poter essere colta dall’ascoltatore; l’inizio del secondo tema del Concerto di Beethoven è apparentato, ritmicamente e anche per l’andamento melodico, al secondo tema del Concerto di Mozart; mozartiano è poi il rapporto tra il solista e l’orchestra, con il pianoforte integrato nella massa degli strumenti, dalla quale emerge spesso ma nella quale si inserisce anche come uno dei componenti l’orchestra: si vedano per esempio, alla metà circa dello sviluppo e poco dopo l’inizio della ripresa, due ampi episodi a dialogo, nei quali il pianoforte diventa una sezione di un’orchestra con tre colo ri timbrici distinti (pianoforte, archi, fiati) tenuti su un piano di parità. Episodi simili si trovano pure nel secondo e nel terzo tempo. Il rapporto tra solista e orchestra, ovviamente, dipende anche dalla composizione dell’orchestra, che mozartianamente com prende solo un flauto, due oboi, due fagotti, due corni e quintetto d’archi. La cadenza fu scritta da Beethoven nel 1808 o 1809. Ritornando su una composizione vecchia di più di dieci anni, Beethoven non
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poteva certo cancellare le sue successive esperienze di creatore per scrivere una cadenza che stilisticamente appartenesse in tutto e per tutto al Concerto. La materia musicale della cadenza è quella del Concerto op. 19. U modo di servirsene non solo non appare volto verso il passato, ma è invece proiettato verso il futuro: la cadenza, che è all’incirca contemporanea del Concerto op. 73 e della Sonata op. 78, preannuncia nettamente la Sonata op. 101 (1816)! La frattura stilistica è evidentissima, senza che la compattezza dell’opera venga compromessa. Anzi, in un certo senso, la tardiva composizione della cadenza è quanto di meglio si potesse desiderare, proprio perché rientra nella concezione del concerto classico il fatto che a una personalità diversa da quella dell’autore (all’esecutore, in genere, ad un autore più vecchio di dieci anni, nel caso che ci interessa) sia concesso di inframmettersi nella composizione, im provvisando o creando la cadenza. Se nel primo tempo lo stile del Beethoven maturo traspare soprattutto in certe modulazioni, che creano zone d’ombra in un quadro di luminosa chiarezza, il secondo tempo è già uno dei grandi adagi beethoveniani. Il valore emotivo della pagina è altissimo, e non richiede spiegazioni. Sono invece da far notare l’importanza assunta dall’orchestra alla metà del brano, sul morbido fondo sono ro del pianoforte, e una grande cadenza in tempo (alla quale, cioè, partecipa l’orchestra), che inizia con una serie di accordi e tril li del solista, prosegue con una straordinaria diversione dram matica dell’orchestra e si chiude su un parlante recitativo del pia noforte. L’ultimo tempo è un rondò di semplicissima struttura, che sta a mezzo tra il rondò brillante e il rondò pastorale, generi in voga al principio dell’ottocento. Si noti come, verso la fine, poco prima del trillo in terza, il pianoforte e poi i violini espongano un frammento melodico del secondo tempo della Sinfonìa “Pastorale11. Come abbiamo detto, la prima versione del Concerto op. 19 terminava con un Rondò che Beethoven decise più tardi di sostituire con un nuovo finale. Non sarà qui inopportuno parlarne brevemen te. Il Rondò in si bemolle venne pubblicato nel 1825 (vivente Beethoven, qundi) in una versione molto rimaneggiata da Czerny nella parte pianistica: Czerny riscriveva in pratica la composizione adattandola — con l’assenso di Beethoven, probabilmente — allo stile brillante che Hummel e Moscheles avevano sviluppato intorno al 1815. Questa versione di Czerny viene talvolta eseguita (ad esempio, da Richter e da Brendel) come pezzo a sé stante; meno nota è la versione originale, che fu stampata solo nel 1960. «
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Senza voler scomodare l’altro illustre “caso” beethoveniano di sostituzione al finale di una composizione, e cioè il caso celebre del Quartetto op. 130, che nella prima versione terminava con la Grande Fuga, si può cercare di capire perché Beethoven decidesse di eliminare il Rondò in si bemolle dal Concerto op. 19. Il primo Rondò, indubbiamente, sembra formalmente più adatto a bilanciare le dimensioni dei primi due tempi. La sua struttura è però nettamente mozartiana, con un modo di impiegare il ritmo di sei ottavi e con l’inserimento di un episodio di metro diverso e di carattere intimistico che ricordano nettamente il finale del Concerto K 482 di Mozart. Il carattere mozartiano del Rondò potrebbe esser stato notato dai primi ascoltatori, e perciò Beethoven potrebbe aver deciso di scrivere un altro finale. Si può però osservare, come già abbiamo detto nella parte generale, che nel successivo Concerto op. 13 Beethoven aveva individuato una diversa tipologia del finale: non più finale pastorale o finale giocoso, ma finale umoristico, quasi burlesco. Il nuovo finale dal Concerto op. 19, un po’ pastorale e un po’ giocoso, ma soprattutto burlesco, rispondeva quindi ad una nuova ed originale concezione beethoveniana del concerto per pianoforte e orchestra, concezione che avrebbe retto poi i finali anche dei concerti n. 3, n. 4 e n. 3. CONCERTO IN DO MINORE OP. 37 (N. 3) • Allegro con brio (do minore, tempo tagliato). □ Largo (mi maggiore, 3/8). □ Rondò. Allegro (do minore, 2/4) — Presto (do maggiore, 6/8). • Louis Ferdinand di Prussia. • 1800-1803. • Vienna, 5 aprile 1803, pianista Ludwig van Beethoven. • Au Bureau d’Arts et d’industrie, Vienna 1804. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Beethoven compose il Concerto in do minore nel 1800 (alcuni schizzi risalgono agli anni immediatamente precedenti), ma lo ritoccò ancora fino al 1803. La prima esecuzione, con Beethoven al pianoforte, ebbe luogo il 5 aprile 1803; un’altra esecuzione, con Ferdinand Ries, allievo di Beethoven, al pianoforte, e con Beetho ven direttore, ebbe luogo nel luglio del 1804. La composizione fu pubblicata con dedica al principe Louis Ferdinand di Prussia, figlio di un fratello di Federico il Grande. Louis Ferdinand era pianista e
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compositore (ancor oggi viene talvolta eseguito un suo Rondò per pianoforte e orchestra); Beethoven lo aveva conosciuto a Berlino nel 1796, e tra i due si era stabilita una cordiale amicizia, che durò fino alla morte del principe, caduto nel 1806 alla battaglia di Saalfeld. Non si hanno notizie certe di altre esecuzioni, dopo le prime due, ma si presume che almeno Czerny eseguisse il Concerto alcune volte a Vienna. Il pianista inglese Philip Hambly Cipriani Potter presentò il Concerto in do minore a Londra verso il 1825, ma il “lancio” definitivo avvenne ad opera di Liszt negli anni 40. Anche due virtuosi come Thalberg e Henselt, che non si segnalano nella storia dell’interpretazione, eseguirono negli anni 40 il Concerto in do minore, che divenne notissimo. Tra i suoi più celebrati interpreti si ricordano, nello scorso secolo, Clara Schumann, e nel nostro Alfred Cortot, Wilhelm Backhaus e Sviatoslav Richter. Il Concerto in do minore può esser visto, e non illegittimamente, in due modi opposti: come conclusione del concerto classico, come inizio delle nuove esperienze beethoveniane. A noi pare che il primo carattere sia da considerare prevalente, e che il Concerto acquisti la migliore collocazione storica alla conclusione di un’epoca che comprende, oltre a Mozart, anche Haydn, Johann Christian Bach e gli altri di cui abbiamo detto nella parte generale. Le strutture ed il rapporto tra il solista e l’orchestra sono ancora di quel tipo portato da Mozart alla perfezione, ed anche la caratteristica formale della conclusione del primo tempo affidata al pianoforte e all’orchestra (non alla sola orchestra), sebbene insolita, non manca di precedenti, a cominciare proprio dal Concerto in do minore K 491 di Mozart, da Beethoven molto ammirato. I caratteri che legittimano la tesi opposta riguardano soprattutto la scrittura pianistica, che non è più classica, per lo meno in alcuni punti molto significanti: ad esempio, la prima entrata del solista, con il tema esposto in doppie ottave, acquista un’imponenza ed una massa di suono che non si trovano nei concerti classici e che preludono alle più radicali esperienze del Concerto n. un altro esempio, che faremo più avanti, riguarda l’uso del pedale. Per questa sua complessità, o anche ambiguità stilistica, il Terzo Concerto pare a noi il più difficile da interpretare. Nel secolo scorso, e per alcuni decenni del nostro, i pianisti accentuavano gli aspetti di novità del Terzo modificando in senso virtuosistico la scrittura di alcuni passi. Ma se si rispetta la scrittura beethoveniana diventa estremamente difficile mettere in luce nello stesso tempo il duplice carattere di opera conclusiva di una grande tradizione e di apertura verso esperienze nuove.
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Il primo tempo del Concerto in do minore si rifa lontanamente alla tradizione del “concerto militare”, ma gli andamenti di marcia del primo tema non escludono un forte, marcato carattere dramma tico, ottenuto con il contrasto di espressione tra i due temi principali, l’alternanza di timbri, l’uso di silenzi nell’esposizione del primo tema. Il carattere drammatico del primo tempo culmina nella codg, dopo la cadenza, con il dialogo tra il pianoforte e i timpani. E da notare la precisa intenzione di Beethoven di spostare il punto culminante dalla cadenza alla coda. La conclusione della cadenza, nel concerto classico, avviene sempre, e il più delle volte in modo ritualizzato, nella tonalità generale della composizione. Nel Terzo di Beethoven la conclusione della cadenza è tonalmente ambigua, e la coda si apre in un clima di instabilità tonale che tiene desta la tensione psicologica dell’ascoltatore fino alla fine. La tonalità del secondo tempo è molto inconsueta. In una composizione in do minore il secondo tempo avrebbe dovuto di norma essere impiantato in mi bemolle maggiore o eventualmente in la bemolle maggiore. U secondo tempo del Terzo Concerto è invece in mi maggiore. Troviamo un rapporto analogo — do maggiore-mi maggiore — tra il primo e il secondo tempo della Sonata op. 2 n. 3. Ma noi pensiamo che nel Terzo il rapporto insolito tra le tonalità sia stato essenzialmente determinato da ragioni strumentali: soltanto nella tonalità di mi maggiore, certamente non nelle tonalità di mi bemolle maggiore o la bemolle maggiore, le dita del pianista si trovano naturalmente collocate sulla tastiera in una posizione che permette di ottenere la dolcissima qualità di suono voluta da Beethoven. Anche qui, come nel secondo tempo del Concerto op. 15, Beethoven limita il numero dei fiati (due flauti, due fagotti, due corni) per ammorbidire la sonorità dell’orchestra. Il secondo tempo è in forma tripartita: un grande adagio strutturalmente non dissimile da quelli del Primo e del Secondo Concerto, con una cadenza in tempo. Nella parte centrale il pianoforte “accompagna” l’orchestra, creando una soffice massa di suono sulla quale si stagliano gli interventi solistici di vari strumenti; è essenziale, nella creazione della sonorità del pianoforte, l’uso del pedale di risonanza, prescritto da Beethoven. Anche nella prima parte l’uso del pedale di risonanza è di estrema importanza; anzi, è stata sostenuta l’ipotesi che Beethoven abbia inteso utilizzare, insieme con il pedale di risonanza, il “sordino”, tipo di pedale che esisteva soltanto su alcuni pianoforti del principio dell’ottocento. Il finale è un Rondò in sette episodi, con tre temi principali. Non c’è la cadenza del pianoforte, con relativa fermata dell’orchestra. O
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meglio, quando l’orchestra si ferma (ma non sull’accordo di quarta e sesta: su una settima di dominante) il pianoforte attacca una piccola cadenza scritta, che serve di collegamento con la coda, costruita sul primo tema, in movimento accelerato e con cambio di modo. È evidente qui la diretta influenza del Concerto in do minore K 491 di Mozart, che si conclude in modo analogo (chiudendo però in do minore). Il solista — altro carattere strutturale “classico” — non suona nelle ultime battute. CONCERTO IN SOL MAGGIORE OP. 58 (N. 4) • Allegro moderato (sol maggiore, tempo ordinario). □ Andante con moto (mi minore, 2/4). □ Rondò. Vivace (sol maggiore, 2/4) — Presto. • Arciduca Rodolfo d’Austria. • 1805-06. • Vienna, 22 dicembre 1808, pianista Ludwig van Beethoven. • Kunst und Industrie Comptoirs, Vienna 1808. • FI., 2 ob., 2 cL, 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Quarto Concerto fu composto tra il 1805 e il 1806. Beethoven lo eseguì nel marzo del 1807, in casa del principe Lobkowitz, e lo presentò al pubblico il 22 dicembre 1808, nel leggendario concerto al Theater an der Wien durante il quale furono eseguite per la prima volta la Quinta e la Sesta Sinfonia. Le cadenze furono improvvisate, mentre le cadenze scritte (tre, in alternativa, per il primo tempo, due per il finale) furono composte nel 1809 circa; tipico dell’umori smo di Beethoven è il titolo, in italiano, di una delle cadenze: «Cadenza (ma senza Cadere)». Il Concerto fu pubblicato con dedica all’arciduca Rodolfo, allievo ed amico di Beethoven. Dopo le prime esecuzioni viennesi si ha notizia di un’esecuzione a Londra, nel 1825, con il pianista Philip Hambly Cipriani Potter. Il Concerto raggiunse però solo più tardi la definitiva affermazione, soprattutto per opera di Mendelssohn, che lo eseguì spesso. Nella seconda metà del secolo furono molto lodate le esecuzioni di Brahms, poi quelle di Hans von Bùlow, infine quelle di Eugène d’Albert, considerato ai suoi tempi interprete insuperabile del Quarto. Il Quarto fu comunque uno dei primi concerti ad entrare nel repertorio tradizionale di tutti i concertisti internazionali. Il Concerto in sol maggiore rappresenta il momento più interessan te del rapporto dialettico tra Beethoven e la forma del concerto solistico quale si era venuta configurando all’inizio dell’ottocento. Dopo Mozart, pianisti di successo avevano modificato l’equilibrio
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tra il solista e l’orchestra, sviluppando un alto grado il virtuosismo del solista e limitando i compiti dell’orchestra; il primo tempo del concerto aveva inoltre assunto prevalentemente un tono celebrativo e marziale, con una spiccata predilezione per i ritmi di marcia. La parziale adesione di Beethoven alla tendenza dominante, cioè in realtà il rapporto tra Beethoven e il momento storico in cui egli operava, è riscontrabile anche nei suoi concerti per pianoforte, ma appare con maggiore evidenza nel Concerto triplo op, 56, che potrebbe essere definito come concerto in stile impero. Il Concerto op, 58, scritto circa un anno dopo, rappresenta il rovesciamento di una tendenza storica e il ritorno della formaconcerto alla sfera dell’interiorità, abbandonata dai compositori dopo gli esempi altissimi di Mozart (Concerti K 450, 488, 595). Questo carattere del Concerto op, 58 è segnato in modo emblematico da una particolarità di struttura, che formalmente rappresenta un’assoluta novità: la breve entrata del solista, che nel primo tempo precede l’esposizione orchestrale. Ma il particolare strutturale, di per sé, potrebbe anche significare un’esaltazione del solista: sono invece la scelta dei gruppi tematici e la sonorità, i fattori compositivi che danno al Concerto la fisionomia dell’opera rivoluzionaria. Nel primo tempo, il ritmo di marcia è limitato a un nucleo tematico secondario, e la scrittura pianistica riesce ad una sonorità di tipo intimistico, dolcemente luminosa e non brillante. Il particola re tono timbrico della sonorità pianistica rappresenta la reazione di Beethoven di fronte al virtuosismo di altri concerti dell’opera: Beethoven, cioè, non ritorna polemicamente alla tecnica pianistica mozartiana (la parte pianistica del Concerto è infatti molto difficile), ma piega le ultime scoperte dei virtuosi ad esiti sonori non ancora impiegati nella forma del concerto. In orchestra vengono messi particolarmente in evidenza gli strumentini (piccoli soli di flauto, oboe, fagotto), gli archi non salgono verso il registro acuto, trombe e timpani tacciono. E dalla scrittura strumentale deriva il carattere espressivo del primo tempo, nettamente diverso da quello del quasi contemporaneo primo tempo della Quinta Sinfonia, sebbene entrambi i primi tempi siano basati su un analogo impianto ritmico dei rispettivi temi principali. Anche in quel drammatico dialogo che è il secondo tempo Beethoven trova una sonorità inusitata: l’orchestra è limitata ai soli archi (con un ritorno ad una pratica antica) e il pianoforte suona sempre, tranne che nell’episodio dei trilli, con il pedale “una corda”. Nel finale la crepuscolare malinconia del Concerto diventa un polo dialettico anziché il tono dominante. In orchestra intervengono
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infatti, sebbene molto raramente, trombe e timpani, e la tecnica pianistica viene usata anche per ottenere sonorità brillantissime: oltre ai momenti che tutti possono notare richiamiamo l’attenzione su un breve episodio a mani alternate, di sonorità molto incisiva, che si pone in una prospettiva di tecnica prelisztiana. Il solista, per la prima volta nei concerti di Beethoven, termina insieme con l’orchestra. Il mondo storico-sociale, che nei due primi tempi era stato escluso, riappare nel terzo, secondo una dialettica frequentissima nel Beethoven “seconda maniera”: i dubbi di Beethoven sul mondo e sulla società non sono ancora risolti nel senso pessimistico che segnerà la “terza maniera”, e possono venir contraddetti anche in un’opera nettamente orientata contro il momento storico presente. E ci pare probabile dunque che sul finale del Concerto in sol maggiore abbia influito l’analoga conclusione ideologica del Fidelio, composto tra il 1804 e il 1805. CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE OP. 73 (N. 5) • Allegro (mi bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Adagio un poco mosso (si maggiore, tempo ordinario) — Rondò. Allegro (mi bemolle maggiore, 6/8) — Più allegro.
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Arciduca Rodolfo d’Austria. 1808-10. Lipsia, 28 novembre 1811, pianista Friedrich Schneider. Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1811. 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Negli anni 1808 e 1809 Beethoven lavorò al Concerto in mi bemolle maggiore, ma pensò anche ad un Concerto in fa minore (1808) e ad un Concerto in re minore (1809), per i quali sono state trovate alcune annotazioni. Il concerto portato a compimento, in mi bemolle maggiore, sarebbe diventato il più celebre di Beethoven, ed uno dei
più celebri di tutta la letteratura per pianoforte e orchestra. La storiografia beethoveniana, che pure ha raggiunto un grado di stratosferico virtuosismo nello spiegare anche le minuzie più insigni ficanti, non è ancora riuscita a dire chi e perché ebbe l’idea di dare al Quinto Concerto il titolo di “Imperatore”. Qualcuno afferma, ma non lo dimostra, che il titolo è dovuto a Johann Baptist Cramer; e l’imperatore, naturalmente, dovrebbe essere Napoleone. La testa del Corso si delinea nello sfondo o domina in primo piano in molte co pertine delle innumerevoli incisioni discografiche del Concerto,. Il ti-
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tolo è malamente sebbene tenacemente appiccicato, e su ciò non c’è dubbio, ma il Concerto è una delle poche composizioni di Beethoven per le quali si possano documentare intenzioni programmatiche sicure. Negli schizzi per il primo tempo (1808-09) si trovano infatti annotazioni come «Auf die Schlacht Jubelgesang» (canto di trionfo per la battaglia), «Angriff» (assalto), «Sieg» (vittoria). Il Concerto può dunque essere visto in lontano rapporto con il genere della “battaglia”, fiorentissimo tra il 1780 e il 1815, tanto che, si può dire, non esiste battaglia terrestre o navale di quegli anni che non abbia il suo bravo corrispettivo in musica: Beethoven stesso, del resto, avrebbe scritto nel 1813 il Wellingtons Sieg (La vittoria di Wellington), composizione che, detto per inciso, rappresenta ancor oggi un problema critico quasi inesplorato. In senso più stretto, le annotazioni programmatiche del Concerto op. 73 vanno probabilmente messe in relazione con la guerra austro francese del 1809, che portò al bombardamento e all’occupazione di Vienna, alla taglia di cinquanta milioni imposta alla città e, in conseguenza di tutto ciò, al risveglio del sentimento nazionale austriaco. Il Concerto op. 13 si colloca quindi all’inizio del periodo in cui Beethoven aderisce al nazionalismo tedesco capeggiato da Fichte. In senso stilistico, il Concerto op. 73 risente della rapida evo luzione che in quegli anni stava attraversando la tecnica brillante: il pianoforte sviluppa un volume di suono molto ampio, anche mediante l’impiego di ottave martellate e di ottave alternate tra le due mani, cioè mediante tipi di tecnica del tutto inconsueti in Beethoven. Anche la tendenza contemporanea ad esaltare il ruolo del solista trova un riflesso nel Concerto op. 73, che inizia con un’amplissima cadenza del pianoforte, quasi uno sviluppo improvvisatqrio dei tre accordi elementari dell’orchestra. E però significativo che proprio in questo Concerto, nel quale il pianista viene subito portato in primissimo piano, Beethoven elimini per la prima volta le cadenze tradizionalmente affidate all’improvvi sazione del solista: nell’ultimo tempo non c’è la fermata dell’orche stra che introduce la cadenza, sull’ultimo suono del secondo tempo, che per la sua posizione di punto di congiunzione avrebbe voluto per vecchia abitudine una piccola cadenza, Beethoven si preoccupa di scrivere «semplice poco tenuto» (cioè, tenuto brevemente senza fioriture), e nel primo tempo, dopo la sacramentale fermata dell’orchestra, la breve cadenza è scritta per esteso, con l’indicazio ne «Non si fa una cadenza, ma s’attacca subito il seguente».
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Beethoven: Concerto op. 73
La costruzione, in altre parole, è così chiusa da non tollerare in nessun punto l’intromissione di durate temporali non calcolate dall’autore, e quindi il ruolo del solista viene in realtà limitato anziché esaltato, rispetto alla tradizione. Ancor più importante è però il rapporto tra il solista e l’orchestra. Il pianoforte è quasi sempre integrato nell’orchestra, e non di rado accompagna, anziché essere accompagnato: accompagna di volta in volta il fagotto, l’oboe, il flauto, il clarinetto, e via via fino ai timpani, che proprio alla fine dialogano lungamente con il solista. La parte finale del secondo tempo viene addirittura citata da Berlioz, nel suo trattato di strumentazione, come modello di impiego “orchestrale” del pianoforte. Il Concerto op. 73 afferma quindi la possibilità di integrazione del pianoforte in orchestra anche in un concerto di tipo nettamente virtuosistico, e la afferma contro le tendenze del concerto Biedermeier che, come abbiamo più volte detto, limitavano il ruolo dell’orchestra ad un riempitivo e persino ad un lusso di cui si poteva far a meno. Il Concerto di Beethoven si colloca così ancora in una prospettiva di contrapposi zione dialettica anziché di sviluppo dell’individualismo, a differenza del concerto Biedermeier e del concerto romantico. Il Concerto op. 13 fu terminato nel 1810 e pubblicato a Lipsia nel 1811, con dedica a quel collezionista di omaggi beethoveniani che fu l’arciduca Rodolfo. La prima esecuzione non ebbe luogo a Vienna ma a Lipsia, e non ad opera di Beethoven ma di un pianista di Lipsia, Friedrich Schneider, che si era precipitato sulla musica ancor fresca di inchiostro. La “prima” a Vienna ebbe luogo il 12 febbraio 1812, con Carl Czerny, allievo di Beethoven, al pianoforte. Circa dieci anni più tardi il Concerto fu introdotto in Inghilterra da Charles Neate; ma la sua popolarità data dal tempo delle esecuzioni di Ferdinand Hiller e di Liszt, nel decennio 1830-40; in Italia la prima esecuzione ebbe luogo a Bologna il 14 dicembré 1845, ad opera di Theodor Dóhler, negli Stati Uniti a New York, il 10 maggio 1855, con il pianista viennese Gustav Satter (che suonava con la carta; e Arthur Loesser racconta che i giornali deplorarono il fatto che non si fosse trovato uno straccio di voltapagine per aiutare il solista). Nella seconda metà del secolo V Imperatore fu eseguito con straordinaria frequenza: fra gli interpreti più celebri sono da ricordare Hans von Biilow e Anton Rubinstein, più tardi Ferruccio Busoni e Eugène d’Albert: quest’ultimo, secondo una spiritosa ed acuta osservazione di Bruno Walter, spesso citata, più che eseguire il Concerto lo “impersonava”.
Beethoven: le cadenze
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Nota sulle cadenze Come sappiamo, nei concerti classici è previsto che alla conclu sione della riesposizione del primo tempo l’orchestra si arresti su un accordo di “quarta e sesta” della tonalità principale, e che il solista esegua una cadenza, terminata la quale l’orchestra riprende e conclude il tempo senza, di norma, la partecipazione del solista. La cadenza può essere prevista anche nel secondo tempo, sebbene quest’uso sia assai più raro. Meno rara, ma non rituale, è la cadenza nei finali dei concerti classici. Nelle cadenze il compositore consente al solista di improvvisare o di comporre il brano, con l’unica, tacita convenzione che l’improvvi sazione o la composizione devono esercitarsi sui temi del tempo di concerto che si sta eseguendo. I compositori scrivevano però essi stessi delle cadenze per i loro concerti, quando ne erano richiesti da esecutori che non sapevano improvvisare o comporre. Ed accadeva pure che esecutori di questo genere si rivolgessero ad altri compositori per farsi scrivere cadenze per i concerti che intendeva no eseguire. Così, ad esempio, Mozart scrisse molte cadenze, alcune delle quali di altissimo valore, per i suoi concerti, ma scrisse anche cadenze per i concerti di altri compositori (Ignaz von Beecke, Johann Samuel Schroeter). Beethoven, a sua volta, scrisse cadenze per il primo e per il terzo tempo del Concerto in re minore di Mozart. Nel 1795, quando eseguì la prima versione del Concerto op. 19, e nel 1798, quando eseguì il Concerto op. 15, Beethoven abbozzò due cadenze, ma senza andare al di là di schizzi molto elementari. Nelle esecuzioni pubbliche dei primi quattro concerti, con l’autore al pianoforte, le cadenze vennero certamente improvvisate. I due allievi di Beethoven, Ries e Czerny, che eseguirono i concerti, improvvisarono o composero le cadenze: di Czerny ci è pervenuta una cadenza per il Terzo Concerto e Ries asserì di aver composto per il Terzo una cadenza molto difficile che Beethoven non approvò, salvo a ricredersi — dice Ries — di fronte alla perfetta esecuzione e all’entusiasmo del pubblico. Verso il 1809, non si sa bene su richiesta di chi (forse, si suppose, dell’arciduca Rodolfo), Beethoven compose varie cadenze per i suoi concerti, nonché per la versione per pianoforte del Concerto per violino: ben quattro cadenze per il primo tempo ed una per il finale del Concerto op. 15, una per il primo tempo del Concerto op. 19, una per il primo tempo e due per il finale del Concerto op. 58 (il Concerto op. 73, come abbiamo detto poco fa, non prevede la possibilità della cadenza composta dall’esecutore).
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Beethoven: le cadenze — Fantasia op. 80
Queste cadenze furono pubblicate in gran parte nel 1864, ma nel corso dello scorso secolo e nei primi decenni del nostro non vennero in pratica prese in considerazione da alcun pianista. Per i primi due concerti, del resto ben poco eseguiti, ci si serviva in genere delle cadenze composte da Carl Reinecke. Per il Terzo furono in uso le cadenze di Clara Schumann e di Reinecke (non risulta che venisse adottata una curiosissima cadenza di Charles-Valentin Alkan, di lunghezza quasi pari a quella del primo tempo del Concerto). Per il Quarto furono usatissime dapprima le cadenze di Moscheles e di Brahms, e più tardi quelle di d’Albert (in Francia furono note anche le cadenze di Efraim Miriam Delaborde, in Inghilterra quelle di Francis Tovey, in Germania quelle di Hans von Bulow e in Russia quelle di Anton Rubinstein). Ferruccio Busoni, che in gioventù aveva composto cadenze per il Concerto in sol maggiore, pubblicò nel 1901 un’edizione riveduta delle cadenze originali per i concerti in do maggiore, in do minore e in sol maggiore, e le impiegò nelle sue esecuzioni. L’esempio di Busoni fu lentamente seguito da altri, ma Edwin Fischer, Wilhelm Kempff e Robert Casadesus continuarono ad eseguire cadenze di loro composizione, mentre Backhaus usò le cadenze di Beethoven per i concerti n. 1 e n. 2, la cadenza di Reinecke per il Terzo, una cadenza di Beethoven per il primo tempo ed una sua cadenza per il finale del Quarto. Oggi tutti i grandi interpreti scelgono le cadenze originali. FANTASIA IN DO MINORE OP. 80 PER PIANOFORTE, ORCHESTRA E CORO • Adagio (do minore, tempo ordinario) — Finale. Allegro — Allegretto ma non troppo, quasi Andante con moto (do maggiore, 2/4).
• Maximilian Joseph, re di Baviera. • 1808-09. • Vienna, 22 dicembre 1808, pianista Ludwig van Beethoven. • Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1811. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi. Coro: soprani, contralti, tenori, bassi.
La Fantasia op. 80 fu composta nel 1808 ed eseguita a Vienna in quel concerto del 22 dicembre (in cui furono presentate la Quinta e la Sesta Sinfonia, il Quarto Concerto, brani della Messa op. 86 e un’aria), e in cui Beethoven, per soprammercato, improvvisò. La parte iniziale dell’op. 80 fu improvvisata anch’essa da Beethoven, e scritta poi nel 1809; la composizione fu pubblicata con dedica al re di
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Baviera (Beethoven stava ancora cercando protezioni all’estero). Il concerto del 22 dicembre era, nelle intenzioni di Beethoven, un superbo e polemico addio ai viennesi. Socialmente ed artistica mente, Beethoven si trovava isolato a Vienna, tanto che aveva intenzione di accettare un’allettante offerta di Girolamo Bonaparte, re di Vestfalia, e di trasferirsi a Kassel come maestro di cappella. Beethoven, già in urto con molti musicisti di Vienna, si guastò anche con l’orchestra del teatro An der Wien durante le prove del concerto; e peggio ancora andò durante l’esecuzione della Fantasia op. 80, quando, essendo entrato fuori tempo il clarinetto, Beethoven fermò gridando l’orchestra e fece ricominciare da capo: «Gli artisti — dice il Ries — si ricordarono fin troppo bene i titoli onorifici che Beethoven aveva dato loro pubblicamente [...] e giurarono di non suonare mai più sotto la sua direzione». Il grandioso trionfo artistico del concerto scosse però alcuni notabili di Vienna, e il 1° marzo 1809 venne firmato il famoso contratto con cui l’arciduca Rodolfo, il principe Lobkowitz e il principe Kinsky si impegnavano a versare una pensione a Beetho ven, mentre questi era tenuto a risiedere «a Vienna [...] o in altra città facente parte degli stati ereditari di S.M. l’imperatore d’Austria». La Fantasia op. 80 segue uno schema formale originalissimo, del tutto inusitato. L’adagio iniziale, di stile nettamente improvvisatorio, è affidato al solo pianoforte. Segue il grosso della composizione, che Beethoven denomina Finale. Il Finale inizia con un preludio in cui entrano, alternandosi con il pianoforte, prima gli archi, poi oboi, fagotti e corni. Dopo alcune risposte in eco tra corni ed oboi (inciso tematico tipico, che forse non a caso è simile al nucleo costitutivo della Sonata op. 81a, “ Gli Addii”), il pianoforte, accompagnato dai corni, espone il tema principale. Su questo tema si è molto discusso per sostenere due tesi opposte: l’importanza sostanziale o la sostanziale episodicità dell’op. 80 nella produzione di Beethoven. Non possiamo qui riassumere la questione, e ci limitiamo ad esporre la nostra opinione: noi riteniamo che l’op. 80 sia il primo tentativo di soluzione di un problema compositivo (aggiunta delle voci alla fine di una composi zione sinfonica), presentatosi alla mente di Beethoven in un progetto per il finale della Pastorale, e condotto a perfetta realizzazione nel finale della Nona Sinfonia. Sarà poi facile per gli ascoltatori accorgersi della somiglianza del tema dell’op. 80 (tratto da un Lied del 1795) con il tema dell’Ode alla gioia della Nona. L’idea che regge la composizione è l’aggiunta successiva di
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Beethoven: Fantasia op. 80
strumenti fino all’entrata del coro, e la forma del tema variato è quella che meglio permette di raggiungere lo scopo. All’esposizione del tema seguono quindi cinque variazioni, condotte rispettivamen te dal flauto, dagli oboi, dai clarinetti e dai fagotti, da un quartetto d’archi solisti, da tutta l’orchestra; questa parte è conclusa da una coda non tematica. Vengono poi tre variazioni amplificatrici: un Allegro molto, un Adagio ma non troppo, e una marcia. Nell’ultima parte, Allegretto ma non troppo, sempre sullo stesso tema, all’orchestra e al pianoforte s’unisce un coro misto, che canta un poemetto di Christoph Kuffner, scritto appositamente, secondo precise indicazioni di Beethoven. Superfluo far notare alcuni rapporti con YOde alla
Gioia: Lusingando blandamente e dolcemente risuonano le armonie della nostra vita, e dalla bellezza sbocciano fiori che fioriscono sempre. La pace e la gioia si susseguono come l’avvicendarsi delle onde; quanto di ostile e di amaro si agitava in noi si compone ora in nobili sentimenti. Quando i suoni creano incanti e sante sono le parole, si maturano eccelse cose; la notte e la tempesta si cangiano in luce. Pace all’esterno e diletto interiore regnano per la nostra felicità. Ma il sole primaverile dell’arte fa nascere da ambedue la luce. Quanto di grande c’è nei nostri cuori torna a fiorire più bello; non appena uno spirito si innalza, risuona sempre a lui dintorno un coro di spiriti. Prendete lietamente, o belle anime, quello che la bella arte vi dona. Quando Amore e Forza si uniscono, il favore di Dio ricompensa gli uomini (trad, di G. Biamonti).
CARL MARIA VON WEBER
(Eutin, 18 dicembre 1786 — Londra, 5 giugno 1826)
CONCERTO IN Ml BEMOLLE MAGGIORE OP. 32 (N. 2)
• Allegro maestoso (mi bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Adagio (si maggiore, 3/4). □ Rondò. Presto (mi bemolle maggiore, 6/8). • Emil Leopold August, duca di Saxe-Gotha e Altenburg. • 1811-12. • Gotha, 17 dicembre 1812, pianista Carl Maria von Weber. • A. Schlesinger, Berlino 1814. • 2 fl., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Weber compose il Concerto n. 1 op. 11 nel 1810, dopo esser stato espulso da Stoccarda a causa di un burrascoso legame amoroso con la cantante Gretchen Land. Il Concerto n. 2 fu iniziato nell’autunno del 1811, durante un giro di concerti in Germania in compagnia del clarinettista Heinrich Barmann. In quel momento Weber scrisse in verità il pezzo che sarebbe diventato poi il finale del Concerto n. 2 e lo mise al posto del finale del Concerto n. 1 per un’esecuzione che ebbe luogo a Monaco il 9 novembre 1811: comportamento un po’ disinvolto, che non fu del solo, giovane e scapestrato Weber, ma che appartenne al costume di molti virtuosi itineranti del tempo, i quali usarono persino combinare dei pastiches con musiche o proprie o di vari autori. Nell’ottobre del 1812 Weber scrisse il primo e il secondo tempo ed eseguì il Concerto n. 2 a Gotha il 17 dicembre, a Lipsia 1’1 gennaio 1813 e a Praga il 6 marzo. All’inizio del 1811 Weber aveva registrato nel suo diario l’acquisto di una copia del Concerto n. 5 di Beethoven, fresca d’inchiostro. Sembra probabile che il piano tonale generale del suo Concerto n. 2 venisse ricalcato pari pari su quello di Beethoven, che è identico; e l’idea del ricalco è dovuta al fatto che il rapporto mi bemolle-si è del tutto al di fuori delle consuetudini di quel tempo. Qualche caratteristica del primo tempo e un passo almeno del fina le sembrano inoltre esemplati sul Concerto di Beethoven: perciò
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Weber: Concerto op. 32, Concertstuck op. 79
abbiamo incluso nel nostro catalogo il Concerto n. 2 di Weber, che pur non fa parte del comune repertorio. Al contrario di Beethoven, Weber intende però sviluppare all’estremo il virtuosismo del solista, non il suo rapporto sinfonico con l’orchestra, ed il suo Concerto, che si inserisce nel panorama del Biedermeier, è di esecuzione difficile e rischiosa, con passi in doppie note, salti e, alla fine, ottave che preannunciano certi caratteri della scrittura di Liszt. Una soluzione, nella struttura del Concerto, è però nettamente personale e, anzi, unica: la tradizionale cadenza del primo tempo, scritta, è collocata alla fine dello sviluppo e sostituisce la riesposizio ne del primo gruppo tematico. Nel secondo tempo il gusto coloristico di Weber, grande. strumentatore, si fa notare per il modo di usare gli archi (in sordina e “divisi”) e per il rapporto di integrazione di timbri che si crea tra il solista e l’orchestra. Il suggerimento proviene sicuramente dal Concerto ». 5 di Beethoven, ma Weber trova idee che portano a risultati concretamente diversi dalla semplice imitazione. CONCERTO (PEZZO DA CONCERTO) IN FA MINORE OP. 79 • Larghetto, ma non troppo (fa minore, 3/4) — Allegro passionato (tempo ordinario) — Adagio — Tempo di Marcia (do maggiore) — Più moto — Presto assai (fa maggiore, 6/8). • Maria Augusta, principessa di Sassonia. • 1821. • Berlino, 25 giugno 1821, pianista Cari Maria von Weber. • Au Bureau de Musique, Lipsia 1823. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., trb., tp., archi.
Nel 1815, quando ebbe la prima idea del futuro Concertstuck, Weber stava per comporre la Sonata op. 39, nel cui secondo tempo avrebbe trasferito sul pianoforte, in modo molto efficace, l’effetto di una melodia affidata alla voce su un accompagnamento in pizzicato degli archi. Questa scoperta caratterizza l’inizio del Concertstuck e ne fa una grande scena drammatica, che si lega al “programma” di cui abbiamo detto nella parte generale. Tutta la prima parte del Concertstuck è infatti costruita secondo uno schema di “impaginazione” teatrale: 1) preludietto dell’orche stra a sipario chiuso; 2) apertura del sipario con quattro battute a fantasia del pianoforte; 3) melodia iperespressiva del pianoforte («con duolo e ben tenuto la melodia») sovrapposta a ’suoni
Weber: Concertstùck op. 79
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brevissimi; 4) sviluppo della melodia come canto fittamente ornato. Il pianoforte domina completamente e dominerà in tutto il pezzo, eccettuata la marcia. A questo proposito si può anzi osservare che Liszt aggiunse nella marcia una difficile parte per il pianoforte, riportata nella sua revisione del Concertstùck pubblicata nel 1879 (Liszt prevede anche altre modifiche, più spettacolari, della parte pianistica del Concertstùck, e prevede persino una versione senza accompagnamento d’orchestra). La versione di Weber non risponde va qui ad una concezione sinfonica ma, come prima, ad una impaginazione teatrale: 1) la marcia inizia da una grande lontananza, e si avvicina; 2) il pianoforte interviene con un glissando in ottava, dal grave all’acuto, che simbolizza il soprassalto di gioia e di speranza della castellana; 3) la marcia è vicinissima; 4) più moto, «con molta agitazione»; la dama scorge il suo cavaliere. In una scena teatrale si svolge, durante la marcia, un’azione mimica della castellana, che in concerto può solo essere immaginata da un pubblico dotato di fantasia. Liszt inventa una teatralità simbolica ancora più spinta. In lui, naturalmente, prevale l’interesse del concertista che, essendo al centro dell’attenzione generale, non può “permettersi” di tacere per troppo tempo. E Liszt “impersona” a questo punto anche la marcia dei cavalieri. Come scrisse Schumann, recensendo un’esecuzione di Liszt a Lipsia nel marzo del 1840, «a un certo punto sembrò che egli stesso si ponesse alla testa dell’orchestra e, giubilante, la conducesse!» Schumann aveva poco prima recensito, lodandola senza riserve, un’esecuzione della pianista francese Camilla Pleyel; anche Mendels sohn aveva più volte eseguito il Concertstùck, e la sua esecuzione non era ignota a Schumann. Ma l’interpretazione di Liszt, che dalla sua edizione appare in più di un momento arbitraria, doveva essere rivelatrice di nascoste potenzialità dell’opera, di una sua dimensione di teatro sublimato che oggi si coglie con una certa difficoltà.
Si veda anche il commento alle pp. 43-45.
FELIX MENDELSSOHN BARTHOLDY
(Amburgo, 3 febbraio 1809 — Lipsia, 4 novembre 1847)
Mendelssohn può essere considerato uomo di tempi nuovi, prima di tutto, perché la sua provenienza sociale non è più quella fino ad allora tipica del musicista: né ragazzo di umilissime condizioni che viene scoperto e protetto da un potente, né rampollo di famiglia di musicisti, ma nipote di un celebre filosofo e figlio di un ricco banchiere. E la musica è per lui elemento di un’educazione armonica, che mira a svilupparne le facoltà intellettuali e a formarne il carattere nella tradizione della borghesia imprenditoriale tedesca. Accuratissima l’educazione musicale: studio del pianoforte con l’insigne didatta Ludwig Berger (allievo di Clementi), completato da un breve, si direbbe oggi, corso di perfezionamento con il più grande pianista del periodo 1815-1830, Ignaz Moscheles; studi di violino con Cari Wilhelm Henning, di composizione con Zelter (il... consigliere musicale di Goethe). Il padre di Mendelssohn — «prima figlio di mio padre, ora padre di mio figlio», come si definì spiritosamente più tardi — vegliò affinché il ragazzo avesse non solo i migliori maestri, ma le migliori occasioni per verificare il suo talento, e gli diede modo di misurarsi in privato e in pubblico come pianista e di ascoltare le musiche che andava creando con precoce e stupefacente fecondità. Le dodici sinfonie per archi, scritte tra il 1820 e il 1823, e cioè tra gli undici e i quattordici anni, diedero modo a Mendelssohn di dominare la scrittura della sezione considerata allora, e ancora per lungo tempo, il fondamento dell’orchestra sinfonica («Quando il quartetto va bene, tutto va bene», avrebbe sentenziato a fine secolo il grande trattatista Charles Widor). Un Concerto per pianoforte e due concerti per due pianoforti diedero modo a Mendelssohn di sperimentare il rapporto solista-archi. Durante i viaggi che compì in Europa tra il 1829 e il 1832, e che toccarono l’Inghilterra e la Scozia, Weimar, Monaco, Vienna,
Mendelssohn: Concerto op. 25
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l’Italia, la Svizzera, Parigi, di nuovo l’Inghilterra, Mendelssohn si presentò dapprima non tanto come musicista professionista ma piuttosto come gentiluomo che completava una sua vasta e profonda educazione. E sotto questa maschera, la maschera del viaggiatore intellettuale che non si pone in concorrenza con i famelici cacciatori di gloria, ma che acconsente a dispensare con aristocratico disinte resse i suoi talenti, egli fece ascoltare musiche sue, diresse, suonò da gran signore il pianoforte. In realtà, Mendelssohn non era partito da casa con il bagaglio del concertista di pianoforte. Chopin, che lasciava Varsavia nel 1830 per andare a conquistare il mondo (e che avrebbe perso la battaglia), aveva pronte ben cinque composizioni per pianoforte e orchestra. Mendelssohn aveva scritto nel 1823-24 U Concerto in la minore per pianoforte e archi, classicheggiante e lunghetto, assolutamente impresentabile al pubblico del 1830, e nel 1825-26 il Capriccio brillante op, 22, più adatto alle sale da concerto ma troppo breve e “leggero” per qualificare le serie ambizioni di un pianista-composi tore. Così, quando gli capitò di suonare con orchestra, Mendelssohn preferì far conoscere il Concertstuck di Weber e i concerti n. 4 e n. 5 di Beethoven, che i grandi virtuosi del tempo non avevano in repertorio. Nello stesso tempo, slittando quasi insensibilmente verso il professionismo, non rifiutò però di adeguarsi al gusto del momento, che ancora guardava con ammirazione affascinata al pianista-compositore, e nel 1831 compose quindi il Concerto in sol
minore op. 25. CONCERTO IN SOL MINORE OP. 25 (N. 1)
• Molto allegro con fuoco (sol minore, tempo ordinario) — Andante (mi maggiore, 3/4) — Presto (sol maggiore, tempo ordinario) — Molto allegro e vivace.
• • • • •
Delphine von Schauroth. 1831. Monaco, 17 ottobre 1831, pianista e direttore Felix Mendelssohn. Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1832. 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Composto nel corso del 1831, il Concerto op. 25 fu eseguito a Monaco il 17 ottobre, in una serata di beneficenza, e fu dedicato alla giovane pianista Delphine von Schauroth, alla quale Mendels sohn aveva dato qualche lezione ed il cui fascino muliebre non lo aveva lasciato insensibile.
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Mendelssohn: Concerto op. 25
Mendelssohn parlò della prima esecuzione in una lettera al padre, del 18 ottobre: «Fui accolto molto festosamente e con lunghi applausi, l’orchestra mi accompagnò bene, e la composizione era anche abbastanza strana; fece molto piacere al pubblico, che dopo volle chiamarmi fuori, come qui è la moda; ma io mi trincerai nella mia modestia e non uscii». Notiamo per inciso che, come appare dalle parole di Mendelssohn, il ritorno del concertista per un secondo ringraziamento era allora eccezionale; ne parla anche Chopin, che due anni prima, a Vienna, con sua grande sorpresa era stato costretto a ripresentarsi per rispondere agli applausi insistenti del pubblico: il tempo degli otto o dieci ritorni e dei bis era ancora lontano... Due mesi più tardi, a Parigi, Mendelssohn fece leggere il Concerto a Liszt: «Ho incontrato Liszt è gli ho mostrato il manoscritto del mio Concerto-, lo ha eseguito a prima vista alla perfezione, sebbene la scrittura fosse appena leggibile: è impossibile interpretarlo meglio, era sempre meraviglioso». Nell’aprile del 1832 Mendelssohn era di nuovo a Londra, accolto dal suo maestro ed amico Ignaz Moscheles. Il 25 maggio eseguiva il Capriccio brillante e il 28 il Concerto in sol minore-. «Un vero trionfo», scrive nel suo diario Moscheles, che aggiunge: «Invenzione, forma, strumentazio ne, esecuzione: tutto mi ha perfettamente soddisfatto. Il pezzo sprizza genio». In giugno Mendelssohn eseguì insieme con Moscheles il Concerto per due pianoforti di Mozart e ripetè l’esecuzione del Concerto in sol minore, negli anni seguenti riprese ancora spesso il Concerto, diventandone, a quanto pare, interprete ineguagliabile. Così, per lo meno, ci si immagina leggendo uno scritto di Schumann del 1835. Anche Liszt eseguì talvolta il Concerto, altri pianisti lo fecero ascoltare nei decenni successivi (compresa la dedicataria Delphine von Schauroth, che lo ripresentò per l’ultima volta al Gewandhaus di Lipsia nel 1870), e tutti i maggiori concertisti lo ebbero in repertorio fino alla fine dell’ottocento. Le esecuzioni del Concerto in sol minore cominciarono invece a diradare nel nostro secolo, tanto che tra i maggiori concertisti solo Serkin, Gilels e Perahia l’hanno eseguito ed inciso.
Si veda anche il commento alle pp. 54-55.
Mendelssohn: Concerto op. 40
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CONCERTO IN RE MINORE OP. 40 (N. 2) • Allegro appassionato (re minore, tempo ordinario) — Adagio. Molto sostenuto (si bemolle maggiore, 2/4) — Finale. Presto scherzando (re
maggiore, 3/4). • Senza dedica. • 1837. • Birmingham, 21 settembre 1837, pianista Felix Mendelssohn, direttore George Smart. • Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1838. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Se già il Concerto in sol minore è diventato nelle sale di concerto una rarità, il Concerto in re minore è quasi ignoto al pubblico. Composto nel 1837, il Concerto in re minore cade in un momento di “crisi” del concerto per pianoforte e orchestra: crisi che non scorgiamo soltanto noi, ma che viene... diagnosticata nella recensio ne, pur favorevole, di Schumann. Ne abbiamo già parlato, ed abbiamo notato come il Concerto in re minore non rappresenti un momento evolutivo rispetto al Concerto in sol minore, tanto significativo storicamente. Il Concerto in re minore è lavoro scritto con somma perizia, è opera di un artista che non aveva in quel momento nessun vero competitore come sinfonista e ben pochi come pianista. Mendelssohn riprende però la scrittura del Concerto ». 1, e ciò, insieme con le lodi per la maestria indiscutibile, provocò le parziali riserve divenute poi tradizionali. Diceva Schumann, a conclusione di una lunga recensione: «Ci si rallegri del dono leggero e sereno; quest’opera è simile a quelle che ci davano i nostri vecchi maestri, quando si riposavano delle loro grandi creazioni. Il nostro più giovane compositore non avrà dimenticato come quei vecchi maestri (dopo essersi riposati con un’opera leggera) comparissero poi all’improvviso con qualche cosa di poderoso, e il Concerto in re minore di Mozart e quello in sol maggiore di Beethoven sono per noi la prova di ciò». Si potrebbe ritenere che l’augurio di Schumann non cadesse nel vuoto, visto che nel 1838 Mendelssohn iniziò a comporre quell’indiscusso capolavoro che è il Concerto per violino. Un po’ di cattiva coscienza, a proposito del Concerto in re minore, Mendelssohn doveva pure avercela, se a Ferdinand Hiller, il 18 dicembre 1837, aveva scritto: «Credo che il mio nuovo concerto ti farebbe inorridire». E alla sorella Fanny, il 22 luglio 1837, aveva detto: «Il Concerto non è molto importante come composizione, ma al pianoforte l’ultima parte fa un effetto di fuoco artificiale, tanto che
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Mendelssohn: Concerto op. 40
io stesso ne rido, mentre Cécile non si stanca di ascoltare». Cécile era la moglie di Mendelssohn, sposata nel 1837: il Concerto in re minore era stato in gran parte composto addirittura durante il viaggio di nozze. Ma sarebbe eccessivo pensare che nel giuramento di nuziale fedeltà si fosse insinuato il contrappeso di una scappatella di Mendelssohn fuori dal cerchio fatato della Grande Musica. Il secondo e il terzo tempo del Concerto si collocano in realtà nello stesso ambito ideologico del precedente Capriccio brillante op. 22 e della successiva Serenata e allegro gioioso op. 43 per pianoforte e orchestra, opere dichiaratamente di intrattenimento e, in quanto tali, tenerissime e spiritosissime e briosissime. Quel che lascia esterefatti, nel Concerto in re minore, è però il primo tempo, che inizia sì con solennità persino un po’ sinistra, ma per scivolare subito dopo nel serioso e per finire prestissimo nel frivolo. Un inizio di dramma che prosegue prendendo i toni, se non proprio della farsa, per lo meno del vaudeville. E la possibilità del comico non è e non era ammessa nella musica strumentale, se non come dichiarata caricatura. Perciò il Concerto in re minore, eseguito da Mendelssohn nel 1837 e ripreso da Liszt nel 1840, non entrò mai in repertorio. Il suo “scopritore”, l’interprete che ne sciolse gli enigmi riuscendo a provarne l’ariostesca coerenza fu, negli anni 60 del nostro secolo, Rudolf Serkin. E dopo di lui si è per lo meno capito che i giudizi negativi, ripetuti e ribaditi per più di un secolo, peccavano forse, se non di completa cecità, almeno di intensa miopia.
FRÉDÉRIC CHOPIN
(Zelazowa Wola, 1 marzo 1810 — Parigi, 17 ottobre 1849)
Per uno strano caso, cioè per ragioni editoriali analoghe che ricorsero a distanza di trentanni, sia Beethoven che Chopin si videro classificare con il n. 2 il concerto per pianoforte e orchestra che avevano scritto per primo, e con il n. 1 il secondo. L’elenco delle composizioni per pianoforte e orchestra di Chopin, nell’ordine di composizione e nell’ordine di edizione, potrà essere guardato non senza interesse dal nostro lettore:
Pubblicazione
Composizione Variazioni op. 2 Fantasia op. 13 Krakowiak op. 14 Concerto op. 21 Concerto op. 11 Andante spianato, Polacca brillante op. 22
1827 1828 1828 1829-30 1830
1830-34
Variazioni op. 2 Concerto op. 11 Fantasia op. 13 Krakowiak op. 14 Concerto op. 21 Andante spianato, Polacca brillante op. 22
1830 1833 1834 1834 1836 1836
Abbiamo già detto che, vivendo a Varsavia, Chopin non poteva captare subito l’evoluzione del gusto e che durante la giovinezza in Polonia scrisse musica magari rivoluzionaria sotto l’aspetto dei contenuti (come gli Studi op. 10), ma formalmente antiquata. Ciò vale sia per le scelte dei generi, sia per i modelli di riferimento. Mentre Liszt eseguiva il Concerto n. 5 di Beethoven nel 1828, e mentre Mendelssohn iniziava nel 1829 un giro in Europa eseguendo Beethoven e Weber, Chopin faceva ancora capo a Hummel, a Kalkbrenner, a Field: direttamente a Hummel, che nel 1828 suonava a Varsavia, a Kalkbrenner attraverso il suo amico Alexander Rembielinski (un allievo di Kalkbrenner a Parigi, che era poi tornato a Varsavia), a Field attraverso la pianista polacca Marie Szimanowska, che imitava lo stile fieldiano al punto da essere conosciuta come “il
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Chopin: Concerto op. 11
Field femmina”. Nei negozi di mùsica di Varsavia Chopin poteva poi trovare la musica che si stampava a Vienna, a Lipsia e a Berlino: per quanto riguarda i concerti per pianoforte e orchestra i nomi più importanti, oltre a Hummel, Field e Kalkbrenner, erano quelli di Moscheles, Ries, Steibelt, Czerny, Gyrowetz (di cui Chopin, nel 1818, eseguì un concerto). CONCERTO IN MI MINORE OP. 11 (N. 1) .
• Allegro maestoso (mi minore, 3/4). □ Romance. Larghetto (mi maggiore, tempo ordinario). □ Rondò. Vivace (mi maggiore, 2/4). • Friedrich Kalkbrenner. • 1830. • Varsavia, 11 ottobre 1830, pianista Frédéric Chopin, direttore Carlo Soliva. • Schlesinger, Parigi 1833. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., trb., tp., archi.
Nel Concerto n. 1, scritto dopo il Secondo, non si può non notare qualche preoccupazione, diremmo oggi, “di immagine”. Nel Concer to in fa minore, che è più “chopiniano”, noi ritroviamo la scrittura slanciata e leggera e la cantabilità intima e sommessa: ritroviamo, cioè, anche le caratteristiche dello Chopin pianista, molto lodato dai contemporanei, i quali non mancavano però di notare la delicatezza della sonorità, non adatta a grandi ambienti. Osservazione che venne fatta già a Vienna nell’agosto del 1829, e di cui Chopin scrisse alla famiglia dicendo di preferire questa alla critica opposta. Il Concerto in fa minore riflette così, come in un autoritratto in suoni, Chopin in quanto pianista-compositore, mentre il Concerto in mi minore lo riflette molto meno. Nel Concerto in mi minore la tecnica è più sviluppata, il virtuosismo più appariscente, la stessa sonorità più robusta: basti pensare alla prima entrata del pianoforte, con le massicce doppie ottave, o ai passi in doppie note. Certe caratteristiche del melos richiamano poi alla memoria il contemporaneo concerto violinistico, cioè, in particolare, Paganini, che proprio in quegli anni stava sbalordendo l’Europa e che tra il maggio e il luglio del 1829 aveva suonato ripetutamente a Varsavia e vi aveva conosciuto Chopin (nella famosa Agenda Rossa del Genovese si trova annotato « Chopin giovane pianista»). Chopin, composto il Concerto in fa minore, dovette a parer nostro temere di rimaner confinato in un cliché, e con il Concerto in mi minore cercò dunque di adeguarsi, alla
Chopin: Concerto op. 11
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evoluzione del nascente virtuosismo romantico. Adeguamento parziale e marginale, che dimostrò in realtà l’impossibilità, per Chopin, di non battere una via esclusivamente personale. Come pianista-compositore convenzionale, infatti, Cho pin non ebbe successo, e la sua attività di concertista la esplicò nei salotti privati e in piccole sale aperte al pubblico. Un Terzo Concerto, in la maggiore, venne iniziato a Vienna nell’inverno 183031 ma non fu mai condotto a termine, ed i concerti n. 1 e n. 2 furono eseguiti da Chopin molto raramente e senza convinzione. Il Concerto in mi minore fu provato con orchestra da Chopin a Varsavia, in casa sua, il 22 settembre, ed eseguito in pubblico 1’11 ottobre, in quella che sarebbe stata la sua ultima apparizione in Polonia come concertista. Uscito dalla patria, Chopin riprese molto di rado il Concerto op. 11 ed eseguì qualche volta di più, mostrando di preferirlo, il Concerto op. 21. Il Concerto op. 11 ebbe invece maggior fortuna presso il pubblico: negli anni 30 e 40 fu eseguito da Liszt, da Clara Wieck, da Ferenc Erkel, da un allievo di Chopin, Carl Filtsch, che possedeva doti straordinarie e che morì a quindici anni, dal giovanissimo Louis Moreau Gottschalk al suo esordio a Parigi; nel 1835 venne scelto come pezzo d’obbligo per il concorso annuale del conservatorio di Parigi. Più tardi il Concerto in mi minore fu un cavallo di battaglia di Cari Tausig, che ne riscrisse alcuni passi e che ne rifece l’orchestrazione. La composizione è in tre tempi, come d’uso. Primo tempo con doppia esposizione, sviluppo e riesposizione, e due temi principali e due temi secondari; unica caratteristica strutturale inconsueta è la sostituzione del secondo tema secondario, nella riesposizione, con un altro tema non ancora ascoltato. Come di norma nel concerto Biedermeier, non c’è nel primo tempo la cadenza. Il secondo tempo, Romanza, è in forma molto originale e non esattamente catalogabile: si tratta di una forma-sonata in miniatura, con due temi principali e due temi secondari, senza sviluppo; nella riesposizione il primo tema seconda rio viene cambiato ed il secondo tema, invece che in mi maggiore, è esposto in la bemolle maggiore. Nella coda il primo tema, molto cantabile, viene esposto dal fagotto sui ricami del pianoforte: è praticamente l’unico momento in cui all’orchestra non viene affidato un ruolo di semplice sostegno o contorno. Il terzo tempo è basato su temi riconducibili al folclore polacco. Già alla fine del Settecento — lo abbiamo visto a proposito di Haydn — troviamo concerti con finali di tipo popolaresco, e questa caratteristica, dopo Chopin, ritornerà praticamente in tutti i concerti ottocenteschi di compositori appartenenti alle “scuole nazionali”.
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Chopin: Concerto op. 21
CONCERTO IN FA MINORE OP. 21 (N. 2)
• Maestoso (fa minore, tempo ordinario). □ Larghetto (la bemolle maggiore, 3/4). □ Allegro vivace (fa minore-fa maggiore, 3/4). • Contessa Delphine Potocka. • 1829-1830. • Varsavia, 17 marzo 1830, pianista Frederic Chopin, direttore Karol Kurpiriski. • Breitkopf & Hàrtel, Lipsia 1836. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., trb. tp., archi.
Anche la struttura del Concerto in fa minore op. 21 è quella del concerto Biedermeier. Primo tempo con esposizione orchestrale molto ampia; esposizione del pianoforte (breve entrata a fantasia, primo tema in fa minore, tema di transizione, secondo tema, contrastante con il primo, in la bemolle maggiore, tema di conclusione), breve intermezzo orchestrale, sviluppo, breve inter mezzo orchestrale, riesposizione, coda orchestrale. La distinzione di “espressione” e di “virtuosismo”, tipica del concerto Biedermeier, è molto netta: i due temi principali sono espressivi in modo diverso (drammatico il primo, lirico il secondo), e i due temi secondari rispondono al principio della scansione ritmica costante e rapida di un elevato numero di note; soltanto in un episodio della conclusione Chopin va oltre questa netta dicotomia e prospetta la melodia in suoni rapidi, cioè la trasformazione in senso espressivo del virtuosismo tradizionale (ed è questo, a parer nostro, il momento più affascinante del primo tempo). Come abbiamo detto nella parte generale, il concerto Bieder meier risente stilisticamente del melodramma, e ciò appare evidente nel secondo tempo del Concerto op. 21, Larghetto. La breve intro duzione orchestrale (strumentata in un modo che mette a dura prova T abilità del direttore e degli esecutori per evitare che sembri una pifferata) porta all’esposizione di una melodia da aria operistica, lavorata secondo i moduli dell’opera italiana del tempo, cioè del tardo Rossini, con suoni dolcissimi e cullanti resi più trepidanti dai giochi degli abbellimenti e delle volate, aeree come voci angeliche. Nella parte centrale, seguendo esempi che si trovano soprattutto in Steibelt e in Moscheles, Chopin fa ricorso al recitativo accompa gnato, cioè al suono incisivo e scolpito, iper-espressivo, sostenuto e contornato da fremiti minacciosi e drammatici dell’orchestra. E uno dei pochissimi momenti di tutto il Concerto in cui la scrittura del pianoforte non è completa ed autonoma e in cui l’intervento dell’orchestra si integra con quello del pianoforte
Chopin: Concerto op. 21
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solista. Momento celebre, in cui il pianista può sfoggiare le qualità di suono che più stupiscono, per sé sole, l’ascoltatore, e momento che viene atteso sempre con un po’ di curiosità, così come con curiosità si attendono la Selva opaca o la Casta diva che danno modo al cantante di sublimare la voce a trascendentale mezzo di espressione. I pianisti sanno bene di essere attesi a questo banco di prova e, se lo superano, ne sono orgogliosissimi. Si dice che Vladimir de Pachmann (u quale seguiva ancora l’uso di eseguire a memoria le musiche per pianoforte solo e con la carta i concerti per pianoforte e orchestra) sussurrasse una volta al voltapagine, tra una frase musicale e l’altra del Larghetto-. «Liszt suonava questi passaggi magnificamente». E dopo un po’: «Ma non così bene come me». Il finale è basato su temi esemplati sul canto popolare, su temi di mazurca. L’ornamentazione virtuosistica, copiosissima, tende qui più decisamente alla trasformazione in senso espressivo del virtuosi smo, ma la leggerezza del tratto, la mancanza di peso, l’aerea lievità delle “terzine” possono ricordare, più che il melodramma, il balletto contemporaneo che proprio nel 1823, con Amalia Brugnoli, aveva scoperto la danza “sulle punte”. E da segnalare nel finale un altro momento in cui l’orchestra compare autorevolmente in proscenio: si ascolti il rauco appello del corno, con eco, al cambio di modo (da fa minore a fa maggiore) che costituisce la chiave di volta per la conclusione. Non si può parlare del Concerto op. 21 senza accennare a due donne che nella vita di Chopin ebbero qualche parte. Il pezzo è dedicato alla contessa Delphine Potocka, bellissima creatura che fu ritenuta un tempo, sulla base di alcune bislacche lettere apocrife, amante ardentissima di Chopin. La inattendibilità di quelle lettere, già di per sé sospette, fu poi definitivamente dimostrata, e quindi l’omaggio a Delphine è da considerare come dono ad un’amica, non ad un’amante segreta. L’altra donna è Konstancja Gladkowska, allieva di canto del conservatorio di Varsavia, di cui Chopin si invaghì senza decidersi mai a farsi avanti apertamente. «Forse, per mia sfortuna, ho trovato il mio ideale, a cui sono rimasto fedele, sebbene senza dire a lei una parola, per sei mesi; quella che sogno ed a cui è dedicato l’adagio del mio Concerto...», scriveva Chopin all’amico Titus Woychiechowski il 3 ottobre 1829. Titus tenne per sé la confidenza, Chopin restò muto, Konstancja venne a sapere quel che era passato nel cuore del compagno di studi molti anni più tardi, quando Chopin era morto da un pezzo. E la cosa non l’impressionò né la lusingò.
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Chopin: Concerto op. 21, Polacca op. 22
Chopin provò privatamente il Concerto il 3 marzo 1830, lo eseguì per la prima volta in pubblico a Varsavia il 17 marzo e lo ripetè il 22; lo scelse poi per il suo esordio a Parigi, il 26 febbraio 1832. Liszt eseguì il Concerto, che venne però ripreso raramente da altri pianisti e che venne prediletto, specie negli ultimi anni di carriera, dalla sola Clara Schumann. Negli ultimi decenni del secolo il Concerto fu noto soprattutto nella nuova strumentazione di Karl Klindworth, pubbli cata nel 1878. ANDANTE SPIANATO E GRANDE POLACCA BRILLANTE OP. 22
• Andante spianato (sol maggiore, 6/8) — Allegro (mi bemolle maggiore, 3/4) — Meno mosso. • Baronessa d’Est. • 1830-1831 (Polacca), 1834 (Andante spianato). • Parigi, 26 aprile 1835, pianista Frédéric Chopin, direttore Francois Habeneck. • Schlesinger, Parigi 1836. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., trb., tp., archi.
La polacca con accompagnamento d’orchestra era diventata un genere molto popolare dopo esser stata “lanciata” da Moscheles, che dal 1815 aveva spesso eseguito, come brano staccato, il finale del suo Concerto n.. 2 op. 56, in forma appunto di polacca. Nell’op. 22, al contrario di quanto avrebbe fatto con le successive polacche per pianoforte solo, Chopin si allinea allo stile medio dell’epoca e mantiene il carattere celebrativo, decorativo, fastoso della danza nazionale, che era danza di corte, con una scrittura pianistica che corrisponde esattamente al concetto di “brillante” del titolo. La forma riprende lo schema della polacca con trio e coda, ma senza soluzione di continuità e con una parte centrale articolata in più sezioni indipendenti. Pezzo che aspirava ad essere alla moda, la Polacca brillante era invece fuori moda fin da quando venne composta (ormai il virtuosismo non era più brillante, ma “di bravura”), e venne eseguita da Chopin soltanto una volta. Per quell’occasione Chopin scelse come brano introduttivo un pezzo per pianoforte solo, Andante spianato, aggiungendo un breve collegamento orchestrale tra l’introduzione e la polacca. Tra le poche esecuzioni successive è da ricordare quella che ebbe luogo a Mosca con un giovane pianista allievo di Nicolai Rubinstein, il 14 gennaio 1861. In quell’occasione Mussorgski scrisse a Balakirev dicendo: «Nicolai Rubinstein, degno
Chopin: Polacca op. 22
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parente di Anton, esorta i pianisti semicongelati di Mosca a suonare le Pièces de salon di Chopin: che razza di scelta!» (lettera del 16 gennaio 1861). Chopin, che non riprese mai la versione completa del pezzo, eseguì invece, come brano a sé stante, V Andante spianatoi uso che venne eseguito da un celebre interprete chopiniano come Cari Tausig. L’Andante spianato e Polacca brillante divenne celebre dopo il 1870, quando il pianista ungherese Rafael Joseffy ebbe l’idea di presentarlo senza orchestra. Il pezzo fu eseguito allora da tutti i più famosi concertisti e rimase in repertorio fino a circa la generazione dei pianisti nati intorno al 1920. I concertisti più giovani non dimostrarono in genere altrettanta simpatia per VAndante spianato e Polacca brillante, la cui presenza nel repertorio si ridusse considerevolmente. Ma Arrau, Richter, Gilels, Lipatti ripresero però la versione con orchestra, che oggi viene eseguita quanto la versione per pianoforte solo.
ROBERT SCHUMANN (Zwickau, 8 giugno 1810 — Endenich, 29 luglio 1856)
CONCERTO IN LA MINORE OP. 54
• Allegro affettuoso (la minore, tempo ordinario). — Allegro molto (2/4) □ Intermezzo. Andantino grazioso (fa maggiore, 2/4) — Allegro vivace (la
maggiore, 3/4). • Ferdinand Hiller. • 1841 (primo tempo) - 1845 (secondo tempo e finale). • Lipsia, 13 agosto 1841 (primo tempo), esecuzione privata, pianista Clara Schumann; Dresda, 4 dicembre 1845 (completo), pianista Clara Schumann, direttore Ferdinand Hiller. • Breikopf & Hàrtel, Lipsia 1846. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto di Schumann venne scritto quando il mondo della cultura, dopo aver da lungo tempo istituzionalizzato il teatro, cominciava a darsi un'organizzazione istituzionale internazionale anche per la musica sinfonica e per la musica da camera: entrò subito in un repertorio che nasceva allora e, al contrario dei concerti di Mendelssohn, non ne uscì più. Un caso quasi unico di continuità, nella storia dell’interpretazione. Il primo tempo, Fantasia, non fu eseguito pubblicamente da Clara ma venne solo provato con l’orchestra del Gewandhaus di Lipsia il 13 agosto 1841. Indipendentemente dall’esito della prova, Clara non avrebbe comunque potuto sostenere l’esecuzione pubblica perché dopo meno di tre settimane, 1’ 1 settembre, dava alla luce la sua primogenita Marie. Riprendendo a suonare poco più di un mese dopo il parto, Clara non ritornò sulla Fantasia del marito ma il 14 ottobre presentò, con Mendelssohn e Moscheles, uno dei concerti per tre pianoforti di Bach e, in dicembre, il Concerto op. 25 di Mendelssohn e il difficilissimo Hexameron di Liszt, Chopin ed altri. Completato da Schumann il Concerto nel 1845, Clara lo eseguì a
Schumann: Concerto op. 54
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Dresda il 4 dicembre sotto la direzione di Ferdinand Hiller, dedicatario dell’opera. Prima del Concerto di Schumann, Clara aveva studiato ed eseguito, il 4 ottobre, il Concerto di Henselt. Una annotazione nel suo diario ci dice con quale spirito venisse affrontato il lavoro di Schumann, concettualmente così diverso da quello di Henselt: «Mercoledì 3 settembre ho cominciato a studiare il Concerto di Robert. [...] Che contrasto tra questo e quello di Henselt. Com’è ricco di invenzione, com’è interessante dal principio alla fine; com’è fresco, e quale insieme ben connesso! Studiandolo, provo un vero piacere». Alla “prima assoluta” di Dresda seguì la prima al Gewandhaus di Lipsia, sotto la direzione di Mendelssohn, 1’1 gennaio 1846. Un anno dopo, 1’1 gennaio 1847, il Concerto fu eseguito da Clara a Vienna sotto la direzione di Schumann, con mediocre successo. Andarono meglio le esecuzioni, sempre dirette da Schumann, di Praga (2 febbraio) e di Zwickau (10 luglio). Tre anni più tardi, nel 1850, Clara eseguì il Concerto ad Amburgo, ancora con Robert. Un numero di esecuzioni limitato, come si vede. Un fatto è tuttavia significativo: il 7 febbraio 1850 la sedicenne Wilhelmine Clauss (nota più tardi, dopo il matrimonio, come Clauss-Szarvady) aveva esordito al Gewandhaus con il Concerto di Schumann, che rappresentava quindi già una carta da visita probante per il pubblico di Lipsia. Negli anni 50 Clara eseguì il Concerto a Rotterdam (1953), di nuovo a Lipsia (1854), a Londra (1856), a Copenhagen (1856), a Basilea (1857). Altre esecuzioni vennero tenute dalla ClaussSzarvady, da Brahms, e da Alfredo Jaèll, che fu il primo concertista affermato, e non legato ai circoli culturali conservatori di Lipsia, a scegliere il lavoro di Schumann. Negli anni 60 Clara presentò il Concerto a S.Pietroburgo (1864), a Mosca (1864), a Bruxelles (1868), e lo ripropose al pubblico di Londra (1867). Il numero delle esecuzioni, che pur si susseguivano regolarmente, dà l’idea di quanto limitata fosse ancora la struttura organizzativa dei concerti sinfonici. E una biografa, Nancy B. Reich, ha calcolato che Clara eseguisse soltanto diciotto volte il Concerto tra il 1864 e il 1879: in pratica, poco più di una volta all’anno. Negli anni 60 il Concerto acquistava un nuovo grande interprete: Anton Rubinstein. Ma solo la generazione di pianisti nati intorno al 1860 mise sistematicamente in repertorio il Concerto-, e ciò avvenne tra il 1880 e il 1890. Fino ad allora l’interprete deputata del Concerto fu ancora e sempre Clara, che nel marzo del 1889 lo
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Schumann: Concerto op. 54
rieseguì al Gewandhaus, quasi quarantaquattro anni dopo averlo eseguito a Dresda la prima volta, e quasi quarantott’anni dopo aver provato a Lipsia la Fantasìa. Accettando il 1879 un posto di insegnante nel conservatorio di Francoforte sul Meno, Clara formò inoltre vari discepoli — Nathalie Janotha, Fanny Davies, Leonard Borwick, Mathilde Verne, Ilona Eibenschutz, Adelina de Lara — che perpetuarono nei primi decenni del nostro secolo la tradizione interpretativa “ autentica ”. Clara come interprete deputata, dicevamo. Ma non incontestata. Nel suo libro di memorie {His Book, New York 1948) Harold Bauer, che era nato nel 1873, scrive: «La signora Schumann suonava molta musica del marito. Ricordo la sua esecuzione del Concerto e del Camaval senza alcun piacere. I suoi tempi mi sembrarono troppo rapidi e non notai alcuna attrattiva nella sua sonorità». Il giudizio del Bauer risulta sorprendentemente confermato quando si ascolta una delle più importanti allieve di Clara, l’inglese Fanny Davies (1861-1934), che incise il Concerto di Schumann nel 1928. Per il gusto di oggi i tempi della Davies risultano effettiva mente frettolosi e la sonorità pare grezza. E siccome è del tutto probabile che la Davies fosse rimasta fedele all’insegnamento di Clara, sembra evidente che la mutazione del Klangideal, della sonorità pianistica ideale, verificatosi verso la fine dello scorso secolo con l’adozione del pianoforte con telaio fuso in un blocco solo, avesse reso obsoleto il gusto di cui Clara era stata ed era l’esponente maggiore. Sul piano del gusto non c’è confronto tra l’interpretazione della Davies e l’interpretazione di Emil von Sauer (1862-1942), allievo di Liszt, di cui c’è la registrazione di un’esecu zione del Concerto tenuta ad Amsterdam nel 1940. Sebbene Sauer denunci, a tratti vistosamente, l’età avanzata, la sua è un’interpreta zione epica, scolpita nel suono e di alta tensione emotiva, un’inter pretazione che del Concerto di Schumann fa un mito perenne più che lo specchio di un’epoca. Purtroppo non abbiamo altre esecuzioni di grandi interpreti nati intorno al 1860 (Paderewski, Rosenthal, d’Albert, Reisenauer, Busoni). Ma attraverso le interpretazioni della Davies e di Sauer possiamo per lo meno cogliere un’idea del trapasso della tradizione diretta alla interpretazione vera e propria. Trapasso che è conferma to dalle esecuzioni incise da Alfred Cortot (nato nel 1877) e poi dai pianisti della “generazione dell’ottanta” (Schnabel, Backhaus, Artur Rubinstein).
Si veda anche il commento alle pp. 58-60.
FRANZ LISZT (Raiding, 22 ottobre 1811 — Bayreuth, 31 luglio 1886)
La cronologia dei tre principali lavori per pianoforte e orchestra di Liszt, che qui verranno commentati, è molto significativa: Concerto n. 1 Totentaz Concerto n. 2
1856 1859 1861
Sono queste le date in cui le tre opere vengono terminate’, ma le date degli inizi riservano una sorpresa: Concerto n. 1 Totentanz Concerto n. 2
1830 1834 1839
Ancor più sorprendente si fa il panorama se si considerano le successive fasi delle diverse stesure: Concerto n. 1 Totentanz Concerto n. 2
1830, 1849, 1853, 1856 1834-35, 1838, 1849, 1853, 1859 1839, 1849, 1853, 1857, 1861
Insomma, negli anni 30 Liszt cominciò a pensare a tre grandi lavori, per i quali prese degli appunti e che non compì; nel 1849, dopo il ritiro dall’attività concertistica, arrivò a stenderne una versione completa; li riprese in mano nel 1853, dopo aver composto i primi poemi sinfonici; negli anni successivi li portò definitivamente a termine, uno alla volta e lentamente. Si parla spesso della facilità e della faciloneria di Liszt: ventisei anni per condurre in porto il pirotecnico Concerto n. 1, venticinque per tirare a lucido il tempestoso Totentanz, ventidue per dare l’ultima mano al fantasioso Concerto n. 2 sono invece, ci pare, la
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Liszt: Concerto n. 1
dimostrazione di un tormento creativo che ricorda molto più Flaubert che non Dumas. Il tormento di Liszt nasce a parer nostro, come abbiamo detto nella parte generale, dalla sua coscienza della storia. Liszt, che fu accusato di smania di protagonismo e che fu commiscrato perché non si era accontentato di essere il più grande pianista dei suoi tempi, ambiva in realtà a risolvere gli enigmi con cui la storia tentava la civiltà musicale dell’occidente. Ma, essendo uomo di spettacolo, li risolse con opere che tenevano conto della dimensione di spettacolo in cui la musica viveva. La sua facilità consiste nella semplicità con cui la soluzione dell’enigma viene esposta al pubblico, la sua faciloneria consiste nel tono colloquiale e un po’ retorico che maschera la genialità della soluzione. Chi ripercorre la storia del concerto per pianoforte e orchestra trova però in Liszt il punto fermo di un’epoca e l’anello insopprimibile di una catena che parte da Mozart e che solo oggi tende a chiudersi su se stessa.
CONCERTO IN MI BEMOLLE MAGGIORE (N. 1)
• Allegro maestoso (mi bemolle maggiore, tempo ordinario) — Quasi Adagio (si maggiore-mi maggiore, 12/8) — Allegretto vivace (mi bemolle minore — mi bemolle maggiore 3/4), Allegro animato (4/4) — Allegro marziale animato — Più mosso — Presto.
• • • • •
Henry Litolff. 1830-1856. Weimar, 17 febbraio 1855, pianista Franz Liszt, dir. Hector Berlioz. Haslinger, Vienna 1857. Ott., 2 fi., 2 ob., 2 cL, 2 fg., 2 cr., 2 tr., 3 trb., tp., pere., archi.
La caratteristica storica essenziale del Concerto n. 1 è di risolvere quattro fondamentali problemi che erano sorti negli anni 30 con lo sviluppo virtuosistico del pianoforte (Liszt stesso, Chopin, Thal berg, Henselt), con lo sviluppo virtuosistico dell’orchestra (Berlioz, ma anche, nel melodramma, Meyerbeer), e con il superamento degli schemi architettonici classici: 1) peso sonoro del pianoforte pari a quello dell’orchestra, e quindi antagonismo tra solista e orchestra; 2) pianoforte come sezione dell’orchestra, con possibilità di varie integrazioni; 3) forma fluida, in quattro tempi ma senza interruzio ni; 4) finale riassuntivo e ricapitolativo dei primi tre tempi. All’inizio di questa fase storica, come già detto, si può collocare il Concerto op. 25 di Mendelssohn, alla fine il Concerto n. 1 di Liszt. E se il Concerto di Mendelssohn guarda verso il Concerto n. 4 di
Liszt: Concerto n. 1
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Beethoven, il Concerto di Liszt guarda verso il Quinto: guarda al Quinto nel primo tempo, con la cadenza del pianoforte collocata subito all’inizio, e guarda al Quinto per l’impianto tonale che, come anche nel Concerto ». 2 di Weber, si tende dal mi bemolle maggiore al si maggiore. Anzi, in questo senso Liszt si compiace di un sottile virtuosismo grafico quando, nell’ultima sezione del primo tempo, scrive in mi bemolle maggiore le parti dell’orchestra, e in re diesis maggiore (con l’armatura di chiave del si maggiore) la parte del pianoforte. Nel primo tempo, molto denso di contenuti ma breve, viene sintetizzata la forma classica, con introduzione tematica e cadenza, primo tema, transizione, secondo tema; Liszt elimina la coda e passa direttamente ad un brevissimo sviluppo, concludendolo con una trasformazione del primo tema che ritornerà poi più volte; la riesposizione, abbreviata, omette il secondo tema, e la forma viene riequilibrata mediante un’ampia coda sul primo tema. Il secondo tempo è in tre sezioni: 1) introduzione orchestrale ed ampia esposizione del primo tema al pianoforte solo; 2) sviluppo, con un recitativo del pianoforte che ricorda la parte centrale nel Larghetto del Concerto n. 2 di Chopin; 3) terza sezione, nella quale, invece di riprendere il primo tema, Liszt introduce ed espone tre volte un secondo tema, che verrà ampiamente sfruttato nel finale. Molto singolare formalmente, il secondo tempo è di eccezionale interesse anche per l’andamento tonale: prima sezione in si maggiore e fine in mi maggiore. Il terzo tempo inizia, senza modulazione intermedia, in mi bemolle minore; i temi esposti alternativamente, tre volte ciascuno, sono due. Una transizione, nella quale ricompaiono elementi tematici e “gestuali” (le doppie ottave) del primo tempo, nonché il secondo tema del secondo tempo, collega il terzo tempo al finale. Il finale riprende, nell’ordine: 1) il primo tema del secondo tempo, trasformato in marcia; 2) il recitativo del secondo tempo; 3) il secondo tema del secondo tempo, variato; 4) il primo tema del secondo tempo, a modo di marcia. Fino a questo punto Liszt ha dunque ripreso il secondo tempo facendolo diventare una marcia con trio e riesposizione. Poi prosegue con: 5) il primo tema del tèrzo tempo, in due varianti; 6) una variante del primo tema del primo tempo, una citazione del primo tema del terzo tempo, l’elemento dominante dello sviluppo del primo tempo, con il quale il Concerto si conclude.
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Liszt: Totentanz
TOTENTANZ. PARAPHRASE UBER DIES IRAE • Andante (re minore, tempo ordinario) — Vivace (2/2) — Allegro moderato (tempo ordinario) — Poco più mosso — Animato — Allegro vivace (3/4) — Lento (la minore - si maggiore - si bemolle maggiore, tempo ordinario, poi 3/4) — Presto (re minore, 6/8) — Vivace (2/4) — Maestoso — Andante — Più mosso — Tempo I — Vivace — Allegro animato (2/2). • Hans von Bulow. • 1834-1859. • L’Aja, 15 aprile 1865, pianista Hans von Bùlow, direttore J.H. Verhulst. • Siegei, Lipsia 1865. • Ott., 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
Danza di morti. Parafrasi sul “Dies Irae”: l’idea di scrivere delle variazioni sul Dies Irae fu suggerita nel 1838 a Liszt dall’affresco attribuito allora all’Orcagna, Il trionfo della morte, che si trova nel Camposanto di Pisa. Ma nel Totentanz Liszt utilizzò anche una composizione per pianoforte e orchestra, De Profundis. Psaume Instrumental, abbozzata tra il 1834 e il 1835 e mai condotta a termine. Nel 1849 Liszt realizzò il progetto del 1838 scrivendo, completa, la prima versione del Totentanz, che nel 1918 venne scoperta da Ferruccio Busoni, da lui eseguita a Zurigo nel 1919 e pubblicata nello stesso anno. Nella versione definitiva le parti ricavate dal De profundis vennero eliminate. Non è improbabile che, almeno all’inizio, il seguito delle variazioni venisse organizzato in relazione con l’affresco del Camposanto, e non è improbabile che Liszt intendesse inserire nell’opera implicazioni ideologiche, secondo l’esempio della Fantasia op, 80 di Beethoven che faceva parte del suo repertorio di concertista; ma non è nota alcuna interpretazione programmatica del Totentanz, né di allievi o amici di Liszt né di musicologi. Dopo l’introduzione tematica, l’inizio del Dies Irae, scelto come tema, è esposto dall’orchestra (oboi, clarinetti, fagotti e archi, poi fagotti, trombone basso, tuba, violoncelli e contrabbassi, con l’aggiunta alla fine di oboi, violini e viole). Il cambiamento della strumentazione mette in evidenza la struttura “bivalve” del tema, su cui Liszt giocherà nel corso della composizione, basandosi a volta a volta sull’intero e su una delle due parti. Il pianoforte riespone, da solo, la prima parte del tema; seguono due variazioni a modo di marcia grottesca, nelle quali il rapporto programmatico con l’affresco appare con tutta evidenza. La terza e la quarta variazione sono in metro diverso (ternario): la quarta è una semplice ripetizione, con poche modificazioni, della terza.
Liszt: Totentanz
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A questo primo gruppo segue una quinta variazione canonica del pianoforte solo, che con la tonalità “povera” di la minore e con lo spoglio procedere delle imitazioni intende forse suggerire un simbolo della nudità dei trapassati; all’opposto, la scrittura spaziatissima della sesta variazione e la tonalità di si maggiore, con impiego di tutti i tasti neri e dolcissima sonorità, riprende il simbolismo del cielo che si riscontra spesso nelle opere weimariane di Liszt; una coda in movimento rapido e di carattere beffardo conclude questa sezione (in pratica, una cadenza del pianoforte con intervento del solo clarinetto), che sembra introdurre il tema della lotta tra cielo e inferno per il possesso delle anime (parte alta a destra nell’affresco). Il Vivace è un fugato su un soggetto a note ribattute (facciamo notare, ma senza troppo insistere, che il fugato viene talvolta scelto per simboleggiare la battaglia); di qui inizia la sezione centrale, con variazioni amplificatrici che si susseguono incalzando fino ad un punto culminante. L’episodio conclusivo del pianoforte solo, che Liszt stesso chiama Cadenza, impegna l’esecutore in tipi di virtuosi smo, come i grandi salti in ottava, non più soliti nel Liszt di Weimar e che ricordano invece il Liszt del 1830-40; una sezione della Cadenza, indicata con Animato quasi comi di caccia sembra avere un riferimento all’affresco pisano. Così come all’affresco sembra riferirsi l’appello arcano dei due corni all’unisono con cui si apre il Maestoso (nella sua revisione pubblicata nel 1911, l’allievo di Liszt Alexandr Siloti consigliava di impiegare quattro corni, che creano un effetto mahleriano). L’attenzione dell’ascoltatore è indirizzata sull’impressionante squillo dei corni. Ma clarinetti, fagotti ed archi stanno esponendo un tema nuovo, sebbene derivato dal Dies Irae: Liszt crea in realtà un tema alternativo, stilisticamente ricalcato sul Dies Irae, e lo fa seguire da sette splendide variazioni, magnificamente calcolate per una progressione verso il punto culminante. Una nuova Cadenza del pianoforte conclude questa sezione e la collega al finale, in cui il tema “bivalve” del Dies Irae viene esposto in ordine inverso rispetto alla prima esposizione. La struttura generale è dunque organizzata su introduzione, tre blocchi di variazioni e coda, con le cadenze del pianoforte solo che scandiscono la successione dei blocchi: è probabile, ripetiamo, che in origine ci fosse un preciso rapporto con le scene del Trionfo della morte, ma è difficile, se non impossibile, ricostruirlo. Nessun dubbio può però sussistere sull’intenzione lisztiana di indirizzare all’ascolta tore un “messaggio” di intensa spiritualità. E, musicalmente, la trovata veramente geniale consiste nella creazione del secondo tema
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Liszt: Totentanz, Concerto n. 2
(perciò si tratta non di variazioni ma di parafrasi), secondo tema i cui tre primi suoni sono identici ai primi tre del primo tema: l’affinità e la novità si bilanciano in modo miracoloso e la struttura acquista insieme una coerenza ed una varietà che fanno del Totentanz una delle maggiori invenzioni formali della musica romantica. Ciò malgrado, o forse proprio per questa ragione, il Totentanz non piacque alla critica e piacque poco al pubblico dell’ottocento e negli ultimi decenni del secolo fu eseguito quasi dai soli Nicolai Rubinstein e Alexandr Siloti, allievo di Liszt. Più tardi fu ripreso da Vianna da Motta, d’Albert, Busoni. Tra le due guerre il Totentanz fu spesso eseguito da Béla Bartók e, verso il 1940, da Rachmaninov; nel dopoguerra da Benedetti Michelangeli e da altri. Oggi le esecuzioni non sono infrequenti, ma in genere non si è ancora riconosciuta in tutta la sua portata la grandezza di questo capolavoro che nel panorama della musica per pianoforte e orchestra ha ben pochi paragoni. CONCERTO IN LA MAGGIORE (N. 2)
• Adagio sostenuto assai (la maggiore, 3/4) — L’istesso tempo (re minore) — Allegro agitato assai (re bemolle maggiore, 6/8) — Allegro moderato (tempo ordinario) — Allegro deciso — Sempre allegro (la minore, tempo tagliato) — Marziale, un poco meno allegro (la maggiore, tempo ordinario) — Un poco più mosso — Allegro animato — Stretto.
• • • • •
Hans Bronsart von Schellendorf. 1839-1861. Weimar, 7 gennaio 1857, pianista Hans Bronsart, direttore Franz Liszt. Schott, Magonza 1863. Ott. (fi.), 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., archi.
Nel Concerto n. 2 ì riferimenti alle forme classiche sono indiretti e sfumati al punto da risultare praticamente, all’audizione, inavver tibili. Resta l’idea-cardine della contrapposizione di due temi principali, ma i due temi, pur essendo inseriti in un’unica struttura metrica (Adagio sostenuto assai il primo, L’istesso tempo il secondo), hanno una stuttura ritmica talmente diversa da ricordare all’ascolta tore i casi della Ballata ». 2 di Chopin o della Ballata ». 1 di Liszt, con temi in movimenti diversi. Un’analisi attenta lascia tuttavia scorgere ancora, netta, la tradizionale struttura classica: i due temi sono collegati da un episodio di transizione, l’esposizione è seguita da una coda, l’inizio dello sviluppo è affidato alla sola orchestra, secondo una tipica scansione tradizionale della forma.
Liszt: Concerto n. 2
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La forma viene però, a questo punto, spezzata: un lungo episodio in re bemolle maggiore sul primo tema, iniziato da un assolo del primo violoncello, porta subito al tradizionale adagio. L’ampio Allegro deciso si ricollega allo sviluppo interrotto e conduce alla trionfale riesposizione del primo tema (Marziale, un poco meno allegro) e ad una ripresa del secondo tema. Sopravviene però un episodio del tutto inatteso (Un poco più mosso), che inizia con il solo pianoforte e si sviluppa come una grande cadenza in tempo con la partecipazione dell’orchestra. Una trasformazione del primo tema (Allegro animato) dà quindi inizio alla coda finale, molto sviluppata e brillantissima. In sostanza, la forma è quella di un primo tempo di concerto, completo di esposizione, sviluppo, riesposizione, cadenza, coda, con inserito un adagio: qualcosa di analogo allo schema della Sonata in si minore, e di altrettanto geniale, ma ancor meno riconoscibile all’ascolto. Dopo la prima esecuzione di Weimar il Concerto n. 2 fu riproposto raramente fino alla grande guerra. A riprenderlo furono soprattutto alcuni allievi di Liszt (Friedheim, Rosenthal, Sauer ed altri meno noti), ed inoltre Francis Planté e Ferruccio Busoni; nello stesso periodo il Concerto n. 1, eseguito da Liszt e subito ripreso da Alfredo Jaèll, diventava invece popolarissimo ed entrava nel repertorio di tutti i grandi concertisti. Tra le due guerre e fin verso il 1970 la popolarità di Liszt andò scemando. Il Concerto n. 1 restò tuttavia in repertorio, il Concerto n. 2 apparve raramente nelle stagioni sinfoniche; ma è tuttavia significativo il fatto che pianisti come Kempff, Arrau, Richter, Lipatti, Katchen, Brendel, eseguisse ro entrambi i concerti. Oggi si può parlare di una Liszt-Renaissance iniziata intorno al 1970 e che nel 1986, centenario della morte, ha trovato un primo momento di aggregazione. E da notare che per la celebrazione tenuta al Festspielhaus di Bayreuth, per il centenario della morte di Liszt, il 31 luglio 1986, fu eseguito, insieme cori la Sinfonia-Faust, proprio il Concerto n. 2.
Si veda anche il commento a p. 63.
CÉSAR FRANCK (Liegi, 10 gennaio 1822 — Parigi, 8 novembre 1890)
VARIAZIONI SINFONICHE • Poco Allegro (fa diesis minore, tempo ordinario) — L’istesso tempo (3/4) — Poco più lento (tempo ordinario) — Allegro — Allegretto (3/4) — Molto più lento (fa diesis maggiore - fa diesis minore) — Allegro non troppo (fa
diesis maggiore, 2/2). • Louis Diémer. • 1885. • Parigi, 1 maggio 1886, pianista Lois Diémer, direttore Jules-Étienne Pasdeloup. • Enoch, Parigi 1892. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 2 tr., tp., archi.
Variazioni sinfoniche è altra cosa da tema con variazioni', non solo perché il sinfoniche lascia intendere che si tratta di un pezzo con orchestra, ma anche perché il titolo ci dice che non necessariamente il compositore impiegherà un tema solo. In una condizione analoga Liszt aveva definito parafrasi le variazioni del Totentanz, e in una situazione analoga Rachmaninov definirà rapsodia le variazioni da Paganini. Franck intende il termine variazioni in modo ancora più ampio (pur restando lontano dal paradosso di Gian Francesco Malipiero: Variazioni senza tema)', impiega un tema principale, che viene regolarmente variato, ma anche un altro tema che occupa un’ampia introduzione e che darà origine al vastissimo finale. Il tema della introduzione è chiaramente ispirato al secondo tempo del Concerto n. 4 di Beethoven, che Liszt e altri romantici avevano interpretato come invocazione di Orfeo alle Furie. Tema in due sezioni contrastanti, con un violento ritmo puntato degli archi e un recitativo iperespressivo del pianoforte. Su questo tema è basata la prima sezione, fino al cambiamento di metro (3/4), dopo il quale, in un brevissimo episodio, l’orchestra preannuncia sottovoce il tema principale. Nel successivo Poco più lento il pianoforte, iniziando
Franck: Variazioni sinfoniche
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della tonalità di do diesis minore, sviluppa il suo recitativo in un’ampia, appassionata perorazione: con il ritorno, variato, dell’e sposizione iniziale si chiude la parte introduttiva e viene presentato dal pianoforte il tema principale da variare. E un tema melodico molto semplice, come un canto popolare armonizzato a modo di corale a quattro o a cinque parti. L’andamento tonale è quello consueto: da fa diesis minore a la maggiore e ritorno in fa diesis. Appena un poco insolita è la costruzione delle frasi, con tre segmenti di quattro battute ciascuno e un quarto segmento di sei battute. La lieve asimmetria, ottenuta con l’inserzione di due battute, quasi una parentesi, alla metà del quarto segmento, accresce la grazia sensuosa e malinconica della melodia, che rischierebbe altrimenti di diventare cantilenante e di perdere quella espressività immediata eppure continuamente rinnovantesi a cui Franck mirerà costantemente nel corso delle variazioni. Prima variazione, splendida, a dialogo fra orchestra e pianoforte, seconda variazione con tema al centro (viole e violoncelli) contrap puntato da un carillon del pianoforte, terza variazione a moto perpetuo, sostenuta principalmente dal pianoforte. Conclusa in fa diesis minore la terza variazione, Franck passa ex abrupto in re maggiore per una quarta variazione baldanzosa e guerriera in cui si rivela il legame tra il tema principale e l’altro tema, che non ha qui più nulla di minaccioso. La quarta e la quinta variazione, molto simili, sono collegate da uno sviluppo che dilata la forma e arricchisce il colore tonale. La sesta variazione, in fa diesis maggiore, inizia con il tema al basso (violoncelli), che sostiene una fitta coloratura del pianoforte. Si tratta, in fondo, di un procedimento scolastico che noi ritrovere mo nel Concerto n, 4 di Saint-Saèns (scritto però prima delle Variazioni sinfoniche): il “canto dato” diventa “basso dato”. Espertissimo di tutti gli artifici rimasti in uso nella musica sacra, l’organista Franck sa tuttavia far diventare mondano lo sfoggio dottrinale in un incantato notturno dalla sonorità vellutata. Da questa variazione nasce un episodio in cui, sempre al basso, viene usato il recitativo iniziale -del pianoforte. E l’episodio simmetrico, in positivo, della perorazione del pianoforte nella introduzione, e si risolve nell’attacco del finale (trillo del pianoforte solo), che ricorda l’attacco dell’ultimo episodio nel Concerto n. 4 di Beethoven. Si tratta di un attacco non facile perché il vecchio movimento viene condotto a termine dal pianista, mentre spetta invece al
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Franck: Variazioni sinfoniche
direttore lo stacco del finale. Alla prima esecuzione Pasdeloup, chef più volonteroso e illuminato che bravo, riuscì a mandare per aria l’orchestra, e tutto il finale andò avanti disastratissimo. Per di più, il pubblico era poco numeroso e tiepido... Dispiaciuti e dolenti gli amici si presentarono al serafico Franck che, raggiante, non stava più nella pelle per il bel successo e la magnifica esecuzione. Il finale è un allegro bitematico tripartito. Il primo gruppo tematico è in forma di canzone: 1) tema a) basato sul recitativo iniziale del pianoforte; 2) tema b) derivato dallo stesso nucleo; 3) variazione del tema a). Il secondo tema, in re maggiore, è derivato dal tema principale (in realtà, è una vera e propria variazione di quel tema, ma non riconoscibile come tale anche se Franck mette in orchestra una didascalia, Marcato il tema, che è praticamente impossibile realizzare). Lo sviluppo è un’improvvisazione, un valzer-capriccio del piano forte solo, a cui s’aggiunge poi l’orchestra: inizia in mi bemolle maggiore e si conclude in fa diesis maggiore, sfociando nella riesposizione abbreviata che comincia con la variazione del tema a). Il secondo tema è in fa diesis maggiore; una breve coda martellante e giocosa conclude l’opera.
Si veda anche il commento a p. 97.
JOHANNES BRAHMS (Amburgo, 7 maggio 1833 — Vienna, 3 aprile 1897)
CONCERTO IN RE MINORE OP. 15 (N. 1) • Maestoso (re minore, 6/4). □ Adagio (re minore, 6/4). □ Rondò. Allegro non troppo (re minore - re maggiore, 2/4).
• Senza dedica. • 1854-1858. • Hannover, 22 gennaio 1859, pianista Johannes Brahms, direttore Joseph Joachim. • Rieter-Biedermann, Lipsia e Winthertur 1861. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., tp., archi.
La prima notizia sul futuro Concerto in re minore è contenuta in una lettera di Dusseldorf, del 9 marzo 1854, di Julius Otto Grimm a Joseph Joachim: il Grimm comunicava che Brahms aveva «appena finito tre tempi di una Sonata per due pianoforti». Il 19 giugno dello stesso anno Brahms, a sua volta, scriveva a Joachim dicendo: «Ritengo che lascerò da parte la mia Sonata in re minore per molto tempo. Ho spesso suonato i primi tre movimenti con la signora Schumann, ma penso che richiedano più di due pianoforti». Rammentiamo al lettore che Brahms, recatosi a Dusseldorf presso gli Schumann alla fine di settembre del 1853, era spesso ritornato nella città renana prima e dopo il tentato suicidio di Schumann (27 febbraio 1854). Ed è probabile, come si dice tradizionalmente, che sotto Fimpressione del disperato gesto di Schumann avesse composto il primo tempo della Sonata in re minore. Ai primi di marzo erano scritti i primi tre tempi, ma a giugno la composizione non era stata ultimata e Brahms dubitava di poterla finire. Stavano nascendo allora le Variazioni su un tema di Schumann op. 9, che tennero occupato Brahms fino all’agosto. Dopo aver terminato le Variazioni Brahms strumentò per orchestra il primo
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tempo della Sonata e abbozzò altri due tempi di quella che avrebbe dovuto essere, e non fu, la sua prima sinfonia. Poi, non sappiamo esattamente se nel 1855 o all’inizio del 1856, il primo tempo della sonata-sinfonia venne riscritto per pianoforte e orchestra ed inviato nell’aprile del 1856 a Joachim con la richiesta di un parere. In ottobre, come risulta dal diario di Clara Schumann, il Concerto era finito e Brahms e Clara lo avevano eseguito varie volte a due pianoforti. Il 4 dicembre Joachim scrisse a Brahms approvan do il primo tempo ma dicendo di scorgervi qualcosa di «non soddisfacente»; chiedeva poi di vedere gli altri tempi. Brahms gli spedì in dicembre prima il Rondò, poi V Adagio, e all’inizio del 1857 il primo tempo già modificato. Della Sonata in re minore era restato nel Concerto il primo tempo; il secondo tempo, pare, venne più tardi utilizzato nel Deutsches Requiem, mentre per il secondo tempo del Concerto — pare, non è certo — Brahms si servì di un brano di una messa rimasta inedita. Il secondo tempo del Concerto, com’è ben noto, recava in origine l’epigrafe «Benedictus qui venit in nomine Domini», e quindi la derivazione da una composizione liturgica non sembra improbabile (ma potrebbe trattarsi di identificazione autobiografica). Joachim consigliò a Brahms di riscrivere il Rondò, approvando invece l’Adagio. Nell’aprile del 1857 Brahms gli rimandò l’intera partitura a cui Joachim diede una piena approvazione, ribadita poi in luglio. Ma già nella prima lettera (7 maggio) aveva anche espresso una prudente opinione: «Penso che lo ripulirai ancora dopo averlo ascoltato [in orchestra]». Joachim, che aveva un incarico alla corte di Hannover, alla fine di marzo del 1858 riservò al Concerto una prova. Clara, che era presente, scrisse al fratellastro Woldemar Bargiel il giorno stesso, il 30, esprimendo un’ammirazione entusiasta: «Quasi tutto suona splendidamente, e alcune parti anche molto meglio di come Johannes s’era aspettato o immaginato. Il tutto è meraviglioso, così ricco, così pieno^ di sentimento, e nello stesso tempo così ben proporzionato». E strano che otto mesi più tardi, il 26 novembre, Brahms scrivesse candidamente a Joachim: «Dopo la bella prova che avemmo a Hannover la mia testa era piena di miglioramenti per il Concerto; adesso li ho persi e dimenticati tutti». In un certo senso, dunque, le previsioni di Joachim si erano avverate, e in un altro no... Il Concerto venne finalmente eseguito a Hannover il 22 gennaio 1859, e fu un discreto successo; venne ripetuto al Gewandhaus di Lipsia il 27, sotto la direzione di Julius Rietz, e fu un fiasco,
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sebbene Brahms, come scrisse a Clara il 2 febbraio, pensasse di aver suonato «assai meglio che a Hannover». Anche i più fidati amici di Lipsia — il violinista Ferdinand David, il violoncellista Griitzmacher, il pianista Wenzel — restarono indifferenti di fronte al Concerto, e la sola ad entusiasmarsi fu la cantante Livia Frege, che con pochi altri tentò di applaudire e venne — lo scrisse a Clara il 31 gennaio — seccamente zittita. Il 24 marzo Brahms eseguì il Concerto nella sua città, Amburgo, sotto la direzione di Joachim. Due anni e mezzo più tardi, il 3 settembre 1861, Clara ripresentò ad Amburgo il Concerto sotto la direzione di Brahms e lo eseguì poi più volte, facendolo rientrare trionfalmente, nel 1874, anche nel Gewandhaus di Lipsia. Nel 1861 venne pubblicata la parte del pianoforte, nel 1862 le parti d’orchestra, nel 1864 una trascrizione per pianoforte a quattro mani curata dallo stesso Brahms, e solo nel 1873 la partitura e la riduzione “da studio” per due pianoforti. Oltre a Brahms e a Clara, tra i grandi pianisti del tempo soltanto Hans von Biilow e Alfredo Jaèll1 eseguirono però il Concerto in re minore, che ancora alla fine del secolo non era veramente entrato in repertorio. Harold Bauer, nato nel 1873, che scelse nel 1900 il pezzo per il suo esordio negli Stati Uniti, dice nella sua autobiografia (His Book, cit.) che questa sua decisione parve stravagante e non qualificante per chi ambiva ad una carriera internazionale. Alcuni dei grandi pianisti nati intorno al 1860 avevano in realtà eseguito il Concerto, o raramente (come Busoni) o molto spesso (come d’Al bert). Ma fu il grande successo del Secondo Concerto, che si delineò a fine secolo, a richiamare l’attenzione di tutti i pianisti sul Primo. E solo all’inizio del Novecento, in pratica, il Primo entrò veramente in repertorio. Abbiamo raccontato in modo particolareggiato le fasi successive del lavoro per far capire con quali dubbi e con quali difficoltà Brahms affrontasse la composizione di un concerto, e quanto contassero per lui i consigli di Joachim. Il fatto che il primo tempo venisse prima pensato come parte di una sonata per due pianoforti, poi di una sinfonia, trova qualche riscontro nella stesura finale, ed i problemi che Brahms affrontò a ventun’anni vennero in realtà da lui 1 Abbiamo già incontrato Jaèll come interprete del Concerto di Schumann e del Concerto ». 1 di Liszt; se ci occupassimo di Wagner troveremmo Jaèll fra i più assidui trascrittori e propagatori di pagine wagneriane. Nato a Trieste nel 1832, allievo a Vienna di Cerzny, residente per molti anni a Parigi dove morì nel 1882, Alfredo Jaèll fu tra gli interpreti culturalmente più consapevoli e più impegnati della seconda metà dello scorso secolo.
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risolti interamente a quarantanove, nel Secondo Concerto. Si ripetè, in un certo senso, l’esperienza di Liszt, che pensò al suo Concerto «.la diciannove anni e lo compì a quarantacinque. Ma gli aspetti non risolti dell’opera, specie, ripetiamo, del primo tempo, ben poco tolgono alla sua importanza storica e, ciò che ancor più conta, alla sua forza emozionale. Anzi, la relativa sproporzione, la relativa mancanza di dominio classico della materia fanno oggi vedere il Concerto op. 15 un po’ come un Primo Faust che, in fondo, ben poco ha da invidiare al Faust.
Si veda anche il commento alle pp. 69-71. CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE OP. 83 (N. 2) • Allegro non troppo (si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Allegro appassionato (re minore 3/4). □ Andante (si bemolle maggiore, 6/4). □ Allegretto grazioso (si bemolle maggiore, 2/4) — Un poco più presto.
• Eduard Marxsen. • 1881. • Budapest, 9 novembre 1881, pianista Johannes Brahms, direttore Alexander Erkel. • Simrock, Berlino 1882. • 2 fl. (II anche ott.), 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto op. 83 è considerato generalmente, oggi, come il più difficile concerto per pianoforte e orchestra, e per tale venne giudicato fin dalla sua prima apparizione. A parlare in senso rigoroso non si possono neppure far paragoni tra la difficoltà rispettiva di opere comunemente giudicate tra le più alte espressioni di un certo tipo di letteratura, di un genere. Certamente, alcuni concerti di Mozart, tutto sommato, sono difficili quanto il Secondo di Brahms. Ma sono difficili, per l’appunto, “tutto sommato”. In pratica, ad interpretare in modo adeguato alcuni concerti di Mozart arrivano tanti pianisti quanti ne arrivano ad interpretare il Secondo di Brahms. Però, molti sono i pianisti che tentano i concerti di Mozart, pochi quelli che tentano il Secondo di Brahms: il Secondo, cioè, presenta subito, ad apertura di libro, una somma di problemi tecnico-musicali di tale portata da scoraggiare fin dal principio chi non abbia la coscienza di possedere spalle molto e molto robuste. Come già abbiamo detto, la scrittura pianistica del Concerto op. 83 è difficile e poco redditizia dal punto di vista spettacolare. C’è almeno un altro concerto che, dal punto di vista della scrittura
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strumentale, è difficile ed ingrato quanto il Concerto op. 83 di Brahms: il Concerto op. 23 di Ciaikovsky. Però il virtuoso che si è impadronito del Concerto di Ciaikovsky può contare su un immedia to successo, mentre Pesecuzione puramente virtuosistica del Secondo di Brahms cade nell’indifferenza: anche un bambino s’accorge che, se è vero che ci sono le note, manca il più. Nel Secondo non basta neppure un pianista che, oltre alla virtuosità, possegga anche il cosiddetto “temperamento”. Con virtuosità e temperamento si arriva a rendere in modo passabile i primi due tempi del Concerto. Ma il terzo? Con quel violoncello che fa il vicesolista e in realtà s’accaparra il meglio? Qui il pianista di temperamento, mutatis mutandis, può ripetere ciò che il buon Sarasate diceva del brahmsiano Concerto per violino-. «Mi crede così insulso da accontentarmi di star sul podio col violino in mano senza suonare, mentre l’unica melodia dell’intero Adagio è affidata all’oboe?». Nell’Andante del Concerto op. 83 si trova a suo agio il pianista di modeste capacità meccaniche, che cura tutte le sottigliezze del tocco: questo pianista, come si dice, crea l’atmosfera nell"Andante ma non ce la fa con gli altri tre tempi, specie con il primo. E per quanto concerne il finale, se lo si affronta direttamente, anziché indirettamente, vivendolo come un’immagine immediata di un mondo anziché come immagine mediata attraverso la malinconia e il rimpianto, si mette su un pasticcio tra lo zingaresco e il sentimentaleggiante, e che si denuncia subito per tale. Concludendo (lapalissianamente). Il Secondo di Brahms è, nella vita musicale se non nella teoria dell’interpretazione, un pezzo che pretende imperiosamente un pianista in possesso di tutto quello che a un pianista si può chiedere; e perciò, in pratica, non è del tutto inesatto dire che si tratti del più difficile concerto esistente. Il Concerto op. 83 fu composto rapidamente nell’estate del 1881 (il tema del secondo tempo risaliva al 1878). Fu eseguito dall’autore stesso, sotto la direzione di Alexander Erkel, a Budapest: durante la stessa stagione concertistica, in tre mesi e mezzo, il Concerto fu presentato da Brahms in altre venti città2: il che ci dà un’idea di quale sviluppo avesse ormai raggiunto l’organizzazione delle società di concerti sinfonici. Pare che Brahms — il quale da anni non studiava il pianoforte, e 2 Stoccarda, Meiningen, Zurigo, Basilea, Strasburgo, Baden-Baden, Breslavia, Vienna (26.12), Lipsia (Ì.1.82), Berlino, Kiel, Amburgo, Munster, Utrecht, L’Aja, Rotterdam, Amsterdam, Arnheim, Francoforte sul Meno, Dresda (22.2).
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che d’altronde non era mai stato un pianista impeccabile — eseguisse la parte solistica del Concerto in modo quanto mai approssimativo. Di un’esecuzione successiva, di Brahms con Hans von Bùlow direttore, avvenuta a Vienna nel dicembre del 1884, abbiamo una recensione di Eduard Hanslick, che ammette certe insufficienze esecutive di Brahms, ed una scandalizzata reazione del giovanissimo Ferruccio Busoni (un altro giovanissimo, Eugène d’Albert, anche lui presente alla serata, scrisse però alla famiglia dicendo di aver trovato in Brahms un pianista migliore di quel che pensava). Brahms non fu quindi, probabilmente, il primo grande interprete del suo Concerto, al contrario di quanto si può dire di Chopin o di Liszt, o magari di Bartók o di Prokofiev. E non sappiamo se il von Bùlow, grandissimo pianista oltre che direttore d’orchestra tra i maggiori, eseguisse o no, in altre occasioni, la parte solistica del Concerto op. 83. I primi pianisti già in camera che si impegnassero nel Secondo di Brahms furono due tedeschi residenti a Londra, Charles Hallé e Oscar Beringer (quest’ultimo tenne la “prima” a Londra nel 1882). Raphael Joseffy, nato nel 1852, presentò il Concerto negli Stati Uniti. Poi arrivarono i giovani: Eugène d’Albert, che eseguì più volte il Secondo sotto la direzione di Brahms, Moriz Rosenthal, Alfred Reisenauer, Frédéric Lamond, Leopold Godowsky e, tra le donne, Fanny Davies e Adele Verne; la pianista tedesca Adele aus der Ohe e l’australiano Ernest Hutcheson eseguirono spesso il Secondo negli Stati Uniti3. Nel periodo fra le due guerre i più celebri interpreti del Secondo furono Schnabel, Backhaus, Fischer, Horowitz, specialmente “in coppia” con certi direttori. I binomi Schnabel-Walter, Backhaus-Bòhm, FischerFurtwàngler, Horowitz-Toscanini divennero celebri, e si può dire che abbiano segnato alcuni momenti tipici nella storia dell’interpre tazione del Concerto. Nel dopoguerra si segnalarono soprattutto Serkin e Rubinstein, più tardi Gilels, Richter, Arrau, e più tardi ancora Ashkenazy, Pollini, Zimerman. Gli schemi formali del Concerto op. 83 sono quelli classici, con l’aggiunta di un secondo tempo in forma di scherzo (Brahms non intitola il pezzo come Scherzo, ma parla di «un piccolo Concerto con un piccolo Scherzo» in una lettera nella quale annuncia all’amica 3 Nell’unica istituzione sinfonica italiana, l’Accademia di Santa Cecilia, che iniziò la sua attività nel 1895, il Secondo fu eseguito per la prima volta solo il 13 febbraio 1910, con il pianista Adriano Ariani e sotto la direzione di Georg Schnéevoigt.
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Elisabeth von Herzogenberg la nascita del lavoro). Primo tempo con due gruppi tematici principali (non si può parlare di temi ma, data la complessità, di gruppi tematici) e con esposizione, sviluppo e riesposizione; la vastità dell’impianto rende non del tutto evidente la percezione della forma, all’audizione, ma lo schema è in realtà semplicissimo: Brahms inizia con un episodio a fantasia (che ritornerà nella riesposizione), quindi fa esporre all’orchestra una parte del materiale tematico, cioè la parte che considera preminente, essenziale; completa è la seconda esposizione, con il pianoforte, orientata alla conclusione verso la tonalità di fa minore invece che verso fa maggiore. La conclusione dell’esposizione, con il trillo del pianoforte, richiama nettamente i modelli classici, e classico è il tacet del pianoforte all’inizio dello sviluppo; il collegamento sviluppo-riesposizione è invece diretto, senza interruzione della parte pianistica, ma la divisione strutturale può essere colta anche semplicemente all’audizione. Riesposizione molto abbreviata, orientata verso il si bemolle minore invece che verso il si bemolle maggiore. Il si bemolle maggiore ricompare all’inizio della coda, che è più breve di quanto ci si aspetterebbe e senza inserimento di cadenza. Il secondo tempo è un amplissimo scherzo in re minore con trio in re maggiore. La forma dello scherzo è però ellittica rispetto alla norma perché manca in pratica la riesposizione; ellittici anche il trio e la ripresa dello scherzo, cosicché il paradosso di Brahms — «un piccolo Scherzo» — non è poi proprio un paradosso perché rispetto all’imponenza del materiale tematico che vi è impiegato il secondo tempo non assume dimensioni che turbino l’equilibrio complessivo del Concerto. Il terzo tempo è basato su una melodia liederistica, esposta dapprima dal primo violoncello solista. Subito e ampiamente sviluppato, il primo tema esaurisce la prima parte, che si lega ad una brevissima parte intermedia in fa diesis maggiore (invece che in fa maggiore); la riesposizione inizia in fa diesis maggiore per slittare poi subito al si bemolle maggiore, ed è anch’essa breve. Brahms adotta in realtà, più che la classica forma della canzone (primo tema, secondo tema, primo tema), la forma dello studio (tema, sviluppo, tema), inserendo un episodio contrastante tra lo sviluppo e la riesposizione. L’ultimo tempo è un rondò-sonata, cioè un rondò a cinque episodi in cui il terzo tema è sostituito da uno sviluppo del primo. Brahms lavora sugli schemi classici senza mai alterare le proporzioni tra temi e sviluppi, ma servendosi, invece che di temi brevi ed
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icastici come quelli di Beethoven, di gruppi tematici molto ricchi e molto variati al loro interno. L’ultima esposizione del tema principale, brevissima, sfocia in una brillante coda in movimento accelerato, basata sempre sul tema principale.
Si veda anche il commento alle pp. 93-97.
CAMILLE SAINT-SAÈNS (Parigi, 9 ottobre 1835 — Algeri, 16 dicembre 1921)
CONCERTO IN SOL MINORE OP. 22 (N. 2) • Andante sostenuto (sol minore, senza indicazione di metro, poi 4/4). □ Allegro scherzando (mi bemolle maggiore, 6/8). □ Presto (sol minore, 2/2).
• Madame A. de Villers. • 1868. • Parigi, 13 maggio 1868, pianista Camille Saint-Saèns, direttore Anton Rubinstein. • Parigi, Durand 1868. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., tp., pere., archi.
Come abbiamo già accennato nella prima parte, Saint-Saèns scrisse il Concerto in sol minore perché Anton Rubinstein, sommo pianista ma anche amante della bacchetta, lo aveva invitato a prender parte al suo esordio parigino di direttore. Saint-Saèns aveva scritto dieci anni prima il Concerto n, 1, ed all’esordio di Rubinstein mancavano meno di tre settimane. Sarebbe stato del tutto scusabile un semplice riciclaggio del già collaudato Concerto n, 1. E SaintSaèns mise in programma il Concerto n. 1. Ma, guasconescamente, aggiunse: «Ebbene, per la circostanza scriverò un concerto». Guasconescamente, diciamo. Non lo avremmo detto per Mozart, al quale bastava anche meno tempo per scrivere un concerto. Dopo la metà dell’ottocento le cose andavano però altrimenti, e SaintSaèns, indubbiamente, la sparava grossa. La frase che abbiamo citato figura nella biografia di Saint-Saèns di Jean Bonnerot, pubblicata nel 1914 e, quindi, vivente il biografato. C’è dunque da ritenere che la guasconata fosse proprio una guasconata. Una guasconata che Saint-Saèns dimostrò del resto di saper reggere. Alla “prima” il Concerto non ottenne molto successo (SaintSaèns disse di averlo suonato male): il più favorevole dei critici, Albert l’Hóte, scrivendo nella «France musicale» del 16 maggio lodò
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Saint-Saèns: Concerto op. 22
senza riserve lo scherzo, non disapprovò il primo tempo e non nominò neppure il finale, premettendo che «il Concerto [...] non può esser ritenuto un’opera completa». Liszt, quando ricevette il Concerto stampato, scrisse però a SaintSaèns, da Roma, dicendo: «La forma è nuova e felicissima. L’interesse dei tre pezzi va in crescendo» (19 luglio 1869). Quindi, da un pulpito di quella fatta veniva una valutazione ben più ammirativa, e che non escludeva il finale. Semmai, Liszt aveva qualcosina da eccepire sul secondo tempo e faceva persino un esempio di come si sarebbe potuto rendere più interessante un certo particolare. Liszt diceva anche di aver fatto ascoltare il Concerto a Giovanni Sgambati, il quale aveva intenzione di eseguirlo a Roma (non sappiamo se lo eseguì davvero)1. Le esecuzioni non furono subito numerose, ma il Concerto entrò in repertorio e alla fine del secolo era popolarissimo; nel nostro secolo, sia pur senza troppo brillare, dal repertorio non è più uscito. Fu il pianista-compositore polacco Sigismond Stojowski a dire che il Secondo di Saint-Saèns comincia con Bach e finisce con Offenbach. Comincia con due pagine per il pianoforte solo, senza indicazioni di metro e con un ad libitum che dà all’interprete la più grande libertà e la più grande responsabilità. Sono due pagine che senza dubbio sembrano guardare a Bach e che ne accostano diversi aspetti: la toccata organistica, il preludio violoncellistico, l’“ arpeg gio” violinistico2. Hàndeliana, più che bachiana, è la successiva entrata dell’orchestra. Però arriviamo subito dopo all’ampia melodia accompagnata esposta dal pianoforte. E poco importa se si tratti o no del tema di un Tantum ergo che Gabriel Fauré, allievo di composizione di SaintSaèns, aveva presentato al Maestro e di cui il Maestro si era impadronito (con i complimenti dell’allievo). Forse si tratta davvero di un tema di Fauré per un compito di musica sacra. Ma viene usato 1 La prima esecuzione in Italia di cui si abbia sicura notizia è quella del 15 maggio 1879, alla Società del Quartetto di Milano, con Saint-Saèns al pianoforte e sotto la direzione di Carlo Andreoli. Il giorno dopo, il 16, Saint-Saèns eseguì il Concerto n. 4.
2 Saint-Saèns disse a Georges Servières, molti anni più tardi, che il Concerto «avrebbe da principio dovuto esser scritto per pianoforte con pedaliera». Negli anni 60, a Parigi, Charles-Valentin Alkan usava il pianoforte con pedaliera anche per eseguire musiche organistiche di Bach; ed è quindi probabile che Saint-Saèns avesse pensato ad una citazione stilistica su uno strumento usato in concerto per la musica antica.
Saint-Saens: Concerto op. 22
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in un modo che prefigura le più tardive nostalgie dell’operista SaintSaèns per il Rinascimento francese. La boutade di Stojowski è divertente e suggestiva. A noi non sembra però azzeccata del tutto. La rievocazione del primo tempo è genericamente arcaica, più che bachiana, ed inclina verso il mito della Francia splendente che va dai tempi di Francesco I ai tempi di Luigi XIV. Un mito che nella cultura francese esploderà veramente più tardi, dopo la sconfitta del 1870, ma che non viene creato dalla sconfitta perché già serpeggia prima nella intellighenzia parigina di cui Saint-Saèns fa parte. Non c’è bisogno del terzo tempo, per trovare la silhouette di Offenbach: basta il secondo tema dell’Allegro scherzando (il primo tema guarda semmai a Berlioz e forse a Meyerbeer). Con un tema di scherzo ed un tema di operetta Saint-Saèns non costruisce però uno scherzo con trio ma un allegro in forma-sonata. Ed è questa la miglior dimostrazione di indipendenza intellettuale dalla cultura tedesca. C’erano tre giovani compositori francesi che negli anni 50 e 60 scrivevano concerti per pianoforte: Auguste Dupont, Georges Pfeiffer, Camille Saint-Saèns. Al contrario degli altri due, e malgrado le tante cose che aveva evidentemente imparato da Mendelssohn e da Litolff, Saint-Saèns dimostra di essere un musicista di cultura nazionale. L’ultimo tempo non sembra a noi affatto offenbachiano. E una tarantella, travolgente come tutte le tarantelle che si rispettano. Tuttavia, Saint-Saèns si serve di un tema di tarantella per costruire anche questa volta una forma-sonata, il cui secondo tema, con il suo trillo e la sua uniformità ritmica, è assai più arcaicizzante che operettistico. La parte centrale, lo sviluppo, diventa ben presto un divertimento, piuttosto lungo e “scolastico” pur nella sua leggerezza di tratto, sul secondo tema: nell’economia del finale il secondo tema acquista così un peso considerevole e controbilancia la tarantella. La coda, che è ampia e molto brillante, viene introdotta da uno scampanio di accordi, ripetuto tre volte ad altezze diverse. Gli accordi vengono qui impiegati da Saint-Saèns in senso timbrico, cioè per creare una sonorità caratterizzata come quella delle campane senza bisogno di aggiungere in orchestra le campane vere. Ed è una grande invenzione, che continua a mantenere il richiamo arcaico in una composizione tutta giocata nel contrasto tra Pieri e l’oggi, tra un passato nobile e un presente frivolo. La misura del gusto è perfetta, la lucidità intellettuale è lancinante. Il secolo scorso guardò alla prima, il nostro non ha forse guardato ancora abbastanza alla seconda.
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Saint-Saèns-. Concerto op. 44
CONCERTO IN DO MINORE OP. 44 (N. 44) • Allegro moderato (do minore - do maggiore, tempo ordinario) — Andante (la bemolle maggiore). □ Allegro vivace (do minore, 2/4) — Andante (tempo ordinario) — Allegro (do maggiore, 3/4). • Anton Door. • 1875. • Parigi, 31 ottobre 1875, pianista Camille Saint-Saèns, direttore Édouard Colonne. • Durand, Parigi 1877. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., 3 trb., tp., archi.
Il Concerto n. 4, scritto da un compositore di quarantanni che aveva superato anche la «mancanza di inesperienza» rimproveratagli alcuni lustri prima da Berlioz, ripagò ampiamente Saint-Saèns dell’insuccesso del Concerto n. 3 (si veda alle pp. 85-86). Saint-Saèns lo dedicò ad un noto pianista di Vienna, Anton Door, che eseguiva molti lavori nuovi. Più tardi il Quarto fu scelto addirittura da Paderewski, che di concerti ne suonava pochi e che era un pianista leggendario; il Concerto n. 4 ebbe così una lunga vita e fu splendidamente eseguito tra le due guerre da Cortot e da Casadesus, le cui interpretazioni sono rimaste fissate nel disco. Ma oggi è pressoché sconosciuto. A parer nostro non merita l’oblio in cui, per lo meno in sala di concerto, è caduto, perché Saint-Saèns è un inventore di forme, capace di reggere il paragone con Liszt, che con il Quarto riesce ad immaginare un’architettura di un equilibrio e di un’originalità quasi miracolosi. Il Concerto è in due tempi, ma più che in tempi è diviso in parti: due parti (due atti), ciascuna formata da più tempi (scene). SaintSaèns disse in un’intervista che i suoi concerti andavano interpretati così come si interpreta un “ruolo”. Nel Quarto la divisione in atti e in scene si riconosce facilmente, e la teatralità, implicita sempre nel concerto dell’ottocento ma, in genere, in modo sublimato, qui appare palese. La divisione in atti anziché in tempi è del resto accentuata dal fatto che gli stessi temi ricorrono nella prima e nella seconda parte e che, quindi, la seconda parte non presenta quasi nulla di nuovo ma piuttosto le trasformazioni, le peripezie di ciò che è già noto. Insieme con questo aspetto di forte teatralità colpisce, nella costruzione del Quarto, l’uso di procedimenti scolastici a cui SaintSaèns ridà vita artistica. Il modo di esporre il primo tema sembra infatti da trattato di composizione. Primo tema a modo di marcia, in
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due sezioni di otto battute ciascuna. Saint-Saèns comincia ad esporlo come “canto dato”: 1) prima sezione all’orchestra, come canto con accenni di armonizzazione; 2) prima sezione al pianoforte come canto armonizzato a quattro voci; 3) e 4) seconda sezione, idem. Poi il “canto dato” diventa “basso dato” ed è esposto come tale dall’orchestra, armonizzato a tre voci. La ripetizione del pianoforte, che come prima si alterna con l’orchestra, è però stilisticamente diversissima: il pianoforte riespone di nuovo il tema come canto dato... ma nello stile del violinismo romantico-paganiniaQo. E un colpo di scena (e un colpo di genio) che muta di colpo il panorama dotto e un po’ professorale e sussiegoso nel quale ci trovavamo immersi. E l’effetto di straniamente che ne deriva ci porta di botto verso un teatro surreale che a noi ricorda certe dispute al limite del nonsense che si trovano nelle commedie di Feydeau. Nella successiva presentazione del tema Saint-Saèns fa ricorso ad un altro vetusto armamentario del contrappunto scolastico, la “sincope”, e conclude così l’esposizione. Si è trattato, in pratica, di un tema con due variazioni, che lontanamente ricorda il finale del Concerto K 491 di Mozart. Lo spirito con cui Saint-Saèns si muove non è però minimamente, come abbiamo cercato di spiegare, neoclassico. Siamo piuttosto nell’ambito di un uso surrealistico della grammatica, di un modo di procedere da grande umorista che fa diventare spettacolo le astrazioni normative del linguaggio. E a questo punto Saint-Saèns introduce una micidiale freddura finale, facendo apparire per un momento un temino burattinesco che tornerà molto più avanti. Con un effetto di dissolvenza in do maggiore si conclude V Allegro moderato. Con l’effetto opposto viene preparato l’Andante in la bemolle maggiore, bitematico, con un tema di corale, dolcissimo, e con un tema molto espressivo, quasi recitativo, che segue e commenta il corale. La “situazione” che subito viene richiamata alla memoria è quella della Marcia dei pellegrini dell’71ro&/o in Italia di Berlioz, o anche dell’ultimo atto del Tannhauser. E comunque una scena di contrasto tra una massa e una persona, condotta da Saint-Saèns con un senso del teatro strumentale — o della musica strumentale come teatro — che ha dello sbalorditivo e che non si chiude con il prevedibile ritorno dell’inizio. Con la conclusione nella tonalità di la bemolle maggiore, scélta in funzione di un colore timbrico, vengono a mancare nella prima parte e la simmetria del ritorno della tonalità iniziale e la simmetria del
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ritorno del tema iniziale. Nella musica sinfonica — non nel melodramma — non si era ancora visto nulla del genere: Saint-Saèns sa in realtà far ricorso, riuscendo nell’intento, ad una logica formale sconosciuta alla classicità, che è quella del racconto e della successione di situazioni e di atmosfere. Nei confronti delle forme simmetriche della musica sinfonica si crea una tensione che raramente viene colta come tale ma che in realtà provoca spesso una delusione. La forma è aperta nella prima parte e si proietta verso una simmetria inattesa e sorprendente — come un arco classico che non si iscrive in una sezione di cerchio — con l’inizio della seconda parte. Ma la sensibilità formale degli esecutori e degli ascoltatori dev’essere molto sviluppata, ed i solchi del disco — il Concerto è assai più noto discograficamente — non ne favoriscono di certo la percezione. La seconda parte (atto) è suddivisa in tre tempi (scene). Il primo tempo, in forma-sonata, è uno scherzo in ritmo binario che riprende il temine episodico della prima parte facendolo diventare un’intro duzione, e che si basa poi sul primo tema della prima parte e su un altro tema nuovo. Ed è questo secondo tema, nuovo, che fa ricomparire in scena il “leggero” e Offenbach. Anche in questo caso Saint-Saèns conclude il tempo con una dissolvenza e riprende — Andante — il tema-recitativo della prima parte, citando nel contesto il corale. Malgrado l’espressività estre ma, il brano (l’ascoltatore se ne accorge facilmente) è arcaicizzante, con andamenti di antico fugato che si sovrappongono ad accompagnapienti sincopati da melodramma. E come se il sipario si fosse chiuso sulla dissolvenza dell’Allegro vivace e, a sipario chiuso, l’orchestra preparasse con un intermezzo sinfonico il cambio di scena. Commentando il Concertstiick di Weber avevamo già accennato ad un tipo di costruzione di questo genere. Mentre in Weber si può però pensare ad un soggetto, ad una musica a programma, in Saint-Saèns abbiamo una costruzione senza soggetto, calcolata su una tipologia astratta dal melodramma. E se un paragone è possibile bisogna semmai farlo, a parer nostro, con la struttura della Petite Messe solemnelle di Rossini, scritta nel decennio precedente. Non sarebbe facile, e non sarebbe qui il luogo per analizzare i rapporti tra l’estetica del tardo Rossini e l’estetica del Quarto di Saint-Saèns. Basterà osservare che Saint-Saèns frequentava il salotto di Rossini e che la Petite Messe solemnelle era stata, per i musicisti di Parigi, un grande avvenimento e una grande lezione. Si tratterebbe di studiare l’estetica di Rossini non solo come rifugio di un creatore
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staccatosi dalla società e intento a crearsi un suo mondo immagina rio, ma come contributo primario alla cultura manieristica francese. In tal senso ci sembra che il Quarto Concerto rappresenti quanto di più “rossiniano” si ritrovi nella musica di fine Ottocento. Andante, dicevamo, media teatralmente il passaggio al conclusi vo Allegro in do maggiore, in cui il tema di corale della prima parte viene trasformato in inno. L’inno come scioglimento di tutti i contrasti, come finale colpo di scena teatrale — non come risoluzione di un dramma — prolungato e goduto e celebrativo. Nessuno sviluppo ma molte strofe appena variate, qualche episodio di pura esaltazione virtuosi stica e una perorazione brillantissima con anche quel tanto, alla fine, di musica indifferente che in teatro serve per calare il sipario. Abbiamo molto insistito sul carattere teatrale del Concerto. E il carattere che distingue Saint-Saèns dai suoi contemporanei, in particolare da Brahms, e che attraverso Saint-Saèns distingue in questo campo la civiltà francese dalla civiltà tedesca. Civiltà antagonistiche, che da Saint-Saèns furono sentite come antagonistiche. Si potrà discutere quale fosse la portata storica della personalità di Saint-Saèns. Però la sua arte, e questo Concerto in particolare, rendono ragione del fatto che un uomo come lui coltissimo, un musicista che negli anni 50 aveva conosciuto a fondo e ammirato senza remore Wagner, diventasse poi ferocemente antiwagneriano. L’ossessione di Saint-Saèns per un’arte francese presenta anche, e ancor più presenterà aspetti reazionari e chiusure mentali al limite della cecità. Nel Quarto Concerto Saint-Saèns non deve però alla cultura tedesca, in senso ideologico, nulla di decisivo, ed il suo stile, maturato attraverso la crisi del Concerto n. 3, è del tutto formato, originale, senza confronti nel concerto tardoromantico. CONCERTO IN FA MAGGIORE OP. 103 (N. 5) • Allegro animato (fa maggiore, 3/4). □ Andante (re minore, 3/4) — Allegretto tranquillo, quasi andantino (sol maggiore, 2/4) — Poco più mosso (fa diesis maggiore) — Andante (re minore, 3/4). □ Molto allegro (fa
maggiore, 2/4). • Louis Diémer. • 1896. • Parigi, 2 giugno 1896, pianista Camille Saint-Saèns, direttore Paul Taffanel. • Durand, Parigi 1896. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tp., pere., archi.
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Dopo aver composto nel 1875 il Concerto n. 4, e dopo aver visto rappresentata nel 1877 a Weimar, a conclusione di lunghe vicissitu dini, l’opera Sansone e 'Dalila, negli anni 80 Saint-Saèns rallentò la sua attività di pianista-compositore e si dedicò con passione al teatro Etienne Marcel, 1879; Henry Vili, 1883; Proserpine, 1887; Ascanio, 1890; Phryné, 1893; Frédégonde, 1893). La composizione della Rapsodie d1Auvergne (1884) e di Africa (1891)3 cade incidentalmente nella sua attività creativa. Ma nel 1896, per celebrare il cinquante nario del suo esordio di concertista, Saint-Saèns si impegna a scrivere e ad eseguire un nuovo concerto. Doveva già averci pensato nel 1894, perché è stato ritrovato un suo schizzo per il primo tempo, con l’indicazione «faite aux Canaries deux ans avant». Il Concerto n. 3 fu però veramente affrontato e condotto a termine nell’inverno del 1896 a Luxor (Saint-Saèns andò spesso a “svernare” in Africa; e perciò morì ad Algeri). Saint-Saèns aveva ormai toccato il culmine della fama. Nel 1895 il Sansone e Dalila era, stato eseguito con grande successo alla Scala e l’editore Sonzogno, appaltatore delle stagioni scaligere e proprieta rio del repertorio francese moderno, aveva scelto V Henry Vili per l’inaugurazione 1895-96. Il 26 dicembre andò in scena l'Enrico Vili, in traduzione italiana, il 4 gennaio tornò sulla scena della Scala il Sansone. Nove recite dell'Enrico, dodici del Sansone. Saint-Saèns si fermò a Milano per alcuni giorni in gennaio, poi si recò in Egitto. Ripassò da Milano in maggio, al ritorno dall’Egitto, tenendovi due concerti, il 6 e 1’8, alla Società del Quartetto. Il programma del concerto del giubileo fu accuratamente dosato. Come cinquantanni prima si cominciò con l’ouverture delle Nozze di Figaro, e come cinquantanni prima Saint-Saèns eseguì il Concerto K 430 di Mozart; con il suo vecchio amico Pablo de Sarasate presentò la Sonata n. 2 op. 102 per violino e pianoforte composta in Egitto; al grande flautista Paul Taffanel, che dirigeva, fece eseguire la Romanza op. 37; al centro collocò il Concerto n. 3. Non basta: in omaggio all’amico-nemico Massenet eseguì una parafrasi sulla Morte di Thais (contraltare francese alla Morte di Isotta?). E per di più, essendo in realtà, malgrado il pessimo carattere e la lingua biforcuta, candido quanto il pére Franck, nell’intervallo si presentò emoziona3 Saint-Saèns usa il termine latino, non il termine italiano. A quel tempo i linguisti italiani consigliavano la forma Affrica e consideravano Africa, in italiano, come riprovevole francesismo.
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tissimo a recitare una sua epistola in versi nello stile delle favole di La Fontaine. Comincia così: Cinquante ans ont passé depuis q’un gar$onnet De dix ans, délicat, frèle, le teint jaunet, Mais confiant, naif, plein d’ardeur et de joie, Pour la première fois sur cette estrade, en proie Au demon séduisant et dangereux de Part, Se mesurait avec Beethoven et Mozart.4
La critica, che non era stata invitata ma che era intervenuta in massa, si buttò sul ditirambo e per il Concerto n. 5 trovò paragoni persino imbarazzanti: «È del Rubens, del Raffaello, del Michelange lo, perché vi si trovano la fantasia, la grazia e la possanza» (citato da A. Dandelot, La Vie et l1Oeuvre de Saint-Saèns, Parigi 1930). Troppa grazia... Ad eseguire il Concerto, dopo Saint-Saéns, fu Louis Diémer al quale è dedicato. Ma tra i maggiori concertisti dell’inizio del nostro secolo un solo, Ferruccio Busoni, lo mise in repertorio, eseguendolo nel 1902, riprendendolo parecchie volte e includendolo nel ciclo di programmi che tenne a Zurigo nel 1918 per illustrare la storia del concerto per pianoforte e orchestra5. All’amico Silvio della Valle di Casanova che gli scriveva esprimendo dubbi sull’importanza storica del Quinto di Saint-Saèns (e del Quinto di Rubinstein), Busoni rispondeva: «Il Concerto di Rubinstein (in mi bemolle) rozzamente grandioso, presenta un tipo pianistico speciale. Non posso ammette re, che quello di Saint-Saèns (in fa) sia, come Ella dice, senza complimenti, “assolutamente insipido”; anzi io lo stimo squisito e curioso» (F. Galiini, Busoni negli anni della prima guerra mondiale: contributo di un carteggio inedito, in «Musica Università», 23 dicembre 1966). La storia del concertismo dal primo dopoguerra ad oggi non ha dato ragione a Busoni ma al marchese Della Valle di Casanova: né il Quinto di Rubinstein è rientrato nel repertorio, né vi è mai entrato il Quinto di Saint-Saèns. Ma ciò non significa che Busoni avesse torto in assoluto. E, come già abbiamo detto nella parte generale, 4 Passaron cinquant’anni da quando un ragazzino / Di diec’anni, sottile, gracile, un po’ giallino / Ma fiducioso, ingenuo, pien d’ardore e di gioia, / Su questo palco istesso, la prima volta, in preda / Al dimon seducente, periglioso dell’arte / Se stesso misurava con Beethoven e Mozart. 5 Questo è il secondo ciclo del genere tenuto da Busoni, ed è poco noto. Molto noto è invece il primo, a Berlino nel 1898.
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sebbene un solo grandissimo pianista abbia scelto dopo di lui il Quinto, quel pianista si chiama Richter. Leggendo il primo tempo si capisce immediatamente perché il Concerto piacesse al Busoni che stava per formulare le sue teorie sulla “Giovane Classicità”. Sapiente sfruttamento di mezzi della tradizione sottoposti ad un vaglio severo, scrittura lineare e trasparente, forme “solide e belle”, assenza di pathos romantico. Il primo tempo del Quinto Concerto risponde in gran parte alle future teorizzazioni di Busoni ma risponde anche, curiosamente, alla poetica del Debussy che nel 1889-90 aveva scritto la 'Fantasia per pianoforte e orchestra e che nel 1896 aveva già messo sulla carta le idee della Suite bergamasque. Se invece di considerarlo come opera di un Saint-Saèns sessantunenne noi lo guardassimo come opera di un Debussy a mezzo del cammino, il primo tempo del Quinto — e anche il secondo, e il terzo appena un po’ di meno — ci apparirebbe come punto di partenza della musica francese verso il futuro. Nel primo tempo Saint-Saèns non rinnega la forma-sonata, ma ne neutralizza l’immanente drammaticità spostando il secondo tema, che è contrastante con il primo, alla fine dell’esposizione, e rendendolo in tal modo episodico. Poco dopo l’inizio dello sviluppo Saint-Saèns introduce un nuovo tema con l’indicazione appassionato, che rompe subito la tradizionale progressione verso il punto culminante; e tutto lo sviluppo prende l’aspetto di un’altra, diversa esposizione. L’ambiguità di questa soluzione formale viene poi ulteriormente accentuata in un’ampia coda che non ha carattere di perorazione ma di ricapitolazione dello sviluppo, e in cui ricompare puntualmente il tema appassionato. Dappertutto si insinua poi il ritmo lieve del valzer, con una scrittura del pianoforte e dell’orche stra di una leggerezza e di una grazia ancor più lievi di quelle di Mendelssohn. La costruzione del primo tema, che dà al primo tempo il suo carattere di fondo, può essere considerata come un modello di poesia popolaresca rivisitata da un parnassiano. La ritmica è basata su due formule elementari: 1) due suoni e un silenzio, 2) tre suoni. La concatenazione è piatta, cantilenante, ma con una sorpresa finale che fa sobbalzare l’ascoltatore e che rivela la raffinatezza del calcolo: 1, 1, 2, 1; 1, 1, 2, 1; 1, 1, 2, 1; 2, 1, 2, 1. Anche le tensioni dell’armonia risultano appiattite. Il modalismo fa capolino qua e là, e il pianoforte conclude il tempo con una cadenza sesto grado-primo grado (cara al giovane Debussy) con risoluzione sul secondo rivolto, a cui l’orchestra risponde con due accordi di primo grado, il primo in primo rivolto, il secondo in
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posizione fondamentale. Se si guarda alla parte di soprano si immagina un’armonizzazione con due cadenze, la prima con nona di dominante, la seconda con settima di dominante. Saint-Saèns inventa invece una conclusione che, sebbene non elimini le due tensioni-distensioni, le limita però ad una increspatura appena avvertibile. Dopo questa scena ambientabile nei Campi Elisi, il secondo tempo ci trasporta sulle rive del Nilo e ci dà ragione del titolo L'Egiziano con cui il Concerto è noto. La citazione di una melodia nubiana (Allegretto tranquillo, quasi andantino) che Saint-Saèns disse di aver ascoltato dai barcaioli del Nilo, non esce se non... geograficamente dalle prospettive del giovane Liszt che citava una canzone veneziana ascoltata da un gondoliere. Saint-Saèns ha però da esporre, oltre alla canzone, ritmi e scale che l’Europa aveva orecchiato solo un po’ attraverso la musica spagnola. O meglio, a noi il secondo tempo del Concerto fa ritornare alla memoria Albeniz, Granados e Falla, soprattutto Falla. Ma nel 1896 Albeniz, Granados e Falla erano ancora di là da venire, e della musica andalusa l’Europa conosceva appena qualche tratto caratteri stico. Saint-Saèns compone un quadro fortemente esotico, una summa dell’esotismo di una potenza coloniale come la Francia. Un quadro, dunque, molto variegato, in cui la musica araba, la musica nubiana e il gracidio delle rane (Poco più mosso) vengono accostati alla musica cino-vietnamita e a un po’ di nostalgia della patria, persino con un piccolo canone infantile su un temino da Ue-de-France. Saint-Saèns compone il quadro, sia con l’uso di elementi lingui stici sia, più ancora, con geniali invenzioni di strumentazione. Nella parte del pianoforte troviamo addirittura, in due momenti, dei timbri artificiali costruiti mediante bicordi paralleli sovrapposti ad una melodia ed eseguiti in pianissimo, mentre la melodia è indicata mezzoforte. Dal punto di vista armonico si tratta di politonalità; però l’effetto acustico consiste nella modificazione del timbro del pianoforte e nella creazione di un facsimile di marimbaphone. E ciò nel 1896! Parlando di “impressionismo” bisognerebbe sempre ricordarsi di Saint-Saèns e dell’Egiziano... Il terzo tempo, come già abbiamo detto nella parte generale, è operettistico e parigino, degno della città che ospitava VExpo e che sapeva divertire gente capitata nei suoi teatri da tutto il mondo. Dal finale del Quinto Concerto si capisce anche molto bene cosa intendesse dire Ravel quando citava, a proposito del suo Concerto in sol, Saint-Saèns: se il finale del Concerto in Sol è lo specchio della
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Parigi anni 20, il finale del Quinto Concerto è lo specchio altrettanto terso della Parigi fin de siècle. Della Parigi, si capisce, che nell’uno e nell’altro caso predicava il diritto al piacere... Bisognerebbe ricordare che Saint-Saèns era stato preceduto da Chabrier, dal Cortege burlesque che con gusto ancor più canaille rifaceva la musica d’uso. Però Saint-Saèns è parnassiano anche quando prende a prestito i modi dell’operetta, del vaudeville e della musica da ballo, ed è distintissimo anche nella battuta salace. Il suo Egiziano non solo è il più grande dei suoi concerti. E qualcosa di meglio: è il più grande concerto degli anni 90. Saint-Saèns, oltretutto, è il virtuoso di scuola antica che sa tener testa ai giovani leoni russi e tedeschi: il finale del Quinto è di una difficoltà tecnica altissima. Celebrando mezzo secolo di carriera, un vecchio pianista che in fondo s’era occupato solo di Mozart, oltre che di se stesso, scrive un pezzo in cui dapprima dimostra (primo tempo) che sia l’eleganza della scuola di Kalkbrenner e di Stamaty, poi fa vedere (secondo tempo) che sia il colore. Sono le cose che i vecchi affinano a mano a mano che le forze si fanno meno esuberanti. Ma nel terzo tempo del Quinto ci vogliono spavalderia, audacia, gusto del rischio, colpo d’occhio: le cose dei giovani. Saint-Saèns è pianista-compositore così come Molière era attore-commediografo. E per celebrare in gloria i suoi cinquantanni di carriera ha immaginato tre atti unici con cui dimostra al mondo d’esser pur sempre adatto a fare l’attor nobile, a fare l’amoroso, a fare il brillante, cioè d’esser pur sempre degno della professione e di saperla sostenere senza chiedere indulgenze a nessuno. Accade nel 1896: non accadrà mai più.
PIOTR CIAIKOVSKY (Kamsko-Votkinsk, 7 maggio 1840 — S. Pietroburgo, 6 novembre 1893)
CONCERTO IN SI BEMOLLE MINORE OP. 23 (N. 1) • Allegro non troppo e molto maestoso (si bemolle minore, 3/4) — Allegro con spirito (si bemolle minore - si bemolle maggiore, tempo ordinario). □ Andantino simplice (sic) (re bemolle maggiore, 6/8) — Allegro vivace assai (fa maggiore) — Tempo I (re bemolle maggiore). □ Allegro con fuoco (si bemolle minore, 3/4) — Poco più mosso — Molto meno mosso (si bemolle
maggiore). • Hans von Biilow. • 1874-1875. • Boston, 25 ottobre 1875, pianista Hans von Biilow, direttore Benjamin J. Lang. • Jurgenson, Mosca 1879. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tp., archi.
Come abbiamo già visto nella parte storica, nell’ultimo trenten nio del Settecento e nei primi settantanni circa dell’ottocento, periodo che corrisponde al primo secolo di storia del concerto per pianoforte e orchestra, pochissimi compositori scrissero concerti senza essere in grado di eseguirli, e quindi non (principalmente) per loro uso personale. La simbiosi compositore-esecutore era tanto stretta che Schubert, pianista da camera e creatore sommo di musica pianistica, ma non-virtuoso dello strumento, non scrisse concerti. E delle particolari circostanze che permisero a Schumann, non virtuoso, di ottenere successo con il suo Concerto, abbiamo già detto. Quando Ciaikovsky, giovane sulla trentina, cominciò a pensare di scrivere un concerto per pianoforte e orchestra, i più celebri pianisti-compositori in attività erano Anton Rubinstein, suo conter raneo e suo maestro, Carl Reinecke, Camille Saint-Saèns; i non pianisti, che avevano composto con buon successo un concerto
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ciascuno, erano Edvard Grieg, Hermann Goetz, Robert Volkmann. Ciaikovsky aveva sì studiato il pianoforte, e con un Anton Rubinstein, ma non aveva mai raggiunto un grado di bravura tale da segnalarlo come pianista. E la vita musicale russa, dominata da Anton Rubinstein e da suo fratello Nicolai, entrambi formidabili pianisti, non sembrava offrire spiragli per chi non avesse saputo conjpiacere i due leaders. E difficile, oggi, capire quale dose di coraggio e di iniziativa fosse necessaria ad un giovane compositore russo per mettere in cantiere e per condurre a termine un concerto per pianoforte e orchestra. Qualche dato di cronaca è tuttavia significativo al punto di offrirci uno spiraglio di osservazione su una realtà soggetta, qual’è quella della musica sinfonica, a ferree leggi economiche, e in cui non sono consentite impennate individualistiche. Mussorgski, ad esempio, aveva invano tentato di comporre un pezzo da concerto (il primo schizzo di quello che sarebbe diventato poi la Notte sul Monte Calvo), rimasto allo stato di abbozzo; Balakirev, lo abbiamo visto, aveva composto nel 1855 il Concerto in fa diesis minore, fermandosi al primo tempo, e nel 1861 aveva iniziato il Concerto in mi bemolle maggiore, subito interrotto e messo da parte per nientemeno che quarantotto anni. A scrivere un concerto Ciaikovsky ci provò due volte, senza successo. Quando ci provò la terza volta aveva trentaquattro anni, insegnava armonia nel conservatorio di Mosca, do v’era stato chiamato da Nicolai Rubin stein, ed aveva al suo attivo una produzione già cospicua, compren dente tra Taltro una sinfonia. Non potendo essere l’esecutore del suo Concerto, Ciaikovsky si propose di comporre un lavoro che incontrasse il favore di Nicolai Rubinstein (Anton, che nel 1874 stava scrivendo il suo Concerto n. 5, non eseguiva altro che Beethoven, Schumann... e Rubinstein), così come Schumann aveva scritto il suo Concerto per la moglie Clara, pianista tra le maggiori del secolo, così come Grieg aveva sottoposto il suo Concerto al giudizio di Liszt, ricevendone un’entu siastica approvazione. Il 3 dicembre 1874 Ciaikovsky parlava del suo Concerto al fratello Anatol, scrivendo: «Sono ansioso che Rubinstein lo esegua. Il lavoro progredisce lentamente e non riesce bene». Il 24 dicembre, dopo molte esitazioni, decise di sentire il parere di Rubinstein: parere, come abbiamo già visto, completamente negativo; ma successivamente mitigato ed infine capovolto dopo il successo ottenuto nel 1878 a Parigi (si veda alle pp. 93-94). Con le esecuzioni di Nicolai Rubinstein, venute dopo quelle di
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Bulow e di Kross, il Concerto di Ciaikovsky era definitivamente lanciato in tutto il mondo. Ciaikovsky lo diresse varie volte con diversi pianisti: con Tane’ev, con Vasilj Sapelnikov — del quale ci è restata l’incisione in disco, realizzata nel nostro secolo — ad Amburgo nel 1888, con Adele aus der Ohe alla Carnegie Hall di New York nel 1891. Tane’ev (1856-1915), Sapelnikov (1868-1941), la Aus der Ohe (1864-1937) appartengono alla prima generazione di pianisti per la quale l’esecuzione del Concerto di Ciaikovsky rappresentò un problema, un test) un punto d’onore. Persino Ferruccio Busoni (1866-1924), che come compositore e come esecutore era agli antipodi dell’arte di Ciaikovsky, studiò ed eseguì il Concerto. Una sola volta: once and never again, una volta e mai più, come dice in una lettera alla moglie da Londra, aggiungendo: «Mi sentivo come quando indosso un paio di scarpe nuove; hanno un aspetto elegante, ma non vedo l’ora di toglierle». Il disagio dell’esecutore, nel Concerto di Ciaikovsky, non deriva tanto da una somma di difficoltà, perché la difficoltà non è sempre ed uniformemente trascendentale: difficile è la piccola Cadenza nell’introduzione del primo tempo, difficile è la grande Cadenza a tempo rubato del primo tempo, difficile è un breve passo nella parte centrale del secondo tempo, e difficile è il passo che nel terzo tempo precede la perorazione della sola orchestra. Nella versione che Ciaikovsky fece ascoltare a Nicolai Rubinstein la vigilia di Natale del 18741 c’erano altri passi, scomodi più ancora che difficili, semplificati dal compositore una quindicina d’anni dopo, per la seconda edizione. Ma, nel 1874 come poi, difficili erano soprattutto i passi di ottave: due nel primo tempo, uno nel finale. La scoperta dell’efficacia sia sonora che gestuale delle doppie ottave eseguite colla caduta delle braccia risale all’inizio dell’Ottocento: troviamo un bellissimo passo in doppie ottave già nel Concerto n. 2 di Weber e vari passi con ottave alla destra e note semplici alla sinistra nel Concerto ». 5 di Beethoven; troviamo passi di ottave nel Concertstiick di Weber, in Moscheles, in Kalkbrenner. Solo con gli studi trascendentali Mazeppa ed Eroica di Liszt (pubblicati nel 1838) e con lo Scherzo op. 39 di Chopin (composto nel 1839) le doppie ottave raggiungono però la massima incisività e il massimo volume di suono. Con l’attacco del Concerto ». 1 di Liszt le doppie ottave diventano addirittura un simbolo del virtuosismo e del dominio che il pianista esercita sia sullo strumento che sul 1 Ripubblicata da Alexandr Goldenweiser nell’edizione del Concerto contenuta nell’opera omnia di Ciaikovsky, Mosca 1958, voi. 28.
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pubblico. Nella tecnica delle ottave furono famosi, come esecutori, Liszt, Alexander Dreyschock, Anton Rubinstein, nonché un oscuro pianista boemo, Ignaz Tedesco, detto addirittura l’“ Annibaie delle ottave” (perché... valicava le Alpi). E molto probabile che Ciaikovsky immaginasse i passi d’ottave del suo Concerto avendo presenti gli eccezionali mezzi fisici di Anton Rubinstein. Non essendo però egli stesso un virtuoso non calcolò l’eseguibilità delle ottave nel contesto della struttura musicale, e quindi non offrì all’esecutore la chiave per la soluzione del problema tecnico. I tre grandi passi di ottave del Concerto arrivano al culmine di tre perorazioni dell’orchestra e lasciano completamente scoperto il pianista: il pianista deve subentrare all’orchestra e reggere la tensione dinamica che l’orchestra ha progressivamente accumulato; e siccome una perorazione comporta anche, inevitabilmente, una accelerazione del tempo, il pianista deve mantenere il tempo che l’orchestra gli lascia. Una perorazione dell’orchestra condotta sfrenatamente, secondo le effettive potenzialità dell’orchestra, supera in realtà i limiti delle possibilità, sia di forza che di velocità, di qualsiasi pianista. Nella esecuzione del Concerto valgono quindi i limiti individuali del pianista, che possono più o meno approssimarsi ad un traguardo ideale mai, comunque, raggiungibile, e vale in sommo grado l’intesa tra il pianista e il direttore, al quale spetta di condurre l’orchestra fino al punto, e non oltre, delle massime possibilità individuali del pianista. Il virtuosismo acquista così una dimensione nuova, di cui si potrà avere un’idea facendo un paragone con il Concerto n. 1 di Liszt. All’inizio del Concerto di Liszt il pianista subentra all’orchestra, ma può stabilire il tempo che vuole perché la sua entrata dà inizio ad una grande cadenza, e non ha problemi di volume di suono perché il suo primo accordo si aggancia direttamente ad un accordo dei soli fiati; nel finale lo stesso passo di ottave dell’inizio è inserito in una perorazione, ma condotta dal pianista. Prima del primo passo di ottave del Concerto di Ciaikovsky la perorazione è condotta per gran parte dal pianista, ma l’intervento dell’orchestra alla fine è perento rio e non concede licenze; nel secondo e nel terzo passo il pianista deve, come dicevamo, proseguire coerentemente, e da solo, il discorso iniziato dall’orchestra. Mentre nei concerti virtuosistici del periodo Biedermeier e del romanticismo, di cui il Concerto n. 1 di Liszt rappresenta il culmine, il predominio del solista è assoluto e indiscusso, nel Concerto di Ciaikovsky si manifesta una concezione del virtuosismo anche come
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competizione tra solista e orchestra. Una concezione che, in senso lato, potrebbe essere definita agonistica anziché eroica, e che a parer nostro rispecchia l’ideologia borghese nell’epoca dell’industrializza zione. Il paragone non può essere né troppo assoluto né meccanico. E tuttavia il Concerto di Ciaikovsky, lavoro che non si impone per le qualità di invenzione e di novità linguistiche o formali, rimane nel repertorio come uno dei momenti emblematici del concerto per pianoforte e orchestra proprio perché si indirizza verso l’ideologia di un’epoca che non è più quella beethoveniana, rivoluzionaria e democratica, né quella romantica, aristocratica ed eroica, ma che è quella borghese, oligarchica e materialista. Ciaikovsky, che sarà più tardi il profeta e il poeta del decadentismo europeo, vive ancora, nel Concerto op. 23, i miti del liberoscambismo e del progresso, ed offre al virtuoso un ampio campo di possibilità, praticamente illimitate, il cui sfruttamento dipende dalle capacità psicofisiche dell’esecutore e dalla collaborazione tra esecutore e direttore. Questo aspetto, che abbiamo cercato di mettere in evidenza partendo dall’analisi dei passi di ottave, veri punti culminanti, vere e autentiche punte dell’ iceberg, si estende in realtà a tutta la partitura, difficile per il direttore non meno che per il pianista. Non si tratta, evidentemente, di una partitura sinfonica, del tipo di quella del Secondo Concerto di Brahms. Si tratta invece di una concezione, come abbiamo detto nella parte generale, di “concerto per orchestra con pianoforte”. Per questo motivo le esecuzioni complessivamente equilibrate del Concerto op. 23 sono molto più rare di quanto non si creda: sono invece frequenti le esecuzioni basate sull’atletismo del pianista, che riacquista in tal modo, con un direttore che si limita ad accompa gnarlo, il predominio dell’epoca romantica. Ma questa tradizione di tranquilla “routine” fa del Concerto di Ciaikovsky un tardivo frutto, un frutto fuori stagione del titanismo romantico, e giustifica le critiche limitative che molto spesso l’hanno bollato. La specificità del Concerto, che viene messa in evidenza da un’esecuzione meditata e coordinata tra direttore e solista, è invece quella di una composizione che inizia una fase nuova del virtuosismo pianistico: fase che si svilupperà, soprattutto nell’ambito della cultura russa, fino almeno al Concerto n. 2 di Prokofiev.
Si veda anche il commento alle pp. 93-94.
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Ciaikovsky: Concerto op. 44
CONCERTO IN SOL MAGGIORE OP. 44 (N. 2) • Allegro brillante (sol maggiore, tempo ordinario). □ Andante non troppo (re maggiore, 3/4) — Più mosso — Tempo I. □ Allegro con fuoco (sol maggiore, 2/4). • Nicolai Rubinstein. • 1879-1880. • New York, 12 novembre 1881, pianista Madeleine Schiller, direttore non identificato. • Jurgenson, Mosca 1881. • 2 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., tp., archi.
Il Concerto op. 44, che come abbiamo detto celebrò la “riconcilia zione” tra Ciaikovsky e Nicolai Rubinstein dopo la lite del Concerto op. 23, fu iniziato nell’ottobre del 1879 a Kemanka, in Ucraina, e venne condotto lentamente a termine nel maggio del 1880. Ciaikovsky non chiese il parere di Rubinstein mentre scriveva il Concerto*, gli mandò la partitura finita, con una lettera in cui si diceva disponibile a discutere eventuali cambiamenti; anzi, aggiun geva che se ci fosse stato qualcosa da mutare nella parte pianistica le modifiche avrebbe potuto farle Tane’ev. Nicolai Rubinstein non obbiettò nulla e disse che avrebbe eseguito il Concerto. Ma non lo eseguì: era già molto malato e sarebbe morto il 23 marzo 1881, a quarantasei anni. Sulla prima esecuzione assoluta aleggia un piccolo enigma. Per molto tempo venne considerata come “prima” assoluta l’esecuzione che ebbe luogo a Mosca il 30 maggio 1882, nell’ambito degli spettacoli promossi in occasione della Mostra delle Arti Industriali, con il fedelissimo Tane’ev al pianoforte e sotto la direzione del fratello maggiore di Nicolai Rubinstein, Anton. Alcuni storici riferirono poi che il Concerto era stato eseguito a S. Pietroburgo già nel 1881, con Tane’ev al pianoforte e Nicolai Rubinstein direttore. Non abbiamo modo di verificare questa notizia, che può essere esatta o non. Una presentazione a Mosca nell’ambito di una mostra, e con la presenza di visitatori di vari paesi, garantiva certamente al Concerto un miglior lancio pubblicitario. Ed è comprensibile che l’esecuzione di S. Pietroburgo, se effettivamente ci fu, venisse considerata una prova e che la presentazione “ufficiale” avvenisse a Mosca l’anno dopo. Più recentemente, però, si è scoperto che il Concerto) pubblicato nel 1881, nello stesso anno era stato eseguito a New York da una poco nota pianista inglese, allieva di Charles Halle, trasferitasi negli Stati Uniti: sicché i primi due concerti dk Ciaikovsky... videro la luce nel Nuovo Mondo.
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Ciaikovsky, che conosceva benissimo il valore della pubblicità e dello spettacolo, aveva avuto anche delle esitazioni prima di affidare E esecuzione a Tane’ev, che non era un virtuoso di fama internazio nale. Poco più tardi Ciaikovsky sarebbe stato molto colpito dalle qualità di d’Albert, per il quale avrebbe pensato di scrivere un nuovo concerto. Mancando un Biilow e mancando un Nicolai Rubinstein, per il Secondo Concerto Ciaikovsky non trovò il pianista del tutto all’altezza delle sue concezioni. E questo fu, nell’ottica del concertismo del tempo, un “errore” che non potè essere rimediato. Se il Concerto n. 1 era stato un successo da favola, il Concerto n. 2, dopo il trionfo della prima di Mosca, fu sostanzialmente un fiasco (lo riprese il solo, non giovane Charles Halle, che era un ricercatore instancabile ma che suonava soltanto a Londra e a Manchester). Visto che la composizione non riusciva a prendere il volo nelle sale di concerto, nel 1893 Ciaikovsky autorizzò Alexandr Siloti a fare dei tagli e delle modifiche nella parte pianistica. Nemmeno la versione Siloti portò però ossigeno al Concerto n. 2, che venne e viene eseguito molto di rado. Gli unici grandi concertisti che lo presentarono con una certa frequenza, nella versione Siloti, furono nel nostro secolo Benno Moiseiwitsch ed Emil Gilels. La versione originale venne eseguita qualche volta da Magaloff e più recente mente da Zukov. Ma se il Concerto n. 2 gode di una certa fama, la fama ce l’ha come., musica di balletto: Balletto imperiale, creato da Balanchine nel 1941 sulla versione Siloti, e ritoccato nel 1973. La versione originale soffre effettivamente di alcuni squilibri di architettura, specialmente nel primo tempo, che sono connaturati all’idea stessa su cui il Concerto si basa. C’è anche qualche tentativo — ad esempio, i passi in ottave — che ripropone i particolari di speciale successo del Concerto n. 1, e c’è qualche riferimento, non altrettanto felice melodicamente, al secondo quadro dell’ Eugenio Onieghin (1877-78). Ma c’è, soprattutto, una sproporzione di episodi “a solo” del pianoforte ed un eccesso di insistenza su tipi di scrittura pianistica — come gli accordi alternati fra le due mani — tanto brillanti quanto poco personali. La costruzione architettonica dello sviluppo è molto originale, eppure non sembra veramente risolta. E in quattro parti, con: 1) introduzione di quarantotto battute, della sola orchestra; 2) cadenza del pianoforte, di quarantatré battute, con marginali interventi di pochi strumenti; 3) intermezzo dell’orchestra, a cui il pianoforte partecipa solo nella prima parte; 4) altra cadenza del pianoforte solo, di centoquarantadue battute! La sproporzione architettonica, già di per sé evidente, viene
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aggravata da due particolari: la parte iniziale della grande cadenza, la seconda, sembra una trascrizione per pianoforte solo da un originale per pianoforte e vari strumenti, e il suo episodio centrale è un vero e proprio studio da concerto, di cinquantatré battute, che astrae dal materiale tematico del Concerto (tanto per offrire un termine di raffronto diremo che lo Studio op. 10 n. 2 di Chopin è di quarantanove battute). Questo episodio in forma di studio, di per sé condotto sapientemente (un prestissimo che inizia leggerissimo e più che pianissimo e che aumenta fino al più che fortissimo), avrebbe forse potuto ottenere un esito più convincente affidato a pianoforte e strumenti a percussione, mentre l’altro episodio avrebbe potuto essere affidato a pianoforte, corni, flauti, violino e violoncello solisti. Diciamo ciò, s’intende, in via totalmente ipotetica, e non perché ci sembri possibile un intervento correttivo. Il problema di un rapporto evolutivo tra pianoforte e orchestra rispetto a quello del Concerto n. 1, Ciaikovsky lo avrebbe risolto con il materiale più “leggero” della Fantasia da Concerto op. 56. Qui, ci sembra, il materiale imponente avrebbe richiesto una “strategia” della stru mentazione meno schematica. Possiamo osservare che la genialità assoluta della Burlesca di Richard Strauss (1885) consiste proprio nel rapporto antagonistico tra solista e orchestra con un materiale compositivo di grandi potenzialità sinfoniche. Ciò non significa tuttavia che il primo tempo del Concerto n. 2 di Ciaikovsky sia un’opera velleitaria o mancata. La sproporzione architettonica dello sviluppo non limita la grandiosità del compito che l’autore si pone e del tentativo che compie. L’architettura tonale di esposizione e riesposizione è molto originale e, sì, perfettamente risolta in senso estetico: il sol maggiore del primo tema si rapporta al mi bemolle maggiore (invece del re maggiore) del secondo tema, e nella riesposizione, invece che in sol maggiore, il secondo tema viene esposto in si bemolle maggiore. Tutto il colore tonale risulta nuovo perché i rapporti si stabiliscono, invece che sulla quinta, sulla terza (superiore Ned inferiore); e Ciaikovsky sottolinea la novità non mediando i passaggi ma accostando bruscamente le aree tonali lontane. Basterebbe questa caratteristica, a segnalare il Concerto n. 2 tra le cose più interessanti del genere; e a ciò si aggiunge la plasticità dei temi (pur non così sensuosi come quelli del Primo). Però questo primo tempo in una certa misura incoerente non ha finora consentito al lavoro di conquistare la popolarità.
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Nessun problema irrisolto di architettura presenta il secondo tempo, in cui il primo violino e il primo violoncello si affiancano al pianoforte in una concezione di vero e proprio Concerto Triplo. Fu proprio qui d’altra parte che Siloti intervenne con un massiccio taglio (tutta la parte centrale) e con spostamenti di episodi, preoccupandosi soprattutto di anticipare la prima entrata del pianoforte che, nell’originale, interviene invece come terzo dei solisti2. Descriveremo dapprima la versione Siloti, la più conosciuta. Dopo una breve introduzione modulante, che “complica” il sempli cissimo passaggio dal sol maggiore del primo tempo al re maggiore del secondo, il pianoforte espone il primo tema; il primo violino lo riespone con un controcanto del primo violoncello e l’accompagna mento del pianoforte; quindi il violino e il violoncello, con l’orchestra e senza il pianoforte, sviluppano la seconda parte del tema; il pianoforte interviene alla fine, concludendo con una breve cadenza. L’ultima sezione, che si basa su un frammento tematico contrastante, sembrerebbe portare alla riesposizione del primo tema. Ma non accade nulla del genere e questa parte serve in realtà da transizione che lega il secondo tempo al finale. Sebbene la distinzione in tre tempi sia ancora netta, Siloti vuole in realtà fare del secondo tempo un intermezzo tra il primo e il terzo, e perciò elimina la tradizionale simmetria architettonica. Nella versione originale, dopo le otto battute dell’orchestra entra il violino solista che, accompagnato dagli archi, sostiene tutto il primo episodio; quindi entra il violoncello, che dialoga col violino sviluppando la seconda parte del tema (l’orchestra è sempre limitata agli archi, con un marginale intervento dei corni). Quindi il tema viene esposto dal pianoforte, prima da solo, poi con gli archi, e gli archi da soli concludono l’esposizione. La seconda parte è uno sviluppo molto ampio del tema fino al punto culminante, uno sviluppo al quale non partecipano il violino e il violoncello solisti e in cui invece alcuni strumentini dialogano col pianoforte. Solo dopo il culmine intervengono il violino e il violoncello solisti con una lunga cadenza punteggiata dall’orchestra. La riesposizione inizia con l’episodio che Siloti utilizza invece come esposizione del tema da parte del violino, e prosegue fino alla fine come in Siloti. Nella versione Siloti vengono però tagliate, alla 2 Nel primo tempo e nel finale gli interventi di Siloti sono minimi. Curiosissima una sua correzione linguistica: Ciaikovsky scrive “tempo di comincio” a un certo punto del primo tempo, e Siloti lo rettifica in “tempo del comincio”.
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fine, sedici battute di grande suggestione, con giochi in eco di archi e fiati su armoniosissimi accordi arpeggiati del pianoforte. Il finale, il cui materiale è popolaresco e “ballettistico”, riprende i caratteri più innovativi della scrittura strumentale del Concerto n. 1. Virtuosismo acceso del pianoforte, virtuosismo dell’orchestra, con temi di una incessante vivacità ritmica. Il primo gruppo tematico, in sol maggiore, è in tre parti (esposizione, sviluppo, riesposizione), il secondo gruppo tematico è formato da un tema in mi minore e da un tema che oscilla tra sol maggiore e si minore. Dopo uno sviluppo, in gran parte costituito da figure virtuosistiche del pianoforte, Ciaikovsky riespone in sol maggiore il primo tema, quindi riprende, partendo da re minore, il secondo gruppo tematico e il relativo sviluppo. L’ultima sezione, la coda, è un divertimento sul primo tema. La costruzione si riallaccia ancora al finale del Concerto n. 1 di Mendelssohn, ma viene condotta con un perfetto senso delle proporzioni. Inusitato è il piano tonale, sia per lo sfruttamento del modo minore che per la scelta del re minore nella riesposizione. Mancano però, rispetto al Concerto n. 1, il forte contrasto fra i temi e il colpo di scena finale (il passo d’ottave al culmine della perorazione orchestrale e la trionfante ripresa del secondo tema). Malgrado tutto, il pubblico prova una certa delusione, e siccome il primo tempo... Insomma, il Concerto n. I, per i successivi concerti di Ciaikovsky, è un po’ quel che sarebbe stata la Cavalleria rusticana per le successive opere di Mascagni.
EDVARD HAGERUP GRIEG (Bergen, 15 giugno 1843 — Bergen, 4 settembre 1907)
CONCERTO IN LA MINORE OP. 16 • Allegro molto moderato (la minore, tempo ordinario). □ Adagio (re bemolle maggiore, 3/8). □ Allegro moderato molto e marcato (la minore, 2/4) — Poco più tranquillo — Tempo I animato — Quasi Presto (la maggiore, 3/4) — Andante maestoso (tempo ordinario). • Edmund Neupert. • 1868 (rev. 1906-1907). • Copenhagen, 3 aprile 1869, pianista Edmund Neupert, direttore non identificato. • E. W. Fritzsch, Lipsia 1872. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tp., archi.
Del Concerto op. 16 di Grieg, composto nell’estate del 1868 nel villaggio di Sollerod in Danimarca, non è stata finora pubblicata l’edizione critica, e quindi non conosciamo l’entità degli interventi di revisione che il compositore ritenne di dover fare quasi quarantanni dopo averlo scritto. E certo che a consigliare le revisioni fossero le esperienze di esecuzione, numerosissime perché il Concerto ottenne ben presto successo1. Sarebbe tuttavia interes sante capire dove Grieg sentisse il bisogno di cercare miglioramenti. Così come lo conosciamo, il Concerto è un prodotto di alta qualità artigianale, sebbene solo l’aspetto dell’invenzione tematica lo distingua e lo distacchi dai molti lavori artigianalmente impeccabili degli ultimi decenni dell’ottocento. La forma del primo tempo non solo è “classica”, ma le suddivisioni strutturali classiche sono nettamente sottolineate, 1 Dopo la “prima” di Copenhagen il Concerto fu eseguito nel 1870 a Oslo con Neupert al pianoforte e con Grieg direttore. Grieg diresse poi spesso il Concerto e qualche volta lo suonò; lo suonò al Gewandhaus di Lipsia nel 1879, e da quella esecuzione ebbe inizio la vera popolarità del Concerto.
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anche con variazioni di velocità accuratamente indicate in partitura. Le sei battute introduttive e le ventiquattro battute di esposizione del primo tema sono in tempo Allegro molto moderato con metronomo 84 al quarto. Le venti battute della transizione sono in tempo Animato e con metronomo 112 al quarto. Più lento, a 69 al quarto, le quindici battute e mezza del secondo tema, con un’accelerazione alla fine, e Più vivo, senza indicazioni di metrono mo, le otto battute e mezza della coda. Nel secolo scorso variare la velocità nelle suddivisioni strutturali delle grandi forme era consuetudinario. Nel 1828, Hummel indica va, nel suo Metodo, alcune opportune variazioni di velocità, non segnate in partitura, del suo Concerto in la minore, e le edizioni rivedute di opere classiche, pubblicate alla fine dell’ottocento, indicano molte variazioni, anche con tempi di metronomo, per i concerti di Beethoven e altri. Già Schumann e poi Brahms nel Concerto op. 15 avevano indicato alcune variazioni di velocità nei primi tempi. Grieg, che scrive dopo il 1860, va più in là ed inaugura un tipo di organizzazione della struttura che verrà seguito da molti altri. Al principio dell’unità del tempo, con variazioni, egli sostituisce il principio della compresenza di più tempi e della estrema caratteriz zazione di ogni episodio: fatto di cui bisogna tener conto quando si valuta il suo uso, senza dubbio schematico, delle forme classiche. In questo senso anche le battute introduttive sono tematicamente molto caratterizzate, e serviranno per il collegamento dalla coda della esposizione allo sviluppo e per la conclusione. Il secondo tempo è, strutturalmente, uno studio: esposizione di un tema, sviluppo, riesposizione variata, coda. Più che di sviluppo si tratta però di una fantasia improvvisatoria del pianoforte con citazioni tematiche dell’orchestra. Sebbene il brano non sia struttu ralmente collegato al finale, Grieg lo pensa come introduzione, o intermezzo tra i due grossi blocchi del primo e del terzo tempo. L’esempio di Schumann opera certamente nella scelta di Grieg, ma non si tratta di imitazione palese. Anche nel finale le divisioni strutturali comportano variazioni di tempo. Anzi, il tempo generale non sarebbe nemmeno quello iniziale ma il Poco animato della battuta 9. Però il flusso ritmico della prima parte, che è un’esposizione di forma-sonata, è molto più continuo di quanto non fosse nel primo tempo. Non sembra improbabile che nella costruzione del finale Grieg tenesse conto della lezione di Schubert, perché invece dello sviluppo troviamo, come talvolta in Schubert, un nuovo tema. Un nuovo
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tema idilliaco e “paesistico”, esposto dal flauto, ripreso e variato dal pianoforte; un tema in fa maggiore (ma Grieg non cambia Talterazione in chiave), che crea un forte contrasto e che verrà poi tenuto in serbo per il punto culminante del finale. La riesposizione è indicata con Tempo I animato (cioè con riferimento al precedente Poco animato) e non presenta particolarità di rilievo, tranne l’inserimento di un episodio nuovo in sol minore, Meno Allegro. Pur non essendo un... grande architetto, Grieg comprende benissimo i rapporti delle aree tonali, ed avendo inserito nella forma in la minore una parte centrale in fa maggiore avverte la necessità del sol minore. La conclusione è in due parti. Il tema principale del finale viene ripreso in tempo più rapido e in un ritmo ternario che ne mette maggiormente in evidenza l’origine di danza popolare; poi viene ripreso, e in modo clamorosamente trionfale, il tema della sezione centrale.
Si veda anche il commento alle pp. 90-91.
RICHARD STRAUSS (Monaco, 11 giugno 1864 — Garmisch-Partenkirchen, 8 settembre 1948)
BURLESCA IN RE MINORE • Allegro vivace (re minore, 3/4).
• Eugene d’Albert. • 1885-1886. • Eisenach, 21 giugno 1890, pianista Eugene d’Albert, direttore Richard Strauss. • Steingràber, Lipsia 1890. • Ott., 2 fl., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., tp., archi.
Nel 1885, a venturi’anni, Richard Strauss lavorò a Meiningen come assistente di Hans von Biilow, che dirigeva l’orchestra di corte del piccolo ducato e che l’aveva condotta ad un grado di efficienza tale da sbalordire i pubblici di tutta Europa. Biilow — lo abbiamo visto parlando di Liszt e di Ciaikovsky — non solo era, oltre che direttore, uno dei maggiori pianisti di quegli anni, ma aveva anche al suo attivo alcune importantissime prime esecuzioni. Strauss, che suonava assai bene il pianoforte, al punto di poter eseguire a Meiningen, sotto la direzione di Biilow, il Concerto K 491 di Mozart, tra il novembre del 1885 e il febbraio del 1886 scrisse la burlesca e la offrì al Maestro. Con molta cortesia, Biilow rifiutò il dono perché la scrittura pianistica, disse, richiedeva eccessive estensioni della mano sinistra (in verità, sembra un pretesto). Strauss tenne così nel cassetto la composizione per quasi cinque anni, finché la diresse egli stesso, con il ventiseienne Eugène d’Albert al pianoforte, nel concerto in cui venne eseguito per la prima volta anche il poema sinfonico Morte e
trasfigurazione. Sebbene sia stata inclusa nel repertorio di alcuni grandi pianisti (dopo d’Albert gli interpreti più noti furono Backhaus, Elly Ney, Poldi Mildner, Arrau, Serkin, Magaloff, Cherkassky, Richter,
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Gould, Guida), la Burlesca non è mai diventata popolare. Ma a noi interessa qui in modo particolare, sia perché è un saggio di sbalorditiva capacità creativa in un artista di ventun’anni, sia perché si collega, come abbiamo accennato, con le esperienze di Ciaiko vsky. E sotto questo aspetto ci interessa ancor di più se pensiamo ai rapporti di lavoro Ciaikovsky-Bulow e Bùlow-Strauss: insomma, non ci sembra un caso, se, scrivendo per il primo interprete del Concerto n. 1 di Ciaikovsky, un giovanissimo artista di genio componesse un pezzo come la Burlesca. Strauss sa usare molteplici soluzioni nel rapporto tra pianoforte e orchestra, in parte tradizionali, in parte ancora poco sperimentate. Il rapporto che più colpisce l’ascoltatore è quello di una netta contrapposizione, di un’alternanza antifonale, con un pianoforte pensato non solo come orchestra ma come “altra orchestra”. Possiamo indicare, come esempio tipico di questo rapporto, la prima entrata del pianoforte, alla ventunesima battuta. Tutta l’orchestra suona nelle otto battute precedenti, iniziando dal forte e finendo in fortissimo. Il pianoforte entra e prosegue da solo, per quattro battute, in mezzoforte. La contrapposizione non avviene sul piano del confronto di peso sonoro (confronto che il pianoforte non potrebbe mai sostenere), ma della tensione emotiva. Viene in mente una lettera che Ciaikovsky scriveva alla von Meck nell’ottobre del 1880, proprio dopo aver composto il Concerto n. 2: «I suoni percussivi del pianoforte risultano sempre indipenden ti da ogni altra combinazione sonora. Tuttavia, il conflitto scoppia tra due avversari di eguali forze, perché alla potenza ed all’infinita varietà di colori dell’orchestra tien testa questo avversario minusco lo, inverosimile ma risoluto, che uscirà vincitore se il pianista è effettivamente dotato». Il mito di Davide e Golia, che sembra informare di sé anche la Burlesca di Strauss... Un altro esempio tipico di contrapposizione, nella Burlesca, è quello dell’episodio che inizia alla battuta 82. Episodio di sedici battute in fortissimo, e punto culminante da cui si svolge la transizione dal primo al secondo tema. Tradizionalmente, il solista veniva “risparmiato” in momenti del genere, o suonava una parte di semplice ripieno. Strauss affida invece alla sola orchestra le prime dieci battute, al solo pianoforte l’undicesima e la dodicesima, alla sola orchestra la tredicesima e la quattordicesima, al solo pianoforte le ultime due. Abbiamo così delle brusche e drammatiche alternanze di timbri e di peso sonoro e anche di localizzazione spaziale delle masse sonore
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perché i suoni della sola orchestra provengono all’ascoltatore entro un angolo ottuso prossimo ai 180 gradi, mentre i suoni del pianoforte provengono entro un angolo acuto prossimo ai 90, e da una posizione più avanzata. Strauss manovra i volumi come se costruisse una basilica barocca. All’opposto, poi, isola nell’orchestra gruppi di strumenti o strumenti singoli. Ad esempio, alla conclusione del secondo tema — incante vole momento, che anticipa il Till Eulenspiegel — il pianoforte suona da solo quattro battute con umore e le ripete variandone la conclusione: nella ripetizione interviene, dialogando, un clarinetto. In Liszt si trovano molteplici esempi di “estrapolazione” di strumenti e di gruppi dall’orchestra, e anche in Ciaikovsky, e in Brahms (il grande assolo di violoncello nel terzo tempo del Concerto op. 83, il piccolo solo di corno all’inizio dello stesso Concerto, e molti altri momenti di minore spicco). Il colpo di genio di Strauss consiste però nell’isolare in orchestra, come solista, lo strumento che soltanto Beethoven aveva considera to, nel Concerto per violino, per un compito analogo: i timpani. La Burlesca inizia con un assolo di timpani di quattro battute e termina con un isolato re del timpano. «Quattro timpani», prescrive Strauss. Il timpanista disponeva allora di due o, più spesso, di tre timpani, la cui intonazione poteva essere variata con un’operazione piuttosto macchinosa e lenta (si stringevano o si allentavano, a mano, una serie di viti a farfal la). Strauss richiede quattro timpani, la cui intonazione non verrà mai cambiata: con quattro suoni riesce a fare del timpano il coprotagonista (non solo, come in Beethoven, un elemento coloristi co suggestivo). Ci riesce trattando i quattro suoni — la, re, mi, fa — con un virtuosismo architettonico che lascia allibiti... e persino con trucchi da prestigiatore. Già in un momento dello sviluppo due fagotti all’unisono si sostituiscono al timpano per due la bemolle che il timpano non può produrre. Più ampi e... sfacciati sono i trucchi nella riesposizione. Qui, alla fine della transizione dal primo al secondo tema, servono suoni che il timpano ha. Servono per un gioco spiritosissimo di botte e risposte. Ed allora... Il timpano, solo, suona due re e un la; il pianoforte risponde con due re e un la bemolle; il timpano risuona due re: il la bemolle che manca al timpano lo suonano due fagotti all’unisono. Poi, su altri suoni che il timpano non possiede, interverranno violoncelli e contrabbassi in pizzicato. E siccome l’intensità è minima l’ascoltato re finisce col non distinguere più bene tra timpani, pianoforte,
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fagotti, violoncelli e contrabbassi: sente delle varianti timbriche del suono del timpano e non capisce — se non guarda l’esecutore — quando il timpano suona e quando non suona. Genialissima sotto l’aspetto della strumentazione, la Burlesca non è meno geniale sotto l’aspetto della costruzione. Si tratta di una regolare forma-sonata la cui unica insolita caratteristica è che il timpano, all’inizio, espone la cellula melodica su cui si formerà il secondo, nori il primo tema. A parte ciò non ci sono sorprese fino alla coda dopo la riesposizione, affidata alla sola orchestra. Il culmine è barbarico, con il timpano che scaglia tre dei suoi quattro suoni contro l’orchestra. Ma il pianoforte interrompe in modo gentile con un intervento indicato tranquillo. Timpani e orchestra riprendono il loro baccano, feroce. Nuovo tranquillo. Nuovo feroce. Nuovo tranquillo. Riprendono ancora timpani e orchestra, ma poco più tranquillo, pacificandosi. E molto improbabile che Strauss non avesse in mente uno schema programmatico, che possiamo immaginare ma che non ci è noto. Architettonicamente la trovata del feroce e del tranquillo è però importante perché riapre una forma che si stava chiudendo e permette di inserire una vera e propria, entusiasmante appendice che nella partitura a stampa occupa dieci delle settantaquattro pagine, cioè il 13,5% del totale. Questa sezione terminale comprende una cadenza del pianoforte, un delicatissimo valzer (un valzer da elfi, si direbbe), un divertimen to toccatistico sul primo tema con un pianoforte che spara bordate di suono e un pianista che fa mulinare le braccia, ed una coda in cui dal massimo della densità (il pianoforte e tutta l’orchestra) si passa progressivamente al minimo (pianoforte solo), e dal massimo della potenza si scende al minimo della audibilità. Rispetto al Don Juan (1887-88) mancano nella Burlesca la personalizzazione e la caratterizzazione estrema dei temi. E questo spiega forse la limitata notorietà della composizione. Si tratta però di una partitura di grande fascino e di un’abilità compositiva addirittura diabolica. Bisogna tornare molto indietro, al Concerto K 271 di Mozart, per trovare in un ventunenne un qualcosa di altrettanto sorprendente. Ma oltre a un punto fermo nell’evoluzione creativa di Strauss, la Burlesca rappresenta un contributo essenziale alla storia del genere. E in questo senso, anche in questo senso, la Burlesca meriterebbe un’attenzione assai maggiore di quella che le viene di solito riservata.
FERRUCCIO BUSONI (Empoli, 1 aprile 1866 — Berlino, 27 luglio 1924)
CONCERTO PER UN PIANOFORTE PRINCIPALE E DIVERSI STRUMENTI AD ARCO, A FIATO ED A PERCUSSIONE Aggiuntovi un Coro finale per voci d’uomini, a sei parti. Le parole alemanne del poeta Oehlenschlaeger danese. La Musica di Ferruccio Busoni da Empoli, Anno MCMIV, opera XXXIX.
• 1. Prologo e Introito. Allegro, dolce e solenne (do maggiore 3/4). □ 2. Pezzo giocoso. Vivacemente, ma senza fretta (do maggiore, 3/4). □ 3. Pez zo serioso. Andante sostenuto, pensoso (do maggiore-re bemolle maggiore, tempo ordinario). □ 4. All’italiana. Vivace (in un tempo) (la maggiore-do maggiore, 6/8). □ 5. Cantico. Largamente e più moderato (do maggiore, 3/4). • Senza dedica. • 1901-1904 (altra Cadenza per il quarto tempo, 1909). • Berlino, 17 novembre 1904, pianista Ferruccio Busoni, dir. Karl Muck. • Breitkoph & Hàrtel, Lipsia 1906 (altra Cadenza, 1909). • 2 ottavini, 3 fi., 3 ob., corno inglese, 3 cl., clarinetto basso, 3 fg., 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., tp., pere., Glochenspiel, archi. / Coro di 48 cantori.
Già nel 1901 (lettera da Londra, del 30 aprile) Busoni scriveva alla moglie Gerda di aver «raccolto materiale per il concerto»; e il 20 settembre, da Glasgow: «Ieri mattina ho lavorato bene al mio Concerto. Ne deve venir fuori proprio qualcosa di buono». Ma l’attività di concertista impedì a Busoni di dedicarsi alla composizio ne durante la stagione 1901-02. Il 10 febbraio 1902, da Londra, egli scriveva alla moglie di voler ricavare uno spettacolo — non un’opera — dall’Aladdin di Oehlenschlaeger e di voler lavorare in estate al Concerto. Erano dunque in progetto il completamento del Concerto e un qualcosa di non ancora ben definito XvXX Aladdin. In luglio (lettera del 17) Busoni era arrivato al quarto tempo del Concerto, avendo abbozzato il primo e il secondo e quasi finito il terzo, nel quale aveva incorporato materiale dell’opera giovanile inedita Sigune e uno Studio per pianoforte composto all’inizio degli anni 80 e rimasto inedito. La Tarantella era allora detta “il finale”. Ma già il
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21 Busoni parlava di un finale con il coro che intonava i versi di Oehlenschlaeger. Sembra quindi probabile che avesse già da tempo deciso di concludere il Concerto con un intervento del coro, perché se così non fosse stato avrebbe certamente illustrato alla moglie l’idea. Si sa però anche che dopo la prima esecuzione Busoni preparò una versione del Concerto, rimasta inedita, senza il coro finale1: l’inclusione del coro dovette quindi rappresentare per il compositore un esperimento su cui rifletté molto a lungo, ed il contrasto fra la tarantella italiana e il cantico tedesco fu del resto motivo di riserve critiche, con opposte motivazioni, sia da parte dei recensori tedeschi, sia da parte di un devoto discepolo come Guido Guerrini. Con l’inizio della stagione concertistica la composizione del Concerto venne nuovamente interrotta. Fu ripresa nell’estate del 1903 e condotta a termine nella prima metà di luglio. Busoni annullò anzi due concerti a Londra — e se ne scusò ripetutamente con la moglie — per poter tranquillamente mettere in bella copia la parte del pianoforte con annotazioni della parte d’orchestra: il 19 luglio era finito il primo tempo, il 23 il secondo; gli altri tre tempi andarono più a rilento perché si resero necessari vari ritocchi. L’ 11 settembre Busoni cominciò a stendere la partitura d’orchestra, ma dovette presto smettere perché come ogni anno sopraggiungevano gli impegni concertistici. Riprese a lavorare al Concerto durante il viaggio di ritorno, in transatlantico, da una tournée negli Stati Uniti: lo finì il 30 marzo 1904, ma la bella copia della partitura fu pronta solo il 3 agosto. La prima esecuzione, che ebbe luogo a Berlino in uno dei concerti di musica contemporanea che Busoni vi organizzò e finanziò dal 1902 al 1909, provocò uno scandalo inaudito. Edward Dent, nella sua biografia di Busoni (Londra 1933) cita un importan te critico, Adolf Weissmann, che parlò di «spettacolo infernale». E tra gli oppositori fu il più gentile... Chi si schierò dalla parte di Busoni, come il giovane allievo Leo Kestenberg, andò fuori dalle righe paragonando il Concerto alla Creazione: lo Spirito di Dio aleggia sulle acque (I tempo), la bellezza della luce e dell’aria (II tempo), Adamo ed Eva (III tempo), il Paradiso terrestre (IV tempo), la Verità Eterna (V tempo). Tra l’inferno e la Verità Eterna il Con certo... finì in un Purgatorio in cui non ha finito di scontare le colpe.
1 L’autografo di questa versione è andato perduto. Esiste una copia manoscritta della partitura, datata «13 agosto 1908», con il titolo: «Concerto. Coda supplementa ria corrispondente alla Versione in quattro tempi omettendo il coro Finale».
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Le esecuzioni del Concerto non furono, prima della guerra, numerose. Circostanze non facilmente ripetibili, specie nella situa zione della vita musicale italiana di allora, permisero a Busoni di presentare il Concerto a Bologna un anno e mezzo dopo la “prima” di Berlino, il 29 aprile 1906, con ripetizione il 3 maggio. Busoni eseguì la parte del pianoforte (e à memoria, mentre a Berlino l’aveva letta dal manoscritto) e Bruno Mugellini diresse l’orchestra2. Tra le esecuzioni di cui Busoni rimase soddisfatto ci furono poi quelli di Newcastle nell’autunno del 1909 (direttore Busoni, pianista Egon Petri) e di S. Pietroburgo nell’autunno del 1913 (direttore Kussevitzki, pianista Busoni). Subito dopo la guerra il Concerto venne eseguito da due pianisti molto giovani: il ventiquattrenne Eduard Erdmann (Berlino, ottobre 1920) e l’ungherese Erwin Nyiregyhàzi (Stoccolma, 1919), che aveva da poco compiuto — cosa che sembra da fantascienza — i sedici anni! L’ultima esecuzione con Busoni al pianoforte ebbe luogo a Berlino il 27 gennaio 1921, sotto la direzione di Gustav Brecher. Oltre a Petri, tra le due guerre si distinse come interprete del Concerto Paul Baumgartner, al quale si deve la “prima” in una sede di prestigio come il Maggio Musicale Fiorentino (8 maggio 1933, direttore Vittorio Gui). Nel primo dopoguerra furono interpreti del Concerto l’australiano, residente a Londra, Noel Mewton Wood, e Pietro Scarpini, al quale si deve la “prima” alla Scala di Milano (22 ottobre 1962, direttore Jascha Horenstein). Più tardi si segnalarono John Ogdon, al quale si deve la prima incisione in disco (1967) e Antonio Bacchelli (Dino Ciani, che aveva preparato il Concerto, morì prima di averlo potuto eseguire). Oggi il Concerto fa parte del repertorio di pochi pianisti, tra i quali sono da ricordare Boris Bloch, Michele Campanella e Gerhard Oppitz.
Si veda anche il commento alle pp. 103-106. 2 I programmi dei due concerti sono molto interessanti. Il 29 aprile venne eseguito il Concerto, seguito da sei studi di Chopin, la Leggenda di S. Francesco da Paola di Liszt, il Busslied di Beethoven-Liszt, il Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn-Liszt; a conclusione, Busoni diresse la sua recentissima Suite dalle musiche di scena di «Turandot» op. 41. Il concerto del 3 maggio si aprì con musiche per orchestra di compositori bolognesi (Gandino, Mugellini, Respighi) dirette da Mugellini. Busoni eseguì poi il Preludio e fuga in re maggiore di Bach da lui trascritto, la Barcarola e una Polacca (probabilmente l’op. 53) di Chopin, la Polacca n. 2 e la Fantasia sul «Don Giovanni» di Liszt. A conclusione della serata venne eseguito il Concerto. Non sappiamo se il testo di Oehlenschlaeger venisse intonato — il gruppo corale era formato da dilettanti — in tedesco o in italiano.
SERGEJ RACHMANINOV (Oneg, 20 matzo 1873 — Beverly Hills, 28 marzo 1943)
CONCERTO IN FA DIESIS MINORE OP. 1 (N. 1) • Vivace — Moderato [il Vivace e il Moderato si alternano più volte] (fa diesis minore, tempo ordinario). □ Andante (re maggiore, tempo ordinario). □ Allegro vivace (fa diesis minore-fa diesis maggiore, 9/8). • Alexandr Siloti. • 1890-1891 (rev. 1917). • Mosca, 17 marzo 1892, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Vasily Safonov (primo tempo); Londra, 4 ottobre 1899, pianista Evelyn Suart, direttore Henry Wood (completo); New York, 29 gennaio 1919, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Modest Altschuler (edizione riveduta). • A. Ghuteil, Mosca 1892; Edizioni Musicali di Stato, Mosca 1920 (edizione riveduta). • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., archi; 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tp., pere., archi (edizione riveduta).
Il Concerto n. 1 op. 1 di Rachmaninov nacque come una specie di tesi di laurea presentata da un giovanissimo artista ambizioso che stava per licenziarsi dal conservatorio. Scolaro per il pianoforte di Alexandr Siloti, e scolaro per la composizione di Sergej Tane’ev, il diciottenne Rachmaninov era già in grado di comporre un concerto tale da qualificare apertamente e autorevolmente l’aspirazione a diventare pianista-compositore di successo internazionale. Quindi, una tesi di laurea che è nello stesso tempo, potremmo dire, un discorso programmatico per una candidatura, e che ottenne il massimo degli allori e la dignità di stampa: Rachmaninov compose il Concerto tra il 1890 e il luglio del 1891, lo dedicò a Siloti e ne eseguì il primo tempo a Mosca, il 17 marzo 1892, sotto la bacchetta del direttore del conservatorio di Mosca, Safonov; nello stesso anno il Concerto fu pubblicato. Nel 1899, quando suonò a Londra, Rachmaninov non eseguì però
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il Concerto n. 1: venne invitato a tornare l’anno dopo per presentarlo al pubblico inglese, ma promise di portare un concerto nuovo. E così la prima esecuzione completa del Concerto n. 1 ebbe luogo nel l’autunno, a Londra, con una pianista inglese. Del Concerto n. 1 noi abbiamo però oggi familiare la versione che Rachmaninov preparò nel 1917, quando pensava di riutilizzare una composizione giovanile abbandonata da quasi due decenni. Le differenze tra le due versioni sono rilevanti ma non sostanziali: nel 1917, in particolare, Rachmaninov mise meno note nella parte del pianoforte e le collocò meglio, ottenendo un effetto più sicuro con minore fatica. Le caratteristiche di composizione giovanile vennero tuttavia mantenute anche in questa seconda versione, che Rachma ninov eseguì (ed incise in disco), dopo aver abbandonato per sempre la Russia, e che considerò definitiva1. L’impianto architettonico è quello comune a molti concerti di fine Ottocento: la parte pianistica è ardua e spavaldamente virtuosistica e il pianoforte ha l’assoluto predominio, però il rapporto tra il solista e l’orchestra non è di semplice subordinazione ma, almeno in alcune sezioni, di integrazione, perché alla fine del secolo — lo abbiamo visto — la parte orchestrale di un concerto doveva essere interessante e per chi la suonava e per chi l’ascoltava. E Rachmaninov dimostrò anche la sua vocazione di sinfonista (vocazione che, nel ventennio successivo, sarebbe stata la sua croce) con un episodio puramente orchestrale nel primo tempo e con la completa integrazione pianoforte-orchestra nel finale. E molto strano che, dopo una così sicura e brillante partenza, Rachmaninov fallisse le mosse successive. Sarebbe stato logico, come abbiamo detto nella parte generale, che nel 1895 partecipasse alla seconda edizione del Concorso Rubinstein. Invece, Rachmani nov si imbarcò nella creazione della Sinfonia n. 1, che gli costò due anni di lavoro e che fece un fiasco colossale alla prima esecuzione. Così, la carriera di pianista-compositore non venne veramente iniziata e la carriera di sinfonista venne mancata. Solo nel 1901 Rachmaninov riprese, e questa volta sfondando, il ruolo del pianista-compositore; poi, nel 1917, divenne pianista-interprete, e in quanto tale fu tra i più grandi che la storia ricordi. 1 Rachmaninov era fuggito dalla Russia rivoluzionaria, ma la partitura del Concerto n. 1 nella nuova versione venne pubblicata a Mosca nel 1920 dalle neonate Edizioni Musicali di Stato. Nel 1921 l’editore Gutheil, uscito anche lui dalla Russia, pubblicò il Concerto a Lipsia presso la Breitkopf e Hàrtel, con cui aveva stabilito da lungo tempo rapporti di collaborazione.
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Il Concerto n. 1 rappresenta da un lato l’esordio del Rachmaninov compositore e, dall’altro, l’esordio del Rachmaninov interprete, perché la versione del 1917 appartiene ad un artista che sa come ottenere il massimo dal materide che tratta. Un serbatoio di idee compositive che verranno sviluppate più tardi (chiunque è in grado di scorgere nel Concerto n. 1 il bozzolo del più celebre Concerto n. 2) ed una scrittura perfettamente scaltrita. Questo è il Concerto n. 1: non una creazione assoluta, ma uno splendido saggio di ciò che bisogna saper fare per ottenere il successo nell’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento.
CONCERTO IN DO MINORE OP. 18 (N. 2) Moderato (do minore, tempo tagliato). □ Adagio sostenuto (mi maggiore, tempo ordinario) — Un poco più animato — Adagio sostenuto (Tempo I). □ Allegro scherzando (do maggiore-do minore-do maggiore, tempo ordinario).
• Nicolai Dahl. • 19004901. • Mosca, 2 dicembre 1900, pianista Sergej Rachaminov, direttore Ale xandr Siloti (secondo e terzo tempo); Mosca, 27 ottobre 1901, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Alexandr Siloti (completo). • A. Gutheil, Mosca 1901. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
Ben di rado finora ci è accaduto di parlare diffusamente delle dediche. Orbene, questa volta dobbiamo, perché se una dedica significativa dovesse andare tradizionalmente unita alla denomina zione data dall’autore, com’è il caso della Sonata a Kreutzer, il Concerto ». 2 di Rachmaninov avrebbe tutte le carte in regola per chiamarsi Concerto à Monsieur Dahl. Il Monsieur N. Dahl che figura in testa al Concerto n. 2 op. 18 era un medico di Mosca: uno psichiatra, specializzatosi nel curare con l’ipnosi gli alcolizzati. Nel 1900 Rachmaninov, paziente del dottor Dahl, non era alcolizzato. Non lo era ancora, ma si distingueva a tal punto nel bere, in un paese dove di alcol non si faceva certo risparmio, che senza il dottor Dahl lo sarebbe probabilmente diventato ben presto. Classico bevitore di vodka, Rachmaninov, classicamente, beveva per dimenticare. E doveva dimenticare di essere un primo della classe che stava fallendo nella professione. Diplomatosi brillantemente in pianoforte a diciott’anni, diplomatosi brillantissimamente
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in composizione a diciannove anni con l’opera in un atto Aleko, entrato con Aleko nel Teatro Bolshoi di Mosca a vent’anni, protetto agli esordi da un’autorità come Ciaikovsky, a ventisette anni Rachmaninov si ritrovava senz’arte né parte: come concertista di pianoforte, dopo aver esordito a Mosca a diciott’anni, aveva iniziato una tournée d’assaggio in provincia con la violinista Teresina Tua senza neppure portarla a termine; come insegnante si era visto togliere subito una misera classe di pianoforte al Collegio Marjinski, come compositore era andato incontro a ventiquattr’anni — come abbiamo detto, — al fiasco colossale della sua Sinfonia n. 1 op, 13, e come direttore d’orchestra era durato meno d’un anno, dai ven tiquattro ai venticinque, nel teatro privato del magnate delle fer rovie Savva Mamontov. A ventisei anni, nel 1899, Rachmaninov aveva suonato a Londra alcuni pezzi per pianoforte solo ed aveva diretto il suo poema sinfonico Le Rocker; come abbiamo detto poco prima, era stato invitato a ritornare e aveva promesso che sarebbe venuto con un nuovo concerto per pianoforte, concerto che non gli usciva dalla penna. Già liquidato in Russia e sul punto di non saper cogliere l’occasione offertagli da Londra, Rachmaninov si dedicò, in compa gnia del critico Juri Sakhanovsky e di altri bei soggetti moscoviti, al bere e agli svaghi che i biografi virtuosi definiscono “disordini morali”. Certi amici mandarono Rachmaninov da Lev Tolstoj, maestro di vita oltre che romanziere, che diede al giovane scavezzacollo una solenne lavata di capo..., poco saggia, come ritenne Rachmaninov e come gli confermò Cecov, per il quale tutto doveva essere dipeso dal mal di stomaco di Tolstoj: «Quando non sta bene è capace di dire delle stupidaggini. Ma non bisogna farci caso, non ha importanza». Così concludeva Cecov. E Rachmaninov commentava ancora qua rantanni dopo: «Che uomo, quel Cecov». Fallita la dieta Tolstoj, certe premurose amiche convinsero Rachmaninov a farsi curare dal dottor Dahl, violinista dilettante e membro di un quartetto ippocratico. Dal gennaio all’aprile del 1900 Rachmaninov si recò ogni giorno nello studio del dottore per farsi ipnotizzare e sentirsi ripetere: «Lei si metterà a scrivere il concerto. Lavorerà senza fatica. Il concerto sarà eccellente». Finita la cura, Rachmaninov partì per l’Italia in compagnia del basso Scialiapin e si riposò a Varazze, trovando la cittadina ligure straordinariamente rumorosa. In luglio passò a Milano dove, oltre al rumore, capitò dentro ad un caldo infernale, e tornò in Russia.
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Il 2 dicembre Rachmaninov eseguiva a Mosca il secondo e il terzo tempo del Concerto op. 18, sotto la direzione del suo ex maestro di pianoforte, nonché cugino, Alexandr Siloti. Il primo tempo fu composto nel 1901 e l’intero Concerto venne eseguito per la prima volta a Mosca in ottobre. Nell’inverno del 1902 il Concerto fu presentato a Londra dal pianista russo Vasily Sapelnikov, in aprile venne eseguito a S. Pietroburgo da Alexandr Siloti sotto la direzione di uno dei maggiori maestri del tempo, Arthur Nikisch; poco dopo i due artisti rieseguivano il lavoro al Gewandhaus di Lipsia. Lanciato così il Concerto nel mondo musicale europeo, Rachmani nov sistemava in modo moralmente ordinato la sua vita sposando la cugina Nathalie Satin il 12 maggio 1902. Quanto al bere, dice uno dei suoi biografi, «è tanto se assaggiò un po’ d’alcol durante il resto della sua vita». La struttura del Concerto è quella dei concerti dei pianisticompositori, che pur impegnando molto l’orchestra tenevano sempre conto di quel che avevano scoperto i vecchi volponi del Biedermeier: più il pianoforte suona, meglio è. Le maggiori singolarità strutturali del primo tempo consistono nella brevissima introduzione, con i grandi accordi alternati al rintocco profondo di un fa basso, e nella tonalità in cui viene presentato, nella riesposizione, il secondo tema. A parte ciò, le strutture sono molto schematiche e l’interesse della composizione si accentra sulla bellezza e sulla forza emotiva, invero molto elevata, dei due temi principali. Il secondo tempo è in mi maggiore, ma non inizia nella tonalità principale: inizia in do minore (tonalità del primo tempo) e modula a mi maggiore nel breve spazio di quattro battute. Il secondo tempo è in tre parti ma non, come si potrebbe aspettare, in forma di canzone. Il tema principale, che è formato da più elementi melodici sovrapponibili, viene sviluppato nella parte centrale fino ad un punto culminante (cadenza del pianoforte); la ripresa del tema principale viene vivificata da una perorazione del pianoforte in cui il pianista Rachmaninov sapeva mettere superbamente in luce le sue personali capacità di “cantare” sullo strumento a corde percosse. Due incisioni del Concerto con Rachmaninov al pianoforte restano a testimoniare questo momento dell’esecuzione di Rachmani nov, che dal vivo doveva però essere ancora più impressionante; ad esempio, Lovro von Matacic, che diresse più volte il Concerto durante una tournée in Polonia con Rachmaninov, diceva che lui stesso, sul podio, restava ogni volta sorpreso e stupito per l’atmosfera che Rachmaninov suscitava.
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Anche il terzo tempo non inizia nella sua tonalità ma nella tonalità del secondo tempo. Si tratta, evidentemente, di una variante della soluzione formale di Mendelssohn, dettata dalla preoccupazione di conferire al concerto una più evidente coesione. Altro elemento di coesione è il richiamo, all’inizio del terzo tempo, ad uno dei temi del primo tempo. Il terzo tempo è in forma-sonata come il primo, con caratteristiche molto simili e con gli stessi pregi. Famosissimo è il secondo tema del terzo tempo, tema che, a detta del critico Leonid Sabane’ev, non sarebbe di Rachmaninov ma del suo amico Nikita Morozov. Ascoltando un brano di Morozov, Rachmaninov avrebbe detto: «Oh! ma è una melodia che avrei potuto comporre io». «Ebbene, perché non te la prendi?», avrebbe risposto Morozov. E Rachmaninov non si sarebbe fatto pregare. Caratteristica formale dell’ultimo tempo, analoga a quella del primo, è la riesposizione del secondo tema in una tonalità inattesa (re bemolle maggiore); Rachmaninov si riserva così la tonalità luminosa di do maggiore per un ultimo, trionfante ritorno del fascinosissimo secondo tema, seguito da un breve momento di baccano musicale — usiamo il termine in senso tutt’altro che spregiativo — che prelude già al baccano del pubblico entusiasmato. CONCERTO IN RE MINORE OP. 30 (N. 3) • Allegro ma non tanto (re minore, tempo ordinario). □ Intermezzo. Adagio (fa diesis minore-re bemolle maggiore, 3/4) — Poco più mosso (fa diesis minore, 3/8). □ Finale. Alla breve (re minore, tempo ordinario) — Scherzando (mi bemolle maggiore, 4/4) — Tempo I. Alla breve (mi bemolle maggiore-re minore-re maggiore, tempo ordinario). • Joseph Hofmann. • 1909. • New York, 28 novembre 1909, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Walter Damrosch. • A. Gutheil, Mosca 1910. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
Il Secondo Concerto, pezzo di grande successo, riempì l’attività internazionale del pianista-compositore Rachmaninov per alcuni anni. Quando venne invitato negli Stati Uniti agli inizi del 1909, Rachmaninov si accorse però che il Secondo, già molto noto ed eseguito da altri pianisti, non gli bastava più, e decise di comporre un Terzo Concerto. Il lavoro venne iniziato verso il 20 maggio nella proprietà di campagna di Rachmaninov a Ivanovka. A fine mese
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l’impresario americano di Rachmaninov passò a miglior vita, e la tournée sembrò dover essere annullata. Ma in luglio la vedova dell’impresario confermò gli impegni e Rachmaninov finì il Concer to, si mise a studiarlo, lo lavorò per bene, su una tastiera muta, durante il viaggio in transatlantico. Il Concerto n. 3 segnava l’apogeo del concerto calcolato sul pianista-compositore. Temi molto caratterizzati, elaborazione tema tica minima, forma in gran parte basata ancora sulla lezione di Mendelssohn, orchestra robustissima e sempre impegnata, dimensio ni monumentali. La volontà di successo, a cui senza dubbio si conformava la poetica di Rachmaninov, non ottenne però con il Terzo i risultati clamorosamente ottenuti con il Secondo. Sbarcato a New York ai primi di novembre, Rachmaninov suonò in recital il 4 a Northam pton (Sonata op. 28, pezzi dalle opere 3 e 10, un gruppo di preludi), 1’8 suonò il Secondo Concerto alla Philadelphia Academy of Music con l’Orchestra Sinfonica di Boston diretta da Max Fiedler; il Secondo, sempre con la Sinfonica di Boston diretta da Fiedler, fu ripetuto a Baltimora, New York, Hartford, Boston, Toronto. Il 20 novembre Rachmaninov tenne il suo recital a New York e subito dopo diresse a Filadelfia Una notte sul Monte Calvo di Mussorgski e la sua Seconda Sinfonia. Il 28 novembre, finalmente, presentò a New York il Terzo Concerto sotto la direzione di Walter Damrosch, e lo suonò nuovamente il 30. Già all’esordio a New York un critico aveva osservato che il suono di Rachmaninov non eccelleva per bellezza e varietà; questa volta un altro critico opinò che molti pianisti avrebbero potuto render meglio la parte solistica del Terzo Concerto. In dicembre Rachmaninov diresse a Chicago la sua Isola dei morti, tenne un recital a Pittsburg, suonò il Secondò a Boston, Cincinnati e Buffalo. Il 9 gennaio sostenne un recital al Metropoli tan, con un programma di musiche sue comprendente anche liriche cantate da Anna Meitschick e Adam Didur. Il 16 gennaio eseguì il Terzo Concerto con la New York Philarmonic diretta da Gustav Mahler. Vent’anni più tardi Rachmaninov ricordò in questi termini la prova del concerto: «Sebbene la prova fosse programmata fino alle 12,30 continuammo a lavorare ben oltre questo termine, e quando Mahler disse che bisognava ripetere il primo tempo mi aspettavo proteste o scenate dai professori d’orchestra, ma non notai il minimo segno di fastidio. L’orchestra risuonò il primo tempo con grande e persino maggior impegno di prima».
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Il 27 gennaio Rachmaninov prese ancora parte ad un concerto a New York, eseguendo il Secondo Concerto e dirigendo Viso la dei morti. Gli fu offerto il posto di direttore stabile della Sinfonica di Boston e gli fu proposto un contratto per concerti nella stagione successiva, ma rifiutò. Il Terzo Concerto fu eseguito da Rachmaninov a Mosca in aprile e in novembre, a S. Pietroburgo nel febbraio del 1911, a Liverpool e a Londra in autunno. Nello stesso anno un giovanissimo allievo del conservatorio di Mosca, Samuel Feinberg, si diplomava eseguendo il Concerto (nonché i quarantotto preludi e fuga del Clavicembalo ben temperato di Bach), fl numero delle esecuzioni del Terzo Concerto fu però in complesso di molto inferiore a quello del Secondo, né altri pianisti famosi lo ripresero, né lo riprese neppure Josef Hofmann, al quale il lavoro era dedicato e che, pur essendo un grandissimo virtuoso, probabilmente non poteva dominarlo agevolmente perché la sua mano era troppo piccola per le estensioni richieste da alcuni passi. Alla fine del 1917, fuggito dalla Russia, Rachmaninov cambiò livrea. Per un quarto di secolo era stato in scena come pianistacompositore: divenne nel 1917, e fu poi per un altro quarto di secolo, pianista-interprete..., interprete anche di se stesso. Nei suoi concerti in Scandinavia del 1918 eseguì il Primo Concerto di Liszt e il Primo di Ciaikovsky, oltre al suo Secondo e a musiche per pianoforte solo di Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin, Ciaiko vsky. In ottobre, a1 Stoccolma, riprese il Terzo Concerto. Nel nuovo repertorio di Rachmaninov pianista-interprete il Concerto n. 3 non fu però pezzo tra i più graditi dal pubblico, neppure nella versione abbreviata che il compositore, censurando se stesso, decise di adottare. Poche furono le esecuzioni che soddisfecero pienamente Rachma ninov: a Berlino FU e il 12 novembre 1928 con i Berliner Philarmoniker diretti da Furtwangler, a Londra nel 1932 sotto la direzione di Henry Wood, ancora a Londra nel 1936 sotto la direzione di Malcolm Sargent, a New York il 3 dicembre 1933 con la Sinfonica di Filadelfia diretta da Eugene Ormandy. Negli anni 30 il Terzo Concerto aveva tuttavia cominciato a diventare popolare, ma non nell'esecuzione dell’autore: i successi trionfali, con il Concerto n. 3, li raccoglieva Vladimir Horowitz, che per primo affidò l’opera anche ai solchi del disco (Rachmaninov la incise più tardi). Altri pianisti mettevano in repertorio il Concerto. Tra di essi Walter Gieseking. Rachmaninov ascoltò da Gieseking il Terzo alla fine del 1939, e decise di non eseguirlo più. In fondo,
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dopo trentanni, dava quasi ragione al critico nuovaiorchese, che non lo aveva giudicato del tutto all’altezza del pezzo... Se Rachmaninov fosse o no all’altezza del pezzo, se Horowitz e Gieseking lo suonassero meglio, se altri lo suonino meglio ancora è questione che si può anche dibattere, perché abbiamo un’incisione di Rachmaninov, tre incisioni di Horowitz, la registrazione di due esecuzioni di Gieseking, incisioni e registrazioni di tutti i maggiori interpreti: la storia dell’esecuzione del Terzo Concerto è documenta tissima, e nessuna delle interpretazioni significative manca per chi voglia impegnarsi in uno studio ad hoc. Nessuna, tranne una: l’esecuzione di Rachmaninov non ancora pianista-interprete ma pianista-compositore. Se c’è una colpa che bisogna fare alla tecnica è quella di non esser stata ancora pronta, il 16 gennaio 1910, a fissare per noi l’esecuzione di Rachmaninov con Gustav Mahler direttore.
Si veda anche il commento alle pp. 101-102. CONCERTO IN SOL MINORE OP. 40 (N. 4) • Allegro vivace (Alla breve) (sol minore, tempo ordinario). □ Largo (do mag giore, tempo ordinario). □ Allegro vivace (sol minore-sol maggiore, 3/4). • Nicolai Medtner. • 1917-1926 (rev. 1941). • Filadelfia, 18 marzo 1927, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Leopold Stokowski; Filadelfia, 17 ottobre 1941, pianista Sergej Rachmani nov, direttore Eugene Ormandy (versione riveduta). • TAIR, Parigi 1928; Ch. Forley, New York 1944 (versione riveduta). • 3 fl. (Ili anche ott.), 2 ob., corno inglese, 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
La composizione del Concerto n. 4 fu particolarmente travagliata o, meglio, si intrecciò con un travagliatissimo periodo della vita di Rachmaninov. Secondo una notizia apparsa nella rivista russa «Muzyka» il 12 aprile 1914, Rachmaninov stava pensando fin da allora ad un nuovo concerto. Non è improbabile che la notizia sia fondata, perché nel secondo tempo del Concerto in sol minore viene impiegato in parte un Etude-Tableau non incluso nelle due serie op. 33 (1911) e op. 39 (1916-17); non si hanno però notizie più precise del progetto, che non dovette andare oltre una prima intenzione. Rachmaninov ripensò ad un Concerto in sol minore nel 1917 e fece degli abbozzi, ma in quel momento preferì riprendere e riscrivere il Concerto op. 1, la cui revisione fu condotta a termine
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durante la Rivoluzione. Poi la fuga dalla Russia, l’emigrazione negli Stati Uniti, la carriera di pianista, che fu intrapresa e per necessità di lavoro e per il maturarsi di una decisione da lungo tempo rinviata, allontanarono Rachmaninov dalla composizione. Ma nel 1926, in un periodo in cui gli impegni di concertista gli lasciavano liberi alcuni mesi, Rachmaninov compose però il Concerto in sol minore^ primo lavoro portato da lui a termine dopo il 1917. Iniziato in gennaio a New York, terminato in autunno a Dresda, il Concerto fu eseguito a Filadelfia il 18 marzo dell’anno seguente e venne ripetuto pochi giorni dopo a New York, con scarso successo in entrambe le occasioni. In vista dell’esecuzione Rachmaninov, insicuro come sempre, aveva fatto parecchi tagli per ridurre la mole di una partitura che, aveva scherzosamente scritto a Nicolai Medtner il 9 settembre 1926, avrebbe dovuto esser divisa a puntate come il Ring di Wagner. Però i tagli non bastarono ad ottenere qualcosa più del successo di stima, né migliori risultati vennero conseguiti con una più completa revisione che seguì le prime esecuzioni. Rachmaninov pubblicò tuttavia la partitura presso la casa editrice che aveva fondato a Parigi e di cui era proprietario, e rieseguì il Concerto nel 1929, nel 1930 e nel 1931 (1’8 dicembre, a Berlino, sotto la direzione di Bruno Walter). Di fronte al... rinnovato insuccesso tolse però il Concerto dal suo repertorio. Lo riprese nel 1941, in occasione di un ciclo di programmi dedicati alle sue opere: fece altri tagli, riscrisse varie pagine, cambiò l’orchestrazione, modificò sensibilmente il finale, esegui il Concerto sotto la direzione di Eugene Ormandy il 17 ottobre e lo incise in disco il 20 dicembre. Dopo la morte di Rachmaninov il Quarto godette di un momento di notorietà negli anni 50, quando fu eseguito più volte, ed inciso, da Arturo Benedetti Michelangeli in Occidente e da Yakov Zak nell’Unione Sovietica. Poi sparì di nuovo dal repertorio, in cui sta appena rientrando oggi. Un’analisi comparata della versione 1926 e della revisione 1941 sarebbe molto interessante per vedere quali problemi Rachmaninov affrontasse fin dal principio e come li risolvesse più avanti. Ma non essendo qui il luogo per un lavoro di questo genere ci limiteremo ad osservare che alcuni dei nuovi orientamenti di Rachmaninov, soprattutto in materia di strumentazione, si scorgono fin dalla revisione del Concerto n. 1. Nel 1917, ritornando sulla sua com posizione del 1891, Rachmaninov dimostrava di essersi accorto dello Stravinsky “russo”, strumentando in modo meno convenzionale e
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scrivendo passi pianistici, ad esempio nel collegamento dal primo al secondo tema del primo tempo, che stilisticamente non sarebbero stati fuor di luogo in una composizione stravinskiana. Certi passi del Concerto n. 4, ad esempio l’entrata del pianoforte nel finale, non sarebbero fuor di luogo in una composizione di Prokofiev. Nella parte generale abbiamo accennato al Concerto n. 2 di Medtner, che si sforza, alla metà degli anni 20, di tener conto dei tempi nuovi. Si dà il caso che il Concerto n. 2 di Medtner sia dedicato a Rachmaninov in risposta alla dedica a Medtner del Concerto n. 4 di Rachmaninov. E i due compositori “tradizionali sti”, emigrati e sradicati dalla cultura fin de siècle che avevano rappresentato in Russia, in realtà si accostavano entrambi, con molta prudenza, ma anche con ansioso desiderio, ai compositori come Stravinsky e Prokofiev, che nell’occidente erano gli esponenti non già di una classe aristocratica, emigrata perché sconfitta, ma intellighenzia che sapeva battersi entro la rivoluzione della cultura seguita alla guerra. Mentre Medtner non andò però oltre il primo tentativo e concluse negli anni 40 la sua carriera, in piena regressione, con il Concerto n. 3, Rachmaninov riuscì invece a liberarsi dei condizionamenti che lo avevano imbrigliato nel 1926, e con la revisione del 1941 raggiunse nel Concerto n. 4 l’interna coerenza di forma e di scrittura. L’inizio del Concerto dimostra la nuova tendenza di Rachmani nov a pensare gli accordi come entità armoniche indipendenti invece che legate in rapporti sintattici stretti. Una fanfara dell’orchestra sull’accordo di re maggiore sale per due battute dal grave all’acuto, ma in luogo della risoluzione al primo grado di sol minore (l’accordo di re maggiore è la dominante di sol minore) arrivano inopinatamen te due accordi di fa diesis minore, un accordo di re maggiore, l’accordo di do minore. Rachmaninov conferma a questo punto con una cadenza il do minore, ma attraverso il sesto grado (accordo di la bemolle maggiore) anziché attraverso il quinto. Il pianoforte espone quindi il tema partendo dal do minore e chiudendo sul re maggiore. Riprende la fanfara dell’orchestra, passando attraverso altre macchie tonali, riprende il tema del pianoforte, con variazioni armoniche rilevanti. Abbiamo parlato di “tendenza”. Non si tratta in verità di una svolta stilistica che rinneghi totalmente il passato: il secondo tema è, inequivocabilmente, in si bemolle maggiore, con un’armonia non a macchie ma fortemente cromatica; ed anche la scrittura pianistica è qui stilisticamente affine a quella del Concerto n. 3. Il Rachmaninov
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“antico” appare però citato in un contesto con cui non entra né in rapporto né in opposizione, come un rispettabile relitto di una civiltà tramontata. Formalmente, Rachmaninov mantiene la sua preferenza per un’esposizione in quattro parti, uno sviluppo molto ampio, una riesposizione abbreviata e ridotta a minimi termini. Però, dopo due terzi dello sviluppo arriva un punto culminante, in do maggiore, che sembra una citazione delle vecchie conclusioni di Rachmaninov. E la riesposizione parte da mi bemolle maggiore ed il primo tema, più che riesposto, viene rievocato in un contesto di scrittura esile, disincarnata. Lo schema architettonico è noto; però la campitura delle aree tonali e l’organizzazione delle densità e dei punti culminanti lo rendono ambiguo, nuovo nello stile di Rachmaninov e, certamente, non riferibile storicamente al periodo anteriore alla guerra. Il tema principale del secondo tempo fonde sorprendentemente le caratteristiche dell’accostamento degli accordi e del cromatismo. Nessuno sviluppo, ma solo ripetizioni ad altezze diverse con piccole variazioni costituiscono la prima parte. La parte centrale è in due brevi sezioni, la prima brutalmente materica, la seconda stuporosa. La riesposizione del primo tema è a questo punto tradizionale. Però Rachmaninov, appena citato il tema, prosegue con una lunga coda a fantasia che introduce il terzo tempo. Nella coda viene esposta la scala cromatica, ripresa poi all’inizio del terzo tempo. Un occhieggiamento sarcastico alla dodecafonia di Schonberg? Potrebbe anche darsi. Il finale è però nettamente “prokofieviano”, forse, nell’episodio in re bemolle maggiore, con una citazione-parodia dal finale del Concerto in sol di Ravel. Non manca in questo finale, come in quello del Terzo, la citazione del primo tempo prima della lunghissima coda: coda che sembra però, in questo caso, la conclusione del Terzo di Rachmaninov... riveduta da Prokofiev. Insomma, si tratta di una partitura ideologicamente e stilisticamente complessa, il cui significato non sembra a noi ancor del tutto chiaro. La scoperta e l’uso di nuove possibilità del linguaggio? O una visione sarcastica e pessimistica da “mondo alla rovescia”? La seconda alternativa ci pare, ci pare soltanto, la più probabile. Ma siamo certi del fatto che il Concerto n. 4 dovrà essere studiato a fondo e che darà del filo da torcere a chi lo affronterà in profondità.
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RAPSODIA SU UN TEMA DI PAGANINI OP. 43
• Allegro vivace (la minore, 3/4) — Moderato — Tempo di Minuetto (re minore-fa maggiore) — Allegro — Allegretto (si bemolle, minore, 2/4) — Andante cantabile (re bemolle maggiore, 3/4) — A tempo vivace (la minore, tempo ordinario) — Marziale. Un poco più vivo (alla breve) — L’istesso tempo (2/4) — A tempo> un poco meno mosso (tempo ordinario) — Più vivo {2/4).
• Senza dedica. • 1934. • Baltimora, 7 novembre 1934, pianista Sergej Rachmaninov, direttore Leopold Stokowski. • Ch. Foley, New York, 1934. • Ott., 2 fl., 2 ob., corno inglese, 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., 2 arpe, archi.
Se oscuro è il significato del Concerto n. 4, il significato della Rapsodia su un tema di Paganini — il tema del Capriccio n. 24 per violino solo — sembrerebbe chiaro perché fu spiegato da Rachmani nov stesso. O meglio, Rachmaninov espose al coreografo Michel Folcine uno “scenario” per un balletto sulla Rapsodia che fu poi realizzato al Covent Garden di Londra il 30 giugno 1939 con il titolo Paganini. «Volevo dirle che sarei felice se Lei potesse ricavare qualcosa dalla mia Rapsodia. Questa notte ho pensato ad un possibile soggetto, ed ecco che mi è venuta un’idea. Le do per ora soltanto il piano generale, i particolari non sono ancora usciti dalla nebbia. Perché non far rivivere la leggenda di Paganini, che per raggiungere la perfezione nella sua arte e per il cuore di una donna aveva venduto Panima al diavolo?» (lettera del 29 agosto 1937). «Questa notte ho pensato...». Il che significa che non ci aveva pensato tre anni prima, quando aveva composto la Rapsodia. Ma ciò che ci interessa nel prosieguo della lettera è che nel tema del Dies Irae Rachmaninov individui il simbolo dello “spirito del male”. Ed è interessante la conclusione: Paganini riappare “vinto” nella penulti ma variazione. Folcine diede invece al balletto una conclusione positiva: lo “spirito del male” viene sconfitto dal «genio divino che apre a Paganini le porte dell’immortalità». Per questo finale Rachmaninov scrisse della nuova musica. Le variazioni col Diès Irae e le variazioni sentimentali in re bemolle maggiore dovevano rappresentare fin dal principio, rispetti vamente, un’idea di presenza malvagia e un’idea amorosa, insomma uno scenario faustiano.
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Rachmaninov toccava miti profondamente radicati nella cultura occidentale; Fokine, dovendo rendere spettacolari e quindi narrative le idee, preferì alterare una conclusione che non avrebbe altrimenti corrisposto al convenzionalismo della rappresentazione teatrale. Però Rachmaninov aveva scritto una partitura controllatissima, in cui anche l’uso del sentimento e del sentimentalismo veniva calcolato per un effetto complessivo e per ragioni di proporzioni della composizione, cioè secondo un’estetica manieristica: due pannelli estremi simmetrici e simili (l’Uomo), due pannelli interni simmetrici e contrastanti (il Maligno e la Donna), un pannello centrale (il pannello “dell’azione”, la conquista della Donna), e, ideologicamente, il non-trionfo finale dell’eroe. L’organizzazione per gruppi delle ventiquattro variazioni (il termine Rapsodia va inteso in senso traslato: la forma è quella del tema con variazioni) è chiarissima ed evidentissima anche al semplice ascolto. Non è magari tanto chiaro, ma si tratta di un fatto esclusivamen te grafico, che il tema arrivi dopo la prima variazione. Otto battute di introduzione sul primo nucleo del tema danno soprattutto modo a Rachmaninov di scherzare con due suoni, il mi e il fa, che vengono armonizzati in tre modi diversi, con movimenti paralleli di parti intorno, tre volte, ad un diverso suono fisso. E un modo di dimostrare come Rachmaninov sappia usare l’accordo non in quanto funzione ma in quanto colore armonico. Tuttavia, la conclusione è tonale, una normalissima cadenza in la minore. Dopo l’introduzione viene ciò che Rachmaninov indica come «Var. I (Precedente)». In realtà, si tratta di una variazione “per sottrazione”, di una riduzione del tessuto allo scheletro armonico, così come Beethoven aveva fatto nelle Variazioni op. 33 e nel finale della Sinfonia “Eroica”. Questa variazione precedente viene certamente colta dall’ascolta tore come preannuncio di un tema ben conosciuto; ma Rachmaninov se ne servirà come del vero e proprio tema. Anche la strumentazione di questa prima variazione serve a dimostrare come Rachmaninov sappia trattare l’orchestra in modo virtuosisticamente divisionistico, con minime variazioni che nella più semplice successione di suoni creano una rifrazione di colori. Altra dimostrazione di virtuosismo, dell’orchestra in sé più che del modo di trattarla, la troviamo nell’esposizione del tema, dove i violini primi e secondi all’unisono eseguono il testo così come si trova in Paganini. Un passo solistico eseguito da una massa! Possiamo ricordare per analogia la trascrizione per grande orchestra
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di Alfredo Casella della Ciaccona per violino solo di Bach (1935), trascrizione nella quale il testo bachiano viene all’inizio eseguito da tutti i violini. E possiamo ricordare il Moto perpetuo di Paganini eseguito dall’intera fila di violini all’unisono: prodezza che negli anni 30 e 40 andò molto di moda... Nel gruppo delle prime sei variazioni (compresa la precedente) viene in luce anche il virtuosismo del pianista; ma è soprattutto virtuosistica la scrittura orchestrale, e la parte del pianoforte, stilisticamente affine a Prokofiev, è piuttosto quella di un solista dell’orchestra. Nella settima variazione il pianoforte introduce il tema del Dies Irae, che viene sovrapposto ad una variazione molto complessa e frantumata del tema di Paganini2. E i due temi giocano come a rimpiattino nelle successive variazioni, fino alla decima che conclude il secondo gruppo. Nella undicesima variazione, che serve di cerniera tra il secondo e il terzo gruppo e che è di tipo improvvisatorio, il pianoforte diventa per la prima volta il solista invece che un solista dell’orche stra; nella musica teatrale dell’ottocento si trovano tuttavia episodi in cui l’arpa acquista un ruolo paragonabile a quello del pianoforte in questa variazione: non siamo ancora, insomma, al pianoforte dominatore della tradizione tardoromantica in cui Rachmaninov era cresciuto. Però il pianoforte comincia di qui a staccarsi veramente dal l’orchestra, e nella successiva variazione, Tempo di Minuetto, viene accompagnato; nella tredicesima si contrappone all’orchestra. Il gioco di Rachmaninov — insistiamo su questo termine, gioco — continua nella quattordicesima variazione, che è quasi tutta dell’orchestra3, e nella, quindicesima, che è quasi tutta del pianofor te. Questo gruppo centrale, come prima accennavamo, sembra rappresentare l’azione, la ricerca dell’oggetto della visione apparso — fatto apparire dal Maligno — nella undicesima variazione. Con la sedicesima variazione entriamo nella zona “amorosa”, 2 II rapporto tra i due temi è un po’ simile al rapporto dei due temi nel Totentanz di Liszt: i suoni n. 3, 4, 5, 6 (uguale al 3) del tema di Paganini sono identici ai primi quattro suoni del tema del Dies Irae nell’ordine, 4, 5, 4, 3. Si può ricordare che una tipica costruzione tematica di Rachmaninov (non infrequente, ad esempio, nel Terzo Concerto) consiste nella linea che inizia con due strumenti all’unisono e che poi si “biforca” in due linee.
3 Nella quattordicesima, e già prima, nella decima variazione, Rachmaninov scrive nella parte del pianoforte delle battute ad libitum: il pianista può decidere se raddoppiare l’orchestra, diventando in tutto e per tutto “massa”, o tacere.
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dove arriva, accuratamente preparato e con un graduatissimo cambio di atmosfera, il song della diciottesima variazione, di cui abbiamo già detto (si veda a p. 125). Conclusa la parte in re bemolle maggiore, sei battute di collegamento con gli archi in pizzicato portano alla diciannovesima variazione in cui il pianoforte... impersona Paganini con una serie rapida di suoni indicati “quasi pizzicato”. Si tratta di un tipo di tocco in cui si sente il rumore del colpo del dito sul tasto, così come nel pizzicato violinistico si avverte il rumore dell’unghia. E dunque un modo di esecuzione che si può definire transpianistico, partendo dal quale si sviluppa un gruppo di variazioni frenetiche in cui l’orchestra e il solista gareggiano in bravura e che culminano in una cadenza del pianoforte. La ventitreesima variazione inizia come riesposizione del tema ma in una tonalità “sbagliata”: la bemolle minore invece di la minore. Con il brusco slittamento al la minore la variazione ridiventa tale, e la variazione ventiquattresima è per il pianoforte la più difficile di tutte, e di gran lunga: qui e nella coda (più vivo) il pianoforte riacquista veramente la tradizionale posizione di assoluto predominio. Con due battute burlesche, identiche a quelle che chiudevano l’introduzione, la Rapsodia ha termine o, si potrebbe dire, cessa di botto. Rapsodia? Il termine è stato usato nei modi più vari, e noi non sappiamo bene come Rachmaninov intendesse impiegarlo. In un primo tempo aveva in mente Fantasia. Il termine a parer nostro più appropriato sarebbe Capriccio o Capricci. Se nelle variazioni della Fantasia op. 80 Beethoven esprimeva il suo umanesimo illuministico, e se nelle variazioni del Totentanz Liszt esprimeva il neomedievali smo della sua tormentata religiosità, nelle variazioni della Rapsodia troviamo l’ironia amara dei Capricci di Callot. In questo senso noi vediamo nella Rapsodia, e perciò nella parte generale avevamo parlato di cinismo epico, un gioco sui miti della cultura di massa del nostro secolo. Forse un mito faustiano, come dicevamo, che sembra sfiorare Gounod ma che viene sviluppato in realtà con intelligenza tagliente e il cui esito è una musica adatta, più che a un balletto di Fokine, a un film di René Clair.
Si veda anche il commento alle pp. 123-126.
ARNOLD SCHONBERG (Vienna, 13 settembre 1874 — Los Angeles, 13 luglio 1951)
CONCERTO OP. 42
• Andante (3/8) — Molto allegro (2/2) — Agitato (3/4) — Tempo I (2/2) — Più largo — Adagio — Più largo — Giocoso (moderato) (tempo tagliato) — Meno mosso — Tempo I — Stretto.
• Henry Clay Shriver. • 1942. • New York, 6 febbraio 1944, pianista Eduard Steuermann, direttore Leopold Stokowski. • Schirmer, New York 1944. • 2 fl. (II anche ottavino), 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., silofono, archi.
Sembra che a spingere Schonberg a comporre un concerto per pianoforte fosse Oscar Levant, pianista “classico” che, amicissimo di Gershwin, si occupava anche intensamente di musical^ di canzoni, di cinema, che scrisse due libri di ricordi e che in alcuni film fece l’attore (qualcuno lo ricorderà in Humoresque, come “spalla” di un nevrotico John Garfield che... suonava sul violino la Morte di Isotta). Per quanto versatile e brillante, Oscar Levant non lo era però fino al punto di impegnarsi davvero sulla musica dodecafonica, e il Concerto op. 42 fu così terminato per commissione di un allievo di composizione di Schonberg, Henry Clay Shriver, al quale fu dedicato; la prima esecuzione venne garantita, nell’anno del settan tesimo compleanno di Schonberg, dal fedelissimo Eduard Steuer mann, in un concerto della NBC diretto da Stokowski. Molte esecuzioni radiotrasmesse negli Stati Uniti negli anni 30 e 40 vennero incise su acetati o registrate su nastro. Non questa, purtroppo. E siccome il Concerto venne poi ripreso raramente non abbiamo incisioni o registrazioni che possano essere considerate “autentiche”, cioè approvate da Schonberg. La prima incisione in
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disco, con Claude Helffer e 1’orchestra della radio francese diretta da René Leibowitz, è del 1957. Alfred Brendel incise il Concerto verso il 1960, e Glenn Gould nel 1961. Tra i maggiori pianisti del nostro tempo, oltre a Brendel e Gould, solo Maurizio Pollini ha eseguito il Concerto di Schonberg, ma la sua interpretazione non è stata finora riportata in disco. In Italia il Concerto fu eseguito per la prima volta da Pietro Scarpini, alla RAI di Torino, il 13 febbraio 1948; dirigeva Franz André. Fu una serata molto burrascosa, con momenti di gran baccano durante l’esecuzione e un subisso ai fischi e urla alla fine. Le prime esecuzioni in altri paesi non avevano destato scandalo ma neppure interesse. E solo Virgil Thompson, recensendo la prima esecuzione assoluta nel «New York Herald Tribune», aveva dimo strato di saper cogliere il carattere profondo dell’opera: «L’espres sione è romantica e ricca di sentimenti, proprio come nell’uso di Schonberg e della migliore tradizione viennese». Una annotazione su un foglietto, ritrovato e pubblicato da H.H. Stuckenschmidt, testimonia un’intenzione espressiva precisa: «La vita era così facile / Improvvisamente scoppiò l’odio (Presto = 72) / Si creò una grave situazione (Adagio) / Ma la vita continua (Rondò)». Può anche darsi, come qualcuno ha sospettato, che il “program ma” venisse comunicato a Levant per... tranquillizzarlo. Non è però pensabile che Schonberg appiccicasse al Concerto una spiegazione in termini di sentimenti soltanto per compiacere qualcuno. Tra le parole di Schonberg e la sua musica esiste certamente un rapporto, for sanche autobiografico, che va visto però entro la poetica simbolista e non entro l’estetica della “musica a programma”. Il Concerto è in quattro tempi collegati: Andante, Molto Allegro, Adagio, Giocoso (moderato). Nella scheda noi abbiamo però indicato anche alcune variazioni di tempo che rivestono una funzione strutturale, non semplicemente espositiva: ad esempio, la parte maggiore del secondo tempo è l’Agitato = 72, che corrisponde al Presto = 12 indicato da Schonberg negli appunti prima commentati. Il primo tempo è formato da esposizione in tre parti, sviluppo, riesposizione variata. Il secondo tempo comprende esposizione, intermezzo (Agitato), sviluppo, riesposizione variata e coda. Il terzo tempo è formato da esposizione e riesposizione variata, separate da una cadenza del pianoforte. Il finale è un rondò-sonata, con uno sviluppo (Meno mosso) al posto del terzo tema. Il Concerto è dodecafonico e il parlarne in termini di “temi” ed “esposizioni” sarebbe, a rigore, improprio. Il rapporto con le forme
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classiche avviene però non solo a livello di macrostruttura, ma anche di microstruttura. Così, ad esempio, il pianoforte espone all’inizio una melodia costituita in gran parte, ma non tutta, con i suoni della serie dodecafonica originale, e strutturata in un regolarissimo periodo di otto battute suddiviso in quattro e quattro. La stessa melodia apparirà alla fine (Tempo I), trionfante e luminosa, ai violini primi con i violini secondi in ottava. La struttura del linguaggio, in realtà, è dodecafonica; ma la sintassi e le forme del discorso sono profondamente radicate nella tradizione dell’ottocento, come del resto aveva capito fin dal primo momento Virgil Thompson. Stupisce quindi, vista la popolarità che la musica dell’ottocento continua a mantenere, che a più di quarantanni dalla sua creazione il Concerto di Schonberg resti ancora praticamente ignorato dal pubblico.
Si veda anche il commento alle pp. 122-124.
MAURICE RAVEL (Cibourre, 7 matzo 1875 — Parigi, 28 dicembre 1937)
CONCERTO IN RE MAGGIORE PER LA MANO SINISTRA
• Lento (re maggiore, 3/4) — Più lento (la maggiore, 9/8) — Andante (si bemolle minore-do maggiore, 3/4) — Allegro (mi maggiore, 6/8) — Tempo I (do maggiore-re maggiore, 3/4) — Allegro (6/8). • Paul Wittgenstein. • 1929-1930. • Vienna, 5 gennaio 1932, pianista Paul Wittgenstein, direttore Robert Heger. • Durand, Parigi 1931. • Ott. (anche II fl.), 2 fl., 2 ob., corno inglese, 2 cl., clarinetto basso, 2 fg., controfagotto, 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., tp., pere., arpa, archi.
Come abbiamo detto nella parte generale, il Concerto in re fu scritto su “ordine” di Paul Wittgenstein, fratello del filosofo, a cui durante la guerra era stato amputato il braccio destro. Probabilmen te Ravel incontrò e ascoltò Wittgenstein in Austria nella primavera del 1929. Non sappiamo quando e in che termini il pianista proponesse il contratto, ma sappiamo che il Concerto per la mano sinistra fu iniziato nel corso del 1929. In un incontro a due che ebbe luogo in Francia Ravel fece ascoltare la parte pianistica del Concerto (suonandola a due mani) al buon Wittgenstein, il quale — per colpa della musica o dell’esecu zione? — ci capì molto poco. Ed era appena all’inizio... Un biglietto non datato di Ravel a Toscanini, ritrovato e pubblicato da Harvey Sachs Sottaniniy Londra 1978), ci rivela che il compositore vagheggiava una prima esecuzione assoluta negli Stati Uniti sotto la bacchetta del grande direttore italiano. Sarebbe stato un “lancio” internazionale di enorme risonanza. Ma la prima ebbe invece luogo a Vienna all’inizio del 1932 (non il 27 novembre 1931, data indicata erroneamente da Marguerite Long e riportata in molte
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pubblicazioni), con un direttore poco noto. Ravel, che alcuni giorni più tardi avrebbe diretto a Parigi la prima del Concerto in sol, non si recò neppure a Vienna; e del successivo e non pacifico suo incontro con Wittgenstein abbiamo già detto (si veda a p. 121). La prima esecuzione a Parigi, con Wittgenstein, il 17 gennaio 1933, fu tuttavia diretta da Ravel, che assistette inoltre ad una esecuzione di Wittgenstein a Montecarlo diretta da Paul Paray. Wittgenstein incise il Concerto solo nel dopoguerra: non sappiamo come lo eseguisse prima, ma l’incisione documenta parecchie e non marginali modifiche ch’egli introdusse nella parte pianistica dell’o pera. Una volta trascorso il periodo di esclusiva di sei anni, che Wittgenstein si era fatto riservare, il Concerto venne eseguito da Jacques Février a Parigi il 19 marzo 1937 sotto la direzione di Charles Munch. Nel 1939 Alfred Cortot incise il Concerto sotto la direzione di Munch; Robert Casadesus e Jacques Février lo eseguirono spesso nei primi anni dopo la guerra e ben presto il lavoro divenne molto noto1. Il Concerto inizia con una lunga introduzione orchestrale in cui non viene mai toccata la tonalità di re maggiore che figura come armatura di chiave. Le prime due battute, pianissimo, fanno oscillare semplicemente i quattro suoni dell’accordatura del contrabbasso (sol-re-la-mi), ed il primo tema esposto dal controfagotto non tocca il do diesis, nota-chiave della tonalità. L’introduzione è in realtà una presentazione dei due temi principali, ma come lenta accumulazione di sonorità intorno ad una nota-pedale, il mi. Il pianoforte subentra da solo all’orchestra quando questa ha raggiunto il culmine della potenza, e quindi si pone subito in posizione antagonistica, malgrado l’impiego di una sola mano. L’esposizione del primo tema affidata al pianoforte è lunga (tre pagine a stampa), tesa e persino violenta nella sua protervia. L’orchestra riespone il primo tema, variato, il pianoforte introduce il secondo tema, in la maggiore. Inizia quindi subito lo sviluppo del primo tema, che sbocca però non nella riesposizione ma in un secondo tempo collegato con il primo. Si tratta di una danza in cui si distinguono chiaramente un 1 La prima esecuzione a Torino, con Février ed Armando La Rosa Parodi, ebbe luogo il 6 dicembre 1946. Février lasciò in camerino il suo bell’orologio da tasca d’oro e... non lo ritrovò al termine dell’esecuzione: i giornali si divertirono non poco sul fatto che la destra mano d’un ladruncolo avesse sottratto al pianista della mano sinistra la macchina del tempo.
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elemento tematico introduttivo ed un tema formato da tre elementi distinti, sebbene simili. A questo rude tema popolaresco, che risente del folclore basco, segue un secondo tema, più episodico, di un curioso carattere orientaleggiante e strumentato — ottavino, flauti, arpa, pianoforte, archi in pizzicato — in modo da rendere l’immagine più convenzionale del “colore locale” che l’Europa associava alla Cina. Nella sezione centrale, sviluppo, viene inserito il secondo tema del primo tempo, che diventa l’elemento dominante. Anzi, il secondo tema del primo tempo e il primo del secondo tempo, dopo essere stati citati separatamente, vengono sovrapposti, e l’ideacardine dello sviluppo consiste proprio nella compresenza di due temi contrastanti. La riesposizione abbreviata ed una coda molto virtuosistica concludono il secondo tempo. Il gioco degli incastri si completa a questo punto con un’eleganza prodigiosa. La riesposizione del primo tempo, “impedita” dalla irruzione del secondo tempo, può aver luogo. Ma inizia dal secondo periodo del primo tema, non dal primo, come se la lunga interruzio ne, che retrospettivamente assume un significato di visione o di apparizione, avesse frantumato l’architettura: la frattura viene sì ricomposta, ma l’architettura non è integra. E la riesposizione, siccome il secondo tema del primo tempo è già stato ripreso nel corso del secondo tempo, è limitata al primo tema. Il secondo tema dà invece origine alla Cadenza (ventisette righe a stampa delle centotrenta complessive della parte del pianoforte, e cioè un quinto del totale). Due terzi della Cadenza sono basati sul secondo tema, l’ultimo terzo sul primo. Poi interviene l’orchestra, proseguendo insieme con il pianoforte in una perorazione sul primo tema. Sul punto culminante, invece di chiudere, Ravel fa irrompere di nuovo il secondo tempo? una brevissima citazione (cinque battute), che limita però e contraddice la conclusione trionfale. Non è il caso di commentare più oltre la forma del Concerto, perché il lettore avrà capito benissimo che si tratta di una architettura di sconcertante genialità. E invece il caso di toccare ancora il rapporto Ravel-Wittgenstein perché il Concerto appare legato non solo all’occasione di scrivere un pezzo per la mano sinistra, ma anche alla figura del committente. Paul Wittgentesin — e qui si deve dimenticare la tragedia della sua esistenza, la perdita in guerra di un braccio e la condanna a veder perire la carriera già percorsa o a inventarne una nuova — culturalmente era un vecchio trombone, formatosi con Leschetizki nella tradizione slava del virtuosismo trascendentale e che si
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presentava come aedo di un mondo scomparso..., da far rivivere con una mano sola. Per quel mondo, Ravel non provava alcuna nostalgia, pur essendo più giovane di Wittgenstein. Wittgenstein rappresentava però per Ravel un’epoca da ritrarre e mummificare, e il suo Concerto divenne l’epicedio di quell’epoca, con una introduzione orchestrale che è una vera e propria trenodia e con un secondo tempo in cui si scatena — ma è una danse macabre — il culto per l’esotico della Belle
Epoque. Nello stesso anno 1931 in cui Ravel consegnava a Wittgenstein il
Concerto, Prokofiev, come diremo poi, scriveva per Wittgenstein il suo Concerto n. 4, e Bartók scriveva il Concerto ». 2 in cui rivalutava il virtuosismo romantico. Bartók puntava però a far rivivere l’essenza del virtuosismo, non le sue ragioni storiche nel tardo Ottocento, mentre invece Ravel guardava proprio ad un’epoca storica. Ed è, se ci pensiamo, allucinante, degna del “teatro della crudeltà” che Antonin Artaud teorizzava nel 1933, la gestualità del pianista in molti passi del Concerto in re di Ravel: specialmente la prima entrata, con ampi movimenti e cadute dell’unico braccio in azione, simili a quelli del Concerto di Grieg ma con un assetto del corpo tutto distorto e di una statica precaria. E bisogna avere il coraggio di immaginare la posizione non del pianista che usando la sola sinistra poggia la mano destra, come un arco rampante gotico, sul seggiolino, ma del povero Wittgenstein, che del braccio destro era privo. Torneremo ancora sull’argomento quando parleremo del Concerto n. 4 di Prokofiev. Il lettore avrà tuttavia già compreso quale somma di ingegnosità, di acutezza, di tragicità che si rovescia nel grottesco sia contenuta in una composizione che a noi richiama alla memoria le crude visioni di Bosch. CONCERTO IN SOL MAGGIORE
• Allegramente (sol maggiore, 2/2). □ Adagio assai (mi maggiore, 3/4). □ Presto (sol maggiore, 2/4).
• Marguerite Long. • 1929-1931. • Parigi, 14 gennaio 1932, pianista Marguerite Long, direttore Maurice Ravel. • Durand, Parigi 1932. • Ott., 2 fi., 2 ob., corno inglese, clarinetto piccolo, 2 cl., 2 cr., tr., trb., tp., pere., arpa, archi.
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Gustave Samazeuilh, amico di Ravel da lunga data e suo compagno di vacanze, in un articolo pubblicato nel 1938 sulla «Revue musicale» rievocò «l’escursione che nel 1911 ci condusse, lungo l’ammirevole strada del col di Lesaca, da Pamplona a Estella, con ritorno attraverso Roncisvalle, Saint-Jean-de-Port a Mauléon». Da questo viaggio nel nord della Spagna, dice il Samazeuilh, Ravel tornò con «il piano di un’opera basca per pianoforte e orchestra, Zagpiat-bat (Le sette province)2, di cui vidi abbozzi molto sviluppati e che, con mio vivo rammarico, fu abbandonata solo a causa della difficoltà che Ravel provò nel trovare una transizione soddisfacente nel pezzo di mezzo, una specie di fantasticheria, di singolare bellezza, nella solitudine del col di Lesaca». Secondo il Samazeuilh, Ravel avrebbe invece ripreso «le parti già terminate dei due pezzi in movimento vivace, evocanti rispettivamente un mattino di primave ra a Ciboure e una festa a Mauléon, nei pezzi corrispondenti [il primo e il terzo tempo] del Concerto in sol». Il Samazeuilh, forse inconsciamente, parla di qualcosa che ci lascia immaginare una specie di incrocio tra la Rapsodie espugno le di Ravel (che è del 1907-08) e Nocbes en los jurdines de Espana di Falla (progettato poco più tardi), cioè un pezzo impressionistico, en plein air, in cui vibrano i colori, i profumi, i suoni di una natura incantata. Effettivamente, Ravel lavorò a Zagpiat-bat tra l’estate del 1913 e l’estate del 1914: tre pagine di abbozzi, che non sono state pubblicate e che non conosciamo. Anche ammettendo che Zugpiatbat fosse opera di ispirazione impressionista e che fosse ripresa in parte nel Concerto, bisogna però dire che nel Concerto è l’impressio nismo stesso ad essere citato come relitto di una civiltà tramontata o per lo meno estranea, così come vi vengono citati — sentendoli estranei — gli stilemi del jazz, del music-hall e della musica da circo che avevano fatto impazzire negli anni 20 la Parigi di Cocteau e dei
Six. Il Concerto, iniziato nel 1929 e terminato nel 1931, è in un certo senso un’opera “postuma” che suggella un’epoca al tramonto senza lasciarsi coinvolgere né nella nostalgia malinconica né nell’ironia: manierista com’era sempre stato, Ravel tratta manieristicamente e la Belle Epoque dell’impressionismo e quella specie di nev-Belle Epoque che erano stati in Francia gli anni 20, quelli del primissimo dopoguerra segnato da una ritrovata frenesia di vita e dalla riscoperta della musica come svago eccitante. Letteralmente «le sette [province delTEuskadi] ne fanno una sola».
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«Avevo avuto l’intenzione, all’inizio, di intitolare la mia opera
divertimento», dichiarò Ravel al «Daily Telegraph», aggiungendo subito di aver poi deciso «che non era necessario, stimando il titolo Concerto bastantemente esplicito per quanto concerne il carattere della musica di cui l’opera è costituita»; «un concerto — aveva prima precisato Ravel — nel senso più esatto del termine e scritto nello spirito di quelli di Mozart e di Saint-Saèns». Un altro motivo, oltre a quelli che già abbiamo cercato di spiegare (si veda alle pp. 117-118) legava Ravel a Mozart e a SaintSaèns. Come Mozart e come Saint-Saèns, Ravel aveva pensato di scrivere il Concerto per presentarlo poi lui stesso al pubblico. Era stata un po’ una scoperta che Stravinsky aveva fatto all’inizio degli anni 20: il mestiere di pianista-compositore consentiva al composito re guadagni più frequenti e più copiosi di quelli garantiti dal diritto d’autore. E Stravinsky, Bartók, Prokofiev, Casella, per non citare che i maggiori, avevano negli anni 20 percorso l’Europa e l’America eseguendo i loro lavori per pianoforte e orchestra. Ravel aveva girato per quattro mesi negli Stati Uniti, nel 1927, ma limitandosi ad eseguire la Sonata per violino e pianoforte con Joseph Szigeti, ad accompagnare alcune delle sue liriche e ad arrischiarsi da solo nella sua Sonatina (il cui terzo tempo si risolveva regolarmente, sotto le sue dita, in un disastro). Si trattava per lui di fare un salto di qualità e di accedere come pianista solista alle stagioni delle numerosissime orchestre sinfoni che degli Stati Uniti; e così Ravel, quando cominciò a scrivere il Concerto, non mancò di lavorare per ore ed ore sugli studi di Chopin e di Liszt, di «rompersi le dita sugli studi di Chopin e di Liszt», come dice sospirando la sua ninfa egeria Marguerite Long, futura dedicataria del Concerto. La prima esecuzione, solista l’autore e direttore Willem Mengelberg, fu annunciata al Concertgebouw di Amsterdam per il 9 marzo 1931. L’esecuzione fu però rinviata e Ravel, trovandosi una sera a cena con la Long^ le chiese a un tratto: «Sto componendo un concerto per lei. E lo stesso che finisca in pianissimo e con trilli?» Felice (e un po’ bugiarda, come vedremo), la Long rispose che non c’era alcun problema. L’11 novembre Ravel telefonò a casa della pianista per dire che sarebbe arrivato entro pochi minuti con il manoscritto del Concerto. «Devo dire subito che il mio primo colpo d’occhio fu per l’ultima pagina», confessa la Long (Au piano avec Maurice Ravel, cit.), che tirò un gran sospiro di sollievo perché «il pianissimo e i previsti trilli erano diventati un fortissimo e delle none percussive».
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La Long si mise all’opera, Ravel trovò un accomodamento con Mengelberg e il Concertgebouw, e il Concerto venne presentato per la prima volta a Parigi. Con l’Orchestre Lamoureux il direttore portoghese Luis de Freitas Branco fece ascoltare la seconda suite da Daphnis et Chloé, la Valse e la Rapsodie espagnole, poi Ravel diresse la Pavane pour une infante defunte, il Bolero e il Concerto. La Long, ci dice, non si sentiva “proprio fiera” che sul podio ci fosse l’autore, «perché la sua direzione, purtroppo, era molto incerta — egli seguiva su una bozza di stampa della parte del pianoforte». Aggiunge la Long: «Fortunatamente tutto andò bene3 e il successo fu considerevole. Il terzo tempo fu bissato, ed io non ricordo d’aver in seguito eseguito questo lavoro, in Francia e all’estero, senza dover bissare il finale». Assisteva a quella esecuzione Vincenzo Vitale, allora studente dell’Ecole Normale de Musique, che diceva di non esser rimasto molto ben impressionato daW esecuzione. Siamo oggi in grado di verificare i ricordi del Vitale perché nell’aprile del 1932 la Long e Ravel incisero il Concerto in disco; e l’esecuzione non è in verità strabiliante, né da parte della pianista né, tanto meno, del direttore. Ravel, che era partito con l’idea di usare il Concerto come grimaldello per entrare da protagonista nelle sale di concerto, aveva però ottenuto lo scopo trasformandosi da pianista in direttore d’orchestra e combinando un giro di esecuzioni in tutta Europa: esecuzioni, racconta la Long, coronate da successi, da recensioni favorevoli, da inviti a pranzo nelle ambasciate e da serate nei salotti intellettuali: una serie di trionfi, insomma, ostacolati soltanto dalle leggendarie distrazioni di Ravel e dalla sua scarsa dimestichezza con la bacchetta. Negli Stati Uniti, invece, il Concerto non ottenne dapprima successo di critica. Non furono la Long e Ravel a recarsi oltre oceano per presentare il Concerto, perché già nel 1933 si era manifestata la mortale malattia del compositore. La “prima” americana ebbe luogo contemporaneamente a Boston e a Filadelfia, direttori, rispettivamente, Kussevitzki e Stokowski, solisti i pianisti delle due orchestre. Auspici i due direttori carismatici e i pianisti di modesta personalità, il Concerto fu considerato dalla critica america3 Étienne Bando, che suonava il corno inglese, ha ricordato: «Il tema del secondo tempo, esposto dapprima dal pianoforte, torna poi al corno inglese. Per me era una parte molto pericolosa, e Ravel, che non era assolutamente direttore d’orchestra, sbagliò proprio prima del mio assolo. Ci fu un piccolo gelo, ma tuttavia attaccai, e tutto s’aggiustò» («Le Monde de la Musique». 103, settembre 1987).
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na come una specie di divertimento concertante e non venne giudicato più favorevolmente dopo che Harold Bauer (il dedicatario di Ondine di Ravel) lo ebbe eseguito a New York sotto la direzione di Bruno Walter. Racconta il Bauer (op. cit.): «Quando [Walter] vide la partitura la trovò così semplice che pensò bastasse una prova. Gli assicurai che si sbagliava e che il pezzo non corrispondeva alla sua prima apparenza, essendo al contrario piuttosto complicato e difficile per alcuni strumenti dell’orchestra. Dopo la prima lettura Walter disse allegramente di aver scoperto che ci eravamo sbagliati in due, io chiedendo due prove, lui reputando che ne sarebbe bastata una: adesso mi doveva dare quattro prove. Di conseguenza, il Concerto fu preparato con la massima cura e le due esecuzioni furono precise e brillanti. Ma, ancora una volta, sebbene l’accoglienza del pubblico fosse entusiastica, i critici non apprezzarono la composizione, rimproverando di nuovo al creatore di aver finito col non dare ciò che aveva precisamente dichiarato essere sua intenzione di non dare. [...] dopo l’esecuzione a New York non mi fu chiesto di suonare il pezzo in nessun’altra città, e solo un’orchestra, la National Symphony di Washington, mantenne in cartellone il Concerto di Ravel già programmato». I ricordi del Bauer sono interessanti perché le diverse accoglienze della critica europea e della critica americana4, per la quale jazz e music-hall non erano prodotti esotici, mettono in evidenza un’ambi guità di fondo del Concerto, testimoniata dalla storia della sua interpretazione, di cui abbiamo detto. La citazione del “volgare” induce all’involgarimento? E una domanda alla quale non sapremmo rispondere. E certo che l’ambi guità dell’opera o, se vogliamo, la sua potenziale polivalenza e la sua potenziale negatività, sembrano a noi reali.
4 Prime critiche europee generalmente favorevoli, abbiamo detto, prime critiche americane generalmente non favorevoli. Non teniamo naturalmente conto delle critiche europee reazionarie, che nel jazz vedevano una pura degenerazione della grande cultura e della grande musica: in Italia, in quest’ambito, ebbe una certa diffusione un manuale scolastico le cui considerazioni sul Concerto di Ravel sembrano una velina del Minculpop.
MANUEL DE FALLA (Cadiz, 23 novembre 1876 — Alta Gracia, 14 novembre 1946)
NOCHES EN LOS JARDINES DE ESPANA
• En el Generalife. Allegretto tranquillo e misterioso (do diesis minore, 6/8). □ 2 Danza Lejana. Allegretto giusto (re minore - la minore, 3/4). □ 3 En los jardines de la Sierra de Cordoba. Vivo (re minore - la minore, 3/4) — Allegro moderato — Vivo (la minore - re maggiore). • Ricardo Vines. • 1909-15. • Madrid, 9 aprile 1916, pianista José Cubiles, direttore Enrique Fernan dez Arbós. • Max Esching, Parigi 1922. • Ott., 2 fl., 2 ob., corno inglese, 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., arpa, celesta, archi.
Abbiamo più volte constatato che vari concerti furono composti in periodi di tempo piuttosto lunghi o anche molto dilatati. Ma si trattava in genere o di abbozzi che venivano accantonati o di idee che richiedevano, per maturare, diversi stadi di sviluppo e quindi diverse redazioni. Di norma, però, un concerto veniva composto in un periodo variante da un minimo di due mesi ad un massimo di un anno, veniva eseguito da due a otto mesi dopo esser stato ultimato e, come abbiamo già detto, aveva un periodo di più intenso sfruttamento che andava dai cinque ai dieci anni. Se poi entrava in repertorio, il numero delle esecuzioni si moltiplicava con la generazione degli interpreti che al momento della composizione stava ancora facendo i latinucci. Manuel de Falla progettò e abbozzò tre notturni per pianoforte solo nel 1909, ma poi, anche per consiglio di Albeniz e soprattutto di Ricardo Vines, decise di trasformarli in tre pezzi per pianoforte e orchestra. Vi lavorò dal 1911, aggiungendovi dapprima un finale che poi eliminò per utilizzarlo nella Pantomima dell’Amor brujo. Vi
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lavorò per quattro anni, cesellando ogni nota e ogni timbro per rifinire una partitura che sembra alla fine un codice miniato e che, pur essendo all’apparenza di facile esecuzione, richiede in realtà una calibratura di concertazione da far disperare i direttori d’orchestra.
Notti nei giardini di Spagna. Impressioni sinfoniche per pianoforte e orchestra in tre parti, dice il titolo completo. Falla non poteva non
sapere come nel 1915 l’impressionismo fosse così comune ed usurato da star persino andando fuori moda. Ma il suo candore — veramente serafico — era tale ch’egli non si peritava di usare il termine “impressioni”, anche se poi, in un commento alla sua opera, rimescolava tutte le carte critiche affermando: «La musica non pretende di essere descrittiva: è puramente espressiva». E, come se non bastasse, aggiungeva: «Ma qualcosa di più che i suoni delle festività e delle danze ha ispirato queste “evocazioni”, poiché in esse hanno parte anche la malinconia e il mistero». Impressione, descrizione, espressione, evocazione, malinconia, mistero. Ci sarebbe da perderci la testa, a voler ritrovare le ragioni critiche di tutti questi termini. Ma quel che Falla ci dice serve in realtà a farci capire un atteggiamento sentimentale che nella Spagna — anzi, nella Andalusia — collocava il luogo di una utopia eterna, e che quindi ritornava verso la patria attraverso la cultura francese e attraverso le nostalgie di lontani paesi di tutta la civiltà europea dell’ottocento. Qualche commentatore ritiene anzi che nella idea zione delle Notti abbiano avuto parte preminente, più che i diretti ricordi di Falla, certe poesie di Francis Jammes e di Rubén Dario. Per quanto non realistica, descrittiva, la partitura delle Notti parte però dal rispecchiamento di una precisa realtà, quella della musica andalusa, e ne mantiene tutti i caratteri: «I temi impiegati — dice ancora Falla — si basano su ritmi, modi, cadenze, figurazioni ornamentali che caratterizzano la musica popolare dell’Andalusia, sebbene essi vengano raramente usati nelle loro forme originali; l’orchestrazione fa uso frequente, e in modo convenzionale, di certi effetti propri agli strumenti popolari usati in quelle regioni della Spagna». Non sono noti, ammesso che siano esistiti, gli studi preparatori o gli abbozzi delle Notti, ed il rapporto dell’opera compiuta con la musica popolare andalusa non è stato mai analizzato in modo esplicito. Non possiamo dunque spiegare qui come abbia funzionato in concreto il “filtro” di Falla e come le sue “impressioni” siano diventate “espressioni”. Riconosceremo invece, e siamo grati a Falla per averci messi sull’avviso, la “malinconia” e il “mistero”, e ci
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confermeremo nell’opinione che i termini usati dall’autore vadano intesi come indicazioni di carattere, non come paracategorie critiche. Possiamo infine notare come la scrittura pianistica di Falla non tenga minimamente conto di quella di Albeniz e di Granados {Iberia venne ultimata nel 1908, Goyescas nel 1911). La scrittura di Falla, semmai, risente di quella di Debussy e di Ravel, ma in una forma più semplificata e che tende già verso il recupero del clavicembalo, attuato poi nell’operina El Retablo de Maese Pedro (1919-22) e nel Concerto (1923-26). Evidenti sono le influenze della scrittura orchestrale di Ravel, specialmente della prima parte della Rapsodie
espagnole. Il primo notturno, Nel Generalife (dall’arabo «innat al’-arif», giardino dell’architetto) è ambientato sulle colline sopra Granata. La forma è sostanzialmente quella dell’allegro di sonata, sia pur interpretata con estrema flessibilità: esposizione di due temi principali, sviluppo, riesposizione abbreviata e variata. Per tornare alle parole di Falla, l’ultima parte di questo primo notturno ci sembra esser quella in cui si può parlare di “malinconia” (e il “mistero” sta addirittura nella didascalia generale). La Danza lontana è costruita su due temi, ma il primo è semplicemente introduttivo, mentre il secondo è ampiamente sviluppato. Non sembra improbabile che Falla tenesse qui conto della scrittura pianistica che si trova all’inizio del secondo tempo nel Concerto n. 5 di Saint-Saèns. Ma si tratta, anche in questo caso, di una scrittura semplificata rispetto a quella di riferimento: si tratta della scrittura di un pianista non-virtuoso che calcola gli effetti in funzione della sua capacità a realizzarli. Una coda, in cui la scrittura del pianoforte acquista per eccezione caratteri ottocenteschi (ottave alternate fra le due mani, come alla fine della Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt), collega il secondo notturno al terzo, Nei giardini della Sierra di Cordoba. La prima parte del finale prosegue nel solco della Danza lontana: anzi, è come se la lontananza fosse stata annullata e la scena si presentasse vividamen te ai sensi dello spettatore. Il secondo tema, molto incisivo e con un che di solenne e arcano, fa pensare al “mistero” di cui parla l’autore; il suo sviluppo è però addolcito e ammorbidito, con una scrittura pianistica da romanza senza parole. E un contrasto molto singolare e probabilmente non privo di qualche implicazione programmatica, ma che resta più annunciato che svolto. Falla riprende ancora un frammento del primo tema e chiude con un’ultima, solenne e lontana (marcato ma piano) citazione del secondo, del “mistero”.
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Notti nei giardini di Spagna fu eseguito durante la guerra, a Madrid, da un pianista spagnolo poco noto, e a San Sebastiano, poco dopo, dal dedicatario Ricardo Vines. In Spagna era però arrivato all’inizio del conflitto, in attesa di un imbarco per il Sudamerica, Artur Rubinstein. Nel primo volume della sua monu mentale autobiografia (My Young Years, Londra 1973) Rubinstein racconta di aver ripreso lui, con enorme successo, la composizione che era passata quasi inosservata. Rubinstein dice anzi senza mezzi termini che la “vera” prima esecuzione fu la sua. Idealmente sì, perché Rubinstein, trovando ragioni di interesse in un lavoro per pianoforte e orchestra che non presentava nessuna caratteristica di virtuosismo e nemmeno di difficoltà esecutiva1, fece delle Notti un pezzo di successo e lo portò poi in tutto il mondo. Ma le Notti ebbero un altro interprete anche nell’autore, che le eseguì a Londra nel 1921. Purtroppo non possiamo paragonare l’esecuzione di Falla, che non fu incisa in disco, con l’esecuzione di Rubinstein. Il confronto sarebbe interessante per capire fino a che punto Rubinstein forzasse o per lo meno interpretasse in senso estensivo il pensiero di Falla. Certo è che il rapporto tra il pianoforte e l’orchestra nelle Notti è proprio di quelli che maggior mente rendono problematica la collaborazione tra gli interpreti, il pianista e il direttore. E forse anche per questo motivo la partitura, che coloristicamente è di una sottigliezza e di una raffinatezza quintessenziate, meravigliose, trova oggi molto di rado la strada della sala di concerto.
1 La difficoltà esecutiva è talmente ridotta che un virtuoso come Carlo Vidusso potè sostituire negli anni 30 un collega ammalato eseguendo a prima vista la parte in un concerto diretto da Arrigo Pedrollo all’EIAR di Milano.
BÉLA BARTÓK (Nagyszentmiklós, 25 marzo 1881 — New York, 26 settembre 1945)
CONCERTO N. 1 • Allegro moderato (2/4) — Allegro. □ Andante (3/8) — Allegro (2/4). □ Allegro molto (2/4).
• Senza dedica. • 1926. • Francoforte sul Meno, 1 luglio 1927, pianista Béla Bartók, direttore Wilhelm Furtwangler. • Universal, Vienna 1927. • Ott., 2 fi., 2 ob., corno inglese, 2 cl., cl. basso, 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb. trb. basso, tp., pere., archi.
La composizione del Concerto n. 1 e di altre opere pianistiche coeve è legata alla ripresa dell'attività concertistica, da parte di Bartók, nel dopoguerra: una ripresa che, avvenendo dopo più di dieci anni, impose a Bartók di... farsi un nuovo guardaroba. In verità, Bartók non intraprese propriamente una carriera di pianistacompositore, ma di pianista che eseguiva anche lavori suoi: negli anni 20 e 30 egli mise in repertorio, fra l'altro, un gruppo di composizioni di claviccmbalisti da lui trascritte, la Partita n. 5 di Bach, qualche sonata di Beethoven e i due libri dei preludi di Debussy; eseguì non di rado il Totentanz di Liszt, il Concerto in la maggiore di Bach, il Rondò K 386 di Mozart; in duo con Dohnànyi presentò Liszt e Brahms e, in duo con la moglie, Mozart, Debussy, Stravinsky. Tuttavia, se nei recitals le società di concerti da camera accettavano e magari gradivano da lui più i programmi misti che i programmi monografici, le società dì concerti sinfonici erano interessate soprattutto ad ospitarlo come pianista-compositore. Fino al 1926 Bartók aveva nel suo catalogo, di opere sue per pianoforte e orchestra, solo la Rapsodia op. 1, presentata al Concorso Rubinstein di Parigi nel 1905, eseguita il 15 novembre
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1909 a Budapest e l’anno dopo a Zurigo, e mai più ripresa. Aveva anche uno Scherzo, composto nel 1904, elencato in tutti i cataloghi nella sezione “pianoforte e orchestra”, ma che in realtà è una partitura per orchestra con importanti interventi di un pianoforte impegnato tuttavia in misura minore di quanto non lo sia nel Petruska di Stravinsky. Nel 1926, avendo ormai di nuovo bene avviato la sua carriera di concertista, Bartók compose il Concerto n. 1. Aveva intenzione di eseguirlo nel 1927, al suo esordio negli Stati Uniti con la Filarmonica di New York diretta da Mengelberg. Ma l’orchestra non arrivò in tempo ad imparare il Concerto e Bartók esordì così in America con la Rapsodìa op. 1,... provocando grande sorpresa nei critici che s’aspettavano un rabbioso avanguardista e che si trovarono invece di fronte ad un pacifico compositore da “scuole nazionali” di felice memoria1. Bartók non presentò il Concerto n. 1 neppure nell’Unione Sovietica, che visitò dopo gli Stati Uniti. La prima esecuzione ebbe invece luogo nell’ambito del quinto festival della Società Internazio nale di Musica Contemporanea, sotto la bacchetta di un direttore, Wilhelm Furtwangler, che non accostiamo abitualmente alle avan guardie del Novecento, dimenticando magari che a lui si deve anche la “prima assoluta” delle Variazioni op. 31 di Schonberg. Sorprendentemente, la critica specializzata che seguiva il festival fece molte riserve. A cominciare da Theodor Wiesegrund-Adorno, che ritenne di notare un’involuzione bartokiana nell’uso di elementi lessicali del canto popolare e che paragonò sfavorevolmente lo stile del Concerto n. 1 con quello del Secondo Quartetto. Critiche opposte si manifestarono nella stampa di Vienna in autunno, quando Bartók vi eseguì il Concerto dopo averlo presentato in ottobre a Londra, Praga e Varsavia. Julius Korngòld, autorevole decano dei giornalisti ex-asburgici, parlò di brutalità e materialismo, e persino di «ungarorusso-bolscevica arte meccanica». Nel 1928 Bartók riuscì a far ascoltare il Concerto negli Stati Uniti, e... non deluse le attese dei critici. Lo eseguì a New York, con la Filarmonica di Cincinnati diretta da Fritz Reiner, il 13 febbraio 1928, il 17 e il 18 febbraio lo eseguì a Boston con Kussevitzki, e a Cincinnati, il 24 e il 25, con Reiner. In quel caso a distinguersi su tutti fu un critico di Cincinnati, che nella sua recensione infilò una 1 Bartók non “rinnegò” mai la Rapsodìa op. 1; anzi, la eseguì una quindicina di volte tra il 1927 e il 1939. Di una esecuzione a Budapest, del 30 aprile 1939, esiste l’incisione in disco di alcuni frammenti.
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serie di spiritosaggini da far accapponare la pelle. Finalmente, dopo le esecuzioni del 18 e 19 marzo a Budapest, sotto la direzione di Dohnànyi, un critico, Aladàr Tóth, parlò di “capolavoro”. Nel 1928 il Concerto venne ancora eseguito da Bartók a Colonia, Berlino, Amsterdam, L’Aja, Erfurt; nel 1929 ebbe luogo la “prima” di Leningrado, nel 1930 la “prima” di Londra, nel 1932 la “prima” di Parigi, e tra il 1929 e il 1932 il Concerto fu eseguito anche a Brema, Danzica, Friburgo, Francoforte sul Meno2. Più tardi, riferendosi al Concerto n. 2, Bartók scrisse, a proposito del Primo: «Io credo che sia buono, malgrado la scrittura un po’ — forsanche molto — difficile sia per l’orchestra che per gli ascoltato ri». Le esperienze delle esecuzioni e le reazioni dei pubblici consigliarono però di non insistere a lungo sul Primo. Così Bartók scrisse il Secondo, e sul Primo non tornò più. Né lo eseguirono altri pianisti, in pratica, fino agli anni 50. Per il Concerto n. 1 di Bartók non abbiamo indicato tonalità perché, sebbene il linguaggio sia tonale e sebbene si possano quindi individuare chiaramente i suoni che fungono da tonica, non si potrebbe parlare di tonalità riferibili ai modi maggiore e minore in uso nella civiltà musicale occidentale classico-romantica, né, sempre e chiaramente, a modi antichi. La struttura del discorso, poi, è spesso politonale, ma solo nel terzo tempo Bartók indica in due brevi episodi armature di chiave diverse all’orchestra e al pianofor te. Il polo tonale del Concerto, chiarissimo ed affermato inequivoca bilmente alla fine del primo e del terzo tempo, è il mi, con un accordo privo in entrambi i casi della terza e quindi della definizione modale (alla fine del primo tempo l’accordo comprende, oltre al mi e al si, un fa diesis, che è da considerare come appoggiatura non risolta). I cambiamenti di movimento all’interno di ogni tempo non sono infrequenti. Noi abbiamo riportato, e riporteremo nei successivi concerti, solo le indicazioni principali; ma nel primo tempo, ad esempio, dopo Y Allegro moderato della battuta 1 (metronomo 1002 In una lettera a Fritz Reiner, del 29 ottobre 1928, Bartók parla di alcune esecuzioni europee: «L’esecuzione di Budapest, tenendo conto delle circostanze, fu abbastanza accurata (solo gli ottoni non riuscivano ad ottenere in alcun modo una forza sufficiente); quella di Berlino, sotto la direzione di [Erich] Kleiber, fu fatta con molto slancio, ma in orchestra capitarono parecchi incidenti. Nessuna delle esecuzioni europee raggiunse, s’intende, la precisione e la superiore sicurezza delle esecuzioni di Cincinnati. La settimana ventura verrà l’esecuzione di Amsterdam (diretta da Monteux; si vede che Mengelberg non ne ha voglia) e sono curioso di vedere come andrà».
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92) e dopo V Allegro della battuta 38 (metronomo 116), troviamo un Mosso, senza metronomo, alla battuta 101, un Tempo I alla battuta 131, un Meno vivo (120) alla battuta 1813, un Sostenuto (100) alla battuta 190, un Più sostenuto (66-76) alla battuta 192, un Allegro moderato (92) alla battuta 196, e ancora sei altre variazioni di
movimento prima della fine del tempo. Tutt’altro che infrequenti sono poi i cambiamenti del metro. Tutto VAllegro moderato iniziale è in 2/4. Ma all’inizio del successivo Allegro troviamo: 2/4 (batt. 1 e 2), 3/4 (batt. 3), 5/8 (batt. 4), 2/4 (batt. 5 e 6), 3/4 (batt. 7), 2/4 (dalla batt. 8 alla 17), 3/4 (batt. 18), 5/8 (batt. 19-22), 2/4 (dalla batt. 23 alla 31), ecc. ecc. È evidente che il metro di 2/4 è assolutamente prevalente, ma che le irregolarità metriche si presentano con molta frequenza. Si tratta, in tutti i casi, di caratteristiche del linguaggio bartokiano (e non solo bartokiano) ben note. Abbiamo però voluto dare dei piccoli esempi descrittivi perché il lettore non esperto di notazione musicale potrà così capire quanto difficile risultasse per le orchestre degli anni 20 P esecuzione del Concerto n. 1, sia in ordine alla lettura delle sequenze di note, non riferibili a schemi di scale a accordi conosciuti, sia in ordine ai cambiamenti di metro, che imponevano sistemi di conteggio un po’ diversi da quelli tradiziona li4. Sebbene oggi questi problemi esecutivi non si presentino più, in linea generale, per le orchestre sinfoniche che eseguono abitualmen te il repertorio del Novecento, il Concerto ». 1 di Bartók continua ad essere tra i lavori di più delicata e difficile messa a punto durante la concertazione. Il primo tempo è costruito con materiali tematici — la nota ribattuta, le tre note consecutive, i frammenti di scale diverse — simili a quelli del primo tempo della Sonata, scritta due mesi prima del Concerto. Dalla Sonata Bartók mutua anche certe particolarità della scrittura pianistica, come le terze in funzione di irrobustimen to della sonorità, di ispessimento delle linee. Mentre però la struttura architettonica della Sonata è di una geometrica linearità, tersa e trasparente, la struttura del Concerto è molto più complessa, 3 Questo metronomo, come altri successivi, è di incerta interpretazione: il Tempo I della battuta 131 annullava il mosso della battuta 101 e ripristinava dunque l’Allegro della battuta 38, a 116 di metronomo: non si capisce bene come il Meno vivo possa essere indicato a 120, che è di una tacca più rapido del 116. 4 Meno difficili invece i cambiamenti di movimento, sia perché condotti dal direttore, sia perché già consuetudinari nella seconda metà dell’ottocento e probabilmente anche assai prima (si veda a p. 266).
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pur seguendo lo schema dell’allegro bitematico e tripartito. La prima particolarità, praticamente non riconoscibile all’ascolto, è la riesposizione che inizia al quarto grado, secondo uno schema impiegato soprattutto da Schubert. La seconda è l’enucleazione progressiva dei temi. II tema deìT Allegro moderato, appena accenna to nella parte introduttiva, diventa il protagonista dello sviluppo, il secondo tema, appena accennato nella esposizione, acquista un grande rilievo nella riesposizione. La logica architettonica è quindi difficile da cogliere, mentre ciò che colpisce emotivamente è il frazionamento del discorso, con la ripetizione ossessiva dei frammenti e con concatenamenti meccanici più che discorsivi. Il secondo tempo è sostanzialmente basato sulla “forma ad arco” che Bartók userà intensivamente e in modo del tutto maturo negli anni 30. Potremmo classificarla come preludio, primo tema, secondo tema (sviluppato fino ad un punto culminante), ripresa variata del primo tema, postludio. La forma, però, non si chiude ma si prolunga in un breve collegamento, di sedici battute, che introduce il finale. Secondo e terzo tempo sono dunque collegati, ma all’inizio dell’Allegro molto Bartók colloca l’indicazione “III”. Nel terzo tempo vengono riprese le cellule tematiche del primo tempo, che danno però origine a temi diversi da quelli già ascoltati. Lo schema architettonico è riferibile a quello tradizionale del rondò. Ma ciò che più colpisce l’ascoltatore è la prevalenza del ritmo ostinato, dell’ossessione ritmica. Julius Korngold non aveva affatto torto di parlare di “arte meccanica”. La definizione era giusta. Era sbagliata semmai la valutazione negativa, ed era vergognoso il tentativo di criminalizzare Bartók con i tre aggettivi incatenati, “ungaro-russobolscevica”, che accompagnavano la definizione. Alla base di un errato giudizio sussisteva però una intuizione critica esatta: Bartók, come già abbiamo detto a proposito del primo tempo, sostituiva alla dialettica drammatica dell’ottocento la rappresentazione della macchina. Tuttavia questa diversione della sua poetica, che informa di sé il Concerto ». 1 e la Sonata, veniva superata già nello stesso 1926 in All'aria aperta. Rispetto al Concerto n. 1, il Concerto n. 2 non sarà soltanto più agevole tecnicamente e tematicamente più gradevole, ma più maturo nella conquista dell’umanesimo di Bartók.
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CONCERTO N. 2 • Allegro (3/4). □ Adagio (4/4) — Presto (2/4) — Adagio (4/4). o Allegro molto (3/4).
• Senza dedica. • 1930-1931. • Francoforte sul Meno, 23 gennaio 1933, pianista Béla Bartók, direttore Hans Rosbaud. • Universal, Vienna 1932. • Ott. (anche £1.), 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., controfagotto (anche fg.), 4 cr., 3 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
Nell’ottobre del 1930 Bartók cominciò a scrivere il Concerto n. 2 «da affiancare al Primo», dichiarò più tardi, «con meno difficoltà per l’orchestra e anche meno difficile tematicamente». Il Concerto fu terminato nell’ottobre del 1931 ed eseguito da Bartók alla radio di Francoforte sul Meno, all’inizio del 1933, sotto la direzione di Rosbaud. Poi il Concerto fu eseguito a Budapest, il 2 giugno 1933, da Lajos Kentner, sotto la direzione di Otto Klemperer, e a Vienna il 7 giugno, sempre con la Filarmonica di Budapest sotto la direzione di Klemperer, ma con Bartók al pianoforte. Negli anni 30 Bartók comparve frequentemente in pubblico come pianista, eseguendo il Concerto n. 2 altre ventuno volte dopo la “prima” (è a proposito dell’esecuzione radiotrasmessa da Bruxelles, del 3 febbraio 1937, che Bartók scrisse alla signora Muller-Widmann di Basilea: «pur troppo anch’io mi sono qualche volta impaperato»). Un’esecuzione di Bartók radiotrasmessa da Badapest, il 22 marzo 1938, con Ernest Ansermet sul podio, fu incisa su disco da un tecnico, Istvàn Makai, per incarico di un’ammiratrice di Bartók, una certa signora Babits. Disgraziatamente, il tecnico potè incidere solo frammenti dell’esecuzione, per un totale di 15’41” su circa 25’, e le matrici ci sono per di più pervenute molto deteriorate, tanto da limitare gravemente il valore del rarissimo, eccezionale documento. Negli Stati Uniti, dove era emigrato dopo lo scoppio della guerra, Bartók eseguì il Concerto n. 2 una sola volta, a Chicago nel novem bre del 1941 sotto la direzione di Frederick Stock5. Nel dopoguerra il Concerto n. 2 fu eseguito di rado: sono da ricordare le esecuzioni (tutte incise) da Géza Anda, di Andor Foldes, di Sviatoslav 5 In totale, dunque, le esecuzioni di Bartók, furono ventitré in otto anni. Come termine di paragone, indicativo della diversa incidenza della musica contemporanea nei repertori sinfonici, ricorderemo che cinquant’anni prima Brahms aveva eseguito ventuno volte il suo Secondo in meno di quattro mesi.
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Richter, di Daniel Barenboim, e più recentemente di Pollini e di Ashkenazy. In una breve analisi, scritta nel 1937 per la stazione radio di Losanna, Bartók richiamò l’attenzione sulle strutture classiche del Concerto, sull’unità tematica di primo e terzo tempo («il terzo tempo è, con l’eccezione di un solo nuovo tema, una libera variazione del primo tempo») e sulla simmetria della forma complessiva — «primo tempo, adagio, scherzo (il centro), variazione dell’adagio, variazione del primo tempo» — aggiungendo di aver impiegato lo stesso tipo di simmetria formale nei quartetti n. 4 (1928) e n. 5 (1934). Si tratta della cosiddetta “forma ad arco”, a cui prima accennavamo, da Bartók prediletta per l’armoniosità classica delle simmetrie e da lui impiegata soprattutto negli anni 30, che viene qui messa in rapporto con le strutture classiche del concerto. Il primo tempo del Concerto n. 2 è scritto per pianoforte, strumenti a fiato e percussioni. Le sonorità prevalentemente percussive del pianoforte ed i ritmi fortemente scanditi danno il colore di fondo a tutta la composizione, che anche sintatticamente e linguisticamente è basata non solo, come dicevamo, su strutture tradizionali, ma su temi dal profilo tonale molto netto (il Concerto è in sol). Fu subito notata la somiglianza tra il primo inciso tematico — esposto all’inizio dalla tromba — e il tema della Berceuse nell’ Uccello di fuoco di Stravinsky. Più che di derivazione di Bartók da Stravinsky si deve parlare di comuni matrici nel folclore slavo, ed il primo tempo del Concerto n. 2 si colloca proprio come manifesto dell’esperienza bartokiana degli anni 30, del maturo ritorno alle origini dopo l’assimilazione, negli anni 20, delle avanguardie della musica occidentale. Il secondo tempo, come abbiamo visto, inserisce uno Scherzo tra esposizione e riesposizione variata di un tema in movimento lento. Si può osservare che qualcosa di simile era accaduto nel secondo tempo del Concerto n. 1 di Ciaikovsky; ma, mentre in Ciaikovsky la parte centrale era chiaramente subordinata alle parti estreme, in Bartók lo Scherzo assume un rilievo grandissimo, tanto che si potrebbe parlare di scherzo con preludio e postludio. L'Adagio iniziale è del tipo dei movimenti lenti bartokiani che vengono detti musica della notte e che derivano indirettamente dalla Canzona di ringraziamento offerta alla Divinità da un guarito del Quartetto op, 132 di Beethoven: corale degli archi (a sei parti, pianissimo, con sordina, non vibrato), breve episodio meditativo di pianoforte e timpani, ricapitolazione del corale, brevissima conclu sione di pianoforte e timpani.
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Nel Presto centrale Bartók riprende il colore sonoro del primo tempo, aggiungendovi lo sfondo appiattito e neutro degli archi in sordina (prevalentemente con tremoli e pizzicati, che lo rendono ancor più sfuggente e indistinto). La ripresa deW Adagio è una variazione soprattutto dinamica della prima parte: musica notturna per eccellenza, che inizia con misteriosi brusii, si gonfia sino ad un culmine, si spegne progressivamente su suoni profondissimi di pianoforte, timpani, violoncelli e contrabbassi, a cui s’aggiunge il lontano, arcano risuonare del tam-tam (il tam-tam esegue, il tutto il Concerto, tre soli suoni, due nel primo tempo ed uno alla fine del secondo tempo). Il terzo tempo è quello più direttamente legato alla tradizione virtuosistica del pianoforte: la difficoltà tecnica del primo e del secondo tempo era molto elevata ma non appariscente perché la velocità non risultava abbastanza alta o, quando lo era {Scherzo del secondo tempo), nessun ascoltatore poteva capire quanto risultasse ro ardui, ad esempio, i passi in doppie seconde. Le doppie terze, le doppie seste, le doppie ottave del finale sono invece eseguite a velocità rispondenti a concezioni tradizionali del virtuosismo di bravura, e le doppie ottave, in particolare, richiama no subito le prodezze che il pianista deve saper sostenere nel Concerto n. 1 di Liszt o nel Concerto n. 1 di Ciaikovsky. Anche un lungo passo delle due mani in ottava ricorda un passo analogo del Primo di Ciaikovsky, ed un passo in arpeggi ricorda la fine del Concerto ». 2 di Brahms. Il carattere di citazione stilistica, e non di riecheggiamento accademico della tradizione, che appare senz’ombra di dubbio anche al più disattento degli ascoltatori, dipende a parer nostro da una trovata sorprendente: il finale del Concerto n. 2 di Bartók comincia come la conclusione di un concerto tradizionale, con grande arpeggio in crescendo del pianoforte su rullo di grancassa, sfociante in un secco, stridulo re di tutta l’orchestra. Da questo inizio inusitato e bizzarro si sviluppa il dialogo pianoforte-timpani che diventa l’elemento portante della composizione. Tutto il finale acquista così il senso retrospettivo di riconquista critica della tradizione, ed apre la via, come abbiamo detto a suo luogo, al ritorno del virtuosismo che caratterizza la seconda fase, gli anni 30, del neoclassicismo.
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Bartók: Concerto n. 3
CONCERTO N. 3
• Allegro (3/4). □ Adagio religioso (4/4) — Poco più mosso — Tempo I. □ Allegro vivace (3/8) — Più tranquillo — Tempo I — Presto (3/4) — Tempo I
(3/8). • Senza dedica. • 1945. • Filadelfia, 8 febbraio 1946, pianista Gyórgy Sandor, direttore Eugene Ormandy. • Boosey & Hawkes, Londra e New York 1946. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., silofono, pere., archi.
Come abbiamo visto, Bartók portò in “tournée” il Concerto n. 1 per circa cinque anni, poi mise in repertorio il Concerto n. 2, che per circa altri cinque anni gli procurò scritture. Nel 1937 compose la Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni, che non solo suscitò interesse nelle società di concerti ma che permise a Bartók, i cui onorari non erano alti6, di prodursi insieme con la moglie, pianista e sua allieva. Sebbene i compensi fossero sempre modesti, e talvolta al limite del puro rimborso delle spese7, con la Sonata Bartók ebbe modo di far lavorare anche la moglie e di farle conoscere molte città d’Europa. Nel 1940 Bartók aveva intenzione di rinnovare il suo repertorio con un nuovo concerto per pianoforte, ma lo scoppio della guerra e le vicende avventurose che portarono lui e la moglie, Ditta Pàsztory, ad emigrare negli Stati Uniti provocarono in pratica un totale blocco dell’attività creativa. Poi sopravvennero i primi sintomi di una malattia mortale, la leucemia. Bartók riprese a comporre nel 1943, accettando una “commissio ne” di Kussevitski; accettò poi una commissione di Menuhin e quindi una del violista William Primrose. Ripreso il lavoro creativo 6 Ci incuriosirebbe conoscere le “tariffe” concertistiche di Bartók, Stravinsky, Prokofiev, e di Ravel e Stravinsky come direttori. Purtroppo non esistono però studi economici sulla professione del concertista nel nostro secolo, e su questi aspetti le biografie tacciono accuratamente. Aspetti, a parer nostro, tutt’altro che secondari rispetto all’attività creativa dei grandi artisti e rispetto ad... altri più prosaici motivi: si dice che Rachmaninov e Stravinsky, non accomunati da interessi musicali, trovassero un perfetto terreno di intesa quando discutevano sulle quotazioni della Borsa di New York.
7 «La società londinese ci ha scritturati per cinquanta sterline; in precedenza eseguiremo il pezzo il giorno 11 [giugno] alla Radio del Lussenburgo, e quindi in qualche maniera ce la faremo senza rimetterci» fletterà di Bartók ad un’amica, 13 aprile 1938).
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ricominciò a pensare ad un concerto per pianoforte, che compose nel corso del 1945. Ben conscio della gravità della sua malattia e preoccupato per l’avvenire della moglie, Bartók scrisse una composizione di non elevata difficoltà tecnica, sperando che Ditta avrebbe potuto eseguirla negli Stati Uniti. Alla morte di Bartók — 26 settembre — alla partitura del Concerto n, 3 mancava soltanto la strumentazione delle ultime diciassette battute. Il compito di decifrare lo schizzo di Bartók e di provvedere alla strumentazione fu assunto da Tibor Serly, compositore e musicologo americano di origine ungherese che aveva studiato anche nell’Accademia Liszt di Budapest. Mancavano anche molte indicazioni di tempo e di dinamica, che vennero aggiunte dal Serly con la collaborazione di Eugene Ormandy, Louis Kentner ed Erwin Stein. Ditta Pàsztory rientrò in Ungheria dopo la morte del marito e non eseguì il Concerto. Dopo la prima esecuzione, affidata all’allievo di Bartók Gyòrgy Sandor, il lavoro venne presto ripreso da altri interpreti. E rimasta celebre la prima esecuzione a Ginevra, radiotrasmessa nel 1948, diretta da Ernest Ansermet con Dinu Lipatti al pianoforte. Il Concerto non potè essere provato perché il materiale d’orchestra arrivò a Ginevra solo nel pomeriggio del giorno in cui era prevista l’esecuzione. Ma Ansermet ritenne che l’orchestra potesse leggerlo a prima vista ed il Concerto fu così eseguito8. In Italia la prima esecuzione ebbe luogo alla RAI di Torino il 30 aprile 1948 con Walter Baracchi al pianoforte sotto la direzione di Mario Rossi. La struttura del primo tempo è classica e l’impianto tonale è in mi maggiore (ma senza armatura di chiave). Nel primo tema, ispirato al canto popolare magiaro, è da notare la strumentazione pianistica: la melodia viene raddoppiata a due ottave di distanza. Si tratta di un tipo di strumentazione che era stato comunissimo all’inizio del secolo (è frequente, ad esempio, in Albeniz) ma che era poi divenuto raro perché troppo intensamente e troppo banalmente sfruttato dai minori adepti dell’impressionismo. In Bartók questa strumentazione riacquista il carattere dolcemente rievocativo e arcano che aveva in Albeniz e in Falla. 8 Di quella esecuzione non è rimasta alcuna documentazione registrata. Chi scrive, che la ascoltò alla radio, ancora si rammarica di non aver messo in moto il registratore, sebbene la trasmissione fosse così disturbata che solo con l’orecchio incollato all’altoparlante si riusciva a capire qualcosa dell’esecuzione. Esiste invece, ma non è stata mai pubblicata, una registrazione di prova di Lipatti, del 1948, con il Collegium musicum di Zurigo sotto la direzione di Paul Sacher.
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La sezione di collegamento è marcata molto nettamente, e più che da collegamento (“ponte”, come si dice nel gergo accademico) serve da spartiacque tra la zona del primo e la zona del secondo tema. Il secondo tema è in realtà un gruppo tematico con due elementi distinti e complementari (Serly e i suoi collaboratori aggiungono la didascalia grazioso al primo elemento, e scherzando al secondo). Nella coda vengono citati, combinandoli in un delizioso gioco di frammentazioni e di incastri, tutti gli elementi tematici già presentati. Anche lo sviluppo non si svolge in modo tradizionale: è una esposizione, sotto la forma di ampia melodia cantata a piena gola, del primo tema, seguita da un divertimento sull’elemento conclusivo dello stesso primo tema. Bartók, la cui tecnica dello sviluppo tematico è degna di un Beethoven, qui rinuncia completamente all’elaborazione e riprende piuttosto l’idea, comune in verità solo in compositori come Grieg, di sviluppo come libera improvvisazione. La riesposizione è strutturalmente regolarissima. Il secondo tema, in sol nella esposizione, nella riesposizione viene presentato in do (primo elemento) e in mi maggiore (secondo elemento)9. La coda, brevissima, è un momento incantevole, con un ultimo richiamo fischiettante del flauto al primo tema e due rintocchi cantilenanti del pianoforte. Il secondo tempo — la didascalia Adagio religioso è originale, mentre quelle del terzo tempo sono di Serly — è un altro di quei movimenti lenti bartokiani che si usa definire musica della notte. Qui la derivazione dalla Canzona del Quartetto op. 132 di Beethoven appare più diretta che nel secondo tempo del Concerto n. 2. Arcaicizzante era il termine Canzona e arcaicizzanti erano in Beethoven la modalità antica e la struttura ad imitazioni. Bartók non solo si riallaccia a Beethoven ma si vale anche della sua conoscenza delle antiche musiche italiane per tastiera da cui, negli anni 20, aveva scelto e trascritto brani per il suo repertorio di concertistica. In tonalità di do maggiore l’orchestra comincia con una “intona zione” organistica (doppio canone a cinque voci, che inizia in modo contrappuntisticamente rigoroso e poi si raggruma armonisticamente). Il pianoforte risponde con un corale a quattro parti; ad ogni “versetto” del corale corrisponde una fermata, su cui interviene di 9 Secondo la teoria scolastica si dovrebbe dunque dire che il secondo elemento, riesposto nella tonalità principale, è il vero secondo tema. Ma si tratterebbe di ribadire la teoria chiudendo gli occhi (e le orecchie) alla realtà.
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nuovo l’orchestra con le sue “intonazioni”. La composizione è però ideologicamente più complessa di quanto non appaia. Gli antichi maestri italiani, Beethoven, la struttura del servizio liturgico protestante (intonazione-corale); ma la scrittura pianistica, che inizia in modo spoglio, si amplia progressivamente con raddoppi e persino con arpeggiamenti che richiamano nettamen te lo stile della trascrizione dall’organo del tardo Ottocento. Abbiamo già citato incidentalmente, e marginalmente, Albeniz e Grieg. Nel Concerto n, 3, ci sembra, riaffiora in effetti la memoria di quel mondo della giovinezza da cui il Bartók compositore si era bruscamente staccato dopo il Concorso Rubinstein del 1905, ma al quale il Bartók interprete era rimasto legato da fili tenacissimi, come dimostrano le sue esecuzioni di pagine di Beethoven, Chopin, Liszt, Brahms, e persino di brani dei suoi For Children's. E se nel Concerto n. 2 sono certi aspetti del virtuosismo trascendentale ottocentesco a ritornare come principi del comporre (e del pensare), nel Concerto n. 3 sono altri aspetti della civiltà in cui Bartók si era formato che, senza alcun ripiegamento nostalgico, riprendono ad esercitare una funzione. La parte centrale del secondo tempo è costruita su richiami di brevi incisi tematici, molto distanziati in altezza, su un fruscio che progressivamente si amplia ed avvolge tutto lo spazio. Gli incisi tematici sono estratti dai temi del primo e del secondo tempo10 e vengono trattati con artifici contrappuntistici che stilisticamente legano questa parte a quella che la precede. Ma più che l’aspetto stilistico colpisce l’aspetto emozionale della pagina, la musica della notte come rivelazione panteistica del Creato. Nella riesposizione vengono eliminate le intonazioni ed il corale è affidato all’orchestra, con un commentario del pianoforte in cui una scrittura arcaica a due voci s’alterna con volate vaporose della più pura tradizione virtuosistica chopiniana. U brano termina in do, ma l’ultimo accordo modula improvvisamente a mi maggiore, collegan do così il secondo con il terzo tempo. Il terzo tempo è strutturalmente complesso, sebbene vi si riconosca lo schema del rondò. Primo tema a modo di danza, di scrittura pianistica molto massiccia. Secondo tema ancora con carattere di danza ma che viene usato come soggetto di una fuga a 10 A meno che non si tratti del processo inverso, di costruzione di temi da incisi: lo diciamo perché secondo alcuni commentatori Bartók avrebbe utilizzato, nella parte centrale del secondo tempo, i canti di uccelli americani ascoltati durante il periodo in cui era in cura in una clinica sul lago Saranac.
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quattro voci. Viene quindi ripreso, abbreviato, il primo tema. Il terzo tema, in si bemolle maggiore e in tempo Più tranquillo, viene ampiamente sviluppato e, sia per le sue dimensioni che per il suo carattere espressivo contrastante, assume la funzione di un trio. E siccome i primi due temi avrebbero benissimo potuto dare origine ad uno scherzo, il finale del Concerto finisce così per porsi come sintesi di scherzo con trio e rondò. Dopo la riesposizione variata del primo tema Bartók inserisce un nuovo episodio, in verità inatteso, in tempo Presto e molto virtuosistico per il pianista, a cui fa seguito un altrettanto virtuosistico Tempo I con richiami tematici soltanto allusivi. In conclusione, e perciò parlavamo prima di complessità, sembra che nella costruzione di questo finale riaffiori in parte — addirittura! — il finale del Concerto di Grieg. E se si tiene conto delle Melodie popolari norvegesi op. 66 di Grieg, scritte nel 1896, non si può non concludere che lo sviluppo del pensiero di Bartók sulTutilizzazione del canto popolare inizia dal punto in cui Grieg chiude la sua esperienza storica. Questo rapporto Grieg-Bartók è stato toccato qualche volta, mentre non ci risulta che sia mai stato prospettato un rapporto tra il Concerto di Grieg e il Terzo di Bartók. Ma a noi sembra che il Terzo di Bartók, considerato dai più opera di semplicità e di limpidezza mozartiane, trovi la sua origine e il suo carattere nelle radici romantico-nazionaliste più che nelle memorie dell’illuminismo.
IGOR STRAVINSKY (Lomonosov, 17 giugno 1882 — New York, 6 aprile 1971)
CONCERTO PER PIANOFORTE E STRUMENTI A FIATO • Largo (la minore, 2/4) — Allegro (3/4) — Più mosso — Maestoso (Largo del principio) (la minore-la maggiore, 2/4). □ Largo (do maggiore, 2/4) — Più mosso — Doppio valore. Tempo primo (4/8). □ Allegro (do maggiore, 2/4) — Agitato — Lento — Stringendo.
• Nathalie Kussevitzki. • 1923-19241 (rev. 1950). • Parigi, 22 maggio 1924, pianista Igor Stravinsky, direttore Sergej Kussevitzki. • Edition Russe de Musique, Parigi 1924; New York, Boosey & Hawkes, 1960 (ed. riveduta). • Ott., 2 fi., 2 ob., corno inglese, 2 cl., 2 fg. (II anche controfagotto), 4 cr., 4 tr., 3 trb., tb., tp., contrabbassi.
Sulla genesi del Concerto per pianoforte e strumenti a fiato Stravinsky si espresse ampiamente in Chroniques de ma vie (Parigi 1935; trad. it. di A. Mantelli, Milano 1947). Sebbene il testo stravinskiano sia notissimo converrà leggerlo ancora una volta: I miei concerti nel Belgio, seguiti in marzo da parecchi concerti a Barcellona e a Madrid, segnano, per così dire, l’inizio della mia attività di esecutore delle mie opere. Quell’anno ricevetti infatti una serie di scritture da varie città dell’Europa e degli Stati Uniti; e non solo per dirigere le mie opere, ma anche per suonare il mio Concerto per pianoforte e orchestra, che avevo appena finito. 1 La partitura porta alla fine l’indicazione «Biarritz, 21 agosto 1924». Siccome il Concerto era stato eseguito il 22 maggio, Eric White {Stravinsky, Londra 1966) suppone che si debba leggere 21 aprile invece che 21 agosto. Potrebbe darsi che sia così, come potrebbe darsi che dopo la “prima” Stravinsky avesse ritoccato qualcosa nella partitura, licenziandola alle stampe in agosto.
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A questo proposito devo dire che l’idea di eseguire io stesso il mio Concerto mi fu suggerita da Kussevitzki, che era a Biarritz quando stavo per
ultimare la composizione. Sul principio esitai, nel timore di non avere abbastanza tempo per perfezionare la mia tecnica di pianista, allenarmi sufficientemente e acquistare la resistenza necessaria per l’esecuzione di un’opera che richiedeva uno sforzo considerevole. Nonostante tutto però decisi di imbarcarmi in quel lavoro, poiché è proprio nel mio carattere lasciarmi tentare da qualunque sforzo continuativo e ostinarmi a superare delle difficoltà e poiché, d’altra parte, mi seduceva assai la prospettiva di eseguire io stesso, per la prima volta, la mia opera e di fissare così le mie intenzioni nei confronti dell’interpretazione.
Stravinsky, i cui beni in Russia era stati sequestrati dopo la Rivoluzione e che non aveva più rendite, si era accorto di ciò che era stato noto fin dal momento in cui s’erano aperti pubblici teatri musicali e pubbliche sale di concerto: gli esecutori guadagnano più dei compositori, e gli esecutori non grandi guadagnano più dei grandi compositori. Questa situazione era stata un po’ modificata, ma non sostanzialmente, dal riconoscimento del diritto d’autore, di cui s’avvantaggiavano però soprattutto gli autori di teatro. Stravinsky suonava il pianoforte ma, al contrario di Bartók o di Prokofiev, non era un virtuoso. Tuttavia, studiando con ardore, come dice, «un mucchio di esercizi di Czerny», si mise nelle condizioni di saper eseguire composizioni abbastanza difficili da poter apparire in una sala di concerto. Prosegue Stravinsky: La mia prima esecuzione in pubblico del Concerto ebbe luogo all’Opéra di Parigi, ai concerti Kussevitzki, il 22 maggio, dopo averlo suonato otto giorni prima [14 maggio] davanti a pochi intimi in casa della Principessa di Polignac insieme a Jean Wiener2 che eseguiva al pianoforte la parte dell’orchestra. Naturalmente, ai miei inizi come solista di pianoforte soffrivo di trac, e per molto tempo dovetti faticare enormemente per vincerlo. Solo grazie all’abitudine e ad uno sforzo continuo, arrivai, col tempo, a dominare i miei nervi e a far fronte a questa sensazione, tra le più angosciose che io conosca. Analizzando le cause di questo trac, constato che esso deriva soprattutto dalla paura di una mancanza di memoria, oppure da una distrazione, sia pur minima, ma le cui conseguenze potrebbero essere irrimediabili. Poiché la più piccola lacuna, anche una semplice esitazione 2 Nella sua autobiografia {Allegro appassionato, Parigi 1978) Jean Wiener non parla di questa serata ma ne riporta il programma^ stampato, che comprende la suite déìTHistoire du soldat, il Concerto e V Ottetto. È curioso il fatto che dopo aver accompagnato Stravinsky nel Concerto per pianoforte e fiati Wiener scrivesse il Concerto franco-americain per pianoforte e archi, presentato a Parigi il 25 ottobre 1924.
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corre il rischio di provocare una discordanza fatale tra il pianoforte e l’orchestra che, come è ovvio, non può in alcun caso fermarsi. A questo proposito ricordo che, alla mia prima esibizione, fui colto da un turbamento di memoria che, fortunatamente, non ebbe conseguenze. Dopo aver suonato il primo tempo del Concerto, e mentre ero in procinto di attaccare il “largo” che comincia col pianoforte solo, mi accorsi all’improvviso che ne avevo completamente dimenticato l’inizio. Lo dissi a bassa voce a Kussevitzki. Egli diede un’occhiata alla partitura e mi suggerì le prime note; ciò bastò a rimettermi a posto e a farmi attaccare il mio “largo”.
Superati i problemi del neofita, gli impegni di Stravinsky, interprete del suo Concerto, furono subito numerosi: Copenhagen, Varsavia, Praga, Lipsia, Berlino (direttore Furtwangler), Amsterdam e L’Aja (con Mengelberg), Ginevra e Losanna (con Ansermet), Marsiglia; nel 1925 New York, Boston, Filadelfia, Detroit, Cincin nati, Chicago, poi Barcellona, Roma (con Bernardino Molinari), di nuovo Parigi, e più tardi varie città dell’Europa centrale. Il Concerto non venne inciso in disco da Stravinsky, ma da suo figlio Soulima, nel dopoguerra, due volte: una con TOrchestra da camera Oubradous, ed una con l’Orchestra RCA diretta dal padre. Nel 1950 il Concerto venne marginalmente ritoccato da Stravinsky, che corresse soprattutto errori di stampa e modificò pochi particolari. Non solo Stravinsky, ma diversi altri compositori pensavano negli anni 20 — il Concerto da camera per pianoforte, violino e tredici fiati di Berg è del 1925, il Capriccio per pianoforte e sei strumenti a fiato di Janàcek è del 1926 — che il timbro del pianoforte fosse adatto a fondersi con il timbro degli strumenti a fiato e non con quello degli archi. Il complesso strumentale che Stravinsky scelse per il Concerto è, in realtà, un condensato della banda: un gruppo di legni, un gruppo di ottoni, uno strumento a percussione (timpani), e i contrabbassi a corda che erano sempre presenti nelle grandi bande. Questo complesso viene suddiviso in due gruppi non solo strutturalmente ma anche graficamente, perché la parte del piano forte è collocata in partitura dopo quella dei fagotti e prima di quella dei corni, mentre di norma sarebbe stata collocata dopo quella dei timpani. La struttura del primo tempo è una fusione dell’allegro di sonata classico e della ouverture barocca alla francese. All’inizio e alla fine, come nell’ouverture barocca, c’è un Largo su ritmi puntati; al centro un allegro tripartito, con un episodio quasi cadenza che collega
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rallegro alla ripresa del Largo5. Il Largo iniziale, di espressione severa e cupa, ricorda le musiche per cerimonie funebri all’aperto elisabettiane, anche perché i fiati (il pianoforte non viene qui impegnato) vengono trattati per gruppi, come tante piccole bande collocate in posizioni spaziali diverse. Abbiamo così il gruppo dei corni, il gruppo degli oboi, clarinetti e fagotti (neanche i flauti suonano nel Largo), il gruppo delle trombe, dei tromboni e della tuba, che s’alternano e che solo per eccezione si mescolano. Come spesso avveniva nella ouverture barocca, il Largo grave e processionale è seguito da un Allegro di espressione opposta. Il taglio formale è classico, ma il secondo tema, come nelle musiche del Settecento, è episodico. La tonalità di la minore, chiaramente affermata nel Largo, viene mantenuta nell1 Allegro, ed il secondo tema viene esposto alla quinta, mi. Come abbiamo già detto, un episodio a modo di cadenza, affidato al pianoforte con pochi interventi degli altri strumenti, collega PAllegro alla ripresa finale dell’inizio, con tutti gli strumenti (pianoforte compreso) che suonano coralmente. Il tempo termina, settecentescamente, in la maggiore. Il secondo tempo, in do maggiore, è in forma di canzone tripartita, con un secondo tema in movimento più mosso ed una riesposizione molto abbreviata e variata. Il finale è in do maggiore e in forma, parzialmente atipica, di rondò. Il tema iniziale, che si collega agli ultimi suoni del secondo tempo, dà origine ad un fugato molto serrato e ingegnoso. Seguono un secondo tema in mi bemolle maggiore e un terzo tema in la bemolle maggiore, una riesposizione abbreviata, in do maggiore, del secondo tema, ed una riesposizione abbreviata del primo tema. In quest’ultima esposizione l’andamento toccatistico e meccanico che aveva fino a qui dominato viene improvvisamente spezzato, e Stravinsky indica non solo una accelerazione del movimento, ma un Agitato che non è certamente comune nella sua musica degli anni 20. La costruzione diventa romantica, perché V Agitato raggiunge rapidamente il punto culminante, a cui succede, iniziando con funebri rintocchi di campana del pianoforte, la citazione del Largo iniziale; un brevissimo e frenetico episodio di chiusura, Stringendo, conclude il lavoro. Il valore emotivo di quest’ultima parte del Concerto è altissimo, e 3 In partitura si trova l’indicazione maestoso (largo del principio) che può fare il “pendant” con il tempo del comincio di Ciaikovsky.
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la citazione dell’inizio assolve sì ad una funzione strutturale, ma non può non apparire dettata da motivazioni psicologiche, specie per il modo in cui viene collocata nel contesto. La conclusione del Concerto rappresenta in verità un bello strappo nella tela della poetica neoclassica che Stravinsky andava in quegli anni intessendo. E perciò, riteniamo, un esegeta stravinskiano ortodosso come Eric White giudica difettoso il terzo tempo. A noi non sembra che Stravinky razzoli male qui e predichi bene nella successiva Poétique musicale. Anzi... CAPRICCIO • Presto (la minore, 3/4) — Doppio movimento (4/4) — Presto (3/4) — Doppio movimento (la minore-sol minore, 4/4, poi 2/4, poi 12/16, poi 2/4) — Tempo I — Poco più mosso — Tempo I — Presto (3/4) — Doppio movimento (4/4) — Presto (3/4) — Doppio movimento (4/4). □ Andante rapsodico (la bemolle maggiore, 4/8) — Più mosso (fa minore) — Tempo I (la bemolle maggiore). □ Allegro cappriccioso (sic) ma tempo giusto (sol
maggiore, 2/4). • Senza dedica. • 1928-1929 (rev. 1949). • Parigi, 6 dicembre 1929, pianista Igor Stravinsky, dir. Ernest Ansermet. • Edition Russe de Musique, Parigi 1930; Boosey & Hawkes, New York 1952 (ed. riveduta). • Ott. (anche II fi.), 2 fi., 2 ob., corno inglese, 2 cl., cl. basso (anche III cl.), 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., violino, viola, violoncello e contrabbasso solisti, archi.
L’attività concertistica di Stravinsky, iniziata in pratica con l’esecuzione del Concerto, proseguì con lo stesso Concerto, con la Sonata (1924) e con la Serenata (1925). Stravinsky si dedicò anche alla direzione, sia dell’orchestra che di piccoli complessi da camera (ad esempio, diresse molte volte l’Ottetto). Alla fine degli anni 20 aggiunse al suo repertorio il Capriccio, poi scrisse composizioni e preparò trascrizioni per il violinista Samuel Dushkin, col quale suonò in duo e che diresse nel Concerto per violino, ed infine scrisse il Concerto per due pianoforti che eseguì con il figlio Soulima. Nel dopoguerra cessò l’attività di pianista ma continuò fino a tarda età quella di direttore. Come abbiamo già detto, egli non incise in disco, come pianista, il Concerto-, incise invece nel 1930 — mediocre incisione e mediocre esecuzione, in verità — il Capriccio, con l’Orchestra Straram diretta
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Stravinsky: Capriccio
da Ernest Ansermet. Nel 1970 il Concerto fu inciso, sotto la direzione di Stravinsky, con Philippe Entremont al pianoforte; il disco comprende anche il Capriccio, eseguito da Entremont e diretto da Robert Craft “con la supervisione del compositore”. Sulla composizione del Capriccio ci informa Stravinsky nelle
Cronìques: Consacrai la maggior parte dell’anno 1929 alla composizione del Capriccio che avevo incominciato verso il Natale dell’anno prima. Come
spesso mi accadeva, dovetti interrompere parecchie volte questo lavoro a causa dei miei inevitabili spostamenti.
Al termine della stagione concertistica 1928-29 Stravinsky eseguì il Concerto a Londra sotto la direzione di Eugene Goossens e a Berlino sotto la direzione di Otto Klemperer. Poi riprese il
Capriccio: Per tutta l’estate lavorai al Capriccio, che terminai alla fine di settembre. Lo eseguii per la prima volta il 6 dicembre a un concerto dell’orchestra Sinfonica di Parigi sotto la direzione di Ansermet. Invitato molto spesso negli ultimi anni a suonare il mio Concerto (le mie esecuzioni raggiungevano allora il numero considerevole di quaranta), pensai che fosse venuto il momento di presentare al pubblico un’altra composizione per pianoforte e orchestra. Per questo motivo scrissi un nuovo concerto al quale diedi il titolo di Capriccio: titolo che rispondeva meglio al carattere della sua musica. Pensavo alla definizione di un “capriccio” data da Pretorius, il celebre musicologo del XVII secolo. Egli vi scorgeva il sinonimo di una “fantasia”, che era una forma libera di pezzi strumentali fugati. Tale forma mi dava la possibilità di far procedere la mia musica accostando degli episodi di genere vario che si susseguono e che, per la loro natura, danno al pezzo il carattere capriccioso da cui prende il nome. Un compositore, al cui genio si confaceva mirabilmente questo genere, fu Cari Maria von Weber; e non è strano che, durante il mio lavoro, io abbia soprattutto pensato a lui, a questo principe della musica. Un titolo, ahimè, che non gli fu decretato durante la vita.
L’ammirazione per Weber, sulla quale non c’è motivo di dubbio, non si riflette sulla scrittura pianistica di “tutto” il Capriccio, che nei primi due tempi è persino più lineare di quella del Concerto. Nei primi due tempi del Capriccio si raggiunge invece il culmine della scrittura pianistica “classica” che Stravinsky aveva individuato con la Sonata e con la Serenata. E in orchestra, come nel Pulcinella, viene usato un quartetto d’archi solisti, denominato concertino, in alterna tiva alla massa (ripieno). Ma nel finale compaiono le doppie ottave, le seste e ottave, le
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doppie note che ci riconducono a tipi di tecnica virtuosistica impiegati da Weber. E se non proprio direttamente a Weber, il finale si riallaccia a schemi del concerto ottocentesco che, seppure con una certa parsimonia, si avvicinano al concetto di bravura. Nel primo tempo del Capriccio Stravinsky non adotta forme né classiche né barocche, né contaminazioni tra le une e le altre, ma costruisce l’architettura secondo un principio, classico in senso a-storico, di simmetrie. Come nel Concerto, l’introduzione trova il pendant nella conclusione; qui l’introduzione non contrasta però espressivamente con il corpo principale dell’opera. L’introduzione contiene invece in sé il contrasto nelle due brevi sezioni, entrambe ripetute, in cui si articola: il Presto e il Doppio movimento4. La simmetria è calcolata in modo minuzioso (Pretorius non docet), perché all’introduzione in due parti segue (con cambiamento di metro, da 4/4 a 2/4) il tema principale, a questo un tema secondario derivato dal secondo tema dell’introduzione, poi un divertimento su una variante del primo tema dell’introduzione, quindi di nuovo il tema secondario, un episodio di transizione, il tema principale, un altro episodio transizione, la riesposizione dell’introduzione. L’introduzione viene quindi ripresa, oltre che alla fine, al centro, e la schematicità della simmetria così risultante viene “corretta” con l’inserimento di due episodi di transizione fortemen te caratterizzati e diversificati (il primo in contrappunto rigoroso a quattro voci, il secondo a modo di danza caraibica). La classicità dell’impianto architettonico viene però compietamente sconvolta da una inconsueta particolarità del piano tonale: 1 2 3 4 5 6 7 8 9
— — — — — — — — —
Introduzione — la minore Tema principale — sol minore Tema secondario — sol maggiore Divertimento — sol minore Tema secondario — fa maggiore Episodio di transizione A — mi bemolle maggiore Tema principale — sol minore Episodio di transizione B — sol minore Introduzione — sol minore
4 Stravinsky, che indica sempre le cifre di metronomo (non sempre univoche, tant’è che nelle revisioni del Concerto e del Capriccio alcune di esse vengon mutate), stabilisce 132 al quarto per il presto, 66 al quarto per il doppio movimento. Secondo la comune accezione, doppio movimento avrebbe dovuto significare 132 alla metà; 66 al quarto equivale a 132 all’ottavo, e quindi il doppio movimento è in realtà un metà movimento.
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Stravinsky: Caprìccio
Una simmetria architettonica regolarissima, con inizio e fine nella stessa tonalità, avrebbe creato il massimo della solidità della forma e della tranquillità contemplativa dell’ascoltatore. Lo sbalzo di tonalità tra l’introduzione e il corpo maggiore della composizione crea invece una tensione che non viene sciolta alla fine perché il prevedibile ritorno conclusivo del la minore non si verifica. Sia con il piano tonale, sia con l’inserimento nella seconda parte dei due episodi di transizione, nella architettura retta da principi classici viene innestato un elemento di arbitrio, di deformazione individualistica che dà ragione delle vere, irrazionalistiche motiva zioni della poetica neoclassica di Stravinsky. Il secondo tempo, in forma di canzone, riunisce caratteri stilistici contrastanti. Nella prima parte una melodia accompagnata, settecen tesca, è esposta dall’orchestra con ornamentazioni sovrapposte del pianoforte. La seconda parte è un drammatico recitativo, affidato principalmente al pianoforte, che ricorda, almeno come “situazio ne”, la parte centrale nel Larghetto del Concerto n. 2 di Chopin. E nella riesposizione variata, in cui viene inserita una cadenza del pianoforte, compaiono anche le volatine vaporose che tanto piaceva no agli interpreti chopiniani più salottieri. Nella penultima battuta, su una scala rapida che copre cinque ottave, Stravinsky suggerisce anzi un modo di esecuzione tipico, il passaggio dal perlé al velluto, prescrivendo all’inizio possibile non legato (cioè «non legato quanto è possibile») e alla fine poco a poco più legato. L’impianto tonale del seonao tempo è costruito sul rapporto fra la bemolle maggiore (primo tema) e fa minore (secondo tema), con ritorno al la bemolle maggiore nella rieposizione. Il secondo tempo non termina però in la bemolle maggiore ma in do maggiore, con un sol che diventa nota di collegamento con il finale in sol maggiore, attaccato senza soluzione di continuità. Si può dire che anche lo Stravinsky del Capriccio, come il Ravel del Concerto in sol iniziato nello stesso anno, tenesse d’occhio SaintSaèns e la sua estetica manieristica: il terzo tempo del Capriccio è tutto “leggero”, tutto arieggiante alla polka e al can-can. Dopo una misteriosa introduzione, che sembra richiamare il tema principale del primo tempo, viene esposto un temine saltellante che potrebbe benissimo trovarsi a casa sua nelle Biches di Poulenc (1924). Altrettanto “leggero” è il secondo tema, ma più lieve, di una sofisticata eleganza parigina che in Stravinsky — giovanotto, come diceva Debussy, che pestava i piedi alle signore mentre baciava loro la mano — non avremmo mai sospettata. Il tono follemente frivolo viene corretto dalla ripresa del primo
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tema e da un robusto sviluppo, che inizia in sol minore. Ma un terzo tema, cantabile e persino languido, compare in orchestra, contrappuntato da un chiacchiericcio del pianoforte. E un lungo passo in doppie note alla mano destra (con un basso da polchetta alla sinistra) con cui Stravinsky scopre come il passeggiare delle dita corte e lunghe, sui tasti lunghi e corti, possa creare un gioco piccante senza troppi problemi per l’esecutore. La forma del rondò è a questo punto ben delineata: tanto bene che Stravinsky non riprende pari pari il tema principale ma se ne serve per un allusivo divertimento e conclude con una brevissima coda. Il Capriccio, che molto spesso suggerisce la danza, fu coreografato parecchie volte. Ma in realtà non sopporta che attraverso la coreografia gli venga sovrapposta una narrazione. E così l’unica coreografia che possa considerarsi riuscita è quella “astratta” di Balanchine nel balletto Rubins (Rubini), seconda parte della trilogia Jewels (Gioielli). Jewels fu creato nel 1967.
SERGEJ PROKOFIEV (Sontsovka, 23 aprile 1891 — Mosca, 5 marzo 1953)
CONCERTO IN RE BEMOLLE MAGGIORE OP. 10 (N. 1)
• Allegro brioso (re bemolle maggiore, 2/2) — Poco più mosso (do maggiore) — Tempo primo (re bemolle maggiore) — Andante assai (sol diesis minore, 4/4) — Allegro scherzando (do maggiore, 2/2) — Poco più sostenuto (do diesis minore) — Animato (mi maggiore-re bemolle maggiore).
• Nicolai Cerepnin. • 1911-1912. • Mosca, 7 agosto 1912, pianista Sergej Prokofiev, direttore Konstantin Sarae’ev. • Jùrgenson, Mosca 1913. • Ott., 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., controfagotto, 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., campanelli, archi.
Prokofiev scrisse il suo Concerto n. 1 per pianoforte mentre era ancora allievo del conservatorio di S. Pietroburgo. Nel 1909 il diciottenne Prokofiev aveva già conseguito il diploma di composi zione, con il relativo titolo di “libero artista”, ma aveva poi intrapreso studi di direzione d’orchestra con Nicolai Cerepnin, con il quale andava perfettamente d’accordo, e si era iscritto nella classe di pianoforte della celebre Annetta Essipova, con la quale si scontrava continuamente («Non ha assimilato molto del mio metodo», scrisse la Essipova nel suo rapporto annuale alla direzione, «ha un gran talento, ma è piuttosto grezzo»). Gli studi di direzione e di pianoforte vennero proseguiti per parecchi anni. Nel 1911, avendo già al suo attivo, tra l’altro, il poema sinfonico Autunno, la Sonata op. 1 e gli Studi op. 2 per pianoforte, Prokofiev decise di provare a scrivere un pezzo per pianoforte e orchestra, che chiamò Concertino. All’atto pratico, la parte solistica si sviluppò poi oltre le previsioni dell’autore, assumendo un rilievo ed un impegno virtuosistico che indussero Prokofiev a cambiare il titolo in
Prokofiev: Concerto op. 10
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Concerto. Il Concerto op. 10 fu terminato nel gennaio del 1912 e venne eseguito dall’autore al Circolo Sokol di Mosca, il 7 agosto, con l’esito di cui abbiamo detto (si veda alle pp. 107-108). Ricorderemo ancora come il 1912 fosse un anno felicemente operoso per Prokofiev, che condusse a termine altre due composizio ni destinate ad entrare stabilmente nel repertorio concertistico del pianoforte: la Toccata op. 11 e la Sonata n. 2 op. 14. Se l’importanza della parte solistica e l’imponente organico orchestrale spiegano il titolo di Concerto, le proporzioni dell’op. 10 rimangono quelle del concertino. La composizione raggiunge infatti una durata sensibilmente inferiore a quella dei normali concerti, e soprattutto dei concerti scritti tra la fine dell’ottocento e l’inizio del Novecento; la forma, inoltre, non è quella classica in tre o quattro tempi, con il primo tempo in forma-sonata. Il primo tempo si organizza invece sul susseguirsi di vari temi, che danno origine a sei episodi, collegati e ritmicamente affini, ma tematicamente differenziati: il primo episodio è a modo di marcia, il secondo a modo di toccata, il terzo a modo di tarantella, il quarto riunisce i caratteri della marcia e della tarantella (ma restando tematicamente indipendente dal primo e dal terzo), il quinto e il sesto sono ancora a modo di marcia. Dopo il sesto episodio viene ripreso il primo episodio, con il quale si chiude il primo tempo. Il primo episodio serve così da cornice al primo tempo e ne delimita nettamente la struttura. L’unità formale del primo tempo viene quindi ottenuta da Prokofiev senza far ricorso alle tradizionali simmetrie e al tradizio nale sviluppo tematico: i temi, in sé compiuti e perciò non passibili di sviluppo, si susseguono secondo una logica formale facile da cogliere all’audizione, difficilissima da individuare all’analisi. I rapporti tra i temi, che permettono a sei episodi consecutivi di costituire una forma organica e non un rapsodico seguito di belle idee, sono molto sottili e profondi, e certamente furono trovati dal compositore in modo del tutto istintivo. E tuttavia molto importan te il fatto che a poco più di vent’anni Prokofiev riuscisse a superare la tradizionale logica delle forme. Il secondo tempo, che segue senza interruzione, è molto più vicino alla tradizione del tardoromanticismo. Il tema principale, esposto dai violini con sordina, ha un profilo melodico già tipico di Prokofiev, e ancor più tipici di Prokofiev sono da considerare gli interventi del clarinetto e dei corni alla conclusione del tema. L’impianto formale è invece tradizionale: lenta ascesa verso un punto culminante — con tema in fortissimo agli archi sulle rombanti
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Prokofiev: Concerto op. 10, Concerto op. 16
batterie di accordi ribattuti del pianoforte — e lenta distensione, con progressivo dissolvimento del materiale melodico e della sonorità. Il terzo tempo, come già detto, riprende in ordine inverso gli episodi del primo tempo, modificati e variati, e con inserimento di una Cadenza del pianoforte. I ritorni tematici possono far pensare che Prokofiev abbia avuto presenti i concerti di Liszt, o più probabilmente il Concerto op. 30 di Rimski Korsakov, che deriva direttamente da Liszt. L’originalità formale di Prokofiev è però assoluta, e il Concerto op. 10 trova in Liszt e in Rimski Korsakov dei precedenti storici, ma non dei modelli. Bisogna tuttavia notare che, a parer nostro, l’organizzazione formale del terzo tempo non è così schietta e convincente come quella del primo tempo, probabilmente perché una soluzione trovata per istinto non era subito ripetibile. CONCERTO IN SOL MINORE OP. 16 (N. 2) • Andantino (sol minore, 4/4) — Allegretto (la minore) — Tempo I (sol □ Scherzo. Vivace (re minore, 2/4). o Intermezzo. Allegro moderato (sol minore, 4/4). □ Tinaie. Allegro tempestoso (sol minore, 4/4) — Meno mosso (re minore) — Più mosso — Meno mosso (fa diesis minore-la minore) — Allegro tempestoso (do maggiore-sol minore).
minore).
• Maximilian Schmidthof. • 1912-1913 (rev. 1923). • Pavlosk, 3 settembre 1913, pianista Sergej Prokofiev, direttore Piotr Aslanov; Parigi, 8 maggio 1924, pianista Sergej Prokofiev, direttore Sergej Kussevitzki (edizione riveduta). • A. GutheÙ, Parigi 1925. • 2 fl. (II anche ott.), 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tb., tp., pere., archi.
Al contrario del Primo, il Secondo Concerto op. 16, composto tra la fine del 1912 e l’estate del 1913, è assai vicino alla tradizione virtuosistica dell’ottocento. Il primo tempo, che inizia con un rapsodico tema esposto dal pianoforte (con la didascalia, in italiano, “narrante”), culmina in una cadenza del solista, molto ampia — dieci pagine a stampa — ed estremamente difficile, nella quale si incontrano due didascalie che bastano a indicare inequivocabilmente un certo tipo di rapporto col pubblico: un “con effetto”, che nella letteratura pianistica non è molto comune, e un “colossale” che pensiamo si presenti qui per la prima ed unica volta. Il secondo tempo appartiene a quella linea “ toccatistica o
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motoria” che il compositore, nella autobiografia, indica come una delle “linee-base” lungo le quali si sviluppa la sua operosità creativa. I compiti del solista e dell’orchestra sono differenziati in modo molto netto: il solista svolge una linea decorativa, in ritmo rigorosamente uniforme e costantemente raddoppiata in ottava, mentre l’orchestra mantiene quasi, sempre un ritmo di base, ma variato con combinazioni poliritmiche. Questo tipo di struttura appartiene ad un modulo tipico dei concerti virtuosistici, e che può essere esemplificato con la citazione della parte centrale del secondo tempo nel Primo Concerto di Ciaikovsky. Nel terzo tempo, a modo di marcia, il virtuosismo comincia invece ad assumere un significato diverso, che si precisa e si approfondisce nella grande cadenza del finale: il virtuosismo come simbolo di lotta sovrumana. Il carattere espressivo che il Concerto progressivamente assume ha risvegliato, come sempre avviene, la curiosità dei commentatori, che si son dati a cercare i presunti motivi ispiratori: per alcuni nel Concerto si trova una premonizione della guerra; per altri la chiave dell’opera è contenuta nell’autobiografia di Prokofiev, là dove si narra un fatto veramente agghiacciante. Il Concerto è dedicato aa un condiscepolo ed amico fraterno di Prokofiev, al quale sono dedicate anche la Seconda e la Quarta Sonata per pianoforte. Orbene, Prokofiev racconta di aver ricevuto, il 9 maggio 1913, una cartolina dello Schmidthof che diceva: «Caro Sergej, ti comunico l’ultima novità: mi sono suicidato. Non rattristarti, rimani indifferente: onestamente, è tutto ciò che l’incidente merita. Addio, Max. Le cause non sono importanti». Il corpo dello Schmidthof fu ritrovato dopo alcune settimane, e Prokofiev, com’è naturale, ricevette un’impressione terribile dalla morte dell’amico. Non sappiamo a quale stadio fosse giunta, nel maggio del 1913, la composizione del Concerto > e può anche darsi che effettivamente il finale sia legato indirettamente alla morte dello Schmidthof: i lenti accordi nella parte centrale potrebbero essere persino intesi in senso veristico (campane a morte, evidentemente). Ci parrebbe tuttavia azzardato affermare che esista un rapporto diretto tra l’avvenimento tragico e la drammaticità del finale, sebbene il finale trasporti il significato del Concerto in una dimensione espressiva che gli altri tempi non lasciavano prevedere, e che è nello stesso tempo tradizionale e immune dal patetismo di cui si compiaceva la tradizione dell’ultimo Ottocento. Il Concerto op. 16 fu eseguito per la prima volta il 6 settembre 1913, a Pavlosk, con l’autore al pianoforte. Tra le recensioni
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Prokofiev: Concerto op. 14, Concerto op. 26
apparse allora è da ricordare quella della «Gazzetta di Pietroburgo», che in uno stile epigrammatico dipinge vivacemente l’ambiente sociale in cui cadeva il dirompente fenomeno, o caso-Prokofiev: «Un giovanotto s’avanza sul podio. Sembra un allievo della Peterschule, un collegiale: è Prokofiev. Egli prende posto al pianoforte e pare che si metta a spolverare i tasti o a percuotere a casaccio note acute o gravi. Ha un tocco tagliente, secco. Il pubblico è sconcertato. Si sentono mormorii di indignazione. Una coppia si alza e a maestosi passi misurati raggiunge l’uscita: “Questa musica basta a farti uscir pazzo!”. La sala si spopola. Il giovane artista conclude il Concerto con una spietata combinazione cacofonica di ottoni. L’uditorio è scandalizzato. La maggioranza fischia. Dopo un beffardo inchino, Prokofiev riprende il suo posto e suona un bis. L’uditorio fugge verso l’uscita.gridando: “All’inferno questa musica futurista! Siamo venuti per divertirci. I nostri gatti, sui tetti, fanno musica migliore di questa!”, mentre i progressisti, affascinati, tentano di sommerge re le grida con: “Questa è l’opera di un genio!”, “Che freschezza, che novità!”, “Che temperamento! Che originalità”». Nell’estate del 1914 Prokofiev fece ascoltare il Concerto, a Lon dra, a Diaghilev. Nell’autobiografia Prokofiev scrive a questo propo sito: «Un artista che era presente esclamò in francese: “Ma questo è un selvaggio”; poi, quando seppe che capivo il francese, mi fece molte scuse. Diaghilev concepì la strana idea di “sceneggiare” il mio Concerto, ovvero di creare un balletto-pantomima da eseguirsi in scena mentre io avrei suonato il Concerto con l’orchestra... Ma la difficoltà di adattare la musica a qualsiasi tipo di soggetto liquidò la cosa». Il Concerto fu ancora eseguito da Prokofiev alcune volte durante la guerra (a Roma, il 7 marzo 1915, sotto la direzione di Bernardino Molinari). Ma la partitura andò perduta durante la Rivoluzione e il compositore la riscrisse a memoria nel 1923. Questa nuova versione, che è quella oggi nota, fu eseguita a Parigi, da Prokofiev, 1’8 maggio 1924, sotto la direzione di Kussevitzki. Il Concerto non termina con una “spietata combinazione cacofonica”, ma con una riconoscibilissi ma cadenza piagale. Chissà se fu Prokofiev che addolcì la prima versione, o se il giornalista della «Gazzetta di Pietroburgo» aveva colorito il suo pezzo con qualche tocco di fantasia!
CONCERTO IN DO MAGGIORE OP. 26 (N. 3) • Andante (do maggiore, 4/4) — Allegro — Andante — Allegro — Più mosso. □ Andantino (mi minore, 4/4) — L‘istesso tempo (do maggiore) —
Prokofiev: Concerto op. 26
Allegro — Allegro moderato — Andante meditativo — Allegro giusto — L’istesso tempo (mi minore). □ Allegro, ma non troppo (do maggiore, 3/4) — Pochissimo meno mosso — Allegro.
• Konstantin Balmont. • 1916-1921. • Chicago, 16 dicembre 1921, pianista Sergej Prokofiev, direttore Frede rick Stock. • A. Gutheil, Parigi 1923. • 2 fl. (II anche ott.), 2 ob., 2 cl., 2 fg., 4 cr., 2 tr., 3 trb., tp., pere., archi.
Il metodo di lavoro di Prokofiev, se di metodo si può parlare, era assai strano. Non appena aveva progettato e cominciato a scrivere una composizione, Prokofiev le assegnava un numero d’opera; raramente, però, la conduceva subito a termine; più spesso la lasciava incompiuta per cominciarne un’altra, alla quale assegnava il numero d’opera successivo, e talvolta continuava così con altri lavori ancora, per riprendere e terminare, a distanza di mesi o di anni, le composizioni rimaste in abbozzo. Mentre lavorava alle composizioni progettate, e quindi impostate secondo un piano formale preventiva mente delineato, Prokofiev annotava temi, collegamenti armonici o addirittura idee di strumentazione che la sua ribollente fantasia — un vulcano capace di tener testa alle apocalittiche eruzioni di mastodonti come Mozart o Schubert — creava in continuazione, senza un rapporto preciso con le opere in quel momento “in cantiere”. Il Terzo Concerto per pianoforte ricevette il numero d’opera 26 perché fu progettato e iniziato (annotazione di un solo tema) nel 1916, subito dopo la Sinfonia Classica op. 25. Uop. 25 e l’op. 26 vennero lasciate in sospeso perché il compositore riprese e terminò Pop. 24 (Il giocatore), iniziata nel 1915. Nel 1917 Prokofiev scrisse, rapidissimamente, i 5 Canti op. 27, rimaneggiò la Sonata op. 28 (la cui prima versione, scritta a sedici anni, non aveva numero d’opera) e terminò le Visioni fuggitive op. 22, lavorò di nuovo al Concerto op. 26, terminò il Concerto op. 19 per violino e la Sinfonia classica, rimaneggiò la Sonata op. 29, iniziò la cantata Sette, sono sette op. 30, progettò un Quartetto bianco (interamente diatonico) che non dovette lasciarlo molto convinto perché non gli assegnò il numero d’opera. Il Concerto in do maggiore rimase allo stato di abbozzo largamente incompleto. Nell’estate del 1921, dopo il primo, lungo soggiorno in America, Prokofiev ricominciò ad occuparsene mentre villeggiava a
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Prokofiev: Concerto op. 26
Étretàt in Bretagna, e lo terminò. Per le variazioni del secondo tempo si servì di un tema che aveva annotato nel 1913, e nel terzo tempo usò anche il tema del Quartetto bianco del 1917. La prima esecuzione ebbe luogo a Chicago il 16 dicembre 1921; l’esecuzione fu ripetuta il giorno dopo, ed entrambe le volte il successo fu abbastanza buono. Insuccesso completo ottennero invece le due esecuzioni del 26 e 27 gennaio a New York, con Prokofiev solista e Albert Coates direttore (ricordiamo che frammezzo alle esecuzioni del Concerto ebbe luogo a Chicago, il 30 dicembre, la prima dell" Amore delle tre melarance). In aprile Prokofiev eseguì il Concerto a Parigi con Kussevitzki, e a Londra con Coates. Negli anni successivi lo rieseguì più volte e lo incise anche sotto la direzione di Piero Coppola. Il Terzo è il più noto dei concerti di Prokofiev, e tra i concerti per pianoforte del nostro secolo cede il passo solo al Concerto in sol di Ravel per numero di esecuzioni e per gradimento del pubblico. Malgrado la sua fama, o proprio per questo (c’è quasi sempre un certo antagonismo tra pubblico e critica), il Terzo non è il concerto di Prokofiev che i critici generalmente preferiscono. Gli aspetti più tipici della personalità di Prokofiev vi trovano memorabili estrinse cazioni e restano fissati in momenti che l’ascoltatore non dimentica più: il lirismo sognante (inizio del Concerto, tema del secondo tempo), il particolarissimo ripensamento del Settecento (secondo tema del primo tempo, con andamento di gavotta), e il “russismo” di Prokofiev (tema di marcia lenta, nella parte centrale del finale) sono legati, per molti ascoltatori, al ricordo del Concerto op. 26. E innegabile però che nell’insieme il Concerto appare costruito un po’ alla buona, badando a congegnare una pièce ricca di effetti o di effettacci più che una commedia coerentemente svolta: di qui le riserve di molti critici. Orbene, questo fatto non implica necessariamente un giudizio di valore, ma semmai, trattandosi di un musicista della forza di Prokofiev, la ricerca del fine perseguito dal compositore. Il fine immediato è più che evidente: Prokofiev riprese, modificò e terminò rapidamente una composizione con la quale sperava di imporsi negli Stati Uniti come pianista. Ad imporsi non ci riuscì, perché il suo linguaggio era troppo originale per il pubblico di allora, ma siccome il suo tentativo fu fatto con piena convinzione la chiave per spiegare i caratteri del Concerto op. 26 sta nelle qualità del “pianista” Prokofiev, perché il Concerto fu scritto per un pianista che desiderava richiamare su di sé l’attenzione di un pubblico abbastan za vasto.
Prokofiev: Concerto op. 26
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Henryk Neuhaus (il maestro di Gilels e di Richter) ha descritto con molto impegno Prokofiev pianista: «Le caratteristiche principali del suo stile pianistico erano la virilità, l’audacia, una volontà incomparabile, un ritmo ferreo, una incredibile potenza di suono (talvolta difficilmente sopportabile in un locale di dimensioni ridotte), un andamento “epico”, spoglio di falso raffinamento e di intimismo (non se ne trova molto nella sua musica) e, tuttavia, una sorprendente capacità di andare “fino al fondo del lirismo”, di fare provare all’ascoltatore la poesia profonda di un’opera, la nostalgia, la meditazione, l’amore della natura, infine, una specie d’inesprimi bile calore umano» (L'arte del pianoforte, Mosca 1958; trad, it., Milano 1985). Tutto questo discorso può sembrare un rosario di generiche esclamazioni ammirative, e di quelle che qualunque critico esperto può tributare a qualunque grande pianista, e può persino sembrare un po’ campato in aria a chi riascolti i dischi incisi da Prokofiev. Ma ciò che Neuhaus dice appare interessante ed acuto se viene messo in rapporto con il momento storico in cui Prokofiev apparve al pubblico e ai pianisti come un eresiarca che sconvolgeva una sacra tradizione. Oggi, a circa cinquant’anni di distanza, il “ritmo ferreo” di Prokofiev pianista non ci sembra affatto ferreo, ma anzi molto duttile e fantasioso: si ascoltino le sue esecuzioni di Bydio e del Balletto dei pulcini dai Quadri di una esposizione di Mussorgski o dell’impagabile Pantasia sulla Shéhérazade di Rimski Korsakov: esecuzioni mirabili, secondo noi, ma ritmicamente così libere rispetto al comune gusto d’oggi, da parere ai più dilettantesche. La “incredibile potenza di suono” (sia pure nella misura in cui la potenza di suono può esser colta dai vecchi dischi) non appare affatto incredibile, di fronte alle capacità percussive di certi pianisti più recenti. Ma le immediate reazioni dell’ascoltatore d’oggi si capovolgono qualora si ascoltino i dischi di Prokofiev dopo aver studiato i dischi dei pianisti che dominavano la scena nel primo ventennio del secolo: per esempio, Paderewski o Rosenthal o la Essipova, con la quale Prokofiev studiò burrascosamente nel conservatorio di S. Pietroburgo. Lo scandalo di Prokofiev riappare allora con tutta la sua ciclonica potenza. Tuttavia — questo è il succo del discorso di Neuhaus — in Prokofiev pianista riviveva l’essenza del virtuosismo romantico. L’idea del Concerto n. 3, secondo noi, sta nel concetto di “rivelazione” di un eroe e, come abbiamo detto, il contrasto con il pubblico e l’insuccesso momentaneo furono causati dal linguaggio,
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Prokofiev: Concerto op. 26, Concerto op. 52
non dalla struttura formale del Concerto, né dalla sua scrittura pianistica. Di qui il successo, che se non accompagnò le prime esecuzioni dell’autore premiò però i suoi primi interpreti. E di qui, anche, la “tipicità” che venne implicitamente riconosciuta al Terzo una trentina d’anni dopo la sua creazione, quando ad esso guardarono come ad un modello i molti compositori che al successo miravano. A distanza di tanti anni si è andata anzi attenuando la contrapposizione tra Rachmaninov come rappresentante russo della “tradizione” e Prokofiev come rappresentante russo della “moderni tà”. Ed oggi non si saprebbe neppur più dire quale, fra il Terzo di Prokofiev e il Quarto di Rachmaninov creati negli stessi anni, sia il concerto meno “modernista”.
Si veda anche il commento a p. 113. CONCERTO IN SI BEMOLLE MAGGIORE OP. 52 (N. 4) • Vivace (si bemolle maggiore, 2/4). □ Andante (la bemolle maggiore, 6/8). □ Moderato (do maggiore, 3/4) — Allegro moderato — Andante (mi maggiore) — Allegro moderato. □ Vivace (si bemolle maggiore, 2/4).
• • • • •
Paul Wittgenstein. 1931. Berlino, 5 settembre 1956, pianista Siegfried Rapp, dir. non identificato. International Music Company, New York 1967. 2 fi., 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., tr., trb., grancassa, archi.
Come già ci è accaduto di dire (vedi pp. 120-121) il Concerto n. 4 per la mano sinistra fu composto su commissione di Paul Wittgen stein al quale è dedicato. Prokofiev compose il lavoro nel 1931, soggiornando a Parigi e, curiosamente, mentre Ravel vi aveva da poco terminato il Concerto in re. Non soddisfatto del Concerto di Ravel, Wittgenstein tuttavia lo eseguì e lo riprese, sia pure saltuariamente, fino ai suoi ultimi anni. Non contento del Concerto di Prokofiev, Wittgenstein non lo eseguì mai, perdendo così i diritti di esclusiva dopo che fu trascorso il periodo dei sei anni previsto dal contratto. Non lo eseguì neppure Prokofiev, che subito dopo aver terminato il Quarto aveva messo mano al Quinto Concerto. Non furono pubblicate né la riduzione per due pianoforti né la partitura, e solo nel 1956 un altro mutilato di guerra (della seconda guerra mondiale) andò a ripescare presso la vedova di Prokofiev il Concerto e ne diede la prima esecuzione.
Prokofiev: Concerto op. 52
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Il Concerto n. 4 non incontrò nessuna fortuna e venne poi eseguito molto di rado. Ripreso nel 1958 da Rudolf Serkin e poi da pochi altri (in Italia da Giuseppe Postiglione), praticamente venne conosciuto solo quando cominciarono ad uscire in disco le “integra li” di tutti i concerti, che fino ad oggi sono comunque poche. Non è affatto difficile capire perché il Concerto non piacesse a Wittgenstein. Non solo per ragioni di linguaggio ma perché, al contrario di Ravel, Prokofiev non rivalutava il... virtuosismo del monco. Nel Concerto di Ravel il movimento rapido, che con l’impiego di una sola mano esclude la possibilità delle grandi masse di suono, è collocato al centro. Prima, in un movimento lento e ritmicamente molto libero, e dopo, in una cadenza, il pianista monco copre grandi distanze e crea, con il pedale di risonanza, masse di suono imponenti. Si è detto spesso che il Concerto in sol di Ravel sembra scritto per una mano sola e il Concerto in re per due. E nella poetica di Ravel c’è sicuramente una componente ludica che non rifiuta ma che, anzi, cerca l’illusionismo e il trompe roreille. La scrittura di Prokofiev acquista qualche tratto di evidente virtuosismo solo nel terzo tempo: troppo tardi perché il pubblico provi la più istintiva delle reazioni, lo stupore, che viene provocata dalla drastica e artificiosa riduzione dei mezzi di esecuzione senza la diminuzione dell’effetto. Sembra persino strano che Ravel, non-virtuoso, avesse una così penetrante intuizione delle ragioni prime del virtuosismo, mentre Prokofiev, grande virtuoso, limitava l’apparato e puntava per lunghi tratti sul decorativismo della linea nuda. E la ragione di questa scelta paradossale risiede probabilmente nel fatto che l’occasione offertagli da Wittgenstein capitò in un momento in cui Prokofiev tendeva verso la rarefazione estrema della sua poetica neoclassica. Se per Ravel l’impiego della sola mano sinistra diventava una sfida, per Prokofiev diventava la soluzione precostituita di un problema di trasparenza di scrittura al quale stava allora pensando (Sei Pezzi op. 52, 1930-31, Due Sonatine op. 54, 1931-32), ma che gli si era presentato già nelle composizioni per pianoforte degli anni 20 (Sonata n. 5, 1923, Choses en soi, 1928) e che era stato per così dire “accantonato” nel Concerto n. 3. Così, ed è davvero un paradosso, la scrittura per mano sinistra del francese Ravel si riallaccia ad una tradizione russa, e la scrittura del russo Prokofiev ad una tradizione francese: Ravel riprende i miracoli coloristici di Scriabin (Preludio e Notturno op. 9) e l’incredibile virtuosismo di Felix Blumenfeld (il mitico Studio in la bemolle maggiore), mentre Prokofiev riprende la spoglia scrittura degli Studi op. 135 di Saint-Saèns.
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Prokofiev: Concerto op. 52
Il primo tempo del Concerto di Prokofiev viene di solito classificato come rondò atipico, mentre a parer nostro è in formasonata, con primo tema, transizione (in uno stile di sonatina a due voci), secondo tema, conclusione in due sezioni, la seconda delle quali riprende una variante del primo tema; la parte centrale, piuttosto breve (62 battute contro le 136 dell’esposizione), introdu ce elementi tematici nuovi ed è intesa più come intermezzodivertimento che come sviluppo; molto abbreviata la riesposizione (64 battute), nella quale il primo tema riappare alla fine, mentre all’inizio viene sfruttata la conclusione dell’esposizione. Sebbene, come dicevamo, la forma non sia del tutto atipica, le proporzioni della parte centrale e della riesposizione danno l’impressione di una divisione binaria (136 battute e 62 più 64 uguale 126) ed il carattere del pezzo dà l’impressione di uno scherzo (esposizione e riesposizio ne) con trio (sviluppo). Una funambolica abilità costruttiva e un gioco spiritosissimo tra secchi movimenti a moto perpetuo e tenui linee melodiche. Un tono poetico che può far pensare a Chagall, ed una parte pianistica di difficile esecuzione. Ma nulla, in verità, che richiami veramente l’idea di ° concerto” con solista, e tanto meno con un solista che non impiega tutti i mezzi esecutivi di cui solitamente dispone. Nell’otti ca di Wittgenstein, come dicevamo pocanzi, lo scopo viene mancato fin dal primo tempo. Nel secondo tempo emerge la Stimmung nostalgica, quella del balletto Romeo e Giulietta che Prokofiev avrebbe composto nel 1935-36, e che nel primo tempo traspariva appena in controluce. Il primo tema, a modo di valzer lento, è esposto dall’orchestra, il secondo tema, intensamente lirico, viene presentato dal pianoforte solo ed esposto dall’orchestra; poi viene ripreso, alternativamente da orchestra e pianoforte, il primo tema. Prokofiev ha così costruito una forma di canzone tripartita. Nella parte centrale riprende però il secondo tema e lo riespone tre volte in un clima di esaltazione lirica delirante. Una breve coda porta alla riesposizione, che inizia al quarto grado e che è limitata al primo tema; ma la riesposizione parziale viene architettonicamente equili brata con un’ampia coda. Anche in questo caso, dunque, Prokofiev crea una forma che, pur rapportandosi alla tradizione, presenta tratti di assoluta originalità e che non viene praticamente riconosciu ta dall’ascoltatore. Il terzo tempo si presenta con tutti i caratteri del finale: è un brano con introduzione, e non solo è ampiamente sviluppato e termina in fortissimo, ma le sue dimensioni sono superiori a quelle
Prokofiev: Concerto op. 52, Concerto op. 55
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del primo tempo (diciassette pagine a stampa nella riduzione per due pianoforti, contro quattordici e mezza del primo tempo e dodici e mezza del secondo). Il quarto tempo, che è una sintesi del primo (sei pagine a stampa), suonerà così come postludio, e tutta la struttura generale dell’opera acquisterà caratteri non solo insoliti ma che colpiscono per la loro singolarità senza che se ne possa trovare, facilmente, una chiave di lettura. L’introduzione del terzo tempo è formata da una severa monodia del pianoforte {pensieroso, dice la didascalia) dopo una solenne apertura dell’orchestra. La prima sezione dell’Allegro moderato introduce un nuovo tema ma riprende anche gli elementi tematici dell’introduzione. Una sezione di transizione porta alla parte centrale, con esposizione e sviluppo di un nuovo tema. Alla riesposizione, Allegro moderato, gli elementi tematici della prima parte vengono presentati in un ordine inverso; una coda assai ampia conclude il tempo. Non è qui il luogo per un’analisi particolareggiata di questo terzo tempo. Ma anche dai cenni che abbiamo potuto fare il lettore avrà capito come la cura maggiore del compositore, qui come nei tempi precedenti, riguardi la creazione di una forma che suoni evolutiva, ma non rivoluzionaria, rispetto alla tradizione. Però proprio la sottigliezza e l’allusività delle simmetrie, insistiamo su questo punto, è ciò che sconcerta l’ascoltatore e che imporrebbe ripetute e attente audizioni. Tanto più sconcertante risulta, come già dicevamo, il finale, brevissimo e misterioso {piano dall’inizio alla fine), dopo la pravità solenne del terzo tempo. Sembra probabile che il richiamo al primo tempo, nel quarto, assolva prima di tutto ad una funzione di chiara ed inequivocabile simmetria, sia tematica che di tonalità. Invece il Concerto, pur così semplice di linguaggio e lineare di scrittura, risulta oscuro, enigmatico. E certamente il concerto di Prokofiev più pensato e più meditato ed il più genialmente costruito; manca completamente di quei caratteri — tematici o gestuali — che possono immediatamente colpire l’ascoltatore e guidarlo nella comprensione dell’opera. Pochissimo eseguito e pochissimo conosciuto, è però da annoverare sicuramente tra i capolavori assoluti del concerto per pianoforte e orchestra.
CONCERTO IN SOL MAGGIORE OP. 55 (N. 5)
• Allegro con brio (sol maggiore, 3/4). □ Moderato ben accentuato (do maggiore, 4/4) — Più mosso (12/8) — Tempo I (4/4) — Poco più animato. □
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Prokofiev: Concerto op. 55
Toccata. Allegro con fuoco (più presto che la prima volta) (sol maggiore, 3/4) • Larghetto (si bemolle maggiore, 2/4). □ Vivo (si bemolle minore-do maggiore, 2/2) — Appena più mosso — Più mosso — Più tranquillo (si minore) — Coda. Allegro non troppo (sol maggiore, 2/4).
• Senza dedica. • 1932. • Berlino, 31 ottobre 1932, pianista Sergej Prokofiev, direttore Wilhelm Furtwangler. • Parigi, Edition Russe de Musique, 1933. • 2 fl. (Il anche ott.), 2 ob., 2 cl., 2 fg., 2 cr., 2 tr., 2 trb., tb., tp., pere., archi.
Il Concerto op. 55, composto a Parigi tra l’inverno e la primavera del 1932, fu Fultima composizione terminata da Prokofiev prima del suo definitivo rientro in Russia. La prima esecuzione ebbe luogo a Berlino, con Prokofiev solista e Furtwangler direttore (al concerto prese parte anche Hindemith, solista neìTAroldo in Italia di Berlioz: assistevano, nientemeno!, Schonberg e Stravinsky); nel novembredicembre Prokofiev eseguì il Concerto a Varsavia, Mosca e Leningra do, e alla fine dell’anno, sotto la direzione di Bruno Walter, negli Stati Uniti. Nel giro di soli due mesi, cosa che oggi sarebbe più che da favola, una nuova composizione venne dunque interpretata dai due direttori che, insieme con Toscanini, dominavano la scena internazionale. Con l’op. 55 si conclude il ciclo dei concerti per pianoforte di Prokofiev. Si tratta di un’opera problematica, volutamente proble matica: «Il mio problema essenziale, in questo Concerto, fu di creare una tecnica che fosse diversa da quella dei miei precedenti concerti», dichiarò l’autore in un’intervista. Non è improbabile, anche se nessun documento lo attesta, che la necessità di rinnova mento si fosse presentata a Prokofiev anche in seguito all’apparizio ne del Capriccio di Stravinsky, presentato in prima esecuzione a Parigi nel 1929, e dei due concerti di Ravel, eseguiti entrambi, per la prima volta, nel gennaio del 1932. Un’analisi minuziosa potrebbe mettere in evidenza alcune proba bili derivazioni da Stravinsky, e in misura assai minore da Ravel. Ma non sarebbe affatto improprio sostenere che il Concerto op. 55 sviluppa nel modo più ampio una tecnica pianistica già presente nel Prokofiev precedente. Il Capriccio di Stravinsky ed i concerti di Ravel costituirono quindi per Prokofiev uno stimolo, più che una causa di rinnovamento. Da Stravinsky appare piuttosto derivata la concezione del rapporto paritetico tra il solista e l’orchestra, mentre
Prokofiev: Concerto op. 55
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nei primi tre concerti di Prokofiev (delle particolari caratteristiche del Quarto abbiamo appena detto) il solista aveva sempre dominato. Il Concerto op. 55, nella prima intenzione di Prokofiev, avrebbe dovuto impiegare una tecnica pianistica semplificata, forse al modo della tecnica delle Sonatine op. 54. E semplificata lo è, in effetti, se per semplicità s’intende la minor quantità di note che il pianista deve suonare nel Quinto rispetto, ad esempio, al Terzo. Ma non si tratta tanto di suonare meno note, quanto di ottenere una nuova sonorità, lucentissima, che ricorda fi silofono e il Glockenspiel. Prokofiev usa quindi in prevalenza il registro sovracuto, ma costringendo spesso il pianista ad arrivarci di slancio, partendo dagli altri registri. La tecnica largamente impiegata è quindi quella dei salti, e l’esecuzione, se appare semplice all’audizione, è in realtà difficile e rischiosissima. Il Concerto è in cinque tempi. Ad un primo tempo in forma classica segue un Moderato ben accentuato: uno dei tipici tempi di marcia di Prokofiev. La struttura a quattro tempi, che si era ormai delineata, viene a questo punto interrotta da una breve toccata, che è come una cadenza posticipata sul primo tema del primo tempo, affidata non solo al solista ma a tutta la massa. Nel quarto tempo troviamo l’unico momento in cui l’orchestra venga concepita in termini nettamente tradizionali, e cioè con una prevalenza degli archi. Nell’ultimo tempo si trovano esempi di scrittura pianistica veramente semplificata, che possono ricordare modelli prebeethoveniani, e che richiamano effettivamente le due Sonatine op. 54, alle quali Prokofiev aveva lavorato l’anno prima.
GEORGE GERSHWIN (Brooklyn, 26 settembre 1898 — Hollywood, 11 luglio 1937)
RHAPSODY IN BLUE • Molto moderato (si bemolle maggiore, tempo ordinario) — Moderato assai — (la bemolle maggiore-la maggiore) — Poco agitato — Tempo giusto (la maggiore-do maggiore) — Meno mosso e poco scherzando (sol maggiore) — Andantino moderato (mi maggiore, 4/4) — Leggiero (la maggiore-do maggiore, 2/4) — Grandioso (mi bemolle maggiore) — Molto allargando (si
bemolle maggiore, 4/4). • Paul Whiteman. • 1924. • New York, 12 febbraio 1924, pianista George Gershwin, direttore Paul Whiteman. • New World Music Corporation, New York 1924. • 2 fi., 2 ob., 2 cl., clarinetto basso, 3 saxofoni, 2 fg., 4 cr., 3 tr., 2 trb., tb., tp., pere., banjo, archi (strumentazione di Ferde Grofé).
Della Rapsodia in blu abbiamo oggi, oltre a riduzioni e adatta menti vari, cinque versioni che vantano tutte i loro bravi quarti di legittimità: 1) per pianoforte solo, 2) per due pianoforti, 3) per pianoforte e jazz-band, 4) per pianoforte e orchestra sinfonica, 5) per due pianoforti e orchestra. Cinque versioni che sono tutte, in una certa misura, autentiche e, in una cert’altra misura, più o meno non-autentiche. La versione per pianoforte solo è “autentica” perché nel 1925 l’autore la registrò personalmente su un rullo di pianoforte meccani co, ed è “non autentica” perché Gershwin non aveva così pensato la composizione ma l’aveva adattata al mezzo di riproduzione di cui forzatamente disponeva. La versione per due pianoforti è autentica perché venne scritta da Gershwin, e non-autentica perché Ger shwin, inesperto di strumentazione, non era in grado di scrivere la Rapsodia in altro modo. La versione per pianoforte e jazz-band è
Gershwin: Rapsodia in blu
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autentica perché in questa forma l’aveva ordinata il committente, e non-autentica perché la strumentazione è di Ferde Grofé. La versione per pianoforte e grande orchestra è autentica perché Gershwin l’autorizzò, e non-autentica perché il solito Grofé provvide alla strumentazione. La versione per due pianoforti e orchestra è autentica in quanto autorizzata da Ira Gershwin, fratello di George, e non-autentica perché l’autorizzazione venne data quarantanni dopo la morte dell’autore... e dal fratello. Insomma, si potrebbe anche dire che di rapsodie in blu ce ne sono cinque e nessuna... Tutto considerato, la vera regina dovrebbe essere la versione per pianoforte e jazz-band (formazione atipica, con otto violini, niente viole e niente violoncelli, in cui viene chiesto al clarinetto di suonare anche l’oboe e al bassotuba di suonare anche il contrabbasso, e in cui c’è un pianoforte di ripieno oltre al pianoforte solista). Dovrebbe esserlo, diciamo, perché a ordinarla fu un simpatico ciccione, Paul Whiteman, direttore di un’orchestra jazz, che pensava di nobilitare il blues introducendolo nelle sacre sale di concerto, con un pubblico che comprava il biglietto alla cassa, indossava l’abito scuro, stava compostamente seduto in poltrona e applaudiva solo quando la musica era arrivata alla fine. I titoli di nobiltà del jazz sono magari anche altri, ma Whiteman era come un cuoco intraprendente che della pizza fa un cibo buono non solo più per i lazzaroni. Gershwin, si direbbe oggi, era un canzonettaro che aveva già avuto dei successi a Broadway e che suonava bene il pianoforte. Whiteman lo aveva ascoltato accompa gnare la cantante Eva Gauthier in un concerto un po’ “serio” e un po’ cabarettistico, e nel 1922 aveva diretto i George White's scandals in cui, per una sola sera, era stato incluso Blue Monday di Gershwin. Whiteman parlò con Gershwin di una composizione “classica” con elementi jazzistici, e siccome, oltre che ciccione, era anche pasticcione, ne diede notizia ai giornali prima ancora che Gershwin avesse cominciato a scriverla. Avendo letto nel New York Herald Tribune che «George Gershwin è al lavoro su un concerto jazz», George Gershwin al lavoro ci si mise davvero, in poche settimane scrisse la Rapsodia in blu e la eseguì nella Aeolian Hall di New York, con Whiteman, in una serata molto reclamizzata a cui assistettero Rachmaninov, Stokowski, Heifetz, Kreisler e molti altri noti musicisti. Nel 1924 il jazz non era proprio uno sconosciuto, nelle sale di concerto: John Powell aveva scritto nel 1919 una Rhapsodic negre per pianoforte e orchestra, Antheil una Jazz Sonata, e al jazz ci
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Gershwin: Rapsodia in blu
avevano pensato persino Stravinsky e Ravel. Ma Gershwin ebbe un successo che superava ogni aspettativa perché insieme con il jazz mise nella sua Rapsodia un bel po’ di Broadway e di musical, con un tema cantabile che era un vero e proprio song e che faceva immaginare cielo blu cupo, notte incantata e un duetto d’amore da brivido. La Rapsodia in blu inizia con un trillo in registro basso e una scala del clarinetto. Nulla di men che “classico”, in tutto ciò. Però la scala, percorso il cosiddetto registro di chalumeau, si trasforma in un languido portamento: cosa che nel 1924 sapevano fare i clarinettisti jazz, e magari i cantanti “classici”, ma che nel clarinetto classico, da Mozart e Hindemith, non s’era mai vista. Nel tema che nasce dopo questa elegante e conturbante scivolata, la qualità del melisma potrebbe essere “classica”, ma l’armonia no. E tanto meno la Stìmmung, di una sensualità a fior di pelle che con il “classico” ha poco a che vedere. E che non ha molto a che vedere, a parer nostro, neppure con il jazz. Il carattere stilistico è, e sarà per tutto il pezzo, il sincretismo del musical, pragmaticamente collocatosi entro la media del gusto di un pubblico che voleva un sano divertimento e un’onesta evasione, e che poteva apprezzare e Beethoven e il jazz pur di non essere costretto a guardare entro gli insondabili abissi di Beethoven ed entro la cultura degli ex-schiavi. La struttura della Rapsodia in blu è quella della ouverturecentone (non c’è nel termine alcunché di negativo o di spregiativo), che s’usava nei musicals e che s’era usata nelle operette: una sfilata di temi molto gradevoli, alcuni dei quali ricorrenti più volte, in modo da rendere unitario il quadro. Il termine Rapsodia fu però scelto perché era stato impiegato non di rado nella musica “classica” di fine Ottocento e del principio del Novecento. Che era stato impiegato per definire composizioni ispirate al folclore (rapsodia ungherese, rapsodia slava, rapsodia norvegese, rapsodia spagnola, ecc., ecc.). Rapsodia negro-americana sarebbe stato il termine più appropriato. Ma, à parte il fatto che già c’era il vicino precedente di John Powell, il richiamo al blues era sicuramente più suggestivo. Titolo, musica, scrittura pianistica brillante senza essere virtuosl sticamente ardua: c’era la mistura giusta di un largo successo, che non mancò. Ma se la ricetta era sotto gli occhi di tutti, non era facile indovinarne le dosi: in questo, a parer nostro, consiste l’autentica genialità di Gershwin e l’autentico motivo di interesse critico che la sua composizione, al di là della fama, ancor oggi conserva.
Gershwin: Variazioni
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VARIAZIONI SU «I COT RHYTHM» • Moderato (fa maggiore, 2/4) — Più mosso — Moderato — Allegretto, Valse triste (re maggiore, 3/4) — Allegretto giocoso. Chinese Variation (si maggiore, sol maggiore, 2/4) — Allegro assai (sol maggiore) — Andantino (fa maggiore, tempo ordinario) — Allegro (re bemolle maggiore, 2/4) — Allegro (fa maggiore) — Maestoso moderato.
• Ira Gershwin. • 1933. • Boston, 14 gennaio 1934, pianista George Gershwin, direttore Charles Previn. • New World Music Corporation, New York 1934. • FI., ob., corno inglese, cl., cl. basso, 4 saxofoni, 2 fg., 3 cr., 3 tr., 3 trb., tb., tp., pere., silofono, campanelli, archi.
Quasi dieci anni dopo la Rapsodia in blu, e proprio per celebrarne il decennale, Gershwin scrisse le Variazioni su "I got rhythm”. In dieci anni Gershwin non era però restato con le mani in mano e per pianoforte e orchestra aveva scritto nel 1925 il Concerto e nel 1931 la Seconda Rapsodia: per pianoforte e orchestra o, come dice spiritosamente Max Harrison, «per se stesso e orchestra». Nel 1934, come abbiamo visto, Rachmaninov avrebbe scritto anche lui delle variazioni per pianoforte e orchestra; nel 1914 ne aveva scritte (Su “Ah, vous dirai-je, Maman”) Ernó Dohnànyi, e molti anni prima ne aveva scritte Liszt (Totentanz), e moltissimi anni prima ne aveva scritte Chopin (Su un tema del «Don Giovanni» op. 2), e quasi nella notte dei tempi ne avevano scritte Beethoven (nella Fantasia op. 80), Mozart (in vari dei suoi concerti), e l’impagabile abate Vogler che aveva trascinato il suo pianoforte fin nell’Africa e che s’era fatto un’idea de visu persino di quel che fossero gli ottentotti. Anche Mozart e soci, essendo pianisti, scrivevano per se stessi e orchestra. Mozart e soci erano però grandi pianisti, mentre Gershwin era piuttosto quello che oggi chiameremmo — lo diciamo senza intenzioni offensive — lo specialista del piano bar. 1 got rhythm era un song del musical di Gershwin Girl Crazy (1930). Molto popolare il musical e molto popolare il song. E Gershwin, che amava frequentare i parties ed intrattenere gli ospiti suonando il pianoforte, spesso aveva scelto 1 got rhythm per le sue improvvisazioni. Le Variazioni sono in realtà, per quanto concerne la parte pianistica, un’improvvisazione scritta. La parte orchestrale è però molto elaborata, quasi una dimostrazione di ciò che Gershwin, incapace dieci anni prima di strumentare la Rapsodia in blu, aveva
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Gershwin: Variazioni
nel frattempo imparato. Il sincretismo stilistico è evidente: basti osservare la variazione che arieggia il valzer viennese (Allegretto), la variazione che arieggia l’Oriente (Allegretto giocoso) e la variazione che arieggia il blues (Andantino). Non c’è nessuno sforzo, e nemmeno nessuna intenzione di analisi stilistica, ma il gusto della contaminazione e del pittoresco guardato peraltro con humour: di qui nasceranno le musiche spiritose e malandrine di Leroy Anderson! Però Gershwin, che in Europa aveva conosciuto Ravel e Stravinsky, dà tuttavia prova di saper usare accordi complessi, spesso per quarte sovrapposte, non come funzioni dell’armonia ma come colori, ed inventa dense masse timbriche che valgono in quanto tali. L’uso strutturale del colore è a parer nostro l’aspetto più notevole delle Variazioni, che per questa ragione, rispetto alla Rapsodia in blu, possono essere considerate “intellettualistiche”. Intellettualistiche o no, malgrado la notorietà del tema I got rhythm, le Variazioni non hanno goduto e non godono di alcuna fortuna, né concertistica né discografica. La circostanza che spinse Gershwin alla composizione era, come già detto, il decennale della Rapsodia in blu. In quell’occasione Leo Reisman aveva formato un’orchestra che, in una lunghissima tournée, avrebbe eseguito soprattutto musiche di Gershwin. La prima esecuzione delle Variazioni ebbe luogo all’inizio della tournée, nella Symphony Hall di Boston, poi la troupe di Reisman toccò molte città degli Stati Uniti; al termine, Gershwin corfiinciò a lavorare all’opera Porgy and Bess.
APPENDICE
CRONOLOGIA DEI CONCERTI
L’ordine seguito nel “Catalogo dei Concerti” è quello cronologico per autore. Per comodità del lettore indichiamo qui la cronologia dei concerti: nella prima colonna figurano l’autore e il numero d’ordine o d’opera; nella seconda, nell’ordine, 1. la data in cui la composizione venne terminata; 2. la data della prima esecuzione; 3. la data della pubblicazione. Quando una data non è nota si dà una linea; se il concerto è stato largamente rimaneggiato dopo la prima esecuzione, le date relative vengono indicate in parentesi.
Mozart
K 37, 39, 40, 41 K 175 K 237 K 242 K 246 K 271 K 365
1767, 1773, 1776, 1776, 1776, 1777, 1779,
— . 1778, 1777, 1777, 1777, 1777, 1781,
1877 1784 1792 1802 1800 1792 1800
Haydn
H XVIII: 11
1784
1782 c,
Mozart
K 382 (Rondò) K 386 (Rondò) K 414 K 413 K 415 K 449 K 450 K 451 K 453 K 456 K 459 K 466
1782, 1782, 1782, 1783, 1783, 1784, 1784, 1784, 1784, 1782, 1784, 1785,
1782, —. 1783, 1783, 1783, 1784, 1784, 1784, 1784, 1785, 1790, 1785,
1784 1838 1785 1785 1785 1792 1798 1785 1787 1792 1794 1796
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Cronologia dei concerti
K K K K K K K
467 482 488 491 503 537 595
1800 1800 1800 1800 1798 1794 1791
1785, 1785, 1786, 1786, 1786, 1788, 1791,
1785, 1785, 1786, 1786, 1787, 1789, 1791,
1795, (1800) 1795, (1798) (1800) 1803, 1806, 1808, (1809) 1810,
1798, 1801 (1800) 1795, 1801 (1798)
Beethoven
n. 1
n. 2 n. 3 n. 4 op. 80 (Fantasia)
n. 5
1803, 1808, 1808,
1804 1808 1811
1811,
1811
1812, 1821,
1812, 1821,
1814 1823
1830, 1830,
1830, 1830,
1836 1833
1831,
1831,
1832
1834,
1835,
1836
1837,
1837,
1838
1845,
1845,
1846
1853, (1856)
1855,
1857
Weber
n. 2 op. 79 (Concertstiick) Chopin
n. 2 n. 1 Mendelssohn
n. 1 Chopin
op. 22 (Andante spianato e Polacca brillante) Mendelssohn
n. 2 Schumann
op. 54 Liszt
n. 1
Cronologia dei concerti
351 Brahms
n. 1
1858,
1859,
1861
1857, (1861) 1859,
1857,
1863
1865,
1865
1868,
1868,
1868
1868,
1869,
1872
1875,
1875,
1879
1875,
1875,
1877
1880,
1881,
1881
1881,
1881,
1882
1885,
1886,
1892
1886,
1890,
1890
1891, (1917)
1899, 1892 (1919) (1920)
1896,
1896,
1896
1901,
1901,
1901
1904,
1904,
1906
Liszt
n. 2 Totentanz Saint-Saèns
n. 2 Grieg
op. 16 Ciaikovsky
n. 1 Saint-Saèns
n. 4 Ciaikovsky
n. 2 Brahms
n. 2 Franck
Variazioni sinfoniche Strauss
Burlesca Rachmaninov
n. 1
Saint-Saèns
n. 5 Rachmaninov
n. 2 Busoni
op. 39
Ò52
Cronologia dei concerti Rachmaninov
n. 3
1910
1909,
1909,
1912, 1913, (1923)
1912, 1913 1913, 1925 (1924)
1915,
1916,
1922
1921,
1921,
1923
1924,
1924,
1924
1924,
1924,
1924
1926,
1927,
1927
1926, (1941)
1927, 1928 (1941) (1944)
1929,
1929,
1930
1930, 1931,
1932, 1932,
1931 1932
1931,
1933,
1932
1931, 1932,
1956, 1932,
1967 1933
1933,
1934,
1934
Prokofiev
n. 1 n. 2
Falla
Notti nei giardini di Spagna Prokofiev
n. 3 Gershwin
Rapsodia in blu Stravinsky
Concerto Bartók
n. 1 Rachmaninov
n. 4
Stravinsky
Capriccio Ravel
in re in sol Bartók
n. 2 Prokofiev
n. 4 n. 5 Gershwin
Variazioni
353
Cronologia dei concerti Rachmaninov
Rapsodia
1934,
1934,
1934
1942,
1944,
1944
1945,
1946,
1946
Schonberg
op. 42 Bartók
n. 3
NOTA BIBLIOGRAFICA
Per la storia del concerto restano ancora insuperati, per certi aspetti, la Geschichte des Instrumentalkonzerts bis auf die Gengenwart di Arnold Schering (Lipsia 1905) e la Die entwicklung des Klavierkonzerts von Mozart bis Liszt di Hans Engel (Lipsia, 1927). Tra le opere posteriori, che sono
poche e che non di rado perseguono finalità meramente didascaliche, sono da segnalare The Concerto di Abraham Venius (New York 1963, ed. riveduta; 1“ ed., 1945) e The Concerto di Ralph Hill (Westport 1978). Utile per la ricca elencazione di dati che contiene è il Music for piano and orchestra. An annotated guide di Maurice Hinson (Bloomington 1981). Sui concerti di Mozart si potranno consultare W.A. Mozart et ses concertos pour piano di C.M. Gilderstone (Parigi 1939, 3 ed., 1978), A Companion to Mozart's Piano Concertos di Arthur Hutchings (Londra 1948; ed. riveduta, 1950), I Concerti di Mozart. Guida all'ascolto — su tutti i concerti, non solo su quelli per pianoforte — di Luigi Della Croce (Milano 1983), le brevi note di Messiaen scritte nel 1964 ma pubblicate solo di recente (L^s 22 Concertos pour piano de Mozart, Parigi 1987). Sui concerti di Mozart, di Beethoven e di tutti i più importanti compositori si trovano capitoli appositi in molte biografie e nei vari companions, oltre ad alcune presentazioni, talora molto ricche di notizie e di spunti critici, allegate a dischi. Numerose e in genere di minimo interesse sono le guide di piccolo formato (ad esempio, le BBC Music Guide Series), dedicate soprattutto a Mozart e Beethoven ma anche a Rachmaninov e Prokofiev. Vari aspetti del concerto per pianoforte e orchestra come i concerti di alcuni autori sono stati spesso oggetto di studio in ambito universitario; le dissertazioni non hanno però praticamente una circolazione se non, e non agevolmente, tra gli specialisti. In varie opere di carattere generale si parla anche dei concerti: segnaleremo qui soltanto il capitolo sui concerti di Mozart in The Classical Style di Charles Rosen (New York 1971; trad, it., Milano 1979). Oltre ai concerti di Mozart solo quelli di Saint-Saèns sono stati oggetto di un’ampia trattazione “ad hoc”, in Camille Saint-Saèns und das Franzósi-
356
Nota bibliografica
sche Solokonzert von 1850 bis 1920 di Michael Stegemann (Magonza 1984).
I riferimenti bibliografici riguardanti le citazioni sono stati da noi indicati quando erano indispensabili; non abbiamo indicato nulla per le lettere tratte da epistolari, i cui dati bibliografici potranno facilmente essere reperiti dal lettore interessato in qualsiasi enciclopedia.
NOTA DISCOGRAFICA
Il primo concerto per pianoforte e orchestra apparso in disco dovrebbe essere quello di Grieg, inciso da Wilhelm Backhaus nel 1910, con la New Symphony Orchestra of London diretta da Landon Ronald; si tratta di una versione molto abbreviata, che dura complessivamente otto minuti circa. Verso il 1916 il Concerto di Grieg venne registrato da Percy Granger su rullo di pianoforte meccanico. Per lo stesso mezzo di riproduzione vennero regitrati da vari pianisti, fino all’incirca al 1925, alcuni altri concerti. In questi casi veniva eseguita e registrata la parte completa del pianoforte e qualcosa della parte orchestrale; talvolta la parte orchestrale, sempre molto ridotta, veniva “bucata” con una seconda esecuzione («Orchestrai accom paniment adapted and added»). Negli anni 20 ebbero inizio le incisioni complete in dischi, dapprima acustici, poi elettrici, che si andarono infittendo prima della guerra e che ripresero vigorosamente, con il microsolco, all’inizio degli anni 50. Negli anni 30 vennero anche incise, soprattutto da privati, esecuzioni radiotra smesse, e negli anni 40 si effettuarono molte registrazioni su nastro o su filo. Nel complesso disponiamo così di una serie di incisioni e di registrazio ni, anteriori al 1950, di grandissimo interesse e valore storico, alcune delle quali sono già state da noi incidentalmente citate: basti ricordare qui l’opera completa per pianoforte e orchestra di Rachmaninov eseguita dall’autore, il Primo Concerto di Ciaikovsky eseguito da Sapelnikov, i due concerti di Liszt eseguiti da Sauer, il Primo di Chopin eseguito da Rosenthal, il Concerto di Schumann eseguito da Sauer, da Cortot e dalla Davies, il Quarto di Beethoven, il Secondo di Chopin, il Terzo e il Quarto di Rubinstein eseguiti da Hofmann, il Primo e la Fantasia ungherese di Liszt, il Concerto di Grieg e il Secondo di Saint-Saèns eseguiti da Arthur de Greef, il Totentanz di Liszt eseguito da Vianna da Motta, il Concerto in sol di Ravel eseguito dalla Long e diretto dall’autore, il Terzo di Beethoven e il Primo di Ciaikovsky eseguiti da Mark Hambourg, il Quarto di Saint-Saèns, le Variazioni sinfoniche di Franck, e il Concerto per la mano sinistra di Ravel
358
Nota discografica
eseguiti da Cortot, il Terzo di Prokofiev eseguito dall’autore, il Concerto K 466 di Mozart eseguito e diretto da Bruno Walter, le incisioni mozartiane di Fischer, beethoveniane di Schnabel e di Backhaus, brahmsiane di Backhaus, Schnabel e Fischer, ecc. Oggi il numero dei dischi contenenti concerti per pianoforte e orchestra ha raggiunto una massa imponente: in certi casi — Quinto di Beethoven, Concerto di Schumann, Secondo di Brahms, Primo di Ciaikovsky — le incisioni sfiorano o superano il centinaio, e l’industria non cessa di produrre nuove edizioni e il mercato di assorbirle. Non siamo in grado, per ragioni di spazio, di fare un’analisi critica neppure delle sole edizioni oggi esistenti sul mercato: che, nel momento del passaggio dal vinile al compact, è per di più quanto mai fluido, contradditorio, imprevedibile. Non ci sentiamo d’altra parte di indicare senza spiegazioni le nostre personali simpatie e preferenze, che dipendono da elementi di giudizio in parte soggettivi o anche soltanto da ragioni di gusto. Ci permettiamo piuttosto di ricordare al lettore che nel nostro Da Clementi a Pollini, (pubblicato in questa stessa serie) si trovano analisi stilistiche e storiche dei maggiori pianisti che hanno inciso dischi. Tra gli interpreti più giovani, non compresi in Da Clementi a Pollini, sono oggi da segnalare specialmente Murray Perahia, Radu Lupu, Andrei Gavrilov, Krystian Zimerman.
INDICE DEI COMPOSITORI, DEGLI ESECUTORI, DELLE OPERE
Abbado, Claudio (1933), 60, 77. Abeille, Johann Christian (1761-1838), 32. Abel, Cari Friedrich (1723-1787), 17. Absil, Jean (1893-1974) - Concerto n. 1 op. 30, 137. Addinsel, Richard (1904-1977) - Concerto di Varsavia, 127. Albéniz, Isaac (1860-1909), 253, 302, 315, 317. - Iberia, 304. Albert, Eugen d’ (1864-1932), 77, 111, 198, 202, 204, 224, 230, 237, 240, 261, 268. - Concerto op. 2, 98. - Concerto op. 12, 98. Albrechtsberger, Johann Georg (17361809), 21, 31. Alexandrov, Anatoli (1888-1982) - Concerto, 138. Alfidi, Joseph (1949) - Concerto n. 2, 116. Alkan, Charles-Valentin (1813-1888), 169, 204, 244. - 2 Concerti da camera, 56, 64. - Concerto per pianoforte solo, 64. Altschuler, Modest (1873-1963), 275. Anda, Géza (1921-1976), 80, 311. Anderson, Leroy (1908-1975), 346. André, Franz (1893-1975), 292. Andreoli, Carlo (1840-1908), 244. Ansermet, Ernest (1883-1969), 77, 311, 315, 321, 323, 324. Antheil, George (1900-1959) - Jazz Sonata, 343. Arbós, Enrique Fernandez (1863-1939), 302.
Arensky, Anton (1861-1906) - Concerto op. 2, 74. Ariani, Adriano (1877-1935), 240. Arrau, Claudio (1903), 221, 231, 240, 268. Ashkenazy, Vladimir (1937), 240, 312. Aslanov, Piotr, 330. Atterberg, Kurt (1887-1974) - Concerto op. 37, 122. Aubert, Louis (1877-1968) - Fantaisie op. 8, 111. Aurnhammer, Josephine von (17661841), 152, 154, 185. Aus der Ohe, Adele (1864-1937), 240, 257.
Bacchelli, Antonio (1944-1987), 274. Bach, Cari Philipp Emanuel (17141788), 14, 16, 20, 21, 22, 146. - 15 Sonatine, 15. - Concerto doppio per clavicembalo e fortepiano, 31. - Concerto in mi bemolle maggiore, 152. - W 117, 145. Bach, Johann Christian (1735-1782), 14, 15, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 155, 196. - 6 Concerti op. 1, 16. - 6 Concerti op. 7, 16, 17. - 6 Concerti op. 13, 16. - Catone in Utica, 16. - Concerto n. 5 op. 1, 16. - Concerto n. 5 op. 7, 16, 21. - Sonate op. 5, nn. 2, 3, 4; 20. Bach, Johann Christoph Friedrich (1732-1795), 14. Bach, Johann Sebastian (1685-1750),
360
Indice dei nomi e delle opere
- Sonata per due pianoforti, timpani e 13, 85, 92, 111, 152, 222, 244. Ciaccona per violino solo, 289. percussioni, 314. Clavicembalo ben temperato; (II), 29, Bath, Hubert (1883-1945) 282. - Cornish Rhapsody, 127. - Concerto in fa minore BWV 1056, Baudo, Étienne (1903), 300. Bauer, Harold (1873-1951), 224, 237, 170. - Concerto in la maggiore BWV 1055, 301. Baumgartner, Paul (1903-1976), 274. 306. - Concerto in re minore per tre piano Beach, Mrs. H.H.A. (1867-1944) forti BWV 1063, 74. - Concerto op. 45, 99. - Concerto in re minore per pianoforte Beecke, Ignaz von (1733-1803), 21, 23, (arr. Busoni), 75. 153, 203. - Concerto in re minore BWV 1052, Beethoven, Ludwig van (1770-1827), 170. 31-40, 43, 46, 47, 66, 71, 72, 77, 92, - Partita n. 5, 306. 103, 105, 110, 111, 112, 129, 151, - Passione secondo Matteo, 54. 157, 169, 170, 185, 188, 190-206, - Preludio e fuga in re maggiore (Buso 208, 215, 242, 251, 256, 266, 282, ni), 274. 306, 316, 317, 344. Bach, Wilhelm Friedemann (1710- Busslied (Liszt), 274. - Concerto in fa minore (annotazioni), 1784), 13, 14. Backhaus, Wilhelm (1884-1969), 77, 79, 200. - Concerto in la maggiore (appunti), 84, 109, 196, 204, 224, 240, 268. Balakirev, Mili (1837-1910), 82, 83, 84, 190. 220. - Concerto in re minore (annotazioni), - Concerto in fa diesis minore op. 1 (n. 200. - Concerto n. 1 op. 15 in do maggiore, 1), 19, 82, 256. - Concerto in mi bemolle maggiore (n. 69, 75, 80, 191-19g, 195, 197, 203, 2), 82, 256. 204. Baracchi, Walter (1919), 315. - Concerto n. 2 op. 19 in si bem. Barber, Samuel (1910-1981) maggiore, 34, 35, 36, 159, 190, 191, - Concerto op. 38, 129. 197, 203, 204. Barenboim, Daniel (1942), 312. - Concerto n. 3 op. 37 in do minore, Barth, Hans (1897-1956), 117. 36, 37, 58, 70, 74, 75, 116, 117, 179, - Concerto n. 2, 117. 184, 195, 203, 204. - Concerto op. 11, 117. - Concerto n. 4 op. 58 in sol maggiore, 37, 38, 54, 74, 75, 80, 88, 102, 195, Bartók, Béla (1881-1945), HO, 138, 157, 180, 230, 240, 299, 306-318, 198-200, 203, 204, 211, 213, 226, 320. 232, 233. - All’aria aperta, 310. - Concerto n. 5 op. 73 in mi bem. - Concerto n. 1, 115, 306-310, 311, maggiore, 19, 38, 39, 55, 62, 66, 67, 314. 74, 75, 85, 102, 190, 194, 195, 196, - Concerto n. 2, 122, 128, 292, 308, 203, 207, 208, 211, 215, 227, 257. 310, 311-313, 314, 316, 317. - Concerto op. 61 per violino, 38, 102, - Concerto n. 3, 8, 127, 128, 129, 140, 203, 270. 314-318. - Concerto triplo op. 56 per pianoforte, - For Children’s, 317. violino e violoncello, 38, 199. - Quartetto n. 2, 307. - Fantasia in do minore op. 80 per - Quartetto n. 4, 312. pianoforte, orchestra e coro, 39, 40, - Quartetto n. 5, 312. 51, 74, 75, 106, 204-206, 228, 290, - Rapsodia op. 1, 110, 306, 307. 345. - Scherzo, 307. - Fidelio, 200 - Sonata, 309, 310. - Grande Fuga op. 133, 195.
-
Indice dei nomi e delle opere - Messa op. 86, 204. - Quartetto op. 130, 195. - Quartetto op. 132, 312, 316. - Rondò in si bemolle, 195. - Rondò in si bemolle (?), 194. - Sinfonia n. 3, 288. - Sinfonia n. 5 op. 67, 198, 199, 204. - Sinfonia n. 6 op. 68 “Pastorale”, 194, 198, 204, 205. - Sinfonia n. 8, 116. - Sinfonia n. 9 op. 125, 40, 205. - Sinfonia n. 10 (progetto), 41. - Sonata op. 2 n. 3, 197. - Sonata op. 47 per violino e pianoforte “Kreutzer”, 277. - Sonata op. 78, 194. - Sonata op. 81# "Gli Addii”, 44, 205. - Sonata op. 101, 194. - Sonata op. 106, 165. - Sonate op. 2, 189. - Variazioni op. 35, 288. - Variazioni su un valzer di Diabelli, 188. - Wellingtons Sieg, 201. Bendel, Franz (1838-1874), 65. Benedetti Michelangeli, Arturo (1920), 117, 118, 137, 158, 230, 284. Benedict, Julius (1804-1885), 44. Bennett, William Sterndale (18161875), 156. - Concerto n. 3 op. 9, 55. - Concerto n. 4 op. 19, 55. Benoit, Peter (1834-1901), 65. Berg, Alban (1885-1935) - Concerto da camera per pianoforte, violino e tredici fiati (Kammerkonzert), 115, 321. Berger, Ludwig (1777-1839), 210. Bergson, Michel, (1820-1898), 65. Beringer, Oscar (1844-1922), 91, 240. Berlioz, Hector (1803-1869), 77, 85, 97, 202, 226, 245, 246. - Aroldo in Italia, 106, 247, 340. Bernstein, Leonard (1918), 78, 79. - Sinfonia n. 2 “The age of anxiety” con pianoforte solista, 129. Berwald, Franz (1796-1868), 61, 89. - Concerto, 61. Bizet, Georges (1838-1875), 139. Blahetka, Leopoldine (1811-1887), 193. Bliss, Arthur (1891-1975) - Concerto, 122.
361 Bloch, Boris (1951), 274. Bloch, Ernest (1880-1959) - Concerto Grosso, 116. Blumenfeld, Felix (1863-1931) - Studio in la bem. maggiore, 337. Bòhm, Karl (1894-1981), 77, 240. Boìeldieu, Francois-Adrien (1775-1834), 45. - Concerto in fa maggiore, 39. Bonne, Giuseppe Giovanni (1710-1788), 163. Borkovec, Pavel (1894-1972) - Concerto n. 1, 122. Bormioli, Enrico (1895-1944) - Variazioni sinfoniche, 125. Bortkicwicz, Sergej (1877.-1952), 120. - Concerto n. 1, 107. Berwick, Leonard (1868-1925), 224. Boulez, Pierre (1925), 131, 138. Brahms, Johannes (1833-1897), 67, 69, 77, 84, 91, 92, 95, 101, 110, 111, 112, 119, 129, 178, 187, 198, 204, 223, 235-242, 249, 306, 317. - Concerto n. 1 op. 15 in re minore, 69, 70, 72, 74, 75, 78, 79, 235, 266. - Concerto n. 2 op. 83 in si bem. maggiore, 18, 57, 70, 75, 80, 91, 96, 102, 107, 121, 237, 238-242, 259, 270, 311, 313. - Concerto op. 77 per violino e orche stra, 239. - Deutsches Requiem, 236. - Sinfonia n. 1, 95, 135. - Sinfonia n. 2, 96. - Sonata in re minore, 235, 236. - Variazioni su un tema di Paganini, 88, 95. - Variazioni su un tema di Schumann op. 9, 235. Braunfels, Walter (1882-1954) - Concerto op. 21, 107. Brecher, Gustav (1879-1940), 78, 274. Brendel, Alfred (1931), 77, 96, 124, 194, 231, 292. Brenta, Gaston (1902-1969) - Concerto n. 2, 137. Britten, Benjamin (1913-1976) - Concerto op. 13, 121. - Diversions op. 21, 121, 126. Bronsart von Schellendorf, Hans (18301913) 88, 230. - Concerto, 105.
362
Indice dei nomi e delle opere
- A notte alta, 111. - Partita, 116. - Scarlattiana, 116 Castillon, Alexis de (1838-1873) - Concerto op. 12, 86. Catoire, Georges (1861-1926) - Concerto op. 21, 107. Cerepnin, Nicolai (1873-1945), 328. Chabrier, Alexis-Emmanuel (1841-1894) - Cortege burlesque, 254. Chaminade, Cécile (1857-1944) - Concertstuck op. 40, 99. Chàvez, Carlos (1899-1978) - Concerto, 122. Cherkassky, Shura (1911), 268. Chevreuille, Raymond (1901-1976) - Concerto n. 2 op. 50, 137. Chopin, Fryderyk (1810-1849), 53, 54, 55, 64, 82, 92, 102, HO, 112, 129. 135, 186, 187, 188, 211, 212, 215221, 226, 240, 274, 282, 299, 317. - Andante spianato e grande Polacca brillante op. 22, 215, 220-221. - Ballata n. 2, 230. - Barcarola, 274. - Concerto n. 1 op. 11 in mi min., 49, 83, 111, 215, 216-217. - Concerto n. 2 op. 21, in fa min., 49, 215, 218-220, 326. - Concerto n. 3 (non completato), 53, 217. - Fantasia op. 13, 215. - Grande Fantasia su arie polacche op. Cadman, Charles Wakefield (188113, 52. 1946) - Hexameron, 222. - Aurora borealis, 111. - Krakowiak op. 14 (Gran rondò da Cage, John (1912) concerto), 52, 215. - Concerto, 130. - Concerto per pianoforte preparato e - Polacca-Fantasia, 189. - Rondò op. 1, 189. orchestra da camera, 130. - Scherzo op. 39, 257. Cambini, Giovanni (1746-1825), 32. Campanella, Michele (1947), 274. - Studi, 29. - Studi op. 10, 53, 215. Cannabich, Johann Christian (1731- Studio op. 10 n. 2, 262. 1798), 23. - Variazioni su un tema del “Don Gio Cannon, Philip (1929), 116. vanni” op. 2, 51, 74, 215, 345. Carpenter, John (1876-1951) Ciaikovsky, Piotr (1840-1893), 65, 84, - Concertino, 117. 93-95, 100, 112, 119, 126, 129, 172, Carreno, Teresa (1853-1917), 90, 100. 255-264, 268, 269, 270, 278, 322. Carter, Elliott (1908), 138. - Concerto in si bem. minore op. 23 n. - Concerto, 130. Casadesus, Robert (1899-1972), 128, 1, 50, 75, 79, 84, 93, 94, HO, 112, 121, 122, 239, 255-259, 260, 261, 204, 246, 295. 262, 264, 269, 282, 312, 313, 331. Casella, Alfredo (1883-1947), 289, 299.
- Concerto n. 1 op. 13, 88. - Concerto n. 2 op. 18, 88. Brilli, Ignaz (1846-1907), 88. - Concerto in fa maggiore, 88. - Concerto op. 24, 88. Biilow, Hans von (1830-1894), 74, 77, 93, 94, 187, 198, 202, 204, 228, 237, 240, 255, 257, 261, 268, 269. Burgmiiller, Norbert (1810-1836) - Concerto op. 1, 57. Bush, Geoffrey (1920), 116. Busoni, Ferruccio (1866-1924), 57, 75, 77, 78, 87, 92, 103-106, 107, 109, 111, 169, 187, 188, 191, 202, 204, 224, 228, 230, 231, 237, 240, 251, 252, 257, 272-274. - Concertino op. 54, 75, 114. - Concerto op. 39, 19, 75, 103, 104, 105, 106, 129. - Concerto per un pianoforte princ., archi, fiati e percussioni, 272-274. - Concertstuck op. 31#, 75, 103, 109, 113, 114. - Duettino concertante per due piano forti, 168. - Fantasia da Concerto op. 29, 75. - Fantasia indiana op. 44, 75, 107, 113. - Sigune (inedita), 273. - Studio (inedito), 273. - Suite dalle musiche di scena di “Turandot” op. 41, 274.
Indice dei nomi e delle opere Concerto in sol maggiore op. 44 n. 2, 8, 94, 260-264, 269. - Concerto op. 75 n. 3, 19, 95, 110. - Eugenio Onieghin, 261. - Fantasia da Concerto op. 56, 94, 262. - Schiaccianoci (Lo), Ouverture, 94. - Sinfonia n. 4, 94. Ciani, Dino (1941-1974), 274. Clauss-Szarvady, Wilhelmine (18341907), 223. Clementi, Muzio (1752-1832) 31, 32, 33, 46, 210. - Concerto in do maggiore, 33. - Sonata op. 32 n. 3, 33. Cleve, Halfdan (1879-1951), 107. Coates, Albert (1882-1953), 334. Coelho, Ruy (1892) - Notti nelle strade di Mouravia, 111. Colonne, Édouard (1838-1910), 246. Converse, Frederick Shepherd (18711940) - Night and Day, 111. Copland, Aaron (1900) - Concerto, 117. Coppola, Piero (1888-1971), 334. Cortot, Alfred-Denis (1877-1962), 77, 191, 196, 224, 246, 295. Cowell, Henry (1897-1965) - Concerto, 117. Craft, Robert (1923), 324. Cramer, Johann Baptist (1771-1858), 46, 185, 186, 187, 200. - Concerto n. 5 op. 48, 49. - Concerto n. 8 op. 70, 49. - Grandi variazioni brillanti “Le retour à Vienne”, 51. Cubiles, José (1894-1970), 302. Czerny, Carl (1791-1857), 38, 46, 114, 194, 196, 202, 203, 216, 237, 320. - Concerto op. 153 per pianoforte a quattro mani, 48. - Concerto op. 214, 48. - Variazioni su un tema di Haydn (inno nazionale austriaco), op. 73, 51, 74.
-
Dachs, Joseph (1825-1896), 187. Dallapiccola, Luigi (1904-1975), 133. - Concerto per Muriel Couvreaux, 121. Damrosch, Walter (1862-1950), 280, 281. David, Ferdinand (1810-1873), 237.
363 Davies, Fanny (1861-1934), 224, 240. De Sabata, Victor (1892-1967), 60. Debussy, Claude (1862-1918), 99, 106, 252, 304, 306, 326. - Estampes, 175. - Fantasia, 99, 252 - Images, 175. - Studi, 29. - Suite bergamasque, 252. Delaborde, Efraim Miriam (1839-1913), 204. Delius, Frederick (1862-1934), 99, 107. - Concerto, 99. - Concerto per violino, 99. Demmler, Johann Michael (1748-1785), 148. Denisov, Edison (1929) - Concerto, 132. Devreese, Frédéric (1929), 138. - Concerto n. 4, 137. Didur, Adam (1873-1946), 281. Diémer, Louis (1843-1919), 99, 232, 249, 251. Dittersdorf, Karl Ditters von (17391799), 21. Dohler, Theodor (1814-1856), 202. Dohnànyi, Erno (1877-1960), 187, 188, 193, 306, 308. - Concerto op. 5, 99. - Variazioni su un tema infantile op. 25, 126, 345. Donizetti, Gaetano (1797-1848) - Don Pasquale, 165. Door, Anton (1833-1919), 89, 246. Draeseke, Felix (1835-1913) - Concerto op. 36, 92. Dreyschock, Alexander (1818-1869), 258 - Concerto op. 137, 64. - Concertstùck op. 27, 56, 64. Dubassov, 109. Dupont, Auguste (1828-1890), 65, 245. Dushkin, Samuel (1891-1976), 323. Dussek, Jan Ladislav (1760-1812), 46, 76, 157, 179. - Concerto op. 63, 152. - Concerto op. 70, 48, 186. Dvorak, Anton (1841-1904), 91-92, 96. - Concerto op. 33, 50, 90, 91, 92. Eberl, Anton Franz Josef (1765-1807), 34,
Indice dei nomi e delle opere
364 - Concerto op. 45, 152. Eckard, Johann Gottfried (1735-1809), 21. - Sonata op. 1 n. 4, 145. Eibenschutz Ilona (1873-1967), 224. Ellstein, Abraham (1907-1963) - “Negev” Concerto, 127. Entremont, Philippe (1934), 117, 324. Epstein, Julius (1832-1918), 88, 187. Erdmann, Eduard (1896-1958), 274. Erkel, Alexander (1810-1893), 238, 239. Erlanger, Frédéric d’ (1868-1943) - Concerto Symphonique, 112. Eschenbach, Christoph (1940), 80. Essipova, Annetta (1851-1914) 328. 335.
129, 232-234, 250. Concerto n. 2, 97. Concerto op. 11, 97. Les Dijins, 97. Variazioni brillanti op. 5, 97. Variazioni brillanti op. 8, 97. Variazioni Sinfoniche, 65, 97, 109, 112, 232-234. Francois, Samson (1924-1970), 128. Frank, Marcel Gustave (1909), 116. Frege, Livia (1818-1891), 237. Freitas Branco, Luiz de (1890-1955), 300. Frey, Ermi (1889-1946) - Konzertstiick op. 24, 110. Freystaedler, Franz Jacob (1768-1841), 34 Friedheim, Arthur (1860-1932), 99, 231. Falla, Manuel de (1876-1946), 111, 253, Frumerie, Gunnar de (1908), 302-305, 315. - Variazioni e fuga op. 11, 126. - Amor brujo (El), 302. - Concerto per clavicembalo, flauto, Fumagalli, Adolfo (1828-1856) - Grande Concerto Fantastico “Le oboe, clarinetto, violino, violoncello, Campanelle”, 57. 115, 304. - Noches en los jardines de Espana, Furtwangler, Wilhelm (1886-1954), 60, 77, 240, 282, 306, 307, 321, 340. 111, 298, 302-305. - Concerto sinfonico, 112, 122. - Retablo de Maese Pedro (El), 304. Fauré, Gabriel (1845-1924), 85. Gabrilovic, Ossip (1878-1936), 187. - Ballata op. 19, 97. Gade, Niels (1817-1890) - Tantum ergo, 244. - Sinfonia n. 5 op. 25 per orchestra con Feinberg, Samuel (1890-1962), 128, pianoforte, 68. 282. Galliera, Alceo (1910), 79. Février, Jacques (1900-1979), 295. Gandino, Adolfo (1878-1940), 274. Fiedler, Max (1859-1939), 281. Ganz, Rudolf (1877-1972), 80. Field, John (1782-1837), 46, 182, 215, Gédalge, André (1856-1926), 99. 216. - Concerto op. 16, 99. - Concerto n.1, 46. Gelinek, Josef (1758-1825), 33, 179. - Concerto n. 2, 45, 48. Gershwin, George (1898-1937). 119, - Concerto n. 3, 18. 291, 342-346. - Concerto n. 5 (“L’incendie par Fora - Blue Monday, 343. ge”), 45. - Concerto in fa, 117, 119, 345. - Concerto n. 7 op. 58, 57. - Girl Crazy, 345. Filtsch, Cari (1830-1845), 217. - Porgy and Bess, 346. Fischer, Edwin (1886-1960), 77, 80, 84, - Rapsodia n. 2, 345. 111, 188, 204, 240. - Rhapsodv in blue, 117, 342-344, 345, Fleisher, Leon (1928), 138. 346. Flier, Jakov (1912-1977), 137. - Variazioni su “I got rhythm”, 126, Fòldes, Andor (1913), 311. 345-346. Foster, Emanuel Aloys (1748-1823), 31. Ghcdini, Giorgio Federico (1892-1965) Fran^aix, Jean (1912) - Concerto, 124. - Concerto, 121. Gieseking, Walter (1895-1956), 77, Franck, César (1822-1890), 86, 92, 97, -
Indice dei nomi e delle opere
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Hahn, Reynaldo (1875-1947) 117, 188, 282, 283. - Concerto 116. Gilels, Emil (1916-1985), 137, 212, Haitink, Bernard (1929), 77. 221, 240, 261, 335. Hallé, Charles (1819-1895), 91, 187, Ginastera, Alberto (1916-1983), 129. 240, 260, 261. Giulini, Carlo Maria (1914), 60. Hanon, Charles-Louis (1819-1900), 42. Giustini, Lodovico (1685-dopo il 1732) Harris, Roy (1898-1979) - Sonate op. 1, 13. - Concerto per pianoforte, clarinetto e Glazunov, Aleksandr (1865-1936) quartetto d’archi, 116. - Concerto n. 1, 18, 19, 107Harty, Herbert Hamilton (1879-1941) - Concerto n. 2 op. 100, 112. - Concerto in si minore, 112. Gluck, Christoph Willibald (1714Haskil, Clara (1895-1960), 158, 187, 1787), 25, 163. 188 Godard, Benjamin (1849-1895) Hassler, Johann Wilhelm (1747-1822), - Concerto n. 1 op. 31, 92. 34, 185. Godowsky, Leopold (1870-1938), 240. Haydn, Franz Joseph (1732-1809), 21, Goedike, Alexandr (1877-1957), 109. 35, 77, 108, 129, 143-144, 156, 162, - Concertstiick op. 11, 110. 185, 190, 196, 217. Goetz, Hermann Gustav (1840-1876), - Concerto in re maggiore 31, 49, 112, 256. 143-144. - Concerto op. 18, 92. Heger, Robert (1886-1978), 294. Golestan, Stan (1876-1956) Heifetz, Jascha (1901), 343. - Sur les cimes carpathiques, 111. Helffer, Claude (1922), 292. Goossens, Eugène (1893-1962), 324. Henning, Carl Wilhelm (1784-1867), Gorini, Gino (1914), 128. 210. Gottschalk, Louis Moreau (1829-1869), Henselt, Adolph von (1814-1889), 42, 217. 64, 187, 196, 226. Gould, Glenn (1932-1982), 78, 79, 269, - Concerto op. 16, 57, 74, 75, 223. 292. Henze, Hans Werner (1926) Gounod, Charles (1818-1893), 99, 290. - Fantasia sull’inno nazionale russo, 99. - Tristan, 135, 136. Herrmann, Peter (1896-1967), 116. - Suite Concertante, 99. Herz, Henri (1803-1888) Granados, Enrique (1867-1916), 253. - Concerto n. 2, 55. - Goyescas, 304. - Concerto op. 218, 64. Grieg, Edvard Hagerup (1843-1907), Hess, Myra (1890-1965), 188. 90-91, 93, 112, 129, 256-267, 316, Hiller, Ferdinand von (1811-1885), 87, 317. 187, 202, 213, 222, 223. - Concerto in la minore op. 16, 50, 75, - Concerto op. 5, 87. 80, 90, 91, 100, 127, 256, 265-267, - Concertstuck op. 113, 87, 105. 297, 318. - Melodie popolari norvegesi op. 66, Hindemith, Paul (1895-1963), 340, 344. 318. - Concerto, 124. Grofé, Ferde (1892-1972), 343. Kammermusik n. 2, 115. Grosser-Rilke, Anna, 91. Hively, Wells (1902-1969), 116. Grutzmacher, Wilhelm Ludwig (1832Hoehn, Alfred (1887-1945), 109. Hoffmann, Karl Philipp (1769-1840 1903), 237. ca.), 181, 186. Guerrini, Guido (1890-1965), 273. Gui, Vittorio (1885-1975), 274. Hoffmeister, Franz Anton (1754-1812), Guida, Friedrich (1930), 269. 31. Gyrowetz, Adalbert (1763-1850), 216. Hofmann, Josef (1876-1957), 77, 100, 280, 282. Habeneck, Francois-Antoine (1781Hofmann, Leopold (1738-1793), 21, 31. 1849), 220. Hollmann, Otakar, 119.
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Indice dei nomi e delle opere
- Concerto n. 3 op. 50 “Gioventù”, 116. Kalkbrenner, Friedrich Wilhelm (17851849), 46, 186, 215, 216, 254, 257. - Concerto n. 1 op. 61, 49. - Concerto n. 4 op. 127, 57. - Variazioni brillanti su “Di tanti palpi ti” di Rossini op. 83, 51. Karajan, Herbert von (1908), 60, 80. Katchen, Julius (1926-1969), 231. Kathciaturian, Aram (1903-1978) - Concerto, 122. Kellner, Johann Christoph (1736-1803), 32. Kelly, Michael (1762-1826), 163. Kempff, Wilhelm (1895) 204, 231. Kentner, Louis (Lajos) (1905-1987), 311, 315. Kersters, Willem (1929) - Concerto op. 69, 137. Kestenberg, Leo (1882-1962), 273. Kirkpatrick, Ralph (1911-1984), 188. Kirnberger, Johann Philipp (1721-1783) - Concerto in do minore, 13. Indy, Vincent d’ (1851-1931) Kleiber, Erich (1890-1956), 308. - Symphonic Cévenole op. 25, 97. Klemperer, Otto (1885-1973), 60, 80, Ives, Charles (1874-1954) 311, 324. - 104, 106. Kletzki, Paul (1900-1973) - Concord-Sonata, 106 - Concerto op. 22, 119. - Sinfonia n. 4, 104, 106, 133. Klindworth, Karl (1830-1916), 74, 220. Knappertsbusch, Hans (1888-1965), 80. Jaell, Alfredo (1832-1882), 223, 231, Koch, Erland von (1910), 138. Kondrashin, Kirill (1914-1981), 79. 237. Janacek, Leos (1854-1928) Kont, Paul (1920), 116. - Capriccio per pianoforte e sei stru Korngold, Erich Wolfgang (1897-1957), menti a fiato, 119, 321. 120. - Concertino, 115, 119. Kozeluch, Leopold Antonin (1747Janotha, Nathalie (1856-1932), 224. 1818), 31, 34, 165, 166, 176. Jarrett, Keith (1945), 136. - Concerti op. 12, 165. - Celestial Hawk, 136. - Concerti op. 15, 32. - The Moth and the Flame, 136. Kraus, Lili (1905), 188. Jezek, Jaroslav (1906-1942) Kreisler, Fritz (1875-1962), 343. - Concerto, 117. Krennikov, Tichon (1913) Joachim, Joseph (1831-1907), 69, 187, - Concerto n. 2, 129. Krips, Josef (1902-1974), 79. 235, 236, 237. - Concerto op. 3 per violino e orche Kross, Gustav (1831-1885), 93, 257. stra, 69. Kuhlau, Friedrich (1786-1832), 46. - Concerto ungherese op. 11 per violino Kullak, Theodor (1818-1882) e orchestra, 69. - Symphonic de piano op. 27, 65. Kurpinski, Karol (1785-1857) 218. Joseffy, Raphael (1852-1915), 221, 240. Kurz, Vilém (1872-1945), 91, 92. Kabalevsky, Dmitri. (1904) Kussevitzki, Sergej (1874-1951) 77,
Honauer, Leontzi (1730 ca.-1790 ca.), 21. - Sonata op. 1 n. 1, 146. - Sonata op. 2 n. 1, 145. - Sonata op. 2 n. 3, 145. Honegger, Arthur (1892-1955) - Concertino, 117. Horenstein, Jascha (1898-1973), 274. Horowitz, Vladimir (1904), 101, 240, 282, 283. Hummel, Johann Nepomuk (17781837), 46, 57, 76, 153, 185, 194, 215, 216. - Concerto in fa maggiore, 56. - Concerto in la minore op. 85, 48, 74, 266 - Concerto in si minore op. 89, 48, 74, 75. - Grandi Variazioni op. 115, 51. - Settimino in re minore, 115. Hutcheson, Ernest (1871-1951), 187, 240.
Indice dei nomi e delle opere
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274, 300, 307, 314, 319, 320, 321, - Fantasia sulla “Niobe”, 53. 330, 332, 334. - Fantasia sulle “Rovine di Atene” di Labor, Josef (1842-1924) Beethoven, 75. - Concerto 120. - Fantasia ungherese, 74. Lalewicz, Georg (1875-1951) 109. - Grand Solo de Concert, 61. Lalo, Edouard (1823-1892) - Grande Fantasia Sinfonica su 2 temi - Concerto in fa maggiore 92. del “Lelio” di Berlioz, 56. - Hexameron, 222. Lambert, Constant (1905-1951) - Rio Grande, 117. - Leggenda di S. Francesco da Paola, Lamond, Frédéric (1868-1948), 240. 274. - Malédiction, 56, 61. Landowska, Wanda (1879-1959), 188. Lang, Benjamin J. (1837-1909), 255. - Mazeppa, 257. Lantier, Pierre (1910) - Polacca brillante (Weber), 61, 74. - Concertinetto 116. - Rapsodia spagnola (arr. Busoni), 75. La Rosa Parodi, Armando (1904-1977), - Rapsodia ungherese n. 2, 304. - Sinfonia-Faust, 231. 295. Lara, Adeline de (1882-1954), 224. - Sonata in si minore per pianoforte, Leduc, Jacques (1932) 69, 131, 231. - Concerto op. 31, 137. - Totentanz, Paraphrase uber Dies Irae, Lee, Noel (1924) 61, 62, 75, 84, 122, 225, 228, 232, - Caprice sur le nom de Schonberg, 289, 290. 306, 345. 128. - Wanderer-Fantaisie (Schubert), 61, Leibowitz, René (1913-1972), 292. 74, 75. Leschetitzki, Theodor (1830-1915), 119, Litolff, Henry (1818-1891), 18, 65, 66296. 68, 69, 70, 85, 88, 92, 97, 226. 245. Levant, Oscar (1906-1972), 291, 292. - Concerto n. 2 op. 22 “ Concert-Symphonique”, 67. Lhevinne, Joseph (1874-1944), 109. Liapunov, Sergej (1859-1924), 82. - Concerto sinfonico n. 3 op. 45, 67, 70. - Concerto, 75. - Rapsodia su temi ucraini op. 28, 100. - Concerto sinfonico n. 4 op. 120, 67, 70. Lichtenthal, Peter (1780-1853), 186. Lipatti, Dinu (1917-1950), 77, 221, - Concerto sinfonico op. 123, 60. - Concerto-Sinfonia, 66. 231, 315. - Concertino in stile classico, 121. Loeffler, Charles Martin (1861-1935) Lipinski, Karol Józef (1790-1861), 47. - Poema pagano, 106. Long, Marguerite (1874-1966), 121, Liszt, Ferenc (1811-1886), 42, 53, 54, 55, 56, 57, 60, 61-63, 66, 67, 70, 75, 188, 294, 297, 299, 300. 77, 84, 85, 89, 90, 92, 96, 97, 98, Loriod, Yvonne (1924), 188. Louis Ferdinand di Prussia (1772-1806) 103, 107,110, 111, 112, 125, 129, 151, 187, 196, 202, 208, 209, 212, 195. - Rondò in si bemolle maggiore, 52, 214, 215, 217, 219, 220, 224, 225231, 232, 240, 244, 246, 253, 256, 196. Lutoslawski, Witold (1913) 258, 268, 270, 299, 317, 330. - Variazioni su tema di Paganini, 125. - Ballata n. 1, 230. - Concerto in mi bem. maggiore n. 1, Lympany, Maura, (1916) 137. 19, 226-227. - Concerto in la maggiore n. 2, 75, 230- Mac Dowell, Edward (1861-1908), 99. - Concerto op. 15, 99. 231. - De Profundis. Psaume instrumental (ab - Concerto op. 23, 100. bozzi), 228. Maderna, Bruno (1920-1973), 130-131. - Eroica, 257. - Concerto, 19, 130, 131, 140. - Fantasia sul “Don Giovanni”, 274. Maes, Jef (1905)
368 - Concerto, 137. Magaloff, Nikita (1912), 261, 268. Mahler, Gustav (1860-1911), 77, 80, 101, 106, 281, 283. Malipiero, Gian Francesco (1882-1973) - Concerto n. 1, 116. - Variazioni senza tema, 232. Margola, Franco (1908) - Kinderkonzert, 116. Markévitch, Igor (1912-1983) - Concerto, 115. Martin, Frank (1890-1974) - Concerto n. 2, 129. Martinù, Bohuslav (1890-1959) - Concertino per la mano sinistra, 116, 121. - Concerto n. 1, 116. Martucci, Giuseppe (1856-1909), 97. - Concerto op. 66, 97. Marx, Joseph (1882-1964) - Concerto romantico, 112. Mascagni, Pietro (1863-1946) - Cavalleria rusticana, 264. Masek, Vincenz (1755-1831), 152. Massenet, Jules (1842-1912), 99. - Concerto, 99. - Morte di Thais (arr. Saint-Saèns), 250. Matacic, Lovro von (1899-1985), 279. Mayer, Charles (1799-1862), 65. Mayr, Giovanni Simone (1763-1845), 46. McPhee, Colin (1901-1964) - Concerto per pianoforte e ottetto di fiati, 116 Mederitsch, Johann (1752-1835), 32. Medtner, Nikolai (1880-1951), 283, 284. - Concerto n. 1, 19, 112. - Concerto n. 2, 115, 285. - Concerto n. 3, 122. Meitschick, Anna, 281. Melcer, Henryk (1869-1928) - Concerto n. 1, 109. Mendelssohn-Bartholdy, Felix (18091847), 19, 52, 54-55, 58, 60, 61, 62, 64, 67, 70, 75, 77, 82, 83, 87, 102, 103, 112, 129, 153, 187, 198, 209, 210-214, 215, 222, 223, 245, 252, 280. - 2 Concerti per due pianoforti, 54. - Capriccio brillante op. 22, 54, 211,
Indice dei nomi e delle opere 212, 214. - Concerto in la minore, 54, 211. - Concerto in re minore op. 40 n. 2, 56, 59, 66, 74, 213-214. - Concerto in sol minore op. 25 n. 1, 54, 55, 56, 74, 75, 211-212, 213, 222, 226, 264. - Concerto per violino e orchestra, 69, 213. - Ouverture per il “Sogno di una notte di mezza estate”, 54, 274. - Serenata e allegro gioioso op. 43, 214. - Sestetto, 115. - Sinfonia n. 1, 54. Mengelberg, Willem (1871-1951), 299, 300, 307, 308, 321. Menter, Sophie (1846-1918) - Concerto in stile ungherese, 65. Menuhin, Yehudi (1916), 314. Messiaen, Olivier (1908), 132-133, 138. - Couleurs de la cité celeste, 132, 133. - Des canyons aux étoiles (con piano forte solista), 133. - Le réveil des oiseaux, 132. - Oiseaux exotiques, 132. - Sept Haikai, 132, 133. - Turangalila Symphonic per orchestra (con pianoforte solista), 132. Mewton Wood, Noel (1922-1953), 274. Meyerbeer, Giacomo (1791-1864), 226, 245. Mildner, Poldi (1915), 268. Milhaud, Darius (1892-1974) - Concerto n. 5, 124. Mitropoulos, Dimitri (1896-1960), 79. Moisewitsch, Benno (1890-1963), 261. Molinari, Bernardino (1880-1952), 321, 332. Monn, Mathias Georg (1717-1750), 123. Monteux, Pierre (1875-1964), 308. Moor, Emmanuel (1863-1931), 100. - Concerto n. 1, 100. - Concerto n. 4, 100. Morozov, Nikita, 280. Moscheles, Ignaz (1794-1870), 46, 5556, 58, 65, 68, 186, 187, 194, 204, 210, 212, 216, 218, 222, 257. - Concerto n. 2 op. 56, 49, 55, 56, 74, 220. - Concerto n. 3 op. 60, 49, 55, 56, 74. - Concerto n. 4 op. 64, 49, 58, 74.
Indice dei nomi e delle opere - Concerto n. 5 op. 87, 55. - Concerto n. 6 op. 90, “Fantastique”, 55, 56. - Concerto n. 7 op. 93 “Pathétique”, 55, 56. - Concerto n. 8 op. 90 “Pastorale”, 55, 56. - Echoes from Scotland op. 75, 52. - Recollections of Denmark op. 83, 52. - Souvenir d’lrlande op. 69, 52. - Variazioni su un tema austriaco, 74. - Variazioni sulla marcia di Alessandro op. 32, 50, 51, 55, 74. - Variazioni sull’aria “Au clair de la lune” op. 50, 51. Mosónyi, Mihàly (1815-1870) - Concerto, 89. Moszkowsky, Moritz (1854-1925) - Concerto op. 59, 98. Mozart, Franz Xaver Wolfgang (17911844), 46. Mozart, Leopold (1719-1787), 22, 149, 164, 173. Mozart, Wolfgang Amadeus (17651791), 19, 20-30, 31, 34, 35, 36, 43, 46, 47, 54, 55, 70, 71, 72, 73, 75, 87, 89, 108, 111, 112, 116, 118, 124, 129, 143, 144, 145-189, 196, 198, 203, 226, 238, 243, 251, 254, 282, 299, 333, 344, 345. - 6 Quartetti op. 10, 162. - Concerto Anh. 56 per pianoforte, violino e orchestra, 153. - Concerto K 37, 20, 145. - Concerto K 39, 20, 145. - Concerto K 40, 20, 145-146. - Concerto K 41, 20, 146. - Concerto K 175, 21, 22, 24, 26, 146, 150, 154, 188. - Concerto K 238, 22, 24, 25, 147, 150, 187. - Concerto K 242, 22, 148, 149. - Concerto K 246, 22, 23, 149-150, 188. - Concerto K 271, 22, 24, 75, 147, 150-151, 153, 160, 174, 176, 177. - Concerto K 299, 153. - Concerto K 316a, 152-153. - Concerto K 365, 152-153, 186, 187, 212. - Concerto K 413, 25, 32, 154-155, 156, 158, 168, 187, 188.
369 - Concerto K 414, 25, 32, 155-157, 158, 186. - Concerto K 415, 25, 26, 30, 32, 157159, 167, 186, 188. - Concerto K 449, 26, 27, 28, 159, 161, 188. - Concerto K 450, 159-160, 161, 162, 174, 175, 187, 199, 250. - Concerto K 451, 32, 160-162, 186, 188 - Concerto K 453, 75, 162-164, 165, 169, 178, 187, 188. - Concerto K 455, 185. - Concerto K 456, 164-166, 167, 173, 176, 186, 187, 188. - Concerto K 459, 166-168, 169, 173, 176, 179, 181, 185, 188. - Concerto K 466, 29, 34, 35, 36, 46, 58, 74, 75, 168-171, 172, 173, 175, 176, 177, 185, 186, 187, 188, 193, 203, 213. - Concerto K 467, 29, 46, 75, 147, 169, 171-173, 174, 175, 176, 186, 187, 188. - Concerto K 482, 35, 75, 173-175, 176, 177, 185, 186, 187, 195. - Concerto K 488, 29, 75, 147, 169, 175-177, 185, 186, 187, 188, 199. - Concerto K 491, 29, 35, 36, 75, 168, 176, 177-179, 185, 186, 187, 188, 196, 198, 247, 268. - Concerto K 499, 149, 187. - Concerto K 503, 32, 75, 179-181, 182, 185, 186, 187, 188. - Concerto K 537, 181-183, 185, 186, 187, 188. - Concerto K 595, 151, 183-185, 186, 187, 199. - Così fan tutte, 166, 179, 183. - Don Giovanni, 164, 169, 171, 179, 183. - Flauto magico (11), 185, - Idomeneo (K 366), 168. - Messa in do minore K 427, 164. - Nozze di Figaro, (Le) (K 492), 156, 163, 165, 166, 167, 168, 169, 176, 179, 181, 250. - Preludio e Fuga K 394, 157. - Quartetto con pianoforte K 478, 35. - Quintetto K 452, 163. - Quintetto K 581, 174. - Ratto dal serraglio, (II) (K 384), 154,
370 168, 169, 179, 184. Rondò in la maggiore K 386, 156157, 306. - Rondò in re maggiore K 382, 146, 154, 156, 181. - Sehnsucht nach dem Friihling K 596 per canto e pianoforte, 184. - Sinfonia concertante K 364 per violi no e orchestra, 153. - Sinfonia K 425 “Linz”, 26. - Sinfonia K 551 “Jupiter”, 184. - Sonata in do minore K 457, 165, 166. - Sonata in la minore K 310, 170. - Sonata K 284, 32, 150. - Sonata K 332, 155, 158. - Sonata per due pianoforti K 448, 163. - Sonata per pianoforte a quattro mani K 497, 186. - Suite K 399, 157. - Trio K 498, 174. - Variazioni K 264, 32. Mozzati, Alberto (1917-1892), 8. Muck, Karl (1859-1940), 272. Muller, August Eberhard (1767-1817), 34, 185, 186. Munch, Charles (1891-1968), 295. Mugellini, Bruno (1871-1912), 274. Mussorgski, Modest (1839-1881), 84, 220. - Notte sul Monte Carlo (Una), 256, 281. - Quadri di una esposizione, 335.
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Nàpravnik, Eduard (1839-1916), 93. - Concerto Symphonique op. 27, 97. Nat, Yves (1890-1956), 128. Neate, Charles (1784-1877), 202. Neubauer, Franz Christoph (17501795), 34. Neuhaus, Henryk (1888-1964), 335. Neupert, Edmund (1842-1888), 90, 265. Ney, EUy (1882-1968), 268. Nichelmann, Christoph (1717-1762), 14. Nikisch, Arthur (1855-1922), 77, 279. Nikolaieva, Tatiana (1924), 128. Nilsson, Bo (1937) - Eurhythmical Voyage, 134. Nono, Luigi (1924) - Como una ola de fuerza y luz, 81, 134.
Indice dei nomi e delle opere Novàcek, Ottokar Eugen (1866-1900), - Concerto eroico op. 8, 99. - Concerto in mi bem. maggiore, 75, 99. Noverre, Jean-Georges (1727-1810), 47. Nyiregyhàzi, Erwin (1903-1987), 274.
Offenbach, Jacques (1819-1880), 85, 244, 245, 248. Ogdon, John (1937), 274. - Concerto, 128. Oppitz, Gerhard (1953), 274. Ormandy, Eugene (1899-1985), 282, 283, 284, 314, 315. Pachmann, Vladimir von (1848-1933), 21. Paderewski, Ignaz (1860-1941), 67, 109, 119, 224, 246, 335. - Concerto, 111. - Concerto op. 17, 98. - Fantasia Polacca su temi originali op. 19, 98. Paganini, Niccolò (1782-1840), 47, 102, 216, 232, 288, 289, 290. - Capriccio n. 24, 125, 287. - Moto pèrpetuo, 288. Paisiello, Giovanni (1740-1816), 163. - Re Teodoro in Venezia, 163, 165. Paradis, Maria Theresia von (17591824), 164, 165, 185. Paray, Paul (18864979), 295. Pasdeloup, Jules-Étienne (1819-1887), 232, 234. Pàsztory, Ditta (1903-1982), 314, 315. PedroUo, Arrigo (1878-1964), 305. Perahia, Murray (1947), 212. Petrassi, Goffredo (1904) - Concerto, 19, 121. Petri, Egon (1881-1962), 57, 274. Pfeiffer, Georges (1835-1908), 245. Pfitzner, Hans (1869-1949) - Concerto op. 31, 112. Philipp, Isidor (1863-1958), 188. Pierné, Gabriel (1863-1937) - Concerto, 97. Pijper, WiUem (1894-1947) - Concerto, 116. Piston, Walter (1894-1976) - Concertino, 121. Pitfield, Thomas B. (1903), 116. Pixis, Johann Peter (1788-1874) - Fantasia militare op. 121, 57.
371
Indice dei nomi e delle opere Le tre Campanelle op. 120, 57. Variazioni su un tema del “Barbiere di Siviglia”, 74. Piante, Francis (1839-1934), 231. Pleyel, Camilla (1811-1875), 209. Ployer, Barbara, 162, 163, 185. Pollini, Maurizio (1942), 77, 124, 240, 292, 312. Popper, David (1843-1913), 102. Postiglione, Giuseppe (1930-1962), 337. Potter, Philip Cyprian Hambly (17921871), 156, 157, 170, 196, 198. Poulenc, Francis (1899-1963) - Aubade, 115. - Biches (Les), 326. - Concerto, 124. Pousseur, Henri (1929), 138. Powell, John (1882-1963), 344. - Rhapsodic Negre, 117, 343. Praetorius, Michael (1571-1621), 324, 325. Previn, Charles, 345. Primrose, William (1903-1982), 314. Prokofiev, Sergej (1891-1953), 95, 108110, 112, 120, 126, 128, 129, 240, 285, 286, 288, 299, 314, 320, 328341. - Amore delle tre melarance (L*), 334. - Autunno, 328. - 5 Canti op. 27, 333. - Choses en soi, 337. - Concerto n. 1 in re bem. maggiore op. 10, 108, 328-330. - Concerto n. 2 in sol minore op. 16, 108, 110, 122, 259, 330-332. - Concerto n. 3 in do maggiore op. 26, 19, 110, 113, 114, 332-336, 337, 341. - Concerto n. 4 in si bem. maggiore op. 52, 8, 121, 297, 336-339, 341. - Concerto n. 5 in sol maggiore op. 55, 19, 122, 336, 339-341. - Concerto op. 19 per violino, 333. - Due Sonatine op. 54, 337. - Fantasia sulla “Séhérazade” di Rimski Korsakov, 335. - Giocatore (II), 333. - Quartetto bianco, 33, 334. - Romeo e Giulietta, 338. - Sei Pezzi op. 52, 337. - Sette, sono sette op. 30, 333. - Sinfonia classica op. 25, 333. -
- Sonata n. 2 op. 14, 329, 331. - Sonata n. 4, 113, 331. - Sonata n. 5, 113, 337. - Sonata op. 1, 328. - Sonata op. 28, 333. - Sonata op. 29, 333. - Sonatine op. 54, 341. - Studi op. 2, 328. - Toccata op. 11, 329. - Visioni fuggitive op. 22, 333. Prudent, Emile (1817-1863), 65. Pugno, Raoul (1852-1914), 90. Rachmaninov, Sergej (1873-1943), 77, 80, 95, 107, 110, 112, 119, 126, 129, 138, 191, 230, 232, 275-290, 314, 336, 343, 345. - Aleko, 278. - Concerto n. 1 in fa diesis minore op. 1, 100-102, 109, 275-277, 283, 284. - Concerto n. 2 in do minore op. 18, 100, 101, 112, 125, 127, 277-280, 281, 282. - Concerto n. 3 in re minore op. 30, 19, 80, 100, 101, 102, 110, 112, 122, 280-283, 285, 286, 289. - Concerto n. 4 in sol minore op. 40, 8, 115, 125, 126, 283-286, 287, 336. - Isola dei mprti, 281, 282. - Rapsodia su un tema di Paganini op. 43, 125, 126, 127, 287-290. - Rocher (Le), 278. - Sinfonia n. 1 op. 13, 276, 278. - Sinfonia n. 2, 281. - Sonata op. 28, 281. Raff, Joseph Joachim (1822-1882), 89. - Concerto op. 185, 92. - Ode alla Primavera op. 76, 61. Raphling, Sam (1910) - Concerto n. 1, 116. Rapp, Siegfried (1917), 336. Raupach, Hermann Friedrich (17281778) - Sonata op. 1 n. 1, 145, 146. - Sonata op. 1 n. 5, 145. Ravel, Maurice (1875-1937), 118, 120, 121, 129, 137, 294-301, 304, 314, 340, 344, 346. - Bolero, 300. - Concerto in re maggiore per la mano sinistra, 294-297, 332, 336, 337.
372 Concerto in sol maggiore, 117, 118, 119, 121, 138, 139, 253, 286, 295, 297-301, 326, 334. - Daphnis et Chloe, 300. - Gaspard de la nuit, 175. - Ondine, 301. - Pavane pour une infante défunte, 300. - Rapsodie espagnole, 298, 300, 304. - Sonata per violino e pianoforte, 299. - Sonatina, 299. - Valse (La), 300. - Zagpiat-bat (abbozzi), 298. Rawsthorne, Alan (1905-1971) - Concerto n. 2, 129. Reger, Max (1873-1916) - Concerto op. 114, 102, 103. Reichardt, Johann Friedrich (17521814), 152. - Concert à l’usage du beau sexe, 15. Reinecke, Carl (1824-1910), 87, 114, 169, 187, 204, 255. - Concerto n. 1 op. 72, 76, 87. - Concerto n. 2, 76. - Concerto n. 3, 76. - Concerto n. 4, 76. Reiner, Fritz (1888-1963), 307, 308. Reisenauer, Alfred (1863-1907), 224, 240. Reisman, Leo, 346. Respighi, Ottorino (1879-1936), 115, 274. - Concerto in modo misolidio, 115. - Toccata, 115. Rheinberger, Joseph (1839-1901) - Concerto op. 94, 92. Richter, Sviatoslav (1915), 87, 92, 194, 196, 221, 231, 240, 252, 268, 312, 335. Ries, Ferdinand (1784-1838), 46, 195, 203, 205, 216. - Concerto n. 3 op. 55, 48. - Variazioni su un’aria svedese op. 52, 51. Rietz, Julius (1812-1877), 236. Righini, Vincenzo (1756-1812), 33. Rimski Korsakov, Nicolai (1844-1908), 97, 110, 335. - Concerto op. 30, 97, 330. Risler, Edouard (1873-1929), 187. Rochlitz, Johann Friedrich (1769-1842), 43, 44.
-
Indice dei nomi e delle opere Rontgen, Julius (1855-1932) - Concerto op. 18, 92. Rosier, Josef - Tempo di Concerto in re maggiore, 190. Rosbaud, Hans (1895-1962), 311. Rosenthal, Moritz von (1862-1946), 224, 231, 240, 335. Rossi, Mario (1902), 315. Rossini, Gioacchino (1792-1868), 218. - Petite Messe solennelle, 248. Rosza, Miklos (1907), 138. - Spellbound Concert, 127. Roussel, Albert (1869-1937) - Concerto, 116. Rubinstein, Anton (1829-1894), 77, 8384, 85, 93, 100, 109, 126, 169, 202, 204, 221, 223, 243, 255, 256, 258, 260. - Capriccio russo, 76. - Concerto indo maggiore, 83. - Concerto n. 1 op. 25, 83. - Concerto n. 2 op. 35, 83. - Concerto n. 3 op. 45, 76, 83. - Concerto n. 4 op. 70, 50, 75, 76, 83, 84, 102, 111, 120. - Concerto n. 5 op. 74, 75, 76, 84, 105, 251, 256. - Concertstiick, 76. Rubinstein, Artur (1886-1892), 84, 187, 224, 240, 305. Rubinstein, Nicolai (1835-1881), 93, 94, 220, 256, 257, 260, 261. Sacher, Paul (1906), 315. Safonov, Vasilij (1852-1918), 275. Saint-Saèns, Camille (1835-1921), 8, 67, 77, 84-87, 97, 118, 125, 129, 139, 187,188, 243-254, 255, 299, 326. - Africa op. 89, 87, 250. - Ascanio, 250. - Concerto n. 1 in re maggiore op. 17, 84, 85, 243. - Concerto n. 2 in sol minore op. 22, 85, 86, 87, 110, 112, 243:245. - Concerto n. 3 in mi bem. maggiore op. 29, 85, 86, 87, 246, 249. - Concerto n. 4 in do minore op. 44, 86, 87, 110, 112, 233, 244, 246-249, 250. - Concerto n. 5 in fa maggiore op. 103 “l’Egiziano”, 75, 87, 98, 249-254,
Indice dei nomi e delle opere 304. Étienne Marcel, 250. Frédégonde, 250. Henry Vili, 250. Phryné, 250. Proserpine, 250. Rapsodie d’Auvergne op. 73, 86, 250. Romanza op. 37, 250. Sansone e Dalila, 250. Sonata n. 2 op. 102 per violino e pianoforte, 250. - Studi op. 135, 337. Salieri, Antonio (1750-1825), 21, 31, 34, 163, 190, 193. - Danaides (Les), 163. - Grotta di Trofonio (La), 163. - Tarare, 163. Samazeuilh, Gustav (1877-1967), 298. Sàndor, Gyòrgy (1912), 314, 315. Sapelnikov, Vasilij (1868-1941), 257, 279. Sarae’ev, Konstantin, 328. Saras^te, Pablo de (1844-1908), 239, 250. Sargent, Malcolm (1895-1967), 79, 282. Satter, Gustav (1832-1879), 202. Sauer, Emil Georg Konrad von (18621942), 57, 99, 224, 231. Scarpini, Pietro (1911), 274, 292. Scedrin, Rodion (1932) - Concerto n. 2, 129. - Concerto n. 3, 19, 129. Scharwenka, Franz Xaver (1850-1924), 114 - Concerto n. 1 op. 32, 76, 88. - Concerto n. 2, 76. - Concerto n. 3, 76. - Concerto n. 4, 76. Schauroth, Delphine von (1814-1870 ca.), 211, 212. Schenk, Johann Baptist (1753-1836), 33. Schiller, Madeleine (1850-1911), 260. Schmidt, Franz (1874-1939) - Concerto, 120. - Variazioni su un tema di Beethoven, 120, 126. Schnabel, Arthur (1882-1951), 77, 111, 188, 224, 240. Schneevoigt, Geprg (1872-1947), 240. Schneider, Friedrich (1786-1853), 38, 200, 202.
-
373 Schobert, Johann (1740-1767), 20, 21. - Sonata op. 17 n. 2, 145. Schonberg, Arnold (1874-1951), 122124, 286, 291-293, 340. Concerto op. 42, 19, 122, 123, 124, 130, 291-293. - Concerto per violino, 123. - Variazioni op. 31, 307. Schroeter, Johann Samuel (1752 ca.1788), 155, 203. - Concerti op. 3, 24. - Concerti op. 5, 24. Schubert, Franz (1797-1828), 52, 56, 170, 255, 266, 282, 310, 333. - Quintetto “La trota”, 115. - Wanderer-Fantaisie, 62, 123. Schutt, Eduard (1856-1933), 99. Schulhoff, Erwin (1894-1942), 114. - Concerto n. 2, 19, 114. Schumann Wieck, Clara (1819-1896), 57, 74, 77, 169, 187, 196, 204, 217, 220, 222, 223, 224, 235, 236, 237, 256. - Concerto op. 7, 56, 57. Schumann, Robert (1810-1856), 53, 54, 55, 57, 58-60, 64, 65, 66, 70, 84, 88, 89, 103, 110, 112, 129, 209, 212, 213, 222-224, 235, 256, 266. - Carnaval op. 9, 59. - Concerto in la minore op. 54, 19, 58, 60, 74, 75, 90, 111, 222-224, 237, 255, 256. - Concerto per violino, 69. - Concerto per violoncello e orchestra, 69. - Concerto senza orchestra op. 14, 54. - Fantasia, 58, 59, 60. - Introduzione e Allegro appassionato op. 92, 60. - Intrpduzione e allegro concertante op. 134, 60. Schuster, Josef (1748-1812), 152. Scialiapin, Fedor (1873-1938), 278. Sciarrino, Salvatore (1947), 138. - Clair de lune, 133. - Un’immagine di Arpocrate, 133. Scott, Cyril (1879-1970) - Concerto n. 1, 107. Scriabin, Aleksander (1872-1915), 77, 106, 107, 110. - Concerto op. 20, 19, 100. - Preludio e Notturno op. 9, 337.
374 - Prometeo, 106, 133. Serkin, Rudolf (1903), 103, 188, 212, 214, 240, 268, 337. Serly, Tibor (1908-1978), 315, 316. Servais, Adrien Francois (1807-1866), 102. Sgambati, Giovanni (1841-1914), 88, 224. - Concerto op. 10, 88. Shostakovic, Dimitri (1906-1975) - Concerto n. 2, 129. - Concerto op. 35 per pianoforte, trom ba e orchestra, 121. Shriver, Henry Clay, 291. Siloti, Aleksander (1863-1945), 229, 230, 261, 263, 275, 277, 279. Sinding, Christian (1856-1941) - Concerto op. 6, 92. Slavkovsky, Karel (1840 ca.-1919), 91. Slivansky, Nicolai (1915), 116. Smart, George (1745-1818), 213. Soliva, Carlo (1792-1853), 216. Solomon, Cutner (1902), 187. Spohr, Ludwig (1784-1859), 27. - Concerto n. 8, 47. Stamaty, Camille (1811-1870), 254. Stamitz, Cari (1745-1801), 23. Stavenhagen, Bernhard (1862-1914), 99. Steibelt, Daniel Gottlieb (1765-1823), 43, 44, 46, 57, 76, 157, 179, 216, 218. - Concerto n. 3 op. 33, 42. - Concerto n. 6 (“Viaggio sul monte S. Bernardo”), 42, 45. - Concerto n. 8, 41. - Gran Concerto Militare nel genere dei Greci, 41. Stein, Erwin (1885-1958), 315. Stein, Johann Andreas (1728-1792), 148. Stenhammar, Karl Wilhelm (18711927), 99. Stepan, Josef Anton (1726-1797), 15, 31. Sterkel, Johann Franz Xaver (17501817), 32, 179. - Concerto op. 40, 33. Steuermann, Eduard (1892-1964), 291. Stock, Frederick (1872-1972), 311, 333. Stockhausen Karlheinz (1928), 131, 138.
Indice dei nomi e delle opere Stojowski, Sigismond (1896-1946), 244, 245. Stokowski, Leopold (1882-1977), 283, 287, 291, 300, 343. Strauss, Johann, figlio (1825-1899), 85. Strauss, Johann, padre (1804-1849) - Marcia di Radetzki, 50. Strauss, Richard (1864-1949), 77, 80, 187, 268-271. - Arianna a Nasse, 106. - Burlesca in re minore, 8, 97, 120, 262, 268-271. - Don Juan, 271. - Morte e trasfigurazione, 268. - Panathenaenzug. Studi sinfonici in forma di Passacaglia, 120. - Parergon zur Symphonia Domestica, 120. - Sinfonia domestica, 120. - Till Eulenspiegel, 270. Stravinsky, Igor (1882-1971), 68, 106, 120, 122, 125, 129, 133, 284, 285, 299, 306, 314, 319-327, 340, 344, 346. - Capriccio, 115, 323-327, 340. - Concerto per due pianoforti, 323. - Concerto per pianoforte e strumenti a fiato, 114, 115, 319-323, 324, 325. - Concerto per violino, 323. - Concertstuck, 106. - Histoire du soldat (L’), 320. - Movements, 124. - Ottetto, 320, 323. - Petruska, 106, 307. - Pulcinella, 139, 324. - Serenata, 323, 324. - Sonata, 323, 324. - Tre Movimenti da “Petruska”, 114. - Uccello di fuoco (L’), 312. Stravinsky, Sviatoslav Spulima (1910) 321, 323. Stuppner, Hubert (1944), 138-139. - Concerto n. 1, 138, 139. Suart, Evelyn (1881-1950), 275. Suderburg, Robert (1936), 138. Suppé, Franz von (1819-1895), 85. Svetlanov, Evghenij (1928) - Concerto, 138/ Szell, George (1897-1970), 60, 80. Szigeti, Joseph (1892-1973), 299. Szimanowska, Marie (1789-1831), 215. Szymanowski, Karol (1882-1937)
Indice dei nomi e delle opere -
Sinfonia concertante, 122.
Taffanel, Paul (1844-1908), 249, 250. Tailleferre, Germaine (1892) - Concerto, 115. Tane’ev Sergej (1856-1915), 93, 257, 260, 261, 275 Taubert, Wilhelm (1811-1891), 187. - Concerto op. 18, 55. Tausig, Karl (1841-1871), 74, 96, 217, 221. Tedesco, Ignaz (1817-1882), 258. Thalberg, Sigismund (1812-1871), 42, 54, 64, 97, 187, 196, 226. - Concerto op. 5, 49, 53. - Fantasia sul “Mose”, 53. Tippett, Michael (1905) - Concerto, 129. Toch, Ernst (1887-1964) - Concerto n. 2 op. 61, 122. TomdSek, Jan Vaclav (1774-1850) - Concerto n. 1 op. 18, 46. Toscanini, Arturo (1867-1957), 80, 240, 294, 340. Tovey, Donald (1875-1940), 187. Tovey, Francis, 204. Tsytovic, Vladimir (1931), 116. Tua, Teresina (1866-1956), 278. Tveitt, Geìrr (1908) - Concerto n. 3 “Omaggio a Brahms”, 125
375 Vivaldi, Antonio (1678-1741), 42. Vogler, Georg Joseph (1749-1814), 23, 51, 345. - Variations sur 1’Air de Marlborough, 39, 50. Volkmann, Friedrich Robert (18151883), 256. - Concertstiick 19, 89. Votto, Antonino (1896-1987), 79.
Wagenseil, Georg Christoph (17151777), 14, 15, 16, 20, 31. Wagner, Richard (1813-1883), 64, 85, 87, 88, 98, 166, 237, 249. - Ring des Nibelungen (Der), 284. - Tannhauser, 247. - Tristano e Isotta, 135. Walter, Bruno (1876-1962), 60, 77, 188, 202, 240, 284, 301, 340.. Weber; Carl Maria von (1786-1826), 43, 44, 46, 56, 89, 112, 157, 207-209, 215, 324, 325. - Concerto n. 1 op. 11, 207. - Concerto n. 2 in mi bem. maggiore op. 32, 48, 207-208, 227, 257. - Concertstiick in fa min. op. 79, 44, 45, 47, 54, 74, 75, 109, 129, 208209, 211, 248, 257. - Invito alla danza, 44. - Sonata op. 39, 208. Weissenberg, Alexis (1929), 117. Wenzel, Ernst-Ferdinand (1808-1880), Vanhal, Jan Kftitel (1739-1813), 31, 34. 237. Whiteman, Paul (1890-1968), 342, 343. - Concerto op. 1, 32. Wiéner, Jean (1896-1984), 320. - Primo Concerto, 31. - Concerto franco-américain, 320. Verdi, Giuseppe (1813-1901), 64. Wieniawski, Henryk (1835-1880), 88, Verhulst, Johannes Josephus Hermanus 102. (1816-1891), 228. Wieniawski, Józef (1837-1912), 88. Verne, Adele (1877-1952), 240. - Concerto op. 20, 88. Verne, Mathilde (1865-1936), 224. Wiklund, Adolf (1879-1950), 99. Viana da Mota, José (1860-1948), 230. Willmann, Marianne, 182, 185. Vidusso, Carlo (1911-1978), 8, 305. Wilms, Jan Willem (1772-1847) Vieuxtemps, Henry (1820-1881), 102. - Concerto n. 4 per violino e orchestra, - Concerto op. 3, 67. Witkowski, Georges-Martin (186769. 1943) Villa Lobos, Heitor (1887-1959), 124. - Mon Lac, 111. Villoing, Alexandr (1804-1878) Wittasek, Jan (1770-1839), 185. - Concerto op. 4, 83. Wittgenstein, Paul (1887-1961), 119, Vines, Ricardo (1875-1943), 302, 305. 120, 121, 294, 295, 296, 297, 336, Viotti, Giovanni Battista (1755-1824), 337-338. 153. Woelfl, Joseph (1773-1812) Vitale, Vincenzo (1908-1984), 8, 300.
376 - Concerto op. 20, 48. - Concerto op. 49, “le coucou”, 48. - Concerto op. 64, 48. Wood, Henry (1869-1944), 275, 282. Wrobleski, Emil, 65. Wuorinen, Charles (1938) - Concerto n. 2, 135.
Xenakis, Iannis (1922), 131, 138.
Indice dei nomi e delle opere -
Erikhthon, 132. Keqrops, 132. Sìnaphai, 132
Zak, Jakov (1913-1976), 284. Zelter, Carl Friedrich (1758-1832), 210. Zhukov, Igor (1936), 261. Zimerman, Krystian (1956), 240.
INDICE GENERALE
Premessa
7
Corsi e ricorsi nella storia del concerto
Delizie del rococò Mozart e il concerto classico Beethoven e l’apogeo della classicità Delizie del Biedermeier Vertigini romantiche Concerto come sinfonia Pubblico, istituzioni, repertorio Ciascuno per sé Ciascuno per tutti Delizie della “belle époque” Classicità allo specchio Virtuosismo dalle sette vite Delizie, vertigini, rimpianti, chimere
13 20 31 41 53 64 72 82 89 98 108 119 129
Catalogo dei concerti Joseph Haydn Concerto in re maggiore H (Hobochen) XVIII: 11, 143.
143
378
Indice generale
Wolfgang Amadeus Mozart
145
Concerto in fa maggiore K (Kòchel) 37 (n. 1), 145; Concerto in si bemolle maggiore K 39 (n. 2), 145; Concerto in re maggiore K 40 (n. 3); Concerto in sol maggiore K 41 (n. 4), 146; Concerto in re maggiore K 175 (n. 5), 146; Concerto in si bemolle maggiore K 238 (n. 6), 147; Concerto in fa maggiore K 242 (n. 7) per tre pianoforti e orchestra, 148; Concerto in do maggiore K 246 (n. 8), 149; Concerto in mi bemolle maggiore K 271 (n. 9), 150; Concerto in mi bemolle maggiore K 365 (316