Il calamo dell'esistenza: la corrispondenza epistolare tra Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī e Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī 9782503584119, 250358411X

Uno degli esempi più significativi dei frutti prodotti dal confronto aperto tra un sufi ed un filosofo è la corrisponden

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INTRODUZIONE
1. IL PRIMO INTERLOCUTORE: ṢADR AL-DĪN MUḤAMMAD B. ISḤĀQ AL-QŪNAWĪ
2. LA CONTROPARTE: ABŪ ǦA‘FAR MUḤAMMAD IBN MUḤAMMAD IBN AL-ḤASAN NAṢĪR AL-DĪN AL-ṬŪSĪ
3. STUDIO E ANALISI DEL TESTO
4. L’EDIZIONE DEL TESTO
5. NOTA SUI MANOSCRITTI
6. TRADUZIONE
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Il calamo dell'esistenza: la corrispondenza epistolare tra Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī e Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī
 9782503584119, 250358411X

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Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales TEXTES ET ÉTUDES DU MOYEN ÂGE, 92

IL CALAMO DELLʼESISTENZA LA CORRISPONDENZA EPISTOLARE TRA ṢADR AL-DĪN AL-QŪNAWĪ E NAṢĪR AL-DĪN AL-ṬŪSĪ

Cura e traduzione dallʼarabo di Patrizia SPALLINO e dal persiano di Ivana PANZECA

FÉDÉRATION INTERNATIONALE DES INSTITUTS D’ÉTUDES MÉDIÉVALES

Présidents honoraires : L.E. BOYLE (†) (Biblioteca Apostolica Vaticana et Commissio Leonina, 1987-1999) L. HOLTZ (Institut de Recherche et d’Histoire des Textes, Paris, 1999-) Président : J. HAMESSE (Université Catholique de Louvain, Louvain-la-Neuve) Vice-Président : G. DINKOVA BRUUN (Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto) Membres du Comité : A. BAUMGARTEN (Universitatea Babeş-Bolyai, Cluj-Napoca) P. CAÑIZARES FERRIZ (Universidad Complutense de Madrid) M. HOENEN (Universität Basel) M.J. MUÑOZ JIMÉNEZ (Universidad Complutense de Madrid) R.H. PICH (Pontificia Universidade Católica do Rio Grande do Sul, Porto Alegre) C. VIRCILLO-FRANKLIN (Columbia University, New York) Secrétaire : M. PAVÓN RAMÍREZ (Centro Superior Español de Estudios HistóricoEclesiásticos, Roma) Éditeur responsable : A. GÓMEZ RABAL (Institución Milá y Fontanals, CSIC, Barcelona) Coordinateur du Diplôme Européen d’Études Médiévales : G. SPINOSA (Università degli Studi di Cassino)

Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales TEXTES ET ÉTUDES DU MOYEN ÂGE, 92

IL CALAMO DELLʼESISTENZA LA CORRISPONDENZA EPISTOLARE TRA ṢADR AL-DĪN AL-QŪNAWĪ E NAṢĪR AL-DĪN AL-ṬŪSĪ

Cura e traduzione dallʼarabo di Patrizia SPALLINO e dal persiano di Ivana PANZECA

Barcelona - Roma 2019

Stampato con il contributo del Dipartimento Culture e Società – Università di Palermo

ISBN: 978-2-503-58411-9 All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwise, without the prior permission of the publisher. © 2019 Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales. Largo Giorgio Manganelli, 3 00142 Roma (Italia)

Ai nostri genitori. Ad Alessandro Musco, la cui guida ha dato origine a questi studi.

INDICE VOLUME Nota sulla traslitterazione

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Introduzione11 1. Il primo interlocutore: Ṣadr al-Dīn Muḥammad b. Isḥāq al-Qūnawī 17 Opere di Qūnawī 29 2. La controparte: Abū Ǧa‘far Muḥammad ibn Muḥammad ibn al-Ḥasan Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī 2.1 Opere di Ṭūsī 2.2 La parabola di Ṭūsī tra sciismo duodecimano e ismailismo 2.3 La parentesi sufi e le epistole in persiano

39 51 72 81

3. Studio e analisi del testo

95

al-Murāsalāt bayna Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī wa Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī 175 4. L’edizione del testo

177

5. Nota sui manoscritti

183

6. Traduzione

197

Bibliografia Indice dei termini tecnici Indice dei nomi

381 413 417

Le pp. 11-37, 95-181, 202-292- 298-327, 333-384 e 397-424 sono a cura di Patrizia Spallino Le pp. 39-94, 182-195, 198-201, 293-297, 328-332 e 384-397 sono a cura di Ivana Panzeca

NOTA SULLA TRASLITTERAZIONE

Nella traslitterazione dei termini in arabo e dei nomi propri è stato utilizzato il seguente sistema: ’ ā b t ṯ ǧ ḥ ḫ d ḏ r z s š ṣ ḍ ṭ ẓ ‘ ġ f q k l m n h w/ū y/ī

‫ﺀ‬ ‫ا‬ ‫ﺐ‬ ‫ﺖ‬ ‫ﺚ‬ ‫ﺝ‬ ‫ﺡ‬ ‫ﺥ‬ ‫ﺩ‬ ‫ﺫ‬ ‫ﺭ‬ ‫ﺯ‬ ‫ﺱ‬ ‫ﺶ‬ ‫ﺺ‬ ‫ﺽ‬ ‫ﻁ‬ ‫ﻅ‬ ‫ﻉ‬ ‫ﻍ‬ ‫ﻑ‬ ‫ﻖ‬ ‫ﻙ‬ ‫ﻝ‬ ‫ﻡ‬ ‫ﻥ‬ ‫ﻩ‬ ‫ﻭ‬ ‫ﻱ‬

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NOTA SULLA TRASLITTERAZIONE

Lettere persiane: p č ž g

‫پ‬ ‫چ‬ ‫ژ‬ ‫گ‬

Criteri di trascrizione Quando la hamza è prima lettera della parola non si trascrive. La ṭā’ marbūṭa non si trascrive se non quando si trova in stato costrutto (iḍāfa). L’articolo al non si assimila alla consonante solare. La nisba al maschile si trascrive ī, al femminile iyya. L’ultima vocale breve delle parole non si trascrive.

INTRODUZIONE

Lo studio qui presentato nasce da un preciso interesse che per molti anni ha segnato un percorso di ricerca: tentare di comprendere, per quanto possibile, dove tracciare una linea di confine tra il sapere razionale e la conoscenza trascendente, o rivelazione religiosa. I testi filosofici che si interrogano sulla conoscenza illuminativa, il dibattito serrato tra l’intelletto ritenuto strumento necessario ed il cuore che si apre al disvelamento, la difficoltà di esprimere in linguaggio umano una dimensione divina, ma pur sempre consegnata a parole ed espressioni antropiche, hanno prodotto una quantità considerevole di testi in ogni area geografica e in tutte le culture tradizionali religiose. Il lettore troverà qui alcuni testi, tradotti a partire da materiale appartenente ad un genere letterario molto diffuso anticamente, ma una forma di sapere oggi quasi perduta, quello della corrispondenza epistolare. Il titolo della raccolta riporta il termine in arabo al-Murāsalāt (scambio di lettere, corrispondenze epistolari) dal verbo rāsala (entrare in rapporto, tenere contatti, corrispondere con qualcuno), mentre la sua datazione è fissata intorno al 672/1274. Per millenni le epistole redatte a mano sono state strumento di trasmissione di informazioni, di conoscenze letterarie, filosofiche e scientifiche, hanno instaurato legami culturali, rafforzato interessi politici, relazioni affettive, stabilito alleanze. L’area geografica di questa corrispondenza è legata ai due interlocutori: il primo, colui che apre la relazione epistolare, è Ṣadr al-Dīn alQūnawī, nativo probabilmente della città di Konya, località un tempo bizantina che nel 1071 viene conquistata dai Turchi selgiuchidi; il secondo proviene dalla città di Ṭūs (Irān) e da questa stessa prende il nome, Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī. Ṭūs inoltre aveva dato i natali anche al poeta Ferdowsī (324-411/935-1020), al teologo al-Ġazālī (450-505/1058-1111), al politico Niẓām al-Mulk (409-505/1018-1092). Il dibattito condotto nella corrispondenza si rivela particolarmente interessante anche perché i due autori sono portavoce di due eminenti maestri del pensiero islamico. Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī è figlio adottivo ed interprete di Abū Bakr Muḥammad al-Ḥātimī al-Tā’ī b. al-‛Arabī (560/1165), detto Muḥyī al-Dīn (Vivificatore della religione), e al-Šayḫ al-Akbar (il più grande maestro), tra i maggiori esponenti del pensiero sufi; mentre Naṣīr

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PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

al-Dīn al-Ṭūsī è il famoso interprete di Abū ‘Alī al-Ḥusayn Ibn Sīnā (370442/980 c./1037), noto in Occidente con il nome di Avicenna. Le loro elucubrazioni ed esposizioni risentono a pieno titolo delle dottrine ereditate dai loro rispettivi ispiratori, anzi in alcuni passaggi queste appaiono chiaramente come delle puntuali esplicitazioni. L’area geografica in questione, oggi a noi nota soprattutto per le sue risorse naturali e ritenuta culturalmente stagnante, è stata invece fondamentale per la storia della civiltà grazie alle scoperte in campo scientifico ed intellettuale qui attuatesi; basti pensare ad Abū al-Rayḥān al-Bīrūnī (362-442/973-1048), originario della regione del lago d’Aral, geografo, matematico, astronomo, fisico, ed il già citato Ibn Sīnā cresciuto a Buḫārā, nell’attuale Uzbekistan, autore di quel Canone di medicina che divenne il testo di riferimento della scienza medica fino al Rinascimento in Occidente. Proprio questi due personaggi appena citati furono autori nel 390/999 di un’altra importante corrispondenza avente per soggetto temi di filosofia e di scienza in cui gli autori discutono sulle teorie del «primo maestro», Aristotele. Molti altri scambi eruditi presero avvio dal Centro Asia grazie a pensatori e scienziati che costituirono una vera e propria pleiade di astri intellettuali. A volte i toni delle epistole risultavano affabili, amichevoli e rispettosi, altre volte si arrivava al contrario ad attacchi ed offese; in ogni caso l’intento era quello di giungere a delle soluzioni sapienziali basate sulla ragione, mentre l’interrogativo costante era cercare di definire cosa si poteva - o non si poteva - dimostrare tramite l’intelletto. Le regioni asiatiche incluse tra Cina, India, Medio Oriente, intorno all’anno Mille e per altri secoli a seguire, furono un vero e proprio ponte geografico verso l’Europa, una zona di vivace fermento scientifico innovativo da cui il sapere si trasmise. Qui le biblioteche – quella di Merv (odierno Turkmenistan), la biblioteca reale di Buḫārā, le collezioni conservate a Gurganj, a Balḫ, a Nīšāpūr ed a Samarcanda, senza tralasciare la biblioteca del califfo di Baġdād – fiorivano e gli studiosi, pur di attingervi, percorrevano lunghissime ed impervie distanze. Insieme alle scienze, anche la teologia e il sufismo raggiunsero il loro apice: alcuni degli ordini sufi più importanti furono fondati da personaggi come Naǧm al-Dīn al-Kubrà (540-618/1145-1221), Bahā’ul-Dīn Naqšband Buḫārī (718-792/1318-1389), Ǧalāl al-Dīn al-Rūmī (604-672/1207-1273). Di quest’epoca d’oro, intere sezioni di testi scientifici risultano disperse e sono giunte fino a noi solo tramite citazioni di titoli in opere successive;

INTRODUZIONE

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così come un’altra enorme quantità di manoscritti langue ancora negli archivi, non ancora catalogati, trascritti, letti e tradotti. Una fondamentale caratteristica del genere epistolare è l’utilizzo della stessa lingua tra mittente e ricevente e, come vedremo nella nostra corrispondenza, la lingua persiana viene circoscritta all’ambito informale e colloquiale, dei saluti e dei convenevoli tra interlocutori, ma è la lingua araba lo strumento linguistico riservato agli argomenti dotti e alle tematiche filosofiche discusse. D’altronde l’arabo non era la lingua madre dei nostri autori, ma essa aveva già assorbito il lessico tecnico e filosofico antico riuscendo ad elaborare una nuova terminologia. Grazie allo studio qui proposto, la corrispondenza tra Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī e Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī torna alla luce. Un testo antico reso fruibile dà voce a giganti del pensiero che si svelano e si rivolgono al nostro millennio curioso di conoscere le tessere mancanti quasi a completare l’immagine di un più ampio mosaico. Un interessante elemento che emerge nella corrispondenza presentata nelle pagine seguenti, è che i due personaggi in questione, noti rispettivamente come un sufi ed un filosofo avicenniano, sembrano sfuggire a questa categorizzazione visto che ciascuno dei due padroneggia ed integra la prospettiva dell’altro. Troviamo quindi un filosofo che interviene su questioni di sufismo e un sufi che ben si destreggia tra teorie filosofiche. La trattazione risulta così strutturata in diverse sezioni. 1) Una prima lettera di preambolo scritta in lingua persiana. Qūnawī esprime qui il desiderio di aprire una corrispondenza con Ṭūsī, precisando che invierà un trattato cui aggiungerà diverse domande che sono state per lui oggetto di dibattito con studiosi di sua conoscenza. 2) Segue il trattato in lingua araba di Qūnawī dal titolo al-Risāla almufṣiḥa ‘an muntahā al-afkār wa sabab iḫtilāf al-umam (Trattato che esprime gli estremi limiti del pensiero e la causa delle contraddizioni delle religioni). 3) Qūnawī espone le sue domande all’interlocutore. Queste concernono essenzialmente lo studio dell’essere e in particolare: l’esistenza (wuǧūd), la verità intrinseca (ḥaqīqa) di Dio, la quiddità (al-māhiyya), l’essere generale (‘amm) e comune (muštarak). La questione sull’unità e la molteplicità. La natura dell’anima, del corpo, delle forze celesti e l’insieme delle cose. Il dolore e la gioia spirituale, l’emanazione, la catena delle cause e degli effetti, il concetto di finito e infinito, la sostanza e la materia. 4) Una lettera di risposta in persiano di Ṭūsī a Qūnawī in cui l’autore ringrazia l’interlocutore di essersi messo in comunicazione con lui. In ag-

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PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

giunta alla Mufṣiḥa, Ṭūsī riceve anche un’opera di Qūnawī intitolata Rašḥ al-bāl (La secrezione dello spirito), un’opera che secondo il filosofo è adatta più ai novizi appena avvicinatisi alla via mistica e che non rispecchia il vero grado spirituale raggiunto da Qūnawī. 5) La risposta in arabo di Ṭūsī, in cui il filosofo espone il suo punto di vista su ogni questione posta. 6) Ancora una missiva di Qūnawī in cui egli risponde di aver compreso, dalle risposte ricevute, che nella copia del testo da lui inviata vi sono stati degli errori causati dal copista che purtroppo hanno distorto il senso del suo pensiero. 7) Un trattato in arabo di Qūnawī dal titolo Al-risāla al-hādiya (Il trattato della giusta guida), che ha il valore di una contro-risposta a Ṭūsī. L’edizione critica dell’opera è a cura di Gudrun Schubert: Almurāsalāt bayna Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī wa Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī. Taḥqīq wa-mulaḫḫaṣ almānī mufassar Kūdrūn Šūbart. Annäherungen. Der mystisch-philosophische Briefwechsel zwischen Ṣadr ud-Dīn-i Qōnawī und Naṣīr ud-Dīn-i Ṭūsī, edition und kommentierte inhaltsangabe von Gudrun Schubert, Biblioteca Islamica, Beirut 1995. NOTA DELLE CURATRICI Questo lavoro, frutto di anni di sforzi, ha necessitato della collaborazione di molti esperti e studiosi; non possiamo certo considerarlo completo e definitivo, ma se già semplicemente potrà essere utile come base per ulteriori studi, avrà raggiunto il suo obiettivo. Di fronte alla notevole mole di spunti, argomenti, questioni, riferimenti, punti oscuri, si rischia di non osare mai concludere, ma siamo consci che ogni momento conclusivo segna un nuovo punto di inizio. Devo l’idea di questo lavoro a Paolo Urizzi, che mi ha incoraggiata ad affrontare questo testo ancora mai tradotto interamente in alcuna lingua. La linea guida per la traduzione è stata quella di mantenerci quanto più vicini al testo arabo e persiano, ricco di lessico tecnico e di costrutti complessi. Il lavoro sui trattati in arabo è stato seguito da Giorgio Giurini, guida meticolosa ed indispensabile cui resto debitrice. La revisione della traduzione del testo arabo è stata affidata alla competenza di Ḥasan Abū Ṭālib, che ha ricontrollato, migliorato e perfezionato diversi passaggi, sciolto i miei dubbi, colmato le mie carenze. Un grazie particolare ad Amos Bertolacci

INTRODUZIONE

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che con pazienza ha condiviso con me la lettura e l’impianto dei passi avicenniani. Infine un grazie particolare ad Ivana Panzeca, che ha accettato di condividere con me anni di ricerca rendendo possibile la lettura e la comprensione dei brani in lingua persiana. P. Spallino La lettura del carteggio in lingua persiana si è rivelata ardua, in quanto non lineare e scorrevole. La complessità dello spartito testuale, l’alternanza di arabo e persiano e l’intersezione di differenti strutture grammaticali hanno reso lo scritto non semplice da decifrare. Molte espressioni hanno lasciato spazio a diverse interpretazioni e l’utilizzo di alcuni termini si è sciolto in perplessità. La traduzione dal persiano ha causato qualche difficoltà nella resa in lingua italiana, pertanto si è optato talvolta per la scelta di parafrasare alcuni passi non facilmente comprensibili, rendendo la traduzione non prettamente letterale, ma il più possibile fedele al testo. Sentita riconoscenza è rivolta a Víctor Pallejà de Bustinza e a Gholamreza Dadkhah, per il rigore con cui hanno esaminato la complessa partitura e per l’indispensabile supporto lessicale fornito. Si ringraziano, inoltre, A. Cancian, M. Gholam, B. Mahdavi e J. Rodríguez per la revisione di alcune parti del testo persiano. La ricerca relativa alle copie manoscritte, contenenti la corrispondenza epistolare, si è fermata a uno stadio iniziale nella speranza di essere integrata in un prossimo futuro. A tal proposito, un particolare e ulteriore ringraziamento va ad Amos Bertolacci, per la preziosa documentazione fornita e per la costante disponibilità. Un pensiero di sincera stima e profonda gratitudine è dedicato al Prof. Giuseppe Roccaro e al Prof. Joaquín Sanmartín Ascaso, per il continuo sostegno umano e scientifico. Un sentito grazie a Patrizia Spallino, per l’affetto, la sintonia e la comunione d’intenti. I. Panzeca

1. IL PRIMO INTERLOCUTORE: ṢADR AL-DĪN MUḤAMMAD B. ISḤĀQ AL-QŪNAWĪ

Abū al-Ma‘ālī Ṣadr al-Dīn Muḥammad b. Isḥāq al-Qūnawī nasce probabilmente a Konya, il 22 del mese di ǧumādà II dell’anno dell’égira 605 (1 gennaio 1209) e muore il 13 del mese di muḥarram del 673 (19 luglio 1274)1. All’età di sette o otto anni Ṣadr al-Dīn perde il padre e viene affidato alle cure di Ibn ‘Arabī. ‘Abd al-Raḥmān Ǧāmī (m. 898/1492), commentatore di Ibn ‘Arabī, riporta: «Dopo la nascita di Qūnawī e la morte di suo padre (che visse fino al 611/1214), Ibn ‘Arabī sposa la madre di Qūnawī e il giovanetto è educato al servizio e in compagnia dello šayḫ»2. Ibn ‘Arabī alleva Qūnawī come suo figlio adottivo anche perché un’antica amicizia lo aveva legato a Maǧd al-Dīn Isḥāq b. Yūsuf al-Rūmī, padre del ragazzo. Secondo Claude Addas: «Il n’est pas exagéré d’affirmer que sa rencontre avec le Shaikh al-Akbar – rencontre dont Ibn ‘Arabī, on s’en souvient, avait été averti par la vision d’Algésiras en 589 – marque un tournant

Le principali fonti biografiche islamiche di riferimento per questi dati sono: Ṣalāḥ al-Dīn Ḫalīl ibn Aibak Safadī, al-Wāfī bi’l-wafayāt, Sven Dedering Edition, Istanbul 1949, vol. II, p. 200; Ḥusayn b. Muḥammad Ibn Bībī, al-Awāmir al-‘alā’iyya, Ankara 1956, pp. 91-93 e 155-158. Si veda inoltre: Mu‛ayyed al-Dīn al-Ǧandī, Nafthat al-rūḥ wa tuḥfat al-futūḥ, N. Hiravī (éds.), Teheran 1983; Šarḥ fuṣūṣ al-ḥikam, J. Ashtiyānī (éd.), Meshed 1982; Sa‛īd al-Dīn al-Farġānī, Mašāriq al-darārī, J. Ashtiyānī (éd.), Meshed 1978; al-Ğāmī, Nafaḥat al-‛uns, M. ‘ābidī (éd.), Teheran 1991; Aḥmad Aflākī, Manāqib al-‛arifīn, T. Yazici (éd.), Ankara 1959-61; J. Clark, «Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī», Journal of the Muhyddin Ibn ‘Arabi Society, 49 (2011) 1-34; Todd, The Sufi Doctrine of Man; C. Addas, Ibn ‘Arabī ou La quête du Soufre Rouge, Édition Gallimard, Paris 1989; S. Hirtenstein, The Unlimited Mercifier, The spiritual life and thought of Ibn ‘Arabī, Anqa Publishing and White Cloud Press, Oxford–Ashland (Oregon) 1999. Tra le fonti odierne non pubblicate, le due più importanti rimangono la tesi di O. Benaissa, L’Ére de l’homme parfait: L’école d’Ibn ‘Arabī en Iran aux 13ème et 14ème siècles (Les transmetteurs et la doctrine), PhD diss., Sorbonne 1992, e lo studio di R. Todd, Writing in the Book of the World: Sadr al-Dīn al-Qūnawī on Man’s Existential Journey, PhD thesis, Oxford 2004. 2 Citato in Addas, Ibn ‘Arabī ou La quête du Soufre Rouge, p. 270. 1

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décisif dans l’histoire du taṣawwuf iranien shi’ite et non shi’ite»3. Costui infatti sarebbe stato il padre di quel discepolo che avrebbe giocato in futuro un ruolo determinante nello sviluppo e nella diffusione del pensiero akbariano4 ad est del mondo musulmano. Di Maǧd al-Dīn Isḥāq sappiamo che i suoi contemporanei lo consideravano un uomo molto pio e una guida spirituale; egli era inoltre un personaggio impegnato nella vita politica, ricopriva la carica di alto dignitario presso il regno dei Selgiukidi di Anatolia, un diplomatico molto stimato e vicino al re Kaykā’ūs e al suo successore. Ibn ‘Arabī e Maǧd al-Dīn si erano incontrati nel 600/1204 durante un soggiorno nello Hiǧāz, da lì si erano diretti insieme in Irāq dove giungono nel 601, soggiornano a Baġdād e a Mossūl, mentre nel 602 troviamo Ibn ‘Arabī già trasferitosi a Konya impegnato nella redazione di diversi trattati. Anche se intervallata da diverse peregrinazioni, la residenza di Ibn ‘Arabī in Anatolia data fino al 618/1221 circa ed uno dei motivi che spiegherebbe la sua presenza in quel territorio è da attribuirsi alle sue responsabilità familiari. Intorno al 620/1223, Ibn ‘Arabī si trova di passaggio in Egitto e Qūnawī ha all’incirca l’età di dodici anni. Lì il padre adottivo decide di affidare per qualche tempo l’educazione del figlio agli insegnamenti dello šayḫ Awḥād al-Dīn Kirmānī (m. 635/1238)5, suo intimo amico ed originario del Kirmān, collegato tramite il suo maestro Rukn al-Dīn al-Siǧāssī, alla scuola di Aḥmad al-Ġazālī.

Ibid., p. 267. Ibn ‘Arabī fu noto anche con l’appellativo di al-šayḫ al-akbar, il Sommo Maestro. In questo senso gli aggettivi «akbariano» ed «ibnarabiano» sono entrati nel lessico italiano e risultano sinonimi. 5 Awḥād al-Dīn Kirmānī era figlio di un principe selgiuchide della città di Kirmān in Irān. Aveva studiato a lungo a Baġdād ed era divenuto uno šayḫ del movimento della futuwwa. Come Ibn ‘Arabī aveva viaggiato a lungo per l’Anatolia e fu lui a trasmettere ad Ibn ‘Arabī diverse storie sui grandi maestri spirituali dell’oriente, specialmente dell’Irān, come Abū Ya‘qūb Yūsuf al-Ḥamadānī (m. 535/1140) che fu il punto di partenza per molte linee d’insegnamento spirituale (come la confraternita della Naqšabandiyya e della Baktašiyya). Per circa oltre vent’anni Ibn ‘Arabī e Kirmānī rimasero strettamente legati in amicizia ed in intesa spirituale. 3 4

IL PRIMO INTERLOCUTORE: ṢADR AL-DĪN MUḤAMMAD

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Le Manāqib di Kirmānī così riportano: Le shaykh Muḥyī l-Dīn prit le shaykh Ṣadr al-Dīn et se rendit chez le shaykh Kirmānī en lui disant: «Vous connaissez la bienveillance et l’affection que j’éprouve pour Ṣadr al-Dīn. Il est pour moi comme un véritable fils. Que dis-je! Il m’est bien plus cher qu’un fils selon la chair (farzand-e solbi). Il existe entre lui et moi différents liens de parenté – en tant qu’enfant (farzand) d’abord, puis en tant que disciple (murīd), puis en tant qu’étudiant (shāgard) – et un compagnonnage de plusieurs années. J’ai accompli comme il convient les devoirs du père envers le fils, du maître à l’égard du disciple, du professeur à l’égard de l’étudiant, et [j’ai obtenu pour lui] le fruit du compagnonnage et de la compréhension de telle sorte qu’il ne reste plus d’obstacles. J’ai orné son être extérieur des connaissances et de la vertu; quant à ce qui relève de l’être intérieur, – c’est-à-dire les secrets de la Réalité et la modalité pour suivre la Voie –, cela aussi est bel et bien accompli grâce à la guidance et à la bonne direction. Dieu vous a transmis cette réalisation; cela dépend maintenant de la considération e de la réponse que vous y ferez». Le shaykh Kirmānī répondit favorablement et accepta la demande du shaykh Muḥyī l-Dīn. Le shaykh Muḥyī l-Dīn confia donc Ṣadr al-Dīn au shaykh Kirmānī6.

Awḥād al-Dīn Kirmānī assume così il compito di seguire il giovane allievo fin quando questi non potrà ricongiungersi al suo primo maestro; le sue dottrine, insieme alla sua affiliazione con le tradizioni dell’Irān, si riveleranno per Qūnawī complementari all’istruzione ricevuta da Ibn ‘Arabī, tanto che ancora nei Manāqib egli afferma: «Ho assaggiato il latte dalle mammelle di due madri»7. In ogni caso sappiamo che nel 624/1227 Qūnawī torna a Damasco per ritrovare Ibn ‘Arabī, con il quale riprenderà a studiare lo ‘ilm al-ḥadīṯ e le scienze tradizionali islamiche. L’influenza che Ibn ‘Arabī eserciterà su Qūnawī sarà determinante:

Cfr. Addas, Ibn ‘Arabī ou La quête du Soufre Rouge, p. 271. Ibid., p. 273. «“I have tasted the milk from the breasts of two mothers”, wich Benaïssa interprets to mean that he combined in himself “the eastern and western, the Arab and Persian, the way which produces science and sobriety”». Cfr. Clark, Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, p. 9. 6 7

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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Il est du moins indéniable qu’ils étaient très proches l’un de l’autre et se vouaient mutuellement une immense affection; Ibn ‘Arabī l’a déclaré au shaykh Kirmānī et l’a prouvé en dédiant le deuxième rédaction des Futūḥāt à Qūnawī – la première l’avait été à son fils aîné. Qūnawī, a son façon, l’à exprimé quelquefois dans son oeuvre mais plus encore par toute son œuvre8.

Dall’inizio dell’autunno del 627/1229 si avvia un serio rigoroso programma di studio che durerà per circa due anni e mezzo. In una collezione di opere di Ibn ‘Arabī che formano parte della sua biblioteca privata, Qūnawī scrive: I studied under my Lord and my Master, the profoundly learned Imām and realizer of the Truth (al-muḥaqqiq), endowed with the support of God and His Grace, Muḥyī-l-Dīn Abū ‘Abd-al-Lāh Muḥammad b. ‘Alī b. Muḥammad Ibn al-‘Arabī al-Ṭā’ī al-Ḥātimī al-Andalūsī, [the following titles wich] we shall detail of his works9.

Segue una lista di dieci opere, accompagnata da una certificazione dello stesso Ibn ‘Arabī: [Ṣadruddīn] has studied under me all of the books written by us which are named above; and I hereby grant him certification to freely relate them on my authority, along with all my writings and the entirety of my authorised transmissions (riwāyāt-ī) [of other works, etc.]10.

Da questa lista, corredata da vari dettagli, deduciamo le opere studiate da Qūnawī e le date della sua lettura: dal settembre del 1229 fino al marzo del 1232 il nostro autore è costantemente impegnato sui testi principali del maestro; analizza e discute con lui non meno di quarantaquattro opere, incluso il testo completo delle Futūḥāt al-Makkiyya (Illuminazioni meccane).

Cfr. Addas, Ibn ‘Arabī ou La quête du Soufre Rouge, p. 274. MS Yūsuf Aǧa 5624, tradotto da G. Elmore, «Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī’s Personal Study-List», Journal of Near Eastern Studies, 56-3 (1997) 169. 10 Ibid., p. 171. 8 9

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Alla fine di questi tre anni, Qūnawī accompagna Kirmānī in pellegrinaggio alla Mecca, ritorna poi a Damasco e rimane ancora con Ibn ‘Arabī. Lo šayḫ al-akbar riserva quest’intensa educazione e questo particolare addestramento esclusivamente a Qūnawī, forse proprio perché era già stato «previsto» il compito di erede spirituale e di interprete che lo attendeva. Secondo una tradizione orale si riporta che Qūnawī adottasse un particolare metodo di studio: legava alcune pietre alla fine di una corda e le sospendeva su una trave posta sulla sua testa, teneva nel frattempo l’altra punta della corda, di modo che se gli accadeva di addormentarsi durante la lettura, le pietre sarebbero cadute e lo avrebbero svegliato11. Tra gli altri suoi maestri e punti di riferimento dottrinali, le fonti citano: Kamāl al-Dīn al-Qafṣī al-Iskandarānī, per delle sessioni di studio seguite a Malatya nel 1227; lo šayḫ Šaraf al-Dīn al-Sulamī che ad Aleppo nel 626/1229 gli rilascia un’iǧāza (permesso di insegnare) per i Ṣaḥīḥ (I detti sani) di Muslim; nel 653/1225, sotto la tutela di Šaraf al-Dīn Ya‘qūb al-Haḏbānī, studia il Ǧāmi‘ al-uṣūl (Collezione dei principii). Questo intenso percorso gli conferirà una posizione di prestigio nel campo degli esperti degli aḥadīṯ fino ad elevarsi al grado di vero e proprio maestro12. Se guardiamo al contesto geografico e storico in cui Ṣadr al-Dīn nasce e vive, troviamo quello dell’Anatolia governata dai Selgiuchidi di Rūm, una dinastia che prosperava economicamente e culturalmente, che sperimentava il suo splendore nella prima metà del XIII secolo in tutti gli ambiti culturali: arte, architettura, letteratura, pensiero religioso e scienze. Inoltre Qūnawī trascorrerà degli intensi periodi a Damasco ed al Cairo, città che rappresentavano il centro del fermento culturale della dinastia ayyubide, potendo così profittare di uno dei momenti più brillanti dello splendore islamico. Durante questo periodo gli scambi intellettuali si intrecciavano ad alti livelli ed i contemporanei di Qūnawī erano scienziati e dotti del calibro di al-Ṭūsī (m. 672/1273) e Ibn Nafīs (m. 687/1288), o poeti come Ibn al-Fāriḍ (576-632/1181-1235), ‘Aṭṭār (m. circa nel 638/1234) e ancora maestri spirituali come Naǧm al-Dīn Kubrà (m. 620/1221), Abū Ḥafṣ al-Suhrawardī (m. 631/1234) e il grande poeta mistico Ǧalāl al-Dīn alRūmī (m. 672/1273) cui fu particolarmente legato.

11 12

Cfr. Hirtenstein, The Unlimited Mercifier, p. 211. Cfr. Clark, Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, p. 10.

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Riguardo al rapporto con quest’ultimo bisogna ricordare che i due furono vicini anche cronologicamente, togliendosi l’uno dall’altro solo un anno dalla data di nascita e di morte. I due vissero a Konya fianco a fianco e gli allievi che venivano accettati alle loro lezioni, potevano recarsi in quella città trovando attivi entrambi i maestri. Molte fonti biografiche riportano del legame di rispetto e stretta amicizia che intercorreva tra loro, tanto che Rūmī frequentava le lezioni di aḥadīṯ di Qūnawī e Qūnawī partecipava alle sedute mistiche di Rūmī. Il poeta infine incaricò Qūnawī di celebrare il suo funerale, segno questo di grande considerazione nei suoi confronti e compito che molti uomini illustri avrebbero voluto adempiere al suo posto13. Ma a questo clima di fervore culturale si affiancava un’atmosfera di incertezze ed instabilità politiche su diversi fronti territoriali: la Spagna islamica perdeva Siviglia e Cordova, che tornavano ai Cristiani; nelle regioni mediorientali si svolgevano le Crociate, e ancora più cruente erano le invasioni dei Mongoli che terrorizzavano i territori orientali dell’Islām. Inoltre, spostamenti di popolazioni che cercavano di sfuggire agli attacchi bellici, creavano un passaggio di genti che si trasferivano dall’est verso l’ovest, rendendo luoghi come Konya una vera e propria arena d’incontro e scontro sociale e culturale. Anche Qūnawī assisterà alla disfatta della sua città natale (1243) e all’assedio della sede del califfato, Baġdād, saccheggiata nel 1258 da Hulagu Khan. Sul tragico evento storico che cambierà il volto geografico e politico del territorio, Qūnawī riporta una sua visione premonitrice accadutagli proprio la notte prima della caduta di Baġdād: It was not the Prophet himself – may God’s grace and peace be upon him – that you saw [in your dream] but his Law (shar‛) [personified in his form]. Likewise, on the night before Baghdad was taken, I, for my own part, saw the Prophet – may God’s grace and peace be upon him – wrapped in a shroud and lying on a funeral

13 Cfr. J. Clark, «Early Best-sellers in the Akbarian Tradition. The Dissemination of Ibn ‘Arabī’s Teaching Through Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī», Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society, (2003) 16-17. Una serie di ulteriori aneddoti sui rapporti tra Qūnawī e Rūmī sono citati nella biografia di Rūmī di Šams al-Dīn Aflākī a cura di J. O’Kane, The Feats of the Knowers of God: Manāqeb al-‛arēfīn, Brill, Leiden – Boston 2002.

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bier, to which people were securing him with rope. His head was uncovered and his hair was almost touching the ground. I asked them ‘what are you doing?’ replied: ‘He is dead. We are going to bear him forth and bury him’. Howewer, something in my heart told me that he was not dead, so I said to them: ‘His face does not look to me like the face of someone who is dead. Wait awhile, whilst I see’, and, thus saiyng, I leant close to his mouth and nose, and found that he was still breathing, albeit very weakly; whereupon I shouted at them and stopped them from doing that wich they had been so intent upon. Then I awoke, distressed and downcast, knowing all too well from my insight into such matters, and from repeated experience, that this signified some terrible event that had befallen the domain of Islam. Now, since news had already reached us that the Mongols were marching on Baghdad, it struck me that it had just been taken; wherefore I made a careful note of the date. Later, there arrived several of those who had been present when it fell, and they confirmed that this was indeed the day on wich Baghdad had been taken. Hence the vision was as I had feared14.

Sugli anni della giovinezza del nostro autore possediamo pochi dati, così come sulla sua formazione filosofica, della sua conoscenza dei testi di Ibn Sīnā, anche se la corrispondenza con Ṭūsī testimonia un fondato livello di approfondimento. Sappiamo però con certezza che dopo l’intenso periodo di studio sotto la guida di Ibn ‘Arabī, Qūnawī entra nel pieno dell’esperienza della sua vita ascetica e spirituale. Nel 630/1233 si reca in Egitto con l’intento di visitare Ibn al-Fāriḍ, ma rimane deluso in quanto lo trova già malato e al termine della sua vita. In compenso incontra il mistico e poeta ‘Afīf al-Dīn Tilimsānī (m. 690/1291) ed insieme si recano da ‛Abd al-Ḥaqq Ibn Sab‘īn (613-669/1217-1270), dotto noto come sufi e filosofo. Sembra che Qūnawī sia tornato a Damasco prima del 633/1235, portando con sé Tilimsānī che a sua volta si aggiunse al seguito di Ibn ‘Arabī. Fino al 639/1241 non abbiamo informazioni precise sulla sua attività, di certo resta in contatto con il suo maestro e si sposta tra Damasco e Konya dove inizia ad insegnare.

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Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, pp. 22-23.

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A quanto pare non si trovava accanto ad Ibn ‘Arabī al momento della sua morte avvenuta a Damasco nel 638/1240 e non figura nella lista delle persone presenti alla sua sepoltura. Ma nonostante il decesso del maestro, il tipo di relazione spirituale ed intellettuale che univa i due personaggi non si interrompe, anzi si trasforma ed intensifica. Inizia il tempo in cui Qūnawī dovrà ereditare il ruolo di maggiore interprete delle dottrine akbariane. Proprio il periodo summenzionato che va dal 627/1229 al 630/1232 e poi il 634/1236, trascorso in compagnia del suo maestro, aveva visto Qūnawī interamente dedito allo studio delle opere di Ibn ‘Arabī ad esplicito carattere esoterico come: Kitāb ‘anqā al-muġrib (Il libro del favoloso grifone), Kitāb al-isrā’ (Il libro del viaggio notturno), Kitāb maqām al-qurba (Il libro della stazione della prossimità) e soprattutto i Fuṣūṣ al-ḥikam (I castoni della saggezza), che lo šayḫ al-akbar trasmette al suo adepto in una seduta in cui questi è l’unico uditore; tutto ciò testimonia come Qūnawī occupi il ruolo di destinatario privilegiato e di ricettore preparato per insegnare in futuro ai successivi iniziati. La spiegazione dei Fuṣūṣ al-ḥikam è ad esempio trasmessa all’allievo Ǧandī (m. 699/1299)15, che proprio durante l’esposizione fatta da Qūnawī, viene investito dall’ispirazione che proviene dal mondo del mistero. Secondo quanto l’allievo stesso testimonia, il suo essere interiore ed esteriore è sommerso dall’emanazione dei respiri del Misericordioso che respira al ritmo del suo respiro; è Dio che, dal commento al prologo del testo, gli fa comprendere l’intero contenuto ed i suoi celati segreti. Allorché Qūnawī comprende cosa sta accadendo a Ǧandī, riporta che anche lui aveva chiesto ad Ibn ‘Arabī di commentare il prologo, e che il suo maestro gli aveva trasmesso il midollo della quintessenza riservata a coloro che sono dotati d’intelletto, producendo in lui uno strano effetto grazie al quale era riuscito a cogliere il contenuto dell’intera opera16.

15 Mu’ayyad al-Din Ǧandī scrisse un commento ai Fuṣūṣ di Ibn ‘Arabī; molto probabilmente fu il più intimo e prossimo allievo di Qūnawī rimanendo al suo servizio per dieci anni e ricercando sempre la sua completa approvazione sulla via spirituale. Definisce il suo maestro come l’Uomo perfetto della sua epoca, il Polo dei Poli e il ḫalīfa (successore) di Ibn ‘Arabī. Cfr. Chittick, The Last Will and Testament of Ibn ‘Arabī’s, p. 46. 16 Ibid., p. 332.

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Tutto ciò non deve però portarci a considerare Qūnawī come un mero trasmettitore degli insegnamenti di Ibn ‘Arabī, perché il nostro autore inserisce in essi tutto se stesso, è capace di riformulare le dottrine del suo šayḫ in un sistema logico e metafisico coerente, fino ad esprimerle e diffonderle nella forma più consona e compatibile agli uomini colti del suo tempo. Secondo quanto riporta Claude Addas, ‘Abd al-Raḥmān al-Ǧāmī (m. 898/1492)17 riferisce ancora che la questione sulla waḥdat al-wuǧūd (unicità dell’Essere) non può essere compresa in modo razionale e secondo la šarī‘a se non tramite lo studio delle opere di Qūnawī. In effetti tutti i suoi scritti tendono a chiarire le idee cardini del pensiero di Ibn ‘Arabī, ad inquadrarle e precisarle fino ad elaborare la celebre definizione di waḥdat al-wuǧūd, espressione che, come è noto, fornì un’arma rilevante ai critici di Ibn ‘Arabī18.

17 ‘Abd al-Raḥmān al-Ǧāmī visse ed operò sotto i Timuridi ad Herat. Grazie ai suoi scritti, le idee di Ibn ‘Arabī si diffusero fino al più lontano oriente, alle corti indiane dei Moghul e in Cina dove l’autore e i suoi seguaci influenzarono il pensiero della popolazione islamica del luogo e la filosofia confuciana. 18 Riguardo a quest’espressione inoltre Richard Todd sottolinea che: «It is, however, by now generally agreed that Ibn ‛Arabī himself makes no mention of the term “waḥdat al-wuǧūd” by wich this doctrine would later be denoted. This being the case, some scholars have sought to identify Qūnawī as the figure who gave a label to his master’s ontology, working chiefly on the basis that he was, at least, the first author in the Akbarian school to use this term. Hence, Claude Addas, for instance, argues that “not only did Ṣadr al-Dīn give Ibn ‛Arabī’s doctrine a precise form and outline but he also gave it a name: “waḥdat al-wujūd”. The problem, however, with such assertions is that the actual phrase itself occurs only once in Qūnawī’s works, and that, far from being introduced as a “name for Ibn ‛Arabī’s doctrine”, it appears quite innocuously in passing». Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 47. Su questa nozione entreremo nei dettagli più avanti; ma è interessante citare l’osservazione sollevata da Claude Addas sul termine wuǧūd che nota: «En l’espace de quelques lignes, il peut apparaître avec une désarmante pluralité d’acceptions: comme nom verbal de wajada, “trouver”, comme désignation de l’univers créé par opposition à son Créateur, comme exprimant le concept d’existence ou comme s’appliquant stricto sensu à l’Être (= actus essendi). Cette polysémie, qui est un des plus périlleux privilèges de la langue arabe, est sans aucun doute en partie responsable des contresens commis – par les adversaires d’Ibn ‘Arabī mais aussi par certains de ses défenseurs – sur l’interprétation de la notion de waḥdat al-wujūd (locution qui, rappelons-le, n’est pas employée par Ibn ‘Arabī : elle semble utilisée pour la première fois, assez rarement d’ailleurs, par Ṣadr al-Dīn al-

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Al linguaggio allegorico e simbolico di Ibn ‘Arabī, intessuto di versi poetici e di riferimenti ai primi maestri sufi, egli sostituisce uno stile per certi versi più esplicito, scientifico e netto, senza però trascurare forme letterarie e conoscenze di ambito poetico. Un’ulteriore fonte biografica ci informa che Qūnawī si trova ad Aleppo nel 639-40/1241-42 in compagnia di Šams al-Tabrīzī (m. 646/1248) e Ismā‘īl Ibn Sawdakīn (m. 646/1248) per leggere insieme delle importanti sezioni delle Futūḥāt presso l’abitazione di quest’ultimo. Sempre ad Aleppo studia con due mastri di aḥadīṯ e lì sperimenta la prima di tre visioni in cui gli appare Ibn ‘Arabī, già defunto, che gli dà alcune istruzioni. In quest’occasione viene incitato a mettere per iscritto le sue intuizioni ed esperienze spirituali, cosa che Qūnawī farà fino agli ultimi mesi della sua vita e che darà come frutto l’opera al-Nafaḥāt al-ilāhiyya (I respiri divini). Nel frattempo Konya viene attaccata dai Mongoli e nel 641/1243 il sovrano selgiuchide Kaykhusraw II (regnante dal 634-44/1237-46), sconfitto alla battaglia di Köse Dagh, fugge ad Antalya, dove morirà. Non abbiamo molte notizie certe su questo difficile periodo storico che investì la città di Konya e dell’impossibilità o meno del rientro di Qūnawī in questa località; in ogni caso, grazie ad una sua narrazione, sappiamo che nel 643/1245-46 tornò a viaggiare tra Damasco e il Cairo, dove incontrò il celebre sufi Abū al-Ḥasan al-Šāḏīlī (m. 656/1258) e tenne lezioni sulla spiegazione del poema mistico al-Tā’iyya (Poema rimato in tā’) di Ibn al-Fāriḍ, attività didattica che continuò in Siria ed in Anatolia. Nella biografia su Qūnawī curata da Jane Clark, troviamo un passaggio di Šams al-Dīn al-Īkī (m. 672/1274), a quel tempo guida della ḫāniqah (luogo di culto) della Ṣalaḥiyya del Cairo, che prendeva parte ai suoi circoli riservati; questa narrazione rende l’idea dell’intensità spirituale di questi momenti, della sua reputazione e dei suoi seguaci:

Qūnawī dans le Miftāḥ al-ghayb et les Nafaḥāt ilāhiyya, puis par Ibn Sab‘īn et surtout par Farghānī dans son commentaire de la Tā’iyya d’Ibn al-Fāriḍ. Mais c’est, croyonsnous, Ibn Taymiyya qui, avec une intention polémique, en généralise l’usage comme désignation emblématique de la métaphysique akbarienne)». Cfr. Addas, Ibn ‘Arabī ou La quête du Soufre Rouge, p. 249.

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In the session of our Shaykh, the possessors and seekers of knowledge used to attend. The shaykh would speak about different sciences. Then he would end the session with one verse from the «Poem of the way» [al-Tā’iyya] upon which he would comment in Persian. He expounded marvellous words and God-given meanings, but only the possessors of tasting (dhawq) could understand him. Sometimes on another day he would say that a different meaning of the verse had become manifest to him, and he would explain a meaning even more wonderful and subtle than before. He often used to say: «One must be Sufi to learn this poem and to be able to clarify its meaning for others». Shaykh Sa‘īd Farghānī would devote all his attention to understanding what our shaykh said, and then he would record it. He wrote an explanation of the poem first in Persian, then in Arabic. This was all because of the blessing of our shaykh, Ṣadr al-Dīn19.

Da un manoscritto di Ibn ‘Arabī, firmato nel 649/1251 a Konya sotto la supervisione di Qūnawī, si deduce che egli sia tornato nella sua città. Nel 635/1255 si registra un’altra visione in cui incontra Ibn ‘Arabī che lo inizia agli alti stadi spirituali e anche questo evento viene da lui riportato nelle al-Nafaḥāt al-ilāhiyya: I saw the Shaykh (may God be pleased with him) in the night of 17 Shawwāl 653/19 November 1255 in a long event. There passed between me and him many words and I told him in the course of the conversation that the effects of the Names derive from the predications (aḥkām), and the predications from the states, and the states are particularised from the Essence in accordance with the predisposition, and the predisposition is an order which is not caused by anything else. He was extremely delighted by this explanation, and his face beamed with joy and he nodded his head. He repeated some of my words and said: «Excellent, excellent». I said to him: «Master, you are the excellent one as you have the ability to make the human

19 «These notes were eventually developed into a full commentary, Mashāriq al-darārī, to which al-Farghānī (d. 699/1299) added a metaphysical introduction, the Muqaddima, which summarised the main features of Ṣadr al-dīn’s exposition. This book would become a major ‘best-seller’ in the following generations and was a crucial component in the wider dissemination of Ibn ‘Arabī’s vision». Cfr. Clark, Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, p. 19.

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being arrive at the point where he can perceive such things. By my life! If you are a human being, the rest of us are nothing». Then I came close to him and kissed his hand, and said to him: «There remains one thing I need». He said: «Ask». I said: «I desire realisation (taḥaqquq) in the manner of your witnessing of the self-revelation of the Essence continually and eternally». I meant by that the attainment of that which came upon him from the essential self-disclosure, beyond witch there is no veil and without which there is no establishment for perfection. He said: «Yes...»20.

Da questo momento in poi, Qūnawī resterà a Konya, anche se citerà una sola visita a Damasco nel 666/1267; entra nelle grazie del governante dell’epoca Mu‘īn al-Dīn Sulaymān (m. 675/1277), che gli garantisce protezione, comodità e grandi agiatezze. Da quanto risulta dal suo testamento, pare abbia avuto due figli, un maschio ed una femmina, e trascorse questi ultimi anni ancora insegnando, istruendo i suoi allievi sulle opere di Ibn ‘Arabī e commentando in particolare i Fuṣūṣ e le Futūḥāt. Non si risparmiava nell’insegnamento degli aḥadīṯ, e il venerdì dopo la preghiera, invitava i suoi allievi di studi religiosi ed i sufi a discutere qualche problema o punto per loro astruso. La sua metodologia si basava sul dibattito, lasciava tutti discutere, anche a costo di forti diatribe, ma lui restava in silenzio per infine chiudere la questione con poche ed essenziali parole. A quanto sembra, sotto richiesta dei suoi allievi, Qūnawī stese per iscritto le sue dottrine ma non prima dell’ultima decade della sua esistenza21; egli stesso disperse i suoi scritti specificando nel suo testamento che sarebbero stati posti sotto la custodia di al-Tilimsānī, anche lui abitante di Damasco, ordinandogli di non essere parsimonioso nel donarle a coloro in cui vedeva le qualità per poterne profittare22:

Ibid., p. 21 [Traduzione di Jane Clark]. Per una lista relativamente completa di opere ed edizioni si veda tra gli studi più recenti B. Güçlü, The Writings of Sadruddin Qūnawī, in The Meryam Book, Istanbul 2008, pp. 187-98; Clark, Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, pp. 27-30. 22 Cfr. W. Chittick, «The Last Will and Testament of Ibn ‘Arabī’s Foremost Disciple and Some Notes on its Author», Sophia Perennis, 4.1 (1978) 53. 20 21

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My books on philosophy (ḥikamī) should be sold and the proceeds given as alms. The rest of the books – the medical works, works on jurisprudence, Qur’anic commentaries, collections of prophetic traditions, etc. – should be made into an endowment. My own writings (taṣānīf) should be taken to ‘Afīf al-Dīn so that they can be a remembrance from me to him; and he should be enjoined not to be niggardly in giving them to those in whom he sees the qualifications to profit from them23.

Opere di Qūnawī Per quanto concerne gli scritti di Qūnawī, William Chittick24, in una prima classificazione, riporta quelli da lui ritenuti di certa attribuzione e li suddivide in: commentari alle opere di Ibn ‘Arabī, altri commentari, opere indipendenti, opere in persiano25. Richard Todd, rivedendo in buona parte la lista di Chittick, elenca invece solo dodici opere come principali e certe, preferendo assemblare in un’appendice tutti gli scritti a lui attribuiti, o ritenuti spuri. Queste ultime ricerche ci restituiscono un quadro preciso ed evidenziano come le precedenti liste (incluse quelle elaborate da Ruspoli e da Khvājavī che includevano fino a trentanove e quaranta titoli), non avessero preso in seria considerazione la questione dell’attribuzione26. Per le opere principali di Qūnawī seguiamo qui l’ordine stabilito da Richard Todd; rimandiamo inoltre alla sua appendice che ad oggi risulta la più completa comprendendo i manoscritti di riferimento e quei titoli che lo studioso stesso non è riuscito a recuperare e consultare27; ad essa bisogna attingere per eventuali approfondimenti.

Cfr. Ibid., p. 53. Una lista di trentanove opere è stata precedentemente presentata da Stephane Ruspoli nelle sua tesi di dottorato, ma molte di queste, afferma Chittick, sono di dubbia attribuzione o mere ripetizioni. Cfr. ibid., p. 47. 25 Omar Benaissa però osserva: «Mais cette classification risque d’induire en erreur le lecteur. Qûnawî écrit comme Ibn ‘Arabî pour expliquer Ibn ‘Arabî. Or Ibn ‘Arabî n’imite pas, et ne commente pas. Qûnawî n’est pas donc un commentateur au sens classique. Il vérifie par l’expérience spirituelle propre l’enseignement du maître. C’est un disciple initiatique, et non un étudiant ayant reçu un enseignement professoral». Cfr. Benaissa, L’ère de l’homme parfait, p. 132. 26 Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 179. 27 Ibid., pp. 179-191. 23 24

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Come Todd deduce a conclusione del suo meticoloso lavoro di consultazione: It would seem, therefore that the most instructive conclusion to be drawn from such efforts at determining the order of his works is that, as already suggested, they were probably all composed within a relativy short space of time, namely the last ten years or so of his life. This, however, is not to say that Qunawi’s teaching had not been formulated prior to that, since we know from his own testimony that he had been expounding the esoteric meaning of the Naẓm al-sulūk to “a group of outstanding initiates and eminent men” as early as 643/1245, when he would have been in his late thirties. [...] One may conclude, therefore, that for the greater part of his career his influence was imparted to his contemporaries through his study-circles, initially in Egypt and then in Anatolia, and that his written works werw undertaken towards the end of his life, often at the request of his disciples, in order to preserve his teaching for posterity28.

I suoi scritti infine, per quanto siano considerati nell’ambiente sufi di più facile approccio rispetto a quelli del maestro Ibn ‛Arabī, non si caratterizzano certo per semplicità. Innanzitutto bisogna tener conto di un importante fattore specificato dall’autore stesso: essi sono prodotto dell’ispirazione divina e non di un pensiero razionale; ciò comporta che sono rivolti soprattutto ai circoli di allievi iniziati e che i testi risentono di quel particolare «gusto» estatico degli stati spirituali particolari che a Qūnawī venivano concessi. Inoltre più di una volta Qūnawī stesso lamenta il limite del linguaggio umano che non permette di esprimere questi particolari stati e l’impossibilità di spiegazioni e chiarimenti a chi rimane al di fuori delle esperienze contemplative. Ma nel contempo il nostro autore avverte l’esigenza e l’importanza di esternare, ed a volte trascrivere proprio sotto richiesta dei suoi allievi, i suoi percorsi personali e gli stati sperimentati.

28

Ibid., pp. 28-29.

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Miftāḥ ġayb al-ǧam‘ wa tafṣīlihi (La chiave dell’aspetto non manifesto della sintesi e il suo particolare manifesto). Uno dei testi di metafisica sufi più letti sia nell’ambiente ottomano sia persiano. Il Miftāḥ fu a sua volta oggetto di numerosi commenti perché considerata come l’opera che contiene la quintessenza delle dottrine di Qūnawī. Questo testo nelle scuole iraniche, insieme al suo commentario di al-Fanārī (751-835/1350-1431), è visto come il più erudito dopo i Fuṣūṣ; lo si insegna ancora oggi nelle scuole teologiche in Irān e Turchia. Pubblicato a Teheran nel 1905 a margine di un’edizione litografata di un commento di Fanārī, Miṣbāḥ al-‛uns bayn al-ma‛qūl wa’l-mašhūd fī šarḥ Miftāḥ al-ǧam‛ wa’l-wuǧūd (La lanterna dell’armonia tra il ragionato ed il contemplato); nel 1991 segue un’edizione di M. Khvājavī. Oggetto di tesi di dottorato di Stephane Ruspoli, il testo è tradotto parzialmente in francese, ma la tesi è ancora inedita. Al-Fukūk fī asrār mustanadāt ḥikam al-Fuṣūṣ (Lo svelamento dei segreti celati nella saggezza dei Fuṣūṣ); testo conosciuto anche come Fakk al-Fuṣūṣ, o al-Fukūk. È l’ultima opera completa di Qūnawī scritta sotto richiesta degli allievi che desideravano chiarimenti sui dubbi riscontrati dalla lettura dei Fuṣūṣ di Ibn ‛Arabī; l’autore espone una serie di idee basilari per comprendere ogni capitolo. L’opera è stata pubblicata in un’edizione litografata a margine del testo di ‘Abd al-Razzāq Kāšānī, Šarḥ manā’zil al-sā’irīn (Esposizione delle tappe dei viandanti), Teheran 1315/1897-8, pp. 88-128 e nel vol. 2, n. 1, Spring 1976, pp. 67-106. Sulla base dell’edizione litografata del 1898 e di tre altri manoscritti, è stata pubblicata in Irān nel 1992 a cura di M. Khwājavī. Secondo Omar Benaissa questo testo è una delle ultime produzioni di Qūnawī, forse l’ultima, tenuto conto che il maestro a volte scriveva diversi testi contemporaneamente. E ancora: La méthode du commentaire utilisée par Qūnawī révèle que conformément à son habitude, il ne se proposera pas de répéter ce que son auteur en disait. Il va en dire ce que sa longue expérience dans la voie lui permet d’en dire. C’est la méthode de ses autres ouvrages. Si bien que l’on peut affirmer que le Fukûk est le livre où les deux pensées, celle du maître et celle du disciple se conjoignent ou se rejoignent. Toute l’œuvre d’Ibn ‘Arabī se concentre dans les Fusûs, et tout la pensée de Qûnawî s’investit dans le Fukûk. Cette rencontre des deux esprits transcende cependant la dualité: on s’émerveille du gé-

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nie de Qûnawî nous révélant le génie de son maître; avec sa propre puissance29.

I‘ǧāz al-bayān fī ta’wīl Umm al-Qur’ān (L’inimitabilità della divina esposizione nell’interpretazione della Madre del Corano). Conosciuta anche come Tafsīr al-Fātiḥa. Redatta da uno studente nel 668/1269, è un commento alla Fātiḥa, la prima sura del Corano. Viene esposto il significato metafisico di ogni versetto di questa sura, un commento che non viene certo scritto seguendo il metodo dei dialettici o secondo una via razionale, né riferendosi alle opinioni degli esegeti. Pubblicata ad Hyderabad-Deccan nel 1949 e nel 1988; al Cairo nel 1969 con il titolo al-Tafsīr al-ṣūfī li’l-Qur’ān (Commentario sufi al Corano), edizione ‛Abd al-Qādir Aḥmad ‛Aṭā’. Nafṯahat al-maṣdūr wa tuḥfat al-šakūr (Espettorazione di un torace malato e dono di chi ringrazia), o Rašḥ al-bāl (Secrezione dello spirito). Raccolta di intime preghiere mistiche. La Nafṯaha figura nelle lettere di Qūnawī a Ṭūsī, nonostante solo per caso sia stata notata da quest’ultimo, in quanto il messaggero di Qūnawī, Tāǧ al-Dīn Kāšī, la incluse tra le altre epistole. Si tratta di una lunga supplica che, a dire di Ṭūsī, è strano che sia utilizzata da chi spiritualmente è collocato in ranghi molto elevati30. Qūnawī suggerisce di basarsi su tre brani specifici della Nafṯaha che forniranno indicazioni precise su quest’opera. Amcazade Hüseyin Paşa 447/1. Risālat al-nuṣūṣ fī taḥqīq al-ṭawr al-maḫṣūṣ (Il trattato dei testi nella realizzazione del grado distinto). Una collezione di speculazioni metafisiche molte delle quali estratte da altre opere di Qūnawī. Composto per rispondere all’esigenza di un breve commento alle teorie metafisiche elaborate nelle opere più lunghe. Il testo si diffuse ampiamente così come fu commentato e arricchito di glosse.

29 30

Cfr. Benaissa, L’ère de l’homme parfait, pp. 133-134. Cfr. Schubert, Murāsalāt, p. 90.

IL PRIMO INTERLOCUTORE: ṢADR AL-DĪN MUḤAMMAD

33

Pubblicato in forma litografica con i Fukūk ed anche con il Tamhīd alqawā’id di Turkah [Teheran 1898]; Teheran 1983, edizione di J. Āshtiyānī, Markaz-i Nashr-i Dānishgāhī. al-Risāla al-muršidiyya (Il trattato che dà delle direttive spirituali). Chiamata anche al-Risāla al-tawaǧǧuhiyya (Il trattato dell’orientamento spirituale) e Risālat al-tawaǧǧuh al-atamm (Il più completo trattato sull’orientamento spirituale). Il trattato conosciuto come Maqālāt (Discorsi) è una traduzione persiana composta da un allievo di Qūnawī e rivolta a tutti coloro che non leggevano l’arabo. Il soggetto esposto verte su come ottenere la concentrazione durante l’invocazione del Nome di Dio ed espone una particolare tecnica di orientamento spirituale detta tawaǧǧuh; l’epistola non è dunque rivolta soltanto ai principianti, ma anche a coloro che sono già esperti nella gnosi. Traduzione francese di Michel Vâlsan, «L’épitre sur l’orientation parfaite», Etudes traditionnelles, 398 (Nov-Dec 1966) 241-268. Al-Fukūk fī asrār mustanadāt ḥikam al-Fuṣūṣ (Lo svelamento dei Misteri al di là della sapienza dei Fuṣūṣ), conosciuta anche come Fakk alFuṣūṣ o Risāla fī bayān asrār mustanadāt ḥikam al-Fuṣūṣ wa fakk ḫutūmihā. Opera scritta sotto richiesta dei discepoli per chiarire e spiegare alcuni punti oscuri riscontrati nella lettura dei Fuṣūṣ al-ḥikam di Ibn ‛Arabī; pubblicato a Teheran nel 1987 in un’edizione litografata al margine al commento di ‛Abd al-Razzāq Qāšānī al Manāzil al-Sā’irīn di Anṣārī. Edito e tradotto in persiano da Muḥammad Khvājavī a Teheran nel 1992. Šarḥ al-aḥādīṯ al-arba‘īnīya (Commentario ai quaranta ḥadīṯ). Ultima opera di Qūnawī sui quaranta aḥādīṯ canonici; l’autore ne commentò solo ventinove e non sappiamo se perché abbandonò il suo progetto o perché lo colse la morte. Più di venticinque manoscritti sono conservati alla Biblioteca Süleymaniye, prova della popolarità dell’opera. Edizione di H. K. Yimaz, Tasavvufi hadis serhleri ve Konevinin Kirk hadis serhi, Istanbul 1990. Per quanto riguarda invece la successione del nostro autore e la cosiddetta «scuola di Ibn ‘Arabī», William Chittick, analizzando il testamento lasciato da Qūnawī, osserva:

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There are numerous aspects of Qūnawī’s life, works and teachings which will have to be brought to light before his full influence on the development of Ibn ‘Arabī’s school can be made clear. Among the points which immediately strike the eye and which can be stated with certainty on the basis of what is now know are the following: first, Qūnawī’s mode of expression and presentation of Ibn ‘Arabī’s ideas is completely different from that of the master himself. As has been pointed out elsewhere, Ibn ‘Arabī’s style resembles the stringing together of flashing jewels of inspiration far more than purely reasoned and logical discourse. But Qūnawī from first is to last is precise, orderly and logical in his argumentation, and his style often resembles that of a systematic philosopher much more than that of a visionary mystic. Nevertheless he does not deviate from his master’s teachings, and throughout his works he clarifies and elucidates Ibn ‘Arabī’s ideas and makes them much more systematic. His writings are the first in a long series of logical and orderly expositions of and commentaries upon Ibn ‘Arabī’s works which have continued to be produced, until recent times. Second, Qūnawī is the immediate teacher of many of the most important commentators on Ibn ‘Arabī’s thought, including Sa‘d al-Dīn Farghānī. Mu’ayyad al-Dīn Jandī and Fakhr al-Dīn ‘Irāqī. Farghānī’s commentary on Ibn al-Fāriḍ’s Tā’iyya (also called Nazm al-sulūk –“Poem of the Way”), and Jandī’s commentary on Ibn ‘Arabī’s Fuṣūṣ al-ḥikām are the most significant works of their kind and lay the groundwork for all later studies of these two major works. In their introductions both Farghānī and Jandī acknowledge in detail that their works are the results of teachings and lectures given by Qūnawī31.

Tutto ciò per quanto riguarda una sua filiazione nell’ambito della scienza sapienziale e delle dottrine di Ibn ‘Arabī.

31

Cfr. Chittick, The Last Will and Testament of Ibn ‘Arabī’s, p. 44.

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Ricordiamo che gli autori citati, Sa‘d al-Dīn al-Farġānī (nato nel 629/1231 c.)32, Mu’ayyad al-Din Ǧandī e Fakhr al-Dīn ‘Irāqī (618 /1213)33, a cui aggiungiamo i successivi ‘Abd Razzāq al-Kāšānī34 (m. 735/1335 c.), ‘Abd al-Karīm al-Ǧīlī35 (m. 832/1428), ‘Abd al-Raḥmān al-Ǧāmī, fino ad arrivare ad ‘Abd al-Qādir al-Ǧazā’irī36 (m. 1300/1883), solo per ricordare i maggiori, saranno raggruppati in quella che verrà denominata «la scuola di Ibn ‘Arabī» o «scuola akbariana». I circoli vicini ad Ibn ‘Arabī, vivente il maestro, furono piuttosto esigui numericamente e non sarà che al tempo della seconda generazione,

Sa‘d al-Dīn al-Farġānī nato a Kāsān, nella valle di Farġāna nell’Asia centrale, fu iniziato nell’ordine della Suhrawardiyya; entrò in relazione amicale e di servizio presso Qūnawī che lo introdusse alle scienze esoteriche e alla spiegazione del poema Tā’iyya di Ibn al-Fāriḍ. Scrisse a sua volta un suo commento a quest’opera in persiano ed in arabo e nella versione in arabo presenta una sistematica sintesi del pensiero di Ibn ‘Arabī. Cfr. G. Scattolin, «The Key Concepts of al-Farghānī’s Commentary on Ibn al-Fāriḍ’s Sufi Poem, al-Tā’iyyat al-Kubrā», Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society, 39 (2006) 33-83. 33 Faḫr al-Dīn ‘Irāqī, nato ad Hamadān in Persia, è conosciuto come maestro spirituale e poeta. Visitò Konya e divenne amico ed ammiratore sia di Rūmī che di Qūnawī. Ispirato dagli insegnamenti di quest’ultimo, scrisse una serie di poemi in persiano che riformulano le spiegazioni di Ṣadr al-Dīn espressi nel linguaggio dell’amore. La sua opera principale, le Lama‘āt (Balenii divini), è stata pubblicata da L. Wilson – W. Chittick, Divine Flashes, Paulist Press, Mahwah – New York 1982. 34 ‘Abd Razzāq al-Kāšānī appartiene già alla terza generazione successiva a Qūnawī e fu allievo di Ǧandī. Difese strenuamente la dottrina della waḥdat al-wuǧūd sotto gli attacchi del giurista Ibn Taymiyya. Non mancò di commentare i Fuṣūṣ e di stilare un commento d’impronta akbariana al Corano. Cfr. P. Lory, Les Commentaires Esoteriques du Coran, Les deux océans édition, Paris 1980. 35 ‘Abd al-Karīm al-Ǧīlī viene considerato come il pensatore più originale e indipendente scrittore mistico tra le figure qui elencate della «scuola» di Ibn ‘Arabī. Assimilò pienamente gli insegnamenti del maestro sviluppandone tematiche e principi, ma nello stesso tempo congiunse a ciò la sua indipendenza fondata sulla sua diretta esperienza mistica. La sua principale opera, Kitāb al-insān al-kāmil (Il trattato dell’Uomo Perfetto), trovò diffusione nel mondo musulmano indiano fino ai territori ottomani. 36 ‘Abd al-Qādir al-Ǧazā’irī noto come il leader della resitenza algerina alla graduale invasione del paese dal 1832 al 1847. Scrisse il suo Kitāb al-Mawāqif (Il libro delle soste), una sorta di diario spirituale dove si rivela uno straordinario sufi e scrittore. Fece rivivere durante la sua epoca gli insegnamenti di Ibn ‘Arabī e dei suoi commentatori, riproponendoli però con personali riflessioni dando prova di uno studio approfondito e meticoloso. 32

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dopo il 1300 circa, che si verificherà un’ampia diffusione del pensiero di Ibn ‘Arabī ad opera dei seguaci di Qūnawī, ed a loro volta dei «seguaci dei seguaci», che saranno gli effettivi fautori dell’istituzione dei concetti akbariani nella cultura islamica. È necessario però precisare che la denominazione di «scuola», come evidenziato dai diversi studiosi che hanno trattato l’argomento, va comunque intesa con la dovuta cautela, innanzitutto perché la reale unità e diversità teologica e filosofica di questi autori è ancora poco esplorata a causa della carente quantità di traduzioni a disposizione; ed inoltre perché nessuno di questi scrittori può essere esclusivamente considerato come un semplice commentatore di Ibn ‘Arabī: il pensiero dello šayḫ al-akbar si colloca difatti solo come il punto d’inizio per i differenti sviluppi successivi che si riveleranno speculativamente determinanti quanto quelli dello stesso maestro37. Al-Aqsarāyī segna la data della morte di Qūnawī al 16 muḥarram del 673/ 22 luglio 1274. Ṣadr al-Dīn fu seppellito a Konya nei pressi della sua abitazione, e per ubbidire alla sua volontà, nessun monumento fu costruito sulla sua tomba. Un altro aspetto piuttosto singolare della sua biografia, è che egli non designò alcun successore incaricato a trasmettere le teorie di Ibn ‘Arabī, ma spinse così i suoi seguaci: [...] not to take up after me the problematic questions (mujmalāt) in the intricacies of the intuitive sciences (al-ma‛ārif al-dhawqiyyah). Rather, they should limit themselves to pondering that which is unambiguous (ṣarīḥ) and clearly determined (manṣūṣ), without trying to interpret what is not plain and unambiguous, whether in my words or the words of the Shaykh. For after me, these are closed passages (āyāt masdūdah)38.

Cfr. J. W. Morris, «Ibn ‘Arabi and His interpreters», Journal of the American Oriental Society, 106-4 (1986) 730-750; Clark, Early Best-sellers in the Akbarian Tradition, p. 33; M. Chodkiewicz, «The Diffusion of Ibn ‘Arabī’s Doctrine», Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society, 9 (1991) 36-57; O. Benaissa, «The Diffusion of Akbarian Teaching in Iran during the 13th and 14th Centuries», Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society, 26 (1999) 36-57; A. Knysh, Ibn ‘Arabī in the Later Islamic Tradition, SUNY, New York 1999. 38 Cfr. Chittick, The Last Will and Testament of Ibn ‘Arabī’s, p. 53. 37

IL PRIMO INTERLOCUTORE: ṢADR AL-DĪN MUḤAMMAD

Jane Clark a riguardo aggiunge e conclude: The result was that whilst Rūmī’s teachings were preserved by a ṭarīqa and passed down from shaykh to shaykh, the akbarian tradition was transmitted in a different way, through books and commentaries, and through interior imbibing, as has been discussed in other places. It was, however, no less influential and far-reaching because of this, and by the 18th century, as Todd notes, Ṣadr al-dīn’s works and those of his master ‘were being studied from the Balkans to the isle of Java’. His importance in the preservation and formulation of Ibn ‘Arabī’s vision cannot be overstated and this has been long acknowledged within the Islamic world. As for the present day, as Ibn ‘Arabī’s work increasingly finds a wide audience in the western world, so it is possible that al-Qūnawī will once again find a role as a mediator and facilitator for his ideas. One of the aspects of this is that his mode of expression, being more philosophical than that of Ibn ‘Arabī, is especially attractive to modern readers without a religious background; another is that, as William Chittick has expressed it, he concentrates upon the essential teachings of Ibn ‘Arabī, especially regarding our humanity, asking: What is the reality of the human being? From what, in what and how did he/she come into existence? What is the goal of his/her existence? These are questions which deeply engage us in the contemporary world, and Ṣadr al-dīn is well-poised to help us shed light upon them39.

39

Cfr. Clark, Towards a Biography of Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, pp. 32-33.

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2. LA CONTROPARTE: ABŪ ǦA‘FAR MUḤAMMAD IBN MUḤAMMAD IBN AL-ḤASAN NAṢĪR AL-DĪN AL-ṬŪSĪ

Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī1 nasce l’11 ǧumādà I 597 / 17 febbraio 1201 a Ṭūs o nei suoi dintorni, nella moderna provincia del Raḍawī Ḫurāsān 2

1 Per le principali fonti bio-bibliografiche vd.: Ḫ. A. al-Ṣafadī, Kitāb al-Wāfī bi-lwafayāt, H. Ritter (ed.), Franz Steiner Verlag, Wiesbaden 1962, vol. I, pp. 179-183; M. Š. al-Kutubī, Fawāt al-wafayāt, I. ‘Abbās (ed.), Dār al-Ṯaqāfa. Beirut 1973-1974, vol. III, pp. 246-252; M. B. al-Ḫwānsārī, Rawḍāt al-ǧannāt fī aḥwāl al-‘ulamā’ wa-l-sādāt, al-Dār al-Islāmīya, Beirut 1411/1991, vol. VI, pp. 278-297 e Tehran 1360 š./1981; ‘A. A. A. al-Iṣbahānī, Riyād al-‘ulamā’ wa-ḥiyāḍ al-fuḍalā’, A. al-Ḥusaynī (ed.), Maktabat Āyat Allāh al-Mar‘ašī, Qum 1403/1982, vol. V, pp. 159-163; M. M. Tunikābunī, Qiṣas al-‘ulamā’, Tehran 1364 š./1985; Q. S. N. A. al-Šūstarī, Maǧālis al-mu‘minīn, 2 vols., Tehran 1986; M. al-Amīn, A‘yān al-Šī‘a, Dār al-Ta‘āruf li-l-Maṭbū‘āt, Beirut 1406/1986, vol. IX, pp. 414-420; M. T. Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯar-i ustād-i bašar wa ‘aql-i hādī ‘ašar Muḥammad ibn Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ṭūsī Mulaqqab bih Ḫwaǧa Naṣīr al Dīn, Tehran 1334 š./1955; Id., Aḥvāl va Āṯār-i Abū Ǧa‘far Muḥammad ibn Muḥammad b. Ḥasan al-Ṭūsī, II ed., Tehran 1354 š./1975; M. Mudarrisī Zanǧānī, Sarguḏašt wa ‘aqā’id-i falsafī-yi Ḫwāǧa Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, Tehran 1335 š./1956 (1363 š./1984; 1379 š./2000). Vd. inoltre i seguenti articoli: H. Dabashi, «The Philosopher/Vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī and the Isma‘ilis», in F. Daftary (ed.), Mediaeval Isma‘ili History and Thought, University Press, Cambridge 1996, pp. 231-245; Id., «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», in S. H. Nasr – O. Leaman (eds.), History of Islamic Philosophy, vol. I, Routledge, London – New York 1996, New York 2001, pp. 530-543; F. Daftary, «Nasir al-Din Tusi and the Isma‘ilis», in Ismailis in Medieval Muslim Societies, I. B. Tauris, London – New York 2005, pp. 171-182; S. H. Nasr, s.v. al-Ṭūsī, Muḥammad ibn Muḥammad ibn al-Ḥasan, in Dictionary of Scientific Biography, New York 1970-1980, vol. XIII, pp. 508-514; H. Daiber – F. J. Ragep, s.v. al-Ṭūsī, Abū Ǧa‘far Muḥammad b. Muḥammad b. al-Ḥasan, in Encyclopaedia of Islam. Second Edition, Brill, Leiden 2004, vol. X, pp. 746-752; E. Alexandrin, «Éléments de bibliographie sur Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī», S. Tourkin, «Bibliography on al-Tusi (Works in Russian)», E. Askh-e Shirin – H. Rahmani, «Bibliographie sur Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī en persan», in N. Pourjavady – Ž. Vesel (eds.), Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: Philosophe et savant du XIIIe siècle. Actes du colloque tenu à l’Université de Téhéran (6-9 mars 1997), Presses Universitaires d’Iran, Institut Français de Recherche en Iran, Téhéran 2000, pp. 207-213, 215-217 e 71-118 (en persan). 2 Ṭūsī riferisce della città che gli diede i natali nell’introduzione alle Zīǧ-i Īlḫānī (Tavole Īlḫānī). La città, situata nei pressi della moderna Mašhad, venne distrutta nel

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(nord-est dell’Iran). Conosciuto come ḫwāǧa (distinto signore e maestro) e insignito da discepoli e seguaci con gli appellativi di al-mu‘allim alṯāliṯ (il terzo maestro, dopo Aristotele e al-Fārābī), ustāḏ al-bašar (maestro di umanità) e muḥaqqiq (realizzato)3, nei circoli ismailiti ottiene anche il titolo di sulṭān o capo missionario dā‘ī4. Ai margini di una rara miniatura preservata presso la Malik Library di Teheran sono riportate due iscrizioni calligrafiche che indicano la fama lasciata in eredità dall’insigne maestro: Naṣīr al-Dawlah wa al-Dīn [the Sustainer of the State and of the Faith] Muḥammad-i Ṭūsī, that unique [individual] the like of whom the mother of time did not give birth to. The Portrait of the Most Significant of all ‘ulamā’, the most distinguished of all philosophers, Ustād al-Bashar Khwājah Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, Sanctified be the site of his Tomb, Noble and Benevolent5.

1389. J. A. Boyle, «The Longer Introduction to the ‘Zīj-i Īlkānī of Naṣīr ad-Dīn Ṭūsī», Journal of Semitic Studies, 8 (1963) 246-247. Cfr. anche Tunikābunī, Qiṣas al-‘ulamā’, op. cit., p. 367 e al-Šūstarī, Maǧālis al-mu‘minīn, op. cit., vol. II, p. 203. 3 Cfr. Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 3 e p. 46. 4 Viene così menzionato nel colofone del più antico manoscritto conosciuto del Rawḍat al-taslīm, copiato dal testo autografo nel 986/1560, che riporta: «These words were written at the end of the book Rawḍa-yi taslīm in the noble handwriting of the king of the world’s dā‘īs and master of created beings, Naṣīr al-Dawla wa al-Dīn (Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī), chosen by the lord of the worlds (ikhtiyār mawlā al-‘ālamīn) – may our lord exalt him». Vd. al-Ṭūsī, Paradise of Submission. A Medieval Treatise on Ismaili Thought, a new Persian Edition and English Translation of Ṭūsī’s Rawḍa-yi taslīm by S. J. Badakhchani, with an Introduction by Hermann Landolt and Philosophical Commentary by Christian Jambet, I. B. Tauris Publishers, in association with The Institute of Ismaili Studies, London – New York 2005, p. 170. Il completo titolo onorifico tramite il quale Ṭūsī è stato conosciuto e onorato è: «Qudwa-yi Muḥaqqiqīn wa Sulṭān-i Ḥukamā’ wa Mutakallimīn, Ustād-i Bašar wa ‘Aql-i Hādī ‘ašar, Muḥammad ibn Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ṭūsī, mukannā’ bi Abū Ǧa‘far wa mulaqqab bi Ḫwaǧa Naṣīr al-Dīn wa mašhūr bi Muḥaqqiq-i Ṭūsī yā Ḫwaǧah-yi Ṭūsī». Cfr. Dabashi, «The Philosopher/Vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 528, il quale riporta Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 2. 5 Dabashi, «The Philosopher/Vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 528. Cfr. Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 2.

LA CONTROPARTE: ABŪ ǦA‘FAR MUḤAMMAD IBN MUḤAMMAD

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La sua famiglia appartiene al credo sciita duodecimano e il giovane Naṣīr riceve la prima educazione imamita a Ṭūs sotto la supervisione del padre, Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ṭūsī, noto giurista, che inizia il figlio alle scienze intellettuali e alle dottrine religiose. Negli anni della sua formazione, Ṭūsī si dedica allo studio della lingua e della grammatica araba, alla lettura del Corano e degli aḥādīṯ, alla giurisprudenza. Studia con lo zio materno del padre, Naṣīr al-Dīn ‘Abdallāh ibn Ḥamza al-Ṭūsī, eminente imamita e discepolo del famoso teologo ed eresiografo Tāǧ al-Dīn Šahristāna6 (m. 548/1153), incline agli insegnamenti dell’ismailismo nizarita. Con il proprio zio materno, Nūr al-Dīn ‘Alī ibn Muḥammad al-Šī‘ī, il ragazzo si occupa di logica, filosofia naturale e metafisica7. Nella sua autobiografia8, redatta durante il soggiorno nizarita, Ṭūsī narra gli incoraggiamenti del padre finalizzati al conseguimento di un’approfondita preparazione umanistica e scientifica e descrive in dettaglio la sua grande sete di conoscenza. Dopo aver esaurito lo studio delle maggiori scuole e comunità islamiche, senza ottenerne particolare appagamento, rivela il profondo desiderio di avvicinarsi al kalām e alla ḥikma: As a result of predetermined decree and design (bi ḥukm-i taqdīr wa ittifāq), I was born and educated among a group of people who were

Più comunemente conosciuto come Muḥammad ibn ‘Abd al-Karīm Šahrastānī, autore di: Kitāb al-milal wa al-niḥal (Libro delle religioni e delle scuole dottrinali), Kitāb muṣāra‘at al-falāsifa (Libro della disputa contro i filosofi), Nihāyat al-aqdām fī ‘ilm al-kalām (Ultimi passi nella teologia), un commento al Corano dal titolo Mafātīḥ al-asrār (Le chiavi dei segreti), e il famoso Maǧlis-i maktūb (Sermone scritto). 7 Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, pp. 158-161. 8 al-Ṭūsī, Contemplation and Action: The Spiritual Autobiography of a Muslim Scholar, a new Edition and English Translation of Sayr wa sulūk by S. J. Badakhchani, I. B. Tauris Publishers, London – New York, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 1998. Estratti della traduzione si trovano anche in Contemplation and Action, Sayr wa Sulūk, in S. H. Nasr – M. Aminrazavi (eds.), An Anthology of Philosophy in Persia, vol. II: Ismaili Thought in the Classical Age, I. B. Tauris Publishers, London – New York, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 2008, pp. 365-378. Vd. anche «Sayr wa sulūk», in Maǧmū‘a-yi rasā’il-i Ḫwāǧa Naṣīr al-Dīn Muḥammad ibn Muḥammad al-Ṭūsī, ed. by M. T. Mudarris Raḍawī, Dānišgāh-i Tehran, Tehran 1335 š./1956, pp. 36-55. Estratti anche in «Guftārī az Ḫwāǧa-yi Ṭūsī bi raviš-i Bāṭiniyya», in Maǧalla-yi Dāniškada-yi adabiyyāt 3(4) (June-July 1956) 82-88, M. T. Dānišpažūh (ed.). 6

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believers in, and followers of, the exoteric aspects of the religious law (sharī‘at). The only profession and vocation of my near relatives and kindred was to promulgate the exoteric sciences. From the time that [the faculty] of discrimination began to stir within me, I grew and thrived listening to their opinions about both fundamental principles and derived rulings (usul wa furu‘) [of Islam], I assumed that, apart from this way, there could be no other religious teaching or method. But my father, a man of the world who had heard the opinions of different kinds of people and had [received] his education from his manternal uncle, who was one of the attendants and students of the chief dā‘ī (dā‘ī al-du‘āt), Tāj al-Dīn Shahrastāna, was less enthusiastic about following these regulations. He used to encourage me to study [all] the branches of knowledge, and to listen to the opinions of the followers of [various] sects and doctrines […] Following the instructions of my father, I studied every subject for which I could find a teacher. But since I was moved the inclination of my thoughts and the yearning of my soul to discriminate between what was false and what was true in the differing schools of thought and contradictory doctrines, I concentrated my attention on learning the speculative sciences such as theology (kalām) and philosophy (ḥikmat)9.

La sua infanzia coincide con l’ascesa dei Mongoli come forza militare in Asia Centrale e con la loro avanzata verso i territori persiani. La fuga del sultano Muḥammad Ḫwarazmšah aveva lasciato la ricca regione nordorientale dell’Iran senza difesa e alla mercé degli invasori mongoli. Tra il 610/1213 e il 618/1221, Ṭūsī continua i suoi studi a Nīšāpūr, all’epoca capitale culturale e rinomato centro intellettuale. Si accosta alla filosofia peripatetica e alla metafisica con l’allievo di Quṭb al-Dīn Saraḫsī, Maḥḍar Farīd al-Dīn al-Dāmād10, grazie al quale approfondisce la conoscenza di una delle

Id., Contemplation and Action, op. cit., pp. 26-27. Farīd al-Dīn al-Dāmād era esperto di filosofia, giurisprudenza, logica e medicina. Vd. Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», pp. 529-530: «Farīd al-Dīn Dāmād Nīshāpūrī, who was a student of Ṣadr al-Dīn Sarakhsī, who was a student of Afḍal al-Dīn Ghīlanī, who was a student of Abu’l-‘Abbās Lūkarī, who was a student of Bahmanyār, who was a student of Ibn Sīnā (Shūshtarī (1986), 2: 203; Mudarris Raḍawī (1995): 2). Thus, through five generations of philosophers, Khwājah Naṣīr was directly linked to the master of Peripatetic philosophy (Tunikābunī (1985): 381; al-Ṭūsī (1982): 9)». Vd. S. H. Nasr, «‘Afḍal al-Dīn Kāshānī 9

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summae avicenniane, il Kitāb al-Išārāt wa’l-tanbīhāt (Libro delle direttive e delle allusioni), e apprende medicina, in particolare il Canone di Avicenna, con Quṭb alDīn Ibrāhīm ibn ‘Alī ibn Muḥammad al-Sulamī al-Miṣrī (ucciso nel 618/1221). Sia Dāmād che Miṣrī erano stati allievi del famoso mutakallim e teologo aš‘arīta Faḫr al-Dīn al-Rāzī (c. 543-606/1149-1209), autore del commento critico alle Išārāt di Avicenna. Sembra che Ṭūsī abbia letto quest’ultima opera anche grazie all’ausilio di Aṯīr al-Dīn al-Abharī (m. 663/1265 c.), noto logico e matematico, nonché maestro di Ibn Ḫallikān, Naǧm al-Dīn Dabīrān al-Qazwīnī al-Kātibī e Šams al-Dīn Muḥammad al-Iṣfahānī11. In quei luoghi probabilmente Naṣīr incontra il poeta e mistico Farīd al-Dīn ‘Aṭṭār (m. 618/1221), leggendario maestro

and the Philosophical World of Khwājah Naṣīr al-Dīn Ṭūsī», in Islamic Theology and Philosophy: Studies in Honor of George F. Hourani, M. E. Marmura (ed.), State University of New York Press, Albany 1984, p. 324, n. 7: «This chain is emphasized in traditional circles of Islamic philosophy because the oral transmission from master to student plays such a central role in the continuity of the tradition of Islamic philosophy». 11 Cfr. G. Endress, «Reading Avicenna in the Madrasa: Intellectual Genealogies and Chains of Transmission of Philosophy and the Sciences in the Islamic East», in J. E. Montgomery (ed.), Arabic Theology, Arabic Philosophy. From Many to the One: Essays in Celebration of Richard M. Frank, Peeters Publishers & Department of Oriental Studies, Leuven – Paris – Dudley 2006, p. 411: «The study of Ibn Sīnā’s philosophy, on the basis of his Kitāb al-Ishārāt wa-l-Tanbīhāt, in the tradition of Fakhr al-Dīn al-Rāzī and his school, is illustrated by a chain of transmission – an isnād in the style of traditionist qirā’a notices – reported by al-Ṣafadī on the authority of his own teacher in the rational sciences, the Egyptian physician and polymath, Shams al-Dīn Ibn al-Afkānī (d. 749/1348). With Ibn al-Afkānī, al-Ṣafadī himself had read the first part of the Ishārāt. It is reported in his notice of the astronomer and ṣūfī, Shams al-Dīn al-Shurwānī (d. 669/1299-1300): The shaykh and imām Shams al-Dīn Muḥammad b. Ibrāhīm known as Ibn al-Afkānī, mentioned before, told me: I have read the Isharat of Abū ‘Alī b. Sīnā under the shaykh, the imām Shams al-Dīn Muḥammad b. Aḥmad al-Shurwānī , the ṣūfī, at the Khānqāh of Sa‘īd al-Su‘adā’ inside Cairo, by the end of the year 698 and in early 699 [1298], and he reported: I have read the work and its commentary with the commentator, the Khwāja Naṣīr al-Dīn Muḥammad al-Ṭūsī; and the latter said: I have read it with the imām Athīr al-Dīn al-Mufaḍḍal al-Abharī, who said: I read it with the shaykh Quṭb al-Dīn Ibrāhīm al-Miṣrī, and he said: I have read it with the imām Fakhr al-Dīn Muḥammad al-Rāzī, who said: I have read it with the imām Sharaf al-Dīn Muḥammad al-Mas‘ūdī, and he said: I have read it with the shaykh Abū l-Faitḥ Muḥammad known as Ibn al-Khayyāmī, who said: I have read it with Bahmanyār, the disciple of the Shaykh al-Ra’īs, and he said: I have read it under the author, the ra’īs Abū ‘Alī b. Sīnā».

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sufi ucciso per mano dei Mongoli12. Nell’autobiografia, tra gli altri suoi maestri, Ṭūsī menziona anche Kamāl al-Dīn Muḥammad al-Ḥāsib13, discepolo del poeta e filosofo Afḍal al-Dīn Muḥammad ibn Ḥasan Maraqī Kāšanī o Kāšī (m. 610/1213-14 c.)14. Intorno al 618/1221, probabilmente a causa della precaria situazione socio-politica nel nativo Ḫurāsān, Ṭūsī si trasferisce in Iraq15, dove acquisisce i dettami fondamentali della giurisprudenza sciita con Mu‘īn al-Dīn Sālim ibn Badrān al-Māzinī o Miṣrī16. A Mawṣil studia matematica e astronomia con Kamāl al-Dīn Mūsà ibn Yūnus al-Šāf‘ī (551-639/1156-1242)17 e durante l’anno 619/1222 riceve la licenza formale (iǧāza) per trasmettere gli aḥādīṯ18. In procinto di completare i suoi studi, verso il 1233, il filosofo torna verso Sartaḫt, nella provincia del Quhistān19.

al-Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., pp. 2-3. Ibid., p. 26: «Then it happened that one of the students of Afḍal al-Dīn Kāshī – may God have mercy on him – came to the region. His name was Kamāl al-Dīn Muḥammad Ḥāsib, who had acquired a first-rate knowledge in a variety of philosophical subjects, especially in the art of mathematics; he had previously been a friend and acquaintance of my father. My father suggested that I should learn from him and frequent his company; so I began to study mathematics with him». Vd. A. H. al-Rahim, «The Twelver-Šī‘ī Reception of Avicenna in the Mongol Period», in Before and After Avicenna, D. C. Reisman et al. (eds.), Brill, Leiden 2003, p. 224, n. 27: «Kamāl ad-Dīn Muḥammad Ḥāsib is often confused with Kamāl ad-Dīn Ibn Yūnus, perhaps because they were both matematicians (hence the former is called Ḥāsib) and/or because they both have the same laqab Kamāl ad-Dīn. As such it is sometimes believed that Ibn Yūnus was a student of Bābā Afḍal». 14 Conosciuto come Bābā Afḍal, autore di Anǧām-nāma e Ǧāwdān-nāma, oltre a celebri quartine che ricordano quelle di ‘Umar Ḫayyām. I suoi testi trattano in special modo di filosofia, etica e logica. L’orientamento ismailita è piuttosto evidente, soprattutto per quel che riguarda l’esegesi esoterica del Corano. Vd. Nasr, «‘Afḍal al-dīn Kāshānī and the Philosophical World of Khwājah Naṣīr al-dīn Ṭūsī», pp. 249-264. 15 Sul viaggio in Iraq, a Baġdād e Mawṣil, vd. Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 179. 16 Per tutti i dettagli concernenti le personalità che contribuirono all’educazione, alla formazione e alla crescita spirituale e intellettuale di Ṭūsī cfr. in particolare: Mudarris Raḍawī, Aḥvāl va Āṯār, pp. 5-7, 154-177; F. J. Ragep, Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Memoir on Astronomy (al Tadhkira fī ‘ilm al-hay’a), Springer-Verlag, New York 1993, vol. I, pp. 16-20. 17 al-Ṣafadī, Kitāb al-Wāfī bi-l-wafayāt, op. cit., vol. I, p. 181; al-Kutubī, Fawāt al-wafayāt, op. cit., vol. III, p. 24. 18 Ragep, Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Memoir on Astronomy, vol. I, p. 6. 19 Ṭūsī riferisce di un viaggio dall’Iraq verso il Ḫurāsān in Contemplation and Action, op. cit., p. 31. 12 13

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L’autobiografia riporta un evento che rappresenterebbe il grande punto di svolta concernente la bramosa ricerca conoscitiva di Ṭūsī, come se, fino a quel momento, nel suo immaginario non risuonassero altro che armonie sospese, ritmi fluttuanti, frasi allusive e indefinite. Egli si imbatte accidentalmente in una copia dei Fuṣūl-i mubārak wa muqaddas (Capitoli benedetti e sacri), sermoni e detti dell’imām nizarita Ḥasan ‘Alà Ḏikrihi alSalām (m. 561/1166)20, i quali ebbero un così forte impatto su lui, al punto da dischiudergli la visione interiore: I journeyed on from there to Khurāsān. A few days later, I happened to see a copy, in mediocre handwriting and antiquated paper, of the Fuṣūl-i muqaddas (Sacred Chapters) of [the Imam] ‘Alā Dhikrihi alSalām, in the possession of an unworthy person who did not know what it was. Obtaining [the text] with a ruse, I occupied myself day and night with reading it, and to the extent of my humble understanding and ability, I gained endless benefits from those sacred words which are the light of hearts and the illuminator of inner thoughts. It opened a little my eye of exploration (chishm-i taṣarruf) and my inner sight (dīda-yi bāṭin) was unveiled21.

Come vedremo più avanti, vari incontri e circostanze portarono Ṭūsī ad abbracciare la fede ismailita, ma è soltanto dopo grazie al personale invito del muḥtašam Naṣīr al-Dīn ‘Abd al-Raḥīm ibn Abī Manṣūr (m. 655/1257), succeduto a Šihāb al-Dīn come governatore del Quhistān intorno al 621/1224, che egli viene ammesso come mustaǧib (novizio) all’interno della comunità nizarita, in una delle roccaforti della Persia orientale. Ṭūsī entra così al servizio di Naṣīr al-Dīn, iniziando la sua stretta appartenenza alla leadership ismailita, che si protrarrà per più di trent’anni della sua vita. Il maestro si trasferisce in una delle fortezze montane del Quhistān, godendo della benevolenza del suo protettore, presso la cui corte si rifugiava un gran

20 ‘Alà Ḏikrihi al-Salām o Li-Ḏikrihi al-Salām è il titolo onorifico utilizzato dagli scrittori ismailiti nizariti per l’imām Ḥasan, il quale enunciava la predicazione della qiyāma (resurrezione). I suoi sermoni, conosciuti come Fuṣūl-i muqaddas wa mubārak, sono citati frequentemente nella letteratura ismailita nizarita del periodo Alamūt e post-Alamūt. I Fuṣūl non sono sopravvissuti al tempo, ma Ṭūsī ne riporta diversi passaggi in Paradise of Submission, op. cit. 21 Id., Contemplation and Action, op. cit., p. 31.

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numero di illustri sapienti. In quel luogo egli riceve grandi onori, nonostante la difficile situazione politica gli impedisse di spostarsi e di viaggiare, e rimane al fianco di Naṣīr al-Dīn approssimativamente dal 624/1226 al 632/1234. Probabilmente in compagnia del suo patrono, Ṭūsī si reca anche alla base di Maymūn Diz, nel Daylamān, dopo essere stato convocato alla corte del principe ismailita ‘Alà al-Dīn Muḥammad (regno 618-653/12211255), il settimo Grande Maestro della fortezza degli Assassini di Alamūt, il quartier generale dello stato ismailita nizarita22. Trascorre più di vent’anni tra Maymūn Diz e Alamūt, luoghi in cui compone alcuni tra i suoi più brillanti testi filosofici e scientifici. La sua creatività non risente affatto del clima sfavorevole e la fase ismailita diviene la sua stagione più prolifica. Nel 1227, dopo la morte di Genġis Ḫān, gran parte del territorio asiatico era sfuggito al controllo dei Mongoli e nel 1251, durante il soggiorno di Ṭūsī nel Quhistān, Mangū Ḫān (649-658/1251-1259) invia il fratello e abile condottiero Hūlāgū con un cospicuo esercito a consolidare la conquista della Persia, sradicando così la presenza ismailita nel territorio. Dopo essere stato inviato come emissario presso il condottiero mongolo, nel 1255, Ṭūsī consiglia all’imām ismailita Rukn al-Dīn Ḫuršāh, fratello di ‘Alà al-Dīn Muḥammad e ultimo signore di Alamūt, di arrendersi alla nuova conquista. Significativo potrebbe essere stato il suo ruolo nelle negoziazioni finali tra i due popoli, accompagnando Rukn al-Dīn alla presenza di Hūlāgū23. Probabilmente le abilità politiche di Ṭūsī, durante le difficili e delicate trattative, risultarono determinanti nel persuadere Ḫuršāh a rinunciare a una causa che sembrava ormai priva di ogni speranza. Nel 655/1257 Hūlāgū lascia Qazwīn per recarsi prima ad Hamadān e poi a Baġdād. Quando il condottiero mongolo marcia verso la capitale abbaside nel 656/1258, Ṭūsī è già al suo servizio. Ad Hamadān sembra avere incontrato il grande filosofo Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 710/1310)24, il più

Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, pp. 5-6. Cfr. A. Hairi, « Naṣīr al-Dīn Ṭūsī. His alleged role in the fall of Bagdad», in Correspondance d’Orient no 11. Ve Congrès International d’Arabisants et d’Islamisants, Actes, Publications du Centre pour l’Étude des Problèmes du Monde Musulman Contemporain, Bruxelles 1970, pp. 255-266. 24 Alcuni aneddoti riportano che Ṭūsī riuscì a convertire allo sciismo illustri personaggi del tempo, tra i quali Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī. Vd. Tunikābunī, Qiṣas al-‘ulamā’, op. cit., p. 374. Un altro singolare episodio riguardante Quṭb al-Dīn viene 22 23

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celebre fra i suoi allievi e poi colleghi. Ṭūsī segue Hūlāgū durante le spedizioni politiche e di conquista e svolge un ruolo attivo nella resa del califfo abbaside al-Musta‘ṣim, ucciso dieci giorni dopo in circostanze poco chiare. Le fonti divergono a questo proposito. Il legame di Ṭūsī con la comunità termina con la caduta di Alamūt e la definitiva disfatta nel 654/1256, seguita dal saccheggio di Baġdād per mano dei Mongoli nel 656/1258. Durante la conquista della città Hūlāgū ordinò a Ṭūsī di sistemarsi all’entrata della stessa per proteggere il suo popolo. Si racconta che egli sia anche riuscito a salvare molte vite innocenti, nonché quelle di molti studiosi musulmani che risiedevano in città25. Inoltre, sembra che alcuni membri della famiglia del califfo siano stati salvati dall’esecuzione grazie all’intervento della moglie di Hūlāgū, Ulǧāy-Ḫātūn26. Alcuni biografi riportano dell’ipotetica e segreta conversione di Hūlāgū all’Islām grazie all’intervento di Ṭūsī; altre fonti narrano del desiderio del comandante di cambiare fede per sposare una donna persiana27. Resta dubbio se Ṭūsī tradì la causa ismailita o la utilizzò piuttosto per ragioni politiche o per motivazioni scientifiche, quali salvare i testi della biblioteca di Alamūt prima dell’invasione mongola e alcuni luoghi di culto sciiti28. Le fonti primarie non fanno riferimento a un vero e proprio

narrato da ibid., p. 373. Dabashi ne riporta la traduzione in «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 538: «Tunikābunī, for example, reports that Quṭb al-Dīn al-Shīrāzī once noticed that Khwājah Naṣīr disguised himself as a student and attended his classes. He decided to humiliate Khwājah Naṣīr in front of all the students by forcing him to discuss a subject of which he was sure Khwājah Naṣīr had no knowledge. He gave a lecture on Ibn Sina’s treatise on pulse and took a number of exceptions to it, and then asked Khwājah Naṣīr to repeat his lecture. Khwājah Naṣīr asked, “Should I repeat your mistakes or what is right?” And he proceeded to give a full exposition of Ibn Sīnā’s text and a critique of Quṭb al-Dīn al-Shīrāzī’s lecture, thus demonstrating his knowledge of medicine […] Quṭb al-Dīn al-Shīrāzī is reported to have arisen and given Khwājah Naṣīr his teaching chair». 25 Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, pp. 17-18. 26 Rašīd al-Dīn Faḍl Allāh, Ǧami‘ al-Tawāriḫ, vol. II, B. Karīmī (ed.), Iqbāl, Tehran 1959, p. 714. 27 Mudarrisī Zanjānī, Sarguḏašt, p. 13. 28 Vd. s.v. Ṭūsī, Naṣir-al-Din Abu Ja‘far Moḥammad, ii. As a mathematician and astronomer, in Encyclopaedia Iranica: http://www.iranicaonline.org/articles/tusi-nasir-al-din.

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coinvolgimento di Ṭūsī nella conquista di Baġdād da parte del guerriero mongolo29. Rašīd al-Dīn Faḍl Allāh riferisce nel suo Ǧami‘ al-tawārīḫ, scritto nel 710/1310: Hulāgū called Khwājah Naṣīr al-Dīn and consulted with Kwājah was afraid, thinking that it (Hulāgū’s consultation) was by way of a test (pindāsht bar sabīl-i‘ imtiḥān buvad). He said: ‘None of these changes that Ḥusām al-Dīn had anticipated will happen’. He (Hulāgū) said: ‘What then?’ He (Ṭūsī) answered: ‘Hulāgū Khān will replace the caliph (bijāy-i Khalīfah Hulāgū Khān buvad). He (Hulāgū) summoned Ḥusām al-Dīn to argue with Khwājah. Khwājah stated: ‘It is generally agreed among all Muslims that many companions of the Prophet suffered martyrdom, but no dissorder occured. If some say that the possibility of disorder occurs only in the case of the ‘Abbāsids, the answer would be that on the order of al-Ma‘mūn, Ṭāhir (al-Ḥusayn, died in 1065 A.D., the founder of the Ṭāhirīd dynasty in Khurāsān) came from Khurāsān and killed Muḥammad Amīn, Ma‘mūn’s brother; al-Mutawakkil was killed by his own son and his commanders; al-Mutaṣir and al-Mu‘tazz were murdered by their commanders and slaves; thus, several other Caliphs were executed by people and not disorder followed30.

Un’altra fonte contemporanea narra della decisione presa da Hūlāgū dopo aver ascoltato l’opinione di Ṭūsī: For making a decision on the occupation of Iraq, Hulāgū sought our master Naṣīr al-Dīn’s opinion as an astronomer, and consulted with

Cfr. Hairi, «Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, his alleged role in the fall of Bagdad», pp. 256-257. Rašīd al-Dīn Faḍl Allāh, op. cit., vol. II, p. 258 (vd. anche pp. 68-87, 697-702, 706-707). Cfr. la seguente parafrasi in Hairi, «Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, his alleged role in the fall of Bagdad», p. 258: «Rashīd al-Dīn reports: “The greate king of the Mongols, Mangū Qā’ān, ordered Hulāgū to capture Tūrān, Iran, the Ismā‘īlī fortresses and finally Baghdad. The king said: ‘If the Caliph of Baghdad comes to your service and obedience you should not trouble him; otherwise dispatch him with the others’. Hulāgū Khān consulted with the pillars of the state, Ḥusām al-Dīn, the astronomer, said: ‘If the Mongols king conquers Baghdad, all horses will die, soldiers will fall ill, the sun will not rise, the rain will not fall, the cold bitter winds (ṣarṣar) will blow, the world will collpse by earthquakes, plants will not grow, and the king will die that year». 29

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him. After studying the stars, and after investigating the conjunction of lucky signs, Ṭūsī said: ‘It would be possible for the victoriuos cavalcades (mavākib-i manṣūr) to deliver Iraq without meeting any difficulty. The day of the Imāmat and the Caliphate is over; the effect of Hulāgū’s arrival in Baghdad will bring the immediate downfall of the Caliphate’. [Ṭūsī continues:] ‘If the destination is compatible with these [astronomical] laws, it can be a sign of the prosperity of the king. Otherwise [as the poet says]: I devise [a plan] by [studying] the stars, and I cannot be certain. The Lord of the Earth does whatever He wants. Hulāgū with a stout heart and a calm spirit ordered the army to get ready and move [to Baghdad]’31.

È possibile che già prima della conquista di Baġdād, Hūlāgū avesse assegnato a Ṭūsī mansioni importanti, come l’amministrazione di tutte le fondazioni religiose (awqaf) e anche delle finanze. In ogni caso, Ṭūsī rimane con Hūlāgū a Baġdād, lo aiuta a consolidare il suo potere e lo convince, grazie all’interesse del condottiero mongolo per l’astronomia, a costruire nel 1259 un osservatorio a Marāġa, in Azerbāiǧān. Adiacente ad esso viene costruita una biblioteca contenente migliaia di volumi che accoglie molti studiosi. A Marāġa, Ṭūsī inizia la stesura delle tavole astronomiche, lavoro che terminerà intorno ai settant’anni, e intrattiene conversazioni filosofiche e scientifiche con alcuni dei grandi luminari del tempo, fra i quali il filosofo e vescovo cristiano Gregory Bar Hebraeus (1226-1282)32, l’astronomo e matematico andaluso Ibn Abū al-Šukr al-Maġribī (m. 1283), il logico e filosofo persiano al-Kātibī (m. 675/1276), della cui corrispondenza epi-

31 Ibid., p. 262: «There cannot be any serious difference seen between the report of Rashīd al-Dīn and that of Vaṣṣāf except the extra colour given the latter». La fonte riportata è il resoconto di Šihāb al-Dīn ‘Abd Allāh ibn Faḍl Allāh Šīrāzī, meglio conosciuto come Vaṣṣāf al-Ḥaḍrat, storico del periodo mongolo. Vd. V. al-Ḥaḍrat, Taǧzīyah al-Amṣār wa Tazǧiyah al-A‘ṣār, Ibn Sīnā, Tehran 1959, pp. 30-31. Il testo è anche conosciuto come Tārīḫ-i Vaṣṣāf al-Ḥaẓrah e fu compilato nel 728/1327. Hairi, «Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, his alleged role in the fall of Bagdad», pp. 262-263, riporta anche le pesanti accuse del teologo Ibn Taymiyya (m. 728/1327): «This man [Ṭūsī] is wellknown to the elite as well as to the common people. He was the minister of the Bāṭinī heretics, the Ismā‘īlīs in Alamūt. When the Turkish [Mongolian] polytheist Hulāgū came, Ṭūsī urged him to execute the Caliph and murder learned and religious people and to protect artisans and traders who brought him wordly profits». 32 G. Bar-Hebraeus, Muḫtaṣar al-Duwal, Maṭba‘ah al-Kāṯūlīkīyyah, Beirut 1958.

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stolare è rimasta traccia. In quegli anni Ṭūsī si reca anche a Ḥilla, il grande centro d’insegnamento sciita in Iraq, dove incontra Muḥaqqiq al-Ḥillī (602-676/1205-1277), famoso giurista sciita, grazie al quale entra in contatto con altri importanti teologi ed esperti del settore33. Si racconta anche di un lungo viaggio intorno al 665/1266 verso il Quhistān, in compagnia di Quṭb al-Dīn Šīrāzī34. Hūlāgū muore prima che lo scienziato possa terminare un ciclo completo di osservazioni astronomiche. Dopo la sua dipartita, Ṭūsī diviene vizir e probabilmente anche fisico personale del figlio di Hūlāgū, Abāqā’ Ḫan, il nuovo leader mongolo. Nel 1273, durante uno dei viaggi ufficiali di Abāqā’ Ḫan a Baġdād, Ṭūsī si ammala e il governatore mongolo visita il filosofo morente insieme al grande filosofo Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī35. Altre fonti narrano invece che i rapporti di quest’ultimo con Ṭūsī erano terminati a causa delle critiche presenti nel commento di Quṭb al-Dīn al Taḍḫira o a causa di una denuncia presso Hūlāgū36. Ṭūsī si spegne a Baġdād il 18 ḏū’l-ḥiǧǧa 672 / 25 giugno 127437. In onore del grande maestro vengono celebrate solenni esequie alla presenza di alti dignitari38; il suo corpo viene seppellito a Kāẓimayn, accanto alla tomba del settimo imām sciita, Mūsà al-Kāẓim.

33 Cfr. Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 533. 34 Vd. al-Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., p. 8; Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 57. In quei luoghi sembra abbiano vissuto i discendenti di Ṭūsī. 35 Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 533. 36 E. Wiedemann – W. Ficher, Aufsäetze zur arabischen Wissenschaftsgeschichte, vol. II, Olms, Hildesheim – New York 1970, p. 711. 37 Una versione differente riporta che Ṭūsī lasciò Marāġa con un gruppo di discepoli e seguaci e si diresse verso Baġdād, dove morì. Cfr. Ragep, Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Memoir on Astronomy, vol. I, p. 15 e al-Kutubī, Fawāt al-wafayāt, op. cit., vol. III, p. 251, 12-13. 38 al-Ṣafadī, Kitāb al-Wāfī bi-l-wafayāt, op. cit., vol. I, p. 183; al-Kutubī, Fawāt al-wafayāt, op. cit., vol. III, p. 252.

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2.1. Opere di Ṭūsī39 Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī è uno dei grandi pilastri della storia intellettuale islamica. Con la sua immensa produzione ha lasciato un segno indelebile in campo teologico, filosofico, matematico e astronomico. Ha composto oltre centocinquanta opere, di cui circa venticinque in lingua persiana, consolidando e sistematizzando i più importanti e duraturi aspetti dell’insegnamento scolastico sciita. Una cospicua porzione dei suoi capolavori appartiene al periodo nizarita, che copre l’arco di circa tre decadi, le più proficue sia a livello filosofico che scientifico. L’intero corpus si caratterizza per brama di esplorazione timbrica e insofferenza nei confronti delle architetture codificate: egli predilige disomogeneità e disarticolazione a congruenza ed equilibrio. Una progettazione ad ampio respiro, impiantata su eterogenee, quanto solide basi, come se il nastro unico di cui è fatta una melodia si tingesse di colori differenti, producendo l’illusione acustica della polifonia. La curiosità bruciante per ogni cosa riguardante l’uomo e lo spirito gli forniva l’alimento perpetuo a una creatività in costante accrescimento, un anelito al grandioso e al magniloquente. Di seguito verranno sinteticamente presentati i suoi testi più rappresentativi, oltre all’enumerazione di alcuni trattati minori che svolgono ruoli ancillari e imprescindibili ai suoi massimi sistemi.

39 Cfr. la lista delle opere di Ṭūsī in C. Brockelmann, Geschichte der Arabischen Litteratur, Erster Supplementband, Brill, Leiden 1937, pp. 924-933; Id., Geschichte der Arabischen Litteratur, Zweite den Supplementbänden Angepasste Auflage, Erster Band, Brill, Leiden 1943, pp. 670-676. Cfr. Id., History of the Arabic Written Tradition, vol. I, transl. by J. Lameer with a Preface by J. J. Witkam, Brill, Leiden – Boston 2016, pp. 588-593.

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Aḫlāq-i Muḥtašamī40 e Aḫlāq-i Nāṣirī41 L’Aḫlāq-i Muḥtašamī è stato composto intorno al 630/1233 in onore del patrono, Nāṣir al-Dīn, governatore del Quhistān, il quale aveva deciso le linee del testo e impostato lo schema generale del discorso. Trattasi di uno scritto di etica, nonché di un compendio di didattica per insegnanti e un vademecum di princìpi per predicatori. Il testo consta di quaranta capitoli riguardanti la conoscenza di Dio, la profezia, l’imamato e il sufismo. Contiene citazioni estrapolate dal Corano, dagli aḥādīṯ, dalla Sunna, dai detti del profeta e degli imām sciiti, e riporta passi di poeti, mistici, pensatori ismailiti e filosofi greci. Lo scopo principale del testo è quello di definire dei princìpi etici che possano essere osservati da ogni persona retta e giusta che conosce il proprio Dio ed è pronta a combattere per il cammino divino. Ṭūsī dedica inoltre un capitolo alla denuncia del mondo e dei suoi scopi materiali, oltre ad approfondire alcune tematiche riguardanti l’amore e l’odio, la conoscenza e la pratica, il bene e il male, la povertà e la ricchezza, ecc. L’Aḫlāq-i Nāṣirī è la più importante composizione di etica e di filosofia politica di Ṭūsī e possiede un tenore nettamente più filosofico rispetto all’opera precedente. Di impronta ismailita, è probabilmente lo scritto più

al-Ṭūsī, Aḫlāq-i Muḥtašamī, M. T. Dānišpažūh (ed.), Dānišgah-i Tehran, Tehran 1339 š./1960, 1361 š./1982 (versione in arabo Beirut 1981). Cfr. l’analisi del testo di Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», pp. 559-561. 41 Id., Aḫlāq-i Nāṣirī, M. Mīnuwī – ‘A. R. Ḥaydarī (eds.), Ḫwārazmī Publishers, Tehran 1356 š./1977; Id., The Nasirean Ethics, translated from the Persian by G. M. Wickens, George Allen & Unwin Ltd, London 1964. Cfr. Id., The Arabic Version of Ṭūsī’s Nasirean Ethics. With an Introduction and Explanatory Notes by J. Lameer, Brill, Leiden – Boston 2015. Vd. anche Ǧalāl al-dīn Humā’ī, «Muqaddima-yi qadīm-i Aḫlāq-i Nāṣirī», Maǧalla-yi Dāniškada-yi Adabiyyāt-i Dānišgāh-i Tehran, 3 (1956) 17-25 e anche in Mudarrisī Zanǧānī, Sarguḏašt, pp. 125-130. Il supplemento all’Aḫlāq-i Nāṣirī venne aggiunto da Ṭūsī nel 1264. La seconda versione è stata stampata a Lahore nel 1952. Per un esaustivo sommario del testo cfr. S. H. Siddiqi, «Nāṣir al-Dīn al-Ṭūsī», in M. M. Sharif, A History of Muslim Philosophy, I, chapter XXIX, O. Harrassowitz, Wiesbaden 1963, pp. 567-579 e Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», pp. 562-574. 40

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influente del genere e il più noto compendio di etica mai composto nella Persia medievale. La prima parte del lavoro è redatta durante il soggiorno del filosofo presso la corte del suo patrono, nel 633/1235. Successivamente, quando gli Ismailiti vengono sconfitti dai Mongoli e Ṭūsī si trasferisce al servizio di Hūlāgū, il testo viene rivisto e l’autore elimina alcuni riferimenti espliciti al credo ismailita. Il lavoro nasce da un desiderio del patrono Nāṣir al-Dīn, il quale chiede espressamente a Ṭūsī la traduzione in persiano del Kitāb al-ṭahāra o Tahḍīb al-aḫlāq di Abū ‘Alī Aḥmad Miskawayh al-Rāzī, zoroastriano persiano convertito all’Islām. L’Aḫlāq-i Nāṣirī, corredato da aggiunte parziali e commenti, si basa per la prima parte sul lavoro di Miskawayh, che a sua volta fa riferimento all’Etica Nicomachea di Aristotele e ad alcuni testi platonici e neoplatonici; per la seconda parte, Ṭūsī attinge ad al-Fārābī (al-Madīna al-fāḍila), oltre a Miskawayh (Ḥikma al-ḫālida). Quest’ultimo testo era però centrato sulla descrizione della disciplina morale e ignorava l’economia domestica e la disciplina politica, considerate invece da Ṭūsī branche fondamentali della filosofia pratica. Con riguardo al contenuto, la sezione di filosofia morale è una specie di sommario e non una mera traduzione dell’opera di Miskawayh. La forma e anche la suddivisione degli argomenti sono infatti frutto del maestro. Il testo consta di un’introduzione sulla classificazione della filosofia, che i pensatori islamici avevano ereditato da Aristotele, di tre trattati concernenti l’etica, l’economia domestica e la politica, e di una conclusione. Allo scopo di coadiuvare gli uomini nel raggiungimento dei più alti ideali, la filosofia è suddivisa in teoretica (ḥikmat-i naẓarī) e pratica (ḥikmat-i ‘amalī). La prima possiede tre categorie: metafisica, matematica e scienze naturali. Ognuna di queste è suddivisa in varie sezioni, in numero maggiore o minore. Alla logica viene attribuita una posizione separata e indipendente, sempre all’interno della filosofia teoretica, ed è considerata uno strumento per acquisire altre forme di conoscenza. La metafisica concerne in prima istanza Dio, gli intelletti, le anime e i princìpi governanti le loro azioni, la cui conoscenza è definita «teologia» (‘ilm-i ilāhī). Secondariamente, essa si occupa della conoscenza dei princìpi generali governanti gli esseri esistenti, ovvero unità (waḥda), molteplicità (kiṯra), necessità (wuǧūb), possibilità (imkān), creaturalità (ḥuduṯ), pre-eternità (qidam), la cui conoscenza è denominata «filosofia prima» (falsafah-i ūlà’). La matematica si suddivide in: geometria, aritmetica, astronomia e musica. Le scienze naturali si occupano di: tempo, spazio, movimento,

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finito e infinito; oggetti semplici e composti; elementi principali; terra e clima; botanica; biologia; mineralogia; psicologia. Tra le suddivisioni minori delle scienze ci sono anche medicina, astronomia e agricoltura. La filosofia pratica consiste di etica (tahḏib-i aḫlāq), politica domestica (tadbīr-i manzil), politica nazionale o sociologia (sīyāsat-i mudun). L’etica si differenzia in princìpi (mabādī) e obiettivi (maqāṣīd). La prima parte è suddivisa in sette capitoli e l’argomento fondamentale è l’anima umana (nafs-i insānī), nonché la sua definizione di sostanza astratta (ǧawhar-i basīṭ) e la sua esistenza. Il settimo e ultimo capitolo della sezione è dedicato alle definizioni di bene (ḫayr) e di felicità (sa‘āda), in quanto obiettivi ultimi dell’anima umana. Ṭūsī fa riferimento a Socrate, Pitagora, Platone, Aristotele, Porfirio e Avicenna. Nella seconda sezione di etica, Ṭūsī discute gli obiettivi di questa branca della filosofia e della possibilità di modificare l’attitudine di un individuo attraverso l’educazione, enumerando così le differenti tipologie di virtù. La sezione di politica dell’Aḫlāq-i Nāṣirī si occupa di economia domestica e di politica nazionale. La prima parte si basa sull’interpretazione di Avicenna degli Oeconomica di Aristotele e si declina in cinque capitoli. Ṭūsī sottolinea l’importanza della famiglia e descrive le caratteristiche di una buona casa. In seguito, l’autore passa a trattare la carriera, la parte finanziaria e il ruolo della moglie, che salvaguarda la ricchezza e procrea. L’ultimo capitolo si occupa del comportamento da assumere nei confronti dei servi e degli schiavi, considerati estensioni delle braccia e degli occhi dell’uomo, differenziandone tre categorie. La parte finale è dedicata agli stereotipi caratteriali degli Arabi, dei Persiani e dei Turchi. La sezione sulla politica delle città, divisa in otto capitoli, argomenta l’importanza della civiltà. Tra gli scritti di etica di Ṭūsī è presente anche una traduzione dell’alAdab al-waǧiz li’l-walad al-saġīr di al-Muqaffa‘, un testo di ammonimento dedicato ai figli e riguardante la necessità di obbedire a Dio. Questa traduzione costituisce un legame diretto alle fonti zoroastriane.

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Sayr wa sulūk (Contemplazione e azione)42 Dopo aver terminato l’Etica Nasirea, Ṭūsī si dedica alla stesura di un’autobiografia, la cui autenticità è stata spesso al centro di contestazioni. Essa prende le sembianze di una lettera, personale e confidenziale, indirizzata al capo dā‘ī della missione ismailita, Muẓaffar ibn Muḥammad. Redatta in uno stile altamente condensato e a tratti astratto, Sayr wa sulūk narra il viaggio spirituale e contemplativo di Ṭūsī e contiene pagine di forte carica confessionale e dottrinale, oltre alla trascrizione di alcuni suoi segreti raccoglimenti. L’autore rammenta la sua nascita, la sua educazione e i suggerimenti del padre e dello zio che lo indirizzavano verso lo studio di tutte le branche dello scibile conoscitivo e lo esortavano ad ascoltare le opinioni di tutte le fazioni dell’Islām. Ṭūsī interpreta alcuni particolari aneddoti e accadimenti della sua vita con l’intendimento di trasfigurarli in una nuova dimensione espressiva, atemporale, che si identifica con quella ricerca di conoscenza che lo ha accompagnato durante il cammino verso la fede ismailita. Si distinguono una prima fase essoterica, trafelata e convulsa, coincidente con i suoi studi filosofici e teologici, in cui Ṭūsī si occupa essenzialmente di giungere alla conoscenza di Dio tramite il solo uso dell’intelletto. Una seconda, esoterica, distesa e crepuscolare, in cui l’autore riconosce i limiti della ragione speculativa e le contraddizioni risultanti da essa. La fase esoterica si sviluppa dopo il suo incontro con Šihāb al-Dīn e la fortuita conoscenza dei Fuṣūl-i muqaddas (Capitoli sacri), i sermoni dell’imām nizarita Ḥasan ‘Alà Ḏikrihi al-Salām, che lo avevano indotto al cammino verso la moschea ismailita. Ṭūsī raffigura questo processo in termini di una serie di stadi progressivi, scoprendo un numero di veli che lo portano a quella che lui definisce ‘ilm-i yaqīnī (conoscenza affidabile o certa). Questa fase, basata principalmente sugli insegnamenti del da‘wa ismailita, diviene a lui accessibile soltanto dopo la conversione e rappresenta una successione di contemplazioni sui più intimi significati caratterizzanti il principio di un maestro universale accessibile all’umanità. Nel corso della rivelazione di questo disvelamento, Ṭūsī tratta una sistematica elaborazione del ta‘līm (insegnamento autorevole) e parla infatti della necessità di un maestro, delle qualità che egli dovrebbe possedere e dell’ottenimento della perfezione attra-

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al-Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit.

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verso i suoi insegnamenti. Da ciò deriva la crescente consapevolezza dell’autore che la natura sovrarazionale della conoscenza che lui stava cercando non poteva essere raggiunta senza l’intervento di una guida. La restante parte del testo è costituita dai fondamenti filosofici della teoria ismailita dell’imamato, elucidata in dettaglio nello scritto composto sette anni più tardi, il Rawḍat al-taslīm. Nonostante la posizione di Ṭūsī fosse all’epoca alquanto delicata, l’autobiografia contiene eventi cruciali della sua vita, mostrandone uno scorcio importante e mettendo in risalto il suo crescente desiderio di verità, sapienza e saggezza. L’intento era quello di presentare una dichiarazione sulle personali convinzioni religiose ed esporre un resoconto della sua ricerca riguardante la conoscenza del divino, ricerca che lo aveva appunto avvicinato alla fede ismailita. Rawḍat al-taslīm (Il Paradiso della Sottomissione)43 e altri trattati di credo ismailita L’attribuzione di alcuni testi del periodo ismailita dell’autore è stata spesso oggetto di controversie da parte degli studiosi, anche se la paternità del Rawḍat al-taslīm, la maggiore opera del tardo periodo Alamūt e completata nel 640/1243, sembra ormai essere stata accertata. Il testo è anche conosciuto come Taṣawwurāt (Concetti o Nozioni), in quanto ogni taṣawwur introduce ognuno dei ventisette capitoli. Si tratta di un compendio magistrale di pensiero ismailita, nonché dell’unica fonte per lo studio delle dottrine dei Nizariti sotto la leadership del secondo Maestro di Alamūt, ‘Alà al-Dīn Muḥammad III (r. 618-653/1221-1255). Lo scritto riflette, infatti, la visione dell’Islām che

al-Ṭūsī, The Rawḍatu’t-Taslīm, commonly called Taṣawwurrāt, W. Ivanow (ed.), E. J. Brill, Leiden 1950 (The Ismaili Society Series A, No. 4); The Paradise of Submission, op. cit.; La Convocation d’Alamût: Somme de Philosophie Ismaélienne. Rawdat al-Taslīm (Le Jardin de la vraie fois), trad., introd. et notes par C. Jambet, Verdier – Unesco, Lagrasse – Paris 1996; «The Garden of Submission, or Notions. Rawḍa-yi taslīm or Taṣawwurāt» (estratti), in S. H. Nasr – M. Aminrazavi (eds.), An Anthology of Philosophy in Persia, vol. II: Ismaili Thought in the Classical Age, I. B. Tauris Publishers, London – New York, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 2008. Translated for this volume by Latimah Parvin Peerwani from Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Taṣawwurāt, ed. S. J. Badakhchani in his The Paradise of Submission, or Notions (Ph.D. dissertation, Oxford University 1989), pp. 20-33, 35-39, 46-51, 379-401. 43

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contraddistingueva la comunità a quel tempo, quando due eventi, apparentemente contradditori e da poco accaduti, avevano bisogno di essere interpretati e armonizzati: la proclamazione della resurrezione (qiyāma) da parte di Ḥasan II nel 559/1164 e la restaurazione dell’osservazione formale della šarī‘a sotto Ǧalāl al-Dīn Ḥasan III nel 607/121044. L’opera, che mostra senza dubbio la fase matura della creatività di Ṭūsī, è una guida etico-escatologica per coloro che si accingono a percorrere un cammino dal mondo fisico a quello spirituale e tratta argomenti quali ontologia, epistemologia, cosmologia, escatologia, dottrina dell’imamato e soteriologia. Seguendo una struttura essenzialmente neoplatonica, per quel che concerne la dottrina dell’emanazione, il testo contiene espliciti riferimenti alla cosmologia di origine ismailita, anche se concettualizzata tramite una terminologia filosofica derivante dalla tradizione greca. Lo scritto, particolarmente ispirato, procede da una discussione sulla creazione del cosmo fino a giungere a una trattazione sul ruolo del profeta e dell’imām, in quanto rappresentanti e prototipi di beatitudine e perfezione che educano l’anima umana attraverso la rivelazione e l’interpretazione.

Vd. al-Ṭūsī, Paradise of Submission, op. cit., Introduction by H. Landolt, pp. 1-2: «The sharī‘at is evidently recognised in our text (paras 426-53), though only as a form taken by the spiritual Truth (ḥaqāyiq) in this material world of relative values (iḍāfāt) and is discussed at lenght in terms of the ‘seven pillars of Islam’ along classical Fatimid lines of interpretation. The present time, the author suggests (para 345), is a new ‘epoch of concealment’ (rūzgār-i satr), and as the Imams themselves have imposed ‘prudence’ (taqiyya) as a religious duty, the inner truth (ḥaqīqat) must remain hidden in the hearts of the believers. By referring to an ‘epoch of concealment’, he is apparently alluding to ancient mythological conceptions of cyclical time in Ismaili ‘hiero-history’, which are explained earlier in the text (paras 173-75 and 319-21). These ‘cycles’ (dawr, pl. adwār) are, however, of rather cosmic dimensions since they involve altogether seven times seven thousand years, with major periods dominated by the rule of Prophetic Law or ‘concealment’ (dawr-i satr), being both preceded and followed each time by periods of Resurrection or ‘unveiling’ (dawr-i kashf). Yet, despite his appeal to ‘concealment’ and ‘prudence’ as applicable to the present time, our author is remarkably eloquent about the eternal reality manifest in the person of the Imam of the time (muḥiqq-i waqt), the ever present manifestation of the divine ‘World’ (kalima-yi a‘lā) or ‘Command’ (amr; e.g. paras 266-71, 330, 350-82), and he clearly reasserts the position of Ḥasan ‘alā dhikrihi al-salām as the ‘Lord of the Resurrection’ (qā’im) who came 500 plus forty years after the Prophet as the ‘second blast of the trumpet of the Resurrection’ (i.e., forty years after Ḥasan-i Ṣabbāḥ, d. 518/1124, the ‘first blast of the trumpet’; paras 475-82)». 44

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La volontà del Divino, il suo comando (amr)45 e la sua parola (kalima) si incarnano nell’imām o nel profeta e comunicano attraverso l’emanazione (fayḍ) al primo intelletto. Da questo emana l’anima universale (nafs-i kullī), il dā‘ī, ovvero il profeta Muḥammad, seguito dall’anima umana. Associata a questa cosmologia appare la teoria ismailita dell’imamato, la dottrina del satr, il periodo di occultamento della ḥaqīqā nel bāṭin o dimensione esoterica della religione. Il fatto che l’imām abbia completa conoscenza rende il totale auto-asservimento a lui obbligatorio. Un prerequisito è l’osservanza degli obblighi religiosi, non solo seguendo la šarī‘a, ma anche esotericamente e nell’ascesa dell’anima dalla posizione di potenzialità alla perfezione dell’accertamento della conoscenza ragionata (kamāl-i taḥqīq‘ilm-i ‘aqlī). Il testo contiene anche descrizioni di rituali musulmani e pratiche etiche per i seguaci dell’imām, all’interno di un più ampio significato ontologico ed epistemologico. Ecco dunque configurarsi le tre categorie principali di uomini: quelli che appartengono alla Gente della contraddizione (ahl-i taḍādd); quelli che possiedono una natura esoterica e vivono soltanto nel mondo delle apparenze, ovvero la Gente della gradazione (ahl-i tarattub). Quest’ultimo gruppo ha trasceso il livello della šarī‘a e rappresenta la élite spirituale. Codesta stazione è raggiungibile soltanto attraverso la conoscenza offerta da un maestro divinamente guidato (mu‘allim-i rabbānī) e conducendo una vita virtuosa basata sulla conoscenza metafisica, non soltanto sullo sforzo della mente umana. Il terzo gruppo è la Gente dell’unione (ahl-i waḥdat), la élite della élite che ha raggiunto unità con la verità (ḥaqīqa), pervenendo in tal modo alla saggezza perenne e al significato più profondo e intimo della religione. Un dato interessante viene registrato nel taṣawwur IV, che chiaramente identifica il Primo Intelletto con l’Intelletto Agente (‘aql-i fa‘‘āl o ḥuǧǧa). Questa associazione si accorda con la concezione prettamente ismailita, contro il consueto avicennismo di Ṭūsī. Contraddice, allo stesso tempo, anche altre parti dell’opera in cui viene presentata la classica cosmologia dei dieci intelletti, ove il decimo è appunto rappresentato dall’Intelletto Agente. Il principale proposito del compendio non è quello di spiegare l’origine dell’universo, bensì di provvedere all’orientamento dell’uomo in questo

Amr inteso come entità metafisica distinta tra Dio e il Primo Intelletto, concezione comune al pensiero classico di tradizione ismailita. 45

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mondo e al suo ultimo divenire. Questo tema viene trattato nel taṣawwur VIII, sull’anima umana, che è essenzialmente un sommario di nozioni avicenniane. Hermann Landolt ha giustamente evidenziato un interessante passaggio relativo all’anima immaginativa (nafs-i ḫayālī) e al corpo immaginativo (hay’a), mantenuto dall’anima dopo la morte fisica46. Il passaggio in questione prepara il campo ad una concezione originale sulla resurrezione del corpo. Vengono di seguito trattate le dottrine del ta‘līm e della qiyāma. Tawallā wa tabarrā (Solidarietà e dissociazione), Maṭlūb al-mu’minīn (Disposizione per i fedeli), Āġāz wa anǧam (Principio e fine)47 Tawallā wa tabarrā è uno dei primi testi composti nel Quhistān, prima del soggiorno ad Alamūt. Questo è evidente dalla dedicatoria iniziale rivolta al suo primo patrono, Naṣīr al-Dīn, per il quale Ṭūsī compose altri trattati. Tawallā e tabarrā sono concetti coranici e corrispondono al principio sciita della walāya, primo pilastro della fede ismailita. La walāya richiede il riconoscimento degli imām discendenti da ‘Alī ibn Abī Ṭālib e la dimostrazione di assoluta devozione e obbedienza a loro. L’obiettivo del filosofo non è tanto ribadire un noto principio teologico, quanto quello di delineare il processo interiore attraverso cui la solidarietà possa essere coltivata e poi ottenuta dall’uomo. Ṭūsī descrive le modalità attraverso cui giungere alla perfezione spirituale, tramite la solidarietà ad ‘Alī e agli imām. Insiste di seguito sulla dissociazione dagli istinti primordiali, quali lussuria, rabbia, odio, identificati con l’anima animale (nafs-i bahīmi). Essi vanno sostituiti

Ibid., p. 8. Id., Shi‘i Interpretations of Islam: Three Treatises on Theology and Eschatology. A Persian edition and English translation of Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Tawallā wa tabarrā, Maṭlūb al-mu’minīn and Āghāz wa anjām by S. J. Badakhchani, I. B. Tauris Publishers, London – New York, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 2010. Tawallā wa tabarrā anche in Aḫlāq-i Muḥtašamī, M.T. Dānišpazhūh (ed.), op. cit., pp. 562-570. Vd. anche Id., Two Early Ismaili Treatises, W. Ivanow (ed.), Persian text with an introductory note, A. A. A. Fyzee, Bombay 1933 (contiene Maṭlūb al-mu’minīn). Per quanto riguarda l’Āġāz wa anǧam, Mullā Ṣadrā ne inserì una traduzione araba nel suo famoso commento al Corano, Mafātīḥ al-ġayb, Tehran 1391/1971, pp. 649-663, Persian tr. M. Ḫwāǧawī, Tehran 1404/1983, pp. 992-1087. 46 47

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con castità, pazienza, altruismo e solitudine fino al controllo dell’intelletto (nafs-i gūyāyi insānī), rispettando i dettami dell’imām. Attraverso questa combinazione, è possibile tramutare le proprie passioni e ottenere riḍà (appagamento), taslīm (sottomissione) e īqān (certezza), grado ultimo in cui si rinuncia a tutti i desideri di questo mondo. Ai fini di questo percorso è indispensabile la presenza di una guida, designata da Ṭūsī farmāndih-i ḥaqīqa (insegnante della verità) e mu‘allim-i dīn (maestro della religione). Lo scopo finale è quello di perfezionare la fede divenendo parte del privilegiato Popolo dell’unità (ahl-i waḥda). Attraverso la trasformazione generata da questo processo, giunge il classico messaggio di fede ismailita riguardante la dottrina della resurrezione (qiyāma). Maṭlūb al-mu’minīn viene compilato intorno al 640/1243, probabilmente ad Alamūt o nella vicina fortezza di Maymūn Diz ed è dedicato all’imām ‘Alà al-Dīn Muḥammad, il quale chiede la stesura di un sommario di concetti estratti dai Fuṣūl-i mubārak dell’imām Ḥasan ‘Alà Ḏikrihi al-Salām e dalla letteratura da‘wa48. È un breve scritto indirizzato agli iniziati nizariti e ai membri ordinari della comunità e consta di quattro temi classici: escatologia, caratteristiche essenziali di un credente ismailita, dottrina della solidarietà e della dissociazione, esegesi esoterica della legge religiosa. Ṭūsī pone l’accento sul concetto di mard-i ḥaqīqa (uomo della verità) che soddisfa i requisiti dello ẓāhir e del bāṭin, e anche su quelli di origine e di destino (mabda’ wa ma‘ād). Nei capitoli finali l’autore si sofferma sui sette pilastri ismailiti. Āġāz wa anǧam, anche conosciuto come Taḏkira (Esortazioni), è il più importante trattato composto da Ṭūsī su temi escatologici. Lo scopo del maestro è quello di presentare questi concetti così come resi dalla Gente dell’intuizione (ahl-i bīniš). È suddiviso in venti capitoli riguardanti la relazione tra il mondo fisico e quello spirituale, l’esistenza e la non-esistenza, l’origine e il ritorno dell’anima umana, il manifesto e l’occulto, la

48 Secondo Badakhchani, in al-Ṭūsī, Shi‘i Interpretations of Islam: Three Treatises on Theology and Eschatology, op. cit., p. 16, Wladimir Ivanow, nell’introduzione a Two Early Ismaili Treatises, traduce in modo non corretto l’espressione ‘ḥaḍrat-i ‘ulyā’ (nobile presenza), riferendosi erroneamente a una nobildonna appartenente alla casa dell’imām. La stessa espressione viene utilizzata dal poeta Ḥasan-i Maḥmūd, nel suo Dīwān-i Qā’imiyyāt, per indicare l’imām ‘Alà’l-Dīn.

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morte, la resurrezione, il giudizio, il paradiso e l’inferno e altri concetti coranici riguardanti l’aldilà. La preoccupazione principale di Ṭūsī è quella di elucidare i significati esoterici ed etici dell’escatologia del Corano da un punto di vista strettamente ismailita. Si trovano in esso copiose citazioni tratte dal testo sacro, dalle tradizioni del profeta e degli imām. L’accento è posto sul processo che Ṭūsī definisce sirr-i qiyāma (il segreto della resurrezione), celato anche ai profeti e non comprensibile da un’intelligenza parziale o dagli esoterici della rivelazione, piuttosto accessibile a un tipo di intelligenza che l’autore, seguendo i Fuṣūl, definisce ‘aql-i qiyāmati-yi āḫiratī (intelligenza resurrezionale dell’aldilà). Il filosofo conclude il trattato facendo nuovamente riferimento all’essenza della resurrezione, esplicitata nella famosa tradizione profetica che lui riporta negli ultimi tre trattati menzionati: «This world is forbidden to the people of the Hereafter, and the Hereafter is forbidden to the people of this world, and both of them are forbidden to the peolple of God»49. Asās al-iqtibās (Fondamenti di inferenza)50 Il più importante testo di logica terminato nel 642/1244 e redatto in persiano. Rukn al-Dīn Muḥammad ibn ‘Alī al-Fārsī al-Astarābāḏī, contemporaneo di Ṭūsī, lo tradusse in arabo. Suddiviso in nove capitoli e strutturato nello stesso stile utilizzato da Avicenna per i lavori di logica, lo scritto contiene una disanima sulla classificazione che ha inizio con l’introduzione porfiriana seguita dagli otto libri dell’Organon aristotelico: Isagoge, Categorie, De Interpretatione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Elenchi Sofistici, Retorica e Poetica. L’Asās al-iqtibās è stato definito il contributo più significativo, in lingua persiana, alla logica del tredicesimo secolo, per la precisione e i dettagli con cui vengono esposti gli argomenti. Esso rappresenta indubbiamente un’estensione analitica della problematica della sostanza all’interno dell’ontologica islamica.

49 Citazione presente nei tre trattati sopraelencati. Per i riferimenti testuali vd. Id., Shi‘i Interpretations of Islam: Three Treatises on Theology and Eschatology, op. cit., p. 20. 50 Id., Asās al-iqtibās, M. T. Mudarris Raḍawī (ed.), Intišārāt-i Dānišgāh-i Tehran, Tehran 1988. Cfr. P. Morewedge, «The Analysis of ‘Substance’ in Ṭūsī’s Logic and the Ibn Sīnian Tradition», in Essays on Islamic Philosophy and Science, G. H. Hourani (ed.), SUNY, Albany, New York 1975, pp. 158-159.

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Tra gli altri trattati di logica del maestro citiamo il Taǧrīd al-manṭiq, redatto in arabo e poi commentato da ‘Allāma Ḥillī51. Ḥall muškilāt al-Išārāt (Risoluzione delle difficoltà delle Išārāt)52 Tra gli scritti in difesa della filosofia avicenniana, il testo più rappresentativo di Ṭūsī è il commento alle Išārāt wa’l-tanbīhāt, dal titolo Ḥall Muškilāt al-Išārāt o più comunemente conosciuto Šarḥ al-Išārāt. Venne composto sotto richiesta del principe ismailita al-Manṣūr, poiché la critica ostile e diffamatoria di Faḫr al-Dīn al-Rāzī, redatta verso la fine del XVI/XII secolo, aveva attirato l’attenzione del Muḥtašam Šihāb al-Dīn, il quale auspicava un’esegesi di filosofia peripatetica53.

51 ‘A. Ḥillī, Ǧawhar al-naḍīd fī šarḥ Kitāb al-Taǧrīd, M. Bīdārfar (ed.), Intišārāt-i Bīdār, Qum 1413/1992. 52 al-Ṭūsī, Ḥall Muškilāt al-Išārāt, in Ibn Sīnā, al-Išārāt wa-l-Tanbīhāt ma‘a Šarḥ Naṣīr al-dīn Ṭūsī, S. Dunyā (ed.), Dār al-Ma‘ārif, Cairo 1957-1960 (vd. le altre edizioni e traduzioni in Bibliografia). Cfr. R. Wisnovsky, «Avicennism and Exegetical Practice in the Early Commentaries on the Ishārāt», Oriens 41 (2013) 349-378; Id., «Towards a Genealogy of Avicennism», Oriens, 42 (2014) 323-363; J. Lameer, «Towards a New Edition of Avicenna’s Kitāb al-Ishārāt wa-l-tanbīhāt», Journal of Islamic Manuscripts, 4 (2013) 199-248. Vd. Šarḥ al-išārāt li’-Ḫwāǧa Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī wa li’l-Imām Fāḫr al-Dīn al-Rāzī, 2 vols., Qum 1983. 53 Cfr. Id., Contemplation and Action, op. cit., pp. 30-31: «Then, in the course of my search, I frequently heard from travellers to the [surrounding] countries about the scholarly virtues of the auspicious master, Shihāb al-Dīn – may God be pleased with him – and his deep insight into different fields fo knowledge. Then I sought a suitable opportunity and, through the intermediary of a friend who had an association with him, I sent him a letter containing two or three questions about those points in the discourse of the philosophers which I had found to be contradictory and about which I had some observations of my own. Then I was granted the honour of a reply from him – may God be pleased with him – in the handwriting of the master, the chief scribe, Ṣalāḥ al-Dīn Ḥasan – may his glory endure – and in answer to the questions he said: ‘For a reason which can only be explained face to face, I am not [in a position] to convey any scholarly communication [in writing].’ [§ 15] Shortly after this, I took the opportunity, while on a journey from Iraq to Khurāsān, to pass through the glorious territory of [Gird] Kūh – may God, the exalted, protect it – and for two or three days [was able to] be in Shihāb al-Dīn’s company and hear something of the da‘wat doctrines from his company and hear something of the da‘wat doctrines from his own mouth. I copied

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Appartenente all’ultima fase ismailita dell’autore ad Alamūt, l’opera vide la luce intorno al 643/1246, dopo una lunga gestazione trascorsa fra ripensamenti, crisi e altri lavori inframezzati. Trattasi di un lavoro monumentale, in cui il nostro maestro, intendendo salvare l’ultima summa di Avicenna, risponde a tutte le obiezioni di colui che viene definito «l’eccellente commentatore» (al-fāḍil al-šāriḥ). Rāzī si era posto in una prospettiva teologica essenzialmente aš‘arita, sostenendo che i princìpi dottrinali della fede potessero essere dimostrati teologicamente senza bisogno di ricorrere alla filosofia. Ṭūsī risponde alle critiche mosse dal suo virtuale interlocutore con estremo rigore intellettuale, riportando al massimo splendore il pensiero avicenniano e creando, allo stesso tempo, un testo di riferimento per l’insegnamento del pensiero islamico. Ad oggi, il suo commento viene considerato dagli ḥukamā’ iraniani uno dei quattro o cinque pilastri tra gli scritti filosofici islamici di ogni tempo. Il Kitāb al-Išārāt wa’l-tanbīhāt di Avicenna, ad eccezione della matematica che non viene trattata, era suddiviso secondo la classificazione tradizionale in logica, filosofia naturale, metafisica e misticismo. L’ultima sezione, composta da tre capitoli, era dedicata allo studio della felicità e della beatitudine, alle stazioni dei mistici e alla rivelazione. Ibn Sīnā era giunto alla possibilità di una conoscenza intuitiva, attraverso atti di intellezione, come forma superiore e complementare a quella discorsiva. Lo scritto fu tra i più commentati in epoca pre-safavide54, grazie a una conver-

down his words and derived much [benefit] from them. Since the requisites for staying with him and remaining in that place had not been prepared – for several reasons which I need not go into – I journeyed on from there to Khurāsān». Ibid., p. 57, n. 7: «Shihāb al-Dīn’s full name, as given by Qāḍī Minhāj-i Sirāj in Ṭabaqāt-i Nāṣirī, Eng. tr. H. G. Raverty (New Delhi, 1970), vol. 2, p. 1197, was Abū al-Fatḥ Shihāb Manṣūr. According to Minhāj, he was the governor of the province of Quhistān until 621/1224, and says: ‘At that time the Muḥtashim was Shihāb al-Dīn … I found him a person of infinite learning, with wisdom, science and philosophy in such wise that a philosopher and sage like unto him there was not in the territory of Khurāsān. He used greatly to cherish poor strangers and travellers …’ He further adds that great men of learning, such as Afḍal al-Dīn Bāmyānī and Shams al-Dīn Khusraw Shāh, attended his court. It was Shihāb al-Dīn who persuaded Ṭūsī to write a commentary on Ibn Sīnā’s al-Ishārāt wa al-tanbīhāt» (Tehran 1377/1957), pp. 2-3». 54 Tra gli altri citiamo: Šaraf al-Dīn al-Mas‘ūdī (d. shortly after 582/1186), Faḫr al-Dīn al-Rāzī (d. 606/1210), Naǧm al-Dīn Naǧuwānī (fl. 626/1229), Sayf al-Dīn al-

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genza di fattori di ordine tematico, stilistico e cronologico. Redatto in uno stile compatto, e in quanto testo appartenente alla fase finale della speculazione avicenniana, esso captò maggiormente l’attenzione degli studiosi, che trascurarono per molto tempo il più lungo e dettagliato Kitāb al-Šifā’. Il lavoro di Ṭūsī reintroduce il testo avicenniano nei circoli scolastici e da quel momento diviene il libro di riferimento per lo studio della filosofia islamica in molti centri del Vicino Oriente. L’autore intende lo scritto come un’intera ri-concettualizzazione del sistema filosofico avicenniano, in conformità con gli ideali della scienza aristotelica e come previsto negli Analitici Posteriori e nel Kitāb al-Burhān: Know that this namaṭ includes discussions, some of which pertain to the natural [sciences] and others to [first] philosophy. That is because when the First Teacher [Aristotle] laid out the sciences, he began with natural things, which are prior relative to us, and then finished up with metaphysical things, which are prior in existence relative to the thing itself, moving step-by-step in laying out the sciences from the principles of sensible things to sensible things and from to intelligible things. (I, preface, 139 [23])55 […] The Shaykh [Avicenna] also wanted to begin with physics, but with the condition that he removes from it the [various] necessary promissory notes, [which pass] from one of the two sciences to the other [namely,

Āmidī (d. 641/1243), Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, Ibn Kammūna (676-1277), Q. al-Šīrāzī (710-1310), ‘Allāmah al-Ḥillī (726H/1325-1326), J. al-Dawānī (907-1501). 55 J. McGinnis, «Naṣir al-Dīn Ṭūsī (d. 1274) Sharḥ al-Ishārāt», in K. El-Rouayheb – S. Schmidtke (eds.), The Oxford Handbook of Islamic Philosophy, Oxford University Press, New York 2017, pp. 327-328. Vd. anche a seguire p. 328: «According to alṬūsī, then, the organization of the Ishārāt moves from those things better known to us, that is, sensible effects, to those things better known in themselves and prior by nature, namely, sensible effects, to those things better known in themselves and prior by nature, namely the causes of those effects. Additionally, however, al-Ṭūsī claims that earlier philosophical presentations frequently assumed the subsequent conclusions of technical points carried on elsewhere in the corpus. Apparently this approach of assuming definitions, demonstrations, and discussions to be explained latter was something of a pedagogical nightmare. Avicenna eliminated this confusing feature from his presentation, at least according to al-Ṭūsī, and in its place prioritized every discussion according to what logically preceded it. Call al-Ṭūsī’s idea that the topics and discussions of the Ishārāt are ordered according to a decided priority relation, the Priority Principle».

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between physics and metaphysics] owing to the confusion [that they create] for the student. Thus, he needs to consider the investigations associated with matter, form, and their states first. Before he considers them, however, he needs to explain the physical issues upon which those investigations are based. Hence, it is necessary for him to introduce the refutation of the atom, because it is the last of the presupposed objectives that are based upon some topic requiring a further promissory note. Or this reason, this namaṭ includes discussions that are a mix of the two sciences. (I, preface, 140 [24]).

In prima istanza, lo Šarḥ al-Išārāt viene considerato dall’autore come un’esegesi chiarificatrice di filosofia peripatetica, un discorso esplicativo, piuttosto che una mera esposizione del proprio pensiero. Come egli stesso sottolinea: «I believe that ‘commentary’ [al-taqrīr] is different from ‘refutation’ [al-radd] and ‘exegesis’ [al-tafsīr] separate from a critique [al-naqd]»56. Quello che emerge è invece un’interpretazione di Ṭūsī che si identifica con la sua stessa metafisica, così come recentemente sottolineato da Jon McGinnis: It is difficult to speak of “al-Ṭūsī’s metaphysics” as distinct from his interpretation of Avicenna and the Ishārāt […] I do not try to distinguish the historical Avicenna from Ṭūsī’s Avicenna. Instead, I assume that al-Ṭūsī’s interpretation of the metaphysics of the Ishārāt is simply al-Ṭūsī’s own metaphysics57.

Occasionalmente, il maestro prende posizione contro Avicenna privilegiando Suhrawardī e Abu’l-Barakāt al-Baġdādī. Alcune divergenze tra Ṭūsī e il filosofo di Būḫārā, rintracciabili nel testo58, riguardano la natura della conoscenza di Dio, il numero delle sfere, la pre-eternità del mondo fisico, l’esistenza indipendente dell’intelletto, la conoscenza teoretica, la natura del corpo, della punizione divina e della fede. Gli ultimi tre capitoli del testo sono fondamentali per chiarire alcuni aspetti del misticismo islamico di Ṭūsī e sono stati considerati la migliore

Cfr. Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 550. 57 McGinnis, «Naṣir al-Dīn Ṭūsī (d. 1274) Sharḥ al-Ishārāt», pp. 329-330. 58 Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, pp. 185-195. 56

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sistematizzazione del sufismo mai composta. Un passaggio significativo concerne la presentazione di un racconto mistico di Avicenna, Salāmān wa Absāl59. Circa vent’anni dopo aver completato il suo Šarḥ al-Išārāt, Ṭūsī trova accidentalmente il racconto avicenniano e decide di aggiungere un sommario e un commento alla sua opera. Differentemente da Faḫr alDīn al-Rāzī, che aveva identificato Salāmān con Adamo e Absāl con il Paradiso, Ṭūsī modifica queste associazioni associando Salāmān al mistico peregrino, o ṭālib, e Absāl con il mistico oggetto del desiderio, o maṭlūb. Entrambi i commentatori ritennero comunque il testo molto utile allo scopo di decifrare l’ultima parte del testo avicenniano, dove si discute delle stazioni degli gnostici. Alla fine del commento, Ṭūsī integra la metafisica avicenniana con una metaetica: If al-Ṭūsī is correct, the Ishārāt, far from being an irreligious book, as many thought, is a highly religious work. For the shift to action theory and metaethics provides the philosophical basis for the applied ethics of the Ishārāt’s final sections. Moreover, the ethical mores that are elaborated there just are the Five Pillars of Islam: the Shahāda, five daily prayers, almsgiving, fasting, and pilgrimage. Also in these nimaṭ, if one takes al-Ṭūsī seriously, Avicenna provides a metaphysical, or naturalized, framework for understanding other traditional Islamic religious practices such as the stations of the knower ot mystic (maqāmāt al-‘ārif). Given that Islam is more like Judaism than Christianity in its preference for ortopraxy over orthodoxy, the Ishārāt’s substantiation of Islamic legal practices, at least as al-Ṭūsī reads the Ishārāt, would have made it an important work in Islamic philosophical theology60.

Successivamente, lo scritto di Ṭūsī venne ampiamente commentato da ‘Allāma al-Ḥillī (m. 726/1325), Quṭb al-Dīn Muḥammad al-Rāzī (m. 766/1364), Ẓahīr al-Dīn Ḥusayn al-Hamaḏānī (m. 1066/1655), Aqā Ḥusayn al-Ḫwānsārī (m. 1099/1687) e altri.

Nella letteratura simbolico-metaforica islamica due trattati sono presenti con il titolo di Salāmān e Absāl: uno è la traduzione di un originale greco di Ḥunayn ibn Išāq (m. 260/873), l’altro è quello di Avicenna, giunto a noi tramite il commento di Ṭūsī. 60 Ibid., p. 345. 59

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La seconda difesa avicenniana di Ṭūsī è contenuta nel suo Maṣāri‘ almuṣāri‘61, una refutazione dei Muṣāra‘at al-falāsifa62 del cripto-ismailita Tāǧ al-Dīn Muḥammad ibn ‘Abd al-Karīm al-Šahrastānī. Trattati di dogmatica Taǧrīd al-i‘tiqād (Catarsi degli articoli di fede, o Taǧrīd al-kalām)63 è il testo di teologia più significativo di Ṭūsī, insieme ai Fuṣūl (Capitoli)64. È un sommario in due sezioni sul kalām e sulla dogmatica duodecimana per il quale ‘Allāma Ḥillī scrisse un commento, Kašf al-murād fī šarḥ Taǧrīd al-i‘tiqād65. Il primo trattato del Taǧrīd riguarda i principi generali della teologia sciita, il secondo le sostanze e gli accidenti, il terzo il Principio e i Suoi attributi, il quarto la profezia, il quinto l’imamato e il sesto la resurrezione. La prima parte è una discussione analitica di metafisica e kalām ed esplora i concetti di esistenza e non-esistenza (wuǧūd wa’l-adam), quiddità (māhīya), causalità (‘illa wa’l-ma‘lūl), sostanza e accidenti (ǧawāhir wa’l-a‘rāḍ), corpi e forme (aǧsām wa’l-ṣuwar), predicabili. Questa sezione introduce le questioni filosofiche essenziali della metafisica avicenniana nella tradizione del kalām duodecimano. La seconda sezione tematizza la dogmatica su Dio, profezia, imāma e ma‘ād. I pochi argomenti filosofici di questa sezione si fondano essenzialmente su basi dottrinali derivanti dal Corano e dagli aḥādīṯ. Il Taǧrīd al-i‘tiqād divenne il testo

Ḥ. al-Mu‘izzī (ed.), Min Maḫṭūṭāt Āyat Allāh al-Mar‘ašī al-‘Āmma, 11, Maktabat Āyat Allāh al-Mar‘ašī, Qum 1405/1984. 62 ‘Abd al-Karīm al-Šahrastānī, Struggling with the Philosopher: A Refutation of Avicenna’s Metaphysics, W. Madelung – T. Mayer (ed. and tr.), I. B. Tauris, London 2001. 63 al-Ṭūsī, Taǧrīd al-i‘tiqād, with ‘Allāmah al-Ḥillī, Kašf al-murād fi šarh tağrid al-i‘tiqād, edited, annotated and translated into Persian with additional commentaries by Ḥaǧǧ Šayḫ Abu’l-Ḥasan al-Ša‘rānī, Tehran 1974, 1977; Altra edizione Beirut 1988. Taǧrīd al-i‘tiqād, M. J. H. al-Ǧalālī (ed. trad. in persiano, comm.), Markaz al-Našr, Maktab al-I‘lām al-Islāmī, Qum 1986-1987; Naṣīr alDīn al-Ṭūsī and his Tajrīd al-i’tiqād. An edition and study by H. M. A. Latif, I, Thesis presented for the Degree of Ph.D., School of Oriental and African Studies, London 1977. 64 Id., Fuṣūl-i Ḫwaǧa-i Ṭūsī, con trad. araba al-Risāla al-Naṣīriyya di M. ‘A. Ǧurǧānī Astarābādī, M. T. Dānišpazhūh (ed.), Tehran 1956. 65 Ḥ. al-Āmulī (ed.), Mu’assasat al-Našr al-Islāmī, Qum 1417/1996. 61

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di riferimento dello sciismo per molte generazioni e venne ampiamente commentato e glossato66. I‘tiqādiyya67 è un breve trattato sui principali dogmi sciiti e concerne quello che i credenti ritengono indubitabile. Un fedele sciita crede innanzitutto che non ci sia altro dio al di fuori di Allāh e che Maometto sia il suo messaggero. Inoltre, il credente deve accettare gli attributi divini, confidare nel giorno del giudizio e nel Paradiso. Tutti questi princìpi si ritrovano nel Corano, quindi non necessitano di prove. Altri testi teologici brevi sono stati attribuiti a Ṭūsī, alcuni dei quali redatti in lingua persiana per un pubblico che non conosceva l’arabo. Talḫis al-muḥaṣṣal, ultimo scritto composto nel 699/127168, è un commento in forma di epitome al Muḥaṣṣal afkār al-mutaqaddimīn wa’lmuta’aḫḫirīn min al-‘ulamā’ wa’l-ḥukamā’ wa’l-mutakallimīn di Faḫr alDīn al-Rāzī, in cui Ṭūsī difende la dottrina ismailita del ta‘līm e rigetta la dottrina sciita secondo la quale la designazione formale (naṣṣ) dell’imām può essere cancellata dalla mutevolezza della volontà divina (badā’). Le scienze esatte: matematica e astronomia La produzione di Ṭūsī abbraccia anche tutte le scienze matematiche dell’antichità: l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, l’astrologia e l’ottica. La sua innovazione principale riguarda la redazione di alcuni capolavori in arabo. Ṭūsī li riscrive basandosi sulle più antiche traduzioni dei testi a sua disposizione e scegliendo i termini adatti a rendere più comprensibili gli argomenti. Evita talora la ripetizione di alcuni concetti, li rielabora utilizzando un lessico contemporaneo e li esplica rendendoli fruibili a una platea più ampia. Questi scritti vengono identificati sotto il nome di

66 Tra gli altri: Šams al-Dīn Muḥammad Isfarāyinī Bayhaqī (contemporaneo di Ṭūsī), ‘Allāma Ḥillī (m. 726/1325), Šams al-Iṣfahānī (m. 746/1345), Mīr Sayyid Šarīf al-Ǧurǧānī (m. 816/1413), ‘Alā’ al-Dīn Qūšǧī (m. 879/1474). 67 In Mudarrisī Zanǧānī, Sarguḏašt, pp. 191-193. L’edizione contiene anche: Risālat iṯbāt ǧawhar mufāriq, pp. 169-171; Itbātal-wāḥidal-awwal, pp. 475-476; Iṯbāt waḥdat Allāh ǧalla ǧalāluhū, pp. 189-190. 68 al-Ṭūsī, Talḫīṣ al-muḥaṣṣal, ‘A. A. Nūrānī (ed.), Tehran 1359 š./1980 (repr.1985).

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taḥārīr e utilizzati come testi di didattica. Ṭūsī rivide le traduzioni arabe di Autolico, Euclide, Aristarco, Teodosio, Apollonio, Archimede, Menelao, Tolomeo, Ṯābit ibn Qurra, Banū Mūsà e altri. Una delle opere rappresentative di questo metodo è il Taḥrir al-maǧesti (Redazione dell’Almagesto), dove l’autore sostituisce i calcoli utilizzati da Tolomeo nel suo Almagesto con gli equivalenti in uso al suo tempo. Quando si occupa del taḥrīr dell’Almagesto nel 1247, Ṭūsī denuncia la teoria tolemaica del movimento latitudinale dei pianeti e introduce una forma rudimentale di un teorema matematico, conosciuto come il teorema della «coppia di Ṭūsī». Essa produceva un movimento lineare come risultato dei due movimenti circolari e si è dimostrata la sua applicazione al movimento planetario e il suo confronto con il modello tolemaico. L’autore compone in persiano soltanto un testo di astronomia, la Risāla-yi Mu‘īniyya69, dedicato al signore ismailita Mu‘īn-al-Dīn, figlio di Nāṣir al-Dīn. Questo testo, modellato sul Tabsera di al-Karaqī, prende in esame i problemi astronomici in modo elementare e non si occupa delle difficili teorie dei Greci. Alcuni anni dopo, Ṭūsī redige il Ḏayl-e Mu‘īniyya (Šarḥ-yi Mu‘īniyya o Ḥall-yi muškillāt-yi Mu‘īniyya)70, in cui sviluppa il teorema accennato nella redazione dell’Almagesto. Intorno al 1260, compila il famoso Taḍḫira fī ‘ilm al-hay’a (Memoriale sulla scienza dell’astronomia)71, nel quale ribadisce gli argomenti esposti nel Mu‘īniyya e avanza la ricerca precedentemente esposta. In un capitolo del testo prova il teorema della coppia e per la prima volta viene esposta una soluzione al movimento dei pianeti. Questa teoria poteva essere applicata non soltanto alla teoria latitudinale dei pianeti e divenne dunque patrimonio comune per tutti gli astronomi del mondo islamico.

Ṭūsī compilò la Risāla su richiesta di Mu‘īn al-Dīn, il figlio di Naṣīr al-Dīn Muḥtašam. Id., Risāla-yi Mu‘īniyya, M. T. Mudarris Raḍawī (ed.), Tehran 1335 š./1956. 70 Qualche anno dopo la compilazione della Risāla-yi Mu‘īniyya, Mu‘īn-al-Dīn chiese a Ṭūsī di comporre un commento allo stesso testo. Id., Šarḥ-i Mu‘īniyya, M. T. Dānišpažūh (ed.), Tehran 1335 š./1956. 71 Āġāz wa anǧam dar mabda’ wa–ma‘ād yā Kitāb-i taḏkira, Ī. Afšar (ed.), Tehran 1956. Anche in Ḥ. Āmulī (ed.), Dānišgah-i Tehran, Tehran 1956 e 1997. Facsimile ed. in Abu’l-Maǧd Muḥammad Ibn Mas‘ūd Tabrīzī, Safīna-yi Tabrīz, Iran University Press, Tehran 1381 š./2002, pp. 352-357. Naṣīr al-Dīn Ṭūsī’s Memoir on Astronomy (al-Taḏkira fī ‘ilm al hay’a), 2 vols., F. J. Ragep (ed. e trad.), Springer-Verlag, New York 1993. 69

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I lavori matematici di Ṭūsī abbracciarono diverse tipologie di argomenti, dai più popolari ai più ingegnosi. Nel suo Kitāb fī’l-šakl alqiṭā‘ (Libro della configurazione del settore, conosciuto come Libro del Principio del Trasversale), tradotto in latino e meglio conosciuto in occidente come Trattato del Quadrilatero completo72, Ṭūsī spiega la proprietà commutativa della moltiplicazione tra coppie di numeri reali e definisce una tappa importante nello sviluppo dei numerali indiani. Il contributo principale di Ṭūsī alle scienze matematiche si ebbe comunque nella trigonometria. Nello Šakl al-qitā‘, sulla base dei lavori di Abū’l-Wafā’, Manṣūr ibn ‘Irāq e al-Bīrūnī, egli sviluppa la disciplina senza l’utilizzo del teorema di Menelao. Così, mentre l’antico risuona fantasmatico, la modernità emerge travolgente e, insieme ai colleghi di Marāġa, Ṭūsī inizia a sviluppare la matematica computazionale, portata avanti da al-Kašī e da altri scienziati del periodo timuride. Nel campo della geometria, Ṭūsī segue Ḫayyām ed esamina il quinto postulato di Euclide nella Risāla al-šafi‘iyya al-šakk fi’l-ḫuṭūṭ al-mutawāziya (Epistola soddisfacente che rimedia ai dubbi sulle linee parallele). Nel suo Ǧawāmi‘ al-ḥisāb bi’l-taḫt wa’l-turāb (Compendio sulla computazione usando tavole e polvere)73, completato nel 1246, descrive le operazioni aritmetiche in modo semplice e accessibile a un pubblico più vasto, combinando il metodo greco con quello indiano. Introduce un nuovo metodo per l’estrazione delle radici che era stato utilizzato dai cinesi e che era a lui sconosciuto. Dedica una parte dell’opera a quella che lui definiva «l’aritmetica degli astrologi». Nella sezione dedicata ai calcoli astrologici, Ṭūsī spiega come le operazioni aritmetiche potessero essere utilizzate sull’entità sessagesimali, come i segni, i gradi, i minuti e i secondi. Per la prima volta egli dona al campo della trigonometria una sua identità indipendente, dedicando un trattato speciale alle innovazioni che aveva individuato nei suoi vari taḥārīr e offrendo un quadro completo della disciplina.

72 Id., Traité du Quadrilatère attribué a Nassiruddin-el-Toussy, d’après un manuscrit tiré de la bibliothèque de S. A. Edhem Pacha ancien Grand-visir traduit par Alexandre Pacha Caratheodory, Ancien Ministre des Affaires Etrangères, in Commission bei Otto Harassowitz, Leipzig 1891. 73 Id., «Ǧawāmi‘ al-ḥisāb fi’l-taḫt wa’l-turāb», A. Saidan (ed.), in Al-Abḥāṯ, 20.2 (June 1967) 91-163.

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La generosità e l’interesse di Hūlāgū permisero a Ṭūsī di dedicarsi per trent’anni allo studio della «nuova astronomia» nel famoso osservatorio di Marāġa. Il centro era frequentato dalle più note e prestigiose personalità dell’epoca: Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī, Muḥyī al-Dīn al-Maġribī, Faḫr al-Dīn al-Marāġī, Mu’ayyad al-Dīn al-‘Urḍī, ‘Alī ibn ‘Umar alQazwīnī, Naǧm al-Dīn Dabīrān al-Kātibī al-Qazwīnī, Aṯīr al-Dīn alAbharī, lo scienziato cinese Fao Munǧi, il bibliotecario Kamāl al-Dīn al-Aykī e i figli stessi di Ṭūsī, Aṣīl al-Dīn e Ṣadr al-Dīn. Il lavoro più importante prodotto dai luminari facenti parte dell’osservatorio, dopo dodici lunghi anni di osservazione, fu lo Zīǧ-i Īlḫānī (Tavole Īlḫānī) scritto originariamente in persiano e poi tradotto in arabo e in altre lingue. Muḥyī al-Dīn al-Maġribī scrisse successivamente un supplemento al testo e alcune parti vennero anche tradotte in greco bizantino durante il XIII e il XIV secolo. Altre scienze applicate Nel campo della mineralogia, Ṭūsī compone in persiano il Tanksūḫnāma (Il libro dei materiali preziosi), basato su fonti quali Ǧābir ibn Ḥayyān, al-Kindī, Muḥammad ibn Zakariyyā’ al-Rāzī, ‘Uṭārid ibn Muḥammad e al-Bīrūnī. Il testo tratta dei quattro elementi e delle loro combinazioni e introduce una quinta qualità, chiamata temperamento o indole (mizāǧ), che è in grado di accettare le forme delle differenti specie. L’opera, inoltre, si occupa delle teorie dei vapori, dei raggi del sole, dei colori, delle pietre preziose, dei metalli e dei profumi. Ṭūsī redige anche alcuni lavori di medicina sulle orme avicenniane. Tra gli altri, ricordiamo il Qawānīn al-ṭibb (Princìpi di medicina) e un commento al Canone di Avicenna. La prospettiva medica di Ṭūsī era principalmente filosofica e il suo maggiore apporto si individua nell’ambito l’ambito psicosomatico, di cui egli discute nei suoi scritti etici, principalmente nell’Aḫlāq-i Nāṣirī. Il maestro traduce dall’arabo al persiano Ṣuwar al-kawākib (Figure delle stelle fisse) di ‘Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī e compone anche testi di astrologia. Il contributo scientifico di Ṭūsī fu formidabile e innovativo. Molti testi non sono purtroppo editi e quindi non disponibili e accessibili agli studiosi contemporanei.

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2.2. La parabola di Ṭūsī tra sciismo duodecimano e ismailismo Ṭūsī was not only a philosopher, theologian and the founder of Twelver-Imam Shi‘i philosophical theology, but also a master expositor of Ismaili thought74.

Nel 617/1220, quando Ṭūsī aveva quasi vent’anni ed era studente a Nīšāpūr, Genġis Ḫan conquista la Transoxiana. Dopo l’ultimo fallito tentativo di salvare il regno, il sultano Ḫwārazmšāh, Ǧalāl al-Dīn Mingburnu (617628/1220-1231), fugge, lasciando la ricca regione nord-orientale dell’Iran in balìa dei nuovi invasori. L’incursione dirompente delle truppe mongole, che si perpetua per diversi anni a seguire devastando anche il Ḫurāsān, distrugge Ṭūs e i suoi dintorni nel 618/1221. Le barbarie lasciano il paese in rovina e per anni gli storici narrano le atrocità perpetrate da quel popolo. Ciò avviene durante i regni del settimo maestro di Alamūt, ‘Alà alDīn Muḥammad III (dal 618/1221 al 653/1255), e dell’ottavo, il figlio Rukn al-Dīn Ḫuršāh (dal 653/1255 al 654/1256). Gli Ismailiti nizariti – la cui fedeltà era rivolta a Nizār, figlio dell’imām fatimida al-Mustanṣir (m. 1094) – intorno alla fine dell’XI e all’inizio del XII secolo si erano stabiliti in Siria e in Iran, sotto la guida del leader Ḥasan-i Ṣabbāḥ75. La

Nasr – Aminrazavi (eds.), An Anthology of Philosophy in Persia, vol. III: Philosophical Theology in the Middle Ages and Beyond, p. 371. 75 Vd. H. Landolt – S. Sheikh – K. Kassam (eds.), An Anthology of Ismaili Literature. A Shi‘i Vision of Islam, I. B. Tauris Publishers, London – New York, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 2008, pp. 149-152. Nell’Introduzione al capitolo, vengono riportate le seguenti informazioni biografiche: «The dā‘ī Ḥasan-i Ṣabbāḥ was born in the mid 440s/1050s to a Twelver Shi‘i family in Qumm. He converted to Ismailism at the age of 17 and after receiving training in Egypt returned to his native Persia. There he travelled widely, gaining local strenght and support at a time when the Fatimid caliphate in Egypt was coming under considerable strain. In 483/1090, Ḥasan and his followers captured the castle of Alamūt, the in Saljūq hands and made it the headquarters of the Nizārī Ismaili state in Persia. It was during his rule that Persian emerged as the religious language of the Ismaili of Persia. As the leader of the Nizārīs, Ḥasan-i Ṣabbāḥ was eventually recognized as the ḥujja, or proof of the imam. His major theological work, al-Fuṣūl al-arba‘a was originally written in Persian but has survived only in fragments quoted in the Arabic heresiographical work of al-Shahrastānī written around 521/1127 and in paraphrased versions by later Persian historians. In this text, 74

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loro sede principale era posizionata ad Alamūt, sulle montagne Alburz del Daylamān e da lì governavano le altre roccaforti, alcune delle quali si trovavano nell’Iran orientale. Nella zona del Quhistān, le fortezze ismailite fornivano rifugi sicuri per tutti coloro che non potevano abbandonare il Ḫurāsān. Come già accennato nella biografia, non avendo reali possibilità di un ritorno in patria, Ṭūsī decide di aderire al gruppo ismailita e di trasferirsi nel 624/1227 presso la comunità nizarita, che all’epoca rappresentava l’unica oasi in grado di potergli offrire tutela e protezione. Per circa tre decenni, fino al 654/1256, Ṭūsī soggiorna in differenti posti del Quhistān e tutto il periodo è caratterizzato da una notevole produzione scientifica. Durante la sua permanenza, infatti, il maestro compone alcuni dei suoi più brillanti scritti appartenenti a quei principi di fede, tra i quali Rawḍat al-Taslīm, il suo più importante testo filosofico ismailita. Redige inoltre: Asās al-iqtibās, pionieristico lavoro di logica avicenniana in persiano; Aḫlāq-i Muḥtašamī, in onore del suo patrono; Risāla al-Mu‘īniyya, trattato astronomico dedicato al figlio del suo signore, Mu‘īn al-Dīn; il celebre commento alle Išārāt wa’l-tanbīhāt di Avicenna; Āġāz wa anǧam e altri trattati di carattere teologico. Tra le varie opere commissionate da Naṣīr al-Dīn ‘Abd al-Raḥīm, vanno anche segnalate la traduzione in persiano del Zubdat al-ḥaqā’iq di ‘Ayn al-Quḍāt al-Hamadānī e l’Aḫlāq-i Nāṣirī. Un uomo di cultura eclettico e dai molteplici interessi come Ṭūsī, si avvicina alle posizioni dell’ismailismo e abbraccia, almeno apparentemente, quella fede. La sua ipotetica conversione è stata sempre oggetto di controversie e dibattiti da parte degli studiosi. Sebbene Naṣīr al-Dīn, che invitò Ṭūsī a risiedere presso la propria corte, fosse un indiscusso ed erudito leader ismailita e in grado di attrarre attorno a sé la comunità intellettuale dell’epoca, è stato anche ipotizzato che la scelta del filosofo fosse in parte dovuta al fallito precedente tentativo di avvicinarsi a Mu‘ayyad al-Dīn al-‘Alqamī, il vizir sciita del califfo sunnita abbaside al-Musta‘ṣim76.

Ḥasan establishes the need for the Ismaili imam as the unique authoritative teacher who would guide mankind towards its spiritual goals». 76 Vd. Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 535 e Id., «The Philosopher/Vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 236; Mudarris Raḍawī, Aḥvāl va Āṯār, pp. 9-10; Tunikābunī, Qiṣas al-‘ulamā’, op. cit., p. 378.

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Tra gli autori duodecimani, alcuni sono fermamente convinti nel rigettare ogni possibile connessione di Ṭūsī al mondo ismailita77; altri sono addirittura agiografici nel celebrare il suo legame allo sciismo duodecimano78; altri ancora postulano la possibilità che tale conversione non sia effettivamente avvenuta. Le opinioni divergono anche sotto il profilo morale: tra coloro che ne riconoscono l’appartenenza, alcuni lo hanno condannato, altri invece perdonato79. La questione andrebbe forse considerata al di là delle mere apparenze. Wilferd Madelung ha ipotizzato che la presenza di Ṭūsī presso quella corte fosse motivata da ragioni non tanto di carattere religioso, piuttosto filosofico e scientifico80. E secondo l’opinione di Dabashi81, Ṭūsī, in quanto filosofo e vizir, apparteneva a una categoria trascendente le divisioni settarie, come peraltro non di rado avveniva all’interno della politica persiana. In effetti ciò servirebbe a spiegare le sue mutevoli metamorfosi religiose. Elementi concernenti l’ideologia ismailita di Ṭūsī sono in qualche modo rintracciabili in alcuni passi della sua pregevole produzione scientifica, che si presenta come un aggrovigliato sistema di conferme e smentite. Nonostante il periodo presso le corti si possa considerare intellettualmente fruttuoso, nelle ultime pagine del commento alle Išārāt wa’l-

Mudarris Raḍawī, Aḥvāl va Āṯār, pp. 10-16 e Mudarrisī Zanjānī, Sarguḏašt, pp. 49-51. 78 Le fonti sono: Ḫwānsārī, Rawḍat al-ǧannāt, Tehran 1360 š./1981, vol. VI, pp. 221-222; Tunikābunī, Qiṣaṣ al-‘ulamā’, op. cit., p. 367; Šūštarī, Maǧālis, op. cit., vol. II, pp. 201-202. 79 Vd. Dabashi, «The philosopher/vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 233 e Dabashi, «Khwājah Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 536. 80 W. Madelung, «Nasir al-Din Tusi’s Ethics: Between Philosophy, Shi‘ism and Sufism», in R. G. Hovannisian (ed.), Ethics in Islam, Undena Publications, Malibu 1985, pp. 85-101. 81 «Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī can be understood neither as an Imāmī Shi‘i (who may or may not have been obliged to convert to Isma‘ilism) nor as an individual who lacked stable moral principles. Rather, he should be understood primarily as a philosopher/vizier, simultaneously concerned with matters of power ans knowledge, politics and philosophy». Cfr. Dabashi, «The philosopher/vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 236. 77

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tanbīhāt di Avicenna82, Ṭūsī narra le difficoltà in cui è costretto a redigere le sue opere. Egli lamenta le circostanze in cui si ritrova e il delicato stato psichico ed emotivo che lo accompagna durante il soggiorno nizarita: I wrote most of it [Sharḥ al-ishārāt] under most difficult circumstances, no more difficult circumstance than which is possible. I composed most of it at a time of emotional anxiety, no more anxious an emotional condition than which is to be found – a time every portion of which was a container for unbearable sadness, suffering, remorse, and sorrow […] No instance went by without my sorrow increasing, my calamities and sadness multiplying. Yes indeed as the poet says in Persian: So far as I can see all around me Calamity is a ring and I am a bezel to it. There has never been a moment in my life which has not been filled with events conducive to constant remorse, perpetual sorrow. The course of my life has always been interrupted by an army of sadness, soldiers of discomfort. God Almighty! For the sake of Thy Chosen Messenger, and the sake of his Righteous Successor [‘Alī], God’s Benedictions be upon them and upon their household, rescue me from the injuries of the waves of calamities, the surges of hostilities, and save me from things which are injurious to me. I have none other than Thee, and Thou art the Most Benevolent of all benevolents83.

Questa dichiarazione – la cui seconda parte venne probabilmente aggiunta in un periodo successivo – ha indotto a sospettare della genuina e sincera volontà di Ṭūsī di aderire alla causa ismailita e a supporne invece una possibile costrizione84. Toni amari, sfuggenti, sussultano di un’inquietudine compressa e acuminata, pervasa da un senso di trepida sofferenza. Ovviamente, la difficile realtà storica del momento deve aver contribuito in modo rilevante all’abiura dal suo credo sciita originario, ma in ogni caso,

Mudarris Raḍawī, Aḥwāl wa āṯār, p. 7. Trad. di Dabashi, «The philosopher/vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 234. Vd. al-Ṭūsī, Šarḥ al-išārāt, Qum 1404/1983, vol. II, p. 145. 84 Mudarris Raḍawī, Aḥvāl va Āṯār, p. 13. 82 83

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come ha osservato Daftary, non ci sono elementi evidenti per considerare una vera e propria situazione coercitiva: There is no evidence suggesting that the outside scholars [such as Khwāja Naṣīr] were detained in the [Isma‘ili] community against their will or that they were forced to embrace Ismā‘īlism during their stay amongst the Nizārīs, although at the time of the Mongol invasion, al-Ṭūsī and a few other similarly situated scholars claimed otherwise. On the contrary, it seems that these learned guests partook of the hospitality of the Nizārīs willingly, and were free, in the time of satr, to maintain their previous religious convinctions85.

Nel 1246, dopo aver completato la versione originale dell’Aḫlāq-i Nāṣiri, Ṭūsī redige, come abbiamo già visto, un’autobiografia in cui descrive la sua educazione, il suo cammino spirituale e il percorso che compie dal kalām essoterico fino alla professione di fede ismailita. In questo scritto si possono ricavare preziose informazioni sul susseguirsi dei suoi presunti mutamenti. Egli racconta la sua crescente disillusione nei confronti della teologia essoterica, che inizia a considerare non più come una semplice apologetica – forse a causa dell’influenza del padre, dello zio e dei suoi maestri – e riferisce della sua volontà di avvicinarsi all’ismailismo alla scoperta della verità86. Da questa angolazione il suo coinvolgimento si potrebbe considerare come autentica prova di indagine spirituale: From an esoteric perspective, however, when I had reached a position where I could understand – by the proof that has already been

F. Daftary, The Isma‘ilis: Their History and Doctrines, University Press, Cambridge 1990, p. 408. Mudarris Raḍavī (Ahval, p. 13) ha concluso che: «Perhaps in the beginning Khwāja went to Quhistān and Alamūt voluntarily, following an invitation by Naṣīr al-Dīn and ‘Alā’ al-Dīn [Muḥammad III]. Because of the anarchical situation in Iranian urban centres, and the violent behaviour of the Mongol conquerors, the prejudices of the Sunni ‘ulamā’, their persecution of the Shi‘is, and thinking that perhaps in Quhistān and Alamūt he would find comfort and peace of mind and thus could pursue his research and writing agenda, he voluntarily decided to reside with the Isma‘ilis». Vd. Dabashi, «The philosopher/vizier: Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī and the Isma‘ilis», p. 235. 86 Vd. Ragep, Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī’s Memoir on Astronomy (ad-Tadhkira fī‘ilm al-hay’a), vol. I, p. 16. 85

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cited – that it was the followers of instruction who were correct, I concluded with no additional troublesome thinking that the true instructor can only be he who is the instructor of the followers of the truth. This person, through whose teaching souls move from potentiality to actuality, must therefore be the instructor of the Ta‘līmiyān [i.e., the Ismailis]87.

L’Aḫlāq-i Nāṣirī testimonia la devozione di Ṭūsī al suo protettore, Nāṣir al-Dīn ‘Abd al-Raḥīm ibn Abī Manṣūr: nel prologo egli dedica l’opera al patrono che glielo aveva espressamente commissionato, invocando allo stesso tempo le benedizioni del contemporaneo imām ismailita ‘Alà al-Dīn Muḥammad III. Successivamente però, dopo la resa ismailita alla conquista mongola, nella seconda redazione dell’Aḫlāq-i Nāṣirī, Ṭūsī elimina l’elogio introduttivo all’imām e sostituisce l’iniziale dedicatoria encomiastica del testo con un nuovo preambolo contenente una formula sunnita di benedizione per il profeta Muḥammad, la sua famiglia e i suoi compagni88. In questa epigrafe, Ṭūsī spiega che la parentesi ismailita era stata involontaria e l’elogio verso i leader motivato dalla necessità di preservare la sua stessa incolumità89. A seguire, egli adduce la sua scelta alla difficile posizione in cui si era ritrovato in quel determinato periodo della sua vita in Quhistān90.

al-Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., p. 32. Id., The Nasirean Ethics, op. cit., pp. 23-24: «Blessings unbounded the salutations unnumbered are fitting commendation of the sanctified existence of the leader of guides in religion, the senior exemplar of the people of certainty, His Excellency Muhammad, the Chosen One. The salvation of creatures from the darkness of perplexity and ignorance is through the light of his direction and guidance; and the safety of the Faithful from the abysses of negligence and error lies in grasping the ‘firm halter’ of his virtue. God bless him, and his Family, and his Companions, and given them peace, much peace!». 89 Vd. Humā’ī, «Muqaddima-yi qadīm-i Aḫlāq-i Nāṣirī», pp. 8-9. 90 «The writer of this discourse and author of this epistle, the meanest of mankind, Muḥammad b. Ḥasan al-Ṭūsī, known as Al-Naṣīr al-Ṭūsī, says thus: the writing of this book, entitled The Nasirean Ethics, came about at a time when he had been compelled to leave his native land on account of the turmoil of the age, the hand of destiny having shackled him to residence in the territory of Quhistān. There, for the reason set down and recalled at the outset of the book, this compilation was undertaken; and, to save both himself and his honour, he completed the composition of an exordium in a style appropriate to the custom of that community for the eulogy and adulation of their lords and great ones. This is in accordance with the sense of the verse. ‘And humour 87 88

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Secondo tale prospettiva, non ci sarebbe motivo di considerare l’adesione all’ismailismo come particolare oggetto d’inchiesta. Ṭūsī rimuove così alcuni riferimenti espliciti, nonostante lo scritto non venga rivisto in modo sostanziale. Permangono, infatti, alcune espressioni di carattere prettamente ismailita: In fact the changes that Ṭūsī introduced in the text, apart from his omission of the eulogy, hardly amount to ten instances. Words such as imām and muḥiqq (truthful leader) have been replaced by sharī‘at and ‘ulamā-yi muḥaqqiq (qualified scholars). Other terms such as ahl-i ḥaqq (people of the truth), nāṭiq (messenger-prophet) and asās (legatee-imam) which are particular to Ismaili texts, are altogether deleted91.

Come già accennato in precedenza, il filosofo decide successivamente di entrare al servizio di Hūlāgū, seguirlo nella campagna contro Baġdād e divenire suo consulente personale. In seguito, egli continua le sue indagini scientifiche al servizio di Abaqā (663-680/1265-1282), successore di Hūlāgū nella nuova dinastia Ilḫanide (654-754/1256-1353). Il maestro aveva ormai acquisito un ampio riconoscimento attraverso il mondo islamico nelle vesti del più importante filosofo della scuola di Avicenna. La sua posizione di fiducia verso i nuovi conquistatori mongoli, non musulmani, gli consente di esercitare una grande influenza nella ricostruzione della vita culturale e intellettuale delle province orientali dell’impero, dopo le devastazioni dovute alla conquista. I giuristi sunniti avevano ormai perso la loro privilegiata posizione di leader della comunità e di giudici ultimi della vita religiosa e intellettuale. Subito dopo la caduta delle fortezze ismailite per mano dei Mongoli nel 1256, Ṭūsī racconta una storia alquanto differente rispetto alle sue ini-

them while you remain in their house; ‘And placate them while you are in their land’ and also the well-attested tradition: ‘With whatsoever a man protects himself and his honour, it shall be recorded to him as a favour’. While such a course is contrary to the belief, and divergent from the path, of the People of the Sharī‘a and the Sunna, there was nothing else I could do. For this reason, the book was provided with a dedication in the manner aforementioned». al-Ṭūsī, The Nasirean Ethics, op. cit., p. 24. 91 Id., Contemplation and Action, op. cit., p. 61.

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ziali confessioni contenute nell’autobiografia. Nell’introduzione alle Zīǧ-i Īlḫānī scrive: At the time that [Hülegü] seized the dominions of the heretics [i.e., the Ismā‘īlīs], I Naṣīr al-Dīn who am of Ṭūs and had fallen into the power of the heretics – me he brought forth from that place and ordered to observe the stars92.

Assistiamo a un’ulteriore metamorfosi convulsa, ravvolta in un filo spinato, in cui stride la dinamica protesa allo sforzato. Se consideriamo l’autenticità del Sayr wa sulūk, Ṭūsī abbraccia l’ismailismo durante il soggiorno nizarita, ritornando posteriormente alla sua iniziale fede sciita e componendo numerosi trattati sulla teologia imamita del kalām, tra i quali Taǧrīd al-i‘tiqād, Qawā‘id al-‘aqā’id e Fuṣūl, dove armonizza alcuni princìpi base imamiti con la filosofia di Ibn Sīnā93. Dopo la sua vera o apparente dissociazione dagli Ismailiti, Ṭūsī si ricongiunge dunque alla comunità sciita duodecimana all’interno della quale era nato. Nelle catastrofiche e caotiche condizioni nelle quali versava il regno durante e in seguito alla conquista mongola, egli contribuisce alla protezione del gruppo e dei suoi membri e offre il suo supporto morale. Mantiene strette relazioni con alcuni dei grandi maestri spirituali e scrive trattati al fine di esporre e difendere la teologia sciita duodecimana e il suo credo su loro richiesta. He rejoined the Twelver Shi‘i community as a philosopher as he had earlier joined the Ismā‘īlīs. Yet he was no longer seeking the mu‘allim, the supreme teacher who could guide him to perfect and transcend his philosophical faith. He had now become the foremost philosopher of his time. In the Twelver Shi‘i community, the posi-

al-Ṭūsī, Zīǧ-i Īlḫānī , trad. in A. J. Arberry, in Classical Persian Literature, Macmillan, New York 1958, pp. 259-260. 93 Cfr. Nasr – Aminrazavi (eds.), An Anthology of Philosophy in Persia, vol. IV, p. 182: «Despite his importance an an Ismaili thinker, theologically Ṭūsī was a Twelver Shī‘a. His theological and metaphysical views are reflected in his work al-Fuṣūl (Chapters), written in Persian, and in Kitāb al-Tajrīd (The Book of Catharsis), written in Arabic. Kitāb al-Tajrīd is considered to be the most important work on Shi‘i theology and over four hundred commentaries and glosses have been written on it». 92

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tion of a supreme teacher could, in the absence of the Twelfth Imam, only fall to him. Tusi himself was the Master (khvāje), the King of Philosophers (malek al-ḥokamā), the Teacher of Mankind (ostād al-bashar) as he was now commoly addressed94.

Indubbiamente, una convergenza rimarchevole di molteplici fattori deve aver delineato la parabola percorsa da Ṭūsī durante i difficili anni di appartenenza alle corti. È quindi il caso di mantenere valutazioni moderate concernenti questo ampio dibattito, considerando i temi dominanti relativi alle ostilità settarie tra sunniti, sciiti e ismailiti e non dimenticando il ruolo di Ṭūsī in quanto uomo di lettere e scienza. Egli promuoveva gli interessi di studiosi di filosofia e di discipline non religiose, che fino ad allora dipendevano dal mecenatismo di pochi governanti favorevolmente disposti nei loro confronti. Peter Adamson conclude il capitolo dedicato a Ṭūsī, «A man for all seasons», ritraendo in modo eccellente l’immagine di un uomo che ha segnato la storia del pensiero islamico: So was al-Ṭūsī a hero or a villain? A turncoat or a turning point in intellectual history? Perhaps all of the above. After all, nothing prevents a great thinker from switching teams when there’s suddenly a new playing field. It’s even been proposed that we should not apply the usual standards of political or even religious allegiance to a man like al-Ṭūsī. Some have argued that he was answering a higher calling, seeing himself primarily as a philosophical advisor to kings, a role he could play for rulers of every different religious persuasions as long as they were enlightened enough to accept his counsel. Perhaps. But it speaks against that interpretation that, in his Ismā‘īlī phase, al-Ṭūsī stridently argued that philosophy cannot reach truths that are available through the Imams recognized by Shiite Islam. In some o these works, assuming they are authentic, he also defended a specifically Nizārī understanding of those truths. This doesn’t sound like a man who thinks his philosophical gifts allow him to stand above the differences of religious opinion that divided his contemporanies. al-Ṭūsī’s place in the history of Shiism seems

Madelung, «Nasir al-Din Tusi’s Ethics: Between Philosophy, Shi‘ism and Sufism», p. 100. 94

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bound to remain a matter of controversy, but his place in the history of philosophy is secure95.

2.3. La parentesi sufi e le epistole in persiano Durante gli ultimi anni della sua vita, Ṭūsī volge lo sguardo al sufismo, riconoscendo presumibilmente, come puntualizza Landolt, il crescente ruolo sociale e politico svolto dagli ordini sotto il regime mongolo96. Infatti, parte del processo d’instaurazione e consolidamento del regno fu proprio caratterizzato dalla conversione dei leader mongoli all’Islām, anche grazie all’influenza delle comunità sufi. Le confraternite si erano diffuse liberamente, cercando di colmare il vuoto lasciato dal declino della forza d’integrazione sociale locale esercitata dalle scuole religiose. La trasversalità intellettuale di Ṭūsī trova riscontro in una delle sue ultime creazioni, un trattato sull’etica sufi intitolato Awṣāf al-ašrāf (Attributi dell’Illustre)97. A conferma del suo ritorno all’interno della comunità

P. Adamson, Philosophy in the Islamic World. A history of philosophy without any gaps, vol. III, Oxford University Press, Oxford 2016, p. 336. 96 Landolt, «Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī (587/1201 – 672/1274), Ismā‘īlism, and Ishrāqī Philosophy», in Naṣīr al-dīn Ṭūsī, Philosophe et savant du XIIIe siècle, N. Pourjavady – Ž. Vesel (eds.), Institut Français de Recherche en Iran, Presses Universitaires d’Iran, Tehran 2000, p. 30. 97 al-Ṭūsī, Awṣāf al-Ašrāf. La traduzione inglese dal persiano è presentata da ‘Alī Qulī Qarā’ī sotto il titolo di «Awṣāf al-Ashrāf (The Attributes of the Noble): A Treatise on Spiritual Wayfaring». Part 1, in Al-Tawḥīd. A Quarterly Journal of Islamic Thought and Culture, vol. XI (1 & 2, 1414) 127-149. La seconda parte del testo si trova in Al-Tawḥīd. A Quarterly Journal of Islamic Thought and Culture, vol. XI (3 & 4, 1414) 185-213. La traduzione del testo si basa sull’edizione di Sayyid Mahdī Shams al-Dīn, Sāzmān-e Chāp wa Intishārāt-e Wizārat-e Farhang wa Irshād-e Islāmī, II edition, Tehran 1370/1991. L’editore ha utilizzato i due manoscritti appartenenti all’Āyatullāh Naǧafī Mar‘ašī Public Library (il primo è datato 16 raǧab 1064 h.; il secondo non riporta alcuna datazione), un’edizione facsimile pubblicata a Berlino nel 1927 (ristampa 1957) e un’edizione del 1967 pubblicata dalla Kitābfurūšī-ye Islāmiyyah di Tehran. Alcune edizioni pubblicate: ed. N. Taqawī, Berlin 1306/1926; ed. M. Mudarrisī Zanǧānī, Tehran 1345 š./1926-27; ed. M. Harawī, Mashad 1361 š./1982. Vd. anche: J. Moravvej, «Naqdī bar tarjome-ye Awṣāf al-ashrāf-e Khwājeh Naṣīr alDīn-e Ṭūsī, athar-e Rokn al-Dīn-e Jorjānī», in Majalle-ye ‘elmī-pazhūheshi-ye dānes95

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d’origine, Ṭūsī inserisce, all’inizio e alla fine del testo, le seguenti formule di benedizione appartenenti al credo sciita: Immeasurable thanks are due to God, Whose reality no intellect can fathom and the knowledge of whose Being no thought or science can apprehend. Any expression describing Him, if affirmative, does not enter the conceiving mind without the traces of anthropomorphism, and if negative, is not conceived by it in a manner secure from the scandalous negation of attributes (ta‘ṭil). Therefore, the leader of the elect, the exemplar of the saints (awliyā’) and the Seal of the Prophets, Muḥammad Muṣṭafā, may God bless him and his Household, said: I cannot reckon Thy praise. Thou art only as Thou hast praised Thyself, and Thou art above what the describers say (in describing Thee)98. May a myriad fold greetings, kudos, and blessings be upon his sacred soul and on the spirits of the pure ones of his Household, especially the Infallible Imams, as well as the elect of his Companions, by Thy right, O God! Peace be upon him who follows guidance. Thy Lord, the Lord of Honour, is above what they ascribe to Him, and peace be upon the Messengers, and praise be to Allāh, the Lord of the Worlds, and peace and benedictions be upon our master, Muḥammad, and the pure and immaculate ones of his Household, who (prior to their birth) were carried from pure loins to pure wombs, and from whom God has kept away all impurity and purified them with a thorough purification.

Inoltre, nel capitolo introduttivo, egli esplicita le proprie intenzioni chiarendo che dopo la stesura dell’Etica Nasirea, avvenuta circa tre decenni prima, desiderava redigere un compendio allo scopo di esporre il percor-

hkade-ye adabiyyāt va ‘olūm-e ensāni-ye dāneshgāh-e Tehrān, vol. 93-94 (1355 š.), pp. 246-256; vd. Ashk-e Shirin – Rahmani, «Bibliographie sur Nasir al-Din Tusi en persan», pp. 76-77 (sezione in persiano). Rukn al-Dīn Muḥammad ibn ‘Alī al-Fārsī al-Ǧurǧānī al-Astarābāḏī tradusse l’Awṣāf al-Ašrāf dal persiano all’arabo. 98 Sunan Ibn Mājah, ii, 1262, ḥadīṯ 3841, ed. by M. Fu’ād ‘Abd al-Bāqī, Dār alFikr li al-Ṭabā‘a wa al-Našr wa al-Tawzī‘, Beirut 1990.

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so di tutti coloro che agiscono secondo cognizione spirituale. Molteplici occupazioni glielo avevano impedito, fino al momento in cui riceve richiesta da parte del vizir degli Ilḫanidi, Šams al-Dīn Muḥammad Ǧuwaynī, che lo invita ad occuparsi del progetto99. After writing the book entitled Nasirian Ethics (Akhlāq-e Nāṣirī), which discusses the noble dispositions and the sound policies of moral conduct according to the way of the philosophers (ḥukamā’), the writer of this treatise and the author of this discourse, Muḥammad al-Ṭūsī, had it in his mind to write a concise treatise describing the ways of the awliyā’ and the methods of the seers according to the principles of the wayfarers of the Path (Ṭarīqah) and the seekers of the Truth (Ḥaqīqah) and one based on the principles of reason and tradition, containing the subtle theoretical and practical points that constitute the kernel and essence of that discipline […] He has named it Awṣāf al-ašrāf100.

Madelung si pone vari interrogativi sulla relazione del trattato in questione con le personali aspirazioni di Ṭūsī: fu davvero egli attratto, in veneranda età, dal percorso mistico del cuore, allontanandosi dalle precedenti attività intellettuali e religiose? Perché avvertì la necessità di comporre un

«However, countless preoccupations and vain obstacles did not permit him to carry that out, and what he had in mind could not emerge from potentiality to actuality, until this moment, when this idea materialized at the compelling behest of his honour…, the master of the sword ant the pen, the elect of the eminent from among the Arabs and the non-Arabs, ths sun of the truth and the faith (shams al-ḥaqq wa al-dīn), the glory of Islam and Muslims, the chief of the viziers, the holder of the high office of the dominions, the pride of the elite and the nobility, the embodiment of justice and benefaction, the world’s most meritorious and perfect, the refuge and shelter of Iran, the lover of the awliyā’, Muḥammad ibn Sāḥib al-Sa‘īd Bahā’ al-Dīn Muḥammad al-Juwaynī, may God strengthen his helpers and increase his power twofold. As opportunity became available and time and circumstance became conducive, the plan at last materialized, to the extent that the mind would assist and was feasible in view of the various obstacles and numerous preoccupations, of compiling, in compliance with his order and in obedience to his command, this brief treatise in several chapters, expositing those truths and describing those subtleties. In every chapter he has for witness’ sake cited a verse of the glorious revelation, which is such that: Falsehood cannot find way into it from before it or behind it (41:42)». al-Ṭūsī, Awsaf al-Ashraf (The Attributes of the Noble), Part 1, op. cit., pp. 128-129. 100 Ibid. 99

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trattato di sufismo anni addietro, prima ancora che il vizir glielo chiedesse? Lo studioso precisa che lo scritto appartiene alla scuola classica del sufismo e non ci sono tracce apparenti del misticismo moderno, speculativo e teoretico elaborato da Ibn ‘Arabī e dalla sua scuola una generazione prima di Ṭūsī: trattasi di un sufismo del cuore piuttosto che della mente101. Il suo Awṣāf al-ašrāf mostra senza dubbio una certa simpatia e una notevole familiarità con le pratiche sufi, ma, a differenza del Sayr wa sulūk, non è sicuramente un testo che lascia l’impressione di una profonda convinzione interiore o di un personale impegno religioso102. Badakhchani, nell’introduzione all’edizione del Sayr wa sulūk, sottolinea il punto di vista ismailita dell’Awṣāf al-ašrāf, soprattutto in relazione all’unione spirituale (ittiḥād)103. Ṭūsī precisa che questa non implica, come sostengono alcuni uomini privi di intuizione, che il mistico diventi uno con Dio, piuttosto che egli sarà in grado di vedere attraverso l’occhio della divina auto-rivelazione: Ittiḥād is not what some shortsighted people imagine, that it is the becoming one of the creature with God, the Exalted – ‘Greatly exalted is He above that!’ Rather, it means seeing all as Him, without being constrained to say that everything other than Him is from Him and so all are one. Rather, his vision is so illumined with the light of Him, there remaining no seer, seen, or sight, and all become one104.

Anche Dabashi enumera l’Awṣāf al-ašrāf tra i testi appartenenti al pensiero ismailita, come la sopracitata autobiografia e l’Āġāz wa anǧam105, mentre Pourjavady lo considera un trattato sul misticismo islamico con approccio filosofico106.

Madelung, «Nasir al-Din Tusi’s Ethics: Between Philosophy, Shi‘ism and Sufism», p. 99-100. 102 Landolt, «Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī (587/1201 – 672/1274), Ismā‘īlism, and Ishrāqī Philosophy», p. 30. 103 al-Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., p. 8. 104 Id., Awṣāf al-Ashrāf, op. cit., p. 210. 105 Dabashi, «The philosopher/vizier: Khwaja Nasir al-Din al-Tusi and the Isma‘ilis», p. 232. 106 Pourjavady, «Awsaf al-Ashraf» (en persan), in Naṣīr al-dīn Ṭūsī, Philosophe et savant du XIIIe siècle, pp. 39-40; vd. S. J. Badakhchani, Shi‘i Interpretations of 101

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Lo scritto si distingue indubbiamente dagli altri componimenti dell’autore e costituisce, in ogni caso, l’unico redatto in modo specifico sul sufismo. A differenza della maggior parte della tarda produzione di Ṭūsī, che abbraccia filosofia, astronomia e teologia sciita, l’opera sovramenzionata descrive in modo conciso le varie stazioni che attraversa il mistico sufi durante il cammino (sulūk) che si declina in modo ascendente dalla fede (iman)107 all’unione (waḥda)108 ed estinzione (fanā’)109 dell’essere in Dio. Nel prologo al testo, Ṭūsī elenca brevemente il contenuto del trattato spiegando il percorso che il viandante dovrà intraprendere ed enumerando sia le tappe di questo peregrinare110 sia gli ostacoli che si presenteranno per raggiungere la perfezione:

Islam. Three Treatises on Theology and Eschatology, I. B. Tauris Publishers, in association with The Institute of Ismaili Studies, London 2010, p. 7. 107 Imān literally means ‘affirmation’, that is, believing, and in the terminology of the seers means a particular kind of affirmation, an affirmation of that which is know for certain and has been declared by the Messenger, may peace be upon him. Cfr. Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, Awṣāf al-Ashrāf (The Attributes of the Noble), Part 1, op. cit., p. 131. 108 «Waḥdah is unity, and this above ittiḥād, for ittiḥād which means becoming one–smells of plurality, which is not there in waḥdah. There, movement and rest, contemplation and remembrance, wayfaring and journey, deficiency and perfection, [the distinctions of] seeking, the seeker and the sought–all vanish, and: When the discourse reaches God, stop!», ibid., Part 2, p. 211. 109 «And this is called fanā’ (annihilation), for the return of creation is by fanā’ even as its origin was from ‘adam (non-existence): As He brought you into being, so shall you return (7:29). The term fanā’ has a meaning that is coextensive with multiplicity: Everyone that is thereon will perish and there remaineth the Face of thy Lord, the All-majestic, the All-generous (55:26–27). This is not the sense of fanā’ [meant here], for it is beyond anything that can be said, imagined, and intellected: To Him reverts the matter in its entirety (11:123)», ibid., Part 2, p. 212. 110 «Each of these consists of several matters, excepting the end of the journey wherein there is no multiplicity. We shall discuss these six matters in six chapters, each having six sections, with the exception of the last chapter which does not allow of any multiplicity. It should be know that in the same way in a physical journey the traversing of every part of the road depends on the traversing of a preceding part and is succeeded by another part – excepting the last part – each of these states is an intermediate stage between the end of the preceding stage and the beginning of the next, so that every stage is the sought after goal as its previous stage nears its end and is left behind and abandoned as one approaches its succeeding stage. Hence every stage is a perfection in relation to its previous stage and remaining in it is a defect when one ought to turn to the next desirable stage». Ibid., Part 1, pp. 129-130.

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It would be proper at the outset to mention the contents of this brief treatise. There is no doubt that when one contemplates over one’s state (reading aḥwāl, instead of af‘āl), one would find oneself to be in need of something besides oneself, and that which is in need of something else is deficient. And when one becomes aware of his deficiency, there arises in his inner being a yearning to seek perfection. This prompts him to undertake a journey in the quest of perfection, which is called ‘wayfaring’ (sulūk) by the people of the Ṭarīqah (the mystic path). And one who desires to undertake this journey stands in need of six things. First, the guidance for this journey and that which is necessary for the journey to be made, and this is similar to the provisions that one needs for a physical journey. Second, overcoming the hindrances and obstacles in the way of the journey. Third, making the movement which takes one from the starting point to the destination; it consists of wayfaring and the states of the wayfarer during its course. Fourth, the states which occur to the wayfarer in the course of his wayfaring from the start of the journey to the point of destination. Fifth, the states that befall those who have completed the journey (ahl al-wuṣūl) after wayfaring”. Sixth, the end of the journey and the culmination of the wayfaring which is called fanā’ (annihilation) in tawḥīd (Divine Unity)111.

Questi movimenti sembrano risuonare come un rapimento estatico, dello stesso genere che pervade molte pagine relative al sufismo. Ṭūsī probabilmente concepì il suo trattato come un supplemento indirizzato al musulmano comune, rispetto alla sua etica filosofica rivolta all’élite intellettuale dell’epoca. Il filosofo non prende di certo le distanze dal suo precedente lavoro sull’etica, anzi l’Awṣāf al-ašrāf giunge a completamento del percorso intrapreso. Il testo riflette una grande consapevolezza delle esigenze dei suoi tempi ed è stato elaborato attraverso l’utilizzo di

111 «Tawḥīd means ‘making one’ and ittiḥād means ‘becoming one with’. There, it is “Set not up with God another god”, and here, “Invoke not with God another god,” for there is a trace of constraint [in tawḥīd] which is absent in ittiḥād. Hence when the unity becomes absolute and established within the inner self, so that there is no attention whatsoever to duality, one would attain to ittiḥād». Ibid., Part 2, p. 211.

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termini semplici e incontrovertibili, largamente accettati dai musulmani di tutti i credi. Qualunque possa essere la soluzione al caso, non bisogna sottovalutare l’interesse di Ṭūsī nei confronti del sufismo, ammettendo allo stesso tempo che non esiste alcuna prova concreta, accertata ed evidente di una reale appartenenza del filosofo. Egli deve aver intuito la crescente ondata di misticismo che aveva investito l’Islām e che raggiunse il suo picco durante il periodo mongolo. Il taṣawwuf poteva infrangere le barriere tra le scuole e le sette e unire tutti i musulmani sotto la bandiera dei grandi ordini. Gli scambi epistolari di Ṭūsī con eminenti sufi del calibro di Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī potrebbero essere devianti e suggerire un interesse motivato da una ricerca spirituale, piuttosto che da interessi politici o scientifici. Il filosofo comunicò in lingua persiana tramite corrispondenza con vari illustri personaggi della sua epoca e utilizzò tale modalità anche per esprimere e «confessare» questioni inerenti ai suoi più intimi pensieri112. Nonostante la maggior parte degli scritti sia stata da lui redatta in arabo, troviamo un significativo numero di opere in lingua persiana, la sua lingua d’origine, parlata e diffusa, ma anche affermata come strumento di espressione letteraria. Dopo l’avvento dell’Islām, l’arabo – inizialmente lingua veicolare a livello religioso e amministrativo – divenne anche mezzo di espressione scientifica, ma la necessità di divulgare il più possibile le opere in lingua persiana rimase una tradizione che continuò a perpetuarsi. Si assistette per secoli a una fioritura di opere in prosa e i Persiani svolsero un ruolo fondamentale nello sviluppo del linguaggio tecnico113. Come nel caso del nostro autore, spesso questa decisione era legata all’invito di un regnante o di un leader che non conosceva fluidamente l’arabo. Ṭūsī contribuì notevolmente allo sviluppo della terminologia, arricchendo il vocabolario filosofico, matematico, astronomico,

Alcuni testi sono sopravvissuti al tempo. Vd. Mudarrisī Zanǧānī, Sarguḏašt, pp. 198-221. Ṭūsī tentò una corrispondenza anche con Šihāb al-Dīn (m. 644/1246 c.). Nonostante il governatore avesse declinato la proposta, Ṭūsī ebbe comunque l’opportunità di incontrarlo brevemente nelle vicinanze del Gird Kūh nel corso di uno dei suoi viaggi. 113 Cfr. R. G. Hovannisian – G. Sabagh (eds.), The Persian presence in the Islamic world, University Press, Cambridge 1998 e S. H. Nasr, «Philosophy and Cosmology», in R. N. Frye (ed.), The Cambridge History of Iran, vol. IV: The Period from the Arab invasion to the Saljuqse, University Press, Cambridge 1975, pp. 419-441. 112

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teologico, dogmatico, storico, geografico e poetico. Un aspetto importante fu quello di coniare, come già attuato da Ibn Sīnā, termini persiani corrispondenti a quelli tecnici in arabo. Egli effettivamente «persianizzò» la prosa araba sull’esempio di Šihāb al-Dīn al-Suhrawardī e alcune delle sue opere (Asās al-iqtibās; Aḫlāq-i Nāṣirī; Zīǧ-i Īlḫānī; Risāla dar ḥisāb; Mi‘yār al-aš‘ar; Awṣāf al-ašrāf), come precisa Hamid Dabashi114, costituiscono dei modelli di elegante ed eloquente lirica persiana. La ricca tradizione islamica offre diversi casi di scambi di pensieri tra importanti intellettuali sotto forma dialogata o corrispondenza epistolare. Questa modalità di scrittura – il genere su’āl wa ǧawāb (questione e risposta) – era abbastanza comune nel mondo islamico tra maestri e discepoli, oltre ai numerosi dibattiti e confronti tra teologi e scienziati o tra filosofi e mistici. Meritano una menzione: la dubbia corrispondenza tra il mistico Abū Sa‘īd ibn Abī’l-Ḫayr (d. 430/1049) e Ibn Sīnā115; quella tra quest’ultimo e il grande scienziato al-Bīrūnī; gli attacchi del teologo ismailita Abū Ḥātim al-Rāzī al filosofo-medico Muḥammad ibn Zakariyyā al-Rāzī116; lo scambio di lettere fra il teologo ašarita Faḫr al-Dīn al-Rāzī e il sufi Ibn ‘Arabī117. L’epistolario di Ṭūsī include dibattiti con personaggi ben noti: il carteggio con il sufi šayḫ Ǧamāl al-Dīn al-Ǧīlī (o Gīlī, Gīlakī, m. 651/1253), un protetto dell’imām nizārī, nonché uno dei famosi dodici discepoli di Naǧm al-Dīn al-Kubrà (m. 618/1221), che risiedeva nei pressi di Qazwīn118; la ri-

Dabashi, «Khwajah Nasir al-Din al-Tusi: the philosopher/vizier and the intellectual climate of his times», p. 539. 115 F. Meier, Abū Sa‘īd-i Abū l-Ḫayr, Wirklichkeit und Legende, Leiden – Tehran 1976, p. 28. Cfr. D. Reisman, The Making of the Avicennan Tradition. The Transmission, Contents, and Structure of Ibn Sīnā’s al-Mubāḥaṯāt (The Discussions), Brill, Leiden – Boston – Köln 2002. 116 Vd. P. Kraus, «Raziana», trans. by A. J. Arberry, Asian Review, (1949) 703-713. 117 Vd. Ibn ‘Arabī, «Epitre adressée à l’Imam Fakhru-d-Din ar-Razi», trans. by M. Vâlsan, Etudes Traditionnelles, 62 (Juillet-Octobre 1961) 246-253. Schubert, nel suo articolo «The textual history of the correspondence between Ṣadr ad-dīn-i Ḳūnawī and Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī», in Manuscripts of the Middle East, (1988) 73-78, riporta la collezione As’ila wa-adjwiba, datata a partire dal XIII secolo. Vd. J. van Ess, Der Wesir und seine Gelehrten, Steiner, Wiesbaden 1981, pp. 43-54. 118 al-Ṭūsī, Paradise of Submission, op. cit., pp. 2-3: Vd. Mudarris Raḍawī, Aḥvāl va Āṯār, pp. 211-213 e 479-483. Anche ‘Abd al-Raḥmān Ǧāmī, Nafaḥāt al-uns, op. 114

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sposta al commento di Faḫr al-Dīn al-Rāzī a questioni di ordine teologico e filosofico nello Šarḥ al-išārāt; le corrispondenze con gli eminenti sufi Ǧalāl al-Dīn Rūmī e Šams al-Dīn al-Kīšī (m. 694/1295)119. Ricordiamo inoltre gli scambi epistolari di Ṭūsī con Naǧm al-Dīn Dabīrān al-Qazwīnī al-Kātibī, Ibn Kammūna, Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī e Ǧurǧānī Astarābāḏī120.

cit., pp. 434 s. e Ma‘ṣūm ‘Alī Šāh, Ṭarāyiq al-ḥaqāyiq, M. Ǧa‘far Maḥǧūb (ed.), Tehran 1345 š./1968, vol. II p. 662. Il resoconto di Rašīd al-Dīn citato da Raḍawī suggerisce che ‘Alà al-Dīn Muḥammad III era un murīd di questo sufi šayḫ. Daftary in The Ismā‘īlīs, p. 695, n. 215, sottolinea che secondo il Dabistān-i madhāhib, il sufi šayḫ si era segretamente convertito all’ismailismo. 119 Cfr. Nasr – Aminrazavi (eds.), An Anthology of Philosophy in Persia, vol. IV, p. 182; Landolt, «Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī (587/1201 – 672/1274), Ismā‘īlism, and Ishrāqī Philosophy», p. 30. 120 S. J. Badakhchani, s.v. Nasir al-Din Tusi, in The Internet Encyclopedia of Philosophy, J. Fieser (ed.), 2001-2003 and The Institute of Ismaili Studies, 2003; R. Pourjavady – S. Schmidtke, A Jewish Philosopher of Baghdad. ‘Izz al-Dawla Ibn Kammūna (d. 683/1284) and His Writings, Brill, Leiden – Boston 2006, pp. 12-13: «Ibn Kammūna was in contact with many of the scholars and philosophers of his time. Twice wrote to Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī seeking answers to philosophical problems. On one occasion, he asked Ṭūsī about a problem related to Kātibī’s view on the issue of the createdness of the world (ḥudūth al-‘ālam), an on another occasion he requested Ṭūsī’s views on seven philosophical issues. Of the first exchange, only Ṭūsī’s reply is available, in which he addressed Ibn Kammūna as al-dā‘ī al-mukhliṣ, while the whereabouts Ibn Kammūna’s initial query and the subsequent letter he wrote in response to Ṭūsī’s reply are lost. The second exchange is complete. In it, Ṭūsī addressed Ibn Kammūna respectfully as al-ḥakīm al-fāḍil akyas al-aqrān wa-awḥad al-zamān. Neither of the two exchanges is dated. The only secure terminus ante quem for both is Ṭūsī’s death on 18 Dhu l-Ḥijja 672/25 June 1274. Moreover it is likely that the letter in which Ibn Kammūna is addressed simply as al-dā‘ī al-mukhliṣ is the earlier of the two. Presumably it was written when Ibn Kammūna did not yet have the standing of an acknowledged philosopher». Cfr. al-Ṭūsī, «Muṭāraḥāt manṭiqiyya bayn al-Kātibī wa-l-Ṭūsī», ‘A. A. Nūrānī (ed.), in M. Mohaghegh – T. Izutsu (eds.), Collected Texts and Papers on Logic and Language, University Press, Tehran 1974, pp. 285-286 (contiene soltanto la risposta di Ṭūsī) e Id., Aǧwibat al-masā’il al-Naṣīriyya, mushtamil bar 20 risāla, Tehran 1384/2005, pp. 25-34. Vd. inoltre Id., «Aǧwibat masā’il al-Sayyid Rukn al-Dīn al-Astarābādī li-Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī» & «Muṭaraḥāt manṭiqiyya bayna Naǧm al-Dīn Dabīrān al-Kātibī al-Qazwīnī wa-Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī», in Nūrānī (ed.), Collected Texts and Papers on Logic and Language, pp. 107-135 e 249-276; Id., Muṭaraḥāt falsafiyya bayna Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī wa-Naǧm al-Dīn al-Kātibī, M. Ḥasan al-Yāsīn (ed.), Dār al-Maʻārif lil-Taʼlīf wa-al-Tarǧama wa-al-Našr, Baghdad 1956.

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Attraverso tali forme di comunicazione, gli interpreti di questi componimenti in stile dialogato hanno esaminato alcuni tra i temi più delicati e problematici riguardanti la metafisica, la teologia o le discipline scientifiche. Queste dispute hanno talvolta fornito una chiave di lettura preziosa su alcuni aspetti del pensiero degli autori, a volte non presi in esame in altri scritti. E proprio in questa prospettiva si inserisce il rapporto epistolare tra il ḫwāǧa Ṭūsī e lo šayḫ Qūnawī, articolato in tre lettere redatte in persiano, in tre movimenti raccordati per mezzo di vistosi richiami tematici interni. La corrispondenza tra Ṭūsī e Qūnawī costituisce certamente un’attestazione ragguardevole, malgrado poco conosciuta e considerata, e va inserita all’interno del contesto socio-culturale e politico dell’epoca. Trattasi di un epistolario denso, cortese e ossequioso, in fremente tensione dialogica, punteggiato da interrogativi e discussioni fitte tra i due, a tratti enigmatico, multiforme e polistilistico. Il persiano è l’idioma utilizzato per esprimere principalmente i consueti saluti, i vari appellativi formali appropriati alla circostanza e le motivazioni che spingono gli interlocutori a contraccambiare pensieri, opinioni, riflessioni e critiche. L’eccessiva raffinatezza nel porgersi e, a volte, la schiva deferenza con cui essi si rivolgono l’uno all’altro utilizzando l’etichetta del tempo, potrebbero velare le vere e più profonde motivazioni che risiedono all’origine di queste lettere. La partitura mostra comunque una mutua ammirazione di considerevole rilievo tra i due studiosi. Ṭūsī risponde alle questioni poste con l’autorità filosofica che riveste, rendendo manifesti l’ammirazione e il rispetto nei riguardi del più grande discepolo di Ibn ‘Arabī. Con un’eulogia Qūnawī apre la prima lettera, rendendo omaggio al dedicatario della sua epistola e rivolgendosi al ḫwāǧa con grande cortesia e tramite appellativi che contraddistinguono un grande detentore di sapienza. Si evince chiaramente dalle note iniziali del carteggio, impiantato in un lindo «do maggiore», che trattasi della prima corrispondenza tra i due grandi maestri. Lo šayḫ precisa che la fama del filosofo si è diffusa attraverso il mondo e, sebbene per molto tempo abbia anelato a un incontro, il destino ha impedito la realizzazione di questo veemente desiderio. Il passo successivo è quindi quello di aprire la porta di una comunicazione intima e costante (mawāsala), allo scopo di beneficiare del sapere di Ṭūsī e trarre vantaggi dal suo insegnamento. A questo scopo, Qūnawī allega un trattato come «risultato delle conclusioni del pensiero», al-Risāla al-mufṣiḥa, ovvero un resoconto di riflessioni a lungo elaborate, alcune delle quali og-

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getto di svariate e complesse discussioni con colleghi e amici. Egli spera che Ṭūsī possa commentarle ed esprimere le sue opinioni in proposito, nel tentativo di stabilire la superiorità della propria intuizione circa l’essenza di Dio, dei Suoi attributi e dell’universo, acquisita grazie all’esperienza ascetica che supera la mera comprensione razionale dei filosofi. Una splendida quartina apre il secondo scenario. Ṭūsī risponde all’epistola del grande imām e šayḫ, ringraziandolo e lodandolo calorosamente per la decisione di contattarlo. Si mostra onorato dalla ricezione della lettera di un uomo «esempio dei viandanti realizzati (al-sālikīn), di coloro che hanno trovato Dio (al-wāǧidin), che sono pervenuti all’unione col Principio e in Lui si sono realizzati (al-waṣilīn al-muḥaqqiqīn)». All’inizio della parte araba delle risposte, il filosofo si rivolge formalmente a Qūnawī applicandogli un concetto sciita di imām, guida dell’umanità designata da Dio in ogni tempo e rappresentante (nā’ib) del profeta Muḥammad. Ṭūsī si indirizza all’eminente sufi con un linguaggio a tratti tipico dei seguaci del mistico e definisce umilmente se stesso come un discepolo sincero e un «neofita desideroso di apprendere» (al-murīd al-mustafīḍ). Ciò che invece sorprende è che trattasi di uno dei più grandi filosofi di ogni tempo e di una delle figure politicamente più autorevoli dell’epoca. In aggiunta alla Mufṣiḥa, Ṭūsī riceve per errore un altro elaborato da parte di Qūnawī, il Rašḥ al-bāl (Secrezione dello spirito)121, contenente pensieri trascendenti in veste di preghiere, conversazioni spirituali e incantesimi allusivi, che si presentano sul percorso delle intuizioni mistiche ed esoteriche e in ciascuna delle varie stazioni. Queste registrano come un sismografo i moti segreti dello spirito. Il trattato illustra la profonda conoscenza di Qūnawī del taṣawwuf e ne mostra anche l’intento, ovvero quello di guidare i discepoli sulla retta via e infiammare gli iniziati, affinché siano informati degli accadimenti che si manifestano durante tutto il sentiero spirituale (sulūk). Il Rašḥ al-bāl appare però a Ṭūsī un’opera sicuramente più adatta a neofiti appena avvicinatisi alla via contemplativa o ad adepti intermedi, affinché agiscano nella consapevolezza delle varie tappe degli stati esoterici e siano informati circa le attrazioni e le paure, le tentazioni e le apprensioni che si succedono lungo

Cfr. al-Ṣafadī, Al-wāfī bi’l-wafayāt, vol. II, ed. S. Dedering, Istanbul 1949, p. 200, No. 572; K. Çelebi, Keşf el-zunun, Istanbul 1972, p. 1967. 121

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lo slancio mistico. Le osservazioni di Ṭūsī riguardanti il testo restano abbastanza neutre e superficiali e risultano a tratti leggermente critiche: secondo il filosofo, il trattato non sembra rispecchiare l’elevato grado spirituale raggiunto da Qūnawī. La lettera di Ṭūsī offre probabilmente allo šayḫ lo spunto per proclamare la superiorità della conoscenza mistica sulla filosofia razionale. Quest’ultimo rigetta alcune delle osservazioni critiche del filosofo, ignorandone delle altre e dimostrando, ancora una volta, di appartenere ai pochi eletti del Perfetto122; Qūnawī risponde nuovamente in lingua persiana e, dopo aver ringraziato Ṭūsī per le sue delucidazioni e averlo lodato per il modo in cui ha chiarito la posizione peripatetica, aggiunge di aver realizzato che nella copia del testo da lui inviata vi erano degli errori causati dal copista inesperto e delle mancanze che purtroppo hanno distorto il significato del suo pensiero e causato delle incomprensioni. Allo scopo di chiarire i punti irrisolti, Qūnawī aveva scritto un’introduzione al suo secondo trattato che completava la parte originaria; lo šayḫ pone poi l’accento su alcune risposte di Ṭūsī e alla fine torna al trattato che era stato inviato per errore, esprimendo il suo stupore e spiegandone il motivo. Considerato che Ṭūsī lo ha letto e commentato, Qūnawī avverte la necessità di presentare la motivazione che lo ha indotto a scriverlo, che occupa la seconda parte della lettera redatta in lingua araba. Qūnawī difende i contenuti del trattato e ne giustifica la scrittura insistendo che egli aveva sperimentato ciò che risiede al di sopra di ogni stazione e di quella di appagamento del mistico. Forse il suo corrispondente non era così familiare con il percorso mistico come lui stesso aveva presunto e come d’altronde si intuiva dalla descrizione di sé in quanto neofita desideroso di comprendere e imparare. In contrasto con l’introduzione alla prima lettera, Qūnawī comunica a seguire che fu il discepolo di Ṭūsī, Tāǧ al-Dīn Kāšī, a esortarlo affinché desse inizio a uno scambio epistolare. È una melodia lenta che si avvita su se stessa a spirale e palpita a ritmo ineguale; le ultime battute gettano un’ombra oscura sulle vere intenzioni di Qūnawī.

Madelung, «To see all things through the sight of God: Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī’s attitude to Sufism», in N. Pourjavady – Ž. Vesel (eds.), Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: Philosophe et savant du XIIIe siècle, p. 9. 122

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Gudrun Schubert ipotizza che Ṭūsī non abbia mai ricevuto la seconda lettera di Qūnawī123. Inoltre, considera anche la possibilità che il grande filosofo abbia deciso di non rispondere, dal momento in cui realizza che qualunque chiarimento o interrogativo possa andare perduto, se indirizzato a uno šayḫ convinto di aver ricevuto da Dio, tramite rivelazione, tutti i segreti dell’universo e confidando sui seguaci che credevano nella sua parola. Poteva anche dubitare di acquisire conoscenze utili prolungando la corrispondenza, nonostante la brama persistente di apprendere. In ogni caso, il rapporto epistolare si conclude in modo vitalistico e forse la risposta di Ṭūsī alla sfida di Qūnawī arriva successivamente, nel trattato persiano sul mistico itinerario, Awṣāf al-ašrāf. Non si trova in esso alcun riferimento al maestro sufi, ma Ṭūsī vi offre distintamente un breve schizzo del viaggio ascetico che possiamo ritrovare nella lettera allo šayḫ. Inoltre, il saggio delinea un tradizionale e quasi antiquato sufismo degli stati, attraverso i quali il mistico ascende verso l’unione e l’estinzione di sé in Dio. Ṭūsī lo presenta esplicitamente come una forma di etica, parallelamente a quella filosofica del suo Aḫlāq-i Nāṣirī. Trattasi dunque di disciplina pratica, non teoretica. In nessun luogo si fa menzione della necessità del viaggiatore mistico di ambire a una guida o a un maestro, una necessità sempre sottolineata dagli ordini sufi del suo tempo. Come precisa Hermann Landolt, in almeno questi due ultimi scritti – l’Awṣāf al-ašrāf e la Corrispondenza con Qūnawī – Ṭūsī mostra comunque il massimo rispetto per la via mistica dei sufi, che delinea un modo di walāya o accettazione della leadership spirituale, che, contrariamente ai princìpi sciiti, non deriva esclusivamente ed esplicitamente da ‘Alī o da un selezionato gruppo di suoi discendenti124. La perfezione raggiunta dal mistico non è, dal punto di vista di Ṭūsī, perfezione di conoscenza. L’esperienza visionaria dell’unità di Dio in tutte le cose comporta un profondo cambiamento di prospettiva nel mistico, non un aumento del deposito del proprio sapere. I problemi dell’intelletto

123 Schubert, Al-murāsalāt, p. 13. Madelung, «Nasir al-Din Tusi’s Ethics: Between Philosophy, Shi‘ism and Sufism», controbatte che ciò sembra inverosimile, poiché anche se l’originale fosse andato perduto, lui ne avrebbe certamente utilizzato una copia. 124 Landolt, «Khwāja Naṣīr al-Dīn Ṭūsī (587/1201 – 672/1274), Ismā‘īlism, and Ishrāqī Philosophy», p. 15.

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possono essere risolti non da un’intuizione mistica, ma soltanto da una sana ragione: questa porta a una conoscenza basata su una prova convincente e indirizzata a un fine; l’intuizione mistica potrebbe fornire una convinzione soggettiva che necessita però di una verifica dell’intelletto affinché diventi obiettiva. I persistenti tentativi dei teorici sufi di screditare la competenza dell’umano intelletto erano motivati dallo scopo di proteggere la loro posizione da valutazioni critiche. Per secoli la maggioranza dei sufi aveva sostenuto la teologia aš‘ārita, mentre altri erano inclini a un credo più tradizionalista. Qūnawī ripudia quelle dottrine confessionali e suggerisce che le vere ricerche mistiche dovrebbero costruire la loro teologia sulla metafisica non confessionale dei filosofi; Ṭūsī realizza invece che questo sforzo non può sussistere se i mistici non accettano incondizionatamente la sola autorità dell’intelletto in questioni razionali: l’illuminazione sufi non può fornire una scorciatoia alla conoscenza razionale. Temi melodico-mistici e armonie filosofiche sembrano inizialmente costeggiare più la dissonanza che la consonanza: un etereo lirismo che si contrappone a una partitura materica e aspra, la contemplazione estatica e astrale contro la riflessione razionale, che sollecita e pervade l’intero impianto dei più grandi sistemi teologico-scientifici di tutti i tempi. L’apparente polifonia è in realtà solidamente costruita secondo delle logiche e delle studiate architetture contrappuntistiche, che prendono le mosse da motivi di canzone lievi all’apparenza e che vestono man mano le sembianze di un’unica sinfonia magniloquente, i tratti di una sonata appassionata, quasi a ispirare e a illuminare la via dell’uomo in cerca del punto di vista di Dio.

3. STUDIO E ANALISI DEL TESTO

al-Risālat al-mufṣiḥa

(L’Epistola chiarificatrice)

Allorché Dio creò l’intelletto, gli domandò: «Chi sono?» L’intelletto rimase in silenzio. Dio illuminò allora la sua vista con la luce della Sua unicità. [L’intelletto] aprì gli occhi e disse: «Sei Dio, non vi è altra divinità che Te, perché non è dell’intelletto conoscere Dio, se non è per mezzo di Dio stesso». Abū Bakr al-Kalābāḏī

Il titolo del trattato che introduce l’intera corrispondenza è al-Risālat al-mufṣiḥa ‘an muntahā’l-afkār wa sabab iḫtilāf al-umam wa’l-mūḍiḥa ‘an sirr al-ihtidā ilà’l-ṭarīq’l-ašraf al-amam (Epistola che illustra la finalità del pensiero, la causa della disparità delle religioni, e che svela il mistero della guida verso la via più nobile e retta). Le tematiche esposte in questa densa dissertazione iniziale introducono le questioni poste da Qūnawī a Ṭūsī delineando una vera e propria cornice agli ardui argomenti che seguiranno. Il termine mufṣiḥa, che racchiude l’idea di «chiarificare», sembra indicare l’importanza di questa epistola introduttiva che si inserisce in un contesto culturale che è opportuno presentare per meglio cogliere gli intenti ad essa sottintesi. In uno degli iniziali studi condotti su questa corrispondenza, William C. Chittick afferma: To say «mysticism versus philosophy» in the context of Islamic civilization means something far different from what it has come to signify in the West, where many philosophers have looked upon mysticism as the abandonment of any attempt to reconcile religious data with intelligent thought. Certainly the Muslim mystics and philosophers sometimes display a certain mutual opposition and antagonism, but never does their relationship even approach incompatibility. The debates and discussions between the two schools are concerned mainly with the limitations and shortcomings of their respective methods of acquiring knowledge. Thus Peripatetic philosophers such as

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Avicenna accept the possibility and even the reality of a direct, mystical apprehension of transcendent and supra-rational truths. What they question is more on the order of how one person can convey this experience to another, or how the latter can be certain of the validity of the former’s vision. For their part, the Sufis or Muslim mystics do not deny the validity of many of the philosophers’ findings. They merely hold that the philosophers cannot go beyond a certain point, and that therefore none of the philosophical discussions concerned with such subjects as metaphysics can carry any authority. At the same time, many Sufis were familiar with philosophy, and many philosophers were also mystics, especially in the later periods of Islamic history1.

Queste osservazioni spiegano un principio basilare: filosofi e sufi rinviano ad un differente approccio e ad una diversa lettura della realtà, anche se entrambe le correnti si interrogano su una questione essenziale, cioè quale sia il metodo più affidabile per ottenere la conoscenza sulla natura delle cose e di Dio. A queste due categorie di pensatori si aggiunge quella dei teologi, i teorici della scuola del kalām, che tendono ad invalidare le teorie dei sufi e dei filosofi basandosi sull’idea che la verità può essere trovata nella rivelazione coranica e che, sia le conoscenze intellettuali che le svelate, rischiano di rivelarsi ingannevoli o illusorie. In generale i falāsifa (o per meglio intenderci i «filosofi peripatetici», categorie nelle quali rientrano autori come al-Kindī, al-Fārābī e Ibn Sīnā) si appoggiano alla tesi che l’intelletto (al-‘aql) è una guida sufficiente all’uomo per comprendere la realtà delle cose e conseguire una verità completa. Costoro affermano questa possibilità ammettendo sì un tipo di conoscenza illuminativa che deriva dall’Intelletto attivo, ma protendono per una conoscenza razionale che ogni uomo può conseguire grazie alle funzioni della propria mente, indipendentemente da un aiuto divino. I sufi, dal canto loro, e in questo lo šayḫ Ibn ‘Arabī si rivelerà caposcuola, sostengono e sperimentano il principio secondo il quale l’intelletto, con le sue sole costitutive potenzialità, non riesce a condurre l’uomo alle verità

Cfr. W. C. Chittick, «Mysticism Versus Philosophy in Earlier Islamic History: The al-Ṭūsī, al-Qūnawī correspondence», Religious Studies, 17 (1981) 87. 1

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superiori dato che non riesce a sollevare i veli che ricoprono la realtà. Questo tipo di «conoscenza disvelata» deve allora rimanere strettamente ancorato alla rivelazione del Corano e agli insegnamenti del profeta Muḥammad, ma è un dono riservato ad alcuni dei servi prescelti da Dio. Mentre teologi e filosofi intendono quindi interpretare il mondo, i sufi desiderano spogliarsene. Altro elemento che caratterizza la posizione dei sufi è che anche la reale comprensione delle fonti canoniche avviene tramite il disvelamento, altrimenti la loro lettura rimarrebbe limitata a delle «opinioni» così come accade ai teologi, che applicano delle spiegazioni umane ad un testo sacro che ha invece un’origine divina. Questo è uno dei principali argomenti che porrà i sufi in frequente e netto contrasto con i teologi e viceversa. Tutta la dottrina di Qūnawī non mira però a rifiutare o denigrare la teologia e la filosofia, bensì nel mostrarne i limiti, gli errori, cercando di correggerle e completarle; la mancanza di accordo tra le scuole teologiche e filosofiche è considerata una conseguenza inevitabile dovuta a delle carenze proprie della riflessione razionale. Si instaura così una contraddizione, ed un infinito dibattito, che contrasta con l’armonia che invece sottostà alle dottrine esposte dai «realizzati», dai santi e dai profeti. In effetti queste dottrine derivano tutte dalla stessa fonte trascendente e in nuce portano tutte la stessa unità, ma il problema si pone nel momento in cui esse differiscono nei termini con i quali vengono esposte, e soprattutto, secondo a chi verranno indirizzate. Il disaccordo sarà allora inconcepibile tra gli akābir al-awliyā’ (i più grandi prossimi a Dio) perché costoro, avendo contemplato i principi divini, hanno risolto ogni divergenza che invece la conoscenza intellettuale continua a produrre e riproporre. La vera scienza consisterà allora nel riportare il mondo alla sua Fonte, e non solo di spiegarlo. L’idea base che Ibn ‘Arabī professa sulla nozione di «conoscenza superiore» è che per i sufi, la saggezza è la contemplazione dell’Essenza rivestita dalle luci degli attributi divini per cui altro non è che la «realtà della conoscenza» (ḥaqīqat al-ma‘rifa). Il conoscitore perfetto (al-‘ārif al-kāmil) è colui che attribuisce ad ogni cosa quel che gli spetta in modo giusto ed equo; e ciò avviene tramite svelamento ed esperienza diretta e non attraverso la scienza o la cieca imitazione (taqlīd). Altro termine chiave del titolo dell’epistola, sul quale è utile soffermarsi, è quello di al-iḫtilāf al-umam (la disparità delle religioni o comunità), di cui Qūnawī intende ricercare la causa. Proprio nell’aprire i Fuṣūṣ al-ḥikam, Ibn ‘Arabī dà lode a Dio per aver fatto discendere le Saggezze (al-ḥikam) sui cuori dei Verbi (al-kalim), cioè sui diversi profeti, nell’unità

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delle Via assiale (ṭarīq al-amami) dalla Stazione più antica – intendendo con questa la Tradizione primordiale – nonostante la differenza delle forme e delle regole tradizionali dovute a quelle delle comunità (wa in iḫtalafat al-niḥal wa’l-milal li-iḫtilāf al-umami)2. Charles-André Gilis così commenta il passaggio: Par ces mots, Ibn Arabî répond à une objection sous-entendue et affirme explicitement l’unité des formes traditionnelles, en dépit de leur diversité apparente. La “Religion veritable” est unique parce que la Guidance l’est aussi, la doctrine du Tawhîd étant universelle. Toutes les Sagesses procèdent de la Sagesse d’Allâh “qui n’as pas d’associé”. [...] On relèvera le symbolisme linguistique utilisé par le Cheikh al-Akbar : le terme umami (communautés) est issu de la même racine que amami (traduit ici par “axial”) et n’en diffère que par la vocalisation, ce qui signifie que toute communauté traditionnelle est “axiale” par le principe qui la dirige (les différentes directions particulières reflétant au degré individuel l’Axe immuable)3.

Tutta la corrispondenza tra Ṭūsī e Qūnawī, e nello specifico la prima epistola, avrà dunque come sfondo la polemica e l’attacco ai limiti dell’intelletto umano, e l’analisi delle varie posizioni dottrinali o di correnti di pensiero che attraversano l’Islām. Un argomento che nel panorama del pensiero islamico sembrerebbe poco originale, ma al contrario, si connota come l’elemento distintivo della Mufṣiḥa; in effetti essa affronta il tema con audacia, sotto variegatissime sfumature, prospettive, ricchezze concettuali, chiamando all’appello le teorie che nei circoli culturali erano da tempo oggetto di riflessione e cercando di spingersi oltre ciò che era considerato come un dato assimilato o una ripetizione. Il termine intelletto deriva dalla radice ‘QL che contiene il senso di «legare, attaccare» e in particolare «legare il piede del cammello nella par-

Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, biqalam Abū al-‘Alā ‘Afīfī, Dār al-Kitāb al-‘azalī, Bayrūt 2002, p. 47. 3 Ibn ‘Arabī, Le livre des chatons des sagesses, trad., notes, commentaire par Ch.-André Gilis, Dar al-Bouraq, Beyrouth 1997, p. 33. 2

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te alta della zampa con una corda passata al di sotto del tarso», si può anche dire «impastoiare»4. Nella sua V forma il verbo ta‘aqqala acquista il senso di: essere dotato di ragione, comprendere, capire, riflettere. Appare interessante rintracciare questo significato perché rimanda ad una certa limitatezza dell’intelletto che, nonostante intraprenda i suoi percorsi, rimane – riguardo a certe realtà – limitato all’interno dei suoi confini, proprio come un cammello che, una volta impastoiato, riesce a muoversi solo entro determinati limiti. Ma il termine ‘aql è utilizzato anche in un altro senso, così come riporta un ḥadīṯ del profeta Muḥammad: «La prima cosa creata da Dio fu l’Intelletto». Agli occhi dei pensatori musulmani neoplatonizzanti (come gli Iḫwān al-Ṣafā’), che ben conoscevano il concetto neoplatonico di Primo Intelletto (al-‛aql al-awwal) e di Anima Universale (al-nafs al-kulliyya), questa duplice creatività sembrò conciliabile con la dottrina islamica del Calamo supremo (al-qalam al-a‘là) e della Tavola Custodita (al-lawḥ al-maḥfūẓ), prima e seconda creazione di Dio. L’intelletto possiede allora una conoscenza diretta di Dio posizionandosi al di là di ogni mera comprensione umana, anche se non si deve dimenticare che i profeti e i grandi santi sono capaci di realizzare alcuni gradi d’identificazione ad esso. Si delineano allora due sensi per la voce «intelletto»: uno microcosmico legato all’intelletto dell’uomo che delimita e definisce la percezione della realtà fornendogli una coerenza di tipo logico; ed un senso macrocosmico, dove il termine ‘aql è invece utilizzato in quanto manifestazione esteriore dell’Essere di Dio – denominata mondo – è da Lui differente per il fatto che è la Sua manifestazione e non Egli stesso. L’Intelletto così, prima creazione di Dio, o prima manifestazione del Suo Essere, rappresenta una delimitazione del Non-delimitato Essere. Per questo, onde non generare equivoci, i sufi evitano il termine ‘aql e preferiscono eleggere il cuore (qalb) come luogo di disvelamento divino.

4 Al-Muḥāsibī, sufi vissuto tra il 165 e il 243 (781-857), a proposito scrive: «La lingua araba chiama intelligenza la comprensione perché ciò che si è compreso lo si è afferrato e trattenuto con l’intelligenza, così come s’impastoia il cammello o gli si legano insieme i garretti delle cosce». Cfr. al-Hārith ben Asad Muhāsibī, Che cos’è l’intelligenza, trad. di G. Sassi, Luni Editrice, Milano 1988, p. 29.

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Secondo i sufi, i filosofi non hanno alcuna garanzia di poter raggiungere l’illuminazione, a meno che non decidano di percorrere un via iniziatica. Dal canto loro i filosofi rimangono diffidenti nei riguardi dell’«ispirazione» elogiata dai sufi, e sebbene accettino l’identità fondamentale tra intelletto ed Intelletto, avvertono che non esistono scorciatoie per esprimere la verità: le leggi della logica non possono essere difatti trascurate; in questo modo allora l’operato dell’Intelletto può essere chiaramente spiegato su un livello discorsivo e compreso dagli individui raziocinanti5. Secondo Qūnawī, la fase filosofica deve essere considerata come preliminare, cioè una conditio sine qua non per colui che inizia un percorso spirituale e che aspira però a delle conoscenze più elevate. William Chittick, analizzando la Mufṣiḥa, riporta un brano di un’opera in persiano di Qūnawī in cui l’autore, a differenza dello stile adottato nella corrispondenza con Ṭūsī, sintetizza con una certa linearità la questione della natura gerarchica della rivelazione, lo svelamento e l’intelletto: Man possesses stages, and in each stage there are specific perceptions, so that the perceptions of the subsequent stage are absent from the preceding stage. For example, the unborn child has specific perceptions, and in relation to its perception, the suckling infant’s perceptions are «unseen» (ghayb). So the stage of the suckling infant is beyond that of the unborn child. In the same way, the stage of the child who can differentiate (between right and wrong) in relation to the suckling infant is the same as the stage of the infant in relation to the unborn. Likewise, the stage of the person who controls his intellect is beyond that of the child who can only differentiate, the stage of sanctity (where unveiling takes place) is beyond that of the intellect, the stage of prophecy is beyond that of sanctity, «And over every man of knowledge is one who knows (Koran XII, 76). It is impossible for the unborn child to perceive any of the objects of perception of the child, for it is imprisoned within the constricting limits of the womb and has not yet reached the open space of this word. And so it is in the other cases as well: whoever resides in a determined stage of man is incapable of grasping the objects of perception of the stage beyond his own... The farthest limits of the man

5

Ibid., p. 90-94.

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of intellect are the beginnings of the saints, and the farthest limits of the man of intellect are the beginnings of the prophets6.

Si tratta quindi di livelli differenti di percezione, conoscenza e rivelazione in cui il grado raggiunto che appare massimo a chi appartiene ad una certa categoria di uomini, rappresenta lo stadio iniziale per altri. Tornando al testo della Mufṣiḥa, una premessa ricca d’immagini toccanti e poetiche apre la trattazione. Qūnawī avvia la sua disquisizione affermando che gli uomini, avendo ricevuto in sorte una parte di «intelletto e di annunci divini», si distinguono in tre ordini: superiore, medio e inferiore. I primi sono i cosiddetti maestri delle «intenzioni sublimi» dirette all’acquisizione delle dimensioni eccelse, delle perfezioni perpetue e delle virtù permanenti. Costoro ricercano «le realtà delle cose così come veramente sono», e soprattutto aspirano alla conoscenza del Vero che è il «termine più nobile cui si possa rivolgere la più nobile delle scienze»; hanno esaminato inoltre gli esseri esistenti, intelligibili e sensibili, e hanno compreso che vi sono cose che l’uomo riesce a cogliere grazie a facoltà inerenti alla sua costituzione naturale, mentre ve ne sono altre che hanno una natura tale da non poter essere colta se non grazie alla sua attività teoretica e cogitativa7. Per quanto invece concerne la conoscenza dell’essenza del Vero e le realtà dei Suoi Nomi e Attributi, per la connessione che sussiste tra la Sua potenza creatrice e i conoscibili, per l’effusione divina dell’essere, non si procede per via intellettiva. A questo punto della trattazione Qūnawī introduce una figura particolare denominata «mustabṣir imparziale», qualcuno che potremmo definire come «capace di vedere», oppure «un osservatore perspicace». Si tratta di colui che cerca nella misura del possibile di vedere e penetrare con mezzi intellettuali «la realtà delle cose» (ḥaqā’iq al-umūr)8. Il mustabṣir riconosce l’insufficienza dei suoi mezzi, ma avverte un’esigenza che non lo soddisfa; difatti se considera ciò che riguardo a

Cfr. Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī, Maṭāli‘-i īmān, ed. by C. Chittick, Sophia Perennis, 4.1 (1978) 71-2 (Persian section), cit. in Chittick, «Religious Studies». 7 Cfr., infra, pp. 205-206. 8 Cfr., infra, pp. 207-208. 6

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questi argomenti deriva dalla sua attività teoretica, non la trova tale da rassicurarlo e da acquietare la sua ansia, anche se è quella stessa ansia che lo spinge alla ricerca della «conoscenza della realtà delle cose». Ciò non vuol dire che il mustabṣir non si sia confrontato con le altre scienze, anzi proprio con quelle che sono a disposizione degli uomini, ma a seguito della sua ricerca ha trovato che si trattava di «opinioni e rappresentazioni immaginarie» e che nessuna di esse è saldamente fondata. Come Omar Benaissa osserva: L’homme connaissant est le lieu où progressivement et de plus en plus intensément s’installe la lumière de la science, au fur et à mesure qu’il se dépouille de son ego, et se transmue en réceptacle de plus grande capacité. Si donc le philosophe s’en tient à la méthode aristotélicienne, s’il ne s’impose pas cette transformation d’un genre particulier qui anéantit son moi, ou tout au moins le réduit, il ne pourra jamais goûter la saveur de son savoir, et n’atteindra jamais son «objet» car sa connaissance sera toujours une «opinion», une «théorie», un savoir indirect, déductif, qui se développe par une conceptualisation progressive. Le philosophe est prisonnier de ses créations mentales, au point d’arriver à proférer des idées qui sont perçues comme un blasphème par les croyantes comme de soutenir que Dieu ne connaît pas les particuliers. Ce qui est en contradiction avec le principe pourtant prouvé par les philosophes que Dieu est l’être nécessaire. Comment l’être nécessaire peut-il être imparfait ? Ils ont en fait défini un Dieu, qui est le Dieu des philosophes, et se sont ensuite étonnés de le voir incapable de connaître les individus particuliers qui sont pourtant de sa création9.

L’intera epistola si sviluppa su un pensiero dominante: dimostrare la debolezza della ragione nel suo cercare di guadagnare certezza «sulla realtà delle cose». Ma a quali «cose» si riferisce il nostro autore? Una certa parte di conoscenza è secondo Qūnawī depositata nell’uomo da Dio – e questa è la sua facoltà di percezione (idrāk) – ma c’è qualcosa che gli intelletti non

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Cfr. Benaissa, L’ère de l’homme parfait, p. 143.

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possono conoscere tramite la speculazione e la riflessione, come già detto per l’essenza del Vero e la realtà dei Nomi a Lui attribuiti10. Questa conoscenza, negata razionalmente perché lo strumento intellettuale è inadeguato a comprendere l’oggetto verso il quale si rivolge, è però riservata ad alcuni. Costoro non sono certo i filosofi, né tanto meno i teologi; si tratta invece dei profeti e degli awliyā’ (gli intimi di Dio), quei destinatari che possiedono una predisposizione atta ad accogliere quelle realtà così come si determinano nella scienza del Vero11. Difatti Allāh ha confermato profeti e santi tramite il Suo spirito e grazie a ciò costoro sono riusciti a vedere quello che Egli desiderava sulle realtà dei Suoi Attributi, sui tesori della Sua Generosità e sui segreti del Suo essere. Lo scopo di profeti e santi è allora quello di richiamare l’attenzione degli uomini e di portarli verso il loro Signore, far conoscere tramite la sapienza, l’ammonimento, i miracoli e le indicazioni la via che conduce a Lui e alla beatitudine; e per ubbidire al Comando divino hanno espresso qualcosa di quel che avevano contemplato tramite un linguaggio «fascinoso e simbolico». Gli interlocutori si sono però differenziati nella ricezione del messaggio profetico: vi è stato chi ha accettato la rivelazione in modo incondizionato, ma vi sono stati anche miscredenti ed infedeli; e ancora chi ha creduto in una parte e ne ha negata un’altra, oppure vi è stato chi ha esitato e si è confuso perché «il suo intelletto limitato è incapace di mettere insieme ciò di cui ha avuto abitudine e ha conosciuto, con ciò che gli è stato comunicato e a cui non è abituato»12. «I maestri dell’ordine superiore», citati all’inizio dell’epistola, partecipano, attingono e si abbeverano alla stessa fonte dei profeti; anche loro avevano già raggiunto la stazione della Gente della speculazione, ma ne hanno riconosciuto la debolezza imbattendosi proprio in quegli ostacoli che impediscono di raggiungere la realizzazione. Questo, confessa Qūnawī aprendo uno spazio autobiografico, è proprio il suo stesso caso. Si giunge così ad un altro punto focale della trattazione: Qūnawī spiegherà quali sono le cause che determinano i limiti dell’intelletto e soprattut-

Cfr., infra, p. 206. Cfr., infra, pp. 214-216. 12 Cfr., infra, pp. 216-217. 10 11

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to ciò che comporta la diversità di opinioni tra le genti; insisterà su questo punto in svariati passaggi, segno ciò, di quanto l’argomento gli stia a cuore. Si può ad esempio osservare che esistono molti dati che risultano attestati tramite dimostrazioni e scienze certe ma ciò si verifica solo a causa dell’incapacità di chi non riesce a scoprire le lacune e i vizi insiti nelle premesse delle loro argomentazioni. Solo dopo un certo intervallo di tempo, costoro, o quelli che li hanno succeduti, sono riusciti sagacemente a cogliere un difetto in alcune o in tutte quelle premesse finendo per invalidarle. Una lucida critica è lanciata alla scienza della logica che genera un inevitabile disaccordo tra i pensatori, prova palese questa della sua debolezza. Al contrario, la minoranza costituita dai realizzati (ahl al-taḥqīq) che certo non necessita del criterio logico, è qualificata per ricevere direttamente dal Vero, per attingere dal mare della Sua Generosità, per arrivare a conoscere i segreti del Suo essere. Il sufi conosce le realtà stesse delle cose e non delle astrazioni mentali, ciò si verifica perché l’organo di conoscenza è differente: il cuore riceve una luce che lo rivela a se stesso trasformando l’essere di chi conosce. La distinzione tra le due classi di individui si delinea allora sempre più netta: data questa situazione, riuscire a conoscere le cose solo attraverso la dimostrazione è pressoché impossibile, o quanto meno nella maggioranza dei casi. Avendo a lungo discusso del primo metodo ci si volge ora al secondo: «... cioè voltarsi pienamente e confidare in Dio tramite il denudamento, il completo bisogno [di Allāh], lo svuotamento integrale del cuore da tutti gli attaccamenti mondani, le scienze e le formalità logiche»13. Per raggiungere questa meta l’iniziato dovrà dapprima seguire coloro che si sono già gettati nell’abisso dell’Unione, ad esempio gli Inviati e coloro la cui eredità spirituale è perfetta in scienza, stato e Stazione; dovrà anche sperare che Allāh gli faccia dono di una luce disvelatrice che manifesti le cose così come esse sono. È inoltre indispensabile farsi guidare perché nessuno si converte e si rivolge alla Dignità del Vero, se non dopo aver trovato la giusta strada. L’intento di Qūnawī è quello di cercare di evidenziare la concordanza di opinioni tra sufi e filosofi riguardo alla fallacia della via razionale e per

13

Cfr., infra, p. 229.

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attuare ciò, chiama a testimone il principe dei filosofi Ibn Sīnā estraendo dalla sua produzione un passaggio delle Ta‘līqāt dove il filosofo afferma che l’intelletto giunge solo a conoscere le proprietà, i concomitanti, e gli accidenti delle cose, mentre gli sfuggono le realtà pure14. Questa tesi sarà talmente basilare all’interno dell’intera corrispondenza, da esser controbattuta da Ṭūsī nella sua risposta e ancora ripresa da Qūnawī nell’epistola di chiusura. Qūnawī, giunto fin qui, approfitta del passaggio citato per avviare l’esposizione della sua teoria sull’essere che, durante tutta la trattazione, sarà riproposta in svariate occasioni. Ancora una volta si conclude che la conoscenza delle realtà delle cose secondo la loro semplicità e la loro purezza nella Presenza della Scienza divina unitaria è impossibile e questa volta lo si dimostra affermando che non si può percepire una cosa a partire dalla nostra «unitarietà», in quanto la stessa non è mai priva dei caratteri della «molteplicità»15. Questi princìpi si manifestano sotto forma di segreti molto oscuri, come lo statuto della «Teofania del Vero» che pervade le realtà degli esseri possibili, a cui ha alluso il maestro Ibn ‘Arabī in dei versi poetici ispirati da Dio. Coloro che sono qualificati a conoscere tramite la loro vista interiore, hanno visto fin dall’inizio, che la forma del mondo è «una rappresentazione immaginale» del mondo delle idee e delle realtà essenziali; sanno allora che ogni singolo essere è la forma di un «luogo di manifestazione» e «simbolo» d’una realtà ideale non manifesta16. L’esempio riportato da Qūnawī è quello della vista dell’uomo incapace di percepire le cose visibili irrilevanti – come le particelle fini, i granuli del pulviscolo, ecc. – e le cose visibili elevate, come il centro del disco solare al massimo della sua luminosità. Così com’è il caso per la luce pura e la pura oscurità nel loro costituire due veli, e il fatto che da quel che è intermedio tra i due (la luminosità), deriva ciò che è utile; allo stesso modo gli intelletti e la vista interiore colgono solo gli intellegibili e i conoscibili intermedi tra la non rilevanza e la grandezza, e sono incapaci di percepire

Cfr., infra, p. 252. Cfr., infra, pp. 237-238. 16 Cfr., infra, pp. 240-241. 14 15

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gli intellegibili irrilevanti in maniera definita e distinta, come il moto di crescita e di avvizzimento che si verifica in ogni istante. Lo stesso accade riguardo la percezione delle Realtà elevate, come l’Essenza del Vero, le realtà dei Suoi nomi e dei Suoi attributi. La vera scienza dunque non si ottiene grazie alle facoltà umane, ma è il Vero che dona generosamente l’effusione santa e il sostegno della teofania della Scienza essenziale. Gli intelletti comprendono allora che ogni «bella qualificazione» (waṣf ǧamīl) ha una prima perfezione, un secondo grado intermedio e un terzo che ne è il termine finale di compiutezza. Giunti a quest’ultimo livello esistono solo dei gradi concepibili che rientrano nella maggiore perfezione. Così come Allāh ha posto tre livelli per gli attributi, lo stesso ha fatto per la scienza, che tra gli attributi è il più nobile. Uno di questi livelli è denominato «la scienza della certezza» (‘ilm al-yaqīn), il secondo «la visione della certezza» (‘ayn al-yaqīn), il terzo «il reale della certezza» (ḥaqq al-yaqīn); per cui, quando qualcuno mostra di possedere un’anima nobile, costui può cercare di elevarsi nei livelli degli attributi della perfezione, fino ad arrivare al grado più alto, soprattutto nei livelli della perfezione conoscitiva, da cui dipende la beatitudine. Se a qualcuno è concesso tale livello, aspira a passare dal grado della sua scienza certa alla visione, e in seguito verso la sua realtà. Nel novero degli statuti del grado del «Reale della certezza», vi è la ricerca per assemblare ciò che risulta dalla dimostrazione e ciò che è frutto della visione diretta. Questo è uno dei motivi, conclude Qūnawī, che lo «hanno spinto a realizzare questa raccolta di questioni, e a preferire di osare avventurarvisi avendovi in precedenza rinunciato, nella speranza del successo in questo intento»17. Prima questione: esistenza e quiddità dell’essere necessario La prima questione viene formulata da Qūnawī nei seguenti termini: Secondo voi, è stabilito che l’esistenza dell’Essere Necessario (wuǧūd wāǧib al-wuǧūd) è qualcosa di aggiunto alla Sua realtà (ḥaqīqa), oppure [che] la Sua esistenza è la Sua stessa quiddità (māhiyyatahu),

17

Cfr., infra, p. 245.

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anche se Egli non ha una realtà oltre all’esistenza (al-wuǧūd)? E qual è l’argomento che ne mostri chiaramente la verifica?18

Ritroviamo in questa questione una ben nota diatriba posta anche dalla filosofia medievale occidentale19 secondo la quale Dio non possiede «quiddità», dato che alla domanda «quid est» (in arabo espressa con l’espressione mā huwa) non si può che rispondere «Egli è». Questa questione va in cerca di una definizione, ma l’Essere non ha definizione essendo non delimitato e inconoscibile e, a differenza di tutte le altre cose, non può essere definito con «questo» o «quello». Ponendo allora il problema in altri termini, la quiddità di Dio è identica al suo Essere, mentre nelle cose create essere e quiddità sono distinti. La dottrina sulla quale ci si interroga è notoriamente legata alla celebre distinzione tra la quiddità e l’esistenza posta da Ibn Sīnā20, distinzione presente in tutte le cose esistenti eccetto che in Dio.

Cfr., infra. 248. Basti semplicemente pensare all’opera De ente et essentia di Tommaso d’Aquino che può essere collocata tra il 1252 e il 1256, in cui l’autore intende esporre la definizione dei termini «ente» ed «essenza», delineare le caratteristiche dell’essenza in relazione alle sostanze composte, alle sostanze semplici e agli accidenti, ed esaminare in che modo l’essenza debba essere intesa in rapporto al genere, alla specie e alla differenza. Tommaso apre il suo scritto con un prologo in cui cita Aristotele ed Avicenna: «Poiché – come dice il Filosofo nel I libro su Il cielo e il mondo – un errore piccolo in principio può diventare grande alla fine, e poiché l’ente e l’essenza sono ciò che per primo viene concepito dall’intelletto, come afferma Avicenna all’inizio della sua Metafisica, è necessario, per penetrare nella loro difficoltà e perché non si cada in errore a causa dell’ignoranza di tali termini, spiegare cosa significhino “ente” ed “essenza”, in che modo si trovino nelle diverse cose e in che rapporto stiano con le intenzioni logiche, e cioè con il genere, la specie e la differenza». Cfr. Tommaso, L’ente e l’essenza, a cura di P. Porro, Bompiani, Milano 2002, p. 77. In Dio, per Tommaso, essere ed essenza coincidono; l’essenza di Dio è essere puro. L’essere divino non va però confuso con l’essere universale o comune. Si noti che anche questo punto sarà oggetto della terza questione posta da Qūnawī a Ṭūsī. 20 Tra gli studi su questo tema si vedano: A. M. Goichon, La distinction de l’essence et de l’existence d’après Ibn Sīnā, Desclée de Brouwer, Paris 1937; M. Marmura, «Avicenna on Primary Concepts in the Metaphysics of his al-Shifā’», in R. M. Savory – D. A. Agius (eds.), Logos Islamikos. Studia Islamica in Honorem G. M. Wickens, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1984, pp. 219-39; J. 18

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Nella sua Metafisica Ibn Sīnā dichiara: «Il Primo non ha una quiddità che sia diversa dal suo proprio essere; sei già venuto a conoscenza, all’inizio di questa nostra esposizione, di quel che significa “quiddità” e del perché essa si differenzi dall’essere, laddove se ne differenzi»21. Secondo la studiosa Anne Marie Goichon, pioniera di questi studi, su tale distinzione non sembra esservi stata discussione nell’entourage di Ibn Sīnā; in diversi passaggi il filosofo difatti mette al corrente delle controversie del suo tempo, ma non ci presenta alcuna dimostrazione a riguardo: «C’est pour lui chose admise, évidence toute simple»22. Ibn Sīnā eredita questa distinzione da al-Fārābī (m. 339/950 c.) che l’aveva già intravista23, e probabilmente entrambi l’hanno considerata come dedotta da princìpi aristotelici24 perché non la presentano come una scoperta25. Il termine wuǧūd, di cui Qūnawī si avvale nella formulazione del suo quesito, si riferisce al lessico filosofico di Ibn Sīnā che lo utilizza anche per indicare l’essere o l’esistenza di Dio. In questa introduzione non ci dilungheremo su un’analisi approfondita del termine wuǧūd, anche perché rimandiamo ad una bibliografia che in questi ultimi anni si è variamente ampliata26; quello che qui occorre evidenziare è che, come afferma Olga Lizzini:

Jolivet, «Aux origines de l’ontologie d’Ibn Sīnā», in J. Jolivet – R. Rashed (eds.), Etudes sur Avicenne, Les Belles Lettres, Paris 1984, pp. 11-28; O. Lizzini, «Existence in Ibn Sīnā», Quaestio, 3 (2003) 111-138. 21 Cfr. Avicenna, Metafisica, La scienza delle cose divine (al-Ilāhiyyāt), a cura di O. Lizzini e P. Porro, Bompiani, Milano 2006, trattato VIII, sez. quarta, p. 783. 22 Cfr. Goichon, La distinction de l’essence et de l’existence, p. 130. 23 Cfr. Th. A. Druart, «Le traité d’al-Fārābī sur les buts de la Métaphysique d’Aristote», Bulletin de Philosophie médiévale, 24 (1982) 38-43. 24 Si torni ai Secondi analitici (92b 10), in cui Aristotele afferma: «Il dire che cos’è l’uomo differisce dal dire che l’uomo è». 25 Cfr. Goichon, La distinction de l’essence et de l’existence, p. 131. 26 A titolo esemplificativo citiamo: R. M. Frank, «al-Ma‘dūm wal-mawjūd, the Non-Existent, the Existent, and the Possibile, in the Teaching of Abū Hāshim and his Followers», Mélanges de l’Institut Dominicain d’Études Orientales, 14 (1980) 185209; T. Izutsu, The Concept and Reality of Existence, The Keio Institute of Cultural and Linguitic Studies, Tokyo 1971; O. N. H. Leaman – H. Landolt, s.v. Wudjūd, in Encyclopédie de l’Islam, n. ed. XI, Brill, Leiden 2002, pp. 216-218; S. H. Nasr,

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In order to analyze the notion of existence in the Arabic-Islamic context, with any sort of thoroughness, one would have to investigate many often mutually contradictory elements. An exploration of the meaning of the terms implicit in this notion would need to take into account the difference between the existential and the predicative function of the verb “to be” as well as the theory first found in Arabic philosophy (falsafa) concerning the distinction between essence and existence. At he same time one could not afford to ignore the contribution of theology, in the form of the Qur’an itself and the discussions about the meaning of the term “thing” in the Mu‘tazilte and the Aš‘arite schools; one would also have to include Sufism and the mystical branch of Islamic philosophy, particularly the concept of “unity of existence” (waḥdat al-wuǧūd)27.

Il termine māhiyya a sua volta si contrappone a wuǧūd per significare «quiddità», essenza, ed equivale a ciò che risponde alla domanda filosofica del «che cos’è». Nel chiedere se l’esistenza dell’Essere Necessario sia qualcosa di aggiunto alla Sua «quiddità», Qūnawī utilizza nella stessa frase il termine ḥaqīqa e māhiyya. Ḥaqīqa (veritas), realtà intrinseca di una cosa in opposizione alla sua vanità o nullità, in molti casi rende «quiddità», perché indica «ciò per cui la cosa è ciò che è», quindi ciò in cui essa consiste, come ad esempio l’espressione «animale razionale» è la ḥaqīqa di un essere umano, cioè la verità di una cosa che si accorda esattamente con la sua quiddità. Secondo Ibn Sīnā: Ogni cosa (amr) ha infatti una realtà [ḥaqīqa] in virtù della quale essa è quel che è: così, il triangolo ha una realtà per cui è triangolo, il bianco ha una realtà per cui è bianco; e questa è quanto potremmo chiamare “l’esistenza propria”, senza voler indicare con essa ciò che significa l’esistenza stabilita (ma‘nā al-wuğūd al-iṯbātī); anche con il termine “esistenza”, infatti, si indicano molte intenzioni, e fra di

«Existence (wuǧūd) and Quiddity (māhiyya) in Islamic Philosophy», International Philosophical Quarterly, 29 (1989) 409-428. 27 Cfr. O. Lizzini, «Wuǧūd-Mawǧūd/Existence-Existent in Avicenna. A key ontological notion of Arabic philosophy», Quaestio, 3 (2003) 111.

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esse vi è “la realtà secondo la quale è la cosa”, per cui è come se “ciò secondo cui [la cosa] è” fosse l’esistenza propria della cosa. Torniamo [sull’argomento] e diciamo che è evidente che per ogni cosa vi è una realtà propria che è la sua quiddità [māhiyya] e la realtà propria di ogni cosa – è noto – è diversa dall’esistenza, che è sinonimo del fatto che ne sia stabilita [l’esistenza]28.

La cosa dunque possiede una quiddità che Ibn Sīnā denomina, di volta in volta, ḥaqīqa (verità intrinseca), wuǧūd ḫāṣṣ (esistenza propria), māhiyya (quiddità). Secondo il nostro filosofo inoltre la quiddità si distingue dall’esistenza in senso concettuale (se so che cosa è una cosa, non per questo so che essa esiste), e in senso ontologico: l’esistenza di una quiddità possibile è esterna alla quiddità stessa ed è propriamente ciò che la quiddità riceve dal Principio che la pone in essere; ciò non significa che esistono quiddità inesistenti, si danno solo quiddità esistenti che esistono in quanto poste in essere dal Principio. In tal senso il Primo non ha una quiddità che sia diversa dal suo proprio essere29, mentre ogni cosa dotata di quiddità è un causato. Quest’impianto speculativo consente ad Ibn Sīnā di distinguere il Principio da tutti gli altri esseri esistenti, solo in Dio difatti quiddità ed esistenza non si distinguono, mentre tutti gli altri esseri sono caratterizzati da questa distinzione. Dio sarà per questo definito come l’«Esistente Necessario» mentre le altre realtà come «esistenti possibili» o contingenti, la cui quiddità non implica necessariamente la loro esistenza. Ibn Sīnā riesce così a mantenere Dio e gli esistenti all’interno della stessa sfera metafisica, quella dell’esistenza, ma nello stesso tempo delinea una distinzione decisiva tra Dio e gli esistenti stessi. Secondo Qūnawī sostenere una tesi o l’altra, propendere quindi per l’identità o la distinzione tra quiddità ed esistenza nell’Essere Necessario, non convince «chi è dotato d’intelletto», e a dimostrazione di ciò elenca una serie di argomentazioni logiche sull’esistenza, sul suo essere ipotizzata come accidentale per la quiddità, sulla reale impossibilità di conoscere la realtà dell’Esistente Necessario, concludendo che da qualsiasi aspetto si guardi il problema, non si giunge alla verità30.

Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 73. Ibid., p. 783. 30 Cfr., infra, p. 252. 28 29

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Ṭūsī a sua volta, riprendendo frase per frase l’esposizione di Qūnawī, controbatte che se Dio avesse un’esistenza ed una quiddità distinte, allora a principio di tutto avremmo un «due», ed ogni due ha necessità di un «uno» quale suo principio; ciò che però ha bisogno di un principio non può a sua volta essere principio di tutto. Nel caso dell’Essere Necessario l’esistenza risiede nella Sua quiddità senza un sopravvenire alla Sua quiddità, a differenza degli esseri non necessari, in cui l’esistenza sopravviene loro. Vi sono quiddità che possiedono l’esistenza in modo accidentale e vi è ciò che invece richiede di non essere accidentale31. La questione posta attorno alla distinzione tra quiddità ed esistenza, che non a caso in questa corrispondenza introduce tutte le altre, assume un ruolo centrale; d’altronde quest’argomento filosofico era già stato oggetto di analisi e dibattito tra i pensatori contemporanei a Ṭūsī32.

Cfr., infra, pp. 299-300. Sul dibattito si veda a titolo d’esempio ‘Abd al-Karīm al-Šahrastānī (m. 1153) che nel suo Kitāb al-muṣāra‘a (Il libro della lotta con i filosofi), ingaggia una vera e propria contesa con Ibn Sīnā basandosi sul principio fondamentale dell’assoluta trascendenza di Dio che va al di là dell’esistenza e dalla comprensione della ragione umana. Dio è l’esistenziatore dell’esistenza (mūǧid al-wuǧūd), colui che dà sia l’esistenza che la non esistenza; Egli sta al di sopra degli opposti come la verità e la falsità, l’unità e la molteplicità, la conoscenza e l’ignoranza, la vita e la morte. Al-Šahrastānī non obietterà ad Ibn Sīnā la definizione di Dio come Essere Necessario, ma insisterà sul fatto che l’esistenza può essere predicata di Dio solo in modo equivoco (bi’l-ištirāk). Ṭūsī redigerà una confutazione di queste teorie. Cfr. al-Šahrastānī, Kitāb al-muṣāra‘a. Struggling with the Philosopher. A Refutation of Avicenna’s Metaphysics, a new Arabic Edition and English Translation of Muḥammad b.‘Abd al-Karīm b. Aḥmad al-Shahrastānī’s Kitāb al-muṣāra‘a, by W. Madelung – T. Mayer, The Institute of Ismaili Studies, London – New York 2001; Naṣīr al-Dīn al- Ṭūsī, Maṣāri‘ al-muṣāri‘, Ḥasan al-Mu‘izzī (ed.), Qum 1405/1984. Anche Šihāb al-Dīn al-Suhrawardī (m. 1191) prese posizione su questo problema negando che l’esistenza si aggiunge alla quiddità dato che essa non si può concepire né come sostanza né come accidente. L’esistenza non ha alcuna realtà esterna al di fuori dell’intelletto, che la astrae dagli oggetti, mentre è possibile pensare la quiddità indipendentemente dall’esistenza. La quiddità allora può esistere nel pensiero come in concreto, essa è l’autentico essere, l’esistenza non aggiunge nulla alla quiddità, è solo un modo particolare di considerare la quiddità, o per meglio dire, un suo attributo. Cfr. C. Baffioni, Storia della filosofia islamica, Mondadori, Milano 1991, pp. 294-296. 31

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Ṭūsī reputa questa lettura un vero e proprio fraintendimento della dottrina del maestro Ibn Sīnā e per questo criticherà anche il teologo Faḫr alDīn al-Rāzī (m. 1209) che aveva partecipato alla polemica. In effetti per Ṭūsī questa distinzione risulta puramente concettuale per cui: «L’intelletto è come una natura che può osservare la quiddità isolatamente senza considerare la sua esistenza». Ciò inoltre implica che la quiddità è supposta esistere indipendentemente dalla sua stessa esistenza, ma questo non vuol dire che l’esistenza stessa sia da guardare come un’entità non-esistente perché, come afferma Ṭūsī «non considerare qualcosa non è lo stesso che considerarla essere non-esistente». O per meglio chiarire, l’essere di una quiddità è esso stesso la sua esistenza, per cui essa esisterà o nella mente o in concreto33. Qūnawī constata oltre a ciò che se considerassimo la quiddità dell’Essere Necessario identica alla Sua esistenza, allora conosceremmo la Sua realtà, ma in effetti non possiamo sostenere che Egli sia noto quanto alla quiddità sotto un certo aspetto e sconosciuto sotto un altro, perché altrimenti dovremmo ammettere due lati differenti nella Sua quiddità. Nello stesso tempo vi è un consenso unanime nel non riconoscere aspetti molteplici e diversi nella Sua quiddità, Egli difatti è assolutamente uno, ed inoltre, tutti concordano nel sostenere che la Sua realtà è sconosciuta34. A questa osservazione Ṭūsī afferma che tutto ciò per cui non è probabile un suo possedere molti individui, non ha bisogno di una determi-

Segnalo infine un’altra corrispondenza epistolare svoltasi tra Ṭūsī ed il suo allievo Nağm al-Dīn b. ‘Umar al-Kātibī al-Qazwīnī (m. 1276 o 1294). Al-Qazwīnī scrive al suo maestro su questioni filosofiche e teologiche concernenti le prove dell’esistenza dell’Essere Necessario (iṯbāt mawğūd wāǧib al-wūǧūd); Ṭūsī replica punto per punto, ma anche in questo caso, l’allievo contesterà il maestro replicando alle sue correzioni. Le prove dell’esistenza di Dio passeranno obbligatoriamente da discussioni sul concetto di «necessità e contingenza», dalla «distinzione dell’essenza e dell’esistenza», dalle argomentazioni sostenute dai cosiddetti atomisti e dai teologi ortodossi. Cfr. al-Kātibī al-Qazwīnī, Muṭāraḥāt falsafiyya bayna Naṣīr al-Dīn alṬūsī wa Nadjm al-Dīn al-Kātibī, Muḥammad Ḥasan al-Yāsīn (ed.), Baghdad 1956. 33 L’argomento è trattato nello specifico nello studio di Landolt, «Khwāja Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī (597/1201-672/1274), Ismā‘īlism, and Ishrāqī Philosophy», p. 23. 34 Cfr., infra, p. 250.

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nazione ulteriore rispetto alla sua realtà, poiché la sua realtà, tanto se è la sua esistenza stessa, quanto se è qualcosa cui la sua esistenza sopravviene, è la sua determinazione, perché è improbabile che in esso si verifichi «la partecipazione». Piuttosto, solo ciò che possiede molti individui ha bisogno della determinazione, in quanto ogni suo individuo ha bisogno della determinazione che permette il suo distinguersi dagli altri partecipanti della sua specie. E in questo vi è un «grandioso segreto», e cioè che l’esistenza, la cui nozione si applica al necessario e al possibile in modo equivoco, è un «ente di ragione», poiché l’esistenza nell’ambito delle cose reali non può applicarsi a cose che abbiano l’esistenza in comune. Quell’ente di ragione è predicato dell’Esistenza Necessaria che risiede nella Sua quiddità e che non sopravviene ad una quiddità, e di altri tra gli enti. Se la sua esistenza è considerata nell’intelletto, è allora un possibile non necessario, e il nome dell’esistenza si applica ad esso e al Necessario in modo eccedente rispetto alla sua esistenza individuale e al suo nome35. Secondo Qūnawī, un altro modo di provare che l’esistenza non è identica alla quiddità, è che l’Essere Necessario è principio di altri: a) o perché Egli è un’esistenza, b) o perché Egli è un’esistenza insieme ad una negazione36. Nel primo caso, avendo assunto che l’esistenza è una nozione unica (e univoca), ogni esistenza in quanto tale, di qualunque cosa sia, sarebbe sempre la stessa, e quindi tutte identiche tra loro. Non può quindi essere che Egli costituisca principio per le altre cose per il Suo essere un’esistenza. Nel secondo caso, in termini logici, la negazione della determinazione è costituiva della Sua quiddità ontologica in quanto esistenza, cioè è causa ontologica, perché è in tal senso, in ragione di tale negazione, che Egli sussiste positivamente. Ṭūsī riguardo a ciò specifica che «l’essere principio di altri» dell’Essere Necessario è dato dall’esistenza necessaria che ha per Sé, in senso «essenziale», non nel senso dell’esistenza che di Lui viene predicata e in modo equivoco, quella che le persone raziocinanti specificano con «una condizione negativa». Dopo di che, in effetti possiamo constatare che mol-

Cfr., infra, pp. 301-302. Cioè si giunge ad una sua definizione tramite una negazione, si pensi ad esempio all’affermazione che Dio è infinito servendosi del concetto di finito. Cfr., infra, p. 250. 35 36

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te «negazioni» sono parti delle cause della sussistenza positiva; ad esempio, l’assenza di nubi assieme al sorgere del sole sono causa dell’illuminazione della terra37. Un’ulteriore obiezione sollevata da Qūnawī cita una determinata corrente di pensatori: Un altro modo [di provare il contrario] è che essi hanno dichiarato: è necessario che lo statuto dei singoli individui (afrād) di un’unica natura (ṭabī‘a) sia unico. Poi essi hanno fondato su questa premessa delle questioni, tra le quali vi è la confutazione della dottrina del vuoto come dimensione immateriale (bu‘d muğarrad). Essi infatti hanno dichiarato: la natura della dimensione è una, e se [tale natura] fosse perciò immateriale, che sia perciò tale in tutto, allora il corpo sarebbe una dimensione immateriale. Questo è un contrasto38.

Ṭūsī risponde affermando che la risposta a quest’osservazione è già stata data e cioè che la «dimensione» ed il «corpo» appartengono a quel genere di nozioni che si applicano in modo univoco, a differenza dell’esistenza predicata degli enti in modo equivoco. Quanto all’unità e alla molteplicità, sono due accidenti, e la loro separazione dalla materia avviene solo nell’intelletto. Il caso dell’esistenza è però diverso in quanto essa sussiste per essenza nel principio. A questo punto Qūnawī riporta delle citazioni tratte direttamente dal maestro Ibn Sīnā nel suo Kitāb al-Ta‘liqāt (Libro delle annotazioni). La prima è quella già proposta ed accennata nell’epistola introduttiva: 1) Tra quanto conferma quel che abbiamo menzionato, vi è quanto ha riconosciuto il maestro principe, il sigillo dei sapienti e il fior fiore dei filosofi, [Ibn Sīnā] ed è ciò che abbiamo scelto in precedenza di non citare, come si è allora indicato. Proseguendo abbiamo ripreso la cosa qui, perché ne abbiamo percepito il bisogno tangibile. Abbiamo perciò dato indicazioni con quel poco di ciò che è stato menzionato. Queste sono le sue parole: «La comprensione (wuqūf)

37 38

Cfr., infra, p. 302. Cfr., infra, p. 251.

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delle realtà (ḥaqā’iq) delle cose è al di fuori delle capacità umane. Noi infatti delle cose conosciamo solo le proprietà, i concomitanti e gli accidenti. E non conosciamo le distinzioni costitutive di ciascuna di esse che conducono alla sua realtà. Sappiamo però che esse sono cose dotate di proprietà, accidenti e concomitanti. Non conosciamo perciò la realtà del Primo [Essere], né dell’intelletto, né dell’anima, né della sfera [celeste], né del fuoco, né dell’aria, né dell’acqua, né della terra. E neppure conosciamo la realtà degli accidenti». Poi fece al riguardo degli esempi chiari e attestò quel che era sua intenzione attestare39.

In effetti bisogna ritornare al testo delle Ta‘līqāt ed esaminare fino in fondo l’argomentazione di Ibn Sīnā: Esempio di ciò è che non conosciamo la realtà della sostanza (ḥaqīqa al-ǧawhar), ma abbiamo conosciuto una cosa che possiede questa proprietà, ed essa è40 «l’esistente che non è in un soggetto» (al-mawǧūd lā fī mawḍū‘). E questa non è la sua realtà. E non conosciamo la realtà del corpo (ḥaqīqa al-ǧism), ma conosciamo una cosa41 che possiede queste proprietà: la lunghezza, la larghezza, la profondità42. Non conosciamo la realtà dell’animale (ḥaqīqa al-ḥayawān), ma invece conosciamo una cosa43 che possiede la proprietà della percezione e dell’azione (al-idrāk wa’l-fi‘l), ma la percezione e le azioni non sono la realtà degli animali, ma una proprietà o un concomitante. E la reale differenza specifica (alfaṣl al-ḥaqīqiyy) che gli appartiene non la cogliamo e per questo si verifica la differenza [di opinioni] a proposito delle quiddità delle cose (māhiyyāt al-ašyā’), perché ognuno coglie un concomitante

Cfr., infra, pp. 252-253. Nel testo di Ibn Sīnā wa huwa è da emendare con wa hiya. 41 Nel testo «causa» (sabab) è da emendare con «cosa» (ša’y). 42 Stessa argomentazione nella Metafisica di Ibn Sīnā: «Ecco, se di esso diciamo che è “un corpo”, con ciò non intendiamo semplicemente l’insieme della forma corporea con la materia, alle quali tutte queste cose accadrebbero dall’esterno; noi intendiamo, piuttosto, qualcosa che è non in un soggetto e che ha lunghezza, larghezza, profondità». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 505. 43 Nel testo arabo nell’edizione di Badawī si legge sabab (causa), ma molto probabilmente si può emendare con šay’ (cosa). 39 40

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diverso da quello che coglie l’altro e giudica in conseguenza di ciò il concomitante [che ha colto]44. Noi abbiamo solamente stabilito [l’esistenza] di una cosa determinata, quando abbiamo riconosciuto che è tale in funzione di una proprietà che gli appartiene o per delle proprietà, poi di quella cosa abbiamo conosciuto delle altre proprietà per mezzo di ciò che avevamo conosciuto prima, poi abbiamo conseguito la conoscenza della sua esistenza: come accade per l’anima, per il luogo ecc. fra le cose di cui abbiamo stabilito la loro quiddità particolare. Così non conosciamo tramite le loro essenze (ḏawāt), ma dalle relazioni (niṣab) che possiedono con le cose che di esse conoscevamo o tramite degli accidenti che gli appartengono o tramite un concomitante. Un esempio è il [caso] dell’anima: abbiamo visto un corpo che si muove e abbiamo provato per quel movimento un motore. Abbiamo visto un movimento differente rispetto ai movimenti degli altri corpi allora abbiamo riconosciuto che [quel corpo] possiede un motore proprio o che possiede una qualità propria che non appartiene agli altri [corpi] mossi. Poi siamo risaliti da proprietà a proprietà, da concomitante a concomitante, e da questi siamo giunti alla sua esistenza (anniyya), così non conosciamo la realtà del Primo [Essere] ḥaqīqa al-awwal) ma conosciamo da ciò che Lui di necessità possiede l’esistenza o che è qualcosa che di necessità possiede l’esistenza. E questo è uno dei concomitanti, non è la realtà45.

Il dato che guadagniamo dalla lettura di questo brano delle Ta‘līqāt è che l’unica possibilità che l’intelletto ha, grazie al fatto di conoscere le proprietà e i concomitanti, è quella di giungere alla anniyya della cosa, cioè riuscire a cogliere l’esistenza della cosa in quanto tale46.

Questo brano sembra riecheggiare la questione già affrontata da Qūnawī sulla causa delle divergenza di opinioni. 45 Cfr. Ibn Sīnā, al-Ta‘līqāt, ‘Abd al-Raḥmān Badawī (ed.), al-Qāhira 1973, pp. 34-35. 46 La anniyya è la traduzione letterale del termine aristotelico τό εἷναι, e dunque designa il fatto che una cosa è, il suo «che». Nell’uso prevalente dei filosofi islamici indica l’esistenza, cioè l’esistenza nella realtà di un individuo particolare in opposizione alla sua natura intrinseca, la sua quiddità (māhiyya). Anne Marie Goichon mette in rilievo l’ambiguità di questo termine dato che il significato oscilla tra «esistenza» ed «essenza particolare». Si veda Goichon, Léxique, pp. 9-12. E inoltre: «Il semble que le sens avicennien, insistant en effet sur l’être, soit cependant celui d’essence propre réalisée, ou 44

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Passiamo allora alla risposta di Ṭūsī in riferimento a questa argomentazione. Il termine oggetto della discussione è, come detto inizialmente, la ḥaqīqa al-ašyā’. Bisogna cercare ora di capire cosa intendono i due corrispondenti con quest’espressione47. Ṭūsī dichiara che, riguardo alla frase: «La comprensione della realtà delle cose è al di fuori delle capacità umane», Ibn Sīnā intende con «le cose» gli esistenti individuali concreti (al-a‘yān al-mawǧūdāt)48 che si denominano «nature» degli enti, ed ha menzionato ciò solo per spiegare la difficoltà della loro definizione, non intende perciò l’impossibilità di conoscere le realtà degli intelligibili. Ṭūsī imposta quindi la sua argomentazione su un altro piano citando i seguenti esempi: Chi non si è fatto l’idea dell’essenza vera del corpo, come giudicherà dell’impossibilità del trovarsi assieme di due corpi in un unico

mieux de sujet réel pris quant à son essence». Cfr. Goichon, La distinction de l’essence et l’existence, p. 43. 47 Riguardo alla definizione di šay’ in un passaggio del Kitāb al-naǧāt (Libro della Salvezza) Ibn Sīnā afferma che: «La cosa è sia un’essenza concreta (‘ayn), esistente, sia una forma esistente nell’estimativa e nell’intelligenza tratta dalla cosa concreta». Cfr. Ibn Sīnā, al-Naǧāt, al-Qāhira 1331-1913, p. 15. [Traduzione mia]. Lo stesso nella Metafisica del Kitāb al-šifā’ (Libro della guarigione): «Con la “cosa”, dunque, si vuole indicare quest’intenzione, e il fatto che ad essa consegua necessariamente l’intenzione dell’esistenza non se ne separa mai. Anzi, l’intenzione dell’esistenza la segue sempre: essa infatti o è esistente nei singoli [individui] oppure è esistente nell’estimativa e nell’intelletto. E se non fosse così, non sarebbe una cosa». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 75. Il termine šay’ è stato introdotto dal lessico teologico a quello filosofico da al-Fārābī. Šay’ può essere detto per ogni cosa che possiede una certa quiddità, sia essa esterna all’anima o comunque sia concepita, divisibile o indivisibile, mentre mawǧūd può essere detto di ciò che ha una quiddità extramentale. In questo senso šay’ ha un significato di maggior estensione che mawǧūd. Sull’argomento si veda: Al-Farabi’s Book of Letters (Kitāb alḥurūf), Arabic Text, ed. with Introd. and Notes by M. Mahdi, Dār al-Mashreq, Beirut 1969; Th. A. Druart, «Shay’ or Res as Concomitant of Being in Avicenna», Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale, 12 (2001) 129. 48 «‘Ayn, pluriel a‘yān, c’est un des mots désignant l’essence, mais avec la nuance particulière de l’essence existant concrètement dans un individu donné, d’où le sens d’individu. “La chose” est ou bien une essence existante (concrèt) ou bien une forme existant dans l’estimative et l’intelligence». Cfr. Goichon, Léxique, p. 257.

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spazio, in modo immediato? [...] E chi non si è fatto l’idea della quiddità vera del dieci e del cinque, come giudicherà che il dieci è il doppio del cinque? E chi non si è fatto l’idea della quiddità vera del triangolo, come giudicherà che i suoi angoli equivalgono a due retti? Nell’insieme, tutte le scienze certe si fondano sulla conoscenza delle realtà degli enti, che ne sono i concetti, affinché funzionino i giudizi basati su di essi49.

Il passaggio comporta dunque una certa problematicità, Ṭūsī sembra voler forzare l’argomentazione di Qūnawī per riportarla dentro i canoni logici avicenniani. Ibn Sīnā quindi, sempre secondo Ṭūsī, non intendeva asserire che è impossibile all’uomo conoscere la realtà degli intelligibili, quegli intelligibili sui quali ogni scienza certa si fonda, e per questo sposta l’argomentazione su un piano logico e sulla conoscenza di quei concetti, che se non fossero all’uomo conoscibili, comporterebbero l’impossibilità della conoscenza stessa50. In effetti se torniamo alla gnoseologia di Ibn Sīnā, questa non sembra contemplare la possibilità di una conoscenza puramente «intellettiva» delle cose particolari in quanto tali del mondo sublunare (cioè in quanto composte di materia e forme); di queste ultime si dà solo una conoscenza che, oltre ad essere intellettiva, è anche, e necessariamente, «sensibile», cioè implica una conoscenza sensoriale. L’anima, in sintesi, conosce la forma di queste cose grazie all’intelletto, e la loro materia grazie ai sensi. Da ciò si conclude che per conoscere le cose nella loro interezza, l’intelletto non è sufficiente, ma vi è bisogno anche della sensazione. D’altronde non bisogna dimenticare che la materia

Cfr., infra, p. 303. Secondo il sistema logico di Ibn Sīnā, possiamo conoscere le cose tramite il loro concetto o tramite l’assenso (taṣdīq). Il primo è acquisito grazie alla definizione e ciò che le è analogo (come conosciamo il senso della parola triangolo); il secondo è acquisito tramite il sillogismo e ciò che gli è analogo (come sappiamo che ogni triangolo ha degli angoli uguali a due retti). Definizione e assenso sono due strumenti di conoscenza tramite i quali l’intelletto passa da «ciò che è acquisito a ciò che è cercato» e arrivano a realizzare nelle nostre intelligenze una cosa che prima non esisteva. Cfr. Ibn Sīnā, Livre de Directives et Remarques (Kitāb al-Išarāt wa’l-Tanbīhāt), trad. avec introd. et notes par A. M. Goichon, éd. Vrin, Beyrouth – Paris 1951, p. 81. 49 50

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è anche il principio di individuazione delle cose materiali, quindi le cose materiali vengono conosciute nella loro individualità solo grazie alla percezione sensoriale (la quale coglie il loro aspetto materiale). Uno dei passi che dà forza a questa teoria è il seguente: Inoltre, se [le cose] che si corrompono sono intellette nella [loro] quiddità astratta e in quel che di non individuato le consegue, esse non sono intellette in quanto corruttibili; ma se, invece, venissero percepite in quanto si accompagnano ad una materia, alle cose che accadono a una materia, a un [determinato] tempo e a una [determinata] individuazione, esse non sarebbero intellette, bensì sentite o immaginate51.

2) Qūnawī, per confermare la sua tesi, cita un secondo brano delle Ta‘liqāt: «Noi non conosciamo la realtà del Primo [Essere]. Sappiamo di Lui solamente che Egli di necessità possiede l’esistenza, oppure che è qualcosa che possiede di necessità l’esistenza. E questa [esistenza] è uno dei suoi concomitanti, non la sua realtà». Grazie a questo concomitante, prosegue Ibn Sīnā, veniamo a conoscerne altri come l’unicità e il resto degli attributi divini. Ma la realtà di Dio, nella misura in cui è possibile coglierla, è che Egli è l’Esistente per Sua Essenza (ḏāt). In effetti però il significato delle parole «che Egli possiede l’esistenza a causa della Sua Essenza» indica qualcosa di cui non conosciamo il senso reale, così come la Sua realtà non è l’esistenza stessa e non è una qualsiasi delle essenze, poiché per le essenze l’esistenza è estrinseca alle loro realtà, cioè non è direttamente implicata nella loro realtà ontologica, mentre nel Suo caso, nella Sua Essenza (ḏāt) risiede la causa dell’esistenza. Ossia, continua Ibn Sīnā: O l’esistenza rientra nella Sua definizione nel modo in cui il genere e la differenza specifica rientrano nella definizione degli [enti] semplici, nella misura in cui queste due cose sono assegnate ad essi [enti] dall’intelletto, cosicché l’esistenza è una parte della Sua definizione, non della Sua realtà, così come il genere e la differenza specifica sono parti delle definizioni degli esseri semplici, non delle

51

Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 815.

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loro essenze (ḏawāt); oppure Egli possiede una realtà al di sopra dell’esistenza e l’esistenza è uno dei concomitanti di quella52.

Anche a ciò Ṭūsī risponde puntualmente ritenendo che questo passaggio del suo maestro non è altro che la spiegazione dell’impossibilità di arrivare fino alla quiddità intima del Primo Principio, e quando Ibn Sīnā scrive: «Oppure Egli possiede una realtà al di sopra dell’esistenza e l’esistenza è uno dei concomitanti di quella»53 intende indicare l’esistenza di Dio quale ente reale, quella che non può essere colta dall’intelletto di nessuno. 3) Nell’ultimo brano delle Ta‘līqāt citato da Qūnawī, Ibn Sīnā afferma che per l’uomo è impossibile conoscere la realtà di qualcosa perché il principio della conoscenza delle cose è il senso. Inoltre l’uomo, tramite l’intelletto conosce alcuni concomitanti della cosa, le sue attività, le sue influenze e le sue proprietà; ma per quanto l’individuo tenti, otterrà una conoscenza generica, non certa, e non riuscirà mai ad abbracciare tutti i concomitanti. Al contrario, se l’uomo conoscesse la realtà della cosa, da questa discenderebbe ai suoi concomitanti e alle sue proprietà; invece il procedere della conoscenza funziona al contrario rispetto a come sarebbe necessario. Ṭūsī insiste: i filosofi hanno riconosciuto che la conoscenza della causa comporta la conoscenza dei suoi effetti, ciò porta ad una conoscenza completa; la conoscenza dell’effetto invece non comporta quella della sua causa se non in modo incompleto. Secondo Ṭūsī, anche in questo passaggio Ibn Sīnā si è espresso in modo generico, riferendosi comunque alle esistenze individuali concrete, perciò anche in questo caso non vi si può trovare alcunché che permetta di concludere che gli intelligibili non siano colti. Avviandosi a concludere l’esposizione dell’intera questione, Qūnawī spiega qual è la posizione del contemplativo: l’«esperienza diretta» concessa alla Gente del Vero da parte di Dio comporta che il punto di partenza della loro conoscenza è la conoscenza del Vero, tramite il Vero, e non per

52 53

Cfr., infra, p. 254. Cfr., infra, p. 304.

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mezzo dei loro intelletti; conoscendo il Vero grazie al Vero, costoro conoscono le loro anime e tutto ciò che il Vero vuol far loro vedere. Questa secondo i contemplativi è la prova che è impossibile che qualcuno conosca la realtà di una cosa, finché non conosce il Vero; inoltre, cercare di determinarLo – sia sostenendo che la Sua esistenza sia aggiunta alla Sua realtà, sia che sia identica ad essa – non corrisponde a come il Vero è in Se stesso e da entrambe le affermazioni non otterremo una verifica perché ognuna di questa è formulata in modo incompleto. A quest’argomentazione Ṭūsī non può che arrendersi, anche perché comprende che il suo interlocutore discute su un piano sovrarazionale; riconosce dunque che questo è un argomento del quale non può avere idea chi non partecipa di ciò che Allāh effonde per via disvelativa. Nell’epistola conclusiva al-Hādiyya Qūnawī tornerà sulla questione della distinzione della quiddità e dell’esistenza per scioglierne definitivamente la problematicità: ciò che si ottiene dalla conoscenza per disvelamento è che ogni concezione del Vero si realizza attraverso un «intendere cogitativo» tinto però da facoltà miste, contingenti e relative alla possibilità; gli atti di intellezione di questo tipo non saranno perciò scevri da «limitatezza» e da una certa «molteplicità» che influenzeranno la concezione stessa. Per tale ragione la maggior parte dei «realizzati» ha affermato che, quando si rimane nell’ambito dell’intendere, la determinazione più perfetta del Vero e la più conforme alla realtà delle cose è data dal determinarLo nell’intellezione del Primo Intelletto. Se invece un «realizzato» afferma: «Certo la realtà del Vero è sconosciuta, e si può ottenere la Sua conoscenza» con ciò non intende dire che il Vero possiede una «realtà » oltre alla Sua esistenza, ma che Egli, quando Lo si intende come libero dalla molteplicità esistenziale, cioè dagli intendimenti e dalle determinazioni limitate, non è condizionato da alcuna descrizione o da qualche relazione, né si rivela in un qualche grado, né si fa afferrare da qualcuno che percepisce. Sarà allora corretto asserire che Dio è visto e non è visto, è conosciuto e non è conosciuto, senza limitarlo nell’assolutezza o in qualche condizionamento. Tutto ciò va inoltre inteso nel senso che Egli non possiede un’assolutezza cui si oppone un condizionamento, o un’unità cui si contrappone una molteplicità, perché in rapporto a questa assolutezza, non vi è l’esigenza di qualcosa che abbia dei legami con Lui, né di alcunché che proceda da Lui, né della connessione della Sua Scienza con nient’altro. È questo allora il modo in cui si porrà la relazione della

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quiddità e non dobbiamo credere che Egli abbia una quiddità oltre alla Sua esistenza54. Quest’argomentazione sembra a questo punto concludere la diatriba, ma Qūnawī avverte ancora l’esigenza di tornare sull’argomento ed aggiungere: Allora torno indietro e dico: la scuola di pensiero del Maestro principe [Ibn Sīnā], in base a quanto ha citato nelle Ta‘līqāt, è concorde al pensiero dei realizzati, riguardo a quanto abbiamo menzionato, e cioè che la conoscenza delle realtà delle cose così come esse sono, attraverso il metodo della speculazione cogitativa, è impossibile. E il giudizio dell’intelletto condizionato dal pensiero, che gli universali non si conoscano se non dai particolari e ciò che sta dopo di essi, e che gli universali non abbiano una forma intelligibile eterna da sempre che sia determinata nella conoscenza del Vero e nelle intelligenze immateriali, ma che si tratti invece di cose presupposte che non assumono alcuna realtà in loro stesse, su ciò si discute. Ma la cosa sta effettivamente nel modo in cui l’hanno compresa i realizzati attraverso il disvelamento e la visione55.

In questo brano risuona uno di quei punti fondamentali delle dottrina di Ibn ‘Arabī che Qūnawī eredita dal suo maestro: la teoria delle al-a‘yān al-ṯābita, cioè delle «essenze immutabili» o «entità archetipe». Tale dottrina si basa sulla concezione che gli universali possiedono una forma intelligibile eterna e ben determinata nella conoscenza divina. L’essenza divina in Sé è Assoluta e Incondizionata, Inqualificata e Infinita, ma l’Assoluto per Sé abbandona questo stato di «tesoro nascosto»56 per desiderio d’essere conosciuto; comincia allora a manifestarSi grazie ad un’emanazione santissima, suo movimento naturale ed essenziale. In un primo grado ontologico l’Assoluto non Si manifesta che a Se stesso, non discende ancora nel grado della molteplicità e conserva la Sua unità originaria; si tratta di una manifestazione che si situa nell’eternità e

Cfr., infra, p. 344. Cfr., infra, p. 352. 56 L’espressione «tesoro nascosto» indica la pienezza divina universale cui allude il ḥadīṯ qudsī (detto santo): «Ero un Tesoro nascosto e amai essere conosciuto, allora creai le creature al fine d’essere conosciuto (Kuntu kanzan maḫfī wa aḥbabtu (o aradtu) an u‘raf fa-ḫalaqtu’l-ḫalqa li-u‘raf)». 54 55

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in cui tutte le forme di tutti i possibili sono presenti in potenza nella Sua coscienza. Questo stato in cui vi è un’unità potenzialmente molteplice, è detta wāḥīdiyya, o unicità; il molteplice qui è pura intelligibilità e non è ancora situato nell’esistenza concreta. Si tratta di realtà (ḥaqā’iq) che appartengono al mondo dell’invisibile (ġayb) e in quanto intellegibili sono chiamate da Ibn ‘Arabī al-a‘yān al-ṯābita. Nel Miftāḥ al-ġayb Qūnawī esprime chiaramente questi sottili concetti nei seguenti termini: Noi affermiamo: l’Essere, nel profondo della Realtà divina (fī ḥaqq al-ḥaqq), è la Sua essenza stessa, ma per ogni altra cosa, è qualcosa che si aggiunge alla sua realtà. La Realtà di ogni esistente consiste nell’esprimere qual è il suo rapporto di determinazione (ta‘ayyun) nella «conoscenza del suo Signore» pre-eternamente. Nella terminologia dei Realizzati tra la Gente di Allāh, è nominata‘ayn ṯābita, e in quella degli altri māhiyya, e [anche] l’oggetto conosciuto non-esistente [al-ma‘lūm al-ma‘dūm], la cosa permanente [al-šay’ al-ṯābit], eccetera57.

E nei Nuṣūṣ, tornando sull’argomento, spiega: Because the essences are known [to God] and their intelligible forms are determined in God’s essential and eternal knowledge, it follows that they cannot possibly be created (maj‘ūla) owing to the impossibility of anything new arising in God’s Essence, and the impossibility of His containing anything other than Himself, or of His being contained, not to mention other absurdities which are only too clear to those who consider the matter attentively. Accordingly, neither the verifiers from among the folk of intuition, nor those from among the partisans of rational inquiry, regard [these essences] as having been created, for the created is synonymous with the existent. Hence whatever [like the essences] has no existence is not created. Indeed, if they were existent then the determination of the

Cfr. Sadroddīn Qonyawī, La clef du monde suprasensible (Miftah al-ghayb). Introduction historique et philosophique, édition critique du texte, traduction et commentaire par Stephane Ruspoli. Thése presentée à l’Université de Paris IV, Sorbonne [non pubblicata], p. 127. [Traduzione mia]. 57

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objects of God’s immutable knowledge would inevitably affect Him in some way, despite the fact that they are in no way external to Him that knows them (al-‘ālim bi-ha). The truth of the matter, therefore, is that they in themselves are non-existent (ma’dūm fī anfusi-ha), their sole reality (thubūt) being in self of the knower58.

L’Assoluto appare allora sotto le forme delle essenze immutabili, forme che sono pronte a ricevere l’esistenza e che esistono permanentemente ed eternamente solo nella Conoscenza divina. Da un punto di vista filosofico, esse corrispondono a quelle entità che sono dette «universali» e che si situano al di là dei particolari; comprendere allora come si attualizzi la Manifestazione divina nell’esistenza esteriore tramite le essenze immutabili, corrisponde al problema dell’individuazione degli universali. Secondo la dottrina di Ibn Sīnā, l’universale è ciò che può dirsi o predicarsi di molti; gli universali e i particolari vengono concepiti come una proprietà dell’«esistente», l’universalità è un attributo che è proprio di una natura determinata (si pensi ad esempio alla «cavallinità») non in quanto questa venga considerata di per sé, ma solamente in quanto esistente nell’intelletto, che ha la capacità di connetterla con i molteplici esistenti reali (i cavalli che effettivamente esistono) e di cui essa rappresenta la natura. Tornando al testo di Ibn Sīnā a proposito leggiamo: «L’universale in quanto universale, infatti, non esiste in sé stesso, isolatamente»59, l’universale cioè, in quanto universale, non esiste nella realtà esterna come una sostanza. Gli universali esistono in atto nell’anima, e solo in potenza nella realtà esterna: Le cose generali sotto un certo aspetto sono esistenti all’esterno e sotto un altro aspetto non lo sono; ma che una stessa cosa, numericamente

Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 91. Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 467. Tutto il quinto trattato della Scienza delle cose divine del Kitāb al-Šifā’ verte sull’universale (al-kull), su questo tema si veda inoltre: E. Marmura, «Quiddity and Universality in Avicenna», in P. Morewedge (ed.), Neoplatonism and Islamic Thought, SUNY, New York 1992, pp. 7787; A. De Libera, La querelle des universaux. De Platon à la fin du Moyen Âge, Seuil, Paris 1996. 58

59

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una, sia in sé predicabile di molti, essendo predicabile di questo individuo, in quanto questo individuo è tale, e allo stesso modo di un altro individuo, ebbene l’impossibilità di ciò è evidente e diventerà ancor più evidente. No! Le cose generali, in quanto sono in atto generali, esistono soltanto nell’intelletto60.

Qūnawī prosegue ed osserva che Ibn Sīnā stesso ha affermato che non pertiene all’uomo cogliere l’intelligibilità delle cose senza la mediazione della loro sensibilità, e questo a causa dell’imperfezione della sua anima e del suo bisogno, nella conoscenza delle forme intelligibili, della mediazione delle forme sensibili. Quanto al Primo [Intelletto] e alle intelligenze separate, dal momento che esse hanno intellezione delle loro essenze, non hanno bisogno per comprendere le forme delle cose intelligibili, delle loro forme sensibili e del loro sentire; esse colgono invece le forme intelligibili dalle loro cause che non mutano, di conseguenza la cosa da loro intelletta è immutabile. Ibn Sīnā ha inoltre affermato che ogni individuo particolare ha un’intellezione che corrisponde alla sua sensazione e proprio questo suo dire è in accordo con ciò che Qūnawī ha sostenuto e compreso, quindi l’intenzione di Ibn Sīnā nel dire: «La comprensione delle realtà delle cose è al di fuori delle capacità umane» fino alla fine della sezione, è la spiegazione dell’impossibilità di conoscere le realtà quanto alle loro forme intelligibili, determinate nella Scienza del Vero da sempre e per sempre, così come nelle essenze delle intelligenze immateriali. Contrariamente a quanto risposto da Ṭūsī, Ibn Sīnā dunque non intendeva «la conoscenza delle proprietà dei temperamenti e delle nature», ma unicamente la conoscenza delle realtà originarie. Ulteriore prova di tutto ciò è l’aver portato ad esempio la conoscenza della quiddità del Vero, dell’intelletto, dell’anima, della sfera celeste, e della realtà del corpo universale in quanto intelligibile; Qūnawī difatti non ritrova in questi, qualcosa da cui si possa intendere alcunché di collegabile ai temperamenti, alle nature e alle proprietà. Egli è talmente certo che Ibn Sīnā stia sostenendo la stessa dottrina dei muḥaqqiqūn da concludere che

60

Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 465.

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il disaccordo con l’interlocutore derivi da una trascrizione non completa dell’epistola da lui inviata, altrimenti anche Ṭūsī non sarebbe potuto giungere che alle sue stesse conclusioni. Segue ancora un elenco delle espressioni in cui Ibn Sīnā appare accordarsi al pensiero dei «realizzati» e contrapporsi alla tesi di Ṭūsī: «La conoscenza è il conseguimento delle forme dei conoscibili nell’anima»61. Oppure: «E le forme degli esseri esistenti assumono una rappresentazione nell’Essenza del Creatore, in quanto sono Suoi oggetti di conoscenza. E la Sua conoscenza di essi è la causa della loro esistenza»62. Per quanto poi riguarda ciò che Ṭūsī ha risposto a proposito del Vero: «Che se Egli avesse un’esistenza e una quiddità, il principio del tutto sarebbe duplice, e che ogni “due” ha bisogno di un “uno” che sia il principio del “due”, e chi ha bisogno di un principio non sarà principio di tutto»63, qualcuno potrebbe obiettare che questo sarebbe consequenziale solo se chi sostiene la quiddità pretendesse che in questo caso la dualità fosse reale e non mentale. Difatti Ṭūsī ha affermato che la dualità in questo caso è mentale e su ciò Qūnawī concorda, poiché la dualità, come l’unità, non è che un attributo in relazione ad una quiddità conoscibile che si determina nell’intelligere di chi descrive. Resta però da sapere se la determinazione della cosa in se stessa sia come la sua determinazione nell’intellezione di chi descrive, oppure no. Infatti è chiaro che descrivere il Vero – come ad esempio dire di Lui che è uno, o che è l’Essere necessario, o che è il Principio del tutto – è

Cfr., infra, p. 354. Cfr., infra, p. 354. Per questi riferimenti si veda in particolare la Metafisica di Ibn Sīnā 8.7, il capitolo riguardante la relazione dell’Essere Necessario con gli intellegibili e che i suoi attributi, sia affermativi che negativi, non determinano in esso alcuna molteplicità nella sua essenza: «Il [Primo], perciò, ha intellezione delle cose d’un sol colpo, senza moltiplicarsi in virtù di esse nella Sua sostanza o senza che esse vengano rappresentate nella realtà della Sua essenza secondo le loro forme: le loro forme fluiscono dalla Sua intellettualità». Ed inoltre: «Ti resta dunque da esaminare lo stato che riguarda l’esistenza delle [cose] come intelligibili: [se esse] siano esistenti nell’essenza del Primo, come i conseguenti che [necessariamente] lo accompagnano o se abbiano invece un’esistenza separata dall’essenza [del Primo] e di ciò che è diverso da Esso, come forme separate e secondo un ordinamento, essendo poste nella regione della Signoria [divina] o, infine, se siano tali in quanto esistenti in un’intelligenza o in un’anima». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., pp. 827 e 831. 63 Cfr., infra, p. 368. 61 62

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preceduto dalla certezza di qualcosa d’altro dello stesso Vero; cosicché in un primo momento, chi descrive distingue il Principio rispetto a ciò che secondo lui non è adatto ad essere principio, e finisce con l’attribuire al Principio Nomi e Attributi che la sua ragione vede e ritiene essere attributi di perfezione a Lui convenienti. Ma ogni vera relazione di un attributo con un qualsiasi soggetto bisogna che sia preceduta dalla conoscenza della realtà dell’attributo, del soggetto e del giudizio riguardo alla relazione. La questione si rivela quindi davvero complessa in quanto si deve considerare se il giudizio sia diverso secondo il soggetto della relazione, e tener conto di chi giudica secondo la sua modalità di comprensione. Avendo chiarito tutto questo, ora sappiamo che il riferimento della negazione e dell’affermazione, da parte di chi afferma e di chi nega, si riconduce a ciò che si determina del Vero secondo il modo d’intendere di costui e non al Vero stesso, perché in effetti viene a mancare la corrispondenza tra la determinazione del Vero presso chi Lo intende e la Sua determinazione nel Suo intendere Se stesso, in relazione alla conoscenza che Lui ha di Se stesso. Tutto ciò vale anche nel caso degli attributi divini e della loro relazione con il Vero, o della loro negazione nei Suoi riguardi; perché se fosse ammissibile la corrispondenza tra le due determinazioni, ossia come il Vero viene determinato da un altro che lo intende e la determinazione del Vero nel Suo intendere Se stesso, ne conseguirebbe la conoscenza dell’Essenza del Vero, ma ciò risulta impossibile. Se allora è impossibile conoscere la realtà, allora si potrà applicare al Vero il nome «quiddità» solo in quanto si considererà il Suo essere sconosciuto. E difatti nel momento in cui Lo intendiamo non facciamo altro che determinare per Lui dei condizionamenti; per questa ragione i contemplativi non affermano che «Egli ha una quiddità oltre alla Sua esistenza». La Sua realtà invece sta oltre ciò che di Lui si conosce e oltre all’esistenza che è in relazione a Lui o che è in relazione ad altro. Non si può d’altronde neppure dire che «la quiddità non è esistente né non esistente, non è un attributo né qualcosa che ha attributi»; al contrario, tutto ciò non farà altro che rimandare proprio a quegli aspetti e a quelle divergenze causate dalle determinazioni che si formano nel nostro modo d’intendere64.

64

Cfr., infra, pp. 369-371.

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Seconda questione: le essenze possibili La seconda questione viene così formulata da Qūnawī: Le quiddità possibili sono «fatte» (maǧ‘ūla)65 o sono «non fatte»? E secondo entrambe le ipotesi, esse sono – rispetto al loro essere essenze e basta – entità esistenziali (umūr wuǧūdiyya), nel senso che hanno una sorta di esistenza, o sono entità non esistenti (umūr ‘adamiyya)?66

Per poter comprendere i termini che costituiscono questa domanda, bisogna risalire ad un’altra dottrina metafisica basilare di Qūnawī e all’utilizzo di alcuni suoi termini tecnici attinti dal maestro Ibn ‘Arabī. Tra il mondo del visibile (‘ālam al-šahāda), quel mondo cioè che possiamo vedere con i nostri occhi, e il mondo dell’Invisbile (‘ālam al-ġayb) – o più specificamente, la conoscenza che Dio ha delle cose di questo mondo – si gioca la relazione tra la dimensione non-manifesta (bāṭin) e quella manifesta (ẓāhir). È importante tener presente che il mondo manifesto acquista tutto ciò che possiede da Dio, quindi solo Dio in realtà esiste. L’Essere è la vera natura di Dio, le altre cose esistono, o «possiedono essere», solo perché Egli profonde esistenza; ogni cosa è locus di teofania per l’Essere divino, Dio dispiega Se stesso nella forma delle cose esistenti, e a sua volta ogni cosa diviene il simbolo di una realtà ontologica. Se vogliamo concepire queste realtà in categorie universali, le chiamiamo «Nomi» o «attributi divini» e tutte le cose saranno allora comprese come riflessi di questi: i Nomi sono la parte interna, le cose le manifestazioni esteriori. Qūnawī designa dei Nomi divini che aspirano a manifestarsi sotto gli attributi di un essere particolare che diverrà vestigio (aṯar) del Nome stesso. L’essere particolare che ne deriva non intaccherà in alcun modo l’unità di questo Nome e se guardiamo all’aspetto interno delle cose, prese singolarmente e non secondo delle categorie universali, vedremo questo «inter-

65 66

Nel senso anche di «create». Cfr., infra, p. 257.

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no» prospettarsi come una realtà (ḥaqīqa) o significato (ma‘nà), o ancora come «archetipo permanente, immutabile» o «ecceità eterna»: secondo la terminologia akbariana già citata ‘ayn ṯābita. Il termine ‘ayn in arabo illustra chiaramente l’identità essenziale che vi è tra la forma e il significato, tra l’interno e l’esterno; ‘ayn è applicato da Ibn ‘Arabī anche all’esistente possibile (mumkin) o alla quiddità (māhiyya), o semplicemente alla cosa (šay)67. Le ‘ayān al-ṯābita sono delle realtà che Qūnawī a sua volta chiama «gli oggetti della conoscenza divina» (ma‘lūmāt), e grazie a queste si afferma che Dio conosce ogni cosa nel suo dettaglio dall’eternità. Conoscendo ogni realtà, significato ed archetipo, Dio conferisce loro l’esistenza al momento appropriato, divenendo così manifesto all’esterno come un «esistente» o «forma». Ogni entità (‘ayn) è allora conosciuta dall’eternità e per questo è detta permanente (ṯābita), essa possiede difatti la stessa caratteristica della conoscenza di Dio, quella dell’immutabilità. Come esposto dalla domanda di Qūnawī, gli archetipi permanenti sono qui chiamati «essenze possibili», e questa definizione va intesa nel senso che, in base a quanto precedentemente detto, gli archetipi sono essenzialmente possibili in quanto mantengono la loro «intelligibilità» senza essere individualizzati. Altro punto determinante che caratterizza la dottrina relativa agli archetipi, o essenze delle cose possibili, è che «il loro essere è inesistente» (ma‘dūm). Un celebre passaggio dei Fuṣūṣ al-ḥikam di Ibn ‘Arabī a riguardo così spiega: Gli archetipi sono essenzialmente caratterizzati dalla non esistenza. Essi sono, senza dubbio, «permanentemente sussistenti» ma sono tali solo nello stato di non-esistenza. Essi non hanno mai avvertito il profumo dell’esistenza, perciò rimangono eternamente in quello stato malgrado la molteplicità delle forme (che essi manifestano nelle cose sensibili)68.

67 68

Cfr. Su‘ād al-Ḥakīm, al-Mu‘ǧam al-ṣūfī, Dandara, Bayrūt 1981, p. 831. Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op.cit., p. 76 [Traduzione mia].

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Non si tratta certo di un’inesistenza assoluta, perché in effetti gli archetipi permangono nell’Intelletto divino; possiamo dunque affermare che essi non sono né esistenti né non-esistenti. Questi presupposti ci fanno comprendere cosa vuol dire affermare che «le essenze possibili» non sono fatte, o prodotte, nel senso che Dio non ha fatto le essenze possibili nel modo in cui sono, bensì esse sono gli oggetti della Sua conoscenza dall’eternità, quindi non hanno inizio; Egli in effetti «non fa» un uomo o qualsiasi altro esistente, ma dà solo l’esistenza ad una realtà che Egli conosce già dall’eternità69. Se spostiamo però l’argomentazione sul piano della speculazione filosofica, la questione dell’esistenza o meno delle «essenze possibili» rimanda al problema degli universali che vengono a porsi al di là dei particolari; così come, discutere sulla relazione che gli archetipi instaurano con il mondo, corrisponde a trattare la relazione ontologica tra universali e particolari. Anche su questo piano e linguaggio Ibn ‘Arabī non lesina la sua dissertazione: Noi sosteniamo che le cose universali sebbene non abbiano in sé esistenza in atto, sono indubitabilmente intellegibili ed oggetto di conoscenza nella mente. Esse rimangono interiori (bāṭina) e mai abbandonano lo stato di esistenza determinata, esercitando il loro potere ed effetto su ogni cosa che ne fa parte, o piuttosto, esse non sono altro che esse, voglio dire: non sono che le qualificazioni di quest’esistenza. Queste in sé non cessano mai di essere puramente intelligibili. Esse sono perciò esteriori rispetto al loro essere esistenze determinate ed interiori rispetto al loro essere intelligibili. Ogni cosa determinata dipende dagli universali che non possono, né essere separati dall’Intelletto, né cessare d’essere intelligibili. Questa situazione non viene infirmata dal fatto che una particolare esistenza individuale appaia essere qualcosa di temporalmente condizionato o qualcosa che si situi al di là delle limitazioni di tempo, perché un universale può essere in relazione sia con realtà temporali che atemporali70.

Un universale rimane eternamente lo stesso anche manifestandosi nelle particolari individualità, ma dato che ogni particolare ha una sua pe-

Sull’argomento cfr. W. chittick, «Commentary on a Hadith by Sadr al-Din Qunawi», Alserat, 4.1 (1980) 23-30. 70 Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op. cit., pp. 51-52 [Traduzione mia]. 69

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culiare natura, l’universale deve avere una sua attinenza al particolare per attualizzarsi in esso, quindi, gli universali vengono «tinti» caso per caso tramite un colore particolare. Comprendiamo così la seconda parte della domanda di Qūnawī che verte sulla «tipologia» di esistenza di queste quiddità possibili, o archetipi, o universali; la questione posta a Ṭūsī difatti suona: «Hanno una sorta di esistenza? O sono inesistenti?». Relativamente allo stato ontologico degli universali, Ibn ‘Arabī sostiene che essi non possiedono un’esistenza individuale concreta nel mondo sensibile, anche se non sono un puro nulla perché possiedono una loro esistenza intelligibile: È evidente che queste «cose universali» sebbene siano intellegibili, sono sprovviste di realtà propria e che esse non esistono che grazie al loro potere reggente. Quando entrano in relazione con le esistenze individuali esse stesse sono influenzate da queste ultime. Ricevono cioè l’effetto positivo dalle esistenti e individuali eccetto la particolarità di essere fisicamente distinte e divisibili. Ciò è assolutamente escluso che si verifichi [ad un universale]. Esso rimane infatti immutabile in tutti gli individui che sono da esso qualificati. Per esempio la «qualità umana» appare in ogni persona che fa parte della specie umana, senza essere né divisa, né sottomessa al numero perché essa riguarda una pluralità di persone, e senza cessare di essere intelligibile. È perciò chiaro che esiste reciprocamente uno stretto legame tra le cose che possiedono un’esistenza determinata e le cose che sono prive di una tale esistenza71.

Precisato ciò torniamo alla struttura della trattazione. Qūnawī impugna la sua capacità dialettica e impianta la sua argomentazione senza escludere alcuna possibilità. La prima ipotesi suppone che: 1) le essenze possibili siano «non fatte», e quindi non esistenti. Se le essenze possibili fossero «non fatte», non avrebbero una loro consistenza ontologica (quella dell’essere possibile), non acquisirebbero l’esistenza da altro e sarebbero allora necessarie tanto quanto l’Essere Necessario.

71

Cfr. ibid., pp. 52-53 [Traduzione mia].

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Per meglio chiarire: se queste realtà metafisiche fossero dotate di un’esistenza, accompagnerebbero l’Essere divino nel Suo atto di manifestazione provocando una moltiplicazione dell’essere pre-eterno, cosa che non può accadere. Inoltre, se queste realtà fossero instaurate nell’essere dalla pre-eternità, sarebbero di già esistenti ancor prima che l’esistenza non le abbia qualificate dell’essere. Si verificherebbe allora quella che Qūnawī denomina «l’attualizzazione di un oggetto già in atto» (taḥṣīl al-ḥāṣil), altrimenti detto ci troveremmo di fronte a due realtà d’essere distinte di cui si dovrebbe tra l’altro spiegare la differenza tra l’una e l’altra e giustificarne l’utilità. Oppure, anche ipotizzando che le essenze possibili acquisiscano una seconda esistenza diversa dalla prima, cioè di quella che già possedevano nella pre-eternità, anche questo si rivelerebbe non valido perché gli «esseri possibili» non hanno che un’unica esistenza di cui tutti partecipano, cioè l’esistenza che è data loro dall’Essere Necessario e che li rende perfetti. Ṭūsī a quest’argomentazione risponde che quando ci si trova di fronte al termine ǧa‘ala (il fare dell’instaurazione creatrice), bisogna fare una distinzione: o ci si sta riferendo ad un «far essere» nel senso di bada‘a (creare immediatamente) e quindi «fare» significa che si devono contemplare le essenze come opera diretta di Dio, oppure ci si riferisce ad un agente secondario che fa essere qualcosa diversamente da com’è, e in questo caso si deve affermare che le essenze sono «non fatte», poiché sarebbe assurdo accettarle come «fatte secondariamente»72. Secondo Ṭūsī inoltre, la quiddità considerata in quanto soltanto quiddità, non è un’entità esistenziale, perché presa in se stessa, non può essere qualcosa di diverso da se stessa. Il filosofo ammette però per essa un’esistenza, in quanto, se viene concepita nel pensiero, questo le dà un’esistenza intelligibile; quando la si riscontra nella realtà esterna allora possiede l’esistenza come ente reale, esistenza che gli è donata dal Datore di esistenza. La quiddità possibile inoltre ha un tipo di esistenza «anteriore ad essa» (cioè la sua intelligibilità), un’esistenza concomitante ad essa (cioè l’esistenza in quanto reale), «un’esistenza posteriore ad essa» (cioè il suo essere intelligibile in seguito alla sua esistenza). Qūnawī a sua volta pone in atto una seconda ipotesi:

72

Cfr., infra, p. 305.

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Le essenze possibili «sono fatte» ma non sono «entità esistenziali». Se così fosse Dio sarebbe principio di una nullità senza fine, Egli sarebbe la Causa del distinguersi di una quiddità dall’altra, e come Effetto si avrebbe una «non-cosa» che non potrebbe mai essere - in quanto non esistente - la causa del distinguersi delle essenze, perché altrimenti ciò che non esiste dovrebbe avere un effetto su ciò che esiste. Se poi ancora non fosse Dio a determinare la distinzione tra le essenze possibili, ma neppure esse stesse, allora il moltiplicarsi che ontologicamente esiste, sarebbe un attributo di qualcosa che non esiste. Chiaramente anche questa ipotesi è impossibile. Si provi allora a sostenere che: 3) le essenze «sono fatte» e possiedono un certo essere, ma così si torna al problema sollevato poc’anzi in cui ci trovavamo a dover spiegare la differenza tra le due diverse esistenze e l’utilità che deriva da ognuna di esse. Inoltre, in tale contesto, non troveremmo una terza entità oltre Dio e agli esseri possibili cui attribuire l’effetto. Ṭūsī commenta questi ragionamenti osservando che denudare le essenze della loro esistenza possibile, sia essa mentale o concreta, e nello stesso tempo attribuire loro una sussistenza positiva, significa affermare che il non esistente sia qualcosa, dottrina assolutamente nulla. Qūnawī giunge infine ai risultati prodotti dalla «visione certa e dal gusto valido» avviandosi ad anticipare la sua posizione: le essenze sono «non fatte» e hanno una sorta di esistenza unica, in quanto dobbiamo considerarle determinate nella Scienza eterna del Vero. Siamo qui di fronte al concetto di ma‘lumāt, quei conoscibili eterni oggetto della Scienza divina. La Scienza del Vero, nella stazione (maqām) della Sua unità esclusiva, è identica alla Sua quiddità, quindi, eccetto le connessioni che s’instaurano tra un conoscitore e l’oggetto conosciuto, non vi si trova alcuna molteplicità. Bisogna sempre tener presente difatti che l’Assoluto in atto ed esteriormente è «uno», ma non di un’unità statica, bensì dinamica, tanto da essere al contempo interiormente e potenzialmente molteplice. Se attingiamo alla Scienza divina, prosegue Qūnawī, ciò che ne deriva è un determinare i conoscibili in essi stessi, e non come entità esistenziali o in rapporto alla Scienza del Datore d’esistenza. Ogni conoscibile, grazie alla sua predisposizione universale «non fatta», riceve l’esistenza dall’Assoluto per un atto di effusione che a sua volta si moltiplica secondo le diverse ricettività di quelle predisposizioni universali che si determineranno poi nelle varie essenze.

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Ogni quiddità ha una sua peculiarità che non si spiega come determinata da qualcosa di esterno ad essa, perché le essenze, come già affermato, sono «non fatte»; nel novero delle determinazioni d’essere di queste peculiarità vi è la precedenza di alcune possibilità rispetto ad altre riguardo all’esistenza, la prevalenza di una rispetto all’altra, il loro ricevere l’esistenza e il loro manifestarsi in modo più completo una riguardo all’altra. Anche in questo caso giunge a sostegno della discussione una citazione a detta dell’autore attribuita ad Ibn Sīnā: Il moltiplicarsi degli aspetti della possibilità e della sua potenza, in rapporto ad alcune cose possibili, è implicato nella posteriorità della loro esistenza e della loro ricezione di essa dal Datore di esistenza, non in modo completo; e il non moltiplicarsi degli aspetti della possibilità, per il ridotto numero degli intermedi e la loro rimozione, è implicato nel contrario di ciò73.

Nella risposta a questo passaggio Ṭūsī accosta la teoria secondo la quale le essenze sono «non fatte» ma hanno una sorta di esistenza, a quanto affermavano i Mu‘taziliti che sostenevano una sussistenza delle essenze nello stato di non esistenza. Il filosofo chiude infine il discorso esprimendo una sua personale considerazione: «Può darsi che il nostro Maestro (mawlānā) – che Dio prolunghi i suoi giorni! – intenda qualcosa di diverso, che il discepolo desideroso d’imparare non comprende»74. Ṭūsī estende questa constatazione anche alla dottrina di Qūnawī sulla predisposizione universale «non fatta» che diverrebbe molteplice in vari ricettacoli; difatti Ibn Sīnā, con l’espressione il «moltiplicarsi degli aspetti della possibilità», intendeva dire che la possibilità ammette ciò che è più intenso e più debole, la prossimità all’esistenza e la lontananza da essa, o il divenire, e non quello che Qūnawī riesce a leggere nei brani estrapolati dalle opere del maestro. Effettivamente si ha l’impressione che i due autori si stiano muovendo su due piani differenti d’interpretazione: Qūnawī sottintende e mantiene

Fino ad oggi non ho rintracciato questa citazione nell’opera di Avicenna, quanto meno alla lettera. 74 Cfr., infra, p. 308. 73

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tutto l’impianto akbariano, Ṭūsī legge e spiega filosoficamente l’elaborazione avicenniana. Nell’epistola finale, Qūnawī torna sull’argomento ancora una volta ribattendo che le essenze denotano le forme degli «intendimenti divini», i loro concomitanti ed effetti sono conosciuti da sempre e per sempre, determinati nell’Intendimento divino con il quale instaurano una relazione conoscitiva. Questa relazione viene denominata dai «realizzati» con il termine «rappresentazione» che è una qualità che si attribuisce al Vero. La molteplicità relativa ai vari aspetti conoscitivi, non mina l’unità della conoscenza, anzi gli intendimenti – in quanto intelletti dal Vero – si dissolvono nella Sua unità. Sotto quest’aspetto allora il «realizzato» affermerà che le essenze sono «non fatte», mentre, in quanto le creature le intelligono tramite la loro speculazione cogitativa, esse sono «fatte». Ma questa distinzione di cui parlano i realizzati, non viene conseguita e colta tramite la speculazione, bensì solo grazie ad un’attrazione spirituale che Dio attua su alcuni dei Suoi servi, che liberatisi dal loro corpo e dalla loro anima, elevandosi attraverso mondi superiori, si uniscono con il Primo Intelletto. Là viene riservata al realizzato la vera prossimità, cioè il primo grado del congiungimento dove attingerà direttamente da Dio senza la mediazione di un intelletto, di un’anima o di altri intermediari superiori ed inferiori; egli scoprirà allora ciò che è inciso nella Scienza del Vero, intenderà le essenze nelle loro determinazioni eterne allo stesso modo in cui le intende il Vero in rapporto alla «relazione conoscitiva essenziale unitaria attiva», non secondo le loro possibilità relative e secondo un’idea di possibilità, «né nel modo del loro determinarsi nell’intendimento di coloro che sono velati dagli intelletti limitati»75. Terza questione: l’essere generale comune Alle due questioni precedenti si collega la terza: Quel che viene chiamato «essere generale comune» (al-wuǧūd al‘āmm al-muštarak) rispetto al suo essere solo un’esistenza e basta, è

75

Cfr., infra, pp. 350-351.

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da annoverare tra i possibili oppure no? E nel caso sia un possibile, ha una realtà (ḥaqīqa) oltre al suo essere un’esistenza oppure no?76

Come ben chiaro, al centro dell’attenzione resta ancora «l’essere» visto secondo un’altra sua sfaccettatura che Qūnawī non intende trascurare; questa questione difatti non solo risulta consequenziale alle precedenti domande e sembra riprendere la dottrina avicenniana sugli universali, ma non a caso occupa questa posizione nella sequenza della corrispondenza. Se difatti seguiamo l’ordine d’esposizione della Metafisica di Ibn Sīnā, notiamo come il filosofo, dopo aver trattato della distinzione tra quiddità ed esistenza in Dio, si sposta sulla dottrina degli universali primi, essendo l’universalità e la particolarità considerate una proprietà dell’esistente. Ma anche in questo caso, a seguito di queste considerazioni, è necessario soffermarci su cosa Qūnawī intenda con l’espressione «essere generale comune». Seguendo una sua definizione fornitaci nel Miftāḥ al-ġayb apprendiamo: «In ragione dell’unità del suo essere, dall’Essere divino non può che procedere un Uno, poiché è impossibile che l’Uno produca altro che l’Uno. Questo Uno per noi è l’Essere generale»77. L’Uno puro, causa delle cause, viene identificato all’Essere divino percepito come unità essenziale o Essere puro; l’Uno che procede dall’Essere unico non è altra cosa dall’essere generale, non si differenzia dall’Essere puro che dal punto di vista della manifestazione e Qūnawī rifiuta l’eventualità di una distinzione di quiddità tra i due. D’altronde una distinzione a riguardo (tra Essere puro ed Essere generale) porrebbe due cause distinte dell’essere, ipotesi davvero inconcepibile. Anche in questo caso è la percezione intuitiva (kašf) che ci aiuta a superare la difficoltà; essa difatti riesce a mantenere la simultaneità della trascendenza assoluta dell’Essere unico e della sua autodeterminazione generale sotto le diverse modalità ontologiche: Quest’essere unico (o generale) che «accade» alle creature non-necessarie non differisce in realtà dall’Essere del Vero, il Nascosto, se-

76 77

Cfr., infra, p. 263. Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit., p. 128. [Traduzione mia].

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parato dagli esseri concreti e dalle forme epifaniche, eccetto che per certi rapporti ed aspetti come la manifestazione, la determinazione, la diversificazione risultante dalla congiunzione ontologica e dalla condizione tramite cui l’essere generale riceve un certo status comune (ḥukm al-ištirāk); e lo stesso è per le qualificazioni che a lui si collegano in conseguenza del suo legame con le forme epifaniche78.

Possiamo allora considerare l’essere come l’Unico che trascende ogni determinazione, e in questo caso si tratta di al-ḥaqq (il Vero), il nascosto (bāṭin), il non rivelato. Ma appena l’Essere riceve certi attributi che velano la Sua quiddità pur rivelandola, e nella misura in cui si unirà alle creature, questo Unico rivestirà la forma dell’essere generale presentandosi come «rivelabile». Qūnawī designa ancora l’essere generale come il Primo Vestigio (alaṯar al-awwal), l’Epifania perpetua (al-dā’im al-ẓuhūr), la teofania che penetra le realtà del mondo; esso è la quiddità stessa dell’Essere Necessario, quindi ne ha gli attributi di semplicità e di autonomia, costituisce inoltre il rapporto di perfetta generalità e il termine «comune» dell’Essere nel senso in cui presenta l’effusione dei Suoi attributi. Quest’essere generale è comune al Calamo supremo (al-qalam al-‘alà) che è il Primo esistenziato, anche chiamato Primo Intelletto (al-‘aql al-awwal), e all’insieme degli esistenti. Non è come ne parla la Gente della speculazione tra i filosofi, contrariamente ai realizzati, cioè che non esiste che il Vero e il mondo. Il mondo non è qualcosa che si sovraggiunge a delle realtà conosciute da Dio pre-eternamente79.

I filosofi qui citati non menzionano «l’essere generale» e trasferiscono al Primo Intelletto la funzione mediatrice tra l’Uno ed il molteplice facendone anche il Primo emanato. Per Qūnawī il primo emanato è invece «l’essere generale», il Primo Intelletto è un possibile (mumkin) ed è impossibile che un «non-necessario» sia il principio della manifestazione. Ibn Sīnā aveva dichiarato nella Metafisica: «Ora, nelle intelligenze separate non può esservi alcuna molteplicità, se non nel senso in cui dirò

78 79

Cfr. ibid., p. 130. Cfr. ibid., p. 128.

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e cioè che il causato è per sé possibilmente esistente, mentre in virtù del Primo è necessariamente esistente»80. Proprio questo sarà l’argomento che metterà in opposizione la scuola di pensiero di Qūnawī con gli avicenniani: la contingenza del primo creato. Il principio della manifestazione deve essere attribuito all’«essere generale» che qualifica ogni quiddità del predicato dell’essere. Come dimostrato, solo l’Essere divino è identico alla Sua quiddità, perché in Lui essere e quiddità sono una sola ed identica cosa, proprietà che non vale per il primo Intelletto, perché questi, essendo il Primo esistenziato, riceve la sua quiddità dall’«essere generale» e non da se stesso. Il mondo quindi non è una seconda realtà che viene ad aggiungersi all’essere, ma solo un processo di manifestazione di realtà divine fondato dall’atto di conoscenza permanente di cui Dio investe le creature. L’«essere generale» è inoltre identificato da Qūnawī con l’epiteto di nafas al-Raḥmān (il respiro del Misericordioso), teofania esistenziatrice primordiale che penetra la totalità del reale81. Riprendiamo dunque la questione così come affrontata all’interno della corrispondenza. Qūnawī procede come di consueto ponendo alcune ipotesi: se quest’essere generale comune – nonostante l’asserzione in base alla quale esso è qualcosa di comune a tutte le cose possibili – ha

Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 929. Il primo causato, in quanto pensa il proprio principio, si pensa «necessario»; considerando semplicemente se stesso, si pensa «possibile». 81 Questa ben nota dottrina del pensiero ibnarabiano viene così esemplificata da Toshihiko Izutsu: «È di dominio comune che, quando tratteniamo il fiato per qualche momento, l’aria compressa nel petto provoca una sofferenza intollerabile e, nel momento in cui si sarà raggiunto il limite estremo non essendo più in grado di trattenersi ulteriormente, l’aria verrà espulsa violentemente. Si tratta di un fenomeno naturale il fatto che quest’ultima, compressa nel petto, cerchi con tutte le sue forze di sfuggire e che infine esca rapidamente. Così come l’aria fuoriesce dal petto dell’uomo, così l’esistenza, trattenuta nella profondità dell’Assoluto, assumendo la forma della Misericordia, emana dall’Assoluto. Ciò è detto “Soffio del Misericordioso” (al-nafas al-Raḥmāniyy). Lo stato che precede l’uscita del Soffio di Misericordia è descritto da Ibn ‘Arabī con un termine altrettanto espressivo: karb. Esso è derivato da una radice che ha il significato di “sovraccaricare” o “colmare all’eccesso” ed è usato per designare lo stato in cui lo stomaco, per esempio, è eccessivamente sazio. Si tratta di uno stato di estrema tensione, che precede immediatamente un’emissione causata da 80

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una quiddità oltre al suo essere un’esistenza, si prospettano due modi di vedere la cosa: 1. o si considera quell’entità comune in quanto è un’esistenza, quindi indipendentemente dalla sua quiddità; 2. oppure la si considera includendo la sua quiddità. Dal secondo caso consegue che una cosa possibile deve essere un’entità comune a tutti i possibili. Dal primo caso invece consegue che la prima cosa a procedere dal Vero debba essere proprio l’essere generale e non il Primo Intelletto. Se invece l’essere generale non ha una quiddità oltre alla sua esistenza, ne consegue che la sua esistenza dovrebbe essere la sua quiddità stessa; ecco che allora non sarà un essere possibile, perché il possibile è ciò che ha bisogno del Necessario nell’acquisire la sua esistenza. Ma dato che le essenze non sono fatte, allora l’«essere comune» dovrebbe anch’esso essere non fatto e in questo modo perderebbe il suo essere possibile, che però era stato presupposto da Qūnawī. Il ragionamento si rivela dunque non attendibile82. Ṭūsī in riferimento a questo passaggio ribatte che «l’essere generale comune» può essere solamente di natura intellettuale, è reale solo nell’intelletto, per cui la sua rappresentazione intellettuale avrà come causa l’intelletto stesso

un’eccessiva quantità accumulata interiormente. “A causa di questo sovraccarico (cioè allo scopo di alleviare l’eccesso di questa tensione interiore) l’Assoluto espira. Il soffio è attribuito al Misericordioso (è detto ‘Soffio del Misericordioso’) perché (l’Assoluto sotto il Nome di) Misericordioso mostra la Sua Misericordia per mezzo di questo Soffio verso le divine Relazioni (cioè i Nomi) e ottempera alla loro richiesta affinché le forme del mondo siano poste in esistenza”. Misericordia, come si è visto prima, significa concessione di esistenza. Così l’“uscita” del soffio del Misericordioso va intesa come una espressione simbolica che indica la automanifestazione dell’Essere, o l’Atto divino che pone in esistenza le cose del mondo. Nell’immagine particolare fornita da Ibn ‘Arabī questo fenomeno può essere anche descritto come se i Nomi prorompessero nel mondo reale dell’esistenza. I Nomi, in quanto immagine, sono originariamente in uno stato di intensa compressione nell’Assoluto e, raggiunto l’estremo limite, “prorompono” dal seno dell’Assoluto. Ibn ‘Arabī descrive con questa suggestiva immagine il processo ontologico per mezzo del quale i Nomi si attualizzano nelle forme sensibili. In ciò consiste la nascita del mondo come totalità delle cose esistenti esteriormente». Cfr. T. Izutsu, Sufismo e Taoismo, a cura di A. De Luca, Mimesis Edizioni, Milano– Udine 2010, pp. 160-161. 82 Cfr., infra, p. 264.

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e per questo sarà un possibile. Inoltre esso avrà un’altra esistenza grazie alla quale sussisterà nell’intelletto; quest’esistenza è diversa dalla prima, ed ecco che allora sarà «l’esistenza dell’esistenza». L’esistenza, dal canto suo, fa parte dei termini equivoci, e ciò vale sia per la prima che per la seconda esistenza; quando allora si considera il luogo di inerenza della seconda esistenza, non si dice di esso che è una quiddità, ma si dice: è un’esistenza ed ha un’esistenza, e per la sua esistenza v’è un’esistenza, così via finché la mente non si arresta. Concependo quindi la questione in questi termini cadono tutti i problemi sollevati da Qūnawī. Dall’argomentazione esposta sembra proprio che Ṭūsī stia dibattendo sull’«essere generale comune» riferendosi a quello che Ibn Sīnā aveva inteso per «universale», e cioè che l’universalità è un attributo che afferisce ad una determinata natura, ad esempio alla «cavallinità», non in quanto questa viene considerata di per sé, ma solo in quanto esistente nell’intelletto, che a sua volta è capace di connetterla con i cavalli effettivamente esistenti. L’universalità quindi accade alla natura della cosa solo quando essa è nell’intelletto, o per meglio dire, nella rappresentazione mentale83. Qūnawī osserva inoltre che è difficile determinare con certezza la differenza tra l’essere del Vero e l’essere generale, poiché la «possibilità», come intesa dalla Nobile scienza, è l’equivalenza tra il ricevere la manifestazione da parte del possibile e la non manifestazione. Questo senso però non si addice all’essere generale poiché esso è indipendente da qualcos’altro perché è un’esistenza «non fatta»; esso dunque non è un possibile bensì un necessario. Secondo questa ipotesi allora l’essere generale non potrà effondersi dal Vero perché è «non fatto» e avrà una predicazione essenziale, quella dell’essere «accidentale» per altri. Se invece ancora supponiamo che l’essere generale non abbia tale predicazione, ma che Dio sia la causa del suo sopravvenire ai possibili, esso, anche se «non fatto», non richiederebbe per la sua quiddità di essere accidentale per un qualcosa. Qūnawī però non accetta questa possibilità perché da questa conseguirebbe che il risultato dell’effusione del Vero e il suo effetto nei possibili sarebbe un certo «sopravvenire», che è «non fatto», ad ogni cosa che è «non fatta», e nient’altro.

83

Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 471.

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Il «sopravvenire» in effetti è una relazione ed il realizzarsi di ogni relazione dipende dai due termini della relazione, quindi se le cose stessero in quel modo, ne conseguirebbe l’incapacità da parte del Necessario di attuare da sé l’atto che dà esistenza, quindi la sua inutilità. Oltretutto, se dal Vero non procedesse né essere comune né effusione, il Vero non sarebbe principio dell’esistenza di alcuna cosa né sua causa. Ciò risulta chiaramente falso. Se poi ritenessimo come valido che l’esistenza del Vero è un attributo del Suo «essere», e che Egli ha una realtà aggiunta all’esistenza unica, in tal caso ne conseguirebbe che «l’essere comune» deve essere più «completamente semplice» del Vero e allo stesso tempo essere a Lui «equivalente». I due sarebbero allora da una parte comuni e dall’altra distinti, e ciò per cui si crea la comunanza non sarà ciò per cui vi è distinzione, conseguendone quindi che in entrambi si debba intendere una certa composizione, mentre li abbiamo supposti essere entrambi semplici. Anche questo è un evidente contrasto. L’argomentazione si snoda ancora lungamente attraverso sottili e forbiti passaggi logici che Ṭūsī però sembra non considerare nel dettaglio, difatti l’interlocutore chiude l’argomentazione con una brevissima risposta, affermando che, all’asserzione di Qūnawī secondo cui «è difficile stabilire con certezza ciò che distingue l’essere del Vero dall’essere generale»84, si replica che la differenza consiste nel fatto che l’esistenza del Vero è relativa al suo essere un ente reale, non ha un’esistenza che le sopravvenga, mentre, come già detto, l’essere generale non si realizza se non che nell’intelletto. Infine, la verità incontrovertibile è che l’Essere necessario per Sua Essenza non può essere che una cosa reale la cui esistenza è identica alla sua quiddità; e quel che è descritto con tale qualità non può che essere «uno sotto ogni aspetto e necessario da ogni punto di vista»85. La questione si conclude nell’epistola conclusiva, la Hadiyya, che riporta la dottrina di Qūnawī secondo cui gli intelletti, limitati dai pensieri e soggetti a condizionamenti, sono incapaci di cogliere le cose universali nei loro gradi originari. Ciò che al contrario si ricava dalla «visione certa», nel momento dello svuotarsi dell’anima dalle proprietà delle sue percezioni parziali, è che la comprensione delle realtà universali è precedente alla comprensione delle percezioni parziali.

84 85

Cfr., infra, p. 264. Cfr., infra, p. 310.

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L’anima perciò comprende dapprima le realtà universali, come l’essere generale, poi comprende le particolarità di ogni realtà universale e i suoi concomitanti secondo il modo in cui si determinano nella Presenza del Vero. Lo stesso vale per la Scienza del Vero riguardo alle realtà delle cose e degli esseri esistenti, poiché la Sua Scienza si connette dapprima con il Primo Intelletto e solo in seguito con gli enti specifici. Quarta questione: dall’Uno non procede che un uno La quarta questione affronta la tematica dell’Uno secondo la nota massima filosofica «dall’Uno non procede che un uno»86. Anche questo argomento si pone come punto emblematico tra quelli maggiormente discussi negli ambienti filosofici dell’epoca; il problema di fondo in effetti si pone in questi termini: se il Primo Principio dev’essere assolutamente semplice ed uno, come può dare origine ad una molteplicità? La riflessione s’innesta non solo nella speculazione precedente elaborata da Ibn Sīnā, ma risale ad Abū Yūsuf Ya‘qūb al-Kindī (180/796 c., 295/873 c.) e ad Abū Naṣr al-Fārābī, che la ereditano dal pensiero greco filtrato dall’Alessandro e dal Temistio arabo, fino al Plotino arabo della celebre pseudo-Teologia di Aristotele87. In questa trattazione ci limiteremo a riportare la posizione di Ibn Sīnā, che come nelle altre questioni già esposte, si rivela il riferimento principale sotteso alla trama dello scambio epistolare; la sua teoria può essere sintetizzata nei seguenti termini: poiché l’Essere Necessario o Primo Principio è assolutamente uno sotto ogni aspetto, e dal momento in cui da una causa

Alcune osservazioni riguardanti questa questione sono già state da me esposte e pubblicate in uno studio che qui mi permetto di citare: P. Spallino, «Dall’Uno non procede che uno: l’interpretazione islamica della produzione dell’essere nelle Rasā’il di Qūnawī e Ṭūsī» in C. Martello – C. Militello – A. Vella (eds.), Cosmologie e cosmogonie nel Medioevo, Fédération Internazionale des Instituts d’Études Médiévales, Louvain-La-Neuve 2008, pp. 425-443 (Textes et Études du Moyen Âge, 46). 87 Sulla storia di questa dottrina utilizzata da Avicenna, ma ancora prima da alFārābī, si rimanda allo studio di C. D’Ancona, «Ex uno non fit nisi unum. Storia e preistoria della dottrina avicenniana» in E. Canone (ed.), Per una storia del concetto di mente, Olschki, Firenze 2007. Una problematizzazione della questione è invece esposta da: Th.-A. Druart, «Al-Fārābī, Emanation, and Metaphysycs», in P. Mowredge 86

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che è assolutamente una può procedere un solo effetto, il primo effetto – o emanazione – dell’Esistente Necessario deve essere numericamente uno. Dato che il primo effetto deve essere uno, non può essere una delle sfere celesti, essendo ognuna di queste composte da materia e forma o da corpo e anima, e quindi tale da non risultare strettamente una. Il primo effetto dev’essere dunque un’intelligenza dalla quale emaneranno una seconda intelligenza ed una sfera celeste. Ciò nonostante, per questi due esseri che emanano dalla Prima Intelligenza, la Prima Intelligenza non deve includere in sé alcuna forma di molteplicità o di dualità, e questo per rimanere in accordo con il principio che dall’uno può procedere solo un uno. Secondo Ibn Sīnā la sola molteplicità che possa esistere in un’intelligenza è costituita dai seguenti aspetti: 1. la conoscenza che l’intelligenza ha della sua causa del principio; 2. la conoscenza che ha di se stessa; 3. la sua esistenza necessaria attraverso la sua causa; 4. la sua esistenza possibile in se stessa. Ibn Sīnā analizza dettagliatamente la questione nel IX trattato della sua Metafisica88 ma anche, come segnalato da Olga Lizzini89, nelle Ta‘liqāt [100, 23]: Si è mostrato evidente in modo obbligatorio che il Necessariamente Esistente per sé è uno da tutti i punti di vista, che gli esistenti ne emanano secondo conseguenza [necessaria] (‘alā sabīli l-luzūm) e che dall’uno in quanto è uno consegue un uno [...]. Infatti, è necessario che quel che è dall’essenza unica sia una forma intelligibile, immescolata alla materia, e in questa prima intelligenza non può ottenersi molteplicità se non nel modo che abbiamo ricordato, e cioè [per il fatto] che essa è: 1) possibile per sé, 2) necessaria in virtù del primo, 3) [tale da] avere intellezione del Primo. [101,1] Nei corpi vi è molteplicità ed è necessario che la loro esistenza sia a partire da una molteplicità, [ma] non vi è

(ed.), Neoplatonism and Islamic Thought, State University of New York Press, Albany 1992, pp. 127-148. Si segnala inoltre sull’argomento il primo capitolo dell’approfondito studio di O. Lizzini, Fluxus (fayḍ). Indagine sui fondamenti della metafisica e della fisica di Avicenna, Edizioni di pagina, Bari 2011. 88 Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., pp. 927-933. 89 Cfr. Lizzini, Fluxus (fayḍ), pp. 164-165.

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molteplicità [altra] che [quella] che abbiamo menzionato. È quindi necessario che la loro esistenza sia tale da seguire l’esistenza della molteplicità [che si è] ricordata. La molteplicità che è nei corpi non è come la molteplicità che riguarda le intelligenze – la quale è la ragione dei loro conseguenti (sabab lawāzimi-hā), che sono: la possibilità [che viene] dalla loro essenza, la necessità [che è] in virtù del Primo; l’intellezione del Primo. Infatti, la molteplicità nella prima Intelligenza, per esempio, non è acquisita (mustafād) da qualcosa di diverso, mentre non è così per la possibilità della materia e della forma nel corpo: infatti, ognuna di esse ha una realtà che acquisisce l’esistenza da altro da sé90.

Ibn Sīnā si preoccupa inoltre di distinguere il Principio da ciò che da esso emana: «Esso [il Principio Primo] è agente del tutto nel senso che è l’esistente da cui fluisce ogni esistenza, come un flusso distinto dalla Sua essenza»91. Il flusso emanativo è mubāyin (distinto), esso cioè è manifestazione del Primo ma, in quanto ne è distinto, non coincide con Esso. Il primo Reale ha intellezione della propria essenza, che per sé è il principio dell’ordine del bene nell’esistenza. Questo tipo d’intellezione non passa dalla potenza all’atto, né da un intellegibile ad un altro intellegibile, ma è un’intellezione una e simultanea. Il primo causato, che proviene dalla Causa Prima, è uno nel numero, la sua essenza e quiddità consistono in una cosa una, che è una forma che non è in una materia: è un’Intelligenza pura, ed è la prima delle intelligenze separate. Sembra (yušbihu) che essa sia il principio che muove il corpo estremo per via del desiderio. Nelle intelligenze separate non vi può essere molteplicità, se non nel senso che Ibn Sīnā spiega, cioè: «Il causato è per sé possibilmente esistente, mentre in virtù del Primo è necessariamente esistente»92. Il primo Intelletto sarà quindi la causa mediatrice che ha intellezione di se stessa e intellezione del Primo. Nel senso in cui intellige se stessa è «possibile», nell’intelligere il Principio è «necessaria per altro». Tutto ciò farà scattare quegli atti intellettivi grazie ai quali l’Intelligenza avvierà il processo della molteplicità sul quale Qūnawī e Ṭūsī discutono.

Cfr. Ibn Sīnā, al-Ta‘līqāt, op. cit., pp. 100-101 [Traduzione di Olga Lizzini]. Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 925. 92 Ibid., p. 929. 90 91

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Ma ciò che è importante sottolineare è che allora la molteplicità, secondo Ibn Sīnā non viene all’Intelletto dal Primo: la possibilità della sua esistenza è infatti qualcosa che gli appartiene per sé, non in ragione del Primo; anzi, dal Primo gli viene la necessità della sua esistenza, poi vi è una molteplicità in quanto ha intellezione del Primo e di se stesso. Gli intelletti, dal canto loro, sono numericamente molteplici, ecco che essi non esistono tutti insieme a partire dal primo; è piuttosto necessario che il più elevato di essi, sia il primo ad avere esistenza dal primo e che poi segua un intelletto e poi un altro ancora93. Avendo stabilito questo tipo di molteplicità nella Prima Intelligenza, senza aver negato il principio che da uno procede solo uno, Ibn Sīnā passa ad asserire che da questa sono emanate: una seconda intelligenza, il corpo e l’anima di una sfera celeste. Poiché l’effetto deve somigliare alla causa, la seconda intelligenza emana in virtù della conoscenza della Prima Intelligenza del suo principio; l’anima della sfera emana in virtù della conoscenza della Prima Intelligenza di se stessa come necessaria attraverso il suo principio, e il corpo della sfera emana in virtù della conoscenza della prima intelligenza di se stessa come possibile. Dalla seconda intelligenza emanerà il corpo e l’anima di una seconda sfera così come a seguire una terza fino ad arrivare alla decima intelligenza celeste. Essa sarà il cosiddetto «datore delle forme», fonte delle forme fisiche del mondo sublunare e delle forme intellettive che fluiscono nell’anima razionale umana. Questa teoria di Ibn Sīnā sarà ampiamente criticata da Abū Ḥāmid alĠazālī (450-1058/505-1111) nel suo Tahāfut al-falāsifa (La distruzione dei filosofi) così come da Faḫr al-Dīn al-Rāzī (543/1149-606/1209), teologo aš‘arita; non sorprende dunque che l’argomentazione venga ripresa nella corrispondenza da Qūnawī e presentata a Ṭūsī che se ne era nello specifico occupato94. Se ci volgiamo a ritroso ripercorrendo il Tahāfut, nel «terzo problema» al-Ġazālī solleva di fondo cinque obiezioni alla teoria d’Ibn Sīnā, as-

Ibid., pp. 927-931. Sulla diatriba e la critica ad Ibn Sīnā si veda lo studio di N. Herr, «Al-Rāzī and Ṭūsī on Ibn Sīnā’s Theory of Emanation», in Mowredge (ed.), Neoplatonism and Islamic Thought, pp. 111-125. 93 94

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sumendo essenzialmente che quello che il filosofo chiamava «primo effetto» è sinonimo della Prima Intelligenza. I tre «aspetti» della Prima Intelligenza (cioè la conoscenza che l’intelligenza ha del suo principio, la sua auto-conoscenza, e il suo essere possibile) o sono identici alla sua essenza oppure non lo sono. Se ogni aspetto è identico alla sua essenza allora non vi sarà molteplicità nella Prima Intelligenza; al contrario, se non vi è identità con la Prima Intelligenza, allora perché non si può anche affermare che vi è molteplicità nel Primo Principio? Riguardo poi al Primo Principio, si può anche sostenere che possiede tre aspetti, cioè la sua esistenza necessaria, la sua stessa conoscenza, e la conoscenza di ciò che è altro da sé; ma lasciamo allora che questi tre aspetti siano la causa della molteplicità nell’universo e non vi sarà così necessità di porre un’intelligenza come intermediario tra il Primo Principio e l’universo corporeo. Al-Ġazālī asserisce inoltre che i tre aspetti del primo effetto non siano sufficienti per l’emanazione dell’anima e del corpo delle sfere celesti, così come per la seconda intelligenza. Ciò dipende dal fatto che il corpo della sfera è composto di materia e di forma, ha una particolare misura, ha due punti sulla sua superficie attorno ai quali la sfera ruota; essa infine contiene cinque aspetti (o parti), e non può allora dirsi emanata da un singolo aspetto della Prima Intelligenza. A chiusura delle obiezioni sollevate, al-Ġazālī chiede ancora quale sia la connessione tra ognuno dei tre aspetti della Prima Intelligenza e la cosa che è detta emanare da essa. Perché, ad esempio, il corpo di una sfera dovrebbe emanare dalla prima intelligenza in virtù del suo essere possibile? Non vi è alcuna ragione convincente del perché dovrebbe essere così95. Per quanto riguarda al-Rāzī, questi a sua volta critica Ibn Sīnā non solo nel suo commento al Kitāb al-išārāt wa’l-tanbihāt96, ma in diverse sue opere.

95 Cfr. al-Ghazali’s Tahafut al-Falasifah [Incoherence of the Philosophers], translated into english by S. A. Kamali, Pakistan Philosophical Congress, Lahore 1963, pp. 63-88. 96 Cfr. Faḫr al-Dīn al-Rāzī, Šarḥ al-Išārāt (Commento alle Išārāt). Ad oggi nessuna edizione critica al commento di al-Rāzī è stata interamente pubblicata. Troviamo delle parti in S. Dunya (ed.), al-Isharāt wa’l-tanbihāt, Dār al-Ma‘ārif, al-Qāhira, 1957-1960, 3 vols.; oppure anche in al-Isharāt wa’l-tanbihāt, Maṭba‘at al-Haydari, Tehran 1957-1959, 3 vols. Entrambe queste edizioni contengono il commento di Ṭūsī così come parti del commento

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Come varie fonti islamiche riportano, l’influenza di Ibn Sīnā, e della falsafa in generale, continuò difatti a diffondersi dopo al-Ġazālī per svariate ragioni97, fino a coinvolgere, nel XII secolo, fuqahā’ (giurisperiti) e mutakallimūn (teologi). Tra costoro menzioniamo gli autori che rappresentano le fonti dello stesso al-Rāzī: Abū al-Barakāt al-Baġdādī (m. 560-561/1164-65) con il suo Kitāb al-Mu‘tabar (Il libro di ciò che è stato stabilito grazie ad una personale riflessione) che presenta una seria alternativa filosofica ed una critica ad Ibn Sīnā; ‘Alī b. Zayd al-Bayhaqī (m. 565/1169-70) che scrisse dei commentari alle Naǧāt e alle Išārāt di Ibn Sīnā ed una critica al Mu‘tabar; Afḍal al-Dīn ‘Umar b. ‘Alī b. Ġaylān al-Balḫī (m. circa nel 591/1194 e chiamato da al-Rāzī al-Farīḍ al-Ġaylānī e da lui descritto come «molto famoso»98) che nel suo Ḥudūṯ al-‘ālam (L’innovazione del mondo)99 ri-

di Rāzī a cui Ṭūsī risponde. Sulle questioni dibattute da al-Rāzī si veda: F. Kholeif, A Study on Fakhr al-Din al-Razi and His Controversies in Transoxania, Dār al-mashreq, Beirut 1966, pp. 190-203 (Recherches, 31); M. Marmura, «Fakhr al-dīn al-Rāzī’s Critique of an Avicennian Tanbīh», in B. Moisisch – O. Pluta (eds.), Historia philosophiae medii aevi. Studien zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, 2 vols., B. R. Grüner, Amsterdam-Philadelphia 1991, vol. II, pp. 626-641; A. Shihadeh, «From al-Ghazālī to al-Rāzī: 6th/12th Century Developments in Muslim Philosophical Theology», Arabic Sciences and Philosophy, 15 (2005) 141-179; H. Eichner, «Dissolving the Unity of Metaphysics: From Fakhr al-Dīn al-Rāzī to Mullā Ṣadrā al-Shīrāzī», Medioevo, 32 (2007) 139-197; J. Janssens, «Ibn Sīnā’s Impact on Faḫr ad-Dīn ar-Rāzī’s Mabāḥiṯ al-Mašriqiyya, with Particular Regard to the Section Entitled al-Ilāhiyyāt al-maḥḍa: an Essay of Critical Evaluation», Documenti e Studi sulla Tradizione Filosofica Medievale, 21 (2010) 259-285. 97 Fonti di autori arabi dell’epoca ci informano che quest’inclinazione fu determinata da diversi fattori come ad esempio il persuadersi, avendo studiato discipline rigorose (aritmetica, geometria, medicina), che anche le altre scienze filosofiche fossero altrettanto esatte. Alcuni studiosi furono attratti dalla tecnica della disputa nella scienza della giurisprudenza, che ereditava dalla logica la metodologia per padroneggiare le varie argomentazioni. Altri ancora studiando teologia, quando appresero che Ibn Sīnā aveva contraddetto alcuni principi della loro scienza, vollero leggere i suoi testi per acquisire abilità nel dibattito generato dagli ultimi sviluppi della falsafa. Cfr. Shihadeh, «From al-Ghazālī to al-Rāzī», pp. 148-149. 98 Cfr. Al-Rāzī, Munāẓarāt fī bilād mā warā’a al-nahr, in Kholeif (ed.), A Study on Fakhr al-Din al-Razi and His Controversies in Transoxania, p. 59. 99 Cfr. Afḍal al-Dīn ‘Umar b. ‘Alī b. Ġaylān, Ḥudūt al-‘ālam, M. Muhaqqiq (ed.), Teheran 1998. L’introduzione a quest’opera è pubblicata anche in Y. Mi-

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sponde ad un’epistola di Ibn Sīnā in cui il filosofo rifiuta gli argomenti dei teologi contro la concezione di un mondo pre-eterno; Šaraf al-Dīn Muḥammad ibn Mas‘ūd al-Mas‘ūdī (m. circa nel 591/1194), descritto da al-Rāzī (che lo incontra a Buḫara e con cui dibatte) come «uno šayḫ famoso nella falsafa e in destrezza»100. La sua preparazione filosofica è confermata dalla presenza del suo nome in un’interessante catena filosofica che al-Ṣafadī (m. 764/1363) ci fornisce e che qui riportiamo, anche perché viene registrata la presenza di Ṭūsī: The shaykh and imām Shams al-Dīn Muḥammad ibn Ibrāhīm, known as Ibn al-Akfānī [d. 749/1348], [...] related to me: I read the Ishārāt of the Master Abū ‘Alī ibn Sīnā with the shaykh Shams al-Dīn al-Shirwānī al-Ṣūfī [d. 699/1300] at the Sa‘īd al-Su‘adā’ khānqāh in Cairo, towards the end of the year [698/1299] and the beginning of [699/1299]. He told me: I read it, alongside its commentator Khwājā Naṣīr al-Dīn Muḥammad al-Ṭūsī [d. 672 /1274]. He said: I read it with the imām Athīr al-Dīn al-Mufaḍḍal al-Abharī [d. 663/1264]. He said: I read it with the shaykh Quṭb al-Dīn Ibrāhīm al-Miṣrī [d. 618/1222]. He said: I read it with the great imām Fakhr al-Dīn Muḥammad al-Rāzī [d. 606/1210]. He said: I read it with the shaykh Sharaf al-Dīn Muḥammad al-Mas‘ūdī. He said: I read it with the shaykh Abū al-Fatḥ ‘Umar, known as Ibn alKhayyām [439/1048-526/1131]. He said: I read it with Bahmanyār [d. 458/1067], the student of master Ibn Sīnā101.

Il testo più importante che al-Mas‘ūdī scrive sulla falsafa, a quanto riferisce al-Ġaylānī, sembra essere al-Šukūk wa’l-šubāh ‘alà’l-Išārāt (Dubbi e incertezze sulle Išārāt). Il titolo rimanda esplicitamente alla critica di una serie di punti avicenniani in cui si risente anche l’influenza di alĠazālī. Non manca l’argomento che «una causa singola sotto ogni rispetto, produce solo un effetto», al quale al-Mas‘ūdī risponde che è sì ipotizzabile per questa causa il produrre solo un’entità, o molteplici entità di una sola specie, ma che Ibn Sīnā non apporta una prova per il principio sostenuto.

chot ,

«La pandémie avicennienne au VIe/XIIe siècle», Arabica, 40 (1993) 288344 e 327-44. 100 Cfr. Al-Rāzī, Munāẓarāt, p. 31 [Traduzione di Fathalla Kholeif, p. 55]. 101 Cfr. al-Ṣafadī in Shihadeh, «From al-Ghazālī to al-Rāzī», pp. 153-154.

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Al-Šukūk sembra sia stato il testo che ha maggiormente ispirato alRāzī, difatti egli scriverà una risposta a questa trattazione che farà da sfondo al suo commento alle Išārāt ed a quello di Ṭūsī. Questi elementi storici e dottrinali qui sinteticamente riportati, risultano indispensabili per comprendere lo sfondo culturale in cui la corrispondenza Qūnawī-Ṭūsī viene ad inserirsi. Non a caso i nostri autori faranno riferimento a questo dibattito in corso, pur senza mai accennare palesemente ai pensatori che lo avevano innescato o a coloro che continuavano ad alimentarlo. Sarà allora più semplice scoprire come ad esempio uno dei punti di polemica sollevati da al-Rāzī, che Qūnawī citerà nella sua corrispondenza, sarà il sostenere che la possibilità (riferita all’esistenza possibile della Prima Intelligenza), non è «un’entità esistenziale» e perciò non può essere la causa di qualcosa che esiste esternamente come una sfera celeste o un’intelligenza. E che la possibilità non sia un’entità esistenziale, al-Rāzī lo dimostra secondo i seguenti argomenti: se la possibilità esistesse sarebbe o possibile o necessaria; a) non può essere necessaria perché ciò significherebbe ammettere che esiste più di un esistente necessario, cosa impossibile; b) la possibilità però non può neanche essere possibile, perché se così fosse, avrebbe bisogno di una causa per la sua esistenza e allora non ci sarebbe modo di provare l’esistenza dell’Essere Necessario (dal momento in cui la prova è basata sulla premessa che ogni esistente possibile necessita di una causa). D’altronde se la possibilità necessita di una causa, allora la sua causa dovrebbe essere l’Essere Necessario, la Prima Intelligenza, o qualche terza entità. Ma la sua causa non può essere l’Essere Necessario perché allora questi sarebbe la causa di due effetti – la Prima Intelligenza e la sua possibilità – e ciò contraddirebbe proprio il principio affermato che «dall’uno non procede che uno». La causa della possibilità non può però nemmeno essere la Prima Intelligenza perché in questo caso l’esistenza della prima intelligenza sarebbe prioritaria all’esistenza del suo effetto. Ma non possiamo nemmeno ipotizzare come causa una terza entità perché qualsiasi cosa esistente che non sia l’Essere Necessario e la prima Intelligenza, è un effetto della Prima Intelligenza. In questo modo, questa terza entità sarebbe un effetto della Prima Intelligenza e allo stesso tempo la causa della possibilità della sua esistenza e nuovamente sosterremmo che l’esistenza della Prima Intelligenza verrebbe prima della possibilità della sua esistenza.

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Non si può allora che concludere, secondo al-Rāzī, che la possibilità non è un’entità esistenziale, per cui se ne deduce che, così come tutti concordiamo che le cose non esistenti non possono essere causa delle esistenti, se la possibilità non è un ente esistenziale, non può essere la causa di una sfera celeste. Al-Rāzī tratterà in seguito tutti gli aspetti della Prima Intelligenza (la sua esistenza, la sua necessità, la sua conoscenza di se stessa, la sua conoscenza della sua causa) ammettendo che in qualche modo questi possono essere delle cause, ma non sono cause sufficienti per essere considerati cause di un’altra intelligenza e di una sfera celeste. La ragione di ciò consiste nel fatto che la sfera non è un’entità semplice, ma al contrario composta di materia, di forma corporea e specifica, avente una misura particolare ed una posizione. La sfera ha sei parti, mentre l’intelligenza, sua causa, solo cinque aspetti. Ṭūsī, scrivendo alcuni anni dopo rispetto ad al-Rāzī, si sentirà obbligato a rispondere nel suo commento al Kitāb al-išārāt wa’l-tanbihāt di Ibn Sīnā, per difendere le dottrine del suo maestro dalle critiche a lui sollevate. Questa dunque l’origine dell’accesa polemica su cui Qūnawī si interrogherà affermando nella sua domanda che si tratta di una questione «parecchio discussa» e dalla quale si diramano tanti altri punti di speculazione filosofica (vedi la questione delle intelligenze, di ciò che causa il loro ordine, della causa del prodursi della molteplicità dal Primo Intelletto)102. Qūnawī osserva inoltre che vengono supposti degli «aspetti» (i‘tibārāt) quale causa oppure quale parte in causa del prodursi della molteplicità, anche se chi sostiene tale dottrina deve riconoscere che quegli «aspetti» non sono «entità esistenziali». Come consuetudine metodologica, si mettono in campo diverse ipotesi: se tali sostenitori, afferma Qūnawī, non riconoscessero questo, sarebbero costretti ad ammettere che la molteplicità si produce direttamente dal Vero, infatti quel che procede da Lui, secondo questa tesi, è il Primo Intelletto e i suoi tre «aspetti». Oppure [dovrebbero] affermare che quegli «aspetti», pur non essendo entità esistenziali, devono necessariamente essere causa dell’esistenza della molteplicità. Ma quest’idea si rivela impossibile ed inconsistente.

102

Cfr., infra, p. 270.

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Qūnawī elenca allora una serie di teorie sull’argomento che ai suoi occhi risultano deboli ed errate, come ad esempio la tesi che pretende di limitare il numero degli intelletti a dieci; così come risulta poco convincente guardare allo status della catena dell’ordine in cui si verifica l’atto esistenziatore attraverso gli intermedi, e il negare l’efficacia del Vero sugli enti attraverso l’effusione esistenziatrice essenziale escludendo la mediazione del Primo Intelletto. Infine Qūnawī espone il tema della connessione della scienza universale del Vero nei riguardi dei concomitanti, e il fatto che qualcuno ha negato la Sua connessione con i particolari, posizione che va giudicata improbabile perché sostenendola non si saprebbe come collegare l’uno col molteplice senza rischiare di minare l’unità dell’Unico. Ṭūsī risponde a queste osservazioni affermando che cercherà di chiarire ciò che ha compreso dai discorsi di chi ha sostenuto queste tesi, anche se non bisogna meravigliarsi se, in argomenti difficili come questi, il suo piede scivolerà così come è accaduto a molti pensatori. Secondo Ṭūsī, ammettendo che il primo Principio è uno sotto tutti gli aspetti, comprendere come i molti procedano da Lui comporta una fine abilità103; presenta quindi il suo sistema per dimostrare tale assunto. Si tratta di un vero e proprio diagramma costruito su una precisa configurazione teoretica. Se assumiamo un primo principio (chiamato A), e poi che da esso emani una singola entità (detta B), allora B rappresenta il primo livello di emanazione da A. Ṭūsī afferma dunque che sarebbe possibile per qualcos’altro emanare da A, attraverso la mediazione di B, e ciò potrebbe essere chiamato C. Ancora: soltanto da B potrebbe emanare qualcosa (chiamato D); e potrebbe emanare qualcosa da B con il rispetto di A (chiamata E). Queste tre entità, C, D ed E, starebbero in un secondo livello di emanazione che a sua volta procede ripetendo il sistema, fino ad arrivare ad un terzo livello di emanazione che in totale conterrebbe dodici entità.

Il tema è nello specifico annotato da Ṭūsī nel suo commento al sesto libro delle al-Išārāt wa’l-Tanbihāt di Ibn Sīnā, al cui testo rimandiamo: al-Išārāt wa’l-Tanbihāt, con commento di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, op. cit., pp. 213-227. 103

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L’intera costruzione è stata schematizzata da Nicholas Herr che analizza nello specifico la diatriba tra al-Rāzī e Ṭūsī104; riportiamo qui questa figura perché ci facilita visualizzare l’argomento che Ṭūsī utilizza nella sua risposta a Qūnawī.

A – Il Primo Principio 4 – da A attraverso BC B – da A 5 – da A attraverso BD C – da A attraverso B 6 – da A attraverso BCD D – da B soltanto 7 – da B attraverso C E – da B con il rispetto di A 8 – da B attraverso C 1 – da A attraverso C 9 – da B attraverso CD 2 – da A attraverso D 10 – da C soltanto 3 – da A attraverso CD 11 – da D soltanto 12 – da CD insieme Ṭūsī applica questo sistema al Primo Intelletto di Ibn Sīnā, che avrà allora in totale sei «aspetti». Due di questi risultano costitutivi (la sua esistenza e la sua quiddità), gli altri quattro sono concomitanti (lawāzim).

104 Al-Ṭūsī presenta le sue risposte ad al-Rāzī nel suo commento al passaggio della sesta namaṭ delle Išārāt con l’intento di chiarire due punti della teoria di Ibn Sīnā. Il primo riguarda la questione di come si possa asserire che vi sia una molteplicità nella Prima Intelligenza e nello stesso tempo sostenere la dottrina che dall’Uno non procede che uno. Il secondo punto concerne la questione di quali aspetti esattamente, all’interno della Prima Intelligenza, siano la causa degli effetti. Cfr. Herr, Al-Rāzī and Ṭūsī on Ibn Sīnā’s Theory of Emanation, pp. 119-120.

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Nicholas Herr spiega che, nel sistema teoretico di Ṭūsī, l’esistenza della Prima Intelligenza viene posta nel primo livello di emanazione come equivalente di B; nel secondo livello d’emanazione pone la quiddità dell’intelligenza (la conoscenza di se stessa), e la conoscenza del suo principio. Questi aspetti nel sistema corrispondono a C, D ed E. Gli ultimi due aspetti della Prima Intelligenza, che sono il suo essere possibile in se stessa e il suo essere necessario attraverso il principio, Ṭūsī li pone al terzo livello dell’emanazione come equivalenti di 4 e 7. I sei aspetti della Prima Intelligenza allora saranno i seguenti: B – Esistenza (da A) parte costituente, primo livello dell’emanazione. C – Quiddità (da A attraverso B) parte costituente, secondo livello. D – Conoscenza di Sé (da B soltanto), secondo livello. E – Conoscenza del Principio (da B con rispetto di A) concomitante, secondo livello. 4 – Necessità attraverso il principio (da A attraverso BC) concomitante, terzo livello. 7 – Possibilità (da B attraverso C) concomitante, terzo livello. Si deduce da quanto detto che per Ṭūsī il primo effetto non è affatto sinonimo della Prima Intelligenza, ma solo il primo aspetto della Prima Intelligenza emanata, cioè la sua esistenza. Il primo effetto è di conseguenza un’entità singola mentre la Prima Intelligenza è multipla. Ma quale aspetto della Prima Intelligenza, si chiede Ṭūsī, è responsabile per i suoi tre effetti, che sono: la seconda intelligenza, il corpo o materia, e l’anima o forma della sfera? Ṭūsī asserisce che due dei suoi sei aspetti, cioè la sua quiddità e la sua possibilità, rappresentano lo stato della Prima Intelligenza nella sua potenzialità. Esse sono responsabili per il corpo, o materia, della sfera. Altri due aspetti, la sua esistenza e la sua conoscenza di se stessa, rappresentano lo stato dell’Intelligenza nella sua attualità, e sono responsabili per l’anima, o forma, della sfera. Gli ultimi due aspetti, la sua necessità e la sua conoscenza del suo principio, rappresentano lo stato dell’Intelligenza nella misura in cui essa deriva dal Primo Principio105. Riguardo poi a negare l’influenza del Vero sugli enti e la Sua intellezione dei particolari, si tratta di una tesi che è stata attribuita da chi in realtà

105

Cfr. ibid., pp. 120-122.

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non ha compreso la questione; e anche su questo punto Ṭūsī si premura di riportare delle argomentazioni a supporto. Qūnawī tornerà a contraddire questa spiegazione con la sua idea che l’Uno che procede dal Vero è sempre quell’«essere generale comune» di cui si è discusso nella questione precedente e nel quale deve rientrare anche il Primo Intelletto, di conseguenza, tutti gli enti non sono collegati al Vero secondo l’ordine esposto da Ṭūsī. Le intelligenze, e tutto ciò che si denomina «intermedio», sono in effetti solo delle «condizioni» presso cui risulta l’atto esistenziatore; quindi è il Vero che effonde l’esistenza mentre gli intermedi sono dei cosiddetti «preparatori» che motivano il determinarsi delle predisposizioni particolari con la mediazione dell’esistenza106. Nel Miftāḥ al-ġayb, Qūnawī sull’argomento afferma: In verità l’essere divino è Uno di una vera unità che non si può comprendere tramite un paragone (muqābala) con il molteplice perché quest’unità è stabilita affermativa per se stessa, non è affermata, non è dimostrabile tramite il concetto di unità propria alla rappresentazione che si forma sotto i veli del mentale107.

Se l’unità dell’Essere dipendesse da un confronto con il molteplice, ci troveremmo di fronte ad un’unità di tipo aritmetico così come se la rappresentano coloro che possiedono uno spirito velato. Quest’unità non può inoltre essere colta come un concetto perché è essa stessa un concetto puro che fa comprendere e comprende se stessa. Queste considerazioni ci danno modo di introdurre la visione di Qūnawī riguardo a quella che possiamo definire la sua configurazione ontologica, che penetra inevitabilmente in quella cosmologica. Il maestro Ibn ‘Arabī aveva posto una perfetta coincidenza tra Essere e Misericordia divina. Questo principio, che dava avvio ad una cosmogonia come effetto di un’irradiazione, comportava un processo che non poteva essere interpretato secondo delle categorie di produzione nel senso neoplatonico-avicenniano, né come una produzione ex nihilo.

Cfr., infra, p. 274. Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit., pp. 124-125. [Traduzione mia]. 106 107

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Ciò con cui ci confrontiamo è invece un concatenazione di irradiazioni teofaniche gerarchizzate che rivelano, come tanti specchi, i piani della totalità dell’universo. Questo processo ha per soggetto la Misericordia che agisce secondo una sua dinamica costituita da una dilatazione, una condensazione, e una propagazione. Il Misericordioso è dunque l’atto teofanico attraverso cui Dio riveste la Sua forma assoluta. Questa forma «condensa» tutti i Nomi divini ma anche li dilata e tende a propagarli; allorché la forma del Misericordioso dona tutta la pienezza dell’Essere, tutte le Sue proprietà irradiano la Sua luce sulle essenze degli esseri possibili. Come abbiamo già visto, anche Qūnawī identifica «l’Essere universale» (al-wuǧūd al-‘amm) al Respiro del Misericordioso e ciò introduce alla struttura dei mondi metafisici e delle loro corrispondenze. I vari piani della realtà sono definiti nel lessico akbariano ḥadārāt (gradi, livelli). L’attività di auto-manifestazione dell’Assoluto è detta da Ibn ‘Arabī taǧallī, termine che indica letteralmente l’atto di scoprire qualcosa che è nascosto da un velo. Le cinque ḥadarāt sono così presentate: la prima ḥadra (l’Assoluto nella Sua infinità - non-taǧallī), la seconda ḥadra (l’Assoluto che Si manifesta come Dio), la terza ḥadra (l’Assoluto che Si manifesta come Signore), la quarta ḥadra (l’Assoluto che Si manifesta come realtà tra lo spirituale e il corporeo), la quinta ḥadra (l’Assoluto che Si manifesta nel mondo sensibile)108. Le ḥadārāt a loro volta sono simbolizzate dalla nozione fondamentale di «unione nuziale» (nikāḥ); attraverso ogni unione nuziale l’Essere divino comunica il Suo puro atto d’essere e dà avvio a quella che viene definita una vera e propria ierogenesi109. L’idea d’unione nuziale trasferisce al mondo degli archetipi il simbolismo del maschile e del femminile: vi sono sempre due poli, uno maschile attivo e uno femminile passivo, che sono in eterna coincidenza per generare delle nascite spirituali. Il polo maschile

108 Sul termine cfr. W. C. Chittick, «The Five Divine Presences: from al-Qūnawī to al-Qayṣarī», The Muslim World, 72 (1982) 107-128. 109 Tutto il processo è dettagliatamente descritto da Qūnawī nel Miftāḥ al-ġayb. Quest’esposizione è una delle più sistematiche che possiamo trovare sull’argomento ed una testimonianza preziosa di come un sufi del XIII secolo potesse rappresentare, interpretare e simbolizzare un processo ontologico. Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit., pp. 34-35.

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è il nākih, quello femminile il mankūh. È nākih tutto quello che rileva la dimensione divina (Nomi, realtà metafisiche), è mankūh quello che rileva la dimensione creaturale. Questa legge dinamica si applica a tutti i gradi dell’essere e in Qūnawī questa concezione va ricercata nella relazione primordiale istaurata tra il Rabb (Signore) e il marbūb (il servo d’amore). Qūnawī distingue quattro unioni nuziali, o per meglio dire, un’unica unione nuziale che riunendo in se stessa il piano divino e quello delle creature, si manifesta in quattro gradi. • L’Unione nuziale divina (al-nikāḥ al-ilāhiyy); qui i quattro Nomi essenziali divini (la Vita, la Volontà, il Potere, la Conoscenza)110 si compenetrano per generare (tawallada) la Forma ontologica assoluta. Questo è il grado della trasformazione del Misericordioso111. • L’unione nuziale spirituale (al-nikāḥ al-rūḥāniyy); si tratta di un’unione che avviene nel mondo delle pure idee semplici per generare gli Spiriti112. • L’Unione nuziale a livello della Natura e del Malakūt113 (al-nikāḥ alṭabī‘iyy al-malakūtiyy), mondo dell’Anima; è l’unione che avviene nel mondo degli spiriti per orientarli verso il mondo della Natura.

110 È fondamentale specificare come nella prospettiva di Ibn ‘Arabī i Nomi divini sono delle pure relazioni e attributi che salvaguardano l’Unicità di Dio esente da ogni molteplicità. Che i Nomi divini possano spezzare l’unicità della Sua essenza è una controversia che riguarda i teologi o i filosofi ma non i «realizzati». Nello stesso tempo anche Ibn Sīnā nella sua Metafisica afferma: «Come hai appreso, la realtà intelligibile presso il [Primo] è, nella sua stessa identità, scienza, potere e volontà». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 925. 111 L’essere generato da un’unione nuziale è chiamato oggetto generato (mawlūd) o essere determinato (wuǧūd mu‘ayyan), oppure le vestigia divine (aṯār ilāhiyya). 112 Gli spiriti appartengono ad un loro mondo (‘ālam al-arwāḥ) e vengono prodotti direttamente dall’ordine divino (amr) senza alcun intermediario di forma o materia. Questo mondo è anche chiamato «mondo dell’ordine divino» (‘ālam al-amr) poiché, come afferma il Corano (17:85): «Lo Spirito procede dall’Ordine del mio Signore». Per la traduzione dei versetti coranici mi avvalgo della versione di Ida Zilio-Grandi, Il Corano, Mondadori, Milano 2010. 113 Il mondo del malakūt (mondo del reame), che è il mondo delle forme incorporee o sottili corrisponde al mondo immaginale (‘ālam al-miṯāl). Si tratta di un mondo intermedio tra il mondo spirituale puro e quello corporeo, per questo costituisce una sorta di «ponte» tra i due, quasi un istmo (barzaḫ). Il malakūt assume le caratteristiche del mondo spirituale e sensibile pur non confondendosi con nessuno di essi.

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L’unione nuziale a livello dei corpi elementari inferiori (al-nikāḥ al-‘anṣariyy al-sufliyy). Si tratta dell’unione che avviene ai corpi semplici, cioè agli elementi primordiali, e di conseguenza ai sette pianeti incassati nelle loro rispettive sfere: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna. Questi corpi celesti ricevono tutti gli influssi dei mondi superiori e corrisponde alla soglia del mondo sensibile (‘ālam al-ḥiss)114.

Ma qual è la forza coesiva dell’unione nuziale? È ciò che Qūnawī chiama: lo statuto enadico della totalità (ḥukm al-ǧam‘ al-ḏātiyy alaḥadiyy), una vera e propria energia ovunque presente che ha la funzione di unificare gli esseri materiali o spirituali, con il fine di armonizzare le cose e le sostanze. L’ontogenesi che deriva dall’unione nuziale si manifesta secondo questa gerarchia nell’ordine della manifestazione: la Nube (al-‘amā)115, rappresenta l’Immaginazione cosmica illimitata che dà forma a tutte le cose generate. Essa viene all’esistenza tramite il Respiro del Misericordioso e tutte le realtà particolari si attualizzano tramite questa Nube e dentro di essa, grazie ad un ordine divino esistenziatore. La Nube è un istmo (barzaḫ) e in quanto tale si presenta tra l’essere e il non-essere. Essa è la sostanza indifferenziata attraverso cui tutte le cose, dall’angelo al minerale, vengono all’esistenza senza avere esse stesse delle

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Qūnawī specifica che non vi è una quinta unione nuziale se non il grado che intellige la somma degli altri quattro e che è proprio all’uomo, creatura che è l’ultima ad essere generata al termine della quarta unione nuziale. Cfr. Qūnawī, Miftāḥ al-ġayb, op. cit., p. 34. Questo schema non deve però far pensare ad uno sviluppo semplice, in effetti le combinazioni tra i piani sono molteplici, le interferenze tra un mondo e l’altro complesse. Inoltre la struttura dei mondi spirituali è caratterizzata dalla mobilità e sfugge ad ogni criterio logico. La posta in gioco è sempre e comunque lo svelamento teofanico dell’Essere divino attraverso le dimensioni dell’universo: ideale, spirituale, immaginale, corporeo, sensibile. L’uomo sarà poi il risultato finale e integrale posto sotto le sfere planetarie, lo specchio della manifestazione di ognuno di questi. 115 Il nome «nube» è tratto da un detto del profeta Muḥammad allorché gli si chiese: «Dov’era Nostro Signore prima di creare la creazione?» e lui rispose: «Era in una Nube, al di sopra e al di sotto della quale non vi era atmosfera». Qūnawī specifica che il termine Nube non va inteso con l’accezione di nuvola, ma come vapore, condensazione, a richiamare il Soffio del Misericordioso. Cfr. Qūnawī, Miftāḥ al-ġayb, op. cit., p. 45.

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forme. Tramite la Nube, le essenze delle cose, ancora chiuse nel «punto» metafisico del Non-manifestato, aspirano al profumo dell’esistenza. Il Calamo (al-Qalam al-a‘là)116, per i filosofi Primo Intelletto. L’Essere divino lo produce senza alcun intermediario. La Tavola Custodita (al-lawḥ al-maḥfūz), o Anima Universale. Correntemente omologata all’Anima universale o Anima del mondo. Mentre il Calamo riceve direttamente il suo essere nel mondo degli Spiriti, senza alcun intermediario con il Principio, la Tavola Custodita riceve il suo essere tramite il Calamo, suo intermediario e lo segue nell’ordine della manifestazione. La Natura (al-ṭabī‘a), in seguito all’emanazione della Tavola avviene a livello della natura, in una determinazione corrispondente. Questa determinazione avviene nel primo turbinio d’atomi. Il Primo turbinio di atomi (al-habā al-awwal) è designato da alcuni come Materia universale (al-hayūlà al-kulliyy); è assimilata alla Sostanza incomposta universale che è il Sostrato universale vuoto di ogni forma ma che ingloba, nella sua estensione illimitata, tutte le sostanze del mondo che sostengono l’insieme di categorie d’accidenti. Il Corpo universale (al-ǧism al-kulliyy). Il ricettacolo dove si determina la forma del Trono inglobante117. La Forma del Trono (‘arš al-Raḥmān) o Trono inglobante (al-‘arš al-muḥīṭ); prima sfera. È la forma che risulta dagli atti di contemplazione della Misericordia divina (Raḥma). La Forma del Firmamento (ṣūrat al-kursī), seconda sfera. Dal Trono procede una seconda unione nuziale che origina il Firmamento (Sfera costellata, al falak al-mukawkab).

Un detto del profeta Muḥammad afferma: «La prima cosa che Dio creò fu il Calamo». L’idea secondo cui non vi è alcun intermediario tra l’Essere divino e il Calamo è un luogo comune della teologia islamica. Esso costituisce la proiezione immediata dell’Imperativo creatore Kūn (Fiat). Cfr. ibid. 117 Natura, turbinio d’atomi e corpo universale attirano particolarmente l’attenzione di Qūnawī che li definisce «veli epifanici dell’Essere divino», nel senso che avendo ricevuto tramite il Calamo e la Tavola gli influssi spirituali dei Nomi e degli Attributi divini, li comunicano secondo modalità a loro proprie ai primi esseri del cosmo, divenendo così dei supporti per la visione contemplativa. Si tratta di realtà che appartengono ad un ordine soprasensibile e determinate a livello intelligibile, cioè di «veli epifanici» che si offrono alla contemplazione. 116

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I due movimenti circolari tracciati dalla Sfera del Trono e del Firmamento hanno per causa il desiderio (al-irāda) e la coercizione (al-qasr) che derivano dallo Statuto enadico della Totalità. Così come le stelle hanno come causa le loro congiunzioni, separazioni, rivoluzioni118. I quattro elementi (al-‘anāṣir al-arba‘a), legati ai movimenti del Trono e del Firmamento. I Sette Cieli o Sfere (al-samawāt al-sab‘) sono determinate ad un certo livello della natura ed influiscono sui quattro elementi e sui corpi propri dei regni della natura che esse determinano. Quest’influenza è basata sul calore combinato al movimento. I tre regni (minerale, vegetale, animale) a cui appartengono gli esseri generati (al-muwalladāt) secondo la loro gradazione in minerali, vegetali, animali. L’uomo (al-insān). Costituisce il termine finale che riassume e contiene tutte le realtà precedenti. Entro questi gradi differenti si ripartiscono le quattro Unioni nuziali proprie ai quattro piani dell’universo (ideale, spirituale, immaginale, sensibile) e ogni essere particolare a sua volta può divenire oggetto di percezione a livello puramente intellegibile, spirituale, immaginale, sensibile. Secondo Qūnawī, l’Essere universale è comune al Qalam supremo (primo esistenziato che i filosofi chiamano Primo Intelletto), e a tutti gli esistenti, per questo i veri metafisici sostengono: «Non vi è che Dio e il mondo». Il mondo esistente non sarebbe infatti da considerare come qualcosa di altro (eccetto logicamente) rispetto alle essenze, ma semplicemente l’insieme delle essenze nel loro essere esistenti. Il mondo non è dunque un qualcosa che si aggiunge a delle realtà conosciute da Dio pre-eternamente e che sarebbero in un primo momento non-esistenti, e in un secondo tempo sarebbero qualificate dall’essere. I filosofi, accusa Qūnawī, non parlano dell’Essere universale e trasferiscono al Primo Intelletto la funzione mediatrice tra l’Uno e il molteplice, facendo di questo Primo Intelletto il Primo Emanato (al-Ṣādir al-awwal). In un precedente passaggio della corrispondenza Qūnawī dichiara esplicitamente che il Primo Emanato è l’Essere universale e non il Primo Intelletto: «La prima cosa a procedere dal Vero deve essere quell’essere e

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Tutto il processo è esposto nel Miftāḥ al-ġayb, op. cit., pp. 54-56.

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non il Primo Intelletto»119. Ciò in base al fatto che il Principio della manifestazione dev’essere rapportato all’«Essere Universale» che qualifica ogni quiddità del predicato dell’essere. Solo l’Essere divino è identico alla Sua quiddità perché in Lui essere e quiddità sono una sola e stessa cosa. Ciò non appartiene al Primo Intelletto che, essendo il Primo Esistenziato (awwal mawǧūd), riceve la sua quiddità dall’Essere Universale e non da se stesso. Infine, per concludere l’argomentazione, è impossibile conoscere tramite la speculazione e l’analogia come si connette la Sua scienza essenziale con i conoscibili. La via del «gusto intuitivo» rivela invece che non si possono intendere nei confronti del Vero due lati differenti e che bisogna che il Suo collegamento con ogni cosa sia inteso in un unico senso. Inoltre il rapporto degli esseri possibili con la realtà dell’unità divina si misura in funzione dell’allontanamento dalla causa divina e in funzione delle cause intermedie, per questo il possibile assumerà dei gradi d’intensità variabile secondo la sua distanza o vicinanza al Principio. La Gente di Dio chiama quest’aspetto «il Volto particolare» (al-waǧḥ al-ḫāṣṣ), Qūnawī stesso afferma di aver contemplato e conosciuto tutto ciò, cioè quell’aspetto divino particolare che rappresenta la relazione personale e diretta con il proprio Signore. Solo l’élite conosce il Volto particolare e ne coglie la traccia; è attraverso di esso che sono giunte tutte le Leggi e sono stati espressi i Libri Rivelati. Anche in quest’occasione, dato che il piano degli argomenti imbocca tutt’altra direzione, Ṭūsī non ha nient’altro da aggiungere: la maggior parte del discorso è difatti relativo all’esperienza contemplativa e in questo caso è Dio che guida chi vuole alla diritta via e alla religione assiale120. Nell’epistola al-Hādiyya Qūnawī scenderà ancor più nei particolari spiegando che l’effusione d’esistenza, di per sé unica, è percepita come multiforme quanto alla manifestazione e molteplice nella sua entità, una molteplicità che dipende da quegli intendimenti conoscitivi divini eterni, perciò «l’intendimento della Scienza, nello stato della visione certa, in rapporto al suo essere una relazione unica e basta, procura la consape-

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Cfr., infra, p. 264. Cfr., infra, p. 317.

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volezza della forma della Scienza che il Vero ha di Se stesso grazie a Se stesso, considerando l’identità della conoscenza, del conoscitore e del conoscibile»121. E la Scienza dall’Essenza implica un distinguersi che in effetti è solo relativo; essa include quegli intendimenti denotati come «conoscibili» (ma‘lumāt) la cui insorgenza è intesa dal moltiplicarsi degli aspetti e dalle considerazioni, ma in effetti si tratta di una relazione unica, denominata «Scienza». Il Maestro Ṭūsī difatti ha già parzialmente accennato a tutto ciò quando ha menzionato «i dodici aspetti». Ultimo concetto esposto in questa questione è quello della «realtà umana perfetta divina». Si tratta di colui la cui essenza risulta essere un’anima istmica, un’anima di natura intermedia che diviene come uno specchio per i due estremi; in lui si rappresenta l’unica esistenza, in una forma divenuta molteplice e dalla multiforme manifestazione con i Nomi divini. L’anima di chi ha acquisito questo status è ascesa, è divenuta limpida, e la sua sfera è tanto ampia da esser stata illuminata dalla luce del Vero; divenendo pura luce, si spoglia dalle tenebre della possibilità e dalle sue «determinazioni d’essere» limitative e particolari. La conoscenza che egli allora possiede è prossima e simile a quella che lo stesso Vero ha tramite la Sua Scienza essenziale. Chiunque allora sia consapevole della propria imperfezione, nega che questo grado costituisca una conoscenza completa e certa, proprio come ha fatto il Maestro Ibn Sīnā. Questione generale Sulla scia della sequenza delle domande poste, Qūnawī presenta una questione da lui stesso denominata «generale» proprio perché considerata come una questione che ne include molte altre. L’interrogazione basilare verte sulla realtà dell’anima e sull’argomento che ne afferma l’esistenza122. Anche in questo caso, l’esigenza di chiarire questo punto è dettata dall’insufficienza di tutto ciò che è stato menzionato al riguardo. Ṭūsī risponde a questo quesito riprendendo il pensiero di Ibn Sīnā e dichiara che per quanto riguarda la realtà dell’anima umana, essa è ciò che

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Cfr., infra, p. 355. Cfr., infra, p. 279.

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ogni uomo indica pronunciando il termine «io». L’anima è infatti ciò che all’uomo è più chiaro, e il suo affermarsi non ha bisogno di un argomento perché la conoscenza della sua esistenza è innata123. Qūnawī nella Hādiyya contesterà che la conoscenza dell’anima sia così immediata, infatti la difficoltà non consiste tanto nel riconoscere che esiste qualcosa oltre al corpo che lo governa, quel che pone problema è invece conoscere quale sia la «realtà» di quel qualcosa; si è in effetti molto insistito nel corso di tutta la corrispondenza sul fatto che conoscere il «fondo ultimo» non è qualcosa di immediato. La polemica si basa su un ben noto passaggio presente nelle Išārāt, opera di cui Qūnawī questa volta cita chiaramente il titolo. Se torniamo alle Išārāt possiamo leggere: Torna su te stesso e rifletti se – essendo in buono stato e anche in altri stati, in modo che tu colga la cosa con una sana intelligenza – non ti accorgi dell’esistenza di te stesso e non ti affermi? Io non credo che ciò accada all’osservatore perspicace (al-mustabṣir). Persino a colui che dorme nel suo sonno, e all’ubriaco nel suo stato di ebbrezza, non sfugge il fondo di se stesso a se stesso, nonostante che la sua rappresentazione non sia costantemente presente alla sua memoria. E se tu immaginassi che la tua persona sia stata creata fin dall’inizio con un’intelligenza e una disposizione sana e si stabilisse, in un insieme di situazioni e disposizioni tali, che le sue membra non si vedano e non si tocchino, ma fossero separate e sospese nell’aria libera, la troverai negligere ogni cosa eccetto la certezza del suo essere124.

Ibn Sīnā si chiede, per di più, tramite cosa l’uomo percepisce se stesso, e se percepisce tramite qualcosa, questo sarà allora considerato un intermediario? Egli afferma che in questo caso non occorre un intermediario, nemmeno uno: si coglie se stessi senza aver bisogno di un’altra facoltà né di un intermediario. L’anima oltre a tutto non è percepita dai sensi ma è «una sostanza unica in te, e verifichiamo che essa è te (fahāḏā al-ǧawhar fīka wāḥid, bal huwa anta ‘inda al-taḥqīq)»125.

Cfr., infra, p. 317. Cfr. Ibn Sīnā, Al-Išārāt wa’l-tanbihāt, op. cit., pp. 343-345. [Traduzione mia]. 125 Cfr. ibid., p. 356. 123 124

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Qūnawī osserva a sua volta che se guardiamo l’uomo, questi si presenta con una sua esteriorità, interiorità, varie facoltà, attributi, dunque sotto un’immagine molteplice che poi sarà sintetizzata dall’unità specifica di una molteplicità. Cosicché le relazioni intercorrono tra gli individui grazie a delle «matrici delle cose» (ummahāt)126 di cui è costituita l’essenza reale dell’individuo, come l’esistenza, o la sua essenza cui sopravviene l’esistenza, o l’idea dell’esser uomo, o del suo essere animale, o della sua forma naturale elementare. E può darsi che l’oggetto dell’indicazione nel dire «io», e il riferimento della relazione nelle parole di chi dice «la mia anima, il mio corpo, il mio spirito» o altro, sia qualcosa di separato denominato «anima». I «realizzati» concordano sull’esistenza di un’anima separata e permanente, diversa dal corpo. Non è corretto però affermare che la conoscenza dell’esistenza, o dell’anima, o della conoscenza, sia di immediata evidenza, e che tutto ciò sia impossibile da sostenere portando una prova. L’effettiva difficoltà allora sta nel conoscere la «realtà dell’anima» che si distingue per la sua essenza da ciò che è altro da sé; tanto la questione è complessa che gli uomini su ciò si sono tormentati, le loro opinioni sono varie, e la loro perplessità si è accresciuta127. Qūnawī chiede poi quale sia l’argomento per sostenere l’immaterialità dell’anima128 e Ṭūsī risponde che essa fa parte degli universali e degli intelligibili scevri dalla composizione del corpo, e delle cose che non ammettono alcuna divisione129. Qūnawī ancora lo interroga su come sostenere l’immortalità dell’anima130 e Ṭūsī afferma che questa teoria si fonda sul fatto che essa non inerisce a qualcosa che contenga in potenza l’estinzione, e inoltre le sostanze semplici connesse con le loro cause perpetue, non ammettono in nessun modo il perire131. Qūnawī prosegue domandando come si può dimostrare che l’anima ha bisogno per perfezionarsi, della costituzione dell’essere di questa

Cfr., infra, p. 372. Cfr., infra, p. 374. 128 Cfr., infra, p. 279. 129 Cfr., infra, p. 318. 130 Cfr., infra, p. 279. 131 Cfr., infra, p. 318. 126 127

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parte della vita terrena indipendentemente da ulteriori dimensioni dopo questa vita132. Ṭūsī spiega che l’anima non necessita di un’altra costituzione, perché solo ciò che subisce un passaggio da uno stato all’altro è sottomesso al tempo, fonte di tutte le trasformazioni; e il tempo circonda ciò che le sfere mobili circondano. Se vi fossero per l’anima altre costituzioni entro queste sfere, ciò implicherebbe una reincarnazione, caso del tutto confutabile133. Su questo passaggio, riguardo al tempo e alla reincarnazione, Qūnawī ritorna nell’epistola al-Hādiyya. L’espressione «il tempo non abbraccia se non ciò che le sfere abbracciano» viene spiegata dal fatto che il termine «tempo» denota il movimento celeste delle sfere, oppure che il movimento determini il tempo. Platone ad esempio ne ha trattato e non si può quindi esimersi dal portare la prova della dipendenza della determinazione del tempo e della sua esistenza dal movimento celeste. Quanto all’espressione «se l’anima avesse ulteriori nascite tra queste sfere, ciò sarebbe reincarnazione», su ciò si discute134. Qūnawī solleva un altro dubbio sul modo in cui l’anima governa il corpo135. Esiste una teoria secondo cui essa guida contemporaneamente numerosi corpi e forme, oppure alcune anime hanno la capacità – grazie alla perfezione che hanno ereditato nella dimensione terrena – di risalire dalla loro particolarità fino a divenire universali? Si dice dell’Intelletto agente che nonostante la sua immaterialità, guida il mondo della generazione e della corruzione con tutte le sue forme. Qūnawī afferma di conoscere più di un maestro con un’anima che riesce a risalire così in alto da farla diventare universale, da giungere addirittura più in alto dell’Intelletto agente fino a concretizzare il legame con Dio. Secondo Ṭūsī l’anima guida il corpo tramite facoltà inconsce (quali la nutritiva, l’accrescitiva, la generativa del simile), e tramite facoltà dotate di consapevolezza (le percezioni dei sensi, il movimento intenzionale, la facoltà concupiscibile, o l’irascibile). E se l’anima governasse altri che

Cfr., infra, p. 279. Cfr., infra, p. 319. 134 Cfr., infra, p. 376. 135 Cfr., infra, p. 280. 132 133

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questo corpo con lo stesso tipo di governo e nello stesso momento, ne sarebbe consapevole, in quanto la maggior parte dei suoi atti di governo dipendono da una consapevolezza136. Per quanto riguarda le anime forti, può avvenire che esse esercitino un’influenza su qualcos’altro (tramite il malocchio e la magia), oppure come nel caso dell’efficacia della preghiera a favore o contro qualcuno, o ancora come i carismi dei santi e i miracoli dei profeti. Riguardo al salire dal grado della loro particolarità fino a divenire universali, come si ricorda a proposito dell’Intelletto agente, ciò è impossibile, perché le influenze temporali continuano ad avere effetto sul mondo solamente nelle sue parti di natura particolare, dato che queste rientrano nei composti del «mondo della generazione e corruzione» soggetto alle trasformazioni temporali. Le anime perfette inoltre ascendono fino a contemplare il Primo Principio realizzando ciò nelle loro entità particolari, senza arrivare fino a un mutamento e ad un’alterazione dei fondamenti originali, corporei o spirituali del mondo137. Qūnawī non concorderà sul dissenso di Ṭūsī e specificherà che intende affermare che l’anima progredisce dalla sua particolarità spogliandosi delle sue qualità accidentali, a motivo delle quali è denominata «particolare», e ritorna così di nuovo alla sua universalità originaria. Quanto alla teoria di Ṭūsī a proposito dell’ascesa delle anime perfette e l’ottenimento della contemplazione del Primo Principio, ciò è discutibile, perché è impossibile che le loro essenze particolari Lo contemplino. I massimi rappresentanti delle «genti della visione» concordano nel sostenere che essi non contemplano un universale finché non divengono nello stesso modo. Costoro poi vanno più in là nell’ascesa, un piano dopo l’altro, beneficiando in ogni congiunzione di una predisposizione ontologica, di una luce e di un intuito acuto; così giungono fino al Primo Intelletto138. Qūnawī, rimanendo sul tema dell’anima, non trascura altri importanti aspetti della questione: chiede se la sua esistenza si attesta solo dopo la sua commistione con gli elementi, oppure se essa esisteva anteriormente al corpo; e considerando entrambe le ipotesi, se l’anima conosceva già tutto

Cfr., infra, p. 319. Cfr., infra, pp. 319-320. 138 Cfr., infra, pp. 348-349. 136 137

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ciò che ha scoperto tramite le scienze e quindi rievoca, oppure era priva di ogni forma di conoscenza e qualità eccetto la sua semplice esistenza. Oltre a tutto ciò ci si chiede se l’anima conosceva già gli universali e si sia solo ricordata di questi, e se ha invece acquisito i particolari tramite le facoltà e gli strumenti corporei. E il legame dell’anima con il corpo sussiste in ragione di qualcosa che ha in qualche senso affinità con ciascuno dei due, oppure no? E qual è allora quest’affinità che sussiste tra l’anima semplice e la commistione composta? A tutti questi quesiti Ṭūsī risponde affermando che le anime sono originate nel tempo come le anime degli altri enti composti animali e vegetali e le loro forme. Quanto a quell’affinità tra l’anima e il corpo che richiede il legame, si tratta di qualcosa che implica la specifica assegnazione di ogni anima al suo corpo, affinché non avvenga ad esempio che l’anima di un uomo si connetta al corpo di un cavallo o viceversa139. Qūnawī si chiede anche se l’anima si libera totalmente dal corpo tanto da divenirne indipendente grazie ad una perfezione acquisita. Se questo accadesse, l’anima allora rimarrebbe senza vincoli con una qualsiasi forma, sia essa semplice o composta. Oppure al contrario è inevitabile che tra anima e corpo rimanga un certo vincolo, anche se prevale l’attributo del «non condizionamento», come hanno indicato tutti i profeti e i più perfetti tra i Santi140. Ṭūsī risponde che lo «strappo» dell’anima dal corpo è necessario, ma non avviene per volontà dell’anima, così come anche il legame non si è verificato per sua volontà; quando la commistione si decompone, l’anima si libera dal corpo. Nel momento in cui essa è indipendente dal corpo, è beata, entra nel riposo e lascia la fatica; se invece in quello stato postumo ne ha ancora bisogno, diviene infelice e misera, perché necessita di qualcosa che non trova141. Su questo punto dello «strappo», secondo Qūnawī si dibatte, poiché a suo parere lui non ne consegue che, se il legarsi in un primo momento sia stato involontario, ogni distacco sia involontario. Tra i contemplativi difatti vi sono coloro capaci di distaccarsi quando lo desiderano, così come di volere la morte, informare di averla scelta, e morire subito dopo, senza malattia né corruzione fisica.

Cfr., infra, p. 320. Cfr., infra, p. 282. 141 Cfr., infra, p. 321. 139 140

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Proprio quest’argomentazione solleva un altro quesito da parte di Qūnawī: nell’ipotesi che l’anima si liberi dal corpo in modo tale da non mantenere nessun tipo di vincolo, è possibile, secondo Ṭūsī, che ciò accada a qualcuno in questa vita terrena, di modo che per costui non rimanga un legame con questo mondo, anche se permane la capacità per quell’anima di governare il suo corpo? Oppure il divenire completamente liberi e la recisione del vincolo tra l’anima e il corpo non avviene se non attraverso la morte? Ṭūsī risponde che non ritiene possibile l’ipotesi che l’anima possa disconnettersi da questo mondo prima della morte; difatti il governo stesso del corpo è una connessione. Viene contemplato solo il caso delle genti della perfezione che riescono a disporsi verso il mondo a venire e a distogliersi da questo. Prova ne è che le anime umane divengono perfette grazie alle loro percezioni intellettuali; difatti quando sono perfette nell’acquisire ciò che le rende beate e si sono allontanate da ciò che le preoccupa, non hanno alcun bisogno del corpo. La morte dunque, sulla base di questa analogia, è la massima conquista e il raggiungimento della beatitudine più immensa142. L’interrogativo di Qūnawī prosegue con quest’altra sfumatura: se si sostiene che l’anima esiste ed è semplice, qual è l’argomento che determina la sua distinzione dalle altre anime dopo la separazione dal corpo? Ṭūsī risponde che la differenza tra le anime una volta che si sono separate è determinata dall’individuazione che hanno ricevuto dal loro legame con i corpi. Le anime celesti e altre analoghe non necessitano di quella determinazione perché sono specie tra loro distinte, le anime umane al contrario hanno bisogno della determinazione perché sono di un’unica specie con individui tra loro distinti143. Nella Hādiyya Qūnawī dedicherà un lungo e profondo brano di contro risposta a questo passaggio sostenendo che l’anima viene impressa nel corpo e questo imprimersi è denotato come «il vincolo del governo». L’unione delle parti della mescolanza dei temperamenti è dovuta agli effetti delle potenze celesti, delle congiunzioni astrali, delle configurazioni e dei moti celesti. Dal momento che l’assimilazione di quelle forze e degli

142 143

Cfr., infra, p. 321. Cfr., infra, p. 321.

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effetti avviene in modo diverso, ne consegue che il temperamento è come lo specchio per quelle potenze ed effetti, e successivamente si predispone ad essere uno specchio per la ricezione dell’anima particolare che si determina per mezzo di e in conformità al temperamento stesso. Ciò comporta la variazione delle anime nella luminosità, sostanzialità o nobiltà in relazione alla perfezione. E ne consegue ancora che ogni anima umana abbia una certa affinità con il mondo superiore e le sue anime, secondo ciò che è «impastato» nel suo temperamento e di ciò che le deriva da quelle potenze ed effetti. L’anima ha poi nei confronti di una determinata sfera un rapporto più stretto rispetto a quello che ha con le altre, poiché su di essa le forze di quella sfera e i suoi effetti sono più forti. Se è così, la comprensione da parte dell’anima dell’uomo per ciò che essa comprende delle realtà, dipenderà dal suo arrivo – tramite un processo ascensionale e discensionale – a delle stazioni di perfezioni. Per cercare di spiegare questa corrispondenza tra l’anima e la sfera, Qūnawī richiama il viaggio compiuto in cielo dal profeta Muḥammad, il quale durante la sua ascensione incontrò Adamo nel primo cielo, che è la sfera della Luna, Gesù nel secondo, Giuseppe nel terzo, Idrīs nel quarto, Aronne nel quinto, Mosè nel sesto e Abramo nel settimo. Non vi è dubbio che le anime non occupano per sé un luogo, quindi ciò che Muḥammad ha menzionato, allude ai gradi delle loro anime, motivati dall’affinità stabilita tra esse e le anime celesti e le Alte Intelligenze.

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Questione che include altre questioni In quella che potremmo definire l’ultima parte dei questa sezione, Qūnawī snocciola una serie di domande che si presentano come una sorta di corollario conclusivo dell’intera corrispondenza. In esse ci si interroga sulla finitezza dei corpi, sulle loro potenze, le loro predisposizioni e la loro ricezione. E ancora delle commistioni naturali elementari e le loro potenze; qual è l’argomento che rende impossibile l’estinguersi della specie umana da questo mondo a causa di un evento universale che sopraggiunga imprevedibilmente nel mondo superiore, ignoto al genere umano e che non può essere spiegato attraverso l’osservazione o le regole matematiche. Si riflette se sia contemplabile che la specie umana si arresti per un certo arco di tempo, e in seguito questa generazione ritorni in questo mondo allo stesso modo, oppure in modo simile, o secondo un altro modo di essere144. Ṭūsī nel rispondere, concorda con Qūnawī riguardo alla potenza dei corpi ritenendola finita; quanto all’interruzione temporanea della specie umana e il suo successivo ritorno, ritiene ciò possibile, e lo stesso vale per altre specie. Qūnawī procede chiedendo quale sia l’argomento che prova l’infinità delle potenze celesti, il loro essere non soggette all’alterazione, alla corruzione e al mutamento. Molto è stato difatti riferito per affermare la perpetuità dei cieli, ma non ci è fornita una prova completa che conforti il cuore di un mustabṣir, che come ormai sappiamo, non trova soddisfazione in conclusioni persuasive, né in pure proposizioni o ragionamenti basati sull’improbabilità e sulla verosimiglianza145. Ṭūsī ritiene che la permanenza dei cieli e la durata dei loro effetti, sono state sostenute solamente a seguito di disamina di luoghi e direzioni che ha condotto ad una sfera limitante che abbraccia tutto; e una volta osservati i tempi, questi si spiegano grazie ad un movimento locale continuo della sfera celeste. Da ciò si deduce che, se la sfera che tutto abbraccia si corrompesse o svanisse, per un corpo non rimarrebbe direzione né tempo. Questo eviden-

144 145

Cfr., infra, p. 287. Cfr., infra, pp. 287-288.

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zia l’impossibilità, perché di necessità un corpo possiede una posizione e una direzione; si è allora attribuito alla sfera un’anima dotata di una potenza infinita e un intelletto, per desiderio del quale l’anima muove la sfera per ottenere tramite il movimento una perfezione che sta in essa in potenza e tende verso l’atto146. Qūnawī nell’epistola al-Hādiyya ribatterà che ritiene valido l’argomento di Ṭūsī solo per ciò che concerne la sfera massima; la controversia investe invece le sette sfere planetarie: esse ammettono la generazione e la corruzione, come un gruppo di filosofi e tutti i profeti e i più perfetti hanno sostenuto, oppure no147? E poi tramite quale argomento si stabilisce che i corpi celesti sono privi dei caratteri della natura e delle sue proprietà? Perché è rivelato tramite i profeti e i perfetti che tutti i corpi sono naturali148? Ṭūsī su questo punto argomenta che i corpi celesti non hanno alcuna natura degli enti elementari, poiché se così fosse, essi si fonderebbero sulle loro nature, di conseguenza i loro luoghi e il loro movimento sarebbero forzati, e quel che è forzato non dura149. Qūnawī medita allora sulla condizione dell’uomo secondo cui «l’astrazione» completa in questa vita terrena è difficile poiché implicherebbe un’interruzione del legame tra l’anima il corpo: in effetti, se questo legame si interrompesse totalmente, ne conseguirebbe la morte. L’anima è allora soggetta a dolori e piaceri, essa non è libera dalla contaminazione della natura e dalla sua determinazione d’essere. Da dove viene quindi all’uomo l’idea che ci siano dolori e piaceri spirituali puri? E in base a quale argomento si stabilisce ciò? Lo stesso si può dire per il piacere e la gioia riferiti al Vero. E chi pretende che ci siano dolori e piaceri spirituali in cui la natura non ha alcun valore, deve provarlo150. Ṭūsī riporta qui l’opinione dei filosofi che hanno esaminato con cura l’essenza del piacere; costoro hanno sostenuto che esso sia la percezione di qualcosa di gradevole, hanno pure giudicato che il piacere massimo è soltanto quello divino.

Cfr., infra, p. 323. Cfr., infra, p. 374. 148 Cfr., infra, p. 289. 149 Cfr., infra, p. 323. 150 Cfr., infra, p. 290. 146 147

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Poi osservando gli stati di coloro che sono giunti alla Sua Santa Eccellenza, hanno trovato che il loro piacere è continuo e al di sopra dei piaceri di questo mondo. Quanto ai piaceri sensibili e immaginativi, essi li giudicarono imperfetti, temporanei ed effimeri. Il dolore è invece la percezione dello svanire della cosa gradevole assieme al bisogno di essa, o l’arrivo di qualcosa di non gradevole pur potendone fare a meno151. Qūnawī replica che bisogna discutere su quanto Ṭūsī ha detto riguardo al piacere e alla gioia, e al loro riferimento al Vero nel senso di «corrispondenza armoniosa». L’armonia s’instaura solo tra due cose, ciascuna delle quali è in accordo con l’altra; ma il Vero è uno sotto tutti gli aspetti, perciò la comprensione della Sua Essenza è identica alla Sua Essenza. Che cosa mai sarà in corrispondenza armoniosa con Lui, non essendoci che Lui152? Ennesimo quesito: qual è la realtà dell’effusione che procede da Dio? Come fuoriesce e come giunge ai destinatari? Essa non può essere dello stesso genere degli esseri possibili, ma non può essere neppure Dio, e non esiste una terza entità che non sia il Dio e non sia altro. E come bisogna intendere il significato del «dare esistenza» in un primo momento e poi del «fornire sostegno» in un secondo momento? E in base a quale argomento ciò è stabilito e diviene chiaro153? E tra le questioni che possiamo considerare isolatamente, vi è quella del concatenarsi di cause ed effetti esistenti che non giungono a un termine ultimo154. Riguardo all’effusione che procede dal Vero, Ṭūsī afferma che essa è un’entità esistente e che viene ricevuta da un ricettacolo senza che avvenga un movimento da parte del Vero verso di questo, né di un movimento da parte del ricettacolo. Non esiste allora alcuna modalità per quell’emissione né per quella ricezione. Quanto alla questione del concatenarsi di cause ed effetti, ogni catena costituita da questi è ordinata; è quindi necessario che in ogni catena esi-

Cfr., infra, p. 324. Cfr., infra, p. 378. 153 Cfr., infra, p. 291. 154 Ibidem. 151 152

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stente vi sia una causa che sia la prima, altrimenti quei gradi non esisterebbero155. Infine nell’epistola al-Hādiyya Qūnawī preciserà che se l’effusione che procede dal Vero è un’entità esistente, non può che essere possibile o necessaria. Se è possibile, la sua esistenza dipende da un’altra effusione e si ha un regresso ad infinitum. Se è il Necessario, ne consegue un’impossibilità, poiché ciò comporterebbe che l’Essere Necessario sia accidentale per i possibili. E non esiste un’altra entità oltre al Necessario e al possibile, come è stato già spiegato. Il puro nulla non si muta in esistenza, non è una sede in cui si eserciti l’effetto della ricezione dell’atto esistenziatore da parte del Vero. La domanda resta allora irrisolta perché ci si chiede ancora come stanno le cose156. Tra gli ultimi punti sollevati da Qūnawī vi è quello sulle relazioni infinite che intercorrono tra gli enti, anche se bisogna che siano finite in rapporto alla Scienza del Vero. Se si concorda sul fatto che ciò che entra nell’esistenza è finito, come può allora sorgere dal finito qualcosa che non lo è? Ṭūsī sostiene che secondo i filosofi le cose che sono ordinate e le cui unità sono esistenti allo stesso tempo, bisogna che siano finite. Invece quelle che non sono ordinate, come le anime umane che permangono dopo la morte, e quelle le cui unità non sono esistenti allo stesso tempo, come gli eventi passati, ammettono una loro infinità157. Uno sguardo viene dato anche alla sostanza fisica sulla quale Qūnawī osserva che non svanisce quando una delle sue qualità svanisce, ma se nel fuoco svanisce il calore, svanisce anche il fuoco158. Ṭūsī a riguardo nota invece che ogni elemento si corrompe, infatti svanisce con lo svanire della sua qualità: si veda ad esempio l’acqua che bolle, essa perde il suo carattere freddo e si corrompe, producendosi da essa vapore. Questo si verifica quando la qualità estranea supera un limite che fa sì che l’acqua resti ancora tale. Quanto al caso in cui tale limite invece non

Cfr., infra, p. 325. Cfr., infra, p. 379. 157 Cfr., infra, pp. 325-326. 158 Cfr., infra, p. 292. 155 156

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sia superato, non svanisce, come ad esempio l’acqua calda. E il fuoco non svanisce per lo svanire del suo calore eccessivo, infatti esso nei composti permane con le sue forme privato del suo calore, che lo accompagna sempre quando è isolato159. A chiusura di tutte le questioni, Qūnawī pone la seguente: secondo ragione, la pura materia non ammette la divisione e lo stesso vale per la forma. Allora perché, dimorando la forma nella materia, le due divengono un corpo e ammettono la divisione? E perché si produce ex novo una terza cosa diversa dall’incontro delle due160? Ṭūsī considera che la materia e la forma pura esistono soltanto nella mente, invece nell’esistenza si accompagnano sempre. A dimostrazione di ciò si può osservare che quando s’incontrano due rette, tra le due si forma ex novo un angolo, e quando s’incontrano le unità si ottengono i numeri. Ciò che segue quel che ha un’esistenza fisica effettiva, tante volte è causa di qualcos’altro che è dotato di un’esistenza fisica effettiva. Come il fatto che la terra che sta di fronte al sole comporta la sua illuminazione, cosa che ha un’esistenza fisica effettiva la cui esistenza provoca il riscaldamento della terra161. A chiusura di questo studio qualche precisazione conclusiva. Nella traduzione della corrispondenza, come anticipato, il lettore troverà le argomentazioni sparse in tre parti: esposizione della domanda da parte di Qūnawī, risposta alla domanda da parte di Ṭūsī e contro risposta di Qūnawī nell’epistola finale. Ho per questo preferito segnalare in questo saggio il numero delle pagine in nota per facilitare la ricerca dei brani e la loro connessione, soprattutto per collegare delle argomentazioni che nella veste in cui ci si presentano, risulterebbe molto complicato seguire. Dalla biografia dei due interlocutori, è facile attribuire un’etichetta a ciascuno dei due: «Qūnawī ṣūfiyy» e «Ṭūsī faylasūf» ed in effetti ogni autore tenta di portare acqua al proprio mulino; è importante però riuscire a farsi conquistare dallo spirito della disquisizione che appare come tesa a collegare le due modalità di conoscenza, razionale ed illuminativa, per trovare poi convergenza in un sapere superiore armonico e onnicompren-

Cfr., infra, p. 326. Cfr., infra, p. 292. 161 Cfr., infra, p. 327. 159 160

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sivo. I nostri due personaggi si calano ognuno nei panni dell’altro, si guardano reciprocamente per conoscere e non per imporre la propria visione. La prospettiva di ognuno diventa così la cornice per ascoltare l’altro, la storia di Qūnawī non ingloba quella di Ṭūsī e viceversa, riuscendo a generare un dibattito che aspira a scoprire quello che il proprio «io» non permette di vedere.

AL-MURĀSALĀT BAYNA ṢADR AL-DĪN AL-QŪNAWĪ WA NAṢĪR AL-DĪN AL-ṬŪSĪ

4. L’EDIZIONE DEL TESTO

La traduzione e l’analisi del testo non sarebbero state realizzabili senza la preziosa edizione critica curata da Gudrun Schubert. La studiosa pone il testo all’attenzione della comunità scientifica nel 1988 con un suo primo articolo: The textual history of the correspondence between Ṣadr ad-dīn-i Ḳūnawī and Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī1, nel quale ordina e classifica le sezioni della corrispondenza, informa sulle condizioni delle varie copie dei manoscritti da lei presi in visione (dalla Turchia a Berlino e Leiden), e si interroga sulla probabile datazione della corrispondenza. In questo studio preliminare si metteva quindi in luce l’importanza della trattazione e si auspicava un’edizione critica completa delle epistole. Nel 1995 la suddetta studiosa pubblica a Beirut l’edizione critica Annäherungen. Der mystich-philosophische Briefwechsel zwischen Ṣadr udDīn-i Qōnawī und Naṣīr ud-Dīn-i Ṭūsī. Edition Und Kommentierte Inhaltsangabe von Gudrun Schubert2. Nella sua introduzione la curatrice cita i primi studi di epoca contemporanea su Qūnawī e Ṭūsī: uno di Rudolf Strothmann, Die Zwölfer-Schī‘a. Zwei religionsgeschichtliche Charakterbilder aus der Mongolenzeit, Leipzig 1926, in cui l’autore fa ricorso al carteggio tra i due per trattare del pensiero teologico di Ṭūsī, ed un altro di Nihat Kekliks, Sadreddîn Konevî’nin felsefesinde Allah-Kâhinât ve Insan, Istanbul 1957, che rappresenta il primo tentativo di diffusione del pensiero di Qūnawī volto a risvegliare l’interesse per i suoi scritti; Kekliks si era d’altronde trovato, sottolinea Gudrun Schubert, nella felice condizione di poter accedere ai numerosi manoscritti conservati ad Istanbul.

1 Cfr. G. Schubert, «The textual history of the correspondence between Ṣadr addīn-i Ḳūnawī and Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī», Manuscript of The Middle East, 3 (1988) 73-78. 2 Cfr. G. Schubert, Al-murāsalāt bayna Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī wa Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī (Annäherungen. Der mystisch-philosophische Briefwechsel zwischen Ṣadr udDīn-i Qōnawī und Naṣīr ud-Dīn-i Ṭūsī). Taḥqīq wa-mulaḫḫaṣ almānī mufassar Kūdrūn Šūbart (edition und kommentierte inhaltsangabe von Gudrun Schubert), Orientinstitut der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft, Beirut 1995 (Biblioteca Islamica, 43).

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Riguardo poi ai pochi altri scritti attribuiti a Qūnawī, fino ad allora stampati, erano apparsi tutti a Teheran ed in quel momento storico non erano ancora disponibili. Dal canto loro, gli studi di arabistica occidentale, avevano cominciato a considerare Qūnawī solo negli ultimi decenni del Novecento, e ciò grazie all’interesse ravvivatosi sull’opera di Ibn al-‘Arabī. Sarà merito di William Chittick far emergere la figura del nostro autore, i suoi scritti, il suo pensiero, riconoscendogli a pieno titolo la figura di mediatore, ma anche di prosecutore originale, dell’insegnamento e delle teorie dello šayḫ al-akbar. L’impresa della Schubert ha comportato il complesso confronto di una serie di raccolte di manoscritti, in arabo maǧmū‘āt, di contenuto mistico-filosofico di cui la studiosa fornisce una tabella per quel tempo completa specificando le loro varianti, la loro dettagliata descrizione, ed elaborando una classificazione secondo le loro principali caratteristiche: Aya Sofya 2349 (¡) Esat Efendi 1413 (s) Şehit Ali Paşa 1415 (š) Hasan Hüsnü 1160 (||) Teheran Miškāt 1079 (th) Üniversite A. Y. 4122 (n) Konya Müze 1633 (km)3 La ricostruzione completa del testo si è basata soprattutto sul manoscritto Aya Sofya 2349 poiché esso è l’unico ad offrire tutte le parti del carteggio e a consegnarci la versione migliore, anche se molti passaggi, secondo quanto Gudrun Schubert riporta, risultano di difficile lettura e decifrabili solo grazie all’aiuto degli altri manoscritti4. Nonostante la sua superficialità, anche la versione di Teheran è stata tenuta in considerazione, soprattutto perché unico testimone iraniano in suo possesso, contenente la parte del destinatario delle lettere. Tutti gli altri manoscritti provengono dalla Turchia e rappresentano le parti del mittente.

3 4

Ibid., pp. 2-7. Ibid., p. 8.

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Le poche parole illeggibili, ormai cancellate sulla pellicola del manoscritto di Teheran, sono state sostituite nel corpus da punti interrogativi, mentre i rimanenti manoscritti sono stati scelti secondo i criteri della completezza, leggibilità e disponibilità. Risulta inoltre, dato di certo non irrilevante, che esiste un manoscritto per ogni secolo (ad eccezione del XII/XVIII), cosicché nell’edizione della Schubert troviamo l’ininterrotta trasmissione della corrispondenza. Estat Efendi 1413 è stato scritto nel periodo in cui il suo autore era ancora in vita (VII/XIII secolo), il manoscritto di Teheran è dell’VIII/XIII secolo, Aya Sofia 2349 del periodo del governatorato di Bāyazīd II, cioè dell’886-918/1481-1512, Hasan Hüsnü 1160 del X/XVI secolo, Şehit Ali Paşa 1415 dell’inizio del XII secolo-fine del XVII, Üniversite A. Y. 4122 del XIII/XIX secolo. Per quanto concerne invece le lettere in persiano, che intercalano la trattazione, la curatrice ha seguito in prima istanza la versione di Aya Sofia 2349, e gli errori grammaticali presenti nel testo sono stati segnalati tra caporali con «[kaḏ…]». Altra importante questione sollevata nell’introduzione all’edizione critica è quella che concerne l’autenticità del testo. Secondo gli studi condotti da Gudrun Schubert, il primo garante del carteggio avvenuto tra Qūnawī e Ṭūsī sarebbe Ibn Taymiyya (m. 728/1328), uno dei maggiori avversari delle dottrine di Ibn al-‘Arabī. Dopo di lui vi è il celebre poeta e mistico persiano ‘Abd al-Raḥmān Ǧāmī (m. 898/1492), che ricorda lo scambio intellettuale tra i due eruditi5 ma che, come si evince dalle date, visse duecento anni dopo la morte di Qūnawī e Ṭūsī. Altre citazioni presenti nella Taḏkira di Laṭīfī (m. 990/1582)6 ed in Taşköprüzādes (m. 1030/1621), Mawḍū‘āt al-‘ulūm7, si basano a loro volta su Ǧāmī. Kātib Çelebi (m. 1068/1658) cita il carteggio sotto il titolo di Mufāwaḍāt e Hādiyya come proprie opere.

Cfr. ‘Abd al-Raḥmān Ǧāmī, Nafaḥāt al-uns, S. 555, citato nell’edizione di Gudrun Schubert, a p. 11. 6 Kastamū nulu Laṭīfī, Tezkire-ye Laṭīfī, Istanbul 1314, S. 43. 7 Kemâleddîn Mehmed Taşköprüzâde, Mavżū’āt al-‘ulūm, Istanbul 1313, S. 43. 5

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Ma sottolinea Gudrun Schubert, ancor prima dei riferimenti di Ibn Taymiyya e di Ǧāmī, nel manoscritto Esat Efendi 1413 vi è una nota che riporta che questo trattato è stato scritto al tempo di Qūnawī e, accettandola come corretta, traiamo la preziosa indicazione che tutti i trattati sono stati composti all’epoca dell’autore. Una testimonianza contemporanea tra Ibn Taymiyya e Ǧāmī è la ‘Īsa Bey Defteri a Tire che contiene le tre lettere persiane; mentre il manoscritto Konya Müze 1633, che comprende le prime due lettere, è datato 898/1492, anno della morte di Ǧāmī. Mikâil Bayram (seguito dal suo allievo Ahmet Ceran) ha messo in dubbio l’autenticità del carteggio e ha tentato di dimostrare che il destinatario delle lettere di Qūnawī non fosse Ṭūsī; ciò in base al fatto che nelle lettere di Qūnawī si cita solo il nome Naṣīr al-Dīn mentre il nome Ṭūsī appare solo nella seconda lettera8. Secondo il suo giudizio inoltre, ciò viene ulteriormente confermato dalla constatazione che in una lettera di Qūnawī si nomina uno šayḫ Naṣīr al-Dīn che non può essere identificato con Ṭūsī. Bayram, che parte però dalla testimonianza di Ǧāmī come primo garante del carteggio, ha dedotto che questo è stato composto solo dopo duecento anni la morte di Qūnawī e di conseguenza lo si è attribuito a Ṭūsī non avendo certezza di quale Naṣīr al-Dīn si trattasse; in verità, secondo lui, il destinatario viene identificato con Naṣīr al-Dīn Ḫuwayy, e in altre pubblicazioni lo paragona ad Ahi Evren (m. 706/1306-7)9, il santo patrono della corporazione dei conciatori dell’Anatolia10. Secondo la nostra studiosa invece, i presupposti per far cadere la tesi di Bayram sono: • l’informazione fornitaci da Ibn Taymiyya; • i primi manoscritti su menzionati; • la presenza delle due lettere – così come l’as’ila (domanda) e l’aǧwiba (risposta) – nel manoscritto di Teheran dell’VIII/XIV secolo; • tre altre lettere di Ṭūsī in cui questi prende posizione di fronte a quesiti che gli vengono posti dalle parti più diverse.

Cfr. Schubert, Al-murāsalāt, p. 11. Ibid., p. 12. 10 La questione è stata ripresa da Richard Todd che analizza le fonti turche sulla suddetta ipotesi della non attribuzione. Cfr. R. Todd, The Sufi Doctrine of Man. Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī’s Metaphisical Antropology, Brill, Leiden – Boston 2014, p. 38. 8 9

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Infine, si aggiunga a tutti questi dati la risposta alla domanda di Qūnawī su come la molteplicità possa prodursi dal Primo Intelletto. Nella risposta Ṭūsī si serve di una prova matematica che si ritrova in forma simile nel suo commento alle Išārāt di Avicenna, così come in un’altra lettera di risposta alla domanda sull’origine delle cose esistenti da Dio. L’autenticità del carteggio sembra dunque ad oggi confermata11. La monografia più recente e completa su Qūnawī è stata pubblicata da Richard Todd: The Sufi Doctrine of Man. Lo studioso torna sulla biografia e sul contesto culturale del nostro autore per dedicare una buona parte del suo volume all’antropologia di Qūnawī; restituisce inoltre in appendice la traduzione di alcuni brani tratti dalle sue opere selezionandoli secondo un approccio epistemologico. Questa monografia è stata per me utilissima; in buona parte essa ha confermato i dati rintracciati nella mia ricerca, ma soprattutto mi ha dato modo di visionare molti brani delle altre opere di Qūnawī che il lettore troverà citati in nota, a chiarimento e approfondimento delle questioni sollevate dalla corrispondenza esaminata.

11

Ibid., p. 12.

5. NOTA SUI MANOSCRITTI

Questa nota ha lo scopo di presentare ed enumerare i testimoni contenenti la corrispondenza epistolare fra Qūnawī e Ṭūsī. Dopo una prima indagine condotta sul materiale registrato dalla bibliografia generale, sono stati consultati i cataloghi individuali delle principali collezioni pubbliche delle nazioni prese in esame, allo scopo di localizzare i manoscritti di nostro interesse. Lo spoglio del materiale inventariato ha portato a stilare l’elenco presentato a seguire, che integra la lista dei codici riportata nell’edizione Schubert. Esso fornirà un quadro preliminare degli esemplari del carteggio identificati fino a questo momento, che andrà ulteriormente integrato in futuro. Non avendo avuto accesso diretto ai codici, e non potendo pertanto esaminare le varie parti dell’epistolario contenute nei suddetti, sono stati riportati i dati principali emersi dai cataloghi e, in parte, dalla letteratura scientifica disponibile. Manoscritti menzionati nell’edizione Schubert1: 1. I Epistola in persiano Qūnawī – Ṭūsī: Aya Sofya 2412, 2349; Baǧdath Vehbi 2053; Esat Efendi 3717; Necip Paşa 827 = İsa Bey Defteri; Konya Müze 1633; Leiden Warner 1133; Ragip Paşa 1461; Teheran Miškat 1079; Üniversite A.Y. 4122. 2. Risāla al-mufṣiḥa (Qūnawī): Aya Sofya 1795, 2349, 2358; Berlin We 1806; Esat Efendi 1143, 1413, 3717; Haci Beşīr Aǧa 355; Halet 289; Hasan Hūsnū 1160; Şehit Ali Paşa 1366, 1369, 1415; Üniversite A. 1458; Veliyüddin Efendi 1816. 3. As’ila (Qūnawī): Aya Sofya 2349, 2358; Baǧdath Vehbi 2053; Berlin We 1806; Esat Efendi 1143, 1413, 3592, 3717; Fatih 5329; Haci Beşīr Aǧa 355; Halet 289; Hamidiye 188; Hasan Hūsnū 1160; Leiden Warner 1133; Pertev Paşa 617; Ragip Paşa 1461; Şehit Ali Paşa 1366, 1415; Teheran Miškat 1079; Üniversite A. 1458; Üniversite A.Y. 4122; Veliyüddin Efendi 1816.

1

Schubert, Al-murāsalāt, pp. 1-7.

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4. II Epistola in persiano Ṭūsī – Qūnawī: Aya Sofya 2412, 2349; Baǧdath Vehbi 2053; Necip Paşa 827 = İsa Bey Defteri; Konya Müze 1633; Leiden Warner 1133; Pertev Paşa 617; Ragip Paşa 1461; Teheran Miškat 1079; Üniversite A.Y. 4122. 5. Aǧwiba (Ṭūsī): Aya Sofya 1795 (as+aǧ), 2412 (as+aǧ), 2349, 2358, 4855, 4862; Baǧdath Vehbi 2053; Berlin We 1806; Carullah 2097 (as+aǧ); Esat Efendi 1143, 1413, 3592, 3717; Fatih 5329; Haci Beşīr Aǧa 355; Halet 289; Hasan Hūsnū 1160; Leiden Warner 1133; Leiden Or. 997; Pertev Paşa 617; Ragip Paşa 1461; Şehit Ali Paşa 1366, 1415; Teheran Miškat 1079; Topkapi A. 2486 (as+aǧ); Üniversite A. 1458; Üniversite A.Y. 4122; Veliyüddin Efendi 1816. 6. III Epistola in persiano Qūnawī – Ṭūsī: Aya Sofya 2412, 2349; Hamidiye 188 (arab.); Hasan Hūsnū 1160; Necip Paşa 827 =İsa Bey Defteri (pers.); Leiden Warner 1133 (arab.); Topkapi A. 2486; Üniversite A.Y. 4122 (arab.). 7. Risāla al-hādiya (Qūnawī): Aya Sofya 1795, 2412, 2349, 2358; Berlin We 1806; Carullah 2097; Esat Efendi 1413, 3592, 3717; Haci Beşīr Aǧa 355; Halet 289; Hamidiye 188; Hasan Hūsnū 1160; Leiden Warner 1133 (incompleto); Pertev Paşa 617; Şehit Ali Paşa 1415; Topkapi A. 2486; Üniversite A.Y. 4122. Bibliografia generale C. Brockelmann, Geschichte der Arabischen Litteratur, Suppl., 1937: «Ṣadraddīn a. ’l-Ma‘ālī M. b. Isḥāq b. M. al-Qōnawī, der den Unterricht des b. ‘Arabī wahrend seines Aufenthalts in Qonya 607/1210 genossen hatte, starb 672/1263. – 4. ar-R. al-hādiya noch Vat. V. 1453 […] 10. ar-R. al-mufṣiḥa ‘an muntaha ’l-afkār ilḫ noch Vat. V. 1453, Būhār 642, ii2, Antwort des Nāṣiraddīn aṭ-Ṭūsī eb. iii und al-Qōnāwīs Replik eb. iv, Leid. 1523. Welīeddīn 1818, 7183 […] 13. Nafṯat al-maṣdūr watuḥfat aš-šakūr noch Vat. V, 1397,2»; pp. 924-928: «Abū Ǧa‘far Nāṣir (Naṣīr) ad-Dīn M. b. M. b. al-Ḥ. aṭ-Ṭūsī aš-Šī‘ī […] III. Philosophie

2 3

Corrigendum: ove il ms. 642 è in realtà il n. 462.

Gudrun Schubert riporta il n. 1806.

NOTA SUI MANOSCRITTI

185

und Mystik […] 22b. Antwort auf die R. al-Qōnawi’s (S. 808, 32, No. 10), Būhār 462, iii»4. C. Brockelmann, Geschichte der Arabischen Litteratur, 1943: «Ṣadraddīn a. ’l-Ma‘ālī M. b. Isḥāq b. M. al-Qōnawī hatte in seinem Geburtsort Qonya den Unterricht des b. al-‘Arabī, als er sich 607/1210 dort aufhielt, genossen und starb 672/1263 […] 4. ar-R. al hādiya, gegen Irrtümer über das Wesen Gottes, die wesentlichen Eigenschaften der Dinge und deren Anfang, die im Antwortschreiben des Nāṣỉraddīn (vgl. 16) auf seine Abh. ar-R. al-mufṣiḥa (No. 10) vorkommen, Berl. 2305 […] 10. ar-R. al-mufṣiḥa ‘an muntaha ’l-afkār wasabab iḫtilāf al-umam, über die Erkenntnis Gottes und die Beweise für seine Existenz, Wesen der menschlichen Seele und die Möglichkeit, Gott zu begreifen und zu erreichen, Berl. 3274 […] 13. Nafṯat al-maṣdūr watuḥfat aš-šakūr Leid. 2192 […] 16. Briefwechsel mit aṭ-Ṭūsī Leid. 1523 [...] «Abū Ǧa‘far Naṣīraddīn M. b. M. b. al-Ḥ. aṭ-Ṭūsī aš-Šī‘ī, gest. 672/1274, s. Suppl. […] III. Philosophie. 6. Antwort auf die Fragen, die al-Qōnawī (S. 585) aufgeworfen und in seiner Weise in der Abh. ar-R. al-mufṣiḥa beantwortet hatte, Berl. 3477, Patna II, 417, 2586,2 […] 22r. ar-R. al-hādiya Patna II, 417, 2586,3»5. CITTÀ DEL VATICANO: «1397 (ǧumādà II 698, cm. 23x16,5, ff. I. 64). 2: (f. 55-63v) Nafṯat almaṣdūr wa-tuḥfat aš-šakūr di Ṣaḍraddīn Abu’l-ma‘ālī Muḥammad b. Isḥāq b. Muḥammad al-Qōnawī (Br. I 450. (32). 13, soltanto da Leid. 2192)»6.

C. Brockelmann, Geschichte der Arabischen Litteratur, Erster Supplementband, Brill, Leiden 1937, pp. 807-808 e 924-928; Id., Geschichte der Arabischen Litteratur, Zweite den Supplementbänden Angepasste Auflage, Erster Band, Brill, Leiden 1943, pp. 585-586 e 670-673. Cfr. Id., History of the Arabic Written Tradition, vol. I, transl. by Joep Lameer with a Preface by Jan Just Witkam (Handbook of Oriental Studies. Section one: The Near and Middle East 117/1), Brill, Leiden – Boston 2016, pp. 511-512 e 588-593. 4

5 Id., Geschichte der Arabischen Litteratur, vol. I, Zweite den Supplementbänden Angepasste Auflage, Erster Band, Brill, Leiden 1943, pp. 585-586 e 670-673. La ristampaseconda edizione del 1943 riporta alcuni altri esemplari rispetto a quella precedente pubblicata come Supplemento al primo volume. 6 G. Levi della Vida, Elenco dei Manoscritti Arabi Islamici della Biblioteca Vaticana, Vaticani, Barberiniani, Borgiani, Rossiani, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1935, p. 216.

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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«1453 (1 ǧumādà I 1268, cm. 21,5x13,5, ff. 41). Corrispondenza filosofica tra Ṣadraddīn Muḥammad b. Isḥāq al-Qōnawī e Naṣīraddīn Muḥammad b. Muḥammad aṭ-Ṭūsī (Br. I 450. (32). 16, da Leid. 1523), comprendente ar-Risāla al-Mufṣiḥa (Br. I 450. 10), la risposta di aṭ-Ṭūsī (Br. I 509 III 6) e ar-Risāla al-Hādiya (Br. I 449. 32. 4): tutti tre questi opuscoli sono contenuti nello stesso codice berlinese Wetzstein 1806 (= Berl. 2305, 3274, 3477)»7. GERMANIA Berlino «2305. We. 1806. 4) f. 46-61 […] Titel f. 45b unten:

‫ صدر الدين ابو المعالي [محمد بن] محمد بن اسحق بن محمد‬... ‫الرسالة الهادﻳة کتبها سيدنا االمام‬ ‫ نصير الدين‬... ‫ الي االمام المولي‬... ‫بن ﻳوسف بن علي القونوي‬

Anfang (nach dem Bism.) f. 46a:

‫ وبعد فانه ال يخفی على االلباء ان فلك‬... ‫الحمد هلل الذي ابان بمستع ّدات الهمم مراتب علم اليقين‬ ! ‫العيان بالنسبة الي فلك المعاني المجردة والحقايق البسيطة الخ‬

Abhandlung, in welcher Çadr eddīn moḥammed ben isḥāq elqonawī † 672/1273 verschiedene irrige Auffassungen, die in dem Antwortschreiben des Naçir eddīn auf seine Abhandlung al-Risāla al-mufṣiḥa vorkommen (We. 1806, 3), berichtigen will. Dieselben beziehen sich auf das Wesen Gottes und die wesentlichen Eigenschaften der Dinge und deren Anfang. Schluss f. 61b: ‫وﻳبقيه رکنا ﻳلجأ اليه ويعول فى کشف كل معضلة عليه والسالم معاد عليه ورحمة هلل وحسبنا هلل‬ ‫ونعم الوكيل‬

Abschrift im. J. 817 Ṡawwāl (1414). – Hkh. III, 6420»8.

«3274. We. 1806. 2) f. 9b-34 […] Titel fehlt. Nach der Unterschrift f. 34b: ‫الرسالة المفصحة عن منتهی االفكار وسبب اختالف االمم والموضحة من االهتداء الي الطرﻳق‬ ‫االشرف األهم‬

Verfasser fehlt. Nach f. 34b:

)d. i. ‫صدر الدين محمد بن اسحق بن محمد بن ﻳوسف بن علي (القونوی‬

Ibid., pp. 228-229. W. Ahlwardt, Die Handschriften-verzeichnisse der Königlichen Bibliothek zu Berlin. Achter Band. Verzeichniss der Arabischen Handschriften. Zweiter Band. A. Asher & Co, Berlin 1889, pp. 529-530. 7 8

‫‪187‬‬

‫‪NOTA SUI MANOSCRITTI‬‬

‫‪Anfang f. 9b:‬‬

‫الحمد هلل المنعم علي الصفوة من عباده بمزية االحسان ‪ ...‬وبعد فلما كان الناس بمقتضى القسمة‬ ‫العملية واالختيارات االلهية على ثلث طبقات‬

‫‪Abhandlung des Moḥammed ben isḥāq ben molì. elqōnawī çadreddin‬‬ ‫‪† 672/1274 über die Erkenntniss Gottes und die Beweise für seine Exi‬‬‫‪stenz, über das Wesen der menschlichen Seele und die Möglichkeit, ihn zu‬‬ ‫‪begreifen und zu erreichen, in mehreren Abschnitten u. Fragen.‬‬ ‫فصل فى بيان احوال طبقات الناس فى طلب العلوم ‪11b‬‬ ‫فصل اعلم ايها االخوان ‪ ...‬ان اقامة االدلة النظرية ‪13b‬‬ ‫فصل فى تتميم ما سبق ذکره ‪20a‬‬ ‫‪b‬‬ ‫المسئلة االولي هل ثبت عندكم ان وجود واجب الوجود امر زاﻳد على حقيقته ‪21‬‬ ‫مسئلة كلية تتضمن ع ّدة مساﻳل ما حقيقة النفس ‪29b‬‬ ‫ّ‬ ‫البرهان الدال علي اثباتها الخ‬ ‫االنسانية وما‬ ‫‪a‬‬ ‫المسئلة المشتملة على مسائل ‪32‬‬

‫‪Schluss f. 34b:‬‬

‫بل بالتبعية لما له وجود محقق‪ ،‬کما سبقت االشارة اليه في بعض المذاهب المتقدمة‬

‫‪Abschrift vom J. 817 Ramaḍān (1414)»9.‬‬ ‫]…[ ‪«3477. We. 1806. 3) f. 35-45 […] al-Aǧwiba al-Naṣīriyya‬‬ ‫‪Anfang f.35a:‬‬ ‫الحمد هلل الذي نصب فی كل زمان هادیا الخلق الي الطریق القویم ‪ ...‬وبعد فقد وصل من جنابه العالي ‪...‬‬ ‫الي احوج خلق اهلل سبحانه الیه محمد بن محمد الطوسی كتاب جامع االشارات الروحانیة الي االسرار ‬ ‫الربانية الخ‬

‫‪Antwort auf die Fragen, welche al-Qūnawī aufgeworfen und in seiner‬‬ ‫‪Weise beantwortet hatte in seiner Abhandlung al-Risāla al-mufṣiḥat (We.‬‬ ‫‪1806, 2), von Moḥammed ben molì. eṭṭūsī naçīr eddīn † 672/1273. – F. 35b‬‬ ‫‪geht auf 21b, 38a auf 23b, 39a auf 25a, 39b auf 27a. 41b auf 29b, 43b auf 32a.‬‬ ‫‪Schluss f. 45b:‬‬ ‫لم يکن ذلك من انعامه العا ّم ‪ ...‬واسبغ عليه فيضه الذي ال يزال انه اللطﻴف المجيب‬

‫‪10‬‬

‫‪Ibid., Neunter Band, Dritter Band, Berlin 1891, p. 187.‬‬ ‫‪Ibid., p. 264.‬‬

‫‪9‬‬

‫‪10‬‬

188

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

INDIA Calcutta: «ms. 462-II: Risālat al-Ḳūnavī. A treatise on metaphysics by Ṣadr alDīn Abū’l Ma‘ālī Muḥammad bin Isḥāḳ al-Ḳūnavī. He was a pupil of Ibn al-‘Arabī, and died in A.H., 672, A.D. 1273. For his life see Nafaḥāt, p. 645; Ḥabīb as-Siyar, Vol. III., Juz’ I, p. 66; and Brocklemann, Vol. I., p. 449 […] In Berlin Cat. No. 3274, the treatise is called al-Risāla al-mufṣiḥa ‘an muntahā-l-afkār wa sabab ikhtilāf al-umam. In our copy it has been named Risāla Šayḫ Ṣadr al-Dīn Qūnawī ke be Ḫwāǧā Naṣīr Ṭūsī nevešteh. Ḥājī Khalīfa, Vol. VI., p. 8, has named it Mafūṣāt. For a copy see Berlin Cat. No. 3274. foll. 20b-31a»11; «ms. 462-III: Risālat aṭ-Ṭūsī. A treatise addressed to Ṣadr ad-Dīn al-Ḳūnavī in response to the preceding treatise by Naṣīr ad-Dīn Muḥammad aṭ-Ṭūsī, died A.H. 672, A.D. 1273. See No. 319 […] In our copy it is named Risāla Ḫwāǧā Naṣīr al-Dīn Ṭūsī dar ǧwāb Risāla Šayḫ Ṣadr al-Dīn Qūnawī. For a copy see Leyden Cat. No. 1523. See also Ḥājī Khalīfa, Vol. III, p. 449. foll. 31a-39a»12; «ms. 462-IV: Risālat al-Ḳūnavī. A treatise addressed to Naṣīr ad-Dīn aṭ-Ṭūsī in response to the preceding work by Ṣadr al-Dīn Abū’l Ma‘ālī Muḥammad bin Isḥāḳ al-Ḳūnavī, died A.H. 672, A.D. 1273. See No. 462, II […] The treatise is supplemented by another treatise (foll. 32-39) which is called al-Mafūṣāt. For a copy see Leyden Cat. No. 1523. Foll. 39-51b»13. Nuova Delhi: «2. National Museum. »14« Ms. 62.1025 is a collection of 18 separately paginated little books. The Arabic and Persian texts contain mainly treatises by Naṣīraddīn at-Ṭūsī and his answers to philosophical questions. Among them the exchange of letters with Ṣadraddīn al-Qōnawī (died 672/1263) may be mentioned; these letters are also preserved in the mss. Leiden 1523 and Rampur 1916»14.

11 Š. ‘U. M. Hidāyat Ḥusain, Catalogue Raisonné of the Būhār Library, vol. II, Catalogue of the Arabic Manuscripts in the Būhār Library, Imperial Library, Calcutta 1923, pp. 515-516. 12 Ibid. 13 Ibid. 14 H. Daiber, «New Manuscript Findings from Indian Libraries», Manuscripts of the Middle East, 1 (1986) 28.

NOTA SUI MANOSCRITTI

189

Patna: «Patna II, 417, 2586/2 e 2586/3»15. Rampur: «ms. 941 MK. al-As’ilah wa’l-Ajwibah (Ajwibatu’l-Masā’il). Ṣadru’d-Dīn al-Qūnawī (See No. 3028) – al-Muḥaqqiq a’ṭ-Ṭūsī (See No. 3501). ‘Ar. (Naskh). S. 21.4x13.9; F. (9a-27b); L. 21. Inc. (The 1st fol. missing). Bad. Worm-eaten. 12th/18th century. A collection of 2 letters in Persian, the first addressed by al-Qūnawī to a’ṭ-Ṭūsī with some questions on Physics & Metaphysics in Arabic & the second by a’ṭ-Ṭūsī in its reply with explanatory notes in Arabic on those questions. With gold Jidwal & Bārīkā […] See Fihristi Kitābkhānahi Riḍawī 4/9 & 241»16. IRAN

‫ عربى فارسى‬/ ‫ فلسفه‬/ ‫اسئلة القونوی عن الطوسى = مسائل القونوی = المفاوضات‬

Mašhad, Molavī 557/2; Mašhad, Kitābḫānah-i Āstān-i Quds-i Raḍavī, 929, 10317; Qum, Kitābḫānah-i Mar‛ašī, 11070/2, 11110/6; Tabriz, Ḫadam Ḥasīnī 6/1; Tehrān, Kitābḫānah-i Dāniškādah-i Adabiyyāt-i Dānišgāh-i Tehrān, ‫د_د‬-90/26; Tehrān, Kitābḫānah-i Markazī-yi Dānišgāh-i Tehrān, 6616/48, 6710/15; Tehrān, Kitābḫānah-i Maǧlis-i Šūrā-yi Islāmī, 1830/37, 3779/1, 14280/10; Tehrān, Kitābḫānah-i Millī Malik, 2508/5, 4681/6; Tehrān, Kitābḫānah-i Madrasah-i Marvī, 715/3; Kitābḫānah-i Millī Ǧumhūri-yi Islami-yi Iran, 2787/1217.

15 ‘A. H. Maulavī, Hand-List of Arabic MSS bequeathed to the Library at Bankipore by the late Ḫān Bahādur Ḫudā Baḫš Ḫān. Arranged by Maulavī ‘Abd al-Ḥamīd, verified by Sir E. Denison Ross, II, Sâdiqpûr Press, Patna 1922 [Urdu text], p. 126. Vd. Arabic Hand-list, II, pp. 146-147, in http://kblibrary.bih.nic.in. 16 I. ‘A. ‘Aršī, Catalogue of the Arabic Manuscripts in Raza Library Rampur. Volume Four: Sufism, Holy Scriptures, Logic & Philosophy. Printed for Raza Library Trust. Rampur, U. P. India 1971, p. 556. 17 M. Dirāyatī (ed.), Fihristvārah-i Dastnivišthā-yi Īrān (Dinā), The Abridged Catalogue of Iran Manuscripts, Kitābḫānah, Mūzih va Markaz-i Asnād-i Maǧlis-i Šūrā-yi Islāmī, I, Tehran 1389 š./2010, pp. 702-704. Cf. anche Id., (ed.), Fihristgān: nusḫah’hā-yi ḫaṭṭī-i Īrān (Fanḫā), Union Catalogue of Iran Manuscripts, Sāzmān-i Asnād va Kitābḫānah-i Millī-i Ǧumhūrī-i Islāmī-i Īrān, Tehran 1390 š./2011 (ultima ristampa 2012), vol. III, pp. 209-211.

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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‫ عربى فارسى‬/ ‫ فلسفه‬/ ‫اجوبة المسائل القونوی = المفاوضات = المفصحة‬

Hamadān, Madrasah-i Ġarb 1187/54; Iṣfahān, Kitābḫānah-i Dāniškādah-i Adabiyyāt-i Dānišgāh-i Tehrān, 42/3; Iṣfahān, Kitābḫānah-i Dānišgāh-i Iṣfahān, 293/3; Ḫoy, Kitābḫānah-i Madrasah-i Namāzī, 847/4; Mašhad, Ilāhiyyāt 557/4; Mašhad, Kitābḫānah-i Āstān-i Quds-i Raḍavī, 665, 10317/2; Mašhad, Molavī 557/3; Qum, Kitābḫānah-i Mar‛ašī, 4786/3, 11070/3, 11110/7; Qum, Markaz-i Iḥyā’-i Mīrāṯ-i Islāmī, 1365/15, 1570/6; Tabriz, Ḫadam Hasini 6/1; Tehrān, Dānišgāh-i Tehrān 671/16, 2681, 1022/9, 6616/49; Tehrān, Ilāhiyyāt 293/62; Tehrān, Kitābḫānah-i Maǧlis-i Šūrā-yi Islāmī 369/16, 1830/1138, 3779/2, 5283/76, 9294/22, 9294/25; 14280/11; Tehrān, Asġār Mahdavī Private Collection 259/14, 364/23; Tehrān, Kitābḫānah-i Millī Malik 1635/4, 1841/5, 1841/6, 2508/6, 4655/28, 1635; Tehrān, Kitābḫānah-i Madrasah-i Marvī, 715/4; Tehrān, Kitābḫānah-i Millī Ǧumhūri-yi Islami-yi Iran, 2787/13; Tehrān, Kitābḫānah-i Madrasah-i ‛Ālī-i Šahīd Muṭahharī (ex: Kitābḫānah-i Madrasah-i ‛Ālī-i Sipahsālār) 6521/3; Tehrān, 10693/418. ‫ عربى‬/ ‫ فلسفه‬/‫الرسالة الهادية = پاسخ قونوی به طوسى‬

Iṣfahān, Adabiyyāt 42/4; Iṣfahān, Dānišgāh-i Iṣfahān 293/4; Tehrān, Kitābḫānah-i Madrasah-i Marvī 715/5; Tehrān, Kitābḫānah-i Maǧlis-i Šūrā-yi Islāmī 481/2, 3779/3; Tehrān, Kitābḫānah-i Millī Malik 2508/7; Tehrān, Kitābḫānah-i Madrasah-i ‘Ālī-i Šahīd Muṭahharī (ex: Kitābḫānah-i Madrasah-i ‘Ālī-i Sipahsālār 6521/419. ‫ فارسى‬/‫ نامه نگانى‬/‫مکتوب صدرالدين قونوی به خواجه نصير طوسى و پاسخ خواجه‬

Qum, Kitābḫānah-i Golpāyegānī 1390/3-8/10020. ‫ عربى‬/ ‫ عرفان و تصوف‬/‫نفثة المصدور و تحفة المشکور‬

Id., Fihristvārah-i Dastnivišthā-yi Īrān (Dinā), I, pp. 280-81 e Id., Fihristgān, vol. I, pp. 884-888. 19 Ibid., vol. V, pp. 841-842. 20 Ibid., vol. IX, p. 1238. 18

NOTA SUI MANOSCRITTI

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Qum, Markaz-i Iḥyā’-i Mīrāṯ-i Islām 730/221. PAESI BASSI Leida: «Or. 997. Collective volume with texts in Arabic (Nos. 1-6, 8-12), Persian (Nos. 7, 7a) and Turkish (No. 6a), paper, 199 ff. several copyists are involved, with several dates. Wax seal on f. 2a. (6): ff. 87r-100v. Correspondence between Sadr al-Din al-Qunawi (d. 672/1273), GAL G I, 450, S I, 808, and Nasir al-Din al-Tusi (672/1274). Here only the latter’s letter. CCO 1524 (III, p. 367)»22. «MDXXIV. (Cod. 997(6) Warn.). Alterum exemplar responsi Naçíro’d-díni tantum ad Çadro-’d-díni quaestiones. Sunt 14 foll. anno 926 exarata. Sequitur catena Bokhárí, vulgo dicti Nakschibend († 791) usque ad Profetam perducta, Turcice»23. «Or. 1133
. Arabic, paper, 50 ff.
 Correspondence between Sadr al-Din al-Qunawi (d. 672/1273), GAL G I, 450, S I, 808, and Nasir al-Din al-Tusi (672/1274). The first letter by Sadr al-Din is different from al-Risala al-Mufsiha (MSS Buhar 462, II; Berlin Ahlwardt 3274), but the second letter (by Nasir al- Din) and the third (by Sadr al-Din) are the same as in those manuscripts. CCO 1523 (III, pp. 366-367)»24.

Ibid., vol. X, p. 755. J. J. Witkam, Inventory of the Oriental Manuscripts of the Library of the University of Leiden, Ter Lugt Press, Leiden 2007, vol. I, pp. 444-445. Cfr. P. Voorhoeve, Codices Manuscripti VII. Handlist of Arabic Manuscripts in the Library of the University of Leiden and other collections in the Netherlands, Leiden University Press, The Hague – Boston – London, 1980, p. 439. 21 22

Cfr. P. De Jong – M. J. De Goeje, Catalogus Codicum Orientalium Bibliothecae Academiae Lugduno Batavae, vol. III, Leiden 1865, p. 367. Vd. anche Voorhoeve, Handlist of Arabic Manuscriptsp, p. 439: «Or. 997(6) Another copy of Naṣīr ad-Dīn’s letter. f. 87r-100v; CCO 1524; H. 926». 23

24 Witkam, Inventory of the Oriental Manuscripts of the Library of the University of Leiden, vol. II, p. 49. Cfr. Voorhoeve, Handlist of Arabic Manuscripts, p. 439: «Correspondence between Ṣadr ad-Dīn al-Qūnawī (d. 672/1273, G. I, 450, S. I. 808) and Naṣīr ad-Dīn aṭ-Ṭūsī (d. 672/1274). The first letter by Ṣadr ad-Dīn is different from ar-Risāla al-Mufṣiḥa (Buhar 462, II, Berlin 3274), but the second letter (by Naṣīr ad-Dīn) and the third (by Ṣadr ad-Dīn) are the same as in those MSS. *ff. 50; CCO 1523; Warn.».

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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«MDXXIII. (Cod. 1133 Warn.). Epistolae amœbaeae inter viros doctissimos Naçíro-’d-dín at-Tusí († 672) et aequalem ejus Çadro-’d-dín Mohammed ibn-Ishák al-Konawí, eodem anno aut anno post eum mortuum. Praecedit in Codice brevis epistola introductoria Persice scripta a Çadro-’d-dín ad Naçír-’d-dínum, ‫نسخة المکتوب الذی کتبه الفضل صدر الملة والدين الى الملى المعظم نصير الطوسى بسم هلل‬ ‫الرحمن الرحيم الداعی المخلص محمد بن اسحاق ما زال سمعی بغی من طﯿﻴب ذکرك الخ‬

Hanc excipit propria Çadro-’d-díni epistola Arabice, continens quaestiones de quibus consulere cupivit Naçír-’d-dínum,

‫ تشتمل علی اسولة حکمیة قال الشيخ العارف صدر الملة والدین الرومی بعد ذکر‬- ‫هذه نسخة کتاب کتبه الخ‬ ‫الخطبة والمقدمات الکثیرة علی رای الصوفیة بسم اهلل الرحمن الرحیم مبدء الشروع فی سرد المسائل وبعد‬ .‫فهذه بعض المسائل التی قد کان اعتاص علی الداعی فی بدایة تحصیله‬

Sunt 21 foll. – Sequuntur responsa Naçíro-’d-díni, quibus itidem epistola introductoria Persice scripa praemittitur, cujus initium est: ‫ بغير‬،‫خواجه نصير الدين الطوسى الشيخ صدر الدين رحمه هلل شعر الثانى کتاب ما اراه مشابها‬ .‫کتاب هلل من سائر الکتب‬

Propria autem epistola, responsa continens, incipit a verbis:

ّ ‫الحمد هلل الذی نصير فى‬ .‫كل زمان هادئا‬

Hujus libelli, cujus mentionem facit H.-Khal. III, p. 449 seq., alterum exemplar hîc possidemus, nempe num. seq., Cod. 997(6). Sunt plus quam 17 folia. – His subjungitur epistola Çadro-’d-díni, elicita responso Naçíro’d-díni, quae sic introducitur

‫فقال بعد ادعية وثناء بتحييل وتعظيم باللغة الفارسية فاقول واهلل خير معين ان السوال المشرق‬ .‫بايراده على بعض مواضع تلك الرسالة الخ‬ Sunt 12 folia. Sub titulis ‫ مواخذات مفاوضات‬H.-Khal. alias horum virorum

epistolas amœbaeas commemorat. Codex anni notâ caret, est vero recens»25.

«Or. 1094.
 Collective volume with texts in Arabic, and Persian, with some Turkish, paper, 254 ff., safina shaped. Apparently the whole or part of a private notebook of a scholar fluent in Persian and Arabic, living in Anatolia, in the second half of the 8/14th century; (10) p. 32. Persian. Letter from Shaykh al-Islam Sadr al-Haqq wal-Din (= al-Qunawi?) to Nasir al-Din al-Tusi (d. 672 AH), and the latter’s answer (p. 34). CCO 526 (II, p. 28)»26.

De Jong – De Goeje, Catalogus Codicum Orientalium, vol. III, pp. 366-367. Witkam, Inventory of the Oriental Manuscripts of the Library of the University of Leiden, vol. II, p. 37. 25 26

NOTA SUI MANOSCRITTI

193

«DXXVI. (Cod. 1094 Warn.). 10 (p. 32). Epistola Persica, a ّ ‫االسالم صدر الحق والدين‬ ‫ شيخ‬ad Nacíro-’d-dín at-Tusí (súmmum illum astronomum qui medio saeculo séptimo floruit) scripta, et (p. 34) Responsum Nacíro-’d-díni»27. «Or. 544. Arabic, paper, 20 ff. Nafhat al-Masdur wa-Tuhfat al-Shakur by Sadr al-Din Muhammad b. Ishaq al-Qunawi (d. 672/1273), GAL G I, 450. CCO 2192 (IV, p. 340). See Voorhoeve, Handlist, p. 246». ).MMCXCII (Cod. 544 Warn« ‫ ْنف َثة المصدور و تحفة الشکور‬. Confessio, supplicatio et gratiarum actio ad Deum schaikhi Mohammed ibn-Ishák ibn-Mohammed ibn-Jusof ibn-Alí Çadro-’d-dìn al-Kunawí (+ 672 s. 673). Habemus hîc hujus opusculi exemplar, anno 1067 descriptum e Codice qui olim possidebatur ab auctoris discipulo Mowaijido-‘d-dín Mowaijad ibn-Mahmud al-Khowarezmí al-Djanadí (+ 700), et in cujus fronte magister anno 670 haec suâ manu adnotaverat: ‫على جميع هذا الکتاب صاحبه الواد العزيز الفاضل انلبيب المدرك النحبطب العارف موﻳد‬ َّ ‫سمعع‬ ‫الدين موﻳد بن مهمود الخوارزمی ثم الحبندی فليروه عنى بشرط مراعاة الشروط المعتبرة بين العلماء‬ .‫المتقنين‬

In fine poëmatiunculum est schaikhi Mohammed vulgo dicti al-Olaimátí. Sunt 20 foll.»28. TURCHIA29 Bursa: Nasired-din Muhammed b. Muhammed at-Tusi 597-672 H: 4363/2 Risâla ilâ Sadreddin el-Konavi fi su’alih hal yaşbut’indak-

27 28

De Jong – De Goeje, Catalogus Codicum Orientalium, vol. II, p. 28. Ibid., vol. IV, p. 340.

Per gli altri manoscritti turchi identificati, cfr. Schubert, Al-murāsalāt, pp. 1-7.Vd. anche Schubert, «The textual history of the correspondence between Ṣadr ad-dīn-i Ḳūnawī and Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī», in Manuscripts of the Middle East, (1988) 78 n. 4: «I have not yet been able to examine a few more manuscripts, such as that of Vienna, the one from the Vatican Library, one in Kütahya and one in Bursa, nor those in the Iranian libraries. On the copies in Iran, see Muḥammad Mudarrisī, ‘Sar-gudhasht wa-‘aqā’id-i falsafī-i khwādja Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī’, in Yādbūd-i haftṣadumīn sāl-i khwādja Naṣīr-i Ṭūsī, Tehran 1335 sh., pp. 229-232; the oldest manuscript mentioned by Mudarrisī (p. 230 of his article) is that of Ḥaydar-i Amulī (d. 787/1385)». 29

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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um ama vucûd vâcib el-vucud amr zaid. 20b-49a vr. :17 st. :179x130 128x80. Istanbul: Un esemplare della corrispondenza è conservato presso la Biblioteca Aya Sofya di Istanbul, all’interno di un Maǧmū‘a ms. 4855 (G). Il codice è di notevole importanza, in quanto contiene trattati filosofici di al-Fārābī, Ibn Sīnā, Abū al-Barakāt al-Baġdādī, Ṭūsī (corrispondenze con al-Qūnawī e al-Astarābādī), Aṯīr ad-Dīn al-Abharī30. Altri manoscritti dell’epistolario Qūnawī-Ṭūsī sono preservati presso le seguenti biblioteche turche31: – Al-Risāla al-hādiya: Üniversite A.Y. 4122; Esat Efendi 1143; Veliyüddin Efendi 3191; Veliyüddin Carullah 2054, 2097; Kutahya Vahid Paşa 622. – Al-Mufāwaḍāt: Istanbul Beşir Aǧa 355. – Al-Risāla al-mufṣiḥa ‘an muntahā-l-afkār wa sabab iḫtilāf alumam: Istanbul Üniversite A.Y. 1458; Esat Efendi 1143, 3717; Şehid Ali Paşa 1415; Veliyüddin Efendi 3181; Kutahya Vahid Paşa 622. – Ṣūrat mukātabāt al-Shaykh Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī al-Shaykh Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī: Aya Sofya 1818, 2349; Beşir Aǧa 355; Esat Efendi 1143, 3592; Halis Efendi 1458; Pertev Paşa 1366; Raǧip Paşa 1366, 1461, 1482; Veliyüddin Efendi 1818; Veliyüddin Carullah 2097; Üniversite A.Y. 1458, 3133, 4122. – Nafṯat al-maṣdūr wa tuḥfat al-šakūr: Amcazade Hüseyin Paşa 447 (ff. 1-17).

Cfr. Reisman, The Making of the Avicennan Tradition, p. 58: «Title page has Persian Maǧmū‘ah dar ḥikmah, along with some Persian poetry, and the waqf note and stamp of Sultan Maḥmūd ibn Muṣṭafá II (r. 1143-1168/1730-1754). Heavely annotated in parts. The collection as a whole is undated, but individual dates of copying are found in the colophons of some treatises, viz. Rabī‘ al-Āḫir 500/ October-November 1106 (148v), 713/1313-14 (178r), 731/1330-1 (199r), 23 Šawwāl 733/7 July 1333». 30

Lista dei testimoni turchi riportati in Todd, The Sufi Doctrine of Man, pp. 179192. Alcuni di essi sono presenti in Schubert, Al-murāsalāt, pp. 2-3. 31

NOTA SUI MANOSCRITTI

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UZBEKISTAN Taškent: Una copia contenente la corrispondenza fra Qūnawī e Ṭūsī è preservata presso la Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Taškent con il seguente numero di inventario: 2385/XLIII32: ‫هذه الرسالة مكاتبات الشيخ صدر الدين القنوی الى المحقق الطوسى‬

Il manoscritto contiene le domande poste dal discepolo di Ibn al-‘Arabī all’erudito scienziato Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī riguardanti la qualità sostanziale e quella accidentale, le loro definizioni e il loro rapporto con l’essenza delle cose. Le domande sono precedute da una piccola prefazione in lingua persiana con una basmala. Seguono le risposte di Ṭūsī. Il testimone è stato copiato in piccolo nastaliḫ non chiaro, contenente molte legature. Le note ai margini, nonché le parole a inizio delle domande e delle risposte, sono evidenziate con il cinabro. La copia è datata 1075/1664 (f. 299).

A. A. Semenov, Sobranie vostocnych rukopiseĭ Akademii Nauk Uzbekskoĭ SSR, Tom III, Akademii Nauk Uzbekskoĭ SSR, Tashkent 1955, pp. 58-61. Il testo viene qui riportato in parafrasi italiana. 32

6. TRADUZIONE*

* Il lettore troverà qui tra parentesi tonde il corrispettivo numero della pagina dell’edizione critica di Gudrun Schubert utilizzata per la traduzione.

[Epistola di al-Qūnawī ad al-Ṭūsī] (11) Nel nome di Dio, il Misericordioso e il Compassionevole. Il puro propagatore (al-dā‘ī al-muḫliṣ)1 [della parola di Dio], povero sulla via di Dio, Muḥammad ibn Isḥāq ibn Muḥammad. Il mio udito non cessa di rallegrarsi al profumo della tua menzione come i giardini innaffiati da un incessante acquazzone. Cossicché fiorisce la fortezza del mio cuore, e ciò non è strano, a volte [la nuova] giunge al cuore prima di arrivare all’udito.

Che l’orecchio dei giorni e delle notti possa essere sempre adornato e decorato con l’ascolto delle glorie e delle questioni sublimi, [frutto delle] riunioni (maǧlis)2 di questo eccellente maestro (ḫāwǧa), l’onorato (mu‘aẓẓam), il più grande tra gli altri, colui che detiene le redini delle virtù, motivo di vanto dei contemporanei e dei predecessori, il re dei sapienti dell’epoca, beneficio dei tempi, difensore del vero (ḥaqq)3 e della religione – che Dio (12) prolunghi ciò che di lui ha gradito e continui ad elevarlo ai più alti gradi. Che la sua nobile via continui a stare sotto l’occhio vigile e protettore di Dio, e sia lodato in anticipo per la conduzione di ogni questione. La dedizione [a Dio] e l’invocazione4 nascono dall’origine della purezza e dalla fonte dell’intimità (walā)5. [Per mezzo di essi] il veemente desiderio e la sete nei confronti di quell’eccellenza continuano ad accrescersi. Tuttavia, poiché i decreti del destino ostacolano la realizzazione di tale desiderio, egli ha l’onere dell’orazione in absentia (fī ẓahr al-ġayb)6, in modo che questi sia libero da impurità e da ipocrisia, e Dio è il padrone dell’esaudimento [delle preghiere] e del perfezionamento spirituale.

Dā‛ī: predicatore, propagatore, proponente, convocatore, missionario (ismailita). Sedute mistiche, incontri sufi. 3 Qui il termine «vero» potrebbe anche essere letto con Vero (al-Ḥaqq), nel senso di uno degli epiteti di Dio. 4 Invocazione a Dio come iniziazione. 5 Amicizia (divina), termine del linguaggio sciita e tipico della terminologia sufi. Il walī è l’amico [di Dio], l’intimo di Allāh, il maestro realizzato, colui che diviene un protetto di Dio attraverso il cammino sulla via mistica. 6 La preghiera espletata al posto di un altro, nascosta, invisibile. 1 2

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Sulla via che mostra i mondi occulti (ġayb-namā)7 della Sua eccellenza sublime, non è celato che il desiderio di una relazione costante (muwāṣala)8 (13) e la creazione di regole di amicizia con i virtuosi siano sempre stati tradizione stabilita e consueta, specialmente perché Dio – sia Egli glorificato – elegge alcuni Suoi servi per la loro preminenza, considerandoli in modo speciale. Avendo assegnato tra i mortali superiorità a diversi generi e tipi di scienza e di virtù, ha ornato la loro anima nobile con attributi di bellezza illimitata, in modo che ogni attributo dell’anima possa essere motivo di attrazione del cuore e desiderio di amore. Che dire della Somma9 (maǧmū‛)! E ancor meglio: che dire dell’Essenza onnicomprensiva (al-dāt al-ǧāmi‛a) di questi attributi! Quindi, colui che invita, il vostro devoto amico [Qūnawī], per le ragioni sopraindicate desidera aprire la porta di una comunicazione reciproca e poiché l’incontro – dal punto di vista della forma, allorché la condizione è tale10 – rappresenta un problema, è stata individuata la possibilità di una relazione, secondo una delle due modalità di incontro. (14) Non volendo privarsi dei giovamenti intellettuali, che rappresentano le forme più nobili di avanzamento delle anime, e restare [così] senza la possibilità dei benefici e dei risultati delle riflessioni di quella mente eccelsa, è stato scritto a questo proposito un trattato che risale a molto tempo addietro; e ciò in vista del raggiungimento dei pensieri, dell’accrescersi dell’evidenza e della realizzazione [spirituale] cui è giunta la Gente dell’istibṣār11. [Questo trattato] affrontava alcune delle questioni che erano state introdotte in precedenza e discusse sotto forma di conversazione con alcuni dei grandi amici saggi. La corrispondenza le è stata inviata affinché, grazie alla sua posizione di vantaggio e alla buona assistenza, possa verificare quello che c’è dentro

Il Mondo occulto, non manifestato. Contatto stretto, comunicazione reciproca. 9 L’insieme di queste cose e virtù. 10 L’espressione fa riferimento all’incontro personale e secondo una determinata situazione. 11 Visione sottile, intuizione spirituale, meditazione contemplativa, sguardo interiore, percezione interna. Nel sufismo, si riferisce all’occhio interiore, ossia all’organo della visione soprasensibile. Qūnawī utilizzerà in seguito il termine mustabṣir, colui che appartiene alla gente dell’istibṣār. 7 8

TRADUZIONE

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alla coscienza interiore benedetta della persona che si è convertita con convinzione e, avendo discriminato chiaramente quello che c’è di corretto da quello che c’è di corrotto, possa dichiararlo apertamente. Questo eccellente modo [tipo di ricerca permanente di conoscenza] porterà elogio immediato e ricompensa nel futuro. E Dio è il buon protettore. Sempre la Sua eccellenza eccelsa sia la destinazione di coloro che hanno bisogno e la fonte di ogni tipo di virtù e ogni sorta di favori. Amen. Che la pace e la misericordia di Dio tornino su di lui.

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[Epistola chiarificatrice] In Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso

(15) La lode a Dio, il Benefattore verso i Suoi servi migliori nel privilegio dell’elezione (iǧtibā’), Colui che diffonde sull’élite dei Suoi servi il favore dell’Elezione suprema, che dona loro ricompensa eccelsa e grazie senza limiti. Egli li ha fatti uscire dal Mistero del Sé Divino, Cognitivo e Singolo, e dalla tenebra del non essere che è la possibilità12, all’arena dell’essere concreto (al-wuǧūd al-‘ayniyy)13, punto d’incontro delle luci e degli splendori14. Egli li ha fatti attraversare per gradi e cicli dove vengono stabilite le soste e le dimore stabili15, su cui è richiamata l’attenzione nel più nobile degli annunci16, e che sono contemplati dai perfetti tra i Profeti e i Santi. Poi li ha trasportati dall’esiguità della condizione umana17 e dalla sua natura di essere

Min bāṭin al-wuǧūd al-ilāhiyy al-‘ilmiyy al-waḥdāniyy wa al-ẓulām al-‘adamiyy al-imkāniyy. Bāṭin letteralmente è il «lato occulto» in cui gli esseri non erano ancora manifesti non sussistendo per sé ma per Lui, in quanto Egli li conosce da sempre; è Dio quindi che li fa uscire da quell’esistenza esclusivamente divina di natura conoscitiva e unitaria. Quanto alla tenebra, in senso strettamente ontologico, è «relativa al non esserci» (‘adamiyy), che a sua volta è «relativo all’essere possibile». 13 ‘Ayniyy (e a volte wuǧūdiyy). «Reale» contrapposto a «logico» o «mentale»; oppure consuetamente «concreto» contrapposto ad «astratto». 14 Perché è il luogo ontologico in cui può esserci la presenza di tutti gli aspetti. Il termine ‘arṣa, benché possa essere reso semplicemente con «luogo», specificamente indica una «arena», un «campo» o un «ambito». 15 Mustawda‘ e mustaqarr sono considerati sinonimi e indicano un luogo di soggiorno, il primo temporaneo, il secondo fisso. I riferimenti coranici che si possono rintracciare in questo passaggio sono numerosi, a titolo d’esempio citiamo la sura 6, versetto 98: «Egli è Colui che vi ha suscitato alla vita a partire da un’anima unica e vi ha dato un ricettacolo (mustaqarrun) ed un deposito (mustawda‘un)». Ma anche il versetto 14 della sura 71: «[…] quando già prima Egli vi creò in stadi (aṭwār) successivi», o «fasi successive». 16 Vale a dire la rivelazione coranica e ciò che le è connesso. 17 Ḍīq al-sadd al-bašariyy. Bašar è l’uomo «ordinario», rispetto a insān, o raǧul. Di solito è insān a essere definito perfetto (e in questo modo diviene trascendente), ma può essere «l’infimo degli infimi» (Cor. 95:5), mentre raǧul – che rappresenta qualcosa di intermedio – sta piuttosto in relazione con la perfezione umana «naturale». 12

TRADUZIONE

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composto, dal buio dell’abisso cosmico naturale18 e dalla sua dispersione, sui navigli della Sollecitudine e dell’Approvazione (taṣdīq)19. Poi li ha fatti cavalcare sul Burāq20 delle opere pie e dell’assistenza divina (tawfīq)21, finché essi non fermeranno le loro cavalcature e non getteranno le loro ancore alla «Stazione della Verità Certa» (bi-maqām ḥaqq al-yaqīn)22 e dello svelamento supremo. Ha tinto i loro intuiti e la loro visione interiore e i loro sguardi con l’antimonio della Sua luce23, ha fatto conoscere loro, in uno svelamento e una constatazione immediata, il segreto di come Egli riunisca la Sua assolutezza, la Sua unità, e il Suo apparire condizionato nei gradi delle Sue determinazioni, nella varietà dei modi del Suo essere non manifesto e del Suo manifestarsi24.

18 Sudfa al-luǧǧ al-kawniyy al-ṭabī‘iyy. Il termine sudfa può indicare una «cortina». Luǧǧ, «abisso», ha anche il senso di caos o confusione. Al-luǧǧ al-kawniyy al-ṭabī‘iyy si può forse meglio rendere con «l’abisso» o «fondo» del «mondo della natura», contrapposto al suo vertice, ove risiede il suo puro principio che è la «natura originale» pura. Kawn mantiene il suo senso di «ente in divenire», o indica il «divenire» stesso: si trova tanto la formulazione al-kawn wa’l-fasād come al-takwīn wa’lfasād, «generazione e corruzione». 19 Se il taṣdīq si intende divino, è un’approvazione oppure, in dettaglio, una conferma dopo essere stati messi alla prova, mentre se si intende dal lato umano, si potrebbe rendere come «fede» – nel senso in cui si parla della ṣiddīqiyya. 20 Si riferisce alla cavalcatura del profeta Muḥammad in occasione del suo viaggio notturno e della sua ascensione. Nel contesto iniziatico Burāq rappresenta «l’opera retta spirituale». 21 Tawfīq è il sostegno divino per avere successo, cioè rendere armoniosamente disposte le cose per giungere ad un certo fine. 22 Ḥaqq al-yaqīn: «realtà della certezza», parallelamente a‘ilm al-yaqīn: «scienza della certezza» e ‘ayn al-yaqīn: «occhio della certezza». Per i riferimenti coranici cfr: ‘ilm al-yaqīn (Cor. 102:5),‘ayn al-yaqīn (Cor. 102:7), ḥaqq al-yaqīn (Cor. 56:95; 69:51); rappresentano i tre gradi fondamentali del percorso iniziatico per giungere alla realizzazione spirituale. 23 La luce risiede nell’occhio in potenza e ne rappresenta la capacità di visione. Se la luce che entra in gioco è quella divina, quell’occhio sarà capace di vedere le cose divine. 24 Questo è il caso dell’Essere divino a cui appartiene d’essere l’apparente (ẓāhir) e simultaneamente la forma sotto la quale appare (maẓhar); solo a Dio compete tale condizione perché è il solo ad essere identico e coeterno alla Sua essenza.

PATRIZIA SPALLINO – IVANA PANZECA

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Essi videro perciò che Egli è l’Adorato [in ogni caso] di scissione (iftirāq) e di intesa (i’tilāf)25, e che Egli è lo Scopo per ogni accordo e disaccordo, che abbia luogo tra la Gente della beatitudine e della dannazione26. Si sono quindi purificati dalle tenebre dei dubbi (16), dalla perplessità e dalle controversie, e sono stati guidati verso ciò su cui c’era disaccordo riguardo al Vero, con il Suo permesso – anzi, per mezzo Suo. Sicché sono guariti da ogni infermità e malattia27. «E il partito di Dio non è quello dei beati?»28. E che vengano elargite, una dopo l’altra, le benedizioni di Dio sul loro imām, il loro esempio e il perfetto conoscitore tra loro, la chiave della serratura della creazione, il sigillo del ciclo della signoria e dell’eccellenza, Muḥammad, sulla sua casa e la sua famiglia, e gli integralmente perfetti tra i suoi fratelli29 e i suoi eredi, la Gente della nobiltà e dell’elevazione, e Dio effonda la Sua pace in abbondanza. *** Gli uomini, in ragione della porzione avuta in sorte di intelletto e di annunci divini30 si distinguono in tre ordini: superiore, medio e inferiore.

Il primo termine indica – in termini religiosi o tradizionali – dei casi di scisma o di divisione settaria, mentre il secondo dei casi in cui vi è convergenza e consonanza, cosa che quindi porta al formarsi di una comunità quale che sia. 26 Felicità (al-sa‘ada) è la felicità paradisiaca; miseria (al-šaqā’) è la dannazione infernale. Michel Vâlsan interpreta come: «Le “monde des malheureux” est sous ce rapport celui des conceptions non-autorisées et non-assistées divinement». Cfr. M. Vȃlsan, «L’épitre sur l’orientation parfaite (Risâlatu-t-Tawajjuhi-l-atamm)», Études Traditionnelles, 398 (Nov.-Dec. 1966) 243. 27 Potremmo affermare che tutto il trattato che segue è sintetizzato in queste frasi introduttive che contengono in nuce l’esperienza spirituale di Qūnawī. Frutto del percorso è la constatazione diretta che lo scopo, il fine che sta dietro la scissione e il disaccordo o dietro l’intesa e l’accordo, è sempre l’Adorato. È la visione diretta che libera dal dubbio – definito come infermità – e dalle controversie; queste difatti sono un prodotto della visione parziale e limitata dell’uomo, che non riesce a cogliere l’unità della molteplicità. 28 Cfr. Cor. 58:22. 29 I profeti. 30 Al-iḫbārāt al-ilāhiyya si riferisce ad una forma di comunicazione che Dio attua nei confronti delle Sue creature. Il Corano a proposito recita: «A nessun uomo Dio parla se non per rivelazione, oppure dietro a un velo, oppure invia un messaggero a rivelare quel che Egli vuole con il Suo permesso» (42:51); «[…] con Mosè Dio parlò» 25

TRADUZIONE

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Fa parte, poi, dell’esigenza propria degli stati dell’ordine superiore – [costituito dai] signori (arbāb) delle energie spirituali sublimi e sottili dirette all’acquisizione delle dimensioni eccelse, delle perfezioni perpetue e delle virtù permanenti – la ricerca della conoscenza delle realtà delle cose così come veramente sono, e soprattutto della conoscenza del Vero31 – a Lui la gloria – che è [il termine] più nobile cui si possa rivolgere la più nobile delle scienze. Essi infatti sanno che una scienza si distingue per nobiltà nella misura della nobiltà del conoscibile che ne è l’oggetto, e che conoscere Lui – a Lui la gloria – è il principio fondante per la conoscenza di ogni cosa, che sia composta o semplice, che sia qualcosa di circoscrivibile, in modo puramente intelligibile o in modo formale, o qualcosa capace di circoscrivere, ed esistente sotto un certo rapporto oppure non esistente32.

(4:164). Il discorso (al-ḫiṭāb) divino si denomina qawl quando è rivolto all’inesistente (al-ma‘dūm) mentre è detto kalām se rivolto all’esistente (al-mawǧūd). 31 Ma‘rifa ḥaqā’iq al-umūr ‘alà mā hiya ‘alayhi wa siyyamā ma‘rifat al-Ḥaqq. Quest’espressione farà da filo rosso di tutta la corrispondenza divenendo uno dei maggiori spunti di discussione e dibattito dell’intera trattazione. A proposito ritroviamo un passaggio di Qūnawī nei suoi Nuṣūṣ che a riguardo spiega: «“Things” means the mentational individuations of universals and particulars... What their realities require is according to two modes: the first way of understanding them is that their multiplicity is annihilated in the oneness of the Real, and means understanding what is detailed within the whole, like an expert scientist contemplating within a single acorn (seed) all the branches, leaves and fruit that lie in potential within it... The other way is understanding the properties of oneness, as a whole, one after another, so that one understands each whole in terms of the quiddities that it contains... This is the opposite of the first annihilation mentioned above, which is the annihilation of the multiplicity in the unity, and is the annihilation of the unity in the multiplicity. So know this!». Cfr. H. Küçük – S. Hirtenstein, «Sadr al-Dīn alQūnawī’s al-Nusūs», Journal of the Muhyiddin Ibn ‘Arabi Society, 49 (2011) 112. 32 Riguardo alla natura di questa scienza, Qūnawī, in un passaggio della sua opera Miftāḥ al-ġayb, afferma: «Dichiariamo che la scienza divina ingloba ogni scienza [per l’entità e l’estensione dell’oggetto al quale si rapporta dato che] quest’oggetto è il Vero in ogni cosa», cioè il divino. Secondo questo principio dunque, qualsiasi oggetto di scienza che venga studiato rimanda allo studio dell’essere divino. L’eminenza di ogni scienza è determinata dall’oggetto che essa conosce e alla quale si collega. La Scienza divina sarà allora la scienza più eminente a ragione del suo oggetto che è l’Essere divino. Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit. [Traduzione mia]; P. Spallino, «Il dibattito sulla scienza prima tra filosofia e mistica: la corrispondenza tra Naṣīr ad-Dīn aṭ-Ṭūsī e Ṣadr ad-Dīn al-Qūnawī», in Quaestio: Metaphysica – sapientia – scientia divina: Subject and Status of First Philosophy in Middle Ages, Brepols, Tur-

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Costoro hanno esaminato gli esseri esistenti, quelli intelligibili e quelli sensibili, secondo il differenziarsi dei loro gradi in rapporto alla connessione della scienza con essi, e in un certo senso sono risultati suddividersi in due categorie. Una è quella che l’uomo riesce a cogliere per mezzo di quanto Allāh ha disposto in lui quanto a facoltà e strumenti inerenti alla sua costituzione naturale, a volte soltanto con alcune e altre volte con tutto il loro insieme. Questo nel caso (17) in cui l’oggetto da cogliere faccia parte di ciò la [cui natura ammette] la percepibilità tramite le facoltà e gli strumenti di ordine fisico. Se invece non è del genere menzionato e fa parte di ciò [la cui natura non ammette] che l’uomo lo colga altrimenti che col suo intelletto, in ragione della sua attività teoretica e cogitativa, lo coglierà tramite quest’ultima, com’è il caso della scienza circa l’esistenza del Vero, gli spiriti immateriali e le idee semplici (al-ma‘ānī al-basīṭa)33. Essi trovarono che l’altra categoria non fa parte di ciò che può essere raggiunto dagli intelletti in ragione della loro attività teoretica e cogitativa, né dai sensi o dalle facoltà insite nella costituzione naturale, assieme o singolarmente, com’è il caso dell’Essenza del Vero (ḏāt Allāh) – a Lui la gloria – e delle realtà dei Nomi e degli Attributi34 – a Lui riferiti nelle forme espressive

nhout 2005, pp. 111-122. Ma il concetto è espresso anche nella Metafisica di Ṭūsī in questi termini: «According to the masters of [scientific] knowledge, mystical [gnosis], and the possessors of the Greek wisdom, the most glorious of sciences and the noblest of mystical gnosis wich must be known by intellectuals, and learned by the possessors of wisdom [lit. intelligences] that science is the knowledge of the essence of the Necessary Existent. Because the nobility of a science is proportional to the nobility of its object, and because the essence of The Necessary Existent is the noblest undoubtedly, the science of Its essence is the noblest of sciences. Indeed, the comprehension of the essence of Its glories, Its perfected features, the blessedness of The Exalted is the foundation and the base of all science. It has the [exalted] station station of the spirit and the crown [lit. head] in the body of the mystics. The eternal blessing of the soul, the perfection of humanity, and the exalted gnosis is the beginning of the gnosis of other entities. “The beginning of knowledge is the gnosis of [the] necessity [ordained by the Almighty]”». Cfr. The Metaphysics of Tusi, English Translation by P. Morewedge, Persian Text Established by The Institute for Cultural Studies, Tehran (Iran) 1992, p. 1. 33 La scienza dell’esistenza del Vero, gli spiriti immateriali e le idee semplici si colgono tramite la speculazione e la riflessione; mentre non è così per l’essenza del Vero e le realtà dei Nomi e degli Attributi. 34 Ciò che chiamiamo generalmente con «Nomi» e «Attributi» di Dio non sono altro che un’espressione della infinita varietà delle forme della manifestazione in cui

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delle rivelazioni [divine] e degli intelletti – e in che modo valga la relazione di qualcosa di essi con la Sua Essenza – a Lui la gloria. Infatti conoscere la validità della relazione degli Attributi e dei Nomi all’Essenza del Vero – a Lui la gloria – comporta una situazione temibile (maqām mahīb)35, perché il giudizio (ḥukm) circa la necessità dell’esistenza del Vero è cosa necessaria, [come] lo è che Egli è Uno sotto tutti gli aspetti e si distingue nella Sua realtà da ogni cosa, non corrisponde a nulla e nulla Gli corrisponde36. Cosicché questo fa parte delle cose di cui si deve riconoscere la certezza, per i torti che ne conseguirebbero qualora si perdesse di vista questo principio fondamentale. Lo stesso vale nel caso della conoscenza della realtà del Suo atto, nel senso della connessione della Sua potenza creatrice coi conoscibili, l’effusione (ifāḍa) dell’essere su di essi e la loro produzione da Lui. Il mustabṣir imparziale37, se considera ed esamina ciò che gli deriva dalla sua attività teoretica in fatto di conoscenza di queste cose, non la

l’Assoluto si rivela nel mondo e si rende conoscibile. Finché essi permangono nell’Assoluto stesso sono in potenza e non in atto; nel momento in cui vengono realizzati come forme concrete nelle creature, essi si «attualizzano». I Nomi però non si realizzano immediatamente nelle realtà individuali e corporee ma, dapprima, in seno all’Intelletto divino sotto forma di quelli che la scuola akbariana chiama «archetipi permanenti». 35 Che ispira soggezione. Difatti conoscere la validità della relazione degli Attributi e dei Nomi all’Essenza è molto difficile e ci riporta alla questione fondamentale della conoscenza del rapporto tra Dio e il mondo e tra il mondo e Dio. Chi si accosta a questa realtà può ricevere questa scienza in due modi: o tramite una conoscenza intellettuale che si acquista da un maestro realizzato esperto in questa scienza, o sperimentando realmente l’autenticità di questa dimostrazione per un’attitudine a lui inerente che gli viene donata da Dio, senza servirsi di ragionamenti analogici, sillogismi o elementi di questo genere. 36 Cfr. Cor. 42:11: «Non c’è nulla che Gli somigli». 37 A questo punto della disquisizione Qūnawī introduce una figura denominata mustabṣir imparziale, qualcuno che potremmo definire come «capace di vedere», oppure «l’osservatore perspicace», in ogni caso qualcuno che cerca sinceramente. Si tratta di colui che cerca nella misura del possibile di vedere e penetrare con mezzi intellettuali la realtà delle cose, si contrappone al muqallid (imitatore) che invece accettano la fede per taqlīd, una cieca imitazione. Il mustabṣir riconosce l’insufficienza dei suoi mezzi, ma sente comunque un’esigenza che non riesce a soddisfare; la sua attività teoretica difatti non placa la sua ansia, anche se è proprio questa che lo sospinge alla ricerca della conoscenza della realtà delle cose. Il mustabṣir si differenzia dai falāsifa

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trova produttiva, tale cioè da rassicurarlo e da acquietarne l’ansia che lo sospinge alla ricerca della conoscenza della realtà delle cose. [Se ci riferiamo] a ciò che è legato alla conoscenza dell’Essenza del Vero, si tratta di qualcosa che è immediatamente chiaro (18) per gli osservatori perspicaci (mustabṣirūn). [Se ci riferiamo] a ciò cui ho accennato intorno allo status degli Attributi, dell’atto e della produzione, e di altre cose simili che confondono38 gli intelletti, la cosa è altrettanto chiara con un minimo di meditazione e riflessione, com’è il caso delle proprietà e degli effetti (aṯār) che sono prodotti dalle mistioni delle facoltà inerenti alla costituzione naturale, e che conseguono anche dalle combinazioni che avvengono tra le potenze celesti e gli orientamenti angelici [da una parte] e le anime umane e le facoltà naturali inferiori [dall’altra]39. Ogni mustabṣir sa infatti che i pensieri umani sono incapaci di conoscere le realtà di queste cose e di altre analoghe, e tanto più circa la conoscenza di quanto abbiamo precedentemente citato a proposito degli attributi del Vero, e la modalità della loro relazione con Lui. Dal momento, infatti, che Egli è Immutabile per principio e Onnicomprensivo per [Sua] Scienza e per [Sua] Essenza, ne consegue che lo statuto di tutto ciò che Gli viene attribuito in materia di Attributi della Perfezione, debba essere totale, inclusivo e di valore universale40.

(filosofi) e dai mutakallimūn (teologi), perché realizza che la certezza che costoro cercano non può essere acquisita solo dalla attraverso la ragione. Il termine muṣtabsir è utilizzato anche da Avicenna, cfr. Ibn Sīnā, Al-išārāt wa’l-tanbihāt, op. cit., p. 344, ed è presente nel lessico di al-Ġazālī (al-‘ārifūna al-mustabṣirūna) come «coloro che vedono chiaro», «sono capaci di vedere chiaro». Cfr. F. Jabre, Essai sur le lexique de Ghazali, Publications de l’Université Libanaise, Beyrouth 1970, p. 29. 38 Maḥrāt, o «che respingono», «luoghi da cui gli intelletti ritornano indietro», «motivi di perplessità». Altrimenti detto: «cose su cui gli intelletti si mostrano insufficienti». 39 Qui Qūnawī accenna ad una teoria basilare e complessa: si tratta di effetti o influenze «metacosmiche» legate alla manifestazione divina che verranno esplicitate in seguito. 40 Il riferimento è imprescindibile: si tratta di uno «statuto» che Qūnawī denomina al-ḥukm al-aḥadiyy (statuto primo), o al-ḥukm al-ǧamī‘ (statuto assemblante), una vera e propria energia coesiva che unifica, consocia tutte le realtà metafisiche. Come si vedrà in seguito, non si può realizzare epifania o determinazione che grazie ad una coalescenza (iǧtimā‘) risultante da una convergenza armoniosa tra un ordine dei Nomi divini e un ordine dei ricettacoli creaturali.

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La comprensione degli Attributi del Vero nell’ambito del pensiero umano, dal punto di vista della reale assolutezza (al-iṭlāq al-ḥaqīqiyy), è impossibile, perché l’uomo – entro la sua posizione di carattere teoretico (fī maqāmihi al-naẓariyy), nella misura della sua facoltà cogitativa – non coglie ciò che coglie se non come qualcosa di determinato e condizionato. Non vi è dubbio riguardo al fatto che il Vero, quanto alla Sua Essenza, e quanto ai Suoi Attributi e ai Suoi nomi, non è così; vale a dire che il Suo determinarsi in Se stesso o la determinazione dei Suoi attributi in relazione a Lui o intesi isolati dalla Sua Essenza, sono diversi da come risultano nell’intendimento di coloro che se ne fanno un’idea nelle loro menti e tramite i loro pensieri. Perciò la comprensione che l’uomo ha di ciò che afferra di queste cose non è conforme41 a quel che esse sono nell’intendimento del Vero. Analoga è la situazione dell’uomo circa la conoscenza delle realtà degli enti nella posizione in cui esse sono libere da ogni materialità. Infatti intenderle anteriormente al rivestimento dell’essere che viene loro dall’Effusione (19) da parte dell’Esistenziatore, il Vero, e comprendere il loro distinguersi, l’una dall’altra, nel modo in cui si determinano e distinguono nella Scienza unitaria ed essenziale del Vero, da sempre e per sempre (azalan wa abadan), in modo uniforme42, è pure cosa impossibile. Tra le cose che gli intelletti non possono giungere da soli a percepire vi è la conoscenza del segreto dell’ordine dei piani ontologici del mondo, i suoi statuti e le sue proprietà universali, la causa della limitazione di ogni classe, genere e specie entro uno speciale numero e anche la loro assegnazione di tempi, luoghi e condizioni particolari, ed il contraddistinguersi di ciascuna – dopo l’aver in comune con le altre varie cose – per qualità e proprietà delle quali nessun’altra specie o classe partecipa. Lo stesso per la conoscenza della causa finale dell’atto che dà esistenza al mondo, in rapporto al suo insieme totale e in rapporto ad un insieme

41 Conformità (muṭābiqan), cui in arabo corrisponde anche il concetto di accordo, corrispondenza, coincidenza. La conoscenza intellettuale dell’essenza del Vero e dei Suoi nomi è impossibile perché già negata in partenza: non avremo mai una conformità tra chi conosce e l’oggetto conosciuto dato che lo strumento di conoscenza è naturalmente inadeguato a comprendere, nel senso di abbracciare, racchiudere in sé, l’oggetto da conoscere. 42 In un senso univoco, una volta per tutte e immutabilmente.

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dei generi e delle specie e dei loro concomitanti, di ciò cui si addice il nome di insieme43, e in rapporto a ogni contrada, luogo di dimora, legge, mondo, grado, eccetera: l’incapacità degli intelletti umani a cogliere le realtà di queste cose, su base cogitativa e teoretica, è cosa infatti chiara per ogni mustabṣir imparziale. Diciamo poi: quando i mustabṣirūn tra le Genti di Allāh videro ciò che abbiamo menzionato ed inoltre esaminarono ciò che delle scienze è nelle mani degli uomini, trovarono che si trattava di opinioni e rappresentazioni immaginarie – anche se alcune avevano più forza di altre – senza trovare alcunché di esse che fosse saldamente fondato. Ed essi non si incontrano nel giudicare alcuna cosa con un giudizio su cui si trovino in accordo, tranne la magior parte delle questioni matematico-geometriche, dato che le loro dimostrazioni sono di tipo sensibile. Ma dal momento che il grado di questa scienza e il suo intento non sorpassa la conoscenza delle misure e delle estensioni, i loro animi non furono soddisfatti nell’arrestarsi ad essa e nell’impegnarsi (20) per il suo conseguimento44. Si dedicarono invece, con profondo amore, a conoscere il più nobile dei conoscibili e il più degno di essere conseguito, per il valore immenso di tale conoscenza e la permanenza del suo frutto, che dimora permanente oltre la separazione delle materie e dei corpi, ricercando la perfezione della realizzazione e del ricongiungimento (al-ittiṣāl) con la Maestà dell’Elevato, l’Onnisciente, e rispecchiando il Suo grado supremo nella conoscenza della realtà delle cose così come esse sono in loro stesse.

Che si tratti cioè di entità accomunabili. A proposito Ibn ‘Arabī sostiene: «La tua scienza in materia medica, per esempio, non ha una sua utilità che nel mondo in cui vi sono infermità e malattie, ma se passi in un mondo in cui non vi sono né malattie né infermità, chi guarirai con questa scienza? [...] Lo stesso vale per la scienza geometrica; questa non ti sarà utile che nel mondo delle estensioni [terrestri], e quando te ne andrai da qui, l’abbandonerai in questo basso mondo, e l’anima se ne andrà tutta semplice senza portare nulla. [...] L’uomo intelligente non deve attingere a tali scienze che lo stretto necessario; deve sforzarsi di realizzare ciò che porterà con sé alla sua partenza; ora ciò è costituito solo da due scienze: innanzitutto e specialmente la Scienza di Allāh, poi quella che concerne le dimore (mawātin) della vita futura». Cfr. Ibn ‘Arabī, «Epitre addressée à l’imām Fakhru-d-dīn Al-Rāzī», Études Traditionelles, 366-367 (1961) 247. [Traduzione mia]. 43 44

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Anzi, è esigenza dello stato dell’élite dell’élite, di coloro cioè che sono qualificati a rivestire la perfezione divina reale e di coloro che cercano di acquisirla in stato, scienza e grado – di ciò che porta ad affinare sempre più la nostra facoltà di percezione e la nostra conoscenza di Lui e di ciò che Gli è degno – la concentrazione totale sul Vero, [intendendo il] modo in cui Egli conosce Se stesso, lo svuotamento del ricettacolo (maḥall)45 e la rinuncia alla ricerca della conoscenza di ciò che è altro da Lui, anche se questo fosse qualcosa di nobile relativamente a ciò che gli è inferiore, o avesse come frutto una certa felicità, o infine conducesse il suo detentore a una perfezione relativa.46 Cosicché, quando sia loro concesso di conoscere qualcosa di altro dal Vero – qualunque cosa possa essere – quand’anche il loro conseguire questa o altra cosa simile avvenga soltanto per un’effusione da parte Sua – a Lui la gloria – e per puro dono, senza sforzo da parte loro nel conseguirla, il motivo di ciò è solo l’ampiezza del cerchio della loro scienza47 e la perfe-

Luogo, sede, ma anche cuore. A riguardo è calzante questo passaggio di al-Ġazālī: «Sappi che i sufi propendono per le scienze ispirate, e non per quelle insegnate. Pertanto essi non aspirano allo studio della scienza, né a far proprio ciò che scrivono gli autori, né ad indagare le dottrine e le dimostrazioni che abbiamo prima menzionato. Essi dicono: “La Via consiste nel dare la precedenza allo sforzo spirituale, nell’estirpare le qualità riprovevoli, nel recidere ogni legame e nell’avanzare verso Dio Altissimo con la massima sollecitudine”. Ogniqualvolta ciò si verifica, Dio si fa protettore del cuore del Suo servo e garante della sua illuminazione con le luci della scienza. Quando Dio si fa protettore del cuore, la Sua misericordia lo inonda, la Sua luce vi risplende, il petto si apre e gli viene rivelato il segreto del Mondo Celeste, viene dissipato con il dono della misericordia il velo dell’errore che ricopre il cuore e brillano in esso le realtà delle cose divine». Cfr. al-Ġazālī, Le meraviglie del cuore, a cura di I. Peta, Il leone verde, Torino 2006, p. 79. 47 Per designare lo stato di perfezione della realizzazione umana, Qūnawī si appoggia a quest’espressione: nuqṭa wasat al-dā’irāt al-wuǧudiyya (il punto al centro del cerchio dell’esistenza). Nell’I‘ǧāz al-bayān fī ta’wīl umm al-Qur’ān Qūnawī scrive: «The point is an intelligible affair that is not witnessed, even though it is the root of all lines, surfaces, and circles. So, everything becomes manifest from it, but, in respect of itself, it does not become manifest». Il punto geometrico può rappresentare l’Essenza, o l’Essere Non-delimitato, e il cerchio generato dal punto può rappresentare tutto ciò che emerge dall’Essere. Ma il cerchio rappresenta anche la conoscenza e quando Qūnawī lo cita, intende anche il punto al centro della conoscenza. Situato all’esatto centro, l’essere umano perfetto conosce ogni cosa, sia manifesta che celata. Cfr. W. Chittick, 45

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zione della loro predisposizione «non fatta»48. Infatti il requisito, in realtà, è l’aprirsi loro della luce rivelativa (inbisāṭ al-nūr al-mutaǧallī) dal Vero, implicante la comunicazione in loro della virtù della Scienza del Vero, la sua qualità e la sua estensione. Non è il fatto che la conoscenza di quelle cose sia un loro scopo determinato o che esse siano oggetti delle loro aspirazioni, come è il caso della maggioranza degli uomini nelle arti e scienze di cui si occupano, (21) che essi ritengono essere vere scienze. Ciascuno di questi, infatti, dedica la sua vita, il suo tempo e la sua energia, all’acquisizione soltanto di una di quelle scienze il cui oggetto è il mondo del divenire (kawn), perché le ha dato preferenza rispetto alle altre, scegliendola perché gli sembra nobile e nutre in essa delle speranze, motivo del fatto che egli vi si profonde, credendo nell’importanza del suo profitto immediato o futuro, determinato nel tempo o meno, oppure per un amore incondizionato e di cui non si conosce la causa.

«The Central Point. Qūnawī’s Role in the School of Ibn ‘Arabī», Journal of the Muhyddiīn Ibn ‘Arabī Society, 35 (2004) 38-39. 48 Al-isti‘dād al-ġayr al-maǧ‘ūla. La predisposizione, o attitudine, «non fatta» (o non prodotta, increata) è una predisposizione data all’essere prima che venga esistenziato. Qūnawī tornerà su questo concetto più avanti ma qui in sintesi lo introduciamo per maggiore chiarezza. Ogni esistente è un oggetto causato e condizionato, incapace da se stesso di suscitare la manifestazione di un influsso divino di cui non è che la forma epifanica. La causa di un influsso va dunque attribuita all’Agente reale della manifestazione, ciò presuppone che ogni entità metafisica di un essere presenti «un’attitudine» a diventare la forma epifanica particolare di un Nome o influsso divino. A santi e profeti ad esempio Dio assegna un posto e una conoscenza speciale tramite la loro «predisposizione increata».

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Sezione sull’esposizione degli stati [relativi] all’ordinamento gerarchico degli uomini nello studio delle scienze che gli intelletti sono in grado di raggiungere attraverso la loro attività teoretica e cogitativa e attraverso le facoltà insite nella costituzione naturale e gli strumenti corporei, e quelle che essi non sono in grado di raggiungere; sulla forma in cui la categoria superiore, cui si è fatto cenno in precedenza e di cui si parlerà anche in seguito, si distingue e per la quale si distingue da tutte le altre che procedono, per quanto li concerne, dalla categoria intermedia e da quella successiva di cui parleremo in seguito, se Dio vuole. Allorché gli uomini si sforzarono di acquisire le scienze e si impegnarono nella ricerca della loro conoscenza tramite le facoltà e gli strumenti fino a che non compresero della prima delle due categorie succitate ciò che compresero, anche se non giunsero fino alla sua realtà e a conoscere chiaramente lo stato effettivo delle cose al riguardo, [per tale ragione] essi si divisero ampiamente secondo quel che ne avevano compreso, in funzione della differenza esistente tra le loro percezioni, i loro temperamenti e i loro scopi, tutte cose conseguenti alle loro predisposizioni (isti‘dādāt). Perciò in tutto questo vi è un completo e un più completo, come vi è un incompleto e uno ancora più incompleto, la cui base si vedrà quando indicherò qualcosa dei loro stati – se Dio vuole – in ciò che segue. La seconda categoria, che, come abbiamo detto, non appartiene al genere di cose che gli intelletti umani sono in grado inizialmente (22) di percepire, e certo chiunque si sforzi, cercandone qualche cosa, quando si rivolge col suo pensiero a conoscere alcune delle sue connessioni (muta‘allaqāt), il suo pensiero e la sua speculazione tornano a lui: «[la vista ritorna] indebolita e offuscata»49. Perciò nessuno può giungere al pieno possesso di questa categoria se non grazie a un Sostegno divino o a una Conoscenza trasmessa dal Vero per mezzo di qualche spirito o «altro», oppure senza intermediario, secondo una certa opinione50.

Cfr. Cor. 67: 4: «[…] e il tuo sguardo tornerà stanco, spossato». Qūnawī presumibilmente allude ai modi di trasmissione di conoscenza di alcune realtà irraggiungibili tramite le sole facoltà umane. Esistono difatti delle conoscenze che vengono ricevute esclusivamente o attraverso un mezzo intermediario, quale ad esempio uno spirito angelico, lo spirito di un profeta, o di un santo; la pretesa di attingere direttamente dalla Fonte, tramite facoltà razionale, per una certa categoria 49 50

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Diciamo poi: quando il Vero volle portare a perfezione il grado della scienza e le sue concomitanti determinazioni d’essere conseguenti alla necessità del Suo essere, e [allo stesso tempo] perfezionare qualcuno dei Suoi servi ben predisposti all’abbellimento interiore (taḥallī)51 attraverso la scienza specifica della seconda categoria, che ha come frutto la corretta lettura comprensiva della realtà delle cose così come sono, e di come si determinano nella Scienza del Vero, elesse allora tra le Sue creature, in ogni epoca e da ogni nazione, i più puri fra le Sue creature. Questi furono chiamati a volte profeti (anbiyā’)52 e altre volte santi (awliyā’)53 perfetti – che Allāh li sostenga con la Sua luce di scienza essen-

di conoscenze, è cosa impossibile. Come vedremo l’autore riproporrà piu volte questo concetto secondo diverse espressioni proprio per sottintendere al destinatario della corrispondenza un invito sottile a sminuire il ruolo della ragione e volgersi piuttosto ad un’acquisizione differente di queste conoscenze. 51 Essere caratterizzati dai tratti divini, adornarsi della virtù della devozione. 52 Lo schema storico della profezia propone una serie di profeti che hanno trasmesso un messaggio divino, donato integralmente già ad Adamo, ma progressivamente dimenticato. Il Corano utilizza due termini per designare un profeta: rasūl (dal verbo arsala, inviare un messaggero) e nabī (dal verbo anba’a, dare a qualcuno notizia di qualcosa). Il rasūl è un profeta la cui missione è di rivelare una nuova legge religiosa, mentre il nabī insegna una Legge già istituita. Nella tradizione islamica la profezia (nubuwwa) porta con sé dogmi, prescrizioni cultuali, insegnamenti morali e di carattere sociale e politico; da ciò i musulmani la considerano fonte di ogni conoscenza elevata. Il ruolo del profeta è quindi quello di risvegliare gli uomini dal sonno della dimenticanza e dell’ignoranza. Per un approfondimento dell’argomento si veda: J. Jomier, «La notion de prophète dans l’islam», Bullettin du Secretariatus pro non Christianis, 18 (1971) pp. 154-168; R. Tottoli, I Profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999. 53 La traduzione «santi» è poco vicina alla radice verbale (WLY) del termine arabo che indica «gli amici di Dio». WLY contempla due significati: uno è quello di «prossimità», un altro è quello di «farsi carico, assistere». Il termine walī (pl. awliyā’) si applica da una parte a Dio ed indica «Colui che assiste, Patrono», ma anche agli uomini assumendo variegate valenze semantiche. Nell’uso religioso si è finiti con il tradurlo con «santo» ma in realtà il termine esprime l’idea di colui che è «prossimo a Dio» e che per questo gode della sua «assistenza». Secondo la tradizione islamica, chiusa con il profeta Muḥammad la porta della profezia, non rimane aperta che quella della santità (walāya), che consiste nell’imitazione dei modelli profetici riportati dal Corano. Il tema della walāya nel sufismo è molto vasto e per un approfondimento rimandiamo a: B. Radtke – J. Oìkane, The concept of Sainthood in Early Islamic

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ziale unitaria. [Questo] conformemente a ciò che Egli conosceva delle loro predisposizioni «non fatte», tramite le quali essi accolsero da Lui l’esistenza. Successivamente Egli li confermò tramite uno spirito proveniente da Lui e rivelò loro ciò che volle delle realtà dei Suoi Attributi, dei «tesori della Sua Generosità» e dei segreti degli statuti inerenti alla necessità del Suo Essere. Poi ordinò loro di richiamare l’attenzione dell’assemblea degli uomini su questo tipo già citato e su ciò che questa seconda categoria include, e di chiamare gli uomini al loro Signore, far loro conoscere la via che conduce a Lui e alla loro beatitudine tramite la «sapienza (ḥikma) e la buona esortazione»54. Secondariamente, quindi, poi li confermò con i miracoli e le prove inconfutabili, e l’appoggio vittorioso che risiedeva nei giudizi incisivi delle loro anime e nelle loro spade taglienti.

Mysticism, Two Works by Al-Hakim al-Tirmidhi, Curzon Press, Great Britain 1996; M. Chodkiewicz, Le Sceau des saints, Prophétie et sainteté dans la doctrine d’Ibn Arabī, Gallimard, Paris 1986. 54 «Chiama gli uomini alla sentiero del tuo Signore con la sapienza e la buona esortazione» (Cor. 16:125); «Tutte le storie dei Nostri inviati che Noi ti raccontiamo sono per confermarti il cuore» (Cor. 11:120). Questo passaggio richiama un’importante precisazione che Ibn ‘Arabī esprime nei suoi Fuṣūṣ al-ḥikam: «I profeti utilizzano un linguaggio esteriore in modo da poter rivolgersi a tutti confidando nella comprensione del Sapiente, di Colui che ascolta. Gli inviati prendono in considerazione solo ciò che è comune perché conoscono il grado delle “Genti della comprensione”. [Il Profeta] – su di lui la pace! – ha evocato questo grado quando ha affermato: “E io do ad un uomo, allorché un altro mi è più caro, per paura che Allāh non lo butti nel Fuoco”; in effetti egli aveva presente colui la cui intelligenza e riflessione sono deboli, e che è dominato dall’avidità e dal vizio. Lo stesso vale per le scienze che essi trasmettono: essi le rivestono di ciò che è più accessibile alla comprensione. Colui che non può immergersi nelle profondità si ferma a quest’apparenza e dice: “Come è bello quest’abito!”, prendendolo per il grado supremo. Di contro, colui che è dotato di una comprensione più sottile che s’immerge nelle profondità per pescare le perle delle Saggezze dice, in virtù di ciò che gli fa meritare questo: “Questo è un abito che proviene dal Re!” Egli considera allora il valore dell’abito e la sua classe, e a partire da ciò, conosce il valore di Colui che se ne è rivestito; accede ad una scienza che non possono conseguire gli altri che non hanno una conoscenza di quest’ordine. I profeti, gli inviati e gli eredi sanno che nel mondo vi sono, e nelle comunità di cui hanno la custodia, degli esseri che possiedono questo grado; ecco perché utilizzano, per esprimersi, un linguaggio accessibile che è conveniente all’élite e alla gente comune. L’élite comprende ciò che comprende la gente comune, ma anche un surplus che la qualifica come tale e che la distingue da questa» Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op. cit., pp. 404-405 [Traduzione mia].

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Essi allora ubbidirono a ciò che era stato loro ordinato ed espressero qualcosa di quel che avevano contemplato, ma con un linguaggio (23) fascinoso e simbolico, dalla stazione che riunisce il nascosto allo svelato, rispettando i diritti della sapienza e del sapiente e assicurando alle creature la grazia del loro Signore e il Suo favore universale. [D’altra parte] vi era differenza tra le predisposizioni degli interlocutori nel ricevere ciò che quegli inviati, e successivamente i perfetti tra i santi, portavano e di cui riferivano. Tra gli uomini vi fu quindi chi accettò in modo incondizionato, che conoscesse o non conoscesse, e costoro sono l’insieme della Gente dell’Islām e della fede, con tutte le molte differenze che esistono tra essi e al cui riguardo essi si dispongono secondo dei gradi. Tra loro vi fu chi non accettò in maniera assoluta, che conoscesse o non conoscesse, e costoro sono le Genti della miscredenza e dell’infedeltà. A questi sono prossime anche le Genti della ribellione55, pur essendo per un certo verso persone convinte56. Tra di loro ci fu chi credette in una parte e ne negò un’altra, e c’è chi esita e si sente confuso: il miracolo57 e i prodigi58 che rompono le leggi

55 Tuġyān, prevaricare, oltrepassare i giusti limiti, ribellarsi, normalmente riferito a Dio. È detto ad esempio del Faraone cui è inviato Mosè. Può riferirsi ai casi di settarismo, in senso religioso o politico. Altro senso è quello di «oppressione» o «dispotismo», oppure di «empietà». 56 Il loro problema difatti non sta nell’accettazione dei principi fondamentali, ma nell’applicazione. Nel Corano frequentemente si lamenta ad esempio l’incredulità dei Meccani nei confronti del nuovo credo religioso e la loro richiesta di un segno diverso dal Libro sacro (Cor. 2:118; 4:155; 6:27; 25:7). 57 Al-mu‘ǧiza (il miracolo), o per meglio dire «atto straordinario», viene compiuto solo dai profeti ed attesta il vero profeta. L’invio del profeta è una pura grazia perché Dio non avrebbe potuto far comprendere la propria volontà agli uomini in altro modo. Resta comunque inteso che il profeta è semplicemente mezzo di avvertimento, mentre l’atto straordinario dipende esclusivamente da Dio che lo compie in totale libertà. Sull’argomento si veda la dettagliata trattazione di Qāḍī ‘Iyāḍ, I miracoli del Profeta, a cura di I. Zilio-Grandi, Einaudi, Torino 1995. 58 Al-āyāt, i prodigi. Il Corano ammette l’esistenza del miracolo e utilizza per esprimerlo il termine āya nel significato sia di segno divino che di miracolo. Esso si applica agli atti compiuti dai profeti riconosciuti dall’Islām come prove delle loro missioni, sia alla Rivelazione coranica.

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naturali lo motivano allora a fidarsi e rassegnarsi, anche se non è arrivato a conoscere la realtà di ciò che gli è stato comunicato e che gli è stato riferito e non ne conosce il segreto. Il suo intelletto limitato gli imporrebbe di desistere perché è incapace di mettere insieme ciò a cui è stato abituato59 e ha conosciuto, con ciò che gli è stato comunicato e a cui non è abituato: egli non ha avuto esperienza di nulla del genere, e non è in grado di conciliare il suo intelletto e la sua legge rivelata, per cui è disorientato ed esita60. In seguito il primo gruppo – che sono i musulmani ed i credenti – si divise in più parti. Certi si fermarono alla forma esteriore e non oltrepassarono il senso apparente di quanto compreso, ma al contrario vi si fissarono e non cercarono interpretazioni, impedendo al proprio intelletto di occuparsi di quanto esso si rifiutava di accettare, giudicava decisamente inverosimile, e non si aspettava nemmeno che fosse conoscibile. Costoro sono gli Ẓāhiriti61 che si limitano alle forme delle pratiche religiose e al lato esteriore dell’ascesi. Certi [altri] credettero in ciò che è stato rivelato in modo incondizionato. Cosicché hanno colto e compreso ciò cui li ha aiutati ad arrivare la loro speculazione e per comprendere il quale sono state loro utili (24) le proprie facoltà, e ciò cui non furono in grado di giungere lo hanno creduto, nel senso inteso da Allāh e dai perfetti tra i Suoi ambasciatori e i Suoi annunciatori, senza fossilizzarsi sulla forma apparente.

Ciò che rientrava per lui nella normalità. Nei Fuṣūṣ al-ḥikam Ibn ‘Arabī tratta della stessa questione in questi termini: «L’inviato sa anche che quando un miracolo viene attuato davanti a tutti, alcuni crederanno, mentre altri, pur riconoscendolo, lo rifiuteranno senza darvi alcun assenso, agendo così ingiustamente, altezzosamente ed in preda alla gelosia. Altri lo considereranno magia o potere ipnotico. Gli inviati sono consapevoli di ciò e costatano che nessuno diventa credente se non quando Dio ha illuminato il suo cuore con la Luce della fede e che, se la persona assiste (al miracolo) privata di quella luce che è detta “fede”, il miracolo non sarà di alcun aiuto per lui». Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op. cit., p. 130 [Traduzione mia]. 61 Scuola teologica giuridica dell’Islām medievale che può essere collocata tra le varie correnti all’estremo limite dell’ortodossia. Basò le sue dottrine esclusivamente sul senso letterale (ẓāhir) del Corano e della Tradizione rifiutando il ra’y (opinione) e il qiyās (analogia). 59 60

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Hanno confermato ad Allāh gli Attributi di perfezione mantenendo trascendente il loro Signore da tutto ciò che non si addice alla Sua divina Maestà, nel senso, tuttavia, di ciò che Egli stesso conosce – a Lui la gloria – non secondo quel che questi o altri gruppi simili concepiscono di ciò che essi comprendono della questione relativa alle imperfezioni e le perfezioni e la forma della loro relazione col Vero o con altri che Lui. Affermarono invece che ci sono diverse cose o attributi che risulterebbero, secondo la loro comprensione, un attributo di perfezione conveniente nel suo riferimento al Vero, ma che sono, in rapporto alla dignità del Vero, secondo la Sua conoscenza di Sé e di quell’attributo, e quanto alla validità dell’attribuzione a Lui di quell’attributo, un’imperfezione, come accade pure il contrario. Videro con occhio imparziale (‘ayn al-inṣāf) che fare quel che si vuole nel campo dei distinti dati della rivelazione divina, oltre al fatto che non se ne ricava una scienza certa, determina certamente disordine e indebolimento nei dati della rivelazione divina stessa. Questo è il caso degli antichi (salaf)62, non viziati dalle due piaghe della rappresentazione in modo corporeo e dell’antropomorfismo (altašbīh), dalla confusa interpretazione e dalla commistione tra i dati di fede e i difetti delle opinioni e dei ragionamenti per analogia, dai quali non giunge beneficio. Una parte [ancora] accettò ciò che la sua capacità di comprensione le permetteva con la propria speculazione e le proprie facoltà, e si sforzò di interpretare il resto, negando il senso apparente per quel dato rivelativo riguardo al Vero. Cosicché il danno di questa categoria [di persone], causa l’errore di chi interpreta il dato e il suo mancato riferimento a una base

«Gli “Antichi” sono generalmente definiti Salaf (letteralmente “che vengono prima”), in opposizione a Khalaf (“che vengono dopo”), e designano le prime generazioni della comunità musulmana ossia quella dei Compagni del Profeta (Saḥāba), quella dei Seguaci (Tābi‘ūn), e quella dei “Seguaci dei Seguaci” (Tābi‘ū al-Tābi‘īn). Nonostante l’antitradizionalismo innato del Corano, la via seguita dai musulmani di queste tre generazioni è considerata come perfettamente esemplare sotto ogni aspetto per tutte le generazioni a venire della comunità. Così il tradizionalismo, rigettato in quanto tale dal Corano, è riabilitato in una prospettiva che guarda perpetuamente all’esempio di una società islamica “primigenia” ritenuta perfetta, quella di un’età dell’oro delle origini». Cfr. s.v. Antichi, in Dizionario del Corano, a cura di M. Ali Amir-Moezzi, Mondadori, Milano 2007. 62

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sicura, è stato maggiore del beneficio del suo cogliere nel segno. Questo unito al fatto che la misura in cui coglie nel segno non gli vale come scienza certa, ma ha piuttosto colpito il bersaglio accidentalmente. Questo è il caso dei teologi (mutakallimūn)63, che non si fermarono a ciò di cui necessitava una fede sicura, e non soddisfecero le condizioni di assenso (taṣdīq) e neppure raggiunsero la verità chiara con la conoscenza della [reale] intenzione (25) di ciò di cui furono informati, nel modo, [cioè], in cui stanno le cose in se stesse – come lo hanno colto i realizzati tra le genti di Allāh – e non si schierarono col gruppo delle genti che applicano il puro metodo teoretico e la logica (ahl al-naẓar al-ṣirf wa’l-mīzān)64. E

Il termine mutakallim, pl. mutakallimūn, reso in latino da loquentes o da loquentes in legem, indica gli studiosi dello ‘ilm al-kalām, di quella scienza che si dedica alla difesa ed al consolidamento delle questioni che riguardano Dio. 64 Mīzān, nel lessico coranico indica la bilancia divina, ma in questo contesto si riferisce al senso di «ragionamento sillogistico». Il termine richiama l’opera di alĠazālī al-Qisṭās al-mustaqīm in cui per «retta bilancia» s’intende l’esposizione dei cinque strumenti che Dio ha rivelato nel suo Libro. In questa trattazione al-Ġazālī intende dimostrare come la logica aristotelica abbia i suoi fondamenti nel Corano e come a loro volta le argomentazioni coraniche siano formalizzabili nelle cinque figure del sillogismo aristotelico. Cfr. al-Ġazālī, La bilancia dell’azione ed altri scritti, a cura di M. Campanini, UTET, Torino 2005; Il Kitāb asās al-qiyās di al-Ġazālī: elementi di logica e logica giuridica, a cura di G. Porcasi, Prefazione di K. Fouad Allam, Presentazione di M. Borrmans, Officina di Studi Medievali, Palermo 2016 (Machina Philosophorum, 46). Ma nel Miftāḥ al-Ġayb Qūnawī, dissertando sulla Scienza divina, utilizza il termine su un altro piano, cioè la bilancia come norma ad uso della conoscenza contemplativa: «Dato che l’eminenza di ogni scienza è relativa all’oggetto che essa conosce e al quale è connessa, la scienza divina è la più eminente di tutte a ragione di ciò a cui è connessa, che è il Vero. Da ciò il bisogno di conoscerne le sue bilance, di acquisirne le regole di base e le leggi più importanti, benché si possa dire che la Scienza divina non ricada sotto lo statuto di alcuna legge. E ciò perché questa scienza è per natura troppo vasta e considerevole per essere subordinata ad una legge determinata o ristretta ad una bilancia definita; no, non vi è alcuna bilancia che la possa misurare. Tuttavia è pur vero che per i “perfetti” dotati della realizzazione tra la Gente di Allāh, la Scienza divina comporta una certa bilancia in funzione di ogni grado e di ogni Nome tra i Nomi divini, secondo ogni stazione, e luogo, ogni stato, momento, caso particolare; [cioè] una bilancia proporzionata al grado, al Nome divino e a tutto ciò che abbiamo enumerato. È grazie a [questa bilancia] che si può operare la distinzione tra le differenti aperture spirituali tra le scienze della visione e ispirate, le proiezioni, le teofanie accadute alla gente che forma i ranghi della gerarchia tradizionale, tenuto 63

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questo, benché i puri speculativi rientrino nella schiera di chi è incapace di conseguire l’obiettivo della vera realizzazione, come stabiliremo presto se Allāh Altissimo vuole. Quanto alla categoria superiore, già da noi menzionata al principio della premessa, si tratta di coloro che partecipano coi profeti al loro attingere alle sorgenti in cui si abbeverano e ai loro stati spirituali. Questi, infatti, all’inizio del loro cammino verso la verità si associarono a coloro a cui venne in seguito attribuito il nome di pii anziani (al-salaf al-ṣāliḥ)65 e prestarono fede a quel che venne riferito e trasmesso nel senso voluto da Dio, dai Suoi inviati e dai perfetti fra coloro che [hanno autorità] a parlare di Lui e secondo le informazioni riferite loro. Poi affidarono quella scienza che non compresero appieno a Dio e a coloro che hanno autorità a parlarne, che ne conoscono il fine così come hanno conoscenza della realtà delle cose. Tuttavia [gli individui della categoria superiore] avevano anime nobili e alte aspirazioni, cui non bastava semplicemente adeguarsi (taqlīd)66 e accontentarsi di quel poco avuto in sorte, che aveva invece soddisfatto altri: cercavano invece di raggiungere i profeti e di raggiungere ciò che in effetti conseguirono tramite quella via e in quel modo, tanto più non avendo ricevuto notizia che una cosa del genere è interdetta. Perciò rifletterono su ciò che era pervenuto loro e percepirono la loro incapacità e quella di quei gruppi citati e dei relativi stati. Quindi superarono i loro gradi, e quando li oltrepassarono giunsero alla stazione delle genti

conto dei loro stati e delle loro stazioni spirituali. È ancora grazie [a questa bilancia] che l’uomo si rende capace di attuare la discriminazione tra la proiezione autentica, che è divina ed angelica, e la proiezione satanica». Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit., pp. 107-108 [Traduzione mia]. 65 Le prime pie generazioni musulmane. 66 Il taqlīd, secondo la definizione data da al-Ġazālī nel Iḥyā’ ‘ulūm al-dīn (La revivificazione delle scienze religiose) è: «Acceptation aveugle d’un enseignement donné» ed ancora: «La foi du commun des fidèles, c’est la foi par pure acceptation aveugle d’un enseignement... Comme ils l’ont entendu, ils l’ont accepté, s’y sont tenus fermement, en toute tranquillité d’âme. Il ne s’est rien présenté à leur esprit qui s’oppose à c’est qui leur a été dit; et ce, par la bonne opinion (qu’ils avaient) de leurs pères, mères et maîtres. Et dans cette foi... il n’y a pas dévoilement, clairvoyances, et dilatation de la poitrine à la lumière de la certitude. L’erreur en effet (y) est possible». Cfr. Jabre, Essai sur le lexique de Ghazali, p. 237.

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della speculazione, percepirono anche l’incapacità di questi e riconobbero nella debolezza del loro stato l’ostacolo alla conquista della realizzazione (26), in base a ciò che menzionerò nella sezione seguente. Questa è l’esplicazione del mio caso – anche se non ne attribuisco la paternità67 a me in toto – poiché in ciò che ho menzionato non riporto [tale e quale un discorso altrui], né [tanto meno] informo del caso di nessun altro eccetto che me, salvo per quel che riguarda la condivisione dell’esito finale con chi mi ha preceduto, [come anche] l’allontanamento da tutto ciò in cui inizialmente si sforzarono e intrapresero i maestri degli ordini citati. Che dunque si sappia questo68. Sezione69: sappiate, fratelli – che Allāh abbia cura di voi tramite ciò con cui ha cura dei suoi servi ravvicinati! – che portare le prove teoretiche delle tesi da dimostrare e sostenerle tramite argomenti razionali in modo indubitabile70 e le obiezioni dialettiche è [praticamente] impossibile. Infatti i giudizi teoretici (al-aḥkām al-naẓariyya) si differenziano secondo la diversità delle facoltà intellettuali dei loro soggetti, ed esse dipendono dagli orientamenti (tawaǧuhāt) di coloro che ne fanno uso; tali orientamenti dipendono dalle intenzioni conseguenti. Ebbene, tutte queste cose, altro non sono se non il riflesso prodotto dalle determinate e varie

La paternità di tale discorso esplicativo; l’autore fa uso anche delle descrizioni già classiche, ma intendendo riferirle al suo caso. 68 Riguardo alle esperienze personali «gustate» da Qūnawī in ambito disvelativo ci sembra interessante riportare dei suoi accenni confidati nei Nuṣūṣ: «He says that he himself experienced this essential Self-revelation, and when he was writing about this inspiration, he came to understand that his interior could not comprehend the mystery of Muhammad’s saying “I have a time with God, in which none but my Lord suffices me”, and the hadīth “God is and there is nothing with Him” and the verse “Our command is but a single word like the twinkling of an eye” (Q. 54.50). He adds that to be truly able to comprehend these sayings one has to have such an immediate experience, and only then can one understand that the established entities (al-a‘yān al-thābita) are the realities of existent things». Küçük – Hirtenstein, «Sadr al-Dīn al-Qūnawī’s al-Nusūs», p. 115. 69 Questa sezione, come segnalato nell’edizione critica di Gudrun Schubert, la si ritrova nell’opera di Qūnawī I‘ǧāz al-bayān fī tā’wīl umm al-qur’ān, Dār al-ta’līf, 1389/1969, pp. 114-133. 70 Non viziato (sālim) dai dubbi di pensiero (al-šukūk al-fikriyya). 67

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Teofanie dei Nomi divini esercitato sui gradi dei ricettacoli e secondo la loro predisposizione. Sono tali Teofanie che stimolano gli intenti e consolidano le usanze e le credenze, di cui le anime della Gente del pensiero e della fede si rivestono e si appassionano. Le Teofanie, infatti, nella Presenza della Santità e nella Fonte dell’Unità, sono unitarie come carattere intrinseco e sostanziali per qualità, ma nel presentarsi si colorano in virtù delle predisposizioni dei ricettacoli; [ma anche] dei loro gradi spirituali e naturali, dei luoghi e dei tempi e di tutto ciò che ne segue, come gli stati, i temperamenti, le qualità particolari, e ciò che è richiesto dall’Autorità degli ordini dominicali deposti, per mezzo della «Prima Ispirazione divina» (al-waḥī al-awwal al-ilāhī), nelle forme celesti e negli spiriti (27) della loro gente e di coloro che ne sono incaricati71. Noi perciò pensiamo, a causa del differenziarsi degli effetti, che le teofanie siano in principio molteplici nella natura stessa delle cose, ma non è così. Poi torniamo indietro e diciamo: perciò è per i suddetti motivi che la Gente della ragione teoretica è in disaccordo circa i moventi dei loro intelletti e le esigenze determinanti dei loro pensieri e i loro risultati, e [di fatto] le loro opinioni sono confuse. Ciò che è corretto per qualcuno, allora, per qualcun altro è un errore, ciò che è prova per alcuni, per altri è ambiguo. Quindi non si trovano d’accordo nel giudicare alcuna cosa in un modo unico. Cosicché per ogni speculativo il vero è ciò che egli ritiene giusto, cui dà preferenza72 e che lo tranquillizza. E non è l’insinuarsi della difficoltà in modo chiaro in una prova a determinare la decisione della sua invalidità ed effettiva infondatezza di ciò che si è inteso dimostrare con quella prova. Infatti troviamo molte cose la cui fondatezza non riusciamo a provare, benché al contempo non ci sia dubbio della loro verità, né per noi né per molti di coloro che si

Gli svelamenti sono di differenti tipi: intellettuali, fisici, spirituali, signoriali e ciò dimostra che le modalità della realizzazione spirituale corrispondono alla teofania di ciascuna delle presenze dei Nomi divini. Solo la Teofania suprema dell’Essenza (taǧallī al-ḏātiyy) però procura la conoscenza per svelamento della Realtà delle realtà, della realtà del Soffio del Misericordioso, della Nube, della Realtà divina e della Realtà della Natura universale, ossia di tutti quei principi della manifestazione degli esseri, come gli angeli, intermediari fra l’effetto dei Nomi divini ed il mondo della manifestazione formale. 72 Che ritiene più probabile. 71

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attengono strettamente alle prove teoretiche, e altri ancora. Così come abbiamo visto molte cose attestate con argomenti, che certa gente ha deciso essere validi in seguito alla loro incapacità e a quella dei loro contemporanei che ne seguivano i ragionamenti, di scoprire eventuali lacune e vizi nelle premesse di tali argomentazioni, e non trovando qualche dubbio che li minasse. Hanno perciò pensato si trattasse di dimostrazioni chiare e di scienze certe. In seguito, dopo un certo intervallo di tempo, loro stessi, o i loro successori, sono riusciti sagacemente a cogliere un difetto in alcune o tutte quelle premesse, e hanno mostrato in che senso vi fosse errore e invalidità. E delle difficoltà, è trasparso loro, ciò che indebolisce e falsifica quelle argomentazioni. Successivamente, il discorso sulle difficoltà che minano – se siano un ragionamento non fondato o siano cose (28) valide – è analogo al discorso circa quelle argomentazioni, e il caso di coloro che intendono invalidare è analogo a quello dei precedenti che intendevano dimostrare. Infatti le capacità di coloro che esaminano quelle dimostrazioni e di coloro che si soffermano su di esse sono diverse, così come abbiamo spiegato e per quanto abbiamo menzionato. E il giudizio di ciò che le falsifica è espresso [subito] oppure è atteso, da parte di alcuni di coloro che esaminano quelle prove, [magari] dopo un lungo tempo, pur mantenendosi non evidente il difetto per coloro che le meditano attentamente e coloro che si attengono strettamente ad esse prima che passi quel lungo periodo. E se si ammette che una parte degli uomini erri in questo senso, si deve ammettere una simile possibilità per tutti. E se non fosse per l’errore e la sua scoperta, e la tranquilla fiducia di alcuni in quanto non è privo di errore e in quanto non si crede contenga l’errore – anche se la percezione di esso è posticipata – non si verificherebbe nel mondo alcuna discordanza nelle forme religiose, le scuole di pensiero, eccetera. Questo dipende quindi dall’insieme delle cause indicate. Poi affermiamo: attenersi a ciò di cui sono tranquilli alcuni speculativi, che essi considerano vero e che pretendono di convalidare, non vale più dell’attenersi alla dottrina dei loro oppositori e alla preferenza della loro opinione. E combinare assieme due o più dottrine contraddittorie non è possibile, perché una delle due, per esempio, richiede di affermare qual-

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cosa che l’altra richiede di negare. Perciò è impossibile mettere d’accordo le due e sostenere entrambe ad un tempo73. Quanto alla preferenza di una delle due rispetto all’altra, se chi dà la preferenza ritiene di avere un argomento positivo, allora il relativo caso e il discorso sono come il discorso e il caso relativi a quanto già esposto, mentre se ciò non avviene per via di un argomento, si tratta di una preferenza senza un qualcosa di preferito di cui si possa valutare la preferibilità. È quindi impossibile trovare intimamente la certezza (wiǧdān al-yaqīn) e conseguire la perfetta risoluzione con i risultati (29) delle riflessioni e delle prove speculative. E benché la cosa sia come l’abbiamo esposta, molta gente, che pretende d’essere gente speculativa e che si appoggia alle argomentazioni, dopo aver sottoscritto quel che abbiamo ricordato, trova in se stessa una risoluzione per tante cose, senza riuscire a porsi dei dubbi interiori su di esse. Queste persone hanno fatto affidamento su di esse e ne sono tranquillizzati, ed il loro stato riguardo ad esse è come quello della Gente dell’Esperienza e del Gusto, e in un certo senso come è la situazione dell’immaginazione (wahm) rispetto all’intelletto, nell’accettare le premesse e arrestarsi nella conclusione. A questa cosa appartiene un segreto occulto, e forse vi accennerò in ciò che segue, se Dio vuole. Quanto alla scienza della logica (al-qānūn al-fikriyy)74 cui la Gente della riflessione (ahl al-fikr) fa riferimento, si trova che anche su di essa

Chiaro riferimento al principio di non contraddizione. Letteralmente «la norma del pensiero». Qānūn in genere indica un trattato completo su una disciplina di cui si studiano gli elementi per conoscerne il funzionamento, come ad esempio le regole che concernono la grammatica. In questo caso rimanda dunque alla codificazione delle regole del pensiero e precisamente del ragionamento. Segnaliamo che il vocabolo adoperato da Qūnawī per indicare la logica è al-qānūn piuttosto che l’abituale ‘ilm al-manṭiq espressione comunemente adottata dai filosofi arabi. Manṭiq – tratto dalla radice NṬQ – rende il senso di «parola articolata» e quello di «ragione»; nuṭq significa a sua volta «parola, linguaggio» ed è stato scelto per tradurre in arabo il greco «logiche». Qānūn è invece locuzione d’origine greca che rimanda a: regola, ordinamento, codificazione; la rintracciamo in Epicuro come «scienza del canone» per indicare quei principi fondamentali del pensare e dell’agire, è noto difatti che nell’epicureismo la filosofia si divide in canonica, fisica ed etica, e la canonica prende il posto della logica. Cfr. E. Asmis, Epicurus’ Scientific Method, Cor73 74

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c’è tra loro divergenza secondo vari aspetti. Il primo tra questi riguarda alcune connessioni logiche (qarā’in)75, e il loro portare alla conclusione secondo alcuni e l’essere sterili per altri. Il secondo riguarda il loro giudizio su una parte di ciò per il quale non consegue dalle proposizioni il fatto che sia necessario. Il terzo riguarda la loro divergenza circa il bisogno della logica e il poterne fare a meno, in quanto la parte teoretica di essa si riconduce all’immediatamente evidente76, e in quanto la natura innata incorrotta (al-fiṭra al-salīma kāfiyya)77 è sufficiente per l’acquisizione delle scienze e non ha bisogno della logica. Tra di loro, su ciò che abbiamo menzionato, vi sono molte divergenze, ma non siamo tra quelli che si occupano di presentarle, in quanto il nostro intento è di mettere in guardia e segnalare.

nell University Press, Ithaca–Londres 1984, p. 19. In Ibn Sīnā la scienza della logica è considerata di fondo come «uno strumento per le restanti scienze», e questa concezione «strumentale» della logica aristotelico-peripatetica è molto diffusa nella tarda antichità; o ancora, secondo il filosofo la logica è «ciò che fa conoscere ciò che era ignorato»; essa è altresì quella scienza che preserva l’uomo dall’omissione e dall’errore nella ricerca. Cfr. Goichon, Lexique de la langue philosophique, pp. 396-397. Il filosofo utilizza il termine qānūn in un passaggio di una sua epistola in cui critica un interlocutore: «L’embarras, c’est quand je vois quelqu’un de pareil à lui ne pas se servir de ce qu’il sait du Canon (al-qānūn)». Cfr. J. R. Michot, «Une nouvelle oeuvre du jeune Avicenne», Bulletin de philosophie médiévale, 34 (1992) 140. Come osserva Jean Michot: «Il coviendra de se demander si Avicenne a simplement identifié ces deux disciplines et comment il a eu connaissance de ce Canon». 75 Qarīna, pl. qarā’in, designa la connessione logica operata nella conclusione del sillogismo tra un termine maggiore ed uno minore, quindi indica il sillogismo stesso. 76 Si basa infine su principi ovvi. 77 Il termine al-fiṭra indica in genere una disposizione naturale prima, l’assenso innato della verità. Secondo la definizione di al-Ǧurǧānī: «È la disposizione innata che permette d’accettare la Rivelazione [dīn]». Cfr. ‘Alī al-Ǧurǧānī, Kitāb al-Ta‘rifāt, Librairie du Liban, Beirut 1985, p. 175 [Traduzione mia]. In Ibn Sīnā invece il termine acquista il significato di spirito, intelligenza, disposizione naturale a comprendere, in senso meno intellettuale che ‘aql. Nel suo Kitāb al-ḥudūd (Libro delle Definizioni) il filosofo difatti scrive: «Ciò che questa intelligenza (‘aql) significa, egli afferma [Aristotele] sono i concetti e gli assensi che giungono all’anima tramite lo spirito (fiṭra), mentre la scienza (‘ilm) è ciò che risulta da un’acquisizione [esteriore]». Citato in Goichon, Lexique de la langue philosophique, p. 274 [Traduzione mia].

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Un’ulteriore cosa cui si attengono coloro che affermano la sua utilità è la maggior affidabilità e la probabilità. Essi hanno infatti affermato: troviamo che l’errore, per molta gente e in molte cose, è una percezione interiore certa (wiǧdān muḥaqqaq), assieme alla probabilità che abbia luogo pure in seguito78. Perciò il fatto che una minoranza non abbia bisogno di essa non esclude il suo bisogno da parte della maggioranza. (30) In quanto alla maggior affidabilità, la invocano in risposta a chi ha loro detto: avete ammesso che la logica (al-qānūn) si divide in necessaria (ḍarūriyy) e teoretica (naẓariyy)79 e che la parte teoretica si ricava dalla necessaria. Se, quindi, la necessaria basta per acquisire questa scienza della logica, allora basta in tutte le altre scienze, altrimenti la parte acquisita avrebbe bisogno di una norma ulteriore. Essi hanno [loro] risposto: l’inclusione di tutti i metodi è migliore protezione dall’errore, perciò il bisogno di essa, in questo senso, si pone in applicazione della maggiore garanzia. Il fatto che certi uomini nelle loro riflessioni colgano nel segno su molte cose, in ragione dell’integrità della propria natura (li-salāma fiṭratihi), certi assolutamente in tutte grazie ad una conferma divina ad essi conferita senza un’acquisizione [da parte loro], non esclude il bisogno degli altri di essa. Un’analogia di ciò si trova nel poeta per natura o per uso [consapevole] della prosodia, e nel nomade che non ha bisogno della scienza grammaticale rispetto al cittadino sedentario arabizzato80.

78 Un wiǧdān muḥaqqaq sarebbe da ricollegare alle premesse certe (yaqīniyyāt). Si può trovare l’errore nelle premesse – considerate a torto valide – e v’è sempre la possibilità che se ne aggiungano altri successivamente, anche nel caso in cui le premesse effettivamente siano valide. 79 Ḍarūriyy corrisponde a badīhi, ciò che vale come principio in quanto di evidenza immediata, cioè in questo caso, che se ne può fare a meno, come il principio di non contraddizione. Dall’altra parte naẓariyy è ciò che se ne deduce applicando tali principi. 80 Il poeta in arabo è detto šā‘ir, letteralmente «essere senziente», colui che riesce a percepire qualcosa che gli altri uomini non riescono a cogliere. Una tale concezione portò a sostenere l’idea che poeti si nasce e non si diventa e che il poetare fosse frutto di qualità innate e non acquisite. I critici antichi attribuirono maggiore credito alla poesia «naturale» (maṭbū‘) che a quella «artificiosa» (maṣnū‘). Il secolo che segue l’apparizione dell’Islām è testimone della nascita di un mito: quello del be-

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Noi affermiamo con la lingua della Gente della realizzazione (ahl al-taḥqīq): in verità, la minoranza per la quale avete appena riconosciuto l’assenza di bisogno del vostro criterio logico (mīzān) in ragione dell’integrità della sua natura e il suo acume, corrisponde nell’esiguità a coloro che sono qualificati per ricevere dalla Dignità del Vero, attingere dal mare della Sua Generosità, arrivare a conoscere i segreti del Suo essere. La limitata predisposizione corrisponde alla moltitudine che ha bisogno del criterio logico. E la Gente di Allāh81 sono una minoranza nella minoranza. Poi, per loro il pilastro nei ragionamenti è l’argomento dimostrativo (burhān), che è quia (anniyy) e propter quid (limiyy), e lo spirito della dimostrazione e il suo asse è il termine medio (al-ḥadd al-awsaṭ)82. Essi hanno riconosciuto che esso non è acquisito tramite una dimostrazione, e che è una concezione e non un’asserzione (annahu min bāb al-taṣawwur lā al-taṣdīq)83.

duino che incarna tutte le qualità da cui gli Arabi ritenevano d’essere caratterizzati. Il termine badawī (beduino), letteralmente «uomo del deserto», comincia ad essere utilizzato dal momento in cui la popolazione sedentaria della Penisola araba accetta d’essere chiamata ‘arab (arabo). Sono i Beduini che, ispirati dalla vita trascorsa nel deserto, sviluppano il gusto dell’eloquenza e trasmettono il dono dell’oratoria, difatti: «Il movimento “classicizzante” che s’inizia in epoca omàyyade e continua in epoca abbàside consacra la poesía degli Arabi beduini come modello letterario, e la loro lingua come modello linguistico. Gli stessi califfi mandano i figli nel deserto perché completassero la loro educazione in contatto con tutti i valori che si ritenevano esistessero laggiù allo stato puro». Cfr. N. Anghelescu, Linguaggio e cultura nella civiltà araba, Silvio Zamorani editore, Torino 1993, p. 120. A riprova di questo concetto, riscontriamo in Ibn Sīnā: «Ma la fiṭra al-salīma (lo spirito sano) e il ḏawq al-salīm (il buon gusto) a volte possono fare a meno d’apprendere la grammatica e la prosodia (Naǧāt), 6». Cfr. Goichon, Lexique de la langue, p. 274 [Traduzione mia]. 81 I sufi. 82 Il termine comune nelle due premesse del sillogismo. Nel ben noto esempio: tutti gli uomini sono mortali (premessa maggiore) – Socrate è un uomo (premessa minore) – Socrate è mortale (conclusione), il termine medio è «uomo». 83 Taṣdīq: asserzione o dichiarazione. Il termine è spesso usato come sinonimo di giudizio, e significa anche assenso, cioè si tratta di un giudizio cui si dà assenso. Riprendendo l’esempio precedente, «uomo» è una nozione, non un giudizio. E la nozione come tale non può essere «priva di senso», altrimenti non sarebbe una nozione, e non ha bisogno di essere «dimostrata», ma «appresa».

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Perciò, da ciò che è stato menzionato, si trae [l’idea]84 che una delle due parti della logica (mīzān) non è acquisita, che l’acquisito di essa si ottiene grazie unicamente al non acquisito, che lo spirito della dimostrazione, che è il pilastro della cosa e il principio da cui dipende il conseguimento della scienza sicura (muḥaqqaq), nella loro assunzione, non (31) è acquisito. Che tra le cose ce ne sono alcune circa la cui verità (ṣiḥḥa) o falsità (fasād) non si costruisce un argomento inoppugnabile, ma si dispone contro di esso una questione di cui l’oppositore è a conoscenza, e nonostante ciò non riesce a far dubitare se stesso circa la fondatezza di quella questione, né lui né tanti altri come lui. E questo è lo stato delle Genti del gusto intuitivo (ahl al-aḏwāq) e il loro modo di pensiero, in quanto essi affermano: in verità, la scienza vera è donata, non è acquisita. In verità, di quanto è per noi conseguito tramite la ricezione da parte del Vero, anche se non è stato sostenuto dall’argomento teoretico (burhān naẓarī), nessuno potrà farcene dubitare, e su ciò non abbiamo incertezza né indecisione. Concordano con noi coloro che compartecipano tra la gente del gusto intuitivo. Quanto a voi, non concordate l’un l’altro solo perché alcuni di voi non riescono a percepire il difetto presente nelle premesse degli argomenti che sono stati proposti a conferma delle tesi soggetto dell’accordo (maḥall al-muwāfaqa)85, secondo ciò di cui è stato esposto il segreto in questa premessa. Nell’insieme è apparso chiaro che il fine di ognuno in ciò di cui è sicuro delle scienze è quanto risulta dalla sua esperienza (ḏawq), a prescindere da una prova acquisita del fatto che sia la verità. Cosicché ne condivide l’opinione e chi si associa a lui nell’attingere alla stessa fonte gli è affine nella sua visione mentale, e con lui partecipa alla radice della sua fonte d’acquisizione e a ciò su cui riposa quella cosa cui è legata la sua tranquillità. E resta [da sapere]: quella cosa su cui si confida e che è giudicata valida, è valida in sé stessa nel senso di ciò in cui crede colui il cui stato

84 Qui si mettono in evidenza una serie di idee sulle quali appare esserci una sorta di coincidenza, nei fatti se non nelle intenzioni, con il pensiero degli intuitivi, di cui si parla subito dopo. 85 Cioè sulle quali verterebbe l’accordo. In questo senso l’accordo è da intendersi in senso negativo, nell’idea che comunque nessun argomento sarebbe senza difetti. Se tutti vedessero il difetto, concorderebbero in tal senso.

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è quello che abbiamo menzionato, oppure no? Ciò non si conosce se non tramite un autentico svelamento e una Comunicazione divina. È stato così chiarito che la «Scienza Certa» (al-‘ilm al-yaqīniyy)86 sulla quale non vi è dubbio è difficile da cogliere tramite la logica e la prova teoretica. Ciò nonostante che le cose provate tramite le dimostrazioni – nell’ipotesi della validità di queste nella realtà delle cose87 e della loro mancanza di difetti nella pretesa di chi vi si attiene 88 – siano molto facili, rispetto alle cose probabili e a quelle in cui ci si ferma per l’assenza di un costrutto dimostrativo sulla loro verità e falsità. (32) Se la situazione è questa, riuscire a conoscere le cose soltanto attraverso la dimostrazione, o è impossibile in modo assoluto oppure nella maggior parte delle cose. Ed è divenuto evidente alla Gente intuitiva (ahl al-baṣā’ir) e degli intelletti sani (al-‘uqūl al-salīma) che per l’acquisizione della conoscenza valida vi sono due metodi: il metodo dimostrativo tramite lo studio teoretico (naẓar) e il ragionamento probatorio (istidlāl)89, e il metodo della visione diretta (‘iyān), che ottiene chi è dotato dello svelamento attraverso la purificazione interiore e il rifugiarsi nel Vero. E dato che il caso relativo al grado teoretico è già divenuto chiaro per ciò che abbiamo premesso, si specifica dunque l’altro metodo, cioè voltarsi pienamente e confidare in Dio (al-tawaǧǧuh ilà’l-Ḥaqq) tramite il denudamento90, il completo bisogno [di Allāh], lo svuotamento integrale del cuore da tutti gli attaccamenti mondani, le scienze e le formalità logiche.

86 La scienza certa, detta anche necessaria (al-‘ilm al-ḍarūriyy), è la scienza comprovata da argomenti che non ammettono discussioni o contraddizioni alcune quali il Corano, le tradizioni profetiche autentiche e quel che è razionalmente ammesso e condiviso dai credenti. 87 Cioè che tali contenuti delle dimostrazioni corrispondano alla realtà effettiva. 88 Cioè che tali dimostrazioni, così come sono proposte, siano da considerare formalmente ineccepibili. 89 Naẓar è utilizzato nel senso generico di «studio teoretico», e in particolare «analisi», istidlāl nel senso tanto di «deduzione» quanto di «inferenza», quindi «attraverso prove». 90 Denudarsi da ogni concetto e conoscenza ricevute all’infuori del canale dello svelamento.

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E poiché inizialmente risulta impossibile per l’uomo riuscire da solo in questo, gli è necessario seguire chi lo ha preceduto nel giungere alla conoscenza, tra coloro che percorrono la Via dell’Altissimo91; tra quelli che si sono gettati nell’abisso dell’unione e hanno conquistato la realizzazione del desiderio e della speranza: come gli Inviati – su di loro le benedizioni di Allāh – che il Vero ha fatto interpreti del Suo comandamento e della Sua volontà e luoghi di manifestazione della Sua scienza e della Sua adorazione; e i loro eredi perfetti, in scienza, stato e stazione. Nella speranza che Egli – gloria a Lui – faccia dono generoso di una luce disvelatrice che manifesti le cose così come esse sono (al-ašyā’ ‘alà māhiya ‘alayhi), come lo ha fatto per quelli e per i loro seguaci della Gente della Sua provvidenza, e le guide ben dirette tra le Sue creature. «Ma Dio dice la verità e guida sul sentiero»92. (33) Appendice a questa sezione principale. Sappi che per ognuna delle realtà non composte e semplici che manifestano la determinazione delle materie e che da quelle si determinano, e tanto se fa parte delle realtà cosmiche (al-ḥaqā’iq al-kawniyya) quanto se fa parte di ciò che si ricollega al Vero per via dell’esser relativo a un Nome, a un Attributo, o qualcosa ad essi simile, vi sono dei concomitanti, degli attributi, degli aspetti, e delle proprietà. E quegli attributi, e ciò che è stato menzionato, sono le determinazioni d’essere delle realtà e le loro relazioni, e una loro parte è costituita da proprietà e concomitanti prossimi, un’altra parte da quelli remoti. Perciò non può non esserci, per chiunque ricerchi la conoscenza di una realtà, qualsiasi essa sia, tra lui ed essa, da una parte una corrispondenza e dall’altra una difformità, e allora lo statuto della difformità (ḥukm al-muġāyara) permette la privazione che esige la ricerca, mentre lo statuto della corrispondenza (ḥukm al-munāsaba) esige la consapevolezza di quel che si vuole conoscere. L’uomo, se si considera il suo essere complessivo, si contrappone a ognuno degli individui delle entità (a‘yān) del mondo, mentre, dal suo esse-

91 92

I sufi. Cfr. Cor. 33:4.

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re una copia dell’insieme totale delle realtà del mondo e di quelle dei Nomi, gli deriva l’affinità con tutto93. Così, quando ricerca la conoscenza di una cosa, egli ricerca soltanto con ciò che di lui è affine ad essa, non con ciò che ne è diverso. Poiché se fosse esclusa l’affinità sotto ogni aspetto, la ricerca sarebbe impossibile, in quanto ciò che è sconosciuto in modo assoluto non può essere oggetto di ricerca. Allo stesso modo anche affermare l’affinità sotto ogni aspetto comporterebbe il possesso, incompatibile con la ricerca, perché è assurdo cercare ciò che è già ottenuto94. Il possesso (ḥuṣūl) della consapevolezza della cosa in rapporto ad alcuni suoi attributi e accidentalità, dovuto alla virtù (ḥukm) dell’affinità, è unicamente lo stimolo a ricercare la conoscenza della realtà che è l’origine (aṣl) di quell’attributo (34) di cui ci si è inizialmente resi conto. L’anima allora cerca di passare gradualmente da quest’attributo noto o dal concomitante o dall’accidentale, facendone un uso strumentale, verso la conoscenza della realtà che ne è l’origine, e l’origine di altre proprietà e accidentalità che hanno relazione con quella realtà. Quindi la composizione dei ragionamenti e delle premesse è un metodo col quale l’anima di colui che cerca teoreticamente giunge a conoscere ciò che intende comprendere delle realtà. Perciò talora vi giunge dopo aver superato i gradi dei suoi attributi, delle sue proprietà e dei suoi concomitanti in modo teorico (‘ilmiyy). E talora ciò non gli è consentito, vuoi per la debolezza della sua capacità speculativa e per l’insufficienza della sua percezione – il cui segreto è indicato in ciò che segue – vuoi per altri impedimenti, che il Vero e chi Egli vuole dei Suoi servi conoscono.

93 Qui l’autore fa un chiaro riferimento alla dottrina akbariana dell’uomo copia e compendio delle realtà del mondo, dottrina che ritroviamo nel primo capitolo dei Fuṣūṣ al-ḥikam: «Questo essere che abbiamo menzionato fu denominato “uomo” e “vicario”. “Uomo” per l’universalità della sua costituzione che include tutte le verità principiali. L’uomo è per Dio ciò che la pupilla è per l’occhio, poiché la pupilla è l’organo dello sguardo; è perché questa facoltà è designata come essente “la vista”, che la pupilla porta ugualmente il nome di “uomo”: tramite lui Dio guarda le creature e fa loro misericordia. Egli è l’uomo nuovo ed eterno, il generato senza inizio né fine, il Verbo che separa ed unisce. [...] L’insieme dei Nomi legati alle forme divine è manifestato nella condizione umana che ingloba e che unisce secondo la modalità di questo essere [adamitico]». Cfr. Ibn ‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op. cit., p. 50 [Traduzione mia]. 94 L’affinità o corrispondenza significa in effetti un’identità parziale, se essa ci fosse sotto ogni aspetto diverrebbe piena identità e piena conoscenza.

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Il fine di un individuo del genere è quello di passare dalla conoscenza della proprietà della cosa, o del suo attributo, o del suo concomitante remoto o prossimo, ad un attributo o un concomitante ulteriori, pure suoi. Può essere a volte che l’attributo cui giunge, come conoscenza di quella realtà, sia più vicino e corrispettivo alla realtà di quello cercato inizialmente. Cosi come può essere più distante, sulla base del grado di corrispondenza che sussiste tra lui e ciò che egli intende conoscere e secondo lo statuto (ḥukm) di quella corrispondenza nella forza (quwwa) e nella debolezza, e di ciò che il Vero ha stabilito per lui95. Quando allora la capacità della sua speculazione, in virtù della corrispondenza, giunge a qualche attributo o proprietà, e non riesce a passare da essi al fondo (kunh) della realtà della cosa, allora egli è placato da quanto ha acquisito riguardo alla conoscenza di quella realtà, secondo il rapporto di quell’attributo in merito ad essa (35) e quanto ad esso, e secondo la corrispondenza di questo ricercatore con la conoscenza di esso in merito a quella96. Egli ritiene di avere ormai raggiunto la meta e di aver compreso teoricamente quella realtà. Ma nella realtà dei fatti non l’ha conosciuta che per un solo aspetto, relativamente a quell’unico attributo, o all’accidentale, o alla proprietà, o al concomitante. E pure un’altra persona sarà sospinta a ricercare la conoscenza di quella realtà per l’effetto di attrazione di un’affinità occulta tra lui ed essa relativamente ad un altro attributo o proprietà. Allora questi indaga, esamina e costruisce i ragionamenti e le premesse nello sforzo di acquisire, fino a che giungerà per esempio a tale altro attributo. Cosicché conoscerà quella realtà sotto un altro aspetto, secondo l’attributo che era il termine della sua conoscenza in merito a quella realtà. Egli giudicherà quindi l’essere (anniyya) della realtà in base a quanto richiede quella qualità e quell’aspetto, pretendendo di aver conosciuto il fondo della realtà che ha inteso conoscere, in un modo completo e inclusivo, ma nella realtà dei fatti è in errore. Lo stesso vale nel caso di una terza persona, una quarta, e così via. Perciò il giudizio di coloro che osservano un’unica cosa diverge per la differenza degli attributi, delle proprietà e degli accidenti – cui si connet-

95 In breve: rispetto a quel che c’è e rispetto a quel che si pensa esserci in termini di affinità e di realtà. 96 Non riesce a passare, ma in ogni caso è soddisfatto. Infatti alla fine è detto che ciò dipende ancora da un’affinità, e cioè quella che il ricercatore ha proprio per la conoscenza di tale realtà secondo quell’attributo oltre al quale non passa.

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tono le loro facoltà conoscitive e che ne sono il limite – di quella cosa di cui hanno inteso conoscere l’essenza intima, e presso di loro [diverge] la conoscenza di essa e di ciò che la distingue da altro. Cosicché ciò cui si connette la comprensione di una corrente si oppone a ciò cui si connette la comprensione di un’altra, nei modi e per le ragioni già esposte. Essi quindi identificano, definiscono, denominano ed esprimono quell’unica cosa in modo diversificato. La ragione di ciò è quanto è stato menzionato in precedenza, ed inoltre il fatto che lo strumento del comprendere – cioè il pensiero – è una facoltà parziale tra alcune delle facoltà dello spirito umano. [Il pensiero] non può quindi cogliere se non qualcosa di parziale come è esso, perché è stabilito, (36) secondo i realizzati tra la Gente di Allāh e la Gente degli intelletti sani, che non si percepisce una cosa tramite qualcosa che ne è realmente diverso, e una cosa non produce effetto sul suo opposto o su quel che ne richiede l’esclusione in virtù [della legge] dell’opposizione e dell’esclusione. Potrai presto esaminare la ragione fondamentale di questo e il suo segreto, se Dio Altissimo vuole. Medita perciò questo principio di base e cerca di comprenderlo, conoscerai molte cose del segreto relativo alla discordanza delle creature riguardo ad Allāh, delle Genti velate (ahl al-ḥiǧāb)97 e di molti tra le genti che giungono al conoscere e alla contemplazione. Conoscerai inoltre la causa della divergenza degli uomini circa le loro conoscenze, quali che siano. Tornando [all’argomento principale], diciamo: posto che la facoltà cogitativa è uno degli attributi dello Spirito e una delle sue proprietà, che coglie un attributo ad esso simile, e in considerazione del fatto che le facoltà spirituali secondo i realizzati non sono diverse dallo Spirito, è giusto riconoscere che lo speculativo ha conosciuto una qualche realtà. Ma [l’ha conosciuta] nell’aspetto del suo essere legata a quell’attributo che rappresenta il limite della sua speculazione e della sua conoscenza, ed al quale entrambe si connettono, essendo l’attributo legato ad essa [conoscenza], come è stato esposto.

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Oppure al-maḥǧubūn: «coloro che vedono la verità attraverso un velo».

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E l’eminente98 Ibn Sīnā, che è il maestro e modello di riferimento per la Gente della speculazione, quando scoprì questo segreto – o attraverso il velo della facoltà speculativa grazie all’integrità della natura (bi-ṣiḥḥati’lfiṭra) oppure grazie al «gusto» intuitivo, come allude in certi passaggi dei suoi discorsi – [pensò] che l’uomo non avesse il potere di conoscere le realtà delle cose (ḥaqā’iq al-ašyā’), ma che il massimo per l’uomo fosse di cogliere le proprietà delle cose (ḫawāṣṣ al-ašyā’), i loro concomitanti (lawāzim) e i loro accidenti (‘awāriḍ)99. Per attestare ciò fece degli esempi chiari e solidi, ed espose il proposito (37) in modo degno di chi è equo ed esperto, soprattutto su ciò che si riferisce alla conoscenza del Vero – grande è la Sua maestà – e questo nelle parti finali del suo lavoro, a differenza di ciò che di lui è ben noto nelle parti iniziali dei suoi discorsi100. Se non ci fosse il proposito della concisione, citerei a questo punto quel che egli dichiara su ciò che abbiamo menzionato e le sue attestazioni, ma mi sono accontentato di darne un breve cenno, confidando nella conoscenza di chi esamina queste questioni, perché il fine di questo [discorso] è di spiegare l’insufficienza della facoltà umana, in rapporto al suo pensare,

Ra’īs sottintende šayḫ, cioè il «maestro principe». Primo passo in cui viene presentata una questione che si riproporrà in vari passaggi dell’intera corrispondenza. Qūnawī in quest’epistola, che possiamo considerare introduttiva all’intera trattazione, si ripromette difatti di discuterne in seguito e proprio da questa citazione di Avicenna elaborerà una delle domande cruciali poste a Ṭūsī. 100 Vale a dire nelle ultime cose che egli ha lasciato, rispetto a quel che è la dottrina ben nota che si ricava dai suoi discorsi iniziali. Quest’affermazione sembra riproporre una querelle molto dibattuta e giunta sino ai nostri giorni: se considerare il pensiero di Avicenna più vicino alla linea dei falāsifa o a quella degli išraqiyyūn (i rappresentanti della filosofia orientale più prossimi alla corrente sufi). Da un confronto delle opere maggiori di Avicenna, nello specifico al-Šifā’, al-Naǧāt, le Išarāt wa’l-tanbihāt, lette anche secondo dei criteri cronologici, sembrano apparire delle contraddizioni – o meglio definite «ritrattazioni» – sulle sue teorie gnoseologiche che hanno condotto alcuni studiosi ad interrogarsi sulle sue reali tendenze o convinzioni. Nel corso della trattazione comprenderemo come non a caso Qūnawī chiami a sostegno e rafforzo delle sue teorie l’eminente filosofo. Sulla questione cfr. L. Gardet, «La connaissance mystique chez Ibn Sīnā et ses présupposés philosophiques» in Philosophy, vol. XXXIII, Abū ‘Alī Ibn Sīnā. Text and Studies. Collected and reprinted by Fuat Sezgin, Frankfurt am Main 1999, pp. 207-289. 98 99

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a percepire le realtà (ḥaqā’iq) delle cose. All’inizio di questa premessa è stato anticipato quanto, dei segreti connessi a questo capitolo, può servire a chi è intelligente per dedurre questa cosa indicata, la sua causa, la sua ragione, e altri dei segreti correlati con questo capitolo. Amplieremo la spiegazione di questo, se Dio Altissimo vuole, quindi [andiamo avanti e] diciamo quanto segue. Tutto ciò a cui si connettono le facoltà di percezione intellettive, mentali, immaginative e sensibili [considerate] nel loro insieme e singolarmente, non sono qualcosa in più rispetto a delle realtà non composte semplici (ḥaqā’iq muǧarrada basīṭa), consistenti di un essere unico indivisibile (biwuǧūd wāḥid ġayr munqasim)101; si manifestano quindi di per se stesse, ma alcune di esse seguono ad altre nella manifestazione, nella determinazione d’essere (ḥukm), nel circoscrivere e nella connessione. Le «precedenti» si denominano, per quanto abbiamo detto prima, «realtà», «cause» e «intermediari» tra il Vero e ciò che le segue nell’essere e ciò che abbiamo menzionato. Le «seguenti» si denominano «proprietà», «concomitanti», «accidentali», «attributi», «stati», «relazioni», «conoscibili», «condizionati», eccetera. Quando queste realtà si considerano pure dall’essere e dalla loro reciproca connessione una con l’altra, e non c’è alcunché di esse che assolutamente sia in relazione con alcunché, [allora] sono prive di ogni nome, attributo, qualità, forma e determinazione d’essere, in senso attuale e non potenziale. Quindi la presenza del nome e della qualità, e dell’attribuzione della composizione e della semplicità, dell’essere manifesto e dell’essere occulto (38), dell’atto percettivo e della relativa capacità di percepire, dell’universalità e

Se quanto può esser conosciuto fosse «un qualcosa in più», come un accidente o simili, sarebbe qualcosa di diverso dalle realtà stesse, e non si potrebbe asserire che esse in quanto tali possano essere conosciute, perché ciò che si conoscerebbe sarebbe soltanto questo qualcosa in più. Detto in altri termini, l’essere delle realtà non composte semplici può essere percepito in vari modi, previa la loro unità, e la molteplicità è dovuta allora alle diverse connessioni che si aggiungono secondo un modo di conoscere che è particolare. I particolari che derivano da questo tipo di conoscenza non potranno mai sommarsi realmente l’uno all’altro per giungere ad una conoscenza di natura universale del suo oggetto. Per quanto possa darsi una presunta conoscenza generale e supposta relativamente esaustiva di una qualche realtà, si potrà sempre supporre, dal punto di vista particolare, l’esistenza di indefiniti lati del tutto ignoti e inconoscibili. 101

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della particolarità, della subordinazione e della priorità, eccetera – fra le cose che abbiamo posto in rilievo e quelle che non abbiamo ricordato – per le realtà non composte, vale ed emerge in primo luogo solamente per l’applicazione su di esse dello statuto esistenziale (ḥukm wuǧūdiyy). Ma, per quanto riguarda la determinazione dell’esistenza102 (ta‘ayyun al-wuǧūd), [vale] per la manifestazione in un certo grado e conformemente ad esso, o in più gradi – come spiegheremo più ampiamente, se Dio Altissimo vuole – e in secondo luogo per il legarsi degli statuti di alcune di esse ad altre e il manifestarsi dell’effetto di alcune di esse tramite l’essere in altre. Sappi questo! L’intendimento e la prima visione d’insieme circa le realtà «seguenti» fornisce la conoscenza del fatto che si tratta di realtà pure, anch’esse prive di determinazione d’essere (ḥukm), nome e qualità, ma cui è proprio, quando si manifestano nell’esistenza reale (al-wuǧūd al-‘ayniyy), di essere degli accidenti per le sostanze e le realtà precedenti principali, e delle forme, attributi, concomitanti, eccetera. La forma denota quella cosa grazie alla quale soltanto quelle realtà prime sono intellette e si manifestano. Ed essa, cioè la forma, è inoltre un omonimo (ism muštarak)103, che si applica alla realtà di ogni cosa, che sia sostanza, (39) accidente o quel che sia, ed anche alla stessa specie, alla figura e al contorno, al punto che si dice di un modo d’organizzazione (hay’a al-iǧtimā‘)104 che è «una forma», come la forma [assunta] dallo schieramento e dall’armata105, e si dice «forma» l’ordinamento che si richiede di conservare, come la Legge (al-šarī‘a). E l’intelligibilità della forma in se stessa è una realtà pura come il resto delle realtà. Se hai conosciuto questo nelle forme visibili secondo i modi abituali, abbi conoscenza di quel che gli è simile in ciò che si denomina «luogo di ma-

Ta‘ayyun (entificazione) è uno dei termini tecnici piuttosto ricorrente tra gli adepti di Ibn ‘Arabī. Nel suo significato tecnico indica l’essere o diventare un’entità (‘ayn) che è una realtà distinta dalle altre realtà. La Prima Entificazione è Dio, Egli abbraccia tutti i nomi e gli attributi e causa tutte le entità e creature. Al di là della Prima Entificazione sta la Non-entificazione (lā ta‘ayyun), che è il Non-delimitato Essere, o l’Essenza di Dio. 103 E che quindi si predica in modo equivoco. 104 Di stare assieme, cioè una «disposizione». 105 In italiano si dice «formazione». 102

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nifestazione del divino» (maẓhar ilāhiyy), poiché la definizione (ta‘rīf) che ho indicato si estende a tutto ciò grazie al quale soltanto si manifestano le realtà invisibili (ġaybiyya)106, in quanto sono [un qualcosa di] invisibile (ġayb). Ti è ormai diventato chiaro, da questo principio di base – se l’hai meditato come si deve – che il manifestarsi, l’assemblarsi (al-iǧtimā‘), il donare l’esistenza (al-īǧād), il manifestare, la congiunzione (al-iqtirān), la dipendenza, l’affinità (al-munāsaba), il venir prima, il venir dopo, il disporsi in un certo modo, la sostanzialità, l’accidentalità, la formalità, l’essere qualcosa un luogo di manifestazione oppure manifesto, o primario o subordinato, eccetera, tutte queste cose sono Idee pure e delle relazioni intellegibili. E per il legarsi di alcune con altre e la loro reciproca dipendenza dall’Essere Uno grazie alla quale queste si manifestano a quelle, come abbiamo detto, si manifesta per alcune rispetto ad altre un’ineguaglianza nel circoscrivere e la connessione, la determinazione d’essere (ḥukm), il venir prima e il venir dopo, conformemente alle relazioni denominate agire e patire, influenzare ed essere influenzati, dipendenza e priorità, attributo e descrivibilità, l’idea del concomitare e quello di avere concomitanti, e altro ancora di ciò che è stato menzionato. Ma l’esistenza (wuǧūd al-ǧamī‘) e la sua permanenza risulta dal Flusso prodotto dallo Statuto Sintetico Unitario dell’Essere Divino (ḥukm alǧam‘ al-aḥadiyy al-wuǧūdiyy al-ilāhiyy) che manifesta tutte le cose107, e il culmine è dato dal frutto della Autorità nella Sua Presenza per via del Segreto del Suo Ordine e Volontà. E dopo aver stabilito ciò, sappi che la conoscenza delle realtà delle cose secondo la loro semplicità (40) e la loro purezza nella Presenza della Scienza divina unitaria, di cui inizieremo a parlare, è impossibile (allātī ḥadīṯuhā muta‘aḏḏir) [sic!]108. Questo perché ci è impossibile percepire

Non manifestate. Qūnawī qui si riferisce esplicitamente a quella energia coesiva che assembla, unifica, consocia tutte le realtà metafisiche e tutti gli enti che ne procederanno. Non si può realizzare alcuna epifania o determinazione che grazie ad un composto (tarkīb), una coalescenza (iǧtimā‘), risultante da una convergenza armoniosa tra l’ordine dei Nomi divini e l’ordine dei ricettacoli delle creature. 108 Nell’originale è aggiunto un «sic» (kaḏā) perché grammaticalmente in arabo non c’è concordanza. 106 107

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una cosa a partire dalla nostra unitarietà (min ḥayṯu aḥadiyyatinā)109, in quanto la stessa110 non è mai priva dei caratteri della molteplicità. Noi infatti non conosciamo nulla secondo le nostre realtà pure, né secondo il nostro essere e nient’altro, ma invece [lo facciamo] secondo l’assunzione da parte delle nostre entità [dell’attributo] dell’essere, il risiedere in noi della vita e della scienza, [e secondo] la caduta (irtifā‘) degli ostacoli che si frappongono fra noi e la cosa che desideriamo percepire, nella misura in cui essa sia predisposta ad essere percepita. Questo è quindi il minimo da cui dipende la nostra conoscenza, e questa rappresenta l’integrazione di un complesso molteplice (ǧam‘iyyatu kuṯratin)111. Le realtà delle cose nella stazione della loro immaterialità sono di un’unicità semplice. Ciò che è unico e semplice coglie solo qualcosa di unico e semplice, come ho già segnalato prima, e in un modo del quale chiariremo presto il segreto, se Dio Altissimo vuole. Perciò non conosciamo delle cose che i loro attributi e i loro accidenti in quanto sono attributi e concomitanti di una certa cosa, non in riferimento alle loro realtà pure. Se infatti comprendessimo una cosa secondo la sua realtà – non in considerazione di un suo attributo o proprietà, o concomitante, o accidente – sarebbe possibile la comprensione di una che è come essa, perché le realtà, in quanto sono delle realtà, hanno un rapporto di uguaglianza tra loro, e ciò che è possibile per due cose simili, è ugualmente possibile per l’altro112. La piena conoscenza legata alle realtà delle cose giunge soltanto dopo che sono intese in seguito al loro essere determinate da attributi, proprietà

109 Il nostro essere un’unità esclusiva, quindi senza traccia di molteplicità, o senza guardare in alcun modo alla nostra molteplicità. 110 Il soggetto è, per senso, la percezione. 111 Cioè la nostra conoscenza, per quanto la si intenda come un atto unico, è un’unità complessa. 112 Ciò integra quanto detto precedentemente. La conoscenza di una cosa passa per gli attributi o altro della cosa, e allo stesso tempo questi attributi o altro della cosa passano per la cosa, cosicché abbiamo a che fare con una cosa apparentemente complessa, perché non possiamo concepirla altrimenti. Questa cosa apparentemente complessa rimanda a un irraggiungibile unicum che è radice di entrambi gli aspetti, e che è la causa del fatto che essi si trovino uniti e interdipendenti nel determinarsi. Quando due o più cose si mostrano interdipendenti al punto da non poter sussistere da sole, per quanto vi possa essere una gerarchia di priorità, bisogna pensare ad un’unità soggiacente.

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o concomitanti, con cui si determinano; così come conosciamo l’attributo in rapporto al suo essere determinato (ta‘ayyun) dalla nozione del suo essere attributo di un qualunque soggetto. Quindi, quanto al fine essenziale (41) delle realtà secondo la loro purezza, la loro conoscenza è impossibile, salvo il suo aspetto particolare (al-waǧh al-ḫaṣṣ)113 conseguente all’eliminazione dell’autorità delle corrispondenze, [e ciò] tramite la rimozione da parte dello gnostico dello statuto delle relazioni e degli attributi mondani (kawniyya) di condizionamento nel momento in cui realizza la Stazione di «Sono il suo udito e la sua vista»114, raggiunta e il grado che le sta sopra, contiguo, specifico della prossimità attraverso gli atti obbligatori (qurb al-farā’iḍ)115, come seguirà nel nostro accenno al segreto di ciò, se Dio Altissimo vuole. A questo segreto, su alcuni dei cui statuti ho richiamato l’attenzione, ineriscono ulteriori segreti molto oscuri, difficili da far comprendere e comunicare. Uno di essi è lo statuto della Teofania del Vero (ḥukm taǧallī alḤaqq) che pervade le realtà degli esseri possibili, a cui ha alluso il nostro šayḫ, l’imām più perfetto116 – Dio sia soddisfatto di lui – ad una delle cui proprietà è connesso ciò di cui stiamo trattando.

113 Il waǧh al-ḫaṣṣ qui citato corrisponde ad una sorta di legame intrinseco e permanente che stabilisce un’azione diretta ma occulta tra l’Essere divino e la creatura; si tratta di un’affinità particolare tra il Signore ed il suo vassallo d’amore, tra il Nome ed il nominato, ecc. 114 Si tratta della Stazione della Perfezione (maqām al-iḥsān), la stazione raggiunta dai perfetti dopo aver completato e realizzato quelle subordinate, ossia la stazione della sottomissione (al-islām), e quella, superiore, della fede (al-imān). Il riferimento testuale è allo ḥadīṯ al-quddusī del taqarrub, ossia del modo in cui si ottiene la Prossimità a Dio (qurb), caratteristica primaria della santità, nel quale Dio stesso afferma: «Il Mio servitore non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che gli ho reso obbligatorio, ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a che Io l’ami, e quando lo amo, Io sono l’udito con cui sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra ed il piede con cui cammina...». Cfr. Bukhārī, Riqāq, op. cit., 38; W. Graham, Divine Word and Prophetic Word in Early Islam, Mouton-The Hague, Parigi 1977, pp. 173-174. Secondo Qūnawī i «perfetti» sono per eccellenza gli organi (gli occhi, al-a‘yān) tramite i quali Dio vede il mondo, divengono a tutti gli effetti le forme epifaniche dell’Essere divino. 115 Il primo grado, quello di «Sono il suo udito e la sua vista», è connesso con la prossimità ottenuta attraverso gli atti supererogatori (qurb al-nawāfil). 116 Si tratta del maestro Ibn ‘Arabī.

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Questo [egli lo ha fatto] in una poesia divinamente ispirata117, in cui egli ha un colloquio intimo col suo Signore, durante il quale dichiara: E non colgo di nessuna cosa l’essenza vera, e come potrei coglierla [la cosa, in questo modo], se Voi siete in essa?118

Il male in questo è che la determinazione è una delimitazione (alta‘ayyun taḥdīd)119, e tutto ciò che è altro dal Vero è determinato e afferrato nell’intendimento, eccetto il Vero – a Lui la lode – per quanto riguardi la Sua Essenza e il Suo essere assoluto. Egli infatti non è determinato da qualcosa che gli intelletti possano afferrare, perciò Egli, per i realizzati, è con ogni determinato ma non è determinato. Pure questo riguarda [una stazione, e cioè] la stazione di «Non vi è alcunché che sia simile a Lui»120. Da ciò si conosce il Segreto della «concomitanza» divina (ma‘iyya al-ilāhiyya)121 da cui procedono le comunicazioni divine (al-iḫbarāt al-ilāhiyya )122. Sappi dunque questo. Allora, quando i qualificati a ricevere dalla Dignità divina, che è al di là del grado (42) degli enti attualizzati (akwān) e degli intermediari, si soffermarono su queste stazioni e dimore spirituali, e superarono grazie alle attrazioni della Sollecitudine divina ciò che vi è in esse di veli e roccaforti, videro

Qaṣīda ilāhiyya, oppure che tratta della Divinità. Cfr. Ibn ‘Arabī, Diwān, ed. Bulāq, 1261 h., p. 180, rigo 20: «Wa lastu udriku min šay’in ḥaqīqatahū * wa kayfa udrikuhu wa antum fīhī». 119 Si tratta di un male in quanto la determinazione definendo limita. 120 Cor. 42:11. 121 Dell’«essere con». Il riferimento è alla sura del Corano 57:4: «Egli è con voi ovunque siate». Qūnawī farà sua la dottrina del «segreto divino» (al-sirr al-ilāhiyy) elaborata da Ibn ‘Arabī, secondo cui il segreto è lo Spirito divino che viene soffiato nell’essere umano al momento della creazione. Questo segreto viene inteso come una vera e propria scintilla di divinità posta nell’uomo e che lo renderà capace dell’attività contemplativa. Qūnawī stesso chiamerà il segreto «la porzione dell’uomo di signoria», e lo identifica come quella parte dell’uomo che trascende la causalità ed il divenire. Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, pp. 102-103. 122 Al-iḫbarāt al-ilāhiyya, le comunicazioni divine. Anche questo termine appartiene al lessico di Ibn ‘Arabī che nei Fuṣūṣ così scrive: «Poiché la scienza che noi abbiamo di Lui è ottenuta tramite noi e a partire da noi, noi Gli attribuiamo tutto ciò che attribuiamo a noi stessi. Ed è in questo modo che ci giungono le comunicazioni divine tramite la bocca degli interpreti». Cfr. Ibn al-‘Arabī, Fuṣūṣ al-ḥikam, op. cit., p. 53 [Traduzione mia]. Per interpreti qui Ibn al-‘Arabī intende coloro che hanno raggiunto la stazione delle profezia. 117 118

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fin dall’inizio, tramite le loro viste interiori, che la forma del mondo è una rappresentazione immaginale (miṯāl)123 del mondo delle idee e delle realtà essenziali. Sanno allora che ogni singolo essere individuale è la forma di un luogo di manifestazione e rappresentazione immaginativa d’una realtà ideale non manifesta; e che le membra dell’uomo, che è la Copia Sintetica Perfetta, hanno con le sue facoltà interiori lo stesso rapporto che hanno le forme del mondo con le sue realtà essenziali interiori, e i valori corrispondono. Quindi la condizione d’essere della vista [fisica] dell’uomo in rapporto alle cose visibili è analoga alla condizione d’essere della vista interiore in rapporto agli intellegibili ideali e i conoscibili della non manifestazione. Dal momento che la vista è incapace di percepire le cose visibili irrilevanti (come le particelle fini, i granuli del pulviscolo, ecc.), e le cose visibili elevate, come il centro del disco solare al massimo della sua luminosità, tanto che vi visualizza una nerezza a causa della sua incapacità a percepirlo – sebbene sappiamo che il centro è l’origine delle luci e dei raggi – è chiaro che la connessione della percezione visiva con ciò che sta ai due estremi del troppo e del troppo poco relativi all’occultamento completo e alla manifestazione completa, è impossibile. Così com’è il caso per la luce pura e la pura oscurità nel loro costituire due veli, e il fatto che da quel che è intermedio tra i due, che ne è il prodotto – vale a dire la luminosità – deriva ciò che è utile, come verrai in seguito a sapere, se Dio vuole; allo stesso modo, allora, gli intelletti e

‘Ālam al-miṯāl è il mondo sottile, intermedio, dell’immaginazione. Ibn ‘Arabī dedica il capitolo ottavo delle Futūḥāt a una cosiddetta «Terra della Realtà» (arḍ al-ḥaqīqa), che, creata a partire da un surplus dell’argilla con cui è stato fatto Adamo, costituisce il mondo immaginale, l’istmo che congiunge tutti gli ordini delle realtà inferiori e superiori, divine e creaturali. Una Terra sovrannaturale dove tutto ciò che vi si trova è incorruttibile, vive e parla; meglio ancora, una terra spirituale dove i corpi hanno una consistenza sottile e gli intelligibili sono rivestiti di una forma. Una Terra di contemplazione perché lì hanno luogo le visioni dei contemplativi, si sviluppano i sogni, o le anime permangono in attesa del giorno del Giudizio, e infine, dato metafisicamente più autorevole, questa Terra si rivela come il ricettacolo della Sovranità divina assoluta. Su questo argomento, oltre alle Futūḥāt, si veda anche il trattato di ‘Abd al-Karīm al-Ǧīlī sul mondo immaginale: De l’homme universel, extraits du livre al-Insân al-kâmil, traduits de l’arabe et commentés par T. Burckhardt, ed. Messerschmitt, Alger 1053; H. Corbin, L’immagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabî, Flammarion, Paris 1958 (tr. italiana di L. Capezzone, L’immaginazione creatrice. Le radici del sufismo, Laterza, Bari 2005). 123

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le viste interiori colgono solo gli intellegibili e i conoscibili intermedi tra la non rilevanza e la grandezza, e sono incapaci degli intellegibili irrilevanti, come i gradi delle mescolanze e le alterazioni parziali, in maniera definita e distinta, come il moto di crescita e di avvizzimento [che avviene] in ogni istante; e parimenti verso la percezione delle Realtà elevate e vincolanti, come l’Essenza del Vero – eccelsa è la Sua gloria – e le realtà dei Suoi nomi e dei Suoi attributi, salvo per il tramite di Dio, come abbiamo ricordato. Essi videro anche che tra le cose vi è ciò che era loro difficile da percepire a causa della lontananza eccessiva, come il movimento di un piccolo animale a (43) una grande distanza e il movimento dell’astro solare e delle stelle in ogni istante. Lo stesso nel caso dell’eccessiva vicinanza: l’aria, infatti, per il suo contatto con la pupilla, è impossibile da percepire, come la stessa pupilla. Ciò nel campo delle cose visibili. Nel campo delle cose intellegibili e delle viste interiori, vi è ad esempio l’anima, che è proprio ciò che nell’uomo percepisce, ed è la più vicina delle cose in rapporto a lui: l’uomo perciò percepisce l’altro da sé e non percepisce la propria anima e la propria essenza reale (ḥaqīqa). In questo modo, quindi, si è certificato anche l’incapacità delle viste interiori e degli sguardi nel percepire le realtà ontologiche (ḥaqā’iq wuǧūdiyya), divine e cosmiche, e le idee e i segreti che vi sono inclusi. È risultato evidente che la scienza vera non viene ad essere per acquisizione e sforzo e le facoltà umane non possono da sole conseguirla, fin tanto che il Vero non doni generosamente il santo flusso occulto (al-fayḍ al-qudsiyy al-ġaybiyy)124 e il sostegno (imdād) della «teofania luminosa della Scienza essenziale» (bi’l-taǧallī al-nūriyy al-‘ilmiyy al-ḏātiyy). Che Dio accordi a noi e a tutti i fratelli questa [grazia] nell’aspetto più perfetto e [quella] di percorrere la Via diretta più giusta (sabīl al-amam al-a‘dal)125.

124 Ġaybiyy, cioè che procede direttamente dalla dimensione immanifesta, non attraverso gli intermedi manifesti. 125 Si può leggere sabīl al-umam al-a‘dal, la via delle comunità più giuste, ma non ci sembra conveniente; preferiamo «la via di ciò che è diretto e più giusto», prendendo amam, «medio» (sinonimo allora di a‘dal) oppure «che sta proprio di fronte», cioè «diretto». O «la via del più giusto mezzo».

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Sezione a complemento di quanto menzionato nella prolusione e nelle dichiarazioni precedenti. Seguirà la citazione delle questioni che hanno preceduto queste premesse, in quanto introduttive alla loro esposizione, e una spiegazione delle loro verità tramite gli argomenti in cui ripone fiducia colui che viene interrogato – che Dio lo renda utile. Il Vero – a Lui la gloria – ha manifestato delle cose nell’essere e ha inoltre comunicato, per bocca dei perfetti (kummal) tra i suoi prediletti, cose i cui segreti gli intelletti degli intelligenti erano incapaci di conoscere, come di intendere chiaramente quel che le concerne così come esse sono in loro stesse e nel modo in cui il Vero – a Lui la gloria – conosce [ciò]. Allo stesso modo si è espresso con chiarezza anche su cose (44) che gli intelletti dei perspicaci hanno cercato di scoprire arrivando a conoscere chiaramente lo stato delle cose che le riguardano, a volte immediatamente, altre volte attraverso meditazione e riflessione. Nell’insieme, dunque, di ciò che Egli ha espresso chiaramente ed ha comunicato delle cose che gli intelletti erano in grado di comprendere da sé, vi era il fatto che la fede in Lui ha tre gradi: un primo, un medio e un superiore. La stessa cosa nel caso della guida divina (hidāya), del pio timore (taqwā), della virtù perfetta (iḥsān)126, che ci ha informato essere un’espressione allusiva per la stazione della Presenza (maqām al-ḥuḍūr)127 e della visione diretta (mu‘āyana). Lo stesso ha fatto nel render noti degli Attributi che noi non abbiamo menzionato.

126 Il comportamento perfetto, la conformità adorativa, la perfezione, l’eccellenza. In ambito religioso, secondo un lungo ḥadīṯ riportato da al-Buḫārī, l’iḥsān è che «tu adori Dio come se tu Lo vedessi, perché anche se tu non Lo vedi, Lui ti vede». Il comportamento perfetto si situa al di sopra della stazione della contemplazione (maqām al-mušāhada) in quella dello Spirito (maqām al-rūḥ). Cfr. al-Ǧurǧānī, al-Ta‘rifāt, op. cit., pp. 10-11. 127 Nel lessico akbariano i vari piani della realtà sono definiti ḥaḍārāt (presenze). Le cinque ḥaḍarāt sono così presentate: la prima ḥaḍra (l’Assoluto nella Sua infinità, non ancora manifestato); la seconda ḥaḍra (l’Assoluto che Si manifesta come Dio); la terza ḥaḍra (l’Assoluto che Si manifesta come Signore); la quarta ḥaḍra (l’Assoluto che Si manifesta come realtà tra lo spirituale e il corporeo); la quinta ḥaḍra (l’Assoluto che Si manifesta nel mondo sensibile). Sul termine cfr. Chittick, «The Five Divine Presences: from al-Qūnawī to al-Qayṣarī».

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Cosicché nel Suo eccelso Libro, nel novero dei Suoi ammonimenti al riguardo, troviamo le Sue parole: «Per coloro che credono e fanno il bene non c’è alcun peccato in quel che mangeranno, se hanno timore di Dio, se credono e fanno il bene, e ancora se temono Dio e credono, e ancora se temono Dio e fanno il bene, quelli che fanno il bene Dio li ama»128; in un altro passo ha detto: «Io sono indulgente con chi si pente e crede e compie buone azioni, costui è ben guidato»129; e nessuno si converte e si rivolge alla Dignità del Vero, esprimendosi (yataǧallā) nelle azioni rette, se non dopo aver trovato la giusta strada. Dunque Egli ha mostrato, con ciò che ha comunicato, che questa guida non è la prima, e in questo senso sono le [altre] Sue parole – Sia esaltato: «Dio dirige al bene il cuore di chi crede in Lui»130, «[…] abbiate timore di Dio e Dio vi insegnerà»131; e quelle relative alla Gente della caverna: «Erano dei giovani che credevano nel loro Signore. Noi demmo loro un sovrappiù di guida e fortificammo i loro cuori»132. Tutte queste sono cose delle quali gli intelletti colgono con la più facile meditazione la validità: infatti gli intelletti sanno che ogni bella qualificazione ha una prima perfezione, che è la porzione minima che di essa si ha in sorte133, un secondo grado intermedio (45), e un terzo grado che ne è il termine di compiutezza. Dopo il termine ci sono solamente dei gradi concepibili (muta‘aqqala) entro la maggior perfezione. Così come Egli ha posto per gli attributi da noi ricordati, di quanto il Vero – a Lui la lode – ha menzionato, tre livelli, ad avvertirci che ciò vale ugualmente per tutti gli attributi, allo stesso modo ha dunque posto per la scienza, che è il più nobile degli attributi, tre livelli nel grado della sua perfezione, di cui una parte è più elevata e completa dell’altra. Ha denominato uno di essi «scienza della certezza» (‘ilm al-yaqīn), il secondo «visione della certezza» (‘ayn al-yaqīn), il terzo «la Realtà della certezza» (ḥaqq al-yaqīn). Ha posto per ogni grado di questi tre un gruppo per il quale tale grado è il fine e il punto d’arrivo del loro progredire nei livelli della scienza.

Cfr. Cor. 5:93. Cor. 20:82. 130 Cor. 64:11. 131 Cor. 2:282. 132 Cor. 18:13-14. 133 Che qualcuno o qualcosa ha in sorte, cioè possiede inizialmente, probabilmente intendendo chi ne è qualificato. 128 129

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Perciò quando lo stato134 di qualcuno mostra chiaramente che egli ha un’anima nobile, predisposta a realizzare la perfezione reale, non la relativa, e dà prova135 di aspirazione elevata corrispondente (tūnāsibu)136 a tale sua anima, costui può, essendone idoneo, cercare di elevarsi nei livelli degli attributi della perfezione (awṣāf al-kamāl), fino ad arrivare al più alto dei loro gradi, soprattutto nei livelli della perfezione conoscitiva, da cui dipende la beatitudine, per accordo generale delle intelligenze e delle leggi rivelate. [Questo] in ogni caso, [ma] specialmente nel [caso della] scienza connessa con Allāh, e poi coi più nobili dei concomitanti della Sua Essenza, e ciò che abbiamo indicato precedentemente. Se a questi è concessa tale cosa ed egli è corretto nella sua presunzione di esser giunto al primo dei livelli della perfezione della scienza, che aspiri [allora] a passare dal grado della sua scienza certa alla sua stessa essenza, e in seguito verso la sua realtà. Allo stesso modo bisogna che chi conquista la stazione della «visione della certezza», dopo aver superato il livello della scienza certa, desideri giungere sino alla «Realtà della certezza », nel novero dei cui statuti c’è la ricerca per riunire assieme ciò che risulta dalla dimostrazione e ciò che è frutto della visione diretta. Questo è uno (46) dei motivi che hanno spinto a realizzare questa raccolta [di questioni], e a preferire di osare avventurarvisi avendovi in precedenza rinunciato, nella speranza di riuscire in questo intento. E la pace [sia con voi].

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mente».

Il testo in arabo riporta «la lingua dello stato (lisān al-ḥāl)... esprime chiara-

Ha mostrato. Abbiamo reso altrove munāsaba con affinità. Qui sembra di dover rendere il verbo con «corrispondere». Tuttavia, per quanto detto altrove, ciò necessariamente dipende da un’affinità dell’anima con il fine cui aspira. Si veda quanto si trova all’inizio dell’epistola, a proposito del fatto che Qūnawī aveva disperato di ottenere risposte attraverso la via filosofico-scientifica. 135 136

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[Le questioni] (47) Punto d’avvio all’esposizione delle domande. Queste sono alcune delle questioni di cui, già tanto tempo fa, lo svelamento del segreto e la cognizione chiara dei termini era stato ben difficile per il propagatore, all’inizio del suo apprendimento e della sua giovinezza137. Vuoi per l’insufficienza della sua capacità di comprensione, vuoi perché i discorsi su di esse, da parte della gente che ricerca e che apprende» (ahl al-baḥṯ wa’l-taḥṣīl)138, in termini di ripulsa o di consenso, contrastano ed allo stesso tempo non sono immuni dalla macchia dei dubbi e delle probabilità; [quindi] dai loro discorsi non gli giunse quanto [avrebbe potuto] curare un malato139, o [almeno] mostrare chiaramente una via per arrivare alla conoscenza del contenuto di tali questioni. Perciò, quando egli disperò di raggiungere ciò che desiderava dai discorsi di costoro e si rivolse al Vero tramite lo spogliarsi (ta‘riyya) e la povertà [spirituale] (iftiqār) in un certo modo, che aveva ricavato dai consigli di coloro cui è stato concesso potere e capacità di vedere140, il Vero lo attrasse grazie alla Sua sollecitudine, e gli fece conoscere, dopo aver realizzato la conoscenza di Lui, tutto ciò che gli era stato astruso e altro ancora. Addirittura cose alle quali non aveva mai nemmeno pensato. Ma egli ne realizza il gusto e la visione immediata dopo aver superato i due gradi della ricerca e dell’insegnamento141. Quindi egli successivamente a ciò, così come abbia-

Fī bidāyati taḥṣilihi wa šabābihi. Non a caso Qūnawī specifica che la difficoltà delle questioni gli si è presentata all’inizio della sua fase di apprendimento e durante la giovinezza, ciò probabilmente per rendere conto del fatto che nell’epistola conclusiva della corrispondenza, saprà ben rispondere ed illustrare queste stesse questioni poste a Ṭūsī; le risposte arriveranno e l’astrusità scomparirà grazie all’orientarsi verso il Vero. 138 Possiamo qui intendere gli studiosi. 139 Cioè, interpretando, i dubbi di chi risulta malato per loro causa. 140 Letteralmente «coloro che hanno mani e occhi». 141 Qui troviamo un punto chiave che definisce in qualche modo il percorso del «filosofo mistico» rispetto a chi realizza i frutti della via senza cercare aspetti raziocinanti. Il fatto di aver percorso un certo itinerario di studi ha influenza sulla via iniziatica. Chiaramente la condizione è che si tratti di un serio studiare e cercare di capire. L’insoddisfazione che ne risulta è quella che coglie chiunque mediti su qualcosa su cui non sembra avere alcun potere. In ogni caso, l’insoddisfazione non riguarderà certo la realizzazione in quanto tale, ma la scienza. 137

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mo detto, in rapporto all’aspirazione (himma)142 insoddisfatta per il risultato raggiunto, desiderò cercare di più dal Suo favore – a Lui la lode – [quello] che è generosamente donato alla parte migliore dei Suoi servi. In virtù del suo status raziocinante (ḥāla burhāniyya)143, egli scelse di chiedere risposta circa queste cose alla generosa corte del patrono144, che ben si occupa ed ha competenza delle [varie] forme del produttivo insegnamento. Nella speranza che egli conosca su queste cose ciò che è richiesto dalla retta opinione, e lo esplichi sulle base delle argomentazioni affidabili e alle quali il giudizio e la scelta possono far riferimento. Forse egli [permetterà di] riunire, come già è stato accennato, la duplice tranquillità: dimostrativa (burhāniyya) e di visione (‘iyāniyya), delle prove razionali (dalā’il ‘aqliyya) e di quelle dominicali (rabbāniyya). In questo infatti vi è una maggior chiarezza e una perfezione nella realizzazione che elimina i vari tipi di incertezza145. In verità, un simile dono da parte di chi ne è capace è certamente uno dei più grandi aiuti che vi possano essere sulla via di Allāh, ed è a Lui che si chiede – a Lui la lode – di elucidare, al di là della retta guida del patrono, le oscurità dei dubbi tenebrosi (48) e di dischiudere chiaramente con le Sue direttive (marāšid)146 i «templi della distinzione» (hayākil al-faṣl)147 e le virtù sepolte, grazie al Suo favore e alla Sua eccellente bontà.

Himma, aspirazione, energia spirituale, l’orientarsi del cuore che rivolge tutta le sue forze spirituali verso Dio con l’intento di perfezionarsi. 143 Lo status che cerca argomentazioni rigorose. 144 Al-ǧanāb al-mawlawiyy, il destinatario. Rivolgersi a Ṭūsī implica soddisfare delle curiosità sapienziali muovendosi sul piano razionale, nella speranza che queste possano convergere con la certezza ottenuta grazia alla visione contemplativa, per giungere infine ad una «duplice tranquillità». 145 Ištibāh: ambiguità, confusione, incertezza od oscurità. Ma in questo caso si preferisce «una generica incertezza». Anche questo passaggio risulta particolarmente interessante: Qūnawī qui aspira esplicitamente all’unione di un metodo dimostrativo e di una visione contemplativa, è in questo che rintraccia una realizzazione perfetta. 146 Le «mete corrette», perché è Egli che prima di tutto è guida sicura, che mostra dove si deve arrivare alla fine. 147 O forse le «costruzioni del giudizio risolutivo». Ma il senso di «templi», come allegoria, ci sembra consono al «dischiudere». 142

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[Prima questione] Secondo voi, è stabilito che l’esistenza dell’Essere Necessario (wuǧūd wāǧib al-wuǧūd) è qualcosa di aggiunto alla Sua realtà (ḥaqīqa), oppure [che] la Sua esistenza è la Sua stessa essenza (māhiyya), anche se Egli non ha una realtà oltre148 all’esistenza (al-wuǧūd)149? E qual è l’argomento che ne mostri chiaramente la verifica? Infatti, tutto ciò che si menziona nell’attestare ciascuna delle due cose è incompleto e non convincente per chi è sagace, perché se si sostiene fiduciosamente che la Sua esistenza è identica alla Sua realtà, e si è soddisfatti di ciò che un gruppo ha menzionato nell’attestarlo, allora qualcuno potrebbe dichiarare: non conveniamo che l’esistenza del Vero sia identica alla Sua realtà, e lo proverebbe in vari modi. Tra questi vi è l’evidenza di come la nozione di esistenza, quanto al suo determinarsi (ta‘ayyun) nel nostro [modo d’] intendere (ta‘aqqul), sia

In aggiunta a. Dietro questa domanda, oltre al desiderio di chiarire il quesito in termini filosofici grazie alla visione di Ṭūsī, traspare chiaramente la celebre dottrina da Qūnawī denominata della waḥdat al-wuǧūd ed elaborata sotto gli insegnamenti e l’influenza del maestro Ibn ‘Arabī. Dagli studi fino ad oggi condotti sull’immenso corpus di scritti di Ibn ‘Arabī, si ritiene che quest’espressione non fu coniata dallo šayḫ al-akbar, anche se egli trattò frequentemente sul wuǧūd descrivendolo come ciò che possiede gli attributi di unicità, o unità, appoggiandosi a termini come waḥda e aḥdaniyya. Qūnawī a sua volta nei suoi scritti, sottolinea la centralità del wuǧūd, ma impiega il lessico filosofico di waḥda e di wuǧūd per spiegare le due modalità inerenti al Reale, cioè la Sua unicità in Se stesso e la Sua pluralità nelle Sue manifestazioni. William C. Chittick a riguardo afferma che sebbene Qūnawī impieghi l’espressione waḥdat al-wuǧūd in almeno due passaggi, non la utilizza come un termine tecnico indipendente e riporta un brano del Miftāḥ al-Ġayb, pubblicato in margine al suo commentario, Miṣbāḥ al-‘uns di Fanārī: «Know that the Real is sheer wujūd within wich is no diversity and that He is one with a true oneness in contrast to wich no manyness can be conceptualized... All things perceived in the entities and witnessed in the engendered things... are the properties of wujūd; or, call them the forms of the relationships within His knowledge… Call them what you like: They are not wujūd, since wujūd is one... Wujūd cannot be perceived by a human being inasmuch as he is one with a true oneness, like waḥdat al-wujūd... Nothing issues from God, in respect of the waḥda of His wujūd except one». Cfr. W. C. Chittick, «Rūmī and Waḥdat al-wujūd», in Amin Banani (ed.), Poetry and Mysticism in Islam: the Heritage of Rumi (11th Giorgio Levi Della Vida Conference), University Press, Cambridge 1996, p. 79. 148 149

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una nozione unica (mafhūm wāḥid). E questa nozione, presa per sé senza guardare a tutto ciò che è altro da essa, o deve essere accidentale per l’essenza di una cosa tra [tutte] le essenze, o non accidentale per essa150, o non deve essere nessuna delle due cose. Se vale il primo caso, è necessario che ogni esistenza sia accidentale alla sua essenza, o che ne abbia l’attitudine (salāḥiyya ḏālik)151. E l’esistenza dell’Essere Necessario sarà perciò un attributo della Sua realtà. Se vale il secondo caso, è necessario che nulla delle esistenze intese sia accidentale a qualcosa delle essenze. E allora, o queste essenze possibili non saranno esistenti, oppure saranno esistenti, ma la loro esistenza sarà la stessa (49) loro realtà (ḥaqīqa)152, e in tal caso la nozione dell’esistenza non sarà una nozione unica, mentre l’abbiamo supposta essere tale. Questo è un contrasto. Se vale il terzo caso, l’esistenza dell’Essere Necessario non diverrebbe separata dall’essenza se non per una causa del tutto altra, e allora l’Essere Necessario per Sua Essenza (ḏāt) sarebbe Essere Necessario per altro153. Questo è un contrasto.

Non gli sopravvenga, e se esiste deve essere qualcosa di essenziale. Cioè: ogni esistenza come tale avrebbe come sua attitudine il fatto di essere accidentale. In ogni caso, perché un attributo possa essere attributo di qualcosa, ci deve essere un’affinità da entrambe le parti perché possano stare assieme. Ci deve essere cioè una qualità dell’essenza che corrisponda all’essenza dell’attributo (attributo essenziale), o una qualità che possa secondariamente essere riferita all’essenza, che funzioni allo stesso modo, che ciò dipenda da un accidente essenziale o non essenziale, o da un concomitante. E ciò può verificarsi in base a una disposizione dell’uno verso l’altro; altrimenti, come si dice altrove, il loro stare insieme è forzato. 152 Nel senso di essenza. 153 Non è accidentale né essenziale, significa che è un concomitante – nel senso che gli aderisce sempre, ma non si può ricondurre tale aderire all’essenza come tale (per come viene intesa) né ad un accidente essenziale in senso proprio (salvo nel senso che l’accompagna sempre, ma non ne può essere veramente separato, perché se lo fosse mancherebbe qualcosa che è considerato fondamentale per l’essere di quell’essenza nel suo manifestarsi al nostro conoscere). In questo caso, separarli toglie all’essenza qualcosa che deve avere, e se ciò si intende in senso reale, ci sarà una reale privazione d’essere, quindi l’essenza ontologica della cosa mancherà di qualcosa, non sarebbe completa quanto all’essere. Se si suppone vi possa essere una causa che permette questo, questa causa avrà una sussistenza separata (ed esisterà per sé), e ciò comporterà di converso una causa che ne determinerebbe l’unione (sempre esistente per sé), la stessa 150 151

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Un altro modo [di provare il contrario] è che ogni individuo che ragiona (‘āqil), asserisce decisamente che per l’esistenza del Necessario vi è una determinazione (ta‘ayyun) nel suo intendimento (ta‘aqqul), determinazione e intendimento che implicano la negazione di varie cose da essa154, come pure l’affermazione di varie cose per essa. Questo nonostante tutti gli ‘uqalā’155 siano d’accordo che la Sua realtà sia sconosciuta156. Se quindi la Sua esistenza fosse identica alla Sua realtà, sarebbe conosciuto quanto alla realtà, in quanto non è sostenibile che Egli sia noto quanto all’Essenza sotto un certo aspetto e sconosciuto sotto un altro, perché ciò comporterebbe che nella Sua Essenza (ḏāt) siano concepiti due lati differenti. Questo è falso, perché c’è unanime consenso sull’inammissibilità di intendere nella Sua Essenza aspetti diversi e molteplici, in quanto è stabilito che Egli è uno sotto tutti gli aspetti. Senza dubbio la diversità degli aspetti in qualche cosa esclude la purezza della Sua unità (waḥda). Inoltre, (50) se Lo si conoscesse sotto questo aspetto, [comunque] si conoscerebbe la Sua realtà. Anche questo è falso, essendo essi d’accordo che la Sua realtà è sconosciuta. Ciò che abbiamo menzionato prova quindi che la Sua esistenza è aggiunta alla Sua realtà. Un altro modo [di provare il contrario] è che il Suo essere principio (mubdi’) di altri o è perché Egli è un’esistenza oppure perché Egli è un’esistenza assieme a una negazione. La prima cosa è falsa, altrimenti ogni esistenza sarebbe tale. La seconda è [pure] falsa, altrimenti la negazione sarebbe parte della causa della immutabilità (ṯubūt)157.

o un’altra. In entrambi i casi avremo un’essenza ontologica non bastante a se stessa, non realmente unitaria, quindi non necessaria di per sé. 154 Cioè dalla nozione di essa. 155 Coloro che si servono dell’intelletto. Qui Qūnawī non specifica a chi si riferisce, sarà Ṭūsī a precisarlo nelle sua risposta. 156 Quindi, posto che la sua essenza ontologica è sconosciuta, in base a quale criterio possiamo con verità riferire la negazione o l’affermazione di qualcosa ad essa? 157 Nel primo caso, avendo assunto che l’esistenza è una nozione unica (e univoca), ogni esistenza in quanto tale, di qualunque cosa sia, sarebbe sempre la stessa, e quindi tutte identiche tra loro. Non può essere quindi che per il Suo essere un’esistenza

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Un altro modo [di provare il contrario] è che essi hanno dichiarato: è necessario che lo statuto dei singoli individui (afrād) di un’unica natura (ṭabī‘a) sia unico. Poi essi hanno fondato su questa premessa delle questioni, tra le quali vi è la confutazione della dottrina del vuoto come dimensione immateriale (bu‘d muǧarrad). Essi infatti hanno dichiarato: la natura della dimensione è una, e se [tale natura] fosse perciò immateriale, che sia perciò tale in tutto, allora il corpo sarebbe una dimensione immateriale. Questo è un contrasto158. Se fosse materiale (māddiyya), che sia perciò tale in tutto, sarebbe allora impossibile per il vuoto essere una dimensione immateriale. Hanno inoltre dichiarato: essendo stabilita circa i corpi che sono ammessi (allatī tuqubbila) la conclusione (faṣl) che la loro corporeità ha bisogno della materia, è necessario che riguardo ogni corporeità vi sia bisogno della materia. Divenuto chiaro questo, si direbbe perciò159: riguardo all’essere in quanto essere (al-wuǧūd min ḥayṯu huwa al-wuǧūd) la sua realtà è unica. Se allora ha bisogno dell’essenza (māhiyya), che sia dunque tale in

Egli costituisca principio delle altre, ossia delle cose. Nel secondo in termini logici, la negazione della determinazione è costituiva della Sua essenza ontologica in quanto esistenza, cioè è causa ontologica, perché è in tal senso, in ragione di tale negazione, che Egli sussiste positivamente. 158 L’idea della pura o immateriale dimensione è che lo spazio sarebbe di per sé una dimensione immateriale, e quindi in qualunque corpo che occupa spazio (un vuoto), tale spazio rimarrebbe quello che di per sé è, cioè una dimensione immateriale, e non potrebbe senza contraddizione essere fisicamente occupato da un corpo materiale, o meglio costituirne il volume, che non è altro che lo spazio che occupa. Per converso, se la dimensione fosse di natura materiale, cioè avesse come tale e sempre un valore fisico, non si potrebbe senza contraddizione affermare l’immaterialità del vuoto (e il corpo potrebbe, inoltre, occupare questo vuoto solo ammettendo la permeabilità reciproca delle due materie, altrimenti il vuoto così inteso non sarebbe rispetto al corpo affatto vuoto). Da ciò l’idea che il vuoto si concepisce solo come virtuale privazione (mancanza) di un certo corpo. La dimensione come tale è logicamente immateriale, essendo una qualità astratta, una misura, e come tale può applicarsi senza problemi a ciò che è materiale. Se però si concepisce specificamente un suo essere immateriale, a ciò si contrappone un suo essere materiale, e allora o è l’una o è l’altra. 159 Per analogia col discorso precedente.

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tutto. Se non ha bisogno (51) dell’essenza, che sia così in tutto. Questo è quanto. E nella risposta si potrebbe dichiarare: l’unicità e la molteplicità, e altre simili entità [astratte], non hanno bisogno della materia, benché abbiano un’attitudine a legarsi certe volte alla materia ed altre [volte] ad esserne libere, cosicché sono intellettualmente colte come separate da essa. È perciò possibile che la condizione dell’essere (wuǧūd) sia tale, salvo che, in base all’ipotesi che questo sia valido, da tutto ciò non si ricava un qualche argomento né qualcosa di cui una persona raziocinante possa asserire decisamente la validità. Tra quanto conferma quel che abbiamo menzionato, vi è quanto ha riconosciuto il maestro principe, il sigillo dei sapienti e il fior fiore dei filosofi, [Ibn Sīnā] ed è ciò che abbiamo scelto in precedenza160 di non citare, come si è allora indicato. Proseguendo abbiamo ripreso la cosa qui, perché ne abbiamo percepito il bisogno tangibile. Abbiamo perciò dato indicazioni con quel poco di ciò che è stato menzionato. Queste sono le sue parole: «La comprensione (wuqūf) delle realtà delle cose (ḥaqā’iq al-ašyā’) è al di fuori delle capacità umane. Noi infatti delle cose conosciamo solo le proprietà, i concomitanti e gli accidenti. E non conosciamo le distinzioni costitutive (al-fuṣūl al-muqawwima)161 di ciascuna di esse che conducono alla sua realtà. Sappiamo però che esse sono cose dotate di proprietà, accidenti e concomitanti. Non conosciamo perciò la realtà del Primo [Essere], né dell’intelletto, né dell’anima, né della sfera [celeste], né del fuoco, né dell’aria, né dell’acqua, né della terra. E neppure conosciamo la realtà degli accidenti»162.

Si veda la precedente sezione introduttiva. O differenze specifiche. Ci sono delle differenze specifiche che ci conducono alla ḥaqīqa ma qui non sappiamo quali siano. Al-faṣl al muqawwima è «la designazione dell’elemento che rientra nella quiddità (māhiyya), come ad esempio “razionale” che rientra nella quiddità “dell’uomo” e la costituisce dato che l’essere umano non ha esistenza nella sua realtà concreta e mentale senza questa distinzione specifica». Cfr. Ǧurǧānī, Kitāb al-ta‘rifāt, op. cit., p. 174 [Traduzione mia]. Cfr. anche Goichon, Lexique de la langue, p. 272. 162 Cfr. Ibn Sīnā, al-Ta‘līqāt, op. cit., p. 34, [17-21]. Qūnawī per dare maggiore forza alla sua tesi si appoggia al testo di Ibn Sīnā al-Ta‘liqāt. Come il titolo dell’opera già rivela, le Ta‘liqāt sono probabilmente da mettere in rapporto diretto con l’insegnamento orale di Ibn Sīnā e costituiscono delle note di lezioni; si è cercato di individuarne l’auto160 161

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Poi fece al riguardo degli esempi chiari e attestò quel che era sua intenzione attestare. (52) Successivamente si espresse su ciò che concerne in modo particolare la realtà del Vero, la domanda che è stata da noi posta quale punto di partenza per le rimanenti questioni, dichiarando: «Noi non conosciamo la realtà del Primo [Essere]. Sappiamo di Lui solamente che Egli di necessità possiede l’esistenza, oppure che è qualcosa che possiede di necessità l’esistenza. E questa [esistenza] è uno dei suoi concomitanti (lawāzim), non la sua realtà163. E conosciamo per mezzo di questo concomitante altri concomitanti, come l’unicità (waḥdāniyya) e il resto degli attributi. E la sua realtà, nella misura in cui è possibile coglierla, [è che] Egli è l’Esistente per Sua Essenza (ḏāt), ossia che ha l’esistenza in ragione della Sua Essenza (bi-ḏātihi)164. Ma il significato delle nostre parole, che Egli possiede l’esistenza a causa della Sua Essenza, indica qualcosa di cui non sappiamo il senso reale (ḥaqīqa), e la Sua realtà non è l’esistenza stessa, e non è una qualsiasi delle essenze, poiché per le essenze l’esistenza è estrinseca

re, che fino ad oggi, è stato intravisto nell’allievo Bahmanyār. La datazione di quest’opera risalirebbe, secondo Jules Janssens, approssimativamente tra il 1027 e il 1030. Il soggetto della discussione in questo passaggio del testo affronta una problematica fondamentale: la questione della conoscenza dei particolari da parte di Dio. Viene affermato con insistenza che, se Dio, in quanto atto puro, ha nella sua conoscenza creatrice accesso agli intelligibili puri, la conoscenza umana di contro, a causa del suo limite fondamentale, non può cogliere la vera essenza pura delle cose, e quindi tanto meno di Dio [pp. 30-38]. Inoltre, benché nel sistema avicenniano la creazione sia fondamentalmente mediata, nulla sfugge, neppure nei minimi particolari, alla conoscenza divina. La creazione si realizza secondo un ordine universale che è un concomitante dell’essenza divina e che quindi, in quanto tale, è inaccessibile all’uomo. Di conseguenza, quest’ordine universale del creato che implica un’infinità di relazioni, non può essere conosciuto che da Colui che lo percepisce intensamente in atto, cioè da Dio, che è intelletto puro e semplice. Cfr. J. Janssens, «Les Ta‘liqāt d’Ibn Sīnā. Essai de structuration et de datation», in A. De Libera – A. Elamrani-Jamal – A. Galonnier (eds.), Langages et philosophie. Hommage à Jean Jolivet, Vrin, Paris 1997, pp. 109-122. 163 Perché se non conosciamo la Sua natura o realtà, cioè la Sua «essenza», che cosa Egli è e in senso reale, non possiamo a rigore affermare su questa base che l’esistenza vi sia implicata, ma solo che è sempre con Lui e che non è un accidente. La sua necessità d’essere consegue al non poter farNe a meno rispetto a tutti gli altri enti. 164 E dal momento che l’esistenza è un concomitante, si tratta di un concomitante essenziale e necessario. Ma ciò non ci dice altro in merito alla Sua Essenza come tale.

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(ḫāriǧ) alle loro realtà165. Cioè166, nella Sua Essenza (ḏāt) risiede la causa dell’esistenza. Ossia, o l’esistenza rientra nella Sua definizione nel modo in cui il genere e la differenza specifica rientrano nella definizione degli [enti] semplici, nella misura in cui queste due cose167 sono assegnate ad essi [enti] dall’intelletto168, cosicché l’esistenza è una parte della Sua definizione, non della Sua realtà, così come il genere e la differenza specifica sono parti delle definizioni degli esseri semplici, non delle loro essenze (ḏawāt)169; oppure Egli possiede una realtà al di sopra dell’esistenza e l’esistenza è uno dei concomitanti di quella»170. Poi stabilì questo concetto in un altro modo ancora, dichiarando: «Per l’uomo è assolutamente impossibile conoscere l’intera realtà di qualcosa, perché il principio (mabda’)171 della conoscenza delle cose è la percezione sensibile. [Avviene] poi [che] egli discerne tramite l’intelletto, tra [le cose tra loro] non chiaramente distinguibili (mutašābihāt)172 e le [cose tra loro] chiaramente distinguibili (mutabāyyināt), ed in quel caso conosce, attraverso l’intelletto, alcuni concomitanti della cosa, le sue attività (af‘āl), le sue influenze (ta’ṯīrāt) e le sue proprietà (ḫawāṣṣ). Cosicché egli si avvi-

Per qualsiasi essenza (quidditas) l’esistenza è estrinseca, cioè non è direttamente implicata nella sua realtà ontologica. 166 Oppure: «nel Suo caso» (wa huwa). 167 Genere e differenza. 168 Assegnate, oppure «prestabilite» (‘alà ḥasab mā yafruduhumā lahā al‘aql). Nella definizione, a rigore, c’è sempre un genere e una differenza specifica (altrimenti è una descrizione, rasm). Anche se l’essenza non è nota, comunque una sua definizione dipenderebbe da tali due cose. Ciò implicherebbe un genere per l’essenza del Primo, e una conseguente possibile molteplicità di enti da cui il Primo si distinguerebbe. 169 Cioè di loro stessi. Genere e differenza servono solo a definirli, non ne fanno parte realmente. 170 Cfr. Ibn Sīnā, al-Ta‘līqāt, op. cit., p. 35, [6-14]. Se non si può usare la Sua esistenza per definirne il genere, vuol dire che non rientra di per sé nel Suo essere ontologicamente inteso (ḥaqīqa), ed Egli quindi deve avere una realtà ontologica valida di per sé indipendentemente dall’esistenza. 171 Punto di partenza. 172 Confuse. 165

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cina gradualmente da quello173 alla sua conoscenza174 (53) con una conoscenza generica non certa175, e di solito conosce solo una piccola parte dei suoi concomitanti. Ed anche se allora si asserisse che egli ne abbia conosciuto la maggior parte, [concediamolo pure], senonché ciò176 non comporta che conosca tutti i suoi concomitanti. Se egli avesse conosciuto la realtà della cosa, successivamente discendendo dalla conoscenza della sua realtà [a quella dei] suoi concomitanti e [delle] sue proprietà, di necessità conoscerebbe i suoi concomitanti e le sue proprietà totalmente. Ma la sua conoscenza [funziona] al contrario rispetto a come le sarebbe necessario essere»177.

La cosa percepita, o già parzialmente elaborata. Oppure: da tale situazione. Della cosa, oppure sua, intendendo il suo conoscere e sottintendendo la cosa conosciuta. 175 Una conoscenza sommaria, imprecisa, almeno in parte, e incerta, non solida. 176 Cioè il modo stesso in cui avviene tale conoscere implica che non si possa dire di conoscere tutti i concomitanti. 177 Cfr. Ibn Sīnā, al-Ta‘līqāt, op. cit., p. 82, [8-14]. La conoscenza e la potenza di Dio non possono essere comparate in nessun modo con quelle dell’uomo. Ciò è illustrato innanzitutto a proposito della conoscenza. Se questa nell’uomo si rivela fondamentalmente discorsiva e passiva, perché messa sempre in relazione con qualcosa, in Dio si presenta al contrario come istantanea e attiva, perché fonte delle cause. D’altra parte, secondo Ibn Sīnā, l’anima umana in questa vita terrestre non può raggiungere la vera conoscenza intellettuale che grazie ad un’illuminazione da parte dell’Intelletto agente [p. 67]. Qūnawī conosce bene le teorie avicenniane e le seleziona a suo piacimento. Difatti, in sintesi, l’anima umana per Ibn Sīnā è il ricettacolo delle forme intelligibili. L’Intelletto agente infonde e imprime le forme nell’anima, ma non come una sorta di apporto del tutto estrinseco, ma in un modo tale che permette all’anima di vederle tali come esistono realmente nell’Intelletto agente. L’anima con le forme riceve la luce, vedendo nello specchio di se stessa gli intelligibili luminosi. Essa in qualche modo partecipa così della visione che ne ha l’Intelletto agente: la conoscenza sensibile dunque non è che il pretesto per l’anima umana di volgersi verso la luce che proviene dal Donatore delle forme (wāhib al-ṣuwar) e dunque verso gli intelligibili. Partecipando a questa conoscenza, l’intelletto umano purificato diverrà atto, come ogni sostanza intelligibile, a ricevere le irradiazioni dell’Essere primo. Le anime di chi desidera ascendere, o dei profeti, trascendono il mondo sub-lunare e ricevono le luci infuse dal mondo dei puri intelligibili. L’illuminazione verrà ora dall’Intelletto universale e non dal solo Intelletto agente dell’ultima sfera. È in questo che differisce la conoscenza mistica da quella degli uomini comuni che non si preoccupano di questo mondo intelligibile di sostanze separate e ne prendono conoscenza attraverso «coloro che sanno», rimanendo limitati alle forme universali del 173 174

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Noi dichiariamo: tra ciò che l’esperienza diretta che è concessa alla Gente del Vero da parte Sua comporta [vi è il fatto] che il punto di partenza della loro conoscenza è la conoscenza del Vero, tramite il Vero e non tramite le loro facoltà e intelletti. Allora, se conoscono il Vero grazie al Vero, in seguito a ciò conoscono le loro anime grazie al Vero, secondo quanto hanno conosciuto per Suo tramite. Poi conoscono ciò che il Vero vuol far loro vedere, in un sol colpo oppure gradualmente. Perciò secondo noi è impossibile che qualcuno conosca la realtà di una cosa, finché non conosce il Vero. E il Vero in ogni essere determinato, in termini di intelletto o di mente o di senso, è non determinato, né mescolato [con esso], né assimilato [ad esso], né lontano, salvo in quanto la Sua Realtà si distingue da ogni cosa, per quanto abbiamo menzionato e per altre cose note ai realizzati, in modo sintetico. (54) Abbiamo già ricordato in precedenza, in termini allusivi, nella premessa, che la determinazione del Vero – sia che si sostenga che la Sua esistenza sia aggiunta alla Sua realtà, sia che la Sua esistenza sia identica ad essa – nell’intendimento di ogni essere intelligente non può corrispondere a come il Vero è in Se stesso, né alla Sua determinazione per Se stesso178, per il fatto che Egli si distingue da altro da Sé, qualora la Sua conoscenza di Se stesso lo richieda, intendo cioè il distinguersi (imtiyāz)179. E se questo

mondo sensibile. Cfr. Gardet, La connaissance mystique chez Ibn Sīnā, pp. 200-207. Riguardo alla citazione dei vari passaggi delle Ta‘līqāt, un dato ci appare particolarmente interessante a riprova della effettiva importanza attribuito a questo testo. Mullā Ṣadrā al-Širāzī (979 o 980 h./1571-72 d. C.) continuatore della dottrina di Qūnawī nella linea di pensiero ibnarabiano, nella sua opera al-ḥikma al-muta‘āliyya fī’l-asfār al-‘aqliyya al-arba‘a (La sapienza trascendente sui quattro viaggi dell’intelletto), cita in maniera sistematica diversi passagi delle Ta‘līqāt dimostrando di ben padroneggiare quest’opera. Da un ulteriore studio condotto da Jules Janssens a riguardo, è curioso notare come alcune questioni sollevate da Qūnawī vengano riproposte da Mullā Ṣadrā; nello specifico: cosa l’uomo può conoscere esattamente e il ben noto adagio «dall’Uno non procede che uno». Cfr. J. Janssens, «Mullā Sadrā’s Use of Ibn Sīnā’s Ta‘līqāt in the Asfār», Journal of Islamic Studies, 13 (2002) 1-13. 178 Presso di Sé (‘indahu), cioè nella Sua Scienza di Sé. 179 Cioè, non è detto che il Suo conoscersi, nel senso della Sua determinazione entro la Sua conoscenza, implichi un Suo distinguersi da altro, cosa che invece risulta nel caso del nostro conoscere in forma determinata e distintiva una certa cosa.

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tipo d’intendimento non è conforme alla cosa così come essa è, allora ogni giudizio che da questo intendimento dipende – e si pone in relazione al Vero negativamente o affermativamente – è in relazione solamente con tale intendimento e determinazione individuantesi nella concezione dell’essere razionale. Non è affermabile per il Vero quanto alla Sua Scienza di Se stesso, e non Gli è negabile, senza questa considerazione, perché non vi è corrispondenza, perciò non c’è conoscenza, né quindi giudizio che per l’intelletto si addica al Vero, sotto questo aspetto180. In tal caso, allora, tanto dal discorso di chi sostiene che l’esistenza del Vero sia identica alla Sua realtà, quanto dal discorso di chi sostiene che la Sua esistenza faccia parte dei concomitanti della Sua realtà, da entrambe le cose non si ottiene una verifica, perché ciascuna delle due cose è, nella sua formulazione, incompleta. [Seconda questione] Le essenze (māhiyyāt) possibili181 sono «fatte»182 (maǧ‘ūla) o sono «non fatte»? E secondo (55) entrambe le ipotesi, esse sono – rispetto al loro essere essenze e basta – entità esistenziali (umūr wuǧūdiyya), nel senso che hanno una sorta di esistenza, o sono entità non esistenti (umūr ‘adamiyya)? Se fossero «non fatte», non potrebbero essere esistenziali, perché ciò comporterebbe la loro equivalenza col Necessario nella necessità dell’esistenza essenziale e nella purezza dell’unità essenziale183, e non sarebbero in tal caso possibili ma necessari, perché mancherebbe loro l’attributo della possibilità e la povertà [ontologica] che implica l’acquisizione dell’esistenza da altro184. Inoltre il loro assumere l’attributo dell’esistenza in un secondo momento – se fosse della stessa prima esistenza – sarebbe un’attualizzazione

Che sia valido per Lui. Che possono essere, esistere; o «degli esseri possibili». 182 Prodotte, realizzate. 183 Perché per essere necessarie non devono essere essenzialmente complesse. 184 Anche in questa seconda domanda Qūnawī inizia ad analizzare le varie possibilità: 1) se le quiddità sono «non fatte», non possono essere cose in sé; equivarrebbero all’Essere Necessario e non sarebbero allora più «possibili» ma «necessarie». 180 181

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di un oggetto già in atto (kāna taḥṣīlan lil-ḥāṣil)185; e se fosse di una seconda esistenza, diversa dalla prima – anche questo non sarebbe valido, perché per ipotesi si assume che gli esseri possibili non hanno che un’unica esistenza, cui tutti partecipano. Infatti l’essere possibile diviene perfetto solo grazie all’esistenza ricevuta dal[l’Essere] Necessario. Ipotizzando la validità di quanto detto, ne consegue che tutti i possibili sarebbero trasferiti dallo status della necessità allo status della possibilità, e dall’essenziale indipendenza eterna a parte ante (azaliyy) alla posizione dell’essere «avventizio» (maqām al-ḥidṯān)186. E non sfugge [ad alcuno] che la perfezione collegata al primo status sia migliore, perché è il modo d’essere del Vero – a Lui la lode – ed è a Lui propria. Assumendo la validità di quanto menzionato ne conseguono inoltre altri vizi (mafāsid), diversi da quanto da noi riferito, che non sono nascosti agli osservatori perspicaci (mustabṣirūn). Tra questi vi è il fatto che se l’esistenza non fosse unica e comune, e si sostenesse che ad ogni possibile appartengono due esistenze realmente differenti (56), si dovrebbe senza scampo spiegare la differenza tra le due esistenze e specificare l’utilità risultante da ognuna delle due.

185 In questo caso queste realtà sarebbero instaurate nell’essere dalla pre-eternità e sarebbero di già esistenti ancor prima che l’esistenza non le qualifichi con l’essere. Si verificherebbe allora «l’attualizzazione di un di già esistente», cioè due realtà d’essere distinte. Qūnawī evidenzierà questa contraddizione subito di seguito affermando che se vi fossero due sorte di essere, bisognerebbe chiedersi qual è la differenza tra le due e qual è l’effettiva utilità del loro raddoppiarsi. L’essere è bensì unico e prende la sua causa dall’Essere divino. Qūnawī proprio a seguito di questa seconda questione tratterà dell’essere generale e comune a tutti gli esistenti. Nel Miftāḥ al-Ġayb, in un paragrafo in cui si disserta sulla questione che un oggetto metafisico (šay’) produce una cosa a lui simile sotto tutti gli aspetti, l’autore afferma: «Una cosa non può produrre né manifestare una cosa che gli sia simile in tutto, a meno che l’esistenza di questa cosa non sia già manifestata e che essa non sia stata attualizzata in una sola e stessa realtà, a uno stesso grado e a una stessa maniera due volte di seguito. Ciò sarebbe allora “un’attualizzazione di un oggetto già in atto” (taḥṣīl alḥāṣil) e ciò è assurdo, privo di interesse e perfettamente futile. Ora, l’Agente divino è ben al di sopra di ciò». Cfr. Qonyawī, La clef du monde suprasensible, op. cit., pp. 113-114. [Traduzione mia]. 186 Dell’essere originati. A causa dell’assumere l’esistenza, nel problematico o assurdo, contraddittorio, modo indicato.

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Poi dichiariamo: se si asserisse che le essenze sono «fatte» e non sono «entità esistenziali», ne conseguirebbe che il Vero sarebbe principio di «nullità» senza fine, e che Egli – a Lui la lode – sarebbe la Causa del distinguersi di ognuna di esse dall’altra, e il risultato del Suo effetto sarebbe una «non-cosa» similare187. È impossibile infatti che proprio essa188 sia, nello stato della sua inesistenza, la causa del loro distinguersi tra di esse, perché comporterebbe che ciò che non esiste avrebbe effetto su ciò che non esiste189. Se poi il loro reciproco distinguersi fosse «non fatto» – nel senso che non sarebbe il Vero a determinare la distinzione, e neppure esse, perché inesistenti e quindi ininfluenti, altrimenti qualcosa che, in un senso, è del tutto privo d’esistenza sarebbe molteplice ma senza motivo190 – allora il moltiplicarsi, che in qualche modo ontologicamente sussiste, sarebbe attributo di ciò che è privo d’esistenza. Anche questo è impossibile. E se si sostiene che sono «fatte» e «possiedono un certo essere»191, ne consegue ciò che abbiamo già espresso a proposito delle due differenti esistenze e del [bisogno di] spiegare la differenza tra le due e specificare l’utilità che deriva da ognuna (57) di esse. E non c’è in tal contesto una terza entità oltre al Vero e agli esseri possibili cui attribuire l’effetto. Allora come stanno le cose? Poi dichiariamo: quel che si ricava dalla visione certa e dal gusto valido è che le essenze sono «non fatte» e che esse hanno una sorta di esistenza, e questa, considerando la loro determinazione nella Scienza del Vero, eterna da sempre e per sempre, è unica (‘alà watīra wāḥida)192. Ma questo

187 Seconda possibilità: le essenze sono fatte e non sono «cose in sé». Il Vero sarebbe allora principio del nulla. 188 L’essenza della distinzione. 189 E quindi la ragione della distinzione sarebbe soltanto il Vero, unico esistente e che può avere effetto, ma i mezzi o occasioni attraverso cui tale effetto si attuerebbe, continuerebbero a essere non esistenti, quindi di per sé «nulli». 190 Il motivo, o il determinante, infatti o è il Vero come tale, nel senso suddetto, o è qualcosa dal lato del conosciuto, ma tutto ciò si è supposto essere di valore nullo. 191 Terza ipotesi: se le essenze fossero fatte allo stesso modo delle cose che sono, allora ogni cosa possibile avrebbe bisogno di due tipi di essere diversi, quello intellettivo e quello concreto. 192 «In un senso, o modo, unico», cioè esistono nella Scienza in un solo modo, e questo tanto rispetto al loro essere che a quel che sono. È una situazione immutabile ed eterna.

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considerando la connessione della Scienza con esse e l’intendimento delle molteplici connessioni in funzione dei conoscibili, secondo un connettersi e un moltiplicarsi senza inizio (azaliyyan)193. Ciò perché la scienza di ogni conoscitore si connette con ogni oggetto conosciuto solamente per come quel tale oggetto è in se stesso. Infatti non può essere che un atto conoscitivo qualsiasi abbia effetto su un qualsiasi conoscibile, quello essendo un atto conoscitivo e questo essendo un conoscibile. Se allora si giudica che l’effetto sussiste, ciò vale in un altro senso, perché noi sappiamo che la Scienza del Vero, nella stazione della Sua unità esclusiva194, è identica alla Sua stessa Essenza (‘ayn ḏātihi): là non c’è perciò alcuna molteplicità, eccetto se si considerano le connessioni (ta‘alluqāt). Questo nonostante il Vero sia agente per Essenza195. Tuttavia non se si considera la determinazione del «rapporto della scienza» in quanto distinta dall’Essenza e connessa con un conoscibile o conoscibili diversi quanto a realtà [proprie]196.

193

Qūnawī tira le somme: la contemplazione e l’esperienza mistica confermano che le quiddità sono non fatte, ma ad esse si avvicina una specie di essere, cioè sono dei rapporti e delle relazioni di conoscenza dell’Essere divino e come tali verranno individuate nel sapere di Dio allo stesso modo in cui vengono individuate in eterno. 194 Maqām aḥadiyyatihi, la stazione dell’Unità esclusiva indica nello schema classico della scuola akbariana uno dei gradi delle cosiddette cinque Presenze; nello specifico si tratta dello stato di pura non manifestazione (al-ġayb al-muṭlaq) proprio dell’Essenza cui seguiranno: la Presenza dell’unità inclusiva (wāḥidiyya) che corrisponde alla prima determinazione ontologica dell’Essere necessario (al-wāǧib al-wuǧūd) e che include il grado delle essenze immutabili (al-a‘yān al-ṯābita) racchiuse nella Scienza divina (alḥaḍra al-‘ilmiyya). Segue ancora il primo grado ontologico della manifestazione che è la Presenza del dominio sopraformale (al-ǧabarūt) e che corrisponde al mondo dei puri spiriti (‘ālam al-arwāḥ al-muǧarrada). Quindi il grado della manifestazione sottile che è la Presenza del Malakūt e che corrisponde al mondo delle immagini archetipali (‘ālam al-amṯāl). Infine il grado della manifestazione grossolana che è la Presenza del Mulk e che corrisponde al mondo dei corpi (‘ālam al-aǧsām). 195 Ma anche la natura agente dell’Essenza per esprimersi richiede connessioni. Non agisce, non ha influenza, su Se stessa, perché l’effetto d’una eventualità del genere sarebbe il Suo mutare. 196 Il riferimento qui è alle a‘yān ṯābita. Riportiamo per riprendere l’argomento già esplicitato nell’introduzione, una spiegazione di Michel Chodkiewicz che afferma che la nozione chiave di ṯubūt (immutabilità) «dans le lexique technique akbarien désigne l’état des a‘yân thâbita, des “haeccéités éternelles”. Les thubût, c’est le

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Secondo noi dall’esistenza che si acquisisce dal Vero, il Datore di esistenza197, ciò che risulta è la determinazione dei conoscibili – non esistenti in rapporto ad essi [stessi] – quali entità esistenziali, non in rapporto alla Scienza appartenente al Datore di esistenza, bensì secondo loro stessi, per ciò che ognuno di essi, grazie alla sua predisposizione universale «increata»198, riceve dall’assoluto dell’esistenza (muṭlaq alwuǧūd)199, che effonde200 [come] unica, (58) e si specifica e moltiplica attraverso le loro ricettività differenti a causa delle loro predisposizioni divergenti. E quelle ricettività, per via di quelle predisposizioni universali, sono determinate dalle peculiarità delle essenze. Queste particolarità non si spiegano eziologicamente con qualcosa di estrinseco a loro201, perché le essenze, come abbiamo già detto, sono «non fatte», e le loro

mode de présence des possibles dans la science divine. Ils n’«existent» pas : ils ne sont réels que pour Dieu, pas pour eux-mêmes (mawjûda li-Lâh ghayru mawjûda li-anfusiha). Mais ils ont une prédisposition (isti‘dâd) à étre “revêtus” de l’existence. La présence de ces possibles – de ces “choses” – dans la science divine est éternelle comme cette science elle-même car Dieu n’est pas “devenu” Al-‘Alîm, le Savant; Il est de tout éternité et à jamais». Esiste un grado ontologico, quello della aḥadiyya, della pura Unità dell’essenza assolutamente indeterminata. «Du point de vue de ce degré les “choses” ne sont rien, et c’est donc ex nihilo qu’elles ont été existenciées. C’est au degré ontologiquement postérieur (et sans qu’il y ait de l’un à l’autre, un ordre de succession temporel), celui de la wâḥidiyya ou waḥdâniyya (l’Unicité), qu’apparaissent, sous l’effet de l’“effusion sanctissime” (al-fayd al-aqdas), ces déterminations ad intra que sont les Noms divins et les a‘yân thâbita qui, en puissance en acte, en vertu de “l’effusion sainte” (al-fayd al-muqaddas), sont les théâtres puis de leurs épiphanies. [...] Les choses ne savent – en tant qu’a‘âyn thâbita – ni qu’elles sont éternellement, ni même qu’elles sont. De toute éternité objets de la science de Dieu, elles ne deviennent sujets et n’ont conscience d’être qu’à partir du kun qui les existencie». Cfr. Ibn ‘Arabī, Les Illuminations de la Mecque, Anthologie présentée par M. Chodkiewicz, Albin Michel, Paris 1988, pp. 32-35. 197 Siamo qui allora al livello dell’«effusione santa» (al-fayḍ al-muqaddas), non a quello dell’«effusione più santa» (al-fayḍ al-aqdas), che fonda le possibilità come divini conoscibili, esistenti, o piuttosto sussistenti, per Lui, non per loro stessi. 198 Letteralmente «non fatta». 199 L’esistenza nel suo senso assoluto, indeterminato, non l’esistenza assoluta, se si vuol distinguere, poiché essa è, o è propria del Vero. 200 Promanante, effondentesi. 201 Di estrinseco alle essenze stesse.

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peculiarità le seguono quanto al loro essere «non fatte»202, perché esse sono loro essenziali203. Nel novero delle determinazioni d’essere (aḥkām)204 di queste peculiarità vi è la precedenza di alcune possibilità rispetto ad altre nell’esistenza, la loro prevalenza sulle altre per molte cose, la loro ricezione dell’Effusione e il loro manifestarsi grazie ad essa in un modo più completo rispetto alla ricezione da parte di altre. Con ciò si spiegano le parole del maestro principe [Avicenna]: «Il moltiplicarsi (tadā’uf)205 degli aspetti della possibilità e della sua potenza (quwwa) in rapporto ad alcune possibilità d’essere è implicato nel ritardo della loro esistenza e della loro ricezione di essa dal Datore di esistenza non in modo completo, e il non moltiplicarsi degli aspetti della possibilità per il ridotto numero degli intermedi206 e la loro rimozione è implicato nel contrario di ciò»207. L’ordinamento che si intende [razionalmente] nelle possibilità d’essere, in termini di precedenza (taqaddum) e posteriorità (ta’aḫḫur)208, nobiltà e viltà, dell’insieme di stati necessari a quelle peculiarità, riguarda il loro essere «non fatte»209. Infatti ogni essenza ha una peculiarità che la contraddistingue, e pure dei concomitanti e delle proprietà che la seguono210 nella mani-

202 Cioè, essendo tali essenze «non fatte», chiaramente le loro peculiarità sono «non fatte». 203 Ovvero sono caratteristiche essenziali, intrinseche, costitutive dell’essenza, o ad essa essenzialmente collegate. 204 O caratteristiche ontologiche. Anche giudizi, possibili predicazioni, virtù collegate. 205 O semplicemente: l’aumento. 206 Cause seconde o passaggi intermedi. 207 Si può interpretare: non è detto che questo moltiplicarsi, queste possibilità molteplici, siano presenti in atto, ma è sufficiente che ve ne sia la potenzialità. Più la cosa è prossima alla sua prima causa, più il suo modo d’essere è ontologicamente univoco, fino all’estremo che «dall’Uno non procede che uno» (secondo un singolo aspetto preso in considerazione). Tuttavia ciò non esclude la potenza della molteplicità degli aspetti possibili, ma è a un grado diverso dalla potenza più prossima all’essere che si considera nell’altro caso. 208 Venir prima e venir dopo. 209 Cioè: essendo le essenze, e quindi le loro peculiarità, «non fatte», tali stati non dipendono da altro ma, pur non potendosi dire «caratteri essenziali», sono da ricollegare solo alle essenze, o specificamente alle loro peculiarità, come loro concomitanti. 210 La accompagnano.

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festazione tramite l’esistenza, e benché ogni suo concomitante abbia [per sé] un’essenza, tuttavia i concomitanti seguono le essenze, che stanno prima211. Nel novero delle informazioni utili incluse in questo principio di base vi è che esso rende noto come la causa della manifestazione (59) della realtà intellegibile denominata «tempo», e la causa della manifestazione degli enti temporali, sia questo ordinamento su cui si è richiamata l’attenzione212. Il richiedente ha proposto questa valutazione solo perché non è lontano e non è estraneo del tutto al metodo degli intelletti speculativi, anche se la sua comprensione di ciò non è giunta per via teoretica213. Nonostante ciò214, se qualche altra cosa fosse già chiara per la solida visione teoretica circa quanto menzionato, che essi215 [ci] facciano il dono di riportarla e di darne la prova, da persone utili e da ricompensare, se Dio Altissimo vuole. [Terza questione] Quel che viene chiamato «esistenza generale comune» (al-wuǧūd al‘āmm al-muštarak)216 rispetto al suo essere solo un’esistenza e basta, è da annoverare tra i possibili oppure no? E nel caso sia un possibile, ha una realtà (ḥaqīqa) oltre al suo essere un’esistenza oppure no? Se ha una realtà oltre al suo essere un’esistenza, allo stesso tempo in cui si sostiene che esso è un’entità comune a tutti i possibili, noi dire-

Le essenze hanno logicamente e ontologicamente la priorità. Dal momento che si è parlato del «anteriorità » e del «posteriorità », con ciò che vi è connesso. 213 Il richiedente ha proposto questa questione e in questi termini solo perché ha a che fare con la filosofia e i suoi metodi, non perché abbia effettivamente bisogno di capirlo in questo modo, dal momento che ne ha avuto conoscenza per altra via. Ma ciò rientra nel progetto di unificazione delle vie conoscitive. 214 Cioè, posto questo, e in specie il fatto che la comprensione della cosa è già acquisita. 215 Coloro che l’hanno acquisito – o, al plurale, indirettamente il destinatario. 216 Come tradurre l’espressione al-wuǧūd al-‘amm: essere o esistenza universale? Bisogna difatti leggere l’espressione sotto un duplice aspetto: da una parte vi è l’Essere divino che si congiunge alle quiddità delle creature e si rivela in esse tramite esse; dall’altra l’Essere si identifica all’esistenza che si dispiega dal Respiro del Misericordioso sotto il velo cosmico della Nube rivestendo le quiddità delle creature del colore esistenziale. 211

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mo: allora o si considera quell’entità comune in quanto è un’esistenza, non guardando alla sua realtà, oppure la si considera con la sua realtà ad essa assommata. Se dunque si considerano la sua essenza e la sua esistenza essere incluse insieme nell’idea della comunanza217, allora ne consegue che qualche possibile – tenendo conto della sua essenza e della sua esistenza – debba essere un’entità comune a tutti i possibili218. Se non si considera la sua essenza sommata alla sua esistenza nell’idea della comunanza secondo il senso da noi detto219, ne consegue che la prima cosa a procedere dal Vero debba essere proprio quell’esistenza, non il Primo Intelletto220. Se [invece] non ha una realtà oltre al suo essere un’esistenza, ne consegue la contraddizione, perché il presupposto (60) è che le essenze sono «non fatte». E se questo «essere generale» non ha una realtà oltre al suo essere un’esistenza, la sua esistenza stessa dovrebbe di conseguenza essere la sua essenza stessa221. Ecco che allora non sarà un possibile, perché il possibile è ciò che è [essenzialmente] bisognoso222 del Necessario nell’acquisire la sua esistenza. Questo sarebbe [invece] «ricco» nella stabilità della sua esistenza per lui223, perché la sua esistenza sarebbe la sua stessa essenza, e le essenze sono «non fatte». Cosicché «l’essere generale», in base a questa ipotesi, è «non fatto». Ed esso perciò è indipendente224 per sua essenza (bi-ḏātihi) dall’Essere Necessario, mentre lo si è posto come un possibile. Questo è un contrasto. Inoltre, è difficile in questo caso stabilire con certezza ciò che distingue l’essere del Vero dall’essere generale, poiché la nozione relativa allo statuto della possibilità, come la comprende la Nobile scienza, è l’equi-

Cioè che questo fatto di «essere comune» riguardi entrambe le cose. Sarebbe uno dei possibili, ed esisterebbe allo stesso modo di tutti, ma risulterebbe, per qualche ragione e proprio nel suo esistere, comune a tutti. 219 Cioè solo in quanto essenza possibile. 220 Difatti costituirebbe l’essere comune di tutti i possibili nel loro esistere, e quindi anche del Primo Intelletto, precedendolo nel ricevere l’essere. 221 Coinciderebbero, o sarebbero identici, la sua esistenza e la sua essenza. 222 Ontologicamente povero. Dipendente. 223 Non ontologicamente bisognoso, nel suo possesso stabile dell’esistenza (fī ṯubūt wuǧūdihi lahu). 224 Si propone di leggere mustaġīn (può fare a meno di) e non musta‘n (probabile errore di stampa). 217 218

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valenza tra l’accogliere la manifestazione da parte del possibile tramite l’Essere, e la non manifestazione e il suo bisogno di ciò che lo qualifica. Questo senso, supponendo valido quanto detto, non si addice all’essere generale, poiché il suo essere un’esistenza semplice è un suo carattere essenziale (ḏātiyy)225, ed è indipendente – circa il sussistere stabile per lui della sua esistenza – da ciò che non è lui, perché è un’esistenza «non fatta». E non è un possibile bensì un necessario. Ne consegue inoltre che là226 non vi sarà un’esistenza che si effonde dal Vero, perché questo essere, di cui si è menzionato lo status secondo quest’ipotesi, è «non fatto» per quel che si è già spiegato227. Ed allora il suo essere «accidentale» per altri228 è un suo attributo essenziale «non fatto», perché esso per la sua essenza (ḏāt) richiederà il «sopravvenire», ed esso quindi non è effuso (mufād) da altri. (61) Si può controbattere che la causa dell’accidentalità dei possibili sia il Vero; non è che l’essere generale, anche se è «non fatto», richiede per la sua essenza (ḏāt) di essere accidentale per una cosa. Noi rispondiamo: non accettiamo che possa essere così, perché ne conseguirebbe che il risultato dell’effusione del Vero e il suo Effetto (aṯar) nei possibili sarebbe un certa accidentalità, che è «non fatta»229, ad ogni cosa che è «non fatta», e nient’altro230. L’accidentalità è una relazione (nisba)231 ed il realizzarsi di ogni relazione dipende dai due termini della relazione232.

Costitutivo. In quel caso. 227 Non c’è quindi bisogno di un’effusione perché esso sia, quindi non ha senso postularla. 228 Il suo «sopraggiungere» o sopravvenire ad altri per il suo essere comune. 229 Perché insito nell’essenza dell’esistenza comune, per il suo essere comune. 230 Si potrebbe supporre un errore e leggere: ‘uruḍu mā laysa bi-maǧ‘ūl li-kulli mā laysa bi-maǧ‘ūl, il sopravvenire di qualcosa di non fatto a ogni cosa che è non fatta. In questo caso resterebbe in piedi la sua possibilità, ognuna delle due parti stando di per sé per conto proprio. Idealmente sarebbe possibile consideralo, ma allora come giustificare il fatto che quell’essere sarebbe di per sé comune? La sua essenza sarebbe dipendente da qualcosa che non sussisterebbe effettivamente senza di lui. In effetti il «sopravvenire» è un’attitudine, rispetto all’effettivo intercedere di tale relazione, di cui si parla appresso. 231 Un rapporto o modo di essere rispetto ad altro. 232 Letteralmente: da ciò che si mette in relazione e ciò con cui si mette in relazione. 225 226

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Se le cose stessero in quel modo, ne conseguirebbe l’incapacità di attuare da sé, da parte del Necessario, l’atto che dà esistenza, e [infine] la sua inutilità233. Ne conseguirebbe inoltre in tal caso che dal Vero non procederebbe assolutamente né essere comune né effusione, cosicché il Vero non sarebbe principio dell’esistenza di alcuna cosa né sua causa. E ciò è falso234. Nel caso in cui sia supposto valido quanto sostenuto da chi propone che l’esistenza del Vero sia un attributo del Suo «essere» (anniyya)235 e che Egli – a Lui la lode – abbia una realtà celata dietro all’esistenza unica, la cosa è parimenti difficile, perché in tal caso ne consegue che «l’essere comune» debba essere molto più semplice236 del Vero e allo stesso tempo essere «equivalente»237 a Lui nelle (62) cose e nelle considerazioni citate. Tra i due ci sarà quindi comunanza da un lato e distinzione da un altro, e ciò per cui c’è la comunanza non sarà ciò per cui c’è la distinzione,

Wa annahu bāṭil, si può intendere: «e che è falso», vale a dire che non c’è. A questo punto nell’edizione critica, troviamo in nota questo paragrafo come un’aggiunta che è presente nell’edizione originale. Ne è data la versione integrale perché la forma del discorso appare diversa: «Se allora il suo essere “accidentale” per altri è una necessità (muqtaḍà) della sua essenza, ne consegue che è esso a effondere per sua essenza sulle essenze possibili, in maniera autonoma. In tal caso non sussiste il fatto che il Vero sia principio, né il Suo essere Colui che effonde, e il suo essere Colui che dona l’esistenza a ogni ente. Se la necessità della realtà dell’essere comune è l’essere “accidentale” a condizione [che vi sia] un agente diverso da lui e questo altro sia il Vero, ne consegue che il risultato dell’influenza del Vero sarebbero le congiunzioni dell’essere comune con le essenze, non il suo essere effuso né il suo dono, poiché non procede da Lui nulla, in base a questa ipotesi, eccetto le congiunzioni, essendo ciò una relazione, non un’entità ontologica (amr wuǧūdī). Perciò dal Vero non effonderebbe affatto un’esistenza. Ma è stata presupposta l’effusione dell’esistenza da Lui. Questo è un contrasto. Su questa base si distrugge il fondamento stabilito in questo capitolo e in questa questione ciò che essa contiene. Come stanno allora le cose?». 235 Una variante aggiunge: non Lui stesso (li-aniyyatihi lā nafsahu); o si deve intendere: non di Lui stesso. Anniyya in questo caso vale per l’essere effettivo rispetto all’essenza. L’essere effettivo è allora il fatto di presentarsi alla conoscenza, indipendentemente se ciò porti o meno a conoscere la natura vera di ciò che si presenta. 236 Atamm basāṭatan: di una semplicità più completa. La sua realtà, corrispondente in qualche modo alla sua nozione, che è unica, deve essere meno determinata per poter estendersi a più cose, valendo tanto per il Vero che per tutte le altre cose. 237 Deve rifletterLo, corrisponderGli, per quel che riguarda le questioni relative al Suo atto e al legame con le cose. 233 234

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conseguendone quindi che si debba intendere in entrambi una certa qual composizione238, mentre li abbiamo supposti essere entrambi semplici. Questo è un contrasto. Se si sostiene che [tale essere generale comune], pur non avendo una realtà oltre al suo essere un’esistenza, riceva in effetti dal Vero la Sua effusione [di esistenza], noi rispondiamo: se questa emanazione ricevuta fosse un’esistenza, si sosterrebbe allora l’acquisizione di ciò che esso già possiede, nel caso in cui la seconda esistenza fosse identica alla prima, mentre se sussistesse la diversità tra l’esistenza ricevuta e l’entità denominata «essere generale», ne risulterebbero due esistenze, una delle quali «fatta» e l’altra «non fatta». Quel che avrebbero in comune tutte le possibilità d’essere sarebbe o la prima o la seconda esistenza, oppure entrambe ad un tempo. Se fosse la prima non si potrebbe affatto considerare la seconda effusione esistenziale e non avrebbe alcun effetto. Ne conseguirebbe quanto abbiamo asserito, del fatto che ciò porta a concludere che non procede dal Vero alcuna cosa e manca del tutto l’attuarsi di un’effusione. Se fosse la seconda non si potrebbe affatto considerare la denominazione dell’essere generale, prima di ciò, quale «essere generale comune», e non avrebbe alcun valore, ma il suo statuto sarebbe quello [stesso] delle restanti essenze possibili, che ricevono l’effusione esistenziale dal Vero. Se [infine] l’atto produttivo dell’esistenza dipendesse dalle due cose ad un tempo, cioè (63) l’effusione esistenziale e il ricettacolo primo denominato «essere generale», ne conseguirebbe che quel che le possibilità d’essere avrebbero in comune non sarebbe un’esistenza unica, ma sarebbero due esistenze. Quindi sarebbe falso sostenere che l’esistenza che tutte le possibilità d’essere avrebbero in comune sia unica. Questo è un contrasto. Ne conseguirà inoltre che esso sarebbe parte in causa239 nell’assunzione, da parte di tutti i possibili, dell’attributo dell’esistenza, e il Datore d’esistenza non sarebbe perciò unico, in quanto la sussistenza della produzione e dell’effusione, che sono attribuiti al Vero, dipenderebbe da questa

238 Complessità presente sia nel Vero che nell’essere così concepito. Da un punto di vista logico perché si nega qualcosa da una parte che si afferma dall’altra; cioè vi è identità relativa o parziale. E da ciò l’idea di una certa qual complessità da entrambe le parti. Questo vorrebbe dire che anche l’esistenza qui considerata avrebbe una «realtà» per sé oltre al suo essere esistenza e basta. Perciò l’autore dice «più completamente semplice», usando una forma comparativa. 239 «Parte di una causa».

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entità denominata «l’essere generale». E quindi la sua essenza non avrebbe l’esistenza240 se non dipendendo la sua esistenza da entrambe. E anche questo è falso241. Dichiariamo poi ancora: o questa attribuzione [d’esistenza] che sussiste per tale «essere generale» gli vale per il suo essere un possibile, o per un’altra cosa. Non può essere che gli valga per il suo essere possibile, altrimenti tutti i possibili l’avrebbero in comune. Se gli valesse non per il suo essere possibile ma per un’altra cosa, quell’altra cosa o è il Vero o altri che Lui. Se è il Vero, è stabilito l’essere possibile di questo essere, la sua povertà ontologica e il suo «essere fatto» a differenza di tutte le essenze possibili, essendo già stato dichiarato che le essenze sono «non fatte»242. Anche questo, in base a questa ipotesi, è falso. Se allora si controbatte che tale cosa non vale per l’essere generale in ragione del Vero, e neppure sussiste per esso a causa del suo essere possibile, ma in ragione di una terza causa, noi rispondiamo: anche questo è falso, perché ciò che non è il Vero è un possibile. Ciò è incontestabile, causa i vizi che conseguono (64) quando si dimentica di tener fermo questo principio basilare, e per il fatto ché che non vi è terza causa al quale attribuire ciò. Se si asserisce che lo statuto ontologico dell’essere generale è giudicato essere quello [stesso] dei restanti universali e che, essendo così, esso non ha un’esistenza in se stesso – e come visto è corretto affermare che le essenze non sono entità esistenziali né «fatte», ma si manifestano tramite questo essere generale – allora ne consegue che, dall’unione di ciò che non sussiste per sé e non ha esistenza alcuna in se stesso, cioè l’essere generale, [da una parte] e delle essenze [dall’altra], si produce qualcosa che sussiste per sé, la cui esistenza e la cui percezione si attuano nelle entità reali243, e

Non sarebbe o non diverrebbe esistente. Tūǧadu può essere passivo della I forma del verbo (nel senso di «esistere») o della IV (nel senso di «esser fatto esistere»). 241 L’assurdità è quella dell’essere causa (o parte in questa) della propria esistenza, quindi non essendo. E quindi è anche assurdo che in questo modo possa essere parte in causa in generale dell’esistenza. 242 Cioè, se il suo essere è la sua esistenza (essendo unico il senso dell’essere), il fatto che come possibile riceva l’essere lo farebbe essere quello che è, quindi la sua essenza sarebbe «fatta». 243 Contrapposte a entità logiche, come sono in questo caso gli universali. 240

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che vi sia una determinazione dall’esterno per ogni [ente] dell’esistenza e per la sua essenza244. In tal caso, esse245 saranno due esistenze246, con l’assenza di una terza causa a cui ricondurre l’effetto salvo quello di essere la causa dell’unione. Ma abbiamo già presupposto il contrario di ciò. Come stanno allora le cose? Questo, anche se secondo noi ci sono cose di questo tipo, come la materia e la forma e pure le quattro qualità naturali che sono il caldo, il freddo, l’umido, il secco e la connessa natura che le raccoglie in sé. Infatti ognuna di queste cose non ha alcuna esistenza che sia determinata247 (65) all’ester-

Nell’esistenza esterna, non mentale. Tuttavia delle cose noi non conosciamo il loro essere oggettivo per sé, ma per noi. Quindi non possiamo che distinguere sempre tra il mero esserci e l’essere delle cose che diciamo esterne, perché il nostro contatto con le cose avviene attraverso i nostri mezzi conoscitivi, e infine il nostro intenderle. Su tale base, noi conosciamo effettivamente tali cose a partire dalla cosa reale. La determinazione dell’essenza è l’intelligibilità della cosa, il poter sapere che cosa è, la determinazione dell’esistenza è il suo mero esserci, sempre un’intelligibilità, il poter dire che è, e il fatto che questo è qualcosa di comune a tutte le cose di cui sì può dire che siano. Cosicché diviene una determinazione in senso separato. Che sia o meno ontologicamente un accidente comune, perché se si ammette che il mondo, nella sua totalità, esiste, l’esistenza che si attribuisce al mondo come totalità delle essenze esistenti che lo costituiscono, sarà intesa forse essere la stessa cosa delle esistenze delle singole cose? Se è una sorta di accidente comune, questa ne costituirà forse il genere? Ma se si deve intenderla in ogni caso sempre nello stesso senso, che tipo di genere sarà mai? Infine, visto che noi dobbiamo riferire l’essenza e l’esistenza a tale cosa reale che abbiamo dinanzi, e non possiamo riferirle qualcosa che per ipotesi non ha realtà per sé o non sussiste per sé, dobbiamo riferire ad essa un’esistenza che ne costituisca la realtà, di cui tale esistenza astratta sia l’idea, e avremo due esistenze, che noi facciamo coincidere logicamente (e così via), e lo stesso per l’essenza rispetto all’essere della cosa. 245 Esse due, l’essenza e l’esistenza di quell’individuo, ciascuna avente una sua determinazione. 246 Le dovremo riferire alla cosa. 247 O determinabile, per sé. Risiedono sempre in alio, e anche più d’una alla volta, nel caso delle qualità, o non si possono realmente intendere da sole, perché sono assieme costitutive dell’essere di qualche cosa, come la materia e la forma. Il fatto che l’essenza stia assieme all’esistenza a costituire un certo ente, perché quell’ente sia, richiede che abbiano entrambe una propria realtà. Quindi ci dev’essere un’essenza e ci deve essere un’esistenza. La materia e la forma sono aspetti di potenza e atto. La potenza è un non essere relativo, e l’atto ha priorità, la potenza essendoci in funzione di tale atto, benché sia posta prima in rapporto ad una perfezione finale. Il fatto è che 244

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no e tutti i corpi percepiti all’esterno derivano248 da queste idee (ma‘ānī), come indicherò a parte in un’altra questione, se Dio Altissimo vuole. [Quarta questione] Dall’Uno non si produce che uno249. Su questa questione si impiantano, in fatto di punti capitali, svariate questioni, come la questione delle intelligenze, della causa del loro ordine, della causa del prodursi della molteplicità dal Primo Intelletto, del quale si testimonia l’unicità, e si pongo-

queste cose noi le analizziamo e astraiamo a partire dagli enti reali (anche l’idea dell’esistenza), ma se vogliamo fare il percorso inverso per arrivare all’ente reale partendo dalle suddette idee puramente intelligibili, non possiamo farlo senza prima attribuire a tali idee una sussitenza da qualche parte, altrimenti non potremo mai arrivare ad una cosa reale. Dal punto di vista logico, non possiamo mai arrivare ad un ente reale a partire da idee astratte, salvo nella nostra intenzione di arrivarci, nel nostro intendere l’ente reale, che quindi deve essere precedente nella sua realtà complessiva, nell’unità esclusiva e irriducibile (aḥadiyya) della sua entità. 248 Si producono. 249 La domanda posta verte, anche in questo caso, sulla teoria dell’emanazione di Ibn Sīnā: poiché l’Essere Necessario o Primo Principio è assolutamente uno sotto ogni aspetto e dal momento in cui da una causa che è assolutamente una, può procedere o essere emanato un solo effetto, il primo effetto, o prima emanazione dell’Essere Necessario, deve essere numericamente uno. Ma la nota massima filosofica è citata anche da Ibn ‘Arabī divenendo occasione di polemica. Secondo lo šayḫ il senso attribuitole dai falāsifa è che Dio è la causa di ogni singolo effetto che da Lui procede, e che colui che avvia il processo è la causa del cosmo. Ma per Ibn ‘Arabī la creazione da parte del Reale (al-Ḥaqq) non può essere attribuita ad una causalità, al contrario la creazione è un dono gratuito di Dio verso le creature, l’inizio di un atto munifico. La questione rimanda al problema della causalità e della sua elaborazione nel pensiero islamico. Per un’analisi approfondita della tematica cfr. A. Smirnov «Causality and Islamic Thought», in E. Deutch – R. Bontekoe (eds.), A Companion to World Philosophies, Blackwell, Malden (Mass.) 1999, pp. 493-503; U. Rudolph, Occasionalismus. Theorien der Kausalität im arabisch-islamischen und im europäischen Denken, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2000; O. Lizzini, «Occasionalismo e causalità filosofica: la discussione della causalità in al-Ġazālī», Quaestio. Annuario di storia della metafisica. La causalità. Brepols, Turnhout–Bari 2002, pp. 155-183. Ma anche: W. C. Chittick, The Self-Disclosure of God. Principles of Ibn al-‘Arabī’s Cosmology, State University of New York Press, Albany 1998; D’Ancona, «Ex uno non fit nisi unum», pp. 29-55; Spallino, «Dall’Uno non procede che uno», pp. 425-443.

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no gli «aspetti» (i‘tibārāt)250 supposti esserci a suo riguardo quale causa oppure quale parte in causa251 del prodursi della molteplicità da lui, pur [i sostenitori di ciò] riconoscendo necessariamente che quegli «aspetti» non sono entità esistenziali (umūr wuǧūdiyya). Se essi non riconoscessero questo, sarebbero costretti ad ammettere esplicitamente (iqrār) che la molteplicità si produce [direttamente] dal Vero. Infatti quel che procede da Lui, secondo quest’ipotesi, è il Primo Intelletto e i suoi tre «aspetti»252. Oppure [dovrebbero] affermare che quegli «aspetti», pur non essendo entità esistenziali, devono necessariamente essere causa dell’esistenza della molteplicità. Tutto ciò è impossibile, questo e altro ancora degli argomenti inconsistenti contenuti in questa tesi. E allo stesso modo si tratterà la pretesa di chi propone la limitazione del numero degli intelletti a dieci253, e l’evidente debolezza della sua prete-

250 Così come sono posti qui, possono essere gli atti intellettivi specifici del Primo Intelletto. 251 «Parte della causa», causa parziale. 252 In base alla risposta che Ṭūsī riporterà, gli aspetti relativi al Primo Intelletto sarebbero quattro: la sua essenza, la sua esistenza, la sua conoscenza del Principio e la sua conoscenza di sé. Bisogna forse intendere questo «tre» come riferito cumulativamente: il suo considerare sé e il suo Principio sono due cose (se gli aspetti si intendono di valore ontologico), con l’intelletto stesso fanno tre. Dal contesto il Principio non va contato, perché si parla solo di ciò che procede. Il «tre», essendo in arabo in forma femminile, deve teoricamente accordarsi con un maschile, o con un insieme di cose in cui sia presente un maschile, quindi dovrebbe includere l’intelletto e non riferirsi solo agli aspetti (in arabo femminile). Tuttavia è una regola spesso non osservata. Inoltre se per gli «aspetti» si volessero intendere solo i due summenzionati, dovrebbe teoricamente essere al duale. La questione in questo caso non è comunque fondamentale. Si è scelto di riferire il «tre» agli aspetti. Forse bisogna intendere come «l’intelletto e i tre modi in cui esso si pone», cioè in quanto tale, e in quanto ha in sé due aspetti. 253 L’autore si riferisce ad alcuni filosofi e in modo particolare al processo di emanazione di al-Fārābī che assegna ad ogni sfera un intelletto ad essa corrispondente fino ad arrivare al numero di dieci. L’universo si presenta allora formato da una serie di sfere concentriche: a partire dal primo cielo seguono il cielo delle stelle fisse, quelli di Saturno, Giove, Marte, Sole Venere, Mercurio, e infine il cielo delle Luna. Il processo cosmologico verrà ripreso da Ibn Sīnā ed esplicitato nella suo al-Samā’ wa’l-‘ālam (Sul cielo ed il mondo) oltre che nella sua Metafisica (trattato IX): «Tuttavia, se per quanto riguarda le sfere [celesti] erranti il principio del movimento delle sfere (kurāt) di ogni pianeta è soltanto una potenza che fluisce (tafiḍu) dai pianeti, non è invero-

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sa (66) e il difetto di ciò che vi si inserisce con l’ottavo cielo, che include una grande molteplicità, nonostante sia dei cieli quello che ha il rapporto più stretto con il cielo al-Aṭlas254 e con gli enti non composti. Allo stesso modo, ancora, l’attestazione dello status della catena dell’ordine in cui si attua l’atto esistenziatore attraverso gli intermedi, e la negazione dell’efficacia del Vero sugli enti e del [Suo] sostenerli attraverso l’effusione esistenziatrice dell’essenza (al-fayḍ al-wuǧūdiyy al-ḏātiyy) senza la mediazione del Primo Intelletto. [Inoltre] la questione del connettersi della scienza che il Vero ha dei conoscibili in modo universale nella direzione dei concomitanti e dei concomitanti dei concomitanti255, e la negazione della sua connessione con i particolari.

simile che le [intelligenze] separate siano nel numero dei pianeti e non nel numero delle sfere (kurāt) e che il loro numero sia di dieci dopo il Primo: la prima di essa è l’intelligenza motrice che non si muove e la sua mozione è rivolta al corpo estremo; poi vi è quella che è il suo analogo per la sfera delle [stelle] fisse; poi quella che è il suo analogo per la sfera di Saturno e così via, fino a che non si ha termine nell’intelligenza che fluisce sulle nostre anime: essa è l’intelligenza del mondo terreno e noi la chiamiamo “intelligenza agente”. Se non fosse così, ma per ogni sfera (kura) in movimento vi fosse invece uno statuto per quanto riguarda il movimento di se stessa, e così per ogni pianeta, questi [principî] separati sarebbero in numero maggiore». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 921. La questione sul numero delle sfere fissato a dieci è ad esempio dibattuta da al-Rāzī, che nel suo Mabāḥit al-mašriqiyya pone una certa attenzione sul fatto che il numero sia dieci ed esprime la sua perplessità a riguardo. Perplessità legata all’osservazione che ogni stella possiede diverse orbite e così il numero degli intelletti potrebbe essere superiore a dieci; questa riflessione d’altronde era stata presentata nella sua esposizione anche da Ibn Sīnā. Cfr. Janssens, «Ibn Sīnā’s Impact on Faḫr adDīn ar-Rāzī’s», pp. 282-283. Riguardo alla rappresentazione del cosmo avicenniano si veda S. H. Nasr, An Introduction to Islamic Cosmological Doctrines. Conceptions of Nature and Methods Used for Its Study by the Iḫwān al-Safā’, al-Bīrūnī and Ibn Sīnā, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1964 [Revised ed. State University Press, 1993]. 254 Aṭlas è il nome attribuito alla sfera delle sfere detta anche il Trono. Nome in arabo tratto dalla mitologia greca che contempla il personaggio Atlante, il gigante che secondo Esiodo fu costretto da Zeus a tenere sulle spalle l’intera volta celeste. Atlante generò le Pleiadi. 255 In direzione, cioè il collegarsi della scienza con gli indefiniti concomitanti. La questione sollevata è quella della conoscenza che il Vero ha degli universali e dei particolari. Appare difficile raccogliere tutti i concomitanti in una unità mantenendoli nella loro effettività.

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[Quest’ultima cosa è] giudicata improbabile256 perché non si sa come collegare l’uno col molteplice senza minare l’unità dell’Unico. Essi inoltre misurano l’invisibile con il visibile pur non avendo argomenti validi al riguardo. Il richiedente ha già approfondito teoreticamente tutto ciò che è stato riferito nell’attestare queste tesi, ma non si è sentito sicuro257, nonostante tutti questi argomenti siano questioni preziosissime, dalla cui [piena] conoscenza dipende il conseguimento della felicità. Noi diciamo loro: non avete voi forse già riconosciuto che le essenze sono «non fatte» e non sono entità esistenziali, e che l’esistenza che tutte le essenze hanno in comune è unica, assieme alla constatazione258 che ciò che è denominato «mondo» (al-musammà ‘ālaman)259 non è un’entità che si aggiunge in più ad essenze che hanno assunto l’attributo di un’esistenza unica260, di cui partecipa l’intelletto261 e altro ancora? Allora perché non è possibile che quell’entità unica, (67) che procede dal Vero che è Uno, sia questo «essere generale comune», e vi rientri il Primo Intelletto e altro ancora? E che gli enti tutti quanti siano collegati al Vero [ma] non in ragione della catena menzionata, e le intelligenze e tutto ciò che si denomina «intermedio» siano condizioni presso262 le quali risulta l’atto esistenziatore? [E questo] tramite l’esistenza unica che si effonde dal Vero, la quale è la «misura comune» (al-qadar al-muštarak)263

Istib‘ādan: valutata come improbabile o impossibile. Il senso è di «stimare lontano». 257 Cioè: «di reggersi su una base solida» (yaqūm ‘alà sāq). 258 Taḥaqquq, cioè, sapendo bene allo stesso tempo. 259 Piuttosto che leggere ‘āliman, come sembra dal testo, cioè «conoscitore». 260 Dietro quest’asserzione si intravede una controversia precisa: Qūnawī contesta alla Gente della speculazione che il mondo non è una realtà seconda che si aggiunge all’essere, ma solo il processo di una manifestazione delle realtà divine sotto la modalità della creazione. Il mondo esistente non è dunque da considerarsi come qualcosa di altro rispetto alle essenze. I falāsifa hanno invece fatto del Primo Intelletto il primo emanato – teoria che Qūnawī rifiuta perché la Realtà metafisica primordiale che procede dall’Essere divino riunisce in un unico atto tutte le realtà del mondo – ivi compreso il Primo Intelletto. 261 Si dovrebbe qui intendere il Primo Intelletto. 262 In occasione. 263 L’Essere rimane «la misura comune» perché, essendo che gli enti sono la mera apparenza dell’auto-rivelazione divina, di conseguenza per quanto essi possano diffe256

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sotto certi aspetti, e che in quanto tale stabilisce il nesso tra il Vero e ciò che è altro da Lui264? Gli intermedi sarebbero perciò condizioni «complementari» alle predisposizioni delle essenze, essendo inevitabile che queste ultime possiedano due specie di predisposizione: una specie che precede l’esistenza ricevuta dal Datore dell’essere, e una specie che risulta dall’esistenza [ricevuta] in riferimento ai concomitanti di ogni singolo individuo delle essenze. Si tratta265 di predisposizioni esistenziali «create», a differenza della predisposizione prima universale attraverso la quale l’essenza ha in primis ricevuto l’esistenza dal Datore dell’essere, e che è infatti «increata». Cosicché gli intermedi sono dei «preparatori» (mu‘iddāt), nel senso che motivano il determinarsi delle predisposizioni particolari con la mediazione dell’esistenza, mentre è il Vero Colui che effonde [l’esistenza]. [Questo] analogamente a quel che hanno pensato per il caso delle cause inferiori, che [cioè] esse dispongono e l’[Intelletto] Agente effonde. Appare chiaro allora, a questo punto, che la connessione della Scienza divina con le cose è nel senso dell’universale e del distintivo insieme, dal lato dell’essere unico comune, e non dal lato delle cause e dei concomitanti, come è stato ricordato. E in tal caso non ne consegue ciò che essi hanno falsamente

rire per la loro natura determinata, è solo l’Essere che permane come misura di unità di tutti loro. 264 Il mondo non è dunque un qualcosa che si aggiunge a delle realtà conosciute da Dio pre-eternamente, e che sarebbero in un primo momento non-esistenti, e in un secondo tempo sarebbero qualificate dall’essere. I filosofi, accusa Qūnawī, non parlano dell’Essere universale e trasferiscono al Primo Intelletto la funzione mediatrice tra l’Uno e il molteplice, facendo di questo Primo Intelletto il Primo Emanato (al-Ṣādir al-awwal). Qūnawī d’altronde discutendo sulla natura dell’essere universale aveva già affermato: «La prima cosa a procedere dal Vero deve essere quell’essere e non il Primo Intelletto». Ciò in base al fatto che il Principio della manifestazione dev’essere rapportato all’«Essere Universale» che qualifica ogni quiddità del predicato dell’essere. Solo l’Essere divino è identico alla Sua quiddità perché in Lui essere e quiddità sono una sola e stessa cosa. Ciò non appartiene al Primo Intelletto che, essendo il Primo Esistenziato (awwal mawǧūd), riceve la sua quiddità dall’Essere Universale e non da se stesso. In un altro passaggio della corrispondenza, Qūnawī dichiara esplicitamente che il Primo Emanato è l’Essere universale e non il Primo Intelletto. 265 Nel caso di questa seconda specie.

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immaginato circa la lacuna266 ed il fatto che la scienza dei particolari dipenderebbe dagli strumenti [di conoscenza], poiché non hanno fondamento nel negare il connettersi della scienza con i particolari eccetto la mera valutazione di improbabilità e la mera analogia. Ciò è debole e falso, (68) perché costoro riconoscono che l’Essenza del Vero differisce da tutte le essenze (ḏawāt), e che la Sua scienza, come si è detto, è identica alla Sua Essenza267. Quindi conoscere la modalità della connessione della Sua scienza essenziale con i conoscibili è impossibile tramite la speculazione e l’analogia268. Ciò che è fornito dalla verifica attraverso il gusto intuitivo è che tutte le cose si collegano a Lui secondo due modalità differenti: secondo la modalità della catena dell’ordine ontologico, con il chiarimento menzionato, e anche secondo la modalità della rimozione degli intermediari269, poiché non c’è prova che il sostegno (madad)270 e l’effetto siano circoscritti entro la catena dell’ordine [ontologico]. Ciò è più adeguato alla perfezione del Vero e più conforme alla Sua incomparabilità271 – sia Egli esaltato. Infatti, essendo divenuto chiaro alla Gente della penetrazione attenta che non si possono intendere riguardo alla Dignità del Vero due lati differenti – perché è necessario riconoscere che

266 Ḫilal, la suddetta possibilità di «minare» – cioè di introdurre un difetto – nell’unità del Principio. 267 L’Essenza divina si identifica con la Sua causa, trae la Sua causa da se stessa. Questo è quello che Qūnawī denomina «lo stato incondizionato (lā bī-šarṭ) dell’Essenza», cioè dell’Essere Assoluto. Ciò non comporterà alcuna contraddizione tra la trascendenza, l’autonomia dell’Essere Assoluto e le cose che esso suscita nella Sua proiezione esistenziatrice. Sono invece le cose che avranno un loro stato condizionato (bī-šart), ben intendendo che questo stato di «privazione» non toccherà affatto l’oggetto metafisico nella Sua essenza, poiché si tratta sempre di una condizione che viene ad aggiungersi. Queste condizioni si aggiungono all’Essere divino solo per garantirne la Sua manifestazione ad un certo grado della realtà, cosa che altrimenti sarebbe impossibile. 268 La frase, pur inserita in base all’originale in un paragrafo successivo, è la conseguenza della frase precedente su Essenza e Scienza divine. 269 O strumenti. 270 Con il termine madad in questo contesto ci si riferisce ad una persona che sia fonte di influssi spirituali, di luci o di illuminazioni. Nel sufismo ad esempio questa persona può essere vivente o anche lo spirito di un defunto; i mistici nello specifico richiamano anche il sostegno protettivo del profeta Muḥammad in quanto è lui l’intercessore per antonomasia. 271 Tanzīh: eliminazione di ogni elemento antropomorfico dalla concezione di Dio.

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Egli è uno in tutti i sensi – bisogna che il Suo collegamento con ogni cosa sia in un unico senso. Essendo [poi] la molteplicità tra i concomitanti della possibilità e gli attributi del possibile, bisogna che il legame del possibile con il Vero sia in due sensi e che prevalga la molteplicità unicamente nel senso della possibilità. E specialmente nei riguardi di ogni possibile in cui si moltiplicano le determinazioni d’essere (aḥkām) della possibilità e le proprietà degli intermedi272. Bisogna inoltre che ogni possibile abbia un nesso comprovato con la realtà dell’Unità divina. Tale nesso è quello che richiede al Vero di dargli preponderanza rispetto ad altri nell’atto esistenziatore. E secondo (69) [tale rapporto], il legame [del possibile] con il suo Datore dell’essere vale in un senso diverso dall’altro [modo di rapportarsi], che è proprio della molteplicità e degli intermedi. Ed è ormai stabilito inoltre che, tra i possibili, colui sul cui stato prevale il carattere dell’unità e la debolezza dei caratteri della possibilità, certo riceve, per la sua predisposizione che prevale su quella di altri, l’esistenza effusa dal Vero con una ricezione più completa e precedente quella degli altri. E che l’attribuzione dell’esistenza e il carattere della necessità sono in lui più forti, tanto che non s’indebolisce e non si esaurisce la sua luminosità, sotto il governo degli intermedi e gli aspetti delle loro possibilità, sotto ogni aspetto, come è [invece] il caso della maggioranza [dei possibili]. Rimarrà perciò in lui, della virtù della predisposizione universale «increata» e delle sue predisposizioni distintive esistenziali273, ciò che gli permette di ricevere un’effusione dal Vero senza tramite, come l’ordine [divino] (alamr) nel caso del Primo Intelletto274.

Infatti nel caso del possibile che è rappresentato dal Primo Intelletto, il grado di molteplicità è minimo, e non vi sono intermedi effettivi. Non ci sarà spazio per un secondo aspetto, se non in senso potenziale, in rapporto cioè ai suoi possibili subordinati considerati presenti in lui in potenza. 273 Quelle «fatte», perché conseguenti al suo esistere e all’essere accompagnato da concomitanti. 274 Qūnawī insiste e precisa che gli esseri esistenti non sono Dio né si possono confondere con Lui perché sono per essenza dei «possibili», l’essere possibile è il loro statuto ontologico. I possibili non sono dunque puro nulla – che è invece ciò che non può essere – né essere puro – che è ciò che non può non essere. Essi sono da tutta l’eternità e per l’eternità tra il nulla e il puro essere, per cui propendono sia 272

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E ciò accade ad un gruppo della Gente di Dio: noi l’abbiamo visto di persona e lo abbiamo altresì realizzato – ringraziando Dio – da noi stessi e da altri. La Gente di Dio chiama quest’aspetto «il Volto particolare» (al-waǧh al-ḫāṣṣ)275, ed è concorde sulla sua permanente realtà, e secondo loro è quel che è veramente effettivo nei riguardi di tutte le creature, ma la maggioranza non lo conosce e non ne ha consapevolezza276. L’élite lo conosce, e ne coglie la traccia277, e la parte di ciò che a loro è toccata in sorte è abbondante e continua. Attraverso quello sono giunte tutte le Leggi278 e sono stati espressi i Libri Rivelati, ed esiste l’effettivo accordo tra tutti i profeti e i più perfetti (kummal) tra i santi sul fatto che

per un’esistenziazione che per una non esistenziazione; sarà il Kūn (Fiat) divino che imprimerà loro l’esistenza. L’Essere si dispiega tra gli esistenti tramite il Comando di Dio, il Suo Ordine (amr). 275 Anche l’espressione «Volto particolare» è prettamente akbariana. Ogni cosa creata possiede due volti: con un volto la cosa guarda le cause, con l’altro guarda al Reale. Le cause (o occasioni) sono degli intermediari (wasā’iṭ) tra le cose ed il Reale. Dal punto di vista di questo secondo volto, non esistono intermediari tra Dio e la cosa. Ibn ‘Arabī chiama questo volto «il Volto particolare», cioè il Volto particolare di Dio che è rivolto verso la cosa per darle esistenza e che è identico al «volto particolare» della cosa che è rivolta solo verso l’essere (wuǧūd). Il «Volto particolare» rappresenta dunque la vera essenza e realtà di una cosa, quel volto attraverso cui nulla perisce perché è essere (wuǧūd). Parlare di un volto particolare è uno dei molti modi per riaffermare il principio che Dio è presente con tutte le cose attraverso l’unità dell’essere. Dato che Dio è con le cose, la cosa è una attraverso l’unicità di Dio, ma dato che la cosa possiede delle qualità e delle caratteristiche è molteplice. 276 A proposito nei Šarḥ al-aḥadīṯ scrive: «Know that the facet whereby things are directly connected to the True is indeed present in all beings, but that most people are unaware of it, such that there never opens for them that door throught wich one takes from God without any intermediary. Rather, this is something that happens to the rare few from among the prophets and the saints alone. The great verifiers calls this facet ‘the specific face’. The falāsifa, however, reject this, asserting instead that there can be no link between the True and the existents save through the occasions (asbāb) and causal intermediaries. But they are wrong to judge so, for their failure to perceive this face does not mean that it has no reality. After all, absence of consciousness (wijdān) does not equate to absence of existence. So even if they, for their part, know nothing of it, others have not only known it and made it part of their consciousness». Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 58. 277 O ne comprende l’effetto. 278 Le Rivelazioni.

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l’attingere dal Vero a volte si ottiene e discende tramite alcuni spiriti279, altre volte del tutto senza mediazione. E non vi è alcun argomento (70) che ne indichi l’impossibilità, così come per loro280 non vi è argomento alcuno per ciò che hanno menzionato ed hanno pensato circa le cose che abbiamo in precedenza ricordato nel capitolo della Scienza divina e della forma in cui si connette ai conoscibili, e su altre cose, eccetto l’analogia e la valutazione di improbabilità che si sono indicate. È stupefacente come essi decidano in quei termini senza alcun argomento sicuro, nonostante riconoscano che la realtà del Vero è sconosciuta, e che la Sua scienza è identica alla Sua Essenza, come si è detto, e che «Non c’è nulla che Gli somigli»281, specialmente essendo chiaro che il riferire un attributo ad un qualsiasi soggetto è preceduto dalla conoscenza della realtà dell’attributo e della realtà di colui cui si riferisce. Si è già in precedenza spiegata l’impossibilità di ciò per l’uomo per quanto concerne la speculazione razionale abituale, specialmente essendo stato già stabilito che la scienza degli esseri umani, in rapporto al loro essere uomini, è una conoscenza passiva (‘ilm infi‘āliyy), e il suo determinarsi dipende dalla molteplicità. Infatti noi non conosciamo nulla, come si è visto, in ragione della nostra essenza soltanto, e neppure in ragione del nostro aver assunto l’attributo dell’esistenza acquisita, altrimenti ogni cosa avente l’attributo dell’esistenza avrebbe l’attributo della scienza, cosa che essi non sostengono. Ma essi sostengono inoltre indispensabile che la vita risieda nell’ente, e anche ciò non è sufficiente, sin tanto che non risiede in esso un qualcosa denominato «conoscenza». Ed è indispensabile un’altra condizione ancora, che è lo scomparire degli ostacoli che si interpongono tra chi è chiamato «conoscitore» e ciò che egli intende conoscere. E la scienza del Vero non è così. (71) Essa è unicamente una scienza attiva, unitaria, essenziale, in cui non ha governo una molteplicità, e non dipende da qualcosa di esterno alla Sua Essenza, [del genere] della rimozione dell’impedimento o altro. E la Sua realtà, concordemente, è

Gli angeli. Quelli citati in precedenza. 281 Cor. 42:11. 279 280

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sconosciuta. Perciò la conoscenza della realtà della Sua scienza, riguardo al suo essere una scienza annessa282 a un conoscitore oppure in quanto si intenda la Sua Scienza come identica alla Sua Essenza (ḏāt), e la forma della sua connessione con i conoscibili, è impossibile. È inutile [allora] fare illazioni sul conto della Sua Eccellenza – a Lui la lode – in base a ciò che abbiamo colto delle nostre anime e dei nostri stati. Questo nonostante che la conoscenza che abbiamo delle nostre anime e di come esse dominino in noi e percepiscano ciò che da esse è percepito, sia molto difficile, analogamente a ciò che abbiamo menzionato a proposito del Vero – a Lui la lode. Infatti non abbiamo trovato un argomento completo che ci fosse utile per conoscere la realtà delle nostre anime, della loro permanenza, della loro immaterialità e della loro indipendenza dal legame con una materia qualsiasi. Tutto ciò che è stato menzionato nell’affermare il loro essere e ciò che si attribuisce ad esse in fatto di permanenza e immaterialità, di conoscenza, beatitudine, e così via, non è sufficiente e non soddisfa il mustabṣir, che è appagato solo dalla visione della certezza (‘ayn al-yaqīn) e dalla sua realtà (ḥaqq)283. (72) Che Dio ci provveda di ciò nel modo più completo e migliore con la visione più chiara e la scienza più perfetta, amen! E la lode a Dio Signore dei mondi. Questione generale che include un certo numero di questioni. Qual è la realtà dell’anima umana e qual è l’argomento che porta ad affermarne l’esistenza (iṯbāt)284? Tutto ciò che è stato menzionato al suo riguardo è infatti insufficiente per i dotati di intelletto (awliyy al-albāb). E qual è l’argomento per la sua immaterialità, la sua immortalità, e il suo bastare a se stessa in quella misura che le deriva dal divenire perfetta attraverso questo costituirsi285 elementare nella dimora di questo mondo, indipendentemente da costituzioni ulteriori dopo questa286?

In relazione. La certezza reale, ḥaqq al-yaqīn. 284 Nel senso di sua affermazione. 285 O genesi. 286 La «misura» in questione è il valore ontologico, quello che rappresenta la perfezione finale. Cioè: può l’anima come tale raggiungere una sua completa perfezione, quale che sia, nelle presenti condizioni d’esistenza, oppure è insito nella sua natura il 282 283

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Cosa può essere espresso chiaramente e attestato relativamente al modo in cui essa governa questo corpo? C’è forse una prova che indichi l’impossibilità per [l’anima] di governare, in un unico momento, numerosi corpi e forme [fisiche], oppure ciò è consentito287 ad alcune in ragione di una perfezione acquisita tramite le conoscenze e le azioni in questa costituzione, cosicché esse salgono dal grado della loro particolarità fino a divenire universali, come si ricorda a proposito dell’intelletto agente? Quest’ultimo [infatti], nonostante la sua immaterialità, [si dice che] governi il mondo della generazione e corruzione con tutte le sue forme288, e il suo essere universale è analogo al genere in rapporto alle anime particolari e alle forme – complesse naturali – che gli sono subordinate. E ciò nonostante [l’intelletto agente] sia in rapporto alle intelligenze che gli sono sovraordinate, come la specie o come la parte in rapporto, rispettivamente, al genere e al tutto. Noi infatti abbiamo trovato più di uno tra i signori (arbāb)289 delle anime umane, il grado della cui anima era già alto e che si era elevato fino a giungere ad essere come abbiamo detto, anzi andare ancora oltre nella risalita e nell’identificazione con le intelligenze superiori all’[intelletto] agente, fino ad oltrepassarle tutte. Il loro pervenire al Vero (al-Ḥaqq) si era realizzato nei due sensi in precedenza messi in evidenza: quello proprio della catena dell’ordine ontologico e degli intermedi, e quello immediato (73) in quanto intercede tra ogni cosa e il suo Datore d’essere. E il discorso a riguardo è già stato fatto più sopra. Ed è stabilito secondo voi che l’esistenza [dell’anima] venga ad essere solo dopo la commistione [elementare] e la sua determinazione ad essa corrispondente, oppure esisteva ed era distinguibile anteriormente al corpo?

fatto di continuare in un cammino di perfezionamento al di là di queste, in condizioni diverse ma in qualche modo sempre analoghe? 287 Yata’attà: «risulta possibile o facile». 288 Le forme sono sì quelle del mondo della generazione e corruzione, ma perché è esso che le fornisce, conseguentemente al suo atto intellettivo che è attivo. Perciò è «agente», oltre che semplicemente «in atto». 289 Maestri, padroni completi.

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Poi, sulla base di entrambe le ipotesi, essa conosceva tutto ciò che ha scoperto290 e ora rievoca291 delle scienze – ma che aveva dimenticato a causa della connessione con il corpo e la perdita delle sue facoltà sotto il dominio della facoltà relative alla commistione elementare e agli strumenti corporei – oppure essa era priva di ogni scienza e qualità eccetto la sua semplice esistenza? Oppure conosceva gli universali e ha acquisito i particolari tramite le facoltà e gli strumenti corporei, e si è ricordata degli universali, in ragione dell’oblio accidentale292 causato dal suo essere accompagnata dal corpo e di ciò che abbiamo accennato al riguardo? Ed il suo legame con il corpo sussiste in ragione di qualcosa che è una «misura comune» fra essa e il corpo, la quale [cosa] ha in qualche senso affinità con ciascuno dei due293, oppure no? Infatti ciò che è di una perfetta semplicità è differente da ciò che è perfettamente composto, perciò come potrebbe avvenire il legame tra i due senza la mediazione di una «misura comune», essendo chiaro che l’influenza di ogni agente su ogni paziente non può validamente esserci senza nesso [tra i due]? Ed è impossibile che risulti un nesso senza un’affinità. Qual è allora l’affinità che sussiste tra l’anima semplice e la commistione composta? Questa domanda è concepita294 (74) in riferimento a come si situa il Vero assieme ai possibili, essendo insieme necessario riconoscere che la Sua realtà – a Lui la lode – è differente da tutte le realtà dei possibili, fermo restando anche che Egli influisce su di essi295. Come stanno allora le cose e con quale argomento sono stabiliti questi punti?

Ciò su cui è giunta a ottenere chiarezza. Nel momento presente. Essa rievoca perché si suppone conoscesse già. Il legame col corpo, o col temperamento, è visto allora di base in chiave negativa, come causa dello svuotamento dell’anima da tutto ciò che le era presente in uno stato anteriore. 292 Accidentale in quanto sopravvenuto in seguito. 293 Corpo e anima. 294 Ciò che si ha in vista con questa domanda non è tanto la problematica relativa all’anima, ma l’analogo problema di come essa si pone relativamente al Principio. 295 Difatti, se non c’è una misura comune tra il Vero e i possibili, data la Sua differenza radicale, come può essere che si concepiscano assieme a Lui, o andando oltre, che Egli possa agire su di essi? 290 291

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Diremo poi: nell’ipotesi che il legame indicato sia stabilito attraverso l’argomento teoretico, quel legame si ha forse in modo tale da permettere all’anima di liberarsi completamente da esso e da altri vincoli, di una liberazione [che ha il valore] di un’indipendenza296, perché si è ottenuta un’autonomia a causa di una perfezione acquisita? Quindi l’anima rimarrebbe [a questo punto] senza vincoli con una qualsiasi forma, semplice o composta? Oppure è inevitabile che rimanga un certo vincolo, pur prevalendo le determinazioni d’essere dell’attributo del non condizionamento, come hanno indicato tutti insieme i profeti e i più perfetti tra i Santi? E nell’ipotesi che ciò sia possibile, cioè la liberazione dell’anima dall’esser vincolata al corpo in ogni senso, è secondo voi possibile che ciò accada a qualcuno in questa nascita e questa dimora, di modo che per costui non permanga un legame con questo mondo, pur permanendo la sua virtù caratteristica, [cioè] che quell’anima governi il suo corpo? Oppure il divenire completamente liberi297 e la recisione in ogni senso del vincolo tra l’anima e il corpo non si ottiene se non attraverso ciò che si chiama «morte»? Noi infatti abbiamo visto direttamente un gruppo della Gente «dell’astrazione» (taǧrīd) e del «distacco»298 (insilāḫ), e siamo stati loro compagni partecipando con loro – lode a Dio per questo – a ciò che abbiamo menzionato e ad altri dei loro stati (75). Li abbiamo trovati concordi sul fatto che «l’astrazione» sotto ogni aspetto è impossibile, nella condizione di un permanere del carattere del governo riguardo chi sia qualificato col «governare», chiunque sia, e in rapporto a tutto ciò che ha un governatore che lo governa, sia ciò che sia. [Per loro] è anche inevitabile che vi sia un legame e un vincolo qualsiasi, e si debba intelligere un «idea» (ma‘nà) comune fra ogni coppia di entità distinte qualificate sia dall’influire che dal subire un’influenza. Il legame allora si realizza a motivo di questa idea, giunge dunque il governo e si conferma l’effetto. Cosicché circolano insieme, nell’essere e nel non

296 Cioè questo genere di liberazione implica che vi sia indipendenza effettiva dell’anima dal corpo? 297 Taǧrīd, liberi dal corpo o dalla materia, il divenire «puro spirito». 298 Anche lo «spogliarsi», staccarsi, liberarsi di qualcosa. Questo termine evoca, tra le altre, un’antica dottrina degli Gnostici alessandrini, secondo la quale la transmigrazione delle anime può essere paragonata ad un serpente che cambia la propria pelle.

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essere: se è presente l’uno è presente l’altro, se è assente l’uno è assente l’altro. [Questo] anche se l’anima del governatore non si rende conto, in tale stato, di essere governante, causa il fatto che il governare non è suo scopo, com’è il caso nel governo di ordine naturale associato alla commistione in ogni momento. Allo stesso modo l’anima, la cui situazione in tale condizione [di assenza] è questa, non si rende conto del suo essere collegata al corpo e del suo governo di esso299. Questo avviene o per la sua immersione nel Vero o in ciò che viene da Lui. Nell’insieme, lo scopo [dell’indagine] è giungere a chiarire ciò che il giudizio dimostrativo esige in tutto ciò, per giungere ad unire i due frutti del duplice [modo di] intendere: per visione e per dimostrazione, se Dio Altissimo vuole. Poi dichiariamo: se si sostiene che essa effettivamente esiste ed è semplice, e [vale] ciò su cui ci si è precedentemente interrogati nel contesto di questa questione generale, qual è l’argomento che stabilisce, dopo la separazione [dal corpo], la sua distinzione dalle altre anime per via delle disposizioni acquisite con la mediazione del corpo, secondo quanto abbiamo citato300? Qualcuno infatti può dichiarare: se questo è valido nel caso dell’anima particolare assieme alla particolare commistione naturale, lo stesso deve essere considerato possibile nei riguardi dell’anima universale e delle anime dei corpi celesti superiori in rapporto alla natura universale,

Altrimenti non si spiegherebbe come, ferma restando la funzione dell’anima o di una sua parte in questo, il corpo possa continuare a vivere, e non solo, ma che quell’anima stessa ne possa riprendere, come sembra fare, il controllo, dopo una fase di distacco. 300 «Disposizioni» nel senso di un insieme di caratteri. Il punto qui si riconduce da una parte al fatto che si può semplicemente postulare una distinzione a priori, in una possibile preesistenza, secondo che una certa anima si collega con un certo corpo o forma, non altrimenti. Infatti non sono distinguibili prima tra loro, ai nostri occhi razionali, ed è come se, quali che siano in realtà le cose, le anime iniziassero effettivamente ad essere a partire dal legame col corpo. Invece successivamente alla loro dipartita, cioè alla separazione dal corpo, possiamo trovare una ragione di distinzione negli eventi che tale anima ha passato assieme al corpo. Se l’anima fosse indifferente in sé al corpo fisico, non ne subirebbe realmente la determinazione, sino al punto che non avrebbe senso questo suo legarsi ad esso. Il suo stato finale sarebbe in tal caso lo stesso di quello iniziale. 299

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e agli elementi e alle facoltà del corpo universale, disseminati nelle forme superiori e in altre. Cosicché le forme e le facoltà naturali influiranno sulle anime che sono causa della loro esistenza e agenti su di esse301, e quindi le superiori subirebbero l’influenza delle inferiori, e le anime semplici (76) incorporee sarebbero attive e ricettive allo stesso tempo302. Anzi, si potrebbe addirittura dichiarare: la dottrina che sostiene la validità dell’influenza della commistione particolare sull’anima particolare – l’influenza perpetua303 – avverte che, se non fosse stabilito qualcosa del genere nel caso dell’anima universale assieme304 alla natura e alla commistione in assoluto, ciò non si trasferirebbe ai casi delle commistioni e delle anime [particolari], essendo chiaro che il carattere dell’origine penetra nelle suddivisioni. Di più, si può dichiarare anche la possibilità che lo stato di vincolo col corpo305 sorga dall’azione delle anime particolari tramite le facoltà intrinseche e quelle, estrinseche, che agiscono sul temperamento, e risultanti da altre facoltà superiori e dagli orientamenti delle intelligenze e delle anime [superiori] amalgamate in esse e dalle quali procedono nel momento del suo collegarsi al corpo. Così come dalle loro conoscenze, virtù e attributi – quelli cioè generati e comuni all’anima dell’uomo e al suo temperamento – e pure dalle sue credenze, quelle che egli segue per imitazione (taqlīdiyya) e quelle correlate alle sue opinioni (ẓanniyya), [sorgono] delle forme o luminose o oscure che rivestono

Leggendo mu’aṯṯira fīhā invece di mu’aṯṯara fīhā. Se fosse un passivo a rigore dovrebbe essere mu’aṯṯara fīhā, e allora sarebbe «e che ne subiscono l’influenza», il che non ha senso, a meno di non prendere i due termini in forma di contrapposizione: causa della loro esistenza e allo stesso tempo subenti il loro influsso. In ogni caso il senso appare chiaro. 302 Nel caso delle anime superiori, la cosa appare con particolare evidenza perché sono considerate semplici e separate, pur esse controllando elementi fisici e forme, con un modo d’essere che è considerato diverso da quello delle anime inferiori. 303 O di effetto perpetuo. 304 Cioè «nel suo rapporto con». 305 Da interpretare: proprio perché le anime, in quanto anime, sarebbero essenzialmente congeneri, a prescindere se siano superiori o inferiori, ed il fatto che certe si legano a un corpo, o che mantengono tale legame, dipenderebbe da una determinazione relativamente a priori che le porta a tale situazione. Questa determinazione non può dipendere dall’aggregato fisico in sé, ma dal fatto dell’abitudine che esse acquisiscono nell’agire attraverso di esso, che diviene come una seconda natura. 301

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l’anima di colui che agisce e secondo quanto Dio ha stabilito riguardo il suo luogo di destinazione: sia esso di dannazione o di beatitudine. Questo è in funzione della prevalenza che risulta in quella combinazione che si verifica tra le facoltà dell’uomo, sia proprie dell’anima, sia naturali relative al temperamento, e le radici (uṣūl) di quelle facoltà nei mondi superiori e la posizione del loro luogo d’origine e del loro punto di partenza. Cosicché per qualsiasi posizione di quei mondi l’affinità è più forte, ne risulta l’attrazione di quell’anima verso di essa e ivi si stabilizza. La causa della distinzione dell’anima, secondo quest’ipotesi, sarà l’affinità suddetta (77) dopo che questa si distacca [dal corpo], le forme delle opere prodotte, le conoscenze e ciò che si è citato. Poiché se si ammette la possibilità che rimangano delle disposizioni fisse in virtù del vincolo dell’anima con il corpo, le quali determinano la distinzione, non è da respingere l’idea che ciò accada in questo modo. E come, non essendoci un argomento per dimostrare la sua impossibilità? Anzi, ciò è preferibile rispetto alla distinzione per mezzo delle sole disposizioni, per quel che si può evincere dalle comunicazioni divine e profetiche che indicano ciò306. Soprattutto essendo stabilita la veridicità di chi informa per i segni (āyāt) e miracoli (mu‘ǧizāt) che hanno manifestato, provata dall’ampia e continua testimonianza, e soprattutto [quella] del nostro profeta – su di lui il saluto e la benedizione di Dio – il cui miracolo permanente ora è tra le mani degli uomini, ed è il Corano, che tiene il posto della dimostrazione in caso di disputa307. La differenza tra la distinzione per mezzo delle sole disposizioni e ciò che abbiamo citato, è che le forme che sorgono dalle opere, attributi, e quel che abbiamo menzionato, sono forme di esistenza in mondi esistenti. I loro

Cioè nel descrivere gli stati post-mortem coi simboli delle loro modalità. Il miracolo per eccellenza è la Rivelazione considerata come definitiva, il Corano stesso, la cui inimitabilità (‘īǧāz) trionfa. A proposito Qāḍī ‘Iyāḍ (476/1083544/1149), giudice in materia religiosa, afferma: «[...] non è possibile disputa né disaccordo sul Corano con cui fu inviato il Profeta e che costituisce una sua prova. Chi si oppone, nega o dubita, tanto vale che dubiti anche della presenza di Muḥammad su questa terra; contro chi tentò di negare anche questo c’è il Corano stesso: nel tutto e nella parte, si deve considerare necessariamente inimitabile, la sua inimitabilità è oggetto di fede necessaria, ed è, come ora vedremo, evidente». Cfr. Qāḍī ‘Iyāḍ, I miracoli del Profeta, op. cit., pp. 9-10. 306 307

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spiriti sono le potenze degli orientamenti delle anime di coloro che le operano per una scienza e una credenza, e tramite la virtù peculiare delle potenze celesti e degli orientamenti delle intelligenze e delle anime [superiori] che si sono amalgamate in loro308, di quanto cerca di ritornare alla sua origine a completamento del circolo del suo essere e del suo statuto ontologico. In questo senso (78) si evince che causa e motivo della permanenza delle forme degli animali e di altro, sono le potenze che risultano dagli orientamenti delle intelligenze e delle anime [superiori], le quali effondono al momento della generazione. Questo è un chiaro discriminante rispetto alla distinzione per mezzo delle disposizioni soltanto, essendo esse delle distinzioni intelligibili che il grado dell’anima universale riunisce assieme, mentre queste non sono così. Si dichiara poi: e il rivestirsi dell’anima con quelle suddette forme che insorgono diviene di molteplici specie, in funzione della sua scienza o della sua credenza e delle sue rievocazioni al momento in cui essa le fa sorgere e attraverso la distinzione che le comunicazioni divine hanno rivelato. Nell’insieme, il discorso su questa cosa in rapporto alle possibili implicazioni diviene sempre più complesso. Chi è giunto a vedere la chiarezza della cosa, si accontenterebbe di ciò. Senonché lo scopo [qui] è (79) [conoscere] quel che il patrono considera affidabile e su cui si appoggia, essendo divenuto chiaro alla [sua] nobile opinione attraverso il metodo dell’argomento teoretico. Questione che include altre questioni. È chiaro che i corpi sono finiti quanto a potenza e ricezione. Anzi, la natura (fiṭra) ha testimoniato309 la necessità che la richiesta delle predisposizioni universali di tutti i possibili, pur esse essendo «non fatte», sia di ricevere dall’assoluto dell’effusione dominicale solo una porzione condizionata, determinata, di valore finito.

In coloro che agiscono. Fiṭra nel senso di natura originale. La considerazione di quel che è una certa natura per sé e di come divenga il suo essere rappresenta una prova, una testimonianza, del fatto che solo parte dell’effusione divina, cioè dell’esistenza comunicata, venga in effetti ricevuta, e che questo dipende dalle predisposizioni stesse a ricevere. L’effusione in sé, nel suo valore assoluto, è eterna e generale. 308 309

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Di questo sono giunte anche le comunicazioni divine (al-ta‘rīfāt alilāhiyya) per bocca degli inviati e poi dei perfetti (kummal), e in particolare nei riguardi del più nobile dei possibili e primo fra loro nel ricevere l’effusione310. Questo nonostante il loro definirlo come quello degli enti che ha un rapporto più stretto col Vero e la Sua unità, e come il mediatore nella comunicazione dell’effusione e del sostegno a tutti gli enti (kā’ināt) nel modo denominato «catena dell’ordine [ontologico]» (silsilat al-tarṭīb). E se addirittura lui, nonostante la sua nobiltà e la maestà del suo valore, ha una ricezione e una potenza giudicate nel senso della condizione e della finitezza, sotto alcuni aspetti, cosa potrà mai essere per chi gli è inferiore? E cosa si dovrà pensare per i corpi, le loro potenze, le loro predisposizioni e la loro ricezione? E ancora cosa si dovrà pensare per le commistioni naturali elementari e le loro potenze? Premesso questo, diciamo dunque: qual è l’argomento che decide (80) dell’impossibilità dell’estinguersi della specie umana da questo mondo per via di un evento universale, che sopraggiunga imprevedibilmente nel mondo superiore, motivato dalle proprietà di alcune forze, configurazioni e congiunzioni, ignote al genere umano, di ciò che non si è colto tramite l’esperienza, l’osservazione astronomica e i principi della geometria? E cosa impedisce che il motivo di quanto menzionato, in unione con le proprietà delle configurazioni celesti e alle proprietà delle congiunzioni, non sia [piuttosto] qualcosa di altro, tra le cose divine, [qualcosa] che il Vero conosce? E la specie umana, assieme a molti degli enti di questo mondo elementare, si interrompa per un certo tempo, e in seguito questa generazione ritorni di nuovo in questo mondo allo stesso modo, oppure in modo simile, o secondo un altro modo di essere? Anzi, diciamo ancora: qual è l’argomento per la non finitezza delle potenze (quwà) celesti, e del loro essere non soggette all’alterazione, alla corruzione e al mutamento? Molte cose sono state riferite nell’affermare la permanenza dei cieli, la perpetuità dei loro influssi311 sotto

310 311

Il riferimento è al profeta Muḥammad. O effetti.

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quest’aspetto312, il loro esser privi delle proprietà della natura, la perpetuità della ricezione, da parte del mondo della generazione e della corruzione, di quegli influssi, in questo modo [attualmente] percepito o un [altro] simile tra le conformazioni (awdā‘)313 e le generazioni (takwīnāt). Ma noi non abbiamo trovato in tutto ciò una prova completa atta a confortare il cuore314 di un mustabṣir che non viene affatto soddisfatto dai soli discorsi o conclusioni persuasive, né tanto meno da pure proposizioni o buoni intenti di cui dei ragionamenti basati sull’improbabilità e dei ragionamenti basati sulla verosimiglianza315 su cui poggiano le riflessioni, il cui oggetto – nella pretesa della loro opinione316 – è l’esaltazione del mondo superiore e dei corpi (81) semplici, e nulla di più. Inoltre, quello che essi hanno riferito sulla [questione] che la causa dell’estinguersi (fanā’) dei composti sarebbe il fatto [stesso] di esser composti, e che gli enti semplici non ammetterebbero l’estinguersi, è debole. I composti, infatti, sono esistiti soltanto a partire dagli enti semplici, anzi sono la somma di entità semplici. E se quelle allora non perissero, il composto non perirebbe. Ciò che si rinnova non è altro che la forma (hay’a)317 del mettersi insieme (iǧtimā‘iyya) e della composizione, e il mettersi insieme e la composizione devono: o essere tra le parti del composto e dell’aggregato, o essere due relazioni. Se quindi si pongono tra le parti del composto e dell’aggregato, il loro statuto ontologico è quello di quegli [enti] semplici aggregati assieme, e se ne è già trattato in precedenza. Se sono due relazioni, le relazioni non assumono alcuna realtà in se stesse, salvo a condizione che esistano [effettivamente] i due termini della

Cioè in riferimento alla loro permanenza. I vari modi del loro disporsi. 314 Letteralmente: «che raffreddi il petto». 315 «Stimare buono», giudicare che può andare bene. 316 I personaggi cui Qūnawī qui si riferisce, probabilmente i falāsifa, avanzano delle ipotesi senza dimostrare nulla, nell’intenzione preconcetta di dare un particolare valore alle sfere superiori e agli enti semplici, sulla base di mere valutazioni di improbabilità o di verosimiglianza. La loro quindi viene giudicata essere «una pretesa» perché non ha reale fondamento. 317 Disposizione, configurazione, struttura. 312 313

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relazione. Come, quindi, potrebbero essere causa della permanenza delle loro cause e della loro perpetuità318? Poi diciamo: tramite quale argomento, secondo noi, si stabilisce che i corpi celesti sono privi dei caratteri della natura e delle sue proprietà? Specialmente perché le comunicazioni divine per bocca dei profeti e dei perfetti hanno apportato ed espresso chiaramente che tutti i corpi sono naturali, anche se hanno giudicato della «permanenza» di certi tra essi nel senso dell’essenza (ḏāt) nonostante un mutamento contingente319 nel senso degli attributi. Un gruppo tra i più grandi filosofi antichi, si è trovato d’accordo con loro al (82) riguardo, e noi l’abbiamo studiato nelle loro opere. Tutto ciò non è celato alla nobile scienza320. Ha alluso a ciò anche, trasmettendo [da altri] e attestando, l’autore delle Epistole dei Fratelli della Purezza, ed ha informato che il grado della natura è situato sotto l’anima universale e sopra la materia e la forma. Apollonio321 e altri hanno spiegato la natura dichiarando: essa denota una realtà che riunifica in sé per essenza il caldo e il freddo, l’umido e il secco, ognuno dei quattro essendo diverso dall’altro e la natura non alterando alcuno dei quattro. Nell’insieme la cosa, secondo la visione superiore322, riguardo tutto ciò, è dato certo, mentre le correnti speculative e le conclusioni del pensiero sono tante, di notevole diversità.

L’assunto è che ci siano i semplici e i composti, quali che siano questi ultimi nelle loro varie modalità, e che di per sé, nel momento in cui un certo composto c’è, il suo essere dipende dai semplici di cui è costituito, la relazione tra questi che si considera nella sua costituzione essendo secondaria ad essi. 319 Taġayyur ḥādiṯ, eventuale, o che avviene nel tempo. 320 Del destinatario. 321 Forse Apollonio Rodio, oppure potrebbe essere Apollonio di Tiana, perché gli sono attribuite delle opere. Ad esempio al-Bīrūnī, nella sua India, ne cita l’opera Kitāb fī al-‘ilal (De causis rerum); cfr. E. C. Sachau, Al Beruni’s India, Trübner & Co., Londra 1888, vol. I, p. 40 e la nota relativa, vol. II, p. 273, in cui Sachau afferma che esiste con questo titolo un’opera attribuita ad Apollonio di Tiana, ma soltanto in lingua araba. Per i dettagli generali, si veda E.I. s.v. Bālīnūs. In ogni caso dal contesto e soprattutto dal senso di quanto riferitogli da Qūnawī, si inferisce il carattere di tipo ermetico della dottrina connessa. Per la segnalazione ringrazio Giorgio Giurini. 322 Ittilā‘ muḥaqqaq, la visione consolidata; s’intende la visione superiore, quella che porta alla realizzazione. 318

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Ciò che si desidera da questa raccolta e indicazione è ottenere l’elucidazione di ciò che è divenuto chiaro al solido giudizio del patrono323 attraverso il metodo dimostrativo, oppure ciò che secondo lui ha più peso, dei discorsi dei predecessori. Difatti la sua nobile scienza abbraccia ciò che essi hanno riportato su queste cose nei libri fuori dell’ordinario occultati [ai più], e [in quelli] di comune riferimento324 e ben diffusi. Nella speranza di aver successo nel riunire assieme le due tranquillità: quella della visione e quella della dimostrazione, come precedentemente indicato. E Allāh – a Lui la lode – toglierà il velo dalle questioni difficili, grazie alla bontà della spiegazione (83) del patrono e al suo utile contributo325, e agevolerà la soluzione dei problemi, amīn! Questione. Per l’uomo [che si trova] in questa costituzione naturale e in questa dimora è difficile «l’astrazione» (taǧrīd) completa che è esplicata nei termini dell’interruzione del legame dell’anima che governa il corpo dal corpo, poiché se questo si interrompesse in modo totale, ci sarebbe la morte perché la morte non è altro da ciò che abbiamo menzionato. Se allora è impossibile l’interruzione del legame dell’anima col governo del corpo durante la vita, allora per l’anima non mancheranno le determinazioni proprie della commistione naturale [da essa] governata in ciò che essa percepisce riguardo a dolori e piaceri, essa non sarà libera dalla contaminazione della natura e della sua determinazione d’essere. Da dove viene allora [all’uomo l’idea] che ci siano dolori e piaceri spirituali puri, privi dei caratteri della natura? E in base a quale argomento si stabilisce ciò? E su cosa si appoggia? Lo stesso [si può dire] per il piacere e la gioia riferiti al Vero, a Lui la lode e che Sia esaltato. E non si dichiari: noi proviamo per noi stessi un piacere nel comprendere le scienze, oppure nei gradi di rango elevato che implicano l’esercizio dell’autorità (ḥukm) e la posizione di prestigio, e ciò non è del genere delle voluttà naturali abituali.

Del destinatario (mawlawī). Mustafīd è in questo caso ciò che è di chiara fama. 325 O insegnamento. 323 324

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Noi infatti risponderemmo: è possibile che i piaceri naturali siano di due classi, una grossolana e una sottile. La grossolana si riferirebbe a quel che è percepito ordinariamente attraverso i sensi delle cose piacevoli sensibili, come il cibo, la bevanda e altro. La seconda specie (84) sarebbe percepita dall’anima in ragione delle facoltà interne, come la mente, l’immaginazione e gli atti intellettivi dell’anima che avvengono durante il coinvolgimento326 nel governo [del corpo]327, e le facoltà e percezioni umane non sarebbero esenti totalmente dai caratteri della natura. E chi pretende che, oltre a ciò che si è menzionato, ci siano dolori e piaceri spirituali in cui la natura non ha alcun valore, ha l’onere della prova. Questione. Qual è la realtà dell’effusione che procede dal Vero? E cosa intendono i seguaci della ragione (‘uqalā’) sulla sua conoscenza, sulla modalità del suo procedere e del suo arrivo ai ricettacoli? Non è possibile che abbia lo stesso genere d’essere dei possibili, e non è possibile che sia [lo stesso] Vero, e non esiste là una terza entità che non sia il Vero e non sia altro328. Allora come stanno la cose? E cosa si intende del significato del «dare esistenza» in un primo momento, poi del «fornire sostegno» in un secondo momento? E in base a quale prova (burḥān) ciò è stabilito e diviene chiaro? Tra le questioni isolate di cui non è stato ben connesso un argomento per affermarle o negarle, vi è la questione del concatenarsi di cause ed effetti esistenti che non giungono a un termine ultimo. Questione. Secondo noi le relazioni che intercorrono tra gli enti sono senza fine, ma bisogna che [questi] siano finiti in rapporto alla Scienza del Vero, per i vizi che ne conseguono se così non fosse. [Lo sono] inoltre per quanto prima abbiamo menzionato nell’affermare la conoscenza da parte del Vero dei particolari e la debolezza degli argomenti di coloro che rifiutano ciò, basandosi su analogia e su valutazione di improbabilità.

Il rivestimento. Si pone qui il problema di quale sia il limite cui è naturale conoscere, nei termini dell’anima, tra l’ambito relativo alla sua condizione esistenziale e l’ambito sovrannaturale. 328 Altro dal Vero, cioè per definizione un possibile o l’insieme dei possibili. 326 327

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C’è anche accordo sul fatto che ciò che entra nell’esistenza è finito, e le relazioni sorgono tra gli enti. Come può allora sorgere dal finito qualcosa che non lo è? Lo stesso si può dire per le commistioni che si generano dagli elementi e cose simili, e più in alto di ciò vi sono le configurazioni e le posizioni celesti, del genere delle congiunzioni e delle [relative] qualità, (85) e altre cose come le proprietà, gli influssi e le loro conseguenze. Allora come stanno le cose329? Questione. La sostanza non svanisce quando una delle sue qualità svanisce, ma se nel fuoco svanisce il calore, svanisce anche il fuoco. Questione. La pura materia non ammette la divisione secondo ragione e lo stesso vale per la forma. Allora perché, dimorando la forma nella materia, le due divengono un corpo e ammettono la divisione? E perché si produce ex novo (yataǧaddadu) una terza cosa diversa dall’incontro [delle due]? Ed [il fatto di trovarsi insieme] è una relazione che non ha alcuna consistenza per se stessa ma dipende da ciò che possiede una reale esistenza, come è stato già indicato in alcuni temi di studio precedenti330. Le questioni sono completate con l’aiuto di Dio e la Sua valida assistenza.

329 Qūnawī non vuole definire Dio come Prima Causa, termine caro ai falāsifa, ed applicare a Lui la nozione di causalità, e nonostante si possa essere autorizzati ad affermare che esiste una Prima Causa o un Essere Necessario (dato che non possiamo ipotizzare una catena che regredisce all’infinito), ciò non si rivela però una prova o dimostrazione a tutti gli effetti. 330 Specie a proposito dei composti.

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[Epistola di al-Ṭūsī ad al-Qūnawī, dove si esamina lo scritto Rašḥ albāl (La secrezione dello Spirito)] (86) Uno scritto mi è pervenuto e non ho mai visto nulla di simile tra tutti gli scritti, eccetto il Libro di Dio. Mi è arrivato da parte di un imām – che Dio illumini il suo cuore – e il suo segreto ha sollevato da me tutti i veli.

L’epistola dell’eminente mawlānā – l’imām più grande, guida dei popoli, colui che svela la tenebra, capo della nazione e della religione, onore dell’Islām e dei musulmani, verbo della verità, prova del cammino (al-ṭarīqa), esempio dei viandanti realizzati (al-sālikīn)331 e di coloro che hanno trovato Dio (al-wāǧidin), modello di coloro che sono arrivati a Lui e che si sono realizzati in Lui (al-waṣilīn al-muḥaqqiqīn)332, sovrano dei saggi e dei dotti nelle due terre, interprete del Misericordioso, il più virtuoso e perfetto del mondo – che Dio estenda eternamente l’ombra benefica dei suoi spruzzi e della sua rugiada [su Qūnawī]333 – [l’epistola] giunse al servo dell’orazione, colui che promulga elogio, discepolo (murīd)334 (87) sincero e amante desideroso di conoscere ardentemente (mustafīd-e ‘āšiq)335, Muḥammad al-Ṭūsī: egli la baciò e la pose sulla sua testa e sui suoi occhi336 e recitò (la seguente quartina): Grazie alla sua lettera il mio cuore si appropriò del regno del mondo, e con le sue parole guadagnò la vita eterna. Fino quando non lessi l’epistola il mio cuore era morto, e da ogni sua parola ottenne mille vite.

Sālik è il viandante realizzato, l’iniziato, il peregrino di Dio, chi viaggia sul percorso spirituale. 332 I mistici che hanno ottenuto il grado di perfezione, la ḥaqīqa. Wuṣūl, (wiṣāl o ṣila) ovvero ittiṣāl, congiungimento senza identificazione, unione con Dio. È l’unica forma di rapporto tra l’uomo e Dio ammessa dall’ortodossia sunnita. 333 Le piccole e grandi realizzazioni di Qūnawī. Ṭūsī invoca Dio affinché prolunghi la sua ombra benevola conservando l’acqua fertile e abbondante della benedizione e la rugiada del Paradiso. Trattasi di un vocabolario retorico tipico del paradiso islamico. 334 Novizio, aspirante (lett. «colui che vuole e desidera, chi cerca Dio»). 335 Mustafīd è colui che è ansioso di conoscere, che cerca vantaggio, postulante. 336 In segno di rispetto. 331

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Sebbene in passato avessi molto ascoltato riguardo alla fama delle virtù e mi giunse l’eco delle imprese di quell’essenza ineguagliabile, essendo desideroso di vedere l’aspetto (di quell’uomo) benedetto337 e di volgere l’attenzione alle qualità di quell’eccellente essere senza eguali, avevo [inoltre] la necessità di giungere (wuṣūl)338 a lui per porgergli dei servigi; per un certo periodo [però] gli inconvenienti della vita non aiutarono a realizzare questo desiderio. Sempre mi sono impegnato nel trovare un modo attraverso la corrispondenza, cercando uno scambio di lettere con quel nobile e illustre signore, provando a raccomandarmi al favore di Dio. Improvvisamente la fortuna dormiente si ridestò e la cosa desiderata e vera mostrò il suo volto, e con la menzione di un discorso che corrobora l’anima e una deliberazione (88) incantevole onorò questo infelice. E poiché egli eccelle in tutte le virtù – secondo l’espressione «la virtù appartiene a chi precede» – anche in questo senso ha mostrato eccellenza339, permettendo a questo aspirante sfortunato di essere obbligato dalla [sua] cortesia e grato per il [suo] beneficio, cosicché la sua anima assetata dalla passione potesse accostare le labbra all’acqua purissima della fonte della perfezione. Che Dio – sia Lui esaltato – estenda quell’ombra rinfrescante sui suoi servi. E quel raggio di luce dell’irradiazione (taǧallī) risplenda e perduri in mezzo alla Gente della Perfezione, in verità del Vero.

Ṭūsī desiderava conoscere il viso di Qūnawī e osservarne la bellezza. Raggiungimento di Dio da parte del mistico. «I ṣūfī hanno spiegato in modi diversi il rapimento dell’estasi, meta ultima della Via mistica. Gli uni hanno parlato di ḥulūl, ossia di discesa e dimora della divinità nell’anima purificata del mistico con una infusione che non si confonde con la sua umanità. Altri hanno parlato di “unificazione” sostanziale (ittiḥād) con Lui, altri ancora di “congiungimento” (ittiṣāl, wiṣāl, wuṣūl – questo termine piuttosto: “raggiungimento”). Siccome il mistico perde nel deliquio dell’estasi coscienza di se stesso e la sua personalità si annulla, sono state giustificate, anche dallo stesso Ghazālī, con quello stato di incoscienza frasi di sapore panteistico, e per la maggioranza del Musulmani decisamente eretiche, sgorgate dalle labbra di ṣūfī famosi». al-Ġazālī, Scritti scelti, a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1970, p. 119 n. 2. Cfr. Id., Le Tabernacle des Lumières, Éditions du Seuil, Paris 1981, p. 94. 339 Ṭūsī intende esprimere l’eccellenza del suo interlocutore anche in riferimento alla scrittura delle epistole. 337 338

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Da quell’illustre eccellenza arrivarono due scritti preziosi, ognuno di essi senza eguali in ciascuna delle materie che trattano. Il primo testo, «risultato delle elaborazioni dei pensieri», conteneva alcune questioni tra le più anguste. È così arrivata a questo discepolo che necessita di conoscenza l’indicazione di scrivere alcune parole (89) a proposito di quelle questioni attinte dal proprio esiguo patrimonio e spedirle. Sebbene quest’umile persona non si sentisse nella posizione di colui che è tanto sapiente da poter inviare cumino a Kermān o datteri ad Haǧar, obbedì però alla richiesta e si vide obbligato ad accettare la proposta. Affrettandosi, quello che pensava glielo scrisse e glielo inviò, e ora aspetta con ansia che il maestro accetti o rifiuti. L’altro trattato – il cui titolo è Rašḥ al-bāl (Secrezione dello spirito) – consiste nella descrizione degli accadimenti invisibili che si manifestano durante il percorso spirituale (sulūk) e nel ricordo degli eventi (waridāt-e ḏawqī)340 che si formano in ogni stato del cammino interiore (ḥarakat bāṭin)341. Il tipo di linguaggio di quest’ultimo testo è quello della supplica, della preghiera sussurrata (munāǧāt)342, della richiesta rituale di protezione e dell’implorazione. Questo discepolo ansioso di conoscere, dal momento in cui divenne consapevole di quel mare senza (90) fine e felice di quel regalo illimitato, si rese conto che l’intento era quello di guidare i discepoli sulla retta via (sulūk) e infiammare i principianti perché conoscessero le rivoluzioni degli stati interiori e delle tentazioni, delle paure, delle suggestioni e dei desideri che si susseguono nella mente durante il cammino del sulūk. Non lascino spazio all’orgoglio e neanche alla disperazione, così come si afferma: «E devono avere pazienza, essere grati, amare l’orazione, compiere buone opere sulla terra e liberarsi dai desideri del mondo». Questo discepolo ansioso di conoscere, nonostante non si senta al suo livello, audacemente afferma che343: «Questo è un soffio [che rinfresca] il petto e un beneficio da parte dell’Indulgente tramite cui Ti farò amare dai Tuoi servi, io spanderò la Tua grazia sulla Tua terra e il

340 Momenti di ispirazione legati al gusto dell’esperienza estatica, intuizioni spirituali, influssi visionari. Il termine ḏawq si riferisce, come noto, alla Gente del gusto, ossia i sufi. 341 Letteralmente «movimento interiore». 342 Colloqui intimi, conversazioni con Dio. 343 Qui ha inizio una parte in arabo.

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Tuo paese, e tramite cui distoglierò la mia anima in modo da liberarmi da ciò che sopporto». Il suo grado è troppo elevato perché possa occuparsi di colloqui intimi e di invocazioni (al-munāǧāt wa’l-du‘ā). Colui che sta a questo livello pone la sua anima come qibla durante la sua preghiera; e in verità la sua passione è la sua divinità. Benché egli adori Dio e lo invochi per avvicinarglisi nella Sua essenza, ricorre a tutto questo come un mezzo per conseguire ciò cui aspira. Ora egli è prigioniero della sua passione (91) e si impegna a trovare riposo e respingere il male. A volte la paura lo invade, mentre altre volte la speranza lo rilassa. A volte, allorché delle sventure l’affliggono, si rifugia nella pazienza; altre volte si mostra più riconoscente per i favori [divini]. Poi, quando si eleva da questa dimora fino al grado della soddisfazione e della sottomissione, riposa di tutto ciò; egli non ha allora più bisogno di aggrapparsi a quello che ricerca né di rifiutare ciò che fugge. Non gli rimangono più invocazioni, perché non ha più nulla da domandare; non cerca più di intrattenersi, perché Colui che lo intrattiene non è più assente. Vede allora le creature attraverso «l’occhio della soddisfazione» (bi‘ayni al-riḍāi) e trova in tutte le rinascite un motivo di soddisfazione. Ecco dunque la Porta del Supremo Dio, anche se si tratta di un livello imperfetto e molto distante dalla perfezione di coloro che hanno conseguito il Fine. In effetti, colui che è soddisfatto pretende di possedere un’esistenza che concorda con quella di Colui che è soddisfatto di lui ed egli ha un campo d’azione e una libertà di manovra. Ora, grazie a ciò, egli pretende d’essere associato nell’esistenza e nell’azione. [Ma] Dio è troppo trascendente per avere un associato o qualcuno che agisca con Lui! Se egli si eleva da questi gradi e giunge alla stazione della pura estinzione e del cancellare le tracce creaturali, che è la dimora delle «Genti dell’Unità assoluta (al-waḥdat al-muṭlaqa)» – e qui io non intendo l’unicità (al-tawḥīd), cioè a dire la ricerca di un’unità coercitiva, (92) e non dell’unione (al-ittiḥād)344 e anche se ciò è naturale e non è coercitivo, allora in lui si sente il profumo della molteplicità. Egli non si volge verso «la soddisfazione e la sottomissione», ma verso chi lo rafforza, in modo che egli possa essere qualificato di perfe-

344

Unione spirituale, fusione.

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zione, o che abbia un’essenza in modo che egli possa essere descritto dalle qualità della maestà. È qui che s’interrompe il viaggio e il viaggiatore, e che l’arrivo e colui che arriva si annientano. È a Dio che spetta il termine finale ed è verso di Lui che consiste il ritorno. Il servitore di questo appello è convinto che il signore (mawlī) – a lui lunga vita345 – non sarà soddisfatto dei gradi più in alto menzionati, e che si eleverà ancora più in alto, fino al grado al di sopra del quale non vi sono più gradi; ma finché resterà in questo mondo a causa della sua forma, corrono sulla sua lingua delle sottigliezze e delle varietà di questo genere che ricadranno sui suoi discepoli gratuitamente. E continuerà a farlo per guidare coloro che ricercano e per [l’iniziazione] degli imperfetti. Ecco tutto ciò che io posso dire su questa questione. Il parere [del mio signore] è più alto e più giusto perché un imperfetto come me possa circoscrivere o descriverne tutti gli aspetti, e sia pace346! Sebbene si discosti dall’etichetta dirle questo, dal momento che c’è stato il tempo di una lettura approfondita di quel nobile scritto (93) e sublime trattato – che in realtà non ha eguali nella guida di coloro che aspirano alla conoscenza e nel perfezionare chi è imperfetto – non vi è ragione di non accettare. Se Dio vuole, [chi scrive] non sarà biasimato a causa di questa mancanza di cortesia. I tempi sono trascorsi e ci siamo troppo dilungati. Attendo con ansia l’arrivo della corrispondenza e l’annuncio degli eventi e delle manifestazioni, in particolare delle critiche a queste mie parole, che implicano i favori della presa in carico del servizio. Dio – sia Egli glorificato – ci dia quella perfezione richiesta per perfezionare chi è imperfetto, seguendo sempre la verità e il vero. E la pace e la misericordia di Dio sia su di voi e anche la Sua benedizione.

345 346

Letteralmente: «che rimanga sempre con la sua ombra». Qui termina una parte in arabo.

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[Le risposte] (94) In Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso Lode a Dio, che ha innalzato in ogni epoca, per le creature, una guida per condurle alla retta via, e un valido maestro per far loro percorrere la strada diritta. Egli l’ha rafforzato col Suo sostegno fino a quando ha riunito in sé la duplice eccellenza, della conoscenza e delle opere, e raggiunto le mete delle genti della perfezione con la doppia forza, del disvelamento e della speculazione. Egli è così divenuto chiarificatore delle norme della Legge e indicatore dei segreti dei realizzati, viaggiatore sul sentiero delle opere eccellenti, arrivando al più lontano traguardo delle genti della beatitudine. Rappresentante nel mondo del Suo profeta eletto e amico prescelto, Muḥammad, la migliore creatura e colui che chiama alla più nobile via – Dio faccia scendere le benedizioni e la Pace su di lui, e sulla sua Famiglia, i suoi Compagni e i suoi seguaci. Allo stesso modo ha innalzato in questa nostra epoca il celebrato maestro, la splendida guida, polo dei santi e rappresentante dei profeti, che chiama al Vero, guida per le creature, cuore della comunità e della religione (ṣadr al-milla wa al-dīn), gloria dell’Islām e dei Musulmani, Muḥammad b. Isḥāq – che Dio prolunghi i suoi giorni, realizzi i suoi desideri e gli renda perfetti i Suoi benefici in questo mondo e nell’altro, il suo ritorno e la sua dimora ultima, Egli che è Colui che effonde i doni di grazia, fa discendere le benedizioni ed esaudisce le preghiere. È giunta dalla sua augusta corte – presso cui le genti della scienza e del gusto trovano, tutti, quel che desiderano – al più bisognoso tra tutte le creature di Dio di Lui – sia a Lui gloria – Muḥammad b. Muḥammad (95) al-Ṭūsī, uno scritto che raccoglie le indicazioni spirituali ai divini segreti, in quanto include delle sottigliezze sapienziali e degli aneddoti di scienza, e conduce magistralmente ai significati occulti e ai passi del gusto intuitivo. Egli ne ha perciò usufruito in misura della sua predisposizione, e ne ha fatto un apparato in funzione di ciò di cui c’è bisogno nel suo luogo di ritorno. Si è conformato al suo ordine efficace e alla sua prescrizione da obbedirsi, citando ciò che aveva studiato o gli era giunto di quanto è detto circa le questioni che non è capace di risolvere, anche se la sua intelligenza non sarà riuscita a comprendere tutto quanto sarebbe stato necessario, ed egli sarà stato limitato nel compiere quanto dovuto nel modo opportuno.

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Ha inviato alla sua nobile porta e alla sua alta corte ciò che è giunto a pensare, per essere onorato dalla sua corretta osservazione ed essere presentato alla sua penetrante visione. Se allora si sarà verificata la soddisfazione, il servitore della richiesta sarà felice di ciò. In caso contrario, le sue scuse non hanno bisogno di essere riportate e rese manifeste, e l’insufficienza della sua intelligenza non può essere rettificata avanzando delle scusanti. Perciò dirò: quanto all’inizio dello scritto, esso contiene innumerevoli punti significativi che riguardano ogni scienza, e questioni di ogni genere che [rappresentano] il fine estremo – oh, potesse il soccorso divino aiutare a raggiungerne la conoscenza, e il destino fornire una predisposizione a comprenderne l’essenza reale! Poiché quelle cose sono più grandiose ed elevate dall’essere oggetto d’un lavoro di esplicazione, o che in ogni proposizione vi sia bisogno di citarne l’argomento, oppure che si riporti un discorso sulla loro verosimiglianza, o che si organizzi una serie di capitoli sul loro ordinamento. Io ne ho fatto347 un approccio per i miei temi di ricerca relativi alla verità, e un mezzo d’avvicinamento per le mie esigenze relative alla certezza; ho incominciato [così] a esporre quanto è connesso alle questioni costituite dalle domande e ai punti significativi relativi a quegli aspetti problematici, sotto la guida del suo comando e in obbedienza al suo giudizio. Dico perciò [quanto segue], e il successo è grazie a Dio, Egli che è il termine del cammino. (96) Egli dice – che Allāh prolunghi i suoi giorni: «La prima questione: secondo voi, è stabilito che l’esistenza dell’Essere Necessario è qualcosa di aggiunto alla Sua realtà, oppure [che] la Sua esistenza sia identica alla Sua essenza...» sino alle sue parole: «Questo è un contrasto». Io affermo: quanto all’argomento che fornisce chiaramente la verifica che la Sua esistenza è identica alla Sua essenza, anche se Egli non possiede una realtà oltre all’esistenza, esso è che, se Egli avesse un’esistenza e la sua essenza [sic!]348, allora il principio (mabda’) di tutto sarebbe un «due»,

Ṭūsī si riferisce qui ai punti trattati. Nell’originale è aggiunto «sic!» perché si suppone che la frase debba essere: «se Egli avesse un’esistenza ed un’essenza». 347 348

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e ogni due avrebbe bisogno di un «uno» quale principio del «due», e chi ha bisogno di un principio non può essere principio di tutto. Se allora si afferma: l’essenza è qualificata e l’esistenza è un suo attributo, e il qualificato ha priorità sull’attributo che vi risiede, quindi il primo principio è uno ed è l’essenza, si risponde: l’essenza, assumendo la sua priorità sull’esistenza, non sarà né esistente né inesistente, e in tal caso il principio degli enti sarebbe non esistente, e questo è assurdo. Quanto alle sue parole: «È evidente come la nozione di esistenza, quanto al suo determinarsi nel nostro [modo d’] intendere, sia una nozione unica. E questa nozione, presa per sé senza guardare a tutto ciò che è altro da essa, o deve essere accidentale per l’essenza (97) di una cosa, o non accidentale per essa, o non deve essere nessuna delle due cose». La risposta a ciò è che i termini che hanno un’unica nozione [come loro significato] predicata di molti sono di due tipi. Uno è costituito da quelli in cui tale nozione si trova nelle singole unità di quei molti in modo equivalente (‘alà al-sawā’), com’è il caso della [nozione di] «uomo» in Zayd e ‘Amr, e quella di «cavallo» in questo o quel cavallo. Questi termini sono detti «univoci» (mutawāṭi’a). Il loro valore, riguardo ciò che tali nozioni richiedono, come si è detto, è unico. L’altro è costituito da quelli in cui tale nozione non si trova in quella molteplicità in modo equivalente, ma può al contrario essere in alcuni anteriore, o più consona, o più forte, o più abbondante. Ad esempio come il bianco [predicato] della neve e dell’avorio, l’essere esistente [predicato] della sostanza e dell’accidente. In questo (98) tipo non è necessario che le implicazioni di quelle nozioni siano uniche, anzi per lo più variano, come il termine «luce» che si trova ad essere nella «luce del sole», nella «luce della luna» e nella «luce del fuoco», e la «luce del sole» implica lo svanire della notte, a differenza delle altre luci; e l’esempio del termine «scienza», di cui una parte che lo riguarda è di comprensione immediata, parte acquisito, parte attivo, determinante l’esistenza del suo oggetto, parte passivo, non determinando questo. L’esistenza fa parte di quest’ultima categoria. Nel Necessario (wāǧib) essa risiede nella Sua Essenza (ḏāt) senza un suo sopravvenire alla Sua essenza (māhiyya), nel «non necessario» sopravviene alla sua essenza. Dopo di che, l’accidentale per l’essenza richiede, nel caso del corpo e della materia, che quell’essenza non risieda in altro, mentre nel caso della forma e dell’accidente richiede che entrambi risiedano in un substrato

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(maḥall). Così come nessuno può dire: «Se la “luce” e la “conoscenza” comportassero lo svanire della notte e l’esistenza del conosciuto, allora per ogni luce e scienza varrebbe lo stesso», allo stesso modo non può dire: «Se l’esistenza richiedesse il suo essere non accidentale per un’essenza, ogni esistenza sarebbe tale». Ecco allora stabilito che dell’esistenza v’è ciò che richiede di non essere accidentale per un’essenza, e v’è ciò che richiede di essere accidentale, e non vale più la divisione [proposta] del suo richiedere il sopravvenire o il non sopravvenire, o il non richiedere nessuna delle due cose. (99) Le sue parole: «Un altro modo [di provare il contrario] è che ogni persona raziocinante asserisce decisamente che per l’esistenza del Necessario vi è una determinazione», fino alle sue parole: «Ciò che abbiamo menzionato prova quindi che la Sua esistenza è aggiunta alla Sua realtà». Io affermo: tutto ciò per il quale non è giudicato probabile un suo possedere molti individui (ašḫās kaṯīra), non ha bisogno di una determinazione ulteriore rispetto alla sua realtà, poiché la sua realtà, tanto se è la sua esistenza stessa quanto se è qualcosa cui la sua esistenza sopravviene, è la sua determinazione, per l’assenza della probabilità che avvenga in esso la partecipazione. Solo ciò che possiede molti individui ha bisogno della determinazione, in quanto ogni suo individuo ha bisogno della determinazione [che permette] il suo distinguersi dagli altri partecipanti della sua specie. E in questo vi è un grandioso segreto, e cioè che l’esistenza la cui nozione si applica al necessario e al possibile in modo equivoco (bi’l-taškīk) è un ente intelligibile (amr ‘aqlī)349, poiché l’esistenza nell’ambito delle cose reali (fī’l-a‘yān)350 non può applicarsi a cose che l’abbiano in comune (ašyā’ taštariku fīhi)351. Quell’ente [di ragione] è predicato dell’Esistenza Necessaria che risiede nella Sua Essenza (ḏāt) e che non sopravviene ad un’essenza (māhiyya), e di altri tra gli enti. Se la sua esistenza è considerata nell’intelletto352, è un possibi-

Qualcosa di razionale, un concetto mentale, un ente di ragione. Cioè che si trova nelle entità concrete, reali, non logiche. 351 È logicamente separabile ma non propriamente generalizzabile, ogni cosa ha la sua esistenza, se così si può dire. 352 Vale a dire che viene separata da esso, perdendo relativamente il suo valore proprio, che ha in connessione a quell’ente. 349 350

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le non necessario, e il nome dell’esistenza si applica ad esso e al Necessario353 in modo eccedente rispetto alla sua esistenza reale (wuǧūduhu al-‘ayniyy) e al suo nome354. Tale esistenza è un ente intelligibile, mentre l’Esistenza Necessaria è ignota quanto al fondo ultimo (kunh) e alla realtà (ḥaqīqa). Di essa si conosce intellettualmente solo questa esistenza intelligibile, condizionata da una determinazione negativa (muqayyad bi-qayd salbiyy). Se si realizza questo, cade la problematicità menzionata, causata dalla pluralità degli aspetti. E sappi che negare e affermare delle cose su di essa si può concepire unicamente in seguito al sussistere positivo di quelle cose (100). Questo non si attua assieme a Lui – l’Altissimo – quando si consideri la Sua realtà: al contrario, si ha in seguito al procedere (ṣudūr) delle cose da Lui. Quanto alle sue parole: «Questo nonostante tutte le persone raziocinanti siano d’accordo che la Sua realtà sia sconosciuta», egli dovrebbe dire: «Nonostante tutti i Sapienti (ḥukamā’) siano d’accordo», perché i maestri mu‘taziliti tra i teologi (mutakallimūn) hanno asserito che la Sua natura sarebbe conoscibile all’uomo così come essa è. Le sue parole: «Un altro modo è che il Suo essere principio di altri», sino alle sue parole: «Altrimenti la negazione sarebbe parte della causa della sussistenza». Io affermo: il Suo essere principio di altri è in ragione del Suo essere necessario quale essere reale (li-wuǧūdihi al-wāǧib al-‘ayniyy)355, non dell’esistenza predicata per Lui e altri in modo equivoco, quella che le persone raziocinanti specificano con una condizione negativa (qayd salbiyy). Dopo di che, molte negazioni sono parti delle cause della sussistenza positiva. Ad esempio, l’assenza di nubi assieme al sorgere del sole sono causa dell’illuminazione della terra, e l’assenza dell’opposto nel substrato assieme alla causa dell’altro opposto sono la causa perfetta del venire ad essere (ḥudūṯ) dell’altro opposto in quel substrato.

L’ente cui apparterrebbe, o che lo costituirebbe in quanto ente. La sua denominazione, che lo identifica e contraddistingue nel pensiero logico da altro. 355 Cioè dell’esistenza necessaria che ha per Sé, «essenziale», nel senso di quella che ne costituisce l’entità stessa. 353 354

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Le sue parole: «Un altro modo è che essi hanno affermato: è necessario che il giudizio sui singoli individui di un’unica natura sia unico», fino alle sue parole: «Né qualcosa di cui una persona raziocinante possa asserire decisamente la validità». Io dico che la risposta a questo è già stata data, ed è che la dimensione e il corpo [sono nozioni che] si applicano a ciò che è loro soggetto (mā taḥtahumā) in modo univoco, a differenza dell’esistenza, predicata degli enti in modo equivoco. (101) Quanto all’unità e alla molteplicità, sono due accidenti, e la loro separazione (taǧarrud) dalla materia si ha soltanto nell’intelletto, come per tutti gli accidenti, i quali sono concepiti separati dai loro substrati. Ma il caso dell’esistenza è diverso. Si tramanda che Pitagora abbia detto: «L’uno e i numeri composti per sua ripetizione sono i principi degli enti. Essi sono stati prodotti dal primo principio secondo il loro ordine, essendo allora immateriali. Poi da lui sono prodotti, con la loro mediazione, gli altri enti, e l’unità e la molteplicità divennero loro compagne (muqārinatayn) nel modo noto». Questo allora corrisponde all’esistenza, nel senso del sussistere per essenza (ḏāt) nel principio, e del sopravvenire successivo alle essenze. Tuttavia questa è una mera tradizione, senza fonte sicura né argomento a sostegno. Le sue parole: «Tra quanto conferma quel che abbiamo menzionato, vi è quanto ha riconosciuto il maestro principe [Avicenna]», fino alle sue parole: «E attestò quel che era sua intenzione attestare». Io dico che, quanto alle sue parole: «La comprensione della realtà delle cose è al di fuori delle capacità umane», egli intende con «le cose» le sostanze reali degli enti (a‘yān al-mawǧūdāt) che si denominano «nature» (ṭabā’i‘) degli enti, ed ha menzionato questo solo nello spiegare la difficoltà della loro definizione. Non intende con ciò le realtà degli intelligibili (ḥaqā’iq al-ma‘qūlāt), e questo perché chi non si è fatto l’idea (lam yaqif ‘alà) dell’essenza vera dell’affermazione e della negazione (ḥaqīqa al-iṯbāt wa al-nafī) come potrebbe giudicare per esse l’impossibilità del loro trovarsi assieme, in modo immediato? E chi non si è fatto l’idea dell’essenza vera del corpo, come giudicherà dell’impossibilità del trovarsi assieme di due corpi in un unico spazio (ḥayyiz), in modo immediato? E dell’impossibilità che un corpo si trovi nello stesso momento in due posti, [sempre] in modo immediato? E chi non si è fatto l’idea dell’essenza vera del dieci (102) e del cinque, come giudicherà che il dieci è il

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doppio del cinque? E chi non si è fatto l’idea dell’essenza vera del triangolo, come giudicherà che i suoi angoli equivalgono a due retti? Nell’insieme, tutte le scienze certe si fondano sulla conoscenza delle realtà degli enti, che ne sono i concetti (taṣawwurāt), affinché funzionino i giudizi (taṣdīqāt) basati su di essi. Le sue parole: «Successivamente si espresse su ciò che concerne in modo particolare la realtà del Vero», fino alle sue parole: «E l’esistenza è uno dei suoi concomitanti». Io dico: questa è la sua spiegazione dell’impossibilità di arrivare fino al fondo del Primo Principio. Dicendo: «o l’esistenza rientra nella Sua definizione», come gli è predicata, egli vuol intendere unicamente l’esistenza che si applica agli enti in modo equivoco, che sta in luogo del genere (wa huwa bi-manzila al-ǧins), e la specificazione negativa (qayd salbī), affinché ne sia contraddistinta, e questo sta in luogo della differenza specifica. E con le sue parole: «Oppure Egli possiede una realtà al di sopra dell’esistenza e l’esistenza è uno dei concomitanti di quella», egli intende indicare il Suo essere reale (wuǧūdahu al-‘ayniyy), quello che non può essere colto dall’intelletto di nessuno. Le sue parole: «Poi stabilì questo concetto in un altro modo ancora», fino alle sue parole: «Rispetto a come le sarebbe necessario essere». (103) Io dico: i saggi hanno dichiarato che la conoscenza della causa comporta la conoscenza dei suoi effetti, una conoscenza completa, mentre la conoscenza dell’effetto non comporta la conoscenza della sua causa se non in modo incompleto. Questo perché ciò implica la conoscenza che per tale effetto esiste una causa, senza implicare la conoscenza completa di quella causa. Egli ha perciò spiegato tale cosa, nelle sue parole qui presentate, in una forma generale, in riferimento alle sostanze reali degli enti, e non vi si trova alcunché che permetta di concludere che gli intelligibili non sono colti. Le sue parole: «Noi affermiamo: tra ciò che il “gusto” valido... comporta», fino alla fine della sezione. Io dico: questo è un discorso relativo all’estrema bontà e perfezione, del quale non può farsi idea chi non partecipa di ciò che Allāh effonde su coloro che si rivolgono verso la Sua Eccellenza, per via disvelativa (biṭarīq al-kašf). Che Allāh ci ponga nel novero dei santi che raggiungono quel grado, se Egli vuole, Egli che concede il successo.

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[Seconda questione] Le sue parole: «Seconda questione: “Le essenze possibili sono fatte o non sono fatte?”, fino alle sue parole: “E specificare il vantaggio risultante da ognuna delle due”». (104) Io dico: il senso inteso nelle loro parole: «Le essenze sono “non fatte”», è che il [colore] nero356, ad esempio, non è nero per mezzo dell’azione di un agente. Ciò [vuol dire] che, se non assumiamo [che vi sia] un [colore] nero all’inizio, e poi imponiamo ad esso l’opera dell’agente, è assurdo che l’agente lo faccia essere diverso da ciò che lo abbiamo assunto essere inizialmente. Lo stesso vale per l’esistenza. L’agente non fa essere «esistenza» l’esistenza, e questo per l’impossibilità di far essere ciò che già c’è357. Se noi dicessimo: è forse l’agente che fa essere «nero» il nero? Cioè: è forse lui che instaura (yabda‘)358 qualcosa che è il nero? E se dicessimo: è forse lui che fa essere il nero esistente? Allora la risposta corretta a ciò sarebbe: sì, è lui che produce dal nulla il nero, e fa essere il nero esistente. Anzi, la verità sarebbe che tutte le essenze e gli enti sono fatti, il loro produttore essendo Dio, Altissimo e Lodato359. Se [invece] diciamo: le essenze possibili sono entrate in rapporto con l’esistenza, allora in effetti la possibilità (imkān) non può essere qualificazione dell’essenza in quanto essa è un’essenza e basta, ma può essere sua qualificazione solamente quando essa sia giudicata [messa] in rapporto all’esistenza o alla non esistenza360. Quanto alle sue parole: «Sono esse, rispetto al loro essere essenze e basta, entità positive».

O l’oscurità. Letteralmente: «far risultare ciò che è (già) risultato», taḥṣīl al-ḥāṣil. 358 Instaura ex novo. 359 Ṭūsī intende dire che quando ci si trova di fronte al termine ǧa‘ala (fare), che si riferisce ad un tipo di agente secondario, si deve affermare che le quiddità sono non fatte, poiché sarebbe assurdo accettare le quiddità come «fatte secondariamente». Invece, fare nel senso di bada‘a (creare immediatamente) significa che si devono contemplare le quiddità come opera diretta di Dio. 360 Tutte le essenze possibili allora sono tali solo se vengono messe in relazione (mansūba) con l’essere. 356 357

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(105) La risposta è: no, perché l’essenza, in quanto è essenza soltanto, non può essere qualcosa di diverso dall’essenza. Quanto al momento in cui esplica ciò dicendo: «Nel senso che esse hanno una sorta di esistenza». La risposta è: sì, in quanto l’essenza quando è concepita riceve eventualmente un’esistenza intelligibile (wuǧūd ‘aqliyy), e quando è assunta essere nelle realtà effettive [esterne] (fī’l-a‘yān) possiede l’esistenza in quanto ente reale (wuǧūd ‘ayniyy). E l’esistenza in quanto ente reale non deriva se non dal suo Datore di esistenza, mentre l’esistenza intelligibile la ricava da chi la pensa. Entrambe le esistenze sono una possibilità per tale cosa. Se essi dicono: «L’essenza ha un’esistenza che viene prima di essa», essi con ciò intendono la sua intelligibilità, che è causa della sua esistenza in quanto ente reale, cioè la conoscenza attiva (al-‘ilm al-fi‘liyy). Se essi dicono: «Essa ha un’esistenza che sta assieme ad essa», essi con ciò intendono l’esistenza in quanto ente reale (wuǧūd ‘aynī). Se essi dicono: «Essa ha un’esistenza che viene dopo di essa», essi con ciò intendono il suo essere intellegibile in seguito alla sua esistenza, cioè la conoscenza passiva (al-‘ilm al-infi‘āliyy). Se si guarda all’essenza soltanto, nell’intenzione della mente c’è solo l’essenza, e in questa visione non sono incluse né l’esistenza né la non esistenza. Perciò essi hanno detto: «Essa non è esistente né non esistente». Successivamente, quando si guarda alla sua condizione nell’atto in cui è considerata (106) e nell’atto del suo presentarsi nell’intelletto, deve [conseguentemente] avere un’esistenza, o mentale o quale ente reale, e sarà, nel suo rapportarsi a quell’esistenza, un possibile361.

La quiddità non è una cosa qualsiasi che esiste, poiché non può essere altro che una quiddità. Essa possiede però una specie di essere poiché quando la si immagina riceve un essere intellettivo, quando la si immagina in una singola cosa, ha un essere concreto. Quest’essere concreto deriva la quiddità dal suo artefice, mentre l’essere intellettivo lo ricava da quell’essere che lo intellige. In entrambi i casi la quiddità rientra nello statuto della possibilità. Se allora la quiddità non è come le cose che sono, Ṭūsī riprende la distinzione operata da Ibn Sīnā sugli esseri possibili, quella distinzione cioè tra l’essere e l’esistenza, da cui si evince che l’essenza non ha alcun essere in sé. Dividendo la quiddità secondo un senso logico (essere intelligibile) ed uno ontologico (essere concreto), Ṭūsī specifica che ogni rispettivo essere deriva la quiddità dall’esterno. 361

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Allo stesso modo, quando si guarda a una delle due esistenze, in quanto esistenza, non sarà che quell’esistenza soltanto, mentre quando si guarda alla sussistenza [all’attribuzione] positiva (ṯubūt) di quell’esistenza per essa, per quell’esistenza vi sarà un’altra esistenza. E così di seguito fin dove si arresta la mente. Quando questo punto sia concepito in questo modo, cadono i motivi di problematicità conseguenti ai liberi giochi della facoltà estimativa incerta nel campo dei concetti in un luogo che non le si addice362. Questo è un sottile tema di indagine che ha portato fuori strada molte menti per il fatto che non è stato tenuto presente. Le sue parole: «Poi affermiamo: se si asserisse che le essenze sono “fatte”», fino alle sue parole: «Allora come sta la cosa?». Io dico: sostenere che le essenze denudate dalle due esistenze, mentale e quali enti reali, abbiano una sussistenza [positiva] e si distinguano, oppure una sussistenza [positiva] senza un distinguersi, significa sostenere che il non esistente sia qualcosa. Questa è la dottrina dei «positivisti» (muṯbitūn) tra i Mu‘taziliti, e la sua invalidità è evidente. Le sue parole: «Poi affermiamo: quel che si ricava dalla visione certa e dal gusto (107) valido», fino alla fine della questione. Io dico: sostenere che le essenze non siano «fatte» e che esse abbiano un tipo di esistenza è qualcosa che si avvicina a quanto sostengono i «positivisti» tra i Mu‘taziliti. Essi infatti sostengono che esse abbiano una sussistenza [positiva] nello stato della loro non esistenza, distinguendo tra «la sussistenza» (ṯubūt) e «l’esistenza» (wuǧūd)363.

Fī ġayr mawḍi‘ihā, fuori luogo. Nella seconda questione Qūnawī aveva affermato che secondo l’esperienza mistica le quiddità «non sono fatte» ed hanno una specie di esistenza eterna nella misura in cui sono eternamente ed immutabilmente individuate nella conoscenza di Dio. Ṭūsī osserva che quest punto di vista è vicino alla dottrina dei «positivisti» della Mu‘tazila che conferma la sussistenza (ṯubūt) delle quiddità nel loro stato di non-esistenza. La dottrina mu‘tazilita «della sussistenza delle cose in quanto precedente alla loro esistenza», era stata a lungo bollata dai suoi oppositori, Aš‘ariti ed altri, come una delle maggiori eresie dal momento che implicava l’eternità del mondo. Essa era basata, 362 363

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Può darsi che il nostro Maestro (mawlānā) – che Dio prolunghi i suoi giorni! – intenda qualcosa di diverso, che il discepolo desideroso d’imparare non comprende. Allo stesso modo sostenere che vi sia una predisposizione universale (isti‘dād kulliyy) «increata» che diviene molteplice quanto ai ricettacoli conformemente a questi, si fonda su ciò. Ciò che intende il Maestro principe [Avicenna] col «moltiplicarsi degli aspetti della possibilità» è che la possibilità ammette ciò che è più intenso e più debole, la prossimità all’esistenza e la lontananza da essa, laddove l’anteriorità di una parte dei possibili rispetto ad altri e la posteriorità di una loro parte rispetto ad altri364, è cosa che si concepisce solamente pensando qualcosa che li accompagna inseparabilmente ed è impermanente per essenza, conseguente alle predisposizioni imperfette orientate verso una certa perfezione [finale] (kamāl). Nell’insieme, il loro metodo nello stabilire un ordine dell’essere è riportato nei loro testi che qui possiamo fare a meno di ricordare. Questa è quindi la mia opinione sul presente argomento.

proprio come lo era la visione di Qūnawī, sulla tesi che le cose non sono conoscibili prima della loro esistenza esterna e sono conosciute eternamente da Dio. In questa corrispondenza Qūnawī ha invano cercato di prendere la distanza dalla dottrina della Mu‘tazila, asserendo che secondo questa corrente di pensiero le quiddità sono scevre sia dall’esistenza mentale che individuata. La distinzione posta dai filosofi tra esistenza mentale ed esistenza nel mondo esterno, non era conosciuta dai «positivisti», ma la loro definizione per la «cosa», per il «conoscibile», chiaramente implica che la sua sussistenza nella non-esistenza deriva dalla sua presenza nella conoscenza eterna di Dio. 364 L’autore intende qui il «divenire».

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[Terza questione] Le sue parole: «Quel che viene chiamato “essere generale comune” rispetto al suo essere un’esistenza e basta», fino alle sue parole: «Questo è un contrasto». Io dico: l’essere generale comune assume una realtà effettiva solo nell’intelletto. Lo stesso vale (108) per ogni entità generale comune. E questo [per il fatto] che la cosa determinata (šay’ ‘ayniyy) non si applica365 ad una pluralità di cose. Infatti se fosse in ognuna di quelle cose non sarebbe una cosa per se stessa, ma sarebbe [delle] cose. E se fosse nel «tutto in quanto tutto» – e il tutto, in questo senso, è un’unica cosa – non capiterebbe a [delle] cose. E se fosse nel tutto nel senso del differenziarsi nelle sue unità singole, allora in ciascuna vi sarebbe una parte di quella cosa, non quella cosa stessa. Se non fosse in nulla delle singole unità, né nel tutto, non si applicherebbe ad esse. In sintesi, il suo applicarsi ad altre cose non sarà che il suo essere trasportata sopra quell’altra cosa, e il trasporto e il situarsi sono soltanto nell’intelletto. L’essere generale comune può essere solamente di natura intellettuale. Se è così, la sua rappresentazione366 nell’intelletto avrà come causa l’intelletto e sarà un possibile. Avrà un’altra esistenza grazie alla quale sussisterà [positivamente] nell’intelletto. Questa esistenza è diversa dalla prima, ed ecco che allora sarà «l’esistenza dell’esistenza». Facendo l’esistenza parte dei termini equivoci, essa si applicherà a ciascuna delle due [esistenze] non in sensi tra loro equivalenti. E quando si considera il luogo di inerenza della seconda esistenza, non (109) si dice che esso è un’essenza, ma si dice: è un’esistenza ed ha un’esistenza, e per la sua esistenza v’è un’esistenza. E così via finché la mente non si arresta. E l’esistenza di nulla di queste esistenze sarà propriamente se stessa. Se si concepisce effettivamente ciò nel modo opportuno, cadono tutti i problemi menzionati.

365 366

Cade, tocca. Letteralmente: «il suo risultare» (ḥuṣūl).

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Le sue parole: «Inoltre, è difficile in questo caso stabilire con certezza il discriminante tra l’essere del Vero e l’essere generale», fino alla fine [del discorso]. Io dico: la differenza sta nel fatto che l’esistenza del Vero è relativa al suo essere ente reale (‘ayniyy), non ha un’esistenza che le sopravvenga367, mentre l’essere generale è intellettuale, non si realizza se non nell’intelletto ed ha un’altra esistenza che gli sopravviene se si considera il suo essere nell’intelletto368. La verità, sulla quale non vi è alcuna controversia, è che l’Essere necessario per Sua Essenza non può essere che una cosa reale la cui esistenza è identica alla sua essenza. E quel che è descritto con tale qualità non può essere che uno, sotto ogni aspetto, necessario da ogni punto di vista369. [Quarta questione] Le sue parole: «La quarta questione: dall’Uno non si produce che uno», fino alle sue parole: «Non dispongano di alcun argomento per una cosa del genere». Io dico: chiarirò ciò che ho compreso dei loro discorsi, e se concorda con le cose come effettivamente stanno, bene così, altrimenti non bisogna meravigliarsi se, in argomenti difficili come questi, scivoli (110) il mio piede come son scivolati i piedi di molti pensatori. Dunque, essi intendono con le loro parole: «Dall’Uno non si produce che uno», l’idea che da Lui, considerandolo uno, non si produce se non l’uno, nonostante che essi abbiano ammesso la possibilità che da esso procedano cose molteplici in base ad aspetti diversi370. Come [ad esempio] il fatto che all’uno appartiene l’essere una metà se si considera assieme ad esso il due, l’essere un terzo se si considera assieme ad esso il tre, e l’indivisibilità se si considera la sua unità e nient’altro.

Letteralmente: «accidentale». Proprio perché l’essere generale è intellettivo, si realizza solo nella ragione ed ha perciò un essere accidentale. 369 Ṭūsī quindi fa una netta distinzione tra l’essere di Dio e i restanti esseri come già aveva fatto rispondendo alla prima domanda. 370 Una delle dottrine sostenute e difese da Ṭūsī è proprio quella dell’emanazione elaborata da Ibn Sīnā. Sulla teoria avicenniana si veda lo studio del testo. 367 368

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Dal momento che secondo essi il primo Principio è uno sotto tutti gli aspetti, la cognizione del modo del procedere dei molti da Lui ha bisogno di una fine abilità371.

L’abilità per Ṭūsī consiste innanzitutto nel dimostrare come si possa asserire che esiste molteplicità nel Primo Intelletto e nello stesso tempo sostenere la dottrina che «da Uno non procede che uno», e inoltre esaminare quali aspetti all’interno del Primo Intelletto siano le cause di quali effetti. Nel suo trattato autobiografico, Sayr wa sulūk, Ṭūsī dedica un lungo passaggio a questa questione esprimendosi in questi termini: «Here it is necessary to consider whether or not there can be any intermediary at all between the first effect and the first cause. Among most people of discrimination and reason, it is commonly held that there can be no intermediary between the first effect and the first cause. Now the Ta‘līmiyān believe that all beings issue forth from God, the exalted, who is the first origin (mabda’-i awwal), through the mediation of something which, in the terminology of the later scholars of this jamā‘at, is called His command (amr) or His word (kalima). [According to them] the first cause of the universal intellect (‘aql-i kull), which is the first effect, is God’s command, because God is altogether beyond (munazzah) cause or effect. It is of [crucial] importance to grasp this point, to verify [its] truth and eliminate falsity, because those who do not realize that it is true remain veiled from the knowledge of the True One. Indeed, whoever thinks over this discussion in fairness will realize that he must come to exactly this verdict, as explained by the followers of instruction (aṣḥāb-i ta‘līm) about this matter of which he is ignorant. And this is because the philosopher says that “from the real one (wāḥid-i ḥaqīqī) comes forth only one entity”. For example, if two existents were to issue from it at the same time, the aspect from which the first existent issued would be different from the aspect from which the second issued. Thus, if these two different aspects were included in [the absolute unity of] His essence (māhiyyat), He would no longer be the real one. And if the two aspects were external to [the real one], then the discussion about their origin would be concerned with how it is possible for two postulated existents to emerge [from it]. Since both these arguments are invalid, it is obvious that two existents cannot possibly come forth from the real one at the same time. It follows therefore that the first effect is one, and this is the first intellect. This explains the philosopher’s view, but after this he forgets [the principle] which he knew that when only one existent comes forth from the real one, it comes forth in every respect from the one aspect [of its unity], for if the production of two existents necessitates that there be two aspects the production of one existent requires that there be one aspect. Thus, if they do not admit this [one] aspect, through which the first effect has come forth from the first origin, it must mean that no existent has issued from it, and hence nothing has come into existence [at all]. It is thus demonstrated on the basis of the philosopher’s own arguments, which he must admit, that the existence of this [one] aspect is necessarily proven, but because of his negligence of this point, the path to the 371

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Riporteremo quindi il modo in cui ciò è possibile, e ciò assegnando la lettera Alif per denotare il primo uno, e Bā’ per quello che ne procede, e che si trova al secondo grado. Quindi Alif, mediante Bā’, avrà un effetto (aṯar), sia esso Ǧīm. Bā’ da solo avrà un effetto, sia esso Dāl. Questi due sono al terzo grado. Poi Alif assieme a Ǧīm avrà un effetto, sia esso Ḫā’. Per Alif-Bā’ assieme a Ǧīm c’è un effetto, sia esso Zāy. Per Alif con Dāl c’è un effetto, sia esso Ḫā’. Per Alif-Ba con Dāl c’è un effetto, sia esso Ṭā’. Per Bā’ con Ǧīm c’è un effetto, sia esso Yā’. Per Bā’ con Dāl c’è un effetto, sia esso Kāf. Per Ǧim da solo c’è un effetto, sia esso Lām. Per Dāl da solo c’è un effetto, sia esso Mīm. Per Ǧīm -Dāl assieme c’è un effetto, sia esso (111) Nūn. Da Alif- Ǧīm -Dāl c’è un effetto, sia esso Sīn. Da Bā’- Ǧīm -Dāl c’è un effetto, sia esso ‘Ayn. Da Alif-Bā’- Ǧīm -Dāl c’è un effetto, sia esso Fā’. Il primo grado è Alif, il secondo grado è Bā’, derivato da Alif, il terzo grado è dato da Ǧīm, derivato da Alif-Bā’, e da Dāl, derivato da Bā’, il quarto grado e ne abbiamo dodici: Ḥā’, da Alif-Ǧīm; Ṭā’, da Alif-Bā’-Dāl; Lām, da Ǧīm; Sīn, da Alif-Ǧīm-Dāl;

Zāy, da Alif-Bā’-Ǧīm; Yā’, da Bā’-Ǧīm; Mīm, da Dāl; ‘Ayn, da Bā’-Ǧīm-Dāl;

Ḫā’, da Alif-Dāl; Kāf, da Bā’-Dāl; Nūn, da Ǧīm-Dāl; Fā’, da Alif-Bā’-Ǧīm-Dāl.

Sono dodici e si trovano nel quarto grado372.

recognition of God has been barred to him». Cfr. Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., pp. 35-37. 372 Ṭūsī presenta la sua teoria nel suo commento alle Išārāt wa’l-tanbihāt di Ibn Sīnā per dimostrare come si possa asserire che esiste molteplicità nel Primo Intelletto e allo stesso tempo sostenere la dottrina che da Uno non procede che uno. Il secondo punto riguarda la questione di esattamente quali «aspetti» all’interno del Primo Intelletto siano le cause di quali effetti. Ne risulta lo schema esposto fino ad arrivare sul piano emanativo alla costituzione di dodici entità.

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Abbiamo preso in considerazione gli inferiori guardando al superiore, ad esempio Bā’ guardando ad Alif, e Ǧīm guardando ad Alif e a Bā’ e a loro due, e allo stesso modo Dāl guardando ad Alif e a Bā’ e ad entrambi i due. In analogia a ciò, quel che sta sotto, gli effetti (al-aṯār) e gli aspetti (i‘tibarāt) aumentano. Se dunque portassimo avanti questi gradi fino al quinto, al sesto, e ai successivi, gli effetti e gli aspetti diverrebbero senza fine. È possibile che vi sia per il primo (112) in considerazione di ciascuno di essi un atto e un effetto, derivandone perciò attraverso questi aspetti enti senza fine non collegati tra loro. Essi hanno detto: nel Primo Intelletto vi sono quattro aspetti. Uno è la sua esistenza, che gli viene dal Primo. La sua essenza, che ha insita in sé (min ḏātihi). La sua conoscenza del Primo, che gli proviene guardando il Primo. La sua conoscenza di sé, che gli proviene guardando se stesso. Procedono allora dal Primo, grazie a questi aspetti, la forma di un cielo, la sua materia, la sua intelligenza e la sua anima. Essi hanno proposto questo grazie ad un esempio, perché ci si faccia un’idea del modo in cui i molteplici effetti spuntino fuori a causa dei molteplici aspetti, pur sostenendo che dall’uno non si produca che uno in ragione di un solo aspetto. Non hanno preteso di conoscere come procedano gli altri molteplici enti, e non si sono occupati degli altri nove cieli, affermando l’esistenza di dieci intelligenze solamente, che non possono essere di numero inferiore373. Quanto al numero maggiore [che in effetti risultano esistere], hanno

373 Un’esplicazione più dettagliata su questo passaggio la rintracciamo in un’altra opera di Ṭūsī, il Rawdat al-taslīm [Il giardino della vera fede], probabilmente da lui redatta durante il suo soggiorno alla fortezza di Alamūt, dove il filosofo così risponde alla questione del numero nove dei cieli: «Le monde ressortit à ce que dit ce verset: “Ils n’embrassent, de Sa science, que ce qu’Il veut”. C’est dire aussi que le jugement et la sagesse divins déterminèrent qu’il y eût neuf cieux, douze constellations, que les planètes fussent au nombre de sept, les Éléments au nombre de quatre et les règnes naturels trois. Leur quantité et leur modalité, les Maîtres de Vérité – qu’à leur mention on se prosterne – les connaissent, eux qui embrassent et qui pénètrent la totalité de la création, tandis que leurs servants peuvent seulement en parler parce qu’ils ont été pourvus de savoir par leurs Dâ’îs et leurs Hojjats: de Dieu vient la guidance et l’assistance se trouve auprès de Lui». Cfr. Nasiroddin Tusi, La Convocation d’Alamût. Rawdat altaslim, traduit par C. Jambet, ed. Verdier – Unesco, Paris 1996, p. 138.

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ricordato che i cieli sono numerosi e i loro movimenti diversi, e bisogna che vi sia per ognuno un’intelligenza e un’anima. E non si sono occupati degli astri irregolarmente vaganti374 e immobili375. Questo sorge solo a causa di aspetti diversi che si moltiplicano, ciascuno di questi corpi celesti e delle loro anime (113) e intelligenze essendo la sua specie nel suo individuo. Essi hanno ammesso che dal Primo Principio procede l’esistenza di tutti questi enti, l’uno attraverso l’altro, e per un aspetto dietro l’altro in senso discendente. Questo dunque è quel che ho capito delle loro parole376.

O roteanti. Per entrare nel dettaglio, questa è la descrizione celeste di Ṭūsī: «L’Intelligence correspondant à la sphère des sphères implique aussi trois représentations, tout comme la première Intelligence : l’une engendre nécessairement une autre Intelligence, celle qui correspond à la sphère des Fixes, que l’on nomme également le Korsî. Une autre engendre nécessairement ce qui est entre la sphère des Fixes et la sphère de Saturne, puis ce qui va de l’Intelligence de la sphère de Jupiter jusqu’à l’Intelligence de la sphère de Mars, puis de l’Intelligence de la sphère de Mars à l’Intelligence de la sphère du Soleil, puis de l’Intelligence de la sphère du Soleil à l’Intelligence de la sphère de Vénus, puis de l’Intelligence de la sphère de Vénus à l’Intelligence de la sphère de Mercure, puis de l’Intelligence de la sphère de Mercure à l’Intelligence de la sphère de la Lune. Chaque Intelligence implique ce mêmes trois représentations, et ces trois représentations engendrent nécessairement une autre Intelligence, une autre Âme et une autre sphère. Quant à la matière et à la forme de chaque sphère, elles impliquent les deux reprèsentation que forme chaque Âme, c’est-à-dire que celle-ci connaît la perfection de l’Intelligence et sa propre déficience. Tel est le décret du Tout-Puissant, de l’Omniscient. La création du monde de sphères célestes consista en ces neuf sphères motrices : à chaque sphère une Âme régente est dévolue, et à chaque Âme une Intelligence déterminée». Cfr. Nasiroddin Tusi, La Convocation d’Alamût, op. cit., p. 135. 376 Sulla processione degli altri esistenti dal Primo Intelletto ancora Ṭūsī specifica: «Lorsque la première Intelligence se représenta sa propre cause, qui avait une relation supérieure, cette représentation engendra nécessairement une autre Intelligence, c’est-à-dire l’Intelligence correspondant à la sphère des sphères, que l’on nomme aussi le ciel d’Atlas ou encore le Trône. Lorsqu’elle se représenta sa propre essence, qui avait une relation intermédiaire, c’est-à-dire quand elle sut qu’elle était nécessaire par autrui, cette représentation engendra nécessairement l’Âme universelle, soit l’Âme de la sphère des sphères. Enfin, lorsqu’elle se représenta sa propre nature d’existant simplement possible, qui avait une relation inférieure, c’est-à-dire lorsqu’elle sut que 374

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È risultato chiaramente che questi «aspetti» non sono presupposti e non sono causa perfetta di alcunché. Sono degli aspetti che stanno in relazione con un principio unico, di modo che a causa loro i suoi effetti divengano molteplici377. Non c’è la necessità che gli aspetti siano delle entità ontologiche reali (umūr wuǧūdiyya ‘ayniyya)378, è invece sufficiente che siano di natura intellettuale, poiché l’agente unico talora compie molti atti a causa di diverse entità di natura intellettuale o inesistenti. Quanto [invece] alla negazione dell’influenza del Vero sugli enti e la negazione della sua intellezione dei particolari, è qualcosa che ha loro attribuito chi non ha compreso le loro parole. Come potrebbero negare la Sua influenza sugli enti dopo averLo fatto principio di tutto? E come potrebbero negare la Sua intellezione dei particolari, mentre questi procedono da Lui ed Egli secondo loro conosce la Sua Essenza? E la loro dottrina che la conoscenza della causa determina la conoscenza dell’effetto? Al contrario, avendo negato che Egli si situi nello spazio (kawn fī’l-makān), hanno fatto della relazione che tutti i luoghi hanno con Lui una relazione unica ed equivalente, e avendo negato il Suo essere nel tempo (kawn fī’l-zamān), hanno fatto della relazione di tutti i tempi – passato, presente e futuro – con Lui una relazione (114) unica. Hanno perciò detto: come il Conoscitore dei luoghi, non avendo luogo, conosce dove stia Zayd da qualunque dei lati di ‘Amrū si trovi, e come sia l’indicazione dall’uno all’altro, e quanto siano distanti tra loro, e lo stesso riguardo tutte le minime particelle del mondo, senza stabilire la relazione di nessuna di esse con Se stesso, [poiché] non ha luogo, così il Conoscitore dei

par soi elle était simplement possible, cette représentation engendra nécessairement la sphère des sphères». Cfr. ibid., pp. 133-134. 377 Per Ṭūsī il primo effetto non è sinonimo del Primo Intelletto. In effetti esso è solo il primo aspetto del Primo Intelletto che emana, cioè, la sua esistenza. Il primo effetto è così un’entità singola, dal momento che il Primo Intelletto è multiplo in quanto possiede sei aspetti, due di questi sono costitutivi, cioè la sua esistenza e la sua essenza. Gli altri quattro sono concomitanti (lawāzim) e sono: la sua possibilità in se stesso, la sua necessità attraverso il suo principio, la sua conoscenza di se stesso, la sua conoscenza del principio. 378 Cioè che abbiano un’esistenza come quella degli enti effettivamente reali.

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tempi, non essendo temporale, conosce Zayd in qualunque tempo sia generato e ‘Amrū in qualunque tempo, e quale sia l’intervallo temporale che li divide. E lo stesso [vale] per tutti gli eventi legati ai tempi, senza stabilire la relazione di nessuno di essi con un tempo che sia per Lui presente. Cosicché non dice: questo è passato, e questo è quel che è venuto dopo, e questo esiste adesso. Al contrario, tutto ciò che si trova nei tempi è presente presso di Lui equivalente quanto alla relazione con Lui, pur Egli conoscendo le reciproche relazioni delle varie cose e la precedenza di certe su altre. Secondo loro, essendo ciò confermato, e giudicando in questi termini, e non essendo possibile questo giudizio alle menti incerte di coloro che penetrano profondamente (mutawaġġilūn) lo spazio e il tempo, alcuni di questi ultimi Lo hanno giudicato avere un luogo, indicandone uno specifico a Lui, e altri temporale, dicendo: questo Gli è sfuggito, quello non Gli è giunto dopo. Hanno ricondotto, chi nega ciò (115) su Lui, alla dottrina che nega la conoscenza dei particolari temporali, mentre le cose non stanno così. Quanto al «misurare l’invisibile con il visibile», questo è [riferibile] a chi afferma: Egli, l’Altissimo, è temporale o spaziale come alcune delle Sue creature. Le sue parole: «Il richiedente (al-dā‘ī) ha già approfondito con la speculazione tutto ciò che è stato riferito nell’attestare queste tesi», fino alla fine della sezione. Io dico: questo è quello che egli ha menzionato, sottolineato e indicato per un’altra via, diversa da quella in cui ci troviamo. La maggior parte di ciò è connesso col gusto e il disvelamento379.

379 Riguardo a questo tema nel Sayr wa sulūk Ṭūsī conclude: «However, the instructor who had not neglected this aspect named it the “command” (amr) or the “word” (kalima), in accordance with the verse of the Qur’ān: “Verily, His command, when He desires a thing, is to say to it ‘Be’ and it is (36:82). This verse makes it clear that the issuing forth of existents from God depends on the expression ‘Be’ (kun), and the word ‘verily’ (innamā) in Arabic serves the purpose of pinpointing [the scope of the expression], thereby making clear that the command is an expression for that word. The proof for the existence of this aspect, which only the people of ta‘līm have established, can also be deduced from philosophy and revelation (sharī‘at). However, those who cling to only the exoteric aspects of these two methods remain deprived of, and veiled from, the knowledge of it. There is no doubt that this aspect, the command or the word [of God] is not something additional to His sacred essence, in so far as He is He, the exalted – otherwise another intermediary would be required for the origination of

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Dio guida chi vuole alla via diritta, e alla religione assiale, e conosce ogni cosa. [Questione generale] Le sue parole: «Questione generale che include un certo numero di questioni», fino alla fine della questione. Io dico: quanto alla realtà dell’anima umana, è ciò che ogni uomo indica dicendo «io». Questa è infatti la cosa per lui più chiara, e la sua affermazione non ha bisogno di un argomentazione, perché la conoscenza della sua sussistenza (116) è innata (fiṭrī)380.

that one. [i.e., the first intellect] – but from the point of view where [the command] is the cause of an effect, it is something additional. This additional entity, in reality, is the cause of the first effect, because cause and effect are two concatenating (iḍāfī) entities, in so far as there can be no cause without a corresponding effect, and no effect without a corresponding cause. Whatever is relative is within the scope (ḥayyiz) of opposition, because opposition can only exist between two things, and duality is plurality. [...] From this [discussion], it becomes clear that, in the terminology of the philosophers, it is an error to speak of the first cause in relation to God, but it is correct to apply it to His command which is the source of all existents. In fact, whatever attribute has been ascribed to the first cause by distinguished philosophers and people of knowledge (ahl-i ma‘rifat) among the men of intellect, is a reference to His command, one facet of which is directed to the world of pure, eternal unity, the other to the world of multiplicity and contingency; but God as such is free from, and exalted above, both these facets. [...] The knowledge of the first, the command of the True One – praise be to Him – in so far as He is He, in other words from the aspect of absolute unity, is the knowledge of God by God (ma‘rifat-i khudā bi khudā), within the limits of the knowledge [implied in the verse]: “God bears witness that there is no God except He” (3:18). This is the noblest degree of certainty, the most perfect mode of knowledge, unlike the knowledge of cause through effect which does not give certainty. For the truth about knowledge is, as they have said: “We have not know You as You should be known” [and in the words of the Qur’ān]: “They do not apportion to God what he deserves” (6:91)». Cfr. Ṭūsī, Contemplation and Action, op. cit., pp. 36-40. 380 Sulla sezione dedicata allo studio dell’anima, Ibn Sīnā, dopo aver illustrato la famosa teoria denominata dell’«uomo volante», affermerà esplicitamente che l’anima ha una conoscenza diretta di se stessa, conoscenza acquisita senza bisogno di alcun intermediario. Cfr. Ibn Sīnā, Al-išārāt wa’l-tanbihāt, op. cit., pp. 343-346. Ṭūsī a proposito scrive: «Or voici que tu dis “ma tête”, ou «mon oeil», «mon oreille», «mon cœur», «ma langue», «ma main», etc. En cela, ce «moi» dont tu parles, c’est

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Quanto all’argomentazione in merito alla sua immaterialità (taǧrīd)381, è che essa presenta in sé gli universali e gli intelligibili esenti dalle costituzioni relative alla corporeità e dalle cose che non ammettono divisione. I sensi materiali non afferrano che quanto si trova in una certa condizione382 rispetto ad essi o si trova connesso con qualcosa che possiede una condizione particolare, oppure ammette divisione [di per sé] o è congiunto con qualcosa che la ammette. Ecco allora che essa, perciò, è libera dalla materia relativa alla corporeità383. Quanto alla sua immortalità, dipende dal fatto che essa non inerisce a qualcosa che contenga la potenza della sua estinzione (quwwa fanā’ihā), in quanto l’estinzione dopo la permanenza non avviene che a quanto ha in sé l’estinzione in potenza, fino a passare, tramite un’altra causa, in atto. E, d’altra parte, le sostanze semplici connesse con le loro cause che esistono perpetuamente, non ammettono in nessun modo il perire. Questi temi richiederebbero una lunga trattazione, ma i suoi principi basilari sono questi da me indicati384.

l’ipséité de l’âme humaine dont toutes ces choses sont les dépendances». Cfr. Ṭūsī, La Convocation d’Alamût. Rawdat al-taslim, op. cit., p. 155. 381 Taǧrīd, dalla II forma ǧarrada, togliere un involucro, spogliare, denudare, da cui astrazione. Le ǧawahir al-muǧarrada sono le sostanze semplici, sostanze che in se stesse sono prive di materia. 382 O posizione. 383 Questo passaggio rimanda all’operazione compiuta dall’anima grazie alla quale essa riesce a disitricare le pure forme dalla materia attraverso diversi gradi di astrazione. Ciò grazie al fatto che essa possiede per sua natura questa abilità, che consiste nel raggiungere il regno intelleggibile dove le Forme possono essere viste così come esse sono, indipendentemente da tutti i legami inerenti alle percezioni sensoriali e alle rappresentazioni. Su questo argomento cfr. C. D’Ancona, «Degrees of Abstraction in Avicenna. How to Combine Aristotle’s De Anima and the Enneades», in S. Knuuttila – P. Kärkkäinen (eds.), Theories of Perception in Medieval and Early Modern Philosophy, Dordrecht, Springer 2008, pp. 47-71. 384 «Les deux âmes, végétale et animale, se divisent et se fragmentent ; lorsque le corps vient à périr, elles périssent aussi. Tandis que l’âme humaine ne se divise ni ne se fragmente. Après la mort du corps et sa séparation d’avec lui, elle se maintient dans l’existence ; bien qu’elle ne soit pas une substance éternelle au sens où elle n’aurait pas commencé à exister, elle est éternelle au sens où elle ne connaît pas de fin». Cfr. Ṭūsī, La Convocation d’Alamût. Rawdat al-taslim, op. cit., p. 152.

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Quanto al «suo bastare a se stessa in quella misura che le deriva dal divenire perfetta attraverso questa costituzione elementare nella dimora di questo mondo indipendentemente da costituzioni ulteriori dopo questa», ciò è perché la trasformazione da stato a stato non si verifica che per quanto è soggetto al tempo, il quale è la fonte di tutte le trasformazioni. E il tempo non circonda se non ciò che (117) le sfere mobili circondano. Se vi fossero per l’anima altre costituzioni entro queste sfere, ciò significherebbe una reincarnazione (tanāsuḫ), e ciò è stato da essi già confutato. Se non avviene entro queste sfere, non è possibile che per essa vi sia in tal caso un perfezionamento. Quanto al modo in cui governa (tadbīr) questa forma corporea (haykal), [ciò avviene] tramite facoltà inconsce, quali la nutritiva, l’accrescitiva, la generativa del simile, e tramite facoltà dotate di consapevolezza, quali le percezioni dei sensi – esternamente o internamente al corpo – e tramite una percezione che non si attua attraverso gli strumenti, ma grazie al suo stesso essere, cose che sono i princìpi delle sue attività pratiche e di quelle teoretiche, e tramite il movimento intenzionale, o per attrarre, come la facoltà concupiscibile, o respingere, come l’irascibile. E se l’anima governasse altri corpi con lo stesso tipo di governo e nello stesso momento, ne sarebbe (118) consapevole, in quanto la maggior parte dei suoi atti di governo dipendono da una consapevolezza. Quanto alle anime forti, può avvenire che esse esercitino un’influenza su qualcos’altro di diverso che i loro corpi che mettono o no in movimento, con un mezzo diverso dal loro corpo tra i vari corpi fisici e le forze. Questo è come il malocchio (iṣāba al-‘ayn) e la magia (sihr), e come questo è l’efficacia della preghiera a favore di qualcuno o contro qualcuno, e come i carismi dei santi e i miracoli dei profeti. Quanto all’elevarsi dal grado della loro particolarità fino a divenire universali, come ha ricordato a proposito dell’intelletto agente, ciò è assurdo, perché il mondo è derivato da esso nelle sue parti originarie, e le influenze temporali continuano in esso ad avere effetto solamente nelle sue parti di natura particolare, rientrano nei composti del «mondo della generazione e corruzione» sotto le trasformazioni temporali. All’ascesa delle anime perfette appartiene [qualcosa] dei gradi delle parti di natura universale. La loro elevazione fino al punto di contemplare

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il Primo Principio (119) è perciò qualcosa che esse ottengono nelle loro entità particolari, senza arrivare fino a un mutamento e ad un’alterazione dei fondamenti originali (uṣūl), corporei o spirituali, del mondo. Quanto al discorso sulla sua innovazione e la sua eternità, Aristotele e i suoi seguaci hanno detto: il Primo Principio è perfetto e al di sopra della perfezione, intendendo dire, con le parole «al di sopra della perfezione», che Egli effonde la perfezione su ogni essere cui sia dovuta, nella misura della predisposizione che gli è procurata dai movimenti e dalle commistioni. E il temperamento equilibrato di cui è dotato il composto a partire dall’amalgamarsi e dagli elementi, è predisposto per una forma o anima che lo custodisce385 e governa la composizione di quel misto. Se le anime sono eterne, e si congiungono con quei corpi, allora o al Primo Principio è impedita l’effusione, oppure un singolo corpo verrà ad avere due anime, una eterna e una innovata386. Secondo loro questi due casi sono impossibili. Ecco che, allora, le anime sono originate nel tempo come le anime degli altri enti composti animali e vegetali e le loro forme. Quanto agli antichi, essi ne hanno trasmesso di aneddoti e racconti relativi all’argomento delle anime eterne. La maggior parte di loro ammetteva la reincarnazione e l’annullamento [al riguardo] (ta‘ṭīl); io [però] non ho visto alcun argomento o fondamento per i loro discorsi. A volte si trova nei libri dei profeti – su di loro la pace – qualcosa che si accorda con una parte delle loro dottrine, ma (120) ciò implica l’interpretazione. Questo argomento di studio non è tradizionale (sam‘ī), cosicché si riconduce ai loro testi, e Allāh è il più sapiente delle realtà delle cose. Quanto a quel qualcosa di comune affine all’anima e al corpo che richiede il legame, [si tratta] di ciò che comporta la specifica assegnazione di ogni anima al suo corpo, affinché non avvenga che l’anima di un uomo si connetta al corpo di un cavallo o viceversa, e lo stesso per tutti gli enti composti. Noi sappiamo che là si trova qualcosa, ma non ne conosciamo la sua realtà distintamente.

O piuttosto: lo mantiene, se il riferimento è al temperamento. Nuova o originata per l’occasione, ḥādiṯ. Oppure: una eterna e una temporale, originata o creata nel tempo. 385 386

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Quanto alle sue parole: «Può accadere all’anima di liberarsi da quel legame completamente, di una liberazione intesa nel senso di un’indipendenza?». La risposta è: lo «strappo» è necessario, ma non avviene per volontà dell’anima, così come il legame non c’è stato per sua volontà. Invece, quando la commistione si decompone, l’anima si libera dal corpo. Se essa allora è non dipendente dal corpo, è beata e si riposa dalla fatica. Se ne ha bisogno in quello stato postumo, diviene infelice e misera, perché ha bisogno di qualcosa che non trova. Quanto all’interruzione della connessione con questo mondo prima della morte, (121) è cosa impossibile. Infatti il suo governo del corpo è una connessione. È però possibile che non abbia bisogno della connessione pur questa essendoci. Questo risulta per le genti della perfezione a causa del loro disporsi verso il mondo a venire e il loro distogliersi da questo mondo. Il nostro Maestro (mawlānā) – che Dio prolunghi i suoi giorni – l’ha già provato (waǧada) in lui stesso, ed ha visto qualcuno che era in questo stato. La prova di questo è che le anime umane divengono perfette grazie alle loro percezioni intellettuali387. Quando allora sono perfette nell’acquisizione di ciò che le rende beate e si sono allontanate da ciò che le preoccupa, non hanno alcun bisogno del corpo. La morte, sulla base di questa analogia, è la massima conquista e il raggiungimento della beatitudine più immensa388. Quanto al distinguersi dell’anima dalle altre dopo la separazione [dal corpo], questo avviene a causa della sua precedente connessione con un corpo distinto dagli altri corpi e di una determinazione (ta‘ayyun) che le deriva dal lato di quel corpo. Le anime celesti e altre [analoghe] non hanno bisogno di quella determinazione perché sono specie [tra loro] distinte, ciascuna specie di queste [essendo] in un individuo unico.

387 Bi-idrāk ‘ilmiyya. Qui si attribuisce la perfezione alle anime tramite un atto intellettivo piuttosto che contemplativo. 388 «On sait que l’âme devient plus forte qu’une autre en acquérant la perfection de la science jusq’à atteindre [au degré] des âmes des Hojjats supérieurs, degré où elles reçoivent l’effusion des lumières du Verbe suprême grâce à la pureté de leur propre substance et se distinguent des autres âmes par l’enseignement seigneurial». Cfr. Nasiroddin Tusi, La Convocation d’Alamût, op. cit., pp. 156-157.

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Le anime umane hanno bisogno della determinazione perché sono di un’unica specie con individui [tra loro] distinti. Questo è palese. Quanto alla distinzione, se fosse secondo le forme delle opere e delle conoscenze, o secondo le disposizioni acquisite mentre era unita al corpo, allora le anime dei bambini piccoli non avrebbero tale distinzione, e sarebbe perciò necessario (122) che quelle ricevessero l’essere dopo la morte, se queste permangono. Il resto del discorso egli – che Dio prolunghi i suoi giorni – lo ha riferito in modo che non resti per nessuno la possibilità di aggiungervi qualcosa. Dio l’Altissimo gli ha concesso le perfezioni possibili alla specie umana, ed è Colui cui si rende grazie in ogni caso e momento389. Le sue parole: «Questione che include altre questioni», fino alla fine di essa. Io dico: quanto alla potenza dei corpi, essa è finita, com’egli afferma – che Dio faccia durare la sua elevatezza e conservi la sua ombra. Quanto all’interruzione della specie umana per un certo periodo e il suo ritorno successivo, è possibile, e lo stesso vale per una specie diversa dalla sua tra le altre specie. Quanto alla permanenza dei cieli e alla durata dei loro effetti, essi l’hanno sostenuta solamente perché, avendo esaminato con cura i luoghi e le direzioni (ǧihāt), come il sopra, il sotto e altro, li hanno trovati spiegati in ragione di qualcosa che limita: la sfera che abbraccia tutto. E quando hanno esaminato con cura i tempi, li hanno trovati spiegati in ragione di una cosa per essenza impermanente: il movimento locale continuo, e questo non appartiene ad alcun corpo se non alla sfera celeste. Da ciò hanno conosciuto che, (123) se la sfera che tutto abbraccia si corrompesse o svanisse, per un corpo non rimarrebbe una direzione né un tempo. Questo era impossibile, perché di necessità un corpo ha una posizione e una direzione390, e se il tempo si interrompesse, sarebbe fisso, poiché la sua interruzione in seguito alla sua fissità non avverrebbe che in

È evidente quanto sintetico e breve sia Ṭūsī nel rispondere a questa questione. Egli stesso ammette di non aver nulla da aggiungere all’esposizione condotta da Qūnawī. 390 Cioè un orientamento nello spazio. 389

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un tempo. Perciò hanno giudicato, escludendo queste impossibilità, per il perdurare della sfera e dei suoi movimenti. E in ragione di ciò, le hanno attribuito un’anima dotata di una potenza infinita e un intelletto, per desiderio del quale l’anima muove la sfera, per ottenere col movimento una perfezione che è in essa in potenza verso l’atto per sempre. Quanto al mondo della generazione e corruzione, a causa dell’impossibilità dell’esistenza del vuoto essi ne hanno giudicato complessivamente il perdurare. Poiché le sue parti si trovano in [più] direzioni, alcune sopra altre sotto, hanno giudicato della differenza delle nature e della possibilità delle loro composizioni secondo ciò che abbiamo riscontrato coi sensi. E hanno giudicato per il dissolversi delle composizioni, perché la loro aggregazione (iǧtimā‘) è forzata, contraria alle loro nature e alla continua tendenza di queste verso i loro luoghi. È necessario che si dissolvano, pur permanendo, nell’insieme, le loro parti originali (aǧzā’ aṣliyya), ed anche se alcune di esse391 si corrompono mutandosi in altre. Quanto all’essere privi dei corpi celesti delle nature degli enti elementari, è necessario, poiché se essi si fondassero sulle loro nature, (124) i loro luoghi e il loro movimento sarebbero forzati, e quel che è forzato non dura. E la loro interruzione comporterebbe l’impossibilità menzionata. Quanto alle dottrine dei sapienti (ḥukamā’) più antichi e alle opere scritte dei loro posteri, sono [in entrambi i casi] varie, come egli – che Dio faccia durare la sua elevatezza – ha ricordato. Ciò che ha citato il suo discepolo e beneficiario è quanto di esse ha trovato collegato ad un argomento o a una prova. E Dio conosce meglio le realtà delle cose. Le sue parole: «Questione: [per] l’uomo [che si trova] in questa costituzione naturale e in questa dimora è difficile lo spogliamento completo», fino alla fine di ciò.

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Cioè le composizioni.

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Io dico: in verità, i sapienti392 hanno esaminato con cura l’essenza del piacere, e sono giunti all’idea che esso sia la percezione di qualcosa di gradevole in quanto gradevole. Hanno trovato l’Essenza di Dio, il Lodato, nel senso che per Essa non c’è nulla di gradevole che sia più intensamente gradevole della Sua stessa realtà, in quanto non c’è alcuna corrispondenza tra Essa e altro da Essa, e la Sua percezione di Se stessa è la più perfetta delle percezioni. Perciò hanno giudicato che il piacere al di sopra del quale non ce n’è altro è soltanto Suo. Poi hanno osservato gli stati di coloro che son giunti alla Sua santa Eccellenza, e hanno trovato che l’Essenza di Dio Altissimo e la prossimità a Lui sono qualcosa di gradevole (125) per le loro anime perfette. Essi compresero ciò nella misura della loro predisposizione. Perciò giudicarono che il loro piacere è un piacere continuo al di sopra dei piaceri di questo mondo. Quanto ai piaceri sensibili e immaginativi, essi li giudicarono imperfetti, temporanei ed effimeri. Se durano, si trasformano in sofferenze. Hanno giudicato perciò che questi piaceri sono estremamente vili e insignificanti. Allora li sfuggirono e s’interessarono al conseguimento dei piaceri reali. Ma in presenza dei piaceri vi sono i dolori, in quanto il dolore è la percezione dello svanire della cosa gradevole assieme al bisogno di essa, o l’arrivo di qualcosa di non gradevole pur potendone fare a meno. È evidente che al Creatore, l’Altissimo, non sfugge qualcosa di gradevole, né gli si presenta qualcosa di non gradevole, e che lo sfuggire dei piaceri reali, anzi, degli stati corporei gradevoli assieme alla brama inutile del loro ritorno è il più intenso dei dolori. Ciò è stato espresso dalle Parole [divine]: «È il fuoco di Dio, acceso, che si leverà alto sopra cuori»393. Le sue parole: «Questione: qual è la realtà dell’effusione che procede dal Vero?», fino alla fine di ciò. Io dico: l’effusione (fayḍ) è qualcosa di esistente che procede dal Vero. E se ha bisogno di un ricettacolo (qābil), e il ricettacolo è esistente, il suo ricettacolo lo riceve senza un movimento da parte del Vero verso di esso, né fuoriuscita di qualcosa da Lui verso di esso, né ricezione di esso da parte del ricettacolo, né movimento verso di esso. Non esiste una modalità per quell’emissione né per quella ricezione.

392 393

Intendendo per sapienti anche i filosofi. Cor. 104:6-7.

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Ma negli intelletti si offrono per le due cose due relazioni, una considerata sulla base di ciò che procede, l’altra [sic!]394 sulla base del ricettacolo. Noi troviamo, di noi stessi, che smuoviamo un membro del corpo che desideriamo si muova, non orientandoci verso il movimento e nemmeno deviando dal movimento verso quel membro, bensì con la produzione di un movimento da parte dell’anima in quel membro (126) che lo riceve. Ciò a causa di un senso che si avverte nelle nostre anime, e così quindi [avviene] la produzione. Quanto al sostegno (imdād), cioè il completamento di ciò che il Datore dell’essere ha voluto far esistere, è giudicato in analogia a ciò395, e l’affermazione di questo non ha bisogno di un argomento. Quanto a: «La questione del concatenarsi (tasalsul) di cause ed effetti» fino alla fine. Noi diciamo: l’argomento riposa sull’impossibilità di questo. Cioè, che ogni catena di cause ed effetti è ordinata (mutarattaba). Perciò essa esiste solo nel senso che, se si suppone l’assenza di una delle unità della catena, necessariamente si annulla ciò che le vien dopo nella catena. Ecco che è quindi necessario che in ogni catena esistente vi sia una causa che sia la prima delle cause. Se non fosse per essa, quei gradi che sono i suoi effetti e gli effetti dei suoi effetti, fino all’ultimo dei gradi, non esisterebbero. Se abbiamo supposto una catena che non termini con una causa che non ha una causa, in quella catena non ci sarebbe una causa che sia la prima delle cause. La catena quindi non esisterebbe. E noi l’abbiamo supposta esistere. Questo è un contrasto. Questa sottile argomentazione si riferisce in particolare a questo soggetto. Le sue parole: «Questione: le relazioni che intercorrono tra gli enti», fino alla sua fine. Io dico: le cose ordinate e le cui unità sono esistenti allo stesso tempo (ma‘an), bisogna secondo (127) i sapienti che siano finite396.

Dovrebbe essere uḫrà, non āḫar. O «è conforme a ciò», yuqāsu ‘alayhi. 396 Altrimenti non c’è modo di concepirne l’unità effettiva. 394 395

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Invece quelle che non sono ordinate, come le anime umane che permangono dopo la morte dei loro corpi, e quelle le cui unità non sono esistenti allo stesso tempo, come gli eventi passati, essi hanno ammesso che possano essere senza fine. Anzi, hanno concluso la necessità di ciò sulla base dei loro principi. Le relazioni tra gli enti sono di questo tipo. Lo stesso vale per le configurazioni e le posizioni celesti, e per le commistioni che si generano dagli elementi, e per le cose che potenzialmente non hanno una fine, come la duplicazione delle quantità misurabili e il loro frazionamento, eccetera. Le sue parole: «Questione: la sostanza non svanisce quando una delle sue qualità svanisce», fino alla sua fine. Io dico: ogni elemento si corrompe, infatti svanisce con lo svanire della sua qualità, come l’acqua che bolle e quindi ha perso il suo carattere freddo e si corrompe, producendosi da essa vapore. Ciò quando la qualità estranea abbia superato un limite che fa sì che l’acqua resti ancora tale. Quanto al caso in cui tale limite non sia superato, non svanisce, com’è il caso dell’acqua calda. E il fuoco non svanisce per lo svanire del suo calore eccessivo, infatti nei composti permane con le sue forme privato del suo calore, che lo accompagna sempre quando è isolato. Questo è divenuto chiaro riguardo ciò che si dice a proposito del temperamento (mizāǧ). (128) Le sue parole: «Questione. La materia pura non ammette la divisione», fino alla sua fine. Io dico: la materia pura esiste solo nella mente, e lo stesso vale per la forma. Entrambe nell’esistenza si accompagnano sempre. La corporeità è una risultante e lo stesso la disposizione alla divisione, e molte delle forme e degli accidenti conseguono all’aggregazione. Non vedi che quando si incontrano due rette, tra le due si forma ex novo un angolo, e quando si incontrano le unità si ottengono i numeri? E quando si incontrano la noce di galla397 e il vetriolo si produce ex novo il

La galla è un’escrescenza ricca di tannini che si sviluppa su alcuni alberi a seguito della puntura di un insetto parassita, che poi ne ricava il proprio nido, la noce di galla della quercia ad esempio. 397

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nero398? Quanto all’essere il rassemblarsi una relazione che non assume alcuna realtà [fisica] effettiva per se stessa, non ne consegue che non vi sia per essa un’assunzione di realtà [fisica] effettiva presso altre cose. E ciò che va di seguito (taba‘) a quel che ha un’esistenza [fisica] effettiva (wuǧūd muḥaqqaq), spesse volte è causa (sabab) di qualcos’altro che è dotato di un’esistenza [fisica] effettiva. Come il fatto che la terra sta di fronte al sole, che è la relazione del loro continuo inseguirsi399, comporta l’illuminazione della terra da parte del sole, cosa che ha un’esistenza [fisica] effettiva la quale provoca il riscaldamento della terra. E Allāh è più sapiente. Questo è perciò quel che è venuto in mente di primo acchito al suo proponente (dā‘ī)400, il suo beneficiario, impaziente di servirlo e suo discepolo in questi studi. Se sarà onorato dello sguardo del suo Maestro (mawlā), del suo benefattore, di colui che riversa (129) su di lui varie specie di felicità, e se quindi si offre alla sua mente su ciò un [qualche] discorso e lo usa per dare indicazioni, questo non farà parte dei suoi benefici comuni, e della sua generosità genericamente offerta ad un estraneo. Dio Altissimo faccia perdurare la sua ombra su coloro che ricercano la perfezione, e renda completa per lui la Sua effusione incessante, Egli che in verità è il Sottile, Colui che risponde401.

Il colore nero di galla. Esistono cenni dell’utilizzo dell’inchiostro di galla o ferrogallico fin dall’età romana; ebbe grande diffusione nel Medioevo per la facilità della sua preparazione. Nel XII secolo il monaco Teofilo, nel trattato De diversis artibus, prescrive per la preparazione dell’inchiostro, un estratto disseccato e polverizzato della corteccia di alcune piante, mescolato con vetriolo verde (solfato ferroso) o una miscela di ferro metallico in polvere e tannino; consiglia inoltre di preparare gli inchiostri di oro, argento e rame, versando i metalli polverizzati in decotti di noce di galla, di aceto, di vino, di gomma arabica. Cfr. M. Zerdun-Bat Yehouda, Les encres noires au Moyen Age, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1983. 399 Si preferisce leggere nisbatu tatabbu‘ihimā, invece di nisbatun tatabbu‘ihimā, che appare sconnesso; probabilmente è da leggere nisbatun fī tatabbu‘ihimā, «una (certa) relazione nel loro continuo inseguirsi», nel loro continuo moto l’uno dietro all’altro. 400 In questo caso dovrebbe essere l’autore della risposta: dā‘ī è genericamente il «mittente» nel contesto, come mawlā è il «destinatario». 401 Data e luogo dell’opera nella nota critica: «Terminato in rabi‘ al-awwal dell’anno 762 [corrispondente al 1360 d. C.] a Baġdād nella madrasa al-Imāmiyya 398

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[Ultimo scritto di al-Qūnawī nel quale difende il suo Rašḥ al-Bāl] (130) Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso. Il nobile scritto di questo eminente signore, onorato imām, il supremo maestro, beneficio dell’epoca, vessillo del secolo, esempio dei più grandi eruditi, erede dei maestri della sapienza, possessore dei più elevati orizzonti402, signore della preeminenza nella dimensione speculativa403, difensore della verità e della religione, protettore dell’Islām e dei Musulmani – che Iddio prolunghi l’acquisizione dei propri favori per lui e per la sua esistenza, gli garantisca la felicità e il conseguimento di buone opere per la sua vita; e che [Iddio] lo associ alle qualità delle azioni lodevoli della Sua menzione e gli riveli, dai vari punti dell’orizzonte delle cose nobili, le luci del sole del Suo favore e del Suo plenilunio – [il nobile scritto] che contiene [vari] generi di gnosi e tipi di conoscenza e varie categorie di sottili concetti, è giunto al più sincero dei supplicanti. Il tema [di questo scritto] è adeguato alla glorificazione, all’esaltazione, all’elogio e mostra una riverenza che si addice a chi ha attinto la sincerità spirituale (maqām-e eḫlās) e ha una statura tra la Gente eccelsa (ahl-e eḫteṣāṣ)404. E il ringraziamento a Dio – sia Lui glorificato e venerato – per aver ricevuto buone notizie riguardo il mawlānā405 – che Dio lo preservi – sullo stato di integrità della nobile essenza e [anche] sul regolare svolgimento degli affari consueti nella soddisfazione [divina] e nella rettitudine. E sia ricordato nella nostra manchevole modalità di linguaggio, che è la più alta forma di ringraziamento a Dio.

al-Ġarawiyya». Nella versione del manoscritto tā’-hā’ leggiamo invece: «La lettera nuṣairita è stata terminata nel mese di Ǧumādà al-āḫar [sic] nell’anno 921 [corrispondente al 1515 d. C.]; l’ha trascritta ‘Abd al-Faqīr ibn Muṣṭafà ibn Ḫalīl – che Dio li perdoni tutti». Ancora nella copia ḥā’-ḥā’: «È stato finito il libro con l’aiuto del Sovrano, il Munifico». Cfr. Schubert , Al-murāsalāt, p. 129. 402 Affāq: letteralmente «colui che viaggia molto in cerca della conoscenza». 403 Al-fāḍil al-mutaqaddim, colui che eccelle tra i sapienti del passato. 404 Letteralmente il termine indica gli specialisti, ma in ambito sufi designa l’élite straordinaria che si contraddistingue intellettualmente. 405 Riconoscimento da parte di Qūnawī del ruolo e dell’insegnamento spirituale di Ṭūsī.

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[Qūnawī] desidera in assoluto, con la lingua della devozione (131) a Dio, la continuità delle sue grazie, la ricezione del manifesto e del nascosto divini che generano l’ordine delle cose e lo scorrere delle cause degli avanzamenti nei gradi della felicità eterna e l’estinzione nelle luci dell’unicità. E [che tutto ciò sia duraturo] verso quella nobile essenza dalla presenza divina; e [Qūnawī] desidera inoltre la perfezione con la lingua dell’umile sottomissione divina e realizzata nel pensiero [da Egli] donato. E Iddio è il Signore della risposta e della gratifica406. [Qūnawī] ha beneficiato degli ornamenti e delle preziose gemme della risposta di quell’essere onorato nella misura della sua predisposizione (isti‘dād); dal momento in cui è passato alla lettura dell’importante risāla, ha trovato un’introduzione sull’esposizione della scienza e della sapienza contenente l’analisi delle difficoltà e la rivelazione delle questioni. Alcune [questioni], che nei detti e negli scritti di dotti del passato e seguaci successori ansiosi di rimembrare e analizzare, per mezzo dell’assistenza signoriale (tā‘yīd rabbanī)407 e alla spiegazione dello scritto consacrato a Dio di mawlavī, divennero manifeste. Iddio ha foggiato il bene della Sua manifestazione e la chiarezza della Sua dimostrazione tramite la conoscenza vera suprema, con la quale ha sciolto le anime dei perfetti, coloro che sono protetti da Dio e coloro che bevono dalla pura fonte del Tasnīm e non dal Salsabīl408 razionale e dal Kāfūr mischiate con le caratteristiche delle facoltà miste e agli statuti me-

406 Per risposta qui s’intende quella di Dio, che sempre risponde alle nostre suppliche e preghiere. 407 Termine particolarmente utilizzato in ambito sciita e ismaelita durante il XIII secolo e che in genere viene riferito al profeta Muḥammad. 408 Nome di una sorgente del paradiso citata nel Corano (76;17) e fonte del puro nettare paradisiaco. Bausani traduce: «Saranno abbeverati da una coppa il cui licore è miscela di zenzero – d’una fonte colà che ha nome Salsabīl»; e ancora aggiunge: «Il senso della parola, di etimologia non perfettamente certa, è “liscio, scorrevole, piacevole a deglutirsi, dolce”. Ricorre una sola volta nel Corano». Cfr. Il Corano, a cura di A. Bausani, p. 698. «Il paradiso coranico è caratterizzato dall’onnipresenza dell’acqua corrente: vi abbondano le fonti, i fiumi e le sorgenti. Definite con termine ‘ayn (“sorgente”), due fonti portano un nome: Salsabīl e Tasnīm. La prima profuma di zenzero (76,17), la seconda, mescolata a un vino raro, sigillata di muschio, è «la fonte alla quale bevono i Cherubini» (83, 25-28)». Cfr. Dizionario del Corano, p. 321.

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diani e i limiti della contingenza. E così è per il rahīq409 e i rimanenti fiumi indicati nella rivelazione, ed essa è la sorgente dei devoti410 (mašārib al-abrār). Inoltre, per mezzo del servigio offerto, è stato mostrato che il motivo dell’invio precedente alla risposta ricevuta, era il desiderio di conseguire due obiettivi: il primo era quello di aprire la porta della mutua relazione tramite lo scambio di scritti e lettere. Non che scriversi non fosse sufficiente, tuttavia era preclusa ogni altra possibilità di avere una relazione migliore e più fruttuosa per mezzo dell’incontro di persona. Quel desiderio e questo caso sono di difficile conseguimento, quindi l’accontentarsi attraverso questa maniera di relazionarci diventa necessario (zarūr) sulla base del fatto che: «Quello che non si percepisce interamente, non si può rigettare del tutto». E il secondo obiettivo era quello che, ricordandosi del servigio reso precedentemente, si avverasse l’aspettativa dell’incontro riguardante certi princìpi (ummahāt) richiesti tra ciò che viene compreso fermamente attraverso la via della dimostrazione [razionale] (ṭarīq burhān) e ciò che viene

409 «“Canfora”: nome di un profumo. La tradizione, sulla base di racconti inverificabili, attribuisce questo nome anche alla fonte del paradiso che contiene quella sostanza. In 37:46 è detto semplicemente che la bevanda degli eletti proviene da una fonte “limpida e deliziosa”. Il Corano nomina solo due dei quattro fiumi paradisiaci. Salsabīl (nel v. 18) e Tasnīm (83:27)». Cfr. Il Corano, a cura di A. Ventura, Mondadori, Milano 2010, p. 852. 410 «E lo guidammo per la retta Via, che Ci si mostri grato, o Ci si mostri ingrato. E a’ Negatori preparammo catene, e gioghi, e fiamma, – e beveranno i pii da una coppa, il cui licore sarà miscelato di Canfora, – sorgente cui i Servi di Dio attingeranno, che faranno sgorgare sgorgante – coloro che saran fedeli a’ voti e temeranno un giorno il cui malore mirerà lontano». Cfr. Il Corano, a cura di A. Bausani, BUR, Milano 2006 (76; 4-7). Canfora, secondo alcuni commentatori, sarebbe nome proprio di una fonte del Paradiso. Martino Mario Moreno così dà spiegazione del versetto: «Canfora che il Corano rappresenta come liquida, pòrta da una sorgente che si può far affiorare in qualsiasi punto del Paradiso e che ha essa stessa il nome di Kâfûr. Dal mizâgiuhâ min del versetto 5 e dal bi-hā del versetto 6 mi sembra dedursi chiaramente che la bevanda dei beati non è solo canfora liquida, ma un altro liquido mescolato con canfora: probabilmente vino canforato, perché è detto altrove che in Paradiso si beve vino. Ciò è confermato dal contenuto del versetto 17». Cfr. Il Corano, M. M. Moreno (ed.), UTET, Torino 1967, p. 546, n. 4.

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compreso tramite la via dello svelamento spirituale411, realizzato e manifesto. Si tratta di ciò che particolarmente si evince dalle conclusioni della riflessione del sublime (132) e l’opinione giusta di mawlānā – che Iddio si giovi di lui. Nonostante questo, l’apposizione su queste questioni è avvenuta in un tempo in cui, lontano dal sublime luogo, una deficienza aveva sopraffatto le facoltà di questo imperfetto individuo. E il servitore più puro tra tutti di quella onorata eccellenza, fratello prezioso, scriba virtuoso, stimato compagno ed erudito Tāǧ al-Dīn Kāšī412 – che Dio sia generoso con lui – quando la sua amicizia con il sincero richiedente venne resa più forte, per amore volle che fosse rinsaldata con un legame vero e spirituale sopramenzionato secondo il detto: «Gli spiriti sono come truppe “regolari”, coloro che si conoscono concordano e coloro che non si conoscono sono in disaccordo»413. Anche sotto un aspetto esteriore, secondo il tempo e la condizione di questa relazione, [desiderò che] il rapporto nel servigio fosse rinnovato e che la porta della reciproca unione fosse aperta per mezzo di uno scambio epistolare.

411 Mukāšafa: svelamento, manifestazione; nel linguaggio sufi: estasi, contemplazione estatica di Dio. 412 Personaggio non ancora identificato. Vd. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 36, n. 39: «This is presumably the wealthy Konyan merchant mentioned throughout Aflākī’s Manāqib al-‘ārifīn»; Schubert, «The textual history of the correspondence between Ṣadr ad-dīn-i Ḳūnawī and Naṣīr ad-dīn-i Ṭūsī», p. 74: «I have been unable to identify this Kāshī with any certainty, since none of the known contemporary Kāshīs bears the laḳab added to the former’s name»; p. 78, n. 17: «Şams al-Dīn Aḥmad al-Aflāḳī, Manāḳib al-‘Ārifīn (yayinlayan Tahsin Yazici) TTK, Ankara 1976. On pp. 278-279 we find a Ḥādjdjī Kāshī in Ḳūnawī’s circle. Another contemporary is Afḍal-i Kāshānī, see EI2 I, p. 839, s.v. Bābā Afḍal. Then we also know the famous ‘Abdurrazzāḳ al-Kāshī as an advocate of the thought of Ibn al-‘Arabī (d. 638/1240); but if his death-date of 730/1329 is correct, it is scarcely possible that he is to be identified with Tādj ad-dīn, see EI2 I, p. 88 f; İA 1, p. 105 f.». 413 Si tratta di una parte di un ḥadīt particolarmente noto e ricorrente, specialmente per quel che riguarda l’amore trascendente. Cfr. Rawdat al-muḥibbīn wa nuẓhat almuštāqīn, ed. Aḥmad ‘Ubaid, Maṭba‘a al-Sa‘āda, al-Qāhira 1385/1956, p. 71; Murūǧ al-dahab, III, 382, ed. M. Muḥyī al-Dīn ‘Abd al-Ḥamīd, Il Cairo 1964/1384 (Sull’amore 379-384).

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Inevitabilmente in questa relazione si esige qualcosa e specialmente che il richiedente sia a conoscenza del proposito dell’altra parte, e che allo stesso tempo sia colui che necessita che colui che sollecita. Per questa motivazione, non fu facile redigere uno scritto dettagliato riguardante quelle questioni; e anche il copista, che trascriveva dalla copia di colui che invita, per mancanza di esperienza e desiderio di mostrare ciò che non sapeva, non fu esente da errori e contraffazioni. [Inoltre], per la fretta, costui non ritornò dal proponente (133) per trovare conferma ed evidenziare quegli errori. A causa di ciò, alcune di quelle questioni rimasero parzialmente incomplete, il che si comprende chiaramente dal senso di alcune risposte di mawlānā – che egli venga supportato da Dio. Nonostante questo, in alcune questioni sono rimasti dei passi che necessitano una soluzione e un controllo, sebbene l’avvenuta guarigione del malato e la risoluzione di codeste difficoltà (tramite corrispondenza) è quasi materialmente difficile. E ciò che si può comprendere non è che allusione e accenno. E quello che si riferisce al commento di risposta, quell’eccellente persona mostrò che all’inizio del capitolo generale, che è già stato presentato, si includono le chiarificazioni di questi luoghi problematici – definiti come supplemento alla questione e che hanno relazione con essa – in modo che appaia chiara la dottrina dei realizzati (ahl-e taḥqīq) e che vengano corrette le incomprensioni che esistono tra la dottrina di questi ultimi e quella degli esperti in teologia procedente dai mutakallimūn, incomprensioni sorte a causa di alcune espressioni utilizzate in modo ambiguo. Queste saranno menzionate secondo un metodo esplicativo e non con un intento polemico, considerato che ciò è richiesto affinché prosegua la conversazione con la nobile eccellenza e la risposta chiarificatrice di sua eminenza. E secondo i buoni costumi, colui che invita ritenne opportuno che in cambio di ciascuna risposta fosse richiesta una domanda, dato che egli stesso per la maggior parte di queste risposte ha per fine la precisione, la correzione e non la mera contraddizione. E alcune risposte causano delle divergenze (di opinione) facendo incorrere nell’errore di coloro che argomentano con prolissità e ripetizioni, tendendo al dissenso e conducendo alla giustificazione (degli errori). E alcune altre risposte [incomplete] hanno bisogno di riferirsi al capitolo generale (introduttivo). (134) E dalla chiarificazione che in seguito su alcune questioni verrà offerta, sarà reso evidente il proposito di questo debole individuo, se Dio vuole.

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E se si dovesse aggiungere qualcosa a chiarificazione, sarebbe secondo questo detto: «Completare qualcosa di conosciuto è meglio che iniziarlo», e che Dio ci dia un beneficio con ciò. Per quanto concerne una questione riguardante alcuni punti della Risāla tuhfat al al-šakūr [Epistola del dono di ringraziamento]414 con cui questo debole individuo venne onorato, dal principio andò a indagare la controversia, sebbene il dā‘ī non ebbe notizia dell’invio di quella lettera fino al suo nobile arrivo, lettera contenente quella questione e quella risposta. Il caro fratello, signore dei virtuosi, Tāǧ al-Dīn Kāšī – che Dio sia generoso con lui – inviò in ottemperanza ad una richiesta quella risāla che ricevette da un amico di amici. Ora, sebbene secondo le buone maniere sia appropriato essere parchi nel lodare le virtù di mawlānā, egli disse qualche parola con l’intenzione di narrare adeguatamente il suo stato nel cammino [spirituale] al modo della convenienza e dell’emulazione. E tutto ciò allo scopo di chiarire la ragione per la quale la lettera era stata redatta. Nonostante nella lettera la maggior parte di quel tipo di argomenti sia stato emendato ampiamente da questo debole individuo, e poiché in essa me ne ha fatto richiesta, tanto l’educazione quanto la necessità di cercare il vero impongono sia data risposta. (135)415 Dico dunque – e Dio è il migliore sostenitore – che le nobili risposte ad alcuni argomenti di tale lettera procedono, a causa dell’interpretazione dei segreti che essa contiene, attraverso la «lingua dei colloqui intimi» (lisān al-munāǧāt), delle domande e della richiesta di spiegazione. Il motivo di ciò è dovuto a diverse ragioni e la brevità è voluta. Le radici e gli elementi fondanti della questione non possono essere determinate in quanto trattasi di «effusioni dominicali» (nafaḥāt rabbāniyya) inattese e senza volontarietà, in momenti di cambiamenti e occasioni sopraggiunte durante i periodi puri dei ritiri spirituali. L’argomento trattato in questa lettera si è verificato dunque durante uno scambio trascendente e spirituale fra uno dei gradi della Signoria e una delle stazioni della servitù.

Nafṯat al-maṣdūr wa-tuḥfat al-šakūr. Questo breve trattato porta anche il titolo di Rašḥ al-Bāl (Secrezione dello Spirito) ed ha per contenuto una lunga preghiera. 415 Qui inizia una parte in lingua araba. 414

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La giusta interpretazione e la descrizione di tale scambio non sono possibili tramite le regole dell’educazione (adab) e della verifica, se non con la lingua specifica alla stazione della servitù, condizione questa dettata dallo statuto di quel momento e stato [spirituale]. L’altro motivo [di tale riservatezza] è che tale lettera si fonda sulla descrizione del viaggio intelligibile, il cui punto di partenza è sul piano della presenza intellettuale (al-ḥaḍra al-‘ilmiyya), che è relativa all’essenza, all’unicità ed è ricettacolo della sottomissione [e proiezione] di ogni oggetto di conoscenza – sottomissione eterna e perenne –, e che è essa stessa intelligibile dalla principialità del Vero (mabda’iyat al-Ḥaqq) e della Sua effusione esistenziatrice, [seguito] dall’affermazione positiva, conoscitiva, essenziale e attiva; e pure dagli elementi che tratteremo assieme a questo servizio, se Dio vuole. Da questa conoscenza primaria e intellettuale si determina l’inizio del cammino spirituale [verso] la verità della natura umana perfetta (kamāliyya) e divina (rabbāniyya), il suo scopo e il suo risultato. È fra l’inizio e la finalità che si può descrivere lo stato spirituale del viaggiatore nel suo spostamento attraverso i cicli e le fasi, i gradi d’inattività e di stabilità, e attirare l’attenzione sul suo rango e sul suo linguaggio in ognuna delle dimore del percorso in cui si fermerà, e in ogni stazione dove scenderà e che attraverserà. Questa interpretazione porterà i viaggiatori alla conoscenza dei segreti dell’«inizio e della fine», che sono fra [gli stati] più nobili manifestati dalle anime (136) dei credenti dotati d’intelletto. Essi comprenderanno prima dello svelamento (al-kašf) e della contemplazione (al-mušāhada), grazie a colui che è arrivato [a quegli stati] e che spiega loro la modalità del loro spostamento attraverso i mondi esistenziali, i cicli soprasensibili (al-ma‘nawiyya) e spirituali, [i mondi] formali, naturali, contingenti, e le stazioni cosmiche e dominicali, sino alla dimora finale del viaggiatore: la vera perfezione dell’unità o le stazioni delle perfezioni relative, per mezzo dell’allusione ad ogni stazione, ciclo e stato, effettuata con linguaggio appropriato al risultato da lui conseguito. Le cose si limitano a soli due livelli e [si esprimono] in due lingue: il livello del tempo del velo (zamān al-ḥiǧāb) e i suoi gradi, e lo stato spirituale del viaggiatore che si volge verso la realizzazione del Vero – Lui che è [il punto] d’appoggio della sua esistenza e il cui orientamento verso di Lui è assoluto – [ciò] in un modo in cui egli stesso già lo conosce e non perché riportato da altri, né per quello che ne ha sentito, né per la congettu-

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ra (ẓann) che egli ne ha, affinché egli possa conoscerLo o averNe effettiva conoscenza e visione assoluta corrispondenti al suo stato. Questo richiede un’elevata aspirazione spirituale (himma) e il non accontentarsi di quanto è stato ricevuto416 riguardo al suo Signore, o quanto gli è stato riferito da parte delle autorità dotate di intelletti condizionati o credenze congetturali; o da quanto compreso dalla maggior parte riguardo alle leggi e alle tradizioni rivelate e osservate [e la cui comprensione] deriva da ciò su cui la maggioranza si è trovata in combutta, verso cui si sono inclinate le loro nature, i loro intelletti e le loro menti, sicché a volte certe loro spiegazioni non sono conformi all’interpretazione primaria e alla giusta definizione [di alcune tradizioni]. Detto ciò, alcune informazioni e interpretazioni riferite [da questi] non sono affatto prive di allusioni e simboli che provocano l’ardore di coloro che sono qualificati, e che promanano dalla lingua dell’appello universale che indica il primo significato della manifesta unicità divina, e la gente che partecipa di essa, non supera la felicità universale che conduce alla salvezza; salvo che questa testimonianza (137) dell’unicità divina venga accompagnata da opere virtuose, compiute con direzioni e richiami conseguenti a delle giuste rappresentazioni conformi alla realtà delle cose. Diciamo poi: questa «lingua del velo» viene ad aggregarsi al «livello della possibilità» (martabat al-imkān) e dei suoi statuti. Quanto all’altra, essa è la lingua del «livello della necessità» e dei suoi statuti. Questa è dotata di svelamento, di visione interiore e di una conoscenza attestata e necessaria che avviene in seguito alla rimozione del velo e alla scoperta della realtà delle cose, secondo la loro determinazione nella scienza del Vero, secondo una determinazione eterna, perenne e in un’unica modalità. Questa lingua ha il potere di esprimersi su tutte le cose per via del loro legame con la scienza divina e dell’intellezione della lingua da parte del Vero secondo quanto di Lui è conosciuto, nei Suoi stati e nei suoi restanti concomitanti; e anche se Lui fosse conosciuto dalla Gente dei luoghi e dei tempi, allora la conoscenza sarebbe legata a Lui e ai Suoi concomitanti, al Suo luogo, al Suo tempo e ai concomitanti di questi ultimi due, come vedremo nel corso di questa lettera se Dio vuole.

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In quanto a conoscenza.

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Quanto a ciò che è riportato dal proponente (al-dā‘ī) riguardo agli statuti della necessità e della possibilità, egli intende che dal Vero, in quanto all’unità della Sua determinazione assoluta per Sé e non per altri, non emana la molteplicità se non dal punto di vista degli aspetti (i‘tibārāt) e delle considerazioni, come ha indicato e confermato il nostro maestro. Il suo effetto, pur essendo uno in origine, si moltiplica nei vari livelli dei ricettacoli secondo le loro disposizioni gerarchiche. E la molteplicità di questi effetti rispetto alla loro effusione verso il Vero corrisponde agli «statuti della necessità»; e l’intellezione dei molteplici effetti dei ricettacoli in rapporto ad ogni effetto attribuito al Vero, dal punto di vista degli aspetti e delle considerazioni, costituisce gli «statuti della possibilità». Questo sarà più chiaro nei punti sollevati in questa lettera che ci farete l’onore di leggere, (138) se Dio vuole. Questo punto risponde all’obiettivo di quanto s’intende menzionare. Torniamo ora a completare quanto abbiamo iniziato a citare e stabilire. Diciamo dunque che l’interprete delle stazioni per mezzo del linguaggio appropriato di queste stesse e di quello degli stati di chi le ha raggiunte, dopo aver realizzato la conoscenza del Vero e la sua contemplazione a partire dalla sua specificità, e dopo aver superato tutte le stazioni ed essersi limitato e incatenato agli statuti dei Nomi e degli Attributi, ed essere inoltre uscito verso il mondo dell’assoluta esistenziazione (‘ālam al-iṭlāq al-wuǧūdiyy), nel quale si annientano gli elementi di mediazione e le possibilità e dove nessuna qualità lo limita, né vi è un nome che lo distingue, né un atto, un significato o una lettera, allora egli comprende tutto quanto, lo realizza, e lo supera in atto, ma non in potenza e per necessità essenziale, e per via degli statuti circostanti e non per possibilità; egli, da questo punto di vista, non ha lingua né stazione. Anzi, egli diviene pura sostanza originaria417, come uno specchio levigato, sferico, in un punto intelligibile, centrale e istmico, in considerazione dell’unione dei sopracitati statuti della necessità e della contingenza, intorno a cui tutte le cose girano secondo un moto soprasensibile. Egli è sempre pieno [dei riflessi] che vi si imprimono ed esprime la sua realtà, a secondo del significato, dello spirito, della forma, dell’attributo, dello stato e altro che si imprimono e si determinano in lui.

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Ossia senza tratti che lo contraddistinguono.

TRADUZIONE

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La sua interpretazione di tutto ciò sarà in funzione della sua disposizione ad accogliere quanto si imprime in esso, come si imprime l’oggetto di conoscenza nella scienza di colui che lo conosce. Egli rimane comunque e per sempre, dal punto di vista della sua realtà, vuoto di ogni cosa, in quanto né contenente né contenuto; anzi è velato dalle cose, dalla loro stessa impressione in lui e dall’impossibilità della loro visione all’infuori di lui. Egli è invisibile, inconoscibile, ineffabile, indescrivibile. Chi lo conosce, lo indica o lo descrive, non fa altro che informare di ciò che lo riguarda rispetto ad esso e di ciò che egli conosce dei suoi stessi stati essenziali in lui. Questa è la realtà di ogni specchio e dell’immagine che vi si riflette. Quest’ultima non è percepibile durante il suo riempimento dello specchio, ma quel che si vede è l’immagine riflessa, qualunque essa sia. Questo è lo stato del vero essere umano dopo l’estinguersi degli statuti contingenti risolti nello statuto di necessità d’esistenza del suo Signore e della Sua unicità, e dopo il suo riempirsi di Vero e di quanto si è rappresentato nella sua scienza. Egli è estinto (139) in sé, velato dagli statuti dell’unità del suo Signore e dalla sua stessa necessità e non per il fine determinato, o per arbitrio. E quanto è visibile di lui, o in lui, o da lui e che dà l’illusione di molteplicità e di associazione con altri, non è altro che le immagini esito dell’intellezione del Vero e niente altro che le immagini dei suoi oggetti di conoscenza rappresentate nella sua scienza. E su questo punto vi è la risposta alla quale ha fatto allusione il nostro maestro, nella parte riguardo la riconoscenza e la lamentela alla quale si è fatto riferimento in questa epistola; così come lo stabilirsi della priorità della stazione della soddisfazione e della resa, e della sua superiorità a quanto è stato detto a proposito, e a cui ha fatto allusione il nostro maestro. Se il nostro maestro si soffermasse sul servizio e ne traesse il fine, la sua nobile scienza abbraccerebbe allora il senso di questa esposizione. Anzi, se considerasse Dio al di là delle parole inerenti alla questione, egli allora troverebbe la risposta poiché alla fine di questa epistola vi sono tre argomenti ciascuno riguardante il rango dell’interprete. Detto ciò, in questa storia che illustra alcuni suoi punti e gradi, appare chiaro che egli ha assaggiato ciò che è al di sopra della stazione della soddisfazione e altro. Appariranno allora da questa epistola singolare, assieme al servizio, dei punti complementari che chiariranno lo scopo di ciò e altro.

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Il richiedente si scusa per la lunghezza delle sue parole e [ringrazia] per la generosità del maestro e confida nella sua eccelsa educazione nel perdonare. Dio lo protegga e lo faccia continuare ad essere utile agli altri, felice, e faccia in modo che la sua visione interiore sia risoluta e proceda direttamente da Lui e non da ciò che procede da lui. Così termina la lettera e lode a Dio, il Signore dei mondi.

TRADUZIONE

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[Epistola guida] (140) In Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso. Lode a Dio che ha reso chiari, attraverso le aspirazioni continue, i gradi della certezza conoscitiva (‘ilm al-yaqīn), della [certezza di] visione e [di quella] reale, e le sue gradazioni, e ha reso manifesto, quietando l’ansia dei ricercatori, l’arrivo al termine della corsa delle loro anime, secondo la parte che spetta alle loro intelligenze e alla diversità nel rango delle loro realtà nelle tappe della Sua conoscenza, il Lodato, e dei Suoi segni depositati nelle Sue Sante Presenze, nella Sua terra e nei Suoi cieli. Egli ha dato distinzione a un’élite della Sua gente, nel mondo della Sua creazione e del Suo comando (amr), col fatto che non ha dato loro altro fine che la Sua Essenza tra tutti i Suoi mondi e [l’incontro ravvicinato ed elevato con] le camere nuziali (minassāt)418 dei Suoi Nomi e Attributi. Anzi, ha posto come fine delle loro [più alte] aspirazioni la cosa più eccelsa cui si connette la Sua Scienza essenziale e la più elevata delle Sue intenzioni, finché la loro volontà e lo scopo del loro bersaglio non è divenuto ciò che Egli, il Lodato, vuole in Se stesso, da Se stesso, per Se stesso, e, da un lato, il supremo dei rapporti delle sue energie principiali prime e la più elevata delle Sue determinazioni. Cosicché Lui, il Lodato, è la realtà della certezza della loro scienza, di visione e reale, in tutti gli altri gradi delle loro scienze essenziali, innanzitutto connesse con Lui, e poi relative alle Sue cognizioni, assieme all’annientamento della loro419 molteplicità sotto il potere (sulṭān) della Sua unità, quanto a essi, alla permanenza del loro statuto ontologico e al Suo pervadere tutti i Suoi enti e le Sue Presenze. Che Allāh benedica colui che è giunto alla piena realizzazione per Suo tramite attraverso la visione più perfetta e della conoscenza più completa, più nobile e più comprensiva; insieme al perdurare della sua presenza con Lui, il Lodato, in ogni luogo – su di lui la Pace – i suoi stati, i suoi gradi e le sue nascite (naš’āt), il nostro signore Muḥammad e i più puri di fra la sua comunità, e i suoi fratelli [spirituali], detentori

418 419

Luoghi elevati. Cioè dei conoscitori.

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della sua più completa eredità nelle sue conoscenze, nei suoi stati e nelle sue stazioni, assieme alla loro realizzazione (141) e la loro conquista delle conseguenze delle loro sorti420 d’elezione, tramite le quali si sono distinti dalle proprietà esclusive dei mezzi, dai frutti della dipendenza e dalle imposizioni (aḥkām) dei vincoli. Una benedizione di valore continuo, il cui frutto permanga per tutta la durata del tempo, nel senso della realtà universale di questo e delle forme delle sue determinazioni distintive (aḥkām tafṣliyya), che si manifestano nei movimenti superiori421 e che sono denotati come i suoi anni, mesi, giorni e ore. Quanto al seguito: non sfugge ai dotati di intelletto422 che la sfera dell’espressione verbale (falak al-‘ibāra), in rapporto alla sfera dei significati puri (ma‘ānī muǧarrada) e delle realtà semplici, è molto ristretta riguardo al loro determinarsi nelle menti.

Cioè quanto il destino ha assegnato loro. Celesti. 422 Letteralmente al-albāb, i cuori intesi come gli intelletti sani. Il termine al singolare, lubb, indica nel lessico sufi il «nocciolo», la parte interiore relativa al qišr, la scorza, ed è tra quelli che vengono utilizzati per indicare la conoscenza. Un dettagliato studio sul termine è stato pubblicato da Angelo Scarabel che a riguardo scrive: «[...] nel Corano appare sempre nella formula ūlū/ī’l-albāb, letteralmente coloro che si trovano in stretta relazione (= posseggono) con i noccioli [delle cose]; l’espressione è stata tradotta in vari modi; «dotati di intelletto» è la traduzione che abbiamo adottato, sostanzialmente non dissimile dalle altre quanto al senso. L’espressione appare nel Corano in 16 versetti, suscettibili di diverse letture contestuali; una prima distinzione va fatta tra quelli nei quali gli ūlū/ī’l-albāb sono direttamente apostrofati, e quelli nei quali essi sono indicati alla terza persona. Dallo studio condotto su alcuni autori sufi, Ibn ‘Arabī incluso, gli ūlū’l-albāb sono i Sufi, che tradizionalmente si riconoscono specificatamente nella descrizione che dei «dotati di intelletto» dà Cor. 3.190-191: “Nella creazione dei cieli e della terra e nell’avvicendarsi della notte e del giorno vi sono dei segni per coloro che sono dotati d’intelletto i quali menzionano Iddio in piedi, seduti, coricati sui fianchi, e meditano sulla creazione dei cieli e della terra: Signore, non hai creato tutto questo senza motivo; Tu sia esaltato, preservaci dal tormento del Fuoco”». Cfr. A. Scarabel, «Sufismo e Conoscenza. A proposito degli Ūlū’l-albāb nei versetti coranici», in Universalità della Ragione. Pluralità delle Filosofie nel Medioevo. XII Congresso Internazionale di Filosofia Medievale. Palermo, 17-22 settembre 2007. Volume III. A. Musco – R. Gambino – L. Pepi, P. Spallino – M. Vassallo (eds.), Officina di Studi Medievali, Palermo 2012, pp. 141-142. 420 421

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Lo stesso vale per la sfera delle concezioni e delle determinazioni mentali in rapporto al campo degli intendimenti [scaturiti] dall’anima (ta‘aqqulāt nafsiyya) e delle concezioni semplici. Ed è lo stesso nel caso delle cognizioni psicologiche semplici (ta‘aqqulāt nafsāniyya basīṭa) per le entità universali e le realtà elevate, in rapporto all’intendere gli universali che è [proprio] delle intelligenze e delle anime universali. E il rapporto degli intendimenti delle intelligenze e delle anime [universali] con la determinazione dei conoscibili nella Scienza del Vero è quello dell’intendimento di chi è inferiore alle intelligenze e anime universali, nel grado conoscitivo, rispetto a esse. Ogni gruppo di dotti (‘ulamā’), pur distinguendosi da un altro per una sua propria terminologia, [tuttavia] può verificarsi che abbiano in comune alcuni nomi e termini, a causa del fatto che la sfera dell’espressione verbale è ristretta e manca a volte che si sia vincolati a certi termini, anche se hanno dottrine diverse. Si può allora pensare, tenendo conto che quei nomi e termini comuni possono avere aspetti molteplici e significati diversi, che quei nomi e termini siano applicati da uno dei due gruppi a ciò cui [nello stesso modo] li applica l’altro. Quest’ambiguità non sparisce senza un chiarimento dell’intenzione di quelle applicazioni, affinché divengano chiare le norme (aḥkām) di ciò che distingue un gruppo dall’altro, e che cosa mai i due hanno in comune. Partendo da questo, tra quanto fa immaginare essere comune alla Gente del gusto e della realizzazione con alcuni gruppi, vi è ciò che è stato citato circa le essenze e la dottrina che esse siano «non fatte», assieme al dire di coloro che esse siano prive di ambedue le esistenze: quella mentale e quali enti reali (‘aqlī wa ‘aynī)423. A questo genere appartiene ciò cui accenna (142) il Maestro – che Dio gli sia propizio – sulla questione dell’essere generale e sul fatto che, se il Vero avesse un’essenza oltre alla Sua esistenza, ne conseguirebbe che essa Gli sarebbe anteriore e che inoltre il Principio degli esseri esistenti dovrebbe essere un «due»424, assieme al fatto che ogni «due» necessita di un «uno» che lo precede.

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Confusione che si verifica tra i sufi e la mu‘tazila. Cioè non sarebbe un uno ma un due.

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Questo e altro di ciò che egli ha citato nel corso delle risposte alle questioni inviate, come «l’atto esistenziatore (al-iǧād)» eccetera, e ciò che è facile leggere in parte delle sue utili produzioni, come il commento alle Ta‘liqāt o altro, come il discorso sulla rappresentazione (irtisām), l’emanazione, e il commento alle parole del Maestro principe [Avicenna]: «Giungere a conoscere le realtà vere delle cose non è nelle possibilità umane». E altro ancora. Il proponente (dā‘ī) aveva deciso che avrebbe menzionato, su queste e altre cose del genere, Dio volendo, ciò che egli aveva realizzato per gusto, disvelamento, e visione immediata, al fine di chiarire, con ciò, dove si abbeverano i conoscitori realizzati, e la differenza tra questo luogo e quelli di altri, e perché si conosca il loro modo di pensare e il loro obiettivo, e cosa mai li accomuna alla Gente della ragione speculativa per mezzo della facoltà cogitativa, e per cosa mai si distinguano da questi e dagli altri gruppi. Respingere ed accettare, dopo di ciò, rimanda all’ispirazione (ilhām) del Vero, e al Suo illuminare o al Suo nascondere ciò che è conosciuto al riguardo in fatto di sapienze che Egli ha velato ad altri. Allora affermo: ciò che si ottiene dal gusto valido e dallo svelamento chiaro, è che la concezione (ta‘aqqul) del Vero secondo il Suo esser Uno o secondo il Suo essere Principio degli enti, o che Egli è esente dalla molteplicità e dalla comunanza con qualcosa nella Sua esistenza, o che è impossibile che Egli abbia un’essenza oltre alla Sua esistenza, tutto ciò non ha valore se non considerando che la Sua determinazione [non avviene] che nell’ambito dell’intendere dell’essere [relativo] al cosmo425 (ta‘aqqul kawniyy), (143) e intendo dire con «l’intendere [relativo] al cosmo» l’intendimento del Vero da parte di qualcuno che non è il Vero, e soprattutto di chiunque abbia un intendimento di Lui, il Lodato, e delle [cose] semplici assolute (al-basā’iṭ al-muṭlaqa) e delle realtà universali attraverso l’intendere cogitativo (ta‘aqqul fikriyy) tinto delle facoltà miste, contingenti e relative alla possibilità. Infatti gli atti di intendimento di questo tipo non sono esenti dalle proprietà di limitatezza e di una qualche molteplicità che influenzano il suo intendimento necessario alla determinazione dell’oggetto inteso, e il suo imprimersi in esso in un modo commisurato al luogo dell’impressione.

Kawniyy: cosmico o anche attualizzato, in ogni caso si tratta dell’intendere mondano. 425

TRADUZIONE

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Ed anche se si tratta di un luogo dove si formano le idee spirituali (maḥall ma‘nawī), la corrispondenza tra il soggetto che intende e l’oggetto inteso è lontana dal poter essere applicabile. Per tale ragione la maggior parte dei realizzati ha affermato che la più perfetta delle determinazioni del Vero nell’ambito dell’intendere, e la più conforme per corrispondenza alla realtà delle cose è la Sua determinazione – sia Egli lodato – nell’intendere del Primo Intelletto. Esso infatti è il più libero degli esseri possibili dalle determinazioni d’essere della molteplicità (aḥkām al-kaṯra) e dai condizionamenti relativi alla possibilità. Allora il suo intendere è più conforme e più vicino quanto al rapporto a quel che concerne il Vero. Un altro gruppo di realizzati ha constatato questa cosa e l’ha sostenuta, tuttavia costoro hanno fatto eccezione per i più perfetti degli uomini, facendoli partecipi con il Primo Intelletto nella validità della conoscenza e della sua perfezione. Insomma, ogni determinazione condizionata è limitativa per ciò che in essa si determina delle realtà incondizionate. L’intelletto sano (al-‘aql al-salīm) richiede che quella determinazione sia preceduta dalla non determinazione (al-lā-ta‘ayyun)426. Se allora un realizzato afferma: «Certo la realtà del Vero è sconosciuta, e si può ottenere

Richard Todd si sofferma su questo passaggio dell’epistola ed afferma che la dottrina della «determinazione» e della «non determinazione» rappresenta uno dei più importanti contributi allo sviluppo della metafisica akbariana: «According to this doctrine, the conditioned being’s dependence upon an “unconstrained” principle is simply an expression of the “rationally sound” premise whereby “every determination is preceded by non-determination”. In other words, the particular is comprised within the possibilities of the universal and is therefore both logically and ontologically consecutive to it, a relationship seen as an expression of the fact that the universal has the breadth to encompass individual determinations within itself precisely by virtue of its own relative indeterminacy. In keeping with this view, the concept of determination is seen as closely linked to that of constraint (taqyīd), since the more determinate and specific a thing is, the more constrained it is in relation to everything else, and by the same token the more dependent it is upon the principles of its specific modes of determination. Hence our author asserts that “every determination is a limitation”, and likewise that “every determination is a restriction with regard to the unconstrained principles (muṭlaqāt) underlying it». Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, p. 84. 426

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la Sua conoscenza» non vuol dire con ciò che il Vero possiede una «realtà» oltre alla Sua esistenza. Significa invece che il Vero, quando si considera l’intenderLo come libero dalla molteplicità esistenziale e dalla considerazione relativa (i‘tibāriyya nisbiyya), e dagli intendimenti e determinazioni limitate, originate dall’intenderLo da parte di un altro, è incondizionato (muṭlaq) dalla determinazione tramite una descrizione427, una determinazione d’essere o una relazione, che ciò sia in senso negativo o positivo. Questa è l’assolutezza essenziale non condizionata a causa di un qualcuno che percepisce con una qualunque cosa. Egli, allora, (144) sotto questo aspetto, non afferma di Lui che è Principio o Uno o Emanatore dell’esistenza (fayyāḍ li’l-wuǧūd). Anzi, l’attribuzione dell’unità a questa assolutezza428 o la sua non attribuzione ad essa hanno pari valore, nel senso che Egli è libero dall’essere ristretto entro un attributo o un giudizio negativo o positivo, o entro la combinazione dei due o l’astenersi da entrambi in ogni modo. È corretto che si dica nei Suoi riguardi, sotto l’aspetto di questa assolutezza: che Egli è visto e non è visto, è conosciuto e non è conosciuto, senza la limitazione di assolutezza o condizionamento, [ciò] non nel senso che Egli abbia un’assolutezza cui è opposto un condizionamento, o che abbia un’unità cui si contrappone una molteplicità. E che, in rapporto a questa assolutezza, non vi è l’esigenza del legame di alcunché con Lui, né del procedere di alcunché da Lui, né della connessione della Sua Scienza con alcunché, né di altro tra i rapporti e le relazioni429.

O attributo. L’essere divino non può essere colto né descritto. Tutto ciò che è colto e percepito attraverso gli enti creaturali (akwān) è colto e percepito sul piano sovrasensibile per via di rivelazione intuitiva. L’essere divino è Uno di una vera unità che non si può comprendere tramite un paragone con il molteplice perché questa unità è affermativa per se stessa, non affermata; essa non è dimostrabile tramite il concetto di unità propria alla rappresentazione che si attua sotto il velo del mentale. 429 Nelle al-Nafahāt al-ilāhiyya Qūnawī descrive dettagliatamente la sua esperienza di conoscenza disvelativa. Grazie alla traduzione di William Chittick accediamo a dei passaggi diretti ed illustrativi: «The tasting of the perfect human beings has affirmed that everything is in everything. Nothing has any essential stability in something from which it cannot change. On the contrary, everything is on the verge of being transformed into something else... This is the situation of all of wujūd... This constant flow is the divine 427 428

TRADUZIONE

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Chi dunque, tra i realizzati, ha pensato che la Sua realtà sia sconosciuta, intende con questo solo che il Vero, nel senso di questa assolutezza indicata, non si determina in un intendimento, né si rivela in un grado, ne si fa afferrare da qualcuno che percepisce. La relazione dell’essenza (māhiyya) è in questo modo, non che Egli abbia un’essenza oltre alla Sua esistenza. Infatti Lui – a Lui la lode – secondo questa assolutezza – e il Suo non essere determinato con un’unità, principialità, necessità d’essere, o cose simili – il riferimento a Lui dell’esigenza dell’atto esistenziatore (al-iqtiḍā’ al-īǧādiyy) e la sua430 assenza hanno lo stesso valore, [quindi] non dipende da Lui alcuna determinazione e non si intende la relazione con Lui di alcuna cosa. Il determinarsi del Vero tramite l’unità è un aspetto che segue la non determinazione e l’assolutezza. E l’aspetto della unità detta, accompagna l’intendimento dell’aspetto dell’essere il Vero conoscitore di Se stesso grazie a Se stesso in Se stesso, seguendo esso l’aspetto precedente che fornisce l’intendimento dell’unità in rapporto al suo essere semplicemente un’unità. Ciò che ne risulta, infatti, nell’intendimento, non è altro che la stessa determinazione; ma in atto, non per via di qualcosa che l’intendimento pone. E l’aspetto del Suo essere conoscitore di Se stesso grazie a Se stesso in Se stesso, fornisce [il senso] e apre la porta agli aspetti considerabili.

journey from the first, nonmanifest Unseen to the realm of the Visible... No one tastes this journey and reaches its source except he whose essence has come to be nondelimited. Then the bonds are loosened – the contingent properties, states, attributes, stations, configurations, acts, and beliefs – and he is not confined by any of them. By his essence he flows in everything, just as wujūd flows in the realities of all things without end or beginning... When the Real gave me to witness this tremendous place of witnessing [mashhad], I saw that its possessor has no fixed entity and no reality. Such is the situation of him who is upon His form. All those other than such a witnesser and his Lord possess fixed entities colored by wujūd... When you witness this, you will know that you perceive each thing only through that thing itself and inasmuch as you are identical with each thing. Thus you are the attribute of every attribute and the quality of every essence. In one respect, your act is the act of every actor. Everything is the differentiation of your essence. In this state you are the common measure of all things; you make their manyness one, and you make their oneness many by the constant variation of your manifestation within them». Cfr. Chittick, «The Central Point», pp. 37-38. 430 Di tale riferimento.

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Questo, secondo i realizzati, è la chiave delle «chiavi del mistero» (miftāḥ mafātīḥ al-ġayb), indicati (145) nel Libro prezioso431. Questa chiave è un’espressione della relazione conoscitiva essenziale, eterna da sempre, attiva, ma in quanto si distingue dall’Essenza, un distinguersi relativo, non in quanto la Scienza è un attributo che si fonda nell’Essenza del Vero, come hanno sostenuto gli Aš‘ariti432. Questo infatti non è sostenuto da alcun realizzato che conosca la vera Unicità divina (al-tawḥīd al-ḥaqīqiyy), e neanche significa che la Scienza sia identica all’Essenza. Infatti, nel senso di quell’aspetto, non si intende per il Vero una relazione distinta dalla Sua Essenza di cui si possa dire che è una conoscenza o altro tra i Suoi Nomi, Attributi, relazioni e rapporti, ma un’unità in cui non si distingue la conoscenza dal conoscitore e dal conosciuto433. Quindi non c’è molteplicità né moltiplicarsi, tanto considerando la molteplicità esistenziale, quanto quella relativa. Dunque la relazione conoscitiva tiene la posizione dell’unicità che segue l’unità esclusiva citata434, la quale [a sua volta] segue l’assolutezza inconoscibile che non si determina. Da questa relazione conoscitiva, si intende la principialità del Necessario (mabda’iyya al-wāǧib) e il Suo essere Donatore dell’esistenza (wāhib al-wuǧūd) nei confronti di ogni essere esistente. E il Vero intende inoltre, sotto questo aspetto, il moltiplicarsi degli aspetti che si diramano dalla relazione conoscitiva e che si generano l’uno dall’altro. Il Vero, infatti, intende nel grado di questo primo, unico, concomitante relativo alla conoscenza, tutti gli altri concomitanti primi universali.

Si intende il Corano. La scuola teologica aš‘arita fondata dal teologo al-Aš‘arī (874/936), sosteneva tra i suoi principi che gli attributi divini non sono l’essenza divina, ma esistono in essa, e non possono essere intesi in senso antropomorfico. 433 Il livello dell’Essere Puro (al-wuǧūd al-maḥḍ) o Assoluto (al-wuǧūd almuṭlaq) è il livello assolutamente incondizionato dell’essenza (lā bišarṭ), non rientra alcuna opposizione, non corrisponde né Nome, né Attributo, né relazione dell’essenza divina che resta Deus absconditus. 434 Parlando dell’unità in quanto unità. 431 432

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Il primo di essi è l’emanazione esistenziale (al-fayḍ al-wuǧūdiyy) che si dispiega su tutti gli esseri possibili, e i concomitanti di quei concomitanti, in un discendere senza fine435. E se si considerano in senso ascendente, terminano col primo concomitante, quello denotato dall’espressione «la relazione conoscitiva» (al-nisba al-‘ilmiyya), per il commento menzionato. E questo Intendimento divino è un intendere eterno da sempre e per sempre in un modo unico. Le essenze denotano le forme di quegli intendimenti divini, i loro concomitanti ed effetti, e possiedono l’esistenza conoscitiva eterna da sempre e per sempre, non come intendevano i Mu‘taziliti436, che esse fossero prive di entrambe le esistenze437. E poiché è impossibile che gli eventi contingenti sussistano nel Vero, o che per Lui si rinnovi la conoscenza, è necessario che quegli intendimenti siano eterni da sempre (azaliyya), e che per ognuno di essi vi sia una determinazione nell’Intendimento divino, nel senso della relazione conoscitiva. Ed è ciò che viene designato dai realizzati con «la rappresentazione», e (146) secondo loro è una qualità (waṣf) e un qualcosa che si attribuisce al Vero, nel senso della relazione conoscitiva considerando il suo essere distinta dall’Essenza, non nel senso dell’unità essenziale. Questo, assieme al fatto che l’intendimento della molteplicità relativa agli aspetti di considerazione nell’ambito della conoscenza, considerando la sua distinzione dall’Essenza, non mina l’unità della conoscenza. Si tratta infatti di intendimenti determinati dalla Scienza in essa. Ed essi, quanto al loro essere intelletti dal Vero, si dissolvono quanto alla loro

L’Uno Puro diviene Uno-Essere rendendosi così partecipabile nel suo atto d’essere permanente che è effusione esistenziatrice, detta anche fayḍ īǧādiyy. 436 I Mu‘taziliti, così denominati perché appartenenti alla corrente della Mu‘tazila (VIII sec.) divisa nelle due grandi scuole di Bassora e di Baġdād, negavano ogni tipo di distinzione in Dio tra l’essenza divina e gli attributi divini: Dio conosce attraverso una conoscenza che risulta essere identica alla sua essenza, Egli esercita una volontà che è identica alla sua essenza, ecc… intendendo così negare ogni molteplicità in Dio stesso. 437 Cioè quella fisica e quella mentale. 435

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molteplicità nella Sua unità438. Il loro stato è allora il Suo stato. E secondo l’aspetto del loro esser distinte per le loro realtà [ontologiche] (ḥaqā’iq) da Lui, sono fisse quanto alla molteplicità439. Sotto questo aspetto il realizzato affermerà che le essenze sono «non fatte». Invece poi in quanto le creature le intelligono tramite la speculazione cogitativa (naẓar fikrī), esse sono «fatte», come le loro esistenze quali enti reali. Questa [è la] distinzione che menzionano i realizzati, ed anche se la ragione teoretica (al-‘aql al-naẓarī) vi trova uno spazio, tuttavia il realizzato non la consegue e non la coglie tramite la sua speculazione cogitativa. Il Vero – a Lui la lode – quando vi è fin da prima la Sua sollecitudine nei riguardi di qualcuno che Egli sceglie tra i Suoi servi ed Egli vuole fargli vedere le realtà delle cose conformemente alla loro determinazione nella Sua Scienza, lo attrae a Sé in un’ascensione spirituale (mi‘rāǧ rūḥānī). Egli [allora] contempla nello stato di liberazione (insilāḫ)440 della sua anima dal suo corpo e della sua risalita attraverso i gradi delle intelligenze e delle anime, elevandosi e traversando i mondi superiori, un piano dopo l’altro, unendosi con ogni anima e intelligenza in un’unione che gli conferisce il distacco dall’insieme dei suoi attributi e stati particolari, e dalle determinazioni d’essere della sua molteplicità relativa alla possibilità, nella stazione di ogni anima e intelligenza, un insieme dopo l’altro, in conformità con quella stazione. E così via, finché la sua anima diventa una con l’Anima universale, divenendo così come lei, e sparendo da essa ciò che era un suo accidente durante la sua discesa ideale per rivestirsi del temperamento elementare (talabbus bi’l-mizāǧ al-‘unṣuriyy).

Ibn Sīnā dal canto suo nella Metafisica afferma: «Che non si ritenga poi che, se gli intelligibili che sono presso [il Primo] avessero forme e molteplicità, la molteplicità delle forme di cui Esso avrebbe intellezione andrebbe a costituire parti diverse della Sua essenza. Come potrebbe essere se esse sono posteriori alla Sua essenza? Piuttosto, poiché il Suo avere intellezione di se stesso è la Sua stessa essenza e a partire da essa viene intelletto tutto ciò che è dopo di Sé, il suo avere intellezione di Se stesso è causa del Suo avere intellezione di quel che è dopo di Sé e la Sua intellezione di ciò che è dopo di Sé è un causato della Sua intellezione di Sé». Cfr. Avicenna, Metafisica, op. cit., p. 827. 439 La loro molteplicità permane. 440 O distacco. 438

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Poi si unisce, se la sua ascensione è stata completa, col Primo Intelletto. Se perfeziona allora la sua unione con esso, si purifica da tutte le altre determinazioni d’essere della molteplicità e della possibilità, che sono i concomitanti della sua essenza quanto alle sue possibilità relative, eccetto un’unica determinazione d’essere, che è (147) l’intelligibilità del suo essere in se stesso un possibile441, così come lo è il Primo Intelletto. Questo diviene perfetto soltanto attraverso il prevalere delle determinazioni d’essere della necessità su quelle della possibilità, in un modo che indicherò, se Dio vuole; un prevalere col quale si stabilisce l’affinità tra lui e il suo Signore. Là gli viene riservata la vera Prossimità, che è il primo dei gradi del congiungimento (wuṣūl)442, e gli vale, per il suo attributo d’esistenza essenziale, attingere da Allāh senza la mediazione di un’intelligenza o di un’anima o altri intermediari superiori e inferiori, così com’è lo status del Primo Intelletto con il Vero. L’Uomo Vero443 (al-insān al-ḥaqīqiyy) che è stato indicato, in alcune delle stazioni della prossimità, prima dell’estinzione finale e del dissolvimento nel Vero, si differenzia dal Primo Intelletto per il fatto che riunisce in sé l’attingere più perfetto da Allāh per mezzo del Primo Intelletto e le restanti intelligenze e anime – a motivo della virtù speciale della determinazione d’essere della sua possibilità che permane in lui, e di cui s’è accennato, e della virtù speciale della determinazione d’essere della necessità di ognuno tra gli individui delle intelligenze e delle anime – e l’attingere da Allāh assolutamente senza mediazione, in virtù della sua necessità. In quella situazione egli riveste la «piena e autentica umanità divina» (maqām al-insāniyya al-ḥaqīqiyya al-ilāhiyya), la quale sta al di sopra della «luogo-tenenza massima» (al-ḫilāfa al-kubrà)444 ed altri gradi più elevati.

Quindi al di sotto dell’Essere di Dio. L’anima e l’uomo vengono intelletti allora come possibili. 442 O arrivo. 443 O reale. 444 Per ḫilāfa qui s’intende il destino che Dio assegna all’uomo nella creazione quando, rivolgendosi agli angeli, enuncia loro: «Invero Io vado a porre sulla terra un ḫalīfa, un Vicario», ossia un sostituto (nā’ib) che Lo rappresenta nei confronti delle altre creature agendo in Suo nome. Questo destino è d’altronde più sublime di quello delle altre forme dell’universo, poiché egli è il solo essere che, incautamente, si sia assunto l’onere 441

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Egli scoprirà, in rapporto all’affinità detta, da ciò che è inciso nella Scienza del Vero e si rappresenta in essa, col commento menzionato, e di cui è prestabilita la manifestazione della sua determinazione e la sua proiezione da quell’esistenza conoscitiva all’esistenza reale (‘ayniyy) nella misura della capacità riflessiva dello specchio della sua realtà e della sua totale predisposizione universale, e secondo la giusta e retta posizione445 dello specchio446, e della giustezza del suo corrispondere e fronteggiare idealmente il Punto di equilibrio divino (nuqṭa i‘tidāliyya ilāhiyya), verso il quale gli estremi hanno il medesimo rapporto e che ha il medesimo rapporto verso gli estremi. Allora comprenderà tutto quel che abbiamo citato, e altro, senza velo. E intenderà le essenze nelle loro determinazioni eterne da sempre, nel modo in cui le intende (148) il Vero, con l’intendimento eterno da sempre in rapporto alla relazione conoscitiva essenziale unitaria attiva, non a motivo delle loro possibilità relative per l’essere in comune a tutte loro l’idea

dell’amāna, quel «Deposito di fiducia» che, sempre secondo il Corano, i cieli, la terra e le montagne – ossia i tre mondi – avevano rifiutato (Cor. 33:72). Per quanto riguarda la nozione coranica di ḫalīfa, «Vicario» di Dio, cfr. D. S. Margoliouth, The sense of the title Khalifah, in T. W. Arnold – R. A. Nicholson (eds.), A volume of oriental studies presented to E. G. Browne, University Press, Cambridge 1922; R. Paret, «Signification coranique de khalīfa et d’autres dérivés de la racine khalafa», Studia Islamica, 31 (1970) 211-217. 445 Qui si vuol dire che la sua superficie è regolare e piana quindi non deformata. 446 Lo specchio è un elemento spesso citato da Ibn ‘Arabī che nei Fuṣūṣ al-ḥikam così a riguardo si esprime: «La visione che una cosa ha di se stessa tramite se stessa non è come quella che essa ha di se stessa in un’altra che le fa da specchio, perché la sua visione si attua allora nella forma che gli conferisce il supporto del suo sguardo; senza l’esistenza di questo supporto, essa non potrebbe né manifestarsi né apparire a se stessa. Dio ha esistenziato il mondo nella sua totalità come un abbozzo armonioso, ma sprovvisto di spirito; simile ad uno specchio non pulito. Ed è nella natura dell’Ordine divino (al-ḥukm al-ilāhī) di non disporre mai un ricettacolo se non per accogliere uno spirito divino, e ciò è espresso [dall’idea] di “insufflazione” e ciò non è altro che il frutto della predisposizione inerente a questa forma così disposta affinché l’emanazione possa ricevere la teofania permanente che non è mai cessata e mai cesserà. In effetti non esiste che un ricettacolo, e non esiste ricettacolo che non proceda dall’emanazione santissima. L’Ordine (al-amr) tutto fa parte di essa, nel suo inizio e nel suo termine [...] L’Ordine implica la pulizia dello specchio del mondo ed Adamo è l’essenza della purezza trasparente di questo specchio e lo spirito di questa forma». Cfr. Ibn al-‘Arabī, Fuṣuṣ al-ḥikam, op. cit., pp. 48-49 [Traduzione mia].

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della possibilità. Né nel modo del loro determinarsi nell’intendimento di coloro che sono velati dagli intelletti limitati. Infatti questa specie di comprensione ha svariati difetti, tra cui il fatto che è una comprensione parziale447 (idrāk ǧuz’ī) attraverso una facoltà particolare, che è il pensiero, e una conoscenza limitata passiva (‘ilm muqayyad infi‘āliyy). Perciò non coglie se non ciò che le è affine. E per questo le intelligenze limitate448 dai pensieri, per la particolarità dei loro condizionamenti, la finitezza delle loro ricettività e il prevalere delle determinazioni d’essere della loro molteplicità e possibilità, sono incapaci di cogliere le cose universali nei loro gradi originari. Uno allora non è in grado di coglierle se non dopo aver osservato le cose particolari e averne astratto un’idea che le assembla. Esso secondo [tali intelligenze] è «l’universale», e secondo loro è una cosa presupposta nell’intendimento mentale, che non possiede alcuna realtà all’esterno. Su questo [punto] si riflette. Infatti ciò che si ricava dalla visione certa, nel momento dell’ascensione e del distacco dalle determinazioni d’essere della molteplicità e della possibilità, e dello svuotamento dell’anima dalle proprietà delle sue percezioni parziali, come s’è detto, è che la comprensione [dell’anima] e delle realtà universali diviene precedente alla sua comprensione delle percezioni parziali. Perciò comprende le realtà universali, come l’essere generale e altro tra le cose universali e comuni, per prima, poi comprende le particolarità di ogni realtà universale e i suoi concomitanti attraverso il conseguire e il concomitare secondo il modo in cui si determinano nella Presenza del Vero, in rapporto alla relazione conoscitiva, e nelle essenze delle intelligenze immateriali e delle anime universali. Così è la Scienza del Vero delle realtà delle cose e degli esseri esistenti, poiché la connessione della Sua Scienza con gli enti specifici (tafṣīliyya) è preceduta dalla connessione della Sua Scienza con il Primo Intelletto, che è l’origine universale in rapporto a quel che sta al di sotto di esso delle intelligenze, delle anime e di altre tra le cose relativamente universali, e i loro concomitanti specifici. E così è la conoscenza dell’intelletto di ciò che gli è posteriore nel grado.

447 448

O relativa al particolare. O condizionate.

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Pur avendo il proponente (dā‘ī) accennato nell’epistola precedente a qualcosa di ciò, non l’ha nonostante tutto esposta completamente, e dove qui è menzionata (149) la questione dell’ascensione spirituale e dello status di chi la compie, necessita una trattazione esauriente dell’esposizione. Allora torno indietro e dico449: la scuola di pensiero del Maestro principe [Avicenna], in base a quanto ha citato nelle Ta‘līqāt, è concorde al pensiero dei realizzati, riguardo a quanto abbiamo menzionato e cioè che la conoscenza delle realtà delle cose così come esse sono, attraverso il metodo della speculazione cogitativa, è impossibile. E il giudizio dell’intelletto condizionato dal pensiero, che gli universali non si conoscano se non dai particolari e ciò che sta dopo di essi, e che gli universali non abbiano una forma intelligibile eterna da sempre che sia determinata nella conoscenza del Vero e nelle intelligenze immateriali, ma che si tratti invece di cose presupposte che non assumono alcuna realtà in loro stesse, su ciò si riflette450. Ma la cosa sta effettivamente nel modo in cui l’hanno compresa i realizzati attraverso il disvelamento e la visione. Le parole testuali (naṣṣ kalām) del Maestro [Avicenna], circa ciò che il proponente (dā‘ī) ha menzionato, esprimendo approvazione451 (bi-lisān al-muwāfaqa), sono che egli ha detto: «Non pertiene all’uomo cogliere l’intelligibilità delle cose senza la mediazione della loro sensibilità»452. Questo per l’imperfezione della sua anima e del suo bisogno, nella conoscenza delle forme intelligibili, della mediazione delle forme sensibili. Quanto al Primo [Intelletto] e alle intelligenze separate, dal momento che esse hanno intellezione453 delle loro essenze, non hanno bisogno nel comprendere le forme delle cose intelligibili, delle loro forme sensibili e non acquisiscono [tale comprensione] dal loro sentire (iḥsās). Colgono invece le forme intelligibili dai loro mezzi e cause, che non mutano. Cosicché la cosa da loro intelletta a partire da ciò è immutabile.

Potrebbe somigliare all’espressione: «Allora vengo e mi spiego…». C’è discussione, speculazione. 451 Con linguaggio pertinente. 452 Cfr. Ibn Sīnā, Ta‘līqāt, op. cit., 5-10, p. 23. 453 Nel senso che intelligono direttamente. 449 450

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Poi ha detto: «Ma ogni individuo particolare ha un’intellezione (ma‘qūl) conforme alla sua sensibilità (maḥsūs)»454. Questo suo discorso è in accordo con ciò che ha riportato il proponente, che ha compreso dal tenore delle sue parole che la sua intenzione quando dice: «La comprensione delle realtà delle cose è al di fuori delle capacità (150) umane» fino alla fine della sezione, è la spiegazione dell’impossibilità di conoscere le realtà quanto alle loro forme intelligibili, determinate nella Scienza del Vero da sempre e per sempre, e nelle essenze delle intelligenze immateriali. Non intendeva la conoscenza delle proprietà dei temperamenti e delle nature, o altre cose che il Maestro (mawlā) – che Dio gli sia propizio – indica in quelle risposte. Intendeva invece unicamente la conoscenza delle realtà originarie (ḥaqā’iq aṣliyya), come si è visto. Per questo egli ha menzionato, nell’attestare ciò e nella sua esemplificazione, la conoscenza dell’Essenza del Vero – a Lui la lode – e la conoscenza dell’intelletto, dell’anima, della sfera celeste, e della realtà del corpo universale in quanto intelligibile. E non ha fatto esempi da cui si possa intendere qualcosa di collegabile ai temperamenti, alle nature e alle proprietà. Il proponente ha ritenuto che il copista che ha trascritto tali questioni dalle sue Ta‘līqāt, forse non abbia scritto quella sezione in forma completa, altrimenti non sarebbe [rimasta] nascosta alla nobile scienza ciò che il Maestro [Avicenna] intende con ciò. E la prova che la sua intenzione – che Allāh santifichi la sua anima pura – riguardo quegli esempi era ciò della cui menzione fa cenno il proponente, è quel che egli sottolinea in un altro punto, vale a dire le sue parole: «Per l’uomo è assolutamente impossibile conoscere la realtà della cosa, perché il principio455 della conoscenza delle cose è il senso. [Accade] poi [che] egli discerne tramite il suo intelletto, tra [le cose] ambigue e le [cose tra loro] evidenti (mutabāyināt), ed allora conosce, attraverso l’intelletto, alcuni concomitanti (lawāzim) della cosa, le sue attività (af‘āl), le sue influenze (ta’ṯirāt) e le sue proprietà (ḫawāṣṣ). Cosicché egli avanza gradualmente da quello verso la sua conoscenza con una co-

454 455

In conformità a ciò che si percepisce coi sensi. Nel senso di punto di partenza.

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noscenza generica, non certa456, e di solito conosce solo una piccola parte dei suoi concomitanti. Se allora si afferma che ne ha conosciuto la maggior parte, però ciò non comporta che conosca tutti i suoi concomitanti. E se conoscesse la realtà della cosa, provenendo dalla conoscenza della sua realtà [a quella dei] suoi concomitanti e [delle] sue proprietà, di necessità conoscerebbe i suoi concomitanti e le sue proprietà totalmente. Ma la sua conoscenza [funziona] al contrario rispetto a come le sarebbe necessario (151) essere»457. E di ciò che egli ha menzionato, di quel che per un aspetto è in accordo con il pensiero458 dei realizzati, vi è il fatto che ha detto: «La conoscenza è il conseguimento [ḥuṣūl] delle forme dei conoscibili nell’anima»459. Poi ha detto: «E le forme degli esseri esistenti assumono una rappresentazione (murtasima) nell’Essenza del Creatore, in quanto sono Suoi oggetti di conoscenza. E la Sua conoscenza di essi è la causa (sabab) della loro esistenza»460. I realizzati della Gente del gusto dicono: il Vero ha conosciuto Se stesso grazie a Se stesso, e ha conosciuto il mondo dalla Sua stessa conoscenza di Se stesso, e ha dato esistenza al mondo nel modo in cui l’ha conosciuto. E l’esigenza dell’atto esistenziatore (iqtiḍā’ īǧādī) è messa in relazione col Vero in tre modi: un’esigenza essenziale, il cui statuto non dipende assolutamente da alcuna condizione; un’altra esigenza, la cui manifestazione dipende da una sola condizione, e quella condizione è il Primo Intelletto. E una terza esigenza, la manifestazione dei cui effetti è dipendente da condizioni. Ma ciò non significa che là vi siano tre esigenze diverse, si tratta invece di un’esigenza unica che possiede tre gradi. E allora le essenze, di cui abbiamo detto, denotano le forme dei diversi intendimenti divini che si determinano nella relazione conoscitiva e nei suoi risultati, e per esse diviene molteplice l’assoluto dell’emanazione d’esistenza esistenziatrice461,

Confusa, sommaria, imprecisa, non solida. Cfr. Avicenna, Ta‘līqāt, op. cit., 8-14, p. 82. 458 Nel senso di corrente, scuola. 459 Ibid., 82, p. 19. 460 Ibid., pp. 20-21. 461 Creatrice, produttrice. 456 457

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con gli effetti delle loro peculiarità che decidono (qāḍiya) la distinzione di ognuna di esse dall’altra. Cosicché l’unica effusione d’esistenza è percepita essere multiforme quanto alla manifestazione e molteplice nella [sua] entità, di una molteplicità conseguente a quegli intendimenti conoscitivi eterni da sempre, e lo statuto della Scienza si estende ad esse [alle essenze] e si connette con esse e i loro concomitanti per come sono. Perciò l’intendimento della Scienza, nello stato della visione certa, in rapporto al suo essere una relazione unica e basta, procura la consapevolezza della forma della Scienza che il Vero ha di Se stesso grazie a Se stesso, considerando l’identità della conoscenza, del conoscitore e del conoscibile462. E l’intendimento del distinguersi (152) della Scienza dall’Essenza, distinguersi relativo, e del suo includere quegli intendimenti di cui si suppone l’insorgenza l’uno dall’altro, e l’intendimento del suo connettersi con la stessa Essenza del Vero, cioè l’entità (‘ayn) della relazione conoscitiva (nisba al-‘ilmiyya)463 e i concomitanti di quella relazione, procura la conoscenza del fatto di includere, da parte della Scienza, di vari intendimenti, che sono denotati come i conoscibili464, la cui insorgenza è intesa essere dalla supposizione e dal moltiplicarsi degli aspetti e delle considerazioni ed il loro essere una molteplicità relativa conseguente a una relazione unica, denominata «Scienza» [conoscenza]. Il Maestro (mawlà) – Dio gli sia propizio – ha già parzialmente accennato a questo quando menziona i dodici aspetti (i‘tibārāt). A suo completamento, tramite la via realizzativa, c’è che, quando si intendono quegli aspetti in quanto rappresentano l’influenza del Vero dal loro lato, si moltiplicano gli effetti divini, anche se in principio esse sono un effetto unico. Esse sono state allora denominate, in funzione di questa

In un passaggio dei Nuṣūṣ Qūnawī afferma: «His eternal knowledge of things is identical with His knowledge of Himself in the sense that He knows Himself by Himself and thus knows everything trough His knowledge of Himself; for everything comes from the affairs of His Essence (shu’ūn dhātihi). Wherefore, given that He knows all the affairs of His self, He thus knows everything by knowing Himself». Cfr. Todd, The Sufi Doctrine of Man, pp. 87-88. 463 Entità nel senso che, essendo intesa come distinta dall’Essenza e non potendo essere altro che qualcosa di conosciuto, ha un’entità nella Scienza stessa. 464 Le cognizioni. 462

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molteplicità considerata, «determinazioni d’essere della necessità» (aḥkām al-wuǧūb). E noi abbiamo denominato l’intelligibilità di ogni cosa qualificata dal subire l’effetto in corrispondenza di quegli effetti riferiti al Vero, insieme alle proprietà degli intermedi, «determinazioni d’essere della possibilità» (aḥkām al-imkān). Chi ha visione di ciò che abbiamo menzionato, conosce il segreto della rappresentazione e del suo essere messa in relazione col Vero, relativa cioè a una conoscenza che abbraccia quegli intendimenti divini eterni da sempre, insieme alla trascendenza del Vero, in rapporto alla Sua unità esclusiva, rispetto alla molteplicità relativa inerente il considerare e inerente l’esistenza attuale465 ad un tempo. Alla purezza dell’Essenza, infatti, appartiene l’assolutezza da ogni qualificazione, come si è in precedenza indicato, e all’unità esclusiva del Vero il determinarsi stesso e basta, nell’aspetto che esclude tutte gli aspetti (i‘tibarāt) (153). La sua unicità sussiste per il secondo aspetto, in rapporto alla relazione conoscitiva, e ad essa appartiene la determinazione sintesi di tutte le determinazioni. È rispetto ad essa che si intendono la principialità del Vero, il Suo essere necessario, il Suo essere esistente ed effusore per Essenza. L’«affermazione d’unità» si applica quindi all’esistenza, mentre il «distinguere» si applica alla conoscenza, sotto l’aspetto dell’unicità, non sotto l’aspetto dell’unità esclusiva che decide l’identità (ittiḥād) della conoscenza, del conoscitore e del conosciuto. E l’assolutezza si applica all’Essenza466.

Alla molteplicità relativa logica e a quella reale. In un passaggio dei Nuṣūṣ Qūnawī scrive: «Know that in respect of the Real’s absoluteness, it is not right to attribute to Him any kind of property or characterize Him by any quality or relation, such as oneness, necessary being, origination, bringing into being, emanation of an effect or any knowledge of such in Himself and so on, since all these things imply self-identification (or individuation, ta‘ayyun) and restriction (or relativity, taqyīd). There is no doubt that the idea of any self-identification implies that there was a previous non-individuation (lā ta‘ayyun). All that we have mentioned is contained within absoluteness. To conceive of the absoluteness of the Real one has to understand it as a meaning negation, not an “absoluteness” that is opposed to “relativity”. It is a complete divorce from being known as One and Many, and also from being confined in absoluteness and relativity and in the synthesis of the two, or from being transcendent of it. All of that becomes true within His Truth as a state/condition of His being utterly transcendent from everything... Then it is clearly known that relating oneness, originating, effecting (ta’thīr), bringing into 465 466

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Poi dico: e ognuno degli enti, salvo il Vero – include quindi per essenza l’insieme delle determinazioni d’essere della necessità e della possibilità – ed è inevitabile che si trovi tra i due estremi, cioè il lato della necessità e quello della possibilità, in quanto mescolanze ideali e quanto a prevalenza ed essere non prevalente. Per quella prevalenza ed essere non prevalente si manifesta la differenza tra gli enti nella nobiltà e nella bassezza, nell’infelicità e nella beatitudine, l’ignoranza e la conoscenza, la permanenza e l’esauribilità, e in altri tra gli attributi dell’imperfezione e della perfezione. Quindi gli attributi della perfezione e della prossimità all’Eccellenza del Vero apparterrà a chiunque avrà in sé più forti, più complete e più prevalenti le determinazioni d’essere della necessità. E gli attributi dell’imperfezione e della lontananza, assieme ai loro concomitanti, si avranno quando in lui si moltiplicheranno gli aspetti della possibilità e le loro determinazioni d’essere, e si manifesterà la loro prevalenza sulle determinazioni d’essere della necessità. L’origine delle determinazioni d’essere della necessità è l’unicità del Vero, con la spiegazione menzionata. L’origine delle determinazioni d’essere dell’imperfezione è la molteplicità e la possibilità. E il moltiplicarsi degli aspetti della possibilità si genera dalle proprietà delle possibilità degli intermedi che stanno tra il Vero e ciò la cui esistenza [che riceve] dal Vero dipende da un insieme di intermedi. (154) Perciò la differenza in nobiltà in questo senso è commisurata al ridotto numero di intermedi, per la non alterazione dell’effusione essenziale dalla sua originaria purezza. Il situarsi al di sotto di questa nobiltà è dovuto alla situazione opposta. Lì si trova una natura intermedia (barzaḫiyya) centrale, di equilibrio, che riunisce [in sé] i due estremi, includente per essenza le universalità delle determinazioni d’essere della necessità e della possibilità, di un’inclusione equilibrata, attiva sotto un certo aspetto, e passiva sotto un altro,

being and such like to the Real is only possible by virtue of self-identification. The very first-identification that can be comprehended is the relation of Essential Self-knowledge, although separating His knowledge from the Essence is a relational distinction, not a real one. By virtue of the relation of Essential Self-knowledge, the oneness of the Real can be known, as well as the necessity of His Being and His being the ground and foundation [of all things]: it is all equally a matter of His knowledge of Himself through Himself in Himself, and the knowledge of Himself is the cause of His knowledge of all things». Cfr. Küçük – Hirtenstein, «Sadr al-Dīn al-Qūnawī’s al-Nusūs», pp. 111-112.

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che non contrasta coi due estremi se non per l’intelligibilità del suo riunire entrambi. Essa è la «realtà umana perfetta divina»467, ed essa è in effetti come lo specchio per i due estremi468. Colui allora il cui grado si determina, provvidenzialmente e per il diritto essenziale e per l’affinità reale, in questa menzionata natura intermedia, non assume distinzione nell’estremo della possibilità, ma la sua essenza risulta essere un’anima istmica, un’anima di natura intermedia, ed egli è uno specchio per i due estremi469.

La realtà dell’uomo perfetto di carattere divino, o metafisico, al-ḥaqīqa al-insāniyya al-kamāliyya al-ilāhiyya. Questo passaggio ci fornisce un ideale punto di riflessione perché pone la questione del rapporto tra l’unità dell’essere e l’unità particolare detenuta dall’uomo. Colui che contempla può raggiungere e realizzare concretamente lo stato di ittiḥād (fusione unitiva) che costituisce la sua ragion d’essere. L’Unità è costituita da due poli, quello divino e quello umano che diviene lo specchio epifanico, simbolizzati da Qūnawī da due nozioni fondamentali: la nozione dell’Unitotalità rassemblata (al-ǧam‘) e la nozione dell’aspetto particolare (al-waǧh al-ḫāṣṣ) legato a quello della teofania particolare (al-taǧallī al-ḫāṣṣ). I realizzati contemplano Dio nel cuore della Sua manifestazione, l’Unità nel cuore della molteplicità, pur riuscendo a distinguere tra Dio e ciò che è altro. 468 Sul termine «specchio» che qui ritorna, troviamo un preciso riferimento nei Nuṣūṣ: «In the Ninth Nass, he says that the difference between knowing the Real and His manifestations is much greater than that represented in the analogy of a thing and its image in the mirror, since both the thing and the mirror are part of His manifestations. The Self-revelations of the Essence (al-tajalliyāt al-dhātiyya), which are specially granted to gnostics, do not take place in any locality of manifestation or mirror or at any kind of presence. The perception of the Real in these Self-disclosures takes place outside the mirror, without depending on any locality of manifestation or degree as we have said, or name or quality or individual state or entity. It is known [solely] by ‘taste’ (dhawq)» Cfr. Küçük – Hirtenstein, «Sadr al-Dīn al-Qūnawī’s al-Nusūs», p. 113. 469 In una normale situazione, l’uomo è attratto e rapito dalle entità fisiche, immaginali o spirituali, tutti luoghi di manifestazione e rivelazione delle proprietà signoriali. Nell’I‘ǧāz al-bayān Qūnawī specifica: «Man is an isthmus [barzakh] between the Divine and Engendered Presences. He is a transcript [nuskha] that comprehends both [Presences] along with everything that they comprise. There is nothing whatsoever that is not traced out in his level, which is his all-comprehensiveness. What becomes entified through that which is comprised by and included in his transcript of wujūd and his level, in every moment, state, configuration, and homestead, is only what is called forth by the property of his correlation with that state, moment, configuration, and homestead, and its inhabitants. Such is the wont of the Real in respect of His connection to the cosmos and the cosmos’s connection to Him, as already indicated. As long as man is not delivered from the noose of 467

TRADUZIONE

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Perciò in lui si rappresenta, in rapporto all’imprimersi ideale indicato alla fine dell’ascensione, l’unica esistenza, in una forma divenuta molteplice e dalla multiforme manifestazione coi Nomi [divini] e le forme degli Stati e degli Attributi. E per lui si generano, tra i due estremi menzionati, tutti gli altri rapporti e relazioni, come una manifestazione e un manifestare le moltiplicazioni relative agli aspetti (i‘tibāriyya) e gli intendimenti, determinatisi nell’unicità del Vero in rapporto alla relazione della Sua Scienza eterna da sempre, cui è correlata la rappresentazione secondo i realizzati. Però io non affermo che la rappresentazione nell’essenza di chi possiede questa suddetta natura intermedia sia un rappresentarsi corrispondente al rappresentarsi delle cose nello stesso Vero in rapporto alla relazione della Sua Scienza essenziale eterna da sempre. Infatti le conoscenze delle genti dalla rappresentazione corrispondente sono conoscenze passive, particolari, eventuali, imperfette nell’imitazione. Dico invece: l’anima di chi ha questo status ha fruttificato470, è ascesa, è divenuta limpida, si è sostanziata, e la sua sfera è divenuta ampia e si è unita con la Corte suprema (al-ǧanāb al-a‘là); ed essa è stata illuminata dalla luce (155) del Vero, come ha detto [il Profeta] – che Dio lo benedica e gli doni la Pace – alludendo a ciò nella sua preghiera con le parole: «E

the bonds of partial attributes and engendered properties, his perception will be delimited by the partial attribute that exercises its ruling property over him in the mentioned manner. He will perceive only things that are the counterparts [muqābil] of the ruling attribute, or things that are under its scope, nothing more. If he disengages himself from the properties of the bonds, inclinations, and deviant, one-sided and partial attraction; and if he ends up at the mentioned all-comprehensive, middle-most station, which is the point of universal counterbalancing [musāmata] and the center of the circle that comprehends all the levels of equilibrium – the supraformal, spiritual, imaginal, and sensory which I just discussed – and if he becomes qualified by the state that I explained, than he will stand before the two Presences in the station of supraformal, isthmus-like parallelism [muhādhāt]. He will face the two [Presences] in his essence like the point in relation to each part of the circumference. [...] Thereby he will obtain realized knowledge of the realities, roots, and principles of things, because he perceives them in the station of their disengagement. Then he will perceive them according to their totality and all-comprehensiveness through his own totality and all-comprehensiveness». Cfr. Chittick, «The Central Point», pp. 41-42. 470 È cresciuta, o è stata benedetta, o ancora, è divenuta adatta o è maturata; o: è divenuta pura, tazkā.

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fammi esser luce!»471. Cosicché diviene pura luce e si spoglia dalle tenebre della possibilità e dalle sue determinazioni d’essere limitative e particolari. E diviene così uno specchio per la Rappresentazione Eterna [Divina]. La conoscenza che egli allora possiede e che procede dal Vero e dalle cose è prossima e alquanto simile a quella che lo stesso Vero ha per tramite la Sua Scienza essenziale né donata né acquisita. Questa conoscenza sta al di sopra della «scienza infusa» (al-‘ilm al-laduniyy)472 che secondo la maggior parte delle genti del gusto è la suprema delle conoscenze donate. A ciò alludono le parole divine: «E invece essi abbracciano della Sua scienza solo ciò che Egli vuole»473; infatti si tratta di una conoscenza onnicomprensiva attiva. Quando essa si connette con una cosa la conosce sotto tutti i suoi aspetti, a differenza delle conoscenze degli uomini, che sono infatti eventuali e passive, si connettono con le cose sotto l’aspetto di alcune proprietà e concomitanti, senza averne una conoscenza globale. Per tale ragione, chiunque sia consapevole della sua imperfezione, nega che qualcosa del genere sia una conoscenza completa e certa, come il Maestro principe [Avicenna], secondo quanto il proponente ha letto delle sue parole e ha proposto all’opinione illuminante [del destinatario] in questo scritto e nel servizio [richiesto] precedente. [Quanto a] chi detiene questa stazione intermedia menzionata, come si incidono nel suo specchio, in considerazione di uno dei suoi due aspetti, quello specifico dell’estremo della possibilità, gli enti reali [effettivi] (al-mawǧudāt al-‘ayniyya) conformemente a quegli intendimenti e aspetti, relativi alla Scienza eterna da sempre, allo stesso modo si annulla [ciò],

471 Tratto dalla nota tradizione: «Oh Dio, metti luce nel mio cuore e luce nel mio udito, luce nella mia vista, luce alla mia destra, luce alla mia sinistra, luce dinanzi a me, luce dietro di me, luce sopra di me, luce sotto di me, e fa di me una luce». Riferito da Ibn ‘Ābbās. Ci sono diverse varianti per questo ḥadīṯ. Il Wensinck dà questi riferimenti: Bukhârî, da‘wāt 9; Muslim, musāfirīn 181, 187, 189; Abū Dāwūd, tanawwu‛ 26, Tirmiḏī, da‘wāt 30; Ibn Hanbal, I, 284, 343, 352, 373. Cfr. A. J. Wensinck – J. P. Mensing, Concordance et Indices de la Tradition Musulmane, Brill, Leiden 1992; D. Gril, «Le commentaire du verset de la Lumière d’après Ibn ‘Arabī», Annales Islamologique, 13 (1997) 186, n. 45. 472 Letteralmente al-‘ilm al-ladunī è la Scienza che procede direttamente da nessun altro che Me (Dio) e cioè senza altro mezzo o tramite che Lui. Questa scienza è quella specifica del profeta al-Ḫidr e dei santi che procedono sui suoi passi, ossia i suoi eredi. 473 Cor. 2:255.

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nella (156) sua unità, in considerazione di uno dei suoi due aspetti, quello che è contiguo alla posizione della necessità. E la sua unità non è in contrasto con alcun numero e numerato. In verità, sotto questo aspetto, gli avviene di attingere da Dio del tutto senza intermedio, anzi, realizza qualcosa che è superiore e migliore di questo, di ciò che è impossibile menzionare. Questo, nonostante la diversità dei gradi di coloro che sono giunti a questa stazione, e la diversità delle sorti loro assegnate dal Vero a motivo delle proprietà delle loro predisposizioni «non fatte». Dirò anzi per ciò che esige l’Autorità della Visione certa, in verità non v’è alcuno fra gli enti esistenti per il quale il nesso col Vero in quanto tale non sia in due modi: il lato della catena dell’ordine [ontologico] e degli intermedi, il primo dei quali è il Primo Intelletto, e il lato dell’estremo della sua necessità, che è contiguo al Vero; e che in verità, in rapporto a questo modo, si può correttamente affermare di ogni ente che esso è necessario, anche se la sua necessità è per altri che lui. Ciò che qui i realizzati intendono della necessità [di cui sopra] contrasta in qualche modo con ciò che intendono altri di questa assolutezza. Il segreto in questo è l’estensività dello Statuto dell’unità essenziale del Vero, che si estende a ogni qualificato dall’esistenza, e che decreta l’annientamento degli statuti della molteplicità delle cose e degli intermedi in essa474, e mette in evidenza l’unità esclusiva dell’azione e dell’agente, nel senso che tutto ciò che è altro dal Vero, di ciò che è qualificabile come causa, [è giudicato] che è un preparatore, non un effettuatore. Non c’è quindi effetto di alcuna cosa su alcun’altra, eccetto [di] Allāh, l’Unico, il Soggiogatore. Ma il segreto di questo «volto particolare» (al-waǧh al-ḫāṣṣ), in cui non c’è intermediario, tra ogni cosa e il Vero, in rapporto alla maggior parte degli enti è dissolto, quanto a determinazione d’essere e a virtù particolare, nelle determinazioni d’essere della molteplicità e della possibilità, per il prevalere delle determinazioni d’essere della molteplicità sulla determinazione d’essere dell’unità e le determinazioni d’essere della necessità, indicate precedentemente. Vi è là un nobile segreto, connesso con questa stazione, in cui la ragione teoretica trova un certo spazio. Ed è che, dal momento che razional-

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Cioè l’unità.

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mente non è ammesso che si intendano nel Vero due aspetti diversi, per il Suo essere uno sotto tutti i riguardi, bisogna che il nesso (157) concepito tra Lui e gli enti sussista, quanto al Vero, in un solo modo. E la molteplicità, facendo parte dei concomitanti dei possibili e dei loro attributi essenziali, ed essendo la prima e minima forma della molteplicità la dualità, bisogna che il nesso di ogni possibile col Vero, quanto al possibile, [sia] da due lati: uno è il lato della sua possibilità, l’altro quello della sua necessità. E bisogna che la prevalenza, dal lato contiguo al Primo [Essere], appartenga all’unità e alle determinazioni d’essere della necessità, così come bisogna che la prevalenza appartenga alla molteplicità dall’altro lato. Dico poi: e i gradi ontologici degli enti e le loro gradazioni si sono determinati in funzione della prevalenza e dell’essere non prevalente, intesi avvenire tra i due estremi, come è stato spiegato. Chi è giunto a conoscere quel che abbiamo menzionato, ha gettato uno sguardo su eminenti segreti, tra i quali vi è la conoscenza della causa della concordanza della ragione teoretica con i frutti del disvelamento e della visione, e la causa dell’accordo su ciò o del disaccordo. La causa della concordanza è allora una certa prevalenza che procede dall’Unità del Vero e dalla Sua assolutezza, e dalle determinazioni d’essere della Sua necessità, sopra le determinazioni d’essere della molteplicità, che l’essenza di chi concorda include. Ciò di cui informa la comprensione di chi segue la ragione teoretica, di quel che l’intuitivo ha compreso nella sua visione, e si trova allora d’accordo con ciò oppure lo respinge, ciò deriva dalle proprietà dei condizionamenti di chi segue la ragione cogitativa, e al suo limitarsi entro i giudizi imposti dalle sue comprensioni particolari e la finitezza delle loro ricettività. Diversamente dal caso dell’intuitivo, il quale infatti si è liberato dai limiti delle condizioni e dalle proprietà delle sue ricettività, qualificate dalla finitezza. Perciò comprende le cose a volte con l’aspetto incondizionato della sua essenza personale, a volte grazie al suo Signore, e con tutti e due assieme e nel modo sottolineato in precedenza, nel più alto dei gradi dell’astrazione delle cose, l’astrazione dall’esistenza (taǧrīd wuǧūdī) e l’assolutezza originaria475.

Il principio fondamentale per Qūnawī è che ogni determinazione è una limitazione mentre la totale libertà appartiene all’Essenza di Dio. Questo tipo di libertà sarà quella acquisita dall’uomo perfetto, che anche se non assoluta come quella dell’Essenza divina, 475

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Chi segue la ragione, anche se coglie qualcosa di ciò che coglie l’intuitivo che esce dai limiti menzionati, coglie quel qualcosa solamente nei gradi (158) condizionati appartenenti a quelle realtà. La sua comprensione riguardo ad esse sarà quindi commisurata al determinarsi di quelle realtà nei gradi del loro esilio e di ciò che, in fatto di condizioni, sopravviene loro in quei gradi. Non le comprende nei gradi della loro astrattezza più completa originaria e della loro vera patria, che è la Presenza della Scienza Divina indicata in precedenza. L’attestazione di ciò che abbiamo menzionato e del suo segreto, è che, essendo il determinarsi delle anime particolari posteriore a quello del temperamento secondo quanto asserito dai realizzati tra le Genti del gusto e della sapienza (ḥikma)476 diviene come se il temperamento fosse un’«idea» (ma‘nan) che è giusto descrivere come uno specchio, ossia è come se l’anima venisse impressa in esso [temperamento], e questo imprimersi fosse perciò denotato come «il vincolo del governo» (al-ta‘alluq al-tadbīrī). E inoltre, dal momento che il motivo dell’incontro delle parti del temperamento sono gli effetti delle potenze celesti e le proprietà delle congiunzioni astrali, delle configurazioni e dei moti celesti, e degli orientamenti delle loro anime elevate e intelligenze, ed essendo la ricezione dei temperamenti per quelle potenze ed effetti una ricezione variabile, corrispondente alle loro predisposizioni originali [di base], [allora] il temperamento è in un primo momento come lo specchio per quelle potenze ed effetti, e successivamente si predispone, per ciò che ha ricevuto e che si è impresso in esso di essi477, e cioè ad essere uno specchio per la

sarà la forma di maggiore libertà possibile realizzabile nell’esistenza manifesta. Per questo Qūnawī torna a discutere sulla possibilità di liberarsi dalla costrizione della propria individualità in riferimento a tutte quelle facoltà che non fanno altro che limitare la coscienza come il pensiero cogitativo, il cappio del conformismo, fino ad escludere anche i legami con le stesse stazioni spirituali. 476 Ahl al-ḥikma, la Gente della sapienza. Per la maggior parte dei credenti, la sapienza consiste nell’ottenere una scienza ed esserne un profondo intenditore, per i dotti essa è la rapidità nel dare risposte giuste. Per altri è la comprensione del Testo Sacro e quanto Dio vuole e intende. Per i sufi, la saggezza è la contemplazione dell’Essenza rivestita dalle luci degli attributi divini e cioè altro non è che la «realtà della conoscenza» (ḥaqīqa al-ma‘rifa). 477 Forze ed effetti.

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ricezione dell’anima particolare che si determina per mezzo di e in conformità ad esso [temperamento]. E non c’è dubbio che i temperamenti umani, anche se rientrano in un unico accidente478, sono grandemente variabili nella prossimità e nella lontananza rispetto ai gradi dell’equilibrio. Per tale ragione le anime variano nella luminosità, sostanzialità, nobiltà o altro (159) tra gli attributi della perfezione. Ne consegue inoltre che le anime non manchino nei loro intendimenti e concezioni, delle proprietà del temperamento, il quale è la causa del loro determinarsi. In particolar modo per quanto è motivato dal legame e dal «vincolo del governo». E questo nonostante l’anima non dimori localmente nel temperamento. E consegue ancora che ognuna delle anime umane abbia una certa affinità con il mondo superiore479 e le sue anime480, a motivo di ciò che è «impastato» nel suo temperamento e di ciò che le deriva da quelle potenze ed effetti, e l’influenza di quel dato momento in cui viene ad essere l’incontro delle parti del temperamento, e in conformità alla situazione principiale del determinarsi dell’anima e del suo connettersi ad esso. È inevitabile che le potenze di qualcuna delle sfere e i suoi effetti481 in esso siano più prevalenti degli altri, e che quindi il rapporto di quell’anima e del suo temperamento con quella sfera, la sua anima e la sua intelligenza, sia più forte e più completo del suo rapporto482 con altre483. Questo, benché esso sia sede degli effetti di tutte. Se è così, la comprensione da parte dell’anima dell’uomo per ciò che essa comprende delle realtà sarà commisurata al grado che si determina per essa là484, in quanto essa comprende ciò che comprende secondo quale grado abbia in esso e conformemente ad esso.

Il fatto che all’anima inerisce un temperamento, accidente comune o specie accidentale. 479 Celeste translunare. 480 Nufūsihā nell’originale, [sic]. 481 Āṯāruhu nell’originale, [sic]. 482 Min nisbatihi nell’originale, [sic]. 483 Cioè i legami che egli ha con una sfera particolare e le influenze ed effetti di questa sono più forti di quelli che egli comunque ha con le altre sfere. Usando il simbolismo del sole, è come se quella data sfera fosse il suo sole mentre le altre sono raggi luminosi. 484 Cioè in quella situazione. 478

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Quel che è da determinarsi è perciò il grado dell’anima [dell’uomo], e soprattutto dopo la salita e ascensione spirituale (mi‘rāǧ rūḥānī) menzionata, e l’arrivo a qualcuna delle stazioni delle perfezioni relative che sono il suo fine in rapporto agli ambiti delle intelligenze e delle anime. In particolare [di] colui che ascende al grado della perfezione nel quale si richiede il suo partecipare col Primo Intelletto nell’attingere da Dio e nell’accogliere la Sua effusione più santa (fayḍahu al-aqdas) senza intermedio, questo e altro di ciò che l’eloquenza delle parole è troppo limitata per poterlo esprimere, e non si determina, in un intendimento condizionato dalla propria speculazione cogitativa (naẓar fikrī), né in modo esplicito né allusivamente. La sua comprensione delle realtà delle cose e la sua conoscenza (ma‘rifa) del Vero non saranno come l’intendimento di chi detiene la speculazione cogitativa, la cui anima è tinta dalle proprietà naturali e dalle facoltà particolari relative al temperamento. Quest’ultimo, infatti, comprende ciò che comprende solo in modo corrispondente alla qualità prevalente sulla sua anima nel momento del comprendere. Dove mai si troverà dunque costui, rispetto a coloro che trovano chiaramente le realtà delle cose e intendono i conoscibili (160) nei loro gradi semplici eminenti (marātib al-basīṭa al-‘āliyya). E dove tutti questi rispetto ai più perfetti, che trovano chiaramente le realtà nel più alto dei gradi delle loro determinazioni, nel modo del loro determinarsi nella Scienza del Vero, eternamente da sempre? Così come si è richiamata recentemente l’attenzione su ciò e [in riferimento] alla differenza di stazione che il proponente ha menzionato, stabilita [cioè la differenza] per le anime umane nei mondi superiori, il profeta – Dio lo benedica e gli doni la pace – ha comunicato di aver incontrato nella sua ascensione Adamo – su di lui la pace – nel primo cielo, che è la sfera della Luna, e che la sua stazione è in quella sede. Ed ha informato che Gesù – su di lui la pace – si trova nel secondo, Giuseppe nel terzo, Idrīs nella quarta sfera, Aronne nella quinta, Mosè nella sesta e Abramo nella settima. E non c’è dubbio che le anime non occupano per sé un luogo485. Quindi ciò che egli

Secondo questa tradizione, i Poli (aqṭāb) che presiedono sulle sfere celesti sono: Adamo (la Luna), Gesù (Mercurio), Giuseppe (Venere), Enoch (il Sole), Aronne (Marte), Mosé (Giove), Abramo (Saturno). Chiaro riferimento al mi‘rāǧ, o ascensione 485

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– su di lui la pace – ha menzionato, allude ai gradi delle loro anime motivati dall’affinità stabilita tra esse e le anime celesti e le alte intelligenze, e dalla diversità dei loro gradi – su di loro la pace – nella Presenza divina486, in misura della scarsità o ricchezza di intermedi, come s’è detto. E i viaggiatori pervenuti, detentori delle ascensioni spirituali, tra i più perfetti e coloro che sia avvicinano al loro stesso livello, tutti quanti sono d’accordo sulla validità di ciò che il profeta – Dio lo benedica e gli doni la pace – ha ricordato, dello status di chi egli ha menzionato tra i profeti (161) – su di lui e su di essi la pace – sulla base di una contemplazione spirituale e di un disvelamento sicuro, raffinato, che giunge a ciascuno di loro diverse volte, senza che vi sia un rifarsi semplicemente al profeta – su di lui la pace – o ad altri in questo o in altre cose del genere. Poiché in verità ciò che li ha spinti sul cammino e a sopportare le fatiche, è soltanto la ricerca della via d’uscita dal laccio della pura imitazione (taqlīd), e l’insoddisfazione per i risultati delle cogitazioni, dal momento che hanno visto l’impotenza di queste e il fatto che il loro campo d’azione e la maggior parte dei loro argomenti non sono esenti dal vizio dei dubbie delle incertezze. Tra ciò che conferma quanto detto, vi è quel che il profeta – Dio lo benedica e gli doni la pace – ha comunicato riguardo alla diversità dei gradi del suo attingere da Dio le conoscenze, in funzione dei suoi diversi

notturna. Nel Corano (17:1) si accenna ad un viaggio compiuto da Muḥammad che lo avrebbe condotto dal «tempio sacro», secondo alcuni commentatori da intendersi con il santuario della Ka‘ba, fino al «tempio più remoto», che per alcuni esegeti si troverebbe in cielo, mentre per altri il tempio di Gerusalemme. La tradizione ha poi aggiunto che l’inviato di Dio ha compiuto il suo viaggio in sella ad una misteriosa cavalcatura, Burāq, dal volto femminile, il corpo di cavallo e la coda di pavone. Muḥammad, una volta giunto al tempio di Gerusalemme, verrà accompagnato dall’arcangelo Gabriele, salirà per la scala di Giacobbe e attraverserà i sette cieli, lì incontrerà dei personaggi della storia vetero e neotestamentaria, fino a dialogare con Dio. Nell’interpretazione mistica questo viaggio rappresenta il superamento degli ostacoli che impediscono all’anima di percepire il divino. Per una lettura del testo si veda: Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta nel racconto di Ibn ‘Abbās, Ida Zilio-Grandi (ed.), Giulio Einaudi editore, Torino 2010. 486 È bene ricordare che qui non si tratta affatto di gerarchia intesa quale mera superiorità di alcuni profeti su altri, ma di una disposizione divinamente ordinata e con un fine prestabilito nella scienza eterna.

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stati e delle sue ascensioni nei gradi delle intelligenze separate, dopo aver attraversato le stazioni celesti e le loro anime elevate. A volte infatti egli riferiva di apprendere da Gabriele – su di lui la pace – e che Gabriele prendeva da Michele, e Michele da Isrāfīl, e Isrāfīl prendeva da Dio, ed egli ne dava comunicazione. Altre volte prendeva da Michele senza la mediazione di Gabriele. Ed ha riferito che a volte era Isrāfīl a dettargli, e quindi prendeva da lui senza la mediazione di Gabriele e di Michele – su di loro la pace. Ed era informato a volte da Dio, senza la mediazione di alcuno degli angeli, e non c’è bersaglio al di là di Dio487. Tutti i più perfetti tra i suoi eredi spirituali hanno partecipato a tutto quanto lui ha riferito, e il proponente li ha visti, e con loro è avvenuta la partecipazione e la coincidenza nella visione, e il giudizio della validità di ciò488, per il favore e il dono di Dio, assieme alla conoscenza che le genti della speculazione cogitativa si trovano d’accordo nell’accettare (162) questo, e il giudizio della sua validità, e la conoscenza, inoltre, del motivo di quell’accordo e del rifiuto. Questo, nonostante coloro che si trovano d’accordo in ciò non abbiano alcuna base eccetto la predisposizione e il padroneggiare la [capacità] speculativa abituale. Infatti queste e simili descrizioni impediscono alle intelligenze speculative di comprendere qualcosa del genere e di accettarlo. E se approfondissero la meditazione negli argomenti che decidono il rifiutare cose di

487 L’angelo Gabriele ha il compito specifico di fare da intermediario con Muḥammad riguardo alla rivelazione divina, di guidarlo e sostenerlo; è lui che lo accompagna nel suo viaggio celeste del mi‛rāğ, che annuncia a Maria la nascita di Gesù, e che insieme a Michele e ad Isrāfīl, vengono considerati tra i quattro cherubini. Michele, descritto con i capelli color zafferano e le ali verde smeraldo, ha il compito di provvedere alla salvezza delle anime; la tradizione lo associa spesso a Gabriele. Isrāfīl è colui che invece insuffla lo spirito vitale nei corpi e l’angelo incaricato di suonare la tromba nel Giorno del giudizio. Alcune tradizioni reputano Isrāfīl superiore a Gabriele, ed una in particolare sostiene che avrebbe assistito Muḥammad prima di Gabriele per tre anni; anche lui è descritto coperto di ali, capelli, bocche e lingue e di dimensioni enormi. Sull’angeologia islamica si veda la sezione ad essa dedicata a cura di Olga Lizzini in: Angeli. Ebraismo Cristianesimo e Islam, G. Agamben – E. Coccia (eds.), Neri Pozza Editore, Vicenza 2009, pp.1455-1500. 488 Della partecipazione e della coincidenza.

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questo genere, si imbatterebbero nel difetto occulto che si trova in effetti in alcune delle premesse di quegli argomenti, specialmente gli argomenti menzionati in ciò che concerne il procedere (ṣudūr), l’ordine delle intelligenze, delle anime e delle sfere, l’incrinatura della regola di base nel caso della sfera delle stelle fisse, e altro ancora. Questo, nonostante essi, secondo i più grandi dei realizzati, siano da un lato giustificabili. Infatti le intelligenze hanno un limite, presso il quale si arrestano, in quanto sono condizionate dalle loro cogitazioni. Cosicché a volte giudicano impossibili molte cose che, secondo coloro che hanno delle intelligenze svincolate dalle condizioni limitanti menzionate in precedenza, sono di possibile avvenimento, anzi devono accadere; poiché non esiste per le intelligenze libere un limite cui arrestarsi, ma esse sono sempre in ascesa, ricevendo così dai lati superiori e dalle Presenze divine. In breve: «Nessuno può trattenere la grazia che Dio elargisce agli uomini e nessuno può elargire quello che Egli trattiene, è il Forte, pieno di sapienza»489. Dopo aver premesso la sezione generale che include il gusto delle Genti della realizzazione, la distinzione del loro modo di pensare da quello degli altri, e la spiegazione dei termini che fanno immaginare la confondibilità con altri in ciò che si crede e in altre cose, menzioniamo dunque le annotazioni di chiarimento che sono specifiche di alcune delle risposte alle questioni, secondo quanto promesso al riguardo in precedenza, se Dio vuole. Dico dunque: per quanto riguarda ciò che egli ci ha fatto sapere – che Dio gli sia propizio – sostenendo, a proposito del Vero: che se Egli avesse un’esistenza e un’essenza, il principio del tutto sarebbe duplice [due], e ogni «due» ha bisogno di un «uno» (163) che sia il principio del «due», e chi ha bisogno di un principio non sarà principio di tutto, fino alla fine [del relativo discorso], su ciò si riflette. Infatti qualcuno potrebbe dire: questo sarebbe conseguente solo se chi sostiene l’essenza pretendesse che la dualità in questo caso fosse reale, non relativa490. E infatti egli afferma: secondo me la dualità qui è relativa. Certamente, ed anche l’unità lo è parimenti, poiché non è un attributo in

489 490

Cfr. Cor. 35:2. Mentale, astratta.

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relazione con un’essenza conoscibile, ma è un attributo della cosa che si determina nell’intendimento di chi descrive. Resta [da sapere] se la determinazione della cosa in se stessa sia come la sua determinazione nell’intendimento di chi descrive, oppure no, essendoci su ciò discussione. Infatti è chiaro che la descrizione del Vero, da parte di chi descrive – che Egli è uno, o che è l’Essere necessario, o che è il Principio del tutto, e simili cose – è preceduta dalla certezza di qualcosa d’altro dal Vero tra le cose, nell’intendimento del Nominato e di chi descrive; cosicché chi descrive dà alla fine distinzione al Principio, partendo da ciò che comprende e intende delle cose in un primo momento, rispetto a ciò che secondo lui non è adatto ad essere principio del tutto. Se allora Lo distingue da altro nel suo intendimento, nell’ipotesi di singolarizzarLo (ifrād) da ciò che non è Lui, in tal caso Gli attribuisce Nomi e Attributi e mette in relazione a Lui, tra i nomi e gli attributi, quello di cui la sua ragione vede e ritiene essere un attributo di perfezione conveniente a Lui, o che sia necessariamente posseduto dal Principio per Se stesso, non derivato [in qualche senso] da altri, affinché gli valga l’essere Principio del tutto. E inoltre nega per Lui delle cose che egli vede non esserGli convenienti, poiché quando ipotizza il Suo esserne qualificato, ne consegue un’impossibilità, a causa del fatto che esse, nella somma della conoscenza di chi giudica, in considerazione della determinazione del Vero nel suo intendimento e dell’intendimento di quegli Attributi e di ciò (164) che conosce della loro perfezione e imperfezione sussistenti per colui cui sono in relazione, minerebbero il Suo essere Principio e la Sua perfezione. Questo è valido solo se il giudizio di quegli attributi, quanto alla loro relazione col Principio, è identico al giudizio di essi quanto alla loro relazione con altro. Infatti la relazione di ogni attributo con un qualsiasi soggetto, quando se ne intende la relazione reale, bisogna che sia preceduta dalla conoscenza della realtà dell’attributo, della realtà del soggetto e della realtà del giudizio quanto alla relazione. In tal caso può avvenire la relazione di quell’attributo con quel soggetto. E resta [da sapere], per quel giudizio, se esso sia diverso essendo diversi [il soggetto che è] l’altro termine della relazione (al-muḍāf ilayhi), e i due che giudicano, essendo diversi nella comprensione, e la modalità della relazione, oppure se non sia diverso. Su questo c’è discussione, e l’accertamento di tutto ciò è molto difficile. Se allora si dice: nella relazione di un attributo con un soggetto qualunque non è necessaria la conoscenza della realtà dell’attributo e della re-

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altà del soggetto, ma è sufficiente in questo la conoscenza dell’attributo in rapporto a quella relazione specifica che chi descrive intende – e lo stesso vale per il soggetto, in quanto basta in ciò la conoscenza di esso sotto questo aspetto e questa relazione, non la conoscenza della sua realtà – allora noi diciamo: in tal caso, quindi, è possibile affermare per un soggetto, nel senso di questa relazione, una o più cose, e negare parimenti per esso delle cose, e che la sua essenza richieda, da un altro punto di vista, di ammettere il contrario di questo attributo, per una relazione diversa da questa e un giudizio diverso da questo ad opera di un altro giudicante. Non è perciò ammissibile che qualcuno che descrive affermi del [soggetto] una qualche cosa in modo incondizionato (‘alà al-iṭlāq), né che di esso di esso neghi qualcosa parimenti in tal modo. Tutto ciò, invece, in un modo specifico e da un punto di vista definito, conseguente alla comprensione di chi descrive e di chi giudica. Se questo è chiaro, si sa che il riferimento della negazione e dell’affermazione, da parte di chi afferma e di chi nega, si riconduce a ciò che si determina del Vero nel (165) suo intendimento, non al Vero stesso, perché manca la corrispondenza della determinazione del Vero presso chi intende (muta‘aqqil) la Sua determinazione – gloria a Lui – nel Suo intendere Se stesso, in rapporto alla sua conoscenza di Lui. Lo stesso vale nel caso degli Attributi e della loro relazione con Lui – gloria a Lui – o della loro negazione nei Suoi riguardi. Perché se fosse ammissibile questo, cioè la corrispondenza tra le due determinazioni, ossia la determinazione del Vero nell’intendimento di Lui che è di un altro, e la Sua determinazione – gloria a Lui – nel Suo intendere Se stesso, ne conseguirebbe la conoscenza del fondo (kunh) della realtà (ḥaqīqa) dell’Essenza del Vero, questo essendo impossibile. Se è impossibile conoscere la realtà, allora si dice: si applica il nome «l’essenza» al Vero in quanto si consideri il Suo essere sconosciuto. Infatti, per il Suo intendimento di Se stesso, l’assolutezza da ogni determinazione è presente nell’intendimento di qualcuno, sia chi sia. E difatti tutte queste determinazioni sono dei condizionamenti per Lui nei nostri intendimenti, perché esse sono conformi a ciò che noi intendiamo e che si determina per noi di Lui. Non è che noi diciamo: Egli ha un’essenza (māhiyya) oltre alla Sua esistenza; ma: la Sua realtà sta invece oltre ciò che si conosce di Lui e dell’esistenza che è in relazione a Lui o che è in relazione ad altro. Cessa con questo il bisogno che l’idea della dualità relativa ha per un uno che sarebbe altro. E non si dice neppure, in tal caso: l’essenza non è

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esistente né non esistente, non è un attributo né qualcosa che ha attributi. Al contrario, tutto ciò rimanda agli aspetti (i‘tibārāt) e alla divergenza delle determinazioni che si formano nei [nostri] intendimenti. Questo, e si è già in precedenza accennato all’assolutezza essenziale (al-iṭlāq al-ḏātī) e al gusto dei realizzati in ciò, prima di questo [discorso] nella sezione generale menzionata. Se allora si richiama alla mente ciò che là era stato detto, e gli si aggiunge quel che è stato detto ora, l’intenzione di tutto quello che si trova in questa questione diviene chiaro. Quanto a ciò cui egli ha accennato – che Dio lo conservi – della dottrina dei Mu‘taziliti circa la conoscenza della realtà e circa la mancanza per l’essenza delle due esistenze, intelligibile e reale, questo è qualcosa che i realizzati non considerano affatto. Essi infatti, quando menzionano l’accordo, intendono soltanto la coincidenza delle idee dei filosofi con [le] loro, poiché essi concordano coi filosofi in ciò (166) che la ragione teoretica è di per sé in grado di comprendere al riguardo sul suo piano. Poi, si distinguono da loro per altre percezioni e conoscenze, che esulano dal piano del pensiero e dei suoi giudizi condizionati, come si è già indicato. Quanto ai teologi (mutakallimūn), nella divergenza dei loro livelli, i realizzati non concordano con loro se non di rado e in facili questioni. Quanto a ciò che egli menziona – che Dio lo conservi – circa il nome che si applica in generale per ogni realtà comune, e che essa si diversifica per il suo essere in qualche cosa più forte o più precedente o più forte o più appropriata, tutto ciò secondo il realizzato si riconduce alla manifestazione, senza una pluralità (ta‘addud) che effettivamente si situi nella realtà che si manifesta, quale che sia la realtà di una conoscenza, o un’esistenza o di altro. Cosicché un ricettacolo che sia predisposto per la manifestazione della realtà in quanto tale è più completo di esso491 (atammu minhu) quanto alla sua manifestazione in un altro ricettacolo e attraverso esso, benché la realtà sia unica in tutto. E la superiorità di grado e la differenza che in essa si manifesta, richiede una determinazione di quella realtà, diversa dalla determinazione e manifestazione che questa stessa realtà assume in un altro [ricettacolo]. Allora non c’è pluralità nella realtà in quanto tale, né frazionamento, né distribuzione.

491

Altro ricettacolo.

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Quanto a ciò che egli descrive del fatto che qualcuno non può dire: «Se la luminosità e la conoscenza implicassero la sparizione notturna, ogni luminosità e conoscenza sarebbero tali», ciò sarebbe vero se non si intendesse con ciò il giudizio della diversità nella realtà. La luminosità, infatti, rispetto al suo essere luminosità, è una realtà unica; ma a volte rientra nell’esigenza della sua realtà la sparizione notturna a condizione che vi sia una determinazione che assegni specificamente ciò e di una manifestazione in una qualche cosa secondo un certo aspetto, non che essa produca questo effetto ogni qual volta si manifesta. Quanto a ciò cui egli accenna – che Dio lo protegga – a proposito della conoscenza dell’anima, del fatto che la sua conoscenza è immediata e del ragionamento492 basato su quanto menzionato nelle Išārāt493, che quanto denotato da qualcuno quando dice «io» (167) non sarebbe altro che l’anima, su questo c’è discussione. Perché la difficoltà non sta nel riconoscere che là c’è qualcosa oltre al corpo che lo governa, e che sarebbe quanto denominato «anima». Quel che è molto difficile, invece, è conoscere quale sia la realtà di quel qualcosa che governa. Ed è indubitabile il fatto che conoscerne il fondo ultimo (kunh) non è qualcosa di immediato. Inoltre l’uomo, quanto alla sua esteriorità, la sua interiorità, le sue facoltà, i suoi attributi, si presenta come molteplice, e l’immagine della sua esistenza risulta derivare da cose diverse, che l’unità specifica (aḥadiyya) di una molteplicità sintetizza. Lo stesso vale per ogni insieme, in quanto esso risulta derivare da singoli che l’unità (waḥda) di quell’insieme sintetizza. E gli individui sono allora come i rami di quell’insieme. Cosicché le relazioni e le indicazioni possono intercorrere da qualcuno di quegli individui verso qualche altro di essi, soprattutto rispetto ai princìpi fondamentali (ummahāt) delle cose494 di cui la sua essenza reale è costituita, come l’esistenza, o come la sua essenza cui sopravviene l’esistenza, o come l’idea dell’esser uomo, o del suo essere animale, o della sua forma naturale elementare. E può essere che la relazione e l’indicazione intercorrano da qualcuno [di essi individui] all’in-

Inferenza, istidlāl. Cfr. Ibn Sīnā, Al-išārāt wa’l-tanbihāt, op. cit., pp. 343-346. 494 O «le cose fondamentali». 492 493

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sieme, rispetto [cioè] alla sua unità specifica che si cerca di constatare con certezza, [del fatto] che l’oggetto dell’indicazione nel [dire] «io», e il riferimento della relazione nelle parole di chi dice «la mia anima, il mio corpo, il mio spirito» o altro, sia qualcosa di separato, denominato «anima». Anzi, da ciò si sa soltanto che là vi è un referente [della relazione] (muḍāf ilayhi) distinto da ciò che si mette in relazione (muḍāf), e si conosce perciò il referente dal suo essere referente e basta495. Quanto al fatto che si conosca da ciò il fondo ultimo (kunh) del referente e la sua essenza, questo non è accettabile, anche se i realizzati concordano sull’esistenza di un’anima separata e permanente diversa dal corpo. Ma il discorso relativo alla sua affermazione per via argomentativa si presenta forse facile oppure no? Poi diciamo: la conoscenza dell’esistenza, dell’anima, della scienza, e di altre cose del genere tra quelle (168) su cui molto si è indagato, è se siano qualcosa e nient’altro, e se non siano, ad un’indagine approfondita ed una verifica, qualcosa d’altro. E ciò che appare chiaramente è solo la conoscenza del fatto che ognuna di esse è una qualche cosa, e che non sono entità prive di realtà (umūr ‘adamiyya). La difficoltà non risiede nel conoscerle sotto questo aspetto, come si è visto. Ciò che è difficile è solo la loro conoscenza sotto il secondo aspetto, cioè la conoscenza delle loro realtà in maniera completa e certa, in cui non ci sia alcun dubbio. Quanto all’argomentazione o ciò che ne fa le veci, l’affermazione di chi sostiene: la conoscenza della mia esistenza, o dell’esistenza, o della mia anima, o della conoscenza, è di immediata evidenza, e ciò è della massima chiarezza, impossibile da precisare o da sostenere portando una prova, [questo] non è un discorso giusto. Infatti ciò che è chiaro per evidenza immediata è solo la prima conoscenza, secondo il primo aspetto, sulla quale non c’è nulla da dire, poiché chiunque abbia un minimo di intelletto non disputa su ciò né nutre dei dubbi. Ma ciò che è difficile è soltanto la seconda conoscenza, secondo l’altro aspetto ricordato prima. Cioè la conoscenza di tutto ciò che abbiamo menzionato quanto alla sua realtà che si distingue per la sua essenza da ciò che non è essa. E non c’è alcun dubbio sulla sua difficoltà. Per questa

495 Cioè, il fatto che gli è assegnata tale relazione è ciò che lo costituisce come nozione e basta, e nel caso citato: la relazione tra il mio dire «io» e la mia anima, dalla quale so solo che quanto io denoto come «io» è la mia anima, qualsiasi cosa possa essere.

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ragione gli uomini si sono molto tormentati a suo riguardo, le loro opinioni sono state varie e la loro perplessità si è intensificata. Se dunque la conoscenza della realtà della scienza, dell’esistenza, dell’anima, e di altre cose del genere, fosse come pretendono costoro, cioè di immediata evidenza, non si avrebbe perplessità né sorgerebbe disputa, perché ciò che è di evidenza immediata è [proprio] ciò che è indiscutibile. Questo non è così, quindi non è di immediata evidenza. Quanto a ciò che egli attesta – Dio gli sia propizio – a proposito della permanenza dei cieli e di ciò che concerne la sfera di confine (al-falak almuḥaddid), grazie alla quale si determina il tempo, è valido, ma nei riguardi della sfera massima. E il discorso sulle sette sfere: esse ammettono la generazione e la corruzione, come ha comunicato al riguardo [in senso positivo] un gruppo di tutti i sapienti e i profeti e i più perfetti, oppure no? Quanto a ciò che egli descrive circa lo status delle restanti sfere celesti, che esse sono prive delle nature delle cose elementari, perché se fossero costituite dalle loro nature, i loro luoghi e i loro movimenti (169) sarebbero forzati, e quel che è forzato non dura, e dalla loro interruzione [nell’essere] conseguirebbe la menzionata impossibilità, c’è discussione al riguardo. Infatti la detta impossibilità conseguirebbe unicamente nel caso della prima sfera. E non c’è discordanza tra i realizzati delle Genti dei gusti e tra i realizzati che si attengono alla Legge rivelata, sul fatto che essa sia perpetua. E lo stesso per la sfera delle stelle [fisse]. Infatti entrambe, secondo loro, non derivano in nulla dalla natura elementare, a differenza delle sette sfere. Essi ammettono che i movimenti di esse siano forzati e che non durino. Occorre quindi la confutazione con la dimostrazione. Inoltre, si può dire: perché mai sarebbe impossibile la continuità del movimento forzato, se chi forza ha un’esistenza continua, e in ciò che è forzato c’è la ricettività dell’effetto che viene da parte sua? Infatti non c’è motivo che finisca secondo questo assunto, poiché ciò che si constata del finire del movimento forzato, è che il suo motivo è unicamente l’esaurimento della potenza di chi forza. Quando allora si assume che la sua potenza non si esaurisce, e assieme la ricettività di ciò che è costretto, la permanenza non è impossibile. E come no, se è un dato conoscitivo che nella sfera massima risiede una potenza di costrizione la cui virtù penetra in tutte le restanti sfere, e che è una sua natura? Le sfere secondo loro sono eterne per sempre, così l’effetto di questo forzare da parte di chi forza è eterno per sempre, e la

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ricezione di esso da parte del forzato è una ricezione eterna per sempre. E pace! Quanto alle sue parole: «Il tempo non abbraccia se non ciò che le sfere abbracciano», la sussistenza di ciò dipende dalla spiegazione che il [termine] tempo denota il movimento celeste [delle sfere], oppure che esso è determinato da quello. Non è celato alla nobile scienza [del destinatario] ciò che essi hanno menzionato in rapporto a percorsi di indagine diversi. Un gruppo di maestri nelle scienze sapienziali, tra i quali Platone496, ha dato preferenza all’idea che il [termine] tempo denoti una realtà intelligibile, di grado [ontologico] anteriore alle sfere. Non si può quindi esimersi dal

Nelle sue Futūḥāt, Ibn ‘Arabī parla dei «sapienti divini» (al-ḥukamā’ alilāhiyyūn), ossia coloro che procedono sulle orme dei profeti e che detengono grandi conoscenze riguardo la scienza divina, l’architettura, le scienze naturali, fino alla logica. Nel quindicesimo capitolo lo šaykh ne cita sei considerandoli i rappresentanti ed eredi del profeta Idrīs (Enoch/Hermes) chiamato la «Guida dei Sapienti» (imām al-ḥukamā’) e fonte delle loro conoscenze in materia di astronomia, alchimia, scienza delle lettere, ecc. Fra questi saggi, aggiunge Ibn ‘Arabī, vi sono anche coloro che sono vissuti ignari della presenza di un dato messaggero o profeta, sia per la lontananza, sia per semplice ignoranza. Il caso più illustre è quello di Platone, il saggio greco. Questi sapienti si sono avvicinati a Dio attraverso l’ascesi, il loro atteggiamento lodevole e il buon esempio; l’autore specifica inoltre che alcuni di questi saggi gustano anche loro lo svelamento vedendo lo specchio della loro interiorità imprimersi di alcune realtà esistenziali. Tuttavia, pur essendo di insigne rango, costoro non uguagliano quello dei seguaci degli Inviati di Dio che invece giungono alla vicinanza attraverso la Legge o la via chiaramente segnata e tracciata da Dio stesso. Altra differenza sottile: l’Effusione che giunge ai sapienti è di origine spirituale mentre quella che giunge alla «Gente di Dio» ha una doppia origine, una spirituale e l’altra divina poiché essi hanno proseguito e conseguito la Legge divina. Cfr. Ibn ‘Arabī, Futūḥāt al-makkiyya, Dār al-Ṣādir, Bāyrūt s.d., vol. II, p. 162. Ricordiamo inoltre che uno degli appellativi dello šayḫ al-akbar era ibn Aflaṭūn, cioè «il figlio di Platone» – e il nostro autore ancora afferma riguardo al filosofo greco, che l’avversione che nell’Islām qualcuno prova per lui, è dovuta al fatto che alcuni lo collegano con «la filosofia» ignorando nello stesso tempo il significato di questa parola. La sapienza (ḥikma) è la scienza che caratterizza la profezia e il significato del termine «filosofo» è «amante della sapienza»; secondo alcuni, corrisponde all’amore (maḥabba): quindi la filosofia è l’amore della sapienza, e ogni uomo dotato d’intendimento (‘āqil) ama la sapienza. Ma gli «uomini di pensiero» in genere errano nelle cose metafisiche (al-ilāhiyyāt) più frequentemente di quanto colgano nel giusto; ciò non deve però condurci a biasimare la filosofia nel senso proprio 496

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portare la prova della dipendenza (170) della determinazione del tempo e della sua esistenza dal movimento celeste. Questo studio inoltre ha a che fare con ciò che egli ha accennato riguardo le sfere e la loro perenne permanenza. Quanto alle sue parole – che Dio lo conservi – fondate su quanto precede dello studio: «Se l’anima avesse ulteriori nascite tra queste sfere, ciò sarebbe reincarnazione», su ciò c’è discussione. La reincarnazione ritenuta non valida è quella che avrebbe luogo in questo mondo in quanto essa comporterebbe il rivestire una forma elementare simile a quella attuale. Quanto allora all’essere l’anima governatrice di una forma o di altre forme in un altro mondo, esterno al mondo della generazione e corruzione, non esiste alcun argomento al riguardo. Chi sostiene la sua impossibilità, deve portare un’altra prova per questo497. Ed inoltre le sue parole – Dio lo custodisca: «Se quelle forme che l’anima governa dopo la separazione non fossero tra le sfere, non ci sarebbe per lei un divenire perfetta», non esiste prova al riguardo, in particolare la maggior parte di coloro che si attengono alla Legge rivelata e i pensatori (‘uqalā’) [concordano sul fatto] che non c’è perfezionamento dopo la morte quanto alle opere, gli attributi e le conoscenze generali, salvo lo specificarsi di ciò che era stato conseguito precedentemente in questa costituzione. E noi non sosteniamo che il governo di quelle forme da parte dell’anima sia perché essa cerca di divenire perfetta con un’intenzione definita. Ciò invece è conseguito per essenza, senza sforzo. Quanto a ciò cui egli ha accennato – Dio lo conservi – a proposito dell’impossibilità per l’anima di governare più forme allo stesso tempo, perché ciò dipende dalla consapevolezza, l’avversario pretende che la con-

del termine, bensì i filosofi che commettono gli errori riguardo alla scienza divina. Se questi cercassero la sapienza che tanto amano direttamente presso Allāh, e non per mezzo del pensiero, non commetterebbero quegli errori e si troverebbero in ogni cosa nel giusto. La ragione è intelligenza e il suo statuto è di comprendere ed afferrare ciò che le si presenta, la stazione (maqām) che sta al di là del limite della ragione non è comprensibile per mezzo del pensiero, ma ciò non vuol dire che essa non sia capace di accettare e ricevere ciò che si trova oltre il suo limite; ciò avviene solo quando Dio le fa dono della Sua conoscenza e la apre alla profezia e alla santità. Cfr. ibid., pp. 521-523. 497 Cioè una prova diversa dalla vecchia contro la reincarnazione nel senso detto.

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sapevolezza risulti ad essa, e non ammette neppure (171) che il suo governo sia circoscritto alle forme e ai corpi elementari, fino al punto che essa debba essere necessariamente in questo modo. Quanto a ciò che egli ha menzionato – Dio lo custodisca – riguardo al nostro dire: «L’anima si eleva fino a divenire universale», che ciò è assurdo, il motivo ne è l’idea che il significato di [quell’affermazione] sarebbe un’unità identificativa comportante il fatto che due essenze sarebbero fatte diventare una sola. Noi non intendiamo con ciò tale cosa, e neppure che essa, nel suo essere particolare, si unifichi con l’anima universale, cosicché sia usato contro il muḥaqqiq ciò che egli menziona, del fatto che le parti del mondo sarebbero derivate. Noi intendiamo con ciò solo che esse si elevano dalla loro particolarità e si spogliano delle loro qualità limitative e accidentali, per le quali sono denominate «particolari», e tornano così di nuovo alla loro universalità originaria. Dunque, è vero per esse dal punto di vista delle qualità in seconda battuta ciò che era vero per esse in prima battuta per l’unificazione che si realizza e il venir meno di ciò che è accidentale. Dunque, le parti del mondo non derivano da esse. Quanto alle sue parole – che Dio gli sia propizio – a proposito dell’ascesa delle anime perfette e l’ottenimento della contemplazione del Primo Principio, che sarebbe qualcosa che esse ottengono nelle loro essenze particolari, su questo c’è discussione, perché le loro essenze particolari, in rapporto alla loro particolarità, è impossibile che contemplino il Primo Principio. Su questo c’è accordo presso le genti della visione (ahl al-šuhūd) tra i grandi di questo rango, [e cioè] che essi non contemplano un universale qualsiasi finché non divengono nello stesso modo. Poi essi vanno più in là nell’ascesa congiungendosi con gli universali nel modo menzionato a proposito dell’ascensione (mi‘rāǧ), un piano dopo l’altro, beneficiando da ogni congiunzione di una predisposizione ontologica (isti‘dādan wuǧūdiyyan), di una luce e di un intuito acuto (baṣīra). Così avviene finché essi giungono al Primo Intelletto. Essi allora beneficiano dalla congiunzione con lui di ciò grazie a cui essi sono predisposti alla contemplazione del Principio, così come è lo status del Primo Intelletto, secondo quanto si è già detto. Quanto alle sue parole – Dio lo conservi: «Lo “strappo” è necessario, ma non avviene per volontà dell’anima, (172) come il legame non c’è stato

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per sua volontà. Invece, quando il temperamento, si corrompe, essa se ne spoglia». Su questo c’è discussione, poiché non ne consegue che, se il legarsi in un primo momento non è stato volontario, ogni distacco sia involontario. Noi infatti abbiamo visto più d’uno tra le genti di Dio, capace di distaccarsi quando voleva. E allo stesso modo abbiamo visto più d’uno di loro desiderare la morte e informare di sceglierla, e morire subito dopo, senza malattia né corruzione di temperamento. Anzi, mi ha fatto sapere il mio Maestro, l’Imām più perfetto498 – che Dio sia soddisfatto di lui – facendo allusione al suo stato, che c’è chi governa le parti del suo corpo prima che siano riunite in esso, con conoscenza e consapevolezza. Questo per la natura universale della sua anima (kulliyya nafsihi), perché per colui la cui anima è particolare ciò è impossibile. Infatti le anime particolari non si determinano che dopo il temperamento e in conformità ad esso. Quindi non hanno un’esistenza prima di quello in modo tale che possa avvenire loro di governare le parti corporee con conoscenza e consapevolezza. Queste cose che avvengono dunque indicano che il giudizio dell’impossibilità di ciò non è accompagnato da un argomento completo. Se infatti fosse così, non avverrebbe nell’esistenza ciò che l’argomento valido giudica di evenienza impossibile. Appare perciò da questo che il motivo di giudizi di tal genere è la comune valutazione di improbabilità, e simili. Quanto a ciò che egli menziona – che Dio lo conservi – sul soggetto del piacere e della gioia e il loro riferimento al Vero nel senso di corrispondenza armoniosa (mulā’ama), anche in questo (173) c’è discussione. Perché l’armonia c’è solo tra due cose, ciascuna delle quali è in accordo con l’altra in rapporto ad essa. E il Vero è uno, sotto tutti gli aspetti, perciò la Sua comprensione della Sua Essenza è identica alla Sua Essenza. Che cosa mai sarà in corrispondenza armoniosa con Lui, non essendoci che Lui? E come dunque si può dire che per la Sua Essenza non c’è qualcosa in accordo che sia di accordo più intenso della Sua stessa Realtà, questo pur riconoscendo che là non v’è assolutamente molteplicità? Quanto a ciò che egli menziona sull’effusione, qualcuno può osservare al riguardo: se l’effusione che procede dal Vero è un’entità esistente,

498

‘Arabī.

Anche in questo passaggio Qūnawī molto probabilmente si riferisce ad Ibn

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non può mancare o di essere possibile o di essere necessaria. Se quindi è possibile, la sua esistenza dipende da un’altra effusione e si ha un regresso ad infinitum. Se è il Necessario, ne consegue un’impossibilità, poiché ciò richiederebbe che l’Essere Necessario fosse accidentale per i possibili. E non c’è un’altra entità oltre al Necessario e al possibile, come è stato già spiegato. E il puro nulla non si muta in esistenza, perché ne conseguirebbe la mutabilità delle realtà, e ciò è impossibile. Inoltre il nulla non è una sede in cui si eserciti l’effetto della ricezione dell’atto esistenziatore da parte del Vero. Come stanno dunque le cose? Poi dico: è stata una condizione del rispetto (adab) accontentarci delle utili risposte di Mawlāna Ṭūsī – Dio gli sia propizio – ma può essere che si sia indotti a pensare che il motivo di ciò sia un qualche disinteresse. Perciò il proponente ha menzionato queste annotazioni di chiarimento, in quanto desidera cercare continuità nella collaborazione col Maestro e l’accrescersi (174) delle sue utili informazioni. Per ciò che egli ha passato sotto silenzio e su cui non ha menzionato nulla, la ragione può essere una di queste due cose: o perché l’esame al riguardo ha bisogno di eccessiva ampiezza, che porta ad essere troppo lunghi e pesanti, oppure la considerazione che il proponente fosse in grado di portare a termine l’esposizione del Maestro e di quanto da lui attestato, e della necessità di fermarsi a quel punto perché si ottenga l’opinione che non fa persistere un bisogno di ulteriore spiegazione. E Dio, il Lodato, farà svanire con la luce della Sua guida le oscurità dei dubbi tenebrosi, e farà sì che egli continui ad essere un pilastro cui far ricorso e che è affidabile nello svelare [la soluzione di] ogni dilemma. E la pace nuovamente su di lui, e la Misericordia di Dio. E ci basta Dio, e quale migliore garante.

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Avvertenza: data la vastità della bibliografia già esistente, si assemblano qui studi e ricerche strettamente inerenti agli autori e alle tematiche trattate. *

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INDICE DEI TERMINI TECNICI aḥkām al-imkān, determinazioni d’essere della possibilità: 276, 356 aḥkām al-kutra, determinazioni d’essere della molteplicità: 343 aḥkām naẓariyya, giudizi teoretici: 221 aḥkām tafṣliyya, determinazioni distintive: 340 aḥkām al-wuǧūb, determinazioni d’essere della necessità: 356 Ahl aladwāq, genti del gusto intuitivo: 228, 360, 363 Ahl al-baḥt wa’ltaḥṣīl, gente che ricerca e che apprende: 246 Ahl albaṣā’ir wa al‘uqūl alsalīma, gente intuitiva e degli intelletti sani: 229 Ahl-e eḫteṣāṣ, gli specialisti, gente eccelsa, élite che si contraddistingue intellettualmente: 328 Ahl al-fikr, gente della riflessione: 224 Ahl al-ḥikma, gente della sapienza: 363 Ahl alḥiǧāb, genti del velo, velate (che vedono la realtà attraverso un velo): 233 Ahl al-insilāḫ, gente del distacco: 282 Ahl alnaẓar alṣirf wa almīzān, genti che applicano il puro metodo teoretico e la logica: 219

Ahl al-šuhūd, genti della visione: 377 Ahl al-taǧrīd, gente dell’astrazione: 282 Ahl al-taḥqīq, gente della realizzazione: 227, 341, 368 atar, traccia, effetto: 208, 265, 312, 313 azalan wa  abadan, da sempre e per sempre: 209 ‘ayni al-riḍāi, occhio della soddisfazione: 296 burhān, dimostrazione razionale, argomento dimostrativo, prova: 227, 291, 330 burhān naẓarī, argomento teoretico, dimostrazione teoretica: 228 dalā’il ‘aqliyya, prove razionali: 247 al-dāt al-ǧāmi‘a, l’essenza onnicomprensiva: 200 dawq, gusto, riferito ai sufi come Gente del gusto: 228, 295 al-du‘ā, preghiere, invocazioni: 199, 296 al-fāḍil al-mutaqaddim, colui che eccelle tra i sapienti del passato: 328 alfayḍ, l’effusione: 324 alfayḍ al-aqdas, l’effusione più santa: 365 alfayḍ alqudsiyy alġaybiyy, il santo flusso occulto: 242 alfayḍ al-wuǧudīyy al-dātiyy, l’effusione esistenziatrice dell’essenza: 272, 347

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INDICE DEI TERMINI TECNICI

fayyaḍ li’l-wuǧūd, Emanatore dell’esistenza: 344 al-fiṭra, natura innata: 225 al-ġayb, il non manifesto, l’occulto, l’invisibile: 199, 200, 235, 237 ḥaqā’iq: realtà, 234, 235, 242, 348 ḥaqā’iq al-aṣliyya, realtà originarie, 353 ḥaqā’iq al-ašyā’, realtà delle cose: 234, 252 ḥaqā’iq kawniyya, realtà cosmiche: 230 ḥaqā’iq al-ma‘qūlāt, realtà degli intellegibili: 303 ḥaqā’iq muǧarrada basīta, realtà non composte semplici, 235 ḥaqā’iq wuǧūdiyya, realtà ontologiche, 242 ḥarakāt-i bāṭin, cammino interiore: 295 al-ḫaṣṣa, l’élite: 202, 211, 217, 328, 339 ḥukamā’, saggi, filosofi, sapienti: 302, 323 ḥukm (pl. aḥkām), giudizio, statuto, virtù, autorità: 207, 208, 231, 232, 235-37, 290 al-ḥukm al-ǧamī‘, lo statuto assemblante, sintetico: 237 al-ḥukm almuġāyara, lo statuto della difformità: 230 al-ḥukm almunāsaba, lo statuto della corrispondenza: 230 ḥukm taǧallī al-Ḥaqq, statuto della Teofania del Vero, 239 al-ḥukm al-wuǧūdiyy, lo statuto esistenziale: 237

ifāḍa, effusione: 207, 209, 211, 262, 265, 266, 267, 272, 276, 286, 287, 291, 320, 324, 327, 334, 336, 355, 357, 365, 378, 379 al-iḫbarāt al-ilāhiyya, gli annunci divini, le comunicazioni divine: 204, 240 al-‘ilm al-fi‘liyy, la conoscenza attiva: 306 al-‘ilm al-infi‘āliyy, la conoscenza passiva: 278, 306 al-‛ilm al-yāqiniyy, la Scienza certa: 218, 219, 229, 245, 339 istibṣār, visione sottile, intuizione spirituale, meditazione contemplativa, sguardo interiore, percezione interna: 200 isti‘dād, predisposizione spirituale, facoltà, attitudine, capacità: 212, 222, 227, 261, 274, 276, 298, 299, 308, 320, 324, 329, 350, 367, 377 istidlāl, ragionamento probatorio, deduzione, inferenza: 229, 372 i‘tibārāt, aspetti: 271, 313-315, 336, 355, 356, 357, 359, 371 ittiḥād, unione, fusione: 296, 356 ittiṣāl, congiungimento senza identificazione, unione con Dio: 210 lā ta‘ayyun, non determinazione, indeterminato: 343 lisān al-munāǧāt, lingua dei colloqui intimi: 333 alma‘ānī albasīṭa, le idee semplici: 206

INDICE DEI TERMINI TECNICI

maḥall, luogo, sede, ricettacolo, substrato: 211, 228, 301, 343 māhiyya, essenza: 248, 251, 252, 257, 300, 301, 345, 370 maqāmāt, stazioni: 240, 333, 334, 336, 340, 349, 365, 367 maqām aḥadiyya, stazione dell’unità esclusiva: 260 maqām-e eḫlās, stazione della sincerità spirituale: 328 maqām alḥuḍūr, stazione della Presenza: 243 maqām ḥaqq alyaqīn, stazione della Verità certa: 203 maqām al-insāniyya al-ḥaqīqiyya al-ilāhiyya, stazione della piena e autentica umanità divina: 349 mašārib al-abrār, sorgente dei devoti: 330 muǧarrada, astratto, separato dalla materia: 235, 251, 340 munāǧāt, colloqui intimi, conversazioni con Dio: 295, 296, 333 murīd, discepolo, novizio, aspirante, postulante (lett. colui che vuole, desidera e cerca Dio): 293 mustabṣir, colui che è capace di vedere chiaro, osservatore perspicace: 207, 208, 210, 258, 279, 288 mustafīd, ansioso, desideroso di conoscere ardentemente, colui che cerca vantaggio, postulante: 293 mutakallimūn, loquentes in legem, studiosi del ‘ilm al-kalām: 219, 302, 332, 371

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muwāṣala, relazione costante, contatto stretto, comunicazione reciproca: 200 nafaḥāt rabbāniyya, effusioni dominicali, signoriali: 333 naẓar, speculazione, studio, ricerca razionale: 219, 229, 348, 365. alnūr almutaǧallī, la luce rivelativa: 212, 242 alqānūn alfikriyy, la norma del pensiero, scienza della logica: 224, 226 qarīna (pl. qarā’in), la connessione logica operata nella conclusione del sillogismo tra un termine maggiore ed uno minore, sillogismo: 225 al-salaf al-ṣāliḥ, i pii anziani, le prime pie generazioni musulmane: 218, 220 ta‘aqqul, intellezione: 248, 250, 341, 342 ta‘ayyun, determinazione: 236, 239, 240, 248, 250, 321 taǧallī, manifestazione, irradiazione, teofania: 222, 239, 242, 294 tanāsuḫ, reincarnazione: 319, 320, 376 taṣawwurāt, concetti, rappresentazioni: 304 taṣdīqāt, giudizi: 304 ta‘yīd rabbanī, assistenza signoriale: 329 umūr ‘adamiyya, entità non esistenti: 257, 373 umūr wuǧūdiyya, entità esistenziali: 257, 271, 315

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INDICE DEI TERMINI TECNICI

umūr wuǧūdiyya ‘ayniyya, entità ontologiche reali: 315 al-waǧh al-ḫāṣṣ, il Volto particolare: 239, 277, 361 al-wāǧib al-wuǧūd, l’Essere Necessario: 248, 249, 257, 264, 299, 302, 310, 356, 369, 379 al-waḥda, l’unità: 250, 372 waḥdāniyya, unicità: 253 al-waḥdat al-muṭlaqa, l’unità assoluta: 296 al-waḥī al-awwal al-ilāhī, prima ispirazione divina: 222 wāhib al-wuǧud, Donatore dell’esistenza: 346 waridāt-e dawqi, momenti di ispirazione, eventi estatici: 295

al-waṣilūn al-muḥaqqiqūn, i sufi che hanno ottenuto il grado di perfezione: 293 alwuǧūd al‘āmm almuštarak, l’esistenza generale comune: 263 alwuǧūd al‘ayniyy, l’essere concreto, reale: 302, 304, 306, 315 wuṣūl (wiṣāl o ṣila) ovvero ittiṣāl, congiungimento senza identificazione, unione con Dio: 293, 349 ẓahr al-ġayb, orazione in absentia, la preghiera espletata al posto di un altro, nascosta, invisibile: 199

INDICE DEI NOMI* Abāqā’ Ḫan (sovrano mongolo): 50 ‘Abd al-Bāqī, M. F.: 82 ‘Abd al-Hamīd, M.: 189 ‘Abd al-Hamīd (M. Muḥyī alDīn): 331 ‘Abd al-Ṙaḥīm (Naṣīr al-Dīn): 45, 73, 77 al-Abharī (Atīr al-Dīn): 43, 71, 148, 194 ‘Ābidī, M.: 17 Abramo: 168, 365, 364 Absāl : 66 Abū Dāwūd (Sulaymān al-Siǧistānī): 360 Abū Manṣūr (Naṣīr al-Dīn [governatore]): 45, 77 Abū Ṭālib, Ḥ.: 14 Adamo: 66, 168, 214, 241, 350, 365 Adamson, P.: 80 Addas, C.: 17, 19, 20, 25, 26 ‘Afīfī, A. ‘A.: 98 Aflākī (Aḥmad): 17 Aflākī (Šams al-Dīn): 22, 331 Afšar, Ī.: 69 Agamben, G.: 367 Agius, D. A.: 107 Ahlwardt, W.: 186, 191 Alexandrin, E.: 39 ‘Alī ibn Abī Ṭālib: 59

al-‘Alqamī (Mu‘ayyad al-Dīn): 73 al-Āmidī (Sayf al-Dīn): 64 al-Amīn, M.: 39, 48 ‘Alà al-Dīn Muḥammad III (principe): 46, 56, 72, 79, 89 Aminrazavi, M.: 41, 56, 72, 79, 89 Amir-Moezzi, M. A.: 218 al-Āmulī, H.: 67, 69, 193 Anghelescu, N.: 227 Apollonio di Tiana: 69, 289 Apollonio Rodio: 289 al-Aqsarāyī: 36 Arberry, A. J.: 79, 88 Archimede: 69 Aristarco: 69 Aristotele: 12, 40, 53, 54, 107, 108, 142, 225, 320 Arnold, T. W.: 350 Aronne: 168, 365 ‘Aršī, I. ‘A.: 189 Ashk-e Shirin, E.: 82 Ashtiyānī, J.: 17, 33 Asmis, E.: 224 Astarābādī, M. ‘A. Ǧurǧānī: 67, 82, 89 al-Astarābādī (Rukn al-Dīn Muḥammad ibn Alī al-Fārsī): 61, 89, 194 ‘Aṭā (‘Abd al-Qādir): 32 ‘Aṭṭār (Farīd al-Dīn): 21, 43 Autolico: 69

Non si riportano i nomi dei due autori principali oggetto del presente studio: Qūnawī e Ṭūsī. *

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INDICE DEI NOMI

al-Aykī (Kamāl al-Dīn): 71 Badakhchani, S. J.: 40, 41, 56, 59, 60, 84, 89 Badawī, ‘A. R.: 115, 116 Baffioni, C.: 111 al-Baġdādī (Abū al-Barakāt): 65, 147, 194 al-Bahmanyār (ibn Marzubān): 40, 42, 43, 148, 253 al-Balḫī (‘Alī b. Ġaylān): 147 Bāmyānī (Afḍal al-Dīn): 63 Banū Mūsà: 69 Bar-Hebraeus, G.: 49 Bausani, A.: 329, 330 Bāyāzid II: 179 al-Bayhaqī (‘Alī b. Zayd): 147 Bayhaqī (Šams al-Dīn Muḥammad Isfarāyinī): 68 Bayram, M.: 180 Benaissa, O.: 17, 19, 29, 31, 32, 36, 102 Bertolacci, A.: 14, 15 al-Bīrūnī (Abū al-Rayḥān): 12, 70, 71, 88, 272, 289 Bontekoe, R.: 270 Boyle, J. A.: 40 Brockelmann, C.: 51, 184, 185 al-Buḫārī (Bahā’ul-Dīn Naqšband): 12 al-Buḫārī (Muḥammad): 239, 243, 360 Burckhardt, T.: 241 Campanini, M.: 219 Cancian, A.: 15 Canone, E.: 142 Capezzone, L.: 241 Caratheodory, A. P.: 70 Çelebi, K.: 91, 179

Ceran, A.: 180 Chittick, W.: 24, 28, 29, 33, 34, 36, 37, 95, 96, 100, 101, 130, 155, 178, 180, 211, 243, 248, 270, 344 Chodkiewicz, M.: 36, 215, 260, 261 Clark, J.: 17, 21, 22 , 26-28, 36, 37 Coccia, E.: 367 Corbin, H.: 241 D’Ancona, C.: 142, 270, 318 Dabashi, H.: 40, 42, 47, 50, 52, 65, 73-76, 84, 88 Dadkhah, G.: 15 Daftary, F.: 76, 89 Daiber, H.: 39, 188 al-Dāmād (Maḥḍar Farīd al-Dīn): 42, 43 Dānišpazhūh, M. T.: 41, 52, 59, 67, 69 al-Dawānī, J.: 64 De Goeje, M. J.: 191-193 De Jong, P.: 191-193 De Libera, A.: 124, 253 De Luca, A.: 139 Denison Ross, E.: 189 Deutch, E.: 270 Dirāyatī, M.: 189 Druart, Th. A.: 108, 117, 142 Dunya, S.: 62, 146 Eichner, H.: 147 Elamrani-Jamal, A.: 253 Elmore, G.: 20 Endress, G.: 43 Enoch: 365, 375 Euclide: 69, 70 Evren, A.: 180 al-Fanārī (Šams al-Dīn): 31, 248

INDICE DEI NOMI

Fao Munǧi: 71 al-Fārābī (Abū Naṣr): 40, 53, 71, 96, 108, 117, 142, 194, 271 al-Farġānī (Sa‘īd al-Dīn): 17, 35 Faḍl Allāh (Rašīd al-Dīn): 47, 48 Ferdowsī (Abū al-Qāsim): 11 Ficher, W.: 50 Frank, R. M.: 43, 108 Frye, R. N.: 87 Gabriele (arcangelo): 366, 367 al-Ǧalālī, M. J. H.: 67 Galonnier, A.: 253 Gambino, R.: 340 Ǧāmī (‘Abd al-Raḥmān): 17, 25, 35, 88, 179, 180 al-Ǧandī (Mu’ayyad al-Dīn): 17, 24, 35 Gardet, L.: 234, 256 al-Ǧazā’irī (‘Abd al-Qādir): 35 al-Ġazālī (Abū Ḥāmid): 9, 145148, 218-220, 270, 294 al-Ġazālī (Aḥmad):18 Genġis Ḫan: 46, 72 Gesù: 168, 365-367 Gholam M.: 15 Giacobbe: 366 Ġīlanī (Afḍal al-Dīn): 42 al-Ǧīlī (‘Abd al-Karīm): 35, 241 al-Ǧīlī o Gīlī o Gīlakī (Ǧamāl alDīn): 88 Gilis, C. H.: 98 Giurini, G.: 14, 289 Giuseppe (patriarca): 168, 365 Goichon, A. M.: 107, 108, 116118, 225, 227, 252 Graham, W.: 239 Gril, D.: 360 Grüner, B. R.: 147

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al-Ǧurǧānī (‘Alī ibn Muḥammad): 225, 243, 252 al-Ǧurǧānī (Mīr Sayyid Šarīf): 66 al-Ǧuwaynī (Šams al-Dīn Muḥammad): 83 al-Haḏbānī (Šaraf al-Dīn): 21 Hairi, A.: 46, 48, 49 al-Ḥamadānī (Abū Ya‘qūb Yūsuf): 18 al-Hamadānī (‘Ayn al-Quḍāt): 73 al-Hamadānī (Ẓahīr al-Dīn Ḥusayn): 66 al-Ḥakīm, S.: 129 Harawī, M.: 81 Ḥasan (‘Alà Dikrihi al-Salām [imām]): 45, 55, 57, 60 Ḥasan II: 57 Ḥasan III (Ǧalāl al-Dīn): 57 Ḥasan-i Ṣabbāḥ (leader ismailita): 57, 72 Ḥāsib (Kamāl al-Dīn Muḥammad): 44 Ḥaydarī, ‘A. R.: 52 al-Ḥaẓrah (Vaṣṣāf): 49 Hermes: 375 Herr, N.: 145, 152, 153 Hidāyat Ḥusain, Š. ‘U. M.: 188 al-Ḥillī, (‘Allāma): 62, 64, 66-68 al-Ḥillī (Muḥaqqiq): 50 Hiravī, N.: 17 Hirtenstein, S.: 17, 21, 205, 221, 358 Hourani, G. F.: 43, 61 Hovannisian, R. G.: 74, 87 Hūlāgū Ḫan (condottiero mongolo): 22, 46-50, 53, 71, 78 Humā’ī (Ǧalāl al-Dīn): 52, 77 Ḫuršāh (Rukn al-Dīn): 46, 72

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INDICE DEI NOMI

al-Ḥusaynī, A.: 39 Hüsnü, H.: 178, 179, 183, 184 Ḫuwayy (Naṣīr al-Dīn): 180 al-Ḫwānsārī, M. B.: 39, 74 al-Ḫwānsārī (Aqā Ḥusayn): 66 Ḫwarazmšah (Muḥammad [sultano]): 42, 72 Ibn ‘Ābbās: 362, 366. Ibn al-Akfānī (Šams al-Dīn): 43, 148 Ibn al-‘Alqamī (Mu‘ayyad alDīn): 71 Ibn al-‘Arabī: 11, 17-29, 31, 3337, 84, 88, 90, 96-98, 105, 122, 123, 129-131, 138, 139, 154-156, 178, 179, 184, 185, 188, 195, 205, 210, 212, 215, 217, 231, 236, 239-241, 248, 261, 270, 277, 331, 340, 350, 360, 375, 378. Ibn Bībī (Ḥusayn b. Muḥammad): 17 Ibn al-Fāriḍ: 21, 23, 26, 34, 35 Ibn Ḫallikān: 43 Ibn Ḥanbal (Aḥmad): 360 Ibn al-Ḫayyām (Abū al-Fatḥ ‘Umar): 43, 44, 70, 68, 148 Ibn Ḥayyān (Ǧābir): 71 Ibn ‘Irāq (Manṣūr): 70 Ibn Išāq (Ḥunayn): 66 Ibn Kammūna (Sa‘d b. Manṣūr): 64, 89 Ibn al-Muqaffa‘: 54 Ibn Sab‘īn (‘Abd al-Ḥaqq): 23, 26 Ibn Sawdakīn (Ismā‘īl): 26 Ibn Sīnā (sive Avicenna): 12, 23, 42-44, 47, 49, 54, 61-67, 71, 73, 75, 78, 79, 88, 96, 105, 107-112, 114-120, 122, 124-

126, 134, 136-138, 140, 142148, 150-152, 156, 161, 162, 181, 194, 208, 225, 227, 234, 252-256, 262, 270-272, 303, 306, 308, 310, 312, 317, 318, 342, 348, 352-354, 360, 372 Ibn Yūnus al-Šāf‘ī (Kamāl al-Dīn Mūsà): 44 Ibn Taymiyya (Taqī al-Dīn): 26, 35, 49, 179, 180 Idrīs (profeta): 168, 365, 375 al-Iskandarānī (Kamāl al-Dīn alQafṣī): 21 al-Īkī (Šams al-Dīn): 26 al-Iṣbahānī (‘Abd Allāh al-Afandī): 39 al-Iṣfahānī (Šams al-Dīn Muḥammad): 43, 68 Isrāfīl (angelo): 367 Ivanow, W.: 56, 59, 60 Izutsu, T.: 89, 106, 138, 139 Jabre, F.: 208, 220 Jambet, C.: 313 Janssens, J.: 147, 253, 256, 272 Jolivet, J.: 108, 253 Jomier, J.: 214 al-Juwaynī (Muḥammad ibn Sāḥib al-Sa‘īd Bahā’ al-Dīn Muḥammad): 83 al-Kalābāḏī (Abū Bakr): 95 Kamali, S. A.: 146 al-Karaqī (Bahā’ al-Dīn): 69 Karīmī, B.: 47 al-Kāšānī (‘Abd al-Razzāq): 31, 35 al-Kāšī (Jamshid): 70 Kāšī (Tāǧ al-Dīn): 32, 92, 331, 333

INDICE DEI NOMI

al-Kāšī o Kāšanī (Afḍal al-Dīn Muḥammad ibn Ḥasan): 44 al-Kātibī (Naǧm al-Dīn Dabīrān al-Qazwīnī): 43, 49, 71, 89, 112 Kaykā’ūs (re di Persia): 18 Kaykhusraw II (sive Khusraw Shāh): 26, 63 Kekliks, N.: 177 Ḵẖalīfa, Ḥ.: 188 Kholeif, F.: 147, 148. Khvājavī, M.: 29, 33 al-Kindī: 71, 96, 142 Kirmānī (Awḥād al-Dīn): 18, 1921 al-Kišī (Šams al-Dīn): 89 Knysh, A.: 36 Kraus, P.: 88 al-Kubrà (Naǧm al-Dīn): 12, 21, 88 KüçüK, H.: 205, 221, 357 al-Kutubī (Muḥammad ibn Šākir): 39, 44, 50 Lameer, J.: 51, 52, 62 Landolt, H.: 40, 57, 59, 72, 81, 84, 89, 93, 108, 112 Latif, H. M. A.: 67 Laṭīfī (Ķestamū Nulu): 179 Lawkarī o Lūkarī (Abū’l-‘Abbās): 42 Leaman, O. N. H.: 39, 108 Levi Della Vida, G.: 185, 248 Lizzini, O.: 108, 109, 142, 143, 270, 367 Lory, P.: 35 Madelung, W.: 67, 74, 80, 83, 84, 92, 93, 111 al-Maġribī (Ibn Abū al-Šukr): 49

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al-Maġribī (Muḥyī al-Dīn): 71 Mahdi, M.: 117 Mahdi (Šams al-Dīn) 81 Maḥmūd (Ḥasan): 60 Maḥmūd ibn Muṣṭafá II (Sultano): 194 Mangū Ḫān (condottiero mongolo): 46, 48 Manṣūr (Abū al-Fatḥ Shihāb), 63 Manṣūr (Naṣīr al-Dīn ‘Abd alRaḥīm ibn Abī [Muḥtašam]): 45, 62, 77 al-Marāġī (Faḫr al-Dīn): 71 Maria (la Vergine): 367 Marmura, M.: 43, 107, 124, 147 Martello, C.: 142 al-Mas‘ūdī (Šaraf al-Dīn ibn Mas‘ūd): 43, 63, 148 Ma‘ṣūm ‘Alī Šāh: 89 Maulavī, ‘A. H.: 189 al-Māzinī o Miṣrī (Mu‘īn al-Dīn Sālim ibn Badrān): 44 Mayer, T.: 67, 111 McGinnis, J.: 64, 65 Meier, F.: 88 Menelao: 69, 70 Mensing, J. P.: 360 Michele (arcangelo): 367 Michot, Y.: 146, 225 Militello, C.: 142 Mingburnu (Ǧalāl al-Dīn): 72 Mīnuwī, M.: 52 Miskawayh (Abū ‘Alī Aḥmad alRāzī): 53 al-Miṣrī (Quṭb al-Dīn Ibrāhīm al-Sulamī): 43, 148 Moezzi, A. M.: 218 Mohaghegh, M.: 89

422

INDICE DEI NOMI

Moisisch, B.: 147 Montgomery, J. E.: 43 Moravvej, J.: 81 Moreno, M. M.: 330 Morewedge, P.: 61, 124, 206 Morris, J. W.: 36 Mosè: 168, 204, 216, 365 Mudarris Raḍawī, M. T.: 39-42, 44, 46, 47, 50, 52, 61, 65, 68, 69, 73-75, 76, 88 Mudarrisī Zanǧānī, M.: 39, 47, 52, 68, 72, 81, 87 Mūsà al-Kāẓim (imām): 50 Muḥammad (il profeta): 58,77, 82, 91, 97, 99, 157, 158, 168, 199, 203, 204, 214, 221, 275, 285, 287, 298, 329, 339, 366, 367 Muḥammad III (‘Alā’ al-Dīn): 56, 72, 76, 77, 89 Muhaqqiq, M.: 147 al-Muḥāsibī (al-Ḥārit): 99 Mu‘īn al-Dīn (signore ismailita): 69, 73 al-Mu‘izzī, H.: 67, 111 Musco, A.: 340 Muslim (ibn al-Ḥaǧǧāǧ): 21, 360 Musta‘ṣim (califfo): 47, 73 Mu’ayyad al-Dīn al-‘Urḍī: 71 Muẓaffar ibn Muḥammad (capo ismailita) 55 Naǧuwānī (Naǧm al-Dīn): 63 Naqšband Buḫārī (Bahā’ul-Dīn): 12 Nasr, H.: 39, 41, 42, 44, 56, 72, 79, 87, 89, 108, 272 Nicholson, R. A.: 350 Niẓām al-Mulk: 11 Nūrānī, ‘A. A.: 68, 89

O’Kane, J.: 22 Oìkane, J.: 214 Pallejà de Bustinza, V.: 15 Panzeca I.: 15 Paret, R.: 350 Pepi, L.: 340 Peta, I.: 211 Pitagora: 54, 303 Platone: 54, 164, 375 Porfirio: 54 Porro, P.: 107, 108 Pourjavady, N.: 39, 81, 84, 87, 89, 92 Pluta, O.: 147 al-Qāḍī ‘Iyād (b. Mūsà): 216, 285 Qarā’ī (‘Alī Qulī): 81 al-Qāšānī (‘Abd al-Razzāq): 33 al-Qazwīnī (‘Ali ibn ‘Umar): 71 Qūšǧī (‘Alā’ al-Dīn): 68 Radtke, B.: 214 Ragep, F. J.: 39, 44, 50, 69, 76 al-Rahim, A. H.: 44 Rahmani, H.: 82 Rashed, R.: 108 Raverty, H. G.: 63 al-Rāzī (Abū Ḥātim): 88 al-Rāzī (Faḫr al-Dīn):43, 62, 63, 66, 68, 88, 112, 145-150, 152, 210, 272 al-Rāzī (Muḥammad ibn Zakariyyā’): 71, 88 al-Rāzī (Quṭb al-Dīn Muḥammad): 66 al-Rāzī (ibn Zakariyya): 71 Reisman, D. C.: 44, 88, 194 Roccaro, G.: 15 Rodríguez, J.: 15 El-Rouayheb, K.: 64

INDICE DEI NOMI

Rudolph, U.: 270 Rūmī (Ǧalāl al-Dīn): 12, 21, 22, 35, 37, 89, 248 al-Rūmī (Maǧd al-Dīn b. Yūsuf): 17 Ruspoli, S.: 29, 31, 123 Sabagh, G.: 87 Sachau, C.: 289 al-Šāḏīlī (Abū al-Ḥasan): 26 al-Ṣafadī (ibn Aibak): 15, 39, 43, 44, 50, 91, 148 al-Šahristāna (Tāǧ al-Dīn Muḥammad ibn ‘Abd al-Karīm o Šahrastānī): 41, 67 Saidan, A.: 70 Salāmān: 66 Sanmartín Ascaso, J.: 15 Saraḫsī (Quṭb al-Dīn o Ṣadr alDīn): 42 al-Šahrastānī (‘Abd al-Karīm): 41, 67, 111 al-Ša‘rānī (Ḥaǧǧ Šayḫ Abu’lḤasan): 67 Sassi, G.: 99 Savory, R. M.: 107 Scattolin, G.: 35 Schubert, G.: 14, 32, 88, 93, 177180, 183, 184, 193, 194, 197, 221, 328, 331 Şehit Ali Pașa (gran visir): 178, 179, 183, 184 Semenov, A. A.: 195 Sezgin, F.: 234 Shams al-Dīn, S. M.: 81 Sharif, M. M.: 52 Sheikh, S.: 72 Šihāb al-Dīn (muḥtašam): 45, 55, 62, 63, 87

423

Šihāb al-Dīn Faḍl Allāh Šīrāzī (sive Vaṣṣāf al-Ḥaḍrat): 49 Shihadeh, A.: 147, 148 Siddiqi, A. H.: 52 al-Siǧāssī (Rukn al-Dīn): 18 al-Šī‘ī (Nūr al-Dīn ‘Alī ibn Muḥammad): 41 al-Šīrāzī (Mullā Ṣadrā): 256 al-Šīrāzī (Quṭb al-Dīn): 46, 50, 64, 71, 89 Smirnov, A.: 270 Socrate: 54, 227 Spallino, P.: 15, 142, 205, 270, 340 Strothmann, R.: 177 al-Suhrawardī (Abū Ḥafs): 21 al-Suhrawardī (Šihāb al-Dīn): 65, 88, 111 al-Šukr (Ibn Abū Muḥyī al-Dīn alMaġribī): 49 al-Sulamī (Šaraf al-Dīn): 21 Sulaymān (Mu‘īn al-Dīn): 28 al-Šūstarī (Nūr Allāh): 39, 40, 74 al-Ṣūfī (‘Abd al-Raḥmān): 71 Tābit ibn Qurra: 69 al-Tabrīzī, Abu’l-Maǧd Muḥammad Ibn Mas‘ūd: 69 al-Tabrīzī (Šams): 26 Taqawī, N.: 81 Taşköprüzāde (Kemâleddîn Mehmed): 179 Teodosio: 69 Tilimsānī (‘Afīf al-Dīn): 23, 28 Al-Tirmidī (Abū ‘Aysà): 360 Todd, R.: 17, 23, 25, 29, 30, 37, 124, 180, 181, 194, 240, 277, 331, 343, 355 Tolomeo: 69 Tommaso d’Aquino: 107

424

INDICE DEI NOMI

Tottoli, R.: 214 Tunikābūnī, M. M.: 39, 40, 42, 46, 47, 73, 74 al-Ṭūsī (Naṣīr al-Dīn ‘Abdallāh ibn Ḥamza): 41 al-Ṭūsī (Aṣīl al-Dīn): 71 al-Ṭūsī (Ṣadr al-Dīn): 71 ‘Ubaid, A.: 331 Ulǧāy-Ḫātūn: 47 Urizzi, P.: 14 ‘Uṭārid (ibn Muḥammad): 71 Vâlsan, M.: 33, 88, 204 Van Ess, J.: 88 Vassallo, L.: 340 Vella, A.: 142

Ventura, A.: 330 Vesel, Ž.: 39, 81, 92 Voorhoeve, P.: 191, 193 Wafā’ (Abū’l): 70 Wensinck, A. J.: 360 Wickens, G. M.: 52, 107 Wiedemann, E.: 50 Wilson, L.: 35 Wisnovsky, R.: 62 Witkam, J. J.: 51, 185, 191, 192 al-Yāsīn, M. H.: 89, 112 Yazici, T.: 17, 331 Yimaz, H. K.: 33 Zerdun-Bat Yehouda, M.: 325 Zilio-Grandi, I.: 156, 216, 366

Collection « Textes et Études du Moyen Âge » publiée par la Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales

Volumes parus : 1.

Filosofia e Teologia nel Trecento. Studi in ricordo di Eugenio Randi a cura di L. BIANCHI, Louvain-la-Neuve 1995. VII + 575 p. 54 Euros

2.

Pratiques de la culture écrite en France au XVe siècle, Actes du Colloque international du CNRS (Paris, 16-18 mai 1992) organisé en l’honneur de Gilbert Ouy par l’unité de recherche « Culture écrite du Moyen Âge tardif », édités par M. ORNATO et N. PONS, Louvain-la-Neuve 1995. XV + 592 p. et 50 ill. h.-t. 67 Euros

3.

Bilan et perspectives des études médiévales en Europe, Actes du premier Congrès européen d’études médiévales (Spoleto, 27-29 mai 1993), édités par J. HAMESSE, 54 Euros Louvain-la-Neuve 1995. XIII + 522 p. et 32 ill. h.-t.

4.

Les manuscrits des lexiques et glossaires de l’Antiquité tardive à la fin du Moyen Âge, Actes du Colloque international organisé par le «Ettore Majorana Centre for Scientific Culture» (Erice, 23-30 septembre 1994), édités par J. HAMESSE, Louvain67 Euros la-Neuve 1996. XIII + 723 p.

5.

Models of Holiness in Medieval Studies, Proceedings of the International Symposium (Kalamazoo, 4-7 May 1995), edited by B.M. KIENZLE, E. WILKS DOLNIKOWSKI, R. DRAGE HALE, D. PRYDS, A.T. THAYER, Louvain-la-Neuve 1996. XX + 402 p. 49 Euros

6.

Écrit et pouvoir dans les chancelleries médiévales : espace français, espace anglais, Actes du Colloque international de Montréal (7-9 septembre 1995) édités par K. FIANU et D.J. GUTH, Louvain-la-Neuve 1997. VIII + 342 p. 49 Euros

7.

P.-A. BURTON, Bibliotheca Aelrediana secunda (1962-1996). Ouvrage publié avec le concours de la Fondation Universitaire de Belgique et de la Fondation Francqui, Louvain-la-Neuve 1997. 208 p. 27 Euros

8.

Aux origines du lexique philosophique européen. L’influence de la « latinitas », Actes du Colloque international de Rome (23-25 mai 1996) édités par J. HAMESSE, Louvain-la-Neuve 1997. XIV + 298 p. 34 Euros

9.

Medieval Sermons and Society : Cloisters, City, University, Proceedings of International Symposia at Kalamazoo and New York, edited by J. HAMESSE, B.M. KIENZLE, D.L. STOUDT, A.T. THAYER, Louvain-la-Neuve 1998. VIII + 414 p. et 7 ill. h.-t. 54 Euros

10. Roma, magistra mundi. Itineraria culturae medievalis. Mélanges offerts au Père L.E. Boyle à l’occasion de son 75e anniversaire, édités par J. HAMESSE. Ouvrage publié avec le concours de la Homeland Foundation (New York), Louvain-la-Neuve épuisé 1998. vol. I-II : XII + 1030 p. ; vol. III : VI + 406 p. 11. Filosofia e scienza classica, arabo-latina medievale e l’età moderna. Ciclo di seminari internazionali (26-27 gennaio 1996) a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, Louvain-la-Neuve 1999. VIII + 331 p. 39 Euros 12. J.L. JANSSENS, An annotated Bibliography of Ibn Sînæ. First Supplement (1990-1994), uitgegeven met steun van de Universitaire Stichting van België en het Francqui26 Euros Fonds, Louvain-la-Neuve 1999. XXI + 218 p. 13. L.E. BOYLE, O.P., Facing history: A different Thomas Aquinas, with an introduction by J.-P. TORRELL, O.P., Louvain-la-Neuve 2000. XXXIV + 170 p. et 2 ill. h.- t. 33 Euros

14. Lexiques bilingues dans les domaines philosophique et scientifique (Moyen Âge – Renaissance), Actes du Colloque international organisé par l’École Pratique des Hautes Etudes – IVe Section et l’Institut Supérieur de Philosophie de l’Université Catholique de Louvain (Paris, 12-14 juin 1997) édités par J. HAMESSE et D. JACQUART, Turnhout 2001. XII + 240 p., ISBN 978-2-503-51176-4 35 Euros 15. Les prologues médiévaux, Actes du Colloque international organisé par l’Academia Belgica et l’École française de Rome avec le concours de la F.I.D.E.M. (Rome, 26-28 mars 1998) édités par J. HAMESSE, Turnhout 2000. 716 p., ISBN 978-2-503-51124-5 75 Euros 16. L.E. BOYLE, O.P., Integral Palaeography, with an introduction by F. TRONCARELLI, Turnhout 2001. 174 p. et 9 ill. h.-t., ISBN 978-2-503-51177-1 33 Euros 17. La figura di San Pietro nelle fonti del Medioevo, Atti del convegno tenutosi in occasione dello Studiorum universitatum docentium congressus (Viterbo e Roma, 5-8 settembre 2000) a cura di L. LAZZARI e A.M. VALENTE BACCI, Louvain-la-Neuve 2001. 708 p. et 153 ill. h.-t. 85 Euros 18. Les Traducteurs au travail. Leurs manuscrits et leurs méthodes. Actes du Colloque international organisé par le « Ettore Majorana Centre for Scientific Culture » (Erice, 30 septembre – 6 octobre 1999) édités par J. HAMESSE, Turnhout 2001. XVIII + 455 p., ISBN 978-2-503-51219-8 55 Euros 19. Metaphysics in the Twelfth Century. Proceedings of the International Colloquium (Frankfurt, june 2001) edited by M. LUTZ-BACHMANN et al., Turnhout 2003. XIV + 220 p., ISBN 978-2-503-52202-9 43 Euros 20. Chemins de la pensée médiévale. Études offertes à Zénon Kaluza éditées par P.J.J.M. BAKKER avec la collaboration de E. FAYE et Ch. GRELLARD, Turnhout 2002. XXIX + 778 p., ISBN 978-2-503-51178-8 68 Euros 21. Filosofia in volgare nel medioevo. Atti del Colloquio Internazionale de la S.I.S.P.M. (Lecce, 27-28 settembre 2002) a cura di L. STURLESE, Louvain-la-Neuve 2003. 540 p., ISBN 978-2-503-51503-8 43 Euros 22. Bilan et perspectives des études médiévales en Europe (1993-1998). Actes du deuxième Congrès européen d’études médiévales (Euroconference, Barcelone, 8-12 juin 1999), édités par J. HAMESSE, Turnhout 2003. XXXII + 656 p., ISBN 978-2-503-51615-865 Euros 23. Lexiques et glossaires philosophiques de la Renaissance. Actes du Colloque International organisé en collaboration à Rome (3-4 novembre 2000) par l’Academia Belgica, le projet « Le corrispondenze scientifiche, letterarie ed erudite dal Rinascimento all’ età moderna » et l’Università degli studi di Roma « La Sapienza », édités par J. HAMESSE et M. FATTORI, Louvain-la-Neuve 2003. IX + 321 p., ISBN 978-2-503-51535-9 39 Euros 24. Ratio et superstitio. Essays in Honor of Graziella Federici Vescovini edited by G. MARCHETTI, V. SORGE and O. RIGNANI, Louvain-la-Neuve 2003. XXX + 676 p. – 5 ill. h.-t., ISBN 978-2-503-51523-6 54 Euros 25. « In principio erat verbum » . Mélanges offerts à Paul Tombeur par ses anciens élèves édités par B.-M. TOCK, Turnhout 2004. 450 p., ISBN 978-2-503-51672-6 54 Euros 26. Duns Scot à Paris, 1302-2002. Actes du colloque de Paris, 2-4 septembre 2002, édités par O. BOULNOIS, E. KARGER, J.-L. SOLÈRE et G. SONDAG, Turnhout 2005. XXIV + 683 p., ISBN 2-503-51810-9 54 Euros 27. Medieval Memory. Image and text, edited by F. WILLAERT, Turnhout 2004. XXV + 265 p., ISBN 2-503-51683-1 54 Euros 28. La Vie culturelle, intellectuelle et scientifique à la Cour des Papes d’Avignon. Volume en collaboration internationale édité par J. HAMESSE, Turnhout 2006. XI + 413 p. – 16 ill. h.t., ISBN 2-503-51877-X 43 Euros

29. G. MURANO, Opere diffuse per «exemplar» e pecia, Turnhout 2005. 897 p., ISBN 2-503-51922-9 75 Euros 30. Corpo e anima, sensi interni e intelletto dai secoli XIII-XIV ai post-cartesiani e spinoziani. Atti del Colloquio internazionale (Firenze, 18-20 settembre 2003) a cura di G. FEDERICI VESCOVINI, V. SORGE e C. VINTI, Turnhout 2005. 576 p., ISBN 2-503-51988-1 54 Euros 31. Le felicità nel medioevo. Atti del Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (S.I.S.P.M.) (Milano, 12-13 settembre 2003), a cura di M. BETTETINI e F. D. PAPARELLA, Louvain-la-Neuve 2005. XVI + 464 p., ISBN 2-503-51875-3 43 Euros 32. Itinéraires de la raison. Études de philosophie médiévale offertes à Maria Cândida Pacheco, éditées par J. MEIRINHOS, Louvain-la-Neuve 2005. XXVIII + 444 p., ISBN 2-503-51987-3 43 Euros 33. Testi cosmografici, geografici e odeporici del medioevo germanico. Atti del XXXI Convegno dell’Associazione italiana di filologia germanica (A.I.F.G.), Lecce, 26-28 maggio 2004, a cura di D. GOTTSCHALL, Louvain-la-Neuve 2005. XV + 276 p., ISBN 2-503-52271-8 34 Euros 34. Écriture et réécriture des textes philosophiques médiévaux. Mélanges offerts à C. Sirat édités par J. HAMESSE et O. WEIJERS, Turnhout 2006. XXVI + 499 p., ISBN 2-503-52424-9 54 Euros 35. Frontiers in the Middle Ages. Proceedings of the Third European Congress of the FIDEM (Jyväskylä, june 2003), edited by O. MERISALO and P. PAHTA, Louvain-laNeuve 2006. XII + 761p., ISBN 2-503-52420-6 65 Euros 36. Classica et beneventana. Essays presented to Virginia Brown on the Occasion of her 65th Birthday edited by F.T. COULSON and A. A. GROTANS, Turnhout 2006. XXIV + 444 p. – 20 ill. h.t., ISBN 978-2-503-2434-4 54 Euros 37. G. MURANO, Copisti a Bologna (1265-1270), Turnhout 2006. 214 p., ISBN 2-50352468-9 44 Euros 38. «Ad ingenii acuitionem». Studies in honour of Alfonso Maierù, edited by S. CAROTI, R. IMBACH, Z. KALUZA, G. STABILE and L. STURLESE. Louvain-la-Neuve 2006. VIII + 590 p., ISBN 978-2-503-52532-7 54 Euros 39. Form and Content of Instruction in Anglo-saxon England in the Light of Contemporary Manuscript Evidence. Papers from the International Conference (Udine, April 6th-8th 2006) edited by P. LENDINARA, L. LAZZARI, M.A. D’ARONCO, Turnhout 2007. XIII + 552 p., ISBN 978-2-503-52591-0 65 Euros 40. Averroès et les averroïsmes latin et juif. Actes du Colloque International (Paris, juin 2005) édités par J.-B. BRENET, Turnhout 2007. 367 p., ISBN 978-2-503-52742-0 54 Euros 41. P. LUCENTINI, Platonismo, ermetismo, eresia nel medioevo. Introduzione di L. STURLESE. Volume publié en co-édition et avec le concours de l’Università degli Studi di Napoli « l’Orientale » (Dipartimento di Filosofia e Politica). Louvain-laNeuve 2007. XVI + 517 p., ISBN 978-2-503-52726-0 54 Euros 42.1. Repertorium initiorum manuscriptorum Latinorum Medii Aevi curante J. HAMESSE, auxiliante S. SZYLLER. Tome I : A-C. Louvain-la-Neuve 2007. XXXIV + 697 p., ISBN 978-2-503-52727-7 59 Euros 42.2. Repertorium initiorum manuscriptorum Latinorum Medii Aevi curante J. HAMESSE, auxiliante S. SZYLLER. Tome II : D-O. Louvain-la-Neuve 2008. 802 p., ISBN 978-2503-53045-1 59 Euros

42.3. Repertorium initiorum manuscriptorum Latinorum Medii Aevi curante J. HAMESSE, auxiliante S. SZYLLER. Tome III : P-Z. Louvain-la-Neuve 2009, 792 p., ISBN 978-2503-53321-6 59 Euros 42.4. Repertorium initiorum manuscriptorum Latinorum Medii Aevi curante J. HAMESSE, auxiliante S. SZYLLER. Tome IV : Supplementum. Indices. Louvain-la-Neuve 2010. 597 p., ISBN 978-2-503-53603-3 59 Euros 43. New Essays on Metaphysics as «Scientia Transcendens». Proceedings of the Second International Conference of Medieval Philosophy, held at the Pontifical Catholic University of Rio Grande do Sul (PUCRS), Porto Alegre / Brazil, 15-18 August 2006, ed. R. H. PICH. Louvain-la-Neuve 2007. 388 p., ISBN 978-2-503-52787-1 43 Euros 44. A.-M. VALENTE, San Pietro nella letteratura tedesca medievale, Louvain-la-Neuve 2008. 240 p., ISBN 978-2-503-52846-5 43 Euros 45. B. FERNÁNDEZ DE LA CUESTA GONZÁLEZ, En la senda del «Florilegium Gallicum». Edición y estudio del florilegio del manuscrito Córdoba, Archivo Capitular 150, Louvain-la-Neuve 2008. 542 p., ISBN 978-2-503-52879-3 54 Euros 46. Cosmogonie e cosmologie nel Medioevo. Atti del convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Catania, 22-24 settembre 2006. A cura di C. MARTELLO, C. MILITELLO, A. VELLA, Louvain-la-Neuve 2008. XVI + 526 p., ISBN 978-2-503-52951-6 54 Euros 47. M. J. MUÑOZ JIMÉNEZ, Un florilegio de biografías latinas: edición y estudio del manuscrito 7805 de la Biblioteca Nacional de Madrid, Louvain-la-Neuve 2008. 317 p., ISBN 978-2-503-52983-7 43 Euros 48. Continuities and Disruptions Between the Middle Ages and the Renaissance. Proceedings of the colloquium held at the Warburg Institute, 15-16 June 2007, jointly organised by the Warburg Institute and the Gabinete de Filosofia Medieval. Ed. by C. BURNETT, J. MEIRINHOS, J. HAMESSE, Louvain-la-Neuve 2008. X + 181 p., ISBN 9782-503-53014-7 43 Euros 50. Florilegium mediaevale. Études offertes à Jacqueline Hamesse à l’occasion de son éméritat. Éditées par J. MEIRINHOS et O. WEIJERS, Louvain-la-Neuve 2009. XXXIV + 636 p., ISBN 978-2-503-53146-5 60 Euros 51. Immaginario e immaginazione nel Medioevo. Atti del convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale (S.I.S.P.M.), Milano, 25-27 settembre 2008. A cura di M. BETTETINI e F. PAPARELLA, con la collaborazione di R. FURLAN. Louvainla-Neuve 2009. 428 p., ISBN 978-2-503-53150-2 55 Euros 52. Lo scotismo nel Mezzogiorno d’Italia. Atti del Congresso Internazionale (Bitonto 25-28 marzo 2008), in occasione del VII Centenario della morte di del beato Giovanni Duns Scoto. A cura di F. FIORENTINO, Porto 2010. 514 p., ISBN 978-2-50353448-0 55 Euros 53. E. MONTERO CARTELLE, Tipología de la literatura médica latina: Antigüedad, Edad Media, Renacimiento, Porto 2010. 243 p., ISBN 978-2-503-53513-5 43 Euros 54. Rethinking and Recontextualizing Glosses: New Perspectives in the Study of Late Anglo-Saxon Glossography, edited by P. LENDINARA, L. LAZZARI, C. DI SCIACCA, 60 Euros Porto 2011. XX + 564 p. + XVI ill., ISBN 978-2-503-54253-9 55. I beni di questo mondo. Teorie etico-economiche nel laboratorio dell’Europa medievale. Atti del convegno della Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.) Roma, 19-21 settembre 2005. A cura di R. LAMBERTINI e L. SILEO, Porto 2010. 367 p., ISBN 978-2-503-53528-9 49 Euros 56. Medicina y filología. Estudios de léxico médico latino en la Edad Media, edición de A. I. MARTÍN FERREIRA, Porto 2010. 256 p., ISBN 978-2-503-53895-2 49 Euros

57. Mots médiévaux offerts à Ruedi Imbach, édité par I. ATUCHA, D. CALMA, C. KONIGPRALONG, I. ZAVATTERO, Porto 2011. 797 p., ISBN 978-2-503-53528-9 75 Euros 58. El florilegio, espacio de encuentro de los autores antiguos y medievales, editado por M. J. MUÑOZ JIMÉNEZ, Porto 2011. 289 p., ISBN 978-2-503-53596-8 45 Euros 59. Glossaires et lexiques médiévaux inédits. Bilan et perspectives. Actes du Colloque de Paris (7 mai 2010), Édités par J. HAMESSE et J. MEIRINHOS, Porto 2011. XII + 291 p., ISBN 978-2-503-54175-4 45 Euros 60. Anselm of Canterbury (1033-1109): Philosophical Theology and Ethics. Proceedings of the Third International Conference of Medieval Philosophy, held at the Pontifical Catholic University of Rio Grande do Sul, Porto Alegre / Brazil (02-04 September 2009), Edited by R. Hofmeister PICH, Porto 2011. XVI + 244 p., ISBN 978-2-50354265-2 45 Euros 61. L’antichità classica nel pensiero medievale. Atti del Convegno de la Società italiana per lo studio del pensiero medievale (S.I.S.P.M.), Trento, 27-29 settembre 2010. A cura 59 Euros di A. PALAZZO. Porto 2011. VI + 492, p., ISBN 978-2-503-54289-8 62. M. C. DE BONIS, The Interlinear Glosses to the Regula Sancti Benedicti in London, British Library, Cotton Tiberius A. III. ISBN 978-2-503-54266-9 (en préparation) 63. J. P. BARRAGÁN NIETO, El «De secretis mulierum» atribuido a Alberto Magno: Estudio, edición crítica y traducción, I Premio Internacional de Tesis Doctorales Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos, Porto 2012. 600 p., ISBN 978-2-503-54392-5 65 Euros 64. Tolerancia: teoría y práctica en la Edad Media. Actas del Coloquio de Mendoza (1518 de Junio de 2011), editadas por R. PERETÓ RIVAS, Porto 2012. XXI + 295 p., ISBN 978-2-503-54553-0 49 Euros 65. Portraits de maîtres offerts à Olga Weijers, édité par C. ANGOTTI, M. BRÎNZEI, 65 Euros M. TEEUWEN, Porto 2012. 521 p., ISBN 978-2-503-54801-2 66. L. TROMBONI, Inter omnes Plato et Aristoteles: Gli appunti filosofici di Girolamo Savonarola. Introduzione, edizione critica e comento, Prefazione di G. C. 55 Euros GARFAGNINI, Porto 2012. XV + 326 p., ISBN 978-2-503-54803-6 67. M. MARCHIARO, La biblioteca di Pietro Crinito. Manoscritti e libri a stampa della raccolta libraria di un umanista fiorentino, II Premio de la Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos, Porto 2013. 342 p., ISBN 978-2-503-54949-1 55 Euros 68. Phronêsis – Prudentia – Klugheit. Das Wissen des Klugen in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit. Il sapere del saggio nel Medioevo, nel Rinascimento e nell’Età Moderna. Herausgegeben von / A cura di A. FIDORA, A. NIEDERBERGER, M. SCATTOLA, Porto 2013. 348 p., ISBN 978-2-503-54989-7 59 Euros 69. La compilación del saber en la Edad Media. La Compilation du savoir au Moyen Âge. The Compilation of Knowledge in the Middle Ages. Editado por M. J. MUÑOZ, P. CAÑIZARES y C. MARTÍN, Porto 2013. 632 p., ISBN 978-2-50355034-3 65 Euros 70. W. CHILDS, Trade and Shipping in the Medieval West: Portugal, Castile and England, Porto 2013. 187 p., ISBN 978-2-503-55128-9 35 Euros 71. L. LANZA, «Ei autem qui de politia considerat ...» Aristotele nel pensiero politico medievale, Barcelona – Madrid 2013. 305 p., ISBN 978-2-503-55127-2 49 Euros 72. «Scholastica colonialis». Reception and Development of Baroque Scholasticism in Latin America, 16th-18th Centuries, Edited by R. H. PICH and A. S. CULLETON, 49 Euros Barcelona – Roma 2016. VIII + 338 p., ISBN 978-2-503-55200-2

73. Hagiography in Anglo-Saxon England: Adopting and Adapting Saints’ Lives into Old English Prose (c. 950-1150), Edited by L. LAZZARI, P. LENDINARA, C. DI SCIACCA, 65 Euros Barcelona – Madrid 2014. XVIII + 589 p., ISBN 978-2-503-55199-9 74. Dictionarium Latinum Andrologiae, Gynecologiae et Embryologiae. Diccionario latino de andrología, ginecología y embriología (DILAGE), dir. E. MONTERO CARTELLE, 95 Euros Barcelona – Roma 2018. LI + 1045 p., ISBN 978-2-503-58163-7 75. La Typologie biblique comme forme de pensée dans l’historiographie médiévale, sous la direction de M.T. KRETSCHMER, Turnhout 2014. XII + 279 p., ISBN 978-2-50355447-1 54 Euros 76. Portuguese Studies on Medieval illuminated manuscripts, Edited by M. A. MIRANDA and A. MIGUÉLEZ CAVERO, Barcelona – Madrid 2014. XV + 195 p., ISBN 978-2-50355473-0 49 Euros 77. S. ALLÉS TORRENT, Las «Vitae Hannibalis et Scipionis» de Donato Acciaiuoli, traducidas por Alfonso de Palencia (1491), III Premio de la Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos, Barcelona – Madrid 2014. CLXXVI + 245 p., ISBN 978-2-50355606-2 55 Euros 78. Guido Terreni, O. Carm. (†1342): Studies and Texts, Edited by A. FIDORA, Barcelona – 55 Euros Madrid 2015. XIII + 405 p., ISBN 978-2-503-55528-7 79. Sigebert de Gembloux, Édité par J.-P. STRAUS, Barcelona – Madrid 2015. et 24 ill. h.-t., ISBN 978-2-503-56519-4

IX

+ 210 p. 45 Euros

80. Reading sacred scripture with Thomas Aquinas. Hermeneutical tools, theological questions and new perspectives, Edited by P. ROSZAK and J. VIJGEN, Turnhout 2015. XVI + 601 p., ISBN 978-2-503-56227-8 65 Euros 81. V. MANGRAVITI, L’«Odissea» marciana di Leonzio tra Boccaccio e Petrarca, IV Premio de la Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos (accésit), 79 Euros Barcelona – Roma 2016. CLXXVII + 941 p., ISBN 978-2-503-56733-4 82. Formal Approaches and natural Language in Medieval Logic, Edited by L. CESALLI, F. GOUBIER and A. DE LIBERA, with the collaboration of M. G. ISAAC, Barcelona – 69 Euros Roma 2016. VIII + 538 p., ISBN 978-2-503-56735-8 83. Les « Auctoritates Aristotelis », leur utilisation et leur influence chez les auteurs médiévaux, édité par J. HAMESSE et J. MEIRINHOS, Barcelona – Madrid 2015. X + 362 p., ISBN 978-2-503-56738-9 55 Euros 84. Formas de acceso al saber en la Antigüedad Tardía y en la Alta Edad Media. La transmisión del conocimiento dentro y fuera de la escuela, editado por D. PANIAGUA y M.ª A. ANDRÉS SANZ, Barcelona – Roma 2016. XII + 311 p., ISBN 978-2-503-56987-1 50 Euros 85. C. TARLAZZI, Individui universali. Il realismo di Gualtiero di Mortagne nel XII secolo, IV Premio Internacional de Tesis Doctorales de la Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos, Barcelona – Roma 2017. XL + 426 p., ISBN 978-2503-57565-0 55 Euros 86. Lieu, espace, mouvement : physique, métaphysique et cosmologie (XIIe-XVIe siècles), Actes du Colloque International, Université de Fribourg (Suisse), 12-14 mars 2015, édités par T. SUAREZ-NANI, O. RIBORDY et A. PETAGINE, Barcelona – Roma 2017. XXIII + 318 p., ISBN 978-2-503-57552-0 49 Euros 87. La letteratura di istruzione nel medioevo germanico. Studi in onore di Fabrizio D. Raschellà, a cura di M. CAPARRINI, M. R. DIGILIO, F. FERRARI, Barcelona – Roma 2017. X + 330 p., ISBN 978-2-503-57927-6 49 Euros

88. Appropriation, Interpretation and Criticism: Philosophical and Theological Exchanges between the Arabic, Hebrew and Latin Intellectual Traditions, Edited by A. FIDORA and N. POLLONI, Barcelona – Roma 2017. XI + 336 p., ISBN 978-2-50357744-9 49 Euros 89. Boethius, On Topical Differences, A commentary edited by F. MAGNANO, Barcelona – 59 Euros Roma 2017. XCIV + 400 p., ISBN 978-2-503-57931-3 90. Secrets and Discovery in the Middle Ages. Proceedings of the 5th European Congress of the Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales (Porto, 25th to 29th June 2013), edited by J. MEIRINHOS, C. LÓPEZ ALCALDE and J. REBALDE, Barcelona – 65 Euros Roma 2017. XV + 489 p., ISBN 978-2-503-57745-6 91. J. DELMULLE, Prosper d’Aquitaine contre Jean Cassien. Le « Contra collatorem », l’appel à Rome du parti augustinien dans la querelle postpélagienne, V Premio Internacional de Tesis Doctorales de la Fundación Ana María Aldama Roy de Estudios Latinos, Barcelona – Roma 2018. XLIV + 381 p., ISBN 978-2-503-58429-4 55 Euros 92. Il calamo dell’esistenza. La corrispondenza epistolare tra Ṣadr al-Dīn al-Qūnawī e Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, cura e traduzione dall’arabo di P. SPALLINO e dal persiano di 65 Euros I. PANZECA, Barcelona – Roma 2019. 424 p., ISBN 978-2-503-58411-9

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