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Italian Pages 161/192 [192] Year 2004
biblioteca di letteratura collana diretta da Gino Tellini
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Willi Hirdt
I tre filosofi di Giorgione
Società Editrice Fiorentina
Edizione originale Bildwelt und Weltbild. «Die drei Philosophen» Giorgiones, Tübingen, A. Franke Verlag, 2002 Traduzione Paolo Scotini Revisione redazionale Laura Diafani e Francesca Mecatti
© 2004 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 [email protected] www.sefeditrice.it Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile comunicare
In copertina Giorgione, I tre filosofi, Kunsthistorisches Museum, Wien oder KHM, Vienna
Indice
ix 3
Avvertenza all’edizione italiana Premessa
7 7 12
I.
Ai raggi x: un caso allegorico Ipotesi storico-artistiche L’allegoresi dantesca
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II.
47 47 58
III.
71 72 76 84 86
IV.
L’enigma: tra selva e monti
Il raggio visivo: luce e oscurità Contemplazione e conoscenza Il «San Francesco» di Bellini e l’architetto di Giorgione
In cammino: il trio di scienziati Il libro della natura Il vecchio astrologo Il mediatore Arte oracolare e apocalisse
97 103 107 109
V. Nell’oscurità: Cristo e Platone La caverna di Platone I tre gradi della conoscenza L’uscita dalla caverna e la luce
115 115 120 127
VI.
133
VII.
155
Indice dei nomi
La grotta di Cristo «Mons victorialis» I tre savi dall’oriente L’albero di fico Due notti: tra adorazione e filosofia
Avvertenza all’edizione italiana
I tre filosofi di Giorgione, una delle opere più straordinarie del Kunsthistorisches Museum di Vienna, sono continuamente oggetto di nuove e diverse interpretazioni, anche e soprattutto in ambito tedesco. La traduzione in italiano del presente volume, pensato originariamente per un pubblico tedesco, intende sviluppare un dialogo con lettori, studiosi e storici dell’arte italiani. Un particolare e sentito ringraziamento va a Gino Tellini per la sua disponibilità ad accogliere questo saggio nella collana «Biblioteca di Letteratura». Ringrazio inoltre Paolo Scotini per il suo lavoro di traduzione e l’editore Gunter Narr (A. Franke Verlag) di Tubinga. Willi Hirdt
I TRE FILOSOFI
di giorgione
Premessa
Lo sviluppo di un rapporto produttivo tra storia dell’arte e storia della letteratura proposto per il Medioevo da Friedrich Ohly non è da intendersi soltanto in riferimento all’ambito medioevale ma anche alla dimensione del pensiero rinascimentale. La messa a fuoco del “significato testuale dipinto” può fornire la chiave per decifrare quelle opere che, con intenzione allegorizzante, furono realizzate in forme enigmatiche. Uno di questi enigmi è rappresentato dal dipinto I tre filosofi di Giorgione, da sempre considerato come l’opera «più misteriosa» del Rinascimento (ill. 1). Credo che visione del mondo e mondo visivo di Giorgione poggino su tre colonne. La prima di esse è la filosofia, rappresentata da Marsilio Ficino, sulla cui opera si fonda il neoplatonismo del Quattrocento. L’altra è la poesia, e in particolare la Divina Commedia di Dante, la cui allegoresi – mediata ai contemporanei in particolare da Cristoforo Landino, amico di Ficino – segna profondamente anche le arti figurative. La terza colonna portante dell’orizzonte intellettuale e artistico del giovane pittore è costituita dal suo maestro Giovanni Bellini, alla cui coeva Allegoria sacra, tuttavia, il dipinto I tre filosofi volta ideologicamente le spalle: adesso accanto alla fede viene infatti a far parte dell’opera anche la scienza. Il cammino dal Medioevo all’età moderna è compiuto. Quanto all’influenza della poesia dantesca sulla pittura rinascimentale, basterebbe considerare il Giudizio Universale, che nella sua parte inferiore, alla sinistra del Cristo, sintetizza i primi cinque canti della Divina Commedia in un’unica scena che raffigura l’ingresso delle anime dannate nell’Inferno. Riconosciamo Caronte, che con il
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«i tre filosofi» di giorgione
remo sollevato colpisce chi ancora esita (Inf. 111, 111), e l’orribile Minosse, che con la coda indica ai peccatori il posto a loro assegnato nell’Inferno. A ragione Grimm definisce metaforicamente le opere di Michelangelo, e in particolare questo dipinto, come «seconda rivelazione» di Dante. Come testimonia proprio il Giudizio Universale della Cappella Sistina, la relazione tra pittura e poesia può anche non implicare una programmatica trasposizione pittorica del testo poetico, e pure restituire il senso profondo di un legame intrinseco. Nel triangolo culturale del Rinascimento filosofia-pittura-poesia, quest’ultima occupa comunque chiaramente una posizione nodale. Oltre alla poesia, nel Rinascimento sono anche i testi filosofici a consentire l’accesso alle opere d’arte. Di straordinaria importanza nel passaggio culturale dal Quattrocento al Cinquecento è il ruolo di Marsilio Ficino, che con la sua Theologia Platonica (1469-1474) determinerà, e non solo in Italia, gli sviluppi della riflessione ontologica. Il neoplatonismo che si forma sulle orme di Ficino eserciterà un influsso decisivo, con diversi accenti, sui filosofi di tutta Europa. «I pensatori del Rinascimento», afferma Kristeller, non si sono limitati a ricalcare pedissequamente le orme dei loro maestri dell’antichità, ma ne hanno riformulato i concetti adattandoli ai propri bisogni. E si potrà riconoscere meglio la peculiarità del nuovo filosofo quando si osservi come egli attinge al pensiero classico antico per modificarlo e riformularlo in termini nuovi. Ortodossia e originalità sono due estremi che vengono raramente toccati; tra questi due poli ci sono molti stadi intermedi sui quali si muove la realtà storica e che noi nel caso specifico dobbiamo, per quanto è possibile, riconoscere e definire. In questo senso è necessario studiare il platonismo, l’aristotelismo, lo stoicismo, l’epicureismo e lo scetticismo del Rinascimento e indagare in generale l’influsso delle idee classiche, patristiche e medievali sui filosofi del tempo.
La discussione condotta in epoca rinascimentale tra fede teologica e ragione filosofica, tra adorazione di Dio e sete di sapere, delinea la struttura dell’essere come spazio percorribile e la vita umana come percorso verso la beatitudine eterna dell’anima. Assistiamo a un’osservazione del mondo determinata dalla ragione, in cui si inseriscono anche le concezioni e la volontà di Giorgione. Non a caso egli dedica una delle sue ultime opere a tre “filosofi”, che già
premessa
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da un osservatore dell’epoca furono riconosciuti e definiti in quanto tali. La concezione della «pia philosophia», che si sviluppa nella cerchia della Accademia Platonica fiorentina animata da Ficino, apre dunque nel quadro di Giorgione la questione del rapporto tra filosofia e religione in senso neoplatonico. Parallelamente si sviluppa il percorso dell’allegoresi, che, letterariamente orientato nell’Italia del Rinascimento in direzione dell’aenigma, viene ad attraversare in numerosi casi anche le opere pittoriche, tra cui appunto il quadro di Giorgione. Il pittore si muove nell’ambito di una raffigurazione enigmatica e di una poesia creatrice la quale, secondo il dettato dantesco, si sottrae all’approccio immediato. Quando Borinski definisce l’allegoria come «astratta chiave intellettuale della poesia», tale definizione va intesa anche in relazione alle opere iconografiche del Rinascimento in quanto oggetti da decifrare. Per quanto riguarda la questione della comprensione delle opere figurative, Erwin Panofsky mette giustamente in rilievo quelle relazioni tra letteratura e pittura la cui analisi e interpretazione permettono l’accesso ermeneutico all’oggetto celato: l’altro livello invece, quello del soggetto secondario, che si rivela solamente attraverso un sapere trasmesso letterariamente, sarà chiamato “regione del significato”. Mi sia consentito dire, a tale proposito, che lo storico dell’arte non ha il diritto di separare, all’interno di questo livello, i motivi che egli considera “artisticamente importanti” (come ad esempio i contenuti della Bibbia) da quelli che crede di poter tralasciare perché ritenuti soltanto “contorte allegorie” o “simboli astrusi”. In effetti questa distinzione spesso e volentieri ripetuta non differenzia tra ciò che è importante e ciò che è irrilevante da un punto di vista artistico, ma solo fra ciò che casualmente (ma chi sa per quanto ancora) è presente alla coscienza odierna, e ciò di cui solo attraverso la riscoperta di fonti oggi dimenticate possiamo di nuovo appropriarci: non è da escludere che nell’anno 2500 la storia di Adamo ed Eva possa all’umanità apparire estranea quanto appaiono estranei a noi oggi quei concetti da cui si sono sviluppate, ad esempio, le allegorie religiose della Controriforma o le allegorie umanistiche della cerchia di Dürer; e pure nessuno vorrà negare che per comprendere la Cappella Sistina sia fondamentale riconoscere il fatto che Michelangelo ha raffigurato il peccato originale e non un déjeuner sur l’herbe.
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«i tre filosofi» di giorgione
Tale riflessione illustra perfettamente la prospettiva storica dei principi metodologici sui quali intende basarsi la presente interpretazione dei Tre filosofi. È l’officina veneziana di Giovanni Bellini a costituire infine, accanto alla poesia e alla filosofia, la terza colonna dell’interpretazione. In questa officina viene dipinta nel 1505 l’enigmatica Allegoria sacra, alla quale si ricollega, ma con tutt’altre finalità, Giorgione con i suoi Tre filosofi: lo scarto concettuale rispetto alla nativitas del vecchio maestro permette infatti di riconoscere riflessioni e fini specifici di un allievo che intraprende con decisione il cammino verso l’età moderna.
I.
Ai raggi x: un caso allegorico
ipotesi storico-artistiche Dei vari campi d’indagine a cui è stata applicata la radiografia, fa parte, a partire dagli anni Venti del XX secolo, anche l’arte figurativa. Un caso di particolare interesse è ancor oggi rappresentato dalle analisi radiografiche effettuate sul dipinto di Giorgione I tre filosofi, attualmente al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Per gli attenti osservatori delle sovrapposizioni pittoriche non si trattava in questo caso di individuare un eventuale falso artistico, quanto di analizzare il processo pittorico al fine di scoprire correzioni, aggiunte oppure interventi estranei che consentissero di far luce sulla concezione del quadro. Una breve ricognizione dei lavori dedicati alle radiografie dei Tre filosofi dimostra come riflessioni a carattere generale sugli aspetti contenutistici e strutturali di un’opera possano anche condurre a conclusioni dubbie o contraddittorie. Scrive Johannes Wilde, la cui indagine si concentra su un problema di storia dello stile: Le radiografie dei Tre filosofi di Giorgione rivelano precedenti versioni di parti del quadro che sono così chiaramente visibili che si potrebbe tentare di rintracciarne il profilo e collegarle quindi alle parti rimaste intatte, e di confrontare infine il risultato ottenuto con lo stato attuale del dipinto. Occorre comunque aggiungere che le radiografie non permettono di rispondere alla questione relativa alle fasi delle modifiche, ovvero se queste siano state fatte progressivamente, con l’andare avanti del lavoro, o se esse rappresentino invece un ultimo intervento unitario compiuto su una composizione già completata. L’esame stilistico degli interventi sem-
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«i tre filosofi» di giorgione
bra però dare ragione a quest’ultima ipotesi, così come il fatto che le precedenti versioni venute alla luce non si trovano a uno stato di abbozzo, bensì siano in sé concluse1.
Più avanti Wilde afferma: Se adesso osserviamo ancora una volta le modifiche dei singoli frammenti nel loro insieme notiamo che esse sono il frutto di una volontà stilistica unitaria, alla luce della quale possono essere spiegate. Il quadro nascosto contiene elementi che rimandano a una fase stilistica più antica, a quella dell’ultimo Quattrocento – la bizzarra figura del vecchio ricorda ad esempio fortemente le figure di Carpaccio –, mentre la versione definitiva appare, in tutte le sue parti, come una sorta di incunabolo del nuovo ideale artistico veneziano. I tratti fondamentali della composizione, che erano definiti fin dall’inizio, andavano tuttavia già oltre qualsiasi modello quattrocentesco2.
Le osservazioni e le conclusioni di Wilde non riguardano il senso dei dettagli del dipinto analizzato, ma solamente il ruolo storico-artistico – verificato attraverso le radiografie – del dipinto stesso, visto quale esempio perfetto di una metamorfosi culturale. Nelle modifiche formali e strutturali del quadro l’autore legge un passaggio dal XV al XVI secolo. Il senso svelato empiricamente degli interventi compiuti sull’opera non rappresenta tuttavia, come mostrano i dubbi di Wilde, la risposta definitiva a tutte le domande che ci pone la radiografia del dipinto: Questo e tutti gli altri interventi descritti si spiegano come una generale svolta verso la classicità. Ma chi è l’autore di tali interventi? Lo stesso Giorgione o un artista più giovane? Il fatto che essi possano essere molto posteriori alla prima versione è da escludere a priori, poiché le radiografie indicano identiche caratteristiche tecniche dei due strati. Alla luce di que-
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Johannes Wilde, Röntgenaufnahmen der «Drei Philosophen» Giorgiones und der «Zigeunermadonna» Tizians, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 20, 1932, pp. 141-154: 143 (dove non sia altrimenti specificato, la versione italiana dei testi in lingua straniera si intende opera del traduttore). 2 Ivi, p. 146.
i. ai raggi x: un caso allegorico
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sto fatto ritorna alla mente l’appunto di Marcantonio Michiel dell’anno 1525, secondo cui la tela fu cominciata da Zorzo da Castelfranco e terminata da Sebastiano Veneziano. Potrebbe essere il giovane Sebastiano del Piombo l’autore degli interventi? È difficile rispondere affermativamente a questa domanda, se si considera che proprio le parti che sono state più fortemente modificate mostrano palesemente lo stile di Giorgione così come lo conosciamo dai lavori di sicura attribuzione, stile da cui l’allievo si distanzierà – già a partire dai suoi primi quadri – in modo parimenti evidente. Anche la suddetta affinità tecnica dei due strati sembra escludere mani diverse, sebbene per poter scartare con certezza questa ipotesi sarebbero necessarie radiografie delle opere giovanili di Sebastiano3.
Come vedremo più chiaramente in seguito, lo scetticismo di fronte all’idea di un intervento da parte di Sebastiano del Piombo è senz’altro giustificato. Restano tuttavia numerosi dubbi. Ludwig Baldass, per esempio, si pone la questione «se queste modifiche non siano da mettere in relazione a un cambiamento del tema, oppure addirittura a una richiesta del committente (o possiamo già parlare di acquirente?). È improbabile che Giorgione volesse dipingere tre filosofi quando cominciò il quadro»4. Se il suo maestro Giovanni Bellini rifiutava indicazioni vincolanti per la sua “fantasia” (come Pietro Bembo comunica espressamente a Isabella d’Este: «uso, come dice, di sempre vagare a sua voglia nelle pitture»5), anche Giorgione accetta malvolentieri eventuali limiti imposti dalla committenza. Al contrario, egli si muove, andando oltre lo stesso Bellini, in direzione di una “fantasia” che si articola liberamente. Una supposizione come quella di Baldass è destinata quindi a restare nell’ambito delle ipotesi, al pari della definizione di Wilde della «seconda versione» quale opera innovativa che apre a una nuova tendenza classicista. Friderike Klauner6 cerca, sulla scorta delle analisi di Wilde,
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Ivi, p. 148. Ludwig Baldass, Zu Giorgiones «Drei Philosophen», in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 49, 1953, pp. 121-130: 130. 5 Pietro Bembo, Lettere, i (1492-1507), ed. critica a cura di Ernesto Travi, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1987, p. 209. 6 Cfr. Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 51, 1955, pp. 145-168. 4
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«i tre filosofi» di giorgione
Hartlaub7 e Baldass, di ricostruire i passaggi intermedi delle modifiche e di tracciare uno sviluppo delle idee figurative di Giorgione fino ad arrivare alla svolta concettuale della versione definitiva. Modifiche tematiche vengono messe dall’autrice in relazione a diverse fasi creative e a questioni associativo-identificative che non permettono all’osservatore di giungere a un giudizio certo e definitivo. Non si deve però pensare, sostiene la Klauner, che tra una fase e l’altra ci fossero notevoli intervalli temporali. Essi duravano il tempo impiegato dal colore a seccarsi per un nuovo intervento, ovvero un tempo sufficiente per modificare l’idea figurativa (fatto che in una certa misura avveniva molto velocemente). Inoltre le singole fasi erano legate l’una all’altra, e in parte forse si sovrapponevano. L’intervallo più ampio sembra essere quello tra la terza e la quarta fase: materiale e tecnica pittorica di questa fase sono così diversi da quelli delle precedenti che si potrebbe quindi ipotizzare una maggiore distanza temporale. Da tutto ciò, comunque, si evince chiaramente il fatto che solo un’unica parte del quadro è rimasta nello stato originario della prima versione, senza essere ritoccata o coperta da altri strati, cioè la roccia a sinistra con l’albero di fico, l’edera e la fonte. Ma proprio questa parte è allora la chiave per comprendere il dipinto. Se questa zona del quadro, che fin dall’inizio ne definisce il tema, è sempre rimasta immutata, le modifiche apportate all’altra metà del dipinto possono essere considerate di secondaria importanza, nella misura in cui non ne intaccano direttamente il contenuto. Tanto nella prima versione quanto in quella definitiva il fico e l’edera, in quanto rimandano simbolicamente al Redentore, rappresentano il nucleo concettuale dell’opera. La diversa veste, il differente copricapo del vecchio o la sua diversa postura sono da considerare probabilmente come affinamenti o leggere variazioni dello stesso contenuto. L’idea di fondo è rimasta identica, e le modifiche, come ha già affermato Wilde, possono essere interpretate al massimo come un miglioramento in senso artistico8.
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Cfr. Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, in «Zeitschrift für Kunstwissenschaft», 1953, p. 57. 8 Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 167. In nota l’autrice analizza anche la notizia vasariana sul completamento del quadro da parte di Sebastiano del Piombo: «A ragione è stato fatto notare che l’abito del vecchio – ma lo stesso vale per quello del “filosofo” col turbante – è piuttosto rigido e mal dipinto a confronto di quello del giovane, e che proprio qui sarebbe da riconoscere la mano di Sebastiano (Baldass). Ma la cosa curiosa è che il rifacimento della testa del vecchio è da considerare chiaramente opera di Giorgione. Le modifi-
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Le domande che il dipinto solleva sotto l’aspetto tecnico-stilistico aumentano dunque inesorabilmente e la stessa Friderike Klauner, come i suoi predecessori, non giunge a fornire una spiegazione concettualmente convincente delle modifiche effettuate sul quadro. Anzi, la strutturazione degli interventi in tempi ben definiti, che la Klauner propone, culmina in un’ipotesi che cerca di porre in una relazione causale le varie parti e queste con il tutto, ma che al contempo ammette deficienze in senso contenutistico9. L’esclusione della possibilità di due mani diverse, e quindi di una eventuale partecipazione di Sebastiano al completamento dei Tre filosofi non è sicuramente da considerare un’interpretazione errata dei sintomi diagnosticati radiograficamente. Ma l’acquisizione di tale dato non rappresenta di per sé un contributo a una migliore comprensione del messaggio iconografico del dipinto. La proposta di Hartlaub di una fusione di due versioni10 fa pensare a un processo creativo che attraverso la comparsa di nuove idee e riflessioni si spinge verso una diversa composizione formale. Questa affermazione coglie un nodo fondamentale per la comprensione del messaggio dei Tre filosofi, come dimostrerà in seguito un’analisi più estesa della questione degli interventi sul quadro. Sottolineando la tematica «nascosta sotto diversi strati» del diche alla testa e all’abito dovrebbero essere state eseguite contemporaneamente, perché la barba del vecchio, più lunga nella versione definitiva, si trova già sopra il lembo del cappuccio rifatto con nuovi colori e che è stato realizzato dalla stessa mano che ha dipinto il resto dell’abito. Allo stesso modo le mani del vecchio, sicuramente opera di Giorgione, si trovano sopra l’abito che nella fattura appare ben poco giorgionesco. Tutto ciò significherebbe quindi che tutte le modifiche effettuate sulle due figure sono da attribuire a Giorgione. Ci si chiede se una certa viscosità e l’aspetto metallico delle pieghe dell’abito non siano il frutto della necessità di sfruttare il colore al massimo, visto che doveva essere coperta una zona relativamente ampia. [...] Le modifiche apportate alla figura con il turbante non disturbano particolarmente, in quanto riguardano una zona più piccola, e hanno quindi un effetto più leggero e trasparente. L’abito del giovane [...] è quello riuscito meglio, non essendo mai stato ritoccato, e dimostra una grande abilità grafica e pittorica. La testa appare, per quanto concerne la tecnica pittorica, identica alle altre» (ivi, p. 167n). 9 Cfr. ivi, pp. 166 sgg. 10 Cfr. Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, cit., p. 57: «sulla base delle radiografie dobbiamo distinguere una prima versione ben definita rispetto al prodotto finale».
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«i tre filosofi» di giorgione
pinto, Friderike Klauner legge il processo compositivo del lavoro nel senso di modifiche dettate dalla riflessione rispetto a una visione iniziale e a un primo stadio spontaneo: «La concezione dei Tre filosofi fu, come è noto, modificata durante la lavorazione»11. Tale ipotesi di una modifica della concezione del quadro durante il processo pittorico è tuttavia difficile da accettare. Giorgione non è, con tutto il rispetto, un semplice artigiano che riempie automaticamente la sua tela, ma un artista pensante, le cui idee, visioni, riflessioni e opinioni sono radicate nella situazione storica e nella sostanza filosofica del suo tempo. In altri termini, l’attività creatrice di Giorgione si realizza attraverso l’acquisizione di nuovi concetti che, come illustreremo in seguito, sono derivati dal pensiero di due figure centrali della cultura italiana: Dante e Marsilio Ficino. Le concezioni di Giorgione non sono l’esito di uno sviluppo automatico di forme preconcettuali, ma il frutto di un intelletto filosofico che, non diversamente dal suo maestro Bellini, inserisce nella propria arte mimetica elementi nuovi con modalità inedite. Si tratta di un’arte fondata sul pensiero allegorico di Dante che, in particolare grazie alla mediazione di Cristoforo Landino, esercita un profondo influsso in poeti e filosofi italiani della seconda metà del Quattrocento. Una diagnosi condotta su questi aspetti porterà ad altre strade e ad altri risultati rispetto a quelli ottenuti con le radiografie. I raggi x rappresentano un procedimento d’analisi in un certo senso interessante, ma che non può condurre da solo a un “significato” leggibile, essendo questo legato invece al procedimento allegorico che Dante fa diventare fondamento duraturo della letteratura e della filosofia italiana. Prima di passare all’analisi in dettaglio del dipinto vorremmo quindi riassumere i tratti principali di questo aspetto. l’allegoresi dantesca Il fondamentale mediatore di Dante e del suo metodo allegorico è l’umanista fiorentino Cristoforo Landino, con il suo commento al11
p. 166.
Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit.,
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la Divina Commedia pubblicato nel 1481. Amico di Marsilio Ficino e ottimo conoscitore della sua scienza platonica, Landino pone su queste basi un legame tra arte (poesia) e filosofia, la cui affinità è radicata nell’allegoria e nella mitologia. Il successo del suo commento sarà di primaria importanza per la ricezione dantesca in Italia. Della Divina Commedia con il commento di Landino vengono stampate dal 1484 al 1497 cinque edizioni a Venezia e un’altra a Brescia. Poesia ed esegesi diventano un’unità indivisibile. Dopo due successive edizioni a cura di Pietro Bembo e dell’umanista neoplatonico Girolamo Benivieni, intimo di Ficino, l’edizione commentata da Landino appare a Venezia altre cinque volte tra il 1507 e il 153612. Le dimensioni di tale straordinaria ricezione diventano evidenti alla luce di alcune cifre concrete: «come è possibile evincere da una lettera di Cristoforo al suo amico Bernardo Bembo, l’edizione del 1481 fu stampata in 1200 copie, una cifra notevole, se si considera che la traduzione ficiniana di Platone uscì in un’edizione di soli 1025 esemplari»13. Il fatto che già la prima edizione del commento di Landino avesse un numero considerevole di incisioni che si basavano sui modelli botticelliani14 è il segno dello stimolo creativo esercitato dall’allegoresi anche sull’arte figurativa. Il poeta della Divina Commedia si è espresso, riguardo alla dimensione allegorica del suo lavoro, in termini che intendiamo sinteticamente riassumere al fine di un’analisi di Giorgione in quest’ottica. Nella sua epistola del 1319 o 1320 al vicario imperiale di Verona, Cangrande della Scala, egli scrive in occasione del completamento del Paradiso – e quindi della conclusione del poema – che il senso dell’opera non è unico, anzi essa può essere definita polisema, ovvero consiste di diversi piani semantici; il primo significato è quello da-
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Cfr. Carlo Dionisotti, Landino, Cristoforo, in Enciclopedia Dantesca, iii, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1971, ad vocem. Cfr. anche Manfred Lentzen, Studien zur Dante-Exegese Cristoforo Landinos. Mit einem Anhang bisher unveröffentlichter Briefe und Reden, Köln/Wien, Böhlau, 1971. 13 Cfr. Manfred Lentzen, Studien zur Dante-Exegese Cristoforo Landinos. Mit einem Anhang bisher unveröffentlichter Briefe und Reden, cit., p. 34. 14 Cfr. Sandro Botticelli: pittore della «Divina Commedia», 2 voll., Milano, Skira, 2000.
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«i tre filosofi» di giorgione
to dalla lettera, il secondo è quello che si rivela oltre l’interpretazione della lettera. Il primo piano semantico è quello del significato letterale; il secondo piano semantico – quello allegorico in senso lato – comprende tre strati intersecantesi: quello allegorico in senso stretto, quello morale e quello anagogico. Con questa spiegazione programmatica, o autoesegesi, che a partire da un esempio biblico viene a implicare una completa esposizione dei quattro piani semantici del testo, Dante sembra collocare il suo lavoro nell’ambito di quell’esegesi teologica che era sorta a partire dalla questione nodale del rapporto tra valenza storica e valenza cristologico-messianica, tra significato diretto (letterale) e mediato (allegorico) del testo biblico. La spiegazione allegorica del significato storico fonda in effetti una tradizione esegetica che si afferma anche oltre il Medioevo, non senza alcuni esiti stravaganti, fino ad arrivare alla letteratura e all’arte figurativa rinascimentali. Nell’esporre la concezione della Divina Commedia riferendosi esplicitamente a questa tradizione, Dante indica al lettore odierno – non certo a quello del Medioevo – una strada ignota o almeno dimenticata che occorre riscoprire e ripercorrere, anche ai fini di un’interpretazione dell’iconografia giorgionesca. La teoria della polisemicità del testo si fonda sulla convinzione che la rivelazione divina sia interamente contenuta nella Bibbia e che la sua decifrazione sia compito della scienza teologica. L’inizio di tale dottrina è da far risalire a Origene, il quale formula la teoria di una strutturazione del testo in tre piani semantici – diretto (somatico), morale-didattico (psichico) e mistico-spirituale (pneumatico) –, che mette in relazione ai tre elementi dell’uomo (corpo, anima e spirito). Il senso diretto o corporeo si riferisce alla storia, quello psichico alla morale, quello spirituale all’allegoria (o anagogia). Nonostante Origene venga ripetutamente tradotto e ripreso fin nel tardo Medioevo, il modello che si afferma è quello della strutturazione del testo in quattro piani di senso, sostenuta già da sant’Agostino nel suo De utilitate credendi. Agostino distingue tra un piano esegetico storico, uno eziologico, uno analogico e uno allegorico, definendo le quattro tipologie come segue: Dunque, si tramanda secondo la storia quando si insegna ciò che è stato scritto o realizzato; e ciò che non è stato realizzato, ma soltanto scrit-
i. ai raggi x: un caso allegorico
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to, è come se fosse stato realizzato. Si tramanda secondo l’eziologia quando si espone da quale causa una cosa sia stata prodotta o detta; secondo l’analogia quando si dimostra che i due Testamenti, l’Antico e il Nuovo, non sono in contrasto; secondo l’allegoria quando si insegna che, delle cose scritte, alcune non devono essere prese alla lettera, ma vanno intese in modo figurato15.
Si tratta già, non tanto dal punto di vista contenutistico, ma almeno da quello numerico-strutturale, dello schema esegetico fondato su quattro piani di senso che rappresenterà il modello anche per Dante. Contenutisticamente si imporrà lo schema a quattro livelli proposto dal Venerabile Beda, cioè 1) historia (ovvero littera), 2) allegoria, 3) tropologia e 4) anagogia. Nei termini di Isidoro di Siviglia l’historia è il semplice discorso, compreso alla lettera, come esso viene formulato (simplex locutio, quae ut dicitur intelligitur). Ma sul fundamentum historiae si erge la spiritalis intelligentia allegoriae, attraverso la quale si rivela la Scrittura nella sua complessità e profondità, poiché la Scrittura si rapporta alla creazione come una cartina geografica al paesaggio naturale, ovvero deve essere decifrata per essere compresa. Ma il senso spirituale, che deve essere considerato superiore a quello letterale, è come il sole dietro alle nuvole, come il legno sotto la corteccia, il grano tra la pula, la farina nel grano, la noce dentro al gheriglio. Il senso letterale e quello spirituale sono quindi legati come il Vecchio al Nuovo Testamento, vengono cioè a formare un’unità. La lettera cinge lo spirito come l’ombra che occorre penetrare, il velo che è necessario sollevare, essa cela nell’oscurità (obscuritas ) ciò che il lettore vuole portare alla luce, alla claritas. È la prima porta, quella esterna, che occorre attraversare lungo il percorso verso i misteri divini. Non a caso la parete rocciosa posta sulla sinistra di fronte ai tre filosofi di Giorgione è uno spazio oscuro che presenta attributi che rinviano a una realtà ulteriore e diversa rispetto a quella di una semplice grotta. La roccia che Giorgione pone alla sinistra del dipinto rappresenta l’enigmatica obscuritas. Occorre trovare un accesso a que-
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Sant’Agostino, La vera religione, introduzione generale di Antonio Pieretti, Roma, Città Nuova, 1995, p. 179.
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sto spazio sottratto allo sguardo per scoprire e rivelare ciò che esso nasconde. L’aspirazione all’allegoria è una necessità della fede cristiana. Spiritualiter intelligere debemus, richiede il padre della Chiesa Girolamo, perché solamente la comprensione spirituale corrisponde al raggiungimento della verità. La conquista di questo senso “nascosto” (mysticus, occultus), invisibile all’occhio, presuppone una particolare predisposizione interna da parte dell’osservatore, ovvero la dedizione del credente, per il quale il percorso dal sensus historicus al sensus allegoricus, dalla historia all’allegoria diventa un processo di edificazione interiore. Nel sensus tropologicus (o moralis ) è riposto un insegnamento morale il cui ascolto conduce al bonum opus, perfeziona l’uomo e lo avvicina a Cristo, rimanendo pur tuttavia nell’ambito storico-terreno. Perché solamente il sensus anagogicus apre la prospettiva soteriologica, la dimensione celeste. L’anagogia indica la via verso il paradiso eterno, percorsa da Dante nel suo viaggio attraverso i tre regni dell’aldilà e che egli fa ripercorrere anche al lettore per la sua salvezza. L’anagogia conduce quindi oltre l’allegoria e la tropologia, è il culmine della contemplazione e il coronamento di un percorso a tappe verso la perfezione16. Il concetto di contemplazione, che nell’aspirazione alla verità e quindi a Dio conduce alla perfezione, si trova, a guardar bene, a fondamento anche del messaggio pittorico di Giorgione. Nel 1525 Marcantonio Michiel descrive in modo assolutamente calzante il giovane seduto al centro della scena come «sentado che contempla»17. 16 Esempio paradigmatico dell’esegesi medioevale è in tal senso Gerusalemme, che sia nella Bibbia (Ez. 5, 5: «Questa è Gerusalemme. L’ho posta in mezzo alle genti con gli altri paesi tutt’intorno») che, ovviamente, anche in Dante si trova al centro della terra abitata: historice è Gerusalemme il luogo storico in cui si concentra la sostanza degli avvenimenti del Vecchio Testamento; allegorice è la chiesa di Cristo sulla terra; tropologice è ogni anima cristiana, e anagogice è la Città di Dio, la Gerusalemme celeste, la aeterna felicitas beatorum, la città del Paradiso, in cui secondo la Bibbia Dio abiterà tra il suo popolo. 17 «La tela a oglio delli 3 phylosophi nel paese, dui ritti et uno sentado che contempla gli raggii solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco, et finita da Sebastiano Venititano» (Marcantonio Michiel, Notizia d’opere di disegno, a cura di Gustavo Frizzoni, Bologna, Zanichelli, 1884, pp. 164-165).
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E in effetti è proprio su questo punto che occorre insistere per riuscire a penetrare l’oscuro rivestimento dell’allegoresi. Oltre che dall’aspetto semantico, un ruolo decisivo nell’allegoresi è occupato da quello numerico. La ragione evidente è riposta nell’importanza che riveste nella Scrittura la simbologia dei numeri. L’esegeta medioevale che non consideri anche l’elemento numerico avrà un accesso solamente parziale alla Scrittura18. Il numero parla; come la parola, esso indica una realtà oltre se stesso. In esso si concretizza un principio metafisico di ragione la cui conoscenza rappresenta un ausilio nel percorso verso la salvezza. Che la metafisica di questa simbologia numerica di tradizione pitagorica ripresa dai padri della Chiesa fosse particolarmente vitale nel Medioevo è esemplarmente mostrato dal Didascalicon di Ugo di San Vittore, che non a caso si fonda tra l’altro su sant’Agostino. Lo scolastico e mistico Ugo di San Vittore – che eserciterà una diretta influenza su Dante, il quale lo cita espressamente nel Paradiso (xii, 133) –, dimostra nel suo Didascalicon, sulla base del numero tre, le ramificazioni del pensiero esegetico medioevale che una ricerca condotta a fini interpretativi deve seguire. Il numero tre, tra l’altro, è uno degli attributi centrali, in senso filosofico, del quadro di Giorgione, nel quale sono rappresentati appunto tre filosofi, né più né meno19.
18 Questo concetto è già esposto da Agostino nel suo trattato De doctrina christiana, che ha esercitato un influsso fondamentale nell’ermeneutica biblica. Delle regole esposte da Agostino per l’interpretazione testuale fanno parte anche indicazioni a tenere in considerazione la simbologia dei numeri, indicazioni che diventano particolarmente istruttive attraverso una serie di esempi. Il miracolo della creazione – davanti a cui l’uomo è posto – e il mistero della Scrittura – di fronte al quale si trova l’esegeta – sono un miracolo e un mistero dei numeri quale espressione comprensibile di un ordine dato da Dio (Sapienza 11, 20: «ma tu hai disposto ogni cosa con misura, numero e peso». Vulgata: omnia in mensura et numero et pondere disposuisti ). 19 Se il numero tre è espressione in Dante dell’ordine del mondo, ciò si deve soprattutto al ruolo centrale che la teologia trinitaria ha nella Divina Commedia. Ciò vale sia per il numero esplicitamente citato che per l’aspetto strutturale dell’opera, composta appunto da tre cantiche. È evidente che Dante conosceva bene le riflessioni dei teorici dei numeri, che esercitarono lo stesso influsso anche sui filosofi del Rinascimento.
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Con il suo esplicito richiamo alla tradizione esegetica dei quattro piani di senso Dante ne diventa uno dei più grandi testimoni poetici. «Littera gesta docet, quid credas allegoria, / Moralis quid agas, quo tendas anagogia»: i fatti storici si presentano al lettore nel senso letterale, e diventano le figure allegoriche di ciò che insegna la fede; degli esempi da ciò attinti si nutre l’agire morale; la loro interiorizzazione mostra la via verso la futura terra promessa. Questo noto distico di Nicola di Lyra, contemporaneo di Dante e uno dei più importanti esegeti del tardo Medioevo, è al tempo stesso una dichiarazione di fede e un programma ermeneutico i cui riflessi sono rintracciabili anche nella poetica profana coeva. Ciò che è sottratto allo sguardo e all’intelletto umano, ciò che è avvolto, invisibile, nell’obscuritas deve essere cercato e portato alla luce. Nella sua Poetria Nova (ca. 1200) il grammatico inglese Geoffrey de Vinsauf afferma: «Talibus egregium sententia nacta colorem / Non detecta venit, sed se per signa revelat. / Lucet ab obliquo, non vult procedere recte / In lucem». Con esattezza l’immagine di Geoffrey illustra anche la condizione in cui si trova l’osservatore di fronte al quadro di Giorgione. Essendo la Poetria Nova considerata essenzialmente come un’introduzione agli aspetti retorico-stilistici della poesia moderna che ebbe una enorme diffusione attraverso la sua canonizzazione quale opera didattica, è possibile leggere esemplarmente in essa la fortuna del pensiero allegorico anche in ambito profano. Allo spirito di questa tradizione è profondamente legato Dante. Essa è presente ovunque nella sua opera in modo subliminale, anche se egli solo due volte si rivolge nella Commedia (Inf. ix, 61-63; Purg. viii, 19-21) esplicitamente al lettore con l’invito ad essere attento e a sollevare il velo che cela una verità nascosta. Giorgione ripeterà questo invito naturalmente non con le parole, ma tramite rapporti cromatici, ovvero attraverso l’evidente polarità del multicolore gruppo dei tre personaggi da un lato e della scura roccia dall’altro. Qual è il senso di questa polarità? Quale messaggio si cela dietro questo contrasto? Leggere la Divina Commedia esclusivamente nell’ottica rigida dei quattro stadi esegetici di cui si è detto significherebbe certo ri-
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durre eccessivamente e quindi forzare la prospettiva della ricezione dell’opera dantesca. In realtà Dante accenna, nella sua epistola a Cangrande della Scala, a un soggetto “solamente” duplice della sua opera: perciò si deve vedere riguardo al soggetto di quest’opera, secondo che si prende alla lettera; quindi, secondo che s’interpreta allegoricamente. Il soggetto di tutta l’opera dunque, presa solo letteralmente, è lo stato delle anime dopo la morte inteso genericamente; infatti su esso e intorno a esso si svolge il procedimento di tutta l’opera. Se poi l’opera si prende allegoricamente, il soggetto è l’uomo secondo che meritando o demeritando per la libertà d’arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo20.
Una dimensione duplice del senso dell’opera si pone nella tradizione dell’esegesi biblica che abbiamo sopra riassunto, e può addirittura richiamarsi all’autorità di Tommaso d’Aquino, il quale nella sua Summa Theologica (I, 1, 10) traccia il rapporto tra il senso letterale (sensus historicus vel litteralis) e quello spirituale (sensus spiritualis) della Scrittura – sebbene quest’ultimo venga differenziato, secondo la problematica, in sensus allegoricus, sensus moralis e sensus anagogicus, in totale accordo con la tradizione. Una ripresa delle posizioni dell’aquinate da parte di Dante, anche alla luce della vicinanza tra i due, appare quindi, in un primo momento, ipotizzabile21. 20
Si cita dalla traduzione di Angelo Jacomuzzi, in Dante Alighieri, Opere minori, ii, Torino, Utet, 1986, p. 447. 21 Una duplice dimensione semantica – letterale e allegorica – è nota comunque anche all’ermeneutica della letteratura profana, le cui radici affondano in un’epoca addirittura precedente all’esegesi biblica. Si tratta di una tradizione nota a Dante nelle sue linee generali e per questa ragione ci sembra necessario considerarne gli aspetti fondamentali. Essa ha le sue origini nell’allegoresi omerica, ovvero nel tentativo di leggere la ricezione del mito in un’ottica filosofica. La filosofia cerca di rinvenire nell’epica omerica il sapere a cui essa è progressivamente giunta. In questo senso Anassagora legge i poemi omerici come riflesso di virtù e rettitudine (allegoresi etica), così come nelle fatiche di Ercole è raffigurata simbolicamente la lotta del bene contro il male. Ma anche l’Eneide virgiliana, che avrebbe avuto un’importanza centrale per Dante, viene presto sottoposta a un’interpretazione allegorica – in modo tanto coerente quanto singolare – nella Expositio Virgilianae continentiae secundum philosophos moralis di Fabio Planciade Fulgenzio. Nel-
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Sebbene la sostanza della Divina Commedia sia cristiano-dogmatica – non a caso per il Boccaccio ammiratore di Dante la letteratura diventa, sotto questo aspetto, teologia, e lo stesso Dante viene chiamato dal suo contemporaneo Giovanni del Virgilio «Theologus Dante» –, essa non può ovviamente essere messa sullo stesso piano della Bibbia. Anche se la Commedia, come la Bibbia, persegue il fine di condurre il lettore alla fede, nondimeno resta letteratura profana. E gli scrittori laici, come dice lo stesso Dante, utilizzano l’allegoria diversamente dai “teologi”. Indizi importanti della fusione di esegesi biblica e profana, che dobbiamo presumere alla base della Divina Commedia, sono forniti dal Convivio, in cui Dante, già all’inizio, (II, 1) afferma «che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi»22. Al la sua opera egli stabilisce un parallelismo tra la trama dell’Eneide e la vita umana attraverso interpretazioni che, grazie anche a una certa bizzarria, sono diventate molto famose: la tempesta del primo libro simboleggerebbe le tempeste della vita, il naufragio di Enea corrisponderebbe alla nascita dell’uomo. Il secondo e il terzo libro rappresenterebbero quindi la fase dell’infanzia, che termina con la morte di Anchise e che prepara Enea, divenuto indipendente, all’amore (episodio di Didone). Nel sesto libro il protagonista – continua Fulgenzio – raggiunge il grado della saggezza; la discesa nell’Ade (dove Caronte simbolizza il tempo e Cerbero le lotte che lacerano l’uomo) raffigura il viaggio dello spirito umano alla ricerca della verità filosofica. Sebbene l’interpretazione allegorica di Fulgenzio possa apparire piuttosto astrusa in alcuni punti, essa è però la prima esegesi completa del suo genere scritta da una penna cristiana, e ha avuto fino al Rinascimento il valore di modello, come testimoniano, tra gli altri, il monaco e cronista Sigeberto di Gembloux e lo scolastico Giovanni di Salisbury. Ciò che differenzia questa allegoresi profana dall’esegesi biblica è in primo luogo l’oggetto e in secondo luogo la limitazione metodica a due soli piani semantici: la trama dell’Eneide come specchio della natura della vita umana. 22 Egli scrive inoltre: «L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramenti li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poe-
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termine della sua esposizione metodica nel Convivio Dante riassume: «Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà». Non può essere descritto in termini più chiari il percorso all’interno dell’obscuritas, che assume nel quadro di Giorgione un ruolo semantico decisivo. Si tratta di svelare ciò che è celato, per il lettore della Divina Commedia come per chi osservi I tre filosofi. Dante sposta chiaramente l’uso dell’allegoria da un piano specifico di esegesi biblica verso una prospettiva generale che include anche la letteratura profana. È significativo il fatto che egli parli di scripturae, ovvero di letteratura in generale, e non specificamente della Sacra Scrittura. La fondamentale differenza tra il biblico factum, la verità della salvezza, e la fictio poetica, la «bella menzogna», viene cancellata in quest’ottica: il piano del biblico sensus litteralis viene fatto corrispondere a quello della finzione poetica e quindi entrambi appaiono come portatori di una verità superiore, che il lettore deve cercare e portare alla luce. Per quanto tali riflessioni si riferiscano al Convivio e non alla Divina Commedia, è importante sottolineare come la fusione di allegoria teologica e poetica, della fictio artistica e del factum storico, sia qui presente a un elevato livello di coscienza, che può essere riscontrato in identica misura anche nell’opera maggiore di Dante. In un’epoca in cui, analogati seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secrete cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria: sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate» (Dante Alighieri, Il convivio, in Opere minori, cit., ii, pp. 103 sgg.).
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mente all’interpretazione cristiana del Vecchio Testamento, i classici greci e latini vengono moralizzati secondo il metodo dell’esegesi biblica – si pensi solamente a Fulgenzio –, anche Dante elabora il proprio metodo allegorico, un metodo che non è certo contraddittorio, come è stato affermato, bensì rappresenta l’esito di una lucida sintesi di due linee culturali. Che esso venga ripreso non solo dalla letteratura, ma anche dall’arte figurativa rinascimentale, rivela l’ampia portata di una tradizione che affonda le sue radici nel pensiero medievale. Con il suo procedimento allegorico Dante non crea qualcosa di radicalmente nuovo per il suo tempo, ma cerca di chiarire al lettore e interprete della sua opera alcune questioni che già aveva sollevato l’esegesi biblica. Nel Monarchia (iii, 4, 7-8) Dante fa notare che per quanto riguarda la definizione del senso allegorico (sensus mysticus) è possibile incorrere in due errori, errori che anche il lettore e l’interprete della Divina Commedia devono cercare di evitare: «si può sbagliare in due modi: o cercando il senso mistico dove non c’è, o intendendolo in modo diverso da quello che si dovrebbe»23 (aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat ). Per esemplificare queste due tipologie fondamentali di errore Dante ricorre a due raccomandazioni di Agostino24. In so23
Citiamo dalla traduzione in Dante Alighieri, Tutte le opere, a cura di Luigi Blasucci, Firenze, Sansoni, 1965, p. 297. 24 Una è tratta dalla Civitate Dei e dice: «Non bisogna credere che tutti gli avvenimenti che vengono narrati abbiano anche un significato recondito, ma per quelli che lo hanno effettivamente, se ne dà uno anche a quelli che non lo hanno; la terra viene solcata solo dal vomere, ma perché questo possa avvenire, son necessarie anche le altre parti dell’aratro (Non omnia que gesta narrantur etiam significare aliquid putanda sunt, sed propter illa que aliquid significant etiam ea que nichil significant actexuntur. Solo vomere terra proscinditur; sed ut hoc fieri possit, etiam cetera aratri membra sunt necessaria)». L’altra è tratta invece dalla Doctrina christiana e si riferisce all’abitudine di dare a uno scritto (in questo caso la Bibbia) un significato diverso da quello voluto dallo scrittore: «si sbaglia allo stesso modo di uno che lasciando la via maestra, giungesse poi, dopo un giro, al punto stesso dove quella via l’avrebbe condotto [...]. Bisogna mostrare questo errore, affinché con l’abituarsi ad uscir di strada, non si sia poi costretti a prender senza scampo vie traverse e sbagliate (ita fallitur ac si quisquam deserens viam eo tamen per girum pergeret quo via illa perducit; et subdit [...]. Demonstrandum est ut consuetudine deviandi etiam in transversum aut perversum ire cogatur)» (ibidem).
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stanza si tratta del pericolo di inutili deviazioni dalla via maestra, in particolare nel senso di un’eccessiva attenzione interpretativa ai dettagli, eccesso dal quale, tra l’altro, mette già in guardia Origene. Ma già la ricerca in sé, lo sforzo di interpretare il testo, può rappresentare per il credente il senso stesso del suo impegno, oltre a rivelare contemporaneamente la ricchezza del testo. Ciò vale anche per le immense ricerche, più o meno divergenti, dedicate al quadro di Giorgione. L’esegesi biblica ci indica anche un altro dato, e cioè che esistono diverse e contrastanti soluzioni interpretative che non necessariamente si escludono. Allo spirito individuale dell’esegeta resta quindi uno spazio libero, in quanto multiplex intelligentia est. La ricchezza del testo permette una quantità non minore di interpretazioni. Se nell’ambito dell’esegesi biblica deve essere fissato in modo inequivocabile il senso letterale, alla molteplicità del sensus allegoricus vengono concesse, senza pretesa di univocità, molteplici soluzioni. Chi potrebbe sviscerare la Bibbia in tutte le sue possibilità semantiche? Implicitamente anche Dante considera una tale eventualitàper la Divina Commedia che, nonostante una tradizione esegetica secolare, si presenta tuttora a tratti oscura come la Bibbia stessa. Il principio della enigmatica obscuritas sembra ancora oggi in molti casi avere la meglio. Decisivo per l’interpretazione dei singoli passi resta il contesto generale, con un prima e un dopo, dal quale sarebbe errato estrapolare singoli momenti o aspetti. Già i padri della chiesa sottolineano la rilevanza del contesto per l’ermeneutica biblica. Un approccio che si limiti alla semplice lettura delle parole “morte” appare per l’esegesi biblica errato al pari della posizione del lettore che si perda in spericolati lambiccamenti spirituali. Analogamente Dante richiede un lettore e interprete che affronti la ricerca del significato in modo attento e oculato. Egli lo definisce – e più avanti ne vedremo le ragioni – ’ntelletto sano : le difficoltà di comprensione dipendono dalla peculiarità del testo. Ciò vale anche, e forse in misura ancora maggiore, per l’opera d’arte figurativa, di fronte alla quale il fruitore si trova senza accompagnamento testuale. Tale mancanza è all’origine, come nel caso dei Tre filosofi, di molteplici e anche contrastanti interpretazioni che non lasciano trapelare il concreto messaggio dell’opera.
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L’insolito dibattito che si è sviluppato attorno ai Tre filosofi è dovuto soprattutto al fatto che sono stati spesso ignorati quegli scritti esegetici e filosofici il cui impianto teorico è posto da Giorgione, come può evidenziare un’analisi comparata, a fondamento e cornice del suo dipinto. Tale analisi sarà oggetto dei prossimi capitoli, che ci condurranno al centro del quadro e del suo messaggio, ovvero alle fonti testuali del “volto” che Giorgione pone come fondamentale punto di riferimento della sua scena iconografica.
II.
L’enigma: tra selva e monti
Il dipinto I tre filosofi è considerato ancora oggi un enigma. La ricerca tanto intensa quanto infruttuosa di una soluzione che possa essere comunemente accettata ha portato a parlare del quadro in termini di eccezionalità. Per Oswald Goetz si tratta del «dipinto sicuramente più misterioso del Rinascimento»1, Gérard-Georges Lemaire lo definisce «il quadro più enigmatico del Rinascimento veneziano»2. Affermando «its subject matter is, however, an enigma», Oliver Logan non fa che ribadire il nucleo del problema3. Considerazioni di questo genere potrebbero essere moltiplicate all’infinito. Gli esegeti del quadro si muovono direttamente o indirettamente, in termini soggettivi o oggettivi, tra giudizi che basandosi su prove insufficienti continuano fondamentalmente a lasciare dubbi. Tali prove potrebbero invece essere fornite da una relazione dimostrabile tra fonti scritte e iconografia, relazione che occupa un
1 Oswald Goetz, Der Feigenbaum in der religiösen Kunst des Abendlandes, Berlin, Mann, 1965, p. 101. 2 Cfr. Gérard-Georges Lemaire, Orientalismus. Das Bild des Morgenlandes in der Malerei, Köln, Könemann, 2000, p. 24: «Alcuni vi hanno letto la rappresentazione delle tre età dell’uomo, altri le tre religioni e altri i tre profeti delle religioni monoteistiche. Non esistendo praticamente fonti documentarie nessuno è veramente in grado di risolvere il mistero, considerato anche il fatto che il dipinto è stato probabilmente terminato da Sebastiano del Piombo e non da Giorgione». 3 Oliver Logan, Culture and Society in Venice 1470-1790. The Renaissance and its Heritage, London, B.T. Batsford, 1972, p. 79.
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ruolo centrale nel dibattito rinascimentale sul concetto oraziano dell’ut pictura poësis. Il legame che si stabilisce nel Medioevo tra pittura e poesia, che in modalità sempre più varie si dedicano alla rilettura di episodi biblici e concezioni teologiche, si fonda, come testimoniano ad esempio le immagini sacre, su fonti chiare. È appunto la chiarezza di tali fonti a conferire alle opere d’arte in questione un’unitarietà semantica che, seppur ovviamente arricchita dalla creatività artistica, fondamentalmente non costituisce un enigma. Il fatto che Giorgione volti decisamente le spalle a questa tradizione è stato a ragione ribadito dallo storico dell’arte Herbert von Einem, il quale afferma che l’enigmaticità, il mistero che contraddistingue la sua opera ha continuamente spinto a raffinati ed eruditi tentativi di decifrazione. Ma per quanti dubbi l’opera possa aver sollevato fino ad oggi, possiamo avvicinarci al suo mistero solamente se consideriamo il fatto che l’artista non si limita a rendere il semplice contenuto di un poema o di una leggenda, di concezioni mistiche o religiose, ma che egli stesso – strettamente legato alle fonti di queste concezioni – opera da poeta. I suoi quadri non presentano più nulla di illustrativo, ma hanno in loro stessi, in quanto composizioni visive con una propria legge, il loro significato. In un certo senso sono “fantasie a suo modo”, come quelle che il suo grande predecessore e maestro Giovanni Bellini aveva richiesto quale suo diritto alla committente Isabella d’Este4.
La cornice concettuale in cui Giorgione inserisce il mondo figurativo del suo dipinto, poggia – come quella del suo maestro Giovanni Bellini nella Allegoria sacra – su una documentabile fonte letteraria. Nel quadro di Bellini la figura con il turbante che sulla sinistra sta uscendo di scena appare come il polo opposto dell’eremita che sta scendendo le scale a destra. Le fonti testuali di tale contrasto sono fornite dalle Vite dei Santi Padri, ovvero la volgarizzazione delle Vitae patrum ad opera di Domenico Cavalca pubblicata in ripetute edizioni a Venezia alla fine del Quattrocento. Il
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Herbert von Einem, Giorgione der Maler als Dichter, in «Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 1972, Mainz/Wiesbaden, pp. 5-29: 6.
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trionfo dei cristiani sui pagani, descritto dal capitolo De’ filosofi, i quali [S. Antonio, un uomo senza lettera !] convinse, rispecchia la vittoria della fede (Devota fede) sulla filosofia (vana scienzia)5. La composizione iconografica di Giorgione non si richiama, a differenza di quella di Bellini, alle Vite dei Santi Padri del Cavalca, bensì alla Divina Commedia. Il messaggio nascosto del dipinto giorgionesco si discosta volutamente, in senso contenutistico, da quello di Bellini, ma non da quello di Dante, a proposito del quale Antonino Pagliaro afferma «che il punto cruciale, su cui gravita la rappresentazione nel proemio del poema, è il passaggio dalla selva selvaggia alle pendici del colle dilettoso. Tale trapasso si illumina nel quadro dell’allegoria, la quale partecipa ad ogni grado della rappresentazione formale, come passaggio dalla vita attiva non illuminata dalla ragione, e perciò vegetativa e peccaminosa, alla vita contemplativa, illuminata dal pensiero di Dio»6. Il processo gnoseologico che Giorgione pone concettualmente tra i poli selva e monte non è però più limitato, come accade in Dante, a un ambito esclusivamente religioso-morale. Egli introduce invece una ulteriore dimensione scientifico-cosmologica di impronta platonica. Un Giorgione “poeta”, quindi, come afferma von Einem? La dimensione enigmatica che l’autore dei Tre filosofi conferisce alla sua opera non è il prodotto di una vivida fantasia che rielaborando arditamente ricordi casuali, concetti individuali ed esperienze soggettive crea qualcosa di estremamente e misteriosamente nuovo: il mistero che l’opera di Giorgione propone all’osservatore è invece piuttosto conseguenza e fine dell’allegoresi a cui egli, sulle orme dantesche, fa ricorso. In effetti, come è dimostrabile anche in relazione al contenuto, è proprio il procedimento allegorico del poeta della Divina Commedia a informare il metodo compositivo giorgionesco. Quando Jacob Burckhardt nelle sue Considerazioni sulla storia universale scrive che «ognuno deve rileggere libri mille volte sfrut5
Cfr. Willi Hirdt, Giovanni Bellinis «Allegoria sacra», Tübingen, Stauffenburg Verlag, 2001 e Id., Il trionfo del dubbio ovvero nel labirinto della critica d’arte, in «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti», clvii, 1998-1999, pp. 449-576. 6 Antonino Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla «Divina Commedia», 2 voll., Messina/Firenze, G. D’Anna, 1967, i, p. 23.
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tati, perché essi mostrano a ogni lettore e a ogni secolo, e anche a ogni età dell’individuo un volto particolare»7, egli rileva una “inesauribilità delle fonti” che trae origine più dalla transitoria storicità del soggetto osservante che dal carattere misterioso dell’oggetto osservato. Nulla potrebbe sorreggere più solidamente questa tesi della complessa e secolare storia dell’esegesi dantesca. Anche perché proprio nel caso della Divina Commedia abbiamo a che fare con una sorta di mistero intrinseco all’oggetto stesso, e che rappresenta per il lettore un ostacolo particolare. Si tratta della dimensione allegorica, la cui penetrazione è presupposto fondamentale per un’adeguata comprensione dell’opera. Il tipo di allegoria che incontriamo nel capolavoro dantesco non ha niente a che vedere con una semplice figura simbolica poetica o figurativa, né con la raffigurazione concreta – in genere in forma di personificazione (ad esempio, l’anziano per la vecchiaia) – di una concezione astratta o di una riflessione razionale, in cui, come afferma Goethe, «il poeta cerca il particolare nel generale». Allegoria è qui in primo luogo la creazione cosciente e volontaria di un ulteriore piano semantico che si sviluppa oltre il senso letterale. Erich Auerbach riassume esemplarmente i termini della questione e aiuta a capire quale potesse essere l’importanza dell’esperienza dantesca per Giorgione e i suoi contemporanei: La Commedia insegna l’unità del mondo fisico, morale e storico nello spirito dell’amore divino; ma l’insegnamento non è impartito con oggettiva generalità come nel poema didascalico, bensì sotto forma di esperienza o visione di un uomo determinato, Dante, nel suo determinato momento storico; la sua generalità è l’onnitemporalità cristiana dell’ora e del qui; e l’ora e il qui, la più attuale storicità interiore, è contenuta anche nell’aldilà [...]. Il poema di Dante è un’opera d’arte, ma nello stesso tempo è una rivelazione; al poeta, che è anche il viaggiatore che visita i tre regni, l’amore divino, nato in lui dall’amore terreno, manda nel momento dell’estrema necessità la visione che lo salva. Questa sostanza personalissi-
7 Jacob Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen, Stuttgart, Spemann, 1905 (si cita dalla traduzione di Maria Teresa Mandalari, in Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale, Milano, Se, 1990, p. 29).
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ma e insieme universalissima, nel suo aspetto personale, distingue la Commedia da tutta la poesia epica precedente e crea un nuovo rapporto tanto con l’oggetto quanto col lettore8.
La strada che guida l’interprete verso la sostanza narrativa conduce, attraverso gli esegeti Boccaccio e Landino, a una Divina Commedia la cui concezione allegorica si trova a fondamento del pensiero e dell’iconografia giorgionesca e permette di svelare il mistero che si trova racchiuso nel mondo visivo del dipinto. Lo scenario naturale su cui si svolge lo spettacolo allestito da Giorgione è rappresentato a destra da una selva scura e a sinistra da un promontorio roccioso illuminato in alto dalla luce del sole («gli raggii solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente», nelle parole del Michiel). Alla sinistra del gruppo di persone, fortemente caratterizzato coloristicamente, si trova una roccia illuminata in alto, il cui evidente ermetismo complica decisamente l’operazione ermeneutica. La profonda oscurità in cui Giorgione immerge la roccia lo rende già per Marcantonio Michiel, come abbiamo visto, un «saxo finto cusì mirabilmente». L’ammirazione del giovane contemporaneo per questa raffigurazione non è assolutamente casuale, come vedremo. Essa è suscitata dal tentativo – prima di Giorgione ancora ignoto alla pittura – di utilizzare iconograficamente il principio letterario della obscuritas. Si tratta, al di là dei confini estetico-stilistici, di un poetare “oscuro”, che a partire dal trobar clus della poesia provenzale, attraverso l’oscurità del dolce stil novo giunge fino all’autore della Divina Commedia. Nel senso più lato Dante traccia la polarità di selva selvaggia e luminoso colle nel convenzionale contrasto coloristico nero/bianco (ovvero chiaro/scuro). Bianco (chiaro) è il colore della luce e della purezza, dell’innocenza e della bellezza, del sublime, del divino e della salvezza; nero (scuro) è il colore delle tenebre e della colpa, dell’illecito e del male, del brutto e dell’abietto, del diabolico e della dannazione. La luce è per Dante, conformemente alla cosmogo8 Erich Auerbach, Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern, Francke, 1958 (si cita dalla traduzione di Fausto Codino, in Erich Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 212-213).
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nia biblica, l’elemento primario connesso alle origini della vita e in questo senso diventa, in particolare nell’immagine del sole, simbolo di Dio. Luce e oscurità definiscono opposti ambiti di valore, il cui rapporto conflittuale viene suggerito già dal prologo dell’Inferno, quando ai piedi del colle il futuro visitatore dell’aldilà guardando verso l’alto scorge le spalle del monte vestite dei raggi del pianeta – il sole –, «che mena dritto altrui per ogni calle» (Inf. i, 18). Qui viene in nuce indicato il cammino che porterà Dante dalle profondità delle tenebre infernali alle altezze dorate dell’Empireo, luogo della luce e dell’amore. Si tratta del cammino che conduce, nelle parole di Romano Guardini, dall’«unheimliches Un-Licht» (inquietante non-luce) dell’Inferno al «geistiges Licht» (luce spirituale) del Paradiso9. È il cammino che Ulrich Leo interpreta come processo dalla vista fisica dell’oggetto alla contemplazione spirituale del divino10. Al contrario è il nero, nelle sue diverse varianti (bruno, oscuro, buio), il colore fondamentale dell’Inferno, conseguenza ed espressione della mancanza di luce, causata dall’assenza del sole e delle stelle. Con il loro arrivo nell’Antipurgatorio Virgilio e Dante escono da quella notte che, come la definisce Catone, «sempre nera fa la valle inferna» (Purg. i, 45). In effetti il viaggio di Dante dalla «selva oscura» dell’inizio al cerchio di Giuda, ovvero il luogo più distante dal cielo («Quell’è ’l piú basso loco e ’l piú oscuro»: Inf. ix, 28) avviene nel segno dell’oscurità. Scura è l’aria che circonda Dante nel momento in cui, mentre sta calando la sera, inizia il viaggio («l’aere bruno»), nera è la tempesta dell’Inferno che trasporta in eterno i lussuriosi nel secondo cerchio («l’aura nera»: Inf. v, 51). Nere sono le acque dell’Acheronte («l’onda bruna»: Inf. iii, 118), attraverso le quali Caronte conduce i due viandanti alla riva dell’Inferno, e buie – ovvero di un colore non meglio identificabile – quelle del paludoso Stige («L’acqua era
9 Romano Guardini, Das Licht bei Dante, in «Münchener Universitätsreden», 16, 1956, p. 11. 10 Ulrich Leo, Sehen und Schauen bei Dante. Eine Stil-Untersuchung (Auf Grund eines Vortrages), in «Deutsches Dante-Jahrbuch», xi, 1929, pp. 183-221.
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buia assai più che persa»: Inf. vii, 103), in cui vengono puniti gli iracondi. Il personaggio Dante definisce la realtà che si trova a esperire negli stessi termini di ammirazione espressa dal Michiel di fronte alla scena dei Tre filosofi («quel saxo finto così mirabilmente»): «mirabilmente oscura» (Inf. xxi, 6) si presenta infatti agli occhi di Dante la quinta bolgia dell’ottavo cerchio, in cui i barattieri scontano la loro pena immersi nella pece bollente, e scura e nebbiosa appare al viandante, nel cammino verso il mondo senza luce (il «cieco mondo»: Inf. iv, 13), la «valle d’abisso dolorosa» (Inf. iv, 8): Oscura e profonda era e nebulosa tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa. (Inf. iv, 10-12)
Già qui si manifesta la necessità di quel gesto che caratterizza il percorso di Dante attraverso l’Inferno, ovvero il tentativo di penetrare con lo sguardo la profonda oscurità imperante. «La buia campagna» (Inf. iii, 130) è l’Antinferno, che si estende senza sole e senza stelle fino all’Acheronte, e con l’aggettivo buio – «sí buia contrada» (Inf. viii, 93), «la valle buia» (Inf. xii, 86), «luoghi bui» (Inf. xvi, 82; xxiv, 141) – Dante definisce anche coerentemente l’Inferno in generale, mostrandone il colore fondamentale: il nero. Analogamente al difficile compito di rappresentare gli sfolgoranti spazi del Paradiso in varianti continuamente nuove del bianco, Dante è impegnato nell’Inferno a rendere un’immagine ben definita coloristicamente che si sviluppi dalle diverse sfumature dell’oscurità. È il cammino all’interno dell’allegoresi che deve essere percorso per comprendere il messaggio di Dante. Tale allegoresi implica uno dei due binari interpretativi che presenta anche il percorso di Giorgione tra il bosco scuro e il saxo finto cusì mirabilmente: quello biblico-teologico. Il velo iconografico-concettuale che l’autore della Divina Commedia dispiega sugli avvenimenti descritti è teso, già nel proemio (Inf. i, 1-18), tra una selva oscura e un colle illuminato dal sole:
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«i tre filosofi» di giorgione Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ah quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinnova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’io vi trovai, dirò de l’altre cose ch’io v’ho scorte. Io non so ben ridir com’io v’entrai, tant’era pieno di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle che m’avea di paura il cor compunto, guardai in alto, e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle.
La collocazione degli avvenimenti in una «selva oscura» rimanda con una certa evidenza semantica a una dimensione oltre il significato strettamente letterale (storico) di indicazione geografica e suggerisce una molteplicità di riferimenti e relazioni. Tra le possibili reminiscenze letterarie appare naturale pensare all’Eneide virgiliana, in cui si parla del bosco come luogo in cui si trovano le fiere selvagge (Eneide vi, 7, 179). Quando Dante, in relazione alla sua suddivisione della vita in quattro età (Conv. iv, 24), dice dell’adolescente che egli entra «ne la selva erronea di questa vita» – intendendo qui in senso lato l’assenza di ragione e il traviamento di una fase della vita in cui il corpo e gli istinti hanno un’importanza primaria –, mette in relazione metaforicamente la selva erronea con una categoria morale con la quale, concordemente alla tradizione esegetica più autorevole, è possibile individuare il significato traslato della selva oscura: essa simbolizza uno stadio distante dalla luce della ragione dominatrice degli istinti (la luce del colle, che Dante vede poco dopo, è il simbolo della felicità terrena opposta all’oscurità della selva). La sensazione di smarrimento nella selva oscura può essere interpretata soggettivamente (autobiograficamente) in relazione a Dante, il quale si trova in uno stato di travia-
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mento morale-intellettuale (senza temperanza, fortezza, cortesia, amore e lealtà, che rappresentano le virtù dell’età matura), oppure oggettivamente (in senso politico-religioso), riferendo tale situazione ai rapporti tra impero e Chiesa, la cui decadenza e corruzione vengono in tal modo condannate metaforicamente; oppure le due cose assieme. In ogni caso l’interpretazione morale dell’immagine della selva oscura, avallata anche dalla diritta via del verso seguente, non può essere reclamata univocamente – senza timore di contraddizioni – dall’una o dall’altra opzione. Con particolare evidenza emerge il passo dantesco che Giorgione sembra far proprio nello sguardo del giovane seduto diretto verso la roccia illuminata: «guardai in alto, e vidi le sue spalle [quelle del colle] vestite già de’ raggi del pianeta». Il sentiero cui Dante fa riferimento nel v. 12 (verace via), è quello che conduce alla salvezza e che è necessario seguire. Nel Convivio (iv, 12) Dante espone la sua concezione dell’uomo che nella vita può percorrere differenti cammini: quelli che lo conducono direttamente alla meta e al meritato riposo (cammino veracissimo), oppure quelli che non lo porteranno mai alla meta (cammino fallacissimo). Il cammino veracissimo è la strada che conduce a Dio come vera luce e assoluta verità. Beatrice ritornerà poi (Purg. xxx, 130) sullo smarrimento intellettuale e morale di Dante, quando dirà che egli «volse i passi suoi per via non vera». Il cammino veracissimo conduce al colle, al «dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia» e quindi, già secondo la prima tradizione esegetica, da intendersi allegoricamente. Numerose sono le interpretazioni proposte (pur restando fermo il voluto contrasto tra il colle pittoricamente illuminato e l’oscurità della selva): vita virtuosa, vera conoscenza, contemplazione dei misteri divini, beatitudine terrena nel segno della grazia, armonica unione di vita activa e vita contemplativa nonché – meno probabile – il monte del Purgatorio (il v. 16, «guardai in alto», sembra richiamare il Salmo 121, 1: «Alzo gli occhi verso i monti»). Il passo (v. 26) che collega la selva oscura al dilettoso monte corrisponde, concretamente, al bosco da attraversare, e allegoricamente a uno stadio del proprio traviamento. Sul piano strettamente letterale il prologo della Divina Commedia presenta un’esperienza personale dell’autore che è possibile
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suddividere in tre tappe. Dante si è perduto in un bosco oscuro; non riesce a ritrovare la strada. Dopo aver attraversato una valle giunge ai piedi di una collina, la cui cima è già illuminata dalla luce del sole mattutino. Rinfrancatosi, continua esitante il cammino dopo un breve riposo. Ma improvvisamente ai piedi del colle una pantera gli sbarra la strada. A questa si aggiungono poi un leone affamato e infine una lupa spaventosa nella sua magrezza, che lo respinge verso la valle. In questo momento a Dante appare Virgilio, il quale gli spiega la terribile natura delle bestie, profetizza l’arrivo di un salvatore per l’Italia e lo invita al viaggio nell’aldilà, un viaggio in cui dapprima sarà accompagnato da Virgilio e successivamente, nel regno dei beati, da un’anima degna. Il viandante si dichiara pronto; Virgilio parte e Dante lo segue. La forza poetica del canto iniziale della Commedia è data sostanzialmente dall’evocazione di un’atmosfera onirica che si sviluppa coerentemente dallo stato di apparente sonno del protagonista. Un contributo decisivo alla creazione di tale atmosfera è dato dalle angosciose sensazioni di inquietudine tipiche dell’incubo: l’oscurità del bosco, la sensazione di smarrimento in una landa desolata, la paura crescente, l’apparizione inattesa e inspiegabile delle tre fiere, e quella altrettanto inspiegabile di una figura muta, la pena fino alla disperazione che si manifesta nel grido: «Miserere di me». L’illustrazione di Sandro Botticelli per il canto iniziale della Divina Commedia, che raffigura il cammino e le reazioni del pellegrino in quattro tappe, dalla figura meditante e assorta fino a quella impaurita che fugge, rappresenta in modo esemplare e pregnante tale sensazione di angoscia crescente. È l’Anonimo che fornisce a Botticelli il modello della sua raffigurazione per illustrare il passo del pellegrino dalla selva al colle con i relativi incontri minacciosi, introducendo nella scena in modo evidente la sua dimensione allegorica (ill. 2). Mentre Giorgione inserisce nei suoi Tre filosofi la polarità dantesca di selva oscura e colle (monte) quali elementi centrali della composizione, egli rinuncia però, a differenza di Botticelli, alla raffigurazione narrativo-teatrale della scena. Già qui si palesa una fondamentale differenza tra l’ottica concettuale del poeta della Divina Commedia e quella del pittore dei Tre filosofi. Secondo la concezio-
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ne medioevale, di cui Dante si fa portatore, la filosofia è solamente l’ancella della teologia, che sola permette di oltrepassare l’ambito della ragione umana e del sapere pratico e di giungere ai misteri della verità divina. Nell’opera di Giorgione – alle soglie dell’età moderna – i rapporti sono mutati: la scienza perde lo status di servitù secolare e viene ad allinearsi al piano della teologia. Il cammino della conoscenza si complica e accanto a Dante compaiono le figure di Marsilio Ficino e Cristoforo Landino. Sul piano allegorico il secondo canto può essere considerato la prosecuzione – di segno opposto – del primo. In luogo delle tre fiere selvagge che bloccano il cammino al viandante troviamo le tre donne (la Vergine Maria, Lucia e Beatrice) che attraverso Virgilio gli mostrano un altro cammino per arrivare alla salvezza. Essa non è effetto di un moto libero e spontaneo della volontà, né di una momentanea illuminazione della ragione, ma di un lungo e difficile percorso della conoscenza attraverso il dolore e il peccato e di un atto di grazia che giunge dalle altezze di una luce superiore a quella della ragione umana. D’altra parte il faticoso cammino verso il colle è imprescindibile. La luce si trova sulla cima del colle e non altrove. Se il secondo canto si apre con l’immagine del tramonto e del ritorno dell’oscurità (l’aere bruno) ciò non è che il riflesso dei nuovi dubbi e del perdurare della distanza da Dio. Per poterla colmare occorre la luce della grazia. Solo questa può liberare dalla minaccia delle tre fiere. Dante, come diventa manifesto nel «prologo in cielo» del secondo canto dell’Inferno, concorda completamente con la convinzione fondamentale dell’Aquinate, che la natura può raggiungere la perfezione solo attraverso la grazia (gratia perficit naturam). L’intervento delle tre donne benedette è espressione del concetto di grazia come elevazione e forza sovrannaturale, che sola può muovere l’uomo verso il suo fine trascendente. L’apparizione di Virgilio, come attesta chiaramente Inf. ii, è atto della grazia; la natura non permette all’uomo, che non è essere puramente spirituale, di conoscere la pura spiritualità: egli ha bisogno di un aiuto. Per guidare l’uomo alla vita eterna Dio ricorre, secondo la teologia scolastica, agli angeli. La visione dantesca del mondo assume contorni sempre più chiari e definiti. Uno sguardo alle interpretazioni della polarità dantesca selva-
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colle fornite nel Trecento da Giovanni Boccaccio e nel Quattrocento da Cristoforo Landino ne rivela le valenze evidenziando al tempo stesso il passo compiuto da Landino, contemporaneo di Giorgione, oltre l’esegesi scolasticamente orientata di Boccaccio. Citando Isaia, Boccaccio lamenta l’«ignoranza» quale ingiusto ostacolo alla possibilità di conoscere e quindi di volgersi liberamente a Dio. Riferendosi quindi agli attributi selvaggio, aspro e forte, interpreta la selva, nelle sue Esposizioni sopra la Comedia, quale dimora diabolica di quei peccati che causano la sua oscurità: La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello ch’egli intendesse per quella selva oscura e malagevole, nella quale dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso comprendere, lo ’nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella quale ciascun peccatore cade ed entra, sì tosto come cade in peccato mortale. E che ella sia lo ’nferno la discrizion di quella il dimostra assai chiaro, in quanto dice che ella era “oscura”, cioè piena d’ignoranza – il che assai chiaro ne mostra Isaia, quando dice: «Erravimus a via veritatis, et sol iustitie non illuxit nobis», – considerata la qualità di coloro che in essa dimorano: però che, se in loro fosse alcuna luce di sapienza, non è alcun dubbio che non cercasson tantosto d’uscirne. E chi è più ignorante che colui il quale, potendo schifare il fare contro a’ comandamenti del suo Creatore, che può ciascun che vuole, si lascia tirare alle lusinghe della carne e del mondo e alle fallacie del dimonio? O che pure, veggendosi per la nostra fragilità tirato, non si sforza, avendo la via, d’uscirne, ma aggiugnendo l’una colpa sopra l’altra, più se medesimo inviluppa e fa col continovo peccare più tenebroso il suo intelletto e più forti le catene del suo avversario? Dice, oltre a ciò, questa selva essere “selvaggia”, sì come del tutto strana da ogni abitazione umana: per ciò che nella prigion del diavolo, nella quale noi medesimi peccando ci mettiamo, non è alcuna umanità, né pietà, né clemenzia, anzi è piena di crudelità, di bestialità e di iniquità. Né osta il dire: egli v’abitano gli uomini peccatori; per ciò che questo non è vero; ché, come l’uomo ha commesso il peccato, egli diventa quella bestia, li cui costumi son simili a quel peccato; verbigrazia: colui che nel vizio della lussuria si lascia cadere, per ciò che la lussuria per la sua brutteza è simigliata al porco, esso diventa porco, quantunque effige umana gli rimanga, e il rapace diventa lupo, perché il lupo è rapacissimo animale: e così quello luogo è salvatico, sì come privato d’ogni umana stanza. È, oltre a questo, “aspra” per le spine, per li triboli e per gli stecchi, cioè per le punture de’ peccati, li quali, continuamente dai morsi della conscienza infestati, dolorosamente pungono il peccatore. Ed è “forte”, in quanto tenacissimi sono i legami del diavolo
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e massimamente negli ostinati, li quali, poi che nel profondo delle colpe caduti sono, della divina misericordia disperandosi, disprezano Idio e turano gli orecchi alli ammonimenti de’ giusti uomini e alla evangelica dottrina. E per queste qualità, a colui il qual è tocco dalla divina grazia, ella pare, e così è, piena di tanta amaritudine che poco più è la morte eternale, nella quale alcuna dolceza non s’aspetta giammai11.
La luce che Dio nel testo fa risplendere sul monte («Per li monti intende la Scrittura di Dio»), è per Boccaccio la dottrina del «vero sole», ovvero Cristo: L’ottava cosa: dissi era da vedere quello che l’autore vuole intendere per lo sole, che sopra il monte vide, e per lo monte. Per li monti intende la Scrittura di Dio spesse fiate gli apostoli: e questo, per ciò che, come i monti son quegli che prima ricevono i raggi del sole materiale surgente, così gli apostoli furono i primi che ricevettero i raggi, cioè la dottrina del vero sole, cioè di Gesù Cristo, il quale è veramente sole di giustizia e luce, la quale illumina ciascuno che viene in questo mondo: e che esso sia vero sole per molte ragioni si dimostrerebbe, le quali al presente per brevità ometto. E, secondo che io estimo, nell’autore, sentita la grazia di Dio, venne quel disiderio, il quale si dee credere che vegna in ciascuno il quale quella grazia in sé riceve, cioè di conoscere pienamente le colpe sue e qual via dovesse tenere per poter venire a salute: ed occorsegli nella mente alcuna dottrina non potergli in questo suo disiderio satisfare come l’apostolica; ramemorandosi delle parole del Salmista, dove, parlando di loro, dice: «Non sunt loquele neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum, et in fines orbis terre verba eorum». E però, fuggendo la confusione delle tenebre del peccato, si può dire dicesse, come talvolta disse il Salmista: «Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium michi», volendo in questo dire che egli levasse gli occhi della mente alle Scritture e alla dottrina apostolica, dalla quale sperava dovere avere aiuto al suo bisogno. Ed acciò che questa speranza gli si fermasse nel cuore, dice che vide la sommità di questo monte coperta de’ raggi del pianeta, cioè del sole, a dimostrare che essa dottrina apostolica sia illuminata del lume dello Spirito santo, il quale veramente mena altrui diritto per ogni calle, cioè da che colpa l’uomo si parte, egli è da lui menato in porto di salute. E che la dottrina degli apostoli sia santa e vera-
11
Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante (Tutte le opere, vi), a cura di Giorgio Padoan, Milano, Mondadori, 1965, pp. 68 sgg.
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mente piena de’ doni dello Spirito santo, apare per le parole d’Isaia, dove dice: «Requiescet super eum spiritus timoris Domini, spiritus sapientie et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientie et pietatis, et replebit eum spiritus timoris Domini»12.
Alzare lo sguardo verso il colle significa rivolgersi alle Scritture e quindi alla dottrina apostolica. La vista della luce sulla sommità del monte viene perciò a coincidere, secondo Boccaccio, con l’illuminazione attraverso lo Spirito Santo. La possibilità di conoscenza che l’esegeta Boccaccio teorizza a partire dalla polarità selva-colle resta, in senso agostiniano, nell’assoluta dipendenza dalla rivelazione divina, ovvero nell’ambito del lumen divinum (o supranaturale). L’ottica allegorica del quattrocentista Landino aggiunge, attraverso Ficino, una linea platonica nell’analisi del rapporto polare selva-colle, che va oltre l’esegesi di stretto impianto biblico del Boccaccio. Nel Platone mediato da Ficino si trova il «più alto principio»13, a cui Landino informa la sua lettura della Divina Commedia. Testo dantesco e concezione platonica vengono a formare una relazione simbiotica che contribuisce alla voluta enigmaticità. All’interno di un discorso biblico-teologico, ma fortemente orientato anche filosoficamente, Landino indaga la dimensione allegorica che Dante collega con l’immagine della sua selva selvaggia 14. La sel-
12
Ivi, pp. 70 sgg. A proposito dei commenti utilizzati Landino afferma nel proemio al suo Comento sopra la Comedia di Dante Alighieri Poeta Fiorentino: «Comentarono el nostro poeta due suoi figliuoli, Francesco e Piero, comentollo Benvenuto Imolese, e questi in latino; comentollo Jacopo Bolognese nella sua patria lingua, comentollo Riccardo teologo frate carmelitano, comentollo Andrea credo napolitano e Guiniforte iurisconsulto bergamasco, principiò di comentarlo Joanni nostro Boccaccio ma non produsse l’opera più avanti che a mezo la prima cantica. E’ quali tutti comendo, perché molte cose hanno dette degne di lor dottrina e non inutili all’auditore. Comentollo finalmente Francesco da Buti in lingua pisana: costui dopo el Boccaccio più che gl’altri si sforzò aprire, ma non in tutte le parti, l’allegorico senso. Ma a me è paruto ripetere la mente e el proposito di Dante da più alto principio, e con perpetuo tenore investigare in lui più recondita dottrina» (Cristoforo Landino, Scritti critici e teorici, a cura di Roberto Cardini, 2 voll., Roma, Bulzoni, 1974, i, p. 101). 14 Le citazioni sono tratte dall’edizione veneziana del 1564. Fanno parte del 13
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va selvaggia è, come Landino spiega diffusamente, una foresta dei peccati. Essa rappresenta iconograficamente il percorso attraverso la vita, il quale, deviando dal sentiero delle virtù riconosciute dal-
commento che Landino dedica al primo canto: «Adunque ah quanto dura cosa cioè difficile era a dire cioè a narrar quale cioè di che qualità era questa selua seluaggia cioè questa selua remota da ogni culto humano: perche il uitio è al tutto remoto dalla natura humana, conciosia che con efficace dimostratione Platonici, & Aristotelici Filosofi prouono che uiuere secondo la natura è uiuere secondo la uirtu. Adunque è seluaggia, idest ferina, perche chi è infetto da uitij benche ritenga l’effigie humana, nondimeno ne costumi è diuentato fiera crudele contro a Dio, contro a se, contro al prossimio, Aspra, certo è aspra la selua de uitij perche come nessuna cosa è piu soaue che hauer pura conscientia la qual tiene l’animo tranquillo & senza alcun pauento, cosi il uitio ci stimola con continue paure o delle pene eterne ordinate all’anima del peccatore: o delle pene presenti delle qual le ciuili & morali leggi ci minacciono. Ne ribollono tãto le cauerne d’ethna o di mongibello quanto la conscientia del peccatore. Forte, perche difficile è & quasi inespugnabile a rimouer l’habito gia contratto nel uitio. Che nel cuor: Et certo come non senza uoluttà & sommo appagamento di conscientia ci ricordiamo delle cose laudabilmente fatte, cosi per l’opposito quando da uitij ci siamo ridotti alla uirtu non senza horrore & sommo pentimento ci ricordiamo della preterita & uitiosa uita. Perche ammoniua Platone gli amici che si ricordassino che i piaceri corporali erano brieui: & niente altro che pentimento lasciauono dopo se. E tanto amara. È morte come dicemmo poco auanti d’animale & è morte d’anima. Et morte d’anima anchora in due modi si piglia, ouero secondo i Platonici quando l’animo entrando nel corpo soffocato da quello perde quasi ogni suo uigore, oueramente quando l’anima si separa dal corpo & riman morta nel peccato: & di questa intende al presente perche è la piu horrenda, conciosia che non ha redentione alcuna & tal morte è eterna & sensibile perche è morta l’anima, non perche non resti immortale & sempre duri: ma perche in eterno è collocata in miseria. Adunque diremo che la selua è amara perche tale è la uita uitiosa dell’huomo ancora uiuente nel corpo. Ma perche ha redentione & puo conuertirsi a Dio seguita che sia piu amara la morte, perche è fuori d’ogni speranza. Ma per trattar del ben ch’io ui trouai. Et certo non poco bene conoscer la oscurità della selua cioè il uitio, il quale d’ogni luce priua l’anima: perche quello conosciuto uiene in tanta abominatione che con ogni industria lo fuggiamo & purghiancene. Adunque trouiamo questo bene nella selua, perche sapientemente disse Horatio: Virtus est uitium fugere: & sapientia prima stultitia caruisse. Alcuni dicono che il Poeta uuol dimostrare che ancora nell’Inferno si troua bene, perche u’è la giustitia ch’è somma delle uirtù morali. Il che, benche sia uero, nondimeno la prima sententia quadra meglio. [...] E quanto a dir qual era esta selua seluaggia & aspra e forte, che rinoua la paura nel pensiero, è cosa dura, è, dice Cosa dura, cioè, cosa difficile a dire, Qual, di che qualità era esta selua Seluaggia, cioè, oscura, come disse a principio, perche si come la selua oppressa da molti e spessi albori se rende oscura per nõ poterui penetrar il lu-
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la filosofia («Platonici, & Aristotelici Filosofi prouono che uiuere secondo la natura è uiuere secondo la uirtu»), viene a porsi al di là della cultura. La selva fa nascere la paura delle pene presenti nelle leggi civili e morali, paura che minaccia di esplodere come l’Etna sulla costa orientale della Sicilia. L’impenetrabilità e l’assoluta oscurità della foresta appare metaforicamente e simbolicamente come la perdita mortale della vita eterna. Privata della luce spirituale l’anima è costretta a restare nel corpo in disfacimento. Senza l’ascesa del monte della virtù – rappresentato dal colle illuminato – non c’è salvezza. La salita salvifica è a sua volta simboleggiata dall’atto della contemplazione che conduce verso il sole rappresentante la saggezza. Occorre dirigere lo sguardo verso il monte e in questo senso elevare lo spirito verso le cose divine: Intendiamo prima secondo il senso historico, che caminando per la ualle trouò allo ’n contro un monte in forma che era necessario, ò torcere il camino uolendo schifare la montata del colle, ò salire il colle desiderando che ’l camino fusse diritto. Non si uiene alla uirtù se non per la sa-
me del Sole, cosi la mente oppressa da molti e spessi errori se rende oscura per nõ poter usar del lume della ragione, onde ancor in fine del xx canto, E gia hier notte fu la Luna tonda, Ben tende ricordar, che non ti nocque Alcuna uolta per la selua fonda, cioè, Profonda, folta e spessa, e consequentemente, come ha detto, oscura, e nel xii, in persona di Virgilio, parlando a Chiron di se e della ualle inferna, Ben è uiuo e si soletto Mostrar li mi cõuien la ualle buia, e poco piu oltre, Ma per quella uirtù, per cui io muouo Li passi miei p si seluaggia strada & c. E nel xxi pur in persona di Virgil. a Malacoda Demonio, Lasciane andar, che nel ciel è uoluto, Chi mostri altrui questo camin siluestro. E da quello Oui. ne la quinta elegia, Pars adaperta fuit, pars altera clausa fenestre, Quale fere filuæ lumen habere solent. Aspra, perche quelli, che uiuono senza ragione, sono simili a le fiere pieni d’ogni asperità e durezza. Forte, essendo molto difficil cosa, anzi impossibile, senza il diuino aiuto, che mai si rimouino da la sua ostinatione, per l’habito gia contratto nel uitio. Che rinoua la paura nel pensiero, Non potendo, chi si rauede de suoi passati errori, per lo rimorso de la conscientia, rauedere, senza grande horror e spauento di quelli. Tanto è amara, che poco è piu morte, Conchiude adunque, che questa selua è tanto Amara, cioè, Penosa & aspra, che morte, la qual si terribile & horribile si dice, è poco piu amara di lei, & è morte di tanto piu amara, come uuol inferire, di quanto che dopo quella non gioua il pentire, come fa essendo ancor in uita, ma dice morte esser poco piu, perche quelli che sono ne la selua de gli errori, & hannoui fatto habito, sono poco men che morti, essendo poca speranza di loro che mai piu, se non con grandissima difficultà».
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lita del monte perche Basilio disse, Aspera primo & pene inuia & sudoris cõtinui & laborum plena est uia quæ ad uirtutem ducit. È adunque il monte la contemplatione, & ne la sommità è il Sole, cioè la sapientia. Et come Virgilio pone il ramo d’oro che è la sapientia su l’altezza dell’alboro circondato dalle ualli, cosi Dante pone il Sole nella sommità del monte. Virg. pone le colombe per la contemplatione che guidano Enea infino al ramo d’oro perche uolano in alto & altroue dice. Ergo alte uestiga oculis. Adunque per l’albero & per le colombe & per questo uerso dimostra l’altezza che Dante dimostra pel monte. Mentre che guardò nella ualle non uide se non tenebre, perche nelle cose terrene non si uede il Sole, idest la sapientia. Ma uedesi nel monte, idest nella eleuatione dell’animo alle cose diuine. Onde Dauid, Eleuaui oculos meos ad montem. Sotto questo sigmento intenderemo quel medesimo che per la lettera y, da se trouata espresse Pythagora. Ha questa lettera nel principio una sola linea infino che giunga al punto della forca. Quiui si diuide in due & l’una ua diritta su la destra, l’altra torce a sinistra. Il che figura tutta la uita humana: perche quasi una sola uita è di tutti gli huomini infino a gli anni della discretione, perche non è, imputato ne a perfetta uirtù ne a intero uitio cosa che si faccia nella prima età doue è escusabile ignorantia senza uera elettione. Adunque qui il Poeta per la uia della selua intese la prima parte della gia detta lettera.
A ragione Manfred Lentzen sottolinea come nella concezione esegetica di Landino la teoria platonica dell’immortalità dell’anima si fonda con la dottrina cristiana della grazia15. Nel contesto selvamonte si manifesta una equilibrata binarietà dell’allegoresi che pone specifici problemi a poeti, filosofi ed esegeti dell’epoca (un esempio significativo, su cui torneremo in seguito, è dato dal poeta – ammiratore di Dante – Girolamo Benivieni e dal suo esegeta Pico della Mirandola16). Fattore decisivo per giungere alla deside15
Manfred Lentzen, Studien zur Dante-Exegese Cristoforo Landinos. Mit einem Anhang bisher unveröffentlichter Briefe und Reden, cit., pp. 66 sgg. 16 Ci riferiamo alla Canzona d’amore di Benivieni, sulla cui binarietà semantica di filosofia platonica e dogmatica cristiana l’autore comunica ai lettori: «Ma perché nel ritrattare di poi essa canzona e commento, sendo già in parte mancato quello spirito e fervore che avea condotto, e me ad comporla e lui ad interpretarla, nacque nelli animi nostri qualche ombra di dubitazione, se era conveniente a uno professore della legge di Cristo, volendo lui trattare di Amore, massime celeste e divino, trattarne come platonico e non come cristiano, pensammo che fussi
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rata conoscenza è l’atto della contemplazione, in cui anche Giorgione presenta il suo giovane filosofo «sentado»: Né si può a sì alto loco salire se non cho’ gradi delle virtù. Né può essere in noi virtù se non v’è ragione, perché ogni virtù procede da recta ragione. Adunque è necessario, che nell’huomo volente farsi beato sia ragione et da quella naschi la virtù, la quale purgandoci da’ vitii ci faccia idonei alla contemplatione, et di qui forma el poeta nostro le sue tre cantiche, imperoché con la ragione discorre per la cognitione de’ vitii ch’è lo ’nferno. Con le virtù acquistare per la ragione si purga da quegli, che è el purgatorio. Et purgato può salire alla contemplatione delle chose divine et farsi beato che è el paradiso.
È l’importanza della contemplatio, mediata a Landino da Ficino, che ha un ruolo decisivo nella ascesa al monte del Purgatorio 17. Il richiamo esplicito al «divino Platone» rivela la sostanza filosofico-teologica di un’esegesi che fonde Weltanschauung e iconografia, visione del mondo e universo visivo. La presenza del percorso iconografico dantesco (selva selvaggiamonte) nella concezione pittorica di Giorgione è molto probabile. Ciò vale anche per il pensiero e gli scritti di Marsilio Ficino, che occorre chiamare in causa per una ricostruzione della polarità selva-monte. Il proemio dello scritto ficiniano Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, dedicato agli amici umanisti Bernardo del Nero e Antonio Manetti, si apre con la raccomandazione a voltare le spalle alla «selva bene sospendere la pubblicazione di tale opera, almeno fino a tanto che noi vedessimo se lei, per qualche reformazione, potessi di platonica diventare cristiana». 17 «Te adunque, sommo Dio, lodiamo et te vero signore confessiamo, e’ quali per la tua gratia illuminati delle civili virtù traesti del basso et tenebroso fondo dell’inferno, et accendendo dipoi splendida lucerna a’ nostri piedi con le virtù purgatorie e’ tuoi servi ancora gravi del terrestre limo in forma alleggeristi, che vincemmo ogni difficultà dall’ardua et erta salita del monte del purgatorio. Hora col tuo sancto hysopo ci farai mondi et lavandoci sopra ogni neve rimarremo candidi et tanto puri, che ’l tuo paraclito spirito più per sua gratia che per nostro merito s’infonderà in noi et orneràcci del tertio genere delle virtù dell’animo già purgato. Queste ci acquisteranno due ale, iustitia et religione... Né altra via resta né altra facultà a’ miseri mortali da elevarsi ad tanta alteza, se non la iustitia, la quale el divino Platone pone per tutte le virtù morali, et la religione, che contiene in sé tutte le intellective».
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oscura» – come fanno visibilmente i tre “filosofi” di Giorgione – e quindi a possibili errori o traviamenti. La sostanza dantesca – in senso lessicale, metaforico e concettuale – del proemio è esplicita: Sogliono i mortali quelle cose, che generalmente e spesso fanno, dopo lungo uso farle bene: e quanto più le frequentano farle meglio. Questa regola per la nostra stoltizia, e a nostra miseria, falla nello Amore. Tutti continovamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo male: e quanto più amiamo, tanto peggio amiamo. E se uno in centomila ama rettamente, perché questa non è comune usanza, non si crede. Questo mostruoso errore (guai a noi!) ci avviene, perché temerariamente entriamo prima in questo faticoso viaggio di Amore, che impariamo il termine suo, e il modo di camminare i pericolosi passi del cammino. E però quanto più andiamo, tanto più (ohimè miseri!) a nostro gran danno erriamo. E tanto più importa lo sviarsi per questa selva oscura, che per gli altri viaggi, quanto più numero e più spesso ei si cammina. Il Sommo Amore della Provvidenza divina, per ridurci alla diritta via da noi smarrita, anticamente spirò in Grecia una castissima donna, chiamata Diotima sacerdotessa: la quale da Dio spirata, trovando Socrate filosofo dato sopra tutto allo Amore, gli dichiarò, che cosa fusse questo ardente desiderio, e per che via ne possiamo cadere al sommo Male e per che via ne possiamo salire al sommo Bene. Socrate rivelò questo sacro misterio al nostro Platone: Platone filosofo sopra gli altri pio, subito un libro per rimedio de’ Greci ne compose. Io per rimedio de’ Latini il libro di Platone di greca lingua in latina tradussi: e confortato dal nostro magnifico Lorenzo De’ Medici, i misterii, che in detto libro erano più difficili, comentai: e acciò che quella salutifera manna, a Diotima dal cielo mandata, a più persone sia comune e facile, ho tradotto di latina lingua in toscana i detti Platonici misterii, insieme col comento mio: il quale volume dirizzo principalmente a voi Bernardo Del Nero, e Antonio Manetti, dilettissimi miei: perché son certo, che lo Amore, il quale vi manda il vostro Marsilio Ficino, con Amore riceverete: e darete ad intendere a qualunque persona presumesse leggere questo libro con negligenzia, o con odio, che non ne sarà capace in sempiterno. Imperocché la diligenzia dello Amore, non si comprende con la negligenzia: e esso Amore, non si piglia con l’odio. Il santo Spirito Amore Divino, il quale spirò Diotima, ci allumini la Mente, e accenda la volontà in modo, che amiamo lui in tutte le sue opere belle: e poi amiamo le opere sue in lui: e infinitamente godiamo la infinita sua Bellezza18. 18
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, ovvero Convito di Platone, a cura e con uno scritto di Giuseppe Rensi, Milano, Se, 1998, pp. 15-16.
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La metafora del «faticoso viaggio» riprende la parola-chiave della Divina Commedia con cui Dante definisce il suo percorso escatologico dalla selva del peccato attraverso il regno dell’aldilà verso il Paradiso (Inf. x, 130-132: «Quando sarai dinnanzi al dolce raggio / Di quella il cui bell’occhio tutto vede, / Da lei saprai di tua vita il viaggio»). Nella metafora ficiniana della faticosa ascesa al «sommo Bene» si concentra il processo dell’itinerarium mentis, che Dante fa percorrere al suo pellegrino in cerca della luce (Inf. xxxiv, 136: «Salimmo suso, ei primo, ed io secondo»). La «salutifera manna», mandata dal cielo alla Diotima platonica, corrisponde al dono della saggezza divina, per la quale Domenico si volse all’ufficio religioso (Par. xii, 84: «Ma per amor della verace manna»). Il desiderio, lo slancio che si manifesta nello sguardo del giovane filosofo giorgionesco verso la roccia illuminata è quindi un riferimento sia dantesco che platonico. Il giovane seduto volta le spalle al bosco e rivolge il volto verso il monte. L’operazione ermetizzante di Giorgione compiuta sui poli danteschi selva e colle riguarda in particolare la radicale eliminazione dell’azione, che un pittore come Botticelli rappresenta invece fin nei dettagli. L’aspirazione dei filosofi a un sapere onnicomprensivo (sapientia mundi ), con cui in epoca moderna essi vengono ad affiancare con pari dignità i teologi, li differenzia chiaramente dai filosofi del Medioevo, che Dante con un certo rigore morale condanna come peccatori sul modello dell’eroe Ulisse nel xxvi canto dell’Inferno. L’indomabile e disastroso impulso alla conoscenza e all’investigazione («l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto»: Inf. xxvi, 97 sgg.) porta Ulisse oltre i limiti delle leggi divine, simbolizzati dalle colonne d’Ercole. È il «folle volo» di una presuntuosa valutazione di sé e del mondo che non conduce alla «montagna» edenica avvistata da Ulisse, ma all’abisso del naufragio (Inf. xxvi, 121 sgg.): Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, dei remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
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Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto dalla luna, poi che ’ntrati eravam nell’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché della nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fè girar con tutte l’acque: alla quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sopra noi richiuso.
La curiositas che non è rivolta al divino ma che diventa fine a se stessa, come mostra anche uno sguardo alla Summa Theologica (2-2 q. 167) di Tommaso d’Aquino, viene condannata da Dante. Senza una cosciente funzione di senso e di un fine positivo la curiositas diventa per la Patristica inanis scientia, al di là della linea del bene e del male. All’epoca di Giorgione la filosofia comincia a sottrarsi a questo dualismo morale.
III.
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contemplazione e conoscenza Il palcoscenico allegorico su cui Giorgione inserisce il paesaggio e il gruppo dei suoi “filosofi”, è caratterizzato a livello cromatico dal contrasto tra chiaro e scuro. In tal modo viene evidenziata l’opposizione tra la foresta scura, davanti alla quale si trova un gruppo di figure con vesti di vari colori, e il riflesso chiaro sulla parte sporgente della roccia verso la quale è diretto lo sguardo del giovane seduto. «Il senso morale di questo percorso», afferma a ragione Guidoni, «si svolge a sua volta da destra a sinistra, cioè dalla “selva oscura” dantesca, attraverso la prova (gli alberi secchi) e grazie all’azione vivificatrice del sole, fino alla roccia (la virtù) da cui scaturisce una sorgente di acqua limpida (la vera vita)»1. L’analisi degli elementi iconografici sole, luce e oscurità del quadro di Giorgione pone questioni che hanno dato origine a risposte controverse e addirittura opposte. L’obbligato tentativo di spiegare la differenza tra «l’enigmatica oscurità della roccia a sinistra»2 e il non meno enigmatico effetto di luce sopra e dietro di essa3 ha portato gli interpreti del quadro a formulare le ipotesi più diverse e 1
Enrico Guidoni,Giorgione. Opere e significati, Roma, Editalia, 1999, p. 275. Jan Bial⁄ ostocki, rec. a Edgar Wind, Giorgione’s «Tempesta», with Comments on Giorgione’s poetic Allegories, Oxord, Clarendon Press, 1969, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 34, 1971, pp. 248-250: 249. 3 Cfr. Christian Hornig, Giorgiones Spätwerk, München, Fink Verlag, 1987, p. 200: «ad esempio la questione: il sole sorge o tramonta?». 2
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contrastanti. Due fonti di luce chiaramente distinte sollevano domande e sollecitano supposizioni difficilmente conciliabili. Non c’è accordo neppure sull’interpretazione della fase del giorno descritta dalla luce di Giorgione. Tschmelitsch affronta la questione a partire dalle modifiche effettuate sul dipinto, parlando di un «sole che tramonta (e che originariamente sorgeva)» e ammettendo la possibilità che «forse tutta l’atmosfera naturale è stata trasformata da un mattino a una sera »4. Justi vede splendere sopra le colline abitate un «sole calante»5. «Perché», si chiede a sua volta Hartlaub, «Giorgione non ci ha mostrato un’aurora invece di un tramonto? E perché le tre figure non guardano il sole? L’uomo con il turbante volge le spalle al sole, invece di cercare la stella nell’aurora, e gli altri due guardano in direzione di quella roccia dove i “raggii solari”, di cui parla Michiel, possono essere osservati solamente nel loro riflesso coloristico. Un pittore che sceglieva volentieri soggetti inusuali avrebbe anche potuto essere in grado di caratterizzare meglio l’“alto” monte ricco di sorgenti. Nel dipinto il boschetto è poco più elevato delle case oltre la valle»6. E «il sole che tramontando scompare dietro ai monti conferisce alla scena una sorta di mistero che non ha niente a che vedere con l’attesa della stella tramandata dalla leggenda»7. Künstler parte dalla constatazione di un «particolarissimo fenomeno di luce», che si manifesta tra il paesaggio sullo sfondo e la scena in primo piano: «qui non si è tenuto conto di una legge o anche di una eventuale possibilità naturale. Non si può dubitare del fatto che la forte luce che illumina le case e le colline, e che proviene dalla direzione in cui guardano i tre saggi, sia la luce della stella cometa che sta salendo. È naturale che la stella stessa non potesse essere tralasciata, e infatti è stata anche raffigurata e in quanto tale riconosciuta: ciò che a noi oggi appare essere il sole, perché ha un aspetto simile ad esso nel momento in cui sorge, quell’astro che sa4
Günther Tschmelitsch, Zorzo, genannt Giorgione. Der Genius und sein Bannkreis, Wien, Braumüller, 1975, pp. 223, 226. 5 Ludwig Justi, Giorgione, i, Berlin, Reimer, 1936, pp. 13-28: 14. 6 Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, cit., p. 60. 7 Ivi, p. 62.
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le sull’orizzonte azzurro deve essere interpretato come la stella della redenzione»8. Il ventaglio di supposizioni che riguardano fonte, direzione e finalità della luce potrebbe ancora essere ampliato a piacimento, senza però condurci a risultati soddisfacenti. Tschmelitsch, riassumendo lo stato della discussione nei suoi punti salienti, sostiene: Sebbene il sole stia tramontando dietro le colline di fronte a noi, una forte luce proviene da sinistra. Auner la interpreta come la luce della stella cometa, discostandosi però in tal modo dalla Sacra Scrittura, che egli altrimenti segue scrupolosamente, in quanto non ci sarebbe più bisogno di astrologi se la stella splendesse, simile a un riflettore, già all’altezza delle cime degli alberi. A tale interpretazione si oppone anche l’atteggiamento dei tre personaggi che non si interessano assolutamente a questa apparizione. L’ipotesi di Auner è sostenuta anche da Gustav Künstler, fermamente convinto della sua posizione. Certo, anche negli edifici sullo sfondo è visibile una luce proveniente da questa direzione, ma è strano che nelle fronde degli alberi tale luce non sia presente; e non si può certo dire che si tratti di una levata eliaca, ovvero prossima al sole. Künstler rende la sua analisi ancor più confusa interpretando l’astro calante non come il sole ma proprio come la stella cometa, ma tali incongruenze nei rapporti luministici c’erano state nel primo Medioevo e sarebbero ritornate soltanto con la pittura surrealista. A parte ciò l’interprete mostra una scarsa sensibilità per la raffinata atmosfera naturale del quadro9.
Ciò che l’autore di questo passo intende proporre è l’idea di una doppia fonte di luce connessa all’ipotesi che l’originaria atmosfera aurorale sia stata trasformata in un tramonto. Certo, è già Künstler, citato da Tschmelitsch, a indicare con giuste motivazioni la direzione in cui si deve dirigere la diagnosi semantica della luce nel dipinto10. Si potrebbe, afferma Zaunschirm sulla base dell’i-
8 Gustav Künstler, Landschaftsdarstellung und religiöses Weltbild in der Tafelmalerei der Übergangsepoche um 1500, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 62, 1966, pp. 103-156: 112. 9 Günther Tschmelitsch, Zorzo, genannt Giorgione. Der Genius und sein Bannkreis, cit., pp. 226 sgg. 10 Gustav Künstler, Landschaftsdarstellung und religiöses Weltbild in der Tafelmalerei der Übergangsepoche um 1500, cit., p. 112: «In primo luogo: la stessa luce che
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potesi, affine a quella di Künstler, di una «luce iconograficamente scissa», considerare la luce indefinita osservata dai “tre filosofi” «come la protagonista del quadro»11. In effetti, possiamo aggiungere fin d’ora, il percorso verso la luce conduce al nucleo del messaggio del quadro. È un percorso che dalle realtà pittoriche così diverse e apparentemente inconciliabili, e dalle interpretazioni che ne sono state date, conduce verso l’astrazione. Al centro del quadro e all’inizio di questo percorso si trova il giovane seduto. La sua attenzione non è rivolta al compasso e alla squadra che tiene in mano, ma alla parte illuminata della roccia che si trova di fronte. Il giovane, la cui veste sembra rispecchiare il contrasto chiaro-scuro che informa il dipinto, rivolge lo sguardo verso l’alto, mentre le altre figure guardano altrove. Ciò che ha attratto la sua attenzione sono quei raggii solari che Marcantonio Michiel pone al centro della sua descrizione del quadro: un gioco di luce sulla cima della roccia scura che non è assolutamente in rapporto con la luce del sole che sorge sullo sfondo. Michiel non parla del sole come corpo celeste, ma del suo riflesso terrestre sulla roccia: «uno sentado che contempla gli raggii solari». La luce di questi raggii si riverbera sul volto del giovane, che appare chiaro, a differenza dei visi delle altre due figure che lo accompagnano. Il riferimento di Michiel alla sua attività contemplativa («sentado che contempla») – nel senso di contemplazione dell’opera divina – e la
cadendo trasversalmente da sinistra accarezza le colline e illumina le facciate delle case colpisce anche la roccia sopra la grotta in modo tale che il paesaggio nello sfondo e in primo piano appare un tutt’uno, dal quale al limite si distaccano i tre saggi con la loro posa statuaria e con il loro isolamento sottolineato dal gruppo di alberi, creando una tensione tra di loro in quanto osservatori e l’evento atteso nella natura. Qui si pone la questione dell’autenticità della raffigurazione della natura, visibile nella sua ampiezza soltanto sullo sfondo. La luminosità così fortemente accentuata prova che non può trattarsi di una rappresentazione realistica, dato che una luce così forte quasi all’altezza dell’orizzonte non si dà né all’aurora né al tramonto, e ciò significa che a prescindere dalla questione se la stella vermiglia che è visibile a metà dell’orizzonte tra le colline azzurre si trovi ad est o a ovest, mai potrebbe attraversare l’orizzonte da nord o da sud una luce così forte come quella che illumina la scena». 11 Thomas Zaunschirm, Giorgiones «Drei Philosophen», in «Alte und Moderne Kunst», xxi, 148/149, 1976, pp. 5-9: 8.
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definizione del gruppo come «3 phylosophi» identificano il giovane come appartenente alla scienza filosofica attribuendogli quindi un “amore della saggezza”, per il quale la questione e il concetto dei raggii solari hanno un ruolo determinante. L’opera testualmente fondante – nell’orizzonte culturale di Giorgione – che del passaggio dal Quattrocento al Cinquecento riflette atmosfera culturale e Weltanschauung nel senso più ampio si deve in effetti a un filosofo: Marsilio Ficino. Il sostrato testuale che informa l’impianto iconografico del dipinto di Giorgione è l’opera di Ficino; questi con la sua Theologia Platonica del 1482 pone le fondamenta e indica gli obiettivi di una visione del mondo in cui si fondono conoscenza scientifica e pensiero cristiano operando – come sottolineano Kristeller e Garin12 – un influsso decisivo sulla cultura dell’epoca. Ma non è solamente la fondamentale Theologia Platonica a rivelare e illustrare la metafisica ficiniana. Un altro cardine non meno importante del pensiero platonico, e che pone la luce come simbolo di verità e fonte della bontà divina (itinerarium mentis in Deum), è il commento al Simposio di Platone, Commentarium in Convivium Platonis de amore, di cui Ficino eseguì anche una traduzione in lingua «toscana», ovvero il già citato Sopra lo amore ovvero Convito di Platone. Questo lavoro estremamente originale di cui si conservano undici manoscritti, contiene la sostanza della filosofia dell’amore con la quale Ficino diviene fonte ispiratrice della cultura europea, Francia (Marghuerite de Navarre, la Pléiade) e Inghilterra (i sonetti di Shakespeare) comprese. Lo sguardo del giovane non è un gesto di umiltà, ma un “raggio visivo”: un elemento centrale della problematica platonica lu12 «I temi della pia philosophia, della individualità e immortalità dell’anima, della nobiltà e centralità dell’uomo, della luce, della bellezza e dell’amore», afferma Eugenio Garin, «dovevano diventare luoghi comuni della letteratura europea, insieme al gusto per una prosa ricca di immagini, fitta di allusioni e, a volte, quasi cifrata. In realtà dietro le rappresentazioni visibili, al di là delle figure, il sapiente coglie la verità; la totalità dell’essere dispiegata e quasi narrata visivamente nel mondo sensibile si raccoglie e si concentra in un’unità nascosta a cui si solleva solamente il “pio” filosofo, l’iniziato ai sacri misteri, preso dall’amore divino e illuminato dal Dio» (Eugenio Garin, La letteratura degli umanisti, in Storia della Letteratura Italiana, iii, Milano, Garzanti, 1966, p. 296).
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ce-vista, a cui Ficino nello scritto Sopra lo amore ovvero Convito di Platone attribuisce un’importanza fondamentale. Lo sguardo del giovane raffigura il processo di entrata e uscita della luce, del quale Ficino dice: Di gran consiglio, e ragionevolmente, con ciò sia che la sapienzia onde propriamente deriva ogni consiglio, alla Angelica Mente è attribuita: perché quella per Amore inverso Dio voltatasi, per lo ineffabile suo raggio risplende. Né altrimenti si dirizza la Mente in verso Dio che inverso il lume del Sole l’occhio si faccia. L’occhio prima guarda: dipoi, non altro che il lume del Sole è quel che ei vede: terzo, nel lume del Sole, i colori e le figure delle cose comprende. Il perché l’occhio, primamente oscuro e informe a similitudine di Caos, ama il lume mentre che ei guarda, e guardando piglia i raggi del Sole: e quelli ricevendo de’ colori e delle figure delle cose s’informa13.
Nella relazione soggetto-oggetto creata attraverso l’occhio si compie il contatto tra lo spirito intento alla ricerca e l’«Architettore del Mondano Edifizio». Il lume naturale della «mente» umana incontra la luce divina, viene acceso da essa (iv, 5): Ma dipoi che è cresciuto il corpo, e purgati gli istrumenti de’ sensi, per il mezzo della disciplina, si desta alquanto: e in questo il lume naturale comincia a risplendere e l’ordine delle cose naturali ricerca. Nella quale investigazione, si avvede essere un sapiente Architettore del Mondano Edifizio, e esso fruire desidera. Questo Architettore, solo con soprannaturale lume può essere inteso: e però la Mente dalla inquisizione della propria luce, a recuperare la luce divina è mossa e allettata: e tale allettamento è il vero Amore: per il quale l’uno mezzo dell’uomo l’altro mezzo dell’uomo medesimo appetisce. Perché il lume naturale, che è la mezza parte dell’animo, si sforza di accendere in noi quel divino lume, che è l’altra mezza parte di quello, il quale fu già sprezzato da noi. E questo è quello, che nella Epistola a Dionisio re disse Platone. L’animo dell’uomo desidera quali sieno le cose divine intendere riguardando in quelle cose, che a lui sono propinque 14. 13 14
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, cit., p. 23. Ivi, pp. 61-62.
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Lo sguardo che trasmette all’osservatore colori e forme del mondo esteriore ha la funzione di legame tra mondo spirituale e terreno. La mente del pio philosopho – per ritornare al dipinto di Giorgione – è diretta verso Dio, la cui luce ne colpisce l’occhio. I raggii solari evidenziati da Marcantonio Michiel nella sua descrizione sono elementi portanti nell’ambito iconografico posto tra Dio e il sole. La concezione fisiologico-filosofica alla base della rappresentazione si ispira alla teoria platonica dello sguardo, secondo la quale all’interno dell’occhio risiede una luce che durante l’azione del vedere fuoriesce e si fonde con quella esterna formando una colonna di luce. L’osservatore compie un atto volontario e interiore dello spirito a cui si unisce il raggio esterno. Il processo fisiologico di percezione tra l’organo attivo della vista e l’oggetto percepito si basa sulla teoria esposta in Timeo, in cui si dice (45 c-d): «Quando dunque v’è luce diurna intorno alla corrente del fuoco visuale, allora il simile incontrandosi col simile e unendosi strettamente con esso, costituisce un corpo unico e appropriato nella direzione degli occhi, dove la luce che sopravviene dal di dentro s’urta con quella che s’abbatte dal di fuori. E questo corpo, divenuto tutto sensibile alle stesse impressioni per la somiglianza delle sue parti, se tocca qualche cosa o ne è toccato, ne trasmette i movimenti per tutto il corpo fino all’anima, e produce quella sensazione per cui noi diciamo di vedere»15. Il vedere conduce, con l’ausilio del pensiero, dall’ambito della realtà oggettuale alle sfere delle più elevate sostanze metafisiche, diventando la fonte della simbologia della luce. Questa è la questione nodale per Ficino, e a ciò mira anche, dando forma al problema filosofico, Giorgione. In analogia con l’«Architettore del Mondano Edifizio», egli concepisce e presenta la sua opera come realizzazione di idee in materia percepibile ai sensi. Sono le idee della verità e della bellezza, la ricerca delle quali conduce nell’ambito del divino. «Verità delle cose è Dio», scrive Garin, «il quale riflette lo splendore del suo volto in tutto l’universo imprimendogli un sigil-
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Si cita dalla traduzione di Cesare Giarratano, in Platone, Opere complete, vi, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 45.
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lo di bellezza. Se non è il caso di esporre la concezione ficiniana della realtà, delineata in una serie di complesse variazioni platonico-plotiniane, non si può non insistere su quella visione del bello che si fece sentire con tanta prepotenza nella cultura e nell’arte del maturo Rinascimento»16. L’analisi riassuntiva su luce e visione esposta da Ficino nel capitolo v, 4 (Che la bellezza è lo splendore del volto di Dio) dello scritto Sopra lo amore, ovvero il Convito di Platone, esemplifica lo slancio neoplatonico dell’estetica rinascimentale, similmente alla realizzazione iconografica della comparatio solis ad Deum nei Tre filosofi di Giorgione: La Divina Potenzia supereminente, allo Universo, agli Angeli e agli animi da lei creati clementemente infonde, si come a’ suoi figliuoli, quel suo raggio: nel quale è virtù feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in questi, come più propinqui a Dio, dipinge lo ordine di tutto il Mondo, molto più espressamente che nella materia mondana: per la qual cosa questa pittura del Mondo, la quale noi veggiamo tutta, negli Angeli e negli Animi è più espressa che innanzi agli occhi. In quelli è la figura di qualunque spera, del Sole, Luna e Stelle, delli Elementi, pietre, arbori, e animali. Queste pitture si chiamano nelli Angeli, esemplari e idee: nelli animi ragioni e notizie: nella materia del Mondo, imagini e forme. Queste pitture son chiare nel Mondo: più chiare nell’Animo e chiarissime sono nell’Angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in tre specchi posti per ordine, nell’Angelo, nell’Animo, e nel corpo mondano: nel primo, come più propinquo, in modo chiarissimo: nel secondo come più remoto men chiaro: nel terzo come remotissimo, molto oscuro. Dipoi la Santa Mente dello Angelo, perché non è da ministerio di corpo impedita, in se medesima si riflette: dove vede quel volto di Dio nel suo seno scolpito: e veggendolo si maraviglia: e maravigliandosi, con grande avidità a quello sempre si unisce. E noi chiamiamo Bellezza quella grazia del volto divino: e lo Amore chiamiamo la avidità dello Angelo per la quale si invischia in tutto al volto divino: Iddio volesse, amici miei, che questo ancora avvenisse a noi. Ma l’animo nostro creato con questa condizione, che si circunda da corpo terreno, al ministerio corporale declina: dalla quale inclinazione gravato, mette in oblio il tesoro, che nel suo petto è nascoso. Dipoi che nel corpo terreno è involto, lungo tempo all’uso del corpo serve, e a questa opera sempre accomoda il senso: e accomodavi ancora la ragione più spesso 16
Eugenio Garin, La letteratura degli umanisti, cit., p. 299.
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che e’ non debbe. Di qui avviene che l’animo non riguarda la Luce del volto divino che in lui sempre splende, prima che il corpo sia già adulto, e la ragione sia desta: con la quale consideri il volto di Dio che manifestamente agli occhi nella macchina del Mondo riluce. Per la quale considerazione si innalza a risguardare quel volto di Dio che dentro allo animo risplende. E perché il volto del Padre a’ figliuoli è grato, è necessario che il volto del Padre Iddio alli animi sia gratissimo. Lo splendore e la grazia di questo volto, o nello Angelo o nello Animo, o nella materia mondana che si sia, si debbe chiamare universal Bellezza: e lo appetito che si volge inverso quella, è universal Amore. E noi non dubitiamo questa bellezza essere incorporale: perché nello Angelo e nello Animo, questa non essere corpo è manifesto: e ne’ corpi ancora questa essere incorporale mostrammo disopra: e al presente di qui lo possiamo intendere, che lo occhio non vede altro, che lume di Sole: perché le figure, e li colori de’ corpi, non si veggono mai, se non da lume illustrati: ed essi non vengono con la loro materia a lo occhio: e pur necessario pare, questi dovere essere negli occhi, acciò che dagli occhi sieno veduti. Uno adunque lume di sole, dipinto di colori e figure di tutti i corpi in che percuote, si rappresenta a gli occhi: li occhi per lo aiuto d’un lor certo raggio naturale pigliano il lume del Sole così dipinto: e poiché l’hanno preso, veggono esso lume, e tutte le dipinture che in esso sono. Il perché tutto questo ordine del Mondo che si vede, si piglia dagli occhi: non in quel modo che egli è nella materia de’ corpi: ma in quel modo che egli è nella luce la quale è negli occhi infusa. E perché egli è in quella luce, separato già da la materia, necessariamente è senza corpo. E questo di qui manifestamente si vede, perché esso lume non può essere corpo: conciò sia che in un momento di Oriente in Occidente quasi tutto il Mondo riempie: e penetra da ogni parte il corpo della Aria e della Acqua, senza offensione alcuna. E spandendosi sopra cose putride, non si macchia. Queste condizioni alla natura del corpo non si convengono. Perché il corpo non in momento, ma in tempo si muove: e un corpo non penetra lo altro senza dissipazione dell’uno, o dell’altro, o di amendue. E due corpi insieme misti, con iscambievole contagione si turbano. E questo veggiamo nella confusione della Acqua e del Vino, del Fuoco e della Terra. Conciosia adunque, che il lume del Sole sia incorporale, ciò ch’egli riceve, riceve secondo il modo suo. E però i colori, e le figure de’ corpi, in modo spirituale riceve. E nel modo medesimo lui ricevuto da gli occhi si vede. Onde nasce che tutto l’ornamento di questo Mondo, che è il terzo volto di Dio, per la Luce del Sole incorporale, offerisce sè incorporale agli occhi 17.
17
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, cit., pp. 74-76.
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Non il sole come corpo celeste ma la sua luce «incorporale» si dà nei raggii, che mostrano il cammino verso Dio. È questo il contesto del “raggio visivo”, in cui Giorgione presenta il giovane, di cui Pallucchini significativamente afferma: «tralascia di misurare la terra, quasi perduto in una contemplazione profonda, nella scoperta cosmica della natura, che gli si rivela nel suo profondo mistero»18. Nel momento in cui l’atto di vedere rilevato dal Michiel viene definito attraverso il verbo contemplare («sentado che contempla»), è suggerito un rimando a quella contemplazione dell’opera di Dio che già aveva avuto un ruolo centrale nella vita contemplativa della religione e della mistica medievale. In effetti il gesto di alzare gli occhi ha generato in questo contesto uno schema metaforico (oculos levare), che esprime generalmente ricerca di conforto o umiltà. «Il saggio», dice Gudrun Schleusener-Eichholz richiamandosi a Ugo di San Vittore, «solleva gli occhi verso il volto di Cristo, nel momento in cui egli sulla terra lo osserva nella fede e lo ha sempre davanti agli occhi e guardandolo per speciem»19. In questo senso l’occhio diventa nella concezione medioevale un oculus pietatis, la cui forza di fede apre il giusto cammino che conduce dal mondo terreno a quello divino. Un “osservare” mistico in questi termini non è però quello che ha luogo nella tela di Giorgione, da ricollegare invece, come si è detto, al ficiniano Sopra lo amore, ovvero il Convito di Platone (vii, 1). Alla dettagliata digressione di Ficino sulla questione della luce e dello sguardo, citata in precedenza quale riferimento centrale della scena della contemplazione, occorre aggiungere per completezza altre affermazioni di particolare rilievo in relazione al tema giorgionesco: Erissimaco, la sua amplitudine dichiarò, quando mostrò che le due spezie d’Amore in tutte le spezie si ritruovano. Aristofane dichiarò quello, che faccia in qualunque cosa la presenzia di Cupidine tanto amplissima, dimostrando per costui gli uomini che prima erano divisi, rifarsi interi. Agatone trattò quanta sia la virtù e potenzia sua, dimostrando che so18
Rodolfo Pallucchini, Giorgione, Milano, Martello, 1955, tavola xvin. Gudrun Schleusener-Eichholz, Das Auge im Mittelalter, 2 voll., München, Fink, 1985, ii, p. 846. 19
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lo questo fa beati gli uomini. Socrate finalmente ammaestrato da Diotima ridusse in somma che cosa sia questo Amore, e quale, e onde nato: quante parti egli abbia, a che fini si dirizzi: e quanto vaglia. Guido Cavalcanti filosofo, tutte queste cose artificiosamente chiuse nelli suoi versi. Come per il raggio del Sole lo specchio in un certo modo percosso risplende: e la luna a sè propinqua per quella riflessione di splendore infiamma: così vuole Guido, che la parte della Anima chiamata da lui oscura fantasia e memoria, come uno specchio, sia percossa dalla immagine della bellezza, che tiene il luogo del Sole, come da un certo raggio entrato per gli occhi, e sia percossa in modo che ella per la detta immagine una altra immagine da sè sì fabbrichi, quasi come splendore della prima immagine, per il quale splendore la potenzia dello appetire non altrimenti s’accenda, che la luna: e accesa ami. Aggiugne nel suo parlare: che questo primo Amore acceso nello appetito del senso, si crea dalla forma del corpo, per gli occhi compresa: ma dice che quella forma non s’imprime nella fantasia, in quel modo che è nella materia del corpo, ma senza materia. Nondimeno in tal modo che ella sia immagine d’un certo uomo, posto in certo luogo sotto certo tempo. E che da questa immagine subito riluce nella mente un’altra spezie, la quale non è più similitudine d’uno particulare corpo umano, come era nella fantasia, ma è ragione comune e diffinizione ugualmente di tutta la generazione umana.Adunque sì come da la fantasia, da poi che ha presa la immagine dal corpo, nasce nello appetito del senso, servo del corpo, lo amore inclinato a’ sensi: così da questa spezie della mente e ragione comune, come remotissima da ’l corpo, nasce nella volontà un altro Amore, molto da la compagnia del corpo alieno. Il primo Amore pose nella voluttà: il secondo, nella contemplazione. E stima che il primo intorno a la particulare forma d’un corpo si rivolga: e che il secondo si dirizzi circa la universal Pulcritudine di tutta la generazione umana: e che questi due Amori nell’uomo intra loro combattino. Il primo tira in giù alla vita voluttuosa e bestiale: il secondo in su alla vita angelica e contemplativa c’innalza. Il primo è pieno di passione e in molte genti si truova: il secondo è senza perturbazione e è in pochi. Questo filosofo ancora mescolò nella creazione dello Amore una certa tenebrosità di Caos, la quale di sopra voi avete posta: quando disse l’oscura fantasia illuminarsi, e della mistione di quella oscurità e di questo lume, nascere lo Amore. Ancora la prima sua origine pone nella Bellezza delle cose divine. La seconda nella Bellezza de i corpi. Imperocché quando ne’ suoi versi dice: sole e raggio, per il Sole intende la luce di Dio, per il raggio la forma de’ corpi. E vuole che il fine dello Amore, risponda al suo principio in modo che l’istinto d’Amore fa cadere alcuno insino al tatto del corpo: e alcuno fa salire insino a la visione di Dio20.
20
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, cit., pp. 135-137.
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Evidente è il rapporto tra tale sintetica gnoseologia e il dipinto di Giorgione. Mentre gli sguardi dei due uomini in piedi sono rivolti al terreno e restano quindi legati al chiuso ambito inferiore (della vita voluttuosa e bestiale), il giovane seduto guarda verso l’alto, liberandosi dalla sfera della materia e innalzandosi alla vita angelica e contemplativa. In opposizione alla osservazione esteriore rappresentata dalle altre due figure si pone la contemplazione del giovane “geometra”, che lo conduce alla conoscenza di Dio. Scrive Kristeller, in un’acuta analisi della prospettiva ficiniana, sebbene non direttamente in relazione al nostro documento iconografico: il processo stesso, di natura contemplativa, che apre all’anima quasi una nuova regione della realtà, è inteso per conseguenza come un atteggiamento intellettuale e conoscitivo. In quanto poi ogni pensiero è necessariamente rivolto a un oggetto, e poiché secondo il Ficino ogni oggetto possibile fa anche parte dell’essere esistente, la contemplazione interiore è senz’altro riferita ad un oggetto incorporeo, determinato poi come mondo intelligibile o come Dio21.
Proprio questo concetto fonda la situazione in cui si trova il giovane raffigurato nel dipinto di Giorgione. Alla base dell’idea rappresentata dal giovane sentado è la riflessione ficiniana sul “raggio visivo”, che in diversi gradi e in sempre maggiore distanza dall’ambito sensibile genera al livello più elevato l’indipendenza spirituale dell’osservatore dall’effetto della realtà oggettuale. In questo fenomeno è possibile riconoscere l’atto individuale di acquisizione di significati in cui si articola la conoscenza del giovane che rivolge lo sguardo verso l’alto. L’atto supremo della contemplazione è la diretta visione di Dio. il «san francesco» di bellini e l’architetto di giorgione Ritornando alla questione già accennata della “doppia luce” del quadro, ancora oggi elemento di contrasto tra le diverse interpre21
Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Firenze, Sansoni, 1953, p. 246.
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tazioni, il percorso ci conduce a Giovanni Bellini, maestro di Giorgione. Si tratta di un percorso su cui occorrerà transitare più volte e che ci offre sorprendenti indicazioni sul confronto intellettuale tra Giorgione e il suo maestro e quindi sulle peculiarità della posizione del pittore di Castelfranco. Un esempio significativo delle vicinanze e delle distanze tra i due pittori può essere fornito da un’analisi del San Francesco belliniano (Frick Collection, New York) in rapporto al dipinto giorgionesco dei Tre filosofi. Richard Turner ha finemente rilevato nel motivo della comunione contemplativa con la natura un nesso tra le due opere: The Frick Saint Francis is recalled, that ordered landscape where a saint breathes deeply of the morning air, and addresses his praises to the rising sun. So in the Giorgione figures are at home in nature, and one, the seated youth, contemplates the light that bathes the top of the bluff. Marcantonio Michiel tells us that this is the light of the sun, but in this particular he is wrong, for the sun’s rays die as it slips below the hills in the distance. So we are left with a mystery, an undefined light that may be the very protagonist of the picture. The similarity between the two pictures carries further, for in both light enters from the left, and is contemplated by a human to the right. Both canvases are similar in format, and even allowing for modest trimming in each case, both are virtually the same size. It is then of more than passing interest to know that both pictures were in the Contarini Collection, the Bellini having passed there sometime before 1525, presumably from its original owner, one Zuan Michiel22.
Nonostante le concordanze strutturali rilevate, resta ancora irrisolta la questione della luce, sebbene Turner ne evidenzi a ragione il ruolo centrale per entrambi i pittori, anche in relazione all’aspetto della contemplazione. In tale contesto, partendo dalla constatazione di uno stretto legame tra il San Francesco e I tre filosofi, egli ipotizza la presenza di un messaggio affine. Con acutezza Turner indica quindi la direzione in cui deve muoversi l’interprete, pur ammettendo la momentanea impossibilità di giungere a una
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Almon Richard Turner, The Vision of Landscape in Renaissance Italy, Princeton, New Jersey University Press, 1966, p. 86.
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soluzione definitiva della questione del rapporto tra i due dipinti finché continueranno a mancare affidabili prove testuali o visive23. Queste prove possono essere trovate attraverso un paziente confronto tra i due dipinti, che a un primo sguardo sembrano mostrare più differenze che affinità, nella misura in cui essi ricorrono a fonti testuali completamente diverse. Mentre l’opera di Giorgione si trova nel segno del neoplatonismo di impronta ficiniana, il materiale di riferimento per il San Francesco belliniano è tratto dall’ambito agiografico, ovvero dall’Actus beati Francisci et sociorum eius (ill. 3)24. Il dipinto di Bellini mostra il santo in dialogo, verso il margine sinistro, con una pianta di alloro (laurus nobilis), che flette dolcemente la sua cima illuminata in direzione del santo che a sua volta piega leggermente il busto all’indietro – evidente appare il riferimento all’episodio biblico di Mosè di fronte al roveto in fiamme. Nel chiaro richiamo formale alla figura di Cristo, il San Francesco belliniano mostra già una differenza rispetto al giovane dipinto da Giorgione. Nel suo dialogo con la pianta d’alloro Francesco è un alter Christus, vicario di tutta la cristianità, in un’unione viva con Dio: della sua metamorfosi in eandem imaginem, che avviene attraverso lo sguardo rivolto verso l’alto a volto scoperto (revelata facie) verso la magnificenza di Dio, non testimoniano soltanto le stigma23
La validità delle analisi di Turner è confermata dalla seguente osservazione, in cui l’autore mette in relazione i due dipinti: «An eighteenth century inventory gives the picture a poetic title: The Three Magi Who Await the Appearance of the Star. An old tradition is often right, and so would be explained the light which falls upon the bluff, for it can only be that of the miraculous star which shall guide the Wise Men on their way. Were this interpretation accepted, then the Saint Francis and the Three Philosophers would be closely bound in meaning. Both pictures by the agency of light would reveal to men the Divine Presence. As the source of life is revealed to Saint Francis, so the source of salvation guides the Wise Men. I wish I could confidently offer this interpretation, far less fanciful than some which have been argued at great length, but it would be hardly honest. It is not obvious that the painting represents the Three Magi, and beyond the painting itself there are no reliable comparisons. Until such comparisons, written or visual, are found, the picture must remain a mystery» (ivi, p. 87). 24 Cfr. Giovanni Bellinis heiliger Franziskus (Frick Collection, New York), in Willi Hirdt, Lesen und Sehen. Aufsätze zu Literatur und Malerei in Italien und Frankreich, a cura di Birgit Tappert e Willi Jung, Tübingen, Stauffenburg Verlag, 1998, pp. 29-74.
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te, ma anche lo splendore luminoso (claritas) che si irradia su questo volto. Distinguendo due tipi di luce nel quadro di Bellini, una “naturale”, il cui effetto sottolinea i dettagli realistici della scena paesaggistica, e una “innaturale” (misteriosa), la cui fonte sarebbe nascosta, Millard Meiss indica implicitamente una corrispondenza con il dipinto di Giorgione. Che non si tratti però di una identità di messaggio è testimoniato dai diversi approcci gnoseologici con cui Giorgione e Bellini si rivolgono allo spettatore delle loro opere. Determinanti per un’adeguata comprensione della scena belliniana sono le spiegazioni del santo sulla visione che Dio, in risposta alla duplice domanda Quid es tu, dulcissime Deus meus, et quid sum ego, vermiculus et parvus servus tuus ?, gli invia in forma di duplice luce (duo lumina). Una luce è, secondo le parole del santo, quella della conoscenza di Dio (unum de cognitione Creatoris), che non è frutto di un processo razionale ma dell’esperienza empirica dell’autorivelazione di Dio, una «conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Co 4, 6) determinata spiritualmente. L’altra luce è quella della conoscenza di sé (aliud de cognitione mei ipsius), a cui Francesco giunge attraverso il riconoscimento dei limiti delle proprie possibilità e l’apertura incondizionata al Dio esperito personalmente. In quest’ottica si spiega il particolare ruolo della luce nel dipinto belliniano. La «unearthly light» segnala deliberatamente la dimensione allegorica della rappresentazione, la luce divina nella notte terrena. Considerando questa doppia illuminazione (duo lumina) concessa al santo, è possibile quindi, sulla base del messaggio allegorico del quadro, spiegare la presenza, rilevata dalla critica, di due diverse fonti di luce. Dato che la conoscenza di Dio, sia nell’episodio veterotestamentario del roveto in fiamme che in quello belliniano della Verna, si presenta in forma di una automanifestazione del divino, non abbiamo una differenza di principio tra Vecchio e Nuovo Testamento. In entrambi i casi la conoscenza avviene nei termini di una diretta visione di Dio, l’elezione al fine del compimento del piano salvifico ha luogo in forma di un colloquio, la teofania è legata ad un evento luminoso. Sotto l’aspetto teologico-tipologico ci sono però considerevoli differenze, il cui esame può portare a un’adeguata comprensione dello specifico messaggio di Bellini. La cono-
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scenza data dalla teofania nel Sinai si fonda sugli atti storici di Jahvè, nei suoi interventi giuridici e salvifici; quella della teofania della Verna è il frutto dell’atto di redenzione del Cristo: le stigmate del santo devono essere lette quale espressione più eloquente di questa conoscenza. Il colloquio tra Mosè e il suo Dio si svolge nel segno dell’esitazione dell’eletto, il quale, cosciente della propria inadeguatezza e dilaniato dai dubbi, ha timore di compiere la missione divina. Il colloquio tra Francesco e Dio ha luogo nei termini di una lieta e illimitata devozione da parte dell’eletto: la legge mosaica dell’antica alleanza cede il posto all’ordine apostolico della nuova alleanza, che per lo alter Christus Francesco è sintetizzata nella formula triadica aurea oboedientia, paupertas altissima e splendidissima castitas. Con Cristo è superata la legge della morte e del peccato (Rm 8, 2) che possiamo vedere, ad esempio, rappresentata dall’«uomo vestito di lino che aveva sul fianco il calamaio da scriba» (Ez 9, 3: virum qui indutus erat lineis, et atramentarium scriptoris habebat in lumbis suis), rispetto al quale il Francesco belliniano sembra porsi in termini antitipici: l’atramentarium dello sterminatore diventa in Bellini la chartula del Salvatore annunciante il messaggio dell’amore. Nel segno della grazia anche la discussa luce del dipinto assume una nuova valenza: la giustizia della fede ha sostituito la giustizia della legge, l’escatologica definitività ha preso il posto dell’escatologica temporaneità, come sottolinea con particolare enfasi l’ermeneutica cristocentrica: dove la luce nell’episodio del roveto in fiamme è simbolo di fervore divino e della giustizia punitiva di Dio (1 Co 3, 11 sgg.), davanti alla quale Mosè si copre il volto, nell’episodio della Verna essa simboleggia lo splendore della nuova rivelazione che attraverso Cristo promette il compimento e il superamento dell’antica alleanza. Il morto ordine letterale della legge viene sostituito dalla luce dello spirito vivo che risplende sul volto dell’alter Christus. La fede che, come nel caso di Francesco, si articola nell’imitatio Christi guarda a volto scoperto lo splendore di Cristo. E questo guardare si trasforma a sua volta nella stessa immagine di Cristo (Rm 8, 29), come testimoniano le stigmate appena accennate. Esse sono il segno del processo di rinnovamento dell’uomo interiore, presupposto per diventare apostolo di Cristo. In un’otti-
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ca tipologica – o meglio antitipica –, nel momento in cui le stigmate come segno dell’azione salvifica di Cristo sostituiscono il bastone di Mosè, con il quale egli può compiere miracoli, la teofania della Verna raffigurata da Bellini trasferisce in un piano interiore ciò che nella teofania del Sinai era evento esteriore. In tal modo si delinea come soggetto del quadro ciò che Meiss ha definito una “Stigmatization by Light”25. Difficile trovare una descrizione più calzante, anche considerato l’angolo visuale allegorico-tipologico su cui si fonda questa analisi. È una lettura che allo stesso tempo mette in rilievo gli elementi chiave del pensiero francescano. Come la visione di san Francesco può aver luogo solo in una situazione che realizzi perfettamente l’ideale del cattolicesimo medievale, culminante nella fuga monacale dal mondo, anche i concetti trasmessi da questa visione – oboedientia, paupertas e castitas – sono i fondamenti di una vita ascetica come imitatio Christi che allo stesso tempo interiorizza misticamente la religione. Si può quindi affermare che le due enigmatiche fonti di luce che articolano il messaggio di Bellini provengono dall’ambito del cattolicesimo francescano. Giorgione, ispirato concettualmente e metodologicamente da Bellini, si volge tuttavia decisamente in un’altra direzione: in luogo del francescanesimo troviamo qui il neoplatonismo di impronta ficiniana. Gli elementi iconografici riutilizzati – la “doppia luce” e la “contemplazione” – attraverso i quali Giorgione comunica il messaggio della propria gnosi, non sono tratti, come in Bellini, dalla letteratura agiografica, ma dalla filosofia di Ficino. Sebbene in entrambi i dipinti trovi espressione il principio della luce come potenza dell’Essere divino, Giorgione segna con la sua svolta neoplatonica un deciso distacco da Bellini. «Non l’essere nella luce e vedere», scrive Hans Blumenberg, «appaga l’uomo: ciò che lo muove è il guardare nella luce stessa e far scomparire tutto il visibile in essa»26. È esattamente in questo punto che si esprime la novità concettuale di Giorgione. Il suo pio phi25 Millard Meiss, Giovanni Bellini’s St. Francis in the Frick Collection, Princeton, Princeton University Press, 1964. 26 Hans Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit. Im Vorfeld der philosophischen Begriffsbildung, in «Studium Generale», 10, 1957, pp. 432-447: 435.
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losopho non è, come Francesco, esposto al flusso luminoso che rivela l’evento escatologico, ma è egli stesso a giungere tramite il “raggio visivo” al livello più alto della verità. In numerose epistole Ficino mette a fuoco il substrato della sua filosofia platonica. Al caro amico Giovanni Cavalcanti egli comunica le sue conclusioni sulla verità divina definendola «il lume»27. Le lettere che ci sono giunte testimoniano chiaramente il fatto che la contemplazione razionalistica – nel senso ficiniano – del giovane “filosofo” seduto non ha nulla a che vedere con quella del San Francesco belliniano. Scrive Ficino in un’epistola a «Bernardo Bembo imbasciatore de vinitiani»: E la vita altro non è che un atto, e dove piu è questo atto, ivi piu è la vita. Certo è adunque che l’atto de la contemplatione, come eccellentissimo di tutti gli altri così per dignità, come per perseveranza è una certa e grandissima & eccellentissima vita, e ancor piu d’ogn’altra suavissima. Percio che ella non cerca i dishonesti diletti del senso falsi e brevissimi da le estrinseche imagini de le cose, ma possedendo apieno dentro di se le vere e sempiterne ragioni e nature de le cose puramente, veramente, e stabil-
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Le citazioni sono tratte dalla versione italiana di Felice Figliucci: cfr. Le divine lettere del gran Marsilio Ficino. Tradotte in lingua toscana da Felice Figliucci senese, a cura di Sebastiano Gentile, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001: «La maggiore, e prima cura che havesse il divino Platone si come ci mostra il Dialogo di Parmenide, fu di mostrare che l’era un solo principio di tutte le cose; il qual principio egli con piu proprio vocabolo, chiamò il vero uno. E similmente volse ancora che fusse una sola verita di ciascuna cosa, e questa diceva essere il lume di quello uno, cioè di Iddio, infuso in ciascuna mente, e in tutte le spetie de le cose, percio che egli vedeva, che quel divino lume offeriva e mostrava a la mente quelle spetie, e similmente a le menti congiugneva le spetie. Perilche fa dibisogno che qualunque vorra far professione de lo studio di Platone, honori e confessi una unica verita, cioè un sol raggio di Iddio, e questo raggio passa a gli Angeli, per l’anime, per i cieli, e per gli altri corpi, e (si come dicemo nel nostro libro d’amore) il suo splendore rifulge in ciascuna cosa, secondo la natura di quello che in se la riceve. E questa si chiama gratia, ovvero bellezza. e dove piu chiaramente risplende, quivi alletta grandemente colui che in quello risguarda, commuove la persona che lo considera, e rapisce e occupa ciascuno che gli s’appressa. E così costringe quel tale a honorare un si fatto splendore piu d’ogn’altro, come se fusse una cosa divina, e lo conduce à tale, che egli altro non cerca, ne ad altra cosa con ogni suo sforzo attende, che (deponendo la sua prima natura) a diventare anch’egli simile a quello splendore» (ivi, i, p. 36).
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mente, si pasce e gode de le pure, e vere e stabili. Dico ch’ella si gode infinitamente d’un infinito bene, però che (il che è di maggiore importanza) questa tal vita vicinissima a la vita di Iddio si trasforma ne la sua perfettissima imagine, onde Iddio è insieme luce e occhio de la humana contemplatione, e la contemplatione è luce e occhio de la operatione. E benche questo tale occhio paia che sia otioso, nondimeno sanza quello ogni cosa è tristemente otiosa, e pessimamente ogni cosa opera. Et è finalmente ogni cosa misera. A questo si può aggiungere, che al suo cenno ogni cosa felicemente opera. Questa tal vita in una somma altezza de le cose collocata, è sanza dubio alcuno beatissima, la sagace filosofia a gli mortali mostra e insegna con un suo proprio occhio, e ancora col dito de la Dialetica, e ci conduce a quello, come io penso, per quattro gradi, cioè con le dottrine morali, con le naturali, con le matematiche e con le metafisiche28.
In questo senso Giorgione trasferisce la doppia illuminazione, elemento che fonda l’enigmaticità del messaggio iconografico, dalla notte mistica in cui avviene la rivelazione divina nel dipinto belliniano al nascente giorno di lavoro dei “filosofi”. Alle mani distese – nella gioia sacrificale dell’atto di ricevere le stimmate – dell’alter Christus san Francesco si oppongono nel quadro di Giorgione i pugni nerboruti di un geometra, che tengono gli strumenti di misurazione. In Bellini la conoscenza è l’incontro con Dio, in Giorgione essa diventa l’esito, raggiunto tramite riflessione, dell’incontro con la natura rocciosa. Tali temi, fondamentali per la pittura, sono rintracciabili anche nella letteratura coeva. Anche la Canzona d’amore di Girolamo Benivieni intesse, in forma completamente nuova, le fila della dottrina cristiana con quelle della filosofia platonica29. I motivi di ascenden28
Ivi, pp. 104-105. Girolamo Benivieni (1453-1542), ammiratore di Dante e Ficino. Pico della Mirandola, con cui egli strinse amicizia a Firenze, dedicò alla poesia di ispirazione dantesca un approfondito commento nel 1486 (cfr. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di Eugenio Garin, Firenze, Vallecchi, 1942, pp. 443-581). La ragione della pubblicazione relativamente tarda (1519) della Canzona, che tuttavia cominciò presto a circolare tra «curiosi» («in potestà di alcuni più curiosi» è scritto in una lettera dell’autore), è da rintracciare nel timore di Benivieni di non aver dato alla verità cattolica lo stesso peso che all’opinione de’ Platonici. I dubbi del moralista, sodale di Savonarola, svaniscono 29
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za ficiniana presenti nella poesia, e ripresi anche da Giorgione, riguardano il ruolo dello sguardo, i raggi solari e il processo di contemplazione. Dove Giorgione pone in contrasto la fronte del giovane diretta in alto, verso il cielo, e lo sguardo diretto altrove dei suoi due accompagnatori, Benivieni oppone la posizione orientata metafisicamente a quella gnoseologica diretta alla percezione esteriore: Io dico com’amor dal divin fonte dell’increato ben qua giù s’infonde, quando in pria nato e d’onde muove el ciel, l’alme informa, el mondo regge; come poi ch’entro agli uman cor s’asconde, con quale e quanto al ferir dextre e pronte arme elevar la fronte da terra sforzi al ciel l’umana gregge, com’arda, infiammi, avvampi e con qual legge questo al ciel volga e quello a terra or pieghi [...] (vv. 19-28).
Il «divin sole» (v. 38), il cui splendore infonde nell’uomo l’amore per Dio, inizia il processo graduale di purificazione: gli occhi percepiscono e ricevono per primi, in quanto organi di senso del volto, la bellezza dell’amata, della natura; attraverso gli occhi lo spirito (mente, cor ) accoglie quindi con la sua virtù immaginativa la luce che è penetrata, lasciando la materia e percorrendo in tal modo il cammino verso l’unità universale, verso la bellezza divina dell’universo che appare all’osservatore sulla via verso la conoscenza della verità (v. 137) «come raggio di sol sott’acque» (v. 130). Lo stato di contemplazione – lo stesso in cui Giorgione presenta il giovane seduto – è quindi raggiunto. Si tratta, come espone la Canzone del teologo e filosofo Benivieni, del riflesso della bellezza divina, che conduce l’“amante” alla fonte della bellezza, a Dio.
tuttavia a un’analisi attenta dell’opera. La metafisica dell’Amor – concetto centrale dell’aspirazione spirituale verso una bellezza ideale – che Benivieni sviluppa concettualmente, non si fonda infatti su Platone, ma sulla teoria dell’«amore» di Ficino. Il testo della Canzona (Canzona d’amore composta per Hieronimo Benivieni cittadino fiorentino, secondo la mente e opinione de’ platonici ) si legge in Pico della Mirandola, De hominis dignitate, cit., pp. 451-458.
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La poesia della rivelazione di Benivieni si presenta come un allegorico compendio di idee filosofico-teologiche puntualizzate dal ficiniano Sopra lo amore. Si tratta di una osservazione del divino armonizzata in senso religioso e scientifico che costituisce la base anche della concezione figurativa di Giorgione. La luce della natura, verso cui l’osservatore dirige lo sguardo, lo guida di grado in grado, sviluppando una luce interiore che permette l’unione dello spettatore all’essere supremo (quel lume in noi che sopr’al ciel ci tira ). Il raggio di sol (v. 130) che il poeta inserisce plasticamente nella sua poesia si trova in rapporto diretto con quei raggii solari il cui significato centrale per il dipinto di Giorgione viene rilevato da Marcantonio Michiel. Dallo sguardo contemplativo che il Michiel attribuisce al “filosofo” sentado deriva la sua “illuminazione” quale massima conoscenza raggiungibile. Il sincretismo compiuto da Ficino di un sistema religioso e di uno filosofico – l’unione di Bibbia e Platone (nonché Plotino) –, e di conseguenza la fusione di scienza e poesia che influenzerà profondamente il pensiero nella seconda metà del Quattrocento, trova un’eco importante non solo nella poesia di Benivieni, ma anche nella prosa, come testimonia il Cortegiano di Baldassare Castiglione, cominciato nel 1508 e quindi nell’anno stesso e nello stesso contesto in cui prendono forma I tre filosofi di Giorgione. Non possiamo affrontare in questa sede la questione di quando e come si sviluppò il rapporto tra Giorgione e Castiglione. Certo è però il ruolo di mediazione svolto dal Bembo, attivo a Urbino, come Castiglione, dal 1506 al 1511. Non a caso Castiglione fa esporre proprio a Bembo, nella fondamentale chiusa del suo scritto terminato nel 1516, la teoria dell’amore platonico e – sulla base di essa – l’ideale del “Cortegiano” (iv, 68). La figura esemplare che prende forma nella esposizione di Bembo è rivolta, nella ricerca della conoscenza, a quella luce verso la quale si dirige anche lo sguardo del giovane sentado giorgionesco: Quando adunque il nostro cortegiano sarà giunto a questo termine, benché assai felice amante dir si possa a rispetto di quelli che son summersi nella miseria dell’amor sensuale, non però voglio che se contenti, ma arditamente passi più avanti, seguendo per la sublime strada drieto
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«i tre filosofi» di giorgione
alla guida che lo conduce al termine della vera felicità; e così in loco d’uscir di se stesso col pensiero, come bisogna che faccia chi vol considerar la bellezza corporale, si rivolga in se stesso per contemplar quella che si vede con gli occhi della mente, li quali allor cominciano ad esser acuti e perspicaci, quando quelli del corpo perdono il fior della loro vaghezza; però l’anima, aliena dai vicii, purgata dai studi della vera filosofia, versata nella vita spirituale ed esercitata nelle cose dell’intelletto, rivolgendosi alla contemplazion della sua propria sustanzia, quasi da profundissimo sonno risvegliata, apre quegli occhi che tutti hanno e pochi adoprano, e vede in se stessa un raggio di quel lume che è la vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della quale essa poi communica al corpo una debil umbra; però, divenuta cieca alle cose terrene, si fa oculatissima alle celesti; e talor, quando le virtù motive del corpo si trovano dalla assidua contemplazione astratte, o vero dal sonno legate, non essendo da quelle impedita, sente un certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di quella luce comincia ad infiammarsi e tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e fuor di se stessa, per desiderio d’unirsi con quella, parendole aver trovato l’orma di Dio, nella contemplazion del quale, come nel suo beato fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiamma, si leva alla sua più nobil parte, che è l’intelletto; e quivi, non più adombrata dalla oscura notte delle cose terrene, vede la bellezza divina; ma non però ancor in tutto la gode perfettamente, perché la contempla solo nel suo particular intelletto, il qual non po esser capace della immensa bellezza universale. Onde, non ben contento di questo beneficio, amore dona all’anima maggior felicità; ché, secondo che dalla bellezza particular d’un corpo la guida alla bellezza universal di tutti i corpi, così in ultimo grado di perfezione dallo intelletto particular la guida allo intelletto universale. Quindi l’anima, accesa nel santissimo foco del vero amor divino, vola ad unirsi con la natura angelica e non solamente in tutto abbandona il senso, ma più non ha bisogno del discorso della ragione; ché, transformata in angelo, intende tutte le cose intelligibili, e senza velo o nube alcuna vede l’amplo mare della pura bellezza divina ed in sé lo riceve, e gode quella suprema felicità che dai sensi è incomprensibile30.
Come rivela il lessico utilizzato (contemplar, occhi della mente, vera filosofia, contemplazion, raggio di quel lume, bellezza angelica, 30 Baldassare Castiglione, Il Cortegiano, in Opere di Baldassarre Castiglione, Giovanni della Casa, Benvenuto Cellini, a cura di Carlo Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 5-361: 354-355.
iii. il raggio visivo: luce e oscurità
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luce, bellezza divina, immensa bellezza universale, intelletto particolar, intelletto universale, ultimo grado di perfezione, suprema felicità ecc.), Castiglione attinge, per la sua teoria presentata attraverso Bembo, a quei concetti filosofici che Ficino espone nella Theologia Platonica (xvi, 3): Ita radius ille caelestis, qui ad ima defluxerat, refluit ad sublimia, dum similitudines idearum, quae fuerant in materia dissipatae, colliguntur in phantasia, et impurae purgantur in ratione, et singulares tandem in mente evadunt universales, sic hominis anima iam labefactatum restituit mundum, quoniam eius munere spiritalis olim mundus, qui iam corporalis est factus, purgatur assidue atque evadit quotidie spiritalis.
Il «perfetto Cortegiano», che ha fatto propria la dottrina sincretica ficiniana, è la personificazione di quella nuova filosofia in cui si compie il passo decisivo dal Medioevo all’età moderna. Tale innovativo passo in avanti è leggibile non solo negli scritti accademici, ma anche nelle opere artistiche del tempo31. Il ponte tra la filosofia e le arti eretto da Ficino e assunto da Castiglione a questione nodale del suo Cortegiano, è da intendersi ovviamente anche in rapporto alla pittura e naturalmente anche a Giorgione, che Castiglione pone non a caso nella serie dei pittori pur in modi diversi «eccellentissimi» (i, 37): «Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco: nientedimeno, tutti son tra sé
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«Chi legga opere […] come El libro dello amore proprio di Marsilio Ficino, capisce più a fondo il nuovo rapporto che si è venuto a stabilire fra le arti e la nuova filosofia: la teoria della bellezza e dell’amore, la teoria della vita e della luce, si riallacciano sì alle esperienze platoniche, ma le visualizzano al modo dei maestri del Quattrocento. Di qui l’estrema difficoltà, spesso, di tracciare una netta linea di demarcazione fra l’artista, o lo scienziato, e il moralista e il filosofo. Che è una connotazione di molti di questi intellettuali, siano letterati, o pittori, o tecnici di livello altissimo (architetti, ingegneri), o scienziati (astrologi/astronomi, matematici). Dove finisce Poliziano poeta e dove comincia Poliziano filologo? dove finisce il “grammatico” e dove comincia il “logico”, il teorico della retorica e della dialettica?» (Eugenio Garin, Il filosofo e il mago, in L’uomo del Rinascimento, a sua cura, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 167-202: 190).
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nel far dissimili, di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perché si conosce ciascun nel suo stilo esser perfettissimo»32. La sintesi divina dell’unità indivisibile con una pienezza onnicomprensiva e uno spazio infinito, alla quale Ficino viene ad aggiungere attraverso suggestioni plotiniane l’immagine del «raggio», trova la sua raffigurazione plastica nella luce della roccia verso la quale è diretto lo sguardo del giovane. Il richiamo al quadro I tre filosofi di Giorgione da parte di Garin nel contesto della sua analisi della nuova filosofia ficiniana non potrebbe essere più appropriato33.
32 33
Baldassare Castiglione, Il Cortegiano, cit., p. 64. Cfr. Eugenio Garin, Il filosofo e il mago, cit., pp. 172-173.
inserto iconografico
Referenze fotografiche Foto 1, 8 (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Wien oder KHM); 4, 5, 7, 11, 14 (Foto Scala Firenze, 1990). La foto 4 è pubblicata con autorizzazione concessa dalla Direzione Beni e Attività culturali dei Musei Civici Veneziani. La foto 5 è pubblicata con autorizzazione concessa dall’Ufficio Beni Culturali della Curia Patriarcale di Venezia.
1. Giorgione, I tre filosofi, Vienna, Kunsthistorisches Museum
2. Illustrazione dell’Inferno, Canto i, Londra, British Library
3. Giovanni Bellini, San Francesco, New York, The Frick Collection
4. Giovanni Bellini, Trasfigurazione, Venezia, Museo Correr
5. Giovanni Bellini, Madonna in trono con Bambino e santi, Venezia, San Zaccaria, particolare
6. Bible moralisée, frontespizio, cod. Vindob. 2554, 1220 ca
7. Raffaello, La scuola di Atene, Vaticano, Stanza della Segnatura, particolare
8. Giorgione, I tre filosofi, Vienna, Kunsthistorisches Museum, particolare
9. Giulio Campagnola, L’astrologo, incisione
10. Lexicon Graecolatinum multis et praeclaris additionibus locupletatum, Parigi, 1512, stampa
11. Raffaello, Scuola di Atene, Vaticano, Stanza della Segnatura, particolare
12. Saenredam, La caverna di Platone, incisione da Cornelis Cornelisz
13. Giorgione, Adorazione dei pastori, Washington, National Gallery of Art
14. Giorgione, La lezione di canto, Firenze, Galleria Palatina
IV.
In cammino: il trio di scienziati
La serie di supposizioni e congetture elaborate dalla critica d’arte sul presunto soggetto dei Tre filosofi è così ricca di elementi che fino a oggi è impossibile trarre delle conclusioni certe e definitive. Al centro delle indagini critiche sul significato del nostro dipinto è venuto a trovarsi in particolare il gruppo di figure che Giorgione sembra mettere in scena come una triade, e il cui spazio culturale si estende – nelle suddette esegesi – tra oriente e occidente, classicità e Rinascimento, scienza e poesia. Wickhoff legge nelle tre figure la versione iconografica di un episodio dell’Eneide – il re Evandro (il vecchio al margine del dipinto) e suo figlio Pallante (il giovane seduto) che conducono il loro ospite, il troiano Enea (l’uomo con il turbante), davanti alla roccia su cui sorgerà il Campidoglio (viii, 306-348). Partendo come Wickhoff dall’interpretazione della roccia, ma orientato in una diversa direzione, Emil Schaeffer cerca di trovare corrispondenze con la descrizione del Michiel e propone di interpretare le tre figure in senso storico-mitologico, identificando in esse «il giovane Marco Aurelio sul monte Celio con i due filosofi che lo guidano nell’apprendimento»1. Questa ipotesi, che intendeva fondarsi sulle affer-
1 Cfr. Emil Schaeffer, Giorgiones Landschaft mit den drei Philosophen. Ein Deutungsversuch, in «Monatshefte für Kunstwissenschaft», 3, 1910, pp. 340-345: 344: «Qui abbiamo quella roccia che colpì particolarmente Marc Antonio Michiel; si tratta di uno dei sette colli, ma non è il Capitolino, come ha supposto Wickhoff, bensì il Celio. Il morbido paesaggio immerso in un’aurea pace serale non ha nulla a che vedere con il luogo orrorifico di Virgilio [...]. E quando leggiamo che Mar-
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«i tre filosofi» di giorgione
mazioni del Michiel, non ha trovato conferma nelle successive interpretazioni. Ferriguto vede nei personaggi di Giorgione i rappresentanti delle tre fasi di sviluppo dell’aristotelismo, Rahel Wischnitzer-Bernstein li identifica con Regiomontano, Aristotele e Tolomeo. Per Parronchi si tratta della raffigurazione di san Gerolamo, David e san Luca, mentre Maurizio Calvesi propone Mosè, Zarathustra e Pitagora (o Talete). La serie di tali proposte potrebbe essere allungata a piacimento, aggiungendo ad esempio la curiosa soluzione “Pi-To-Co” di Enrico Guidoni2 ed elencando i nuovi titoli di volta in volta assegnati al dipinto3. La rinuncia, che caratterizza le varie proposte e analisi, a considerare l’intero sistema di riferimenti della struttura iconografica, in cui ogni elemento assume una funzione all’interno di un unico complesso visivo, è la causa evidente di una ricerca destinata a girare a vuoto. In breve, ciò che ad essa difetta sono informazioni strutturali che permettano una lettura del quadro nel suo insieme. il libro della natura Che Giorgione trasferisca all’interno della sua scena elementi tematici tradizionali può essere chiaramente provato da uno specifico confronto con un’opera del suo maestro Bellini. Uno sguardo al co Aurelio già a dodici anni vestiva il mantello di filosofo, dormiva sulla terra nuda e che solo a fatica fu convinto da sua madre a usare un letto di pelli, queste frasi richiamano alla mente il giovane di Giorgione, il quale, vestito con un abito semplice, siede sul duro terreno pietroso, di cui sembra però non sentirne il freddo, tanta è la voglia di imparare che sprigiona dai suoi occhi. Giulio Capitolino nomina alcuni maestri del principe imperiale, e se noi vediamo una squadra nelle mani di Marco Aurelio e gli strani segni nel libro del vecchio con la barba da mago, appare naturale riconoscere nel venerando patriarca quell’Andro che introdusse il ragazzo ai misteri della geometria». 2 Pitagora, Tolomeo, Copernico: cfr. Enrico Guidoni, Giorgione. Opere e significati, cit., pp. 273-276: 273. 3 Cfr. Thomas Zaunschirm, Giorgiones «Drei Philosophen», cit., pp. 6 sgg. e Salvatore Settis, La «Tempesta» interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Torino, Einaudi, 1978, cap. ii, Intorno ai «Tre Filosofi», pp. 19-45: 20 sgg.
iv. in cammino: il trio di scienziati
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dipinto belliniano del 1465 La Trasfigurazione di Cristo (ill. 4) rivela alcune evidenti riprese in forma di calcolate citazioni, il cui inserimento in un contesto completamente diverso indica al tempo stesso la via innovatrice percorsa da Giorgione in consapevole divergenza rispetto al maestro. Il sito della Trasfigurazione di Bellini, il sacro monte Tabor a ovest del lago di Genesaret, è un terreno che si innalza a gradi in cui si articola, su tre stadi, un movimento verso l’alto culminante nella figura di Cristo a contatto con Dio Padre che lo illumina: un’anticipazione della resurrezione. Sul livello superiore della serie di strati rocciosi circolari stanno i profeti Elia e Mosè, che appaiono sul monte della trasfigurazione. Ai loro piedi, sul livello sottostante, giacciono come colpiti da un fulmine gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Sul piano più basso, in cui non compare nessuna persona, abbiamo alcuni depositi di pietre, ciottoli arrotondati dall’azione fluviale o marina. Bellini presenta quindi il monte Tabor in una gradazione a tre piani, la cui struttura manifesta come il livello di volta in volta superiore – e, in riferimento al divino, più ricco di senso – si innalzi sul fondamento di quello inferiore (il quarto cerchio – quello celeste che si staglia tra le nuvole sopra gli altri tre cerchi terreni – segnala infine il Paradiso che attende il Cristo). Giorgione cita in effetti, come dimostrano le pietre depositate sul piano inferiore del dipinto I tre filosofi, il terreno di ciottoli di matrice belliniana. Il paesaggio roccioso di Giorgione è come quello montuoso di Bellini di forma circolare. La struttura a tre livelli, i ciottoli e gli strati a forma di anelli concentrici sono quindi l’indice di una chiara relazione tra Giorgione e Bellini. Ma anche le divergenze rispetto al maestro sono altrettanto evidenti: rispetto alla centralità assoluta e dominante del tema biblico rappresentato da Bellini abbiamo in Giorgione una dislocazione a lato della scena, verso il margine destro. Con un marcato spostamento di accenti Giorgione mette in rilievo non più l’importanza della teologia, ma il valore della scienza. Teologia e scienza entrano in tal modo in un rapporto conflittuale qui espresso allegoricamente. La figura di Cristo, centrale e in posizione elevata nel dipinto belliniano, scompare completamente dalla scena. Il tema della rivelazione diventa più complesso, arricchito dalla riflessione di Marsilio Ficino.
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La struttura concettuale del dipinto giorgionesco che conduce sulle tracce del suo messaggio figurativo è iscritta nel terreno collinoso su cui si trovano i tre protagonisti. Le linee che dividono gli strati della roccia assegnano alle tre figure posizioni chiaramente differenziate. Il vecchio a margine è posto nella parte più bassa e piatta del paesaggio a gradoni; l’uomo con il turbante al centro si trova sullo strato mediano, che si staglia con maggior evidenza anche grazie alla presenza dei ciottoli alla sua base; il giovane al centro del dipinto siede infine sullo strato superiore del terreno. I tre gradi in cui le figure ci vengono presentate riflette la formula di vita neoplatonica che more geometrico conduce alla conoscenza e comprensione della realtà divina. Ciò ci riconduce ancora una volta a Ficino. La sua dottrina della conoscenza evidenzia il fatto che il sommo bene in tutta la sua grandezza non può essere compreso «in questa vita». La luce apre all’occhio e all’anima la via verso l’incorporeo, non l’accesso al Paradiso, al sommo bene, alla meta finale, alla luce della verità, come Ficino sottolinea nel suo Sopra lo amore (I, xiii)4, prenden-
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«In che modo nella anima sia il lume di verità - Ma in che modo queste ragioni siano nello Animo, pare appresso Platone ambiguo. Chi legge que’ libri, che Platone scrisse in gioventù, come il Fedro, Fedone e Menone, stimerà forse quelle essere dipinte nella sustanzia dell’Anima da principio, come figure in tavola: secondo che disopra più volte da me e da voi è tocco, perché così pare che Platone i detti luoghi accenni. Dipoi questo uomo divino, cioè Platone, nel sesto Libro della Repubblica aprì la sua sentenzia dicendo, che il lume della mente a lo intendere tutte le cose è quello medesimo Iddio che fa tutte le cose. E agguaglia insieme il Sole e Dio in questo modo: che qual rispetto ha il Sole a gli occhi, tale a le Menti ha Dio. Il Sole genera gli occhi, e dona loro virtù di vedere: la quale virtù sarebbe invano, e in sempiterne tenebre, se non s’appresentassi a lei il lume del Sole, dipinto di colori e figure di tutti i corpi. Nel qual lume lo occhio vede i colori e le figure de’ corpi. E in verità non vede altro che il lume: benché paia che vegga varie cose: perché il lume che a lui s’infonde, è ornato di varie forme di corpi. L’occhio vede questo lume, in quanto si riflette ne’ corpi: ma essa luce nel fonte suo non può comprendere. Similmente Iddio crea l’Anima, e donagli la Mente, la quale è virtù d’intendere: e questa sarebbe vota e tenebrosa, se il lume di Dio non le stesse presente, nel quale vegga di tutte le cose le ragioni. Sì che intende per il lume di Dio: e solo questo lume intende, benché paia che conosca diverse cose: perché intende detto lume sotto diverse Idee e ragioni di cose. Quando l’uomo con gli occhi vede l’uomo fabbrica nella fantasia la immagine dello uomo: e rivolgesi a
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do le mosse dalla Repubblica di Platone (vi, 509-511). La luce della roccia, verso la quale il giovane sentado dirige il suo organo corrispondente, l’occhio, lo sottrae in quanto sapiens alle tenebre del mondo in cui restano, all’incrocio dei gradini più bassi, il vecchio e la figura mediana, che si rivolge verso di lui. I due personaggi in piedi non conoscono lo stato di contemplazione in cui Giorgione ci presenta il giovane. La ricerca della luce rappresenta il processo di conoscenza a cui si dedica il giovane seduto. Questi è giunto contemplativamente alla causa ultima di tutte le cause e rappresenta esemplarmente con il suo sguardo diretto alla conoscenza l’unità desiderata quanto raggiungibile di intelligenza e intelligibilità. Il credo visivo che Giorgione inserisce nella cornice della propria estetica si fonda sul fermo presupposto di imparare dalla natura. Al filosofo come all’artista è chiesto di reagire ai fenomeni naturali percepiti. Ciò che Giorgione con il suo dipinto invita a leggere non è il tolemaico Almagesto, come gli arabi chiamarono il grande compendio della scienza astronomica, ma il “libro della natura”, topos della rivelazione divina vivissimo nel Rinascimento. Nel capitolo Das Buch der Natur Ernst Robert Curtius inserisce una citazione dallo Zadig (cap. 3) di Voltaire: «Rien n’est plus heureux qu’un philosophe qui lit dans ce grand livre que Dieu a mis sous nos yeux [...]»5. Tale concetto, ancora vitale nell’Illuminismo, viene introdotto alle soglie della scienza moderna da Galilei, che, come è noto, afferma nel suo Saggiatore (vi, 231): «La filosofia è scrit-
giudicare detta immagine. Per questo esercizio dell’animo dispone lo occhio della Mente a vedere la ragione e Idea dello uomo, che è in esso lume divino. Onde subitamente una certa scintilla nella Mente risplende. E la natura dello uomo di qui veramente si intende, e così nell’altre cose adviene. Adunque ogni cosa per il lume di Dio intendiamo: ma esso puro lume nel fonte suo in questa vita non possiamo comprendere. In questo certamente consiste tutta la fecondità della Anima che ne’ segreti seni di quella risplende la eterna luce di Dio, pienissima delle ragioni e Idee di tutte le cose. A la quale luce l’anima qualunque volta vuole, si può voltare per purità di vita, e attenzione di studio: e rivolta a quella risplende di scintille delle Idee» (Marsilio Ficino, Sopra lo amore, cit., pp. 120-121). 5 Cfr. Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern/München, Francke Verlag, 19676, pp. 323 sgg.
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ta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchî, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»6. L’analisi contenuta nell’antiscolastico Saggiatore delle nuove vie della ricerca scientifica è allo stesso tempo un inno alla autonomia dello spirito conoscente. La situazione discrepante in cui si trovano il giovane e il vecchio nella tela di Giorgione è, in altri termini, una chiara anticipazione del dialogo tra Copernico e Tolomeo, che Galilei risolverà a favore del giovane Copernico. il vecchio astrologo Il cammino verso l’interpretazione del dipinto e dei fini compositivi del pittore ci riconduce, come abbiamo già osservato a proposito del motivo delle due fonti luminose, all’opera di Bellini. Le tracce di questo legame sono evidenti. Il vecchio a lato del gruppo giorgionesco non è soltanto simile al san Gerolamo della Pala di San Zaccaria (ill. 5): egli mostra piuttosto – come rivelano il volto barbuto, il cappuccio orlato da una striscia bianca e la sua presenza fisica in generale – una assoluta identità compositiva con la figura belliniana. Il voluto riferimento alla solenne ieraticità del personaggio di Bellini non potrebbe essere più manifesto. Tale scoperta citazione dell’opera di Bellini terminata nel 1505 testimonia però al contempo la volontà di Giorgione di prendere le distanze dal maestro nel momento in cui egli abbandona lo schema tradizionale della “sacra conversazione”. La severità che, nonostante l’armonia del dipinto, contraddistingue la scena strutturata quasi specularmente della Pala di San Zaccaria, non trova più spazio nella concezione architettonica di Giorgione. Al principio del6
Galileo Galilei, Il Saggiatore, in Opere, i, Torino, Utet, 1980, pp. 631-632.
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la simmetria, realizzata da Bellini attraverso un perfetto asse centrale, si oppone l’equilibrio naturale su cui è costruita la scena giorgionesca, la cui parte centrale apre lo sguardo verso una valle che si trova dietro l’altura. Una differenza ancora più profonda è segnalata dai “testi” in possesso delle due figure anziane, che le assegnano a campi esplicitamente diversi. Il san Gerolamo belliniano, il grande traduttore della Bibbia, raffigurato spesso assorto a pregare, a scrivere o a leggere, è immerso nella lettura di un testo sacro. La figura di Giorgione invece, nel contesto di una disputa con il personaggio al centro, ha in mano una tavola astronomica. Se la Pala belliniana rappresenta la fonte d’ispirazione del dipinto giorgionesco, diverse se non opposte sono le finalità dei due pittori. Ispirato dalla modernità del maestro e al tempo stesso prendendone le distanze sia in senso estetico che filosofico7, l’autore dei Tre filosofi percorre strade assolutamente rivoluzionarie. Con la figura del vecchio “filosofo” Giorgione relega ai margini il sistema geocentrico. Al centro del dipinto spicca invece il giovane, rappresentante del sistema eliocentrico e munito di strumenti che lo mettono in relazione con l’ambito del “disegnatore” del cosmo, del Deus geometra (ill. 6)8. 7 «The painter who is considered the master of Giorgione, Giovanni Bellini, assimilated everything the experience of the Florentines of the fifteenth century could give but remained faithful to a serious religious tradition of coloring. Giorgione developed Bellini’s tradition in a more human sense. He preserved the religious feeling, but he transferred it from the Christian God to the whole of nature, thus anticipating the conception of pantheism» (Lionello Venturi, Four Steps Toward Modern Art. Giorgione, Caravaggio, Manet, Cézanne, New York, Columbia University Press, 1956, p. 6). Cfr. Almon Richard Turner, The Vision of Landscape in Renaissance Italy, cit., p. 104: «In these two essays I have put Bellini and Giorgione side by side, not in the spirit of historical juxtaposition, but as the distilled essence of their art appears to me. From this comparison certain generalities are hard to resist. Usually the differences between the two artists are stressed. While the formal and iconographic innovations of Giorgione are considerable, out of the contrast between the two men has grown an overly simplified view. Bellini is seen as a profoundly Christian artist, somewhat simple in outlook, naively fresh as a landscapist. But this image of Bellini then becomes a foil for Giorgione, first of the moderns, champion of art for art’s sake, a soul sensuous and romantic. The idea of progress enters, and Giorgione the modern thinker and painter triumphs over Bellini, the slightly archaistic traditionalist». 8 Su questo tema, cfr. Friedrich Ohly, «Deus geometra». Appunti per la sto-
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Mentre gli strumenti del giovane, compasso e squadra, rimandano quali attributi simbolici alla scienza della misurazione della terra, alla geometria, quelli del vecchio rappresentano la scienza delle stelle, l’astronomia. Ciò che egli tiene in mano non raffigura, come spesso ripetuto anche in riferimento a una sua certa solennità, un foglio di pergamena srotolato9. Un rotolo di pergamena chiuso nelle mani di un uomo ritratto dal Lotto connota questa figura come architetto e non come astronomo o astrologo10. Il vecchio di Giorgione ha invece in mano una tavola astronomica appartenente alle Effemeridi, sulle quali a partire da Peurbach e Regiomontano si basano i calcoli oroscopici. Che non si tratti di un foglio tratto da un volume ma di una tavola astronomica è confermato dal Pitagora della raffaellesca Scuola di Atene, che da ria di una rappresentazione di Dio, in Geometria e memoria. Lettera e allegoria nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 189-248. 9 Cfr. Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, cit., p. 12: «Accanto ad esso [il personaggio al centro], a destra in primo piano si trova un vecchio con la barba, nelle vesti, si direbbe, di un sacerdote romano. Rivolto per tre quarti verso sinistra, sembra che stia scendendo il terzo gradino del terreno che, come un sentiero, sembra dirigersi verso la zona rocciosa a sinistra. Tra la mano destra e la sinistra tiene un grande foglio pieno di misteriosi segni e numeri. Sembra che lo stia tirando fuori dal vestito, che lo stia srotolando. La sua mano sinistra al margine inferiore del foglio tiene inoltre un compasso. Tutti e tre gli uomini hanno le labbra chiuse, ma sembrano tacere in modo diverso: il più giovane è assorto in una intenta ricerca, la figura al centro tace come un uomo d’azione che conosce il percorso, il silenzio del vecchio è però come la nuvola dalla quale uscirà il lampo illuminante e rivelatore». Cfr. anche Günther Tschmelitsch, Zorzo, genannt Giorgione. Der Genius und sein Bannkreis, cit., p. 231: «Il vecchio caratterizzato come astrologo ha lo sguardo del profeta al grado sommo di iniziazione. Egli testimonia il legame con le leggi immutabili degli astri. In una pergamena srotolata sono riconoscibili non soltanto sole e luna, ma anche una ruota dentata, uno strumento che secondo l’antica scienza araba doveva misurare quel salto che dovrebbe fare il sole quando entra nell’equinozio di primavera, di cui narra anche Virgilio nella quarta Ecloga. Trasferito in ambito cristiano (e quindi tramandato anche in seguito) tale evento viene collegato al mattino pasquale della Resurrezione. Ancora oggi in alcune valli alpine esso è considerato un fenomeno legato al mistero pasquale. Secondo l’interpretazione scolastica la citata ecloga si riferirebbe però alla comparsa di Cristo. In tutti questi simboli vengono così a intrecciarsi elementi astrologici e alchemici, come accadeva anche nella filosofia ermetica del tempo». 10 Ritratto di architetto, Staatliche Museen zu Berlin, olio su tela, 105 x 82 cm.
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una tavola che si trova ai suoi piedi sta trascrivendo qualcosa in un libro (ill. 7). Eisler ha dato un’interpretazione attendibile della tavola del vecchio con le sue congiunzioni astrali, la sferica figura centrale della terra e i numeri visibili della ruota dentata (da 2 a 7) che Giorgione pone in vicinanza della mano che tiene il compasso (ill. 8): For one of the “philosophers” or magi carries a parchment with an astrological chart which displays prominently a diagram of the loops in the apparent orbit of Jupiter and, below it, the cog-wheel with numbered cogs imagined by the arabian astrologer Tebit ibn Qurrah (836-901) for the purpose of explaining the trepidatio or nutation of the world axis. [...] Arabian Astronomer [...] who invented this expedient to explain the mechanism of the allaged oscillatory – not constantly precessional – movement of the tropical points with reference to the fixed stars, in other words the supposed secular movement between the fixed and the morable ecliptic. This cog-wheel, with cogs numbered 2.3.4.5.6.7. – numbers 1 and 8 being hidden by the hand holding the paper – is seen on an astrological chart concerning the nativity of the Saviour Child, held by the oldest of Giorgione’s Three Philosophers [...]11.
Si tratta quindi di un’incisione su una tavola, un po’ danneggiata a sinistra, che presenta le posizioni dei pianeti, la cui particolare importanza per i contemporanei aveva fatto di astronomi e astrologi dei viri uniti dediti a un’attività specialistica. È interessante in questo contesto dare uno sguardo alla incisione di Giulio Campagnola L’astrologo, le cui connessioni con I tre filosofi – vuoi come modello ispiratore per il contemporaneo di Giorgione, vuoi come semplice motivo estrapolato dal quadro – appaiono palesi (ill. 9)12. Evidente è in particolare la concordanza fi-
11 Robert Eisler, The royal art of astrology (1946), cit. in Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, cit., p. 60. 12 Lionello Venturi (in Giorgione e il Giorgionismo, Milano, Hoepli, 1913, pp. 91 sgg.) evidenzia, nel contesto dell’analisi della tavola “cabalistica” che tiene in mano il vecchio filosofo, una analoga genesi dell’opera di Campagnola e quindi l’aspetto dell’astrologia che segna la scena giorgionesca: «Come sempre, ha invece ragione il Michiel. Si tratta di tre “filosofi”, come allora si poteva dire, di tre
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siognomica delle teste dell’astrologo di Giorgione e di quello di Campagnola13. Uno sguardo al ritratto del matematico Luca Pacioli del veneziano Jacopo de’ Barbari14 ci mostra come il vecchio astrologo di Giorgione sia stato concettualmente rimosso dal centro della scienza. Il matematico Pacioli, presentato in abito francescano e circondato da poliedri, sta completando una tavola euclidea con un diagramma geometrico tratto dalla sua Summa de arithmetica, commissionatagli dal duca di Urbino e pubblicata nel 1494. Il ritratto del matematico, del 1495, è un documento di ammirazione che trova espressione nel rispetto del giovane a sinistra del monaco, un’ammirazione assente nella raffigurazione giorgionesca. L’espressione accigliata del vecchio astrologo («vecchio di destra, dal cipiglio aggrondato e in atto di reggere, oltre a un compasso, una tabella ricca di figurazioni astronomiche»15), riflette chiaramente un atteggiamento psicologico di difesa che più o meno inconsapevolmente si è determinato nel contesto di una disputa con la figura vicina. Tale disputa è da mettere in relazione all’ondata di letteratura di argomento astrologico che alla fine del Quattrocento e soprattutto a partire dall’inizio del Cinquecento ha come tema la controversa discussione sull’arte divinatoria16. “astrologi” come più esattamente diremmo noi. Or è noto che Giulio Campagnola incideva da quadri di Giorgione: e l’incisione in parola è nella serie del Campagnola una di quelle che più dimostra caratteri giorgioneschi». 13 Cfr. l’articolo di Silvio D’Amicone, Apocalypsis cum mensuris. L’«Astrologo» di Giulio Campagnola, in «Venezia Cinquecento», 2/3, 1992, pp. 75-87. Significativamente Alessandra Fregolent mette in relazione l’astrologo di Campagnola e il dipinto di Giorgione sulla base dello sfondo: «La macchia di alberi dietro all’astrologo e il brusco passaggio dal primo piano allo sfondo sono riferibili alla tela I tre filosofi di Giorgione» (Alessandra Fregolent, Giorgione. Il genio misterioso della luce e del colore, Milano, Leonardo Arte, 2001, p. 41). 14 Cfr., a questo proposito, Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento, a cura di Enrico Giusti e Carlo Maccagni, Firenze, Giunti, 1994. 15 Giuseppe Fiocco, Giorgione, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1941, 19482, pp. 29-31: 30. 16 Interessante è il rimando di Beverly Louise Brown, in una breve analisi dell’Astrologo di Giulio Campagnola, a una fonte letteraria coeva, la cui rilevanza anche per I tre filosofi appare evidente: lo scritto Judicio sopra la dispositione de l’anno 1505 dell’astrologo bolognese Jacopo da Pietramellara (Il Rinascimento a Venezia e
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È difficile immaginare, scrive Karl Stumpff in Die Erde als Planet (La terra come pianeta), che gli eruditi dell’epoca nella loro instancabile ricerca del senso dei movimenti celesti potessero giungere a un’altra conclusione rispetto alla convinzione di aver trovato nelle stelle il punto di contatto visibile tra il volere degli dei e il destino degli uomini e dei popoli. Queste conclusioni, quasi necessarie sulla base dell’ordine geocentrico, trovarono un’accoglienza entusiastica non soltanto tra le masse, che vedevano in tale teoria una possibilità di interrogarsi sul loro oscuro destino, o di superare, ricorrendo all’aiuto delle stelle, la loro insicurezza in caso di importanti decisioni; esse furono accolte positivamente anche dalle classi dirigenti, e in particolare dalla casta sacerdotale, come peculiare mezzo per guidare, placare o risollevare le masse stesse, a seconda delle esigenze. Gli eruditi che sapevano prevedere il corso delle stelle e riuscivano a leggere grazie a determinate regole le costellazioni passate presenti e future, giunsero ad avere quindi una certa autorità su re e popoli, un’autorità difficile da abbattere, anche perché essa rimaneva anonima e la personalità dell’astrologo aveva solamente il ruolo di portavoce di potenze ultraterrene17.
Con le sue prognosi inquietanti l’astrologia diventa sempre più una scienza occulta, le cui incisioni annuncianti spargimenti di sangue, fame e sventure attirano l’interesse di una folla sempre più numerosa. Quando Hartlaub vede il vecchio di Giorgione «avan-
la pittura del Nord ai tempi di Bellini, Dürer, Tiziano, a cura di Bernard Aikema e Beverly Louise Brown, Milano, Bompiani, 1999, p. 442). All’indicazione della Brown è da aggiungere quella di Venturi (Lionello Venturi, Giorgione e il Giorgionismo, cit., p. 92), il quale, anch’egli riallacciandosi a Campagnola, cita uno scritto veneziano sull’arte divinatoria dello stesso periodo: «D’altronde, la rappresentazione del Campagnola non è punto isolata nella produzione artistica di stile giorgionesco: ricordiamo il quadro della galleria di Dresda (n. 186) di un imitatore di Giorgione, dove un vecchio tiene anch’egli tra le mani una tavola cabalistica e un compasso, e trae preciso carattere d’indovino dalla presenza d’una famigliuola che viene a chiedere per il nuovo nato l’oroscopo, motivo notoriamente comune nella letteratura e nell’arte, come prova anche la xilografia dell’anonimo libretto De sorte hominum, pubblicato a Venezia nel 1507». Testi come lo scritto anonimo De sorte hominum o quello di Jacopo da Pietramellara predicono guerre disastrose e epidemie in tutta Europa, in particolare per l’anno 1509 – un anno che Campagnola inscrive sulla tavola del suo astrologo sotto il segno della bilancia. 17 Karl Stumpff, Die Erde als Planet, Berlin, Springer, 1955, pp. 19 sgg.
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zare sinistramente [...] mostrando con fare profetico una tavola del futuro»18, egli individua dunque in questo senso uno dei nuclei del messaggio del nostro dipinto. Giorgione pone il giovane geometra e il vecchio astrologo in una opposizione polare che nega la possibilità di una sintesi superiore. Diversamente da Pico della Mirandola con la sua concordia Platonis et Aristotelis, egli non mira a una armonizzazione delle posizioni platonica e aristotelica, bensì mette in scena un conflitto in cui era già intervenuto, “pro Platone”, Bessarione con il suo In calumniatorem Platonis. Il crollo, che si andava profilando, dell’ordine geocentrico rappresentato dal vecchio di Giorgione avrebbe colpito duramente l’“arte” tolemaica dell’astrologia. Chi come l’astrologo tende a elevarsi così superbamente verso l’alto è destinato a cadere miseramente in basso. A un passo da tale caduta, sotto la pressione degli sviluppi coevi, si trova anche l’astrologo di Giorgione, i cui segni cosmologici sulla tavola restano ancorati a una tradizionale visione del mondo. La sua spinta verso la conoscenza non è indirizzata verso la scolastica acquisizione della verità, ovvero verso la pienezza data dalla ricerca di Dio. Il superamento dei confini, a cui tende per interesse proprio l’astrologo, pone il suo agire – non diversamente da quello dell’Ulisse dantesco – nella «scala dei vizi cardinali»19. Per comprendere quale possa essere il significato della marginalizzazione dell’astrologo, e quindi del messaggio giorgionesco a ciò connesso, è necessario ricorrere ancora a Ficino. Nel suo scritto con-
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Gustav Friedrich Hartlaub, Zu den Bildmotiven des Giorgione, cit., pp.
62, 69. 19 «Nel modo in cui Agostino – e dopo di lui il Medioevo – concepisce la curiosità, inserendola nella scala dei vizi cardinali e attribuendole ambiti e oggetti specifici, è già contenuta in un certo senso la spinta al processo di riabilitazione della curiositas. Anche il ruolo particolare dell’astronomia nella formazione della coscienza dell’età moderna non sarebbe concepibile senza considerare la sua posizione privilegiata negli ambiti di riferimento della curiositas. Furono proprio le limitazioni e le esclusioni di oggetti legate al concetto di curiositas a diventare per la coscienza rivolta all’autoaffermazione nell’immanenza una provocazione e una spinta al superamento di confini» (Hans Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1966, p. 209).
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tro gli astrologi Disputatio contra iudicium Astrologorum essi vengono relegati – per le loro ambizioni di chiaroveggenza e di magia – al di fuori dell’ambito della causalità di origine divina. Arroganti e loquacissimi ignoranti, essi ambiscono, con la preveggenza che ipocritamente si attribuiscono, a dominare sugli uomini e sul mondo20. 20
«Quanti affermano che ogni singolo evento accade necessariamente, per effetto delle stelle, si avvolgono, e avvolgono la massa, in tre errori rovinosi. A Dio sommo e onnipotente sottraggono, per quanto è in loro, la provvidenza e l’assoluta sovranità sull’universo. Agli angeli tolgono la giustizia: a loro giudizio, infatti, essi fanno muovere i corpi celesti in modo tale che da quei movimenti derivino tutti i misfatti degli uomini; ai buoni tocchi il male, ai cattivi il bene. Agli uomini, che secondo loro sono sbattuti qua e là, non diversamente dagli animali, strappano la libertà, e li privano della quiete. Se promettono qualcosa di buono – ciò che di solito fanno molto raramente, e in forma assai oscura –, gli astrologi lo avviluppano fra grandissime difficoltà. Di conseguenza, non ci giova affatto che talvolta, seppur assai di rado, e con grandissima fatica, ci preannuncino un bene futuro, facendoci tornare a casa vanitosi, superbi e negligenti. Se per caso qualcosa andrà nel senso delle loro promesse, il piacere a lungo atteso sarà meno gradito. Se invece minacciano qualche male, ciò che avviene molto più spesso, noi anticipiamo eventi che accadranno molto più tardi, o non accadranno affatto; infelici, ce li raffiguriamo in anticipo, e soffriamo nel raffigurarceli. Alla fine, se il fato è inevitabile, prevederlo e predirlo è inutile; se invece lo si può in qualche misura evitare, la difesa, che gli astrologi fanno della necessità del fato, è falsa. Diranno forse – almeno credo – che è sufficiente questo: che fra molte cose qualcuna ogni tanto venga conosciuta in anticipo, perché da essa sia possibile guardarsi. Ci sarà dunque controversia fra le Parche: l’una deciderà di colpire gli uomini, l’altra li proteggerà. Ma, se lo crediamo opportuno, per non apparire troppo accaniti, concediamoglielo per il momento; a nessuno, invece, concederemo che dipenda dai decreti delle Parche se gli uni non prestano loro fede, gli altri li contrastano. Come avviene infatti che il fato costringa Marsilio a combattere il fato con le forze dell’ingegno? Si scaglia contro il fato spinto non dalla forza del fato proprio, ma da quella di un fato avverso o quanto meno di un ordine superiore. Infatti una medesima necessità non può contrastare con se stessa: negherebbe in tal modo il suo stesso essere necessità, e si autodistruggerebbe, dilaniandosi, per un impulso proprio. Che cosa significa, dunque, quel divulgatissimo detto: siamo guidati dal fato, affidiamoci al fato? Se consideriamo le cose con maggiore attenzione, non è dal fato che siamo condotti, ma dai suoi sciocchi assertori. Credetemi pure: non vi sottomettete al fato, se non presterete fede agli sciocchi che avvolgono di oscurità affermazioni che sono false, anziché vere, come si dice che facessero le Sibille. Non preannunciano eventi specifici per ogni individuo, ma solo eventi generici. Ciarlieri al massimo grado, mettono in campo tanti discorsi che non è strano se, fra tante menzogne, inciampano qualche volta nel vero. Pretendono di sapere riguardo agli altri ciò che sanno assai poco di se stessi: vale la pena di esaminare quanto
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E ancora più decisamente di Ficino si esprime in questo senso il suo allievo Pico della Mirandola, con il rifiuto dell’astrologia contenuto nelle sue Disputationes adversus astrologiam divinatricem. il mediatore L’uomo al centro, accanto al vecchio astrologo e rivolto verso di lui, viene individuato in genere come un orientale di religione islamica. In proposito scrive Simone Cohen: The golden clasp at the collar seems to be a free interpretation of decorative Islamic patterns and the combination of red and blue supergli astrologi siano miseri, spregevoli, sfortunati nelle loro occupazioni, imprudenti e inetti nelle loro azioni. Se esercitano il commercio, sono molto meno capaci degli altri mercanti di provvedere agli affari della mercatura; se praticano la medicina, conoscono meno degli altri medici il decorso e l’esito delle malattie, e curano nel modo peggiore i pazienti; proprio mentre ostentano di divinare, sembrano vivere a caso e inciampare da tutte le parti. Levatevi dunque in piedi, filosofi, vi prego. Levatevi, desiderosi della libertà e della preziosissima serenità; agite e cingetevi dello scudo e dell’asta di Pallade; stiamo per combattere contro questi nefasti gigantucoli, che anticipando il futuro cercano di rendersi pari all’immenso Dio, e difendendo il fato celeste e sopraceleste tentano di sottrarre a Dio, che è somma libertà, la libera sovranità. Ma quanti si sforzano di salire così superbamente in alto, saranno miserevolmente precipitati agli inferi. Fornisci dall’alto, o Dio onnipotente, le forze ai tuoi soldati. Dacci la capacità di difendere la tua sovranità. Cominciamo: soccorreteci, angeli che volgete in cerchio le sfere celesti; soccorrete con la vostra giustizia noi che ci accingiamo a esentarvi da colpe, in contrasto con gli empi nemici, che vi accusano di un’estrema ingiustizia. Sii ben disposto verso di noi anche tu, o genere umano, senza provare invidia: difendiamo infatti la tua libertà e serenità, che è la cosa più preziosa di tutte. Che noi siamo liberi lo dimostra a sufficienza il fatto che continuamente dobbiamo decidere fra due strade alternative, e operiamo scelte spesso contrastanti con gli impulsi e le comodità del corpo, pur se possiamo concedere che spesso è il fato a invitarci a pensare, a dire e a fare. Non appena avremo trionfato degli indovini non divini, ma molto profani, che da tanto tempo ci tengono in pugno con i loro inganni, potremo infine proclamarlo liberamente: l’empietà, che ci ha calpestati, viene a sua volta messa sotto i piedi; la vittoria ci innalza fino al cielo» (Disputa contro il giudizio degli astrologi, di Marsilio Ficino, fiorentino, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, in Marsilio Ficino, Scritti sull’astrologia, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 49-52).
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imposed garments was probably inspired by Ottoman miniatures. Besides characterizing him as a distinguished looking Moslem Giorgione hasn’t conveyed much information about the identity of this figure. [...] The man in the center is a Moslem. His turban, wound around a cap with vertical ribbing, is distinctly Ottoman and can be seen in late Quattrocento and early Cinquecento Venetian painting. The authentic rendering of the Ottoman turban was based on visual knowledge conveyed by merchants, diplomats and artists who went from Italy, and especially from Venice, to Constantinople as well as by Turkish envoys in Venice itself. Another typically Moslem feature is the sash wound around the waist with a kind of double bow falling in the center, as seen in many Islamic miniature paintings and depictions of Moslem figures by the Bellini brothers, Mansueti and other Venetians. The delicate facial characteristics with the short beard and fine moustache are also found in Islamic precedents and may have been influenced by one of several portraits of Sultan Mehmed II21.
Il turbante, «segno per eccellenza degli orientali»22, come quello della figura centrale di Giorgione, è nell’Italia della seconda metà del XV secolo un sicuro indice di appartenenza alla corporazione greca, come dimostra la stampa parigina del Lexicon Graecolatinum multis et praeclaris additionibus locupletatum dell’anno 1512 (ill. 10), che ci mostra il trevigiano Matthaeus Bolsec, il quale si trova a partire dal 1499 al centro di una cerchia di umanisti a Venezia23. Come il trevigiano Bolsec, la figura mediana dei “tre filosofi” giorgioneschi si inserisce nella scia di un imponente movimento di traduzione e mediazione della cultura greca che porterà allo sviluppo del neoplatonismo del Rinascimento italiano, con un particolare influsso sui membri dell’Accademia Platonica e in particolare su Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. La strada viene aperta dal bizantino Manuele Crisolora (1350-1415), il primo di una serie di eruditi e fi21
Simone Cohen, A new perspective on Giorgione’s «Three Philosophers», in «Gazette des Beaux-Arts», cxxvi, 1995, pp. 53-64: 58. 22 Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 163. 23 Cfr. Friedrich Hottenroth, Trachten, Haus-, Feld- und Kriegsgeräthschaften der Völker Alter und Neuer Zeit, Stuttgart, Verlag Gustav Weise, 1891, ii, pp. 86-90. Cfr. inoltre Graecogermania. Griechischstudien deutscher Humanisten. Die Editionstätigkeiten der Griechen in der italienischen Renaissance (1469-1523), a cura di Dieter Harlfinger, Weinheim, Acta Humaniora, 1989, p. 119.
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lologi greci che dopo la caduta di Bisanzio arrivano in occidente, portando la gnoseologia bizantina, nonché una filosofia e una teologia impostate sul rapporto tra Platone e Aristotele, fondando in Italia i centri “ateniesi” di Firenze, Venezia e Roma24. La veste greco-bizantina dell’uomo in posizione mediana lo caratterizza dunque come filologo e philologus è già in Cicerone e Svetonio una figura che ama fare ricerche erudite, un amico della scienza e letterato, in particolare un «dotto che, fornito di cognizioni archeologiche, storiche e letterarie, interpreta le opere di altri letterati, un esegeta, Sen. ep. 108, 30 (in cui il philologus viene distinto dal grammaticus e dal philosophus)» (K.E. Georges, ad vocem: philologus). Il referente della figura mediana del quadro di Giorgione è il vecchio astrologo, rappresentante del sistema tolemaico, fondato sulle sfere cosmocentriche di Aristotele, mentre il giovane orientato eliocentricamente raggiunge, posto come si è detto nel gradino più alto, la somma conoscenza, nel senso del rinnovamento della filosofia platonica iniziato da Plotino. arte oracolare e apocalisse L’astrologo si trova in uno spazio della casualità posto al di là delle leggi causali definite da Dio. Egli appartiene alla schiera degli indovini e dei maghi, già collocati da Dante nella quarta bolgia nel cerchio dei fraudolenti. Il ricorso a Dante nella raffigurazione giorgionesca è segnalato non tanto dalla simbologia cromatica del vestito del giovane geometra, come pure è stato rilevato25, ma dalla testa del vecchio. Giorgione ci presenta l’anziano astrologo in un evidente contrasto motorio tra gamba portante e gamba flessa. In esso si rispecchia un “contrapposto” che fa pensare, se consideria24
Cfr. la ricca panoramica di Giuseppe Cammelli, I dotti bizantini e le origini dell’umanesimo, i, Manuele Crisolora, Firenze, Vallecchi, 1941; cfr. inoltre Graecogermania. Griechischstudien deutscher Humanisten, cit., pp. 4 sgg. 25 Christian Hornig, Giorgiones «Drei Philosophen». Eine Neuinterpretation, in «Pantheon», 58, 2000, pp. 81-89, in particolare p. 87.
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mo anche il capo rivolto verso destra, a una vera e propria contorsione. Collo, parte superiore del braccio e spalla del vecchio vengono così sottratti alla vista. La parte superiore del braccio sinistro, che sorregge la parte inferiore della tavola, sembra – in modo tanto misterioso quanto emblematico – scomparire anteriormente nell’oscurità del bosco che si trova dietro di lui, in un gioco d’ombra che separa otticamente la testa dal tronco, e che non sarebbe immaginabile in un contesto di rapporti luminosi reali. Appare spontaneo pensare a figure e temi del canto xx dell’Inferno. In effetti il barbuto astrologo di Giorgione invita ad associazioni con l’indovino dantesco Euripilo «Quel che dalla gota / porge la barba in su le spalle brune» (Inf. xx, 106 sgg.). Il canto dantesco, come è noto, conduce il lettore nel luogo di pena dei maghi e degli indovini, nella quarta bolgia del cerchio dei fraudolenti. Della serie di peccatori che seguono l’augure virgiliano Euripilo fanno parte anche alcuni contemporanei di Dante, come ad esempio Michele Scoto, astrologo scozzese di Federico II e commentatore di Aristotele, Guido Bonatti da Forlì, amico e astrologo ufficiale di Guido da Montefeltro, il calzolaio parmense Asdente, che si dedicò all’arte divinatoria destando un certo scalpore con i suoi scritti mistici. Per la loro empia intromissione nello spirito dell’ordine universale sono costretti a scontare la nova pena di cui si parla nei versi iniziali del canto: una sorta di contorsione, con il volto girato all’indietro (Inf. xx, 106-130): Allor mi disse: «Quel che dalla gota porge la barba in su le spalle brune, fu, quando Grecia fu di maschi vota sì ch’a pena rimaser per le cune, augure, e diede ’l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune. Euripilo ebbe nome, e così ’l canta l’alta mia tragedia in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta. Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe il gioco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch’avere inteso al cuoio ed a lo spago
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«i tre filosofi» di giorgione ora vorrebbe, ma tardi si pente. Vedi le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; fecer malie con erbe e con imago. Ma vienne omai; ché già tiene ’l confine d’amendue li emisperi e tocca l’onda sotto Sobilia Caino e le spine, e già iernotte fu la luna tonda: ben ten dee ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda». Sì mi parlava, e andavamo introcque.
La logica punitiva del contrappasso dantesco provoca una deformazione fisica che fa rivolgere all’indietro la testa dell’indovino spinta a guardare “troppo avanti” («perché volle veder troppo davante / indietro guarda e fa ritroso calle», vv. 38-39). Si può quindi cogliere il ricorso a Dante da parte di Giorgione se si pensa che «su tutta la scena dei Tre filosofi è sospesa, in modo innaturale, la testa eccessivamente rivolta verso destra»26. A questa osservazione occorre aggiungerne un’altra che interessa anche la belliniana Allegoria sacra: dove il maestro raffigura una fluttuante – perché senza piedi – Speranza, collocata accanto alla Fede e alla Carità quale simbolo della dantesca “ascensione spirituale”27, Giorgione pone la testa sospesa – senza collo – del vecchio astrologo, destinato a restare nell’ambito della obscuritas. Nell’epoca che va da Dante a Giorgione l’astrologia è notoriamente una scienza autentica28. Ciò che Dante rimprovera a una tendenza epocale, in accordo con Tommaso d’Aquino (Summa ii, 2, 95: De superstitione divinativa)29, è semmai la forma pagana del26
Ringrazio per questa indicazione il medico e filosofo Herbert Lippert (lettera del 4 giugno 2001). 27 Cfr. Willi Hirdt, Il trionfo del dubbio ovvero nel labirinto della critica d’arte, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, cit., pp. 449-576. 28 Cfr. almeno Eugenio Garin,Lo zodiaco della vita, Roma-Bari, Laterza, 1976. 29 «Deinde considerandum est de superstitione divinativa (cfr. q. 93 introd.). Et circa hoc quaeruntur octo. Primo: utrum divinatio sit peccatum. Secundo: utrum sit species superstituionis. Tertio: de speciebus divinationis. Quarto: de divinatione quae fit per daemones. Quinto: de divinatione quae fit per astra. Sexto:
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la profezia. Per entrambi la superstizione della premonizione fondata sulle stelle è un peccato. Ragione di questo rifiuto è in generale la supposta interpretazione di una disposizione planetaria, che non ha nulla a che vedere né con la Provvidenza divina né con il libero arbitrio umano. Indovini e maghi non agiscono nello spirito di una profezia messianica ma in quello di una calcolata mistificazione. In quanto annunciatori e sodali degli dei falsi e bugiardi (Inf. i, 72) rappresentanti dell’idolatria, essi si arrogano, in una prospettiva pagana, una prerogativa divina. Anche Ficino, come abbiamo visto, pone gli astrologi fuori dall’ambito della causalità divina, nello spazio della assoluta casualità. Al vecchio astrologo di Giorgione manca quell’apertura verso Dio espressa dall’atteggiamento contemplativo del giovane seduto, sostituita invece da una predizione usurpatrice. Da questa aspirazione alla predizione deriva, nel contrappasso dantesco, la torsione del collo. «Lo stravolgimento», afferma a questo proposito Ignazio Baldelli, «toglie alle anime il veder dinanzi, le costringe a guardare dietro e a fare lentamente retroso calle, contrappasso della loro volontà di veder troppo davante. Tale contrappasso si traduce nella lettera del canto in una ossessiva presenza del “vedere”: nei primi cinquanta versi e negli ultimi venticinque del canto, in cui sono prede divinatione quae fit per somnia. Septimo: de divinatione quae fit per auguria et alias huiusmodi observationes. Octavo: de divinatione quae fit per sortes. Divinatio ergo non dicitur si quis praenuntiet ea quae ex necessario eveniunt vel, ut in pluribus, quae humana ratione praenosci possunt. Neque etiam si quis futura alia contingentia, Deo revelante, cognoscat: tunc enim non ipse divinat, idest, quod divinum est facit, sed magis quod divinum est suscipit. Tunc autem solum dicitur divinare quando sibi indebito modo usurpat praenuntiationem futurorum eventuum. Hoc autem constat esse peccatum. Unde divinatio semper est peccatum. Et propter hoc Hieronymus dicit, Super Michaeam, quod divinatio semper in malam partem accipitur. Ad primum ergo dicendum quod divinatio non dicitur ab ordinata participatione alicuius divini, sed ab indebita usurpatione, ut dictum est (in c). Ad secundum dicendum quod artes quaedam sunt ad praecognoscendum futuros eventus qui ex necessitate vel frequenter proveniunt, quod ad divinationem non pertinet. Sed ad alios futuros eventus cognoscendos non sunt aliquae verae artes seu disciplinae, sed fallaces et vanae, ex deceptione daemonum introductae: ut dicit Augustinus, in xxi De civ. Dei. Ad tertium dicendum quod homo habet naturalem inclinationem ad cognoscendum futura secundum modum humanum: non autem secundum indebitum divinationis modum».
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sentati gli indovini e i maghi, e dunque in circa settantacinque versi, il verbo “vedere” (insieme a viso e veduta) ricorre ben quattordici volte, e sei volte occorrono mirare, guardare e occhi »30. Sulla base di questi presupposti è possibile leggere il senso della diversità tra la contemplazione del giovane seduto e la vista limitata del vecchio. Per il giovane non si tratta di un «veder troppo davante» (Inf. xx, 38), ma – in un superamento delle leggi limitate della scienza – del diretto incontro con Dio. Il vecchio si trova in relazione immediata con la selva del peccato che Dante pone all’inizio della Divina Commedia. Passano davanti a lui, come gli ipocriti del canto xxiii (Inf. xxiii, 58-59: «una gente dipinta / che gira intorno con passi lenti»), la schiera degli indovini e dei maghi, nella «selva fonda» (Inf. xx, 129) del traviamento. Un tassello importante di questa interpretazione è rappresentato di nuovo da Marsilio Ficino, questa volta mediato da Lorenzo il Magnifico. Il ruolo centrale svolto da Ficino nella discussione sulla filosofia scolastico-aristotelica è testimoniato in ambito poetico, come visto in precedenza, dalla poesia didascalica di Benivieni. A essa occorre però aggiungere il poemetto Altercazione, del 1474, di Lorenzo il Magnifico, un compendio di sei capitoli in terzine di nozioni filosofiche e teologiche. Oggetto del diverbio tra Lorenzo e il pastore Alfeo, in cui Ficino viene chiamato a svolgere funzioni di arbitro, è la felicità. Argomentando sull’oggetto del sommo bene e della somma felicità secondo i princìpi del pensiero platonico viene espressa – in chiave antiaristotelica – l’opinione che non è possibile trovare il summum bonum fintanto che l’anima si trova nella natura sensibile. La posizione di Lorenzo nei confronti di Aristotele si presenta in termini piuttosto netti: nonostante i meritati onori concessi al «filosofo preclaro» (v. 144), Lorenzo rileva il fatto che Aristotele non preveda una dimensione contemplativa del divino: Ma tal contemplazione ha in sé due parti: una che l’alma fa col corpo ancora; l’altra che questa vita non può darti. 30
Ignazio Baldelli, Il canto XX dell’«Inferno», in Casa di Dante in Roma, Roma, Bonacci, 1973-1976, pp. 477-493: 485.
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Par che Aristotil nella prima metta il sommo ben sanz’altro separarti31. (iii, vv. 146-150)
Parimenti, anche la scena raffigurata nei Tre filosofi di Giorgione segna un analogo scarto rispetto alla dottrina aristotelica. Quasi seguendo alla lettera il testo laurenziano, in cui ai vv. 115-117 viene definito l’atto della contemplazione, Giorgione rappresenta una figura seduta (il sentado della descrizione del Michiel) e non in piedi: Cosí la mente che contempla siede, e quando al contemplato ben s’appressa, altro che contemplar giamai non chiede. Allor la sua salute gli è concessa; or perché alcun certa ignoranza veste, anco in tre parti poi divisa è essa. La prima è contemplar cose terreste e naturali, la seconda il cielo, la terza è quel che sia superceleste32. (iii, vv. 115-123)
La tematica della felicità si trova al centro delle disquisizioni didattiche sotto l’aspetto di una contemplazione suddivisa in tre parti: il guardare «cose terreste / e naturali» (vv. 121-122), il cielo (v. 122) e tutto ciò che si trova sopra di esso (v. 123: «quel che sia superceleste»), una teoria a cui l’autore dell’Altercazione aderisce totalmente. Il poemetto religioso-intellettuale Altercazione prende posizione nel dibattito coevo su platonismo e aristotelismo contro quest’ultimo. Come dimostra l’inequivocabile raffigurazione del rapporto oppositivo tra il giovane geometra e il vecchio astrologo, anche Giorgione segue questo percorso. La situazione conflittuale in cui Giorgione presenta le sue tre figure rispecchia quindi la discussione dell’epoca sulle posizioni cosmologiche opposte di Aristotele e Platone. Con la sua tavola cabalistica il vecchio è il rappresentante della cosmologia tradizionale, il cui sistema matematico si
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Lorenzo de’ Medici,Altercazione, in Opere, a cura di Attilio Simioni, Bari, Laterza, 1939, ii, p. 51. 32 Ivi, p. 50.
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fonda su Tolomeo rifacendosi espressamente alla teoria e al metodo di Aristotele. Il sistema innovativo, rappresentato dal giovane di Giorgione, situato in posizione centrale nel dipinto, si fonda invece sulle dottrine (neo)platoniche, che con i concetti di armonia e uniformità del moto circolare nell’universo si pongono in opposizione all’astronomia tolemaica. Il giovane seduto rappresenta il moderno umanesimo che, in particolare attraverso Pico della Mirandola, allievo e amico di Ficino, si rivolge contro l’astrologia sotto l’aspetto religioso, filosofico e scientifico. Sono in effetti le tre discipline universitarie teologia, filosofia e astrologia ad avere un ruolo determinante nella bipolarità platonicoaristotelica in cui si muovono i contemporanei di Giorgione. Questa disputa non è raffigurata soltanto nei Tre filosofi, ma – quasi contemporaneamente – nell’affresco della Scuola di Atene di Raffaello (ill. 11). Non ci interessa in questa sede ritornare sulla questione, più volte riproposta, del rapporto di ricezione tra Giorgione e Raffaello, ma è interessante invece ribadire come entrambi i pittori si trovino a operare in modo consapevole nello stesso clima culturale33.
33
Cfr. Walter Paatz, Giorgione im Wetteifer mit Mantegna, Lionardo und Michelangelo , Heidelberg, Carl Winter, 1959, pp. 19 sgg.: «Wölfflin non caratterizza l’evoluzione di Giorgione a Venezia, ma parla di Raffaello a Roma. Ma ciò che dice può evidentemente valere anche per le opere tarde del veneziano Giorgione; con una formula oggettiva riassume il percorso che condurrà Giorgione, verso la fine della sua vita, all’elaborazione della tipologia di ritratto classico. Raffaello ha elaborato questa tipologia solamente dopo Giorgione – l’esempio più antico, il ritratto del papa Giulio II, risale a dopo il 1512, ovvero a più di un anno dalla morte di Giorgione. Resisto alla tentazione di porre la questione se Raffaello possa essere stato ispirato da Giorgione stesso, cosa non impossibile, poiché Bembo era a Padova vicino a entrambi gli artisti, e Baldassarre Castiglione a Urbino, amico di Raffaello, teneva Giorgione in alta considerazione. Ma credo sia sufficiente aver dimostrato che il veneziano Giorgione negli ultimi anni di vita, 1508-1510, aveva raggiunto il punto da cui prese le mosse Raffaello a Roma nel 1512, quando creò la tipologia del ritratto classico. – In breve, ho voluto spiegare i contatti tra Venezia da un lato e Padova, Milano, Firenze e Roma dall’altro. Questi contatti credo che abbiano influito su Giorgione a partire dal 1500, rendendogli possibile giungere attorno al 1506-10 a uno stile classico, e quindi dare avvio al periodo di massimo splendore della pittura veneziana». Le indagini comparate di Paatz sui rapporti tra Giorgione e Raffaello al fine di stabilire lo sviluppo della «maniera moderna» tralasciano però la questione delle dispute platonico-aristoteliche.
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Nel suo ritratto di Raffaello, Giorgio Vasari osserva a proposito della Scuola di Atene (1550): Laonde Raffaello, nella sua arrivata avendo ricevute molte carezze da papa Iulio, cominciò nella camera della Segnatura una storia, quando i Teologi accordano la filosofia e l’astrologia con la teologia; dove sono ritratti tutti i savi del mondo che disputano in varj modi. Sonvi in disparte alcuni astrologi che hanno fatto figure sopra certe tavolette e caratteri in varj modi di geomanzia e d’astrologia, ed ai Vangelisti le mandano per certi Angeli bellissimi; i quali Evangelisti le dichiarano. Fra costoro è un Diogene con la sua tazza a ghiacere in su le scalee; figura molto considerata ed astratta, che per la sua bellezza e per lo suo abito così accaso è degna d’essere lodata. Similmente vi è Aristotile e Platone, l’uno col Timeo in mano, l’altro con l’Etica; dove intorno gli fanno cerchio una grande scuola di filosofi. Né si può esprimere la bellezza di quelli astrologi e geometri che disegnano con le seste in su le tavole moltissime figure e caratteri34.
Nella sua descrizione Vasari sembra fare un elenco dei termini usati nella discussione tra filosofia platonica e aristotelica in Italia, aggiungendo in un’altra nota i concetti di Filosofia, Astrologia, Geometria e Poesia («dove egli aveva dipinto la Filosofia e l’Astrologia, Geometria e Poesia che si accordano con la Teologia, v’è una femmina fatta per la cognizione delle cose»)35. Rilevare i limiti dell’esegesi vasariana sarebbe in questo contesto superfluo, come pure porsi la questione se l’iconografia raffaellesca dei due grandi filosofi sia stata suggerita da una diretta lettura di Ficino, dall’incarico papale oppure – sulla spinta di Bembo, allora a Roma – se sia espressione di una Weltanschauung affine a quella a fondamento dei Tre filosofi. Convergenze e divergenze tra i due dipinti sono comunque evidenti. Mentre Raffaello pone i due rappresentanti delle tendenze polari della filosofia dell’epoca uniti al centro, sotto un arco, Giorgione li sposta dall’asse centrale rinunciando a una struttura simmetrica. Il fondamentale accordo su cui si risolve la tensione della
34 Giorgio Vasari, Opere, a cura di Gaetano Milanesi, Firenze, Sansoni, 1981 [ristampa anastatica], iv, pp. 330 sgg. 35 Ivi, p. 333.
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relazione tra realismo (aristotelico) e idealismo (platonico) negli affreschi di Raffaello è visibile con estrema chiarezza nei gesti dei due disputanti. Uno sguardo alla critica d’arte può contribuire a chiarire ulteriormente questa posizione. «Chastel suggested that Raphael’s interpretation of Platonic and Aristotelian thought was taken directly from Marsilio Ficino (1433-1499). Aristotle’s gesture pointing outward symbolizes the arrangement of the world according to ethics; Plato’s gesture pointing upward symbolizes the motion of cosmological thought, which rises above the tangible world to the world of ideas», scrive Marcia B. Hall36 e aggiunge: «Plato’s raised finger expresses a final connection: from the science of numbers comes music; from music comes cosmic harmony; and from cosmic harmony comes the divine order of ideas. According to Chastel, in this work Raphael has depicted the Liberal Arts renewed by mathematical rule, which is the first stage of knowledge necessary to an understanding of philosophy». Questa interpretazione fondata sulle analisi di André Chastel è sicuramente da sottoscrivere. All’indice sollevato di Platone possiamo quindi far corrispondere lo sguardo rivolto verso l’alto del giovane giorgionesco, e alla mano tesa orizzontalmente di Aristotele lo sguardo abbassato del vecchio astrologo. La posizione dei due libri tenuti dai filosofi di Raffaello – il Timeo di Platone tenuto verticalmente e l’Etica aristotelica in posizione orizzontale – esprime l’opposizione dei loro sistemi37 rilevata anche da Giorgione, che assegna al giovane seduto a 36 Marcia B. Hall, Raphael’s «School of Athens», Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 34. 37 Cfr. ivi, pp. 36 sgg.: «In the case of Plato’s Timaeus, this work had been used in the teaching of natural science until the twelfth century, when it was replaced by Aristotle’s Physics. For Ficino, however, the Timaeus was the book that “embraces all the questions concerning nature”. In a revealing marginal note, Ficino remarks that nature is an instrument of the divine; its study provides an ascent to the divine, a stairway to God. This, therefore, is the meaning of Plato’s gesture: Plato sanctifies natural things. [...] For Ficino, Aristotle was the physicist, in the sense of a man of empirical science. And although Ficino recognized Aristotle’s importance, he seems to have looked down on him for his insistence on reducing everything to the raw empirical level. Aristotle, then, unlike Plato, seemed to “naturalize” even the things that are divine; thus his outward-pointing gesture».
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ragione del suo pensiero platonico una posizione centrale. Mentre il giovane geometra di Giorgione è espressione dell’unione di Bibbia e Platone, il vecchio astrologo è il rappresentante della scolastica aristotelica. La contrapposizione-giustapposizione delle due figure, specchio della discussione filosofica coeva, viene superata da Giorgione attraverso l’inserimento del personaggio centrale in funzione di “mediatore”, ovvero responsabile del transfer culturale generato dalla traduzione e che porterà alla rivalutazione di Platone e alla diffusione del neoplatonismo. Le note di Goethe nella sua Geschichte der Farbenlehre a proposito dei due filosofi – da leggere in relazione alla sua visita alla raffaellesca Scuola di Atene descritta nel Viaggio in Italia 38 – consentono di mettere a fuoco, pur nel loro carattere generale, alcuni aspetti che hanno segnato i dibattiti filosofici dal Quattrocento fino ad arrivare appunto all’epoca di Goethe: Platone si rapporta al mondo come uno spirito beato che desidera trascorrervi un po’ di tempo. Non gli importa tanto di conoscerlo, perché egli già lo presuppone, quanto di comunicare gentilmente a esso ciò che egli sa e di cui il mondo ha tanto bisogno. Egli penetra nelle profondità più per colmarle con il proprio essere che per studiarle. Egli si muove verso l’alto con il desiderio di ritornare partecipe della propria origine. Tutto ciò che egli dice si riferisce a un’eterna totalità, bontà, verità, bellezza, le cui esigenze egli spera di suscitare in ogni cuore. I singoli aspetti del sapere terreno di cui egli si appropria si fondono, svaporano, si potrebbe dire, nel suo metodo, nel suo discorso. Aristotele invece è nel mondo come un uomo, un architetto. Egli è qui e qui deve agire e produrre. Studia il terreno, ma solo finché ne trova il fondamento. Lo spazio da qui al cen-
38 «[Roma] 7 novembre [1786]: Le Logge di Raffaello e i grandi dipinti della Scuola di Atene, ecc., li ho visti oggi per la prima volta, ed è come se uno volesse studiare Omero su di un manoscritto parzialmente deteriorato e cancellato. Il piacere che viene dalla prima impressione è incompleto; solo quando si è veduto e studiato tutto, a poco a poco e parte per parte, il godimento è totale. Ben conservati sono soprattutto i soffitti delle Logge, raffiguranti storie bibliche; la pittura è così fresca come fosse di ieri, ma solo per la minor parte è di mano di Raffaello; comunque tutta splendidamente eseguita in base ai suoi disegni e sotto la sua direzione» (Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, trad. di Emilio Castellani, Milano, Garzanti, 1997, p. 146).
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tro della terra gli è indifferente. Egli traccia per il suo edificio un enorme cerchio, prende materiali da ogni dove, li ordina uno sull’altro, e così sale verso l’alto in forma regolare, come una piramide, mentre Platone cerca il cielo simile a un obelisco o a una lingua di fuoco39.
Il contrasto a cui Goethe riduce i sistemi platonico e aristotelico non trova una raffigurazione pittorica soltanto in Raffaello. Esso informa anche la struttura dei Tre filosofi, compositivamente più complessa e risolta in una direzione ben precisa attraverso l’integrazione di nodi tematici e di un metodo allegorico che ricollegano esplicitamente Giorgione a Dante.
39
Id., Sämtliche Werke. Briefe, Tagebücher und Gespräche, xxiii/1, Frankfurt am Main, Deutscher Klassiker Verlag, 1991, pp. 618-619.
V.
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Riassumendo i risultati delle analisi ai raggi x, Friderike Klauner afferma che le modifiche ai Tre filosofi, sia nel gruppo di persone a destra, sia per quanto riguarda la roccia a sinistra, sono avvenute in quattro fasi1. A tale elaborazione in quattro momenti diversi la
1
Cfr. Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit., pp. 166 sgg.: «È possibile individuare quattro fasi di lavoro. Nella prima fase è stata dipinta la roccia con le piante come appare oggi, un primo piano non ben identificabile, le due figure in piedi nell’abbigliamento che ci mostrano le radiografie, il boschetto a destra, un paesaggio sullo sfondo con in lontananza erte montagne che digradano fino alla pianura e un fondo pressoché bianco per il cielo; la loro linea di demarcazione a tratti pastosa si intravede ancora in parte attraverso lo strato di colore sovrapposto. – Nella seconda fase sono stati introdotti i tronchi e gli alberi spogli contro il cielo, il cespuglio secco sul secondo gradino a destra [...], contemporaneamente è stato dipinto l’azzurro del cielo e il giovane a sedere su un gradino a sua volta rifatto. Che il giovane sia stato introdotto solo successivamente lo si vede dal fatto che ai raggi x l’orizzonte del paesaggio ne taglia la testa, segno che il paesaggio è stato dipinto per primo. Se il giovane fosse stato eseguito assieme alle altre due figure, il pittore, come ha fatto con l’uomo con il turbante, avrebbe poi dipinto il paesaggio senza coprine la testa. – Nella terza fase il paesaggio è stato modificato fino ad assumere la forma in cui appare oggi, l’arbusto secco a sinistra sul gradino è stato coperto e sostituito dall’esile alberello, le figure hanno assunto la forma attuale, il cielo è stato a tratti ridipinto con un blu più intenso e sono state aggiunte le nuvole violacee, che a loro volta contribuiscono a coprire l’arbusto secco. Sembra inoltre che durante questa fase la parte superiore dell’albero obliquo a destra della figura con il turbante sia stata coperta dalla nuova coloratura azzurra del cielo. Aggiungiamo che il vecchio è la figura che ha subito le modifiche maggiori, e non solo formalmente ma anche cromaticamente. Da alcune piccole tracce è possibile supporre che la veste e il cappuccio invece dell’odierno color porpora-violetto fossero in precedenza verde-azzurri. I colori della fi-
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Klauner fa corrispondere due versioni del dipinto, le cui differenze continuano a sollevare domande sulle ragioni del “cambiamento di opinione” da parte di Giorgione. «We do not know what reasons induced the master to make these changes», scrive Georg Martin Richter, sostenuto nella sua ipotesi di una svolta concettuale in corso d’opera da Lionello Venturi2; e soggiunge: Possibly the subject of the picture had been interpreted by some people as the Three Magi, and Giorgio wished to make it quite clear that this interpretation was wrong. If, however, Giorgio did not wish to represent the Three Magi, what then is the real subject of the picture? Michiel called it the three philosophers, thereby classifying it as a humanistic subject, and the picture certainly does not contradict this interpretation. The old man standing to the right holds in his hand a sheet of paper with astrological figures, whilst the young man standing to the left holds a compass and a set-square. The figure in the middle is characterized only by the turban and a purse hanging from his belt. Furthermore, the three men are characterized respectively as young, middle-aged, and old. The scene in which the trio is depicted is a landscape. Whatever may have been the original meaning of the picture, it seems certain that the author wished to represent three different philosophical attitudes towards life.
gura con il turbante sono rimasti identici e in generale essa ha subito poche modifiche, come pure il giovane seduto, a cui però è stato sostituito il copricapo che aveva in precedenza con una capigliatura. – In una quarta e ultima fase sono stati inseriti i poco giorgioneschi e rozzi cespugli marroni e le fronde che circondano, sfumandoli, i profili della roccia e degli alberi, nonché un paio di campiture blu nel cielo – quindi le erbe che pendono a sinistra dalla roccia, le fronde verde-sporco sopra la figura con il turbante che coprono a tratti un tronco non finito e la parte superiore del tronco citato in precedenza, infine le larghe foglie appuntite che contornano la porzione di cielo che si intravede a destra sopra la testa del vecchio. Anche il sole potrebbe essere stato dipinto in questa fase. Nel punto in cui si trova, esso appare inesplicabile. Sia la roccia, sia le case nella valle sono illuminate da una fonte di luce che si trova al di là del quadro, opposta al sole. Alla maniera più rozza della quarta fase corrisponde un effetto in generale non molto raffinato. È piuttosto improbabile che Giorgione abbia voluto rovinare di propria mano i suoi delicati – ma ben definiti e ponderati – effetti di luce. I “raggii solari” del Michiel, osservati dal giovane seduto, non sono veri e propri raggi che provengono dal sole, ma riflessi luminosi sulla roccia, causati da un sole invisibile». 2 Cfr. Lionello Venturi, Four Steps Toward Modern Art. Giorgione, Caravaggio, Manet, Cézanne, cit., p. 9: «The fact that Giorgione changed his mind while painting the Three Philosophers is also revealing».
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The first version of the three philosophers may have been painted several years earlier than the second 3.
Anche Baldass ipotizza un cambiamento di tema durante il lavoro, ponendo la questione se questi interventi non siano da mettere in relazione all’elaborazione di un nuovo tema o addirittura a una richiesta del committente (o si può parlare qui già di acquirente?). È improbabile che Giorgione al momento di iniziare l’opera volesse dipingere tre filosofi. La roccia, il diadema e la barba del vecchio fanno supporre di no. In una prima versione due figure vestite in abiti classicheggianti (su questo punto è giusto seguire l’interpretazione del Wickhoff ) osservavano la roccia, mentre l’orientale in piedi tra i due guardava chiaramente altrove. Questa scena non esclude la possibilità che il quadro narrasse una storia. Lo spettatore non avrebbe forse compreso il tipo di relazione intercorrente fra le figure stesse, ma avrebbe colto il rapporto in parte positivo e in parte negativo tra le figure e la roccia. La versione definitiva colpisce invece per la quasi totale assenza di azione. Se Giorgione nel completare il quadro cambia il significato oggettivo di almeno una figura, come fece anche per la Tempesta, dove al posto della ragazza nuda iniziale dipinse un soldato, tale fatto getta una luce nuova sulla relazione tra Giorgione e l’oggetto dei suoi dipinti. Evidentemente egli si rapportava alla questione del tema in modo diverso sia dagli artisti del Quattrocento che dai suoi contemporanei veneziani4.
Domande e supposizioni come quelle di Richter, Venturi, Baldass e molti altri non considerano però il fondamentale aspetto dell’allegoresi che impronta il processo di elaborazione dell’opera. Sotto il livello “attuale” in cui si trovano i tre scienziati – il sensus litteralis (o historicus) – si trova il livello biblico-teologico della prima versione (sensus allegoricus), rappresentato dai magi orientali. Il punto di riferimento di entrambi i livelli è la caverna rocciosa a sinistra. In essa si cela il messaggio che Giorgione intende trasmettere all’osservatore del suo dipinto.
3 Georg Martin Richter, Giorgio da Castelfranco, Called Giorgione, Chicago, Illinois, University of Chicago Press, 1937, p. 83. 4 Ludwig Baldass, Zu Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 130.
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La tipologia delle figure, caratterizzate da una vivace luminosità cromatica, è difficilmente identificabile, al pari del blocco roccioso che Giorgione immerge nella obscuritas. La funzione delle modifiche e dei ritocchi effettuati resta ancora oscura. Nell’affrontare I tre filosofi di Giorgione con un «tentativo filosofico» à la Gadamer, Matthias Kroß pone a ragione la domanda sul «perché le modifiche dovrebbero rendere difficile all’osservatore una definizione del contenuto del quadro che si basi su alcuni riconoscibili punti d’appoggio, in modo tale che il soggetto tradizionale, nei termini di Settis, si mostri solamente nell’attimo dell’osservazione specialistica e si sottragga alla generale leggibilità. Evidentemente attraverso la sottrazione del messaggio in sé del dipinto tramite una “occultazione del soggetto” si intende generare una tensione esegetica che stimoli tentativi di interpretazione facendoli allo stesso tempo fallire»5. A partire da questo dato, l’autore attribuisce al soggetto che osserva il dipinto di Giorgione una «nuova attualità», in cui l’interpretazione diventa appunto uno degli elementi costitutivi del programma compositivo: «Esso dimostra che ogni forma di “rappresentazione”, vista filosoficamente, non può essere una semplice raffigurazione, ma include una situazione ermeneutica che precede logicamente il “discorso normale”. Questo piano genuinamente filosofico viene raggiunto attraverso una peculiare forma di rappresentazione: nascondendo l’oggetto essa lo rivela; invita all’interpretazione nel momento in cui la fa fallire; esprime una verità nella rinuncia stessa alla pretesa di verità; racconta le sue storie raccontando le nostre»6. Una tale conclusione chiarisce la ragione delle numerose e diverse interpretazioni del dipinto fino ad oggi prodotte dalla critica d’arte. La cifra esoterica dell’obscuritas, in cui Giorgione cela il messaggio del proprio dipinto, non è però uno “stratagemma” moderno, bensì un calcolato recupero della tradizione dell’aenigma che già nell’antichità, come ci mostrano Quintiliano e Cicerone, era
5 Matthias Kroß, Die «Drei Philosophen» Giorgiones – ein philosophischer Versuch, in «Kritische Berichte», 3/4, 1987, pp. 28-36: 29. 6 Ivi, p. 36.
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stato oggetto di riflessione retorica e letteraria7. In quanto sfida per l’intelletto l’obscuritas diventa mezzo estetico-produttivo di una strategia gnoseologica che mira a portare proverbialmente “luce nell’oscurità”: una allegoria non ironica che chiude l’accesso al «senso che si intende» («gemeinten Ernstsinn», Heinrich Lausberg). A partire dall’unione di aenigma e obscuritas – che Lausberg individua come sistema tipologico di quattro piani di senso (historia, allegoria, tropologia, anagogia) che si estende da Omero a Dante attraverso la Bibbia8 – l’allegoresi si fonda su segni (signa) di una visione del mondo ben definita che trova espressione nei termini di una riflessione descrittiva. In altre parole, occultando il suo soggetto Giorgione non mira, ad esempio, a riproporre il motivo della vanitas 9 o a produrre un suggestivo effetto di sfumato o di colorito: egli tende invece a creare un’opacità radicale la cui penetrazione possa avvenire attraverso un’attenta riflessione: «Non nell’evidenza di un senso apertamente comunicato, bensì nella sua occultazione si compie la logica della rappresentazione»10. La concezione dell’integumentum, che passa dalla poesia alla pittura, unisce, a partire dalla Bibbia, aenigma e obscuritas e si afferma tematicamente e metodicamente nel Medioevo. L’enigmatica obscuritas, di cui si parla nella Bibbia (1 Co, 13, 12), viene a indicare i limiti della conoscenza mondana. Essa implica altresì un senso ontologico ed escatologico alla cui comprensione guida un indispensabile processo cognitivo che conduce dalla frammentarietà all’intero. Le 7
Cfr. Manfred Fuhrmann, Obscuritas. Das Problem der Dunkelheit in der rhetorischen und literarästhetischen Theorie der Antike, in Immanente Ästhetik. Ästhetische Reflexion. Lyrik als Paradigma der Moderne, a cura di Wolfang Iser, München, Wilhelm Fink Verlag, 1966, pp. 47-72. 8 Cfr. Heinrich Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, 2 voll., München, Max Hueber Verlag, 1960, i, § 900. 9 Cfr. Jan Bial⁄ ostocki, rec. a Edgar Wind, Giorgione’s «Tempesta», cit., p. 249: «Tutti i tre “filosofi” sono presi dalla enigmatica oscurità della caverna a sinistra, che interpretata come motivo della vanitas conferirebbe al dipinto una connotazione malinconica, espressione di una meditazione sulla caducità». 10 Klaus Krüger,Innerer Blick und ästhetisches Geheimnis: Caravaggios «Magdalena», in Barocke Inszenierung, a cura di Joseph Imorde, Fritz Neumeyer und Tristan Weddigen, Emsdetten/Zürich, Imorde, 1999, pp. 33-49: 37.
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fondamenta di questa dottrina sono poste in particolare nel trattato De doctrina christiana da sant’Agostino, per il quale la lingua “oscura” ha il fine di «escludere i pagani dal mistero della rivelazione, poiché essi non sono in grado senza l’aiuto della fede di penetrare il senso attraverso il velo allegorico»11. Non diversamente si pone rispetto a questo punto la dialettica tomistica, che Dante assume a elemento fondante della propria gnoseologia: Similiter etiam est considerandum quod obscuritas quae importatur in nomine aenigmatis, dupliciter potest accipi. Uno modo, secundum quod quaelibet creatura est quoddam obscurum, si comparetur ad immensitatem divinae claritatis: et sic Adam videbat Deum in aenigmate, quia videbat Deum per effectum creatum. Alio modo potest accipi obscuritas quae consecuta est ex peccato, prout scilicet impeditur homo a consideratione intelligibilium per sensibilium occupationem: et secundum hoc, non vidit Deum in aenigmate (Summa Theologiae 1 q. 94a.1)12.
L’opera di Giorgione, che ha come tema la ricerca della verità, acquista tramite obscuritas una trama semantica che osservatore e lettore sono invitati a sciogliere. Davanti alla roccia giorgionesca l’osservatore che voglia scoprire ciò che si trova nascosto nell’oscurità si muove quindi nel solco della tradizione esegetica dantesco-medioevale. La roccia scura diventa lo stimolo concreto a un’esperienza trascendentale e a un movimento ermeneutico che conduce alla scoperta del divino. In questa direzione si muove con la sua enigmatica Allegoria sacra anche il maestro di Giorgione, Giovanni Bellini. 11
Walter Haug, Geheimnis und dunkler Stil, in Schleier und Schwelle. Archäologie der literarischen Kommunikation V, München, Wilhelm Fink Verlag, 1998, pp. 204-217: 207. 12 «Parimenti, si deve notare che l’oscurità, inclusa nella parola enigma, si può prendere in due sensi. Primo, in quanto ogni creatura paragonata all’immensità della chiarezza divina è qualcosa di oscuro; e in tal senso Adamo vedeva Dio in enigma, perché lo vedeva negli effetti creati. Secondo, si può intendere dell’oscurità derivata dal peccato, che, legando l’uomo alle cose sensibili, gli impedisce la meditazione delle realtà intelligibili; e in tal senso il primo uomo non vedeva Dio in enigma» (San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, traduzione e commento a cura dei Domenicani italiani, vi, L’uomo: b) pensiero e origini [1, qq. 84-102], Firenze, Salani, 1965, p. 242).
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Il ricorso belliniano alla obscuritas prende le mosse dalla radicale rottura con gli schemi della canonica Natività degli affreschi della Cappella degli Scrovegni. In opposizione a Giotto, che aspira alla immediata comprensione, Bellini opera allegoricamente in senso dantesco. Mirando alla obscuritas egli sottrae all’opera l’attributo convenzionale del “presepe” presentando il gruppo di persone in un contesto inedito. La possibile identificazione, grazie all’ausilio di testi agiografici, del soggetto dell’Allegoria sacra quale Natività, ancorché complessa, ci permette di riconoscere nella pittura quel «presepe» del quale Isabella d’Este ringrazia Bellini con la sua lettera del 18 ottobre 150513. La particolare Natività creata a sua volta da Giorgione con I tre filosofi sposta il rapporto con il maestro dall’aspetto della imitatio, a quello della differenziazione e del superamento, ovvero dell’aemulatio. Diversa dai modelli del maestro è, tra le altre cose, l’enigmatica variazione sul motivo della grotta (il «saxo finto cusí mirabilmente»), senza la comprensione del quale il messaggio dell’allievo non verrebbe alla luce. la caverna di platone Non fa sì gran muglia il tempestoso mare, quando il settentrionale aquilone lo ripercuote, colle schiumose onde fra Silla e Cariddi; né Stromboli o Mongibello quando le zolfare [e] fiamme, essendo rinchiuse, per forza rompendo e aprendo il gran monte, fu[l]minando per l’aria pietra, terra, insieme coll’uscita e vomitata fiamma; né quando le ’nfocate caverne di Mongibello renda quadra[n i]l mal tenuto elemento, rivomitandolo e spingendolo alla sua regione con furia, cacciando innanzi qualunche ostacolo s’interpone alla sua impetuosa furia. E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle vrie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio, e colla destra mi
13
Cfr. infra, vii. Due «notti»: tra adorazione e filosofia, pp. 133 sgg.
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feci ten[ebre] alle abbassate e chiuse ciglia; e spesso piegandomi in qua e in là per [ve]dere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi [per] la grande oscuri[t]à che là entro era. E stato alquanto, subito sa[l]se in me due cose, paura e desidero: paura per la minac[cian]te e scura spilonca, desiderio per vedere se là entro fusse alcu[na] miracolosa cosa [...]. (O potente e già animato strumento dell’arteficiosa natura, a te non valendo le tue gran forze, ti convenne abbandonare la tranquilla vita, obbidire alla legge che Dio e ’l tempo diè alla genitrice natura). A te non valse le ramute e gagliarde ischiene colle quali tu, seguitando la tua pleda, solcavi, col petto aprendo con tempesta, le salse onde. O quante volte furono vedute le impaurite schiere de’ delfini e de’ gran tonni fuggire da l’impia tua furia! E tu colle veloci e ramute ali e colla forcelluta coda fu[l]minando generavi nel mare subita tempesta con gran busso e sommersione di navili, con grande ondamento empievi gli scoperti liti degli impauriti e sbigottiti pesci. Togliendosi a te, per lasciato mare rimasi in secco, divenivano superchia e abbondante pleda de’ vicini popoli. O tempo, consumatore delle cose, in te rivolgendole dài alle tratte vite nuove e varie abitazioni. O tempo, veloce pledatore delle cleate cose, quanti re, quanti popoli hai tu disfatti, e quante mutazioni di stati e vari casi sono seguiti, po’ che la maravigliosa forma di questo pesce qui morì! [...]. Ora disfatto dal tempo, paz[i]ente diaci in questo chiuso loco. Colle ispogliate, spolpate e ignude ossa hai fatto armadura e sostegno al sopraposto monte. Leonardo da Vinci14
Le descrizioni contenute negli appunti di Leonardo da Vinci mettono in risalto il profondo significato della caverna, la cui importanza storica è stata ricostruita da Hans Blumenberg attraverso una poderosa raccolta di materiale15. Al realistico approccio al mondo naturale si mescolano concetti atemporali che riguardano memorie passate e un indeterminato futuro, ovvero la paura della scura e minacciosa caverna e insieme il desiderio di osservarla e studiarla. La materia per lo sviluppo di mitologie e allegoresi è ine14 Leonardo da Vinci, Scritti letterari, a cura di Augusto Marinoni, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 184-187. 15 Hans Blumenberg,Höhlenausgänge, 3voll., Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996.
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sauribile. L’apostrofe leonardesca rivolta alla propria epoca focalizza il nucleo della questione. Il passo dall’oscurità naturale delle caverne leonardesche a quella figurata del mito platonico della caverna conduce dall’osservazione alla riflessione. «Chi si avvicina alla grotta di Platone», scrive il filosofo Gerhart Schmidt, «lo fa come un solutore di enigmi che deve investigare il significato di ogni figura e cercare pazientemente di capire il senso occultato da Platone»16. In effetti l’allegoria platonica della caverna, già tradotta da Crisolora e che giungerà ai pensatori italiani nella versione ficiniana, si inserisce nella tradizione dell’aenigma-obscuritas, a cui gli umanisti dedicheranno particolare interesse. La regione spazio-temporale in cui Platone mette in scena la sua oscura caverna corrisponde, come chiariscono le sue parole introduttive, a quella del “normale” mondo superiore, comprese le persone incatenate: Ora, ripresi, riguardo alla cultura e alla sua mancanza, immaginati la nostra condizione nel modo seguente. Pensa ad uomini in una caverna sotterranea, dotata di un’apertura verso la luce che occupi tutta la parete lunga. Essi vi stanno chiusi fin dall’infanzia, carichi di catene al collo e alle gambe che li costringono a rimanere lì e a guardare soltanto in avanti, poiché la catena al collo impedisce loro di volgere intorno il capo. In alto, sopra di loro, brilla lontana una fiamma; tra questa e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale è stato costruito un muretto, simile ai paraventi divisori al di sopra dei quali i saltimbanchi mostrano al pubblico i loro prodigi17.
Raffigurazione esemplare di tali prigionieri è l’incisione di Saenredam tratta da Cornelis Cornelisz (1604, ill. 12)18. Lo scuro
16 Gerhart Schmidt, Sokrates in Platons Höhle, in Das Lächeln des Sokrates, a cura di Herbert Kessler, Kunsterdingen, Die Graue Edition, 1999, pp. 9-45: 9. 17 Citiamo dalla traduzione di Giuseppe Lozza, in Platone, La Repubblica, Milano, Mondadori, 1990, p. 537. 18 Sul rapporto tra Saenredam e Cornelisz, cfr. Cornelis Cornelisz van Haarlem (1562-1638). A Monograph and Catalogue Raisonné, a cura di Pieter J.J. van Thiel, Doornspijk, Davaco Press, 1999, pp. 202-204.
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campo visuale delle figure incatenate raffigura il limitato processo cognitivo della conditio humana. Il gruppo di tre persone senza volto che Saenredam posiziona all’entrata (o all’uscita) della grotta – un gruppo numericamente e “fisicamente” ridotto – si trova nella luce. Il percorso verso la percezione della luce, verso il sole, verso il “vero essere” nell’allegoria della caverna di Platone, è evidentemente di difficile accesso. Nel momento in cui il giovane sentado di Giorgione leva gli occhi verso la luce (515 C 8), egli viene a trovarsi sul cammino della conoscenza che Platone inserisce plasticamente nella conclusiva interpretazione della sua allegoria: Occorre dunque, dissi, caro Glaucone, riferire tutta questa allegoria a quanto abbiamo detto prima. Paragona il mondo visibile alla dimora in prigione, e la fiamma che vi risplende al sole; e non deluderai la mia attesa considerando l’ascesa verso la contemplazione della realtà superiore come l’ascesa dell’anima verso il mondo intelligibile. Questa è la mia interpretazione, dato che vuoi conoscerla. Dio solo sa se sia vera; in ogni caso io la penso così: l’idea del bene rappresenta il limite estremo e appena discernibile del mondo intelligibile. Quando si è compresa quella, occorre dedurre che essa è causa per tutti di tutto ciò che è retto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il signore della luce, mentre nel mondo intelligibile offre essa stessa la verità e l’intelligenza, e chi voglia comportarsi saggiamente in privato e in pubblico deve contemplare questa idea19.
Il percorso del giovane giorgionesco – figura che quindi in un certo senso “esce dalla caverna” – verso l’intelligenza e la verità non è determinato dalla vista come senso fisico, ma da uno sguardo interiore (contemplazione). Con la luce naturale della ragione (il lumen naturale) il giovane seduto – a cui le altre due figure volgono le spalle – pure non riesce a prevenire all’assoluta verità, ma la via per giungere a essa è ormai aperta. Per i suoi due accompagnatori essa resta ancora sbarrata. «In Platone lo spazio esterno è quello straordinario della dimora del saggio», scrive Hans Blumenberg20. L’accento neoplatonico 19 20
Platone, La Repubblica, cit., p. 545. Hans Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit, cit., p. 437.
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che Ficino, con l’inserimento della questione causale, introduce nel contesto della metafora della caverna, il momento ontologico che egli inserisce nella sua sincretica epistemologia, eleva la conoscenza del “vero” e quindi la contemplazione del divino a meta delle aspirazioni umane. I «raggii solari», che il giovane di Giorgione secondo i termini ficiniani «riceve attraverso i sensi, raccoglie con la fantasia, purifica col pensiero e infine collega con le idee universali della mente» (Theol. Plat. xvi, 3)21, lo conduce necessariamente – questo il messaggio del pittore – all’eternità di tutti i contenuti di conoscenza. Attraverso il superamento di diversi gradi di “dis-illusione” chi esce dalla caverna raggiunge il livello trascendente che lo conduce alla cercata verità. i tre gradi della conoscenza Quale segno evidente del sistema filosofico-scientifico a cui intende richiamarsi, Giorgione introduce nel suo “libro della natura” il fenomeno dei tre gradi. I gradoni circolari del roccioso pendio su cui si trova il trio di scienziati formano un ordine in successione i cui elementi sono strettamente legati tra loro. Il piano più basso è quello in cui si trova il vecchio astrologo, con attributi che rimandano al sistema tolemaico, che come abbiamo osservato attraversa nel Quattrocento una fase critica. Sul secondo gradino si trova, in veste greca e posa statuaria, l’uomo con il turbante. Sul terzo gradino, il più alto, siede il giovane geometra con squadra e compasso aperto, che non rivolge però il suo interesse a un apparato tabellare di calcolo bensì alla realtà fisica, all’oggetto della creazione di Dio. Il geometra-scienziato viene così a incontrare il geometra cosmico (ill. 6). La scala che egli sale more geometrico, come l’ascesa alla metafisica che egli compie per riflessione, raffigurano simbolicamente il processo gnoseologico che Platone suggerisce con la metafora della caverna.
21
«assumit quidem ipsa per sensum, […] colligit autem eas per phantasiam, purgat extollique per rationem, ligat deinde cum universalibus mentis ideis».
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I gradini sono la raffigurazione simbolica del cammino in salita nella temporalità e nella caducità che occorre percorrere con la potenza della Mente attraverso l’Anima in direzione del celeste Sommo ed Eterno. L’iconografia geometrico-geologica di Giorgione rappresenta plasticamente la gradazione dell’essere che anche la contemplazione che aspira alla verità divina deve percorrere. Nell’atto della liberazione dalla physis impura è dato il principio della raggiunta conoscenza, principio che Platone espone nella Politeia e a cui Ficino si riallaccia nel trattato Sopra lo amore (II, ii): Questa comparazione del vi Libro della Republica di Platone, certamente in questo modo, come udirete, si trae. Veramente il Sole i corpi visibili crea, e così gli occhi coi quali si vede: e acciocché gli occhi veggano, infonde in loro spirito rilucente: e acciocché i corpi siano veduti, di colore gli dipinge. Né ancora il proprio raggio agli occhi, né i propri colori a’ corpi, a lo offizio del vedere sono abbastanza, se già quel lume, che è uno sopra tutti i lumi, dal qual lume molti e propri lumi agli occhi e a’ corpi sono distribuiti, in loro non discenda: e quelli illumini, desti e augumenti. In questo medesimo modo quel primo atto di tutte le cose il quale si dice Iddio, producendo le cose, a ciascuna ha donato Spezie e Atto: il quale atto certamente è debole e impotente alla esecuzione dell’opera: perché da cosa creata e da paziente subbietto fu ricevuto. Ma la perpetua invisibile unica luce del divino Sole sempre a tutte le cose, con la sua presenza, dà conforto, vita e perfezione. Della qual cosa divinamente cantò Orfeo, dicendo, esso Dio confortare tutte le cose, e sè sopra tutte spandere. In quanto Iddio è Atto di tutte le cose, e quelle augumenta, si chiama Bene: in quanto egli secondo le loro possibilità le fa deste, vivaci, dolci e grate, e tanto spirituali quanto esser possono, si dice Bellezza. In quanto egli alletta quelle tre potenze dell’Anima, Mente, Viso e Udito agli obbietti che hanno ad essere conosciuti, Pulcritudo si chiama. E in quanto essendo nella potenzia, che è atta a conoscere, quella congiugne alla cosa conosciuta, si chiama Verità22.
Le stazioni del processo conoscitivo vengono esposte da Ficino in senso platonico: «E se alcuna stabilità», afferma nel capitolo seguente definendo Mente, Anima (Ragione) e Natura (senso), 22
Marsilio Ficino, Sopra lo amore, cit., pp. 30-31.
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è nella cognizione dell’Anima, più tosto è per benefizio della Mente, che per natura dell’Anima. Ancora la Natura mobile cerchio si dice. Quando noi diciamo Anima secondo l’uso degli antichi Teologi, intendiamo la potenzia che è nella ragione e nel senso dell’Anima posta. Quando diciamo Natura, la forza della Anima atta a generare si intende. Quella Virtù in noi propriamente chiamarono lo uomo: questa altra dell’uomo idolo e ombra. Questa virtù del generare mobile certamente si dice, perché con ispazio di tempo finisce la opera sua. E in questo da quella proprietà dell’Anima è differente, che la Anima per sé e in sé si muove: per sé, dico, perché ella è principio di moto: in sé ancora, perché in essa sustanzia dell’Anima rimane l’operazione della Ragione e del senso: e di questo non resulta nel corpo necessariamente opera alcuna. Ma quella potenzia del generare, la qual chiamiamo Natura, per sé si muove, essendo ella una certa potenzia dell’Anima, la quale Anima si muove per sé. Dicesi ancora che si muove in altri, perché ogni operazione sua nel corpo si termina, nutricando, augementando e generando il corpo. Ma la Materia corporale è cerchio che si muove da altri e in altri. Da altri dico, perché è dall’Anima agitato: in altri, dico, perché si muove in ispazio di luogo23.
La posizione più elevata in cui Giorgione, nell’ambito della triade degli scienziati, presenta il giovane seduto rispecchia il sommo grado della ragione conoscente. Nella sua distanza dal gradus più basso della Natura egli ha raggiunto l’atto più alto della contemplazione. l’uscita dalla caverna e la luce «L’uscita dalla caverna diventa metafora storico-filosofica, definendo la nuova epoca dell’umanità»24. L’affermazione di Blumenberg, articolata anche da Kristeller nel contesto della “dottrina della graduazione” e della contemplazione25, si riferisce in effetti alla fici23
Ivi, pp. 33-34. Hans Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit, cit., p. 438. 25 «Soltanto il neoplatonismo ha concepito la struttura dell’essere come una graduazione continua ed ha così ottenuto un principio universale di divisione che diventò poi per mezzo dell’Areopagita un elemento fisso della concezione medievale» (Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, cit., p. 67). 24
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niana Theologia Platonica, in cui la metafora della caverna viene trattata diffusamente. Ficino rileva il profondo mutamento tra Medioevo ed epistemologia umanistica26 che Giorgione definisce in senso pittorico, con un atto concettualmente consapevole, nella sua opera. Il giovane seduto – figura che come abbiamo visto “esce” in un certo senso dalla caverna – è il rappresentante simbolico della filosofia ficiniana. L’attività con cui Giorgione lo caratterizza presentandolo all’osservatore del quadro è la contemplazione27, di cui Ficino espone e definisce il valore gnoseologico. Tale contemplazione è a sua volta strettamente connessa con il motivo della luce, che Giorgione traspone nel quadro attraverso l’illuminazione della roccia a sinistra. Nella trattazione riepilogativa che Ficino dedica alla metafora della caverna nella sua Theologia Platonica egli illustra, facendola propria, la valenza gnoseologica dell’iconografia platonica. Il cammino a gradi – che è da compiere fuori della caverna – verso una superiore «realtà» esperibile solamente nel «mondo invisibile», richiede la progressiva separazione dell’anima dal corpo. Solo il comUna importante integrazione del saggio di Kristeller è data dall’articolo di Stephan Otto, Geometrie und Optik in der Philosophie des Marsilio Ficino, in «Philosophisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft», 98, 2, 1991, pp. 290-313. 26 Cfr. Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, cit., pp. 417-418: «La relazione dell’anima razionale, che contiene in sé la forma più alta del moto, colle sostanze stabili di Dio e degli angeli è spesso illustrata dal Ficino con un paragone che acquista particolare interesse per il suo stretto rapporto col famoso simbolo della luce. La luce è, come è noto, secondo una tradizione antica, simbolo dell’essere e specialmente dell’essere intelligibile, e per la parabola platonica della caverna Dio stesso come fonte dell’essere viene paragonato col sole, fonte della luce». 27 Ivi, pp. 87, 254: «Già i dialoghi di Platone sono pieni di similitudi ampie e chiare; e sebbene non senza ragione si possa attribuire questo fatto all’indole poetica di Platone, nondimeno alcuni esempi, come la celebre parabola della grotta, mostrano uno scopo non solo letterario, ma anche propriamente filosofico. [...] Ma la conoscenza umana non è per il Ficino limitata agli oggetti empirici; essa si eleva da questi alla regione delle cose incorporee ed intelligibili per contemplare le cose divine, cioè le idee. E qui si nota, per la prima volta nella gnoseologia ficiniana, l’influsso dell’esperienza interiore. Infatti coll’ascesa interiore si apre alla coscienza una nuova regione di oggetti, come abbiamo visto sopra, e tale atteggiamento superiore dell’anima viene chiamato contemplazione. Il contenuto di questa contemplazione consiste proprio nelle idee, e così viceversa la conoscenza delle idee è legata all’esperienza interiore come condizione necessaria».
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piuto distacco dalla materia permette allo spirito di avere quella “sede” (Hic irrationalis anima sedem habet ) a partire dalla quale esso, sempre più libero, trova e percorre la strada che lo conduce alle realtà superiori (ad supera, quod iam unitatis nomine appellatur ). Questa è la sede occupata dal giovane sentado di Giorgione. La luce verso cui è rivolto il suo sguardo non è quella della sua origine spirituale, ma il suo riflesso. La luminosità «mirabile» e sempre più chiara di questo riflesso provoca la separazione dalla materia (Secernite ipsam ab omni materia, mirabilius rutilabit…) e allo stesso tempo permette di accogliere i raggi solari che, indipendenti dallo «sguardo terreno», investono ogni cosa (Sentiet quoque, ut ita dixerim, quando per eius radios haec omnia sentiunt ). Figure e concetti che Ficino introduce nella sua trattazione della metafora della caverna vengono a corrispondere perfettamente alla sintetica descrizione del quadro, più volte ricordata, di Marcantonio Michiel: «gli raggii solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente». Lo sguardo che il giovane dirige verso la luce in alto (capax superiorum), lo distingue e separa dagli «animi plebei» (a spiritalium confessione abducit animos plebeorum). Di questi fanno parte le due figure in ombra che fungono da accompagnatori, e ai quali il giovane volta le spalle28. Egli è invece la rappresentazione plastica del-
28 «Verae enim mentes, verae res quaeque, verus sol in mundo solum sunt invisibili, quae si absque congruis educationis disciplinarumque gradibus repente intueri conemur, caligamus protinus et dolemus. Convenientibus vero tum morum tum doctrinarum tum temporis perducti gradibus sincere discernimus iudicamusque caecos illos et miseros, qui falsis mundi huius umbris imaginibusque falluntur, occupantur atque premuntur. Verumtamen quando animus ab immenso invisibilis mundi lumine in corpus obscurum regendum movendumque descendit, novis suaeque naturae contrariis obrutus tenebris, caecutire diu et titubare compellitur. Adde et propter repentinam maximamque in deterius mutationem diu cogitur aegrotare atque ferme sic affici, ut ii qui propter phrenesim vel somnum vel ebrietatem falsis imaginibus illuduntur atque vexantur. Aut certe non aliter se habere, quam si quis a solis lumine in cavernam illam quam descripsimus repente praecipitetur. Adeo enim novis tenebris offundetur ut aut nullo modo, aut vix tandem sub exiguo illo cavernae lumine umbras illas tantum quas narravimus discernere possit. Praeterea ob subitam illam et in peius mutationem, in morbos tam sensus quam corporis varios incidet. Haec a Platone in libro de Republica septimo. Sed redeamus tandem ad ea quae ab initio statueramus. Emergite, obsecro,
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la separazione che ha luogo nella coscienza tra anima e corpo, dell’allontanamento da un mondo oggettuale che agisce materialiter sui sensi da parte di un’anima che si immerge nella meditazione. mortalium animae nunc immersae corporibus, naturam vestram supra corporis fines statim reperietis. Corpus siquidem longum est, latum atque profundum. Quoniam vero nullum corpus est infinitum, ideoque finem habet profunditatis, finitur in superficiem non profundam. Habetis iam superficiem longam quidem et latam sicut corpus, sed profunditate carentem atque ex una hac parte surgentem ad incorporea. Superficiei quoque latitudo finita ad longam lineam terminatur, neque profundam, neque latam. Habetis lineam duabus partibus ad spiritum accedentem. Sed haec ipsa linae longitudo, quia finita est, ad punctum ducitur, non profunditate solum et latitudine privatum, sed etiam longitudine. Habetis punctum tribus partibus ad naturam vergens incorporalem. Sed hoc quoniam lineae terminus est, ideo certum habet situm in corpore, neque implet totum, neque vivificat. Separate, si placet, ipsum a linea. Potest autem cogitatione saltem a linea separari quod est lineae terminus et prius in seipso est quodammodo quam terminet lineam. Quod autem prius est, licet ab eo quod est posterius separare. Habetis punctum quodammodo, id est cogitatione, solutum a linea, quarto iam gradu discedens a corpore. In hac ipsa solutione assequitur, ut omnes partes corporis aeque respiciat, fundatur per omnes et moveat. Hic irrationalis anima sedem habet. Et quoniam rationalis cogitatio non fallitur ascendendo, ideo sicut invenit punctum a corpore cogitatione liberum, sic revera inveniet punctum, id est individuum aliquid re ipsa solutum a corpore, quod non modo impleat corpus et moveat, sed ipsum libere moveatur et tollatur ad supera, quod iam unitatis nomine appellatur. Hic anima viget rationalis, quinto gradu a mole corporis aliena. Si tanto quid impurius est quanto eget patiturque magis, corpus impurius est quam superficies. Pluribus enim, ad hoc ut sit, dimensionibus eget atque ex partibus dividitur pluribus. Superficies simili ratione cedit lineae, linea puncto, punctum denique unitati, quae neque dimensionibus indiget, neque situ. Si horum perfectissima substantialis unitas est, (et quia perfectissima, ideo potentissima et verissima) atque haec sunt aliquid existuntque, quis negaverit vere existere unitatem? Ergo quid prohibet animam esse aliquid, et id quidem virtute magnum, licet non sit magnum aliquid quantitate? Agite igneam formam quae in corpore vestro tricubito tricubita est, colligite totam in cordis centrum. Hinc tantum virtute crescat quantum creverit unione, non aliter ac solis radii in concavi aeneique speculi collecti centro, qui usque adeo roborantur, ut inde resilientes durissima quaeque accendant subito atque consumant. Subtrahite portiunculam illam cordis, qua forma ignis illa deprimitur, restet forma individua, agilis, calens, lucens et aliter quam prius et mirabilius. Quia individua agilisque est secundum se totam, corpus totum aeque colustret. Quia fervet incredibiliter, vitalis sit atque vivifica. Quia mirifice fulget, sentiat. Intelligat insuper, si reflectitur in seipsam sursumque attollitur. Hactenus per ea quae tanguntur, pedetentim progredientes invenistis animam, quando a solido corpore ad quiddam quasi punctum omnino liberum processistis. Rursus per ea quae cernuntur oculis animam perscrutemini. [...] Hinc efficitur ut nihil animo aut gratius aut mirabilius sit quam lu-
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La vista degli occhi lascia il posto a quella, determinata dall’intelletto, dell’anima. Fine ultimo della contemplazione è la conoscenza del sommo bene, Dio, conoscenza a cui sarà dato giungere completamente solo nell’aldilà.
men, neque possit alibi quam in lumine spirituum habitare, dum colit terras. Iam igitur et hic invenistis animam esse tamquam lucem invisibilem, vivificam, sentientem, intelligibilem, intelligentem. Et paulo ante tamquam punctum a corpore liberum [?], agile per seipsum, calens, vivificum, sentiens, capax superiorum, quod substantialis quaedam unitas appellatur. Atque haec prima quaedam excursio sit et quasi praeludium, quo infelix diffidentia illa tollatur quae longissime a spiritalium confessione abducit animos plebeorum» (Theol. Plat. vi, 2).
VI.
La grotta di Cristo
«mons victorialis» La grotta della nascita di Cristo che Giorgione presenta a destra sullo sfondo della sua Adorazione dei pastori (ill. 13), è chiaramente riconoscibile in quanto tale. La tavola giorgionesca ha come tema centrale la nascita di Cristo. Al centro di un cerchio formato da san Giuseppe, Maria e due pastori in adorazione, il figlio di Dio – illuminato – giace su un panno bianco e su un lembo della veste blu della Madonna. Il messaggio che Giorgione intende trasmettere viene articolato attraverso una serie di elementi compositivi: il figlio di Dio, fonte di luce, che giace a terra, la Madonna inginocchiata e san Giuseppe a lato in atteggiamento assorto (ovvero la sacra famiglia a cui faranno visita i tre Magi), i pastori in adorazione, la testa d’angelo illuminata sopra l’ingresso di una caverna scura nello sfondo, e accanto all’angelo, sempre sopra la grotta, un albero di fico, e infine, chiaramente riconoscibili, un bue e un asino che completano la scena. Definita attraverso il sistema segnico dell’iconografia canonica, l’Adorazione dei pastori si fonda, in breve, sulle numerose raffigurazioni della nativitas del Quattrocento e del Cinquecento. La grotta della nascita di Cristo come appare nella giorgionesca Adorazione dei pastori non è inferiore per suggestività figurativa a quella della metafora platonica. Per la sua raffigurazione Giorgione attinge al vitale mondo iconografico con cui i testi apocrifi, già a partire dal primissimo Medioevo arricchiscono – con interferenze e sovrapposizioni – i vangeli canonici. Un particolare influsso
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come fonte iconografica avrà, accanto alla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, il testo anonimo Opus imperfectum ad Matthaeum 1 che ha un ruolo fondamentale nella storia della letteratura cristiana relativa ai Magi. Sia la luce angelica sopra l’ingresso della grotta2, sia le misere condizioni in cui si trova il bambinello3 concordano con 1 Il testo dell’Opus imperfectum si legge in Jacques-Paul Migne, Patrologia Graeca, lvi. Cfr. inoltre Hugo Kehrer, Die Heiligen Drei Könige in Literatur und Kunst, 2 voll., Leipzig, Verlag Seemann, 1908. 2 Con la sua luce sacrale all’ingresso della grotta Giorgione cita il motivo topico di cui si dice nell’Opus imperfectum: «Et ecce stella, quam viderant in oriente, antecedebat eos: ut considerantes obsequium stellae, regis intelligerent dignitatem, et dicerent apud se: quomodo sit rex iste terrenus, cui stella ministrat? Quid autem mirum, si Sole justitiae orituro, stella ministrabat divina! Praecedebat autem eos, ut ostendat, quoniam hominibus quaerentibus Deum sic omnia elementa ministrant. Si ergo magnum putas, quia Christo stella obsequebatur, vide quoniam majora sunt, quae tibi homini constituto ministrant. Ecce enim tibi sol currit, et luna fulgere non cessat. Si tibi homini constituto elementa ministrant, quid mirum si Christo stella obsequebatur? si tibi peccanti elementa ministrant, quid mirum si ante illos quaerentes Christum stella currebat? et si angeli ministrant hominibus, quos Deus non ad obsequium hominum, sed ad suum creavit, quid magnum si hominibus elementa ministrant, quae propter homines sunt creata? Haec audientes, gaudere nos oportet pariter et timere, quia quanto majora beneficia hominibus sunt constituta, tanto graviora peccantibus judicia sunt praeparata. Et stetit super caput pueri, quasi dicens, Hic est, ut quia loquendo monstrare non poterat, stando monstraret. Et videntes stellam, gavisi sunt gaudio magno valde: quia vedelicet spes illorum non erat decepta, sed amplius confirmata, quod tanti itineris non sine causa susceperunt laborem. Indicio enim stellae sic occurrentis sibi secundum tempus intelligebant, quia divinius eis nativitas illa regis est ostensa. Et per mysterium stellae intelligebant, quoniam dignitas tunc nati regis excedebat mensuram omnium mundialium regum: necesse enim erat, ut gloriosiorem putarent regem illum, quam stellam, cui stella sic devote obsequebatur. Aut quomodo non crederent ei subdendos homines, cui etiam caeli ornamenta subdita esse videbant? aut quomodo poterat ei terra esse rebellis, cui famulabatur et caelum? Et intrantes domum, viderunt puerum et matrem ejus. Videamus quid tale gloriosum videntes in puero gavisi sunt, qui regem quaerentes tanti itineris susceperunt laborem?» (Opus imperfectum, cit., p. 641). Il concetto di “luce sacrale” è ripreso da Wolfgang Schöne, Über das Licht in der Malerei, Berlin, Gebr. Mann Verlag, 19948. 3 Cfr. Opus imperfectum, cit., p. 642: «Matrem ejus vix tunicam unam habentem, non ad ornamentum corporis, sed ad tegumentum nuditatis proficientem, quam habere poterat uxor carpentarii, et haec in peregre constituta. Puerum pannis sordidissimis involutum, et in sordidiore quoque praesepio positum: quia locus ille sic erat angustus, ut nec ponendi infantem spatium invenirent. Si ergo regem terrenum quaerentes, sic invenissent, magis confundendi fuerant quam ga-
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le indicazioni fornite dalla tradizione agiografica. I pastori che Giorgione presenta in adorazione del Cristo corrispondono all’iconografia nella tradizione della Legenda aurea: «in quarto luogo [la natività fu segnalata] da creature che sono dotate di essere, vivere, sentire e discernere, come sono gli uomini. Questo fu il caso dei pastori»4. Ma la grotta scavata nella roccia di Giorgione rappresenta già una palese divergenza rispetto al testo di Iacopo da Varazze, il quale pone il luogo di nascita di Cristo sotto un tetto (immagine che troviamo, ad esempio, in Giotto). Nei Tre filosofi il passo compiuto da Giorgione verso la dimensione allegorica è accompagnato dalla completa eliminazione della scena topica della natività. L’interpretazione del luogo, privato dell’avvenimento che avrebbe potuto caratterizzarlo, pone quindi questioni la cui soluzione va cercata nella prima versione del quadro. La grotta di Cristo in posizione elevata, adesso a sinistra e attraverso gli interventi sul dipinto completamente oscurata e assimilata alla cavisuri, quia tanti itineris laborem sine causa suscepissent: nunc autem quia caelestem regem quaerebant, etsi nihil regale videbant in eo, tamen solius stellae testimonio contenti gaudebant». Cfr. ivi, p. 644, a proposito della mangiatoia e dei panni su cui giace il bambino: «Postquam parvulus Jesus magos subjugavit sub imperio suo, non potestate corporis, sed gratia Spiritus, non exercitum Christus misit post illos, sed stellam modicam ante illos. Religione illos subdidit, non timore. Non enim persequutus est illos, sed ipse requisitus est ab eis. Ideo merito irascebatur Herodes, quia quibus ille sedens in throno regni et vestitus purpura suadere non poterat, his Jesus parvulus, et jacens in praesepio, et pannis involutus placuit». 4 Si cita dalla versione di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone, in Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, p. 54. Cfr. ivi, pp. 50-51: «Arrivati a Betlemme, Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare alloggio perché erano poveri, e tutti i posti erano già stati occupati da quelli che erano venuti prima di loro per la stessa ragione. Allora si fermarono in un riparo lungo la pubblica via che, come si legge nella Historia scholastica, si trovava tra due case ed era coperto da una tettoia, dove le persone si raccoglievano, o si riparavano, come dice la parola, per discorrere o per mangiare assieme durante le giornate di festa, oppure per ripararsi dal tempo cattivo. Lì Giuseppe mise una mangiatoia per il bue e per l’asino, oppure, come sostengono altri, siccome i contadini quando andavano al mercato vi legavano gli animali, la mangiatoia era già lì pronta. Proprio lì a mezzanotte della domenica (il primo giorno del Signore!) la Beata Vergine partorì il suo figlio e lo adagiò sul fieno, nella mangiatoia (nella Historia scholastica si dice che sant’Elena portò poi quel fieno a Roma, fieno che miracolosamente l’asino e il bue non avevano mangiato)». 5 Hugo Kehrer, Die Heiligen Drei Könige in Literatur und Kunst, cit., i, p. 19.
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verna di Platone, ha spinto alcuni critici a identificare il luogo giorgionesco con l’apocrifo Mons Victorialis citato nell’Opus imperfectum ad Matthaeum. A proposito del Mons Victorialis e del profeta precristiano Zoroastro, Kehrer ci ricorda che il motivo della lontana grotta si trova anche nella più tarda Scriptura Seth (= Zoroastro), citata nella seconda omelia dell’Opus imperfectum ad Matthaeum. Una comunità religiosa «in principio orientis iuxta Oceanum» è in possesso di un antico testo arcano in cui si parla di una stella che sorge e dell’offerta di regali a un nuovo re. La gens ha scelto dodici magi, amatores mysteriorum caelestium, che devono stabilire il momento in cui la stella profetizzata sorgerà sul mons victorialis. Si chiamano magi, quia in silentio et voce tacita Deum glorificabant. Per molti anni i dodici saggi post messem trituratoriam sono saliti sull’alto monte ricco di alberi e fonti, e che cela all’interno una grotta, per pregare e lodare Dio. Avverandosi un giorno la loro speranza – la stella sorge – habens in se formam quasi pueri parvuli et super se similitudinem crucis. La stella ordina di incamminarsi verso la Giudea. Di nuovo sono per due anni in viaggio. Nuovo è il motivo dell’apostolo Tommaso che dopo la resurrezione di Cristo va nelle province dei dodici magi per battezzarli5. Riallacciandosi alle analisi di Kehrer il “radiografo” Johannes Wilde riconosce quale fonte testuale della prima versione della grotta di Giorgione l’Opus imperfectum e scrive: Una leggenda che si ricollega al racconto biblico, che è riportata nel libro apocrifo di Seth e che trovò nel Medioevo una grande diffusione in diverse versioni definisce i tre saggi del vangelo come Magi, membri di una comunità religiosa che «in principio Orientis juxta Oceanum» quali «amatores mysteriorum coelestium [...] in silentio et voce tacita Deum glorificabant». A conoscenza della profezia di una stella che sorgerà annunciando la nascita di un nuovo re, essi per molti anni erano saliti ogni sera su un alto monte ricco di alberi e fonti e che celava anche una grotta, finché un giorno la loro speranza si esaudì6. 6 Johannes Wilde, Röntgenaufnahmen der «Drei Philosophen» Giorgiones und der «Zigeunermadonna» Tizians, cit., p. 150. 7 Michael Auner, Randbemerkungen zu zwei Bildern Giorgiones und zum
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Venticinque anni più tardi Auner sottoscrive, pur in un’altra ottica, le analisi di Wilde: La fonte letteraria a cui ha attinto Giorgione, il cosiddetto Opus imperfectum, un commento al vangelo di Matteo scritto probabilmente nel V secolo da un vescovo ariano, ma considerato opera di Giovanni Crisostomo, fu molto letto in occidente e anche utilizzato nelle funzioni ecclesiali. «Alcune opinioni contenute in questo testo relative all’ambito della compravendita, degli interessi, della locazione ecc., hanno avuto un ruolo importante per tutto il Medioevo». Nel Decretum Gratiani il testo viene citato undici volte e Tommaso d’Aquino attinge da qui le sue idee sul commercio. Possiamo quindi presumere che in una città mercantile come Venezia esso fosse comunemente noto, e che il committente di fronte all’Opus imperfectum non ritenne di dover cercare un’altra versione della natività7.
Ciò che Auner propone quale «fonte letteraria» di Giorgione è appunto l’antico Liber apocryphus nomine Seth. Mons Victorialis inserito nell’Opus imperfectum. In effetti il proemio del Liber Seth mostra tutti i segni caratterizzanti la prima versione della grotta della natività, dalla luce che risplende sul monte, simbolo della nascita di Cristo («de apparitura hac stella»; e successivamente: «Et stetit super caput pueri») fino alle fonti e agli alberi che, non meno simbolicamente, raffigurano il messaggio collegato alla venuta di Cristo («ascendebant in montem aliquem positum ibi, qui vocabatur eorum Mons Victorialis, habens in se quandam speluncam in saxo, fontibus, et electis arboribus amoenissimus»). Il messianico protoevangelo di Seth, anche al di là delle profezie veterotestamentarie, del motivo della grotta e della mangiatoia, è una fonte molto probabile del dipinto di Giorgione, accanto alle indicazioni metodico-letterarie di Dante e alle riflessioni filosofiche di Ficino. In altri termini, il Mons Victorialis rappresenta la grotta posta in alto, della quale in Isaia (33, 16) è profeticamente scritto: «colui che cammina nella giustizia [...] dimorerà in alto, fortezze rocciose saranno il suo rifugio». Brocardo-portrat in Budapest, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 55, 1958, p. 154. 8 Johannes Wilde, Röntgenaufnahmen der «Drei Philosophen» Giorgiones
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i tre savi dall’oriente Nella prima versione del dipinto, reso poi enigmatico attraverso le successive modifiche, Giorgione raffigura nel gruppo di tre persone i savi provenienti dall’oriente. Le radiografie di Wilde permettono di riconoscere chiaramente il moro e una figura con un diadema che fanno parte tradizionalmente dei tre Magi: Le modifiche più significative sono quelle effettuate sulla terza figura [...]. Essa aveva originariamente una testa completamente diversa: di profilo, con lo sguardo rivolto verso l’alto e la barba sporgente in avanti. Portava un copricapo con copriguance che lasciavano scoperte le orecchie, e sopra la fronte si ergeva un diadema raggiato. Non è chiaro se lo sguardo di questa figura fosse diretto verso il vicino o verso il cielo: in ogni caso il moro guardava, con gli occhi socchiusi, in direzione del vecchio, mentre adesso dirige lo sguardo in avanti, di fronte a sé, in atteggiamento riflessivo. Incerti restano anche i dettagli del vestito del vecchio, solo una cosa sembra sicura, e cioè che la grande veste gialla è stata aggiunta successivamente e che il colletto originariamente aveva un taglio ad arco, mentre adesso esso si adatta alle diagonali delle pieghe trasversali della veste. Tutta la figura era più slanciata e senza il mantello aveva un aspetto leggero, quasi fosse sospesa in aria. La mano sinistra teneva un compasso come un pugnale, con il pomello in alto, e un secondo strumento la cui forma esatta non ci è dato riconoscere. La tavola con i segni astrologici aveva inizialmente una forma un po’ diversa8.
Mentre l’insolita raffigurazione del giovane seduto lascia delle domande aperte («La fronte calva, alta e aggrottata, conferisce al volto un’espressione attenta e tesa. Non si vedono capelli nella testa coperta da un alto copricapo di pelliccia aperto davanti. Le mani e gli strumenti di misurazione mostrano piccole correzioni»)9, per il radiografo Wilde è certo che «la figura mediana è stata concepita fin dall’inizio come un moro e che anche il suo compagno a destra era caratterizzato come orientale». Le conclusioni a cui por-
und der «Zigeunermadonna» Tizians, cit., p. 146. 9 Ivi, p. 145. 10 Andor Pigler, Intorno ai «Tre Filosofi» di Giorgione, in «Bollettino d’Ar-
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tano queste osservazioni sono quindi ovvie: i protagonisti della prima versione del quadro di Giorgione sono i tre Magi orientali. Tra le ragioni messe in campo da Pigler contro la proposta di Wilde di un rapporto con la Scriptura Seth, è da ricordare in particolare il fatto che i dodici magi della Scriptura («Itaque elegerunt seipsos duodecim quidam ex ipsis studiosiores, et amatores mysteriorum caelestium») siano ridotti in Giorgione a un terzetto10. Ma occorre non perdere di vista, in rapporto al complesso figurativo della nativitas Christi nel Medioevo e nel Rinascimento, il senso della scelta e del sincretismo di elementi narrativi di concezioni orientali e occidentali. I dodici saggi (studiosiores ) lasciano il posto – in senso tipologico – ai tre magi, che provengono dalle tre parti del mondo allora conosciuto, Africa compresa, e rappresentano inoltre le tre età dell’uomo11. Che «i tre filosofi rappresentino proprio quei tre magi orientali che attendono la nascita di Cristo» afferma la Klauner12, «è provato da un fatto: in un lezionario del X secolo un dramma liturgico sui tre magi è preceduto da un’omelia
te», 1936, pp. 345-349: 346. Si veda anche la posizione contraria di Salvatore Settis, La «Tempesta» interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, cit., pp. 23 sgg. 11 Nella sua estesa trattazione The Ages of Man. Medieval Interpretations of the Life Cycle (Princeton, Princeton University Press, 1986), Elizabeth Sears si sofferma sulle valenze attribuite storicamente al numero tre e sul rapporto con le età della vita: «The Magi who came to adore the Christ child, named in the Bible as bearers of three gifts and consequently themselves numbered at three, were identified in medieval opinion with the three ages of man. Yet the motif was not rooted in scripture or scriptural commentary. Its origin is to be sought in folklore, its diffusion to be followed in apocryphal texts, popular literature, and works of art. The biblical account of the Adoration was itself far too brief to satisfy (Matt. 2:1-12). From an early date, elements of the scriptural narrative received colorful amplifications and additions. Reported only to have traveled “from the East”, the Magi’s lands of origin and racial types were specified and their royal pedigrees established. Details of their journey were supplied, and their previous and subsequent adventures were narrated. Full descriptions of their persons, both appearance and apparel, were made. Certain texts and a significant number of medieval images indicate that the gold-bearing magus was an elderly man, one of his companions a man of middle age, and the other a beardless youth» (ivi, p. 91). 12 Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 163. 13 Friderike Klauner spiega l’identificazione di filosofi e magi ricorrendo a
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in cui i tre re vengono visti come simboli delle tre virtù cardinali, della trinità ecc., nonché come i tre rappresentanti pagani della fisica, dell’etica e della logica. La stessa cosa era stata affermata in precedenza dal Venerabile Beda che aveva interpretato simbolicamente i doni dei re magi – oro, incenso e mirra – come la fisica, l’etica e la logica. Ciò corrisponde alla suddivisione, usuale nel Medioevo, della filosofia in logica, fisica e etica»13. Il richiamo concettuale della Klauner al simbolismo cristiano, attraverso il quale si sviluppa il processo di scambio culturale tra oriente e occidente, chiama in causa in effetti l’arcaicizzante simbologia dei doni su cui già ci informa l’Opus imperfectum. L’oro rappresenta la fede perfetta e la saggezza, l’incenso la preghiera e la mirra il sacrificio: Magorum munera quae significent. – Haec autem etsi tunc non intelligebant magi, secundum quale mysterium ista gerebantur, vel quid significaret unumquodque munus eorum, nihil tamen contrarium est. Gratia enim, quae illos haec omnia facere hortabatur, et ipsa ordinaverat universa postmodum cognoscenda. Aurum sunt ergo perfecti fideles et sapientes, dicenti Apostolo: Si quis aedificat aurum, argentum, lapides pretiosos (1. Cor. 3. 12). Si quis ergo praebet se Christo fidei sapientia plenum, obtulit ei aurum. Thus autem est oratio, sicut scriptum est: Dirigatur oratio mea sicut incensum in conspectu tuo (Psal. 140.2). Si quis ergo Christo mundam offert orationem, un’interessante questione etimologica: «Si è spesso affermato che con la definizione di “filosofi” Marcanton Michiel non intendesse riferirsi a “magi” in generale né tantomeno ai “tre Magi dall’oriente”. A questo proposito scrive Pico della Mirandola: “Vocabulum enim hoc Magus nec Latinum est nec Graecum, sed Persicum et idem lingua Persica significat, quod apud nos sapiens. Sapientes autem apud Persos idem sunt qui apud Graecos philosophi dicuntur, sic vocati a Pythagora, qui prius dicebantur sapientes. Fere enim apud diversas gentes diversis nominibus sapientes eorum nuncupabantur, ut Druides apud Gallos, prophetae apud Hebraeos, vel Senedrim, vel Pharisaei, vel Cabalistae: apud Indos gymnosophistae, apud Aegyptios sacerdotes, apud Graecos philosophi, apud Persas magi ”». E più avanti: «“Hieronymus in epistola ad Paulinum, in qua mentionem faciens de Apollonio Tyaneo, ait: Apollonius Tyaneus sive magus ut vulgus sive philosophus ut Pythagorici dicunt... Utile est ergo docuisse fideles ne, cum Magum audiunt, daemonum cultorem semper intelligant, et cum audiunt apud Persas Magos in summo honore et reverentia habitos propter eorum doctrinam et sapientiam, sciant philosophos illos fuisse, non Necromantes...”. Da ciò si evince chiaramente l’identificazione di magi e filosofi» (ibidem). 14 Opus imperfectum, cit., p. 642.
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obtulit ei thus. Myrrham aestimo esse opera bona: quoniam sicut myrrha corpus defunctorum insolubile servat, sic bona opera Christum crucifixum in memoria hominis perpetuum servant, et hominem servant in Christo. Primum ergo oportet Christo offerre fidem rationabilem, deinde orationem mundam, et tertio opera sancta. Tu ergo quando venis ad ecclesiam ad orandum Deum, munera tecum in manibus tuis porta: da non habentibus, et pete ab illo qui habet, ut oratio tua bonis operibus commendetur14.
Conseguenza di un transfer culturale da fonti greche sono da considerare, oltre alla simbologia dei doni, i colori dei vestiti dei magi, di cui riferisce l’importante Collectanea già erroneamente attribuita a Beda: Magi sunt, qui munera Domino dederunt, primus fuisse dicitur Melchior, senex et canus, barba prolixa et capillis, tunica hyacinthina, sagoque mileno et calceamentis hyacinthino et albo mixto opere pro mitrario variae compositionis indutus; aurum obtulit regi Domino. Secundus nomine Caspar, juvenis imberbis, rubicundus, milenica tunica, sago rubeo, calceamentis hyacinthinis vestitus: thure quasi Deo oblatione signa, Deum honorabat. Tertius fuscus, integre barbatus, Balthasar nomine: habens tunicam rubeam, albo vario, calceamentis milenicis amictus: per myrrham filium hominis moriturum professus est. Omnia autem vestimenta eorum Syriaca sunt15.
I tre Magi che a partire dal primo Medioevo incontriamo in raffigurazioni dell’episodio neotestamentario (Mt 2, 1-12), sono quindi il giovane Gaspare, lo scuro (e più tardi moro) Baldassarre e il vecchio barbuto Melchiorre. Essi raffigurano i mágoi che dall’oriente si recano al luogo di nascita del Cristo, per rendere omaggio al re dei Giudei16 e rappresentano rispettivamente, come testimoniano le iconografie dei primi sarcofagi, le tre età dell’uomo e i tre continenti allora conosciuti. Tuttavia tali figure, le 15
Jacques-Paul Migne, Patrologia Latina, xciv, p. 541. Mágos, afferma Ulrich Luz nel suo commento al Vangelo di Matteo (Das Evangelium nach Matthäus, Zürich/Köln, Benziger Verlag, 1985, 1, p. 118), «indica in primo luogo un membro della casta di religiosi ecclesiastici, e più in generale viene a definire, a partire dall’ellenismo, anche altri rappresentanti della teologia, filosofia e scienza orientale. Il confine tra magi, astrologi e teurghi si fa sempre più incerto. Contemporaneamente µÀγοσ viene utilizzato già a partire da Sofocle e Euripide in senso 16
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cui attività e relazioni vengono messe in scena, non corrispondono – diversamente da quanto supposto in precedenza e nonostante le loro diverse età – a una tipologia fissa, neanche nella tradizione rinascimentale italiana. Ciò è evidente ad esempio nella Adorazione dei Magi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni come nell’Adorazione dei Re di Lorenzo Monaco e negli affreschi di Benozzo Gozzoli a Palazzo Medici a Firenze, fino ad arrivare all’Adorazione dei Magi di Andrea Mantegna, la cui versione mostra in modo impressionante come la narrazione fisiognomicamente individualizzante si articoli in maniera sempre più intensa. Non sono più gli ornamenti regali, così importanti nella tradizione, ma la singolarità delle emozioni visibili sui volti a richiamare il senso dell’incontro diretto con Cristo. Alla sempre maggiore individualizzazione del trio dei Magi corrisponde la caratterizzazione delle tre figure di età diverse che Giorgione raffigura nella sua Lezione di canto (ill. 14): è la scrittura dell’individualizzazione a caratterizzare sia la Lezione di canto che i “tre filosofi” del dipinto giorgionesco. Le modifiche apportate agli strumenti del vecchio nella seconda versione dei Tre filosofi chiamano in causa il tema dell’astrologia, che Giorgione aveva introdotto già nella prima versione17, ma sempre da una posizione di distanza: l’astrologia si trova infatti binegativo: i “magi” sono maghi e ciarlatani. La valutazione dei magi è però complessivamente positiva, fatto naturale se si considera l’alta stima di cui godeva allora la saggezza orientale. L’ebraismo, come documenta l’Antico Testamento, critico verso ogni forma di magia, ha un giudizio in generale negativo, pur non potendosi sottrarre completamente né all’influsso dell’astrologia né alla alta considerazione ellenistica dei magi. Il cristianesimo fa proprio il giudizio negativo dell’ebraismo, ma ha sempre più difficoltà a imporlo nella cultura ellenistica della tarda antichità, con il suo crescente irrazionalismo e oscurantismo. Da ciò assume anche la nostra pericope, nella storia della chiesa, una funzione polemica: Cristo rappresenta la fine della magia». 17 Cfr. Ludwig Baldass, Zu Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 129n: «Anche gli attributi del vecchio sono stati cambiati. Tra queste modifiche effettuate durante il compimento del quadro colpisce particolarmente il fatto che solamente adesso il vecchio ha un compasso aperto nella mano sinistra. Wilde interpreta lo strumento della prima versione come un compasso chiuso, che egli tiene “come un coltello” (con la punta rivolta verso il basso), ma è anche possibile che si trattasse veramente di un coltello». 18 Opus imperfectum,, cit., pp. 638-639.
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blicamente in un conflitto difficilmente risolvibile con Dio. Guardare le stelle e predire il futuro è inutile quanto superbo. Già nel secondo secolo peraltro, come testimonia Origene, la stella di Betlemme viene interpretata astrologicamente da saggi orientali che vengono considerati astrologi. La critica dei padri della Chiesa all’astrologia – sia a livello individuale che universale – è esposta in forma sintetica nell’Opus imperfectum, da cui Giorgione, come abbiamo visto, trae gli elementi fondamentali per la sua rappresentazione della grotta della Natività: Ex eo autem quod dicit Scriptura, Vidimus stellam ejus in oriente, videtur occasionem dare infidelibus de astrologia, ut unumquemque putent suae stellae motu et nasci et vivere: ideo bonum est breviter de his inferre sermonem. Si enim stellae est, quod aut boni sumus, aut mali: ergo nec bonum nostrum laudandum est, nec malum vituperandum, quia nec est in nobis voluntarius actus. Ut quid enim boni mei laudem merear, quod non meo arbitrio, sed motu stellae facio: aut mali mei pœnam suscipiam, quod non voluntate, sed necessitate commisi? Nam nec possum fugere malum, etiam si volo, si me nativitatis meae stella compellit ad malum. Si adulter et homicida fiunt per stellam, et in crimine stella facit eos interfici, magna est illarum iniquitas stellarum, magis autem illius qui stellas ad hoc creavit. Interrogamus ergo, Ex se facta est creatura, an ab alio? Si quidem dixerint, Ex se, audiant a nobis: quoniam impossibile est, quod a se exstitit, et eventu agitur, ut aliquem ordinem habeat certum. Si autem dicunt, Ab alio, ergo iniquus est qui fecit. Nam cum sit praescius futurorum Deus, quod tanta iniquitas futura erat per stellas, si noluit emendare, non est bonus: si autem voluit et non potuit, impotens est. Sed etiam injustus est, quia ex necessitate stellarum peccantes ita punit, quasi ex voluntate peccantes. Ipsa denique mandata Dei, ne peccent, aut hortamenta, ut faciant bonum, per hanc insipientiam nonne destruunt? Quis enim hortetur aliquem, ne faciat malum, quod non potest declinare: aut ut faciat bonum, ad quod non potest pervenire?18
Più che all’episodio neotestamentario del Vangelo di Matteo (2, 1-12), con la sua raffigurazione del vecchio astrologo Giorgione sembra richiamarsi all’Antico Testamento. Diversamente dal giovane geometra, il cui sguardo è diretto verso la luce divina, il vecchio astrologo si trova, con la sua tavola cabalistica, nella sfera del19
Il testo latino parla degli astrologi come negotiatores, le versioni italiane ri-
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l’arte astrologico-oracolare e quindi al di fuori dell’ambito dell’apocalittica biblica. L’evidente tensione tra escatologia e futurologia in cui Giorgione ci presenta il giovane e il vecchio, è in effetti già un elemento epocale dell’Antico Testamento. La poesia sul crollo di Babilonia nel Libro di Isaia (47, 12-15) ci indica le ambizioni e le spinose questioni legate a consiglieri-astrologi, che Marsilio Ficino descrive dettagliatamente nella sua Disputatio contra iudicium Astrologorum. Si tratta di una poesia che accusa il sistema religioso e culturale babilonese fondato su astrologia e magia oroscopica: Sta cum incantatoribus tuis et cum multitudine maleficiorum tuorum, in quibus laborasti ab adulescentia tua, si forte quid prosit tibi aut si possis fieri fortior. Defecisti in multitudine consiliorum tuorum. Stent et salvent te augures caeli, qui contemplabantur sidera et supputabant menses, ut ex eis admuntiarent ventura tibi. Ecce facti sunt quasi stipula, ignis combussit eos, non liberabunt animam suam de manu flammae, non sunt prunae quibus calefiant, nec focus ut sedeant ad eum. Sic facta sunt tibi in quibuscumque laboraveras; negotiatores tui ab adulescentia tua unusquisque in via sua erraverunt, non est qui salvet te19.
Nel suo Corso completo di astrologia Chiara Bertrand traccia gli sviluppi dell’«arte caldea», che l’invettiva poetica del Libro di Isaia raffigura nei vividi termini citati in precedenza20. Partendo da Babilonia l’astrologia conquista l’antico Egitto, la cultura greca in epoca ellenistica così come l’Impero romano e il Rinascimento, conoscendo come arte oracolare una popolarizzazione il cui spettro si estende dalla gente semplice alle élites politiche e intellettuali, compresi i papi. Nell’ambito dell’antica mantica orientale, citata dalla poesia suddetta, si sviluppa una visione del mondo e un’interpretazione della storia che pone le fondamenta della convinzione che Dio (Jahwè), creatore delle stelle, del cielo e della terra, possa agire anche come istanza punitiva. La caduta della tirannide babilocorrono spesso al sostantivo maghi. 20 Cfr. Chiara Bertrand, Corso completo di astrologia, Milano, De Vecchi, 20002. 21 Si cita dalla traduzione di Franco Rella, in Rainer Maria Rilke, Elegie
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nese segna il fallimento di magia, mantica e scienza astrologica. La salvezza e la gloria di Sion vengono a corrispondere con la fine dei consiglieri di Babilonia, degli astrologi che interpretano il futuro. Il presunto sapere di Babele si rivela un’illusione. Israele si affida a Dio, e non alla superbia di forze umane e cittadine. Certamente non è solamente dall’astrologia e dalla futurologia babilonese che Giorgione prende le distanze. Egli si distanzia tematicamente e ideologicamente anche dall’astrologia come scienza universitaria, che con la propria attività prognostica – anche relativa alle nascite – rivendica la competenza nell’ambito della conoscenza della natura e delle predizioni carismatiche. l’albero di fico Da tanto, ormai, albero di fico, è un segno per me come tu quasi salti del tutto la fioritura e nel frutto maturato a stagione senza lode insinui il tuo puro segreto. Come il tubo della fontana, la curva dei tuoi rami spinge in alto e in basso la linfa: e dal sonno, quasi senza nemmeno destarsi, balza nella felicità del suo più dolce compirsi. Vedi, è come il dio nel cigno. … Ma noi, ahimè, indugiamo nella gloria della fioritura, e nella tardata intimità del nostro frutto alla fine penetriamo traditi. A pochi urge tanto la spinta all’agire da essere pronti ad ardere verso la pienezza del cuore se la seduzione al fiorire, come dolce soffio notturno alita sulla giovane bocca e sulle palpebre: gli eroi, forse, o quelli subito destinati a trapassare, che ad essi il giardiniere La Morte diversamente curva le vene. Si gettano quelli in avanti: precedono il loro proprio sorriso, come i destrieri nelle serene figure incavate di Karnak davanti al vittorioso sovrano. Rainer Maria Rilke, VI Elegia 21 duinesi, Milano, Rizzoli, 1994, p. 75. 22 Oswald Goetz, Der Feigenbaum in der religiösen Kunst des Abendlandes,
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Nell’ambito della sua estesa trattazione del motivo dell’albero di fico nell’arte religiosa dell’occidente Oswald Goetz si trova a dover fare i conti con l’enigma proposto dai Tre filosofi di Giorgione. Lo specialista del Ficus comincia qui ad arrovellarsi e a esitare. Sulla base di una serie di interpretazioni egli giunge quindi alla conclusione che il fico e l’edera che crescono all’ingresso della grotta non sono una ripetizione dello stesso contenuto simbolico, ma rimandano antiteticamente alla morte e alla vita eterna. Incontreremo di nuovo assieme il fico e l’edera, in particolare in scene della passione e del martirio dei santi. In tutti i casi dovremo considerare le differenze fondamentali tra le due piante. Il fico è l’albero della fertilità, della vita terrena, simbolo del destino del popolo d’Israele, visto con l’occhio del Nuovo Testamento e della chiesa cristiana. Il suo archetipo è l’albero della conoscenza, attraverso il quale si sono originati il peccato originale e la morte. L’edera, invece, la pianta sempreverde prediletta dalla mitologia greca, rappresenta la vita nuova e verrà utilizzata dagli artisti del Rinascimento italiano nello stesso senso dell’alloro o della vite, per indicare il superamento della morte e la vita eterna. Se la grotta nel quadro di Giorgione è quindi quella della natività di Cristo vista dai Magi, le due piante indicano contemporaneamente che in essa si compirà il mistero della nascita di Dio, della sua morte e resurrezione a vita eterna. L’albero di fico indica ciò che deve essere superato, ciò che verrà superato attraverso la Redenzione. E i tre filosofi o magi non sarebbero i tre magi venuti dall’oriente se essi, come i profeti ebraici, non comprendessero l’apparizione terrena del Signore in tutta la sua ampiezza e profondità. Essi sapevano più di quello che sapranno poi gli apostoli, a eccezione di Giovanni e della Madonna. Fino a che punto Giorgione, tramite il ricorso a una lingua geroglifica, volesse davvero esprimere questi concettinel quadro che possiamo considerare come il più misterioso tra tutte le opere del Rinascimento, non osiamo dire. Egli viveva in un ambiente in cui l’Antico e il Nuovo Testamento erano fonti di sapere al pari della mitologia classica22.
L’interpretazione di Goetz del dipinto «più misterioso tra tutte le opere del Rinascimento» si fonda sulle simbologie che Friderike Klauner, alla ricerca del senso del messaggio giorgionesco, aveva cit., pp. 100 sgg. 23 «Come è già stato rilevato, dopo la pittura della parete rocciosa comparve-
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individuato negli elementi della oscura grotta – non ritoccata – della prima versione: un fico, un’edera e una sorgente23. In questa zona del quadro la Klauner individua a ragione – come è stato d’altronde in generale riconosciuto – la chiave per la comprensione del quadro. Grazie alle sue ricerche, la supposizione che «si tratti in questo quadro dei tre re Magi venuti dall’oriente e dell’annuncio della nascita del nuovo re – del Salvatore, nella concezione cristiana – è diventata una granitica certezza»24. Che questa «certezza» non si riferisca solamente all’interpretazione della prima versione, ma che possa valere anche per la seconda non viene tuttavia detto. Resta quindi, in fondo, quell’insicurezza che trattiene Goetz dal dare un giudizio definitivo e che riattiva la continua ricerca. Quanto estesamente il fico e l’edera fossero utilizzati come simboli all’epoca di Giorgione, venendo quindi popolarizzati in forma poetica, è testimoniato esemplarmente dai versi di Neglecta virescunt, che annuncia l’avvento di Cristo, e di Discite, che ha come tema la virtù ricompensata: Neglecta virescunt Vt scandit muros hedera, et late petit altum, Sit neglecta licet, nulla manusque colat: Sic multos videas odium quos pressit inique, Virtutem in primo constituisse gradu. Tandem sponte virent, alit et prudentia dignos,
ro [...] un fico selvaggio con i frutti e accanto, a sinistra, un viticcio d’edera che sale lungo la roccia. Alle sue radici dalla roccia sgorga una fonte. Ci dobbiamo immaginare che le piante nello stato originale fossero molto più visibili. Le modifiche e la vernice protettiva hanno intaccato a tratti così fortemente il colore verde delle foglie di fico che esse sono diventate marroni, scomparendo sullo sfondo scuro, e alcune di esse, così come i pochi frutti, sono riconoscibili soltanto con una forte illuminazione. Anche l’edera, fin dall’inizio un po’ più marrone della pianta di fico, non riesce a staccarsi dal fondo. Nella versione originale il fico e l’edera si trovavano quasi al centro del dipinto: ciò fa supporre che esse fossero anche al centro della concezione del quadro stesso» (Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit., p. 145). 24 Gustav Künstler, Landschaftsdarstellung und religiöses Weltbild in der Tafelmalerei der Übergangsepoche um 1500, cit., p. 112. 25 Emblemata. Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII. Jahrhunderts, a
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«i tre filosofi» di giorgione Vt serpens hederam non sinit, inque habitat. Ingenij semper florebis laude per orbem, Sis licet Harlemi, tuque latere velis. Largius effundet subito se gratia Regum: ’Ουκ ερωνα volet plena fouere manus. Inuida quid cogis pia pectora ferre voluntas? Num reficis pulsa tu probitate sitim? Nonne magis crucias et ipsam dum rebus opimis Macrior alterius fis, necat esuries? Obscurum haec eadem momum, clathrisque remotum, Te sequiturque simul Zoile poena grauis 25. Discite Quand le figuier met hors son rameau tendre, Vous cognoissez que prochain est l’esté: Ainsi deuons semblablement entendre Ce que par Christ monstré nous a esté. Nous donc voyans l’Euangile planté, Les plus meschans conuaincre en toutes sortes, Ainsi qu’auoit promis la Verité, Soyons certains que Christ est à noz portes26.
Che il fico e l’edera, a partire dall’antichità fino ad arrivare all’età moderna, siano elementi di un simbolismo che presenta maggiori o minori varianti, è dimostrato inoltre da Auner27 e dall’argomentazione motivata botanicamente di Tschmelitsch28. Se a questi interventi aggiungiamo le note a carattere storico sul fico di Viktor Reichmann e sull’edera di Erica Simon29, emerge allora in modo chiaro e convincente l’allegoresi ermeneutica di ficus e hedera, che ha un ruolo fondamentale nella teoria e nella prassi dell’esegesi biblica. cura di Arthur Henkel e Albrecth Schöne, Stuttgart/Weimar, Metzler, 1996, p. 242. 26 Ivi, p. 278. 27 Michael Auner, Randbemerkungen zu zwei Bildern Giorgiones und zum Brocardo-portrat in Budapest, cit., pp. 168-172. 28 Günther Tschmelitsch, Zorzo, genannt Giorgione. Der Genius und sein Bannkreis, cit., p. 221. 29 Cfr. Reallexikon für Antike und Christentum, Stuttgart, Anton Hiersemann, iv, 1959 e vii, 1969. 30 Friderike Klauner, Zur Symbolik von Giorgiones «Drei Philosophen», cit.,
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L’enigmatico ricorso di Giorgione ai signa del fico e dell’edera racchiude l’allegoria del suo messaggio nella prima versione del quadro. Il puro segreto dell’albero di fico rilkiano risiede nel celato processo vitale tra fioritura e maturità del frutto. Il simbolismo del frutto è nella rivelazione di una forza creatrice che si manifesta secondo le leggi di natura. Il ricorso allegorico di Giorgione agli arbores electi va invece, come rileva la Klauner, in direzione dell’escatologia: «l’edera è simbolo del Redentore, come pure il fico: così si spiega la loro presenza, assieme o singolarmente, in contesti iconografici simili. Ma mentre l’albero di fico, derivato chiaramente dalla simbologia dell’Antico Testamento, è in primo luogo il segno dell’antica alleanza, della sinagoga, l’edera sembra provenire dai culti misterici greci venendo poi a indicare, come simbolo di Cristo, solo la nuova alleanza, l’ecclesia»30. Non diversamente da quanto avviene nella belliniana Allegoria sacra l’albero, oltre ad essere il segno sempreverde della virtù, è il simbolo della vita e della conoscenza. L’albero della conoscenza di Bellini, che è posto, illuminato, «in mezzo al Paradiso», secondo le indicazioni bibliche (Gen 3, 3), si trova ancora nell’orizzonte dell’arte medievale, centrata sull’idea di trascendenza. Giorgione percorre invece una strada decisamente diversa. Egli rinuncia a una messa in scena della nascita di Cristo spostando l’albero della conoscenza nell’oscuro della grotta. Nel momento in cui scompare il sistema di referenze testuali nasce così «il più misterioso tra tutti i quadri del Rinascimento».
p. 162.
VII.
Due notti: tra adorazione e filosofia
L’interpretazione di un dipinto rinascimentale si fonderà su un terreno tanto più solido quanto più sarà possibile verificarla e confrontarla con la ricezione coeva, intesa sia come giudizio estetico che come categorizzazione del dipinto stesso. Una tale possibilità ci è offerta da un’opera di Giorgione: una «pittura della notte» che già nell’ottobre del 1510, immediatamente dopo la morte del giovane artista, compare nella lista dei desiderata della marchesa di Mantova Isabella d’Este. Il veneziano Taddeo Albano, incaricato da Isabella delle trattative e dell’acquisto del dipinto, le comunica che il proprietario di una giorgionesca pictura della notte, Vittorio Beccaro, non intenderebbe venderla in nessun caso, a prescindere dall’entità dell’offerta. Il quadro in questione è l’Adorazione dei pastori (ill. 13) già ricordata in precedenza. Dopo una lunga quanto contrastata discussione su copie e repliche all’interno del “gruppo Allendale” si arrivò, da parte della critica, a un accordo su autore e datazione del dipinto: il pittore dell’Adorazione dei pastori di Washington, eseguito tra il 1502 e il 1504, è Giorgione1. Non è un caso che questo dipinto venga registrato nel 1659 nell’inventario della collezione dell’arciduca Leopold Wilhelm come Nachtstück (notturno):
1 Cfr. Ludwig Baldass-Günther Heinz, Giorgione, Wien/München, Anton Schroll, 1964, p. 117: «L’Adorazione dei pastori, il dipinto più importante di questo gruppo [Allendale], è stato poi dalla maggioranza degli studiosi identificato come opera originale di Giorgione».
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«i tre filosofi» di giorgione
Un notturno in olio su tavola, in cui è raffigurata la nascita di Cristo in un paesaggio, il bambino giace in terra sulla veste della Madonna, con san Giuseppe, due pastori e due angeli. [...] Si ritiene essere un dipinto originale di Giorgione2.
Il termine tedesco Nachtstück viene quindi a corrispondere in italiano a quello di pictura della notte che compare nel citato scambio epistolare tra Isabella d’Este e Taddeo Albano. Un’iconografica notte collega inizialmente il fenomeno della luce sacrale con quello della nascita di Cristo. L’inizio di questa tradizione è da rintracciare nel Trecento. Essa prende avvio con raffigurazioni di episodi biblici da parte di Giotto e continua con la più naturalistica – in senso spaziale – Annunciazione ai pastori del suo allievo Taddeo Gaddi3 e con l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano fino ad arrivare, attraverso una serie di varianti nel Quattrocento, all’Adorazione dei pastori di Antonio Correggio – ma la serie di dipinti italiani nella tipologia esemplarmente rappresentata dalle opere citate potrebbe essere continuata all’infinito4. La trasposizione poetica del motivo della luce sacrale con di2
Ivi, p. 118. Cfr. Frederick Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, traduzione di Gilberto Ronci e Luca Lamberti, Torino, Einaudi, 19602, p. 253: «L’opera di Taddeo non ha più la grandiosità concentrata e drammatica di Giotto; per contro presenta in numero maggiore elementi spirituali ed anche tratti di genere con numerose osservazioni naturalistiche. Così l’angelo dell’Annunciazione (forse per la prima volta nella pittura monumentale) è raffigurato mentre scende in volo dal cielo. L’Apparizione degli angeli ai pastori diventa una scena autonoma, al chiaro di luna; lo stesso avviene della scena in cui la stella appare ai tre Magi nella notte. Taddeo cercava motivi che nella loro rappresentazione richiedessero profondità spaziale. Nell’Apparizione ai pastori per la prima volta egli stacca il primo piano dallo sfondo inserendovi una distanza intermedia e nello stesso tempo rompe la massa compatta delle montagne giottesche in tanti frammenti piccoli e confusi, senza tuttavia eliminare la sproporzione fra le singole parti del dipinto». 4 Sugli sviluppi e sulla definizione del “notturno” iconografico, cfr. Hannes Leopoldseder, Groteske Welt. Ein Beitrag zur Entwicklungsgeschichte des Nachtstücks in der Romantik, Bonn, Grundmann, 1973 e Brigitte Borchhardt-Birbaumer, Da “Nachtstück”: Begriffsdefinition und Entwicklung vor der Neuzeit, in «Wiener Jahrbuch für Kunstgeschichte», xlvi/xlvii, 1993-1994, parte i, pp. 71-85. 3
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mensione allegorica è invece ancora una volta opera del contemporaneo di Giotto, Dante. Dallo sfondo scuro delle ombre infernali della Divina Commedia emerge in forma di contrasto, quasi anticipando un affresco rinascimentale, uno spettacolo cromatico unico in tutto l’Inferno. La luce riesce in parte a vincere le tenebre. Quando Dante all’inizio del iv canto è risvegliato dallo svenimento da un «greve tuono», si trova con Virgilio all’ingresso del primo cerchio, il Limbo attraversato da infiniti sospiri e in cui scontano la pena i non battezzati e i pagani, condannati a vivere nel desiderio – destinato a rimanere inappagato – di vedere Dio. Nel cammino attraverso la «selva di spiriti spessi» i due viandanti scorgono una zona luminosa «ch’emisperio di tenebre vincia». Questa regione è popolata dai grandi poeti, pensatori ed eroi dell’antichità greco-romana, che rappresentano la virtù e la saggezza terrene. Dalle loro file si staccano, lasciando la luce e avvicinandosi ai due nuovi venuti, Omero, Orazio, Ovidio e Lucano per salutare Virgilio. E con questo gruppo di poeti, in cui Dante viene accolto quale sesto elemento, egli entra nell’elisio degli spiriti nobili dell’antichità, sullo sfondo di uno scenario di ambientazione medievale (Inf. iv, 103-120):
Così andammo infino a la lumera, parlando cose che ’l tacere è bello, sì com’era ’l parlar colà dov’era. Giugnemmo al piè d’un nobile castello, sette volte cerchiato d’alte mura, difeso intorno d’un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: venimmo in prato di fresca verdura. Genti v’eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne’ lor sembianti: parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci così da l’un de’ canti, in luogo aperto, luminoso e alto, sì che veder si potean tutti quanti. Colà diritto, sopra ’l verde smalto, mi fuor mostrati li spiriti magni, che del vedere in me stesso n’esalto.
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I poeti giungono insieme a un «nobile castello» ben difeso, al cui interno essi vedono su un «prato di fresca verdura» un gruppo di «spiriti magni», figure del mondo classico: eroi e signori, saggi, scienziati, medici e mitici cantori. Dopo aver osservato gli abitanti del «nobile castello» Dante lascia assieme a Virgilio il cerchio luminoso ed entrambi ritornano nell’oscurità. Evidente è il nesso ideologico-programmatico tra luce sacrale e conoscenza razionale su cui è costruito questo episodio. L’idea di una fonte di luce (lumera) e di un limitato spazio illuminato nel Limbo è in rapporto con un concetto fondamentale della dottrina tomistica. Tale idea si fonda sulla luce naturale (lumen naturale) della ragione, la quale luce permette anche ai pagani, come spiega Tommaso, di riconoscere cause, fini, rapporti e leggi dei fatti oggettivi. Dio, la summa e prima veritas, dona ai filosofi pagani, come a tutti gli uomini, la possibilità di accedere alla sua luce divina, ovvero la possibilità della conoscenza anche attraverso la ragione naturale. Ma si tratta di una luce limitata nella sua forza dalla colpa ereditata e dai peccati attuali, e che non permette quindi una conoscenza che vada oltre le prime e semplici verità, né tantomeno una autoredenzione. Solo la gratia gratuita – e non il lumen naturale – consente il raggiungimento di un fine sovrannaturale. Dante raffigura la limitatezza delle capacità cognitive dell’uomo attraverso il confine del fuoco «ch’emisperio di tenebre vincia». All’illuminato emisfero del Limbo corrisponde, fluorescente di lucciole, l’estiva valle notturna nel profondo dell’Inferno (Inf. xxvi, 29 sgg.). Nella luce sacrale dell’episodio realisticamente messo in scena è riposto il messaggio del poeta, non diversamente da quanto avviene nella “notte” del pittore. Senza considerare tale dimensione allegorica la ricerca di senso sia nella pittura che nella poesia, due arti fra loro affini, rimane infruttuosa, come testimoniano anche i “notturni” lirici di Michelangelo. Si tratta di quattro sonetti, composti prima del 1546, che fondono le sostanze iconografiche e filosofiche di Dante e Platone, mediate da Cristoforo Landino5, nella forma alquanto enigmatica di un conflitto tra luce e ombra: 5
«Durante il suo soggiorno in casa Medici, a partire dal 1490, Michelange-
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i (101) Perché Febo non torce e non distende d’intorn’ a questo globo freddo e molle le braccia sua lucenti, el vulgo volle notte chiamar quel sol che non comprende. E tant’è debol, che s’alcun accende un picciol torchio, in quella parte tolle la vita dalla notte, e tant’è folle che l’esca col fucil la squarcia e fende. E s’egli è pur che qualche cosa sia, cert’è figlia del sol e della terra; ché l’un tien l’ombra, e l’altro sol la cria. Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra, vedova, scura, in tanta gelosia, c’una lucciola sol gli può far guerra. ii (102) O notte, o dolce tempo, benché nero, con pace ogn’opra sempr’ al fin assalta; ben vede e ben intende chi t’esalta, e chi t’onor’ ha l’intelletto intero. Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero che l’umid’ombra e ogni quiet’appalta, e dall’infima parte alla più alta in sogno spesso porti, ov’ire spero. O ombra del morir, per cui si ferma ogni miseria a l’alma, al cor nemica, ultimo delli afflitti e buon rimedio; tu rendi sana nostra carn’ inferma, rasciughi i pianti e posi ogni fatica, e furi a chi ben vive ogn’ira e tedio.
lo aveva letto e studiato la Divina Commedia, probabilmente sotto la guida del commentatore di Dante, Cristoforo Landino. La sua profonda conoscenza dell’opera dantesca è ben testimoniata. Nel 1546 lo storico umanista Donato Giannotti, suo amico, scrisse un dialogo a cui possiamo attribuire valore di fonte piuttosto certa. Oggetto del dialogo è la ricerca della durata del viaggio nell’aldilà narrato nella Divina Commedia. Michelangelo, lodato da Giannotti come gran dantista, partecipa al dialogo dimostrando una sorprendente conoscenza del testo dantesco» (Hugo Friedrich, Epochen der italienischen Lyrik, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1964, p. 331).
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«i tre filosofi» di giorgione iii (103) Ogni van chiuso, ogni coperto loco, quantunche ogni materia circumscrive, serba la notte, quando il giorno vive, contro al solar suo luminoso gioco. E s’ella è vinta pur da fiamma o foco, da lei dal sol son discacciate e prive con più vil cosa ancor sue specie dive, tal c’ogni verme assai ne rompe o poco. Quel che resta scoperto al sol, che ferve per mille vari semi e mille piante, il fier bifolco con l’aratro assale; ma l’ombra sol a piantar l’uomo serve. Dunque, le notti più ch’e’ dì son sante, quanto l’uom più d’ogni altro frutto vale. iv (104) Colui che fece, e non di cosa alcuna, il tempo, che non era anzi a nessuno, ne fe’ d’un due e diè ’l sol alto all’uno, all’altro assai più presso diè la luna. Onde ’l caso, la sorte e la fortuna in un momento nacquer di ciascuno; e a me consegnaro il tempo bruno, come a simil nel parto e nella cuna. E come quel che contrafà se stesso, quando è ben notte, più buio esser suole, ond’io di far ben mal m’affligge e lagno. Pur mi consola assai l’esser concesso far giorno chiar mia oscura notte al sole che a voi fu dato al nascer per compagno6.
Lo sfaccettato e complesso contrasto tra sole e notte mette chiaramente in evidenza il concetto di «notturno in quanto elemento che cela, che nasconde»7: i sonetti michelangioleschi – terminanti con terzine di ispirazione dantesca – si fondano in effetti su una
6 Michelangiolo Buonarroti, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari, Laterza, 1960, pp. 58-60. 7 Ivi, p. 363.
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dialettica cosmica la cui polarità giorno-notte diventa uno dei fattori centrali della creazione e dell’esistenza umana. Non è più solamente la luce mistica che conduce alla conoscenza. Corrispondentemente allo sviluppo di un pensiero realisticoborghese ha luogo nel Cinquecento uno spostamento iconografico verso una mondanizzazione della sacralità. Non una luce sacrale come quella di Correggio domina il complesso semantico della notte, ma la sostanza di una tematica pittorica che sostituisce gli sfondi simbolico-trascendenti con l’esattezza topografica, sviluppando in molteplici variazioni gli elementi di un nuovo archivio tipologico-formale. La notte diventa una tipico-topica “Natività di Cristo” come ad esempio quella di Lorenzo Lotto, della quale riferisce il Vasari: Fu compagno et amico del Palma, Lorenzo Lotto pittor veneziano, il quale avendo imitato un tempo la maniera de’ Bellini, s’appiccò poi a quella di Giorgione, come ne dimostrano molti quadri e ritratti che in Vinezia sono per le case de’ gentil’uomini. In casa d’Andrea Odoni è il suo ritratto di mano di Lorenzo, che è molto bello; ed in casa Tommaso da Empoli fiorentino è un quadro d’una Natività di Cristo finta in una notte; che è bellissimo, massimamente perché vi si vede che lo splendore di Cristo con bella maniera illumina quella pittura: dove è la Madonna ginocchioni, ed in una figura intera che adora Cristo, ritratto messer Marco Loredano8.
Le Natività di Lorenzo Lotto segnalano sotto l’aspetto dell’illuminazione interna delle scene, non diversamente da quelle di Savoldo, un forte influsso fiammingo (Van der Goes, Jan de Beer, Gerard Horenbout, ecc.). La notte di Lotto trasmette l’immagine di una realtà sacrale. Ma la breve descrizione di Vasari non mira a evidenziare la presenza di una concezione pittorica di stile fiammingo, quanto il percorso che conduce, a ritroso, ai veneziani Bel-
8 Giorgio Vasari, Opere, cit., v, pp. 249-250. Sui colori del Correggio, cfr. Marta Cencillo Ramírez, Das Helldunkel in der italienischen Kunsttheorie des 15. und 16. Jahrhunderts und seine Darstellungsmöglichkeiten im Notturno, Münster, Lit, 2000, pp. 165 sgg.
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lini e Giorgione, un percorso seguito all’inizio del Cinquecento in forma di committenza anche dalla «prima donna del mondo» citata all’inizio di questo capitolo9. Nel 1502 Isabella commissiona infatti a Bellini una Natività di Cristo, un «presepio». Ma a questo termine vedremo corrispondere anche quella pictura della notte del cui acquisto la stessa Isabella incarica il suo intermediario Taddeo Albano nel 1510. Lo scambio epistolare tra la marchesa Isabella e Taddeo Albano consente, a guardar bene, di catalogare in senso tematico e di genere sia l’Adorazione dei pastori che I tre filosofi. In entrambi i casi si tratta, come risulta chiaro alla luce di quanto detto in precedenza, di una pictura della notte. L’esperienza e l’abilità di Isabella come committente sono esemplificate da un episodio dettagliatamente documentato in cui vediamo la «prima donna del mondo» entrare in relazione con il veneziano Giovanni Bellini10. Uno sguardo alla corrispondenza relativa a questo avvenimento di particolare importanza storico-culturale apre contemporaneamente la prospettiva sulla cultura e sui fini di Isabella che, come vedremo, in seguito invierà Taddeo Albano in casa dell’allievo di Bellini, Giorgione, con una richiesta iconograficamente ben definita. La storia di questi significativi episodi comincia nei primi giorni di marzo del 1501. Il 5 marzo Michele Vianello, un mercante d’arte attivo in Venezia per conto di Isabella, comunica alla marchesa di aver compiuto, come gli era stato chiesto, una visita presso Bellini al quale ha riferito il desiderio di Isabella di avere un suo quadro (storia). Ricordando il numero delle opere a cui ancora sta lavorando, il settantenne Bellini reagisce in modo piuttosto tiepido, anche se alla fine si lascia strappare una promessa di massima. Vianello parla di un arco temporale di un anno e mezzo come termine per la consegna dell’opera e di un compenso di circa 150 ducati, riducibili però eventualmente a 10011. 9 Cfr. il capitolo finale del nostro saggio belliniano Il trionfo del dubbio ovvero nel labirinto della critica d’arte, cit. 10 Cfr. ivi, pp. 567-575. 11 Dopo diverse visite di Vianello a Bellini, all’inizio dell’aprile 1501, sono già
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Subito dopo l’entrata in vigore del contratto attraverso il pagamento dell’anticipo si sviluppa una discussione tra committente e artista sull’oggetto da rappresentare. Con la sua lettera del 25 giugno Vianello comunica a Isabella che Bellini sarebbe disposto a realizzare un dipinto per il suo studio, ma non la istoria desiderata. Da un lato egli non gradisce essere messo a confronto con quel opera del suo cognato Andrea Mantegna, dall’altro il soggetto sarebbe per Bellini così poco stimolante (non che abbia del buon), che egli, diversamente dal previsto, non riesce dare il meglio di sé. Il rifiuto di Bellini è così fermo che Vianello consiglia a Isabella, se vuole essere soddisfatta del lavoro, di lasciare mano libera all’artista per quanto riguarda il tema del quadro. La marchesa, contrariamente alle sue abitudini12, accetta il consiglio di Vianello e concede a Bellini piena libertà fissati i termini finanziari e temporali per la consegna. Il primo aprile il mercante informa la marchesa della disponibilità di Bellini a compiere l’opera desiderata entro un anno per l’importo di 100 ducati. L’artista avrebbe inoltre chiesto un acconto di 25 ducati d’oro, promettendo di mettere mano al lavoro dopo le feste pasquali. Tre giorni dopo Isabella si dichiara d’accordo con tali condizioni e il 23 giugno – attraverso il suo messo Cipriano – fa recapitare a Vianello l’anticipo richiesto. Contemporaneamente Isabella sollecita il mercante a controllare il rispetto dei termini di consegna. 12 Sull’abitudine di Isabella d’Este di dare precise indicazioni sul soggetto delle opere che commissionava, ci informa esemplarmente il contratto tra Francesco Malatesta, procuratore della marchesa, e Pietro Perugino, che nello stesso periodo si impegna a dipingere un quadro per Isabella (Firenze, Archivio di Stato. Rogito dal fondo notarile antecosimiano V. [Rogito di Ser Pietro Francesco di Ser Macario di Ser Andrea Macari. Prot. 2 c. 84, 1499-1502]). Isabella, che a partire dal 1496 ha in mente di ornare con dipinti dei più famosi pittori italiani il suo Studiolo, conclude nientemeno che con Pietro Perugino un contratto con indicazioni puntuali. L’atto notarile, fortunatamente conservato, del 19 gennaio 1503 impone al pittore un programma figurativo sul tema « battaglia di Castità contro di Lasciva», la cui consegna avviene alla fine di giugno 1505 (tempera su tela, 158x180 cm, Parigi, Museo del Louvre): «La poetica nostra inventione, la quale grandemente desidero da voi essere dipinta, è una battaglia di Castità contro di Lasciva, cioè Pallada e Diana combattere virilmente contro Venere et Amore. E Pallade vol parere quasi de avere come vinto Amore, avendoli spezato lo strale d’oro et l’arco d’argento posto sotto li piedi, tenendolo coll’una mano per il velo che il cieco porta inanti li ochi, con l’altra alzando l’asta, stia posta in modo di ferirlo. Et Diana al contrasto de Venere devene mostrarsi eguale nella vittoria; et che solamente in la parte exstrinseca del corpo come ne la mitra e la girlanda, overo in qualche velettino che abbi intorno, sia da Lei saettata Venere; et Diana dalla face di Venere li habbia brusata parte del-
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riguardo al soggetto del dipinto (lettera del 28 giugno a Vianello), a patto che si tratti di una historia o fabula antiqua. Non cambiano né le misure del dipinto né il luogo al quale è destinato. Ci vorrà più di un anno, e cioè fino alla metà del settembre 1502, prima di giungere a una nuova discussione sul soggetto e sulle prospettive – questa volta più “realistiche” – di realizzazione dell’opera. Nel frattempo Isabella ha aumentato la pressione sull’artista ricorrendo a un secondo intermediario. Si tratta del rinomato costruttore di strumenti musicali Lorenzo da Pavia, che fin dal 1494 aveva consigliato la marchesa sulla ricerca e l’acquisto di opere d’arte. Dopo un primo contatto di persona, il 27 agosto 1501 egli può comunicare a Isabella che Bellini ha confermato la sua piena disponibilità a dipingere per lei una bella fantasia; tuttavia non ci sarebbe da attendersi una particolare rapidità e quindi una pronta consegna da parte dell’artista (è longo omo). Un anno dopo il suo primo intervento, alla fine dell’agosto del 1502, Lorenzo comunica alla marchesa che Bellini, nonostante gli sforzi suoi e di Vianello, non avrebbe ancora messo mano all’opera desiderata. Un noto poeta suo amico la veste, et in nulla altra parte sian fra loro percosse. Dopo queste quatro deità, le castissime seguace ninphe di Pallade e Diana habbino con varii modi e atti, come a voi più piacerà, a combattere asperamente con una turba lascivia di fauni, satiri et mille varii amori: et questi Amori a rispetto di quel primo debbono essere più picholi con archi non d’argento, nè cum strali d’oro, ma di più vil materia come di legno o ferro o d’altra cosa che vi parrà; et per più d’expressione et ornamento della pittura dallato di Pallade livuole essere la oliva arbore dedicata allei, dove lo seno li sia riposto col capo di medusa, facendoli posare fra quelli rami la civetta, per essere ucciello proprio di Pallade; dallato di Venere si debbe farli el mirto arbore gratissima allei. Ma per maggior vaghezza li vorrebbe uno acomodata Fontana, cioè uno fiume, overo mare, dove si vedesero passare in sochorso d’amore fauni satiri e altri amori, e chi di loro notando passasse el fiume, e chi volando e chi sopra bianchi cigni cavalcando, se ne venissero a tanta amorosa impresa, e sopra el lito del detto fiume o mare love con altri Iddei, come nemico di castità, trasmutato in tauro portasse via la bella Europa; e Mercurio qual aquila sopra la preda girando, volasse intorno ad una ninpha di Pallada, chiamata Glaucera, la qual nel braccio tiene uno cistello, ove sono li sacri della detta Iddea; e Polifemo Ciclope con un solo occhio coresse direto a Galatea, et Phebo a Daphne già conversa in lauro; et Pluton, rapita Proserpina, la portasse allo infernale suo regno, et Neptuno pigliasse una ninpha e conversa quasi tutta in cornice». (Il contratto si legge nel catalogo a cura di Sylvia Ferino-Pagden, «La Prima Donna del mondo». Isabella d’Este. Fürstin und Mäzenatin der Renaissance, Wien, Kunsthistorisches Museum, 1994, pp. 228 sgg.).
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avrebbe ideato su sua richiesta una istoria per il quadro, ma questa idea non sarebbe stata accolta con particolare entusiasmo da Bellini. Lorenzo vede quindi confermata la sua ipotesi che Bellini «non è omo per fare istorie» – un fatto che pone la tenace ma realistica marchesa di fronte all’alternativa di ritirare completamente la commessa o di accettare una completa modifica del piano originario nel senso indicato dall’artista (una bella fantasia). Isabella d’Este sceglie la seconda possibilità. Rinunciando quindi alla «istoria» incarica Bellini della composizione di un «presepio» con precise indicazioni: il dipinto dovrà raffigurare il bambino Gesù, la Madonna, san Giuseppe, Giovanni Battista e le bestie («Questo presepio desideramo l’habii presso la Ma. el nostro S.re Dio, S. Isep. uno S.to Joanne Baptista et le bestie»; lettera a Vianello del 15 settembre 1502). Dato che le «bestie» in questo contesto non potrebbero che essere il bue e l’asino, è evidente che la marchesa ha in mente una nativitas di tipo tradizionale. Senza approfondire il concetto, ovvero senza seguire la strada dell’allegoresi, la Fletcher giunge dalla lettura di questa corrispondenza a una conclusione che appare essenziale per comprendere il processo dell’artista: «Throughout the correspondence Bellini does not seem to be interested in painting a conventional Nativity»13. In effetti Bellini, non diversamente dal suo allievo Giorgione, intende compiere un innovativo passo in avanti rispetto a un tema convenzionale e spesso trattato. Ma già la stessa figura del Battista – che in quanto santo protettore del marito della marchesa14 era stata da questa espressamente richiesta – non faceva parte della tradizione del presepio. Ciò spiega anche lo spontaneo stupore del maestro («li parea chel fose fuora de propoxito ditto santo a questo prexepio»), che pure è d’accordo con l’inserimento del Battista, annunciando a sua volta «qualche luntani et altra fantaxia» (lettera di Vianello a Isabella del 3 novembre 1502). Dall’incarico di dipingere un presepio fino al suo completamento il processo creativo-riflessivo durerà ancora quasi due anni. La pazienza della marchesa, che nel frattempo minaccia la richiesta di re13 Jennifer M. Fletcher, Isabella d’Este and Giovanni Bellini’s «Presepio», in «The Burlington Magazine», 113, 1971, pp. 703-712: 711. 14 Ivi, p. 708.
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stituzione dell’anticipo pagato, viene nuovamente messa a dura prova. Il 2 luglio 1504 il maestro chiede scusa flexis genibus alla marchesa per i problemi causati dal ritardo nella consegna del dipinto. Il 6 luglio Lorenzo da Pavia vede per la prima volta il dipinto in casa Bellini e annuncia a Isabella il suo completamento: il dipinto, afferma Lorenzo, è riuscito oltre ogni aspettativa (invero lè bela cosa), ma non sarebbe paragonabile per invencione con le opere di Mantegna. Della innovativa allegoresi di Bellini non si fa cenno. La marchesa compra il quadro. Il fatto che infine Isabella sia soddisfatta dell’acquisto è provato dalla richiesta fatta a Pietro Bembo, che nel 1505 si trovava a Mantova, di intercedere presso Bellini per far eseguire al maestro un altro dipinto. Questo tentativo trova espressione in una lettera del 18 ottobre 1505 a Bellini in cui, accanto alla soddisfazione per il ricevuto presepio, Isabella esprime il desiderio di avere un altro dipinto di sua mano: Mes. Zoanne: quanto sij el desyderio nostro de havere uno quadro dipincto ad historia di man vostra da metter nel nostro studio presso quelli del Mantinea vostro Cogto facilmente lo poteti haver inteso gli tempi passati che ve ne habiamo facto instantia: ma vui per le molte occupatione non haveti potuto: et contentandosi dil voler vostro acceptassimo il presepio in cambio di la historia che prima ni havevati promessa di fare il quale molto ni piaque et tenendolo cossi charo como pictura che habiamo ma essendo stato qua li mesi passati el mco mg Piero Bembo et inteso lo summo desyderio nel quale continuamente ni dette animo et speranza di poterlo conseguir allegando che eravati expedito de alcune opere che ve tenevano occupati et che conoscendo la dolce natura vostra de servir ogniuno maxe le persone di auctorita ni poteva prometter de farmi satisfar da lhora che fecessimo questi ragionamenti insuma fin qui siamo state vexate da febre che non havemo potuto attender a simili cose: Mó che siamo in meglior termine ni é parso scrivervi questa nostra a pregarvi che vogliati disponervi a dipengerni uno quadro che lassarimo a voi il carico de far la inventione poetica quando non vi contentasti che noy vi la dessimo che ultra il cortese et honorevole pagamento [vi ne faressimo] vi ne sentiressimo obligo imortale quando vi contentasti de farlo vi mandaressimo la mesura dil telario et dinari per capara: affa.ma vs: Mantue xiix octs MDV: B Capilupus15. 15
Bembo, che in questo momento si trova in viaggio, si rivolge a Lorenzo da
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L’episodio giorgionesco, che ha luogo successivamente a questo nell’anno 1510, è testimoniato in modo non meno interessante. Subito dopo la morte di Giorgione la marchesa mette in movimento due mediatori, i già citati Lorenzo da Pavia e Taddeo Albano, per poter acquistare dipinti dal lascito dell’artista16. In una lettera del 25 ottobre 1510 la marchesa chiede all’Albano di impegnarsi per riuscire ad avere una giorgionesca «pictura de una nocte», la cui bellezza e singolarità le sono note: Sp. Amice noster charissime: Intendemo che in le cose et heredità de Zorzo da Castelfrancho pictore se ritrova una pictura de una nocte, molto bella et singulare; quando cossì fusse, desideraressimo haverla, però vi pregamo che voliati essere cum Lorenzo da Pavia et qualche altro che habbi judicio et designo, et vedere se l’è cosa excellente, et trovando de si operiati il megio del moom. Carlo Valerio, nostro compatre charissimo, et de chi altro vi parerà per apostar questa pictura per noi, intendendo il precio et dandone aviso. Et quando vi paresse de concludere il mercato, essendo cosa bona, per dubio non fusse levata da altri, fati quel che ve parerà; ché Pavia e a un certo Paolo Zoppo per prendere contatto con Bellini. I due riescono a ottenere una disponibilità di massima da parte dell’artista, per la quale Isabella lo ringrazia con la lettera del 6 novembre 1505. Al suo ritorno a Venezia Bembo va a dare un’occhiata alle altre inventioni che si trovano nella bottega del maestro, per attingere spunti per il soggetto (la inventione ) del quadro desiderato. Come testimonia la sua lettera alla contessa dell’11 gennaio 1506, anche Bembo deve rendersi conto che il maestro non accetta programmi pittorici prestabiliti che limiterebbero la sua fantasia. «Il Bellino, col quale sono stato questi giorni, è ottimamente disposto a servire V.Ec.za ogni volta che le siano mandate le misure o telaro. La invenzione, che mi scrive V.S. che io truovi al dissegno, bisognerà che s’accomodi alla fantasie di lui che l’ha a fare, il quale ha piacere che molto segnati termini non si diano al suo stile, uso, come dice, di sempre vagare a sua voglia nelle pitture che, quanto è in lui, possano sodisfare a chi le mira. Tuttavolta si procaccerà l’uno e l’altro» (Pietro Bembo, Lettere, i [1492-1507], cit., p. 209). Per diverse ragioni un secondo dipinto di Bellini per Isabella non verrà poi mai eseguito. 16 «L’Albano era un mercante, del quale la Marchesa si valeva continuamente per le compere d’ogni sorta che faceva a Venezia. Su Lorenzo da Pavia, insigne fabbricatore di strumenti musicali, ed uno de’ piú zelanti ed esperti corrispondenti artistici d’Isabella d’Este, cfr. Armand Baschet, Aldo Manutio. Lettres et documents, Venezia, Antonelli, 1867, appendice seconda» (Alessandro Luzio, Isabella d’Este e due quadri di Giorgione, in «Archivio storico dell’arte», 1888, pp. 47 sgg.). Luzio pubblica nel suo contributo su Giorgione per la prima volta le due lettere che forniscono la base per le conclusioni che seguono.
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ne rendemo certe fareti cum ogni avantagio e fede et cum bona consulta. Offeremone a vostri piaceri ecc. Mantua XXV oct. MDX
La risposta di Taddeo Albano arriva già due settimane dopo (8 novembre 1510). Avendo chiesto informazioni agli amici stretti di Giorgione egli esprime alla marchesa il suo rammarico che il suo desiderio per diverse ragioni – questioni di proprietà – non può essere esaudito. Una «pittura della notte» si troverebbe in effetti in casa di Taddeo Contarini, ma non corrisponderebbe completamente alle sue richieste (non è molto perfecta sichondo vorebe quela). Un’altra «pittura della notte» – «de meglior desegnio et megio finitta» – sarebbe in possesso di Vittorio Beccaro. Entrambe le opere non sono però acquistabili: Illma et Exc.ma M.a mia obser.ma Ho inteso quanto mi scrive la Ex. V. per una sua de XXV del passatto, facendome intender haver inteso ritrovarsi in le cosse et eredità del q. Zorzo de Castelfrancho una pictura de una notte, molto bella et singulare; che essendo cosi si deba veder de haverla. A che rispondo a V. Ex. che ditto Zorzo morì più dì fanno da peste, et per voler servir quella ho parlato cum alcuni mei amizi, che havevano grandissima praticha cum lui, quali mi affirmano non esser in ditta heredità tal pictura. Ben è vero che ditto Zorzo ne feze una a m. Thadeo Contarini, qual per la informatione ho autta non è molto perfecta sichondo vorebe quela. Un’altra pictura de la nocte feze ditto Zorzo a uno Victorio Becharo, qual per quanto intendo è de meglior desegnio et meglio finitta che non è quella del Contarini. Ma esso Becharo al presente non si atrova in questa terra, et sichondo m’è stato afirmatto né l’una né l’altra non sono da vendere per pretio nesuno, però che li hanno fatte fare per volerle godere per loro; siché mi doglio non poter satisfar al dexiderio de quella ecc. Venetija VIII novembris 1510. Servitor Thadeus Albanus
Lo scambio epistolare tra Taddeo Albano e Isabella ha sollevato questioni che negli studi storico-artistici hanno condotto alle più diverse riflessioni e supposizioni. Alessandro Luzio per primo si è occupato del problema delle due citate “pitture della notte” e
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dei titoli con i quali questi due dipinti siano noti oggi: «Che cosa deve intendersi per quella pictura de una notte, che Giorgione avrebbe eseguito tanto pel Contarini, quanto pel Beccaro? E dove sono ora, e con qual nome vanno questi due quadri?»17. Nelle sue conclusioni Luzio richiama le brevi indicazioni e definizioni tematiche di Marcantonio Michiel riguardanti i tre dipinti di Giorgione di proprietà del Contarini: il primo raffigurerebbe I tre filosofi («la tela a oglio delli tre phylosophi nel paese, due ritti et uno sentado che contempla gli raggii solari cun quel saxo finto cusì mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco et finita da Sebastiano Vinitiano»), il secondo una scena tratta dall’Eneide («La tela grande a oglio dell’Inferno con Enea e Anchise fu de mano de Zorzi da Castelfranco»), il terzo il topos classico-mitologico della nascita di Paride («La tela del paese con el nascimento de Paris con li dui pastori ritti in piede, fu de mano de Zorzo de Castelfranco e fu delle sue prime opere»). Luzio giunge alla conclusione che la “pittura della notte” di casa Contarini corrisponda al dipinto La nascita di Paride, mentre per quanto riguarda la pictura de una notte in casa Beccaro ipotizza una possibile riproduzione «che Giorgio provetto aveva voluto eseguire della prima sua opera giovanile». La questione se tale “pittura della notte” abbia raffigurato o meno «un’altra natività» resta senza risposta18. Non I tre filosofi di Gior-
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Ivi, pp. 47 sgg. Cfr. ivi, p. 48: «Il primo quadro è alla Galleria del Belvedere in Vienna, in uno stato deplorevole; dell’ultimo il Morelli ha creduto riconoscere un frammento nella Galleria Esterhazy a Pest. “Due giovani, trascuratamente vestiti alla foggia veneta del XV secolo e scalzi, stanno sopra un colle; dietro di loro e un po’ più in alto si vede una villa. È l’alba, e di lontano si scorge il mare illuminato dai primi raggi del sole... Avremmo dunque qui soltanto i due pastori ritti sul monte Ida, sotto la direzione dei quali venne poi crescendo il giovane Paride. Sfortunatamente manca l’altra metà, nella quale era dipinta la sua nascita”. La scoperta, fatta a Vienna dal dott. Wickhoff, di una stampa rappresentante il quadro citato nella sua integrità, avrebbe confermato pienamente la congettura del Morelli. – Orbene, a me sembra che l’Albano indicasse appunto col titolo generico di pictura de una notte questo quadro della nascita di Paride: la nota dell’anonimo morelliano “fu de mano de Zorzi da Castelfranco e fu delle sue prime opere” trova esatto riscontro nel giudizio che riferiva l’inteligente mercante alla Marchesa, scrivendo “non è molto perfecta, sichondo vorebe quela”. Ma la seconda pictura de una notte, pos18
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gione vengono quindi presi in considerazione da Luzio, ma – come prodotto analogo – la “notte” del Correggio a Dresda. Un riferimento molto probabile dell’espressione pictura della notte, utilizzato da Isabella nella sua lettera all’Albano, è quello alla notte di Natale. Ne è un esempio il testo del contratto del 1522 riguardante il Natale del Correggio. «Si tratta», affermano Bevilacqua e Quintavalle, «d’una adorazione dei pastori al presepio, tema – del resto – per il quale era consueto il titolo di Notte»19. Ciò che Isabella intenda con il termine “pittura di una notte”, che ella vorrebbe avere in sua proprietà, è chiarito nel suo scambio epistolare con Pietro Bembo. Il 10 settembre 1502, come già detto, Isabella prega Giovanni Bellini di eseguire – nell’ambito della tradizionale Natività – un presepio con «la Madonna», «il Bambino», «san Giuseppe» e «le bestie». Notte e presepio entrano quindi in una stretta relazione tematica, fatto che porta Antonio Morassi a identificare la pittura della notte richiesta da Isabella con l’Adorazione dei pastori di Washington («quell’Adorazione che, secondo me, deve essere inoltre indubitabilmente identificata con la «Nocte» desiderata da
seduta dal Beccari, era forse una riproduzione che Giorgio provetto aveva voluto eseguire della prima sua opera giovanile? O rappresentava un’altra natività, od anche un soggetto diverso; e può identificarsi con alcuno dei quadri conosciuti del Barbarelli? Qual sorte ha insomma avuto questo quadro, che si giudicava a Venezia “de meglior desegnio et meglio finito” che non l’altro di proprietà Contarini? […] Ecco l’incognito che non sono riuscito a spiegarmi, o su cui richiamo l’indagine di più esperti conoscitori della storia artistica». 19 L’opera completa del Correggio, a cura di Alberto Bevilacqua e Arturo Carlo Quintavalle, Milano, Rizzoli, 1970, n. 75. Il contratto tra il committente Alberto Pratonieri e Correggio venne concluso il 24 ottobre 1522 a Reggio Emilia con le significative parole: «Per questa Notta, di man mia, io Alberto Pratonero faccio fede a ciascuno, come io prometto di dare a Maestro Antonio da Correggio pittore libre duecento otto di moneta vecchia reggiana e questo per pagamento d’una tavola che mi promette di fare in tutta excellentia, dove sia depinto la Natività del Signore Nostro, con le figure attinenti, secondo le misure e grandezza che cappeno nel disegno che mi ha puorto esso maestro Antonio, di man sua. In Reggio alli XIIII di Ottobre MDXXII. Al predetto giorno gli contai per parte di pagamento libre quaranta di moneta vecchia». Cfr. il cap. viii del volume di David Ekserdjian, Correggio, Yale, Yale University Press, 1997, pp. 205 sgg. (The Adoration of the Shepherds [The Notte] ). L’autore sviluppa ampiamente la storia del «genre of the night Nativity» (p. 215).
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Isabella d’Este, appena avuta notizia della morte del Maestro di Castelfranco»)20. Tale ipotesi è poi ripresa da Baldass e Heinz, le cui conclusioni rinviano però alla replica viennese dell’Adorazione: «la definizione di “notte” per il tema dell’adorazione dei pastori non è strana, essendo usata nel senso di “notte santa” e non di “paesaggio illuminato dalla luna”. Sembrava quindi naturale identificare l’Adorazione dei pastori con il dipinto di Vittorio Beccaro»21. Il quadro di Giorgione in casa Beccaro è in effetti da identificare con l’Adorazione dei pastori di Washington: essa è la “pittura della notte” ricordata da Taddeo Albano, che ne esalta alla marchesa l’eccellente qualità e singolarità. Al contrario dell’Adorazione dei pastori di Washington, la seconda “pittura della notte”, quella di casa Contarini, ha dato adito a una complessa discussione che fino ad oggi è rimasta senza esito. Il Richter prende le mosse dall’articolo di Luzio e delle notti ivi citate, identificando la pittura Contarini, sulla base delle qualitative differenze iconografiche, con una versione “incompiuta” dell’Adorazione dei pastori, un’opera giovanile di Giorgione che in quanto tale mostrerebbe ancora dei difetti (non molto perfecta): We know that Giorgione painted a Presepio. Paris Bordone in 1663 mentions such a picture. From the correspondence between Isabella d’Este and Taddeo Albano we know that two notte by Giorgione existed. The term notte is evidently used in the same sense as Presepio, or Adoration of the Shepherds. The expression Nachtstück is used in the inventory of the collection of the Archduke Leopold Wilhelm (n. 217) in connexion with the adoration of the shepherds now in Vienna, and the German heilige Nacht is still used as meaning the birth of Christ. Taddeo Albano relates that he had heard of two notte, one in the collection of Messer Taddeo Contarini, which he describes as non molto
20 Antonio Morassi, Giorgione, Milano, Hoepli, 1942, p. 159. Il tentativo di identificazione di Morassi è preceduto dalle riflessione di Georg Martin Richter, il quale afferma a proposito della pittura della notte in casa di Vittorio Beccaro: «The second Adoration in the possession of Victorio Becharo may possibly be identical with the picture in the Allendale collection» (Georg Martin Richter, Giorgio da Castelfranco, Called Giorgione, cit., p. 237). 21 Ludwig Baldass-Günther Heinz, Giorgione, cit., p. 116.
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perfecta ; and of the other picture, in the collection of a certain Victorio Becharo, he says that it was better in design and better finished than the picture in the Contarini collection. From the description of the second picture we infer that one of the reasons why Albano described the Contarini adoration as not quite perfect was probably the fact that it was not finished. It is tempting to identify the two types of Giorgionesque Adorations with the two pictures mentioned by Albano. It may be possible that the picture in the Contarini collection was an early one and in consequence non molto perfecta. The drawing at Windsor and the versions by Catena and Francesco Vecellio may give us some idea of this picture, which at the moment is not traceable. [...] The Allendale picture cannot be identified with the Contarini picture which is described as being unfinished, but I do not think that we can go so far as to ascribe the Allendale adoration to the master himself. The style of the picture is clearly connected with Giorgione’s manner, but all the morphological details are different from the details visible in authentic pictures. Besides, there is a certain Bellinesque note in the Allendale picture which prompts me to believe that it was executed by an assistant who had originally been a follower of Giovanni Bellini. The picture in the Cook collection is not so fine in quality as the Allendale adoration, but some details, such as the heads of the Madonna and St. Joseph, are nearer to Giorgione’s types than the corresponding heads in the Allendale adoration22.
Analogamente argomenta anche alla fine del XX secolo Enrico Guidoni, che legge il giudizio dell’Albano sulle carenze dell’opera in un’ottica tecnico-sperimentale: Al 1502-03 si possono assegnare, per indizi che in parte abbiamo già anticipato, sia le due natività con Adorazione dei pastori di Washington e di Vienna, sia la Nascita di Paride di Budapest. La versione di Vienna, apparentemente più libera e comunque non finita, potrebbe essere precedente all’altra, come pure è stato ipotizzato; non vi compare l’angelo, e inoltre l’albero sulla sinistra ripete quello all’estrema destra della Giuditta. Si tratta comunque con grandissima probabilità dei due quadri citati nella famosa lettera di Isabella d’Este: la «nocte» più rifinita «perfecta» eseguita per Antonio Beccaro e quella, meno «perfecta», in mano di Taddeo Contarini. Nonostante si tratti di due tra le primissime ope22
p. 237.
Georg Martin Richter, Giorgio da Castelfranco, Called Giorgione, cit.,
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re documentate, il soggetto apparentemente banale le rende piuttosto ermetiche e apparentemente povere di quei doppi sensi che costituiscono, per Giorgione, la regola23.
Guidoni parte dal punto tematico di un «soggetto apparentemente banale» in casa Contarini che già Richter sulla base di «dettagli morfologici» distingue dalle opere «autentiche» di Giorgione. Entrambi si fondano sull’ipotesi di una replica «non finita» nell’ambito del “gruppo Allendale”. L’“imperfezione” della “pittura della notte” in casa Contarini rilevata da Albano (non è molto perfecta) è da imputare all’assenza visiva di protagonisti e attributi della tradizionale nativitas – il bambino Gesù, Maria, Giuseppe, gli animali alla mangiatoia ecc. – di cui l’Adorazione dei pastori in casa Beccaro offre invece l’esempio migliore. Sottolineando la maggiore perfezione della “notte” in casa Beccaro (de meglior desegnio et megio finitta), l’Albano rileva la presenza di una scena “completa”, collocata nella luce sacrale e a cui fa da sfondo una grotta scura. L’“imperfezione” del dipinto Contarini è quindi riferita all’assenza del motivo della natività, fatto che verrebbe a coincidere perfettamente con la scena raffigurata nei Tre filosofi. Che il “difetto” del lavoro giorgionesco di casa Contarini rappresenti in realtà un coerente passo verso una ermetica allegoresi è un fatto che naturalmente non poteva essere colto dall’Albano, dilettante di questioni artistiche. Una rapida analisi comparata delle due “pitture della notte” giorgionesche in casa Contarini e Beccaro, I tre filosofi e l’Adorazione dei pastori, chiarisce il processo dell’allegoresi che informa il pensiero e l’opera del pittore di Castelfranco. La natività dell’Adorazione dei pastori si compie, come quella della Allegoria sacra belliniana, in una luce sacrale: è un evento della rivelazione. Nel dipinto dei Tre filosofi questo avvenimento viene celato, nascosto nell’oscurità, sottratto alla luce. Ciò che è nascosto deve essere svelato, un compito di fronte al quale si trovano i tre “filosofi”. Occorre penetrare e rivelare la dimensione allegoricamente celata. La tra23
Enrico Guidoni, Giorgione. Opere e significati, cit., p. 128.
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scendenza come fatto, posta al centro dell’opera giovanile L’adorazione dei pastori, lascia il posto all’atto del trascendere che devono compiere i filosofi/magi. Uno sguardo all’Adorazione dei pastori e all’Allegoria sacra di Giovanni Bellini rivela l’analogia dell’approccio allegorico dei due pittori, ma contemporaneamente mette in luce la diversità dei processi compositivi. La dimensione allegorica del presepio belliniano è molto più enigmatica di quella dell’opera giovanile di Giorgione. L’Allegoria sacra mette in scena, nel contesto dell’epoca, un singolarissimo messaggio natalizio. Ciò che rende così complessa la comprensione del messaggio belliniano è la calcolata e radicale rottura con gli attributi della Natività canonizzata dagli affreschi della cappella degli Scrovegni. Chi intenda interrogare la scena rappresentata con le categorie di quel realismo giottesco che sulla base della narrazione biblica e degli scritti agiografici allestisce una vivida scena con ruoli ben definiti, non troverà certo risposte convincenti alle proprie domande. Diversamente dal Giotto degli Scrovegni, che mira a una comprensione immediata, Bellini procede allegoricamente in senso dantesco: il suo dipinto, analogamente alla Divina Commedia, è un’opera allegorica che richiede una particolare lettura e che presuppone un vasto sapere. Per Bellini come per Dante la tensione verso il sensus allegoricus, che si trova al di là del senso letterale, è una irrinunciabile necessità. Solo la faticosa penetrazione del senso “nascosto” (allegorico), invisibile all’occhio, conduce a una vera – ovvero spirituale – comprensione. L’identificazione, con l’ausilio di testi agiografici, del soggetto dell’Allegoria sacra come complessa “Natività” permette di riconoscere nel dipinto quel presepe del quale la marchesa mantovana ringraziava Giovanni Bellini con la sua lettera del 18 ottobre del 1505. La “pittura della notte” dell’allievo Giorgione percorre sotto l’aspetto allegorico, con le modifiche effettuate al dipinto e con l’inserimento di danteschi effetti di luce, una strada completamente nuova. L’atto del superamento dei confini cui attendono i tre “filosofi” giorgioneschi, ognuno teso a suo modo verso la conoscenza, si compie tra scienza e fede. La scena si presenta in una luce “indifferente/sacrale” che indica già il percorso che porterà a Caravaggio.
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Sotto l’influsso della cosmologia platonica l’arte innovatrice dell’allievo di Bellini, Giorgione, compie rispetto al modello del maestro un ulteriore passo in avanti: I tre filosofi sono un’opera pionieristica, costruita in forma di enigmatica allegoresi che trasmette un messaggio nella perfetta connessione di iconografia e composizione pittorica. «L’arte di Giorgione, il cui tratto non rivela immediatamente il suo autore», afferma Günther Heinz24, «ha un ruolo d’avanguardia nella sintesi di idee pittoriche e concetti filosofici. Anche se l’aspetto pittorico in senso stretto può mancare di una certa tensione, la concezione figurativa è il risultato di una complessa riflessione intellettuale. Nell’armonica forma dell’opera è raffigurato un tema complesso che, nonostante tutti i tentativi di interpretazione, continua a mantenere il velo dell’enigma. – Il dipinto I tre filosofi del 1507/08 fu visto nel 1525 in casa di Taddeo Contarini da Marcantonio Michiel che lo chiamò “la tela delli 3 Phylosophi nel paese”, senza spiegare esattamente la natura del tema del dipinto. Il pittore non ha certo aiutato lo spettatore a comprendere il complesso contenuto del quadro, un significato del quale dovrebbe essere la contemplazione della nascita del Salvatore da parte dei Magi». In effetti la copertura allegorica mira a una stratificazione di significati che si sottrae a una diretta comprensione. Non il miracolo dell’incarnazione e della rivelazione annunciata nella Bibbia si trova al centro del quadro, ma l’interpretazione e la conoscenza della natura. A ragione Tschmelitsch definisce Giorgione, nell’ambito dell’Umanesimo, come «il genio che per la prima volta in Italia individuò la natura come forza determinante anche per gli accadimenti umani [...]. Non si trattava certo di un libero sperimentare, ma di una applicazione dei risultati degli sviluppi filosofici umanistici»25. Null’altro è da aggiungere a questa chiusa. A differenza dell’opera belliniana, che evidenziava la centralità del Cristo quale strumento della rivelazione del Deus geometra, il quadro di Giorgione 24 Günther Heinz, Die Gemäldegalerie im Kunsthistorischen Museum Wien, München, Wilhelm Goldmann Verlag, 1967, p. 99. 25 Günther Tschmelitsch, Zorzo, genannt Giorgione. Der Genius und sein Bannkreis, cit., p. 220.
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pone la questione del ruolo paritario di empiria e fede nel cammino dell’uomo verso la verità e la salvezza. Cristologia e antropocentrismo compaiono illuministicamente uniti. La sintesi di idee (neo)platoniche e cristiane, compiuta dal sistema speculativo di Ficino, porta Giorgione a porsi domande di contenuto teologico e cosmologico alle quali egli risponde con ardite conseguenze estetiche nella concezione dei Tre filosofi. Il suo atto innovatore è l’espressione di una nuova e rivoluzionaria generazione, ma non rappresenta l’abbandono ideologico del concetto della creazione divina dell’universo. Il raggiungimento della conoscenza resta definito escatologicamente, come manifestano la posizione e i gesti del giovane seduto. Il dipinto di Giorgione I tre filosofi è quindi, concludendo, un’ermetica [pictura della] notte. L’operazione di rendere enigmatico il messaggio artistico viene effettuata attraverso alcune modifiche che Giorgione compie in direzione allegorica. Oggetto iconografico della sua allegoresi è il motivo della nascita di Cristo (natività). Allegoricamente motivata, l’assenza del presepio nei Tre filosofi di Giorgione spiega la ragione per cui l’intermediario di Isabella, Taddeo Albano, definisce il dipinto come “incompiuto”. Le fondamenta del processo allegorico giorgionesco poggiano sul senso retorico dell’aenigma e della obscuritas. La cornice allegorica del quadro è data dalla Divina Commedia con il contrasto tra selva oscura a destra e colle illuminato a sinistra. L’oscurità della selva rappresenta simbolicamente l’assenza della luce della ragione regolatrice degli istinti, la luminosità della collina raffigura la raggiungibile presenza della beatitudine terrena. Il percorso che guida il viandante dall’oscurità (della selva) alla luce indefinita (del colle) porta al nucleo del messaggio del quadro. È un percorso che dalla molteplicità degli oggetti visibili, in apparenza differentemente interpretabili, conduce verso un’astrazione fondata sul sostrato testuale dell’opera di Ficino.
indice dei nomi
Agatone 56 Agostino, sant’ 14, 15n, 17n, 22, 82n, 89n, 102 Aikema, Bernard 81n Albano, Taddeo 133, 134, 140, 145 e n, 146, 148-151, 154 Alighieri, Dante 3, 4, 12, 14, 15, 16 e n, 17 e n, 18, 19 e n, 20, 21 e n, 22 e n, 23, 27-35, 38, 41, 44, 45, 65n, 86, 88, 96, 101, 102, 119, 135, 136, 137n, 152 Alighieri, Francesco 38n Alighieri, Piero 38n Anassagora 19n Andrea da Napoli, commentatore di Dante 38n Andro 72n Antal, Frederick 134n Apollonio di Tiana 122n Aristofane 56 Aristotele 72, 86, 87, 90, 91-93, 94 e n, 95 Asdente 87 Auerbach, Erich 28, 29 e n Auner, Michael 49, 119 e n, 130 e n Baldass, Ludwig 9 e n, 10 e n, 99 e n, 124n, 133n, 149 e n Baldelli, Ignazio 89, 90n Barbari, Jacopo de’ 80 Barzizza, Guiniforte 38n
Baschet, Armand 145n Basilio il grande 41 Beccaro, Vittorio 133, 146, 147, 149 e n, 150 Beda il venerabile 15, 122, 123 Beer, Jan de 139 Bellini, Giovanni 3, 6, 9, 12, 26, 27, 59, 60, 61, 62, 63, 65, 72, 73, 76, 77 e n, 85, 102, 103, 139, 140 e n, 141 e n, 142-144, 145n, 148, 150, 152, 153 Bembo, Bernardo 13, 64, 67 Bembo, Pietro 9 e n, 13, 69, 92n, 93, 144 e n, 145n, 148 Benivieni, Girolamo 13, 41 e n, 65 e n, 66 e n, 67, 90 Benvenuto da Imola 38n Bernardo del Nero 42, 43 Bertrand, Chiara 126 e n Bessarione, Basilio 82 Bevilacqua, Alberto 148 e n Bia lostocki, Jan 47n, 101n Blasucci, Luigi 22n Blumenberg, Hans 63, 82n, 104 e n, 106 e n, 109 e n Boccaccio, Giovanni 20, 29, 36, 37 e n, 38 e n Bolsec, Matthaeus 85 Bonatti, Guido 87 Borchhardt-Birbaumer, Brigitte 134n
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«i tre filosofi» di giorgione
Borinski, Karl 5 Botticelli, Sandro 34, 44 Brown, Beverly Louise 80n, 81n Burckardt, Jacob 27, 28n Calvesi, Maurizio 72 Cammelli, Giuseppe 86n Campagnola, Giulio 79 e n, 80 e n, 81n Cangrande della Scala 13, 19 Caravaggio, Michelangelo Merisi detto il 152 Cardini, Roberto 38n Carpaccio, Vittore 8 Castellani, Emilio 95n Castiglione, Baldassarre 67, 68n, 69, 92n Catena, Vincenzo di Biagio 150 Catone l’Uticense 30 Cavalca, Domenico 26, 27 Cavalcanti, Giovanni 64 Cavalcanti, Guido 57 Cencillo Ramírez, Marta 139n Chastel, André 94 Cicerone 86, 100 Codino, Fausto 29n Cohen, Simone 84, 85n Contarini, Taddeo 146, 147, 149, 150, 153 Copernico, Niccolò 72n, 76 Cordié, Carlo 68n Cornelisz, Cornelis 105 e n Correggio, Antonio 134, 139 e n, 148 e n Crisolora, Manuele 85, 105 Curtius, Ernst Robert 75 e n D’Amicone, Silvio 80n David, re d’Israele 41, 72 Dionisio il vecchio 52 Dionisotti, Carlo 13n Diotima 43, 44, 57
Domenico, san 44 Dürer, Albrecht 5 Ekserdjian, David 148n Einem, Herbert von 26 e n, 27 Eisler, Robert 79 e n Elia 73 Erissimaco 56 Este, Isabella d’ 9, 26, 103, 133, 134, 140, 141 e n, 142, 143, 145n, 148, 149, 150, 154 Euripide 124n Euripilo 87 Federico II di Svevia 87 Ferino-Pagden, Sylvia 142n Ferriguto, Arnaldo 72 Ficino, Marsilio 3-5, 12, 13, 35, 38, 42, 43 e n, 51, 52 e n, 53, 54, 55n, 56, 57n, 63, 64, 65n, 66n, 67, 69 e n, 73, 74, 75n, 82, 83n, 84 e n, 85, 89, 90, 92, 93, 94 e n, 107, 108 e n, 110 e n, 111, 119, 125, 154 Figliucci, Felice 64n Fiocco, Giuseppe 80n Fletcher, Jennifer M. 143 e n Francesco da Buti 38n Francesco d’Assisi, san 60 e n, 61, 62, 63, 64, 65 Fregolent, Alessandra 80n Friedrich, Hugo 137n Frizzoni, Gustavo 16n Fuhrmann, Manfred 101n Fulgenzio, Fabio Planciade 19n, 20n, 22 Gadamer, Hans-Georg 100 Gaddi, Taddeo 134 e n Galilei, Galileo 75, 76, 76n Garin, Eugenio 51 e n, 53, 54n, 65n, 69n, 70 e n, 88n Gentile da Fabriano 134
indice dei nomi Gentile, Sebastiano 64n Georges, Karl Ernst 86 Gerolamo, san 72, 76, 77, 122n Giacomo apostolo, san 73 Giannotti, Donato 137n Giarratano, Cesare 53n Giotto di Bondone 103, 124, 134 e n, 135, 152 Giovanni Battista, san 143 Giovanni Crisostomo 119 Giovanni evangelista, san 73, 128 Giovanni del Virgilio 20 Giovanni di Salisbury 20n Girardi, Enzo Noè 138n Giuda 30 Giulio II 92n Giulio Capitolino 72n Giuseppe, san 143, 150, 151 Giusti, Enrico 80n Goes, Van der 139 Goethe, Johann Wolfgang 28, 95 e n, 96 e n Goetz, Oswald 25 e n, 128 e n, 129 Gozzoli, Benozzo di Lese, detto Benozzo 124 Grimm, Herman 4 Guardini, Romano 30 e n Guido da Montefeltro 87 Guidobaldo, duca di Urbino 80 Guidoni, Enrico 47 e n, 72 e n, 150, 151 e n Hall, Marcia B. 94 e n Harlfinger, Dieter 85n Hartlaub, Gustav Friedrich 10 e n, 11 e n, 48 e n, 78n, 79n, 81, 82 Haug, Walter 102n Heinz, Günther 133n, 149 e n, 153 en Henkel, Arthur 13n Hirdt, Willi 27n, 60n, 88n Horenbout, Gerard 139
159
Hornig, Christian 47n, 86n Hottenroth, Friedrich 85n Iacopo da Varazze 116, 117 e n Imorde, Joseph 101n Isaia 36, 126 Iser, Wolfgang 101n Isidoro di Siviglia 15 Jacomuzzi, Angelo 19n Jacopo da Pietramellara 80n, 81n Jacopo della Lana 38n Jung, Willi 60n Justi, Ludwig 48 e n Kehrer, Hugo 116n, 118 e n Kessler, Herbert 105n Klauner, Friderike 9 e n, 10 e n, 11 e n, 12 e n, 85n, 97 e n, 98, 121 e n, 122 e n, 128, 129 e n, 131 e n Kristeller, Paul Oskar 4, 51, 58 e n, 109 e n, 110n Kroß, Matthias 100 e n Krüger, Klaus 101n Künstler, Gustav 48, 49 e n, 50, 129n Lamberti, Luca 134n Landino, Cristoforo 3, 12, 13, 29, 35, 36, 38 e n, 39 e n, 41, 42, 136, 137n Lausberg, Heinrich 101 e n Lemaire, Gérard-Georges 25 e n Lentzen, Manfred 13n, 41 e n Leo, Ulrich 30 e n Leonardo da Vinci 69, 104 e n Leopoldseder, Hannes 134n Lippert, Herbert 88n Logan, Oliver 25 e n Loredano, Marco 139 Lorenzo da Pavia 142, 144, 145 e n Lorenzo Monaco 124
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«i tre filosofi» di giorgione
Lorenzo Lotto 78, 139 Lozza, Giuseppe 105n Luca evangelista, san 72 Lucano, Anneo 135 Luz, Ulrich 123n Luzio, Alessandro 145n, 146-149 Macari, Pietro Francesco 141n Maccagni, Carlo 80n Malatesta, Francesco 141n Mandalari, Maria Teresa 28n Manetti, Antonio 42, 43 Mansueti, Giovanni 85 Mantegna, Andrea 69, 124, 141, 144 Marco Aurelio 71 e n, 72n, 73n Marguerite de Navarre 51 Marinoni, Augusto 104n Matteo evangelista, san 119, 123n, 125 Medici (famiglia) 136n Medici, Lorenzo de’ 43, 90, 91n Mehmed II 85 Meiss, Millard 61, 63 e n Michelangelo Buonarroti 4, 5, 69, 136 e n, 137n Michiel, Giovanni 59 Michiel, Marcantonio 9, 16 e n, 29, 31, 48, 50, 53, 56, 67, 71 e n, 79n, 91, 98 e n, 111, 122n, 147, 153 Migne, Jacques-Paul 116n, 123n Milanesi, Gaetano 93n Morassi, Antonio 148, 149n Morelli, Alessandro 147 Mosè 62, 63, 72, 73 Neumeyer, Fritz 101n Nicola di Lyra 18 Odoni, Andrea 139 Ohly, Friedrich 3, 77n Omero 95n, 101, 135 Orazio Flacco, Quinto 135 Origene 14, 23
Otto, Stephan 110n Ovidio Nasone, Publio 20n, 135 Paatz, Walter 92n Pacioli, Luca 80 Padoan, Giorgio 37n Pagliaro, Antonino 27 e n Pallucchini, Rodolfo 56 e n Palma il giovane, Jacopo Negretti detto 139 Panofsky, Erwin 5 Paolino da Nola 122n Parmenide 64n Parronchi, Alessandro 72 Perugino, Pietro 141n Peurbach, Georg 78 Pico della Mirandola 41, 65n, 66n, 82, 84, 85, 92, 122n Pieretti, Antonio 15n Pietro, san 73 Pigler, Andor 121 e n Pitagora 41, 72 e n, 78, 122n Platone 13, 38, 42, 43, 51, 52, 53n, 64n, 66 e n, 67, 74n, 75, 86, 91, 93, 94 e n, 95, 105 e n, 106 e n, 107, 108, 111n, 118, 136 Plotino 67, 86 Poliziano, Angelo 69n Pompeo Faracovi, Ornella 84 Pratonieri, Alberto 148n Quintavalle, Arturo Carlo 148n Quintiliano, Marco Fabio 100 Raffaello Sanzio 69, 92 e n, 93, 94, 95n, 96 Regiomontano, Giovanni 72, 78 Reichmann, Viktor 130 Rella, Franco 127n Rensi, Giuseppe 43n Riccardo, teologo, commentatore di Dante 38n
indice dei nomi Richter, Georg Martin 98, 99 e n, 149 e n, 150n, 151 Rilke, Rainer Maria 127 e n Ronci, Gilberto 134n Saenredam, Pieter 105 e n, 106 Savonarola, Girolamo 65n Schaeffer, Emil 71 e n Schleusener-Eichholz, Gudrun 56 en Schmidt, Gerhart 105 e n Schöne, Albrecht 130n Schöne, Wolgang 116n Scoto, Michele 87 Sears, Elisabeth 121n Sebastiano del Piombo 9, 10n, 11, 16n, 25n Settis, Salvatore 72n, 100, 121n Shakespeare, William 51 Sigeberto di Gembloux 20n Simioni, Attilio 91n Simon, Erica 130 Socrate 43, 57 Sofocle 124n Stumpff, Karl 81 e n Svetonio, Tranquillo Gaio 86 Talete 72 Tappert, Birgit 60n Tebit ibn Qurrah 79 Thiel, Pieter J.J. van 105n Timeo di Locri 93 Tolomeo 72 e n, 76, 92 Tommaso da Empoli 139 Tommaso d’Aquino, san 19, 45, 88, 102n, 119, 136
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Travi, Ernesto 9n Tschmelitsch, Günther 48 e n, 49 e n, 78n, 130 e n, 153 e n Turner, Almon Richard 59 e n, 60, 77n Ugo di San Vittore 17, 56 Vasari, Giorgio 93 e n, 139 e n Vecellio, Francesco 150 Venturi, Lionello 77n, 79n, 81n, 98 e n, 99 Vianello, Michele 140 e n, 141 e n, 142, 143 Vinsauf, Geoffrey de 18 Virgilio Marone, Publio 30, 34, 35, 40, 41, 71n, 78n, 135 Vitale Brovarone, Alessandro 117 Vitale Brovarone, Lucetta 117 Voltaire (François-Marie Arouet) 75 Weddigen, Tristan 101n Wickhoff, Franz 71 e n, 99, 147n Wilde, Johannes 7, 8 e n, 9, 10, 118 e n, 119, 120, 124n Wilhelm, Leopold 133 Wind, Edgar 47n, 101n Wischnitzer-Berstein, Rahel 72 Wölfflin, Heinrich 92n Zarathustra 72 Zaunschirm, Thomas 49, 50n, 72n Zoppo, Paolo 145n Zoroastro 118
biblioteca di letteratura 1. Riccardo Bruscagli, Studi cavallereschi, 2003. 2. Laura Diafani, «Ragionar di sé». Scritture dell’io e romanzo in Italia (1816-1840), 2003. 3. Willi Hirdt, «I tre filosofi» di Giorgione, 2004.
Finito di stampare nel marzo 2004 da Stabilimento Poligrafico Fiorentino