I Giustizieri. Propaganda del fatto e attentati anarchici di fine Ottocento

"Da Giovanni Passannante a Gaetano Bresci, vent’anni di vendetta, individuale e di classe. Non solo una raccolta cr

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Italian Pages [244] Year 2018

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Collana Rossa 2

Edizioni Monte Bove

Titolo: I giustizieri Collana Rossa Edizioni Monte Bove e-mail: [email protected] Maggio 2018

Le Edizioni Monte Bove sono no-copyright. E’ incentivata la riproduzione parziale o totale con qualunque mezzo, citando o meno la fonte, escluse finalità capitalistiche. 2

i Giustizieri Propaganda del fatto e attentati anarchici di fine Ottocento

Gino Vatteroni

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SOMM@RIO

P@RTE PRIM@ Il r_trot_rr[ so]i[l_ _ politi]o C[pitolo I - p. 9 Cont[^ini _ \rig[nti n_l m_ri^ion_ postunit[rio

C[pitolo II - p. 17 L[ “s]op_rt[” ^_ll_ ]l[ssi popol[ri _ ^_ll[ qu_stion_ so]i[l_

C[pitolo III - p. 27 L[ ]on^izion_ op_r[i[ n_ll[ prim[ rivoluzion_ in^ustri[l_

C[pitolo IV - p. 41 Gli int_rn[zion[listi

4

P@RTE SECOND@ I Giustizi_ri

C[pitolo V - p. 59 Giov[nni P[ss[n[nt_

C[pitolo VI - p. 77 Mill_otto]_ntonov[nt[qu[ttro: sommoss_, [tt_nt[ti _ r_pr_ssion_

C[pitolo VI - p. 99 Il Nov[nt[qu[ttro in Fr[n]i[: V[ill[nt, H_nry _ S[nt_ C[s_rio

C[pitolo VIII - p. 129 Pi_tro @]]i[rito, il ][so Fr_zzi _ il ]omplotto [^ ogni ]osto

C[pitolo IX - p. 155 Mi]h_l_ @ngiolillo, Luigi Lu]]h_ni _ l[ ]risi ^i fin_ s_]olo in It[li[.

C[pitolo X - p. 181 G[_t[no Br_s]i

BIBLIOGR@FI@ -

p. 228

INDICE DEI NOMI -

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p. 234

A Elia, matematico e baffardello anarchico 6

PARTE PRIMA

IL RETROTERRA SOCIALE E POLITICO

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CAPITOLO I Contadini e briganti nel meridione postunitario.

Nel 1860, alla caduta del regime borbonico sconfitto dall’esercito dei volontari garibaldini, il meridione veniva annesso di fatto agli altri Stati già sotto il dominio di Casa Savoia e si presentò all’appuntamento unitario in condizioni di profonda arretratezza e di grandi squilibri sociali. Nella vasta zona dello Stato preunitario popolata da oltre 7 milioni di abitanti, quasi un terzo della popolazione globale italiana dell’epoca, la distribuzione della ricchezza che traeva la sua unica fonte dalla produzione agricola era iniquamente spartita fra un ristrettissimo numero di latifondisti, mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame. Se prima dell’Unità il brigantaggio si era sviluppato in coincidenza con l’avvento di crisi periodiche, come guerre, invasioni, carestie, e con esse era destinato a sparire, fenomeno endemico in una società agraria povera con una richiesta di manodopera scarsa e popolazione in eccedenza, nel 1860 fu diverso. La crisi dell’unificazione trasformò il brigantaggio endemico in banditismo sociale vero e proprio, cioè in qualcosa di più del semplice aumento del numero di uomini vigorosi in età da lavoro che preferivano la rapina alla fame: qualcosa cioè che rispecchiava la disgregazione di un’intera compagine sociale, l’ascesa di classi e strutture sociali nuove, la resistenza di intere comunità o popolazioni alla distruzione del proprio modo di vivere. Se in un primo tempo la matrice della ribellione sembrava essere circoscritta a fattori di natura prettamente politica, fomentata dalla propaganda borbonica che incitava le masse dei diseredati a considerare i conquistatori piemontesi come il nuovo nemico da combattere, quando la giurisdizione del Regno d’Italia s’insediò 9

ufficialmente la vera causa della sollevazione popolare si rivelò come il prodotto di un incontenibile disagio sociale. Il vecchio regime borbonico era caduto per l’iniziativa garibaldina di tipo rivoluzionario che aveva alimentato nelle masse meridionali concrete speranze di un radicale rinnovamento della società locale, ma il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del potere era l’espressione di una borghesia liberista, rappresentata nella cosiddetta Destra storica dai vari Cavour, Minghetti, Rattazzi, Bastogi, Sella, Cambray Digny ecc., che affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi possidenti del Nord e i proprietari terrieri del Sud, eludendo la promessa della tanto agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per il popolino: le strutture economiche e sociali rimasero immutate mentre faceva capolino un nuovo nemico agli occhi delle masse dei diseredati. Lo Stato forte dell’Italia unificata imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti balzelli che andavano a gravare sul capo dei più deboli, l’insopportabile ingerenza dei prefetti di polizia e la norma della ferma militare obbligatoria, particolarmente invisa alle popolazioni povere del Sud. Ebbe poi grande importanza l’eliminazione giuridica di molte strutture tradizionali, la vendita dei beni delle corporazioni religiose e di quelli demaniali, la cancellazione di antichi diritti d’uso (i diritti di pascolo, di legnatico, di boscheggio, di vangativo, di sementa), l’assoluta affrancabilità dei censi e dei livelli e il declino dei contratti di enfiteusi, che garantivano una semi proprietà del fondo. In breve, tutti gli istituti e le consuetudini che limitavano un pieno esercizio della proprietà a vantaggio dei ceti contadini furono cancellati dalle nuove leggi liberali, sia da quelle volte a codificare nuovi rapporti economici e giuridici, sia da quelle che rimossero gli ostacoli alla piena disponibilità dei terreni in zone specifiche, come avvenne nel tavoliere pugliese. Un capitolo significativo di questa vicenda è costituito dalla graduale scomparsa dei «monti frumentari», istituti insieme di credito e di beneficenza ai quali nella stagione invernale i «massari» o 10

gli artigiani potevano rivolgersi per ottenere a credito piccole quantità di grano per la semina o per il consumo restituendole al successivo raccolto con un modesto interesse. Prima ancora di essere convertiti in casse di risparmio o di credito, tali monti frumentari ebbero il patrimonio dilapidato dagli amministratori che vendevano il grano del monte o lo prestavano personalmente a grande usura. Un’antica forma di credito agricolo cedette quindi alla pratica estesa e tenace dell’usura: sintomo anche questo della graduale estensione di una economia monetaria, del peggioramento delle condizioni di vita dei contadini e dell’aumentata pressione borghese sulla terra. Trasformazioni di questo tipo segnavano la piena affermazione economica del ceto dirigente al quale il regime liberale aveva consegnato il potere politico e amministrativo e che di questo a sua volta si serviva per volgere a proprio vantaggio i processi di privatizzazione delle terre. Come amministratori locali, i proprietari impiegavano i canoni e le indennità pagate ai comuni per l’abolizione degli antichi diritti d’uso e facevano incetta dei terreni demaniali acquistandoli direttamente o recuperandoli dopo un giro di vendite. I medi e i piccoli lotti di terreno messi inizialmente all’asta non erano che frazioni del latifondo monocolturale, privi di fabbricati, di animali, di opere: il contadino che ne avesse tentato l’acquisto sarebbe rimasto solo sul suo fondo deserto con le rate da pagare allo Stato e se non fosse stato espropriato per insolvenza avrebbe finito presto col cedere di nuovo la terra. Di questa situazione approfittarono facilmente i grossi proprietari. Gli acquirenti dei fondi erano legati a contratti usurai da speculatori che alla prima occasione li mutavano, sotto altri titoli, in vendite simulate. A volte la terra non rimaneva ai contadini neppure ventiquattr’ore, perché con questi sistemi era già venduta prima che essi ne entrassero in possesso. Lo stesso accadde con la vendita dei beni ecclesiastici, per i quali il legislatore aveva stabilito che i terreni avrebbero dovuto essere messi all’asta «in piccoli lotti, per quanto sia possibile, tenuto conto degli interessi economici, delle condizioni agrarie e delle circostanze locali» e che agli acquirenti fossero concesse particolari dilazioni di pagamento. 11

Questa scarna indicazione rimase però inoperosa. In molti casi fu organizzata una vera e propria «camorra delle aste» che impediva l’acquisto tenendo fittiziamente alti i prezzi e aspettando di asta in asta che venisse il momento del grosso proprietario. Quindi, nonostante l’erosione del latifondo nobiliare, le quotizzazioni e le vendite, nei decenni successivi all’Unità si verificò, secondo i calcoli fatti da Emilio Sereni, una forte diminuzione del numero dei proprietari di terre, sia per effetto della progressiva concentrazione, sia per la scomparsa di un gran numero di piccolissimi proprietari. Sicchè, nel giro di pochi anni, si ricostituì la grande proprietà, solo formalmente diversa da quella nobiliare di un tempo, e si affermò un ceto nuovo e «borghese» di proprietari che esercitava una più accentuata pressione sulla terra, ripetendo però il tipo di gestione feudale del fondo, non destinando le sue rendite all’investimento ma adoperandole semmai per acquistare nuove terre. Diretta alla pura estrazione di rendita, la catena dei rapporti sociali che collegava il grande proprietario assenteista all’affittuario intermediario (il gabellotto in Sicilia e il massaro sul continente), e questi al ceto più basso dei campieri o dei mazzieri che esercitavano il controllo diretto sui contadini, non consentiva che si attivasse uno scambio tra la campagna e le città e non liberava figure sociali intermedie che avessero un’autonoma funzione produttiva. Da questo punto di vista, la struttura della società meridionale postunitaria era ricondotta alla dicotomia di tipo premoderno che opponeva, come si disse durante il brigantaggio, i «contadini senza terra» ai «galantuomini» proprietari. Ed è dunque in questo contesto politico, economico e sociale che divamperà, dal 1860 al 1865, la guerriglia contadina del brigantaggio che metterà a dura prova l’esistenza stessa dello Stato unitario. Si calcola che le bande di briganti, operanti in un territorio che comprendeva la Basilicata, la Calabria, le Puglie, la Campania, il Molise fino ai confini meridionali dell’Abruzzo, e dirette da capi dal nome leggendario come Crocco, La Gala, Pasquale Romano, Caruso, Ninco Nanco, Luigi Alonzi, Mansi, Tranchella, siano state oltre 350, 12

di cui almeno 33 con oltre 100 uomini e le più corpose con un organico che superava le 400 unità. Tali “formazioni” schiereranno in campo decine di migliaia di ribelli prelevati con la persuasione o con la forza dall’immenso serbatoio delle masse contadine povere, mentre i cosiddetti «strati contadini intermedi», cioè quella importante parte del corpo sociale formata dai massari, piccoli proprietari e fittavoli agricoli, interessati a una gestione, a loro favorevole, della questione demaniale, fornirono al brigantaggio un appoggio coperto, largo, incessante, multiforme ed attivo che, seppure non da solo, può spiegare la persistenza delle bande, il loro rinascere dopo colpi durissimi, il loro costante vantaggio nella sorpresa e, d’altra parte, l’isolamento dell’esercito nella repressione, le perplessità delle guardie nazionali, le oscillazioni di parte dei «galantuomini». Le dimensioni dilaganti del fenomeno del brigantaggio spinse i piemontesi a portare il numero dei soldati impiegati nel Sud dagli iniziali 22.000 a un contingente di 50.000 nel dicembre del 1861, aumentato a 105.000 unità l’anno successivo fino a raggiungere il numero di 120.000 nel 1863. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell’esercito regolare in cinque anni fece un’ecatombe di vittime, assumendo le proporzioni di una guerra civile. Nel solo secondo semestre del 1861 vi furono, ufficialmente registrati, 733 fucilati, 1.093 uccisi, 4.036 fra arrestati e costituiti, per un totale di 5.822 briganti posti fuori combattimento. Occorsero misure severissime di pubblica sicurezza per stroncare definitivamente il brigantaggio, quali la proclamazione dello stato d’assedio nell’estate-autunno del 1862 e, soprattutto, l’emanazione della “Legge Pica” del 15 agosto 1863, e rimasta in vigore fino al 31 dicembre 1865. Quest’ultima prevedeva la competenza dei tribunali militari sia sui briganti che sui loro complici nelle province dichiarate in stato di brigantaggio (in pratica tutte le province del Mezzogiorno continentale, tranne quelle di Teramo, Reggio Calabria e Napoli), la pena della fucilazione per il reato di resistenza a mano armata, il domicilio coatto per una durata non superiore a un anno per manutengoli, camorristi, sospetti oziosi e vagabondi. Vennero 13

quindi intensificati i rastrellamenti di renitenti alla leva, di sospetti, di evasi e pregiudicati. Le spedizioni e le rappresaglie furono atroci e sanguinose da entrambe le parti, e le masse furono coinvolte loro malgrado negli scontri pagando con la distruzione di interi villaggi e le fucilazioni senza processo di centinaia di contadini ritenuti fiancheggiatori dei briganti. Alla fine del 1865 il grande brigantaggio poteva dirsi definitivamente vinto. All’indomani della spietata repressione del fenomeno del brigantaggio, cominciarono gradualmente a vedere la luce una serie di opere e relazioni che, scritte da autorevoli storici e letterati come Pasquale Villari, da semplici amministratori locali o da ufficiali dell’esercito di stanza nelle province meridionali, analizzavano le reali cause e i motivi economici e sociali del brigantaggio. Tra queste, riproduciamo una serie di stralci tratti dalle memorie vergate da un ufficiale dell’esercito piemontese, che aveva partecipato alla campagna anti brigantaggio, le quali furono pubblicate, in forma anonima, da Pasquale Villari all’interno della sua meticolosa ricerca sull’argomento raccolta sotto il titolo di Lettere Meridionali nel 1875.

«Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni […]. Fa meraviglia il trovare, in quasi tutti i centri popolosi, soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso tra loro imparentate, e il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti, che imperano a lor talento, e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miseria e guai, quasi a derisione illuminati dal più bel cielo. Viene ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalesimo, il diritto nei proprietari di pretendere in determinati giorni dell’anno l’opera gratuita del lavoratore. […] Nei mesi di giugno e di luglio, tempo delle messi, molti lavoratori si recano nelle Puglie o nella Terra di Lavoro [la provincia di Caserta, N.d.A.] per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano al loro paese malati per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole o per causa della malaria. In tal modo le famiglie, lottanti giorno per giorno con la

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fame e coi più stringenti bisogni, abbruttite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria, e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano fuori i bambini ad accattare, a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi Ducati a vili speculatori le loro creature e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d’innocenti che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria. Tutte queste angherie, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell’odio che separa le due classi […]. Il brigantaggio, ripeto, è solo la conseguenza dell’odio vicendevole fra oppressi e oppressori, cioè fra quelli che possiedono e i nullatenenti […]. Né è a credere che, per i danni e per le stragi che fa il brigante, sia egli dalla generalità esecrato, tutt’altro. Anche i più tranquilli e i più onesti del basso popolo hanno lo spirito talmente pervertito e il livore contro il signore così vivo che inclinano a vedere nel bandito la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armata verso chi li tiranneggia. Non è dunque da meravigliare se trovansi facilmente tanti manutengoli, non essendo l’orrido mestiere del brigante aborrito. Per le plebi i banditi sono anzi eroi e questo universale favore fa sì che qualche volta anche i maggiorenti, i quali naturalmente non possono vedere nei briganti che i loro acerrimi nemici, li temono, li accarezzano e invece di cercare il rimedio nell’educare e nel trattare meglio le plebi, non disdegnano di passare nelle file dei manutengoli […]. Allorché il capobanda Mansi ricattava il ricco […] a Giffoni, nell’interno del paese, entrando coi suoi in sull’imbrunire d’un bel giorno d’estate, ed operandone l’arresto presso un tabaccaio e caffettiere, egli tradusse seco il malcapitato proprietario e appena fuori dell’abitato un’onda di campagnoli, anziché prestarsi alla liberazione del loro padrone, proruppe in un’ovazione al bandito, gridando a squarciagola “Evviva il capitano Mansi!”. E fecero corteo alla banda di briganti. […]».

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CAPITOLO II La “scoperta” delle classi popolari e della questione sociale.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento, la borghesia italiana settentrionale stentava ancora a cogliere le implicazioni generali del problema sociale e continuava a guardare ai ceti subalterni secondo l’ottica ristretta del rapporto personale, imperniato sul mantenimento di valori elementari di carattere familiare e religioso, su cui per tradizione si basava il dominio di classe e che più silenziosamente poteva “assorbire” anche un più accentuato sfruttamento. Ma per l’appunto quel rapporto doveva rivelarsi insufficiente a contenere il disagio non più dei singoli, ma di masse d’uomini legate al medesimo destino. Anche il brigantaggio ne era stato un sintomo chiaro: i «contadini senza terra», trovando sempre meno nelle pieghe dell’ordine tradizionale le possibilità di mantenersi al di sopra del livello di sussistenza, s’erano ribellati contro la proprietà usurpatrice di terre e di antichi diritti consuetudinari. Erano però sintomi lontani e inafferrabili per i «galantuomini» del Nord, che nel brigantaggio avevano visto solo la tradizione di insorgenza propria del Mezzogiorno rinverdita dallo “sfascio” garibaldino e dalle mene borboniche e papaline. Ma se quelle rivolte apparivano lontane, ben più vicino era il nuovo ordine di problemi presente in esse, e predominante, nonostante tutto. Un malcontento “nuovo” si diffondeva nelle campagne: mentre nella pianura padana si verificavano proteste collettive che anticipavano i caratteri dello sciopero agrario, in molte altre zone più povere dell’Italia centrale si estendevano forme di conflittualità “primitive”, “prepolitiche”: i furti campestri, la truffa nella ripartizione delle quote mezzadrili, o certi casi di banditismo 17

rurale che accennava a degradarsi in criminalità comune. Si trattava di comportamenti che non configuravano alcuna «coscienza di classe», ma che da isolati divenivano più diffusi e perciò prefiguravano uno scontro collettivo e tenace del quale non si sarebbe tardato a cogliere il carattere dello scontro di classe. È significativo, in tal senso, che la prima ribellione allargatasi simultaneamente oltre i confini d’una zona ristretta, dopo il fenomeno del brigantaggio meridionale, fosse provocata da un provvedimento dello Stato unitario: la tassa sul macinato. La guerra del 1866 contro l’Austria aveva comportato, per l’economia italiana, un forte aggravamento del disavanzo del bilancio, conseguenza del cospicuo aumento delle spese straordinarie. Nel quadro di una manovra economica volta ad ottenere il pareggio del bilancio furono varate misure eccezionali, quali il passaggio del monopolio dei tabacchi dalla gestione diretta dello Stato alla cointeressenza, un aumento delle imposte sulla proprietà fondiaria, e soprattutto l’imposta sulla macinazione dei cereali. Difesa alla Camera dal ministro delle Finanze Cambray Digny e promulgata il 7 luglio 1868, questa risultò essere un’imposta sui consumi che pesò fortemente sull’economia delle popolazioni rurali, particolarmente sottoposte a controllo, poiché la tassa doveva essere pagata direttamente al mugnaio prima del ritiro delle farine. La legge imponeva, a partire dal 1° gennaio 1869, una tassa di 2 lire per ogni quintale di grano macinato, di 1,20 lire per ogni quintale di avena, di 0,80 lire per il granoturco e la segale e di 0,50 lire per gli altri cereali, la veccia e le castagne. Fu calcolato che essa sottraeva ai contadini, in media, l’equivalente di dieci giornate lavorative all’anno. Ovviamente, l’adozione di tale imposta condusse ad un aumento del prezzo del pane e provocò numerose rivolte contadine in tutta la penisola. Nel giro di venti giorni, dal 26 dicembre del 1868 al 15 gennaio del 1869, nelle province lombarde, piemontesi, venete ed emiliane, e poi man mano anche in Toscana e in alcune località del Mezzogiorno, a Potenza, Trani, Molfetta, folle di contadini assaltarono i mulini, distrussero i contatori, invasero i municipi dove bru18

ciarono i ruoli delle imposte e disarmarono la guardia nazionale, cedendo infine solo all’occupazione militare affidata con pieni poteri civili e militari al generale Raffaele Cadorna per le province di Bologna, Parma e Reggio Emilia. Gli arrestati furono 3.788, i feriti 1.099, i morti 257. Impressionò l’opinione pubblica il carattere simultaneo del moto, che dalle province emiliane si era esteso rapidamente altrove, e quasi appariva preordinato. Il Prefetto di Parma scriveva il 7 gennaio 1869: «Noto il fatto, nuovo per questi tempi, del levarsi in massa, dell’affratellarsi in bande, del muoversi concentrati, del percorrere lungo cammino onde trovarsi a determinata meta; noto questo fatto specialmente perché s’è compiuto con insolita rapidità, e, ciò che più conta, s’è organizzato senza lasciarsi accorgere».

L’idea che potesse trattarsi di moti preordinati, e dunque a carattere politico, era già un segno del timore con cui si guardava alle classi popolari: si cominciava ad avvertire che la protesta apparteneva a tempi nuovi, e dunque poteva collegarsi alle organizzazioni eversive presenti nel paese. Non si trattava però d’un moto preordinato, non ci fu congiura, se non in alcuni sporadici casi, ma fu la ribellione spontanea contro tutti i «signori», contro i segni del loro Stato e le loro leggi, una ribellione che era condizione permanente di tante campagne d’Italia. Sedate quelle del ’69, nuove improvvise ribellioni scossero qua e là le campagne negli anni seguenti, sempre con i medesimi obiettivi: occupazioni di terre demaniali, aggressioni agli esattori del macinato, proteste contro le leggi sul vangativo o contro i bassi salari e l’aumento dei prezzi. Ed è in quegli anni in cui le masse contadine segnalavano la loro presenza con ribellioni endemiche o occasionali, che in vario modo scossero l’equilibrio sociale e resero meno sicura la direzione dei ceti dominanti, che nacque, insieme ad un’ottusa deprecazione, un interesse nuovo e una nuova capacità d’osservazione che ci fornisce le prime informazioni sulla vita delle campagne italiane del tempo. 19

Al di là delle consuete rilevazioni statistiche complessive, si trattò di una serie di inchieste e di testimonianze private, di reportages giornalistici e di opere letterarie, di denunce politiche e di annotazioni raccolte a sostegno d’una tesi, d’una proposta o d’una rivendicazione. Dando un veloce sguardo alle statistiche dell’epoca, complessivamente le attività agricole costituivano il 57,50% del prodotto interno lordo, mentre le quote derivanti dalle industrie e dai trasporti non raggiungevano il 20%. Dell’intera popolazione attiva il 58% circa era impiegato in agricoltura, ma un semplice sguardo alle attività degli addetti all’industria ci mostra che una quota ben maggiore della popolazione, almeno i sette decimi, viveva sulla terra. Nella composizione colturale dell’agricoltura, i cereali coprivano più di un terzo della superficie del regno e il 46,7% di quella agricola e forestale. Ma è attraverso i racconti e resoconti dei viaggi, ai quali ora costringeva l’esercito, l’amministrazione, la scuola – ordinamenti uniformi e unitari – nonché la rappresentanza nazionale, che si ha un’emblematica fotografia dell’Italia dell’ultimo quarantennio dell’Ottocento. Per due terzi il suolo italiano era montagnoso o roccioso e contava più di 7 milioni di ettari di «terreni incolti» e di «stagni, valli e paludi», una superficie che s’estendeva per circa la metà del territorio occupato dalle varie colture, dalle risaie, dai prati, dagli oliveti, dai «terreni arativi con o senza viti», che complessivamente occupavano circa 12 milioni di ettari. Lo squallore e la crudezza di certi luoghi era poi rimarcata dalle febbri malariche che vi si contraevano: la «Carta della malaria» compilata da Luigi Tonelli nel 1882 avrebbe classificato «a malaria gravissima» la pianura tra Livorno e Piombino, le intere province di Viterbo e Grosseto (con l’eccezione del Monte Amiata) e poi la campagna romana fino a Frosinone, e da lì a Gaeta e Napoli, a Caserta e Benevento, e ancora in Basilicata tutta la zona che andava da Lagonegro, Potenza e Matera fino al mare, e la costa jonica della Calabria, la piana di Catania, le terre da Siracusa a Modica, l’intera costa sarda. 20

A molti di questi luoghi più abbandonati e insalubri dell’Italia centro-meridionale corrispondeva un paesaggio d’aspetto “naturale” caratterizzato da grandi distese a grano, a pascolo o spoglie del tutto, non interrotte da confini, da strade o da abitazioni. Qui era evidente l’impronta antica del latifondo feudale, che non aveva permesso l’appropriazione umana del territorio e aveva sospinto ai suoi confini, generalmente all’interno delle isole e lungo la catena peninsulare, la popolazione più povera, che si dedicava all’agricoltura di sussistenza nel più arcaico tra gli insediamenti, quello dei minuscoli casali e villaggi e di campi segnati dalla minuta trama dei sentieri e dal succedersi disordinato delle coltivazioni miste. Queste «case sparse e piccolissimi aggregati» erano caratterizzati, come scrive Ernesto Ragionieri, «da una mancanza quasi completa di vita sociale extrafamiliare, al di fuori di feste e ricorrenze, e quindi da una società estremamente povera e poco articolata, la cui impronta conservatrice e tradizionale era così organica a tali insediamenti, da rendere di fatto impossibile ogni mutamento, se non nei termini di una drammatica disgregazione».

Nelle zone del latifondo, di prevalente monocoltura granaria, si segnalava invece la minore densità di popolazione e l’evidente contrasto tra la campagna e i grossi borghi o villaggi isolati: sulla terra non si insediava che una parte minima della popolazione – gli addetti stabili alla gestione del latifondo, raccolti in grandi masserie – mentre la maggior parte di essa abitava i villaggi, grandi a volte di decine di migliaia di abitanti ma che del centro urbano non avevano né l’aspetto, né la ricchezza, né il variato rapporto col territorio. Qui il rapporto contrattuale con la proprietà che legava a una frazione del latifondo quei contadini che dai grossi borghi partivano per le campagne circostanti, diretti a volte verso luoghi disparati e lontani, era fragile ed occasionale, e tale da inchiodarli a condizioni di vita precarie e senza riscatto. Fuori dalle zone del feudo, i contratti agrari si facevano più complessi e variati, più vincolanti – ma mai del tutto stabili – come in quelle zone dove un certo ammodernamento delle 21

colture era ottenuto dai contratti miglioratari che facevano pagare ai contadini l’impianto di coltivazioni orticole, arboree o arbustive. Per grossi contrasti, si poteva contrapporre a queste aree del Centro-Sud quelle dell’Italia centro-settentrionale nelle quali per lunga evoluzione storica si era affermato l’ordinamento poderale. La presenza dell’operato umano sul paesaggio era qui determinante, le suddivisioni del terreno più razionali ed equilibrate, e ben più vario era l’intreccio delle colture, le quali generalmente comprendevano la gamma molteplice delle produzioni necessarie al mantenimento della famiglia colonica e al pagamento del canone. Ed era forse questa la base della maggioranza degli assetti rurali dell’Italia centrosettentrionale, senonchè una sostanziale differenza correva tra quelle zone dove l’antica struttura poderale a base familiare si era mantenuta pressoché inalterata nei tempi moderni e quelle invece dove essa aveva subito una chiara modificazione in senso capitalistico e aveva dato vita ad aziende di grande e media proprietà. Il primo caso riguardava soprattutto l’Italia centrale – e tipicamente la Toscana e l’Umbria – ma anche le zone collinari e asciutte di quelle settentrionali. Qui il viaggiatore avrebbe trovato la popolazione più sparsa nelle campagne, più ricchi e compositi i centri urbani, e un territorio rurale disegnato dalle piccole case coloniche. E qui generalmente vigeva il rapporto contrattuale con la proprietà più vincolante e statico, fonte di povertà anche estrema e di raro benessere, ma conformato a misura umana e all’armonia del paesaggio poderale: quello mezzadrile. La zona, invece, nella quale la sistemazione idraulica di vasti latifondi e la modificazione di antichi sistemi poderali avevano dato vita a moderne forme aziendali di grandi dimensioni, era prevalentemente quella della pianura irrigua lombarda: segnata da opere imponenti di dissodamento e di sistemazione del terreno, era considerata già nel Settecento una delle più progredite d’Europa per le forme di investimento e di gestione capitalistica. Qui una povertà non minore, ma di significato storico profondamente diverso, era quella del rapporto salariale – anche se in buona parte il salario era ancora corrisposto in natura – che legava il contadino all’azienda 22

capitalistica. Ma il rapporto era fisso per una parte soltanto degli addetti, stagionale e aleatorio per gli altri, che così liberati dal legame personale e diretto con il padrone andavano a formare una massa umana fluttuante, derelitta e rumorosa, che cresceva poi in numero e in disperazione via via che ci si inoltrava nelle zone di bonifica o di risaia. Subito a ridosso dell’area irrigua sopravviveva però la conduzione mezzadrile e la piccola proprietà contadina, mentre nel Mantovano e in quelle parti del Veneto e dell’Emilia dove l’opera di irrigazione e di bonifica era cominciata solo recentemente, predominava il fondo di grande estensione, scarsamente alberato, povero di fabbricati e continuamente gravato da un’opera di scolo che non poteva interrompersi, pena l’impaludamento. Via via che ci si spingeva verso il mare, infatti, nelle pianure del delta padano, nel Ferrarese o nel Ravennate, si facevano frequenti le zone paludose, del tutto incolte o appena impiegate nella risaia stabile o in quella di colmata, caratterizzata da assetti economici e sociali più arretrati e da grande concentrazione della proprietà. Per quel che concerne quell’aspetto riguardante le condizioni di vita delle popolazioni contadine, che in quegli anni prese il nome di «questione sociale», l’accostamento al problema fu dapprima elementare e radicale. Il deputato Agostino Bertani, chiedendo che il Parlamento indagasse sulle condizioni delle classi popolari, dichiarava: «Oramai si possono distinguere anche in Italia due razza d’uomini: quella del pane bianco e quella del pane di colore». Mosso da pietas democratica e da sdegno civile, l’atteggiamento era fermo a definire il popolo delle campagne con i tratti della degradazione fisica che l’opprimeva. L’analisi e il recupero dei valori sarebbero venuti più tardi, per ora c’era solamente una vera e propria «scoperta etnologica», dovuta all’irruzione “improvvisa” nella storia del «primitivo» che era stato risvegliato dall’aggressione liberista dei ceti dominanti. I contadini italiani si cibavano di pane o di polenta, spesso mal cotti, avariati, muffiti, impastati d’acqua impura; la mappa dei diversi assetti culturali e sociali era fornita dal modo in cui variavano 23

gli ingredienti dell’impasto, dalla diversa misura in cui vi compariva la farina di granoturco o di frumento (il «pane bianco» dei ricchi), di legumi, di ghiande o di castagne, di segale o d’avena, o dal companatico che fugacemente l’accompagnava, che non era quasi mai carne – dai più ricchi destinata semmai alle circostanze straordinarie d’una festività o d’una malattia – e che poteva essere rappresentato da varie erbe e verdure come da olive, noci o patate, più di rado da formaggio o da vino, o da semplice acqua condita con qualche goccia d’olio e un pizzico di sale (era l’«acqua e sale» dei contadini pugliesi) o da nulla affatto (nel qual caso, dicevano i calabresi, si mangiava «pane e coltello»). In uno studio di Italo Giglioli, pubblicato nel 1903, intitolato Malessere agrario e alimentare in Italia si calcolava che in 1.700 comuni italiani, vale a dire in più di un comune su cinque, il frumento era sconosciuto, e che nell’ultimo trentennio dell’Ottocento il consumo individuale di frumento era gradualmente passato da 1,79 ettolitri degli anni 1870-74 a 1,23 nel 1889-93. «La sostanza mal cotta e pastosa – scriveva Giglioli – acida e ammuffita, oppure disseccata e dura come pietra, che i nostri contadini chiamano pane, molte volte non contiene farina di grano, oppure ne contiene una minima parte». Ma in quegli anni di crisi agraria anche il consumo del granoturco, che in molte province teneva il posto del frumento, sarebbe stato in diminuzione, sostituito dalla farina di castagne e a volte di ghiande. Consumi alimentari di questa natura occupavano i bilanci familiari dei contadini italiani quasi per intero (per il 75% ci dicono le statistiche). Il restante andava a formare il quadro igienico e ambientale “primitivo” che appariva dall’abbigliamento, non di rado ridotto ad un ammasso di cenci, o dalle abitazioni, che in molti casi erano capanne, grotte, caverne, oppure vecchi ruderi, buche, tombe di necropoli o nicchie scavate lungo il muro di immense camerate, come in Puglia. Più di centomila erano le persone che gli estensori del censimento generale del 1881 classificarono come residenti in «abitazioni sotterranee»: il fenomeno riguardava soprattutto alcune zone del meridione o della campagna romana, dove il letto era scono24

sciuto e la gente si coricava alla rinfusa su rialzi di terra battuta. Un anno prima, Sidney Sonnino, giovane deputato toscano di quella schiera di moralisti che per primi posero la «questione sociale» all’attenzione generale, riferiva alla Camera d’una scarrozzata fatta con Agostino Bertani fuori le mura della capitale: «Io mi domando se possa esser lecito, in un paese civile, di alloggiare esseri umani, di alloggiare coloro che fanno col loro lavoro fruttare da un anno all’altro i nostri terreni, stipandoli a ventine, a quarantine per volta, uomini, donne e fanciulli, tutti alla rinfusa, in stanzoni umidi e terreni, privi di aria e di luce, in luride e mal difese capanne di paglia, spesso senza finestre e senza altra apertura che una porticina bassa, in grotte scavate nel tufo… In un’angusta grotta scavata nel tufo, la quale giunge appena ad altezza di uomo, e resta aperta la notte al vento ed all’umidità esterna, troverete pigiate una ventina e più di persone di sesso diverso. Esse non hanno per letto che un giaciglio formato da pali o panconi o giunchi intrecciati, sul quale vi sono qualche volta, ma non sempre, delle separazioni fra famiglia e famiglia, mediante sottili pareti di stecchi intrecciati con sterpi e paglia. Per masserizie non hanno che una sozza e lacera coperta di cotone; non sempre un pagliericcio per famiglia; ed un paiuolo di rame, per cuocervi la minestra di erbe; e sul focolare centrale, formato da grosse pietre formate in circolo, fanno cuocere la focaccia di farina gialla».

La situazione migliorava di poco nelle più ricche aziende capitalistiche del Nord, dove proprietari ed affittuari lasciavano nel più grave abbandono le case coloniche, preferendo investire semmai nella riparazione delle stalle, o nelle risaie della bassa valle del Po. Qui, sempre secondo la denuncia di Sonnino, «ogni famiglia abita, come regola generale, in una sola stanza, la quale, se terrena, ed è il caso più comune, non ha altro impiantito che la nuda terra, che nell’interno è fango; e se ha tetto, non altro soffitto che i tegoli, attraverso i quali si può scorgere il cielo. E questo in un clima assai rigoroso, dove d’inverno la neve dura per mesi, e in mezzo a terreni naturalmente e artificialmente paludosi, dove spesso il livello dell’acqua nelle risaie è più alto di quello delle abitazioni dei contadini».

Peggiori, nelle risaie, erano poi le condizioni dei lavoratori immi25

grati: solo il 20% dormiva in luoghi chiusi, ammassati sulla paglia dei dormitori, gli altri dormivano all’aperto la maggior parte dell’anno, sul posto stesso del lavoro. E così facevano anche tanti contadini siciliani, tenuti lontani dalle famiglie e dai loro villaggi dalle severe leggi del feudo, o dal loro stesso disperato tentativo di sottrarsi all’inclemenza del tempo coltivando terreni lontani l’uno dall’altro, o ancora dalla malaria. E se la malaria, come già s’è visto, infuriava per oltre metà della penisola, la miseria alimentava nel Sud la tisi e nel Nord la pellagra, che era diffusa soprattutto nelle province dove maggiore era la ricchezza agricola ma non minori gli squilibri sociali.

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CAPITOLO III La condizione operaia nella prima rivoluzione industriale.

Non erano sicuramente migliori, rispetto a quelle dei contadini, le condizioni di vita e di lavoro degli operai e dei lavoratori impiegati nell’industria italiana nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. La statistica industriale redatta da Vittorio Ellena nel 1876, fotografava una struttura produttiva gracile, largamente dominata dal settore tessile, in particolare dal comparto della seta, il più legato al mondo rurale. Su una popolazione di circa 28 milioni, il numero dei lavoratori industriali ammontava a 382.131, appena l’11,36% (gli operai maschi adulti erano 103.562, le donne 188.486, i fanciulli 90.083). La produzione serica contava ben 200.393 addetti, di cui solo 15.692 maschi adulti. L’industria tessile impiegava manodopera in gran parte femminile e minorile di scarsa qualificazione, ricorreva abbondantemente al lavoro a domicilio, faceva ancora scarso impiego di macchine, dipendeva da fonti di energia idrauliche e perciò dislocava gli stabilimenti allo sbocco delle valli, in prossimità di corsi d’acqua. La nascita di alcuni grandi impianti di produzione metallurgica, cantieristica, meccanica e chimica non mutava il quadro di fondo. Le imprese erano in generale proprietà di persone e famiglie più che di società anonime. Buona parte della produzione manifatturiera era ancora assicurata da piccole aziende artigiane, preponderanti nei settori tradizionali del vestiario, del legno, delle calzature e dei prodotti alimentari. Dalla forte stagionalità del lavoro derivavano, inoltre, la precarietà e la saltuarietà dell’occupazione industriale. La manodopera manteneva ancora molteplici legami con 27

l’occupazione agricola, anch’essa stagionale. Con la prima tariffa protezionistica del 1878, chiesta a gran voce dagli imprenditori e seguita alla cosiddetta «rivoluzione parlamentare» che portò la Sinistra alla guida del governo, si introdussero dazi specifici per ogni tipo di merce. I prodotti tessili godettero della protezione più elevata, con tariffe che andavano dal 6 al 15 per cento, con punte fino al 30% sul valore delle merci. In conseguenza di questi provvedimenti, si ridusse il deficit della bilancia commerciale e si ebbe una certa espansione delle industrie tessili, metallurgiche e chimiche. In seguito, nel 1887, vennero introdotte nuove tariffe protezionistiche a favore delle industrie siderurgiche e chimiche, e furono aumentate quelle a favore dei prodotti tessili, dello zucchero e del grano. L’introduzione di questi dazi segnò il consolidarsi dell’alleanza dei gruppi capitalistici agrari e industriali del Nord con i settori del latifondo meridionale. Infatti, mentre le tariffe protettive sui manufatti erano una riprova dell’accresciuta influenza politica della borghesia industriale, il dazio sul grano cercava di andare incontro agli interessi della proprietà terriera, impegnata principalmente nella cerealicoltura, e in particolare della grande proprietà assenteista. All’ombra di queste protezioni, l’industria italiana poteva quindi allargarsi ed espandersi, aumentando a dismisura i propri profitti. Ma, soprattutto, la forte spinta alla cosiddetta «accumulazione primitiva» di cui l’industria italiana aveva bisogno per far fronte alla concorrenza straniera e per fare il salto da industria artigianale e manifatturiera a grande industria, va cercata nella subordinazione totale e completa della classe operaia alle esigenze padronali, nell’assenza iniziale di organizzazioni di resistenza antipadronali a livello nazionale. Il padrone italiano aveva a disposizione, come forse in nessuna nazione europea, una materia prima praticamente illimitata ed esente da controlli e gravami di sorta, cioè una manodopera a sua completa disposizione sulla quale non doveva nemmeno pagare quelle poche tasse che erano richieste, ad esempio, per la utilizzazione delle fonti idriche. Il console di Francia a Milano nel 1885, in una relazione 28

sull’industria serica in Lombardia, scriveva: «Nessuna legge in vigore regola il tempo di lavoro, né l’età delle lavoranti, né il grado di istruzione è oggetto di alcun controllo; l’industria è libera, tutto si fa per volontario accordo fra padroni ed operai».

In questa affermazione è racchiusa, unitamente alla meraviglia dell’osservatore straniero, la chiave per comprendere la situazione di forza dell’industria italiana, l’entroterra in cui poteva illimitatamente scaricare le sue difficoltà e dal quale cavare la materia prima da buttare in continuazione nel processo produttivo. Il cosiddetto Stato borghese in Italia nacque con la rivoluzione industriale e vide il suo avversario principale non nel feudalesimo, che rappresentò in definitiva solo uno stadio della sua lotta, ma nella classe lavoratrice, e le lotte contro questa per batterla o catturarla segnarono le tappe della sua storia. La fabbrica divenne la cellula di base dello Stato borghese, il quale rappresentava al tempo stesso la confederazione dei vari poteri personali e la mediazione dei loro interessi. Se la società borghese alle sue origini vide la lotta del potere centrale contro i poteri personali rappresentati o da persistenze feudali o da tendenze centrifughe, allo stadio della sua vittoria e del suo pieno sviluppo conquistò il diritto alla libera concorrenza come affermazione indiscussa del potere personale del singolo. Vi era solo apparente contraddizione tra autoritarismo in fabbrica e liberalismo (laissez faire) nella società, tra divisione del lavoro e libera concorrenza. In un articolo dal titolo Lo Stato e l’industria in Italia, apparso sull’organo padronale «La Gazzetta dei cappellai» del 1° settembre 1897, si affermava che altre generazioni «meno fortunate» trovarono nello Stato e nel governo solo il «padrone», ma ora, «grazie a Dio e ai nostri padri, possiamo dire anche in Italia, parafrasando la famosa frase di Luigi XIV: lo Stato siamo noi, poiché il governo sul quale esso s’impernia, è diretta emanazione della nostra volontà e dei nostri desideri». Il liberalismo dello Stato italiano, quindi, concedeva ampia libertà solo ai suoi figli naturali e prediletti: i grandi proprietari e i ceti imprenditoriali borghesi. 29

Il padrone era così autorizzato a concepire la fabbrica e a condurla come uno stato nello stato, come un feudo personale alle cui porte, unitamente alla forza lavoro erogata, doveva cedere ogni velleità di intervento da parte della collettività. All’interno della fabbrica, egli creava, unitamente alla forma istituzionale della monarchia assoluta che nei casi migliori poteva giungere fino al dispotismo illuminato, la propria legislazione che era semplicemente un regolamento di polizia privata, come pure una gerarchia militare fatta di ufficiali superiori e di sottufficiali che, a differenza dell’esercito stanziale, avevano ai propri ordini e a disciplina militare uomini e donne dai 4-5 anni fino alla morte. È ammissione dei contemporanei che i regolamenti di fabbrica italiani spiccavano tra quelli europei per il rigore disciplinare. Questi, stampati, manoscritti o orali, rappresentavano la costituzione che il monarca assoluto concedeva ai suoi schiavi, costituzione che si riassumeva nelle parole d’ordine: obbedienza, disciplina, silenzio, lavoro, attenzione. Il regolamento non era obbligatorio e quindi la concessione stessa di un regolamento andava considerata come una magnanimità da parte del padrone che, se da un lato codificava i propri soprusi, dall’altro “garantiva” l’operaio contro l’estemporaneità dei propri capricci per quanto riguardava la durata del lavoro, il pagamento dei salari, le multe, gli interventi del personale di sorveglianza e tutto il resto. Ma questo regolamento non era sottoposto né al Ministro dell’Interno, né al questore, né al prefetto, e quindi la sanzione legale gli derivava unicamente dall’autorità del padrone. Pertanto chi irrideva, danneggiava o stracciava il regolamento, metteva in discussione questa autorità e veniva quindi immediatamente licenziato con la perdita della cauzione versata, la perdita dei diritti maturati nella Mutuo soccorso dello stabilimento, ecc. L’assunzione al lavoro era una fiducia e un premio che la società e per essa il padrone concedevano all’operaio, il quale con certificato di buona condotta, con una fedina penale pulita, con attestati di servizio rilasciati dai precedenti padroni, doveva dimostrare di meritare questa fiducia e questo premio. L’essere stato condannato 30

da ragazzo per furto campestre o «ingiuria pubblica», come pure l’avere lasciato il precedente lavoro o l’essere stato licenziato senza che gli fosse stato rilasciato il «buon servito», poteva pesare sull’operaio per tutta la vita e poteva quindi significare disoccupazione e fame. Quando l’operaio, dopo numerose umiliazioni, trovava un padrone che l’assumeva a lavoro, non aveva il diritto di contrattarne le condizioni, né di stabilirne la durata e il compenso. Entrando in fabbrica, l’operaio trovava una gerarchia che, unitamente al processo produttivo, non gli era concesso di discutere. Questa gerarchia veniva così elencata dal regolamento del cementificio De Filippis & C. di Bari: «I superiori degli operai sono: a) i proprietari della Ditta; b) il Direttore e chi ne fa le veci; c) il capo-operaio, capi-sale ed assistenti; d) il portinaio nell’esercizio delle sue funzioni».

E al Cotonificio Legler Hefti & C. di Ponte S. Pietro (Bergamo) si affermava che «gli operai devono rispetto e subordinazione ai capi e sono tenuti ad eseguire gli ordini puntualmente e senza indugio né osservazione». Se padroni si nasceva per diritto di classe o si diventava per attributo del capitale, gli altri gradi della gerarchia di fabbrica, invece, rappresentavano un premio concesso dal padrone e per i quali si richiedevano determinati requisiti di comando. Al posto di direttore si trovavano preferibilmente nelle fabbriche italiane dei tecnici tedeschi, certamente per la conoscenza del processo produttivo ma soprattutto per la pratica della militarizzazione della classe operaia. Anche i capi-fabbrica e i capi-operai venivano scelti preferibilmente in base alla loro propensione all’autoritarismo: nei cantieri e nelle acciaierie (come alla Terni) il direttore era un militare (colonnello o maggiore) che non sapeva niente di processi di lavorazione, ma che aveva il solo compito di imporre metodi da caserma; mentre all’Elvetica di Milano, nel 1891, il direttore era un ex direttore di reclusorio. Si spiega così perché il capo-fabbrica o il capooperaio rischiava l’immediato licenziamento se, a giudizio del 31

padrone, risultava poco autoritario, di carattere mite, cioè risultava incapace di sostenere la sua carica di capo. Se il padrone riservava a sé il diritto di licenziamento e del rilascio del «benservito», delegava invece ai sorveglianti il diritto di sospendere gli operai, fissare il loro salario, precisare il lavoro di ciascuno ed altro di maggiore o minore importanza, affinché fosse ubbidito e rispettato. Una volta assunto, l’operaio perdeva i diritti civili e diventava un numero o un «essere lavorante». Ma l’«essere lavorante» era comunque sempre potenzialmente un pericolo, dalla cui insubordinazione e non collaborazione il padrone si premuniva. Infatti, tutti i regolamenti prescrivevano un periodo di prova che variava da una a tre settimane, a un mese, a tre mesi e che in alcuni settori di lavoro (trasporti) arrivava anche a tre anni! Durante questo periodo o alla sua fine, l’operaio poteva essere licenziato «ad ogni momento senza alcun preavviso, senza indennizzo, e senza obbligo da parte della Direzione di giustificarne il motivo». Una volta poi superato il periodo di prova, l’«essere lavorante» doveva ancora rilasciare un deposito cauzionale che lo legava alla fabbrica e agli obblighi contrattuali. Era una specie di servitù di tipo industriale che vincolava la libertà individuale del lavoratore alle condizioni di lavoro e al capriccio del padrone. La cauzione veniva richiesta a garanzia del risarcimento degli eventuali danni che potevano derivare alle macchine, attrezzi, locali, nell’esecuzione dei lavori, ma soprattutto per premunirsi contro le ribellioni alla vita di fabbrica, l’assenteismo e la mobilità sociale. La cauzione inoltre rappresentava una forma di solidarietà, più o meno tacita, tra padroni contro le insubordinazioni e la instabilità degli operai: la Camera di Commercio di Como, ad esempio, si battè perché fosse introdotta in Italia la huitième francese (una specie di soccorso morto dell’operaio di fabbrica) che doveva prescrivere «ai fabbricanti sotto la loro responsabilità, di ritenere l’ottava parte della mercede agli operai che avevano debiti verso altri industriali, finchè questi debiti fossero totalmente estinti». Per premunirsi contro la mobilità sociale che poteva togliergli i migliori operai e contro le agitazioni operaie, il padrone predisponeva rego32

lamenti nei quali si avvertiva che l’operaio che avesse lasciato volontariamente il posto senza preavviso perdeva il deposito, oltre che il diritto al certificato di servizio e al pagamento delle giornate delle quali fosse in credito. L’agitazione sindacale o lo sciopero venivano equiparati a «dimostrazione» e a «abbandono del lavoro», il che comportava la chiusura dello stabilimento o la perdita della cauzione e, ovviamente, il licenziamento. La costituzione di questo fondo di garanzia per il padrone, avveniva mediante trattenute sulla paga (in una sola volta; 2-3 giorni di paga ogni 15 giorni; 1 giornata per settimana; rate settimanali di 1 o 2 lire, ecc.) che potevano assumere la forma più iugulatoria: deposito preventivo di 40 lire per operai che potevano non raggiungere 1 lira al giorno, come allo stabilimento di pittura Martignoni di Milano nel 1897. Entrando in fabbrica l’operaio trovava non solo una gerarchia di comando, ma anche una gerarchia tecnica oggettivata nel processo produttivo: la sua vita non era più regolata dal flusso delle stagioni, dal lavoro volontario e dalle esigenze sue e della sua famiglia, né dalle sue capacità attitudinali. In sostanza, non era più al centro del suo mondo economico e affettivo, ma si scopriva parcellizzato in una funzione di dettaglio al servizio del sistema della divisione del lavoro che metteva in primo piano la macchina e la logica produttiva del capitale. Libertà ed indipendenza – diceva «La Gazzetta dei cappellai» – erano assicurate all’operaio nelle piccole fabbriche, «ove si lavorava e si comandava all’amichevole, dove non esisteva né orario di lavoro né era necessaria la disciplina. Un bravo operaio poteva andare e venire, lavorare o non, come se fosse a casa sua, compensando le irregolarità con periodiche assiduità».

Quindi, con l’avvento della grande fabbrica che dava valore fisso e continuo ad ogni minuto che passava, veniva dato anche l’addio all’indipendenza personale e alle «irregolarità» del lavoro libero e «addio con loro, al buon umore ed alle sue piacevoli e rinvigoranti conseguenze». Analogamente avveniva, per esempio, nelle filande dove, per il lento giro delle tavelle, le operaie potevano fare lavori 33

di maglia o addirittura, in certi momenti, assentarsi per curare gli affari della propria famiglia. Ora invece si avevano i casi di una fabbrica di cappelli a Napoli che chiudeva a chiave in fabbrica gli operai. Orari e durata del lavoro: mentre il padrone non garantiva in alcun modo agli operai lavoro continuo, si riservava però il diritto di ridurre od aumentare il numero delle ore a seconda della stagione e a norma delle esigenze di fabbrica. L’operaio o il gruppo di operai che si rifiutava di adempiere gli ordini ricevuti, poteva essere licenziato. Quindi, il lavoro straordinario, il lavoro notturno e il lavoro festivo, potevano essere introdotti a discrezione del padrone secondo le esigenze della produzione, e «gli operai che ne erano richiesti sarebbero stati obbligati ad assoggettarvisi, ed il rifiuto sarebbe stato causa di licenziamento» (Regolamento per gli operai della Fonderia Neuroni di Bologna, 1898). Per quel che riguarda il “normale” orario di lavoro, un’inchiesta nelle fabbriche svolta nel 1877 affermava riassuntivamente che si poteva «ritenere assai prossima al vero una media di 11 a 12 ore al giorno di lavoro effettivo», media calcolata sulle 6-7 ore delle solfare siciliane e sulle 15-16 ore e più nella stagione estiva delle filande del bergamasco, del comasco, del varesotto, del torinese o dei lanifici del biellese e del vicentino, dei cotonifici ecc. Se nelle solfare siciliane l’unica forza motrice era rappresentata dalla resistenza fisica del caruso (che nonostante l’uso sistematico della tortura non poteva essere spinta oltre i limiti naturali), nelle più “avanzate” filande o lanifici e cotonifici l’uso capitalistico della macchina poteva creare un prolungamento indeterminato della giornata lavorativa alla parte più consistente e più indifesa della classe operaia, e per la mentalità padronale le 12 ore di lavoro, escluso il riposo, erano ritenute sopportabilissime anche per l’operaio minorenne. Ed ancora, multe, sospensioni, licenziamenti per chi giungeva al lavoro in ritardo; per chi nel tempo del lavoro era colto a mangiare frutta o altro; per chi introduceva in fabbrica bevande alcoliche; per chi fumava o masticava tabacco (alcool e tabacco erano usati na34

scostamente per vincere lo stato di prostrazione); per chi si presentava ubriaco; per chi parlava (alla Stigler di Milano l’operaio entrava in fabbrica alle 7 di mattina e usciva alle 8 di sera e per tutto questo tempo gli era rigorosamente proibito di parlare); per chi cantava o faceva rumore; per chi si fermava in crocchio o si sedeva; per cambiamenti arbitrari nell’esercizio delle macchine; per dispute o ingiurie fra operai stessi; per reclami collettivi o collette e assemblee in fabbrica; per partecipazione a manifestazioni pubbliche, ecc. Nella fabbrica il tempo di lavoro era tutto razionalizzato per la produzione: se non si poteva parlare, se non si poteva cantare, se non si poteva lasciare il proprio posto, si poteva però fare eccezione per le pratiche religiose in quanto queste potevano contribuire alla razionalizzazione disciplinare. Vari padroni suggerivano, di tanto in tanto, di permettere il canto di alcuni inni e lodi, fosse pure durante il lavoro, perché sollevavano l’animo ed il corpo spossato delle operaie. Allo stabilimento litografico Bertarelli di Milano, gli operai il sabato dovevano subire una forzata dottrina cattolica impartita da un prete il quale – come osservava il giornale «La Battaglia» – poi non aveva altra soddisfazione «che quella di trovarsi circondato da schiavi moderni, cui la fame inchioda sulle panchine e la paura tronca la protesta sulle labbra». L’ambiente di lavoro nel quale erano costretti «dall’alba al crepuscolo» gli operai, era poi dei più squallidi, mefitici e terribili che si potesse immaginare. La fabbrica italiana della prima rivoluzione industriale offriva una gamma di settori che andava dalla lurida stamberga allo stabilimento “modello”. Ma anche in questo secondo caso non bisogna credere che le condizioni di lavoro fossero in essi ottimali, tutt’altro. Del resto in Italia non esisteva un codice industriale e quindi nessun obbligo era fatto agli industriali di osservare le più elementari norme d’igiene negli stabilimenti, relative alla cubatura, ventilazione, illuminazione, pulizia ecc. degli ambienti di lavoro. Il sottoprefetto di Lecco faceva questa descrizione complessiva delle fabbriche italiane nel 1870:

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«Noi vediamo infatti, molti opifizi, specialmente di vecchia data, costruiti in modo tutt’altro che conforme ai precetti d’igiene. Sono locali bassi e stretti, non sufficientemente ventilati, la cui atmosfera per l’alito stesso dei soverchi operai si fa mefitica dopo due o tre ore che vi sono rinchiusi. Aggiungete a ciò le nocive esalazioni che emanano dalle materie gregge nel lavorarle, dall’olio delle macchine, dalle pareti spesso annerite dal sudiciume e dalla polvere».

E che dire poi delle condizioni di vita di quegli operai immigrati costretti a risiedere nella fabbrica per l’intera settimana? Lo stesso sottoprefetto di Lecco esclamava: «Che dovrasi poi dire di certi locali ad uso dormitori che per la loro angustia dovrebbero al più bastare ad otto o dieci operai, e contengono invece otto o dieci giacigli, che devono servire Dio sa a quanti esseri umani condannati in tal guisa a respirare nelle ore di riposo più carbonchio che ossigeno?».

Tali ambienti insalubri erano funzionali alla produzione: si consigliava infatti di costruire filande senza finestre per riparare la seta dalla luce e dal sole che le toglievano il colore naturale e nello stesso tempo di trasformarle in camere a gas in quanto sete e organzini andavano in permanenza sbattuti per tenerli liberi dalle polveri. Non deve stupire, quindi, che in tali condizioni, e per l’intenso sfruttamento, proliferassero tra le classi operaie gravi malattie alle vie respiratorie, agli occhi, all’udito, reumatismi, artrosi, anemie, clorosi, scrofola, scorbuto e quant’altro, senza contare i frequenti infortuni ed incidenti sul lavoro che causavano, spesso, invalidità permanenti se non addirittura la morte. All’uscita dalla fabbrica, l’operaio poteva essere sottoposto alla completa perquisizione personale. Chi veniva trovato con addosso materiali od oggetti della ditta si vedeva confiscata la paga, immediatamente licenziato e deferito all’Autorità giudiziaria. Ma il padrone guardava anche fuori della fabbrica. L’operaio gli doveva appartenere per tutto l’arco della sua esistenza. La Galileo di Firenze licenziava gli operai che commettevano fuori della fabbrica atti «in36

decorosi» o si abbandonavano al gioco e all’ubriachezza, come «indegni di appartenere all’officina e causa del comune disonore». Il regolamento del 1873 del Lanificio Rossi di Schio diceva testualmente: «Ma anche nella condotta esterna gli operai del Lanificio devono condursi con moralità e decoro. Conseguentemente cesseranno di far parte del Lanificio nei seguenti casi: se venga sporto e giustificato contro essi reclamo dai cittadini per offese di persona o di proprietà, o per turbamento di quiete pubblica; se dieno motivi a lagnanza dell’autorità politica o dell’autorità comunale; se appartengono a Società od a riunioni nelle quali, o s’introducano persone ad esse estranee che per proprio interesse usano seminare l’odio invece della carità, oppure si proclamino dottrine dè medesimi effetti».

Infine, l’alimentazione del proletario italiano non si discostava molto da quella del contadino povero e del bracciante. Si consumava pane misto a cereali inferiori o polenta e latticini e legumi. La carne, il vino, il pane bianco, la stessa pasta e il riso erano generi riservati per le festività o le grandi occasioni. Gli operai delle segherie e delle chioderie del bellunese e delle miniere argentifere di Auronzo, consumavano come pasto abituale polenta di granoturco con un po’ di formaggio, oppure minestra di fagioli e orzo. L’alimentazione del muratore napoletano era la seguente: al mattino, pane e qualche frutto; a mezzogiorno pane con cipolle e peperoni d’estate e un po’ di pesce salato e formaggio d’inverno; la sera cena con zuppa di fagioli, fave, piselli o maccheroni. Nonostante l’alimentazione fosse estremamente povera, questa si mangiava il 75% del salario dell’operaio. Il restante 25% era assorbito, generalmente, oltre che dal vestiario e da altre piccole necessità, dall’affitto della casa, la quale nei centri cittadini era frequentemente rappresentata da mezzanini, soffitte o abbaini, da sottoscala o fetidi seminterrati. Il giornale «Il Secolo», in un articolo apparso nel 1892, per quel che riguarda la città di Milano, riferiva: «La topaia più immonda, i sottoscala, i pollai stessi, sono affittati ai poveri: e non v’è miseria che si sottragga al padrone di casa». Le zone delle città abitate dall’operaio non 37

erano solo orribili, ma avevano anche fame d’aria, di spazi, di luce, d’igiene. Il Mumford, in uno studio del 1954 intitolato La cultura delle città, affermerà che a cavallo tra Ottocento e Novecento «sia nei quartieri vecchi che in quelli nuovi, si raggiunse un grado d’abiezione e di sudiciume che raramente era stato raggiunto dalla più povera casa di servo nell’Europa medievale». A Monza, centro mondiale del cappello, la casa operaia veniva così descritta dal giornale locale «Il Lambro» nel 1893: «[…] luridi tuguri più bassi del pavimento stradale, non allietati mai dal sole e da un po’ d’aria purificatrice: una stanza sola, serrata dentro quattro mura, stretta, umida, raccoglie talora sparuti genitori e più sparuta prole e serve di cucina, di dormitorio e per le molte altre occupazioni di famiglia […]».

A compendio delle condizioni sociali delle classi lavoratrici nell’Italia postunitaria, fra le numerose testimonianze riferiamo quella di un internazionalista lombardo, Enrico Bignami, tratta da un opuscolo del 1879: «Gli operai italiani, i quali non hanno seriamente reagito, son divenuti i più miseri di tutto l’occidente, mentre un giorno erano i più ricchi. La media borghesia lor dà ancora del tu come nel Medio Evo, e spesso essi portano tuttora per calzature gli zoccoli di legno degli antichi schiavi. Il loro salario è così poco in proporzione coi loro bisogni che per un gran numero il pane bianco è un oggetto di lusso; i più si nutrono o di pan nero o di polenta di castagne o di granoturco. Carne e vino giammai, quasi mai latticini, e sempre le solite croste e la solita minestra da carcerati. Nelle grandi città d’Italia si vedono in pieno inverno intiere famiglie dormire sotto i portici o nelle stalle, perché il salario che ricevono non permette loro di pagare il fitto della più umida stamberga. Quelli che possono alloggiarsi trovano mediante il quarto o il quinto del loro guadagno totale una specie di canile senza mobili, senza aria e senza luce in cui si vive ammassati come le bestie; in alcune province le famiglie proletarie hanno per abitazione stalle infette, che dividono coi porci e colle capre. In tutte le città, specialmente durante l’inverno, le vie sono piene di infelici dei due sessi che chiedono l’elemosina scarni e macilenti, e le colonne dei giornali registrano sovente casi di morte per freddo e per fame. In alcune città della Sicilia e della Sardegna poi si

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vedono bene spesso torme di fanciulli mezzo ignudi che ronzano per le vie, cercando come cani il loro nutrimento fra le immondizie. Ovunque la più orribile miseria, che non può essere scongiurata da un lavoro da 14 a 16 ore».

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CAPITOLO IV Gli internazionalisti.

In una siffatta situazione economica e sociale, l’arrivo in Italia nel 1864 del russo Michail Bakunin provocò una svolta decisiva nei programmi di lotta politica che i vari gruppi democratici del tempo stavano svolgendo. Così ricorderà Errico Malatesta, sulle pagine del periodico anarchico «Pensiero e Volontà», a più di sessant’anni di distanza da quegli avvenimenti, l’attività svolta dall’esule russo in quel di Napoli nel biennio 1865-67: «Bakunin era venuto a scuoter tutte le tradizioni, tutti i dogmi sociali, politici, patriottici, considerati fino allora dalla massa degli intellettuali napoletani come verità sicure e fuori discussione. Per gli uni, Bakunin era il barbaro del Nord, senza Dio e senza Patria, senza rispetto per nessuna cosa sacra, e costituiva un pericolo per la santa civiltà italiana e latina. Per gli altri era l’uomo che aveva portato nella morta gora delle tradizioni napoletane un soffio d’aria salubre, che aveva aperto gli occhi della gioventù che lo aveva avvicinato, sopra nuovi e vasti orizzonti: e questi, i Fanelli, i De Luca, i Gambuzzi, i Tucci, i Palladino ecc. furono i primi socialisti, i primi internazionalisti, i primi anarchici di Napoli e d’Italia».

Pochi giorni dopo il suo arrivo a Napoli, nell’estate del 1865, Bakunin pubblicò sul giornale democratico «Il Popolo d’Italia» una serie di cinque lettere, firmate con lo pseudonimo Un francese, in cui veniva enunciato con chiarezza il suo programma antistatale: «Disgrazia a le nazioni in cui lo Stato s’immischia di regolare la vita popolare e il libero pensiero degli individui, fosse anche in nome della morale più pura! Dal momento che viene imposta diviene immorale, perché che

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cosa è la morale, il dovere e il diritto, se non la libertà stessa?… Per conseguenza, per moralizzare l’umana società bisogna emancipare il pensiero dal giogo dell’autorità e la nostra volontà dalla tutela dello Stato».

E, rivolgendosi ai suoi nuovi amici napoletani, sviluppava con vigore la necessità dell’incontro fra gli intellettuali democratici e le masse popolari: «La forza materiale della democrazia non è punto in essa, ma unicamente nel popolo. Il popolo è il solo democratico potente, non tanto per l’idea, quanto per il fatto democratico senza saperlo. La sua condizione è democratica; le sue aspirazioni, i suoi interessi, i suoi bisogni debbono necessariamente essere ancora tali. In sostanza, l’idea democratica non è altro che la coscienza o l’espressione formulata, concentrata, coordinata e compresa di quest’enorme fatto: l’esistenza e l’istinto popolari […]».

Ma il popolo, se non veniva illuminato dall’idea democratica, non solo era incapace di muoversi, ma se si muoveva, cadeva in braccio ai demagoghi e ai furfanti politici: «Dal suo canto, malgrado la sua potenza materiale, gigantesca, e le sue masse innumerevoli, abbandonato a se stesso, sarà eternamente ingannato e malmenato dai suoi eterni aggiratori, perché privo di quella luce che può indicargli il sentiero ed i mezzi della salvezza. Separati adunque l’uno dall’altra, popolo e democrazia illuminata, saranno entrambi impotenti, uniti saranno invincibili».

Per stabilire questa unione, Bakunin invitava i suoi amici napoletani del Partito d’Azione a fare il primo passo, ad andare verso il popolo con schiettezza e sincerità: «Quando vi domanda la libertà e il pane, non gli offrite pietre a mangiare, né procurate di addormentarlo con le fole del costituzionalismo o della grandezza e della gloria dello Stato. Esso vi volgerebbe le spalle con diffidenza e disprezzo, perché non intende nulla di tutta quella politica trascendentale che pare non parlargli di liberazione e di diritti che per sottometterlo ad un giogo nuovo e più duro».

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All’indomani della conclusione della terza guerra d’indipendenza del 1866, Bakunin, assieme al napoletano Alberto Tucci, lanciava un focoso manifesto clandestino, intitolato La situazione, in cui elaborava un vero e proprio programma rivoluzionario riferito alla concreta situazione italiana. Il manifesto partiva da un esame del movimento di unità nazionale, dominato da due partiti – il costituzionale e il repubblicano – ed avversato vanamente dai legittimisti, per arrivare ad una critica della politica interna ed estera della Destra storica al potere. Ma neppure le correnti mazziniane e garibaldine venivano risparmiate: anzi nei loro confronti, in una rispettosa valutazione delle personalità cui esse si ispiravano, Bakunin e Tucci sviluppavano una polemica penetrante. Al mondo ufficiale dei partiti veniva contrapposta la grande maggioranza del popolo italiano, «i milioni di operai e contadini rimasti estranei a tutti questi fatti»: da una parte le masse popolari, in atto di svegliarsi da un secolare letargo, e dall’altra la Chiesa, la monarchia, il militarismo, la burocrazia, i ceti privilegiati. L’urto fra queste forze contrapposte avrebbe dovuto portare a quell’inevitabile rivoluzione «che costituirà l’Italia libera repubblica, di liberi comuni nella libera Nazione – liberamente uniti fra loro». Ed ancora, in un altro manifesto clandestino preparato insieme ad Alberto Tucci e stampato poche settimane prima dello scoppio dei moti del macinato, Bakunin lanciava un’incitazione alla rivolta che se non ebbe una diretta influenza sugli avvenimenti, tuttavia convergeva con essi allo stesso fine pratico. Tale manifesto, fra l’altro, affermava testualmente: «In tutte le statistiche del felice regno d’Italia evvi due dati di una semplicità e di una eloquenza straordinaria: popolazione circa 25 milioni; contribuenti della imposta dei fabbricati, terre coltivate e tassa di commercio: circa 2 milioni. Che cosa siano e che cosa facciano questi due milioni di bravi cittadini contribuenti, tutti lo sanno […]. Tutti sono brava gente; hanno una rispettabile posizione sociale, sono elettori, eleggibili e spesso deputati; per essi predica il curato, per essi è fatto il codice civile, l’usciere, il birro ed il gendarme; le scuole, i libri, le

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scienze, i musei, i teatri, i cavalli ed i cocchi, le strade ferrate ed i telegrafi, tutto è per essi, perciocché essi solo possono usufruire della civiltà, ad essi soltanto gli agi ed i gaudii della vita. Ma gli altri 23 milioni d’italiani che cosa fanno e che cosa sono? Borghesi e privilegiati, ve la siete fatta mai questa domanda? Voi lo sapete: i 23 milioni lavorano da che il sole si leva fino a che non si corchi, e sono essi che fanno e pagano la civiltà di cui gioite; sono essi che creano tutto quanto voi consumate, dal vostro pane al vostro lusso sfrenato; senza di voi essi sarebbero liberi e felici, senza di essi voi morreste di fame».

È così in questo periodo – esattamente il 31 gennaio 1869 – che sorgeva a Napoli, dall’ambiente degli amici di Bakunin, la prima sezione italiana dell’Internazionale. Ne riferiva Carmelo Palladino in un rapporto al Consiglio Generale di tale associazione di qualche anno dopo: «Fondata in gennaio 1869 la Sezione napoletana della vastissima Associazione, che oggi è l’incubo di tutti i governi e privilegiati del mondo, assunse in breve insperate proporzioni… In un anno appena di vita aveva raggiunto la cifra di più che tremila operai d’ogni mestiere associati, oltre l’immensa simpatia che destava nella classe lavoriera. Bentosto un’altra Sezione di cinquecento individui si costituì in Castellammare di Stabia, ed altre Sezioni erano in via di formazione su d’altri punti. Questo rapido sviluppo ed incremento dell’Internazionale in una città come Napoli, ove la classe laboriosa è estesissima, destò naturalmente forti apprensioni nei capitalisti, capi di fabbrica, e nel governo, apprensioni le quali toccaron l’apice del parossismo quando un giornale organo della Sezione [«L’Eguaglianza», N.d.A.] cominciò a pubblicarsi, ed a fustigar severamente la condotta di questi signori».

Che cosa fosse l’Internazionale, veniva spiegato ai lavoratori italiani in forma piana e semplice attraverso una serie di opuscoli di propaganda socialista che allora cominciarono a circolare. In uno di questi, pubblicato nel 1873 e diffuso dapprima nel ferrarese, poi nel palermitano, quindi, nel 1874, in Lombardia, Toscana, Lazio e Campania, venivano chiarite, tramite il modello dialogico della domanda e della risposta, le origini e gli scopi dell’organizzazione: 44

«D. Quando è nata l’Associazione Internazionale dei Lavoratori? R. È nata nel 1862 in mezzo agli operai di diverse nazioni, che trovavansi a Londra per la Esposizione Universale. D. Perché l’associazione si chiama Associazione dei Lavoratori? R. Perché è costituita allo scopo di migliorare la condizione degli operai. D. Perché si chiama Internazionale? R. Perché abbraccia gli operai di tutte le nazioni del mondo. D. In che consiste il miglioramento degli operai voluto dalla Internazionale? R. Il miglioramento voluto dalla Internazionale consiste nella emancipazione economica della classe operaia. D. Cos’è questa emancipazione economica? R. Emancipazione economica vuol dire liberare l’operaio dalla servitù in cui lo tengono coloro i quali monopolizzano i capitali e speculano sul suo lavoro. D. Come si fa a liberarsi da questa servitù? R. Bisogna cominciare coll’associarsi, e studiare e tentare tutti quei mezzi che si credono adatti a raggiungere lo scopo. […] D. Dunque l’operaio non ha partito alcuno? R. L’operaio, che appartiene alla Internazionale, sì l’ha il proprio partito, ma esso non lo va a cercare fuori della propria classe, non lo va a cercare in mezzo ai ricchi, agli oziosi e agli ambiziosi, ma lo trova in sé stesso, e questo è il partito del lavoro. D. Dunque è un nuovo partito che sorge nel mondo? R. Sì, ed è per questo ch’egli è affatto estraneo a tutti i vecchi partiti, qualunque sia il loro colore. D. E questo partito dei lavoratori come vorrebbe vedere organizzata la Società umana? R. Egli la vorrebbe vedere organizzata sul lavoro: vorrebbe che tutti gli uomini diventassero una sola classe, cioè una classe di lavoratori, organizzati in associazioni, confederate le une colle altre. D. Come si comincia questa grand’opera? R. Si incomincia intanto col migliorare e rialzare il lavoro, migliorando e rialzando la condizione dei lavoratori e si continua lottando sempre contro coloro che non lavorano e speculano sul lavoro altrui, fino a che costoro saranno persuasi che è meglio per essi il diventare lavoratori. D. Come possono mai gli operai arrivare a tanto, essi che sono poveri? R. Essi ci possono arrivare perché hanno nelle loro mani due grandi forze, cioè il lavoro e il numero. Ed è di queste due forze che si prevale l’Associazione Internazionale: è per questo ch’essa fa della questione del lavoro

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la questione principale degli operai, e che non fa distinzione alcuna fra gli operai dei diversi paesi e li chiama tutti a fare l’immenso numero degli internazionali».

E nella prima parte dell’opuscolo, nella quale venivano riportati i principi fondamentali dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, si spiegava: «La emancipazione della classe operaia deve essere fatta dagli operai stessi. La lotta per la emancipazione della classe operaia non è una lotta per stabilire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma bensì per stabilire diritti e doveri eguali per tutti gli uomini, e per abolire quindi qualsiasi dominio di classe. La causa prima di tutte le specie di servitù, a cui sottostà oggi la classe operaia, è l’assoggettamento economico dei lavoratori a coloro che tengono nelle loro mani e monopolizzano i mezzi del lavoro che sono le sorgenti della vita. Il grande scopo della Internazionale è la emancipazione economica della classe operaia. Per raggiungere la emancipazione economica della classe operaia occorre che la unione e la solidarietà affratellino i lavoratori di tutte le arti dappertutto il mondo. La emancipazione del lavoro non è una questione locale o nazionale, ma sociale, e abbraccia tutti i paesi. […] Gli Internazionalisti riconoscono la verità, la giustizia e la morale, come basi della loro condotta verso tutti gli uomini senza distinzione di colore, di credenza e di nazionalità. Non v’hanno doveri senza diritti, non v’hanno diritti senza doveri».

Negli anni immediatamente successivi al 1869, le sezioni dell’Internazionale si moltiplicarono e si diffusero in svariate regioni della penisola: dalle Romagne, già terra di tradizioni mazziniane che avrebbero conservato sempre spirito vivacemente rivoluzionario, all’Emilia, dalla Toscana alle Marche, dal Lazio alla Campania fino alla Sicilia, oltre a numerosi centri del settentrione come Milano, Mantova, Lecco, Torino, Venezia e Genova. Si può ben dire che l’internazionalismo fu il primo movimento a carattere socialista di 46

estensione nazionale. Un socialismo, però, le cui caratteristiche si discostavano nettamente da quelle propugnate da Marx ed Engels, che teorizzavano la conquista del potere politico da parte del proletariato e la costituzione di un nuovo Stato centrale, leva e perno fondamentale nell’opera di trasformazione dei rapporti sociali e di ridistribuzione della ricchezza del capitale. Infatti, gli internazionalisti italiani affermavano che «il primo dovere del proletariato è la distruzione di ogni potere politico» e che pertanto erano da rifiutarsi tanto la conquista del potere poiché «il proletariato, impadronendosi del potere politico, diventerebbe egli stesso una classe dominante e sfruttatrice», quanto «ogni organizzazione di potere politico dicentesi provvisorio e rivoluzionario». Il programma antiautoritario e libertario di Bakunin, che ebbe ampia diffusione e grande successo tra le file degli internazionalisti italiani, prevedeva, all’indomani dell’abbattimento dello Stato e di ogni altra istituzione coercitiva, la creazione di libere federazioni di comuni autonomi e varie società di produttori, nelle quali ciascun membro avrebbe goduto della massima autonomia politica e morale, sarebbe rimasto in possesso dei propri mezzi di produzione e avrebbe ricevuto per intero il prodotto del proprio lavoro. Un programma, questo, che richiamava in Italia motivi già vivi nel socialismo d’un Pisacane o dei suoi eredi, come quello della completa autonomia dei corpi locali da uno stato tirannico, armato del suo esercito permanente e dei suoi apparati burocratici e polizieschi, e che era assai vicino alla vena umanitaria e garibaldina del movimento e alla sua base artigiana, contadina e semiproletaria. L’insurrezione e la proclamazione della Comune di Parigi nel marzo del 1871, contribuì enormemente al diffondersi dell’Internazionale in Italia e al rafforzamento delle tesi antiautoritarie al suo interno, grazie anche alla successiva polemica scoppiata tra Mazzini, che aveva duramente condannato l’insurrezione parigina deprecandone l’ateismo e il materialismo, e Bakunin, che l’aveva vigorosamente difesa esaltandone le idee di emancipazione definitiva dell’umanità attraverso l’emancipazione del lavoro, che causò il passaggio nelle file 47

socialiste anarchiche di numerosi seguaci del pensatore genovese. Emblematiche, in tal senso, furono le affermazioni, pubblicate nel gennaio del 1872 sul periodico socialista «Il Gazzettino Rosa» di Milano, di Vincenzo Pezza, già arrestato nel 1869 per aver partecipato nel capoluogo lombardo ad alcune manifestazioni di carattere repubblicano ed antimonarchico: «Noi giovani democratici socialisti abbiamo favorito un tempo la rivoluzione politica quando essa era possibile in Italia coll’iniziativa di un partito ben organizzato, senza troppo abbadare alla contraddizione fra le nostre opinioni antireligiose e antiautoritarie e il programma religioso autoritario di Mazzini, perché credevamo che il rovesciamento della monarchia fosse già un gran passo alla soluzione del programma. Ora le nostre convinzioni sono mutate e, lo dichiariamo francamente, una repubblica mazziniana ci troverebbe ostili, tanto, forse, quanto lo siamo all’attuale monarchia, perché una repubblica mazziniana non può essere che borghese e la nostra borghesia è peggiore del governo che garantisce i suoi privilegi».

Sempre secondo «Il Gazzettino Rosa», la Comune di Parigi si discostava da tutte le rivoluzioni precedenti, che avevano avuto per obiettivo solamente una trasformazione degli ordinamenti politici ed istituzionali a favore di una ristretta minoranza: «Tutte le rivoluzioni che si fecero in nome della libertà umana e modificarono le condizioni sociali, non ebbero in ultima analisi altro risultato che la consacrazione del principio di inuguaglianza e la confisca della libertà dei molti a profitto dei pochi. Solo la rivoluzione del 18 marzo di Parigi ha dato l’iniziativa di una grande idea destinata, noi crediamo, a riscattare i popoli da tutte le tirannidi economiche e politiche».

E quell’idea, per il periodico «La Campana», era proprio il socialismo antiautoritario predicato dai seguaci di Bakunin nell’Internazionale: «Quegli uomini della Comune erano uomini di libertà, erano uomini di eguaglianza, uomini di lavoro. Essi volevano la libera federazione e l’autonomia delle collettività; volevano l’indipendenza della ragione e popo-

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larizzata la scienza sperimentale; volevano l’eguaglianza delle classi e degli individui con la proprietà collettiva degli strumenti di lavoro».

E fu grazie all’esempio della Comune di Parigi e alla incandescente situazione sociale presente in Italia, se gli internazionalisti antiautoritari imboccarono decisamente la via dell’insurrezionalismo e della cosiddetta “propaganda del fatto”. Nell’inverno 187374, la penuria e il caro prezzo dei viveri, le agitazioni sociali, gli scioperi e le dimostrazioni di piazza nelle campagne e nelle città, il terrore delle classi dirigenti (Chiesa compresa), che spingeva a repressioni pesanti e a vessatorie misure preventive, favorivano i disegni del Comitato italiano per la rivoluzione sociale, un organo clandestino, costituito in Svizzera da Carlo Cafiero e Andrea Costa, destinato ad affiancare l’attività pubblica della Federazione italiana dell’Internazionale, per un tentativo insurrezionale a breve termine. Nel gennaio 1874 usciva il primo proclama di tale Comitato: «La reazione europea, spaventata per lo svolgersi crescente delle idee rivoluzionarie […], arruota contro i suoi nemici tutte le sue armi, e s’appresta a difendere ad oltranza – fino alla morte – contro di noi il suo Capitale e il suo Dio. Tutto ciò che vi ha nel mondo di triste, di spregevole, di stupido, di vecchio, ripullula: tutta la feccia di generazioni passate si avanza per inghiottire come marea l’avvenire […]. Noi, in nome dell’umanità conculcata, delle vittime del capitale, delle moltitudini affamate, in nome del diritto, in nome della scienza; per l’odio che abbiamo innato contro ad ogni tirannide; per l’amore che portiamo alla giustizia; alla reazione trionfante che ci calpesta, alla monarchia di diritto divino; alla repubblica borghese; al Capitale, alla Chiesa, allo Stato, a tutte le manifestazioni della vita attuale dichiariamo guerra».

Seguiva, nello stesso tono di protesta, l’esposizione del programma: distruzione dello Stato in tutte le sue manifestazioni economiche, politiche, religiose; abolizione dell’esercito, della banca, dei culti; materie prime, strumenti e prodotti del lavoro a chi lavora; diritto di tutti alla vita, all’istruzione, all’educazione. Quanto ai mezzi il proclama dichiarava che «la propaganda pacifica delle idee 49

rivoluzionarie» aveva fatto il suo tempo e doveva essere sostituita dalla «propaganda clamorosa, solenne della insurrezione e delle barricate». Il tentativo insurrezionale, scoppiato nell’agosto 1874 a Bologna, a Firenze e nelle Puglie, fallì sul nascere, e vennero arrestati numerosi aderenti all’Internazionale in vari centri della penisola. Ma la strada era ormai stata tracciata, e negli anni seguenti altri tentativi vennero organizzati e messi in atto, tra i quali quello dell’aprile 1877 noto come la “Banda del Matese”. Ed è proprio attraverso una lettera di uno dei protagonisti di quest’episodio, il romagnolo Pietro Cesare Ceccarelli, scritta qualche tempo dopo ed indirizzata al “colonnello” della Comune di Parigi Amilcare Cipriani, che si possono rilevare le motivazioni e gli obiettivi soggiacenti dietro a tali fatti insurrezionali: «Partigiani della propaganda coi fatti, noi volevamo far atto di propaganda; persuasi che la rivoluzione bisogna provocarla, noi facemmo atto di provocazione […]. Avevamo scelto […] il Matese perché è una giogaia che si trova al centro del sistema di monti del mezzogiorno atta per la sua struttura alla guerra di banda, abitata da una popolazione battagliera che dette un contingente fortissimo al brigantaggio e che credevamo e crediamo disposta a ricominciare […]. Contro i contadini o anche solamente senza i contadini è possibile un cambiamento politico, ma non la rivoluzione sociale, massime in un paese come l’Italia, in cui l’elemento rurale è in grande maggioranza, ed in cui non esistono ancora che allo stato d’eccezione la grande industria e le grandi agglomerazioni operaie […]. Il tempo delle Jacqueries [termine che indicava le rivolte contadine, N.d.A.] non è finito; invece è ora che cominci il tempo della grande Jacquerie dell’epoca moderna. Jacquerie che questa volta sarà feconda di risultati perché il socialismo è venuto a dare coscienza e lumi a questi grandi scoppi dell’ira popolare. […] Il contadino italiano (tu comprendi che non intendo parlare del contadino proprietario, che è un’eccezione in Italia), il proletario delle campagne è in Italia cento volte più rivoluzionario del cittadino e tutta la storia del secolo lo prova. Se tu avessi potuto seguire gli avvenimenti degli ultimi anni in Italia, avresti veduto che i mille moti spontanei avvenuti nei comuni rurali, ci danno ragione di fondare le nostre più grandi speranze sui contadini.

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E solo d’altronde una rivoluzione di contadini può garantirci sicuramente contro una trasformazione puramente politica, che non sarebbe che il consolidamento del potere della borghesia. Io non ignoro, d’altra parte, che il contadino è prudente, rispettoso e poco inclinato alle iniziative audaci ed ai generosi sacrifizi. Perciò non ti dico che sono essi che cominceranno, né che bisogna incominciare con essi. Incominceremo, secondo le circostanze, dalle città o dalle campagne, cogli elementi che avremo; ma in tutti i casi, principale nostro obiettivo deve essere provocare la rivolta dei contadini, la Jacquerie. Là è la salvezza della rivoluzione».

La propaganda dei fatti, in un ambiente rurale, non poteva che prender l’aspetto della “guerra per bande”. Sull’esempio della resistenza vittoriosa del popolo spagnolo agli eserciti napoleonici, andò teorizzandosi in Italia nel corso dell’Ottocento la “guerra per bande”. Per il suo stesso carattere questa presupponeva che i suoi componenti provenissero per la maggior parte dai ceti contadini, che per la povertà del cibo di cui si nutrivano, per l’abitudine agli stenti e alle privazioni che un tal genere di lotta comportava, potevano adattarsi meglio alla guerriglia che, accesasi in un punto, doveva essere capace di sostenersi a lungo da sola, con l’aiuto segreto delle popolazioni locali, ed estendersi, grazie al suo esempio, con l’accensione di altri eventuali fuochi di rivolta. «Una banda – diceva Ceccarelli – è come un tizzone ardente gittato in mezzo ad un ammasso più o meno combustibile: se il fuoco piglia, allora è l’incendio; se no il tizzone si spegne, ma il combustibile sarà diventato un po’ più atto all’incendio che prima». Per Ceccarelli il tempo delle bande non era assolutamente finito: «Certamente il telegrafo, le ferrovie, il disboscamento ecc. hanno reso molto più difficile per una banda di sostenersi in campagna ed i Passatore vanno divenendo sempre più impossibili, quantunque si è lungi ancora dall’essere a questo punto nell’Italia meridionale. Ma diverso è il caso per le bande destinate a provocare l’insurrezione: per esse le maggiori difficoltà tecniche sono largamente compensate dalla natura del nuovo programma che è il solo che possa risvegliare un eco simpatico nel cuore degli oppressi lavoratori della campagna».

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Quindi, la guerra per bande nelle campagne e la propaganda del fatto dovevano servire, col loro esempio, a smuovere dall’inerzia le grandi masse dei lavoratori, oppresse e sfruttate, ed indicare e rischiarare la via che le avrebbe portate alla loro completa emancipazione economica e sociale. Tali azioni, più che tendere al rovesciamento parziale o totale delle istituzioni, erano concepite come mezzo di propaganda atto a convincere, più che la divulgazione delle idee a mezzo stampa o attraverso il proselitismo spicciolo, classi e ceti spesso refrattari ad altre forme di diffusione (non si deve dimenticare, tra l’altro, che l’analfabetismo in Italia sfiorava, nel 1871, il 70%, ed ancora nel 1881 toccava il 62% della popolazione oltre i 6 anni). D’altra parte, questa idea della propaganda a mezzo del fatto era già appartenuta, nel Risorgimento italiano, a Mazzini e a Pisacane. Quest’ultimo, nel suo Testamento vergato prima della spedizione di Sapri e che era noto agli internazionalisti, aveva scritto: «La propaganda dell’idea è una chimera […], le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero […], la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quello di cooperare alla rivoluzione materiale; epperò cospirazioni, congiure, tentativi ecc. sono quella serie di atti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di [Agesilao] Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese».

È per questo che Cafiero e Malatesta al Congresso internazionale di Berna, tenutosi nell’ottobre del 1876, avevano pubblicamente e solennemente dichiarato: «La Federazione italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse, possa penetrare nei più profondi strati sociali ed attrarre le forze vive dell’umanità nella lotta che l’Internazionale sostiene».

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Ed è per questo che lo stesso Malatesta in stato di arresto per il fallito tentativo insurrezionale del Matese, al corrispondente del giornale «Il Pungolo» che lo intervistava, il 12 aprile 1877 rispondeva, ribattendo all’osservazione che l’impresa era stata una sciagura poiché non aveva prodotto alcun risultato concreto: «Che dite? Questo è il nostro trionfo. – Trionfo? – Sicuramente. È un seme che abbiamo gettato e che frutterà, il nostro danno sarà fecondo in futuro».

La propaganda del fatto tesa a scuotere dal loro secolare torpore le grandi masse popolari e a mostrargli la vulnerabilità e la concreta possibilità di colpire efficacemente il cuore delle oppressive istituzioni politiche ed economiche dominanti, la reazione alle persecuzioni, agli arresti ed alle repressioni orchestrate dalle classi dirigenti in difesa dei propri interessi e privilegi, condussero gli internazionalisti anarchici a dichiarare una guerra aperta e totale allo Stato e alla società borghese in nome degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo. Un manifesto della Federazione Romagnola dell’Internazionale, datato agosto 1878, affermando che «l’Internazionale è il gran livello per cui scompaiono per mai più ricomparire re, milionari, padroni, preti, gendarmi, strozzini, appaltatori», lanciava il seguente appello: «Insorgiamo, insorgiamo contro gli oppressori dell’umanità; tutti i re, gli imperatori, i presidenti della repubblica, i sacerdoti di tutte le religioni, sono i veri nemici del popolo; distruggiamo con essi tutte le istituzioni giuridiche, politiche, civili e religiose […]. Venite operai, diseredati, salariati, spostati, reietti della società: il socialismo ha grandi braccia. Tutti insieme uniti, insorti in nome della Rivoluzione Sociale, formeremo il grande esercito dei vinti che vincerà l’ultima tremenda battaglia del lavoro contro il capitale».

Numerosi furono i processi che si celebrarono contro gli internazionalisti negli anni 1878 e 1879, che se da un lato scompaginarono 53

momentaneamente le file dell’organizzazione, dall’altro gli procurarono un’ampia notorietà e, spesso, notevoli simpatie tra le masse lavoratrici italiane, e assai deciso fu il contemporaneo inasprimento, da parte del governo, delle persecuzioni nei loro confronti, attraverso l’emanazione di alcuni provvedimenti che invitavano i prefetti a denunziare per l’ammonizione tutti gli affiliati all’associazione ed intimavano all’autorità giudiziaria di considerare le sezioni dell’Internazionale come delle associazioni di malfattori e di perseguire penalmente come malfattori i loro aderenti. A tutto ciò, gli anarchici reagirono intensificando la propaganda dell’ideologia rivoluzionaria mediante i fatti e attraverso il cosiddetto “illegalismo”. Carlo Cafiero, in una lettera pubblicata sul periodico «Il Grido del Popolo» di Napoli il 4 luglio del 1881, preconizzava la formazione di circoli di pochi elementi indipendenti fra loro e collegati solo dal comune fine dell’azione. Tali circoli avrebbero dimostrato come il solo ordine sparso, manipolare, potesse avere ragione di uno Stato «il più tirannicamente colossale». E così proseguiva: «Oggi è dimostrato che il simili similia similibus va relegato al museo, fra le vecchie armature d’altri tempi; la forza dè rivoluzionari moderni è nel principio opposto: nella dottrina dei contrarii: allo Stato accentratore, disciplinatore, autoritario e dispotico, bisogna opporre una forza discentrata, antiautoritaria e libera. Abbiamo bisogno di enumerare i vantaggi del nuovo sistema? Oltre alla maggiore forza di attacco e di resistenza, l’azione procede di gran lunga più facile e spedita, ognuno sacrifica più volentieri averi e vita per l’opera di sua propria iniziativa, difficili e di danno limitato diventano i tradimenti, le sconfitte molto parziali, tutte le attitudini e tutte le iniziative trovando il loro pieno sviluppo, danno portentosi risultati come la bomba cabileik ed i lavori di mine magistralmente costruite. Non più centri dunque, non più uffici di corrispondenza o di statistica, non più piani generali precedentemente combinati, che ognuno cerchi formare nella propria località un gruppo intorno a sé, costruire un manipolo che impegni senz’altro l’azione. Dieci uomini, sei uomini possono compiere in una città fatti che troveranno un’eco in tutto il mondo. Incominciata appena l’azione di un gruppo, tutto il paese sarà presto coperto, e l’azione si farà generale. Ogni manipolo si farà da per sé un centro d’azione, con un piano tutto suo proprio; e dalle molteplici e svariate ini-

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ziative armonico ed uno risulterà il concetto di tutta la guerra: la distruzione degli oppressori e degli sfruttatori».

Ed ancora Cafiero, in un articolo intitolato L’actìon pubblicato sul giornale «La Revoltè» del 25 dicembre 1880, affermava: «Di azione abbiamo bisogno, di azione e ancora di azione, perché è l’azione che ha generato le idee ed è ancora essa che s’incarica di diffonderle nel mondo».

Nello stesso articolo, dopo essersi domandato di quale tipo di azione ci fosse stato bisogno – di un’azione per inviare deputati in parlamento? oppure ai consigli comunali? – rispondeva: «No, mille volte no… Andare in parlamento, vuol dire parlamentare; parlamentare vuol dire patteggiare. La nostra azione deve essere la rivolta permanente, con la parola, con lo scritto, col pugnale, il fucile, la dinamite […]».

Sicchè, quando si riunì a Londra, dal 1° al 19 luglio del 1881, un congresso internazionale anarchico, che ebbe un grande eco sulla stampa europea, le principali dichiarazioni che ne scaturirono furono quelle dell’appello all’azione rivoluzionaria con tutti i mezzi e in tutti i luoghi, contro la classe padronale e le organizzazioni statali. Eccone alcuni significativi stralci: «Considerando che l’Associazione Internazionale dei Lavoratori ha riconosciuto necessario unire alla propaganda verbale e scritta la propaganda dei fatti; […] Il Congresso emette il voto che le organizzazioni aderenti all’Associazione Internazionale dei Lavoratori voglian tenere conto delle seguenti proposizioni: Egli è di stretta necessità di fare tutti gli sforzi possibili per propagare con degli atti l’idea rivoluzionaria e lo spirito di rivolta in quella grande frazione della massa popolare, che non prende ancora una parte attiva al movimento, e si fa delle illusioni sulla moralità e sull’efficacia dei mezzi legali.

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Uscendo dal terreno legale, sul quale s’è restato in generale fin’oggi, per portare la nostra attività sul terreno dell’illegalità che è la sola via che meni alla rivoluzione – egli è necessario di ricorrere a tutti i mezzi che siano conformi a questo scopo. […] La grande massa dei lavoratori delle campagne restando ancora al di fuori del movimento socialista-rivoluzionario, egli è assolutamente necessario di dirigere i nostri sforzi da questo lato, ricordando, che il più semplice fatto, diretto contro le istituzioni attuali, parla meglio alle masse che migliaia di stampati e fiumi di parole, e che la propaganda dei fatti nelle campagne ha una importanza anche maggiore che nella città. Le scienze tecniche e chimiche avendo già reso dei servizi alla causa della rivoluzione, ed essendo chiamate a renderne ancora dei più grandi in avvenire, il Congresso raccomanda alle organizzazioni e agli individui che fanno parte dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, di dare un gran peso allo studio e alle applicazioni di queste scienze, come mezzo di difesa e d’attacco […]».

Gli anni ottanta e novanta dell’Ottocento imprimeranno questo carattere della rivolta permanente che ne diverrà uno dei connotati principali. Fu proprio il Congresso di Londra a indicare questa strada che porterà ad una intensificazione della guerra totale degli anarchici alle istituzioni dominanti e alla società borghese in Italia e nel resto d’Europa. E nel corso di questa guerra, fatta di gesti clamorosi, tentativi insurrezionali, sommosse collettive ed atti individuali, spuntarono numerosi attentatori che, con i propri gesti estremi e senza compromessi, rappresentarono ed incarnarono la figura del giustiziere e del vendicatore dei continui soprusi e delle immani sofferenze patite dagli sfruttati e dai diseredati della terra.

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PARTE SECONDA

I GIUSTIZIERI

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CAPITOLO V Giovanni Passanante.

Re Umberto I, asceso al trono nel gennaio 1878, dopo la morte del padre Vittorio Emanuele II avvenuta il 9 gennaio, iniziò, assieme alla regina Margherita, ai primi del successivo mese di novembre una visita ufficiale nelle più importanti città italiane. Mentre l’Italia cortigiana si prodigava in fiaccolate, cortei, applausi, inchini, omaggi floreali e poetici, la mano della polizia calava pesantemente su repubblicani e internazionalisti, che venivano messi precauzionalmente al fresco per tutta la durata del soggiorno dei sovrani nelle loro città. A Bologna, mentre il poeta Giosuè Carducci riceveva la stretta di mano del re e i complimenti della regina, per la quale scrisse l’Ode alla regina, contro le accoglienze ufficiali si levò la voce di dissenso e di protesta degli anarchici, manifestata a parole di fuoco con volantini stampati alla macchia: estensore di uno di questi manifestini era il ventitreenne Giovanni Pascoli, che in quel tempo si era avvicinato all’Internazionale, partecipando alla ricostruzione della sezione bolognese. Dopo aver visitato il 4 novembre Milano, il 5 e il 6 Bologna, il 7 e l’8 Firenze, il 12 Ancona e il 15 Bari, il 17 novembre il re e la regina giungevano a Napoli, accompagnati dal Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli. Dimenticando l’accesa discussione avvenuta in consiglio comunale sul passivo che sarebbe derivato dalla spesa per il ricevimento, Napoli si apprestava ad accogliere nel migliore dei modi Umberto e Margherita. Arrivati alla stazione ferroviaria del capoluogo campano, e discesi dal treno, i sovrani vengono ac59

colti su di un tappeto dipinto da Morelli, Michetti e Vietri. La regina, fingendo imbarazzo, teme di profanarlo calpestandolo, ma viene prontamente tranquillizzata. Sempre alla stazione, per lei c’è anche un mazzo di fiori in un grande vaso di bronzo, comprati con una sottoscrizione fatta nei quartieri poveri: un soldo a testa. I poveri sanno anche ringraziare chi li mantiene nella povertà e nell’indigenza. I sovrani prendono posto sul cocchio, assieme al principe ereditario e al Presidente del Consiglio Cairoli, quindi alle 14,25 il cannone di Sant’Elmo dà il primo segnale ed il corteo reale si mette in marcia in mezzo ad una pioggia di fiori. Giunto il cocchio reale in Carriera Grande, improvvisamente «[…] un giovane, lanciatosi di mezzo alla folla, con una mano brandito un coltello a manico fisso e che aveva celato in una bandiera rossa, e coll’altra afferrato il mantice di quel cocchio, vibrò un colpo alla sacra persona del Re il quale traendosi alquanto indietro non potè del tutto schivarlo che non rimanesse ferito nella parte superiore ed esterna del braccio sinistro».

Il re scatta in piedi e colpisce con il fodero della sciabola l’attentatore in testa, mentre la regina gli butta in faccia il mazzo di fiori gridando: «Cairoli, salvi il re!». In quell’istante, il Presidente del Consiglio, facendo del suo corpo scudo a quello del re, interviene e afferra per i capelli l’attentatore, il quale, vibrando una seconda coltellata, lo colpisce alla coscia. Interviene quindi il capitano dei corazzieri De Giovannini che «[…] scagliò un fendente di sciabola sul capo dell’aggressore, il quale dimenando sempre il coltello fu lasciato dal Cairoli nelle mani di due studenti e di una guardia municipale immantinenti accorsi. Di tale maniera venne arrestato il colpevole nella flagranza, e sequestrata l’arma e la banderuola rossa sulla quale era unito un cartello con le parole di: Morte al Re! Viva la Repubblica Universale!».

Il tutto s’è svolto con estrema rapidità, il corteo reale riprende il suo lento cammino verso la Reggia e pochi si sono accorti dell’epi60

sodio. Ma quando in serata la Napoli monarchica saprà dell’incidente, accorrerà alla Reggia per gridare: «Sire, l’assassino non è napoletano!». Le manifestazioni continueranno per otto giorni, fino a quando i reali non lasceranno Napoli ed il re, alla stazione, aiuterà Cairoli a salire sul treno perché zoppicante. Ma l’incantesimo di Casa Savoia – come dirà la stessa regina – si era definitivamente rotto. Il giovane attentatore ha 29 anni, si chiama Giovanni Passanante, è nato a Salvia, in provincia di Potenza, il 19 febbraio 1849 da Pasquale e Maria Fiore, e fa il cuoco. Sapeva leggere e scrivere alla meglio, avendo frequentato la scuola elementare del municipio natìo nel 1864-65, e conobbe il duro lavoro sin da ragazzino, servendo presso diverse famiglie benestanti. Sognava una società migliore, che si poteva ottenere attraverso la Repubblica Universale, e già allora, nella sua repubblica, aveva pensato alla pensione per tutti. Apprese le idee del primo socialismo e del repubblicanesimo, trascorreva il suo tempo libero a leggere, un’attività pericolosa e sospetta in una società fortemente analfabeta. Nelle sue tasche c’era sempre qualche giornale repubblicano o socialista e non perdeva occasione per spiegare ad altri le teorie delle nuove idealità. A diciannove anni, il titolare di un’osteria di Potenza, tale Michele Papera di Rionero, ove Passanante lavorava come sguattero, lo licenziò perché lo sorprese più di una volta a leggere. Al processo questi dichiarò: «[…] Lo richiamavo al suo lavoro, m’obbediva docilmente, ma qualche minuto dopo era di bel nuovo coi suoi giornali. Un giorno gli ho chiesto se voleva diventar ministro, ed egli mi rispose che ogni uomo ha i suoi gusti. Per voi, mi disse con fermezza aspra, per voi tutta la vita non ha altro scopo che d’ammucchiar quattrini, ma v’è ancora chi preferisce mettersi qualche cosa in testa piuttosto che in saccoccia».

Per tutta risposta, Passanante, affermando che il teste non diceva la verità, ribattè:

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«Il fatto è che me ne andai io dal servizio, perché quel galantuomo in quattro mesi non mi ha dato un soldo, e mi ha fatto sgobbar sempre come uno schiavo. Perché non mi pagava, me ne andai. Figuratevi che sua moglie una volta mi volle dare cinque lire perché ero a sbrendoli, e lui non ha voluto; l’ha subissata di male parole e m’ha fatto scontar quell’atto di pietà in tante asprezze».

Denunciato all’autorità tutoria per questo suo comportamento, veniva quindi segretamente controllato. Trasferitosi a Salerno, nella notte del 16 maggio del 1870 veniva sorpreso dalla polizia ad affiggere sui muri della città dei manifesti sovversivi manoscritti che inneggiavano a Giuseppe Mazzini, a Giuseppe Garibaldi e alla Repubblica Universale e che esprimevano solidarietà alla rivolta repubblicana scoppiata a Maida in Calabria. Veniva così arrestato con l’accusa di «cospirazione onde distruggere la forma del governo e proclamare la Repubblica» e condannato. Rimasto detenuto nelle carceri di Salerno per tre mesi, ottenne la libertà provvisoria, quindi il reato gli venne amnistiato il 9 ottobre 1870, in occasione dell’entrata del governo italiano a Roma. Continuò a risiedere a Salerno e fino al 1877 lavorò come cuoco presso la fabbrica degli Svizzeri. Dopo essersi licenziato, aprì, assieme al napoletano Gaetano Savarese, La Trattoria del Popolo, dove faceva mangiare gratuitamente i compagni e chi ne aveva bisogno. Così ricorderà al processo il Savarese i contrasti avuti con Passanante per il suo modo di condurre la trattoria: «Lo mandai a quel paese. Non mi piaceva. Venivano frotte di amici a trovarlo ed allora erano discussioni che non finivano più. Io badavo agli affari; egli chiacchierava e beveva. PRESIDENTE – S’ubbriacava? TESTE – Eh, no! beveva soltanto acqua, lui; ma a quel modo gli affari non andavano».

Ed infatti la trattoria dovette chiudere per fallimento. Lo ritroviamo, quindi, di qua e di là alla ricerca di un lavoro, adattandosi a fare di tutto. Si recò a Napoli, ed anche qui lavorò saltuariamente al 62

servizio di diverse persone. Domiciliò in alcune locande e in qualche stanza presa in affitto. Tra queste ultime, c’era quella di una tale Maria Pastore che al processo così descriverà l’attentatore: «PRESIDENTE – Di dove siete, quanti anni avete, che cosa fate, che cosa faceva in casa vostra l’accusato? TESTE – Sono di Benevento, stiratrice, ho quarant’anni. Non ho mai conosciuto prima il Passanante. Passava a’ vacca, non si poteva rimediare alla miseria, e pigliammo due dozzinanti: il Negri perché era parente di mio marito, e per qualche giorno il Passanante. PRESIDENTE – Come si comportava? che cosa faceva? TESTE – Non possiamo dirne che bene. Era quieto, rispettoso, ragionatore, serio. Stava quasi sempre in casa la sera. Parlava di storia, raccontava parabole…».

Una quindicina di giorni prima dell’attentato, Passanante veniva arrestato dalla polizia perché sorpreso a dormire all’aperto in una piazza del capoluogo campano. Al processo, l’ispettore di P.S. Michele Lucchesi così rispose al Presidente della Corte d’Assise che gli domandava quali spiegazioni avesse dato il Passanante per quell’episodio: «TESTE – Che aveva fatto tardi ed era stato chiuso fuori di casa. Pare fosse stato a … donne. PASSANANTE – Voi mentite! PRESIDENTE – Calmatevi. PASSANANTE – Mente. Sono uscito dal De Luca [un notaio certificatore della Real Casa che ebbe Passanante al suo servizio, N.d.A.] che era la mezzanotte. La porta di casa essendo chiusa e non volendo disturbare i vicini, mi avviai in Piazza di Francia dov’era una locanda che ero sicuro di trovar aperta. Ma non avevo un soldo addosso e non volendo espormi ad alcuna mortificazione m’assisi sullo scalino d’ingresso e mi appisolai. Un cristiano non può dormir sulla strada senza che se ne immischino i poliziotti? Mi afferrarono e poiché non potevo dire che ero briaco né che ero stato a sciupar per le case di malaffare i quattrini che… non avevo, mi tirarono le orecchie. A queste manesche graziosità hanno preso parte il delegato ed il teste… LUCCHESI nega, ma tradisce l’imbarazzo…

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PASSANANTE – Non parlo per malanimo. Ma la verità è questa, e chi v’è passato sa per esperienza di che cosa siate capaci».

È probabile che il 10 novembre Passanante partecipasse ad un comizio operaio che si tenne al Circo Nazionale, dove gli internazionalisti napoletani diffusero il seguente volantino, pubblicato poi sul giornale «Roma» di Napoli il giorno seguente: «Operai! Vi punge la fame? v’impensierisce la mancanza di lavoro? vi preme la vita e l’amore dei vostri figli, delle vostre donne; vi irrita la prepotenza, la vigliaccheria, l’ingordigia dei vostri padroni? Vi pesa sulla nuca del collo il giogo dei capitalisti, degli usurai, dei governi affamatori del popolo, corrotto e corruttore? Il sentimento della vostra dignità conculcata, del vostro onore offeso, di ogni vostro diritto manomesso vi pesa sul cuore? Lasciate le ciarle e fate la rivoluzione! E quando vi stancherete di pregare, di chiedere, di supplicare? I signori vi ridono in faccia! Avete sangue nelle vene? figli di Masaniello dove siete voi? Lasciate le ciarle e fate la rivoluzione! Pensate che come voi soffrono milioni dei nostri compagni. Essi sono già risoluti: già un grande partito di operai si è formato, forte, potente, esteso in tutti i paesi, ed incute spavento al borghese oppressore. Unitevi ad essi e combattete! Una sola decisiva lotta risparmierà a voi e alle vostre famiglie parecchi anni di dolore! Lasciate le ciarle e fate la rivoluzione! Figli di Masaniello, sorgete!… Chi può resistere al terribile impeto di un popolo che insorge, ed a quello anche più terribile della disperazione. Sorgete, uomini e donne, giovani e vecchi! Tutti sorgete! Viva l’Internazionale, viva la rivoluzione dei lavoratori!».

Appresa la notizia dell’arrivo del re a Napoli, la mattina del 17 novembre Passanante usciva di casa per vedere se gli riusciva di trovare un qualche manifesto contrario a tali celebrazioni affisso sui muri della città, ma non vide altro «che un manifesto che cominciava con un evviva al re, alla regina, al principino…». Quindi, avendo 64

deciso di attentare alla vita del sovrano, vende «[…] una giacca di lanetta color oscuro a righette per lire 3,40 ad una donna piuttosto anziana che [vendeva] abiti vecchi in contrada Medina». Con il ricavato si reca in una bottega di ferrivecchi in Piazza Francese e acquista un coltello da cucina al prezzo di mezza lira, che cela in una pezzuola rossa a guisa di bandiera che si era precedentemente procurato e su cui scrive la frase: Morte al Re! Viva la Repubblica Universale! Si dirige quindi tra Via Toledo e Carriera Grande e attende l’arrivo del cocchio reale… L’attentato suscitò il solito coro di Te Deum per lo scampato pericolo, di proteste, di sdegni individuali e collettivi, di telegrammi, di attestati di fedeltà al re e alla monarchia. Quando a Salvia si seppe dell’attentato, il consiglio comunale si riunì in seduta straordinaria per deplorare il gesto di quel cafone, loro concittadino, che con ciò li aveva disonorati. Fu deciso di mandare il sindaco, Giovanni Parrella, a presentare le scuse al re a Napoli. Ma c’era uno scoglio da superare: anche il sindaco era un povero cristo e non aveva un vestito adatto per presentarsi al cospetto del re. Sicchè, il consiglio comunale, quasi certamente commettendo un illecito, lo autorizzò a prelevare dalle casse comunali la somma necessaria per affittare un vestito e per la spesa del viaggio a Napoli. Giunto alla Reggia del capoluogo campano, il sindaco, alla presenza del re, appena appena riuscì a balbettare: «Maestà… io rappresento… la disgraziata… Salvia» e non seppe andare più avanti. Il re lo rincuorò stringendogli la mano e dicendogli: «Gli assassini non hanno patria». Ma nonostante tutto il paese restava “colpevole”, doveva dunque espiare la colpa di aver dato i natali e di aver lasciato in vita, ventinove anni prima, quel bambino che osò poi l’inosabile, quindi dai consiglieri della corona partì un “suggerimento” che intimava un inqualificabile atto di vergognosa sudditanza. Era necessario mutare il nome del paese, annullare quello di Salvia, per sostituirlo con un nome più adeguato, più consono a provare l’attaccamento monarchico e la stima nei confronti della casa regnante. Il nome dovrebbe essere, dicono al succube Parrella, Savoia di Lucania. Il sindaco tornò a Salvia con tanta 65

paura. Il 21 novembre 1878, il consiglio comunale viene convocato nuovamente d’urgenza per approvare e chiedere il mutamento del nome del paese. La sostituzione sarà accordata con regio decreto del 3 luglio 1879 e per «esaudire il desiderio dei fedeli sudditi» il paese d’ora in poi si chiamerà Savoia di Lucania. Nome che, nonostante l’abrogazione della monarchia e l’avvento della repubblica nel 1946, a testimoniare il perpetuarsi di un chiuso e intollerabile servaggio, tuttora continua a definire la toponomastica dell’antica Salvia. Immediatamente tratto in arresto, e dopo aver ricevuto le prime bastonature, Passanante venne portato al carcere di San Francesco di Napoli. Qui fu sottoposto a torture inenarrabili perché svelasse il complotto che era stato ordito contro il re e facesse i nomi dei suoi complici. Ma il complotto e i complici esistevano solo nelle fantasie degli inquirenti, che avrebbero voluto coinvolgere nell’attentato più elementi sovversivi, internazionalisti e repubblicani, possibili, sicchè, nonostante le torture – le grida di Passanante venivano quotidianamente udite dagli altri detenuti del carcere – le uniche dichiarazioni che l’ispettore Di Donato potè verbalizzare nel corso degli interrogatori furono di questo tenore: «[…] il mio ideale è la repubblica universale, però non sono aggregato ad alcuna setta; penso ed opero per conto mio. Di vero se avessi avuto soci, se fossi stato mandatario d’una setta mi si sarebbe apprestata arma più efficace nel disegno di consumare il regicidio, nella cui flagranza sono stato arrestato. […] non ho, personalmente, alcun rancore contro Re Umberto; il mio odio è contro tutti i re, che si equivalgono e sono un ostacolo alla realizzazione della repubblica universale… […] Se avessi avuto denari, o se me ne fossero stati apprestati da qualche setta, non mi sarei forse provveduto di coltello, ma ben vero avrei fatto acquisto di arma da fuoco, per esempio, di un revolver. […] le idee politiche mie [le] formai discorrendo e vivendo in mezzo al popolo. Non saprei particolarmente indicare alcuno […]».

E le dichiarazioni false che l’ispettore Di Donato volle aggiungere 66

nei verbali d’interrogatorio per mettere in mala luce gli internazionalisti e far sentire in pubblico che essi erano ripudiati e rinnegati anche da un regicida, come quella secondo cui il Passanante aveva in dispregio l’Internazionale ed i cosiddetti comunisti perché traditori, vennero apertamente sconfessate dall’imputato nel corso del processo: «Non ho mai detto che gli internazionalisti siano traditori, non ho ragione di dirlo, se è nel verbale d’interrogatorio, non è roba mia. Io son stato iscritto durante un paio di mesi all’incirca nella Società Operaia di Bellizzano, ne uscii perché nella Società Operaia gli operai erano meno che nulla, e perché dei fondi della società si facevano tutti gli usi all’infuori di quello per cui erano sollecitati e raccolti; e da quel giorno non mi sono ascritto né a società né a setta. Sono seguace dei principi repubblicani più che dei socialisti ma sono d’accordo con coloro che cercano di raccogliere ad un compito comune invece che sfrenare a competizioni fratricide, queste due correnti del moto popolare […]».

Nel frattempo, i familiari di Passanante vengono rinchiusi in manicomio e le autorità sperano che l’attentatore venga dichiarato pazzo. Tuttavia, la commissione incaricata di redigere una perizia sullo stato mentale di Passanante, della quale fanno parte cinque eminenti esperti, tra i quali gli psichiatri di fama nazionale Biffi e Tamburini, lo dichiara sano di mente e di grande intelligenza. Ecco alcuni stralci della perizia: «[…] né prima né dopo l’attentato la sua mente si offuscò per un istante, anzi, tutto aveva preparato con calma ed avvedutezza, e va ben determinato, ben sicuro del sacrifizio della sua vita pur di riuscire allo scopo a cui lo determinò non il rancore personale ma il desiderio del trionfo di un’idea per la quale fu già processato […]. Dai [suoi] scritti appare come dal 1870 alcune idee di Passanante sian cangiate, molte sieno surte di nuove, nuove questioni siano state da lui studiate, e ricercatene da lui le soluzioni. In allora la politica era tutto e la questione sociale appena s’intravedeva. Oggi invece a quella non dà più che un’importanza secondaria. È la questione sociale che oggi predomina, sono i mali del popolo cui bisogna trovare un rimedio radicale. In ciò noi troviamo la mente del Passanante preoccupata dai bisogni che agitano le

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masse oggi, e dalle idee che oggi fermentano in certe classi della società, ne producono quelle sette che menano a rovesciare dalle fondamenta l’attuale ordine di cose, com’è dell’Internazionale. ANTROPOMETRIA – Giovanni Passanante ha 29 anni, è di costituzione scheletrica mingherlina, alto m. 1,63, peso Kg. 51,500. Ha il cranio ben sviluppato e ben conformato, l’indice cefalico elevato, le curve ed i diametri superiori alla media dello sviluppo e delle dimensioni normali. FUNZIONI PSICHICHE – L’ideazione del Passanante è normale, nessuna idea accenna anche lontanamente al delirio, anzi… gli stessi concetti apparentemente confusi che s’incontrano qua e là nei suoi scritti, esplicati da lui, divengono chiari, e le idee più utopistiche, colla sua parola, divengono per lo meno discutibili. L’attività produttiva delle idee è normale, forse non comune. La rapidità della percezione e della formazione dei giudizi, pure notevole. Altrettanto dicasi della riflessione a giudicare, della prontezza ed acutezza delle risposte, della facoltà con cui si prepara alle successive. La memoria è pronta e tenace. I sentimenti tutti ben sviluppati e più quelli che sogliono chiamarsi altruistici che gli egoistici. I sentimenti affettivi sviluppatissimi. L’affetto ai genitori, quello verso gli amici sono per lui il più alto dovere […]. La fisionomia è piuttosto dolce, spesso sorridente, non ha nulla di truce. Lo sguardo è acuto, scrutatore, mobilissimo. Il suo contegno è di persona energica; incede diritto e franco. Sapeva o sperava un movimento organizzato per cangiare l’attuale ordine di cose? Qui dobbiamo arrestarci perché mancano gli elementi a risolvere il problema, e dobbiamo limitarci a quelli che ci fornisce egli stesso colle sue confessioni: ciò che lo determinò fu la vista delle pompe che il popolo preparava ad accogliere festosamente il suo idolo; ciò lo spinse a dare un solenne esempio, un richiamo al popolo […]».

Il processo si svolse a Napoli dal 6 al 7 marzo del 1879. Fu una turpitudine giudiziaria e finanche le forme e le garanzie di rito più elementari vennero scavalcate con un cinismo sfrontato. Il Presidente della Sessione d’Assise, Cav. Carlo Ferri, d’accordo col Pubblico Ministero La Francesca, coi giudici Manno e Guarracini, consenziente pusillanimemente l’avvocato difensore Leopoldo Tarantini, nominato d’ufficio e che prima di accettare l’incarico si era recato a Roma a scusarsi personalmente col re per il compito che per dovere era costretto ad assumersi e ad assicurarlo che si sarebbe 68

limitato a raccomandare l’imputato alla pietà dei giurati, non volle sorteggiare in pubblico gli elementi della giuria, ma li scelse uno ad uno clandestinamente in Camera di Consiglio. Bisognava ad ogni costo che i giurati fossero scelti con cura, in modo da evitare che dal loro verdetto trapelasse lo spirito della cittadinanza napoletana, che sebbene deplorasse, in linea di massima, il gesto di Passanante, era però anche ben lontana dal simpatizzare con Umberto I, colla dinastia dei conquistatori e con il nuovo regime “liberale”. Al dibattimento è presente anche l’ex Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli, il cui governo era caduto il 1° dicembre 1878 a seguito di un lungo e drammatico dibattito parlamentare sulla situazione dell’ordine pubblico. Il pubblico in aula capisce che la corte calpesta le garanzie più elementari e spesso mormora indignato, al che il presidente Ferri minaccia in continuazione che sarà costretto, «ripetendosi le manifestazioni di simpatia all’imputato», ad ordinare lo sgombero dell’aula. Nessun applauso al re, frequenti invece i commenti e le manifestazioni di simpatia per Passanante, che conduce il processo con una sottile e sferzante ironia, prendendosi gioco della corte, e sempre attento a non coinvolgere e compromettere i propri amici e compagni di fede, come l’internazionalista napoletano Matteo Melillo, un giornalista che era stato arrestato quale presunto complice e poi prosciolto in istruttoria per insufficienza di prove. Interrogato intorno alle sue idee, il presidente Ferri chiese al Passanante, riferendosi ad un accenno che l’imputato faceva, nei suoi scritti, a Masaniello, se non sapesse del delirio folle d’imperio da cui il Masaniello fu colto non appena assunto al potere, al che Passanante rispose «[…] che nei primi giorni della sua potenza Masaniello, affiancato dal popolo di cui aveva conservato le abitudini, il linguaggio, la foggia del vestire, mostrò d’aver senso di giustizia e di libertà. Dopo, trascinato dalle lusinghe perfide della Corte, fece bruciar case, recidere teste, abbandonandosi a tutte le follie selvagge dell’autorità contro cui era prima insorto. Doveva esser così, non poteva esser altrimenti. Spiega ad un altro punto perché aveva chiamato la libertà di stampa “la

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vera sentinella del popolo e del governo” in quanto sia la maggior garanzia dei diritti del popolo ed il freno più energico agli arbitri dello Stato. Richiesto se faccia differenza tra superbia e fierezza, risponde che questa è decoro, quella può essere presunzione, questa una virtù, quella un vizio. Accenna alla Repubblica Partenopea del 1799 notando che essa rese migliori veramente le generali condizioni di vita, mentre quella del 1860 non badò che alle forme esteriori ed all’unità. PRESIDENTE – Sapete quando e perché cessò di reggersi la repubblica? PASSANANTE – Quando se ne andarono gli uomini buoni. PRESIDENTE – Dunque a mantener la repubblica è necessaria l’educazione alle virtù repubblicane. Credevate di prepararla col vostro abominevole delitto? PASSANANTE – Non ne ho mai coltivato la pretesa. PRESIDENTE – Credete che sia virtù repubblicana non rispettare il voto od il consenso del maggior numero, turbarne la tranquillità, comprometterne gli interessi? PASSANANTE – La maggioranza che si rassegna è colpevole, la minoranza ha il diritto di richiamarla. PRESIDENTE – Così il vostro attentato… PASSANANTE – Più che alla vita del re contro cui non ho nulla personalmente, voleva essere una mortificazione per la monarchia ed una protesta, un richiamo ai morti di fame che l’acclamano perché ad essi ha ribadito sui polsi la schiavitù, nei ventri la miseria e la fame. PRESIDENTE – Non sono migliorate col nuovo regime le condizioni della vita pubblica? PASSANANTE – Il governo passato era rappresentato dalle tre F proverbiali: feste, farine, forche. Il nuovo ha sostituito le tre P: parlate, piangete, pagate. PRESIDENTE – Avete a dolervi per conto vostro? PASSANANTE – Non siamo chiamati a vivere per noi soli. PRESIDENTE – Avete agito per commiserazione dell’altrui? ma se gli altri non avessero pensato e non pensassero come voi, vi sarete creduto in diritto d’imporre loro per forza un miglioramento di condizioni? PASSANANTE – Dodici anni di vita e di propaganda in mezzo ai lavoratori mi danno diritto a credere che sono con me anche all’infuori degli umili, molti animi buoni e molti cuori generosi. PRESIDENTE – Credete che se il 17 novembre il re fosse stato vittima della vostra aggressione le condizioni del popolo sarebbero migliorate? PASSANANTE – Chissà? PRESIDENTE – Ne dubitate? PASSANANTE – Non ne so nulla, la mia azione essendo stata spontanea,

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remota ogni congiura. Credo però che, pure senza complotti, il moto avrebbe potuto generalizzarsi ed il partito repubblicano avrebbe potuto approfittare del colpo. PRESIDENTE – Che cosa vi dà ragione a crederlo? PASSANANTE – Lo spirito pubblico com’è tradotto dai giornali. PRESIDENTE – E se il partito repubblicano non fosse stato pronto all’azione? PASSANANTE – I migliori colpi sono quelli che arrivano all’impensata».

Dopo la requisitoria del Pubblico Ministero, fu la volta dell’avvocato difensore Tarantini che si limitò a rimettersi alla clemenza della corte, senza chiedere nessuna attenuante. I giurati non rimasero più di dieci minuti in camera di deliberazione, tornando con un verdetto di colpevolezza, muto però sulle circostanze attenuanti. Alcuni anni dopo, si venne a sapere, come svelerà Francesco Saverio Merlino in un libro pubblicato in Francia che raccoglieva la testimonianza di un magistrato che faceva parte della corte, che ben quattro giurati avevano votato per l’assoluzione e altri cinque per le circostanze attenuanti. Ma l’ordine tassativo era stato per la condanna a morte e al Presidente Ferri furono sufficienti cinque minuti per condannare «Giovanni Passanante fu Pasquale alla pena di morte da eseguirsi nei modi di legge, alla perdita dei diritti di cui all’art. 23, ed alle spese del procedimento». «Oh, quanto alle spese… – soggiunse Passanante con un sorriso e con un gesto vago della mano – quanto alle spese, le pagherete voi!». Indizio sincero del sentimento che l’attentato e più la condanna di Passanante avevano suscitato nel proletariato napoletano è la canzone che viene di seguito riprodotta, assai nota a quei tempi e che il popolino attribuiva al Passanante stesso: «CANZONE CHE RECITA GIOVANNI PASSANANTE. Avete visto mai il poverello in qualche canto cencioso e scalzo a stendervi il cappello e in suon di pianto chiedervi un pane per i santi

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quel pane che ora manca a tanti? Se lo avete visto io vi voglio dire è tempo ch’ei finisca di soffrire con lui ci armerem senza viltà chiedendo al ricco pane e libertà. Avete mai sentito l’artigiano da mane a sera batter la porta del padron villano e con preghiera chieder respinto un poco di lavoro e sì che l’opra sua lo impingua d’oro? Se lo avete udito io vi voglio dire che il perfido padron s’avrà a pentire allor che spiegheremo senza viltà bandiera rossa gridando libertà. E il contadin di tutte le contrade lo avete visto languir per fame su le raccolte biade? E al sere tristo le bricciole di quello che raccoglie chiedere, per isfamarsi colla moglie? Se lo avete visto io vi voglio dire che si deve con lui vivere o morire allor che insorgeremo senza viltà per acquistarci pane e libertà. C’è stato il Nazzareno un giorno ancora che predicava dell’uguaglianza prossima l’aurora, ed insegnava che i grandi vivono dei nostri sudori che son dei beni comuni usurpatori. Ed essi perché questo egli ebbe a dire barbaramente il fecero morire, ma ora chi soccombere dovrà saran quei che ci negan libertà».

In vari centri della penisola, si svolsero delle manifestazioni di protesta contro la pesante condanna inflitta a Passanante. In una di queste, a Bologna, Giovanni Pascoli, che allora frequentava gli ambienti internazionalisti e che aveva scritto una poesia per Passanante 72

che terminava con l’idea di fare «col berretto del cuoco una bandiera», venne arrestato per aver gridato: «Se questi sono i malfattori, viva i malfattori!». Rimarrà in carcere un bel po’, dal 7 settembre al 22 dicembre del 1879. Il 21 marzo del ’79, l’avvocato difensore Tarantini ricorreva in Cassazione contro la condanna a morte, denunciando alcune violazioni di legge: il ricorso, che Passanante si rifiutò di firmare, venne rigettato il 28 marzo. Il giorno seguente, Passanante scrisse una lettera al re in cui dichiarava di essere «molto disubbidiente» e «sempre suo nemico». Quello stesso giorno, il re, convintosi della sproporzione della pena e, probabilmente, colpito dal fatto che ben quattro giurati avevano votato per l’assoluzione, commutò la pena capitale nell’ergastolo a vita. E che ergastolo! Nella notte del 30 marzo, Passanante veniva trasferito, imbarcato sotto scorta sul traghetto Laguna, nel penitenziario di Portoferraio, nell’Isola d’Elba, dove fu “sepolto vivo” in una cella buia e umida, costruita sotto il livello del mare (la torre del carcere che ospitava questa cella è ancora oggi chiamata Torre di Passanante). Venne costretto a portare le catene ai piedi e una palla di piombo di 18 chilogrammi, gli fu negata qualsiasi visita, ogni corrispondenza interdetta, e perfino i secondini avevano l’ordine preciso di non rispondere mai alle sue domande, fossero state anche le più urgenti ed indispensabili, e di astenersi dal parlargli per qualsiasi motivo. Le bastonature e le percosse frequenti: i marinai e pescatori di Portoferraio, inorriditi nei primi giorni, avevano finito per abituarsi alle grida strazianti che ogni notte prorompevano fuori dalla cella del regicida, attanagliato dagli aguzzini. Udivano anche, giorno e notte, il rumore della catena trascinata e un lamento, a volte di dolore, a volte di rabbia. Anni dopo, il direttore del carcere, tale Simon, si vanterà di questi inumani trattamenti con un altro detenuto, Amilcare Cipriani: «Ho domato Passanante, domerò anche te!». Nel 1888, l’onorevole Agostino Bertani denunziò la persecu73

zione carceraria contro Passanante: «[…] dopo otto giorni di insistenze, di minacce, di telegrammi scambiati col ministero, [ottenni] – quello ch’era stato rifiutato a scienziati d’Italia e dell’estero, allo stesso arcivescovo di Portoferraio – il permesso non di visitare il prigioniero, ma di guardarlo per soli cinque minuti traverso lo spioncino della cella senza parlargli, senza fargli un gesto, senza il più lieve movimento, giacchè il detenuto non doveva in nessun modo accorgersi della presenza di un visitatore. Dopo qualche istante, indispensabile ad abituare l’occhio alle tenebre, [potei], alla pallida luce d’una lampada sospesa all’interno, discernere quest’uomo gonfio, scolorito come l’argilla, immobile sulla branda, rantolante nello sforzo di sollevare colla mano la pesante catena di diciotto chilogrammi che a causa della debolezza dei reni non poteva sopportare. […] Per due anni Passanante è rimasto sepolto nell’oscurità più completa, in una cella posta al di sotto del livello dell’acqua, e là, sotto l’azione continuata dell’umidità e delle tenebre, il suo corpo si denudò d’ogni pelo, si scolorì, si gonfiò così come oggi si vede. Poi fu fatto salire per scale tenebrose, senza che abbia potuto rivedere il cielo neppure per un istante, alla sua cella attuale a livello dell’acqua. Colà è rimasto chiuso giorno e notte senza interruzione […]».

Anna Maria Mozzoni, che accompagnò Bertani fino al cancello della torre ove era detenuto Passanante, ricorderà in seguito, scrivendolo sulla rivista «Critica Sociale», che il medico del penitenziario le «[…] disse dell’indole dolce del prigioniero, che tenuto, da anni, con tanti rigori, non si era mai lasciato sfuggire una parola di impazienza. Mi disse che volgeva all’ascetismo, ed aggiunse questa frase testuale: È un San Luigi». E, proseguendo nel racconto, il medico riferiva che l’ergastolano «[…] non vede mai faccia d’uomo, il cibo compare per mezzo di un “turno” nella sua segreta, illuminata da una luce così tenue che i suoi occhi soltanto, stati due anni interi nella assoluta oscurità, riescono a discernere qualche cosa. Il cibo si ritrova nel “turno” nella più gran parte e ritorna spesso intatto. Egli vive miracolosamente». Il deputato radicale Bertani uscì dal penitenziario profondamente turbato e protestò vivacemente: «Questo non è un castigo – scrisse – è una vendetta peggiore del pati74

bolo», minacciando un’interpellanza parlamentare. La denuncia venne ripresa da vari giornali, in particolare da «Il Messaggero» e «Il Caffaro», che sottolinearono l’illegalità e l’inumanità di un tale trattamento. Scoppiato lo scandalo, il governo, per evitare di essere travolto da esso, sottopose l’ergastolano di Portoferraio ad una perizia medica, e due celebri alienisti, il Biffi e il Tamburini, gli stessi che alle Assise di Napoli avevano visitato Passanante giudicandolo sano di mente e di grande intelligenza, si trovarono dinnanzi un povero rottame, una larva umana, e ne sollecitarono l’invio in un istituto di cura per le malattie mentali. Attraverso un comunicato, il Ministero dell’Interno rendeva noti i risultati della perizia ed annunciava il prossimo trasferimento del condannato al manicomio dell’Ambrosiana, rigettando nel contempo ogni responsabilità circa il trattamento subito dallo stesso nel penitenziario di Portoferraio. Incredibilmente, si affermava che il Passanante era stato segregato in tal modo «[…] anche per suo desiderio; le visite erano state sconsigliate dal sanitario e sfuggite dal condannato; il cibo era quello prescritto dal medico». Così, Passanante venne trasferito nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove fu però impossibile recuperarlo nel fisico e nel morale. Qui, alcuni anni dopo, il conte Alessandro Guiccioli, in visita all’istituto, lo incontrò, annotando nel suo diario: «Gli parlo. È un mezzo cretino, il quale non fa che reclamare una certa lira che, secondo lui, gli veniva data ogni mese e che ora non riceve più». E qui si spense, il 14 febbraio del 1910, all’età di 61 anni. Ma il regime liberal-monarchico infierì su di lui anche dopo la morte: il suo corpo venne decapitato, ed ancor oggi il suo cranio e il suo cervello sono esposti nel Museo Criminologico Altavista di Roma.

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CAPITOLO VI Milleottocentonovantaquattro: sommosse, attentati e repressione.

Nel corso del mese di giugno del 1894, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi, che aveva ottenuto l’incarico di formare il governo il 15 dicembre del 1893 in seguito alla caduta del ministero Giolitti sotto il peso della «questione morale» sollevata dal cosiddetto scandalo della Banca romana, superò una breve crisi dovuta all’ostilità della Camera alle misure fiscali proposte dal ministro delle Finanze e del Tesoro Sonnino. Ottenuto il reincarico da parte del re il 14 giugno, Crispi, dopo un piccolo rimpasto, formava il nuovo governo che venne definitivamente votato dalle Camere il 16. Due giorni dopo, il 18 giugno, Crispi sale sulla carrozza assieme al suo capo di gabinetto Giuseppe Pinelli per recarsi all’ufficio. Giunto in Via Gregoriana, un giovane si avvicina alla carrozza armato di due pistole. Inceppatasi la prima, il giovane spara con la seconda due colpi contro il Presidente del Consiglio, ma manca il bersaglio anche per il pronto intervento del cocchiere che riesce poi a immobilizzarlo. Sopraggiunti due carabinieri, il giovane viene tratto in arresto e subito bastonato e frustato, mentre Crispi, illeso, può proseguire il suo tragitto verso il ministero. Il giovane attentatore ha 25 anni, si chiama Paolo Lega, è nato a Lugo, in provincia di Ravenna, il 9 dicembre 1868 da Giuseppe e Clotilde Baldini, e di mestiere fa il falegname. L’attentato costituisce per Crispi una grossa fortuna, oltre che fisica, politica. Nel plebiscito di congratulazioni per lo scampato pericolo, gli attacchi personali dei suoi avversari, giunti ormai all’infamazione pubblica, si attenuano. Le già predisposte leggi eccezionali contro gli anarchici e più generalmente contro i sovversivi, guadagnano consensi in parlamento e nell’opinione pubblica. Il neo77

nato e traballante governo può consolidare la sua maggioranza, e Crispi rimontare le avverse correnti che fino allora lo avevano contrastato. Nel frattempo, da parte della polizia, su precisa indicazione del governo, si vuole ad ogni costo scoprire dietro l’attentato un vasto complotto, magari internazionale. Ma il gesto di Lega è un atto di vendetta puramente individuale, e la sua determinazione a colpire in Crispi il sistema o addirittura la società si è formata in anni di patimenti e di angherie. All’età di nove anni, Paolo Lega apprese a Lugo il mestiere di falegname che esercitava spostandosi in varie località. Nei ritagli di tempo che il lavoro gli lasciava, leggeva vari giornali e opuscoli repubblicani e internazionalisti, cominciando a formarsi un’idea sulla dura realtà sociale che lo circondava. A 15 anni diventa repubblicano e poco dopo socialista anarchico. Nel 1886 si trasferisce a Bologna, dove s’impiega per tre anni, e a partire dal 1889 è a Genova, dove si fa notare come propagandista anarchico e «indefesso agitatore e organizzatore di scioperi e dimostrazioni». Qui assume la gerenza del giornale «Primo Maggio», a seguito della quale viene arrestato e fatto rimpatriare a Lugo. Dopo tre mesi ritorna a Genova, ma viene nuovamente arrestato, stavolta in occasione della visita del re al capoluogo ligure, avvenuta dall’8 al 12 settembre del 1892 per prendere parte ai festeggiamenti per i quattrocento anni della scoperta dell’America, e rispedito a Lugo. Da qui si reca a Bologna, dove viene ancora arrestato e processato in Corte d’Assise per reato di stampa, processo che si chiuderà con un’assoluzione. Le continue persecuzioni della polizia nei suoi confronti, causano di lì a poco la morte del padre di Paolo Lega, che già da tempo era malato di cuore. Decide allora di espatriare e si reca a Marsiglia, dove entra in relazione con i compagni anarchici francesi e frequenta l’ambiente degli anarchici italiani antiorganizzatori vicini al siciliano Paolo Schicchi, ma le sue malferme condizioni di salute lo costringono a rientrare in Italia, a Genova. Qui partecipa alle attività del gruppo anarchico genovese e di quello spezzino, assumendo la gerenza di alcuni numeri unici e occupandosi della raccolta di fondi. In alcuni suoi arti78

coli apparsi su tali giornali, si firma con lo pseudonimo Marat che trae da un’opera dello scrittore Ulisse Barbieri, di cui si professa fervente ammiratore. Viene nuovamente arrestato, e dopo 20 giorni di carcere è tradotto alla natia Lugo. Recatosi in questura per chiedere il passaporto per un nuovo espatrio, è minacciato di ammonizione per oziosità e vagabondaggio, accusa che riesce però a dimostrare infondata. Dopo altri sei mesi passati a lavorare tra Bologna e Marsiglia, il 16 giugno del 1893 è di nuovo sorpreso dalla polizia a Genova e rinviato a Lugo. La medesima scena si ripete il successivo 19 agosto. Nel frattempo, in Francia, nella cittadina di Aigues-Mortes, si verifica, il 17 agosto del ’93, un tragico eccidio di lavoratori italiani compiuto da operai francesi che vedevano negli emigranti solo una riserva di crumiri a basso prezzo che attentavano al loro lavoro nelle saline. Si conteranno ben trenta operai italiani morti e molte altre decine quelli feriti. Alla notizia dell’eccidio, in Italia si scatena una grande commozione nazionalista e il governo di Roma, impegnato in quegli anni in una dura e lunga guerra doganale con la vicina Francia, in conseguenza della politica protezionistica adottata a partire dal 1887, tenta di sfruttare l’incidente di Aigues-Mortes per convogliare il malcontento dei lavoratori e dei disoccupati italiani contro l’ambasciata e i consolati francesi. In numerose città vengono inscenate grandi dimostrazioni popolari che la borghesia sfrutta in funzione filo-triplicista ed anti-francese. Ma col passare delle ore queste dimostrazioni popolari sfuggono di mano ai loro ispiratori per volgersi contro il governo italiano stesso. Non si attaccano più i consolati, ma piuttosto i negozi di proprietà francese o ritenuti tali, quindi le sedi delle società del gas o delle tramvie gestite da capitale e con nomi stranieri. Infine, si assaltano gli stessi tram ed omnibus e l’attacco viene condotto in prima persona dai vetturini delle carrozze a cavalli minacciati di fame per la concorrenza dei nuovi servizi cittadini. La polizia, che inizialmente aveva affiancato benevolmente le dimostrazioni dirette dalla borghesia, carica ora brutalmente i popolani. Questi reagiscono e battono la polizia. Ven79

gono inviati a sedare le dimostrazioni dei reparti dell’esercito, si alzano le barricate, si spara sulla folla, cadono i primi morti popolani e i primi feriti. Si carica, si arresta e la lotta di piazza diventa lotta contro la fame, la disoccupazione, la polizia, lo stato esistente. A Milano, a Genova, a Roma e soprattutto a Napoli gli scontri di strada proseguono per diversi giorni, con una partecipazione di massa davvero impressionante, al grido di «Abbasso la sbirraglia» e «Abbasso gli sfruttatori». Il 22 agosto a Roma il governo decreta lo stato d’assedio e lo stesso avviene a Napoli il 24. Il 26 agosto l’esercito riesce a reprimere definitivamente le sommosse nei vari centri della penisola: alcune decine i popolani uccisi, centinaia i feriti, migliaia gli arrestati. Ai moti d’estate, seguiranno nell’autunno e nell’inverno del 1893 gli ancor più gravi ed estesi moti dei fasci siciliani, che porteranno la Sicilia intera sull’orlo della rivoluzione. Costituitisi gradualmente in diversi centri dell’isola a partire dal 1891, i fasci erano delle associazioni parasindacali – formate da svariate categorie di lavoratori che andavano dai braccianti ai contadini, dagli operai delle città ai minatori delle zolfare, dagli artigiani ai piccoli proprietari produttori di agrumi e vino – che assommavano al loro interno diversi elementi e funzioni: erano società di mutuo soccorso contro lo sfruttamento; erano leghe di resistenza contro il regime padronale e per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori; erano cooperative come nuclei di una società futura; erano associazioni culturali in rottura con la cultura dominante. Numerose e costanti furono, nel corso del 1892-93, le rivendicazioni, le proteste, le manifestazioni e gli scioperi organizzati da questi fasci, ormai capillarmente diffusi in gran parte dell’isola. Tali battaglie di “categoria” si allargarono ben presto verso obiettivi più generali come la lotta alle tasse e ai municipi, il che porterà il movimento dei fasci ad innalzare decisamente e repentinamente la propria azione ad un vero e proprio livello rivoluzionario. Negli ultimi mesi del 1893, mezza Sicilia sta insorgendo: da Mazara del Vallo a Castelvetrano, da Calatafimi a Camporeale, da Montelepre a Partinico, da Corleone a Monreale, da Favara ad 80

Aragona, da Villarosa a Pietraperizia, da Floresta a Giardinello, e in decine e decine di altre località grandi e piccole le masse scendono in piazza abbattendo a furore popolare i casotti daziari e i municipi, distruggendo carte e registri, assalendo e circondando i soldati e i delegati di P.S., perfino destituendo alcuni Sindaci. È una lotta su tutti i fronti contro le clientele comunali, il furto delle terre demaniali, i patti agrari servili, i salari da fame e per la diminuzione delle ore di lavoro, per l’abolizione delle imposte e dei dazi. Le parole d’ordine sono: «abbasso i dazi», «abbasso il sindaco e i consiglieri», «viva il socialismo», «viva l’anarchia» insieme a «viva Garibaldi». Lo Stato reagisce e si prepara alla repressione: otto battaglioni di fanteria vengono inviati in Sicilia e si ricostituiscono le zone e sottozone militari sotto il comando del generale Corsi. Si arrestano in massa i dirigenti periferici e i membri dei fasci (ben 800 sono gli arrestati nel novembre 1893). Nel dicembre la lotta è generale in tutta la Sicilia occidentale e centrale, ed il governo risponde ormai con gli eccidi in massa. Il bilancio finale di quest’ultimo mese sarà di 92 morti e di varie centinaia di feriti, tutti tra i dimostranti, secondo il calcolo, approssimativo per difetto, fatto dal Colajanni. Inaugura la lista degli eccidi Giardinello, dove il 10 dicembre vengono uccisi undici popolani, mentre chiude questa tragica lista S. Caterina Villemosa, dove il 5 gennaio del 1894 la forza pubblica spara a zero sulla folla uccidendo tredici lavoratori e ferendone altre decine. Alcuni giorni prima, il 2 gennaio, il generale Morra di Lavriano, inviato da Crispi in Sicilia come comandante del corpo d’armata di Palermo, proclamava lo stato d’assedio, che veniva esteso a tutta l’isola. Vennero istituiti i Tribunali Militari e con decreto dell’11 gennaio si procedette all’arresto e all’invio al domicilio coatto degli ammoniti e della «gente di malaffare». Ai dirigenti e ai membri dei fasci, arrestati e giudicati dai tribunali militari, furono inflitte pene severissime: De Felice Giuffrida fu condannato a 18 anni di carcere, i socialisti Bosco, Verro e Barbato a 12 anni ciascuno, mentre altre pene varianti da 1 a 30 anni di carcere vennero elargite a piene mani a centinaia di dimostranti e popolani. 81

L’insurrezione siciliana ebbe un eco in alcuni centri della penisola, come a Ruvo e a Corato, in Puglia, dove il 9 gennaio insorgono i contadini che al grido di «W la Sicilia» e «abbasso i borghesi» atterrano il telegrafo, attaccano il Municipio, il Dazio, l’Agenzia delle Imposte e la Banca agricola: anche questi moti saranno repressi nel sangue. Infine, il 13 gennaio del 1894 insorgono i lavoratori anarchici delle cave di Carrara, al grido di «Abbasso i dazi, Viva la Sicilia». Vengono incendiati i casotti daziari della città del marmo, si tagliano i fili del telegrafo, si erigono barricate e si susseguono per tre giorni gli scontri a fuoco con la polizia e l’esercito, inviato in zona dal governo per reprimere i moti. Il 16 gennaio, alle porte della città, presso la Caserma Dogali, i soldati sparano a zero su una folla di circa 800 persone scesa dai monti circostanti, uccidendo 12 dimostranti e ferendone molte altre decine. Quello stesso giorno, Crispi decretava lo stato d’assedio sull’intera Lunigiana, inviando in zona quale commissario straordinario regio il generale degli alpini Nicola Heusch e istituendo i Tribunali Militari che, nei mesi seguenti, arresteranno più di 700 persone, condannandone quasi 500 a pene varianti da 1 a 30 anni di reclusione. Tornando alle vicende personali di Paolo Lega, lo ritroviamo, agli inizi del 1894, di nuovo a Genova, dove rimane profondamente colpito dagli eccidi e dalle repressioni effettuate dal governo nei confronti dei moti siciliani prima e di quelli della Lunigiana poi. Nel capoluogo ligure, il 7 marzo, viene ancora arrestato e questa volta, durante la perquisizione, gli viene rinvenuto un coltello a manico fisso, il che gli costa una condanna a 45 giorni di carcere (ma gliene faranno scontare ben 60). In carcere, matura l’idea di attentare alla vita del Presidente del Consiglio Francesco Crispi, per vendicarsi sia delle sofferenze patite personalmente, sia di quelle inflitte dal governo alle popolazioni siciliane, di Carrara e ai compagni anarchici genovesi, che erano stati incarcerati, a decine, ai primi di gennaio. Nel frattempo, la sera dell’8 marzo una violenta esplosione scuoteva il centro storico di Roma, echeggiando per tutta la città. La 82

bomba, collocata presso il palazzo di Montecitorio, provocava gravi danni, due morti e alcuni feriti. Un’altra esplosione più piccola, senza vittime, avvenne due mesi dopo, il 9 maggio, sempre a Roma, presso il palazzo dei conti Odescalchi. Infine, il 21 maggio, all’annuncio delle condanne della Corte d’Assise di Palermo contro De Felice Giuffrida, Bosco, Barbato, Verro e altri, nonché alla vigilia di una difficile prova parlamentare per il governo, due bombe esplodevano, senza fare vittime, al Ministero di Giustizia e al Ministero della Guerra. Gli anarchici non rivendicarono questi attentati, ma la grande stampa conservatrice li attribuì a loro. D’altronde, tra sommosse popolari, eccidi, repressioni, stati d’assedio, arresti e condanne elargiti a piene mani in Italia, e le notizie di attentati dinamitardi compiuti all’estero, soprattutto quelli degli anarchici francesi Auguste Vaillant alla Camera dei Deputati di Parigi, avvenuto il 9 dicembre 1893, ed Emile Henry al Caffè Terminus, sempre a Parigi, del 12 febbraio 1894, avevano scatenato, nella stampa conservatrice, una vera e propria isteria antianarchica che si manifestava con articoli che chiedevano a gran voce ordine e sicurezza, anche a discapito di quelle libertà che il regime parlamentare dell’epoca elargiva, secondo loro, con troppa generosità. Il giornale romano «La Tribuna», riferendosi ai dibattiti parlamentari che si sarebbero avuti di lì a poco, in occasione della riapertura delle Camere prevista per la fine di febbraio del 1894, affermava categoricamente, nell’editoriale intitolato Da una domenica all’altra a firma Sandor: «Da una parte [da parte dell’opposizione, N.d.A.], mi par di sentire, si sarebbe tirato fuori il colpo di Stato, l’arbitrio di Massa [e Carrara], le fucilate di Palermo; dall’altra [da parte della maggioranza, N.d.A.] si sarebbe opposto la necessità di governo, la responsabilità dell’ordine pubblico, eccetera. Conclusione?… La metta qui, per me, il buon principe Amleto: Words! Words! Words! Parole! parole! parole! […] I discorsi son belli e gli ordini del giorno di fiducia o no, pure. Ma il paese, il paese vero, oramai comincia a essere stufo delle chiacchiere, per quanto in periodi ornati e venusti… Il paese vuole ordine, tranquillità, sicurezza. Vuole poter dormire tranquillo. Vuole che ogni sera non debba andare a letto chiedendosi ansiosamente: e che sarà domani?… quale bomba i signori anarchici ci pre-

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parano?… quanti chilogrammi di dinamite saranno trovati sotto qualche caserma? […]».

Lo stesso Sandor, un mese dopo, sempre dalle colonne de «La Tribuna», scriveva un pezzo che nella sua assurda isteria antianarchica si rivelava alquanto comico: «Cominciò, la bomba, ad essere semestrale; poi diventò trimestrale; poi ogni mese. Adesso, abbiamo la bomba ebdomadaria – come i giornali illustrati. Nessun dubbio che arriveremo alla bomba quotidiana. Il progresso c’è in tutto. Noi ci si scherza, ma – francamente – c’è poco da scherzare. Noi navighiamo davvero sopra «il vulcano» di quell’ottimo Monsieur Prud’homme [sic!]. Le Società di assicurazione sulla vita umana devono pagare delle somme enormi. I calcoli della probabilità sono capovolti; le teorie dei rischi non reggono più; le medie sulla mortalità umana sono roba da medio evo. L’aritmetica e la statistica, che finora hanno governato il mondo, non avevano fatto i conti con Sua Maestà la Dinamite. È venuta lei, questa cosina giallognola, gelatinosa, che par nulla ed è tutto – ed ha capovolto ordinamenti, tradizioni, leggi, ogni cosa. Conosco della gente che non va più a teatro, dopo l’attentato del Liceo di Barcellona; che si priva del piacere di sentire gridare l’on. Imbriani, e non va più alla Camera, dopo la bomba di Vaillant; che non mette più piede in un Caffè-concerto, dopo il grazioso scherzetto fatto da quel caro signor Henry al Caffè Terminus… Ma santo Iddio! per quanti sacrifici si facciano, per quante privazioni ci si imponga, non si arriva mai a esser sicuri da una scheggia di mitraglia o – quanto meno – da un chiodo o da una palla messi per imbottitura di qualche bomba. […] Così è: la vita è diventata un’afflizione. Un amico vi spedisce da Milano un panettone – e voi ricordate che entro un pasticcio di fegato d’oca il prefetto di polizia di Parigi trovò una cartuccia di dinamite. È finita: quel panettone vi resta in gola. Vi arriva, di Calabria, un cesto di quei fichi imbottiti colle noci – che sono una specialità del luogo… La gola vi tira… Ma, pensate: saran poi noci sul serio, quella imbottitura? Accendete un virginia – e vi tornano in mente i sigari preparati alla dinamite che i nihilisti russi speravano di far fumare allo Czar. E voi buttate il sigaro, diffidando dell’amico che ve l’ha regalato, della tabaccaia che ve l’ha venduto, del Governo che l’ha fabbricato. Una scatola di sardine è una bomba; un pacco postale è un agguato; una

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camera di albergo è un pericolo; il treno può saltare in aria; il piroscafo può bruciare; camminate, e vi può cadere una bomba dai tetti; sedete, e vi può scoppiare di sotto; dormite, e possono avervi depositato una bomba nel colonnino accanto al letto; in ogni cosa che bruci vedete una miccia accesa; in ogni orologio che faccia tic-tac, temete una macchina infernale… Ah, la vita, così ridotta, non è davvero la più piacevole delle cose… E per vivere un po’ tranquilli, non ci resta che metterci sotto al sole, nella aperta campagna, immobili a guardarci l’ombelico, come fanno certi sacerdoti del Dio Budda, in India. Se la cosa vi accomoda, cominciate a guardarvelo da oggi».

E nel tentativo di infangare e screditare agli occhi del popolo la figura dell’anarchico giustiziere che subiva, senza batter ciglio, le pesanti condanne inflittegli dai tribunali per i propri attentati individuali, la stampa conservatrice non si tirava certo indietro, diffondendo e pubblicando con gran risalto delle presunte notizie che di veritiero non avevano null’altro che la calunnia preconfezionata. Sempre l’intrepido Sandor scriveva su «La Tribuna» del 27 maggio 1894 che «Mentre noi ancora siamo alla ricerca dei nostri bombardieri – in Francia e in Spagna hanno ghigliottinato e fucilato i loro. Vanno più per le spicce. Sono morti tutti “bene”. Non c’è che dire: a furia di cognac e di “posa” han trovato ancora la forza di gridare «viva l’anarchia» sotto la mannaia del signor Deibler [il boia, N.d.A.] e davanti ai moschetti della fanteria spagnola. C’è una cosa, però. L’autopsia di Henry ha accertato che il cuore era in stato di revulsione, e il fenomeno è proprio di quelli che muoiono di paura. Voi direte che non si può mettere il collo nella fatale lunetta del dottor Guillotin colla stessa indifferenza colla quale lo si offre al barbiere per insaponarvi il viso e radervi. E sta bene. Ma i giornali si son troppo compiaciuti finora a descriverci questi assassini come tanti eroi, che s’immolavano al loro ideale e morivano coraggiosamente. Fate un po’ di posto, se vi piace, anche al fenomeno della revulsione cardiaca; e annunziamo alle turbe, con eguale effusione di particolari, che l’eroe è morto di paura – pur gridando «viva l’anarchia». Non sarà male questo po’ di realtà anatomica fra tanta sanguinosa – e pericolosa – poesia di coraggio. Del resto, in Francia hanno finalmente capito che lo spettacolo

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di piazza della Roquette [piazza dove venivano eseguite le sentenze di morte, N.d.A.] non era fatto per moralizzare le masse; e hanno votato che la soppressione legale del bombardiere avvenga, d’ora in poi, nel segreto della prigione. Così, resta eliminata la “posa” da eroe a benefizio della platea. L’assassino si troverà solo – fra il carnefice e la sua coscienza. Tutti e due, inflessibilmente severi».

Scarcerato verso la metà di maggio, Paolo Lega si reca a Bologna dove si affilia al Fascio dei lavoratori di quella città, che era stato fondato – così come in vari altri centri della penisola quali Roma, Napoli, Benevento, Bari, Cosenza, Reggio Calabria, Venezia, Padova, Empoli, ecc. – nel dicembre del ’93 nel tentativo di inserire le agitazioni della Sicilia nel quadro di un’insurrezione nazionale, ed al gruppo anarchico di Porta Mazzini. Da qui, ormai completamente convinto di dover mettere in pratica il prima possibile il proposito di attentare alla vita del presidente del consiglio Crispi, il 30 maggio parte alla volta di Roma, facendo tappa presso l’ex internazionalista Domenico Francolini a Rimini e presso l’anarchico Emidio Recchioni ad Ancona, rivelando quasi sicuramente a quest’ultimo il suo progetto. Lega giunge a Roma il 13 giugno, probabilmente in compagnia dello stesso Recchioni, e due giorni dopo è a Firenze a far visita ai coniugi anarchici Francesco Pezzi e Luisa Minguzzi. Quindi da Firenze torna a Roma, dove finisce di mettere a punto l’attentato a Crispi che eseguirà, come si è già detto, di lì a poco. Una settimana dopo l’attentato di Paolo Lega a Crispi, la sera del 24 giugno, in Francia, e precisamente nella città di Lione, veniva ucciso con una pugnalata il Presidente della Repubblica francese Sadì Carnot. L’attentatore era un ventenne anarchico italiano, Sante Caserio, originario di Motta Visconti, in provincia di Milano, di mestiere fornaio. Questo gesto scatenò ancor di più le ire antianarchiche dell’opinione pubblica conservatrice, che chiedeva a gran voce misure eccezionali per estirpare la mala pianta del sovversivismo dal suolo italiano. Il solito Sandor, nell’editoriale de «La Tribuna» del 86

1° luglio 1894, si esprimeva nei termini seguenti: «La settimana scorsa si attentò alla vita del capo del Governo in Italia; questa settimana s’è ucciso il capo dello Stato in Francia. Dopo il mancato assassinio di Crispi – la pugnalata al cuore di Carnot. Ogni settimana ha la sua tragedia anarchica. La cronaca di oggi è per Sante Caserio, il fornaio lombardo, il triste eroe di Lione. Oramai non sono più “casi isolati” – fenomeni individuali – eccezioni dolorose. La malattia morale si estende; è una vera e propria epidemia d’anarchismo. È l’aria, che è ammorbata. Bisogna pensare al rimedio. Come ci si difende da un’infezione di colera o di vaiuolo – bisogna, con più ragione, organizzare la difesa contro l’attuale infezione anarchica. Oramai, la diga è rotta – e l’onda fangosa dilaga da per tutto. Ferro e fuoco, per questi miserabili cavalieri della bomba e del pugnale! E torni in vigore la legge antica: occhio per occhio, dente per dente… Della civiltà, essi, non hanno preso che i progressi della chimica, per fabbricar meglio le loro bombe omicide – e i perfezionamenti delle armi portatili, per misurar meglio la precisione dei loro tiri. Ebbene! non è giusto che della civiltà essi abbiano a prendere i più umani criteri dei codici e la mitezza delle pene. Ferro e fuoco, per essi. Uccideteli come tanti cani arrabbiati – chè non sono altro, essi. Questo, il grido che erompe dalla coscienza universale di fronte agli eccessi anarchici. L’assassinio del presidente della repubblica francese […] ha segnato l’ultimo limite della pazienza umana; l’ultimo baluardo infranto della tolleranza sociale. Sadì Carnot non era il “tiranno” – contro il quale si può, se non giustificare, spiegare qualche volta la insurrezione personale, la coltellata politica. Era il figlio della rivoluzione; era il capo democratico d’uno Stato democratico; era – personalmente, lui – buono, mite, onesto. Non per diritto divino sedeva, egli, all’Eliseo – ma per la volontà, liberamente espressa, del popolo di Francia. Che si vuole, dunque? Ma, già, a che domandare che cosa vogliono costoro? a che cercar di spiegare il processo psichico che fece inarcare il grilletto della pistola di Paolo Lega e armò di pugnale la mano di Sante Caserio?… Uccidere per uccidere: ecco quello che vogliono. Seminare il disordine, la paura, per cercare – nel saccheggio – il guadagno col furto: ecco quello cui mirano. Appagare la loro vanità sfrenata: ecco quello cui, soprattutto, anelano. Guardate Paolo Lega. In carcere, quello di cui si lagna di più, quello per cui urla e protesta di più, è la mancanza di giornali. «Non poter leggere ciò che dicono di me» – è il martirio maggiore suo.

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Ed è così di tutti costoro: un misto di ferocia e di vanità. […] Ci pensate? il falegname di Lugo che occupa di sé la Stefani e l’Havas!… il fornaio di Lione che commuove i Parlamenti e il cui ritratto sarà tirato a milioni di copie da tutte le riviste illustrate!… Tutto ciò commoveva Erostrato – e non c’erano, allora, né reporters, né giornali illustrati… Figurarsi ora, con questo lusso d’interviste, con questo irrompere di cliches!… «Il giornalismo – ecco il nemico»: ha detto qualcuno – e non completamente a torto. Se si potesse non parlare di loro! Mancherebbe, certo, uno dei coefficienti che li spingono al delitto clamoroso. Ma poiché questo non è possibile – poiché sarebbe assurdo, non che proporlo, sperarlo – è inutile fermarcisi sopra. Il giornalismo è quello che è; quello che lo fanno essere i mutati bisogni, la vita febbrile, la nervosità eccessiva dell’oggi. D’altronde, non è neppur giusto riversar tutta sulla stampa la responsabilità di quanto avviene; ed è assurdo ritenere che un fenomeno di tale importanza trovi la sua spiegazione esclusiva nel giornalismo. Ci vuol altro! Gli è che tutta la macchina non va; molte ruote del vasto ingranaggio son guaste; è tutto il sostrato sociale che bisognerebbe mutare. La stampa ha aiutato a levare il suo sassolino dalle basi dell’edificio – e sia pure. Ma voi, uomini politici, uomini di governo, uomini di chiesa, vi sentite davvero tranquilli? potete, in coscienza, dire che avete fatto di tutto perché la piaga non incancrenisse?… Avete distrutto Dio; ma che cosa avete sostituito? Avete levato dalle scuole il prete, che insegnava a sperar nel paradiso e ad aver paura dell’inferno – e ci avete messo il maestro elementare che, scontento di tutto, e di tutti, pieno di ambizione e di miseria, insegna l’ateismo e inculca il socialismo. Insufficiente lo Stato, che doveva parlare all’intelletto; nemica la Chiesa, che doveva parlare al cuore. E siamo arrivati a questo: che nessuno sa più dove ci fermeremo; che la libertà appare come un pericolo. E si chiude il secolo con un desiderio – oggi latente, ma che domani proromperà largo e potentissimo – di «qualche cosa» che rassicuri; comunque fatta, in chiunque personificata. «Qualche cosa» che ci dia la pace degli spiriti e la sincerità della proprietà; che tronchi tutti questi nostri dibattiti politici vuoti e infecondi e ci rassicuri del funzionamento normale della nostra vita civile. […] Noi torniamo, dopo un secolo preciso, al punto di partenza. Allora, si fece una rivoluzione in nome della libertà: oggi, se ne matura un’altra in nome della conservazione. Fortuna che il movimento del progresso umano è spirale – e si ascende anche quando par che si discenda. Oggi, noi siamo nella parte discendente della spira…».

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Simili articoli, susseguentesi nella maggior parte dei giornali per diversi giorni dopo gli attentati di Lega e di Caserio, alimentavano propositi di vendetta in alcuni lavoratori anarchici, già costantemente perseguitati dalla polizia e sfruttati dalle classi dominanti borghesi, in varie città della penisola. In una di queste, a Livorno, il direttore del giornale locale «Il Telegrafo», Giuseppe Bandi, aveva pubblicato una serie di violenti articoli antianarchici, in uno dei quali aveva scritto di Caserio come di «[…] uno di quelli che nello sconvolto intelletto armeggiano col caos, e vorrebbero distrutta e fusa nel caos l’armonia primigenia e susseguente del creato. Non è possibile ragionare […] circa le teorie, o per dir meglio, le frenesie del Caserio, e di quanti altri gli furono e gli son fratelli nel delirio, nel furore, nella libidine sciagurata di rovine e di sangue».

E in un altro, intitolato Sulla bara di Carnot e pubblicato su «Il Telegrafo» del 27 giugno, dipingeva gli anarchici come dei «professori di violenza» e dei «[…] falsi apostoli che passeggiano inviolati e intangibili, con tanto di sigaro in bocca e co’ baffi grondanti vino».

A parte questi attacchi, il Bandi era malvisto a Livorno e negli ambienti della sinistra, non solo quella rivoluzionaria ma anche quella democratica, perché simboleggiava e quasi incarnava la classe dirigente che, uscita dal Risorgimento (egli stesso era stato cospiratore mazziniano e più tardi valoroso comandante garibaldino, nonché memorialista della spedizione dei Mille), si era fatta socialmente e politicamente conservatrice. Assertore di un governo autoritario e ostile ai movimenti popolari, il Bandi ripeteva a livello locale l’evoluzione di Francesco Crispi, di cui era ammiratore e fautore. Inoltre, si era costituito una solida base economica fondando prima, con l’aiuto dell’alta finanza toscana (Cambray Digny e Bastogi), i due giornali «La Gazzetta di Livorno» e «Il Telegrafo», divenendone in seguito il proprietario. Fra il Bandi e gli anarchici livornesi, che pure 89

avevano il loro giornale nel «Sempre Avanti!», spesso sequestrato dalle autorità tutorie, il conflitto si era via via inasprito. Già vi era stato, tre anni prima, un attentato dinamitardo dimostrativo davanti alla residenza del Bandi, quindi gli erano state inviate una serie di lettere minatorie, infine la violenta polemica su Caserio e Lega finì per spingere alcuni militanti libertari della città labronica a progettare e preparare l’uccisione del direttore de «Il Telegrafo». «Giuseppe Bandi, la mattina della domenica 1° corr. [luglio] tornava in carrozza dall’Ardenza a casa sua, quando, all’angolo di via delle Grazie, a poca distanza dalla caserma dei carabinieri, un individuo scamiciato, con baffi e capelli rossastri, si lanciò sul predellino della vettura e vibrò al Bandi una pugnalata al fianco. Il cocchiere gli menò una frustata, e l’assassino si diede alla fuga, facendosi largo col coltello brandito fra i pochi astanti terrorizzati. Due carabinieri gli si misero tosto alle calcagna, ma l’assassino si precipitò nella vicina villa Rodocanachi ed ebbe la furberia di chiudere il cancello; cosicché quando i carabinieri poterono penetrarvi e rovistarla tutta, non trovarono alcuno. L’assassino era scomparso! Giuseppe Bandi, trasportato all’ospedale, subì la stessa operazione che fu fatta a Carnot, e, purtroppo, con lo stesso risultato. Tre ore dopo, l’infelice era morto! Aveva sessant’anni. […] Attribuiscesi il misfatto all’opera d’un anarchico, che volle vendicarsi dei recenti articoli del Bandi contro gli anarchici. […]».

L’anarchico in questione si chiamava Oreste Lucchesi, trentacinquenne di Livorno, di mestiere facchino e cenciaiolo. Uomo poverissimo, professava ardentemente le idee anarchiche e venne sin da giovane schedato dalla polizia «per la sua pericolosità». Coinvolto, nel novembre del 1889, in una rissa fra repubblicani ed anarchici, al caffè Alfieri, venne accusato di omicidio e di tentato omicidio. Processato, veniva assolto per l’imputazione più grave e condannato a quattro anni e otto mesi di reclusione per il reato minore. Uscito di galera, nel 1893 accoltellava un uomo, ferendolo, per ragioni politiche ed era quindi condannato a diversi mesi di carcere. Rilasciato nei primi mesi del 1894, Lucchesi riprendeva l’attività anarchica nella città labronica e, dopo i gesti di Lega e Caserio, progettava, 90

assieme ad altri due compagni, l’attentato a Giuseppe Bandi. Dopo essere riuscito a sfuggire alla cattura da parte dei carabinieri, Lucchesi, aiutato dall’anarchico Amerigo Franchi, fuggiva in Corsica dove però, il 14 luglio, veniva scoperto ed arrestato. Nelle settimane e nei mesi successivi, la polizia eseguiva una lunga serie di arresti negli ambienti anarchici livornesi, nel tentativo di coinvolgere nell’attentato il più alto numero possibile di sovversivi. Ma al processo, che si svolse alla Corte d’Assise di Firenze nel maggio del 1895, la maggior parte degli anarchici rinviati a giudizio per complicità nell’attentato venivano assolti per mancanza di prove, mentre il Lucchesi, pur negando di far parte di alcuna associazione sovversiva, ammetteva di aver ucciso il Bandi. Venne fuori che l’attentato era stato ideato dall’anarchico Rosolino Romiti e che il Lucchesi aveva aderito al progetto perché «[…] avevo anch’io letto gli articoli del Bandi e mi dispiaceva che un uomo dabbene, un cavaliere, scrivesse così invece di badare ai fatti suoi. Accettai di ucciderlo perché la vita mia non la calcolavo più nulla».

Il Lucchesi dichiarava poi che il pugnale usato per l’attentato gli era stato fornito da Amerigo Franchi, lo stesso che lo aveva in seguito aiutato a fuggire in Corsica. Quindi, il 22 maggio 1895, la Corte di Firenze condannava all’ergastolo Romiti, quale istigatore dell’omicidio, a 30 anni di carcere Franchi, per favoreggiamento, e a 30 anni Lucchesi, quale esecutore materiale dell’attentato. Alla fine della lettura del verdetto Lucchesi pianse, mentre Romiti gridava: «Viva l’anarchia, viva la Francia, viva Caserio!». Dopo 10 anni di detenzione, Oreste Lucchesi morirà nel reclusorio di Nisida il 15 ottobre del 1904. Nel frattempo, il 19 luglio 1894, Paolo Lega compariva dinnanzi alla Corte d’Assise di Roma, coraggiosamente difeso dall’avvocato Vittorio Lollini. Nel corso dell’udienza, Lega ebbe appena il tempo di pronunciare una breve ma fiera autodifesa: «Non posso esprimere le mie idee chiaramente, perché mi manca l’istru-

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zione. Debbo però dire che non ho commesso questo reato per malvagità o per odio personale, bensì per protestare contro alcune classi privilegiate e contro gli oppressori […]. Considerai i fatti successi in Italia, gli eccidi ordinati dal governo e decisi fare atto di rivendicazione sociale […]. Mi proposi di colpire un uomo che è responsabile di tanti mali, ma non lui come uomo bensì come la persona più importante dello Stato».

Il processo si concludeva quel giorno stesso, e Paolo Lega veniva condannato a 20 anni e 17 giorni di reclusione. Più lungo sarà il processo che venne imbastito dall’autorità tutoria contro i suoi presunti complici (Domenico Francolini, Emidio Recchioni, Luisa Minguzzi, Francesco Pezzi e altri anarchici, che erano stati arrestati nel corso dei mesi di luglio e agosto del 1894), che si svolgerà a Roma dal 7 al 30 novembre 1895, concludendosi con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove, nel quale Lega depose per avocare esclusivamente a sé la responsabilità dell’attentato. Nonostante le assoluzioni, gli imputati furono ugualmente assegnati al domicilio coatto (Recchioni prima alle Tremiti e poi a Ustica, Francolini alle Tremiti, Pezzi a Favignana e la Minguzzi a Orbetello), dove rimarranno fino alla seconda metà del 1896, quando verranno rimessi in libertà con la condizionale. Calato rapidamente il sipario sulla sua sorte, circa due anni dopo la conclusione del suo processo apparve la notizia, pubblicata dal giornale «L’Avvenire Sociale» di Messina del 20 settembre 1896, della prematura morte di Paolo Lega avvenuta nel penitenziario di Sassari. L’autore dell’articolo, The Rebel (Emidio Recchioni), ne addossava la colpa ai carcerieri, ma nessuna prova suffraga a tutt’oggi questa ipotesi. Unica incongruenza, la morte di Lega venne registrata all’ufficio dello stato civile di Lugo come avvenuta a Cagliari il 25 settembre 1896, presso la colonia penale agricola di San Bartolomeo. Il 1° luglio del 1894, il giorno stesso dell’attentato al Bandi, Francesco Crispi presentava alla Camera tre progetti di legge intesi al mantenimento dell’ordine pubblico, ma in sostanza rivolti a perseguire penalmente gli anarchici e tutti i partiti antigovernativi. La 92

prima legge, la n. 314, riguardava i reati commessi con materie esplodenti. Si inasprivano le pene per tali reati, ma soprattutto si tendeva a colpire l’incitamento e l’apologia. La seconda legge puniva i reati commessi a mezzo della stampa, segnatamente la istigazione dei militari a disobbedire alle leggi e la propaganda antimilitarista. La terza legge, che si intitolava appunto «provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza», era la più grave perché, oltre ad estendere i casi per l’assegnazione al domicilio coatto e a dare una nuova disciplina a questa misura repressiva amministrativa, conteneva tre articoli che di fatto limitavano le libertà di espressione e di associazione: gli art. 3 e 4, per l’arresto preventivo e l’assegnazione al domicilio coatto di «coloro che abbiano manifestato il deliberato proposito di commettere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali»; l’art. 5, per divieto delle «associazioni e riunioni che abbiano per oggetto di sovvertire per vie di fatto gli ordinamenti sociali». Queste leggi eccezionali sollevarono un vivace dibattito alla Camera, il governo assicurò che le leggi erano dirette solo contro gli anarchici, ma le opposizioni di sinistra denunciarono il proposito di estenderle anche a socialisti e repubblicani, ciò che di fatto pochi mesi dopo avvenne, con lo scioglimento decretato il 22 ottobre 1894 di tutte le organizzazioni socialiste. Malgrado gli argomenti dell’opposizione, le leggi eccezionali vennero approvate, il 19 luglio, ed entrarono immediatamente in vigore. Con esse, Crispi iniziava una politica a indirizzo decisamente antiparlamentare, se non apertamente dittatoriale, in base alla pericolosa convinzione di poter imporre la propria politica, ritenuta la sola giusta nell’interesse del Paese, con atti di forza condotti sia al di sopra e contro le istituzioni, sia contro l’opinione pubblica più democratica. La stampa conservatrice poteva esultare, e «La Tribuna» dell’8 luglio 1894 dichiarava, attraverso la penna del solito Sandor, che «[…] oramai, il dado è tratto – e la guerra è dichiarata. Era tempo! E poiché, per costoro [gli anarchici, N.d.A.], non c’è più limiti nell’attacco – non ce ne dev’essere più nella difesa.

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L’on. Crispi ha provveduto per l’Italia, e ha presentato delle leggi speciali. Qualcuno ha gridato che era una violazione della libertà. O bella! ma è pure una restrizione della libertà dei cani, il regolamento municipale che ne vieta la circolazione per le vie senza la museruola – e nessuno trova che il cane idrofobo non meriti d’essere ammazzato… Noi chiediamo che i Sante Caserio, i Lega e colui che ha assassinato Bandi, sieno considerati né più né meno di tanti cani idrofobi».

Si è già visto che una delle misure più gravi di tutto il pacchetto dei provvedimenti eccezionali presentato da Crispi era la nuova disciplina del domicilio coatto. Questo istituto aveva fatto la sua apparizione nella legislazione italiana, il 15 agosto del 1863, come parte della già citata “Legge Pica” per la repressione del brigantaggio, ed era stato poi mantenuto e più volte riordinato. All’inizio del 1894, Crispi aveva mandato a Parigi l’ispettore di polizia Ettore Sernicoli con l’incarico di preparare, sulla base di una diretta e personale informazione, un circostanziato rapporto sull’anarchismo. Il rapporto, datato 15 gennaio 1894 e intitolato Delle origini, delle tendenze e delle manifestazioni del partito anarchico, giunse in una bozza di stampa sul tavolo del Presidente del Consiglio alla fine di gennaio. Il Sernicoli proponeva, quale rimedio al dilagante anarchismo, il bando perpetuo dei soggetti pericolosi e indicava anche il luogo verso il quale avrebbero potuto essere avviati: «Io credo, per esempio, che l’Olanda consentirebbe, senza troppe difficoltà di sbarcare i nostri banditi nella parte della Guaiana che le spetta».

Crispi studiò il problema, ma contrariamente ai suggerimenti del Sernicoli, pensò bene di risolverlo nell’ambito nazionale. Se infatti si trattava di reperire luoghi e locali adatti alla concentrazione, al mantenimento e alla vigilanza di diverse centinaia di anarchici, con appendice di altri sovversivi, anche l’Italia possedeva una sua Guaiana, quella colonia Eritrea di cui gli oppositori avevano criticato e criticavano la costosa difesa armata. Ebbene ora, malgrado le operazioni militari in corso, il territorio oltremare vaniva buono per mandarvi a arrostire i più incorreggibili oppositori. 94

Il 1° agosto, Crispi telegrafava al generale Baratieri annunciando il prossimo arrivo di due funzionari della Direzione generale delle carceri per localizzare la zona più adatta alla costruzione di un penitenziario nella colonia eritrea. Il progetto era di insediarlo in una delle isole Dahlak davanti a Massaua e sulle spiagge dancaliche presso Assab, dove, a giudicare dalle carte topografiche, si sarebbero potuto costruire delle baracche capaci di ospitare duemila coatti. Ma agli ispettori quelle isole apparvero un inferno inabitato e inabitabile, dove prima degli anarchici sarebbero morti di caldo, di sete e di morbi maligni i costruttori delle prigioni. La conclusione fu che l’Italia non ebbe la sua Cajenna africana. Solo il giornalista conservatore Scarfoglio su «Il Mattino» di Napoli propose che gli anarchici venissero semplicemente scaricati sulle isole – come gli inglesi usavano fare con i loro galeotti sugli atolli del Pacifico – perché provvedessero da sé a scavar pozzi per bere e a procacciarsi il pesce per mangiare: «L’unico mezzo per risanare quei cervelli contorti è il lavoro, il lavoro duro e immane, alla sferza spietata del sole, sotto il flagello di tutte le privazioni e di tutti i tormenti».

Intanto, la macchina repressiva degli arresti e delle condanne era entrata in moto, centinaia di anarchici erano in attesa di traduzione e congestionavano le carceri del Regno: occorreva trovare un luogo ove raccoglierli. Le fortezze di Osoppo e di Alessandria, indicate in un primo momento, risultarono inadatte, le isole dell’Asinara e di Montecristo vennero scartate perché inagibili. Si ripiegò allora su Porto Ercole, dove esisteva una rocca e un forte, fatti costruire dalla Repubblica di Siena secoli addietro, i cui antri potevano essere adattati a cameroni, e sull’isola di San Nicola, nel gruppo delle Tremiti, dove uno stabilimento costruito dai Borboni ospitava già coatti comuni. A queste due località si aggiunsero in seguito altre isole: Favignana, Lampedusa, Pantelleria, Ustica, Lipari, Ponza, Ventotene. La colonia penale di Porto Ercole, per quanto sita in terraferma, era il luogo peggiore, tanto da meritarsi il nome e la fama di Spiel95

berg italiano. Mentre nelle isole i coatti erano lasciati, durante la giornata, relativamente liberi, data la materiale impossibilità di fuga, a Porto Ercole erano trattati come reclusi, senza possibilità di lavoro e in condizioni ambientali, igieniche e disciplinari peggiori che in qualsiasi penitenziario. I pavimenti dei cameroni erano in terra battuta e ai coatti venivano forniti solo un saccone di paglia, un cuscino anch’esso di paglia e una coperta. Niente materassi, né lenzuola, né asciugamani. Mancavano persino le casacche e le scarpe, che pure i galeotti avevano. Il vitto consisteva in 600 grammi di pane e 160 grammi di minestra. Molti coatti si ammalavano fin dai primi giorni ma la colonia, a differenza dei bagni penali, non aveva un medico. I primi anarchici arrivarono alla colonia il 7 gennaio 1895, e dopo due mesi erano già 315. «Da cinque mesi trattenuti in carcere preventivo, quasi tutti i coatti giungevano coi capelli spioventi, gli abiti a brandelli, sudici, scalzi, brulicanti d’insetti», testimonierà il Direttore in un suo memoriale. Molti di essi non avevano neppure ricevuto notifica della pena loro inflitta e della sua durata. Ricorderà Adamo Mancini, uno di loro, nelle sue Memorie di un anarchico, pubblicate nel 1914: «Il malfattore di Nazareth ascese il Golgota carico della croce; i malfattori moderni salirono il Monte Argentario carichi di catene! E vidi il Monte Filippo, colle sue mura annerite, coi bastioni diroccati, un vero rudere delle passate barbarie! Questa era la buona isola che mi aveva preparato Francesco Crispi e là dentro mi aspettava il suo degno accolito, il delegato Raffaele Santoro, ladro e falsario. Entrai fremendo nel fatale castello, e mentre i carabinieri mi toglievano i ferri, i compagni già prevenuti del mio arrivo, cantavano: Noi l’insulto abbiam raccolto: n’abbiam fatto una bandiera, il vessillo per la schiera dei novelli malfattor».

Il governo Crispi perseguitava i sovversivi più duramente di qualsiasi altro governo precedente, e lo stesso Presidente del Consiglio, 96

nel discorso pronunciato a Napoli il 10 settembre del 1894, presente l’arcivescovo della città, manifestava il suo viscerale odio antianarchico, al punto da teorizzare un riavvicinamento ai clericali, una alleanza fra trono e altare contro l’anarchia: «La società traversa un momento dolorosamente critico. Oggi più che mai sentiamo la necessità che le due autorità, la civile e la religiosa, procedano d’accordo per ricondurre le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore. Dalle più nere latebre della terra è sbucata una setta infame che scrisse sulla sua bandiera: né Dio né capo. Uniti oggi nella festa della riconoscenza, stringiamoci insieme per combattere cotesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: Con Dio, col Re, per la patria».

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CAPITOLO VII Il Novantaquattro in Francia: Vaillant, Henry e Sante Caserio.

Anche la Francia ebbe il suo novantaquattro. L’anarchismo francese, pur privo, a differenza di quello italiano, della potente molla antimonarchica, si esaltò in una impressionante serie di attacchi ed attentati dinamitardi contro l’ordine costituito, la società borghese, le istituzioni. Gli anni ottanta e novanta dell’Ottocento furono il palcoscenico di numerosissime azioni anarchiche e sovversive. Dall’esplosione di una bomba, nel 1882, al caffè Bellecour di Lione, noto ritrovo dell’alta borghesia cittadina, per cui venne condannato all’ergastolo, senza alcun tipo di prova, l’operaio anarchico Cyvoct; agli scioperi e alle sommosse, avvenuti in quello stesso anno, dei lavoratori del bacino minerario di Montceau, per cui furono arrestati e condannati decine di anarchici ed operai. Dalla bomba scagliata dall’anarchico Charles Gallo, nel 1886, dalle gallerie superiori della Borsa di Parigi per seminare il panico fra gli agenti di cambio e gli operatori economici, che gli costò vent’anni di lavori forzati; all’uccisione dell’ingegnere Watrin, assai malvisto dalle maestranze per i suoi metodi inumani, da parte dei minatori di Decazeville, sempre nel 1886. Dalle diverse bombe agli uffici di collocamento di Parigi, nel 1888; ai violenti scontri del 1° maggio del 1891 tra dimostranti e la polizia e l’esercito a Fourmies e a Clichy, che causarono decine di morti e centinaia di arresti. Dalle bombe collocate dall’anarchico Ravachol nel marzo del 1891 nelle abitazioni del Presidente dell’Assise di Parigi Benoit e del Procuratore Generale Bulot, per cui venne condannato, nel 1892, alla ghigliottina; al duro e lungo scio99

pero, protrattosi dall’agosto all’ottobre del 1892, dei minatori di Carmaux. Dalle esplosioni del marzo e aprile del 1892, nella capitale francese, alla Caserma Lobau e al ristorante Very; alla bomba a rovesciamento, deposta l’8 novembre di quello stesso anno, negli uffici parigini della Società che gestiva la miniera di Carmaux, la quale, scoperta, fu portata al commissariato di polizia di rue des Bons-Enfants dove esplose uccidendo quattro agenti e un fattorino, e di cui in seguito si dichiarerà autore l’anarchico Emile Henry. Il 9 dicembre 1893, al Palais Bourbon di Parigi, sede del Parlamento francese, mentre i deputati stavano discutendo sull’elezione dell’on. Mirman, l’anarchico trentaduenne Auguste Vaillant scagliava, dalla tribuna del pubblico, una bomba imbottita di chiodi verso l’emiciclo dell’aula. L’esplosione avvenne a mezz’aria e provocò vari danni ed un grande spavento e alcuni feriti tra i parlamentari. L’attentatore, rimasto anch’egli leggermente ferito, fu immediatamente bloccato ed arrestato. A partire dal 12 dicembre, la Camera dei deputati francese, in preda al panico, votava in gran fretta la prima di quelle leggi che negli ambienti della sinistra rimarranno famose col nome di “leggi scellerate”. Questo provvedimento legislativo prendeva di mira in particolar modo la stampa anarchica, ma non solo quella. Esso puniva con la prigione non soltanto l’istigazione, «anche se non seguita da effetti», al furto, all’assassinio, all’incendio, alla disobbedienza militare e alla lotta contro le istituzioni vigenti, ma anche l’apologia di tali atti. Veniva in pratica reintrodotto il delitto d’opinione. Una seconda legge, approvata quattro giorni dopo, allargava considerevolmente il concetto di «associazione a delinquere», estendendo le relative pesanti pene a diverse associazioni ed organizzazioni politiche, non solo anarchiche. Il 10 gennaio del 1894 si svolse a Parigi, alla Corte d’Assise della Senna, il processo contro Vaillant che, nonostante l’attentato non avesse provocato alcuna vittima, si concluse con la sua condanna a morte. Nel corso del processo, Vaillant rilasciò una vibrante e fiera dichiarazione: 100

«Signori Giurati! Tra qualche minuto mi colpirete, ma sotto il colpo del vostro verdetto mi rimarrà la soddisfazione d’aver ferito cotesta vostra società maledetta, in cui un uomo può sciupare in un’ora quanto basterebbe al sostentamento di migliaia di famiglie durante un anno, questa vostra società infame che permette a pochi individui di accaparrare tutte le ricchezze della terra, mentre centinaia di migliaia d’infelici mancano anche del pane, del pane che non si rifiuta neppure ai cani, ed intere famiglie sono condannate al suicidio dalla mancanza del necessario. Oh, se potessero scendere i dirigenti fra le torme dei disgraziati! Ma no, essi rimangono sordi agli appelli della sventura. […] Sventura a chi sdegna il grido dei morenti di fame! Sventura a quelli che credendosi d’essenza superiore si arrogano il diritto di sfruttare quelli che stanno in basso, sventura! […] Dovunque abbia girato ho visto infelici curvi sotto il giogo del capitale, dovunque le stesse piaghe che stillan sangue, dovunque, fino ai lembi estremi e pressoché deserti dell’America del Sud, dove m’illudevo potesse riposare all’ombra d’un palmizio, contemplando la natura, chi è stanco ed amareggiato dalle angustie e dalle pene della nostra civiltà. Ebbene, laggiù più ancora che altrove il capitale, vampiro insaziato, sugge fino all’ultima stilla il sangue dei poveri paria. Così sono tornato in Francia dove lo spettacolo dei miei, zimbello delle sofferenze più atroci, fu la goccia per cui la passione contenuta traboccò: stanco di condurre questa vita di sofferenza e di viltà sono andato a portare la mia bomba tra coloro che delle sofferenze sociali sono i primi responsabili. Mi hanno rimproverato le ferite di coloro che i miei proiettili hanno attinto: permettetemi di notare, passando, che se la borghesia non avesse massacrato e fatto massacrare durante la Rivoluzione noi saremmo ancora oggi, con tutta probabilità, sotto il giogo dell’aristocrazia. D’altra parte addizioniamo i morti e i feriti del Tonkino, del Madagascar, del Dahomey, aggiungendovi le migliaia, i milioni, di sventurati che muoiono nei cantieri, nelle miniere, dovunque il capitale imperversi, aggiungendovi ancora la squallida legione di quanti, coll’assentimento dei nostri deputati, crepano d’inedia; e quello che oggi mi si rimprovera parrà una trascurabile miseria. Le stragi non cancellano le stragi, verissimo; ma rispondendo dal basso alle aggressioni che vengono dall’alto non siamo noi in istato di legittima difesa? […] Da troppo tempo alle nostre voci si risponde colle carceri, la corda, la mitraglia, e non v’illudete, l’esplosione della mia bomba non è il grido di

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Vaillant solo e deserto, è il grido di tutta una classe che rivendica i propri diritti ed alla parola farà domani seguire l’azione. Potete esserne sicuri. Le leggi che fucinate non arresteranno le idee dei pensatori. […] Così le attuali forze di governo non impediranno […] i fremiti di rivolta, sempre più frequenti, sempre più audaci finchè, dileguato dalla terra ogni segno ed ogni culto d’autorità, gli uomini si assoceranno liberamente secondo le loro affinità e ciascuno potrà godere l’integrale prodotto del suo lavoro […]. Conchiudo, signori, riaffermando che una società nella quale pullulano iniquità sociali pari a quelle che ci affliggono, nella quale la miseria costringe al suicidio, in cui i monumenti sono caserme e bagni penali, deve rinnovarsi senza indugio sotto pena di essere cancellata nel più breve termine dalla storia della specie umana. Salve! a chi lavora a questa trasformazione quali che siano le armi di cui si giovi. È l’idea che mi condusse a sfidare l’autorità e poiché nell’aspro duello non ho che ferito il mio avversario, tocca ora a questo la rivincita […]».

Alla lettura del verdetto, Vaillant l’accolse con un sorriso sprezzante: «È la morte, n’è vero? Grazie tanto, signori!», e guardando alcuni amici che erano riusciti miracolosamente ad entrare in aula, con la mano fece ironicamente il gesto di tagliarsi il collo. Uscì tra le guardie, gridando: «Viva l’anarchia!». Il Presidente della Repubblica, Sadì Carnot, negò la grazia, sordo ai vari appelli che gli giunsero, tra cui quello commovente della figlia di Vaillant, la piccola Sidonie, che scrisse una lettera a Madame Carnot, moglie del presidente: «Le rivolgo una supplica per il mio povero babbo, accusato d’omicidio, mentre non ha ucciso nessuno. Io la imploro, signora, d’intervenire, nella sua grande bontà, perché mi venga reso mio padre, che è tanto buono. Glielo chiedo in ginocchio; se è madre, può immaginare quanto soffro a doverlo vedere tra le sbarre della prigione, senza poterlo neppur abbracciare».

La mattina del 5 febbraio 1894, Vaillant saliva, dando prova d’uno straordinario sangue freddo, il patibolo e, prima di essere ghigliottinato, lanciava il grido: «Morte alla società borghese, viva l’anarchia!». 102

Una settimana dopo l’esecuzione di Vaillant, il 12 febbraio, il ventiduenne anarchico Emile Henry entrava, verso le otto e mezza di sera, nel Café Terminus di Parigi. Alle nove, avvicinava il suo sigaro acceso alla miccia di una bomba imbottita di proiettili, che aveva celata nella cintura dei pantaloni, faceva qualche passo in direzione dell’uscita e, prima di fuggire, lanciava la bomba verso un palco dove stavano suonando dei musicisti. L’esplosione provocava una vittima e il ferimento di una ventina di persone, di cui una morirà alcuni giorni dopo. Nella fuga, Henry ferì a colpi di revolver tre persone, tra cui un agente, che si erano lanciate al suo inseguimento, ma, sopraggiunti altri poliziotti, venne bloccato ed arrestato. Detenuto nelle carceri della Conciergerie, Henry attese tranquillamente il processo. Si dichiarò responsabile della bomba esplosa, l’8 novembre del 1892, nel commissariato parigino di rue des Bons-Enfants, che aveva causato la morte di cinque persone, e scrisse al direttore del penitenziario, col quale aveva intrattenuto diverse conversazioni, una lettera in cui descriveva e chiariva il proprio credo anarchico. Il 25 aprile 1894 si svolse, alla Corte d’Assise della Senna, il processo, nel corso del quale Henry tenne un comportamento inflessibile, sprezzante e fiero, interrompendo spesso gli interventi del Presidente della Corte e del Procuratore Generale con commenti e battute ironiche. Prima della lettura del verdetto, pronunciò un lungo e lucido discorso, nel quale esplicitava con forza e fermezza le motivazioni dei propri attentati: «Signori Giurati, voi conoscete i fatti di cui sono accusato […]. Non vi presento dunque la mia difesa, poiché in nessun modo io cerco di sfuggire alle rappresaglie della società che ho attaccata. Del resto, io non riconosco che un solo tribunale, me stesso; il verdetto di ogni altro mi lascia indifferente. Io voglio semplicemente darvi la spiegazione dei miei atti e dirvi in qual modo io sono stato condotto a compierli. […] Mi avevano detto che le istituzioni sociali erano basate sulla giustizia e sull’uguaglianza, ed io non constatai invece intorno a me che menzogne e furberia. Ogni giorno che passava, mi toglieva un’illusione. Dovunque an-

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dassi, ero testimone degli stessi dolori presso gli uni, degli stessi godimenti presso gli altri; e non tardai a comprendere che le grandi parole, le quali m’avevano insegnato a venerare – onore, abnegazione, dovere – non erano che una maschera buttata sulle più vergognose turpitudini. L’usuraio che accumula una fortuna colossale alle spese del lavoro degli operai i quali, invece, mancano di tutto, è un signore onesto. Il deputato, il ministro, le cui mani sono sempre aperte alle offerte di corruzione, sono gente devota al bene pubblico. L’ufficiale che esperimenta il fucile nuovo modello su dei fanciulli di sette anni compie il suo dovere e, in pieno Parlamento, riceve le felicitazioni del Presidente del Consiglio. Tutto questo che vidi mi nauseò, e il mio spirito si diede a criticare l’organizzazione sociale. Questa critica è stata fatta troppo spesso perché io la ricominci. Mi basterà di dire che divenni il nemico di una società che giudicai criminale. […] Entrai in relazione con alcuni compagni anarchici, i quali io considero ancora oggi come i migliori che abbia mai conosciuto. Il carattere di questi uomini mi sedusse di primo tratto. Apprezzai in loro una grande sincerità, un’assoluta franchezza, un disprezzo profondo di tutti i pregiudizi, ed io volli conoscere l’idea che rendeva questi uomini così differenti da tutti coloro che avevo visto sino allora. […] Divenni a mia volta anarchico. […] Io ero convinto che l’organizzazione attuale è cattiva ed ho voluto lottare contro di essa per affrettarne la sparizione. Io ho portato nella lotta un odio profondo, ogni giorno ravvivato dallo spettacolo nauseante di questa società in cui tutto è basso, tutto è losco, tutto è brutto, in cui tutto è di ostacolo all’espansione delle passioni umane, alle tendenze generose del cuore, al libero slancio del pensiero. Io ho voluto colpire tanto fortemente e tanto giustamente quanto ho potuto. Avevo seguito con attenzione gli avvenimenti di Carmaux. […] Lo sciopero si prolungò eternamente, i minatori fecero una più intima conoscenza colla fame, loro abituale compagna; esaurirono il piccolo fondo di riserva del loro sindacato e quello delle corporazioni che vennero loro in aiuto; poi, in capo a due mesi, colle orecchie basse, tornarono alla loro galera più miserabili di prima. E pur sarebbe stato così semplice, dal principio, attaccare la Compagnia nel suo solo lato sensibile, nel denaro; bruciare il deposito del carbone, spezzare le macchine di estrazione, demolire le pompe di prosciugamento. Certo, la Compagnia avrebbe capitolato rapidamente. Ma i grandi pontefici del socialismo [che si erano intromessi nella vertenza ed erano riusciti a prendere in mano la direzione del movimento, N.d.A.] non ammettono questi sistemi che sono sistemi anarchici. In breve, l’ordine per un istante turbato regnò di nuovo a Carmaux. La Compagnia continuò più potente che mai il suo sfruttamento ed i signori

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azionisti si felicitarono del felice risultato dello sciopero. Via, i dividendi sarebbero [stati] ancora buoni da riscuotere. Fu allora che io mi decisi di mescere a questo concerto di accenti felici, una voce che i borghesi avevano già intesa, ma che essi credevano morta con Ravachol: la voce della dinamite. Io ho voluto dimostrare alla borghesia che oramai non vi sarebbero [state] più per essa gioie complete, che i suoi trionfi insolenti sarebbero [stati] turbati, che il vitello d’oro [avrebbe tremato] sulla sua base, sino alla scossa definitiva che lo getterà abbasso nel sangue. Nello stesso tempo ho voluto far comprendere ai minatori come non vi sia che una sola categoria d’uomini, gli anarchici, i quali risentano sinceramente le loro sofferenze e siano pronti a vendicarle. Questi uomini non siedono al Parlamento, come i signori Guesde e compagnia [deputati socialisti, N.d.A.], ma vanno alla ghigliottina. Preparai dunque la mia bomba. Per un momento mi ritornò alla mente l’accusa che era stata lanciata a Ravachol. E le vittime innocenti? Ma io risolsi presto la questione. La casa in cui si trovano gli uffici della Compagnia di Carmaux non era abitata che da borghesi; non vi sarebbero state dunque vittime innocenti. La borghesia tutta quanta vive lo sfruttamento dei disgraziati; essa deve tutta quanta espiare i suoi delitti. Con questa certezza assoluta della legittimità del mio atto, io deposi la mia bomba innanzi alle porte dell’ufficio della Società. Nel corso del dibattimento ho spiegato in qual modo io sperassi, nel caso che la mia macchina fosse stata scoperta, ch’essa scoppiasse all’ufficio di polizia, colpendo sempre così i miei nemici. Ecco dunque i moventi che mi hanno fatto commettere il primo attentato che mi si rimprovera. Passiamo al secondo, quello del Caffè Terminus. Io ero venuto a Parigi all’epoca dell’attentato di Vaillant. Avevo assistito alla repressione formidabile che succedette a quell’attentato. Fui testimone delle misure draconiane adottate dal governo contro gli anarchici. Da tutte le parti si esercitava lo spionaggio, si facevano perquisizioni ed arresti. In quelle razzie operate a casaccio, una quantità di individui erano arrestati e gettati in prigione. Che avveniva delle mogli e dei figli di questi compagni durante il loro incarceramento? Nessuno se ne preoccupava. L’anarchico non era più un uomo, era una bestia feroce cacciata da tutte le parti e di cui la stampa borghese, questa vile schiava della forza, domandava su tutti i toni lo sterminio. […] E, come coronamento a questa crociata, non fu udito il signor Raynal, ministro dell’interno, dichiarare alla Camera che le misure prese dal governo avevano ottenuto un buon risultato, in quanto avevano valso a gettare il terrore nel campo anarchico? Ma non se ne aveva ancora abbastanza. Si

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era condannato a morte un uomo che non aveva ucciso nessuno. Bisognava dar prova di coraggio sino all’ultimo: un bel mattino lo ghigliottinarono. […] Le parole del signor Raynal erano una sfida gettata agli anarchici, il guanto fu raccolto. La bomba del Caffè Terminus è la risposta a tutte le vostre violazioni della libertà, a tutti i vostri arresti e perquisizioni in massa contro gli stranieri, alle vostre condanne, alla vostra ghigliottina. Ma perché, direte voi, prendersela con pacifici consumatori che stanno ad ascoltar la musica e che, forse, non sono né magistrati né deputati né funzionari? Perché? La cosa è semplice. La borghesia non ha fatto che un mucchio degli anarchici. Un uomo solo, Vaillant, aveva lanciato una bomba; i nove decimi dei compagni non lo conoscevano neppure. Ma ciò non valse a nulla. Le persecuzioni infierirono in massa. Fu data la caccia a tutti coloro che avevano relazione con anarchici. Ebbene! Giacchè voi rendete così un partito tutto quanto responsabile degli atti di un sol uomo e colpite in massa, anche noi colpiamo in massa. Dobbiamo noi prendercela soltanto coi deputati che fanno le leggi ai nostri danni, coi magistrati che le applicano, coi poliziotti che ci arrestano? Io non lo credo. […] I buoni borghesi i quali, senza pur essere rivestiti di nessuna funzione, riscuotono le rendite dei loro titoli; i buoni borghesi che vivono oziosi dei benefici del lavoro degli operai, debbono avere anch’essi la loro parte di rappresaglie. E non soltanto essi, ma tutti coloro che sono soddisfatti dell’ordine attuale, coloro che applaudiscono agli atti del governo e si fanno suoi complici, quest’impiegati da 300 a 500 franchi al mese che odiano il popolo più ancora dei grossi borghesi, questa massa stupida e pretenziosa che si schiera sempre dal lato del più forte, e forma la clientela abituale del Caffè Terminus e degli altri grandi caffè. Ecco perché io ho colpito nel mucchio senza scegliere le mie vittime. Bisogna che la borghesia comprenda che coloro i quali hanno sofferto sono finalmente stanchi delle loro sofferenze, e mostrano i denti e colpiscono tanto più brutalmente quanta maggiore brutalità si è usata con loro. […] Se i ribelli non risparmiano né le donne né i fanciulli borghesi, è perché neppure vengono risparmiate le donne ed i fanciulli di coloro ch’essi amano. Non sono forse vittime innocenti quei fanciulli che, nei sobborghi muoiono lentamente di anemia, perché il pane è scarso in casa; quelle donne che nei vostri laboratori impallidiscono e sfioriscono per guadagnare quaranta soldi al giorno, felici pur anco quando la miseria non le costringe a prostituirsi; quei vecchi di cui avete fatto macchine da produzione per tutta la vita e che gettate sul lastrico e all’ospedale quando le loro forze sono esaurite? Abbiate almeno il coraggio dei vostri delitti, o signori bor-

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ghesi, e convenite che le nostre rappresaglie sono grandemente legittime. Certo, non m’illudo. Io so che i miei atti non saranno ancora ben compresi dalle folle insufficientemente preparate. Anche fra gli operai, per i quali ho lottato, molti, traviati dai vostri giornali, mi credono loro nemico. Ma questo poco importa. Io non mi preoccupo punto del giudizio di alcuno. Non ignoro nemmeno che vi sono individui sedicenti anarchici, i quali si affrettano a rinnegare ogni solidarietà coi propagandisti del fatto. Essi tentano di stabilire una distinzione sottile fra teorici e terroristi. Troppo vili per rischiar loro la vita, rinnegano coloro che agiscono; ma l’influenza ch’essi pretendono di avere sul movimento rivoluzionario è nulla. Oggi il campo appartiene all’azione, senza piegare né indietreggiare. Aljeksandr Herzen, il rivoluzionario, ha detto: «O l’una cosa o l’altra: o levarsi a giustiziere e camminare innanzi, o far grazia e vacillare a mezza strada». Noi non vogliamo far grazia né vacillare, e procederemo sempre innanzi finchè la rivoluzione, scopo degli sforzi nostri, venga finalmente a coronare l’opera nostra, rendendo il mondo libero. In questa guerra senza pietà che abbiamo dichiarato alla borghesia, noi non domandiamo alcuna pietà. Noi diamo la morte, noi sapremo subirla. Così attendo con indifferenza il vostro verdetto. Io so che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete; altre ne cadranno ancora, perché i morti di fame cominciano a conoscere la strada dei vostri caffè e dei vostri grandi restaurants Terminus e Foyot. Altri nomi voi aggiungerete alla lista sanguinosa dei nostri morti. […] Ma ciò che non potrete mai distruggere è l’Anarchia. Le sue radici son troppo profonde; essa è nata nel seno stesso di una società putrida che si sfascia; essa è una reazione violenta contro l’ordine stabilito. Essa rappresenta le aspirazioni egualitarie e libertarie che battono in breccia l’autorità odierna; essa è dappertutto e ciò che la rende inafferrabile finirà coll’uccidervi […]».

La Corte, ritiratasi per pochi minuti in camera di consiglio, rientrò in aula e il Presidente Potier lesse la sentenza di condanna a morte nei confronti di Henry. Uscendo dall’aula, scortato dalle guardie, l’attentatore gridava: «Coraggio compagni, viva l’anarchia!». Attese la morte tranquillamente, si rifiutò di ricorrere in Cassazione e di firmare la domanda di grazia. D’altronde il Presidente della Repubblica Sadì Carnot, che un soprannome popolare indicava ormai come il Papà Ammazza Sempre, aveva giudicato di «lasciare che la giustizia seguisse il suo corso». La mattina del 21 maggio 1894, Henry veniva ghigliottinato mentre lanciava alla folla che assisteva 107

all’esecuzione lo stesso grido scagliato in Corte d’Assise: «Coraggio compagni, viva l’anarchia!». Circa un mese dopo l’esecuzione di Henry, il 24 giugno del 1894, le strade della città di Lione sono addobbate con centinaia di bandiere e gagliardetti e inghirlandate da migliaia di fiori. Il Presidente della Repubblica francese, Sadì Carnot, si è infatti recato a far visita alla città, in occasione dell’Esposizione Universale che colà si teneva, sicchè i festeggiamenti per questo evento sono stati preparati nei minimi particolari. Quella sera stessa, Carnot partecipa ad un banchetto di mille persone organizzato al Palazzo del Commercio, quindi, poco dopo le nove, si dirige in carrozza, assieme ad altre autorità, al vicino Gran Teatro, dove si doveva svolgere uno spettacolo di gala in suo onore. «[…] Preceduta da uno squadrone di corazzieri, la vettura presidenziale, in cui avevano preso posto con Sadì Carnot i generali Voisin e Borius ed il dottor Gailleton, sindaco di Lione, partita dalla piazza dei Cordelieri, stava per entrare nella via della Repubblica seguendo la facciata occidentale della Borsa. Improvvisamente – staccatosi dalla folla addensata sul marciapiedi di destra, a due metri all’incirca dalla vettura, dalla parte in cui stava appunto assiso il presidente Carnot – un individuo si avanzò in direzione un tantino obliqua, ed appoggiando la mano sinistra sull’orlo dello sportello pose la mano destra sul petto del Presidente senza che nessuno della scorta abbia visto più che un brandello di carta, il quale rimase per qualche istante come attaccato all’abito Si credette che lo sconosciuto […] apportasse un mazzo di fiori od una supplica, quello che nella giornata era avvenuto ripetutamente. Bruscamente, l’individuo si ritirò e passando sulla fronte, tra i cavalli della vettura presidenziale ed il pelottone di corazzieri, guadagnò il marciapiedi opposto, cercando aprirsi tra la folla un passaggio. Molti, ritenendo che fosse un ladro, sorretti dagli agenti sopravvenuti in numero, l’arrestarono e, sottraendolo al furore del pubblico, lo trascinarono a mezzo della polizia in luogo sicuro. Durante questo tempo la vettura aveva mosso ancora qualche passo, allorché si vide il presidente Carnot rovesciarsi all’indietro senza conoscenza, dopo di avere d’un gesto strappato dal petto e buttato il pezzo di carta che vi era rimasto. Il dottor Gailleton, ch’era assiso di contro, e il dottor Poncet,

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incontrato quasi subito, si sforzarono di prestargli i più urgenti soccorsi, mentre a trotto serrato si procedeva verso la Prefettura. Trasportato su di un letto, Carnot ebbe subito le cure illuminate del dottor Poncet, poco dopo quelle del dottor Ollier cui vennero aggiungendosi membri eminenti del corpo sanitario lionese. Un’arma penetrante aveva forato il fegato e la vena porta; ne era seguita l’emorragia che nessun intervento poteva arrestare, e la morte è sopravvenuta all’incirca tre ore dopo l’attentato. Un pugnale, raccolto al momento stesso sul lastrico di via della Repubblica, era stato lo strumento del delitto. Sottratto alla vista della maggior parte dei testimoni dal brandello di carta cui si è accennato, e lasciato nella piaga, il pugnale era stato dal ferito stesso strappato e buttato […]».

Qualcuno, tra la folla che assiepava i marciapiedi e che assisté al gesto, riferì di aver udito distintamente l’individuo, mentre si avventava sul presidente, gridare «Viva la Rivoluzione!», quindi, dopo averlo colpito, «Viva l’anarchia!». L’attentatore era un ventenne anarchico italiano. Si chiamava Sante Caserio, nato a Motta Visconti, in provincia di Milano, il 9 settembre 1873 da Giovanni e Martina Broglia, di mestiere fornaio. Penultimo di otto fratelli, Caserio proveniva da una famiglia molto povera: il padre Giovanni faceva d’estate il barcaiolo, mentre d’inverno si trasformava in taglialegna, lavorando nei boschi che circondavano il paese. Non è escluso che si dedicasse anche all’attività caratteristica e originale dei mottesi: il sassaiolo, estraendo dal Ticino quei particolari sassi da cui si ricavavano quarzo e silicio, utilizzati per la ceramica e il pentolame. In gioventù aveva anche svolto l’attività di contrabbandiere, trasportando di notte con la barca merci pregiate da e per il Piemonte. E per tale attività, nel 1848 era stato arrestato dagli austriaci, che controllavano il confine del Ticino, e rinchiuso nella chiesa di San Rocco. Secondo le testimonianze raccolte da Cesare Lombroso, all’indomani dell’attentato di Caserio, sembra che Giovanni, durante la breve detenzione, venisse minacciato di morte dagli austriaci «[…] e il poveraccio ne provò un tale spavento che da quel giorno venne

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spesso preso da insulti epilettici. Però all’epilessia sorta in lui a 12 anni doveva aver contribuito una tendenza ereditaria».

Inoltre, Giovanni era stato più volte ed a lungo ricoverato per «demenza incompleta e consecutiva a pellagra» nel manicomio di Mombello, dov’erano finiti anche due suoi fratelli, zii di Sante. La pellagra era una malattia che colpiva chi non mangiava altro che polenta e tutti quei cibi fatti col mais di cattiva qualità, soprattutto il «pane di mais fabbricato male e tenuto a lungo nelle umide abitazioni». In pratica, era una vera e propria malattia sociale, che colpiva le classi povere perennemente in lotta con il problema della sottoalimentazione. E a Motta Visconti la pellagra era assai diffusa, date le drammatiche condizioni di vita delle locali popolazioni contadine. Sicché la causa profonda della malattia mentale del padre di Sante sarà proprio la fame. Questa tragedia famigliare segnò l’esistenza di Sante Caserio, togliendogli il bene di una figura paterna solida e protettrice, obbligandolo a vedere la parte difficile e nera della vita e a rimboccarsi le maniche sin dalla tenera età, cosa che d’altronde capitava spesso ai fanciulli delle classi subalterne dell’epoca. Un fratello di Sante racconterà al Lombroso quanto segue: «[…] mio fratello da bambino aveva frequentato le scuole del paese, ma non aveva imparato nulla; egli è di carattere concentrato e io l’ho visto poche volte allegro; era mite, adorato dalla mamma, e religiosissimo serviva con passione la messa e faceva nelle processioni da San Giovanni: sognava d’entrare in seminario e di diventare un prete, un apostolo. S’irritava coi compagni se rubavano anche una mela pei campi».

La famiglia Caserio viveva nel cortile della “co dal Piss”, un rione di Motta Visconti che aveva questo nome perché si riteneva abitato in passato da ricamatrici. Tali cortili si aprivano ai lati della via con una porta spesso ad arco e contenevano, oltre ad una casa, una stalla con le cascine, un’aia, un pozzo, un piccolo orto e raramente un pollaio. Erano abitati da parecchie famiglie. Data la precaria e triste situazione del padre, che morirà di lì a poco, nel 1887, e per sostenere 110

ed aiutare la madre e i fratelli, Sante iniziò presto a lavorare come aiuto di un calzolaio. All’età di undici anni venne mandato a Milano, da uno zio che commerciava vini, per il quale lavorò come garzone. Nel 1886 diventava apprendista panettiere presso il celebre e rinomato forno delle “Tre Marie” di corso Vittorio Emanuele, dove tutti lo ricorderanno come un giovane mite, ubbidiente e laborioso. Per un certo periodo lavorò anche presso il forno Crespi, in corso Garibaldi. Si iscrisse alla Società di mutuo soccorso dei panettieri di Milano, la quale contribuirà, poi, al pagamento delle spese processuali. Crebbe in fretta, specialmente nelle idee. La vita gli fu subito maestra, ed imparò che per i poveri come lui la strada era tutta in salita. Cominciò a leggere giornali e opuscoli anarchici ed all’età di diciassette anni, suggestionato anche dai resoconti sui cruenti scontri di piazza Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, in occasione del 1° maggio 1891, di cui furono protagonisti, tra gli altri, Amilcare Cipriani e Galileo Palla, diventa definitivamente anarchico. Frequenta le conferenze dell’avvocato anarchico Pietro Gori – che pubblicava allora a Milano il giornale «L’Amico del Popolo» e che verrà in seguito accusato di essere stato uno dei “cattivi maestri” del giovane panettiere, se non di essere addirittura suo complice nell’attentato – del quale diventa grande amico. Così ricorderà Gori, in un articolo pubblicato sul giornale «The Torch» di Londra il 18 giugno 1895, la figura di Sante Caserio nel periodo in cui soggiornò a Milano: «[…] Aveva preso un appartamento, in cui accoglieva la notte a dormire tutti i compagni senza tetto ospitale che si trovassero a Milano… un vero bivacco… ed egli si recava a lavorare tutta la notte. […] Una mattina d’inverno lo trovai presso la Camera del Lavoro di Milano che distribuiva opuscoli di propaganda e panetti freschi agli operai disoccupati. E gli opuscoli ed i panetti li acquistava coi suoi risparmi. […] Non ricordo d’averlo mai veduto neppur semi-ubriaco, cosa frequente nella classe dei prestinai, fumava pochissimo […]. Di fronte ai vizi giovanili si manteneva puritano. Una sera apostrofò degli amici che uscivano da una casa di tolleranza: “Come potete abusare di coteste disgraziate, comprandone la carne e gli abbracci?”. E siccome un opportunista di quella comitiva disse: “Intanto con la nostra lira abbiamo sollevato un po’ la loro

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miseria”, Caserio salì sopra, dette una lira a una di quelle donne, che lo guardava trasognata, e se ne ritornò senza far parola. Un giorno gli domandai: “E tu che sei un bel giovanotto, perché non fai all’amore?” – “Prima sì, mi rispose, ma dacchè ho sposato l’idea non bazzico più donne, finchè non mi farò una compagna, a modo mio”».

Gori rimarrà talmente colpito da questa risposta, che la tradurrà in versi nella famosa canzone Amore ribelle: «All’amor tuo fanciulla altro amore io preferia è un ideal l’amante mia a cui detti braccio e cor. Il mio core aborre e sfida i potenti della terra il mio braccio muove guerra al codardo all’oppressor. Perché amiamo l’uguaglianza siam chiamati malfattori ma noi siam lavoratori che padroni non vogliam. Dei ribelli sventoliamo le bandiere insanguinate e innalziam le barricate per la vera libertà. Se tu vuoi fanciulla cara noi lassù combatteremo e nel dì che vinceremo braccio e cor ti donerò».

Caserio conobbe anche il dirigente socialista Filippo Turati che, all’indomani dell’attentato, scrisse su «Critica Sociale» un articolo dove, oltre a dissociarsi dal generale e convenzionale cordoglio per la morte di Carnot, che veniva giudicato severamente come «l’uomo che congiunse il proprio nome alla repubblica borghese, panamista e militarista per eccellenza, all’alleanza della Francia col Papa e con lo Czar, agli eccidi di Fourmies, alle repressioni di Pas de Calais ecc.», così descriveva il giovane fornaio: 112

«Noi conoscemmo a Milano il Caserio quando veniva, con altri anarchici, a combatterci nelle nostre riunioni. Ma egli non aveva nulla della spavalderia insolente che caratterizza alcuni suoi compagni. Al contrario, mite, pensoso, taciturno, notoriamente affettuoso e laboriosissimo, rivelava una natura profondamente compresa del sentimento del dovere e del sacrificio. La notizia ch’egli fosse stato, nell’adolescenza, profondamente religioso collima con le nostre impressioni: egli non era più religioso, ma era rimasto un devoto».

La devozione di Caserio al proprio partito è il tratto dominante della sua personalità. Costante è in lui la preoccupazione di fare il proprio dovere, di essere coerente con le proprie idee. Se da giovinetto ha trovato nelle leggende cristiane e nei riti della Chiesa, il primo pane al suo bisogno di fede, di ascensione spirituale e forse anche di poesia, ora trova nel movimento anarchico il gruppo sostitutivo della famiglia che gli è mancata e nei compagni le persone sulle quali riversare la sua capacità affettiva. Le cronache lo descrivono fisicamente come un ragazzo di normale statura, piuttosto slanciato, biondo, occhi azzurri, una faccia che ispira simpatia: «il labbro superiore ombreggiato da una bionda peluria d’adolescente, l’occhio furbo, la bocca rosea e fresca». Frequenta prima il gruppo anarchico di Porta Romana e poi fonda egli stesso un gruppo a Porta Genova, provvisto di un bugigattolo come sede e perfino di una bandiera rosso-nera su cui è scritto «Gruppo comunista-anarchico “a pee”», che significa “in bolletta”. Si impegna nella pubblicazione e diffusione di opuscoli anarchici, come si evince dal seguente comunicato apparso su «L’Amico del Popolo» del 5 dicembre 1891: «A quei compagni che attendono l’opuscolo Amore e rivoluzione, che doveva uscire a Torino, facciamo sapere che detto opuscolo per ora non uscirà, non avendo potuto trovare il tipografo che lo stampasse. Però, onde soddisfare alle numerose richieste, alcuni compagni di Milano, d’accordo coi compagni di Torino, pubblicheranno quanto prima l’opuscolo Amore ed odio, che speriamo rimpiazzerà degnamente l’altro. Indirizzarsi per richieste a Caserio Sante fermo in posta Milano».

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Il 26 aprile 1892, viene arrestato per aver distribuito l’opuscolo Giorgio e Silvio, un dialogo antimilitarista, ad alcuni soldati, sul ponte di Porta Vittoria, presso la caserma di Santa Prassede. Durante il processo, il contegno di Caserio è quello di un uomo fatto, cosciente di dover difendere, col ragionamento e con l’esempio, un’idea in cui crede fermamente: «All’udienza egli, dopo aver ammesso il tentativo di diffusione dell’opuscolo anarchico ai soldati, si riportò puramente e semplicemente alle risposte date avanti al giudice istruttore. E avanti al giudice istruttore egli dichiarò che solo nel 1891 si era iniziato definitivamente al partito anarchico, e che lo aveva fatto in seguito alla lettura di parecchi opuscoli ed ai colloqui avuti con altri, che non nominava, in un’osteria, dove si trovava per giocare alle boccie».

Condannato a dodici mesi di carcere, ridotti poi a otto grazie all’appassionata difesa di Gori, durante la libertà provvisoria lascia l’Italia, sottraendosi anche al servizio militare e subendo perciò una condanna in contumacia per diserzione. Alla notizia della condanna, la madre si ammala e Caserio confessa i suoi tormenti in una lunga lettera, in cui cerca di far capire che ormai vuole andarsene per la sua strada: «Io non sarei capace di sopportare le infamie che fanno i superiori sui militari, e avendo un fucile sparerei subito addosso a un qualche superiore […]. Mille volte vò a dormire e penso al dolore dei miei e mi metto a piangere. Ma poi un altro pensiero più forte del primo mi dice: “Non sei tu la causa dei dolori della tua famiglia; è la società attuale”. Prima di tutto mi dice che sono lontano dalla madre… [ma] se anche fossi libero, non potrei sopportare le infamie dei borghesi vili e sarei arrestato e quindi lontano da lei. Quando venga la guerra, lascio ben la moglie, la madre, i figli, e vado là come gli altri imbecilli. Nessuno pensa al dolore della famiglia, ma sì al nostro dovere, e [quindi] combatto questa infame società, distruggo questi borghesi. Viva l’anarchia!».

I compagni gli indicano la strada per passare di nascosto la frontiera, sicchè Caserio raggiunge, nell’agosto del 1893, la Svizzera e 114

si ferma nel Canton Ticino, a Lugano. Qui trova un modesto lavoro e interviene subito nella battaglia politica, partecipando ad uno sciopero. Si trasferisce quindi a Losanna, poi a Ginevra, infine va in Francia e si stabilisce a Lione. I compagni anarchici, presenti nelle diverse città che Caserio visita, lo aiutano in ogni maniera. Nelle ristrettezze, sono i “refrattari” che credono come lui in un avvenire migliore a dargli una mano. Ne scrive, commosso e imbarazzato, ad un amico, rimasto in Lombardia: «Io mi umilio a vedere di dover essere soccorso dai compagni. Ma cosa vuoi? È vero che essendo anarchico non bisognerebbe rispettare la proprietà, e io che mi trovo in bisogno, dovrei prendere ove ce n’è, ma questa forza per ora, da me solo, non mi sento il coraggio di prendere un borghese per il collo e farmi dare i denari. Appena potrò tendo i miei bracci a un borghese, restituirò la somma».

A Lione, città di forti tradizioni anarchiche, Caserio conosce altri compagni e la polizia, che lo tiene d’occhio, annota che è ospitato da un certo Sablier, mentre gli dà da mangiare una tale «femme Palet» soprannominata «la madre degli anarchici». In cerca di lavoro, da Lione passa a Vienne, poi si trasferisce a Cette (attuale Sete), una popolosa cittadina marittima a sud di Montpellier, dove numerosi sono gli operai italiani. Qui trova lavoro presso il forno Viala, frequenta assiduamente i compagni del luogo, mantenendo sempre i contatti con i gruppi d’Italia, e legge accanitamente tutti i giornali e i periodici che riceve, come «L’Intransigeant», «Le Pere Peinard», «La Revolte» e «L’Insurgè», abbonandosi anche alle opere di Victor Hugo. Per un breve periodo si ammala, e viene ricoverato nel locale ospedale, dove vanno a trovarlo, quotidianamente, diversi compagni. A Cette, frequenta il Café du Gard, abituale ritrovo degli anarchici, il cui padrone, secondo la polizia, è un simpatizzante libertario. Nonostante le rigide disposizioni del Ministero dell’Interno in materia di anarchici stranieri, Caserio riesce ad evitare l’espulsione perché il prefetto dell’Herault dichiara testualmente di non ritenerlo un elemento pericoloso. Il commissario di Cette, Crococha, 115

dichiarerà al processo che il giovane lombardo gli era stato segnalato e quindi lo aveva fatto sorvegliare: «Caserio s’occupava di propaganda, ma come tutti gli anarchici seri, era sobrio, di poche parole, e d’altronde la sorveglianza che io raccomando ai miei uomini sugli stranieri non può tornare che manchevole. Ho a mia disposizione quattro agenti di cui uno invalido. Come si fa a sorvegliare novecento stranieri tra cui è una ventina d’anarchici?».

Verso la metà di giugno del 1894, Caserio legge la notizia della prossima visita a Lione del Presidente della Repubblica Sadì Carnot per l’inaugurazione dell’Esposizione Universale. Convinto di dover vendicare la morte di Henry e soprattutto di Vaillant, a cui Carnot aveva rifiutato la grazia nonostante la bomba da lui lanciata in pieno Parlamento non avesse fatto vittime, Caserio, la mattina del 23 giugno, per un futile screzio col padrone – provocato ad arte – improvvisamente si licenzia dal forno dove lavorava e si fa liquidare. Riscuote 20 franchi. Poco dopo acquista per cinque franchi un pugnale da un armaiolo in Rue des Casernes, che glielo garantisce, mentendo, per un’autentica lama di Toledo. Alle 15 è alla stazione e prende il treno per Montbasin, dove alle 16 trova la coincidenza per Montpellier, e qui arriva alle 16,43. Da Montpellier prende un altro treno diretto a Tarascona, e da qui un altro ancora per Avignone. È costretto a fare il viaggio in prima classe, dato che non ve n’erano altre, guardato con diffidenza dagli altri viaggiatori a causa del misero vestito che indossava. Giunge ad Avignone alle 2,04 della notte, dorme un’oretta su una panca all’interno della stazione, quindi prende un treno per Vienne, dove arriva alle 9,45. Qui compra il giornale «Le Lyon republicain» e, ritagliato il programma della giornata del Presidente, se ne serve per incartare il pugnale. Va a far visita ad alcuni amici conosciuti durante il suo precedente soggiorno in città: fra questi il barbiere anarchico Faure che gli fa gratis i capelli e gli offre un bicchiere di vino. Agli amici che gli chiedono se avesse bisogno di un lavoro, risponde di averlo già a Lione. Alle 13,30 Caserio, non avendo più abbastanza soldi per prendere un 116

altro treno, esce a piedi da Vienne alla volta di Lione. Sono 27 chilometri, è domenica, il tempo è coperto e ogni tanto pioviggina. Arriva a Lione alcune ore dopo, raggiunge, su indicazione di alcuni passanti, il Palazzo della Borsa, dove si stava celebrando il banchetto in onore del Presidente, quindi si reca in Via della Repubblica, dove sarebbe transitata la carrozza presidenziale diretta al Teatro Grande, e preso posto tra la folla che assiepava i marciapiedi, attende l’arrivo di Carnot. «Si sarebbe quasi portati a credere – scrisse in seguito Pietro Gori – che un potere misterioso abbia condotto Caserio sul posto preciso ove passava il corteggio del Presidente». Subito dopo l’arresto di Caserio, al diffondersi della notizia dell’attentato al Presidente Sadì Carnot, una folla esasperata si dirige, al canto della Marsigliese, al consolato italiano di Lione che viene preso d’assalto. I soldati che lo presidiano, riescono a stento a difenderlo. I caffè e i negozi gestiti da italiani vengono saccheggiati e incendiati, mentre bande di manifestanti bloccano i pompieri che accorrono e cominciano a dare la caccia ai macaronis. Per ristabilire l’ordine, a Lione sono inviati numerosi squadroni di corazzieri. In poche ore vengono fermate ed arrestate circa 1.200 persone. In molte altre città francesi i lavoratori italiani vengono licenziati, e se lo chansonnier operaio Jean Francois Gonon canta: «Non gridiamo: morte agli italiani», c’è chi auspica addirittura una guerra all’Italia. Il 27 giugno circa 2.500 italiani arrivano a Torino dalla Francia, mentre il console italiano a Lione parla di oltre 3.000 rimpatri. All’ambasciata italiana di Parigi arrivano centinaia di telegrammi di cordoglio provenienti dall’Italia, tra cui quelli del re Umberto I, del presidente del consiglio Crispi e di alcuni abitanti di Motta Visconti, indignati dal gesto compiuto dall’«infame» Caserio. Nel contempo, però, i giornali francesi danno notizia, per oltre tre mesi, di numerosi arresti per «apologia di assassinio»: a Clichy e a Saint Ouen alcuni «venditori ambulanti anarchici» sono colti nell’atto di vendere a cinque centesimi delle immagini «rappresentanti la glorificazione di Caseario nel compimento del suo crimine»; Alexandre Dumas figlio viene condannato a tre mesi e un giorno di re117

clusione per apologia di reato e perché in possesso di pamphlets inneggianti a Ravachol, Vaillant, Henry e Caserio. Quanto all’armaiolo che aveva venduto il pugnale al fornaio italiano, ne espone parecchi in vetrina con la scritta «souvenir historique» e riceve centinaia di ordinazioni. Da Londra, l’anarchica francese Louise Michel, esaltando il gesto di Caserio di fronte ad un folto pubblico, esclama: «Una volta di più, l’anarchia ha reso un gran merito all’umanità!». Nel corso dell’istruttoria, si tenterà di utilizzare la testimonianza assai poco attendibile di un confidente della polizia per accreditare l’ipotesi di un complotto anarchico, con tanto di estrazione a sorte di colui che avrebbe dovuto attentare alla vita del Presidente. Ma il gesto di Caserio è un puro atto individuale, e durante il processo la montatura ordita dalle autorità tutorie cadrà miseramente. Infatti, al Presidente della Corte d’Assise di Lione, De Breuillac, che gli chiedeva di riferire le conversazioni udite tra gli anarchici di Cette e il Caserio, dalle quali sarebbe emerso il complotto per uccidere Carnot e l’estrazione a sorte dell’esecutore, così come erano state riportate dai verbali dell’istruttoria, il confidente Leblanc rispondeva imbarazzato: «LEBLANC – Sono stato mal compreso. All’ospedale erano venuti a visitar Caserio parecchi anarchici. Stavano discutendo, mi pare di Ravachol e di Vaillant, quando io prendendo parte alla conversazione osservai che gli attentati anarchici mancano quasi sempre al fine proposto. “Non falliranno sempre”, aveva interrotto Caserio. Soggiunsi allora che a Parigi avevo visto più d’una volta Carnot in pubblico assicurandoli che egli non usciva se non guardato da una scorta imponente. “Può essere imponente fin che si vuole, non arriverà mai a salvare il suo feticcio da una fucilata che gli venga da una finestra, o da una bomba che gli piova dall’alto”. PRESIDENTE – Non c’è che questo? LEBLANC – Null’altro. PRESIDENTE – Come avete allora blaterato di complotto e di estrazione a sorte? LEBLANC – Le mie parole, sicuramente, debbono esser state fraintese. Avendo io osservato un giorno a Caserio che un attentato al presidente Carnot sarebbe stato temerario ed avendomi Caserio risposto che alla sorte

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bisognava far la sua parte, io l’episodio riferii al giudice istruttore che evidentemente gli diede monca od esagerata interpretazione».

E Caserio, interrompendo la deposizione del teste, interveniva con vigore affermando: «È semplicemente idiota supporre che tra anarchici si proceda per estrazione a sorte in alcuna contingenza. Siete voialtri disgraziati che tirate a sorte per andarvi ad abbruttire in caserma a servizio dei vostri manigoldi. Gli anarchici non hanno che una legge: la libertà assoluta, e ciascuno ragiona col suo cervello ed agisce secondo la sua coscienza».

Al processo, che si tenne a Lione il 2 agosto del 1894, Caserio, nonostante le difficoltà dovute alla scarsa conoscenza della lingua francese e ad alcune incomprensioni avute con l’interprete, che non riusciva a tradurre i termini dialettali lombardi usati dall’imputato, fu calmo, dignitoso e persino scherzoso. Ecco alcuni stralci del suo interrogatorio: «PRESIDENTE – Accusato, avete voi sofferto mai di turbamenti cerebrali? Avete goduto sempre in tutta la loro pienezza delle vostre facoltà mentali? Siete mai stato pazzo? CASERIO – No. Mi chiamo responsabile, pienamente. PRESIDENTE – Non si parla d’un vostro zio che sarebbe morto pazzo? CASERIO – Conobbi due dei miei zii, non erano pazzi affatto. PRESIDENTE – Vostro padre soffriva d’attacchi epilettici. Durante la dominazione austriaca, l’aver visto un giorno il fratello brutalizzato dai tedeschi gli causò tale orrore e tale paura che non ne guarì più; ma non pare che fosse pazzo. CASERIO – E non lo era, anche se la paura ne aveva fatto un epilettico. Ha lavorato sempre, ha passato tutta la sua vita sull’acqua, non ha mai dato il più lontano segno di perturbamento mentale. PRESIDENTE – Voi appartenete ad un’onesta famiglia. Vostra madre, giudicando dalle vostre lettere, è una donna di sentimenti elevati. Fanciullo, voi eravate laborioso e probo, nessuno avrebbe immaginato quel che di voi doveva accadere. Come altri ragazzi, eravate vivace, pronto, impulsivo, ma spesso annuvolato e chiuso. CASERIO – Sono forse, signore, responsabile di questo?

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PRESIDENTE – La vostra povera mamma ha fatto del suo meglio per darvi un po’ d’istruzione. Siete stato alla scuola comunale di Motta Visconti, ma senza lasciarvi tracce lusinghiere. Non avete strappato mai un premio. CASERIO – Se avessi avuto maggiore istruzione sarebbe stato meglio. PRESIDENTE – A dieci anni eravate garzone di calzolaio. Eravate chierico? Nelle processioni religiose che si facevano a Motta Visconti, non comparivate come un piccolo San Giovanni Battista? CASERIO – I ragazzi non sanno quello che fanno; commettono delle sciocchezze i bambini. PRESIDENTE – I precedenti ad ogni modo non lasciano presentire in voi l’assassino. Ma poi, voi avete atteso il Presidente per assassinarlo. CASERIO – Sì. PRESIDENTE – Vediamo come siete arrivato a questo punto. Fu dopo il processo agli anarchici a Roma, pei tumulti del 1° maggio del 1891, che siete diventato anarchico? CASERIO – No, ero già anarchico. PRESIDENTE – Avete frequentato le conferenze dell’avvocato Gori? CASERIO – Quando conobbi Gori ero già anarchico da un pezzo. PRESIDENTE – Ma le seguiste, le conferenze? CASERIO – Ci andavano tutti e ci andai anch’io. Alle sue conferenze, che erano pubbliche, ho imparato qualche cosa di buono e di vero che le scuole si dimenticano generalmente d’insegnarci. PRESIDENTE – Già, avete imparato a disprezzare i consigli della vostra povera mamma, dei vostri fratelli. La vostra famiglia fece il possibile per togliervi dall’anarchia, ma voi vi siete da prima inalberato, poi avete rotto completamente, rinnegata definitivamente la vostra famiglia. CASERIO – Questo è falso! Io amo oggi mia madre dello stesso affetto con cui l’amavo da bambino, ed ho immutato l’antico affetto per tutti i miei. Voglio bene alla mia famiglia, ma non può sottomettermi al suo volere. La mia famiglia è l’umanità. PRESIDENTE – Avete frequentato certi anarchici ben noti a Milano? CASERIO – Se li avessi anche frequentati, non lo direi. PRESIDENTE – L’istruttoria ha stabilito che voi li frequentavate, e la polizia ne ha dato largamente la prova. CASERIO – Ed allora accomodatevi colla vostra polizia. A me dà la nausea. PRESIDENTE – La polizia fa il suo mestiere. CASERIO – Lo so, ma non è il mio. PRESIDENTE – A Milano facevate parte del gruppo cui apparteneva Ambrogio Mammoli?

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CASERIO – Anche se lo conoscessi non lo direi, vi ho già detto che non sono un agente di polizia. PRESIDENTE – Nel 1892 foste arrestato mentre facevate propaganda anarchica fra i soldati in un quartiere detto di Porta Vittoria? CASERIO – Sì. PRESIDENTE – Nel 1893 dopo la famiglia avete rinnegato la patria. Avete lasciato l’Italia al momento di pagarle il vostro debito sacro andando soldato. CASERIO – La mia patria è il mondo intero. La difendano coloro che se la godono, la patria! PRESIDENTE – Siete passato in Isvizzera e dalla Svizzera in Francia, facendo la vostra prima sosta a Lione. In breve vi metteste in relazione con tutti gli anarchici del lionese e poco dopo avete portato le tende a Vienne. Perché? CASERIO – Soltanto perché speravo di trovar più sollecita e più sicura occupazione. PRESIDENTE – Non perché ve ne sollecitassero Delahaye, ex gerente del Pere Peinard, ed un certo Faure, barbiere, col quale avete coltivato amichevoli relazioni fino al giorno del vostro abominevole attentato? CASERIO – Non sono affari che vi riguardino. PRESIDENTE – Neghereste d’esservi fatto radere dall’anarchico Faure? CASERIO – Non potevo mica andare da un fornaio a farmi tagliare i capelli. PRESIDENTE – Da Vienne siete passato a Cette. Qui avete certo conosciuto il vostro compagno Lacroix? CASERIO – Senta, io faccio il fornaio e non la spia, quante volte devo ripetervelo? PRESIDENTE – A Cette le disposizioni sul soggiorno degli stranieri sono state da quelle autorità trascurate, voi non avete fatto la vostra dichiarazione e, pur sapendovi uno degli anarchici peggio qualificati, quelle autorità non si sono curate di esigerla. Eppure a Cette voi eravate divenuto manifestatamene il centro d’irradiazione d’una subita attività che doveva mettervi in luce. All’ospedale, durante una breve tappa, tutti venivano a vedervi. CASERIO – Esagerazioni… PRESIDENTE – Venivano a vedervi i compagni assiduamente portandovi i giornali, i ritratti di Ravachol, di Pallas, degli anarchici di Chicago. Avete trovato lavoro presso i coniugi Viala; qualcuno asserisce che, durante la vostra permanenza presso i Viala, al forno sia avvenuta un’esplosione. CASERIO – Sciocchezze! Erano botte del legno verde con cui, in mancanza di meglio, s’infarciva il forno.

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PRESIDENTE – E a Cette, al Café du Gard, non frequentavate la compagnia esclusiva degli anarchici? CASERIO – Il gran mondo non l’ho frequentato, è vero. M’immagino come m’avrebbe accolto. Ma dire che al Café du Gard non v’erano se non anarchici, è una sciocchezza. C’era di tutto un po’ al Café du Gard; ed io ricordo perfettamente di aver fatto qualche partita al biliardo con uno dei tanti birri che vi venivano per fiutare, senza il più lontano sospetto che i più sorvegliati là dentro erano proprio loro. PRESIDENTE – Voi siete italiano. Quando avete ucciso il Presidente Carnot era il 24 giugno. Quella data non vi ricordò nulla? CASERIO – Che era San Giovanni Battista, festa del mio paese. PRESIDENTE – Che era l’anniversario della battaglia di Solforino, dove il sangue italiano e quello francese sgorgarono insieme per la libertà d’Italia. CASERIO – Quella guerra era al servizio d’interessi che non erano quelli del popolo, ma in obbedienza ed in servizio agli interessi del Bonaparte e dei Savoia. E poi per me tutte le guerre sono guerre civili. PRESIDENTE – E alla Francia, la quale vi accordava l’ospitalità del lavoro, voi venivate dunque a rendere, ingrato, null’altro che vendetta e duolo? CASERIO – Quanto all’ospitalità del lavoro, voi siete di quelli che del lavoro godono soli e senza meriti, signor Presidente. Io sono invece di coloro che senza tregua, senza colpa ne soffrono soltanto i tormenti e le umiliazioni. Quando voi ci accordate quella che chiamate l’ospitalità del lavoro, noi siamo costretti a vendervi a patto d’usura il lavoro delle nostre braccia ed il sudore delle nostre fronti, e vi assicuriamo, per un boccone di pane, tutta la vostra sicurezza, vita e gioia. Noi vi diamo l’ospitalità del benessere, non abbiamo alcun debito con voi. Se c’è un debito, è quello d’odio e di vendetta nei vostri confronti. PRESIDENTE – Avete compiuto il vostro delitto premeditatamente. CASERIO – Sì. PRESIDENTE – Avete ucciso il Presidente perché siete anarchico? CASERIO – Sì. PRESIDENTE – E come tale odiate tutti i capi di Stato? CASERIO – Sì. PRESIDENTE – Sia lo Stato un’autocrazia od una repubblica? CASERIO – Sono tutt’uno. PRESIDENTE – Voi avete approvato l’atto di Henry con questa sola riserva, che io riferisco sulle vostre stesse parole: “Avrebbe fatto meglio a lanciare la sua bomba, invece che in un caffè, nel covo di qualche grassa famiglia borghese”.

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CASERIO – È vero, la pensavo così. PRESIDENTE – Voi avete detto un giorno: “Povero Vaillant, l’hanno ammazzato, eppure egli non ha ammazzato nessuno”. Ed avete soggiunto: “Quando la mia volta giungerà, una testa alta la colpirò”. Non avete anche detto che se foste tornato in Italia avreste colpito il Re ed il Papa? CASERIO, sorridendo – Oh, non in una volta. Il Re e il Papa non hanno l’abitudine d’uscire insieme. PRESIDENTE – Non siete l’agente di un complotto anarchico? CASERIO – No. Io sono solo, e solo sono venuto a compiere il mio atto di giustizia. PRESIDENTE – Tuttavia tra gli anarchici è corsa un’intesa per vendicare la morte di Ravachol, di Vaillant e di Henry. Il Presidente Carnot aveva creduto di non commutar la pena pronunziata, e dopo la morte di Henry aveva ricevuto lettere numerose di minaccia. Non erano state scritte, queste lettere, dai caporioni ai quali avete forse obbedito? CASERIO – Gli anarchici non hanno capi, ed il mio atto io l’ho meditato solo, come io solo l’ho liberamente compiuto. PRESIDENTE – All’indomani della morte di Carnot, la fotografia di Ravachol era mandata all’Eliseo con questo recapito: “Alla Signora vedova Carnot”; dietro era scritto: “Egli è stato vendicato bene”. Se voi non siete l’agente di coloro che queste lettere di minaccia hanno scritto e mandato insieme con la fotografia di Ravachol, avete il coraggio di sconfessarli? CASERIO – Io ho il coraggio di non sconfessarli: non ripudio né atti né persone; a me basta di potervi sinceramente confermare che sono stato solo a preparare il mio colpo ed a farlo. PRESIDENTE – Con quale diritto avete ucciso il Presidente, il diritto naturale lo proibisce, questo lo sapete? CASERIO – Ho ucciso quell’uomo perché era un simbolo, il responsabile anche di quanto era accaduto giusto l’anno scorso ad Aigues-Mortes, alle saline vicino Nimes. E poi anche i governanti uccidono… PRESIDENTE – Avete vent’anni, siete ben giovane per giudicare la società. E voi, un ragazzo di vent’anni, vi siete istituito nello stesso tempo accusatore, giudice e carnefice. CASERIO – A vent’anni i governi coscrivono per le case della povera gente i soldati che mandano poi ad ammazzare altri fratelli e a farsi ammazzare. PRESIDENTE – Ma i militari difendono la loro patria. CASERIO – Difendono invece gli interessi degli industriali e dei banchieri. PRESIDENTE – Voi non avete ucciso soltanto il capo della nazione, ma il migliore dei mariti e dei padri di famiglia.

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CASERIO – Dei padri di famiglia? Sono a migliaia che accoppa la miseria, che accoppa il lavoro! Vaillant non era un padre di famiglia? Non aveva una compagna ed una bambina? Henry non ha lasciato una madre ed un fratello? Avete avuto pietà di loro?».

A conclusione del dibattimento, il Presidente De Breuillac chiede all’imputato se abbia qualcosa da aggiungere in sua difesa. Caserio, per tutta risposta, passa all’interprete della Corte un memoriale, scritto in carcere, che viene letto in aula. In base ad una legge approvata il 28 luglio, la Corte interdice le pubblicazione sulla stampa di questa dichiarazione, poiché rappresenta «un pericolo per l’ordine pubblico». Questo per la Francia, perché per l’Italia uno dei due giornalisti presenti al processo, il corrispondente de «La Sera» di Milano, riesce a stenografare il documento che verrà poi pubblicato su quel giornale. Si tratta di un testo che non eguaglia l’eloquenza rivoluzionaria di Vaillant o di Henry, ma che rivela in Caserio maturità di concetti e capacità di esprimerli in modo elementare ed ordinato. Egli parla anzitutto delle proprie esperienze, di ciò che ha visto, sofferto e vissuto insieme a tanti proletari come lui: la fame, la disoccupazione, l’emigrazione forzata, la pellagra, i bassi salari, il nutrimento scarso e cattivo, i pesanti orari di lavoro. Di contro ha potuto vedere «[…] immensi e grandi magazzini forniti di abiti, di stoffe di lana, ed anche magazzini pieni di granturco e di frumento […] [e poi] migliaia e migliaia di persone che non facevano nulla e non producevano nulla vivere sul lavoro degli operai […], possedere appartamenti di quaranta o cinquanta camere, venti o trenta cavalli, numerosi domestici, in una parola tutti i piaceri della vita […]».

Dal confronto ha tratto la convinzione che questa società è male organizzata e ingiusta, ed ha quindi voltato le spalle agli idoli o ideali in mezzo ai quali, da adolescente, era cresciuto. «Io credevo in Dio; ma quando ho visto una simile ineguaglianza fra gli uomini, ho riconosciuto che non era vero che Dio aveva creato gli uomini,

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ma che gli uomini avevano creato Dio, e che hanno interesse a far credere ad un inferno e ad un paradiso tutti quelli che vogliono far rispettare la loro proprietà individuale, mantenendo il popolo nell’ignoranza».

Quanto alla patria, obbligato prima a lasciare Motta Visconti per trovare lavoro e poi l’Italia per sottrarsi al servizio militare e al carcere, si è convinto che «[…] la patria non esiste per noi poveri operai. La patria, per noi, è il mondo intero». Ciò che negli ultimi tempi lo ha più commosso, sono state le condanne di Vaillant e di Henry, e ciò che lo ha più urtato sono stati i grandi festeggiamenti a Parigi, Marsiglia e Tolone per l’alleanza franco-russa. Della classe dominante fa tutto un fascio: monarchi, presidenti di repubbliche, generali, ministri, deputati, capi delle associazioni operaie, giornalisti. Non si salva nessuno. E conclude: «Voi siete i rappresentanti della società borghese, signori giurati; se voi volete la mia testa, prendetevela; ma non crediate con questo di arrestare la propaganda anarchica».

Il processo si esaurì in una sola giornata, e il 3 agosto 1894 venne emesso il verdetto di condanna a morte. Quando il Presidente, letta la sentenza, si rivolse a Caserio dicendogli che aveva tre giorni di tempo per ricorrere in Cassazione, questi sorrise scrollando le spalle, e passando fra il pubblico per tornare alle carceri, gridò: «Coraggio compagni! Viva sempre l’anarchia». Quello stesso giorno, Caserio scrisse la seguente lettera alla madre: «Lione, 3 agosto 1894 Cara madre, vi scrivo queste poche righe per farvi sapere che la mia condanna è la pena di morte. Non pensate male, o mia cara madre, di me. Ma pensate che se io commisi questo fatto non è che sono divenuto un delinquente, pure se molti vi diranno che sono un assassino o un malfattore. No, perché voi conoscete il mio buon cuore, la mia dolcezza, che avevo quando mi trovavo presso di voi. Ebbene anche oggi è il medesimo cuore: se ho commesso questo fatto è precisamente perché ero stanco di vedere un mondo così infame.

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Ringrazio il signor Alessandro [don Alessandro Grassi, curato di Motta Visconti, N.d.A.] che è venuto a trovarmi, ma io non voglio confessarmi. Addio cara mamma, e abbiate un buon ricordo del vostro Sante che vi ha sempre amato».

L’esecuzione, per mano del boia Deibler, giunto appositamente a Lione da Parigi, avvenne il 16 agosto del 1894, esattamente alle 4,35, poco prima dell’alba. Molta gente si trovò ad assistere al supplizio: operai che andavano o uscivano dal lavoro, nottambuli, ubriachi, curiosi, circa tremila persone. Caserio affrontò il patibolo con dignità, ma davanti alla ghigliottina ebbe un sussulto di resistenza. Fece un passo indietro e gridò in dialetto lombardo: «Voeri no!» (non voglio). Ma subito si ricompose e si piegò alla morte, lanciando l’estremo saluto: «Viva l’anarchia». Nello stesso momento, nella prigione di St. Paul, un detenuto urlava a gran voce: «Viva l’anarchia, abbasso Deibler». Venne identificato e messo in isolamento, in catene. Qualche settimana dopo, Pietro Gori celebrerà la figura del giovane anarchico di Motta Visconti, scrivendo i versi di una toccante canzone che avrà un grande successo fra le classi popolari, contribuendo – assieme alle diverse ballate sul “bel ghigliottinato” che si diffonderanno nei mesi seguenti – a creare un alone di eroismo e di martirio attorno a Caserio, e che cantata sulle piazza di Viareggio attrarrà, nei primi anni del Novecento, il giovane artista Lorenzo Viani all’anarchia. «SANTE CASERIO Lavoratori a voi diretto è il canto di questa mia canzon che sa di pianto e che ricorda un baldo giovin forte che per amor di voi sfidò la morte. A te Caserio ardea nella pupilla de le vendette umane la scintilla ed alla plebe che lavora e geme donasti ogni tuo affetto e ogni tua speme. Eri nello splendore della vita

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e non vedesti che notte infinita la notte dei dolori e della fame che incombe su l’immenso uman carname. E ti levasti tu in atto di dolore di ignoti strazi altier vendicatore e ti avventasti tu sì buono e mite a scuoter l’alme schiave ed avvilite. Tremarono i potenti all’atto fiero e nuove insidie tesero al pensiero ma il popolo a cui l’anima donasti non ti comprese eppur tu non piegasti. E i tuoi vent’anni una feral mattina gettasti al mondo da la ghigliottina al mondo vil la tua grand’alma pia alto gridando viva l’anarchia. Ma il dì s’appressa o bel ghigliottinato che il nome tuo verrà purificato quando sacre saran le vite umane e diritto di ognun la scienza e il pane. Dormi Caserio dentro la nuda terra donde ruggire udrai la final guerra la gran battaglia contro gli oppressori la pugna tra sfruttati e sfruttatori. Voi che la vita e l’avvenir fatale offriste su l’altar dell’ideale o falangi di morti sul lavoro vittime de l’altrui ozio e dell’oro. Martiri ignoti o schiera benedetta già spunta il giorno della gran vendetta de la giustizia già si leva il sole il popolo tiranni più non vuole».

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CAPITOLO VIII Pietro Acciarito, il caso Frezzi e il complotto ad ogni costo.

Alle 14,30 del 22 aprile 1897, che è il giorno in cui ricorre il ventinovesimo anniversario delle sue nozze, il re Umberto I, dopo il pranzo di gala tenutosi per la suddetta ricorrenza, esce dal Quirinale a bordo di una semplice vittoria, senza livree, accompagnato dal generale Ponzio Vaglia, suo primo aiutante di campo, e seguito in un’altra carrozza dal cavalier Galeazzi, ispettore generale di pubblica sicurezza: vanno all’ippodromo delle Capannelle dove si deve svolgere il Derby reale, una corsa per puledri puro sangue, nati in Italia nel 1894, e dotata personalmente dal sovrano di un premio di 24.000 lire, una cifra d’eccezione per l’epoca. Giunta la carrozza fuori Porta San Giovanni, al di là di Pontelungo, in piena campagna, un uomo, giovane ma piuttosto malmesso, sbuca improvvisamente da un anfratto e con un balzo, senza però salire sul predellino, vibra un colpo all’indirizzo del re con un punteruolo che nasconde sotto un panno rosso. Umberto I si è istintivamente levato in piedi, l’arma gli sfiora il braccio alzato e si conficca nel mantice della carrozza, squarciandolo. L’attentatore perde l’equilibrio e il cocchiere lo investe col parafango, buttandolo a terra. Rialzatosi, l’uomo si incammina verso Roma, ma viene catturato dopo una cinquantina di metri da due carabinieri. La carrozza del re, nel frattempo, ha ripreso il suo tragitto verso l’ippodromo ed Umberto I al momento dice al Ponzio Vaglia che tali episodi «sono gli incerti del mestiere, andrà peggio quando costoro sostituiranno i coltelli con le armi da fuoco». Più tardi, tornando dalle corse, il re mormorerà però ad un ufficiale: 129

«Sono sconfortato!», e con gli intimi, nei giorni successivi, non riuscirà a nascondere un certo turbamento, apparendo imbronciato, avvilito e sempre più prostrato. L’attentatore si chiama Pietro Acciarito, è nato ad Artena, in provincia di Roma, il 27 giugno 1871 da Camillo ed Anna Jossi, e di mestiere fa il fabbro ferraio. Veniva da una famiglia immiserita dall’avversa fortuna, nella quale il padre Camillo, disoccupato, sentendosi impotente di fronte alla povertà dei suoi, sfogava nel vino le proprie delusioni. Essendo la vita quasi impossibile ad Artena, un paese fra i più poveri dell’entroterra laziale, la famiglia si trasferì a Roma, dove il padre riuscì a trovare un lavoro come portiere e dove anche Pietro si impiegò come apprendista in una bottega di fabbro, frequentando contemporaneamente le scuole serali di disegno che gli valsero due diplomi di qualificazione tecnica. Durante l’adolescenza, Acciarito era serio e riservato, non amava particolarmente la vita chiassosa, essendo di carattere piuttosto chiuso, e spesso stava per lungo tempo in assoluto silenzio. Frequentò qualche volta gli ambienti e i circoli anarchici, socialisti e repubblicani romani, accumulando nel petto, a poco a poco, una gran rabbia contro i «capoccioni», il governo, le autorità. Nel 1895 si ammalò gravemente: gli venne diagnosticato un pneumotifo, accompagnato, nei momenti più acuti della malattia, da frequenti deliri. Dopo alcuni mesi, ristabilitosi completamente, Acciarito aprì una piccola bottega di fabbro, al numero 27 di Via Macchiavelli, e si fidanzò con una ragazza, Pasqua Venarubba, che lavorava come domestica nelle case di alcune famiglie benestanti, con la promessa di un futuro matrimonio, non appena le proprie condizioni economiche glielo avessero permesso. Ma le sue aspettative furono ben presto deluse: il lavoro scarseggiava, anche perché Pietro si rifiutava di fare chiavi false ai clienti che glielo chiedevano, e per quanti sforzi facesse la sua condizione di povertà rimaneva sempre la stessa. La frustrazione e la sofferenza per tale situazione, acuirono la rabbia di Acciarito, maturata negli anni, nei confronti di tutte le classi agiate, che continuavano a vivere nel lusso nonostante la gente morisse di fame, nonostante gli operai 130

venissero sfruttati per pochi soldi, nonostante i bambini fossero costretti a lavorare a condizioni durissime. La disillusione e il disinteresse mostrato dalle classi al potere verso i problemi sociali furono la goccia che fece traboccare il vaso. Decide di farla pagare a qualche pezzo grosso. Nei giorni immediatamente precedenti l’attentato, Acciarito compie tutti i preliminari di quella che vuole essere una vendetta e un sacrificio: la vendetta contro il massimo simbolo del potere e il sacrificio completo di se stesso. Il 20 aprile chiude per sempre la sua bottega e vende per poche lire tutti i suoi arnesi da lavoro, tenendosi solo un punteruolo che ha temprato di sua mano, incidendo sullo stesso da una parte una A e dall’altra una croce. Nell’abbandonare la casa, saluta il padre: «Non ci rivedremo più. – Dove vai, figlio? – Non ve lo posso dire. – Dove? In America? Ti vai a suicidare? – Padre, lo saprete domani». Lo saprà, invece, due giorni dopo. Intanto però il padre, uomo d’ordine, tanto orgoglioso di essere nato nello stesso giorno di re Umberto da chiamare Vittorio il primo figlio e Pietro Umberto questo secondo che ha idee ribelli, non rimane con le mani in mano: va alla sezione di pubblica sicurezza dell’Esquilino ad avvertire di sorvegliare la persona del re e di badare alle mosse del figlio che, dice, sembra aver voglia di fare la festa a qualche «capoccione». L’ispettore di P.S. dell’Esquilino, Perfetti, dichiarerà in seguito che, raccolta tale denuncia, aveva subito avvisato l’ispettore del Quirinale Galeazzi, ordinando nel contempo la ricerca e il fermo di Pietro Acciarito. Ed anche il questore di Roma Martelli assicurerà di essersi messo in moto in tal senso, ma che le ricerche risultarono infruttuose. Acciarito, la sera stessa del 20 aprile, si presenta assieme alla fidanzata Pasqua Venarubba all’Albergo della Stazione, dove fornisce le proprie esatte generalità e vi soggiorna indisturbato per due notti, lasciandolo con tutta calma il primo pomeriggio del 22 per andare a compiere il proprio atto. Ogni mattina, i registri dell’albergo venivano portati alla locale sezione di P.S. per i controlli, quindi in taluni ambienti dell’opposizione, in Parlamento, si avanzò il dubbio, all’indomani dell’attentato, che il gesto di Acciarino po131

tesse essere stata una provocazione, una macchinazione da parte della Questura in combutta con il Governo stesso – e di cui il fabbro ferraio sarebbe stato l’inconsapevole strumento – diretta a coinvolgere tutta la sinistra in una accusa di lesa maestà, per poter così effettuare un nuovo giro di vite reazionario di cui l’articolo del deputato Sidney Sonnino Torniamo allo Statuto, apparso su «La Nuova Antologia» del 1° gennaio 1897 e propugnante un vero e proprio colpo di stato a carattere legalitario attraverso l’abbandono del regime parlamentare, era stato una specie di segnale. Tali dubbi non furono però suffragati da alcuna prova: l’indagine disposta dal Presidente del Consiglio Rudinì e svolta tramite il senatore Astengo rivelò sì delle grossolane leggerezze da parte dell’autorità tutoria in tale vicenda, ma nessun tipo di coinvolgimento della stessa o di qualche funzionario governativo in una presunta regia occulta dell’attentato. D’altra parte, nessuna polizia al mondo si sarebbe potuta spingere a montare ad arte una simile operazione destinata a coinvolgere fisicamente e moralmente la persona stessa del re. Arrestato e condotto in questura, Pietro Acciarito veniva malmenato e minacciato. Interrogato sui motivi del suo gesto, rispondeva: «Qui nun se magna più e quarcosa bisogna puro fà». E alla domanda sulla sua professione rispondeva prontamente: «affamato». E ancora: «Non trovo d’arimedià un pezzo di pane… La fame è una brutta cosa». Infine, dichiarava che l’idea dell’attentato gli era venuta in mente vedendo nella società tanto lusso contrapposto a tanta miseria, osservando l’assurda e crudele ingiustizia rappresentata da tanta gente che non riusciva, quotidianamente, a mettere insieme il pranzo con la cena, mentre il re dava 24.000 lire a un cavallo. Condotto alle carceri di Regina Coeli, Acciarito fu rinchiuso in una cella di isolamento sotto stretta sorveglianza, in attesa del processo. Nel frattempo, dopo le manifestazioni di solidarietà e le congratulazioni giunte al re da ogni parte d’Italia, come all’indomani del gesto di Passanante, dopo i soliti Te Deum di ringraziamento, gli sforzi della polizia sono diretti a ingrandire l’atto di Acciarito e a vedere dietro di esso il complotto politico. Si cercano i complici del 132

fabbro ferraio e, non trovandoli, li si inventano. Questo comportamento riflette uno stato d’animo diffuso a Corte e negli ambienti di governo. La regina Margherita è nervosa ed eccitata, lamenta che per Roma si vedano troppi «brutti ceffi», e uscendo spesso «in propositi feroci come ai tempi del Passanante», scrive al generale Osio che Acciarito è «un vero malvagio, evidentemente scelto da un’infame setta, la stessa che colpì Carnot, per mano del suo inviato Caserio. Speriamo che si riesca a scoprire il nido dei serpenti e distruggerli». L’infame setta di serpenti, per Margherita, è costituita dagli anarchici, nonché dai repubblicani e dai socialisti. Che ci sia stato un complotto è convinzione del re, del senatore Saracco, del presidente della Camera Farini, del ministro di Grazia e Giustizia Costa e di molti altri. Una convinzione e, assieme, un desiderio: perché così, almeno, si può dare l’avvio ad una serie di provvedimenti duri contro la stampa e le associazioni popolari. Domenico Farini, d’accordo con Costa, sostiene la tesi del complotto perché «ottima cosa sarebbe la convinzione d’un complotto, per indurre questa società molle a difendersi». Il conte Alessandro Guiccioli afferma: «Si asserirà che l’assassino è un bruto, un disperato, un esaltato. Ma chi ha da essere? I sicari politici sono quasi tutti di quella specie. Si tratta di vedere chi e che cosa li muovono». Anche il presidente del consiglio Rudinì crede al complotto, ma è impressionato e perplesso: da un lato la crisi gli fa piacere, come premessa ad un governo energico; dall’altro teme di farne le spese, come era successo a Cairoli dopo l’attentato di Passanante. L’idea del complotto si precisa. Si afferma che qualche sera prima dell’attentato, in una strada remota di Roma, un gruppo di cinque o sei uomini sia stato visto fare la conta, poi da tale gruppo si era allontanato l’Acciarito dicendo: «è toccato a me». Alla polizia viene riferito anche un altro dialogo, avvenuto tra due persone, una delle quali era ovviamente Acciarito, un giorno in cui il re si recava in carrozza dalla duchessa Eugenia Litta: «Glielo faccio adesso. – No, aspetta quando andrà alle corse». Cominciano quindi gli arresti tra le fila dei sovversivi romani, col preciso intento di cavar fuori da 133

questi qualche presunto complice o mandante dell’attentato. Ma, per troppo zelo, la polizia commette un errore, anzi un delitto, che sarà destinato a far tremare le vene e i polsi a tutta la questura della città eterna. Il 29 aprile del 1897, gli agenti di P.S. si presentano in Via Margutta a casa del falegname Romeo Frezzi, un ventinovenne d’idee repubblicane. Nel corso della perquisizione domiciliare, dai cassetti dell’artigiano non vengono rinvenuti documenti importanti né carteggi segreti, ma in una foto, che viene subito sequestrata, raffigurante un gruppo di persone, è chiaramente riconoscibile Pietro Acciarito. Invitato a recarsi in questura per gli schiarimenti del caso, Frezzi ottiene prima il permesso di terminare un lavoro urgente. Nel giro di poche ore, negli uffici della questura quella foto suggerì agli inquirenti il modo di procurarsi le prove del complotto di cui tanto affannosamente andavano alla ricerca. Il gruppo di sovversivi doveva certamente essere lo stesso che aveva architettato l’attentato al re, altrimenti non si sarebbe spiegata la presenza di Acciarito tra di loro. La deposizione del Frezzi, “compagno” dei congiurati, era quindi indispensabile per il buon esito delle indagini. Strappare al falegname, che da appartenente a un movimento di opposizione non poteva ignorarli del tutto, nomi ed episodi relativi all’ambiente libertario cittadino, significava per la questura entrare in possesso del decisivo materiale grazie al quale le sarebbe stato agevole costruire, con relative prove di colpevolezza, il complotto anarchico che aveva armato la mano dell’Acciarito. Dunque, il delegato di P.S. Palmieri ritorna in tutta fretta al n. 59 di Via Margutta, chiedendo ad Assunta Frezzi di accompagnarlo alla bottega dove lavorava il marito. Giunti in Via della Chiesa Nuova, il delegato intima a Romeo Frezzi di seguirlo immediatamente in questura. Qui il falegname spiega di non sapere nulla di preciso sui “sovversivi” della foto, asserendo di conoscere solo uno di loro, un certo Barbato, suo amico. Ma nonostante ogni protesta, viene arrestato arbitrariamente senza il mandato del giudice che stava istruendo il processo Acciarito, ed è tradotto nel vecchio convento di San Michele, all’epoca “deposito” della 134

questura che, in mancanza di locali propri, vi inviava gli arrestati sottoposti ad indagine. Qui svolgevano il servizio di sorveglianza sei guardie di P.S., alle dipendenze del sottobrigadiere Domenico Mellace. Frezzi viene messo nella cella n. 19, sita al pianterreno. Il 1° maggio, entrano al San Michele quattro giovani, fermati nel corso delle manifestazioni della giornata. Durante la mezz’ora d’aria, Frezzi stringe amicizia con due di loro, parlandogli del suo caso e delle preoccupazioni che gli procurava. Il 2 maggio, poco prima di mezzogiorno, i quattro giovani vengono rimessi in libertà, e Frezzi gli chiede di passare dalla propria moglie Assunta per avvertirla, in previsione di un ulteriore prolungamento della sua detenzione, di preparargli della biancheria pulita. Romeo a questo punto rimane solo, e si sdraia sulla branda della propria cella. La sera del 2 maggio, i cronisti dei quotidiani si avvicendano come al solito intorno al «libro nero» della questura, il grosso fascicolo su cui venivano annotati, per comodità dei giornalisti stessi, i più importanti avvenimenti del giorno relativi all’attività di pubblica sicurezza. Il cronista dell’«Avanti!», rimasto per ultimo, scorre più volte le annotazioni relative al 2 maggio, rimanendo alquanto perplesso. A metà del foglio vi è infatti scritto: «Oggi alle ore 17 si è suicidato battendo la testa contro il muro certo Frezzi Romeo, di 29 anni, falegname, anarchico, trattenuto per motivi di pubblica sicurezza. Successivamente il cadavere del Frezzi veniva visitato dal dottor Malpieri e, non avendo riscontrato questo alcuna lesione apparente, ritiene che lo stesso Frezzi sia morto per aneurisma».

Il cronista dell’«Avanti!» vuole vederci più chiaro intorno a questa morte avvenuta, stando a tali contraddittorie note, o per un suicidio o per un aneurisma. Conosce un paio di persone nell’ambiente del San Michele, mette mano al portafogli e raccoglie qualche informazione frammentaria. Si dirige quindi all’ospedale di San Bartolomeo, sull’isola Tiberina, e nella camera mortuaria può finalmente osservare il corpo di Romeo Frezzi, che giace supino su un tavolaccio. Il mattino seguente, l’«Avanti!» descrive l’aspetto del «quasi 135

suicida»: gli abiti stracciati, la manica destra della camicia completamente rossa per il sangue uscito dalla bocca, l’occhio sinistro gonfio e paonazzo per l’ecchimosi prodotta da un colpo violento. Come poteva essersi ridotto in quelle condizioni il Frezzi battendo la testa contro il muro o, peggio ancora, per un semplice aneurisma? Il titolo dell’articolo del quotidiano socialista Un delitto della polizia? era già di per sé una denuncia bruciante, e l’autorità giudiziaria fu costretta, scoppiato lo scandalo, ad ordinare un’autopsia del Frezzi e ad aprire un’inchiesta su tale caso. Il 5 maggio, il giornale «L’Opinione», portavoce del governo, annuncia con estrema naturalezza: «Il falegname Frezzi non è morto, come tutti i giornali cittadini hanno pubblicato, per aneurisma, ma si è suicidato gettandosi dall’alto dello stabilimento, eludendo la sorveglianza dei guardiani».

La nuova versione era del resto inevitabile, perché l’autopsia eseguita il giorno precedente dai dottori Pardo e De Pedys sul corpo del Frezzi aveva dato i seguenti risultati: il cadavere presentava la scatola cranica frantumata, tutte le costole rotte con distacco completo della colonna vertebrale e il fegato spezzato in due. Secondo la ricostruzione del fatto fornita dalla questura, Frezzi avrebbe posto in atto quel gesto disperato mentre passeggiava nel corso della mezz’ora d’aria: durante una momentanea assenza del guardiano, corre alla scaletta che porta ai piani superiori, la trova chiusa, si arrampica allora su una grata di legno fino all’altezza del secondo ballatoio, salta sul ballatoio, sale per la scala interna al ballatoio del terzo piano e qui infine si getta nel vuoto. «Si avvicinò al cancello – racconta alla vedova una delle guardie del San Michele – e mi chiese se non avevano portato nulla per lui; gli risposi di no e lo incoraggiai assicurandolo che il giorno dopo avrebbero rimesso in libertà anche lui, come gli altri. Andai alla guardiola, caricai la pipa e tornato al cancello lo vidi steso in terra cadavere». E il giornale conservatore «Il Popolo Romano», in un articolo dell’8 maggio, asseriva: 136

«Tutte le ipotesi sono contrarie a quella del crimine, mentre propendono tutte per il suicidio. Carattere sensibilissimo, quindi di animo eccitabile, egli ha visto gli altri uscire di prigione e temendo forse di essere implicato nell’affare Acciarito per la fotografia, pensando alla famiglia, fu preso dalla vertigine dello scoramento ed ha voluto finirla con la vita».

«È tutta una frottola, non è possibile! – dichiarano concordi il Cerquetti e il Damiani, i due giovani arrestati il 1° maggio che avevano parlato in carcere col Frezzi – La cella di Romeo era al pianterreno, come la nostra. Di lì per un prigioniero è impossibile salire fino al ballatoio, ci sono troppe difficoltà, troppi ostacoli da superare. Ti passerebbe la voglia di suicidarti!». Ammesso poi che Frezzi fosse precipitato per qualsiasi motivo dal ballatoio, sorgevano spontanee alcune domande: era davvero possibile che cadendo da sette metri d’altezza un corpo si riducesse nello stato descritto dall’autopsia? E in questo caso, perché il «libro nero» della questura aveva parlato prima di suicidio battendo la testa contro il muro e poi di morte per aneurisma? E il medico del San Michele, il dottor Malpieri, che a detta della questura aveva visitato il Frezzi dopo la sua morte, in base a quali criteri aveva potuto considerare come causa del decesso di un corpo così massacrato un semplice aneurisma? Infine, come era possibile che il cadavere stesso, che le precedenti dichiarazioni del dottor Malpieri e della questura collocavano nella cella, se ne era volato sul pavimento dell’oratorio, sotto il ballatoio? Le incongruenze e le contraddizioni proseguirono nei giorni seguenti. Il dottor Malpieri dichiarava ora alla stampa di non aver mai esaminato il corpo del Frezzi e che quando venne chiamato per visitare il detenuto, giunto al carcere le guardie gli dissero che ormai era morto: «Non feci quindi alcun speciale esame poiché, constatata la morte non ero tenuto a far altro, tanto più che i mezzi per una perizia mi mancavano assolutamente. […] Le guardie di P.S. presenti alla mia visita dissero: pochi minuti fa passeggiava tranquillamente. Allora, dissi io, dovrebbe trattarsi proprio di aneurisma». Ma da altre fonti si sosteneva invece che il Malpieri la visita del cadavere l’avesse fatta, e che anzi «[…] ne sollevò il volto e palpeggiò la testa 137

e si insudiciò le mani di sangue tanto che, recatosi per lavarsi e non trovando un asciugamani, una guardia gli offrì il suo fazzoletto pulito». A ragione, dunque, nel giro di pochi giorni i sospetti verso la questura si erano ingigantiti, soprattutto grazie la cassa di risonanza di gran parte dei giornali cittadini, mostratisi in questa occasione abbastanza indipendenti. Tali sospetti trovarono poi un pronto eco in Parlamento, dove i deputati socialisti Morgari, Andrea Costa, Turati e Bissolati presentarono una serie di interrogazioni sulla morte del Frezzi al ministro di grazia e giustizia Costa, che rispose leggendo la perizia medica e chiedendo di poter mantenere il più stretto riserbo sul fatto, per non intralciare l’opera dell’autorità giudiziaria. Al tempo stesso dava formali assicurazioni che avrebbe riferito al momento opportuno alla Camera. Ma le evidenti reticenze e contraddizioni emerse nelle sue risposte furono più eloquenti dello sconsolato «L’uomo potrebbe dir di più, ma il ministro no» con cui il guardasigilli Costa concludeva il proprio intervento. Le congetture più gravi si consolidavano nel raffronto tra le dichiarazioni della polizia e i risultati dell’autopsia: il tipo di fratture riscontrate sul cadavere avevano in effetti tutta l’aria d’essere state provocate da un bel volo dall’alto; ma una cosa è “gettarsi” e un’altra cosa è “cadere”, cadere a peso morto… già morto magari. Come spiegare poi le macchie di sangue rinvenute sulla branda della cella del Frezzi? Forse che era già ferito prima di “suicidarsi”? Tali interrogativi non potevano restare senza risposta, soprattutto adesso che tutti gli ambienti d’opposizione cittadini, anarchici, socialisti, repubblicani e radicali, si erano decisamente mobilitati con una serie di proteste e denunce clamorose, sia nelle piazze che sulla stampa, che prendevano di mira sia la questura che il governo. Il presidente del consiglio Rudinì si vide costretto a ordinare un’inchiesta governativa, dandone l’incarico al capodivisione Talpo del ministero dell’Interno e al cav. Scrocca, capo dell’ufficio riservato di P.S. Questi cominciarono con l’interrogare il questore Martelli, l’ispettore Pezzi e i delegati di P.S. Lucani e Forcheim, mentre il senatore Beltrani Scalia, direttore generale delle carceri, si recava al San Michele per 138

un sopraluogo. Ma questa inchiesta ministeriale, non interessata a rendere più pesante la già difficile posizione della questura romana, destava poche preoccupazioni negli alti funzionari. I suoi risultati potevano dirsi già scontati in anticipo. Difatti, il commendator Talpo escluse nella maniera più assoluta ogni responsabilità della polizia nella morte del Frezzi, che attribuiva a suicidio, e concluse la propria relazione deplorando le «inconsulte e contraddittorie comunicazioni di certa stampa». Per escludere con tanta sicurezza ogni responsabilità esterna, Talpo si era basato essenzialmente sui risultati della perizia medica firmata dal professor De Pedys, un voluminoso incartamento di ottanta pagine che suffragava la tesi del suicidio. Se al governo le conclusioni di quella inchiesta andavano benissimo, esse resero ancor più perplesso il giudice istruttore Bocelli, che stava portando avanti l’inchiesta sul caso Frezzi ordinata dall’autorità giudiziaria, e che era deciso ad andare fino in fondo anche a costo di suscitare qualche grosso scandalo. Infatti, l’autopsia ordinata dalla magistratura, ed eseguita dai professori De Pedys e Pardo, aveva sì concluso che la morte del Frezzi era da attribuirsi ad un suicidio, ma tale conclusione era stata avallata unicamente dal dottor De Pedys, mentre il dottor Pardo si era rifiutato di firmare la perizia, non condividendo le certezze del collega. Era abbastanza sospetto, pensava Bocelli, che il De Pedys avesse in un primo momento tentato di far credere che anche il dottor Pardo fosse della sua stessa opinione, mentre invece quest’ultimo gli aveva poi comunicato la sua contrarietà. Inoltre, la perizia mal si conciliava con quanto dichiarato dal De Pedys stesso a un giornalista dopo la sua prima visita al cadavere del Frezzi: «Se avessi trovato quel cadavere sulla pubblica strada, non avrei potuto spiegarmi lo stato in cui si trovava con nessun’altra ipotesi, se non con questa che gli fosse passato sopra ben carico un carro dei fratelli Gondrand». C’era poi da tenere presente che De Pedys, essendo il medico personale del guardasigilli Costa, era di riflesso interessato allo scagionamento dell’autorità tutoria. Le stesse continue pressioni della procura generale per una rapida archiviazione del caso Frezzi aumentavano i dubbi 139

di Bocelli. Il ministro Costa, su preciso mandato di Rudinì, lo faceva “consigliare” a non essere troppo pignolo, e proprio in quei giorni era pervenuta al procuratore del re Giordani una lettera privatissima da parte del ministro dell’Interno con la quale si pregava il funzionario di trasmettere al più presto copia di tutti gli atti raccolti dal Bocelli, indicando tra l’altro due o tre persone “sicure” che, nel caso, avrebbero potuto deporre a favore della questura. Per tutta risposta, Bocelli ordinò una seconda perizia sul corpo del Frezzi, dandone l’incarico al senatore Durante, al professor Marchiafava e al dottor Filippi, professore di medicina legale a Firenze. E questa seconda perizia affermò inammissibile «che una sola causa, cioè la caduta dall’alto, abbia potuto produrre tutte le lesioni riscontrate sul cadavere del Frezzi». Il deputato radicale Felice Cavallotti portò i risultati di questa perizia alla Camera, e in un appassionato intervento dipinse la figura di Romeo Frezzi come il simbolo dell’innocenza perseguitata da un regime politico poliziesco che mirava a schiacciare le forze popolari. Dalle indagini svolte dal giudice Bocelli, e da quelle parallele svolte dai diversi giornali ed esponenti dell’opposizione, era emerso tra l’altro: che Frezzi tre ore prima del delitto aveva così poca voglia di suicidarsi, che mandava a chiedere della biancheria pulita alla moglie; che la branda era macchiata di sangue; che il suo fazzoletto era ridotto in uno stato tale da rivelare il morso di chi fosse stato imbavagliato; che gli abiti di chi cade da sei metri non ricevono danni, mentre quelli di Frezzi furono trovati con tali lacerazioni da rivelare l’estrema lotta disperata; infine, che le donne del reparto attiguo al carcere San Michele avevano sentito un uomo gridare, come se lo stessero pestando: «Oh Dio! Aiuto! Oh Dio! Mi ammazzano!». Cavallotti proseguiva denunciando che malgrado questi indizi, «la decima parte dei quali, se si fosse trattato, anziché di un oscuro operaio, supponiamo, di un commendatore di Regina Coeli, sarebbero bastati per fare arrestare mezzo mondo», non veniva arrestata o consegnata nemmeno una guardia, e che gli altri detenuti presenti al San Michele il giorno della morte del Frezzi, che potevano aver sen140

tito qualcosa, erano stati trasferiti in fretta altrove. Il punto centrale dello scontro politico, tra le forze d’opposizione e il governo, che si innestò su tale vicenda finì con l’essere soprattutto quello delle violenze e degli abusi della polizia – e in particolare la questione degli arresti arbitrari – che era ormai da tempo, e sarà ancora a lungo, oggetto di vivaci polemiche, e poi anche quello più generale dei rapporti fra il potere esecutivo e quello giudiziario. È un dato di fatto difficilmente contestabile che, nell’Italia liberale postunitaria, nei luoghi in cui si poteva finire detenuti a vario titolo (come condannati, imputati, indagati o magari solo arrestati a fini “preventivi”) – siano essi bagni, case di pena, carceri giudiziarie, riformatori, camere di sicurezza della polizia o dei carabinieri – la violenza e l’arbitrio regnassero sovrani, per cui potevano essere assai pericolosi per l’incolumità e la vita stessa di chi era costretto a soggiornarvi. E questo avveniva sia in virtù delle norme stesse che stabilivano i modi in cui era regolata la vita dei reclusi nei diversi istituti – come tutte le successive disposizioni che, dopo l’Unità, continuavano a prevedere le punizioni corporali per i detenuti, sino a quel «mostruoso strumento normativo» che fu il regolamento del 1891, il quale generalizzava il ricorso ai ferri, alla cintura e alla camicia di forza come mezzi di punizione e di contenzione, applicabili anche a donne e minori – sia a causa delle continue e sistematiche vessazioni abusive a cui questi venivano sottoposti. Ne faceva fede una fonte certo non sospetta, qual’era la cronaca spicciola dei singoli stabilimenti penali, riportata con incosciente candore nelle prime annate del «Bollettino ufficiale della Direzione generale delle carceri», e intessuta di continui episodi di brutalità e violenza. E quello che più colpisce sono le ripetute denuncie, che peraltro non suscitavano molta commozione né avevano grande risonanza, di quanto accadeva normalmente nel buio delle carceri non solo a quei detenuti più celebri, come potevano essere un Passanante, un Paolo Lega o un Amilcare Cipriani, ma anche e soprattutto ai detenuti qualunque, vicende che molte volte si concludevano con la loro morte, spesso travestita da suicidio o da decesso accidentale, mentre i re141

sponsabili, se e quando venivano individuati e perquisiti, finivano quasi sempre col non subire alcuna conseguenza. Così, per citare solo alcuni esempi, tralasciando i ripetuti casi di detenuti feriti o uccisi a colpi di fucile dalle guardie, anche in circostanze non particolarmente gravi e pericolose, il cosiddetto colonnello della Comune di Parigi, il romagnolo Amilcare Cipriani, assiduo e involontario ospite delle prigioni italiane (e non solo), nelle sue lettere Da Rimini a Portolongone, pubblicate su «Il Messaggero», descrivendo le dure condizioni di detenzione e le efferate punizioni in uso nelle carceri italiane, e ricordando come lui stesso nel penitenziario di Portolongone fosse rimasto per otto anni e mezzo in isolamento assoluto e incatenato al muro, parlava di condannati uccisi a colpi di chiave nelle celle sotterranee di punizione, di detenuti nel bagno penale di Civitavecchia che erano stati fatti passare per defunti di morte naturale e che erano stati in realtà assassinati dai secondini. Nel 1888, la rivista «La Tribuna Giudiziaria» di Napoli faceva «dolorose rivelazioni sugli omicidi camuffati da suicidi, che avvengono nelle prigioni». Un ex delegato di P.S., tale Giorio, affermava in un memoriale apparso alla fine degli anni ottanta che «[…] è raro che un individuo sia arrestato, senza che sia picchiato in modo orribile. La parte del corpo cui gli agenti mirano di preferenza sono i fianchi. Là danno pugni e calci formidabili, senza timore di lasciare segni. Una guardia prende il prigioniero per la testa e gli tappa la bocca, un altro lo tiene fermo per i piedi e due o tre pestano eroicamente sul ventre e nei fianchi del disgraziato. Ai lamenti le guardie rispondono con ghigni di scherno e con bestemmie. Morsi, schiaffi, bastonate non sono rari. Si tiene chiuso l’imputato fino a che le piaghe siano guarite e siano scomparsi i lividi e le ferite. Molti di quegli infelici più tardi muoiono».

L’avvocato Francesco Saverio Merlino attestava, in un libro uscito nel 1890, numerose testimonianze di prefetti, di procuratori del re, di magistrati e di ministri, riguardanti l’uso della tortura come strumento di “giustizia”. «A Baronisi, presso Salerno, un carabiniere, per estorcere una confessione

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a un detenuto, gli legò strettamente i piedi con una catena di ferro fino a far sprizzare il sangue, poi, fatta passare nel nodo così formato una catena penzolante da una sbarra fissata nel soffitto della stanza di sicurezza, lo sollevò a testa in giù, scuotendolo, fino a che il poveretto perdette conoscenza».

Il giornale napoletano «Il Vero» scriveva, sempre in quegli anni, che «Gl’incessanti reclami della stampa contro il personale della prigione di S. Eframo Nuovo, a causa delle sevizie e dei cattivi trattamenti che si infliggono ai condannati, son finalmente riusciti a provocare un’inchiesta: dalle indagini e dalle deposizioni di 57 testimoni è risultato che si faceva abuso dei ferri e della camicia di forza, fino a causare la morte di detenuti; poi il cadavere era trasportato all’infermeria, per dar a credere che la morte fosse dovuta a malattia. Inoltre si è saputo che molti condannati ebbero la testa rotta, altri i denti spezzati, altri infine, ridotti alla disperazione, si impiccarono. Inutile parlare del trattamento dei detenuti, del vitto insufficiente e cattivo, narrare come, per punirli, si rifiutasse loro una goccia d’acqua, come fossero incatenati come belve, senza che potessero essere liberi neppure per soddisfare qualche necessità. Sono cose orribili che ci fanno fremere d’indignazione».

Nel 1896, nel corso della discussione sul bilancio del Ministero dell’Interno, il deputato Matteo Imbriani sosteneva alla Camera che «[…] sventuratamente vi sono anche altri luoghi di pena, specie fra i più lontani, per esempio quello di Portoferraio, i quali lasciano molto a desiderare. Là si commettono addirittura delitti che rimangono impuniti […], si trasportano alle volte in celle di sicurezza i detenuti, e loro si danno colpi sullo stomaco, con sacchetti di sabbia, i quali spesse volte producono la morte. E i dottori, compiacenti, non ne trovano poi traccia».

E l’anno seguente, nel pieno della polemica sul caso Frezzi, rinnovava la sua denuncia: «[…] negli ergastoli, nei luoghi di pena si usa colpire i poveri detenuti colle sacchette di arena, le quali rompono internamente alcuni visceri, eppoi viene il medico, dà uno sguardo, non trova lesione apparente e fa il

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verbale di morte naturale […]. Riaffermo qui, signor presidente del Consiglio, ciò che ho detto l’anno passato, che nelle case di pena, nelle reclusioni, negli ergastoli, si usano contro i detenuti modi assolutamente incivili, e che molti di essi ricevono la morte sotto diverse forme».

Infine, alcuni giorni dopo, Imbriani aggiungeva, concludendo un ulteriore intervento su tale tema, che «[…] se l’Italia ha l’onore, fra le nazioni civili, di avere abolita la pena di morte, non deve poi darle dei succedanei. Se la pena di morte in se stessa è stata come concetto etico abolita, non le si deve far succedere una serie di vessazioni che diventano delle torture, che conducono allo stesso scopo in un tempo più lungo; e queste sono condizioni ancora più incivili della pena di morte stessa!».

Al culmine dello scontro politico susseguente allo scandalo suscitato dal caso Frezzi, nel corso del quale, tra l’altro, i funerali del falegname romano, tenutisi il 9 maggio, si erano trasformati in una grande manifestazione popolare contro il governo, con lo strascico di alcuni tafferugli con la forza pubblica al Verano, il giudice Bocelli concludeva con coraggiosa coerenza che se non tutte le lesioni riscontrate sul corpo del Frezzi potevano essere attribuite ad una caduta dall’alto, qualcuno doveva pur averle causate. E poiché le uniche persone a contatto col Frezzi, prima della sua morte, erano state le guardie adibite alla sua custodia, il Bocelli, in seguito a mandato di cattura, faceva arrestare il vicebrigadiere Domenico Mellace e le guardie Romolo Umut e Antonio Mazzaglia, di servizio al San Michele il giorno del “suicidio”. Questo “scandaloso” arresto era stato preceduto da convulsi contatti e tentativi di insabbiamento in extremis. Presa la sua decisione, Bocelli aveva avuto un tempestoso colloquio con il guardasigilli Costa, recatosi poi a conferire, insieme al direttore generale della P.S. Alfazio e al procuratore generale Forni, con Rudinì. Contro la pervicace omertà del governo con gli assassini, il socialista Andrea Costa, nel corso di un violentissimo attacco in Parlamento nei confronti di coloro che ancora esitavano a prendere posizione, esclamava: «Ma per Dio, si tratta dell’onore 144

dell’Italia! Diteci che tra le guardie di P.S. ci sono degli assassini e che voi procedete e noi ci dichiareremo soddisfatti!». Con un pizzico di strategia politica, più che concepibile data la situazione, gli interpellanti, e nei giorni seguenti la stampa di opposizione, presentavano il delitto delle tre guardie come l’ultimo atto di un dramma di cui queste erano state semplici comparse, ma che trovava i più veri responsabili nei grossi personaggi al potere, preoccupati, col disperato tentativo di insabbiare il caso Frezzi, di mantenere in vita un aberrante sistema poliziesco, colpevole di ben precise violazioni di legge anche quando non sconfinava nel delitto: estorsione di testimonianze, montatura di complotti inesistenti, arresti arbitrari e occultamenti di reati. Queste stesse accuse furono ribadite durante la manifestazione in memoria di Frezzi che si svolse il 23 maggio a Campo dei Fiori. In un primo momento vietata da Rudinì per motivi di ordine pubblico, poi consentita purchè contenuta, dietro promessa di alcuni deputati socialisti e repubblicani che non ci sarebbero stati disordini, la manifestazione vide riunite, in un pullulare di bandiere rosse e rossonere, a Campo dei Fiori tutte le associazioni anarchiche, socialiste e repubblicane romane, sorvegliate da più di trecento carabinieri. Assunta Frezzi regge la bandiera del gruppo «Anita Garibaldi», molti le si fanno attorno per salutarla: si sa che le è stato rifiutato il lavoro perché è la moglie di Frezzi e perché, assistita da un gruppo di avvocati socialisti, si è costituita parte civile contro la questura di Roma. Il corteo, con in testa la banda musicale, si muove lentamente da Campo dei Fiori verso il Verano. Lungo il percorso si distribuiscono volantini e ritratti del Frezzi, che molti infilano nel nastro del cappello. Fino a tarda sera, gruppi di giovani percorrono le vie di Roma e sostano sotto il Quirinale al grido di «Viva Frezzi, abbasso gli assassini!». La stampa libertaria non aveva ormai più peli sulla lingua e molti giornali presero spunto dal trattamento di favore di cui godeva a Regina Coeli il commendator Giacomelli, implicato in uno scandalo bancario, per rilanciare con maggior veemenza le accuse:

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«Nei canoni della polizia italiana vige il sistema di permettere ai subalterni di agire ad libitum quando si tratta di nemici dell’ordine costituito. Il Frezzi era stato creato, proclamato anarchico per aver gridato: abbasso Crispi [nell’ottobre del 1895, Frezzi era stato arrestato per otto giorni per aver partecipato ad una manifestazione contro Crispi che parlava al Teatro Argentina di Roma, N.d.A.]. Ma un Frezzi, un anarchico che grida abbasso Crispi, a che trattarlo alla stregua di un Giacomelli? Ma gli si rompano le costole, lo si suicidi e non ci si pensi più. Al commendator Giacomelli, ospite di Regina Coeli, nessuno si sognò di rompere tutte le costole e di gettarlo abbasso da un terrazzino per poi gridare ai quattro venti che si è suicidato».

A Corte, il nervosismo è alle stelle. Il re Umberto I, rifugiatosi per alcuni giorni a Monza presso la duchessa Litta, segue gli avvenimenti molto contrariato della piega che hanno preso, specie dopo le onoranze al Frezzi. In brevi momenti di sconforto piange e medita addirittura di abdicare. Ce l’ha soprattutto col governo che, a suo dire, è stato troppo debole in questa vicenda. Più dura, come al solito, è la reazione della regina Margherita: «urla, batte i pugni, è esasperata per la passeggiata lasciata fare in onore del Frezzi». Tale manifestazione è stata, scrive il conte Guiccioli, una solenne «dimostrazione di tutta la canaglia di Roma» e i carabinieri sono serviti «quasi di scorta d’onore a quella marmaglia». Il caso Frezzi ha rovesciato quel po’ di simpatia che l’attentato di Acciarino del 22 aprile aveva risvegliato intorno alla più screditata monarchia d’Europa, ora il governo doveva assolutamente porre rimedio a questa incresciosa situazione. Magistratura e polizia giungevano, intanto, veramente ai ferri corti per l’intransigenza dimostrata dal Bocelli nel condurre avanti la sua inchiesta giudiziaria senza guardare in faccia a nessuno. Il giudice istruttore giunse a far perquisire, ma senza risultati utili, i locali della questura romana, tra l’ira incredula dei governativi. Negli editoriali del 27, 28 e 29 maggio, il giornale «L’Opinione» attaccò pesantemente il Bocelli, reo di “leggerezza” per il discredito gettato con il suo operato sulla Pubblica Sicurezza. Ma, nonostante le intimidazioni, accadde l’incredibile col mandato di comparizione spiccato da Bocelli contro il questore Martelli, citato per l’arresto arbitrario 146

del Frezzi. Questo atto del giudice istruttore era intollerabile per il governo, e Rudinì, davanti al Parlamento, si assunse personalmente la responsabilità dell’arresto del Frezzi, incurante delle pesanti accuse rivoltegli da Imbriani: «voi vi siete fatto innanzi perché l’opera della giustizia fosse troncata». Il Presidente del Consiglio proclamava l’inviolabilità del questore, sostenendo l’interpretazione estensiva dell’art. 8 della legge comunale e provinciale: se il potere giudiziario era tenuto a chiedere l’autorizzazione reale nel caso di procedimento contro prefetti, sottoprefetti e sindaci, la stessa limitazione si doveva ritenere applicabile nei confronti dei questori. Era comunque pericoloso e squalificante insistere sull’immunità, e il questore Martelli, che nel frattempo era stato opportunamente trasferito, se ne venne a Roma da Firenze per essere interrogato da Bocelli il 24 giugno. Intanto, nei giorni 28 e 29 maggio, si svolgeva alle Assise di Roma, nell’antico convento dei Filippini, il processo contro Pietro Acciarito. Il paese di Artena, dolente di essere patria del fabbro ferraio e di essere ricordata in quei giorni come nido secolare di grassatori e di delinquenti, domandava, come vent’anni prima Salvia, di cambiare il proprio nome. Nel corso del processo, Acciarito, statura media, occhi neri, sguardo vivo, una giacca sciupata e un fazzoletto al collo, è nervoso, si sente inquisito e contraddetto, non riesce ad utilizzare gli appunti che ha preparato in carcere, vede nelle toghe e nei gendarmi che lo circondano i simboli e i guardiani del proprio nemico di classe, la gente agiata. Continuamente interrotto da un Presidente che non lo lascia parlare, Acciarito riesce comunque ad esporre le ragioni del suo gesto ed i motivi del suo risentimento nei confronti dei ricchi e dei potenti. «Io l’attentato che ho fatto, prima di tutto non c’è complotto e non sono stato spinto da nessuno, ma lo feci perché ero in miseria. Si buttano li milioni in Africa e il popolo ha fame perché mancano li lavori. È questa la questione: è la micragna».

Dice che quella del sorteggio fra i congiurati è una favola, che 147

quel 22 aprile aveva il sangue avvelenato ed era sconfortato dal modo in cui i lavoratori sono trattati. «Non pensavo a chi dovevo farla, se al Papa o al re: non era il re che volevo colpire, tutta l’odiavo la classe agiata».

Cita ancora la guerra d’Africa con tutti i suoi morti innocenti ed inutili, la Sicilia domata con le baionette invece che col pane, le case vuote, i campi incolti, le carceri piene. Il re dovrebbe imporre ai proprietari di coltivare la terra, dovrebbe trovar lavoro agli operai, ed invece non fa nulla. Sbotta: «Per l’operaio ci vuole il lavoro, non l’elemosina». Al Presidente che gli obietta che la miseria non c’entra, risponde: «Bravo! Voi dormite su quattro materassi, ma io tutte le notti mi debbo sfiaccolare i fianchi!». E quando il Presidente gli chiede se davvero voleva sposare quella serva, la Pasqua Venarubba, prontamente replica: «Vuole forse che sposi una Torlonia?». Alcuni testimoni gli sono contro: un giovane, tale Carbone, dice che Acciarito ha urlato «infame, vigliacco» al re e che prima di lasciarsi arrestare ha guardato il pugnale come per vedere se era sporco di sangue. Acciarito lo interrompe e grida che non è vero, si irrita e bestemmia contro la Corte e la polizia, che gli aveva tentato di estorcere, con le botte, i nomi di presunti e fantomatici complici del suo gesto. Molti altri testimoni, invece, dichiarano che Pietro è di carattere buono, caritatevole, diligente, un operaio onesto, un idealista appassionato ed ostinato. Pasqua Venarubba racconta alla Corte che «quando uscivo con Pietro, nelle lunghe passeggiate, egli mi parlava dei mali del mondo e interrompeva i miei lamenti sul nostro destino dicendo che tanti erano più infelici di noi, tanti che facevano un lavoro ingrato nelle campagne senza trovar da campare».

Il Procuratore afferma che l’imputato ha dei precedenti penali, ma questi giocano piuttosto a suo favore. Infatti, da giovinetto frequentava di giorno una bottega di fabbro e la sera le scuole di disegno: una volta venne fermato dalle guardie e avendogli trovato addosso 148

un compasso, fu deferito per porto d’arma proibita e condannato a qualche giorno di carcere. Un’ingiustizia il cui ricordo gli brucia ancora. Il Procuratore Forni lo raffigura come un malvagio «avvelenato dalle letture perverse che vengono d’oltralpe», dalla letteratura socialista e anarchica, un discepolo di Caserio che, come lui, si è armato di pugnale per colpire la massima carica dello Stato. Chiede per il fabbro ferraio il massimo della pena, senza alcun tipo di attenuanti, dato che ha attentato alla persona sacra del re e per questo «dovrà subire una terribile pena». Acciarito, cui spetta l’ultima parola, accenna con la mano al motto «La legge è uguale per tutti» che è scritto sulla parete e dice: «Non è vero, voi avete chiacchierato tra voi e io non ho potuto parlare… eppoi… è inutile». La Corte si ritira per pochi minuti in camera di consiglio, la condanna è scontata: ergastolo con sette anni di segregazione cellulare, il massimo per la legge penale vigente in Italia. Alla lettura della sentenza, Acciarito grida: «Va bene! Oggi a me, domani al governo borghese! Viva la rivoluzione sociale, viva l’anarchia!». Respinto il ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato Francesco Saverio Merlino, una torpediniera conduce l’ergastolano Acciarito al penitenziario dell’isola di Santo Stefano. L’istruttoria sul caso Frezzi si protrasse per buona parte dell’estate, intralciata dalle continue pressioni dell’autorità politica che, tramite il guardasigilli, giunse a sconfessare gli inquirenti in piena Camera di Consiglio. Quest’ultima, composta dal presidente Luigi Benaglia e dai giudici Gioacchino De Rossi e Francesco Bocelli, il 5 agosto rinviava alla sezione d’accusa Domenico Mellace, Romolo Umut e Antonio Mazzaglia «per avere in Roma il 2 maggio 1897 preso parte all’esecuzione del delitto di omicidio volontario commesso in persona di Frezzi Romeo». Per il questore Martelli ed il delegato Forcheim, l’imputazione era, rispettivamente, di arresto arbitrario e occultamento di reato. Non c’era però da sperare che il potere politico fosse disposto a farli condannare, a scapito della sua stessa “onorabilità”. Aveva solo bisogno di prendere tempo, per far perdere la carica emotiva e la conseguente attenzione dell’opinione pubblica 149

su quegli avvenimenti. Poi, un’assoluzione non avrebbe fatto troppo scalpore. La requisitoria del Pubblico Ministero della sezione d’accusa si pronunciò difatti per un supplemento d’istruttoria, che fu condotto a termine solo nell’aprile dell’anno successivo. Ma già la requisitoria del sostituto procuratore generale Tofano scagionava dalle accuse il questore Martelli ed il delegato Forcheim: il 30 aprile 1898 la sentenza della corte d’accusa completava l’opera, con l’assoluzione di tutti gli imputati. Il questore Martelli per inesistenza di reato; il delegato Forcheim perché il fatto a lui attribuito non costituiva reato; le tre guardie Mellace, Umut e Mazzaglia per insufficienza d’indizi. L’«Avanti!» notò sconsolato che quella sentenza era da prevedersi: «[…] veramente si è fatto l’impossibile per salvare i poliziotti imputati dell’uccisione del Frezzi – dichiarò al giornale un magistrato – si torturarono moralmente i periti contrari al De Pedys costringendoli di continuo a ritornare sopra i propri giudizi in modo da tirarne fuori un appiglio qualsiasi, un atto per giustificare il dubbio, per rendere possibile il non luogo a procedere […]. Se l’assassinio fosse stato commesso dai borghesi si sarebbe stimato raggiunta la prova dieci volte!».

Non contenta di non essere riuscita a “dimostrare” l’esistenza di un complotto, durante l’istruttoria e il processo di Acciarito, l’autorità tutoria prosegue ugualmente, incurante dello scandalo causato dal caso Frezzi, nel tentativo di coinvolgere alcuni esponenti dell’anarchismo romano nell’attentato del fabbro ferraio. Agli inizi di luglio del 1897, vengono rinviati alla sezione d’accusa otto anarchici – Pietro Colabona, Cherubino Trenta, Aristide Ceccarelli, Ernesto Diotallevi, Federico Gudino, Ettore Sottovia, Umberto Farina e Ettore Varagnolo – ma il 4 novembre quest’ultima dichiara il non farsi luogo a procedere nei confronti di tutti gli imputati per difetto e insufficienza d’indizi. La sentenza di proscioglimento anziché chiudere definitivamente il caso, non fa che esasperare i fautori del complotto ad ogni costo i quali, su ispirazione e suggerimento di personaggi posti molto in alto nelle istituzioni, tra cui l’ex direttore 150

generale delle carceri Beltrani Scalia, il Presidente del Consiglio Rudinì e, in seguito, il suo successore Pelloux, escogitano un atroce stratagemma per estorcere al galeotto Acciarito i nomi dei presunti complici. Agli inizi del 1898, il direttore generale delle carceri presso il ministero di Grazia e Giustizia, commendator Giuseppe Canevelli, e il suo capo di gabinetto, ispettore dello stesso ministero, commendator Alessandro Doria, assieme anche al capo della polizia Francesco Leonardi, concepiscono il progetto di creare ad arte le prove del complotto sulla base di una ipotetica rivelazione di nomi fatta in carcere dall’Acciarito. Il direttore carcerario di terza classe Alfredo Angelelli, viene prima appositamente trasferito da Catanzaro al penitenziario di Santo Stefano, quindi è indotto a mettere nella cella del fabbro ferraio un altro forzato, tale Pietro Petitto, condannato per un delitto di sangue, con il compito di conquistarsi la fiducia del compagno di cella e cercare di strappargli qualche confidenza che svelasse il suo “segreto”. Poiché l’unico segreto che il Petitto riesce a farsi confidare dall’Acciarito è il suo grande amore per Pasqua Venarubba, il successivo intervento del direttore del carcere di Santo Stefano, Angelelli, è rivolto a far intendere, con vari giri di parole, al fabbro ferraio che egli è padre, padre di un figlio avuto proprio da Pasqua Venarubba. Egli potrà vedere il figlio, rivedere la donna che ama e magari ottenere anche la grazia sovrana, solo che faccia i nomi dei complici. A questo punto Acciarito, vessato e tormentato, ed anche terrorizzato dal Petitto sui pericoli di rappresaglie contro la donna e il figlio, il quale gli dice che se non parla «la legge avrebbe ben potuto pensare ad avvelenare il bambino», comincia a vacillare. Il colpo di grazia gli viene da una falsa lettera della sua donna, confezionata dai commendatori Canevelli e Doria e fatta pervenire al direttore del carcere Angelelli. Acciarito la legge: si parla della miseria in cui versano Pasqua e il bambino, completamente abbandonati al loro triste destino dai suoi stessi compagni, gli si chiede disperatamente aiuto, facendo i nomi dei complici così da poter uscire dal carcere per riabbracciarli e per sostenerli economicamente con un lavoro che certamente le autorità 151

gli avrebbero trovato una volta in libertà, togliendo in tal modo lei e il figlio dalla terribile condizione di povertà in cui si dibattevano. Acciarito, sconvolto, fa dei nomi: a casaccio, di amici, di estranei, di persone appena conosciute. Ma gli inquirenti non sono soddisfatti. Vogliono nomi di anarchici. Per piegare Acciarito si ricorre all’espediente di fargli udire la voce fioca di una donna e i vagiti di un bambino, facendoli passare per quelli di Pasqua Venarubba e di suo figlio. Gli si parla degli anarchici Ernesto Diotallevi e Aristide Ceccarelli, e alla fine il povero ergastolano dà una nuova versione dei fatti che li compromette insieme ad alcuni altri. Il processo contro questi presunti complici si celebrò a Roma, nel giugno del 1899, presente lo stesso Acciarito. Ma tale processo si ritorce contro lo Stato stesso. Acciarito esita di fronte alle contestazioni degli anarchici e agli interventi degli avvocati difensori – fra i quali Enrico Ferri e Federico Comandino – che denunciano la montatura. I testi, a carico e non, dimostrano l’inesistenza del complotto. Un giurato abbandona sdegnato l’aula in segno di protesta. Acciarito piange e impreca, ritratta e nega, e chiede perdono: la difesa esige una perizia psichiatrica, ma la Corte non la concede; per protesta la difesa si ritira e la Corte le impone di presentarsi la mattina seguente; la difesa non si presenta e la Corte ne nomina un’altra d’ufficio. Ma ai nuovi difensori non si può negare il tempo di prendere visione degli atti, sicchè il processo viene rinviato ad altra data e ad altra sede. Il processo si rifece nel marzo del 1900, a Teramo. Venne rintracciata Pasqua Venarubba, che in aula negò di aver avuto un figlio da Acciarito e di aver scritto la lettera con cui lo invitava a svelare i nomi dei complici. Acciarito stesso, esortato da Aristide Ceccarelli a dire finalmente la verità, trovò l’energia di dichiarare: «Gli amici che ho accusato sono innocenti, all’attentato fui solo e solo, senza rimorsi, devo andare al bagno penale». Quindi inveì con rabbia contro il direttore del carcere di Santo Stefano, Angelelli, accusandolo di averlo costretto, con ogni mezzo, a coinvolgere nella vicenda gli anarchici imputati. Il processo si concluse dunque con l’assoluzione 152

piena di tutti gli imputati. Qualche anno dopo, nel 1906, un animato dibattito parlamentare, nel quale fra gli altri intervennero il socialista Turati, il repubblicano Bovio ed il cattolico Camerini, inchiodò alle loro gravi responsabilità l’amministrazione penitenziaria e il governo. Un’inchiesta condotta, nel corso del 1905, dal giornale «L’Avvenire d’Italia» di Bologna, aveva svelato, grazie alle rivelazioni di Angelelli, ora in pensione ma che all’indomani del processo di Teramo era stato costretto ad assumersi tutte le responsabilità ed era stato quindi scaricato dal Doria e dal Canevelli e trasferito in Sardegna, tutti i retroscena dell’efferata macchinazione ordita ai danni dell’Acciarito e degli anarchici romani. Venne fuori che i due commendatori, che all’epoca erano stati premiati per «aver voluto portare gli anarchici attentatori del re ai piedi del trono», avevano avuto anche dei colloqui con Rudinì prima e con Pelloux poi, i quali avevano elargito dei quattrini per mandare in porto l’operazione. Fu un nuovo scandalo che gettò un’ombra sinistra sul governo, sull’amministrazione della giustizia e sul sistema penitenziario in Italia. Ma il conseguente processo che verrà istruito contro Doria, Canevelli e Angelelli, si svolgerà in maniera assai poco esemplare e gli imputati, protetti dall’allora Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, verranno tutti assolti. Il clamore suscitato da questa vicenda, non riuscì a modificare il destino di Acciarito, che trascorse da recluso il resto della propria vita. Nel corso dei sette anni di segregazione cellulare, passati prima a Santo Stefano e poi a Portolongone, le condizioni fisiche e mentali dell’ergastolano andarono progressivamente peggiorando. Come nel caso di Passanante, ad Acciarito era vietato leggere e scrivere, non poteva ricevere notizie dalla famiglia e tanto meno visite, neppure quella del medico in caso di malattia; i guardiani dovevano restare completamente in silenzio, non rispondere mai alle sue domande; dopo qualche mese di isolamento assoluto, iniziava ad aver paura persino della propria voce, il cui suono gli era diventato straniero. La reazione furibonda avuta da Acciarito contro i giudici istruttori e l’Angelelli, nel corso dei processi di Roma e di Teramo contro gli

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anarchici accusati di complicità nell’attentato, dopo che la macchinazione ordita ai suoi danni si era completamente disvelata, fu presa a pretesto per farlo passare come un pazzo. Indubbiamente, viste le dure condizioni carcerarie cui era sottoposto e le aberranti pressioni subite, cominciava ad essere affetto da comprensibili manie di persecuzione, e le reazioni violente mostrate non erano poi così diverse da quelle che potevano avere altre persone costrette in simili situazioni. L’on. Attilio Brunialti, che riuscì a fargli visita nel penitenziario di Portolongone, nell’ottobre del 1900, riferiva che «Acciarito leggeva un libro di devozione, o pareva leggesse, perché non voltava le pagine, e sembrava immobile, con la faccia stupida, quasi di ebete: solo dopo molte insistenze ei volse un’occhiata, non saprei se d’odio o di sdegno, ma fu un lampo».

Brunialti, notando come anche molti altri condannati all’ergastolo avessero negli occhi una luce simile a quella delle bestie feroci rinchiuse in gabbia, commentava che «[…] quell’isolamento, quel silenzio per sette anni, domano, frangono, inebetiscono la gaia e socievole fibra meridionale. È una pena inventata per popoli freddi, taciturni, poco impressionabili del nord […], gli italiani ammalano, inebetiscono, e spesso muoiono, anche di propria mano. […] Prima dei sette anni un terzo dei condannati muore, l’altro terzo passa al manicomio […]».

La sera del 27 maggio del 1904, Acciarito, scontati i sette anni di segregazione cellulare, veniva trasferito nel manicomio criminale di Montelupo, dove, trattato assai duramente, come denunciò il settimanale anarchico ravennate «L’Aurora» in un articolo del 20 gennaio 1906, andò incontro ad un progressivo decadimento mentale. Qui resterà, in una condizione di completo abbandono e isolamento, per circa quarant’anni, e qui morirà il 4 dicembre 1943, in quel triste edificio dell’Ambrogiana dove già nel 1910 si era spento Giovanni Passanante.

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CAPITOLO IX Michele Angiolillo, Luigi Luccheni e la crisi di fine secolo in Italia.

Come in Italia e in Francia, anche in Spagna l’ultimo decennio dell’Ottocento fu contraddistinto da una lunga serie di sommosse popolari, scioperi, lanci di bombe, attentati individuali e repressioni cruente. Nel 1891, i sindacati di Barcellona indissero uno sciopero generale per la giornata lavorativa di otto ore, nel corso del quale venne lanciata una bomba contro gli uffici della grande associazione catalana dei datori di lavoro, il Fomento. Da questo momento si scatenò, nel capoluogo della Catalogna, una campagna di attentati dinamitardi, inizialmente organizzati, comunque, più allo scopo di spaventare che di provocare danni alle persone e alle proprietà, che si estese, nei mesi e negli anni seguenti, fino a raggiungere proporzioni epidemiche. Alcune fra quelle bombe furono certamente lanciate o deposte da anarchici – tra cui era particolarmente attivo in città un piccolo gruppo d’italiani dedito alla discussione e alla propaganda – che avevano cominciato a mettere in circolazione un manuale, l’Indicador anarquista, contenente istruzioni per fabbricare esplosivi, ma altri attentati furono opera di agenti assoldati dalla polizia o dall’associazione dei datori di lavoro, i cui pistoleros prezzolati iniziarono in quel periodo una sanguinosa guerriglia di strada contro i militanti anarchici e sindacalisti. Nel gennaio del 1892, in Andalusia, quattromila contadini e braccianti, armati di bastoni e di falci, marciarono su Jerez de la Frontera al grido di: «Non possiamo più attendere neppure per un giorno! Dobbiamo essere i primi a scatenare la rivoluzione! Viva l’anar155

chia!», e occuparono la città per molte ore. Vennero uccisi due negozianti impopolari e gli scontri con la Guardia Civil si protrassero per alcuni giorni. Il governo inviò un contingente di cavalleria e la rivolta fu duramente domata e repressa. Quattro leaders contadini vennero condannati a morte, e giustiziati il 10 febbraio 1893, e a molti altri furono comminate delle pesanti pene ai lavori forzati e a lunghi anni di reclusione. Per capire di che pasta fosse fatta la giustizia spagnola dell’epoca, basti dire che uno dei condannati di Jerez, a dodici anni di lavori forzati, fu un uomo, l’anarchico Fermin Salvoechea, che allo scoppio della rivolta già si trovava in prigione, a Cadice, per altre questioni politiche. Il 24 settembre del 1893, a Barcellona, l’anarchico Paulino Pallas lanciava una bomba contro il generale Martinez Campos, per rappresaglia contro la repressione e le condanne inflitte ai rivoltosi di Jerez. Martinez Campos fu solo lievemente ferito, ma Pallas, processato da una corte marziale, venne fucilato. Per vendicarlo, un altro anarchico, Santiago Salvador, l’8 novembre di quello stesso anno lanciò una bomba nella platea del Teatro Liceo di Barcellona, uccidendo venti persone e ferendone molte altre. La polizia non trovò subito il responsabile e procedette a caso all’arresto di cinque anarchici. Benché fosse evidente che essi non avevano alcun rapporto con l’attentato, i giudici li dichiararono ugualmente colpevoli. Infine, Salvador fu catturato, processato e condannato a morte, ma ciò non impedì che anche gli altri cinque venissero incredibilmente giustiziati. All’indomani dell’attentato del Teatro Liceo, il governo promulgò una serie di leggi eccezionali «per la repressione dell’anarchia» e creò una speciale forza politica di polizia antianarchica, la Brigada Social, che contribuì all’intensificazione delle violenze, fatte di sparatorie per strada, attentati dinamitardi, arresti indiscriminati e uso della tortura nei confronti dei fermati, che si registrarono a Barcellona nei mesi ed anni seguenti. Il 7 giugno 1896, da una finestra di una casa di Calle de Combios Nuevos fu lanciata una bomba contro la tradizionale processione del Corpus Domini che percorreva le vie di Barcellona. Fu una strage. Gli attentatori non vennero mai scoperti e si diffuse il sospetto di 156

una provocazione, dato che non si mancò di notare che la bomba era stata lanciata non contro la testa della processione, dove camminavano tutte le autorità odiate dagli anarchici, tra cui il vescovo e il capitano generale della città, ma contro la coda, dove uccise soltanto uomini e donne della classe operaia. Repubblicani ed anarchici accusarono i clericali di essere i mandanti, ma il generale Weyler, l’allora successore di Martinez Campos nella carica di capitano generale di Barcellona (e che, in seguito, diventerà tristemente famoso per le crudeltà commesse durante la guerra di Cuba), sfruttò immediatamente l’episodio, dando il via ad un’estesa campagna di arresti nei confronti di tutti gli oppositori del regime: dagli anarchici ai repubblicani, dai socialisti ai separatisti catalani, compresi vari liberi pensatori e semplici anticlericali. Più di 400 persone vennero rinchiuse nelle celle e nelle segrete della prigione di Montjuich, poco fuori Barcellona, dove restarono per parecchi mesi in balia della Brigada Social, la quale le sottopose alle più atroci torture. Molti detenuti morirono prima del processo. Alla fine, ottantasette di loro furono rinviati a giudizio, ma la notizia delle efferate torture aveva nel frattempo valicato i Pirenei, suscitando in tutta Europa un’ondata d’indignazione. Il viceconsole britannico a Barcellona, David Hannay, scrisse: «È provato che furono usate torture per estorcere confessioni a moltissime persone arrestate a caso. Esse non furono inflitte, come ai tempi dell’Inquisizione e vigente la vecchia procedura penale, secondo un sistema regolare e con la supervisione di magistrati, ma ad arbitrio di agenti politici della peggior specie. […] Il ricordo delle torture di Montjuich ha esasperato l’odio sociale dei poveri contro i ricchi […]».

Tali atrocità furono rivelate per la prima volta da Tarrida del Marmol, un uomo colto e di buona famiglia, anch’egli imprigionato a Montjuich. Sulle sue esperienze scrisse un libro che indignò Londra e Parigi. A Trafalgar Square vi furono manifestazioni di massa contro il governo spagnolo e una delle vittime delle sevizie della polizia fece il giro dell’Europa, raccontando la propria atroce vicenda in 157

una serie di conferenze pubbliche: gli erano state strappate le unghie dei piedi, il corpo era letteralmente coperto dai segni di ferite e percosse e gli organi sessuali gli erano stati bruciati. Nonostante che sugli ottantasette rinviati a giudizio non esistessero prove del loro coinvolgimento nell’attentato, se non alcune “confessioni” estorte, come si è detto, con la tortura, il tribunale pronunciò ben ventisei condanne, di cui otto alla pena di morte e le altre a lunghi periodi di detenzione. Il governo del conservatore Antonio Canovas del Castillo perseguitò persino i sessantuno imputati assolti, deportandoli ai bagni penali siti nella colonia africana del Rio de Oro, dal clima micidiale, punizione che a quell’epoca era temuta quasi più della morte. Infine, la pena di tre degli otto condannati a morte venne in seguito commutata nella reclusione a vita, ma gli altri cinque, anarchici, furono garrotati nel maggio del 1897, nonostante che in svariati centri d’Europa si susseguissero le manifestazioni di protesta della sinistra democratica contro la nuova Inquisizione spagnola. Sconvolto ed indignato dai resoconti uditi sulle torture di Montjuich, dall’esito del processo nei confronti dei diversi imputati e dalla notizia del garrotamento dei cinque anarchici condannati a morte, un giovane italiano di ventisei anni partiva da Londra, dove era residente, diretto a Madrid, con la ferma intenzione di colpire al cuore lo spietato regime spagnolo. Giunto a Madrid, si recava nella provincia basca di Guipuzcoa, sui Pirenei, alla stazione termale di Santa Agueda, località frequentata dalle classi benestanti della società spagnola. L’italiano era venuto a conoscenza che qui il primo ministro Canovas del Castillo era solito venire per rilassarsi e fare la cura delle acque. L’8 agosto del 1897, riuscito ad introdursi, grazie anche al suo portamento signorile e all’apparenza di viveur, nella stazione termale, il giovane si avvicinava al presidente del Consiglio spagnolo e gli scaricava addosso l’intero caricatore della propria rivoltella. Antonio Canovas del Castillo moriva all’istante. Immediatamente bloccato da diverse persone, il giovane, con ancora in mano l’arma fumante, alla consorte del primo ministro che gli gridava «as158

sassino! assassino!», rispondeva con estrema tranquillità: «Pardon, madame. Io rispetto te come signora, ma mi dispiace che tu sia moglie di quell’uomo». Il giovane attentatore si chiamava Michele Angiolillo, era nato a Foggia il 5 giugno 1871 da Giacomo e Maria Lombardi, e di mestiere faceva il tipografo. Nella sua città natale, Angiolillo aveva frequentato l’istituto tecnico ed aveva svolto attività politica come giovane repubblicano, ricoprendo anche la carica di segretario del Circolo «Aurelio Saffi». Nel 1891 era passato all’anarchismo e durante il servizio militare, allievo ufficiale a Napoli, veniva schedato dalla polizia come «estremista» per aver assistito a un comizio del deputato radicale Matteo Imbriani. Radiato dalla Scuola allievi ufficiali di Napoli per propaganda sovversiva, Angiolillo veniva inviato in una compagnia di disciplina a Borgo San Donnino, in provincia di Parma, prima e a Capua poi. Congedato, trovò lavoro per qualche tempo come operaio tipografo, ma nell’aprile del 1895 veniva condannato dal Tribunale di Lucera a 18 mesi di carcere e a tre anni di domicilio coatto alle isole Tremiti per propaganda sovversiva e «eccitamento all’odio fra le classi sociali». Per sfuggire a tale condanna, Angiolillo riparava all’estero, soggiornando in Francia prima, a Marsiglia e a Parigi, e in Belgio poi, a Liegi e a Bruxelles. Da qui, passava quindi in Inghilterra, stabilendosi a Londra, lavorando sempre, come aveva fatto anche negli altri paesi da lui visitati, come operaio tipografo. Frequentando gli ambienti anarchici londinesi, strinse amicizia con numerosi sovversivi di diverse nazionalità, e conobbe anche Ramon Emeterio Betances y Alacan, un componente della Delegazione dei ribelli cubani che stava girando l’Europa per far conoscere la lotta degli insorti dell’isola caraibica contro l’oppressivo regime coloniale spagnolo. Appassionatosi a queste vicende, Angiolillo apprende con orrore delle torture inflitte ai reclusi di Montjuich, partecipa alle manifestazioni popolari che si tengono a Trafalgar Square contro il governo spagnolo e decide, all’indomani dell’esecuzione dei cinque anarchici condannati a morte, di recarsi in Spagna per uccidere uno dei maggiori respon159

sabili di queste atrocità, il primo ministro Antonio Canovas del Castillo. Arrestato e bastonato, Angiolillo veniva processato il 16 agosto 1897 davanti al Consiglio di guerra nella città di Vergara. Nel corso del processo, in atteggiamento fiero e con voce ferma dichiarava: «Non ho complici. Voi cercherete invano un essere umano al quale io abbia partecipato il mio progetto. Io non ne ho parlato ad anima viva. Io ho concepita, preparata, eseguita l’uccisione del signor Canovas assolutamente da solo. Signori, voi non avete davanti un assassino ma un giustiziere. Per la carneficina fatta, la mia vittima era da solo più che cento tigri, più che mille rettili. Canovas del Castillo personificava, in ciò che hanno di più ripugnante, la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia del potere, la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l’Europa, il mondo intero!».

Quello stesso giorno, il Consiglio di guerra emise la sentenza di condanna a morte. Il 19 agosto, a Vergara, Angiolillo affrontò coraggiosamente il supplizio della garrota, rifiutando con sdegno l’assistenza religiosa. La sua ultima ed unica parola pronunciata prima di morire fu «Germinal», il nome che la rivoluzione francese aveva dato al mese della primavera e che lo scrittore Emile Zola aveva ripreso a titolo di uno dei suoi più celebri romanzi, «dolce parola di augurio e di speranza per il mondo» come scrisse il giornalista Rastignac (Vincenzo Morello) in un famoso articolo apparso su «La Tribuna» del 27 agosto 1897, una parola che passò come «il volo della fantasia sulla nera coorte dei giudici, dei carcerieri e dei carnefici». L’attentato e l’esecuzione di Michele Angiolillo ebbero una forte risonanza in tutto il mondo: la sua autodifesa di fronte al Consiglio di guerra, pubblicata dal settimanale parigino «Le Libertaire» prima e dal periodico italiano «L’Agitazione» poi, venne distribuita come documento di propaganda anarchica. Anche l’articolo di difesa del gesto del tipografo foggiano, scritto dal già citato giornalista borghese Rastignac, uomo d’ordine e candidato al senato, nel quale 160

emergeva, oltre l’occasionale solidarietà con gli oppositori dell’esecrata monarchia di Spagna, una appassionata apologia dell’anarchismo, le cui ragioni andavano ricercate nella critica portata avanti dagli anarchici nei riguardi della democrazia parlamentare, contro la quale lo stesso Morello, come molti altri intellettuali della sua generazione, nutriva una netta sfiducia ed avversione, venne dagli anarchici più volte ristampato e diffuso in forma di opuscolo e di manifesto. In esso, intitolato Nella battaglia. Germinal, Vincenzo Morello asseriva, dopo aver esaltato la figura di Angiolillo: «Io mi permetto di affermare che l’unica forma eroica della scienza e della vita moderna è l’anarchismo; che dall’anarchismo derivano i libri più geniali e gli uomini più coraggiosi; che nell’anarchismo è in gestazione e forse maturerà la nova gente, dominatrice della vita sociale […]. Questo anarchismo, del resto ha i suoi filosofi, i suoi poeti, i suoi giornalisti, i suoi critici, come ha i suoi eroi; e tutta un’onda fresca e sonante di idee e di fantasmi è nell’opera di costoro, che valgono certamente di più e meglio dei cinesi del socialismo e dei bizantini del conservatorismo […]».

E, proseguendo, salutava nell’anarchismo «[…] contro il vile predominio delle maggioranze elettorali e parlamentari, l’affermazione della coscienza individuale; contro l’inerzia morale delle classi così dette dominatrici, l’affermazione delle volontà rinnovatrici».

Solamente alcuni anarchici, che possedevano antenne sensibili a interferenze sospette, avvertirono che con il suo articolo Rastignac stava contrabbandando nell’anarchismo un qualcosa di estraneo. Errico Malatesta, sulle colonne del periodico «L’Agitazione», intervenne a deplorare che «in quell’articolo s’ignora completamente il contenuto socialistico della dottrina anarchica, senza del quale l’anarchia sarebbe cosa degna di superuomini alla Nietzsche e alla D’Annunzio e, contraddicendo se stessa, metterebbe capo all’aristocraticismo ed alla tirannia». Comunque, qualche anno dopo, quando l’articolo Nella battaglia. Germinal venne inserito nel libro Nell’arte e nella vita dello stesso Morello, nella lettera dedicatoria 161

a Gabriele D’Annunzio, preposta al volume, l’autore spiegherà la sua simpatia per gli anarchici nei termini seguenti: «E se io ho sempre difeso gli anarchici, è perché ho sempre sentito in me lo stesso bisogno di indipendenza intellettuale, ch’è nel fondo della loro dottrina, e perché dietro tutto quel che dice e scrive e fa, l’anarchico non trascina mai il carro funebre del suo partito».

Negli ultimi anni di fine secolo, in Italia era in corso una terribile crisi economica e sociale. Il rialzo fortissimo dei dazi, provocato dalla politica protezionistica intrapresa dalle classi dirigenti italiane a partire dal 1887, la larga emissione di carta moneta, le sovvenzioni alle banche pericolanti, l’aumento delle imposte di ogni genere e i prestiti concessi ad un particolare e ristretto ceto erano tutte cause di un profondo malessere che si faceva sentire ora, in maniera assai drammatica. Se da un lato la classe degli industriali aveva realizzato grandi profitti, ottenendo con le tariffe doganali dei benefici non lievi, e la classe dei grossi proprietari terrieri, che si dedicava alla coltivazione estensiva del grano, aveva goduto di notevoli privilegi, dall’altro lato la maggior parte della piccola e media borghesia aveva dovuto pagare per gli altri, mentre la classe degli operai agricoli e di quelli industriali ne aveva fatto le spese per tutti, non ricevendo nulla da nessuno, dibattendosi in condizioni di estrema povertà. La ricchezza per abitante, rilevata sulla base delle imposizioni fiscali sulle successioni e sulle donazioni, calcolata per il quinquennio 1885-1890 in 1.772 lire, scesa nel 1890-1895 a 1.667 lire e nel 18951900 a 1.155 lire, può dare una prima idea del progressivo impoverimento generale del paese in quegli anni. Le grandi spese militari e la velleitaria politica imperialistica, facevano diminuire drasticamente i consumi di prima necessità. Il debito pubblico italiano, che si aggirava sui 3 miliardi di lire nel 1862, era salito a 13 miliari nel 1898, mentre del reddito statale, che in quegli anni di fine secolo era pari a circa 3 miliardi di lire, più della metà, e cioè ben 1.625 milioni di lire, andava alle spese militari dovute all’alleanza triplicista, agli armamenti e all’avventura africana. Sintomo ulteriore del162

l’abbassamento del livello di vita del mondo subalterno, era poi il crollo dei proventi statali derivanti dal gioco del lotto. L’impoverimento complessivo della nazione e la diminuita capacità d’acquisto, particolarmente forte per le masse contadine ed operaie, fece piombare le classi popolari ai margini del minimo vitale di esistenza. L’aumentato prezzo del grano e del granoturco insieme alla diminuita produzione di tali prodotti, che li rendevano spesso di difficile reperimento e favoriva il fenomeno degli accaparramenti e della borsa nera, insieme alla gravezza dei tributi per i prodotti di primissima necessità (tributi prima esosi ed ora addirittura insopportabili), creavano i presupposti per una rivolta della fame. Da un’acuta indagine fatta in quegli anni, si rilevava come su un quintale di pane gravassero 9 lire di dazio se il grano veniva dall’estero (e analogamente per il grano italiano ove le 9 lire erano date dall’imposta fondiaria e dagli altri tributi), più lire 3,30 di dazio protettivo, più lire 3 per il dazio di consumo, più lire 0,50 al quintale di tassa sul sale (il sale era venduto dallo Stato a un prezzo 20 volte superiore a quello di produzione), più le tasse del commerciante, del mugnaio e del panettiere, più le tasse molto elevate per i trasporti. Cosicché ogni quintale di pane era gravato di 15 e più lire per tasse e imposte, in modo tale che «la tassa ragguagliata al costo del pane rappresenta nientemeno che un tributo del 75% sul valore originario». Il prezzo medio del grano, d’altra parte, aumentava da lire 18,45 nel 1894 a lire 20,99 nel 1895, passando a lire 24,84 nel 1896 e a lire 25,22 nel 1897, ed arrivando a lire 26,35 nel 1898. Logicamente, diminuiva in maniera inversamente proporzionale il consumo medio annuo del frumento per abitante, da 122 Kg. nel 1885-1890 a 121 Kg. nel 1890-1895, crollando a 117 Kg. nel 18951900. Infine, prendendo quale base un salario medio di un operaio dell’epoca, per acquistare un quintale di frumento occorrevano 73 ore di lavoro nel 1894, 82 ore nel 1895, 89 ore nel 1896, addirittura 102 ore nel 1897 e 105 nel 1898. Ed è proprio in questi anni che si registra un deciso incremento dell’emigrazione, dovuta principalmente alle gravi condizioni di mi163

seria presenti fra le classi subalterne italiane, ma anche a causa del duro regime repressivo e persecutorio che i governi di quel periodo adottavano e imponevano nei confronti delle proteste, degli scioperi, delle sommosse e dei movimenti d’opposizione popolari. La fuga dall’Italia delle masse lavoratrici, se si esaminano i totali dell’emigrazione permanente, assume sul piano nazionale veramente la caratteristica di un esodo di massa: dal 1880 al 1886 le unità annue salgono da 119.901 a 167.829, nel 1887 balzano a 215.665 e nel 1888 a 290.736; la cifra permane stazionaria con piccole oscillazioni sino al 1896, anno in cui sale a 307.482, nel 1897 è pari a 299.855 unità, nel 1898 è di 283.715, mentre nel 1899 cresce a 308.339 per arrivare nel 1900 a ben 353.782 unità. Chi sono i lavoratori che emigrano? Secondo le statistiche, preso il periodo tra il 1878 e il 1910, il 40% è dato da contadini, pastori e boscaioli, il 30% da braccianti, giornalieri e sterratori, il 15% da muratori, manovali, scalpellini ed altri operai del settore edile, il 12% da operai dell’industria e artigiani, e solo il 3% da professionisti, altri mestieri o mestieri ignorati. Le masse lavoratrici italiane, diseredate, perseguitate, represse e battute, abbandonavano la lotta per andare a formarsi altrove il loro avvenire. Diceva una canzone degli emigranti verso la Svizzera: «La lingera la passa il Sempion» (la miseria passa il Sempione). Un giornalista, che nel 1899 si trovava per un’inchiesta sul traforo del Sempione, li vide e li sentì cantare sul valico, e così li descrisse: «Dopo il suono comparve la triste schiera: una trentina: giovani, uomini maturi e ragazzi con valige e sacchi caricati sulle spalle. I primi erano lombardi e piemontesi, mentre la retroguardia era formata da siciliani facilmente riconoscibili dal berrettino tondo e dallo scialle a scacchi: i poveretti che forse non avevano mai visto la neve, tremavano e parevano trasognati… tutti mi domandarono: a Briga troveremo lavoro?».

E se molti appartenenti alla classe dirigente erano favorevoli all’emigrazione, vista come efficace alternativa alla lotta di classe per le masse popolari, anche alcuni economisti della sinistra borghese risultarono esserne dei sostenitori. Il socialista Ferri infatti dichia164

rava: «L’emigrazione è fatto naturale e costante perché è una delle tante forme di lotta per l’esistenza […]. Mi dicevano i contadini mantovani: soffrire per soffrire, almeno andiamo a tentare la sorte […]. Io sono favorevolissimo all’emigrazione perché […] la ritengo una valvola di sicurezza per la società».

La società alla quale il Ferri alludeva era naturalmente la società borghese. In una tale condizione di grave crisi alimentare generale, inasprita dal pesante dazio di consumo, due elementi contingenti vennero a rendere insostenibile la situazione nel 1898: il cattivo raccolto del 1897 e la guerra ispano-americana che provocò in tutto il mondo il rincaro del prezzo del grano. Di fronte a un fabbisogno nazionale di circa 41 milioni di quintali di pane, ve ne sono disponibili in Italia solo 24. La scarsità del grano ne fa naturalmente aumentare il prezzo, sparire le scorte e favorire le speculazioni. Spontaneamente, le masse popolari scendono in lotta in centinaia di località con il semplice obiettivo di rivendicare «pane e lavoro», che il governo della borghesia non sapeva loro garantire: tumultuano, si sollevano, assaltano i forni e i magazzini, invadono gli uffici pubblici, entrano in conflitto con la polizia e con l’esercito, con una vastità mai conosciuta prima di allora. Scenderanno in lotta via via tutte le regioni italiane, dalle grandi città ai piccoli luoghi di montagna, dalle zone agricole a quelle industriali, dal settentrione al meridione, in una spontanea sollevazione. L’avanguardia di queste masse sarà data dalle donne e dai ragazzi, che saranno i primi in tutti gli scontri, ma dietro di essi si muoveranno tutte le categorie sociali del mondo subalterno: dai braccianti agricoli agli operai delle industrie, dagli affittuari e mezzadri delle campagne alla piccola borghesia dei paesi e delle città, dagli artigiani dei piccoli centri alla plebe multiforme dei grandi agglomerati. Inaugura i moti di quel fatale 1898 la Sicilia, dove il 2 gennaio a Siculiana, in provincia di Girgenti, avvengono disordini al grido di 165

«pane e lavoro» e scontri con la forza pubblica: si incendia il municipio, viene ucciso un contadino e feriti un maresciallo e due guardie di P.S. Il 5 e 6 gennaio, nelle province di Bologna e Modena, torme di braccianti senza lavoro scendono in lotta al solito grido di «pane e lavoro», mentre i sindaci cercano di calmare le folle promettendo lavori pubblici. Nei stessi giorni, 3.000 contadini dimostrano a Canicattì contro la tassa comunale sugli animali da tiro e invadono il municipio. Il 10, a Montescaglioso, in provincia di Matera, migliaia di dimostranti saccheggiano il municipio, dando alle fiamme le carte della pretura e della ricevitoria del Registro: la sommossa verrà repressa molte ore dopo da due compagnie di fanteria che occuperanno il paese e procederanno a più di ottanta arresti. Il 17 si solleva Ancona, dove la popolazione tumultua per le strade e per le piazze, si scontra a sassate con la forza pubblica al grido di «viva l’anarchia, viva la rivoluzione sociale». Il governo invia ben 5 compagnie di fanteria, 2 squadroni di cavalleria, oltre ad altre aliquote di polizia e carabinieri, per procedere alla repressione della sommossa, che verrà domata solo dopo alcuni giorni. Nello stesso periodo, altre dimostrazioni scoppiano in vari centri delle Marche, delle Romagne, della Liguria, dell’Umbria, della Campania. Il governo provvede, intanto, alla chiamata straordinaria alle armi della classe 1874 per lo scopo dichiarato del mantenimento dell’ordine pubblico. Nel corso del mese di febbraio, è di nuovo la Sicilia a scendere in lotta: in numerosi centri si susseguono gli scontri, le invasioni dei municipi, i saccheggi dei magazzini. Il 1° marzo, il governo è costretto a spostare un battaglione di fanteria da Reggio Emilia ed inviarlo nell’isola per il mantenimento dell’ordine pubblico. La morte in duello dell’onorevole Felice Cavallotti, leader della sinistra radicale, avvenuto il 6 marzo, si va ad innestare su tali moti per il pane, provocando assembramenti in varie località della penisola che al grido di «viva la Repubblica» sfoceranno in scontri aperti con la polizia. I tumulti e le sommosse proseguono per diverse settimane, fino a che, tra la fine di aprile e gli inizi di maggio, si assiste ad una vera e propria sollevazione generale, slegata in mille episodi eppure 166

contemporanea, che investe l’intera penisola, dalle Alpi alla Sicilia. La guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna, che scoppia nel mese di aprile, fa aumentare ulteriormente il prezzo del grano e dà le ali alla speculazione. Il governo si trova alla fine di quel mese con le provviste di grano praticamente esaurite. I braccianti di larghe zone della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia entrano in sciopero, così come i muratori e gli imbianchini di Piacenza, gli zolfatari della Sicilia, gli sterratori delle campagne romane, ecc. Poi è la volta di città intere: il 27 aprile tutta Bari manifesta contro il rincaro del pane, il 28 è Foggia a scendere in strada, il 29 è la volta di Napoli, il 30 si sollevano Palermo e Pesaro, il 1° maggio Ascoli Piceno, Salerno e Parma, solo per citare i centri maggiori. A partire dal 2 maggio, mentre il sud è ormai completamente in fiamme, la lotta si estende a quasi tutto il centro nord della penisola: dalla Toscana (Empoli, Firenze, Prato, Livorno e Pisa) alla Lombardia (Pavia, Brescia, Como, Cremona, Monza e Mantova), dal Lazio (Roma, Viterbo e Civitavecchia) al Veneto (Padova, Venezia, Treviso e Vicenza), ecc. Il 4 maggio, il governo decide con un decreto reale di sospendere il dazio sui grani per due mesi, e poi di abolirlo del tutto. Il 5, richiama alle armi la classe del 1878 per reprimere le dimostrazioni e ristabilire l’ordine pubblico. Reparti dell’esercito vengono inviati nei vari centri dove divampa la rivolta. Cominciano a fioccare, in diverse province, tra le quali Napoli, Firenze, Livorno, Massa Carrara, i decreti reali di stato d’assedio. I morti, i feriti e gli arrestati, fra le fila dei dimostranti, si contano a migliaia, in ogni località la reazione e la repressione governativa si fa sempre più sanguinosa e feroce. Città simbolo della spietata crudeltà militare, messa in campo dai ceti dominanti per soffocare le manifestazioni di protesta, diverrà Milano, la «capitale morale» d’Italia, come si diceva allora, il più importante centro economico e commerciale di tutta la penisola. Anche a Milano, la scintilla che fa scoppiare la rivolta è data dall’aumento del prezzo del grano, che sale, nel breve volgere di pochi giorni, da lire 22,85 al quintale a lire 34,25. Il 6 maggio, cominciano a diffondersi in città numerosi volantini e manifesti contro i privi167

legi, la guerra, il militarismo e il governo, ritenuto responsabile della carestia e del sangue versato nella repressione dei moti divampati in quei giorni nelle diverse località della penisola. L’autorità tutoria arresta chi viene scovato a distribuire i suddetti volantini. Gli operai delle fabbriche della Pirelli, della Stigler, della Grondona, della Vago e dell’Elvetica, abbandonano gli stabilimenti, scendono per le strade a reclamare il rilascio degli arrestati e il pane per tutti. In migliaia si incolonnano verso il centro cittadino e si scontrano con due reggimenti di fanteria schierati lungo la strada. Sono le 18,30 di sera: la folla preme sui soldati a sassate e la truppa spara a zero. Rimangono sul terreno uccisi un operaio e una guardia di P.S. (colpita per sbaglio dalla truppa), gravemente feriti due operai (che decederanno nella notte) e leggermente feriti altri 5 operai e 5 soldati. La salma dell’operaio morto viene deposta su un tram elettrico e portata in corteo da varie centinaia di lavoratori in Piazza Duomo, dove nuovi scontri si succedono in Galleria, mentre la notte cala sulla città. La fanteria blocca la Galleria, mentre i bersaglieri bivaccano sulla scalinata del Duomo. Il governo e la corona temono la Milano operaia: ben 37.000 sono infatti i lavoratori occupati nei grandi stabilimenti ed il loro numero, aumentato dalle donne e dai ragazzi, forma un’agguerrita avanguardia antigovernativa. Al comando della piazza militare della città di Milano c’è il generale Fiorenzo Bava Beccaris, che dispone di 20.000 uomini di truppa oltre ad alcune migliaia di carabinieri e poliziotti. A lui viene ordinato di riportare l’ordine a Milano. All’alba del 7 maggio l’esercito è ormai pronto alla repressione, e nei giorni seguenti si susseguiranno cruenti scontri fra la truppa e i dimostranti per le strade e le piazze della città. Vengono innalzate, in numerosi quartieri, dai popolani delle barricate, che l’esercito assalta e abbatte a colpi di cannone. I militari occupano case e palazzi, dando una caccia spietata ai manifestanti prima nelle stanze e poi sui tetti, uccidendo decine di ragazzi che si difendono con i tegoli. In Via Torino l’esercito spara a zero sui popolani che rispondono con i sassi. Sul terreno rimangono più di venti lavoratori morti e molte decine di feriti. La città è paralizzata: i tram sono 168

fermi, chiuse le botteghe e gli uffici, sbarrate le case. L’esercito pone posti di blocco in Via Monforte, in Via Torino, a Porta Venezia, in Piazza Duomo (dove il generale Bava Beccaris ha posto, in una grossa tenda, il quartier generale del proprio corpo d’armata), e in decine di altre località, mentre 4 cannoni da campagna vengono piazzati al Palazzo di Corte. Intanto, il «partito della Corona» e il governo hanno proclamato lo stato d’assedio: il prefetto di Milano fa affiggere un manifesto con il quale dichiara di passare il potere all’autorità militare. Il 7, l’8 e il 9 maggio, continuano i furiosi scontri tra i dimostranti e la truppa, gli eccidi di popolani indifesi, gli arresti indiscriminati di centinaia di persone. Giungono a Milano di rinforzo tre compagnie di alpini e tre compagnie di fanteria da Ivrea, vari battaglioni da Como e da Novara, due squadroni di cavalleria da Lodi ed altri 700 soldati dalla Val d’Aosta. Tra gli innumerevoli episodi di sangue, risalta per la sua assurdità, ferocia e crudeltà l’assalto effettuato dalla truppa al convento dei cappuccini di Porta Monforte, nel momento in cui un gran numero di senza tetto e di mendicanti stava prendendo la minestra che i frati quotidianamente elargivano loro. Dopo una violenta scarica di fucileria, viene ordinato di sparare col cannone sul muro di cinta del convento. Dalla breccia aperta, i soldati irrompono nel convento con la baionetta in canna al grido di «Vittoria! Vittoria!». All’ordine «Arrendetevi!» urlato dall’ufficiale in comando, viene risposto: «Cosa vuole che rendiamo, signor capitano? Semm tutt poveritt». Restano sul terreno decine di mendicanti morti e feriti. La sera del 9 maggio, la rivolta per il pane nella città di Milano può dirsi definitivamente domata. Il bilancio complessivo di queste quattro giornate fu valutato, in uno striminzito comunicato governativo, in 118 morti e 450 feriti, che però l’onorevole Angelici, in un calcolo prudenziale, fece salire a 400 morti e ad alcune migliaia di feriti, tutti popolani, mentre il giornale conservatore «La Tribuna» parlava addirittura di 800 morti. Migliaia saranno gli arrestati, ai quali il Tribunale di Guerra di Milano affibbierà, secondo i calcoli del deputato Nicola Colajanni, 1.390 anni di reclusione, 90 di detenzione e 307 di sorveglianza speciale. 169

Dal 10 maggio in poi, le sommosse per il pane, scoppiate nei diversi centri della penisola, rifluiscono ovunque, anche se non mancano qua e là sporadici conati di rivolta. Ma sono soltanto le ultime fiammate. La lotta è ormai conclusa, repressa nel sangue. Il bilancio complessivo è dato da più di un migliaio di lavoratori morti (compresa Milano) e svariate migliaia di feriti. I Tribunali militari, operanti nelle diverse province, elargiranno migliaia di secoli di galera ai numerosi arrestati. Il lavoro svolto da questi tribunali militari e dalle commissioni per l’assegnazione al domicilio coatto, fu assai più ampio e rigoroso di quello svolto nel 1894. Questa volta insieme agli anarchici furono colpiti senza alcun riguardo, anzi con giudizio sommario, esponenti socialisti, repubblicani, radicali, cattolici. Quasi tutta la stampa di sinistra venne imbavagliata o soppressa. Centinaia di associazioni, politiche e non, vennero sciolte. Le isole del domicilio coatto, dove nel biennio precedente erano rimaste alcune decine di anarchici, furono copiosamente ripopolate, e si dette attuazione anche al progetto, non realizzato nel 1894, di deportare nella colonia Eritrea, ad Assab, duecento coatti. Gli ambienti di corte e il potere esecutivo erano già da tempo orientati verso una svolta non solo politica ma anche istituzionale in senso autoritario, che avrebbe dovuto concretarsi in un maggiore potere personale del sovrano, in una riduzione dei poteri del parlamento e soprattutto in una drastica compressione delle voci e delle forze di opposizione. E i moti del pane e la loro cruenta repressione, verranno sfruttati dalla Corona per favorire questo disegno o quanto meno offrirono ai suoi fautori la possibilità di spazzare via i gruppi che a quel disegno si apprestavano a resistere. Nonostante che Rudinì avesse mostrato in quei giorni di saper fare il pugno duro, Umberto I decise che per forzare la situazione, per giungere ad un colpo di stato legalitario, era necessario servirsi di un militare, anziché di un politico. È la fiducia nell’esercito, unico baluardo della Corona e dell’ordine sociale – fiducia parimenti incrollabile nell’animo del re e della regina –, che nel momento cruciale ispira la decisione del sovrano. Il tema dei poveri soldati che hanno fatto il loro dovere in 170

mezzo ai disagi nei giorni dei moti è frequente nelle parole di Umberto e Margherita. Quest’ultima scriverà al generale Osio che «[…] decisamente i soli buoni sono i soldati! Volevo loro, per sentimento, per indole, e per sangue, già bene prima, ma ora quando vedo un soldato mi sento rallegrarsi il cuore ed inumidirsi gli occhi; tanto sono bravi e tanto loro deve il paese!».

Gloria ai soldati, e ancor più a chi li guida: gli industriali milanesi hanno telegrafato al re a Torino per esprimergli la loro soddisfazione, e la loro riconoscenza al generale Bava Beccaris. Anche la deputazione provinciale, il consiglio comunale di Milano e diverse associazioni patriottiche traboccano di riconoscenza, nei loro messaggi, per il generale salvatore. La borghesia esprime il suo giubilo per la vittoria delle truppe. È in questo clima che Umberto I firma il famoso dispaccio a Bava Beccaris, che testualmente recita: «Roma addì 6 giugno 1898, ore 21,20. Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal ministro della guerra a favore delle truppe da lei dipendenti e col darvi la mia approvazione fui lieto ed orgoglioso di onorare la virtù della disciplina, abnegazione e valore di cui esse offersero mirabile esempio. A Lei poi personalmente volli conferire motu proprio la Croce di Grand’ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia, per rimeritare il servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria. Umberto».

Inoltre, il 16 giugno, lo stesso generale Bava Beccaris veniva nominato senatore dal re. Sarà dunque con un militare che Umberto I oserà il gran passo. Il presidente del Consiglio Rudinì non lo sospetta, è tranquillo e si appresta a presentare alla Camera sei disegni di legge limitatori delle libertà. L’eventualità di un voto contrario non lo preoccupa, perché “lassù”, durante la repressione dei moti, gli è stato promesso di giungere, se necessario, allo scioglimento della Camera e all’esercizio del bilancio con decreto reale. Ma Rudinì non sa che “lassù”, ormai, si pensa ad un ministero militare, presieduto dal generale Pelloux, per incarnare i disegni retrivi. Sic171

chè, quando l’opposizione in parlamento risulterà così ampia da costringerlo alle dimissioni, Rudinì si accorgerà a proprie spese della “nuova” volontà del re, il quale, anziché sciogliere la Camera, affiderà l’incarico di formare un nuovo governo al generale Pelloux, governo che farà il suo esordio il 29 giugno. E il gabinetto Pelloux, assai deciso e nettamente spostato a destra, farà rimpiangere quelli di crispina memoria, grazie prima a quei «provvedimenti urgenti e temporanei per il mantenimento dell’ordine pubblico» che, votati in luglio, conferiranno al governo facoltà eccezionali, e poi a quel disegno di legge che, presentato nel febbraio del 1899 e ribattezzato col termine di «decretone», prevederà ampie limitazioni alle libertà di associazione e di espressione: riorganizzazione ed inasprimento del domicilio coatto, militarizzazione dei servizi pubblici, controllo capillare della stampa e delle associazioni, restrizione dei diritti di riunione e di sciopero, ecc. Mentre le caricature dei giornali francesi lo camuffavano da Luigi XV e chiamavano «rivincita di Adua» la vittoria dei soldati italiani sulla piazza di Milano, Umberto I, visibilmente soddisfatto della piega che stava prendendo la situazione politica e sociale interna con l’entrata in carica del ministero Pelloux, si lasciava andare, a corte, ad una colorita espressione: «Questa volta facciamo bum!». Ed alle sparute voci di protesta provenienti dagli esigui elementi d’opposizione ancora presenti in parlamento, replicava tranquillamente: «Di che si lagnano? Ho applicato il Torniamo allo Statuto». Il 10 settembre del 1898, a Ginevra, l’imperatrice Elisabetta d’Austria, nota anche con il nomignolo di Sissi, esce dall’Hotel Beau Rivage. Ormai sulla soglia dei sessant’anni, Elisabetta è una sovrana malata di nervi che mangia come un uccellino ed è dedita vagare, spesso senza scorta, malgrado gli ammonimenti del marito, l’imperatore d’Austria e re d’Ungheria Francesco Giuseppe, per le stazioni climatiche e mondane d’Europa. È certamente il simbolo di una società dorata e del Gotha incoronato del continente europeo, anche se non la principale rappresentante di un sistema. Scesa in strada verso le 13,30, Elisabetta si è incamminata con un parasole e un ven172

taglio lungo il viale, prospiciente l’Hotel dove soggiornava, che conduce all’imbarcadero posto sul lago della città elvetica. All’improvviso, un giovane si lancia su di lei colpendola con una lesina (un arnese metallico con una punta sottile e tagliente, leggermente ricurva, adoperato per la lavorazione di scarpe e del cuoiame in genere). L’imperatrice Elisabetta d’Austria si accascia a terra, tenendosi una mano sul petto. Immediatamente soccorsa da alcuni passanti, viene trasportata all’Hotel dove, poco dopo, si spegne. Il giovane attentatore, che è stato nel frattempo bloccato ed arrestato, è un italiano, si chiama Luigi Luccheni e di mestiere fa il manovale. La figura dell’attentatore acquista, in contrasto con quella regale della vittima, sullo sfondo dell’Hotel Beau Rivage di Ginevra, un crudo rilievo di protesta sociale. Luccheni era nato a Parigi il 22 aprile 1873 da Luigia Lacchini e da padre ignoto. La madre Luigia, nata a Begonia, in provincia di Parma, nel 1852, faceva la bracciante e la serva presso una ricca famiglia di Albereto, presso Borgotaro. Ingravidata da qualcuno del posto, si trasferì a Parigi per la vergogna e qui diede alla luce il proprio figlio. Per calcolo della madre o per un errore di trascrizione, il cognome di Luigi divenne Luccheni, ma per l’Ambasciata italiana risultò comunque figlio di ignoti. La Lacchini infatti abbandonò l’infante in un orfanotrofio parigino, l’Hospice des Enfants Assistes, e si trasferì in America, dove si rifece una vita sposandosi con un barista, tale Giuseppe Longinotti, anch’egli emigrante italiano, ex orsante della Valle del Taro, nella città californiana di San Francisco, dimenticandosi completamente del proprio figlio. Il piccolo Luigi Luccheni venne rimpatriato in Italia nell’agosto del 1874, e fu affidato – dopo due mesi trascorsi nell’Ospizio degli Esposti di Parma – ad una famiglia di Albereto, in quello stesso paese dove, in precedenza, la madre era cresciuta ed aveva lavorato. In questa povera famiglia, nella quale il padre adottivo, calzolaio, spesso si ubriacava e la madre, lavandaia, si era ridotta quasi al limite della prostituzione, Luigi trascorrerà circa sette anni della propria vita, fino a quando l’assistenza pubblica deciderà di trasferirlo, nell’aprile del 1881, all’Ospizio delle Arti di Parma. 173

Frequentò in maniera frammentaria, ma con buoni risultati, la scuola fino alla seconda elementare, poi, appena compiuti dieci anni, venne affidato ad una famiglia della zona, la quale lo spinse alla mendicità. Dopo aver lavorato, per un certo periodo, come manovale alla costruzione della linea ferroviaria Parma-La Spezia, Luccheni, ormai quattordicenne, fuggì dalla famiglia adottiva, incominciando una vita errabonda che lo porterà a conoscere Vienna e Budapest. Iniziò a leggere libri di propaganda rivoluzionaria e a frequentare gli ambienti anarchici e sovversivi, dichiarandosi di volta in volta «anarchico» o «comunista» o «umanitario». Avendo “dimenticato” i propri obblighi militari, venne arrestato a Fiume nel 1893. Trasferito a Parma, Luigi fu scarcerato ed arruolato nel 13° reggimento di cavalleria «Monferrato». Trascorse così tre anni e mezzo sotto le armi in Abissinia, quindi, dopo essere stato congedato, rientrava in Italia accettando un impiego come domestico presso un nobile di Palermo che era stato suo capitano nell’esercito, il principe Raniero de Vera d’Aragona. Rimase al servizio di questa nobile famiglia fino al marzo del 1898, quando improvvisamente si licenziò, per alcuni contrasti avuti col suo datore di lavoro, imbarcandosi poi per Genova. Da qui, il suo nuovo vagabondare lo condurrà fino a Losanna, dove giunse il 10 maggio, impegnandosi a lavorare come manovale e saltuariamente come tagliapietre. Durante questo periodo, vive alla giornata, di espedienti, e spesso dorme in locali di fortuna. Frequenta abbastanza assiduamente i gruppi anarchici della città svizzera, sviluppando sempre di più il suo odio verso i potenti della Terra. Avendo letto che il principe Enrico d’Orleans, pretendente al trono di Francia, è di passaggio a Ginevra, Luccheni vi si reca il 5 settembre per ucciderlo. Giunto a Ginevra, scopre però che il principe è già partito, ma viene a conoscenza che in città è invece presente Elisabetta di Wittelsbach, l’imperatrice d’Austria, la quale soggiorna all’Hotel Beau Rivage. Mutato così il proprio bersaglio da colpire, la mattina del 10 settembre Luccheni si apposta nei dintorni dell’Hotel, attendendo il momento più propizio per effettuare il suo attentato. 174

Dopo essere stato bloccato ed arrestato, Luigi Luccheni viene rinchiuso nel carcere di Ginevra in attesa del processo. Qui scrive una lettera, firmandosi «Anarchico ex pericolosissimo», al Presidente della Repubblica Elvetica per chiedere di essere giudicato nel Cantone di Lucerna, dove vigeva la pena di morte, anziché in quello di Ginevra, la cui legge penale non prevedeva tale pena, specificandogli ed avvertendolo di non voler considerare tale richiesta come un sintomo di pazzia. Scrive poi un’altra lettera, indirizzata alla principessa Dolores de Vera d’Aragona, moglie del principe Raniero per il quale aveva lavorato come domestico a Palermo, in cui, oltre a confermare il suo desiderio di essere giustiziato, esprime sommariamente la proprie idee ed i propri sentimenti di rivolta alla società dei ricchi e dei privilegiati, il tutto condito con un evidente sarcasmo.

«Ginevra, 14 settembre 1898. Signora Principessa. Nel presente, conosco d’essere indegno d’inviarle questa mia, nient’altro che per combattere le indegne malvagità, che Loro, la di Lei classe, si prende verso i suoi simili. E hanno ancora il coraggio di farsi rappresentare come fratelli. Vergogna. Sì: da vero comunista, non potevo più sopravvivere a tali ingiustizie, e da vero Umanitario feci conoscere che non è lontana l’ora in cui il nuovo Sole dovrà per tutti indistintamente risplendere. Lo so che per me più non vedrò oltre al nuovo, nemmeno il vecchio, non mi fa un bel niente, ho conosciuto abbastanza il mondo nei 25 anni che lo abitai, ne ho abbastanza per maledirlo. Signora Principessa, confermo con tutto il cuore (da selvaggio se vuole paragonare) che non mi trovai in vita mia contento come al presente e dico francamente che, se avessi la fortuna di essere giudicato dal Codice del Canton Lucerna come feci domanda, al Signor Presidente della Confederazione Svizzera, in proposito, vorrei fare, i gradini dell’Amata Ghigliottina, a salti senza bisogno di aiutanti che mi spingessero, se tale domanda non verrà accettata pregherò i Signori Giudici che abbiano da far scavare un sotterraneo al di sotto del superbo Leman onde non potessi più incontrarmi con quei vili raggi, che il Sole d’oggidì li fa risplendere a chi li piace. Per oggi non mi allungo di più stante che devo scrivere altre lettere, e anche perché mi occupo molto a leggere un libro proprio a me adatto. A [Lei] forse [farà] piacere sapere il suo titolo? È nient’altro che la Revue des Deux Mondes, davvero porta dei brillanti proverbi (peccato che non siano storici)

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perfettamente quelli che Lucheni cercava, eccone un paio «Il vaut mieux etre chien et vivre en paix que d’etre homme et vivre dans l’anarchie» [È meglio essere cane e vivere in pace che essere uomo e vivere nell’anarchia]. Superbo, non è vero Signora? Eccone un altro. «De la justice seule naitra la paix» [Solo dalla giustizia nascerà la pace]. Di questo poi non ne parlo, e male che non porta il nome dell’Autore, gli vorrei recitare un rosario tutte le sere, il tempo non mi manca. Domando perdono sia a Lei che al Signor Capitano di qualsiasi motivi che gli avessero cagionato dispiaceri, so benissimo che il Loro onore non verrà molestato riguardo all’accaduto di Ginevra. Pregherà il Signor Capitano di voler salutare a nome mio tutto lo Squadrone. Mi farà piacere salutare tanto il Sig. Ten. Neri e il Sig. Martrilli e tutti gli Ufficiali che di Monferrato conobbero il sottoscritto. Salutandoli Loro tutti di casa mi firmo per Suo ex-servo LOUIS LUCHENI Cosciente Comunista Se avessero piacere rispondermi, l’indirizzo non fa bisogno che lo scriva».

Il processo a Luigi Luccheni si svolse a Ginevra il 10 novembre del 1898. Di fronte alla Corte, l’attentatore non mostrò minimamente alcun pentimento per il suo gesto ed anzi se ne vantò con toni trionfalistici, descrivendolo come un atto di protesta e di rivolta nei confronti di tutti i governanti e di tutte le classi agiate del mondo. Il Tribunale condannò l’imputato all’ergastolo. Alla lettura della sentenza, Luccheni gridò: «Viva l’anarchia! Morte all’aristocrazia!». Dopo la vampata di notorietà seguita all’attentato e al processo, Luigi Luccheni ritornò nell’ombra e pochi si ricorderanno di lui quando, il 19 ottobre del 1910, verrà trovato impiccato nella sua cella del carcere dell’Evechè di Ginevra. Gli anarchici, che pure non avevano esitato a manifestare la loro solidarietà, anzi la loro esultanza, per gli attentati di Acciarito e di Angiolillo (la rivista «L’Agitazione», in un numero unico del 1° maggio 1897, aveva salutato il primo con un editoriale dal titolo In alto i cuori), davanti all’episodio di Ginevra tacquero. Unico ad ergersi in difesa del Luccheni fu Giuseppe Ciancabilla – sulla cui scia poi si accoderà anche Luigi Galleani – che sul giornale «L’Agitatore» di Neuchatel, in un articolo intitolato Un colpo di lima apparso 176

sul numero del 17 settembre 1898, rivendicò il valore dell’attentato su una linea di assunzione morale da parte degli anarchici di tutti i gesti di rottura con l’ordine costituito, indipendentemente dal modo del loro concreto manifestarsi e dalla maggiore o minore consapevolezza politica e sociale dei loro esecutori. Quell’articolo costò al Ciancabilla l’espulsione dal territorio della Confederazione Elvetica. In Italia, chi invece levò una parola in difesa di Luccheni, al di là della poesia di Giovanni Pascoli Nel carcere di Ginevra, nella quale si esprimeva la condanna di ogni genere di violenza unita alla pietà per il regicida, fu lo scrittore Alfredo Oriani. In una sottile analisi psicologica e sociologica, pure fra i paradossi e le forzature che gli erano proprie, Oriani, in Ombre di occaso, coglieva nel regicidio di Ginevra il significato drammatico di una eruzione prodottasi sul corpo sociale: «Quell’anarca cencioso […] come la solinga imperatrice, non aveva più nulla, nemmeno quei ricordi di cui si nutre il dolore, o quella commiserazione di se stesso che consola tutti i decaduti. Mentre ella errava di villa in villa, ove più pacificatrice sorride la bellezza della natura, l’altro passava per tutte le vie dell’esilio, nutrendosi di un pensiero di odio quando non aveva pane, soccombendo alla stanchezza dei giorni lunghi come una assenza, alla vacuità delle notti senza riposo, coll’anima che gli strideva dentro come un cane chiuso in una casa deserta».

Infine, anche un gruppo di anarchici romani, tra i quali Aristide Ceccarelli ed Ettore Sottovia, espresse la propria solidarietà al Luccheni, e in conseguenza di ciò furono arrestati, verso la fine di settembre del 1898, e successivamente sottoposti ad un processo che si concluderà con l’assoluzione di tutti i quarantaquattro imputati coinvolti. Alla notizia della morte dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, il re Umberto I ordina un lutto di corte di venti giorni. Cominciano a circolare delle incredibili voci circa un complotto anarchico contro il principe ereditario Vittorio Emanuele, che la polizia austriaca avrebbe miracolosamente sventato. Ad ogni buon conto, lo stesso Vittorio Emanuele, ritornando dai funerali di Vienna ed essendosi 177

fermato a Bologna per la colazione, nel riguadagnare il treno stima prudente eludere le due fila di carabinieri con pennacchio e passare inatteso dalla sala del pubblico. Anche il re Umberto cerca di salvaguardarsi: alla notizia dell’attentato ginevrino, trovandosi a Cuneo per il settimo centenario della fondazione della città, solleva il panciotto e fa vedere agli intimi che egli porta una finissima maglia d’acciaio. Il conte Alessandro Guiccioli, nel suo diario, interpreta lo stato d’animo della classe dominante italiana con queste annotazioni: «Ieri a Ginevra Elisabetta Imperatrice d’Austria è stata pugnalata da un italiano. La notizia mi dà un profondo senso di raccapriccio e di amarezza […]. Ci voleva uno di quegli animali stupidi, perversi e immondi che si chiamano anarchici per uccidere una tale infelice. E il bruto infame era un italiano! Quale nuova vergogna per il nostro disgraziato Paese! E quale terribile responsabilità per coloro che col fanatismo e con le ideologie sofistiche armano il braccio di cotesti scellerati, e per i Governi che verso tutta quella cospirazione di forze malvagie e distruttrici hanno praticato vilmente una benevola tolleranza».

E proprio venti giorni dopo l’attentato di Ginevra, il 29 settembre del 1898 il Ministro degli Esteri del governo italiano, l’ammiraglio e conte Napoleone Canevaro, prendeva un’iniziativa che avrebbe fatto molto chiasso nell’ambiente diplomatico e giornalistico. Il governo italiano, con una sua nota, proponeva ai governi d’Europa una coordinata politica contro il pericolo anarchico e avanzava il progetto di convocare una conferenza internazionale sull’argomento. L’iniziativa riprendeva vecchi progetti già prospettati senza esito dopo l’attentato di Caserio a Sadì Carnot. Successivamente, l’attentato di Angiolillo a Canovas del Castillo aveva indotto Italia e Spagna a riesaminare il problema, e in particolare a discutere la proposta di istituire una colonia penale internazionale di deportazione. La Spagna aveva offerto un’isola delle Filippine o delle Caroline, ma la sopraggiunta guerra ispano-americana aveva fatto cadere la cosa. Anche a livello dottrinale – sociologico, psicologico, giuridico – si era sviluppata in tutti i paesi una copiosa letteratura che spingeva nel senso dell’adozione di misure repressive eccezionali da parte dei 178

governi contro un nemico ritenuto potente e occulto, cui la grande stampa conservatrice attribuiva piani criminosi di sovversione mondiale. La morte dell’imperatrice d’Austria, caduta soprattutto per l’Italia in un momento di forte tensione politica dopo i moti e le repressioni del maggio 1898, contribuì a rilanciare l’idea della conferenza internazionale antianarchica, e a guadagnare l’adesione di massima dei governi interpellati, anche se impreviste difficoltà sorsero dal Vaticano che vedeva con preoccupazione lo svolgimento di una simile conferenza in Roma, con l’implicito riconoscimento della città come capitale del Regno d’Italia. Dettero la loro adesione, oltre a quello italiano, i governi di Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Lussemburgo, Principato di Monaco, Montenegro, Olanda, Portogallo, Romania, Russia, Serbia, Svezia e Norvegia, Svizzera, Turchia. La conferenza antianarchica si riunì a Roma, a Palazzo Corsini dal 24 novembre al 21 dicembre 1898. Le trattative furono segrete. Fu una tipica riunione diplomatica, con estenuanti discussioni procedurali e formalistiche. Il governo italiano aveva proposto un programma, molto oltranzista, per la repressione dell’anarchismo, l’estradizione degli anarchici, il divieto di circolazione della stampa anarchica; ma già questa carta degli scopi della conferenza incontrò forti resistenze fin dall’inizio, soprattutto da parte dei paesi liberali del Nord Europa. Il programma dovette essere ridimensionato. Alcune sedute furono impiegate nelle relazioni dei delegati circa lo stato della legislazione antianarchica nei rispettivi paesi. Poi furono nominate delle sottocommissioni per studiare le questioni pratiche. Alla fine ci si limitò a redigere una bozza d’accordo, cioè delle «proposte» da sottoporre alla valutazione dei governi. Ma anche l’adesione a questo documento da parte di molti delegati fu circondata da tante riserve da toglierle qualsiasi efficacia sostanziale. L’intenzione del governo italiano, spalleggiato da quello spagnolo, russo, tedesco ed austriaco, che spingeva per porre sullo stesso piano l’anarchico e il delinquente comune, venne osteggiata da alcuni delegati, soprattutto quelli francesi ed inglesi. A fatica si riuscì a formulare una definizione penale 179

dell’anarchismo, quale parte del documento. Dopo che un testo russo, concordato anche con la delegazione italiana, era stato respinto, fu approvato a maggioranza un nuovo testo così concepito: «I. La Conferenza ritiene che l’anarchismo non ha niente di comune con la politica e che non potrebbe, in alcun caso, esser considerato come una dottrina politica. II. È considerato come atto anarchico, dal punto di vista delle risoluzioni della Conferenza, ogni atto avente per scopo la distruzione, con mezzi violenti, di qualsiasi organizzazione sociale».

Ma questa definizione venne respinta dal delegato inglese, il quale in seguito rifiutò la propria adesione a tutte le risoluzioni prese, non firmò il documento conclusivo e dichiarò la propria opposizione alle misure proposte. A proposito poi della suddetta definizione dell’anarchismo, il rappresentante della Gran Bretagna dette ai suoi colleghi una brillante lezione di diritto e di logica: «La nostra opposizione all’accettazione di una definizione è fondata sul fatto che, per quanto concerne l’attuale legge inglese, una definizione non è necessaria e sarebbe inutile. Noi non perseguiamo le opinioni. Per noi, la sola questione è questa: c’è delitto, sì o no? Se l’atto è delittuoso, come l’assassinio o l’incitamento all’assassinio, non lo diventa di più per il fatto che viene dall’anarchismo. Se non è delittuoso, non lo diventa per il fatto che è anarchico […]. Inoltre, e come osservazione secondaria, farò notare che la definizione comune a tutte e tre le risoluzioni, secondo cui l’anarchismo consiste in atti di violenza contro qualsiasi organizzazione sociale, potrebbe applicarsi egualmente al socialismo e ad ogni atto violento di rivoluzione, come, ad esempio, alla sostituzione violenta di un parlamento al re o di un re al parlamento».

In pratica, la conferenza si concluse con un nulla di fatto, e risultò essere un insuccesso del governo italiano che ne era stato il principale promotore.

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CAPITOLO X Gaetano Bresci.

Il 21 luglio del 1900, chiuse le Camere per le ferie estive, il re Umberto I e la regina Margherita sono giunti, provenienti da Napoli, dove il sovrano, due giorni prima, aveva passato in rivista due battaglioni di fanteria e un reparto di artiglieria in partenza per la Cina, «dove – aveva detto – la nostra bandiera è stata oltraggiata», nella città di Monza per trascorrervi un periodo di villeggiatura. Il re da diversi anni è solito passare l’estate in questo piccolo centro lombardo, posto al margine della ridente Brianza, dove gli è facile incontrare la sua amante, la duchessa Eugenia Litta, la cui residenza è attigua alla villa ove abitualmente soggiorna il sovrano. Qui, Umberto, che è un poco indisposto, sente il bisogno di riprendere le forze prima delle battute di caccia che lo attendono al Gran Paradiso. Pochi giorni prima della fine del mese, il re è invitato a presenziare alla cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla Società «Forti e Liberi», che si terrà nella palestra del parco reale di Monza la sera del 29 luglio. Umberto, dopo qualche esitazione, decide di accettare l’invito. La giornata di domenica 29 luglio è molto calda, oltre 36 gradi, e il re la trascorre, dopo essersi affidato a un parrucchiere ed essere andato a messa con la regina, in assoluto riposo, interrotto solo da una breve passeggiata a piedi. A cena è allegro, scherza, vede dalla finestra le luci della festa che lo attende. Alle nove si alza da tavola ed esce salutando con un cenno della mano. Per la gran calura, il re ordina la carrozza aperta e si rifiuta di indossare, sotto il panciotto, la maglia d’acciaio che era solito portare. Alle nove e mezza, due 181

carrozze entrano nella palestra del parco di Monza: nella prima, col sovrano, ci sono i generali Ponzio Vaglia, ministro della real casa, e Avogadro di Quinto, provvisoriamente primo aiutante di campo; nella seconda c’è il maggiore Marciani con due maestri di cerimonia. Ad accoglierli sono il sindaco con la giunta, il sottoprefetto e l’onorevole Pennati. Nel palco regna un gran disordine, non tutti coloro che vi hanno preso posto sono stati controllati. Gli ufficiali sono in disparte: Umberto li fa avvicinare, parla con loro dei militari che sono partiti per la Cina e ricorda un ufficiale di Monza che è nel corpo di spedizione. Malgrado la tosse che lo infastidisce, è di buon umore e dice a Pennati che in età più tenera ha fatto anch’egli molta ginnastica: «fra questi giovanotti in gamba mi sento ringiovanire». S’intrattiene con la squadra di Trento che ha vinto il concorso ginnico e alle dieci e trenta, terminata la premiazione, tra gli applausi e le note della marcia reale, scende dal palco: nessuno ha provveduto a preparare un’uscita posteriore, quella anteriore essendo stretta, ingombra di gente e di sedie. Umberto sale sulla carrozza assieme ai due generali. Mentre i cavalli muovono i primi passi e il re saluta ancora con il cilindro in mano, un giovane balza agevolmente sul predellino della carrozza e, proteso il braccio armato di revolver verso il sovrano, spara tre colpi da breve distanza. I tre colpi vanno tutti a segno: uno alla spalla, uno al polmone e uno vicino al cuore. I cavalli si impennano, ma il cocchiere li doma e li fa partire subito di gran galoppo senza preoccuparsi, in quel momento in cui tutti perdono la testa, delle scosse che una simile corsa procura al re. «Avanti, credo di essere ferito», mormora Umberto reclinando il capo sulla spalla del generale Ponzio Vaglia. Ed incomincia a rantolare. Pochi minuti dopo, mentre la carrozza varcava i cancelli della villa, il re esalava l’ultimo respiro. Nel frattempo, il giovane attentatore viene immediatamente bloccato, non pochi dei presenti gli sono subito addosso ed è appena possibile sottrarlo al linciaggio: è coperto di sangue, gli abiti a brandelli e un occhio tumefatto che gli esce quasi dall’orbita per un colpo di bottiglia. Viene quindi portato nella locale caserma dei carabinieri dove, interrogato, dichiara solo 182

il proprio nome e cognome: Gaetano Bresci. Bresci era nato a Coiano, un paese alla periferia di Prato, il 10 novembre 1869 da Gaspare e Maddalena Godi, e di mestiere faceva l’operaio tessile. Ultimo di quattro tra fratelli e sorelle, proveniva da una famiglia contadina. Il padre Gaspare era proprietario di un podere e di una casa a tre piani, dove la madre, i suoi due fratelli e la sorella svolgevano quotidianamente i propri lavori agricoli. Solo uno dei fratelli maggiori di Gaetano, Angiolo, frequentate le scuole tecniche, aveva in seguito intrapreso la carriera militare: all’epoca dell’attentato di Monza era tenente. Gli altri rimasero contadini. Anche il piccolo Gaetano lavorava dunque nel podere paterno e si può ben dire che la sua famiglia conducesse una vita sì dura ma abbastanza tranquilla dal punto di vista economico. Ma con la crisi degli anni Settanta e Ottanta indotta dalla politica di tassazioni a tappeto sui generi di prima necessità, la famiglia Bresci cominciò gradualmente ad impoverirsi, arrivando a sfiorare la miseria. In quegli anni, l’industriale tessile Hosler stava impiantando una fabbrica, il cosiddetto «Fabbricone», in zona, e Gaspare Bresci fu costretto a vendergli metà della sua proprietà, su cui vennero realizzate dieci case per dirigenti e impiegati dello stabilimento. Sul contratto di vendita del podere c’era la clausola dell’assunzione del figlio Gaetano nella fabbrica. Nel frattempo, il padre si dovette ingegnare, per poter tirare avanti, come fabbricante di spole e commerciante di trecce di paglia. Sicchè Gaetano, all’età di undici anni, iniziò a lavorare come apprendista, a 14-15 ore al giorno, presso il «Fabbricone», mentre la domenica frequentava le scuole comunali di Prato d’arti e mestieri, nei corsi di tessitura, dove si specializzò come decoratore di seta. A quindici anni è già un operaio qualificato e comincia a frequentare assiduamente gli ambienti anarchici di Prato, all’epoca assai numerosi ed attivi. Nel tempo libero legge vari giornali ed opuscoli sovversivi, affinando le proprie idee di emancipazione sociale. A vent’anni è un ragazzo esuberante, pieno di slanci, di bell’aspetto, buon parlatore, ed ha una discreta fortuna con le donne. Pensa che il mondo debba cambiare e c’è una carica genuina 183

nel suo attivismo e ribellismo. Partecipa agli scioperi che vengono organizzati, all’inizio degli anni Novanta, da parte delle maestranze del «Fabbricone», e nel 1892 subisce una prima condanna a 15 giorni di reclusione per oltraggio alla forza pubblica e rifiuto d’obbedienza. Essendosi messo in evidenza nel corso delle lotte operaie, Bresci venne licenziato dal «Fabbricone», quindi si dovette trasferire, per poter ottenere un nuovo lavoro, prima a Firenze, poi a Campiobbi ed infine a Ponte all’Ania, in provincia di Lucca, dove si impiegò in uno stabilimento laniero in cui, abile e stimato, divenne nel giro di pochi mesi capo operaio. Difatti, oltre ad essere assai abile nel lavoro, come diranno gli stessi testi chiamati dalla Corte a deporre durante il processo per l’attentato al re, Bresci era anche una persona equilibrata e posata, con un fortissimo senso della precisione, anche nei riguardi dei minimi dettagli, e un amore e un rispetto profondo per i propri diritti e per quelli degli altri operai. E uno dei suoi fratelli, Lorenzo, interrogato da un giornalista de «Il Corriere Italiano» dopo il regicidio, riferirà che a Gaetano «[…] gli frullavano è vero nel capo delle idee un po’ calde, ma pazzerellesche. Non avrebbe dato noia a una mosca ed era affettuoso con tutti. Soltanto allorché vedeva un individuo che la miseria costringeva a mendicare, gli saliva il sangue alla testa».

Schedato come anarchico, dopo l’entrata in vigore delle leggi eccezionali crispine del luglio 1894, Bresci venne arrestato e condannato al domicilio coatto nell’isola di Pantelleria. Qui, nelle lunghe ore di ozio, migliorò la sua istruzione con diverse letture. Nel maggio del 1896, essendo stata emanata un’amnistia in conseguenza dei fatti di Adua e dell’ascesa del ministero Rudinì, Gaetano ottenne la libertà condizionale e fu rilasciato. Rientrato a Ponte all’Ania, riprese il lavoro di operaio tessile ed ebbe delle avventure amorose con alcune operaie del suo stabilimento, tra cui una di queste gli diede un figlio nell’estate del 1897. Con i propri risparmi e col denaro prestatogli dal fratello Lorenzo, Bresci affidò il figlio, come s’usava diffusamente allora, ma solo per quelli che potevano per184

metterselo, ad una balia. Alla fine dell’anno, probabilmente su invito di amici e compagni che stavano emigrando a causa delle sempre peggiori condizioni di vita presenti nella penisola, Gaetano decise di lasciare l’Italia e di partire alla volta degli Stati Uniti. Il 29 gennaio 1898 sbarcò a New York con regolare passaporto. Negli USA, in fortissima espansione economica, si era creata una importante area industriale tessile a Paterson, una città d’un centinaio di migliaia di abitanti ad alcune decine di chilometri ad ovest di New York. In essa, a partire dagli anni Ottanta, era confluita, e stava confluendo, una numerosa mano d’opera specializzata di origine italiana, proveniente soprattutto dalle aree tessili del centronord della penisola, che costituiva una parte cospicua della popolazione. E a Paterson, dove Bresci si stabilì, trovando lavoro presso lo stabilimento tessile «Hamil and Booth», esisteva anche una vasta colonia anarchica di lingua italiana, raccolta intorno al giornale «La Questione Sociale» che, fondato nel 1895, era allora diretto da Giuseppe Ciancabilla, ed in seguito da Errico Malatesta. Qui, Bresci entrò a far parte del gruppo anarchico «Diritto all’esistenza», acquistando anche delle quote azionarie della casa editrice libertaria «Era Nuova», che stampava diversi libri e opuscoli anarchici che diffondeva in gran parte della costa orientale degli States, riuscendo anche a spedirli e a distribuirli in Italia. Frequenta assiduamente le riunioni del gruppo e partecipa agli incontri e alle conferenze pubbliche anarchiche che, seguite da centinaia di persone, si tenevano nella città e nei centri vicini. In tali meetings, Bresci si mostra quieto e sobrio negli interventi, spesso pignolo e conciso, tanto da venir soprannominato dai compagni Piccola Osservazione per la sua abitudine a chiedere la parola per fare – come lui stesso diceva – una piccola osservazione. Ha modo di conoscere sia Ciancabilla che Malatesta, ed è presente alla famosa conferenza politica di quest’ultimo, che si tenne a West Hobocken, una località nelle immediate vicinanze di Paterson, il 30 agosto del 1899, e durante la quale, dopo vivaci battibecchi verbali fra le fazioni opposte del pubblico, riguardanti la cosiddetta tattica organizzatrice propugnata da 185

Malatesta, un anarchico individualista, Domenico Pazzaglia, ferì con una revolverata ad una gamba Malatesta stesso. Anzi si dice che in quell’occasione fu proprio il Bresci a disarmare il Pazzaglia. Giuseppe Ciancabilla, in un articolo apparso sul giornale «L’Aurora» di Paterson l’8 settembre 1900, così ricordava il tessitore di Prato: «Bresci buono, sobrio, onesto, calmo, tutt’altro che impulsivo, quasi flemmatico, cui sorridevano la stima e l’affetto dei compagni, l’amore della compagna e l’adorazione della sua bambina; Bresci che viveva qui relativamente in non tristi condizioni di lavoro, che non aveva infine alcuna di quelle ragioni esteriori, le quali spingono un individuo a commettere un atto che può apparire un suicidio […]».

In effetti, Gaetano Bresci a Paterson aveva un buon impiego come operaio tessile qualificato, per il quale percepiva, per otto ore lavorative quotidiane, circa 20 dollari la settimana, quando in Italia grosso modo si guadagnava, per le stesse mansioni, circa 20-22 lire la settimana, mentre un’operaia specializzata prendeva la metà e un bracciante agricolo guadagnava una lira al giorno. E se si tiene conto che il cambio effettuato da Bresci quando rientrò in Italia verso la metà del 1900, fu di 5,66 lire per dollaro, la grande differenza di salario diviene lampante. Nonostante che il costo della vita fosse più alto negli USA rispetto all’Italia, il salario percepito da Bresci gli permetteva ugualmente di vivere abbastanza bene (e ciò giustifica più che ampiamente la forte corrente migratoria delle maestranze tessili specializzate), concedendogli anche di soddisfare qualche piccolo desiderio. A differenza di molti immigrati italiani, che tendevano a chiudersi all’interno della propria comunità, Gaetano Bresci, evidenziando i caratteri della sua personalità “positiva”, cominciò ad integrarsi nella società statunitense, adeguandosi ad uno stile di vita yankee, imparando la lingua inglese e frequentando la gioventù americana. Si concedeva ad un piccolo lusso tipicamente americano, girando spesso con una macchina fotografica, piuttosto costosa, a tracolla, com’era di moda tra i giovani statunitensi dell’epoca, scattando fotografie. Intrecciò una relazione amorosa con una giovane 186

donna di origine irlandese, Sophie Knieland, operaia nella sua stessa fabbrica, con la quale, dopo averla sposata civilmente nell’estate del 1898, andò ad abitare in un cottage a West Hobocken. Lì la moglie gli diede, nel marzo del 1899, una figlia, Maddalena, mentre un’altra, Muriel, nascerà dopo l’attentato. Comunque, Bresci continuò ad abitare in un albergo di Paterson, come quando era scapolo, ritornando a casa solo per il fine settimana, mentre la moglie aveva smesso di lavorare. Che cosa indusse, dunque, un emigrato anarchico, la cui esistenza sembrava “normale” – lavoro, famiglia, attività politica di gruppo – e del tutto aliena dalle suggestioni nichiliste, dall’ansia vendicatrice e dai fervori di redenzione di altri attentatori, ad un’azione così radicale? Non si può naturalmente rispondere in modo esauriente a tale domanda, è possibile tuttavia delineare qualche ipotesi interpretativa cercando di abbozzare un quadro dell’ambiente nel quale Bresci maturò la propria decisione. Abbiamo già accennato a come Paterson fosse una sorta di capitale dell’anarchismo italiano negli Stati Uniti, dove gli anarchici vivevano la propria fede in modo appassionato. Dopo la dura e sanguinosa repressione dei moti siciliani e di quelli carraresi del 1894 e, soprattutto, dopo i tragici fatti milanesi del maggio 1898, l’odio tra gli anarchici per il re Umberto I, la corte, i militari e la borghesia assunse toni estremi ed accesi. Re mitraglia, Umberto Sporcamano, così veniva chiamato a Paterson il sovrano italiano, nonché Umberto unico, a significare che dopo di lui la dinastia di casa Savoia doveva finire. Il gesto con cui, nel giugno del 1898, il re aveva conferito al generale Bava Beccaris, responsabile delle stragi di Milano, un’alta onorificenza per i servizi resi «alle istituzioni ed alla civiltà», venne conosciuto in America, sdegnosamente commentato e mai più dimenticato. Sentimenti di tal genere furono comuni a tutti gli anarchici, fossero essi organizzatori o antiorganizzatori, comunisti o individualisti, e Bresci non si sottrasse certo a questo comune stato d’animo. Punire la protervia della monarchia, e con essa quella dell’intera classe dominante, era l’intento generale, a cui si accompagnava la certezza di una immi187

nente rivoluzione sociale in Italia, tanto che nel gennaio del 1899, come si evince dal giornale «La Questione Sociale», a Paterson venne appositamente istituito un «Comitato per i moti rivoluzionari» ed aperta allo stesso fine una sottoscrizione, con la dichiarata volontà, da parte degli anarchici italiani d’America, di aiutare, sovvenzionare e favorire le azioni rivoluzionarie nella penisola, ritenute ormai prossime e mature. In conclusione, l’implacabile desiderio di vendetta e la certezza dell’imminente, quasi ineluttabile, evento riparatore, costituirono gli ingredienti psicologici di una miscela esplosiva che alimentò l’immaginario dell’anarchico pratese, spingendolo a lasciare gli Stati Uniti per tornare in Italia ad uccidere il re. Maturato il proprio progetto, soldo a soldo Gaetano comincia a mettere da parte dei risparmi in vista del viaggio. Raggiunta la somma desiderata, avvisa la moglie della sua intenzione di partire per l’Italia, dove nel frattempo ha scritto al fratello Lorenzo preannunciandogli il suo prossimo arrivo. Il 17 maggio 1900, Bresci si imbarca a New York sul piroscafo Gascogne con un biglietto a prezzo ridotto per la visita all’Esposizione Universale di Parigi. Ha con sé circa 200 dollari, uno cheque di cinquecento lire depositate presso il banchiere Cesare Conti e pagabile a Genova, la macchina fotografica da tempo acquistata e un revolver calibro 9 a cinque colpi, preso da alcuni mesi e con cui si era a lungo addestrato. Durante la traversata, frequenta assiduamente altri due anarchici, entrambi provenienti da Paterson: l’operaio tessile trentino Antonio Laner e il barbiere elbano Nicola Quintavalle. Fa anche la conoscenza di una giovane donna di origine biellese, Emma Maria Quazza, anch’essa operaia in una filanda di Paterson e di idee socialiste, con la quale intreccerà una breve relazione amorosa. Giunti a Le Havre il 26 maggio, i quattro si dirigono a Parigi, dove sostano circa una settimana per visitare l’Esposizione Universale. Agli inizi di giugno, i quattro proseguono per l’Italia, e a Modane le loro strade si dividono: Bresci e Quintavalle si dirigono a Genova, dove il primo riscuote, il 6 giugno, le cinquecento lire accreditate. Dopo una breve 188

sosta, i due si separano e Bresci si reca a Coiano, dove sarà ospite del fratello Lorenzo. Qui si fermerà per qualche settimana, mostrandosi allegro, gioviale, sempre elegante e partecipando a feste e divertimenti. Scriverà varie volte a Emma Quazza e scatterà moltissime fotografie. Poi invierà le stampe ai fotografati e alle fotografate, un lungo elenco che gli sarà trovato in tasca al momento dell’arresto. Va da sé che queste persone saranno tutte arrestate, dato che la polizia si era frettolosamente convinta d’aver trovato la chiave della presunta cospirazione ai danni del re in quell’elenco di nominativi. Nel frattempo, Gaetano continua ad allenarsi al tiro al bersaglio con la pistola, dietro la casa di Coiano. Verso la metà di luglio, si reca dalla sorella a Castel San Pietro, un grosso borgo vicino a Bologna, dove conosce una giovane ombrellaia, Teresa Brugnoli, con cui inizia una breve relazione amorosa. Con lei va a Bologna, dove si trattiene per due giorni, alloggiando all’albergo Milano. Qui, il 21 luglio, Bresci riceve un misterioso telegramma e la sera stessa parte per Piacenza, dove sosta per altri due giorni. Dopo aver ricevuto un ulteriore telegramma, lascia Piacenza e si dirige a Milano, dove giunge la mattina del 24 luglio. Nel capoluogo lombardo, Bresci si reca dall’«affittaletti» Ramella in Via San Pietro all’Orto, dove è preso a pensione. Qui riceve alcune visite da parte di un giovane, che in seguito verrà designato dagli inquirenti, nel corso delle loro infruttuose ricerche, e dalla stampa col nomignolo di «biondino». Il 27 luglio, Bresci lascia Milano e si sposta a Monza, dove alloggia in una locanda, dopo aver cercato un’altra stanza per un suo amico. Nei due giorni seguenti, perlustra i viali adiacenti al parco reale, ove si sarebbe tenuta la cerimonia finale del concorso ginnico, informandosi sui possibili spostamenti del re. La mattina del 29 luglio, Gaetano si alza alle 7,30, perde circa un’ora per lavarsi e farsi le unghie, s’abbiglia elegantemente, compie vari spostamenti per la città e sosta diverse volte in una caffetteria, dove consuma cinque gelati suscitando un certo stupore nella proprietaria. Nella caffetteria fa anche la conoscenza con un uomo, all’epoca rimasto sconosciuto, col quale poi pranzerà. Si trattò di un incontro occasionale, secondo 189

Arrigo Petacco che nel suo libro sul regicida riporta la testimonianza rilasciatogli dalla figlia di quell’uomo, la quale afferma che il padre, dopo l’attentato, si era dileguato nell’ombra visti tutti gli arresti effettuati dalla polizia nei confronti di quelle persone che avevano avuto modo di trattenersi, anche solo per qualche istante, con il Bresci. La giornata era stata torrida, come già abbiamo avuto modo di dire, e per questo il re si era rifiutato di indossare la maglia d’acciaio sotto il panciotto. Ad ogni buon conto, Bresci, sapendo di questa protezione, aveva limato, facendo delle incisioni a forma di croce, la punta delle cartucce del suo revolver, per dar loro una migliore forza di penetrazione. Verso le dieci di sera, poco dopo l’ingresso in carrozza del re, Gaetano Bresci entrava nella palestra del parco reale, dove si stava svolgendo la cerimonia finale del concorso ginnico, e si collocava ad una decina di metri di distanza da Umberto I, nella terza fila degli spettatori, attendendo il momento più propizio per mettere in atto il suo attentato. Nelle ore successive alla morte di Umberto I, convergono su Monza tutti i Savoia. Non però il principe ereditario Vittorio Emanuele, che è in crociera nel Mediterraneo orientale in incognito e senza itinerario. La madre, la regina Margherita, cerca di avvertirlo diramando telegrammi a tutti gli scali del Levante, fino a che non verrà rintracciato e messo al corrente dell’accaduto. Sbarcato a Reggio Calabria, il nuovo sovrano Vittorio Emanuele, assieme alla consorte, la nuova regina Elena, si dirige in treno a Monza, ove giunge la sera del 1° agosto. Nella villa ove è sistemata la salma di Umberto, il primo ordine che il nuovo re impartisce, la sera del suo arrivo, è quello di togliere subito i lampioni che Umberto stesso aveva fatto mettere per illuminare il vialetto che ogni sera percorreva per recarsi nell’adiacente residenza della sua amante, la duchessa Eugenia Litta. Mentre Bresci, quasi nudo, il volto coperto di sangue e il corpo pieno di lividi, è trascinato in guardina e assicurato ad un tavolaccio con una catena, il telegrafo diffonde la notizia della morte del re in tutto il paese. È un’esplosione monarchica, uno scoppio d’indigna190

zione: i sindaci di ogni località si affrettano a redigere manifesti cortigiani; la giunta municipale milanese deplora «l’esecrando attentato di un forsennato» e ricorda «Colui che da Custoza a Napoli fu esempio insigne di militari e civili virtù». Furibondo è il linguaggio dei giornali. Per «L’Alba» di Milano, il «mostro» ha ucciso «il modello dei sovrani costituzionali e l’orgoglio della nazione». «Il Giorno» scrive che «per l’opera di uno sciagurato che devesi per il decoro del genere umano credere un pazzo, è spento come un tiranno Chi rappresentò davanti al mondo civile la più bella, la più santa, la più generosa tradizione di cavalleresca, devota, quasi umile obbedienza alla volontà nazionale». «Il Popolo Romano» descrive l’attentatore come una belva, mentre «Il Messaggero» come un vigliacco e volgare assassino. «Il Corriere Mercantile» di Livorno chiede per Gaetano Bresci non solo la pena di morte ma che sia sottoposto anche alla tortura. Per «Il Nuovo Fanfulla» Bresci «è, per vergogna nostra, figlio d’Italia ed è, o almeno pare, un operaio. Pare, diciamo, perché nell’anima di un operaio vero mal si comprende cotanta infamia, perché lavoro è nobiltà, lavoro è sacrificio, lavoro è coraggio, mentre uccidere il Re è malvagità vigliacca, è malvagità inutile, bestiale manifestazione di pazzia delittuosa, germinata chi sa dove e maturata nelle osterie, dove la coscienza si abbruttisce, non già nell’officina, dove l’anima si eleva».

Si viene a sapere che il Papa ha esclamato: «Oh Signore, Signore, che fatti orrendi!», e «L’Osservatore Romano», esecrando «l’abominevole misfatto umano», deplora «che pel diffondersi continuo di principi antireligiosi e perniciosissimi alla società, il prestigio dell’autorità sia talmente estinto in molti animi da non farli rifuggire dai più barbari assassinii». L’opinione pubblica conservatrice si scaglia veementemente, oltre che contro gli anarchici d’ogni scuola e di ogni specie, anche contro i socialisti e i repubblicani, accusati «con aliti infetti» di avvelenare «il puro aere della vita sociale». «La Gazzetta di Venezia» scrive che il morbo omicida della ribellione è diffuso dai partiti sovversivi. 191

Francesco Crispi, scrivendo su «La Tribuna», sostiene senza perifrasi che «il Paese non è minacciato da nemici esterni ma da nemici interni che bisogna eliminare». «L’Esercito Italiano», organo del Ministero della Guerra, paventando che il mondo civile «comincerà pur troppo a diffidare dell’avvenire di un popolo il quale sembra abbia il triste privilegio di produrre questa malvagia genia di delinquenti, che di quando in quando atterrisce l’umana convivenza colle sue orribili imprese», propone: «Noi potremo dimostrare che così severo giudizio non meritiamo se sapremo, con savie leggi, colpire nel cuore quella triste propaganda che col suo diuturno lavoro, per mezzo della parola e della stampa, arma nell’ombra la mano di questi gerenti responsabili delle più pazze utopie».

«Il Corriere della Sera» toglie argomento da un discorso pronunciato alla Camera da Filippo Turati per accusare la predicazione della lotta di classe che, se può non parere criminosa, nella mente dei proseliti rozzi, che l’accolgono senza restrizioni e senza i correttivi con cui i teorici ne circondano il concetto, diventa odio e regicidio. Lo scrittore Antonio Fogazzaro, che alcuni anni prima aveva risposto ad un’inchiesta sul socialismo promossa dal giornale «Vita Moderna», manifestando simpatia e consenso, in un’intervista al «Figaro» imputa ora al socialismo stesso la responsabilità dell’attentato: «La grande maggioranza della Nazione vede la parte disgraziata rappresentata in questo dramma spaventevole dalle dottrine socialistiche e repubblicane che indirettamente prepararono il terreno alle imprese anarchiche». Ancora il giornale «L’Alba» di Milano, sotto il titolo È vostro!, sproloquia, riferendosi ai socialisti, nei termini seguenti: «No, il mostruoso eroe della Palestra monzese non è un “solitario” […]. Voi siete le menti ed egli è il braccio; voi siete la lingua e la penna per oltraggiare, egli è la rivoltella per uccidere; voi sputate veleno, egli vomita piombo; voi predicate, egli eseguisce. Tenetevelo: è tutto vostro!».

E i socialisti e i repubblicani, nella corsa pazza ad umiliarsi per 192

scrollarsi di dosso ogni responsabilità morale, rispondono versando calde lacrime. «L’Avanti!» del 2 agosto così definisce il tessitore di Prato: «Bresci, pazzo e criminale, scioccamente calcolando il valore politico di una persona, uccide il re, perfidiando di spegnere colla sua vita l’istituto monarchico. Il motivo psichico determinante è pazzesco, l’atto obbrobrioso».

Su «La Giustizia» il socialista Prampolini si associa «al grido di esecrazione contro l’assassinio folle e infame». Alla Camera i deputati socialisti sono tuttavia fatti segno a mormorii e proteste e tacciati di complicità, mentre i repubblicani vengono accolti al grido di «coccodrilli» dopo che i deputati Bovio, Colajanni e Pansini avevano reso pubblico un manifesto indirizzato al Paese nel quale, per scagionare il proprio partito da ogni responsabilità morale nell’attentato, si dichiarava che la tradizione e la storia repubblicana aveva «sempre condannato l’assassinio politico», evidentemente dimenticandosi, nell’enfasi e nella preoccupazione del momento, che lo stesso Mazzini aveva in passato promosso il regicidio e che repubblicani erano stati Orsini e Oberdan, che il regicidio avevano tentato. Sulle violenti, isteriche e tremebonde ripercussioni dell’attentato di Bresci nella vita pubblica italiana, scrisse Arturo Labriola, alcuni anni dopo, nel suo libro Storia di dieci anni: «L’indomani della morte di Umberto I, l’Italia dette uno spettacolo indescrivibile. Dappertutto è accaduto che qualche volta il capo dello stato cadesse colpito da mano omicida […]. Agli italiani parve che un delitto di empietà si fosse sacrilegamente consumato. Come tutti si fossero sentiti colpevoli, gareggiavano di esagerazioni, a purgarsi del delitto. Si vide che in realtà la rivoluzione liberale, che trasforma il suddito in cittadino e il Re in primo funzionario dello Stato, non aveva attraversato l’epidermide degli italiani, ma che, servi liberati a caso, riconoscevano la loro condizione servile, prostrandosi senza dignità ai piedi del trono».

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E Filippo Turati riassunse in un lunghissimo articolo, apparso sulla rivista «Critica Sociale» del 16 agosto 1900, l’opinione corrente della stampa nei riguardi del regicidio, dandocene un quadro completo: «Se fra cinquant’anni o fra un secolo qualcuno sfoglierà i giornali di quell’agosto infocato, penserà che l’Italia borghese sia stata travolta da un’epidemia di delirio. Gaetano Bresci non è soltanto l’uomo che ha ucciso il re, è necessariamente una belva. Così è definito con assoluta sicurezza da gente che di lui, della sua vita, del suo pensiero, della sua psicologia ignora tutto. Nella colta e civile Milano si deplora nella stampa che i carabinieri lo abbiano protetto, non consentendo alla folla di linciarlo; dagli uni si chiede l’immediata erezione della forca e dagli altri (e non solo dai giornali reazionari) si chiede che il processo sia sommario e “di pura apparenza”. Nessuno dubita di distruggere così di un colpo le conquiste di secoli che sono la ragione, la sostanza, l’onore della civiltà che fa sacro il giudicabile, sacre le garanzie della difesa, che demolisce i patiboli, che vuole distinti – sebbene punibili entrambi – il delitto politico, cui muove una idealità, dal delitto comune. Così si è stampato senza alcuna protesta che al detenuto rinchiuso, isolato, vigilato nella cella, viene applicata la tortura regolarmente e il direttore del cellulare milanese non crede di dover smentire quest’incredibile obbrobrio!».

E fu in un simile clima di delirio che apparve, all’indomani dell’attentato, il seguente incredibile e tremebondo comunicato emesso da un gruppo di anarchici romani: «I socialisti-anarchici di Roma, in merito all’odierno attentato, proclamano, anche a nome di tutti i loro compagni d’Italia, solennemente, in faccia alla nazione e al mondo civile, che ripudiano con sdegno la prevedibile e codarda insinuazione tendente ad accusare il loro partito come quello che può eccitare a simili fatti. Affermano pure solennemente la nobiltà della loro idea la quale ha per precipuo caposaldo la intangibilità della vita umana, appartenga essa ad un monarca come al più umile operaio. Rifiutano ogni e qualunque solidarietà coll’individuo che ha compiuto l’uccisione, dato il caso che esso voglia dichiararsi professante una qualunque idea politica avanzata».

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L’atteggiamento complessivo degli anarchici italiani di fronte al regicidio di Bresci, non fu univoco. A parte il suddetto comunicato, anche il giornale «L’Agitazione» di Ancona si dissociò politicamente dal fatto e «L’Avvenire Sociale» di Messina, nel numero dell’8 agosto, precisò, in una breve nota redazionale, che «il Partito socialista-anarchico non ammette nei suoi metodi di lotta l’omicidio politico». Nel contempo, però, in vari centri della penisola la polizia effettuava numerosi arresti nei confronti di persone, anarchiche e non, che si erano lasciate andare in pubblico ad espressioni di giubilo per la scomparsa del re, mentre in parecchi tribunali del regno si celebravano diversi processi per apologia di reato. Inoltre, le posizioni di dissociazione politica nei confronti del gesto di Bresci espresse da una parte del movimento anarchico, vennero da subito criticate e contraddette da numerosi altri gruppi operanti sia in Italia che all’estero. Felice Vezzani sul giornale «Il Risveglio» di Ginevra, nel numero del 18 agosto, impose l’alto là: «Possiamo noi unirci ai forcaioli di tutte le gradazioni e di tutte le tinte, per gridare la croce addosso all’infelice che è in mano della giustizia borghese? No, noi non lo possiamo e non lo dobbiamo! Ebbene, purtroppo, le dichiarazioni dei periodici di Ancona e di Messina significavano appunto una alleanza cogli umanitari che predicano la strage all’ingrosso e la respingono al minuto, contro il Bresci».

Da Paterson, gli anarchici italiani esultarono per l’attentato di Bresci e su «La Questione Sociale» del 22 settembre, Pedro Esteve dava il seguente giudizio sul gesto del tessitore di Prato in rapporto ad altri attentati: «Da Ravachol a Leauthier [autore di un attentato contro il ministro serbo Georgevic commesso a Parigi il 13 novembre 1893, N.d.A.] a Angiolillo e Bresci c’è la differenza che passa fra la vittima e l’eroe. I primi, vittime della miseria, agivano impulsivamente e senza nessuna mira ideale; Angiolillo e Bresci ragionarono il loro atto, di modo che gli diedero tutto il carattere di rivendicazione sociale».

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Infine, reagì alle posizioni di dissociazione Errico Malatesta, che nel settembre del 1900 uscì a Londra con un numero unico dal titolo Cause ed effetti. 1898-1900, nel quale, rivendicata la responsabilità morale e politica del movimento anarchico nell’attentato, rimproverava ad alcuni dei suoi compagni, «troppo impressionati dalle manifestazioni di un’opinione pubblica fatta artificiosamente dalle mille voci che il privilegio tiene a sua disposizione», di dubitare che «il colpo di cui è restato vittima Umberto di Savoia sia andato a ferire al cuore l’ideale pel quale il feritore intese far sacrifizio della vita». Ecco alcuni stralci dell’articolo Che cosa è l’Anarchia apparso sulla prima pagina di questo numero unico: «Contro ogni nuova dottrina che disturba la pigrizia intellettuale dei più ed attacca e minaccia un privilegio, lottano sempre tre potenze nefaste: l’ignoranza, la calunnia e la persecuzione […]. “L’Anarchia è la violenza”, si grida da ogni parte; quando invece è risaputo che l’Anarchia è la negazione della violenza, che essa è un ideale di società in cui non vi sia nessuna specie d’imposizione dell’uomo sull’uomo – né dei pochi sui molti, né dei molti sui pochi. […] I nostri avversari, coloro che colla forza vogliono difendere i loro privilegi, e coloro che credono nella possibilità e nella convenienza di fare il bene degli altri per forza e a modo proprio, hanno il diritto di confutarci se lo possono; ma non hanno il diritto, se vogliono essere considerati come uomini onesti e leali, di travisare le nostre idee e farci apparire il contrario di quel che siamo. Guerra alla violenza: ecco il movente informatore di tutta l’opera anarchica. Disgraziatamente, molto spesso contro la violenza non vi è altro modo di difendersi che con la violenza. Ma anche allora il violento non è chi si difende, ma chi costringe altri a doversi difendere; non è violento colui che usa l’arma omicida contro chi con l’armi alla mano attenta alla sua vita, alla sua libertà, al suo pane, ma l’assassino che mette altri nella terribile necessità di uccidere o farsi uccidere. È il diritto alla difesa; il quale assurge a dignità di sacrificio, di eroismo, di sublime olocausto al principio di solidarietà umana, quando uno non difende sé stesso, ma difende gli altri con discapito proprio, affrontando serenamente la schiavitù, la tortura, la morte. Tutti riconoscono, ed esercitano come possono, il diritto di difesa […].

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Sarà un crimine il farlo, solo quando si fa in difesa dei poveri? Sarà un crimine solo in persona degli anarchici, che se qualche volta sono individualmente violenti e se ad una rivoluzione violenta aspirano, lo fanno non per ispirito di odio e di vendetta, ma perché convinti della necessità della forza per distruggere un regime omicida che colla forza si sostiene, ed ispirati dal desiderio del bene, non di una classe o di un partito, ma degli uomini tutti?».

Ed ecco alcuni brani dell’articolo successivo, intitolato La tragedia di Monza: «Un altro fatto di sangue è venuto ad addolorare gli animi sensibili… ed a ricordare ai potenti che non è senza pericoli il mettersi al disopra del popolo e calpestare il grande precetto dell’eguaglianza e della solidarietà umana. Gaetano Bresci, operaio ed anarchico, ha ucciso Umberto re. Due uomini: uno morto immaturamente, l’altro condannato ad una vita di tormenti che è mille volte peggiore della morte! Due famiglie immerse nel dolore! Di chi la colpa? Quando noi facciamo la critica delle istituzioni vigenti e ricordiamo i dolori ineffabili e le morti innumerevoli che esse producono, noi non manchiamo mai di avvertire che esse istituzioni sono dannose non solo alla grande massa proletaria che per causa loro è immersa nella miseria, nell’ignoranza ed in tutti i mali che dalla miseria e dall’ignoranza derivano, ma anche alla stessa minoranza privilegiata che soffre, fisicamente e moralmente, dell’ambiente viziato che essa crea, e sta in continua paura che l’ira popolare le faccia pagar caro i suoi privilegi […]. Ed ogni volta che i capitalisti ed i governi commettono un atto eccezionalmente malvagio, ogni volta che degli innocenti sono torturati, ogni volta che la ferocia dei potenti si sfoga in opere di sangue, noi deploriamo il fatto, non solo per i dolori che direttamente produce e per il senso di giustizia e di pietà in noi offeso, ma anche per lo strascico di odii che esso lascia, per il seme di vendetta che esso mette nell’animo degli oppressi. Ma i nostri ammonimenti restano inascoltati; sono anzi pretesto a persecuzioni. E poi, quando l’ira accumulata dai lunghi tormenti scoppia in tempesta, quando un uomo ridotto alla disperazione, o un generoso commosso dai dolori dei suoi fratelli ed impaziente di attendere una giustizia tarda a venire, alza il braccio vendicatore e colpisce dove crede che sia la causa del male, allora i colpevoli, i responsabili… siam noi […].

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D’altronde, è cosa naturale che sia così. In un paese dove vivono liberi, potenti, onorati i Crispi, i Rudinì, i Pelloux e tutti i massacratori e gli affamatori del popolo, non ci può esser posto per noi, che contro i massacri e contro la fame protestiamo e ci ribelliamo! […] Ma perché tanto chiasso per la morte di un uomo e per le lacrime di una donna [la regina Margherita, N.d.A.] quando si accetta come cosa naturale il fatto che ogni giorno tanti uomini cadono uccisi, e tante donne piangono, a causa delle guerre, degli accidenti sul lavoro, delle rivolte represse a fucilate, e dei mille delitti prodotti dalla miseria, dallo spirito di vendetta, dal fanatismo e dall’alcolismo? Perché tanto sfoggio di sentimentalismo a proposito di una disgrazia particolare, quando migliaia e milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria, fra l’indifferenza di coloro che avrebbero i mezzi di rimediarvi? […] Chi è che provoca la violenza? Chi è che la rende necessaria, fatale? Tutto il sistema sociale vigente è fondato sulla forza brutale messa a servizio di una piccola minoranza che sfrutta ed opprime la grande massa; tutta l’educazione che si dà ai ragazzi si riassume in una apoteosi della forza brutale; tutto l’ambiente in cui viviamo è un continuo esempio di violenza, una continua suggestione alla violenza […]. Ma, dicono, il re non è responsabile! Noi non pigliamo certo sul serio la burletta delle finzioni costituzionali. I giornali “liberali” che ora argomentano sulla irresponsabilità del re, sapevano bene, quando si trattava di loro, che al di sopra del parlamento e dei ministri, vi era un’influenza potente, un’«alta sfera» cui i regi procuratori non permettevano di fare troppe chiare allusioni. Ed i conservatori, che ora aspettano una «nuova era» dall’energia del nuovo re, mostrano di sapere che il re, almeno in Italia, non è poi quel fantoccio che ci vorrebbero far credere quando si tratta di stabilire le responsabilità. E d’altronde, anche se non fa il male direttamente, è sempre responsabile di esso, un uomo che, potendo, non lo impedisce – ed il re è capo dei soldati e può sempre, per lo meno, impedire che i soldati facciano fuoco sopra popolazioni inermi, ed è pur anche responsabile chi non potendo impedire un male, lascia che si faccia in nome suo, piuttosto che rinunziare ai vantaggi del posto […]. Ma allora, se [anche fosse] irresponsabile il re dei suoi atti e delle sue omissioni, se malgrado l’oppressione, lo spogliamento, il massacro del popolo fatto in suo nome, egli avrebbe dovuto restare al primo posto del paese, perché mai sarebbe responsabile il Bresci? Perché mai dovrebbe il Bresci scontare con una vita di inenarrabili patimenti un atto che, per quanto si voglia giudicare sbagliato, nessuno può negare essere stato ispirato da intenzioni altruistiche? […]».

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A livello internazionale, un’altra voce si levò a interpretare il regicidio non come il gesto di un pazzo criminale, ma come un segnale ammonitore di squilibri sociali, di repressioni politiche, di incongruenze morali di cui la classe politica dirigente portava, anche in Italia, la responsabilità. Fu lo scrittore russo Leone Tolstoj, allora al culmine della sua fama nel mondo, a scrivere un breve commento dal titolo A proposito dell’assassinio di re Umberto. Tolstoj notava anzitutto la differenza di reazioni, nelle classi dominanti, davanti ai regicidi che avvenivano in seguito a congiure di palazzo e a quelli che avvenivano per mano di sudditi. Nel secondo caso l’esecrazione era più solenne e sdegnosa che nel primo. Per Tolstoj, poi, l’esempio della violenza veniva dall’alto, con le guerre, le parate, le rappresaglie, le torture, i supplizi, il culto dell’onore e della gloria militare: «Si cerca con ogni mezzo di inebetire gli uomini per farne strumenti di assassinio. E coloro che si consacrano a questa professione e se ne fanno vanto sono unicamente i re, gli imperatori e i presidenti. L’assassinio è per essi una occupazione ed un mestiere. Li si vede sempre vestiti in uniforme militare con al fianco lo strumento dell’assassinio, la sciabola. Ma basta che uno di loro venga assassinato e li udirete recriminare e indignarsi. I re e gli imperatori, se fossero logici, dovrebbero piuttosto stupirsi della rarità di questi crimini dopo l’esempio continuo che danno essi stessi».

Infine, Tolstoj non mancò di ricordare la guerra d’Abissinia e considerò il regicidio di Monza un atto assai meno crudele delle innumerevoli stragi ordinate dai diversi sovrani. In Italia, una voce che, pur nella condanna dell’attentato, seppe esprimere un giudizio abbastanza sereno, fu quella di Cesare Lombroso. Pur avendo contribuito a mettere in risalto, con i suoi studi di antropologia criminale, certi caratteri “anormali” degli attentatori anarchici, davanti alla figura di Bresci Lombroso sostenne che a differenza dei pazzi (fra i quali indicava Passanante e Acciarito), dei criminali (come Ravachol), dei passionali (come Caserio, Vaillant ed Henry) nei quali prevalsero, a determinarne gli atti, cause interne di ordine o disordine fisico-psichico, nell’anarchico pratese operò 199

invece una ragione squisitamente politica: «Una grande causa occasionale certamente fu quella di provenire da un paese libero ed economicamente felice. È un’osservazione giusta che quasi tutti i regicidi anarchici sono italiani che dimorano qualche tempo all’estero. Ciò può dipendere da parecchie cause, perché fino che essi dimorano nell’interno lo sfibramento della miseria è tale che toglie l’audacia di agire. Infatti, come ho notato nel Delitto politico, spiegando come i ben nutriti contadini romagnoli sieno più inclini alla ribellione che i più immiseriti contadini lombardi, occorre un certo grado di agiatezza per poter essere ribelli […]. Ma la causa impellente più grande sta dunque, sia pure indirettamente, nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese, le quali sono tali che il solo descriverle anche a man leggiera basterebbe a farne condannare il pittore; poiché è diventata ora massima delle classi dirigenti, non di guarire i mali che ci guastano, ma di colpire inesorabilmente coloro che li rivelano. Strano rimedio invero, che basterebbe da solo a mostrare fin dove siamo discesi!».

E, da un punto di vista totalmente opposto, il colonnello della Comune di Parigi, Amilcare Cipriani, nel settembre del 1900, dopo la conclusione del processo a Bresci, solidarizzando con il tessitore di Prato, scriverà: «Tutti ricordano il grido feroce ed infame che la vile borghesia di Milano, appiattita dietro le persiane, lanciava ai soldati di re Umberto, che nelle vie assassinavano i proletari disarmati: “Tirate forte, mirate giusto!”. Un vendicatore è sorto, che ha tirato forte, ed ha mirato giusto. Di che cosa si lamentano dunque questi miserabili? […] La storia non esalta Bruto l’uccisore di Cesare che pure non aveva ordinato alcun massacro ma solo voleva farsi signore di Roma? Non [esalta] Cromwell che fece cadere la testa di Carlo I? Chi chiama assassini quelli che condannarono a morte Luigi XVI, sua moglie e sua sorella? E Lorenzo dei Medici non uccise il bastardo di papa Clemente VII, e Ravaillac e Jacques Clement, che eliminarono Enrico III ed Enrico IV, non sono stati santificati dalla chiesa? Perfino i libri santi sono densi di apologie al tirannicidio. Aod uccise Eglou, re dei Moab, tiranno del popolo di Dio».

Nel frattempo, Gaetano Bresci, trasferito nelle carceri di San Vittore a Milano, veniva sottoposto a duri e lunghi interrogatori. L’anarchico si mostrò fermo e assai puntiglioso, arrivando perfino ad 200

esigere che venissero corretti alcuni errori di verbalizzazione, compresi quelli ortografici. Dopo aver dichiarato di essere l’unico responsabile del regicidio e di non aver avuto alcun complice, su sua esplicita richiesta Bresci volle formulare, nei verbali d’interrogatorio, le ragioni del suo atto nei termini seguenti: «Ho attentato al Capo dello Stato perché a parer mio egli è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. E come ho detto altre volte, concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia circa 7 o 8 anni or sono, in seguito agli stati d’assedio emanati per decreto reale in contraddizione alla legge dello Stato. E dopo avvenute le altre repressioni del ’98, ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d’assedio emanati con decreto reale, il mio proposito assunse in me maggior gagliardia».

In attesa del processo, il tribunale gli assegnò come avvocato d’ufficio un decano del foro milanese, Luigi Martelli, uomo liberale e molto devoto alla monarchia. Quest’ultimo visitò più di una volta l’imputato in carcere e delle impressioni ricavate da tali incontri diede, successivamente, la seguente testimonianza: «La figura morale del Bresci è rimasta molto misteriosa per me. Ha un fondo di straordinaria indifferenza che io non arriverei a qualificare cinismo, ma che è nondimeno sorprendente, perché proprio non si commuove per niente e di nulla. È piuttosto un bel giovane e non ha nessuno dei caratteri del delinquente».

Avendo cercato di commuovere il Bresci con il ricordo della moglie, della bambina, del fratello, l’imputato gli aveva risposto: «Queste cose, avvocato, lasciamole lì». Tutte le successive testimonianze sull’anarchico di Prato, concordarono su alcuni punti: l’estrema sobrietà nel parlare, senza alcuna ricerca della frasi ad effetto; l’indifferenza alle conseguenze personali del proprio atto; la logica stringente di un uomo coerentemente fedele alla propria ideologia. «È un uomo – disse Francesco Saverio Merlino – che si lascia guidare dalla pura logica, dalla logica astratta, pur rimanendo nella sua 201

mente molto circoscritto». Un tratto tipico della personalità di Bresci erano anche la puntigliosità, il formalismo, la supervalutazione dei dettagli e spesso delle minuzie. Malatesta stesso ebbe a ricordare l’abitudine di Bresci a sottilizzare e, nel corso delle discussioni, a spaccare il capello in quattro. Anche durante gli interrogatori, come si è già detto, e davanti ai giudici, l’anarchico pratese insisté spesso nel voler riferire e precisare piccoli dettagli o episodi, come quando, per esempio, sollevò ripetutamente la questione del “furto” di un suo orologio avvenuto al momento dell’arresto, o quando, durante la detenzione, si lamentava di non avere a posto i bottoni della camicia, e così via. Una testimonianza alquanto discordante dalle altre ci viene, invece, da Filippo Turati. Bresci difatti aveva, in un primo momento, designato come proprio avvocato difensore di fiducia il deputato socialista, il quale però declinò l’incarico dopo un colloquio col detenuto. Abbiamo già visto come i socialisti, all’indomani dell’attentato, si fossero affrettati a prendere le distanze dal regicida, e il Turati, dopo l’incontro col Bresci, riferirà ad un proprio compagno di partito, Alfredo Bertesi, di ritenere l’attentatore «un microcefalo, una testa non sviluppata, un incosciente», e questo perché «non si preoccupa della sorte che l’attende: aspettava gioioso la rivoluzione dopo l’attentato; l’aspetta ora, fra qualche mese od anno». Evidentemente, in questo giudizio prevalse l’incomprensione politica dell’atto dell’operaio pratese ed anche, aspetto non secondario, una certa dose di paura e di opportunismo, unita alla profonda avversione nutrita da Turati verso le idee anarchiche. In una lettera indirizzata ad Anna Kuliscioff, datata 18 agosto 1900, il leader socialista, circa la decisione se accettare o no la difesa del Bresci, scriveva: «Che fare? L’impressione di molti è che sia un tiro mancino ad ogni modo, magari della Questura che abbia fatto suggestionare il Bresci. Immagina i commenti de «L’Alba» e de «La Sera». Ma poi c’è la questione della responsabilità, della pratica che ho perduto, dell’assurdo che io, che non difendo più da 10 anni, che non difenderei neppur te o l’amico più intimo,

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debba difendere proprio quel caro compagnone! Se il ricusare si presta a interpretazioni di viltà, l’accettare – in queste condizioni – non ha anch’esso un significato politico? Oh! che animale! Dopo aver tirato tre colpi alla monarchia, volle tirare il quarto al socialismo. Fors’anche fu una sua ispirazione spontanea. D’altronde si può abbandonare un uomo che è ricusato da tutti (anche il Martelli e il Gallina pare che, designati d’ufficio, non vogliano saperne) che è come un forestiero che in una città a lui sconosciuta cerca un padrino per un duello? Ma è la noia, con tutto il daffare che ho, di assumermi anche questa briga! Il primo pensiero fu di prendere il treno e venire a consultarmi colla mia vegia… Poi ci ho pensato meglio… Ho parlato stasera con Albini, Treves, Tanzi. Tutti sono di parere che non si può rifiutare, e che questo sarebbe anche il tuo parere. Treves, anzi, il miserabile!, dice che Bresci ha fatto benissimo, e che è una bellissima cosa! Purtroppo questo parere concorda coll’intimo senso mio, – non che sia una bella cosa, ma che non si può rifiutare per quanto la mia accidia cerchi degli argomenti in contrario. Dal processo non c’è da attendere nulla, neppure le attenuanti, ma ormai il male è fatto con la nomina, i commenti non si evitano più, e il rifiuto li renderebbe peggiori […]».

Rifiutata la nomina ad avvocato difensore di fiducia, il socialista Prampolini, sulle colonne de «La Giustizia», approvò l’atteggiamento di Turati affermando: «Noi avremmo deplorato come un gravissimo errore se egli avesse accettato la difesa dell’assassino di Monza». Comunque, Filippo Turati indirizzò l’anarchico pratese verso l’avvocato Francesco Saverio Merlino, il quale accettò l’incarico. Ma la raccomandata di Turati, in cui veniva comunicato a Bresci il consenso del Merlino, fu trattenuta due giorni dalla direzione del carcere di San Vittore, sicchè la lettera di nomina a Merlino giunse solo due giorni prima dell’apertura del processo. Preso il primo treno per Milano, l’avvocato Merlino, che risiedeva a Roma, studiò le carte del processo durante il viaggio, giunse nel capoluogo lombardo la mattina del 28 agosto e fece appena in tempo a sbarbarsi, a correre al carcere per parlare con Bresci e poi a conferire con il collega Martelli, il tutto sempre attentamente pedinato nei suoi movimenti dalla polizia. Il processo contro Gaetano Bresci si svolse davanti alla Corte d’Assise di Milano e durò una sola giornata: il 29 agosto 1900, ad 203

un mese esatto dal regicidio. È una giornata grigia e piovosa. Alla Corte d’Assise, circondata dalla truppa, fra grande animazione, si affollano un’ottantina di corrispondenti e inviati speciali italiani ed esteri. Le porte sono occupate da funzionari di polizia che respingono quanti sono sprovvisti di tessera speciale. Più di metà del pubblico presente in aula è composto da funzionari ed agenti di P.S. in borghese. Bresci, trasportato in Assise alle quattro di notte attraverso una città presidiata come in stato d’assedio, viene condotto nella gabbia dai carabinieri. È calmo e, come sempre, molto accurato nel vestire. Porta una cravatta rossa su un completo blu scuro. All’inizio del dibattimento, l’avvocato Merlino tenta invano di ottenere un rinvio allegando il motivo che ha avuto un solo giorno di tempo per conferire con l’imputato e studiare la causa. Invoca poi un rinvio anche per poter convocare altri testimoni dagli Stati Uniti e protesta con la Corte, domandando un nuovo sorteggio dei giurati, dato che questi erano stati citati prima che venisse emessa l’ordinanza che fissava il processo stesso, ma tali richieste vengono respinte. Il processo procede quindi con grande rapidità. Il Presidente della Corte d’Assise interroga l’imputato: «PRESIDENTE – Ammettete di aver ucciso il re, esplodendogli contro tre colpi? BRESCI – Sì. PRESIDENTE – Tre o quattro colpi? BRESCI – Tre, tre! PRESIDENTE – Era da tempo che avevate formato tale divisamento? BRESCI – L’ho già detto nel mio primo interrogatorio. PRESIDENTE – Ma qui dovete ripeterlo. BRESCI – Ebbene, fu dopo gli stati d’assedio di Sicilia e di Milano, illegalmente stabiliti con decreto reale, che io pensai di uccidere il re per vendicare le vittime. PRESIDENTE – Ma il re non era responsabile dei decreti. BRESCI – Ma li aveva firmati lui. Oltre vendicare gli altri, volevo vendicare anche me, costretto, dopo una vita miserrima, ad emigrare. I fatti di Milano, in cui si adoperò il cannone, mi fecero piangere di rabbia, e pensai alla vendetta. Pensai al re, perché costui, oltre a firmare i decreti, premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi. Formai il divisamento di tornare in

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Italia e a questo scopo cercai di mettere in disparte delle economie».

Le deposizioni dei testi non portarono alcun elemento di novità. Un affittacamere di Monza riferì che l’imputato gli «apparve una buona e degna persona». Un teste di Prato affermò: «Come uomo io lo giudicavo un galantuomo, in paese godeva fama di persona onesta», mentre un altro dichiarò: «Il Bresci soffriva per quella gente che è priva di pane». Il solo momento drammatico del processo fu l’arringa che Francesco Saverio Merlino svolse fra i continui richiami del Presidente, le interruzioni del Pubblico Ministero e i mormorii di disapprovazione del pubblico composto quasi esclusivamente, come già si è detto, da funzionari e agenti di P.S. Il Merlino si propose con la sua difesa di strappare il Bresci alla condanna all’ergastolo, invocando a suo favore alcune attenuanti. Fra queste, cercò di far valere quella che si riconnetteva alla situazione politica e sociale da cui era uscito, quasi come fatale epilogo, il regicidio. «Noi effettivamente abbiamo attraversato un periodo acuto della nostra vita politica. Vi è stato un momento in cui, come diceva l’imputato, pareva che le nostre libertà fossero in pericolo; pareva che la gran legge dello Stato fosse solo la salvezza del governo: fu proclamato che per una ragione suprema di necessità e di difesa della propria esistenza, il Governo avesse il diritto di manomettere le leggi, di violare lo Statuto, di creare tribunali straordinari, di mettere stati d’assedio e fare tutto quello che venisse in mente al Presidente del Consiglio dei Ministri. Noi siamo usciti fuori dal terreno delle libertà, abbiamo ricorso alle violenze; sì, il Governo ricorse alla violenza; e non dovete meravigliarvi se l’esempio della violenza, venendo dall’alto, provocasse una reazione al basso della società, se c’è stato chi ha creduto ad un’altra necessità, a quella cioè di opporre alla violenza del Governo la violenza privata».

Svolgendo questa tesi con un coraggio che andava oltre i normali doveri professionali, l’avvocato libertario Merlino poneva sotto accusa il regime e la classe politica che lo rappresentava. In particolare, veniva poi a spiegare come l’attentato doveva essere interpretato e giudicato anche come una risposta alle persecuzioni 205

governative contro gli anarchici: «Ma un’altra ragione più speciale deve essere addotta a difesa dell’accusato: il trattamento che è stato fatto agli anarchici nel nostro paese […]. Da noi si è stabilito il principio che l’anarchico non ha il diritto né di pubblicare giornali, né di parlare in pubblico, né di esporre in modo alcuno le proprie convinzioni, né di costituirsi in associazione coi suoi compagni di fede. Gli anarchici non hanno il diritto di esistere come partito, e come individui sono perseguitati quali belve feroci dalla polizia, che crede…».

A questo punto il discorso di Merlino venne interrotto dal Presidente: «Non si fermi davvantaggio su queste argomentazioni, venga alla causa, io non posso lasciarla continuare di questo passo, non può venire qui a far della propaganda». E Merlino di rimando, rivolgendosi ai giurati: «Ma se io vi dimostro che effettivamente vi è un ambiente artificiale, nel quale questi anarchici si trovano assieme, stretti da una comune persecuzione, e vi si esaltano a vicenda e qualcuno di essi viene a propositi di questo genere, io dico: voi non potete essere severi con costui, perché se riandate le cause del suo delitto, la causa, la causa prima la rinverrete nell’azione di coloro che, avversando le sue idee, gli hanno negato il diritto che deve essere riconosciuto ad ogni cittadino di professare i principi che crede giusti, di lottare per l’attuazione pacifica dei propri ideali».

Cerca poi di affrontare l’analisi delle cause del malcontento nazionale, della miseria e della fame delle popolazioni italiane, della responsabilità del re negli atti del Governo, del tema del regicidio, del delitto politico, che non è prerogativa unica degli anarchici, ma che è un mezzo di lotta che è stato usato anche, per esempio, dai repubblicani o dai cattolici stessi. Ma le continue interruzioni del Presidente e del Pubblico Ministero gli impediscono di svolgere compiutamente la propria arringa difensiva. Dopo aver fatto mettere a verbale la sua protesta nei confronti di tale atteggiamento da parte del Presidente della Corte, l’avvocato Merlino, rivolto ai giurati, conclude: 206

«Come voi vedete, mi è impossibile di svolgere il concetto che io avevo tentato di far penetrare nelle vostre menti, vale a dire che voi dovete in questa causa tener conto di tutti i fattori i quali hanno potuto determinare il Bresci a commettere il regicidio; pur essendo la mia tesi perfettamente legale, mi è vietato di svolgerla, perché necessariamente alcune mie frasi hanno urtato le convinzioni del P.M. […]. Di qui non si esce: o voi applicate a costui i principi del diritto comune, della giustizia ordinaria e non dovete far sì che gli sia inflitta la massima delle pene, non inferiore a quella tale pena di morte della cui abolizione si mena vanto, anzi molto più barbara e crudele, perché è un’agonia perpetua. Se, invece, il vostro verdetto sarà quale lo chiede il P.M., non farete giustizia, farete vendetta, farete cosa non degna di un popolo civile».

Segue la difesa dell’avvocato d’ufficio Luigi Martelli, il quale ha una posizione difficile: da una parte l’imputato gli ha raccomandato di non farlo passare per un esaltato o per un pazzo, insistendo sulla sua piena responsabilità e sul carattere politico del fatto; dall’altra parte il suo collega Merlino ha svolto una tesi che egli non può né condividere, da liberale filomonarchico qual è, né contraddire. Se la cava come può, insinuando nei giurati il dubbio «se il Bresci abbia di tutta sua volontà compiuto un fatto a mente sana o se questa volontà non fu al servizio di una forza arcana». Ma l’anarchico pratese lo interrompe, non lasciando spazio a simili ipotesi: «Avvocato, io non sono pazzo. Io non voglio esser giudicato per un atto di follia, ma per un atto rivoluzionario». Finita la difesa del Martelli, il Presidente chiede all’imputato se ha qualcosa da aggiungere: «BRESCI – Il fatto l’ho compiuto da me, senza complici. Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. Bisogna andare all’estero per vedere come sono considerati gli italiani! Ci hanno soprannominati “maiali”… PRESIDENTE – Non divaghi… BRESCI – Se non mi fa parlare mi siedo. PRESIDENTE – Resti nel tema. BRESCI – Ebbene, dirò che la vostra condanna mi lascia indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione liberatrice».

207

La Corte si ritira per deliberare. Rientra dopo pochi minuti. Alle ore 18 viene letta la sentenza: ergastolo e sette anni di segregazione cellulare, il massimo della pena. Gaetano Bresci la ascolta senza battere ciglio, quindi viene ricondotto alle carceri di San Vittore, in attesa di essere trasferito in un altro penitenziario. Il conte Alessandro Guiccioli, uomo di Corte, prefetto di Torino e arrabbiato conservatore, così commentò nel suo diario la sentenza di Milano: «Torva e ignobile è apparsa la figura di quell’orribile becero, preso ora nella trappola senza speranza di mai uscirne». Due problemi gli storici si sono posti, in tutti questi anni, a proposito dell’attentato al re Umberto I: se Bresci agì per sua individuale determinazione, come egli tenne a dichiarare negli interrogatori e al processo, oppure per una decisione di gruppo; se portò a compimento il disegno da solo o con la collaborazione di altri. Anzitutto, bisogna assolutamente escludere la versione piuttosto tenebrosa del sorteggio o anche quella del mandato settario, entrambe buone solo per i romanzi d’appendice, ma decisamente estranee alla mentalità e al costume degli anarchici. Va solo riferito per dovere di cronaca il caso di tale Sperandio Cariboni, cittadino americano di origine italiana, trovato morto a Paterson verso la metà di luglio del 1900 con in tasca una lettera confessione. In questa lettera, Cariboni rivelava di uccidersi, dopo aver ucciso un nemico degli operai, tale Giuseppe Pessina, noto per la sua brutalità come capo in fabbrica e anche come sfruttatore nella tratta della mano d’opera, perché essendo stato designato dagli anarchici a uccidere il re d’Italia, non aveva potuto eseguire l’incarico e aveva quindi ripiegato su un obiettivo più vicino. I giornali americani dettero ampio risalto a tale vicenda, ma in seguito emerse chiaramente come il Cariboni non avesse mai frequentato gli ambienti anarchici, mentre nessuno poté prendere direttamente visione della presunta lettera rinvenuta nelle sue tasche, la quale, a detta delle locali autorità, venne incredibilmente smarrita. Di conseguenza, la polizia americana dette poco peso all’episodio. Gli dette poco peso anche il Console d’Italia a 208

New York, che conobbe il fatto prima del regicidio e non ne informò i suoi superiori, facendo in tal modo una brutta figura ed esponendosi alle critiche del giornale ultraconservatore «Il Progresso italoamericano». Successivamente su tale giornale apparve anche, sotto il titolo La confessione di un anarchico pentito?, una lettera indirizzata al direttore, datata New York 9 agosto 1900, firmata da tale C. Luigi Alfieri, che si dichiarava nato in Ancona e immigrato in America nel 1897. In questa lettera, Alfieri riferiva di essere stato «con l’inganno» fatto socio della Società anarchica di Paterson, e pur volendone successivamente uscire, di non averlo fatto per paura di essere ucciso. Così aveva potuto conoscere «tutti i segreti» della Società per la durata di nove mesi, e in particolare diceva di aver appreso quanto segue: «Il giorno 1° maggio anno corr. fu tirato il sorteggio della infame impresa: il primo toccò a Gaetano Bresci per l’assassinio del compianto Re d’Italia; il secondo ad Arturo Giovannelli di assassinare il Presidente [degli Stati Uniti] McKinley; e per l’Imperatore di Germania, quello dell’Austria, nonché il Presidente della Francia Loubet, questi nomi restano incogniti essendo già avvisato il governo federale da me stesso or sono pochi giorni».

La lettera proseguiva con l’affermazione che «il cav. Branchi [console generale d’Italia a New York] è stato avvisato il giorno 16 maggio corr. anno che si votò di uccidere Umberto I per mezzo di Gaetano Bresci». Sia per i contenuti che per lo stile, la lettera era evidentemente un falso, e in una relazione al Ministero degli Affari Esteri, in data 7 settembre 1900, il Console d’Italia a New York, Branchi, nell’inviare il ritaglio del giornale, dichiarava che l’Alfieri non era mai esistito e che tale lettera rientrava nella campagna denigratoria condotta contro la sua persona da «Il Progresso italo-americano». Per quanto riguarda invece l’assoluta autonomia del Bresci nell’esecuzione dell’attentato e, soprattutto, per quel che concerne le collaborazioni che l’anarchico pratese potrebbe aver trovato durante il viaggio e il soggiorno in Italia, è possibile avanzare qualche ri209

serva. Si è già accennato quale fosse l’ambiente anarchico di Paterson e quali sentimenti di odio e di rivalsa covassero in esso nei riguardi del re Umberto e della classe dirigente italiana all’indomani delle sanguinose repressioni del maggio 1898. Nei mesi seguenti l’attentato, la polizia italiana, quasi ossessionata dalla necessità di dimostrare il complotto, indagò ad ampio raggio: tanti sospetti, tante congetture, ma nulla di penalmente rilevante da addebitare con assoluta certezza a qualcuno. Vennero incarcerate centinaia di persone, a partire da Antonio Laner e Nicola Quintavalle, i due anarchici che avevano viaggiato con Bresci sul piroscafo Gascogne, ma senza risultati. Vennero coinvolte Emma Maria Quazza e Teresa Brugnoli, ma per loro, come per molti altri, tutto si concluse con un nulla di fatto. Anche la polizia americana svolse una serie di indagini, le quali però risultarono del tutto infruttuose. Tuttavia, è probabile che Bresci abbia avuto, se non dei complici, per lo meno dei collaboratori nel corso della sua azione. Il primo da prendere in considerazione è l’anarchico biellese Luigi Granotti, operaio tessile, detto il Biondino, anch’egli giunto in Italia da Paterson, ove era emigrato nel maggio del 1894. Nel centro industriale tessile statunitense, Granotti aveva frequentato assiduamente gli ambienti anarchici e in particolare, assieme al fratello Giuseppe, il gruppo «Diritto all’esistenza», lo stesso di cui faceva parte Bresci. Il 30 maggio del 1900 si era imbarcato alla volta dell’Italia, con la madre, ufficialmente diretto al paese per sposarsi. Giunto in Italia, Granotti pernottò nello stesso albergo di Bologna nei giorni in cui l’anarchico pratese era insieme con Teresa Brugnoli, fu l’autore dei misteriosi telegrammi spediti a Bologna e a Piacenza ed è stato accertato che fu sempre lui che fece visita al Bresci presso la locanda di Via San Pietro all’Orto a Milano, nei giorni immediatamente precedenti il regicidio. Inoltre, quasi certamente si trovava a Monza, armato, la sera dell’attentato. La polizia rinvenne nel parco reale della cittadina lombarda alcune pallottole inesplose di revolver americano, nonché una pistola carica a canna corta. Granotti venne subito individuato, ma non catturato: per anni la polizia italiana gli diede la caccia, se210

guendo piste e segnalazioni che provenivano da tutto il mondo, perfino dalla Cina e dall’Australia. Il 25 novembre 1901, la Corte d’Assise di Milano condannò in contumacia all’ergastolo l’anarchico Granotti come complice di Gaetano Bresci nell’attentato al re d’Italia. L’accusa di complicità si basava, tra l’altro, sulla delazione del cugino di Granotti, tale Giacomo Bussetti, il quale aveva riferito di aver udito il parente «vantarsi d’aver avuto parte diretta nel gesto di Bresci». Ma Bussetti non testimoniò al processo, essendo emigrato poco prima in Argentina, e l’avvocato difensore del Granotti inutilmente domandò un rinvio del dibattimento per poter far intervenire alcuni testi, residenti nel biellese, i quali «avrebbero deposto che il Bussetti, prima di partire, aveva smentito la sue affermazioni a carico del Granotti». Comunque, il Biondino riuscì a sfuggire a tutte le ricerche: la sera successiva al regicidio faceva ritorno a Sagliano Micca, il proprio paese natio, quindi espatriava in Svizzera, dirigendosi poi in Francia. Giunto a Parigi, riusciva a raggiungere la Gran Bretagna, grazie al passaporto dell’anarchico Isidoro Besso. Da quel momento si perde ogni sua traccia, ma meno di un mese dopo la sua condanna all’ergastolo in contumacia, «La Questione Sociale» di Paterson, sul numero del 21 dicembre 1901, in un articolo non firmato ma in realtà di Luigi Galleani, riferiva: «Sul Biondino è scesa tutta la collera della polizia e della magistratura d’Italia furiose della riscossa, libidinose di viltà e turpitudine nell’eloquenza a freddo del Procuratore Generale Cisotti, e fu condannato all’ergastolo. Il Biondino è libero e sicuro».

Granotti era infatti riuscito a rientrare negli Stati Uniti, dove visse sotto falsa identità fino alla sua morte, avvenuta a New York il 30 ottobre 1949. Ne diede notizia il giornale «L’Adunata dei Refrattari» del 3 dicembre 1949, esprimendo la propria gratitudine «ai compagni solerti e generosi che di lui ebbero cura fraterna durante gli ultimi anni della sua vita». Altra figura significativa è quella di Carlo Colombo, portinaio e ciabattino in Via San Pietro all’Orto a Milano. Elemento di spicco del 211

movimento anarchico milanese, era da anni in relazione epistolare con anarchici di altre città italiane ed estere, in particolare Londra e Paterson. Il fatto che Bresci, nei giorni immediatamente precedenti le rivoltellate di Monza, avesse alloggiato in Via San Pietro all’Orto, a poche decine di metri dalla portineria di Colombo, nonché alcune frasi sospette pronunciate dallo stesso Colombo la sera del 28 luglio in un pubblico esercizio, portarono alla denuncia e all’arresto del presunto complice. Ma dopo una lunga carcerazione preventiva, irrimediabilmente minato nel fisico (contrasse infatti una pleurite che lo portò alla tisi), Colombo venne scarcerato per mancanza d’indizi. Secondo una più tarda testimonianza di Luigi Galleani: «devesi anzi al fatto che gli ottusi giudici cortigiani ignorarono sempre la presenza di Colombo a Monza il giorno fatale, se egli poté cavarsela dopo nove mesi di preventivo». Anche un altro anarchico milanese, Mauro Fraschini, fu arrestato per l’occasione e non è da escludere un suo qualche coinvolgimento, nonostante venisse anche lui successivamente rimesso in libertà per mancanza d’indizi. Ma altri possono aver collaborato, direttamente o indirettamente, con il regicida, gli stessi Antonio Laner e Nicola Quintavalle, per esempio. Quest’ultimo venne arrestato dai carabinieri la sera del 30 luglio a Capoliveri, suo paese natio, in provincia di Livorno, con l’accusa di complicità nell’attentato al re. Durante il trasferimento al carcere, fu oggetto di un tentativo di linciaggio da parte di un folto gruppo di persone di fede monarchica. Venne trattenuto in carcere per oltre un anno e poi prosciolto dall’inchiesta. Il 28 agosto 1901, tornava in libertà e rientrava a Capoliveri, dove fu sottoposto, per anni, ad una continua vigilanza da parte dell’autorità tutoria. Inoltre, a Parigi, in quel periodo, risiedeva l’anarchico Isidoro Besso, anch’egli proveniente da Paterson e impiegato alla Esposizione Universale. È plausibile l’ipotesi che si sia incontrato con Bresci e che si trovasse nella capitale francese al fine di costituire un punto d’appoggio per un eventuale espatrio clandestino, per lo stesso Bresci come per Luigi Granotti (cosa che effettivamente si verificò, come si è detto, per il secondo). Nello stesso tempo, a Parigi era pre212

sente, anch’egli impiegato come interprete presso l’esposizione universale, l’anarchico veneto Salvatore Pallavicini, il quale aveva vissuto diversi anni negli Stati Uniti (soprattutto a Barre, nel Vermont), e che nell’aprile del 1900 si era imbarcato a New York su un piroscafo diretto in Francia. Nel corso di un interrogatorio, Emma Quazza asserì che Bresci, Laner e Quintavalle si erano fermati a Parigi anche perché dovevano incontrare proprio «il noto Pallavicini». Vi è infine da segnalare la presenza a Milano, sempre in quei giorni, di un altro anarchico, Pietro Raveggi, anch’egli rientrato in Italia, agli inizi di aprile del 1900, dagli Stati Uniti, dove era ampiamente conosciuto come propagandista e collaboratore, con lo pseudonimo di Evening, del giornale «La Questione Sociale» di Paterson. Nonostante l’alibi di Raveggi venisse dagli inquirenti ritenuto inattaccabile, grazie alle testimonianze rese dal dottor Diaz De Palma e dal titolare della ditta presso cui l’anarchico era impiegato, entrambi massoni come il Raveggi (si era infatti iscritto alla Loggia di Orbetello, suo paese natio, nel 1895), e venisse quindi scarcerato, le coincidenze sono troppe per poter escludere totalmente una sua qualche forma di collaborazione al gesto di Bresci. L’insieme di tutti questi elementi induce a ritenere plausibile che il background logistico e ideologico del regicidio sia da individuarsi in un gruppo di anarchici italiani emigrati a Paterson. Essi avrebbero avuto come punti di riferimento, innanzitutto, Giovanni Della Barile e Alberto Guabello, entrambi appartenenti al gruppo «Diritto all’esistenza» di Paterson. Il secondo era anche uno dei tipografi compilatori de «La Questione Sociale», nonché redattore del giornale, come si evince dall’interrogatorio effettuatogli negli States, in seguito a rogatoria della Corte d’Assise di Milano, per l’attentato Bresci. E dietro questi due, forse, c’erano anche i noti anarchici Francesco Widmar e Giuseppe Ciancabilla. Per quanto riguarda il Widmar, voci diffuse, raccolte dalla polizia e riportate dalla stampa statunitense, tra cui il «New York Tribune» del 3 agosto 1900, lo indicavano come intimo conoscente del Bresci e presente ad una presunta riunione nella quale sarebbe stata decisa l’uccisione del re. 213

Quel che è certo, è che Widmar presiedette l’assemblea entusiasta di anarchici che si svolse a Paterson, al Bertoldi’s Hotel, durante la quale venne rivendicato pubblicamente il gesto coraggioso di Bresci. Per quel che riguarda Ciancabilla, il quale diresse a Paterson prima «La Questione Sociale» e poi «L’Aurora», da lui stesso fondata, nel settembre 1899, quale organo della tendenza anarchica antiorganizzatrice, a cui, tra l’altro, risultava abbonato il Bresci, era nota la sua forte amicizia con il tessitore pratese. Assolutamente favorevole agli attentati, Ciancabilla considerava la propaganda del fatto come parte integrante dei mezzi volti «a formare delle coscienze anarchiche». In merito al gesto di Bresci, prese una netta posizione a favore del regicida, scagliandosi ferocemente contro coloro che invece ne avevano preso le distanze, e sottolineò, nell’articolo Quel che ne pensiamo apparso su «L’Aurora» dell’8 settembre 1900, l’utilità politica dell’attentato, il quale avrebbe tra l’altro portato a un’opera di chiarificazione interna allo schieramento anarchico, liberandolo dalle «tempre fiacche e inutili» e lasciando integra «la falange dei ribelli dell’anarchia». Comunque, nonostante l’apertura di un’inchiesta, caldamente sollecitata da Roma, della quale si occuparono diversi investigatori americani, tra cui il famoso poliziotto italo-americano Joe Petrosino, non vennero trovate prove valide a suffragare la tesi del complotto che sarebbe maturato in seno alla comunità anarchica di Paterson per uccidere il re Umberto I. Infine, per chiudere questa parentesi relativa alle presunte collaborazioni che Bresci poté avere nell’esecuzione del suo attentato, bisogna anche accennare all’ipotesi di una fattiva presenza di Errico Malatesta nell’evento complessivo del regicidio. Tale ipotesi è stata recentemente riproposta dallo storico Giampietro Berti, il quale ha tra l’altro descritto e analizzato le mosse messe in atto da Giovanni Giolitti, nel periodo in cui svolse prima le funzioni di Ministro dell’Interno durante il governo Zanardelli, formatosi nel febbraio del 1901, e poi quando ricoprì egli stesso la carica di Presidente del Consiglio, a partire dal novembre del 1903. A giudizio di Giolitti, Malatesta era stato il vero ispiratore, mandante e organizzatore del214

l’attentato di Bresci, ed in ogni caso rappresentava l’anarchico più pericoloso e influente dell’intero movimento sovversivo. Per tenere sotto controllo i movimenti del Malatesta, e per raccogliere informazioni dettagliate sul suo conto, Giolitti riuscì a infiltrare dei suoi agenti, tra cui Gennaro Rubino ed Ennio Belelli, ex anarchici, nel mondo libertario londinese. Questa operazione fu eseguita con parziale successo ed ebbe vita lunga: circa undici anni, precisamente dalla primavera del 1901 a quella del 1912. Successo molto parziale, tuttavia, perché le informazioni che le spie riuscirono a raccogliere non furono mai decisive. Bisogna aggiungere, inoltre, che tali spie si rivelarono alquanto mediocri (basta leggere i loro rapporti conservati negli archivi per rendersene conto), squallidi personaggi che cercavano di giustificare il loro mestiere e lo stipendio che percepivano, passando notizie sensazionali ma spesso inventate o esagerate ad arte. Comunque, Giolitti si era convinto che dietro il regicidio vi fosse stato il Malatesta assieme ad altri e che gli stessi congiurati stessero ora preparando un piano per liberare dal carcere il Bresci, con l’aiuto, addirittura, dell’ex regina di Napoli Maria Sofia di Baviera, vedova di Francesco II, allora residente a Parigi. Di vero in questa faccenda dell’ex regina Maria Sofia – la quale era circondata da piccoli imbroglioni: un abate che viveva a Parigi con l’amante e che era uno dei suoi consiglieri, un giornalista, tale Angelo Insogna, che teneva i rapporti con fedeli nostalgici nelle province napoletane – c’era una sola cosa. Questa donna fantasiosa, avventurosa, anche coraggiosa, se si ricorda la sua opera durante l’assedio di Gaeta nel 1861, si era messa a giocare alla rivoluzione. L’odio per la dinastia dei Savoia l’aveva portata a simpatizzare per gli anarchici, nemici dello stesso nemico (anche se poi un anarchico, il Luccheni, le aveva ucciso la sorella, Elisabetta imperatrice d’Austria): lo spirito ribelle di “diseredata” e di “spostata” del Gotha coronato europeo l’aveva spinta all’incontro con gli anarchici (venne chiamata la «reine aux anarchistes»), fra i quali c’era anche quel suo vecchio suddito napoletano di nome Errico Malatesta. È provato che Malatesta ebbe rapporti diretti con lei, ed è probabile che ne abbia ricevuto qualche 215

aiuto finanziario. In una lettera, datata Londra 18 maggio 1901 ed indirizzata al pittore anarchico Felice Vezzani, allora residente a Parigi, Malatesta affermava: «In quanto alla buona o cattiva fede della Signora [Maria Sofia] è possibile, anzi è probabile che Oreste [Oreste Ferrara] abbia ragione. Ma ciò in fondo non importa nulla. Quando avverrà la rivoluzione in Italia, vi saranno certamente, specie nel Mezzogiorno, tentativi reazionari, ma essi non saranno più importanti e non avranno maggiore possibilità di riuscita per il fatto che quella Signora è stata in relazione con noi e ci ha fornito dei mezzi. Ciò sarebbe il caso se noi ci facessimo imporre da lei o da chi per lei una qualsiasi direzione».

Nella primavera del 1901, l’emissario di Maria Sofia, il giornalista Angelo Insogna, veniva segnalato a Napoli, sicchè Giolitti tempestò di telegrammi cifrati il prefetto della città partenopea Tittoni affinché il sospetto organizzatore della presunta evasione di Bresci venisse identificato, seguito e bloccato. Molti anni dopo, Benedetto Croce pubblicò su «La Stampa» di Torino una serie di articoli su Gli ultimi Borbonici, nell’ultimo dei quali, apparso sul numero del 3 giugno 1926, fra l’altro, scriveva: «La regina Maria Sofia sembra che fosse, conforme alla sua indole, di volta in volta disposta a folli speranze e non aliena da intrighi; e, certo, quel tale Insogna, biografo di Francesco II, era un suo agente, e venne in Italia nel 1904 con lettera dell’anarchico Malatesta a prendere accordi con anarchici italiani per liberare il Bresci, regicida di Umberto di Savoia, e fu fatto arrestare dal Giolitti e di poi espulso […]».

I comunisti, che allora per altri motivi erano spesso in polemica con gli anarchici, utilizzarono su «L’Unità», in un articolo di Enrico Ferrari dell’11 giugno 1926, le rivelazioni di Croce per gettare un’ombra sull’attentato di Bresci, quasi si fosse trattato di una macchinazione borbonica, sfidando nel contempo Malatesta a fornire chiarimenti sull’episodio. Malatesta non poteva tacere e rispose con una significativa nota dal titolo Per fatto personale. Manovre borboniche o malignità comunista? su «Il Risveglio» di Ginevra del 31 216

luglio 1926: «Io avevo letto lo scritto del Croce e non avevo creduto necessario occuparmene. Un tentativo per far evadere Bresci alcuni anni dopo che Bresci era morto! Ah, questi storici! [in effetti Croce aveva erroneamente collocato la missione Insogna nel 1904 anziché nel 1901]. D’altra parte, io non troverei niente da ridire contro chi per far evadere un detenuto si servisse magari dei carabinieri, quindi mi sentivo perfettamente a posto anche per chi avesse creduto alle fandonie dell’illustre senatore».

Quanto poi alla questione dei rapporti con Maria Sofia, Malatesta precisava: «Io, naturalmente, non so nulla di nulla; e se sapessi qualche cosa non vorrei raccontarla alla polizia, nemmeno per il tramite dell’on. Enrico Ferrari».

Due, come si vede, sono le questioni: quella di una pretesa interferenza borbonica nell’attentato Bresci, non posta da Croce ma solo da Ferrari, che Malatesta sdegnosamente respinge; e quella di un tentativo per liberare Bresci con l’aiuto di Maria Sofia, su cui Malatesta si mantiene riservato, limitandosi a ironizzare sull’errore cronologico di Croce. Per quel che riguarda l’idea di una possibile regia malatestiana nell’organizzazione dell’attentato di Bresci al re Umberto I, lo storico Giampietro Berti avanza poi la seguente ipotesi interpretativa. Dopo la fuga dal domicilio coatto a Lampedusa, avvenuta nel maggio del 1899, Malatesta diede alle stampe, nei successivi mesi di giugno e luglio, un violentissimo scritto contro la monarchia, fatto circolare clandestinamente in Italia sotto forma di opuscolo con il titolo innocuo di Aritmetica elementare. Nell’opuscolo veniva formulata una strategia di attacco contro il potere dominante, il cui schema verrà ripreso dal Malatesta anche nel 1914 e nel 1920. Esso prevedeva l’unione di tutte le forze e di tutti i partiti popolari (socialisti, anarchici, repubblicani e quant’altri) per un immediato obiettivo comune: l’abbattimento della monarchia in Italia, vista 217

come il primo ostacolo da eliminare per avviare un processo rivoluzionario, e la costruzione di alcune fondamentali condizioni di maggiore libertà costituzionale, ferma restando la riserva ideologica e politica per ogni “contraente” di perseguire i propri fini. È ragionevole ipotizzare, che nei mesi in cui Malatesta rimase negli Stati Uniti, ove soggiornò dall’agosto 1899 al febbraio 1900, sia maturata, più o meno spontaneamente, una sorta di volontà comune tra lui, Bresci (che come si è visto conobbe bene) ed altri anarchici di Paterson, dovuta alla convinzione che in Italia la situazione sociale e politica fosse tale da rendere possibile, in un tempo più o meno breve, un’insurrezione contro la monarchia. Nel frattempo, Gaetano Bresci, dopo la condanna, venne trattenuto per alcune settimane nel carcere di San Vittore a Milano e poi trasferito al penitenziario di Portolongone, dove avrebbe dovuto scontare l’ergastolo. Qui gli venne assegnata una cella isolata in un buio e umido sotterraneo, sorvegliato a vista dalle guardie, che avevano ricevuto l’ordine di non rivolgergli mai la parola, senza la possibilità di comunicare coll’esterno tramite la corrispondenza, che gli era interdetta, e perennemente costretto con una pesante catena al piede. Ma dopo pochi mesi, giunse l’ordine di trasferimento al penitenziario di Santo Stefano, la cui posizione geografica di isolamento comportava una quasi assoluta impossibilità di evasione. Può darsi che abbiano determinato questa decisione le manifestazioni di solidarietà col regicida da parte degli altri detenuti che si erano avute a Portolongone, o il proposito di rendere ancora più difficile e quasi impraticabile un tentativo esterno di liberare con la forza o con uno stratagemma l’ergastolano. Oppure poteva esserci anche una terza ragione, di cui diremo più avanti. Bresci giunse a Santo Stefano, sperduto isolotto dell’arcipelago pontino, la mattina del 22 gennaio 1901, in una barca calata in mare, a un miglio di distanza dalla costa, dalla nave da guerra Messaggero, e con otto uomini di scorta. Nel vecchio carcere borbonico, che il governo italiano aveva ripristinato come penitenziario a partire dal 1893, Bresci venne sistemato in una cella appositamente predispo218

sta, la quale ricalcava fedelmente quella che aveva accolto il capitano francese Dreyfus all’isola del Diavolo. Ai lati della cella, posta in un luogo assolutamente irraggiungibile da parte degli altri detenuti, erano state ricavate due stanzette, munite di feritoie per consentire ai due guardiani di sorvegliare costantemente l’ergastolano. Bresci affrontò con forte spirito la durissima prova della segregazione e dei ferri. Aveva trentadue anni e si trattava, per sopravvivere, di arrivare ai trentanove. Dopo, tutto sarebbe stato relativamente più facile. Quindi, ginnastica fisica e mentale, osservanza meticolosa del regolamento che ormai sapeva a memoria, per evitare guai e sfruttare i pochi vantaggi, sana alimentazione (dato che poteva utilizzare, entro certi limiti, le somme di denaro che la moglie gli rimetteva sul libretto) e letture, sia pure limitate alla Bibbia e ad un dizionario italiano-francese (che erano tutto quello che la biblioteca del carcere gli poteva offrire). Bresci sapeva che i suoi compagni non lo avrebbero abbandonato, era a conoscenza che l’avvocato Merlino aveva presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza di Milano, sapeva che erano prevedibili, a breve scadenza, come già era successo per Amilcare Cipriani e per altri detenuti famosi, delle iniziative e dei movimenti popolari per una revisione del processo, una commutazione della pena o qualcosa di simile. Fidava, come aveva detto ai giudici e come ripeteva ai carcerieri, nella «rivoluzione liberatrice» e, forse, fidava anche in qualcosa di più concreto e meno remoto. Come si è già detto, al governo italiano cominciarono a pervenire, fin dai primi mesi del 1901, voci insistenti di piani anarchici per la liberazione del detenuto. Tanto bastò perché nell’isola di Santo Stefano fosse inviato un plotone del 49° fanteria, per vigilare il penitenziario dall’esterno: un aggravio non indifferente per l’erario che veniva ad aggiungersi a quello dell’amministrazione carceraria per la vigilanza a vista. Il caso Bresci diventava un affare di Stato. Il Ministro dell’Interno, Giovanni Giolitti, confidava continuamente ai suoi amici e colleghi la propria convinzione che fosse esistito un complotto internazionale dietro il gesto di Bresci, e che ora si stava 219

tramando per far evadere dal carcere il regicida. Questo, forse, per costituirsi l’alibi morale del delitto che, sotto il pretesto della ragione di Stato, sotto la sua responsabilità, si stava per consumare. In questo clima, matura quindi al Ministero degli Interni la decisione di farla finita col Bresci, sopprimendolo, di mandare ad effetto un disegno che forse esisteva già, come abbiamo accennato, all’atto del trasferimento da Portolongone a Santo Stefano, luogo adatto per una simile operazione segreta. L’annuncio ufficiale della morte del detenuto n. 515 è del 22 maggio 1901. Un telegramma, firmato dal direttore del penitenziario, il cavalier Cicinelli, giunge a Roma: «Questo momento (ore 16) impiccossi inferriata mediante asciugamano detenuto Bresci». Il 23 maggio, il conte Guiccioli annotava nel suo diario: «Si è ucciso in carcere, impiccandosi, l’assassino del Re. È morto come Giuda. Il capestro è stata la degna fine di quell’ignobile, feroce e stolto malfattore». In quegli stessi giorni, il parroco di Coiano, paese natio del Bresci, nel registrare l’avvenuto decesso sui libri della parrocchia, latinamente e cattolicamente postillava: «melius erit si natus non fuisset homo ille». E ancora, in volgare: «obbrobrio sempiterno all’infame assassino». L’inchiesta ufficiale spiegò il fatto nei termini seguenti: «Gaetano Bresci si è dato la morte impiccandosi con un asciugamano alla sbarra della finestra. Gli agenti Barbieri e De Vita, che sotto la sorveglianza di un brigadiere stavano in permanenza nella camera accanto alla cella col compito di sorvegliare “a vista” il detenuto non poterono intervenire perché il Barbieri, che era di turno allo spioncino, si era distratto per circa tre minuti. Quando si resero conto dell’accaduto, entrarono nella cella insieme col detenuto n. 164, Leonardo Tamurria da Partinico, per soccorrere il Bresci, ma questi era già deceduto. Poco prima di morire, il regicida stava leggendo il vocabolario francese-italiano di Cormon e Manni. Alle ore 12, egli aveva consumato in parte l’unico pasto giornaliero consistente in una gabella di minestra magra e una pagnotta. Come al solito, aveva lasciato mezza minestra e mezza pagnotta per la sera. Il detenuto vestiva la divisa d’ordinanza dei galeotti munita del numero di matricola 515 e del bavero nero che contraddistingue i delinquenti più nefandi (regicidi e parricidi), mentre, come è noto, gli altri detenuti hanno il bavero giallo. Il Bresci non

220

era mai stato ammalato in carcere: stava bene ed era ingrassato. La sua condotta era sempre stata regolare. Aveva un conto aperto di 50 lire inviategli dalla moglie residente a Paterson, Stati Uniti. Il giorno seguente, il procuratore del Re Santoro e i periti medici che visitarono il cadavere non rinvennero alcun segno di violenza: accertarono soltanto un incipiente stato di putrefazione. Gli agenti di custodia Barbieri e De Vita non hanno subito punizioni. Il teste Leonardo Tamurria è un ergastolano che, essendo mite e sempliciotto, viene utilizzato per i bassi servizi e può girare liberamente entro il perimetro del luogo di pena».

Fin da subito, seri dubbi sorsero nell’opinione pubblica sulla veridicità di questa versione. Da parte loro gli anarchici sostennero quasi subito la tesi del delitto, convalidata successivamente da molte prove ed anche da testimonianze. La moglie di Bresci, appena ricevuta la notizia, dall’America dichiarava ai giornali: «Mio marito non si sarebbe mai suicidato: era contro i suoi principi». Come è possibile che Bresci si sia impiccato con un asciugamano, quando i regolamenti del penitenziario vietavano ai detenuti di tenerne uno in cella? E se anche fosse, come avrebbe potuto mettere in atto tale autoimpiccagione in soli tre minuti e con le catene e la palla di ferro al piede? Come mai, volendo uccidersi, Bresci avrebbe lasciato da parte per la sera metà del proprio pranzo? E come è possibile che i medici che visitarono il cadavere di Bresci, solamente ventiquattr’ore dopo il decesso, lo trovarono in «un incipiente stato di putrefazione»? Parecchi anni dopo, la verità venne a galla. Sul giornale «L’Adunata dei Refrattari» del 26 febbraio 1938, Ezio Taddei riferiva che Bresci era stato ucciso tre o quattro giorni prima del 22 maggio, data ufficiale del decesso, dal capo-mozzo Sanna, il quale venne trasferito, due giorni dopo il delitto, a Procida e di là successivamente liberato con grazia sovrana. Il Taddei, detenuto a Santo Stefano, apprese questa versione dei fatti da un vecchio ergastolano che si trovava in quel penitenziario da ben 39 anni. In seguito, uno degli anarchici che eseguirono l’attentato al Teatro Diana di Milano, avvenuto nel 1921, Giuseppe Mariani, detenuto anch’egli a Santo Stefano, raccolse una testimonianza simile di un altro ergastolano, tale 221

Croce, di quel penitenziario, il quale aggiungeva che «dove lo abbiano seppellito [Bresci] e chi lo abbia seppellito nessuno di noi l’ha mai saputo. Più tardi sentii dire che la direzione, per farlo seppellire, aveva fatto venire due condannati da un altro carcere, ma nessuno li aveva visti». Successivamente, altre testimonianze riferiranno che il cadavere del Bresci «[…] fu sepolto appena fuori del cimitero. Qualche detenuto che lavorava sull’isola ne venne a conoscenza e qualcuno posò dei fiori in quel po’ di terra senza nome. Il direttore – cavalier Cicinelli – saputo del fatto, incaricò due fidati carcerieri di portare di notte i resti nelle cave di tufo che si trovano quasi a picco sul mare, in una parte terminale dell’isola. Ma quei resti non dovevano avere pace: in seguito furono riportati alla luce, messi in un sacco e gettati in mare».

Infine, l’anarchico Armando Borghi pubblicò, su «Umanità Nova» del 25 ottobre 1964, una lettera dell’on. Ezio Riboldi, il quale, detenuto durante il fascismo in vari penitenziari, aveva avuto modo di raccogliere altre testimonianze. Secondo il Riboldi, Bresci era stato ucciso a bastonate durante un «santantonio», il duro trattamento a base di percosse cui venivano talvolta sottoposti i detenuti da parte delle guardie carcerarie, quindi il cadavere era stato seppellito in un luogo rimasto sconosciuto da due ergastolani, mandati appositamente da un’altra casa di pena e ricondotti subito via. Il comandante dell’ergastolo era stato poi promosso e le tre guardie in servizio di vigilanza al Bresci premiate. La tesi dell’assassinio venne anche condivisa da uno storico conservatore come Giovanni Artieri, il quale, nel suo libro Cronaca del Regno d’Italia, pur accreditando l’ipotesi del complotto borbonico, con l’aggiunta di complicità papaline, per liberare Bresci, affermava: «Doria mise le cose a posto in poche ore. Il 22 maggio, il direttore del carcere Cicinelli telegrafò a Roma […]». E a proposito del commendator Alessandro Doria, ispettore della Direzione generale delle carceri presso il Ministero di Grazia e Giustizia, già implicato, come abbiamo avuto modo di vedere, nell’atroce vicenda della falsa con222

fessione estorta a Pietro Acciarito, lo storico Arrigo Petacco, nel suo libro L’anarchico che venne dall’America, ci fornisce un’interessante argomentazione, collegando le azioni svolte in quei giorni dal Doria alla morte del Bresci, come aveva accennato lo stesso Artieri. Dai giornali dell’epoca, si era venuto a sapere che l’ispettore Doria, su incarico del Ministro dell’Interno Giovanni Giolitti, era partito «da Roma per Santo Stefano alla mezzanotte del 22 maggio 1901, ossia poche ore dopo aver ricevuto la notizia della morte del regicida». Ma all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, nella Rubrica delle carte segrete di Giolitti dell’anno 1901, che registra gli argomenti trattati con le indicazioni di come rintracciare i fascicoli, vi è la segnalazione di una «Relazione personale del direttore di polizia Doria circa l’ergastolo di Santo Stefano e la detenzione del regicida Gaetano Bresci» in data 18 maggio 1901. Poi, di seguito, in data 22 maggio 1901, c’è la «Notificazione del suicidio del Bresci». Però, all’interno dei relativi fascicoli mancano completamente i documenti. Le cartelle sono inspiegabilmente vuote: una mano ignota si era, evidentemente, impossessata del contenuto. Inoltre, Petacco afferma che l’atto di morte di Bresci, su cui i medici che visitarono il corpo avrebbero dovuto riportare le cause del decesso, non esiste; il registro delle matricole del penitenziario di Santo Stefano, al n. 515, che era quello di Gaetano Bresci, non contiene alcuna indicazione precisa della morte; e in un altro registro, il quale reca notizie più particolareggiate sulla vita e la morte dei detenuti, la pagina corrispondente al n. 515 è stata strappata. Di conseguenza, Petacco suppone che l’ispettore Doria fosse già a Santo Stefano il 18 maggio e che quel giorno stesso avvenisse la morte di Bresci. Questo, tra l’altro, avvallerebbe l’incipiente stato di putrefazione del cadavere del regicida, rilevato dai medici che lo visitarono il 23 maggio, e le successive testimonianze degli ergastolani, raccolte nel corso degli anni dagli anarchici, secondo cui la morte di Bresci era appunto avvenuta ben prima del 22 maggio. Quindi, il viaggio del commendator Doria a Santo Stefano, su incarico di Giolitti, deve aver avuto come scopo l’eliminazione del regicida. Petacco così conclude: «Tutte supposi223

zioni, certo. Ma indipendentemente da esse, ci sembra difficile non pensare che fra il 18 e il 22 maggio 1901, nella Regia Casa di Pena di Santo Stefano, sia accaduto qualcosa che nessuno doveva sapere». Doria, come si è visto, era avvezzo e smaliziato sia nelle montature che nelle crudeltà ai danni dei detenuti, sicchè il suo utilizzo da parte di Giolitti per la definitiva chiusura dell’affare Bresci risulta più che convincente. E si può quindi anche comprendere la successiva ed influente protezione che Giolitti stesso darà al Doria quando quest’ultimo verrà processato in relazione al caso Acciarito. All’indomani dell’attentato al re e poi della morte di Gaetano Bresci, negli Stati Uniti si diffuse quasi un vero e proprio culto per la figura dell’anarchico pratese. Dato che «L’Araldo italiano», quotidiano di New York di lingua italiana, monarchico e conservatore, si era fatto promotore di una sottoscrizione per inviare una targa-corona del valore di mille dollari sulla tomba di Umberto I, il giornale «La Questione Sociale» di Paterson gli contrappose una sottoscrizione a favore della famiglia di Bresci che prese il nome di Nickelprotesta, in quanto la richiesta era di una moneta di cinque soldi. Ma mentre dopo alcuni mesi la campagna de «L’Araldo italiano» procedeva stentatamente ed era ancora lontana dall’obiettivo, gli anarchici potevano invece vantare di aver superato i mille dollari, e nel primo anniversario dell’attentato pubblicavano un apologetico numero unico con l’apoteosi figurata di Gaetano Bresci. Vennero stampate cartoline illustrate con vedute di New York – ma con l’immagine di Bresci al posto della Statua della Libertà – che gli emigranti inviavano in Italia. L’iconografia si esaltò nel raffigurare Bresci assunto in cielo – vendicatore e martire – mentre una nuda e dai lunghi capelli anarchia gli rendeva omaggio calpestando la corona dei Savoia. In Italia, molti degli arrestati nei giorni immediatamente successivi all’attentato, vennero rilasciati alla spicciolata nei mesi seguenti. La temuta, e da alcuni sollecitata, sterzata reazionaria a base di leggi eccezionali di pubblica sicurezza non ci fu. Poco a poco, tra le classi popolari, cominciarono a diffondersi alcune canzoni che esaltavano 224

il regicidio e la figura di Gaetano Bresci. Una di queste iniziava così: «Pria di morir sul fango della via imiteremo Bresci e Ravachol, chi stende a te la mano o borghesia è un uomo indegno di guardare il sol».

E in diverse zone della penisola, a mò di chiusura del famoso canto intitolato Stornelli d’esilio venivano aggiunti i seguenti versi: «L’hanno ammazzato Umberto primo il re fucilatore, viva Gaetano Bresci nostro vendicatore».

Fosse la paura di fare la fine del genitore, o la sensazione che non era più possibile proseguire in una politica di spietata repressione, il nuovo sovrano, Vittorio Emanuele III, mise un po’ di giudizio. Con alcuni atti, diede alla politica interna un indirizzo che era di rispetto, quanto meno formale, dello Statuto, e di appoggio alle correnti liberali che facevano capo a Zanardelli e a Giolitti. L’influenza dei circoli reazionari più arrabbiati, che si raccoglievano attorno alla regina madre Margherita, venne gradualmente spinta in un angolo. Il 20 dicembre 1900, si svolse a Genova il primo sciopero organizzato di grosse proporzioni: quello dei cantieri e del porto. Sotto l’urto di questo evento e delle polemiche che suscitò, cadeva, nel febbraio 1901, il governo dell’ottuagenario Saracco, sostituito da un ministero Zanardelli con Giolitti agli interni. Il nuovo governo, con alcune misure di alleviamento fiscale sui generi di prima necessità (ancora le farine, il pane e la pasta che erano il cappio alla gola delle grandi masse di lavoratori italiani, fin dai tempi del macinato), con un certo atteggiamento di neutralità nei conflitti fra capitale e lavoro, a cui si cominciava a riconoscere una legittima, ancorché limitata, esplicazione, con una politica estera un po’ meno avventurosa che per il passato, annunciava il proposito di voler battere una 225

via nuova e di considerare chiusa, con la morte di Umberto I, non solo un regno ma anche un’epoca. Un anarchico italiano, tutt’altro che tenero verso la democrazia liberale, ricordando Bresci, dalle colonne del giornale «La Questione Sociale», nel secondo anniversario del suo gesto, avvertiva il senso che esso aveva avuto nella recente storia d’Italia: «La conversione di Zanardelli e di Giolitti verso l’estrema sinistra, la collaborazione che questa – sacrificate le temerità del programma massimo – dà incondizionata al ministero borghese, lo spirito militare diminuito al governo, lo Statuto circondato di più prudente rispetto, la foia di legiferare intorno al lavoro ed alla tutela del lavoratore, uno spirito nuovo di conciliazione in cui cercano di assopirsi gli attriti di classe, la rara ed eccezionale applicazione della legge sul domicilio coatto, sono fenomeni che procedono dal sagrifizio generoso di Gaetano Bresci e se ad esso non si riattaccano come a causa unica ed esclusiva, con esso hanno rapporto strettissimo di causa ed effetto».

Ed ancora, lo stesso anarchico, qualche anno più tardi, scriverà: «Morto un re se ne fa un altro. Vero. Ma il re che la corona raccoglie nel sangue del padre impara la prudenza, la moderazione, la saviezza; restaura il patto nazionale, ripudia violenze ed abusi. Basterà ricordare che, dopo l’attentato Bresci, Saracco inaugurando il nuovo parlamento non solo non osò proporre leggi d’eccezione, ma dichiarò che l’idea anarchica doveva trovare nei civili dibattiti il suo contraddittorio, che all’azione anarchica prevaricante i termini della legge, era freno sufficiente il codice penale; senza contare la maggiore arditezza delle folle, la maggior consapevolezza che della propria forza esse hanno di poi assunto, la più ferma, più operosa fiducia che nella propria emancipazione esse hanno conseguito».

Quell’anarchico che così scriveva si chiamava Luigi Galleani. Ci vorrà più di mezzo secolo perché queste valutazioni vengano fatte proprie dalla storiografia italiana, con il riconoscimento di una razionalità oggettiva che l’attentato di Monza ebbe nello sviluppo delle nostre vicende nazionali.

226

227

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233

Indice dei Nomi

A

Belelli, Ennio, 215 Beltrani Scalia, Martino, 138, 151 Bertani, Agostino, 23, 25, 73, 74

Acciarrito, Pietro, 130-134, 146-154, 199, 222, 224

Berti, Giampietro, 214, 217 Besso, Isidoro, 211, 212

Alfieri, Luigi, 209

Betances, Ramon Emeterio, 159

Alonzo, Luigi, 12

Bignami, Enrico, 38

Angelelli, Alfredo, 151-154 Angiolillo, Michele, 159-161, 178, 195 Artieri, Giovanni, 222, 223

Bissolati, Leonida, 138 Borghi, Armando, 222 Bosco Rosario Garibaldi, 81, 83 Bovio, Giovanni, 153, 193

B

Branchi, Giovanni, 209 Bresci, Gaetano, 183-191, 193195, 197-205, 207-226 Brugnoli, Teresa, 189, 210 Brunialti, Attilio, 154

Bakunin, Michail, 41-43, 47, 48 Bussetti, Giacomo, 221 Bandi, Giuseppe, 89-92, 94 Baratieri, Oreste, 95 Barbato, Nicola, 81, 83 Barbieri, agente di custodia, 220, 221

C

Bastogi, Pietro, 10, 89 Cadorna, Raffaele, 19

Bava Beccaris, Fiorenzo, 168, 169, 171, 187

Cafiero, Carlo, 49, 52, 54, 55

235

Cairoli, Benedetto, 59-61, 69, 133

Cipriani, Amilcare, 50, 111, 141, 142, 200, 219

73,

Colabona, Pietro, 150 Cambray Digny, Luigi Guglielmo conte di, 10, 18, 89

Colajanni, Napoleone, 81, 169, 193

Campos, Martinez, 156, 157 Colombo, Carlo, 211, 212 Canevaro, Napoleone, 178 Comandino, Federico, 152 Canevelli, Giuseppe, 151, 153 Costa, Andrea, 49, 138, 144 Canovas del Castillo, Antonio, 158, 160, 178

Costa, Giacomo Giuseppe, 133, 138-140, 144

Carducci, Giosué, 59 Cariboni, Sperandio, 208

Crispi, Francesco, 77, 78, 81, 82, 86, 87, 89, 92-96, 117, 146, 192, 198

Carnot, Sadì, 86, 87, 89, 102, 107-109, 112, 116-118, 122, 123, 133, 178

Crocco, Carmine, 12 Croce, Benedetto, 216, 217

Caruso, Michele, 12 Caserio, Giovanni, 109, 110 Caserio, Sante, 86, 87, 89-91, 94, 109-127, 133, 149, 178, 199 Cavallotti, Felice, 140, 166 Cavour, Camillo Benso conte di, 10 Ceccarelli, 152, 177

Aristide,

150,

Ceccarelli, Pietro Cesare, 50, 51 Ciancabilla, Giuseppe, 177, 185, 186, 213, 214

176,

Cicinelli, direttore del carcere di Santo Stefano, 220, 222

D D'Annunzio, Gabriele, 161, 162 De Felice, Giuffrida Giuseppe, 81, 83 De Pedys, professore in medicina, 136, 139, 150 De Vita, agente di custodia, 220, 221 Deibler, boia francese, 126 Della Barile, Giovanni, 213

236

Di Donato, ispettore di P.S., 66

Farini, Domenico, 133

Diotallevi, Ernesto, 150, 152

Ferrari, Enrico, 216, 217

Dolores de Vera d'Aragona, 175

Ferri, Carlo, 68, 69, 71

Doria, Alessandro, 151, 153, 222-224

Ferri, Enrico, 152, 164, 165 Fogazzaro, Antonio, 192

Dumas, jr. Alexandre, 117

E

Forcheim, delegato 138, 149, 150

di

P.S.,

Forni, procuratore 144, 149

generale,

Francesco Giuseppe d'Austria, 172 Franchi, Amerigo, 91

Elisabetta di Baviera, imperatrice d'Austria, 172-174, 177, 178, 215

Francolini, Domenico, 86, 92 Fraschini, Mauro, 212

Ellena, Vittorio, 27 Frezzi, Assunta, 134, 135, 145 Engels, Friedrich, 47 Frezzi, Romeo, 134-141, 143147, 149, 150

Enrico d'Orleans, 174 Esteve, Pedro, 195

G

F

Galeazzi, ispettore di P.S., 129, 131

generale

Fanelli, Giuseppe, 41

Galleani, Luigi, 177, 211, 212, 226

Farina, Umberto, 150

Gallo, Charles, 99

237

Gambuzzi, Carlo, 41 Garibaldi, Giuseppe, 62 Giacomelli, Giuseppe, 145, 146

I

Giglioli, Italo, 24 Giolitti, Giovanni, 77, 153, 214-216, 219, 223-226 Giorio, delegato di P.S., 142 Gori, Pietro, 111, 112, 114, 120, 126 Granotti, Luigi, 210-212 Guabello, Alberto, 213 Gudino, Federico, 150 Guiccioli, Alessandro, 133, 146, 178, 208, 220

75,

Imbriani, Matteo Renato, 84, 143, 144, 147, 159 Insogna, Angelo, 215, 216

K Knieland, Sophie, 187 Kuliscioff, Anna, 202

H

L

Hannay, David, 157

La Gala, Cipriano, 12

Henry, Emile, 83-85, 100, 103, 107, 108, 116, 118, 122-125, 199

Labriola, Arturo, 193

Herzen, Aljeksandr, 107

Laner, Antonio, 188, 210, 212, 213

Lacchini, Luigia, 173

Heusch, Nicola, 82 Leblanc, confidente di polizia, 118 Lega, Paolo, 77, 78, 82, 86,

238

87, 89-92, 94, 141

131, 138, 147, 149, 150

Leonardi, Francesco, 151

Marx, Karl,

Litta, Eugenia, 133, 146, 181, 190

Masaniello (Tommaso Aniello), 69

Lombroso, Cesare, 109, 199

Mazzaglia, Antonio, 144, 149, 150

47

Lucani, delegato di P.S., 138 Luccheni, Luigi, 173-177, 215 Lucchesi, Michele, 63

Mazzini, Giuseppe, 47, 48, 52, 62, 193 Mellace, Domenico, 135, 144, 149, 150

Lucchesi, Oreste, 90, 91 Merlino, Francesco Saverio, 71, 142, 149, 201, 203-206, 219

M

Michel, Louise, 118 Milano, Agesilao, 52 Minghetti, Marco, 10 Minguzzi, Luisa, 86, 92

Malatesta, Errico, 41, 52, 53, 161, 185, 186, 196, 202, 214218 Malpieri, medico del San Michele, 137

Morgari, Oddino, 138 Mozzoni, Anna Maria, 74 Mumford, Lewis, 38

Mancini, Adamo, 96 Mansi, Giuseppe, 12, 15 Margherita di Savoia, regina d'Italia, 59, 133, 146, 171, 181, 190, 198, 225

N

Maria Sofia di Baviera, 215-217 Ninco Nanco (Giuseppe Nicola Summa), 12

Mariani, Giuseppe, 221 Martelli, Luigi, 201, 203, 207 Martelli, questore di Roma,

239

Pazzaglia, Domenico, 186

O

Pelloux, Luigi, 151, 153, 172, 198 Pessina, Giuseppe, 208 Petacco, Arrigo, 190, 222, 223

Oberdan, Guglielmo, 193

Petitto, Pietro, 151

Oriani, Alfredo, 177

Pezza, Vincenzo, 48

Orsini, Felice, 193

Pezzi, Francesco, 86, 92

Osio, Egidio, 133, 171

Pezzi, ispettore di P.S., 138 Pica, Giuseppe, 13, 94

P

Pisacane, Carlo, 47, 52 Ponzio Vaglia, 129, 182 Prampolini, Camillo, 193, 203

Palla, Galileo, 111

Q

Palladino, Carmelo, 41, 44 Pallas, Paulino, 121, 156 Pallavicini, Salvatore, 213 Papera, Michele, 61 Pardo, professore in medicina, 136, 139 Parrella, Giovanni, 65 Pascoli, Giovanni, 59, 72, 177 Passanante, Giovanni, 61-64, 66-75, 132, 133, 141, 153, 154, 199 Pastore, Maria, 63

240

Quazza, Emma, 188, 189, 210, 213 Quintavalle, Nicola, 188, 210, 212, 213

R

S

Ragionieri, Ernesto, 21

Salvador, Santiago, 156

Raniero de Vera d'Aragona, 174, 175

Salvoechea, Fermin, 156

Rastignac (Vincenzo Morello), 160, 161

Sandor, giornalista de La Tribuna, 83-86, 93 Saracco, Giuseppe, 133, 225, 226

Rattazzi, Urbano, 10 Ravachol (Francois Koenigstein), 99, 105, 118, 121, 123, 195, 199, 225

Schicchi, Paolo, 78

Raveggi, Pietro, 213

Sella, Quintino, 10

Recchioni, Emidio, 86, 92

Sereni, Emilio, 12

Riboldi, Ezio, 222

Sernicoli, Ettore, 94

Romano, Pasquale, 12

Sonnino, Sidney, 25, 77, 132

Romiti, Rosolino, 91

Sottovia, Ettore, 150, 177

Savarese, Gaetano, 62

Rubino, Gennaro, 215 Rudinì, Antonio Starabba marchese di, 132, 133, 138, 140, 144, 145, 147, 151, 153, 170172, 184, 198

T Taddei, Ezio, 221 Talpo, capodivisione Ministero dell'Interno, 138, 139 Tamurria, Leonardo, 220, 221

241

Tarantini, Leopoldo, 68, 71, 73

125, 199

Tarrida del Marmol, Fernando, 157

Varagnolo, Ettore, 150

Tolstoj, Lev, 199

Venarubba, Pasqua, 130, 131, 148, 151, 152

Tonelli, Luigi, 20

Verro, Bernardino, 81, 83

Trachella, Gaetano, 12

Vezzani, Felice, 195, 216

Trenta, Cherubino, 150

Viani, Lorenzo, 126

Tucci, Alberto, 41, 43

Villari, Pasquale, 14

Turati, Filippo, 112, 138, 153, 192, 194, 202, 203

Vittorio Emanuele II, 59 Vittorio Emanuele 178, 190, 225

U Umberto I, 59, 117, 146, 170-172, 177, 182, 187, 190, 193, 199, 200, 208-210, 217, 224, 225

129, 178, 196, 214,

131, 181, 197, 216,

III,

177,

W Weyler, Valeriano, 157 Widmar, Francesco, 213, 214

Umut, Romolo, 144, 149, 150

Z

V

Zanardelli, 225, 226 Vaillant, Auguste, 83, 84, 100, 102, 105, 106, 116, 118, 123-

242

Giuseppe,

Zola, Emile, 160

214,

243