Husserl e lo scetticismo 8881070219, 9788881070213


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Italian Pages 320 [317] Year 1995

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Table of contents :
Husserl e lo scetticismo
Abbreviazioni
Introduzione
Capitolo terzo
Riferimenti bibliografici.
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Husserl e lo scetticismo
 8881070219, 9788881070213

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Cristina Savi

Husserl e lo scetticismo

rV guerini scientifica

Cristina Savi

HUSSERL E LO SCETTICISMO

f ßuerini scientifica

Questo volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento del­ l'istruzione e della Cultura del Canton Ticino

© 1995 Edizioni Angelo Guerini e Associati s.r.l. via Verona 9 - 20135 Milano

Prima edizione: aprile 1995 Ristampa: i n m iv V 1995 1996 1997 1998 1999 2000

Printed in Italy ISBN 88-8107-021-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia. L’Editore potrà concedere a pagamento, l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere a Stampa (aidros), via delle Erbe 2 Milano, tei. e fax 02/809506

Indice

7

ABBREVIAZIONI.

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CAPITOLO PRIMO. INTRODUZIONE.

1. La dissoluzione post-husserliana del problema dello scetticismo. 2. La critica husserliana del metodo rico­ struttivo neokantiano e il problema del nesso di filo­ sofia e psicologia.

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CAPITOLO SECONDO. I MODELLI CLASSICI DI SUPERAMENTO DELLO SCETTICISMO.

39

1. Introduzione 1. Senso e limiti dello schizzo dei modelli classici di superamento dello scetticismo.

46

2. Dogmatismo e scetticismo 2. Lo scetticismo e la negazione della differenza di soggettività ed oggettività.

53

3. Il modello formale 3. Il modello formale di confutazione dello scetticismo e l’innegabilità della differenza.

64

4. Il modello trascendentale 4. Il modello trascendentale di superamento dello scet­ ticismo e l'origine della differenza. 5. Il modello tra­ scendentale nelle Meditazioni di Descartes.

92

5. Il modello dialettico 6. Il modello dialettico di inveramento dello scettici­ smo e le metamorfosi della differenza.

4 109

CAPITOLO TERZO. «LE STESSE COSE RITORNANO»: HUSSERL E LO SCETTICISMO.

109

1. Introduzione 1. Filosofia e scetticismo. 2. Filosofia e psicologia. 3. Inveramento dello scetticismo e psicologia. 4. Conce­ zioni dialettiche della fenomenologia. 5. Husserl e i modelli classici di inveramento e superamento dello scetticismo.

142

2. La critica dello psicologismo nelle «Ricerche logiche» 6. L’unità delle Ricerche logiche: i due lati della critica dello psicologismo. 7. La connessione teleologica fra i due lati della critica dello psicologismo. 8. La confuta­ zione dello psicologismo mediante l’argomento della «Widersinnigkeit» nei Prolegomena. 9. L’inveramento dello psicologismo nel secondo volume delle Ricerche logiche. 10. Ambiguità della critica husserliana dello psicologismo. 11. L’ambiguità della critica dello psi­ cologismo ed il pensiero husserliano successivo.

184

3. Riduzione fenomenologica e scetticismo

184

3.1. Introduzione 12. Continuità e discontinuità fra la prima introduzione dell’idea di riduzione nel 1906/7 e le Ricerche logiche. 13. Continuità e discontinuità fra la prima introduzione dell’idea di riduzione e la fenomenologia della ridu­ zione fenomenologica avviata dalla Erste Philosophie II. Husserl e Descartes.

204

3.2. L’idea oscura di riduzione fenomenologica 14. L’introduzione della riduzione fenomenologica nelle lezioni del 1906/7 e del 1907. 15. La riduzione fenomenologica nella Fundamentalbetrachtung delle Ideen I. 16. Ritorno al problema della continuità fra le Ideen 7 e le Ricerche logiche. Husserl e Heidegger. Anticipazioni sul problema della continuità fra le

5

Ideen I e la Erste Philosophie II: le varie vie della ri­ duzione e l’unità del suo te los. 242

3.3. Il chiarimento dell’idea di riduzione fenomenologica 17.11 problema della critica apodittica della conoscen­ za fenomenologica prima delle Ideen I: le lezioni sui Grundprobleme der Phänomenologie del 1910/11. 18. Le lezioni del 1910/11 e la riflessione metafenomeno­ logica degli anni '20. 19. La «via cartesiana» della ri­ duzione e la «via attraverso la psicologia» dalla Erste Philosophie II alla Krisis. Fondazione etica ed esisten­ ziale dell’istanza antiscettica della filosofia fenomeno­ logica. 20. Filosofia fenomenologica e storia dell’idea di filosofia. Le aporie della concezione teleologica della storia della filosofia.

297

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.

Desidero ringraziare: la Commissione culturale del Canton Ticino che, assegnandomi una borsa di ricerca fra il 1991 e il 1993, ha reso possibile la realizzazione di questo studio; i Pro­ fessori Franco Alessio, Fulvio Papi e Giovanni Piana, che hanno letto il dattiloscritto e mi hanno aiutata con preziosi suggerimenti; il mio amico Marco Bogliani, che da anni discu­ te e ridiscute con me le tesi qui sostenute

C. S.

Abbreviazioni

A. Opere di Edmund Husserl: - HU I: Husserliana voli. - HU II: Husserliana vol.II ecc. - L.U. I e II: Logische Untersuchungen vol.I e vol.II. -PSW: Philosophie als strenge Wissenschaft. -Ideen I, II e III: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie voll, vol.II e volili. -Erste Phil.l e II: Erste Philosophie, erster Teil (=HU VII) e zweiter Teil (=HU VIII). -FTL: Formale und transzendentale Logik. -CM: Cartesianische Meditationen. -Krisis: Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie.

B. Altre opere: - AT: Descartes, René: Oeuvres completes, a cura di C. Adam e P. Tannery, Paris 1964-1974. - Crat.: Platone: Cratilo. - Euthy.: Platone: Eutidemo. - HW: Hegel, Georg Wilhelm Fiedrich: Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, Frankfurt a.M. 1969-1971. - Ip.Pirr.-. Sesto Empirico: Schizzipirroniani. - KrV: Kant, Immanuel: Kritik der reinen Vernunft. - KW: Kant, Immanuel: Werkausgabe, a cura di W. Weischedel, Frankfurt a.M. 1968,1974. - Metaph.: Aristotele: Metafisica.

8 - NW: Nietzsche, Friedrich: Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, München-Berlin-New York 1980. - PhG: Hegel, Georg Wilhelm Friedrich: Phänomenologie des Geistes. - SZ: Heidegger, Martin: Sein und Zeit. Tübingen 1927. - Thaet.: Platone: Teeteto.

CAPITOLO PRIMO

Introduzione

Se oggi un filosofo volesse dare ad intendere di non essere uno scettico, sarà, ad udirsi, po­ co gradevole a tutti, lo si sogguarderà con una certa soggezione, molte sarebbero le domande che gli si vorrebbero porre...anzi, tra gli ascoltatori timorosi, come ce ne sono oggi nella massa, a partire da quel momento verrà definito pericoloso. Avranno quasi la sensa­ zione di avvertire in lontananza, in quel suo rifiuto dello scetticismo, una specie di bron­ tolio cattivo e minaccioso, come se si stesse sperimentando, chissà dove, una nuova so­ stanza esplosiva, una dinamite dello spirito, forse una nichilina russa di recente scoperta.1 1. La fenomenologia husserliana mette in atto uno degli ultimi grandi tentativi di pensare la filosofìa come superamento radi­ cale e razionale dello scetticismo. Essa costruisce e chiarisce progressivamente l'idea di filosofia a partire da una critica dello scetticismo, che certo gli riconosce un significato anche positivo, ma che tiene tuttavia costantemente ferma l'antitesi di scetticismo e filosofia. In seguito la filosofia sembra aver rinunciato ad una tale critica radicale dello scetticismo. Le vie lungo le quali ha cercato la propria sopravvivenza sono certa­ mente molteplici e spesso antitetiche, ma appaiono accomu­ nate da questa rinuncia, che si esplica ora nell'abbandono del­ l'esigenza di radicalità, ora nell'abbandono della convinzione che lo scetticismo debba (o possa) venir superato razional­ mente. L'abbandono dell'esigenza di radicalità della critica ha condotto a sostituire il tentativo di «scalzare lo scetticismo alle radici» con un più modesto tentativo di moderare la forza 1 NW 5 p. 137; tr. it. vol. VI t.II p. 112.

10 distruttiva del dubbio scettico. Con sagge considerazioni pragmatiche i filosofi moderatamente scettici hanno spuntato le lance più acute dello scetticismo e si sono poi abbandonati alla tranquilla ed operosa fiducia delle «scienze particolari», escludendo dal proprio campo d'indagine tutti quei problemi tradizionalmente appartenenti all'ambito della filosofia, che a quella fiducia avrebbero potuto dare qualche scossone. L'ab­ bandono della seconda esigenza - quella di superare lo scetti­ cismo nella ragione - ha invece condotto ad una dissoluzione del problema dello scetticismo gnoseologico e ad un accanto­ namento dei tentativi di confutarlo sul piano teoretico. Fra quell'esigenza e lo scetticismo stesso si è riconosciuto un reci­ proco implicarsi. Lo scetticismo è apparso come prodotto di quella stessa razionalità conoscitiva che, per secoli, ha preteso di confutarlo. Così trasformando - fino eventualmente a dis­ solverlo - quel concetto troppo puro di razionalità, abbando­ nando la pretesa tradizionale della filosofia di essere in primo luogo conoscenza, tinteggiando il suo baricentro con nuovi colori, dalle sfumature di volta in volta diverse (antropologi­ che, etiche, politiche, religiose, estetiche ecc.), si è compietamente svuotato di significato il problema dello scetticismo che pone in dubbio la possibilità della conoscenza e razionalità filosofica. Queste due forme di rinuncia ad un sovvertimento radicale della critica scettica della conoscenza non sono certo appan­ naggio del Novecento, ma percorrono, come lo scetticismo stesso, l'intero pensiero moderno. L'Introduzione al Saggio sull'intelligenza umana di John Locke indica in modo nettis­ simo le linee portanti della prima:

La candela che è posta in noi - scrive Locke - diffonde luce sufficiente per le nostre faccende. Dobbiamo contentarci delle scoperte che possiamo fare per mezzo di questa luce. Faremo sempre buon uso della nostra intelligenza se consideriamo tutti gli oggetti nella maniera e proporzione in cui essi sono adatti alle nostre facoltà; e su quei fondamenti in cui essi si offrono alla nostra conoscenza; e se non domanderemo perentoriamente e senza discrezione una dimostrazione ed una completa certez­ za, laddove è possibile ottenere soltanto una probabilità; e que­ sto basti a regolare tutti i nostri interessi. Poiché se vogliamo dubitare di ogni cosa, per il fatto che non possiamo conoscerle

11 tutte con certezza, saremo altrettanto poco ragionevoli quanto uno che non volesse servirsi delle proprie gambe, e si intestar­ disse a rimaner fermo e perire, perché non ha ali con cui vola­ re.2 XJEntretien di Blaise Pascal con M. De Saci può, d'altra parte, valere come modello della seconda forma di rinuncia alla con­ futazione dello scetticismo. Qui la contrapposizione fra filo­ sofie razionaliste e filosofie scettiche, fra filosofie della gran­ dezza umana e filosofie della miseria umana, viene dichiarata irriducibile per la ragione filosofica. Solo la Verità del Van­ gelo rende possibile il superamento dell'antitesi fra filosofie del dubbio e filosofie della certezza, conciliando nella conce­ zione cristiana dell'uomo, le sue due contrapposte nature.3 Solo nella fede è dunque possibile oltrepassare il punto di vi­ sta dello scetticismo, ma allora, insieme allo scetticismo, si oltrepassa anche il punto di vista della sua confutazione razio­ nale. Quella che tuttavia sembra costituire una caratteristica pecu­ liare del pensiero novecentesco è, innanzitutto, la dissoluzione dello spazio intermedio fra le due tendenze. La serenità di chi nello scetticismo radicale non sa scorgere altro che una forma di follia ed il tormento di chi, invece, dallo scetticismo si è fatto talmente inquietare da disperare della possibilità di supe­ rarlo con le sole forze della ragione, sembrano aver sottratto ogni terreno alla titanica fiducia di chi, pur avendo preso estremamente sul serio il dubbio scettico, non abbandona il tentativo di un suo radicale e razionale superamento. Sembra, in altre parole, che sia venuto a mancare lo spazio per quelle posizioni che nel pensiero moderno erano state occupate so­ prattutto da Descartes e, per certi versi, da Hegel e che, con la sua idea di filosofia fenomenologico-trascendentale, Husserl ha tentato di riproporre. Che le vie - fra loro assai diverse percorse da Descartes, da Hegel e da Husserl siano oggi im­ praticabili costituisce un'ovvietà del senso comune filosofico. E, con l'eccezione, naturalmente, di coloro che stanno provve­ dendo ad una «fondazione ultima» della ragione, la comunità

2 Locke [1975] tr. it. p. 24. 3 Pascal [1954] pp. 571-574.

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dei filosofi riterrebbe assai probabilmente bisognoso di terapia analitica chi manifestasse dei dubbi su quest'ovvietà, così co­ me i filosofi della tradizione hanno costantemente indirizzato alle cure mediche gli scettici estremisti.4 A ben guardare, però, su quest'ovvietà grava una fondamen­ tale ambiguità. Da un lato, infatti, sembra che l'abbandono dei tentativi di superamento radicale e razionale dello scetticismo sia conseguenza della constatata impossibilità di portare a ter­ mine tali tentativi: la filosofia continua segretamente ad aspi­ rare al superamento dello scetticismo, ma riconosce l'impos­ sibilità di realizzarlo; dall'altro quell'abbandono appare invece come conseguenza della raggiunta consapevolezza del fatto che la filosofia, per costituirsi, non ha neppure bisogno di quei tentativi: essi le risultano del tutto inutili. Per il primo verso, poiché il superamento dello scetticismo continua ad ap­ parire necessario e viene tuttavia dichiarato impossibile, la fi­ losofia diviene lo scetticismo stesso; per il secondo, invece, essa non appare legata allo scetticismo né da identità né da antitesi. Dalla rinuncia a delimitare l'idea di filosofia rispetto alla figura dello scetticismo possono insomma scaturire due concetti di filosofia completamente diversi ed anzi diametral­ mente opposti,: da un lato una filosofia scetticheggiante estremamente «debole» che, per negarne la realizzabilità, continua a tener fermo l'ideale di una certezza contrapposta ad ogni dubbio, e che si colloca così al di qua di ogni certezza (e, in ultima analisi, di ogni autentico dubbio); dall'altro una filo­ sofia «fortissima», che si colloca al di là dell'antitesi fra scet­ ticismo ed antiscetticismo, al di là del dubbio e della certezza, del vero e del falso. Certo, in ragione della loro comune ri­ nuncia, queste due opposte concezioni della filosofia possono anche confondersi: la filosofia «debole» e scetticheggiante tende a ridurre la filosofia «fortissima» a sé, in quanto coglie 4 Cfr. ad esempio HW 19 p. 359 e Schopenhauer [1928] § 19 tr. it. p. 159: il solipsismo «non si potrà mai confutare con prove: tuttavia filoso­ ficamente non è di certo altro che un sofisma scettico, ossia dedotto per pura apparenza. Come convinzione seria, lo si potrebbe trovare soltanto al manicomio, dove a combatterlo non occorrerebbe tanto una prova quanto una cura.» La tendenza a patologizzare gli scettici estremisti è stata ora riportata in auge da Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas: cfr.Apel [1987-1] p. 191 e Habermas [1983] p. 112.

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solo il lato per cui essa non può essere quella filosofia forte della tradizione, che ha costantemente dipinto se stessa in anti­ tesi con lo scetticismo, e non il lato per cui essa non vuole neppure essere una tale filosofia, giacché mira ad esser fortis­ sima. Tuttavia, almeno nelle pretese della filosofia «fortissima», esse appaiono ben distinte. E nell'idea di una fi­ losofia fortissima - nell'idea che l'abbandono dei tentativi di superamento dello scetticismo non implichi necessariamente un indebolimento dell'idea di filosofia ma, al contrario, un suo rafforzamento - sta la seconda e più profonda caratteristica peculiare del pensiero del Novecento rispetto alla tradizione. Se si tien ferma questa seconda caratteristica, appare come la dissoluzione dello spazio per un superamento radicale e razio­ nale dello scetticismo indicata dalla prima caratteristica non vada interpretata come un semplice «venire a mancare» di tale spazio: in realtà questo spazio non è stato tanto dissolto, quanto oltrepassato, nel senso che la filosofia si è aperta un nuovo spazio, al di là dell'antitesi fra lo scetticismo e l'ideale del suo superamento. Questa ricerca di uno spazio filosofico al di là dell'antitesi fra scetticismo ed antiscetticismo, la si intravede, certo non senza qualche ambiguità, nel primo Heidegger e, delineata con maggior nettezza, nell'ultimo Wittgenstein. Nella critica che il primo rivolge contro la confutazione formale dello scetticismo e che il secondo rivolge contro il tentativo effettuato da G.E.Moore di contrapporre al dubbio scettico una serie di pro­ posizioni del senso comune assolutamente certe5, si può indi­ viduare una struttura comune che è indice di un'affinità pro­ fonda nel modo in cui entrambi ridefiniscono il terreno pro­ prio della filosofia rispetto alla tradizione filosofica da cui prendono le mosse. La metacritica della critica dello scetticismo che Heidegger svolge nelle lezioni marburghesi del semestre invernale del 1925/26 su Logik. Die Frage nach der Wahrheit, ha come obiettivo polemico immediato i tentativi di fondazione della logica a partire da una confutazione formale dello scetticismo e, in particolare, la critica dello psicologismo in quanto rela­ 5 Cfr.Moore [1925],

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tivismo scettico, che Husserl conduce nei Prolegomena. Tut­ tavia questa metacritica assume anche il significato più gene­ rale di punto di partenza dell'elaborazione heideggeriana del concetto di verità, e viene ripresa anche nel § 44 di SZ, nel quale Heidegger illustra la sua concezione della verità come apertura. Essa ha insomma due lati: uno critico-negativo ed uno positivo-costruttivo; la decostruzione dell'argomento tra­ dizionale contro lo scetticismo apre la strada ad una ricostru­ zione del concetto di verità; d'altra parte questo concetto sor­ regge già quella decostruzione. Nelle lezioni del 1925/26 Heidegger rimprovera alla fonda­ zione della logica che prende le mosse da una confutazione formale dello scetticismo di non essere abbastanza radicale, di non avere cioè ancora raggiunto «la dimensione dell’interrogare filosofico».6 Questa fondazione si trova di fronte a due domande. Da un lato essa si chiede «che cos'è la verità?» e, dall'altro, «se la verità in generale sia». La prima domanda sembra presupporre la seconda: il chiarimento dell'essenza della verità sembra necessariamente richiedere la dimostrazio­ ne dell'essere della verità. D'altra parte, però, questa dimo­ strazione presuppone che si comprenda già il significato del termine «verità». Ma allora la domanda «che cos'è la verità?» appare preliminare rispetto alla domanda «se la verità sia». Ora, la fondazione della logica che prende le mosse da una confutazione dello scetticismo risolve il problema tra­ sformando la domanda «se la verità sia» in una falsa domanda. Ma questa trasformazione le è resa possibile dal fatto che essa non percorre fino in fondo la questione «che cos'è la verità?». Vediamo. Che la questione «se la verità sia» sia insensata, quella fon­ dazione lo mostra così: ogni questione, compreso questa stes­ sa questione, presuppone la verità. Di più: anche la negazione scettica del sussistere della verità presuppone la verità, ché, nel negare la verità, afferma il proprio esser vera e si confuta dunque da sé.7 Che la verità sia è dunque un presupposto, un limite invalicabile di ogni domanda, che nessuna domanda può mettere in discussione. Lo scetticismo sembra porlo in di­ 6 Heidegger [1976] p. 24; tr. it. p. 18. 7 Heidegger [1976] p. 20; tr. it. p. 15.

15 scussione, ma lo scetticismo si confuta da sé. La confutazione dello scetticismo da cui parte questa fondazione della logica serve dunque a garantire questo presupposto fondamentale e a preparare il terreno per la domanda «che cos'è la verità?». Tuttavia, se la fondazione della logica può così garantire il terreno per affrontare questa domanda fondamentale, è perché essa non la pone in modo veramente radicale; perché, cioè, non risale ad un concetto originario di verità. Al contrario pre­ suppone - come del resto lo scetticismo che pretende di con­ futare - il concetto determinato di verità quale validità del giudizio e fa propria tutta una serie di assunzioni oscure, che una considerazione filosofica del problema della verità do­ vrebbe invece portare a chiarezza. Ad esempio, la confuta­ zione formale dello scetticismo fa leva sul fatto che in ogni enunciato vero viene co-affermato l'essere della verità, ma non mostra perché debba esser così.8 D'altra parte non indaga sul senso ultimo dei principi di identità e contraddizione, di cui si serve come di ovvietà indiscutibili, e neppure chiarisce cosa significhi ciò che essa afferma, e cioè che la verità è.9 Come Heidegger ribadirà in SZ, dunque, la confutazione formale dello scetticismo, rimane a metà strada. Ciò che essa fa vedere con argomenta­ zioni formali, è semplicemente il principio che, quando si giu­ dica, si presuppone la verità. Ci si muove cioè nell'ambito della teoria secondo cui la «verità» appartiene al giudizio, e il giudi­ care, conformemente al suo senso, è uno scoprire. Ciò che resta completamente oscuro è perché debba essere così e in che cosa consista il «fondamento» ontologico di questa connessione ne­ cessaria fra giudizio e verità, resta anche del tutto oscuro il

8 Heidegger [1976] p. 22; tr. it. 17: «Non si spinge neppure sino a mo­ strare perché sia necessario che in ogni enunciato vero viene co-affermato l’essere della verità, su cosa questo fatto si fondi. Lo assume come ovvio e, nella misura in cui non dà a questo alcuna risposta ed anzi non pone neppure la domanda, questa apparente riflessione fondamentale, che pre­ tende di condurre a dei presupposti ultimi, non è affatto tale.». 9 «Non domandato rimane così ciò che può voler dire qui essere e verità, che cosa insomma significa questo «c’è». Ci sono automobili, negri, fun­ zioni abeliane, fughe bachiane: «ci sono» in questo senso anche verità op­ pure in un altro - e allora come?» (Heidegger [1976] p. 23; tr. it. p. 17).

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modo di essere della verità, il senso della sua presupposizione e del suo fondamento ontologico nell'Esserci.10

Solo quando si tenga presente la concezione positiva della verità a cui questa metacritica della critica dello scetticismo apre la strada, si può però intravedere il suo autentico signifi­ cato, e cioè che la ragione ultima della mancanza di radicalità della confutazione formale dello scetticismo non sta tanto nel fatto che essa si muove su di un terreno preparato da presup­ posti non chiariti, quanto nel fatto che essa è, appunto, una confutazione. Il chiarimento di quei presupposti, la soluzione radicale della domanda «che cos'è la verità?», mette infatti in luce come il proposito di confutare lo scetticismo sia insen­ sato. Già nel § 4 delle lezioni del 1925/26 Heidegger afferma la necessità di dubitare del fatto che abbia senso confutare lo scetticismo.11 Ma in SZ, dopo aver interpretato la verità come apertura dell'Esserci, spiega anche perché l'idea di confutare lo scetticismo sia insensata. Poiché l'apertura è il modo d'essere essenziale dell'Esserci e l'Esserci è quindi originariamente nella verità, lo scettico non può neppure esistere. Va da sé che non abbia senso confutarlo: uno scettico - scrive Heidegger - non può essere confutato, co­ me non si può «provare» l'essere della verità. Lo scettico, se è effettivamente nel modo della negazione della verità, non ha neppure bisogno di essere confutato. In quanto è e si è compre­ so in questo essere, esso ha dissolto l'Esserci, e con esso la veri­ tà, nella disperazione del suicidio.12 Voler confutare lo scetticismo dimostrando che è necessario presupporre la verità è dunque insensato, perché la verità, lungi dall'essere dimostrabile, è il luogo, la condizione onto­ logica di possibilità di ogni dimostrazione e di ogni presup­ posto. Riassumiamo. La confutazione formale dello scetticismo pretende di preparare il terreno per la domanda «che cos'è la verità?» (e per ogni altra domanda) dimostrando che è neces10 SZ § 44c p. 228; tr. it. p. 280. 11 Cfr. Heidegger [1976] p. 21; tr. it. p. 16. 12 SZ § 44c p. 229; tr. it. p. 280.

17 sano presupporre la verità. Con questa pretesa essa mostra soltanto di non aver ancora raggiunto la dimensione filosofica della questione, di esser ferma a metà strada, prigioniera delle ovvietà del sano buon senso.13 Quando, infatti, la domanda «che cos'è la verità?» abbia ricevuto una risposta filosofica, quando sia stato conseguito il concetto originario della verità come modo d'essere dell'Esserci, appare che la dimostrazione della necessità che la verità sia da un lato è impossibile, dal­ l'altro è inutile. Non si può dimostrare la necessità della verità perché l'Esserci come tale non può sottoporsi a dimostrazione e, d'altra parte, l'Esserci non ha bisogno di questa dimostra­ zione, perché è originariamente nella verità.14 La verità - di cui la filosofia dischiude l'essenza - non è oggetto di dimo­ strazione e di presupposizione, ma è il «luogo» di ogni dimo­ strazione: essa è al di là dell'antitesi fra la negazione scettica della verità e l'affermazione della necessità di presupporre la verità costitutiva della confutazione formale dello scetticismo; è la condizione ontologica di possibilità di quell'antitesi, e di quella negazione e di quest'affermazione. In questa posizione rimane tuttavia un'ambiguità: l'impos­ sibilità e l'inutilità di confutare Io scetticismo dimostrando la necessità che la verità sia non sono interamente sovrapponi­ bili. La verità originaria che non si trova più in antitesi ri­ spetto alla negazione scettica della verità e che non ha bisogno di venir garantita nei confronti di questa negazione, perché è il «luogo» in cui avviene questa stessa negazione, rimane pur sempre il termine di un'antitesi. «Fuori» da questa verità ri­ mane - come sua antitesi radicale - la morte dell'Esserci e

13 Cfr. Heidegger [1976] p. 24; tr. it. p. 18. 14 «Perché noi dobbiamo presupporre che c'è la verità! Che significa «presupporre»? Che stanno a significare «dobbiamo» e «noi»? Che signi­ fica «c'è la verità»? «Noi» presupponiamo la verità perché «noi», essendo nel modo d'essere dell'Esserci, siamo «nella verità». «Noi» presupponia­ mo la verità non come qualcosa che stia «al di fuori» e «al di sopra» di noi e a cui ci rapporteremmo come ci rapportiamo ad altri «valori». Non siamo noi a presupporre la «verità», ma è essa ciò che rende ontologica­ mente possibile che noi possiamo esser siffatti da «presupporre» qualco­ sa. E la verità che rende possibile qualcosa come il presupporre.» (SZ § 44c pp. 227-228; tr. it. p. 279).

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FEsserci può negare scetticamente la verità suicidandosi.15 L'impossibilità di dimostrare la necessità della verità è dunque più ampia dell'inutilità di una tale dimostrazione. Lo si può di­ re altrimenti: ambigua è l'equivalenza «verità = Erschlossenheit», che, a seconda del senso nel quale la si legge, sembra avere due significati distinti. Se si pone l'accento sul fatto che la verità diviene l'apertura originaria dell'Esserci, allora si coglie il movimento di Heidegger in direzione di un luogo che stia prima di ogni antitesi fra vero e falso, fondato e infondato, giustificato ed ingiustificato. Se invece si pone l'accento sul fatto che l'apertura è verità e che il concetto di verità implica la differenza rispetto ad un Altro, il luogo originario verso cui si dirige Heidegger appare ancora come il lato di un'antitesi. Certo l'Altro della verità diviene alcunché di estremamente oscuro, cui si allude con la metafora della morte, del suicidio dell'Esserci. E tuttavia resiste.16 La stessa tendenza a trascendere il piano dell'antitesi fra filo­ sofia e scetticismo, fra verità e dubbio, si manifesta - meno aperta all'ambiguità17 - anche nelle osservazioni di Wittgen15 A differenza di quel che in fondo crede la confutazione formale, la quale pur intraprendendo una confutazione dello scetticismo non ritiene possibile che si diano di fatto degli scettici veramente tali - osserva Hei­ degger - non è affatto dimostrato che non si sia mai dato «uno scettico reale»: «Forse ne sono invece esistiti più di quanti l'ingenuità degli attac­ chi dialettico-formali contro lo scetticismo potrebbe far credere.» (SZ § 44c p. 229, tr. it. p. 281). 16 La definizione della verità come apertura è stata più volte criticata da Karl-Otto Apel, il quale sembra scorgervi la fonte delle «perversioni» del pensiero heideggeriano successivo alla «Kehre» (e degli smarrimenti filo­ sofici che da quel pensiero prendono le mosse). Cfr. in particolare Apel [1973] pp. 40-43 e Apel [1987-2] p. 9. Ora, è curioso - e testimonia a fa­ vore della tesi dell'ambiguità dell'operazione heideggeriana - osservare che il punto di vista dal quale Apel critica l'equivalenza «verità = apertu­ ra» è esattamente capovolto rispetto a quello che stiamo cercando di as­ sumere qui: mentre noi ci preoccupiamo dal fatto che la verità-apertura sembra ancora affetta dalla differenza rispetto ad un Altro, Apel lamenta che la mera apertura non è ancora la verità, che le manca la differenza ri­ spetto al falso. (Apel [1973] p. 42). 17 II luogo al di là dell'antitesi fra scetticismo ed antiscetticismo che Witt­ genstein individua è, a differenza della Erschlossenheit heideggeriana, davvero al di là della differenza fra il vero ed il falso, fra il fondato e l'in­ fondato, fra il giustificato e l'ingiustificato. Questa assenza di ambiguità

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stein sul tentativo compiuto da G.E.Moore di codificare un elenco di truismi, di credenze del senso comune da contrap­ porre come assolutamente certe, e quindi vere, ai dubbi filo­ sofici sull'esistenza delle cose e del mondo avanzate dai filo­ sofi idealisti. Proposizioni del tipo «esiste attualmente un cor­ po umano vivente, che è il mio corpo» o «io sono un essere umano e, nei vari momenti seguiti alla mia nascita, ho avuto una serie di esperienze diverse, ciascuna di varia natura» sono, per Moore, indubitabilmente vere nel senso che 1. moltissimi esseri umani (anche se forse non tutti) ne sono assolutamente certi (o sono assolutamente certi di proposizioni equivalenti ad esse) e 2. non possono venir poste in dubbio senza cadere in contraddizione. Alcuni filosofi hanno in realtà sostenuto che esse sono false, ma, in quanto esseri umani dotati di un corpo, essi hanno dovuto, almeno in qualche occasione, soste­ nere anche altri punti di vista, incoerenti con questa loro po­ sizione filosofica. Altri ancora hanno sostenuto che dal fatto che queste proposizioni appartengono al senso comune non segue necessariamente che esse siano vere. Ma anche quest'af­ fermazione è autocontraddittoria, giacché l'affermazione che queste proposizioni appartengono al senso comune implica l'ammissione dell'esistenza sia degli esseri umani sia delle co­ se e implica quindi la verità di queste proposizioni.18 Ora, nelle sue annotazioni sulla Defence of Common Sense di Moore, Wittgenstein percorre una via parallela a quella im­ boccata da Heidegger nella sua critica dell'argomento formale contro lo scetticismo. Anche Wittgenstein rimprovera - al­ meno implicitamente - al tentativo di confutazione dei dubbi idealisti di Moore di non essere abbastanza radicale, in quan­ to, appunto, tentativo di confutazione, e sposta il piano dell'in­ dagine filosofica al di là dell'antitesi fra il dubbio scettico e la sua confutazione. Come Heidegger, anche Wittgenstein sotto­ non ha però impedito a Karl-Otto Apel di utilizzare le riflessioni di Über Gewissheit sull'impossibilità di un dubbio radicale, per formulare il suo programma di una fondazione ultima, pragmatico-trascendentale, della ragione. (Cfr. in particolare Apel [1976]). A mio avviso, compiendo que­ sta operazione, Apel misconosce l'assunto fondamentale della critica di Wittgenstein a Moore e, per certi versi, finisce per percorrere a ritroso la strada che dal primo conduce al secondo. 18 Moore [1925] pp. 38-45.

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linea che ogni affermazione ed ogni negazione di una tesi, ogni dimostrazione ed ogni confutazione avvengono su di un terreno:

105.Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un'as­ sunzione, hanno luogo già all'interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un punto di partenza più o meno arbitrario, o più o meno dubbio, di tutte le nostre argomenta­ zioni, ma appartiene all'essenza di quello che noi chiamiamo ar­ gomentazione. II sistema non è tanto il punto di partenza, quanto piuttosto l'elemento vitale dell'argomentazione.19

Questo terreno, che rende possibile ogni argomentazione e confutazione, è - allo stesso modo della verità come apertura in Heidegger - al di là dell'antitesi fra il vero e il falso, fra il giustificato e l'ingiustificato. Esso è il «luogo» in cui si costi­ tuisce quest'antitesi, è «lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo fra vero e falso.»20 Le proposizioni del senso comune che Moore elenca costituiscono questo sfondo. Questo significa che esse non sono vere in quanto contrappo­ ste ad altre proposizioni false. Esse non sono né vere né false: sono, invece, regole che mi permettono di distinguere fra il vero ed il falso.21 Che noi siamo assolutamente certi di quelle proposizioni non implica che esse siano vere, ma semplicemente che «apparteniamo ad una comunità che è tenuta in­ sieme dalla scienza e dall'educazione»22 , o, in altre parole, che partecipiamo di una forma di vita: questa certezza - dice Wittgenstein - non deve venir considerata «come qualcosa di affine all'avventatezza ed alla superficialità, ma come una forma di vita. (...). Questo, però, vuol dire che io voglio con­ cepirla come qualcosa che giace al di là del giustificato e del­

19 Wittgenstein [1969] sez.105 p. 16; tr. it. p. 20. 20 Wittgenstein[1969] sez.94 p. 15; tr. it. p. 19. 21 «95. Le proposizioni, che descrivono quest'immagine del mondo, po­ trebbero appartenere ad una specie di mitologia. E la loro funzione è simile alla funzione delle regole del giuoco, e il giuoco si può imparare in modo puramente pratico, senza bisogno di imparare regole esplicite.» (Wittgenstein [1969] sez.95 p. 15; tr. it. p. 19). 22 Wittgenstein [1969] sez.298 p. 38; tr. it. p. 47.

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l'ingiustificato, dunque, per così dire, come un che di anima­ le.»23 Fin qui Wittgenstein sembra affermare che il tentativo di Moore di confutare i dubbi scettici sull'esistenza del mondo e delle cose contrapponendo a questi dubbi una lista di proposi­ zioni assolutamente certe e quindi vere è insensato perché im­ possibile: le proposizioni vere con cui Moore pretende di di­ mostrare false le tesi filosofiche idealiste sono in realtà lo sfondo indimostrabile su cui avviene ogni confutazione e rap­ presentano le regole, l'«elemento vitale» di ogni confutazione e dimostrazione. Tuttavia anche Wittgenstein, come Heideg­ ger, non si limita a mettere in luce l'impossibilità di condurre fino in fondo il tentativo di confutazione avviato da Moore ma ne mostra anche l'inutilità. Se Heidegger afferma che lo scet­ tico non ha neppure bisogno di venir confutato perché come scettico non può esistere, Wittgenstein osserva come un dub­ bio radicale non risulti neppure dicibile: il gioco del dubbio presuppone sempre la certezza: 369. Se volessi mettere in dubbio che questa è la mia mano, come potrei fare a meno di dubitare che la parola mano abbia un qualsiasi significato? Sembra dunque che questo io lo sappia di sicuro. 370. Ma per meglio dire: il fatto che io usi senza alcuno scrupo­ lo la parola «mano» e tutte le restanti parole della mia proposi­ zione; sì il fatto che non appena volessi anche solo provarmi a dubitare mi troverei di fronte al nulla, - mostra che l'assenza di dubbio fa parte dell'essenza del giuoco linguistico, che la domanda «Come faccio a sapere che...» tira per le lunghe il giuoco linguistico, o addirittura lo toglie via.24

In realtà, per questo secondo verso, Wittgenstein va oltre Heidegger: l'inutilità della «confutazione» dei dubbi scettici appare infatti tanto ampia quanto la sua impossibilità. Di più: inutilità ed impossibilità coincidono perfettamente. Se, infatti, 23 Wittgenstein [1969] sezz.358-359 p. 46; tr. it. p. 57. 24 Wittgenstein [1969] sezz. 369-370 pp. 48; tr. it. pp. 58-59. Cfr. an­ che sez. 114 p. 17; tr. it. p. 22: «114.Chi non è certo di nessun dato di fatto, non può neanche esser sicuro del senso delle sue parole. 115. Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso giuoco del dubitare presuppone già la certezza.».

22 questa confutazione è impossibile è perché ogni confutazione avviene su di uno sfondo di certezze. Ma questa è allo stesso tempo la ragione del fatto, che tale confutazione è anche inu­ tile: non è necessario confutare un dubbio radicale, giacché, nella misura in cui ogni dubbio presuppone uno sfondo di certezze, un dubbio radicale non è neppure formulabile. Se la confutazione dei dubbi scettici è impossibile ed inutile è dun­ que per una medesima ed identica ragione e cioè perché l'anti­ tesi fra il dubbio e la sua confutazione avviene su di uno sfon­ do indimostrabile, all'intemo di una «forma di vita», che è il luogo in cui si costituisce la differenza fra il vero e il falso ed è, di per sé, al di là del vero e del falso. Il compito della fi­ losofìa non è quello di confutare dubbi o dimostrare la verità di proposizioni, bensì quello di esplicitare le regole, né giusti­ ficate né ingiustificate, del gioco del dubbio e della confutazio­ ne.25 25 In Skepticism and naturalism, P. F.Strawson ha rinnovato questo svuo­ tamento di senso del problema dello scetticismo (uno svuotamento che egli individua nel Treatise di Hume - cfr. in particolare Hume [17391740] I, 4, 7 tr. it. pp. 275-285 - prima che in Wittgenstein), sostenendo che: 1. a favore del dubbio radicale dello scettico sull'esistenza del corpo, del mondo, degli altri ecc. non ci sono argomenti, come non ci sono ar­ gomenti contro questo dubbio stesso. Le motivazioni che lo scettico ad­ duce a favore del dubbio e le confutazioni che si possono tentare di que­ sto stesso dubbio sono ugualmente vane (idle) (Strawson [1985] p. 19); 2. la ragione di ciò sta nel fatto che, sebbene non possa essere messo se­ riamente in dubbio, il nostro «belief» nell'esistenza del mondo, del corpo ecc., è infondato (not grounded) (Strawson [1985] p. 19); 3.di conseguen­ za al dubbio scettico non va contrapposta una impossibile confutazione, bensì una posizione naturalistica che si rifiuta di raccogliere la sfida dello scettico e la lascia cadere come problema vano suscettibile solo di solu­ zioni vane. Ora, se la intendo bene, questa posizione, al pari di quella humeana ed a differenza di quella wittgensteiniana, rimane in fondo una po­ sizione scettica. Dice Hume: non ho altra scelta se non tra una ragione falsa e la mancanza di ogni ragione. Sembra ripetere Strawson: non ho altra scelta se non tra il naturalismo che ritiene indubitabile seppur infon­ data la mia credenza nell'esistenza del mondo da un lato e l'indifferenza fra lo scetticismo e la sua confutazione dall'altro. E aggiunge: scelgo dunque per il naturalismo e decido di lasciarmi alle spalle il dubbio scet­ tico radicale come anche ogni tentativo di confutarlo. La posizione di Wittgenstein mi sembra diversa in questo: che essa non pensa le differen­ ze fra scetticismo ed antiscetticismo, fra fondato ed infondato, fra utile ed inutile, come date anteriormente rispetto alla scelta a favore della posi-

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Ora, se la filosofia del Novecento fosse rimasta interamente fedele a questo svuotamento di senso del problema dello scet­ ticismo, che abbiamo esemplificato in Heidegger e in Wittgen­ stein, la questione dello scetticismo sarebbe probabilmente scomparsa dall'orizzonte delle questioni filosofiche, o meglio metafilosofiche, fondamentali. Questo lavoro sul nesso fra fi­ losofia e scetticismo in Husserl sarebbe allora contrassegnato da un'irrimediabile inattualità. Non avrebbe altro scopo che quello di una ricostruzione storica del pensiero di Husserl su di un problema - quello dello scetticismo - che assume un'importanza fondamentale nella sua elaborazione dell'idea di filosofìa e che non è mai stato preso troppo sul serio dagli interpreti husserliani. In realtà, però, il pensiero del Novecento non ha intrapreso (non ha potuto intraprendere?) con decisione le vie indicate da Heidegger e da Wittgenstein. Abbandonando l'ideale di un su­ peramento radicale dello scetticismo, lungi dal pervenire a collocarsi al di là dell'antitesi fra lo scetticismo e la sua confu­ tazione, la filosofia ha finito assai spesso per divenire lo scet­ ticismo stesso. Il suo più recente passato ed ancora il presente appaiono costellati di scetticismi di ogni genere: forme più o meno radicali di anarchismo filosofico, auto-flagellazioni di filosofi deboli, interminabili (ed insopportabili) piagnistei co­ rali sulla miseria della filosofia, annunci sghignazzanti della morte della razionalità. D'altra parte qualche temerario razio­ nalista ha tentato di riesumare, magari ammorbidendoli, i vec­ chi argomenti che, da Platone in poi, i filosofi hanno costan­ temente, e costantemente senza successo, rivolto contro gli scettici.26 La filosofia non ha dunque fatto sul serio con l'abzione naturalistica e come utilizzabili per motivare questa scelta. Essa, in altre parole, non pensa al gioco dello scettico e dell'antiscettico come a qualcosa da eludere, da lasciarsi alle spalle prendendo le mosse dall'in­ fondatezza del «beließt, bensì come ad un gioco che può divenire visibile e risultare analizzabile solo a partire dallo sfondo neutro del «beließt, che giace al di là del giustificato e anche dell'ingiustificato e che origina ogni differenza fra ragione e non ragione, fra giustificato ed ingiustificato, fra scetticismo ed antiscetticismo. L'analisi di Wittgenstein non tenta di svuotare di senso il problema dello scetticismo eludendolo, bensì fagoci­ tandolo. 26 Oltre ai contributi di e su Apel citati alla nota 27, cfr. ad esempio la critica di Feyerabend e Kuhn in Putnam [1981], quella di Foucault, Rorty

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bandone dell'ideale tradizionale di un superamento radicale dello scetticismo: da un lato, essa ha continuato a coltivarlo segretamente, trasformandosi nel lamento o nell'allegra de­ nuncia dell'impossibilità della sua realizzazione; dall'altro, da questa trasformazione ha tratto alimento la specie, altrimenti minacciata d'estinzione, degli antiscettici, che vanno nuova­ mente aggirandosi sulla scena filosofica brandendo la temibile arma della «autocontraddizione performativa»27. Questa strana situazione per cui l'abbandono del programma delle filosofie razionaliste della tradizione, che miravano ad un superamento radicale e razionale dello scetticismo, può as­ sumere due significati tanto diversi da risultare antitetici (da un lato la filosofia oltrepassa il piano dell'antitesi con lo scet­ ticismo, dall'altro si identifica con esso) è, a mio avviso, al­ l'origine dell'attualità del problema dello scetticismo e del si­ gnificato filosofico (e non solo storico) di questo lavoro.28 e Quine in Putnam [1983] come anche quella dell'ultimo Heidegger, di Adorno, di Derrida e di Foucault in Habermas [1988], 27 Cfr. Apel [1976], [1987], [1988] e Kuhlmann [1981], [1987]. La con­ futazione apeliana dello scetticismo ha naturalmente suscitato delle con­ troreazioni (cfr. ad esempio Gethmann-Hegelsmann [1977], Keuth [1983], Berlich [1982] Aubenque [1985], Albert [1987], Cassin [1988] ) e dei tentativi di mediazione (cfr. soprattutto Habermas [1983] pp. 106112). L'insieme della discussione che, fra incomprensioni e reciproche accuse di violenza, follia, cecità mentale, si protrae sterilmente, riproduce ancora una volta l'inconcludenza delle discussioni fra scettici ed antiscet­ tici della tradizione. Con questo non voglio affatto affermare che l'argo­ mento pragmatico-trascendentale di Apel non presenti alcun elemento di novità ed originalità. 28 Da un analogo interesse teorico sono mosse alcune ricerche su Husserl ed il relativismo, che tentano di riconsiderare la posizione husserliana nel contesto del dibattito sul relativismo che attraversa l'epistemologia tardoo post-analitica: cfr. Carr [1979] e Mohanty [1986] e Soffer [1991]. Mal­ grado l'analogia d'interessi, però, questo lavoro si distingue da quei con­ tributi in quanto 1. conformemente alle intenzioni husserliane e contro la tendenza del dibattito epistemologico contemporaneo, tenta di intendere il relativismo come momento di una figura più ampia che Husserl chiama scetticismo (cfr. § 2. 2 nota 6 e 3.3); correlativamente 2. non è tanto volto a trovare in Husserl degli argomenti contro il relativismo o lo scetticismo, per poi rigettarli (Carr) o, al contrario, importarli nel dibattito contempo­ raneo (Mohanty), quanto a mettere in luce il nesso complessivo che l'idea husserliana di filosofia intrattiene con lo scetticismo, che essa confuta e invera.

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Posto infatti che i tentativi di risolvere il problema confutando gli scettici (o i presunti scettici29) con argomentazioni formali o trascendentali mi appaiono, oltre che di «cattivo gusto», privi di un'autentica efficacia, mi sembra che resti aperta e che debba esser percorsa la via di una «Besinnung» storica, che miri al chiarimento dell'ambigua ovvietà del presente filoso­ fico, secondo la quale tentativi di superamento radicale dello scetticismo analoghi a quello avviato da Husserl non sono più praticabili. Occorre, in particolare, chiarire se quest'ovvietà implichi necessariamente un indebolimento delle pretese della filosofia30 o se, al contrario, l'idea di una filosofia «fortis­ sima», che si collochi al di là dell'antitesi fra lo scetticismo e la sua confutazione, possa venir interamente separata dall'idea di una filosofia debole e scetticheggiante, che si colloca al di qua di ogni certezza; occorre chiarire se la via di quella filo­ sofia «fortissima» è in qualche modo praticabile o se essa non finisca invece per precipitare necessariamente la filosofia nello scetticismo.31 Uno degli scopi fondamentali di questo lavoro è appunto quello di preparare (anche se non di portare a termine) questo chiarimento. La ricostruzione storica di uno degli ultimi grandi tentativi di pensare la filosofia come anti­ tesi radicale dello scetticismo, l'individuazione delle ragioni del suo fallimento e, soprattutto, delle possibilità che questo 29 Dubito molto, infatti, che alcuni di coloro che nei tentativi di confuta­ zione dello scetticismo vengono fatti passare per scettici possano essere definiti tali. È questo, ad esempio, il caso di Foucault, che ha irritato più di un confutatore. Foucault, infatti, non produce in primo luogo delle teo­ rie generali della razionalità, ma delle ricerche archeologiche e genealogi­ che. Pensare di sbarazzarsene dicendo che quelle ricerche negano nei pro­ pri risultati la possibilità di se stesse, è come chiudere gli occhi di fronte al diavolo per negare che esista. Che esse non saranno forse possibili, ma certamente sono reali, ed hanno un contenuto che persino i confutatori sanno interpretare. 30 Un indebolimento che, con pochissime eccezioni (tra cui spicca quella di Apel), viene riconosciuto da tutti, anche da chi si impegna a confutare in vario modo il relativismo e lo scetticismo. 31 È pur vero, infatti, che molte delle forme filosofiche del presente che assumono caratteri più o meno scettici e relativisti, si richiamano esplici­ tamente o, addirittura, si presentano come radicalizzazioni dei modelli wittgensteiniano e heideggeriano. Su Wittgenstein e le varie forme di re­ lativismo contemporanee cfr. Marconi [1987] pp. 121-160; su Heidegger e le «forme di critica totale della ragione» cfr. Apel [1987-2].

26 fallimento lascia aperte ed apre dovrebbero permettere di in­ travedere se davvero, dopo un tale fallimento, alla filosofia non rimanga altra scelta che trasformarsi in un più o meno moderato scetticismo, o se essa possa davvero aspirare ad ol­ trepassare l'alternativa fra il porsi in antitesi e l'identificarsi con lo scetticismo. Qualche anticipazione potrà forse rendere più comprensibile un tale proposito. Già il pensiero husserliano tende costantemente verso quello svuotamento di senso del problema dello scetticismo che abbiamo osservato nel primo Heidegger e nel­ l'ultimo Wittgenstein. Tuttavia, in Husserl, il motore di questa tendenza è rappresentato da una radicale volontà antiscettica che Husserl eredita dalla tradizione filosofica del pensiero mo­ derno ed in particolare da Descartes. In altre parole: Husserl tende ad una concezione «fortissima» della filosofia che le as­ segna un compito puramente fenomenologico e la colloca al di là dell'antitesi fra lo scetticismo e la sua confutazione. Verso questa concezione, però, egli è spinto dal proposito di radicalizzare l'ideale moderno di una filosofia che critichi (lo scetti­ cismo) e fondi (le scienze e, più in generale, tutte le validità presupposte dall'atteggiamento mondano). Fra la tendenza fe­ nomenologica del pensiero husserliano e le sue motivazioni filosofico-critiche sussiste una tensione fortissima: ciò che realizza i fini posti da queste motivazioni è la radicalizzazione della tendenza fenomenologica; d'altra parte, però queste mo­ tivazioni potrebbero venir realizzate fino in fondo solo qualo­ ra tale tendenza si radicalizzasse ad un punto tale da soppri­ mere quelle stesse motivazioni. La volontà antiscettica po­ trebbe realizzarsi radicalmente soltanto negandosi; la filosofia potrebbe risultar davvero «critica» solo risolvendosi intera­ mente in fenomenologia. Fra la tendenza di Husserl ad oltre­ passare il problema dello scetticismo e la sua volontà anti­ scettica, fra il lato fenomenologico e quello filosofico dell'idea di filosofia fenomenologica, o - se si vuole - fra l'empirismo ed il cartesianismo husserliani, c'è dunque uno strano nesso. Da una parte, fra questi due lati, vige una stretta correlazione: la fenomenologia è il mezzo di realizzazione - l'unico mezzo di realizzazione - della filosofia; d'altra parte, però, questi due lati appaiono in contraddizione. Di più: la loro intera correla­ zione coincide con l'«esplosione» della loro contraddizione.

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Ora - a mio avviso e come tenterò di mostrare32 - se il tenta­ tivo husserliano di pensare la filosofia come antitesi dello scetticismo fallisce è perché Husserl non perviene a padro­ neggiare interamente la contraddizione implicita in quel ten­ tativo. Anziché riconoscerla, la esorcizza. Egli infatti non tenta mai di rendere interamente visibile il nesso fra il lato fe­ nomenologico e il lato propriamente filosofico dell'idea di fi­ losofia, ma oscilla costantemente fra una prospettiva che insi­ ste sulla loro identità ed una prospettiva che pone invece l'ac­ cento sulla loro differenza, sull'irriducibilità della filosofia alla fenomenologia. Questa oscillazione gli permette di «oc­ cultare» il fatto che la volontà antiscettica può realizzarsi fino in fondo soltanto negandosi. D'altra parte però essa lega indis­ solubilmente l'idea di filosofia allo scetticismo: finché all'in­ terno di quest'idea rimane un'oscurità fondamentale, finché il nesso fra i suoi due lati non è portato all'«evidenza della sua chiara possibilità», tale idea rimane esposta agli attacchi dello scetticismo; e poiché quest'oscurità non è nulla di contingente e non può in alcun modo venir superata, ma è bensì costitutiva dell'idea di filosofia, lo scetticismo diviene l'ombra insoppri­ mibile di quest'idea. Queste anticipazioni si preciseranno e, spero, confermeranno nell'intero terzo capitolo di questo lavoro. Nella forma ancora vaga in cui sono qui delineate, permettono però di accennare a quelle che sono le vie aperte dal fallimento del tentativo hus­ serliano di pensare la filosofia come antitesi dello scetticismo. Da un lato - è ovvio - essa può divenire quello scetticismo che reinsorge costantemente di contro all'idea husserliana di filosofia e che quest'idea non riesce a neutralizzare, perché neutralizzarlo equivarrebbe, per lei, a saltare sulla propria om­ bra. Dall'altro, essa può tentare di oltrepassare il piano del­ l'antitesi fra filosofia e scetticismo e lo può fare in due modi diversi, che si distinguono l'uno dall'altro in ragione della dif­ ferente posizione assunta nei confronti della contraddizione implicita nell'idea husserliana di filosofia. Il primo di questi modi consiste nel sopprimere la contraddizione facendo «esplodere» quest'idea, liberando interamente il lato fenome­ nologico da quello filosofico, o meglio identificando perfet­ 32 Cfr. §§ 3.1-3.20.

28 tamente il secondo con il primo. È questa la via intrapresa da gran parte del pensiero post-husserliano e in particolare dal primo Heidegger, che - come appare soprattutto dalle lezioni marburghesi attorno alla metà degli anni '20 - persegue una «scartesianizzazione» sistematica della fenomenologia, o - se si vuole - una «sprolegomenizzazione» radicale delle Ricer­ che Logiche.33 L'altra via, consiste invece nel riconoscere e tematizzare inglobandola nella stessa idea di filosofia la con­ traddizione fra l'istanza fenomenologica e l’istanza antiscetti­ ca.34 Questo lavoro non chiarisce fino in fondo se queste due vie siano davvero percorribili o se non riconducano invece la filo­ sofia nello scetticismo. Si limita a fame intendere la possibi­ lità a partire dal loro nesso con il fallimento del tentativo hus­ serliano di pensare la filosofia come antitesi dello scetticismo. Tuttavia un'ipotesi di fondo lo sorregge, un'ipotesi che vor­ rebbe d'altra parte contribuire a confermare: l'ipotesi che la prima di queste due vie sia sbarrata; che, cioè, la contraddi­ zione implicita nella volontà antiscettica da cui scaturisce l'idea husserliana di filosofia non possa venir soppressa, e che il tentativo di sopprimerla svincolando il lato fenomenologico della filosofia da quella volontà porti in sé le tracce di questa stessa contraddizione35 ; l'ipotesi insomma che la «scartesianizzazione» heideggeriana della filosofia fenomeno­ logica sia quanto di più cartesiano, di più segretamente carte­ siano, si possa immaginare.36 Il corollario di quest'ipotesi fon33 Cfr. § 3.16. 34 Cfr. § 3.4. 35 A riguardo di un tale tentativo si potrebbe innanzitutto formulare l'os­ servazione triviale, che è stata spesso sollevata in senso critico contro il principio di verificazione neopositivista, e che sembra applicabile ad ogni forma di positivismo (cfr. Putnam [1983] p. 244), e cioè ad ogni prospet­ tiva filosofica che faccia proprio il principio di «andare alle cose stesse» e si inibisca correlativamente ogni interesse normativo: una tale prospettiva è autocontraddittoria, il suo principio fondamentale non è infatti confor­ me al proprio contenuto prescrittivo. 36 Mi sembra che questa ipotesi converga con la tesi sostenuta da Wil­ helm Lütterfelds (Liitterfelds [1993]) a proposito deH'ultimo Wittgen­ stein: il tentativo di Über Gewissheit di individuare un'alternativa fra cartesianismo e scetticismo, liberando la fenomenologia dei «giochi lin­ guistici» dall'istanza fondazionale antiscettica, individuando, in altre pa-

29 damentale è infine questo: se, dopo il fallimento husserliano, alla filosofia rimane aperta, accanto alla possibilità di trasfor­ marsi in scetticismo, un'altra possibilità, questa può solo consistere nel rendere esplicita e nel farsi carico della con­ traddizione insopprimibile che costituisce dalTintemo tanto l'antiscetticismo quanto lo scetticismo. 2. Accanto alle motivazioni filosofiche che ho appena espo­ sto, e da esse non disgiunto, c'è all'origine di questo lavoro un interesse di tipo storico per il nesso della fenomenologia con la filosofia dominante in Germania verso l'inizio del secolo, il neokantismo, e, più in generale, con Kant. Ora, il dibattito storiografico sul problema del nesso fra i due movimenti filosofici ha una lunga storia, che affonda le proprie radici nelle reciproche prese di posizione di Husserl e di alcuni neokantiani37, nel corso della quale si afferma co­ stantemente la tendenza, più o meno sublimata, a valutare una delle due posizioni filosofiche esclusivamente dal punto di vista dell'altra, a sfigurarne concetti e problemi per renderli

role, l'origine della differenza fra vero e falso, certo ed incerto su di un piano indifferente a questa stessa distinzione, non condurrebbe - secondo Liitterfelds - a superare quei paradossi e contraddizioni che sono costitu­ tivi tanto della posizione scettica quanto di quella cartesiana, antiscettica. 37 Mi limito a ricordare, da parte neokantiana, le prese di posizione di Paul Natorp e di Heinrich Rickert. Cfr. le recensioni di Natorp alle L.U. ed alle Ideen I di Husserl (Natorp [1901] e Natorp [1914]) e la sua critica di Husserl nella Allgemeine Psychologie (Natorp [1912], cap. XI, §§ 1114. Inoltre: Rickert [1920] in particolare pp. 28 sgg. e p. 50 sgg. e soprat­ tutto Rickert [1923-1924]. La critica di Husserl al neokantismo, che negli scritti pubblicati è solo sporadicamente accennata, è consegnata soprattutto alle lezioni ed ai ma­ noscritti. Anche qui inoltre essa è spesso implicita nelle obiezioni che Husserl rivolge contro Kant, senza che i possibili destinatari neokantiani vengano esplicitamente citati. È il caso, per esempio, delle lezioni su Die Idee der Phänomenologie (HU II) del 1907, le quali possono venir consi­ derate come una sorta di dialogo con Natorp senza che tuttavia quest'ul­ timo venga nominato. Così la presa di posizione pubblica ed esplicita di Husserl nei confronti del neokantismo rimane essenzialmente affidata al­ l'articolo scritto da Eugen Fink ed autorizzato da Husserl, che risponde alle critiche rivolte alla fenomenologia da parte neokantiana. (Fink [1933]).

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dicibili nel linguaggio dell'altra.38 Questa tendenza può venir in parte spiegata con la constatazione che molte delle distor­ sioni della problematica husserliana ad opera di interpreti e critici neokantiani sono certamente dovute a disinformazione: se gli inediti di Husserl fossero stati accessibili ai suoi critici di parte neokantiana, queste distorsioni non si sarebbero pro­ babilmente verificate. D'altra parte la quasi assoluta dimenti­ canza in cui il neokantismo è caduto nel secondo dopoguerra è senza dubbio all'origine della difficoltà ad appropriarsi delle sue problematiche, una difficoltà che si manifesta negli studi di orientamento husserliano ed heideggeriano. Osservando una storia tanto lunga di incomprensioni, è però difficile esi­ mersi dal sospetto che studi che confrontino il punto di vista neokantiano con quello husserliano senza ridurre l'uno all'altro 38 A questo limite è soggetto anche il documentatissimo studio di Iso Kem su Husserl, Kant ed il neokantismo (Kem [1964]), che costituisce ancora oggi il punto di riferimento fondamentale sull'argomento. Anche Kern infatti, sceglie di illustrare il rapporto fra Husserl e Natprp e d'altra parte fra Husserl e Rickert dal punto di vista della critica rivolta da Hus­ serl contro questi ultimi. (Cfr. in proposito Kelkel [1966]). Osservazioni analoghe si possono fare anche a proposito di uno dei po­ chissimi studi del secondo dopoguerra condotti da un punto di vista neo­ kantiano. Si tratta dello studio di Manfred Brelage: Transzendentalphilo­ sophie und konkrete Subjektivität. Eine Studie zur Geschichte der Er­ kenntnistheorie im 20. Jahrhundert, (in: Brelage [1965] pp. 72-229). n proposito fondamentale di questo lavoro è quello di contrastare la tesi se­ condo la quale la teoria della conoscenza neokantiana sarebbe stata defi­ nitivamente ed in ogni suo aspetto superata dalla fenomenologia, la quale sarebbe stata a sua volta «concretizzata» dall'ontologia e dall'analitica esi­ stenziale heideggeriana, e di reinstaurare il relativo diritto filosofico di una teoria della conoscenza. Le pagine dedicate ad Husserl sono quindi piegate a questo disegno generale, ed il confronto fra la problematica husserliana e quella criticista (cfr. in particolare pp. 119-126) avviene senza che Brelage soppesi fino in fondo tutte le obiezioni rivolte da Hus­ serl contro il criticismo ed in particolare contro il suo metodo «regressivo-costruttivo» (Cfr. ad esempio HU VII pp. 188-191 e pp. 368376). Lo stesso limite grava, a mio avviso anche sulla critica rivolta ad Husserl da Hans Wagner (Wagner [1953-1954]) che costituisce lo sfondo del lavoro di Brelage. Sulla distorsione della problematica fenomenologi­ ca e sulla mancata considerazione delle obiezioni husserliane contro il metodo regressivo-costruttivo del criticismo in Hans Wagner e Wolfgang Cramer cfr. Seebohm [1962] pp. 175-180; e prima ancora Funke [1958] parte in.

31 non siano stati fatti perché non era possibile farli; perché, cioè, non era possibile individuare un terreno comune sul quale ef­ fettuare un tale confronto. È difficile insomma non avanzare almeno il dubbio che, al di là di alcune consonanze termino­ logiche, la fenomenologia abbia ben poco a che fare con Kant e con il neokantismo. Tuttavia, sebbene questo dubbio radicale abbia assai proba­ bilmente un suo fondamento di legittimità, c’è a mio avviso almeno un fatto - teoretico e storico - che impone di limitarne la portata. Da un punto di vita teoretico, anche se è vero che le motivazioni, il senso, i presupposti della problematica feno­ menologica non appaiono confrontabili con quelli della pro­ blematica neokantiana, è innegabile che nella impostazione delle due problematiche sussiste un'analogia formale genera­ lissima. In entrambi i casi, infatti, 1. la problematica filosofica ha due lati, uno logico-gnoseologico ed uno psicologico, e 2. la definizione del nesso fra questi due lati rappresenta un pro­ blema di difficile soluzione, che dà luogo ad una dialettica interna al movimento neokantiano da un lato ed all'idea hus­ serliana di filosofia dall'altro. Ma di più: da un punto di vista storico, all'origine di questa analogia formale si può individua­ re un punto di partenza comune della riflessione metafilosofi­ ca dei neokantiani e di Husserl. Si tratta dell'interpretazione della distinzione kantiana fra due direzioni della deduzione trascendentale delle categorie - la deduzione oggettiva e la deduzione soggettiva39 - data da Paul Natorp nella Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode. 39 La deduzione dei concetti puri dell’intelletto - scrive Kant nella Vor­ rede del 1781 - «ha due parti. L’una riguarda gli oggetti dell’intelletto puro, e deve stabilire e spiegare la validità oggettiva dei suoi concetti a priori; e rientra appunto per ciò essenzialmente nei miei fini. L’altra pas­ sa a considerare lo stesso intelletto puro secondo la sua possibilità e i poteri conoscitivi su cui esso si fonda, per studiarlo quindi nel rapporto soggettivo; e, sebbene quella esposizione sia di grande importanza per lo scopo principale della mia opera, non ne fa tuttavia parte essenziale, per­ ché la questione principale rimane sempre quella: «che cosa, e fin dove, l’intelletto e la ragione, all’infuori di ogni esperienza, possono conosce­ re?» e non già: come è possibile la stessa facoltà di pensare?» (KrV A XVII-XVm KW3 p. 16; tr. it. p. 10). Naturalmente, dal punto di vista dell'esegesi kantiana, la sovrapposizione natorpiana della distinzione logica/psicologia alla distinzione deduzione oggettiva/deduzione soggettiva

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Nella Einleitung in die Psychologie del 1888 e nell'articolo Objektive und subjektive Begründung der Erkenntnis40 del­ l'anno precedente, Natorp distingue due direzioni della fonda­ zione della conoscenza - quella oggettiva propria della critica della conoscenza e quella soggettiva costitutiva della psicolo­ gia - che corrispondono ai due lati della deduzione trascen­ dentale distinti da Kant nella Vorrede alla prima edizione della Critica della ragion pura41 Queste due direzioni di ri­ cerca sono contrapposte, ma proprio per questo complemen­ tari. Il punto di partenza di entrambe è il fatto - o meglio il fieri - della conoscenza, la quale viene intesa come un proces­ so di oggettivazione, in cui la soggettività - e cioè il moltepli­ ce fenomenico - viene progressivamente ricondotta all'unità oggettiva della legge. A partire dal fatto di questo processo, la critica della conoscenza e la psicologia percorrono strade op­ poste: il loro nesso con la tendenza costruttivo-obiettivante del processo della conoscenza è simmetricamente opposto. Nella misura in cui ricerca le condizioni di possibilità, i presupposti ultimi della validità della conoscenza, la fondazione oggettiva della conoscenza prosegue il movimento costruttivoobiettivante del processo della conoscenza in direzione dell'oggettività della legge: Interrogarsi sui fondamenti oggettivi ultimi della conoscenza non significa altro che spingere all’estremo la riduzione dei fe­ nomeni a leggi, non significa altro che voler perfezionare il pro­ cesso di oggettivazione sino alle leggi più alte, che determinano originariamente, cioè a partire dall’ultimo fondamento oggetti­ vo, ogni oggettività della conoscenza.42 appare dubbia. Per una discussione delle varie interpretazioni di questa distinzione fra i due lati della deduzione effettuata nella prima edizione della KrV cfr. Cari [1992] pp. 42-54. 40 Natorp [1888] e Natorp [1887]. In una nota dei Prolegomena (Cfr. L.U.I A 156 B 156 nota 2; HU XVm p. 160; tr. it. p. 198), Husserl rico­ nosce l'importanza di questi scritti di Natorp per la formazione del suo pensiero. Sul rapporto di Husserl con Natorp cfr. Dussort [1959] e Kem [1964] pp. 321-373. Per un confronto fra l'idea husserliana di psicologia fenomenologica e ^'Allgemeine Psychologie di Natorp vedi anche Arlt [1985], 41 Cfr. Natorp [1888] § 15 pp. 128-129. 42 Natorp [1888] p. 105.

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La fondazione soggettiva si muove invece in senso inverso: a partire dall'unità oggettiva della legge, percorre a ritroso i vari gradi dell'oggettivazione in direzione del molteplice fenome­ nico, ricostruendo quella soggettività che nel processo della conoscenza si è progressivamente oggettivata: «Indagare sul chiarimento soggettivo della coscienza della verità significa al contrario percorrere il processo dell’oggettivazione a ritroso, attraverso le sue varie fasi, sino a conseguire ciò che, prima di ogni obiettivazione, rappresentava il dato nella coscienza.»43 Nel definire il nesso fra critica della conoscenza e psicolo­ gia, Natorp non si limita però ad affermarne la complementa­ rità. In realtà fra i due lati della fondazione della conoscenza vige un rapporto di subordinazione: il compito della psicolo­ gia rimane, rispetto a quello della critica della conoscenza un compito derivato. Il processo di ricostruzione della sogget­ tività, infatti, presuppone sempre che sia già avvenuto il pro­ cesso inverso di obiettivazione. È solo ripercorrendo a ritroso, attraverso le sue varie fasi, questo processo, che può venir in qualche modo messa in evidenza, può venir colta, afferrata nella conoscenza psicologica, quella soggettività che, in sé, non può mai venir oggettivata e, quindi conosciuta. Detto al­ trimenti: l'oggetto della psicologia - la soggettività - non può venir conosciuto nella sua immediatezza. Così la psicologia, per avvicinarsi al proprio oggetto, deve adottare un metodo peculiare: il metodo di ricostruzione. Questo metodo le per­ mette di accedere, in una certa misura, alla soggettività, che le appare come l'inverso della «dis-soggettivazione» implicita nel processo di obiettivazione della conoscenza; d'altra parte, però esso la rende dipendente dall'effettivo esplicarsi di questo processo.44 Con questa distinzione fra due lati della fondazione del sa­ pere e con l'individuazione del loro nesso, Natorp poneva un problema che, superata la fase iniziale del neokantismo (nella quale sembrava che la soluzione di ogni problema filosofico dovesse consistere in un fiero antipsicologismo e quindi nella semplice affermazione della differenza della critica della co­ noscenza rispetto alla psicologia) sarebbe «esploso» ingene43 Natorp [1888] p. 105. 44 Cfr. Natorp [1888] pp. 96-101. Cfr. anche Natorp [1887] pp. 283-285.

34 rande una dialettica interna al movimento neokantiano.45 Oltre che al neokantismo, però, Natorp il problema lo pose anche ad Husserl, il quale, pur interpretando in modo radicalmente dif­ ferente da Natorp il compito della critica della conoscenza e quello della psicologia, non rinunciò ad inglobare nella pro­ pria idea di filosofia fenomenologica la distinzione fra questi due lati, e fu così costretto a rimeditarne costantemente il nes­ so. A partire dalle L.U., ancor prima che Husserl abbia elabo­ rato un'idea di filosofia, sino alla Krisis il problema del rap­ porto fra la direzione psicologica e quella gnoseologica delle ricerche fenomenologiche, del rapporto fra psicologia feno­ menologica o fenomenologia pura e filosofia fenomenologicotrascendentale, rappresenta il suo problema metafeno­ menologico e metafilosofico fondamentale. Nel terzo capitolo di questo lavoro ci occuperemo, oltre che della questione dello scetticismo, anche di questo problema, che, come vedremo46, non è che una variazione o, se si vuole, una concretizzazione di quella questione, la forma in cui essa, storicamente, si pone ad Husserl. E lì ripercorreremo da vicino i tentativi husserliani di risolverlo, dalle L.U. alla Krisis. Quale sia l’orientamento fondamentale di questi tentativi (e quale l’ostacolo che si frappone al loro successo) è però già implicito nel duplice spostamento che Husserl compie nei confronti di Kant, del neokantismo e, più in particolare, di Natorp. Innanzitutto Husserl critica il metodo «regressivocostruttivo»47 che Natorp - ed in generale i neokantiani 45 Cfr. innanzitutto la rielaborazione delle idee esposte negli scritti del 1887 e 1888 avviata da Natorp stesso con la Allgemeine Psychologie (Natorp [1912]; cfr. anche Natorp [1913]). Cfr. inoltre la discussione di Heinrich Rickert con Emil Lask (Rickert [1909]) e di Bruno Bauch con Richard Hönigswald (Bauch [1926] e Hönigswald [1926]). Nell'ambito della Scuola di Marburgo è Ernst Cassirer (cfr. in Cassirer [1923-1929] il primo paragrafo deli'Introduzione al voi. Ili ed il primo capitolo della prima parte dello stesso volume) a porre in discussione il nesso fra «deduzione oggettiva» e «deduzione soggettiva» indicato da Natorp: la sua idea di una filosofia delle forme simboliche capovolge, infatti, il rap­ porto di subordinazione della seconda alla prima. Su tutto ciò cfr. Savi [1992] pp. 212-234. 46 Cfr. in particolare §§ 3.2-3.3. 47 Sul concetto di metodo «regressivo-costruttivo» cfr. Boehm [1959-1] pp. 53-71; Seebohm [1962] pp. 29-33; Kem [1964] pp. 94-110.

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considerano costitutivo della teoria della conoscenza; il meto­ do, cioè, che risale dal fatto della conoscenza alle sue condi­ zioni di possibilità, deducendo queste condizioni da quel fatto. Husserl, da un lato, rimprovera a questo metodo una mancan­ za: esso si muove nel pensiero vuoto, simbolico e manca quindi dell'evidenza dell'intuizione.48 Dall'altro, però, egli va più a fondo e svolge una critica di stile nietzschiano dei pre­ supposti di origine etica e teologica che egli intravede dietro l'applicazione di tale metodo: dietro il metodo regressivocostruttivo si nasconde in realtà la metafisica della concilia­ zione fra interpretazione causale ed interpretazione finale del mondo, la metafisica della conciliazione fra necessità naturale matematico-meccanica e libertà spirituale umana e divina: Quando nel diciannovesimo secolo, prendendo le mosse dall’interpretazione della critica kantiana della ragione, si parla di «metodo trascendentale», si intende con ciò un peculiare me­ todo regressivo e costruttivo, che ricerca le «condizioni di pos­ sibilità» della conoscenza obiettivamente valida chiedendosi: che cosa è necessario presupporre in merito alla soggettività conoscente (...) affinché risulti possibile e comprensibile la co­ noscenza di un’oggettività vera, nella forma di verità e di scien­ ze in sé valide? Ricostruttiva in un senso analogo è fin dall’inizio la metafisica della conciliazione, e mi sembra che il ruolo determinante che la ricostruzione ha acquisito per la teoria della conoscenza abbia la sua fonte storica originaria in questa metafisica ricostruttiva.49

La filosofia non può far proprio questo metodo regressivo-costruttivo, perché essa non può assumere acriticamente alcun dogma precostituito: essa non può semplicemente presuppor­ re la validità di un fatto e dedurre da questo fatto la necessità delle sue condizioni di possibilità; il suo compito non è quello di dedurre dal fatto della conoscenza le sue condizioni di pos­ sibilità, bensì quello di mostrare e chiarire tale possibilità. Es­ sa, pertanto, ha bisogno di un metodo progressivo-intuitivo.50 In secondo luogo, Husserl contesta il presupposto natorpiano 48 Cfr. ad esempio Krisis § 30 HU Vip. 118 tr. it. p. 145. 49 HU Vnipp. 189-190. (Corsivo C.S.). 50 Cfr. HU Vili p. 191.

36 che la soggettività non sia conseguibile nella conoscenza e possa solo venir «ricostruita», percorrendo a ritroso il proces­ so di oggettivazione della conoscenza.51 Per Husserl la sog­ gettività è un campo di fenomeni ed è attingibile ed indagabile intuitivamente mediante un metodo peculiare: la riduzione fe­ nomenologica, la quale, in quanto epoche apre l'accesso alla soggettività pura e, in quanto riduzione vera e propria, permet­ te di indagarla intuitivamente. Con il primo rimprovero, Husserl trasforma radicalmente, ri­ spetto a Natorp, il concetto di teoria della conoscenza; con il secondo quello di psicologia. Entrambi i rimproveri si muo­ vono nella stessa direzione. Al metodo costruttivo della critica della conoscenza ed al metodo ricostruttivo della psicologia della conoscenza, Husserl sostituisce un unico e medesimo metodo: progressivo-intuitivo, fenomenologico. Questa tra­ sformazione non l'induce tuttavia ad abolire la distinzione fra i due lati. Egli semplicemente ne trasforma il nesso. In Natorp la fondazione soggettiva della conoscenza era dipendente da quella oggettiva: il suo compito era derivato rispetto a quello di questa e lo presupponeva. In Husserl questo nesso si capo­ volge: è il compito filosofico-gnoseologico che presuppone quello psicologico-fenomenologico. Questo tuttavia non im­ plica né la riduzione né la subordinazione del compito filoso­ fico a quello psicologico. Fra i due lati Husserl instaura invece un rapporto di mezzo a fine: la psicologia diviene il mezzo di realizzazione - l'unico mezzo di realizzazione - della critica della conoscenza; o, in una formulazione più matura, la feno­ menologia pura, l'indagine progressivo-intuitiva della sogget­ tività resa possibile dall'applicazione del metodo della ridu­ zione fenomenologica, diviene il mezzo di concretizzazione delle motivazioni filosofiche; il chiarimento fenomenologico della possibilità della conoscenza diviene la via obbligata di ogni fondazione filosofica della conoscenza. Questo spostamento rispetto a Natorp ed al neokantismo la­ scia tuttavia aperti degli interrogativi: nella critica che Husserl rivolge contro Kant ed il neokantismo non è infatti implicita la necessità di abolire la distinzione fra i due lati - quello psico­ logico-fenomenologico e quello critico-gnoseologico - della 51 Cfr. Kem [1964] pp. 366-373.

37 filosofia? La pretesa di tener fermo un lato filosofico-critico della filosofia, irriducibile a quello fenomenologico, non rap­ presenta forse un ultimo, sublimato residuo di quella metafisi­ ca della conciliazione, che Husserl scorge dietro il metodo regressivo-costruttivo del neokantismo? Tenteremo di riformu­ lare con più precisione e di rispondere a queste domande nel­ l'intero terzo capitolo. Ad esse abbiamo tuttavia già dato im­ plicitamente una risposta, accennando, nel primo paragrafo di questa introduzione, al rapporto di Husserl con il pensiero post-husserliano: l'idea husserliana di filosofia racchiude una contraddizione fra il suo lato fenomenologico e l'istanza filosofico-critica, una contraddizione che il pensiero post­ husserliano tenterà di sopprimere e che, come ora appare, rap­ presenta, nel pensiero husserliano, il residuo (neo)kantiano, l'ultima traccia di metafisica ricostruttiva.

CAPITOLO SECONDO MODELLI CLASSICI DI SUPERAMENTO DELLO SCETTICISMO

1. Introduzione. 1. Vogliamo ora preparare il terreno per la ricostruzione del tentativo husserliano di pensare la filosofia come superamento radicale dello scetticismo, cui sarà dedicato il terzo capitolo. A questo scopo, in questo secondo capitolo, verranno delineati i tratti fondamentali della figura dello scetticismo e descritti al­ cuni dei tentativi classici di superarlo. Nel terzo capitolo risul­ terà così possibile definire ex contrario la posizione husserlia­ na, delimitandola rispetto ai modelli classici individuati e mettendone quindi in luce sia la continuità sia la discontinuità rispetto alla tradizione. I modelli qui descritti, che ho chiama­ to rispettivamente «formale», «trascendentale» e «dialettico»1, rappresentano dunque gli strumenti ermeneutici utilizzati in modo più o meno esplicito per interrogare il testo husserliano e per questo scopo sono pensati sin dall'inizio. Questo signifi­ ca che non rappresentano semplicemente il terreno su cui ver­ rà effettuata la ricostruzione della posizione husserliana, ma anche il terreno appositamente preparato per quella ricostru­ zione. Su questo circolo vale la pena di soffermarsi, per chiari­ re (I) il senso e (II) i limiti di questo schizzo delle vie classi­ che di superamento dello scetticismo. I. Lo schizzo dei modelli è il terreno della ricostruzione della posizione husserliana. Questo significa innanzitutto che lo schizzo elabora i concetti di cui s'avvarrà quella ricostru­ 1 Questi termini, naturalmente, vanno intesi esclusivamente nel senso as­ segnato loro nelle pagine che seguono. Il termine «trascendentale», in particolare, viene usato in un senso molto ampio, irriducibile a quello kantiano, tant'è vero che come esempio del modello trascendentale viene addotto Descartes, (cfr. § 2.4.). D'altra parte, anche il termine «dialettico» viene usato in un'accezione solo parzialmente riconducibile a quella he­ geliana (cfr. § 2.6 nota 89).

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zione e ne chiarisce i nessi. Ma significa anche e soprattutto che illustra e rende plausibile la tesi generale di cui s'alimenta l'intero esame della storia del pensiero husserliano: l'idea che il tentativo husserliano di pensare la filosofia come supera­ mento radicale dello scetticismo fallisce perché Husserl non giunge a padroneggiare la contraddizione implicita in quel tentativo né a pensare il nesso fra lo scetticismo e la filosofia come nesso dialettico.2 I tre modelli che verranno individuati e descritti non rappresentano infatti tre possibilità di supera­ mento dello scetticismo distinte ed ugualmente giustificate. Essi - è vero - verranno illustrati prendendo le mosse da tre grandi figure storiche: Platone, Descartes e Hegel. E tuttavia non vanno intesi come la via platonica, la via cartesiana e la via hegeliana di superamento dello scetticismo, bensì come momenti del progressivo approfondimento delle difficoltà in cui s'avvolge il tentativo di confutare lo scetticismo. I modelli, infatti, stanno in un ordine che non è né casuale né puramente cronologico, ma che riveste già un significato teoretico: il primo - il modello formale - è definito dalla maggior «volontà confutatoria» e da un inveramento della scepsi prati­ camente nullo; l'ultimo - il modello dialettico - racchiude un minimo di «volontà confutatoria» ed un massimo di invera­ mento; il modello trascendentale oscilla invece fra «volontà confutatoria» ed inveramento tentando di conciliarli. E dietro quest'ordine sta la tesi generale che ciascuna di queste vie s'invera nella successiva e che la via dialettica costituisce il necessario punto d'approdo e la sintesi delle altre due. Vediamo più da vicino. Le tappe attraverso cui passerà l'illu­ strazione di questa tesi generale sono sei: (i) Il punto di partenza è la distinzione, all'interno della figu­ ra dello scetticismo, di due momenti - un momento analitico ed un momento decisionale - e la definizione del loro nesso. In quanto analisi, lo scetticismo consiste nel mostrare la relatività di pretese oggettività e validità, o - se si vuole - nel mostrare come a tali pretese validità possano venire contrap­ poste validità ed oggettività di «ugual forza» e tuttavia con­ trastanti. Lo scetticismo in quanto analisi è, insomma, l'eser­ cizio del metodo dell'isostenia. Lo scetticismo in quanto deci­ 2 Cfr. §§ 1.1 e 3.4.

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sione consiste invece nella sospensione del giudizio, nel met­ tere in dubbio che si diano davvero, oltre che delle pretese va­ lidità ed oggettività, anche delle validità ed oggettività au­ tentiche: esso, in una parola, è epoché? I due momenti stanno tra loro in un rapporto di mezzo a fine: l'analisi serve ad ar­ gomentare a favore della decisione. L'analisi tuttavia non ren­ de assolutamente necessaria tale decisione, come mostra il fatto che esistono anche dei non-scettici e persino degli anti­ scettici. L.'epoche non si fonda dunque soltanto su delle moti­ vazioni, ma presuppone anche la libertà di sospendere l'as­ senso e la decisione dello scettico di fare un certo determinato uso di questa libertà.3 4 (ii) La seconda tappa dell'illustrazione della nostra tesi gene­ rale, consiste nel presentare il modello formale di confuta­ zione dello scetticismo come un modello che misconosce questa struttura della figura scettica, in quanto 1. lascia inte­ ramente fuori dal proprio campo visivo il momento analitico dello scetticismo e correlativamente 2. riduce l'intero scettici­ smo al secondo momento, stravolgendone però il senso, nella misura in cui non interpreta Vepoche come decisione ma come 3 Sono questi i due momenti costitutivi della «definizione» di scettici­ smo data da Sesto Empirico negli Schizzi pirroniani: «Lo Scetticismo esplica il suo valore nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intelletti­ ve in qualsivoglia maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, innanzitutto, alla sospensione del giudizio, quindi, aH'imperturbabilità.» (Ip.Pirr. 1,4 tr. it. p. 4). 4 Questo fatto permette allo scettico di tenere, per così dire, il piede in due scarpe: da un lato, per impensierire il dogmatico, presenta ì'epoché come un risultato necessario della sua critica; dall'altro - quando gli si dice che se ì'epoché fosse davvero fondata non potrebbe essere fondata (perché allora si darebbe almeno qualche ragione valida) - egli afferma che ì'epoché è una decisione sua, che riguarda soltanto lui, la sua sogget­ tività ed il suo arbitrio. Secondo Hegel, la coscienza scettica consiste pre­ cisamente in quest'oscillazione: «Essa professa di essere una coscienza del tutto accidentale e singola (...). Ma proprio come ha per tal modo a se stessa il valore di una vita singola, accidentale e in effetto animalesca, il valore di un'autocoscienza smarrita, essa si riinnalza anche, al contrario, all'autocoscienza universale uguale a se stessa’, è infatti la negatività e singolarità di ogni differenza.(...) Questa coscienza è dunque questa in­ consapevole pappolata deU'oscillare dall'estremo dell'autocoscienza uguale a se stessa all'altro, quello della coscienza accidentale confusa e ingenerante confusione.» (HW 3 pp. 161-162; tr. it. voli p. 172).

42 tesi, come un'affermazione che pretende di esser necessaria. È su questa erronea interpretazione che si fonda la possibilità di rovesciare la posizione scettica applicandola a se stessa. (iii) La terza tappa consiste nell'esaminare le conseguenze di questa cattiva interpretazione. Da un lato l'argomento formale va incontro ad uno scacco: giacché Yepoché non è una tesi, ma una decisione che, pur essendo motivata, è anche liberamente presa, lo scettico conseguente può rifugiarsi nel «per sé», può cioè dire che, quando mette in dubbio che si diano oggettività e validità autentiche, esprime solo la propria opinione e non una pretesa verità e che l'onere di dimostrare che, al di là delle opinioni, si dà anche verità, è di chi sostiene che si danno delle verità e non di chi ha solo opinioni. Questo di solito fa perdere la pazienza al confutatore formale, il quale, per far fronte al rifugiarsi nella soggettività estrema dello scettico estremista, finisce per rifugiarsi a sua volta nell'insulto e nella violenza: dirà allora che lo scettico estremista non è un uomo ma una «pianta», o che egli non rappresenta più un problema filosofico ma un problema psicopatologico, o, nel migliore dei casi, ricorrerà come Platone all'arma potente della scrittura ironica. D'altro lato, la confutazione formale si preclude la possibilità di valutare la portata dei singoli argomenti che lo scetticismo, in quanto analisi, fa valere contro le pretese va­ lidità ed oggettività; si preclude insomma la possibilità di cogliere il contenuto positivo, liberatorio, dello scetticismo e di fame buon uso. Essa rimane imprigionata nel gran vuoto della confutazione di principio e non ha occhi per le enormi potenzialità della critica scettica. (iv) La descrizione del modello trascendentale - che rappre­ senta la quarta tappa del nostro percorso - mostra come questo modello si fondi su di un superamento del secondo dei limiti dell'argomento formale che abbiamo individuato. Il modello trascendentale - insomma - scopre che lo scetticismo ha an­ che una funzione positiva, e che va quindi inverato e non semplicemente confutato. Esso infatti sa scorgere, al di là delYepoché, gli argomenti dello scetticismo in quanto analisi e di questi stessi argomenti si serve per far emergere qualcosa che sia davvero indubitabile, in quanto sfugge ai tentacoli della critica scettica, e che può quindi servire da base per il supera­ mento dello scetticismo stesso.

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(v) In realtà però - e veniamo così alla quinta tappa - anche la via trascendentale va incontro ad uno scacco. E questo le accade, perché anch'essa non riesce a superare del tutto il pri­ mo dei limiti dell'argomento formale. Anch'essa, cioè, non scorge interamente il carattere decisionale dell’epoché e la in­ tende come una tesi che pretende di rappresentare la conse­ guenza necessaria dell'attività critico-analitica della scepsi: per questo le sembra che sia sufficiente mostrare o costruire qualcosa che sia tale, che sia precisamente tale, da non cadere sotto i colpi di quella critica, per mostrare che la tesì-epoché non segue da essa ed è quindi infondata. Infatti, per quanto pa­ radossale possa sembrare, questo modo di procedere avrebbe in sé la garanzia del proprio successo solo se Vepoché fosse davvero un risultato necessario dell'esercizio del metodo delYisostenia e non implicasse alcuna decisione: solo in questo caso sarebbe autogarantito che 1. il metodo d&Wisostenia (che ha prodotto Vepoché scettica che la via trascendentale vuole rovesciare) sia stato esercitato in modo davvero universale, che lo scetticismo in quanto analisi (da cui la via trascendenta­ le prende le mosse) abbia davvero esaurito tutte le proprie potenzialità e si sia interamente esplicato applicandosi ad ogni possibile contenuto; e che quindi 2. il residuo sopravvissuto a quella critica sia inattaccabile per ogni possibile critica e per questo autenticamente indubitabile. Ma in realtà, poiché fra lo scetticismo in quanto analisi e lo scetticismo in quanto epoché c'è uno baratro che solo la libera decisione di compiere Vepoché può colmare, nessuna serie finita di argomenti scettici esaurisce mai tutte le potenzialità dello scetticismo; e la via trascendentale che pretende di utilizzare una tale serie finita per superare lo scetticismo non riesce in ultima analisi a libe­ rarsi di esso.

(vi) L'ultima tappa consiste nel far intravedere la possibilità di una via - la via dialettica - che riconosca allo scetticismo un significato positivo amplissimo (forse superiore a quello che lo scetticismo stesso si concede nella propria autointerpre­ tazione), in quanto è consapevole 1. del nesso fra epoché e li­ bertà e quindi 2. del fatto che nessuna particolare forma o fa­ miglia di forme scettiche esaurirà mai tutte le potenzialità dello scetticismo. Posta questa consapevolezza, infatti, è facile trarre la conclusione che lo scetticismo non può esser superato

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tutto in una volta ed in maniera completa, e che il compito di una considerazione filosofica dello scetticismo non è quello di confutarlo, ma di lasciare che si esplichi nei suoi molti argo­ menti e di mostrare la parzialità e la contingenza che ciascuno di questi condivide con gli obiettivi polemici contro cui si rivolge. In breve: la via dialettica è la scoperta del fatto che, poiché la posizione scettica non si lascia fondare, essa non può neppure venir confutata. O, se si vuole, la scoperta del fatto che il compito di una critica filosofica dello scetticismo non è quello di confutarlo, bensì di mostrare che esso non è mai abbastanza scettico. Ora, con quest'ultima tappa raggiungeremo un osservatorio a partire dal quale, nel terzo capitolo, individueremo e misurere­ mo le aporie implicite nell'idea husserliana che la filosofia debba rappresentare un definitivo e radicale superamento dello scetticismo, che - come vedremo - ci appariranno quasi interamente riconducibili alle difficoltà del modello trascen­ dentale. Sembra però che il prezzo da pagare per conquistare un tale osservatorio esterno alla filosofia husserliana, sia in fondo la capitolazione di fronte allo scetticismo. In altre pa­ role: questa traccia del percorso lungo il quale stiamo per in­ camminarci potrebbe indurre a ritenere che la sua meta sia l'abbandono di ogni speranza di superamento dello scettici­ smo, l'inibizione di ogni «volontà confutatoria». Se così fosse, ci ridurremmo a dire che il tentativo husserliano di pensare la filosofia come antitesi allo scetticismo è fallito perché un ten­ tativo del genere è impossibile e, per questa ragione, doveva fallire. Che non sia questa la nostra tesi dovrebbe già esser impli­ cito in quel che abbiamo detto nell'introduzione sul rapporto fra impossibilità ed inutilità della confutazione dello scettici­ smo.5 Tuttavia - bisogna riconoscerlo - l'impressione che la via dialettica, così come la descriveremo, implichi una ri­ nuncia all'idea di un superamento definitivo dello scetticismo non è ingiustificata, bensì solo unilaterale. Quando si guardi il punto d'approdo di questo schizzo dei modelli classici dal punto di vista del suo punto di partenza, può effettivamente sembrare che si finisca per annullare la «volontà confutatoria» 5 Cfr. § 1.1.

45 e per capitolare di fronte allo scetticismo; in realtà, però, que­ sta rappresentazione appare del tutto corretta solo quando 1. si astragga dal fatto che la soppressione della «volontà confuta­ toria» è in realtà un'autosoppressione; e 2. si prendano per buoni e si continui a tener fermi tutti i presupposti su cui si fonda l'intero percorso attraverso i modelli. Altrimenti, la conclusione cui questo percorso approda può anche venir letta come un invito a mettere in discussione questi presupposti e ad uscire dal tipo di impostazione in cui l'intera descrizione dei modelli si muove. Ma con questo veniamo ad occuparci dei limiti di questa de­ lineazione dei modelli classici di superamento dello scettici­ smo e scivoliamo quindi nell'altro lato del suo nesso con la ri­ costruzione della posizione husserliana. II.La ricostruzione della posizione husserliana orienta lo schizzo dei modelli. Questo significa che l'impostazione hus­ serliana del problema dello scetticismo esercita un influsso sulle scelte teoretiche che effettueremo nella descrizione dei modelli, la quale - è vero - approda alla costruzione di un punto di vista esterno alla posizione husserliana, e tuttavia non si limita a contrapporglielo come alcunché di estrinseco, ma lo fa emergere dai suoi stessi presupposti, o, per meglio dire, dai presupposti che ha in comune con il modello formale e soprat­ tutto con il modello trascendentale. Quel punto di vista - la via dialettica - rimane dunque legato a questi presupposti, e appare qui solo come il momento della loro crisi, non ancora come il momento del loro superamento e della loro sostituzio­ ne. Questo pesante limite teoretico può almeno venir tratteggia­ to, indicando alcune delle astrazioni che lo schizzo dei modelli importa dall'impostazione husserliana del problema dello scetticismo; corrispondono alle quattro grandi astrazioni del­ l'idea dalla storia (i), della teoria dalla prassi (ii), del­ l'atteggiamento conoscitivo da altri «interessi» umani (etici, religiosi, estetici, ecc.) (iii), dell'intelletto dalla volontà (iv): (i) Il primo presupposto della nostra delineazione dei mo­ delli è che dello scetticismo si possa parlare in generale, fa­ cendo astrazione dalle sue figure particolari, o, se si vuole, che al di sopra della storia dello scetticismo aleggi un'idea dello scetticismo in quanto tale, un eidos dello scetticismo descri­

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vibile e criticabile in sé e per sé. (ii) Il secondo presupposto è che una sorta di teoria scettica si lasci isolare e discutere al di fuori della prassi concreta del dialogo fra lo scettico e l'antiscettico, che gli argomenti che lo scettico mette innanzi quando chiacchiera con l'antiscettico possano esser consolidati in tesi in sé sussistenti. (iii) Il terzo presupposto è che la critica scettica della cono­ scenza si lasci astrarre dalle altre direzioni della critica scet­ tica (morale, estetica, religiosa ecc.) e soprattutto dall'atteggia­ mento scettico inteso come «forma di vita». (iv) Il quarto presupposto consiste nell'idea che la semplice apprensione intellettuale della materia del giudizio sia un atto distinguibile da quell'atto della volontà che è l'assenso; e che quindi il giudizio possa venir sospeso, che la sua sospensione sia insomma affare della libertà del giudicante. Come vedremo, il peso di queste astrazioni si farà sentire. Sebbene la nostra rappresentazione le tenga costantemente ferme, in vari momenti (ma soprattutto nella descrizione della via dialettica, che finirà per sospendere la prima) apparirà co­ me tali presupposte astrazioni possano esser messe in di­ scussione dallo scettico e tendano quindi ad entrare in crisi. Questo tuttavia vale solo per le prime tre, non per l'ultima: ché questa non è solo un presupposto husserliano (e di conse­ guenza anche nostro), ma è quel presupposto che accomuna la posizione husserliana alla posizione scettica. Nello scetticismo non si trova quindi nessuna spinta a superarla. E forse - pro­ prio per questo - è la più radicale, è l'astrazione in cui hanno origine tutti gli altri presupposti husserliani e la stessa idea che lo scetticismo sia anrifilosofia.

2. Dogmatismo e scetticismo.

2 . Compiamo dunque una prima astrazione: lo scetticismo che qui ci interessa è lo scetticismo che pone in dubbio la possibilità della conoscenza, in particolare della conoscenza filosofica e, quindi, della filosofia stessa, nella misura in cui pretende d'esser conoscenza. E subito una seconda astrazione: questo scetticismo consiste 1. in un'attività fenomenologica volta ad illustrare la soggettività della conoscenza e 2. nella

47 conseguente decisione di metterne in dubbio la pretesa ogget­ tività.6 Dei termini «soggettività», «oggettività» e «conoscen­ za» non si può dare definizione generale. Ogni forma partico­ lare di scetticismo, infatti, ne assume il contenuto concreto dall'obiettivo polemico contro cui rivolge la propria critica. Questo, tuttavia, non significa che 1. non si diano alcuni carat­ teri distintivi costanti della soggettività (mutevolezza, relativi­ tà, contingenza, ineffabilità ecc.)7 e dell'oggettività (perma­ nenza, validità intersoggettiva, assolutezza, necessità, dicibili6 E comune - soprattutto all'interno dell'epistemologia analitica - l'identi­ ficazione dello scetticismo con il dubbio sull'esistenza del mondo e degli oggetti al di fuori del soggetto percipiente (cfr. ad es. Stroud [1979] e Strawson [1985] pp. 2-3 ) ed eventualmente l'affermazione che esso rap­ presenta una conseguenza del realismo metafisico (cioè della teoria inge­ nua della verità come corrispondenza) che sorge e cade insieme a questo (cfr. ad es. Preti [1953] pp. 127-143; Preti [1974],e Putnam [1981] capp. Mil). Ora questa nozione di scetticismo - che Husserl nei Prolegomena denomina «metafisica» (L.U.I A 113 B 113 HU XVHI p. 121; tr. it. p. 129) - non è equivalente alla nostra, ma ne rappresenta piuttosto un caso particolare. Accanto a questo caso, noi includiamo nella nozione di scet­ ticismo anche e soprattutto quelle forme che nel dibattito su scetticismo e relativismo della filosofia analitica cadono sotto l'etichetta di «relativis­ mo», e che rappresentano delle varianti della tesi protagorea dell'«uomomisura». Queste forme non pongono in dubbio la pretesa irriducibilità dell'oggetto percepito alla percezione, ma pongono in dubbio altre pretese irriducibilità (ad esempio l'irriducibilità del soggetto trascendentale al soggetto umano concreto, l'irriducibilità dell'idea limite di un accordo fra tutti i soggetti umani alla nozione concreta dell'accordo e del suo valore propria di alcuni gruppi umani determinati, ecc.). Quest'estensione del termine scetticismo corrisponde a quella che gli assegna Husserl, il quale ritiene che le varie forme di relativismo (relativismo individuale, antropo­ logico, culturale, psicologismo, storicismo) siano in realtà delle forme di scetticismo. (Cfr. L.U.I A 114 B 114 sgg. HU XVIII p. 122 sgg.; tr. it. p. 130 sgg.). 7 II termine «soggettività» non indica dunque il soggetto umano concreto e neppure il soggetto trascendentale kantiano. L'identificazione fra la «soggettività» come la vogliamo intendere ed il soggetto umano concreto è tuttavia possibile, quando a fungere da oggettività siano gli oggetti esi­ stenti all'esterno di questo soggetto; l'identificazione con il soggetto tra­ scendentale kantiano è invece errata: il soggetto trascendentale presenta i caratteri di permanenza, necessità, assolutezza ecc. che sono costitutivi dell'oggettività. Quando, nel discutere il modello trascendentale (cfr. §§ 2.4-5), ci riferiremo ad un tale Soggetto in realtà oggettivo scriveremo il termine «Soggettività» con l'iniziale maiuscola.

48 tà ecc.); e non significa nemmeno che 2. le molte e variopinte figure dello scetticismo non presentino una struttura comune che governa i rapporti fra lo scetticismo come attività fenome­ nologica e lo scetticismo come decisione, una struttura, cioè, in cui le relazioni funzionali fra i concetti di «soggettività», «oggettività» e «conoscenza» sono definite indipendentemen­ te dal significato determinato, che tali concetti ricevono all'intemo dei diversi universi di discorso scettici. Tentiamo, dunque, di enucleare questa struttura. Le poche osservazioni che ho appena fatto già indicano una prima fon­ damentale caratteristica: lo scetticismo è una figura umbratile, è indissolubilmente legato ad un obiettivo polemico, dal quale ricava la definizione dei propri strumenti teorici fondamentali. Esso, in altre parole, presuppone sempre una determinata modellizzazione della conoscenza - che, nella misura in cui è su­ scettibile di critiche scettiche, chiameremo dogmatica - e si muove, sia pure per scardinarle, aH'intemo delle elaborazioni concettuali di quest'ultima. Quest'umbratilità essenziale dello scetticismo, lungi dall'escludere la possibilità di individuare altre caratteristiche co­ muni alle sue varie forme, indica la via da seguire per determi­ narle: la struttura del pensiero scettico sarà evidenziabile solo a partire dal suo intreccio, dal suo fluire e riconfluire nel mo­ vimento del pensiero dogmatico. È dunque inevitabile prende­ re le mosse dalle modellizzazioni dogmatiche della cono­ scenza e dalle loro caratteristiche strutturali. Ora, ciascuna di tali modellizzazioni consiste essenzialmente 1. nell'asserzione di una differenza irriducibile fra l'oggettività» e la «soggettività», nell'indicazione del criterio di tale differenza che chiameremo «formula dell'oggettività» - e nell'identifica­ zione della norma della conoscenza con la formula dell'oggettività; e consiste eventualmente 2. nel tentativo di riattrarre la «soggettività» aH'intemo del modello di conoscenza elabo­ rato affrontando il problema di come, data la differenza irri­ ducibile di «soggettività» ed «oggettività», sia possibile la lo­ ro correlazione. Il tentativo 2. di recuperare la problematica della soggettivi­ tà è il passo che innalza una determinata modellizzazione della conoscenza al di sopra del dogmatismo ottuso e che tuttavia, nella misura in cui rimane - appunto - un tentativo, non la

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mette affatto al riparo dagli attacchi scettici. Ad esempio, una modellizzazione realistica della conoscenza, estremamente primitiva, 1. affermerà una differenza irriducibile fra gli og­ getti in sé (il tavolo, la sedia, ecc.) ed i loro modi di apparizio­ ne ad un soggetto (il tavolo come io, alta un metro e sessantaquattro, lo vedo stando qui, in piedi, in questo angolo della stanza, in certe particolari condizioni di illuminazione, con il campo visivo limitato da ciocche di capelli spettinate, ecc.); indicherà il criterio della differenza dell'oggettività degli oggetti rispetto alla soggettività dei loro modi di apparizione nella loro indipendenza dal soggetto cui appaiono e dalle cir­ costanze, sempre particolari, in cui gli appaiono; ed identifi­ cherà, infine, questa indipendenza, questo sussistere in sé, con la misura cui la conoscenza, per esser tale, deve adeguarsi. Ora, questa modellizzazione 2. potrà anche tentare di spiegare come gli oggetti così definiti possano essere dati ad un sog­ getto, come, cioè, possa venir stabilita una correlazione fra l'oggettività degli oggetti e la soggettività dei loro modi d'ap­ parizione. Ma, come si vede facilmente, questo tentativo è destinato a fallire. Se infatti l'oggettività non è da altro definita che dal suo sussistere indipendentemente da ogni soggettività, l'unico modo per correlare soggettività ed oggettività sembra consistere nel sopprimerne la differenza. Questa impossibilità di assegnare alla soggettività un posto nel modello della conoscenza senza sacrificare la formula dell'oggettività - un'impossibilità che può minare anche le teorie della conoscenza più sofisticate8 - è il residuo oscuro inelimi­ nabile di ogni modellizzazione dogmatica della conoscenza e costituisce, d'altra parte, il punto d'aggancio dello scetticismo. Sembra, infatti, che, prendendo le mosse da questo scacco delle teorie dogmatiche, lo scetticismo non faccia altro che ri­ percorrerne a ritroso le tappe costitutive. In quanto attività fe­ nomenologica, assume su di sé il problema irrisolto della sog­ gettività, e mostra come di fatto, nella prassi del conoscere, sia impensabile una conoscenza in cui non sia implicato un mo­ mento soggettivo, come - concretamente - l'accesso alla pre­ tesa oggettività sia sempre sbarrato dal filtro della soggettività 8 Resta aperta la questione se si diano teorie della conoscenza che non incorrono in questa difficoltà.

50 e come, quindi, questa sia di fatto irraggiungibile. In quanto decisione, lo scetticismo mette conseguentemente e motivatamente in dubbio la possibilità che si dia di fatto una conoscen­ za che sia tale, che si dia, cioè, una conoscenza davvero con­ forme alla formula deH'oggettività avanzata dal dogmatismo. Esso, in altre parole, sospende la credenza nella differenza fra soggettività ed oggettività: nei fatti soggettività ed oggettività sono inestricabilmente intrecciate, la loro distinzione e la de­ finizione di una formula dell'oggettività è frutto della cattiva astrazione operata dal dogmatismo.9 Tutto questo si può dire anche in altro modo: lo scetticismo incrocia la distinzione dogmatica fra soggettività ed oggetti­ vità con la distinzione fra concreto ed astratto, fra prassi cono­ scitiva e modello di conoscenza; mostra come la prima distin­ zione sussista solo sul piano definito dal secondo termine della seconda, come, cioè, essa valga solo sul piano del­ l'astrazione e non su quello della prassi e, in nome della prassi, finisce col rigettarla. Da questo punto di vista lo scetticismo non si limita a ripercorrere a ritroso le tappe del pensiero dogmatico. A questo primo e più manifesto rovesciamento, s'aggiunge, infatti, un'inversione della gerarchia dei valori, che il dogmatismo assegna implicitamente ai termini dell'antitesi fra prassi conoscitiva e modello della conoscenza: lo scet­ ticismo afferma i diritti della prassi concreta di contro alla so­ pravvalutazione dogmatica dell'astrazione. Questa rappresentazione, che dipinge lo scetticismo come un semplice rovesciamento del movimento di pensiero e dei va­ lori del dogmatismo, è tuttavia imprecisa. Se è vero, infatti, che il punto di partenza dello scetticismo è il punto d'arrivo problematico del dogmatismo (la difficoltà di inserire il mo­ mento della soggettività nella modellizzazione della cono­ scenza), e se è vero che il suo punto d'arrivo è la sospensione del punto di partenza di questo (l'asserzione della differenza irriducibile di soggettività ed oggettività), è, d'altra parte, al9 I modi della sospensione del giudizio degli scettici più antichi, che, mo­ strando la relatività degli oggetti conosciuti rispetto ai soggetti conoscenti ed alle circostanze particolari in cui avviene la conoscenza, motivano la «sospensione del giudizio intorno alla natura delle cose», incarnano per­ fettamente questa struttura. Cfr. Sesto Empirico, Ip.Pirr. I, 14, tr. it. p. 14.

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trattante vero che lo scetticismo può avanzare su questo per­ corso solo presupponendo quella differenza fra soggettività ed oggettività che finisce per negare. L'analisi che mette in luce la soggettività della conoscenza e motiva la decisione di so­ spendere la credenza nella differenza fra soggettività ed og­ gettività presuppone una precomprensione di questa differenza stessa. Per negare (o porre in dubbio) le astrazioni dei dogma­ tici, lo scetticismo deve servirsi di queste stesse astrazioni. Es­ so si muove dunque in un circolo. Di più: si muove in un cir­ colo che, nel ricongiungersi, si autosopprime. È questa la caratteristica fondamentale che permette di dire che, riducendosi ad una negazione (o decisione di dubitare) dei presupposti su cui si basa la possibilità stessa della nega­ zione di (o la motivazione del dubbio su) tali presupposti, lo scetticismo è una figura autocontraddittoria. Se infatti lo scet­ ticismo pretende di trarre dall'asserzione (che ha, inizialmente, in comune con il dogmatismo) di una differenza fra soggettivi­ tà ed oggettività, argomenti a favore della negazione, o del dubbio sulla possibilità di ogni distinzione fra soggettività ed oggettività, se pretende di ricavare dall'assunzione di una de­ terminata formula dell'oggettività (che accoglie dal dogmati­ smo) ragioni per la negazione, o la sospensione della credenza nella possibilità di ogni oggettività, di ogni conoscenza che sia tale, allora esso risulta irrimediabilmente contraddittorio, e sopprime da sé gli argomenti su cui si fonda. Come negazione o dubbio radicale lo scetticismo nega evidentemente anche gli argomenti e le ragioni del proprio negare e, nella misura in cui pretende di tener fermi tali argomenti e ragioni, contraddice il proprio dubbio radicale. Sull'ambiguità e sull'effettiva portata di questo argomento antiscettico, torneremo in seguito. Per ora importa mostrare come la sua applicazione tenda ad occultare il significato po­ sitivo della circolarità dello scetticismo, che emerge qualora esso venga depurato dall'autocontraddittorietà. Quando infatti venga inteso a partire e nei confini segnati dalla sua costitu­ tiva umbratilità, dalla sua indissolubile connessione con una forma, di volta in volta diversamente determinata, di dogmati­ smo, esso non approda ad un dubbio radicale, che si applica inevitabilmente anche a se stesso, ma ad un dubbio determi­ nato sulla possibilità che nella prassi del conoscere sia di fatto

52 conseguibile una conoscenza che si riveli conforme all'astratto modello, teorizzato da una certa particolare forma di dogmati­ smo. Da questo punto di vista, lo scetticismo si risolve in una sorta di test, che consiste nell'assumere provvisoriamente una determinata modellizzazione della conoscenza, per mostrarne l'astrattezza e motivare così la decisione di metterne in dubbio le capacità di presa sul concreto della prassi conoscitiva. De­ purato da ogni autocontraddittorietà, esso si configura quindi come «tendenza al concreto» contrapposta alle astratte co­ struzioni dei dogmatici.1011 Ora, lo scetticismo inteso come «tendenza al concreto» ha un significato positivo imprescindibile per ogni modellizza­ zione della conoscenza, in quanto esso scopre, o permette di scoprire, la circolarità costitutiva anche del pensiero dogma­ tico. Esso, cioè, mette in luce che la differenza fra soggettività ed oggettività, dalla quale il pensiero dogmatico prende le mosse, è il frutto di un'astrazione e presuppone quindi una ge­ nesi. Le modellizzazioni dogmatiche non trovano questa dif­ ferenza, dentro la prassi della conoscenza. Lungi dal trovarla già costituita e dal procedere linearmente dalla sua assunzione al tentativo della sua ricomposizione (nell'affrontare il pro­ blema della soggettività), scavano esse stesse il baratro fra soggettività ed oggettività, che in seguito, senza successo, tentano di superare." Anch'esse, dunque si muovono in un 10 Si può interpretare la differenza fra la posizione scettica come «contraddizione» e la posizione scettica come «tendenza al concreto» come differenza fra l'affermazione astratta e universalizzante dei diritti del concreto, implicita nello scetticismo che approda ad un dubbio radica­ le, e, d'altra parte, il tendere verso il concreto, mediante un susseguirsi di affermazioni determinate dei diritti del concreto nei confronti di astra­ zioni determinate, costitutivo dello scetticismo depurato da ogni autocon­ traddittorietà. Certo, nello scetticismo stesso, «tendenza al concreto» e «contraddizione» si trovano intrecciate. Questo tuttavia non impedisce di intravederne la differenza: la prima caratterizzazione corrisponde a ciò che lo scetticismo è come attività fenomenologica e conseguente, relati­ va, decisione. La contraddizione è invece inscritta nella sua autocom­ prensione, nella sua interpretazione del risultato cui approda come dubbio radicale. La contraddizione è, cioè, costitutiva dello scetticismo che nel proprio risultato «vede sempre soltanto il puro nulla, e astrae dal fatto che questo nulla è per certo il nulla di ciò da cui risulta.» (HW 3 p. 74; tr. it. vol I. p. 71). 11 Ad esempio: nella prassi della percezione, la differenza fra «oggetto in

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circolo e, di più, in un circolo che non può ricongiungersi, perché, se si ricongiungesse, si autosopprimerebbe. Questa ri­ congiunzione ed autosoppressione vengono effettuate - lo sappiamo già - dallo scetticismo, che riporta infine il dogma­ tismo a quella mescolanza, più o meno relativa, di soggettività ed oggettività, dalla quale questo ha, in realtà, preso le mosse. Dogmatismo e scetticismo si muovono dunque sullo stesso circolo: dalla mescolanza di soggettività ed oggettività il dogmatismo muove verso la loro differenza per poi tentare, vanamente, di ricongiungerle; dalla differenza di soggettività ed oggettività - accolta dal dogmatismo - lo scetticismo muo­ ve invece verso la loro ricongiunzione, per concluderne infine l'indifferenza. Quest'immagine, che ho elaborato sfruttando le indicazioni positive dello scetticismo depurato daU'autocontraddittorietà, vale tuttavia solo «per noi», e non vale per il dogmatismo e per lo scetticismo (almeno in quanto autocontraddittorio). En­ trambi infatti trovano (credono di trovare) già costituita la dif­ ferenza fra soggettività ed oggettività, e sono assolutamente ciechi nei confronti della sua genesi. Ad entrambi la diffe­ renza appare come assolutamente rigida ed immodificabile, ed il suo superamento non può che costituire una caduta nel­ l'indifferenza. Così il dogmatismo non riesce a trovare i mezzi per correlare quei termini che non può concepire se non come radicalmente diversi ed irrelati; lo scetticismo, viceversa, non riesce ad intravedere la possibilità di una differenziazione dei termini che mostra indissolubilmente uniti. 3. Il modello formale.

3. Come rompere la circolarità del movimento di pensiero comune a dogmatismo e scetticismo? Le vie lungo le quali questa rottura può, verosimilmente, avvenire sono state al­ meno adombrate nella precedente illustrazione della struttura di dogmatismo e scetticismo. Si tratta ora di descriverle con sé» ed «oggetto percepito» non è data in alcun modo. Questa differenza è una costruzione della teoria della conoscenza come rispecchiamento, che l'ottiene attraverso l'astrazione dell'oggetto dalla percezione dell'oggetto.

54 maggior precisione e di sondarne la percorribilità. La prima delle vie che vogliamo descrivere è senz'altro la più battuta: si tratta dell'argomento formale12, che pretende di rovesciare la posizione scettica in un sol colpo, facendo leva sulla sua autocontraddittorietà. Per determinarne la portata ed i limiti, è opportuno distinguere (i) la tecnica di cui s'avvale tale rovesciamento dello scetticismo, (ii) lo scopo a cui mira, (iii) la sproporzione fra la tecnica e lo scopo: (i) tecnicamente il rovesciamento consiste in una neutralizzazione della tesi scettica, che si ottiene con l'applicare la tesi scettica a se stes­ sa, rivolgendo, cioè, la negazione della (o il dubbio sulla) dif­ ferenza fra soggettività ed oggettività contro questa stessa ne­ gazione (o dubbio); (ii) lo scopo è di fondare l'affermazione della differenza fra soggettività ed oggettività negata dallo scettico; (iii) la sproporzione fra (i) e (ii) consiste nel fatto che dall'applicazione a se stessa della negazione della differenza non sembra seguire immediatamente l'affermazione della dif­ ferenza, ma solo l'indifferenza fra la sua negazione e la sua af­ fermazione, o - ad un livello ulteriore - l'indifferenza fra la negazione e l'affermazione della differenza fra l'affermazione e la negazione della differenza, e così via. In ragione di questa sproporzione, per quanto sia stato così insistentemente adottato, questo modo di procedere non sem­ bra di fatto garantire la fuoriuscita dal circolo di dogmatismo e scetticismo. Esso infatti si fonda su di una serie di presupposti sottaciuti, la cui esplicitazione mostra come la differenza fra soggettività ed oggettività, che l'argomento pretenderebbe di far emergere dal ribaltamento della posizione scettica, debba in realtà venir presupposta perché la stessa applicazione del­ l'argomento sia possibile: se quindi permette di riaffermare la differenza negata dallo scettico, è perché la presuppone. Al­ trimenti - qualora, cioè, tale differenza non venga presupposta - tutto ciò che tale argomento viene a mostrare è che la tesi scettica è indimostrabile; che non si danno ragioni a favore della posizione scettica piuttosto che a favore di quella anti­ scettica. E con questo non solo si rivela inefficace, ma finisce 12 Tanto diffuso e banale è quest'argomento, che persino Cicerone ha po­ tuto prenderlo in considerazione. Cfr. il discorso di Lucullo in Ac.Priora II, 27-29, tr. it. pp. 134-137.

55 per danneggiare chi se ne serve. Per chiarire come l'affermazione della differenza a partire dal rovesciamento dello scetticismo presupponga in realtà il riconoscimento della differenza stessa, è bene prendere le mosse da un esempio. In un passo famoso del Teeteto, il padre di tutti i confutatori dello scetticismo confuta il padre di ogni relativismo, applicando a se stessa la tesi relativista secondo la quale tutte le opinioni sono ugualmente vere.13 La strategia è assai semplice. Dice Socrate: chi sostiene questa tesi (in que­ sto caso Protagora14) dovrà ritener vera anche l'opinione di coloro che ritengono che la sua opinione sia falsa. D'altra parte, poiché chi ritiene che l'opinione del relativista sia falsa, ritiene anche che questa propria opinione sia vera, il relativista dovrà ritener vera anche l'opinione secondo la quale l'opinione che la sua opinione sia falsa è vera. Dunque la sua opinione non sarà vera per nessuno, né per altri né per il relativista stes­ so.15 13 Theaet. 171a-171c; tr. it. p. 120. Cfr. anche l'argomento analogo in Euthyd. 286c sgg.; tr. it. p. 29, dove si dice che il discorso che nega la possibilità del falso «butta in aria non solo gli altri ragionamenti ma an­ che e stesso». 14 Ai nostri fini possiamo astrarre dal significato preciso di questa tesi e dal suo rapporto con le tesi presumibilmente sostenute dal Protagora sto­ rico. Cfr. in proposito Kerferd [1988] tr. it. pp. 109-140. 15 II passo è stato analizzato e discusso un'infinità di volte. Il rimprovero che viene generalmente (anche se non unanimemente: cfr. Tigner [1971]) mosso a Platone è quello di aver tacitamente sostituito la nozione assolu­ ta di verità a quella relativa: Date: ( 1 ) Ogni opinione è vera per x che la sostiene (2) "(1)" è vera per Protagora (3) Alcuni x ritengono che "(1)" sia falsa segue (4) E vero per Protagora che è vera per alcuni x l'opinione che la sua opinione che "(1)" è vera è falsa e non (5) E vero per Protagora che la sua opinione è falsa. Tuttavia da questa constatazione vengono tratte conseguenze diverse: al­ cuni interpreti ritengono che, una volta perfezionato, l'argomento sia co­ munque valido (Me Dowell [1973] pp. 169-170; Bumyeat [1976]); altri invece mostrano di avere più dubbi in proposito (Bostock [1988] pp. 9092; Ketchum [1992]). L'interpretazione che qui viene proposta tien fermo l.che l'argomento non è convincente quando venga commisurato con lo scopo che gli abbiamo assegnato (la rottura del circolo di dogmatismo e scetticismo) e 2.che il contesto in cui è inserito indica come neppure Pla­ tone lo ritenesse definitivo. (Platone mostra di ritenere conclusa la critica

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Non posso non concordare con Socrate sul fatto che l'argo­ mento sia sottile (kompsós)16. Tuttavia, se provo a mettermi dal punto di vista del relativista confutato, dal punto di vista di un immaginario Protagora estremista, che, a differenza del Protagora reale (costretto sottoterra e condannato al silen­ zio17 ), abbia ancora voce per parlare, sono tentata di obiettare che l'intero ragionamento si fonda sullo scambio di due signi­ ficati della parola «vero»: un primo significato, che si pone al di là dell'antitesi fra vero e falso; ed un secondo che, invece, ammette una tale antitesi e, di più, si definisce al suo in­ terno.18 Quando io, immaginario Protagora, affermo che tutte della posizione di Protagora solo in Theaet. 183b-183c; tr. it. p. 136). 16 Per ingenuità naturalmente. Già Aristotele riteneva che tale argomento facesse parte del senso comune! (Cfr. Metaph., IV, 8 1011 bl3; tr. it. p. 295). 17 Platone, infatti, si rifiuta di resuscitarlo: «Certamente [Protagora], co­ me più vecchio, è da credere sia anche più sapiente di noi; e se ora, tutt'a un tratto, sorgesse dalla terra fino al collo, parecchie cose, è probabile, avrebbe da ribattere contro di noi, sia contro me perché dico stoltezze, sia contro te perché le accetti; e poi, ricacciatosi sotto, se ne andrebbe via correndo. Ma noi, mi pare, non possiamo far altro, quali che siamo, che adoperare noi stessi; e le opinioni che abbiamo, esprimere sempre que­ ste.» (77ieaet/i.l71c-171d; tr. it. p. 120). Per un'analisi della funzione di questa immagine ironica nell'economia della confutazione platonica e per un suo accostamento aH'immagine della «pianta silenziosa» utilizzata da Aristotele nel quarto libro della Metafìsica cfr.Lee [1973]. 18 Naturalmente i confutatori radicali negheranno che una tale distinzione possa essere effettuata e diranno che appartiene al senso della parola «verità», a ciò che questo termine vuole significare, 1. il suo significato assoluto (e non solo relativo) e 2. l'antitesi rispetto al falso. È questa la strategia confutatoria che - come vedremo (cfr. § 3.8) - viene applicata da Husserl nei Prolegomena. Richiamandosi esplicitamente ad Husserl, Myles Bumyeat sembra riprenderla per salvare un nucleo di verità dell'ar­ gomento platonico: il relativista non può distinguere due nozioni di verità (relativa ed assoluta) senza presupporre quella assoluta; questa, infatti, è implicita in ogni asserzione; rientra nel significato della parola «asserzione» la pretesa di verità in senso assoluto; anche l'asserzione del relativista che la sua nozione di verità relativa è vera per lui deve dunque pretendere di esser vera in senso assoluto. (Bumyeat [1990] p. 30). Que­ sta tendenza a radicalizzare l'argomento formale spingendo la posizione del relativista verso l'ineffabilità, una tendenza che - come vedremo - è presente in Platone stesso e soprattutto in Aristotele, mi sembra tuttavia pericolosa. Se infatti è vero che la tesi relativista non può neppure esser formulata, perché le parole e le strutture linguistiche sono già attraversate

57 le opinioni sono vere, intendo «vero» nel primo significato, intendo cioè negare che si dia differenza fra opinione vera ed opinione falsa. La verità che io assegno ad ogni opinione, an­ che a quella che afferma che la mia opinione è falsa, è sempre del primo tipo, non del secondo. Per me, nessuna opinione è più o meno vera (o falsa) di qualsiasi altra. Neppure, quindi, questa mia opinione. Tuttavia il fatto che io non la ritenga più o meno vera della sua antitesi non implica che essa sia rove­ sciabile in un sol colpo. Ad esempio, nel ragionamento di So­ crate, manca una premessa: e cioè che io devo ritenere vera anche l'opinione secondo la quale, se io ritengo vera l'opinione contraria alla mia, devo ritenere falsa la mia. Manca, insom­ ma, l'opinione che riduce al secondo il primo dei due si­ gnificati di verità che ho distinto. E certo, se Socrate l'avesse richiesto esplicitamente, io avrei acconsentito a dire vera an­ che questa opinione. Ma che anche questa sia vera, per me non significa altro - lo ricordo - che essa non è né più né meno ve­ ra (o falsa) dell'opinione secondo la quale, se io ritengo vera l'opinione che asserisce che l'opinione che tutte le opinioni sono vere sia falsa, non sono per questo obbligato a ritenere falsa l'opinione che tutte le opinioni siano vere. E certo, a que­ sto punto, Socrate potrebbe obiettare che io devo ritener vera anche l'opinione che delle due «metaopinioni» qui distinte la prima è vera, mentre la seconda è falsa. Il che io non ho diffi­ coltà ad ammettere: anche questa «metametaopinione» è vera, essa, cioè, non é né più né meno vera o falsa dell'opinione che fra le due «metaopinioni» non si dia differenza, o che la se­ conda sia vera e la prima falsa. Su questa via Socrate potrebbe rincorrermi a lungo, ma mai mi raggiungerebbe, se non pre­ supponendo di avermi già raggiunto. Anche se provasse a dire che devo considerare falso l'intero discorso che ho appena fatto per chiarire la mia posizione: ché è indubbio che sia fal­ so, oppure anche vero, o né vero né falso. Naturalmente questo Protagora immaginario, che non rico­ nosce la validità del principio di non contraddizione e del terdall'intenzione di una verità assoluta, non si capisce di che cosa si stia oc­ cupando chi la discute. D'altra parte è difficile esimersi dal sospetto che una tale confutazione si fondi su di una sottaciuta teoria del linguaggio, che il confutato potrebbe sempre porre in discussione.

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zo escluso, non avrebbe alcuna possibilità di passarla liscia. Di fronte a simili casi di ostinazione, infatti, i filosofi depon­ gono in genere le armi dialettiche, per indossare il camice bianco e lo stetoscopio. E se forse è vero che non riuscirebbe­ ro ad acchiappare questo Protagora rincorrendolo nel discorso, potrebbero pur sempre avvolgerlo in una camicia di forza.19 Tuttavia, anche se questo povero Protagora appare condannato al declassamento da interlocutore dei filosofi ad oggetto della medicina, egli ha per noi, anche e proprio come figura filoso­ fica, un'importanza fondamentale: quella di mettere in luce ex contrario che lo scettico, con cui i filosofi razionalisti immaginano di discutere, è in realtà una costruzione ideale, e che l'applicazione dell'argomento formale che rovescia la sua posizione non avviene nel vuoto, ma su un terreno preparato da una serie di presupposti. Si vede bene, infatti, che con questo Protagora estremista non è possibile dialogare ed accordarsi su nulla, mentre con lo scettico rovesciabile questo deve essere possibile: la sua figura, dunque, deve riflettere in sé alcuni presupposti fondamentali sulla natura dello scettico stesso, sulla sua apertura alla comunicazione intersoggettiva e sul medio di quest'ultima, il linguaggio, che rappresentano le condizioni di possibilità di ogni dialogo, e quindi anche del dialogo che i confutatori dello scettico rovesciabile immagi­ nano di condurre con lui. Per tentare una prima esplicitazione di tali presupposti, possiamo continuare a servirci liberamente del testo platonico. Nell'apologià di Protagora che precede immediatamente il luogo del Teeteto da cui abbiamo preso le mosse, Socrate im­ magina la possibile risposta di Protagora all'obiezione che, se conoscenza è sensazione, allora chi si ricorda di aver avuto una certa sensazione non conosce ciò che ricorda. Protagora dice Socrate - risponderebbe così: Credi tu che ti si potrà concedere che sopravviva in alcuno il ri­ cordo di un'impressione già provata il quale sia la stessa cosa di codesta impressione nel momento in cui quel tale la provò, quando non la prova più? No certamente; e ancora: credi tu che 19 Persino Hegel alza le braccia sconfortato di fronte alle forme estremi­ stiche di scetticismo e, per dipingerle, non trova altro che una metafora della malattia: cfr. HW 19 p. 359.

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stenterà uno ad ammettere che la stessa persona può sapere e non sapere la stessa cosa? Oppure, se ti spaventa ammettere questo, ti si potrà mai concedere che chi è divenuto diverso se­ guiti a essere le stesso di quel che era prima di divenire diverso? e più ancora, che costui sia uno solo e non molti, e che questi molti non si moltiplichino all'infinito, sempre che in quell'uno si generi la diversità?20 Protagora, dunque, non avrebbe difficoltà a dissolvere se stes­ so o un altro soggetto in una molteplicità di stati momentanei sconnessi, privi di ogni forma di unità. Tuttavia, la possibilità del dialogo con Protagora, e soprattutto la possibilità di appli­ care alla sua posizione l'argomento del rovesciamento, si fon­ da sull'esclusione a priori di quest'ipotesi. Se il relativista deve poter fungere da interlocutore, non può sfaldarsi in una «successione» di vissuti discreti. Se deve essere rovesciabile, l'unità sua e della sua posizione filosofica deve mantenersi pur nel suo fluire attraverso una molteplicità di vissuti differen­ ziati. Il Protagora con cui è possibile dialogare è dunque di­ verso dal Protagora estremista innanzitutto in questo: che è un soggetto unitario e continuo. Pur facendo valere i diritti del molteplice e della soggettività, non giunge ad autodissolversi come soggetto identico e permanente. In secondo luogo, il relativista ideale deve accettare il dialo­ go: deve, cioè, riconoscere implicitamente 1'esistenza di altri interlocutori dalle caratteristiche simili alle sue, ed essere animato dal desiderio di giungere ad un accordo con questi altri interlocutori. Egli, insomma, deve essere aperto alla co­ municazione intersoggettiva. Non deve essere solipsista. Quando Socrate e Teodoro passano a discutere la posizione eraclitea (che ai nostri scopi possiamo considerare come una variante della posizione relativista di Protagora)21, Teodoro accenna, per poi lasciarla cadere, a questa seconda condizione:

20 Theaet. 166b; tr. it. p. 113. 21 Per una discussione del complesso sistema di nessi che intercorre fra 1. la definizione della conoscenza come sensazione data da Teeteto; 2. la tesi protagorea dell'uomo misura e 3. la teoria eraclitea del fluire di ogni cosa (accomunate da Socrate in Theaeth. 160d-160e; tr. it. p. 105) cfr. Burnyeat [1990] pp. 7-10.

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E difatti, o Socrate, ragionare di queste dottrine eraclitee, o, come tu dici, omeriche e più antiche ancora, direttamente coi filosofi della scuola di Efeso, e insomma con tutti coloro che se ne vantano esperti, è cosa più difficile che ragionar con persone che siano state morse dalla tarantola. Realmente questi uomini, d'accordo coi loro scritti, sono in continuo moto; e indugiarsi in un argomento e in una domanda, e quietamente domandare e ri­ spondere, ognuno a sua volta, non è loro possibile in nessuna maniera; anzi, è già troppo dire in nessuna maniera, quando si pensi che c'è in essi stessi la negazione assoluta di ogni forma di quiete. Ebbene, se tu a qualcuno di loro domandi qualche cosa, ecco che costui cava fuori come da una faretra certe sue parolet­ te enigmatiche e te le scocca come frecce; e se cerchi che ti dia conto di quello che ha detto, già sei colpito da un altro e nuovo scambio di parole, e così non concludi mai niente con nessuno. E neanch'essi fra loro non concludono niente; perché la cosa da cui si guardano con ogni cura è di non lasciare che niente nei lo­ ro discorsi e nei loro animi sia saldo e sicuro, reputando, io cre­ do, che ciò appunto ch'è sicuro sia stabile, e a questa stabilità essi fanno guerra in tutti i modi, e da tutti i luoghi la scacciano via come possono.22 E all'obiezione di Socrate che forse tali uomini assumono que­ st'atteggiamento quando sono impegnati nelle dispute, ma con i loro scolari si rivelano più tranquilli, Teodoro risponde: «Ma quali scolari, beato amico? Non ce n'è scolari, fra uomini co­ me questi, l'uno dell'altro, ma vengono su da sé, spontanea­ mente, secondo che ciascuno, come che sia, è preso dal suo estro; e l'uno ritiene che l'altro non sappia niente.»23 Dunque, conclude Teodoro, la tesi degli eraclitei non può venir discus­ sa direttamente con i suoi sostenitori, ché questi non accettano le regole del dialogo, ma deve venir esaminata per quel che è, senza rincorrere il miraggio di un accordo con gli eraclitei stessi. Socrate e Teodoro si accingono quindi ad un tale esa­ me. A differenza di quanto era avvenuto nel caso del rovescia­ mento dell'opinione di Protagora, viene qui lasciata cadere la seconda (e implicitamente la prima) condizione preliminare di quel rovesciamento. Con questo ci si avvia ad una radicalizza­ 22 Theaet. 179e-180b; tr. it. pp. 131-132. 23 Theaet. 180 c; tr. it. p. 132.

61 zione dell'argomento del rovesciamento e, allo stesso tempo, all'introduzione della terza delle sue condizioni preliminari, la più originaria: perché il relativista sia rovesciabile, forse non è necessario che sia un soggetto unitario e che sia aperto all'intersoggettività, ma è sufficiente che, a differenza di eventuali scettici silenziosi, dica qualcosa, usi il linguaggio per formu­ lare la propria tesi.24 Ora, se il relativista vuole formulare la sua opinione - sia questa istantanea e voglia o no il relativista comunicarla ad altri - egli deve servirsi del linguaggio. A dif­ ferenza delle prime due, questa terza condizione non può esse­ re messa in discussione dal relativista se non tacendo.25 D'altra parte, se è vero che egli deve servirsi del linguaggio per for­ mulare la sua tesi, è anche vero che non può farlo: quella pe­ culiare struttura del linguaggio che è la relazione semantica fra nome significante e cosa significata rende infatti impossibile una tale formulazione. Come chiariscono Socrate e Teodoro, la possibilità di dare un nome alle cose, presuppone le cose stesse è la loro permanenza: e che mezzo può avere chi sostie­ ne che tutto fluisce «di fissare il nome di un colore o di altra qualità simile, se è vero che la cosa, come quella che fluisce perennemente, ci scappa sempre di sotto nell'atto stesso che se ne parla?»26 Il relativista è dunque condannato a non poter dir nulla. La sua stessa tesi che tutto fluisce è ineffabile: «bisogna che istituiscano un altro linguaggio coloro che professano questa dottrina, perché, almeno per ora, non hanno espressioni adatte al loro pensiero; salvo che non dicano «neppur così», 24 Dice Aristotele, il quale fonda la propria confutazione di coloro che negano la validità del principio di contraddizione su questa sola terza ipo­ tesi (sull'ipotesi, cioè, che chi contesta il principio di contraddizione dica qualcosa), che se il relativista «non dice nulla, è ridicolo cercare di im­ piantare un ragionamento con uno che non ragiona su nulla, perché non ha la ragione. Costui infatti è simile a una pianta proprio in quanto tiene quell'atteggiamento.» (Metaph., IV, 4, 1006 a 10-15; tr. it. p. 274). Per una discussione del rapporto fra la confutazione di Protagora nel Teeteto e la strategia adottata da Aristotele in Gamma cfr. Narcy [1986] e CassinNarcy [1989] pp. 61-81. 25 Anche questa non è, tuttavia, una possibilità vuota: «[Cratilo] giunse alla fine a credere che non si dovesse dire nulla ma si limitava ad accen­ nare col dito (...)». (Metaph., IV, 5, 1010 a 5-15; tr. it. p. 286). In pro­ posito cfr. Cassin [1987]. 26 Theaet. 182d; tr. it. p. 135.

62 che sarebbe per loro, fra tutte, nella sua indeterminatezza, l'espressione più adatta.»27 Riassumiamo. L'argomento del rovesciamento quale è appli­ cato contro Protagora in Teeteto 17la-17le sembra implicare tre assunzioni (o tre gruppi di assunzioni), le quali riguardano: 1. il nesso fra soggettività e temporalità; 2. l'intersoggettività; e 3. il linguaggio. Il relativista estremista potrebbe rifiutare le assunzioni 1. e 2., ma non la 3.. Dunque la 3. è più originaria ed è indipendente dalla 1. e dalla 2. e permette quindi di ri­ formulare con maggior radicalità l'argomento del rovescia­ mento: se la tesi del relativista deve venir discussa, deve esser formulata in un linguaggio; ma la possibilità della portata se­ mantica del linguaggio - che è la possibilità del linguaggio stesso - presuppone la differenza fra mutevole e permanente, fra soggettività ed oggettività, che la tesi del relativista nega; dunque tale tesi è ineffabile; così, se il relativista parla, si ro­ vescia da sé. L'autentico presupposto della rovesciabilità dello scettico sarebbe, infine, soltanto questo: che egli dica qualco­ sa.28 A condizione, naturalmente, che né lo scettico né altri mettano in discussione il modello semantico implicito in que­ sta forma apparentemente più radicale dell'argomento del ro­ vesciamento. Ma abbandoniamo Platone29 e riconsideriamo le tre assun­ zioni che rendono possibile la costruzione di una figura ideale di scettico rovesciabile ed il suo effettivo rovesciamento, che l'esempio platonico ci ha consentito di mettere in luce. Cia­ scuna di esse sembra già percorsa da quella differenza che lo scettico nega (o pone in dubbio) e che si vorrebbe far emerge­ re dalla sua confutazione: nella differenza fra l'identità per­ manente del soggetto ed i suoi singoli vissuti, fra l'accordo intersoggettivo e l'opinione del soggetto singolo, fra il dicibile con il suo saldo correlato oggettuale e l'ineffabile, si riconosce facilmente la differenza fra oggettività e soggettività; la sog­ gettività permanente, l'intersoggettività, il dicibile portano in 27 Theaet. 183b; tr. it. p. 136. 28 Cfr. Aristotele, Metaph., IV, 4, 1006 a 11 sgg.; tr. it. p. 274 sgg.. 29 Avrebbe ragione il lettore che obiettasse che non possiamo abbando­ narlo perché non l'abbiamo mai raggiunto. Non si comprende, infatti, la critica platonica del relativismo, se non si sottopone ad un'analisi accura­ ta la sua struttura retorica. Cfr. in proposito Lee [1973],

63 sé i caratteri che distinguono l'oggettività dalla soggettività. Questo stato di cose ha una duplice conseguenza: 1. l'asser­ zione della differenza fra soggettività ed oggettività non è una conseguenza del rovesciamento della posizione scettica, ma ribadimento delle condizioni di possibilità di tale rovescia­ mento. Detto altrimenti: la confutazione formale dello scettici­ smo è circolare. Essa non fa che ribadire esplicitamente nelle proprie conclusioni quella differenza di cui ha una precom­ prensione nei propri presupposti. Di per sé tale confutazione non consente dunque di effettuare quella rottura della circo­ larità del movimento di pensiero comune a dogmatismo e scetticismo, che una confutazione definitiva dello scetticismo pretende di garantire; 2. lo scettico non necessariamente accet­ ta le condizioni di possibilità del proprio rovesciamento, che presuppongono la differenza che egli nega (o pone in dubbio). Abbiamo visto come egli possa rifiutare le prime due assun­ zioni, ed abbiamo accennato al fatto che anche la terza potreb­ be entrare in crisi. Lo scettico potrebbe non accettare il pre­ supposto che la possibilità di dare un nome alle cose ne impli­ chi la permanenza. Inoltre potrebbe ritorcere l'argomento dell'autocontraddittorietà contro il suo stesso confutatore. Se in­ fatti quest'ultimo dichiara ineffabile la tesi dello scettico, deve pur assegnarle un qualche significato ed ammettere implicita­ mente che le parole in cui è formulata non sono del tutto prive di senso, e deve quindi affermare che ciò che non è ineffabile è ineffabile. Certo il confutatore potrebbe controbiettare che egli intende il significato della tesi scettica solo in modo molto vago, e che questa comprensione vaga gli permette di decretare che di tale tesi non si può dare espressione adeguata. Ma lo scettico non riconoscerebbe la differenza fra espres­ sione vaga ed espressione adeguata. Dalla constatazione di questa duplice conseguenza, si può dunque trarre la conclusione che una confutazione radicale dello scetticismo non può fermarsi all'argomento formale, pu­ ramente negativo, che non fa uscire dall'antitesi statica fra dogmatismo e scetticismo, dal contrapporsi deH'affermazione e della negazione della differenza, ma deve proseguire sulla via dell'esplicitazione, chiarimento e fondazione dei presup­ posti di questo stesso argomento.

64 4. Il modello trascendentale.

4. Questo movimento retrogrado dal piano della confutazio­ ne formale dello scettico al piano dei presupposti, del terreno, delle condizioni di possibilità di tale confutazione, che un ten­ tativo di superamento dello scetticismo si decide a effettuare quando riconosce che lo scetticismo ha anche un significato positivo, rappresenta la caratteristica costitutiva di quella via di superamento dello scetticismo che diciamo «trascenden­ tale». Usiamo dunque il termine «trascendentale» in un senso assai ampio, tanto ampio che - come ora rileviamo - abbiamo osservato una tendenza trascendentale persino in Platone. Ora, la via trascendentale non è in realtà una via, ma una fa­ miglia di vie, che presentano una struttura comune - ciascuna di esse cerca nei presupposti dell'argomento formale X'origine della differenza negata dallo scettico e affermata dal dogma­ tico - e che, d'altra parte, si distinguono (i) in ragione dei dif­ ferenti presupposti in cui cercano tale origine e (ii) per il tipo di razionalità di cui s'avvalgono in tale ricerca. (i) Dal primo punto di vista è possibile distinguere almeno tre tipi differenti di via trascendentale. Innanzitutto, la via tra­ scendentale può trovare l'origine della differenza nell'insieme dei presupposti dell'argomento formale che abbiamo indivi­ duato, nella misura in cui essi rappresentano le condizioni di possibilità della prassi del dialogo, che non possono essere messe in discussione dall'intemo del dialogo stesso: lo scettico che partecipa al dialogo deve avere un'identità permanente, deve essere aperto all'intersoggettività ed all'accordo intersog­ gettivo, deve saper usare il linguaggio nei modi previsti da questa prassi; perlomeno mentre dialoga, egli non può dunque rifiutarsi di riconoscere queste condizioni che non sono tesi astratte che possano venir poste in discussione a piacimento, ma sono delle condizioni pragmatiche di possibilità di ogni porre in discussione. Questa via pragmatico-trascendentale non risolve tuttavia il problema dello scettico estremista, che si rifiuta di dialogare, ma perlomeno lo respinge interamente all'esterno del dialogo e previene l'effetto di disturbo che egli può esercitare quando, come il nostro Protagora immaginario, riesca ad infiltrarsi fra coloro che discutono seriamente. Inol­

65 tre, per eliminarne definitivamente anche lo spettro, essa può sempre sostenere che uno scettico del genere rappresenta solo una possibilità astratta, che non trova alcuna concreta realiz­ zazione nel «mondo della vita».30 In secondo luogo, la via trascendentale può individuare nel linguaggio l'origine della differenza che lo scettico tenta di ne­ gare: poiché il linguaggio è il terreno su cui avviene ogni af­ fermazione e ogni negazione, e il linguaggio è attraversato dalla differenza fra soggettività ed oggettività, lo scettico che voglia negarla, deve tacere. Questa via linguistico-trascendentale, verso la quale sembra tendere il Teeteto e che appare chiaramente definita in Aristotele31, è la via principe dei ten­ tativi novecenteschi di rinnovare l'idea moderna del Soggetto trascendentale. A differenza della precedente, essa pretende di 30 Cfr. Habermas [1983] p. 109-110. La posizione di Habermas e la sua interpretazione delì'argomento di Apel - secondo il quale lo scettico che nega le condizioni di possibilità dell'argomentazione commetterebbe un'autocontraddizione performativa - mi sembra sostanzialmente rientra­ re in questa prima categoria, pragmarico-trascendentale, di superamento trascendentale dello scetticismo. Invece, malgrado la consonanza termi­ nologica, mi sembra che la posizione di Apel stesso (cfr. soprattutto Apel [1986] e Apel ‘[1987-1]) mescoli elementi di tutte e tre le categorie che qui distinguiamo, e che solo grazie a tale mescolanza essa possa far vale­ re delle pretese di assolutezza (per una prima distinzione dei vari «strati» della confutazione apeliana dello scetticismo cfr. Berlich [1982]). 31 In realtà la confutazione aristotelica, cui abbiamo accennato verso la fine del paragrafo precedente, s'avvia sul piano del linguaggio, ma tende costantemente (e necessariamente) a fuoriuscire da esso. Ciò su cui essa fa leva, per confutare chi nega il principio di non contraddizione, è sen­ z'altro l'unicità del significato dei nomi che lo scettico estremista deve pronunciare se egli non si riduce ad una pianta (cfr. Afetaph.l006a301008b34; tr. it. pp. 275-281). Tale confutazione si fonda dunque sulla teoria del «semainein» esposta nei primi capitoli del De Interpretatione. (cfr.Rapp [1993]). E tuttavia proprio questo fatto presuppone una opera­ zione di astrazione del linguaggio che significa dal linguaggio non signi­ ficativo, urìepoché della pura materialità del linguaggio, dal linguaggio inteso come mera voce, che implica la messa in relazione del linguaggio e con l'essere e con la comunicazione umana. Nel primo caso il fonda­ mento ultimo dell'unicità del significato è ontologico: è l'identità dell'es­ senza che garantisce quell'unicità; nel secondo è di tipo pragmaticoantropologico: l'unicità del significato è funzione dell'accordo intersog­ gettivo degli esseri umani che rende possibile la comunicazione fra di essi (cfr. Aubenque [1962] pp. 124-134 e Cassin-Narcy [1989] p. 26 ).

66 risolvere anche il problema dello scettico estremista. Come ho già osservato, è tuttavia dubbio che ci riesca: da un lato pecca per difetto, in quanto deve presupporre una teoria del lin­ guaggio che non può giustificare senza incappare nelle obie­ zioni dello scettico; dall'altro pecca per eccesso, dal momento che, se la posizione dello scettico è ineffabile, non si capisce perché sia necessario discuterla. Infine - ed è la possibilità che più ci interessa - la via tra­ scendentale può individuare l'origine della differenza nel pri­ mo dei presupposti dell'argomento formale: la Soggettività permanente. La forza, il fascino e la paradossalità di questa via Soggettivo-trascendentale stanno nel fatto che essa non sembra davvero offrire nessun possibile rifugio allo scettico, neppure quello del silenzio, giacché la Soggettività-Origine (la struttura cogito-Dìo in Descartes, l'io penso kantiano, la sog­ gettività trascendentale husserliana) sta con la soggettività soggettiva dello scettico disgregato nei propri singoli vissuti, in un nesso inscindibile, che viene chiamato riflessione: lo scettico non può porla in discussione se non nuotando nel gran flusso che in essa ha origine e che da essa è attraversato. E tuttavia, se è vero che allo scettico viene così sbarrata la scap­ patoia del silenzio, è anche vero che con lo stesso gesto gli viene aperto il rifugio del linguaggio: ché a parole egli può mettere in discussione l'attendibilità ed il valore della rifles­ sione e l'effettiva presenza nei suoi vissuti della Soggettività. Eliminando lo spettro dello scettico silenzioso, la via Sogget­ tivo-trascendentale sembra dunque condannarsi a rimanere una via muta, che del linguaggio diffida e non può che diffida­ re.32 (ii) La metafora dell'origine sotto la quale abbiamo raccolto le varie possibilità elencate non dice però ancora nulla sul modo in cui tale origine viene colta: la razionalità di cui la via trascendentale s'avvale nella ricerca dell'origine può essere in­ fatti di tipo essenzialmente deduttivo e argomentativo, oppure 32 Descartes dice che gli scettici non possono dubitare di ciò che è attual­ mente presente al loro spirito in modo chiaro e distinto se non a parole (cfr. AT in p. 434); Husserl afferma che, come ogni altra forma di scep­ si, la scepsi sul valore della riflessione perde la propria forza quando passa dalle argomentazioni verbali all'intuizione originariamente offeren­ te (cfr. Ideen I § 79 HU III/l p. 174; tr. it. p. 175).

67 di tipo fenomenologico-intuitivo. Costitutivo del primo tipo di ricerca è l'ancoramento a un fatto, a un presupposto fattuale che neppure lo scettico sembra negare, dal quale si risale alle sue condizioni di possibilità: l'origine appare qui come ciò che non può essere posto in discussione, perché altrimenti occor­ rerebbe negare anche il fatto di cui essa è condizione, il fatto che neppure lo scettico nega. Il secondo tipo di ricerca è in­ vece caratterizzato dal richiamo all'evidenza: l'origine è ciò che è dato in un'evidenza irresistibile, la fonte di ogni altra evidenza e della differenza fra evidente e non evidente. Le due opzioni non si trovano mai in forma pura: la prima, se non trova alcun presupposto su cui ogni possibile scettico si dichiari d'accordo33, deve in qualche modo far ricorso all'evi­ denza del fatto da cui prende le mosse per non incorrere in una manifesta petitio principir, la seconda, se non vuole rinchiu­ dersi in un silenzio dogmatico e se tenta di giustificarsi in un discorso pubblicamente accessibile, deve fare uso del lin­ guaggio, delle sue strutture argomentative e delle tecniche lo­ giche di derivazione delle proposizioni. Comunque, la preva­ lenza dell'una o dell'altra forma di razionalità definisce due tipi distinti di via trascendentale: il tipo kantiano, in cui preva­ le il momento deduttivo-argomentativo34 ; ed il tipo cartesiano (e per certi versi husserliano35), in cui prevale il momento intuitivo. Ai nostri fini, che sono quelli del confronto con Husserl, sarà 33 In altre parole: se mira ad essere davvero radicale, a superare lo scetti­ cismo estremo, e rinuncia a costruirsi uno scettico su misura che eviti di negare proprio quei presupposti da cui essa prenda le mosse. Un tale scettico su misura che nega la possibilità della conoscenza metafisica, ma non della matematica e della fisica, sembra ad esempio esser presente nella critica kantiana della ragione. (Cfr. Logik A 131 KW 6 p. 515; tr. it. p. 77). 34 Per un'analisi accurata della struttura argomentativa della deduzione trascendentale kantiana cfr. Longato [1994] pp. 29-121. 35 È bene precisare che 1. la posizione husserliana è solo parzialmente ri­ conducibile al modello trascendentale che viene qui descritto (cfr. in par­ ticolare § 3.5); e che 2. l'intuizione e l'evidenza husserliane non hanno nulla a che fare con il principio cartesiano della chiarezza e distinzione: uno dei risultati fondamentali delle L.U. è proprio la ridefinizione (in senso fenomenologico) dei concetti tradizionali di «intuizione» e di «evidenza» (cfr. § 3.9).

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importante trascegliere e descrivere quell'incarnazione del mo­ dello trascendentale che più si avvicina alla sua posizione: il modello cartesiano. Tuttavia, prima di dedicarci al caso di De­ scartes, non vogliamo rinunciare ad una descrizione astratta della struttura comune e soprattutto dei problemi cui i vari ten­ tativi di superamento trascendentale dello scetticismo sembra­ no andare incontro. La confutazione trascendentale dello scetticismo - abbiamo detto - s'arrampica lungo i presupposti dell'argomentazione formale ed individua nella Soggettività permanente, nell'intersoggettività o nel linguaggio, l'origine della differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività, negata dallo scettico e pre­ supposta dal dogmatico. Diversamente dalla confutazione for­ male, essa non è puramente negativa: in quanto riconosce che la differenza ha un'origine e non è quindi assolutamente rigida ed immodificabile, ammette che lo scetticismo ha anche un si­ gnificato positivo, e che la sua confutazione passa attraverso quest'ammissione. Essa ha dunque due lati: da una parte sfrutta le indicazioni positive contenute nella posizione scet­ tica al fine di regredire all'origine della differenza che lo scet­ tico nega; dall'altra interpreta tale regresso come fondazione della differenza stessa e quindi come confutazione dello scet­ ticismo. Tuttavia il modo in cui interpreta le indicazioni posi­ tive dello scetticismo non le assicura di fatto il superamento di quest'ultimo. Il suo regresso all'origine della differenza non ha per controparte una fondazione di quest'ultima che la sottragga definitivamente agli attacchi scettici. Come vedremo, nel re­ gredire aH'origine essa o trapassa involontariamente in scetti­ cismo, o si limita a differire il bersaglio di quest'ultimo: dalla differenza derivata il bersaglio si trasforma nella differenza fra l'origine ed uno dei due termini della differenza di cui è l'ori­ gine. Cerchiamo di comprendere perché. Ciò che la confutazione trascendentale dello scetticismo cerca non è propriamente l'origine della differenza, bensì l'origine della differenza del­ l'oggettività rispetto alla soggettività. Essa non ricerca cioè l'origine della linea che separa e congiunge i due termini, ma la fonte, la legittimazione dei confini che ritagliano l'ambito dell'oggettività nello spazio indeterminato occupato dalla sog­ gettività. Questa meta della sua ricerca predetermina il modo

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in cui la confutazione trascendentale si rapporta positivamente allo scetticismo. Riprendendo il linguaggio del § 2.2., si può dire che il punto di partenza della via trascendentale è il punto d'arrivo dello scetticismo: la mescolanza fattuale concreta di soggettività ed oggettività che lo scetticismo mostra esser costitutiva della prassi conoscitiva. Diversamente dallo scet­ ticismo, però, tale via non interpreta tale mescolanza come un dato di fatto che non può venir trasceso, un dato di fatto che acquista il valore ideale di limite invalicabile. Detto altri­ menti: la mescolanza fattuale non le diviene in alcun modo indifferenza ideale. Al contrario, essa toma a sovvertire la ge­ rarchia di valori fra prassi concreta e modello astratto, che lo scetticismo ha a sua volta capovolto rispetto al dogmatismo, reinstaurando la superiorità del secondo termine rispetto al primo. Così, a partire dalla mescolanza concreta di soggetti­ vità ed oggettività, procede, facendosi guidare dal significato positivo dello scetticismo, ad una purificazione del concetto di oggettività, ad una sua differenziazione e separazione dalla soggettività. Tale operazione di purificazione culmina nell'in­ dicazione dell'origine trascendentale delle tracce di oggettività che la fattualità della conoscenza reca in sé. La differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività della conoscenza, che lo scetticismo nega, vien dunque fondata nella correlazione fra l'oggettività pura, colta nella sua originarietà, e l'oggettività derivata, intrecciata alla soggettività. Questa fondazione do­ vrebbe avere per conseguenza il superamento dello scettici­ smo. Dal punto di vista della confutazione trascendentale, in­ fatti, lo scetticismo può negare la differenza fra soggettività ed oggettività solo perché identifica l'oggettività con l'oggettività derivata e non si sa elevare al livello della correlazione fra l'origine e l'oggettività derivata. Ma una volta che questa, an­ che in virtù delle indicazioni positive dello scetticismo, sia stata messa in luce, dovrebbe svanire anche la ragion d'essere dello scetticismo stesso.36 36 Ad esempio: da un punto di vista kantiano, lo scetticismo che mette in dubbio la validità della conoscenza empirica, affermando che i suoi og­ getti non sono mai dati in sé, bensì solo attraverso ih «velo» della sogget­ tività, può mettere in dubbio tale validità perché e solo perché non sa scorgere come la legalità e l'oggettività dell'esperienza trovi le proprie condizioni di possibilità nella Soggettività trascendentale.

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Ciò che dunque distingue la confutazione trascendentale dal dogmatismo (e dalla confutazione formale dello scetticismo) è il fatto che, anziché presupporre la differenza fra soggettività ed oggettività e anziché presupporre acriticamente una deter­ minata formula dell'oggettività, tenta, con l’aiuto dello scetti­ cismo, di far scaturire l'una e l'altra distillando l'oggettività pu­ ra dalla mescolanza concreta di soggettività ed oggettività. Ciò che, d'altra parte, la distingue dallo scetticismo è il fatto che essa presuppone che tale distillazione sia possibile, che la mescolanza fattuale non implichi indifferenza ideale e che, al di là del piano della mescolanza, sia individuabile o eventual­ mente costruibile un piano puro in cui ciò che il fattuale mo­ stra torbidamente fuso si trovi diviso. Ciò che inoltre la distin­ gue sia dal dogmatismo che dallo scetticismo è il fatto che es­ sa non fa valere unilateralmente i diritti o dell'astrazione (al modo del dogmatismo) o del concreto (al modo dello scettici­ smo), ma tenta di intendere i due termini nella loro correla­ zione. Ciò che infine l'avvicina più al dogmatismo che non allo scetticismo è il fatto che questa correlazione è sbilanciata a favore dell'astrazione: il piano del concreto non viene preso in considerazione nella sua concretezza, ma al fine di astrarre da tale concretezza; il plesso fattuale di soggettività ed ogget­ tività non la interessa in quanto plesso, ma in quanto punto d'aggancio per successive operazioni d'astrazione. Faremmo tuttavia torto alla via trascendentale di supera­ mento dello scetticismo se considerassimo così esaurite le sue potenzialità. Se essa si riducesse a questo primo tratto, non fa­ rebbe che ripetere - ad un nuovo livello - il movimento di pensiero costitutivo del dogmatismo ottuso. Se si fermasse a questo punto, infatti, la soggettività le varrebbe solo come un indeterminato da cui astrarre, separare, far emergere l'ogget­ tività, un indeterminato assunto come ovvio, non problematiz­ zato e privo di caratterizzazioni positive. Ma, come il dogma­ tismo, così anche la confutazione trascendentale può (anche se non necessariamente lo fa) innalzarsi al di sopra di tale ottusi­ tà, tentando di inserire nella propria problematica una tematizzazione anche positiva (e non solo negativo-astraente) della soggettività e del suo nesso con l'oggettività.37 Il luogo di 37 Ad esempio la fondazione kantiana dell'esperienza prende questa se-

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quest'inserimento è tuttavia prefigurato dal suo primo tratto: la soggettività deve rappresentare quell'alcunché, che, pur senza intaccare la correlazione di oggettività pura ed oggettività de­ rivata, distingua la seconda dalla prima. La soggettività deve essere cioè abbastanza evanescente da non contrapporsi fron­ talmente ed irriducibilmente all'oggettività pura, ma allo stes­ so tempo deve anche poterle opporre una certa resistenza, in modo da non lasciar cadere oggettività pura ed oggettività de­ rivata l'una nell’altra. Il conseguimento di un equilibrio fra queste due condizioni è il compito che la confutazione trascendentale dello scetticismo deve risolvere se vuole davvero superare lo scetticismo. Se in­ fatti la questione della soggettività rimanesse in sospeso, allo scetticismo verrebbe offerto un nuovo punto d'aggancio per la sua critica. D'altra parte, però, posta in questi termini, tale questione acquista caratteri enigmatici. Gli esempi storici mostrano come nel suo tentativo di raggiungere l'equilibrio postulato, la confutazione trascendentale 1. tenda a duplicare la nozione della soggettività (così come prima ha duplicato la nozione dell'oggettività) in una soggettività soggettiva e in una soggettività già un po' compromessa con l'oggettività; e 2. finisca per oscillare fra l'uno e l'altro significato, tra l'adem­ pimento dell'una e dell'altra esigenza che la soggettività do­ vrebbe soddisfare contemporaneamente, senza mai pervenire ad un assestamento e chiarimento definitivo della sua natura. Così la soggettività le diviene ora quel puro nulla che distin­ gue (?) l'oggettività derivata dall'oggettività pura, ora alcunché di radicalmente contrapposto all'oggettività pura. Ora, se la via trascendentale di superamento dello scettici­ smo dovesse abbandonarsi all'uno o all'altro lato della caratte­ rizzazione della soggettività distruggerebbe da sé il punto d'approdo del suo primo tratto: la fondazione della differenza ed il correlativo superamento dello scetticismo. Se infatti la conda direzione in quella parte della deduzione trascendentale che nella prima edizione della Critica della ragion pura veniva detta «soggettiva» (KrV A XVn-XVm KW3 p. 16; tr. it. p. 10) e soprattutto nel capitolo sullo schematismo, dove Kant tenta di ricongiungere attraverso lo schema il molteplice fenomenico (nel nostro linguaggio: la soggettività) ed i con­ cetti dell'intelletto (l'oggettività), che ha dovuto isolare da quel moltepli­ ce per fondare la possibilità dell'esperienza.

72 soggettività divenisse un nulla, la differenza fra soggettività ed oggettività apparirebbe nuovamente soppressa. Certo la soppressione avverrebbe da una prospettiva opposta a quella propria dello scetticismo, ma il risultato sarebbe identico. Lo scetticismo, capovoltosi in panobiettivismo mistico, verrebbe dunque reinstaurato. Se d'altra parte la soggettività divenisse alcunché di radicalmente contrapposto all'oggettività, appari­ rebbe minacciata la fondazione della differenza dell'oggettività derivata rispetto alla soggettività nell'oggettività pura. L'origine della differenza derivata starebbe ora nella diffe­ renza fra oggettività pura e soggettività assoluta. La differenza si riprodurrebbe, dunque, ad un nuovo, più radicale, livello, ed il bersaglio dello scetticismo risulterebbe così semplicemente spostato. Per la confutazione trascendentale è dunque di vitale importanza che essa raggiunga di fatto l'equilibrio fra questi due lati, pena la sua autodissoluzione. Come ho anticipato, l'idea che orienta quest'esposizione, e che verrà illustrata a partire dal caso paradigmatico di Descar­ tes, è che il raggiungimento di tale equilibrio si rivela impos­ sibile e che la via trascendentale è costretta ad autodissolversi reinstaurando lo scetticismo oppure ad «inverarsi» trapas­ sando in via dialettica. Detto altrimenti: essa si rivela incapace di indicare queirevanescente regno intermedio fra la mera pri­ vazione e la positività piena, analoga ma contrapposta a quella che caratterizza l'oggettività, che la soggettività dovrebbe oc­ cupare, oppure, nella misura in cui pretende di indicarlo, quest'ultimo riproduce costantemente al proprio interno l'anti­ tesi fra i due estremi di cui dovrebbe costituire la mediazio­ ne.38 5. Veniamo dunque alle Meditazioni di Descartes. Non ho certo intenzione - è appena il caso di esplicitarlo - di tentare qui di seguire il pensiero cartesiano nella sua sconcertante 38 Dopo aver asserito che fra il molteplice fenomenico e le categorie deve darsi un terzo termine (e cioè lo schema, che nel nostro linguaggio rap­ presenta la soggettività già un po' compromessa con l'oggettività), Kant riconosce che «questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai feno­ meni e alla loro semplice forma, è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natu­ ra per esporlo scopertamente innanzi agli occhi.» (KrV B181-182 A141 KW 3 p. 190; tr. it. p. 166).

73 profondità. E neppure di cogliere il nesso storico fra il suo ti­ tanico tentativo di radicare l'intero sapere nella metafisica e la rinascita moderna della scepsi.39 Mi accontenterò invece di trascegliere e descrivere uno dei molteplici percorsi che le Meditazioni racchiudono e tengono uniti: quello lungo il quale Descartes conquista l'origine della differenza dell'assolutamente certo rispetto al dubitabile, della verità rispetto al­ l'errore (nel nostro linguaggio: dell'oggettività rispetto alla soggettività), nella differenza fra l'atemporalità dell'iperSoggettività divina e la mutevolezza della soggettività umana fi­ nita. Questa conquista rappresenta, in generale, una forma di con­ futazione trascendentale dello scetticismo, nella misura in cui, con l'ausilio dello scetticismo stesso, procede innanzitutto40 a purificare il concetto di «oggettività»41 (fino a farlo coincidere con l'assoluta e paradigmatica certezza del cogito) ed alla sua fondazione nell'origine di ogni oggettività, la veracità divina (I); e nella misura in cui tenta in secondo luogo42 di chiarire in cosa consista la soggettività da cui ha separato l’oggettività pura, di chiarire cioè la possibilità dell'errore e del dubbio, che l'esperienza dell'errore fa sorgere (II). In particolare, poi, la fondazione cartesiana del sapere rap­ presenta una forma di superamento dello scetticismo Soggetti­ vo-trascendentale, in quanto sospende preliminarmente e poi rifonda il primo dei presupposti dell'argomento formale che abbiamo individuato: il presupposto che il soggetto cono­ scente (o negante la possibilità della conoscenza) abbia un'identità permanente che attraversi tutti i suoi vissuti. Come vedremo, la peculiare certezza del cogito è, per così dire, il prodotto della sospensione preliminare di questo presupposto, mentre la fondazione in Dio della conservazione sia del sog­ getto sia della sua certezza rappresenta la sua (ri)fondazione ontologico-metafisica.

I.I1 primo momento del tentativo cartesiano di superamento 39 Cfr. in proposito Popkin [1979], 40 Meditazioni I, II, DI e prima parte della IV. 41 Ricordo che continuo ad usare i termini correlativi «soggettività» ed «oggettività» nel significato assegnato loro al § 2.2.. 42 Seconda parte della IV Meditazione.

74 dello scetticismo porta a compimento il compito principale della metafisica, il compito di dare al sapere un fondamento assolutamente certo ed indubitabile, un fondamento che abbia cioè i caratteri della «fermezza e permanenza», o, con altre pa­ role, il carattere della validità atemporale. Ora, questo fonda­ mento è presente come ideale sin dall'inizio delle Meditazioni, le quali si limitano a chiarire in cosa consista separandolo da ciò che esso non è. In questa separazione - che avviene nella Prima Meditazione - Descartes si fa condurre per mano dallo scetticismo riconoscendone il significato positivo; in quel chiarimento - che occupa la Seconda, la Terza e parte della Quarta Meditazione - supera (o tenta di superare) definitiva­ mente lo scetticismo. Seppur disposti in successione, i due lati della questione, sono strettamente interdipendenti: il ricono­ scimento del significato positivo dello scetticismo è già orientato dal proposito di superarlo, così come il suo supera­ mento può avvenire solo in ragione di quel riconoscimento.43 Purificazione e fondazione dell’indubitabile sono correlative. Quest'interdipendenza dei suoi due lati conferisce alla fon­ dazione cartesiana del sapere un andamento circolare: l'ideale dell'assoluta certezza è il motore del dubbio, che il dubbio fa emergere nella sua purezza. Del significato e delle eventuali difficoltà implicite in tale circolarità - che, come si vede, non è affatto casuale ma deriva dall'impostazione stessa del pro­ blema della fondazione del sapere - ci occuperemo dopo l'esposizione del percorso concreto seguito dalle Meditazioni, 43 «Le ragioni di dubitare che sono qui accolte come vere da questo filo­ sofo [Thomas Hobbes], non sono state proposte da me se non come ve­ rosimili; ed io me ne sono servito, non per spacciarle come nuove, ma in parte per preparare gli spiriti dei lettori a considerare le cose intellettuali ed a distinguerle dalle corporee, al quale scopo esse mi sono sempre sem­ brate necessarissime; in parte per rispondervi nelle meditazioni seguenti; ed in parte anche per far vedere quanto sono ferme e sicure le verità che propongo in seguito, poiché non possono essere scosse da codesti dubbi metafisici.» (Risposte alle Terze Obiezioni, AT VII pp. 171-172; tr. it. p. 162). Cfr. anche Discours de la Méthode, AT VI p. 29; tr. it. p. 310, dove Descartes afferma: «Con questo [con il dubbio] non che imitassi gli scet­ tici, che dubitano solo per dubitare, e ostentano la loro perpetua irrisolu­ tezza; al contrario, i miei propositi erano tutti rivolti alla conquista della certezza e a rimuovere il terriccio mobile e la sabbia per trovare la roc­ cia e Targilla.» (Corsivo C.S.).

75 nella quale terremo comunque costantemente presente questo coimplicarsi di punto di partenza e punto d'arrivo della rifles­ sione cartesiana. Per «stabilire qualcosa di fermo e di durevole nelle scienze», Descartes prende le mosse dalla decisione di liberarsi da ogni sorta di pregiudizi. Nella lettera a Clerselier, aggiunta all'edi­ zione francese del '47 delle Meditazioni, risponde all’obiezio­ ne secondo la quale una tale radicale liberazione risulterebbe di fatto impossibile, chiarendo in cosa propriamente essa con­ sista:

La prima [obiezione] è fondata sul fatto che l'autore di questo libro [Gassendi] non ha considerato che la parola pregiudizio non si estende a tutte le nozioni che sono nel nostro spirito, delle quali confesso essere impossibile disfarsi, ma soltanto a tutte le opinioni, che i giudizi da noi fatti per lo innanzi han la­ sciato nella nostra credenza. E poiché è un'azione della volontà giudicare o non giudicare, come ho spiegato a suo luogo, è evi­ dente che essa è in nostro potere: infatti per disfarsi di ogni sorta di pregiudizi, non occorre altro che risolversi a nulla af­ fermare o negare di tutto quello che si era affermato o negato per lo innanzi, se non dopo averlo da capo esaminato, benché nondimeno, si continui a ritenere nella memoria tutte le stesse nozioni.4445 Liberandosi dai pregiudizi Descartes non intende dunque tra­ sformare il proprio spirito in una tabula rasa, ma semplicemente sospendere la credenza in tutte le proprie precedenti opinioni. Tale liberazione non è dunque paragonabile ad un salto nel vuoto, ma, al più, ad un tuffo «in profundum gurgitem»^, nel quale solo a prima vista sembra impossibile tenersi a galla. Il passo, però, oltre a chiarire la natura della purificazione dai pregiudizi, permette di intravedere alcuni dei presupposti che tale purificazione non pone in discussione e che fondano, anzi, la sua stessa possibilità. II primo è questo: la liberazione dai pregiudizi è una mia possibilità, perché io dispongo del li­ bero arbitrio e, d'altra parte, la struttura del giudizio è tale da

44 AT IX p. 204; tr. it. p. 371. 45 AT VII p. 24; tr. it. p. 23.

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richiedere il concorso della volontà. Ed il secondo-, la libera­ zione dai pregiudizi non mi conduce nel vuoto, perché la so­ spensione della credenza in tutte le opinioni che l'esperienza ha fatto sorgere, lascia come residuo la materia del giudizio, le nozioni dello spirito su cui il giudizio si applica e, d'altra par­ te, io non rimango completamente paralizzato in seguito a tale sospensione, ma continuo a possedere la facoltà di esaminarne il residuo, continuo, cioè, a disporre del lume naturale o ra­ gione. La possibilità del dubbio e della sospensione del giu­ dizio cui conduce la prima Meditazione presuppone dunque una determinata concezione della struttura del giudizio e, nel soggetto dubitante, il lume naturale ed il libero arbitrio. De­ scartes tematizza questa concezione del giudizio, e perviene alla definizione del corretto uso di lume naturale e libero arbi­ trio solo nella Quarta Meditazione. Tuttavia sia quella conce­ zione sia questa definizione sono implicitamente presenti sin dalla Prima Meditazione, come presupposti intangibili, senza i quali la riflessione cartesiana non potrebbe neppure avere ini­ zio. Per poter giungere alla propria meta - la definizione del corretto uso di ragione e libero arbitrio - le prime tre Medita­ zioni devono dunque, in qualche modo, presupporla. Bisogna concluderne che la riflessione cartesiana non si muove d'un passo? No, perché a separare il suo punto di par­ tenza dal suo punto d'arrivo interviene il terzo dei presupposti sottratti al dubbio radicale della Prima Meditazione-, l'idea che la storia, l'educazione, l'esperienza ed ogni opinione sorta nel tempo abbiano corrotto l'uso della ragione e abbiano stravolto l'armonia tra l'uso della ragione e l’uso della libertà.46*soUn sa­ 46 Questa concezione, che nel passo da cui siamo partiti è appena accen­ nata, è esposta con particolare pregnanza nelle prime due sezioni del Discours de la Méthode: «Allo stesso modo pensai che le scienze dei libri, almeno quelle che si fondano solo su ragioni probabili e che non risultano suscettibili di venir dimostrate, nate e sviluppate un po' alla volta dalle opinioni di parecchie persone diverse, si accostino alla verità meno dei semplici ragionamenti che un uomo può fare valendosi del suo naturale buon senso a proposito dei casi che gli si presentano. Pensavo pure che prima di essere uomini siamo stati tutti bambini e abbiamo dovuto vivere a lungo sotto il dominio dei nostri istinti e dei nostri precettori, che spes­ so erano in contrasto tra loro e che non sempre forse, né gli uni né gli al­ tri, ci consigliavano per il meglio. Perciò è quasi impossibile che i nostri giudizi siano genuini e così solidi come se fin dal momento della nascita

77 pere inautentico ha occultato a se stesse le fonti del sapere autentico, la ragione è stata ridotta in schiavitù dall'autorità estrinseca dei pregiudizi, ed è così andata perduta la corretta correlazione fra libertà e razionalità. La meditazione di De­ scartes, dunque, seppur circolare, non è vacuamente tautologi­ ca, ché essa consiste precisamente in un ripercorrere a ritroso lo scarto fra la ragione nella sua originaria purezza e il suo uso snaturato e deviato, ingenerato da storia ed esperienza, al fine di rendere l'uso della ragione conforme alla ragione stessa. Ciò che tale meditazione presuppone è, per così dire, la ragione nel suo in sé, mentre ciò che viene conseguito è la ragione in sé e per sé, è l'autoconsapevolezza della ragione, la quale, dopo essersi liberata dall'autorità estrinseca dei pregiudizi, si autodetermina adeguando l'uso di se stessa alla propria natura. A tale processo di liberazione della ragione corrisponde, d'al­ tro canto, un processo parallelo di razionalizzazione del concetto di libertà. Anche da questo punto di vista le Meditazioni non si risolvono in una vuota tautologia: la libertà che presuppongono non rappresenta che il grado più basso della libertà, che consiste nella facoltà di sospendere il giu­ dizio su quelle opinioni a favore della cui verità o falsità non si diano ragioni certissime ed indubitabili, mentre la libertà cui approdano sembra invece consistere nella facoltà di affermare ciò che la ragione presenta come evidentissimamente vero senza sentirsi costretti da alcuna forza esteriore. Tuttavia, se anche il punto di partenza e la meta della rifles­ sione cartesiana non cadono l'una dentro l'altro, rimane vero che la meta deve in qualche modo attrarre verso di sé l'intero processo di purificazione della ragione e di razionalizzazione della libertà. Il presupposto del libero arbitrio inteso come faavessimo posseduto l'intero uso della nostra ragione, e sempre l'avessimo avuta come guida.» (AT VI pp. 12-13; tr. it. p. 299). Cfr. anche Principia Philosophiae 1,1; AT VHI p. 5; tr. it. p. 21. L'idea che la storia del sapere, l'esperienza, l'educazione abbiano prodotto una caduta rispetto all'origi­ nario in sé della ragione consente a Descartes di effettuare quella rein­ versione della gerarchia di valori fra prassi conoscitiva ed astrazione su cui si fonda la possibilità della confutazione trascendentale dello scettici­ smo (Cfr. § 2.4): essa indica infatti la necessità di individuare, al di là del piano dell'uso concreto, fattuale della ragione, un piano originario della sua purezza ed autenticità, che in tale uso concreto sono andate smarrite.

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colta di astenersi dall'affermare o negare in caso di assenza di ragioni stringenti a favore della verità o falsità di una cosa, fonda infatti la possibilità del dubbio, ma non la sua necessità. Come dice Descartes nei Principia, questa libertà che speri­ mentiamo in noi, e che costituisce la condizione di possibilità del dubbio, è «tale che, noi possiamo sempre astenerci dall'ammettere in nostra credenza le cose che non conosciamo bene»47 e, aggiungo io, è tale che, sempre che ci piaccia, noi possiamo al contrario continuare ad ammetterle nella nostra credenza.48 Alla fine49 risulterà che siamo tanto più liberi quanto più ci asteniamo dal giudicare ciò che non conosciamo bene e quanto più tratteniamo la nostra facoltà di volere entro i limiti della ragione. Ma all'inizio, prima ancora che la via del dubbio sia stata imboccata, perché dobbiamo scegliere questa strada piuttosto che un'altra, perché dobbiamo decidere di dubitare invece di continuare a tener ferme le nostre prece­ denti opinioni? Certo possiamo farlo, ma perché dobbiamo? Non si danno, sembra, che due possibilità. O il dubbio non è affatto necessario, e allora la decisione di dubitare è un'eve­ nienza della biografia cartesiana, una decisione che a Descar­ tes è capitato di prendere e che, in seguito alla lettura del suo bel racconto, potrebbe capitare ad altri di prendere; oppure il dubbio è una necessità. Ma allora la connessione fra la volontà e la ragione deve essere già avvenuta, la ragione nella sua pu­ rezza - che si trova in fondo alla via del dubbio - deve essere in qualche modo presentita, e la volontà deve aver già scelto per la ragione. Il testo cartesiano inclina manifestamente verso questa seconda alternativa50 : l'avvio del processo di liberazio­ ne della ragione presuppone la volontà di seguire le indica­ zioni della ragione stessa, la quale prescrive sin dall'inizio di non prestar fede a ciò che non sia assolutamente certo ed in-

47 Principia Philosophiae, I, 6 AT Vili p. 6; tr. it. p. 23. 48 Su questa difficoltà cfr. Gouhier [1954] p. 154 e anche Wild [1980] pp. 31-35. 49 Nella Quarta Meditazione. Cfr. AT VII pp. 58-59; tr. it. pp. 54-55. 50 Si veda ad esempio la risposta di Descartes (AT VII pp. 473-474; tr. it. p. 445) all'obiezione del Padre Bourdin secondo la quale le ragioni ap­ portate a favore del dubbio sono esse stesse dubbie e non possono quindi costringere al dubbio (AT VII p. 469-471; tr. it. pp. 440-442).

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dubitabile.51 Ma non basta. La ragione-meta delle Meditazioni non si limita a prescrivere alla volontà del meditante l'astensione dalla credenza nelle opinioni dubbie, ma fa anche brillare da­ vanti ai suoi occhi il criterio dell'indubitabilità. Nel momento in cui si accinge a meditare, Descartes sa già non solo che il dubitabile è altro dalla ragione, ma sa anche che l'indubitabile ha il carattere della validità atemporale. E contro quest'identi­ ficazione del criterio dell'indubitabilità con la validità atem­ porale non viene avanzato alcun dubbio. Descartes non si chiede in modo veramente radicale cosa sia l'indubitabilità: la domanda «qual è il criterio ultimo della differenza fra il dubi­ tabile e l'indubitabile?» è, per così dire, posta fra parentesi, e la sua presupposta soluzione costituisce il punto di partenza di ogni domanda, di ogni dubbio e di ogni fondazione dell'in­ dubitabile. Detto nel linguaggio dei paragrafi precedenti: poi­ ché Descartes non cerca l'origine della differenza fra sogget­ tività ed oggettività, ma della differenza dell'oggettività ri­ spetto alla soggettività, va da sé che egli debba avere una qualche precomprensione dei caratteri distintivi dell'oggettività. Certo, diversamente da quanto avviene nelle modelliz­ zazioni dogmatiche della conoscenza, la fondazione cartesiana del sapere non presuppone la possibilità dell'oggettività ma la fonda, non presuppone una determinata formula dell'oggettività, ma la fa emergere con un'operazione di purifica­ zione del concetto di oggettività, condotta seguendo le indi­ cazioni positive dello scetticismo. Tuttavia, perché Descartes possa di fatto avviare e portare a termine quest'operazione, egli deve avere una qualche precomprensione di quel concetto puro dell'oggettività che ne rappresenta la meta. Questa pre­ comprensione è la stella polare del meditante, il quale non va a sbattere fortuitamente in quel concetto puro, ma lo cerca e solo per dirigersi verso di esso si mette in cammino. Il duplice presupposto che 1. il dubitabile è altro dalla ra­ gione nella sua purezza e 2. il criterio dell'indubitabilità è dato dalla validità atemporale, predetermina, congiunto ad una se­ rie di assunzioni implicite sulla struttura della temporalità, l'intera organizzazione delle Meditazioni, definendone le varie 51 Cfr. ad esempio AT VII p. 18; tr. it. p. 17.

80 tappe - il dubbio (i), il cogito (ii) e Dio (iii) - e, soprattutto, le modalità del passaggio dall'una all'altra tappa. (i) Il criterio dell'indubitabilità è anzitutto il perno attorno al quale ruota il dubbio. Dubbie si rivelano tutte quelle opinioni che, seppur accolte in un dato momento come vere, possono in seguito rivelarsi false. Dubitabile è tutto ciò che risulta suscet­ tibile di disillusione, ciò la cui verità è stata talvolta oppure potrebbe, a certe particolari condizioni, venir smentita dal­ l'esperienza dell'aver errato. Detto altrimenti: dubitabile è ciò di cui il fatto che mi appaia certo qui ed ora non implica che mi apparirà certo in ogni momento della mia futura esistenza, ciò la cui verità non è implicata dalla mia soggettiva, mo­ mentanea certezza.52 Cercando l'indubitabile, Descartes mira dunque molto in alto. La conseguenza è che tutte le sue prece­ denti opinioni - da quelle oscure dei sensi alle più elementari e luminose verità matematiche53 - possono venir rigettate nella sfera del dubitabile. La dubitabilità delle prime, la pos­ sibilità che esse si rivelino false dopo esser state ritenute vere, dipende in primo luogo dai loro oggetti: l'inadeguatezza della conoscenza sensibile al criterio della validità atemporale è so­ prattutto una conseguenza della mutevolezza dei suoi oggetti, mutevolezza che è all'origine della sua peculiare oscurità e confusione. Ma le opinioni dei sensi sono dubbie anche in un secondo senso, più radicale: lo stesso senso nel quale possono 52 II nesso del dubbio con la temporalità e con l'esperienza dell'errore è meno evidente nella prima Meditazione, che non ad esempio nella Quinta (AT VH pp. 69-70; tr. it. pp. 64-65) e nei primi paragrafi dei Principia Philosophiae (AT Vili pp. 5-6; tr. it. pp. 22-23). 53 Non c'è unanimità fra gli studiosi di Descartes sul significato che questi assegna alla dubitabilità delle verità matematiche. Secondo alcuni interpreti (cfr.ad esempio Frankfurt [1970] pp. 75 sgg.) Descartes esten­ derebbe il dubbio iperbolico anche a «ciò che vien percepito chiaramente e distintamente» e quindi anche alla proposizioni matematiche. Secondo altri (cfr. Cottingham [1986] capitoli II e DI) la certezza di ciò che è chia­ ro e distinto non verrebbe intaccata neppure dall'ipotesi estrema del genio maligno, la quale avrebbe solo la funzione di mettere in crisi la conser­ vazione della certezza di ciò che è stato percepito come chiaro e distinto, quando non sia più attualmente percepito. Senza impegnarmi a sostenere che sia l'unica possibile, seguirò questa seconda interpretazione che, sia per i riscontri testuali sia per le conseguenze in rapporto al problema del circolo fra il cogito e Dio, mi sembra comunque più plausibile della pri­ ma.

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venir considerate dubbie anche le conoscenze chiare e distinte, tra le quali le verità matematiche. Queste ultime infatti non vengono poste in dubbio in ragione della mutevolezza ed oscurità dei loro oggetti, ma a causa della mutevolezza del soggetto che le conosce. Nel momento in cui alcunché di chia­ ro e distinto si presenta allo spirito è impossibile dubitare di esso54: Descartes riconosce esplicitamente l'impossibilità di dubitare di verità matematiche del tipo «la somma dei tre an­ goli interni di un triangolo è uguale a due retti», nel momento in cui la loro dimostrazione è attualmente presente allo spiri­ to.55 Tuttavia, all'inizio della propria ricerca di un fondamento apodittico del sapere, egli può e deve sospendere la credenza in tali verità in nome della possibilità che prima o poi, aven­ done dimenticata la dimostrazione, si convinca sulla base di altre ragioni (ad esempio l'ipotesi di un genio maligno) di es­ sersi ingannato nel ritenerle vere.56 Questa seconda più radicale ragione del dubbio, in nome della quale vengono messe fra parentesi anche le conoscenze chiare e distinte, è suscettibile di fraintendimenti. Potrebbe in­ fatti sembrare che la mutevolezza della soggettività cono­ scente, la quale insidia la conservazione della certezza delle verità chiare e distinte, debba venir interpretata in senso esclusivamente psicologico. Potrebbe cioè sembrare che a mi­ nare quella conservazione, a far sì che anche alla conoscenza delle verità matematiche possa seguire l'esperienza della disil­ lusione, sia da un lato una certa inefficienza della memoria, la quale dimentica le dimostrazioni di tali verità, e sia d'altro lato una certa debolezza dell'attenzione, che non può essere rivolta costantemente ad un medesimo oggetto.57 In realtà il lato psi­ cologico della questione è il più superficiale: dietro di esso si 54 Persino gli scettici non possono dubitare, se non a parole, di ciò che percepiscono chiaramente nel momento in cui lo percepiscono: «...E certo non ho mai negato che anche gli scettici, finché percepiscono chiaramen­ te una verità, le diano spontaneamente il loro assenso, e che essi non pos­ sono perseverare nella loro eresia di dubitare di tutto, se non a parole, o forse per volontà o per abitudine.» (Lettera a Hyperaspistes dell'agosto 1641, AT HI, p. 434). 55 AT VII pp. 69-70; tr. it. pp. 64-65. 56 AT VH pp. 69-70; tr. it. pp. 64-65. 57 AT VII p. 69; tr. it. p. 64. AT VII p. 140; tr. it. p. 132.

82 nasconde un'intera costellazione di presupposti epistemologici sul rapporto fra pensiero simbolico ed intuizione, di presup­ posti ontologici sulla temporalità costitutiva del soggetto che conosce e che dubita, e di presupposti metafisici sul rapporto fra temporalità e creazione. Solo questo insieme di presupposti spiega come l'impossibilità psicologica di tener costantemente ferma l'attenzione su di un medesimo oggetto possa divenire ragione della dubitabilità delle conoscenze chiare e distinte. Ora, non è certo questo il luogo per tentare di sceverare e portare alla luce questa fitta rete di assunzioni semisom­ merse.58 Ai miei fini basterà osservare, con una certa approssi­ mazione, come il problema della conservazione della certezza non sia che una versione epistemologica del problema ontologico della conservazione di me stesso attraverso tutti i momenti della mia esistenza. Come chiarisce Descartes nella Terza Meditazione, «tutto il tempo della mia vita può essere diviso in un'infinità di parti, ciascuna delle quali non dipende in nessuna maniera dalle altre». Così, «dal fatto che un poco prima sono esistito non segue che io debba esistere adesso, a meno che in questo momento qualche causa mi produca, e mi crei, per così dire, da capo».5960Se dunque una causa non inter­ venisse a ricrearmi in ogni momento della mia esistenza io non sarei una sostanza che dura attraverso vari momenti, ma mi sfalderei in tali momenti. O meglio: se nessuna causa mi conservasse identico attraverso il mio durare, io non sarei, giacché non ho in me alcuna virtù che mi faccia perseverare 60, ed il mio durare ha la propria garanzia al di fuori di sé.61 58 Cfr. in proposito Neri [1991]. 59 AT VII pp. 48-49; tr. it. p. 46. All'obiezione di Gassendi che «non si può immaginare nessuna cosa, le cui parti siano più inseparabili le une dalle altre che quelle del tempo, il legame ed il seguito delle quali siano più indissolubili, e in cui le parti che seguono si possano meno distaccare e possano aver maggiore unione e dipendenza con quelle che le precedo­ no» (AT VII p. 301; tr. it. p. 291), Descartes risponde che questa conti­ nuità è propria delle parti del tempo «considerato astrattamente» ma non della durata della cosa che dura. (AT VII p. 370; tr. it. p. 353) 60 AT VII p. 49;tr. it. p. 46. AT VII pp. 370; tr. it. pp. 353-354. 61 Questa concezione, per la quale io non ho in me la garanzia del mio perdurare identico a me stesso equivale ad una sospensione del primo presupposto dell'argomento formale contro lo scetticismo che abbiamo individuato al § 2.3.

83 Allo stesso modo la certezza che in un dato momento della mia esistenza io ho di una conoscenza chiara e distinta non ha in sé la garanzia del proprio sussistere al di là di sé, ché le parti del tempo nel quale tale certezza dovrebbe durare sono tutte slacciate le une dalle altre. Perché la certezza si mante­ nesse attraverso di esse, dovrebbe venir ad ogni momento nuovamente ricreata. Per conservare la certezza della propo­ sizione «la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti» dovrei potermi costantemente ripresentificare chiaramente e distintamente la sua dimostrazione. Se dunque l'impossibilità psicologica di tenere l'attenzione costantemente rivolta verso tale dimostrazione diviene una ragione della dubitabilità di quella proposizione è perché i momenti del tempo attraverso cui la sua certezza dovrebbe mantenersi sono tutti sconnessi, ed il fatto che qualcosa ora mi appaia certo non implica e - data la struttura della temporalità - non può impli­ care, che mi appaia tale anche in seguito. Riassumiamo: il presupposto 1. che misura dell'indubitabilità sia la validità atemporale, che dubitabile sia tutto ciò di cui il fatto che mi appaia certo qui ed ora non implica che mi ap­ parirà certo in ogni momento della mia futura esistenza e il presupposto 2. che la temporalità costitutiva del soggetto che conosce e che dubita sia formata da una successione di mo­ menti sconnessi, che trapassano l'uno nell'altro solo in virtù di una causa ad essi esterna, determinano il risultato della Prima Meditazione, il dubbio radicale. Data la struttura della tempo­ ralità, nulla di ciò che mi appare o mi è apparso certo in un dato momento ha in sé la garanzia che mi apparirà certo anche in futuro e, in generale, in momenti diversi da quello in cui mi è apparso certo. Allo stesso tempo, i due presupposti, che rendono possibile il dubbio radicale e ne determinano il risultato, predelineano l'unica possibile via d'uscita dalla situazione cui approda la Prima Meditazione: l'indubitabile potrà venir raggiunto solo se sarà possibile conseguire una conoscenza chiara e distinta che nel momento in cui è attualmente presente allo spirito è assolutamente certa - della garanzia della conservazione della certezza di se stessa e di ogni altra conoscenza chiara e di­ stinta, al di là del momento in cui è attualmente presente allo spirito. Il conseguimento di tale conoscenza avviene in due

84 momenti, (ii) e (iii). (ii) In un primo momento (Seconda Meditazione) si appro­ fondisce il nesso fra la chiarezza e distinzione di una cono­ scenza ed il suo essere assolutamente certa finché è attual­ mente presente allo spirito. Tale approfondimento avviene in tre tappe. Descartes indica innanzitutto una prima conoscenza certa.62 Delimita e purifica, in secondo luogo, il concetto di conoscenza chiara e distinta rispetto alla conoscenza oscura dei sensi.63 Conclude infine mostrando la connessione fra l'estrema chiarezza e distinzione della prima conoscenza certa e la sua certezza ed estrapolandone il criterio della verità della conoscenza.64 Quella prima conoscenza è, come è noto, il cogito - ossia la conoscenza assolutamente certa che io ho, tutte le volte che lo penso, di essere una cosa che pensa - la quale, per la sua estrema purezza (in essa, dice Descartes, «non si trova nient'altro che una chiara e distinta percezione di ciò che affermo»65) diviene il modello di ogni conoscenza certa, dal quale viene estrapolata la regola generale che «tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distin­ tamente sono vere».66 (iii) In un secondo momento (Terza Meditazione) Descartes àncora il principio della verità della conoscenza - il principio di chiarezza e distinzione - aH'origine di ogni certezza: la ve­ racità divina. Ora, che il modello di ogni conoscenza certa - il cogito - non possa divenire esso stesso la fonte di ogni cer­ tezza, ma debba venire a sua volta fondato in alcunché di estrinseco, è conseguenza di quanto abbiamo detto a proposito del criterio dell'indubitabilità e della struttura della tempora­ lità. Per aggirare la difficoltà che la struttura della temporalità oppone al conseguimento di conoscenze indubitabili, Descar­ tes compie, nel cogito, una sorta di riduzione della temporalità al presente67 : l'assoluta certezza del cogito deriva dal fatto che 62 Nella prima parte della Seconda Meditazione. 63 Nella seconda parte della Seconda Meditazione. 64 All'inizio della Terza Meditazione. 65 AT VII p. 35; tr. it. p. 33. 66 AT VII p. 35; tr. it. pp. 33-34. 67 Cfr. Neri [1991] p. 212. Lasciamo qui in sospeso la questione se si tratti di un presente istantaneo (cfr.Wahl [1920] pp. 1-5), di un presente dotato di durata (cfr. Beyssade [1979] p. 136), o quale altra struttura esso

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esso è, per così dire, pura presenza di me a me stesso nel mo­ mento in cui penso; va da sé che il prezzo da pagare per otte­ nere una tale certezza sia il sacrificio delle altre dimensioni temporali. L'assoluta certezza è tale solo finché penso: «lo so­ no, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo quanto lo penso; perché forse mi potrebbe ac­ cadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere e d'esistere.»68 D'altra parte, però, il criterio dell'indubitabilità impone che il fondamento di tutto il sapere, di cui le Medita­ zioni sono alla ricerca, valga attraverso, anzi al di sopra di tutte le dimensioni della temporalità. La certezza del cogito ri­ chiede dunque un fondamento ulteriore, la veracità divina, la quale è la garanzia della sua conservazione e della conserva­ zione della certezza di ogni conoscenza chiara e distinta.69 Non voglio soffermarmi qui sul modo in cui Descartes s'in­ nalza dal cogito a Dio. Vorrei solo osservare che, stando all'in­ terpretazione che abbiamo dato e del dubbio e del suo trapas­ sare nel cogito, non sussiste affatto il circolo, denunciato già dai primi lettori delle Meditazioni10, implicito nella necessità di disporre del principio di chiarezza e distinzione per di­ mostrare 1'esistenza di Dio e d'altra parte di aver dimostrato 1'esistenza di Dio per poter fare affidamento su quel principio. La certezza del cogito, e di ogni conoscenza chiara e distinta, non ha bisogno, entro i suoi ristretti limiti temporali, di alcuna garanzia esteriore. E 1'esistenza di Dio può venir dimostrata71 assuma (cfr. l'interessante soluzione proposta da Neri [1991] pp. 212219). 68 AT VII p. 27; tr. it. p. 26: «Io sono; io esisto, ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe acca­ dere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere o d'esistere.» 69 Nel linguaggio dell'esposizione della struttura della via trascendentale di superamento dello scetticismo (cfr. § 2.4), si direbbe che la separazio­ ne del cogito e delle conoscenze chiare e distinte dalla conoscenza oscura equivale alla separazione delle tracce di oggettività che la conoscenza fat­ tuale reca in sé dalla soggettività ad esse mescolata, alla purificazione del concetto di oggettività, mentre la fondazione del principio di chiarezza e distinzione in Dio corrisponde alla fondazione dell'oggettività della cono­ scenza fattuale nella sua origine trascendentale. 70 Cfr. ad es. AT VH pp. 124-125; tr. it. p. 119. 71 Possiamo lasciare in sospeso il problema se tale dimostrazione avven­ ga nel pensiero discorsivo oppure nell'intuizione.

86 entro quei ristretti limiti. Le prime due dimostrazioni dell'esi­ stenza di Dio, congiunte all'affermazione della veracità divina, non sono altro che quella conoscenza chiara e distinta, assolu­ tamente certa nel momento in cui è attualmente presente allo spirito, della garanzia della conservazione della certezza di ogni conoscenza chiara e distinta al di là del momento in cui è attualmente presente; quella conoscenza, cioè, che rappresenta l'unica via d'uscita possibile dall'infemo del dubbio. La vera circolarità presente nella fondazione cartesiana del sapere, sulla quale abbiamo insistito sin dall'inizio, non lega fra loro Dio ed il cogito, bensì Dio ed il dubbio. Come afferma Descartes stesso, l'idea di Dio alla quale approda la sua medi­ tazione è in certo modo prioritaria rispetto al dubbio: «Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualcosa, e che non sono del tutto perfetto, se non avessi in me nessuna idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura?»72 Sim­ metricamente, la consapevolezza che io ho di tale idea, la quale costituisce la condizione di possibilità del dubbio, scatu­ risce dal dubbio stesso: «E quando io considero che dubito, cioè che sono una cosa incompleta e dipendente, l'idea di un essere completo e indipendente, cioè di Dio, si presenta al mio spirito con tanta distinzione e chiarezza...».73 Come dicevamo all'inizio: l'ideale dell'assoluta certezza è il motore del dubbio, che il dubbio fa emergere nella sua purezza. È così giunto, finalmente, il momento di considerare se in rapporto al problema che ci interessa - il problema del supera­ mento dello scetticismo - questa circolarità non dia luogo a difficoltà. Ora, ciò che caratterizza la via cartesiana di supera­ mento dello scetticismo rispetto alla via formale74 è la consa­ pevolezza dell'interdipendenza fra tale superamento ed il ri­ conoscimento di un relativo diritto, di un significato positivo dello scetticismo. Questa consapevolezza, oltre che nei passi appena citati, in cui Descartes riconosce il nesso fra il dubbio e l'idea di Dio, è espressa con tutta chiarezza nelle Risposte alle Settime Obiezioni. All'obiezione del Padre Bourdin che il 72 AT VII pp. 45-46; tr. it. p. 43. 73 AT VII p. 53; tr. it. p. 50. 74 Cfr. § 2.4.

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metodo del dubbio «pecca per eccesso»75, Descartes risponde che senza la radicalizzazione del dubbio che egli effettua nella Prima Meditazione è impossibile trovare argomenti che con­ futino gli scettici e pongano, una volta per tutte, il sapere al ri­ paro dai loro attacchi. Lungi dal consegnare Descartes alla setta degli scettici, il dubbio radicale ne fa al contrario colui che «per primo ha rovesciato il [loro] immenso dubbio».76 Se con il dubbio Descartes riconosce e sfrutta il significato posi­ tivo dello scetticismo, nella struttura del cogito egli raggiunge, o dovrebbe raggiungere, una cellula di certezza assolutamente irremovibile, che neppure gli argomenti scettici potrebbero mai tentar di scardinare. Con il dubbio, infatti, egli concede allo scetticismo 1. l'incertezza della conoscenza oscura dei sensi e 2. l'incertezza della conoscenza chiara e distinta per quel che attiene alla sua conservazione. Ma poiché il cogito è precisamente ciò che resta dopo Vepoché della conoscenza sensibile e la riduzione della temporalità al presente, la sua certezza non dovrebbe - e secondo Descartes non può, se non a parole77 - venir posta in discussione neppure dagli scettici.78 Se dunque si ammette quel che Descartes afferma piuttosto autoritariamente - e cioè che gli scettici non possono vera­ mente dubitare delle conoscenze chiare e distinte mentre que­ ste sono attualmente presenti allo spirito - sembra che nel co­ gito (dal quale è poi possibile innalzarsi a Dio) lo scetticismo risulti davvero superato. Con questo, tuttavia, abbiamo considerato solo un lato del­ l'interdipendenza fra il dubbio e l'ideale dell'assoluta certezza, quello per cui dal dubbio emerge la prima conoscenza certa. Ma perché questa prima conoscenza certa venga riconosciuta come certa, perché il dubbio stesso sia possibile - lo abbiamo detto più volte - occorre avere una precomprensione di quel­ 75 AT VII p. 530; tr. it. p. 495. 76 AT VII pp. 547-550; tr. it. pp. 511-513. 77 Cfr. sopra nota 54. 78 Descartes respinge la possibilità che egli si inganni anche in merito a ciò che percepisce chiaramente e distintamente nel momento in cui lo percepisce, in uno splendido passo delle risposte alle seconde obiezioni, che, per il suo assolutismo, è paragonabile alla confutazione husserliana del relativismo antropologico nei Prolegomena. (AT VII pp. 144-146; tr. it. pp. 136-137; per Husserl cfr. qui § 3.8).

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l'assoluta certezza che rappresenta la meta della fondazione del sapere. È questa precomprensione che guida le operazioni di astrazione e riduzione da cui emerge il cogito. È per amore di quest'assoluto ideale, che la conquista del cogito viene pa­ gata con il sacrificio della soggettività del sapere inautentico (la conoscenza oscura), la quale viene data in pasto agli scet­ tici. Ora, non è forse possibile che tale sapere inautentico così come nelle modellizzazioni dogmatiche accadeva alla soggettività da cui veniva astratta la formula dell'oggettività79 - si vendichi della propria esclusione dal modello del sapere e reclami i propri diritti? La scienza - scrive Hegel nell'Znfroduzione alla PhG: non può gettar via un sapere che non è verace considerandolo soltanto come una visione volgare delle cose, assicurando se stessa essere una conoscenza di tutt'altro tipo e dichiarando che per lei un tale sapere è assolutamente nullo; né può appellarsi a quel barlume di un miglior sapere che aleggia nel sapere non verace. Con tale assicurazione essa affermerebbe come propria forza il proprio essere-, ma anche il sapere non verace fa altret­ tanto appello al fatto che esso è; ed assicura che la scienza per lui non è niente: ma una secca assicurazione non conta più del­ l'altra.80 Se Hegel avesse ragione, la fondazione cartesiana del sapere, la sua purificazione del concetto di oggettività, dovrebbe aver per controparte la vendetta di ciò che tale fondazione e purifi­ cazione immolano sull'altare dell'assoluta certezza: la cono­ scenza oscura dei sensi, il sapere inautentico. Lungi dal la­ sciarsi definitivamente alle spalle lo scetticismo, tale fonda­ zione ne ingenererebbe una forma affatto nuova, la quale ne­ gherebbe (o porrebbe in dubbio) la differenza del sapere au­ tentico rispetto al sapere inautentico. Certo essa potrebbe ten­ tar di sfuggire all'attacco di tale nuova forma di scetticismo indicando tracce di sapere autentico nel sapere inautentico, ri­ ducendo la radicale alterità di quest'ultimo rispetto al primo. In questo modo tuttavia o si limiterebbe a spostare il problema - un elemento di inautenticità dovrebbe pur sussistere, nel sa­

79 Cfr. § 2.2. 80 HWHIp. 71; tr. it. p. 69.

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pere inautentico, per distinguerlo dal sapere autentico - oppu­ re finirebbe per sopprimere proprio quella differenza radicale fra sapere autentico e sapere inautentico, a partire dalla quale si costituisce come via trascendentale di superamento dello scetticismo, trapassando, a sua volta, in scetticismo. È vero che la negazione della differenza avverrebbe in tal caso da una prospettiva opposta a quella dello scetticismo - verrebbe cioè negata la differenza del sapere inautentico rispetto al sapere autentico - ma il risultato sarebbe identico. IL La circolarità della fondazione del sapere sembra dunque preparare delle difficoltà per il secondo momento costitutivo della via cartesiana di superamento dello scetticismo, il mo­ mento in cui essa dovrebbe giungere a definire il rapporto positivo fra l'oggettività pura e la soggettività da cui essa è stata isolata, fra la conoscenza chiara e distinta e la conoscen­ za oscura, fra la verità e l'errore. Ora, nel testo delle Medita­ zioni questo momento assume la forma concreta di spie­ gazione della possibilità dell'errore. Non possiamo tuttavia addentrarci qui in tale questione, che le sue intricatissime implicazioni teologiche ci condurrebbero troppo lontano dalla linea del discorso.81 Più facile (ed anche più proficuo) risulte­ rà invece mostrare come le difficoltà che la via cartesiana in­ contra nell'affrontare il problema della soggettività, il proble­ ma cioè del sapere inautentico, emergano i modo visibilissimo nelle Settime Obiezioni, le quali rappresentano una vera e pro­ pria rivolta del sapere inautentico. Ciò che, più o meno implicitamente, il Padre Bourdin mette in discussione è l'ideale che muove l'intera fondazione carte81 Con una certa superficialità, vorrei comunque osservare che, nella so­ luzione cartesiana del problema dell'errore, si riscontra la tipica oscilla­ zione della confutazione trascendentale dello scetticismo nell'assegnare uno statuto alla soggettività (cfr. § 2.4). Certo Descartes tien ferma l'idea che l'errore sia un semplice difetto o privazione. Tuttavia nell'interpreta­ zione concreta della possibilità di tale privazione oscilla fra l'idea che es­ sa sia originata dal limite invalicabile che il nulla oppone alla creazione (AT VII p. 54; tr. it. p. 51) e, d'altra parte, l'ipotesi che l'errore concorra positivamente alla perfezione dell'universo (AT VII p. 61; tr. it. p. 57). Dal primo punto di vista la soggettività nella sua purezza diviene una sorta di potere contrapposto all'origine; dal secondo, invece, essa tende a risolversi in oggettività.

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siana del sapere. A differenza di quella di Descartes, la sua volontà, non sembra per nulla vincolata dall'assolutezza di quell'ideale. Ed ai suoi occhi la «gran luce» della meta delle Meditazioni non ispira alcuna precomprensione dei caratteri dell'indubitabilità, dell'oggettività pura, paragonabile a quella che magnetizza Descartes. Correlativamente, la tranquilla fi­ ducia del Padre Bourdin nel senso comune e nella tradizione la sua tranquilla fiducia nel sapere inautentico - sembra asso­ lutamente irremovibile: non saprebbe determinarsi ad attraver­ sare l'infemo del dubbio, per inseguire conoscenze che non l'attraggono e di cui non intravede neppure la possibilità. Il sapere inautentico gli basta. Anzi, al di là di questo, non c'è per lui alcun sapere ma solo la possibilità di smarrirsi.82 Ora, a mio avviso, il Padre Bourdin muove a Descartes un'obiezione di capitale importanza. Egli mette in dubbio che le ragioni apportate da Descartes a favore del dubbio siano esenti da dubbi83 e afferma, implicitamente, di non essere di­ sposto a mettere in dubbio le opinioni comunemente ritenute vere in nome di ragioni esse stesse dubbie. Descartes risponde che per rendere necessario il dubbio bastano ragioni dubbie.84 Ma si vede bene che la risposta è assai debole. Essa vale solo qualora il suo destinatario presupponga e condivida quel cri­ terio dell'assoluta certezza, nel nome del quale Descartes de­ cide di dubitare. Ma è proprio questo criterio che il Padre Bourdin pone in discussione. Ciò che motiva la sua indispo­ nibilità a «diffidar troppo» è la convinzione che, nella ricerca della certezza, non sia necessario e neppure possibile mirare tanto in alto. Ed a questa presa di posizione Descartes può solo controbattere che, benché il suo avversario impieghi molte parole per cercar di persuadere che non bisogna diffidar troppo, è, nondimeno, cosa degna di nota che non porta la minima ragione per provarlo, se non soltanto questa, che egli teme o diffida che non si debba diffidar tanto: nel che v'è ancora 82 AT VII pp. 530-531; tr. it. pp. 495-496. 83 «Che ne sapete voi se questo astuto genio non vi proponga tutte le cose come dubbie ed incerte, nonostante siano certe e sicure, affinché, dopo avervele fatte respingere tutte, vi getti affatto nudo nella fossa che voi stesso vi siete scavata.» (AT VII pp. 470-471; tr. it. p. 442). 84 AT VH pp. 473-474; tr. it. p. 442.

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contraddizione; poiché, dal fatto solo che teme e che non sa con certezza che non deve punto diffidare, di là segue che deve dif­ fidare.85 Ma con questa versione sublimata dell'argomento del rove­ sciamento, Descartes ricade nelle difficoltà della confutazione formale dello scetticismo.8687Il Padre Bourdin potrebbe infatti ancora chiedere a Descartes come possa egli sapere, prima di aver conseguito una qualsiasi certezza, che non sapendo se si debba dubitare oppure no si debba dubitare, e che si debba da­ re una ragione della decisione di non dubitare piuttosto che di quella di dubitare. Potrebbe quindi tranquillamente dichiarare che dal canto suo, non sapendo se si debba dubitare oppure no, ritiene che non si debba dubitare. E una secca assicurazio­ ne - direbbe dunque Hegel - non conta più dell'altra. Se non fosse per la buona educazione del Padre Bourdin, che certamente gli impedirebbe di introdursi negli edifici at­ traverso aperture non deputate a questo scopo, potremmo dun­ que concludere che lo scetticismo cacciato dalla porta rientra qui dalla finestra. Esso si trasforma in negazione della diffe­ renza del sapere autentico rispetto al sapere inautentico. E per far fronte a questo reinsorgere dello scetticismo, Descartes ri­ cade all'indietro nella posizione del dogmatico: di fronte alla negazione della differenza dell'assoluta certezza rispetto alla più modesta plausibilità del sapere inautentico, non fa che contrapporre perentoriamente la sua affermazione. In realtà Descartes potrebbe - se non fosse, per l'appunto, Descartes - anche prendere l’altra delle due vie indicate da Hegel: anziché ribadire perentoriamente la differenza, po­ trebbe «appellarsi a quel barlume di un miglior sapere che aleggia nel sapere non verace». Potrebbe, cioè, provare a so­ spendere, o almeno addolcire, il terzo dei presupposti sottratti al dubbio radicale della prima Meditazione^ : il presupposto che la storia, l'educazione, l'esperienza abbiano corrotto l'uso della ragione, che il sapere cui questa corruzione ha dato luo­ go sia un sapere inautentico, da cui il sapere autentico debba semplicemente venir liberato. Così, anziché porre un baratro 85 AT VII p. 476; tr. it. pp. 446-447. 86 Cfr. § 2.3. 87 Cfr. sopra nota 46.

92 fra la conoscenza oscura e la conoscenza chiara e distinta, po­ trebbe considerare la prima come una fase preliminare della seconda; anziché interpretare l'instaurazione del sapere auten­ tico come rottura radicale con la tradizione potrebbe viceversa intenderla come telos di una tendenza immanente alla tradi­ zione stessa. In questo modo il dissidio con il Padre Bourdin sulle motivazioni del dubbio si svuoterebbe di senso. L'ideale dell'assoluta certezza non sarebbe più l'oggetto della scelta di un singolo - scelta che può venir considerata necessaria solo presupponendo che la volontà di tale singolo sia vincolata dall'oggetto della scelta prima che la scelta stessa venga effet­ tuata - ma sarebbe il telos necessario della tradizione. Non oc­ corre tuttavia articolare nei dettagli queste fantasie, per intuire le difficoltà che Descartes troverebbe su questa strada. Se in­ fatti egli tentasse di trasformare in correlazione la differenza fra sapere autentico e sapere inautentico, fra ragione e non­ ragione, tenendo ferma la sua precomprensione dei caratteri costitutivi dell'oggettività, il suo ideale monolitico ed assoluto di razionalità, si troverebbe di fronte all'alternativa tra l'insuc­ cesso ed il successo eccessivo e suicida. Nel primo caso, per non sovrapporre sapere inautentico e sapere autentico, distin­ guerebbe, all'intemo del sapere inautentico stesso, un lato au­ tentico e un lato inautentico. E così non farebbe che spostare il problema. Nel secondo caso, per dare al problema una solu­ zione radicale, dissolverebbe la differenza fra i due saperi e, con essa, la propria fondazione del sapere: fuori dalla ragione non resterebbe più nulla da cui purificarla; al di là dell'oggettività, non si darebbe più alcuna soggettività radicalmente al­ tra rispetto alla quale fondare la differenza dell'oggettività.

5. Il modello dialettico.

6. Il caso di Descartes mostra come il tentativo di superare lo scetticismo ancorando la differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività ad un'origine trascendentale, che presenti i ca­ ratteri della oggettività pura, sia destinato al fallimento. In quanto cerca l'origine della differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività, anche la via trascendentale di superamento dello scetticismo si rivela, in ultima analisi, circolare e non

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consente quindi di rompere il circolo che tiene congiunti dogmatismo e scetticismo. Certo il nesso che lega lo scettici­ smo alla via trascendentale è diverso da quello che lo lega al­ l'argomento formale: qui non ci troviamo più di fronte a uno statico contrapporsi deH'affermazione e della negazione della differenza. E diversamente da quanto avviene nelle modellizzazioni dogmatiche della conoscenza, la circolarità costitutiva della via trascendentale - che in Descartes, come abbiamo vi­ sto, lega indissolubilmente il dubbio all'ideale dell'assoluta certezza e l'ideale dell'assoluta certezza al dubbio - è sottratta, almeno parzialmente all'inconsapevolezza. Descartes non tro­ va la differenza, rigida ed immodificabile, ma, entro certi li­ miti (quelli segnati dalla sua precomprensione dei caratteri costitutivi dell'oggettività), la fa emergere. E di questa sua operazione è ben consapevole. D'altra parte, è pur vero che la confutazione trascendentale supera davvero una forma di scetticismo: quella di cui si serve per far emergere l'oggettività pura, per far emergere la differenza del sapere autentico (il cogito e la conoscenza chiara e distinta) rispetto al sapere inautentico (il sapere oscuro dei sensi). Tuttavia, mentre su­ pera questa forma di scepsi, ne sorgono altre. Di più: è la sua liberazione da questa forma che ingenera quelle nuove; è lo scavo della differenza fra sapere autentico e sapere inautentico che fa insorgere il Padre Bourdin, scettico malgré lui. Neppure alla via trascendentale riesce dunque di liberarsi dallo scettici­ smo in un sol colpo, che «all'idra scettica nascono teste sem­ pre nuove e ben presto si riproducono le teste già recise».88 Per introdurre gradualmente l'ultimo modello di superamen­ to dello scetticismo che vogliamo descrivere - la via dia­ lettica89 - possiamo tentare di chiarire, da un nuovo punto di 88 HUVHp. 57; tr.it. p. 74. 89 Se il pericolo di confusione con la terminologia husserliana non fosse stato eccessivo, avremmo dovuto dare a questa via la stridente denomi­ nazione di via «fenomenologico-dialettica», per distinguere il concetto di dialettica che la definisce da quello hegeliano, speculativo. Mentre in He­ gel (perlomeno nello Hegel maturo: cfr. ad es. Enciclopedia §§ 79-92; HW 8 pp. 168-179; tr. it. pp. 95-97) il momento propriamente negativo­ dialettico è già sempre pensato in rapporto al momento speculativorazionale, il momento della negazione è pensato a ritroso a partire da quello della sintesi, qui, tale momento, è pensato esclusivamente a partire

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vista, come accada che, nel superare una forma di scetticismo, la via trascendentale finisca per ingenerarne altre (I); e, in se­ condo luogo, quali conseguenze abbia questo fatto in rapporto alle possibili radicalizzazioni della via trascendentale (II). Per l'uno e per l'altro chiarimento, possiamo attingere libera­ mente^ alla discussione, che Hegel conduce nell'introduzione alla PhG91, intorno all'idea che la conoscenza filosofica debba esser preceduta da un'introduzione scettica. La nozione di «sich vollbringender Skeptizismus» in cui egli invera quel­ l'idea, e che - stando al progetto esposto nell'introduzione92 dovrebbe coincidere con l'intera PhG, in quanto essa rappre­ senta un'introduzione alla «scienza», è nozione che presenta forti analogie con la nostra via dialettica, anche se non è inte­ ramente sovrapponibile ad essa (III). I. Come abbiamo già accennato93, nella propria autocom­ prensione lo scettico oscilla fra due poli: da un lato si rin­ chiude nel «per sé» e afferma che le sue conclusioni valgono solo per lui, rappresentano la sua opinione e non pretendono affatto di avere una validità universale; dall'altro pretende di approdare a una negazione (o ad un dubbio) universale. La se­ dai suo raddoppio in se stesso. Hegel direbbe che, nella misura in cui pretende di distinguersi dal suo, questo concetto di dialettica è ancora astratto e intellettualistico. 90 Un'analisi che pretendesse di far emergere davvero il senso degli ac­ cenni allo scetticismo nelle poche e dense pagine dell'introduzione alla PhG non potrebbe fare a meno di inserirli non solo nel quadro di un'inter­ pretazione complessiva della PhG, ma anche nel contesto della riflessione che Hegel conduce sullo scetticismo già dai primi anni dell'800 e in parti­ colare dall'articolo del 1802 (Verhältnis des Skeptizismus zur Philoso­ phie. Darstellung seiner verschiedenen Modifikationen und Vergleichung des neuesten mit den alten, HW 2 pp. 213-272). Ho tentato di dare una tale lettura delle pagine in questione in un articolo di prossima pubblica­ zione. In generale su Hegel e lo scetticismo cfr. Röttges [1987] e Forster [1989]. 91 HW 3 pp. 68-81; tr. it. vol.I pp. 65-78. 92 Non possiamo certo discutere qui il problema se, nel corso della stesu­ ra della PhG, il progetto critico-gnoseologico di una «scienza dell'espe­ rienza della coscienza» che Hegel espone nell'Introduzione sia stato sosti­ tuito da un altro progetto (il progetto di una fenomenologia dello spirito) irriducibile ad esso. Cfr. in proposito Pöggeler [1961] e Pöggeler [1966]. 93 Cfr. sopra nota 4 e nota 10.

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conda autointerpretazione è propria dello scetticismo in quanto autocontraddittorio, il quale tende ad astrarre dalla propria umbratilità94, e pretende di essere assai più di quanto data tale umbratilità - esso è di fatto: ché, a partire da una de­ terminata precomprensione della differenza di soggettività ed oggettività, che accoglie da una forma determinata di dogma­ tismo e che lo guida nella sua attività fenomenologico-critica, pretende di metter capo alla negazione (o al dubbio) di ogni oggettività e di ogni sua differenza con la soggettività. Hegel illustra questo scarto fra ciò che lo scetticismo pretende di es­ sere in quanto negazione o dubbio universale e ciò che esso è di fatto, quando mostra, nella PhG, che lo scetticismo vede nel proprio risultato soltanto il puro nulla «ed astrae dal fatto che questo nulla è determinatamente il nulla di ciò da cui ri­ sulta».95 In altre parole, lo scettico non scorge che il risultato cui approda è soltanto un che di determinato, che è negazione determinata: la sua pretesa è di valere come negazione univer­ sale, mentre vale solo per quel determinato a cui rinvia. Ora, proprio questa pretesa è ciò da cui si fa irretire la via trascendentale. Nello scetticismo essa distingue due lati - uno negativo e uno positivo - che non coglie mai come connessi, a cui guarda separatamente. Quando si sofferma sul lato negati­ vo vede bene che lo scetticismo è autocontraddittorio e che non può approdare motivatamente ad un dubbio radicale; quando però si avvale del suo significato positivo, essa di­ mentica questo fatto, prende per buona la pretesa dello scet­ ticismo di valere come dubbio universale, e astrae dal fatto che, fra ciò che risulta dall'attività fenomenologico-critica di quest'ultimo e l'interpretazione che esso dà di tale risultato, sussiste una differenza abissale. Per questo, le sembra che, per rovesciare la negazione radicale in un'affermazione altrettanto radicale, risulti sufficiente da un lato riconoscere la validità degli argomenti con cui lo scetticismo mostra concretamente la mescolanza di soggettività ed oggettività e, dall’altro, circo­ scriverla, costruendo un modello di conoscenza, una formula dell'oggettività tale che per essa quegli argomenti, precisamente quegli argomenti, non valgano. In realtà però il fatto 94 Cfr 5 2 2 95 HW3p. 74; tr. it. p. 71.

96 che quegli argomenti non valgano non implica quel che, astraendo dall'umbratilità della forma scettica di cui si serve, la via trascendentale è indotta a credere, e cioè che non ne possano valere altri. Si comprende così che lo scetticismo le appaia come un'idra cui spuntano continuamente nuove teste. «Per noi», infatti, il carattere, per così dire, «tentacolare» che lo scetticismo as­ sume agli occhi della confutazione trascendentale, non è nulla di diverso dalla sua umbratilità, scorta dalla prospettiva di chi, nel proprio tentativo di confutazione, cerca di fame astrazione. Sorvolando su tale umbratilità, la via trascendentale può rite­ nere che la catarsi cui, servendosi del lato positivo dello scet­ ticismo, sottopone il concetto di oggettività dogmatico rappre­ senti una fondazione dell'oggettività in quanto tale e un defi­ nitivo superamento sia del dogmatismo sia dello scetticismo. Ma in realtà, la determinatezza della forma di scetticismo di cui si serve contagia di una pari determinatezza sia la catarsi del concetto di oggettività, sia il superamento dello scettici­ smo. Il dogmatismo da cui il concetto di oggettività viene de­ purato grazie allo scetticismo non è il dogmatismo in quanto tale, ma è una forma di dogmatismo: quella forma che costi­ tuisce l'obiettivo polemico dello scetticismo da cui la confu­ tazione trascendentale prende le mosse. Correlativamente, lo scetticismo effettivamente superato non è che una forma di scetticismo: quella forma che si rivolge contro quel determina­ to dogmatismo dal quale il concetto di oggettività è stato de­ purato. Fra l'interpretazione che, astraendo dall'umbratilità costitutiva dello scetticismo, la via trascendentale dà del pro­ prio risultato e ciò che essa è in sé sussiste dunque uno scarto incolmabile: ciò che le vale come oggettività pura presenta in realtà dei residui dogmatici. La sua pretesa di farla valere co­ me oggettività pura ha quindi come inevitabile conseguenza il contrattacco di nuove forme di scepsi, il cui obiettivo polemi­ co è costituito da quei residui. IL Per questa ragione, nelYIntroduzione alla PhG, Hegel af­ ferma che la semplice «liberazione dai pregiudizi», la semplice liberazione dal sapere inautentico che cade sotto il dubbio scet­ tico, non basta a far emergerò la verità, e che solo «lo scettici­ smo che si rivolge alì'intero ambito della coscienza apparente

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rende lo spirito capace di esaminare cosa sia la verità».96 Lo scetticismo, di cui l'inveramento dello scetticismo si avvale per il superamento dello scetticismo stesso, non può dunque limi­ tarsi ad una sua forma particolare, ma deve essere necessaria­ mente scetticismo intero, interamente esplicato nelle sue po­ tenzialità, già compiutamente applicato ad ogni contenuto e giunto a quel pieno compimento, in cui i risultati della sua fe­ nomenologia critica si adeguano all'universalità del dubbio. Ma allora - così sembra a prima vista - il destino della via trascendentale non appare segnato. Quest'esigenza di far leva su di uno scetticismo universale, che in fondo era già presente (anche se non realizzata) in Descartes, sembrerebbe lasciarsi porre e soddisfare anche sul terreno della via trascendentale: basterebbe che essa si dinamizzasse. Pur riconoscendo di ri­ uscire ad inverare e superare solo una forma particolare di scetticismo alla volta, potrebbe infatti trasformarsi in un pro­ cesso, nel corso del quale procederebbe ad un progressivo inveramento/superamento di tutte le possibili forme di scettici­ smo, iterando più volte il proprio procedimento fondamentale. La meta - anche solo ideale - di questo processo verrebbe consegiiita là dove non si darebbero più forme di scetticismo da inverare ed il concetto di oggettività risulterebbe depurato da ogni residuo dogmatico. Le conseguenze del fallimento della via trascendentale che abbiamo osservato in Descartes non appaiono dunque catastrofiche: una volta che essa abbia preso atto del reinsorgere di forme scettiche, sembra che le rimanga aperta la possibilità di ricominciare da capo e di libe­ rarsi, progressivamente, di ciascuna di queste forme. Tuttavia questa è un'astratta apparenza. Una simile possibi­ lità è di principio preclusa alla via trascendentale, almeno fino a tanto che rimane quella che è. Adattarsi ad introdurre al pro­ prio interno una processualità del genere comporta, per la via trascendentale, la sua stessa dissoluzione e da questa non si salva se non riformulando interamente il proprio assetto. La via trascendentale, infatti, potrebbe «inverarsi» dinamizzan­ dosi, solo se il nesso fra la determinatezza della forma di scepsi di cui si serve per fondare l'oggettività e superare lo scetticismo e, d'altra parte, il reinsorgere di forme scettiche 96 HW 3 p. 73; tr. it. p. 70. (Corsivo C.S.).

98 fosse puramente formale. Questo nesso, però, non è formale, ma dialettico. I residui dogmatici del concetto di oggettività, che la via trascendentale purifica con l'ausilio di una forma determinata di scetticismo, non sono semplicemente ciò che resta dopo tale depurazione, e che eventuali, successive depu­ razioni potrebbero facilmente eliminare, ma ne sono in certo modo il prodotto. L'umbratilità costitutiva dello scetticismo di cui la via trascendentale si serve non apre semplicemente un varco alle nuove forme di scetticismo, ma produce, per così dire, la specificità della forma scettica che minaccerà la tentata fondazione trascendentale dell'oggettività della conoscenza. In quanto la forma di scetticismo di cui la via trascendentale si serve, con la sua specifica precomprensione della differenza di soggettività ed oggettività (sulla quale si fondano i suoi ar­ gomenti contro una determinata forma di dogmatismo), prede­ termina il modello di conoscenza che la via trascendentale elabora, in modo tale da sottrarlo precisamente a quegli ar­ gomenti, quella forma di scetticismo predetermina anche il punto d'aggancio della nuova forma di scepsi che si scaglierà contro quel modello. Questa, infatti, si scaglierà proprio con­ tro quella precomprensione della differenza fra soggettività ed oggettività, che lo scetticismo ha assunto provvisoriamente da una forma di dogmatismo per poi negarne la validità, e che la via trascendentale, servendosi del significato positivo dello scetticismo senza tener conto della sua umbratilità, reinstaura nel proprio modello di conoscenza.97 97 Stilizzando il caso di Descartes, possiamo forse rendere il meccanismo un po' più intuitivo. Gli argomenti scettici della Prima Meditazione si fondano su di una determinata precomprensione della differenza di og­ gettività e soggettività: quella è caratterizzata dalla validità atemporale, questa dalla mutevolezza. Grazie a tali argomenti e, implicitamente, a tale precomprensione, Descartes approda 1. con gli scettici, ad un dubbio su tutte le proprie precedenti opinioni, che presume radicale e 2. contro gli scettici, al cogito ed al principio di chiarezza e distinzione, che costi­ tuiscono il primo l'incarnazione, il secondo la formula dell'oggettività di un tipo di conoscenza costruito in modo tale da risultare inattaccabile con gli argomenti scettici della Prima Meditazione. Il contrattacco dello scet­ ticismo (il Padre Bourdin) si rivolge precisamente contro ciò che sfugge al dubbio solo apparentemente radicale: la precomprensione della diffe­ renza dell'oggettività rispetto alla soggettività, su cui si fonda la possibili­ tà stessa del dubbio scettico, e che, nel capovolgimento cartesiano del

99 Se si tiene presente questa connessione - per cui la via tra­ scendentale, nel suo appropriarsi del significato positivo di una forma di scetticismo, nel suo inverarla, produce eo ipso la forma di scepsi che si scaglierà contro tale inveramento - si comprende come essa non possa semplicemente iterare il pro­ prio procedimento fondamentale, per tentare di inverate anche questa nuova forma, senza, per così dire, invertirsi in sé stessa e tornare sui propri passi. La strada della dinamizzazione della via trascendentale conduce dunque necessariamente ad un in­ successo. Se infatti quest'ultima giunge davvero a superare la nuova forma di scepsi (e tutta la catena delle successive), di­ strugge con ciò la fondazione del sapere che ha portato a com­ pimento inverando la prima forma. In caso contrario il supera­ mento definitivo dello scetticismo le rimane un miraggio, che essa rincorre come quell'asino il quale tenta disperatamente di afferrare una carota, che gli penzola davanti al muso sospesa ad un'asta fissata ad un carretto che esso stesso trascina.98 Dinamizzandosi, dunque, la via trascendentale o si suicida o si condanna ad una sorta di fatica di Sisifo; ma in nessun caso riesce ad inverare quello scetticismo universale che dovrebbe poter inverare per poter superare lo scetticismo stesso. E tutta­ via questa perentoria conclusione deve venir limitata: la dina­ mizzazione della via trascendentale non si rivela di per sé fal­ limentare, ma solo se considerata dall'intemo della stessa via trascendentale. Essa risulta ben altrimenti che fallimentare quando sia considerata da una diversa prospettiva: precisamente da quella che abbiamo assunta sin dall'inizio della no­ stra delineazione dei modelli di confutazione antiscettica. Da questo punto di vista, infatti, la dinamizzazione che dall'inter­ no muta l'assetto della via trascendentale acquista il carattere di un definitivo, anche se mai completo99, inveramento dello scetticismo. Questo punto di vista definisce la terza via di superamento dello scetticismo, la via dialettica, la quale non consiste in altro che nella dinamizzazione della via tra­ dubbio, viene reinstaurata come differenza fra conoscenza chiara e distin­ ta, assolutamente certa, e conoscenza oscura dei sensi, del senso comune e della tradizione; come differenza fra sapere autentico e sapere inauten­ tico. 98 Sartre [1943] p. 244. " Ma sarebbe meglio dire: definitivo perché mai completo.

100 scendentale con qualche aggiunta: con l'aggiunta, cioè, della consapevolezza del nesso dialettico fra le forme scettiche con­ futate e la loro confutazione/inveramento, e del nesso dialetti­ co tra questa confutazione/inveramento e le nuove forme di scepsi che essa ingenera; la consapevolezza insomma che la dinamizzazione della confutazione trascendentale dello scet­ ticismo porta necessariamente con sé la dinamizzazione dello scetticismo stesso. Ora, le linee portanti di questa «trasfigurazione» della via trascendentale in una nuova via di inveramento dello scettici­ smo sono state implicitamente indicate da Hegel nell'Introdu­ zione alla PhG. Nella misura in cui dipinge l'introduzione alla «scienza», in cui consiste la PhG, come un «sich vollbringen­ der Skeptizismus», Hegel delinea l'idea fondamentale di que­ sta nuova via: lo scetticismo universale che deve essere inve­ rato perché lo scetticismo risulti davvero superato non può es­ sere inverato da una forma di confutazione che gli rimanga esterna. È lo stesso scetticismo universale che deve prendere il posto di quella confutazione. Il compito di un inveramento dello scetticismo non è quindi di fondare un'oggettività che rappresenti il residuo di ogni possibile critica scettica, ma è quello di mostrare come lo scetticismo stesso non sia mai solo scettico, di raddoppiare in certo modo lo scetticismo, di ap­ plicarlo a se stesso, per mostrare come esso racchiuda anche un momento positivo, un momento antiscettico; per mostrare, cioè, come uno scetticismo che giunga a compimento finisca per trapassare ed anzi trapassi costantemente nel superamento di se stesso. Ma poi Hegel indica anche il mezzo di realizzazione di que­ st'idea fondamentale. Lo strumento di cui s'avvale l'inveramento dello scetticismo ottenuto mediante il costante «raddoppio» in se medesimo dello scetticismo stesso, è il con­ cetto di «negazione determinata». Dopo aver asserito che solo quello scetticismo universalmente esplicato, che si rivolge al­ l'intero contenuto della coscienza apparente, «rende lo spirito capace di esaminare cosa sia la verità», Hegel chiarisce che, perché un tale scetticismo risulti pensabile, è necessario supe­ rare il concetto astratto della negazione nel concetto di nega­ zione determinata, di negazione che ha anche un contenuto positivo. Finché il nulla è inteso astrattamente è impossibile 1.

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scorgere un qualsiasi significato positivo nel risultato cui lo scetticismo approda e 2. cogliere la necessità dello sviluppo dello scetticismo nelle sue varie forme; se nel risultato cui perviene lo scettico si coglie invece che esso è il nulla di ciò da cui risulta è possibile 1. scorgerne il lato positivo e quindi 2. il punto d'aggancio della nuova forma di scetticismo, che si sviluppa necessariamente dalla precedente:

Lo scetticismo che termina con l'astrazione del nulla o con la vacuità, non può da questa procedere oltre, ma deve aspettare se gli si possa mostrare un che di nuovo per gettarlo nel medesimo vuoto abisso. Se invece il risultato viene inteso come in verità esso è, come negazione determinata, ecco che allora è immedia­ tamente sbocciata una nuova forma, e nella negazione è stato aperto il passaggio attraverso il quale avviene lo spontaneo pro­ cesso attuantesi attraverso la serie delle figure.100 In breve: solo se si interpreta la negazione scettica come nega­ zione determinata, come negazione che, in quanto pretende di valere come universale, rinvia a quel determinato che essa to­ glie, il processo di esplicazione universale dello scetticismo ha eo ipso un lato positivo e la completa esplicazione dello scetti­ cismo è di per sé il superamento dello scetticismo stesso. La porta che dalla via trascendentale fa accedere alla via dialettica è dunque il concetto di «negazione determinata». Grazie a questo concetto, infatti, la via dialettica è in grado di interpretare la dinamizzazione dello scetticismo e la dinamizzazione del suo superamento come un unico processo, che può esser colto da due prospettive (quella dello scetticismo e quella della via trascendentale) solo in quanto si fa astrazione dal coimplicarsi di affermazione e negazione della differenza (nell'ottica scettica a favore della negazione; nell'ottica tra­ scendentale a favore dell'affermazione). In altre parole: grazie al concetto di negazione determinata, la via dialettica è in gra­ do di ricostruire il coimplicarsi del processo di superamento dello scetticismo e del processo di progressiva esplicazione delle potenzialità scettiche, in quanto coglie come, nell'esplicare le sue potenzialità, lo scetticismo trapassi costantemente in antiscetticismo, e simmetricamente, in quanto coglie come nel 100 HW 3 p. 74; tr.it. p. 71.

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suo sviluppo conseguente, la via trascendentale si capovolga costantemente in scetticismo. Un confronto con i modelli precedenti di superamento dello scetticismo potrà forse contribuire a chiarire ulteriormente questo assunto fondamentale della via dialettica. Come la via formale, la via dialettica afferma che lo scettici­ smo racchiude in sé una contraddizione, che le si presenta co­ me contraddizione fra ciò che esso è di fatto, in quanto attività fenomenologica che si svolge grazie ad una determinata pre­ comprensione della differenza di oggettività e soggettività, e ciò che pretende di essere in quanto dubbio radicale. Tuttavia, diversamente dalla via formale, la via dialettica non tenta il ri­ baltamento statico della posizione scettica e rinuncia alla pre­ tesa di confutare lo scetticismo facendo leva sulla sua auto­ contraddittorietà. Questa rinuncia è una conseguenza del fatto che, al pari della via trascendentale, la via dialettica riconosce la «non-rigidità» della differenza affermata dal dogmatico, negata dallo scettico e ribadita dall'argomento formale. La via dialettica, in altre parole, riconosce, come la via trascendentale e a differenza della via formale, il significato positivo dello scetticismo. D'altra parte, però, a differenza della via trascen­ dentale, non disgiunge questo riconoscimento dalla consape­ volezza deU'intrinseca contraddittorietà dello scetticismo. Questo le permette, in primo luogo, di cogliere come il tenta­ tivo trascendentale di inveramento dello scetticismo, che in quanto inveramento astrae da tale contraddittorietà, la assorba in sé trasmutata nello scarto fra ciò che tale tentativo pretende di raggiungere - la confutazione definitiva dello scetticismo in quanto tale - e ciò che esso riesce ad essere di fatto - la confu­ tazione di una o più forme di scetticismo, produttiva di altre, nuove forme di scepsi. E le permette, in secondo luogo, di scorgere come, per dinamizzarsi, la via trascendentale non possa semplicemente iterarsi lungo un percorso lineare e pro­ gressivo di superamento dello scetticismo, ma debba invece continuamente capovolgersi in se stessa, debba costantemente regredire per poter procedere, senza mai pervenire di fatto alla propria meta - il superamento definitivo dello scetticismo - se non a condizione di trasformarsi in scetticismo capovolto. Riducendo ai minimi termini questa serie di differenze si po­ trebbe dire che le vie precedenti si fondano (i) astrazione

103 dei due lati dello scetticismo (l'autocontraddittorietà e la ten­ denza al concreto) e (ii) sull'utilizzazione di uno di questi due lati come punto archimedeo per rovesciare lo scetticismo. La via dialettica invece (i) tiene ugualmente presenti le due carat­ teristiche strutturali dello scetticismo e (ii) rinuncia all'idea di un suo rovesciamento, che faccia leva su uno dei due lati astrattamente considerati.

(i) Con la prima trasformazione, la via dialettica si mette in condizione di teorizzare la circolarità costitutiva e dello scetti­ cismo e delle altre vie, e di discemere come le loro pretese di­ scendano dalla mancata consapevolezza di tale circolarità. Agli occhi di chi ha superato l'astrazione fra i due lati dello scetticismo, infatti, sia le modellizzazioni dogmatiche della conoscenza, sia lo scetticismo, sia la via formale di confuta­ zione dello scetticismo, sia la via trascendentale, mostrano una struttura circolare: sia che mirino alla negazione, sia che miri­ no aH'affermazione della differenza, sia che facciano scaturire tale negazione o affermazione da un'attività fenomenologica (come lo scetticismo e la via trascendentale che sfrutta il significato positivo dello scetticismo), sia che la facciano scaturire da un'argomentazione logica (come la via formale), tutte devono comunque poter disporre di una precomprensione della differenza stessa, sulla quale si fonda la possibilità del loro reciproco criticarsi e, d'altra parte, il loro reciproco in­ dissolubile nesso. Tuttavia, né le modellizzazioni dogmatiche, né lo scetticismo, né la via formale, né la via trascendentale, sono pienamente consapevoli di questa loro intrinseca circo­ larità e, soprattutto, delle sue conseguenze. Questa mancata consapevolezza si riflette sia nell'autocomprensione dello scetticismo, che ritiene possibile approdare, motivatamente, ad un dubbio radicale; sia nell'autocomprensione della via for­ male e trascendentale, che ritengono possibile - non importa se con metodi diversi - ribaltare in un sol colpo la posizione scettica. E questa mancata consapevolezza si riflette infine an­ che nell'autocomprensione della via più vicina a quella dialet­ tica, la via trascendentale dinamizzata, la quale guarda alla meta del proprio progressivo processo di superamento dello scetticismo, come a una meta disgiungibile dal processo che ad essa conduce, come a un che di separato dalla precom­ prensione che la anticipa, la indica al processo e spinge il pro-

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cesso stesso verso di essa. La via trascendentale, infatti, può continuare a concepire una meta che si ponga completamente al di là del processo di confutazione dello scetticismo - un punto luminoso dal quale l'ombra scettica risulti compietamente espunta - solo fintanto che dispone di una precom­ prensione del concetto di oggettività, della differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività, di cui ignori il nesso dialet­ tico con la precomprensione della differenza dello scetticismo stesso; solo fintanto che dispone di una precomprensione della differenza che tien ferma, pretende di tener ferma, al di fuori ed al di sopra del processo che alla fondazione di tale diffe­ renza conduce. Quando invece la via trascendentale faccia emergere ogni precomprensione dal seno del processo stesso, riconosca pienamente la circolarità fra precomprensione e af­ fermazione o negazione della differenza e divenga quindi con­ sapevole del nesso dialettico fra lo scetticismo ed il suo inveramento/confutazione trascendentale, essa abbandona auto­ maticamente il miraggio di una meta del processo di supe­ ramento dello scetticismo definita al di fuori ed indipendente­ mente dal processo stesso. Diviene così via dialettica: all'idea di un processo lineare di superamento dello scetticismo che tenda verso una meta trascendente il processo stesso, sostitui­ sce l'idea di una migrazione della differenza attraverso le sue affermazioni, negazioni e riaffermazioni. Anziché tentare di superare lo scetticismo fondando la differenza in un'origine in sé semplice, essa ne ricostruisce le metamorfosi, lungo il moto intrecciato dello scetticismo e della sua confutazione. (ii) La prima trasformazione introdotta dalla via dialettica ha dunque per conseguenza la seconda: e cioè l'abbandono del­ l'idea che lo scetticismo possa essere completamente ribaltato, dell'idea che dalla circolarità di scetticismo ed antiscetticismo sia possibile uscire. Poiché tale circolarità rappresenta una struttura onnipervasiva, presente all'interno dello scetticismo stesso, essa non può venir trascesa nella negazione scettica o nella fondazione trascendentale della differenza dell'oggettività rispetto alla soggettività, ma può solo venir mostrata e rico­ struita là dove non appare. Con questa seconda trasforma­ zione, la via dialettica lascia cadere il tratto critico-polemico (che accomuna le modellizzazioni dogmatiche, lo scetticismo, la via formale e la via trascendentale) consistente nell'affer-

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mare o negare la differenza di contro a chi, rispettivamente, la nega o rafferma. Anziché affermare o negare la differenza a partire da una certa precomprensione della stessa, se la lascia apparire davanti e ne ricostruisce le variazioni nella dialettica fra lo scetticismo e la sua confutazione, mostrando, in ogni tentativo di negazione, come esso rinvìi ad una determinata af­ fermazione e, in ogni affermazione, come essa rinvìi ad una determinata negazione. Questo tuttavia non significa che essa abbandoni interamente il lato critico. Semplicemente lo tra­ sforma: la sua critica dello scetticismo consiste nel lasciarlo esplicare e nell'applicarlo a se stesso, al fine di mostrare la dif­ ferenza fra ciò che esso è come tendenza astratta e ciò che es­ so è in quanto realizzazione concreta di tale tendenza.

III. Il pensiero fondamentale della via dialettica sembra dun­ que questo: lo scetticismo non può e non deve venir ribaltato perché non esiste, o, per meglio dire, non esiste mai se non come tendenza che non è suscettibile di realizzarsi senza an­ che negarsi. La differenza che lo scettico nega (o pone in dubbio) non può essere fondata, perché ogni affermazione e ogni negazione si muovono al suo interno: la differenza è l'elemento in cui può apparire qualcosa come uno scettico e, d'altra parte, un antiscettico. Se questo è vero, allora, per la stessa ragione per cui la via dialettica appare come l'unica via d'inveramento dello scetticismo, essa appare come una via in­ definitamente aperta, che non può mai giungere a compi­ mento, perché non può trascendere la differenza entro cui essa stessa si muove. In questo, la nostra prospettiva è ovviamente diversa da quella hegeliana. Il «sich vollbringender Skeptizismus» in cui consiste la PhG conduce necessariamente alla «scienza», e il terreno della differenza fra soggettività ed oggettività, fra in sé e per sé, fra concetto e oggetto, viene superato nell'elemento di quest'ultima. Della completa esplicazione di tale scetticismo fa parte non solo la serie delle sue figure, ma anche la meta verso cui esso tende, che è «là dove il sapere non ha più biso­ gno di andare oltre se stesso, dove trova se stesso, dove il con­ cetto corrisponde all'oggetto e l'oggetto al concetto».101 La 101 HW 3 p. 74; tr. it. pp. 71-72.

106 PhG pretende dunque di rappresentare un effettivo supera­ mento dello scetticismo, nella misura in cui finisce per portar via allo scettico il terreno su cui egli si muove: la differenza fra in sé e per sé. In altre parole, la PhG pretende di rappresen­ tare un'effettiva, definitiva, completa autoesplicazione dello scetticismo, che si identifica con la sua autodìssoluzione, con il suo autosuperamento nella scienza. Non è certo questo il luogo adatto a chiarire su quali presup­ posti si fondi questa pretesa della PhG e a quali problemi dia adito.102 Mi limito ad osservare che, a mio avviso, Hegel paga a caro prezzo l'idea che la PhG conduca necessariamente ad un superamento definitivo della prospettiva scettica. Dopo aver affermato che il processo verso questa meta «non può subire arresti» né incagliarsi in nessuna delle figure intermedie, He­ gel è infatti costretto ad ammettere un'eccezione, a riconoscere una figura ribelle ed irrecuperabile alla scienza: si tratta di quella «vanità che è capace di vanificare ogni verità per tor­ narsene poi in se stessa, e che si pasce del suo proprio intel­ letto il quale, dissolvendo ogni pensiero, non sa ritrovare un contenuto, ma soltanto l'arido Io»103. E di questa figura irri­ tante - in cui è facile riconoscere lo scettico estremista che, come il nostro Protagora immaginario104, si rifugia nel «per sé» — Hegel tenta di liberarsi dicendo che «essa è una soddi­ sfazione che deve venir lasciata solo a se stessa; essa infatti fugge l'universale e cerca soltanto l'esser-per-sé».105 Con que­ sto però la «scienza» si relativizza rispetto a questa posizione estrema che lascia fuori di sé: certo essa potrà assicurare di es­ sere un «sapere migliore» di quella (e senz'altro lo è), e tutta­ via, per usare le parole dello stesso Hegel, «una secca assicu­ razione non conta più dell'altra». Ora, questa figura irritante dello scettico estremista è, a mio avviso, il contraccolpo necessario di ogni tentativo di chiudere definitivamente la partita con lo scetticismo: è un indice pun­ 102 Un indizio di questi problemi è l'imbarazzo che contrassegna la ridefi­ nizione del nesso fra l'introduzione fenomenologica al sistema e il siste­ ma stesso nella Logica e Enciclopedia. Cfr. in proposito Fulda [1965] pp. 17-54. 103 HW 3 p. 73; tr. it. p. 72. 104 Cfr 8 2 2 103 HW 3 p. 75; tr. it. p. 73.

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tato contro chi, dopo aver riconosciuto l'«immane potenza del negativo» e dopo aver conseguentemente interpretato il ne­ gativo come un momento dell'esplicazione dell'Assoluto106, rinchiude l'Assoluto in un sistema. Solo se la via dialettica tien ferma quella visione del negativo su cui si fonda la sua pos­ sibilità, solo se non pretende di trascendere la differenza, e ri­ mane costantemente aperta allo scetticismo, al suo proliferare in figure, essa può evitare di trascinarsi appresso l'ombra di quello scetticismo estremo. In questo caso, infatti, lo scettici­ smo che si contrae nel «per sé» e si contrappone irriducibil­ mente ad ogni tentativo di superamento completo dello scetti­ cismo non ha nulla di minaccioso o di irritante, ma appare come il simbolo sia dell'inesauribilità dello scetticismo, della sua ineliminabile differenza rispetto a se stesso, sia della insopprimibilità e inderivabilità della differenza.

106 HW 3 pp. 36-37; tr. it. pp. 26-27.

Capitolo terzo «Le stesse cose ritornano»: husserl e lo scetticismo

1. Introduzione 1. Il tema dello scetticismo attraversa l'intera riflessione me­ tafilosofica husserliana. L’idea di filosofia si costituisce in Husserl a partire dalla riflessione sul problema dello scettici­ smo e si trasforma e chiarisce progressivamente con il radicalizzarsi di tale riflessione. Nel corso di questa radicalizzazione rimane comunque irremovibile (anche se variamente sondato e portato a consapevolezza) il presupposto che lo scetticismo è antifilosofia e che la filosofia è quella scienza, l'unica, che su­ pera radicalmente e definitivamente lo scetticismo. Lo si legge dalla prima esposizione organica dell'idea di filosofia in Filo­ sofia come scienza rigorosa sino alla Krisis.' D'altra parte nelle L.U., ancor prima di elaborare un'idea ge­ nerale di filosofia12, Husserl si serve del concetto di scettici­ smo nella sua critica dello psicologismo logico e nella feno­ menologia della conoscenza logica, in cui tale critica s'inscri­ ve. Nella storia del pensiero husserliano, dunque, la tematizzazione dello scetticismo e la volontà di superarlo, precedono l'elaborazione sistematica dell'idea di filosofia.3 L'idea di filo­ 1 PSW p. 337 HU XXV p. 57; tr. it. p. 107 e Krisis § 6 HU VI p. 13; tr. it. p. 44. Naturalmente la genesi dell'idea di filosofia ed il nesso origina­ rio fra quest'idea ed il problema dello scetticismo può venir seguito, ben prima di PSW, nelle lezioni degli anni immediatamente successivi alla pubblicazione delle L.U. (cfr. in particolare HU XXIV pp. 179 sgg. e Beilage Vili pp. 367 sgg.) e in una serie di manoscritti sull'idea della filo­ sofia fenomenologica degli stessi anni, che Husserl utilizzò molto proba­ bilmente come materiali per la stesura delle Ideen (cfr.Schumann [19732] pp. 57-70). 2 Cfr. colloquio con Caims del 23.6.32: «Le L.U. sono pre-filosofiche». (Caims [1976] p. 90). 3 Con questo non si vuole certo affermare che l'antiscetticismo husserlia­ no nasca con l'antipsicologismo e che esso sia connesso a motivazioni

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sofìa e la volontà di realizzare una filosofia autentica e, d'altra parte, l'idea di anti-filosofia scettica e la volontà di superare lo scetticismo non sono cooriginarie. La seconda idea (e volontà) precede e predetermina dall'esterno la prima. Questo fatto, quando lo si consideri alla luce dello sviluppo successivo della fenomenologia husserliana, non è di poco rilievo. Le sue con­ seguenze si faranno sentire sino alla Krisis, ché esso è all'ori­ gine di quel presupposto che percorre tutta la filosofia husser­ liana della filosofia: con tutto il radicalizzarsi della riflessione sullo scetticismo, con tutti i riconoscimenti - sempre più estesi - del significato positivo di quest'ultimo, Husserl non giunge­ rà mai a mettere in discussione la convinzione che lo scettici­ smo sia altro dalla filosofia e che una filosofia autentica, pur servendosene, debba infine lasciarselo alle spalle. Egli, in altre parole, non giungerà a riconoscere il significato positivo e ad inverate quella particolare forma di scetticismo che nega la differenza fra sé e la filosofia. Il pregiudizio antiscettico limi­ terà sempre dall'esterno l'idea di filosofia e l'idea di filosofia non diverrà mai tanto forte ed universale da resistere alla mes­ sa in dubbio di questo pregiudizio. Come vedremo, infatti, la non-cooriginarietà dell'idea di filosofia e di antifilosofia, l'adialetticità del nesso fra filosofia e scetticismo impedisce ed impedirà sempre ad Husserl di interpretare l'inveramento del originariamente ed esclusivamente gnoseologiche. In un frammento delle lezioni di etica del 1897 (cfr. HU XXVIII pp. 381-383) il concetto di scetticismo serve ad Husserl per descrivere lo stato della letteratura sul­ l'etica che egli si trova di fronte e la crisi spirituale che è all'origine di quella letteratura: «Ho detto prima che la trattazione di questioni etiche ha subito recentemente una stagnazione. In realtà a partire dall'inizio degli anni '80 al periodo di stagnazione ha fatto seguito un periodo di nuova attività. Le ragioni di questo fatto stanno in ogni caso in questi potenti rivolgimenti che negli ultimi decenni hanno scosso con intensità crescente l'intera vita del nostro diritto e del nostro stato. (...) Così è comprensibile che sia sorta una nuova letteratura etica, in parte scientifica in parte popolare, che tenta di soddisfare gli interessi che sono desti un po' ovunque. Ma possiamo e dobbiamo rallegrarci di questa vivacità, se la direzione che essa ha preso, da un lato mira alla mera negazione e di­ struzione, dall'altro ad un cattivo appiattimento e, per così dire, ad una finitizzazione? La dice lunga a questo proposito il titolo di un libro di Nietzsche divenuto famosissimo, che suona: Jenseits von Gut und Böse. La scepsi è penetrata nell'etica fin nelle sue più profonde radici.» (pp. 381-382).

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dubbio scettico sulla differenza fra lo scetticismo e la filosofia altrimenti che come ricaduta nell'indifferenza di scetticismo e filosofia e come dissoluzione del concetto di «inveramento».4

2. Un secondo problema attraversa l'intera riflessione me­ tafilosofica e, più in generale, metafenomenologica husserlia­ na: quello del rapporto fra filosofia e psicologia. Un primo, superficiale sguardo d'insieme alla storia di questo problema, che tien conto solo del nesso formale fra le due discipline sen­ za badare alla trasformazione del loro significato, sembra rive­ lare una certa oscillazione nella sua soluzione. Agli estremi dello sviluppo della fenomenologia, nelle L.U.II e nella Krisis, le due discipline raggiungono un massimo di vicinanza e sem­ brano, a tratti, così vicine da coincidere. In verità, nella prima edizione delle L.U., il problema del loro rapporto non è ancora esplicitamente posto, giacché Husserl non dispone ancora di un concetto generale di filosofia. Il momento filosofico delle L.U. è comunque implicito nella pretesa che le ricerche feno­ menologiche del secondo volume siano ricerche di teoria della conoscenza; e, almeno al livello del chiarimento metodologico consegnato all'introduzione al secondo volume, la distinzione fra questo momento filosofico e quello psicologico non è af­ fatto netta. Nella definizione, poi abbandonata, della fenome­ nologia come «psicologia descrittiva» i due momenti appaio­ no persino confusi.5 Nella Krisis, la situazione è assai diversa: lungi dall'essere confuse, psicologia fenomenologica e filoso­ fia trascendentale appaiono come due discipline distinte, che finiscono per coincidere quando la prima venga completamen­

4 Cfr.§§ 3.4; 3.11,3.13,3.19-3.20. 5 LU A pp. 18-19. HU XIX/1 p. 24. Cfr. l'autocritica di Husserl nell' Ent­ wurf einer Vorrede zu den «Logischen Untersuchungen» del 1913: «Durante l'elaborazione, però, per l'intima insicurezza, sono ricaduto in più modi nelle vecchie abitudini di pensiero, oppure ero incapace di ese­ guire ovunque quelle distinzioni che in un certo contesto avevo già rico­ nosciuto necessarie. Questo vale in particolare per il rapporto tra psico­ logia descrittiva e fenomenologia. Di fatto le analisi erano eseguite come analisi eidetiche, e tuttavia non lo erano ovunque con un'autoconsapevolezza ugualmente chiara. (...) In generale però non volevo ammetterlo: ciò che per molti anni avevo considerato psicologia (...) doveva essere ora a priori o concepibile come a priori?». (Husserl [1939] pp. 329-330).

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te e conseguentemente esplicata.6 Fra l'uno e l'altro estremo di questo sviluppo si assiste prima alla radicale differenziazione, poi al progressivo riavvicina­ mento delle due discipline. Il problema della separazione del lato gnoseologico-filosofico delle ricerche delle L.U.II da quello psicologico vien posto da Husserl subito dopo la pub­ blicazione della prima edizione delle L.U..7 Nelle lezioni del semestre invernale 1906/7 sulla logica e teoria della cono­ scenza, Husserl espone la questione in modo quasi drammati­ co:

Un cattivo dilemma ci incalza. Teoria della conoscenza con e sulla base della psicologia: non funziona. Contraddice il senso della teoria della conoscenza. Teoria della conoscenza senza psicologia: non funziona neanche così. Come dice già il nome, la teoria della conoscenza è una certa indagine scientifica sulla conoscenza. Ma il titolo conoscenza comprende delle attività psichiche. Ed indagando l'ambito psichico facciamo eo ipso della psicologia. Dobbiamo forse concluderne che in generale non può darsi alcuna teoria della conoscenza?8

La soluzione che Husserl dà, qui, del dilemma è la seguente: costitutiva della teoria della conoscenza è la sua assoluta epoché in relazione ad ogni trascendenza.9 La psicologia, però, sia essa causale o descrittiva, implica sempre trascendenze e, più precisamente, «essa implica davvero trascendenze finché è ancora in qualche modo psicologia.»10 Dunque psicologia e teoria della conoscenza sono radicalmente separate. L'autenti­ co fondamento della teoria della conoscenza non è la psicolo­ gia, ma la fenomenologia, e cioè quella scienza il cui metodo 6 Cfr. Krisis §§ 71-72 HU VI pp. 259-261; tr. it. pp. 275-6. Vedremo in seguito (cfr.§ 3.19 nota 409) come questa affermazione non implichi af­ fatto che fra le due discipline non sussista più alcuna differenza. Per una discussione del rapporto fra psicologia e filosofia trascendentale nella Krisis cfr. Ströker [1981]. 7 Cfr.i luoghi delle lezioni del semestre invernale 1902-1903 citati in HU XIX/1 p. XXXI nota e il Bericht über deutsche Schriften zur Logik in den Jahren 1895-1899 (1903/4) in HU XXII pp. 205-208. 8 HU XXIV p. 178. 9 HU XXIV p. 204. 10 HU XXIV p. 209. (Corsivo C.S.).

113 fondamentale - la riduzione fenomenologica - dischiude un campo di fenomeni puri attraverso la messa fra parentesi di ogni posizione di trascendenza. La distinzione fra questa scienza e la psicologia, aggiunge Husserl, non è priva di diffi­ coltà. E tuttavia in essa «sta l'autentico punto archimedeo della filosofia. Si tratta di una «nuance», ma di una «nuance» che è decisiva per la costituzione di una possibile, anzi dell'unica possibile teoria della conoscenza e, con essa, di una filosofia autentica.»11 Considerate superficialmente, le Ideen I non fanno altro che ribadire, con più decisione, il tipo di distinzione fra psicologia da un lato e fenomenologia pura e filosofia fenomenologica dall'altro, abbozzato nelle lezioni del 1906/7: fra le due di­ scipline sussiste la differenza fondamentale che la prima è scienza di fatti reali, la seconda è scienza eidetica di fenomeni irreali.12 Husserl non indugia più sul carattere di «nuance» della distinzione e filosofia e psicologia sembrano raggiungere qui il massimo di separazione. Tuttavia questa posizione appa­ re piuttosto come la conseguenza della decisione husserliana di «esprimersi con estrema prudenza» sul rapporto fra psico­ logia razionale e fenomenologia13, che non un approdo defi­ nitivo. Husserl infatti non manca di ricordare, anche nell'Zntroduzione, che la fenomenologia pura ha un significato meto­ dologico che vale anche per la psicologia14, e nel § 76 aggiun­ ge che «ogni affermazione fenomenologica intorno alla co­ scienza assoluta può essere trasposta in affermazione psicologico-eidetica (che a rigore non è più fenomenologica)».15 Inoltre lascia intendere come la definizione del rapporto fra le due discipline rimanga in realtà un problema aperto e come spetti alla fenomenologia stessa, una volta instaurata, di chia­ rirlo.16 Si comprende, dunque, che, almeno a partire dalla seconda 11 HU XXIV p. 211. (Corsivo C.S.). 12 Ideen I, Introduzione, HU 111,1 p. 6; tr. it. p. 9. 13 Come afferma Husserl stesso in un manoscritto preparatorio per le Ideen I. Cfr. HU in,2 p. 529. 14 HU m,l pp. 4-5; tr. it. p. 8 e PSW 320-321 HU XXV pp. 38-39; tr. it. pp. 81-83. 15 HUffl.l p. 160; tr. it. p. 162. 16 HU m,l p. 5, p. 160. e p. 178; tr. it. p. 8, pp. 162-3 e p. 178.

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parte della Erste Philosophie, la riflessione metafenomenologica husserliana si preoccupi di ridefinire la linea di separa­ zione fra psicologia e filosofìa fenomenologica tracciata dalle Ideen I. Come ho anticipato, tale ridefinizione va nella dire­ zione di una progressiva abolizione di quella linea: dal ricono­ scimento di una funzione propedeutica della psicologia feno­ menologica per la filosofia17, e poi del parallelismo delle due discipline18, attraverso l'affermazione che la loro distinzione è una questione di «nuance»'9, approda, nella Krisis, all'asser­ zione della loro coincidenza al limite del completo svolgimen­ to della prima.20 Questo sguardo superficiale sulla storia della definizione husserliana del nesso formale fra filosofia e psicologia sembra dunque permettere di avanzare l'ipotesi che nei suoi esiti la ri­ flessione metafenomenologica husserliana si riporti ai propri inizi. Ora, come tenterò di mostrare, questo in un certo senso è vero: fra le opere husserliane successive alle L.U., la Krisis è certamente quella che più si riavvicina ad esse. Questo riav­ vicinamento, però, non implica affatto che la posizione meta­ fenomenologica della Krisis sia sovrapponibile a quella delle L.U.. L'estrema contiguità fra la Krisis e le L.U. dipende, al contrario, dal fatto che nell'opera tarda viene finalmente rag­ giunta la piena autoconsapevolezza di quell'azione fenomeno­ logica, di quel «Durchbruch»21, che sono le L.U., attraverso il definitivo superamento di tutti gli autofraintendimenti meto­ dologici che a quell'azione si accompagnano. Detto altrimenti, ed in termini esplicitamente husserliani: l'estrema contiguità fra la Krisis e le L.U. dipende dal fatto che nella Krisis viene conseguita «la piena chiarezza intuitiva», delle oscure inten­ 17 Cfr. la sezione «Phänomenologische Psychologie, Transzendentale Phänomenologie und Phänomenologische Philosophie» della seconda parte della Erste Philosophie (HU VIII pp. 132 sgg.) ed anche HU IX pp. 47-48. 18 Nell'articolo per l’Enciclopedia Britannica (HU IX p. 294), negli Am­ sterdamer Vorträge (HU IX pp. 343-4) e nel § 99 della FTL HU XVII p. 262; tr. it. p. 314. 19 CM § 14 HU I p. 70; tr. it. p. 63 e Nachwort alle Ideen I HU V p. 147; tr. it. p. 923. 20 Cfr. sopra nota 6. 21 L.U. IB VIII HU XVm p. 8; tr. it. vol.I p. 6.

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zioni implicite nelle L.U., il definitivo superamento del­ l'oscurità di quelle intenzioni. Se le L.U. sono l'inizio dello sviluppo teleologico della fenomenologia husserliana, la Kri­ sis è l'autoconsapevolezza dell'inizio e quindi il suo telos. Va da sé, dunque, che non rappresenti una ricaduta nell'inizio, ma il culmine della progressiva esplicazione delle intenzioni in esso racchiuse, il culmine di quella progressiva esplicazione delle intenzioni racchiuse nell'inizio-azione22 delle L.U., che è il pensiero husserliano fra l'una e l'altra opera. Che la tesi secondo la quale, nella Krisis, la riflessione meta­ fenomenologica husserliana si ricongiunge ai propri inizi vada intesa in questo senso dinamico-teleologico (e non nel senso di una piatta sovrapposizione fra inizio e telos), risulta chiaramen­ te quando da una considerazione formale della storia della de­ finizione del nesso fra filosofia e psicologia, si passi ad una considerazione più sostanziale e si tenga presente che il signifi­ cato delle due discipline non è rigido e predeterminato rispetto alla storia della definizione del loro nesso, ma si muta, appro­ fondisce e chiarisce progressivamente in tale storia.23 Sia il tratto che va dalle L.U. alle Ideen I, sia quello che va dalla Erste Philosophie alla Krisis si illuminano allora di nuo­ va luce: nel primo tratto non si assiste semplicemente ad una 22 In un manoscritto degli anni della Krisis (HU XXIX Text n.32 p. 399), Husserl scrive: «...l'autentico inizio è l'azione stessa, solo essa prova pie­ namente la possibilità nella realtà. La presentificazione preliminare, il render intuitivo come chiarire in anticipo come si dovrebbe procedere non è mai piena chiarezza. L'evidenza preliminare della Besinnung è un preludio necessario, ma solo un preludio. L'autentico inizio è dunque l'azione, il procedere stesso come inizio della filosofia stessa.». 23 Elisabeth Ströker (Ströker [1983]) ha sostenuto la tesi che le oscilla­ zioni di Husserl nella definizione del nesso fra fenomenologia e psicolo­ gia pura sono da ricondurre all'ambiguità del concetto husserliano di «purezza fenomenologica»: da un lato la fenomenologia è scienza pura in quanto è scienza eidetica, dall'altro in quanto di fonda su di una riduzione fenomenologico-trascendentale. La psicologia è fenomenologia pura nella misura in cui è scienza eidetica ed è dunque distinta dalla fenomenologia pura in quanto scienza trascendentale. A mio avviso e come tenterò di mostrare (cfr. in particolare § 3.13), per chiarire definitivamente le oscil­ lazioni husserliane, è necessario far leva su di un'ulteriore distinzione, che attraversa la stessa riduzione fenomenologico-trascendentale: la di­ stinzione fra riduzione fenomenologica vera e propria e riduzione fenomenologico-apodittica.

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differenziazione di due discipline, ma alla nascita dell'idea di filosofia fenomenologica, attraverso la sua separazione radica­ le dalla psicologia; nel secondo, si assiste invece alla trasfor­ mazione del concetto di psicologia, attraverso il suo riavvici­ namento a quello di filosofia trascendentale. In entrambi i casi si tratta di un progressivo chiarimento delle intenzioni oscure implicite nelle L.U.. Come afferma Husserl stesso nelle le­ zioni sulla Phänomenologische Psychologie del 1925, nelle L.U. sono racchiusi i germi di una riforma sia della teoria della conoscenza e della filosofia, sia della psicologia e sia anche dei loro rapporti.24 Certo, prosegue Husserl, gli orizzonti aperti per una nuova teoria della conoscenza ed una teoria di tutti gli altri tipi di ragione e, d'altra parte, per una psi­ cologia a priori dovettero venir percorsi almeno a grandi passi, prima che risultasse possibile una piena chiarezza in merito ai compiti futuri della ricerca teoretico-razionale e psicologica. Nelle «Ricerche logiche» non era affatto raggiunto il più alto grado della chiarezza di principio.25

Le Ideen I rappresentano un punto d'arrivo (provvisorio) del chiarimento della prima riforma implicita nelle L.U.: quella filosofica. Per questo, poiché, cioè, le Ideen I sono un'opera filosofica nella quale si tratta di fondare radicalmente la filo­ sofia come scienza rigorosa26, in esse si sottolinea accurata­ mente che la fenomenologia non è affatto identica ad «una psicologia a priori intesa naturalisticamente».27 Detto altri­ menti: poiché le Ideen I sono un'opera filosofica, in esse si fa astrazione dal problema che la psicologia rappresenta e non viene resa esplicita quella riforma della psicologia e del suo nesso con la filosofia trascendentale che è implicita nella ri­ forma trascendentale stessa.28 Tale riforma della psicologia e del suo nesso con la filosofia viene invece progressivamente esplicitata a partire dalla se-

24 25 26 27 28

HU IX pp. 40-41. HU IX pp. 42. HU IX p. 44. HUIXp. 45. Cfr. Nachwort alle Ideen I, HU V p. 159, tr. it. p. 932.

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conda parte della Erste Philosophie.29 In questa riforma, la psicologia pura perde innanzitutto quel carattere di scienza di fatti reali, che nelle Ideen I la distingue dalla fenomenologia pura e dalla filosofia fenomenologica, diviene essa stessa psi­ cologia fenomenologica e finisce per coincidere con la feno­ menologia pura, cioè con quella scienza afilosofica, che costi­ tuisce la solida base della filosofia trascendentale. Il problema della definizione del nesso fra psicologia e filosofia si sposta così all'intemo della fenomenologia stessa. Di nuovo, ciò che distingue la prima dalla seconda sembra essere il fatto che es­ sa implica delle posizioni di trascendenze. Queste ultime, pe­ rò, non sono più le trascendenze reali (real)30 delle lezioni del 1906/7, ma trascendenze neH'immanenza.31 In un linguaggio più vicino a quello adottato da Husserl nelle lezioni degli anni '20: la differenza fra psicologia e fenomenologia dipendeva, nelle Ideen I, dal fatto che la prima era una scienza ingenua, la seconda no. Ora la differenza fra ingenuo e non-ingenuo attra­ versa, naturalmente trasformata, la fenomenologia stessa e se­ para una conoscenza fenomenologica ancora ingenua da una conoscenza fenomenologica che ha superato ogni forma di in­ genuità. La psicologia fenomenologica o fenomenologia pura è quella conoscenza fenomenologica ancora ingenua, quella conoscenza fenomenologica, che non è ancora guidata dal­ l'idea filosofica di una conoscenza assoluta e sottoposta ad una critica apodittica, e rappresenta dunque solo la fase iniziale della filosofia fenomenologica, che è quella scienza fenome­

29 In realtà, come vedremo (cfr.§ 3.17), tale esplicitazione s'awia parec­ chi anni prima e precede la pubblicazione delle stesse Ideen I, in partico­ lare nelle lezioni sui Grundprobleme der Phänomenologie della prima parte del semestre invernale 1910 (cfr. HU XIII Text Nr.6, pp. 168-9). 30 Per la distinzione fra «real» e «reell» — il primo aggettivo, contrappo­ sto a «ideal», indica una trascendenza cosale; il secondo, contrapposto a «intentional», indica l'immanenza dell'«Erlebnis» ottenuta attraverso la neutralizzazione di quella trascendenza - cfr.L.U.n B399 HU XIX/1 p. 413; tr. it. p. 212 n.28. Poiché non sembra possibile trovare degli equiva­ lenti italiani per tradurre questi due termini, utilizzeremo «reale» per ren­ derli entrambi e specificheremo tra parentesi il tedesco «reell» quando useremo il termine nel secondo significato. 3‘ HUXinpp. 159-171.

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nologica che ha superato ogni forma di ingenuità.32 Questo tuttavia non è che un primo passo del riavvicinamen­ to fra le due discipline. Una volta stabilito che la psicologia, quando venga correttamente intesa come psicologia fenome­ nologica, rappresenta la fase iniziale della filosofia trascen­ dentale, si tratta ancora di determinare se fra le due continui a sussistere una differenza radicale (come sembra che Husserl affermi sino alle CM), se la prima possa trapassare progressi­ vamente, senza salti e «motu proprio», nella seconda (come sembra che Husserl si spinga ad affermare nella Krisis), o, in­ fine, se le due alternative non risultino in qualche modo com­ possibili. Come ho anticipato, la via che va dalla Erste Phil.W alla Krisis tende verso la seconda alternativa, che nella Krisis potrebbe sembrare di fatto raggiunta. Ma su questa apparenza dovremo tornare, ché l'abbandono della prima alternativa stri­ derebbe con quella concezione della libertà, della filosofia e dell'istanza antiscettica costitutiva di quest'ultima, che Husserl nella Krisis non mostra affatto d'essersi lasciato alle spalle.33 3. Il problema dello scetticismo ed il problema del nesso fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale, che sor­ gono e si prefigurano entrambi nelle L.U ed entrambi attraver­ sano l'intera riflessione metafilosofica husserliana, non sono in realtà due problemi, bensì la versione astratta e la versione concreta, storicamente determinata, di un medesimo problema. 32 HU vm pp. 169-171. Bisogna tuttavia precisare che nella Erste.Phil.il questa linea di separazione fra conoscenza trascendentale ingenua e cono­ scenza trascendentale non-ingenua non si applica precisamente alla di­ stinzione fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale, ma alla distinzione fra fenomenologia trascendentale descrittiva e filosofia trascendentale. Qui la fenomenologia trascendentale descrittiva sembra rappresentare un piano intermedio fra la psicologia fenomenologica e la filosofia trascendentale. Questo tuttavia dipende dal fatto che la riduzione fenomenologico-psicologica è ancora descritta come riduzione effettuata sui singoli atti. Una volta che, conformemente alle autocorrezioni di Hus­ serl (Cfr.il «Gedankengang» delle lezioni a p. 317 e la Beilage XXIII pp. 444 sgg.), quest'ultima venga intesa come riduzione già in sé universale, la psicologia fenomenologica o fenomenologia pura si estende sino a comprendere anche la fenomenologia trascendentale descrittiva. In pro­ posito cfr. Aguirre [1970] pp. 28-9 e qui § 2.19. 33 Cfr. §§3.4 e 3.19.

119 Di fatto la forma dominante di scetticismo che la fenomeno­ logia, almeno ai suoi inizi, si trova di fronte è lo psicologismo. Lo psicologismo consiste sostanzialmente nella confusione fra teoria della conoscenza e psicologia. Questa confusione con­ duce da un lato a conseguenze scettiche, ma racchiude, dall'al­ tro, un nucleo di verità. Il problema di superare lo psicologi­ smo inverandolo fa tutt'uno col problema di isolare questo nucleo di verità da quelle conseguenze scettiche.34 Ma separa­ re il nucleo di verità dalle conseguenze scettiche equivale a porre in qualche modo in relazione psicologia e teoria della conoscenza senza tuttavia confonderle. Vediamo di chiarire meglio e di chiarire, innanzitutto, per­ ché lo psicologismo presenti la struttura di una forma di scet­ ticismo. A questo scopo occorre distinguere fra due significati del termine «psicologismo». Da un lato lo psicologismo è la riduzione di una qualsiasi forma di oggettualità agli «Erleb­ nisse» psichici di cui essa è il correlato: è, nei termini del § 2.1, la negazione scettica della differenza fra l'oggettività di quella forma e la soggettività di questi «Erlebnisse».35 A que­ sto tipo di psicologismo appartiene in particolare lo psicologi­ smo logico, che Husserl combatte nei Prolegomena, il quale riduce gli oggetti e le verità ideali della logica agli atti psichici reali in cui tali oggetti e verità vengono pensati.36 Da distin­ guere da questa prima forma di psicologismo è lo psicologi­ smo gnoseologico, il quale consiste nella «naturalizzazione della coscienza», nella confusione fra soggettività empirico­ psicologica e soggettività pura, nella riduzione della seconda alla prima, e quindi nella riduzione della filosofia e teoria 34 Cfr. PSW pp. 294-322 HU XXV pp. 8-41; tr. it. pp. 42-84 ed anche FTL § 66 HU XVII p. 178; tr. it. p. 211: «Ma certo non bisogna scambia­ re questo idealismo [psicologistico], (...), con l'idealismo fenomenologico da me elaborato, che ottiene il suo nuovo senso del tutto differente pro­ prio per mezzo della critica radicale di quello psicologismo, sulla base di una chiarificazione fenomenologica dell'evidenza.» (Corsivo C.S.). 35 Va da sé che lo psicologismo logico, come ogni forma di relativismo, non è (necessariamente) scettico per se stesso, non mira (necessariamen­ te) alla negazione o al dubbio sulla differenza, su ogni differenza fra sog­ gettività ed oggettività, ma lo è invece per l'assolutista logico che lo con­ futa, in quanto è dal punto di vista della sua concezione dell'oggettività che lo psicologismo nega la differenza in questione. 36 Cfr. HU IX p. 21 e FTL § 56 HU XVH pp. 160-161; tr. it. pp. 189-190.

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della conoscenza alla psicologia.37 Mentre il primo tipo di psi­ cologismo consiste nella soggettivizzazione scetticheggiante dell'obiettività, il secondo, con la sua riduzione della sogget­ tività pura a soggettività empirica, appare piuttosto come un'obiettivazione della soggettività. Ora, i due tipi di psicologismo sono naturalmente connessi. In generale si può dire che lo psicologismo gnoseologico rap­ presenta la condizione di possibilità dello psicologismo del primo tipo e, in particolare, dello psicologismo logico. E que­ sto in un duplice senso: nel senso che lo psicologismo gnoseo­ logico implica lo psicologismo logico (ne è cioè condizione sufficiente) e nel senso che ne è implicato (ne è cioè condizio­ ne necessaria). Lo psicologismo logico riduce di fatto l'ogget­ tività dei correlati degli «Erlebnisse» psichici alla soggettività di questi ultimi, perché non sa concepire la soggettività auten­ tica e pensa la soggettività come soggettività obicttivata; d'al­ tro canto può effettuare tale riduzione solo perché di fatto non si eleva al concetto di quell'autentica soggettività. Se, infatti, vi si elevasse non potrebbe ridurre alcuna forma di oggettività a soggettività. In breve: ogni obiettivazione naturalistica della soggettività ha per conseguenza una subiettivazione scetti­ cheggiante dei suoi correlati; simmetricamente, ogni subietti­ vazione di tali correlati presuppone un'obiettivazione della soggettività di cui sono i correlati.38 A questo punto dovrebbe esser chiaro perché ed in che senso lo psicologismo rappresenti una forma di scetticismo. Lo psi­ cologismo logico è una forma di scetticismo perché incarna la 37 PSW p. 302 HU XXV p. 17; tr. it. p. 54: «In conclusione si dovrebbe prevedere che ogni gnoseologia psicologistica dovrebbe la sua esistenza al fatto che, non comprendendo il senso autentico della problematica gno­ seologica, soggiace alla confusione in cui era facile cadere tra coscienza pura ed empirica, o in altri termini alla «naturalizzazione» della coscienza pura.» Questo è il primo grado di psicologismo gnoseologico. Il secondo consiste nella confusione fra due tipi di soggettività pura: la soggettività pura psicologica e la soggettività pura trascendentale.(Cfr. ad es. Amster­ damer Vorträge § 15 HU IX pp. 344-346). 38 Naturalmente questi rapporti fra psicologismo logico e psicologismo gnoseologico, che noi descriviamo qui come implicazioni formali non si presentano in Husserl in questa forma. L'intreccio fra i due tipi di psico­ logismo non viene astrattamente asserito, ma mostrato fenomenologica­ mente. (Cfr. § 3.9).

121 struttura che abbiamo indicato come costitutiva di ciascuna forma di scetticismo, ché esso consiste precisamente nella ne­ gazione della differenza fra l'oggettività degli oggetti ideali e la soggettività degli atti in cui vengono pensati. Lo psicologi­ smo gnoseologico è una forma di scetticismo in quanto dà luogo a quella conseguenza scettica che è lo psicologismo lo­ gico. D'altra parte, però, esso dà luogo a tale conseguenza non perché riduca in qualche modo l'oggettività a soggettività, ma al contrario, perché riduce la soggettività ad oggettività. Nel suo complesso, dunque, lo psicologismo presenta una struttura paradossale: esso è e può essere una forma di scetticismo per­ ché non è abbastanza scettico; la sua subiettivazione della og­ gettività è resa possibile ed è una conseguenza del fatto che tale subiettivazione s'arresta di fronte a quell'obiettivazione della soggettività pura che è la soggettività empirica. Se questa è la struttura dello psicologismo, allora il suo su­ peramento può venir tentato per una duplice via. È possibile, innanzitutto, affrontare il problema che lo psicologismo rap­ presenta a partire dalle conseguenze scettiche dello psicologi­ smo logico e ribadendo, mediante l'applicazione dell'argomen­ to formale secondo il quale lo scetticismo è autocontradditto­ rio, la differenza dei correlati oggettuali degli «Erlebnisse» ri­ spetto alla soggettività degli «Erlebnisse» stessi, che lo psico­ logismo nega o comunque offusca. È questa la via che Husserl segue nei Prolegomena.39 Questa strategia puramente confutatoria lascia tuttavia del tutto irrisolto il problema di come questi correlati oggettuali, di cui viene asserita l'irriducibilità agli «Erlebnisse» soggetti­ vi, possano esser dati nel flusso di questi ultimi, di come cioè -

dobbiamo intendere il fatto che l'«in sé» dell'obiettività giunge a «rappresentazione», anzi ad «apprensione» nella conoscenza, ridiventando così soggettivo; che cosa significa che l'oggetto sia «dato in sé» e nella conoscenza; come può l'idealità del genera­ le, in quanto concetto o legge, presentarsi nel flusso dei vissuti 39 In realtà, come vedremo (cfr. § 3.8), l'argomento antiscettico che Hus­ serl applica nei Prolegomena, non è del tutto riducibile all'argomento for­ male, ma presuppone già la peculiare teoria positiva dell'evidenza che Husserl sviluppa nella Sesta Ricerca.

122 psichici reali e diventare possesso conoscitivo del soggetto pen­ sante.40

Ora, se il senso dei correlati oggettuali degli «Erlebnisse» de­ ve venir definitivamente chiarito, se la loro irriducibilità agli «Erlebnisse» di cui sono i correlati deve venir giustificata al di là di ogni dubbio, questo problema, che la confutazione mera­ mente formale dello psicologismo logico lascia aperto, non può venir eluso. Per quanto oggettività ed idealità siano irri­ ducibili, a meno di conseguenze scettiche, alla soggettività, è pur sempre vero che il loro senso ultimo si dischiude e giusti­ fica radicalmente solo a partire da quest'ultima, ché in essa stanno «le «fonti» dalle quali «scaturiscono» i concetti fon­ damentali e le leggi ideali della logica pura - e alle quali questi stessi concetti e le leggi debbono essere ricondotti per conferire loro quella «chiarezza e distinzione» che una com­ prensione critico-conoscitiva della logica pura esige.»41 Detto altrimenti: lo psicologismo ha certamente torto nel confondere i correlati oggettuali degli «Erlebnisse» con la soggettività degli «Erlebnisse» stessi. Tuttavia perché la separazione fra gli uni e gli altri non sia solo pretesa ma anche radicalmente compresa e giustificata, non si può ignorare quello che è il si­ gnificato positivo implicito nella posizione psicologistica, e cioè, che quella separazione ed il senso ultimo dell'oggettività può venir chiarito e giustificato solo a partire dalla correlazio­ ne fra l'oggettività ed i suoi modi soggettivi di datità. Il problema della correlazione, però, può venir impostato ed indagato senza ricadere nelle conseguenze scettiche confutate con l'applicazione dell'argomento formale, solo superando ra­ dicalmente quello psicologismo che di tali conseguenze è la condizione necessaria e sufficiente, superando cioè lo psico­ logismo gnoseologico ed il concetto di soggettività proprio di quest'ultimo. La prima via, puramente confutatoria, di critica dello psicologismo deve dunque trapassare in una seconda via, che si preoccupi di scalzare lo psicologismo nella sua radice ultima: l'obiettivazione della soggettività.42 Questa seconda 40 L.U.H B 8-9; cfr. A 9 HU XIX/1 pp. 12-13: tr. it. voli pp. 273-274. 41 L.U. A 4 B 3 HU XIX p. 7; tr. it. vol.I p. 269. 42 Come vedremo (§ 3.9), lungo questa via Husserl si incammina, in modo ancora impacciato, già a partire dal secondo volume delle L.U., ma

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via è la via dell'inveramento dello psicologismo mediante la separazione del suo nucleo positivo - il pensiero della corre­ lazione di soggettività ed oggettività - dalle conseguenze scettiche, che insorgono quando la soggettività venga interpre­ tata come soggettività empirico-psicologica. Se si tiene pre­ sente la struttura paradossale della figura dello psicologismo che rappresenta una forma di scetticismo in quanto non è ab­ bastanza scettico - si può perlomeno intuire in quale direzione dovranno venir cercati i mezzi del suo inveramento: essi do­ vranno venir cercati in una forma di scetticismo più radicale dello psicologismo, una forma di scetticismo che non si limiti cioè a mostrare la relatività dell'oggettività alla soggettività empirica, ma si spinga ad illustrare la relatività di questa stes­ sa soggettività obicttivata alla soggettività pura. E di fatto è proprio lo sfruttamento - secondo modalità che potranno venir definite solo gradualmente43 - del significato positivo di una tale forma di scetticismo estremo, che permette ad Husserl di inverare il nucleo positivo dello psicologismo, facendo emer­ gere quella differenza fra soggettività empirica e soggettività pura, che lo psicologismo gnoseologico ignora e la cui igno­ ranza è fonte di tutte le contraddizioni in cui s'avvolge quando affronta il problema della correlazione di obiettività e sogget­ tività. L'inveramento/superamento dello psicologismo fa dunque leva sulla struttura paradossale dello psicologismo stesso. Va da sé che, come tenterò di chiarire gradualmente, tale parados­ salità si rifletta nella struttura dell'inveramento/superamento stesso e nel nesso fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale. L'inveramento dello psicologismo in quanto, appunto, mero inveramento - in quanto, cioè, scoperta della soggettività pura e della sua irriducibilità alla soggettività empirica e in quanto scienza di questa soggettività autentica coincide infatti con quella riforma della psicologia che dà luo­ go alla fenomenologia pura o psicologia fenomenologica.44 L'inveramento dello psicologismo, in quanto superamento inizia a percorrerla consapevolmente solo dopo la formulazione esplicita dell'idea di riduzione fenomenologica. Cfr. FTL § 56, HU XVII pp. 160161; tr. it. p. 189-190. 43 Cfr. §3.5 e 3.13. 44 Cfr. § 3.2.

124 delle sue conseguenze scettiche (e, in generale, di ogni forma di scetticismo) coincide invece con la filosofia trascendentale. Mentre dunque la fenomenologia pura o psicologia fenomeno­ logica porta lo scetticismo all'estremo, la filosofia trascenden­ tale supera radicalmente ogni forma di scetticismo. Ma questo superamento è il risultato di quell'«estremizzazione» dello scetticismo. Solo in uno scetticismo così radicale che abbia mostrato la relazione alla soggettività di ogni obiettività si trovano i mezzi per il superamento di ogni scetticismo. Solo una psicologia fenomenologica completamente dispiegata si capovolge in filosofia trascendentale. Fra psicologia fenome­ nologica e filosofia trascendentale c'è dunque una differenza abissale: l'una procede a radicalizzare lo scetticismo, l'altra tenta di superarlo. E d'altra parte poiché la misura di questo superamento è quella radicalizzazione, il culmine della diffe­ renziazione fra le due discipline coincide con la loro coinci­ denza. È in questo senso che va interpretata l'affermazione della Krisis secondo la quale, al limite dell'esplicazione dell'intera psicologia fenomenologica, quest'ultima coincide con la filo­ sofia trascendentale? C'è forse un rapporto dialettico fra le due discipline45 e, implicitamente, fra lo scetticismo e la filosofia? 4. Nel paragrafo precedente abbiamo fatto un gran balzo. Volevamo mostrare come il problema dello scetticismo ed il problema del nesso fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale siano connessi. Siamo dunque partiti dalla loro originaria congiunzione nelle L.U. (e, ad un maggior livello di autoconsapevolezza, in PSW); abbiamo chiarito come il pro­ blema dello scetticismo s'incarni, in Husserl, nel problema dello psicologismo; abbiamo poi illustrato la struttura para­ dossale costitutiva di quest'ultimo e da tale struttura abbiamo dedotto la via che un tentativo di inveramento/superamento dello psicologismo deve seguire; abbiamo identificato la psi­ cologia fenomenologica con la scienza che effettua quell'inveramento e la filosofia trascendentale con la scienza che è quel superamento; siamo così giunti ad una definizione del nesso fra le due scienze, dedotta in ultima analisi dalla struttura 45 Cfr. Schumann [1973-1] pp. 12-15.

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dello psicologismo, che sembra fornire un'interpretazione possibile della definizione che Husserl dà di questo nesso nella Krisis'. abbiamo cioè avanzato l'ipotesi che il nesso fra le due discipline - e, implicitamente, fra lo scetticismo e la filo­ sofia - sia un nesso dialettico. Ora, se questa ipotesi fosse vera la conclusione del § 3.1 sa­ rebbe falsa: nella Krisis, Husserl perverrebbe ad una definizio­ ne dialettica del nesso fra filosofia e scetticismo, fra filosofia ed antifilosofia, e ad un concetto di filosofia tanto radicale ed universale da includere l'inveramento di quella particolare forma di scetticismo che nega la differenza fra sé e la filosofia. A mio avviso e come tenterò di dimostrare, la conclusione del § 3.1 è però incontrovertibile. Dunque quell'ipotesi deve esser falsa ed il rapporto paradossale fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale - fra l'inveramento dello scetticismo ed il suo superamento - deve essere suscettibile di qualche al­ tra interpretazione. Ma prima di tentare di far emergere quest'altra interpretazione, vorrei discutere ed escludere alcune possibilità ermeneutiche che ruotano attorno all'idea di una dialettica della fenomenologia. Questa discussione consentirà di delimitare ex contrario lo spazio all’interno del quale dovrà venir cercata quell'interpretazione. (i) Anche ammettendo che Husserl non pervenga di fatto neppure nella Krisis ad una concezione dialettica della feno­ menologia e ad interpretare dialetticamente il nesso fra psico­ logia fenomenologica e filosofia, si potrebbe tuttavia immagi­ nare che egli tenda ad una tale concezione ed interpretazione, e che basti «pensare fino in fondo», trarre le conseguenze ul­ time dalla sua posizione, per raggiungerla. Su quest'ipotesi Karl Schumann ha costruito la sua interpretazione dialettica della fenomenologia, che ha elaborato sia «speculativamen­ te»46 sia ricostruendo in modo filologicamente accurato mo­ menti determinati della storia della fenomenologia.47 Ora, a mio avviso, sebbene il tentativo di Schumann poggi su di una tendenza innegabile del pensiero husserliano, esso ne stravol­ ge il senso fondamentale e la specificità irriducibile. Che la 46 Schumann [1971]. Cfr. in proposito Aguirre [1982] pp. 134-136. 47 Schumann [1973-1] e [1973-2].

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tendenza a una concezione dialettica della fenomenologia non giunga in Husserl stesso a compimento non è fatto puramente contingente e non è semplice conseguenza della scarsa cono­ scenza che Husserl deve aver avuto di ciò che la dialettica è in Fichte, Hegel e Marx48, ma è indizio di un'impossibilità di principio. Una concezione dialettica violerebbe infatti l'impe­ rativo fondamentale cui risponde la fenomenologia (l'impera­ tivo di «tornare alle cose stesse») e, più in generale, contraste­ rebbe con quella visione etica che sorregge il concetto husser­ liano, non dialettico, di ragione. In un passo teWEntwurf einer Vorrede zu den «Logischen Untersuchungen», Husserl afferma che «è davvero un tentati­ vo disperato quello di dimostrare dialetticamente che la feno­ menologia è una costruzione dialettica».49 Schumann prende in considerazione questo passo come una possibile obiezione al suo tentativo di interpretare dialetticamente la fenomeno­ logia, e poi lo scarta con varie motivazioni: fra queste quella, più che legittima, secondo la quale Husserl attribuisce al ter­ mine un significato diverso da quello che esso assume «in Fichte, in Hegel o in Marx».50 Tuttavia, qualunque sia il si­ gnificato che Husserl assegna al termine «dialettica», appare ben più importante tenere presente perché il tentativo di «dimostrare dialetticamente che la fenomenologia sia una co­ struzione dialettica» sia destinato a fallire; tenere presente, cioè, quale sia il tratto della fenomenologia, che, ad avviso di Husserl, la rende irriducibile ad una costruzione dialettica. Questo tratto è esplicitato da Husserl subito dopo l'afferma­ zione citata da Schumann: L'intero essere e l'intera vita della fenomenologia non è altro che la più radicale profondità della descrizione di datità pura­ mente intuitive. Se le «Ricerche logiche» rappresentano un pro­ gresso, tale progresso sta in questo: che prima, sebbene si faces­ se un gran parlare di descrizione e, su questioni di dettaglio, si sia anche conseguito qualche risultato valido, mancava tuttavia un radicalismo del vedere, un andare a fondo nei fenomeni che fosse assolutamente privo di pregiudizi e libero da sovrapposi48 Schumann [1973-1] p. Vili. 49 Husserl [1939] p. 336. 50 Schumann [1973-1] pp. VII-Vili.

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zioni interpretative (...).51

La fenomenologia, dunque, non si riduce ad una «costruzione dialettica» in ragione del suo costitutivo «radicalismo del ve­ dere», in ragione, cioè, del fatto, che essa risponde all'impera­ tivo fondamentale di «tornare alle cose stesse».52 Ma questo «radicalismo del vedere» che costituisce il tratto distintivo della fenomenologia rispetto ad una «costruzione dialettica», vale solo quando si interpreti «dialettica» nel senso un po' va­ go di tecnica dell'argomentazione e confutazione in cui sem­ bra utilizzarlo Husserl, oppure vale per ogni significato di dialettica (compreso quello fichtiano-hegeliano-marxiano - e a dire il vero non meno vago - in cui lo usa Schumann)? Proviamo a riconsiderare il problema del nesso fra psicolo­ gia e filosofia, che ad avviso di Schumann (e secondo l'ipotesi che abbiamo scartato, o stiamo tentando di scartare), dovrebbe essere un nesso dialettico. Ora, questo nesso - come abbiamo visto - presenta dei tratti paradossali. Nella Krisis è Husserl stesso ad attribuire alla fenomenologia trascendentale un ca­ rattere paradossale e a derivare tale carattere dal paradosso della soggettività umana, la quale è sia un «oggetto nel mon­ do» sia «un soggetto coscienziale per il mondo».53 Tuttavia questa paradossalità della soggettività, per quanto «necessaria ed essenziale», non rappresenta, dal punto di vista di Husserl, uno stato di cose di principio insuperabile. Essa sorge neces­ sariamente «dalla costante tensione fra la forza dell'ovvietà dell'atteggiamento naturalistico obiettivo (...) e l'atteggiamen ­ to, che ad essa si contrappone, dell'«osservatore disinteressa­ to»54 , proprio del fenomenologo che ha effettuato l'epoché, e sussiste finché sussiste tale tensione: finché, cioè, l’epoché non sia stata attuata in modo veramente radicale. Va da sé, dunque, che per sciogliere quella paradossalità si debba di fatto attuare l'epoché e condurre, fino in fondo e passo per passo, quelle ricerche sulla soggettività cui essa apre la via: Non si viene a capo di tutto ciò e delle profonde difficoltà che 51 52 53 54

Husserl [1939] p. 337. L.U.II B 6 A 7 HU XIX/1 p. 10; tr. it. vol.I p. 271. Krisis § 53; HU VI p. 182; tr.it.pp. 205-6. Krisis § 53 HU VI p. 183; tr. it. p. 206.

128 continuamente si presentano se si considerano solo di sfuggita e se ci si sottrae alla fatica di un'indagine conseguente e delle ri­ cerche connesse, oppure se si vanno a cercare argomenti negli arsenali dei filosofi passati, di Aristotele o di Tommaso, abban­ donandosi al gioco delle argomentazioni e delle confùtazioni logiche. Nel campo d&ll'epoché, la logica, come qualsiasi a priori e qualsiasi dimostrazione filosofica di stile tradizionale, non ha nessuna autorità - come tutte le altre formazioni scienti­ fiche essa costituisce un'ingenuità che soggiace alYepoché.55

Se dunque si vuole tener fede agli imperativi della fenomeno­ logia, dalla paradossalità della soggettività e della fenomeno­ logia stessa non si può dedurre la dialetticità della struttura della soggettività e del nesso fra psicologia fenomenologica e filosofia trascendentale, ma solo inferire la necessità di scio­ gliere, di chiarire progressivamente e faticosamente, tale para­ dossalità ed oscurità. Per giungere ad una «concezione dialet­ tica» della fenomenologia, dunque, non basta portare la posi­ zione husserliana alle «sue estreme conseguenze»; bisogna scavalcarla. (ii) Si potrebbe tuttavia ancora sostenere che la ragione ul­ tima di un tale scavalcamento si trovi all'interno della posizio­ ne husserliana stessa; che quest'ultima, cioè, conduca neces­ sariamente al di là di sé. E difatti un buon motivo per oltrepas­ sare Husserl nello spirito di Husserl stesso potrebbe derivare dalla considerazione che, giacché la paradossalità della feno­ menologia le deriva dalla tensione fra l'atteggiamento natura­ listico e l'atteggiamento fenomenologico, e questa tensione non è mai eliminabile poiché ì'epoché non può mai venir effet­ tuata radicalmente, tale paradossalità diviene costitutiva della fenomenologia ed indice della sua natura dialettica. E infatti Schumann è di questa opinione e cita in proposito il bello slo­ gan di Merleau-Ponty che «il più grande insegnamento della riduzione è l'impossibilità di una riduzione completa».56 Ora, la tesi che ì'epoché non sia mai effettuabile radicalmente e la tesi che questa tesi costituisca un insegnamento della riduzio­ ne fenomenologica sono diverse. Solo se fosse vera la secon55 Krisis § 53 HU VI p. 185; tr. it. p. 207. 56 Merleau-Ponty [1945] p. Vili.

129 da, la prima rappresenterebbe una conseguenza della posizio­ ne husserliana e potrebbe costituire il motore che conduce tale posizione al di là di sé. Si tratta dunque di chiarire se, dal punto di vista husserliano, questa tesi possa esser vera. Ma vediamo innanzitutto di definire meglio il significato dell'affermazione di Merleau-Ponty. Nelle pagine da cui è tratta, Merleau-Ponty distingue due sensi della riduzione fe­ nomenologica, uno preteso l'altro reale. Il primo avvicina la fenomenologia all'idealismo trascendentale; il secondo ne fa una forma di filosofia dell'esistenza. Conformemente al primo, preteso senso, dice in sintesi Merleau-Ponty, la riduzione vie­ ne presentata da Husserl «come il ritorno ad una coscienza trascendentale davanti alla quale il mondo si dispiega in una trasparenza assoluta, animato da parte a parte da una serie di appercezioni che il filosofo sarebbe incaricato di ricostruire a partire dal loro risultato.»57 Nel secondo dei due sensi distinti, la riduzione rappresenta invece la rottura di quella familiarità con il mondo, che il filosofo intraprende per far apparire il mondo stesso come un paradosso, «per far scaturire le tra­ scendenze», «per far apparire i fili intenzionali che ci legano al mondo».58 Da questo secondo punto di vista la riduzione non può mai essere completa, poiché il filosofo che rompe il vincolo di familiarità con il mondo, che si meraviglia di fronte al mondo, è egli stesso nel mondo e le sue riflessioni «fanno parte dello stesso flusso temporale che cercano di captare». Non c'è quindi nessun pensiero che abbracci tutto il suo pen­ siero.59 Ora, il secondo significato della riduzione «toglie», per così dire, il primo: la riduzione dovrebbe essere, confor­ memente alle sue pretese, la via d'accesso ad una coscienza nella quale si dissolva integralmente l'opacità del mondo, do­ vrebbe essere un metodo per trapassarne da parte a parte l'oscurità con la luce della riflessione, ma essa approda, al contrario, alla consapevolezza del fondo oscuro di ogni rifles­ sione, della prigionia mondana di ogni pensiero, alla consape­ volezza, cioè, che «la riflessione radicale è coscienza della sua propria dipendenza da una vita irriflessa, che è la sua situazio­ 57 Merleau-Ponty [1945] p. V. 58 Merleau-Ponty [1945] p. Vili. 59 Merleau-Ponty [1945] p. IX.

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ne iniziale, costante e finale.»60 Di più: se la riduzione rappre­ senta l'approdo a questa consapevolezza è in ragione della ra­ dicalità delle sue pretese di «dispiegare il mondo in un'assolu­ ta trasparenza». Come Merleau-Ponty scriverà in un saggiò successivo: Ci voleva questo tentativo insensato di sottomettere tutto alle convenienze della «coscienza», al gioco limpido delle sue di­ sposizioni, delle sue intenzioni, delle sue imposizioni di senso bisognava spingere all'estremo l'immagine di un mondo saggio che la filosofia classica ci ha lasciato - per rivelare tutto il resto: questi esseri, al di sotto delle nostre idealizzazioni e obiettivazioni, che le nutrono segretamente, e nei quali è difficile ri­ conoscere dei noemi (...).61

In breve: ci voleva quel folle desiderio di portare ovunque la chiarezza, perché il filosofo potesse pervenire alla consapevo­ lezza della propria ombra, che è ombra «portata» e non sem­ plice «assenza di fatto della luce futura».62 Che l'impossibilità della riduzione completa sia il più grande insegnamento della riduzione significa dunque questo: che l'esercizio concreto della riduzione approda alla negazione del suo preteso senso, alla negazione cioè della realizzabilità di principio (e non solo di fatto) dell'ideale di rendere radicalmente trasparente la «costituzione» del mondo nella soggettività trascendentale. Ed ora passiamo a considerare se davvero questa conclusio­ ne possa rappresentare, da un punto di vista husserliano, un insegnamento della riduzione stessa63, facendo notare, in­ nanzitutto, che, all'orecchio di Husserl, essa dovrebbe suonare 60 Merleau-Ponty [1945] p. IX. 61 Merleau-Ponty [1959] p. 234. 62 Merleau-Ponty [1959] p. 230. 63 Che non sia questa, in fondo, la tesi di Merleau-Ponty - che egli, cioè, non intenda sostenere che l'affermazione dell'impossibilità di una ridu­ zione completa rappresenti una semplice conseguenza della posizione husserliana - è dimostrato dalla breve introduzione metodologica al sag­ gio intitolato Le philosophe et son ombre che abbiamo appena citato. Qui Merleau-Ponty spiega come la lettura che egli dà di Husserl consista nel­ l’evocazione di quell'«impensato» della filosofia husserliana matura «che gli appartiene e tuttavia è aperto ad altro». (Merleau-Ponty [1959] pp. 200-202).

131 scettica, autocontraddittoria e fondata su di un fraintendimento del termine «chiarezza» e del concetto di «evidenza». Si po­ trebbe mostrarlo in più modi, ma possiamo limitarci a poche, brevi, considerazioni. Per chiarire perché un uomo-filosofo non possa di principio (e non solo di fatto, ché, l'ombra che il filosofo si porta appresso nella riflessione è «ombra portata» e non semplice «assenza di luce futura») effettuare una riduzio­ ne completa, Merleau-Ponty introduce un termine di paragone perlomeno sospetto: dice che, «se fossimo lo spirito assoluto, la riduzione non sarebbe problematica» e aggiunge che, poi­ ché, al contrario, noi siamo nel mondo, e quindi le nostre ri­ flessioni «fanno parte dello stesso flusso temporale che cerca­ no di captare» non c'è alcun pensiero che abbracci tutto il no­ stro pensiero.64 Detto altrimenti: ciò che impedisce che la ri­ duzione sia portata fino in fondo è ciò che distingue il pensie­ ro umano dal pensiero divino: il suo carattere temporale. Poi­ ché la riflessione avviene nel tempo, poiché («Erlebnis» ri­ flessivo è inserito e fluisce nello stesso flusso di «Erlebnisse» su cui riflette, esso non adegua mai, non coincide mai con il «riflettuto». Il pensiero non è mai per sé così come è in sé, ché il suo carattere temporale ingenera una differenza insoppri­ mibile fra il suo «in sé» ed il suo «per sé». Ora, Husserl ribat­ terebbe, credo, che questa è una concezione assurda (widersinnig), nel senso peculiare che egli assegna a questo termine.65 Essa presuppone costantemente un «in sé» del ri­ flettuto di cui nega allo stesso tempo la conoscibilità66 e, per dare consistenza a quel presupposto, s'avvale dell'ipotesi di uno spirito assoluto in cui l'in sé ed il per sé del pensiero co­ inciderebbero. Ma contro quest'ipotesi Husserl, che nelle Ideen I afferma che anche Dio «potrebbe conoscere la propria coscienza ed il suo contenuto solo riflessivamente»67, innove­ rebbe la stessa critica che egli ha costantemente rivolto contro l'idea kantiana dell'intelletto archetipo68 e in generale contro 64 Merleau-Ponty [1945] pp. VIII-IX. (Corsivo C.S.). 65 Cfr. § 3.8. 66 Husserl stesso rivolge quest'obiezione contro chi mette in dubbio in generale il valore conoscitivo della riflessione. Cfr. ad esempio Ideen I § 79 HU in,l pp. 174-175; tr. it. pp. 175-176, e qui § 3.17. 67 HUIII.l p. 175; tr. it. p. 175. 68 Cfr. Kem [1964] pp. 125-134.

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l'ipotesi di modi di conoscenza diversi da quelli umani: Il discorso generale di modi di conoscenza che non sono affatto nostri e non hanno nulla a che fare con i nostri è privo di senso, di fatto è un controsenso (widersinnig): giacché non c'è nulla che tenga ferma l'unità del concetto di conoscenza. Se di tali possibilità si deve poter parlare sensatamente, allora si deve trattare di tipi di Erlebnisse che risultino per genere essenzial­ mente identici ai nostri; ed anche qualora, per ragioni fattuali, empirico-psicologiche, questi modi di conoscenza non possano mai apparire e divenir concretamente rappresentabili nelle no­ stre anime, dovrebbe tuttavia sussistere a priori, come possibi­ lità ideale, la possibilità di un ampliamento della nostra cono­ scenza, per mezzo del quale la nostra conoscenza si trasformi nella conoscenza di quei più alti intelletti, pensati in una rappre­ sentazione vuota indiretta.69 In breve: o questi modi altri di conoscenza sono confrontabili coi nostri, e allora i nostri devono essere di principio (anche se forse non di fatto) trasformabili in quelli; oppure è insensato mettere a confronto e delimitare i nostri modi di conoscenza rispetto a quelli. Così, con ogni probabilità, Husserl obiette­ rebbe a Merleau-Ponty che o la riflessione dell'essere assoluto, che egli invoca, è confrontabile con la nostra e quindi la nostra deve, di principio, poterla raggiungere; oppure non lo è ed è quindi insensato misurare la nostra con il metro di quella. La controparte positiva della considerazione che la tesi di Merleau-Ponty è in ultima analisi scettica e contraddittoria è il principio secondo il quale il valore conoscitivo della riflessio­ ne e la sua portata deve essere sondato e chiarito nella rifles­ sione stessa e prendendo come metro, ancora una volta, la ri­ flessione. L'unico modo, infatti, di confrontare l'adeguatezza della riflessione ai riflettuti consiste nel confrontare riflessione con riflessione, giacché i riflettuti sono dati originariamente nella riflessione.70 Se applichiamo questo principio alla cono­ scenza fenomenologica nel suo complesso, ne consegue che quest'ultima può venir misurata solo con se stessa. Ma allora, se essa deve poter decretare i propri invalicabili limiti, deve in 69 Ms K n,4 p. 109 a/b (Ottobre 1909) cit. da Kem [1964] pp. 129-130. 70 Ideen I § 79 HU IH,1 pp. 169-178; tr. it. pp. 170-178.

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qualche modo averli già oltrepassati. Se, come Merleau-Ponty pretende, la riduzione deve metter capo all'insegnamento del­ l'impossibilità di principio di una riduzione completa, essa de­ ve essere questa riduzione completa di cui decreta l'impossi­ bilità: ché al di fuori dalla riduzione non rimane nulla, non de­ ve di principio rimanere nulla, nessuna trascendenza, rispetto alla quale misurare la portata della riduzione stessa. Dal punto di vista di Husserl, dunque, lungi dal mostrare l'impossibilità di principio di una riduzione completa, il fatto che l'esercizio concreto della riduzione sia sempre incompleto impedisce di decretare una tale impossibilità. Possiamo chiarire meglio questa paradossale conclusione, tentando di comprendere perché Merleau-Ponty giunga ad una conclusione opposta. A mio avviso, questo deriva dal fatto che egli 1. spacca in due il movimento complessivo della riduzio­ ne e correlativamente 2. ipostatizza il concetto di chiarezza ed evidenza, scavalcando nella metafora irrigidita della chiarezza il problema che il concetto di evidenza rappresenta e la tra­ sformazione che esso conosce nella fenomenologia.7» Ora, nell'idea husserliana di riduzione i due significati della riduzione che Merleau-Ponty presenta, in ultima analisi, come alternativi - la riduzione come ritorno ad una coscienza nella quale si chiarisce in assoluta trasparenza la «costituzione» del mondo, che avvicina la fenomenologia all'idealismo trascen­ dentale della tradizione, e la riduzione come atto di rottura, sempre parziale, della familiarità con il mondo, che farebbe della fenomenologia una forma di filosofia dell'esistenza - si dispongono in realtà lungo quell'unico percorso quasicircolare che è la riduzione nel suo complesso.71 72 La volontà di 71 In questo Merleau-Ponty è sviato da una tendenza di Husserl stesso ad ipostatizzare, contro la sua propria concezione fenomenologica, il signifi­ cato dell'evidenza, le cui deleterie conseguenze si fanno sentire in modo particolare nell'esposizione della via cartesiana della riduzione nelle Ideen I (cfr. § 3.13 e 3.15), e che potrà venir superata solo quando Hus­ serl si deciderà ad ammettere la possibilità di un'evidenza apodittica non adeguata. (CM § 6, HU I pp. 55-57; tr. it. pp. 49-51). Per una delimita­ zione del concetto husserliano di «evidenza» rispetto al principio carte­ siano della «chiarezza e distinzione» cfr. Ströker [1978]. 72 II secondo dei due significati della riduzione corrisponde a ciò che nella Krisis Husserl chiama «epoché», ossia la «liberazione dai vincoli dell'esser-già-dato del mondo», il primo a ciò che dall'epoché è reso pos-

134 chiarezza, il desiderio di pervenire ad una comprensione ulti­ ma della costituzione del mondo nella soggettività trascenden­ tale, è senza dubbio il motore primo della riduzione.73 L'arre­ tramento rispetto al mondo, che fa apparire il mistero della trascendenza, è il mezzo della realizzazione radicale di quel desiderio. La condizione di possibilità di queU'arretramento e quindi di questa realizzazione - è la libertà di svincolarsi di fatto dalla familiarità con il mondo.74 Poiché io sono libero di rompere il mio legame con il mondo, posso fame apparire la trascendenza e poi chiarire il mistero di questa trascendenza senza presupporre nulla di ugualmente misterioso, e realizzare così l'ideale verso cui tende la mia volontà di chiarezza. Quale ostacolo irriducibile (non puramente fattuale) potreb­ be impedirmi di realizzare quell'ideale? La tesi di MerleauPonty sembra sia questa: che il mondo, di cui indago la costi­ tuzione nella soggettività trascendentale, potrebbe opporre e di fatto oppone un'opacità irriducibile, un lato «selvaggio» impenetrabile a quel chiarimento radicale che io auspico. Ma questa tesi non tien conto della quasi-circolarità del movimen­ to della riduzione: se infatti è vero che l'aspirazione alla chia­ rezza è il motore della rottura con il mondo che dovrebbe permettere di realizzare quell'aspirazione, è d'altra parte anche vero che questa rottura non ha il solo scopo di realizzare un ideale rigido, predefinito, ma anche di trasformarlo e di dargli un contenuto. L'ideale della chiarezza non è infatti, all'inizio, che un ideale formale. Il filosofo principiante aspira alla chia­ rezza, ma vi aspira oscuramente: ancora non sa cosa sia chia­ rezza, quali tipi di chiarezza possa perseguire in ogni campo e ad ogni grado della conoscenza fenomenologica. Solo l'eser­ cizio della riduzione, la conoscenza fenomenologica e l'auto­ critica di quest'ultima75, potranno dare un contenuto evidente sibile e che Husserl denota qui con il termine di «riduzione», e cioè l'in­ dagine su quel campo peculiare di fenomeni dischiuso dalì'epoché, che è la «soggettività trascendentale». (Krisis § 41 HU VI p. 154 tr. it. p. 179 e § 70 HU VI p. 247 tr. it. p. 264). Cfr. qui § 3.13. 73 S'intende, naturalmente, della riduzione filosofico-fenomenólogìca. 74 Ideen I § 31 HU 111,1 p. 63; tr. it. p. 63. 75 Ideen I § 65 HU in,l p. 139; tr. it. p. 142: «L'essenziale riferimento della fenomenologia a se stessa si rivela qui nel fatto, che quanto viene preso in considerazione e determinato nella riflessione metodica sotto il

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all'ideale oscuro della chiarezza. Ma parlare di un'opacità irri­ ducibile del mondo ha senso solo quando tale opacità possa venir misurata con il metro di un ideale di chiarezza rigida­ mente predefinito. Ché altrimenti, se questo ideale è flessibile, esso potrà inglobare in sé anche i modi di datità originari, le forme peculiari di evidenza, che contrassegnano quella pretesa opacità. In breve: la tesi di Merleau-Ponty secondo la quale l'eserci­ zio concreto della riduzione dimostrerebbe l'impossibilità della realizzazione dell'ideale dell'assoluta chiarezza è una conseguenza del fatto che Merleau-Ponty interpreta rigida­ mente quest'ideale, sorvolando sulla sua flessibilità e modifi­ cabilità nel corso di quell'esercizio; una conseguenza del fatto, cioè, che Merleau-Ponty spezza la (quasi) circolarità fra l'ideale cui la riduzione mira e la sua realizzazione. O, in altre parole, l'idea che la fenomenologia come «filosofia dell'esi­ stenza» rappresenti il superamento dell'aspirazione della fe­ nomenologia ad esser idealismo trascendentale deriva dalla mancata considerazione del tratto specifico dell'idealismo tra­ scendentale husserliano rispetto agli idealismi trascendentali della tradizione: il suo esser idealismo fenomenologico-trascendentale. (iii) C'è tuttavia un altro modo di negare la realizzabilità di principio dell'ideale di una riduzione completa e di gettare quindi le basi per una concezione dialettica della fenomenolo­ gia: consiste nel mostrare che la libertà del filosofo di rompere la propria familiarità col mondo è necessariamente limitata. Ora, per trovare dei limiti di principio invalicabili di questa li­ bertà non occorre andare lontano. La peculiare struttura dell'«inizio» della filosofìa ce li pone infatti davanti agli oc­ chi, ché, per quanto formale e suscettibile di trasformarsi, la chiarezza cui mira, costitutivamente, la volontà del filosofo titolo di chiarezza, intuizione evidente (Einsicht), espressione ecc., ap­ partiene a sua volta all'ambito fenomenologico, (...) e che la definizione delle vedute metodologiche soggiace alle stesse norme che esse formula­ no. Così è necessario potersi convincere in sempre nuove riflessioni che gli stati di cose asseriti nelle asserzioni metodologiche possano esser dati in modo perfettamente chiaro e che i concetti utilizzati si adattino alle datità in modo davvero fedele ecc.».

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non è forse una limitazione di quella sua libertà? Non è in fondo questa originaria volontà di chiarezza l'ombra - l'ombricina - che il filosofo si trascina appresso e impedisce che il movimento quasi-circolare della riduzione divenga davvero circolare? Non è questa volontà l'ostacolo insormontabile che sbarra la strada ad una riduzione completa, o, come dicevo alla fine del § 3.1, ciò che impedisce che la filosofia fenomenolo­ gica giunga ad inverare quella particolare forma di scetticismo che nega la differenza fra sé e la filosofia? Io credo di sì: credo, cioè, che sia questa radicale volontà che lega indissolubilmente l'idea della filosofia fenomenologi­ ca a quello scetticismo che essa vorrebbe lasciarsi alle spalle, e credo che la consapevolezza del fatto che quest'idea ha la propria origine in quella volontà possa aprire la strada alla costruzione di una concezione dialettica della fenomenologia. A differenza delle precedenti ipotesi ermeneutiche (i) e (ii), una concezione dialettica della fenomenologia costruita a par­ tire da questa consapevolezza, non violerebbe dall'interno gli imperativi fenomenologici fondamentali - l'imperativo di tor­ nare alle cose stesse e l'imperativo di misurare il peculiare modo di datità di ogni modo d'essere soltanto con se stesso, che si trovano condensati nel «Prinzip aller Prinzipien» delle Ideen I16 - ma si limiterebbe ad indicare il nesso indissolubile fra questi imperativi e la loro antitesi radicale. D'altra parte, però, credo anche che, pur non violando gli imperativi metodologici della fenomenologia, una tale co­ struzione contrasterebbe senza possibilità di mediazione con la concezione etica ed antropologica che quegli imperativi sostiene. Husserl non percorrerebbe mai la via - non so quanto davvero percorribile - di una critica radicale della «volontà di chiarezza» in cui ha origine la fenomenologia, perché quella volontà è ciò che lo costituisce come uomo76 77, come apparte­ 76 «Nessuna immaginabile teoria può farci dubitare del principio di tutti i principi: che, cioè, ogni visione (Anschauung) originariamente offerente è una fonte di legittimità della conoscenza, che tutto ciò che si dà origina­ riamente nell'«intuizione (Intuition)» (per così dire, nella sua realtà incar­ nata) è da assumere semplicemente come si dà, ma anche soltanto nei li­ miti in cui si dà.» (Ideen I § 24 HU 111,1 p. 51; tr. it. pp. 50-51). 77 II 25 settembre 1906, negli anni della genesi dell'idea di filosofia, Hus­ serl annota: «Senza conseguire la chiarezza a grandi linee sul senso, l'es-

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nente a quella parte dell'umanità «che non è ancora franata in se stessa» e lotta per l'ideale autentico di una filosofia non­ scettica.78 Lanciarsi nel compito folle e paradossale di una critica di quella volontà da cui scaturisce la filosofia equivar­ rebbe, dal suo punto di vista, al suicidio, ché, per lui, la lotta per la chiarezza è lotta per la vita.79 Per questo la fenomeno­ logia continua e deve continuare a presentare quella «lacuna di ogni filosofia» che consiste nell'assenza di una «coscienza di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di una giustificazione».80 5. Traendo le conseguenze delle considerazioni svolte nei paragrafi che precedono possiamo tracciare i confini dello spazio teorico in cui andrà cercata l'interpretazione del nesso che la filosofia fenomenologica pone fra sé e lo scetticismo. Posto che essa tien ferma, dall'inizio alla fine, l'istanza anti­ scettica si tratta di stabilire in che modo si proponga di supera­ re concretamente lo scetticismo. Abbiamo potuto appurare che contro lo scetticismo, ed in senza, i metodi, le prospettive di fondo di una critica della ragione (...) non posso davvero vivere. I tormenti della non-chiarezza, del dubbio che va e viene, li ho assaporati abbastanza. Devo giungere alla fermezza inte­ riore. So che si tratta di qualcosa di grande, di immenso, so che grandi geni hanno fallito in questo. Se dovessi confrontarmi con loro dovrei di­ sperare (verzweifeln) dall'inizio. Non voglio confrontarmi ccon loro>, ma non posso proprio vivere senza chiarezza. Voglio e devo avvicinarmi agli alti fini con la dedizione del lavoro, in un approfondimento puramente oggettivo. La più dura necessità della vita, la legittima difesa dai pericoli della morte dà forze smisurate e imprevedibili. Non miro all'onore e alla fama, non desidero ammirazione, non penso agli altri ed alla mia promo­ zione esteriore. Di una cosa Sola sono pieno: devo conseguire la chiarez­ za, altrimenti non posso vivere, non posso sopportare la vita se non posso credere che ce la farò, che potrò guardare io stesso e con chiarezza nella terra promessa.» (HU XXIV p. 445). 78 Krisis § 6 HU VI p. 13 tr. it. p. 44. 79 Cfr. nota 77. Come abbiamo visto (cfr. § 1.1), in SZ Heidegger percor­ re al contrario questa implicazione fra esistenza ed istanza antiscettica: se per Husserl l'abbandono della «volontà di chiarezza», l’abbandono della volontà di superare lo scetticismo implicherebbe il suicidio, per Heideg­ ger il suicidio è l'unico modo che ha lo scettico di esser veramente scetti­ co. 80 NW 5 p. 401, tr. it. vol.VI t.H p. 357.

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particolare contro quella forma determinata di scetticismo che è lo psicologismo, fa valere un argomento puramente confuta­ torio che, almeno apparentemente, fa leva sull'autocontraddittorietà di quest'ultimo.81 Questo argomento puramente negativo, però, ha bisogno, per ammissione di Husserl stesso, di un'integrazione. Ad esso deve venir affiancata una strategia di superamento dello scet­ ticismo, e in particolare dello psicologismo, che riconosca a quest’ultimo anche un significato positivo.82 Di questa strate­ gia sappiamo, per il momento, molto poco. Sappiamo che essa ha due lati: uno di inveramento del significato positivo dello scetticismo, che abbiamo fatto coincidere con la psicologia fe­ nomenologica, ed uno di superamento radicale di ogni forma di scetticismo, che coincide con la filosofia fenomenologicotrascendentale. Sappiamo inoltre che fra questi due lati sussi­ ste un nesso inscindibile: quell'inveramento è la condizione di possibilità di questo superamento; e che questo nesso presenta caratteri paradossali: i mezzi del superamento radicale di ogni forma di scetticismo sono fomiti da uno scetticismo portato all'estremo. Abbiamo tuttavia escluso che tale paradossalità giustifichi un'interpretazione dialettica di quel nesso: quello scetticismo estremo, radicalmente coerente, che è la psicologia fenomenologica non si capovolge automaticamente e neces­ sariamente, in filosofia trascendentale, o meglio, se anche si capovolge, fra le due discipline continua a sussistere, deve continuare a sussistere, una differenza. Le considerazioni che ci hanno condotti ad escludere che una concezione dialettica della fenomenologia sia praticabile da un punto di vista hus­ serliano ci indicano la direzione in cui andrà cercata questa differenza: essa andrà cercata, innanzitutto, in quella «volontà di chiarezza» dalla quale scaturisce la filosofia, che separa, con un taglio netto, la filosofia daH'antifilosofia, e che rimane costantemente «al di fuori» dalla psicologia fenomenologica, assegnandole lo statuto di mezzo, di strumento della realizza81 Di questo argomento e delle sue analogie e differenze rispetto all'argo­ mento formale, che nel secondo capitolo (§ 2.3) abbiamo descritto a par­ tire dall'esempio platonico, ci occuperemo ai §§ 3.6-3.11. 82 Su questa insufficienza della confutazione dello scetticismo mediante l'argomento della sua «Widersinnigkeit», Husserl è particolarmente espli­ cito nelle lezioni di etica del 1908/9. Cfr. HU XXVDI p. 245 e p. 358.

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zione del telos filosofico verso il quale la sospinge; e andrà cercata, in secondo luogo, nella visione etico-antropologica che sorregge quella volontà.83 Se queste anticipazioni sono vere, la definizione del nesso che la filosofia fenomenologica pone fra sé e lo scetticismo dovrà potersi individuare nello «spazio» intermedio fra l'ar­ gomento formale (insufficiente) e la via dialettica (eccessiva). Ora, nel nostro schizzo dei modelli di superamento dello scet­ ticismo, fra l'uno e l'altro estremo, media il modello trascen­ dentale. Si può dunque formulare l'ipotesi che anche la posi­ zione husserliana si collochi nell'area coperta da tale modello. Se tuttavia confrontiamo questo modello così come l'abbiamo descritto a partire dall'esempio cartesiano, con le prospettive fenomenologiche generali ricavate dalle L.U. e dalla Krisis, che abbiamo anticipato al § 3.3, balzano agli occhi alcune abissali differenze. Il percorso cartesiano di superamento dello scetticismo attraversava due tappe fondamentali: Descartes s'avvaleva innanzitutto del significato positivo dello scettici­ smo per purificare l'oggettività dalla soggettività e far emerge­ re un concetto di oggettività pura; superava in un secondo momento lo scetticismo fondando la differenza dell'oggettività derivata rispetto alla soggettività nell'oggettività pura. A que­ ste due tappe fondamentali si aggiungeva, quasi inessenziale, una terza tappa, consistente nel tentativo di spiegare la pos­ sibilità di ciò da cui l'oggettività pura era stata depurata: la soggettività.84 Il percorso husserliano sarebbe identico a quello cartesiano se non fosse, rispetto a questo, capovolto. Ciò che in Descartes viene per ultimo ed è inessenziale (e si rivela come l'autentica croce della via trascendentale) - l'in­ dagine sulla soggettività - è in Husserl il punto di partenza e lo strumento essenziale del superamento dello scetticismo. Lungi dal servire a far emergere un concetto di oggettività pu­ ra, lo scetticismo serve ad Husserl a liberare il concetto di soggettività da ogni obiettivazione, a far emergere la differen­ za fra soggettività pura e soggettività empirica. Ed il supera­ mento dello scetticismo non consiste nella fondazione di una differenza, ma nel chiarimento del senso ultimo dell'ogget83 Cfr. §§ 3.17-3.20. 84 Cfr. § 2.5.

140 tività a partire dalla sua correlazione con la soggettività pura. Si può riesprimere la differenza fra le due prospettive anche così: lo scetticismo - abbiamo detto85 - consiste 1. in un'attivi­ tà fenomenologica che mostra la soggettività della conoscenza e 2. nella conseguente decisione di metterne in dubbio la pre­ tesa oggettività, nella decisione, cioè, di sospendere la creden­ za nella differenza fra l'oggettività e la soggettività. In Descar­ tes l'uso del significato positivo dello scetticismo ricalca que­ sto percorso: prima la fenomenologia del sapere inautentico della Prima Meditazione, poi il dubbio e poi il superamento del dubbio nel sapere autentico. Husserl invece capovolge il percorso: il dubbio è l'inizio e serve ad aprire la strada a quel­ l'attività fenomenologica che mostra la correlazione di sog­ gettività ed oggettività. In Husserl è l'epoché che rende pos­ sibile la riduzione e non viceversa.86 Così, mentre Descartes, nel servirsi dello scetticismo, finisce per «assorbirne» l'autocontraddittorietà, Husserl utilizza lo scetticismo per rendere coerente lo scetticismo stesso. Fra lo scetticismo come attività fenomenologica e Io scetticismo come decisione c'è infatti una sproporzione: nell'approdare ad un dubbio universale lo scet­ ticismo fa valere come assoluti i criteri d'oggettività determi­ nati, attorno ai quali esso ruota nell' attività fenomenologica che quel dubbio motiva. Con la sua pretesa di fondare ogni oggettività a partire daH'inveramento/superamento di una for­ ma determinata di scetticismo, Descartes accoglie aH'intemo della propria fondazione del sapere questa sproporzione. Hus­ serl, invece, anticipando l'epoché universale rispetto all'attività fenomenologica apre la strada ad un'attività fenomenologica tanto radicale quanto quell’epoché, ad un'attività fenomenolo­ gica, cioè, che non si fondi più sull'assunzione acritica di cri­ teri di oggettività predeterminati, ma che faccia emergere la molteplicità di questi stessi criteri dall'indagine sulla sogget­ tività. Se dunque la fenomenologia si riducesse alle L.U. da un lato ed alla Krisis dall'altro, potremmo concludere che la strategia d'inveramento del significato positivo dello scetticismo, di cui 85 Cfr. § 2.1. 86 Uso i due termini nel significato che Husserl assegna loro nei §§ 41 e 70 della Krisis. Cfr. § 3.4 nota 72.

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le L.U. pongono l'esigenza e la Krisis porta a compimento la definizione, non ha assolutamente nulla a che fare con il mo­ dello trascendentale cartesiano e che si trova davvero ad un passo dal modello dialettico. Tuttavia, fra le L.U. e la Krisis, nelle quali i due lati della ricerca fenomenologica (quello psi­ cologico e quello filosofico) sono tanto vicini da sembrar co­ incidenti, c'è tutta la storia della fenomenologia, lungo la quale quei due lati prima s'allontanano, poi si riavvicinano progressivamente. Ed in questa storia i confini fra la via fe­ nomenologica di superamento dello scetticismo e la via tra­ scendentale - così come l'abbiamo descritta nel secondo capi­ tolo - sembrano, almeno a tratti, offuscarsi. L'esposizione della via cartesiana della riduzione fenomeno­ logica nelle Ideen I è di fatto contrassegnata da quest'offusca­ mento. Un primo sguardo, superficiale, all'esposizione del mo­ vimento complessivo della riduzione nella Fundamentalbetra ­ chtung, consente di distinguere tre momenti che coincidono, assai approssimativamente, con i primi tre capitoli. Dapprima Husserl illustra il significato dell’epoché e ne fonda la possibi­ lità sulla libertà di attuarla.87 Segue il problematico secondo capitolo88, che sembra contenere una critica dell'esperienza mondana, una critica che approda alla contrapposizione fra la dubitabilità della percezione trascendente e dell'essere trascen­ dente del mondo da un lato, e l'indubitabilità della percezione immanente e dell'essere della coscienza dall'altro. Infine89 viene introdotta la «Leistung» dell’epoché, e cioè la riduzione vera e propria e viene dischiusa la regione della coscienza pu­ ra come campo d'indagine della fenomenologia. Ora, ciò che avvicina questa esposizione90 della riduzione al modello cartesiano di superamento dello scetticismo è il fatto che fra l'introduzione dell’epoché e quella della riduzione è 87 Ideen 1 §§ 27-32 ( = primo capitolo della Fundamentalbetrachtung); HU HI.l pp. 56-66; tr. it. pp. 57-67. 88 HU m,l pp. 66-99; tr. it. pp. 68-102. 89 HU 111,1 pp. 99 sgg.: tr. it. pp. 103 sgg.. 90 Preciseremo meglio in seguito le varie fasi attraversate dalla Funda­ mentalbetrachtung delle Ideen I. Potremo così determinare in che misura questa apparente vicinanza al modello trascendentale dipenda dall'oscuri­ tà dell'esposizione e dall'uso di espressioni equivoche e in che misura, in­ vece, Husserl si faccia davvero sviare da Descartes. (Cfr. § 3.15).

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frapposto il capitolo sulla critica dell'esperienza mondana. La funzione di questo capitolo è infatti ambigua: da un lato sem­ bra che esso serva a mostrare la possibilità della riduzione, che viene introdotta nel capitolo successivo. A questa interpre­ tazione si può però opporre che la riduzione è resa possibile dalYepoché e che Y epoche non presuppone nient'altro che la libertà d'attuarla. D'altro lato sembra che la critica dell'espe­ rienza mondana abbia la funzione di motivare la riduzione. Se così fosse Husserl s'avvarrebbe dello scetticismo in modo as­ sai analogo a quello cartesiano. Lo scetticismo che mette in dubbio la possibilità della conoscenza trascendente gli servi­ rebbe per far emergere la differenza fra questa conoscenza dubitabile e l'indubitabile conoscenza immanente, e motivare quindi Yepoché che rende possibile la riduzione: quest'ultima si rivelerebbe non solo possibile, ma necessaria per la fonda­ zione di una scienza che superi radicalmente ogni forma di scetticismo. Se questo fosse il «Gedankengang» del secondo capitolo della Fundamentalbetrachtung, il modo in cui Hus­ serl usa lo scetticismo nelle Ideen I ripercorrerebbe la sequen­ za fra attività fenomenologica e decisione motivata da quel­ l'attività, sequenza che è costitutiva dello scetticismo stesso, e si esporrebbe quindi al rischio di assorbire all'interno della fe­ nomenologia l'autocontraddittorietà di quest'ultimo. Non voglio certo risolvere qui il problema dell'ambiguità del secondo capitolo della Fundamentalbetrachtung delle Ideen I. Per il momento, mi basta osservare che in quest'ambiguità è implicito un offuscamento dei confini fra il modo trascenden­ tale di inverare lo scetticismo e quello fenomenologico, e che quindi il problema di un confronto della posizione husserliana con il modello trascendentale cartesiano di inveramento dello scetticismo rimane aperto.91

2. La critica dello psicologismo nelle «Ricerche Logiche»

6. È davvero curioso che si sia potuto ritenere che le L.U. non rappresentino un'opera unitaria e si sia potuto rivolgere

91 Di questo problema tratteranno in particolare, i §§ 3.13-3.15.

143 contro Husserl il «grottesco rimprovero»92 di esser ricaduto, nel secondo volume, in quello psicologismo così violentemen­ te criticato nel primo. Forse una spiegazione di questo fatto la fornisce, paradossalmente, la considerazione che quest'opera non è solo unitaria, ma talmente unitaria da esser circolare (o quasi-circolare). Mi spiego. Se il compito dell'opera nel suo complesso è quello di tentare una «nuova fondazione della logica pura e teoria della conoscenza», la critica dello psicologismo, condotta nei Prolegomena, serve a sgombrare il campo da fraintendi­ menti e ad aprire la strada a quella fondazione della logica di nuovo tipo; d'altra parte questa fondazione, abbozzata nel se­ condo volume, fornisce la controparte positiva ed il sostegno di quella critica. Nella seconda edizione, è Husserl stesso a chiari­ re come il lato positivo della fondazione della logica rappre­ senti il proseguimento di quello critico-negativo, a chiarire cioè come solo la fenomenologia della conoscenza logica possa condurre ad un radicale superamento dello psicologismo.93 Con questo, però, il rapporto fra i due lati della nuova fonda­ zione della logica non risulta ancora del tutto illimpidito: po­ trebbe infatti sembrare che il lato positivo si limiti a completa­ re quello negativo, riempiendo lo spazio vuoto creato da que­ st'ultimo attraverso la rimozione degli ostacoli psicologistici che impediscono una fondazione autentica della logica. In realtà fra i due lati sussiste un rapporto di reciproca implica­ zione: la critica dello psicologismo, che sgombra il campo da fraintendimenti, presuppone già - si potrebbe dire: anticipa oscuramente - alcuni dei punti di vista che solo la fenomeno­ logia della conoscenza logica, cui tale critica apre la strada, potrà chiarire pienamente.94 In altre parole: il senso della se­ parazione, scavata dai Prolegomena, fra l'idealità logica e la realtà psicologica si comprende fino in fondo solo a partire dalla fenomenologia degli Erlebnisse soggettivi, di cui quella idealità e quella separazione sono il correlato, fenomenologia che solo il secondo volume potrà avviare. Per chiarire feno­ 92 93 p. 94

L.U. H,2 B2 V HU XIX,2 p. 535; tr. it. vol.I p. 17. L.U.II B 7 HU XIX,1 pp. 11-12; tr. it. vol.I p. 273 e Tugendhat [1967] 16. Cfr. § 3.9.

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menologicamente il senso di quella separazione, Husserl deve prima in qualche modo scavarla, ma d'altra parte per scavarla deve anticiparne, almeno oscuramente, il senso. Da questo rapporto fra i loro due lati deriva alle L.U. una struttura dinamica. Le L.U., cioè, si muovono al loro interno, e si muovono in un duplice senso: nel senso che 1. la critica dello psicologismo dei Prolegomena è come protesa verso le ricerche fenomenologiche del secondo volume e, d'altra parte, 2. le ri­ cerche fenomenologiche del secondo volume «risemantizzano», per così dire, quella critica.95 Ne consegue che le L.U. non pos­ sono venir lette come una catena di argomentazioni che proceda dalla prima all'ultima riga, ma che, al contrario, ogni grado del chiarimento-fondazione della logica cui pervengono deve venir messo in circolo con i precedenti: in esso si devono veder rac­ colti i gradi precedenti, i quali, per converso, acquisiscono un nuovo senso a partire da esso.96 Ne consegue, cioè, che le L.U. sono talmente unitarie che esse non possono venir semplicemente lette, ma devono in qualche modo venir «rivissute», e che solo a condizione che vengano davvero «rivissute» - solo a condizione che il lettore percorra e ripercorra il loro movimento - può apparire la loro peculiare forma di unità. Non meraviglia, 95 Questo nesso dinamico si riproduce, all'interno nel secondo volume, fra le prime quattro ricerche e le ultime due e, più in generale, fra ogni passo del chiarimento fenomenologico ed ogni altro. Husserl stesso chia­ risce come questa peculiare struttura dell'analisi fenomenologica, che egli definisce «a zigzag», derivi dalle difficoltà generate dall'applicabilità a se stessa di tale analisi, la quale deve servirsi di quegli stessi concetti che mira a chiarire: «L'indagine si muove perciò, per così dire, a zig-zag; e questa metafora è tanto più pertinente per il fatto che, a causa dell'intima interdipendenza dei diversi concetti conoscitivi, si deve continuamente ritornare alle analisi precedenti, verificandole sulla base di quelle suc­ cessive, e verificare queste ultime sulla base delle prime.» (L.U.n A 18 B 17 HU XIX,1 pp. 22-23; tr. it. vol.I p. 282). 96 Cfr. LU IB Xl-Xn HU XVm p. 11; tr. it. vol. I, p. 9: «In proposito va ricordato che l'opera era costituita da ricerche sistematicamente concate­ nate, ma non era un libro, un'opera in senso letterario. Si trattava di un continuo passaggio da un livello inferiore ad uno superiore, di un lavoro diretto in senso crescente verso l'acquisizione di sempre nuove prospetti­ ve fenomenologiche e logiche, che non lasciano del tutto intatte quelle precedentemente acquisite. Emergono strati fenomenologici sempre nuovi e contribuiscono a determinare le interpretazioni di quelli prece­ denti».

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quindi, che tale unità sia sfuggita a tanti lettori, i quali del resto devono essere stati sviati dalle varie oscillazioni e fraintendi­ menti di Husserl stesso, anch'essi resi possibili e quasi-necessari dalla peculiare struttura dell'opera.97 7. La struttura delle L.U. ci avverte che, nell'esaminare la critica husserliana dello psicologismo esposta nei Prolegome­ na, è necessario tener presente che essa anticipa già punti di vista che verranno chiariti soltanto nel secondo volume; e che, solo quando la si misuri costantemente con questi punti di vi­ sta, quella critica risulta pienamente comprensibile. D'altra parte, se nel riesporre tale critica ci riuscirà di mostrare come essa davvero presupponga alcuni dei risultati delle analisi fe­ nomenologiche del secondo volume, avremo con questo anche fornito una conferma della struttura circolare delle L.U.. Prima di dedicarci a tale riesposizione98, e per introdurci ad essa, vogliamo tuttavia precisare il significato di questa circolarità. Se cerchiamo di ricostruire il «Gedankengang» formale dei Prolegomena in particolare, ma anche delle L.U. nel loro com­ plesso, ci rendiamo conto che non sono solo le loro singole parti ad essere circolarmente congiunte, ma anche la loro struttura complessiva ed il loro punto d'arrivo (e cioè le analisi sul rapporto fra «intenzione di significato» e «riempimento di significato» e la conseguente definizione del concetto feno­ menologico di verità ed evidenza della Sesta Ricerca). L'intera opera, infatti, è già organizzata secondo quel metodo che Hus­ serl teorizzerà esplicitamente nc\VIntroduzione alla FTL, e che consiste in «un'esplicazione intenzionale del senso autentico della logica formale», e cioè nel tentativo

di stabilire realmente «in se stesso» il senso che è inteso, pre­ supposto nella mera intenzione (Meinung); il tentativo di ricon­ durre al senso riempito e chiaro il «senso intenzionante» (come si diceva nelle «Ricerche logiche»), il senso che «ondeggia va­ gamente» nel reale «mirare a», di procurargli cioè l'evidenza della chiara possibilità.99 97 L.U.I B XI HU XVm p. 10 tr. it. voti p. 8. 98 Cfr. §§ 3.8-3.9. 99 FTL, Einleitung, HU XVII p. 13; tr. it. p. 12. Occorre tuttavia precisa­ re che solo da un punto di vista formale il procedimento in atto nelle L.U.

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Il «senso intenzionante» (intendierende Sinn) della logica for­ male - l'idea formale di logica formale - vien fatto emergere nel primo capitolo dei Prolegomena.™ L'intera discussione sullo psicologismo che segue apporta una prima «ondata» di chiarimenti di questo senso, attraverso la rimozione di oscurità e fraintendimenti, e giunge ad un primo, provvisorio punto d'arrivo nell'ultimo capitolo dei Prolegomena.101 In esso viene riesposta l'idea della logica formale - già parzialmente liberata dalle oscurità, ma ancora vuota - alla quale le ricerche del se­ condo volume dovranno, con nuove «ondate» di chiarimenti, fornire il riempimento intuitivo102, portando il «senso inten­ zionante» da cui le L.U. prendono le mosse all'«evidenza della chiara possibilità». Le L.U. sono dunque circolari da un duplice punto di vista. Innanzitutto, come abbiamo già detto, dal punto di vista del loro contenuto. Ed a questo punto sappiamo perché: ciò a cui pervengono è il chiarimento di quel medesimo «senso» che, nella sua oscurità, rappresenta il loro punto di partenza e «tende», sin dall'inizio, al loro punto d'arrivo. Ma poi sono circolari anche dal punto di vista del metodo: anche il metodo di chiarimento che esse applicano si chiarisce, o trova perlo­ meno le condizioni del proprio chiarimento, nei risultati della Sesta Ricerca, che permette d'altra parte di raggiungere.103 Se ora ripercorriamo questo «Gedankengang» formale delle è analogo a quello teorizzato nella FTL, ché, come vedremo, il chiarimen­ to del senso intenzionante della logica nella FTL si pone ad un livello di maggior radicalità rispetto a quello delle L.U. Inoltre nella FTL - e il fatto non è da sottovalutare - quel chiarimento avviene nell'autoconsapevolezza metodologica. Non così nelle L.U., dove siamo noi, nella nostra ricostruzione, a prestare ad Husserl quell'autoconsapevolezza che egli raggiungerà solo più tardi. 100 «La logica come disciplina normativa ed in particolare come discipli­ na pratica». 101 «L'idea della logica pura». 102 Cfr. LU n A 7-8 B 5-6 HU XIX,1 pp. 9-10 tr. it. voli pp. 274-275.. 103 Nell'Introduzione al secondo volume Husserl stesso esplicita come il chiarimento fenomenologico di alcune idee logiche abbia anche la fun­ zione di trarre dall'oscurità «l'essenza della stessa chiarificazione a cui tendono le analisi fenomenologiche». LU II A 9 B 9 HU XIX,1 p. 13 tr. it. vol.I p. 274.

147 L.U. dal punto di vista del suo contenuto, ci vediamo tuttavia costretti ad attenuare la nostra affermazione: le L.U. non sono un'opera pienamente circolare, ma presentano in realtà una struttura teleologica, la quale è solo tyuasz-circolare. C'è infatti ai loro inizi, nella definizione del senso intenzionante della lo­ gica formale, qualcosa che rilutta a venir messo in circolo con il loro punto d’arrivo, qualcosa che resta fuori dal loro movi­ mento complessivo, ne costituisce l'immobile «inizio» e rima­ ne, anche alla fine, non chiarito. Vediamo. Il primo capitolo dei Prolegomena, sulla logica come disci­ plina normativa, dischiude il senso intenzionante della logica formale, a partire dalla sua funzione: ne dischiude, insomma, quello che nel linguaggio dell'Introduzione alla FTL si chia­ merà lo «Zwecksinn» (senso-scopo). Il punto di partenza di quest'operazione è rappresentato dalla constatazione che le scienze, anche le più progredite come la matematica, così co­ me si presentano di fatto sono imperfette: «Esse non sono teorie cristalline, nelle quali la funzione di ogni concetto e principio sia pienamente intelligibile ed ogni presupposto sia esattamente analizzato, così da porsi al di sopra di qualsiasi dubbio teoretico.»'04 Questa imperfezione deriva dalla diffe­ renza fra ciò che le scienze sono di fatto e ciò a cui esse mira­ no: la scientificità in quanto tale, l'ideale di un sapere che sia «al di sopra di ogni dubbio» possibile. Perché il sapere delle scienze fattuali adegui quest'ideale esso deve soddisfare due condizioni. In primo luogo non deve essere un sapere vuoto, ma deve essere bensì contrassegnato dall'evidenza: «Ci vuole piuttosto - se deve trattarsi di un sapere nel senso più stretto e rigoroso - l'evidenza, la chiara certezza che sia ciò che abbia­ mo ammesso, e che non sia ciò che abbiamo respinto.»104 105 Fra un sapere evidente ed una convinzione cieca e vaga, aggiunge Husserl, bisogna porre una differenza «se non vogliamo nau­ fragare contro gli scogli di uno scetticismo estremo».106 In se­ condo luogo, un sapere che aspiri alla scientificità deve avere forma sistematica; deve essere cioè organizzato in connessioni fondanti che presentino alcune precise caratteristiche formali, 104 L.U.I A 10 B 10 HU XVHI p. 26; tr. it. voli p. 30. (Corsivo C.S.). 105 L.U.I A 13 B 13 HU XVIII p. 28; tr. it. voli p. 32. 106 L.U.I A 13 B 13 HU XVIII p. 28; tr. it. voli p. 32.

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sulle quali non ci soffermiamo.107 La constatazione di questa differenza fra ciò che le scienze sono e l'ideale cui aspirano permette ad Husserl di definire lo Zwecksinn della logica formale:

Le scienze sono creazioni spirituali dirette ad un certo fine, e in base ad esso debbono dunque venir giudicate. (...) Perché una scienza sia veramente scienza (...) essa deve essere conforme al fine a cui tende. La logica intende indagare ciò che spetta alle vere scienze, alle scienze valide come tali, in altre parole ciò che costituisce l'idea della scienza, affinché noi possiamo valu­ tare se le scienze empiricamente esistenti corrispondano alla lo­ ro idea oppure fino a che punto si approssimino ad essa e in che cosa la contraddicano.108

Questo Zwecksinn della logica corrisponde perfettamente alle motivazioni pratiche originarie che hanno guidato la sua na­ scita: è l'esigenza di far fronte alle aggressioni scettiche rivolte contro il sapere dalla sofistica greca ciò che ha indotto all'ela­ borazione di criteri ideali con cui misurare il sapere fattuale.109 In questa definizione della logica come scienza normativa è oscuramente raccolto il suo preteso senso, che le ricerche suc­ cessive dovranno esplicare portandolo «all'evidenza della chiara possibilità». Ciò che in tale esplicazione viene portato alla chiarezza è, in ultima analisi, la differenza fra oggetti reali ed oggetti ideali implicata dalla distinzione fra scienze fattuali ed ideale di scientificità. Il primo passo di Husserl su questa strada consiste nello stabilire la necessità, per ogni scienza normativa, di fondarsi su una (o più) scienze teoretiche110; il 107 L.U.I A 17-19 B 17-19 HU XVIII pp. 32-34; tr. it. vol.I pp. 36-38. 108 L.U.I A 26 B 26 HU XVIII pp. 40-41; tr. it. vol.I p. 44. 109 «Una logica orientata in senso pratico è un postulato irrinunciabile per tutte le scienze, ed a ciò corrisponde anche il fatto che la logica è stori­ camente sorta dalle motivazioni pratiche dell'esercizio della scienza. Co­ me è noto, ciò accadde in quell'epoca eccezionale in cui la scienza greca nascente correva il rischio di soccombere agli attacchi degli scettici e dei soggettivisti, e tutti gli ulteriori successi della scienza dipendevano dalla scoperta dei criteri obiettivi della verità che fossero in grado di distrugge­ re l'illusoria parvenza della dialettica sofistica.» L.U.I A 30 B 30 HU XVIII p. 44; tr. it. vol.I p. 49. 110 L.U. IA 40 B 40 HU XVIII p. 53; tr. it. vol.I.pp. 56-57.

149 secondo nell'individuare quali siano i fondamenti teoretici della logica intesa come scienza normativa. Stabilire quali sia­ no questi fondamenti equivale a chiarire la possibilità di una scienza teoretica che verta sugli oggetti ideali su cui si fonda l'ideale normativo di scientificità. Questo chiarimento avviene in due momenti: Husserl esclude dapprima (nei Prolegomena) che la psicologia possa essere questa scienza degli oggetti ideali, giacché essa è scienza di fatti reali. Questa esclusione porta la differenza dell'ideale rispetto al reale, implicata dallo Zwecksinn della logica, ad un primo livello di definizione. Chiarisce poi ulteriormente questa differenza (in particolare nell'ultima parte della Prima Ricerca e nella Seconda Ricerca) fino a ricondurla ai peculiari modi di datità ed evidenza che caratterizzano l'idealità rispetto alla realtà (Sesta Ricerca), fi­ no, cioè, ad individuare l'origine del senso ultimo dell'idealità degli oggetti della logica negli Erlebnisse soggettivi di cui quegli oggetti costituiscono il correlato. Con questo la diffe­ renza fra «ideale» e «reale» implicata oscuramente dal senso intenzionante della logica viene portata «all'evidenza della sua chiara possibilità». A questo processo di chiarimento rimane sottratto - ora do­ vrebbe esser chiaro - un presupposto, a partire dal quale il processo ha inizio e sul quale si fonda, in ultima analisi, la sua unità. Formalmente considerato, questo presupposto consiste neWidentità del senso sottoposto a chiarimento: la identità di quel senso è la condizione di possibilità e, d'altra parte, il resi­ duo oscuro del processo di chiarimento. Concretamente, nelle L.U., tale presupposto consiste nell'assunzione che lo Zwecksinn della logica sia proprio quello definito, che essa miri cioè a stabilire un ideale di scientificità verso il quale già tendono le varie scienze e che questo sia l'ideale di un sapere al di sopra di ogni possibile dubbio; che, insomma, il senso ultimo della logica si identifichi con le sue originarie motiva­ zioni, con la radicale volontà antiscettica dalla quale ha avuto origine. Se questa assunzione sembrava ovvia ad Husserl nel momento in cui scriveva le L.U., la situazione muterà nella FTL, quando sarà ormai subentrata la consapevolezza della «crisi delle scienze europee». Lì lo stesso ideale di scientificità diventerà un problema. Il «senso oscuro» della logica da cui parte il chiarimento-fondazione fenomenologico

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di questa scienza risulterà spostato all'indietro di un grado: lo stesso Zwecksinn da cui partono le L.U., l'ideale di scientificità che nelle L.U. viene dato per scontato, verranno fatti emergere da una considerazione teleologica della storia della logica e della scienza: essi rappresenteranno il correlato oggettuale, il telos dell'«intenzione vivente» dei logici e degli scienziati.111 La FTL insomnia trarrà alla luce ciò che nelle L.U. è ancora sommerso, trovando per la fondazione della lo­ gica un «inizio» più radicale, immettendo nel circolo del chiarimento fenomenologico lo stesso presupposto da cui partono le L.U. e raggiungendo, quindi, l'autoconsapevolezza metodologica di ciò che le L.U. semplicemente fanno. Tutta­ via neppure la FTL potrà rendere il chiarimento fenomeno­ logico perfettamente circolare privandolo di ogni presupposto: che in esso si conservi l'identità del senso chiarito è formal­ mente necessario, comunque si interpreti concretamente tale identità. 8. Armati di tutte le premesse necessarie, possiamo final­ mente rivolgerci alla critica dello psicologismo. Sappiamo e dobbiamo tenere costantemente presente che alle sue spalle sta la definizione dello Zwecksinn oscuro della logica, mentre da­ vanti già l'attrae la meta del chiarimento fenomenologico della distinzione fra ideale e reale a partire dai loro modi di datità. Se teniamo presente questo fatto, possiamo avviarci ad in­ tendere perché la critica sia bipartita: lo psicologismo viene da un lato combattuto a partire dalle sue conseguenze112 e dall'al­ tro attaccato nei suoi presupposti, che Husserl chiama «pregiudizi».113 Il primo lato della confutazione dello psico­ logismo fa leva sul fatto che esso dà luogo a delle conseguen­ ze scettiche ed è pertanto autocontraddittorio; il secondo sul fatto che esso misconosce o comunque fraintende la differenza fondamentale fra ideale e reale.114 Ora, come vedremo, la re­ lativa autonomia di quel primo lato poggia sul fatto che lo Zwecksinn della logica, il suo ideale oscuro, è presupposto sin 111 112 113 114

FTL, Einleitung, HU XVII p. 13; tr. it. p. 12. In particolare nel capitolo VII. L.U.I A 154 B 154 HU XVIH p. 159; tr. it. vol.I p. 166. L.I.IA 178 B 178HUXVmp. 181; tr.it. vol.I p. 186.

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dall'inizio ed è definito nel modo in cui è stato definito: posto quell'ideale, infatti, basta mostrare che una teoria che, come lo psicologismo, pretende di fondare la logica dà luogo a delle conseguenze scettiche, per dichiararla inadeguata. D'altro canto poiché quell'ideale deve venir chiarito nella seconda parte delle L.U., è di fondamentale importanza che vengano individuati anche i pregiudizi e fraintendimenti che conduco­ no quella teoria a delle conseguenze scettiche, che il chiari­ mento fenomenologico avrà il compito di rimuovere definiti­ vamente. Il primo lato della critica dello psicologismo è dun­ que ancora strettamente ancorato all'inizio delle L.U., mentre il secondo ne anticipa più da vicino la meta. D'altra parte, co­ me vedremo, i due lati trapassano costantemente l'uno nell'al­ tro: essi riproducono all'intemo della stessa critica dello psico­ logismo la separazione/correlazione fra il primo ed il secondo volume delle L.U.. Concentriamoci dapprima sulla confutazione dello psicolo­ gismo a partire dalle sue conseguenze, che raggiunge il suo culmine nel settimo capitolo dei Prolegomena ed in particola­ re nella critica dell'antropologismo nella Logik di Erdmann. Abbiamo già ricordato115 come Husserl considerasse le L.U. un'opera prefilosofica. Se c'è un punto dei Prolegomena in cui questa caratteristica dell'opera emerge in modo inequivocabi­ le, questo è senz'altro questo settimo capitolo sullo psicologi­ smo come relativismo scettico: non si trova qui la minima traccia della volontà - costitutiva della filosofia - di supera­ mento dello scetticismo; o meglio, non si trova alcuna traccia della consapevolezza di tale volontà, che è qui ancora comple­ tamente sommersa ed agisce, si potrebbe dire, come oscuro istinto. Il superamento dello scetticismo è tanto poco un pro­ blema, che la definizione di un concetto rigoroso di scettici­ smo funge da strumento per la critica del relativismo e dello psicologismo. Definito quel concetto, basta mostrare che il relativismo e lo psicologismo sono sussumibili sotto di esso per confutarli.116 La legittimità di questo modo di procedere è 115 Cfr. §3.1 nota 2. 116 Che i Prolegomena non si pongano neppure il problema di una confu­ tazione dello scetticismo in quanto tale è ben rilevato da Raoul Richter -

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una conseguenza del presupposto irremovibile di tutto il chia­ rimento del senso della logica in atto nelle L.U.: il presuppo­ sto che lo Zwecksinn di quest'ultima sia perfettamente con­ forme alle sue originarie e radicali motivazioni antiscettiche. Se infatti il senso ultimo della logica consiste nella definizione di un ideale e di criteri del sapere che lo innalzino al di sopra di ogni possibile dubbio, va da sé che per confutare una de­ terminata teoria della logica risulti sufficiente mostrarne le conseguenze scettiche. Fra la definizione dello Zwecksinn della logica e la confuta­ zione dello psicologismo a partire dalle sue conseguenze non c'è tuttavia solo questo nesso formale. Quella definizione non fonda solo la legittimità della procedura di confutazione, ma anche il concetto di scetticismo di cui questa si serve ed i cri­ teri di sussunzione di una determinata teoria sotto tale concet­ to. Vediamo. Lo scetticismo rappresenta, negativamente, ciò in cui una teoria della logica non deve cadere. Questo, in positivo, signi­ fica che esso rappresenta, costitutivamente, quella teoria o in­ sieme di teorie che si confuta da sé, quella teoria che viola le «condizioni di possibilità evidenti di una teoria in generale». Le teorie scettiche sono dunque, per definizione, quelle teorie «le cui tesi indicano espressamente o implicano analiticamente che le condizioni logiche o noetiche della possibilità di una teoria in generale sono false».117 Esse si suddividono in due gruppi, a seconda che contravvengano alle condizioni sogget­ tive di possibilità di una teoria (scetticismo noetico) oppure alle condizioni oggettive, privando la teoria di ogni senso ra­ zionale.118 Di entrambi i tipi di scetticismo è comunque costi­ tutiva l'autocontraddittorietà: il loro contenuto contraddice ciò che essi pretendono di essere come teorie. Ora, si potrebbe supporre che questa autocontraddittorietà fra ciò che le teorie scettiche affermano e ciò che pretendono di essere in quanto teorie sia dello stesso tipo dell'autoconautore di un libro sulla storia dello scetticismo (Richter [1904]) possedu­ to dalla biblioteca husserliana - in una lettera a Husserl del 15 luglio 1904 (cfr. Husserl [1994] Bd. V pp. 357-359). 117 L.U.I A 112 B 112 HU XVIB p. 120; tr. it. vol.I p. 128. 118 L.U.I A 110-112 B 110-112 HU XVm pp. 118-120; tr. it. vol.I.pp. 126-128.

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traddittorietà che grava, ad esempio, sulla tesi che «non c'è al­ cuna verità» qualora essa pretenda d'esser vera; sia, cioè, auto­ contraddittorietà formale. In realtà la questione non è tanto semplice. Bisogna in particolare porre una differenza fra gli esempi di scetticismo noetico che Husserl apporta e quelli di scetticismo logico, ché essi si collocano su due piani di auto­ contraddittorietà differenti. Mentre l'autocontraddittorietà del primo tipo di scetticismo può venir considerata formale, rau­ tocontraddittorietà del secondo è tale solo qualora le tesi di tale tipo di scetticismo vengano commisurate non con ciò che esso pretende di essere, ma con ciò che ogni teoria logica deve pretendere di essere, se deve essere conforme allo Zwecksinn della logica ed alla radicale volontà antiscettica che esso im­ plica. Cerchiamo di chiarire meglio questa differenza. Husserl parte dall'affermazione che il più grande rimprovero che si possa rivolgere contro una teoria della logica è quello che essa viola le condizioni di possibilità evidenti di una teoria in quanto tale. Lo scetticismo noetico viola tali condizioni in quanto «toglie» la differenza fra una teoria razionalmente giustificata ed un'affermazione arbitraria. Esso ad esempio ne­ ga il privilegio di un giudizio evidente rispetto ad un pregiu­ dizio cieco. Se dunque pretende di esser vero (di contro all'affermazione del privilegio di quel giudizio rispetto a questo pregiudizio), esso è formalmente autocontraddittorio, in quanto negando quel privilegio nega la differenza fra sé e qualsiasi altra affermazione, per quanto arbitraria sia quest'ul­ tima.119 Lo scetticismo noetico è dunque formalmente auto­ contraddittorio nella misura in cui negando la differenza fra evidente e non-evidente continua a pretendere per sé l'eviden­ za. Lo scetticismo logico, invece, non nega la differenza fra evi­ dente e non-evidente, ma misconosce il senso razionale evi­ dente di una teoria. Esso, si potrebbe dire, non nega - come fa invece lo scetticismo noetico - il privilegio dell'evidenza dal­ l'esterno, ma stando dentro l'evidenza o pretendendo di stare dentro l'evidenza, nega il senso evidente di una serie di diffe­ 119 L.U.I. A 110-111 B 110-111 HU xvm pp. 118-119; tr. it. voli pp. 126-127.

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renze evidenti ed, in ultima analisi, il senso evidente dell'evi­ denza stessa. Il relativismo e lo psicologismo sono forme di scetticismo di questo tipo, giacché misconoscono la differenza dell'oggettività logica rispetto alla soggettività psicologica, dell'idealità rispetto alla realtà, della necessità rispetto alla contingenza, dei principi rispetto ai fatti.120 Essi, insomma, sono forme di scetticismo in quanto misconoscono la differen­ za fondamentale fra ideale e reale implicata dallo Zwecksinn della logica, che la fenomenologia della conoscenza logica porterà previdenza. Questa differenza è implicita nel senso di ogni concetto logico fondamentale (verità, legge, oggetto ecc.). L'insensatezza dello scetticismo logico deriva dal fatto che esso, nelle sue tesi, contraddice questo senso evidente dei concetti logici. Nel senso della parola verità è ad esempio implicito che la «verità» sia identicamente una. Nella misura in cui il relativismo afferma che la verità è relativa al soggetto conoscente, esso contraddice questo senso evidente della paro­ la verità.121 Ma perché questo tipo di scetticismo sarebbe autocontraddit­ torio? Autocontraddittorio lo è nella misura in cui pretende di esser vero: se infatti pretende di esser vero, esso deve pretende­ re di esserlo nel senso evidente della parola «vero» (ché, altri­ menti, direbbe l'assolutista logico, esso non è vero); ma poiché, nella sua tesi, ha svuotato questa parola di ogni senso evidente, in questo si contraddice. Questo tipo di scetticismo è dunque contraddittorio non tanto per se stesso quanto per l'assolutista, che non identifica il senso che lo scetticismo assegna Pia parola «verità», in quanto pretende di esser vero, con il senso che lo scetticismo stesso assegna a tale parola nella sue tesi, ma con il senso che tale parola deve avere e che ogni tesi che pretenda di esser vera deve assegnare ad essa. Questo scetticismo non è Plora propriamente in contraddizione formPe con se stesso, ma è piuttosto assurdo, irrazionale («widersinnig» dice Husserl): la sua tesi fondamentale, cioè, non è suscettibile di evidenza, non può venir chiarita P di là di ogni possibile dubbio. Più che con se stesso, esso si trova in contraddizione con lo Zwecksinn della 120 L.U.I.A 122-123 B 122-123 HU XVDI pp. 129-130; tr. it. vol. I pp. 136-137. 121 L.U.I.A 118-119 B 118-119 HU XVIII pp. 125-126; tr. it. voli p. 133.

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logica e con la «volontà di evidenza» dell'assolutista logico. Facciamo un esempio. Il relativismo specifico afferma la re­ latività della verità e delle leggi logiche rispetto alla costitu­ zione della specie umana. Questo significa che sono immagi­ nabili degli esseri per così dire, dei superuomi™ (Übermenschen) logici per i quali non sarebbero validi i nostri principi fondamentali, ma principi del tutto diversi in base ai quali tutto ciò che per noi è vero di­ verrebbe per loro falso. Per loro sarà vero che non esperiscono fenomeni psichici che essi eventualmente esperiscono. Che essi esistano può per noi esser vero, per loro falso ecc..122

Nel § 36 Husserl combatte quest'ipotesi con l'argomento se­ condo il quale ammettere una doppia verità - una nostra, l'al­ tra relativa ad esseri di diversa costituzione - contraddice il significato della parola verità.123 Nella critica ad Erdmann questo argomento si radicalizza.124 Dietro la dichiarazione di insensatezza di quell'ipotesi ed in generale del relativismo si intravede la trasformazione fenomenologica del concetto di verità e di evidenza che Husserl compirà nella Sesta Ricerca. L'ipotesi in questione non è formalmente impossibile. Il suo torto è però quello di spezzare la correlazione di verità ed evi­ denza. E questo in un duplice senso. Innanzitutto essa ammet­ te una verità che non sia il correlato di una coscienza donatri­ ce originaria, una verità che per definizione non può rappre­ sentare il correlato di alcun Erlebnis soggettivo e non è quindi suscettibile di alcuna evidenza. In secondo luogo essa contra­ sta con il senso evidente della parola «verità». Se infatti la verità fosse relativa alla specie umana essa non sarebbe più assoluta, al di sopra di ogni dubbio, mentre nel senso evidente della parola «verità» è implicita l'indubitabilità. La correlazio­ ne di verità ed evidenza viene dunque, innanzitutto spezzata in quanto si ammette una verità fuori dall'evidenza, e, in secondo luogo, si ammette una verità fuori dall'evidenza, perché si as122 L.U.I A 151 B 151 HUXVIHp. 155; tr. it. vol.I p. 161. 123 L.U.I A 117-118 B 117-118 HU XVIH pp. 124-125; tr. it. vol.I pp. 132-133. 124 Cfr. in particolare L.U.I A 143-153 B 143-153 HU XVm pp. 148157; tr. it. vol.I pp. 153-162.

156 suine un senso non evidente della parola verità. Ora, ammettere una verità di quel tipo, sebbene non sia for­ malmente impossibile, significa abbandonare la fiducia nel­ l'evidenza aprendo la strada allo scetticismo assoluto: «Se non dobbiamo più affidarci all'evidenza (Evidenz), come potremmo in generale compiere ancora asserzioni e sostenerle razional­ mente? Senza evidenza (Einsicht) non c'è sapere.»125 Tener fermo il senso evidente della parola verità, ammettendone l'indubitabilità (e quindi l'insensatezza dell'ipotesi di una sua rela­ tività ai soggetti conoscenti) è dunque condizione necessaria per mantenere la differenza fra ragione ed irrazionalità scettica: Non posso costringere nessuno a vedere (einsehen) ciò che io vedo. Ma io stesso non posso dubitare e, di più, vedo come ogni dubbio qui, dove ho una comprensione evidente (Einsicht), do­ ve cioè colgo la verità stessa, sarebbe assurdo. E così mi trovo in generale nel punto che posso far valere come archimedeo per scardinare il mondo della non-ragione e del dubbio, o che posso sacrificare per sacrificare con esso ogni ragione e conoscenza. Vedo (sehe ein) che accade proprio così e che nel secondo caso - se fosse ancora lecito parlare di ragione e non ragione - do­ vrei sospendere ogni sforzo razionale verso la verità, ogni as­ serzione e fondazione.126

Spezzare la correlazione fra verità ed evidenza non sembra dunque impossibile: io sono libero di farlo. Ammettere la pos­ sibilità di una verità che non sia il correlato di alcuna possibile evidenza non dà luogo a contraddizione formale, ma è in con­ traddizione con la volontà di conseguire la verità. Ammettere una tale verità, infatti, equivale a privare ogni sforzo (Streben) di conseguire la verità di un qualsiasi senso razionale, signifi­ ca frapporre fra la volontà di verità e la verità stessa un ostaco­ lo insormontabile, senza che si dia, e che si possa dare, alcuna ragione per farlo. Per questo lo scetticismo logico, e più in particolare il relativismo e lo psicologismo, sono assurdi. Questi differenti livelli di autocontraddittorietà dello scetti­ cismo corrispondono ad una stratificazione della critica dello psicologismo in quanto relativismo scettico, la quale attraver­ 125 L.U.I A 152 B 152 HU XVin p. 156; tr. it. vol.I p. 162. 126 L.U.I A 143 B 143 HU XVBI p. 148; tr. it. voli pp. 153-154.

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sa differenti livelli di radicalità: e il più profondo è quello in cui appaiono manifestamente la sua stessa struttura ed il suo presupposto fondamentale. Mi spiego. Quando si consideri la critica che Husserl rivolge allo psicologismo nel suo strato più superficiale, sembra che essa si limiti a far leva sul fatto che lo psicologismo, in quanto rappresenta una forma di scetticismo, è formalmente autocontraddittorio, e sopprime quindi da sé le condizioni di se stesso in quanto teoria.127 In realtà l'applica­ zione di questo argomento apparentemente formale poggia su di un terreno preparato dal presupposto fondamentale di tutte le L.U. (la definizione dello Zwecksinn della logica), e lo psi­ cologismo risulta in contraddizione non tanto con se stesso quanto con questo presupposto. Questa contraddizione Hus­ serl la mostra in due modi, i quali definiscono due ulteriori e più profondi strati della critica dello psicologismo. La teorie relativiste e psicologistiche, in quanto misconoscono la diffe­ renza fra «ideale» e «reale», contravvengono innanzitutto al senso delle parole «verità», «teoria», «legge» ecc.. Queste pa­ role, infatti, hanno senso intenzionante, vogliono significare qualcosa, che non corrisponde affatto al senso che lo psicolo­ gismo pretende di assegnare loro128 ; tutti i concetti logici fon­ damentali sono attraversati dal senso intenzionante della logi­ ca, che le teorie relativiste e psicologistiche misconoscono nell'uso che fanno di tali concetti. In secondo luogo queste teorie contravvengono alla «volontà di verità» racchiusa nell'idea-guida della logica: in quanto spezzano la correlazione fra verità ed evidenza - potremmo anche dire: in quanto vio­ lano il «.Prinzip aller Prinzipien»129 ; esse rendono di principio impossibile la realizzazione di quell'idea. 127 Concordo dunque con la critica che Gail Soffer rivolge a Carr [1979] che la confutazione del relativismo nei Prolegomena non si riduce, come Carr sembra ritenere, ad un ribadimento del tradizionale argomento dell'autocontraddittorietà formale (Soffer [1991] p. 23 n.3) e concordo, più in generale, sul fatto che tale confutazione rinvia alla teoria fenomenolo­ gica dell'evidenza (p. 59). 128 Cfr. ad esempio L.U.I A 123 B 123 HU XVIH p. 130; tr. it. vol.I p. 137: «Ora è chiaro che in questo senso pregnante è logicamente assurda ogni teoria che deduca i principi logici da fatti di qualsiasi genere. Ciò si trova in contrasto con i concetti «principio logico» e «fatto»...». 129 Cfr. Ideen I § 24 HU m/1 p. 51; tr. it. pp. 50-51.

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A questo più profondo livello della confutazione dello psi­ cologismo diviene evidente la struttura fondamentale dell'inte­ ra confutazione, la quale poggia interamente sul presupposto che una fondazione della logica debba escludere lo scettici­ smo e consiste precisamente nel mostrare come quest'esclu­ sione sia possibile. Essa è stretta fra quel «dovere», implicito nell'idea-guida della logica, e la possibilità di questa esclusio­ ne, implicita nel principio di correlazione di verità ed eviden­ za, e assume dunque la forma: «se voglio fondare la logica, devo escludere lo scetticismo; ma posso escludere lo scettici­ smo solo adottando il «Prinzip aller Prinzipien». Sono libero di scegliere fra lo scetticismo ed il «Prinzip aller Prinzi­ pien».130 Ma se voglio fondare la logica, allora devo scegliere il «Prinzip» e seguirlo scrupolosamente e rigettare tutto ciò che, come lo psicologismo, lo viola.131 130 Che io sia libero di scegliere lo scetticismo anziché il «Prinzip», è implicito nel fatto - riconosciuto da Husserl stesso - che lo scetticismo può rifugiarsi nel «per sé» e controbattere ad ogni tentativo di confuta­ zione con il ritornello dello scettico estremo, che costituisce l'unico vero controcanto del «Prinzip aller Prinzipien»: «con la mia teoria io parlo del mio punto di vista che per me è vero e che non ha bisogno di esserlo per nessun altro». (L.U.I A 115 B 115 HU XVIII p. 123; tr. it. vol.I p. 131). 131 In più occasioni (Carr [1979], Carr [1985] Mohanty [1986]), la critica husserliana del relativismo è stata accostata alla critica della teoria del­ l'incommensurabilità degli «schemi concettuali» condotta da Donald Da­ vidson in un famoso articolo del 1974. (Davidson [1974]). L'accostamen­ to mi sembra corretto, ma non perché entrambe le confutazioni facciano leva sull'autocontraddittorietà dello scetticismo (Carr [1985] p. 27), bensì perché 1. entrambe non sono in primo luogo delle vere e proprie confu­ tazioni, quanto dei chiarimenti dell'impossibilità di render chiara una certa possibilità formale (la possibilità di modi di conoscenza diversi dai nostri in Husserl; la possibilità di schemi concettuali incommensurabili in Davidson) e 2. entrambe possono pretendere di valere come confutazioni solo in quanto contengono un elemento decisionistico. La strategia di Davidson nell'articolo citato può infatti venir compendiata così: se due schemi concettuali debbono sensatamente esser detti intraducibili, allora si deve dare un terreno su cui confrontarli; questo terreno - si dimostra non può essere un terreno neutro, indipendente dai due schemi (come l'esperienza non interpretata linguisticamente); dunque se i due schemi devono essere confrontati, essi devono essere traducibili l'uno nell'altro. In breve: se due schemi devono poter esser considerati intraducibili essi devono essere traducibili. Ora, o questo ragionamento è semplicemente un chiarimento del fatto che la nozione di schema concettuale incommen-

159 9. Negli strati più profondi della critica dello psicologismo che abbiamo individuato nel paragrafo precedente, appare manife­ stamente come tale critica rifletta al proprio interno la quasicircolarità costitutiva delle L.U..132 Innanzitutto la circolarità del loro contenuto: essa presuppone la differenza fra «ideale» e «reale», di cui solo la catena di ricerche del secondo volume potrà chiarire fino in fondo la possibilità. Ma poi anche del metodo: l'argomentazione secondo la quale lo psicologismo misconosce il senso intenzionante dei termini logici fonda­ mentali implica un modello semantico che Husserl si avvierà ad illustrare solo nella Prima Ricerca', quella secondo la quale lo psicologismo viola il principio di correlazione di verità ed evidenza presuppone la trasformazione del concetto di verità, che si compirà solo nella Sesta Ricerca. Questa circolarità viene, almeno parzialmente, messa in luce da Husserl stesso nella seconda parte della critica, che com­ batte lo psicologismo a partire dai suoi pregiudizi. Husserl ne individua tre. Una prima coppia di pregiudizi - per i quali rappresenta un'ovvietà che 1. le leggi secondo le quali deve avvenire la conoscenza psicologica si fondino sulla psicologia della conoscenza133 e 2. che termini quali «rappresentazione, «giudizio», «dimostrazione» ecc., in uso nella logica, vadano intesi in senso psicologico e portino quindi su fenomeni psi­ chici134 - scaturisce dal misconoscimento della differenza fondamentale fra «scienze ideali» e «scienze reali», fra legge ideale e legge naturale, fra concetto di classe empirico e con­ cetto di genere ideale. La corretta comprensione di questa dif­ ferenza - aggiunge Husserl - presuppone l'abbandono della teoria empiristica dell'astrazione, la quale verrà criticata e ri­ gettata nella Seconda Ricerca.'35 Anche il terzo pregiudizio - per il quale la logica, in quanto teoria delle condizioni psicologiche dell'evidenza, appartiene surabile al mio è destinata a rimanere, per me, oscura, oppure è una con­ futazione. Se è una confutazione essa vale però solo per coloro che con­ dividono la decisione di non tenere in alcun conto le possibilità oscure. (Cfr. in proposito Rorty [1972] tr. it. pp. 42-43). 132 Cfr. §§ 3.6-3.7. 133 L.U.I A 154 B 154 HU XVIII p. 159 tr. it. vol. I p. 166. 134 L.U.I A 167 B 167 HU XVIII pp. 170-171; tr. it. vol.I p. 177. 135 L.U.I A 178 B 178 HU XVIII p. 181 ; tr. it. vol. I p. 186.

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alla psicologia136 - deriva dalla confusione fra ideale e reale, effettuata questa volta non dal lato degli oggetti ma dal Iato noetico: lo psicologismo misconosce la differenza fra una teoria ideale ed una teoria reale dell'evidenza. E la misconosce perché non dispone dei concetti corretti, fenomenologici, di verità ed evidenza, che verranno definiti nella Sesta Ricerca. Anziché interpretare l'evidenza come Erlebnis della verità, la interpreta come «un sentimento casuale, presente in certi giu­ dizi, assente in altri, oppure, nel migliore dei casi, come se es­ sa fosse collegata a certi giudizi e ad altri no secondo moduli universalmente umani - considerando cioè ogni uomo norma­ le che si trovi in circostanze normali di giudizio.»137 In questo modo, però, apre la strada allo scetticismo, ché solo per la concezione fenomenologica, per la quale ciò che vien «vissuto» come vero è assolutamente vero, viene escluso quel dubbio al quale non può sfuggire la conce­ zione dell'evidenza come sentimento che si aggiunge acciden­ talmente, e che equivale manifestamente ad un totale scettici­ smo: il dubbio che, quando noi abbiamo l'evidenza del sussiste­ re di U, qualcuno possa avere l'evidenza che sussista U' incom­ patibile con U - il dubbio che possa verificarsi un insolubile conflitto di evidenze con evidenze.138 Nella critica dello psicologismo a partire dai suoi pregiudizi, Husserl afferma dunque esplicitamente quel che abbiamo già anticipato interpretando la sua critica dello psicologismo in quanto relativismo scettico, e cioè che a tale critica corrispon­ de, nel secondo volume delle L.U., una controparte positiva, la quale consiste nella rimozione di un duplice pregiudizio. Da un lato, la Prima e la Seconda Ricerca, chiariranno quella dif­ ferenza degli oggetti ideali rispetto agli oggetti reali, che, seb­ bene implicita nel senso dei termini logici fondamentali, lo psicologismo misconosce pregiudizialmente. Dall'altro la pri­ ma parte della Sesta Ricerca, preparata dalla Quinta, chiarirà la differenza noetica fra le condizioni ideali dell'evidenza e le

136 L.U.I B 180 HU XVm p. 183; tr. it. vol.I p. 188. Cfr. A 180 HU XVUIp. 183. 137 L.U.I A 189 B 189 HU XVIII p. 192; tr. it. vol.I p. 195. 138 L.U.I. A 191 B 191 HU XVIII p. 194; tr. it. vol.I p. 197.

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sue condizioni reali, «elaborando» un concetto fenomenologi­ co di verità ed evidenza. Il secondo chiarimento, poi, rappre­ senterà la controparte positiva della critica dello psicologismo in un duplice senso. Innanzitutto esso permetterà, nella secon­ da parte della Sesta Ricerca, di portare fino in fondo il primo chiarimento, creando le condizioni per far emergere la diffe­ renza fra gli oggetti ideali e reali a partire dalla differenza degli atti soggettivi in cui essi sono dati. In secondo luogo getterà le basi per il chiarimento della possibilità dell'intera procedura di confutazione dello psicologismo e, più in genera­ le, dell'intera fondazione della logica, fornendo una giustifi­ cazione del metodo che tale fondazione adotta. Questo secon­ do chiarimento rappresenta, in altre parole, il telos dell'intero movimento quasi-circolare delle L.U. sia dal punto di vista del contenuto sia dal punto di vista del metodo. Ora, noi non seguiremo nei dettagli questo secondo lato della critica husserliana dello psicologismo. Vogliamo tuttavia ricostruirne la tendenza fondamentale, in modo da poter giun­ gere ad illustrare il movimento complessivo di quella critica e ad individuarne l'ambiguità fondamentale, che si riprodurrà costantemente nello sviluppo del pensiero husserliano suc­ cessivo alle L.U.. Nelle anticipazioni sulla struttura della critica husserliana dello psicologismo, abbiamo messo in luce come essa ricalchi la struttura dello psicologismo stesso. Quest'ultimo, abbiamo detto, è da un lato psicologismo logico, dall'altro psicologismo gnoseologico, ed è psicologismo logico perché e solo perché è psicologismo gnoseologico. Detto altrimenti: esso approda ad una subiettivazione degli oggetti logici perché ha preliminar­ mente obicttivato la soggettività, e può approdare a quella su­ biettivazione perché ha operato quest'obiettivazione. La critica dello psicologismo a partire dalle sue conseguenze scettiche combatte quella subiettivazione; la controparte positiva di tale critica combatte invece la condizione di possibilità di tale su­ biettivazione, e cioè lo psicologismo gnoseologico, l'obiettivazione della soggettività. Se queste anticipazioni sono esatte, dovremmo poter affer­ mare che, mentre nei Prolegomena la critica dello psicologi­ smo consiste fondamentalmente in una purificazione del con­

162 cetto di oggettività, la controparte positiva di tale critica nelle ricerche fenomenologiche del secondo volume consiste ten­ denzialmente in una «liberazione» del concetto di soggettività. Quest'affermazione non è, come vedremo, scorretta, purché si intenda che le due tendenze - quella dis-soggettivante l'obiet­ tività e quella dis-obiettivante la soggettività, o, come po­ tremmo anche dire, quella gnoseologica e quella psicologica non sono separabili con un taglio netto, ma si intrecciano con­ tinuamente e si sostengono l'un l'altra anche nel secondo vo­ lume. In particolare, poiché il compito che le L.U. si pongono consiste in un chiarimento-fondazione della logica, la seconda tendenza (quella psicologica) è costantemente subordinata alla prima. Questo significa che la dis-obiettivazione della sogget­ tività viene perseguita solo fin dove è necessario perseguirla al fine di chiarire il senso ultimo dell'oggettività logica; essa, cioè, viene perseguita solo quel tanto che basta per formulare la dottrina dell'intuizione categoriale e dell'astrazione ideante, ed individuare così i modi di datità degli oggetti ideali della logica, rimuovendo definitivamente il primo pregiudizio psi­ cologistico, e cioè il misconoscimento della differenza degli oggetti ideali rispetto agli oggetti reali.139 Ma vediamo più da vicino quale sia il percorso seguito da Husserl in questa rimo­ zione dei pregiudizi psicologistici, in cui consiste la contropar­ te positiva della critica dei Prolegomena. (i) La Prima Ricerca prosegue essenzialmente il movimento di dis-soggettivazione dell'oggettività avviato dai Prolegome­ na. I significati ideali, che costituiscono gli oggetti propri della logica pura, vengono innanzitutto separati, mediante la «pratica» di una serie di riduzioni ante litteram140, da un lato dai segni linguistici, dall'altro dalle rappresentazioni intuitive che li accompagnano. In seguito essi vengono assicurati nella loro «identità ideale» rispetto alla molteplicità ed oscillazione 139 Come vedremo (cfr. § 3.12) la tendenza psicologica dis-obiettivante la soggettività rimarrà subordinata alla tendenza gnoseologica dis­ soggettivante anche dopo le L.U.. Tuttavia, il compito gnoseologico delle analisi fenomenologiche si estenderà ben oltre quello limitato di una fon­ dazione della logica, e questa estensione richiederà una radicalizzazione della tendenza dis-obiettivante la soggettività, che approderà alla formu­ lazione dell'idea della riduzione fenomenologica. 140 Cfr. Derrida [1967] p. 1.

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dei singoli atti del significare in cui sono dati. Quest'operazio­ ne si conclude con l'interpretazione dell'identità ideale del si­ gnificato come identità della specie.141 (ii) La seconda ricerca è invece il luogo delle L.U. in cui avviene l'incrocio - o perlomeno si manifesta la necessità dell'incrocio - fra le due tendenze, dis-soggettivante e disobiettivante. Essa fa un primo passo in direzione della dottrina dell'astrazione ideante, della dottrina, cioè, che illustra i modi di datità intuitiva delle specie, degli oggetti generali e quindi anche dei significati ideali della logica pura, e lo fa criticando le teorie dell'astrazione psicologistiche e nominalistiche, che, misconoscendo la peculiarità dei modi di datità degli oggetti generali, tentano di ridurre le rappresentazioni di questi og­ getti alle rappresentazioni di oggetti individuali. Ora, con questa critica delle teorie dell'astrazione psicologistiche, la se­ conda ricerca prosegue in un certo senso il movimento dis­ soggettivante della prima ricerca e sospinge il problema del chiarimento del senso ultimo dell'idealità dei significati verso il suo telos, e cioè la dottrina dell'intuizione categoriale della Sesta Ricerca. D’altra parte, però, la critica della teoria del­ l'astrazione psicologistica mette anche in luce come dietro la subiettivazione psicologistica degli oggetti logici, si nasconda l'obiettivazione della soggettività, la naturalizzazione della co­ scienza; come il tentativo psicologistico di ridurre gli oggetti logici agli atti psichici in cui essi sono dati presupponga e sia reso possibile dalla cosalizzazione preliminare di quegli atti, dalla sovrapposizione all'analisi fenomenologica della co­ scienza di un'analisi obiettivistica dei contenuti di quest'ulti­ ma. La Seconda Ricerca, dunque, oltre a portare avanti il mo­ vimento dis-soggettivante della Prima chiarisce anche la ne­ cessità di «capovolgerlo» in un movimento di disobiettivazione della soggettività, che contrasti quella cosaliz­ zazione della coscienza che costituisce la condizione di pos­ sibilità della psicologizzazione dell'ideale e che renda, quindi, possibile la sostituzione della teoria dell'astrazione empiristica con la dottrina dell'astrazione ideante. Le ricerche fenomenologiche - si sa - non si lasciano rias­ sumere facilmente. Dobbiamo tuttavia tentare di ripercorrere 141 Cfr. L.U.n A 100 B 100 HU XIX/1 p. 105; tr. it. voli p. 368.

164 un po' più da vicino la linea fondamentale lungo la quale si muove la Seconda Ricerca, al fine di individuare con più pre­ cisione i punti in cui avviene il «capovolgimento» della ten­ denza alla dis-soggettivazione dell'oggettività nella tendenza ad una dis-obiettivazione della soggettività. E infatti di fon­ damentale importanza che riusciamo a mostrare i luoghi con­ creti, i problemi determinati - che, come vedremo, sono posti ad Husserl daH'empirismo classico - a partire dai quali «germina» tutta la problematica husserliana del rapporto fra il lato psicologico ed il lato gnoseologico della ricerca fenome­ nologica, problematica che ci siamo per ora accontentati di delineare nei suoi tratti generali. Ora, il problema posto (ma non interamente risolto) dalla Seconda Ricerca è il seguente: come sorge il significato inteso come specie? Per astrazione - risponde Husserl - ma non nel senso della teoria empiristica dell'astrazione. Per avvicinarsi ad una comprensione dell'«origine» degli oggetti generali, Husserl inizia dunque a criticare le teorie empiristiche del­ l'astrazione.142 Il punto di partenza di tale critica è questo: i nomi che indi­ cano oggetti generali vogliono significare un tipo d'oggetti del tutto irriducibili agli oggetti individuali. La differenza degli oggetti-specie rispetto agli oggetti-individui è implicita nella differenza fra l'intenzione di significato dei nomi che signifi­ cano specie ed i nomi che significano individui. Essa è dunque data. E un fatto, che si può e si deve chiarire, ma che non può essere negato.143 A partire da questa premessa, la Seconda Ri­ cerca delimita ex contrario lo «spazio» in cui deve venir cer­ cato questo chiarimento. Da un lato Husserl mostra che la dif­ ferenza irriducibile degli oggetti generali rispetto agli oggetti individuali non è riconducibile ad una differenza fra due tipi specificamente distinti di realtà. Detto altrimenti: la specie non è un che di reale e non deve venir ipostatizzata né in sen­ so metafisico né in senso psicologico.144 Dall'altro, esclude 142 Cfr. L.U.n A 106-107 B 106-107 HU XIX/1 p. Ill; tr. it. voli pp. 177-178. 143 Cfr. L.U.H A 110 B 110HUXIX/1 p. 115; tr. it. voli p. 381eA139140 B 140-141 HU XIX/1 pp. 144-145; tr. it. voli pp. 411-412. 144 L.UU A 121-122 B 121-123 HU XIX/1 pp. 127-128; tr. it. voli pp. 393-394.

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che la negazione della realtà degli oggetti generali possa con­ durre alla negazione nominalistica della loro specificità irri­ ducibile e della specificità irriducibile dei loro modi di datità: questa specificità è implicita nel significato dei termini che portano sugli oggetti generali e non può quindi venir nega­ ta.145 Se dunque la specie non è un che di reale essa non è neppure un puro nulla. Per mostrare che la specie non è un che di reale, Husserl discute ripostasi psicologistica degli oggetti generali operata da Locke con la sua dottrina delle idee gene­ rali, la quale trasforma il generale in un contenuto reale (reell) della coscienza.146 Per mostrare d'altra parte che l'irriducibilità della specie non può essere negata e che la funzione dei ter­ mini che portano sugli oggetti-specie non può venir spiegata e chiarita ricorrendo alla teoria dell'astrazione per attenzione e alla funzione rappresentativa dei termini generali, Husserl cri­ tica invece una serie di dottrine nominalistiche di Berkeley, Hume e John Stuart Mill. Questa discussione, oltre a mostrare come tanto la teoria lockiana quanto le teorie nominalistiche vadano incontro a difficoltà insormontabili e siano quindi insostenibili, ha anche la funzione di individuare i presupposti - comuni alle due teorie - su cui si fonda la loro apparente plausibilità e su cui, soprattutto, si fonda l'apparente impossibilità di indicare un terzo termine fra la loro antitesi. Che Husserl, nella Seconda Ricerca, delimiti lo «spazio» in cui va cercato il chiarimento del senso ultimo degli oggetti generali non significa dunque che, escludendo da un lato che tali oggetti possano venir ipo­ statizzati e dall'altro che essi possano venir negati, egli indichi che il loro statuto vada ricercato in una dimensione intermedia fra la realtà ed il nulla. Che Husserl delimiti quello spazio si­ gnifica invece che egli lo «crea» ex novo, rimuovendo (o pre­ parando la rimozione) di quei pregiudizi, in cui hanno origine sia quell'ipostasi sia quella negazione, e che, se tenuti fermi, rendono impossibile un’effettiva comprensione del senso ulti­ 145 L.U.H A 139-140 B 140 HU XLX/1 pp. 144-145; tr. it. voli pp. 411412. 146 L.U.H A 132 B 132 HU XIX/1 p. 138; tr. it. voli p. 403. L'ipostasi metafisica del generale, che attribuisce alla specie un'esistenza reale (real) fuori dal pensiero non viene neppure discussa, tanto è lontana dal­ l’orizzonte concettuale di Husserl.

166 mo degli oggetti ideali. Ora, l'impedimento fondamentale147 che tiene le teorie del­ l'astrazione empiristiche lontane da un'effettiva comprensione del senso ultimo degli oggetti ideali è la confusione fra analisi fenomenologica ed analisi obiettiva, la confusione fra gli atti ed i loro oggetti: «ciò che gli atti del significare attribuiscono appunto soltanto ai loro oggetti, viene ora conferito come un costituente reale {reell) agli atti stessi. Inavvertitamente si ab­ bandona così ancora una volta la sfera, che qui è normativa, della coscienza e della sua essenza immanente e tutto ricade nella confusione.»148 Questa confusione è resa possibile dal pregiudizio, comune a Locke ed ai suoi successori, che la co­ scienza rappresenti una sorta di scatola aH'intemo della quale giacciono i suoi oggetti-contenuti psichici, sui quali si eserci­ tano le attività psichiche che dovrebbero essere aH'origine delle idee generali in Locke e della funzione dei termini gene­ rali nelle teorie nominalistiche dell'astrazione. Questo pregiu­ dizio da un lato dà una parvenza di plausibilità a queste teorie psicologistiche e nominalistiche; dall'altro, però, rende loro impossibile un'autentica comprensione del senso degli oggetti generali. Dà un'apparenza di plausibilità a quelle teorie, perché per­ mette di proiettare nei contenuti della coscienza ciò che in realtà si dovrebbe spiegare, e cioè come, negli atti psichici, si costituiscano i loro oggetti. Ad esempio, è solo questa proie­ zione che dà alla teoria lockiana delle idee generali il suo «carattere di ovvietà e chiarezza».149 La teoria lockiana, se­ condo la quale le idee generali si formerebbero a partire dalle idee particolari per astrazione «dalle circostanze di tempo e di luogo e di qualunque altra idea che possa determinarle nel senso di questa o quella esistenza particolare»150, si fonda in­ teramente sulla confusione di una serie di significati distinti del termine «idea». In particolare Locke confonde l'idea come 147 Oltre naturalmente alla confusione fra la spiegazione empirico­ psicologica degli Erlebnisse ed il chiarimento logico-gnoseologico dei loro contenuti. Cfr. L.U.II A 119-120 B 119-120 HU XIX/1 p. 124; tr. it. vol.I pp. 389-390. 148 L.U.H A 121 B 121 HU XIX/1 pp. 125-126; tr. it. vol.I p. 391. 149 L.U.H A 128 B 129 HU XIX/1 p. 134; tr. it. vol.I p. 399. 150 Locke [1975] HI, ni, 6; tr. it. p. 463.

167 contenuto reale (reell) della coscienza con l'idea come rappre­ sentazione di un oggetto e, infine, con l'oggetto stesso della rappresentazione. Così gli oggetti delle idee particolari su cui si esercita l'astrazione e, d'altra parte, gli oggetti delle idee ge­ nerali che da tale astrazione scaturiscono vengono interpretati come contenuti reali (reell) della coscienza. In realtà, contro­ batte Husserl

Gli oggetti delle rappresentazioni intuitive, gli animali, gli al­ beri, ecc., appresi appunto come essi ci si manifestano (...), non sono affatto per noi complessioni di «idee», e quindi semplicemente delle «idee». Essi non sono oggetti di una possibile «percezione interna», come se formassero nella coscienza un contenuto fenomenologico complesso e si potessero trovare in esso come dati reali (reell).151 Questi oggetti, così come essi appaiono, prosegue Husserl, sono trascendenti rispetto aH'apparire come fenomeno, essi sono unità intenzionate. Ma allora,

la denominazione mediante nomi generali non consisterà nell'enucleare da tali complessi di idee alcune idee comuni, colle­ gandole alle parole come loro «significati». La denominazione, se è una vera denominazione che si realizza sulla base dell'in­ tuizione, può rivolgersi in particolare ad un singolo attributo, ma questo rivolgersi è un intenzionate così come lo è il rivol­ gersi allo stesso oggetto concreto. E si tratta di una intenzionali­ tà diretta a qualcosa di per se stessa, a qualcosa che è in certo modo co-intenzionata nell'intenzionalità diretta al concreto. Ma ciò non vuol dire che si compia qui una separazione.152 In breve: Locke può ritenere che, per spiegare l'origine delle idee astratte (intese come oggetti della rappresentazione) basti invocare l'astrazione di aspetti particolari delle idee particolari (intese come oggetti della rappresentazione), perché cosalizza la coscienza ed interpreta la relazione di quest'ultima con i suoi oggetti come relazione fra contenitore e contenuti, per­ ché, cioè, interpreta gli oggetti intenzionali che si costituisco­ 151 L.U. IIB 129 HU XIX/1 p. 134 tr. it. voli p. 400. Cfr. A 128. 152 L.U.H B 129-130 HU XIX/1 p. 135; tr. it. voli pp. 400-401.

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no negli atti come contenuti reali (reell) di questi ultimi. Con questo, infatti, egli occulta il problema fondamentale di una fenomenologia degli Erlebnisse e dei loro correlati oggettivi, che è quello di intendere questi correlati - gli oggetti indivi­ duali e gli oggetti generali - come oggetti di un «meinen» e «sich richten» della coscienza, e di far emergere la loro diffe­ renza da una differenza delle intenzioni oggettuali in cui si costituiscono. Ma allora, se è vero che la naturalizzazione empiristica della coscienza assegna una parvenza di plausibilità alle teorie psi­ cologistiche e nominalistiche dell'astrazione, è anche vero che essa rende impossibile un'autentica comprensione del senso dell'oggettività e, in particolare, degli oggetti generali, come mostra la critica husserliana delle teorie nominalistiche. Que­ ste teorie sorgono come reazione alle assurdità della teoria lockiana delle idee generali. Tuttavia, pur rigettando le idee generali, esse tengono fermi i pregiudizi su cui, in Locke, si fonda l'apparente sostenibilità di quella teoria.153 La confusio­ ne fra gli oggetti intenzionali ed i contenuti reali (reell) della coscienza, il pregiudizio che gli oggetti siano contenuti nella coscienza come in una scatola, dispensa anche queste teorie da un'analisi fenomenologia dei loro modi di costituzione. Anzi­ ché mostrare come i vari tipi di oggetti si costituiscano in for­ me diverse di intenzione oggettuale, esse li cercano dentro la scatola della coscienza. Ciò che le distingue da Locke è solo la conclusione cui le conduce questa ricerca e quel pregiudizio: mentre Locke finiva per ipostatizzare gli oggetti generali in contenuti reali (reell) della coscienza, le teorie nominalistiche, poiché non trovano nella scatola della coscienza nulla che corrisponda alle idee generali lockiane, finiscono per negare che si diano oggetti generali. Questa negazione non le dispensa tuttavia dal tentare di il­ lustrare come sorga la coscienza del generale, come i termini generali possano svolgere la loro funzione nel discorso. Ma anche in questo tentativo falliscono, perché continuano ad es­ sere sviate dai pregiudizi naturalistici e dalla confusione fra analisi fenomenologica degli atti ed analisi logico-obiettiva 153 Cfr. L.U.II A 142-143 B 143 HU XIX/1 pp. 147-148; tr. it. vol.I pp. 414-415.

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dei contenuti.154 Nell'analisi fenomenologica gli empiristi si attengono quasi esclusivamente alla singolarità intuitiva, a ciò che nel vis­ suto del pensiero può per così dire esser «toccato con mano», ai nomi e alle intuizioni esemplificative, mentre non sanno che farsene dei caratteri d'atto, proprio perché non sono nulla di tangibile. Essi sono perciò continuamente alla ricerca di ulte­ riori singolarità sensibili e delle loro eventuali manipolazioni sensibilmente rappresentabili tendenti a dare al pensiero quel genere di realtà per la quale essi hanno già preso partito, per quanto essa non si riveli nel fenomeno effettivo. Essi non sanno decidersi ad assumere gli atti del pensiero per ciò che essi pre­ sentano dal punto di vista puramente fenomenologico, ad am­ mettere perciò che essi sono caratteri d'atto di genere totalmente nuovo, nuove «modalità di coscienza» di fronte all'intuizione di­ retta.155

La teoria berkeleyana dell'astrazione, che tenta di ricondurre la «coscienza del generale» alla funzione rappresentativa di un'idea particolare (o di un nome) usata come segno di tutte le altre idee particolari della medesima specie156, senza poi illu­ strare in cosa consista propriamente la funzione rappresentati­ va, è un chiaro esempio di questo modo di procedere.157 Riassumiamo. L'apporto fondamentale della Seconda Ricer­ ca è duplice. Essa, come abbiamo anticipato, chiarisce in­ nanzitutto la necessità di «capovolgere» la direzione dis­ soggettivante l'oggettività dei Prolegomena e della Prima Ri­ cerca, in una tendenza dis-obiettivante la soggettività. Se lo psicologismo logico deve venir superato radicalmente, se i si­ gnificati ideali che costituiscono gli oggetti della logica devo­ no venir ricondotti ai loro modi di datità intuitivi, allora occor­ 154 Cfr. L.U.H A 159-161 B 160-162 HU XIX/1 pp. 164-166; tr. it. vol.I pp. 430-431 e A 180-183 B 182-184 HU XIX/1 pp. 185-188; tr. it. vol.I pp. 453-455. 155 L.U.H A 181 B 182 HU XIX/1 p. 186; tr. it. vol.I pp. 453-454. 156 Berkeley [1955] Introduzione, § 12; tr. it. pp. 17-18. 157 Sulla teoria berkeleyana dell'astrazione come esempio del fatto che la cecità empiristica nei confronti degli oggetti generali è indotta da pre­ giudizi naturalistici cfr. anche Erste Phil.l HU VII p. 133; tr. it. pp. 147148.

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re superare la cosalizzazione della coscienza e liberare la sog­ gettività dalla sua obiettivazione naturalistica. Ma poi, la di­ scussione delle teorie dell'astrazione empiristiche condotta nella Seconda Ricerca indica anche quale sia la via da seguire al fine di superare (o avviarsi a superare) questa obiettivazione naturalistica: si tratta di imparare a scorgere fra la coscienza ed i suoi oggetti un rapporto diverso da quello che vige fra un contenitore ed i suoi contenuti, o fra un tutto spaziale - una tabula rasa - e le sue parti; occorre cioè riuscire a distinguere gli oggetti della coscienza dalla sue parti reali (reell), e con­ cepire la sua relazione con gli oggetti come una relazione as­ solutamente irriducibile alle relazioni che connettono fra loro gli oggetti. Occorre insomma concepire la relazione fra la co­ scienza ed i suoi oggetti come una relazione intenzionale. (iii) La Quinta Ricerca imbocca con decisione la strada della dis-obiettivazione della soggettività indicata dalla Seconda. La mossa fondamentale che permette ad Husserl di ridefinire, ri­ spetto al naturalismo empiristico, il concetto di coscienza ed il rapporto della coscienza con i suoi oggetti, è l'identificazione della coscienza con gli Erlebnisse intenzionali (che, nelle L.U., Husserl chiama anche «atti»). Ora, noi non seguiremo da vicino né la separazione dei vari significati del termine «coscienza» da cui Husserl prende le mosse, né l'illustrazione della struttura dell'intenzionalità a partire dalla discussione con Brentano. Ci importa invece mettere in luce le due carat­ teristiche fondamentali dell'intenzionalità - alle quali Husserl accenna nel secondo capitolo della Quinta Ricerca, ma che si riveleranno in tutte le loro potenzialità solo nell'uso concreto di questo concetto - che consentono di superare la cosalizza­ zione psicologistica della coscienza e di aprire quindi la strada al tentativo di superamento definitivo dello psicologismo della Sesta Ricerca. Innanzitutto - ed è la prima caratteristica - l'intenzionalità ammette modi diversi; si danno tipi specificamente distinti ed irriducibili di riferimento intenzionale.158 L'empirismo natura­ listico, che concepisce il rapporto fra gli oggetti e la coscienza in modo monocolore, come un esser contenuti di quelli in 158 Cfr.L.U.n A 347 B 367 HU XIX/1 pp. 380-381 tr. it. vol.H pp. ISS­ ISI

171 questa, è costretto ad interpretare (o a tentar di interpretare) ogni differenza fra gli oggetti (ad esempio fra oggetti indivi­ duali e specie) come una differenza fra i contenuti reali (reell) della coscienza. Al contrario una fenomenologia degli atti che si avvalga del concetto di intenzionalità può intendere questa differenza a partire dalla differenza fra i modi dell'intenzio­ nalità di cui quegli oggetti sono i correlati.159 In secondo luogo, l'intenzionalità permette di interpretare il rapporto fra la coscienza e l'oggetto come un rapporto dinami­ co. Nel concepire il rapporto in questione come un rapporto statico, il naturalismo empiristico non si distingue dalla teoria tradizionale della conoscenza per rispecchiamento. La diffe­ renza sta solo nel fatto che, mentre per la teoria del rispec­ chiamento l'oggetto sta fuori dalla coscienza, è oggetto tra­ scendente, per il naturalismo empiristico esso sta dentro, è og­ getto immanente. L'intenzionalità permette di sostituire a questi schemi statici uno schema teleologico: la coscienza porta in sé il proprio oggetto intenzionale come un «inteso», come ciò verso cui essa mira, come il suo telos. L'aver scorto l'importanza fondamentale di questa caratteristica dell'inten­ zionalità per una scienza della coscienza, dirà Husserl nelle lezioni sulla psicologia fenomenologica del '25, è uno degli apporti fondamentali delle L.U. rispetto a Brentano. Brentano, infatti, si era fermato ad una mera classificazione dei vari modi dell'intenzionalità: egli non ha mai visto ed avviato l'enorme compito di risalire dal problema delle categorie fondamentali degli oggetti della co­ scienza (...) a quello dell'intera molteplicità dei modi di coscien­ za, attraverso i quali diveniamo coscienti e possiamo di princi­ pio divenir coscienti di tali oggettualità, per proseguire poi l'in­ dagine chiarendo la funzione teleologica di questi modi di co­ scienza per la produzione (Leistung) sintetica delle verità da parte della ragione. Solo con la posizione di questo problema (per quanto anche nelle «Ricerche logiche» avesse ancora una forma imperfetta) si rese in generale possibile una visione pene­ trante della coscienza e della sua produzione (Leistung)-, ora in­ fatti emergeva come la coscienza non sia solo un vuoto aver co­ scienza (per quanto differenziato), ma anche un produrre

159 Cfr.L.U.n A 165 B 166 HU XIX/1 p. 170; tr. it. vol.I pp. 435-436.

172 (Leisten) che si esplica in molteplici, documentabili forme e nelle relative sintesi, ovunque intenzionale, diretto verso un te­ los, diretto verso le idee della verità.160 (iv) Rendendo possibile un superamento del naturalismo della coscienza, dello psicologismo gnoseologico161, la ripresa e sviluppo del concetto di «intenzionalità» della Quinta Ricer­ ca apre la strada 1. al chiarimento dei concetti fenomenologici di verità ed evidenza condotto nella prima parte della Sesta Ricerca e 2. al chiarimento definitivo della differenza degli oggetti ideali rispetto agli oggetti reali a partire dai loro modi di datità intuitiva, implicito nella dottrina dell'intuizione cate­ goriale. La dis-obiettivazione della soggettività operata dalla Quinta Ricerca rende insomma possibile il ritorno al problema principale delle L.U. - il problema del chiarimento del senso della logica e dei suoi oggetti - ed il raggiungimento del loro telos. Solo il pensiero dell'intenzionalità, infatti, rende possibi­ le quella trasformazione del concetto di «intuizione» e del nesso fra intuizione e pensiero simbolico, che è all'origine della concezione fenomenologica della verità e della «sco­ perta» dell'intuizione categoriale. Vediamo. Nella Seconda Ricerca, Husserl ha messo in luce come fra i vari significati della parola «idea» che vengono confusi dallo psicologismo naturalistico, ci siano anche quelli di rappresentazione intuitiva, di immagine sensibile-intuitiva, da un lato, e di rappresentazione nel senso di «intenzione di significato» dall'altro.162 Questa confusione porta Locke, ma anche i suoi successori nominalisti, ad identificare il significa­ to con l'immagine sensibile-intuitiva. Locke, in altre parole, non scorge il rapporto dinamico che sussiste fra l'intenzione vuota di significato implicita nel nome, il riempimento di si­ gnificato e la rappresentazione intuitiva che è alla base di questo riempimento, e appiattisce l'uno sull'altro il significato e questa rappresentazione.163 Ma se Locke non riesce a scor­

160 HUIXp. 36. 161 Un superamento che è, naturalmente, soltanto avviato e che Husserl proseguirà ben oltre le L.U.. (Cfr. § 3.12). 162 Cfr.L.U.n A 128 B 128-129 HU XIX/1 p. 134; tr. it. vol.I p. 399. 163 Cfr.L.U.n A 131 B 132 HU XIX/1 pp. 137-138; tr. it. vol. I pp. 402403.

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gere questo rapporto è perché egli non dispone del concetto di «intenzionalità». Solo questo concetto, infatti, permette, grazie alle sue due caratteristiche fondamentali su cui ci siamo sof­ fermati, 1. di differenziare il tipo di riferimento all'oggetto delle intenzioni di significato (che, rispetto alle intenzioni in­ tuitive, sono intenzioni in senso stretto164165 ) da quello degli atti di riempimento intuitivo e 2. di intendere in modo dinamico il rapporto fra questi due distinti tipi di intenzioni ed il riferi­ mento all'oggetto che in tale rapporto si costituisce. Il primo capitolo della Sesta Ricerca ha la funzione di supe­ rare questa confusione lockiana, e più in generale sensista, fra significato e rappresentazione intuitiva, utilizzando il concetto di intenzionalità nel senso indicato. Husserl inizia ad esclude­ re - quel che del resto aveva già escluso nella Prima Ricer­ ca^ - che la rappresentazione intuitiva possa costituire il si­ gnificato di un'espressione. Passa poi a chiarire il rapporto positivo fra gli atti signitivi (intenzioni di significato) e gli atti intuitivi, prima da una prospettiva statica, poi da una prospet­ tiva dinamica. Da entrambe le prospettive si precisa come l'unità dell'intuizione con l'atto signitivo consista in un atto di identificazione del suo oggetto con l'oggetto che nell'atto si­ gnitivo è solo pensato, è solo inteso (gemeint). Quando si consideri quest'unità da un punto di vista statico, quest'atto di identificazione è descrivibile come un atto di conoscenza: l'oggetto dell'intuizione viene conosciuto, nel senso di «viene classificato», come lo stesso oggetto dell'intenzione signitiva.166167 La considerazione dinamica di questo stesso rapporto chiarisce, in più, la funzione dell'intuizione per l'atto signitivo: l'unità fenomenologica fra i due tipi di atti è rappresentata da una coscienza del riempimento, l'atto intuitivo rappresenta, cioè, il riempimento dell'intenzione di significato, esso porta alla presenza ciò che nell'intenzione vuota è solo inteso (gemeint).161 Con questa definizione del rapporto fra intuizione e pensiero simbolico, resa possibile, come si vede, dall'uso del concetto 164 Cfr.L.U.H A 358 B 379 HU XIX/1 p. 393; tr. it. vol.H p. 169. 165 Nel secondo capitolo. 166 Cfr.L.U.H A 496-498 B2 23-26 HU XIX/2 pp. 558-560; tr. it. vol.H pp. 323-325. 167 Cfr.L.U.H A 504 B 32; tr. it. vol.H p. 331.

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di «intenzionalità», Husserl trasforma radicalmente il concetto di intuizione.168 Egli, infatti, ammettendo che intenzioni signitive ed atti intuitivi corrispondenti abbiano come correlati gli stessi oggetti e si distinguano solo per il modo in cui si ri­ feriscono ad essi (intendere vuoto (leeres Meinen) da un lato, presenza immediata dall'altro), spezza la corrispondenza tra­ dizionale fra la distinzione pensiero/intuizione e la distinzione fra tipi di oggetti: se uno stesso oggetto può costituire il corre­ lato sia di un'intenzione signitiva sia di un atto intuitivo, non si dà più alcuna distinzione fra oggetti che sono suscettibili di venir conosciuti solo intuitivamente ed oggetti che, al contra­ rio, possono venir conosciuti in modo solo simbolico. Questa rottura della corrispondenza fra la distinzione pensiero/in­ tuizione e la distinzione fra tipi di oggetti apre la strada alla «scoperta» di modi di datità intuitiva degli oggetti anche idea­ li: degli oggetti formal-categoriali dati nell'intuizione catego­ riale e delle essenze date nella astrazione ideante169, o «visione delle essenze» come si dirà nelle Ideen I. D'altra parte la trasformazione del concetto di «intuizione» non consiste solo in un ampliamento della sua estensione, ché questo stesso ampliamento non è che una conseguenza del fatto che all'intuizione viene ora assegnata una funzione uni­ versale. Interpretando l'intuizione come riempimento dell'in­ tenzione signitiva, e quest'intenzione come vuota e tuttavia bi­ sognosa di riempimento, Husserl viene ad asserire che ogni ri­ ferimento oggettuale è completo, perviene al proprio telos, in ragione e solo in ragione dell'intervento di atti intuitivi. Se la dissoluzione della corrispondenza tradizionale fra la distinzio­ ne pensiero/intuizione e la distinzione di tipi di oggetti apre la strada alla dottrina dell'intuizione categoriale, questa seconda trasformazione getta le basi per la trasformazione fenomeno­ logica dei concetti di «verità» ed «evidenza» esposta nel Quinto Capitolo. L'evidenza, in senso stretto, diviene la meta ultima del rife­ rirsi della coscienza all'oggetto, la coscienza dell'ultimo e de­ finitivo riempimento dell'intenzione, l'atto della perfetta «sintesi di riempimento, che dà all'intenzione (...) la pienezza 168 Cfr. Tugendhat [1967] pp. 49-52. 169 Cfr.L.U.n, VI, §§ 41 e 52.

175 contenutistica assoluta, quella dell'oggetto stesso»170; l'atto in cui «l'oggettualità è effettivamente «presente» o «data» pro­ prio così come è stata intenzionata; non è più implicita nessu­ na intenzione parziale che sia priva del proprio riempimen­ to.»171 L'evidenza diviene, in altre parole, l'atto il cui correlato oggettuale è la verità. Come Husserl ha anticipato nei Prole­ gomena, essa è VErlebnis della verità, la quale consiste, corre­ lativamente, nella piena corrispondenza dell'oggetto «inteso» {gemeint) dell'intenzione vuota con l'oggetto dato dell'atto in­ tuitivo. La trasformazione del concetto di intuizione e del rapporto fra pensiero ed intuizione, resa possibile dall'introduzione dell'intenzionalità e dall'interpretazione della coscienza come Erlebnis intenzionale, permette dunque ad Husserl di perve­ nire a quella trasformazione fenomenologica del concetto di verità e a quella correlativa trasformazione ontologica del con­ cetto di evidenza172, che, come abbiamo detto, rappresenta l'autentico telos dell'intero movimento delle L.U.. La verità come nella formula tradizionale A&Wadaequatio rei et intellectus - continua a consistere in una corrispondenza (Über­ einstimmung), ma non in una corrispondenza fra la coscienza, obiettivata in entità metafisica, ed un oggetto trascendente, bensì in una corrispondenza fra i contenuti oggettuali di due diversi tipi di coscienza di uno stesso oggetto, la coscienza che intende (meint) e la coscienza intuitiva. Correlativamente l'evidenza non rappresenta più quella sensazione (Gefühl) con­ comitante che annuserebbe alla coscienza la sua corrispon­ denza fra sé e l'oggetto, ma diviene la coscienza della corri­ spondenza fra il correlato dell'intenzione vuota ed il correlato dell'atto intuitivo, VErlebnis di quella corrispondenza che è la verità. Essa diviene cioè, considerando quella corrispondenza da un punto di vista dinamico, il telos del riferirsi coscienziale all'oggetto, nel quale l'oggetto stesso è interamente presente così come esso è inteso, diviene l'atto dell'autodatità (Selbstgebung) dell'oggetto, la coscienza della sua datità ori170 L.U.n A 593-594 B2 121-122 HU XIX/2 p. 651; tr. it. vol.II p. 422. 171 L.U.II A 590 B2 118 HU XIX/2 p. 647; tr. it. vol.II pp. 418-419. 172 Cfr.L.U.n B 239 HU XIX/1 p. 243; tr. it. vol.II pp. 50-51 n.12. Cfr. Tugendhat [1967] pp. 101-106.

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ginaria. Con questo ampliamento del concetto di «intuizione» e con questa ridefinizione della sua funzione aH'intemo di una teoria dell'evidenza, i due pregiudizi psicologistici che Husserl de­ nuncia nei Prolegomena — che consistono nel misconoscimen­ to della differenza fra gli oggetti ideali e gli oggetti reali da un lato e della differenza noetica fra le condizioni ideali dell'evi­ denza e le sue condizioni reali dall'altro - dovrebbero risultar completamente rimossi. Dovrebbero dunque esser gettate al­ meno le basi per il chiarimento del «senso intenzionante» della logica, dal quale le L.U. hanno preso le mosse. 10. Nella precedente esposizione della critica dello psicolo­ gismo delle L.U. si sarà, probabilmente, notata una certa am­ biguità nel modo di intendere il movimento complessivo di tale critica. Da un canto, e conformemente alle anticipazioni generali dei §§ 3.3 e 3.5, sembra che essa comprenda due parti ben distinte: al lato negativo-confutatorio dello psicologismo logico nei Prolegomena, si affiancherebbe - nel secondo vo­ lume - un lato di inveramento del significato positivo dello psicologismo gnoseologico. Il primo lato sarebbe definito da una tendenza prevalentemente dis-soggettivante l'oggettività; il secondo consisterebbe invece in un inveramento del nucleo positivo dello psicologismo gnoseologico - la problematica della correlazione di soggettività ed oggettività - reso possibi­ le da una dis-obiettivazione della soggettività. D'altro canto, stando alla ricostruzione che abbiamo dato del percorso con­ cretamente seguito da Husserl, sembra che fra i due lati di­ stinti sussista continuità: essi sono i mezzi di realizzazione di un unico telos - il chiarimento del senso della logica - ed il lato critico-negativo trapassa naturalmente in quello positivo e si approfondisce e chiarisce in esso. La dis-soggettivazione dell'oggettività trova i mezzi della propria concreta realizza­ zione nella dis-obiettivazione della soggettività che permette di affrontare su nuove basi la problematica della correlazione. Ora, questa duplicità non è una nefasta conseguenza della nostra cattiva esposizione, ma rappresenta una caratteristica costitutiva della critica husserliana dello psicologismo: questa critica «cambia faccia» a seconda della prospettiva dalla quale la si guarda. Contemplata dall'alto («von oben her», direbbe

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Husserl), descritta nelle sue linee essenziali, appare attraversa­ ta da una dicotomia fondamentale fra un lato critico negativo ed un Iato di inveramento del significato positivo dello psico­ logismo. Ripercorsa nella sua concretezza, essa sembra invece muoversi lungo una linea continua. Per questo, nelle anticipa­ zioni generali, ci è parso che comprendesse due lati distinti, mentre nella ricostruzione più ravvicinata si è visto come i due lati si intreccino costantemente. Soprattutto nella riesposizione della tendenza fondamentale della Seconda Ricerca, si è visto come la tendenza dis-soggettivante, che prosegue la critica dei Prolegomena, e quella dis-obiettivante, che rende possibile l'inveramento del significato positivo dello psicologismo, tra­ passino senza salti l'una nell'altra.173 A questi due modi di intendere il movimento complessivo della critica husserliana dello psicologismo corrispondono due diversi modi di interpretazione del suo lato negativo, e cioè della critica dello psicologismo a partire dalle sue conseguen­ ze scettiche. Una considerazione «dall'alto» scinderà questo lato dal movimento complessivo delle L.U., assegnandogli una certa autonomia. Essa tenderà quindi ad identificare l'ar­ gomento che Husserl fa valere contro lo psicologismo, secon­ do il quale quest'ultimo, in quanto forma di scetticismo, sa­ rebbe assurdo {widersinnig), con l'argomento formale della tradizione che abbiamo descritto al § 2.3. Una considerazione più ravvicinata inserirà invece, come abbiamo tentato di fare, questo lato negativo nel movimento complessivo delle L.U.. Allora scorgerà come l'argomento della «Widersinnigkeit» non corrisponda affatto all'argomento formale della tradizione e come esso sia il correlato della trasformazione fenomenologi­ ca del concetto di verità ed evidenza a cui Husserl approda nella Sesta Ricerca, trasformazione che esso anticipa oscura­ mente e nella quale trova il proprio senso ultimo. 173 Naturalmente per chiarire fino in fondo questo fatto sarebbe stata ne­ cessaria una ricostruzione ben più aderente al concreto fenomenologico di quella che ho tentato di dare. E, a dire il vero, neppure una tale rico­ struzione sarebbe stata di per sé sufficiente, giacché è nell'intuizione che i due lati distinti della critica dello psicologismo si congiungono in un uni­ co movimento. In realtà mi sono accontentata di mostrare come, avvici­ nando di poco il punto di osservazione, ciò che visto da lontano appare discreto tenda a presentarsi come continuo.

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La differenza fra questi due modi di intendere l'argomento secondo il quale lo psicologismo (e più in generale lo scettici­ smo) è assurdo, è abissale. A seconda che lo si interpreti nel­ l'uno o nell'altro modo, infatti, si trasforma radicalmente il senso dell'intera procedura di chiarimento fenomenologico in atto nelle L.U.. Utilizzando l'argomento nel primo senso equiparandolo, cioè, all'argomento formale della tradizione si pretende infatti di confutare lo psicologismo (e lo scettici­ smo); utilizzandolo invece nel secondo senso - come correlato del «Prinzip aller Prinzipien» - si pretende invece di esclu­ derlo, di evitarlo. Detto altrimenti: se l'argomento viene inteso nel primo modo, l'intero percorso delle L.U. appare come una fondazione della logica nel senso tradizionale del termine; se viene invece inteso nel secondo modo, questo percorso appare come un chiarimento del senso della logica ottenuto mediante la rimozione di tutte le oscurità in cui si annidano residui scettici. Nel primo caso la «volontà di verità» di chi confuta lo scetticismo s'intrude nell'argomento antiscettico, viene presta­ ta allo scetticismo stesso, che si pretenderebbe di far soppri­ mere da sé; nel secondo essa resta fuori e chiaramente distinta dall'argomento, che è un mezzo della sua realizzazione. L'ar­ gomento inteso nel primo senso va incontro a delle difficoltà: lo scetticismo che si vorrebbe far sopprimere da sé gli si ribel­ la, ponendo in dubbio i presupposti su cui si fonda l'applica­ zione stessa dell'argomento; inteso, invece, nel secondo senso, esso non può trovarsi di fronte ad alcuna resistenza ed ostaco­ lo insormontabile, se non ad una volontà scettica altrettanto radicale ma contrapposta a quella antiscettica.174 Infine, il primo argomento è davvero soltanto negativo, e, come abbia­ mo visto, richiede sempre di venir affiancato con una strategia di inveramento del significato positivo dello scetticismo, mentre il secondo rappresenta l'inizio di questa stessa strategia positiva. Questi due distinti modi di interpretare l'argomento della «Widersinnigkeit» dello psicologismo corrispondono poi a due differenti concezioni del rapporto fra la tendenza antipsicologistica dis-soggettivante e la tendenza dis-obiettivante di inveramento dello psicologismo, due differenti concezioni, in 174 Cfr. § 3.19.

179 ultima analisi, del rapporto fra il lato gnoseologico e quello psicologico della fenomenologia.175 Più si isolano i singoli lati delle L.U. dal loro movimento complessivo, più autonomia si assegna al lato negativo della critica dello psicologismo iden­ tificando l'argomento della «Widersinnigkeit» con l'argomento formale della tradizione, meno si coglie l'intreccio fra la ten­ denza dis-soggettivante e quella dis-obiettivante, meno si coglie, cioè, come la tendenza antipsicologistica possa perve­ nire al proprio telos solo attraverso l'inveramento del signifi­ cato positivo dello psicologismo. In breve: più si sospinge l'argomento della «Widersinnnigkeit» verso l'argomento for­ male, meno si coglie come il mezzo necessario e sufficiente della realizzazione della volontà antipsicologistica sia l'inveramento dello psicologismo.

11. Le ambiguità sottolineate al paragrafo precedente sono di fondamentale importanza per intendere lo sviluppo succes­ sivo del pensiero husserliano. Negli anni successivi alla pubblicazione delle L.U., ad Hus­ serl si va progressivamente chiarendo il senso della scienza fenomenologica, la cui idea, ancora assai limitata, è venuta alla luce nelle L.U.. Come sostiene Husserl stesso in un passo già citato176 delle lezioni sulla Phänomenologische Psycholo­ gie del 1925 questo chiarimento delle potenzialità implicite nelle L.U. è il risultato di una progressiva estensione del cam­ po d'indagine della fenomenologia: Solo proseguendo le ricerche al di là della sfera di problemi limitata delle «Ricerche logiche», solo nel suo conseguente ampliamento in una problematica che racchiuda la totalità degli oggetti possibili in generale e la totalità della coscienza possibi­ le in generale, o della soggettività possibile in generale, potero­ no sorgere gli ultimi chiarimenti di principio.177 175 Nel § 3.3 abbiamo identificato la dis-obiettivazione della soggettività in quanto tale con la psicologia fenomenologica, e tale dis-obiettivazione, in quanto rende possibile il superamento definitivo di ogni forma di scet­ ticismo (e quindi anche dello psicologismo logico), con la filosofia tra­ scendentale. 176 Cfr. §3.2 nota 25. 177 HU IX pp. 42-43.

180 Solo questa espansione del campo d'indagine della fenomeno­ logia permette ad Husserl di raggiungere un'autentica auto­ consapevolezza metodologica. Egli supera innanzitutto il pregiudizio metodologico della prima edizione delle L.U., per il quale la ricerca fenomenologica sembrava di principio limi­ tata all'immanenza reale (reell), estendendo tale indagine agli oggetti intenzionali-immanenti178 e, in un secondo momento, alla problematica dell'«io puro», di cui, nella prima edizione delle L.U., aveva negato la «sussistenza» fenomenologica.179 Ma soprattutto l'estensione del campo d'indagine fenomeno­ logico, gli permette di superare progressivamente le oscilla­ zioni nella definizione dello statuto di questa scienza. Questo progressivo superamento180 avviene in due movimenti appa­ rentemente contrastanti, e cioè 1. attraverso la separazione della fenomenologia da ogni forma di psicologia, anche quin­ di, dalla psicologia descrittiva, con la quale veniva identificata nella prima edizione delle L.U.181 ; e 2. attraverso la «tradu­ zione» della distinzione fra il lato gnoseologico e quello psico­ logico delle L.U. all'intemo del nuovo concetto di fenomeno­ logia. La prima, faticosa trasformazione avviene, come è noto, in­ troducendo una doppia distinzione. La fenomenologia viene innanzitutto distinta dalla psicologia in quanto scienza eideti­ ca.182 Nella prima edizione delle L.U. questa distinzione era di fatto già effettuata, senza che tuttavia vi fosse raggiunta la piena autoconsapevolezza metodologica.183 In secondo luogo, 178 Cfr.L.U. n B 397 n.l HU XIX/1 p. 411; tr. it. vol.H p. 212 n.27. L'in­ serimento consapevole dell'analisi «noematica» nella problematica feno­ menologica avviene attorno al 1907. Cfr. in particolare le lezioni del se­ mestre estivo 1907 Die Idee der Phänomenologie (HU II). Cfr. in pro­ posito Boehm [1959-2] pp. 141-146 e Schumann [1973-2] p. 14 n.33. 179 Cfr. L.U.II A 340-344 B 359-363 HU XIX/1 pp. 372-376; tr. it. vol.H pp. 150-153. Sull'introduzione di questa problematica nell'ambito delle ricerche fenomenologiche cfr. Marbach [1974], in particolare pp. 74-120. 180 Sulle varie tappe intermedie che Husserl attraversa in questo percorso e sulle quali non ci soffermiamo cfr. Schumann [1973-2] pp. 6-26. 181 Cfr. L.U. n A 8 HU XIX/1 p. 10; A 18 HU XIX/1 p. 24 e A 21 HU XIX/1 p. 28. Cfr. B 17-18 HU XIX/1 p. 23; tr. it. pp. 282-283. 182 Cfr. Bericht über deutsche Schriften zur Logik in den Jahren 18951899, (1903) HU XXH p. 207. 183 Cfr. Husserl [1939] pp. 329-330.

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con l'introduzione - a partire dal 1905184 - del metodo della riduzione fenomenologica, la fenomenologia viene distinta dalla psicologia, in quanto scienza dei fenomeni puri.185 AH'intemo della scienza pura ed eidetica, ottenuta mediante questa doppia distinzione, viene poi reintrodotta, ovviamente modificata, la separazione fra i due lati - psicologico e gnoseo­ logico - delle L.U., che si trasforma ora nella separazione fra fenomenologia pura (o psicologia fenomenologica) e filosofia fenomenologico-trascendentale. Anche la genesi di questa di­ stinzione interna alla fenomenologia è estremamente complessa e non ci interessa, qui, seguirla nei dettagli. Ci importa invece osservare come fra i due lati della ricerca fenomenologica si ri­ produca lo stesso tipo di rapporto che vigeva fra la tendenza psicologica e quella gnoseologica delle L.U.: un rapporto di mezzo a fine. Questo fatto risulta particolarmente evidente nelle annotazioni personali del 1906, che abbiamo già citato186, in cui Husserl definisce i propri compiti per il futuro. Qui, infatti, si trovano prefigurati, quelli che saranno i compiti della filosofia trascendentale da un lato e della fenomenologia pura dall'altro, e quello che sarà il loro rapporto.187 Husserl si pone innanzitut­ to il compito di una «critica della ragione»: «In primo luogo indico il compito generale che devo risolvere se devo potermi dire un filosofo. Intendo una critica della ragione, una critica della ragione logica e pratica (,..).»188 A questo primo compito, filosofico, se ne aggiunge un secondo fenomenologico, e cioè quello della sua realizzazione concreta:

Non abbiamo bisogno solo della conoscenza dei fini (...). Ab­ biamo bisogno anche dell'esecuzione concreta.(...) Dobbiamo risolvere i singoli problemi passo per passo. Per questo è parti­ colarmente necessaria una trattazione della fenomenologia della ragione, passo per passo, e sulla sua base un reale chiarimento della ragione logica ed etica (...).189 184 Cfr. HU X p. 237. 185 Cfr. Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie (1906/7), capp. 56, HU XXIV pp. 157 sgg.. 186 Cfr. § 3.4 nota 77. 187 Cfr. Schumann [1973-2] pp. 20-21. 188 HU XXIV p. 445. 189 HU XXIV p. 445.

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La filosofia, dunque, è la scienza del «senso», del fine ultimo e dei metodi generali della fenomenologia, mentre la fenome­ nologia, in quanto fenomenologia pura, appare come il mezzo della sua realizzazione concreta. La scienza del fine ultimo deve chiarire come si possa porre ed in generale raggiungere l'ideale dell'assoluta chiarezza, l'ideale di una scienza che sia al di sopra di ogni possibile dubbio.190 La fenomenologia pu­ ra, invece, non è necessariamente legata a quell'ideale. Essa può portare avanti in maniera autonoma le proprie ricerche concrete, senza farsi guidare dall'ideale filosofico: in questo caso è psicologia fenomenologica.191 D'altra parte, però, essa rappresenta l'insostituibile mezzo di concretizzazione del­ l'ideale filosofico e la filosofia deve necessariamente servirse­ ne per realizzare il proprio compito, per pervenire al proprio telos. Queste linee generali del rapporto fra filosofia trascendenta­ le e fenomenologia pura sono chiare e rimarranno immutate sino alla Krisis. Tuttavia sul modo concreto della loro inter­ pretazione graverà una fondamentale ambiguità: la stessa am­ biguità che abbiamo evidenziato a proposito della critica dello psicologismo delle L.U.. La stessa oscillazione che lì si riscon­ trava fra l'intendere i due lati di quella critica - quello antipsi­ cologistico e quello di inveramento del significato positivo dello psicologismo - come discreti oppure come continui, si riprodurrà nell'interpretazione del nesso fra filosofia trascen­ dentale e fenomenologia pura (o psicologia fenomenologica). Come già sappiamo, anche nel prospettare il nesso fra queste due discipline, Husserl oscilla fra una concezione per la quale esse sembrano separate da una differenza abissale, ed una concezione per la quale la psicologia fenomenologica sembra trapassare senza salti in filosofia trascendentale. Queste due concezioni - delle quali la prima è preponderan­ te nella «fase intermedia» del pensiero husserliano (attorno alle Ideen I), mentre la seconda acquista sempre più peso a partire dalla seconda parte delle lezioni sulla Erste Philoso­ phie del 1923/24 - sembrano a prima vista inconciliabili. Tuttavia ora che le abbiamo ricondotte ai due modi possibili di 190 Cfr. HU XXIV p. 445. 191 Cfr. Husserl [1939] pp. 337-338.

183 intendere la critica dello psicologismo delle L.U., possiamo incominciare ad intravedere una possibile spiegazione del­ l'oscillazione husserliana fra di esse. L'ambiguità della critica dello psicologismo ci è apparsa come una conseguenza del mutamento di prospettiva dalla quale si guarda a tale critica. Vista da lontano, in un'«anticipazione oscura», questa critica appare attraversata da una cesura fondamentale; ripercorsa nei dettagli, aderendo al concreto fenomenologico, essa appare continua. Ora, la stessa spiegazione si può forse applicare al nesso fra filosofia e psicologia, fra il superamento definitivo dello scetticismo ed il suo inveramento: quando il loro nesso venga prospettato in un'anticipazione programmatica, le due discipline sembrano separate da un taglio netto, mentre nel­ l'esecuzione concreta del programma appare come trapassino senza salti l'una nell'altra. Se questa fosse la spiegazione del­ l'oscillazione husserliana si comprenderebbe come, all'inizio della sua elaborazione dell'idea di filosofia, quando il telos del suo «Streben» filosofico vien prospettato ancora oscuramente e da lontano, quasi oggetto di visione profetica, sia preponde­ rante la prima concezione, mentre in seguito egli si avvicini progressivamente alla seconda. Prima di tentare di confermare quest'ipotesi, occorre però ancora precisarne il senso con una duplice osservazione. Sinora l'oscillazione nel modo di intendere sia il nesso fra i due lati della critica dello psicologismo delle L.U., sia il nesso fra filosofìa trascendentale e psicologia fenomenologica, è stata descritta, appunto, come un'oscillazione, come un pendo­ lare fra due poli posti sullo stesso piano. In realtà, il loro rap­ porto va inteso in senso dinamico-teleologico. La prospettiva che separa con un taglio netto il lato negativo ed il lato positi­ vo della critica dello psicologismo, la filosofìa trascendentale e la fenomenologia pura, il superamento e l'inveramento dello scetticismo, è un'anticipazione oscura, formale, della prospet­ tiva che ne coglie invece la concreta continuità: simmetrica­ mente, questa seconda prospettiva è il telos della prima. Il modo autenticamente fenomenologico di prospettare i nessi in questione è dunque quello che deriva da una riduzione della prima prospettiva alla seconda, attraverso la rimozione delle oscurità e dei fraintendimenti che la prima racchiude ancora in sé. Applicato allo sviluppo del pensiero husserliano, questo

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significa che questo pensiero perviene ad un modo autentica­ mente fenomenologico di intendere il nesso fra filosofia tra­ scendentale e psicologia fenomenologica solo nella Krisis192, dopo aver superato tutti i fraintendimenti e le oscurità che so­ no ancora presenti nelle anticipazioni di questo nesso nelle Ideen I. La seconda osservazione ci porta a correggere I'affermazione che abbiamo appena fatto. In realtà, come abbiamo visto, Hus­ serl non raggiunge completamente la seconda concezione neppure nella Krisis. Anche lì, dove la psicologia fenomeno­ logica sembra trapassare automaticamente in filosofia trascen­ dentale, fra le due discipline continua a sussistere una diffe­ renza, una certa discontinuità. La prima prospettiva non si sarà dunque interamente ridotta alla seconda. Questo significa che, anche nella Krisis, permane un elemento di oscurità, che im­ pedisce che la prima concezione si risolva senza residui nella seconda. Ho già anticipato, anche se da altri punti di vista193, quale sia a mio avviso questo elemento: si tratta della radicale volontà antiscettica o volontà di chiarezza, dalla quale scaturi­ sce il concetto husserliano di filosofia che anche nella Krisis continuerà a distinguere la filosofia dalla psicologia fenome­ nologica.194 3. Riduzione fenomenologica e scetticismo.

3.1. Introduzione. 12. Nelle L.U. quella dis-obiettivazione della soggettività in cui consiste l'inveramento del significato positivo dello scet­ ticismo e che rende possibile il superamento dello scetticismo stesso, è subordinata allo scopo generale dell'opera - il chiari­ mento del senso della logica e dei suoi oggetti - ed è dunque perseguita in modo estremamente limitato. Come abbiamo vi­ sto, essa si riduce essenzialmente all'introduzione del concetto 192 Cfr. §§3.2 e 3.19. 193 Cfr. §§ 3.4 e 3.7-3.8. 194 Cfr. § 3.19.

185 di «intenzionalità», che permette di avviare il superamento della naturalizzazione psicologistica della coscienza. Con il successivo ampliamento della problematica fenomenologica nell'idea di una scienza che abbracci tutte le forme oggettuali ed i correlativi modi di coscienza, si rende necessaria una ra­ dicalizzazione di questa tendenza dis-obiettivante. A questo scopo Husserl introduce il metodo della riduzione fenomeno­ logica, che gli permette di aprire consapevolmente l'accesso alla soggettività pura. Che questo metodo radicalizzi la tendenza dis-obiettivante delle L.U. significa 1. che esso rende esplicita e consapevole quella tendenza e 2. che, correlativamente, qualora venga rigo­ rosamente applicato, mette l'analisi fenomenologica al riparo da ricadute in fraintendimenti obiettivistici. Se questo è vero, l'introduzione dell'idea della riduzione non rappresenta un momento di rottura nel pensiero husserliano. Essa consiste piuttosto nel conseguimento dell'autoconsapevolezza di una tendenza già in atto, e nell'individuazione di uno strumento metodologico che consente di perseguirla universalmente, rendendo universalmente accessibile la vita della soggettività e rendendo quindi possibile lo studio della correlazione fra gli Erlebnisse intenzionali ed i loro correlati oggettuali di ogni genere. Nella Krisis è Husserl stesso ad affermare che la teo­ rizzazione della riduzione rappresenta la raggiunta consapevo­ lezza di un metodo già spontaneamente esercitato.195 D'altra parte, però, l'idea della riduzione, almeno così come vien presentata a partire dalla seconda metà del primo de­ cennio del secolo sino alle Ideen I, sembra anche apportare un elemento di forte discontinuità rispetto alle L.U.. Essa infatti, introducendo la distinzione fra soggettività empirica da un lato e soggettività pura e trascendentale dall'altro, sembra por­ 195 «Naturalmente Vepoché in quanto esigenza metodica fondamentale esplicita non poteva che essere l'oggetto di una riflessione di secondo grado effettuata da uno che vi era, per così dire, già stato attratto dentro, in una certa ingenuità ed a partire da una certa situazione storica, e che era riuscito ad appropriarsi di un pezzo di questo nuovo «mondo interio­ re», del suo campo più prossimo sullo sfondo remoto di un oscuro oriz­ zonte. Così soltanto quattro anni dopo la conclusione delle «Ricerche lo­ giche» egli potè pervenire ad un'autocoscienza chiara, per quanto imper­ fetta, del suo metodo.» (Krisis § 70, HU VI p. 246; tr. it. p. 263).

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re l'indagine fenomenologica su di un piano che, da quello su cui si muovono le L.U., appare separato da un vero e proprio baratro. Sebbene, infatti, le analisi delle L.U. siano di fatto analisi eidetiche, che escludono ogni posizione empirica e naturalistica196, il punto di partenza di tali analisi, il campo dei fenomeni dal quale prendono le mosse, è pur sempre rappre­ sentato dagli Erlebnisse propri del fenomenologo; gli Erleb­ nisse di cui la fenomenologia delle L.U. si occupa sono certa­ mente considerati nella loro «essenza pura», ma questa es­ senza è ottenuta «mettendo da parte ogni fattualità empirica ed ogni singolarità individuale»197, a partire da Erlebnisse reali ed individuali. La soggettività pura, cui la riduzione fenome­ nologica apre l'accesso sembra invece radicalmente separata dalla soggettività empirica, appare come un campo di feno­ meni assolutamente irriducibili alla soggettività umana con­ creta, al quale non si può accedere se non con un vero e pro­ prio salto. Mentre dunque nelle L.U. si dà un solo tipo di sog­ gettività - quella psicologica individuale - e vari tipi di acces­ so metodologico ad essa, dopo l'introduzione dell'idea della riduzione sembra che si diano due tipi radicalmente distinti di soggettività - quella empirico-psicologica e quella pura (e pura-trascendentale) - e che la riduzione rappresenti il metodo per accedere alla seconda senza passare attraverso la prima. Se dunque, per un verso, la riduzione non sembra far altro che consolidare e radicalizzare la tendenza alla dis-obiet­ tivazione della soggettività avviata dalle L.U., per altro verso sembra che introducendo la differenza fra due tipi di soggetti­ vità essa apporti anche un elemento di novità e rottura. Per stabilire se l'introduzione della riduzione spezzi o no la conti­ nuità del pensiero husserliano, occorre dunque chiarire se la discontinuità che essa sembra apportare possa venir intesa sullo sfondo di una più profonda continuità. Più concretamen­ te, occorre innanzitutto chiarire se la radicalizzazione, rispetto alle L.U., della tendenza dis-obiettivante la soggettività esiga necessariamente l'introduzione della differenza fra soggettività empirico-psicologica e soggettività pura. Ma poi, per dichiara­ re la continuità del pensiero husserliano, occorrerebbe ancora, 196 L.U.n B 18 HU XIX/1 p. 23; tr. it. voli p. 283. 197 L.U.H B 9 HU XIX/1 p. 13; tr. it. vol.I p. 274.

187 una volta accertata la necessità di quest'introduzione, mostrar­ ne la possibilità all'interno di una prospettiva fenomenologica. Occorrerebbe, cioè, accertare che essa non violi l'imperativo fenomenologico fondamentale, che s'afferma nelle L.U., di «andare alle cose stesse», chiarendo come la differenza della soggettività pura rispetto alla soggettività empirico-psicolo­ gica non venga semplicemente dedotta dalla necessità metodo­ logica di radicalizzare la tendenza dis-obiettivante delle L.U., ma sia anche concretamente mostrabile, suscettibile di evi­ denza fenomenologica. Occorrerebbe, insomma, dimostrare falsa la tesi heideggeriana secondo la quale «l'elaborazione della coscienza pura come campo tematico della fenomenolo­ gia non è ottenuta fenomenologicamente nel ritorno alle cose stesse, ma nel ritorno ad un'idea tradizionale di filosofia.»198 Queste due questioni, dal cui chiarimento dipende la pos­ sibilità o meno di affermare la continuità del pensiero husser­ liano, non sono suscettibili di risposta univoca. Nella loro so­ luzione è necessario distinguere fra l'introduzione della ridu­ zione così come avviene in un primo momento (fino alle Ideen I), ed il successivo, progressivo chiarimento dell'idea di ridu­ zione attraverso una fenomenologia della riduzione fenomeno­ logica. Ci occuperemo dettagliatamente di queste due fasi nelle prossime sezioni di questo capitolo. Dobbiamo dunque rimandare la soluzione definitiva delle questioni sollevate.199 Vogliamo tuttavia anticiparne le linee generali, tentando di chiarire quale sia il nesso fra l'una e l'altra questione. Ora, esse sembrano, innanzitutto, questioni mal poste. In particolare, la disgiunzione della prima dalla seconda appare, almeno a prima vista, insensata: da un punto di vista rigoro­ samente fenomenologico, infatti, quale tipo di necessità po­ trebbe mai condurre all'introduzione di alcunché (la riduzione, la soggettività pura), se non proprio il fatto che quest'alcunché si mostra con evidenza allo sguardo fenomenologico? L'unico tipo di necessità che la fenomenologia riconosce, dovrebbe ri­ conoscere, è quello che le deriva dal «Prinzip aller Prinzi­ pien»-, dunque, l'unico modo per dimostrare che l'introduzione della differenza fra la soggettività pura e la soggettività empi­ 198 Heidegger [1979] p. 147; tr. it. p. 134. 199 Cfr. §§3.16 e 3.19.

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rica è necessaria, consiste nel mostrare che essa è un dato fe­ nomenologico, è, cioè, ottenuta volgendo lo sguardo «alle co­ se stesse». In breve: l'unico modo per rispondere alla prima nostra domanda consiste nel rispondere alla seconda. Dob­ biamo dunque concluderne che ci siamo posti domande prive di senso? No, perché al di sopra del «Prinzip», che rappresenta l’unica fonte di necessità della fenomenologia intesa come metodo, come mezzo di realizzazione dell'ideale filosofico, vige un se­ condo tipo di necessità, rispetto al quale il «Prinzip» decade, appunto, a mezzo di realizzazione di un fine: si tratta del­ l'istanza antiscettica, della volontà di edificare un sapere al di sopra di ogni possibile dubbio, che costituisce il tratto formale ineliminabile dell'idea di filosofia. Da questa seconda, più al­ ta, fonte di necessità scaturiscono dei compiti che possono e devono venir realizzati con l'osservanza del «Prinzip», ma che non derivano da esso la propria necessità. Poiché dunque la necessità fenomenologica espressa dal «Prinzip» è subordina­ ta alla necessità filosofica, da quest'ultima possono scaturire delle esigenze indipendenti dalla prima necessità. È dunque possibile che l'esigenza di introdurre la riduzione e la diffe­ renza fra soggettività pura e soggettività empirica scaturisca da un tipo di necessità diverso da quello fenomenologico. E di fatto, come vedremo200, ciò che, in un primo momento, spinge Husserl a tale introduzione è la motivazione filosofica. La ra­ dicalizzazione della tendenza alla dis-obiettivazione della soggettività attraverso la riduzione e l'introduzione della diffe­ renza fra soggettività pura e soggettività empirica è resa ne­ cessaria dalla radicalizzazione della tendenza gnoseologica dis-soggettivante delle L.U. nell'idea di filosofia, o, in altre parole, dall'espansione deH'originario antipsicologismo in una radicale istanza antiscettica. Questa affermazione non implica tuttavia immediatamente la verità della già citata tesi heideggeriana secondo la quale la soggettività pura rappresenterebbe una costruzione filosofica, i cui caratteri sarebbero dedotti dall'idea tradizionale di filo­ sofia e alla quale non corrisponderebbe alcun dato fenomeno­

200 Cfr. §§ 3.14-3.16.

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logico evidente.201 La necessità filosofica da cui inizialmente scaturisce l'esigenza della riduzione non è infatti indipendente dalla necessità fenomenologica, ma tende ad identificarsi, a realizzarsi e riempirsi in essa. L'imperativo filosofico indica oscuramente una meta che può venir chiarita e realizzata solo seguendo rigorosamente l'imperativo fenomenologico. Da questo nesso dinamico fra i due tipi di necessità deriva, in­ nanzitutto, la sensatezza anche della seconda domanda che ci siamo posti: il fatto che la motivazione per l'introduzione della soggettività pura sia di tipo filosofico non esclude affatto che la differenza di questo tipo di soggettività rispetto alla sogget­ tività psicologico-empirica sia suscettibile dì evidenza feno­ menologica. Al contrario solo se essa risulta suscettibile di tale evidenza, risulta confermata anche la possibilità di quel­ l'introduzione. D'altra parte, a questo nesso fra i due tipi di ne­ cessità consegue anche l'effetto di ritorno della risposta alla seconda domanda su quella della prima. La trasformazione della necessità filosofica, che ha condotto all'introduzione della riduzione e della soggettività pura, in necessità fenome­ nologica non si limita a chiarire la possibilità della realizza­ zione di quella prima necessità, ma rimuove anche le oscurità, che in essa sono ancora implicite, ne trasforma il senso, e, pa­ rallelamente, ridescrive l'ambito della stessa necessità filosofi­ ca. Tenendo presente questa interdipendenza dinamica fra le nostre due questioni, possiamo avviarci ad anticipare quelle che saranno le linee portanti della loro soluzione. Abbiamo già asserito che è necessario distinguere due fasi. In una prima fa­ se (fino alle Ideen I), Husserl introduce la riduzione fenome­ nologica e la soggettività pura guidato dalla necessità filosofi­ ca. A questa introduzione, che non è ancora accompagnata da piena chiarezza ed autoconsapevolezza metodologica, si con­ nettono oscurità e fraintendimenti, che solo un ulteriore chia­ rimento fenomenologico potrà dipanare. Successivamente (a partire dalla Erste Phil.ll), Husserl sottopone la stessa ridu­ zione ed il tipo di soggettività cui essa apre l'accesso a tale chiarimento, al fine di portare all'«evidenza della sua chiara 201 Cfr. Heidegger [1979] pp. 140-148; tr. it. pp. 127-134. Cfr. qui § 3.16.

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possibilità» ciò che è stato introdotto per necessità filosofica. In questa seconda fase, rimuovendo le oscurità connesse al­ l'idea originaria di riduzione, egli trasforma il senso di quel­ l'introduzione: la riduzione fenomenologica dapprima intro­ dotta in ragione di motivazioni filosofiche, viene ora sganciata da quelle motivazioni, così come la soggettività pura perde quei caratteri che, inizialmente, erano stati troppo precipito­ samente dedotti da quelle motivazioni. Parallelamente, si tra­ sforma anche la necessità filosofica, la quale si sposta, per così dire, di piano: essa non è più la fonte delle motivazioni per l'introduzione della riduzione fenomenologica, ma la fonte delle motivazioni per l'introduzione della riduzione specificamente filosofica, fenomenologico-trascendentale, la quale apre l'accesso alla soggettività trascendentale, distinta dalla sog­ gettività semplicemente pura, che decade ora a soggettività psicologico-pura. Ma, come vedremo202 , in questa trasforma­ zione non si ripropone, semplicemente trasferita di piano, la situazione della prima fase. Il percorso che separa le due fasi, ha infatti condotto Husserl alla consapevolezza della tensione/correlazione fra la necessità filosofica e quella fenomeno­ logica, e la seconda fase presenta, diversamente dalla prima, questa consapevolezza del nesso dinamico fra i due tipi di ne­ cessità. Questo concretamente significa due cose. Da un lato la consapevolezza della correlazione fra la necessità filosofica e la necessità fenomenologica, del realizzarsi e riempirsi della prima nella seconda, fa sì che fra la soggettività para­ psicologica e la soggettività pura-trascendentale non si ripro­ ponga quel baratro che sembrava separare la soggettività em­ pirico-psicologica e la soggettività pura nella prima fase; e, correlativamente, fa sì che la riduzione perda quel carattere di vero e proprio «salto» che essa assumeva nelle Ideen I203, per accogliere quello della gradualità. D'altro lato, la consapevo­ lezza della tensione fra i due tipi di necessità, che deriva dal fatto che essi stanno nel rapporto di fine e mezzo, fa sì che la riconosciuta continuità fra i due tipi di soggettività e la rico­ nosciuta gradualità delle riduzioni fenomenologica e filosofica non implichi l'annullamento della loro differenza. Per la pro­ 202 Cfr. §§3.17-3.19. 203 Cfr. Krisis § 43 HU VI pp. 157-158; tr. it. p. 182.

191 spettiva dei fini (la prospettiva filosofica), ciò che per la pro­ spettiva fenomenologica appare ormai continuo e graduale, continua ad essere attraversato da un baratro. Se queste sono le piste lungo le quali si muove la soluzione delle due questioni sulla necessità e sulla possibilità dell'intro­ duzione dell'idea di riduzione, allora si dovrebbe poter giunge­ re ad affermare la continuità fra le prospettive aperte al pen­ siero husserliano da quest'introduzione e le L.U.. E questo in un duplice senso. Il primo-, qualora le due fasi del pensiero husserliano successivo alla scoperta del metodo della riduzio­ ne che abbiamo distinto vengano considerate separatamente, facendo astrazione dalla loro connessione dinamica, esse ri­ producono l'ambiguità fondamentale della critica dello psico­ logismo delle L.U.. Quella critica, vista da lontano, in un'an­ ticipazione oscura, appariva attraversata da una cesura fonda­ mentale fra un lato critico-negativo ed un lato di inveramento dello psicologismo, fra un lato gnoseologico ed un lato psico­ logico, ma questa cesura tendeva a dissolversi quando tale critica veniva ripercorsa più da vicino. Lo stesso fenomeno possiamo per il momento almeno intuirlo - si riscontra nelle prospettive fenomenologiche aperte dall'idea di riduzione: in un primo momento questa idea, ancora oscura, sembra intro­ durre un seguito di separazioni, di cesure, di tagli netti (fra due tipi di soggettività, fra filosofia e psicologia, fra necessità filosofica e necessità fenomenologica) che, nella seconda fase, in seguito al suo chiarimento fenomenologico, tendono ad as­ sumere l'aspetto di trasformazioni graduali e progressive. Il secondo: qualora invece le due fasi distinte vengano conside­ rate nella loro connessione dinamica, e la seconda venga inte­ sa come l'inveramento della prima, il pensiero husserliano ap­ pare continuo anche in un secondo, più profondo senso: nel senso, cioè, che esso non si limita a riprodurre l'ambiguità delle L.U., ma cerca la propria continuità più profonda, ten­ dendo verso un superamento di quell'ambiguità nel modo in cui già tendevano verso questa meta le L.U. Esso è dunque continuo anche nel ricercare la propria continuità più profon­ da. Naturalmente queste anticipazioni dovranno venir precisate e confermate. Su questa strada ci incammineremo, nel prossi­ mo paragrafo, avvicinandoci ulteriormente all'idea di riduzio­

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ne e recuperandone il nesso con il tema dello scetticismo. 13. Gli interpreti del pensiero husserliano si sono più volte preoccupati di descrivere e classificare le varie vie della ridu­ zione fenomenològica. 204 Una delle tesi sostenute dai sistema­ toti e classificatori delle varie vie è quella secondo la quale, a partire dalla Erste Phil.TL, Husserl avrebbe progressivamente abbandonato la via cartesiana della riduzione delle Ideen I, a favore di nuove, alternative vie. Tra queste le più definite sa­ rebbero la via attraverso la psicologia intenzionale (praticata nella seconda parte della Erste Philosophie, nell'articolo per l'Enciclopedia Britannica, negli Amsterdamer Vorträge e nella Krisis) e la via attraverso le ontologie (percorsa nell'arti­ colo su Kant und die Idee der Transzendentalphilosophie, nella FTL, e nella Krisis).205 Questa tesi, sostenuta nella forma secca in cui l'abbiamo enunciata, si scontra con una duplice difficoltà. La prima ri­ guarda il periodo precedente alla Erste Phil., e consiste nel fatto che la via cartesiana, che Husserl abbandonerebbe appun­ to a partire dalla Erste Phil.ll, non si trova nella sua forma pu­ ra, assolutamente disgiunta dalle altre vie, da nessuna parte. Neppure nelle Ideen I.206 Tracce della via attraverso la psico­ logia intenzionale e della via attraverso le ontologie si trovano sin dall'introduzione dell'idea della riduzione e, ancor prima, sin dalle L.U..207 Ciò che dunque la Erste Phil, apporta di nuovo non è propriamente l'individuazione di vie alternative rispetto a quella cartesiana, ma la consapevolezza di vie già di fatto percorse in modo confuso, e oscuramente intrecciate a quella cartesiana nell'idea ancora non chiarita di riduzione. La seconda difficoltà riguarda invece il periodo successivo alla Erste Phil., nel quale l'asserito abbandono della via cartesiana non sembra verificarsi con la nettezza con cui i suoi sosteni­ tori desidererebbero che si verificasse. Intanto i luoghi in cui Husserl sottoporrebbe ad «aspra critica»208 la via cartesiana delle Ideen I - come ad esempio il troppo citato § 43 della 204 Cfr. Boehm [1959-3]; Kem [1964] pp. 194-238; Bemet-KemMarbach [1989] pp. 81-103. 2°s Cfr. Kem [1964] pp. 213-235. 206 Cfr. Kem [1964] p. 226. 207 Cfr. Kem [1964] p. 221. 208 Cfr. Boehm [1959-3] p. XXXVII.

193 Krisis - si limitano ad individuarne le manchevolezze e ad af­ fermare che essa può dar luogo ed ha di fatto dato luogo a dei fraintendimenti.209 E poi c'è il grosso problema delle Medita­ zioni cartesiane, che è davvero poco dignitoso liquidare con il rinvio alle circostanze esterne alla loro genesi.210 La prima difficoltà, dunque, è data dal fatto che Husserl non può abban­ donare la via cartesiana perché non l'ha mai seguita nella sua purezza211; la seconda è data dal fatto che la teorizzazione esplicita di nuove vie - la loro separazione dalla via cartesia­ na, con la quale prima si trovavano intrecciate - non conduce ad un abbandono definitivo del motivo cartesiano, che sembra, pur con i suoi svantaggi, continuare a sussistere come una possibilità accanto alle altre. Antonio Aguirre - uno degli interpreti di Husserl che più hanno insistito sulla centralità del tema dello scetticismo - ha invece compiuto il tentativo, opposto a quello dei classificatori, di individuare un tratto fondamentale comune alle varie vie della riduzione212, un tratto fondamentale che si riscontra sia nelle vie che Husserl ha chiamato dirette (la via cartesiana delle Ideen I) sia nelle vie indirette (attraverso la psicologia fenomenologica).213 Questo pensiero fondamentale comune alle varie vie - che sussiste anche dopo l'abbandono della via cartesiana - consiste, secondo Aguirre, nel tentativo di moti­ vare la riduzione con una critica dell'esperienza mondana.214 Questa critica, che precede la riduzione e la motiva, si svolge in un atteggiamento intermedio fra l'atteggiamento naturalisti­ 209 Cfr. anche Nachwort alle Ideen I; HU V p. 150; tr. it. p. 924. 210 Kem [1964] p. 236. 211 Un buon esempio della tendenza dell'interpretazione husserliana ad avvolgersi e confondersi nelle spire delle proprie rigide distinzioni è dato dalla seguente affermazione di Iso Kem: «Non è del tutto chiaro se Hus­ serl sia mai divenuto consapevole di questa insufficienza della via carte­ siana. Alcuni indizi lo fanno credere. Soprattutto bisogna considerare che Husserl non ha mai pensato la riduzione fenomenologica come puramen­ te determinata dalla via cartesiana, ma ha sempre introdotto nel suo senso altri elementi non-cartesiani, così che forse la dubbiezza di quella via non gli si è mai dischiusa in piena chiarezza.» (Kem [1964] p. 209). 212 Aguirre [1971] p. XIII. 213 Per una chiara distinzione fra i due tipi di vie, dirette ed indirette, cfr. Amsterdamer Vorträge § 16, HU IX p. 347. 214 Aguirre [1971] p. XIV.

194 co (con il quale ha già rotto) e quello fenomenologicofilosofico: è l'atteggiamento proprio della psicologia fenome­ nologica. Questo significa 1. che anche le vie cosiddette diret­ te attraversano implicitamente lo stadio intermedio della psi­ cologia fenomenologica215 e 2. che anche le vie indirette pren­ dono le mosse da quella critica dell'esperienza mondana, che nella via cartesiana è soltanto più evidente perché connessa al motivo della possibilità del non essere del mondo.216 Ogni via muove dunque da una originaria rottura preliminare con l'at­ teggiamento naturalistico, la quale consente di affrontare il compito fenomenologico della critica dell'esperienza monda­ na, la quale a sua volta motiva la riduzione filosofica vera e propria. Aguirre completa la propria tesi individuando nella scepsi la rottura originaria dell'atteggiamento naturalistico, che rende possibile l'avvio della critica fenomenologica del­ l'esperienza.217 Stando a questa ricostruzione del pensiero fondamentale delle varie vie della riduzione, fra tali vie non c'è dunque alcuna vera differenza: esse si distinguono solo per ciò che è più o meno esplicito, ma tutte muovono da un'epoché scettica attraverso una critica fenomenologico-psicologica dell'esperienza verso la riduzione filosofica. Ora, a mio avviso, sia il tentativo di classificare le varie vie della riduzione, sia il tentativo di ridurle ad un pensiero fon­ damentale comune vanno incontro a delle difficoltà. Se infatti, da un lato, tali vie non appaiono interamente disgiungibili ed alternative (come pretenderebbero i classificatori), dall'altro mi sembra che la loro unità non possa venir indicata in un per­ corso che si mantenga formalmente identico in ciascuna di es­ se, riducendo le differenze a differenze apparenti, di superfi­ cie. Credo, invece, che il rapporto fra unità e molteplicità delle vie vada pensato in modo dinamico-teleologico. E questo da un duplice punto di vista. Innanzitutto, dal punto di vista della storia del pensiero husserliano, mi sembra vada presa estre­ mamente sul serio l'indicazione che Husserl stesso dà nella Krisis, che la riduzione può rivelare il suo intero senso solo gradualmente e che essa, «per raggiungere il suo orizzonte 215 Cfr. Aguirre[1971] pp. 31-44. 216 Cfr. Aguirre [1971] pp. 51-57. 217 Cfr. Aguirre [1971] p. XVI.

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totale», ha avuto bisogno di una «fenomenologia della ridu­ zione fenomenologica».218 Stando a quest'indicazione, quelle vie «nuove» che zampillano dalla pagina husserliana a partire dalla Erste PhUXL, non possono venir considerate come sosti­ tutive dell'idea originaria, cartesiana, di riduzione, ma devono invece venir interpretate come il risultato del chiarimento di quest'idea, dell'esplicazione delle sue oscure potenzialità im­ plicite. Da questo punto di vista l'individuazione di una plu­ ralità di vie rappresenta il telos del chiarimento fenomenologi­ co dell'idea originaria, unitaria ma confusa, di riduzione. Ma poi unità e molteplicità delle vie appaiono teleologicamente connesse anche in un secondo senso. L'individuazione di una pluralità di vie possibili non conduce infatti ad uno sfaldamento dell'idea di riduzione, ma alla sua precisazione e riorganizzazione. La riduzione diviene un processo estremamente complesso, nel quale, è vero, ci si può introdurre a par­ tire da punti di partenza diversi (le ontologie, il mondo della vita, la psicologia intenzionale) e con motivazioni diverse, ma che rimane comunque teleologicamente ordinato, orientato verso un'unica meta: la riduzione filosofica vera e propria. E, lungi dall'essere disgiunte ed alternative, le varie vie divengo­ no le tappe di questo processo, le quali sono ad un tempo di­ stinte, in quanto ciascuna rappresenta il telos delle precedenti (o, se si vuole, l'esplicazione dei loro orizzonti ancora oscuri), e continue, in quanto tutte concorrono alla realizzazione del telos ultimo del processo. Se questa prospettiva è suscettibile di una qualche conferma, la tesi dell’abbandono della via cartesiana a favore di vie di­ stinte da quest'ultima deve venir rivista. In realtà, ciò che Hus­ serl compie nella sua fenomenologia della riduzione fenome­ nologica, è una separazione del motivo cartesiano dagli altri motivi originariamente confusi con esso. E questa separazione non equivale affatto ad un abbandono, ma - come tenterò di mostrare219 - ad una sua purificazione e rafforzamento, all'in­ terno di una concezione dinamica della riduzione. Lungi dal venir abbandonata, la via cartesiana s'invera in questa nuova concezione della riduzione. 218 Cfr. Krisis § 71 HU VI pp. 250-251; tr. it. p. 267. 219 Cfr. §§ 3.16-3.19.

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Per confermare la produttività di questo modo dinamico di intendere il nesso fra unità e molteplicità delle vie della ridu­ zione filosofica, tenteremo di ricostruire la storia dell'idea di riduzione al futuro anteriore. Partiremo cioè da una serie di distinzioni che Husserl elabora solo a partire dagli anni '20, e le proietteremo all'indietro per descrivere la situazione ancora confusa in cui avviene l'introduzione dell'idea di riduzione a partire dalle lezioni del 1906/7.220 Se questa operazione ci ri­ uscirà, la «svolta» della Erste Phil.il ci apparirà davvero come una conseguenza del chiarimento delle potenzialità implicite nell'idea originaria di riduzione.221 La prima distinzione che ci interessa è quella, già citata di­ scutendo le tesi di Merleau-Ponty sulla riduzione222, fra epoché e riduzione vera e propria, che Husserl esplicita nella Kri­ sis, ma che, come vedremo, viene effettuata implicitamente già a partire dalle lezioni del 1906/7.223 Nel § 70 della Krisis, Husserl sottolinea esplicitamente «la differenza nell'uso delle due parole» ed afferma che, nella psicologia pura224 Y epoché è il mezzo per rendere esperibili e per tematizzare nella loro purezza essenziale i soggetti, i quali nella vita naturale nel mondo esperiscono se stessi e vengono esperiti nelle loro rela­ zioni intenzionali-reali con gli oggetti reali mondani. Così essi diventano, per un osservatore psicologico assolutamente disinte­ ressato, «fenomeni» in un senso nuovo e peculiare - e questo rivolgimento si chiama appunto riduzione fenomenologicopsicologica.225

220 Cfr. §§3.14-3.15. 221 Cfr. §§3.17. 222 Cfr. §§ 3.4. 223 Nella sua ricostruzione del pensiero fondamentale comune alle varie vie della riduzione, Aguirre non distingue fra epoché e riduzione, poiché Husserl usa normalmente i due termini come sinonimi. (Cfr. Aguirre [1971] p. VII) A mio avviso, questo fatto rappresenta un limite della sua ricostruzione, giacché, anche se i due termini indicano uno stesso atto (e possono quindi venir usati come sinonimi), essi lo colgono tuttavia da prospettive differenti. (Cfr. §§ 3.14-3.15). 224 Qui la distinzione fra epoché e riduzione si applica al caso della ridu­ zione fenomenologico-psicologica, ma essa può venir estesa alla riduzio­ ne in generale. (Cfr. Krisis § 41, HU VI p. 154; tr. it. p. 179). 225 HU VI p. 247; tr. it. p. 264. (Corsivo C.S.).

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L'epoché e la riduzione si distinguono dunque come mezzo e fine: la prima è il mezzo per far apparire (ed indagare) la cor­ relazione intenzionale di soggettività ed oggettività, mentre la seconda è quest'apparire. La seconda distinzione di cui vogliamo servirci è quella ela­ borata da Husserl nella sua fenomenologia della riduzione fe­ nomenologica, fra riduzione apodittica e riduzione fenomeno­ logica vera e propria226, con la quale Husserl scinde il metodo della riduzione filosofica come apertura dell'accesso alla sog­ gettività trascendentale dalla questione dell'evidenza apoditti­ ca della conoscenza trascendentale, che nella via cartesiana della riduzione delle Ideen I, e ancor più nel percorso compiu­ to da Descartes fra il dubbio ed il cogito, appaiono intrecciati: In contrasto con la possibilità del non essere del mondo esperi­ to, o come preferisce Descartes con la possibilità del dubbio, \'ego cogito si contraddistingue come per me assolutamente in­ dubitabile. Nella presente trattazione ho al contrario deliberatamente staccato il metodo della riduzione trascendentale dalla questione della validità apodittica dell'autoconoscenza trascen­ dentale. Distinguo ora questa riduzione trascendentale o ridu­ zione fenomenologica dalla riduzione apodittica ad essa connes­ sa. La seconda indica un compito che solo la riduzione fenome­ nologica rende possibile.227

L'ultima distinzione che ci interessa è quella effettuata nelle CM fra evidenza apodittica ed evidenza adeguata. La prima equivale all'assoluta indubitabilità228 : 226 Cfr. Lettera di Husserl ad Ingarden del 10 dicembre 1925 in Husserl [1994] Bd.in p. 228. 227 HU Vili p. 80. (Corsivo C.S.). 228 Nella sua discussione della distinzione fra evidenza apodittica ed evi­ denza adeguata, Gail Soffer (Soffer [1991] pp. 120-128) nega che l'evi­ denza apodittica implichi l'assoluta indubitabilità. In proposito cita un passo della FTL in cui Husserl ammetterebbe che anche un'evidenza apodittica può poi rivelarsi un inganno: «Anche un'evidenza che si spac­ cia per apodittica (eine sich als apodiktisch ausgebende Evidenz) può svelarsi come un'illusione, e presuppone perciò un'evidenza simile, di fronte alla quale essa «si frantuma».» (FTL § 58 HU XVH p. 164; tr. it. p. 194). Ora, mi pare innegabile - innanzitutto - che una «sich als apodik­ tisch ausgebende Evidenz» non sia del tutto equivalente a una

198 L'evidenza apodittica ha il carattere distintivo di non essere solo in generale certezza d'essere delle cose o degli stati di cose in essa evidenti, ma di rivelarsi parimenti, mediante una riflessione critica, come assoluta inconcepibilità del non-essere, in modo da escludere già in anticipo ogni dubbio immaginabile come privo di oggetto.229

Secondo la definizione delle L.U. (dove l'evidenza in senso stretto coincide con l'evidenza adeguata, mentre l'evidenza non-adeguata rappresenta un semplice grado inferiore di evi­ denza230 ), l'evidenza adeguata è invece quella perfezione del­ l'evidenza che consiste nella piena «sintesi di riempimento, che dà all'intenzione la pienezza contenutistica assoluta», nella quale non si danno più intenzioni parziali non riempite e l'oggetto stesso è presente così come esso è inteso.231 Fino alle CM evidenza apodittica ed evidenza adeguata sembrano im­ plicarsi a vicenda. Nelle CM, invece, Husserl dice della se­ conda che rimane aperto «se essa non stia per principio all'in­ finito», ed afferma poi che l'evidenza apodittica è un'evidenza di «dignità superiore» e - quel che importa - ammette che l'apoditticità possa eventualmente presentarsi anche in eviden­ ze inadeguate.232 Il significato e la portata di queste distinzioni potrà comin­ ciare ad apparirci più chiaro, se ne individueremo il nesso con il tema dello scetticismo, ricollegandoci alla prima parte di questo lavoro e, in particolare, all'esposizione del modello tra­ scendentale cartesiano di superamento dello scetticismo. «apodiktische Evidenz». È dunque possibile che Husserl stia dicendo che si possono commettere degli errori prendendo per apodittica un’evidenza che non lo è. Ma supponiamo pure che Husserl stia dicendo di più, e cioè che un'evidenza indubitabile non è mai data di fatto, ciò che Soffer non può negare (e che a quanto vedo, non nega: cfr.p. 125) è che l'eidos dell'apoditticità è definito dall'indubitabilità (e quindi dal non poter essere diversamente da com'è, né ora né mai) e che, se anche non dovesse risul­ tar conseguibile di fatto, l'apoditticità-indubitabilità è comunque un'idealimite, un telos verso cui è diretta ogni conoscenza che sia tale e un compito perla filosofia trascendentale fenomenologica. (Cfr. § 3.18) 229 CM § 6 HU I p. 56; tr. it. p. 50. 230 Cfr. L.U.II A 593-594 B2 121-122 HU XIX/2 p. 651; tr. it. vol.fl p. 422. 231 L.U.II A 594 B2 122 HU XIX/2 p. 651; tr. it. vol.fl p. 422. 232 CM § 6 HU I pp. 55-56; tr. it. pp. 49-51.

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Ora, la prima distinzione - fra epoché e riduzione - ci per­ mette di intravedere quel fatto fondamentale al quale abbiamo già accennato233 , e cioè che la riduzione consiste in un capo­ volgimento della figura dello scetticismo, un capovolgimento che ne sovverte il nesso fra mezzi e fini. Abbiamo visto come lo scetticismo consista in un'attività fenomenologica, che illu­ stra la correlazione dell'oggettività alla soggettività, al fine di motivare la sospensione del giudizio su ogni oggettività. L'in­ dagine su quella correlazione è, per lo scetticismo, il mezzo; il dubbio, il fine. Nella riduzione questo nesso appare capovolto: l'epoché è il mezzo, l'indagine sulla correlazione (la riduzione in senso stretto) il fine. L'epoché, però, ha in realtà due fini distinti, uno più prossi­ mo, l'altro più lontano, come ci insegna la seconda distinzio­ ne. Il primo fine è l'indagine sulla correlazione di soggettività ed oggettività (la riduzione fenomenologica vera e propria); il secondo fine è il conseguimento di una conoscenza apodittica, una conoscenza che escluda ogni possibile dubbio (la riduzio­ ne apodittica). Il primo fine coincide con l'inveramento della figura dello scetticismo, il secondo con il suo superamento. Il capovolgimento della figura dello scetticismo, che ha luogo nella riduzione, non ha dunque il solo scopo di universalizzare quell'attività fenomenologica che nello scetticismo appare estremamente limitata perché piegata al fine del dubbio, ma ha anche lo scopo di togliere di mezzo il dubbio. Per il primo verso - in quanto, cioè, invera lo scetticismo capovolgendo il nesso fra attività fenomenologica ed epoché Husserl usa lo scetticismo in maniera opposta rispetto a quella cartesiana. Descartes, infatti, ripercorre le varie tappe dello scetticismo nell'ordine in cui queste si presentano: dall'attività fenomenologica (nella critica dell'esperienza della Prima Meditazione) verso il dubbio, al quale non consegue più alcu­ na attività fenomenologica.234 Per il secondo verso - in quanto 233 Cfr. § 3.5. 234 È questa la critica costantemente rivolta da Husserl a Descartes, che egli dopo aver scoperto il cogito lo prese come punto di partenza per delle deduzioni, anziché scorgere come esso rappresentasse un campo di fenomeni peculiari da sottoporre all'indagine fenomenologica. (Cfr. CM § 10 HU I pp. 63-64; tr. it. pp. 56-57). Nella Kritische Ideengeschichte, Husserl afferma che questa incapacità di Descartes di cogliere il senso

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cioè il fine ultimo della riduzione è la riduzione apodittica Husserl si avvicina invece a Descartes, il quale si lascia cadere nel dubbio al fine, appunto, di trame una conoscenza apoditti­ ca (il cogito). Fra Husserl e Descartes sussiste dunque una duplice analogia. Sono innanzitutto identici i loro fini ultimi: entrambi mirano ad un sapere al di sopra di ogni dubbio o, come dirà Husserl nelle CM235, entrambi sono orientati dall'idea-fme di una scienza assolutamente fondata. Essi sono poi accomunati anche dall'idea generica che il conseguimento di questi fini ultimi debba passare attraverso l'inveramento dello scetticismo. Al di là di queste analogie formali li distingue tuttavia il modo concreto dell'inveramento dello scetticismo. In Descartes si tratta di ripercorrere lo scetticismo dalla moti­ vazione del dubbio sino al dubbio, per poi rovesciare il dubbio indicando un sapere diverso da quello soggetto al dubbio; si tratta, cioè, di utilizzare lo scetticismo per scavare la differen­ za fra dubitabile ed indubitabile. In Husserl si tratta invece di universalizzare lo scetticismo, di renderlo radicalmente coe­ rente, applicandolo sistematicamente a se stesso, anticipando Yepoché rispetto alla riduzione. Tuttavia questa differenza fondamentale fra Husserl e De­ scartes si offusca quando si passa a considerare il nesso fra ri­ duzione fenomenologica e riduzione apodittica, guardando alla riduzione fenomenologica non più come al fine dell'epoché, ma come al mezzo della riduzione apodittica; quando, cioè, si tenta di determinare come l'inveramento dello scettici­ smo produca il suo superamento. È qui, infatti, che si pone ad Husserl il problema del nesso fra il significato positivo dello scetticismo ed il suo superamento. E poiché Husserl non iden­ tifica l'inveramento dello scetticismo con il suo superamento, poiché la riduzione fenomenologica è il mezzo di realizzazio­ ne della riduzione apodittica (la quale mantiene un senso pro­ prio, irriducibile a quello della riduzione fenomenologica), Husserl non fuoriesce interamente dall'universo cartesiano­ trascendentale. Anche in Husserl lo scetticismo si spacca profondo della soggettività trascendentale e della scienza che indaga questa soggettività dipende dal fatto «che egli non apprese in modo cor­ retto la lezione della scepsi». (Cfr. HU VII p. 64; tr. it. p. 80). “J Cfr. CM § 3 HU I p. 49; tr. it. p. 43.

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inevitabilmente in due lati - uno positivo ed uno negativo - e «fuori» dal suo inveramento, dall'uso del suo significato posi­ tivo, rimangono da un lato la volontà di superamento dello scetticismo, dall'altro la meta, distinta dall'inveramento, verso la quale l'inveramento è sospinto da quella volontà: il supera­ mento, appunto. In termini husserliani: «fuori» dalla riduzione fenomenologica deve rimanere una volontà di apoditticità che la indirizzi verso il telos dell'apoditticità. Questo fatto fa sì che in Husserl si riaffaccino tutta una serie di problemi che abbiamo incontrato in Descartes. Due di questi ci potranno servire da filo conduttore per comprendere meglio in cosa propriamente consista il cartesianismo husser­ liano. Il primo riguarda la connessione, che si riscontrava in Descartes, fra la volontà del meditante agli inizi della propria meditazione e la meta della sua meditazione: la ragione nella sua purezza. Il libero arbitrio del meditante, abbiamo visto, gli apriva la possibilità formale di incamminarsi, attraverso il dubbio, verso tale meta. Ma perché il meditante si decidesse ad incamminarsi lungo la strada del dubbio piuttosto che ri­ maner fermo, perché il dubbio gli si rendesse necessario, la sua volontà doveva già essere in qualche modo vincolata da quella meta, dalla ragione. Questa circostanza minacciava di far precipitare, contro le intenzioni di Descartes, l'intera fon­ dazione del sapere al livello di mero fatto autobiografico. Il secondo problema era dato dal fatto che il meditanteprincipiante doveva disporre - oltre che del nesso formale fra la sua volontà e la ragione - di una certa precomprensione della sua meta. Per utilizzare, cioè, il dubbio scettico al fine di scavare una differenza fra il dubitabile e l'indubitabile, egli doveva presupporre un determinato criterio dell'indubitabilità, che, come abbiamo visto, era dato dalla validità atemporale. Questo criterio gli permetteva di separare un tipo di sapere autentico (il cogito ed il sapere geometrico-matematico) da un sapere inautentico, soggetto al dubbio (l'esperienza sensibile), e di porre il primo tipo di sapere al riparo dagli attacchi scet­ tici, sacrificando loro il secondo. D'altra parte, però, di questo presupposto della sua fondazione del sapere, si vendicava il sapere inautentico, in quella rivolta che abbiamo descritto for­ zando un poco la posizione del Padre Bourdin esposta nelle Settime Obiezioni.

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Ora, in Husserl, fatte le debite trasformazioni, si ritrovano entrambi i problemi qui richiamati. Il primo, al quale abbiamo già accennato e sul quale ritorneremo236, è in Husserl, come in Descartes, un problema insuperabile e rappresenta il motivo cartesiano insopprimibile dell'idea husserliana di filosofia, dalle sue origini sino alla Krisis. Più complesso è il rapporto fra Husserl e Descartes quando lo si misuri a partire dal se­ condo problema. Husserl, di principio, non mira ad una svalu­ tazione di una certa forma di sapere al fine di fame scaturire, per contrasto, la solidità di un altro tipo di sapere. Eppure come vedremo meglio in seguito237 - nelle Ideen I, motiva la riduzione fenomenologico-filosofica con una critica dell'espe­ rienza mondana e fa scaturire l'apoditticità della coscienza pu­ ra dal confronto con i modi di datità degli oggetti mondani, così come in Descartes l'apoditticità del cogito emergeva dal contrasto con la possibilità del non essere del mondo.238 Stan­ do all'esposizione delle Ideen I, dunque, sembra che la ridu­ zione fenomenologica conduca alla meta dell'apoditticità, che l'inveramento dello scetticismo dia luogo al suo superamento, perché essa consente di scoprire un campo di oggetti (ed una scienza di questi oggetti) che, a differenza degli oggetti mon­ dani e dell'esperienza mondana, non sono soggetti al dubbio scettico. Essa, cioè, sembra aprire la strada al superamento dello scetticismo perché scava una differenza fra il dubitabile (l'essere del mondo e la conoscenza mondana) e l'indubitabile (la soggettività trascendentale e la conoscenza filosoficotrascendentale). Naturalmente, l'intera operazione è resa pos­ sibile dal fatto che Husserl è orientato da una determinata pre­ comprensione dell'indubitabile, dal fatto, cioè, che egli non sottopone al chiarimento fenomenologico la domanda radicale «che cos'è l'indubitabile?», ma ne presuppone la risposta al fi­ ne di motivare la riduzione. Nelle Ideen I, dunque, Husserl è, anche da questo secondo punto di vista, ben più vicino a De­ scartes di quanto la sua impostazione fenomenologica genera­ le parrebbe richiedere. Ed infatti è su questo terreno che si consumerà il suo progressivo allontanamento da Descartes, 236 Cfr. §§ 3.4 e 3.19-3.20. 237 Cfr. § 3.15. 238 Cfr. sopra (nota 227) la citazione dalla Erste Phil.ìl HU VIU p. 80.

203 che culminerà nella Krisis, dove Husserl avrà ridotto questo secondo nucleo problematico che lo accomuna a Descartes al primo (il nesso formale fra volontà ed apoditticità). Questo allontanamento può venir colto da due lati. Da una parte si manifesta come progressivo svuotamento di contenuto della precomprensione dell'ideale dell'apoditticità verso cui la volontà filosofica indirizza l'inveramento dello scetticismo. D'altra parte, e correlativamente, si manifesta come abbando­ no del momento critico - svalutativo dell'esperienza mondana - dell'idea di filosofia a favore di quello fenomenologico. L'introduzione della terza distinzione su cui ci siamo soffer­ mati - fra evidenza apodittica ed evidenza adeguata - va vista in questo contesto: essa corrisponde all'esigenza di non pre­ giudicare più del necessario il contenuto dell'apoditticità, di liberare il più possibile l'ideale dell'apoditticità da contenuti determinati lasciandolo il più possibile aperto al chiarimento fenomenologico. D'altra parte, questa disgiunzione dell'apoditticità dall'adeguazione sbarra la strada, dovrebbe di princi­ pio sbarrare la strada, a quell'operazione che, nelle Ideen I, era resa possibile dalla loro congiunzione: e cioè, l'individuazione di un tipo apodittico d'essere e di conoscenza a partire dal contrasto e dalla critica di un tipo diverso, non apodittico: quello dell'esperienza mondana. Infatti, meno è predetermina­ to l'ideale dell'apoditticità, meno è possibile criticare stili di evidenza peculiari (come quello dell'esperienza mondana) con il metro di altri stili di evidenza (l'evidenza adeguata, cioè apodittica), più il compito della filosofia tende a coincidere con quello della fenomenologia pura: viene, cioè, ad assumere il carattere di chiarimento di stili differenti di evidenza, e ab­ bandona la pretesa di criticare certe forme di evidenza a parti­ re dal confronto con altre, determinate forme e di accertare la possibilità di queste altre, immaginate, presentite, desiderate forme. Tuttavia, bisogna chiarirlo subito, il progressivo abbandono di Descartes su questo terreno non è, in Husserl, dettato dalla consapevolezza delle difficoltà che la precomprensione dell'indubitabilità introduce nella fondazione cartesiana del sape­ re, aprendo la via al reinsorgere di forme scettiche nella rivolta

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del sapere inautentico.239 Esso non è cioè la conseguenza di una visione dialettica del nesso fra scetticismo e filosofìa. Ciò che in realtà spinge Husserl a questo abbandono è la consta­ tazione che la scienza trascendentale non adegua di fatto l'ideale dell'apoditticità così come esso viene inizialmente po­ sto. In particolare l'introduzione della differenza fra evidenza apodittica ed evidenza adeguata è dettata dall'esigenza di non precludersi la possibilità di realizzare il telos dell'evidenza apodittica. Poiché infatti l'esperienza trascendentale offre solo un nucleo di evidenza veramente adeguata («la presenza vi­ vente di sé»240), identificare l'evidenza apodittica con l'evi­ denza adeguata significherebbe escludere a priori la possibilità di una conoscenza trascendentale apodittica. Per questo, per­ ché cioè il distacco da Descartes non è la conseguenza di una raggiunta consapevolezza del nesso dialettico fra filosofia e scetticismo, Husserl non fuoriesce interamente dall'universo cartesiano, limitandosi a rendere sempre più formale la pre­ comprensione dell'apoditticità, sino a quando nella Krisis questa finirà per coincidere con la stessa volontà filosofica.241

3.2. L’idea oscura di riduzione fenomenologica. 14. Abbandoniamo le scorribande attraverso la continuità profonda e le discontinuità di superficie del pensiero husser­ liano, e cerchiamo di ricostruire la prima fase della storia del­ l'idea di riduzione: quella contrassegnata da oscurità e frain­ tendimenti. Se le tesi che abbiamo anticipato sono esatte, do­ vremmo poter mostrare 1. che la sua oscurità consiste nel fatto che nell'idea originaria di riduzione, il nesso fra epoché e ri­ duzione non è adeguatamente tematizzato, e, d'altra parte, si confondono fra loro la riduzione fenomenologica e la riduzio­ ne apodittica, come anche l'evidenza apodittica e l'evidenza adeguata; e 2. che quest'oscurità è correlativa a dei frainten­ dimenti che finiscono per offuscare, al di là del significato della riduzione, il senso fondamentale della fenomenologia, 239 Cfr. §§ 2.5-2.Ó. 240 Cfr.CM § 9 HU I p. 62; tr. it. p. 55. 241 Ma allora si dovrebbe forse affermare che anziché allontanarsi da De­ scartes, Husserl gli si avvicina progressivamente, diventando più carte­ siano di Descartes stesso. (Cfr. § 3.19).

205 della filosofia e del nesso fra «necessità fenomenologica» e «necessità filosofica». Tali fraintendimenti consistono (i) nella tendenza a disgiungere i due tipi di necessità e ad insistere sul salto fra la prospettiva filosofico-fenomenologica e quella psi­ cologica, più che sulla continuità fra le due prospettive attra­ verso la psicologia fenomenologica; (ii) nella tendenza ad as­ segnare al compito filosofico un forte accento critico, a scapi­ to di quello fenomenologico; e (iii) nella tendenza a confonde­ re il compito fenomenologico di chiarimento delle varie forme di conoscenza riconducendole alle loro caratteristiche forme di evidenza, con il compito di accertamento e fondazione della possibilità di certi tipi, privilegiati, di evidenza. L'indice di questi fraintendimenti è il massimo di vicinanza a Descartes nell'uso del significato positivo dello scetticismo, che si os­ serva soprattutto nei primi testi in cui Husserl introduce in modo consapevole l'idea della riduzione, ma che si farà sentire anche nelle Ideen I. Indizi di questa vicinanza sono a.la sepa­ razione fra due lati dello scetticismo (uno positivo ed uno ne­ gativo), fra i quali non si intravede alcuna correlazione; ß.l'utilizzazione del significato positivo dello scetticismo al fine di scavare una differenza fra il dubitabile e l'indubitabile e superare quindi lo scetticismo; y.la tendenza ad affiancare a questa strategia d'inveramento del significato positivo dello scetticismo, la confutazione attraverso l'argomento formale dell'autocontraddittorietà, riducendo l'argomento della «Widersinnigkeit» delle L.U. all'argomento formale della tradizio­ ne.

Il primo testo husserliano in cui l'idea della riduzione venga utilizzata in modo sistematico per definire il campo di ricerca fenomenologico sono le lezioni del 1906/07 intitolate Einlei­ tung in die Logik und Erkentnnistheorie 242 Le prospettive aperte da queste lezioni divengono poi sensibilmente più chia­ re nelle lezioni del semestre estivo 1907 sull'Atee der Phäno­ menologie.243 Questi due testi sono diversi per punti di parten­ za e meta. Innanzitutto, il problema delle lezioni del 1907 è più generale di quello delle lezioni del 1906/7: in esse Husserl 242 HUXXIV. 243 HU n.

206 mira al chiarimento dell'idea generale della fenomenologia e della teoria della conoscenza, mentre nelle lezioni precedenti giungeva all'introduzione dell'idea di riduzione a partire da un approfondimento della riflessione metodologica sul chiari­ mento del senso della logica e dei suoi oggetti avviata nelle L.U.. Di conseguenza divergono anche i pensieri fondamentali che guidano la riflessione husserliana nelle due serie di lezio­ ni. Nelle prime Husserl mirava a distinguere, una volta per tutte, la fenomenologia e la teoria dalla conoscenza dalla psi­ cologia; nelle seconde, questo problema diviene secondario ed appare in primo piano la questione dell'ampliamento del cam­ po d'indagine fenomenologico e del superamento radicale del pregiudizio che restringe questo campo all'immanenza reale (reell), che, almeno in una certa misura, è ancora operante nella prima serie di lezioni.244 Queste differenze fondamentali si riflettono nel modo in cui i due scritti introducono l'idea della riduzione, che rimangono comunque tendenzialmente confrontabili. In entrambi i casi quest'introduzione avviene in quattro «ondate» fondamentali. (i) La prima «ondata» espone le motivazioni generali. In es­ sa vien prospettato il compito proprio della teoria della cono­ scenza e della filosofia. Il punto di partenza sta nell'indivi­ duazione della differenza fra due atteggiamenti: l'atteggiamen­ to naturalistico della conoscenza (nelle lezioni del 1906/7 della conoscenza logica), che è rivolto agli oggetti, e l'atteg­ giamento della riflessione sulla conoscenza, che è volto a scorgere la correlazione fra questi oggetti ed i loro modi sog­ gettivi di datità.245 La differenza fondamentale fra i due at­ teggiamenti è data dal fatto che quelle pretese della conoscen­ za, che nel primo atteggiamento vengono lasciate valere come ovvie, nel secondo appaiono problematiche.246 Nel primo at­ teggiamento, dice Husserl, siamo certi di essere in possesso di verità oggettive; ma non appena riflettiamo su come questo avvenga, questo fatto di cui siamo certi ci appare come un mistero. L'indice delle difficoltà in cui s'avvolge la riflessione sulla conoscenza è lo scetticismo, che, nella sua forma esplici­ 244 Cfr. Melle [1984] pp. XXII-XXnL 245 Cfr. HU XXIV pp. 116-124; HU H pp. 17-19; tr. it. pp. 56-58. 246 Cfr. HU XXIV pp. 141-143; HU H p. 21; tr. it. p. 60.

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ta, rappresenta il grado massimo di confusione di quella ri­ flessione.247 Queste difficoltà, tuttavia, non pongono veramen­ te in discussione le pretese di validità della conoscenza assun­ te come ovvie dall'atteggiamento naturalistico. D'altra parte, però, mettono in luce che, nell'atteggiamento naturalistico queste pretese non sono chiarite al di là di ogni possibile dubbio, non sono ricondotte all'«evidenza della loro chiara possibilità».248 L'individuazione di questa differenza fra i due atteggiamenti permette ad Husserl di definire il compito della teoria della conoscenza. Questa ha un duplice scopo. Innanzitutto ha il compito critico-negativo di superare la confusione in cui cade la riflessione naturalistica sulla conoscenza, confutando «le teorie scettiche, palesi o nascoste, sull'essenza della conoscen­ za dimostrando il loro controsenso (Widersinn).»2*9 Essa ha, in altre parole, il compito di t/zmostrare come le teorie scetti­ che non pongano davvero in discussione le pretese della cono­ scenza, confutando queste teorie mediante l'argomento forma­ le della autocontraddittorietà. 250 In secondo luogo, la teoria della conoscenza ha anche il compito positivo di risolvere, «indagando l'essenza della conoscenza, i problemi che appar­ tengono alla correlazione fra la conoscenza, il senso della co­ noscenza e l'oggetto della conoscenza.»251 Essa ha, cioè, an­ che il compito di chiarire fenomenologicamente le pretese di validità della conoscenza portandole aU'«evidenza della loro chiara possibilità». (ii) La seconda «ondata» affronta il problema dei mezzi che la teoria della conoscenza deve adottare al fine di svolgere il proprio compito fenomenologico-positivo di chiarimento delle pretese di oggettività della conoscenza. Il mezzo fondamentale di cui essa si avvale a questo scopo è V epoche scettica da tutte le validità presupposte dalla conoscenza naturalistica. 252 Che la teoria della conoscenza debba avvalersi di questo mezzo radicale è formalmente necessario, ché la possibilità 247 248 249 250 251 252

Cfr. HU XXIV pp. 143-149; HU H p. 21; tr. it. p. 60. Cfr. HU XXIV p. 148. HUHp. 22; tr.it. p. 61. Cfr. anche HU XXIV pp. 147-148. HU II p. 22; tr. it. p. 61. Cfr. anche HU XXIV pp. 148-149. Cfr. HU XXIV pp. 178-188; HU H pp. 24-25; tr. it. pp. 63-64.

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della conoscenza è proprio ciò che deve chiarire, e va da sé che nel corso del chiarimento delle sue pretese validità non sia legittimo fame alcun uso. D'altra parte, questo nesso formale fra lo scopo ed il mezzo del chiarimento indica anche che mediante Vepoché non si vuol affatto porre in dubbio la validi­ tà della conoscenza. Essa vien semplicemente posta fra paren­ tesi al fine di evitare di fame uso nel chiarimento della sua possibilità.253 (iii) La terza «ondata» consiste in una prima esplicitazione di come questo mezzo formalmente necessario - Vepoché scettica - consenta di realizzare concretamente il compito positivo-fenomenologico della teoria della conoscenza.254 E qui interviene Descartes, e Vepoché, V«In-Frage-Stellen» di tutta la conoscenza mondana finisce per «risemantizzarsi». Esso, per esplicita indicazione di Husserl, non deve venir inte­ so come un vero e proprio mettere in dubbio, bensì come un porre fra parentesi, un sospendere la credenza. Dopo l'intro­ duzione del pensiero cartesiano del dubbio radicale, e contro le intenzioni di Husserl stesso, V«In-Frage-Stellen» finisce pe­ rò per assumere quel primo significato, in quanto Vepoché viene ora cartesianamente interpretata come un metodo per far scaturire la differenza fra dubitabile ed indubitabile. Afferma, in breve, Descartes: voglio una conoscenza assolu­ tamente certa; ogni conoscenza mondana può però venir posta in dubbio; ma proprio questo è assolutamente certo, che io, cioè, dubiti e rifletta sulla conoscenza dubitabile. E Husserl traduce: se voglio chiarire, al di là di ogni dubbio, la pretesa di validità della conoscenza mondana, non devo presupporre al­ cuna conoscenza di questo tipo; devo, cioè, porre fra parentesi tutte le conoscenze mondane. Ma se io pongo fra parentesi 253 Cfr. HU XXIV pp. 178-188 e HU H pp. 24-25; tr. it. pp. 63-64. 254 Cfr. HU XXIV p. 192 e pp. 195-196 e HU II p. 29; tr. it. pp. 65-66. Ponendo il problema del rapporto fra Vepoché ed il compito della teoria della conoscenza, Husserl finge per un momento, in modo quasi-teatrale, di non sapere esattamente come il problema vada risolto, così come De­ scartes fingeva, all'inizio della Seconda Meditazione, di credersi caduto in un «profundum gurgitem» (AT VII p. 24; tr. it. p. 23). In realtà sia Hus­ serl che Descartes, sanno benissimo già prima di introdurre Vepoché ed il dubbio, perché li introducono e cosa sperano di ricavarne. La comune finzione retorica di smarrimento, però, non è certo casuale.

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ogni conoscenza, come posso chiarire le pretese di validità della conoscenza? Se devo poter svolgere questo compito, de­ vo poter prendere le mosse da una conoscenza che, a differen­ za della conoscenza mondana, sia assolutamente chiara ed in­ dubitabile, una conoscenza che «escluda, in modo assolutamente chiaro e indubitabile, ogni dubbio sulla sua possibilità, e non contenga assolutamente nulla dell'enigma che ha dato occasione a tutti i grovigli dello scetticismo.»255 Questa cono­ scenza è la mia riflessione sulla conoscenza mondana, la qua­ le, a differenza della conoscenza mondana, verte su di un og­ getto - i miei Erlebnisse conoscitivi, le mie percezioni, rap­ presentazioni, esperienze ecc. - che le è dato in modo assoluto ed indubitabile. L'epoché scettica, sembra dunque dire Hus­ serl, permette di realizzare il compito della teoria della cono­ scenza perché dischiude un campo di datità assolute: il campo delle cogitationes. (iiia) Un passo ulteriore - che viene compiuto in modo esplicito e consapevole solo nelle lezioni del 1907 sull'Zdee der Phänomenologie256 - consiste nell'approfondimento del nesso fra il modo di datità delle cogitationes e l'apoditticità da un lato, e la conoscenza naturalistica e la dubitabilità dal­ l'altro. Ciò che in Descartes distingueva il cogito dalla cono­ scenza dei sensi e determinava la sua apoditticità era il fatto che esso adeguava perfettamente - era anzi il modello - del principio di chiarezza e distinzione, mentre la conoscenza dei sensi era oscura. Husserl risolve il problema del perché la sfera delle cogitationes sia, a differenza di quella degli og­ getti della conoscenza naturalistica, una sfera di datità asso­ lute, introducendo la distinzione fra immanenza e trascen­ denza:

Se guardiamo più da vicino che cosa vi sia di così enigmatico e che cosa ci trascini nell'imbarazzo entro le prime riflessioni sulla possibilità della conoscenza, vediamo che tutto questo è la sua trascendenza. Ogni conoscenza naturalistica, quella pre­ scientifica e ancor più quella scientifica, è conoscenza obictti­ vante in senso trascendente; essa pone oggetti come esistenti, solleva la pretesa di cogliere conoscitivamente stati di cose che 255 HU II p. 33; tr. it. p. 69. 256 HU II pp. 34-35; tr. it. pp. 71-72.

210 in essa non sono «dati in senso vero e proprio», che non le sono «immanenti».257

Le cogitationes, al contrario, sono immanenti alla conoscenza delle cogitationes stesse; e questa immanenza ne fa delle datità assolute. Ma cosa significa che esse sono immanenti, e per­ ché la conoscenza immanente è «libera da queU'enigmaticità che è la sorgente di tutti gli imbarazzi scettici»258 ? Ora, la ri­ sposta a questa domanda è ambigua, come ambiguo è il con­ cetto husserliano di immanenza. In generale si sovrappongono in esso l'idea di immanenza come «vicinanza», come «esser contenuto» dell'oggetto della conoscenza nella conoscenza dell'oggetto - l'immanenza reale (reell) - e l'idea, apparentata a quella cartesiana della chiarezza e distinzione259 , dell'imma­ nenza come autodatità adeguata: l'immanenza pura.260 Ciò che assegna alle cogitationes il carattere dell'indubitabilità è pro­ priamente il fatto che esse sono autodatità adeguate. Quindi, ciò che fa sì che l'immanenza reale (reell) escluda il dubbio scettico è il fatto che essa rappresenta un caso particolare di immanenza pura: «L'immanenza reale (reell) vale come in­ dubitabile proprio perché non rappresenta niente d'altro, non «intende» nulla «oltre» a sé, poiché qui ciò che è inteso è an­ che dato (selbstgegeben) in senso pieno ed in modo del tutto adeguato.»261 (iv) L'ultima «ondata» consiste nell'esercizio della riduzione fenomenologica vera e propria, la quale apre l'accesso alla co­ noscenza pura, dischiudendo un campo di datità assolute che non racchiudono più alcuna trascendenza.262 Fra le due serie di lezioni si riscontrano, in quest'ultimo tratto, delle differenze di fondamentale importanza. Nelle lezioni del 1906/7, dove la distinzione fra immanenza reale (reell) ed immanenza pura non è ancora effettuata, il campo dischiuso dalla riduzione sembra ancora - almeno nella prima parte delle lezioni ed a li­ vello di autoconsapevolezza metodologica - limitato all'im257 258 259 260 261 262

HU npp. 34-35; tr. it. p. 71. HU II p. 33; tr. it. p. 70. Cfr. HU II p. 49; tr. it. p. 82. Cfr. HU II p. 5; tr. it. pp. 45-46 e pp. 35-36; tr. it. p. 72. HU II p. 5; tr. it. pp. 45-46. Cfr. HU XXIV pp. 211-216; HU II pp. 43-46; tr. it. pp. 76-79.

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manenza reale (reell).263 Questo significa che, nell'effettuare la riduzione, Husserl tende ad accentuare il suo carattere negati­ vo (e cioè Y epoché)264, per cui essa tende ad apparire esclusi­ vamente come un modo per escludere, separare, mettere fra parentesi le trascendenze, e ciò a cui essa apre l'accesso assu­ me il carattere di residuo, di ciò che «bleibt übrig», come Husserl dirà, malauguratamente, anche nelle Ideen I.265 Nelle lezioni del 1907, invece, il campo dell'indagine feno­ menologica viene esteso, con molta più decisione che non nella prima serie di lezioni, anche all'immanenza intenziona­ le.266 Di conseguenza, il lato positivo della riduzione (la ridu­ zione vera e propria, resa possibile da)Yepoché) è più accen­ tuato. Qui si comincia ad intravedere come Yepoché non abbia semplicemente lo scopo di escludere le trascendenze, ma ab­ bia anche lo scopo positivo di far apparire la coscienza pura; e, correlativamente, si comincia ad intravedere come quest'ul­ tima non sia semplicemente «ciò che resta» dopo Yepoché, ma rappresenti un campo di fenomeni peculiari che soltanto Yepo­ ché, in quanto riduzione, permette di dischiudere: il campo in cui appare la correlazione fra gli Erlebnisse conoscitivi ed i loro oggetti intenzionali. Così il nesso fra Yepoché ed il compito positivo-fenomenologico della teoria della conoscen­ za acquista un nuovo, più profondo senso, un senso conforme a quello che Husserl renderà esplicito nella Krisis: Yepoché è il mezzo della teoria della conoscenza, non più perché (o solo perché) essa, come il dubbio in Descartes, permette di indivi­ duare un ambito di conoscenze apodittiche, ma perché di­ schiudendo il campo della coscienza pura rende possibile l'in­ dagine sulla correlazione fra gli Erlebnisse conoscitivi ed i lo­ 263 «Tutti i nostri giudizi sulla trascendenza devono avere l'esclusiva funzione di oggetti della nostra ricerca e non di premesse. Quindi alla sfe­ ra dei fenomeni nel senso della fenomenologia appartiene ogni percezio­ ne attuale, ogni giudizio attuale, esso stesso così com'è, ma non vi appar­ tiene nulla di ciò che in esso è percepito, giudicato, posto in senso tra­ scendente o implicitamente posto insieme ad esso.» (HU XXIV p. 214). Nel § 38 (HU XXIV p. 230) Husserl estende comunque il campo di ricer­ ca fenomenologico al di là dell'immanenza reale (reell). 264 Cfr. Melle [1984] p. XXXIX. 266 Cfr. HU XXIV p. 213; Ideen I § 33 HU m/1 p. 66; tr. it. p. 68. 266 Cfr.HUnp. 55; tr.it. p. 86.

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ro oggetti intenzionali e, quindi, il chiarimento del senso ulti­ mo della conoscenza e delle sue pretese di validità.

Cerchiamo ora di individuare almeno alcune delle oscurità che gravano su questa primitiva introduzione dell'idea di ri­ duzione. Se la nostra ricostruzione è corretta, la connessione fra le varie «ondate» in cui avviene tale introduzione dovrebbe esser questa: la prima espone i fini generali, e cioè il duplice compito della teoria della conoscenza; la seconda illustra il mezzo formalmente necessario allo svolgimento di quel compito (Xepoche)-, la terza chiarisce il nesso fra questo mezzo ed i fini di cui costituisce il mezzo; la quarta lo reintroduce, tenendo questa volta presente la sua connessione con i fini (la riduzione vera e propria). Ora, l'intera esposizione è attraver­ sata da un'unica, fondamentale ambiguità. Vediamo. (i) Il primo punto oscuro riguarda il rapporto fra i due lati della teoria della conoscenza, quello critico-negativo, nel quale si raccoglie l'eredità dei Prolegomena, e quello positivofenomenologico. Non si capisce, in particolare, se il lato criti­ co-negativo abbia oppure no una funzione distinta da quello positivo. Se infatti, come Husserl afferma, la confusione che insorge quando si passa dall'atteggiamento conoscitivo natu­ ralistico alla riflessione sulla conoscenza non intacca in alcun modo le pretese di validità della conoscenza, allora lo scettici­ smo non deve in alcun modo venir confutato, ma deve sempli­ cemente venir disperso. In questo caso il lato negativo della critica della conoscenza costituisce semplicemente la prima fase del chiarimento fenomenologico della possibilità della conoscenza e viene dunque riassorbito in quello positivo. È tuttavia innegabile che Husserl sembra affermare che lo scet­ ticismo debba venir confutato con l'argomento formale dell'autocontraddittorietà267 e di fatto, nelle lezioni del 1906/7, egli applica quest'argomento contro lo psicologismo in particolare e lo scetticismo in generale.268 Questo significa che egli rico­ nosce che, almeno in una certa misura, il dubbio scettico può scuotere le pretese di validità della conoscenza e che queste pretese non sono di per sé un argomento contro quel dubbio, 267 HUIIp. 22; tr. it. p.61. 268 HUXXIVpp. 147-148.

213 ma vanno in qualche modo difese da esso. Quest'ambiguità, per cui da un lato sembra che lo scettici­ smo debba venir confutato con l'argomento formale e, dall'al­ tro, che esso debba venir semplicemente disperso è solidale con l'ambiguità fondamentale della critica della conoscenza (e della filosofia fenomenologica). Per un verso essa assume che lo scetticismo non debba neppure venir criticato, perché esso non rappresenta che un'ombra, portata dalla riflessione, che il chiarimento del senso della conoscenza disperde nel nulla. Con quest'assunzione la critica della conoscenza si risolve in­ teramente in fenomenologia, ancorandosi alla fiducia nella validità della conoscenza dell'atteggiamento naturalistico. La conoscenza naturalistica ha certo bisogno di un chiarimento, ma non viene in alcun modo sottoposta a critica dalla teoria della conoscenza, la quale si limita a perfezionarla chiarendo­ ne le pretese, che non vengono comunque poste in discussio­ ne. Per questo verso, l'unico vero argomento che essa fa valere contro lo scettico è che egli non può esistere. Nell'atteggia­ mento naturalistico, infatti, anche lo scettico assume come va­ lide quelle pretese della conoscenza che egli si ostina a nega­ re, a parole, nella riflessione: I sofisti come uomini viventi, che agiscono razionalmente nel seno della realtà attuale, che sono rivolti ad essa, che si pongono dei fini e perseguono razionalmente questi fini, i sofisti viventi intendo, credevano come gli altri uomini alla differenza fra ra­ gione e non ragione, fra conoscenza ed errore. Confidavano nei calcoli aritmetici, confidavano nelle previsioni pratiche razio­ nali che traggono il loro diritto dalla percezione e dall'esperien­ za. Le loro teorie contraddicevano le loro convinzioni viventi, e in questo è già in certo modo implicito che queste teorie non potevano davvero avere la funzione, o perlomeno non avrebbero dovuto avere la funzione, di esprimere ciò che diceva il suono delle loro parole.269

Per altro verso, in quanto, cioè, pretende di confutare lo scetticismo, la critica della conoscenza lo prende molto più sul serio: lo scetticismo può davvero intaccare le pretese della co­ noscenza naturalistica. Ma allora la conoscenza naturalistica 269 HU XXIV p. 181. (Corsivo C.S.).

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diviene un che di criticabile. Di conseguenza la critica della conoscenza non può più limitarsi a perfezionarla chiarendone il senso e la possibilità, ma deve fondarla e, per farlo, deve insistere sulla propria differenza rispetto a quella, sulla propria indubitabilità ed inattaccabilità da parte dello scetticismo. Con questo finisce per sacrificare allo scetticismo proprio quel che vorrebbe mettere al riparo da esso. (ii) La stessa ambiguità, che si riscontra nella definizione del lato negativo del rapporto fra critica della conoscenza e scet­ ticismo, riappare nella delineazione del lato positivo, di inveramento, di questo rapporto. Per descriverlo Husserl spacca la figura dello scetticismo in due parti, una positiva (f epoche), che viene assorbita dalla critica della conoscenza, ed una ne­ gativa (la negazione della possibilità della conoscenza), che viene invece combattuta. Ma di queste due parti della figura dello scetticismo non si intravede con precisione la connes­ sione. Nelle lezioni del 1906/7270 - dove la distinzione fra la due parti, negativa e positiva, dello scetticismo si presenta come distinzione fra scepsi dogmatica e scepsi critica - questo stato di cose è particolarmente evidente. La prima forma di scepsi è una teoria che nega la possibilità della conoscenza; la seconda è un metodo, è l'assunzione di un atteggiamento che consiste nella sospensione del giudizio di fronte alle oscurità del senso e della possibilità della conoscenza. La prima è caratterizzata daH'autocontraddittorietà; la seconda no: essa non è una teoria che neghi (o affermi) qualcosa, ma l'assunzione di una pro­ spettiva che apre la strada al chiarimento della possibilità della conoscenza. Nelle pagine dedicate all'illustrazione di questi due tipi di scepsi, Husserl insiste soprattutto sulla loro differenza - e cioè sulla differenza fra una teoria autocontraddittoria ed un meto­ do critico - così che diviene piuttosto oscuro perché egli parli, nell'uno e nell'altro caso, di scepsi. Qual è, infatti, il nesso positivo fra il metodo àeNL'epoché che Husserl fa proprio e la scepsi come posizione filosofica dogmatica? La risposta hus­ serliana è qui appena accennata, ma va già in una direzione che verrà approfondita dalla Kritische Ideengeschichte (ed in 270 Cfr. HU XXIV pp. 178-188.

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parte anche dalla Krisis). Il rapporto fra la scepsi dogmatica e quella critica - dice Husserl - va pensato teleologicamente: «Nella storia della filosofia, la funzione teleologica di questa scepsi dogmatica la scorgiamo nel fatto che essa prepara la scepsi critica, e cioè quella scepsi che costituisce l'inizio ne­ cessario della teoria della conoscenza e ne definisce il terreno in modo duraturo.»271 Ma questa soluzione non fa - e non farà anche in seguito272 - che spostare il problema. Nella descri­ zione della funzione teleologica della scepsi dogmatica, infat­ ti, Husserl insisterà ora sulla sua funzione negativa, di impe­ dimento, ora sulla sua funzione positiva, senza chiarire il nes­ so fra l'una e l'altra funzione e senza, d'altra parte, poterne la­ sciare cadere nessuna: senza l'obiettivo polemico della scepsi dogmatica la filosofia trascendentale rimarrebbe senza compi­ ti; senza la possibilità di ridurre la scepsi dogmatica a scepsi critica non potrebbe svolgere i compiti che si pone. La scepsi è dunque condannata dalla stessa impostazione filosofica ad oscillare fra Tesser qualcosa ed il non esser nulla. Le indeci­ sioni cominciano già qui: subito dopo aver asserito che la scepsi dogmatica ha una funzione teleologica nella prepara­ zione della scepsi critica, Husserl aggiunge: «In ogni scepsi dogmatica, la scepsi critica è un momento implicito, che però non perviene alla pura chiarezza.» Ma in un'annotazione a margine successiva corregge: «È esagerato».273 (iii) Queste ambiguità esplodono in una vera e propria con­ fusione quando Husserl passa a chiarire il nesso fra l'epoché ed il compito della teoria della conoscenza. Stando alle indi­ cazioni della Krisis, che abbiamo richiamato nel paragrafo precedente, il nesso dovrebbe essere semplicemente questo: l'epoché rende possibile la riduzione - e cioè l'apparire della problematica della correlazione intenzionale - e quindi il chiarimento fenomenologico del senso della conoscenza. Questo nesso, però, non si trova qui, in queste lezioni, delinea­ to in questa forma pura. Si potrebbe anzi affermare che non è delineato quasi per nulla nelle lezioni del 1906/7 e comincia appena a trapelare in quelle del 1907. Questo accade perché 271 HUXXIVp. 180. 272 Cfr. §§3.1 e 3.20. 273 HUXXIVp. 180.

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Husserl è sviato dalla motivazione antiscettica racchiusa nel­ l'idea di teoria della conoscenza (e di filosofia); o, per meglio dire, è sviato dall'ambiguità di quella motivazione. Se lo scet­ ticismo davvero non intaccasse le pretese della conoscenza naturalistica, se davvero esso non rappresentasse, per la teoria della conoscenza, null'altro che un'ombra da disperdere, allora il nesso fra epoché e riduzione potrebbe apparire nella forma che assumerà nella Krisis, perché il compito della teoria della conoscenza si risolverebbe (o perlomeno tenderebbe a risol­ versi) nel suo compito fenomenologico. Ma lo scetticismo come abbiamo visto - ha anche il carattere di ciò che deve venir confutato, e questo fatto è all'origine di una complica­ zione del nesso fra Vepoché ed il compito della teoria della conoscenza e dell'occultamento del nesso che legherà epoché e riduzione nella Krisis. All'idea di riduzione fenomenologica viene infatti sovrapposta l'idea della riduzione apodittica e Vepoché non viene semplicemente intesa come mezzo della ri­ duzione fenomenologica, ma come mezzo della riduzione fe­ nomenologica in quanto apodittica: essa, in altre parole, serve alla teoria della conoscenza in quanto permette di ritagliare, cartesianamente, un ambito di conoscenza apodittica che, a differenza della conoscenza naturalistica, non sia soggetta al dubbio scettico. In questa sovrapposizione viene alla luce l'effetto nefasto dell'ambiguità che percorre le pagine husserliane di cui ci stiamo occupando. Innanzitutto, facendo proprio il motivo cartesiano del rovesciamento del dubbio, la teoria della cono­ scenza entra in contraddizione con se stessa. Promette di chiarire il senso ultimo della conoscenza; effettua, a questo fi­ ne, un'epoché radicale; ma presuppone poi acriticamente un determinato criterio dell'apoditticità - che, come emerge dal­ l'approfondimento (iiia) delle lezioni del 1907, è il criterio dell'evidenza adeguata - per uscire da quell'epoché, all'interno della quale dovrebbe invece rimanere. In secondo luogo essa si preclude da sé la possibilità di svolgere il proprio compito: se per chiarire la possibilità della conoscenza occorre poter prendere le mosse da un ambito di conoscenze apodittiche, e cioè di evidenze adeguate, allora la teoria della conoscenza non può affatto svolgere quel compito, perché un tale ambito non le è dato.

217 La sfera delle cogitationes non è affatto una sfera di datità apodittiche e la riduzione fenomenologica non è affatto, eo ip­ so, riduzione apodittica. Il dubbio scettico che mette in luce le oscurità della conoscenza mondana si riprodurrà, ben presto, anche nei confronti della conoscenza fenomenologica.274

15. L'introduzione dell'idea di riduzione nella Fundamental­ betrachtung delle Ideen I è assai più complicata da descrivere di quella delle lezioni del 1906/7. La complessità - per non di­ re la vera e propria confusione - di questa esposizione è data dal fatto che, da un lato, Husserl è qui pervenuto ad una certa precomprensione dell'idea di filosofia - che in quelle lezioni era ancora assai lacunosa - ed ha ormai raggiunto la piena consapevolezza della necessità di distinguere fra fenomeno­ logia pura e filosofia fenomenologico-trascendentale, fra ri­ duzione fenomenologia e riduzione filosofica vera e propria, ma, d'altro lato, tende ad occultare, o comunque a non mettere in evidenza, questa distinzione. Così la distinzione è operante nelle pagine della Fundamentalbetrachtung, ma il lettore, e soprattutto il lettore che non disponga dei manoscritti prepara­ tori, delle annotazioni e dei tentativi di rifacimento di questa sezione delle Ideen I275 , non se ne avvede facilmente. Questo stato di cose è, a mio avviso, la conseguenza di un contrasto fra «necessità fenomenologica» e «necessità filoso­ fica», che nelle Ideen I si insinua fin nella forma dell'esposi­ zione determinandone la peculiare oscurità. Esso è in altre pa274 Particolarmente esplicito in proposito è il testo n.51 (1909) allegato alle Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (HU X pp. 335-353). Nelle lezioni di cui ci stiamo occupando, Husserl pone in certo modo questo problema, in quanto afferma che la sfera delle cogita­ tiones immanenti non è un vero e proprio campo di fenomeni, ma un flusso eracliteo di fenomeni che non sono certo delle datità adeguate e che non sembrano neppure suscettibili di conoscenza scientifica, ma cre­ de di risolverlo invocando il fatto che la fenomenologia è scienza eideti­ ca, che non si occupa di quei fenomeni nella loro individualità. (HU II pp. 46-51; tr. it. pp. 79-83; cfr. anche HU XXIV pp. 220-228). Solo in segui­ to egli si rende conto del fatto che il dubbio scettico può finire per mette­ re in discussione la sussistenza dello stesso campo d'indagine fenomeno­ logico e l'affermazione che la coscienza è un flusso eracliteo. (Cfr. HU X p. 341 e qui § 3.17). 275 Cfr. HU m/2.

218 role la conseguenza del fatto che una scelta metodologica che dal punto di vista fenomenologico appare assolutamente giustificata ed anzi necessaria - non si rivela perseguibile fino in fondo perché finisce per scontrarsi con la caratteristica fon­ damentale delle Ideen I, che è quella di rappresentare un'intro­ duzione alla filosofia.276 Si tratta della scelta di non presup­ porre alcuna idea determinata di filosofia e di fenomenologia e di non definire in anticipo quali debbano essere i rapporti fra le due scienze.277 Questa scelta è fenomenologicamente neces­ saria. L'epoché da ogni idea predeterminata di filosofia è una diretta conseguenza del «Prinzip aller Prinzipien»’, è la feno­ menologia stessa che, una volta instaurata, deve chiarire la propria idea278 , il proprio nesso con la filosofia e l'idea stessa di filosofia. Tuttavia essa si scontra con una seconda decisione preliminare che orienta l'esposizione delle Ideen I. Se anche Husserl non pregiudica il contenuto dell'idea di filosofia ed il nesso di filosofia e fenomenologia, è pur sempre vero che egli ha almeno una precomprensione formale di quell'idea279280 , e che, a differenza di quanto avviene in alcuni degli abbozzi per la stesura delle Ideen™, tien fermo, sin dalVIntroduzione, che 276 Cfr. Nachwort HU V p. 159; tr. it. p. 934. 277 Cfr. Ideen I § 18, HU m/1 p. 39; tr. it. p. 40: «Nel fissare i nostri fon­ damenti non abbiamo presupposto nulla, nemmeno il concetto di filoso­ fia, e così vogliamo procedere innanzi.» 278 Cfr. Ideen I § 63 HU III/l p. 136; tr. it. pp. 139-140. 279 Cfr. Ideen I, Einleitung HU m/1 p. 8 tr. it. p. 10: l'idea della filosofia è «l'idea di realizzare la conoscenza assoluta». 280 Cfr. l'abbozzo di introduzione del luglio 1912 pubblicato come Beila­ ge 6 in HU in/2 pp. 530-532: quelli che pretendono di dedicarsi ad una ricerca assolutamente priva di pregiudizi «possono convincersi del fatto che non solo condividiamo l’esigenza della più piena libertà da ogni pre­ giudizio, ma anzi la comprendiamo e realizziamo in modo più radicale di ogni precedente positivista. Questo riguarda innanzitutto la nostra posi­ zione su quel che è stato sinora chiamato filosofia e ha preteso di esistere come scienza o come «Weltanschauung». Noi non presupponiamo nessu­ na filosofia e faremmo meglio a non parlare di filosofia. Il nostro unico interesse è quello di presentare la nuova scienza che abbiamo chiamato fenomenologia, abbia essa poco o tanto a che fare con la cosiddetta filo­ sofia. Vogliamo riflettere solo in un secondo momento su ciò che in ge­ nerale, accanto o di contro alle discipline naturalistiche da un lato ed alla fenomenologia dall'altro, può ancora dirsi ed essere filosofia; e vogliamo vedere solo in seguito se dall'edificazione della fenomenologia non di-

219 fra fenomenologia e filosofia debba esserci un nesso e che la fenomenologia rappresenti la «scienza fondamentale» della filosofia.281 L'introduzione alla fenomenologia pura del primo libro delle Ideen è dunque segretamente orientata da que­ st’idea. Il fine di quest'esposizione è filosofico, e la riduzione fenomenologica di cui si parla nella Fundamentalbetrachtung è in realtà una riduzione fenomenologico-trascendentale, an­ che se questo non viene precisato e non viene precisata la di­ stinzione fra riduzione fenomenologico-psicologica e riduzio­ ne fenomenologico-trascendentale.282 Tenendo presente questo fatto - il fatto, cioè, che l'esposi­ zione della riduzione nella Fundamentalbetrachtung è orienta­ ta da un'idea di filosofia che non viene esplicitamente illustra­ ta ed è percorsa da una distinzione (fra riduzione fenomeno­ logica e riduzione filosofica) che non è esplicitamente sottoli­ neata - e confrontando, d'altra parte, quest'esposizione con quella delle lezioni del 1906/7, possiamo tentare di sciogliere alcune delle difficoltà che la Fundamentalbetrachtung sembra opporre agli sforzi ermeneutici. Ora, anche qui, come nelle lezioni, l'introduzione della ri­ duzione avviene in un certo numero di «ondate» che sono fra loro legate da nessi motivazionali. Tuttavia, diversamente da quanto avviene nelle lezioni, questi nessi sono difficilmente visibili, perché qui - come abbiamo appena detto - Husserl non esplicita i fini ultimi, i compiti della filosofia, ed il loro nesso con i compiti fenomenologici, ed occulta così in certo modo la dinamica complessiva di quel processo che è la ridu­ zione. Tuttavia il confronto con le lezioni dovrebbe permet­ terci di ricostruire questi nessi e questa dinamica. (i) Una prima «ondata», esterna alla Fundamentalbetra­ chtung, ripropone la contrapposizione fra atteggiamento natu­ ralistico ed atteggiamento della riflessione, che appare qui come contrapposizione fra scienze dell'atteggiamento dogma­ tico e scienze dell'atteggiamento filosofico:

Da una parte stanno le scienze dell'atteggiamento dogmatico, pendano interessi di dignità conoscitiva più alta, ossia filosofica.» (p. 232). (Corsivo C.S.). 281 Cfr. Ideen I, Einleitung, HU III/l p. 3; tr. it. p. 7. 282 Cfr. HU ni/2 Beilage 81 p. 642.

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rivolte alle cose, incuranti di ogni problematica gnoseologica o scettica. (...) Dall'altra parte stanno le ricerche scientifiche dell'atteggiamento gnoseologico, specificamente filosofico, che trattano i problemi scettici della possibilità del conoscere, li ri­ solvono dapprima nella loro universalità di principio, per poi in applicazione dei risultati raggiunti, trarre le conclusioni nel va­ lutare il senso definitivo e il valore conoscitivo dei risultati delle scienze dogmatiche.283

Con questa contrapposizione Husserl non ripropone esplici­ tamente la delineazione dei compiti della filosofia, e quindi le motivazioni generali per effettuare la riduzione, che esplicita­ va invece nelle lezioni. A questi compiti accenna solo alla fine della Fundamentalbetrachtung, dove chiarisce ulteriormente il rapporto fra scienze dell'atteggiamento dogmatico e scienze dell'atteggiamento fenomenologico, anticipando quelle previ­ ste «trattazioni future» sull'idea di filosofia284285 , annunciate nell'Introduzione al primo volume, come terzo libro delle Ideen.™ Tuttavia un'idea generale di questi compiti - l'idea 1. che le scienze dell'atteggiamento dogmatico abbiano bisogno di una critica, la quale, da un lato, le metta definitivamente al riparo dagli attacchi scettici e, dall'altro, ne chiarisca fino in fondo il senso e le pretese di validità; e 2. che la filosofia fe­ nomenologica sia questa critica - è implicita nella contrappo­ sizione fra atteggiamento dogmatico ed atteggiamento filoso­ fico, e percorre più o meno sotterraneamente le «ondate» suc­ cessive. Fra la prima «ondata» e le successive c'è però un vero e pro­ prio salto. L'introduzione dell’epoché e della riduzione nei primi tre capitoli della Fundamentalbetrachtung non viene almeno «ufficialmente» - riportata ai compiti filosofici cui Husserl accenna nell'ultimo paragrafo della sezione preceden­ te. Tutto ciò che questi capitoli sembrano voler mostrare è 1. la possibilità formale dell’epoché (seconda «ondata») e 2. la sua funzione per la scienza fenomenologica della coscienza pura (terza «ondata»). L'epoché/nduzione viene dunque intro­

283 Ideen I § 26 HU III/l p. 54; tr. it. pp. 53-54. 284 Cfr. Ideen I § 62 HU III/l p. 134; tr. it. p. 135. 285 Ideen I, Einleitung, HU III/l pp. 7-8; tr. it. p. 10.

221 dotta come mezzo della realizzazione dei compiti fenomeno­ logici. D'altra parte, però, nel delineare la funzione dell’epoché per la scienza fenomenologica, Husserl si fa palesemente gui­ dare dall'idea di una scienza filosofica apodittica e non si ac­ contenta di mostrare come l'epoché sia il mezzo per far appari­ re la coscienza pura, e cioè il campo delle correlazioni inten­ zionali da indagare fenomenologicamente, ma tende a presen­ tare questo campo come un terreno d'essere assoluto. Vedia­ mo. (ii) Nella seconda «ondata», che percorre i paragrafi 27-32, viene innanzitutto descritto l'atteggiamento naturalistico e viene poi introdotta l'epoché, che viene qui considerata esclu­ sivamente nel suo lato formale-negativo di messa fra parente­ si, di sospensione della «Generalthesis» dell'atteggiamento naturalistico. Vtell'epoché si indaga, qui, la possibilità formale, la quale non si fonda su altro che sulla libertà di attuarla. Il paragone con Descartes viene introdotto già in questa se­ conda fase. La funzione di questo paragone non è tuttavia del tutto chiara. Da un lato, sembra che il dubbio universale car­ tesiano venga ricordato solo come un esempio di uso della li­ bertà simile a quello tell'epoché.™ Dall'altro, esso serve ad Husserl per marcare la differenza àell'epoché, come semplice astenersi dal giudizio, rispetto al dubbio vero e proprio.286 287 In generale, l'insistenza sulla differenza rispetto a Descartes si spinge tanto in là, che Husserl giunge a rinnegare l'uso del dubbio per far emergere una sfera d'essere apodittica, che egli aveva in qualche modo fatto proprio nelle lezioni del 1906/7288: «Un simile procedimento sempre possibile è, ad esempio, il tentativo di dubbio universale che Descartes intra­ 286 Cfr. Ideen I § 31 HU III/l p. 62; tr. it. p. 63. 287 Cfr. Ideen I § 31 HU III/l p. 64; tr. it. p. 64. 288 Cfr. § 3.14. Nelle lezioni del 1906/7, Husserl rimproverava a Descar­ tes di aver utilizzato il metodo del dubbio per far emergere il cogito come fondamento di tutto il sapere, dal qual procedere con metodo deduttivo alla costruzione di una «matematica univerale» che comprendesse l'intera conoscenza valida, ma ammetteva la legittimità di usare il dubbio per fame scaturire una sfera di conoscenze assolutamente certe: «Non vo­ gliamo negare la fecondità per la teoria della conoscenza del metodo consistente nel negare ogni conoscenza per far emergere per contrasto quella conoscenza che, per la sua particolare natura, fa apparire ogni dubbio come un manifesto controsenso.» (HU XXIV p. 189).

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prese per uno scopo del tutto diverso dal nostro, cioè in vista della fissazione di una sfera dell'essere totalmente esente dal dubbio.»239 Frasi come queste sono indice dell'onnipervasiva ambiguità di quest'esposizione. Se infatti Vepoché viene intro­ dotta semplicemente per scopi fenomenologici, per rendere cioè possibile la riduzione fenomenologica, allora è vero che il fine per il quale Descartes introduce il dubbio - il fine, cioè, di ritagliare una sfera d'essere assolutamente certa - è compietamente diverso da quello cui è volta Vepoché. Ma se, come ac­ cadeva nelle lezioni289 290 e come, in una certa misura, accade an­ cora nelle Ideen, all'idea della riduzione fenomenologica viene sovrapposta quella della riduzione apodittica e la riduzione viene presentata come via d'accesso ad una sfera d'essere asso­ luta, allora Vepoché non ha, in ultima analisi, una funzione di­ versa da quella del dubbio cartesiano. (iii) La terza «ondata», che comprende sostanzialmente l'in­ tero secondo capitolo, è la più problematica. Gli interpreti non sono neppure d'accordo sulla funzione generale che essa as­ solve all'intemo della Fundamentalbetrachtung. Robert Soko­ lowski, ad esempio, ritiene che esso abbia la funzione di mo­ strare «la possibilità di eseguire la riduzione fenomenologica, di considerare la soggettività come un campo di ricerca che può venir isolato dalla realtà fattuale».291 Per questo sostiene che la frase con cui si apre il capitolo292293 vada tradotta in que­ sto modo: «We have learned to understand the sense of phe­ nomenological epoché, but by no means the possibility of performing it»', e critica la traduzione francese di Paul Rico­ eur, che interpreta così l'enunciato: «Nous avons appris à en­ tendre ce que signifie l'époché phénoménologique, mais non les services qu'elle peut rendre.»292 Antonio Aguirre, invece, 289 Ideen I § 31 HU m/1 p. 62; tr. it. p. 63. (Corsivo C.S.). 290 Cfr. § 3.14. 291 Sokolowski [1964] p. 122. 292 «Den Sinn der phänomenologischen Epoché haben wir verstehen ge­ lernt, keineswegs aber ihre mögliche Leistung.» (§ 33 HU m/1 p. 66; tr. it. p. 68). (Corsivo C.S.). 293 Cfr. Sokolowski [1965] p. 122 n.l. La traduzione italiana è conforme a quella proposta da Sokolowski: «Abbiamo appreso il senso della epo­ ché fenomenologica, ma non sappiamo ancora nulla sulla sua possibile attuazione.» (p. 68).

223 ritiene che la possibilità dell'epoché sia stata mostrata nel pri­ mo capitolo: precondizione dell'epoché è solo la libertà di at­ tuarla.294 La critica dell'esperienza mondana del secondo capi­ tolo - che conduce alla consapevolezza della dipendenza del mondo dalla «Sinngebung» della soggettività - avrebbe invece la funzione di motivarla, di mostrarne la necessità, di mostra­ re, cioè, come essa sia «l'«operazione metodologica assolutamente necessaria», di cui la filosofia ha necessariamente biso­ gno per potersi costituire come scienza assoluta».295 Questa oscillazione fra una interpretazione per la quale il se­ condo capitolo avrebbe la funzione di mostrare da un lato la possibilità, dall'altro la necessità della riduzione, non è certo casuale. Essa non è che una conseguenza dell'ambiguità che percorre l'intera Fundamentalbetrachtung, ambiguità che, co­ me abbiamo accennato, consiste nel fatto che l'introduzione della riduzione, che sembra avvenire ai semplici fini fenome­ nologici, è oscuramente orientata da fini filosofici. Se si tiene presente questa ambiguità, si comprende come sia Aguirre sia Sokolowski abbiano dalla propria parte alcune ragioni, anche se non tutte. Aguirre ha certamente ragione nel ritenere che la possibilità formale dell'epoché sia stata garantita dal primo capitolo, invocando la semplice libertà di effettuarla. Questo tuttavia non significa che sia pienamente corretta la seconda parte della sua tesi, secondo la quale la funzione del secondo capitolo sarebbe solo quella, o sarebbe principalmente quella di mostrare la necessità dell’epoché per la realizzazione della filosofia. Quest'idea è certo operante in questo capitolo, ma piuttosto sotterraneamente. In primo piano appare invece, co­ me ritiene Sokolowski, l'idea di chiarire la possibilità della ri­ duzione, la quale è tuttavia distinta dalla possibilità formale dell’epoché. Fra la necessità filosofica e la possibilità formale, infatti, c'è ancora un terzo termine: la possibilità ( = necessità ) fenomenologica. Il problema di Husserl nel secondo capitolo della Fundamentalbetrachtung non è quello, o non è princi­ palmente quello, di trasformare la possibilità formale in ne­ cessità filosofica, ma di dare a quella possibilità un senso fe­ nomenologico, di trasformare, cioè, la possibilità oscura del­ 294 Aguirre [1971] p. 38. 295 Aguirre [1971] p. 40.

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l'epoché in possibilità fenomenologica della riduzione, o, co­ me si potrebbe anche dire, di portare il senso oscuro dell'epoché al suo telos". la riduzione fenomenologica vera e propria, l'apparire della coscienza pura e dei suoi correlati intenzionali. Purtroppo, però, Husserl si esprime - come ammetterà egli stesso296 - in modo piuttosto equivoco: parla della coscienza pura come di un «residuo» e della sua «separabilità» dalla sfe­ ra mondana.297 Così può sembrare, come Sokolowski sembra ritenere, che egli stia di nuovo indagando sulla possibilità formale di operare un taglio fra due tipi di realtà dati ed ugualmente accessibili, anziché sulla possibilità di assegnare àll'epoché di una certa regione dell'essere (il mondo), di per sé formalmente possibile, il senso di mezzo per far apparire una nuova regione dell'essere (la soggettività pura), altrimenti na­ scosta. Una riprova della nostra tesi, secondo la quale l'oscillazione fra l'idea che il secondo capitolo abbia la funzione di mostrare la necessità filosofica della riduzione e l'idea che esso serva invece a mostrarne la possibilità fenomenologica è una conse­ guenza dell'ambiguità strutturale della Fundamentalbetra­ chtung, è data dal fatto che quell'oscillazione si insinua nei tentativi di autocomprensione di Husserl stesso. Fra le Beila­ gen alle Ideen I raccolte da Schumann, si trovano alcuni brevi testi (del 1925, 1927 e 1928)298 in cui Husserl tenta di conden­ sare il «Gedankengang» del capitolo in questione, che attesta­ no chiaramente questo fatto e che potranno, d'altra parte, aiu­ tarci a proseguire l'interpretazione di questa «ondata» dell'in­ troduzione dell'idea di riduzione, tenendo distinti i suoi due lati: quello fenomenologico e quello filosofico, che s'intreccia surrettiziamente col primo. Nella Beilage 76 (1925), Husserl afferma che l'epoché intro­ dotta nella Fundamentalbetrachtung è l'operazione metodo­ logicamente necessaria per rendere accessibile la «soggettività pura», la quale rappresenta «da un lato una regione dell'essere di nuovo tipo, che non è mai stata scorta in modo puro e colta 296 Cfr. HU III/2 p. 633. Cfr. anche HU VHI p. 432. 297 Cfr. Ideen I § 33 HU m/1 p. 66; tr. it. p. 67 e § 46 HU m/1 p. 99; tr. it. p. 102. 298 Cfr. HU ni/2 Beilagen 76-78 pp. 627-640.

225 e descritta nella sua unità universale; dall'altro la regione del­ l'essere assoluta, che porta in sé, in modi da definire, ogni immaginabile regione dell'essere.»299 Ora, mostrare che l'epoché è il mezzo per rendere accessibile la «soggettività pura» intesa nel primo senso - intesa, cioè, semplicemente come nuova regione dell'essere - significa chiarire la possibilità della riduzione fenomenologica e deH'atteggiamento fenome­ nologico.300 Mostrare, invece, che Yepoché apre l'accesso alla «soggettività pura» intesa nel secondo senso - intesa, cioè, come regione dell'essere assoluta, che «porta in sé» ogni altra regione dell'essere - equivale a dimostrare la necessità filoso­ fica della riduzione. I due compiti sono connessi (il secondo presuppone il primo), ma anche distinti (il primo è disgiun­ gibile dal secondo). Ciò che li distingue è essenzialmente il fatto che il secondo (a differenza del primo) implica necessa­ riamente la posizione dell'idealismo trascendentale: quella posizione, cioè, per la quale si capovolge il rapporto comune fra l'essere del mondo e l'essere della coscienza ed il mondo appare come mero correlato intenzionale della coscienza del mondo.301 Che il primo compito possa venir disgiunto dal secondo lo mostra la Beilage 78 (1928), nella quale Husserl tenta di ridur­ re il «Gedankengang» del secondo capitolo della Fundamen­ talbetrachtung allo svolgimento del primo compito (fenomenologico), escludendo da esso la presa di posizione filosofica a favore dell'idealismo trascendentale, che è implici­ ta nel secondo e che viene di fatto effettuata nelle Ideen I.302 Quando le si consideri da questo punto di vista, le analisi delle strutture generali della soggettività del secondo capitolo 1. non appaiono condotte - a differenza di quanto Husserl affer­ ma all'inizio del § 34303 - nell'atteggiamento naturalistico, ma in un atteggiamento che passa gradualmente da quello quasinaturalistico proprio della psicologia intenzionale (come veni­ va praticata nelle L.U.) a quello della psicologia fenomenolo­ gica o fenomenologia pura; e 2. esse non hanno la funzione di 299 300 301 302 303

HU m/2 p. 628. (Corsivo C.S.). Cfr. Ideen I § 33 HU III/l p. 68; tr. it. pp. 68-69. Cfr. Ideen I §§ 49-50 HU m/1 pp. 103-107; tr. it. pp. 106-110. Cfr. HU III/2 p. 636. Cfr. HU III/l p. 69; tr. it. p. 72.

226 motivare il mutamento di atteggiamento implicito nella ridu­ zione, bensì di mostrarne la possibilità effettuandolo. D'altra parte, sebbene queste analisi, che producono gra­ dualmente la trasformazione dell'atteggiamento naturalistico nell'atteggiamento fenomenologico, non implichino la svolta copernicana dell'idealismo trascendentale, esse la preparano, si trovano - come dice Husserl - sulla via che conduce ad es­ sa.304 Come chiariranno le CM, se quelle analisi venissero proseguite universalmente, sino ad esplicare l'intero contenuto della coscienza, esse diverrebbero eo ipso la prova e la realiz­ zazione dell'idealismo trascendentale.305 Il primo compito (fenomenologico) può dunque venir disgiunto dal secondo (filosofico), ma gli si ricongiunge nella lontananza della sua completa esecuzione: il completo chiarimento fenomenologico della possibilità della riduzione coincide con l'idealismo tra­ scendentale, e cioè con la dimostrazione della sua necessità filosofica. Nelle Ideen I, tuttavia, il rapporto fra i due compiti non è prospettato in questi termini, ma appare invece contrassegnato dalla consueta ambiguità. Se Husserl tenesse ferma la scelta metodologica di rimandare il chiarimento dell'idea di filosofia e davvero non presupponesse alcun concetto predeterminato di filosofia né disponesse di una precomprensione del nesso fra filosofia e fenomenologia, allora il suo compito in questo capitolo della Fundamentalbetrachtung sarebbe semplicemen­ te quello di mostrare la possibilità della riduzione in quanto via d'accesso ad una nuova regione dell'essere, ed egli non avrebbe alcun bisogno di prendere posizione per l'idealismo trascendentale. Il problema del nesso fra la possibilità feno­ menologica della riduzione e la sua necessità filosofica non si porrebbe neppure. Al contrario, come abbiamo visto, quella presa di posizione avviene e questo fatto trasforma il senso delle analisi fenome­ nologiche del secondo capitolo. L'idealismo trascendentale non è certo provato e realizzato da quelle poche analisi. Fra la breve illustrazione delle strutture generali della soggettività, dei suoi modi di datità e del suo modo d’essere, e, d’altra parte, 304 Cfr. HU m/2 p. 636. 305 Cfr. CM § 41 HU I p. 118; tr. it. p. 109.

227 la svolta copernicana dell'idealismo trascendentale effettuata nel terzo capitolo, c'è in realtà un vero e proprio salto. Tutta­ via Husserl presenta questa svolta come una conseguenza di quelle analisi, tacendo (o meglio: occultando) il baratro che le separa e che non potrebbe, a rigore, venir colmato che dall'in­ tera fenomenologia, dalla completa esplicazione della sogget­ tività pura. Questo fatto assegna a quelle analisi un significato che esse di per sé, in quanto chiarimento della possibilità della riduzione fenomenologica, non hanno: in quanto preparazione della tesi dell'idealismo trascendentale, esse divengono - co­ me sostiene Aguirre - l'illustrazione della necessità della ri­ duzione, intesa non più come semplice riduzione fenomeno­ logica, bensì come riduzione filosofico-trascendentale, che apre l'accesso alla soggettività assoluta, la quale «porta in sé» ogni altra regione dell'essere e costituisce, per questo, il cam­ po d'indagine di quella scienza assoluta che è la filosofia tra­ scendentale. Esse assumono cioè, come Husserl dichiara nella Beilage 77 (1927), il senso di motivazioni della riduzione filo­ sofica, attraverso le quali la tesi fondamentale dell'idealismo «che il mondo è per noi solo come mondo dell'esperienza, come mondo che è mondo della coscienza», che formulata nell'atteggiamento naturalistico è una tesi scettica, viene porta­ ta ad un primo livello di purificazione fenomenologica, al fine di motivare la riduzione filosofica vera e propria, e quindi il radicale rivolgimento dell'atteggiamento naturalistico in at­ teggiamento filosofico-fenomenologico.306 Con questo il contenuto del secondo capitolo della Fundamentalbetrachtung riceve, a ritroso, la connotazione di critica (scetticheggiante) dell'esperienza mondana, che di per sé, in quanto illustrazione delle strutture della soggettività e della possibilità della ridu­ zione fenomenologica, non avrebbe. Se tiriamo le somme di queste considerazioni generali sul senso di questa terza «ondata», possiamo dunque concluderne che essa assolve un duplice compito. Da un lato, operando una graduale modifica deH'atteggiamento della psicologia inten­ zionale nell'atteggiamento fenomenologico, mostra la possi­ bilità della riduzione fenomenologica, e cioè mostra come Vepoché apra l'accesso ad un nuovo campo di fenomeni, 306 Cfr. HU m/2 p. 630.

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quello della soggettività pura, che è il campo delle correla­ zioni intenzionali della coscienza e dei suoi oggetti e che si ri­ vela indagabile fenomenologicamente. Dall'altro mostra la ne­ cessità di quel rivolgimento radicale dell'atteggiamento che è la riduzione filosofica, in quanto quel nuovo campo che l'epor ché dischiude appare come una sfera d'essere assoluta che «porta in sé» tutte le altre sfere d'essere. Fra quella possibilità e questa necessità - abbiamo detto - c'è un vero e proprio ba­ ratro. Tuttavia Husserl presenta l'idealismo trascendentale e quindi la necessità della riduzione filosofica come un'impli­ cazione delle analisi che ne mostrano la possibilità fenomeno­ logica. Ci resta dunque da chiarire come egli colmi il baratro che li separa. Innanzitutto è bene osservare che Husserl stesso ammette che quel baratro non viene interamente colmato, non solo nelle Beilagen ma anche nel testo originario delle Ideen I. Alla fine del § 55, afferma che la tesi generale dell'idealismo tra­ scendentale deve venir ulteriormente chiarita e che è necessa­ rio riempire quelle che, con un eufemismo, chiama «le lacune lasciate aperte». Si giustifica però sottolineando che il fine della Fundamentalbetrachtung non è quello filosofico di fon­ dare l'idealismo trascendentale, ma quello di mostrare la pos­ sibilità della riduzione fenomenologica. 307 Quest'ammissione, tuttavia, non cancella il fatto che il salto fra il chiarimento della possibilità della riduzione fenomeno­ logica e la posizione filosofica dell'idealismo trascendentale sembrasse, ad Husserl, assai meno difficoltoso nel momento in cui scriveva le Ideen I che non in seguito, e che la riduzione fenomenologica gli sembrasse, allora, aprire eo ipso la strada ad una coscienza assoluta; o se si vuole, utilizzando i termini 307 «Ma è da notare che il nostro scopo non era quello di dare una teoria esauriente di questa costituzione trascendentale e quindi di delineare una nuova «teoria della conoscenza» riguardo alle sfere di realtà, bensì solo quello di chiarire alcuni pensieri generali, che possono essere utili per il conseguimento dell'idea della coscienza trascendentalmente pura. L'es­ senziale per noi è l'evidenza che la riduzione fenomenologica come neu­ tralizzazione dell'atteggiamento naturalistico (e della sua tesi generale) è possibile, e che dopo il suo compimento rimane quale residuo, al quale è assurdo attribuire un carattere di realtà, la coscienza assoluta o coscienza trascendentalmente pura.» (HU III/l p. 121; tr. it. p. 124). (Corsivo C.S.).

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introdotti dalla Erste Phil.ll™, quest'ammissione non cancella il fatto che, nelle Ideen I, la riduzione fenomenologica gli ap­ parisse di per sé riduzione apodittica. Perché? La risposta va cercata nel confronto con Descartes. Nelle lezioni del 1906/7 e del 1907 Husserl sovrapponeva all'idea della riduzione fenomenologica l'idea della riduzione apodittica, in quanto interpretava cartesianamente la riduzione come un metodo per ritagliare un ambito di conoscenze apo­ dittiche, una ambito di conoscenze che - a differenza della conoscenza mondana che veniva messa fra parentesi con Vepoché - non fossero soggette al dubbio scettico. Nelle Ideen I, respingendo l'idea cartesiana di utilizzare il dubbio per in­ dividuare, per contrasto, una sfera d'essere assolutamente in­ dubitabile, sembra essersi allontanato da questo modo di in­ tendere Vepoché'. qui tende a presentarla esclusivamente come un mezzo della riduzione fenomenologica. Tuttavia, nella mi­ sura in cui la riduzione fenomenologica viene ancora interpre­ tata come riduzione di per sé apodittica, quel modo di proce­ dere cartesiano finisce per reinsinuarsi nel «Gedankengang» della Fundamentalbetrachtung. La sfera d'essere della co­ scienza pura appare come una sfera d'essere assoluta per con­ trasto con la sfera d'essere mondana. Cerchiamo di compren­ dere come questo avvenga. Dopo aver illustrato in generale la struttura dell'intenzionali­ tà308 309 , Husserl introduce la distinzione fra atti con riferimento intenzionale immanente (riflessioni) ed atti con riferimento intenzionale trascendente. A differenza di quanto avveniva nelle lezioni del 1907, Husserl non distingue qui esplicitamen­ te i due significati che si congiungono nel suo concetto di im­ manenza: immanenza come «esser contenuto» dell'oggetto nell'atto di cui è l'oggetto (il cui culmine è l'immanenza reale (reell)') ed immanenza come datità adeguata. Nella definizione che nel § 38 egli dà di immanenza - che non si riferisce più ai singoli Erlebnisse bensì all'intero flusso degli Erlebnisse sembra comunque preponderante la prima idea: Erlebnisse immanenti sono quelli i cui oggetti intenzionali appartengono

308 Cfr. § 3.13. 309 Ideen I §§ 36-37 HU III/l pp. 73-77; tr. it. pp. 76-80.

230 al loro stesso flusso di Erlebnisse.310 Comunque, nel prosie­ guo, egli scivolerà progressivamente anche nel secondo signi­ ficato del termine. Il seguito consiste in un approfondimento della differenza fra i due tipi di Erlebnisse - quelli immanenti e quelli trascen­ denti - a partire da un confronto dei modi di datità dei loro oggetti - la coscienza da un lato, la realtà mondana dall'altro che si trasforma progressivamente nella differenza ontologica fra i due tipi d'essere - la coscienza ed il mondo, appunto dati in quegli Erlebnisse. Questo modo di procedere è, in ge­ nerale, assolutamente legittimo ed anzi necessario. Esso è una diretta applicazione della trasformazione ontologica del con­ cetto di evidenza, correlativa alla trasformazione fenomeno­ logica del concetto di verità, operata dalla L.U.: da un punto di vista fenomenologico, l'unico modo per confrontare fra loro vari tipi d'essere ed individuarne le differenze consiste nel confrontare i loro modi di datità. Tuttavia, per il modo in cui esegue il confronto e soprattutto per le conseguenze che egli pensa di poterne trarre, Husserl finisce per contraddire, proprio nel momento in cui lo applica, il principio fenomenologico che le differenze ontologiche va­ dano comprese a partire dalle differenze fra i modi di datità. Egli, infatti, mira a mostrare l'assolutezza della sfera della co­ scienza a partire dall'indubitabilità della percezione immanen­ te e la relatività della realtà mondana a partire dalla dubitabilità della percezione trascendente, al fine di motivare la tesi dell'idealismo trascendentale e quindi la riduzione filosofica. Ma, da un punto di vista fenomenologico, è assolutamente in­ sensato voler mostrare la dubitabilità di una certa forma d'es­ sere a partire da un'analisi del suo modo di datità. Perché sia possibile mostrarne la dubitabilità occorre misurare una de­ terminata forma d'essere non con il suo proprio modo di datità (che non può essere, appunto, se non il suo), ma con il modo di datità di un 'altra forma d'essere. E difatti, Husserl, per dichiarare dubitabile la percezione tra­ scendente, per condurre, cioè, quella critica dell'esperienza mondana che ha lo scopo di motivare la riduzione, non la con­ fronta con i suoi modi originari di datità, ma la misura con il 3'0 Cfr. HU nui p. 78; tr. it. p. 81.

231 metro di quelle caratteristiche che appariranno peculiari dei modi di datità della sfera immanente, e cioè 1. l'adeguazione, caratteristica della sfera immanente, nella misura in cui l'im­ manenza viene intesa come immanenza pura e 2. Tesser neces­ sariamente implicata dell'esistenza dell'oggetto nel suo esser dato, caratteristica della sfera immanente, nella misura in cui l'immanenza viene intesa come «esser contenuto» dell'oggetto dell'atto nell'atto stesso (o nello stesso flusso di Erlebnisse in cui è contenuto l'atto). Misurata con questi criteri la percezio­ ne trascendente appare dubitabile perché 1. non è adeguata, giacché gli oggetti trascendenti sono dati attraverso adombra­ menti311 e 2. perché non è apodittica neppure nel secondo sen­ so, giacché «1'esistenza cosale non è mai necessariamente ri­ chiesta dalla datità, ma è in certo modo sempre contingente»; il mondo potrebbe forse anche non essere.312 Al contrario la percezione immanente, misurata con questi stessi criteri (che sono i suoi, o presunti suoi criteri), appare indubitabile, giac­ ché 1. gli Erlebnisse non sono dati attraverso adombramenti, o - comunque - il modo in cui essi non sono suscettibili di evi­ denza adeguata è diverso da quello delle percezioni trascen­ denti313 e 2. ogni percezione immanente garantisce necessa­ riamente 1'esistenza del proprio oggetto. Come diceva bene Descartes, infatti: «L'immagine (das Vorschwebende) può es­ sere una mera finzione, ma l'avere immagini stesso, la co­ scienza che finge non è essa stessa finzione, ed alla sua essen­ za, come ad ogni Erlebnis, inerisce la possibilità di una rifles­ sione che percepisce e afferra la sua assoluta esistenza.».314 Queste presunte caratteristiche della sfera della coscienza che essa cioè è data in modo assolutamente indubitabile e sen­ za adombramenti, ed il loro contrasto con quelle della sfera della realtà, fanno apparire la sfera della coscienza come una sfera d'essere assoluta e sostengono quindi la presa di posizio­ ne per l'idealismo trascendentale. Ma in questo modo l'ideali­ smo trascendentale è «fondato» gettando alle ortiche (fra le braccia dello scetticismo) la conoscenza mondana e violando 311 312 313 314

Cfr. Ideen I § 44 HU m/1 pp. 91-92; tr. it. pp. 94-95. Ideen I § 46 HU m/1 p. 97; tr. it. p. 101. Cfr.Ideen I § 44 HU m/1 pp. 91-94; tr. it. pp. 94- 96. Ideen I § 46 HU m/1 p. 97; tr. it. p. 100.

232 il principio fenomenologico che impone di «confrontare» ogni forma d'essere con il suo proprio modo di datità. Nella sua costante autocritica, Husserl ritornerà su queste pagine e, da un lato, ammetterà che la sfera immanente non è affatto, eo ip­ so, una sfera di datità adeguate315, dall'altro tenterà di am­ morbidire il pensiero della possibilità del non-essere del mon­ do.316 Ma queste correzioni non intaccano il procedimento fondamentale, di stile cartesiano, che consiste nel far emergere l'indubitabilità di un certo tipo di sapere, sminuendone, conse­ gnandone allo scetticismo, un tipo diverso. Al di là del fatto che la conoscenza immanente non apparirà meno assoluta di come qui vien presentata e che la conoscenza mondana riscat­ terà le proprie pretese, è questo procedimento che costituisce un'autentica violazione dei principi fenomenologici fondamen­ tali. In realtà, se si vogliono tener fermi questi principi, questo modo di «fondare» la tesi dell'idealismo trascendentale deve cadere del tutto. (iv) Nella quarta «ondata», che occupa sostanzialmente i pa­ ragrafi 47-49, viene esposta la tesi dell'idealismo trascendenta­ le, motivata, come abbiamo visto, dalle analisi della terza on­ data e motivante la riduzione fenomenologico-filosofica. (v) Infine viene effettuata la riduzione vera e propria, de­ scritta prima come messa fra parentesi della «Generalthesis» dell’atteggiamento naturalistico317 e poi come messa fra paren­ tesi di tutte le scienze dell'atteggiamento dogmatico.318

Se tentiamo, infine, di ripercorrere per intero i nessi moti­ 315 Cfr. HU m/2 p. 600. 316 Nel § 46, Husserl scrive: «Il mondo non è dubitabile nel senso che si diano motivi razionali che si oppongano alla forza inaudita delle espe­ rienze concordanti, [ma nel senso che un dubbio è pensabile, e che è pen­ sabile perché la possibilità] di principio del non essere non è mai esclusa».(HU m/1 pp. 98-99). In una nota a margine del suo esemplare delle Ideen I, corregge la parte [ ] in questo modo: «esso ha persino un'indubitabilità empirica, in quanto un'impossibilità empirica credere, duran­ te la concordanza dell'esperienza, al non-essere delle cose dell'esperienza e del ; ma il dubbio si dà nel senso che è pensabile un diventar dubbio ed un annichilarsi, e la possibilità...». (HU DI/2 p. 496; tr. it. p. 102). Cfr. anche HU III/2 p. 636. 317 Cfr. Ideen I § 50 HU III/l pp. 106-7; tr. it. pp. 109-110. 318 Cfr. Ideen I §§ 56-62 HU III/l pp. 122-134; tr. it. pp. 125-135.

233 vazionali che legano fra loro le varie «ondate» della Funda­ mentalbetrachtung dobbiamo distinguere due differenti per­ corsi. Il primo, fenomenologico, attraversa la seconda, la terza e la quinta ondata, e cioè: l'introduzione dell'epoché, l'illu­ strazione del nesso fra epoché e riduzione (l'illustrazione della possibilità della riduzione per mezzo dell'epoché) e l'introdu­ zione della riduzione vera e propria, che non è, in questo pri­ mo percorso, da altro motivata se non dal fatto che essa è possibile, dal fatto, cioè, che ì'epoché apre l'accesso ad un nuovo terreno dell'essere e ad una nuova scienza. Il secondo percorso è invece filosofico-fenomenologico ed attraversa tutte e cinque le «ondate» distinte. Nella prima ven­ gono almeno implicitamente indicati i compiti filosofici, anti­ cipando oscuramente il senso di quel radicale rivolgimento dell'atteggiamento che è costitutivo della filosofia. Nella se­ conda, che non appare esplicitamente connessa con la prima, viene introdotta l'epoché. La terza assolve due compiti distinti, ambiguamente intrecciati: da un lato mostra la possibilità della riduzione fenomenologica per mezzo dell'epoché; dall'altro ne fonda la necessità filosofica in quanto, con una critica del­ l'esperienza mondana, prepara la quarta ondata, e cioè, la pre­ sa di posizione a favore dell'idealismo trascendentale. Nella quinta si effettua infine la riduzione fenomenologicofilosofica, la quale è motivata dalla presa di posizione filosofi­ ca a favore dell'idealismo trascendentale, la quale è a suo volta motivata dalla critica dell’esperienza mondana della terza on­ data. Alla fine di quest'ultima «ondata», Husserl si ricongiun­ ge con la prima, tornando brevemente (e oscuramente) sulla connessione fra i compiti filosofici cui ha inizialmente accen­ nato e la riduzione fenomenologica 319 e lasciando intendere che quest'ultima è il mezzo di realizzazione di quei compiti.

16. Prima di passare ad esaminare come la fenomenologia della riduzione fenomenologica s'avvii a dipanare alcune delle molteplici oscurità in cui, come abbiamo visto, è originaria­ mente avvolta l'idea di riduzione, torniamo brevemente al problema della continuità o discontinuità di questa fase «intermedia» del pensiero husserliano rispetto alle L.U. da un 319 Cfr. Ideen I § 62 HU HI/1 pp. 132-134; tr. it. pp. 134-135.

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lato ed agli sviluppi degli anni '20 dall'altro.

Per quanto riguarda il primo problema - lo ricordo - si tratta di chiarire se l'introduzione dell'idea di riduzione e di sogget­ tività pura 1. sia resa necessaria dalla radicalizzazione della tendenza alla dis-obiettivazione della soggettività inaugurata dalle L.U. e 2. sia fenomenologicamente possibile, sia, cioè, conforme al «Prinzip aller Prinzipien». A questo scopo, possiamo partire dalla discussione del già citato rimprovero di Heidegger ad Husserl, secondo il quale Husserl avrebbe dedotto le caratteristiche del terreno d'indagi­ ne fenomenologico - la coscienza pura - da un'idea tradizio­ nale di filosofia, anziché delimitare questo terreno volgendosi alla «cose stesse».320 Nella critica heideggeriana dell'idea di coscienza pura321, dalla quale scaturisce questo rimprovero, dobbiamo però distinguere due lati. Essa si presenta come cri­ tica immanente della ricerca fenomenologica. Ed a ragione. Tuttavia essa non è interamente immanente alla ricerca feno­ menologica così come questa, sin dalle L.U., si presenta in Husserl: e cioè indissolubilmente congiunta a motivazioni di tipo filosofico-gnoseologico. Nella misura in cui ci occupiamo del problema della continuità del pensiero husserliano fra le L.U. e le Ideen I la critica heideggeriana ci può dunque inte­ ressare solo fintanto che essa rimane davvero immanente alla prospettiva husserliana. Questo non esclude che se vorremo, d'altra parte, prendere le distanze dal concetto husserliano di filosofia fenomenologica - se vorremo considerarlo dall'ester­ no (e non nel suo interno sviluppo) - potremo occuparci anche degli aspetti per cui questa critica non è immanente alla ricer­ ca fenomenologica nel senso che Husserl stesso le assegna; potremo, in particolare, tentare di cogliere il momento in cui, radicalizzando il lato fenomenologico dell'idea husserliana di filosofia, Heidegger approda alla distruzione di quest'idea e dei concetti fondamentali ad essa correlati. Ora, Heidegger mostra innanzitutto come le caratteristiche di quel tipo d'essere peculiare che è la coscienza pura - essere come 1. essere immanente, 2. datità assoluta nel senso di dati320 Cfr. § 3.12. 321 Cfr. Heidegger [1979] pp. 140-148; tr. it. pp. 127-134.

235 tà adeguata, 3. datità assoluta nel senso che «nulla re indiget ad existendum» e 4. essere puro - non siano caratteristiche originarie dell'essere della coscienza, dell'essere dell'intenzio­ nalità. Esse sono invece 1. ricavate da una considerazione «prospettica» della coscienza: Se la coscienza viene considerata come appresa, si può dire di essa che è immanente; se viene considerata rispetto al suo modo di datità, si può dire che è data assolutamente. Circa il suo ruolo come essere costituente, come ciò in cui ogni altra realtà s'an­ nuncia, è essere assoluto nel senso del nulla re indiget ad exi­ stendum; rispetto alla sua essenza, al suo che-cosa, è essere ideale, cioè non pone nel contenuto della sua struttura alcuna singolarizzazione reale.322

e 2. esse sono dedotte da un'idea tradizionale di filosofia che orienta la filosofia moderna a partire da Descartes: La questione primaria di Husserl non è quella circa il carattere d'essere della coscienza, ma lo guida la seguente riflessione: come può in generale la coscienza diventare oggetto possibile di una scienza assoluta? L'istanza primaria che lo guida è l'idea di una scienza assoluta. Questa idea: ossia che la coscienza deve essere regione di una scienza assoluta, non è semplicemente inventata, ma assilla la filosofia moderna a partire da Carte­ sio.323

Questi due fatti - che, cioè, le caratteristiche della coscienza pura sono derivate da una considerazione di questa coscienza nel suo esser data e nella sua funzione e non nel suo essere e che d'altra parte, nella determinazione di queste caratteristi­ che, Husserl è orientato dall'idea di una scienza assoluta - ap­ paiono poi connessi nel senso che il secondo è all'origine del primo: è l'idea guida di una scienza assoluta che conduce Hus­ serl ad occultare la domanda radicale sull'essere dell'intenzio­ nalità, ed è da quest’idea che vengono dedotte quelle caratte­ ristiche non originarie con cui Husserl pretende di distinguere il tipo d'essere della coscienza pura da quello della realtà. In 322 Heidegger [1979] p. 149; tr. it. p. 135. 323 Heidegger [1979] p. 147; tr. it. p. 134.

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breve: le caratteristiche della coscienza pura sono determina­ zioni che investono il suo esser regione di una possibile scien­ za e non, quindi, il suo essere. Che la tesi secondo la quale le caratteristiche della coscienza pura sono dedotte dall'idea di filosofia come scienza assoluta e non ricavate fenomenologicamente sia corretta l'ha mostrato la nostra esposizione della Fundamentalbetrachtung delle Ideen I, e ancor prima, delle lezioni del 1906/7. In entrambi i casi è risultato come la riduzione venisse introdotta per motivazioni in ultima analisi filosofiche, e come la coscienza pura acqui­ sisse delle caratteristiche di «assolutezza» che non venivano affatto mostrate fenomenologicamente. Tuttavia la tesi di Hei­ degger ha il carattere di rimprovero e noi dobbiamo chiarire in che senso lo sia, distinguendone i due significati, che nel no­ stro primo accenno a questa critica di Heidegger ad Husserl abbiamo sovrapposto. Da un lato si potrebbe pensare che Heidegger voglia rim­ proverare ad Husserl di dedurre dal contenuto dell'idea di filo­ sofia caratteristiche della coscienza - quali la datità adeguata - che risultano poi violare il «Prinzip aller Prinzipien» e non sono suscettibili di evidenza fenomenologica. Questo rimpro­ vero - come la nostra esposizione ha mostrato - coglie nel se­ gno e mette il dito su di una certa, relativa discontinuità fra l'introduzione dell'idea di riduzione e le L.U.. Quest'introdu ­ zione non è direttamente motivata dalla necessità di radicalizzare il movimento di dis-obiettivazione della soggettività av­ viato dalle L.U., bensì dal proseguimento del movimento gnoseologicao antipsicologistico di dis-soggettivazione dell'oggettività, che si avvale del primo movimento dis-obiettivante come di un mezzo. E fin qui non c'è nessun salto rispetto alle L.U.: la dis-obiettivazione della soggettività era subordinata alla tendenza gnoseologica dis-soggettivante anche nelle L.U.. Il salto rispetto alle L.U. sta però nel fatto che le motivazioni gnoseologiche sembrano qui indurre Husserl ad assegnare alla soggettività delle caratteristiche «obicttivanti» che contrastano con l'istanza fenomenologica di dis-obiettivazione, o, se si vuole, delle caratteristiche filosoficamente necessarie cui non corrisponde alcun dato fenomenologico; il salto consiste, cioè, nel fatto che la tendenza gnoseologica e quella psicologicofenomenologica, la necessità filosofica e la necessità fenome­

237 nologica sembrano entrare in conflitto e che la seconda viene sacrificata alla prima. Qualora lo si intenda in questo primo senso, il rimprovero heideggeriano rimane all'intemo di una prospettiva husserliana e si rivolge contro un'incocrenza di Husserl {Ideen I) con se stesso (L.U.). Con questo, esso non colpisce al cuore la posizione husserliana delle Ideen I, ché l'incoerenza rimproverata è di superficie e di principio rime­ diabile: come abbiamo anticipato e come vedremo meglio in seguito, Husserl rivedrà le caratteristiche sospette e risolverà il conflitto a favore della necessità fenomenologica. D'altro lato però il rimprovero può venir inteso in un senso ben più radicale, che è quello preponderante in Heidegger. Ad essere messo sotto accusa, da questo secondo punto di vista, non è semplicemente il fatto che dal contenuto dell'idea di fi­ losofia assunto acriticamente si deducono delle caratteristiche del campo d'indagine della filosofia, ma il procedimento for­ male generale consistente nel caratterizzare la soggettività pu­ ra a partire dalla sua accessibilità scientifica. Da questa secon­ da prospettiva il conflitto di necessità filosofica e necessità fe­ nomenologica che si verifica nelle Ideen I, l'attribuzione alla soggettività pura di caratteristiche «obicttivanti» che inter­ rompe il movimento di «liberazione» della soggettività delle L.U., non è contingente, ma strutturale. Ciò che in generale viene qui contestato è la subordinazione del principio fenome­ nologico «zu den Sachen selbst» a motivazioni gnoseologiche e a motivazioni in genere.324 La subordinazione della tendenza dis-obiettivante a quella dis-soggettivante, infatti, la arresta inevitabilmente, produce necessariamente un'obiettivazione della soggettività. In termini heideggeriani: la considerazione della soggettività come un campo di una possibile scienza ha come conseguenza l'elusione della domanda radicale sull'esse­ re specifico della coscienza: «Essere non significa per lui nient'altro che vero essere, obiettività, vero per una conoscen­ za teoretica, scientifica. Qui non s'indaga sull'essere specifico della coscienza, degli Erlebnisse, ma su di un esser oggetto privilegiato per una scienza obiettiva della coscienza.»325 E 324 «Innanzitutto l'«a che scopo» nella conoscenza non è un criterio pri­ mario» afferma Heidegger. (Heidegger [1979] p. 157; tr. it. p. 143). 323 Heidegger [1979] p. 165; tr. it. p. 150.

238 quest'elusione della domanda sull'essere specifico della sog­ gettività si traduce, in ultima analisi, in una sua cosalizzazione e naturalizzazione. Se infatti è vero che la domanda sull'essere della soggettività non viene esplicitamente posta, è anche vero che nella Fundamentalbetrachtung della fenomenologia, si trovano tracce della risposta tradizionale dogmatica a questa domanda, per la quale l'essere della soggettività non è distinto dall'essere reale delle cose del mondo spazio-temporale. La «cosalizzazione» della soggettività comincia con la descrizio­ ne dell'atteggiamento naturalistico, nella quale agli atti psi­ chici viene attribuito lo stesso tipo d'essere - la realtà (Realität) - che compete agli oggetti del mondo spazio­ temporale326, e prosegue poi con la riduzione, nella quale questa realtà viene messa fra parentesi al fine di farla apparire come correlato intenzionale della soggettività pura: L'essere dello psichico, l'intenzionale viene innanzitutto messo fuori gioco per permettere la conquista della regione della co­ scienza, e solo a partire da questa regione risulta in seguito possibile determinare l'essere messo fuori gioco, la realtà. La questione dell'essere è dunque posta, è persino risolta. Solo che abbiamo a che fare con la via di soluzione propriamente scien­ tifica, che tenta di determinare il senso della realtà di un reale, nella misura in cui si annuncia nella coscienza.327

Quando la critica rivolta ad Husserl venga intesa in questo se­ condo senso, essa non appare più immanente alla prospettiva husserliana, non consiste più nel rinfacciare ad Husserl un'incoerenza con se stesso, ma nel rimproverargli di essere preci­ samente quel che è. Essa punta il dito contro la tensione fra il principio fenomenologico e quello filosofico che Husserl si sforza di tenere insieme nel suo concetto di filosofia e radicalizza il primo principio fino a far esplodere questo concetto. Non voglio discutere, qui, questa posizione heideggeria­ na.328 Vorrei invece servirmene per delimitare ex contrario la 326 Cfr. Heidegger [1979] pp. 155-156; tr. it. pp. 140-142. 327 Heidegger [1979] p. 155; tr. it. pp. 140-141. 328 Mi limito a ribadire quel che ho già affermato nella Introduzione ge­ nerale (Cfr. § 1.1), e cioè che il miglior modo per risolvere la tensione fra il lato fenomenologico e quello filosofico del concetto husserliano di filo-

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posizione husserliana, nella discussione delle due questioni dalle quali siamo partiti. Si trattava, innanzitutto, di chiarire se l'introduzione della riduzione fosse resa necessaria dalla radi­ calizzazione della tendenza alla dis-obiettivazione della sog­ gettività delle L.U.. Abbiamo già detto - e la nostra esposizio­ ne dei paragrafi che precedono l'ha mostrato - che le motiva­ zioni ultime per l'introduzione della riduzione sono di ordine filosofico-gnoseologico e non psicologico-fenomenologico e che quindi la riduzione non è una diretta conseguenza della radicalizzazione della tendenza dis-obiettivante, bensì una conseguenza della radicalizzazione di questa tendenza in quanto essa è mezzo subordinato della tendenza gnoseologica dis-soggettivante. L'esame della critica heideggeriana ha ora chiarito un fatto importante, e cioè che la radicalizzazione della tendenza dis-obiettivante sganciata dalle motivazioni gnoseologiche, dall'idea di una scienza filosofica, poteva prendere ben altra strada (quella heideggeriana) e che, dal punto di vista di chi ha intrapreso quest'altra strada, con l'idea di riduzione e di soggettività pura si ricade in realtà in quell'obiettivazione della soggettività che si vorrebbe appunto su­ perare. Si trattava, in secondo luogo, di accertare se l'introduzione dell'idea di coscienza pura fosse fenomenologicamente possibi­ le. Abbiamo chiarito che, a questo proposito, occorre distingue­ re la questione di principio da quella che verte sulla contingen­ za delle Ideen I (e delle lezioni del 1906/7). Di principio il campo della coscienza pura è suscettibile di evidenza fenome­ nologica e la riduzione fenomenologica è possibile, come Hus­ serl si avvia a mostrare nel secondo capitolo della Fundamen­ talbetrachtung e come una fenomenologia pura completamente esplicata mostrerebbe in modo definitivo; anche se è vero che, nelle Ideen I, le motivazioni filosofiche inducono Husserl ad sofia non mi sembra quello di dissolverla abbandonando il lato filosofico, ma quello di teorizzarla. Il principio fenomenologico «zu den Sachen selbst» sganciato da motivazioni di ogni genere, privato del suo senso fi­ losofico, è tanto unilaterale quanto l'idea di filosofia come scienza rigoro­ sa (ed è forse il diretto, inconsapevole erede di quest'idea, così come l'al­ ternativa che Heidegger sembra porre - o l'essere della soggettività o la conoscenza scientifica - è prigioniera di una certa idea pregiudizievole di conoscenza scientifica).

240 assegnare a questo campo delle caratteristiche che non emergo­ no da analisi fenomenologiche e che, almeno in parte, non po­ tranno mai essere il risultato di un'indagine fenomenologica della coscienza pura. Ora, tuttavia, il confronto con Heidegger ci induce a precisare che, anche di principio, la riduzione è fe­ nomenologicamente possibile e la soggettività pura è un «dato» fenomenologico, solo fintanto che si assegni al termine «fenomenologico» il significato che gli assegna Husserl, fintan­ to, cioè, che il principio fenomenologico venga interpretato come connesso a priori con motivazioni di ordine gnoseologico ed una certa, anche assai formale, idea di scientificità. Questa precisazione è molto importante per le sue conseguenze. Essa implica, da un lato, che, anche quando la riduzione fenomeno­ logica verrà sganciata dalle motivazioni filosofiche, essa rimar­ rà comunque ancorata a delle motivazioni gnoseologiche, che, a differenza di quelle filosofiche non saranno assolute, ma che comunque delimiteranno dall'esterno il movimento di disobiettivazione della soggettività che in essa si compie; ed im­ plica, dall'altro, che le motivazioni gnoseologiche sono l'auten­ tico motore dello sviluppo del pensiero husserliano e che nes­ suna delle modifiche degli equilibri fra necessità filosofica e necessità fenomenologica, che si verificano lungo quello svi­ luppo, può dar luogo ad un sovvertimento della dipendenza della seconda necessità dalla prima. Il secondo problema sul quale vogliamo brevemente tornare è quello che riguarda la continuità fra le Ideen I ed il pensiero husserliano degli anni '20. Non possiamo ancora risolverlo, perché dobbiamo prima ricostruire il modo in cui, in quegli anni, Husserl chiarirà il concetto di riduzione e ridefinirà il rapporto fra filosofia e psicologia fenomenologica. Possiamo tuttavia iniziare a notare due fatti di fondamentale importanza. Il primo. Nell'esposizione della Fundamentalbetrachtung delle Ideen I, i motivi autenticamente cartesiani che Husserl ter­ rà fermi anche dopo la «svolta» della Erste Phil.W - l'idea-fme di una scienza apodittica e la concezione generica che la realiz­ zazione di questa scienza passi attraverso un inveramento dello scetticismo - sono quasi interamente occultati, anche se, come abbiamo visto, essi agiscono sotterraneamente conferendo al­ l'esposizione della riduzione fenomenologica un significato fi-

241 losofico. In primo piano, nelle Ideen I come nelle lezioni, si trova invece il motivo cartesiano-dogmatico dell'uso del dubbio per far sorgere una differenza fra dubitabile ed indubitabile, che Husserl fa proprio entrando, a mio avviso, in contraddizione con se stesso. E questo il motivo di origine cartesiana di cui egli, in seguito, andrà progressivamente liberandosi. E, come vedremo, se ne libererà proprio rendendo espliciti e radicalizzando gli altri motivi cartesiani, che qui sono solo impliciti. Il secondo. Le varie vie della riduzione che Husserl teorizze­ rebbe a partire dalla Erste Phil.ìl, si trovano in realtà già nelle Ideen I, intrecciate alla cosiddetta via cartesiana. La via attra­ verso le ontologie, la quale consiste nel destare l'attenzione sull'«incomprensibilità» ultima di prin­ cipio, propria, come suo carattere fondamentale, di ogni cono­ scenza di tipo naturalistico (prescientifica o scientifica) di ciò che è oggettivo (di enti, onta), una incomprensibilità che sussi­ ste fin quando questa conoscenza «diretta» non venga conside­ rata in generale ed universalmente nel pieno contesto concreto della soggettività operante in modo intenzionale, e chiarificata in questa concreta correlazione329,

è in realtà di fondamentale rilievo nelle lezioni ed è presente, seppur in modo piuttosto implicito, anche nelle Ideen I. Il movimento di pensiero in seguito descritto come «via attra­ verso le ontologie» serve infatti ad Husserl per far sorgere le motivazioni generali gnoseologiche della riduzione.330 Consi­ derazioni analoghe si possono fare anche a proposito della via attraverso la psicologia intenzionale. Abbiamo visto come la Fundamentalbetrachtung delle Ideen I percorra di fatto, anche se in modo non dichiarato, questa via nel suo secondo capito­ lo.331 E del resto alcuni dei successivi tentativi husserliani di rifacimento sono proprio volti a rendere esplicito questo pas­ saggio attraverso la psicologia intenzionale.332 Questi due fatti congiunti ci permettono di trarre una prima 329 Bernet - Kem - Marbach [1989] tr. it. pp. 96-97. 330 Cfr. le prime «ondate» (i) dell'introduzione dell'idea di riduzione sia delle lezioni (§ 3.14) sia delle Ideen I (§ 3.15). 331 Cfr.la terza «ondata» (iii) (§ 3.15). 332 Cfr. ad es. HU IH/2 pp. 628-629.

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conclusione in merito al problema del presunto abbandono della via cartesiana delle Ideen I a partire dagli anni *20. In primo luogo, la via cartesiana non risulta essere la via percor­ sa da Husserl nelle Ideen I, ma appare come il prodotto di una ricostruzione a posteriori, di una separazione delle molteplici motivazioni della riduzione che nelle Ideen I si trovano, come abbiamo visto, intrecciate. In secondo luogo, questa separa­ zione di motivazioni originariamente intrecciate, non può ave­ re la funzione di individuare vie davvero alternative a quella originaria. Essa ha invece, come primo scopo, quello di fare chiarezza, di separare motivazioni diverse al fine di evitare pericolose sovrapposizioni (come quella della riduzione apodittica e della riduzione fenomenologica) ed errori. A que­ sto primo scopo, se ne aggiunge, forse un secondo, per così di­ re, didattico. La separazione delle vie e la loro presentazione come vie alternative può facilitare l'ingresso nella fenomeno­ logia di destinatari diversi: sarà più facile introdurre un kan­ tiano alla riduzione attraverso la via «ontologica»; un empiri­ sta percorrerà più facilmente la via «attraverso la psicologia intenzionale» e si ritroverà nella riduzione filosofica senza neppure accorgersene; un frettoloso metafisico, infine, sarà più facilmente ingolosito dalle prospettive fenomenologiche se gli si farà compiere in un sol colpo il gran balzo della via cartesiana. Ma le motivazioni che guidano l'ingresso nella fe­ nomenologia lungo le varie vie non sono, in sé, disgiunte, co­ me mostra la loro connessione (e in parte confusione) origina­ ria nelle lezioni del 1906/7 e nelle Ideen I: l'idea-guida della scienza assoluta è il fine ultimo della riduzione; un primo modo per assegnare un senso a quest'idea è l'illustrazione, ca­ ratteristica della via attraverso le ontologie, della «incompren­ sibilità» di principio della conoscenza naturalistica e delle scienze dogmatiche; l'unico modo per realizzarla è il passag­ gio attraverso la psicologia fenomenologica. 3.3. Il chiarimento dell’idea di riduzione fenomenologica

11. Uno dei risultati del chiarimento dell'idea di riduzione consiste nella separazione della riduzione apodittica dalla ri­ duzione fenomenologica, che nell'idea originaria di riduzione, e finanche nelle Ideen I, appaiono sovrapposte. Nelle Ideen I,

243 come abbiamo visto, Husserl presenta la soggettività pura, cui la riduzione, in quanto riduzione fenomenologica e riduzione apodittica, apre l'accesso, come una sfera di datità assolute, una sfera d'essere indubitabile. Questa sovrapposizione fra ri­ duzione fenomenologica ed apodittica è resa possibile dalla caratterizzazione della conoscenza immanente, dei modi di datità dei suoi oggetti (gli Erlebnisse) e di questi oggetti stes­ si, a partire dal contrasto con la conoscenza trascendente: l'apoditticità di quella conoscenza e di quegli oggetti è una conseguenza del fatto che, a differenza di quanto avviene nella conoscenza mondana, quegli oggetti sono dati in modo ade­ guato e la loro percezione garantisce necessariamente il loro essere. Tuttavia, al di là dell'insistenza sulla datità adeguata degli oggetti immanenti rispetto a quelli trascendenti, Husserl am­ mette, già nella Fundamentalbetrachtung, che anche gli Er­ lebnisse non sono mai percepiti completamente, non possono mai venir colti in modo adeguato nella loro piena unità. La portata di quest'ammissione non viene però esplicitata perché Husserl - che qui è interessato a mostrare il contrasto fra la percezione degli Erlebnisse e quella degli oggetti trascendenti al fine di motivare la presa di posizione a favore dell'idealismo trascendentale - aggiunge subito dopo che la relativa imper­ fezione della percezione immanente è comunque di tipo com­ pletamente diverso da quella della percezione trascendente.333 Husserl, qui, si rifiuta dunque di prendere in considerazione il vero problema che si nasconde dietro quest'ammissione, e cioè se questa relativa imperfezione della conoscenza immanente possa far sorgere, nella riflessione sulla conoscenza immanen­ te, lo stesso tipo di confusioni e di dubbi scettici, che sorgeva­ no nella riflessione sulla conoscenza mondana, in ragione del­ l'oscurità delle pretese di quest'ultima.334 Se così fosse - se, cioè, anche la conoscenza immanente, e quindi la conoscenza fenomenologica, fossero contrassegnate da un'oscurità che la­ scia ancora spazio alla scepsi - allora la sovrapposizione fra riduzione fenomenologica e riduzione apodittica dovrebbe ne­ cessariamente cadere e, fra l'una e l'altra riduzione, dovrebbe 333 Cfr. Ideen I § 44 HU DI/1 pp. 93-94; tr. it. pp. 96-97. 334 Cfr. § 3.14.

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frapporsi una critica apodittica della conoscenza fenomenolo­ gica, che prenda in esame e dissolva i dubbi scettici, di prin­ cipio possibili, che investono la portata della conoscenza fe­ nomenologica. Nelle Ideen I, il problema di questa portata viene esplicita­ mente posto, ma anche - così sembra, almeno a prima vista dichiarato insensato. Nel § 79, infatti, Husserl considera i dubbi che possono venir sollevati contro la possibilità della riflessione e li liquida con l'argomento, già utilizzato nei Pro­ legomena contro lo psicologismo, della «Widersinnigkeit» dello scetticismo. Questo argomento si presenta qui in una duplice variazione, nella quale si riflette la sua costitutiva ambiguità. Husserl afferma, innanzitutto, che chi sa di dubita­ re del valore della riflessione riflette sul proprio dubbio e pre­ suppone quindi il valore della riflessione.335 E fin qui egli non sembra denunciare nient'altro che l'autocontraddittorietà for­ male dei dubbi scettici. Contro chi solleva dubbi sulla portata della riflessione, egli rivolge tuttavia un secondo argomento, dietro il quale si intravede il rimprovero fondamentale che questi dubbi non sono motivabili: per motivarli, infatti, occor­ re presupporre un sapere di Erlebnisse irriflessi (e di rifles­ sioni irriflesse su cui si riflette nel dubbio), che, negando la possibilità della riflessione, viene per l'appunto negato: (...) si presuppone costantemente una sapere degli Erlebnisse irriflessi (e, tra questi, delle riflessioni irriflesse) proprio mentre si mette in dubbio la possibilità di un tale sapere. Questo accade in quanto si dubita della possibilità di constatare alcunché nel contenuto dell'Erlebnis irriflesso e nei prodotti della riflessione: onde il dubbio che essa alteri l'Erlebnis originario e lo deformi in qualcosa di totalmente diverso. Ma è chiaro che, se questo dubbio fosse legittimo, non rimarrebbe il minimo fondamento di certezza che ci siano e ci possano essere un Erlebnis irriflesso ed una riflessione.336 Questa seconda «variazione» dell'argomento fatto valere con­ tro la scepsi sulla possibilità della riflessione chiarisce come esso, al pari della confutazione dello psicologismo dei Prole­ gomena, non sia riducibile all'argomento formale della tradi­ 335 Cfr. Ideen I § 79 HU m/1 p. 174; tr. it. p. 174. 336 Ideen I § 79 HU III/l p. 174; tr. it. p. 174.

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zione, ma rappresenti invece una sorta di corollario del prin­ cipio fenomenologico della correlazione di verità ed evidenza. Ciò che Husserl rimprovera alla scepsi sulla riflessione non è tanto l'autocontraddittorietà formale, ma il fatto di sollevare dubbi che non sono di principio motivabili, di rigettare il valo­ re della riflessione in nome di una possibilità oscura - l'even­ tuale non essere àeWErlebnis dato nella riflessione o l'even­ tuale difformità ùeW'Erlebnis irriflesso rispetto alla riflessione - che è argomentabile verbalmente, ma non è di principio su­ scettibile di evidenza.337 Ciò che Husserl rimprovera alla scepsi in generale, e a questa scepsi in particolare, è insomma il fatto di scegliere l'oscurità anziché il «Prinzip aller Prinzi­ pien», e di misurare il modo di datità di una certa forma d'es­ sere (in questo caso i riflettuti) con altre, immaginarie ed oscu­ re, forme d'essere, anziché con se stesso e con le sue proprie e peculiari caratteristiche.338 Questo significato dell'argomento della «Widersinnigkeit» è all'origine della sua forza, ma anche della sua debolezza. Da un lato, infatti, rimproverando alla scepsi di nutrirsi di possi­ bilità oscure, Husserl coglie nel segno e, con quest'argomento, può senz'altro convincere tutti coloro che siano interessati a conseguire delle conoscenze e non si ostinino a frapporre immotivatamente degli ostacoli insormontabili fra la volontà di evidenza e l'evidenza stessa. D'altra parte, però, se la scepsi deve davvero venir superata, egli non può limitarsi a questo rimprovero, ma deve contrapporre alle possibilità oscure, di cui si nutre la scepsi, delle possibilità evidenti; deve contrap­ porre alla possibilità formale dell'inaffidabilità della riflessio­ ne, il chiarimento fenomenologico della sua possibilità e della sua portata.339 Detto altrimenti: con l'argomento della «Widersinnigkeit» non si rovescia la scepsi in un sol colpo, non si dimostra che la negazione del valore conoscitivo della riflessione è falsa e che quindi la riflessione ha un valore co­ 337 «Qui come sempre, la scepsi perde la sua forza, grazie al retrocedere dalle argomentazioni verbali all'intuizione dell'essenza, alla visione origi­ nariamente offerente ed alla sua intrinseca validità.» (Ideen I § 79 HU in/1 p. 174; tr. it. p. 175). 338 Cfr. Ideen I § 78 HU m/1 p. 169; tr. it. p. 170 e § 79 HU m/1 pp. 175-176; tr. it. pp. 176-177. 339 Cfr. Natorp [1914] p. 240.

246 noscitivo assoluto. Con quest'argomento si mette semplicemente in luce che la scelta che assegna un valore conoscitivo alla riflessione è, per così dire, più vantaggiosa, di principio più vantaggiosa, di quella che lo nega, perché la prima può venir motivata, la seconda no. Ma perché il vantaggio della prima scelta risulti davvero conseguito, occorre motivare fino in fondo la scelta, sottoponendo la riflessione ad una critica e chiarendone la possibilità. Nelle Ideen I, però, di questa critica della conoscenza rifles­ siva, della determinazione della sua portata e relativa oscurità, del chiarimento fenomenologico delle sue pretese ancora oscure, non si trova alcuna traccia. Anziché rappresentare l'avvio della procedura di chiarimento della possibilità della riflessione, l'argomento della «.Widersinnigkeit» della scepsi che ne mette in dubbio la possibilità sembra un argomento autosufficiente, sembra, cioè, che, conformemente alla sua consueta ambiguità, esso tenda ad assumere le caratteristiche dell'argomento formale della tradizione. Così, nel § 79, per dimostrare che i fenomeni della riflessione rappresentano in realtà «una sfera di datità pure ed eventualmente perfettamen­ te chiare»340 e che «la riflessione non può trovarsi in alcun contrasto antinomico con l'ideale della conoscenza perfet­ ta»341 , sembra sufficiente capovolgere la negazione scettica applicando l'argomento della sua autocontraddittorietà forma­ le. Il problema della portata della riflessione appare dunque posto e risolto con quest'argomento: la riflessione ha l'assoluto valore conoscitivo che la Fundamentalbetrachtung le ha asse­ gnato perché sarebbe contraddittorio negarlo. Questa, tuttavia, non è che un'apparenza. Questa secca po­ sizione e soluzione del problema, infatti, è determinata dalla decisione di escludere, dall'esposizione delle Ideen I, le que­ stioni relative alla temporalità immanente, che sarebbe neces­ sario affrontare per avviare una critica ed un chiarimento della possibilità della riflessione in generale e della conoscenza fe­ nomenologica in particolare. Nel § 81, accennando ai problemi della temporalità imma­ nente che la Fundamentalbetrachtung delle Ideen I ha sotta340 Ideen I § 79 HU ni/1 p. 175; tr. it. p. 175. 341 Ideen I § 79 HU m/1 p. 176; tr. it. pp. 175-176.

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cinto, Husserl afferma esplicitamente che il campo della co­ scienza assoluta cui la riduzione ha aperto l'accesso non è an­ cora l'ultimo assoluto, ma è «qualcosa che a sua volta si costi­ tuisce, in un certo senso profondo e del tutto peculiare, avendo la sua sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto.»342 Husserl avverte, dunque, esplicitamente che nelle Ideen I manca un intero strato di ricerche, più profonde di quelle ab­ bozzate, e che la soggettività pura così come è apparsa alla fi­ ne della Fundamentalbetrachtung non è ancora quella sogget­ tività assoluta che è sembrata essere in un primo momento. Ora, dietro quest'oscuro avvertimento si nascondono in realtà due questioni, che occorre tenere distinte. La prima, fenome­ nologica, riguarda l'unità del campo fenomenologico che si è dischiuso con la riduzione. Quest'unità - l'unità del flusso degli Erlebnisse - è stata semplicemente presupposta, trapian­ tata, per così dire, dalla sfera naturalistica in quella fenomeno­ logica. Il conseguimento di quell'assoluto ultimo, che Husserl invoca nel passo citato, implicherebbe però che si mostrasse come in esso si costituisca quell'unità della coscienza che nelle Ideen I viene semplicemente presupposta.343 La seconda questione, fìlosofico-gnoseologica, riguarda invece la possi­ bilità della riflessione e della conoscenza fenomenologica, la sua relativa oscurità, la delimitazione della sua pretesa in una critica della conoscenza fenomenologica ed il chiarimento fe342 Ideen I § 81 HU HI/1 p. 182; tr. it. p. 181. 343 Nel § 83 (HU HI/1 p. 185; tr. it. p. 184) - è vero - Husserl accenna alla questione dell'unità del flusso degli Erlebnisse ed afferma che que­ st'unità è data come un'idea kantiana. Ma questo è proprio solo un accen­ no e, in seguito, Husserl ritornerà sul problema ammettendo le manche­ volezze delle Ideen I su questo tema. Cfr. ad es. la Beilage al § 46 del 1929 (HU m/2 no 45 pp. 598-601): «Per quanto concerne d'altra parte [l'esperienza dell'ErZeènw] non dovremmo, non dovrei presupporre il senso ingenuo-naturalistico del mio flusso di Erlebnisse. Anch'esso è un universo, «dal» quale sono davvero dati, sia pure in modo apodittico, solo dei momenti singoli. Anche qui devo penetrare negli orizzonti della mia vita e dovrei condurre una critica dell'esperienza immanente come espe­ rienza del mio essere e dell'essere della mia vita (...) in tutta l'autoesperienza immanente e concreta. Tutto ciò accenna a ricerche estese e diffi­ cili, la cui concreta esecuzione è riuscita solo tardi. Nel primo abbozzo delle Ideen non era ancora eseguita in modo soddisfacente.» (pp. 599600).

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nomenologico della possibilità di una conoscenza fenomeno­ logica davvero apodittica. Se le Ideen I non pervengono a quell'assoluto ultimo che solo le ricerche sulla temporalità immanente consentirebbero di raggiungere, non è solo perché in esse non viene mostrato fenomenologicamente l'autocostituirsi dell'unità del flusso di coscienza344, ma è anche perché non viene posto il problema filosofico-gnoseologico della cri­ tica apodittica della conoscenza immanente che, nella Funda­ mentalbetrachtung, viene semplicemente dichiarata assoluta per contrasto con la conoscenza trascendente e che nel § 79, viene garantita dagli attacchi scettici con l'argomento, di per sé insufficiente, della «Widersinnigkeit» di questi attacchi. In un tentativo di autocomprensione (del 1924) della via percorsa nei capitoli centrali dell'importantissima serie di le­ zioni sui Grundprobleme der Phänomenologie del 1910/11345, è Husserl stesso a distinguere le due questioni. La questione critico-gnoseologica - che noi abbiamo citato per seconda - se l'esperienza fenomenologica sia suscettibile di quell'evidenza «che la rende una base adeguata per una conoscenza scientifi­ ca», deve esser tenuta distinta dalla questione fenomenologica dell'unità della coscienza pura; la questione dell'accessibilità scientifica della soggettività pura deve esser tenuta distinta dalla questione del suo modo d'essere.346 Husserl chiarisce poi il nesso fra le due questioni. Quella fenomenologica è in sé 344 Cfr. HU X pp. 73-83; tr. it. pp. 100-109. 345 Cfr. HU XIII Tx.6 Beilage XXIV pp. 211-213. 346 È bene precisare che, naturalmente, questa distinzione delle due questioni non implica una loro separazione radicale. Da un lato la que­ stione critico-filosofica dell'apoditticità dell'esperienza fenomenologica può venir risolta solo sulla base della soluzione della questione fenome­ nologica dell'autocostituirsi dell'unità della coscienza pura. Dall'altro, conformemente al principio fenomenologico che ogni forma d'essere de­ ve venir compresa nel come della sua datità, il problema dell'autocostituirsi dell'unità della coscienza è già interpretabile come problema della sua autodatità. Mi esimo tuttavia dal discutere qui se Husserl possa dav­ vero rimanere fedele fino in fondo a queste intenzioni o se invece la so­ luzione radicale del problema dell'unità della coscienza non finisca per privare la seconda questione di ogni risposta; se cioè la soggettività pura nella sua assolutezza non finisca per sottrarsi all'evidenza fenomenologi­ ca (cfr. Held [1966] pp. IX-X e pp. 61-137), per divenire il correlato di una «ricostruzione» filosofica.

249 preliminare rispetto a quella critica: occorre avere un campo di ricerca ben delimitato, prima di avviare una critica della cono­ scenza fenomenologica che ha per oggetto questo campo.347 Tuttavia, ammette Husserl, egli ha posto per prima l'altra do­ manda, quella filosofico-gnoseologica: «è una conseguenza della situazione storica e del fatto che si ama dubitare del va­ lore dell'«esperienza interna» nell'atteggiamento sia gnoseo­ logico che psicologico, se noi cominciamo con la critica.»348 E quest'andamento è del resto conforme al fatto che la stessa in­ troduzione della riduzione fenomenologica avviene per moti­ vazioni filosofico-gnoseologiche e che, in generale, sono le motivazioni gnoseologiche a rappresentare il «motore» dello sviluppo del pensiero husserliano.349 Ora, entrambi i problemi sono stati posti, anche se non ri­ solti, ben prima della stesura e della pubblicazione delle Ideen I. Il problema gnoseologico dell'evidenza adeguata delle cogitationes viene sollevato da Husserl già nelle lezioni del 1906/7 e del 1907.350 Lì però esso è ancora sganciato dal problema ontologico-fenomenologico dell'unità della coscienza; è un problema puramente epistemologico che si compendia nella formula «quali giudizi scientifici evidenti posso formulare a proposito di quelle datità assolute che sono le cogitationesl» e che Husserl, come abbiamo già accennato, risolve ammetten­ do l'incomprensibilità dei fenomeni immanenti nella loro in­ dividualità ed invocando il fatto che la fenomenologia è scien­ za eidetica, e non scienza di fenomeni individuali.351 È solo quando il problema gnoseologico si congiunge con il proble­ ma dell'unità del flusso di coscienza, quando - in altre parole - Husserl si decide ad introdurre l'io puro nel campo d'indagi­ ne fenomenologico352 , che la questione gnoseologica dell'evi­ denza delle cogitationes si espande nell'idea di una critica apodittica della conoscenza fenomenologica ed emerge la ne­ 347 Cfr. HU Vm p. 80. 348 HUXmp.212. 349 Cfr. § 3.16. 350 Cfr. HU XXIV pp. 220-228 e HU H pp. 46-51. 351 Cfr. § 3.14 nota 274. Questa posizione viene del resto ripresa anche nelle Ideen I. Cfr. Introduzione HU IH.l p. 6; tr. it. p. 9 e § 75 HU HI.1 pp. 156-158; tr. it. pp. 158-160. 352 Cfr. Marbach [1974] pp. 74-120.

250 cessità di scindere la riduzione fenomenologica dalla riduzio­ ne apodittica. Anche questa congiunzione, comunque, avviene prima delle Ideen I, e cioè nelle lezioni sui Grundprobleme der Phänomenologie del 1910/11.353 Già nella prima fase dell'introduzione dell'idea di riduzione, dunque, ancor prima che questa giunga a compimento nelle Ideen I, Husserl ha av­ viato il chiarimento di una delle oscurità racchiuse nell'idea originaria di riduzione - la sovrapposizione della riduzione fenomenologica e della riduzione apodittica - che verrà pro­ seguito dalla fenomenologia della riduzione fenomenologica della Erste Phil.ll.354 353 In realtà poi si può risalire ancora più all'indietro, ed individuare i «germi» di quelle idee, che nelle lezioni del 1910/11 trovano una prima elaborazione sistematica, e che verranno riprese e chiarite solo negli anni ’20 (cfr. Kem [1973] pp. XXXHI-XXIX), in alcuni dei testi dedicati alla temporalità immanente, poi rifusi nella rielaborazione, per la pubblica­ zione, delle lezioni del 1905. Cfr. in proposito la tesi, a mio avviso ec­ cessiva, di Seebohm [1962] pp. 110-111, secondo la quale, nelle lezioni sulla temporalità immanente (e negli approfondimenti dei manoscritti tardi della serie C) Husserl avrebbe di fatto condotto quella critica apo­ dittica della conoscenza fenomenologica, che parecchi interpreti gli rim­ proverano di non aver mai avviato. 354 Non sembra tanto semplice indicare i motivi della ricaduta all'indietro delle Ideen I, rispetto alle prospettive dischiuse dalle lezioni del 1910/11. Il motivo «ufficiale», che fa dipendere l'astrazione dalle questioni connes­ se con la temporalità immanente dalla funzione introduttiva di quest'ope­ ra non mi sembra interamente persuasivo. Non è vero, infatti, quel che dice Husserl nel § 81, e cioè che, per fortuna, «possiamo lasciar fuori dalle nostre analisi preparatorie senza comprometterne il rigore gli enigmi della coscienza del tempo». (HU IÙ/1 p. 182; tr. it. p. 181 (Corsivo C.S.)) L'astrazione da questi enigmi, infatti, non apporta una semplice semplificazione delle prospettive fenomenologiche, ma per il modo in cui è compiuta nelle Ideen I, finisce per oscurarle e, in una certa misura, stravolgerle. (Cfr. § 3.15) Del resto, sarà Husserl stesso ad am­ mettere, in seguito, il pericolo insito in tale astrazione. (Cfr. Caims [1976] p. 70). Anche un'altra delle ragioni invocabili per spiegare le oscurità delle Ideen I - e cioè il fatto che esse furono scritte in sei setti­ mane «in una specie di trance» (cfr. Caims [1976] p. 61) - non sembra sufficiente per giustificare il gran balzo all'indietro su questioni fonda­ mentali, e non di dettaglio, rispetto alle lezioni del 1910/11. Qualche lu­ me in più, comunque, lo può apportare la ricostruzione accurata delle va­ rie fasi che attraversa il progetto di quest'opera e l'analisi dei diversi ma­ noscritti e serie di lezioni di cui Husserl si servì per la stesura definitiva. (Cfr. Schumann [1973-2]).

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Vediamo dunque come, prima delle Ideen I, Husserl si av­ vicini all'idea di una critica della conoscenza fenomenologica. A metà del percorso fra le lezioni del 1906/7 e le lezioni del 1910/11, lungo il quale si trasforma il senso del problema gnoseologico dell'evidenza delle cogitationes, si trova un testo tratto dalle lezioni del 1909 intitolate Einführung in die Phänomenologie der Erkenntnis e dedicato al problema della temporalità nella Fundamentalbetrachtung della fenomeno­ logia.355 Qui sebbene Husserl sia ancora, come nelle lezioni del 1906/7, quasi esclusivamente orientato dal problema gno­ seologico e non ponga ancora esplicitamente il problema del­ l'unità del flusso di coscienza, egli ammette la necessità di af­ frontare le difficoltà ed oscurità inerenti ai modi di datità delle cogitationes ed afferma la necessità di una critica che delimiti il campo dell'autodatità assoluta. Con questo, da un lato, va oltre la soluzione del problema che egli dava nelle lezioni (dove si limitava ad invocare la riduzione eidetica), dall'altro avvia il superamento (in anticipo) di quelle manchevolezze che nelle Ideen I saranno determinate dalla decisione di esclu­ dere le questioni relative alla temporalità dalla Fundamental­ betrachtung', un superamento che verrà perfezionato (sempre in anticipo rispetto alle Ideen I) dalle lezioni del 1910/11 e che, negli anni '20, verrà portato a compimento dalla Erste Phil.ll. Ricapitolando il «Gedankengang» della Fundamentalbetra­ chtung delle lezioni del 1909356, Husserl la suddivide in alcu­ ne tappe fondamentali che corrispondono sostanzialmente a quelle percorse dalle lezioni del 1906/7 e del 1907. Vengono innanzitutto (i) esposte le motivazioni gnoseologiche della ri­ duzione, e cioè il fine ultimo della teoria della conoscenza che consiste nel chiarimento delle pretese oscure della conoscenza trascendente e nel superamento della scepsi che ne pone in dubbio la possibilità; si introduce in seguito (ii) l'idea della ri­ duzione in quanto epoché e (iii) si chiarisce cartesianamente il nesso fra quelle motivazioni e Vepoché'. questa operazione è il mezzo del conseguimento dei fini gnoseologici perché permet­ te di scoprire un campo di datità assolute (le cogitationes) che 355 HU X Nr.51 pp. 335-353; tr. it. pp. 330-342. 356 Cfr. HU X pp. 345-349; tr. it. pp. 336-339.

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non sono affette dal problema della trascendenza; da ultimo (iv) interviene la riduzione vera e propria, e cioè una prima illustrazione del contenuto del campo dischiuso, che risulta contenere non solo le datità realmente (reell) immanenti, ma anche i loro correlati intenzionali. Così si comprende fino in fondo come l'epocJie-riduzione consenta la soluzione fenome­ nologica del problema gnoseologico della conoscenza tra­ scendente. Fin qui nulla di sostanzialmente differente da quanto accadeva nelle lezioni e da quanto accadrà ancora nelle Ideen I. Ma a questo punto interviene il colpo di scena («die Peripe­ tie» dice Husserl): «Una nuova meditazione indicò che, con tutto quanto precedeva, la possibilità di una scienza fenome­ nologica non era sufficientemente preparata, anzi, che essa in­ contra difficoltà che sembrano indurre ad una scepsi assolu­ ta.»357358 In questa nuova meditazione, infatti, si fa innanzi un nuovo grado della scepsi. Una prima forma di scepsi aveva puntato il dito contro le oscurità della conoscenza trascenden­ te, e dalla volontà gnoseologica di chiarire queste oscurità e di superare quella scepsi era scaturita la riduzione. Ora, però, sembra che si ripresenti lo stesso problema nella sfera della conoscenza immanente: anche il modo in cui sono date le cogitationes ha una sua problematicità, anche le pretese della conoscenza fenomenologica sono avvolte da una certa oscuri­ tà. La nuova forma di scepsi, di grado superiore alla prima, si nutre dunque di queste oscurità ed avanza dubbi contro la possibilità della conoscenza fenomenologica. E questo in un duplice senso. Essa pone innanzitutto in dubbio la possibilità di formulare giudizi obiettivamente validi sulle cogitationesì5t : la peculiare natura delle cogitationes, così come le ha dischiuse la riduzione, sembra infatti opporsi a questa possi­ bilità. Questo tipo di scepsi era già stata presa in considera­ zione nelle lezioni del 1906/7 ed Husserl aveva creduto di su­ perarla introducendo la riduzione eidetica. Ora però essa si fa più radicale - ed anche più coerente359 357 HU X p. 349; tr. it. p. 339. 358 HU X p. 338; tr. it. pp. 331-332. 359 II problema della conoscibilità delle cogitationes così come veniva posto (e risolto) nelle lezioni - e cioè presupponendo un campo di oggetti

253 ché non si limita più a porre in dubbio la possibilità della co­ noscenza scientifica delle cogitationes, ma minaccia di sfalda­ re lo stesso campo d'indagine fenomenologico, di ridurre il presunto campo infinito delle cogitationes ad un punto «che viene e subito vola via di nuovo».360 Inizialmente sembra ov­ vio che il campo dell'autodatità assoluta delle cogitationes coincida con il campo delle cogitationes che un determinato io (quello del fenomenologo) ha avuto ed avrà.361 Tuttavia, con­ tro quest'assunzione apparentemente ovvia, si può avanzare più di un dubbio. Innanzitutto, sollevando dei dubbi sulla portata conoscitiva della rimemorazione e della ritenzione sarà possibile escludere dal campo dell'autodatità assoluta tutte le rimemorazioni ed anche le ritenzioni immediate: Ma che cosa rispondere alla domanda, se il rimemorato sia stato veramente? E alla domanda circa la validità della rimemorazio­ ne? Essa si riferisce a una percezione precedente e la pone come realmente avvenuta. Questo glielo vediamo addosso, è un dato. Ma è proprio necessario che questa posizione sia valida? Così come la percezione di un essere di natura è posizione di una natura, e noi escludiamo tale posizione (cioè, nella fenomeno­ logia, ne lasciamo in sospeso la validità) perché in essa vi è un enigma, allo stesso modo sembra che si debba mettere nella nostra parentesi fenomenologica la validità della rimemorazio­ ne, visto che anch'essa trascende il fenomeno della rimemora­ zione e ce lo trasforma in un enigma. La stessa cosa che vale per la rimemorazione sembra dover valere altresì per quella co­ scienza che segue immediatamente il fenomeno che defluisce, e che noi chiamiamo ritenzione.362

Con questo il campo dell'autodatità assoluta appare ridotto ai fenomeni attuali. In una seconda fase, però, il dubbio scettico può venir rivolto anche contro la percezione dei fenomeni at­ tuali stessi. Quest'ultima, infatti, racchiude già in sé la riten­ zione e sembra dunque già compromessa con il problema della trascendenza. Il campo dell'autodatità sembra dunque ridursi con determinate caratteristiche ontologiche che non sono date e non sono «dabili» nella conoscenza - è infatti fenomenologicamente insensato. 360 HU X p. 349; tr. it. p. 340. 361 HU X p. 339; tr. it. p. 332. 362 HU X p. 340-341; tr. it. p. 333.

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ad un punto - l'ora assoluto - che fluisce costantemente e sfugge costantemente alla riflessione; esso sembra, cioè, ri­ dursi ad un nulla e l'idea di una conoscenza delle cogitationes che non racchiuda in sé alcuna oscurità (e sia quindi apoditti­ ca) sembra capovolgersi in uno scetticismo estremo.363 In questo testo del 1909, dunque, Husserl prende i dubbi scettici sulla possibilità della conoscenza immanente molto più sul serio che non nelle Ideen I, dove - come abbiamo visto - li liquiderà con l'argomento della «.Widersinnigkeit». E questi dubbi gli indicano un compito che le Ideen I tenderanno a sottacere - il compito di una critica dell'esperienza fenome­ nologica che delimiti il campo dell'autodatità assoluta - ed hanno quindi per implicita conseguenza una separazione del­ l'idea della riduzione apodittica dall'idea della riduzione fe­ nomenologica. Il modo in cui questa separazione ed il compito della delimi­ tazione della sfera dell'autodatità assoluta si prospettano in queste pagine è però piuttosto ambiguo. Come accadeva nel caso della critica della conoscenza trascendente, Husserl am­ mette da un lato che i dubbi sollevati a proposito della cono­ scenza immanente non sono interamente privi di fondamento; ammette cioè che essi fanno leva su delle effettive oscurità di questa conoscenza; d’altro lato, però, egli nega che tali oscuri­ tà siano ineliminabili e che quindi i dubbi scettici siano davve­ ro legittimi. Da queU'ammissione segue che l'estensione dell'autodatità assoluta deve venir delimitata e non coincide con l'intero campo delle cogitationes. Da questa negazione segue che tale estensione non può ridursi ad un nulla. Ma ancora una volta l'ambiguità deriva dal fatto che non si intende bene che rapporto ci sia fra l'ammissione di una relati­ va fondatezza dei dubbi scettici e la negazione della loro le­ gittimità; fra il significato positivo e quello negativo dello scetticismo. Vediamo. Husserl dimostra che i dubbi scettici non possono essere davvero fondati, adducendo l'argomento che se essi lo fossero, l'intera problematica fenomenologica, che consiste nell'individuazione e nel chiarimento delle oscurità della co­ noscenza trascendente, sarebbe priva di senso: 363 HU X pp. 350-351; tr. it. p. 340.

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Tutta questa problematica sarebbe di per sé priva di senso se non fosse possibile portare a datità assoluta la conoscenza stessa e se non fosse appurato e indubitabile che essa sia via via conoscenza di questo o quel contenuto (...); e se in proposito non si potessero fare enunciazioni che, a differenza delle enunciazioni sulla natu­ ra, non solo siano valide, ma siano indubitabilmente valide, in­ dubitabilmente, in quanto appunto non fanno altro che portare qualcosa di assolutamente dato ad espressione assoluta.364 Husserl dunque deduce la necessità che la parola «autodatità assoluta» non sia una parola vuota dalla necessità che la pro­ blematica gnoseologico-fenomenologica abbia un senso. Nella critica della conoscenza trascendente, che ha messo in luce le oscurità di questo tipo di conoscenza e ha motivato quell'ope­ razione - la riduzione - che ne rende possibile il chiarimento, l'idea dell'autodatità assoluta è stata presupposta. Se quella critica e questo chiarimento devono avere un senso, l'autodatità assoluta non può essere un vuoto nome. D'altra parte, però, Husserl ammette che la sua estensione debba venir delimita­ ta365 mediante una critica della conoscenza immanente. Ed ecco le ambiguità. Da un lato sembra che, se all'autodatità assoluta deve venir assegnato quel medesimo senso, che le è stato assegnato nella critica della conoscenza trascendente e nel far sorgere le motivazioni gnoseologiche per la riduzione, la critica della conoscenza immanente abbia il compito di con­ futare, di dimostrare infondata la scepsi che dubita dell'assolu­ tezza della conoscenza immanente. Ma allora questa critica si pone un compito impossibile. Nella critica della conoscenza trascendente, infatti, a valere come assolutamente dato era ciò che non racchiudeva alcuna trascendenza; ora però la scepsi ha mostrato che anche la conoscenza immanente - fin nella ritenzione, fin nella percezione attuale - racchiude delle tra­ scendenze. In questo caso i dubbi scettici, che si vorrebbero confutare, risultano fondati: se bisogna tener fermo un identi­ co significato di autodatità assoluta (e, correlativamente, di trascendenza) non si dà autodatità assoluta neppure nella sfera immanente. D'altro lato sembra che, per far fronte agli attacchi 364 HU X p. 343; tr. it. pp. 334-335. 365 Cfr. HU X p. 343; tr. it. p. 335 e p. 353; tr. it. p. 342.

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scettici, sia possibile modificare il senso dell'autodatità assolu­ ta sottoponendolo, esso stesso, al chiarimento fenomenologi­ co. Così la fenomenologia della ritenzione insegna che «entro la sfera della datità assoluta compare una validità trascenden­ te, che è e deve restare incontestata, in quanto essa non solo intenziona ciò che le è realmente (reell) trascendente, ma lo pone in modo manifestamente valido, in modo assolutamente valido.»366 In questo caso ai dubbi scettici viene riconosciuto un relativo diritto, ed essi risultano superabili trasformando il senso dell’autodatità. Allora, però, si trasforma, si deve tra­ sformare, anche il senso della problematica gnoseologicofenomenologica impostata nella critica dell'esperienza tra­ scendente. Husserl deduce la necessità che la parola «autodatità assoluta» abbia un senso dalla necessità che la proble­ matica gnoseologica sia sensata, ma il senso che il chiarimen­ to dell'autodatità finisce per assegnarle non coincide affatto e non può coincidere con quello anticipato dall'impostazione di quella problematica. Ne consegue che quell'impostazione deve essere rivista. Sembra, dunque, che Husserl si trovi di fronte ad un'antitesi insopprimibile: o mantiene il «senso» dell'autodatità assoluta che vien presupposto dall'impostazione del problema gnoseo­ logico della conoscenza trascendente ed allora questo proble­ ma si rivela irresolubile; oppure ammette che il «senso» dell'autodatità assoluta è un altro - quello cui approda il chiari­ mento fenomenologico -, che il problema gnoseologico è quindi male impostato e che, se questo problema deve venir impostato in modo tale da risultar risolubile, esso deve risol­ versi nel problema fenomenologico. Nel primo caso la sepa­ razione fra riduzione fenomenologica e riduzione apodittica, implicita nella decisione di prendere sul serio i dubbi scettici sulla portata della conoscenza fenomenologica, ha per conse­ guenza l'impossibilità della riduzione apodittica. Nel secondo, questa separazione ha, paradossalmente, per conseguenza la risoluzione della riduzione apodittica nella riduzione fenome­ nologica: se la riduzione fenomenologica non è eo ipso ridu­ zione apodittica è perché la riduzione apodittica non è nulla se non il risultato della riduzione fenomenologica. In breve: o la 366 HU X pp. 344-345; tr. it. p. 336.

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riduzione apodittica è impossibile, oppure essa si risolve nella riduzione fenomenologica. Posto di fronte a quest'antitesi, Husserl naturalmente non sceglierebbe fra l'uno e l'altro termine, ma cercherebbe di conciliarli interpretandone teleologicamente il nesso. In questa interpretazione, la differenza fra il senso dell'autodatità assolu­ ta anticipato dall'impostazione del problema gnoseologico ed il senso che a quest'autodatità assegna il chiarimento fenome­ nologico non escluderebbe l'identità di quel senso, perché sa­ rebbe interpretabile come differenza fra oscurità e chiarezza, fra anticipazione oscura e telos evidente.367 Tuttavia, come abbiamo affermato più volte, il pensiero husserliano tende, senza tuttavia mai raggiungerla, verso la seconda alternativa; tende, cioè, a risolvere la riduzione apodittica (filosofica) nella riduzione fenomenologica. Le lezioni sui Grundprobleme der Phänomenologie del 1910/11, nelle quali - come abbiamo anticipato - viene posto per la prima volta il duplice problema dell'unità del campo fe­ nomenologico e del tipo di evidenza proprio della conoscenza fenomenologica, rappresentano, a mio avviso, un primo tenta­ tivo in questa direzione. In queste lezioni, infatti, Husserl tenta di introdurre l'idea della riduzione fenomenologica sgancian­ dola da quelle motivazioni filosofico-gnoseologiche che, indi­ candole un ideale predeterminato di conoscenza assoluta che essa deve (dovrebbe) permettere di conseguire, ne pregiudica­ no la meta. In questo contesto - come Husserl stesso afferma in una nota apportata al testo in una revisione successiva368 emerge l'idea di una critica apodittica dell'esperienza fenome­ nologica, che, a differenza di quanto avviene ove la riduzione venga introdotta per motivazioni gnoseologico-filosofiche, non ha tanto la funzione di dimostrare che la conoscenza fe­ nomenologica può di fatto adeguare un ideale predefinito di apoditticità, ma serve invece a chiarire fenomenologicamente i vari modi di datità fenomenologica e ad individuare, fra que­ sti, quelli apodittici. Ora, anche qui l'introduzione dell'idea di riduzione avviene in alcune «ondate» fondamentali: (i) Husserl parte dall'illu­ 367 Cfr. § 3.20. 368 Cfr. HU XIII p. 159 n.l.

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strazione di una serie di atteggiamenti: l'atteggiamento natu­ ralistico empirico e l'atteggiamento apriorico delle ontologie della natura e delle ontologie formali369 ; (ii) si chiede poi se accanto a questi atteggiamenti orientati verso gli oggetti ne sussistano altri, rivolti verso la soggettività, che non rientrino nella prima categoria, si chiede, cioè, se non siano possibili degli atteggiamenti che colgano la soggettività facendo astra­ zione dalla sua empiricità, dalla sua appartenenza all'essere naturalistico.370 Indaga quindi sulla separabilità degli Erleb­ nisse dagli oggetti naturali, adottando un atteggiamento che è già fenomenologico anche se non è ancora teorizzato come tale371; (iii) introduce infine esplicitamente l'idea dell'atteg­ giamento fenomenologico e della riduzione fenomenologica di cui, esercitandola, ha mostrato la possibilità in (ii).372 Il fatto che l'introduzione della riduzione non sia qui orienta­ ta da alcuna motivazione gnoseologico-filosofica373 è all'ori­ gine delle rilevanti differenze che questo percorso presenta ri­ spetto a quello delle lezioni del 1906/7374 ed anche del 1909. Innanzitutto, nella prima fase, l'atteggiamento naturalistico viene semplicemente descritto al fine di chiarire se accanto ad esso sia possibile un atteggiamento fenomenologico. Esso non viene più sottoposto ad una critica quasi-scettica al fine di motivare il mutamento di atteggiamento implicito nella ridu369 Cfr. HU XIII pp. 111-138. 370 Cfr. HU Xm pp. 138-140. 371 Cfr. HU XHI pp. 141-148. In realtà, nel § 14, Husserl non si limita a mostrare la separabilità degli Erlebnisse dagli oggetti naturali, ed a mo­ strare, quindi, la possibilità della riduzione fenomenologica, ma si spinge fino ad affermare il «Seinsvorzug» degli Erlebnisse rispetto agli oggetti naturali; si spinge, cioè, sino ad affermare quella tesi filosofica che, nelle Ideen I, sarà all'origine della presa di posizione a favore dell'idealismo trascendentale. 372 Cfr. HU Xm pp. 148-150. 373 Anzi, come afferma Husserl stesso, quest'introduzione non è orientata da alcuna motivazione: «Non è necessario attribuire alla fenomenologia delle motivazioni in nome delle quali essa mette fuori gioco la posizione empirica. Come fenomenologia essa non ha motivazioni di questo tipo. Può essere che ne abbia il fenomenologo e son fatti privati. La fenomeno­ logia mette fuori gioco la posizione empirica e si limita a ciò che resta. L'unico problema è che cosa c'è da indagare, se rimane spazio per una scienza.» (HU Xm pp. 156-157). 374 Cfr. § 3.14.

259 zione. Alla conoscenza naturalistica delle scienze della natura viene riconosciuta, sin dall'inizio, una determinata ed incon­ testabile forma di evidenza, che è certo suscettibile di venir analizzata e chiarita, ma che non viene affatto sminuita con­ frontandola con un'evidenza di grado superiore.375 In secondo luogo, e correlativamente, l'illustrazione del tipo di conoscen­ za cui la riduzione apre l'accesso non è affatto volta a mostrar­ ne la presunta apoditticità o, comunque, la presunta superiorità rispetto alla conoscenza naturalistica. Questa duplice differenza rispetto alle lezioni del 1906/7 (e anche del 1909) si compendia nella differente interpretazione, che Husserl dà qui, del proprio rapporto con Descartes. Poiché egli astrae completamente dall'ideale di una scienza assoluta, lascia interamente cadere il procedimento, di stile cartesiano, consistente nel far emergere l'apoditticità della conoscenza immanente dal contrasto con la dubitabilità della conoscenza trascendente. Certo anche in queste lezioni egli afferma che Descartes è stato il primo filosofo che abbia compiuto una ri­ duzione fenomenologica376, ma critica poi il fatto che, avendo compiuto quest'operazione al fine di costruire una scienza as­ soluta, Descartes ne abbia immediatamente stravolto il senso. In realtà - chiarisce Husserl - l'intenzione di edificare una scienza assoluta non deve esser lasciata cadere: è l'intenzione di ogni filosofia. Ma voler determinare in anticipo in che rap­ porto la conoscenza fenomenologica stia con quest'intenzione può condurre a ripetere l'errore cartesiano, e cioè a stravolgere il senso della riduzione in nome di un ideale pregiudizievole di conoscenza assoluta: Se e come la conoscenza nell'atteggiamento fenomenologico possa servire a fondare in generale una conoscenza assoluta (...) non può venir né stabilito né compreso all'inizio. Ed il procedi­ mento di Descartes fallì perché egli immaginò di poter azzarda­ re una fondazione della scienza assoluta, senza un'indagine sul senso della scienza assoluta e senza stabilire una fenomenologia sistematica, di cui non presagiva neppure l'esistenza.377

375 376 377

Cfr. HUXIHp. 121. Cfr. HU Xin p. 150. HUXnipp. 150-151

260 Se si vuol evitare di cadere negli errori in cui è caduto Descar­ tes (e, aggiungo io, nelle oscurità e negli stravolgimenti del senso della problematica fenomenologica in cui è caduto Hus­ serl stesso nelle lezioni del 1906/7), occorre dunque effettuare la scelta che Husserl compie in queste lezioni del 1910/11, oc­ corre cioè lasciare impregiudicato il nesso fra la conoscenza fenomenologica e la scienza assoluta per dedicarsi, dapprima, al chiarimento della possibilità ed all'edificazione di quella fe­ nomenologia sistematica di cui Descartes non presentiva nep­ pure la possibilità. In questo contesto i dubbi scettici sulla portata della cono­ scenza fenomenologica assumono un significato del tutto di­ verso da quello che assumevano nelle lezioni del 1909, dove la riduzione veniva introdotta per motivazioni gnoseologiche. Innanzitutto l'obiezione che le datità fenomenologiche non so­ no datità assolute - che colpisce la conoscenza fenomenologi­ ca nella misura in cui essa pretende di essere eo ipso cono­ scenza apodittica - non la tocca affatto in quanto essa, come qui accade, pretende di essere semplicemente una forma di conoscenza, così come lo sono le scienze empiriche: Anche se l'assoluta indubitabilità è un'idea che non è pienamen­ te realizzabile in nessuna scienza, neppure in quella fenomeno­ logica, (...) la fenomenologia mantiene comunque, come la scienza della natura, il suo valore, nella misura in cui è evidente che in linea di principio la datità fenomenologica è un'autentica datità e che il metodo fenomenologico è un metodo autenti­ co.378

In secondo luogo la risposta, implicita nella critica apodittica della conoscenza fenomenologica, ai dubbi scettici sulla porta­ ta assoluta di questa conoscenza perde quell'ambiguo tratto confutatorio che essa sembrava assumere nelle lezioni del 1909, e che connoterà decisamente l'atteggiamento husserlia­ no nei confronti di questi dubbi nelle Ideen I.379 Essa, in altre parole, non ha qui lo scopo di dimostrare, confutando questi dubbi, come la conoscenza fenomenologica possa davvero 378 HUXnip. 158. 379 Dove Husserl, come abbiamo visto sopra, applica l'argomento della «Widersinnigkeit» di questi dubbi.

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adeguare quel presupposto ideale di conoscenza assoluta in nome del quale è stata effettuata la riduzione. Qui non è stato presupposto alcun ideale di conoscenza assoluta. La critica della conoscenza fenomenologica, che Husserl conduce nel quarto capitolo delle lezioni del 1910/11380, ha invece lo sco­ po di passare in rassegna i vari tipi di datità fenomenologica, di individuare fra questi quelli che valgono come apodittici, e di chiarire così il senso stesso dell'apoditticità. In breve: poi­ ché qui non si è presupposto un ideale di conoscenza assoluta, poiché la riduzione è sganciata dalle motivazioni filosofiche, la critica apodittica della conoscenza fenomenologica tende a risolversi in una fenomenologia della conoscenza fenomeno­ logica, ché essa non consiste nel criticare la conoscenza feno­ menologica con il metro dell'ideale di conoscenza assoluta, ma nel chiarire, o nel preparare il chiarimento del senso stesso di quest'ideale381, a partire da una fenomenologia della cono­ scenza fenomenologica. 18. Le lezioni sui Grundprobleme der Phänomenologie, nelle quali, come abbiamo visto, Husserl scinde l'idea della ri­ duzione fenomenologica dalle motivazioni filosofiche e nelle quali emerge, per la prima volta, l'idea di una critica apodittica dell'esperienza fenomenologica, presentano, a mio avviso, una fortissima «spinta in avanti», analoga forse solo a quella delle L.U., e racchiudono già i germi dello sviluppo del pensiero husserliano successivo alle Ideen I.382 L'impulso che esse im­ 380 Cfr. HUXnipp. 159-171. 381 E meglio dire «nel preparare il chiarimento», perché in queste lezioni Husserl non è affatto interessato alla questione filosofica della scienza assoluta, e si limita quindi ad affermare, in polemica con Descartes, che il senso di questa scienza deve venir chiarito fenomenologicamente e che il suo rapporto con la fenomenologia può venir determinato solo quando sia stata sviluppata una fenomenologia sistematica (e quindi anche una fe­ nomenologia della conoscenza fenomenologica). (Cfr. HU XIH p. 151). 382 Nell'esposizione del paragrafo precedente non abbiamo certo illustra­ to l'importanza di queste lezioni in tutti i suoi aspetti. Ad esempio abbia­ mo esaminato la questione della scissione di riduzione fenomenologica e riduzione apodittica, astraendo interamente dalla sua connessione con il problema dell'estensione della riduzione all'intersoggettività. Tuttavia an­ che, e forse soprattutto, quest'estensione, rappresenta uno degli apporti fondamentali di queste lezioni, che superano in anticipo la posizione

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primono nella riflessione husserliana degli anni '20 è di rilievo tanto metafenomenologico quanto metafilosofico. Innanzitutto, con la scissione dell'idea della riduzione feno­ menologica dalle motivazioni filosofiche - dall'idea filosofica di una scienza assoluta - subentra, nel pensiero husserliano, un fatto nuovo: la tendenza fenomenologica alla disobiettivazione della soggettività viene per la prima volta libe­ rata da quella subordinazione alla tendenza dis-soggettivante (antipsicologistica e, più in generale, antiscettica) inaugurata dai Prolegomena. Con questo Husserl getta le basi per l'elabo­ razione di una scienza fenomenologico-psicologica della sog­ gettività - cui dedicherà interamente le lezioni del semestre estivo del 1925 sulla Phänomenologische Psychologie - che porta a compimento quella riforma della psicologia implicita nelle L.U., che nella fase «intermedia» del suo pensiero rima­ ne latente perché egli è quasi esclusivamente orientato da mo­ tivazioni filosofiche e, di conseguenza, la tendenza fenomeno­ logica dis-obiettivante rimane subordinata alla tendenza filo­ sofica dis-soggettivante. In secondo luogo, alcune delle posizioni adombrate nelle lezioni del 1910 sono aH'origine anche della tendenza che ca­ ratterizzerà la riflessione metafilosofica degli anni '20. In questa riflessione Husserl non farà che approfondire il duplice rimprovero che nelle lezioni rivolge contro Descartes, ma che potrebbe, in una certa misura, rivolgere anche contro la pro­ pria esposizione dell'idea di riduzione nelle lezioni del 1906/7 e ancora nelle Ideen I. Da un lato, infatti, egli sottoporrà le motivazioni filosofiche, che fino alle Ideen I vengono fatte valere in modo quasi-istintivo, ad un progressivo chiarimento, delle Ideen I e che, come afferma Husserl stesso, rimasero a lungo inuti­ lizzate: «È per me un lungo cammino dalla prima elaborazione di teorie importanti sino al loro pieno dominio. Ci vuole parecchio tempo perché le varie serie di pensieri stringano amicizia e si riconoscano persino come figlie inestricabilmente intrecciate di un unico regno. Così ad esempio l'estensione della riduzione fenomenologica all'intersoggettività che ave­ vo sviluppato in un periodo sfavorevole ma molto produttivo* (*in un corso del semestre invernale 1910/11) è rimasta a lungo inutilizzata.» (Lettera ad Ingarden del 10 dicembre 1925 in Husserl [1994] Bd.HI p. 229). Sull'importanza delle lezioni del 1910/11 per lo sviluppo successi­ vo del pensiero husserliano cfr. anche Kem [1973] pp. XXXIÉ-XXXIX.

263 riconoscendone le radici nella storia del pensiero e «fondandone», per così dire, la necessità in un atteggiamento etico del filosofo. In questo progressivo chiarimento l'ideale di scienza apodittica diverrà sempre più puro, sempre più di­ sgiunto da concezioni pregiudizievoli della scienza assolu­ ta383, sino a ridursi all'ideale etico dell'assoluta autorespon­ sabilità.384 D'altro lato, nella sua individuazione e descrizione delle vie «indirette» della riduzione, Husserl farà fruttare l'idea, fatta valere contro Descartes nelle lezioni del 1910/11, che la definizione del nesso fra la conoscenza fenomenologica e l'ideale filosofico presuppone che sia stata edificata l'intera fenomenologia pura. Radicalizzando quest'idea, egli giungerà, nella Krisis, ad intendere la filosofia come il limite della pro­ gressiva esplicazione della fenomenologia pura. Queste due tendenze apparentemente divergenti - la tenden­ za alla purificazione dell'ideale filosofico, al chiarimento della volontà antiscettica in cui ha origine la filosofia, e la tendenza a far coincidere la realizzazione dell'ideale filosofico con quello scetticismo estremo che è la psicologia fenomenologica interamene esplicata - sono in realtà un'unica tendenza scorta da prospettive diverse. Esse sono i due lati dell'abbandono del procedimento cartesiano che fa emergere l'apoditticità di una certa forma di sapere dal contrasto con un'altra forma, la quale appare invece soggetta al dubbio; un procedimento che, nelle lezioni del 1906/7 (ed anche del 1909) e nelle Ideen I, Husserl stesso ha creduto di poter applicare al fine di fondare la con­ nessione fra conoscenza fenomenologica e scienza assoluta. Questo procedimento - l'abbiamo ripetuto più volte - consiste nello scavare una differenza fra le due forme di sapere, sotto­ ponendo ad una critica quasi-scettica una delle due forme al fine di mostrare l'apoditticità dell'altra, e presuppone una de­ terminata precomprensione dell'apoditticità attorno alla quale ruota quella critica: senza precomprensione niente critica e niente differenza. Ora, il progressivo chiarimento cui Husserl sottopone l'ideale della scienza assoluta va nella direzione di uno svuotamento di questa precomprensione, così come il 383 Va vista in questo contesto la separazione dell'evidenza apodittica dall'evidenza adeguata nelle CM. (Cfr. § 3.13). 384 Cfr. §§ 3.19-3.20.

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progressivo avvicinamento della filosofia alla psicologia fe­ nomenologica coincide con l'abbandono del lato critico e fon­ dante differenze di valore della filosofia. Se la tendenza alla purificazione dell'ideale filosofico raggiungesse il nulla, filo­ sofia e psicologia fenomenologica coinciderebbero; d'altra parte è solo perché quell'ideale non diviene assolutamente vuoto che fra le due discipline continua a sussistere una diffe­ renza. Se si intravede questa connessione originaria fra le due linee di tendenza della riflessione metafilosofica che Husserl avvia a partire dagli anni '20, lo sviluppo del pensiero husserliano dalla Erste Phil.II alla Krisis non può venir descritto come un progressivo allontanamento dal cartesianismo.385 Al contrario esso appare come un tentativo di radicalizzare il radicalismo cartesiano, abbandonando i motivi cartesiani dogmatici, che in Descartes (e nello Husserl delle Ideen I) frenano quel radicali­ smo. La purificazione dell'ideale di scienza assoluta, la libe385 Landgrebe [1962] sostiene che nella Erste Phil.H avviene l'inconsa­ pevole distacco di Husserl dalla tradizione (cartesiana) del pensiero mo­ derno: «Solo lo sguardo all'indietro a partire dalla distanza storica che abbiamo ormai conseguito permette di comprendere che in questo testo si compie l'addio a tradizioni normative del pensiero moderno e l'ingresso in un nuovo terreno della riflessione del pensiero su se stesso. È un addio involontario, in cui Husserl voleva perfezionare e portare a compimento questa tradizione, senza esser consapevole del fatto di come, con questo tentativo, la dissolvesse. Così questo testo è il commovente documento dello sforzo inaudito di esprimere con i mezzi della terminologia della tradizione del pensiero moderno un contenuto che si sottrae già alle sue alternative e prospettive.» (p. 164). A quest'affermazione si può, a mio avviso, controbattere che la circostanza che, in Husserl, la rottura con la tradizione del pensiero moderno avvenga per motivazioni che scaturisco­ no da questa stessa tradizione può esser indice, anziché di un'errata auto­ interpretazione che Husserl darebbe del proprio operato, di una continuità profonda fra il pensiero moderno ed il pensiero del tardo Husserl (e gli sviluppi filosofici novecenteschi che scaturiscono da questo pensiero); una continuità che non è un semplice residuo scampato alla rottura con­ sumata dalla Erste Phil., ma rappresenta al contrario il movente di questa stessa rottura. Se la «distanza storica» fra il Landgrebe che scriveva que­ sto saggio sull'addio husserliano al cartesianismo e la Erste Phil, permet­ teva a Landgrebe di affermare che nella Erste Phil, si era consumata (contro le intenzioni di Husserl stesso) una rottura epocale, la nostra di­ stanza storica dal saggio di Landgrebe può forse permetterci di intravede­ re, finalmente, la continuità profonda da cui scaturisce quella rottura.

265 razione dai pregiudizi che assegnano alla scienza assoluta ca­ ratteristiche derivate dal modello della matematica - pregiu­ dizi che agiscono prepotentemente in Descartes e, in modo più sublimato, anche in Husserl386 - va in questa direzione, e la tendenza a sovrapporre la filosofia alla psicologia fenomeno­ logica non è che la controparte di quella purificazione. Certo in Husserl il nesso originario fra queste due tendenze non è delineato in modo tanto netto. Egli sembra inseguirle separatamente387 e guidato da motivazioni distinte. Ciò che lo induce a purificare l'ideale di scienza apodittica, introducendo, ad esempio, la distinzione fra apoditticità ed adeguazione, è la preoccupazione di non compromettere la realizzazione di quell'ideale. D'altra parte, ciò che lo spinge ad affermare il pa­ rallelismo ed al limite la coincidenza di psicologia fenomeno­ logica e filosofia trascendentale sembra sia solo il progressivo approfondimento ed ampliamento dell'idea di psicologia fe­ nomenologica. Questo fatto - il fatto, cioè, che Husserl percorra separatamente le due linee di tendenza - è probabilmente all'origine di quell'interpretazione che descrive lo sviluppo del pensiero husserliano dopo la Erste Phil.W come un allontanamento dal cartesianismo. Dal punto di vista di quest'interpretazione, il chiarimento dell'ideale cartesiano di scienza apodittica appare come un ultimo disperato tentativo di salvare quell'ideale, mentre il progressivo avvicinamento di filosofia e psicologia fenomenologica appare come una sorta di rassegnata accetta­ zione dell'impossibilità di realizzare l'ideale di scienza assolu­ ta. In realtà quel chiarimento non consiste in un indebolimento dell'ideale cartesiano, ma in un suo rafforzamento; e questo avvicinamento non è affatto un ripiego, ma equivale all'indi­ viduazione dell'unico mezzo di realizzazione dell'ideale car­ tesiano radicalizzato. 386 Nell'identificazione di evidenza apodittica ed evidenza adeguata. 387 II chiarimento dell'ideale della scienza assoluta è perseguito nella Er­ ste Phil.Y, nella prima parte della Erste Phil.YI, nelle CM e, almeno im­ plicitamente, nell'introduzione della Krisis. La seconda tendenza si mani­ festa invece nella seconda parte della Erste Phil.Yl, nell'articolo per VEnciclopedia Britannica, negli Amsterdamer Vorträge, e nell'ultima parte della Krisis. La Erste Phil.Yl mostra comunque inequivocabilmente la connessione originaria fra le due tendenze.

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D'altra parte questo stesso fatto, e cioè che Husserl persegue le due tendenze in questione separatamente e guidato da moti­ vazioni distinte, spiega certamente perché queste due tendenze non giungano a compimento neppure nella Krisis, perché cioè la purificazione dell'ideale della scienza apodittica non condu­ ca nel vuoto e la differenza fra psicologia e filosofia non ven­ ga soppressa; perché l'apoditticità continui a mantenere un senso - che è ancora solo un senso etico e coincide con l'asso­ luta autoresponsabilità - che si riflette nella e che fonda la dif­ ferenza di filosofia e psicologia fenomenologica. Husserl, in­ fatti, non fuoriesce dal paradigma cartesiano, non ne contem­ pla dall'esterno la struttura ed i difetti, ma lo trasforma dall'in­ terno. Egli radicalizza la volontà cartesiana di apoditticità fino a ridurre il suo oggetto a ciò che essa è, ma non si spinge nel regno oscuro del dubbio sulla stessa volontà di apoditticità. Per questo la sua radicalizzazione del paradigma cartesiano la­ scia aperta la possibilità di questo dubbio e si espone alla cri­ tica beffarda di chi, essendosi spinto in quell'oscuro regno, non si lascia incantare dalla sincerità e dal coraggio con cui viene tenuta ferma la volontà di apodittiticità: In singoli e rari casi può realmente essere interessata una tale volontà di verità, un qualche smisurato ed avventuroso corag­ gio, un'ambizione da metafisici di una sentinella perduta, che preferisce pur sempre un pugno di «certezza» a un'intera carroz­ za carica di belle possibilità, possono esserci perfino puritani fanatici della coscienza, che preferirebbero agonizzare su un sincero nulla piuttosto che su un incerto qualche cosa. Ma que­ sto è nichilismo e indice di un'anima disperante, mortalmente esausta: per quanto gli atteggiamenti di una tale virtù possano apparire prodi.388

19. Delle lezioni del 1924/25 dedicate alla Erste Philosophie è stato scritto che percorrono il cammino «di un'avventura spe­ rimentale del pensiero, la cui riuscita viene messa costantemente in discussione dalle riflessioni che accompagnano la lezione, ed il cui sbocco non è predefinito, così che essa di fatto conduce in tutt'altra direzione rispetto alle previsioni

388 NW 5 p. 23 tr. it. vol.VI t.II p. 14.

267 iniziali di Husserl.»389 Apparentemente questo è vero soprat­ tutto per quel che riguarda il tentativo - messo in atto nella se­ conda sezione390391 , sulla base dei risultati della Kritische Ideen­ geschichte™ e delle «Vormeditationen über den apodikti­ schen Anfang der Philosophie» della prima sezione392393 - di radicalizzare la via cartesiana della riduzione percorsa dalle Ideen I. In realtà anche - e forse soprattutto - il secondo ten­ tativo che Husserl abbozza nella Erste Phil.ll™ - e cioè il tentativo di aprire una seconda via d'accesso alla soggettività trascendentale attraverso la psicologia intenzionale - appare estremamente problematico. L'esposizione presenta salti e la­ cune e, d'altra parte, Husserl stesso si rimprovera errori di no­ tevole importanza.394 Tutte queste lacune ed errori sono, a mio avviso, riportabili ad un'unica ambiguità fondamentale, che grava sulla seconda via dischiusa dalle lezioni, la quale appare ora come un appro­ fondimento e riempimento delle manchevolezze costitutive della via cartesiana, ora come una via perfettamente autono­ ma, alternativa a quella cartesiana. Questa via attraverso la psicologia, infatti, viene inizialmente introdotta - così almeno sembra - come un approfondimento della via cartesiana. In un secondo momento, però, Husserl mostra di considerarla come una via autonoma e la tendenza generale delle lezioni inclina manifestamente verso questa seconda interpretazione del significato della via attraverso la psicologia. In questa ten­ denza sembra tuttavia implicito un rischio: se la riduzione fenomenologico-psicologica conduce autonomamente, indipen­ dentemente dai motivi di derivazione cartesiana, e senza salti, alla riduzione filosofica, non si dovrà affermare che riduzione fenomenologico-psicologica e riduzione filosofica coincidono, e che la psicologia fenomenologica è eo ipso filosofia trascen­ dentale? In realtà Husserl non corre qui questo rischio, poiché assieme al significato della via attraverso la psicologia - che 389 Landgrebe [1962] p. 163. 390 Cfr. HUVnipp. 44-81. 391 Cfr. HU VII. 392 Cfr. HU Vni pp. 3-43. 393 Cfr. HU Vili pp. 82 sgg.. 394 Cfr. le osservazioni critiche al «Gedankengang» delle lezioni, raccolte dal curatore nella Beilage II, pp. 310-320.

268 appare dapprima come approfondimento della via cartesiana e poi come via autonoma - si trasforma anche il telos cui Hus­ serl mira. Nell'illustrazione della via cartesiana mira alla de­ scrizione di una via d'accesso alla filosofia; nel percorrere la via attraverso la psicologia si propone invece di indicare una via d'accesso a quella scienza senza pretese filosofiche che è la fenomenologia trascendentale. Una volta che gli sarà riusci­ to di mostrare come questa scienza sia raggiungibile passando attraverso la psicologia fenomenologica, resterà ancora aperto il problema filosofico dell'apoditticità della conoscenza feno­ menologica, che è stato posto e può esser posto solo nel con­ testo della via cartesiana. In breve: il considerare la via attra­ verso la psicologia come una via autonoma ed alternativa a quella cartesiana non espone Husserl al rischio di identificare filosofia e psicologia fenomenologica, perché quella via è davvero alternativa a quella cartesiana solo dal punto di vista dell'accesso alla fenomenologia pura in quanto scienza afilo­ sofica. Dal punto di vista dell'accesso alla filosofia, invece, es­ sa rappresenta un'integrazione, un riempimento del vuoto ap­ parente verso cui sembra condurre la via cartesiana. Ma ve­ diamo più da vicino. La trasformazione del significato della via attraverso la psi­ cologia fenomenologica (da approfondimento della via carte­ siana a via autonoma) avviene nella terza sezione delle lezio­ ni.395 La via cartesiana mirava all'evidenza apodittica. Per conseguirla è stata introdotta la riduzione fenomenologica che ha dischiuso l'accesso alla soggettività trascendentale. A diffe­ renza di quanto accadeva nelle Ideen I, questa soggettività non è però apparsa immediatamente come una campo di datità apodittiche. Husserl infatti ha lasciato cadere il procedimento cartesiano che fa scaturire l'apoditticità della soggettività tra­ scendentale dal contrasto con la dubitabilità dell'essere del mondo. Poiché riduzione fenomenologica e riduzione apodit­ tica sono state così separate l'una dall'altra, si è posto il compi­ to di una critica dell'esperienza fenomenologica.396 Prima di affrontare questo compito è però apparso necessario gettare 395 Cfr. HU Vili pp. 82-131. Sull'ambiguità di questa sezione cfr. Boehm [1959-3] pp. XV-XDC. 396 Cfr. HU Vni p. 80.

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uno sguardo (nella terza sezione) nel campo della soggettività dischiuso dalla riduzione fenomenologica e descrivere quelle strutture della soggettività che rendono possibile la stessa ri­ duzione. L'intenzione originaria che guida Husserl nell'avvio della terza sezione sembra dunque sia quella di chiarire feno­ menologicamente gli atti implicati dalla riduzione fenomeno­ logica.397 Questa illustrazione fenomenologica della possibili­ tà della riduzione fenomenologica assume però a posteriori il significato di apertura di una nuova via che «può venir percor­ sa in modo del tutto indipendente dalla prima, «cartesiana», e senza tener presente la sua motivazione».398 La svolta nell'in­ terpretazione del significato delle analisi sulla struttura della soggettività condotte nella terza sezione avviene alla fine di questa stessa sezione, nella ricapitolazione del percorso segui­ to dall'intera serie di lezioni. Nella sezione successiva399 poi, Husserl mostra come questa nuova via conduca alla sogget­ tività trascendentale, come cioè la riduzione psicologicofenomenologica sfoci in una riduzione fenomenologico-trascendentale. Stando alla interpretazione che Husserl ne dà a posteriori, la riduzione fenomenologico-psicologica avviata nelle analisi della terza sezione consiste dapprima in una riduzione eserci­ tata sui singoli atti, che si estende poi progressivamente ai loro orizzonti fino a comprendere l'intera vita del fenomenologo.400 Rispetto alla via cartesiana - che introduce d'un colpo la diffe­ renza di soggettività trascendentale e soggettività empirico­ psicologica e nella quale la riduzione appare come un vero e proprio salto nel vuoto - questa nuova via presenta il vantag397 Cfr. l'osservazione che Husserl annota a margine della p. 87 r.36: « inizia la trattazione del problema: come si debba chiarire il senso e la Leistung dell'epoché trascendentale; quindi una teoria fenomenologi­ ca dell'epoché sulla base della riflessione in generale.» (HU Vili p. 313). 398 HU Vili p. 312 rr.38-40. Cfr. anche p. 313 rr.14-15 e rr.17-27. 399 Cfr. HU Vili pp. 132-190. 400 Cfr. HU Vili pp. 312-313: «Si parte dalla riduzione su singoli atti, che viene effettuata nelle analisi esemplificatrici seguenti. Con queste singole riduzioni, in cui la messa fuori gioco del mondo è sempre solo circostan­ ziale e relativa, non si consegue ancora la purezza trascendentale in senso rigoroso, ma solo una purezza nel senso della psicologia empirica. Da es­ sa la via conduce all'autentica purezza trascendentale attraverso una ri­ duzione universale...».

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gio di condurre, passo per passo, dalla soggettività empirico­ psicologica alla soggettività pura, dischiudendone progressi­ vamente le strutture e dischiudendo, in particolare, quelle strutture della soggettività che rendono possibile il procedi­ mento stesso della riduzione.401 Essa, in altre parole, ha il grosso vantaggio di mostrare la possibilità fenomenologica della riduzione fenomenologica di cui - nella via cartesiana viene semplicemente dedotta la necessità filosofica. Questo vantaggio è però evidentemente anche un limite, ché, in ragione di questa sua caratteristica la via attraverso la psico­ logia non può condurre là dove conduce la via cartesiana, e cioè alla riduzione filosofica vera e propria. Una volta che es­ sa abbia dischiuso il campo della soggettività trascendentale e della fenomenologia pura, resta ancora aperto il compito filo­ sofico di una critica apodittica dell'esperienza trascendenta­ le.402 Il senso di questo compito, le motivazioni filosofiche, la necessità filosofica della riduzione non possono in alcun modo scaturire dalla via attraverso la psicologia, della quale è caratteristica la disgiunzione dalle motivazioni peculiari della via cartesiana. Se la via attraverso la psicologia deve costituire una via d'ac­ cesso, oltre che alla fenomenologia, anche alla filosofia occor­ re dunque porla in relazione con quelle motivazioni; occorre in altre parole determinare il nesso fra riduzione fenomenolo­ gica e riduzione apodittica, fra riduzione trascendentale (come riduzione psicologica universalizzata) e riduzione filosofica vera e propria. Ora, questo problema, nelle lezioni del 1924/25 non è vera­ mente posto.403 Questo dipende dal fatto che, nel corso delle 401 «...il nostro nuovo procedimento ha l'enorme vantaggio che ci apre la più ampia e profonda comprensione delle strutture della soggettività su cui si fonda la possibilità epoché, e con ciò una profonda compren­ sione del suo senso puro. Se fossimo già interamente fenomenologi, po­ tremmo dire che il nuovo procedimento non offre solo il metodo della ri­ duzione fenomenologica ma anche una fenomenologia della riduzione fenomenologica.» (HU VHI p. 164). 402 Cfr. HU Vin pp. 169-173. 403 In un'annotazione critica alla propria illustrazione dello sfociare della riduzione psicologica effettuata sui singoli atti in riduzione trascendentale (o riduzione psicologica universale) è Husserl stesso ad ammettere che: «Adesso manca la vera caratteristica della riduzione filosofico-trascen-

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lezioni, Husserl si fa attrarre da una prospettiva (che egli ave­ va già dischiuso nelle lezioni del 1910/11 sui Grundprobleme der Phänomenologie) del tutto eccentrica rispetto all'orientameuto originario delle lezioni, che è filosofico: la prospettiva di riformare la psicologia, edificando una scienza fenomenologico-psicologica autonoma senza pretese filosofiche. Per questo la sua attenzione si sposta dal problema, aperto dalla radicalizzazione della via cartesiana, del nesso fra riduzione fenomenologica e riduzione apodittica, al problema del nesso fra riduzione psicologica (esercitata sui singoli atti) e riduzio­ ne fenomenologica universale. Ad affrontare il problema rap­ presentato dal primo nesso, Husserl potrà tornare solo quando sarà perfettamente in chiaro sul secondo, quando cioè avrà elaborato con più precisione l'idea di una scienza psicologicofenomenologica autonoma. Questa elaborazione avverrà supe­ rando la rappresentazione scorretta della riduzione psicologica come riduzione effettuata sui singoli atti ed interpretando questa riduzione come già in sé universale404; avverrà, cioè, identificando la riduzione psicologica con la riduzione tra­ scendentale universale, la psicologia fenomenologica con la fenomenologia pura. Il problema del rapporto fra riduzione fenomenologica e riduzione apodittica assumerà allora la for­ ma del problema del rapporto fra psicologia fenomenologica e filosofia fenomenologica. Tuttavia, se anche nella Erste Phil.H questo problema non è ancora posto, è pur vero che, almeno nella misura in cui la nuova via attraverso la psicologia viene presentata come un'integrazione della via cartesiana e non come una via auto­ noma, è in questa serie di lezioni che si definiscono i termini in cui esso verrà affrontato nell'articolo per l'Enciclopedia Britannica e nella Krisis, e si prefigurano, d'altra parte, le dif­ ficoltà cui andrà incontro la sua soluzione. Partiamo dalla fine. Nel citatissimo passo del § 43 della dentale rispetto a quella psicologica universale.» (HU Vili p. 319 rr.3537). 404 Cfr Phänomenologische Psychologie § 37 HU IX pp. 187-192 e Bei­ lage XXII p. 473; e soprattutto le osservazioni critiche (anch'esse risalenti al 1925) alla rappresentazione scorretta della riduzione psicologica nelle lezioni del 1923/24 in HU Vili pp. 316-317 e Beilage XXII pp. 444-450. Cfr. anche Krisis § 71 HU VI pp. 247-260 tr. it. pp. 264-276.

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Krisis sulla via cartesiana delle Ideen I, Husserl, da un lato, (i) indica uno svantaggio, dall'altro (ii) riconosce implicitamente un vantaggio di questa via. Il vantaggio consiste nel fatto che essa porta all'io trascendentale «con un salto»; lo svantaggio nel fatto che «poiché deve fare a meno di ogni spiegazione preliminare», essa lo rivela «in un'apparente mancanza di contenuto, talché sulle prime si è disorientati (ratlos) su ciò che si è così conseguito e soprattutto su come, a partire di qui, debba venir conseguita una nuova scienza fondamentale, de­ cisiva per la filosofìa e di genere interamente nuovo.»405 (i) Consideriamo, innanzitutto lo svantaggio. L'ammissione che la via cartesiana dischiude l'ego trascendentale in un'appa­ rente mancanza di contenuto è stata spesso interpretata come un indice deH'allontanamento di Husserl da Descartes. In realtà, con quest'ammissione, Husserl non fa che ribadire una differenza che era già implicita nell'esposizione dell'idea di ri­ duzione delle Ideen I e che nella nostra lettura della Funda­ mentalbetrachtung è emersa in modo inequivocabile: la diffe­ renza fra la necessità filosofica della riduzione e la sua pos­ sibilità fenomenologica, o, in altre parole, fra la riduzione formalmente considerata, la riduzione come epoché, come li­ berazione dai pregiudizi e mezzo formalmente necessario alla realizzione del telos filosofico dell'apoditticità, e la riduzione come riduzione vera e propria, come indagine fenomenologica sulla soggettività. Che la via cartesiana dischiuda l'ego tra­ scendentale in un'«apparente mancanza di contenuto» non si­ gnifica altro che questo: che essa introduce soltanto il senso formale della riduzione, non il suo senso e la sua possibilità fenomenologici. Perché questo secondo senso venga chiarito e la sua possibilità accertata, la riduzione deve venir esercitata. La via attraverso la psicologia (e, nella Krisis, attraverso il mondo della vita) è quest'esercizio. Essa è dunque l'erede di quella serie di analisi che, nel terzo capitolo della Fundamen­ talbetrachtung delle Ideen I, conducono gradualmente dalla soggettività empirico-psicologica alla soggettività pura, mo­ strando nell'esercitarla, la possibilità fenomenologica della ri­ duzione. Nelle Ideen I, però, questo stato di cose era offuscato dal 405 Krisis § 43 HU VI pp. 157-158; tr. it. p. 182.

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fatto che la psicologia fenomenologica, implicita nelle analisi avviate nel terzo capitolo della Fundamentalbetrachtung, non giungeva a compimento perché quelle analisi finivano per as­ sumere il senso di una critica dell'esperienza mondana, volta a motivare la presa di posizione a favore dell'idealismo trascen­ dentale e a dimostrare, quindi, la necessità filosofica della ri­ duzione. Detto altrimenti: Husserl non giungeva ad esplicare interamente il contenuto della soggettività pura, ad elaborare quella fenomenologia pura (o psicologia fenomenologica) completamente dispiegata (che è di per sé la realizzazione dell'idealismo trascendentale), e non giungeva neppure a te­ matizzarne l'idea, perché faceva proprio il procedimento car­ tesiano dogmatico, che fa scaturire l'apoditticità di una forma di sapere (la conoscenza fenomenologica) dal contrasto con un'altra forma, soggetta al dubbio (la conoscenza mondana). Con questo procedimento egli colmava (o credeva di colmare) le lacune della via cartesiana, che, da un punto di vista feno­ menologico coerente, solo una fenomenologia pura comple­ tamente esplicata avrebbe potuto colmare. Il vuoto che si spa­ lanca di fronte alla riduzione fenomenologica effettuata carte­ sianamente, avendo di mira l'apoditticità, non gli appariva in tutta la sua ampiezza, perché egli assegnava, arbitrariamente, l'indice dell'apoditticità all'intera conoscenza fenomenologica. Di questo procedimento, che introduce nel cuore della Fun­ damentalbetrachtung una posizione dogmatica che contraddi­ ce i principi fenomenologici fondamentali, finivano però per vendicarsi i dubbi scettici sulla portata della conoscenza fe­ nomenologica che, seppur messi a tacere, nelle Ideen I, con l'argomento della «Widersinnigkeit», wvqnwlg già preceden­ temente indotto Husserl a postulare una critica apodittica della conoscenza fenomenologica. Ora, nel momento in cui, abbandonando il procedimento cartesiano dogmatico e separando l'idea della riduzione apo­ dittica da quella della riduzione fenomenologica, Husserl trae la conseguenza sistematica di questa vendetta della scepsi, il vuoto dischiuso dalla via cartesiana si mostra in tutta la sua ampiezza. Di conseguenza le analisi fenomenologiche sulla struttura della soggettività che mostrano, esercitandola, la possibilità della riduzione, e che nel terzo capitolo delle Ideen I venivano semplicemente abbozzate, si espandono nell'idea di

274 un'intera scienza - la psicologia fenomenologica - che rappre­ senta il riempimento delle immense lacune della via cartesiana della riduzione. Questa svolta, come abbiamo visto, avviene nella Erste Phil.ll, dove la nuova via della riduzione, attraverso la psico­ logia, viene introdotta proprio per colmare il vuoto spalancato dalla via cartesiana:

Il bisogno di conoscere la soggettività trascendentale in tutte le sue singole forme o in tutti i tipi di forme della sua vita trascen­ dentale così che l'ego cogito non rimanesse per noi una parola vuota l'abbiamo soddisfatto in modo tale che allo stesso tempo abbiamo progressivamente costruito una nuova via verso l'ego cogito.406 Dunque, nella misura in cui la Erste Phil.ll rende esplicito un pensiero, che nelle Ideen I era soltanto implicito ed era offu­ scato da elementi di derivazione cartesiana del tutto estranei alle prospettive fenomenologiche, la Erste Phil.ll prepara le conclusioni sulle manchevolezze della via cartesiana e, d'altra parte, le tesi sullo sfociare della psicologia fenomenologica in filosofia trascendentale, cui Husserl perverrà nella Krisis. E se la via cartesiana dovesse risolversi nelle proprie lacu­ ne? Se al di là del vuoto che essa spalanca non restasse più nulla? Potrebbe la via attraverso la psicologia sostituirla? (ii) La risposta sta nel passo della Krisis da cui siamo partiti, dove, alla via cartesiana viene implicitamente riconosciuto an­ che un vantaggio: essa, dice Husserl, consente di conseguire con un salto ciò che le vie indirette raggiungono solo gra­ dualmente. Questo salto - che è il salto dalle motivazioni filo­ sofiche al loro telos attraverso il radicale sovvertimento (Umsturz) di tutti i pregiudizi mondani - è una prerogativa della via cartesiana. Senza la graduale esplicazione del conte­ nuto della soggettività pura operata dalla psicologia fenome­ nologica, questo salto, è vero, appare come un salto nel vuoto. Ma senza l'idea del salto, senza la consapevolezza della diffe­ renza radicale fra il suo punto di partenza ed il suo punto d'arrivo, la psicologia fenomenologica non assume significato 406 HU vm p. 126.

275 filosofico. Questa irriducibilità del radicalismo costitutivo della via cartesiana alla progressività e continuità della via at­ traverso la psicologia vien più volte ribadita dalla riflessione filosofica husserliana successiva alla Erste Phil.ll.™, e sareb­ be stato probabilmente ribadita con più nettezza anche nella Krisis, se lo «Schlussteil» di quest'opera - che doveva avere per oggetto la filosofia in se stessa, intesa come «teoria della scienza» e la questione della sua radicale «Selbstbesin ­ nung»™ - fosse stato scritto e l'opera non s'interrompesse proprio là dove Husserl sta tentando di chiarire come «vada corretta» l'affermazione che «esiste solo una psicologia tra­ scendentale che è identica alla filosofia trascendentale.»409 Tuttavia, in questo ribadimento della irriducibilità della pro407 Cfr. ad es. la seconda stesura deH'articolo per l'Enciclopedia Britanni­ ca HU IX p. 274 (Cfr. anche HU IX p. 293); Amsterdamer Vorträge § 16 HU IX pp. 347-349; Nachwort alle Ideen HU V p. 146-148; tr. it. pp. 922-924.. 408 Cfr. Smid [1993] pp. LVni-LXin. 409 Krisis § 72 HU VI p. 261 tr. it. p. 276. Che comunque una differenza fra le due discipline sussista anche nella Krisis e che la filosofia trascen­ dentale non si riduca neppure qui a psicologia fenomenologica è inne­ gabile quando si consideri: 1.quanto Husserl stesso afferma nel § 72 che va nella stessa direzione di ciò che egli è andato ripetendo dalla Erste Phil.H in poi, e cioè che la psicologia fenomenologica o fenomenologia pura non può essere che la realizzazione di un'intenzione filosofica e non questa stessa intenzione; 2.i progetti di proseguimento dell'opera cui Hus­ serl accenna in alcune lettere della fine del 1936 e dell'inizio del 1937 (cfr. Smid [1993] pp. LV1H-LXIII); 3.quanto è detto in modo estremamente esplicito nell'abbozzo di Fink per il proseguimento della Krisis (HU VI Beilage XXIX), della fine di febbraio/inizio marzo 1936, che ol­ tre a contenere indicazioni sul contenuto delle progettate IV e V parte dell'opera, delinea il punto d'àrrivo della in - il chiarimento dell'identità e differenza fra filosofia trascendentale e psicologia fenomenologica - in modo più schematico e netto di quanto non accada nel § 72 dell'opera. Certo non è chiaro se l'abbozzo di Fink sia servito ad Husserl per l'elabo­ razione di questo paragrafo (cfr. Smid [1993] p. XXXII) e tuttavia le con­ sonanze fra i due testi permettono di intravedere nell'abbozzo di Fink dove si afferma che, sebbene una psicologia coerente, una volta scoperta l'intenzionalità debba necessariamente sfociare in una filosofìa trascen­ dentale, fra psicologia e filosofia sussiste una differenza anche quando la via dalla prima alla seconda è stata interamente percorsa (HU VI p. 515; tr. it. p. 543) - una formulazione esplicita di ciò che nel § 72 viene asseri­ to in modo non del tutto limpido.

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spettiva filosofica a quella fenomenologica, dell'irriducibilità del «salto» della via cartesiana alla continuità e progressività della via attraverso la psicologia, Husserl non ripropone affat­ to la posizione delle Ideen I. Anche qui, come nel caso del­ l'ammissione dello «svantaggio» della via cartesiana, la Erste Phil.ll introduce, sullo sfondo di una continuità profonda, una relativa cesura rispetto alle Ideen I: con la Erste Phil., le carat­ teristiche del «salto» cartesiano (se mi è lecito proseguire questa metafora) mutano notevolmente. Nelle Ideen I, Husserl effettuava (o credeva di effettuare) davvero quel salto, e lo fa­ ceva in modo quasi-istintivo, senza una piena consapevolezza della sua ampiezza. A partire dalla Erste Phil.ll, il baratro che la via cartesiana dovrebbe permettere di superare si fa sempre più profondo. Husserl infatti, avvia un chiarimento delle moti­ vazioni che agivano oscuramente nel «salto» compiuto nelle Ideen I, individuandone le radici storiche ed etiche. Così l'«inizio» del salto filosofico si sposta sempre più all'indietro, e la sua meta si fa sempre più lontana410: al salto vero e pro­ prio, si sostituisce il chiarimento del suo senso e la fondazione della sua necessità. Fuor di metafora: mentre nelle Ideen I Husserl aveva davvero «iniziato» la filosofìa, a partire dalla Erste Phil.ll, egli avvia un movimento di pensiero «regressivo» volto a raggiungere la consapevolezza dell'inizio e a fondarne, quindi, la necessità.411 410 Cfr. HU VH! p. 169: «La meta è lontana, il cammino è faticoso e deve venir prima spianato. Senza pensieri-guida non si può cercare. Ma le vie, le teorie che le preparano devono venir conquistate passo per passo. E dobbiamo tenerci alla larga dall'errore fondamentale della filosofia tradi­ zionale, che prende delle vaghe e plausibili possibilità come fossero già delle teorie.» 411 Fra il movimento di pensiero avviato dalla Erste Phil.W e culminante nella Krisis da un lato, e le Ideen I dall'altro, c'è dunque lo stesso rapporto che abbiamo individuato fra l'«inizio» della FTL e quello delle L.U. (Cfr. § 3.7). Cfr. in proposito il testo n.32 di HU XXIX (risalente al giugnoluglio 1937), in cui Husserl, dopo aver asserito che «L'autentico inizio è l’azione, il procedere stesso come inizio della filosofia stessa» aggiunge: «Si tratterebbe allora della via astorica verso una filosofia che adempia perfettamente il compito filosofico. In essa l'elemento storico agisce cer­ tamente, ma in modo nascosto. Questa è stata la mia via originaria, che quindi nel mio frammento delle «Ideen» (senza nessun ulteriore chiari­ mento storico) inizia subito con il principio dell'Ego, come un metodo che è senz'altro accessibile a tutti noi filosofi moderni.» (p. 399).

277 Vediamo di descrivere meglio questa svolta. Nelle Ideen I, Husserl mirava alla realizzazione dell'ideale filosofico di una scienza assoluta. In quest'ideale era racchiusa una duplice idea. Da un lato stava l'idea di una conoscenza assolutamente giustificata nelle fonti ultime della conoscenza (e cioè nella soggettività trascendentale), una conoscenza che non assuma nulla di pre-dato sul terreno del mondo e di storicamente tradi­ to; dall'altro, a questa prima idea, si intrecciava confusamente il motivo del conseguimento dell'evidenza ultima, dell'eviden­ za apodittica, intesa, almeno tendenzialmente, come evidenza adeguata.412 Nel momento in cui, nelle Ideen I, Husserl dava inizio alla sua impresa filosofica, egli assumeva dunque come ovvio che il criterio dell'evidenza adeguata potesse rappresen­ tare il criterio concreto per misurare la realizzazione dell'idea­ le, estremamente vago, di una conoscenza assolutamente giustificata. Egli, cioè, sovrapponeva istintivamente - come già aveva fatto nelle L.U.413 - il «ritorno» alle fonti ultime soggettive della conoscenza e la tendenza verso l'evidenza adeguata. Con questa sovrapposizione, si metteva in condizio­ ne di percorrere di fatto la via cartesiana, ché disponeva di una precomprensione determinata del telos verso cui lo spingeva­ no le motivazioni filosofiche, sulla quale poteva far leva il «salto» cartesiano delle Ideen I da una conoscenza e da un tipo d'essere dubitabile ad una conoscenza ed un tipo d'essere apodittico. Nella Erste Phil.TL, Husserl avvia una separazione, per vero assai faticosa, dei due motivi originariamente confusi nel­ l'ideale della scienza filosofica assoluta: Se iniziamo ad arricchire la prima indicazione della nostra idea­ guida filosofica esplicando il suo senso, già a partire dalla di­ stinzione appena accennata fra evidenza naturalistica e trascen­ dentale diviene visibile che essa, in quanto «scienza universale assolutamente giustificata», racchiude più componenti di senso, che non appaiono distinte nell'ambiguità di questo modo di dire

412 Cfr. ad es. PSW p. 340 HU XXV pp. 60-61; tr. it. p. 112.1 due motivi si riflettono nei due differenti significati di «immanenza» (immanenza reale (reell) e immanenza pura) che Husserl distingue nelle lezioni del 1907 e che toma a sovrapporre nelle Ideen I. (Cfr. §§ 3.14-3.15). 413 Cfr. L.U.H A 3-10 B 1-9 HU XIX/1 pp. 5-13; tr. it. pp. 267-274.

278 di una universale ed assoluta giustificazione della conoscenza. L'«assoluto» allude da un lato alla fonte unitaria di ogni cono­ scenza in generale, alla soggettività trascendentale, che certo ci è finora nota solo come idea lontana (Fem-Idee). D'altro canto l'espressione «assoluta» giustificazione deve indicare un perfet­ to «render conto di», che non tollera in sé alcuna mancanza di «chiarezza e distinzione», di evidenza, di comprensione eviden­ te (Einsicht), nulla che possa minimamente offuscare la certez­ za, che possa in seguito mettere nuovamente in discussione e rendere dubbi i risultati conoscitivi.414

In queste lezioni del 1923/24 - è vero - questi due lati dell'idea­ le filosofico sono ancora strettamente intrecciati e l'evidenza apodittica continua a costituire la «stella polare» del filosofoprincipiante che si mette in cammino per realizzare la scienza assolutamente fondata nelle fonti soggettive della conoscenza. Tuttavia, il fatto che Husserl sottolinei esplicitamente la disgiungibilità dei due motivi prelude a quel movimento di tra­ sformazione del loro nesso che egli percorrerà fino alla Krisis e nel corso del quale il «salto» cartesiano delle Ideen I da una co­ noscenza dubitabile ad una conoscenza apodittica assumerà sempre più il senso di una radicale conversione etico-religiosa della vita del filosofo nel suo complesso.415 Questa trasformazione consiste in un vero e proprio ribalta­ mento del nesso fra i due motivi. Fino alla Erste Phil II, ab­ biamo visto, è la precomprensione del telos dell'evidenza apodittica (come evidenza adeguata) a dare un contenuto al­ l'ideale in sé vago della scienza assolutamente giustificata. In seguito, l'idea preliminare dell'evidenza, cui mira il filosofo principiante, si fa sempre più vuota. Già nella Erste Phil., Husserl ammette che è più opportuno lasciare nel vago la «Leitidee» dell'evidenza416, anticipando così la posizione che - come abbiamo visto - ribadirà con più nettezza nelle CM. D'altra parte, sempre a partire dalla Erste PhilAl, si chiarisce sempre più la portata storica ed il senso etico dell'idea di una scienza assolutamente giustificata in quanto «ritorno» alle fonti soggettive della conoscenza, la quale trova la propria 414 HUVHIpp. 30-31. 415 Cfr. Krisis § 35 HU VI p. 140; tr. it. p. 166. 416 Cfr. ad es. HU Vili p. 125 e pp. 310-311.

279 fondazione ultima nell'ideale etico dell'assoluta autorespon­ sabilità.417 Ora, queste due tendenze, cui la Erste Phil.Il dà inizio, fini­ ranno per incrociarsi capovolgendo il rapporto originario fra il motivo del ritorno alle fonti soggettive e quello dell'evidenza apodittica: il senso etico di quel ritorno finirà per rappresenta­ re il contenuto stesso dell'apoditticità. Nella Krisis ogni con­ tenuto teoretico dell'apoditticità apparirà risolto in tensione etica; la razionalità si sarà contratta in un «voler esser raziona­ le» e il «salto» cartesiano nell'apoditticità si trasformerà in quella conversione radicale del filosofo, che lega apodittica­ mente la volontà al telos filosofico che egli si pone nel proprio voler esser razionale.418 La differenza radicale insopprimibile fra la filosofia - che, per il suo contenuto teoretico, apparirà interamente coincidente con la psicologia fenomenologica - e la psicologia fenomenologica stessa sarà dunque divenuta una differenza d'atteggiamento etico, si sarà interamente raccolta in quel «no» radicale che il filosofo, come il mistico, oppone al mondo, ma che egli, a differenza del mistico, oppone al mondo al fine di comprenderlo, di rovesciarlo e vederlo «dall'altra parte» (dalla parte della soggettività), e, in ultima analisi, di trasformarlo operando quella trasformazione radica­ le dell'umanità in se stessa che è implicita nel senso dell'epoché filosofica.419 Se questa ricostruzione è corretta, gli esiti cui Husserl per­ viene nella Krisis - condensati nel passo sui vantaggi e gli svantaggi della via cartesiana da cui siamo partiti - non rap­ presentano affatto un abbandono della sua idea originaria, di derivazione cartesiana, di filosofia, ma una sua radicalizzazio­ ne: essi sono il punto d'arrivo di quell'inveramento della «via 417 Cfr. HU VIU pp. 7-8. 418 Cfr. il ms.K IH 6 (Bl. 150-156), posto dal curatore a conclusione della Krisis in HU VI pp. 275-276; tr. it. pp. 284-290. 419 Cfr. Krisis § 35 HU VI p. 140; tr. it. p. 166: «Forse risulterà addirittu­ ra che l'atteggiamento fenomenologico totale e Vepoché che gli inerisce sono destinati a produrre innanzitutto una completa trasformazione per­ sonale che sulle prime potrebbe essere paragonata a una conversione re­ ligiosa, ma che, al di là di ciò, ha il significato della più grande trasfor­ mazione esistenziale che è assegnata come compito all'umanità in quanto umanità.» Cfr. anche Krisis § 40 HU VI p. 154; tr. it. p. 178.

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cartesiana» che è stato avviato dalla Erste Phil.ll e che consi­ ste, da un lato, nel riempire le lacune lasciate aperte dalla via cartesiana delle Ideen I individuando vie «indirette» della ri­ duzione (attraverso la psicologia, attraverso il mondo della vita) e, dall'altro, nel chiarire in modo radicale l'ideale filoso­ fico fino ad espungerne ogni residuo pregiudizio. Quel primo movimento approda all'identificazione del contenuto teoretico della filosofia con quello della psicologia fenomenologica; questo secondo chiarimento approda all'identificazione del­ l'ideale filosofico con la tensione etica verso il superamento radicale di tutti i pregiudizi, con la volontà di operare il sov­ vertimento radicale di tutti i pregiudizi mondani. D'altra parte, se questa ricostruzione è corretta, oltre a con­ fermare la continuità profonda del pensiero husserliano, essa indica chiaramente il problema che tale pensiero lascia aperto, che è come il riflesso di quella continuità. L'idea di filosofia che guidava Husserl all'epoca delle Ideen I era affetta da un ultimo pregiudizio, ereditato da Descartes, che consisteva nel concretizzare l'idea vaga del sovvertimento radicale nella ri­ cerca dell'evidenza apodittica (intesa come evidenza adegua­ ta). Con lo svuotamento del senso preliminare dell'evidenza ed il capovolgimento del nesso fra il sovvertimento e l'apoditticità - così che l'apoditticità non è più il contenuto attinto con quel sovvertimento, ma quel sovvertimento è il contenuto stesso dell'apoditticità - anche quest'ultimo pregiudizio appare superato. Questo tuttavia non implica che il radicalismo di quell'idea non sia più limitato da alcun pregiudizio: il radicali­ smo stesso, la volontà di superare ogni pregiudizio rimane l'ultimo insuperabile pregiudizio che costituisce dall'interno l'idea di filosofia.420 In altre parole: la volontà di operare il sovvertimento radicale di ogni pregiudizio mondano lega in­ dissolubilmente il sovvertimento al mondo, così come la radi­ cale volontà antiscettica da cui scaturisce la filosofia lega in­ dissolubilmente la filosofia allo scetticismo. Uno dei passi in cui Husserl si esprime nel modo più chiaro sul rapporto fra la riduzione filosofica e quella psicologicofenomenologica è incluso nella seconda redazione dell'articolo per VEnciclopedia Britannica, che, come è noto, fu letta ed 420 Cfr. Derrida [1967] p. 3.

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annotata da Heidegger.421 Qui Husserl caratterizza la riduzio­ ne filosofica riprendendo il motivo dello «stacco» netto (il «salto» cartesiano) e della volontà radicale: rappresenta la peculiarità di principio della riduzione trascen­ dentale, che essa dall'inizio ed in un sol colpo, in una volontà teoretica universale, inibisce questa ingenuità trascendentale che regna ancora nella psicologia pura, che essa abbraccia l'inte­ ra vita attuale e abituale con questa volontà: questa volontà im­ pone di non attivare alcuna appercezione trascendentale, di non attivare validità di alcun tipo, di «metterle fra parentesi» e di prenderle semplicemente come sono in se stesse, come appercepire, intendere, porre validità ecc. puramente soggettivo.422 Ed Heidegger annota: «E questa volontà stessa?». Ora, a questa domanda - a quest'obiezione - nella prospetti­ va husserliana non si dà più alcuna risposta razionale: essa punta il dito su quell'istinto originario - che si mantiene iden­ tico in tutto lo sviluppo dell'idea di filosofia - dal quale sca­ turisce ogni chiarimento ed ogni comprensione razionale, ma che è in sé prima di ogni chiarimento e comprensione. Per «giustificare» questa volontà, e per giustificare la volontà an­ tiscettica (di cui la volontà di astenersi da ogni pregiudizio mondano è il lato formale-negativo), si può ancora solo rinvia­ re al senso dell'esistenza del filosofo, che è «chiamato» al compito filosofico.423 E per descrivere il nesso fra questa vo­ lontà filosofica e le volontà ad essa contrapposte - la volontà da cui scaturisce l'obiettivismo da un lato, la volontà scettica dall'altro - si può ancora solo ricorrere a delle metafore esi­ stenziali. La differenza fra la volontà filosofica e la volontà che s'esprime nell'obiettivismo consiste in una conversione quasi-religiosa dell'esistenza424 ; il nesso con la volontà scetti­ ca in una lotta.425 Il lato critico della filosofia - la quale, per il suo contenuto 421 Cfr. in proposito Biemel [1950] e Cristin [1986]. 422 HU IX p. 274. (Corsivo C.S.). 423 Cfr. § 3.4 nota 77 e § 3.20 nota 450. Cfr. Krisis § 7 HU VI p. 15; tr. it. p. 46. 424 Krisis § 35 HU VI p. 140; tr. it. p. 166 (citato alla nota 419). 425 Cfr. Krisis § 6 HU VI p. 13; tr. it. p. 44.

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teoretico, si è interamente risolta in psicologia fenomenologi­ ca - non è dunque andato perduto, ma si è condensato nel ra­ dicalismo della volontà filosofica, che è divenuta il contenuto stesso dell’apoditticità. In questo processo, però, la filosofia ha perso ogni precomprensione teoretica dell'apoditticità, su cui fare leva per marcare la propria differenza rispetto all'obietti­ vismo ed allo scetticismo. Va da sé che per contrapporsi a queste due tendenze essa debba ricorrere al fanatismo - contro l'obiettivismo viene sbandierata l'immagine della conversione - ed alla violenza - l'ultimo radicale argomento che Husserl oppone allo scetticismo è una metafora della guerra. 20. Il risultato fondamentale delle analisi dei paragrafi pre­ cedenti sembra sia questo: radicalizzando il paradigma carte­ siano di inveramento/superamento dello scetticismo e l'idea cartesiana di filosofia, Husserl ha finito per ancorare que­ st'idea all'esistenza del filosofo. Con questo egli ha concretiz­ zato una possibilità che avevamo individuato già nella di­ scussione del paradigma cartesiano di superamento dello scet­ ticismo: la possibilità di assegnare alla fondazione del sapere delle Meditazioni il significato di fatto della biografia carte­ siana. Uno dei «momenti» della nostra ricostruzione del modello cartesiano in cui questa possibilità appare particolarmente tangibile - anche se noi non l'abbiamo esplicitata - è quello dello scontro con il Padre Bourdin, il quale poneva in dubbio lo stesso ideale dell'assoluta certezza che aveva orientato De­ scartes nel corso delle sue meditazioni. Ora, Descartes sarebbe potuto uscire vittorioso da questo scontro, senza ridurre la fondazione metafisica del sapere ad una vicenda della propria biografia, se avesse potuto sospendere il presupposto - su cui si fonda tutta la sua impresa filosofica - che la storia, l'educa­ zione e l'esperienza abbiano corrotto l'uso della ragione. So­ spendendo questo presupposto, risulta infatti possibile dare all'ideale filosofico, che orienta la volontà filosofica di De­ scartes (e contro il quale si scaglia il Padre Bourdin) la dignità di telos immanente alla tradizione filosofica, innalzandolo così al di sopra dello statuto di semplice desiderio di un singolo individuo. A Descartes, tuttavia, questa via d'uscita era preclu­ sa. Da un lato, infatti, nella sua autocomprensione la rottura

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con la tradizione che contrassegnava la sua impresa era troppo netta e forte perché egli potesse intravedere anche delle conti­ nuità; dall'altro, nella sua precomprensione della razionalità assoluta del sapere filosofico - costruita sul modello della matematica-, era implicita la contrapposizione di questo sape­ re al sapere dell'esperienza e del senso comune. Individuando nell'esperienza e nel sapere della tradizione «tracce di miglior sapere», e cioè una tendenza verso il suo ideale di razionalità filosofica, egli non avrebbe fatto altro che scavare il terreno sotto la propria fondazione del sapere. Ora, anche Husserl - a partire almeno dagli anni '20 - si tro­ va in una situazione in qualche modo rapportabile a quella in cui Descartes era stato messo dalle obiezioni del Padre Bourdin. Anche il suo ideale di scienza assoluta viene messo in di­ scussione. Dorion Caims riferisce di una conversazione del 2 giugno del '32, in cui egli, discutendo dell'«inizio» delle CM, ha obiettato ad Husserl che «non è universalmente ammesso che l'ideale di una verità scientifica assoluta sia il telos dell'at­ tività scientifica.» Molti infatti ritengono che la verità cui mi­ rano le scienze sia una verità di tipo situazionale, che in essa sia racchiuso un ineliminabile, per quanto sublimato, riferi­ mento alla contingenza delle circostanze. La risposta dell'auto­ re delle L.U. sarebbe stata questa: Husserl ammise che questo era vero, ma evocò il fatto che sin dall'inizio, in Grecia, c'è sempre stata fedeltà all'ideale di una verità assoluta. Parallelamente a questa tradizione scientifica continua si è sviluppata una tradizione scettica continua, che mette in discussione ed anche nega la validità di quell'ideale. E questa tradizione che emerge ora nella tendenza a ridurre la scienza ad una faccenda essenzialmente situazionale.426

Nel rispondere all'obiezione mossagli da Caims (analoga a quella rivolta dal padre Bourdin contro Descartes), Husserl rinvia dunque alla tradizione scientifico-filosofica ed alla sua continuità. Egli accetta così di imboccare la via, che per De­ scartes era sbarrata, della fondazione dell'ideale della scienza assoluta a partire dalla ricostruzione del suo sviluppo nella storia. 426 Caims [1976] p. 81.

284 Se questo è vero la conclusione cui siamo pervenuti nel pa­ ragrafo che precede dovrebbe esser falsa. La fondazione ulti­ ma della filosofia fenomenologica non sta nell'esistenza del filosofo e nell'impronta etica che quest'esistenza si dà, ma nella tradizione e nella storia: la filosofia fenomenologica è il telos della tradizione filosofica e l'entelechia dello sviluppo dell'umanità europea e dell'umanità in generale.427 Ora, a mio avviso, sebbene Husserl tenti di percorrere la via - che per Descartes era sbarrata - del chiarimento storico dell'idea di filosofia, la fondazione ultima di quest'idea rimane di natura etica ed esistenziale. La fondazione della filosofia nella storia, infatti, non riesce e, di più, non può riuscire: il residuo di car­ tesianismo che costituisce dall'interno l'idea husserliana di fi­ losofia sino alla Krisis introduce necessariamente delle aporie nella considerazione husserliana della storia. Il confronto con Descartes potrà servirci a chiarire quest'affermazione. Esso, inoltre, ci permetterà di anticipare le piste lungo le quali deve necessariamente muoversi il chiarimento dello sviluppo teleo­ logico della storia della filosofia, che Husserl avvia nella Erste Phil.l e riprende - conferendogli una portata etico-metafisica più esplicita - nella Krisis. Il primo motivo per cui Descartes non poteva fondare nella storia la sua idea di filosofia derivava dalla sua peculiare col­ locazione nella storia del pensiero. Ora, fra la posizione stori­ ca di Husserl e quella di Descartes c'è una differenza fonda­ mentale, ma anche un'analogia. Le obiezioni che vengono mosse a Descartes dal Padre Bourdin sono mosse da un indi­ viduo culturalmente e filosoficamente conservatore, che si op­ pone ad un rinnovamento filosofico e ad una rottura con la tradizione. Viceversa, la possibile obiezione ad Husserl di cui si fa portatore Caims è l'obiezione di un intero movimento culturale che, rispetto ad Husserl, si trova dalla parte del nuo­ vo. Descartes appariva a Bourdin come un rivoluzionario; Husserl appare ai suoi critici come un conservatore. Si com­ prende, dunque, che il primo non possa cercare nella storia l'origine dell'ideale filosofico messo in discussione - un ideale che egli àncora alla struttura originaria della ragione, che la storia ha semplicemente corrotto - mentre il secondo possa 427 Cfr. Krisis § 6 HU VI p. 14; tr. it. p. 44.

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tentare quest'impresa. D'altra parte, però, la storia più prossi­ ma ad Husserl è la storia di quella «crisi spirituale» del­ l'umanità - che per Husserl acquista un'importanza crescente a partire dall'esperienza del «crollo del vecchio mondo europeo nella prima guerra mondiale»428 , ma di cui le sue giovanili letture nietzschiane l'avevano reso ben consapevole già verso la fine deir'800429 - quella crisi, dicevo, in cui è andato smarrito l'ideale della tradizione di cui la filosofia fenomeno­ logica è il telos. Anche Husserl dunque, sebbene la sua posi­ zione nei confronti della tradizione sia di principio capovolta rispetto a quella di Descartes, si trova a dover riconoscere alla storia un significato anche negativo, di perdita di un senso originario da restaurare. Questa differenza e quest'analogia rispetto a Descartes, pre­ determinano il modo in cui Husserl dovrà avviarsi al chiari­ mento dello sviluppo storico dell'ideale filosofico e sono al­ l'origine di una prima difficoltà che egli incontrerà su questa via. Nella misura in cui è un conservatore e non un rivoluzio­ nario, Husserl può richiamarsi alla continuità della tradizione; d'altra parte, nella misura in cui è un restauratore, egli deve, come Descartes, ricorrere all'idea di un originario da riscoprire al di sotto dell'occultamento che esso ha conosciuto nella sto­ ria. Quest'originario, però, in Descartes era «solidissimo», era la struttura immutabile della ragione; in Husserl esso non è che un fatto storico superato da altri fatti storici, un fatto stori­ co che questi nuovi fatti storici potrebbero aver degradato a mera «follia storico-fattuale».430 Ad Husserl si pone dunque il problema di «fondare» la differenza di queiroriginario rispetto ai fatti storici più recenti che ne segnano la crisi. Se dunque Husserl, diversamente da Descartes, deve davvero percorrere la via della «fondazione» storica dell'idea di filosofia, il suo chiarimento della teleologia storica deve necessariamente in­ 428 Cfr. Landgrebe [1974] pp. 55-56. 429 Cfr. il passo delle lezioni di etica del 1897 citato alla nota 3 del § 3.1. Cfr. Caims [1976] p. 60: «Fino all'epoca della guerra [Husserl] ammise di esser stato atteggiato in senso teoretico [...], ma in seguito i problemi «esistenziali» sono stati di primario interesse anche per lui. Nondimeno Schopenhauer e i primi scritti di Nietzsche hanno suscitato il suo vivo interesse in gioventù.» (Conversazione del 23.12.31). 430 Cfr. Krisis § 6 HU Vip. 13; tr. it. p. 44.

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dividuare una gerarchia fra fatti essenziali, portatori di senso filosofico autentico, e fatti accidentali che occultano quel sen­ so e frenano la sua realizzazione, ma che, essendo appunto accidentali, non la impediscono. La seconda ragione per cui Descartes non poteva ricercare «tracce di miglior sapere» nell'esperienza e nella tradizione era data dal fatto che nella sua fondazione del sapere era im­ plicita la differenza irriducibile del nuovo tipo di conoscenza instaurata dalla metafisica rispetto alla conoscenza dei sensi e del senso comune; era data dal fatto che quella fondazione ruotava attorno a questa differenza. Nell'oscurità della cono­ scenza dei sensi non era possibile individuare alcuna tendenza verso il telos della conoscenza chiara e distinta, che questa era quel che era ed era assolutamente certa in quanto era distinta da quella. In Husserl, la situazione non appare così limpida come in Descartes. L'equivalente della distinzione cartesiana fra conoscenza oscura e conoscenza chiara e distinta è qui la distinzione fra conoscenza trascendente e conoscenza feno­ menologica immanente. Ora, da un punto di vista rigorosa­ mente fenomenologico, Husserl non potrebbe identificare un tipo di conoscenza (quello filosofico-fenomenologico) con la conoscenza evidente ed un altro tipo (quello trascendente) con la conoscenza oscura (irrimediabilmente oscura). Da un punto di vista rigorosamente fenomenologico, ogni tipo di cono­ scenza ha la propria peculiare forma di evidenza e deve essere misurato esclusivamente con il metro di questa. Da un punto di vista filosofico, invece, nella misura in cui Husserl riprende il procedimento cartesiano dogmatico che fa scaturire l'apoditticità di una forma di conoscenza dal contrasto con un'altra forma, anche Husserl, come Descartes, ha bisogno della diffe­ renza irriducibile fra conoscenza oscura e conoscenza eviden­ te. Se si tien fermo il punto di vista fenomenologico, sembra che il tentativo di individuare «tracce di miglior sapere» nella conoscenza trascendente - di individuare, cioè, nelle scienze «dogmatiche» della tradizione la tendenza all'evidenza di tipo superiore della conoscenza filosofica - non sia neppure for­ mulabile: da questo punto di vista, infatti, non si dà alcuna ge­ rarchia di valore fra i vari tipi di conoscenza. Se invece si as­ sume la prospettiva filosofica, sembra che, come accadeva in Descartes, questo tentativo non possa venir intrapreso perché

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esso finirebbe per distruggere quella differenza radicale fra conoscenze dell'atteggiamento mondano e conoscenza filoso­ fica su cui si fonda l'apoditticità della conoscenza filosofica. In breve: in entrambi i casi la via dell'individuazione di «tracce di miglior sapere» appare impraticabile; nel primo perché fra i vari tipi di sapere si danno solo differenze quali­ tative (e non di valore); nel secondo perché la differenza di valore fra tipi diversi di sapere non può venir colmata senza essere abolita. Se dunque Husserl, a differenza di Descartes, deve poter percorrere questa via gli occorre un mezzo per gerarchizzare le differenze qualitative o - il che è lo stesso - per ricostruire una continuità fra gli estremi radicalmente distinti della conoscenza oscura e della conoscenza filosofica apodit­ tica senza appiattirli l'uno sull'altro. I due problemi con cui deve fare i conti il tentativo husserlia­ no di intraprendere la via della fondazione storico-teleologica dell'ideale filosofico - il problema di distinguere e correlare fatti essenziali e fatti accidentali nella teleologia storica e il problema di distinguere e correlare gerarchia e differenze quali­ tative fra tipi di conoscenze - sono due variazioni della difficol­ tà essenziale che percorre l'intero pensiero husserliano: la diffi­ coltà di pensare il nesso fra identico e diverso. Ora, come ab­ biamo già accennato da altri punti vista, Husserl tenta di risol­ vere questa difficoltà applicando il proprio schema di sviluppo teleologico. Tuttavia è dubbio che tale tentativo riesca. Questo schema, infatti, o permette (i) di ridurre il diverso all'identico; oppure permette (ii) di pensare la differenza del diverso rispetto all'identità come impedimento, come ostacolo all'affermazione dell'identità; ma non permette (iii) di tener fermi entrambi i punti di vista contemporaneamente. Vediamo. Lo schema teleologico, che Husserl applica nella Krisis per descrivere il movimento deH'autorischiaramento della ragione nella storia431, non è certo nato con l’interesse di Husserl per la storia. Nella Krisis, Husserl non fa che applicarlo. In realtà es­ so era già teorizzato nelle L.U., e prima ancora che teorizzato era praticato: è il pensiero husserliano che «si muove» origi­ nariamente secondo il tracciato descritto da questo schema, e cioè lungo «ondate» che congiungono intenzioni oscure ai lo431 Cfr. Krisis § 73 HU VI p. 273; tr. it. p. 287.

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ro telos evidenti. La descrizione della teleologia storica avvia­ ta dalla Krisis non è che una proiezione nei fatti storici di un concetto di ragione elaborato nelle L.U., con la correlazione / contrapposizione di intenzione e riempimento intuitivo.432 E questa proiezione trascina nella concezione husserliana della teleologia storica l'ambiguità di quel concetto di ragione e, in particolare, del concetto «operativo»433 di «intenzione oscu­ ra»; un'ambiguità che non è altro che la versione più astratta della serie di ambiguità che percorrono l'intera filosofia feno­ menologica e che abbiamo più volte messo in luce. Nel concetto di «intenzione oscura» è racchiuso il mistero della connessione fra ciò che nel riempimento intuitivo per­ viene alla propria evidenza e la differenza di alcunché rispetto a ciò che esso sarà in quel riempimento. Da un certo punto di vista l'«inteso» è già ciò che esso è, ma da un altro punto di vista esso non è ancora ciò che risulterà esser stato. Che cosa sia questo «essere ciò che è non essendo ancora ciò che appa­ rirà esser stato» dell'«inteso» non è affatto chiaro.434 Husserl maschera dietro le sue oscure metafore della luce il fatto che il problema del nesso fra queste due caratteristiche dell'oggetto dell'intenzione oscura - fra la sua identità e la sua differenza con se stesso - non è veramente posto. Queste metafore non impediscono però di scorgere che il significato dell'intenzione oscura oscilla costantemente fra l’una e l'altra caratteristica e che lo statuto della sua oscurità è ambiguo. Da un lato, quando si insiste sull'identità con se stesso dell'oggetto dell'intenzione oscura, tale intenzione minaccia di trascendersi nel proprio riempimento evidente: la differenza del senso intenzionante rispetto al senso evidente, l'oscurità dell'intenzione si risolve in pura apparenza. Dall'altro, quando si insiste sulla differenza di quest'oggetto rispetto a ciò che esso risulterà esser stato, finisce per andare perduto il «tendere» dell'intenzione verso il riempimento. La sua oscurità diviene un freno, un impedimen­ to al conseguimento del riempimento. Ora, abbiamo già potuto osservare come quest'ambiguità del 432 Cfr. Hoyos [1972], 433 Per la nozione di «concetto operativo» cfr. Fink [1957]. 434 Direbbe Heidegger che la domanda sull'essere dell'intenzionalità non vien posta. Cfr. Heidegger [1979] pp. 178-179; tr. it. pp. 161-163. Cfr. qui § 3.16.

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significato dell'oscurità - per cui essa appare ora come un quasi-nulla, come un'apparenza, ora come una quasi-realtà positiva da contrastare - sia all'opera nella definizione del nesso fra conoscenza mondana e conoscenza filosofica.435 Es­ sa ci era apparsa solidale con tutta una serie di ambiguità che gravavano sul compito della filosofia (che appariva ora come un compito critico, ora come un compito fenomenologico sen­ za che si potesse cogliere con precisione il nesso fra i suoi due lati), sul concetto di «scetticismo» (che aveva un lato negativo ed un lato positivo di cui non si intravedeva la correlazione) e sull'argomento della «Widersinnigkeit» dello scetticismo (che appariva sia come un argomento confutatorio analogo all'ar­ gomento formale della tradizione, sia come l'avvio di una pro­ cedura fenomenologica positiva di chiarimento delle oscurità racchiuse nella posizione scettica). Possiamo, dunque, preve­ dere che il secondo dei due problemi che Husserl deve risolve­ re se egli vuole percorrere fino in fondo la via dell'individua­ zione di «tracce di miglior sapere» nella conoscenza non fe­ nomenologica - il problema di ricostruire la continuità fra la conoscenza fenomenologico-filosofica e quella mondana sen­ za confonderle - non risulti interamente risolubile con l’appli­ cazione dello schema dello sviluppo teleologico dalle inten­ zioni oscure (che sarebbero racchiuse nella conoscenza mon­ dana) all'evidenza della loro chiara possibilità (che verrebbe apportata dalla conoscenza fenomenologico-filosofica). Que­ sto schema, infatti, permette di insistere ora sulla differenza fra le intenzioni ed il loro riempimento, fra la conoscenza mondana e quella filosofica, ora sulla continuità, sul tendere della prima verso la seconda; ma non su entrambi gli aspetti contemporaneamente. Detto altrimenti: nessuna delle due ca­ ratteristiche dell'oscurità della conoscenza mondana e dell'es­ sere mondano può cadere. Se si conferisce troppa «realtà» al­ l'oscurità, infatti, si mina la correlazione fra compito critico e compito fenomenologico della filosofia riducendo il compito critico ad un «pio desiderio»; se si trasforma l'oscurità in un nulla, si risolve il compito critico in compito fenomenologico. D'altra parte le due caratteristiche appaiono antitetiche, quindi prive di connessione visibile. Ne consegue che il significato 435 Cfr. § 3.14.

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dell'«oscurità» deve rimanere oscuro ed ambiguo436 : in questa oscurità s'annida, deve potersi annidare, il mistero irrisolto della differenza fra l'identità e la differenza delle intenzioni oscure della conoscenza mondana ed i loro telai filosoficofenomenologici, o, se si vuole, il mistero della differenza fra l'identità e la differenza del lato positivo e del lato negativo dello scetticismo, della psicologia fenomenologica e della fi­ losofia fenomenologico-trascendentale. Ad una conclusione analoga, si giunge anche quando si esa­ mini se lo schema husserliano di sviluppo teleologico permetta di risolvere il primo dei due problemi che s'impongono sulla via di una fondazione storica della filosofia fenomenologica - il problema del nesso fra la continuità essenziale dell'ideale di fi­ losofia nella storia del pensiero ed i suoi occultamenti acciden­ tali. Anche qui si manifesta un'ambiguità del concetto di teleo­ logia storica che è come lo specchio dell'ambiguità strutturale del concetto di «intenzione oscura». Da un lato, infatti, Husserl pretende di ricostruire uno sviluppo storico dell'idea di filosofia che attraversi vari gradi di chiarezza, i quali concorrono positi­ vamente alla realizzazione del telos dell'intero processo, e cioè all'instaurazione della filosofia fenomenologica, la quale coin­ cide con il conseguimento del grado più alto di chiarezza del­ l'idea di filosofia. Da questo punto di vista l'instaurazione della filosofia fenomenologica appare come un prodotto della sto­ ria.437 D'altra parte, però, Husserl non perviene ad intendere le 436 Nella lettera del 22 ottobre del 1927 in cui comunica ad Husserl le proprie osservazioni sulla seconda stesura dell'articolo per l'Enciclopedia Britannica, Heidegger rileva quest'oscurità del significato dell'oscurità attribuita da Husserl all'essere ed alla conoscenza mondani: «Per esporre il problema trascendentale bisogna prima di tutto chiarire cosa significa «non-comprensibilità» dell'ente. A che proposito l'ente è incomprensibi­ le? Vale a dire, quale superiore pretesa di comprensibilità è possibile e necessaria?». (HU IX p. 602; tr. it. p. 77). 437 Cfr. ad es. Krisis § 15 HU VI p. 72 tr. it. p. 99. «Perché essa [la nostra storia] ha un'unità spirituale fondata sull'unità e sulla forza di propulsio­ ne del compito che nell'accadere storico - nel pensiero di coloro che la­ vorano alla filosofia singolarmente e, al di sopra del tempo, in comune vuol giungere, attraverso fasi di oscurità, a una chiarezza soddisfacente, e infine ad un'intelligibilità perfetta ed evidente. Allora questo compito non ha più soltanto una necessità di fatto ma diviene un compito che è asse­ gnato a noi filosofi del presente. Noi siamo quel che siamo, in quanto

291 varie tappe di questo sviluppo come momenti davvero necessari per il conseguimento del telos. Il telos, nella forma di compito al quale lavorano le varie generazioni dei filosofi, percorre identico l'intera storia del pensiero e le varie tappe vengono de­ scritte come differenti gradi di occultamento del suo senso. L'apporto positivo dei grandi pensatori allo sviluppo dell'idea di filosofia non sta nelle loro costruzioni filosofiche concrete, che spesso oscurano quell'idea, ma nel fatto che essi tendono oscu­ ramente ed inconsapevolmente verso quel telos che solo nel­ l'idea di filosofia fenomenologica si rivelerà nella sua evidenza. Il loro apporto positivo è dunque sempre identico. Ciò che li distingue non è che la differenza delle loro motivazioni contin­ genti e dei loro pregiudizi438 , che, lungi dal collaborare alla de­ finizione e realizzazione del telos della storia del pensiero, sono all'origine dei suoi occultamenti e fraintendimenti. Il culmine di questi fraintendimenti del senso del compito filosofico è rag­ giunto nella crisi delle scienze, della filosofia e dell'umanità, alla quale Husserl reagisce con la Krisis e nella quale è andato interamente smarrito lo stesso ideale filosofico che ha orientato l'epoca moderna.439 Da questo secondo punto di vista, la storia del pensiero non appare come il progressivo chiarimento del senso dell'idea di filosofia, bensì come la perdita di questo sen­ so originario440 e, da questo secondo punto di vista, la fenome­ nologia non può rappresentare lo stadio finale di un progresso continuo della storia. Essa diviene invece la reazione titanica di un individuo al processo di decadenza che, in questo smarri­ mento dell'ideale filosofico cui la storia ha condotto, ha toccato il fondo. Ora, se Husserl vuole davvero fondare l'idea della filosofia fenomenologica nella storia, egli ha bisogno di entrambi questi punti di vista: nella misura in cui pretende di far scan­ siamo i funzionari dell'umanità filosofica moderna, gli eredi e i portatori di quell'orientamento della volontà che l'attraversa...». 438 Cfr. Janssen [1970] pp. 93-94. 439 Cfr. Krisis § 4 HU VI p. p. 8-9; tr. it. pp. 39-40. 440 Cfr. Krisis § 5 HU VI p. 10; tr. it. p. 41: «Un ideale determinato di una filosofia universale e di un metodo ad essa adeguato costituisce l'inizio, per così dire la fondazione originaria dell'epoca moderna in filo­ sofia e di tute le sue linee di sviluppo. Ma invece di realizzarsi, questo ideale conosce un'intima dissoluzione».

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lire l'idea di filosofia dalla continuità storica deve tener fermo il primo; nella misura in cui con quest'idea restaura un senso originario che è andato perduto deve tener fermo il secondo. Tuttavia il suo concetto di «sviluppo teleologico» gli permette di fissare ora l'uno ora l'altro punto di vista, ma non di fissarli entrambi contemporaneamente e renderne visibile il nesso. La storia del pensiero appare ora come progresso ora come deca­ denza; l'oscurità delle sue varie fasi appare ora come tendenza, spinta propulsiva verso la chiarezza, ora come freno ed impe­ dimento, senza che fra le due caratteristiche venga gettato e possa venir gettato alcun ponte. Questo fatto risulta particolarmente evidente quando da queste considerazioni sulla struttura formale dello sviluppo teleologico si passi a considerare i contenuti concreti della storia del pensiero ricostruita da Husserl. Nella Kritische Ideengeschichte come nella Krisis44', gli attori del racconto 441 Naturalmente, al di là delle analogie formali dello schema di sviluppo applicato e dell'identità dei protagonisti, la Kritische Ideengeschichte ha un andamento concreto molto diverso da quello della Krisis. Nella Erste Phill il motivo della decadenza dell'ideale originario di filosofia è molto meno accentuato perché la Erste Phill si conclude sostanzialmente con la ricostruzione del ruolo svolto nella teleologia storica dall'empirismo classico (con un'appendice su Leibniz e Kant). La sua funzione è infatti quella di chiarire l'idea di filosofia che orienterà e motiverà la decisione filosofica da cui prende le mosse la Erste PhilH (cfr.HU VIU pp. 3-26). Nella Krisis, invece, Husserl non è tanto interessato a motivare, quanto a mostrare la possibilità di una decisione che è già stata presa, ma che sem­ bra messa in discussione dalla crisi dell'ideale filosofico attestata dai fatti: «Ma come filosofi del presente siamo caduti in una penosa contraddizio­ ne esistenziale. Noi non possiamo rinunciare alla fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza univer­ sale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vo­ gliamo essere seriamente filosofi. Eppure come tener ferma questa fede che ha un senso soltanto in relazione con un fine uno, unico e a tutti noi comune, cioè con la filosofia?». (Krisis § 7 HU VI p. 15; tr. it. p. 46). Per questo il tratto di storia che lo interessa non è più quello che va dall'anti­ chità all'epoca moderna, bensì quello che congiunge l'epoca moderna al presente, e la direzione dello sviluppo storico su cui insiste non è più quella del progresso, bensì quella della decadenza. Se questo è vero, la tesi secondo la quale nella Erste Phill la ricostruzio­ ne della storia dell'idea di filosofia avrebbe solo la funzione di chiarire al filosofo principiante quell'idea-guida, che l'orienta nella sua decisione individuale da cui scaturisce la filosofia, mentre nella Krisis servirebbe a

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storico husserliano sono tre: il primo e più importante è l'idea di filosofia come scienza assolutamente giustificata che nasce con la reazione socratico-platonica alla scepsi sofistica442 ed orienta l'intera epoca moderna443 ; il secondo è l'obiettivismo, e cioè quella tendenza ingenua del pensiero che sempre di nuo­ vo occulta, dall'antichità all'epoca moderna, l'idea di una scienza della soggettività nella quale soltanto può realizzarsi l’ideale filosofico di una scienza assolutamente giustificata444 ; l'ultimo protagonista è lo scetticismo, il quale rappresenta l'indice storico dell'occultamento e del fraintendimento obiettivistico di una scienza della soggettività. 445 Ora, la figura dello scetticismo è il momento della storia del pensiero su cui mostrare che la filosofia fenomenologica è un prodotto della storia (cfr. Janssen [1970] pp. 60-61), non appare del tutto corretta. Anche nella Krisis infatti - e soprattutto nella Krisis - l'inizio della filosofia richiede una decisione individuale, frutto di una vocazione filosofica, di cui il chiarimento storico può illustrare la possibilità ma che esso non può af­ fatto sostituire; una decisione che è già stata presa prima di ogni chiari­ mento storico e che mediante quel chiarimento deve solo consolidarsi in se stessa «raddoppiandosi», trasformandosi da «chiamata» in decisione razionalmente motivata: «Che cosa dobbiamo fare per poter credere, noi che già crediamo', noi che non possiamo continuare seriamente nel nostro precedente filosofare se esso ci dà a sperare filosofie ma non una filoso­ fia? Le nostre prime considerazioni storiche ci hanno rivelato non soltan­ to l'attuale situazione di fatto e la sua miseria come un semplice dato di fatto, ci hanno anche ricordato che noi, in quanto filosofi, per quanto ri­ guarda quei fini che sono indicati dal termine «filosofia» (...) siamo eredi del passato. È chiaro che occorrono esaurienti considerazioni storiche e critiche per giungere, prima di qualsiasi decisione, a un'autocomprensione radicale,...». (Krisis § 7 HU VI p. 16; tr. it. p. 46 (corsivo C.S.)). Se dunque c'è una differenza fra Krisis ed Erste PhilÄ, questa non consiste nel fatto che nella Krisis, in nome di uno storicismo più pronunciato, vie­ ne lasciato cadere il motivo della decisione individuale del filosofo, ma nel fatto che questa decisione viene in certo modo raddoppiata: come «chiamata» anticipa il chiarimento storico e l'orienta, come «decisione consapevole» è il telos di quel chiarimento e pone, nella consapevolezza della loro possibilità, i fini che nella «chiamata» erano solo oscuramente presentiti. 442 Cfr. HU VII pp. 8-9; tr. it. pp. 29-30. 443 Cfr. Krisis § 3 HU VI pp. 5-8; tr. it. pp. 36-39. 444 Cfr. ad esempio HU VH pp. 56-57; tr. it. pp. 72-73 e pp. 78-87; tr. it. pp. 95-103; Krisis § 14 HU VI pp. 70-71; tr. it. pp. 97-98. 445 Cfr. HU VH p. 57; tr. it. p. 73; Krisis § 24 HU VI pp. 91-93; tr. it. pp. 116-118.

294 grava l'ambiguità strutturale dell'oscurità che questa storia at­ traversa in direzione del suo superamento. Da un lato, infatti, esso è antifilosofia, smarrimento dell'ideale filosofico, frain­ tendimento, controsenso, freno.446 Ma dall'altro, in quanto è un indice dei limiti dell'obiettivismo e dell'impossibilità di realizzare la scienza filosofica assolutamente fondata sul ter­ reno dell'obiettivismo, esso è anche «spinta propulsiva», pre­ sentimento del telos filosofico-fenomenologico della storia del pensiero, oscura tendenza verso il superamento dell'obiettivismo e di se stesso nel soggettivismo trascendentale.447 Lo scetticismo, insomma, da un lato, nella misura in cui nega la possibilità della realizzazione del telos filosofico, è antifilosofia; dall'altro, nella misura in cui si fa inconsapevolmente attrar­ re da questo telos e trae la propria forza da «irruzioni di rapina» nella sua sfera448 è segreto impulso verso di esso. E fra questi due lati, negativo e positivo, dello scetticismo - come, in gene­ rale, fra i due significati dell’«oscurità» dell'intenzione - non si intravede alcun nesso: essi convivono nella stessa figura che oscilla costantemente fra l'uno e l'altro dei suoi due sensi. La fondazione dell'idea della filosofia fenomenologica nella storia del pensiero sembra dunque fallire. Husserl interpreta questa storia come movimento di un'idea attraverso fasi di oscurità in direzione del telos della chiarezza. A quest'oscuri­ tà, però, è costretto ad assegnare caratteristiche antitetiche di cui non riesce a rendere visibile il nesso. Da un lato, infatti, per non compromettere la possibilità del conseguimento del 446 Cfr. HU VH pp. 57; tr. it. pp. 73-74; Krisis § 6 HU VI p. 13; tr. it. p. 44. 447 Cfr. HU VII p. 61; tr. it. p. 77: «...il senso più profondo della filosofia moderna consiste nel fatto di essere costantemente messa in moto, sia pu­ re oscuramente, dall'impulso determinato dal compito, cresciuto al suo interno, di rendere vero in un senso più alto il soggettivismo radicale della tradizione scettica. In altri termini, il suo sviluppo procede nel senso di un superamento del soggettivismo paradossale, frivolo e poco serio, che nega la possibilità della scienza e della conoscenza obiettiva, median­ te un soggettivismo serio, di nuovo genere, mediante un soggettivismo che deve trovare una giustificazione assoluta nella toeresi più radicale e coscienziosa, in breve: mediante il soggettivismo trascendentale.» Cfr. anche Krisis § 14 Hu VI p. 71; tr. it. p. 98 e § 24 HU VI pp. 91-93; tr. it. pp. 117-118. 448 HU VH p. 169; tr. it. p. 184.

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telos dello sviluppo storico è costretto ad insistere sulla conti­ nuità fra oscurità e chiarezza e quindi sulla riducibilità della differenza apparente dell'oscurità all'identità dell'idea di filo­ sofia; dall'altro per mantenere una parvenza di movimento dell'identità dell'idea di filosofia nel corso della storia del pensiero e la differenza fra il telos di questa storia e la storia stessa, egli è costretto ad insistere sulla differenza dell'oscurità rispetto all'identità di quell'idea e ad interpretare questa diffe­ renza come opposizione e freno. Questa tensione fra i due si­ gnificati dell'oscurità - che rinvia alla tensione fondamentale fra la prospettiva fenomenologica della continuità fra inten­ zione oscura e telos evidente e la prospettiva filosofica della differenza irriducibile, del «salto» fra l'una e l'altro - non può in alcun modo venir appianata. L'unico modo per superare l'oscurità e confusione in cui Husserl avvolge questa tensione consisterebbe - come abbia­ mo accennato più volte - nel tematizzarla, interpretando dia­ letticamente il nesso fra i due significati dell'oscurità della storia, dello scetticismo, della filosofia fenomenologica. Ad una concezione dialettica di questo nesso, Husserl sem­ bra avvicinarsi in un passo tratto da un manoscritto citato da Janssen449, in cui egli interpreta il culmine dell'oscurità cui è pervenuto l'ideale filosofico nella crisi a lui contemporanea come condizione di possibilità dell'instaurazione della filoso­ fia fenomenologica: La bancarotta della cultura europea come cultura che ha la pro­ pria origine nella scienza autonoma greca (detto in modo uni­ versale: nella «filosofia») era una necessità teleologica, perché l'umanità potesse conquistare l'autentica autonomia a partire da una scienza assoluta riformata, una scienza che supera ogni in­ genuità, sta su di un terreno assoluto ed è dall'inizio scienza del­ l'assoluto (...).

In realtà, però, il nesso fra la crisi radicale e l'instaurazione 449 Cfr. Ms. E IH 4 p. 57 sg. cit. da Janssen [1970] p. 74 nota 64 (corsivo C.S.). Cfr. anche il § 5 della Krisis (HU VI pp. 9-10; tr. it. p. 41), dove Husserl accostando il motivo della spinta propulsiva dell'ideale filosofico ed il motivo del suo smarrimento, sembra affermare che questo smarri­ mento è all'origine di quella forza propulsiva.

296 della filosofia fenomenologica, fra il culmine dello scetticismo ed il suo superamento, non è affatto necessario. A mediare fra quella crisi e questa instaurazione interviene la scelta libera e titanica dell'individuo-filosofo che reagisce alla crisi con quell'instaurazione. La radicale dissoluzione dell'ideale filo­ sofico motiva la decisione filosofica radicale, non la rende ne­ cessaria. In altre parole: Husserl non supera le aporie che deri­ vano alla sua filosofia della storia dalla tensione fra due si­ gnificati dell'«oscurità» ugualmente necessari ma antitetici, interpretando dialetticamente il nesso fra questi due significa­ ti, ma le annega nel mistero di una decisione radicale a favore della chiarezza cui il filosofo è chiamato dall'oscuro istinto che pervade la sua esistenza.450 L'ultima, radicale, fondazione dell'idea di filosofia non sta nella storia, ma nel mistero di quest'istinto.

450 Cfr. sopra nota 441. Su questo punto Husserl è oltremodo esplicito nel manoscritto del 1936/1937 sulla teleologia nella storia della filosofia pubblicato come Beilage 32 in HU XXIX: la constatazione della pluralità dei sistemi filosofici che si danno nella storia, dice, può condurre allo scetticismo. E tuttavia questo stesso scetticismo può motivare il filosofo, colui che per vocazione sia già filosofo, a qualcosa di affatto nuovo: può motivare «innanzitutto ad una riflessione del filosofo su come egli è filo­ sofo, e su come per destino, o per meglio dire: a partire da una chiamata interiore apodittica, egli debba infine e davvero divenire filosofo, debba infine e davvero pervenire ad assolvere il proprio compito. Egli è filosofo non perché sia una bella cosa esser professore di filosofia oppure divenire un uomo famoso: ché, se è questo il suo vero fine, allora non è la filoso­ fia. Di principio la filosofia non può porsi come fine che in una chiamata, a partire da un imperativo categorico che il filosofo non si è imposto e che nessuno gli ha potuto imporre dall'esterno; e il suo «devi» apodittico è il suo telos più proprio, nel senso di «fine di vita», già da prima che egli (...) sia pervenuto a formularlo come fine di vita. (HU XXIX p. 410; cfr. anche pp. 397-399 e pp. 401-402).

Riferimenti bibliografici.

I riferimenti che seguono comprendono 1. tutta la letteratura esplicitamente citata e 2. alcuni studi su Husserl e su Descartes che, pur non essendo esplicitamente citati, sono risultati di par­ ticolare rilievo per l'elaborazione di questo lavoro. Sono con­ trassegnate con * le interpretazioni e reinterpretazioni del pen­ siero husserliano cui sono particolarmente debitrice.

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