Guida alla musica pianistica. Oltre 2000 composizioni esaminate. Oltre 300 anni di musica. Oltre 100 monografie 8865400153, 9788865400159

La guida alla letteratura del pianoforte è impostata più come enciclopedia storica che come catalogo. I dati di cataloga

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Indice-sommario
A-B
Albéniz
Alkan
Bach CPE
Bach JC
Bach JS
Bądarzewska-Baranowska
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Barber
Bartók
Beethoven
Berg
Berio
Bloch
Brahms
Britten
Busoni
C-D
Cage
Čajkovskij
Carter
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Castelnuovo-Tedesco
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Dukas
Dussek
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Golinelli
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Schumann
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Skrjabin
Smetana
Sorabji
Šostakovič
Stockhausen
Strauss Johann jr.
Strauss
Stravinskij
Szymanowski
T-Z
Thalberg
Villa-Lobos
Voříšek
Wagner
Weber
Webern
Premessa
Introduzione
Guida alla Musica Pianistica
Indice delle opere citate
Indice dei nomi
Indice cronologico dei compositori
Recommend Papers

Guida alla musica pianistica. Oltre 2000 composizioni esaminate. Oltre 300 anni di musica. Oltre 100 monografie
 8865400153, 9788865400159

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LE GUIDE ZECCHINI

LE GUIDE ZECCHINI

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GUIDA ALLA MUSICA PIANISTICA di Piero Rattalino La Guida alla letteratura del pianoforte è impostata più come enciclopedia storica che come catalogo. I dati di catalogazione sono stati ridotti al minimo perché la pubblicazione intende rivolgersi soprattutto al pubblico degli appassionati, non degli esperti, e gli elementi di analisi tratti dalle circostanze storiche, dalle biografie, dalle descrizioni, dal linguaggio, dalle strutture, dalle strumentazioni, dalle drammaturgie riscontrabili nei diversi autori e nelle diverse composizioni vengono perciò utilizzati per una valutazione critica che riguarda sia l’aspetto artistico che l’aspetto sociologico delle musiche prese in esame. I compositori di cui si parla sono 109. Avrebbero potuto essere di più se l’Autore avesse dedicato meno spazio ai maggiori protagonisti, e avrebbero potuto essere di meno nel caso di una selezione più restrittiva. Sulla inclusione o sulla esclusione di questo o di quell’altro compositore si possono del tutto legittimamente esprimere le opinioni più disparate. Della scelta, che dipendeva essenzialmente dalla dimensione da dare al volume, né striminzita né esorbitante, è responsabile unicamente l’Autore, che si è mosso seguendo sia criteri oggettivi, indiscutibili, sia personali e soggettive e discutibili preferenze. Un ampio saggio di taglio sociologico precede le “voci” perché l’Autore ritiene importante che il lettore conosca almeno per grandi linee la storia dello strumento, la sua evoluzione tecnologica, la sua collocazione nel mondo musicale, e quindi il campo di possibilità concrete entro il quale si mossero e operarono in diversi momenti e in diverse circostanze i compositori. Vengono esaminate sia le composizioni per pianoforte solo che per pianoforte e orchestra poiché la contiguità fra i due campi è tale da aver consigliato di tenere unite, piuttosto che separate, le due trattazioni.

GUIDA ALLA MUSICA PIANISTICA

Le Guide Zecchini

di Piero Rattalino

OLTRE

2000

COMPOSIZIONI

OLTRE

300

ANNI DI MUSICA

OLTRE

100

MONOGRAFIE

GUIDA ALLA MUSICA PIANISTICA di Piero Rattalino

ISBN 978-88-65400-15-9

Le Guide Zecchini Zecchini Editore

45,00

9 788865 400159

(IVA ASSOLTA DALL’EDITORE)

CYANMAGENTAYELLOWBLACK

Zecchini Editore

Le Guide Zecchini

GUIDA ALLA MUSICA PIANISTICA di Piero Rattalino

E` vietata la riproduzione sia pure parziale di testi, fotografie, tavole o altro materiale contenuto in questo libro senza autorizzazione scritta dell’Editore. Per eventuali e non volute omissioni di fonti citate e per gli aventi diritto l’editore dichiara la propria completa disponibilita`. Le opinioni espresse nel presente libro coinvolgono esclusivamente gli autori e il curatore.

Le Guide Zecchini, 3 # 2012 Zecchini Editore Zecchini Editore - Via Tonale, 60 21100 Varese (Italy) Tel. 0332 335606 - 331041 - Fax 0332 331013 http://www.zecchini.com - e-mail: [email protected] 1 Tutti i diritti riservati Prima edizione: marzo 2012 ISBN: 978-88-65400-15-9

Impaginazione, impianti pre-stampa: Datacompos srl - Varese Questo volume e` stato stampato presso: Tipografia Galli e C. - Varese Stampato in Italia - Printed in Italy

Le Guide Zecchini 3

Premessa

Premessa

La proposta dell’Editore di scrivere la Guida alla letteratura pianistica mi trovo` subito consenziente, ma ebbi poi qualche dubbio sul taglio da dare alla pubblicazione. Una guida puo` essere in astratto impostata come catalogo o come enciclopedia. All’atto pratico i due sistemi si intersecano necessariamente, ma altrettanto inevitabilmente uno dei due prevale sull’altro. Dopo averci pensato un po’ sopra ho deciso per l’enciclopedia. Soprattutto per una ragione. La mia Guida e` destinata in primis al pubblico degli amanti della musica classica, non degli specialisti, e certe notizie, che per lo specialista sono preziose, indispensabili, dicono poco o nulla all’appassionato. Un catalogo comprende per ogni composizione un breve commento, preceduto da una scheda che reca una serie di dati: titolo in lingua originale, numero d’opera o classificazione analoga, anno di composizione, anno di pubblicazione, editore, dedicatario, movimenti, tonalita` , durata indicativa, data, se reperibile, della prima esecuzione e relativi interpreti. Io ho rinunciato a fare la scheda e mi sono limitato a riportare sistematicamente, nel testo, l’anno di composizione e il numero d’opera o di catalogo, e spesso l’anno di pubblicazione. Ho riportato il titolo talvolta in lingua originale, con traduzione, e piu` spesso soltanto in italiano. Oltre a questi, che sono i dati di identificazione essenziali, ho utilizzato le altre notizie quando erano di qualche rilevanza per le mie spiegazioni e i miei commenti. Le analisi che il lettore trovera` sono condotte secondo sette direttrici – storica, biografica, descrittiva, strutturale, linguistica, strumentale, drammaturgica –, che entrano in gioco, a seconda delle circostanze, o tutte o alcune o una sola. Sulle prime cinque direttrici so di non suscitare opposizioni o perplessita`. So invece che l’analisi della strumentazione e l’analisi della drammaturgia possono muovere obbiezioni di principio. L’evoluzione dell’estetica ha portato nel Novecento a negare o per lo meno a considerare equivoca la distinzione di pensiero e materia. Il che va benissimo per certa musica del Novecento ma non puo` essere secondo me considerato un criterio assoluto di giudizio. Io

credo che per quanto riguarda il passato remoto sia bene dar ragione a Ferruccio Busoni, che il processo della creazione lo viveva in prima persona in un momento in cui il Novecento era solo agli albori. Ora, nello Schizzo per una nuova estetica della musica, Busoni dice: ‘‘Notazione’’ (‘‘scrittura’’) mi conduce a ‘‘trascrizione’’: concetto molto mal compreso e quasi spregiativo. La frequente opposizione che ho sollevato con le mie ‘‘trascrizioni’’, e quella che tante critiche irragionevoli hanno sollevato in me, mi hanno spinto a tentar di raggiungere chiarezza su questo punto. Ecco quanto in definitiva ne penso: ogni notazione e` gia` trascrizione di un’idea astratta. Nel momento in cui la penna se ne impadronisce, il pensiero perde la sua forma originale. L’intenzione di fissare l’idea con la scrittura impone gia` la scelta della battuta e della tonalita`. I mezzi formali e sonori – per il quale il compositore deve pur decidersi – determinano sempre piu` via e limiti. Se si tengono distinti il pensiero e la materia, cioe` l’idea musicale e la strumentazione, si rientra nel modus operandi delle epoche che precedono il Novecento e si capisce meglio l’insieme dei problemi che i compositori affrontavano. Non si tratta – e` ovvio – di misurare tutto secondo un metro astratto e immutabile, non si tratta di cadere nelle assurdita` messe cosı` bene in luce da Ives nei Saggi prima di una sonata. Dice Ives: Una volta un violinista fu abbastanza onesto e coraggioso, o forse abbastanza ignorante, da dire che Beethoven non sapeva scrivere per il violino; puo` essere una delle molte ragioni per cui Beethoven non e` un Vieuxtemps. Un altro dice che le Sonate per pianoforte di Beethoven non sono pianistiche; con un piccolo sforzo, forse, Beethoven sarebbe potuto diventare un Thalberg. Non credo ci sia da aggiungere altro. Ma faro` un esempio che secondo me e` calzante, e con un compositore di cui nessuno ha mai detto che avesse delle lacune nello scrivere per pianoforte. Anzi, lo si accuso` spesso di pensare troppo al pianoforte e troppo poco alla musica. La Sonata di Liszt si apre con una breve introduzione in tempo lento V

Premessa

che precede l’Allegro. L’idea che secondo me si presenta alla fantasia di Liszt per l’inizio e` di un suono indeterminato, grave e cupo e soffocato. Ma nel pianoforte non ci sono suoni indeterminati. Quale suono determinato, allora? Liszt opta per il sol, probabilmente perche´ il primo tema dell’Allegro inizia con un sol. Quale sol? Il pianoforte dispone di piu` sol gravi, ma un suono isolato non sarebbe cupo e soffocato. Liszt strumenta allora il sol raddoppiandolo – sol-1, sol1, sol2 – e ottiene in questo modo l’effetto desiderato. Cosı` nella versione stampata. Nel manoscritto autografo troviamo invece una strumentazione leggermente diversa: sol-1, sol1, sol2, sol3. Non si puo` dire che Liszt non conoscesse a fondo le risorse del pianoforte. Evidentemente, pero` , l’idea primigenia di quel suono grave non si era presentata alla sua fantasia con una strumentazione definita. Liszt ne trovo` una, poi si accorse di aver sbagliato o per lo meno di poter fare meglio, e tiro` una vigorosa riga sui quattro sol e sul seguito fino all’Allegro. Per quanto riguarda invece l’analisi della drammaturgia e` evidente che il piu` delle volte la musica strumentale non si presenta come un libro aperto ma che lascia piuttosto degli indizi di vario genere, ed e` evidente altresı` che l’analisi puo` scivolare facilmente nel fantasioso. Ma ho deciso di correre il rischio, per lo stesso motivo che mi ha indotto a scegliere il taglio della enciclopedia. Mi aveva molto colpito di recente una marginale osservazione di Harvey Sachs nel suo The Ninth. Beethoven and the World in 1824 (Random House, New York 2010). Dopo aver riferito il ‘‘programma’’ che Mitsuko Uchida riteneva di avere trovato nella Sonata D 960 di Schubert, il Sachs commentava: ‘‘Inventare storie di questo genere puo` aiutare qualche performer a realizzare le sue idee interpretative, ma tali favole sono grossolane semplificazioni di qualsiasi storia – se c’era – che i compositori potevano avere in mente quando scrivevano la loro musica’’. Pur essendo sostanzialmente d’accordo sulla seconda parte del periodo, a me interessava la prima. Se il programma e` di aiuto per l’interprete che conosce tecnicamente il linguaggio musicale, non lo sara` a maggior ragione per l’inesperto ascoltatore che non e` in grado di leggere la musica? Percio`, senza pretendere di conquistare alcuna verita` assoluta, ho fatto in molti casi le analisi drammaturgiche, che valgono come semplici input per il lettore. Non le ho fatte sistematicamente, ma a seconda delle circostanze mi ci sono avventurato, sia basandomi su dati-indizi, sia, in qualche caso, sulle mie personali impressioni di ascoltatore. La scelta dei compositori da includere nella Guida VI

mi ha posto parecchi problemi. Fin dall’inizio ho pensato di occuparmi dei clavicembalisti solo nella misura in cui avevano svolto indirettamente un ruolo nella letteratura pianistica. Mi sembra che l’inclusione indiscriminata dei clavicembalisti, che trovo in varie pubblicazioni simili a questa mia, si basino su un pregiudizio, sull’antico pregiudizio che il pianoforte non solo sia succeduto storicamente al clavicembalo, ma che ne sia divenuto in toto l’erede. Il che e` invece vero solo in parte. Il pianoforte si e` impadronito di cio` che del clavicembalo serviva ai suoi fini, senza pero` sostituirlo. Vero e` che qualche mosca bianca di pianista ci ha fatto o ci fa ascoltare sul pianoforte Sweelinck o Frescobaldi o Byrd, ma chi vuole conoscere questi grandi creatori cerca di sentirli eseguiti sul clavicembalo, e non su un clavicembalo purchessia ma su quello ‘‘giusto’’, mentre, all’opposto, c’e` chi passa la vita adorando Bach e trovando del tutto soddisfacente ascoltarlo dal solo Glenn Gould. Dopo aver escluso i clavicembalisti non ‘‘pianistizzati’’ ho finito con un certo rammarico col rinunciare a includere gli autori viventi, con un’unica eccezione, Elliott Carter, che mentre scrivevo si stava avvicinando ai centotre anni d’eta`. Gli autori scomparsi sia pur di recente sono consegnati alla storia, e parlare di essi costituisce per lo meno una testimonianza, anche se la valutazione ponderata non potra` che essere fatta nel tempo. Includere Stockhausen escludendo Boulez per il semplice fatto che il primo e` scomparso da alcuni anni e` pero` – me ne rendo conto – un po’ paradossale. Ma ho preferito scegliere un criterio oggettivo e attenermici. Sulla inclusione di certi autori – da Bach e Scarlatti fino a Ligeti e Stockhausen – non potevano sussistere dubbi di sorta, su altri sı`, e l’inclusione di questo o di quello dipendeva innanzitutto dalla mole del volume. Ho dunque fatto la mia scelta senza aver ne´ trovato ne´ cercato un criterio oggettivo che non fosse quello delle mie personali preferenze in rapporto con il numero di pagine che avevo a disposizione, ma tenendo conto, oltre che dei valori artistici, anche della incidenza sociale delle musiche di cui mi occupavo. Percio` faccio precedere l’elenco alfabetico degli autori da un saggio di taglio sociologico. L’autore a cui ho riservato il maggior numero di pagine e` Beethoven. L’opera pianistica di Beethoven e` molto vasta, ma lo spazio che occupa nella Guida non dipende soltanto da questa ragione. Beethoven e` stato invece il cardine su cui si e` costruito il passaggio del concerto sinfonico e del concerto da camera da manifestazione pubblica saltuaria a manifestazione pubblica istituzionale. Nel suo lungo saggio su Schu-

Premessa

mann, e riferendosi alla musica pianistica, non al melodramma o all’oratorio, Liszt scriveva: Ci volle molto tempo per la creazione di una grammatica, di una logica, di una sintassi e di una retorica musicale. [...] Beethoven, disponendo del suo genio come un guerriero, in lutto come un diseredato, raggiante come un messaggero divino, compı` il tragitto della nostra arte dal periodo della giovinezza entusiastica a quello della prima maturita`. La sua presenza porto` con se´ un tale cambiamento nell’andamento, o meglio, nel portamento dell’arte, che nessuno puo` negare la nuova era della musica, rispetto alla quale i periodi precedenti non sono altro che fasi preparatorie (Composizioni per pianoforte di Robert Schumann, trad. di Livia Brunelli, Passigli Editori, Firenze 1994). Piu` di sessant’anni dopo Busoni, in Che cosa ci ha dato Beethoven?, diceva: [...] per la prima volta con Beethoven l’elemento umano entra come argomento principale nella musica, in luogo del gioco formale. Immediatamente ci si presenta la domanda se cio` possa essere per la musica una conquista, un’elevazione; se il compito della musica sia quello di essere umana invece di rimanere puro suono, bella forma. [...] Gli ideali umani di Beethoven sono alti e incorrotti; sono gli ideali del Giusto d’ogni tempo e paese: l’aspirazione alla liberta`, la redenzione per mezzo dell’amore, l’affratellamento di tutti gli uomini. Liberte´, e´galite´, fraternite´. Beethoven e` un portato del 1793, il primo grande democratico della musica. [...] Soffrire per l’umanita` e` sommamente ‘‘umano’’, ci incute rispetto e ci fa sentire gratitudine e amore; degno di adorazione e` pero` soltanto il ‘‘divino’’, che non conosce dubbi ne´ li desta, e fa dimenticare ogni dolore. Mi sembra evidente che Liszt stia all’inizio e Busoni alla fine di un processo storico. Non si tratta di discutere la validita` della tesi di Liszt e della controtesi di Busoni, ma di capire come venne costruita la trasformazione dell’uso sociale della musica strumentale. E che Beethoven abbia rappresentato storicamente una novita` foriera di sviluppi lo riconosce implicitamente Nikolaus Harnoncourt, molto tempo dopo che i dubbi di Busoni si erano manifestati, che si erano manifestati nel momento in cui nella musica si stava avviando un nuovo processo storico. Beethoven – lo si dice sempre – fu uomo della Rivoluzione francese. Harnoncourt, senza riferirsi a lui in particolare, fa una osservazione che ci permette di inserire Beethoven in una svolta storica non individuale: Non e` un caso se la riduzione della musica al bello e, percio`, a cio` che e` comprensibile per tutti, si sia effettuata all’epoca della Rivoluzione francese. Ci sono sempre nella storia dei periodi in cui si e` ten-

tato di semplificare il contenuto emotivo della musica a un punto tale da poter essere compreso da tutti. Ciascuno di questi tentativi ha fatto fallimento, ha condotto a una nuova diversita` e a una nuova complessita`. La musica non puo` essere messa alla portata di tutti senza esser ridotta a un’arte primitiva, oppure quando tutti ne apprendono il linguaggio. Il piu` fruttuoso tentativo di semplificare la musica e di renderla comprensibile a tutti ha dunque avuto luogo in seguito alla Rivoluzione francese. Si cerco` allora, per la prima volta nella storia nel quadro d’una nazione importante, di mettere la musica al servizio delle nuove idee politiche. (Musik als Klangrede: Wege zu einem neuen Musikversta¨ndnis, Residenz Verlag, Salisburgo e Vienna 1982). Il termine ‘‘arte primitiva’’ riferito a Beethoven mette un po’ in imbarazzo qualcuno, mentre non mette in imbarazzo nessuno se riferito a Gauguin. Ma la Waldstein e l’Appassionata sono secondo me ‘‘primitive’’ rispetto alla 106 e alla 111. La teoria dei tre stili in Beethoven puo` essere vista come ripartizione fra un periodo di musica mondana pensata per una classe sociale, un periodo di musica interclassista-primitiva e un periodo di nuova complessita`. E Harnoncourt inventa una bella metafora quando dice che prima di Beethoven la musica parla e che con Beethoven dipinge, perche´ per capire un discorso bisogna conoscere il linguaggio, mentre si puo` ammirare un quadro senza conoscere la tecnica pittorica. So bene che tutte queste affermazioni possono essere smontate dal rigoroso ragionamento del filosofo. Cio` che a me interessa non e` pero` la correttezza teoretica, bensı` il sentimento di chi opera per la diffusione della musica strumentale. E in questo senso Beethoven e` la figura centrale della rivoluzione sociologica grazie alla quale il fruitore della musica pianistica si e` allargato dalla aristocrazia e dall’alta borghesia alla media e alla piccola borghesia, dando luogo a un consumo e pubblico e privato in assenza del quale il pianoforte non avrebbe avuto la letteratura che ha. Ho adottato due criteri di esposizione diversi: l’esposizione per generi, l’esposizione cronologica, e talvolta una esposizione mista. L’uno o l’altro criterio presentano sempre vantaggi e svantaggi: ho scelto di volta in volta quello dei due che secondo il mio giudizio mi permetteva di lavorare con maggiore rapidita` ed efficacia. Una piccola avvertenza. La tonalita` che indico e` quella dell’inizio del pezzo e, nel caso di composizioni in piu` movimenti, quella del primo movimento e del finale. Indico pero` la tonalita` della fine del pezzo quando, caso raro, non e` identica a quella dell’inizio. Non indico invece il cambio finale del modo se non quanVII

Premessa

do tutto l’ultimo movimento del pezzo e` in modo diverso. Ad esempio, il Concerto di Grieg e` in la minore (la), con l’ultima parte del finale in la maggiore (La), mentre nel Concerto di Schumann tutto il finale e` in modo maggiore, per cui il lettore trovera` per Grieg solo il la e per Schumann il laLa. Altra piccola avvertenza. I termini tempo e movimento sono in genere considerati interscambiabili: io ho invece usato sempre movimento nel senso di parte in se´ compiuta di una composizione musicale, e tempo nel senso di indicazione di velocita`. La data di composizione e` indicata in parentesi dopo il titolo; la seconda data, quando c’e`, e` quella della pubblicazione. Ultima piccola avvertenza: ho limitato l’uso del corsivo, che mi e` diventato fastidioso, a certe enfatizzazioni del discorso, ritenendo che il lettore sia in grado di capire benissimo che Giardini sotto la pioggia e` il titolo del pezzo, anche se non e` scritto Giardini sotto la pioggia. Non so esattamente quanto, ma la maggior parte della Guida e` stata scritta ex-novo. Per la parte restante ho utilizzato, rivedendoli e ritoccandoli quasi sempre, scritti miei contenuti in pubblicazioni normalmente non piu` accessibili: programmi di sala, booklet di dischi, vecchi libri fuori catalogo da tempo, di cui avevo o mantenuto o riacquistato la

VIII

proprieta` letteraria. Ho ripreso alcuni frammenti del mio Prokofiev. La vita, la poetica, lo stile, che e` ancora in commercio ma che e` pubblicato dallo stesso editore della Guida (avrei potuto riportare le citazioni fra virgolette, ma cio` mi sarebbe sembrato, come dire?, eccessivamente pomposo). Per le citazioni non ho in genere indicato la fonte ma solo l’autore. Non penso che nessuno dei miei lettori ‘‘profani’’ sia interessato a reperire gli originali dei testi che cito, in massima parte in lingua straniera, mentre il lettore professionale ha oggi modo di trovare in rete tutto cio` che vuole, senza che io debba indicare titolo, editore, data, pagina. Citero` soltanto, qui, due pubblicazioni che ho molto ‘‘saccheggiato’’, e cioe`: Schumann: Gli Scritti critici (trad. di Gabrio Taglietti, Ricordi-Unicopli, Milano 1991), e Busoni: Lo Sguardo lieto (trad. di Laura e Luigi Dallapiccola e Fedele d’Amico, Il Saggiatore, Milano 1977). Cio` che ho scritto e` frutto sia della mia ormai quasi secolare esperienza della materia, sia dei tanti approfonditi colloquii che su moltissimi dei temi trattati ho avuto con mia moglie, Ilia Kim, alla quale dedico affettuosamente la Guida. PIERO RATTALINO Roma, febbraio 2012

Premessa

Introduzione. IL PIANOFORTE E LE SUE EPOCHE STORICHE

Stando a un documento pubblicato da Mario Fabbri nel 1968, Bartolomeo Cristofori inizio` gli esperimenti sul gravicembalo col piano e forte ‘‘due anni prima del Giubileo’’, cioe` nel 1698. Il documento citato dal Fabbri non fu mai ritrovato da coloro che cercarono di controllarlo secondo piu` aggiornati criteri filologici. Non resta percio` altro da fare se non credere al Fabbri sulla parola, oppure sospettare che quel testo se lo sia inventato e costruito lui. Autentico o falso che sia, il fantomatico documento e` tuttavia verosimile: l’anno fatidico non sara` il 1698, non sara` il 1699, pero` sara` al massimo il 1700, perche´ al 1700 risale un inventario mediceo in cui viene elencato un clavicembalo con un registro di martelletti, un inventario da cui ricaviamo la notizia curiosa che il primo embrione di pianoforte fu impiantato nel corpo sonoro di un clavicembalo: una specie di utero in affitto. Non sappiamo invece quando esattamente il pianoforte ebbe le sue gambe e imparo` a camminare. Possiamo solo dire che Scipione Maffei, parlandone per primo nel 1711, descrisse uno strumento a se stante, e di cui esistevano piu` esemplari. Il documento di Mario Fabbri, dicevo, e` comunque verosimile, e quindi non mi faro` scrupolo di parafrasarne il contenuto per la parte che qui ci interessa. Gli intellettuali fiorentini che frequentavano il palazzo del Gran Principe Ferdinando de’ Medici fantasticarono di uno strumento che possedesse tutti i vantaggi del clavicembalo senza lamentarne i limiti. Il clavicembalo era una magnifica macchina, ma non respirava. Bisognava... animalizzarlo, bisognava cioe` unire alla maneggevole tastiera la possibilita` di gonfiare e sgonfiare il suono. Gli intellettuali e il Gran Principe Ferdinando trovarono il loro argonauta nel cembalaro Bartolomeo Cristofori da Padova, che si sforzo` di tradurre in realta` le dorate fantasie dei cortigiani e del loro capo, e che in qualche misura le tradusse. Lasciamo ora il Fabbri e passiamo al Maffei, il quale ci rende edotti di due fattori. L’ingegnoso Cristofori non era riuscito in verita` a inventare la macchina a respirazione animale: aveva creato il

gravecembalo col piano e forte, che respirava a scatti e che nel far cio` produceva un gran rumore parassitario. Rispetto ai sogni, una creatura di Frankenstein. Pero` con un animo gentile e con una voce da incanto: il Maffei, che ne era entusiasta, consigliava soltanto di sentirlo da una certa distanza. Oltre a quelle del Maffei non abbiamo altre notizie del pianoforte fiorentino. Senza inventare documenti mi permetto pero` di supporre, visto quel che accadde poi, che Giorgio Federico Ha¨ ndel e Domenico Scarlatti, ospiti del Gran Principe rispettivamente nel 1706 e nel 1705, vedessero il pargoletto e non lo degnassero di uno sguardo. Rameau e Franc¸ois Couperin, che probabilmente ebbero notizia di un progetto di pianoforte presentato alla Accademia di Scienze di Parigi nel 1716 da un Jean Marius, si tennero stretti al loro imperfettissimo clavicembalo. E Johann Sebastian Bach, quando vide i pianoforti costruiti da Gottfried Silbermann, li lascio` correre per i fatti loro. Inventato alla fine del Seicento, in tutta la prima meta` del Settecento il pianoforte trovo` pochi, pochissimi estimatori, con un solo compositore, Lodovico Giustini da Pistoia, che lo prese in considerazione. E ognun vede che cosa contino le dodici Sonate op. 1 del Giustini di fronte a cio` che nella prima meta` del secolo usciva dalle botteghe di Bach, Ha¨ndel, Scarlatti, Rameau, Couperin. Pero`, tutto passa. E se il clavicembalo non poteva desiderare nulla di piu` di quel che gli avevano donato i cinque grandi, la musica barocca non poteva oltrepassare l’Arte della fuga. Qualcosa di inaspettato doveva arrivare. E arrivo` il pianoforte. Nella storia del pianoforte troviamo epoche molto ben distinte, che si riconoscono facilmente quando si scorrono le date della sua cronologia. Tra il 1698 e il 1760 circa il pianoforte e` usato pochissimo. Dopo il 1760 si comincia a servirsene per davvero: nasce il pianoforte dell’eta` classica o pianoforte classico. Andiamo cosı` fino alla morte di Schubert, fino al 1828, poi qualcosa cambia. Sappiamo tutti che fra Beethoven e Chopin c’e` uno stacco netto. C’e` uno stacco nella storia delle perIX

Introduzione. Il pianoforte e le sue epoche storiche

sonalita` artistiche, ma anche nella storia dello strumento. E lo strumento romantico e` pronto intorno al 1830 e rimane in servizio fino alla morte di Brahms. Anche qui, tutti lo sappiamo, c’e` un netto distacco, ad esempio, fra Brahms e Debussy, le cui prime significative opere per pianoforte risalgono agli anni novanta. Con Debussy inizia quello che si usa denominare pianoforte moderno, un po’ diverso dal pianoforte romantico anche in quanto strumento. Poi troviamo un altro stacco molto netto intorno al 1950. Nettissimo fra compositori nati all’inizio del secolo e compositori nati trent’anni dopo: diciamo ad esempio, tanto per riferirci alla musica italiana, fra Petrassi e Bussotti. Nulla del genere avviene invece nello strumento, che permane inalterato. In questi periodi, chiaramente distinti riguardo alla storia della letteratura, si nota anche, dicevo, una distinzione inequivocabile nelle caratteristiche strutturali dello strumento. Lo strumento della prima meta` del Settecento possedeva grandi potenzialita` e soffriva di non poche approssimazioni per difetto: la meccanica funzionava ancora imperfettamente ma soprattutto, come abbiamo gia` visto per inciso, era rumorosa. Rispetto al collaudatissimo clavicembalo, il nuovo strumento sapeva sı` suonare piano e forte, cioe` variare col tocco del dito la dinamica, pero` la quantita` del rumore, rapportata alla quantita` del suono, era esorbitante, un po’ come accadde molto piu` tardi con le radio e le televisioni. Grazie all’opera di numerosissimi artigiani, che soprattutto da circa il 1740 si dedicarono con crescente passione al pianoforte, l’imperfezione venne superata e, fatto di ancor maggiore rilevanza, all’epoca del pianoforte classico venne inventato – sperimentato, inventato, brevettato – un congegno che faceva del pianoforte cio` che il pianoforte veramente e`: uno strumento a tastiera diversissimo da tutti gli altri. Il congegno miracoloso era il pedale di risonanza. Nel pianoforte, come nel clavicembalo e nell’organo, che sono anch’essi strumenti a tastiera, l’esecutore puo` dominare l’inizio e la fine del suono, non cio` che accade fra l’inizio e la fine. L’abbassamento del tasto determina la nascita e i caratteri del suono, e il rilascio ne determina la cessazione. Ma dal momento dell’inizio al momento della cessazione l’esecutore non puo` far nulla, al contrario di quanto avviene negli strumenti a fiato e negli strumenti a corde soffregate, nei quali la creazione e il controllo sono continui e il suono ‘‘respira’’ e ‘‘canta’’. Con il congegno comandato dal pedale di risonanza il pianista fa durare il suono anche se lascia tornare il tasto in posizione di riposo, e la cessazione viene ottenuta con il movimento del piede, cioe` smetX

tendo di schiacciare il pedale. Cio` consente di sovrapporre suoni molto distanti fra di loro e in numero molto maggiore di quello che si puo` ottenere con le sole dita. L’uso del pedale fa inoltre entrare in vibrazione ‘‘per simpatia’’ anche corde che non sono state percosse, e cio` arricchisce timbricamente il suono e lo gonfia persino un pochetto, sebbene non tanto da farlo cantare nemmeno come un fringuello. Questa e` la scoperta aggiuntiva e risolutiva, e` cio` che da` un’anima nobile alla creatura di Frankenstein, e` cio` che del pianoforte fa il pianoforte. E cio` avviene fra il 1760 e il 1770. In quell’epoca il pianoforte aveva il telaio interamente in legno. Una corda, come tutti sanno, non vibra se non e` tesa. Le corde del pianoforte vengono tese sul telaio, che nell’epoca classica era in legno mentre le corde erano in ottone o talvolta in rame o in ferro. Il martelletto, cioe` il terminale della meccanica, una specie di pallina o di blocchetto che colpisce la corda, era in legno, ricoperto da uno strato sottile di pelle di daino. Oltre al pedale di risonanza questo strumento gia` perfetto fu dotato, dapprima sporadicamente, ma dalla fine del secolo sistematicamente, di un altro pedale che consentiva effetti timbirici particolari: il pedale ‘‘una corda’’ (quello che oggi sta a sinistra). Detto in modo un po’ approssimativo, a ogni tasto corrispondono tre corde che danno lo stesso suono. Schiacciando il pedale una corda la tastiera si sposta lateralmente e il martelletto colpisce una sola corda invece di tre. Un altro congegno che addolciva la sonorita`, e che all’inizio dell’Ottocento fu applicato molto spesso, era il ‘‘pedale celeste’’. Un altro, piu` raro e che si applicava solo alla meta` di sinistra della tastiera, corrispondente alle corde piu` lunghe, era il ‘‘pedale di fagotto’’. Non mancarono i pedali per imitare l’effetto cupo della grancassa, argentino dei campanelli, civettuolo dei piatti; ma non durarono a lungo e non vennero montati da tutti i fabbricanti. Lo strumento classico rimase in servizio fino a circa il 1830. Durante i primi decenni dell’Ottocento si fecero pero` molti esperimenti in relazione con fenomeni fisici di cui diremo poi, per aumentare il volume del suono. Per aumentare il volume ci volevano pianoforti piu` grandi, ma soprattutto pianoforti che sopportassero corda piu` grosse e piu` tese, con una massa vibrante maggiore. Sui pianoforti classici non si poteva andare al di la` di una tensione superiore a circa quaranta chilogrammi per corda perche´ il telaio di legno si ‘‘imbarcava’’ sollevandosi alle due estremita` (e mandando cosı` a carte quarantotto l’accordatura): i costruttori cominciarono allora a inserire sul telaio di legno delle placche metalliche collegate da sbarre metalli-

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che, aumentando cosı` la capacita` di resistenza del telaio. Di qui nasce il pianoforte romantico: dalla me´salliance fra metallo e legno. Cosa che provoco` addirittura problemi etico-filosofico-dinastici, perche´ si riteneva che il metallo fosse materia vile rispetto al legno, vivo e nobile. Si comincio` coll’inserire placche e barre metalliche di tensione nel telaio in legno e si arrivo` ad avere progressivamente un telaio interamente metallico (ma sempre avvitato sul legno), fatto di pezzi diversi. Su questo telaio si potevano montare corde molto piu` grosse e piu` tese e si potevano anche usare martelletti piu` grossi e piu` pesanti. Invece di ricoprirli con pelle di daino, che si tagliava facilmente nell’urto contro la corda metallica, li si ricoprirono con uno strato di feltro. E questo e` il pianoforte romantico. Il pianoforte moderno nacque negli ultimi decenni dell’Ottocento, quando, con il progresso dell’industria siderurgica, si riuscı` a costruire un telaio interamente metallico fuso in un blocco solo, resistentissimo. Si tratto` di una innovazione che consentı` di montare corde ancora piu` grosse e piu` tese e martelletti ancora piu` voluminosi e piu` pesanti. Sul pianoforte classico, dicevo, la tensione non superava i quaranta chilogrammi circa per corda; sul pianoforte moderno si arrivo` all’ordine di circa duecento chilogrammi per corda. E questo, con marginalissimi ritocchi, e` il pianoforte che usiamo ancor oggi. Ciascuno di questi strumenti – pianoforte classico, pianoforte romantico, pianoforte moderno – possiede possibilita` timbriche diverse, possiede possibilita` sue. E quando la costruzione si modifica il pianista riparte non proprio da zero, ma da uno strumento di potenzialita` in parte ancora inesplorate. Nel momento in cui lo strumento classico raggiunge la sua messa a punto comincia la sperimentazione che, iniziata con i compositori parigini negli anni sessanta del Settecento, prosegue fino a Beethoven e a Schubert. Quando il pianoforte romantico compare sulla scena comincia – con Mendelssohn, con Chopin, con Schumann, con Liszt, con Thalberg, con Henselt – una nuova sperimentazione che prosegue fino a Brahms. Quando viene creato il pianoforte moderno comincia una ricerca che parte con Debussy e dura fino a Boulez. Verso la meta` del Novecento si sviluppa pero` un nuovo tipo di sperimentazione su un pianoforte moderno le cui possibilita` timbriche – in altre parole, le possibilita` di creazione di nuova materia sonora – sono state in pratica tutte esplorate. Si comincia con il tentativo di John Cage, il cosiddetto pianoforte preparato, il pianoforte il cui timbro era stato preventivamente modificato mediante l’inserzione fra le corde di oggetti di vario mate-

riale. Ci sono inoltre ricerche per l’esecuzione diretta sulla cordiera, senza l’intermediazione della tastiera, pizzicando o percuotendo le corde con le dita, con bacchette di tamburo, ecc. ecc. Tentativi immaginosi e fantasiosi, che non hanno grandi sviluppi perche´ il campo delle possibilita`, molto ridotto, viene ben presto esaurito. Un altro campo di possibilita`, enormemente vasto, non viene invece sperimentato a fondo, soprattutto per ragione di costi: il rapporto del suono pianistico con suoni prodotti o modificati da apparecchiature elettroacustiche. Il rapporto, e potremmo dire la me´sailliance fra pianoforte e suoni registrati su nastro, gia` tentato nel 1960 da Stockhausen in Kontakte (Contatti), venne moderatamente sviluppato fino agli anni settanta. Sempre Stockhausen inizio` nel 1970, con Mantra, gli esperimenti sul pianoforte modulato, con modificazione in live del suono. Mantra apriva un campo di indagine sterminato, ma di costi talmente elevati e di realizzazione talmente macchinosa da scoraggiare la ricerca. In questo campo potrebbero tuttavia verificarsi novita` decisive. Il mio paziente lettore avra` forse notato, o forse no, che le epoche di cui ho parlato – dell’invenzione e della messa a a punto del pianoforte classico, del pianoforte romantico, del pianoforte moderno – durano ciascuna sessanta-sessantacinque anni. C’e` in tutto cio`, secondo il mio parere, un significato. Certamente non astrologico, ne´ cabalistico, ne´ metafisico: un significato biologico, sı`. Un periodo di sessanta-sessantacinque anni corrisponde al tempo completo di creativita` di una generazione di artisti e di relativa, massima creativita` di due generazioni. Possiamo dire che una generazione chiude il suo ciclo nel giro di una sessantina d’anni e che un artista, nell’arco di una trentina d’anni, realizza il massimo delle sue capacita` creative. Praticamente, e con l’approssimativo e il generico che un discorso di questo genere reca in se´, non e` secondo me improprio dire che sessanta-sessantacinque anni rappresentano la ricerca e la creazione di una prima generazione – possiamo chiamarla di maestri – e di una seconda generazione – possiamo in qualche misura chiamarla di discepoli. Poi il campo delle possibilita` si esaurisce e bisogna riprendere il cammino da nuove posizioni. Cio` vale nei confronti del linguaggio e ancor piu`, molto di piu`, nei confronti dello strumento. C’e` una specie di interazione fra artisti e costruttori, perche´ gli artisti chiedono continuamente ai costruttori di modificare lo strumento e, viceversa, i costruttori vengono sollecitati da ragioni di mercato a introdurre modificazioni, essendo ben consci del fatto che lo strumento piu` evoluto, per il quale si scriXI

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vono nuove musiche, conquista e riconquista costantemente gli acquirenti. Percio` la frattura di due in due generazioni e` per due secoli implacabile come un castigo biblico. E se gli artisti, splendenti ma solo metaforicamente immortali, spariscono per estinzione naturale, i costruttori, che creano dinastie, vengono ricacciati nell’ombra dal sorgere di forze vergini. Nel primo periodo si devono qui ricordare pochi punti salienti. In Italia, dopo l’invenzione del Cristofori (1698 o 1700), abbiamo la descrizione del Maffei (1711), la pubblicazione delle Sonate del Giustini (1732), la costruzione del primo pianoforte verticale di Domenico Del Mela (1737). In Germania abbiamo i testardi tentativi di Gottfried Silbermann, la cui costosa passione per il pianoforte poggiava sulla solida realta` economica di una grande fabbrica d’organi. Mentre a un cembalaro, la cui impresa non superava la dimensione familiare, non era concesso di studiare e perfezionare adeguatamente un nuovo strumento in assenza di un mercato di vendita, l’organaro poteva permettersi di lavorare senza lucro immediato. Gottfried Silbermann, i cui primi pianoforti – racconta Johann Friederich Agricola – vennero duramente criticati da Johann Sebastian Bach, pote´ arrivare alla messa a punto di uno strumento che piacque straordinariamente a Federico II, e sul quale Bach stesso, durante la visita a Potsdam del 1747, improvviso` il Ricercare a 3 dell’Offerta musicale. Attraverso un cliente come Federico II, le cui scelte di gusto si trasformavano per la nobilita` prussiana in imperativi categorici, Gottfried Silbermann creo` il primo mercato di vendita dei pianoforti. Sempre in Germania, nel 1742, un tal Socher costruı` il primo pianoforte a tavolo, Tafelklavier, cioe` un tipo di strumento domestico con corde parallele alla tastiera che per un secolo avrebbe affiancato il pianoforte a coda, salvo a essere poi sostituito completamente dal pianoforte verticale. E fino al 1760 non c’e` altro da segnalare. Poi, come dicevo, c’e` una esplosione di novita`. La storia della musica strumentale nel periodo classico constata, naturalmente a posteriori, il predominio assoluto di una sola civilta`: la civilta` di Vienna. Tutti sanno che i sommi artisti della classicita` sono Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, cioe` i compositori viennesi. Ora, se cio` e` vero, ed e` indubbiamente vero, noi non dobbiamo pero` ripercorrere la storia secondo concezioni teleologiche. La storia non si dipano` per dare un risultato. Il risultato lo vediamo noi, dopo, ma nel momento in cui la storia era l’attualita`, le scelte estetico-culturali erano differenziate e avevano caratteristiche diverse. Oggi a noi interessa di piu` l’opera della XII

civilta` viennese, che non fu pero` l’unica, che non fu sempre egemone e che non condiziono`, lei sola, il futuro. Le civilta` del pianoforte che si sviluppano nel periodo classico sono almeno quattro. Inizialmente si affermano una civilta` tedesca del Nord e una civilta` parigina, quasi contemporaneamente nasce la civilta` inglese e poco piu` tardi la viennese. E` necessario prenderle in esame. La civilta` tedesca del Nord e` per noi molto interessante per un motivo che non e` stato spesso messo in evidenza. Il suo grande maestro, Carl Philipp Emanuel Bach, non era essenzialmente pianista. Era figlio del grande Bach ed era stato educato alla tastiera sulle Invenzioni e sulle Sinfonie e sul Clavicembalo ben temperato del padre. Aveva dunque ricevuto una formazione musicale che didatticamente era la piu` straordinaria mai esistita nel campo degli strumenti a tastiera, e non poteva rinnegare questa sua origine: conosceva il pianoforte, lo apprezzava, ma apprezzava altrettanto il clavicembalo e prediligeva un altro tipo di strumento a tastiera, il clavicordo. Quindi, Bach vedeva il pianoforte come un arricchimento e lo usava in determinate circostanze, ma non lasciava decadere il clavicembalo e il clavicordo. In una prospettiva corta questa posizione era perdente, perche´ il pianoforte spazzo` via dalla scena e il clavicembalo e il clavicordo entro i primi anni dell’Ottocento. Pero`, sul piano storico, era vincente, perche´ alla fine dell’Ottocento si riprese a considerare il clavicembalo e il clavicordo, strumenti che nelle mutate condizioni della vita musicale del Novecento e di oggi (una vita soprattutto pubblica di concerti e di dischi) svolgono nuovamente una loro esclusiva funzione. Noi sappiamo benissimo che certa letteratura del Seicento e del Settecento dev’essere eseguita sul clavicordo o sul clavicembalo, specialmente sul clavicembalo. Certamente, sappiamo anche che Johann Sebastian Bach e Domenico Scarlatti vengono spesso eseguiti sul pianoforte. Cio` non e` ne´ arbitrario ne´ immotivato, ma non pertiene alla ‘‘eseguibilita`’’ di Bach e di Scarlatti sul pianoforte: e` invece una conseguenza storica, ineliminabile e proficua, del fatto che Bach e Scarlatti entrarono durante l’Ottocento nella didattica pianistica e vennero ‘‘assorbiti’’ dal pianoforte e dai grandi creatori di musica pianistica. Pero`, tanto per dire, a ben pochi viene in mente di eseguire sul pianoforte Buxtehude o Frescobaldi o Champion de Chambonnie` res o Bull, e tanto meno sarebbe concepibile di impiegare il pianoforte nei Concerti di Vivaldi o nei recitativi delle opere di Ha¨ndel. In altre parole, per la letteratura clavicembalistica che non fece corpo con la didattica del pianoforte oggi vale indubitabilmente

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il clavicembalo. Il che significa che il pianoforte, alla lunga distanza, non ha dimostrato di poter assorbire tutta la letteratura precedente alla sua affermazione. Non era in realta`, come si ritenne nell’Ottocento, un miglioramento e quindi un superamento degli strumenti precedenti, e non era la soluzione della aporia di fondo dello strumento a tastiera in cui, come ho detto prima, solo l’inizio e la fine del suono sono creati dall’esecutore, mentre la sua vita e` soggetta alla sola macchina: era, il pianoforte, semplicemente, un nuovo e magari straordinario tipo di strumento a tastiera che si aggiungeva agli altri. E questo, Carl Philipp Emanuel Bach lo sapeva benissimo. L’altra arcaica civilta` del pianoforte e` quella di Parigi. A Parigi escono, dopo quelle di Lodovico Giustini, le prime composizioni importanti nella storia del pianoforte: sono le Sonate op. 1 e op. 2 di Johann Gottfried Eckard, pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1764. E` l’inizio di un movimento che diventera` in breve tempo valanga. Insieme con Eckard, tedesco residente a Parigi, operano nella capitale francese altri cembalo-pianisti, quasi tutti di origine tedesca o alsaziana. E negli anni fra il 1760 e il 1770 inizia a formarsi a Parigi, possiamo dire, una scuola pianistica: che inizia ma che pero` ... non si forma effettivamente (sarebbe troppo lungo, e di non grande interesse, enumerare le cause di questo strano fenomeno; la ragione piu` evidente e` che i pianisti erano di origine tedesca). Gli ultimi decenni del Settecento sono, a Parigi, un grande momento di cultura violinistica (e anche arpistica), ma il pianoforte vi si sviluppa poco e di riflesso rispetto a cio` che avviene in Germania e a Vienna. Anche la costruzione dello strumento resta quantitativamente e qualitativamente limitata. Dopo le importazioni dall’Inghilterra degli anni sessanta un artigiano nato vicino ad Aquisgrana, Jean-Kilien Mercken, costruisce nel 1770 il primo pianoforte noto di fabbricazione parigina. Nel 1789, al tempo della Rivoluzione, l’elenco degli artigiani iscritti come costruttori di pianoforti nella Communaute´ des Tabliers, Luthiers et E´ventaillistes (Comunita` degli ebanisti, liutai e fabbricanti di ventagli) comprende diciassette soli nomi, e soltanto i pochi strumenti del grande cembalaro Pascal Taskin si segnalano per la loro alta qualita`. Pascal Taskin, che pure costruisce pianoforti su ordinazione, restaura pero` con passione i clavicembali antichi e inventa il jeu de bouffle, un registro di saltarelli con pelle di bufalo al posto delle penne di corvo che per un momento sembra addirittura rilanciare le fortune del clavicembalo e mettere in forse la vittoria del nuovo venuto. Tanto netto e` il contrasto da far sı` che in Francia il

clavicembalo diventi emblematicamente lo strumento aristocratico e il pianoforte lo strumento borghese. L’aristocrazia trascina nella sua rovina il clavicembalo? Sarebbe eccessivo dirlo. Ma non sottintenderlo. I due centri che verso la fine del Settecento esprimono due fiorenti civilta` del pianoforte sono Vienna e Londra: prima Londra e poi Vienna. A Londra si comincia a parlare di pianoforti negli anni sessanta. Molti artigiani tedeschi, emigrati in Inghilterra per sfuggire la Guerra dei Sette Anni, vi creano un mercato di vendita. La moda del pianoforte viene lanciata e sostenuta da Johann Christian Bach, poi da Johann Samuel Schroeter, infine da Muzio Clementi e da molti fanciulli-prodigio (fenomeno, questo, tipico della civilta` londinese del pianoforte). L’altra civilta` e` quella di Vienna, che ha inizio un po’ piu` tardi e cioe`, praticamente, quando Mozart, nel 1781, abbandona Salisburgo per tentare la sorte nella capitale. Le caratteristiche di queste due civilta` sono fondamentalmente diverse, ma diversi sono anche – stranamente, se vogliamo – gli strumenti, i pianoforti dei quali i musicisti di Londra e i musicisti di Vienna si servono. Coesistono in pratica, nella seconda meta` del Settecento, due sistemi di meccanica del pianoforte. Cerchero` di spiegarli sommariamente, sebbene sia molto difficile riuscirci: la meccanica bisogna vederla in funzione, e anche cosı` non e` facile capirla perche´ certi movimenti sono minimi e il gioco delle spinte e controspinte e` sottilissimo. Il perfezionamento della meccanica avviene attraverso le ricerche e gli esperimenti di piu` generazioni di artigiani. Pero` c’e` sempre da considerare un punto fondamentale. Il martelletto e` fissato su un’asta, incernierata su un supporto. Nella meccanica viennese il martelletto poggia sul tasto (che e` una leva di prima specie), e quando l’estremita` del tasto si alza (abbassandosi dalla parte opposta per l’azione dell’esecutore) il martelletto viene lanciato direttamente contro le corde. Nella meccanica inglese, che deriva da quella di Cristofori e di Silbermann, il tasto non esercita la spinta direttamente sul martelletto ma sull’asta, alla quale si collega mediante un’asticciola, lo spingitore. Con la meccanica viennese, creata da Johann Andreas Stein di Augusta ma sviluppata a Vienna, quando l’esecutore tocca il tasto puo` avvertire il peso del martelletto e avere la sensazione e la valutazione della sua resistenza. L’esecutore – bravo – percepisce la resistenza e il movimento del peso nel momento in cui abbassa il tasto: sono pochi millimetri ma bastano, quando il tatto e` molto sviluppato, a dare la sensazione, diciamo cosı` , di avere in mano una boccetta da bigliardino, di valutarne il peso e di XIII

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lanciarla. La sensazione che da` la meccanica inglese, tanto per proseguire il paragone, e` invece quella di una stecca da bigliardo che scatta per urtare la palla: la sensibilita` dell’esecutore si esercita in modo meno diretto, il sistema di leve e` piu` complicato e i risultati sonori sono diversi. Come tutti sanno, maggiore delicatezza e maggiori sfumature dinamiche nel pianoforte viennese, maggiore potenza e maggiori possibilita` virtuosistiche nel pianoforte inglese. Non solo. Ma mentre a Vienna e in Germania lo sviluppo nella costruzione del pianoforte avviene nell’ambito della bottega artigiana, a Londra vengono impiantate le prime fabbriche. Una bottega di costruttori di pianoforti, come una bottega di cembalari, era in genere limitata a una unita` familiare formata dal marito, dalla moglie, dai figli e da pochi lavoranti-praticanti: un gruppo che di norma non superava le dieci persone. Il lavorante, dopo aver svolto un periodo di apprendistato legalmente fissato in almeno sei anni (ma che di norma durava assai di piu`), poteva aprire a sua volta bottega versando una tassa di iscrizione alla corporazione. I familiari del cembalaro erano pero` esentati e dal periodo di apprendistato e dalla costruzione del ‘‘capolavoro’’ (richiesta invece al lavorante), e la successione avveniva percio` frequentemente di padre in figlio o, per cosı` dire, per linee interne: non era raro il caso del lavorante che sposava la figlia del padrone e che gli succedeva, e ci furono anche molti casi di matrimonio fra il lavorante e la vedova del padrone. Invece a Londra, soprattutto per iniziativa di uno scozzese, John Broadwood, si sviluppo` la costruzione del pianoforte su scala industriale. Broadwood, entrato a bottega presso il cembalaro Burkat Shudi nel 1761, nel 1769 ne sposava la figlia, nel 1771 apriva bottega e verso il 1780 gia` impiegava un centinaio di lavoranti. Lavoranti che ben presto diventarono operai specializzati perche´ presso Broadwood, prima della fine del secolo, non c’era piu` il lavorante che costruiva o partecipava alla costruzione del pianoforte ma il responsabile della tastiera, quello che si occupava della tavola armonica, quello addetto alle corde, l’ebanista che curava il mobile, persino lo specialista nel distribuire la colla sul martelletto per applicarvi sopra la pelle di daino e tenerla in pressione finche´ il collante non faceva presa. I vantaggi sul piano quantitativo erano evidenti, e non per nulla Broadwood arrivo` a esportare sul continente europeo, a Costantinopoli, in America e persino in India quando l’esportazione viennese era ancora limitata ai paesi limitrofi. Anche sul piano qualitativo il pianoforte viennese non reggeva pero` veramente la concorrenza. La produzione XIV

nata da sistemi industriali di organizzazione del lavoro era infatti molto solida e molto uniforme, mentre gli strumenti viennesi presentavano grandi variabilita` da tipo a tipo e da esemplare a esemplare, e potevano riuscire piu` o meno bene. Ancora oggi i pianoforti viennesi, i grandi Bo¨ sendorfer, sono strumenti bellissimi e non uniformi, mentre gli Steinway (americani ma con fabbrica impiantata fin dall’inizio secondo il sistema creato dagli inglesi) sono strumenti veramente ‘‘di serie’’. E la casa Bo¨ sendorfer, fondata nel 1828, aveva raggiunto negli ultimi decenni del Novecento un numero di matricola di poco superiore a 36.000, mentre la Steinway & Sons, fondata nel 1853, aveva raggiunto un numero di poco inferiore a 500.000. C’e` insomma, ancora oggi, una netta divisione di due mondi che risale all’epoca classica. E nell’epoca classica ci fu una divisione anche nella destinazione da dare al pianoforte. Che cosa diventa il pianoforte a Vienna? Con Mozart, diventa un mezzo di liberazione sociale del musicista. Essendo come molti musicisti del tempo dipendente di un datore di lavoro (nel caso suo, l’Arcivescovo di Salisburgo), Mozart godeva delle garanzie di un salario limitato ma sicuro, della pensione, di certi vantaggi materiali e sociali: ad esempio, a corte aveva accesso gratuito alla tavola dei camerieri ed era avvantaggiato, nella raccolta delle lezioni e delle commissioni private, dalla quotidiana frequentazione della nobilta`. Gli svantaggi nascevano dalla dipendenza stessa da un padrone, che si aspettava, in cambio delle garanzie che assicurava al salariato, un servizio reso secondo i suoi gusti. Orbene, nel 1781 Mozart prese la decisione avventata ed eroica di chiedere le dimissioni e di mettersi a vivere, a Vienna, come libero professionista. Che cosa cambiava con cio`, nel pianoforte viennese? Mozart non aveva piu` un incarico stabile che gli garantisse un salario, ma vedeva la possibilita` di guadagnarsi da vivere con le lezioni di pianoforte, molto ricercate se il maestro era alla moda, e con i concerti. E mise in opera un progetto che e` una meraviglia proprio anche di ideazione. Nel momento in cui, durante la quaresima, i teatri restavano chiusi, Mozart organizzava in proprio dei concerti: la serie dei suoi Concerti per pianoforte e orchestra venne presentata in anni successivi e gli procuro`, oltre alla fama e agli introiti diretti, introiti indiretti, e assai maggiori, attraverso le lezioni. Anche se Mozart in realta` non pensava al pianoforte ma al teatro, perche´ la sua aspirazione era concentrata sulla drammaturgia, egli trovo` nel pianoforte un mezzo per affrancarsi dalla necessita`. Impostato in questo modo, il suo rapporto con il pianoforte finı` molto presto, e dal

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pianoforte Mozart non ottenne la liberazione, il guadagno attraverso la libera professione e morı`, com’e` noto, nella piu` nera miseria. Pero`, nel suo modo di operare si riconosce un progetto che venne poi seguito con maggiore successo da altri; ad esempio da Beethoven, pianista anche lui, dipendente di una pubblica autorita` solo in gioventu`, e che, stabilitosi a Vienna a ventidue anni, trasse dal pianoforte gran parte delle risorse di vita. Il pianoforte diventava mezzo di affermazione sociale e diventava, nello stesso tempo, banco di sperimentazione del linguaggio perche´, come ho appena detto, Mozart guardava oltre il pianoforte, e oltre il pianoforte guardo` Beethoven, che a trent’anni esordı` come sinfonista. Non ci sono due sonate di Beethoven che siano proprio simili (non dico identiche nella struttura: non sono nemmeno simili), perche´ quando Beethoven ha raggiunto un traguardo, il traguardo viene subito rimesso da lui in discussione. E ogni volta che Mozart raggiunge un traguardo in un suo concerto, il traguardo viene cambiato nel concerto successivo. Manca nei grandi compositori la creazione dello stereotipo, del modello sempre riconoscibile. Mozart e Beethoven non creano uno stampo che viene poi variato nell’ornato, e che quindi e` riconoscibile dal pubblico e che puo` conservare nel tempo l’apprezzamento e offrire un divertimento passivo. I grandi compositori viennesi variano la struttura, e variando la struttura creano un problema gravissimo per il pubblico, quello di mettersi continuamente nella condizione di conoscere un qualcosa che non viene piu` semplicemente riconosciuto. Se si esaminano in successione le Sonate di Beethoven si ha la netta sensazione della difficolta` con cui il pubblico inciampava nel seguirne l’evoluzione, la sperimentazione e la ricerca sul linguaggio e sulle forme. Quindi, diciamo cosı` , una sorta di pensiero filosofico si va evolvendo, un pensiero speculativo che si sviluppa in Beethoven come prima in Mozart e come, dopo, in Schubert. Sebbene con molte difficolta` e non immediatamente, il pubblico viennese, che era un pubblico di dilettanti di pianoforte, finı` pero` col far sua questa severa impostazione che escludeva l’intrattenimento e lo svago. L’intrattenimento e lo svago non furono rinnegati ma vennero affidati ai compositori biedermeier. E la civilta` viennese mostro` gia` all’inizio dell’Ottocento, e molto di piu` nel corso del secolo, le sue capacita` di espansione fuori dai confini austriaci. La civilta` londinese e` invece del tutto diversa. Era una civilta`, per intanto, che non aveva alcun bisogno di perseguire la liberazione sociale del musicista perche´ il musicista gia` lo aveva reso libero: la

libera professione, in Inghilterra, era alla portata di tutti, tant’e` che l’italiano Clementi, educato in campagna a spese di un aristocratico inglese, sui vent’anni se ne era pero` andato a vivere a Londra e non aveva faticato a farsi una clientela. Ed era talmente forte e si sentiva talmente sicuro di se´ da poter rifiutare di diventare insegnante della famiglia reale, che lo avrebbe compensato secondo una tariffa, perche´ gli conveniva di piu` mantenere l’indipendenza e contrattare il prezzo delle lezioni. In pratica, la lezione privata, che in Austria era un dippiu`, un incerto, in Inghilterra gia` verso il 1780 era una professione altamente considerata. Ora, Clementi poteva essere un professionista di successo, e di duraturo successo, perche´ la rivoluzione borghese, in Inghilterra, era gia` avvenuta: la societa` aveva strutture che permettevano la libera professione e che stimolavano le attivita` imprenditoriali, tant’e` che esistevano a Londra orchestre professionali capaci di autofinanziarsi attraverso il biglietto d’ingresso ai concerti e di non essere piu` sostenute dagli aristocratici. Quindi, quella che per i viennesi era un’allettante prospettiva, in Inghilterra era gia` una solida realta`. Nel contesto che ho rapidamente cercato di descrivere il pianoforte viene visto da Clementi, e viene visto dalla societa` inglese, quasi come un attrezzo per un’attivita` sportiva. E` questo il periodo in cui in Inghilterra, nell’ambito delle classi colte e delle classi non soggette a necessita` finanziarie, nasce lo sport come rivalutazione del valore etico della attivita` fisica. In Inghilterra c’e` gente che non lavora ma che fa molta fatica con i cavalli, con il nuoto, con il pugilato, con l’alpinismo, ... e anche con il pianoforte. Nelle Sonate clementine si ritrova sempre un aspetto sportivo, messo in rilievo, fra l’altro, proprio da una sfuriata di Mozart, che parlo` di Clementi come di un mechanicus capace di fare bene i passi di terza e di sesta dopo averci ‘‘sudato sopra giorni e notti a Londra’’. Mozart detestava Clementi e detestava gli italiani ma, al di la` dell’astio personale, ci sono ragioni che spiegano perche´ lo detestasse: perche´, penso io, rappresentava una civilta` diversa dalla sua e antagonistica. Se immaginiamo una Saffo che suda giorno e notte non per scrivere, ma per imparare a declamare le sue liriche, ci viene da ridere. Se pensiamo invece a un ginnasta che suda giorno e notte per fare con grazia il triplo salto mortale non ridiamo per niente, anzi, proviamo un forte sentimento di ammirazione. Nella civilta` inglese del pianoforte si ritrova proprio, come carattere di fondo, la difficolta` in se stessa: lo scopo e` di vincere la difficolta`. E se oggi noi consideriamo negativamente la difficolXV

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ta` per la difficolta` e` solo perche´, come vedremo fra poco, lo sport venne poi sostituito dallo spettacolo. Clementi scrive cose che sembrano al momento ineseguibili, cioe` immagina combinazioni di suoni che solo teoricamente rientrano nelle possibilita` esecutive della mano, e poi cerca il modo di realizzarle sulla tastiera, e lo trova attraverso un durissimo lavoro di allenamento. In Mozart, invece, l’identificazione della mano con la tastiera e` totale: l’idea musicale nasce insieme con il gesto che servira` a produrre i suoni. In Clementi, no. Il carattere sportivo della civilta` inglese e` messo in evidenza sia dalla sua musica pianistica, sia dal modo di insegnarla. Mentre Mozart insegnava il pianoforte perche´ cio` gli permetteva di guadagnare denaro, e mentre Beethoven era un insegnante impaziente e intollerante, a Londra nascevano i primi grandi metodi per pianoforte, e nascevano addirittura gli apparecchi per insegnare a suonare correttamente ai dilettanti. C’era un famoso apparecchio, il Chiroplasto, che fissava la posizione ottimale del braccio, della mano e delle dita per gli esercizi di tecnica. Esercizi che, volendo, si facevano... a squadra: l’insegnamento veniva impartito collettivamente a gruppi di allievi che andavano da otto fino a quaranta, con un maestro che dirigeva e gli assistenti che sorvegliavano. E anche questo ci da` l’idea di una finalita` eminentemente sportiva. Nella concezione di Clementi – che, detto per inciso, diede la sua piena approvazione al Chiroplasto – il carattere sportivo dell’esecuzione esclude pero` lo spettacolo. Clementi e` un grande pianista ed e` un grande inventore di tecnica, ma e` anche costruttore di pianoforti e creatore di un metodo: scopre una tecnica ignota e da` la dimostrazione di come la si impiega, ma le sue conquiste vuole propagarle attraverso la costruzione dell’attrezzo e attraverso l’attivita` didattica. Un po’ come avviene oggi nel tennis o nello sci o nel golf, in cui c’e` fra il professionista e il dilettante una differenza di grado ma non di sostanza, e in cui non esiste se non una regola, un canone valido per tutti. Lo spettacolo nascera` invece piu` tardi, al tempo del romanticismo, quando il virtuoso che sale sul palcoscenico fara` cose che non saranno mai messe alla portata del dilettante. Clementi insegna ancora ai dilettanti: siamo nel campo dello sport che non diventa gara, ludo gladiatorio ma semplicemente, possiamo dire, sfida contro se stessi, affinamento delle proprie capacita` . Attraverso l’uso sportivo del pianoforte si sviluppo` pero` a Londra una cultura senza possibili paragoni. La vita culturale di Londra fu nell’Ottocento superiore a quella delle altre capitali, per varie ragioni che sarebbero difficili da analizzare ma anche, penso, in conseguenza XVI

di quel modo di studiare il pianoforte che, senza perdere altre piu` sostanziose caratteristiche, poteva arrivare alla assurdita` dello squadrone di quaranta allievi. Gia` all’inizio del secolo il teorico Augustus Frederic Christopher Kollmann pubblicava a Londra musiche di Bach, Clementi stesso faceva stampare poco piu` tardi una grande raccolta di musiche di antichi maestri, e fin dal 1837 Moscheles riproponeva a Londra il clavicembalo in concerti pubblici. Accanto all’attivita` sportiva nasceva dunque un mercato dell’antiquariato che, se pur faceva forse declinare la creativita` della civilta` inglese, ne esaltava pero` la spinta culturale. Venivano in realta` riallacciati i fili dei concetti di Carl Philipp Emanuel Bach, e da Londra si espandeva un movimento culturale nuovo: a Londra si sarebbero cosı` eseguite per la prima volta la serie completa dei Quartetti e la serie completa delle Sonate di Beethoven, a Londra si sarebbero ascoltate per la prima volta in pubblico le Variazioni di Goldberg sul clavicembalo e la Fantasia cromatica e fuga sul clavicordo, a Londra si sarebbero fatte pionieristicamente tutte quelle belle cose che costituiscono oggi l’ossatura della nostra vita musicale. Possiamo dire schematicamente che durante il periodo classico le potenzialita` rivoluzionarie del pianoforte si sviluppano, su un lato, nella ricerca linguistica e formale e speculativa di Mozart e dei classici viennesi e, sull’altro, in una crescente acquisizione di musica, contemporanea e del passato, che fa del pianoforte lo strumento privilegiato di diffusione della cultura. La cultura viennese e la cultura inglese restano storicamente separate durante il periodo classico, ma le ‘‘civilta`’’ di cui si fanno rispettivamente portatrici posseggono entrambe una forza di espansione che si rivela durante il romanticismo, quando e la civilta` francese e la civilta` tedesca, diventate dominanti, fanno propri i principi della creativita` e della conoscenza storica. Con la scomparsa, nel 1832, di Clementi, la civilta` inglese perde l’unica sua personalita` di valore storico assoluto. Nel periodo romantico si... eclissa pero` anche, a Vienna, la civilta` viennese. Se chiedessi al lettore di ricordare un grande compositore viennese operante intorno al 1820 la risposta sarebbe immediata, e sarebbe immediata se gli chiedessi un nome del 1880. Ma se si trattasse di citare un grande compositore operante a Vienna verso il 1840 la risposta non arriverebbe mai, perche´ a Vienna ci fu uno iato che tocco` tutta una generazione. Dalla morte di Schubert al momento in cui si stabiliscono a Vienna Bruckner e Brahms ci fu, incredibilmente ma non troppo, l’interruzione di una vita creativa che era durata per sessant’anni. E scomparve il pianoforte con meccanica vien-

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nese. A sostituire Vienna, e a sostituire Londra, all’inizio dell’epoca romantica arrivavano Parigi e, in misura allora apparentemente meno rilevante, Lipsia. In Francia venne inventato uno speciale congegno della meccanica, il doppio scappamento, in Francia venne inventata la copertura in feltro del martelletto, dalla Francia, a partire dal 1830 circa, la fabbricazione dei pianoforti conquisto` il predominio internazionale, e Parigi divenne la Mecca dei pianisti. A Lipsia operarono Mendelssohn e Schumann. Senza considerare la loro opera di creatori ma limitandosi a osservare la loro azione di musicisti ‘‘impegnati’’ bisogna dire che, rispetto alle rivoluzionarie novita` di Parigi, a Lipsia si affermarono soltanto – il che non e` comunque cosa da poco – la programmazione ragionata della stagione dei concerti sinfonici e l’esercizio della critica come verifica immediata di valori metastorici. L’evoluzione del pianoforte, dicevo prima, va di pari passo con l’uso che se ne fa. Durante il Settecento il concerto pubblico, come attivita` istituzionale, esistette in pratica solo a Londra, a Parigi e a Lipsia. All’inizio dell’Ottocento l’attivita` concertistica ando` intensificandosi un po’ ovunque e comincio` a formarsi un pubblico per la musica strumentale: un pubblico che, pur crescendo ancora nella seconda meta` del secolo, quantitativamente non avrebbe potuto mai competere con quello dell’opera (non puo` competere nemmeno oggi), ma che avrebbe saputo, come il pubblico dell’opera, crearsi le sue istituzioni e una solida rete di rapporti internazionali. Quando il concerto comincia ad avere successo, e il pubblico ad aumentare, per gli organizzatori si pone pero` un grave problema. Se il concerto si svolge, come in genere si svolgeva all’inizio dell’Ottocento, in una sala di circa cinquecento posti, e gli spettatori che si presentavano alla cassa non erano piu` cinquecento ma settecento, l’organizzatore doveva decidere fra un limitato ventaglio di scelte possibili. Esclusa, com’e` evidente, la scelta di respingere una parte del pubblico, una soluzione era di ripetere il concerto due volte. Ma allora – il lettore perdoni la banalita` del discorso, che non e` pero` senza significato – non ci sarebbe evidentemente stato un equilibrio economico fra una serata con cinquecento e una serata con duecento spettatori. Un’altra soluzione era di elevare il prezzo del biglietto: scelta elitaria che tendeva a escludere gli utenti di minori capacita` economiche, contraria pero` allo spirito imprenditoriale della borghesia. Oppure si cercavano sale piu` grandi, passando dalla capienza di cinquecento alla capienza di settecento posti. Ed e` quello che avviene nei primi decenni dell’Ot-

tocento. Questa soluzione pone pero` altri problemi, non organizzativi ma artistici. E il problema maggiore e` quello riguardante gli strumenti da camera, immaginati, pensati, costruiti, perfezionati per un certo tipo di ambiente, e che perdono il rapporto di audibilita` ottimale quando l’ambiente si dilata oltre certi limiti. Il pianoforte e` fra questi. Un pianoforte di fine Settecento e` perfettamente adeguato a una sala di cinquecento posti; in una sala di ottocento posti non puo` essere usato nel modo che gli e` veramente congeniale, quello del forte e del piano, dei grandi sbalzi di dinamica e degli effetti di rarefazione e di condensazione. Allora, per ovviare a questi inconvenienti, il pianoforte e altri strumenti subiscono una modificazione nella costruzione, in modo da ottenere una maggiore quantita` di suono. Il fenomeno, ripeto, riguarda un po’ tutti, ma e` assai piu` rilevante nel pianoforte. Abbiamo gia` visto come venisse ottenuto l’aumento del volume di suono: con il telaio con placche e barre metalliche, con corde piu` grosse e piu` tese, con martelletti piu` grossi, con copertura del martelletto in feltro anziche´ in pelle. Un martelletto piu` grosso, e piu` pesante, che colpisce corde piu` grosse e piu` tese richiede una meccanica efficiente e sofisticata. Scompare allora, con tutta la sua delicata semplicita`, la meccanica viennese. La meccanica inglese viene modificata da Sebastien E´rard (attivo a Londra durante la Rivoluzione, e forse anche presso Broadwood), che nel 1821 brevetta il doppio scappamento e che negli anni successivi scopre, per i suoi rivoluzionari strumenti, un giovane baldanzoso collaudatore che si chiama Franz Liszt. Il pianoforte romantico presenta caratteristiche nuove non solo riguardo al suono ma anche riguardo al timbro. L’estetica della sonorita` non cambia sostanzialmente perche´ continua a essere scartato, in quanto ritenuto sgradevole, il colpo del legno del martelletto contro la corda metallica. Cambia pero` l’intermediario, con lo spesso strato di feltro al posto del sottile strato di pelle, e cosı` muta la componente timbrica della sonorita`. Innanzitutto perche´, a parita` di altezza, il timbro di una corda piu` tesa non puo` che essere un po’ diverso. Il feltro offre pero` ancora altre possibilita`. Proprio perche´ lo strato e` di un certo spessore e il feltro e` elastico, nell’impatto fra martelletto e corda si verifica uno schiacciamento del feltro, diverso a seconda di come il tasto e` stato mosso dall’esecutore. E siccome la composizione timbrica del suono viene influenzata, in base alla legge di Young, dall’ampiezza del tratto di corda toccato dallo schiacciamento del feltro, si apre per l’esecuzione un campo di indagine vastissimo. La tecnica XVII

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classica era stata basata sulla articolazione del dito; la tecnica romantica sviluppera` anche l’articolazione della mano e dell’avambraccio. E le scoperte timbriche sono talmente rilevanti da far decadere definitivamente quei pedali efficaci (ma un po’ ciabattoni) com’erano il fagotto e la grancassa. Il fulcro dello sviluppo tecnologico del pianoforte si pone fra il 1820 e il 1830. Nel 1830 la Rivoluzione di Luglio porta al potere a Parigi la borghesia, che favorisce l’imprenditoria anche nel campo dello spettacolo e della cultura. C’e` una grande richiesta di musica strumentale negli anni trenta, c’e` per i compositori un campo d’azione che si va enormemente sviluppando, con uno strumento, ripeto, ormai messo a punto per grandi ambienti. Infine, siccome la storia e` un romanzo giallo, spesso piu` un giallo di un giallo, capita che i tre maggiori compositori di musica per pianoforte nel primo trentennio del secolo – Beethoven, Weber, Schubert – muoiano nel giro di tre anni. Che fossero i piu` grandi compositori lo sappiamo noi, ma gia` dieci anni dopo la loro morte lo sapeva Schumann, che era un critico d’avanguardia, e lo sapeva Liszt, che era il concertista d’avanguardia: il primo per porre i tre come pietra del paragone per il presente, il secondo per impedire che i loro tesori venissero sepolti e occultati. Weber, Beethoven, Schubert scompaiono nel 1826, nel ’27 e nel ’28. E non muoiono perche´ sono vecchissimi. Non e` come quando scompare la grande generazione dei compositori per tastiera barocchi – Bach, Ha¨ndel, Scarlatti, Rameau – che veleggiano fra i sessantacinque e gli ottant’anni. Weber muore non avendo ancora compiuto i quarant’anni, Beethoven prima di compiere cinquantasette anni, e Schubert a trentun’anni. Avrebbero potuto continuare a dominare la scena per un altro ventennio o trentennio: scompaiono invece tutti assieme. I giovani compositori si trovano percio` in un campo aperto, con lo strumento nuovo da sfruttare e senza competitori. Si trovano di fronte alla storia, o alla Storia, con tutta una plumbea responsabilita` calata sulle loro spalle di adolescenti. E non falliscono: dieci anni dopo la morte di Schubert saranno gia` pubblicati gli Studi op. 10 e op. 25 di Chopin, il Carnaval e gli Studi sinfonici di Schumann. Chopin e Schumann erano nati nel 1810. Tre grandissimi compositori – Mendelssohn, Chopin, Schumann – affrontano la tematica nuova: realizzare le potenzialita` del pianoforte romantico. Le affrontano restando pero` in una prospettiva sociologica molto tradizionale perche´ sono artisti che si applicano soprattutto alla ricerca sul linguaggio e sullo strumento, non alla ricerca del pubblico. Chopin non scriveva per un pubblico grande ma XVIII

per il pubblico che nell’ultimo trentennio si era accostato alla musica strumentale e che sı` frequentava i concerti, facendo pero` soprattutto musica in casa. Allo stesso modo pensava il suo rapporto con il pubblico Schumann, e poco diversamente Mendelssohn, che come organizzatore era soprattutto attivo in qualita` di direttore d’orchestra. Noi non possiamo piu` renderci conto del perche´ Schumann ritenesse che il Carnaval e gli Studi sinfonici non fossero adatti all’esecuzione pubblica. Cosa c’e`, di piu` popolare del Carnaval e degli Studi sinfonici? Eppure Schumann era del parere che non dovessero essere eseguiti in pubblico, cioe` che non avessero concrete possibilita` di successo se eseguiti in pubbliche sale da concerto. E pensava addirittura che se, per eccezione, si fossero eseguiti in sala da concerto il primo e l’ultimo pezzo dei Kreisleriana, si sarebbero dovuti aggiungere alla fine dell’ultimo pezzo, che svanisce nel nulla, due accordi forti e decisi. Chopin suono` in pubblico le sue musiche in sale di trecentocinquanta-quattrocento posti. Mendelssohn che, dicevo, fu attivissimo come direttore d’orchestra, in quanto pianista suono` soprattutto con orchestra. Mendelssohn, Chopin e Schumann scrivevano dunque musica orientata secondo i principi della civilta` classica di Vienna. Musica dell’avvenire? A conti fatti, sı`. Ma che divenne tale perche´ altri, nel momento della lotta cruenta, combatterono per creare una diversa utenza. I pianisti-compositori – oggi meno noti, tranne Liszt – che andarono in cerca di nuovo pubblico furono Liszt, Thalberg, Henselt, Do¨ hler e altri meno importanti. Essi si posero il problema di usare il nuovo strumento – da solo, non con orchestra – oltre che nella grande sala, anche in teatro. E questo fu veramente un evento storico di incalcolabile portata. Passare dalla grande sala al teatro significava fare un ulteriore passo in avanti, dagli ottocento-mille ai millecinquecento-duemila posti. Si coinvolgeva quel pubblico del melodramma che, fatte le debite proporzioni, era pubblico di massa, interclassista: il concerto, gia` l’abbiamo visto, non poteva e non pote´ mai aspirare alle dieci o venti o piu` repliche del melodramma, ma anche l’unica rappresentazione concertistica in teatro allargo` di molto i fruitori, del resto recentemente acquisiti, della musica strumentale. La spinta verso il pubblico del melodramma venne sentita dai pianisti anche per ragioni economiche. In una societa` in cui la vita musicale perdeva i mecenati e si sviluppava sotto forma o impresariale o associativa, lo spostamento nel contenitore di duemila posti significava piu` o meno il raddoppio degli incassi. I pianisti di cui dicevo si accorsero del dilemma e

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andarono a conquistare il pubblico del melodramma con le cose che il pubblico del melodramma aveva familiari. E se Mendelssohn e Chopin vissero agiatamente e non furono mai veramente assillati da problemi economici, ma lasciarono alla loro morte qualche debituccio piu` che un solido patrimonio, Liszt e Thalberg guadagnarono una fortuna. Che poi Thalberg la investisse a Posillipo in redditizi vigneti, e Liszt nella rovinosa impresa di erigere a Bonn un monumento a Beethoven, e` un altro discorso: come concertisti essi condussero una vita da nababbi. Se Liszt avesse tenuto concerti in teatro solo con le musiche originali di Beethoven o di Chopin non avrebbe pero` potuto catturare un pubblico che, in questo campo, era formato da semianalfabeti (non da persone insensibili alla musica: anzi!). Invece Liszt e Thalberg e Henselt e Do¨hler e altri si presentarono in teatro con le cose che il pubblico del teatro conosceva, e cioe` sviluppando a dismisura la variazione e la fantasia di bravura su temi di opere teatrali. Da alcuni decenni abbiamo cominciato a risentire, dopo un lungo periodo di oblio, alcune di queste musiche (soprattutto quelle di Liszt). Posso quindi permettermi di fare un discorso che non evoca soltanto fantasmi di trapassati. Che c’era, e che c’e` di cosı` meraviglioso in queste musiche, salutate da deliranti successi? C’era che il pubblico, a cui la Preghiera del Mose` di Rossini era familiare al punto di saperla canticchiare mentre saliva in carrozza per ritornare a casa, andava a sentirla per non sentirla cantare: la sentiva suonata su uno strumento che, senza parole e senza suono umano, dava altrettanto piacere quanto la voce dei grandi bassi, dei Lablache, dei Levasseur. E non soltanto dava piacere perche´ imitava, entro certi limiti, il suono della voce, ma perche´ lo strumento, sotto il filo conduttore della melodia conosciuta, sapeva creare un’infinita` di altre cose che non esistevano nell’accompagnamento orchestrale di Rossini, una ambientazione, una piramide indorata dal sole e svettante nell’azzurro. Di musiche come questa, dicevo, il pubblico ha oggi una conoscenza limitata. Ma per capire l’epoca basta ascoltare un brano un tempo celebre e che viene talvolta ancora ripreso, uno di quelli che ebbero una grandissima importanza nell’acclimatare la musica per pianoforte solo nei teatri e nelle piu` vaste sale da concerto: le variazioni sulla marcia dei Puritani di Bellini, intitolate He´xameron perche´ opera collettiva di sei compositori. La principessa Cristina di Belgiojoso, che viveva a Parigi e che era filantropa e patriota, giocando sullo scopo benefico di trovare denaro per aiutare gli esuli italiani riuscı` ad aggiogare al suo carro sei fra

i piu` noti compositori di musica per pianoforte e a far loro scrivere una variazione per ciascuno sul tema ‘‘Suoni la tromba’’, celeberrimo, uno dei grandi successi della Parigi romantica. Accadde un paio di anni dopo che i Puritani erano andati in scena. La principessa di Belgiojoso... sedusse Chopin e Liszt, piu` un compositore boemo dal naso grossissimo che risiedeva a Parigi, Pixis, piu` un viennese, l’elegantissimo Henri Herz, che oltre a risiedere a Parigi vi aveva anche studiato, piu` il principesco Thalberg, che a Parigi era di casa, e infine il metodico viennese Carl Czerny, diventato caposcuola indiscusso dopo che i suoi allievi Liszt e Do¨hler avevano conquistato una celebrita` europea e che soggiornava a Parigi perche´ chiamato da Liszt, il quale voleva fondare una scuola per virtuosi e affidargliene la direzione. Aggiungo per curiosita` (e per doveroso pettegolezzo) che restarono esclusi il sussiegoso Friedrich Kalkbrenner, tedesco pariginizzato a cui non faceva difetto la debolezza di ritenersi incommensurabilmente grande rispetto a chicchessia, e il languido napoletano-viennese Do¨hler, a proposito del quale si favoleggiava – e non era vera – un’assiduita` devota, oltre che nel salotto, nell’alcova della languidissima Cristina. Ciascuno dei sei campioni compose cosı` una variazione sulla marcia dei Puritani. Era un po’ come se la principessa avesse chiesto a sei pittori di dipingere ciascuno un qualcosa su un soggetto recente e stuzzicante, un, putacaso, Carlo IX cacciato da Parigi. Una volta fatti i quadri si trattava, diciamo cosı`, di organizzare la mostra. Organizzazione affidata a Liszt, che scrisse l’introduzione, il finale e i collegamenti fra le variazioni, e che poi si occupo` di far diventare la musica itinerante, eseguendo l’He´xameron in tutta Europa. Nell’He´xameron, che e` un’opera-chiave nella storia del concertismo pianistico, si nota la grande differenza fra Chopin e Liszt da una parte e tutti i rimanenti dall’altra: piu` che un He´xameron, a voler fare i pignoli, e` un... Duomeron accoppiato a un Tetrameron. Non tanto per differenza di qualita`, quanto di atteggiamento, di poetica. Sia Chopin che Liszt modificano profondamente il tema di Bellini, mentre gli altri lo mantengono inalterato e gli sovrappongono figure ornamentali. Nei quattro, insomma, il tema e` sempre percepibile in quanto tale. E questo e` il modo piu` rozzo e piu` sicuro di catturare un pubblico ‘‘semianalfabeta’’ per portarlo verso la musica strumentale: tu, pubblico, senti il tema che conosci, e senti quello che sopra e intorno io riesco a costruirgli: senti e stupisci! Liszt interviene invece sulla struttura stessa del tema, e Chopin fa una cosa assolutamente personale, tale da non lasciare nemmeno riconoscere XIX

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Bellini: c’e` un rapporto, naturalmente, perche´ si tratta di una vera variazione, ma e` una variazione cosı` radicale da sembrare una nuova creazione. Le ragioni dell’umanesimo viennese passano con Chopin nella civilta` di Parigi, le ragioni della sportivita` inglese trasformata in spettacolo vi passano con Thalberg e soci, e Liszt media fra le due linee. Ora, quando si ascolta l’He´xameron e si considera che Thalberg e Herz erano tra i virtuosi piu` osannati, si capisce bene che una musica come quella di Chopin poteva essere proposta a un pubblico di teatro solo in uno speciale contesto, e si capisce perche´ la musica di Liszt richiedesse il carisma di cui Liszt concertista era dotato (e Chopin no). Nell’He´xameron un frammento della poesia intimistica di Chopin e` inserito in un quadro di mondanita` sfarzosa. Nei suoi programma di concerto, analogamente, Liszt introdusse pagine di Chopin e pagine di Beethoven, collocandole in contesti di sempre sfavillante bravura, in modo da catturare e attirare a se´ l’attenzione del pubblico. Era, nello stesso tempo, un miracolo e una truffa, perche´ Liszt, partendo dal noto per poi rivolgersi alla sensibilita` degli ascoltatori, arrivava a far accettare cose che avrebbero dovuto esigere un sapere e che venvano invece accettate anche se il sapere non c’era. Miracolo e truffa insieme, se vogliamo, rivolgimento rivoluzionario del rapporto fra il pianoforte e il mondo. Perche´ le intenzioni di Liszt non erano semplicemente intenzioni di spettacolo, com’erano invece quelle di altri grandi concertisti dell’epoca, ma anche e soprattutto di fondazione di una cultura di massa. Mentre Thalberg e Herz, come aveva fatto prima di loro Paganini, suonavano abitualmente solo le loro variazioni o parafrasi o fantasie su temi d’opera, Liszt suono` molte altre cose: catturato il pubblico del teatro con cio` che il pubblico del teatro aveva familiare, Liszt gli offrı` qualcosa di sconosciuto. Prima di tutto trascrizioni dall’orchestra, poi trascrizioni di Lieder, infine composizioni originali per pianoforte. In Liszt c’e` quindi all’inizio la dimostrazione che il pianoforte puo` riprodurre in modo non semplicemente utilitaristico le cose del canto teatrale; poi c’e` la dimostrazione del fatto che puo` sostituirsi spettacolarmente all’orchestra sinfonica; poi che puo` ‘‘teatralizzare’’ il canto da camera e, infine, che puo` ‘‘teatralizzare’’ persino se stesso, la sua letteratura nata per essere eseguita fra piccole cerchie di ascoltatori selezionati. Paganini, suonando musica strumentale, ma sua, aveva mosso un pubblico di massa. Liszt, nel necrologio di Paganini pubblicato il 23 agosto 1840, diceva: ‘‘[...] risvegliare e coltivare nelle anime l’entusiasmo del bello, tanto vicino alla passione del bene, questo e` il compito che doXX

vra` imporsi l’artista abbastanza forte per aspirare all’eredita` di Paganini’’. E aggiungeva che il nuovo Paganini non doveva essere ‘‘egoista’’, cioe` che doveva... esporre in vendita anche la mercanzia di altri. Per dare un’idea di cio` che Liszt rappresento` nella storia del concertismo bisognerebbe pensare a un attore che, da solo, sostenesse pubbliche letture con parti di tragedie, con novelle, con liriche, e che facesse diventare teatro persino i sonetti (si pensi alle letture dantesche di Vittorio Gassman in passato e di Roberto Benigni di recente). Un indirizzo culturale di questo tipo, inaugurato da Liszt, fu quello che permise al Carnaval e agli Studi sinfonici di diventare popolari nel giro di una trentina d’anni, e a Chopin e a Beethoven di diventare nella seconda meta` dell’Ottocento gli autori piu` eseguiti, e a Schubert e a Mozart di diventare popolarissimi, rispettivamente, nella prima meta` e nella seconda meta` del Novecento, e che non si e` esaurito neppure oggi perche´ il repertorio concertistico del pianoforte continua ad acquisire musiche scritte prima della storica svolta impressa da Liszt al costume. Resterebbe naturalmente da vedere – le cose non sono mai cosı` semplici e cosı` logiche come sembrano a posteriori – fino a dove Liszt e i suoi successori inventassero una teatralita` inesistente e fino a dove sviluppassero potenzialita` di teatralita`, di drammatizzazione pubblica insite nel repertorio storico che sceglievano. Come diceva candidamente Czerny nel Supplemento del Metodo op. 500, ‘‘non solo ogni intero componimento, ma pure ogni singolo passo o esprime realmente qualche determinato sentimento, o almeno concede di adattarvelo per mezzo dell’esecuzione’’. Un’analisi approfondita del problema riserverebbe qualche sorpresa. Ma non e` qui il luogo per affrontare questo discorso: basti aver accennato alla complessita` di cio` che sto trattando e al groviglio di fili che vi si intrecciano. Acquisito con Liszt il teatro musicale, l’orchestra sinfonia e la lirica da camera, nella seconda meta` del secolo il pianoforte acquisira` ancora – con List all’inizio, poi con altri – un ulteriore spazio tradizionale della musica pubblica: l’organo. Gran parte della musica organistica barocca era stata pensata per essere eseguita in vasti ambienti – le chiese – e alla presenza di un vasto pubblico interclassista. La trascrizione pianistica dall’organo non acquista in verita` un gran respiro e riguarda in pratica il solo Johann Sebastian Bach; tuttavia si tratta pur sempre dell’ultima... spinta espansionistica del pianoforte verso terreni non suoi. A cui potremmo aggiungere, con le parafrasi sui Valzer di Strauss che nella seconda meta` dell’Ottocento diventaro-

Introduzione. Il pianoforte e le sue epoche storiche

no un vero e proprio genere, la conquista dell’intrattenimento mondano e dell’orchestrina caratteristica. E insieme con questo, ancora, l’esotico del canto popolare, le imitazioni delle acque, dei venti, dei cinguettii degli uccelli, dei campanoni dei gotici monasteri, di tutto quello che aveva un suono e che nel pianoforte poteva trovare, e trovo`, la lanterna cinese capace di riprodurlo in modo insieme fantastico e riconoscibile. Veniva dunque da Liszt introdotta nel costume musicale una dimensione concertistica del pianoforte che prima era, seppure non sconosciuta, ben poco sviluppata. I compositori – e Liszt stesso – continuarono pero` in realta` a mantenere al pianoforte anche una dimensione privata, un sacro sacello per la poesia da meditazione. Ad esempio, sono concertistiche le Variazioni di Brahms su temi di Ha¨ndel e di Paganini, ma non lo sono, alle origini, le Variazioni su un tema di Schumann op. 9, non e` concertistica la Suite bergamasque di Debussy, non lo sono i Sechs kleine Klavierstu¨cke di Scho¨nberg. Il pianoforte trascino` pero` nella sala da concerto anche queste pagine, proponendole al pubblico non attraverso modi complessi di conoscenza ma attraverso la semplice percezione dell’oggetto sonoro e della sua valenza emotiva. Cio` pote´ avvenire non senza un processo – artigianale – di studio della percezione e della psicologia di massa, di sviluppo di una vera e propria scienza della strumentazione pianistica, di una creazione di gestualita`, sia per scopi tecnici che per scopi di retorica espositiva. Per ritornare al paragone con la pittura, Liszt introdusse il principio che tutto cio` che e` dipinto puo` diventare scenografia, sicche´ l’esecutore provo` poi a rendere scenica anche la miniatura, anche i Sechs kleine Klavierstu¨cke di Scho¨nberg. Liszt, ai suoi tempi, impiego` le scoperte timbriche e di strumentazione di Mendelssohn, di Chopin, di Schumann, di Thalberg, di Henselt, di Do¨hler, e tento` inoltre tutto quello che gli altri non avevano ancora tentato. E il suo gesto – a noi e` arrivato solo attraverso le caricature, purtuttavia rivelatrici – possedeva una forza esplicativa sconvolgente. I suoi allievi, come Bu¨ low e Tausig, i suoi seguaci, come Jae¨ll e Anton Rubinstein, i suoi avversari, come Clara Schumann, i suoi innumerevoli imitatori marciarono compatti a coltivare il terreno che egli aveva esplorato e dissodato. Ma il pianoforte, come abbiamo visto, esaurisce le sue potenzialita` in circa sessant’anni. Alla fine del secolo arriva il pianoforte moderno, con un volume di suono maggiore, con nuove possibilita` timbriche. E con un’innovazione fondamentale. Nel pianoforte classico e nel pianoforte romantico la sonorita` non e` omogenea su tutta la gamma di

estensione, ma si divide grosso modo in tre zone, in tre ‘‘registri’’: grave, medio, acuto. Nel pianoforte moderno la gamma di estensione e` timbricamente omogenea come costruzione, con la possibilita` pero` di modificare il timbro per mezzo della varieta` del tocco. Per capire quello che cio` significa basta pensare al dilettante che posa le mani sulla tastiera per eseguire la Sonatina op. 36 n. 1 di Clementi. Ai tempi di Clementi e ai tempi di Chopin il dilettante inesperto di scienza della composizione aveva immediatamente la percezione fisica dell’ordine gerarchico dei due eventi sonori, il do 4 alla mano destra, melodico, e il do2 alla mano sinistra, accompagnante: il compositore aveva scelto il registro medio-acuto e il registro medio-grave, rispettivamente, per la melodia e per l’accompagnamento, che venivano automaticamente collocati in un rapporto di priorita` e di secondarieta`. e il pianoforte, come una macchina fotografica, realizzava la profondita` della prospettiva indipendentemente dal sapere dell’esecutore. Il dilettante che esegue la stessa Sonatina sul pianoforte moderno si ritrova con i due eventi posti sullo stesso piano, e deve stabilire lui l’ordine gerarchico, differenziando il tocco fra le due mani: deve, in altri termini, imparare a conoscere la scienza della prospettiva e ad applicarla. Dall’ago al milione: se una Sonatina di Clementi e` diventata piena di problemi, immagini il lettore quanti problemi ci siano sul pianoforte moderno per la Hammerklavier di Beethoven o per la Sonata di Liszt. Come disse giustamente Alfred Brendel, l’esecuzione di una sonata di Beethoven sul pianoforte moderno e` una specie di trascrizione. Questa fondamentale caratteristica del pianoforte moderno deriva da una evoluzione generale della estetica della sonorita`, che investı` prima di tutto il canto e, di conseguenza, gli strumenti, perche´ gli strumenti si adeguano sempre alla vocalita`, ritenuta ab ovo l’essenza stessa del far musica. La distinzione naturale della voce in piu` registri viene messa in crisi durante il romanticismo, e si studiano minuziose tecniche per rendere timbricamente omogenea tutta la gamma secondo un gusto dell’artificio che non si esercita piu`, come durante il periodo barocco, sulla ornamentazione della musica in fase esecutiva, ma sulla materia stessa in cui la musica prende corpo. Ugualizzata la gamma in tutta la sua estensione, e divenuta questa la base statisticamente predominante della esecuzione, il cantante dovra` poi apprendere a ‘‘colorire’’, sia con un sottilissimo gioco della dinamica che con sensibili mutazioni del timbro, ivi compreso il recupero controllato della ‘‘naturalita`’’. Qualcosa di analogo avviene negli stessi anni nella danza, con XXI

Introduzione. Il pianoforte e le sue epoche storiche

l’adozione delle ‘‘punte’’, e nella luministica teatrale, con l’adozione del gas illuminante. L’estetica del canto, dicevo, si riflette sugli strumenti, e gli studi scientifici approfonditi che nella seconda meta` dell’Ottocento vengono condotti sulla costruzione del pianoforte (che passa allora, definitivamente, dalla dimensione artigianale alla dimensione industriale), portano alla creazione del pianoforte moderno con la sua gamma omogenea, con il suo volume di suono enorme e con le sue grandi possibilita` di variazioni del timbro. La tecnica pianistica compie allora un’altra evoluzione e scopre nel braccio, nella spalla e nel busto una intatta riserva di peso e di energia da impiegare attivamente. Il che, detto per inciso, provoca non pochi traumi e sconquassi perche´ c’e` chi, sdegnando le sintesi storiche, crede di avere scoperto non una miniera ma una verita` primordiale. Il pianoforte moderno viene sfruttato sia per strappargli a fini creativi i suoi segreti, sia per acclimatare in esso le musiche scritte per il pianoforte classico e per il pianoforte romantico, e anche per il clavicembalo e per il clavicordo perche´ l’indirizzo storicistico del repertorio concertistico si consolida proprio alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. I due fenomeni sono in una certa misura interdipendenti: la ricerca dei creatori, in massima parte pianisti essi stessi, non si esercita solo sul nuovo ma si sviluppa pur sempre entro una continuita` della storia; d’altro canto gli esecutori, mettendo a punto una tecnica efficiente per la musica contemporanea, se ne servono poi anche per il repertorio del passato, cosı` come aveva fatto Liszt nel momento della transizione dal pianoforte classico al pianoforte romantico. Solo a scopo puramente espositivo, dunque, noi possiamo permetterci di separare i due fenomeni. Ma e` opportuno avere chiara coscienza del fatto che, nel momento in cui il pianoforte moderno diventa d’uso comune, l’esecuzione e` gia` passata al rango di interpretazione, cosı` come, nella direzione d’orchestra, si e` sviluppata la concertazione, e non solo l’interpretazione e` nata come disciplina autonoma ma minaccia seriamente il primato della creazione. Detto questo, che ha un valore generale, sara` bene distinguere i modi secondo i quali il rapporto fra creazione e interpretazione si pone nelle diverse civilta` pianistiche di fine Ottocento. Nella civilta` francese, con Debussy, prevale la ricerca creativa, i cui risultati vengono semmai applicati alla riscoperta dei clavicembalisti barocchi francesi; vengono preferite le nuove possibilita` di delicatezza timbrico-dinamica del pianoforte moderno – i suoni da lamina percossa piu` che da corXXII

da percossa – e con un calcolo infinitesimale dei rapporti delle dinamiche si creano persino timbri artificiali; la profondita` prospettica e` ridottissima e sfumatissima, ma sempre sottilmente percepibile. Con Ravel la tecnica tende al recupero critico del pianoforte romantico, ma in misura in realta` limitata. Nella civilta` russa, nata con Anton Rubinsˇtejn alla meta` dell’Ottocento e fiorita con straordinaria rapidita` , la continuita` storica viene sentita come esigenza primaria: il pianoforte di Skrjabin deriva direttamente dal pianoforte di Chopin e di Henselt, il pianoforte di Rachmaninov deriva direttamente da Liszt. La prospettiva ha qui una profondita` quasi – possiamo dire? – da teatro all’aperto. Anche nella civilta` tedesca – o tedesco-viennese, considerando la lunga permanenza a Vienna di Brahms – il problema maggiore e` quello della continuita` . La figura di Brahms resta centrale negli anni a cavallo dei due secoli (non c’e` in Germania un rivoluzionario come Debussy), e la preoccupazione di adattare al pianoforte moderno tutta la letteratura da Bach a Brahms, senza stravolgerne i rapporti di sonorita` e i significati, sta al fondo di ogni ricerca. La complessita` storica della letteratura pianistica tedesco-viennese, le composizioni intimistiche della sua Gemu¨tlichkeit, l’importanza della meccanica viennese nella creativita` del periodo classico fanno sı` che la prospettiva della percezione non sia ne´ appiattita ne´ profonda, ma mediana e ricca di scorci. Nella nascente civilta` degli Stati Uniti la ricerca prevale, con Ives, ma viene indirizzata sullo sfruttamento della massa piu` che sulla raffinatezza timbrica, fino alla scoperta del cluster, che e` l’esatto opposto del timbro artificiale. E la tecnica richiesta da Ives e` primitiva, con prevalenza dell’azione dell’avambraccio sull’azione della mano, e dell’azione della mano sull’azione del dito. Dal punto di vista europeo, piu` uno zappare nella tastiera che un suonare il pianoforte. Pero` Ives e` fra quelli che si gettano sul pianoforte moderno con maggiore entusiasmo e che, disprezzando come accademica la prospettiva, fanno primeggiare l’emozione suscitata dall’oggetto rispetto alla percezione della sua forma. La sintesi, ammesso che si tratti di sintesi e non di accumulo, viene raggiunta all’inizio del Novecento, secondo il mio parere, da Ferruccio Busoni, che sia nella creazione, sia nella esecuzione impiega tutta la gamma di timbri scoperti nel pianoforte moderno, che sa lavorare sulla prospettiva come sull’annullamento della prospettiva, e che riesce piu` o meno a scandalizzare tutti perche´, in realta`, non ha alle spalle una sua civilta` e non si e` veramente radicato in un’altra civilta` . Dopo questo momento di trapasso dal pianoforte romantico al

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pianoforte moderno, che fu traumatico anche se non ce ne rendiamo piu` conto, la creazione impiego` di preferenza, nei primi decenni del Novecento, le qualita` percussive del pianoforte. Barto´ k, Prokof’ev, Stravinskij non prediligono ne´ la timbrica variegata e sfumata, ne´ la cantabilita` profonda, paravocalistica, ma la sonorita` in cui il transistore d’attacco spicca nettamente. Il che non significa affatto – il lettore perdoni la banalita` della precisazione – che la prevalenza vada alla forza e alla brutalita`. Significa invece che la sagomatura del traliccio metallico viene preferita alla sagomatura dell’albero, e significa che il pianoforte moderno, in cui corde tesissime vengono percosse da grossissimi martelletti, viene impiegato secondo le sue caratteristiche piu` idiomatiche. Esauritosi questo momento, come ho gia` detto, il tentativo di scoprire nel pianoforte moderno qualcosa di inedito portera` alla esecuzione sulla cordiera (Cowell) e al pianoforte preparato (Cage). Ma con cio` saremo all’estremo limite, persino dandistico, del pianoforte moderno, non all’inizio di un nuovo periodo storico. Il pianoforte elettrico, costruito per la prima volta nel 1931 dalla casa Bechstein (e detto allora Neo-Bechstein) non ebbe uno sviluppo artisticamente interessante, tanto che venne poi impiegato soprattutto nella musica leggera e infine abbandonato. Un nuovo periodo avrebbe potuto nascere dal pianoforte modulato o da uno strumento a tastiera a cui non spetterebbe piu` il nome di pianoforte. Allo sviluppo del piano-

forte modulato ostarono i costi molto elevati. Meno elevato e` il costo e meno complicato il funzionamento di apparecchiature che campionano il suono, cioe` che riproducono la timbrica di qualsiasi suono su tutta la gamma e che vengono collegate alla tastiera: le possibilita` di registrazioni, con esecuzioni parziali e montaggi, sono qui molto larghe, mentre limitate sono le possibilita` di esecuzioni live. Possibilita` molto ampie di esecuzione live o, come si usa dire, in tempo reale, esistono invece per la computer music, realizzata con tastiere che permettono variazioni di dinamica attraverso il tocco. Esiste persino la possibilita` di gonfiare e sgonfiare il suono, con il che potremmo davvero aver tirato fuori dalla provetta lo strumento a tastiera con respirazione animale sognato dagli intellettuali fiorentini che facevano circolo intorno al Gran Principe Ferdinando. Siamo pero` in un campo che e` ancora troppo poco coltivato e in cui le previsioni possono essere smentite dai fatti nel momento stesso in cui vengono espresse. L’ipotesi di ascoltare domani non solo musiche nuove, ma Mozart e Chopin e Debussy da una macchina computerizzata non pare oggi, in verita` , fantascientifica. Nulla, tuttavia, sembra minacciare per ora effettivamente l’esistenza del pianoforte quale mezzo di conservazione e di diffusione della letteratura pianistica storica. Ma se lo si pensa in termini di attivita` creativa, sia di musica concertistica che di musica registrata, il pianoforte moderno pare aver esaurito il suo ciclo di sviluppo.

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Guida alla Musica Pianistica

Isaac Albe´niz

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Isaac Albe´niz (Camprodo´n, 29 maggio 1860 - Cambo-les-Bains, 18 maggio 1909) Don A´ngel Albe´niz y Gauna era uno di quei tanti genitori – da Johann van Beethoven a Franz Anton von Weber a Adam Liszt a Nicolas-Joseph Franck a Ferdinando Busoni a Casimir Hofmann – che in tutta buona fede pensavano di appartenere alla razza eroica di Leopold Mozart, di quel Leopold che, accortosi di aver dato la vita a una bambina e a un bambino prodigiosamente dotati per la musica, era diventato impresario e aveva condotto la sua prole in tutta Europa guadagnando fama, onori e, cosa che non guasta mai, qualche bel sacchetto di monete d’oro. Albe´niz padre, come tutti gli altri padri sopracitati, era di modesta condizione sociale: funzionario doganale in una cittadina dei Pirenei vicina alla frontiera con la Francia. Rispetto agli altri don A´ngel godeva pero` di una maggiore somiglianza con il leggendario Leopold Mozart perche´ oltre al ragazzo-prodigio Isaac aveva messo al mondo anche una prodigiosa Clementina, di sette anni maggiore del fratellino. Isaac ebbe le prime lezioni di pianoforte da Clementina e a quattro anni esordı` nel Teatro Romea di Barcellona. Il successo ottenuto gli procuro` un maestro piu` autorevole, che lo preparo` per l’esame di ammissione al conservatorio di Parigi. E a Parigi, nei mesi che precedettero l’esame, Isaac studio` con un caposcuola del pianismo francese, Antoine-Franc¸ois Marmontel, il maestro di Debussy e di Bizet. Non si sa come il ragazzetto suonasse, ma si sa che dopo aver sostenuto l’esame si mise a giocare con un pallone e che lo lancio` contro una vetrina, mandandola in frantumi. Come che sia, l’esito della sua prova pianistico-pallonesca fu giudicato negativo. Nel 1868 la tribu` Albe´ niz tornava a Barcellona con le pive nel sacco, e per di piu` don A´ngel veniva licenziato per motivi politici – si era compromesso con i massoni e con i liberali. I concerti divennero allora l’unica risorsa economica della famiglia. Ma, poco dopo, un pronunciamento di alcuni generali spazzo` via dal trono la regina Isabella II e riporto` in servizio don A´ngel, che ottenne addirittura il trasferimento a Madrid. Isaac entro` nel locale conservatorio. Alla fine di novembre del 1870 scappo` di casa, prese il treno e si reco` a El Escorial, dove tenne un concerto. Acchiappato dalla polizia e rimesso sul treno per Madrid, scese a Villalba e prese la diligenza, incappando fra To-

ro e Zamora in un assalto dei banditi – il classico assalto alla diligenza. Riacchiappato dalla polizia a Burgos dovette infine tornare a Madrid. Dal ’72 suono` spesso in Spagna e progetto` un viaggio nell’America del Sud, che probabilmente non ebbe luogo. Ma nel ’75 ando` a Cuba con suo padre, nominato direttore delle poste dell’Avana, e per due anni suono` in varie localita` delle Antille. Tornato in Europa resto` per due mesi a Lipsia, poi si reco` in Spagna, ritrovandovi l’avventuroso padre che aveva perso l’impiego all’Avana (detto per inciso, Albe´niz fu sempre legato al padre da un rapporto di amore-odio). Isaac viene presentato alla regina, ottiene una borsa di studio e va a Bruxelles, allievo in conservatorio di Walter Rummel e di Louis Brassin. E conquista rapidamente il diploma. Forse, non e` sicuro, si reca a Weimar per conoscere Liszt, mentre e` sicuro che si aggrega a una compagnia belga di opera che va in tourne´e negli Stati Uniti e nel Messico. Nel settembre del 1879 e` di ritorno in Europa. Suona in Spagna, ritorna a Bruxelles, gira in Germania e in Ungheria, va a Parigi, il 15 settembre 1880 arriva a Madrid, in dicembre riparte per l’Avana, forse fa un salto a New York, a meta` del 1881 e` di nuovo in Spagna. Al compimento della maggiore eta` Albe´niz ha gia` accumulato una esperienza di vita che altri non accumulano in cent’anni. Come pianista ha un repertorio immenso, che nel 1880 elenca in modo sommario e cronologicamente un po’ di fantasia, ma ugualmente impressionante: – Bach: 12 Pezzi – Ha¨ndel: 2 Suites e 4 Pezzi – Scarlatti: 12 Pezzi – Rameau: 2 Suite – Couperin: 10 Pezzi – Haydn: 4 Sonate, 2 Pezzi – Mozart: 3 Concerti, 5 Sonate, 4 Pezzi – Beethoven: 2 Concerti, 6 Sonate, 3 Pezzi – Schubert: 4 Pezzi – Weber: 2 Concerti, 1 Sonata, 3 Pezzi – Mendelssohn: 2 Concerti, 6 Romanze senza parole, 3 Pezzi – Chopin: 1 Concerto, 5 Pezzi – Moscheles: 2 Concerti – Ries: 1 Concerto – Dussek: 3 Pezzi – Schumann: Concerto op. 54, 5 Pezzi 3

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Isaac Albe´niz

– Rubinsˇtejn: 1 Concerto, 6 Pezzi – Heller: 6 Pezzi – Mayer: 3 Pezzi – Liszt: 2 Concerti, Fantasia ungherese, 8 Pezzi – Brassin: 6 Pezzi – Morphy: 2 Capricci – Bre´ton: Marcia funebre – Grieg: Concerto op. 16 – Albe´niz: 50 Pezzi. Come compositore Albe´ niz ha esordito fanciullo con una Marcia militare (1869), ma il suo catalogo e` pieno di punti interrogativi: tre sole Sonate su sette, o forse dodici, ci sono pervenute, parecchie composizioni risultano citate qua e la` ma non se ne sa nulla, spesso Albe´niz ‘‘ricicla’’ con titoli diversi musiche gia` pubblicate. La Pavana-Capriccio op. 12 (1882 o 1883) non ha a che vedere con il modello, molto seguito in quegli anni, di Faure´ , ma sembra piuttosto un rifacimento stilistico della pavana inglese, tutto giocato, com’e`, sul registro acuto che evoca il virginale. Il 1882 e` l’anno dell’incontro con la nuova regina, Maria-Cristina d’Asburgo Lorena, seconda moglie di Alfonso XII, e della ‘‘scoperta’’ di Granada. Albe´niz, catalano cosmopolita, si reca per la prima volta in Andalusia, si innamora della civilta` arabo-spagnola e comincia a comporre musica moresca. Ma il suo catalogo pianistico si arricchisce veramente piu` tardi, dopo la composizione di alcune zarzuela che ottengono un limitato successo. La Rapsodia spagnola op. 70 (1887 ca.) nasce in versione per due pianoforti. Albe´niz la trascrivera` per pianoforte e orchestra e la dirigera` a Barcellona il 5 gennaio 1895, con Granados solista. Ma la partitura andra` perduta. Nel corso del Novecento la Rapsodia verra` trascritta per pianoforte e orchestra da Bre´ton, Enescu, Casella, Cristo´bal Halffter, fino a che Jacinto Torres, valendosi di appunti di Albe´niz, ne ricostruira` l’ipotetica versione dell’Autore. Sembra a me che questa ipotetica versione dell’Autore assomigli un po’ troppo all’orchestrazione di Notte nei Giardini di Spagna di Manuel de Falla. Ma, a parte cio`, il pezzo non va oltre lo spagnolismo di maniera che era stato inaugurato da Glinka. Il Concerto in la-La op. 78 (18861887) non esce dai moduli correnti di fine Ottocento e non presenta oggi, secondo me, reali motivi di interesse. La Sonata n. 5 op. 82 (1887), in quattro movimenti, oscilla curiosamente fra passato e presente. Il primo e il terzo movimento si inseriscono nel filone dell’intimismo romantico, il secondo movimento, con il titolo in italiano Minuetto del Gallo, e` una rivisitazione settecentesca che sembra tenere anche conto del Minuetto della Sonata op. 4 di Chopin, e il quarto movimento e` 4

Marcia militare

un vero e proprio ricalco di modelli formali ed espressivi delle Sonate di Scarlatti in tempo rapido. All’ormai vetusto filone dell’arcaismo ottocentesco appartengono anche le tre Suite nello stile antico op. 54, op. 64, n. 3 senza numero d’opera (1886, 1886, 1887). A filoni romantici, rispettivamente il virtuosismo e la musica da salotto, appartengono i Sette Studi nei toni naturali maggiori op. 65 (1886), le due mazurche Amalia op. 95 (1889) e Rico` rdati op. 96 (1889), il valzer Champagne (carte blanche) (1887 ca.) e molte altre pagine dello stesso tipo. Non si tratta di lavori che rivelino una personalita` originale di creatore, quanto piuttosto di prodotti di alto artigianato di un compositore che maneggia con estrema disinvoltura il linguaggio corrente senza cadere mai nel banale e nel ripetitivo. La dimensione ideale di Albe´niz e` quella dei quattrocinque minuti di musica, in forma di canzone tripartita (A-B-A). Mentre il Concerto e la Rapsodia denunciano lo sforzo di tenere insieme architetture complesse, pagine come Amalia o lo Studio in Sol sono formalmente perfette e piacevolmente discorsive e si allineano con i canoni di pianisti-compositori di successo (ad esempio, Scharwenka e Moszkowski) un po’ piu` anziani di Albe´niz. Piu` interessante e` tuttavia la Suite spagnola n. 1 op. 47 (1886, versione con quattro pezzi, 1899, versione definitiva), comprendente otto pezzi, ognuno dei quali ispirato una citta` o a una regione della Spagna. Della Suite divenne molto popolare – fu il primo successo internazionale di Albe´niz – la serenata moresca Granada. Ma piu` originali sono la sevillanas Sevilla, melodicamente molto attraente e con una azzeccata imitazione del tamburo, la leggenda Asturias, che verra` utilizzata come Preludio dei Canti di Spagna, e la seguidilla Castiglia, anch’essa riutilizzata nei Canti di Spagna. Castiglia e` molto interessante perche´ porta all’estremo un modo di disporre gli eventi che si ritrova spesso in Albe´niz e che potremmo chiamare di minimalismo intrecciato. Si tratta di cio`: diversi temi, molto elementari, vengono ripetuti piu` volte, ma intersecandosi, in modo da dare l’impressione di una collocazione spaziale diversificata. Mi sembra che per Albe´ niz si tratti di uno stilema derivato dalla zarzuela, ma cio` non toglie che questo modo di concepire il discorso abbia poi avuto importanti conseguenze in Debussy e in Ravel. Il successo della Suite si rinnovo` con i Ricordi di viaggio op. 71 (1887), raccolta di sette pezzi con titoli caratteristici (Sul mare, Leggenda, Alborada, Nell’Alhambra, Porta di Terra, Rumori della caletta, Sulla spiaggia). Anche qui Albe´niz segue fedelmente lo schema della canzone tripartita, e la scrittura

La Vega

pianistica e` sempre quella mendelssohniana tanto comune nella seconda meta` del secolo. Lo spagnolismo informa di se´ il quarto, quinto e sesto dei Ricordi, ma trova accenti piu` personali nel sesto, la malaguen˜a Rumori della caletta, i Rumores de la caleta che tanto piacquero a Cortot e a Benedetti Michelangeli. Pianista e pianista-compositore di buona fama internazionale, Albe´niz riponeva pero` nel teatro le sue ambizioni piu` alte. Non essendo riuscito a sfondare con le zarzuela in Spagna, nel 1890 si sposto` a Londra con tutta la famiglia (si era sposato nel 1883 e aveva due figlie e un figlio), si trasferı` subito dopo a Parigi, poi a Barcellona e poi di nuovo a Londra, ecc. ecc. C’era a Londra l’erede di una banca che si sentiva poeta e drammaturgo, Francis Money-Coutts. Albe´niz, sostenuto da lui finanziariamente, su libretti del banchiere compose alcune opere. Una di queste, Pepita Jime´ nez, andata in scena nel 1896, ottenne un certo successo e fu rappresentata anche in Belgio e in Germania. In un diario del 1897 Albe´ niz annota i suoi spostamenti in Europa per far ascoltare Pepita Jime´nez, al pianoforte, presso varie direzioni teatrali. Fra gli altri, due grandissimi direttori – Felix Mottl a Karlsruhe e Franz Schalk a Praga – accettarono il lavoro. Tuttavia neppure Pepita Jime´nez dimostro` di avere buone gambe per correre da sola, e la Trilogia Merlino, Ginevra, Lancillotto si fermo` alla prima opera. Albe´niz riprese a comporre per pianoforte. I Canti di Spagna op. 232 (1897 ca.) riprendono il cammino dai Rumores de la caleta. La raccolta comprende cinque pezzi: Preludio, Orientale, Sotto il palmizio, Cordoba, Seguidillas. Nessuna novita` di forma o di scrittura. Ma il linguaggio armonico diventa piu` personale, e soprattutto si nota una capacita` evocativa molto maggiore. Il pittoresco di Rumores de la caleta diventa misterioso e arcano nel Preludio (il vecchio Asturias), con l’ossessivo ritmo e i crepitanti suoni della chitarra nella prima parte, e con il canto della seconda parte che fa pensare al muezzin sul minareto. Anche in Cordoba l’atmosfera notturna e` arcana, con gli accordi lenti che richiamano le colonne della celebre moschea in contrapposizione con una serenata che ha luogo all’esterno. Seguidillas e` invece orgiasticamente luminoso, Sotto il palmizio e` una molle, sensuale habanera. Orientale, essendo piuttosto ripetitiva e melodicamente non ben caratterizzata, sembra a me un po’ come il vaso di coccio tra i vasi di ferro. La scrittura e` calligrafica, ben diversa da quella, floreale, della futura Iberia, i pezzi sono – se questo termine puo` essere riferito alla musica, almeno come metafora – sono descrittivi, il gusto e` par-

Isaac Albe´niz

nassiano. Ritroviamo le stesse caratteristiche in Espan˜a op. 165 (1893), che comprende Preludio, Tango, Malaguen˜a, Serenata, Capriccio catalano, Zortzico. Ma qui la scrittura, piu` ancora che calligrafica, e` spesso spoglia, forse perche´ Albe´niz intendeva limitare la difficolta` tecnica per non mettere in allarme i dilettanti, che lo stavano ‘‘adottando’’ su scala internazionale. Nel Preludio troviamo uno dei piu` begli esempi di un topos della strumentazione di Albe´niz, il raddoppio di un canto, quasi recitativo, a due ottave di distanza. Questo tratto stilistico era gia` presente, per eccezione, in Weber, Schubert, Chopin, ma Albe´niz lo usa in modo intensivo e adattandolo splendidamente a un livello di difficolta` molto basso. La Malaguen˜a, melodicamente fascinosissima, incontro` una certa fortuna anche in sede concertistica. Non la incontro` invece il Tango, altrettanto fascinoso ma di scrittura cosı` primitiva da non offrire armi alle cineserie dei virtuosi. Ci penso` Godowsky, a farne una versione concertistica di gusto nettamente floreale, elegante, sinuosa, serpentina come le femmine di Jules Cheret. Con La Vega (1897; il titolo, intraducibile con una sola parola, e` riferito alla pianura fertile che si offre allo sguardo di chi la contempla dalle torri dell’Alhambra) Albe´niz si spinge oltre, molto oltre il limite dei cinque minuti che sapeva dominare cosı` bene. Il pezzo e` la versione pianistica di un brano che avrebbe dovuto essere orchestrato e che, nelle intenzioni di Albe´niz, avrebbe fatto parte di una suite sinfonica intitolata Alhambra. Pezzo evocativo, notturnale, e in quanto tale ben riuscito, La Vega e` secondo me formalmente troppo dilatata, e pianisticamente non cosı` sgargiante come diversi pannelli di Iberia. La Vega sta nel guado fra due mondi ed e` stata sempre oscurata sia da cio` che la precede che da cio` che la segue. Negli ultimi anni del secolo Albe´niz oscillava ancora fra il pianoforte e il teatro, e dopo aver ultimato il Merlino prendeva appunti per Lancillotto e per Ginevra. Il suo librettista inglese era interessato al ciclo bretone del Re Artu` , non all’epopea delle guerre fra spagnoli e mori e alla riconquista dell’Andalusia, di cui era ricorso nel 1892 il quattrocentenario. Mentre Massenet aveva esaltato nel Cid (1885) l’eroe nazionale spagnolo, mentre il polacco Moszkowski celebrava nel Boabdil (1892) la conquista di Granada, lo spagnolo Albe´niz cercava di far rivivere i Cavalieri della Tavola Rotonda. Fra il librettista, il compositore e un impresario teatrale era stato firmato un ‘‘patto di sangue’’. Ma l’impresario ritenne a un certo punto che il patto fosse troppo oneroso e si dileguo`: la trilogia bretone di Albe´niz rimase incompiuta. E Albe´niz, 5

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Isaac Albe´niz

pur non rinunciando del tutto al teatro, si impegno` a fondo con il pianoforte per creare un ciclo, non epico ma pittorico, sulla Spagna. Detto dapprima Espan˜a, poi Iberia, il ciclo comprende dodici pezzi in quattro quaderni: Evocacio´ n, El Puerto, El Corpus en Sevilla, Ronden˜a, Almeria, Triana, El Albaicin, El Polo, Lavapie´s, Malaga, Jerez, Eritan˜a (1905-1909). E` stato piu` volte notato che, eccettuato Lavapie´s, quartiere di Madrid, Iberia ha in realta` per tema l’Andalusia. L’Andalusia era diventata nell’Ottocento la Spagna da esportazione, e in questo senso Albe´niz si adeguava a un immaginario che avrebbe sicuramente colpito il pubblico internazionale piu` di quanto lo avrebbero colpito la Catalogna o le Asturie. Iberia e` senza dubbio il capolavoro di Albe´niz, ed e` anche uno dei piu` significativi lavori della letteratura pianistica del Novecento. Ma nel suo insieme non attiro` l’attenzione ne´ del pubblico, ne´ dei critici. Divenne popolarissima Triana, che ebbe fra i suoi primi interpreti certi giganti come Rosenthal, Godowsky, Cortot, Backhaus, Rubinstein, e ottenne una certa popolarita` El Corpus en Sevilla, mentre gli altri pezzi furono molto raramente o mai frequentati da grandi concertisti. La critica internazionale rivolse la sua attenzione piu` sulle opere coeve di Debussy, di Ravel e di Skrjabin che su Iberia, con la conseguenza che, a parte gli elogi incondizionati della pubblicistica spagnola, mancarono le analisi e le riflessioni critiche approfondite. Il linguaggio di Iberia non e` esattamente quello dei Canti di Spagna, ma non ne e` neppure radicalmente diverso. In altre parole, Albe´ niz, che di norma non cita direttamente il canto popolare ma che su di esso si basa nella costruzione dei suoi temi-melodie, in Iberia dimostra di essere attratto sia dalla armonia fondata su scale modali alternative rispetto al maggiore e al minore, sia dall’uso coloristico dell’accordo, sia dal brusco accostamento di tonalita` lontane fra di loro, ma senza essere influenzato dalle grandi novita` di inizio secolo, le Images di Debussy e i Miroirs di Ravel. La sostanziale novita` di Iberia risiede invece secondo me nella strumentazione pianistica. La scrittura trasparente e leggera, e di media difficolta` dei Canti di Spagna diventa in Iberia complessa, densa, e di realizzazione tecnica problematica. Tuttavia esiste una notevole differenza fra i pezzi del primo quaderno e gli altri. Evocacio´ n (Evocazione), che funge da introduzione al ciclo, e El Puerto (Il Porto, il piccolo porto di Santa Maria vicino a Cadice), con i suoi passi di danza e le grida dei venditori, non presentano difficolta` di ordine trascendentale. El Corpus en Sevilla (La Festa del Corpus Domini a Siviglia), che accosta la 6

Iberia

rude Spagna popolare e la fastosa celebrazione religiosa (con citazione del Tantum Ergo), e che e` molto virtuosistico, si rifa` alla tecnica di Liszt, e in particolare alla sezione conclusiva di una trascrizione, l’ouverture del Tannha¨user di Wagner. L’evoluzione stilistica e` evidente nel secondo quaderno e arriva a compimento in Triana, che anche per questo motivo, oltre che per la sua capacita` evocativa (Triana e` un quartiere di Siviglia), divenne cosı` popolare. Ronden˜ a, ispirata all’antica citta` di Ronda nel territorio di Malaga, e Almerı´ a sono esuberanti di espressione ma non tanto complessi di tessitura, tranne che in alcuni episodi di Almerı´ a, di sonorita` ancora non cosı` inventiva come Triana. La scrittura di Triana e` sinfonica, lo spettro sonoro, molto ampio, non viene sistematicamente riempito con il mendelssohniano arpeggio rapido che collega il grave e l’acuto ma anche con inserimenti di figurazioni molto caratterizzate, tanto da creare una fitta trama polifonica (Godowsky, esimio campione dell’horror vacui, la riempı` ulteriormente). Resterebbe pero` da vedere se Albe´niz desiderasse o no che la trama fosse percepibile con chiarezza. Gli interpreti del Novecento, che seguivano i canoni neoclassici dell’interpretazione, ricercavano la trasparenza e percio` eliminavano sistematicamente molte delle pur accurate indicazioni originali per il pedale di risonanza. Queste indicazioni fanno invece pensare, secondo me, a una percezione che privilegia la macchia rispetto al disegno. Albe´niz, in fondo, era un contemporaneo di Gauguin e di Monet, non di Ingres e di Horace Vernet. E Triana, pensata con gli effetti del pedale di risonanza originale, appare piu` ‘‘moderna’’ di quanto non sembri quando il pedale e` usato con parsimonia. Triana fu eseguita da Joaquı´n Malats, e bissata, sia a Madrid che a Barcellona. Albe´niz gli scrisse poco dopo, dicendo: ‘‘Ho terminato il terzo quaderno di Iberia sotto la vostra diretta influenza di interprete meraviglioso. [...] Credo di aver portato al limite estremo lo spagnolismo e la difficolta` tecnica’’. La difficolta` e` effettivamente estrema in Lavapie´s, che tecnicamente e` uno studio sulle note doppie, non in El Albaicin e in El Polo. Detto per inciso, Lavapie´s e` sı` un quartiere di Madrid, ma i commentatori spagnoli fanno notare che il suo ritmo e i suoi temi sono basati sul tango andaluso: un lembo di Andalusia fuori dalla Andalusia, come Campione d’Italia che sta in Svizzera... El Albaicin (che prende il nome dal quartiere gitano di Granada) porta invece effettivamente al limite estremo lo spagnolismo. La capacita` di Albe´niz di evocare luoghi e atmosfere che, come ho avuto occasione di dire, era evidente fin dalla Suite spa-

Yvonne en visite

gnola, raggiunge in El Albaicin un culmine invalicabile. Debussy scrisse nel 1913 che poche cose della letteratura pianistica possono uguagliare El Albaicin. Il pezzo corrispondeva in realta` all’immaginario di Debussy, che non era mai stato in Andalusia ma che in El Albaicin ritrovava ‘‘il clima di una serata in Spagna con gli odori del garofano e dell’acquavite’’. Anche qui, come in Triana, si pone pero` il problema della macchia o del disegno. Purtroppo non abbiamo esecuzioni di Albe´niz, se non tre brevi improvvisazioni incise su rullo di cera. E anche di Malats, che morı` nel 1912 a quarant’anni, non e` rimasto praticamente nulla. Per concludere il discorso sul terzo quaderno aggiungero` che in El Polo si manifesta quello che spesso e` un tallone d’Achille di Albe´niz, la monotonia del ritmo, e faro` notare per curiosita` che nel manoscritto si trova un’avvertenza non pubblicata nella edizione a stampa: ‘‘Canzone e danza andalusa, da non confondere con lo sport dello stesso nome’’. Nell’ultimo quaderno il ‘‘limite estremo’’ di difficolta` tecnica raggiunto in Lavapie´s viene mantenuto. Jerez e Eritan˜a (da Venta Eritana, tipo di locanda andalusa) sono effettivamente pezzi che richiedono doti straordinarie di tecnica trascendentale del tocco. Ma sembra a me che manchino in quest’ultimo quaderno le invenzioni di strumenta-

Isaac Albe´niz

zione pianistica di Triana e di El Albaicin, e che Albe´niz tenda un po’ a ripetersi. In un primo momento Albe´niz pensava che il quarto quaderno di Iberia avrebbe dovuto contenere un pezzo ispirato a Valencia e intitolato La Albufera, e un altro intitolato Navarra. Poi prevalse la passione per l’Andalusia e la ‘‘esplorazione’’ della Spagna non venne estesa ad altre regioni. Ultimata Iberia, Albe´niz inizio` tuttavia a comporre Navarra (1909), rimasta incompiuta e che fu ultimata da De´odat de Se´verac (e da moltissimi altri, ma la versione di Se´verac, pur universalmente dichiarata insoddisfacente perche´ troppo breve, non e` stata scalzata da alcuna altra). La popolarita` di Navarra, che fu grande nel periodo fra le due guerre, era dovuta alla piacevolezza dei temi e allo slancio vitalistico che la pervade: una specie di Triana del Nord... Universali riprovazioni ha ottenuto anche il completamento di Azulejos (1909: l’azulejo e` la piastrella vivacemente colorata che decora i patios), opera di Granados. Nell’ultima pagina pianistica da lui pubblicata Albe´niz non intinse pero` la penna nello spagnolismo. Yvonne en visite (Gianna in visita, 1909), comprendente due schizzi che i critici spagnoli non apprezzano affatto, inclina in modo del tutto inatteso verso Satie. Se non fosse scomparso a quarantanove anni, Albe´niz ci avrebbe forse riservato qualche sorpresa.

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Charles-Henri-Valentin Morhange detto

Yvonne en visite

Charles-Henri-Valentin Morhange detto Alkan (Parigi, 30 novembre 1813-ivi, 29 marzo 1888) Alkan e Liszt si conobbero nel 1828 a Parigi in casa della principessa della Moskova: il primo aveva quindici anni, il secondo diciassette, Alkan aveva vinto nel 1824 il Premier Prix nel concorso annuale del conservatorio di Parigi ed aveva fatto nel 1827 una tourne´ e in Belgio, mentre nel 1827 Liszt, enfant-prodige del concertismo, si era addirittura ritirato – momentaneamente – a vita privata. Liszt, sul pianoforte, era un un fenomeno che gia` a quindici anni aveva retto splendidamente il paragone con i piu` celebri virtuosi dell’epoca, con gli Hummel, con i Moscheles, con i Kalkbrenner. Alkan possedeva doti altrettanto strepitose di strumentista, ma non di concertista, perche´ era schivo di carattere e privo di quel tocco di compiaciuto esibizionismo che il concertismo richiedeva imperiosamente. Sappiamo che Liszt suono`, quella sera nel palazzo della principessa, e che Alkan rimase molto impressionato, tanto da mettersi a piangere dalla disperazione, dopo essere tornato a casa, e da non poter chiudere occhio per tutta la notte. Non sappiamo invece se la nobildonna facesse suonare anche Alkan, che proteggeva, mettendo a confronto i due ragazzi di fronte agli ospiti che frequentavano il suo salotto. Ma pare molto probabile che cosı` fosse. Sembra comunque che Liszt, abituato a non avere competitori, diventasse sempre un po’ nervoso quando Alkan era presente. Tutte le sue straordinarie doti di strumentista, testimoniate e dalle sue musiche e dagli ammirati commenti di chi lo ascolto`, non bastarono ad Alkan per fare una carriera concertistica, e non gli bastarono nemmeno per ottenere un incarico istituzionale. Fu per qualche tempo assistente del suo maestro di pianoforte Pierre Zimmerman, fu per qualche tempo assistente in una classe di solfeggio del conservatorio, vinse nel 1834 il Premier Prix di organo, ma concorse per due volte senza successo per il Prix de Rome, non fu mai candidato all’Accademia di Francia, e nel 1848 brigo` invano – e brigo` disperatamente – per conquistare la successione di Zimmerman, che andava in pensione. Egli scrisse allora piu` e piu` volte a George Sand, chiedendole di intervenire presso il ministero; alla fine si sfogo` in questo modo: ‘‘Per quanto concerne la mia sfera io me la sentivo di musicalizzare tutta una generazione. Sono costretto a cedere il passo non a un degno o indegno rivale, ma a una 8

delle piu` assolute nullita` che si possano concepire’’. La ‘‘assoluta nullita`’’, che nei suoi numerosi libri tratto` sempre Alkan con i guanti, era Antoine-Franc¸ ois Marmontel, con il quale avrebbero studiato pianisti come Francis Plante´ e Louis Die´mer e compositori come Bizet e Debussy (e Albe´niz). Se questa generazione fosse stata ‘‘musicalizzata’’ da un uomo di genio come Alkan invece che da un onesto cattedratico come Marmontel, forse la musica pianistica francese – il lettore mi perdoni la fantasticheria – sarebbe stata un pochino diversa da quella che fu... Salvo che per due fugaci apparizioni a Londra nel 1833 e nel 1835, Alkan suono` soltanto a Parigi, molto piu` in musica da camera che da solo, in tre distinti periodi: dal 1828 al 1838, dal 1844 al 1853, dal 1873 al 1880. Dal 1873 al 1880, eccettuato il 1876 per indisponibilita` della sala, Alkan tenne ogni anno Sei Piccoli Concerti da Camera presso il fabbricante E´rard. Suonava il pianoforte e il pianoforte con pedaliera, che era diventato la sua fissazione, suonava a quattro mani, suonava musica da camera con vari strumentisti. Il repertorio andava da Couperin a Chopin e Schumann, con un Intermezzo fra le due parti del programma riservato ad Alkan (fra i lavori di rarissima esecuzione pubblica che Alkan fece ascoltare ai parigini si deve menzionare per lo meno la Sonata op. 78 di Schubert). Erano lezioni-concerto, piu` che recital: Alkan era piuttosto didascalico, indicava nel programma stampato le durate dei pezzi e li presentava brevemente, raccomandando ad esempio di stare molto attenti perche´ una certa sonata era difficile. Insomma, il lavoro di Alkan come interprete fu importante per la diffusione della musica ‘‘antica’’ (che veniva allora detta anche ‘‘retrospettiva’’), ma in un modo limitato ad una ristretta cerchia di ascoltatori e senza influenzare se non in piccola misura l’evoluzione generale del gusto. E la sua musica, al di fuori dei suoi concerti annuali, non fu eseguita da nessuno, nemmeno dal suo presunto figlio naturale, e allievo di pianoforte, E´li Miriam Delaborde. Alkan fu – come dire? – un grande pianista in incognito e un ricercato insegnante, racconta Isidor Philipp, di dame ‘‘parfume´es et froufrounnantes’’. Facendone il necrologio in un periodico musicale di Parigi un critico scris-

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se irriverentemente che Alkan aveva dovuto morire perche´ si sapesse che era stato vivo. La produzione pianistica di Alkan, che e` assai vasta, compare oggi nei programmi concertistici molto di rado e in una misura ridottissima. La sua discografia non e` altrettanto avara, ma neppure fiorente. Ed io mi limitero` dunque a parlare dei lavori piu` importanti e che, con un po’ di buona volonta`, il mio lettore potra` per lo meno trovare in disco, anche se, per definire la poetica di Alkan, dovro` citare alcune pagine praticamente irreperibili. La Variazioni su un tema di Steibelt op. 1 (1828 ca.) sono il lavoro con cui Alkan esordisce a quindici anni. Lo stile e` quello, elegante e brillante, del biedermeier, e il ragazzo dimostra di avere assimilato benissimo la maniera di Herz, che a Parigi gia` spopolava negli anni venti. Chi ascolta oggi le Variazioni op. 1 di Alkan le paragona immediatamente alle Variazioni op. 1 di Schumann e alle Variazioni op. 12 di Chopin, che derivano anch’esse dal biedermeier salottiero. Qualche dizionario afferma che il tema di Steibelt e` quello della Tempesta del Concerto n. 3, ma la notizia e` inesatta. La Tempesta e` un episodio, famosissimo per l’impiego del pedale di risonanza e per l’uso del tremolo fitto che aveva sbalordito i primi ascoltatori, nel finale del Concerto n. 3, Rondo` pastorale. E Alkan varia il tema principale del Rondo`, non il tema della Tempesta. Nelle variazioni Gli Omnibus op. 2 (1829) si manifesta embrionalmente il primo elemento essenziale della poetica di Alkan, il realismo. Negli anni venti era ancora molto diffuso il genere della ‘‘musica imitativa’’ al quale aveva contribuito anche il Beethoven della Sinfonia Pastorale. Musica imitativa, la Pastorale? Presumo che qualcuno dei miei lettori sobbalzi sulla poltrona e che, se mi avesse a portata di mano, mi darebbe una bella tiratina d’orecchi. Non ha forse Beethoven detto della sua Pastorale, perdiana, ‘‘piu` espressione di sentimenti che pittura?’’ Lo ha detto: e` verissimo. Ma il ‘‘piu`... che’’ enfatizza il piu` senza escludere il che, e infatti alla fine del secondo movimento noi troviamo, papali papali, i canti dell’usignolo, della quaglia e del cuculo, e nella Tempesta del terzo movimento troviamo onomatopeici tuoni e lampi. La musica imitativa, o pittura sonora, non godette di buona stampa presso un critico come Schumann, le cui idee condizionarono fortemente tutta la pubblicistica nell’Ottocento e oltre. Ora, per togliere da Alkan il marchio della musica imitativa possiamo sostituire l’imitazione con il realismo. Alkan apparteneva alla cultura francese, nella quale il realismo di Euge`ne Sue nella letteratura e di Ge´ricault nella pittura si stava affacciando con

Alkan

forza. Se accettiamo il realismo in musica sorrideremo appena di fronte agli Omnibus, che si basavano sul rumore del tram a cavalli detto appunto omnibus, e ammireremo incondizionatamente i Ricordi. Tre Pezzi nel genere patetico op. 15 (1837) dedicati a Liszt, il secondo dei quali e` intitolato Il Vento, e lo studio La Ferrovia (1844), con pagine e pagine di note fruscianti alla densita` di quindici-sedici suoni al secondo, inframmezzate da una melodia canticchiata e con una fine a singhiozzo, come se alla locomotiva stesse mancando la forza motrice. La densita` di quindici-sedici fa sı` che l’orecchio dell’ascoltatore percepisca suoni che si accavallano l’uno sull’altro, con un effetto che in verita` non era affatto sconosciuto ai compositori che precedono Alkan ma che per il Nostro diventa un elemento del suo realismo musicale. Quindici-sedici suoni al secondo sono anche il limite oltre il quale la meccanica del pianoforte non e` in grado di marciare perche´ esiste un tempo – tempuscolo – invalicabile per la discesa del tasto e per la conseguente salita del martelletto che va a battere la corda. Ad Alkan piace pero` da matti sfidare tutti i limiti della meccanica dello strumento e della tecnica dell’esecutore: velocita`, potenza, complessita` polifonica. Gettiamo un’occhiata sui Tre Studi di bravura (Scherzi) op. 16 (1837), tutti basati sullo staccato e che richiedono un’altissima capacita` di resistenza del polso alla fatica, o sui Tre Grandi Studi per le due mani separate e riunite (1839 ca.), pubblicati senza numero d’opera e ripubblicati come op. 76, che sono contemporanei dei Grandi Studi e degli Studi trascendentali da Paganini di Liszt e che, come quelli, spingono il virtuosismo fino al limite delle possibilita` umane. Il primo dei Tre Studi e` una Fantasia per la mano destra sola, il secondo e` intitolato Introduzione, Variazioni e Finale per la mano sinistra sola, il terzo e` un Presto in cui le due mani eseguono le stesse note a distanza di un’ottava, come nel finale della Sonata op. 35 di Chopin (del 1839 anch’essa), ma a velocita` piu` alta e per un numero molto maggiore di pagine. Siamo spesso, come in Liszt, al limite dell’ineseguibile. Nel 1852 Liszt ‘‘alleggerı`’’ pero` la scrittura dei suoi vecchi Studi, mettendoli alla portata di virtuosi molto dotati sı` ma non unici al mondo. Alkan non cambio` una nota nella ripubblicazione dei Tre Studi. Le pagine di Alkan che sembrano pensate per una razza di superuomini sono la Grande Sonata ‘‘Le Quattro Eta`’’ op. 33 (1847, 1848), i Dodici Studi nei toni maggiori op. 35 (1847-1848, 1848) e i Dodici Studi nei toni minori op. 39 (18461857, 1857). Dire semplicemente che la Sonata e` 9

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Alkan

mostruosamente difficile sarebbe limitativo. E` mostruosamente difficile, nei due primi movimenti. Ma la difficolta` sta in rapporto con l’assunto di Alkan, che nei quattro movimenti vuole ritrarre l’Uomo a venti, trenta, quaranta e cinquant’anni e che intitola il secondo movimento QuasiFaust, il terzo Una felice vita familiare e il quarto Prometeo incatenato. La ratio della sonata classica viene rovesciata perche´, come nella Sonata op. 35 di Chopin, il finale non porta alla catarsi. Ma viene anche sovvertita la forma, perche´ lo scherzo sta al primo posto invece che al secondo o al terzo, e l’adagio al quarto posto invece che al terzo o al secondo. Manca infine l’unita` tonale: primo movimento in Re, secondo in re diesis, terzo il Sol, quarto in sol diesis. Nella prefazione Alkan, ben conscio di tutto quello che gli si rimproverava, dichiara che la sua non e` ‘‘musica imitativa’’ e ancora di meno ‘‘una musica che cerca la sua propria giustificazione, la ragione del suo effetto e del suo valore in un ambito extramusicale’’. Tuttavia, egli aggiunge, ogni momento della Sonata ‘‘corrisponde, nel mio spirito, a un dato momento dell’esistenza, a una particolare disposizione del pensiero, dell’immaginazione’’. Musica simbolista, dunque, anzi, doppiamente simbolista perche´, come fece notare Brigitte Franc¸ois-Sappey, scritta a 33 anni e che porta il numero d’opera 33, pubblicata a 34 anni e dedicata al padre che aveva 34 anni quando gli nacque il figlio, e su temi basati su un nucleo tematico di quattro suoni nell’ambito di un intervallo di terza minore. Il primo movimento dipinge l’entusiasmo giovanile e il destarsi dell’animo all’amore. Nel secondo movimento due temi simboleggiano con tutta evidenza Faust e Margherita e gli altri due sono indicati come Il Diavolo e Il Signore. Un’analisi di come Alkan gestisca drammaturgicamente i quattro temi richiederebbe uno spazio eccessivo. Faccio solo notare come nel punto culminante, dopo quattro enormi accordi, tre di venti suoni ciascuno ed uno di sedici in piu` che fortissimo, si passi ad un fugato che cresce da una fino a sette voci e dal piano al fortissimo. Qui Alkan supera veramente i limiti del pianoforte come strumento polifonico: a mano a mano che si aggiungono le voci la percepibilita` del tessuto diventa sempre piu` problematica e alla fine, semplicemente, diventa caotica. Questo Quasi-Faust si sposa, ha una felice vita familiare ed ha figli (parte centrale del terzo movimento, I Bambini), e alle dieci della sera (dieci rintocchi di un Si) intona con moglie e figli la Preghiera prima di andare quietamente a nanna. Ma a cinquant’anni il nostro eroe e` Prometeo incatenato, con tanto di epigrafe da Eschilo. Sono 10

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Le Quattro Eta`. Opera sull’Uomo? Opera autobiografica? O, come dice dubitativamente Brigitte Franc¸ ois-Sappey, opera sull’Ebreo Errante? Io non so dire. Certamente, pero`, uno dei culmini del romanticismo pianistico. Degli Studi op. 33 sembrano a me particolarmente riusciti il n. 5 in Fa, Allegro barbaro con si bemolle in chiave ma tutto sui tasti bianchi, e cioe` in modo ipolidio, il n. 7 in Mi bemolle, L’incendio nel villaggio vicino (alla fine – la didascalia dice soldatescamente – arrivano i pompieri), e il n. 9 in Sol bemolle, Canto d’amore-Canto di morte. Ma per curiosita` non posso non notare nel n. 3 in Sol una straordinaria serie di didascalie: dolce, con dolcezza, dolcissimo, dolcissimamente, e i due neologismi, dolcito e dolciato. Gli Studi op. 39 si aprono con un tipico Prestissimamente in la intitolato Come il vento e scritto con figure di trentaduesimo invece che di ottavo, in modo da far diventare piu` fitta di barre nere la pagina stampata, e proseguono con il n. 2 in re, Risoluto. In ritmo molossico, e con il Prestissimo in sol, Scherzo diabolico. I quattro Studi successivi formano la Sinfonia, che secondo me e` il capolavoro di Alkan con il suo Allegro moderato in do, appassionato e ansioso, la Marcia funebre in fa superbamente strumentata (intitolata nella prima edizione Marcia funebre d’un uomo da bene, con evidente smitizzazione dell’Eroe della Sonata op. 26 di Beethoven), il demoniaco Minuetto in si bemolle e il velocissimo, travolgente Finale in mi bemolle. Meno riuscito sembra a me il Concerto (Studi n. 8, n. 9 e n. 10), soprattutto per la dimensione mastodontica del primo movimento che nelle sue 1342 battute segue a parer mio in modo troppo rispettoso lo schema architettonico tradizionale. Le dimensioni del secondo e del terzo movimento del Concerto di Alkan sono all’incirca le stesse dei movimenti analoghi del Concerto op. 15 di Brahms, composto negli stessi anni. Ma il primo movimento di Alkan e` di un buon 40% piu` lungo, e senza l’orchestra. Vero e` che Alkan concede un taglio di ben 734 battute, riportando cosı` piu` o meno la forma a quella dell’Allegro da concerto op. 46 di Chopin. Ma con il taglio la dimensione architettonica ridotta entra in conflitto con la monumentalita` dei temi. E cosı` lo Studio n. 8 si fa ricordare, appunto, come studio, per il geniale impiego di un tipo di tecnica, le note ribattute, non tipicamente pianistica. Il secondo movimento del Concerto, Adagio in do diesis, ha secondo me il limite di mantenere il modo minore (tutti i concerti a me noti in modo minore passano nel tempo lento al modo maggiore). Il finale, Allegretto alla barbaresca in fa diesis, e` una divertentissima danza che arieggia la

Schizzi

polacca ma con un melodismo orientaleggiante. Rossini avrebbe scritto poi un Bolero tartaro. Il finale di Alkan, si potrebbe dire, e` una polacca cinese. Il Concerto e` un’opera manieristica perche´ riprende lo stile dei concerti biedermeier talmente virtuosistici da poter funzionare con orchestra ad libitum, ma la sua realizzazione, in concreto, sembra a me piuttosto velleitaria. La Ouverture, undicesimo Studio in si, e` anch’essa manieristica: rispecchia ironicamente la pomposita` della ouverture teatrale. L’ultimo Studio, Il Festino di Esopo in mi, ispirato al banchetto degli animali (si riconoscono benissimo l’asino, il leone, il cane, le colombe), e` un tema con variazioni che compedia tutta la poetica di Alkan, il realismo, il simbolismo, il fantastico, l’umoristico, il grottesco. Ecco qualche didascalia: marziale, quasi-corni, lamentevole, tempestuoso, impavide´, e scampanatino, trombata, abbajante, preghevole, il tutto sotto la cappa di un tempo, Allegretto senza licenza quantunque, che esige la consultazione di un esperto linguista. Ho appena citato il grottesco. Il Capriccio alla soldatesca in la op. 50 n. 1 (1859) e` uno straordinario esempio di grottesco-macabro. I legionari caduti escono di notte dalle loro tombe per essere passati in rivista da Cesare. Vengono ridestati dalla quasi-trombata e cantano quasi-gemito; arriva un drappello di cavalieri, quasi-cavalcata, e infine appare, quasi-conquistatore, Cesare. Quindi la visione svanisce a poco a poco in una specie di corale, ‘‘religiosamente’’. Tutto questo mondo titanico si trova pero` rovesciato nell’ultima composizione di ampie dimensioni di Alkan, la Sonatina in la op. 61 (1861). E` in quattro movimenti, la Sonatina, ed e` molto lunga. Ma la scrittura e` secca, essenziale. Come diceva Kaikhosru Sorabji, la Sonatina da` l’impressione di ‘‘Berlioz che tenta di scrivere una sonata beethoveniana’’. A fare da contrappeso all’Alkan babilonico abbiamo l’Alkan salottiero che forniva musica alle sue allieve parfume´es et froufrounnantes per la buona ragione che lui, con le lezioni, ci campava. In questo settore spiccano innanzitutto i 25 Preludi op. 31 (1847) in tutte le ventiquattro tonalita` piu` la ripetizione, alla fine, della tonalita` iniziale di Do. L’organizzazione tonale della raccolta e` molto originale: Do, fa, Re bemolle, fa diesis, ecc. fino al mi del ventiquattresimo Preludio e al Do del venticinquesimo. Quindi, tonalita` maggiori in progressione cromatica (do, re bemolle, re, ecc.) e tonalita` minori in progressione cromatica una quinta sotto (la tonalita` maggiore e` la dominante della tonalita` minore). La stranezza dell’op. 31 e` che Alkan lascia all’esecutore la scelta fra pianoforte e organo, dicendo nella prefazione: ‘‘Eseguendo questi Pre-

Alkan

ludi sull’organo durante i diversi servizi [liturgici] come versetti o simili bisogna osservare che i movimenti troppo rapidi devono sempre essere rallentati perche´ l’organo sopporta soltanto il genere sostenuto, lo stile legato, la forma serrata e omogenea, e che lo staccato e` in generale inadatto per lui, che gli accompagnamenti segmentati, le batterie nella mano sinistra (presto) gli sono antipatiche; per gli accordi indicati si devono trasferire le note fondamentali dalla tastiera alla pedaliera e le armonie piu` o meno figurate alla mano sinistra’’. Parecchi dei Preludi si prestano benissimo per l’esecuzione all’organo, ma non si vede come possano ad esempio essere risolti organisticamente, pur con tutte le avvertenze date da Alkan, il saltellante n. 5 in Mi bemolle, o il velocissimo n. 14 in si, o il valzerino in Si del n. 23, o il Prestissimo in mi del n. 24. La raccolta segue un ordine geometrico delle tonalita` ma non diventa ciclo organico, cosa che del resto non doveva essere nelle intenzioni di Alkan. I venticinque pezzi sono tutti ben riusciti e interessanti, con qualche piccolo gioiello e con un Canto della pazza sulla riva del mare (n. 8 in la bemolle) che preannuncia le tarde, allucinate pagine di Liszt. Le cinque raccolte di Canti, op. 38, 38 bis, 65, 67, 70 (1857, 1857, 1866 ca., 1868 ca., 1872 ca.) e I Mesi. 12 Pezzi caratteristici op. 74 (1840 ca., che riprendono, con nuove aggiunte, i Sei Pezzi caratteristici op. 8 del 1838, ripubblicati in Germania come op. 16) rientrano nel novero delle romanze senza parole mendelssohniane. I 48 Motivi op. 63 (1861), piu` noti sotto il titolo di Schizzi, non sono piu`, semplicemente, pezzi brevi e intimistici; la loro dimensione e` spesso aforistica, il tardo Liszt e` alle porte. Pezzi che durano fra i trenta secondi e il minuto, che raramente oltrepassano i due minuti e che in un solo caso (n. 5, Gli Iniziati) raggiungono i quattro minuti si susseguono mantenendo sempre una densita` di contenuti molto alta. Si pensa talvolta addirittura all’op. 19 di Scho¨nberg, nella quale i contenuti emotivi sono come compressi in uno spazio angusto. Il linguaggio trapassa dal piu` semplice diatonismo al piu` sofisticato cromatismo, la melodia accompagnata si alterna con la polifonia, i contenuti vanno dal bozzettismo (n. 20, Piccola marcia di villaggio) al sentimentale (n. 46, Il primo biglietto dolce) al fantastico (n. 45, I diavoletti) al tragico (n. 21, Morituri te salutant), ma sempre nella dimensione manieristica del distacco emotivo e, oserei dire, della dolce crudelta`. Ogni pagina rappresenta una sorpresa per il lettore. E l’ultima sorpresa arriva alla fine: dopo il n. 48 richiamato nel titolo arriva un Laus Deo senza numero. 11

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Alkan

Bombardo-carillon per pianoforte con pedaliera, a quattro piedi soltanto

Non mi soffermo sulla restante produzione pianistica di Alkan e non esamino la sua produzione per pianoforte con pedaliera. Ma citero` due titoli cosı` strani da dover essere tramandati fra le nume-

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rose invenzioni verbali di Alkan: Bombardo-carillon per pianoforte con pedaliera, a quattro piedi soltanto (1872 ca.) e Palpitamento per pianoforte solo (1855).

Bombardo-carillon per pianoforte con pedaliera, a quattro piedi soltanto

Carl Philipp Emanuel Bach

A Carl Philipp Emanuel Bach (Weimar, 8 marzo 1714-Amburgo, 14 dicembre 1788) Alfred Brendel, indubbiamente uno fra i piu` colti e intelligenti pianisti del Novecento, di Carl Philipp Emanuel Bach dice che era ‘‘avventuriero e scopritore, al punto di vivere quasi unicamente di sorprese, un po’ come Berlioz’’. Un’opinione analoga, ma non benevola, era gia` stata manifestata piu` di due secoli prima dal musicista e filosofo Christian Friedrich Daniel Schubart: ‘‘Quel che si rimprovera alla sua opera e` un gusto caparbio, spesso bizzarro, e difficolta` ricercate, notazione tutta sua, inflessibilita` contro il gusto della moda’’. Al tempo delle sue incazzose polemiche contro Hugo Riemann, che attribuiva a Carl Philipp Emanuel il merito di aver creato la sonata cosiddetta drammatica, Fausto Torrefranca esalto` al contrario Platti il Grande e ridusse in briciole Bach il Piccolo. Haydn, Mozart, Beethoven, che di Platti il Grande non sapevano viceversa nulla di nulla, testimoniarono la gratitudine che provavano per Bach il Piccolo. Che dovrebbe essere chiamato – nessuno potrebbe azzardarsi a togliere il Grande al padre – che dovrebbe essere chiamato, dicevo, Bach il Temerario. Perche´ proprio questa e` l’impressione che fanno molte pagine di Carl Philipp Emanuel, con le modulazioni che mettono le tonalita` a cozzare fra di loro, con il senso improvvisatorio che le agita senza che si capisca quale cammino sceglieranno, con i loro sbalzi di umore, con le frasi che si interrompono prima della loro ‘‘naturale’’ conclusione dopo il punto culminante, con l’ipocondria che ne divora le viscere. Se pero` leggiamo il suo Saggio sopra il vero modo di suonare su tastiera troviamo una mente lucidissima, uno spirito classificatorio indefettibile, un grande senso pratico, una visione ponderata di tutto cio` che pertiene all’apprendimento della tastiera, sia in senso tecnico che artistico. E molte delle sue numerosissime composizioni ci rendono la stessa impressione di classica compostezza e dell’essere e del sentire. Creatura solare e creatura notturna, Dottor Jeckyll e Mister Hyde, Carl Philipp Emanuel Bach e` un personaggio affascinante di cui ci farebbe tanto piacere – non esiste, purtroppo – conoscere il diario. Per chi come me si occupa di letteratura pianistica il limite di Carl Philipp Emanuel e` di non essersi interessato abbastanza del pianoforte, pur essendo stato dal 1740 al servizio del re di Prussia Federi-

co II, che i pianoforti addirittura li collezionava. Bach conosceva bene il pianoforte, e ne parla con rispetto nel Saggio prima citato, che fu pubblicato nel 1753. Ma come Dottor Jeckyll preferiva il clavicembalo, e come Mister Hyde il clavicordo. Questo fatto, di per se´, non sarebbe un impedimento a considerare i suoi lavori tastieristici nell’ambito della letteratura pianistica, cosı` come non lo e` per il padre, che del pianoforte non sentiva affatto il bisogno, e cosı` come non lo e` per Haydn, che impiego` e il clavicembalo e il clavicordo prima di passare al pianoforte. Il fatto e` che l’opera tastieristica del vecchio Bach e di papa` Haydn fu fatta propria dal pianoforte, mentre di Carl Philipp Emanuel venne acclimatato sul nuovo strumento un solo pezzo, un foglio d’album intitolato Solfeggio, che divenne celebre nell’Ottocento come Solfeggietto. Dobbiamo dunque andare innanzitutto a visitare Carl Philipp Emanuel la` dove si degna di servirsi del pianoforte. Il Concerto in Fa per clavicembalo, pianoforte e orchestra W 46 (1740) fu composto evidentemente per ordine di Federico II ed e` soltanto un pezzo sperimentale. Ben altrimenti maturo e` invece il Concerto in Mi bemolle per clavicembalo, pianoforte, archi e due corni W 47 (1788), che arriva pero` dopo il Concerto per due pianoforti di Mozart e che appare influenzato dalla classicita` viennese. Carl Philipp Emanuel, inflessibile contro il gusto della moda, come dice Schubart, prende una posizione salomonica quando il pianoforte sta ormai vincendo la guerra e mette a confronto i due strumenti – con competenza, e trattandoli entrambi con i guanti. Decida chi sente, sembra dirci, dove sta il meglio. Si tratta di un lavoro scritto con mano esercitatissima, ma che presenta disperanti problemi di esecuzione. Se si decide di usare il pianoforte moderno bisogna anche servirsi, per ragioni di equilibrio, del clavicembalo moderno. Ed e` uno strazio perche´ , mentre il pianista puo` giocare sul tocco, il clavicembalista non puo` far altro che sferragliare. Se si fa ricorso agli strumenti d’epoca – e all’orchestra d’epoca – i costi lievitano e non si puo` piu` andare in sale grandi perche´ i due strumenti a tastiera sembrano zanzare. E cosı` l’unica sede praticamente possibile e` il disco, in cui si perde pero` l’impatto spettacolare della stereofonia. 13

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Carl Philipp Emanuel Bach

Dopo il 1780 nemmeno un ostinato come Bach il Temerario, se non voleva ritirarsi nella Tebaide, poteva chiudere gli occhi di fronte alla avanzata impetuosa dell’esercito dei martelletti sul terreno che era stato dei saltarelli. Le Sonate per conoscitori e amatori (sei raccolte, 1779, 1780, 1781, 1783, 1785, 1787) sono ‘‘fu¨ rs Fortepiano’’ (per pianoforte). La prima pubblicazione fu un successo editoriale, poi il consenso ando` scemando sempre di piu`. Le prime raccolte contenevano soltanto Sonate, nelle altre vennero aggiunti i Rondo` e le Fantasie, con la pratica dimostrazione del fatto che le dolcezze meridionali dei viennesi avevano fatto breccia nel vecchio uomo del Nord. In fondo, Bach aveva inghiottito il rospo. Ma era ormai tardi, e a veleggiare col vento in poppa c’era un trio formato dal suo vecchio ammiratore Haydn, che dal 1774 al 1784 pubblicava ventiquattro Sonate, da Muzio Clementi, grande estimatore di Bach figlio, che dal 1779 al 1787 faceva uscire a stampa ventiquattro Sonate pure lui, e da Jan Ladislav Dussek, che aveva conosciuto Bach ad Amburgo e che dal 1782 al 1787 pubblicava diciotto Sonate con accompagnamento ad libitum. Tutti dovevano qualcosa a Carl Philipp Emanuel, tutti lo riconoscevano, e tutti lo avevano superato nella corsa verso la modernita` del pianoforte. E cosı` Andreas Staier ha ragione di dire, a proposito della Fantasia in Do W 61,6 (1786) dell’ultima raccolta per conoscitori e amatori: ‘‘Non c’e` da stupirsi che egli proprio qui, dove aspira alla ‘popolarita`’, ricordi tanto Haydn’’. Nel repertorio concertistico del pianoforte Haydn entro` con molto ritardo, nel repertorio discografico e` ormai una potenza colossale. Bach il Temerario, al confronto, e` proprio Bach il Piccolo nel primo caso, mentre in campo discografico, con l’insieme della sua opera, una piccola potenza lo e` di-

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Sonate per conoscitori e amatori

ventato. Alcune delle sue composizioni, indipendentemente dalla loro originaria destinazione all’una o all’altra tastiera, potrebbero pero` trovare il loro humus anche sul pianoforte. Eccone un sintetico elenco: la Sonata in sol W 65,17 (1746), in tre movimenti collegati, con un primo movimento a fantasia, un Adagio e un vorticoso finale che puo` essere facilmente preso per una sonata di Scarlatti, le mirabolanti 12 Variazioni sulla Follia di Spagna in re W 118,9 (1778), la Sonata in mi W 59,1 (1783), anch’essa in tre movimenti collegati, la Sonata in La W 55,4 (1765), con il secondo movimento in fa diesis, la Sonata in Sol W 55,6 (1765), singolarissimo miscuglio di rigore formale e di improvvisazione, la Sonata in fa W 57,6 (1780), a cui Nikolaus Forkel attribuiva una connotazione psicologica, con primo movimento ‘‘l’indignazione’’, secondo movimento ‘‘la riflessione’’, e finale ‘‘la consolazione’’. Tutti questi pezzi, e altri ancora, potrebbero entrare nel repertorio concertistico del pianoforte e far conoscere un autore che meriterebbe di non rimaner confinato nella discografia. Ma c’e` da risolvere un problema. I clavicembalisti e i clavicordisti che eseguono Carl Philipp Emanuel, comportandosi da filologi, ne arricchiscono i testi con aggiunte estemporanee, non solo di ornamentazioni ma anche di parti reali. L’esecuzione del testo nudo e crudo, a parte i problemi di tocco specifico che i pianisti sono in grado di risolvere, non darebbe invece l’idea di cio` che e` l’arte di Bach figlio, nella quale l’improvvisazione e` elemento costitutivo. E allora, o si riesce a improvvisare come fanno gli specialisti, o bisognerebbe tornare alla pratica antica della trascrizione. Con il che si perderebbe di sicuro qualcosa in spontaneita` e in freschezza, ma per lo meno si renderebbe in parte giustizia a Bach il Temerario.

Sonate per conoscitori e amatori

Johann Christian Bach

A Johann Christian Bach (Lipsia, 5 settembre 1735-Londra, 1º gennaio 1782) L’ultimo figlio maschio di Johann Sebastian Bach e della sua seconda moglie Anna Magdalena si stabilı` nel 1762 a Londra, dove fondo` nel 1764 i Bach-Abel Concerts. Nella stagione 1768 egli tenne la prima esecuzione pianistica pubblica di cui si ha notizia. Maestro di musica della regina Sofia Carlotta, Bach, pur continuando la carriera di operista che aveva iniziato in Italia, fu un personaggio di spicco nell’ambito della musica strumentale, e per il giovanissimo Mozart, capitato a Londra nel 1764, fu un affezionato amico e un modello stilistico. Bach, pianista e organizzatore di concerti, scrisse molto per se stesso: i Sei Concerti op. 1 (1763), i Sei Concerti op. 7 (1770), i Sei Concerti op. 13 (1773) sono la parte pubblicata di un corpus di ben trentasei Concerti. I sei Concerti op. 1, dedicati alla regina, sono per clavicembalo; i numeri 4 e 6 sono in tre movimenti, gli altri in due, e il sesto si conclude con una piacevole serie di variazioni sull’inno nazionale inglese God Save the King. I sei Concerti op. 7, anch’essi dedicati alla regina, sono ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’. Anche qui abbiamo quattro Concerti in due movimenti e due (i nn. 5 e 6) in tre. Particolarmente brillante il n. 5 in Mi bemolle. Anche i sei Concerti op. 13 sono ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’: quattro in due movimenti, due (i nn. 2 e 4) in tre. I Concerti n. 2 e 4 potrebbero benissimo essere scambiati per lavori giovanili di Mozart, ed entrambi comprendono un movimento basato su un canto popolare scozzese.

Le Sei Sonate per clavicembalo o pianoforte op. 5 (1766) erano conosciute gia` prima della pubblicazione da Mozart, il quale nel 1765 ne trascrisse tre (i nn. 2, 3 e 4) per clavicembalo e archi, con il titolo, in italiano: ‘‘Tre Sonate del Sgr: Giovanni Bach ridotte in Concerti dal Sgr: Amadeo Wolfgango Mozart’’. Troviamo nell’op. 5 Sonate in due e Sonate in tre movimenti, disposte in ordine progressivo di difficolta`. Le prime cinque sono tipici esempi dello stile galante del rococo`, a volta a volta melodiose o brillanti, con forti influenze dell’opera italiana di cui il Bach Londinese era un riconosciuto campione. L’ultima Sonata, in do, e` invece di stile severo, con i primi due movimenti che sono in pratica un preludio e fuga di tipo italiano barocco, e con un finale a modo di gavotta. Qui si affaccia gia` il gusto storicistico che avra` tanta parte nella cultura inglese degli ultimi decenni del secolo. Ritroviamo le stesse caratteristiche rococo` nelle Sei Sonate per clavicembalo o pianoforte op. 17 (1779), che pero` sono di dimensioni piu` ampie e piu` difficili tecnicamente, e che non mirano a finalita` didattiche ma solo di svago. Le Sonate n. 3 e n. 4 sono le piu` ‘‘mozartiane’’: potrebbero pero` appartenere non al Mozart esordiente ma al Mozart degli anni settanta, e sarebbe giusto che apparissero di tanto in tanto nei programmi concertistici. Oltre alle dodici pubblicate, Bach compose altre dodici Sonate. Di minore interesse sono le dodici Sonate per clavicembalo a quattro mani e la Sonata per due clavicembali.

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Johann Sebastian Bach

Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach

Johann Sebastian Bach (Eisenach, 21 marzo 1685-Lipsia, 28 luglio 1750) Quando il clavicembalo, dopo una guerra lunga quarant’anni, alzo` vinto le mani e si ritiro` a vita privata lasciando libero il campo al pianoforte, Johann Sebastian Bach fu l’unico clavicembalista che con armi e bagagli passo` al nemico e che dal nemico fu accolto a braccia aperte. Il pianoforte acquisı` qualcosa anche da altri grandi clavicembalisti, soprattutto da Domenico Scarlatti. Bach se lo prese pero` in toto. E per una precisa ragione. Bach aveva conosciuto un pianoforte bambino e balbettante e aveva dimostrato di poterne tranquillamente fare a meno. Il pianoforte adulto e vittorioso non poteva invece fare a meno di Bach perche´ Bach, oltre a essere il creatore che tutti sanno, era stato anche il piu` grande didatta che si fosse dedicato all’insegnamento degli strumenti a tastiera. L’occasione di mettersi metodicamente al lavoro in questo specialissimo campo gli era stata offerta della sua numerosa figliolanza. Nel 1720 Bach comincio` a istruire il suo primogenito decenne Wilhelm Friedemann, e per istruirlo scrisse il Clavierbu¨chlein fu¨r Wil-

helm Friedemann Bach (Quadernetto per tastiera – cioe` per clavicembalo o per clavicordo – per Wilhelm Friedemann Bach), che conteneva saggiamente sia pezzi ‘‘formativi’’ che pezzi ‘‘ricreativi’’. Poi Bach scrisse, nel 1722, il Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach, destinato alla giovane seconda moglie. Dal primo e dal secondo Quadernetto estrapolo` quindi alcune composizioni ‘‘formative’’ e alcune composizioni ‘‘ricreative’’ e da esse partı` per le due prime raccolte organiche, le 15 Invenzioni e le 6 Suite francesi. Poi... continuo` di buona lena, tenendo sempre sdoppiata la sua didattica in un filone ‘‘formativo’’ che educava soprattutto il professionista e in un filone ‘‘ricreativo’’ che educava soprattutto il dilettante. E percorrendo per l’uno e per l’altro tutti i gradi, dal piu` elementare al piu` elevato, mise insieme in circa trent’anni un monumento tanto impressionante di mole quanto di contenuti. Posso visualizzare in uno schema riassuntivo di due colonne la progressione del maestosissimo edificio didattico bachiano:

Quadernetto per Wilhelm Friedemann Bach 15 Invenzioni 15 Sinfonie 24 Preludi e fughe (Clavicembalo ben temperato I) 24 Preludi e fughe (Clavicembalo ben temperato II) Arte della fuga

Quadernetto per Anna Magdalena Bach 6 Suite francesi 6 Suite inglesi 6 Partite (Esercizio per tastiera I) Concerto italiano e Ouverture francese (Esercizio per tastiera II) Variazioni di Goldberg (Esercizio per tastiera IV).

Tutti questi lavori, cominciando nel 1800 con le Opere Complete che complete non erano affatto, e finendo nel 1850 con le Variazioni di Goldberg che davano il via alla titanica impresa – quella sı`, completa – della Societa` Bach (Bach Gesellschaft), tutti questi lavori, dicevo, vennero pubblicati in edizioni affidate a curatori che, chi piu` e chi meno, ci mettevano dentro del loro, aggiungendo tutti quei segni – di tempo, di dinamica, di espressione, e infine di realizzazione degli abbellimenti – che o erano stati irrealizzabili sul clavicembalo o erano stati ritenuti superflui da Bach. Cominciava cosı` la ‘‘modernizzazione’’ del testo da parte di musicisti che in tutta onesta` vedevano la storia teleologicamente ordinata, la storia come progresso, e che quindi aggiornavano l’antico cosı` come si ag-

giornano, aggiungendo termosifone acqua corrente telefono e che piu` ne ha piu` ne metta, le abitazioni medievali architettonicamente bellissime ma prive dei piu` recenti comfort. E con la nascita del concertismo moderno, che dava il primo vagito con Liszt intorno al 1840, le opere di Bach cominciavano anche a insinuarsi un poco alla volta nel repertorio dei virtuosi che servivano nutrimento musicale a chi il pianoforte non sapeva maneggiarlo ne´ poco ne´ molto. Ma il pianoforte aveva, o no, solidi titoli per impadronirsi delle opere clavicembalistiche di Bach, fatto salvo il barbarico diritto di conquista? Questa domanda nessuno – i barbari! – se la pose seriamente fino all’alba del Novecento. Il problema dello strumento rappresenta un argomento parti-

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Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach

colare di un problema generale, il problema dell’interpretazione. Ora, come tutti sanno, l’argomento strumento, cioe`, almeno in senso lato, l’argomento timbro, emerge con prepotenza nel periodo novecentesco della storia dell’interpretazione e diventa per l’interprete persino ossessivo, per non dire angosciante, perche´ ossessivo e angosciante e` diventato per il compositore. Le Memorie di Berlioz ci fanno sapere che quando un compositore come lui, geniale e innovatore nel trattare l’orchestra, andava in giro a fare il direttore e scopriva che in una certa citta`, ad esempio, era impossibile disporre di un’arpa, si adattava benissimo a sostituire l’arpa con il pianoforte, e se gli mancava il corno inglese – il corno inglese!, si pensi a che cos’e` il corno inglese nella Scena nei campi della Sinfonia fantastica – non trovava sconcio sostituirlo con un clarinetto. Se un compositore della seconda meta` del Novecento si fosse visto proporre di sostituire con il clarinetto non dico nemmeno il corno inglese dal timbro cosı` pungente, ma il piu` blando flauto in sol, avrebbe sicuramente dato in escandescenze e avrebbe accusato il proponente di bieco dilettantismo. Se si elimina l’alterita` fra pensiero e materia e` evidente che non si puo` neppur piu` eseguire una delle prime sonate di Beethoven, operante a Vienna, su un fortepiano inglese Broadwood del 1800, o una delle ultime su un francese Pleyel del 1825. Ma questo non era l’orizzonte di Beethoven. Ne´, mutatis mutandis, di Mozart. Ne´ di Bach. Nel 1726 Bach pubblico` a sue spese la Partita n. 1. Non si sa come, ma una copia della composizione arrivo` nelle mani del Padre Martini, a Bologna. E il Padre Martini – non mi si accusi perche´ prospetto una realta` virtuale, non suffragata da documenti certi e sanzionati – mise la Partita n. 1 di uno sconosciuto Johann Sebastian Bach sul leggio del clavicembalo che aveva nel suo studio. Non si chiese se lo strumento dovesse essere un clavicembalo o un clavicordo, ne´, tanto meno, se un clavicembalo di costruzione italiana fosse legittimato a sonorizzare la musica di un tizio abitante in Sassonia che usava evidentemente il clavicembalo di costruzione tedesca. E se dalla vicina Firenze, in cui ormai da venticinque anni Bartolomeo Cristofori costruiva fortepiani, se da Firenze gli avessero mandato in dono un fortepiano, il buon Padre Martini non avrebbe ritenuto offensivo suonarsi la Partita n. 1 sul fortepiano. Nessuna preoccupazione per la scelta dello strumento, dunque, purche´ fosse a tastiera. Probabilmente, invece, il Padre Martini avrebbe avuto dei dubbi sulla realizzazione degli abbellimenti: qualche segno usato da Bach non era noto in Italia, qualche altro segno

Johann Sebastian Bach

veniva realizzato in modi diversi in Italia e in Germania. All’opposto, Bach poteva avere avuto dei dubbi sugli abbellimenti quando gli era toccato di preparare per il suo datore di lavoro l’esecuzione di un concerto di Vivaldi. Non sappiamo come ne uscisse. Sappiamo pero` che quando trascriveva per clavicembalo solo i concerti di Vivaldi o di altri compositori italiani egli riduceva la musica alla sua misura di tedesco tutto d’un pezzo che non aveva fatto viaggi di istruzione in Italia, e aggiungeva fioriture e ornamentazioni di suo conio, indipendentemente da come in simili frangenti si sarebbe comportato per ipotesi un allievo di Vivaldi. Per quanto riguardava l’espressione, Bach avrebbe dovuto badarci, se i concerti di Vivaldi fossero stati eseguiti dal complesso orchestrale, quello della corte di Weimar di cui era direttore. E ci avrebbe badato durante le prove o, piu` probabilmente, durante l’unica prova che avrebbe avuto il tempo di fare. Per la trascrizione per clavicembalo bastava invece qualche segno di dinamica ripreso dall’originale, e niente piu`, perche´ a esorcizzare le manchevolezze dello scritto avrebbe provveduto l’immaginazione dell’esecutore. Quest’ultimo e` un punto da tener sempre presente, ed e` un punto che ci costringe, se non vogliamo fare ragionamenti vacui, a compiere lo sforzo erculeo di immedesimarci in un mondo pressoche´ scomparso. Quando componeva le Passioni e le Cantate, o le grandi Toccate per organo, Bach destinava l’opera del suo ingegno ad ascoltatori riuniti in grandi ambienti, come le chiese. Quando componeva i Concerti pensava ad ascoltatori riuniti in ambienti piu` piccoli, come i saloni del granduca di Weimar o del margravio del Brandeburgo o come le sale o il giardino del Caffe` Zimmermann di Lipsia. Quando componeva musica per clavicembalo pensava a lettori-esecutori, a lettori che, come il Padre Martini di cui dicevo prima o come i moltissimi professionisti e dilettanti sparsi per tutto il globo, posavano la musica sul leggio e se la suonavano. Se quei valentuomini pensavano che nel tal punto ci sarebbe stato tanto bene un bel crescendo, impossibile per il clavicembalo, e nel talaltro una ‘‘messa di voce’’ che le corde pizzicate dal saltarello si sarebbero rifiutate categoricamente di realizzare, ebbene, il crescendo e la messa di voce potevano ben vivere nella testa e gonfiarsi del respiro del suonatore, o anche nel melodioso mugolio della sua gola, perche´ la musica con mugolio non fu inventata da Glenn Gould: esisteva ben prima di lui. Questo modo di far musica e` pressoche´ scomparso, come dicevo. E` scomparso, tanto che solo pochi professionisti altamente specializzati mettono oggi sul leggio e suonano per il gusto di conoscer17

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Johann Sebastian Bach

lo un nuovo pezzo di Sofia Gubaidulina o di Adams. Ma in realta` non e` affatto scomparso dal mondo della musica ‘‘commerciale’’. Esistono, esistono ancora i dilettanti che suonano con la tastiera computerizzata le nuove canzoni di Sanremo immaginando voci fascinose che la mia incompetenza nella materia specifica mi impedisce di citare. Forse e` strano, forse e` paradossale. Ma e` cosı`. Se usciamo fuori del guscio del ‘‘colto’’ troviamo un mondo contemporaneo in cui la fruizione della musica non e` sostanzialmente cambiata dai tempi di Bach. E` sufficiente che, invece di fare gli ercoli per reimmergerci in un lontanissimo passato, usciamo dal guscio. A meno che anche questa sia per noi, come l’altra e forse ancor piu` dell’altra, un’impresa erculea. Cinquant’anni dopo la morte di Bach il glorioso barocco era diventato l’‘‘antico’’, e il ‘‘moderno’’ era rigogliosamente rappresentato dal ‘‘classico’’. A parte cio`, poco o nulla era cambiato nella fruizione della musica: Beethoven non aveva ancora inventato il ‘‘colto’’ (lo avrebbe inventato di lı` a poco) e, di conseguenza, non era ancora stato inventato il ‘‘commerciale’’, di modo che tutto era nello stesso tempo e colto e commerciale. Il poco che era cambiato sarebbe pero` diventato, col tempo, di enorme, di rivoluzionaria importanza. Ma non subito: col tempo. Al granduca di Weimar che Bach serviva con diligenza e onore premeva molto di avere presto contezza di cio` che con Vivaldi e Albinoni e Marcello stava bollendo in pentola a Venezia, ma non gli importava un fico secco di ascoltare le musiche che, ben prima di Vivaldi e soci, erano state putacaso composte da Carlo Farina e da Biagio Marini. L’‘‘antico’’ era ancora la preda ambita degli eruditi, mentre gli uomini di garbo si pascevano del ‘‘modernoı`’. All’inizio dell’Ottocento l’‘‘antico’’ si stava invece trasformando da erudizione in cultura, e fra gli antichi che risorgevano come nel Giorno del Giudizio campeggiava nel campo della tastiera Johann Sebastian Bach. Nasceva a nuova vita la musica per tastiera di Bach, ma due dei tre strumenti a tastiera dei quali egli si era servito, il clavicembalo e il clavicordo, avevano come ho detto prima alzato le mani in segno di resa incondizionata. Nei primi anni dell’Ottocento apparivano per la prima volta a stampa il Clavicembalo ben temperato e la Fantasia cromatica e fuga. Chi li aveva pubblicati veniva ripagato dal successo delle vendite, e chi li aveva acquistati li metteva sul leggio del pianoforte e se li suonava senza pensare se nel trasferimento dal clavicembalo al pianoforte andasse perduto qualcosa, ma rallegrandosi anzi per il fatto che, se non la messa di voce, il tintinnante pianoforte poteva fare quel bel 18

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crescendo, impraticabile sullo sferragliante clavicembalo. E non solo il crescendo ma il diminuendo, e non solo il piano ma il pianissimo, e non solo il forte ma il fortissimo, e il mezza voce e tutto il vasto campionario dei ‘‘segni d’espressione’’ che troviamo catalogati gia` nei primi metodi per pianoforte, quelli di Dussek, di Clementi, di Adam. Cio` che muoveva gli interessi culturali dei fruitori di musica del primo Ottocento nei confronti del risorgente antico non era il restauro, era la ridipintura. Pensiamo a cio` che accadde in un altro campo agli affreschi di Giotto nella Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze. Non erano stati mai dimenticati perche´, al contrario degli scartafacci di musica, ne´ potevano finire nella polvere degli archivi, ne´ potevano servire ad accendere il fuoco, ma nel Settecento erano cosı` deteriorati che i fabbricieri pensarono bene di farli coprire con una mano di intonaco bianco. Nell’Ottocento, dopo la scoperta dei ‘‘primitivi’’, altri fabbricieri fecero rimuovere lo strato di bianco e fecero ridipingere le parti scolorite. Ai fabbricieri del Novecento spetto` di far rimuovere la ridipintura ottocentesca e di lasciare all’ammirazione del pubblico solo cio` che di autenticamente giottiano era rimasto in vita. E cosı` come con Giotto la cultura si comporto` con le statue antiche alle quali aggiunse il braccio o il naso o il dito che dal dente edace del tempo e dall’incuria degli uomini erano stati divorati, salvo a rimuovere l’appiccicato quando il vento della cultura comincio` a soffiare in una diversa direzione. Come ho prima accennato, i curatori delle opere per tastiera di Bach – dai primi come Christian Gottlieb Neefe (il maestro di Beethoven) e Friedrich Gottlieb Schwencke e Friedrich Griepenkerl e August Kollmann fino a Czerny e su su fino a Busoni e Barto´k – sparsero sul testo originale i segni d’espressione che ritenevano adatti a rinfrescare e modernizzare quel tanto di rigido che vedevano in un ‘‘antico’’ che per forza di cose aveva ignorato le conquiste del rococo` e dello stile Empfindsam e dello Sturm und Drang, e non mancarono di spargere a piene mani la grande conquista di colui che aveva fondato la piu` importante scuola pianistica, Muzio Clementi: la grande conquista si chiamava legato, il legato con cui non solo Clementi ma anche Beethoven aveva stupito i contemporanei. A che serviva pero`, questo ‘‘antico’’ rimesso all’onor del mondo? Carl Philipp Emanuel Bach aveva pubblicato le sue ultime raccolte di sonate e pezzi dichiarando nel frontespizio di averle pensate fu¨r Kenner und Liebhaber, per conoscitori e amatori. Nella incipiente moda dell’antico entrava pero` in gioco un sottile tranello psicologico: fra i conoscitori e gli amatori si insinuava la

Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach

figura dell’amatore-conoscitore, di colui che, essendo amatore, non si accontentava soltanto piu` dei prodotti di mercato, cioe` dei Dussek e degli Steibelt e dei Gelinek, ma attingeva alla esoterica sapienza di Bach, sia pure, l’esoterica sapienza, ridotta alla portata di coloro ai quali si poteva dire, come si dice oggi, ‘‘perche´ voi valete’’. I conoscitori all’antica, quelli autentici, erano divisi in due categorie: gli amanti della teoria, che divoravano con gli occhi sı` il Clavicembalo ben temperato ma anche i quattro volumi della Practical Harmony in cui Clementi aveva riunito fughe, oltre che del sommo Bach, di Eberlin, Marpurg, Ha¨ndel, Martini, Telemann e tanti altri, e gli amanti della pratica, che divoravano Bach con le orecchie. Ora, questi ultimi si accorsero ben presto del fatto che, provato alla tastiera, l’‘‘antico’’ diventava l’‘‘utile’’: le fughe di Bach, eseguite con l’obbligo tassativo di mettere in rilievo il soggetto ogni volta che appariva, non solo al soprano ma anche nelle parti intermedie e nel basso, diventavano un formidabile strumento di addestramento per le alchimie del tocco pianistico, cosa che Bach manco avrebbe potuto immaginare. Il Clavicembalo ben temperato, con l’appendice delle Invenzioni e delle Sinfonie e del resto che ho prima indicato, entra nella didattica pianistica nel primo trentennio dell’Ottocento, e vi entra per non uscirne piu`. Non vi uscira` nemmeno quando una cultura sinceramente quanto illusoriamente convinta di agire per il meglio tentera` senza riuscirci del tutto di espellerlo dalla pratica del concertismo pianistico. Ci fu dunque un Bach ‘‘utile’’ che divenne addirittura una categoria della didattica pianistica (esercizi, studi, Bach, pezzi). La Fantasia cromatica e fuga, da subito ammiratissima, aprı` invece la strada al Bach ‘‘musicista dell’avvenire’’. Musicista dell’avvenire del XVIII secolo, ovviamente, come dire un Wagner con la parrucca. E non solo: anche un Thalberg con la parrucca, essendo Thalberg l’inventore di un uso dell’arpeggio ‘‘avvolgente’’ che aveva fatto furore alla meta` degli anni trenta. A Thalberg fece riferimento Mendelssohn a proposito delle parti della Fantasia cromatica nelle quali Bach indica l’esecuzione in arpeggi: ‘‘Io mi prendo la liberta` di suonarli con ogni possibile crescendo e piano e fortissimo, con pedale, naturalmente, e inoltre raddoppiando il basso. Accentuo per di piu` le piccole note di passaggio all’inizio degli arpeggi, e cosı` pure le note-melodia, quando occorre, e cosı` ogni successiva armonia risulta splendidamente sul nuovo pianoforte a coda. Tutti asseriscono che cio` e` bello come Thalberg, o anche piu` bello’’ (Mendelssohn alla sorella Fanny, 14 novembre 1840). Mendelssohn dice di prendersi delle li-

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berta`. Il che presuppone che il soggetto delle liberta` prese... ci stia, cosa che piu` di centosettant’anni di storia della cultura hanno confermato. E liberta` ancora maggiori di quelle mendelssohniane si prese Hans von Bu¨low, che valutava il dittico cromatico come ‘‘singolarmente interessante, e per cosı` dire l’entrata del Romanticismo nella letteratura del pianoforte’’. A Bu¨low spetta anche la formula del Bach ‘‘musicista dell’avvenire’’: ‘‘Ricordare l’organo non e` agire piu` nel senso di Bach che ricordare la spinetta e il clavicembalo? Le magnifiche trascrizioni delle fughe per organo di Bach, fatte da Liszt, sono lo studio istruttivo, il piu` proprio a far comprendere il genio del piu` grande dei musicisti dell’avvenire, la cui l’azione non e` cominciata che un secolo circa dopo la sua morte’’. Il legittimo possessore del titolo di Zukunftkomponist, Wagner, a proposito del Preludio e fuga in do diesis del primo libro del Clavicembalo ben temperato escogitava invece la formula del ‘‘fosco gotico tedescoı` ’, introducendo Bach nella esperienza culturale del neogotico. Nel momento in cui veramente si forma il repertorio concertistico del pianoforte, e cioe` a partire da circa il 1855, l’unica composizione originale di Bach che trionfa presso il pubblico, oltre alla Fantasia cromatica e fuga, e` il Concerto italiano, spesso adattato con qualche aggiunta d’ottave, giustificata dal fatto che l’autore aveva previsto il clavicembalo con due tastiere. Il repertorio concertistico assorbe invece entusiasticamente le trascrizioni dall’organo e qualche trascrizione dal violino, trattata il piu` delle volte – si veda la Ciaccona nella versione di Busoni, ma anche nella versione per la mano sinistra sola di Ge´za Zichy – come se l’originale fosse stato organistico. Non mancano le esecuzioni pionieristiche, per un pubblico selezionato, dell’intero Clavicembalo ben temperato e, verso la fine del secolo, le esecuzioni delle Variazioni di Goldberg sul clavicembalo con due tastiere e della Fantasia cromatica e fuga sul clavicordo. All’inizio del Novecento Blanche Selva presenta sul pianoforte l’intero corpus delle musiche bachiane per clavicembalo (e per clavicordo, ma la distinzione fra i due strumenti e` sempre incerta). Si tratta tuttavia, appunto, di illuminato pionierismo che scuote una piccola frazione soltanto del pubblico. Questa situazione di sostanziale acquisizione di Bach al pianoforte, gia` certificata nel 1880 dal grande biografo Philipp Spita secondo il quale il pianoforte moderno e` lo strumento ‘‘sognato’’ e non posseduto da Bach, viene messa in forse quando nel 1912, a Breslavia durante un convegno, Wanda Landowska arriva con il suo clavicembalo a ‘‘sfidare’’ il pianoforte: la Landowska 19

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" esegue il Concerto italiano sul clavicembalo, Erno Dohna´ nyi lo esegue sul pianoforte. Il pubblico, chiamato a scegliere, vota per il pianoforte, ma la Landowska non si spaventa affatto, e non appena passata la bufera della guerra comincia il suo fervido e cocciuto apostolato per lo strumento a becco di penna. L’azione svolta dalla Landowska, in realta`, era gattopardesca. Il clavicembalo di cui si serviva, infatti, non era storicamente mai esistito: era un clavicembalo moderno da concerto, non solo con due tastiere, ma con telaio metallico, con corde grosse e tese, con registri comandati a pedale invece che a mano e in numero maggiore rispetto al Settecento. Lo strumento era a pizzico sı`, non a precussione come il pianoforte, ma le sue possibilita` dinamiche e coloristiche erano inaudite e l’estetica della Landowska restava quella tardoromantica: non c’e` in Bach un ‘‘fosco gotico tedesco’’ piu` fosco, piu` gotico e piu` tedesco di quello che si trova nella Fantasia cromatica e fuga eseguita dalla Landowska. La vera novita` del dopoguerra arriva in realta` dal pianista Walter Gieseking, che non esegue le trascrizioni e che fa scoprire al grande pubblico il Bach ‘‘galante’’ delle Suite e delle Partite. Gieseking, che e` un grande interprete dei simbolisti, ‘‘dipinge’’ pero` Bach – sempre di ridipintura si tratta, ovviamente – con le tinte delle composizioni neoclavicembalistiche di Debussy e di Ravel, e la sua estetica e` , come si suol dire, neoclassica. Un altro famoso interprete bachiano di quegli anni, Edwin Fischer, e` neoclassico ma con forti venature romantiche (non tardoromantiche): detto in altre parole, il suo neoclassicismo non ha a che spartire con Stravinskij ma si richiama idealmente al clima della Lipsia mendelssohniano-schumanniana. Intanto alcuni clavicembalisti come Gu¨nther Ramin e Ralph Kirkpatrick cominciavano a rodere l’idolo-Landowska, e quando arrivo` il dopoguerra il clavicembalone landowskiano era ormai spacciato, per lo meno nella musica barocca. Nel clima filologico e storicistico che esplode nel 1950, bicentenario della morte di Bach, e` pero` quasi spacciato anche il pianoforte, perche´ il barbarico diritto di conquista non viene piu` riconosciuto come ragione sufficiente. Per essere pignoli si deve pero` dire che il pianoforte e` spacciato in Occidente, mentre l’Unione Sovietica, riparata dietro la Cortina di Ferro, ignora ce qu’a vu le vent d’Ouest. Fatte salve, tra i maggiori interpreti, le eccezioni rappresentate da Glenn Gould e in minor misura da Friedrich Gulda, cio` che resta di Bach nel repertorio concertistico corrente degli anni cinquanta e sessanta sono i relitti di un passato che qualche sommo pianista non se

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Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach

la sente di seppellire. I giovani lasciano Bach in disparte. La didattica pianistica non si smuove d’un dito: rinnegare Bach sarebbe un autoevirarsi. Ma non rinnegando Bach rinnega le edizioni rivedute e mette sull’altare l’Urtext, il testo originale. La grande illusione e` che un Urtext bachiano abbia lo stesso valore prescrittivo di un Urtext di Messiaen. E` un po’ quel che era capitato a Winckelmann quando aveva creduto che il purissimo marmo pario della statuaria greca non fosse stato coperto illo tempore con strati di colore. Senza quella illusione non avremmo forse avuto la statuaria di Canova e di Thorwaldsen. Ma la verita` storica non era quella proclamata da Winckelmann, e la verita` storica di Bach non si nascondeva in un testo privato del contesto. Il contesto lo ricostruı` nella seconda meta` del secolo – ipoteticamente, ma con basi di appoggio scientificamente accertate – la ricerca filologica dei clavicembalisti, non la didattica del pianoforte. Didattica e Unione Sovietica a parte, nel 1950 nessuno professava piu` la fede di Philipp Spitta: il pianoforte, invece che lo strumento sognato da Bach, per il Cantor era diventato semplicemente un intruso al quale si potevano riconoscere meriti storici nella diffusione del barocco ma che era bene convincere ad andarsene per i fatti suoi. A Cesare quel che e` di Cesare... con quel che segue. C’era pero` una grave difficolta` che venne subito a galla. Ascoltare in una grande sala da concerto il Clavicembalo ben temperato eseguito su uno strumento autentico, con una sola tastiera e con due soli registri comandati a mano, era un’impresa disperante: la quantita` di suono disponibile faceva sı` che piu` o meno dalla decima fila in poi la musica di Bach arrivasse all’orecchio dell’ascoltatore da una distanza siderale. Chi sapeva leggere la musica si portava da casa il testo nella dimensione ridottissima delle Lea Pocket Scores e una lampadinetta tascabile, e integrava l’audizione con la lettura, mentre chi non sapeva leggere si sforzava di agitare i padiglioni delle orecchie per cogliere un sussurro senza grida. Situazione intollerabile, in realta`, che aveva come necessaria conseguenza l’emarginazione del Bach clavicembalistico dalle sale da concerto. Nel 1976 Alfred Brendel che, superato il traguardo del trentesimo anno, si stava segnalando come una delle piu` forti personalita` di interprete, cominciava a includere Bach nel suo repertorio. Dopo il 1975 Andra´s Schiff, vincitore nel 1974 del quarto premio nel Concorso Cˇajkovskij di Mosca tutto orientato sul virtuosismo romantico, saltava il fosso e iniziava a costruire con Bach una importante carriera internazionale. Claudio Arrau, che prima della guerra aveva ese-

L’Arte della Fuga

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guito l’intero corpus delle musiche di Bach, espongeva Bach dal suo repertorio ma lo ripescava in extremis trent’anni dopo, poco prima di morire. Schiff non era stato un laudator temporis acti, Schiff aveva anticipato il futuro, e il futuro e` quello che stiamo vivendo noi: Bach al pianoforte ha riconquistato in pieno il diritto di cittadinanza nella cultura del Duemila. Oggi abbiamo

superato del tutto la crisi e di una cosa siamo certi: fino a che esistera` il recital pianistico, Bach non ne sara` bandito. E percio` io riconoscero` al clavicembalista Bach, in una guida alla letteratura del pianoforte, un ruolo pari a quello di Mozart o di Beethoven, tanto per citare due sommi pianisti che succedono cronologicamente al vecchio Bach.

L’Arte della Fuga Die Kunst der Fuge (L’Arte della fuga, ca. 17421749, 1751), che e` un ciclo di composizioni in contrappunto severo su un solo soggetto, fu pubblicata nell’anno che seguiva quello della morte di Bach. Probabili curatori della pubblicazione furono il figlio di Bach Carl Philipp Emanuel e l’allievo Johann Friedrich Agricola, autori del necrologio scritto nel 1750 che, per ragioni non note, venne pubblicato soltanto nel 1754. Nel necrologio vien detto che l’Arte della fuga e` l’ultima composizione di Bach. Composizione incompiuta, perche´ interrotta e` l’ultima Fuga a quattro soggetti, tanto che i curatori decisero di completare la pubblicazione aggiugendo alla fine un corale, del tutto autonomo rispetto al resto. Composizione, oltre che ultima e incompiuta, almeno apparentemente teorica, perche´, sebbene scritta nelle quattro chiavi di soprano, contralto, tenore e basso, non aveva parole e non era eseguibile vocalmente. Ultima, incompiuta, teorica: su queste basi fiorı` il mito. Ma centosettant’anni anni dopo la prima pubblicazione le certezze sulle quali il mito si era sviluppato cominciarono a vacillare. Vacillo` per primo il mito dell’opera teorica, riservata alla lettura privata dei dotti. Un giovane musicologo svizzero, Wolfgang Graeser, che aveva studiato anche matematica, fisica e scienze orientali, pubblico` nel 1924, a diciotto anni, un saggio in cui sosteneva che l’Arte della fuga era stata pensata per l’esecuzione, e nel 1927 trascrisse il lavoro per grande orchestra sinfonica, addirittura mahleriana, e riuscı` a farlo eseguire in questa veste nella Chiesa di S. Tommaso in cui Bach era stato Cantor e a farlo pubblicare nello stesso anno dalla Neue Bach Gesellschaft, Nuova Societa` Bach. Fu un grandioso trionfo, un trionfo che... cambiava le carte in tavola, ma di cui il povero Graeser non pote´ godere perche´ morı`, suicida, a ventidue anni. Sia la versione Graeser che altre versioni per orchestra approntate sullo slancio della prima furono eseguite molte e molte volte fino alla meta` del secolo, facendo radicare la convinzione che l’Arte della fuga fosse per lo meno in nuce un pezzo sinfonico a cui Bach non aveva dato la veste sinfonica. Anche questo nuovo mito cadde pero` quando, alla

meta` del secolo, Gustav Leonhardt sostenne con ottime ragioni che l’Arte della fuga era sı` un lavoro da eseguire, ma che era stata pensata per clavicembalo. Opera didattica dunque, anzi, culmine della didattica bachiana perche´ il tastierista del Settecento doveva essere in grado di realizzare sul suo strumento le composizioni per coro (ancora oggi una delle prove pratiche, negli esami di lettura della partitura, consiste nell’esecuzione al pianoforte di un mottetto o di un madrigale nelle quattro chiavi). La realizzazione per pianoforte dell’Arte della fuga, su due portate in chiave di violino e di basso, che era stata pubblicata da Carl Czerny nel 1837 e su cui si era basata per tutto l’Ottocento la conoscenza dell’opera, aveva quindi reso piu` facile il compito dell’esecutore ma non era andata contro le intenzioni di Bach. Cominciarono allora le esecuzioni al clavicembalo e al pianoforte, e anche – tastiera per tastiera – per due clavicembali o per grande organo o per tre piccoli organi. La datazione dell’Arte della fuga come ultima fatica di Bach, e incompiuta, fu messa in forse piu` di recente. Nel manoscritto autografo, conservato nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino, si trovano quattordici pezzi (dodici fughe e due canoni) scritti in bella copia, e altri pezzi in grafia piu` sbrigativa. Il tutto non corrisponde esattamente, ne´ come contenuto ne´ come ordine, alla versione pubblicata nel 1751. Tralasciando qui completamente l’analisi complicatissima che e` stata condotta da vari studiosi, e in particolare da Christoph Wolff, salto immediatamente alle conclusioni. Una prima versione dell’Arte della fuga era stata completata verso il 1742, al tempo delle cosiddette Variazioni di Goldberg, e il fatto che contenesse proprio quattordici pezzi non era affatto privo di significato. Anzi! Se si assegna alle lettere dell’alfabeto tedesco una numerazione progressiva, la somma dei numeri della parola BACH da` quattordici (b=2, a=1, c=3, h=8) e, detto per inciso, la somma di J.S. Bach da` 41, il rovescio di 14. Diversi segnali ci inducono a ritenere che Bach fosse conscio di cio`: per fare due esempi soltanto, il soggetto della prima fuga del Clavicembalo ben tem-

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Il Clavicembalo ben Temperato

perato e` di quattordici suoni, e Bach entro` nella Societa¨t der Musicalischen Wissenschaften, Societa` della Scienza Musicale fondata dal suo allievo Mizler, come quattordicesimo componente, dopo che gia` vi avevano aderito Telemann e Ha¨ndel, e quindi... aspettando che arrivasse il turno del numero-simbolo. La prima versione dell’Arte della fuga e` perfettamente organizzata nel senso di una progressiva complessita` contrappuntistica e di una sintesi storica della scienza combinatoria dei suoni: ‘‘Le mutevoli trame ritmico-melodiche’’, dice il Wolff, ‘‘contribuiscono in modo significativo alla varieta` stilistica del lavoro nel suo complesso, che ha il suo punto di partenza nella classica semplicita` che rimanda al contrappunto del sedicesimo secolo, per poi sfiorare i modelli di grande rilievo dello stile francese, e prosegue verso il piu` raffinato manierismo contemporaneo, che spicca soprattutto nella ragnatela translucida dei capricciosi canoni a due parti’. L’Arte della fuga – ancora senza titolo – era dunque completata verso il 1742 e, detto per inciso, questa e` la versione che funziona meglio quando si esegue il lavoro in sede concertistica, sia per la durata di circa sessanta minuti che per il lucidus ordo dei quattordici pezzi. Non che Bach avesse avuto in mente l’esecuzione pubblica, ovviamente. Ma il caso vuole che la versione 1742 sia perfettamente adatta alla sala da concerto. Negli anni successivi Bach lavoro` pero` all’allargamento del progetto iniziale, sia ampliando in parte cio` che aveva gia` scritto, sia aggiungendo due fughe e due canoni (piu` l’ultima Fuga incompiuta, che si ritiene non dovesse far parte organicamente dell’opera). Perche´? Si pensa che Bach, dovendo per statuto presentare ogni anno un lavoro ‘‘scientifico’’ alla Societa` per la Scienza Musicale, avesse pensato a una redazione piu` ampia dell’Arte della fuga. Aveva gia` presentato l’Offerta musicale e le Variazioni canoniche sul canto natalizio ‘‘Vom Himmel hoch’’ per organo. Dopo aver presentato l’Arte della Fuga avrebbe compiuto sessantacinque anni e, sempre come da statuto, sarebbe stato esonera-

to dall’obbligo. Verso il 1748 la nuova versione doveva esser pronta per l’incisione in vista della stampa, incisione, sembra, a cui diede l’avvio lo stesso Bach. Il manoscritto dell’ultima Fuga, che presubilmente doveva andare in un’appendice, e` databile al 1748-49: si suppone – non posso qui spiegare il perche´, ma non si tratta di fantasticheria – che ne sia esistita la versione completa o che, per lo meno, siano esistiti gli studi sulle possibilita` combinatorie dei quattro soggetti impiegati (il terzo soggetto corrisponde alle note del nome BACH nella denominazione tedesca dei suoni). Alla fine di tutto questo turbinio di studi sopravviveva solo il mito della incompiutezza, limitato pero` all’ultima Fuga. Gia` all’inizio del Novecento, supponendo che Bach avesse composto un lavoro retto da principi rigidamente matematici, erano state fatte molte ricerche per il completamento dell’ultima Fuga. Ferruccio Busoni, sfruttando i risultati ottenuti da due studiosi tedeschi emigrati negli Stati Uniti, ‘‘i gotici di Chicago’’, come li definisce lui, compose la Fantasia contrappuntistica per pianoforte nella quale e` inserito il suo completamento della Fuga. Altri completamenti sono stati realizzati da vari musicisti, ma nessuno e` riuscito a dimostrare che l’ultima Fuga fosse una sciarada della quale bisognava soltanto trovare la chiave. Ne´ tutti gli studi approfonditi che sono stati fatti per trovare la piu` logica collocazione di tutti i pezzi, che evidentemente erano stati infilati uno dietro l’altro un po’ a casaccio nella prima pubblicazione, ha avuto esito. Malgrado tutto, il mito dell’Arte della fuga risorge come la fenice dalle sue ceneri. Con l’Arte della fuga Bach aveva creato il monumento che compendiava secoli e secoli di sviluppo del contrappunto come principio organizzativo del discorso musicale e, nello stesso tempo, aveva chiuso un’epoca. Alla meta` del Settecento la creazione musicale si stava infatti riorganizzando su altre basi, e non la sublime Arte della fuga ma le modeste Sonate di Domenico Alberti, pubblicate nel 1748, sarebbero diventate il germe del rococo`.

Il Clavicembalo ben Temperato Con il Wohltemperierte Clavier, Clavicembalo ben temperato (che dovrebbe essere piu` correttamente reso con Tastiera ben temperata), Bach dava la dimostrazione di come si potessero impiegare sulla tastiera, in barba alla teoria che lo negava, le dodici tonalita` di modo maggiore e le dodici tonalita` di modo minore che erano praticabili per la voce e per gli strumenti ad arco. Si trattava di un problema che era stato dibattuto da molto tempo e di cui erano state tentate varie soluzioni. Bach lo

risolse a suo modo. Ma, al contrario di quanto si riteneva ancora in un non lontano passato, non lo risolse perche´ fosse mosso da intenti scientifici. Non per passare alla storia egli escogito` la ‘‘tastiera ben temperata’’ (il temperamento, in realta`, riguardava l’intonazione delle corde o, sull’organo, delle canne, non dei tasti). La escogito` perche´, dovendo sostenere un concorso, penso` di aggiungere ai titoli che gia` poteva esibire uno specifico titolo in piu`, allo scopo di strappare alla concorrenza la

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nomina a Cantor della Chiesa di S. Tommaso a Lipsia. Christian Wolff spiega molto bene quali fossero le pragmatiche intenzioni di Bach: Nell’estate del 1722, quando si candido` alla successione di Kuhnau, Bach doveva rendersi conto della necessita` di presentare le proprie credenziali di competente insegnante di musica. Non bastava una semplice dichiarazione di disponibilita` all’insegnamento, e sarebbe stato necessario dimostrare un’adeguata esperienza ai colloquii, complementari all’audizione, con il rettore della scuola di San Tommaso, M. Johann Heinrich Ernesti, e forse anche con altri membri appartenenti al nucleo del consiglio. Non era sicuramente necessario dimostrare le proprie capacita` musicali al di fuori dell’audizione [di due cantate], ma egli non aveva un titolo universitario, e non aveva mai frequentato corsi accademici. La sua formazione era avvenuta in scuole prestigiose presso le quali aveva ottenuto voti eccellenti e, dopo tutto, si era diplomato alla rinomata scuola di San Michele a Lu¨neburg, un istituto la cui reputazione varcava i confini regionali – anche se i suoi studi risalivano ormai a vent’anni prima. Nel frattempo, pur non avendo mai affrontato l’insegnamento scolastico, egli aveva comunque ottenuto un’esperienza considerevole nell’insegnamento privato a singoli studenti. Avendo attratto allievi privati fin da giovane e mantenuto da allora una fiorente attivita` pedagogica nel suo studio, egli sapeva di essere un insegnante appassionato e stimato. Ma come si poteva dimostrarlo ai suoi esaminatori? Passando in rassegna la sua attivita` didattica, Bach si accorse probabilmente di aver realizzato materiali pedagogici innovativi e che non avevano eguali (trad. di Andrea Silvestri, Milano, 2003). Presentando il Clavicembalo ben temperato e altre due opere didattiche Bach dimostro` quello che c’era da dimostrare e ottenne la nomina ambita. Ma qual era il problema, il problema del ‘‘temperamento’’? Cerchero` di spiegarlo nel modo piu` schematico possibile. Suono e` la sensazione della sollecitazione provocata nel nervo acustico dell’orecchio da onde di condensazione e di rarefazione dell’aria, cioe` da vibrazioni. Il suono con la frequenza di 436 vibrazioni al secondo veniva al tempo di Bach denominato La, e La venivano denominati tutti i suoni con il doppio o la meta` delle vibrazioni (la436, la872, la1744, ecc., o, all’opposto, la436, la218, la109, ecc.). La musica europea, a partire dall’antichita` greca, denomino` sei suoni fra l’uno e l’altro La, cioe` fra il primo e l’ottavo suono (da cui, come si usa dire, la ‘‘ottava’’, abbreviazione di ‘‘intervallo di ottava’’). Sette suoni, in tutto, con nome. I suoni intermedi fra i sette non ebbero e non hanno una denominazione pro-

Johann Sebastian Bach

pria ma furono considerati ‘‘alterati’’ rispetto ai sette canonici. Alterati secondo due diversi modi di calcolo: come diesis o doppio diesis se il numero delle loro vibrazioni era maggiore di quelle del suono-base, come bemolle e doppio bemolle se minore. I due suoni piu` vicini al La, sotto e sopra, sono il Sol e il Si. Con le alterazioni – per brevita` mi limito al diesis e al bemolle – noi abbiamo queste frequenze: sol 392,4 la 436,00 si 490,5

sol diesis 408,8 la bemolle 418,6

la diesis 454,2 si bemolle 470,1.

Il sol diesis non e` dunque uguale al la bemolle, il la diesis non e` uguale al si bemolle, ma per ciascuna di queste coppie di suoni la tastiera ha un solo tasto. I suoni, abbiamo detto, sono sette, e tutti e sette possono essere alterati come bemolli e come diesis, come doppi bemolli e come doppi diesis: tralasciando qui altre e piu` complicate faccende possiamo concludere che da un La a un altro La ci stanno di mezzo per lo meno venti suoni (ventuno con il primo La). Ora, la tastiera e` un sistema di leve azionate dalle dita: sette leve sono collocate in ciascuna ottava l’una accanto all’altra in orizzontale, cinque leve, di colore diverso, sono un po’ ‘‘sopraelevate’’ e separate fra di loro. In totale la tastiera, cosı` come si era configurata nel corso di moltissimi anni, al tempo di Bach aveva dodici leve per ogni ottava. Tutti i tentativi di aumentarne il numero erano miseramente falliti perche´ le leve dovevano essere di larghezza proporzionata alla larghezza media delle dita e alla loro capacita` media di divaricazione, non troppo strette per evidenti ragioni, ma nemmeno troppo larghe, affinche´ a mano aperta si potesse coprire agevolmente la distanza fra un La e il La successivo, l’ottava, altrimenti si sarebbe perduta la possibilita` di eseguire le combinazioni di tre o quattro suoni simultanei – accordi – che erano generalmente nell’uso e che coprivano una ottava. Dopo aver tentato piu` e piu` volte di adeguare la tastiera alla dura realta` dei suoni alterati si decise – direi per disperazione – di procedere nel modo opposto, inventare una teoria calcolata sulla tastiera, fidando nella capacita` dell’orecchio medio di adattarsi alla artificiosita` di un diverso sistema teorico. Si trattava dunque di ‘‘temperare’’, cioe` di togliere qualcosa a qualcuno per darlo al vicino o, detto in altri termini, di ridurre il ventuno a dodici. Per raggiungere questo scopo furono escogitati vari sistemi. Bach adotto` un suo sistema. Non sappiamo quale fosse esattamente, ma sicuramente non fu quello che denominiamo, invece che ‘‘buon temperamento’’, ‘‘temperamento equabile’’, quello 23

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dei rapporti centesimali da zero a milleduecento con cadenza di cento in cento (ad esempio, la cadenza non temperata 0-70-134-204 diventa, con il temperamento equabile, 0-100-200, e procede poi sempre di cento in cento, mentre qualsivoglia buon temperamento non e` mai cosı` regolare). Il temperamento equabile e` quello adottato oggi, ma nella pratica – lo vedremo meglio piu` avanti – patisce molte e molte eccezioni. Detto tutto questo in modo sommario (e anche rozzo, rispetto alla complessita` estrema dei problemi) resta solo da aggiungere che l’opinione oggi largamente prevalente e` che con il Clavicembalo ben temperato Bach, una volta trovato un buon temperamento, intendesse approntare una scuola di esecuzione per tutti gli strumenti a tastiera in uso nella didattica, e cioe` clavicembalo, clavicembalo con pedaliera, clavicordo, organo da camera. Il problema concernente la legittimita` dell’esecuzione del Clavicembalo ben temperato sul pianoforte moderno, che tanto appassiono` i trattatisti alla meta` del Novecento, e` oggi considerato, come ho gia` detto, del tutto obsoleto. Il Clavicembalo ben temperato comprende due serie di ventiquattro preludi e fughe ciascuno, che si suole chiamare impropriamente libro I e libro II. Il frontespizio del primo libro contiene, nel manoscritto conservato a Berlino, un titolo assai elaborato: Il Clavicembalo ben temperato o Preludi e Fughe in tutti i Toni e Semitoni, riguardanti sia la terza maggiore Do, Re, Mi, come anche la terza minore Re, Mi, Fa. A uso e profitto dei giovani musicisti desiderosi di imparare, come anche a particolare ricreazione di altri gia` versati in questo studio. Fatto e composto da Johann Sebastian Bach, al presente Maestro di cappella e Direttore della Musica da Camera nella Corte Principesca di Anhalt-Co¨then. Nell’anno 1722. Il secondo libro, ultimato nel 1742, ha un titolo piu` conciso: 24 Nuovi Preludi e Fughe. Entrambi i libri, non pubblicati da Bach, uscirono a stampa per la prima volta nel 1801 presso due editori diversi, a Bonn e a Zurigo. LIBRO I: Preludio e fuga a 4 voci in Do. – Il Preludio era gia` contenuto in forma abbreviata nel Clavierbu¨chlein che Bach aveva preparato nel 1720 per l’educazione elementare del suo figliolo piu` grande. Si tratta di un lungo srotolarsi di accordi arpeggiati, che Bach innalza a perfetta significazione estetica ma che corrisponde a un modulo comunissimo nel periodo barocco, soprattutto nella musica violinistica e liutistica, oltre che clavicembalistica. Il carattere puramente armonico del Prelu24

Il Clavicembalo ben Temperato

dio parve invece colorarsi di misteriosi significati per quei commentatori che vedevano nel Clavicembalo ben temperato non una raccolta di pezzi da studio, ordinati secondo un disegno geometrico, ma un organismo drammaturgicamente unitario, la cui architettura dovesse essere aderente a un qualche segreto piano costruttivo. Basti leggere quanto scrisse a questo proposito, nel 1938, Cecil Gray, che trovo` anche il modo di menare una botta mancina a Charles Gounod, autore di una celeberrima Ave Maria armonicamente basata sul Preludio: Non si puo` trovare miglior esemplificazione del primo Preludio al fatto che la prima parte del Clavicembalo e` un lavoro concepito come un tutto, perche´ sarebbe impossibile immaginare un pezzo piu` perfettamente appropriato a servire di introduzione a cio` che sta per venire; esso dimostra immediatamente le tendenze, disposizioni, intenzioni e connessioni strutturali dell’intera opera. E` come un’entrata, un portale, una volta che conduce nel tempio, e a cio` si adatta simbolicamente il fatto che un Charles Gounod vi abbia scribacchiato sopra una volgare melodia, proprio come il turista ignorante scribacchia il suo nome sulla facciata di un monumento o di un edificio storico. Le affermazioni di Cecil Gray sono basate su un fatto solo (dal Gray taciuto), che certamente e` interessante ma non tale da giustificare il volo oratorio: il Preludio, nella sua forma primitiva, non toccava tutte le note della scala cromatica (mancavano il mi bemolle e il la bemolle); nella forma definitiva le tocca tutte, e questo particolare puo` essere messo in connessione con l’intento didascalico di Bach. Anche la Fuga, che presenta ventitre apparizioni consecutive del soggetto (cosa non comune, nella fuga accademica) diede origine a fantastici commenti. Il Brandts Buys credette di trovare una ventiquattresima apparizione e concluse trionfalmente che la prima Fuga, cosı` eterodossa, simboleggiava le ventiquattro fughe della prima parte. Ma gli fu poi fatto osservare che, se si da` per buona la sua ventiquattresima entrata, non si possono conculcare i diritti di altre due entrate dello stesso genere, cosicche´ le entrate non sono piu` ventiquattro ma ventisei. Cio` non significa tuttavia che nel Clavicembalo ben temperato non si possa trovare qualche simbolismo numerico intenzionale. Ad esempio, come ho gia` detto, il soggetto della prima Fuga e` formato da quattordici suoni, numero-simbolo del nome BACH. Preludio (... - Presto - Adagio - Allegro) e fuga a 3 voci in do. – Il Preludio, anch’esso gia` contenu-

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to nel Clavierbu¨chlein, e` uno dei pochi brani per i quali Bach si sia servito di indicazioni di tempo. Se il primo Preludio era un esercizio sull’arpeggio, il secondo e` un esercizio sul trillo, per gran parte risolto musicalmente, come il primo Preludio, nel concatenarsi delle armonie. La cadenza (PrestoAdagio-Allegro), spezzando il ferreo ritmo della prima parte, lega il preludio alla fuga, una delle piu` semplici, graziose e melodicamente gradevoli di tutto il Clavicembalo. Preludio e fuga a 3 voci in Do diesis. – Chiedo scusa se per la terza volta richiamo l’attenzione sul problema meccanico del Preludio: in questo caso, il tremolo. Non intendo affatto contrastare polemicamente un certo tipo di commento – oltre tutto, sarei in ritardo di molti e molti decenni – ma solo riferirmi all’intento didattico di Bach. Tant’e` che non mi dispiace affatto sottoscrivere quanto dice il Barblan: ‘‘Lo scintillante chiarore del Preludio, condotto a due voci che disegnano una melodia ondeggiante in un lieve salire e scendere, proietta in noi la suggestione di una pastorale serenita`. Tale sentimento si afferma ancor piu` nella Fuga’’. Preludio e fuga a 5 voci in do diesis. – Il Preludio e` di tipo dialogico. La Fuga a cinque voci e` una delle tante superbe costruzioni contrappuntistiche di Bach. E` basata su un soggetto di soli cinque suoni, quasi un antico cantus firmus, al quale si aggiungono, uno alla volta, tre controsoggetti; il soggetto, il secondo e il terzo controsoggetto vengono quindi sovrapposti. Il pluritematismo di alcune fughe sollevo` una discussione intorno alla posizione storica della personalita` artistica di Bach: per alcuni si trattava di una sopravvivenza di forme arcaiche della musica strumentale (ricercare pluritematico), per altri di un segno di evoluzione formale dalla fuga, in genere monotematica, verso il pluritematismo della sonata moderna. Proprio ascoltanto un’esecuzione di questo dittico, fatta da Liszt, Wagner parlo` del ‘‘fosco gotico tedesco’’ in Bach. Durante la fioritura in architettura del neogotico, in effetti, i musicisti, ignari di quello che era stata la musica del medioevo, trovarono nelle complesse architetture musicali bachiane il corrispettivo delle costruzioni gotiche. Preludio e fuga a 4 voci in Re. – Il Preludio e` ancora una volta un esercizio, di un tipo che si puo` ritrovare in un’infinita` di posteriori studi pianistici. Qualche particolare puo` far pensare che Bach avesse in un primo momento scritto il brano per un clavicembalo fornito di pedaliera. La Fuga, per il ritmo del soggetto (tipico ritmo francese) e per la grandiosa conclusione, e` stata spesso paragonata

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alle fughe di Ha¨ndel, artista che Bach ammirava e che tento` invano di incontrare di persona. Preludio e fuga a 3 voci in re. – L’ascoltatore potra` facilmente notare che anche questo Preludio e` basato su una precisa e unica formula tecnica (accordi spezzati). Verso la fine Bach concatena dieci accordi di quinta diminuita in progressione cromatica: arditezza armonica, evidentemente suggerita dalle dita, che scoprono le possibilita` della tastiera ‘‘ben temperata’’. La Fuga, melodicamente affascinante, presenta anche il soggetto per moto contrario, in un modo che si puo` definire anacronisticamente ‘‘alla Brahms’’. Preludio e fuga e 3 voci in Mi bemolle. – Bach accoppia insieme due pezzi indipendenti: il Preludio e` in realta` una vera e propria toccata in miniatura, con introduzione, adagio, fuga a due soggetti, tematicamente omogenea. La Fuga contrasta a tal punto con il preludio che Busoni decise di sostituirla con l’analoga fuga del secondo libro del Clavicembalo ben temperato. Il Bodky ritenne che il Preludio fosse stato scritto per organo, la Fuga per clavicordo. Il Preludio e fuga in Mi bemolle costituisce dunque un grosso scoglio per chi nega l’origine del tutto pratica del Clavicembalo ben temperato. E ci vuole, diciamo pure, la faccia tosta di Cecil Gray per farci sapere che la Fuga ‘‘e` deliberatamente, senza dubbio, una specie di gioconda caricatura dell’imponente e solenne suo predecessore. La Fuga, di fatto, se la ride e si prende gioco del Preludio’’. Preludio in mi bemolle e fuga a 3 voci in re diesis. – Il cambiamento di armatura di chiave (da sei bemolli a sei diesis), che non comporta alcun cambiamento di posizione sulla tastiera, fu deciso da Bach per mostrare una conseguenza del temperamento. Il Preludio e` una delle piu` celebri e belle trenodie di Bach, e costituı` per molti anni una pietra del paragone per i pianisti. La Fuga, basata su un soggetto gia` usato da Tomaso da Vitoria, sfrutta la combinazione dei piu` complessi artifici contrappuntistici (inversione, aumentazione e diminuzione del soggetto, stretti di vario genere). Inutile dire che in Bach l’intreccio ingegnosissimo del contrappunto, degno di un sommo virtuoso, non va mai a scapito della ‘‘audibilita`’’ della composizione, e che esteticamente non appare mai superfluo o gratuito. Tralascero` dunque, d’ora in poi, di segnalare le fughe contrappuntisticamente interessanti perche´, per parlarne concretamente, dovrei condurre un esame tecnico che esula di molto dai limiti di questa presentazione. Preludio e fuga a 3 voci in Mi. – Contrariamente a quanto avviene in quasi tutti i dittici della prima 25

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parte del Clavicembalo ben temperato, qui la Fuga fa da esercizio delle dita e il Preludio da... ricreazione dello spirito. O si potrebbe dire che il Preludio e` un esercizio di stile, perche´ Bach costruisce tutto il pezzo su una locuzione musicale che ricorre abbastanza di frequente nelle sue opere. L’importanza didattica del Clavicembalo nasce proprio dal fatto che Bach riesce sempre a chiudere nel giro di una breve rappresentazione estetica una sola formula tecnica o una sola formula stilistica. La Fuga ha uno dei soggetti piu` singolari, piu` bizzarri di tutto il Clavicembalo ben temperato e uno svolgimento da moto perpetuo. Preludio (... - Presto) e fuga a 2 voci in mi. – La composizione del Preludio caratterizza bene il modo seguito da Bach per mettere assieme il Clavicembalo. Nel Clavierbu¨chlein questo Preludio era un esercizio per la mano sinistra. Bach lascia intatta la parte della mano sinistra, vi costruisce sopra una larga melodia e aggiunge alla fine una ripresa, a due mani, dell’esercizio. Che Bach, con simili procedimenti da praticone, riuscisse a scrivere un capolavoro come questo e` un mistero (o e` il miracolo del genio). La Fuga e` l’unica a due voci di tutto il Clavicembalo (compreso il secondo libro). Presenta alcuni particolari contrappuntisticci (la risposta, due passi in ottava) che lasciarono di stucco alcuni commentatori: queste non sono cose di buon stile, dicevano con tutta serieta`. E qualcuno fece ricorso al detto latino Quandoque bonus dormitat Homerus. Preludio e fuga a 3 voci in Fa. – Il Preludio e` uno dei piu` perfetti esempi di esercizio: la stessa, identica difficolta` meccanica viene proposta prima alla mano destra, poi alla mano sinistra. La Fuga e` costruita su un tema di danza e mantiene i caratteri della danza, anche nel severo sviluppo contrappuntistico. Preludio e fuga a 4 voci in fa. – Il Preludio, stilisticamente simile a una allemanda, e` l’ultimo dei pezzi trasferiti dal Clavierbu¨ chlein nel Clavicembalo (tutti i primi dodici, eccettuato il settimo, in Mi bemolle). Al vecchio Preludio in fa Bach aggiunge una Fuga, su soggetto cromatico, dolorosa, ampia e complessa, che i commentatori concordemente giudicano come una delle pagine piu` alte del primo libro del Clavicembalo ben temperato. Preludio e fuga a 3 voci in Fa diesis. – Questo e` uno dei dittici che offrono piu` materia a chi cerca di scoprire un carattere individuale, un carattere proprio in ciascuna delle varie tonalita`. Le ricerche di questo tipo vengono oggi guardate generalmente con sospetto, e non a torto, perche´ in passato spesso slittarono facilmente verso concezioni 26

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misticheggianti della musica. Di solito, pero`, si nega il carattere individuale della tonalita` mediante un’affermazione solo teoricamente esatta: con il temperamento, si dice, tutte le tonalita` diventano necessariamente uguali. Ora, Bach accordava da se´ lo strumento tenendo, a detta del suo allievo Kirnberger, ‘‘tutte le terze acute’’, cioe` crescenti. Nel buon temperamento ogni tonalita` conservava percio` un suo ‘‘colore’’. Ma anche gli accordatori di oggi – se non si valgono di apparecchiature elettroniche di precisione – temperano a orecchio, regolandosi con quel sistema empirico che si chiama ‘‘riparto’’. Il temperamento equabile e` in pratica tale solo di nome, non di fatto, e fra gli intervalli della scala cromatica risultano ancora alcune lievi differenze: lievi, ma quanto basta perche´ fra tonalita` piuttosto distanti – ad esempio, fra Do e Fa diesis – si avvertano delle sensibili differenze. Chi ricerca il carattere proprio di ciascuna tonalita` si basa quindi su un fatto fisico realmente esistente, anche se non piu` cosı` evidente come al tempo di Bach. Christian Wolff nota acutamente che ‘‘il ‘tema’ di ciascun Preludio e fuga e` dunque essenzialmente la sua tonalita`’’. Su questa osservazione si dovrebbe imbastire una ricerca anche comparativa, non affrontabile in questa sede, che aprirebbe nuovi sviluppi a vecchie elucubrazioni. Preludio e fuga a 4 voci in fa diesis. – Questo dittico – a parte l’alto valore estetico, per avvertire il quale e` piu` che sufficiente l’audizione – suggerisce una considerazione che riguarda la mano di Bach. Il notissimo ritratto dipinto da Elias Gottlieb Haussmann ci mostra una mano robustissima con dita corte e quadrate e con palmo larghissimo: la mano tipica di alcuni grandi virtuosi della tastiera, a cominciare da Beethoven. Il Preludio in fa diesis ci dice anche che la mano di Bach era piccola: in una serie di accordi non arpeggiati, un accordo di decima minore viene scritto arpeggiato, senz’altra ragione all’infuori della comodita` di esecuzione. Preludio e fuga a 3 voci in Sol. – E` molto difficile, e probabilmente impossibile ricostruire con assoluta certezza la cronologia dei Preludi e fuga del Clavicembalo. Il dittico in Sol dovrebbe essere pero` uno dei piu` antichi, sia per lo stile, sia per qualche traccia di scrittura per clavicembalo con pedaliera, strumento usato da Bach in gioventu`. Il Preludio e` dello stesso tipo dei brani contenuti nel Clavierbu¨chlein: un esercizio sull’arpeggio. Ma e` anche il piu` schematico, armonicamente, di tutti i preludi di tipo-esercizio, con poche modulazioni ai toni vicini, tanto che si potrebbe considerarlo come il modello stilistico di molti studi di Czerny.

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La Fuga, assai virtuosistica, e` fra le piu` ampie della prima parte del Clavicembalo. Preludio e fuga a 4 voci in sol. – Il Bodky aveva rilevato il fatto che la prima parte del soggetto della Fuga offrı` lo spunto tematico per un’aria della Cantata n. 89. Cio` puo` valere come spiegazione di quanto detto in precedenza, quando facevo notare che i brani del Clavicembalo sono anche esercizi di stile. Il Preludio e` basato sul trillo libero (non, come nel Preludio in do, sul trillo misurato). Un certo Pavlovicˇ lo trascrisse nell’Ottocento per soprano e pianoforte, con parole in russo (se ne puo` ascoltare una esilarante esecuzione in un disco di Florence Foster Jenkins, ricchissima dilettante americana che credeva di possedere una voce d’oro, mentre era soltanto una campionessa di stonature). Preludio e fuga a 4 voci in La bemolle. – I commentatori sono concordi nel riconoscere in questo dittico uno dei brani piu` freschi e gioiosi di tutto il Clavicembalo. Sia il tema del Preludio che della Fuga sono basati sulle funzioni tonali piu` semplici, ed entrambi i pezzi si sviluppano solo attraverso le tonalita` piu` vicine. Forse Bach avvertiva una singolarita` e una delicatezza di rapporti della tonalita` di La bemolle nell’ambito del suo ‘‘buon temperamento’’. Preludio e fuga a 4 voci in sol diesis. – Bach sceglie il sol diesis minore, invece del la bemolle minore che sul clavicembalo e` identico al sol diesis, perche´ il la bemolle avrebbe sette bemolli in chiave, mentre il sol diesis ha cinque diesis ed e` quindi di piu` agevole lettura. Ma sta di fatto che nel caso del Do diesis Bach, sia nel primo che nel secondo libro, non fa ricorso al Re bemolle, che avrebbe cinque bemolli invece dei sette diesis del Do diesis. Durante il periodo del suo servizio a Weimar Bach conclude i brani di modo minore sia in modo maggiore che in modo minore; nel periodo di Co¨ then i brani di modo minore vengono quasi sempre conclusi in modo maggiore. La Fuga in sol diesis, eccezionalmente, chiude in modo minore. E questa soluzione e` talmente inusitata che Bach si sente costretto a mettere sull’ultimo accordo un bequadro del tutto pleonastico: evidentemente, se Bach non avesse messo il bequadro, l’esecutore o il copista avrebbero pensato a un lapsus. Questo particolare e` importante per distinguere la ‘‘eta`’’ dei pezzi, perche´ Bach riunı` nel 1722, sicuramente, brani nuovi e brani gia` composti da tempo. Preludio e fuga a 3 voci in La. – Il Preludio e` un vera e propria invenzione a tre voci che avrebbe potuto trovare posto nella raccolta delle Sinfonie. L’insolita struttura ritmica del soggetto della Fuga

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suggerı` allo Spitta, che era un grandissimo storico e un poeta, un’immagine curiosa: ‘‘Il soggetto e` una gran trovata: con la prima nota sembra bussare alla porta, e poi, dopo una pausa di tre crome, sembra entrare tranquillo’’. Preludio e fuga a 3 voci in la. – Alcuni particolari del Preludio confermano quanto avevo detto in precedenza sulla grandezza della mano di Bach. La monumentale Fuga, scritta per clavicembalo con pedaliera, e` un’imitazione di una fuga per organo di Buxtehude e potrebbe risalire ad anni vicini al 1705, quando Bach ando` in visita a Lubecca, fermandovisi per tre o quattro mesi e incontrando piu` volte Buxtehude. Preludio e fuga a 3 voci in Si bemolle. – L’esecutore di Bach non tarda ad accorgersi del fatto che anche le pagine in apparenza piu` astratte sono perfettamente adatte alla tastiera: qualche compromesso nella severa condotta delle parti, persino qualche trucchetto di esecuzione introdotto da Bach senza imbarazzo rivelano l’uomo insofferente di conflitti fra scrittura e strumento. Ci sono pero` dei pezzi – e uno di questi e` il dittico in Si bemolle – che non sarebbero neppur pensabili fuori dalla tastiera. Non e` tanto un timbro determinato, quanto un gioco delle dita su sette tasti allo stesso livello e cinque rialzati. Per questa ragione il dittico suona bene sul clavicordo, sul clavicembalo, sull’organo, sul pianoforte, e persino sul silofono a tastiera. Preludio e fuga a 5 voci in si bemolle. – Il Bodky ritenne per primo che questo dittico fosse pensato per organo, e l’identificazione dello strumento pare stilisticamente convincente. Il Preludio e fuga in si bemolle e` forse il brano piu` perfetto del primo libro del Clavicembalo ben temperato, sia per l’intensita` espressiva, sia per la densissima scrittura polifonica, sia per la miracolosa disposizione tastieristica. ‘‘Questo venerabile musicista’’, scrisse il Burney nel 1773, ‘‘ineguagliato per sapere e ingegnosita`, pensava fosse necessario serrare nelle due mani tutta l’armonia che esse potevano afferrare...’’. Verissimo. Ma chi si sentirebbe oggi di sottoscrivere la conclusione? ‘‘... a tal punto da dovere inevitabilmente sacrificare la melodia e l’espressione’’. Preludio e fuga a 4 voci in Si. – Molti commentatori hanno cercato analogie tematiche fra i preludi e le rispettive fughe: alcune sono reali o per lo meno ingegnosamente trovate (Busoni riuscı` addirittura a sovrapporre il Preludio e la Fuga in Re), altre sono costruite laboriosamente. Nel dittico in Si l’analogia e` evidente. Il Preludio e fuga in Si e` una delle pagine del Clavicembalo di carattere piu` 27

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chiaramente intimistico, dettate da quella ‘‘pienezza d’animo’’ e da quella ‘‘profonda tenerezza’’ che, dice giustamente il Bodky, ‘‘sono la controparte di Bach il gigante’. Preludio (Andante) e fuga (Largo) a 4 voci in si. – Questo dittico monumentale e` molto spesso citato, indipendentemente dal suo valore artistico, per due motivi concernenti il soggetto della Fuga: il soggetto contiene tutti i dodici suoni ed e` composto da ventuno suoni. La presenza dei dodici suoni fece pensare a qualcuno, nei tempi eroici delle avanguardie novecentesche, a un fantasma di dodecafonia ante litteram. I ventuno suoni potrebbero simboleggiare il detto Soli Deo Gloria che Bach spesso annota alla fine delle sue composizioni. Il simbolismo dei numeri, come il carattere delle tonalita`, suscita diffidenza perche´ ha dato effettivamente origine a commenti romanzeschi. Pare tuttavia certo che Bach abbia usato qualche simbolo numerico: anche i soggetti della prima e dell’ultima fuga del secondo libro del Clavicembalo sono di ventuno suoni, mentre il soggetto della prima Fuga, come abbiamo visto, essendo di quattordici suoni simboleggia il nome BACH. Uno studioso tedesco, lo Smed, osservo` nel 1950 che assegnando alle lettere dell’alfabeto un numero progressivo da 1 a 24 (con i e j, u e v sotto lo stesso numero), non solo la somma della parola Bach da` 14 ma la somma della parola J.S. Bach da` 41 (immagine speculare di 14). Lo studioso cito` parecchi esempi dei simboli 14 e 41 reperibili nell’opera di Bach. Quando si tenta di attribuire al simbolismo numerico piu` importanza di quanta probabilmente ne avesse per Bach si resta pero` delusi: per esempio, il numero delle entrate del soggetto, nella Fuga in si minore, non e` ne´ di 14 ne´ di 21, ma di 13 complete e 7 parziali. Il pericolo, in questo caso, e` allora quello di lasciarsi attrarre ad assegnare un simbolo a ogni numero: dopodiche´, come fece in passato qualcuno, diventa facile vedere nel Clavicembalo una serie di vignette musicali, illustrative dell’Antico e del Nuovo Testamento. LIBRO II: Preludio e fuga a 3 voci in Do. – Del Preludio, a modo di improvvisazione, si conoscono altre due precedenti versioni; la Fuga, vivacissima, era in origine una fughetta. Il secondo libro del Clavicembalo ben temperato mantiene dunque l’origine pratica del primo libro. Bach raccoglie le pagine scritte casualmente, le amplia, le trasporta in tonalita` diverse, e forse si vale anche di studi contrappuntistici per composizioni vocali. Lo svolgimento rettilineo della personalita` artistica di Bach confe28

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risce pero` una intrinseca unita` anche al secondo libro del Clavicembalo. E` un po’ il caso del grande scrittore che, raccogliendo in volume le noterelle giornalistiche scritte in decenni di attivita`, e disponendole in ordine non cronologico, e tagliando e ricucendo e smussando le punte, pur riesce a conferire al volume una sua coerenza. Preludio e fuga a 4 voci in do. – Questo Preludio inizia la serie dei preludi in forma bipartita (la forma usuale delle danze), con ritornello e con andamento armonico tradizionale, che nel primo libro del Clavicembalo mancavano quasi del tutto (ce n’era uno solo, l’ultimo) e che sono invece frequentissimi (dieci su ventiquattro) nel secondo libro. Il Preludio si chiude sull’accordo di modo minore: e` un’altra novita`, rispetto al primo libro, nel quale tutti i Preludi e fuga in modo minore, tranne la Fuga in sol diesis, concludevano in modo maggiore (chiusa tradizionale del periodo barocco che, non si sa bene perche´, era detta ‘‘terza di Piccardia’’). Nel secondo libro, su ventiquattro pezzi in modo minore, sei chiudono sull’accordo di modo minore, sette sulla tonica senza armonizzazione, cioe` evitando la conclusione in modo maggiore: e` un segno di ‘‘modernita`’’ del secondo libro del Clavicembalo, di cauto avvicinamento al gusto nuovo che si andava affermando con lo stile galante. Il Preludio e fuga in do, insieme con il Preludio e fuga in Si del primo libro, e` una manna per chi vuole dimostrare l’unita` strutturale riscontrabile nei dittici: il soggetto della Fuga inizia infatti con lo stesso nucleo tematico del tema del Preludio. Preludio (... - Allegro) e fuga a 3 voci in Do diesis. – Il Preludio e` in forma di Preludio e fughetta: la disposizione strumentale della prima parte ricorda da vicino il primo Preludio del primo libro del Clavicembalo, e si sa del resto che la versione primitiva di questo pezzo era in Do. La Fuga ha il carattere di una improvvisazione su un tema di Sanctus o di Alleluja. E` lecito chiedersi che cosa c’entri una fughetta nel preludio di una fuga. Era lecito chiederselo anche a proposito del Preludio e fuga in Mi bemolle del primo libro. La risposta possibile e` che Bach, di queste faccende, se ne impippava altamente. Preludio e fuga a 3 voci in do diesis. – Il Preludio e` insolitamente lungo e ricorda lo stile della scrittura a due parti cantabili e basso accompagnante. La Fuga, in origine in do, presenta un soggetto a modo di giga e, come nella giga, lo fa sentire anche per moto contrario e con un singolare controsoggetto cromatico. Preludio e fuga a 4 voci in Re. – Il Preludio e` una vera e propria giga bipartita, con inversione del te-

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ma nella seconda parte. La notazione del ritmo usata da Bach sollevo` in passato molte discussioni per arrivare a stabilire se l’autore avesse inteso contrapporre (e poi sovrapporre) due ritmi diversi, o se avesse invece soltanto voluto semplificare la grafia. Il problema non fu e forse non potra` mai essere risolto in un modo che metta a tacere tutti i dubbi e tutti gli scrupoli. Ho voluto ricordarlo perche´ questo e` uno dei tanti problemi che la filologia dovette affrontare nel Novecento. Tutti sanno che le composizioni per strumento a tastiera di Bach non portano in generale indicazioni riguardanti i tempi, la dinamica, l’articolazione, il fraseggio. Cio` non significa che la musica non fosse declamata anche al tempo di Bach. Non solo: e` accertato che l’articolazione comportava per consuetudine alcune sensibili modificazioni dei valori ritmici. Gli studiosi hanno ricostruito – pezzo per pezzo, basandosi su testimonianze parziali e talvolta contradditorie – quelle convenzioni che l’esecutore del Settecento apprendeva per tradizione orale. Gli interpreti di oggi, rispetto agli interpreti dell’Ottocento e in parte del Novecento, hanno percio` modo di lavorare con l’ausilio di una gran massa di pubblicazioni specifiche, e in questo senso l’esecuzione delle opere di Bach sul pianoforte non e` un puro e semplice ritorno sulle antiche posizioni dello Spitta, che sono state invece faticosamente ma definitivamente superate. Preludio e fuga a 3 voci in re. – Nikolaus Forkel, primo biografo di Bach, conosceva quattro versioni del Preludio, che per il suo carattere di esercizio di agilita` per entrambe le mani e per lo stile strumentale sembra essere ben anteriore al 1742. La versione primitiva, che non conosciamo, potrebbe addirittura risalire al periodo di Weimar, cioe` agli anni intorno al 1714, e lo stile ricorda da vicino Vivaldi. Il Preludio e` uno studio tastieristico perfetto che prende in considerazione la scale e gli accordi spezzati e che non fa distinzioni di bravura fra la mano destra e la mano sinistra. La Fuga, molto melodica, ha un soggetto diatonico nel primo spezzone e cromatico nel secondo, che viene presentato anche per moto contrario senza che la trasformazione sappia neppur lontanamente di artificio. Anche in questo caso, come era avvenuto per la Fuga in re del primo libro, si pensa anacronisticamente a Brahms. Preludio e fuga a 4 voci in Mi bemolle. – Preludio melodico, anzi, polimelodico perche´ la cantabilita` investe tutte le voci, anche il basso. L’andamento pastorale prefigura certo melodizzare della musica romantica intimistica. Non meno della Fu-

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ga in Re, la Fuga in Mi bemolle sembra la sezione conclusiva di una grande architettura corale. Preludio e fuga a 4 voci in re diesis. – Bach non ripete qui il cambiamento di armatura di chiave fra il Preludio e la Fuga che aveva adottato a scopo dimostrativo nel primo libro. Il Preludio e` una amabile allemanda in forma regolare, la Fuga e` invece severa e solenne, con un soggetto che si apre con tre note ribattute in ritmo protetico, come l’inizio della Sinfonia n. 5 di Beethoven. Preludio e fuga a 4 voci in Mi. – In modo simile a quello del Preludio e fuga in Mi bemolle, il dittico in Mi ha un Preludio di polifonia cantabile e una Fuga su soggetto che avrebbe potuto servire per la sezione conclusiva di un lavoro corale, in stile arcaico. L’esecuzione della polifonia nel Preludio richiede soltanto, se si usa il clavicembalo, un certo grado di indipendenza delle dita. Se si usa il pianoforte il problema riguarda l’indipendenza delle dita sı`, ma anche un tocco differenziato che meccanicamente pone altri e piu` difficili problemi. L’utilita` didattica di questo come di altri preludi e di molte fughe nasce dal fatto che i problemi del tocco differenziato sarebbero diventati sempre piu` connaturati con lo sviluppo della tecnica pianistica. Bach, diciamo cosı`, fu ed e` per il pianista quello che la palestra e` per lo sportivo. Preludio e fuga a 3 voci in mi. – Il Preludio e` una invenzione a due voci, ma in forma di danza. La Fuga, costruita su un soggetto assai lungo, e` strumentalmente virtuosistica e molto sviluppata. L’articolazione del suono e` qui talmente importante che Bach, in via del tutto eccezionale, introduce il segno di staccato. Preludio e fuga a 3 voci in Fa. – Preludio calmo e scorrevole, scritto a cinque voci in una concezione di contrappunto armonico, piu` che di contrappunto puro, che diverra` comune durante il romanticismo. Mentre il contrappunto puro e`, etimologicamente e praticamente, punto contro punto, cioe` nota contro nota, nel contrappunto armonico, detto nel modo piu` schematico, la melodia a piu` voci prevede che ciascuna voce si fermi su un suono, tenendolo in vibrazione, per lasciare il canto a un’altra e per poi riprendere a cantare mentre l’altra a sua volta si ferma. I suoni che vengono tenuti in vibrazione formano le armonie, ma le armonie sono mosse melodicamente. Il soggetto della Fuga in Fa e` del tipo della giga, vivace e balzante: si tratta di uno dei dittici in cui il contrasto di natura espressiva fra i componenti e` piu` forte. Preludio e fuga a 3 voci in fa. – Secondo alcuni commentatori questo dittico, con un Preludio pie29

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Johann Sebastian Bach

no di sospiri e una Fuga scherzosa, risalirebbe agli anni di Co¨then, secondo altri rivelerebbe invece un certo interesse di Bach per lo stile galante, e dovrebbe percio` essere stato composto verso il 1740. A me sembra piu` convincente la seconda ipotesi. Uno dei figli di primo letto di Johann Sebastian, Carl Philipp Emanuel, stava diventando un esponente del nuovo stile galante e Bach avrebbe potuto guardare con un certo interesse alle correnti ‘‘moderniste’’ del suo tempo. La disparita` di vedute dei critici ci dice comunque quanto sia in realta` difficile stabilire datazioni sulla base del solo esame stilistico. La Fuga e` brillante, tastieristica. Bisogna dire per onesta` che il carattere cosı` diverso fra il Preludio e fuga in fa del primo libro e il Preludio in fa del secondo libro e` tale da gettare un’ombra di dubbio sostanziale sull’ipotetico ethos specifico di ogni tonalita`. Preludio e fuga a 3 voci in Fa diesis. – Preludio quasi tutto a due voci, ma non con il carattere della invenzione quanto, piuttosto, della melodia fiorita con accompagnamento: flauto e violoncello, senza l’ausilio del clavicembalo. Il soggetto della Fuga, come quello della analoga Fuga del primo libro, ingloba un trillo non ornamentale ma strutturale. La scrittura e` strumentale, ogni riferimento alla vocalita` e` assente. Nella Fuga Bach esamina con attenzione le possibilita` di rapporti tonali che si aprono al Fa diesis, tonalita` che con il buon temperamento diventa praticabile sul clavicembalo ma che non e` identica a ogni altra tonalita`. Richiamo a questo proposito cio` che avevo detto sulla diversita` fra buon temperamento e temperamento equabile. Il temperamento equabile era gia` stato teorizzato alla fine del Seicento, ma solo come possibilita`, perche´ temperando i suoni con la guida dell’orecchio era impossibile adattarsi alla rigida successione centesimale. Preludio e fuga a 3 voci in fa diesis. – E` uno dei piu` perfetti dittici del Clavicembalo, che pure e` ricco di capolavori, e ha suscitato la stupita ammirazione di tutti i commentatori. Il Preludio ha l’andamento solenne di un movimento lento di concerto grosso. La Fuga ricalca lo schema formale della Fuga in do diesis del primo libro, ma con un profilo espressivo del tutto diverso, che e` stato spesso paragonato alla vocalitu` madrigalistica. I soggetti sono tre, e sono sovrapponibili. Preludio e fuga a 3 voci in Sol. – Si tratta di un Preludio e fughetta giovanile, che Bach ritocca e amplia senza intaccarne la fresca ingenuita` e la baldanza virtuosistica. L’ascoltatore avverte facilmente il clima stilistico di molti dittici del primo libro del Clavicembalo. 30

Il Clavicembalo ben Temperato

Preludio e fuga a 4 voci in sol. – Anche questo dittico deriva da un Preludio e fughetta giovanile. Il Bodky ritenne di poter identificare il ritmo del Preludio con il simbolo della flagellazione e il soggetto ‘‘parlato’’ della Fuga con il coro della soldataglia romana. I simboli concettuali di Bach, non meno dei simboli numerici, sono stati e sono molto discussi. Non posso parlare qui del problema, su cui esiste una sterminata letteratura, ma non ho dubbi sul fatto che l’identificazione del Bodky sia in questo caso convincente. Preludio e fuga a 4 voci in La bemolle. – La Fuga era una Fughetta in Fa, composta molto probabilmente nel 1708. La Fughetta era di 24 battute. Bach ne trasporta in La bemolle 23 senza cambiare una nota, poi va avanti per altre 27 battute: un vero miracolo di virtuosita` stilistica in un artista che riesce a ritrovare e a rimettersi nei panni di un se stesso di piu` di trent’anni prima. Preludio e fuga a 3 voci in sol diesis. – Il Preludio e` uno dei pochissimi brani del Clavicembalo dei quali apparisca assolutamente sicura la destinazione al clavicembalo con due tastiere: gli effetti di piano e di forte che Bach indica espressamente non sarebbero infatti realizzabili sul clavicembalo ordinario. Il ritmo e l’ininterrotto fluire di suoni fanno sı` che la Fuga venga comunemente definita una ninna-nanna o una pastorale. Formalmente, questa e` – nientemeno! – una ingegnosissima doppia fuga. Ed e` proprio caratteristico di Bach il far sı` che una doppia fuga abbia andamento e caratteri di ninna-nanna o di pastorale. E` stata notata l’identita`, del tutto casuale, fra le prime sei note del soggetto e lo spunto tematico della Sonata in re di Scarlatti che non a caso, nelle vecchie edizioni, veniva intitolata Pastorale. Preludio e fuga a 3 voci in La. – Il Preludio e` una invenzione a tre voci, di carattere pastorale. La Fuga e` ritmica, scattante. La estensione tocca per la prima volta il la-1, una terza minore piu` basso della quarta corda del violoncello, mentre nel primo libro il limite verso il grave era appunto il suono do1, corrispondente alla corda piu` bassa del violoncello. Bach disponeva di clavicembali grandi che arrivavano fino al fa-1. Ma nelle opere didattiche teneva conto della estensione piu` limitata dei clavicembali di maggior diffusione. Nella Fuga in La e nella successiva Fuga in la egli si spinge su un suono che pochi strumenti del suo tempo possedevano. Preludio e fuga a 3 voci in la. – Sia il Preludio che la Fuga sembrerebbero in apparenza risalire agli anni di Co¨then. Nel Preludio l’uso accentuato del cromatismo ha il carattere di una ardita esplora-

I Concerti

zione delle nuove possibilita` aperte dal buon temperamento; nel veemente, scattante procedere della Fuga l’impiego bravuristico della mano sinistra ricorda le imprese sbalorditive del giovane Bach. Ma lo stile non e` quello del periodo di Co¨ then. Potrebbe darsi che Bach avesse rielaborato profondamente una vecchia composizione, o forse il canuto e ingrassato Cantor si divertiva ancora a scorazzare sulla tastiera.

Johann Sebastian Bach

escludere una intenzionale ‘‘autocitazione’’. La Fuga e` una delle piu` elaborate contrappuntisticamente, non solo con tutti gli artifici ma anche con sia pur brevi canoni, fatto del tutto eccezionale nel Clavicembalo ben temperato. Si annuncia gia` il clima dell’Arte della fuga, la cui prima versione, come abbiamo visto, e` contemporanea del secondo libro del Clavicembalo.

A B C

Preludio e fuga a 4 voci in Si. – Il Preludio e` uno studio tastieristico sulla tecnica della scale. La Fuga, vocalistica come le Fughe in Mi bemolle e in Mi, e` solenne e grandiosa.

D F

Preludio e fuga a 4 voci in si bemolle. – Questo e` sicuramente uno dei dittici scritti appositamente per completare il numero di ventiquattro: sia il Preludio che la mirabile Fuga appartengono stilisticamente al periodo delle ultime Cantate sacre. Il secondo elemento tematico del Preludio e` quasi identico al tema del Preludio in si bemolle nel primo libro del Clavicembalo, sebbene venga inserito in un diverso clima espressivo. Non sembra da

Preludio e fuga a 3 voci in si. – Alcuni commentatori si dolsero del fatto che Bach non avesse concluso il Clavicembalo con un dittico sul tipo di quello, grandiosissimo, in si bemolle, o come il monumentale dittico che conclude il primo libro. Il Preludio e fuga in si e` invece, in sostanza, una dimessa invenzione a due voci seguita da una Fuga su un soggetto da passepied. Si potrebbe obbiettare che la Fuga in si e`, strumentalmente, tanto geniale quanto lo e`, contrappuntisticamente, la grande Fuga in si bemolle. Ma a me, che tanto spesso ho insistito – e forse in modo persino fastidioso – sull’intento didattico-pratico del Clavicembalo, il congedo in tempo di danza non puo` certo dispiacere.

I Concerti Durante gli anni che trascorse a Weimar come Konzertmeister (letteralmente, Maestro del concerto ma in sostanza direttore artistico e direttore dell’orchestra) del principe Johann Ernest, fratello minore del granduca, Bach ebbe modo di conoscere i concerti grossi e i concerti solistici di autori italiani per i quali il suo padrone aveva una gran passione, al punto da prenderli come modelli per i concerti che scrisse lui stesso, il principe melomane. In quel periodo – 1708-1717 – Bach si limito` pero` a trascrivere per organo e per clavicembalo solo vari concerti di Vivaldi, Alessandro e Benedetto Marcello, Torelli, Telemann, e naturalmente del principe. Comincio` a comporre concerti in proprio quando si trasferı` a Co¨ then – 1717-1722 –, e ne scrisse due per violino e uno per due violini (ne parleremo piu` avanti), piu` un numero imprecisato di altri che non ci sono pervenuti, oltre ai sei Concerti brandeburghesi, nel quinto dei quali il clavicembalo ha con il flauto e il violino un ruolo solistico, impegnativo, e ha una grossa Cadenza tutta per lui solo. Divenuto nel 1722 Cantor nella Chiesa di S. Tommaso a Lipsia, Bach, tenuto sotto tiro da un rettore al quale ne´ la musica ne´ il nuovo Cantor riuscivano simpatici,

fu per parecchi anni tutto preso dai suoi doveri contrattuali e compose soprattutto musica sacra. Nel 1729 assunse la direzione del Collegium Musicum che era stato fondato da Telemann nel 1702. Il Collegium Musicum era, se volessimo definirlo nei termini di oggi, una cooperativa di lavoro formata da studenti e dilettanti che forniva servizi musicali a chi glieli chiedeva. Sotto la guida di Balthasar Schott, che era succeduto a Telemann nel 1720 e che aveva partecipato, soccombendo, al concorso per la nomina a Cantor in S. Tommaso, il complesso aveva sviluppato una intensa e apprezzata attivita` concertistica. Ma nel 1729 lo Schott accetto` un incarico a Gotha e indico` come successore proprio Bach. La morte del rettore e la nomina di un nuovo rettore, di tutt’altra mentalita` rispetto a quella della bounanima, spiano` a Bach la strada, e Bach diresse il Collegium Musicum fino al 1737, e poi dal 1739 al 1741 e forse anche oltre. Con Bach la compagine si guadagno` altri allori. Non esisteva allora la divisione della musica in ‘‘seria’’ e ‘‘leggera’’, ma esisteva una divisione di massima fra la musica sacra e la musica profana. Assumendo la direzione del Collegium Musicum,

Preludio e fuga a 3 voci in Si bemolle. – Il Preludio e` condotto secondo la tecnica del contrappunto armonico che avevo notato e sommariamente spiegato nel Preludio in Fa, ma la forma, bitematica e insolitamente ampia, prefigura la futura forma di primo movimento di sonata. La tecnica prevede anche l’incrocio delle mani. La Fuga e` tranquillamente scorrevole e melodica, con due controsoggetti.

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M O P R S T V W X Z

Johann Sebastian Bach

che una volta alla settimana suonava nel salone – in estate nel giardino – del Caffe` Zimmermann – il caffe`-concerto! –, Bach doveva approntare un repertorio adatto non gia` all’elevazione spirituale dei fedeli ma al gaio divertimento dei consumatori. Il Concerto in re BWV 1052 (datazione incerta, pubblicazione nel 1838) apre il ciclo dei sette Concerti per clavicembalo e archi che Bach utilizzo` nel primo periodo della sua direzione. I sette sono tutti e quanti trascrizioni di composizioni risalenti al periodo di Co¨ then, alcune delle quali, come dicevo prima, perdute. Questo e` il loro carattere particolare, e anche il piu` sorprendente perche´ se non avessimo certezza che di trascrizioni si tratta quasi non ce ne accorgeremmo. Del Concerto in re e` andato perduto l’originale, che doveva essere per violino. Ma qui come in tutti gli altri casi la scrittura per tastiera non denuncia affatto la sua origine ‘‘altra’’, se non per la frequenza delle note ribattute. Nel ciclo di quattro densissime serate con cui Ferruccio Busoni delineo` nel 1898 la storia per capisaldi del concerto per pianoforte e orchestra, questo Concerto di Bach, in parte riadattato da Busoni al pianoforte ma senza interventi radicali, figuro` giustamente come capostipite di tutti gli altri. Dicevo che l’originale era per violino. Ma per Bach la musica era figlia di Proteo e poteva e doveva servire per tutti gli usi: i primi due movimenti del Concerto erano gia` stati utilizzati nella Cantata n. 146 e il terzo nella Cantata n. 188, entrambe cantate sacre; dal che si deduce che il confine fra il sacro e il profano esisteva sı`, ma era un po’ come i confini di stato nel deserto del Sahara, mobili quanto le dune sabbiose. Primo movimento ampio, robusto, festoso malgrado la modalita` minore, virtuosistico nella scrittura solistica e nello stesso tempo denso nella scrittura orchestrale. Il flusso ritmico, pur vario nel suo atteggiarsi, e` continuo, incalzante. Se fosse gia` esistita la ferrovia questo movimento avrebbe potuto celebrare, meglio del TGV di Michael Nyman, l’inaugurazione di un nuovo tronco ad alta velocita`. Il secondo movimento inizia e termina con una intensa melodia in sol, esposta dagli archi, che diventa il basso per quattro episodi in diverse tonalita` affidati alla cantabilita` fiorita del solista. Il finale riprende il tono espressivo del primo movimento, ma piu` brillante e piu` scherzoso. Il Concerto in Mi BWV 1053 (p. 1851) dovette essere composto in origine per uno strumento a fiato, forse un oboe. I primi due movimenti erano gia` stati utilizzati nella Cantata n. 169, il terzo nella Cantata n. 49. La gioiosita`, la contagiosa allegria sono per Bach connaturate all’idea stessa di concerto, lavoro di intrattenimento per definizione. Il 32

Concerto BWV 1052

primo movimento del Concerto in Mi si allontana un po’ dalla struttura del concerto grosso e del concerto solistico da questo derivato perche´ si avvicina alla forma dell’aria col da capo. Anche il finale segue lo stesso schema, mentre il secondo movimento, Siciliano, e` invece formalmente simile all’analogo movimento del Concerto in re, ma con espressione di grazia malinconica (il pezzo e` in do diesis) invece che di lirica intensita` patetica. La parte del solista non e` cosı` in evidenza come nel precedente Concerto, che in verita` rappresenta in Bach un po’ l’eccezione, perche´ la sua concezione e` quella del primus inter pares piu` che del protagonista contrapposto o sostenuto dalla massa. Il Concerto in Re BWV 1054 (p. 1851) e` la trascrizione del Concerto in Mi per violino. Dall’autografo si capisce che Bach aveva cominciato a trasferire alla mano destra del clavicembalista la parte del violino tale e quale, ma che poi ci ripenso` e riscrisse il tutto, rendendolo idiomatico, pur senza stravolgerlo, per il nuovo strumento. Il Concerto in Re, piu` breve dei primi due, e` una tra le piu` felici invenzioni di Bach, sia melodicamente che architettonicamente, e nel trasferimento al clavicembalo non perde nulla della luminosa gaiezza dell’originale. Il Concerto in La BWV 1055 (p. 1851) era forse, in origine, un concerto per oboe d’amore. Piu` semplice formalmente del Concerto in Re, ma altrettanto gradevole e piu` ‘‘italiano’’ di tono, e` pero` poco noto. Notissimo e` invece il Concerto in fa BWV 1056 (p. 1851), da un originale in sol per violino o per oboe, perduto ma ricostruito, ipoteticamente, da qualche studioso. Piu` breve del Concerto in Re ma denso di contenuti, il Concerto in fa fu, ed e`, insieme con il Concerto in re, il preferito dai pianisti, che possono sfruttarvi sia la delicatezza di tocco che la cantabilita` sommessa con i quali il pianoforte va a nozze. In tal senso il secondo movimento, con gli archi in pizzicato, e` una vera chicca. Il Concerto in Fa BWV 1057 (p. 1851) riprende il Concerto brandeburghese n. 4 in Sol per due flauti diritti solisti e archi. I due flauti rimangono nella partitura del BWV 1057 e non... accettano il clavicembalo se non nel ruolo di cosolista. Il primo movimento e` costruito in una forma che prefigura il rondo` classico in cinque episodi. Il secondo movimento, gia` impiegato nella Cantata n. 156, e` espressivo in un modo addirittura ‘‘parlante’’. E il finale e` un grande fugato, pieno di slancio, di vigoria, di inesausta inventivita` . Il Concerto in sol BWV 1058 (p. 1851) e` la trascrizione del Concerto per violino in la, il primo composto da Bach e, come opera di un neofita, e` un po’ prudente nella costruzione ma vigoroso nel di-

Concerto per organo BWV 596

segno. Esistono infine le prime nove battute del Concerto in re BWV 1059. Siccome queste poche battute sono identiche a quelle dell’inizio della Cantata n. 35, con organo concertante, Gustav Leonhardt ricostruı` l’intero primo movimento del Concerto, aggiungendo come secondo e ultimo movimento il brano iniziale della seconda parte della stessa Cantata. Questa, come altre ricostruzioni, sono state registrate in disco ma non hanno ottenuto consensi generalizzati. Bach aveva quarantaquattro anni quando divenne direttore del Collegium Musicum. Il suo primogenito aveva diciannove anni, altri due figli gia` ben addestrati avevano rispettivamente quindici e quattordici anni. E poi c’erano gli allievi. Bach poteva dunque aumentare il tasso di spettacolarita` delle serate al Caffe` Zimmermann mettendo all’opera i figlioli. Nacquero cosı` i tre Concerti per due clavicembali, i due Concerti per tre clavicembali e il Concerto per quattro clavicembali. Il Concerto in do BWV 1060 (p. 1848) era in origine un Concerto per violino e oboe. Polifonicamente molto ricco, molto vario di espressione e virtuosistico di scrittura, il Concerto in do e` senza dubbio il piu` geniale che sia mai stato scritto per due strumenti a tastiera. Il Concerto in Do BWV 1061 (1847) e` molto piu` semplice, tanto schematico nella parte orchestrale che si suppone sia stato tratto da una composizione per due clavicembali soli. Il Concerto in do BWV 1062 (p. 1864) e` la trascrizione del Concerto in re per due violini e la cede di poco, in qualita`, all’altro Concerto in do. Sembra che Bach l’abbia eseguito anche a Dresda insieme con il figlio maggiore Wilhelm Friedemann. Il Concerto in re BWV 1063 (p. 1843), per tre clavicembali, era forse un Concerto per tre violini, ma si e` anche supposto che l’originale potesse non essere di Bach. Tutto il Concerto, e non di rado il solo primo movimento, fu molto eseguito verso il 183040. Si ricorda la esecuzione di Moscheles, Thalberg e Mendelssohn (ciascuno dei tre, racconta Charles Salaman, improvviso` una Cadenza – non si sa bene, anzi, non si capisce affatto come venissero inserite – e il pubblico decreto` il trionfo di Mendelssohn), si ricordano le esecuzioni di Hiller, Chopin e Liszt, di Moscheles, Clara Schumann e Mendelssohn. Anton Rubinsˇtejn lo fece conoscere negli Stati Uniti nel 1873, insieme con Sebastian Bach (!) Mills e William Mason. William Mason racconta nelle sue memorie che Rubinsˇtejn cito`, per l’esecuzione degli abbellimenti, il trattato di Marpurg da lui posseduto e studiato, concludendo pero` che dopo essersi cosı` ben documentato... avrebbe fatto come gli piaceva di piu`. Anche per il Concerto in Do BWV 1064 (p. 1850), per tre cla-

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vicembali, c’e` il sospetto che l’originale, per tre violini, non fosse di Bach ma di un altro autore, forse italiano. Se cosı` e`, Bach riuscı` al solito non soltanto a trascrivere ma a far proprio l’originale, trasformandolo in una costruzione polifonica che solo a lui e a pochissimi altri era dato di ideare. Del Concerto in la BWV 1065 (p. 1865), per quattro clavicembali, conosciamo invece con certezza l’originale, il Concerto op. 3 n. 10 per quattro violini di Vivaldi. L’originale vivaldiano non perde il suo carattere ma viene completamente metamorfosato da Bach. La densita` del discorso polifonico e` pero` tale che spesso si fatica a distinguere le diverse fonti sonore e si ha un effetto piu` di massa che di pluralita` . Ignoriamo completamente quale fosse la disposizione ‘‘spaziale’’ adottata da Bach, ma questo e` oggi il maggior problema che gli esecutori incontrano se vogliono rendere con chiarezza il fittissimo tessuto. Durante il periodo di Weimar, come ho gia` detto incidentalmente, Bach trascrisse per clavicembalo solo i sedici Concerti BWV 982-987 (ca. 1713-1716, 1851). Gli originali erano di vari autori, di cui sei da Vivaldi, uno da Alessandro Marcello, uno da Benedetto Marcello, uno da Torelli, uno da Telemann, tre da Johann Ernest di Sassonia-Weimar, e tre da autori la cui identita` rimane ignota. Bach trascrisse inoltre per organo i cinque Concerti BWV 592-596 (1713-1714, 1844 e 1852), di cui tre di Vivaldi e due del suo padrone; di uno di questi due, in Sol BWV 592a, esiste anche la versione per clavicembalo. Trascrivendo per clavicembalo da concerti per violino e in un caso per oboe, cioe` da strumenti melodici, Bach doveva intervenire soprattutto nei movimenti lenti perche´ la melodia spianata non era realizzabile sullo strumento a corde pizzicate. Il maggior interesse di queste trascrizioni risiede appunto nel tipo di ornamentazione che Bach escogita. Per il resto Bach doveva soltanto portare sulla tastiera il piu` possibile dell’originale, ma anche in questo caso egli interviene talvolta piu` da compositore che da trascrittore, inserendo contrappunti di sua invenzione. Il problema della ornamentazione non si presentava invece nelle trascrizioni per organo, e in questo caso la pedaliera e i registri fornivano occasione di rendere l’originale in modo ancora piu` completo. Di tutti questi lavori divenne celebre uno solo, il Concerto per organo in re BWV 596, tratto dal Concerto per due violini op. 3 n. 11 di Vivaldi, che fu pubblicato nel 1844 sotto il nome di Wilhelm Friedemann Bach, che verso la fine del secolo fu trascritto per pianoforte da August Stradal, allievo di Liszt, e che in questa veste entro` nel reper33

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Johann Sebastian Bach

Clavieru¨bung op. 1

torio di molti concertisti. La trascrizione di Stradal era ipertrofica, con aggiunta di Cadenze e con una densita` di tessitura del tutto sproporzionata sia rispetto all’originale vivaldiano che alla trascrizione bachiana. Alfred Cortot ebbe in re-

pertorio la trascrizione di Stradal ma ne ridusse gli ‘‘eccessi’’ a misura piu` elegante, e il VivaldiBach-Stradal resto` in repertorio fino a circa il 1940, prolungando nel Novecento l’immagine wagneriana del Bach neogotico.

L’Esercizio per Tastiera Mentre tanti compositori italiani del periodo barocco, o Ha¨ndel, che viveva in Inghilterra, o Telemann, che viveva in Germania, pubblicavano a ripetizione musiche che si diffondevano in tutta Europa, Johann Sebastian Bach, rispettabile e rispettato ma non celebre Maestro di cappella e poi Cantor, non fruı` della fama che avrebbe potuto venirgli se avesse fin da giovane fatto gemere i torchi stampanti. Nel 1726 egli fece pero` incidere a sue spese la Partita n. 1, continuo` con altre cinque Partite negli anni seguenti e riunı` nel 1731 il tutto sotto il titolo Clavieru¨ bung op. 1, cioe` Esercizio per tastiera op. 1. Bach organizzo` la diffusione del suo lavoro accordandosi con sei colleghi residenti a Dresda, Halle, Lu¨neburg, Brunswick, Norimberga e Augusta, e assicurando loro una percentuale sulle vendite. E cosı` il suo nome circolo` un po’, tanto che una copia della Partita n. 1 finı` – a Bologna! – nella biblioteca del Padre Martini, minore conventuale che presumibilmente si era rivolto a un confratello sassone chiedendogli di mandargli le novita` che venivano esibite nella celebre Fiera di Lipsia. Il frontespizio dell’op. 1 bachiana definisce, e magnifica in questo modo il contenuto: Esercizio per tastiera / consistente in / Preludi, Allemande, Correnti, Sarabande, Gighe, / Minuetti, e altre Galanterie, / preparato per dilettare l’animo degli amatori / di Johann Sebastian Bach / Maestro di Cappella di Sua Altezza Serenissima il Principe di Saxe-Weissenfels / e / Direttore del Coro Musicale Lipsiense. / OPUS 1. / Pubblicato dall’Autore. / 1731. L’op. 1 di Bach non e` una semplice raccolta di pezzi: e` una collana. E` una collana, per intanto, perche´ e` formata da un numero canonico di esemplari, sei, che era il minimo commercialmente accettabile (i concerti grossi si pubblicavano per dozzine). E` una collana, poi, perche´ ordina secondo un piano simmetrico le tonalita` e le modalita`: Si bemolle, do, la, Re, Sol, mi, e quindi alternando discesa e salita (si, la, sol, do, re, mi) e disponendo geometricamente i modi (maggiore-minore-minore e, a rovescio, maggiore-maggiore-minore). L’insieme delle tonalita` copre l’esacordo sol-mi. E ogni partita inizia con un pezzo di diversa tipologia: Praeludium, Sinfonia, Fantasia, Ouverture, Praeambulum, Toccata. Diverso anche l’ambito espressivo di ogni partita: potremmo dire, alla

Messiaen, che la prima e` verde-brillante, la seconda rosso-sanguigna, la terza giallo-splendente, e blu-fonce´ la quarta, celeste-pallida la quinta, violacupa la sesta. Molto soigne´, il tutto: il compratore non poteva lamentare che Bach fosse stato sparagnino nel dispensare i frutti della sua fantasia. Il volume contenente le Partite era indirizzato al dilettante. Come dice il frontespizio, Bach aveva pensato agli amatori, Liebhaber, non ai conoscitori, Kenner. E l’amatore avrebbe eseguito al clavicembalo o al clavicordo i prodotti che aveva acquistato per il proprio piacere o tutt’al piu` per gli ascoltatori della sua famiglia e delle famiglie amiche. Ma Bach era pur sempre Bach. Al contrario di altre pubblicazioni del tempo, e soprattutto del periodo immediatamente successivo, le Partite non erano musica tecnicamente e concettualmente semplice. Se e` vero che non si trattava, per fare un paragone con la letteratura, di testi teatrali da rappresentazione pubblica, non si trattava pero` nemmeno di racconti o di poesie banalmente ricreative, bensı` di racconti filosofici o scientifici che potevano piacere solo alle persone intellettualmente curiose e studiose. Percio`, quando il gusto volse verso le semplificazioni dello stile rococo`, le Partite nate per dilettare l’animo sprofondarono nell’oblio insieme con tutta la produzione per tastiera di Bach. Come ho detto parlando dell’Arte della fuga, le Sonate di Domenico Alberti, uscite a Londra nel 1748, avrebbero inaugurato il nuovo corso della musica per dilettanti (il lettore ricorda certamente gli accompagnamenti facilissimi in accordi spezzati che vennero e sono ancora denominati ‘‘basso albertino’’). Basso albertino, altro che contrappunti ingegnosi. Bach era out. E prima che le Partite cominciassero a rientrare nell’alveo della cultura il dilettante era pressoche´ sparito perche´ erano passati quasi duecento anni e la societa` era radicalmente cambiata. Furono i concertisti, che ripresero le Partite e che le trasferirono, con il recital, nella cultura che usiamo definire ‘‘di massa’’ anche se tale e` solo in ipotesi. Oggi le Partite hanno una diffusione concertistica e discografica che le pone ai primi posti nel gradimento che il pubblico riserva alle opere tastieristiche di Bach. La Partita n. 1 in Si bemolle BWV 825 e` la piu` breve, e` strutturalmente la piu` semplice, e` la piu` agevole tecnicamente, e` l’unica, in realta`, che cor-

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Partita n. 6 in mi

risponda pienamente al gusto medio del buon dilettante di ogni tempo. Dopo il breve ma solenne Praeludium vengono la quattro danze canoniche della suite (allemanda, corrente, sarabanda, giga), inframmezzate soltanto da due graziosissimi minuetti. La suite – il termine partita e` equivalente, e significa ‘‘composizione divisa in parti’’ – e` una specie di parlamento cosmopolita in cui siedono l’allemanda tedesca, la corrente francese, la sarabanda spagnola e la giga inglese. Nella Partita n. 1 tutte le danze, e anche il Praeludium, sono melodicamente gradevoli e attraenti, e la Giga dava anche modo al bachiano amatore di divertirsi e di fare bella figura con il gioco, non difficile, delle mani incrociate. Tutta un’altra musica, si potrebbe dire, nella Partita n. 2 in do BWV 826, che comincia con una Sinfonia in tre movimenti collegati (Grave-adagio, Andante, e un fugato a due voci senza indicazione di tempo), quasi una scena lirica con recitativo, arioso e cabaletta, e che fa onore alla tonalita` di do. La Sinfonia e` inoltre un esempio di gusti riuniti perche´ il Grave e` francese, l’Andante italiano e il fugato tedesco. Rompendo lo schema tradizionale Bach interrompe il seguito ordinario delle danze e dopo la Sarabanda sfodera un vorticoso Rondo` a due voci e un Capriccio contrappuntisticamente elaborato e tecnicamente tutt’altro che semplice, una specie di rivisitazione dello stile vivaldiano che fa assomigliare questo pezzo a una sonata di Domenico Scarlatti. Anche la Partita n. 3 in la BWV 827 esce dagli schemi consueti perche´ tra la Sarabanda e la Giga inserisce una Burlesca e uno Scherzo del tutto insoliti nelle Partite, anzi, del tutto insoliti nella musica clavicembalistica settecentesca. La Giga finale esige molto dall’esecutore, sul piano tecnico, tanto da far supporre che gli amatori del tempo di Bach fossero disposti a lavorare accanitamente sui pezzi prescelti, non a leggerli semplicemente in tranquillita` e letizia. Si pensa subito ai dilettanti di sci o di tennis che si allenano oggi come dei professionisti... La Partita n. 4 in Re BWV 828 e` sensibilmente piu` lunga delle tre che la precedono e presenta una Ouverture, fugata e con introduzione, di ampiezza inusitata e di alta difficolta`. L’Allemanda e la Corrente fanno fare bella figura all’esecutore senza troppo pretendere da lui, e l’Aria e` semplice e gradevole, cosı` come semplice e gradevole e` il Minuetto, che insolitamente non e` seguito da un ‘‘alternativo’’, un secondo minuetto. La Sarabanda e` una melodia molto ornata che potrebbe stare benissimo in una sonata per violino e clavicembalo. Ma la Giga, magnifica di vitalita` e di umorismo, mette a dura prova sia la mano destra che la mano sinistra dell’esecutore. La Partita n. 5 in Sol BWV 829, predi-

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letta da Be´la Barto´k e piu` tardi da Glenn Gould, e` anch’essa piena di vita, ma anch’essa non si cura della difficolta` che fa incontrare nei passi di agilita` della mano sinistra. Singolarissimo per la sua scrittura trasparente, ad arabesco, e` il Minuetto. Il Passepied (senza passepied II) e` una danza francese che figura qui per l’unica volta nelle Partite (la si ritrova nella Suite inglese n. 5 e nella Ouverture francese). Tremendamente difficile la Giga. La Partita n. 6 in mi BWV 830 e`, da un capo all’altro, di difficile esecuzione e anche di difficile comprensione. Si direbbe che Bach, giunto alla fine della sua iniziativa commerciale e sicuro di tenere ormai in pugno il suo pubblico, mettesse da parte ogni prudenza e scrivesse un pezzo degno delle sue capacita` di virtuoso e di musicista. Si puo` parlare della Partita n. 6 come di un polittico sulla malinconia, anzi, sulla Melancholia. La Partita si apre con la Toccata formata da una parte iniziale in stile di improvvisazione, un fugato a tre voci, e la riesposizione della parte iniziale con un diverso andamento tonale. Si tratta, in un certo senso, di una sintesi della toccata clavicembalistica, che nei modelli bachiani piu` sviluppati si articola in sei sezioni. Nella Toccata della Partita n. 6, piu` schematica, restano comunque i due momenti contrapposti – per non dire contradditori – della assoluta liberta` formale della improvvisazione e della rigorosa condotta contrappuntistica della fuga. La fantasia creatrice si diverte a giocare con un motto di pochi suoni, poi da quel motto ricava il soggetto su cui costruisce il fugato e ritorna infine al gioco sul motto. Questa condotta formale e` in realta` rara nella musica barocca che si compiace in genere di simmetrie piu` sofisticate. L’equilibrio architettonco-emotivo della Partita vede, dopo la Toccata fantasiosa e fantastica, una malinconica Allemanda e una nervosissima Corrente. L’Aria – la galanteria, come da programma! – allenta con la sua semplicita` la tensione che si era creata, ma che riprende con la ipocondriaca Sarabanda e con la Giga furiosa, separate da un’altra galanteria, il graziosissimo Tempo di Gavotta. Sviatoslav Richter, dopo aver ascoltato in disco due esecuzioni della Partita in mi scrisse nel suo taccuino: ‘‘Questa tonalita` mi e` ostile e io posso a malapena sopportarla’’ (aggiungendo che le esecuzioni non c’entravano con questa sua impressione). Ed e` veramente impegnativo per chiunque reggere la densita` emotiva della Partita, e specialmente della Sarabanda che ne sta al centro. La tonalita` di mi minore era poco praticata nella prima meta` del Settecento perche´ con il temperamento inequabile, che era il piu` diffuso, il re diesis veniva predisposto – le corde erano le stesse – per la tonalita` di mi bemolle, 35

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non di mi minore. Bach, che come sappiamo accordava il clavicembalo secondo il buon temperamento, era in grado di superare questo problema, e tuttavia impiego` pochissime volte la tonalita` di mi. Eccezionale l’espressione della Partita n. 6. Ma eccezionale anche la tonalita`. Non sappiamo quante copie dell’op. 1 venissero smerciate, ma dovettero essere piu` di cento, perche´ con cento copie si pagavano le spese e con la centounesima cominciava il guadagno. Se Bach ando` oltre la Partita n. 1 significa che stava guadagnando, e siccome le notizie giravano allora prontamente, i boatos del successo di vendita dell’op. 1 del maestro lipsiense divennero ben presto noti agli editori. Ormai svezzato dall’op. 1 Bach trovo` nel 1735 – a cinquant’anni – un editore di Norimberga che accetto` il seguito dell’Esercizio senza fare sborsare un soldo all’Autore. La seconda parte dell’opera 1 comprende il Concerto nel gusto italiano in Fa BWV 971 e la Ouverture nello stile francese in si BWV 831. Le civilta` dominanti in Europa erano allora l’italiana, la francese e la tedesca. Ma le corti tedesche influenzate dagli splendori del Re Sole erano generalmente filofrancesi, e Bach, a Lu¨neburg, aveva eseguito e aveva fatto copie di Couperin, Dieupart e de Grigny, oltre ad aver conosciuto personalmente, molto piu` tardi, il francese Louis Marchand che, come tutti sanno, si sottrasse con una fuga notturna al... duello all’organo che avrebbe dovuto essere ingaggiato fra lui e Bach. Alla corte di Weimar, come abbiamo gia` visto, Bach aveva pero` trovato un orientamento culturale del tutto diverso e aveva studiato e trascritto per clavicembalo solo molti concerti, italiani o italianeggianti, di vari autori. Egli era dunque bene armato per poter metamorfosare alla tedesca il gusto italiano e lo stile francese. I concerti e le ouverture erano pezzi per formazioni orchestrali, e negli anni trenta le orchestre erano ormai in grado di produrre abitualmente gli effetti di sbalzi della dinamica che all’inizio del secolo, con Corelli, avevano fatto sensazione a Roma. Il normale clavicembalo era capace di variare la dinamica solo di poco e solo con una manovra macchinosa. Bach scelse allora il piu` raro clavicembalo con due manuali, cioe` tastiere, nel quale si poteva predisporre il forte a una tastiera e il piano all’altra. Non erano possibili il gonfiamento e lo sgonfiamento della dinamica (crescendo e diminuendo), ma era possibile realizzare un fac-simile della alternanza di due masse, quella del ‘‘concerto grosso’’ e quella del ‘‘concertino’’, oppure mettere in maggiore evidenza uno fra due eventi concomitanti. Tutte queste possibilita` vennero sfruttate nel Concerto italiano, con la alternanza della orchestra 36

Concerto nel gusto italiano BWV 971

al completo e dei solisti nel primo movimento, con la prevalenza dei solisti sulla massa, che cortigianamente li accompagna, nel secondo movimento, e con i giochi di piano e forte simultanei nel terzo movimento a moto perpetuo. Il primo movimento, in Fa, alterna regolarmente il tutti, cioe` l’orchestra, e il soli; il tutti ha un solo tema, che viene ripreso in vari modi e in varie tonalita`, mentre il soli ha piu` temi. E` abbastanza singolare il fatto – ma capita anche nei brani introduttivi di alcune delle Suite inglesi – che il primo episodio venga ripetuto senza varianti alla fine, cosicche´ si ha una specie di forma circolare: il primo movimento potrebbe essere ripetuto all’infinito. Il secondo movimento, in re, presenta una lunghissima e sinuosissima melodia ornata, di tipo oboistico, su un accompagnamento molto discreto e parco. Maurice Ravel asserı` di aver seguito passo a passo il secondo movimento del Concerto per clarinetto di Mozart nell’analogo movimento del suo Concerto in Sol. Ma questa e` secondo me una falsa pista, messa lı` da Ravel per sviare i segugi dalla pista vera. E la pista vera e` senza alcun dubbio il secondo movimento del Concerto italiano. Il terzo movimento, in Fa, e` , come gia` dicevo, un moto perpetuo vivacissimo e tutto giocato sugli scambi di prospettiva fra due eventi, che a vicenda balzano in primo piano e ritornano in secondo piano. Anche in questo caso l’ultimo episodio e` identico al primo, e la forma e`, potenzialmente, circolare. Nella Ouverture francese, tutta in si, le possibilita` dei due manuali sono molto evidenti nel pezzo conclusivo, che non a caso e` intitolato Echo, e nel pezzo introduttivo, la Ouverture che da` il titolo al tutto, con un rapido fugato centrale incorniciato da due movimenti lenti nello stile di Lulli. Le danze sono quelle tradizionali della suite – corrente, sarabanda, giga –, ma con l’ovvia esclusione della tedesca allemanda e con l’aggiunta delle francesi gavotta, passepied e bourre´e. Queste ultime sono con alternativo, cioe` sono doppie: viene eseguita la prima, viene eseguita la seconda e viene rieseguita la prima (la riesecuzione della prima danza avviene di solito senza i ritornelli, ma la filologia ha ormai accertato che questa pratica non ha fondamento storico). Una osservazione marginale ma non priva di importanza riguarda la tonalita`. La prima versione della Ouverture francese era in do. Bach trascrisse il pezzo in si per renderlo piu` adatto all’ethos delle tonalita`, o perche´ il rapporto tra il fa del Concerto e il si della Ouverture ricreava il ‘‘fa contra si’’ che per i teorici antichi era il ‘‘diabolus in musica’’? Come mi e` gia` accaduto di dire, il Concerto italiano fu, insieme con la Fantasia cromatica e fuga, la sola composizione originale di

Aria con diverse variazioni BWV 988 (Variazioni di Goldberg)

Bach che entro` a far parte nella seconda meta` dell’Ottocento del repertorio concertistico che si andava formando. A partire da circa il 1920 il Concerto italiano seguı` pero` il triste destino della Fantasia cromatica e fuga, che dovette cedere alle Partite il ruolo di leader. La Ouverture francese, smisuratamente piu` lunga e molto meno brillante del Concerto italiano, non ebbe bisogno di ritirarsi nell’ombra perche´ dall’ombra non era mai uscita, ne´ nella sua interezza ne´ per qualcuno dei suoi undici pezzi. Grave e severa e` la Ouverture francese, festoso e persino sbarazzino e` il Concerto italiano. Bach, che non varco` mai i confini della Germania, gli italiani e i francesi li immaginava cosı`. La terza parte dell’Esercizio per tastiera, uscito nel 1739, comprende Vari Preludi sul Catechismo e altri Inni, piu` una Fuga, il tutto per organo, e alla fine i Duetti in mi, Fa, Sol, la BWV 802-805 per clavicembalo. La ragione che spinse Bach a chiudere una monumentale raccolta organistica con quattro pezzi per clavicembalo, contrappuntisticamente semplici e di stile piano, e` un bel rebus che nessuno ha mai sciolto. Si tratta in pratica di quattro invenzioni a due voci, piu` estese di quelle che Bach aveva composto molti anni prima (la dimensione e` quella delle Sinfonie a tre voci) e perfettamente riuscite, che pero`, nella lussureggiante selva delle opere clavicembalistiche di Bach, hanno stentato a farsi luce e che, anzi, continuano a rimanere nel folto. Il piu` sorprendente dei quattro Duetti e` il secondo, piccolo gioiello di ingegnosita` contrappuntistica. L’ordito e` quello di una fughetta, ma Bach vi inserisce dei canoni rigorosi a vari intervalli di distanza e impiega il soggetto per moto contrario. Anche il quarto Duetto e` contrappuntistico, mentre il primo e il terzo si muovono nello spirito della danza. Nell’insieme i quattro Duetti configurano due coppie di preludio e fughetta, ma le tonalita` cambiano a ogni pezzo. E` evidente che il disegno generale prevede l’alternanza dei modi (minore-maggiore-maggiore-minore) e la ‘‘dislocazione’’ su quattro gradi congiunti (mi, fa, sol, la). Il seguito dei quattro Duetti presenta quindi un insieme singolarissimo perche´ piu` geometrico che logico ma, nello stesso tempo, e` indice della mentalita` sistematica – posso dire ossessiva? – del vecchio Bach. L’ultima parte dell’Esercizio per tastiera, che uscı` nel 1741, comprende soltanto l’Aria con diverse variazioni BWV 988, nota con il titolo Variazioni di Goldberg. Il titolo ormai tradizionale, sebbene chiaramente apocrifo, e` dovuto a un aneddoto riferito nel 1802 da Nikolaus Forkel, primo biografo di Bach. Secondo il racconto del Forkel, l’Aria con diverse variazioni era stata commissionata a

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Bach dall’ambasciatore russo presso la corte sassone di Dresda, Hermann Carl von Keyserlingk, che soffriva di insonnia e che alleviava la noia delle notti in bianco ascoltando pezzi per clavicembalo suonati da Johann Gottlieb Goldberg, ex allievo del figlio maggiore di Bach, Wilhelm Friedemann, e allievo di Bach nel 1742 e nel 1743. La cronologia, evidentemente, non quadra per questo aspetto, perche´ Bach pubblico` le Variazioni nel 1741. Ma non quadra anche per altre ragioni che ci vengono spiegate molto bene dal solito Christoph Wolff: ‘‘[...] tutti gli indizi estrinseci ed esteriori (la mancanza della dedica formale a Keyserlingk, richiesta dal protocollo settecentesco, e la tenera eta` di Goldberg, allora [1741] quattordicenne), indicano che le cosiddette Variazioni di Goldberg non nacquero come lavoro su commissione indipendente, ma che fecero parte fin dall’inizio del progetto della Clavieru¨bung, di cui costituiscono un grandioso finale’’. Se si squaglia la prima parte dell’aneddoto narrato da Forkel si squaglia necessariamente anche la seconda parte. Forkel dice che il Conte compenso` Bach donandogli un calice d’oro pieno di auree monete. Ci dispiace molto che un piccolo tesoro non sia passato dalle mani di un magnate nelle mani di un musico carico di figli. Che peccato! Cio` non esclude, naturalmente, che il giovane Goldberg, entrato al servizio del Keyserlingk, non utilizzasse le Variazioni per distrarre il suo padrone insonne (non per farlo scivolare dolcemente nelle braccia di Morfeo). In ogni caso, una volta eliminato per sgravio di coscienza il fondamento storico dell’aneddoto continueremo a chiamare con il nome tradizionale l’Aria con diverse variazioni. Per i tedeschi, per i quali GoldBerg significa Montagna d’oro, il titolo apocrifo diventa persino simbolico: Variazioni della Montagna d’Oro. Per noi e` semplicemente piu` comodo del titolo originale, ... e ci fa anche ricordare il povero allievo di Bach, brillante clavicembalista e compositore di un certo vivace ingegno, che morı` a soli ventinove anni. L’Aria che da` lo spunto alle variazioni, gia` contenuta nel Quadernetto per Anna Magdalena (1725), e` di trentadue battute, suddivise in due parti simmetriche e con ripetizione di ciascuna parte. Il basso delle prime otto battute e` identico a quello del tema nella Chaconne avec 62 variations di Ha¨ ndel, pubblicata ad Amsterdam nel 1732 e a Londra nel 1733 ma composta poco prima del 1710. Non e` possibile stabilire se Bach conoscesse il pezzo di Ha¨ndel in una copia manoscritta o se entrambi i compositori avessero attinto a un originale che non conosciamo. Sul basso Bach lavoro` in due modi diversi: aggiungendogli 37

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Aria con diverse variazioni BWV 988 (Variazioni di Goldberg)

ventidue battute ne fece la base dell’Aria, e prendendone come base le prime otto note annoto` sulla sua copia personale della quarta parte della Clavieru¨bung quattordici canoni, scoperti soltanto nel 1975. Comporre canoni su un testo dato e creare melodie su un basso dato era, come ancora avviene oggi nella didattica della composizione, un normalissimo esercizio di abilita`. Se i canoni di Bach fossero dodici saremmo nella consolidata tradizione del Settecento. Invece sono quattordici. Perche´? O, meglio, c’e` un perche´? Il lettore che mi ha seguito fino a qui dara` lui stesso la risposta al perche´: il quattordici e` il numero che simboleggia la persona di Bach. Quando Bach decise alla fine di accettare l’invito del suo ex-allievo Mizler ed entro` come quattordicesimo membro nella Societa` per la Scienza Musicale dovette donare alla Societa` stessa il suo ritratto: poso` allora per il pittore Elias Gottlob Haussmann tenendo in mano un foglietto con scritto sopra uno dei quattordici canoni sul basso delle Goldberg: non il quattordicesimo, tuttavia, ma il tredicesimo (Bach non credeva evidentemente che il tredici fosse la ‘‘dozzina del diavolo’’). Fino al 1975 nessuno fu in grado di capire che cosa mai contenesse quel foglietto fra le mani del Cantor. Adesso lo sappiamo. Ma nessuno ha ancora incluso come appendice alle Goldberg, se non in qualche disco, i quattordici canoni. La variazione non e` una forma ma un genere, e sebbene siano esistite alcune tipologie tradizionali di cui i compositori si servivano per dare una struttura all’insieme si puo` affermare che ogni grande serie di variazioni e` costruita in un modo unico, irripetibile. Le trenta variazioni delle Goldberg (detto per inciso, il 30, cioe` 10 x 3, e` il numero della pienezza e della perfezione) sono suddivise in dieci gruppi di tre (10 e` il numero dei Comandamenti, 3 e` il simbolo della Trinita`). Nei primi nove gruppi l’ultima variazione e` un canone a due voci con un basso accompagnante (il basso manca solo nel nono e ultimo canone). L’accompagnamento, per cosı` dire, addolcisce l’impatto sull’ascoltatore della rigorosa scrittura contrappuntistica, e addolcendolo rende il discorso piu` colloquiale rispetto a quello, arcigno, dei quattordici canoni sul basso delle Goldberg o a quello dei canoni dell’Arte della fuga. Nelle Goldberg il primo canone (terza variazione) e` all’unisono: la seconda voce ripete esattamente quello che ha appena fatto la prima, come se ne ripercorresse subito le orme camminando a un metro di distanza. Il secondo canone (sesta variazione) e` alla seconda, come se la seconda voce rifacesse il percorso della prima ma, oltre che un metro indietro, anche spo38

stata di un metro a lato. I successivi canoni sono alla terza, alla quarta, ecc., fino alla nona (ventisettesima variazione); ma il canone alla quinta (quindicesima variazione) e` per moto contrario: come se la seconda voce, oltre che spostata a lato di cinque metri, andasse in direzione opposta a quella della prima. Il decimo, ultimo gruppo di tre variazioni ciascuno si conclude con un Quodlibet (a piacere, letteralmente; nell’Italia del Settecento il termine usato comunemente, invece di Quodlibet, era Misticanza). Nel Quodlibet Bach sovrappone al basso dell’Aria le melodie di due canzoni popolari. Che si tratti di canzoni popolari non ce lo dice lui, Bach: ce lo fa sapere il suo allievo Johann Christian Kittel, e ne cita gli incipit che dicono rispettivamente – in tedesco, s’intende – ‘‘Sono cosı` a lungo restato lontano da te, ritorna, ritorna, ritorna’’ e ‘‘Cavoli e rape mi hanno fatto fuggire. Se mia madre avesse cucinato della carne sarei restato piu` a lungo’’. Canzoni popolari, disse il Kittel. Ma ci volle molto e molto tempo per scoprire le musiche originali, sfruttate da Bach solo parzialmente. ‘‘Cavoli e rape’’ e` una Bergamasca – anzi, Pergamasca – emigrata dalla Lombardia nella Germania centrale e contenuta in un codice della fine del Seicento; l’altra canzone e` stata alla fine ritrovata in una pubblicazione uscita a Lipsia nel 1696. La divisione in dieci gruppi, con un ordinamento progressivo dei canoni e con il culmine del Quod libet, scandisce l’articolazione rigorosamente geometrica della struttura. Alla divisione per gruppi di tre variazioni s’affianca pero` nelle Goldberg un altro tipo di divisione, una divisione in due grandi parti simmetriche. La sedicesima variazione e` una vera e propria ouverture alla francese (introduzione in movimento lento, seguita da un fugato), nettamente differenziata rispetto a tutte le altre variazioni. Siccome Bach prescrive che l’Aria venga ripetuta dopo la trentesima variazione, nella forma dell’opera si crea questa divisione dei trentadue pezzi in sedici e sedici (trentadue, lo ricordo al lettore, sono anche le battute dell’Aria): Aria e 15 variazioni (I-XV) 15 variazioni (XVI-XXX) e Aria. La divisione in due parti e` talmente netta da consigliare a Jo¨rg Demus, tenuto conto della durata di circa ottanta minuti delle Goldberg, di fare un intervallo dopo la quindicesima variazione, emotivamente intensissima, e di riprendere con la festosa sedicesima variazione dopo una sosta di una ventina di minuti. Si tratta di un’idea eminentemente pragmatica, che contrasta con il costume odierno e che viene quindi accettata con difficolta` (per non dire con scandalo), ma che non turba affatto, secondo me, la ricezione dell’opera e che, anzi, la

Aria con diverse variazioni BWV 988 (Variazioni di Goldberg)

favorisce. Un’altra iniziativa pragmatica, anch’essa, oggi, dura da... digerire, fu quella di Jo¨rg Ewald Da¨hler, allievo di un antesignano della ‘‘prassi autentica’’ come Fritz Neumeyer, che a ogni variazione diede un titolo caratteristico, di gusto francese settecentesco. Questi i titoli delle prime tre variazioni: Les Polonaises (Le Polacche), La conversation galante (La conversazione galante), Les Deux Bergers (I due pastori). Non vado oltre perche´ non sono autorizzato a pubblicare l’intero set di titoli, e anche perche´ non vorrei sconcertare chi ritiene che il pregio maggiore del testo artistico risieda nella sua incontaminata autenticita`. Mi permetto tuttavia di far osservare che, se e` pur vero che nei titoli apocrifi del Da¨hler c’e` molto di Bach alla Couperin e anche un po’ di Bach alla Grieg, e` vero altresı` che il Da¨hler non e` un dilettante ma un filologo, uno studioso tutt’altro che incline a mercificare l’arte. I suoi titoli sono da intendere come segnali verso chi reagisce alla musica, invece che per dottrina, per sensibilita` e per gusto, e mirano a facilitare e a favorire la comprensione delle Goldberg, indirizzando concretamente l’immaginazione dell’ascoltatore. In realta`, sia l’iniziativa di Demus che l’iniziativa di Da¨hler che, per altro verso, l’iniziativa di un interprete rigoroso come Alfred Brendel, che intitola una per una le 33 Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, colgono un problema fondamentale dell’odierno concertismo: come si possono presentare al pubblico, in concreto, lavori che erano stati pensati per esecuzioni private? Come si possono unire le mille o le millecinquecento persone nell’ascolto di opere pensate per un pubblico di due, tre o, al massimo, di dieci ascoltatori? Si tratta di un problema che sta alla base del concertismo solistico, che durante il secolo passato era stato progressivamente messo in ombra e che sta oggi riemergendo. Liszt aveva scritto nel 1855 che se Schumann avesse dato alla sua op. 15 il titolo Bagatelle, invece di Scene infantili, avrebbe reso piu` ardua la comprensione del suo lavoro. E, Liszt, il concertismo non solo l’aveva praticato: lo aveva anche inventato. L’aneddoto che diede origine al titolo apocrifo Variazioni di Goldberg si trova, come ho gia` detto, nella biografia di Bach che Nikolaus Forkel pubblico` nel 1802. Nello stesso anno usciva una nuova edizione delle Goldberg che andava a sostituire la prima, ormai introvabile. Questa edizione era nota a Hoffmann che, o parafrasando una sua esperienza o facendo ricorso alla sua lussureggiante bizzarra fantasia, introdusse l’Aria con diverse variazioni nel racconto Sofferenze musicali del maestro di cappella Johannes Kreisler. In una bril-

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lante serata mondana con molti invitati viene chiesto a Kreisler di far sentire le Goldberg (non ancora denominate cosı`). Egli sa bene a che cosa si andra` incontro e vorrebbe dunque evitare lo scandalo, ma alla fine si lascia consigliare dai molti bicchieri di punch che ha bevuto e accetta l’invito, sibilando fra i denti ‘‘ascoltate, e crepate di noia’’. Infatti, a poco a poco il pubblico se la squaglia, e alla trentesima variazione Kreisler si ritrova da solo, davanti al bicchiere del punch e a una musica che provoca in lui un’ubriacatura maggiore di quella dell’alcol: ‘‘Le note prendevano vita, scintillavano, saltellavano attorno a me, un fuoco elettrico passava dall’estremita` delle mie dita ai tasti’’. A parte questa, forse fantastica e forse no, non abbiamo in tutto l’Ottocento notizie certe di altre esecuzioni complete. Sembra che Liszt eseguisse una parte delle variazioni. Nel 1883 Joseph Rheinberger trascrisse le Goldberg per due pianoforti, distribuendo il tessuto originale fra i due strumenti e aggiungendo raddoppi e contrappunti. L’effetto era curioso: stereofonico, accordale, molto – come dire? – avvolgente. Non abbiamo notizia di esecuzioni pubbliche della versione Rheinberger, che solo trent’anni piu` tardi fu ripresa e ritoccata da Reger, ma che anche in questa forma non ebbe fortuna. Un’esecuzione parziale, su un clavicembalo con due tastiere, venne proposta a Londra nel 1897 da Alfred Hipkins. Agli inizi del Novecento le Goldberg entrarono nel repertorio concertistico del pianoforte con Jose´ Vianna da Motta e con Ferruccio Busoni, che le ristrutturarono sia abolendo i ritornelli che alcune variazioni (la versione di Busoni, pubblicata, e` del massimo interesse documentario). Vari altri pianisti ripresero le Goldberg, ma le prime esecuzioni integrali di cui si abbia notizia sono, negli anni venti e trenta, quelle di Harold Samuel, di Rosalyn Tureck e di Claudio Arrau al pianoforte e di Wanda Landowska al clavicembalo moderno. Nel 1950, bicentenario della morte di Bach, veniva pero` posto con forza il problema dello strumento originale, il clavicembalo con due tastiere, di cui il clavicembalo della Landowska era una modernizzazione filologicamente inattendibile. Bach indica, in ciascuna delle variazioni, se debba essere impiegata una sola tastiera o se ne debbano essere impiegate due. Il trasferimento delle Goldberg al pianoforte comportava non lievi problemi di tecnica, tuttavia risolvibili, e insolubili problemi di timbrica. L’esecuzione al pianoforte, che era sicuramente non-autentica, venne pero` ‘‘salvata’’ dalla genialita` di Glenn Gould, autore nel 1955 di una celeberrima registrazione discografica, e dalla tetragona resistenza di Alexis Weissenberg, che ne39

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Fantasia cromatica e fuga BWV 903

gli anni sessanta accetto` il rischio di non essere a` la page e di subire i rabbuffi dei critici piu` severi. Dopo una ventina d’anni si fece tuttavia strada la convinzione che l’impiego del clavicembalo con due manuali garantiva sı` l’autenticita` filologica, ma non l’autenticita` sociologica, perche´ l’esecuzione per un numeroso pubblico era del tutto al di fuori delle prospettive e delle intenzioni di Bach. Inautentico per inautentico, allora il pianoforte, con la sua massa di suono molto maggiore e con la sua tradizione concertistica, era dunque piu` efficace in una grande sala. E cosı` ridivennero usuali le esecuzioni pubbliche al pianoforte, mentre le esecuzioni al clavicembalo avvengono quasi esclusivamente in sede discografica. In qualche disco si trovano, oltre alle Goldberg, anche i quattordici canoni. Yurji Takahashi registro` le Goldberg al pianoforte e i canoni con il sintetizzatore. In disco si

trovano le Goldberg eseguite al clavicembalo da Ce´line Frisch, i canoni eseguiti da un sestetto d’archi e le due canzoni popolari della trentesima variazione eseguite da una cantante, accompagnata da un piccolo complesso strumentale. Delle Goldberg esistono infine in disco, a ulteriore dimostrazione della diffusione che hanno raggiunto, esecuzioni all’organo, esecuzioni in trascrizione per trio d’archi ed esecuzioni della versione RheinbergerReger per due pianoforti. Nelle esecuzioni pubbliche sta tuttavia emergendo il problema a cui prima accennavo: quanti ascoltatori riescono a distinguere auditivamente le variazioni ordinarie e le variazioni a canone? E, di conseguenza, quanti riescono a capire l’articolazione della forma, oggetto di evidente e gelosa cura da parte di Bach? In conclusione, quanto e` utile, un ascolto ritualistico?

Fantasie e Toccate La Fantasia cromatica e fuga in re BWV 903 ci e` pervenuta in varie copie posteriori al 1730, e con diverse e sensibili varianti, ma e` andato smarrito il manoscritto autografo, sicche´ non sappiamo con precisione quando venne composta e, tanto meno, in quale circostanza. Si suppone – ma e` solo una ipotesi – che venisse scritta verso il 1720 e modificata verso il 1730. La composizione fu pubblicata nel 1802 in una versione che, a detta del curatore, era fedele al modo di esecuzione del figlio maggiore di Bach, Wilhelm Friedemann, e che da questi era pervenuta a Forkel e ai suoi allievi. Solo dopo il 1850 venne affrontata la pubblicazione della Fantasia cromatica e fuga secondo criteri scientifici. Ma nel frattempo il pezzo, che con la Fantasia alternante passi di virtuosismo e recitativo, e con l’imponente Fuga costituiva un dittico ideale per l’apertura di un programma da concerto, era entrato in repertorio nella versione del 1802, ulteriormente arricchita e, in qualche caso, in una vera e propria trascrizione. Ho detto all’inizio in quale modo Mendelssohn modernizzasse gli episodi in arpeggi. In modo piu` radicale si comporto` Hans von Bu¨ low, che nel 1863 tratto` il testo come se fosse stato pensato per un organo da camera. La versione Bu¨low ottenne un completo trionfo e fu generalmente adottata fino alla grande guerra. Minore diffusione ebbero altre versioni, fra cui quella di Ferruccio Busoni. L’eccesso di popolarita` fece pero` sı` che verso il 1950 gli interpreti rifiutassero la Fantasia cromatica e fuga. Oggi il dittico sta timidamente tornando nei programmi di concerto, sebbene non si possa dire che si sia reinserito nell’attuale repertorio. La Fantasia e` formata da una parte di carattere improvvisatorio, molto virtuosi-

stica e, come dicevo, con episodi in accordi arpeggiati per i quali Bach suggerisce la realizzazione dell’arpeggio solo all’inizio. La seconda parte e` un recitativo, ed e` qui che il cromatismo raggiunge limiti di audacia veramente impressionanti, limiti che ci fanno capire perche´ Hans von Bu¨low inventasse la metafora della ‘‘musica dell’avvenire del sec. XVIII’’. Cromatico e` il soggetto della Fuga, a tre voci, vastissima ma secondo me non cosı` inventiva come altre fughe di Bach. La scrittura molto lineare della Fuga non poteva soddisfare i concertisti dell’Ottocento, che la rimpolparono in vario modo. Ma la redazione originale, alla quale si e` tornati negli ultimi decenni del Novecento, non si adatta in realta`a, specie nelle ultime battute, al grande ambiente della sala da concerto. La Fantasia e fuga in la BWV 904 (1725 ca.) non fu pubblicata da Bach e giacque fra le sue carte mentre molte altre sue musiche uscivano gia` nel primo decennio dell’Ottocento. Lo ‘‘scopritore’’ di questa composizione fu Hans von Bu¨low, che nel 1866 ne pubblico` la sua revisione e che la eseguı` molto spesso, facendola altamente apprezzare dal pubblico. Non divenne mai veramente popolare, la Fantasia e fuga in la, non pote´ mai competere con la Fantasia cromatica e fuga, ma rimase in repertorio fino alle soglie degli anni venti, cioe` fino a Ferruccio Busoni, che a sua volta la ripubblico` in una sua revisione, con il corredo di una approfondita analisi. Nella Fantasia e fuga in la, dura, tagliata nella roccia, troviamo l’immagine del Bach teoretico, del Bach austero che regola il servizio divino della Chiesa di S. Tommaso. Il titolo Fantasia non e` indicativo del contenuto quale lo intendiamo di solito, ma dev’essere pensato in senso arcaico, come composizione

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Toccata BWV 916

strumentale derivata dal mottetto vocale. La scrittura a quattro voci predomina da un capo all’altro, alternandosi – per un gioco di rarefazioni e di condensazioni – con la scrittura a tre voci e con qualche riempimento armonico (cinque, sei voci). La scala e l’arpeggio sono alla base del movimento ritmico continuato, la forma tende verso la circolarita`, con la ricomparsa dell’inizio poco prima della fine, e solo un atto di imperio del suo creatore la arresta con una rapida conclusione in modo maggiore. L’immagine che la Fantasia lascia nell’ascoltatore e` quella del fluire del tempo in un mondo arcano e inanimato. La doppia Fuga, contrappuntisticamente non molto elaborata, e` costruita su un lungo soggetto diatonico e su un breve soggetto cromatico che subentra a un terzo circa della composizione. Ai due terzi circa ritorna il primo soggetto. E qui Bach sfodera una sorpresa: il secondo soggetto viene attaccato al primo prima di essergli, come tutti si aspettano, sovrapposto. E` oggi difficile sentire, piu` che capire, che cosa significasse emotivamente al tempo di Bach la compresenza di diatonismo e di cromatismo, che rappresentano mondi espressivi contrapposti. Sembra che nella giustapposizione e nella sovrapposizione dei due soggetti sia da ravvisare un preciso simbolismo. Ma sarebbe rischioso volerne determinare l’esatta natura. La Fantasia in do BWV 906 (1738 ca., 1807) e` in un solo movimento. Doveva essere il brano introduttivo di una fuga, ma la fuga, su soggetto cromatico, non fu mai terminata. Sia la forma, in due parti con ritornello, sia il contenuto, con due temi contrastanti, sviluppo e riesposizione (limitata al primo tema), sia la tecnica ardita e bravuristica fanno pensare a una rivisitazione stilistica di una sonata di Domenico Scarlatti. Ma Scarlatti viveva in Spagna, e solo nel 1738 pubblicava, a Londra, i suoi Esercizi. Sembra dunque molto improbabile che Bach potesse avere una conoscenza dell’opera di Scarlatti. E` invece da supporre che egli tenesse presenti gli autori italiani che aveva avuto familiari nel periodo di Weimar, in particolare Vivaldi, sui quali era ritornato negli anni trenta per la sua attivita` concertistica nel Caffe` Zimmermann. La Fantasia in do fu molto nota in passato. Oggi, data la sua brevita`, figura molto raramente nei programmi di recital. Ed e` un peccato, perche´ si tratta di un lavoro di compattezza e di invenzione rare. Altre Fantasie attribuite a Bach sono di dubbia autenticita`. Le Toccate per clavicembalo di Bach sono sette e si collocano tutte nei periodi di Arnstadt, di Mu¨lhausen e di Weimar. La piu` antiche sono la Toccata in mi BWV 914 (prima del 1708, 1839), la Toccata in re BWV 913 (prima del 1708, 1801) e la Toccata in sol BWV 915 (prima del 1708, 1839).

Johann Sebastian Bach

Fra le tre preferisco personalmente quella in mi, in quattro movimenti collegati, con un breve movimento introduttivo, un fugato con due soggetti, un recitativo e una spigliatissima fuga. La snellezza formale e la facilita` discorsiva fanno di questa Toccata un modello della facilita` inventiva del giovane Bach. La Tocccata in re minore, che e` di circa un 50% piu` lunga, e` in cinque movimenti collegati, contiene due fughe, di cui la seconda a due soggetti, ed e` molto piu` elaborata e ‘‘dotta’’, ma secondo me non cosı` spontanea e fresca. E la Toccata in sol, ancora in cinque movimenti collegati e con due fughe, di cui una con due soggetti, e` piu` virtuosistica e piu` massiccia di scrittura, ma anche in essa sembra a me di riscontrare un impegno compositivo che prevale sulla continuita` discorsiva. La Toccata in Re BWV 912 (1710 ca., 1839) e` di proporzioni monumentali. Sei movimenti collegati, con un ampio Allegro, un fugato e una lunga fuga doppia, molto virtuosistica, e tre movimenti brevi che fanno da introduzione ai movimenti lunghi. Qualche indicazione di forte e di piano fa supporre che Bach pensasse al clavicembalo con due tastiere. La Toccata in Re fu fatta conoscere al pubblico dei concerti da Wanda Landowska, al clavicembalo, e da Dinu Lipatti, al pianoforte. Abbastanza nota negli anni fra le due guerre, e` poi comparsa raramente in programmi di recital. La Toccata in fa diesis BWV 910 (1717 ca, 1837) e la Toccata in do BWV 911 (1717 ca., 1839) sono opere pienamente mature. La prima e` un lavoro introspettivo con un preludio introduttivo, un arioso melanconico e melodicamente affascinante, una fuga a tre voci, un Presto e staccato, veemente e scattante, un intermezzo, e la seconda fuga, a quattro voci, cromatica, che termina con una rapida chiusa di tipo improvvisatorio. La Toccata in do e` piu` essenziale di struttura perche´, dopo un sintetico movimento introduttivo quasi improvvisazione, prosegue con un breve Adagio, non melodico ma contrappuntistico, e con una estesissima fuga a tre voci in due parti, separate da un brevissimo Adagio. La prima parte della fuga e` costruita su un solo soggetto, lunghissimo. Nella seconda parte questo soggetto viene affiancato da un altro, e la scrittura diventa piu` virtuosistica. Una rapida conclusione di tipo improvvisatorio chiude anche questa Toccata. La Toccata in Sol BWV 916 (1719 ca., 1843) e` meno articolata formalmente e meno densa di contenuti. Un brillante movimento introduttivo, un Adagio in mi, una fuga a tre voci spigliatissima formano una composizione meno ‘‘vissuta’’ delle due che la precedono. E` da notare, nel primo movimento, la scrittura in accordi paralleli in entrambe le mani, molto rara in Bach. 41

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Invenzioni e Sinfonie Le quindici Invenzioni (1720 ca., 1801) e le quindici Sinfonie (1720 ca., 1801), note rispettivamente come Invenzioni a due voci e Invenzioni a tre voci, furono ordinate e messe in bella copia fra il Quadernetto per Wilhelm Friedemann Bach del 1720 e il primo libro del Clavicembalo ben temperato del 1722. Quindici diverse tonalita`, non ventiquattro come nel Clavicembalo. Le tonalita` che Bach non affronta sono, in entrambe le raccolte, quelle che con il temperamento inequabile diventavano impraticabili perche´ insopportabilmente stonate, e cioe`: Do diesis e do diesis, mi bemolle, Fa diesis e fa diesis, La bemolle e sol diesis, si bemolle, Si. Parlando del Clavicembalo ben temperato ho gia` detto che Bach non fu mosso da intenti astratti o scientifici ma dalla volonta` di presentarsi al concorso per il posto di Cantor della Chiesa di S. Tommaso con opere didattiche che attestassero la sua attitudine all’insegnamento, perche´ il Cantor era sı` il compositore delle musiche per il servizio liturgico, ma era anche l’istruttore del coro di voci bianche. Percio` Bach non solo mise in bella copia le Invenzioni, ma le doto` anche di una breve prefazione con la quale diceva che quelle pagine servivano per imparare sia il cantabile (cantable Art), sia la composizione. Da quanto risulta dai documenti Bach aveva iniziato la sua attivita` di insegnante fin dal 1711, quando aveva dato lezioni a un paggio del granduca di Weimar. Egli aveva quindi accumulato una larga esperienza didattica e nel 1720, mettendo davanti alla tastiera il suo primogenito maschio, aveva cominciato a dare un assetto sistematico alle sue esperienze. Con le Invenzioni, egli diceva, si imparava il cantabile – che e` da intendere, in senso lato, come declamazione – e si imparava a comporre. Vediamo come cio` avvenisse, prendendo ad esempio la Invenzione a due voci in Do, quella che ad apertura di libro sarebbe capitata sotto gli occhi degli esaminatori che dovevano decidere in merito alla nomina del Cantor. Invenzione in Do, suddivisa chiaramente in tre parti. La prima parte va da Do a Sol, cioe` dalla tonica alla dominante. La seconda parte va da Sol a la, cioe` dalla dominante alla tonalita` relativa minore di Do. La terza parte va da la a Do. Le proporzioni sono queste: prima parte di sei battute, seconda parte di otto, terza parte di otto. Sei, otto, otto, totale ventidue. La sezione aurea di ventidue cade a 13,86, e quindi, praticamente, alla battuta 14. Intuitivamente, perche´ i musicisti non facevano i calcoli che erano stati studiati nella architettura e nella pittura, il discente imparava a ‘‘tagliare’’ la composizione non solo in tre parti, ma anche 42

Invenzioni

secondo una proporzione che, a detta dei teorici delle arti figurative, era quella esistente fra la figura umana e la realta` oggettiva. La tecnica compositiva della Invenzione e` quella imitativa: il ‘‘soggetto’’ viene proposto e riproposto piu` volte dalla prima voce (mano destra), viene ripreso – ‘‘risposta per imitazione’’ – dalla seconda voce (mano sinistra), dando luogo a ‘‘esposizioni’’ e ‘‘riesposizioni’’. Il soggetto viene poi sfruttato in ‘‘divertimenti’’ dalla prima o dalla seconda voce, e mentre una voce svolge il ruolo principale, l’altra la accompagna con un ‘‘controsoggetto’’. Sia le esposizioni che le riesposizioni che i divertimenti possono sfruttare il soggetto cosı` come viene presentato, per ‘‘moto retto’’, o per ‘‘moto contrario’’, con gli intervalli ascendenti che diventano discendenti e viceversa. Nella Invenzione in Do abbiamo, nella prima parte: la esposizione che parte da do e la riesposizione che parte da sol con il soggetto per moto retto e un divertimento con il soggetto per moto contrario alla prima voce, sviluppato in ‘‘progressione discendente’’, cioe` ripetendolo con partenza sempre da un suono piu` basso. Nella seconda parte abbiamo esposizione e riesposizione del soggetto per moto retto che inizia dalla seconda voce – punto di partenza, sol –, seguita dalla esposizione e rieposizione del soggetto per moto contrario (percio` la seconda parte e` piu` lunga di due battute) e dal divertimento sul soggetto per moto contrario in progressione discendente alla seconda voce. Nella terza parte abbiamo la esposizione del soggetto per moto contrario e la sua esposizione per moto retto, iniziando con la prima voce, poi la rieposizione, infine il divertimento sul soggetto per moto retto in progressione ascendente alla prima voce, una coda con il soggetto prima per moto retto alla seconda voce, poi per moto contrario alla prima voce, e una chiusura accordale, non contrappuntistica, con cinque suoni insieme. Questo, sia pur detto molto rozzamente, basta a far capire quale varieta` e quale gioco di simmetrie e quanto materiale di studio contengano le semplicissime – in apparenza – ventidue battute della Invenzione in Do. Ma l’educazione e` anche tecnica: il soggetto e` costruito in modo tale da dovere essere eseguito necessariamente, per moto retto, con questa sequenza di dita: pollice, indice, medio, anulare, indice, medio, pollice, mignolo nella mano destra, e mignolo, anulare, medio, indice, anulare, medio, mignolo, pollice nella mano sinistra. Con il soggetto per moto contrario avremo l’inverso, con una piccola variante dovuta al senso melodico che il soggetto assume, e cioe`: mignolo, anu-

Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo in Si bemolle

lare, medio, indice, anulare, medio, mignolo, anulare (invece di pollice) nella mano destra, e pollice, indice, medio, amnulare, indice, medio, pollice, indice (invece di mignolo) nella mano sinistra. La disposizione dei tasti bianchi e neri provoca qualche aggiustamento nella diteggiatura, ma e` evidente che Bach ha voluto allenare tutte le dita e le due mani alla stessa maniera. Il senso melodico, dicevo, provoca qualche modificazione, diciamo pure qualche ad libitum nella rigorosa organizzazione di tutti i parametri della tessitura sonora. Bach persegue sia l’educazione tecnico-meccanica, sia l’educazione della composizione e, come dichiara esplicitamente, l’educazione al cantabile. Cio` comporta, se l’esecutore suona il clavicordo, che e` strumento a corde soffregate e che puo` variare sia pure di poco la dinamica, cio` comporta variabili dinamiche, una specie di ‘‘altimetria’’ dinamica del suono. Se l’esecuzione avviene al clavicembalo, in cui la variazione della dinamica e` possibile solo con l’inserimento di apparecchiature meccaniche che al tempo di Bach dovevano essere azionate a mano e che anche in questo caso permettevano di avere soltanto una dinamica ‘‘a terrazze’’, cioe` o il piano o il forte ma non il crescendo e il diminuendo, la cantabilita` comporta una ‘‘altimetria’’ dei valori ritmici, cioe` suoni piu` lunghi e suoni piu` brevi rispetto ai valori matema-

Pezzi diversi Il Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo in Si bemolle BWV 992 (1704 ca., 1839) e` una delle prime composizioni di Bach che ci sono pervenute e si inserisce nella tradizione della musica a programma, assai fiorente nel Seicento ma dalla quale Bach si sarebbe poi staccato. Si tratta quindi di un lavoro tanto piu` interessante in quanto, oltre che giovanile, non e` immediatamente rapportabile alla poetica di Bach. L’avvenimento che offrı` a Bach lo spunto per il Capriccio fu probabilmente la partenza del fratello Johann Jakob, oboista, ingaggiato nella guardia del re di Svezia Carlo XII. Il Capriccio e` in sei parti: 1) Arioso. Adagio. E` una lusinga degli amici per distoglierlo dal suo viaggio; 2) E` una rappresentazione dei diversi accidenti che potrebbero occorergli nei paesi stranieri; 3) E` un lamento generale degli amici; 4) Ora vengono gli amici, poiche´ vedono che non puo` essere diversamente, e prendono congedo; 5) Aria di Postiglione. Adagio poco; 6) Fuga all’Imitatione di Posta (cioe` della cornetta del postiglione). Non potendo qui illustrare i simboli musicali usati da Bach in riferimento al programma letterario (accenno solo al fatto che il Lamento e` un basso ostinato, simbolo del dolore),

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tici della grafia. E questa altimetria ritmica, magari meno accentuata, e` necessaria anche nella esecuzione al clavicordo. A guardarci dentro a queste due paginette di musica c’e` dunque da perderci la testa. Spero di non avere troppo annoiato il lettore con queste minuziose – e tuttavia tutt’altro che esaurienti – spiegazioni, ma mi sembrava necessario far notare quale prodigiosa scienza didattica si manifesti nelle Invenzioni. Il miracolo e` che tutto cio` che nasce come didascalico si fissa in composizioni di altissima qualita` artistica. Le Invenzioni, nel loro complesso, sono quindici gioielli che pilotano il discente in un giardino delle meraviglie in cui ogni aiuola – ogni tonalita` – e` piena di fiori ogni volta diversi. E il miracolo si ripete nelle Sinfonie, nelle quali il giardino e` ancor piu` lussureggiante perche´ il tessuto musicale e` a tre voci. Christian Wolff dice giustamente che tutta la musica di Bach raggiunge ‘‘l’ideale di conciliare originalita` concettuale, precisione tecnica e bellezza estetica’’. Per questa ragione la didattica del pianoforte, che nasceva agli inizi dell’Ottocento, capı` di non poter fare a meno di Bach, sebbene Bach avesse fatto benissimo a meno del pianoforte, inventato in Italia quando lui aveva quindici anni e apparso in Germania quando ne aveva quaranta.

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notero` alcuni caratteri strutturali dei sei brani. Il primo movimento e` costruito su un bellissimo inciso melodico (di tre suoni), trattato con tecnica compositiva gia` molto scaltrita e molto ornamentato, sebbene non privo di una patina di scolasticismo. Il secondo movimento e` un ricercare a quattro voci, di costruzione elementare: una esposizione ripetuta due volte in progressione discendente, e una conclusione. Il Lamento, come gia` detto, e` un basso ostinato, trattato in forma non rigorosa, come in altre composizioni giovanili di Bach. Il basso e` cifrato (le armonie sono indicate mediante numeri, lasciando all’esecutore, come era d’uso, la realizzazione). Questo e` il movimento piu` maturo e piu` fortemente espressivo. Brevissimo, quasi improvvisatorio e` il quarto movimento. Anche l’Aria e` breve e di costruzione elementare, ma e` da notare che Bach collega l’Aria con la Fuga, presentando gia` nella prima un inciso melodico caratteristico (lo squillo del corno del postiglione), che diventa un elemento strutturale molto importante nella Fuga. L’andamento della Fuga e` franco e spedito: non vi si ritrovano ancora quei tratti geniali che rendono inconfondibilmente bachiane le fughe di qualche anno posteriori, e tuttavia la 43

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Capriccio in honorem Joh. Christoph Bachii Ohrdrufiensis BWV 993

composizione e` scorrevole, brillante, piacevolissima, cosı` come piacevole e` tutto il Capriccio, malgrado la relativa impersonalita` della tecnica compositiva che vi e` impiegata. Il Capriccio in honorem Joh. Christoph Bachii Ohrdrufiensis in Mi BWV 993 (Capriccio in onore di Giovanni Cristoforo Bach di Ordruf, 1704 ca., 1837) viene assegnato generalmente agli anni in cui Bach risiedeva ad Arnstadt ma potrebbe essere anche anteriore, nel qual caso sarebbe la prima composizione di Bach a noi nota. Bach, rimasto orfano della madre nel 1694 e del padre nel 1695, visse dal 1695 in casa del fratello maggiore Johann Christoph, organista nella Chiesa di S. Michele a Ordruf. Con il fratello, allievo di Pachelbel, Bach studio` gli strumenti a tastiera ma non la composizione. A Lu¨neburg studio` invece la composizione, e il Capriccio potrebbe dunque essere il primo frutto maturo di un lavoro che non poteva non essere apprezzato da un professionista come il fratello. Nel Capriccio, in un movimento solo, prevalgono gli stilemi del concerto grosso, recente acquisizione della musica strumentale. Allo stile del concerto grosso sono secondo me da riferire, in particolare, l’alternarsi regolare della scrittura a tre o a quattro voci con la scrittura a due voci: anche la pulsazione ritmica costante richiama lo stile del concerto grosso piu` che lo stile toccatistico del clavicembalo. Non e` tuttavia documentata la conoscenza che Bach pote´ avere dei Concerti op. 4 di Giuseppe Torelli, pubblicati ad Augusta nel 1698, che del concerto grosso rappresentano un po’ il manifesto. Tutt’altro che secondario e` l’interesse ‘‘tastieristico’’ del Capriccio. La tonalita` di Mi non era comunemente praticata sugli strumenti a tastiera, sia perche´ di difficile intonazione con il temperamento inequabile allora ancora in uso, sia perche´ la presenza di quattro tasti neri poneva problemi di diteggiatura di ardua soluzione, che non sappiamo come venissero risolti da Bach. La parte conclusiva della composizione, brillantemente virtuosistica, fa sorgere una ipotesi che, per lo meno per le ultime due battute, non lascia adito a dubbi: il Capriccio venne pensato per uno strumento che possedeva la pedaliera, probabilmente il clavicembalo con pedaliera che veniva usato dagli organisti per esercitarsi a casa loro. L’Aria variata alla maniera italiana in la BWV 989 (1709 ca., 1806) e` un lavoro giovanile, formato da un tema in due parti, con andamento la-Dola e terminazione in La, e da dieci variazioni che non intervengono mai con modifiche sulla struttura del tema, che resta immutata. Le variazioni sono in massima parte movimenti di danza, con un certo riferimento all’archetipo della suite, e l’ulti44

ma variazione, in movimento lento, richiama nettamente il tema, quasi ripetizione del tema per chiudere. Bach dovette avere fin da giovane una discreta conoscenza della musica italiana, una conoscenza che si accrebbe durante il periodo di Weimar, che inizia appunto nel 1708. Fino al 1708 Bach conobbe sicuramente musiche di Legrenzi, di Albinoni e di Corelli (avrebbe fatto una copia dei Fiori musicali di Frescobaldi piu` tardi). Ma e` difficile dire se egli seguı` un modello preciso o se riassunse nell’Aria variata molteplici impressioni. Il lavoro e` scritto da una mano abile e, pur non presentando tratti veramente originali, e` discorsivamente vario e piacevole. Il Preludio, Fuga e Allegro in Mi bemolle BWV 998 per liuto o clavicembalo (1740-1745, 1837) viene anche – oggi rarissimamente – eseguito nella trascrizione per pianoforte di Carl Tausig. Si sa che Bach possedette due esemplari di liuto a tastiera o Lautenclavycimbel, e le musiche dette per luito potrebbero essere state pensate per questo strumento (i manoscritti autografi delle composizioni per liuto non ci sono pervenuti; abbiamo solo copie di allievi). E` vero invece che Bach impiego` il liuto in orchestra nella Passione secondo S. Giovanni e in alcune Cantate. Il Preludio, come avviene spesso in Bach, e` un moto perpetuo che si sviluppa attraverso varie tonalita` e che si arresta solo su un punto culminante, prima di richiamare l’inizio e di concludere rapidamente. La Fuga a tre voci, assai ampia, e` abilmente composta tenendo probabilmente presenti le limitate possibilita` polifoniche del liuto: semplice e breve il soggetto, preferibilmente parallela la condotta delle voci. A meta` della Fuga viene inserito un brillante intermezzo nel quale il soggetto, anziche´ essere sviluppato in contrappunto rigoroso, diventa il sostegno e il pretesto per variazioni virtuosistiche. Anche l’Allegro finale, bipartito, e` nettamente virtuosistico, secondo le forme e i modi tipici delle Sonate di Scarlatti. La datazione del lavoro e` un po’ incerta: alcuni studiosi pensano che sia piu` probabile una datazione intorno al 1720. Non si puo` infine non ricordare il Ricercare a tre (1747, 1747) che apre l’Offerta musicale. Invitato dal re Federico II, che nel 1740 aveva assunto al suo servizio un figlio di Johann Sebastian, Carl Philipp Emanuel, Bach arrivo` a Potsdam il 7 maggio 1747. Il re gli propose subito un soggetto di fuga, suonandoglielo su un fortepiano Silbermann, e Bach improvviso` il Ricercare a tre voci (dico ‘‘fortepiano’’ e non ‘‘pianoforte’’ semplicemente perche´ e` invalso l’uso di usare il primo termine per indicare lo strumento settecentesco). Che il Ricercare stampato corrisponda esattamente al Ricercare im-

Fuga BWV 954

Johann Sebastian Bach

provvisato e` questione che e` stata sollevata e su cui si puo` discutere all’infinito senza cavare un ragno dal buco. Tuttavia, facendo l’analisi stilistica del lavoro, Christian Wolff afferma che ‘‘il materiale motivico degli interludi nel Ricercare a tre, notevolmente diverso da quello degli altri lavori per tastiera di Bach, era ispirato al fortepiano e concepito

per le nuove possibilita` espressive offerte dalla maggior flessibilita` delle sue dinamiche rispetto a quelle del clavicembalo’’. Il fortepiano con telaio in legno, padre del pianoforte con telaio rinforzato da una griglia metallica, suggerı` dunque a Bach qualcosa di insolito. E questo e` l’esilissimo cordone ombelicale che lega il Nostro al pianoforte.

Le Sonate Di Bach sono molto conosciute le tre Sonate per violino solo, le sei Sonate per violino e clavicembalo e le tre Sonate per viola da gamba e clavicembalo, ma di Sonate per clavicembalo solo non si parla praticamente mai. Questo settore e` in realta` minimo, rispetto alla fluviale produzione bachiana, perche´ comprende un solo lavoro originale e due trascrizioni. Ma e` opportuno che se ne conosca per lo meno l’esistenza. La Sonata in Re BWV 963 (1704 ca., 1806) fu composta negli anni in cui Bach, organista in una chiesa di Arnstadt, stava facendo le sue prime esperienze professionali. Il titolo stesso di sonata, per una composizione clavicembalistica, era una novita` perche´ il termine veniva usato per lavori in piu` movimenti affidati a strumenti melodici, mentre agli strumenti a tastiera era riservato il termine toccata (per l’ovvia ragione che il tastierista toccava il tasto). Johann Kuhnau, di cui Bach avrebbe preso nel 1722 la successione quale Cantor della Chiesa di S. Tommaso a Lipsia, aveva pero` pubblicato nel 1696 sette Sonate e nel 1700 le sei Sonate ‘‘bibliche’’ che ci fanno ricordare il suo nome anche oggi. Bach segue l’esempio di Kuhnau, ma non lo segue in toto. La sua Sonata e` in cinque movimenti: i primi due non hanno indicazioni di tempo, il terzo e` una fuga, il quarto un Adagio, e il quinto e` un’altra fuga, intitolata, in un italiano un po’ di fantasia, Thema all’Imitatio Gallina Cucca. Si tratta dunque, in realta`, di una toccata, con preludio, recitativo, prima fuga in si, Adagio improvvisatorio, seconda fuga in Re sul tema che riproduce il verso del cuculo. Gli esempi di composizioni sul verso del cuculo che Bach poteva avere presenti erano numerosi, e noi non siamo in grado di sapere quale di essi gli fosse noto. Ma e` da osservare che il carattere naturalistico della seconda fuga non arriva improvviso ed e` invece la conclusione logica di un modo espressivo arcadico-pastorale che pervade la composizione fin dall’inizio. Questa Sonata, insieme con il Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo, ci fa capire come il giovane Bach si avventurasse baldanzosamente sul terreno della composizione per clavicembalo solo. E con risultati gia` degni del grande Bach. Nel 1700 e nel 1702 Bach, studente a Lu¨neburg,

si reco` ad Amburgo e ascolto` l’organista della Chiesa di Santa Caterina, Johann Adam Reinken (1623-1722), ormai quasi ottantenne ma che avrebbe campato fino a vedere il traguardo dei cent’anni alla minima distanza di cinque mesi e tre giorni, sebbene fosse stato, come testimonia il Mattheson, un devoto seguace di Bacco e di Venere (non si sa se anche di Tabacco). Bach torno` poi ad Amburgo nel 1720 per candidarsi a un posto di organista in una chiesa cittadina e fu ascoltato dal novantasettenne Reinken. Il Reinken, grande improvvisatore all’organo, non aveva pubblicato musiche per tastiera ma soltanto, nel 1687 e con il titolo Hortus musicus, trenta pezzi per due violini, viola da gamba e basso, raggruppati in sei cicli di cinque pezzi ciascuno. Bach trascrisse il primo ciclo nella Sonata BWV 965 (ca. 1703-1705, 1806), una parte del terzo ciclo nella Sonata BWV 966 (ca. 1703-1705, 1806) e un pezzo del secondo ciclo nella Fuga in Si bemolle BWV 954 (ca. 17031705, 1844). La Sonata in la, che segue fedelmente l’originale, e` un... ippogrifo: sonata in quattro movimenti (Adagio, Fuga, Andante, Presto), seguita da una suite in quattro parti (Allemanda, Corrente, Sarabanda, Giga). Anche la Sonata in Do sarebbe diventata un ippogrifo se Bach, dopo aver trascritto la sonata (Praeludium, Fuga, Adagio, Allegro) e l’Allemanda, non si fosse fermato lı`, tralasciando le altre tre danze. In questo Bach trascrittore si notano due atteggiamenti contrapposti. Il problema maggiore era di trasportare sulla tastiera e nelle due mani del clavicembalista un tessuto musicale pensato per un organico strumentale piu` grande. Per Bach, clavicembalista virtuoso, questo non poteva essere un vero problema ed egli lo risolse brillantemente cambiando tutt’al piu` qualche basso e ornamentando le melodie. In questo caso abbiamo un atteggiamento di rispettosa adesione a cio` che aveva fatto un maestro anziano e illustre. Ma quando si tratta delle tre Fughe, Bach pensa evidentemente che il contrappunto abbia ormai conquistato spazi diversi – cosı` erano i tempi: la musica invecchiava rapidissimamente. Nelle tre Fughe vengono conservati dal trascrittore i soggetti e poco piu` , tanto che non sarebbe improprio parlare di Fughe di Bach su soggetti di Reinken. E 45

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Johann Sebastian Bach

Sonata BWV 964

anche la Giga in la, ricca di potenzialita` contrappuntistiche non sviluppate da Reinken, viene completamente rivoluzionata da Bach. Splendide Fughe, splendida Giga, e continuita` stilistica fra Bach e Reinken. L’ampiezza delle Fughe squilibra pero`, senza dubbio, l’architettura delle due Sonate, tanto che Sviatoslav Richter, eseguendo la Sonata in Do, spostava al secondo posto l’Allemanda, e la Fuga all’ultimo posto. La datazione di questi lavori e` in verita` incerta. Un tempo venivano collocati al 1718-1723, pensando che Bach avesse voluto in qualche modo ingraziarsi il vecchissimo Reinken, che faceva parte della commissione del concorso (da cui Bach, alla fine, si ritiro`). Piu` di recente e` stato proposto il 1703-1705. E` evidente che una quindicina d’anni di divario ha una enorme importanza, perche´ si tratta di un Bach non ancora ventenne o di un Bach oltre i trent’anni. A me sembra preferibile la datazione ai primi anni del Settecento. E se cosı` e` c’e` da cavarsi non solo il cappello ma anche da inginocchiarsi per terra. La Sonata in re BWV 964 (datazione incerta, 1840) e` una trascrizione della Sonata in la BWV 1003 per violino solo. Il pezzo ci e` pervenuto in una copia fatta dal genero di Bach, Johann Christoph Altnikol, con il titolo in italiano ‘‘Sonata per il Cembalo Solo del Sgr. J.S. Bach’’. Sulla attribuzione della trascrizione sono stati pero` avanzati molti e fondati dubbi. Appare soprattutto strano il fatto che l’Allegro finale, a moto perpetuo, sia stato trasferito sulla tastiera quasi senza interventi,

dividendo semplicemente fra le due mani il tessuto che nell’originale e` a una voce sola. Sul violino non si poteva fare altrimenti, mentre sul clavicembalo si poteva aggiungere un accompagnamento ben piu` nutrito. Alcuni studiosi – la maggior parte – ritengono non autentica la trascrizione, altri la attribuiscono a Bach. La ricerca dell’autore, nel primo caso, punto` dapprima sul figlio maggiore di Bach, Wilhelm Friedemann, ma questa tesi non ha piu` chi la sostenga. E, in fondo, che importa? Che sia o che non sia di Bach, non c’e` dubbio che la Sonata ‘‘suoni’’ meglio sul violino. Gli stessi problemi di attribuzione sussistono per l’Adagio in Sol BWV 968 (datazione incerta, 1840), dalla Sonata in Do BWV 1005 per violino solo, pervenutoci anch’esso nel manoscritto di mano di Altnicol. In questo caso siamo pero` di fronte a un pezzo di circa quattro minuti che anche sul clavicembalo – e a maggior ragione sul pianoforte – non perde la sua fortissima carica di espressione introspettiva. Esiste inoltre un Pezzo in la BWV 967 (1704 ca., 1897), che si suppone trascritto da una sonata che non e` mai stata individuata. Devo infine aggiungere che alcuni clavicembalisti fanno propria la Sonata in do BWV 997 (ca. 17371741, 1881), destinata al liuto, in cinque movimenti – Preludio, Fuga, Sarabanda, Giga, Double –, cinque movimenti che non definiscono ne´ una sonata ne´ una suite e che giustificano sia il titolo piu` frequentemente adottato, Suite, che il titolo Sonata.

Le Suite Le sei Suite BWV 812-817 (1720-1722 ca, 1817) dette ‘‘francesi’’ – faccio venia al lettore degli inconcludenti tentativi di spiegare in modo esauriente la ragione di questo ‘‘francesi’, che non e` dell’Autore e che probabilmente non e` neppure settecentesco – furono composte verso la fine del periodo in cui Bach presto` servizio presso la piccola corte di Co¨then (1717-1722), piu` o meno al tempo del suo secondo matrimonio, avvenuto il 3 dicembre 1721. Nel Quadernetto in cui Bach annotava le composizioni che dovevano servire per l’educazione alla musica e per lo svago della giovane moglie Anna Magdalena, dilettante, troviamo infatti le prime cinque delle sei Suite francesi in una redazione che differisce un poco da quella definitiva. Nel Quadernetto che nel 1720 Bach destino` all’educazione professionale del figlio Wilhelm Friedemann, decenne, troviamo invece una prima redazione delle Invenzioni a due voci, delle Sinfonie a tre voci e di undici pezzi che sarebbero poi stati usati come preludi per fughe del primo libro del Clavicembalo ben temperato. Bach, come ho gia`

detto, si era dunque occupato a fondo di didattitica per ragioni familiari. Ma successivamente, estrapolando dai volumetti della seconda moglie e del figlio maggiore della prima moglie cio` che gli riusciva utile in vista di un disegno educativo completo e sistematico, comincio` a costruire l’edificio monumentale che ho descritto schematicamente all’inizio. Dal livello elementare al livello piu` alto, dal primo approccio al supremo magistero. Nessun altro educatore avrebbe fatto di meglio, anzi, nessun altro educatore si sarebbe portato sullo stesso livello di Bach, e proprio percio`, come ho gia` detto ripetutamente, una volta tramontato il clavicembalo, il pianoforte si sarebbe impossessato del lascito bachiano e lo avrebbe fatto suo, anche piegandolo ai suoi fini. La destinazione didattica appare evidente nelle prime cinque Suite francesi, che sono disposte in ordine progressivo di difficolta` tecnica: dalla semplice Allemanda della Suite in re saliamo sino alla complessa Giga della Suite in Sol, il che ci fa supporre che Anna Magdalena fosse un’allie-

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Suite BWV 812-817

va straordinariamente brava e veloce nell’apprendere. La sesta Suite in Mi, del resto deliziosamente naı¨ve, e` meno difficile della quinta: sembra dunque evidente che venisse aggiunta, al momento della redazione definitiva, per raggiungere il numero fatidico della mezza dozzina. Le prime tre Suite sono in modo minore, le tre restanti sono in modo maggore. Anche qui troviamo dunque una intenzionalita` didattica precisa. Non solo: la prima Suite e` in re, la seconda in do, la terza in si. La quarta suite, in Mi bemolle, ci fa pensare che la quinta sara` in Fa e che la sesta sara` in Sol. Re-dosi, scala discendente, mi bemolle-fa-sol, scala ascendente. Ma Bach, o perche´ non voleva eccedere nelle simmetrie o perche´ non aveva pronta nessuna suite in Fa, ci lascia con un palmo di naso – diavolo d’un uomo! – inserendo inopinatamente nella raccolta una suite in Mi. Lo schema basilare della suite, genere strumentale risalente al Quattrocento, si era consolidato soltanto con la pubblicazione nel 1697 di dieci suite di Johann Jakob Froberger, scomparso trent’anni prima. L’editore dichiaro` nel frontespizio della pubblicazione di aver ‘‘mise en meilleur ordre’’ la suite, il seguito dei pezzi. Il seguito di base delle quattro danze principali – la tedesca allemanda, la francese corrente, la spagnola sarabanda e l’inglese giga – fu dunque la fortunata pensata di un editore, che colpı` in pieno il bersaglio. Allemanda-corrente-sarabanda-giga for ever, da quel momento in poi, ma con la possibilita` di inserire fra l’uno e l’altro dei quattro pezzi canonici – non c’e` bisogno di far notare il valore simbolico del numero quattro e delle quattro nazioni – altre danze, ad libitum del compositore. Negli ad libitum delle Suite francesi Bach mostra una netta predilezione per il minuetto, che compare come danza aggiuntiva quattro volte su sei, sia come pezzo isolato, sia, come si dice, ‘‘con alternativo’’, cioe` con la ripetizione del primo minuetto dopo il secondo. La predilezione per il minuetto, danza di origine francese ma popolarissima in tutta l’Europa del Settecento, non riguarda il solo Bach. Anzi, come il lettore sa bene, il minuetto sarebbe sopravvissuto alla fine storica della suite e avrebbe trovato nel quartetto e nella sinfonia un nuovo humus vitale. Tre volte compare nelle Suite francesi la gavotta, altra danza francese, amatissima alla corte di Versailles e popolarissima ovunque durante il periodo barocco. Per due volte troviamo poi nelle sei Suite l’Air, aria. Non dobbiamo tuttavia pensare a una musica vocale trasferita sulla tastiera, ma all’air de ballet, all’aria da danzare. La struttura di tutte le danze contenute nelle Suite francesi e` quella, tipica, bipartita. La divisione in due parti, di dimensioni

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talvolta analoghe e talvolta diseguali (piu` breve la prima), con ripetizione di ciascuna delle due parti, e` quella che troviamo costantemente nei pezzi brevi strumentali del periodo barocco (ad esempio, uno fra i moltissimi esempi possibili, nelle sonate di Domenico Scarlatti). L’andamento tonale delle due parti risponde a precise convenzioni che raramente vengono mutate. Se la danza e` in modo maggiore la prima parte termina alla tonalita` del quinto grado (dominante) e la seconda parte finisce, ovviamente, nella tonalita` principale, se la danza e` in modo minore la prima parte termina a volte alla tonalita` del quinto grado e a volte alla tonalita` relativa maggiore (eccezionalmente – Minuetto II della Suite in re minore – nella tonalita` principale). La ripetizione comporta – sia al tempo di Bach che oggi, mentre cosı` non avveniva nel Novecento – l’aggiunta di ornamentazioni a discrezione dell’interprete. Le Suite francesi, al contrario delle Partite, non furono pubblicate da Bach, ma furono impiegate didatticamente, in copie manoscritte, sia da Bach stesso che dai suoi allievi e dagli allievi degli allievi. Ci sono pervenute, oltre all’autografo, una quindicina di copie, con molte varianti che non possono essere scartate a priori. Una copia ci interessa in particolare, quella della sesta Suite redatta da Heinrich Nikolaus Gerber, che con Bach studio` dal 1724 al 1727. La copia del Gerber reca come brano d’apertura il Preludio del Preludio e fuga in Mi del primo libro del Clavicembalo ben temperato, che fu ultimato nel 1722. Fino a non molti anni addietro il rispetto sacrale della redazione bachiana era ritenuto non solo un dovere ma un imperativo morale. Il passaggio dalla ricostruzione storico-filologica alla ricostruzione storico-culturale della musica barocca (e non solo barocca), che e` avvenuto negli ultimi decenni, ci ha reso meno timorosi di violare la ‘‘intenzione dell’autore’’, il quale prevedeva e concedeva invece ampi spazi di liberta` ai suoi interpreti, cosicche´, si potrebbe dire scherzando, il todo modo para buscar la voluntad de Bach e` stato fortemente ridimensionato e qualche interprete ha preferito la versione Gerber. La qualita` estetica permane costante in tutti i pezzi delle Suite francesi. Le prime tre, in modo minore, sono tuttavia le piu` seriose, con tratti, specie nella prima, arcaicizzanti. La sesta Suite e` talmente piacevole all’ascolto da prefigurare lo ‘‘stile galante’’ del rococo` . La gaiezza della quarta Suite crea un forte contrasto con le tre che la precedono, la quinta, piu` difficile tecnicamente di tutte le altre, e` solare, luminosa, e presenta nella Gavotta e nella Giga due momenti di scintillante virtuosismo. 47

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Johann Sebastian Bach

Meno di trecento anni ci separano da Johann Sebastian Bach, ma le notizie che di lui ci restano sono piu` scheletriche di quelle che riguardano Giulio Cesare. Bach scrisse due raccolte di Suite per clavicembalo, sei per ciascuna raccolta, che vanno rispettivamente sotto i nomi di francesi e di inglesi: non sappiamo quando esattamente furono composte e non sappiamo con ceertezza perche´ cosı` si chiamino. Oddio, come ho detto prima le francesi sono parodie (parodie stilistiche, non contraffazioni ironiche) di cio` che facevano in Francia i grandi clavicembalisti conosciuti oltre frontiera, e quindi il termine puo` avere una spiegazione logica (e sia pure ipotetica). Quanto alla datazione, certe considerazioni di natura stilistica inducono a supporre che le sei Suite francesi venissero composte a Co¨then fra il 1720 e il 1722. Detto tutto cio` per scrupolo aggiungo pero` che l’origine della denominazione e l’anno di composizione hanno un preciso significato per le deduzioni dei musicologi ma che non ne hanno alcuno per il pubblico: anche se fossero state composte dieci anni prima o dieci anni dopo, anche se fossero state chiamate svedesi o portoghesi l’unico punto veramente rilevante e` che siano dei capolavori. E lo sono. Ho prima citato il nome di Johann Jakob Froberger. Quali che fossero le sue intenzioni (di lui sappiamo meno di quello che ci e` noto di Silla), e` chiaro che sebbene fosse stato allievo di Frescobaldi egli bandı` dalla suite-tipo le danze italiane che ne avevano fatto parte in precedenza, dalla bergamasca alla pavana alla gagliarda al passamezzo, che non rientrarono neppure nelle scelte opzionali. La scelta delle danze da aggiungere alle quattro canoniche si orientava il piu` delle volte sul minuetto o sulla gavotta o sulla bourre´e, piu` raramente sul passepied o sulla polonaise. Insomma, chi la faceva da padrone era in questo caso la Francia. Nelle Suite francesi Bach fa pero` ricorso anche alla Anglaise e per due volte intitola Aria dei brani che potrebbero essere cantati ma che mantengono il carattere coreografico della danza. La denominazione di inglesi data alla sei Suite BWV 806-811 (1715-1721 ca., 1805) risale a Nikolaus Forkel, il primo biografo di Bach che ho gia` avuto occasione di citare. Il Forkel disse che la raccolta era stata commissionata a Bach da un inglese ‘‘di alto rango’’: da cui, ovviamente, la denominazione. Siccome l’autografo era andato disperso, e siccome per il musicologo e` misura di cauta prudenza non fidarsi mai interamente di chi scrive di un autore scomparso da piu` di cinquant’anni, l’asserzione del Forkel venne per cosı` dire posta in parentesi. Ma piu` tardi una piccola scoperta fece pensare che in quelle ‘‘inglesi’’ doveva forse esser48

Suite BWV 806-811

ci qualcosa di vero. Venne infatti ritrovata una copia manoscritta delle Suite n. 1 che risaliva a circa il 1750 e che era stata in possesso di Johann Christian Bach, il figlio minore nato nel 1735 e che alla morte del padre era quindicenne. In questa copia c’era scritto, in francese, ‘‘fatta per gli inglesi’’. La denominazione tradizionale veniva dunque testimoniata in un momento in cui Bach era ancora vivente o era scomparso da poco, e proveniva dall’ambito familiare. Anche il Forkel aveva pescato le notizie di cui si era servito nella biografia in un ambito familiare, perche´ aveva interpellato Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel, i due figli di Bach piu` anziani di Johann Christian. C’e` quindi una pur esilissima base documentaria sulla quale si puo` costruire una realta` virtuale che non sembra del tutto inverosimile. Si e` notato inoltre che l’ascesa al trono inglese del re Giorgio di Hannover, avvenuta nel 1714, aveva stabilito legami piu` stretti fra l’Inghilterra e la Germania, tanto piu` perche´ la figlia di Giorgio I era la madre di Federico, il futuro Federico il Grande di Prussia nato nel 1712. Non e` dunque impossibile che un inglese ‘‘di alto rango’’ amante della musica abbia girovagato per le piccole corti tedesche e sia capitato a Co¨ then e vi abbia conosciuto e ammirato Bach. Siccome poi, quando ci si butta nel virtuale, la fantasia non conosce piu` limiti, si puo` anche supporre che l’inglese sia rimasto colpito dal fatto che Bach conosceva le Suite di Charles Dieupart, clavicembalista francese che dal 1700 circa viveva a Londra e che vi era diventato famosissimo. Il Preludio della Suite inglese in La, vedi caso, sfrutta una Giga del Dieupart, e la prima versione di questa Suite e` sicuramente anteriore al 1717. Quindi, la storia del ricco inglese che si prende e si porta via le sei Suite dopo aver convinto Bach a scriverle – dietro compenso, s’intende – puo` essere messa lı` con qualche probabilita` che corrisponda al vero. Resterebbe solo da ritrovare i registri dei viaggiatori capitati a Co¨then quando ci viveva Bach, e verificare se ci sia menzionato qualche inglese. Ma se l’inglese, invece di scendere in una locanda, fosse stato ospite di un aristocratico locale, il suo nome si sarebbe volatilizzato per sempre. La novita` delle Suite inglesi, rispetto alle Suite francesi, e` rappresentata dal Preludio che apre ogni suite: novita` importante, messa in evidenza gia` dalla copia in possesso di Johann Christian Bach che ho prima citato, e che cosı` recita: ‘‘Suite 1 con Preludio’’. Altro fatto significativo: eccettuato il primo, tutti i Preludi sono composti secondo lo schema del concerto grosso italiano, con alternanza di tutti e di soli, cioe` esattamente quello che Bach avrebbe fatto poi nel primo movimento del

Suite BWV 806-811

Concerto italiano. Preludio e quattro danze canoniche, con non piu` di un inserimento in ciascuna suite di altre danze: bourre´e nella prima e nella seconda suite, gavotta nella terza e nella sesta, minuetto nella quarta, passepied nella quinta. Tutte danze francesi e, nei Preludi, stilemi italiani. La mancanza della Anglaise che troviamo nelle Suite francesi, se diamo fede alla storia raccontata dal Forkel, ci sorprende un po’ e ci rimette una pulce nell’orecchio... Come ho gia` detto, della Suite inglese n. 1 in La BWV 806 esiste una prima stesura, piu` semplice di quella definitiva. Il Preludio e` in entrambi casi il rifacimento di una Giga di Dieupart, rifacimento che nella seconda versione si stacca maggiormente dall’originale. Bach riprende tale e quale la prima parte della Giga e compone ex-novo la seconda parte, arricchita in senso contrappuntistico nella seconda versione. Rispetto ai successivi, questo Preludio e` molto breve. Nella Suite n. 1 si nota soprattutto la presenza di due Correnti, la seconda delle quali con due variazioni (double, doppio). L’insieme della scrittura e` arcaicizzante, e certi suoi tratti ricordano la suite per liuto, che storicamente precede la suite per clavicembalo. La relativa estraneita` della Suite n. 1 nel contesto della raccolta e` messa anche in evidenza, oltre che dal Preludio di tipo diverso, dal piano tonale generale. Dalla Suite n. 2 alla Suite n. 6 troviamo questo seguito di tonalita`, chiaramente intenzionale perche´ copre una quinta discendente: la, sol, Fa, mi, re. Il La della Suite n. 1 non puo` rientrare in questo schema. La Suite inglese n. 2 in la BWV 807 si apre con un ampio e robusto Preludio, in gran parte a due voci, suddiviso in episodi di tutti e di soli, e con riesposizione finale del primo episodio, caratteristica che, come ho gia` detto a proposito del primo movimento del Concerto italiano, lascia intravvedere la forma circolare, non la solita forma chiusa. La Sarabanda e` presentata in due versioni, la prima lineare, la seconda ornamentata. Non e` chiaro se entrambe le versioni siano da eseguire con i ritornelli o se la seconda debba nei ritornelli subentrarei alla prima. Le opinioni divergono, ma la bellezza del pezzo e` tale che anche la soluzione piu` radicale – esecuzione di entrambe le versioni con i ritornelli – non crea stanchezza nell’ascoltatore. La Suite inglese n. 3 in sol BWV 808 inizia con un Preludio ancora piu` ‘‘concerto grosso’’ di quello della Suite in la. Splendida composizione, di stile e di carattere sinfonico. In tutta la Suite Bach esalta l’ethos della tonalita` di sol minore, atta a recepire forti situazioni drammatiche. Basta pensare ai Preludi e fuga in sol sia del primo che del se-

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condo libro del Clavicembalo ben temperato per avere un’idea di cio` che il sol minore rappresentava per Bach. E in questo senso il cuore della Suite n. 3 si trova nella Sarabanda – anch’essa in due versioni –, implorante e tragica. Fra la Sarabanda armonicamente densa e la Giga molto elaborata contrappuntisticamente Bach colloca le due Gavotte (la seconda in Sol), leggere, aeree, che ‘‘evadono’’ dal clima corrusco della Suite senza veramente contraddirlo. Le due Gavotte, separate dal contesto, come le due Gavotte della Suite n. 6, furono molto note nell’Ottocento e, rese dagli interpreti con grazia e con charme, diedero al pubblico l’immagine antistorica di un Bach rococo`. La Suite inglese n. 4 in Fa BWV 809 riprende i modi espressivi franchi e bruschi della Suite n. 2. Il Preludio porta nelle copie piu` antiche l’indicazione vitement (velocemente) perche´, credo, il tema principale avrebbe potuto tollerare una esecuzione in tempo moderato che ne avrebbe pero` alterato il carattere. Anche qui viene enfatizzato l’ethos, gaio, del fa maggiore. La scrittura e` di volta in volta contrappuntistica o armonica, e molto virtuosistica nella Giga finale. Il Minuetto II e` in re. La Suite inglese n. 5 in mi BWV 810 e` caratterizzata da un Preludio fugato, molto ampio e ritmicamente molto serrato, e dai due Passepied, che rappresentano un ricalco stilistico delle musiche clavicembalistiche francesi – D’Anglebert, Franc¸ ois Couperin, Dieupart, Du Mage, de Grigny, Marchand – che Bach aveva collezionato e che teneva nella sua biblioteca, da lui detta ‘‘apparatus’’. La Giga e` costruita su un tema cromatico fra i piu` icastici di Bach. La Suite inglese n. 6 in re BWV 811, oltre alle quattro danze canoniche comprende, come ho gia` detto, la gavotta con il suo ‘‘alternativo’’: Gavotta I, Gavotta II, Gavotta I. Graziosissima la Gavotta I, piu` che graziosissima la Gavotta II, costruita al modo della musetta, cioe` del pezzo per cornamusa (della Gavotta II si ricordo` Scho¨nberg nella Musetta della Suite op. 25). La grazia un po’ fane´ e delle Gavotte controbilancia da una parte, nell’equilibrio generale della suite, la profonda e grave emotivita` della Sarabanda e della sua variazione, Double, e controbilancia dall’altra parte la rudezza e direi la violenza della Giga. Il Preludio, di proporzioni monumentali, e` stilisticamente ancora un primo movimento di concerto grosso, ma con introduzione in movimento lento e Allegro fugato. L’Allemanda e la Corrente, che non presentano aspetti atipici, alleggeriscono la tensione formale del Preludio e il turgore emotivo della Sarabanda. La drammaturgia complessiva della Suite n. 6 ricorda dunque cosı` quella di una grande orazione 49

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Johann Sebastian Bach

condotta secondo le regole auree della retorica classica. La questione dello strumento da utilizzare aveva preso alla fine del Novecento una piega tale, inconcepibile alla meta` del secolo, che nel 1999 un clavicembalista come Robert Levin ritenne preferibile servirsi del pianoforte moderno per la registrazione delle Suite inglesi. Cio`, credo, basta per far capire in qual modo l’ultima generazione dei filologi abbia preso a considerare lo strumento come, appunto, strumento, non come timbro di valenza strutturale. Ci sono parecchie suite non raggruppate in raccolte; ne ricordero` due. La Suite in la BWV 818 (1722 ca., 1803) ci e` pervenuta in due versioni. La seconda versione, piu` elaborata della prima, ci riporta alle Suite inglesi: Preludio (non a modo di concerto grosso), Allemanda, Corrente, Sarabanda, Minuetto (senza secondo Minuetto) e Giga. Musica che reca senza dubbio l’impronta, il marchio di Bach, ma che non raggiunge l’alto livello

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Suite BWV 996

delle Suite inglesi. La Suite in mi BWV 996 (ca. 1708-1717, 1837) fu pubblicata dapprima come opera per clavicembalo, poi venne prospettata l’ipotesi che si trattasse di opera per liuto; ne´ i liutisti ne´ i clavicembalisti usano tuttavia eseguirla: capita tutt’al piu` di ascoltarla per chitarra. La struttura di questa Suite e` simile a quella delle Suites inglesi: Preludio e quattro danze tradizionali, con una danza aggiunta prima della Giga. Il brano introduttivo e` formato da una parte a modo di toccata, che Bach definisce Passaggio, e da un Presto in stile fugato. Brevi e semplici sono l’Allemanda, la Corrente e la Sarabanda; addirittura elementare la Bourre´e, che non e` seguita, contrariamente all’uso, da una seconda Bourre´e. Un po’ piu` complessa la Giga, che nella versione per liuto risulterebbe di difficilissima esecuzione. La tessitura prevalentemente grave di questa Suite, come della Sonata BWV 997, e la scarsa elaborazione delle danze fanno pensare al liuto. Ma la destinazione del lavoro resta incerta.

Tekla Ba˛darzewska-Baranowska

A Tekla Ba˛darzewska-Baranowska (Varsavia, ? 1834-ivi, 29 novembre 1861) Si sognava molto, nel mondo piccolo borghese alla meta` dell’Ottocento, perche´ la realta` culturale della piccola borghesia consentiva di formulare desideri, mentre la realta` economica non consentiva di soddisfarli. Il sogno e` l’aspetto poetico di un desiderio, e` la realizzazione ideale di un desiderio. Ma come si fa, a far diventare realta` il sogno? Avendone i mezzi, la si compra. Non avendoli, si fa quel che fece Tekla Ba˛darzewska-Baranowska, dilettante polacca di pianoforte: si chiede a chi puo`. E se si e` musicisti si chiede in musica. La Ba˛darzewska e` l’autrice di un fortunato pezzo che da almeno centocinquant’anni viene citato come il massimo del kitsch: La Preghiera d’una vergine, anzi La prie` re d’une vierge, perche´ l’italiano andava piuttosto di moda nella musica vocale, mentre per la musica pianistica era di rigore l’abito francese. Cosı` come la Divina Commedia e` un poema in terza rima, la Preghiera d’una vergine e` uno studio a variazioni: introduzione, tema di otto battute, cinque variazioni, coda. Lo schema e` simmetrico, con una strumentazione in ottave nella introduzione e nella coda, con la seconda variazione che e` quasi identica alla prima e la quinta che e` quasi identica alla quarta, con la terza variazione che sposta il tema nel registro centrale e fa incrociare la mano sinistra sopra la mano destra. L’armonia, che rimane sempre identica, tocca soltanto tonica, sopratonica e dominante, la scrittura pianistica sfrutta molto, oltre alle ottave e all’incrocio delle mani, l’arpeggio e il trillo. Nulla di piu` semplice e, se vogliamo, nulla di piu` banale: un pezzo che risponde esattamente a un’opinione di Honore´ de Balzac nel romanzo Modeste Mignon: ‘‘Solo una giovinetta innamorata puo` comporre una melodia senza conoscere la musica’’. Tekla Ba˛darzewska non aveva fatto studi di composizione, e si vede. Era forse innamorata? Chissa! Ma c’e` anche una spiegazione piu` semplice. Carl Czerny, a cui nessuno puo` negare il titolo di piu` prolifico autore di studi, di studi a variazione come la Preghiera ne aveva scritti parecchi, e non e` impossibile che la Ba˛darzewska prendesse lo spunto da un qualche studio di Czerny su cui si stava esercitando. Ma Czerny era un pignolissimo professore viennese con occhiali alla Cavour, e con gli studi non si permetteva nessun disdicevole scherzo. La Ba˛darzewska scrive invece uno studio

a variazioni mettendoci dentro quel pizzico di languore sentimentale di cui gli studi classici difettano, e trovo` un titolo da infarto. Ne fu ripagata da un successo di proporzioni colossali – ottanta edizioni in pochi anni – e anche, parrebbe, da una benedizione celeste. Se dobbiamo prestar fede alla copertina di una delle prime edizioni la vierge si rivolgeva all’Onnipotente. Veramente non si capisce bene perche´ la virtuosa fanciulla, avendo a destra una chiesa con campana in movimento e a sinistra una colonna votiva, stesse in ginocchio di fronte a un monticello di terra. L’atmosfera indubbiamente ‘‘mistica’’ della copertina esclude comunque che la vierge si perdesse a pregare un qualche sasso pagano. E la ragazza, essendosi rivolta a chi poteva, fu ascoltata: dopo la prima prie`re la Ba˛darzewska ribadı` la domanda con la Seconde Prie`re e infine pote´ pubblicare trionfante la Prie`re exauce´e ou re´ponse a` La prie`re d’une vierge (La preghiera esaudita o risposta alla Preghiera d’una vergine). Il nuovo pezzo, molto piu` brillante e molto piu` pretenzioso del primo, lascio` freddo il pubblico e venne cancellato dalla storia del costume musicale. La Ba˛darzewska, tuttavia, non si scoraggio` . Ormai era quasi una specialista in preghiere e, saltando a pie’ pari la preghiera della fidanzata e la preghiera della sposa, arrivo` subito alla Preghiera della madre. Piu` bella, direi, della Prie`re per antonomasia, piu` elaborata, di scrittura pianistica meno innocente. Bella e infelice, pero`: la Preghiera della madre seguı` il triste destino della Preghiera esaudita. La Ba˛darzewska, tenacissima, ritento` la sorte con Io ti ho ascoltato, Risposta a Ascoltatemi di Funke. Meno male che non esisteva allora la rete, che´ altrimenti il Funke e la Ba˛darzewska non si sarebbero cercati a colpi di pezzi per pianoforte. Io ti ho ascoltato non e` una composizione del tutto trascurabile, e` una specie di piccola scena lirica con una lunga melodia operistica, un episodio centrale fra l’esornativo e il minaccioso e la ripresa della melodia. Non che la Ba˛ darzewska si sprechi in fantasia (qualunque professionista avrebbe variato un pochino la ripresa), ma la tenuta formale e` solida e il dispiegamento dei moti del cuore appare efficace. Scrisse parecchi altri pezzi ancora, Tekla Ba˛darzewska, fra cui una Maddalena. Melodia sacra che 51

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Tekla Ba˛darzewska-Baranowska

aspira anch’essa al melodramma, e rincorse incessantemente un successo planetario che troppo precocemente aveva ottenuto con la sua prima Prie`re e che non si rinnovo`. Non ebbe del resto modo di sviluppare il suo indubbio talento di compositrice perche´ morı` a ventisette anni, povera figlia. Ma il suo nome, nel piccolo mondo ch’ella rappresento`, vive immortale. Non c’e` forse musica, almeno nella letteratura pianistica, che piu` di quella della Ba˛darzewska rappresenti il salotto della meta` dell’Ottocento; e percio` quella musica e` da prendere ancora in considerazione. Lo stile della Ba˛darzewska non deriva affatto da quello della musica intimistica della tarda classicita` e del romanticismo perche´ i suoi modelli non sono i rondo` di Mozart o le bagatelle di Beethoven o gli improvvisi di Schubert o le romanze senza parole di Mendelssohn o i notturni di Chopin o i pezzi fantastici di Schumann. I modelli della Ba˛darzewska sono le variazioni e le parafrasi su temi di opere teatrali di Czerny, di Kalkbrenner, di Herz, di Thalberg, di Do¨hler e di tanti altri. Ho fatto notare il carattere melodrammatico di alcuni temi della Ba˛darzewska e delle ottave e dell’incrocio delle mani, ed e` del resto sufficiente ascoltare l’introduzione della prima Preghiera, con le doppie ottave maestose come le colonne d’un portale, per capire che stiamo entrando in teatro. Le doppie ottave di braccio, le ottave staccate di polso, gli arpeggioni, i trilletti, gli incroci delle mani della Prie`re, s’intende, non sono virtuosisticamente impegnativi: Brilliant but not difficult, come aveva chiesto nel 1827, al grande Ignaz Moscheles, una trepida madre inglese che voleva un pezzo calcolato apposta per fare ben figurare la figliola in un

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salotto senza pretendere da lei un gran lavoro di preparazione. Il salotto piccolo borghese della seconda meta` del secolo, il circolo familiare, il piccolo ambiente unito dall’amicizia perde quei caratteri di utopia sociale che aveva avuto con Schubert e diventa il microcosmo di cui il teatro d’opera e` il macrocosmo. Nei salotti si eseguivano fantasie e parafrasi facili su temi d’opera e si eseguivano versioni facilitate delle spettacolose parafrasi di Thalberg e degli altri leoni: la Ba˛darzewska fa esplodere la voga dei pezzi da salotto su temi originali ma stilisticamente affine alle parafrasi facilitate. Geniale, nel suo piccolo, non c’e` che dire. E la Ba˛darzewska non merita i sorrisini sprezzanti che accompagnano di norma la citazione del suo nome e della sua folgorante Prie`re: non sui titoli va misurata, la dilettante di Varsavia, ma sui contenuti. E i suoi pezzi sono un po’ come quegli orologi, quei soprammobili, quelle poltrone che popolavano gli ambienti angusti in cui viveva la piccola borghesia e che riproducevano, semplificandoli, gli oggetti sontuosi e preziosi delle dimore reali. Sono un po’ come le stampe che fissavano in oleografie alla buona le immagini della storia patria affrescate dai pittori nei palazzi, sono la moda del giorno alla portata di tutti, sono lo specchio veritiero di un mondo che tifava per i campioni come Thalberg e che ne imitava in sedicesimo le gesta. E se nel Museo d’Arte Moderna di Barcellona ammiriamo, perche´ non possiamo non ammirarlo, un quadro come Il Concerto del pittore spagnolo Domingo Valencia, dipinto nel 1867, ricordiamoci che con ogni probabilita` la fanciulla biancovestita, compuntamente assisa al pianoforte, sta suonando la Prie`re d’une vierge.

Milij Alekseevicˇ Balakirev

A Milij Alekseevicˇ Balakirev (Nizni-Novgorod, 2 gennaio 1837-S. Pietroburgo, 29 maggio 1910) Milij Balakirev era un pianista concertista coi fiocchi – furono molto lodate le sue esecuzioni del Concerto n. 5 e della Sonata op. 111 di Beethoven, e della Sonata op. 35 di Chopin – ma le sue ambizioni andavano ben oltre il pianoforte, e persino oltre la composizione. Si trattava per lui di fondare in Russia una civilta` musicale nazionale, in alternativa e in contrapposizione con Anton Rubinsˇtejn, che aveva aperto il primo conservatorio esistente nei dominii dello zar ma che vi aveva introdotto il venerabile sistema didattico tedesco. I compiti dell’educatore assorbirono percio` molte delle energie di Balakirev. Se a cio` aggiungiamo un carattere ombroso e un disgusto del mondo che lo porto` anche ad abbandonare per qualche tempo la vita musicale e a lavorare come impiegato nelle ferrovie polacche, allora capiamo perche´ all’alta qualita` delle sue composizioni della maturita` non corrisponda, in un musicista che visse settantatre anni, una altrettanto considerevole quantita`. Le prime composizioni pianistiche di Balakirev sono molto, anzi, sono esageratamente ambiziose. La Grande Fantasia su arie russe op. 4 (1852), le Reminiscenze dell’opera La vita per lo zar (1855) e il Concerto n. 1 op. 1 in fa diesis (1855-1856), di cui fu composto solo il primo movimento, ci mostrano un Balakirev tanto entusiasta quanto fermo a trent’anni prima, perche´ l’impianto architettonico e la strumentazione pianistica sono fieldiane-hummeliane, con qualche elemento derivante da Thalberg. Balakirev aveva studiato con un allievo di Field, Alexander Dubuque, e poi con Anton de Kontski, anche lui allievo di Field, e i suoi maestri non gli avevano evidentemente fatto conoscere i concerti degli anni quaranta, i concerti di Schumann e di Litolff e di Kullak, e gli avevano invece prudentemente proposto i modelli del buon tempo antico. Il Concerto n. 2 in Mi bemolle (18611862, ripreso nel 1906 e non finito) dimostra che gli orizzonti di Balakirev si erano molto ampliati. Ma si tratta ancora di un promettente lavoro di apprendistato, che Balakirev compose in due riprese e non porto` a termine, e in cui il finale, stranamente, e` tributario del Concerto n. 4 di Rubinsˇ tejn. Ljapunov completo` nel 1911 il lavoro, ne´ potendo, ne´ tentando di andare oltre all’onesto impegno di chi cerca di colmare le lacune senza assumere iniziative, cioe` senza modificare cio` che

Balakirev avrebbe forse modificato se il Concerto n. 2 lo avesse ultimato lui stesso. La Sonata in si bemolle (1855-1856), a cui venne assegnato in un primo momento il numero d’opera 5, fu invece completata da Balakirev nel 1905. Nel 1856 erano pronti i primi tre movimenti. Nel 1900 Balakirev riprese il secondo, lo rielaboro` e lo pubblico` come Mazurca n. 5. Poi reinserı` la Mazurca nella Sonata, ma compose ex-novo gli altri tre movimenti. Nella versione definitiva il primo movimento e` molto originale. Balakirev espone un bellissimo, malinconico primo tema di chiara impronta folcloristica, ma lo tratta come invenzione a tre voci, con una strana e tuttavia seducente contaminazione fra canto popolare e Bach. Il secondo tema e` una dolce ninna-nanna, piuttosto salottiera. Nella conclusione dell’esposizione viene ripreso il primo tema. Esposizione breve (54 battute in due quarti), sviluppo breve (55 battute), riesposizione breve (47 battute), e breve coda (24 battute): un modello di sobrieta` formale del tutto insolito per l’epoca, e un tono intimo, raccolto, che contrastano con l’idea del monumentale e del grandioso, connesso nell’Ottocento con la concezione del primo movimento di sonata. Il seguito non si mantiene sullo stesso livello. La Mazurca, che nel 1856 rappresentava il seguito logico di un primo movimento eroico e corrusco, e` estranea al disegno drammaturgico che si era profilato nel nuovo primo movimento. Il terzo movimento, Intermezzo, e` in pratica un notturno, cioe` un pezzo di genere, ed e` collegato con un finale alla russa, molto esteso (485 battute in due quarti), che ‘‘deborda’’ nettamente rispetto alle proporzioni del primo movimento, e con temi non abbastanza plastici per un’architettura cosı` vasta. La fama di Balakirev come compositore di musica per pianoforte fu, e resta affidata a Islamey, fantasia orientale (1869, edizione riveduta 1902), che venne portata al successo da Nicolai e da Anton Rubinsˇtejn e che costituisce ancora un test per i virtuosi. La composizione, che e` il frutto di un soggiorno nel Caucaso, impiega temi popolari di quella regione, trattati con mano smaliziata di strumentatore e lavorati in un’architettura di canzone tripartita, ma in una dimensione molto piu` ampia di quella consueta e con l’aggiunta di una grandiosa coda-apoteosi. Islamey sviluppa dram53

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Milij Alekseevicˇ Balakirev

maturgicamente, secondo me, il tema di una danza dei maschi ‘‘selvaggia’’ (con il pugnale fra i denti), seguita dalla danza elegante e insinuante delle donne, dalla ripresa della danza maschile e dalla unione dei due sessi in un finale orgiastico. Il clima e` quello dei racconti caucasici di Lermontov, della scoperta di una civilta` autoctona, non occidentalizzata, nella quae i sentimenti basilari sono vissuti senza schermi. Islamey e` dunque ben piu` di un test per i virtuosi, sebbene cosı` venga intesa tradizionalmente. Fra gli altri pezzi di Balakirev sono da segnaare lo studio-idillio Au jardin (Nel giardino, 1884), che riprende nel suo placido accompagnamento la tecnica delle estensioni tanto cara a Henselt, al quale il pezzo e` dedicato, la Mazurca n. 4 (1884-

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Au jardin

1886), molto ‘‘chopiniana’’, la Berceuse (1902), in re bemolle maggiore come quella di Chopin ma assai piu` elaborata e virtuosistica (Balakirev scrive sempre per i virtuosi, non per i dilettanti), e La Fileuse (La Filatrice, 1906), che essendo dedicata a un sommo virtuoso come Moriz Rosenthal sviluppa il moto perpetuo in modo frenetico e spettacolare. Curioso l’Improvviso su due Preludi di Chopin (1907), basato sui Preludi op. 28 n. 14 e n. 9, ‘‘riscritti’’ e sviluppati, specie il n. 14, nello stile percussivo di Islamey, con citazione finale di un celebre accordo dissonante dello Scherzo op. 20. Molti pianisti hanno avuto in repertorio una splendida trascrizione di Balakirev: L’allodola di Glinka (1895).

Au jardin

Samuel Osborne Barber

A Samuel Osborne Barber (West Chester, 9 marzo 1910-New York, 23 gennaio 1981) Barber, che era pianista, cantava da baritono e sapeva suonare il violoncello, per pianoforte solo scrisse pochissime cose, come del resto molti compositori del Novecento: poco piu` di un’ora di musica, a cui sono da aggiungere i venticinque minuti del Concerto. Varie composizioni – Due Interludi, Tre Schizzi, Qualche Canzone jazz, Dopo il concerto – vennero in verita` scritte durante gli anni di studio, non furono pubblicate e, non avendo avuto assegnato il numero d’opera, non ricevettero il... riconoscimento di paternita` di chi le aveva messe al mondo. Del resto, solo l’Interludio n. 1 ci dice qualcosa di particolare rispetto all’immagine che abbiamo di Barber: ci rivela un Barber ‘‘avanguardista’’, ... cum grano salis. Le Excursions op. 20 (Escursioni, 1944) rappresentano l’esordio ufficiale di Barber in campo pianistico – a trentaquattro anni! Si tratta di un ciclo di quattro brevi pezzi, che nel loro susseguirsi – Un poco allegro, In slow blues tempo, Allegretto, Allegro molto – formano in pratica una sonatina. Escursioni, come spiega l’Autore, ‘‘negli idiomi musicali delle varie regioni americane’’. Come dire: viaggetti domenicali in luoghi non tanto geografici quanto stilistici. Il che e` dichiarato programmaticamente nel secondo pezzo. Nel primo Barber esplora con curiosita` i... primi vagiti del boogie-woogie, il terzo ci trasporta fra i cowboy e il quarto in un rodeo nel Kentucky. L’apparenza e` cordiale e sempliciotta, ma il lavoro di Barber, compositore che faceva il guardiano di se stesso, e` tutto di cesello, e l’analisi minuziosa ne rivela la fittissima trama. Vladimir Horowitz assicuro` la prima esecuzione, parziale, delle Excursions. E assicuro` il battesimo della Sonata in mi bemolle op. 26 (1949). Scrittura massiccia e tono eroico nel primo movimento, con il canonico secondo tema melodioso e ‘‘femminile’’, forma classica, e sornione citazioni di due serie dodecafoniche inserite in un discorso perfettamente tonale. Il secondo movimento e` uno scherzo di mendelssohniana leggerezza, frusciante e sfuggente. Il terzo – Adagio mesto – e` basato su una serie dodecafonica sviluppata in senso melodico e che non nega l’ambito non solo tonale ma affettivo del si. Il finale e` una fuga a quattro voci che riprende le strumentazioni pianistiche delle trascrizioni dall’organo. Sembra evidente che Barber fosse mosso da due preoccupazioni: offrire

una sintesi dell’idea di sonata come macrocosmo in cui confluiscono tutte le epoche della storia della musica dal barocco a Scho¨nberg, e comporre un pezzo che pianisticamente potesse interessare al piu` grande virtuoso contemporaneo. Bisogna riconoscere che in questo senso la sua Sonata si affianca alla Sesta, Settima e Ottava Sonata di Prokof’ev, che le sono press’a poco conteporanee, come uno dei maggiori esempi di musica da concerto del Novecento. Il Notturno in La bemolle op. 33 (1959) e` sottotitolato ‘‘Omaggio a John Field’’ ed e` esattamente, alla Field, una melodia accompagnata. Melodia dodecafonica, ‘‘posata’’ su una base tonale. La Ballata op. 46 (1922) fu scritta come pezzo d’obbligo per il Concorso Van Cliburn ed e` in realta` una romanza senza parole, o un notturno, in forma di canzone tripartita, con un secondo tema molto contrastante con il primo (si pensa, in quanto drammaturgia, al Notturno op. 15 n. 1 di Chopin). I Souvenirs op. 28 (Ricordi, 1952) nacquero come pezzi a quattro mani da suonare con un amico, ma poi, trascritti per orchestra, divennero un balletto e furono infine ritrascritti per pianoforte solo. Valzer, Scozzese, Pas des deux, Two-Steps, Hesitation-Tango e Galop per una spiritosa e tenera rievocazione degli ultimi anni della belle e´poque. Il Concerto op. 38 per pianoforte e orchestra (1962) e`, nel suo genere, il corrispettivo della Sonata: un grande pezzo virtuosistico che ricalca gli schemi drammaturgici e formali del concerto romantico. Quando venne eseguito per la prima volta – il solista era John Browning – il critico del New York Times ritenne che il pezzo sarebbe entrato nel comune repertorio. Cosı` non avvenne, ma senza dubbio Barber aveva mirato a questo. Sia con la Sonata che con il Concerto egli si era comportato da grande letterato che si inserisce nella storia secolare dei generi, considerati come traguardi di un processo collettivo che risponde a richieste profonde e immutabili della collettivita`. Prokof’ev aveva del resto dichiarato che la forma dell’allegro di sonata rispondeva interamente ai suoi impulsi creativi. Ma in Prokof’ev l’artista prevaleva poi sul letterato, mentre in Barber, sembra, accadeva il contrario. 55

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Be´la Barto´k

Au jardin

Be´la Barto´k (Nagyszentmiklo´s, 25 marzo 1881-New York, 26 settembre 1945) Nato in un paesino in Transilvania (oggi in Romania), Be´la Barto´k comincio` a studiare il pianoforte con la madre, che come tutte le donne della piccola borghesia mitteleuropea aveva ricevuto un’educazione musicale. A undici anni si fece ascoltare in pubblico eseguendo il primo movimento della Sonata op. 53 di Beethoven e un suo pezzo, andato perduto, che si intitolava Il Corso del Danubio e che, per quanto e` dato di sapere, doveva essere una specie di potpourri di canti delle nazioni attraversate dal grande fiume. A Bratislava Barto´k studio` per breve tempo con La´ szlo´ Erkel, figlio del grande compositore Ferenc, poi, nel 1899, si iscrisse nell’Accademia di Budapest e vi studio` il pianoforte con Istva´n Thoma´n, allievo di Liszt, e la composizione con Hans Koessler. Questo era il modo classico, il modo paradigmatico di avviare un ragazzo nato in provincia alla professione del musicista: studi in famiglia seguiti da studi con un buon insegnante seguiti da studi con grandi insegnanti, e ognuna di queste tappe successive serviva a rinforzare la convinzione che per il ragazzo c’era un avvenire nel mondo della musica e a confortare la madre che, rimasta vedova nel 1888, faceva enormi sacrifici per garantire al figlio la migliore educazione possibile. L’approvazione di un insigne allievo di Liszt dava la certezza del futuro. Ma, una volta appurato che Barto´k possedeva un rilevante talento pianistico, quali vie professionali gli si aprivano davanti? Il pianoforte era da sempre lo strumento dei compositori e, molto spesso, dei direttori d’orchestra. Barto´k non tento` mai la strada della direzione d’orchestra. Studio` da concertista con un maestro che gli fece lavorare un vastissimo repertorio, studio` composizione con un maestro che lo educo` alla tedesca. Divenne concertista, imparo` perfettamente il mestiere del compositore e, di conseguenza, si tenne aperta anche la strada del pianista-compositore, del concertista che eseguiva le sue opere. All’inizio tutte e tre le strade vennero percorse con successo. Il compositore si affermo` con il poema sinfonico Kossuth, il pianista-compositore con varie pagine pianistiche, con una Sonata per violino e pianoforte e con il Quintetto per pianoforte e archi, il concertista si fece ammirare a Budapest e a Berlino con pezzi come la Sonata op. 11 di Schumann e la Sonata di Liszt, e compı` un exploit sen56

sazionale quando eseguı` a Vienna, a memoria, la sua trascrizione del poema sinfonico Vita d’eroe di Strauss. Nell’estate del 1905 il ventiquattrenne Barto´k si iscrisse con molte speranze al Concorso A. Rubinsˇtejn, sia nella sezione di esecuzione che in quella di composizione. Sei dei ventitre partecipanti alla sezione di pianoforte ottennero una classificazione che si aprı` con un vincitore destinato a salire nell’empireo, Wilhelm Backhaus; Barto´ k non fu neppure classificato, e di cio` non si dolse piu` che tanto. Si infurio` invece come un bufalo per il risultato del concorso di composizione: nessun premio, un diploma d’onore di primo grado ad Attilio Brugnoli e un diploma d’onore di secondo grado al Nostro. Un premio al Concorso Rubinsˇtejn avrebbe spianato a Barto´k la difficile strada del concertismo. Ma si poteva far carriera " Dohna´anche senza il premio. Ad esempio, Erno nyi, amico di Barto´k di lui maggiore di quattro anni, aveva costruito le sue fortune sul suo Concerto n. 1 op. 5 eseguito a Vienna nel 1898, e Rachmaninov si stava imponendo grazie al suo Concerto n. 2 op. 18, e persino una figura minore come lo svedese Wilhelm von Stenhammar aveva girato l’Europa grazie al Concerto n. 1 op. 1 scritto all’eta` di ventidue anni. Barto´k suono` a Vienna il Concerto n. 5 di Beethoven, ... e non successe niente. Cosı`, dopo una tourne´e in Spagna e Portogallo come accompagnatore del violinista Ferenc Vecsey accetto` di corsa nel 1907 un posto di insegnante di pianoforte nell’Accademia di Budapest. E l’insegnamento del pianoforte divenne la sola base economica sicura della sua esistenza. Riprese la carriera del concertista e del pianista-compositore dopo la guerra, e suono` parecchio in Europa e negli Stati Uniti, ma... Il 16 gennaio 1938, insieme con la seconda moglie Ditta, Barto´k tenne a Basilea la prima esecuzione della Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni. Vivo successo, che procuro` ai Barto´k altri inviti. La Sonata fu ripresa l’11 giugno a Radio Lussemburgo, il 20 giugno a Radio Londra, il 31 ottobre a Budapest, il 15 dicembre ad Amsterdam. La realta` economica di questi inviti e` rivelata da cio` che Barto´k scrisse il 13 aprile ad un’amica: ‘‘La societa` londinese ci ha scritturati per cinquanta sterline; in precedenza eseguiremo il pezzo il giorno 11 alla Radio del Lussemburgo, e quindi in

Concerto n. 2

Be´la Barto´k

qualche maniera ce la faremo senza rimetterci’’. Barto´k proponeva uno dei maggiori capolavori del Novecento e chi gli faceva l’onore di dargli retta lo scritturava con un cachet che copriva appena le spese vive! Oltre che da problemi economici la carriera concertistica di Barto´k fu punteggiata da contrasti con le societa` per la definizione dei programmi. Le societa` di concerti accettavano gruppi di brevi pagine barto´kiane di ispirazione folcloristica e nicchiavano quando si trattava di pagine di gran mole. I due Concerti che Barto´k compose fra il 1926 e il 1931 ebbero un consistente numero di esecuzioni ma furono ben lungi dal realizzare l’en

plein che Stravinskij fece con il Concerto prima e con il Capriccio poi. E sı` che Stravinskij, come pianista, non era nemmeno degno di spolverare le scarpe a Barto´k. L’insegnamento del pianoforte, e negli anni americani la competenza acquisita come etnomusicologo furono le due zattere che permisero a Barto´k, naufrago del concertismo, di navigare nell’oceano della vita musicale. E il suo destino ci ricorda quello di Chopin: anche Chopin campo` grazie alle lezioni di pianoforte. Il che non gli impedı` di essere uno tra i piu` grandi compositori dell’Ottocento, come non impedı` a Barto´k di esserlo nel Novecento.

I Concerti La carriera del pianista-compositore iniziava di solito con un concerto per pianoforte e orchestra. Barto´k non compose da giovane alcun concerto, ma solo due pezzi per pianoforte e orchestra che non gli fruttarono nulla. Lo Scherzo (o Burlesca) op. 2 (1904-1905, 1961) e` una composizione sinfonica di ampie dimensioni (poco meno di mezzora) con una importante parte per pianoforte, ma non e` un pezzo da concerto che metta in evidenza le qualita` del solista. Barto´k non lo eseguı` mai. La Rapsodia op. 1 (1904-1905, 1910) e` la trascrizione per pianoforte e orchestra, con l’aggiunta di poche battute, dell’analogo pezzo per pianoforte solo. Barto´k effettuo` questa trascrizione perche´ il bando del Concorso Rubinsˇtejn richiedeva la presentazione di un pezzo per pianoforte e orchestra. La prima esecuzione ebbe luogo nell’agosto del 1905 a Parigi, nell’ambito delle prove del Concorso e sotto la direzione di Camille Chevillard. Poi Barto´k eseguı` alcune volte la versione per pianoforte solo ma con scarso successo. Riprese il pezzo il 22 dicembre 1927 quando, al suo debutto a New York, dovette sostituire il Concerto n. 1 che l’orchestra diretta da Mengelberg non aveva il tempo di provare in modo adeguato. Alcune altre esecuzioni non contribuirono a far diventare popolare la Rapsodia, che anche oggi rimane nel limbo delle cose di cui si conosce a malapena l’esistenza. Il Concerto n. 1 (1926, 1927) fu composto quando Barto´k decise di riprendere la carriera concertistica. La prima esecuzione ebbe luogo a Francoforte sul Meno l’1 luglio 1927 con l’Autore al pianoforte e Furtwa¨ ngler direttore. Seguirono altre tre esecuzioni nel 1927, alcune esecuzioni negli Stati Uniti nel 1928 e, piu` raramente, altre ancora fino al 1932. Il Concerto presentava una parte orchestrale molto difficile, specialmente per la sezione degli ottoni, e cio` non favorı` la sua diffusione perche´ le prove necessarie per l’esecuzione, come ho appena detto, dovevano essere in numero mag-

giore di quanto non fosse d’uso per i concerti nelle normali stagioni sinfoniche. Barto´k aveva creato una partitura lavorata come un gioiello, con originali soluzioni timbriche nel rapporto fra il solista e le varie sezioni dell’orchestra e con una grande attenzione riservata alle percussioni. I tre movimenti avevano un netto orientamento tonale, le forme erano quelle tradizionali. Ma il linguaggio era molto aspro, dissonante, il ritmo era terribilmente complesso, la scrittura contrappuntistica rendeva difficile l’individuazione di un ‘‘filo rosso’’ da seguire come parte principale e predominante, il discorso risultava frammentato, e la partitura, pur con tutti i suoi pregi, sconcertava l’ascoltatore. Ne´ la situazione cambio` nel corso del secolo: il Concerto n. 1 venne e viene eseguito di rado e non premia le fatiche che impone al solista e all’orchestra. Barto´k si rese conto di non avere raggiunto gli scopi che si era prefisso e... cambio` rotta nel Concerto n. 2 (1930-1931, 1933), eseguito da lui per la prima volta a Francoforte sul Meno il 23 gennaio 1933 sotto la direzione di Hans Rosbaud. Nel 1939 Barto´k scrisse alcune lucide note analitiche che sono preziose per noi: ‘‘Ho scritto il mio primo Concerto per pianoforte e orchestra nel 1926. Fu un’opera riuscita malgrado la sua scrittura un po’ difficile – si potrebbe dire anche troppo difficile! – sia per l’orchestra che per il pubblico. Scrivendo qualche anno dopo, nel 1930-31, il mio secondo Concerto ho voluto creare un’opera contrastante con la prima: meno irta di difficolta` per l’orchestra e con un materiale tematico piu` accattivante. E` questa intenzione che spiega il carattere piuttosto popolare e agevole della gran parte dei temi di quest’ultimo Concerto’’. Il Concerto n. 2, vitalistico nei due movimenti estremi, misterioso nel movimento centrale lento inframmezzato da un turbinoso intermezzo in tempo velocissimo, e` in realta` una rivisitazione del concerto romantico, con una parte solistica di grande virtuosismo ma

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Be´la Barto´k

Concerto n. 3

di linee definite e nette, e con una parte orchestrale ricca di colori e usata sia per effetti di massa che per blocchi separati. Il Concerto n. 3 (1945, 1947) fu pensato da Barto´k, malato di leucemia, per la moglie Ditta, sua ex-allieva che non era in possesso di una tecnica trascendentale. Con l’eccezione di alcuni passi in doppie note che risultano problematici per tutti, il Concerto n. 3 non presenta grandi difficolta` tecniche. Non si puo` tuttavia dire se la redazione finale sarebbe stata in tutto e per tutto quella che conosciamo. Il Concerto fu lasciato infatti incompiuto da Barto´k. Fu completato da Tibor Serly nella parte conclusiva del finale, ma non possiamo sapere se Barto´k, dopo averlo ultimato, non avrebbe effettuato una revisione della parte pianistica la` dove le esigenze tecniche si facevano improvvisamente piu` alte della media. Ditta Barto´k non tenne la prima esecuzione, che fu affidata all’allievo di Barto´k Gyo¨rgy Sa´ndor, a Filadelfia con Ormandy direttore l’8 febbraio 1946. Il primo movimento e` dominato da una calda melodia in Mi esposta subito all’inizio dal solista su un indistinto mormorio degli archi, con una strumentazione pianistica (raddoppio a due ottave di distanza) che si trova spesso in Albe´niz e che

rende lontano e arcano il canto. Non mancano i contrasti, ovvi in una forma che segue fedelmente gli schemi classici dell’allegro di sonata, ma la melodia dell’inizio e` quella che da` il tono espressivo a tutto il primo movimento. L’Adagio religioso ha il suo non celato modello nella Canzona di ringraziamento offerta alla Divinita` da un guarito del Quartetto op. 132 di Beethoven. Il corale ‘‘religioso’’ della prima parte e` seguito da un tempo piu` mosso con interventi del pianoforte e di vari strumenti che imitano il canto degli uccelli, tipico momento di molte composizioni barto´kiane ispirate ai suoni della natura, di cui parlero` piu` avanti. La riesposizione variata del corale conclude la composizione. Il finale, popolaresco, contiene due splendidi fugati. La coda, in tempo piu` mosso, non convince pero` del tutto. Tibor Serly lavoro` alla musica, e seriamente, sugli appunti di Barto´k, ma la sua strumentazione pianistica e` generica e la scala finale a mani alternate e` talmente convenzionale da dare l’impressione dei piu` classici cavoli a merenda. Non riusciamo a immaginare quale sarebbe stata la strumentazione di Barto´k, ma capiamo facilmente che non sarebbe stata quella di Serly.

Le opere per pianoforte Il catalogo pianistico di Barto´ k si apre con una cinquantina di pezzi, fra cui due Sonate, composti fra il 1890 e il 1903, pubblicati solo in minima parte e che presentano pochi motivi di interesse. Bastera` qui accennare alle Variazioni in mi (19001901, 1965). Il tema, a modo di corale, e` di una compagna di studi di Barto´k, le dodici variazioni, pianisticamente molto elaborate, risentono nettamente dell’insegnamento di Koessler e dell’esempio delle Variazioni e fuga su un tema di Emma Gruber op. 4 e della Passacaglia op. 6 di Dohna´nyi. La prima composizione da concerto pubblicata e` la Marcia funebre dal poema sinfonico Kossuth (1903, 1903), comprendente le ultime due sezioni del lavoro per orchestra, che era in dieci parti. La scrittura pianistica non presenta caratteri di particolare interesse, ove si escluda un impiego delle note ribattute nelle parti interne che sembra lontanamente esemplato su un celebre episodio delle Reminiscenze della Norma di Liszt, mentre e` invece da notare lo stile nazional-popolare della composizione, derivato direttamente dalle Rapsodie ungheresi di Liszt e in particolare, parrebbe, dalla Seconda di esse. Contemporaneamente al poema sinfonico Barto´k scrisse l’ultimo dei Quattro Pezzi (1903, 1904). I primi due erano stati composti all’inizio dell’anno, il terzo fu composto in autunno. Il primo pezzo e` intitolato Studio per

la mano sinistra ed e` scritto per la mano sinistra sola. Barto´k conosceva il conte Ge´za Zichy, presidente dell’Accademia di Budapest, mutilato del braccio destro e virtuoso mirabolante della mano sinistra. Ma il giovane Barto´ k, ammesso e non concesso che avesse voluto fare un omaggio al potente conte Zichy, di questi non prese a modello lo stile floreale e pletorico; la scrittura dello Studio e` secca e schematica, sebbene faticosissima per l’esecutore. Nel primo tema del pezzo, che e` in forma di allegro di sonata, e` evidente il tono wagneriano-straussiano, mentre il secondo tema, cullante, in ritmo sincopato, ricorda da vicino Brahms (o, meglio, i brahmsiani di fine secolo come Dohna´nyi). A Brahms, in particolare all’Intermezzo op. 118 n. 6, sembra richiamarsi il secondo dei Quattro Pezzi, Fantasia I, e a Brahms si richiama la Fantasia II. Il quarto brano, Scherzo, e` costruito secondo moduli consueti dei pianisti-compositori di successo: non per nulla, del resto, e` dedicato a Dohna´nyi. Ma la forma, i profili tematici, l’impaginazione e la messa in scena, tradizionalissimi, contrastano violentemente con l’armonia aspra e dura, sicche´ lo Scherzo non poteva risultare gradevole per il pubblico di fine secolo. Ancor meno gradevole e` in complesso la Rapsodia op. 1 (1904, 1923), a cui non basta l’evidente riferimento a Liszt e che comunque risente semmai

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Tre Burlesche op. 8c

delle Csa´rda´s e delle ultime enigmatiche Rapsodie lisztiane, non certo delle prime quindici, celebri e ammirate. L’adesione del giovane Barto´k al gusto corrente, che c’e` ma che rimane parziale, monca, fondamentalmente polemica, spiega dunque perche´ l’esordiente non riuscı` ad affermarsi veramente come pianista-compositore. Nel 1907, avendo risolto con la nomina a professore dell’Accademia il problema banale ma vitale del sostentamento, Barto´k sposto` i suoi interessi verso la raccolta, la catalogazione e l’analisi scientifica del canto popolare contadino ungherese e romeno, nonche´ verso la trascrizione e la armonizzazione dei canti popolari raccolti. Le Tre Canzoni popolari del distretto di Csik (1907, 1910) rappresentano il primo passo in questa direzione. Si tratta di due sole pagine di musica, armonizzate con estrema semplicita` e rispettosissime delle tre melodie, ascoltate nell’esecuzione di un pastore sessantenne che suonava il flauto. Le Tre Canzoni non sono pero` musica da concerto. Ne´ lo sono le geniali Quattordici Bagatelle op. 6 (1908, 1908), i Dieci Pezzi facili (1908, 1908), i quattro fascicoli di Per bambini (19081909, 1910, 1912) e i Sette Schizzi op. 8b (19081910, 1912). Barto´k eseguı` in pubblico alcuni di questi pezzi, anzi, due dei Pezzi facili, la Sera dai Sze´kely e la Danza dell’orso, resero popolare il suo nome fra i dilettanti che per un breve momento videro in lui una specie di moderno Grieg. Si tratta in effetti di due quadretti deliziosi. Una Sera dai Sze´ kely – i Sze´ kely erano una popolazione della Transilvania, i memorialisti italiani del Cinquecento li chiamavano Ceculi – alterna una malinconica canzone ed una danza vivace, la prima con due variazioni, la seconda con una variazione; l’armonizzazione e` tutta orientata sul piacere auditivo, senza nessuna preoccupazione di darle una logica funzionale. La Danza dell’orso e` costruita su un ostinato ritmico del basso e su frammenti melodici non sempre relati armonicamente con il basso: l’effetto e` tremendamente grottesco, e i saltelli sgraziati dell’orso ballonzolante sono resi con una irresistibile comicita`. Il gradimento del pubblico induceva Barto´k ad includere nei suoi programmi certi pezzi che erano pero` stati pensati per l’esecuzione privata. Cio` non riveste apparentemente per noi alcuna importanza, ma e` invece opportuno farci una riflessione per un motivo specifico. In queste pagine non si avverte alcun iato fra il pensiero musicale e la strumentazione pianistica. Ma Barto´k, concertista professionista di formazione accademica, sia pure sconfitto nella lotta per la sopravvivenza, non rinuncia ancora a ricercare in altri pezzi una strumentazione che risulti funzionale agli spazi e al pubblico della grande sala da con-

Be´la Barto´k

certo. Nelle Due Elegie op. 8b (1908-1909, 1910) viene preso in esame lo stile ‘‘moderno’’ da concerto delle Elegie di Busoni (1908), le Quattro Nenie op. 9a (1910, 1912) risentono in modo palmare della scrittura di Debussy. La base melodica delle Nenie e` il canto contadino ungherese, anche se non si tratta di canzoni effettivamente ascoltate da Barto´k. Le melodie sono pero` basate su scale modali non in uso nella musica colta occidentale, e le armonizzazioni sono quanto di piu` semplice possibile. La ricerca del linguaggio contrasta cosı`, fortemente, con lo stile strumentale, che con i suoi raddoppi in ottava (e su due e su tre ottave) e con le sue alternanze di registri richiama in modo nettissimo la scrittura che si suole chiamare ‘‘impressionistica’’. D’altra parte, la prima e la terza delle Tre Burlesche op. 8c (1908-1911, 1912) si muovono ancora entro gli schemi dei pianisti-compositori tardoromantici e sono in fondo, rispettivamente, un valzer da concerto e uno scherzo: specie la Burlesca n. 3 – qui non si fa questione, e` ovvio, di linguaggio, ma di strumentazione pianistica, di impaginazione dell’evento – sembra un pezzo di Moszkowski. La Burlesca n. 2, intitolata Un poco brillo e prediletta da Barto´k per tutta la vita, e` di estremo interesse perche´ tematicamente trasforma una canzone popolare ungherese, ‘‘Tua nonna e` molto gentile’’, in un tema inconfondibilmente barto´kiano. L’armonizzazione in accordi paralleli deriva pero` nettamente da Debussy, e la strumentazione pianistica riprende moduli – acciaccature cromatiche, raddoppi su tre ottave – che si incontrano di frequente nella musica d’uso concertistico del tempo. C’e` dunque una sensibile differenza di compiutezza estetico-stilistica fra cio` che Barto´ k compone per i dilettanti o per i bambini o per gli intellettuali – le Bagatelle – e cio` che compone tenendo ancora un piede nella sala da concerto. Le Bagatelle rappresentano il momento piu` sperimentale e piu` compiuto del giovane Barto´k. Con alcuni dei Dieci Pezzi facili egli poteva sembrare un aspirante alla successione di Grieg e alla conquista del relativo, ricco mercato. Le Bagatelle si mantenevano in apparenza sulla stessa linea. Pezzi brevi con canti e danze popolari e con un finale autobiografico: la tredicesima Bagatella e` intitolata drammaticamente Lei e` morta, e la quattordicesima La mia bella danza. Barto´k aveva avuto una casta relazione con una bellissima violinista, Stefi Geyer, che era stata rotta per motivi religiosi: lei era cattolica praticante, lui si professava ateo. Le due Bagatelle sono costruite sul ‘‘motto Stefi’’ che ritorna nel Concerto n. 1 per violino e nei Due Ritratti op. 5 per orchestra. Lei e` morta (per me), La mia bella 59

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danza (con la Morte). Barto´k e` spietato nel dipingere la delusione e la rabbia, e i titoli delle due Bagatelle sarebbero stati una manna per i dilettanti, ... se la musica non li avesse fatti arretrare con spavento: melodie popolari non addomesticate secondo il lessico mitteleuropeo, armonizzazioni futuristiche. Il moderno Grieg venne subito cacciato. Ma Busoni, a cui Barto´k fece ascoltare le Bagatelle a Berlino nel 1908, disse: ‘‘Finalmente qualcosa di veramente nuovo’’. Le novita` erano molte: scale modali non in uso nella musica colta occidentale, sovrapposizioni di modalita` diverse (non politonalita`, come si dice ancora spesso, ma polimodalita` ), armonizzazioni basate sulle esigenze dell’orecchio, come in Sera dai Sze´ kely, ma non piu` morbide e soffici. Madame de Stae¨l diceva che dopo aver abitato per anni nei pressi di una orangerie desiderava un po’ di sano lezzo di letame. Barto´k, rifiutando la piacevolezza dei Dieci Pezzi facili, si stava preparando ad impersonare non piu` l’esotico ma il barbaro. Le Due Danze rumene op. 8a (1909-1910, 1910) sono pezzi da concerto, ma in esse compaiono per la prima volta alcuni elementi di stile pianistico che fanno pensare a Barto´k. L’inizio della prima Danza – quinte di bordone e tema nel registro grave estremo, tutto staccato e piu` che pianissimo, ritmo di marcia, costruzione del tema per moto retto e poi per moto contrario – appartiene al piu` tipico Barto´k ‘‘popolare’’. Piu` avanti, nella parte centrale, ritorna pero` un modulo che troviamo frequentemente in Busoni, e al climax della riesposizione (la forma e` A-B-A) la strumentazione diventa genericamente roboante. Nella Danza n. 2 la geniale strumentazione dell’inizio, che porta in una dimensione concertistica la piccante disposizione della Bagatella n. 2, diventa poi generica, ricadendo in moduli concertistici notissimi. Ho gia` detto che non faccio questione di linguaggio ma di strumentazione. Il linguaggio e` quello del compositore d’avanguardia, e di forte personalita`. Il modo di pensare il pianoforte da concerto oscilla invece verso piu` direzioni: esperienze diversissime vengono affrontate, lasciate, riprese in un complicato gioco di andata e ritorno da Erode a Pilato. Con le composizioni non pensate per il concerto il linguaggio novativo si crea un suo stile pianistico, mentre non altrettanto avvviene con la musica da concerto. Sembra dunque a me che Barto´k, proprio a causa della sua formazione, faticasse a trovare uno stile personale nella musica ‘‘da recital’’ e che il suo insuccesso come concertista dipendesse, come gia` detto, dalla contraddizione talvolta radicale tra il linguaggio e la strumentazione. Il successo arrivo` in parte, ma dieci anni piu` tardi, 60

Due Danze rumene op. 8a

con l’Allegro barbaro (1911, 1918). E` difficile capire che cosa determino` negli anni venti il successo di un brano diventato in breve tempo celeberrimo e oggi persino un po’ imbarazzante per i palati fini o supposti tali. Penso che il pubblico restasse catturato dalla elementarieta` ossessiva del ritmo e dalla icasticita` del tema principale, costruito su stilemi del canto popolare ungherese ma sviluppato al modo del Beethoven ‘‘seconda maniera’’ e impaginato come cavalcata selvaggia (degli unni, ad esempio), con sosta e relativa ubriacatura e ripresa della cavalcata. Storicamente, pero`, il maggior elemento di novita` dell’Allegro barbaro consiste certamente nella sonorita` percussiva del pianoforte. ‘‘Sonorita` percussiva’’, s’intende, e` una metafora. Il pianoforte e` strumento a percussione, la corda del pianoforte vibra sempre a seguito della percussione contro di essa di un martelletto, la sonorita` e` percussiva per definizione. Tutta la storia del pianoforte e` tuttavia segnata dall’utopia di far superare allo strumento la sua natura e di farlo ‘‘cantare’’. A tale scopo, alla fine dell’Ottocento e sfruttando le novita` di costruzione messe a punto negli ultimi tre decenni del secolo, i pianisti avevano sviluppato l’impiego delle grandi masse muscolari delle braccia e persino del tronco. Questa era la tecnica di Paderewski e di altri pianisti del suo tempo fino a Rachmaninov, la tecnica che riempie di suono le grandi sale da concerto. Debussy e Ravel impiegano invece una parte soltanto delle potenzialita` dinamiche del pianoforte e sviluppano le varianti timbriche ottenute con modi di attacco del tasto molto differenziati: questo e` il suono che si suole chiamare ‘‘impressionistico’’ e che, pur lievissimo com’e` , raggiunge anch’esso ogni angolo della grande sala. Il suono ‘‘percussivo’’ di Barto´k (e di Prokof’ev) dipende dall’impiego delle grandi masse muscolari che vengono pero` fermate al momento in cui il dito arriva a contatto con il tasto e che non ne accompagnano e regolano la discesa. La ‘‘percussivita`’’ riguarda quindi non il colpo del martelletto contro la corda, che e` strutturale e ineliminabile, ma il colpo dell’apparato brachiale, che agisce contro il tasto come un martello contro il chiodo. Questa e` la tecnica che Barto´k intravede nelle Danze rumene e che mette a punto nell’Allegro barbaro. Con questa sonorita` di base, che non ‘‘canta’’ e che non ‘‘accarezza’’, ma che si proietta essa pure con facilita` nei grandi ambienti, Barto´k lavorera` d’ora in poi nella sua musica da concerto. Nel 1912 e nel 1913, deluso per la mancata rappresentazione della sua opera Il Castello del Duca Barbablu`, Barto´k intensifico` i suoi studi sul folclore recandosi anche nell’Africa del Nord per raccogliere canti arabi nell’oasi di Biskra. Nel 1915

Suite op. 14

sfrutto` i suoi studi sul folclore per quattro lavori pianistici di media difficolta`, la Sonatina su melodie popolari rumene (1915, 1919), i 15 Canti contadini ungheresi (1914-1918, 1920), le Melodie di canzoni natalizie rumene (1915, 1918) e le Danze popolari rumene (1915, 1918). Di particolare importanza per la fama di Barto´k furono le sei Danze popolari rumene, che vennero pubblicate dalla Universal di Vienna invece che da editori ungheresi e che raggiunsero ben presto una grande diffusione. Barto´k, che gia` le aveva trascritte nel 1917 per orchestra, autorizzo` percio` trascrizioni per orchestra d’archi, per piccola orchestra, per violino e pianoforte: le Danze rumene rinverdivano la fama del moderno Grieg, venivano suonate dai dilettanti, venivano ascoltate nelle sale da concerto, allietavano persino gli ozi dei frequentatori degli stabilimenti termali, da Spa a Carlsbad a mille altri luoghi, nei quali non mancavano mai i concerti pomeridiani di una piccola orchestra... Per quanto melodicamente incantevoli, armonizzate con mano espertissima e leggera, e strumentate per pianoforte in maniera efficacissima, le Danze popolari rumene non sono un lavoro da concerto. Pensata per la sala da concerto e` invece la Suite op. 14 (1916, 1918). Cio` che colpisce innanzitutto nella Suite e` l’essenzialita` della strumentazione pianistica, che si basa sul concetto di suono gia` definito nell’Allegro barbaro ma che limita moltissimo i raddoppi. Barto´k, quando incise il pezzo in disco, fece precedere l’esecuzione da una breve dichiarazione: ‘‘Quando quest’opera fu composta avevo in mente il raffinamento della tecnica pianistica, il cambiamento della tecnica in uno stile piu` trasparente, uno stile fatto di ossa e muscoli, opposto al pesante stile accordale del tardo periodo romantico: ad esempio, vi sono omessi ornamenti non essenziali come accordi spezzati e altre figure, e lo stile e` semplice’’. Barto´ k mantiene, oltre ai semplici raddoppi in ottava, qualcosa dei raddoppi della Elegia n. 1 e della Nenia n. 4, ma semplificandoli ed usandoli in senso strettamente funzionale, non spettacolare. La scrittura lineare, la nettezza estrema dei contorni, la distinzione e la dissociazione dei timbri diventano la base di uno stile che si pone come vero e proprio manifesto di scrittura neoclassica. Il secondo aspetto che colpisce nella Suite op. 14 e` la drammaturgia: la composizione e` articolata in due pannelli giocosi, umoristici, vitalistici, e altri due pannelli cupi, mortiferi, radicalmente contrastanti con i primi due. Non sara` fuor di luogo, pur con tutta la prudenza necessaria, richiamarsi alla drammaturgia della Sinfonia Patetica di Cˇajkovskij. Ma mentre in Cˇajkovskij il ribaltamento dell’ethos tradizionale della

Be´la Barto´k

sinfonia e` legato alla sconfitta personale e all’individuale tedium vitae, il brusco cambiamento di Stimmung tra il secondo e il terzo pezzo, e la conclusione desolata della Suite op. 14 sembrano legati essenzialmente alla guerra, e ideologicamente alla fine di una civilta`. Nel Sostenuto finale, dal ritmo sincopato della prima parte, tipico di tanta musica d’uso del tardo Ottocento, la cosiddetta Salonmusik o Modeliteratur, emerge progressivamente un valzer spettrale: l’ultima sezione, immota, percorsa da brevi sospiri, si conclude con sei rintocchi di una quarta giusta di valore puramente timbrico – una campana –, non armonico. L’esecuzione che Barto´k ci ha lasciato in disco dimostra come i caratteri di cattivo gusto, di kitsch del finale vadano accentuati anziche´ attenuati, e come, quindi, il brano sia da intendere simbolicamente al modo di un addio e di un compianto. Allo stato attuale degli studi critici e` ancora molto difficile analizzare e interpretare la simbologia barto´kiana. Tuttavia non sembra illegittimo supporre che il valzer debba essere inteso come simbolo di Vienna e la quarta giusta come simbolo della tradizione, e che alla caduta degli dei del terzo e quarto pezzo si contrapponga la vitalita` della vita contadina del primo e del secondo pezzo. Il terzo elemento critico da considerare nella Suite op. 14 e` la maturazione di un gusto armonico desunto dal canto popolare. All’inizio della Suite una stamburata di quattro battute crea il clima della danza contadina all’aperto e stabilisce in modo inequivocabile la tonalita` di Si bemolle. Viene quindi esposta una melodia popolaresca, che non sarebbe armonizzabile, secondo la tradizione, in Si bemolle maggiore ma in Sol o, con armonizzazione modale, in mi. Barto´k la armonizza invece in Si bemolle, cadenzando attraverso il quarto grado alterato, e cioe` con accordi perfetti di Si bemolle e di Mi. Il rapporto di quarta eccedente e` il tritono, il diabolus in musica della tradizione colta occidentale. Barto´ k, creando una melodia di sua invenzione, accetta la configurazione melodica tipica del canto popolare e cadenza dividendo l’ottava in due parti uguali (tritono), cosa inconcepibile per la teoria e per la pratica dell’armonia classico-romantica. Quando ripresenta il tema un’ottava sopra, tuttavia, Barto´k lo armonizza con una cadenza perfetta, con il basso che salta di quinta ma con un accordo di settima di dominante con la settima maggiore invece che minore. Basta questo minimo esempio, credo, per far capire con quale liberta`, e con quale inventiva, Barto´k si muove nella Suite op. 14. Nel corso del pezzo egli impieghera` poi sia soluzioni armoniche inedite, sia stilemi dell’antica e della recente (la cosiddetta scala esatonale) tradizione oc61

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Be´la Barto´k

cidentale, senza che il suo discorso suoni mai convenzionale. Nello scegliere le forme dei quattro pezzi Barto´k rispetto` la tradizione occidentale. Il primo e` in forma tripartita, il secondo segue, seppur non interamente, lo schema del rondo`, il terzo e` di nuovo in forma tripartita, il quarto e` uno studio monotematico con un intermezzo. Regolarissima l’organizzazione ritmica, con assoluta prevalenza di frasi di quattro battute ciascuna. Con la Suite op. 14 Barto´k giungeva finalmente alla definizione di una composizione da concerto di forma complessa, pienamente coerente in tutti i suoi aspetti. Questo primo capolavoro non fu pero` immediatamente seguito da altre composizioni analoghe perche´ Barto´k, terminato nel 1917 il Quartetto n. 2, a causa di vicissitudini legate alla guerra pote´ lavorare poco. Riprendendo a comporre per pianoforte dopo la fine del conflitto si impegno` in una impresa ambiziosa con i Tre Studi op. 18 (1918, 1920), che presentano alcuni rilevanti problemi critici e che non appaiono in tutto conseguenti rispetto alla Suite op. 14. Dei tre pezzi che formano l’op. 18 solo il primo risponde veramente al topos tradizionale dello studio: e` un moto perpetuo e nasce da uno specifico problema tecnico, quello degli intervalli di nona e decima spezzati. Tremendamente arduo per chi non sia dotato da natura di una mano larghissima, e faticoso, a causa della durata, anche per le mani molto grandi, lo Studio op. 18 n. 1 e` da annoverare tra i pezzi piu` importanti della letteratura specifica e tocca un grado di difficolta` che raramente si riscontra in altri studi virtuosistici. Anzi, in un breve episodio (battute 78-83) sembra addirittura impossibile che il pianista riesca veramente a far fronte alle esigenze della scrittura: sono eseguibili le note, e` quasi impossibile far percepire la voce corale interna. Il secondo pezzo puo` a giusto titolo essere definito come studio sugli arpeggi con una grande cadenza in accordi e note doppie. L’impegno tecnico, sebbene meno massacrante di quello dello Studio n. 1, e` dunque rilevante. Ma l’arpeggio ha funzione chiaramente ornamentale, e l’evento musicale principale e` un corale non armonizzato e strumentato con raddoppi su due ottave e poi in ottava. Lo stile della strumentazione e` quello della Elegia n. 1, e deriva sicuramente da Liszt e a Busoni. Ora, e` ben chiaro che non si puo` ne´ si vuol ‘‘vietare’’ Barto´k di riprendere stilemi della tradizione virtuosistica, ma si resta ugualmente sorpresi dopo la svolta della Suite op. 14, del resto cosı` ben definita, piu` tardi, dallo stesso compositore. Il terzo pezzo e` uno studio per la mano sinistra, uno studio sugli arpeggi composti. Anche qui, pero`, l’interesse virtuosistico passa in secondo piano rispetto all’interesse musi62

Tre Studi op. 18

cale, e il pezzo si impone all’ascoltatore per la sua Stimmung bizzarra e capricciosa, non perche´ da un problema tecnico sia nata un’idea creativa. Le Improvvisazioni su canti contadini ungheresi op. 20 (1920, 1922) nacquero in una circostanza casuale: la Revue Musicale di Parigi chiese a Barto´k (e ad altri, fra cui Stravinskij, Falla, Dukas) un pezzo da pubblicare in un supplemento intitolato Tombeau de Debussy. Barto´k mando` il n. 7 delle Improvvisazioni e creo` il ciclo nel corso dell’anno. Una tavola dei temi, catalogo delle melodie usate in questo quaderno, precede le Improvvisazioni. Nella tavola le melodie sono notate nelle tonalita` originali, tonalita` che, tranne che in due occasioni (n. 4 e n. 5) non vengono modificate da Barto´k. Le trasposizioni tonali si spiegano come esigenza di forma complessiva: Barto´k sta lavorando su un principio formale, quello del polittico, e intende equilibrare l’insieme attraverso simmetrie tonali: il primo e il secondo pezzo sono in do, il terzo, quarto e quinto in sol, il sesto in mi bemolle, il settimo e l’ottavo in do. Per accentuare queste suddivisioni strutturali Barto´k, che non per nulla era un didatta, indica i collegamenti e le separazioni mediante la didascalia ‘‘attacca’’ tra il primo e il secondo pezzo, tra il terzo e il quarto e tra il quarto e il quinto, e tra il settimo e l’ottavo. Il primo pezzo di ognuno dei tre gruppi (n. 1, n. 3, n. 7) e` inoltre in movimento lento e funziona come introduzione al movimento rapido che segue. Da tutti questi calcoli minuziosi nasce un polittico di meravigliosa eleganza e di estrema varieta`: Barto´k riesce a chiudere in una forma unitaria otto linee melodiche diverse, senza simmetrie tematiche, senza ritorni o citazioni di temi gia` ascoltati, senza sovrapposizioni. L’armonizzazione e` dedotta dalle melodie – melodie, ovviamente, non accompagnate nella loro forma originale – secondo procedimenti simili a quelli che avevo esemplificato parlando della Suite op. 14. La strumentazione pianistica e` essenziale come nella Suite, e solo la conclusione dell’ottavo pezzo impiega procedimenti tradizionali di amplificazione dinamica degli eventi sonori. Con la Suite, gli Studi e le Improvvisazioni Barto´ k crea quindi tre lavori da concerto di una certa ampiezza e di grande impegno formale: lavorando su una struttura di sonata breve con cambiamento di posizione tra terzo e quarto movimento (Suite), sul trittico (Studi) e sul polittico (Improvvisazioni) egli si apre la via verso i due capolavori che concluderanno il suo catalogo di musica da concerto. La Sonata (1926, 1927) e` costruita secondo schemi formali nettamente ‘‘classici’’, anzi, beethoveniani. Si potrebbe dire addirittura che la forma

All’aria aperta

della Sonata sembra modellata sugli schemi che i primi teorici, come Reicha, Czerny, Marx, avevano ricavato dalle opere piu` ‘‘esemplari’’ di Beethoven. Chiunque sia anche solo moderatamente esperto di analisi e` in grado di riconoscere nel primo movimento della Sonata, alla semplice audizione, il primo tema, il tema di collegamento, il secondo tema, il tema di conclusione, e poi lo sviluppo basato sul primo tema e sul tema di collegamento, e infine la riesposizione abbreviata (i soli due temi principali) e la coda. Altrettanto schematiche sono la struttura tripartita del secondo movimento e la struttura di rondo` in sette episodi del finale. Caratteristica essenziale di questa architettura e` pero` la mancanza di contrapposizione dialettica tra i temi: nel finale non solo i quattro ritornelli, ma anche i tre episodi intermedi sono tematicamente simili, nel primo movimento i quattro temi sono costruiti sulla stessa cellula, nel secondo movimento il pedale interno del secondo tema e` derivato da un elemento del primo tema. La chiarezza quasi didascalica dell’architettura s’unisce quindi alla semplicita` del discorso tematico e alla elementarieta` del ritmo. Il centro tonale viene stabilito in modo fermissimo. Anzi, in un’intervista del 17 dicembre 1927 Barto´k disse: ‘‘La Sonata e` in mi maggiore’’. In verita`, questa sembra una forzatura. Ma se non la modalita`, la tonalita` – mi come polo principale, do come polo del secondo movimento – indubbiamente viene percepita dall’ascoltatore. Infine, la strumentazione pianistica e` lineare. Non neoclassica al modo della recente Sonata di Stravinskij, ma completamente priva di ombreggiature, dura, lucente. E il rapporto con la strumentazione dei primi due movimenti della Suite op. 14 e` evidente, sia pure con una sonorita` piu` piena e massiccia. Per quanto concerne la drammaturgia, il carattere espressivo dei tre movimenti riprende, in linea generale, i topoi dei Concerti di Beethoven, rapportabili al genere della battaglia: primo movimento di lotta (ritmi militari), secondo movimento di preghiera-ringraziamento, terzo movimento di festa popolare. C’e` pero` un problema di esegesi che non mi consta sia stato ancora affrontato. I tempi di metronomo della prima edizione della Suite differiscono da quelli della ripubblicazione del 1929, e i tempi rilevabili dalla esecuzione in disco dell’Autore differiscono da entrambe le indicazioni precedenti. Anche tra la prima e la seconda edizione del Concerto n. 1 si trovano varie differenze di indicazioni di metronomo. Nel 1931, su richiesta del violinista Max Rostal, Barto´k modifico` molte indicazioni di metronomo del Quartetto op. 7. Che si trattasse di errori di Barto´k o che si trattasse di metronomo difettoso, sta di fat-

Be´la Barto´k

to che i tempi di metronomo sollevano spesso dubbi. A me sembra che i tempi di metronomo della Sonata siano troppo veloci e che un’esecuzione con tempi piu` distesi permetta di cogliere meglio il carattere monumentale, pur nella relativa brevita`, della composizione. Nel manoscritto della Sonata il finale contiene un episodio, Moderato, che venne poi rimosso e che diede origine alla Musette, terzo pezzo della suite All’aria aperta (1926, 1927). Questo particolare basta a dimostrare l’affinita` ideologica che esiste tra la Sonata e la suite. Il Moderato creava pero`, nel terzo movimento della Sonata, un contrasto troppo violento, sia perche´ tematicamente del tutto nuovo, sia perche´ di ispirazione, in senso lato, barocca, mentre la Sonata e` di ispirazione classica. Le composizioni del 1926 nascono certamente sotto il segno del neoclassico (neo-classico e neo-barocco) che negli anni venti rappresentava l’esperienza culturale piu` attuale. L’adesione di Barto´k, come di Scho¨nberg, ai problemi posti dal neoclassicismo di Stravinskij e` pero` transitoria. Nella Sonata la scelta delle forme tradizionali e` attuata nella convinzione, comune anche a Prokof’ev, che cio` che era stato portato a perfezione nel periodo classico abbia un valore a-temporale. In All’aria aperta Barto´k riprende dalla tradizione il concetto di musica en plein air e il rapporto musica-ambiente. Il titolo originale ungherese, Szabadban, significa pero` sia All’aria aperta che In liberta` , e in questo senso il rapporto con il barocco acquista implicazioni ideologiche del tutto diverse da quelle del neoclassicismo e tipicamente barto´kiane. Barto´k vedeva nella civilta` capitalistica delle macchine l’origine dei mali da cui l’uomo moderno e` dilaniato, e credeva che l’unica salvezza fosse il ritorno alla natura. Egli avrebbe espresso il suo concetto di liberazione dell’uomo nella comunione con la natura nella Cantata Profana ‘‘I nove cervi fatati’’ (1930). In All’aria aperta si passa dalla musica en plein air al sentimento panico della natura, secondo una progressione che trasforma un dato della cultura – la musica dei clavicembalisti che Barto´k aveva introdotto nel suo repertorio di concertista negli anni venti – in una concezione della vita. Il primo pezzo di all’Aria aperta e` intitolato Con pifferi e tamburi. L’imitazione dei tamburi e` ottenuta con gruppi di suoni percussivi nel registro grave dello strumento, disposti in modo che l’orecchio non percepisca altezze determinate ma piuttosto rumori in una zona di altezze. Un tema di pochi suoni viene sviluppato secondo una tecnica di ampliamento degli intervalli che e` tipica di Barto´k, e la struttura del pezzo e` organizzata secondo un arco di altezze: partendo dal registro 63

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Be´la Barto´k

grave si arriva progressivamente al registro acuto e si ritorna al grave. La Barcarola e` basata sul ritmo tradizionale: il ritmo di base viene pero` continuamente spezzato con inserimenti di ritmi diversi e asimmetrici, mentre la pulsazione ritmica rimane costante. Barto´k riesce cosı` a rendere il carattere di placido fluire uniforme, che e` tradizionale della barcarola, introducendo pero` elementi di rottura della tradizione e di inquietudine. L’armonia e` basata sui rapporti di intervalli di quarta (invece dei tradizionali intervalli di terza), e una tranquilla melodia viene esposta per tre volte con un’introduzione, un intermezzo e una coda: struttura della massima semplicita`, perfettamente in linea con lo stile di una composizione in cui il piccolo pezzo intimistico del romanticismo – la barcarola e` un genere tipico di Mendelssohn e dei mendelssohniani – viene ricreato in una dimensione di astrazione surrealistica. Il terzo pezzo e` la Musette. La cornamusa, strumento popolare molto diffuso in tutta Europa, era stato piu` volte imitato anche da Barto´k nelle sue ricreazioni pianistiche dei canti popolari ungheresi. La stilizzazione sia del canto popolare, sia della tradizione clavicembalistica delle Musette raggiunge qui un grado di astrazione ancora maggiore di quello della Barcarola. Tutto il pezzo e` basato sulla ripetizione in ‘‘ostinato’’ di due ritmi, sui quali si innesta appena, in alcuni momenti, un canto come fischiettato. Il timbro del pianoforte si trasforma in quello di un grande silofono, di uno strumento dal suono acidulo e secco, perforante, inespressivo. In questo senso la Musette prepara la timbrica della Sonata per due pianoforti e percussioni, in cui verra` introdotto, accanto al pianoforte e quasi come un prolungamento di esso, il silofono. Con il pezzo n. 4, Musiche della notte, arriviamo al cuore della nuova poetica di Barto´k. Le formanti della composizione sono: 1) un gruppo di cinque suoni eseguiti in rapidissima successione e con un suono marcato rispetto agli altri; 2) suoni ribattuti alternati con fulminee volate, che probabilmente rappresentano il canto di un uccello; 3) una melodia di corale, simbolo dell’uomo; 4) un tema di danza popolare eseguito da uno strumento a fiato. I quattro elementi sono sovrapponibili e vengono combinati in vario modo. Il pezzo, che e` dedicato alla seconda moglie di Barto´k, inaugura la lunga serie delle musiche notturne (secondo movimento del Quartetto n. 4, secondo movimento del Concerto n. 2, secondo movimento della Musica per archi, percussione e celesta), nelle quali i simboli della religiosita` umanistica di Barto´k riaffermeranno una fede incrollabile e profetica del futuro dell’umanita` . Il brano conclusivo della suite, Caccia o Inseguimento, e` 64

Tre Rondo` su melodie popolari

una toccata che, dopo alcune misure introduttive, prosegue con un implacabile ritmo ostinato, violento e ossessivo, sul quale si sviluppa un tema guerriero e martellante. La composizione e` il contrario delle Musiche della notte, e` una macabra cavalcata. E tutto il ciclo, iniziato con la rustica gaiezza di Con pifferi e tamburi, si conclude con questa tragica raffigurazione del mondo contemporaneo. I Tre Rondo` su melodie popolari (1916-1927, 1930), i Nove Pezzi brevi (1926, 1927) e i sei libri del Mikrokosmos (1926-1939, 1947) sono gli ultimi lavori didattici di Barto´k. Gli elementi costitutivi della musica da concerto e della musica pianistica didattico-amatoriale non sono esattamente gli stessi: nella prima sono infatti presenti un sostrato immanente di teatralita` e una retorica espositiva che di norma mancano nella seconda. La seconda, potremmo dire con qualche approssimazione, e` poesia (magari didascalica), la prima e` teatro e in Barto´k la distinzione fu ben presente, proprio perche´ la sua educazione era stata quella dell’attore, mentre il suo mestiere era quello dell’educatore. Cosı` , quando Barto´k scrive da educatore, il linguaggio e le forme non entrano in conflitto, mentre quando scrive per il teatro il conflitto si manifesta in modo evidente e talora drammatico. Lentamente Barto´ k perviene a equilibrare i due elementi contrastanti, a bilanciare le forze. Da qui il ‘‘progresso’’ che abbiamo riscontrato in lui, che e` da vedere come evoluzione verso la chiarificazione e la risoluzione dell’antitesi, e quindi come conquista di un modo proprio di porsi di fronte al mondo. Di porsi da profeta. Che poi la Sonata e All’aria aperta, per quanto eseguiti non di rado, non siano diventati parte basilare della nostra cultura, e che il profeta non sia per noi un maestro, e` problema nostro, che ovviamente tocca a noi, non a Barto´k, di risolvere. I tre Rondo` impiegano melodie slovacche raccolte nel 1914-1916. Barto´ k compose il primo Rondo` nel 1916 ma lo rimaneggio` nel 1927, quando compose gli altri due. La differenza stilistica si nota comunque. Il primo Rondo` e` piu` gradevole, piu` piacevole, come lo sono le musiche su temi popolari del 1915. Gli altri due Rondo` risentono dello stile della Sonata e di All’aria aperta, e quindi, sebbene i tre pezzi siano di alta qualita`, la raccolta non e` omogenea. I Nove Piccoli Pezzi risentono, ben piu` di All’aria aperta, delle frequentazioni barocche del concertista Barto´k, che aveva messo in repertorio musiche di Michelangelo Rossi, Zipoli, Frescobaldi, Marcello, Purcell, della Ciaja; nella raccolta troviamo persino un Minuetto, un’Aria e un Tamburino. Il Mikrokosmos e` una raccolta di

Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni

pezzi – ben 153 – in ordine progressivo di difficolta`. La qualita` estetica e` sempre alta, l’ordine progressivo e` calcolato da un didatta molto esperto, ma la raccolta nel suo insieme non e` mai stata adottata come testo formativo. Il problema del Mikrokosmos e` che il sistema educativo della raccolta e` finalizzato esclusivamente alla musica di Barto´ k. Anche l’insieme dei lavori didattici di Bach e` tutto centrato su Bach. Ma la musica di Bach fece parte, da Beethoven in poi, dell’educazione scolastica di tutti i pianisti e fu un humus anche per i compositori di musica pianistica. Cosı`, lo studio di Bach spiana la strada allo studio di tutta la letteratura, mentre il Mikrokosmos prepara il discente a una musica, quella barto´kiana, che non ha ‘‘fatto scuola’’. Del Mikrokosmos vengono percio` studiati pezzi scelti di volta in volta, traendoli soprattutto dal sesto libro, ma il sistema progressivo non viene utilizzato. Nel sesto libro troviamo molti pezzi che vengono talvolta eseguiti anche in concerto. Il culmine del sesto libro e secondo me di tutta la raccolta e` il n. 144, Seconde minori, Settime maggiori, che appartiene al tipo delle piu` suggestive ‘‘musiche della notte’’. Altro pezzo di eccezionale interesse e` il n. 142, Dal diario di una mosca, in cui le suggestioni naturalistiche del lento ronzio dell’insetto diventano occasione di sovrapposizioni politonali e di studio di minime differenziazioni di sonorita` in un solo registro. Tra i brani piu` noti si devono citare gli ultimi, le Sei Danze in ritmo bulgaro dedicate alla pianista inglese Harriet Cohen. Il ‘‘ritmo bulgaro’’, molto spesso impiegato da Barto´k, e` basato su misure con suddivisioni asimmetriche. Ad esempio, nella quarta danza la misura di otto tempi non e` suddivisa in quattro gruppi di due o in due gruppi di quattro, ma in tre gruppi, rispettivamente di tre, due, tre tempi; i nove tempi della danza n. 5 non sono suddivisi per tre ma per quattro (due, due, due, tre). Il ritmo bulgaro impiega frequentemente anche misure con un numero di tempi dispari (cinque o sette), molto rare nella musica occidentale, dove solo la misura a tre tempi e` comune. Nella didattica pianistica occupano stabilmente un posto, invece del Mikrokosmos, i due volumi di Per Bambini nella nuova edizione che Barto´ k preparo` nel 1945 e che fu pubblicata nel 1947, i cui settantanove pezzi utilizzano melodie popolari molto attraenti e sono armonizzati in modo meno personale. Ricevendo nel 1937 da Basilea l’invito a scrivere una composizione per celebrare il decennale della locale sezione della Societa` Internazionale di Musica Contemporanea, Barto´k penso` subito ad un organico strumentale che comprendesse uno o due

Be´la Barto´k

pianoforti solisti e un nutrito gruppo di strumenti a percussione, ma scelse ben presto la soluzione con due pianoforti. Il fatto che Barto´ k fosse un concertista e che la sua giovane moglie ed ex-allieva Ditta avesse compiuto sensibili progressi, tanto da essere matura per un esordio di grande impegno non fu di certo ininfluente sulla decisione di Barto´k, anche se egli la spiego` dicendo: ‘‘Gradualmente crebbe in me la convinzione che un pianoforte solo non avrebbe controbilanciato in maniera soddisfacente il timbro spesso abbastanza penetrante degli strumenti a percussione’’. Nacque cosı` la Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni (1937, 1942). Nell’accostare il pianoforte agli strumenti a percussione Barto´k seguiva una tendenza che si era manifestata negli anni venti con le Noces di Stravinskij, il Ballet me´canique di George Antheil e Ionisation di Vare`se. Nella Sonata di Barto´k la percussione comprende timpani, silofono, tamburo con timbro e tamburo senza timbro, piatto sospeso, grancassa, triangolo, tam-tam. La prima esecuzione, come mi e` accaduto di dire incidentalmente, ebbe luogo a Basilea il 16 gennaio 1938. Ho gia` ricordato alcune altre esecuzioni. Alla prima esecuzione a Budapest, il 31 ottobre 1938, uno dei voltapagine era Georg Solti, il quale scrisse piu` tardi che solo i voltapagine avevano capito l’importanza dell’opera, mentre il pubblico era rimasto piuttosto freddo. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1940, Barto´k trascrisse la Sonata per due pianoforti e orchestra; questa versione, che viene riproposta molto raramente e che presenta grandi difficolta` per l’orchestra, fu eseguita per la prima volta a Londra nel 1942 con Louis Kentner e Ilona Kabos solisti sotto la direzione di Sir Adrian Boult, e fu ripresa da Barto´k e la moglie nel 1943 a New York sotto la direzione di Fritz Reiner. Della versione originale esiste la registrazione di un’esecuzione radiofonica, fatta negli Stati Uniti dall’Autore e dalla moglie: registrazione tutt’altro che soddisfacente, anzi, pressoche´ disastrosa, ma preziosa come documento delle intenzioni di Barto´k. L’architettura della Sonata e` classica. Primo movimento in forma di allegro di sonata con introduzione in tempo lento, secondo movimento in forma di canzone, terzo movimento in forma di rondo`-sonata. Anche i rapporti tonali sono classici: primo e terzo movimento in Do (con secondo tema del primo movimento esposto regolarmente in Sol), secondo movimento al quarto grado di Do, in Fa. Su questo schema nettamente classico che rappresenta il possesso della tradizione, Barto´k innesta la sua piu` evoluta concezione dell’armonia: nel primo movimento si stabilisce una tensione fra 65

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Be´la Barto´k

il do e il suono piu` lontano dal do, il fa diesis, all’accordo tonale del secondo movimento viene sovrapposto, alla fine, un accordo per quarte. Gia` Liszt aveva individato l’importanza del rapporto di quarta eccedente ricavato dalla scala zigana e degli accordi per quarte sovrapposte in funzione di un allargamento del lessico armonico tradizionale. Con Barto´k, quando le scoperte di Liszt sono state ormai esplorate a fondo, ci troviamo in presenza di una nuova sintesi che riconduce in uno stesso ciclo storico la classicita`, il romanticismo e il deca-

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Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni

dentismo. Ma nello stesso tempo l’interesse per i rumori, che nella Sonata si esplica in modo esemplare con l’uso degli strumenti a percussione sfruttati con tecniche differenziate, apre un campo di sperimentazione su cui Barto´k non ebbe l’occasione di procedere e che fu battuto poi raramente da altri artisti. Si dice che Barto´k sussurrasse alla moglie, poco prima di morire: ‘‘Mi dispiace di andarmene con la sporta piena’’. Da esploratore quale era sempre stato aveva davanti a se´ una landa meravigliosa nella quale aveva mosso pochi passi.

Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni

Ludwig van Beethoven

A Ludwig van Beethoven (Bonn, battezzato il 17 dicembre 1770-Vienna, 26 marzo 1827) Di Beethoven conosciamo la data del battesimo, non la data e l’ora della nascita. Si pensa che sia nato il 16 dicembre, ma gli appassionati degli oroscopi non potranno mai scrutare nelle stelle se egli fosse o no un predestinato. Predestinato o no che fosse, Beethoven divenne rapidamente pianista. Le descrizioni sul suo modo di suonare sono numerosissime, e una volta depurate delle immancabili frange sfacciatamente favolistiche ci permettono di riassumerne cosı` lo stile: grandiosita` epica, forti contrasti di intensita` e di qualita` del suono, profonda espressivita` del cantabile, perfezione del legato, virtuosita` spontanea non sempre impeccabile, largo uso del pedale di risonanza. L’educazione di Beethoven si era svolta sotto la direzione di Christian Gottlob Neefe, musicista di scuola bachiana (allievo di un allievo di Bach), che aveva scelto per il suo discepolo i trattati di composizione di Fux, Marpurg, Kirnberger, e che lo aveva guidato nella pratica del pianoforte con il Saggio sul vero modo di suonare su tastiera di Carl Philipp Emanuel Bach e con il Clavicembalo ben temperato di Bach padre. Era l’educazione musicale della scuola bachiana, un’educazione che formava, piu` che pianisti virtuosi, musicisti completi, capaci di valersi abitualmente del clavicembalo, del clavicordo, del pianoforte, dell’organo. Ma Beethoven aveva mani felicemente predisposte a dominare la meccanica del pianoforte: tozze, robustissime, con dorso largo, con dita non lunghe, con polpastrelli quadrati: mani come le ebbero Anton Rubinsˇtejn, Tausig, la Carren˜o, Ansorge, d’Albert, Schnabel, Backhaus, Arrau, Gilels, la Argerich, Barenboim. E aveva l’istinto del virtuoso, un istinto che lo porto` a scrivere, verso i quattordici anni, il Concerto in Mi bemolle ricco di passi pianisticamente arditi. La costituzione della mano, naturalmente adatta a cavare dallo strumento suoni dinamicamente e timbricamente molto differenziati, favorı` certamente lo stile esecutivo di Beethoven, agevolandogli la pienezza, la pastosita` del suono cantabile, dando al legato una perfezione che stupı` i primi ascoltatori viennesi, facilitando l’emissione di un fortissimo che tendeva costantemente a superare le possibilita` fische degli strumenti del tempo. La virtuosita` di Beethoven, ricca e istintiva, non era esente, come prima accennavo, da imperfezio-

ni. Fra le tante scelgo la testimonianza di Camille Pleyel, che scrisse: ‘‘[Beethoven] ha moltissima esecuzione ma non ha scuola, e la sua esecuzione non e` raffinata, cioe` il suo jeu non e` puro. Ha molto fuoco, ma picchia un po’ troppo, fa delle difficolta` diaboliche, ma non le fa del tutto pulite’’. ‘‘Difficolta` diaboliche’’. Pensiamo subito a Paganini, o al Liszt degli anni trenta. E rimaniamo perplessi. La testimonianza di Pleyel non trova infatti un puntuale riscontro nella musica stampata di Beethoven, nostra unica fonte di conoscenza. Se osserviamo certe composizioni di August Eberhardt Mu¨ller (1767-1817) o l’Art de varier op. 57 di Reicha, pubblicata nei primi anni dell’Ottocento, troviamo passi virtuosisticamente piu` ardui di tutto quello di Beethoven che conosciamo. Gia` Hoffmann aveva del resto osservato che ‘‘per quel che riguarda la semplice abilita` delle dita, le composizioni pianistiche del Maestro non presentano difficolta` particolari, perche´ le poche scalette, terzine, ecc. rientrano nel campo di cio` che ogni buon pianista deve saper fare’’. Ma Hoffmann – precisamente come noi! – non aveva mai ascoltato Beethoven, mentre Pleyel lo aveva ascoltato. La sua testimonianza ha quindi un valore indiscutibile, anche se solleva un bel rebus. Se diamo fiducia a Pleyel non possiamo non chiederci: c’erano forse due Beethoven? In realta`, c’erano. Un qualche sospetto che l’esecuzione di Beethoven non corrispondesse interamente a quello che egli, con la pubblicazione, proponeva agli esecutori, era gia` sorto quando – si era alla fine del Novecento – venne veramente studiato un manoscritto, non autografo, che porta una versione del Concerto n. 4 nella quale i passaggi virtuostici sono sensibilmente piu` difficili tecnicamente di quelli della versione stampata. Il lavoro certosino compiuto da Luca Chiantore sui quaderni degli abbozzi e sui relativi studi critici (Beethoven al piano, Barcellona 2010) ci ha fornito il panorama completo di passi pianistici, sui quali probabilmente Beethoven si esercitava, talmente ardui da prefigurare talvolta la tecnica del giovane Liszt. A che servivano queste diavolerie? La supposizione secondo me piu` ragionevole e` che Beethoven li tenesse pronti per sfoderarli come colpi segreti quando improvvisava. Da questi frammenti – chiamiamoli genericamente esercizi – emerge una inedita figura di virtuoso co67

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Ludwig van Beethoven

Le Bagatelle

me uomo di spettacolo, come uomo di spettacolo che punta sullo stupore degli ascoltatori, anche se non esaurisce in questo aspetto la sua concezione della esecuzione. Ecco quello che ci dice un allievo di Beethoven, Ferdinand Ries: Se in qualche punto commettevo uno sbaglio o non coglievo esattamente delle note o erravo comunque in un rapido passaggio, di rado ci trovava da ridire; se pero` non davo la giusta espressione a qualche frase, al crescendo, ecc. o al carattere generale del pezzo stesso, allora montava su tutte le furie. Mi diceva cioe` che i primi inconvenienti erano dovuti al caso, ma i secondi denotavano invece manchevolezza di cognizioni, di sentimento e di attenzione. Anche a lui stesso accadeva ben di frequente, persino quando suonava in pubblico, di commettere qualche sbaglio della prima specie. E Carl Czerny, altro allievo di Beethoven, precisa in modo piu` generale gli stessi concetti: Una forza caratteristica e sentimentale, alternata con tutti gli incanti del cantabile, e` qui predominante. I mezzi d’espressione vengono qui non di rado spinti all’eccesso, in specie quanto al capriccio umoristico. Le maniere brillanti e piccanti raramente applicabili, compensate da altri effetti in grande, parte mediante un legato a piu` voci, parte coll’abile uso della pedaliera, ecc. Grande agilita` senza pretendere al brillante. Espressione entusiastica nell’Adagio. Infine, canto pieno di sentimento. Perche´ Ries e Czerny, all’incirca coetanei di Pleyel, non ci parlano di quell’altro Beethoven che, mentre costruiva con un intenso lavoro concettuale le sue grandi architetture, perdeva anche un po’ del suo tempo con il virtuosismo di bravura, con esercitazioni tastieristiche da acrobata che non sfruttava poi interamente nelle sue composizioni? Confesso di non avere una risposta. Posso solo immaginare che, scrivendo dopo la morte di Beethoven (Ries nel 1838, Czerny nel 1839) e nella fase incipiente della sacralizzazione del Grande Scomparso, i due allievi devoti volessero attirare l’attenzio-

ne su cio` che di Beethoven restava vivo per i posteri. E questa era stata del resto l’impostazione del problema-Beethoven di Hoffmann, che scriveva mentre Beethoven era ancora vivente ma che, se il lettore mi concede il paradosso, ragionava gia` da postero perche´ di Beethoven conosceva soltanto le musiche stampate. Hoffmann ritiene che la difficolta` dell’esecuzione di Beethoven non sia tecnica ma di altro tipo, e che non sia ‘‘piccola’’: [...] per un’esecuzione esatta e sciolta delle composizioni di Beethoven e` necessario comprenderlo, penetrare profondamente nella sua essenza, e con la coscienza della propria iniziazione osare di entrare arditamente nel cerchio delle magiche apparizioni evocate dal suo potente incantesimo. Chi non sente in se´ questa iniziazione, chi considera la sacra musica solo come un giochetto, come un passatempo per le ore d’ozio, come momentanea eccitazione per orecchi ottusi o come un mezzo per mettersi in mostra, se ne tenga lontano. [...] Il vero artista vive esclusivamente nell’opera, che esegue avendola compresa nel senso del maestro. Egli sdegna di ostentare in un modo qualsiasi la sua personalita` e non mira che a far rivivere animati e splendenti di mille colori le immagini e i fantasmi stupendi e soavi, racchiusi dal maestro con magica potenza nella sua opera, cosı` che essi circondino l’uomo in luminosi cerchi scintillanti e accendendogli la fantasia e la profondita` dell’animo lo trasportino con rapido volo nel mondo lontano degli spiriti. Il problema non e` cambiato, dai tempi di Hoffmann a oggi: si tratta di individuare il mondo poetico di Beethoven. Ma non dimentichiamo il Beethoven che, essendo nato pianista, continuava a divertirsi con acrobazie sulla tastiera mentre, sdegnando il vecchio termine componist, rivendicava e si guadagnava il titolo di Tondichter, di poeta del suono. Tondichter, e sta bene. Ma anche – lo diceva Czerny, che se ne intendeva – Claviervirtuose, non semplice Pianist come Weber.

Le Bagatelle Quando Beethoven si trasferı` da Bonn a Vienna, nel novembre del 1792, l’ascesa sociale della borghesia e il conseguente rapido sviluppo dell’editoria musicale consentivano a un giovane musicista di accantonare i tradizionali rapporti di lavoro con la dipendenza contrattuale dalla aristocrazia e dal clero perche´ gli lasciavano per lo meno intravvedere la possibilita` di svolgere la libera professione. Il nascente interesse per la musica del passato, che dava allora inizio al totale capovolgimento di un costume antichissimo, imponeva d’altronde al giovane di guardare anche alla storia anziche´ soltanto

alla attualita`. C’erano, naturalmente, moltissimi giovani musicisti che davano ancora la scalata agli incarichi ufficiali e che si preoccupavano soltanto di ottenere successi immediati, senza timori reverenziali al cospetto dei Mozart, degli Ha¨ndel e dei Bach. Beethoven intuı` invece immediatamente quali fossero gli obblighi che per il giovane musicista scaturivano dai tempi nuovi. Deciso a tentare la libera professione, non cerco` un impiego fisso ma non si butto` d’altronde a comporre tutto cio` che il mercato editoriale richiedeva. Le sinfonie e i quartetti per archi uscivano a bizzeffe e si vende-

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Bagatelle op. 33

vano bene. Ma entrare in questo campo significava mettersi in concorrenza con Haydn, che proprio in quegli anni andava producendo le ultime sinfonie e gli ultimi quartetti. E Beethoven sapeva che, se il pubblico inghiottiva molte cose, la storia non avrebbe perdonato chi non avesse saputo reggere il confronto. Nei primi otto anni del suo soggiorno viennese Beethoven pubblico` soprattutto musiche per pianoforte e con pianoforte – dopo la morte di Mozart non aveva in campo pianistico competitori degni di lui – e alcuni trii per archi. Perche´ proprio trii e non quartetti, posto che il trio per archi, ben piu` del quartetto, crea ardui problemi di tecnica compositiva? Perche´, credo, il trio per archi era un genere che Haydn non aveva mai trattato. Con le composizioni pubblicate fino al 1800 Beethoven si metteva direttamente in luce presso l’aristocrazia, nei cui saloni furono presentate in prima esecuzione molte musiche sue, e presso i dilettanti di Vienna, e indirettamente presso i dilettanti di tutto il mondo, cioe` presso quei clienti potenziali che l’editoria musicale stava bersagliando con sempre nuove pubblicazioni. In questa fase della attivita` di Beethoven i due punti culminanti sono rappresentati dal Quintetto op. 16, eseguito a Vienna il 6 aprile 1797 e pubblicato nel 1801, e dal Settimino op. 20, eseguito a Vienna con enorme successo il 2 aprile 1800 e pubblicato nel 1802. Ma Beethoven stava ormai per imboccare una svolta decisiva, dopo la quale avrebbe accettato il confronto con Haydn e non si sarebbe piu` preoccupato dei suoi rapporti con i dilettanti. Nel 1801, pubblicando i Quartetti op. 18 e la Sinfonia n. 1, Beethoven passava dal rango di pianistacompositore al rango di compositore tout court e si poneva come concorrente e come aspirante alla successione di Haydn. E in quel momento egli comincio` a pensarla diversamente non solo nei confronti del mondo ma pure nei confronti di se stesso. Chi scorre anche distrattamente l’elenco delle composizioni pubblicate da Beethoven nota immediatamente l’alternarsi di lavori con numero d’opera e di lavori senza numero d’opera, un alternarsi assai frequente nell’ultimo scorcio del Settecento e che si va facendo poi raro, fino a scomparire del tutto negli ultimi anni. Ora, a che serviva al tempo di Beethoven il numero d’opera? Serviva all’acquirente che, trovando in un negozio di Londra o di Parigi o di S. Pietroburgo una composizione di un autore per lui sconosciuto, la comprava, se la suonava o se la faceva suonare a casa da qualcuno sul pianoforte, che per gli amanti della musica era un indispensabile mobile domestico

Ludwig van Beethoven

parcheggiato in salotto. Se la suonava, l’ipotetico acquirente, e se gli piaceva desiderava di avere altre informazioni su quel compositore fino ad allora sconosciuto. Quindi, se la composizione che aveva appena scoperto portava un opus 6 l’acquirente sapeva che poteva far cercare dal suo negoziante di fiducia gli opus 1, 2, 3,4, 5. E se si era procurato tutto il blocco dall’1 al 6 e poi trovava in un altro negozio l’opus 9 sapeva che esistevano gli opus 7 e 8. Il numero d’opera, insomma, era il cartellino di produttivita` dell’autore e fungeva da elementare canale di informazione. Ora, se il numero d’opera rispondeva a un interesse dell’acquirente, a maggior ragione rispondeva a un interesse del compositore. Perche´ mai, allora, Beethoven pubblicava i suoi lavori con e senza numero d’opera? La ragione ci viene spiegata da Beethoven stesso, che in una lettera del 18 ottobre 1802 propose agli editori Breitkopf e Ha¨ rtel di Lipsia due serie di variazioni, dicendo: ‘‘Tutte e due le serie sono elaborate in maniera interamente nuova e ognuna in modo diverso e distinto’’. Quando gli editori accettarono di pubblicare le due composizioni Beethoven chiese loro di inserire nella stampa una avvertenza: ‘‘Poiche´ queste Variazioni differiscono notevolmente dalle mie precedenti [...] le ho incluse nella serie numerica delle mie opere maggiori’’. Gli editori fecero orecchie da mercante quanto all’avvertenza, che avrebbe squalificato le serie precedenti tuttora in commercio, ma misero in frontespizio i numeri d’opera 34 e 35. Prima di quel momento Beethoven aveva pubblicato le sue variazioni senza numero d’opera. E` dunque evidente che per lui le variazioni rispondevano a bisogni della societa` viennese ed erano percio` opere minori. Con l’op. 34 e con l’op. 35 la variazione, il genere della variazione entrava invece nell’olimpo. Ma un po’ prima erano entrati nell’olimpo un Lied, An die Hoffnung op. 32, e una raccolta di brevi pagine pianistiche, le Bagatelle op. 33. Beethoven, per cosı` dire, decideva di prendere e di far prendere sul serio tutto quello che componeva, anche se poi avrebbe ancora pubblicato senza numero d’opera – e non sappiamo perche´ – parecchie cose. Il segnale mandato al pubblico con le opere 32-35 era che il grande pittore d’affreschi Beethoven era sempre il grande Beethoven, anche quando faceva il miniaturista. Le Bagatelle op. 33 (ca. 1790-1802, 1803) riuniscono sette pezzi composti probabilmente nel corso di molti anni, in circostanze non note. La prima Bagatella potrebbe risalire addirittura al 1782, la sesta e` del 1802. Tanto piu` ci stupisce dunque il fatto che Beethoven non solo riunisse un mazzetto di pensieri sparsi ma che decidesse di assegnare al69

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Ludwig van Beethoven

la raccolta il numero d’opera. Il tono espressivo prevalente e` l’umorismo, a cominciare dalla briosissima Bagatella in Mi bemolle (n. 1) e passando alla Bagatella in Do (n. 2), intitolata Scherzo e in forma di scherzo con trio ma... scherzosissima, oserei dire birichina, e poi alla Bagatella in Do (n. 5), vero e proprio capriccio, e infine alla bagatella in La bemolle (n. 7), a modo di vorticosa danza paesana. Beethoven, nell’ordinare l’insieme dei pezzi, miro` a dare unita` alla raccolta attraverso la presenza di due poli: l’umorismo di cui ho detto, che e` prevalente, e la tenerezza. La Bagatella in Fa (n. 3) e` come una ninna-nanna, la Bagatella in La (n. 4) e` un corale che sessant’anni piu` tardi, in pieno romanticismo, avrebbe potuto essere intitolato Preghiera della sera, e la Bagatella in Re (n. 6) e` colloquiale e intima al punto da indurre Beethoven a dotarla di una straordinaria didascalia (in italiano): ‘‘con una certa espressione parlante’’. Con le Bagatelle op. 33 Beethoven scopriva in realta` una vena aurifera che avrebbe provveduto lui stesso a scavare, vent’anni piu` tardi, ma che sarebbe diventata la miniera dei romantici. Le Bagatelle op. 119 (1800-1822, 1821 e 1823) partirono insieme con l’op. 33 e arrivarono al traguardo vent’anni dopo. Sebbene Beethoven fosse diventato nel frattempo un’icona vivente, un monumento nazionale, l’editore Peters di Lipsia, che badava al sodo, rispose alla proposta di pubblicazione con una autentica levata di scudi: ‘‘I Suoi pezzi non valgono il prezzo che Lei vuole avere, ed e` al disotto della sua dignita` che Lei passi il suo tempo a scrivere delle piccolezze che chiunque potrebbe scrivere’’. Povero Beethoven, viene da dire. Ma l’editore aveva proprio tutti i torti? In un lontano passato si pensava che le Bagatelle op. 119 fossero state composte fra il 1820 e il 1822, al tempo delle ultime tre Sonate per pianoforte e della Missa solemnis. In effetti erano pronte nel 1822, ma l’esame accurato degli schizzi ci dice che le prime cinque risalivano all’inizio del secolo. Le Bagatelle op. 119 erano nate in effetti come due raccolte distinte: i nn. 7-11, composti nel 1820, erano stati pubblicati a Vienna nel 1821, nella Wiener Pianoforte Schule di F. Starke, i nn. 1-5, abbozzati intorno al 1800, e il n. 6, composto nel novembre 1822, vennero pubblicati a Parigi nel 1823, e solo successivamente gli undici pezzi furono riuniti. L’editore Peters aveva dunque molti torti ma non tutti i torti, perche´ l’op. 119 e` formata da due blocchi stilisticamente disomogenei, uno umoristico e gradevole, l’altro visionario ed enigmatico. La prima Bagatella e` in forma di minuetto con trio, ripetizione variata del minuetto e, inaspettata, 70

Bagatelle op. 119

una imponente coda che occupa il 30% del pezzo. La seconda Bagatella e` un delizioso gioco a mani incrociate, la terza e` una rustica a` l’Allemande, anch’essa con una coda da coccodrillo, la quarta e` un tenerissimo Andante cantabile, la quinta una danza bizzarra. Con la sesta Bagatella il clima, che fino a quel punto era quello dell’op. 33, cambia bruscamente: dallo stile delle Sonate op. 26 e op. 27 passiamo allo stile della Sonata op. 101 con un Andante-Allegretto tutto sospeso per aria. Ma sconvolgente per le nostre orecchie e` la settima Bagatella, un tripudio di trilli. E ci stupisce l’ottava, che evoca le Variazioni su un Valzer di Diabelli. Piu` normale la nona, un breve valzer nostalgico, ma la decima dovette far uscire dai gangheri l’editore Peters. Un Allegramente di otto battute, ripetute, piu` una coda di quattro battute: da che mondo era mondo non s’era mai visto un temino che pretendesse di essere un pezzo con tanto di numero. L’undicesima, meravigliosa Bagatella, ci porta piu` avanti del 1820, ci porta nel mondo degli ultimi Quartetti, e sembra un bel tema da variare. A variarlo ci penso`, ottant’anni piu` tardi, Max Reger. Le Bagatelle op. 119 non formano un ciclo organico. Le Bagatelle op. 126 (1823-1824, 1825) non solo sono, ma vogliono essere un ciclo: in margine a uno dei vari schizzi di questo lavoro troviamo infatti l’annotazione ‘‘Ciclus von Kleinigkeiten’’ (Ciclo di piccolezze). Il carattere di ciclo e` assicurato innanzitutto dalla scelta delle tonalita`, e in secondo luogo dai contrasti di tempo: Andante con moto Sol Allegro sol Andante Mi bemolle Presto si Quasi allegretto Sol Presto-Andante cantabile e con moto-Tempo I Mi bemolle. L’alternarsi di tempi moderati e di tempi rapidi e` evidente di per se´. La rete tonale e` meno immediatamente riconoscibile perche´ la tonalita` di si minore sembra del tutto estranea. In realta`, pero`, sulla tastiera temperata del pianoforte il si e` identico al do bemolle. Quindi, per l’orecchio, abbiamo un intervallo di terza maggiore discendente dal sol al mi bemolle, un intervallo di terza maggiore discendente dal mi bemolle dal do bemolle-si, un intervallo di terza maggiore discendente dal si al sol e un intervallo di terza maggiore discendente dal sol al mi bemolle. I rapporti di terza, alternativi ai rapporti di quarta e di quinta, erano stati esplorati da Beethoven nelle Sonate per pianoforte op. 31 n. 1 e op. 53 e nel ciclo liederistico An die ferne Geliebte op. 98, ed erano stati integrati con i rap-

Bagatella in la WoO 59

porti di quarta e di quinta nella Sonata op. 106. Nell’op. 126 essi costituiscono la struttura portante e simmetrica. Costituivano la struttura portante e simmetrica anche nella Fantasia op. 15 di Schubert (1822), solo che in Schubert la ‘‘direzione’’ era ascendente invece che discendente (do, mi, sol diesis-la bemolle, do). In Schubert la tonalita` finale e` identica a quella iniziale, in Beethoven e` diversa. Ma si puo` osservare che sia i Valzer sentimentali op. 50 che i Momenti musicali di Schubert iniziano in Do e finiscono in La bemolle, il che configura il rapporto di terza maggiore discendente. Insomma, sembra proprio che Beethoven e Schubert facessero a gara nell’inseguire i rapporti di terza. I lavori che chiudono il catalogo pianistico di Beethoven riassumono e compendiano le sue ricerche su tre diversi principi di costruzione della architetture e delle drammaturgie musicali: le Sonate op. 109, op. 110 e op. 111, le Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120, le Bagatelle op. 126 sono rispettivamente come le novelle filosofiche, il grande commentario su un fatto del giorno, la silloge giornalistica, e riflettono in pari misura la visione del mondo di chi negli stessi anni creava il poema civile della Nona Sinfonia e il poema religioso della Missa solemnis. Le Bagatelle op. 126 sono piccole storie che traggono origine dalle tradizioni popolari. Non era accaduto diversamente con le Bagatelle op. 33, con quel tema del primo pezzo che un calzolaio seduto al suo deschetto avrebbe potuto canticchiare o fischiettare e con quel quarto pezzo di cui ho detto che avrebbe potuto accompagnare la preghiera serale di un sarto e della sua famiglia. Il canto popolare amoroso, la danza liberatoria, la preghiera che si recita guardando le stelle sono gli elementi costitutivi dell’op. 126. E se nella prima Bagatella Beethoven trova, per definirne la Stimmung, una straordinaria didascalia italiana, cantabile e compiacevole, il cantabile e grazioso della terza Bagatella diventa preghiera in cui lo sguardo che fissa le stelle piu` alte penetra molto piu` oltre, nella profondita` dei cieli. Ce lo hanno dimostrato vari interpreti, che i pochi minuti della Bagatella n. 3 sono della stessa stoffa delle piu` sublimi meditazioni religiose di Beethoven. Sia la forma ottenuta accostando piu` quadretti, cioe` la forma a pannelli, sia il tono espressivo rivolto alle cose semplici e insieme profonde della vita di tutti saranno l’eredita` che Beethoven lascera` al giovane Mendelssohn e poi a Schumann. E dai modi espressivi delle Bagatelle nasceranno le incursioni mendelssohniane e schumanniane nel mondo del-

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le tradizioni popolari, del Corno magico del fanciullo. Oltre alle raccolte esistono brevi pezzi staccati, non pubblicati da Beethoven, che a torto o a ragione vengono chiamati bagatelle. Il Presto in do WoO 52 (1797, 1888; WoO significa Werke ohne Opuszahlen, Lavori senza numero d’opera secondo il catalogo Kinsky-Halm), in forma di scherzo con trio, e` un magnifico saggio di umorismo nero, virtuosistico di scrittura e teso discorsivamente. Fu ritrovato fra gli abbozzi della Sonata op. 10 n. 1, e probabilmente era destinato in origine a far parte della Sonata. L’Allegretto in do WoO 53 (ca. 1796-1798, 1888), anch’esso in forma di scherzo con trio, e` meno caratteristico e meno ‘‘beethoveniano’’. Fu ritrovato fra gli abbozzi della Sonata op. 10 n. 1, in due versioni (la seconda fu pubblicata soltanto nel 1956) e fu presumibilmente pensato come alternativa al Presto WoO 52. Ma Beethoven decise alla fine di non dotare di uno scherzo la Sonata op. 10 n. 1. La Bagatella in la WoO 59 (1810 ca., 1867) e` la celeberrima Per Elisa, diventata, nelle pubblicazioni discografiche divulgative, Lettera a Elisa. La identificazione di Elisa e` stata molto laboriosa. La tesi generalmente accettata e` che il curatore della pubblicazione postuma, Ludwig Nohl, avesse letto male e che Elise dovesse essere Therese, cioe` Teresa Malfatti, nipote di un medico di Lucca che aveva fatto fortuna a Vienna e che era stata corteggiata da Beethoven nel 1810. Ma si suppone anche che si trattasse invece della cantante Elisabeth Ro¨ckel, sorella di un cantante amico di Beethoven e moglie di Jan Nepomuk Hummel. L’autografo non e` mai stato ritrovato, mentre e` noto un abbozzo. Mai ritrovato l’autografo, dicevo. Forse, mai esistito. Ludwig Nohl spiega di averlo scoperto nel lascito di Therese Malfatti pervenuto alla sorella, moglie di un altro amico di Beethoven, il barone Ignaz von Gleichestein, e dice che la dedica a Elisa e` datata 27 aprile. Ma non descrive l’autografo. La Breitkopf & Ha¨rtel, che stava pubblicando l’opera omnia di Beethoven condotta con criteri scientifici, rinuncio` percio` a includere Per Elisa nella edizione e... cedette solo nel 1888, inserendo il pezzo in un volume di miscellanee. Per Elisa presenta tratti, sia pure minimi, che non rientrano nello stile di Beethoven, e c’e` il fondato sospetto che il Nohl abbia lavorato sull’abbozzo, completandolo di testa sua. Perche´ mai dovesse comportarsi cosı` e` materia da psicanalisi. A titolo informativo diro` che Ludwig Nohl, nato nel 1831, non era tenuto in alta considerazione dagli specialisti beethoveniani piu` autorevoli, come il Thayer e il Nottebohm. E siccome gli specialisti piu` autorevoli non espres71

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Bagatelle in Do e in Mi bemolle

sero dubbi sulla autenticita` di Per Elisa, il Nohl si sarebbe tolto la soddisfazione di metterli nel sacco,... senza pero` rivelare poi il trucco, indegno in verita` di un professore universitario come lui. Ma tutte queste sono questioni che non scalfiscono il mito. Il pezzo e` in forma di rondo` in cinque episodi con tre temi, e il primo tema, che e` di Beethoven, e` quello che conta, e` quello che fece e fa sognare ogni donna che si identifica in una Elisa, o

Teresa che sia, amata teneramente da quell’orso di Beethoven. Due Bagatelle in Do e in Mi bemolle (1800, 1927), furono probabilmente scartate quando Beethoven pubblico` l’op. 33, e la Bagatella n. 5 WoO 54 (1804, 1888) fu pensata forse per una raccolta che non fu ultimata e della quale vennero ripresi i cinque pezzi che entrarono, come abbiamo detto, nell’op. 119.

I Concerti L’attivita` concertistica era pressoche´ priva, nella seconda meta` del Settecento, di istituzioni che programmassero regolari stagioni. In pratica, le vere e proprie stagioni si tenevano soltanto a Lipsia, a Parigi e a Londra. Concerti sinfonici, pero`, non concerti da camera, perche´ i concerti di musica da camera venivano tenuti nei saloni della aristocrazia e dall’alta borghesia, e per un pubblico di invitati che, ovviamente, godeva dello spettacolo senza sborsare un soldo. I concerti sinfonici non programmati in stagioni venivano tenuti saltuariamente, sia organizzati dalle orchestre, sia organizzati da solisti che, facendo i manager di se stessi, si accollavano tutte le spese e, se c’era, intascavano tutto il guadagno. Negli anni sessanta Leopold Mozart aveva portato in giro per l’Europa la figlioletta Nannerl e il figlioletto Wolfgang, e aveva dimostrato la sua abilita` impresariale riuscendo a ricavare dalle esibizioni familiari, oltre a grandi gratificazioni del suo ego, un gruzzoletto e molti regali di valore (tabacchiere, anelli, abiti di lusso), Nel 1789 il padre di un altro portentoso ragazzo, Jan Nepomuk Hummel, sarebbe partito con il figlioletto undicenne per un giro di concerti che, dopo un lungo percorso in Germania, si sarebbe concluso in Scozia e poi a Londra. E a Londra il piccolo Hummel, che prima di iniziare la tourne´e aveva studiato per circa due anni con Mozart a Vienna, avrebbe preso lezioni di pianoforte da Clementi, ‘‘collezionando’’ cosı` i due maggiori maestri della sua epoca. Johann van Beethoven, padre di Ludwig, avrebbe tanto desiderato ritentare le imprese di Mozart e, se ci fosse riuscito, avrebbe riscattato le laceranti frustrazioni che lo tormentavano, perche´ suo padre, assunto come basso solista dal principe elettore di Colonia, era salito di grado fino a diventare maestro di cappella, mentre lui, assunto come tenore, non era stato capace di succedere al padre, scomparso nel 1773 e sostituito da un italiano, Andrea Lucchesi. Beethoven junior era precoce, molto precoce, ma non era Mozart (e nemmeno Hummel). Il padre riuscı` a organizzare un concerto a Colonia il 26 marzo 1778, dicendo nell’annuncio che suo figlio, di sei

anni (ne aveva sette e mezzo), avrebbe eseguito ‘‘diversi concerti e trii’’. Questa prima uscita dalle mura di Bonn non ebbe pero` alcun seguito. Nel 1783 Beethoven, accompagnato dalla madre, si reco` a Rotterdam e vi tenne un concerto di cui non abbiamo precise notizie ma che sicuramente non dovette essere sostenuto da lui solo. E` probabile che proprio in seguito a questo esordio all’estero e alle speranze che aveva suscitato Beethoven componesse il Concerto in Mi bemolle WoO 4 (1784, 1943). Di questa composizione e` arrivata a noi, con annotazioni per la strumentazione orchestrale (due flauti, due corni e archi), la sola parte del pianoforte, che parla in copertina di un ‘‘Beethoven [...] in eta` di dodici anni’’. La figura del pianista-compositore, cioe` del compositore che eseguiva i suoi lavori con orchestra, era molto a` la page negli ultimi decenni del Settecento. Nei primi cinque anni del suo soggiorno a Vienna, ad esempio, Mozart era riuscito a tenersi confortevolmente a galla, in una citta` che non sentiva affatto il bisogno di ospitare fra le sue mura un salisburghese piuttosto arrogante, proprio organizzando personalmente concerti nei quali faceva ascoltare i suoi lavori per pianoforte e orchestra, sfornati a getto continuo. Il Concerto WoO 4 poteva diventare il primo trampolino per lanciare il dodicenne Beethoven non solo in una carriera di pianista-compositore ma di fanciullo prodigio. Non abbiamo pero` notizie di esecuzioni di questo Concerto, e possiamo persino supporre che la partitura completa non ci sia pervenuta perche´ in realta` non fu mai scritta. Basandosi sulla parte del pianoforte con annotazioni per la strumentazione Willy Hess ricostruı` una ipotetica partitura, la pubblico` nel 1943 e la ripubblico` , ritoccata, nel 1962. Per quanto scrupoloso e prudente e competente sia stato il lavoro di Willy Hess, non si puo` valutare il Concerto come partitura ma solo la sua parte pianistica. Che e` molto virtuosistica, non soltanto per l’agilita` leggera che ritroviamo in tanti concerti coevi, ma per doppie note e salti di ardua esecuzione. Il secondo movimento, Larghetto, sembra vicino ai modelli di Johann Christian Bach, e nel Rondo` fi-

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I Concerti

nale si nota soprattutto un episodio che segue la moda delle turcherie. Il miraggio di una carriera di spicco fu ben presto abbandonato, Beethoven venne assunto nel 1784 dal principe elettore come aiuto dell’organista di corte. Sembra accertato che, dopo essere stato a Vienna nel 1787 per una rapida visita, Beethoven cominciasse a lavorare sui primi due Concerti, i futuri op. 15 e op. 19. Ma in questo senso fu decisivo il trasferimento definitivo a Vienna del 1792, con lo stipendio del principe elettore garantito per due anni o, come diremmo oggi, con un congedo di studio con assegni. Il Concerto WoO 4 non sarebbe stato all’altezza di una presentazione a Vienna, i due primi Concerti erano forse abbozzati ma non finiti. Al 1792-1793 risalgono gli appunti per un movimento lento in La che avrebbe potuto far parte di un Concerto in Re (il primo movimento di un Concerto in Re, attribuito in passato a Beethoven, e` opera di Josef Ro¨sler). Il debutto pubblico di Beethoven a Vienna nella doppia veste di pianista e di compositore avvenne soltanto il 29 marzo 1795 in occasione di una ‘‘accademia’’, direttore Antonio Salieri, che si tenne al Hofburgtheater e nel corso della quale egli eseguı` un suo ‘‘nuovo’’ Concerto. Quale fosse, il nuovo Concerto, non e` chiaro, ma i ricercatori sono oggi inclini a pensare che si trattasse di una prima versione di quello in Do, destinato a diventare il n. 1 op. 15. In passato si riteneva che l’esordio di Beethoven fosse avvenuto con il Concerto in Si bemolle, futuro n. 2. La questione e` ancora aperta, ma non credo interessi al mio lettore. Il fatto interessante e` un altro. In quel tempo stava nascendo la grande fama postuma di Mozart, scomparso da pochi anni, che a Vienna era stato ammirato soprattutto come pianista. Beethoven, che conosceva molto bene l’arte di autopromuoversi, aveva capito subito che la sua carta vincente sarebbe stata la sua abilita` di pianista, e che sarebbe stato utile per lui presentarsi come aspirante alla successione di Mozart. Entro` in buoni rapporti con la vedova di Mozart, Costanza, e venne da questa invitato a eseguire il Concerto in re K 466 negli intervalli di una rappresentazione in forma di concerto della Clemenza di Tito, da lei organizzata. Questa partecipazione, che metteva ulteriormente in luce il giovane Beethoven, ebbe luogo il 31 marzo, due giorni dopo la precedente accademia. Il Concerto K 466 non era ancora stato pubblicato. Uscı` nel 1796, e quindi Beethoven ebbe accesso o al manoscritto autografo o a una copia preparata in vista della pubblicazione. Si puo` pero` presumere che Costanza gli facesse vedere altri Concerti mozar-

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tiani ancora inediti. E lo si puo` presumere per un motivo preciso. Il 18 dicembre 1795 ebbe luogo una accademia, organizzata e diretta da Haydn nella Redoutensaal del Hofburg. Beethoven vi partecipo` e vi eseguı` un altro Concerto suo. Questa volta, sembra certo, si trattava del Concerto in Si bemolle op. 19. Cio` che il pubblico viennese ascolto` e apprezzo` allora era pero` sensibilmente diverso da cio` che venne poi pubblicato. Frammenti di una versione del primo movimento in parte diversa da quella definitiva furono ritrovati e pubblicati nel 1960 e, soprattutto, il finale del 1795 non aveva nulla a che vedere con quello che conosciamo. Questo ampio finale, cioe` il Rondo` WoO 6 (1795 ca., 1960), che fu pubblicato gia` nel 1829 in una versione molto rimaneggiata nella parte solistica da Carl Czerny, e` di una qualita` eccellente, spiritoso e sbarazzino. E` stata in verita` avanzata l’ipotesi che il Rondo` non appartenesse al Concerto n. 2 ma che fosse il finale di un altro fantomatico concerto, non ultimato. Questa tesi sembra a me non convincente, e quindi mi permettero` di non tenerne conto. Perche´ dunque Beethoven accantono` il Rondo` WoO 6 e lo sostituı` con il Rondo` che conosciamo? Il piccolo giallo ha uno scioglimento che si basa su indizi ma che sembra a me certo. Il Concerto op. 19 mostra per moltissimi aspetti l’influenza di un modello, Mozart, ma il primo Rondo` e` un ricalco del Rondo`, con tanto di minuetto come intermezzo, che chiude il Concerto K 482 di Mozart. Ora, il Concerto di Mozart fu pubblicato nel 1800, e quindi e` sicuro che Beethoven lo conobbe per aver letto il manoscritto, mostratogli da Costanza. E Beethoven dovette essere al corrente delle trattative che erano in corso fra Costanza e l’editore Andre´ di Offenbach, che fra il 1792 e il 1800 fece uscire i Concerti K 449, 459, 466, 488 e 537. La pubblicazione del Concerto K 482 avrebbe – diciamo pure la brutta parola – messo allo scoperto gli altarini di Beethoven, il quale sostituı` il Rondo` finale del suo Concerto, probabilmente, nel 1798. Se questa e` – e mi sembra che sia – la ragione estrinseca della sostituzione del finale, non manca pero` una ragione intrinseca, e piu` onorevole per Beethoven. Nei cinque Concerti per pianoforte di Beethoven (e nel Concerto per violino e nel Concerto triplo) troviamo una tipologia, un archetipo che ritorna costantemente: primo movimento con ritmi di marcia, secondo movimento lirico e introspettivo, finale giocoso, quasi burlesco. Questa tipologia ricorda secondo me lo schema della battaglia, genere che fu popolarissimo fra il 1790 e il 1820 e che era articolato in tre momenti tipici – battaglia, preghiera di ringraziamento, festa popo73

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lare – con aggiunte facoltative di altri brani (specialmente inni nazionali, come nella Battaglia di Wellington di Beethoven). Negli abbozzi del primo movimento del Concerto n. 5 troviamo le annotazioni Auf die Schlacht Jubelgesang (Canto di trionfo per la battaglia), Angriff (Assalto), Sieg (Vittoria), e in questo caso lo schema battagliapreghiera-festa diventa evidente. Ma retrospettivamente troviamo lo stesso schema nel Concerto n. 1 e nel Concerto n. 3, e in misura piu` attenuata nel n 2 e nel n. 4. Ritroviamo in parte la idea della battaglia nel primo movimento del Concerto n. 2, ritroviamo la preghiera nel secondo movimento, e ritroviamo la festa popolare nel secondo finale, mentre nel primo troviamo piuttosto un mondo arcadico-pastorale. Beethoven, fatta l’esperienza del Concerto n. 1 op. 15, avrebbe dunque deciso di comporre per il Concerto n. 2 un finale meno mozartiano e piu` ‘‘beethoveniano’’, anche prescindendo da cio` che si sarebbe potuto notare dopo la pubblicazione del Concerto K 482 di Mozart. Un altro carattere del tutto particolare dei Concerti di Beethoven riguarda la prima entrata del solista, cioe` il modo beethoveniano di concepire l’arte oratoria in composizioni destinate al pubblico misto dei concerti pubblici. E qui non c’e` una tipologia costante ma, anzi, c’e` una sensibile evoluzione, sulla quale e` opportuno fare una riflessione perche´ Beethoven, partendo dal concetto mozartiano di concerto come cooperazione (ancora oggi si parla in termini burocratici del ‘‘di concerto’’ fra diversi ministeri), perviene al concetto di concerto come contrapposizione. Mozart scrisse ventitre Concerti per pianoforte e un bel po’ di concerti per altri strumenti. In tutti, tranne uno, troviamo un’esposizione affidata all’orchestra che precede l’esposizione del solista. Anche quell’uno, il K 271 per pianoforte, non rappresenta pero` in realta` una vera eccezione alla regola ma soltanto una sua variante perche´ l’esposizione dell’orchestra c’e` come al solito, preceduta tuttavia da un ‘‘motto’’ di sei battute a dialogo fra il solista e l’orchestra. Tranne che in questo caso, dunque, l’entrata del solista, l’entrata che attira su di lui l’attenzione del pubblico avviene dopo l’esposizione dell’orchestra. In Mozart ricorrono solo due tipologie d’entrata: l’orchestra conclude e il solista attacca con modestia il primo tema, oppure il solista comincia, con figurazioni non tematiche, mentre l’orchestra sta concludendo. In Beethoven ricorrono queste due tipologie, ma se ne trovano anche altre tre nuove di zecca: cinque tipologie per un corpus di soli sette concerti (cinque per pianoforte, uno per violino, uno per pianoforte, violino e violoncello). Si sa che Beethoven era un originale, e ai suoi tempi si 74

I Concerti

diceva anche che era un originale a tutti i costi. Ma possiamo chiederci perche´ lo fosse, per lo meno riguardo ai Concerti? Per tentare di dare una risposta a questa domanda partiamo da un dato cronachistico importante, anche se non del tutto certo: Mozart, suonando il pianoforte, dirigeva lui stesso l’orchestra, mentre Beethoven, sembra, suonava la parte pianistica e lasciava a un altro il compito della direzione. Quel malaugurato sembra nasce dal fatto che, come abbiamo visto, Beethoven suono` un suo concerto nel contesto di accademie dirette, rispettivamente, da Antonio Salieri e da Franz Joseph Haydn. Resta da vedere e questo non lo sappiamo se Salieri e Haydn dirigessero le altre composizioni in programma e Beethoven, all’uso di Mozart, dirigesse il suo concerto, oppure se i direttori si facessero carico di tutti i pezzi. Ne´ sappiamo, quando manca invece il nome del direttore, se Beethoven dirigesse lui o se lasciasse, come usava spesso, che a dirigere fosse il violino di spalla, non per nulla detto nei paesi tedeschi Konzertmeister, Maestro del concerto. Abbiamo solo notizia di un’esecuzione del Concerto n. 3, del 19 luglio 1804, diretta da Beethoven ma con Ferdinand Ries come solista, e della prima esecuzione del Concerto n. 4 e della Fantasia op. 80, 22 dicembre 1808, in cui Beethoven diresse (combinando dei pasticci). Questo e` il primo punto dubbioso. Ce n’e` pero` anche un altro. Sia nei concerti pianistici di Mozart che nei concerti di Beethoven (compreso il Quinto) e` notato nella parte del solista il basso, con o senza numeri, quando al pianoforte non e` affidato un ruolo solistico, e dunque, per il tema che qui ci interessa, anche nell’esposizione orchestrale del primo movimento. Si e` molto discusso sul significato di questa notazione. Mozart suonava anche lui nei ‘‘tutti’’ orchestrali, raddoppiando la parte del basso e realizzando delle armonie? E se sı`, suonava in ogni circostanza, o solo quando l’orchestra era numericamente ridotta e bisognosa d’aiuto? O quando, come capitava, l’orchestra era semiprofessionale? Queste questioni vennero sollevate quando Hermann Beck decise di riportare in partitura, nella Neue Mozart Ausgabe, il basso continuo che le edizioni precedenti avevano da lunghissimo tempo eliminato. Oggi si ritiene che la pratica del basso continuo fosse usuale al tempo di Mozart, e sia gli specialisti del fortepiano che alcuni pianisti adempiono anche all’umile funzione di ‘‘continuisti’’. Del resto, nei Concerti di Mozart per violino la parte del ‘‘Violino principale’’ raddoppia nei tutti la parte dei violini primi (Mozart scrive in genere ‘‘col Primo violino’’), e lo stesso avviene nel Concertone per due violini, nella Sin-

I Concerti

fonia concertante per violino e viola, nei Concerti per flauto e per clarinetto, mentre nel Concerto per fagotto il solista raddoppia la parte del basso, e solo nei Concerti per corno tace nei tutti per l’ovvia ragione che il corno naturale non e` in grado materialmente di eseguire nessuna delle parti degli strumenti ad arco. Vero e` che nel Concerto per flauto e arpa i solisti non suonano nei tutti se non in certi momenti. Pero` il caso del Concerto per flauto e arpa rappresenta un’eccezione che non abolisce la regola. E` quindi evidente che per Mozart il concerto rientrava ancora nella concezione barocca della musica da camera allargata, con diversita` di funzioni ma non con l’isolamento e la supremazia del solista. Dibattiti e polemiche opposte a quelle suscitate da Hermann Beck nel 1959 sorsero quando nel 1984 Hans-Werner Ku¨ then, pubblicando i primi tre Concerti per pianoforte di Beethoven, decise di eliminare il basso continuo, sostenendo, con certe ragioni che non tutti giudicarono convincenti, che Beethoven non avesse seguito la pratica antica di Mozart. Ora, poco importa in questa sede di cercar di capire se le ragioni del Ku¨then siano o no fondate. Ma e` evidente che per chi assiste al concerto la posizione del solista nell’economia dello spettacolo appare diversa se il solista stesso suona o non suona nei tutti, e se dirige o non dirige. Nel caso del sı` egli e` impegnato sempre e risulta integrato con l’orchestra come un primus inter pares, mentre nel caso del no ha l’aria di quello che lascia dire agli altri la loro e poi dice la sua con maggiore pompa e autorevolezza. Se guardiamo la questione sotto questa prospettiva dobbiamo concludere – e poi vedremo perche´ – e poi vedremo perche´ che nei primi due Concerti Beethoven, anche se non dirigeva, probabilmente suonava nei tutti, e che non suonava invece nel Terzo e nel Quarto (al tempo del Quinto, ormai sordo, egli rinuncio` a sostenere personalmente il ruolo di solista). Prendiamo il Concerto op. 19, il Secondo che quasi certamente fu ultimato prima del Primo e che dei cinque e` il piu` ‘‘mozartiano’’. Alla battuta 90 dell’Allegro con brio l’orchestra, dopo aver iniziato la sua esposizione in forte, conclude in modo perentorio con un accordo fortissimo. Nella stessa battuta il pianoforte entra in modo estremamente discreto, in punta di piedi, in piano e con una figurazione secondaria, ripresa dalla battuta 34 dell’esposizione orchestrale. Sviluppa il suo discorsino per dodici battute terminandolo in forte, il pianoforte, sente per quattro battute il commento dell’orchestra (ammirato: piano-crescendo-forte) e finalmente attacca il primo tema in forte. Che cosa ci dice questa retorica espositiva? Ci dice

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che il solista non ha affrontato di petto l’argomento principale esposto dall’orchestra ma che e` partito da un aspetto marginale su cui ha astutamente attirato l’attenzione degli altri; ha sentito le loro reazioni, positive, a cio` che ha detto, e ha sparato l’argomento principale ponendolo in una nuova luce perche´, mentre l’orchestra era rimasta nella tonalita` principale di Si bemolle per ventuno battute, lui, ragionatore piu` sottile, scivola dopo due battute nella lontanissima tonalita` di la, e poi butta la` il sol e infine si orienta sul Fa, finendo con un punto interrogativo. L’orchestra, che per conto suo aveva girato intorno al primo tema dibattendolo per novanta battute, dopo che il pianoforte ha parlato per trentotto battute risponde alla domanda finale di quel demonio di solista esponendo un tema interamente nuovo, un bel periodo tornito di otto battute. Adesso sı`, che dall’assemblearismo inconcludente si e` passati alla dialettica democratica: prima si strillava senza costrutto, ora si puo` discutere: dalla convenzione e` uscito uno speaker, un primus inter pares che non e` poi tanto par, anche se continua a suonare il basso continuo. Prendiamo adesso il Concerto op. 15, primo in ordine di pubblicazione, secondo in ordine di composizione. In questo caso l’assemblea e` molto meno ingenua. Comincia in tono sommesso, piano, e comincia con i soli archi per quindici battute: c’e` quindi gia` un nucleo di gruppo dirigente. Alla sedicesima battuta agli archi si uniscono i fiati e i timpani, tutti a vociare insieme con entusiasmo fino alla battuta 46. Ma, un momento! Alla battuta 47 gli archi espongono, piano, un nuovo tema, in una tonalita` , Mi bemolle, del tutto inattesa, del tutto fuori schema, e gli altri s’uniscono a loro a poco a poco: si discute, sembra che i due argomenti siano compatibili. Pero` , alla battuta 86, quando pare che il quadro sia ormai chiaro nella sua complessita` e che si possa andare alla sintesi, gli oboi e i corni sorprendono tutti esponendo un nuovo tema, piano, con gli archi che devono star a sentire mormorando e solo i primi violini che s’azzardano a rilasciare un commentino. Tutti i fiati ripetono il nuovo tema, piano, e lı` si accende un breve battibecco: alla battuta 99 i fiati ritornano ab ovo, all’incipit del primo tema, e in fortissimo, gli archi rispondono, gridano tutti insieme e finiscono in modo sı` perentorio ma, al contrario di quanto era avvenuto per il Concerto in Si bemolle, in piena crisi di identita` democratica. A quel punto tocca al solista, non di introdurre un nuovo argomento – ce ne sono gia` troppi – ma di fare il pacificatore. Comincia quieto quieto, piano, con una figurazione che non ha nessunissimo aggancio 75

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con quanto e` stato detto dall’orchestra, e si mantiene per undici battute sui cardini di base dell’armonia, tonica e dominante, con un solo accordo sulla sopratonica. Gli archi entrano a sostenerlo gia` alla nona battuta, quando sta ripetendo in un altro modo una piccola cosa che ha appena detto: cosı`, il potenziale nucleo dirigente e` passato subito dalla parte del solista. I fiati rispondono allora gridando tutti insieme, con l’incipit del primo tema, perche´ e` lı` che prima ci si era incagliati. Su quell’incipit imposta allora il suo discorso il paziente solista, facendo persino qualche battutina scherzosa e andando avanti per ben ventinove battute, accompagnato nelle prime diciannove dai soli archi, poi, per sette, dai soli fiati, e nelle ultime tre dagli archi. A quel punto il tutti puo` riprendere nella tonalita` giusta, Sol, quel secondo tema che gli archi avevano prima esposto, forzando la mano, in Mi bemolle, e l’assemblea e` in grado di rimettersi proficuamente in marcia. Mentre il secondo tema arrivava pero` nel Concerto n. 2 alla battuta 118, nel Concerto n. 1 arriva alla battuta 155: un 22% in piu`. Lo speaker si e` affermato anche questa volta, ma con piu` fatica. Il Concerto n. 3 viene ultimato dopo molte crisi nel 1803. Nel 1801 Beethoven aveva terminato il balletto Le creature di Prometeo, che lo aveva messo in contatto con il pubblico del teatro, per lui fino a quel momento sconosciuto, e nel 1803 terminava la Sinfonia n. 3, l’Eroica. Il mondo morale di Beethoven muta nei primi tre anni dell’Ottocento, nei quali nasce quel ‘‘secondo stile’’ che nel corso del secolo contribuira` in maniera determinante alle fortune delle istituzioni sinfoniche stabili. Il solista del Concerto n. 3 non e` dunque piu` il solista dei primi due Concerti, non e` piu` illuminista, non e` piu` massone come Mozart: e` napoleonico. L’orchestra ha fatto la sua esposizione, regolare, ha cominciato in piano dividendo il primo tema cameratescamente fra gli archi e i fiati, ha esposto il secondo tema, come dovuto, in Mi bemolle, finisce riprendendo la prima sezione del primo tema, fortissimo, in canone tra fiati e timpani da una parte e archi dall’altra, in una feconda concordia discors in cui i due gruppi mantengono la loro identita` dicendo le stesse cose. E sull’ultimo suono, all’unisono, c’e` anche una corona che lo prolunga a piacere. L’esposizione e` in realta` una ouverture in se´ compiuta, il solista non sembra aver piu` nulla da dire. A quel punto il pianoforte entra, inattesamente, come se agitasse una frusta, gridando ‘‘fermi tutti, un momento d’attenzione!’’ perche´ riprende sı` il primo tema ma facendolo precedere dai tre boati di una scala di do, ogni volta piu` acuta. E l’inizio del tema non solo e` forte 76

I Concerti

ma e` distribuito su quattro ottave invece che su tre, con la parte piu` acuta due ottave piu` in alto di dove l’avevano collocata all’inizio i violini. Quest’entrata e` arrogante, e` l’apparizione di un domatore con la vocazione del tiranno, di uno che ripete quello che hanno gia` detto gli altri ma a modo suo e chiosandolo e allungandolo: la sua esposizione durera` dalla battuta 111 alla battuta 227, e introdurra` alla fine un argomento del tutto nuovo. Napoleone? Napoleone Primo Console, certo. Il solista non tacera`, come sarebbe di norma, dopo la Cadenza, e finira` il primo movimento insieme con l’orchestra, facendo di nuovo ricorso ai boati con cui aveva corroborato la sua entrata clamorosa. Nel Concerto n. 3 il solista con la vocazione alla tirannide ha comunque preso la parola dopo gli altri, e quindi ha rimesso in gioco argomenti che erano pero` gia` stati esposti. Arriviamo al Concerto n. 4. L’assemblearismo, come avviene in tutte le rivoluzioni, ha generato la tirannide, Napoleone e` diventato imperatore. Il solista comincia da solo: l’argomento principale lo detta lui. Non c’e` il ‘‘motto’’ del Concerto K 271 di Mozart, tipo ‘‘Uno per tutti, tutti per uno’’, il motto che resta motto e che non diventa argomento di dibattito. No. Qui c’e` un sire seduto in trono che con tutta calma, piano e dolce, dice tranquillamente: ‘‘Signori, questo e` l’argomento principale del dibattito, questo e` l’ordine del giorno che io ho deciso e che ho l’onore di comunicarvi. Adesso dite pure la vostra, che poi io diro` la mia, ma non dimenticate che tutti gli altri eventuali argomenti dipendono da questo’’. E aggiunge un eloquente ‘‘Mi sono spiegato?’’ perche´ finisce sulla dominante di Sol, non sulla tonica. Si e` spiegato bene, il tiranno. Ma ha messo addosso all’assemblea una tale tremarella che gli archi (l’ex-gruppo dirigente in pectore) riprendono il tema sbagliando tonalita`. Lo riprendono, i meschini, sulla tonica di Si, e solo alla quarta battuta riescono a ritrovare il filo del Sol. Per tutto il primo tempo il tiranno terra` un comportamento benigno, svolazzera` con fioriture sui discorsi degli altri, non avra` nessuna necessita` di imporre il suo autoritarismo. Salvo all’inizio della riesposizione, quando si sta per tirar le fila del dibattito. Napoleone imperatore riprendera` allora il primo tema un’ottava piu` in alto, e gridandolo in fortissimo, salvo a scivolare dopo tre battute nel piano e dolce. E accettera` persino di dire la sua nella tonalita` sbagliata in cui gli archi, come la prima volta, riprenderanno il discorso. Nel Concerto n. 5 troviamo quello che Napoleone non pote´ essere, un vecchio e venerato tiranno-sacerdote che non deve nemmeno piu` preoccuparsi

Concerto n. 2 in Si bemolle op. 19

di stabilire l’argomento del dibattito. L’orchestra grida tre slogan tipo ‘‘Dio, Patria, Famiglia’’ o ‘‘Risanamento, Rigore, Sviluppo’’, tre slogan che sono gli accordi di tonica, di sottodominante e di dominante, basi della cadenza composta su cui si regge il discorso tonale. A ognuno dei tre slogan segue il compiaciuto commento del vecchio tiranno, dopodiche´ l’orchestra fa la sua brava esposizione, perfettamente in riga con gli slogan. E la finzione della conquistata pace sociale e` tale che per la prima volta il tiranno fara` la sua entrata alla fine dell’esposizione dell’orchestra nel modo in cui la faceva talvolta il massone Mozart che predicava la fratellanza universale: entrera` con un’innocua scaletta cromatica mentre l’orchestra ancora non avra` finito di suonare e riprendera` il primo tema in piano e dolce. Non solo: il tiranno abolira` il momento solipsistico, la Cadenza, che l’assemblea aveva sempre e comunque concesso al solista. All’accordo di quarta e sesta che tradizionalmente precede la Cadenza l’orchestra ci arriva doverosamente. Pero`... ‘‘Non si fa una Cadenza, ma s’attacca subito il seguente’’, scrive Beethoven in italiano, linguaggio universale. Il ‘‘seguente’’ e` in realta` una Cadenza, ma molto colloquiale, nella quale vengono invitati a intervenire prima i corni, con gli archi in pizzicato, poi gli archi con l’arco insieme con gli altri fiati (restano esclusi i timpani, ma si sa che anche il piu` benevolo dei tiranni non ha l’occhio per tutti). E poi si riprende in gloria con il primo tema. Che cosa succede invece nel Concerto triplo? L’esposizione dell’orchestra e` limpidissima strutturalmente e piu` breve del solito (settantasei battute), i tre solisti entrano quietamente uno alla volta e sempre piano e dolce, tutto il discorso e` pacifico, non c’e` nemmeno la Cadenza che dia ai solisti la loro piccola soddisfazione (nei Concerti per due e per tre pianoforti di Mozart c’era), si finisce tutti assieme in perfetta armonia. Beethoven ha cominciato a comporre questo Triplo nel 1804, dopo aver stracciato la dedica a Napoleone dell’Eroica, e ci ha lavorato mentre componeva la Leonore, prima versione del Fidelio, che e` opera ideologicamente contro la tirannide. Appena finita la Leonore mette in cantiere il Concerto n. 4, e ricasca nella logica del Concerto n. 3, perfezionata. Nel 1806 compone il Concerto per violino, strumento inadatto a tiranneggiare gli altri perche´ se non trova collaboratori puo` far da solo ben poco. Invece il pianoforte puo` fare anche da solo, tant’e` che Jan Ladislav Dussek ha scritto all’inizio del secolo un concerto con orchestra ad libitum. Con il pianoforte Beethoven ha potuto coltivare il suo complesso di Napoleone percorrendone tutte le tappe e arrivando fino a un punto che il vero Napoleone

Ludwig van Beethoven

era stato incapace di raggiungere. Si puo` andare ancor oltre? Oltre Beethoven non ci andra` in realta` nessuno. Liszt si comporta pero` in un modo molto singolare nel Concerto n. 1. L’orchestra attacca in Mi bemolle ma scivola subito verso il La bemolle, riprende in La bemolle e scivola verso il La. Il tutto nel giro di quattro battute. Anarchia, anarchia bell’e buona. Alla quinta battuta entra il pianoforte, che valendosi delle sue prerogative di strumento a intonazione fissa trasforma il sol diesis che l’orchestra gli ha lasciato nell’omologo la bemolle, e riprende decisamente il discorso nell’alveo del Mi bemolle. Senza dialettica, senza retorica, senza esercitare costrizione alcuna, il solista dice semplicemente agli altri: ‘‘Guardate che qui state sbagliando’’. E gli altri gli rispondono. ‘‘Scusi tanto’’. Chiedo venia per la lunga digressione, che mi serviva per portare l’attenzione del lettore su un aspetto dei Concerti di Beethoven che non viene di solito preso in considerazione, mentre e` evidente che in un’epoca in cui la musica per pianoforte solo veniva eseguita in privato e la musica per pianoforte e orchestra in pubblico l’atteggiamento del compositore nei confronti dell’ascoltatore non poteva essere univoco. La cronologia dei Concerti di Beethoven, che era parsa limpidissima fino a non molti anni addietro, si e` poi complicata e, come ho gia` accennato, si e` supposto, in base all’esame minuzioso della carta e della grafia, che il Concerto n. 2 sia stato abbozzato negli ultimi anni della permanenza a Bonn. Il Concerto n. 2 in Si bemolle op. 19 (1788 ca.-1801, 1801) segue un impianto architettonico mozartiano, ma Beethoven evita di impegnarsi nella fitta trama tematica e sinfonica, nella ragnatela meravigliosa dei grandi Concerti viennesi di Mozart. Si puo` dire che il Concerto op. 19 sia come un ricalco semplificato di questi ultimi e che solo nel secondo movimento Beethoven si avvicini al livello del Mozart maturo. Questo Adagio in Mi bemolle va annoverato fra le piu` grandi pagine introspettive del giovane Beethoven ed e` degno di figurare accanto ai movimenti lenti delle Sonate op. 2 n. 2 e n. 3, op. 7 e op. 10 n. 3. L’orchestra viene impiegata in modo meno circospetto che nel primo movimento, dialoga con il solista e prende parte a una grande Cadenza che inizia con una serie di accordi e trilli del pianoforte, prosegue con un drammatico commento dell’orchestra e si chiude con un parlante recitativo pianistico che, con l’impiego del pedale di risonanza indicato da Beethoven, crea un effetto di arcana lontananza, di profetica voce interiore. La Cadenza per il primo movimento fu composta da Beethoven soltanto verso il 1808. Il materiale te77

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matico e` quello del Concerto ma lo stile e` radicalmente diverso e non riflette nemmeno il Concerto op. 73, che e` all’incirca contemporaneo, ma preannuncia la Sonata op. 101. E l’estensione del pianoforte nella Cadenza e` quella del 1808, non quella dell’inizio del secolo, tanto che nelle esecuzioni con strumenti d’epoca non e` possibile adottare questa straordinario brano in cui Beethoven non cerca di rivestire i panni di un se stesso scomparso. Il Concerto n. 1 in Do op. 15 (1794-1795, 1801) fu pubblicato pochi mesi prima del Concerto op. 19, e percio` ebbe il n. 1, ma forse fu anche ultimato prima del fratello, ragion per cui il n. 1 gli spetta comunque. Mentre l’orchestra dell’op. 19 comprende soltanto un flauto, due oboi, due fagotti, due corni e gli archi, l’orchestra del Concerto n. 1 vede l’aggiunta di due clarinetti, di due trombe e dei timpani. Caratteristica comune dei primi due Concerti e` il ruolo preponderante del pianoforte rispetto all’orchestra nei primi movimenti e nei finali. La scrittura pianistica e` virtuosistica, i temi sono sempre facilmente riconoscibili e scolpiti con pochi tratti, e il solista basta a reggere lo spettacolo al quale l’orchestra partecipa come contorno. Nei secondi movimenti Beethoven integra maggiormente il solista nell’orchestra e nel Largo del Concerto op. 15 eleva anzi il primo clarinetto al ruolo di co-solista. Il ‘‘segreto’’ di questa riuscita consiste nella esclusione non solo delle trombe e dei timpani, com’ era d’uso negli adagi dei concerti, ma anche del flauto e degli oboi; la sonorita` dell’orchestra – clarinetti, fagotti, corni e archi – diventa cosı` vellutata, notturna, e la chiusa del Largo, come nel Concerto n. 2 ma in diverso modo, e` magicamente sospesa in un tempo onirico. La vicinanza dei grandi Concerti mozartiani gettava un’ombra gigantesca su chi voleva impegnarsi nel genere. Beethoven non riesce a uscire dall’ombra, ma nei secondi movimenti, possiamo dire, vi accende dentro un fuoco cosı` vivo da permettere la nascita di un’arte nuova e solo indirettamente tributaria di quella mozartiana. Il 2 aprile 1800 – era la prima accademia che Beethoven organizzava in proprio – vennero eseguite la versione definitiva del Concerto op. 15, il Settimino op. 20 e la Sinfonia n. 1 op. 21. Beethoven, sinfonista esordiente, apportava cosı` un ritocco sostanziale alla sua immagine: l’ultima Sinfonia del grande Haydn era stata composta nel 1795, la prima Sinfonia del nuovo Haydn arrivava un lustro piu` tardi. L’ambizione di Beethoven, nell’occasione della prima accademia da lui organizzata in proprio, era di presentare al pubblico di Vienna non solo la sua Prima sinfonia ma anche un nuovo 78

Concerto n. 1 in Do op. 15

Concerto per pianoforte e orchestra. Il Concerto n. 3 in do op. 37 (1800-1803, 1804) non era pero` ancora pronto e la sua prima esecuzione dovette essere posposta al 3 aprile 1803. Non tutto il materiale autografo dell’op. 37 e` pervenuto fino a noi, e quindi non siamo in grado di ricostruire veramente il processo di composizione. Se paragoniamo il Concerto n. 3 con il n. 1 e con il n. 2 possiamo pero` pensare che Beethoven avesse incontrato al principio delle difficolta` nel rapporto fra il solista e l’orchestra, tanto che nei movimenti estremi dei primi due concerti, come ho detto, la partecipazione dell’orchestra era ben lontana non solo da quella dei maggiori Concerti di Mozart ma persino da quella di un Concerto mozartiano giovanile come il K 238. Non sarebbe stato un problema, se Beethoven non avesse aspirato alla successione di Mozart. Non era un problema per altri: in realta`, il concerto mozartiano veniva considerato dai contemporanei come sinfonia concertante e gliene veniva preferito un altro tipo, strutturalmente molto piu` semplice, di cui a Vienna era diventato il massimo esponente il pianista di corte Leopold Kozeluch (1747-1818). Non si trattava del resto di una moda soltanto viennese perche´ i primi concerti di due pianisti di fama internazionale, come Daniel Steibelt e John Field, riducevano anch’essi la funzione dell’orchestra a quella di accompagnamento. Con Steibelt e Field si stava ormai delineando il concerto biedermeier che avrebbe sempre piu` sviluppato il virtuosismo del solista e che avrebbe sempre piu` ridotto il ruolo dell’orchestra. Anche nel passaggio dal Concerto n. 2 al Concerto n. 1 di Beethoven si nota una accentuazione del virtuosismo. E quindi si potrebbe dire che Beethoven fosse per lo meno tentato di seguire la corrente. Il Concerto n. 3 recupera invece la scrittura mozartiana in un pezzo per pianoforte e orchestra, non per pianoforte con orchestra. Si tratta di una svolta ideologica con la quale Beethoven si poneva in consapevole contrasto con i suoi tempi e, per cosı` dire, affermava il suo diritto alla eredita` di Mozart. Oltre a questo aspetto generale e fondamentale, con il suo Concerto n. 3 egli si riallacciava anche visibilmente al Concerto in do K 491 di Mozart: nel primo movimento il solista suona dopo la Cadenza, come non era d’uso e come era accaduto nel Concerto di Mozart, e nell’ultima sezione del finale, come nel Concerto di Mozart, il metro binario semplice diventa metro binario composto. Se guardiamo la coda del primo movimento ci accorgiamo pero` del fatto che Beethoven enfatizza all’estremo, molto piu` di Mozart, la conclusione del pezzo. La Cadenza, nel concerto classico, fini-

Concerto n. 4 in Sol op. 58

sce sempre, in modo ritualizzato, con il trillo sull’accordo di dominante della tonalita` principale. Cosı` avviene anche nella partitura del Concerto n. 3, ma la risoluzione dell’accordo di dominante non porta alla tonica della tonalita` principale, bensı` alla dominante di Fa. E la fine della Cadenza che Beethoven compose piu` tardi termina con il trillo sulla dominante di Fa. La coda inizia in pianissimo, a dialogo fra il pianoforte e i timpani. E siccome i timpanisti disponevano allora di due caldaie soltanto e non potevano cambiarne l’intonazione se non con una manovra effettuata a mano e che richiedeva un certo tempo, il timpano entra con la dominante e la tonica di do e le mantiene anche sull’accordo di tonica di Fa. I timpanisti di oggi, che possono variare l’intonazione con comandi a pedale, modificano spesso il testo, ma io credo che l’effetto voluto – o per lo meno tollerato – da Beethoven renda meglio l’atmosfera misteriosa, quasi da incubo, dell’inizio della coda. Un problema in una certa misura analogo si verifica all’inizio del secondo movimento, nella insolita tonalita` di Mi che viene scelta, sebbene lontanissima dalla tonalita` principale di do, per ottenere dal pianoforte una timbrica delicata e vellutata. All’inizio di questo Largo c’e` una indicazione per il pedale che puo` essere variamente intesa. Si puo` interpretarla sia come prescrizione per l’uso di un pedale, il sordino, che venne montato sui pianoforti di inizio Ottocento e che fu poi abbandonato, sia come indicazione di tenuta del pedale di risonanza su armonie diverse. Czerny, allievo di Beethoven, avvalora la seconda ipotesi. Ma qualunque sia la soluzione e` evidente che Beethoven era alla ricerca di un effetto, anche qui, magico, che sorprendesse l’ascoltatore. La elaborazione dei primi tre Concerti di Beethoven fu lunga e tormentata e impegno` l’Autore per circa quindici anni. Mozart, quand’era necessario, componeva tre Concerti all’anno, e questo particolare ci da` l’idea della attenzione con cui Beethoven si inseriva in un genere che era stato portato a un livello stratosferico in anni molto recenti. Non meno tormentata fu la composizione del Concerto n. 4 in Sol op. 58 (1803-1808, 1808). Il Concerto n. 4 fu forse eseguito – ma su cio` regna la piu` totale incertezza – dall’arciduca Rodolfo nel palazzo del principe Lobkowitz nel marzo del 1807, e in pubblico, a Vienna, il 22 dicembre 1808, da Beethoven. L’autografo e` andato perduto e c’e` il piccolo giallo, di cui ho gia` detto, del manoscritto non autografo che porta una versione della parte solistica assai piu` difficile tecnicamente della versione stampata. Che significato dobbiamo attribuire a questa versione? E che cosa significa il manoscrit-

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to in parti staccate di una versione in cui la parte orchestrale e` ridotta e due violini, due viole e un violoncello? Gli specialisti hanno discusso a lungo e con approfondite analisi questi problemi, senza arrivare a una soluzione condivisa, alla quale, credo, non si arrivera` del resto mai se non saranno ritrovati i manoscritti autografi. L’ipotesi certamente piu` suggestiva e` che, essendo state pubblicate le parti separate del Concerto prima della esecuzione pubblica, la versione piu` difficile sia quella che Beethoven adotto` il 22 dicembre 1808, riservando a lui solo una scrittura che richiedeva una capacita` virtuosistica inusuale. L’altra ipotesi e` che la versione piu` difficile sia quella adottata per l’esecuzione con il quintetto d’archi, esecuzione della quale non si hanno pero` notizie. Nel Concerto n. 4 il finale prosegue nella linea della tradizione mozartiana: estroversa e brillante, ma anche tenerissima e carezzosa la scrittura pianistica, ricca di colori vivaci l’orchestra, che solo qui impiega le trombe e i timpani. Il secondo movimento e` invece un drammatico recitativo in cui fra il pianoforte e l’orchestra, limitata ai soli archi, si creano violente contrapposizioni. Una antica e tenace tradizione assicura che il brano e` ispirato alla invocazione di Orfeo alle Furie. Non si puo` affermarlo con certezza e non si puo` escluderlo, ma il riferimento al mito di Orfeo e` indicativo della eccezionalita` di questa breve pagina ed e` senza dubbio pertinente. Piu` di recente si e` cercato di estendere la vicenda di Orfeo a tutto il Concerto, sia collegandolo a Ovidio, le cui Metamorfosi erano state ripubblicate a Vienna all’inizio del secolo, sia a una poesia di Schiller, Il Nuovo Orfeo, pubblicata nel 1796. Questa estensione sembra a me dubbia, ma e` stata sostenuta con argomenti dialettici tutt’altro che superficiali, ed era del resto la tesi di Arrau, basata da lui sul mito greco senza precisi riferimenti a Ovidio o a Schiller. Nel primo movimento il colore sonoro e` vellutato e dolce. Il pianoforte che, come detto prima, espone da solo all’inizio il primo tema, ha una scrittura generalmente molto decorativa, che inghirlanda quella dell’orchestra, priva di trombe e timpani, piu` che integrarvisi. Si tratta di uno dei momenti di maggiore invenzione sonora di Beethoven, suggerita fors’anche dallo sviluppo che la costruzione del pianoforte stava subendo all’inizio del nuovo secolo. L’estensione veniva ampliata verso l’acuto e il telaio veniva irrobustito, di modo che nel registro sopracuto potevano essere montate corde piu` lunghe e piu` grosse. E Beethoven sfrutta al massimo la novita` del registro sopracuto, anche in funzione cantabile. Non meno nuovi sono gli usi dei pedali, di risonanza e una corda, con effetti ben calcolati. 79

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Se nel Concerto n. 3 abbiamo dunque il disegno e lo sforzo intellettuale di riprendere una tradizione interrotta, nel Concerto n. 4 e` la fantasia sonora, la curiosita` del suono che si accende e si sbriglia. Per questa ragione il Concerto n. 4 venne prediletto da Mendelssohn che, dopo esecuzioni isolate di altri interpreti, lo eseguı` piu` volte fra il 1831 e il 1847, portandolo definitivamente al successo. Beethoven cominciava a comporre un nuovo concerto non appena ne aveva terminato un altro. Il Concerto n. 5 in Mi bemolle op. 73 (1808-1809, 1811) fu composto piu` rapidamente degli altri. Sembra che il dedicatario, l’arciduca Rodolfo, lo eseguisse privatamente nel corso del 1810 e del 1811. La prima esecuzione pubblica non ebbe luogo a Vienna ma a Lipsia, il 28 novembre 1811, con Friedrich Schneider solista. La prima esecuzione a Vienna e` del 12 febbraio 1812, con Carl Czerny al pianoforte, in una serata che comprendeva anche tre tableaux vivants: il successo – testimonianza del diario di Theodor Ko¨rner – arrise ai tableaux vivants, e il ‘‘nuovo Concerto del signor Beethoven fece fiasco’’. Il Concerto op. 73 fu composto nel periodo delle guerre napoleoniche, e le annotazioni sugli abbozzi, di cui ho gia` riferito, ci dicono che Beethoven non fu insensibile al clima del momento. Il Concerto n. 5 e` l’Imperatore, denominazione di cui non si conosce l’origine e che viene attribuita, senza uno straccio di documento, a Johann Baptist Cramer. L’Imperatore, secondo la vulgata, sarebbe Napoleone, che aveva bombardato e occupato Vienna imponendole per di piu` una taglia di cinquanta milioni e al quale Beethoven non pensava di certo nel 1809 con sentimenti amichevoli. Ma la figura del Corso guerriero campeggia in moltissime copertine delle innumerevoli registrazioni discografiche. Le intenzioni programmatiche di Beethoven sono chiare, nel Concerto n. 5, ed e` secondo me chiara, come ho gio` detto, la drammaturgia. In senso stilistico si nota l’adesione di Beethoven allo sviluppo della tecnica brillante, con un volume di suono molto ampio, con ottave martellate e con ottave alternate, accordi, posizioni che superano l’ottava e si avventurano sulla decima, ma senza rinunciare alle conquiste dei colori vellutati e iridescenti del Concerto n. 4. Proprio in questo Concerto, in cui la strumentazione pianistica e` la piu`... onnicomprensiva possibile, Beethoven pero` trova un rapporto con l’orchestra di miracoloso equilibrio. Il pianoforte e` senza dubbio il dominus, ma nello stesso tempo costituisce anche una parte di un’orchestra in tre sezioni, pianoforte, archi, fiati e timpani. E in questo modo la paletta coloristica della composizione raggiunge un grado di complessita` e di va80

Concerto n. 5 in Mi bemolle op. 73

rieta` insoliti nel periodo classico e che saranno rari anche in seguito. Oltre ai Concerti per pianoforte bisogna anche menzionare la trascrizione per pianoforte del Concerto in Re op. 61 (1807, 1808), originale per violino. La trascrizione fu richiesta a Beethoven da Muzio Clementi, come si rileva da una lettera dello stesso Clementi al suo socio in affari Collard del 22 aprile 1807. La richiesta si conformava a una consuetudine che, sebbene non costante, era tuttavia abbastanza diffusa. Non si sa bene se Beethoven scrivesse tutta la trascrizione o se lasciasse degli appunti per un amanuense che doveva stendere materialmente il lavoro. L’esame tecnico della trascrizione sembrerebbe escludere che Beethoven abbia fatto tutto lui, o che l’abbia fatto accuratamente. Sembra a me fuor di dubbio che egli avesse un limitato interesse per questa trascrizione, molto convenzionale. Il suo entusiasmo di creatore eruppe invece nella composizione delle Cadenze, talmente ampie e geniali da indurre i violinisti a cercare di recuperarle, con mostruosi salti mortali, al loro strumento. Gran parte dei problemi che insorgono con la trascrizione dal violino al pianoforte sono risolti in modo dignitosissimo sı`, ma piatto e privo di vera genialita`: la trascrizione e` tale da retrodatare pianisticamente il Concerto dandogli un aspetto, diciamo cosı` , medioclassico. Le aggiunte sono costituite da un lunghissima e complicata Cadenza, con intervento del timpano, per il primo movimento, da una Cadenza di collegamento fra il secondo e il terzo movimento, da una Cadenza di collegamento fra il secondo e il terzo episodio del finale e da una Cadenza per il finale. Tutte queste aggiunte, pianisticamente, risentono delle innovazioni rilevabili nel Concerto op. 58 e anticipano lo stile brillante del Concerto op. 73. Dopo il Concerto op. 73 Beethoven abbozzo` un Concerto in Re che abbandono` dopo averne steso tanto quanto basto` per chi cerco` di completarlo. Il suo ulteriore lavoro in questo campo, quasi contemporaneo del Concerto n. 5, e` la Fantasia in do-Do per pianoforte, coro e orchestra op. 80 (1808-1809, 1811), eseguita – pare disastrosamente – gia` nell’accademia del 22 dicembre 1808 in cui fu presentato il Concerto n. 4 (nonche´ la Quinta e la Sesta Sinfonia, tutto in prima esecuzione, piu` brani della Messa op. 86, un’aria e una improvvisazione, per una durata superiore alle quattro ore). Sembra che la parte introduttiva della Fantasia, per pianoforte solo, non fosse ancora stata stesa per intero e che Beethoven la improvisasse in parte. L’accademia del 22 dicembre, mostruosamente densa di musica, aveva un sottofondo polemico. Beethoven aveva sbandierato ai quattro ven-

Rondo` in Do WoO 48

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ti la proposta del re di Vestfalia Gerolamo Bonaparte, che gli aveva offerto la carica di maestro di cappella a Kassel. L’accademia del 22 dicembre, malgrado i molti incidenti e le sfuriate di Beethoven contro l’orchestra, lascio` pero` una impressione profonda nel pubblico. L’1 marzo 1809 venne cosı` firmato il famoso contratto con il quale l’arciduca Rodolfo, il principe Lobkowitz e il principe Kinsky assicuravano a Beethoven un vitalizio senza chiedere in cambio null’altro che l’impegno a risiedere ‘‘a Vienna o in altra citta` facente parte degli stati ereditari di S.M. l’Imperatore d’Austria’’. Beethoven diventava un vivente, e incedibile, monumento nazionale. La Fantasia op. 80 e` formata dall’Adagio introduttivo di cui ho gia` detto e dal Finale, comprendente una parte strumentale con pianoforte e orchestra secondo il modulo dell’ag-

giunta successiva di strumenti fino all’entrata del coro. Il tema esposto dal pianoforte e` seguito da cinque variazioni, rispettivamente con flauti, oboi, clarinetti e fagotti, quartetto d’archi solisti, tutta l’orchestra, piu` una coda non tematica. Seguono tre variazioni amplificatrici, un Allegro molto, un Adagio ma non troppo e una marcia. Nell’ultima parte, Allegretto ma non troppo, viene aggiunto il coro misto, che intona un poemetto di Christoph Kuffner, scritto su precise indicazioni di Beethoven, e che si conclude con il verso ‘‘Quando Amore e Forza si uniscono, il favore di Dio ricompensa gli uomini’’. Beethoven aveva gia` progettato un finale con intervento di voci per la Sinfonia Pastorale. Con la Fantasia op. 80 egli si apriva evidentemente la strada verso il finale della Nona Sinfonia.

Rondo` e pezzi vari Il Rondo` in Do WoO 48 (1783, 1783) e il Rondo` in La WoO 49 (1783, 1784) fanno parte del gruppo delle prime composizioni di Beethoven, subito pubblicate per sollecitazione presso vari editori di Christian Gottlob Neefe, orgoglioso di avere per allievo, com’egli diceva papale papale, ‘‘un giovane genio’’. I due pezzi sono graziosi e fragili, meno interessanti delle Sonate WoO 47. Fra i due mi sembra preferibile il secondo, che pur nella adesione ai modelli di Carl Philipp Emanuel Bach non e` privo di una certa impronta personale. Il Rondo` in Do op. 51 n. 1 (1796-1797, 1797) e il Rondo` in Sol op. 51 n. 2 (1798-1800, 1802) furono scritti in momenti diversi e il primo fu pubblicato da solo, ma fu poi ripubblicato insieme con il secondo con lo stesso numero d’opera. Particolare curioso: il primo Rondo` e` senza dedica, il secondo, che e` dedicato alla contessa Henriette Lichnowsky, era destinato in origine alla contessina Giulietta Guicciardi, il cui nome figura invece in cima alla Sonata op. 27 n. 2. Lo scambio delle dediche e` uno dei piccoli rebus della storiografia beethoveniana, un rebus appassionante per i ricercatori di curiosita` perche´ nel 1802 Beethoven era innamorato della Guicciardi, che nel 1803 lo pianto` per convolare a nozze con il conte Gallenberg. Il passaggio del nome della Guicciardi da un sorridente Rondo` a una tragica Sonata fu dunque determinato da una qualche premonizione di Beethoven? Fino a ora nessuno ha potuto dare una risposta documentata... Sorridenti, e molto, sono in realta` entrambi i Rondo`. Il primo e` tecnicamente piu` facile, riprende piu` volte e ornamenta con cura un tema cantabile molto accattivante e si concede qualche sorpresa armonica che sicuramente doveva stupire e deliziare i dilettanti. Melodioso, ma

piu` ricco di ornamentazioni e di colorature di tipo vocalistico, il secondo Rondo` sembra una parafrasi pianistica di un’aria di melodramma, e di melodramma di gusto un po’ arcaico. Molti arcaismi si trovano del resto nelle composizioni beethoveniane di inizio secolo, tanto da far pensare che nel momento in cui tramontava il Settecento Beethoven ripensasse nostalgicamente alle sue grazie. La forma del Rondo` op. 51 n. 2 e` quella tipica del genere, in cinque episodi, con il quarto episodio in tempo piu` mosso e in una tonalita` del tutto inattesa, Mi. Il Rondo` a capriccio in Sol op. 129 (1795-1798, 1828) fu pubblicato postumo e con il sottotitolo La rabbia per un soldino perduto. Titolo e sottotitolo non sono di Beethoven, che aveva invece scarabocchiato in cima al pezzo, in un italiano un po’ di fantasia, un Alla ingharese quasi un Capriccio, e che aveva lasciato alcuni particolari incompiuti o con diverse varianti. Schumann, che nel 1835 recensı` il pezzo, prese per buono il sottotitolo, entusiasmandosi per l’umorismo di Beethoven: ‘‘Vi tengo finalmente nelle mie mani, beethoveniani! In ben altro modo io vorrei sfogarmi contro di voi; vorrei colpirvi tutti quanti con un dolcissimo pugno quando siete fuori di voi stessi, stralunate gli occhi e dite tutti esaltati che Beethoven vuole sempre solo il sublime, che egli vola di stella in stella, lontano dalla dimensione terrena [...]. Con questo Capriccio io vi batto’’. Il soldino perduto non c’entrava in realta` per niente, come s’e` detto. Beethoven aveva invece giocato – umoristicamente, e` vero – con certi stilemi della musica popolare che allora veniva detta ungherese e che piu` tardi e con piu` proprieta` venne detta zingaresca. Umorismo, e scoppiettante vivacita` popolaresca, che solo 81

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alla fine del secolo suscitarono l’interesse dei concertisti. Il Rondo` a capriccio divenne allora un travolgente pezzo da bis, grande cavallo di battaglia di virtuosi come Euge` ne d’Albert e Josef Hofmann. L’Andante favorito in Fa WoO 57 (1803-1804, 1805) era stato pensato in origine come secondo movimento della Sonata op. 53. Si suppone che Beethoven o l’editore lo ritenessero pero` troppo lungo per una composizione di architettura gia` molto estesa nel primo e nel terzo movimento, e che percio` il compositore decidesse di eliminarlo. Qualche commentatore ha sentenziato severamente che sarebbe un dovere culturale di ricollocare l’Andante nel posto che aveva occupato in origine. Ma in verita` non si capisce come lo si potrebbe ricollocare nel contesto della Sonata, perche´ il breve Adagio in Fa che segue il primo movimento e` organicamente collegato con il Rondo` in Do, e se si inserisse l’Andante favorito il seguito AndanteLargo-Rondo` squilibrerebbe l’architettura della Sonata. La ragione della ‘‘rimozione’’ dell’Andante e` secondo me un’altra, e non di convenienza ma artistica. L’Andante favorito, meraviglioso pezzo rievocativo del passato, con il suo tema principale a modo di minuetto e con le sue ornamentazioni appartiene poeticamente al mondo della calma e trasognata Sonata op. 54, non a quello della vitalistica, esuberante Sonata op. 53. Beethoven – ne ho accennato poco addietro, ma lo vedremo parlando delle Sonate e delle Variazioni – si sta impegnando per raggiungere il traguardo di una sintesi storica che leghi insieme l’epoca contemporanea e l’epoca che la precede. La Sonata op. 110 rappresenta il culmine di questa ricerca, alla quale Beethoven perviene per gradi. La Sonata op. 53 e la Sonata op. 54 sono proiettate rispettivamente verso il futuro e verso il passato. Mettere insieme il futuro e il passato in una sola composizione era pero` un compito immane, per il quale Beethoven non era ancora maturo. L’Andante favorito venne secondo me staccato dalla Sonata op. 53 per questo preciso motivo, perche´ nella Sonata era un... intruso. Come pezzo a se stante ci da` un’immagine dell’Eliso, con la visione dei Beati che danzano cerimoniosamente a tempo di minuetto. La Fantasia op. 77 (1809, 1810) e` un po’, come dire?, il verbale di una improvvisazione. Nella improvvisazione barocca – e ancora nelle improvvisazioni degli organisti di oggi – una parte libera e formalmente inclassificabile, preludio, sfociava nella fuga, rigorosamente contrappuntistica. Nella improvvisazione del periodo classico il preludio faceva da apripista alle variazioni su un tema che il piu` delle volte era stato proposto dal pubblico. La 82

Andante favorito in Fa WoO 57

Fantasia op. 77, che comprende una serie di episodi di vario tipo – virtuosistici, bizzarri, espressivi – e un tema con variazioni, comincia in sol e finisce in Si, una terza maggiore sopra (di questo rapporto tonale ho gia` parlato a proposito delle Bagatelle op. 126). L’inizio del tema con variazioni coincide con il punto in cui cade la divisione della composizione secondo la sezione aurea. Nell’apparente disordine, nell’apparente abbandono a cio` che passa per la testa di momento in momento non manca quindi un principio ordinativo di costruzione formale. Della sezione aurea nell’opera di Beethoven parlero` a proposito delle Variazioni op. 120, dove il calcolo appare in modo evidente, anche se non si sa se Beethoven conoscesse questa proporzione o se ne intuisse inconsciamente la secolare applicazione nelle arti. Nell’op. 77 il taglio secondo la sezione aurea funziona pero` perfettamente come equilibratore di una forma che nell’apparenza e` semplicemente rapsodica. La Polacca in Do op. 89 (1814, 1815) e` l’omaggio che Beethoven, uscendo per una volta dal suo altero isolamento, fece alla zarina Elisabetta, moglie dello zar Alessandro I, diventato molto popolare a Vienna durante il Congresso e al quale Beethoven aveva dedicato le Sonate op. 30 per violino e pianoforte. Meno fastosa, piu` gentile delle Polacche di Weber, la Polacca op. 89 e` mondanamente elegante e appare pensata in funzione dei gusti della dedicataria. Non sappiamo con quale somma o con quale dono la zarina compensasse Beethoven, com’era d’uso in questi casi. Beethoven se lo era pero` meritato, l’obolo imperiale, perche´ in via del tutto eccezionale per lui aveva vestito i panni del cortigiano senza permettersi di calpestare neppure per un momento l’etichetta. I due Preludi op. 39 per pianoforte o organo (1789, 1803) sono in realta` esercizi di modulazione da una tonalita` all’altra fino a esaurire il ciclo delle dodici maggiori e delle dodici minori. Avevo detto a proposito delle Bagatelle op. 33 che in un certo momento della vita Beethoven comincio` a prendere e pretese che si prendesse sul serio tutto quello che usciva dalla sua penna. Il ripescaggio di due vecchie esercitazioni e la loro pubblicazione con tanto di numero d’opera sembra pero` a me una spia, non dico di megalomania, ma certamente di una autostima un tantino eccessiva. Il Preludio in fa WoO 55 per pianoforte o organo (1786-1787, 1805) fu invece pubblicato senza numero d’opera, e paragonandosi ai due fratelli minori dell’op. 39 avrebbe il diritto di lagnarsi con Beethoven per essere stato trattato da figliastro, non da figlio. Il Pezzo in Si bemolle WoO 60 (1818, 1824), il Pezzo in si WoO 61 (1821, 1893) e il Pezzo in

Le Sonate

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sol WoO 61a (1825, 1951) sono fogli d’album, geniali ed enigmatici, scritti rispettivamente per la pianista Maria Szymanowska (forse), per Ferdinand Piringer e per Sarah Burney Payne. Fra le altre brevi pagine sparse di Beethoven mi sembra opportuno ricordare qui soltanto le Scozzesi WoO 63 (1806, 1807), molto semplici ma molto gradevoli melodicamente, che parecchi grandi pia-

nisti di fine Ottocento ebbero in repertorio. Sono infine da ricordare le Tre Marce op. 45 per pianoforte a quattro mani (1802-1803, 1804), militaresche con un pizzico di esagerazione e percio` particolarmente divertenti, e la Grande Fuga op. 134 (1825, 1827), trascrizione non del tutto letterale per pianoforte a quattro mani dell’analogo pezzo per quartetto d’archi op. 133.

Le Sonate Le Sonate di Beethoven furono spesso suddivise in tre ‘‘periodi’’ o ‘‘stili’’, dai due di Liszt ai tre, i piu` famosi, di Wilhelm de Lenz ai cinque di William S. Newman. La divisione in periodi, che e` stata spesso respinta, e che e` del resto da respingere se viene intesa in senso rigidamente classificatorio, rappresenta pero` un modo, sia pure schematico, di inquadrare un percorso storico reale: la poetica di Beethoven non e` ne´ uniforme ne´ rettilinea ma, affrontando problematiche storiche che mutano nel tempo, procede a sbalzi verso la sintesi ultima. Nelle prime Sonate – parlo dell’op. 2, non delle produzioni dell’adolescenza – la tensione rivoluzionaria di Beethoven si manifesta soprattutto nel modo di trattare la forma classica, le cui dimensioni vengono ampliate non tanto con ‘‘ingrandimenti’’ quanto con fratture e farciture. Si tratta di un indirizzo che troviamo gia` in nuce nell’ultima Sonata di Mozart, la K 576 del 1789. Nel primo movimento di questa Sonata si puo` ritrovare lo schema di una impostazione architettonica piu` ridotta di quella definitiva, e cioe`: primo tema (battute 115), transizione (b. 16-27), secondo tema (b. 4252), conclusione (b. 53-58). Quarantaquattro battute invece delle cinquantotto definitive: l’ampliamento della esposizione nella non lieve misura di un 30% avviene con l’inserimento, fra transizione e secondo tema, di uno sviluppo del primo tema (b. 28-41). Ora, nel primo Beethoven si notano spesso ampliamenti formali piu` o meno vasti, che assumono talvolta il carattere di ampie parentesi, talvolta di commentari, talvolta di diversioni. Non di rado la forma, invece che fluida e classicamente proporzionata, appare fratta, e percio` imprevedibile. E se non ci rendiamo conto anche auditivamente di questo carattere non riusciamo poi a comprendere come i contemporanei trovassero bizzarra un’arte che ci sembra oggi lineare, mentre riusciamo ancora a capire lo sgomento suscitato dalle ultime Sonate (e dagli ultimi Quartetti) di Beethoven. La Allgemeine Musikalische Zeitung cosı` commentava la Sonata con violino op. 12 n. 1: ‘‘[...] ammasso senza metodo di cose sapienti; niente di naturale, niente canto, un bosco in cui si e` fermati a ogni

passo da cespugli nemici e da cui si esce esausti, senza piacere: un mucchio di difficolta` da perderci la pazienza’’. Non ‘‘senza metodo’’, in realta`, ma violando di frequente una impaginazione ritenuta la piu` razionale possibile. Ed e` questo, il carattere formale che piu` colpisce nel primo Beethoven, insieme con il pathos dei grandi adagi che hanno le dimensioni e il respiro di scene liriche. Questa fase della ricerca di Beethoven sulla forma arriva fino alla conclusione del ‘‘primo stile’’ teorizzato dal de Lenz, cioe` fino all’op. 22 compresa. In essa si inserisce l’esperimento in apparenza piu` rivoluzionario, il primo movimento dell’op. 13, la Patetica, che ha pero` un antecedente in Neefe e nello stesso Beethoven della giovanile Sonata WoO 47 n. 2, e che e` quindi meno eccezionale di quanto non appaia a tutta prima. Con l’op. 26 inizia una fase nuova, non piu` solo di rottura ma di crisi della forma classica, che investe la poetica e che investe lo sfruttamento di certe risorse del pianoforte. Per dirla tutta, Beethoven, il maggior creatore di sonate per pianoforte che si conosca, all’inizio dell’Ottocento dubito` che la sonata tradizionale potesse ancora rappresentare degnamente le sue ambizioni di artista, di Tondichter. Nei primi anni trascorsi a Vienna Beethoven aveva scritto molte Sonate e molte serie di Variazioni per pianoforte solo e per pianoforte a quattro mani: con le prime aveva parlato al mondo, e come abbiamo gia` visto le aveva pubblicate con numero d’opera, con le seconde aveva parlato a una societa` , e le aveva pubblicate senza numero d’opera. La sonata come arte, la variazione come moda. Non c’e` nessuna dichiarazione programmatica in tal senso di Beethoven, ma il suo comportamento non lascia dubbi sulla rispettiva importanza che egli attribuiva ai due generi. E il genere della variazione, affidato a specialisti che sapevano toccare il gusto del pubblico senza impegnarlo ne´ intellettualmente ne´ emotivamente, era allora assai screditato. Nel 1782, nel secondo movimento della Sonata WoO 47 n. 3, Beethoven aveva inserito, ed era nell’uso, un tema con variazioni. Nel 1799, nel secondo movimento della Sonata op. 14 n. 2, la variazione si insinua, senza essere denominata per quello che

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e`, nel corpo sacro della sonata. Nel 1803 verranno pubblicate le Variazioni op. 34 e op. 35. In mezzo – seguendo l’esempio della Sonata K 331 di Mozart, che e` una sonata caratteristica – la variazione viene inserita a pieno titolo nella Sonata op. 26, e le due Sonate op. 27 sono formalmente cosı` eccentriche da meritare il titolo Sonata quasi una Fantasia. Quasi tutte le variazioni di Beethoven, prima dell’op. 34, prendevano spunto da melodrammi o da musiche di balletto. Pubblicandole senza numero d’opera, e cioe` svalutandole, Beethoven manifesta il suo fastidio e per la moda e per la vita teatrale: non per il teatro, a cui aspira con tutte le sue forze, ma per i condizionamenti che la vita teatrale pone al creatore. Riscoprendo invece la variazione, al di la` della moda, come antico principio del comporre che si contrappone allo sviluppo tematico della sonata, Beethoven recupera non solo la variazione ma una teatralita` sublimata: con le sue variazioni e con la sua Marcia funebre, la Sonata op. 26 si avventura nella estetica del caratteristico; caratteri e immagini entrano a iosa nelle Sonate op. 27 e op. 28. La crisi della sonata e` anche crisi dello strumento, il pianoforte. Tutte le Sonate di Beethoven fino all’op. 13 compresa sono indicate nel frontespizio come ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’. Le due Sonate op. 14 e l’op. 22 sono ‘‘per pianoforte’’: l’op. 26 e le due Sonate op. 27 sono ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’, ma e` evidente che le indicazioni per il pedale di risonanza in esse presenti escludono il clavicembalo. Dall’op. 28 la dizione ‘‘per pianoforte’’ non verra` piu` abbandonata. C’entrano sicuramente gli editori e i loro interessi commerciali, nelle definizioni dei frontespizi. Pero` nell’op. 26, per la prima volta, Beethoven indica il pedale di risonanza, che sicuramente usava anche prima ma in senso generico, mentre nell’op. 26 comincia a cercare effetti esattamente calcolati sul pedale e non ottenibili senza il pedale. Nel quaderno degli schizzi le prime idee della Sonata op. 26 compaiono nel 1800. Nel 1800 Beethoven ebbe occasione di ascoltare, in casa del conte von Fries, il pianista di origine prussiana Daniel Steibelt, che andava famoso per il tremolo e che usava molto il pedale di risonanza, anche per effetti – si veda la Tempesta nel finale del suo Concerto n. 3 – di contaminazione delle armonie. Beethoven e Steibelt gareggiarono, e fu Beethoven, riferiscono i testimoni, che seppellı` il rivale. Tutto lascia pero` supporre che gli effettettacci inventati dallo Steibelt (pianista, ma anche teatrante e ciarlatano geniale) non lasciassero indifferente Beethoven. O che, per lo meno, lo spingessero verso quella dimensione di teatro sublimato che incontriamo nella Sonata op. 26. La 84

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novita`, piu` ancora contenutistica che formale dell’op. 26 fu del resto colta benissimo dai primi interpreti romantici, che inserendo Sonate di Beethoven nei concerti cominciarono proprio da questa, dall’op. 27 n. 2 e dall’op. 31 n. 2, immediatamente ‘‘capite’’ da pubblici non avvezzi alla musica strumentale in genere e alla musica di Beethoven in particolare. La Sonata op. 26 fu infatti una di quelle predilette da Liszt, che la eseguı` in pubblico fino a tarda eta`, e fu scelta da Anton Rubinsˇ tejn, quasi a fine secolo, per dare inizio al programma beethoveniano nell’ambito dei suoi sette concerti ‘‘storici’’. Piu` complesse concettualmente e strutturalmente sono le due Sonate op. 27, nelle quali Beethoven, dopo aver inserito nell’op. 26 la variazione, prendeva in considerazione il genere della fantasia e la scrittura contrappuntistica, dando inizio al suo ritorno verso concezioni barocche del comporre, viste in una prospettiva non piu` di erudizione o di gioco ma di nuova creativita`. La componente arcaica dell’op. 27 n. 1 e` stata piu` volte osservata. Faccio notare invece la complessita` dell’op. 27 n. 2 che, per quanto nuova nella sonorita` pianistica che prevede un ampio uso del pedale di risonanza, e per quanto prediletta dai romantici e, in quanto tale, ‘‘musica dell’avvenire’’, non manca affatto di tratti che la accomunano all’op. 27 n. 1 nel ripensamento del passato. L’Adagio iniziale, come e` stato detto piu` volte, ricorda la morte del commendatore nel Don Giovanni di Mozart, e ricorda anche, posso aggiungere, il coro di terrore dell’Idomeneo; il secondo movimento, con le sue simmetriche domande e risposte e con la sua regolarissima scansione ritmica, ricorda le costruzioni barocche in eco, mentre settecentesche sono certe maniere di esecuzione che Beethoven scrive (nel Settecento era prerogativa dell’esecutore aggiungerle secondo il suo gusto); elementi settecenteschi – il basso albertino – si trovano persino nel tempestoso finale. La crisi della sonata, che ci viene rivelata dall’op. 26 e dall’op. 27, non e` dunque soltanto rinnovamento profondo per una proiezione verso il futuro: e` invece, anche, uscita dalla attualita` e scoperta della storia come dato immanente della coscienza creativa, ed e` superamento della distinzione dei generi – sonata, variazione, fantasia – e conquista di quella che busonianamente si chiamerebbe ‘‘unita` della musica’’. In questo senso si puo` parlare, come spesso si parlo`, di romanticismo in Beethoven; ma si deve soprattutto parlare di sofferta ascesa verso cio` che Mozart, abbandonando la posizione di musicista di corte, aveva conquistato. E Beethoven potra` definire se stesso, gia` lo abbiamo

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visto, come poeta del suono, rivendicando una dignita` intellettuale che la societa` del tempo era ben lungi dal riconoscere al compositore di musica. Questa fase della maturazione artistica e morale di Beethoven si conclude con la Sonata op. 28, nota come Pastorale. Se fosse una composizione poetica anziche´ musicale, se fosse, putacaso, opera di Goethe, la Sonata op. 26 sarebbe detta Idillio o Idillio pastorale. La forma e` pero` quella di sonata, non di sonata quasi una fantasia: l’op. 28 recupera integralmente la forma classica entro l’estetica del caratteristico, e le quattro Sonate esprimono insieme il momento del trapasso fra il Beethoven della ‘‘prima’’ e il Beethoven della ‘‘seconda maniera’’, permettendo inoltre di cogliere un piu` generale passaggio dal Settecento all’Ottocento, una magica sospensione in cui convivono il passato, il presente e il futuro. Prima della vera e propria ‘‘seconda maniera’’, della fase ‘‘eroica’’ dell’arte di Beethoven, troviamo dunque una fase transitoria che e` insieme di riflessione e di ricerca, di contemplazione non nostalgica del passato e di attesa non drammatica del futuro. Si puo` benissimo parlare, come dicevo prima, di romanticismo. Ma si potrebbe anche parlare, e secondo me con maggiore ragione, di decadentismo, ovviamente metastorico. Solo pero` se si considerano le quattro Sonate come un blocco, un monologo quadripartito o una tetralogia in cui, partiti da un dato esterno e mondano di un’opera di Mozart (una sonata puo` iniziare con un tema variato), si approda infine alla natura trasfigurata, all’Eliso mitico della Pastorale. Riconquistata la fiducia nella forma classica, dopo l’op. 28 lo sperimentalismo di Beethoven comincia a investire le consolidate strutture non piu` dall’esterno ma dall’interno, attaccando la rete delle tonalita` su cui la sonata si era fondata. La Sonata op. 31 n. 1 e` un vero e proprio... florilegio di stranezze, a cominciare dai rapporti di tonalita`. I collegamenti tonali, tradizionali e non tradizionali, avvengono attraverso suoni comuni negli accordi. L’accordo di dominante (quinto grado) ha in comune con l’accordo di tonica (primo grado) il suono del quinto grado di questa, l’accordo di sottodominante (quarto grado) ha in comune con l’accordo di tonica il suono del primo grado di questa. I rapporti che Beethoven studia nell’op. 31 n. 1 legano invece mediante i suoni comuni la tonalita` della tonica con le tonalita` della mediante e della sopradominante (detta anche sottomediante, intesa come mediante di sotto, cosı` come la sottodominante e` la dominante di sotto): in questo caso il suono del terzo grado della tonica corrisponde al suono del primo grado della mediante e al suono del quinto

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grado della sottomediante. Schematizzando sulla tonalita` di Do abbiamo do-mi-sol (tonica), sol-si-re (dominante), fa-la-do (sottodominante), e do-misol (tonica), mi-sol diesis-si (mediante) e la-do diesis-mi (sottomediante). In questo modo la tonalita` di Do viene collegata con un’altra tonalita` quando il suo accordo di dominante diventa l’accordo di tonica di Sol, ecc. ecc. Ma mentre i collegamenti con la dominante e con la sottodominante avvengono entro il cerchio dei suoni della tonalita` di base, i collegamenti con la mediante e con la sottomediante richiedono suoni estranei alla tonalita` di base (il sol diesis, il do diesis). E questo, dal punto di vista della teoria, e` un vulnus gravissimo, di cui Beethoven diventa in primis il responsabile. Al contrario dell’op. 31 n. 1, l’op. 31 n 2 possiede una evidenza estetica e una resa emotiva che ne hanno fatto trascurare il carattere strutturale piu` rivoluzionario: la rete tonale del primo movimento. Con il primo movimento in modo minore la forma classica voleva che il secondo tema venisse presentato nella tonalita` relativa maggiore nella esposizione e nella tonalita` simigliante maggiore nella riesposizione. I rispettivi accordi tonali sono collegati attraverso due suoni comuni. Tenendo come modello il do abbiamo do-mi bemolle-sol (tonica), mi bemolle-sol-si bemolle (relativa maggiore) e do-mi-sol (simigliante maggiore). Nella Sonata op. 31 n. 2 Beethoven presenta invece il secondo tema nella tonalita` della dominante minore nella esposizione e nella tonalita` principale nella riesposizione, riproponendo nel modo minore quella che era la rete tonale consueta nel modo maggiore. Con questa eccentrica scelta Beethoven elimina quindi la dicotomia maggiore-minore, e da qui proviene la concentrazione espressiva del primo movimento che, rispetto ad altre sonate in modo minore, non ha alcuna schiarita nella espressione. Con la Sonata op. 53, detta Waldstein, la sperimentazione di Beethoven sul linguaggio e sulle forme, che era estetica nelle opere 26-28 e speculativa nell’op. 31, assume pero` un carattere interamente nuovo. Beethoven puo` ormai impostare architetture vastissime senza piu` far ricorso alle fratture della forma classica, e puo` usare la rete tonale alternativa sperimentata nell’op. 31 n. 1 senza piu` sfiorare la satira. I contenuti sono meno densi, i temi suonano come slogan, la sonorita` alterna la rarefazione e la condensazione in modo elementare: ‘‘Il primo movimento della Waldstein’’, dice giustamente Charles Rosen, ‘‘ha un modo caratteristico di essere, non semplicemente diverso da quello di altri compositori, ma anche diverso da qualsiasi altra musica pianistica di Beethoven: e` una durezza 85

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energica, dissonante eppure stranamente liscia, espressiva ma senza alcuna ricchezza’’. E dell’op. 57, l’Appassionata, dice sempre il Rosen. ‘‘Si puo` dire che l’Appassionata [...] sia sotto un certo aspetto un’opera prudente: il primo movimento e` quasi rigidamente simmetrico, a dispetto di tutta la sua violenza, quasi che soltanto la piu` semplice delle strutture potesse contenere tanta potenza. Questo genere di prudenza e` caratteristico delle opere piu` rivoluzionarie: la flessibilita` giunge soltanto dopo la riuscita del primo esperimento’’. Architetture enormi, ma anche geometricita` di impianto e di contenuti. Scrittura strumentale virtuosistica, ma anche effetti di movimenti di masse che dal nostro punto di vista potremmo definire materici, sia nella potenza estrema che nella estrema delicatezza. A che cosa e` dovuta questa svolta? Secondo me la dimensione del teatro sublimato, conquistata con l’op. 26, si trasforma qui in vero e proprio teatro strumentale. Il periodo dell’op. 53 e dell’op. 57 (1803-1805) e` quello non solo della Sinfonia Eroica e della Sonata a Kreutzer, ma e` anche quello dell’opera incompiuta Vestas Feuer e della prima versione del Fidelio. Nel 1803 Beethoven acquisto` un pianoforte E´rard, di caratteristiche diverse da quelle dei pianoforti viennesi cui il Maestro era avvezzo. E la Kreutzer non fu eseguita per la prima volta, com’era d’uso, in un salotto privato, ma in un caffe` del Prater aperto al pubblico, il 24 maggio 1803. C’e`, mi pare, quanto basta per giustificare l’ipotesi che Beethoven si fosse posto il problema di fare della sonata un pezzo da concerto, da presentare a un pubblico diverso da quello tradizionale. Gia` nella sonata di fine Settecento, in Clementi e in Steibelt e, s’intende, in Beethoven, si nota la tendenza ad accrescere la difficolta` tecnica, e la vera e propria ‘‘pubblicizzazione’’ appare nella Sonata op. 13 di Hummel, composta all’inizio del nuovo secolo. Ma mentre Hummel introduce secondi temi di chiara impronta operistica in una scrittura molto virtuosistica, e imposta il secondo movimento, l’adagio, come un’aria di melodramma, Beethoven non viene attratto dagli stilemi dell’opera ed elimina il grande pannello centrale, sostituendolo con un intermezzo che fa da cerniera fra il primo movimento e il finale. Beethoven era uno specialista dei grandi adagi, del legato e del cantabile. Se non scrisse un adagio per l’op. 57 e se elimino` quello che aveva scritto per l’op. 53 e` perche´, probabilmente, riteneva che il cantabile pianistico non fosse adatto a una grande sala e a un pubblico avvezzo ad ascoltare cantanti. Invece di far ricorso all’opera, egli scopriva ed evidenziava la drammaticita` immanente del virtuosismo, e creava per la sonata una di86

Le Sonate

mensione, dicevo, di teatro strumentale, una pantomima fatta di gesti sonori: la commedia nell’op. 53, la tragedia nell’op. 57. Ed era la logica conclusione della scelta avvenuta con l’op. 26. Ho avanzato delle ipotesi, molte ipotesi che, si capisce, non sono suffragate da alcun documento, da alcuna testimonianza di Beethoven o dei contemporanei. Ma mi sembra che un’ipotesi complessiva vada fatta, per spiegare la progressione della fase creativa che si estende dall’op. 26 all’op. 57. Che si trattasse di ricerca sperimentale, e non di instaurare una nuova prassi della vita concertistica mi sembra fuor di dubbio. E se un dubbio ci fosse, a fugarlo basterebbe la Sonata op. 54, composta nel 1804. La Sonata op. 54 e` in due movimenti: un minuetto in rondo`, un moto perpetuo. Si potrebbe anche prospettare un’ipotesi sul carattere coreutico dell’op. 54, ma non e` il caso di forzare il discorso che e` stato fatto poc’anzi. La Sonata op. 54 e` breve e supremamente elegante, e` una sonata manieristica che guarda alla lontana e con distacco al Settecento rococo` e che si lega al blocco successivo, quello delle sonate ‘‘piccole’’ op. 78, 79, 81a, 90. Sonate diversissime fra di loro, che hanno in comune l’una con l’altra e con l’op. 54 la forma non monumentale. Una ricerca coloristica di una raffinatezza alessandrina nell’op. 78, una ricerca del caratteristico nell’op. 81a, che non rifiuta nemmeno l’imitazione onomatopeica del corno del postiglione e del galoppo dei cavalli, legandosi al descrittivismo ingenuo del barocco, un secondo movimento, nell’op. 90, che sembra nascere dalla trascrizione pianistica di un Lied e che ha momenti di tenerezza intimistica miracolosi, e uno sguardo sull’infanzia gioiosa e spensierata nell’op. 79, intitolata Sonatina. Le Sonate dall’op. 78 all’op. 90 non vengono solo dopo il culmine protervo dell’Appassionata: vengono dopo un altro culmine, il Concerto op. 73, in cui il pianoforte come protagonista del teatro strumentale aveva celebrato il suo piu` alto rito, aveva ottenuto il suo ruolo piu` eroico. Dopo l’Imperatore Beethoven tento` invano di scrivere un altro concerto. Riuscı` invece a riprendere la sonata volgendo le spalle all’Appassionata e riallacciando le fila dall’op. 54. Non solo le dimensioni sono ridotte, ma la dialettica tematica risulta attenuata: il secondo tema e` episodico nell’op. 78, quasi manca nell’op. 79, e` identico al primo nell’op. 81a, gli sviluppi diventano fantasie sul primo tema. Anche nell’op. 90 lo sviluppo e` una fantasia sul primo tema, e il secondo tema e` episodico; qui Beethoven riprende pero`, per l’unica volta, lo schema tonale dell’op. 31 n. 2, ma in un clima ben lontano dalla cupa drammaticita` della Sonata in re minore. Insomma, la grande

Le Sonate

architettura viene miniaturizzata, la dialettica cede al lirismo, il grande teatro diventa teatro da camera. Beethoven ci stupisce. Molto. Ma non ha ancora finito di stupirci. Che le ultime cinque Sonate siano, secondo Wilhelm de Lenz, al ‘‘terzo stile’’. ‘‘La decisione di proseguire con le forme puramente classiche fu a suo modo eroica’’, dice Charles Rosen. E ha pienamente ragione. Per Beethoven non si trattava soltanto di un atto di coraggio e di fede: si trattava anche di riconsiderare tutti i problemi affrontati al volgere del Settecento nell’Ottocento e di portarli a una nuova sintesi, utopistica invece che rivoluzionaria. Il problema maggiore, come tutti sanno, fu non solo di continuare con la sonata e con la variazione, ma di riprendere la fuga, che aveva fatto la sua comparsa nelle Variazioni op. 35 e che nella sonata non era invece entrata. Non tutti riescono pero` a capire che cosa significasse questo problema agli occhi dei contemporanei. Dal secondo libro del Clavicembalo ben temperato erano passati piu` di settant’anni e la fuga era diventata cosa da eruditi. Il pensare di riprenderla in un’opera d’arte era un po’ come sarebbe oggi il fantasticare di riprendere a comporre secondo i principi dei Notturni di Chopin. E non, s’intende, in modo velleitario o reazionario ma dal punto di vista dell’avanguardia e pervenendo a una sintesi totalizzante. Beethoven raggiunse lo scopo. E come lo raggiungesse lo sappiamo. Nel finale dell’op. 101, che e` un classico allegro bitematico, egli mise un vitalistico, fremente fugato – sul primo tema – al posto dello sviluppo, e invento` un primo movimento cullante che avrebbe piu` tardi mandato in estasi Schumann. Nell’op. 106 ritrovo` il gusto delle forme ciclopiche, concludendo con una fuga di una complessita` tale da non trovare riscontri se non, piu` di cent’anni dopo, nelle fughe di Sorabji. Invento` un tipo di primo movimento, nell’op. 109, quale non si era mai visto, invento` nell’op. 110 l’arioso alternato con la fuga, e nell’op. 111, che e` in do, trovo` con il La bemolle del secondo tema – un tema brevissimo – una relazione tonale che nessuno aveva immaginato possibile. Il terzo stile non e` soltanto invenzione, non e` soltanto sapienza, non e` soltanto audacia. E` soprattutto fantasia allo stato puro, gioco con una materia divenuta immateriale. Ma sulle cinque ultime Sonate non devo spendere qui molte parole. Esercitarono subito un forte fascino sui musicisti e affascinarono il pubblico, proprio per il loro carattere utopistico, da quando il recital divenne una istituzione della vita musicale. Non c’e` quindi bisogno di insistere sulla eccezionalita` dell’impresa affrontata da Beethoven. Era piuttosto, o mi sembro`

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necessario insistere invece sul periodo di mezzo, che pare non presentare alcun problema, ne´ di comprensione ne´ critico, e che invece ne presenta piu` d’uno. La dimensione teatrale e` tuttavia a parer mio immanente, come diro` poi, anche nelle ultime cinque Sonate e in particolare nell’op. 106. Drammi da lettura, di cui Liszt tento` la messa in scena e che fece diventare drammi da rappresentazione. Su questo punto si e` travagliata l’interpretazione, che continua a lavorare non tanto sul modo di eseguire Beethoven, quanto di eseguirlo per un pubblico di spettatori ai quali la musica viene data in tempo reale e che devono comprenderne i significati attraverso la sola percezione. Si puo` dire che chi eseguiva in pubblico l’op. 53 e l’op. 57 liberava le potenzialita` teatrali delle due Sonate; si puo` dirlo anche di chi eseguiva l’op. 26, l’op. 27 n. 2, l’op. 31 n. 2, l’op. 81a. Ma chi eseguiva in pubblico l’op. 106 e l’op. 111 svelava misteri da iniziati. E chi continua a farlo, tanto piu` drammaticamente e` destinato a sentire il peso della scelta fra il dovere di fedelta` allo spirito, o al testo, o al logos. I primi tentativi di Beethoven nel campo della sonata per pianoforte risalgono agli anni della sua adolescenza, quando studiava, come abbiamo visto prima, con Christian Gottlob Neefe. Le tre Sonate in Mi bemolle, fa, Re WoO 47 (1782-1783, 1783) furono pubblicate grazie all’intervento del Neefe presso un editore di Spira e sono comunemente note come Kurfu¨rsten-Sonaten perche´ dedicate al principe elettore di Colonia, che risiedeva a Bonn e del quale i Beethoven – nonno, padre, figlio – erano stati o erano dipendenti. Beethoven non aveva ancora compiuto i tredici anni, ma il Neefe non ebbe torto nel parlare in un rivista delle tre Sonate come di ‘‘una notevole composizione di un giovane genio’’. Il Newman ha giustamente notato che ci sono dei ‘‘punti in comune’’ fra le prime Sonate di Beethoven e la raccolta di 12 Sonate pubblicate dal Neefe dieci anni prima, nel 1773. Sembra soprattutto interessante il fatto che le Sonate del Neefe, come l’Autore afferma nella prefazione, fossero state espressamente composte per clavicordo, e non per clavicembalo o per pianoforte; anche le Sonate WoO 47 sono ‘‘fu¨r Clavier’’, termine con il quale il Neefe aveva voluto indicare il clavicordo. Il legato sostenuto e il cantabile che Beethoven applico` poi sul pianoforte potevano essere realizzati sul clavicordo, ed e` quindi molto probabile che la concezione beethoveniana dell’esecuzione pianistica sia stata in parte influenzata dalla predilezione del Neefe per lo strumento a tastiera meno diffuso. L’elemento stilistico che piu` colpisce l’ascoltatore e` pero` quello che in modo 87

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approssimativo viene detto ‘‘imitazione dell’orchestra’’, cioe` di resa pianistica di effetti di masse di suono timbricamente differenziate, cosa, a rigore, impossibile sul pianoforte ma che puo` essere suggerita sfruttando le variazioni di tocco e le differenze timbriche fra i registri. La Sonata in Mi bemolle WoO 47 n. 1 inizia ad esempio con una frase che, sfruttando la zona media e grave della tastiera e la posizione allungata delle dita, suggerisce una strumentazione di corni, fagotti, viole e violoncelli; nella seconda frase lo spostamento nella zone media e acuta e la particolare ornamentazione imitano l’entrata di un oboe accompagnato dagli archi; nella terza frase, che conclude l’esposizione del primo tema, viene imitata la massa degli archi che suonano in ottava. Il tutto in poche battute, e quindi in modo, come dire?, un po’ affastellato. Ma Beethoven, che ha molte idee, non ha ancora imparato a sfruttarle con la... gestione economica dell’adulto. Il primo movimento della Sonata in Mi bemolle e` come uno schizzo di sinfonia, letto al pianoforte. Il secondo movimento e` convenzionalmente cantabile, mentre il Rondo` finale, virtuosistico, dimostra quanto in Beethoven contasse l’istinto per il maneggio dell’attrezzo, la tastiera. La Sonata in fa presenta un primo movimento che alterna Larghetto maestoso e Allegro assai, con la particolarita` che il Larghetto non e` soltanto introduttivo ma ritorna nel corso del pezzo, cosa che fa pensare alla Patetica. L’Andante e il Presto finale sono poco personali, ma l’insieme della Sonata non sembra opera di un ragazzino. La Sonata in Re e` piu` sviluppata delle altre, piu` ambiziosa e tecnicamente piu` impegnativa. Un vivacissimo Allegro e` seguito da un Menuetto con sei variazioni e da uno Scherzando. Piu` che le influenze di Mozart e di Haydn, che sono state notate piu` volte, sembra a me che l’undicenne Beethoven tenesse conto della lingua franca, della koine´ che troviamo in decine e decine di sonate dell’epoca, e alla cui formazione avevano contribuito in grande misura Carl Philipp Emanuel Bach e Johann Christian Bach. Prima di spostarsi a Vienna Beethoven scrisse altre tre Sonate, una delle quali e` andata perduta. La Sonata in Fa WoO 50 (1788-1790, 1909) e` in due movimenti molto brevi e sembra uno schizzo buttato giu` rapidamente. Fu donata a un amico d’infanzia, Franz Wegeler. La Sonata in Do WoO 51 (1790-1792, 1880), scritta per Eleonore von Breuning, che avrebbe poi sposato Franz Wegeler, e` graziosa e appare lavorata a dovere, ma l’Adagio e` incompleto (il completamento e` di Ferdinand Ries) e manca il finale. La Sonatina in Sol e la Sonatina in Fa (1790 ca., 1830) sono molto note fra i principianti, 88

Sonata in Fa WoO 50

specie la prima, e molto apprezzate per la melodiosita` dei temi, ma la loro autenticita` e` messa fortemente in dubbio da non pochi studiosi. Dopo lo sguardo panoramico che abbiamo gettato sul corpus delle trentadue Sonate bastera` ora, secondo me, qualche cenno di commento per ciascuna sonata. Le tre Sonate in fa, La e Do op. 2 (1794-1796, 1796) sono dedicate ‘‘al Sig. Joseph Haydn’’ Secondo quanto racconta Ferdinand Ries, allievo di Beethoven, le tre Sonate furono eseguite da Beethoven, alla presenza di Haydn, nel palazzo del principe Lichnowsky. Haydn avrebbe desiderato che, com’era d’uso, Beethoven facesse menzione nella dedica del fatto di essere stato suo allievo; Beethoven non volle pero` aderire al desiderio di Haydn perche´ ‘‘da lui non aveva imparato niente’’. Beethoven aveva conosciuto Haydn a Bonn ed era stato da lui aiutato a Vienna materialmente, con un prestito di cinquanta fiorini, oltre che con le lezioni di composizione. Ma aveva preso nascostamente lezioni anche da Albrechtsberger e da Schenk. Non e` qui il luogo per toccare il tema dei rapporti fra Haydn e Beethoven, che non furono mai privi di un fondo di rivalita` (reciproca). Notiamo solo che la Sonata op. 2 n. 1, come fu rilevato fin dall’Ottocento, deve molto di piu` a Mozart e a Clementi che non a Haydn; quindi, in un certo senso, la dedica ossequiosa dell’Allievo Louis van Beethoven sarebbe stata smentita dalla musica. Ma al di la` delle influenze, anche haydniane, che vi si possono riscontrare, la Sonata op. 2 n. 1 e` gia` un magnifico saggio e della corrusca personalita` di Beethoven e della segreta tenerezza del suo animo. Per il secondo movimento Beethoven si servı` dell’Adagio con espressione del Quartetto con pianoforte WoO 36 n. 3, scritto nel 1785, nel quale il giovanissimo artista riusciva a far rivivere in modo personale il tipo dell’adagio ornato che si incontra spesso in Haydn e in Carl Philipp Emanuel Bach. Il nucleo principale della composizione giovanile rimane invariato e Beethoven lo amplia semplicemente con nuovi episodi, che denunciano appena una leggera frattura di stile: per esempio, stilisticamente un po’ diverso e` il bell’episodio in re, pianisticamente geniale per l’abile sfruttamento dell’incrocio della mano destra sulla sinistra. La Sonata n. 2 e` collocata fra una sonata drammatica e una sonata brillante, ed e`, per motivi di necessario contrasto con entrambe, umoristica e graziosa. L’umorismo e` evidente fin dall’attacco del primo movimento, la grazia, un po’ arcadica, fin dall’attacco del finale. E il terzo movimento, per la prima volta in Beethoven e fra le prime volte nella storia della sonata per pianoforte solo, e` intitolato

Sonata Grande op. 7

Scherzo. Il colore poetico di fondo della Sonata op. 2 n. 2 viene tuttavia variato, se non proprio contraddetto, nel secondo movimento, Largo appassionato, in cui il tempo molto lento (Largo) offre lo spunto per mettere in evidenza la tenuta di suono del pianoforte, mentre il carattere espressivo (appassionato) apre il tema della ricerca introspettiva che Beethoven non abbandonera` mai piu`. Per quanto riguarda l’uso dello strumento e` da notare nel Largo appassionato lo splendido effetto della contemporaneita` di suoni tenuti e suoni staccati, e lo sviluppo della cantabilita` anche in una parte del registro grave. Per quanto riguarda invece la struttura e` da notare che Beethoven amplia la forma rompendone il decorso ‘‘normale’’ e inserendo un episodio in modo minore, assolutamente inatteso e di effetto fortemente drammatico. Nella parte centrale del primo movimento troviamo un canone a tre voci: e` il primo esempio di contrappunto rigoroso nelle Sonate di Beethoven. Ma si tratta di un contrappunto usato burlescamente, come nei canoni scherzosi con i quali Beethoven prendeva in giro gli amici. Beethoven, come Haydn e come Mozart prima di lui, volle differenziare nettamente l’una dall’altra le Sonate della sua prima raccolta, non solo nelle tonalita` (lo schema e` quello delle terze ascendenti, fa, la, do), ma anche nei modi espressivi, perche´ il compositore che ambiva ad affermarsi da protagonista della vita musicale doveva mostrare di avere piu` frecce al suo arco, di non essere uno ‘‘specialista’’. Drammatica la prima sonata dell’op. 2 e graziosa la seconda, come s’e` detto. Virtuosistica e spettacolare la terza. Nella Sonata n. 2 prevaleva il virtuosismo ornamentale dei pianisti viennesi, di derivazione mozartiana; qui prevale invece la piu` robusta tecnica di Clementi, con largo impiego di doppie terze, ottave, accordi e salti. Anche nel secondo movimento – cosı` espressivo, cosı` orientato verso l’intimismo romantico – Beethoven impiega virtuosisticamente l’incrocio della mano sinistra sulla destra. L’op. 2, parlandone in termini di teatro, e` nel suo complesso come un trittico con cui il grande attore dimostra di essere ugualmente bravo nel tragico, nell’amoroso, nel brillante. Per evitare la monotonia i movimenti lenti delle Sonate op. 2 capovolgono pero` il modo espressivo: l’Adagio della prima Sonata e` sereno, quello della seconda e` appassionato, quello della terza e` lirico e fortemente introspettivo. Per di piu`, per la terza Sonata Beethoven sceglie per l’Adagio una tonalita` insolita, il Mi, il cui colore timbrico e` sul pianoforte vellutato e notturno (Chopin, a proposito del Larghetto in Mi del suo Concerto op. 11, parlava di ‘‘fantasticheria in un bel tempo primaverile ma al

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chiaro di luna’’). Nell’Adagio dell’op. 2 n. 3, per creare un tessuto molto eufonico, Beethoven impiego` largamente, come dicevo prima, l’incrocio della mano sinistra sopra la destra, facendo ricorso a una tecnica che creava qualche problema ai dilettanti (Haydn se ne era servito nel movimento lento della sua Sonata n. 49, e la dedicataria gli aveva scritto esprimendo preoccupazione). In un certo senso e` percio` virtuosistico persino l’Adagio. Gli altri tempi della Sonata in Do sono un’esplosione di gestualita` pianistica e ci fanno capire bene come e perche´ il pianista Beethoven stupisse e conquistasse i viennesi dopo essere sbarcato nella capitale, arrivandovi dalla provinciale Bonn. La Sonata in Re op. 6 per pianoforte a quattro mani (1796-1797, 1797) e` una specie di rivisitazione dello stile di Johann Christian Bach. Due movimenti soli, spigliati e vivaci, un discorsetto che fila diritto e piacevolmente. Il paradosso e` che una cosuccia come questa sia collocata fra le due Sonate op. 5 per violoncello e pianoforte e la Sonata op. 7, nelle quali Beethoven e` fortemente impegnato nella ricerca di un suo inconfondibile spazio creativo. La Sonata Grande op. 7 (1796-1797, 1797) porta un titolo non solo inconsueto alla fine del Settecento, ma addirittura inventato da Beethoven perche´ in precedenza, pare, era stato usato soltanto da Carl Philipp Emanuel Bach in una sonata rimasta inedita. La scelta del titolo fu probabilmente consigliata dal fatto che era ancora di norma, a quel tempo, pubblicare le sonate per gruppi di sei o di tre o, eccezionalmente, di due (due Sonate op. 5 di Beethoven per violoncello e pianoforte). Comunque, Beethoven aveva perfettamente ragione nello scegliere un titolo molto impegnativo: la Sonata op. 7 e` veramente grande, la piu` lunga di tutte le Sonate di Beethoven dopo la gigantesca Hammerklavier op. 106. L’aumento delle proporzioni non e` pero` dovuto ad ampliamento dell’architettura tradizionale ma all’aggiunta di episodi secondari: Beethoven, per cosı` dire, non allarga la navata ma passa dalla navata unica alle tre navate. Cio` si nota in particolare nel primo e nel secondo movimento, nei quali il lavoro di farcitura e` minuzioso e perfettamente calcolato. Ma leggermente ampliate sono anche le strutture del terzo movimento e del finale. La Sonata op. 7 mette in luce un aspetto di Beethoven a torto trascurato. E` piu` facile osservare la personalita` beethoveniana nei suoi aspetti patetici e tragici, oppure negli aspetti umoristici e giocosi. La Sonata op. 7 porta invece in luce un aspetto idilliaco, un aspetto che si potrebbe definire ‘‘schubertiano’’. Sugli aspetti schubertiani delle Sonate di Beethoven aveva molto insistito Theodor von Frimmel, ma non altrettanto 89

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gli altri commentatori, e meno che mai i critici piu` noti in Italia. L’aspetto schubertiano – o viennese o come altro si voglia chiamarlo – non e` invece affatto trascurabile. Si osservi in particolare il terzo movimento: la struttura formale e` quella del minuetto o dello scherzo con trio, ma Beethoven non da` alcun titolo al brano, che appare piuttosto un momento musicale o un improvviso al modo di Schubert. Il tono espressivo della Sonata op. 7 fu forse favorito da una esperienza esistenziale di Beethoven? Nei paesi di lingua tedesca la Sonata op. 7 e` nota come Die Verliebte, L’Innamorata, titolo dovuto alla dedica alla contessa Babette Keglevics, un’allieva con la quale, parrebbe, ci fu del tenero. Ignoriamo in realta` se tra il ventisettenne maestro e la giovane allieva nascesse un qualche sentimento amoroso: sappiamo soltanto di un affetto sincero, testimoniato dalle dediche della Sonata op. 7, delle Variazioni su un tema di Salieri e del Concerto op. 15. Ma nel 1801 il Concerto fu una specie di dono di nozze per Babette, che da pochi mesi era diventata la principessa Barbara Odescalchi. Le tre Sonate in do, Fa e Re op. 10 (1796-1798, 1798) furono dedicate alla contessa von Browne (le dediche di Beethoven nel primo periodo del suo soggiorno a Vienna sono come uno spaccato del mondo altolocato in cui lui, oscuro musicista renano, cercava l’affermazione). Anche l’impaginazione dell’op. 10 segue lo schema che avevo fatto notare nell’op. 2: la serata a beneficio del grande attore, del mattatore che sceglie tre commedie in un atto o tre atti da diverse commedie per dimostrare di essere teatrante completo (ai giorni nostri simili imprese furono sostenute da un cantante, Placido Domingo). Lo schema dell’op. 10 e` pero` piu` novativo. Nell’op. 2 tutte le Sonate erano in quattro movimenti, nell’op. 10 e` in quattro movimenti solo la terza; la seconda Sonata non ha il movimento lento, e mentre nell’op. 2 le dimensioni di tutti i movimenti erano monumentali, nell’op. 10 sono monumentali solo i quattro movimenti dell’ultima Sonata. Insomma, mentre con l’op. 2 Beethoven dice al suo pubblico ‘‘io sono qui e non ho timore di nessuno’’, con l’op. 10 dice ‘‘vi ringrazio per la fiducia e vi invito a battere vie nuove’’: il sovrano dell’arte sua diventa, e lo diventera` decisamente con l’op. 13, un maıˆtre a` penser. La Sonata op. 10 n. 1 fu detta un tempo Piccola Patetica perche´ sembra preludere espressivamente alla Grande Sonata Patetica op. 13. Si possono effettivamente trovare dei punti di contatto fra l’op. 10 n. 1 e l’op. 13. Ma piu` numerosi sono i rapporti con l’unica Sonata in do di Mozart, la K 457, in particolare fra il primo movimento della Sonata di 90

Sonate in do, Fa e Re op. 10

Beethoven e l’ultimo movimento della Sonata di Mozart. Il secondo movimento dell’op. 10 n. 1 e` un grande Adagio con ricche ornamentazioni e con una coda incantata, che fu tenuta presente da Schubert per il secondo movimento della sua Sonata in do D 958 (1828). Il finale, con lo scatto imperioso del primo nucleo tematico e il secondo tema burberamente militaresco, corrisponde in pieno all’immagine della personalita` di Beethoven che e` divenuta la piu` popolare. Il terzo movimento finisce in modo maggiore, ma l’esito drammaturgico e` tragico: gli ultimi suoni svaniscono nel nulla e la scrittura pianistica impone all’esecutore l’incrocio della mano destra sulla sinistra, mimando con il braccio il gesto tipico del trage´dien morente che chiudendo il mantello si copre il viso. Dopo aver composto quattro Sonate (tre op. 2, una op. 7) di vaste dimensioni, nelle prime due Sonate dell’op. 10 Beethoven ritorna a proporzioni piu` tradizionali e alla struttura in tre movimenti – tipicamente mozartiana – invece che in quattro. La Sonata op. 10 n. 2, per di piu`, non ha al centro un movimento in tempo lento ma un Allegretto in forma di scherzo con trio. In forma di scherzo con trio, si badi, solo in forma, perche´ il secondo movimento, dal punto di vista dell’espressione, non e` uno scherzo (e non e` un minuetto), ma preannuncia semmai gli allegretti di Schubert. Molto singolare e` poi il colore timbrico di questo secondo movimento, delicatissimo come uno studio sui grigi. Il primo movimento e` scoppiettante di umorismo e pieno di trovate e trovatine brillantissime, fra cui, alla Haydn, la falsa riesposizione che trae in inganno l’ascoltatore Il finale, anch’esso burlesco, inizia a modo di fugato ma abbandona ben presto la scrittura contrappuntistica. Nel giovane Beethoven, al contrario di cio` che avverra` nel Beethoven maturo, i procedimenti contrappuntistici assolvono a una funzione di gioco umoristico. Si potrebbe percio` dire che Beethoven, dopo aver scherzato allegramente sul buon tempo antico, scoprisse il fascino non del ritorno nostalgico al passato ma del ritorno del passato. Come ho appena fatto osservare, le prime due Sonate dell’op. 10 sono ‘‘piccole’’ di proporzioni e in tre movimenti. La Sonata n. 3 e` in quattro movimenti e con un grande movimento lento, il Largo e mesto. Beethoven compone qui una tipica sonata di intrattenimento, con forti contrasti di tono espressivo fra i quattro movimenti: virtuosistico e brillantissimo il primo, che e` come uno studio di colori puri accostati, senza impasti, tragico il secondo movimento, pagina nella quale il doloroso pathos beethoveniano tocca uno dei suoi culmini piu` alti, tenero il terzo, umoristico e improvvisato-

Sonata in Si bemolle op. 22

rio il quarto. Una sonata di intrattenimento, dicevo, che consente anche all’interprete di sfoggiare scale scintillanti, staccati incisivi, suono cantante in tutti i registri, colori pastello, jeu perle´ leggerissimo, velluto, ecc. ecc. Il Largo e mesto, vera e propria scena teatrale con quattro personaggi, coro e orchestra, fu in passato famosissimo e sollevo` commenti entusiastici a scapito degli altri tre movimenti. Il fascino della Sonata op. 10 n. 3 nasce invece proprio dalla sua mutevolezza espressiva, e dal fatto che nel primo e nel terzo movimento il banale delle figurazioni pianistiche convenzionali – le scale – venga elevato a categoria artistica, un po’ come nella ‘‘comica finale’’. Storicamente troviamo un precedente, alla Sonata op. 10 n. 3 di Beethoven, nella Sonata K 280 di Mozart, che pero` e` in tre movimenti e nella quale i contrasti sono meno accentuati; nelle altre sonate di intrattenimento, molto numerose nel periodo classico, i contrasti non vengono spinti fino a comprendere, accanto al comico, il tragico. Beethoven porta dunque alle estreme conseguenze un tipo di organizzazione tradizionale della sonata; dopo di che, di sonate di intrattenimento non ne scrivera` piu`. La Sonata in do op. 13, Grande Sonata Patetica (1798-1799, 1799) fu detta Grande perche´ pubblicata da sola invece che in una raccolta di tre, com’era d’uso, e Patetica perche´ coscientemente basata sul contrasto drammatico fra il ‘‘principio implorante’’ e il ‘‘principio d’opposizione’’ che Beethoven spiego` molto piu` tardi in una conversazione con Anton Schindler, riferendolo genericamente alla forma del primo movimento di sonata. Strutturalmente e` del massimo interesse, nel primo movimento dell’op. 13, il ritorno del Grave iniziale nel corso dell’Allegro molto e con brio. Molto importante e` pero` anche il fatto che il tema principale del Rondo` derivi dal tema di transizione del primo movimento: con l’op. 13 la sonata per pianoforte s’avvia decisamente verso la trasformazione da opera d’intrattenimento a poema in piu` parti collegate, la cui unitarieta` e` resa riconoscibile anche attraverso il ritorno di cellule tematiche unificanti. Dal punto di vista drammaturgico e` da notare la conclusione non tragica, e neppure trionfale, ma dolcemente rassegnata: un caso unico, nella produzione di Beethoven. Come ho detto prima, la Sonata op. 10 n. 1 e` detta Piccola Patetica. La tonalita` di do nel primo e nel terzo movimento, e di La bemolle nel secondo hanno suggerito il titolo, che e` pero`, se si fa caso alla rispettiva drammaturgia dell’op. 10 n. 1 e dell’op. 13, del tutto improprio. Lo sbocco della meditazione introspettiva, della ‘‘discesa nell’io’’ del secondo movimento porta nel finale dell’op. 10 n. 1 alla lotta tragica, e

Ludwig van Beethoven

porta nel finale dell’op. 13 alla malinconia della rassegnazione. L’op. 13 e` una sonata religiosa, cristiana, l’op. 10 n. 1 e` invece, semmai, una Piccola Appassionata, una sonata prometeica. Nel dramma in cinque atti Beethoven di Pietro Cossa, storicamente inattendibile e per certi aspetti persino ridicolo, la Patetica e` vista in relazione con una rivalita`, anche amorosa, di Beethoven e di Hummel, e con la consapevole rinuncia del primo. Il Cossa non era di certo un grande tragedia, ma cio` non toglie che, secondo me, egli abbia ben intuito l’archetipo drammatico che fa da presupposto ai caratteri cosı` particolari della Patetica. Anche le due Sonate in Mi e Sol op. 14 (1799, 1799) sono ‘‘piccole’’. Singolare la struttura della prima, in cui non si trovano ne´ il movimento lento ne´ il minuetto o lo scherzo, ma un secondo movimento che apre uno squarcio di luce sul mondo fatato dei Momenti musicali di Schubert. Il primo movimento, dopo avere esposto alcuni fra i temi melodicamente piu` piacevoli di Beethoven, presenta uno sviluppo occupato quasi per intero da una linea melodica del tutto nuova. In uno degli schizzi si trova, all’inizio dello sviluppo, l’annotazione ohne das Thema durchfu¨hren (senza sviluppare il tema). Questa precisa intenzionalita` ci dice che non tutte le Sonate di Beethoven sono drammatiche: nell’op. 14 n. 1, come nell’op. 7, l’ispirazione e` idilliaca, e piu` che di contrasti si puo` parlare di intensificazione dinamica di sentimenti affettuosi. Nel 1802, aderendo malvolentieri ad una richiesta dell’editore, Beethoven trascrisse la Sonata op. 14 n. 1, trasportandola in Fa, per quartetto d’archi. Anche la Sonata n. 2 e` di struttura assai singolare, ed e` evidente che Beethoven stava qui sperimentando non solo strutture meno imponenti ma anche un tono colloquiale da commedia borghese. Dopo un primo movimento tradizionale, molto melodioso e con tratti popolareggianti, troviamo nella Sonata n. 2 una serie di variazioni su un tema di marcia che richiama irresistibilmente le serenate notturne settecentesche, e uno Scherzo in forma ampliata che funge da finale. E` la prima volta che Beethoven introduce il tema con variazioni in una sonata, senza tuttavia indicarlo come tale: Andante, e basta. Con l’op. 14 n. 2, come ho gia` detto, la variazione entra di soppiatto nella sonata per assumervi una funzione rilevante, che diventera` evidente con l’op. 26 La Sonata in Si bemolle op. 22 (1799-1800, 1802) uscı` con dedica al conte Johann Georg von Brown, il quale, in occasione di una dedica alla moglie, aveva ricambiato la cortesia mandando a Beethoven un dono: un cavallo. Sı`, proprio un cavallo, perche´ il giovane Beethoven coltivava le re91

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lazioni sociali – era la sua strategia del consenso – anche passeggiando al Prater sulla groppa del quadrupede. Il pubblico non gradı` mai l’op. 22, che ancor oggi e` tra le meno note di Beethoven, sebbene abbia fatto parte del repertorio di Richter e di Benedetti Michelangeli. In verita`, l’op. 22 rappresenta una specie di congedo di Beethoven dal Settecento: anche se non conoscessimo la data di composizione sapremmo che fu pensata nel Settecento, mentre la successiva Sonata, l’op. 26, e` inequivocabilmente ottocentesca. Il lettore non creda che io stia giocando con le date: ascolti il primo movimento, virtuosistico in un modo che ricorda Clementi, ascolti il secondo movimento, che si apparenta ai movimenti lenti dei concerti per clarinetto del Settecento, ascolti il Minuetto, grazioso e tenero, che pare rievocare i momenti felici in cui il fantasma della Rivoluzione non aveva ancora turbato i sonni dei magnati viennesi, e ascolti il finale cerimonioso, con un primo tema che forse fu tratto da una Sonata di Ernst Wilhelm Wolff, del 1786. Non c’e` la prova documentale dell’eventuale... furtarello di Beethoven. E` pero` significativo il fatto che Beethoven prendesse lo spunto da un minore compositore dell’epoca precedente (fortemente inviso, sia detto per inciso, a Goethe) per imbastire una parodia stilistica non ironica ma affettuosa. Nei primi otto anni della sua residenza a Vienna Beethoven cerca, e trova l’affermazione presso il pubblico aristocratico e altoborghese per il quale la musica fa parte dell’educazione. Nel 1800, invitato dal coreografo Salvatore Vigano` a comporre la musica per il balletto Le creature di Prometeo, che va in scena nel 1801, scopre il pubblico del teatro. Questa scoperta ha importanti conseguenze sulla sua poetica, e non a caso Wilhelm de Lenz, esponendo la ben nota teoria dei tre stili, fa iniziare il secondo periodo dalla Sonata in La bemolle op. 26 (1800-1801, 1802). L’op. 26 comincia con un tema con variazioni e contiene una marcia funebre. Gia` Mozart aveva iniziato con un tema variato la Sonata K 311, con la quale cercava di ‘‘catturare’’ un pubblico piu` vasto di quello ordinario. Tuttavia le variazioni venivano abitualmente inserite nelle sonate come finale, ed e` percio` probabile che Beethoven, sempre preoccupato per il problema dei generi, che significava per lui rapporto con la storia, intendesse riallacciarsi in modo evidente a Mozart, facendosene scudo. Tema, cinque variazioni molto differenziate e coda: la forma piu` elementare, piu` semplice delle variazioni. Segue lo Scherzo. Sebbene non immediatamente evidente, la collocazione dello scherzo nella seconda posizione invece che nella terza, com’era sempre 92

Sonata in La bemolle op. 26

accaduto con Beethoven, rappresenta un’altra, e non secondaria novita`. Il cuore della composizione e` la Marcia funebre sulla morte d’un Eroe, molto realistica e molto teatrale, che con i suoi ritmi scanditi, i suoi squilli di trombe e i suoi rulli di tamburi e` una specie di manifesto di una poetica rinnovata. Il finale, sereno e scorrevole, intrigo` molto i primi commentatori. Edwin Fischer cosı` lo commento`, molto bonariamente: ‘‘[...] e` come se, dopo l’avvenuta tumulazione, una pioggia leggera cadesse consolatrice sulla tomba, quasi avvolgendola in un leggero velo grigio. La gente se ne e` andata e la natura ha detto la sua ultima parola’’. Una bella immagine, quella di Fischer. Ma e` evidente che la conclusione in modo maggiore della Marcia funebre simboleggia la concezione classica della Morte, sorella del Sonno, come passaggio a un’altra vita, e che il finale conclude quindi la Sonata in modo drammaturgicamente coerentissimo. Beethoven pubblico` con lo stesso numero d’opera ma in due fascicoli separati le due Sonata quasi una Fantasia in Mi bemolle e in do diesis op. 27 (1800-1801, 1802.) Nell’op. 27 n. 2 il carattere di fantasia e` dato dalla mancanza del movimento iniziale in tempo mosso, sostituito da un Adagio. L’op. 27 n. 1 e` piu` fantasia della consorella perche´ a un primo movimento anomalo rispetto alla tradizione (tema con variazioni, con due intermezzi) fa seguire direttamente uno scherzo con trio e poi, sempre direttamente, un Adagio introduttivo al finale, con la ripresa dell’Adagio prima della conclusione e una brevissima coda. Quattro movimenti, dunque, ma senza soluzione di continuita`, come nella Fantasia in do minore K 475 di Mozart. Il primo movimento, diceva Brendel, e` una ninnananna con l’intermezzo di una danza paesana. Ninna-nanna popolaresca, tanto popolaresca, con la sua insistenza su una cellula melodica elementare e con la sua schematicita` armonica, da spiacere oltremodo ad alcuni esegeti. Il commento di Donald Tovey, che con finta seriosita` si prende gioco dei chiosatori snob, e` finissimo: ‘‘Le ripetizioni del tema sono variate secondo il seguente processo, altamente intellettuale. Essendo il ritmo originario dum-dum-dum, la variazione e` dapprima dumdum-dum-dum-dum, variazione che nonpertanto, nella ripetizione della seconda frase, e` sviluppata come diddle-diddle-diddle-diddle-dum’’. Nel finale troviamo gli elementi gia` storicizzati di stile e di tecnica che in precedenza Beethoven aveva impiegato solo casualmente. Gia` nell’Adagio Beethoven realizza in un episodio la sfasatura della melodia sul basso accompagnante: procedimento che Mozart usa talvolta, e che alcuni trattatisti del principio dell’Ottocento consigliavano all’esecutore, in

Sonate in Sol, re e Mi bemolle op. 31

determinati casi, per rendere piu` espressiva l’esecuzione. Sempre nell’Adagio troviamo un trillo con notazione ritmica esatta del numero di ripercussioni. Nell’Allegro finale l’inizio simula un attacco di tema con sviluppo fugato, e sono poi abbastanza frequenti episodi in contrappunto doppio. E infine, troviamo nell’Allegro un tipo di tecnica, con le dita della mano sinistra frammezzo a quelle della destra, che risulta dal trasferimento sul pianoforte di un effetto tipico del clavicembalo con due tastiere. ‘‘Schiacciata’’‘ dalla celebrita` raggiunta ben presto dalla Sonata op. 27 n. 2, la n. 1 fu eseguita raramente durante l’Ottocento e il Novecento, e anche oggi non e` molto conosciuta. Ma si tratta di un esperimento di ricerca formale, peraltro di grande poesia, tra i piu` importanti nella produzione sonatistica di Beethoven. L’op. 27 n. 1 e` dedicata, in italiano, ‘‘a sua Altezza la Signora Principessa Giovanna Lichtenstein nata Langravio Fu¨rstenberg’’, l’op. 27 n. 2 e` dedicata ‘‘alla Damigella Contessa Giulietta Guicciardi’’. Celeberrima Sonata, la prima fra le Sonate di Beethoven a guadagnarsi una immensa popolarita` , l’op. 27 n. 2 fece molto fantasticare i commentatori a causa della dedica e del titolo apocrifo, Sonata al chiaro di luna, che comincio` a circolare negli anni trenta dell’Ottocento. La dedica a una fanciulla della buona societa` viennese che Beethoven amo` , non ricambiato, fece pensare a programmi inespressi di catastrofe amorosa, perche´ se il primo movimento e` elegiaco nella sua gravita` meditativa, e il secondo e` sereno nel suo andamento danzante, il finale e` tragico, tragicissimo. Non si puo` sapere con sicurezza quanto delle dolorose esperienze di vita di Beethoven sia confluito nella sua musica e, soprattutto, quanto direttamente. La Sonata op. 27 n. 2, al di la` di una fama persino imbarazzante perche´ nutrita dal sentimentalismo piccolo-borghese dell’Ottocento, e` pero` una composizione di altissima forza espressiva e di grande originalita` formale. La maggiore novita` e` rappresentata dalla sonorita` pianistica: ‘‘Si deve suonare tutto questo pezzo delicatissimamente e senza sordino’’, scrive Beethoven. Faccio notare che il ‘‘sordino’’ era un tipo di pedale che attutiva il suono e che venne presto abbandonato: Beethoven chiedeva dunque all’esecutore di ottenere la delicatezza con il tocco, senza l’intervento di un congegno meccanico. Un redattore della Allgemeine Musikalische Zeitung, recensendo la Sonata nel 1802, osservo` giustamente: ‘‘[...] l’autore ha indicato, per quanto si possa esprimere tal cosa per mezzo di segni convenzionali, l’interpretazione e anche il modo di servirsi del pianoforte in cio` che esso ha di eccellente e di suo particolare, maniera che Beethoven, a giudica-

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re dalle sue indicazioni e piu` ancora dall’insieme del piano e della disposizione delle idee, conosce come quasi nessun altro compositore per questo strumento. [...] Ma bisogna possedere uno strumento eccellente, se si vuol essere soddisfatti eseguendo la maggior parte dei suoi pezzi, per esempio il primo movimento dell’op. 27 n. 2’’. Il primo critico che si occupo` del Chiaro di luna, oltre ad aver notato la novita` della sonorita` pianistica, disse ancora, in poche parole, molte cose essenziali: ‘‘[...] nell’op. 27 n. 2 non c’e` assolutamente niente da non approvare. Questa fantasia, perfettamente omogenea, e` uscita d’un colpo solo, ispirata da un sentimento nudo, profondo e intimo, e per cosı` dire tagliato in un sol blocco di marmo’’. E` il primo, chiaro riconoscimento del fatto che la sonata era diventata con Beethoven poematica. La Sonata in Re op. 28 (1801, 1802), nota fin dal tempo di Beethoven come Pastorale, fu composta, come ho gia` detto, in un anno di grandi sperimentazioni. Con l’op. 28 abbiamo il ritorno alla tradizione, nel senso che questa Sonata e` interamente analizzabile in termini scolastici. La novita` consiste nel colore sonoro particolarissimo che, insieme con l’andamento danzante del finale, spiega e giustifica ampiamente il titolo apocrifo. Tutto il primo movimento – dai settantaquattro consecutivi re del basso, che si ripercuotono uno dopo l’altro all’inizio, al fa diesis che per trentotto battute martella alla fine dello sviluppo, ai sessantuno re ribattuti al basso con i quali si conclude – e` povero di contrasti vistosi e ricco invece di leggere vibrazioni di colori in un quadro sereno. La scrittura polifonica e` ricca, e nello sviluppo Beethoven impiega di nuovo il contrappunto doppio. In passato la Sonata op. 28 non fu molto apprezzata, salvo il secondo movimento, che divenne celebre gia` una trentina d’anni dopo la pubblicazione. Ecco il commento di Carl Czerny: ‘‘Questo Andante (che Beethoven stesso suonava molto volentieri), assomiglia a un semplice racconto, a una ballata antica, e come tale deve essere compreso’’. Tono di ballata, in verita`, nella prima e nella terza parte, che della prima e` la riesposizione variata, e nella coda, ma non nella parte centrale, di carattere fortemente pastorale. Il suono ribattuto, ripercosso su quattro ottave come un gioco di richiami en plein air, caratterizza lo Scherzo. E ancora trentuno re al basso ritmano il refrain del Rondo`. Nel Rondo` Beethoven usa in tre episodi una scrittura pianistica di sonorita` nuova: intorno a un suono tenuto della mano sinistra si muove una piccola melodia della destra in ottave spezzate, che la sinistra raddoppia in note semplici a due ottave di distanza. Le tre Sonate in Sol, re e Mi bemolle op. 31 93

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(1801-1802, 1803 e 1804) vennero vendute da Beethoven all’editore Na¨ geli di Zurigo, che nel 1803 pubblico` le prime due con il numero d’opera 29. Quando giunsero a Vienna le prime copie, Ferdinand Ries lesse al pianoforte le due Sonate mentre il Maestro scriveva lettere. C’era di che far andare la bile di traverso a Beethoven: molti errori di stampa e, addirittura!, nel primo movimento della prima Sonata, quattro battute aggiunte che il Na¨geli, essendo musicista, si era sentito in dovere di introdurre per far quadrare nelle sacrosante otto battute una frase ‘‘zoppa’’ di Beethoven. Infuriatissimo, Beethoven mando` le tre Sonate a un editore di Bonn suo amico, Nikolaus Simrock, che le pubblico` dapprima senza numero d’opera, poi come opera 31. Nel frattempo il Na¨geli, nel 1804, pubblico` la terza Sonata come opera 33. Ma non e` finita. Piu` tardi Beethoven vendette le tre Sonate all’editore Cappi di Vienna, che le pubblico` come opera 29 (Beethoven poteva cedere la stessa opera a vari editori, purche´ di paesi diversi, perche´ non esisteva ancora il copyright internazionale). Da tutto cio` nacque una catena di confusioni, per lungo tempo quasi inestricabili, perche´ nel corso dell’Ottocento molti revisori considerarono l’edizione Na¨geli come testo originale e ripubblicarono coscienziosamente la ‘‘variante Na¨geli’’, la piu` accademicamente giudiziosa. Le tre Sonate nascono nel periodo in cui l’impegno di Beethoven nel genere della sonata per pianoforte solo diventa persino assillante. Il 1802, il lettore lo ricordera`, credo, e` l’anno della lettera ai fratelli nota come Testamento di Heiligenstadt: lettera mai spedita in cui emergono la disperazione per la perdita dell’udito e la volonta` di superare la condizione di inferiorita` che della malattia e` l’inevitabile conseguenza. La Sonata op. 31 n. 2 riflette questo momento esistenziale; non cosı` le Sonate n. 1 e n. 3, che sono entrambe umoristiche, umoristiche fino alla monelleria. La Sonata op. 31 n. 1 e` costruita su elementi tematici di tenue spessore emotivo ed e` tutta volta verso l’esplorazione, se cosı` si puo` dire, della grazia e della tenerezza in un clima fortemente canzonatorio. La struttura del primo movimento rappresenta pero`, come ho gia` detto, il primo radicale esperimento di Beethoven sui rapporti di terza, considerati ‘‘impuri’’ dalla teoria perche´ la terza e` una ‘‘consonanza imperfetta’’ mentre la quinta e la quarta sono ‘‘consonanze perfette’’. La Sonata op. 31 n. 1 e` poco nota perche´ poco ‘‘beethoveniana’’ nel senso tremendamente sublime che il termine ha finito per assumere. Per chi non sdegni la comicita` di Beethoven il primo movimento e` invece, mi si passi il termine, esilarante. Il primo tema, con il curioso zoppichio 94

Sonate in Sol, re e Mi bemolle op. 31

delle due mani, il secondo tema con il suo andamento da polchetta e il brusco trapasso dal modo maggiore al modo minore, l’inconsueta rete delle tonalita` e la famosa frase ‘‘zoppa’’ non solo mettono di buon umore ma in piu` momenti muovono veramente le risa. E altrettanto si puo` dire di due o tre punti dell’Adagio grazioso per alcune impennate e sbrodolate vocalistiche che ricordano le fioriture dei cantanti evirati (l’esecuzione di Camille Saint-Sae¨ns, conservata in un rullo di pianoforte riproduttore, e` veramente di irresistibile comicita`). Fu piu` volte notata la somiglianza del tema dell’Adagio con un’aria della Creazione di Haydn e mi sembra chiaro che Beethoven fosse mosso da intenzioni satiriche, se non addirittura caricaturali, verso lo stile del virtuosismo belcantistico. Il finale e` un rondo`, con una bizzarra conclusione e con alcuni passi che fanno sudar freddo l’esecutore senza lasciar capire al pubblico quali scogli minaccino la gioiosa navigazione della barca. Beethoven ritorna al tipo del rondo` virtuosisticamente variato che aveva cosı` superbamente impiegato nella Sonata op. 2 n. 2. Ma qui il gioco non e` piu` innocente: l’intento satirico traspare dall’apparenza cosı` tranquillamente tradizionale e mozartiana del pezzo, e raggiunge il culmine in un pomposo contrappunto doppio su un doppio pedale di dominante. E` curioso, e significativo nello stesso tempo notare come il giudizio sull’op. 31 n. 1 diventi sempre piu` negativo nella seconda meta` dell’Ottocento, mentre si va formando il mito del Beethoven eroe prometeico. Si concedono a Beethoven i dolori del Re Lear e la coscienza morale di Prospero, ma non gli si concede la grassa allegria della Bisbetica domata. Arnold Schering era del parere che Beethoven avesse qui in mente proprio la Bisbetica domata, e sebbene non sia il luogo in questa sede per discutere le sue tesi, mi sembra che il suo richiamo indichi in modo suggestivo, per lo meno, quello che e` lo spirito animatore dell’op. 31 n. 1. Cosı` come la Sonata op. 27 n. 1 fu ‘‘schiacciata’’ dalla n. 2, l’op. 31 n. 1 fu schiacciata dalla n. 2, e ancor oggi e` tra le meno note di Beethoven. La Sonata n. 2 e` detta La Tempesta perche´ Beethoven, richiesto del suo significato (e del significato della Sonata op. 57), avrebbe risposto: ‘‘Leggete la Tempesta di Shakespeare’’. Cosı` racconto` Anton Schindler, il famulus di Beethoven a cui non tutti gli studiosi prestano un credito incondizionato (Josef Pembaur sostenne pero`, e non impropriamente, che il Largo con cui inizia il primo movimento puo` raffigurare il carattere di Prospero, e il successivo Allegro il carattere di Ariele). In Italia la Sonata fu detta in passato La Tragica, con evidente riferimento alla lettera ai fratelli che prima

Sonata facile in Sol

ricordavo, del 6 ottobre 1802, nota come Testamento di Heiligenstadt dal nome della cittadina in cui fu scritta. Sul piano formale e` rilevante nella Sonata op. 31 n. 2, e nuovo, soprattutto il primo movimento, sia perche´ l’Allegro e` preceduto da un brevissimo Largo che ritorna prima dello sviluppo e prima della riesposizione, sia per un piano tonale inconsueto, che Beethoven aveva gia` adottato in alcuni finali (op. 2 n. 1, op. 27 n. 2), ma mai in un primo movimento. La compresenza di Largo e Allegro richiama il primo movimento della Patetica. Questa volta, pero`, il rapporto e` piu` stretto perche´ nel brevissimo Largo viene semplicemente enunciato, staticamente, il tema principale dell’Allegro, che nell’Allegro acquista una potente spinta dinamica con il ritmo fortemente scandito che lo sostiene. Al terzo ritorno del Largo sorgono dal tema principale due recitativi (con espressione e semplice, scrive Beethoven, cioe` senza fioriture aggiunte) fra i piu` commoventi che il compositore abbia scritto. Beethoven prescrive che il pedale di risonanza rimanga tenuto per tutto il recitativo; tutte le edizioni dell’Ottocento, tranne quelle di Czerny e di Reinecke, eliminano questa indicazione, ma sembra indubitabile che Beethoven volesse proprio l’effetto di impurita` sonora generato dal pedale. Czerny scrisse nel suo Metodo che ‘‘il pedale viene tenuto durante il recitativo, che deve risuonare come da una grande lontananza’’. E si tratta di un effetto che proietta Beethoven verso la fine del secolo, verso il simbolismo. Il secondo movimento, alta e serena preghiera, e` bitematico senza sviluppo: esposizione, riesposizione, brevissima coda, secondo lo schema tipico della sinfonia teatrale italiana. Il finale a moto perpetuo, pagina ipnotica e angosciante, riprende la struttura bitematica e tripartita e l’impianto tonale del primo movimento. Il principio del bitematismo classico trova dunque applicazione, ed e` l’unica volta che cio` accade in Beethoven, in tutti i tre movimenti di una sonata. Tutte le Sonate dell’op. 31 sono, per motivi diversi, sperimentali. La terza, per la prima e unica volta nella produzione di Beethoven, e` un lavoro in quattro movimenti senza il movimento lento. Lo Scherzo, inoltre, non e` in misura ternaria ma binaria, e non e` in forma di scherzo con trio ma di primo movimento di sonata. Il titolo apocrifo La Caccia con cui la sonata e` comunemente nota e` dovuto sia al finale, che presenta tutti i caratteri delle musiche da caccia settecentesche (nella parte della mano sinistra viene persino inserita la ‘‘stecca’’ del corno), sia al rapporto fra il primo tema del primo movimento e il Lied Der Wachtelschlag (Il Canto della Quaglia), composto in verita` dopo

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la Sonata, e cioe` nel 1803, ma che rappresenta per cosı` dire un indizio di ambientazione naturalistica della Sonata stessa. Il primo movimento presenta in prevalenza un piccante gioco pianistico, disegni angolosi, e una scrittura galante con uso del basso albertino nelle sue piu` tradizionali e meccaniche applicazioni. Siamo anche qui entro quel processo di riflessione sul passato che si trova nell’op. 31 n. 1. Dal punto di vista della scrittura pianistica lo Scherzo e` caratterizzato dall’uso costante dello staccato, che in Beethoven, grande maestro del legato e del legato iperespressivo, non e` frequente, e si nota la sovrapposizione di staccato e di tenuto che aveva interessato Beethoven fin dal secondo movimento della Sonata op. 2 n. 2. La didascalia del Menuetto e` moderato e grazioso: la danza settecentesca, qui come in altre composizioni di Beethoven, diventa il simbolo di un mondo scomparso, rievocato con un pizzico di nostalgia. Il finale e` non solo musica di caccia, ma quasi una tarantella, ritmicamente vorticosa. E` da riferire un curioso giudizio riguardante questa Sonata. Il pianista Charles Halle´, che per l’op. 31 n. 3 aveva una predilezione e che con essa esordı` a Londra nel 1848, ci racconta nelle sue memorie che, avendola fatta ascoltare a Chopin a Parigi, si sentı` seccamente rispondere dal grande polacco: ‘‘E` molto volgare’’. Beethoven compose una Sonata facile in sol-Sol (1798, 1805) e una Sonata facile in Sol (1796, 1805), che pubblico` insieme pensando probabilmente di venire cosı` incontro a una richiesta del mercato dei dilettanti, grandi consumatori di novita` musicali di non ardua esecuzione. Nel 1803, come abbiamo visto, egli aveva pubblicato come opera 33 sette Bagatelle, titolo che e` tutto un programma. E cosı` assegno` alle due Sonate facili il numero d’opera 49. Il facile di Beethoven significa lievita` di contenuti e tecnici e musicali ed emotivi, e non significa affatto faciloneria. La Sonata op. 49 n. 1, come del resto la n. 2, e` un piccolo gioiello in cui la adolescenziale malinconia del primo movimento in sol viene bilanciata dalla gaiezza leggera del secondo tempo in Sol. Piu` un dittico Biedermeier avanti lettera che una sonata, sia pur facile. Ma Beethoven era anche poeta del quotidiano e del familiare. Le sonate facili e le sonatine godevano di un ricco mercato alla fine del Settecento e non erano ancora, al contrario di quanto sarebbe accaduto piu` tardi, appannaggio di specialisti: basti pensare alla Sonata per principianti K 545 di Mozart. Si da` pero` lo strano caso che la K 545, rimasta nel cassetto del suo Autore, venisse pubblicata proprio nel 1805 dallo stesso editore che pubblico` l’op. 49 di Beethoven. Qualcosa di singolare dovette evidentemente accadere, ma non 95

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siamo in grado di risolvere il piccolo giallo. La Sonata op. 49 n. 2 e` perfetta come lavoro didattico ed e` anche molto gradevole. Il secondo tempo venne poi inserito da Beethoven, con aggiunta di un nuovo episodio, nel Settimino op. 20. Non si possono capire i caratteri singolari della Sonata in Do op. 53 (1803-1804, 805) se non si considera la svolta stilistica, e ancor piu` ideologica, rappresentata nel catalogo delle opere di Beethoven dalla cosiddetta Sonata a Kreutzer op. 47 per violino e pianoforte, composta fra il 1802 e il 1803 e presentata al pubblico dall’Autore, insieme con il violinista George Augustus Polgreen Bridgetower, in un caffe` del Prater. Beethoven aveva eseguito la sue Sonate per pianoforte solo, per pianoforte e violino e per pianoforte e violoncello nei saloni dell’aristocrazia e per un pubblico di invitati, mentre per il pubblico generico, quello dei teatri, aveva eseguito i Concerti (e una sola Sonata, quella con corno op. 17, inserita in un concerto del cornista Wenzel Stich). La Sonata op. 47, come recita il titolo scelto da Beethoven, e` scritta ‘‘in uno stile molto concertante, quasi come d’un concerto’’. Sonata pensata, dunque, per l’esecuzione pubblica. E Beethoven, come dicevo, la eseguı` nella sala di un caffe` del Prater, a mezzogiorno, il 15 maggio 1803. Caffe`-concerto, potremmo dire oggi, luogo aperto a un pubblico generico in cui si esegue musica di intrattenimento. E` difficile per noi, in verita`, pensare alla Kreutzer come a musica di intrattenimento, ma questa era l’intenzione di Beethoven, che estese l’esperienza dell’op. 47 alle Sonate per pianoforte solo op. 53 e op. 57, senza tuttavia eseguirle in pubblico. La Sonata op. 53 e` semplice di struttura, molto virtuosistica di scrittura, impaginata con frequenti colpi di scena: in una parola, spettacolare e facile da capire. L’aspetto di sperimentalismo sul linguaggio, che in Beethoven non e` mai assente, riguarda invece l’impianto tonale del primo movimento, che non e` tradizionale e che e` simile a quello dell’op. 31 n. 1. Ma ancor piu` interessante e` la sperimentazione sul suono pianistico, e in particolare sull’uso del pedale di risonanza, con il quale vengono creati nel finale effetti, come dire?, di nebbia, di suoni misteriosi che si accavallano l’uno sull’altro come se provenissero da campane lontane. La Sonata e` dedicata al conte Waldstein, protettore di Beethoven fin dai tempi di Bonn, e percio` e` detta Waldstein-Sonate. Ma in Francia fu detta Aurore, e in Italia L’Aurora. Questa denominazione e` oggi desueta, e tuttavia non nacque assolutamente a caso. Gli episodi del Rondo` con impiego ‘‘impressionistico’’ del pedale di risonanza e la sonorita` misteriosa dell’Adagio che introduce il Rondo` danno l’idea del sorgere del 96

Sonata in Do op. 53

sole sulle nebbie del primo mattino. Ma alla estrema morbidezza sonora e alla impurita` armonica di alcuni episodi si contrappone la sonorita` violentemente luminosa degli altri episodi del Rondo` . Manca invece completamente il suono cantabile. La difficolta` della Sonata, che impegna il pianista in modo molto severo, consiste dunque nella necessita` di raggiungere gli estremi opposti dell’esecuzione pianistica senza potere del resto sfruttare il campo medio della cantabilita`. Ma questo carattere denuncia secondo me una volta di piu` la teatralita` del pezzo, perche´ il cantabile pianistico, per quanto paravocalistico potesse essere, non era in grado di emozionare un pubblico generico quanto lo emozionava invece la voce. La Sonata in Fa op. 54 (1804, 1806) contrasta violentemente con le due Sonate che le stanno ai fianchi, l’op. 53 e l’op. 57. Le Sonate op. 53 e op. 57 sono virtuosistiche, dirette, turgide, drammatiche fino alla teatralita` , tutte proiettate verso la conquista di una dimensione concertistica, cioe` pubblica, della sonata per pianoforte solo. La Sonata op. 54, in due movimenti entrambi in Fa, e` invece una rivisitazione manieristica della sonata rococo` . Il primo movimento e` un minuetto con trio: tre volte compare il minuetto, due volte il trio, e ogni volta che il minuetto ricompare viene variato, fissando sulla carta l’ornamentazione improvvisata che durante il rococo` era stata un diritto e una prerogativa dell’esecutore (ma si potrebbe anche dire che Beethoven riprendeva l’idea di Carl Philipp Emanuel Bach, autore di sonate dimostrative ‘‘con riprese variate’’); una cadenza vocalistica sfocia alla fine in una coda incantevole, sognante, che preannuncia l’estatica fine del primo movimento nella Fantasia op. 17 di Schumann. Il trio del minuetto e` nettamente ironico, quasi caricaturale: un esercizio pianistico sulle ottave e sulle seste, svolto in gran parte a canone. Il secondo movimento e` una toccata a due voci, un moto perpetuo che sarebbe persino banale se non fosse condotto attraverso una rete tonale tutt’altro che rococo`. Ma che cosa aveva mai in mente Beethoven, mentre inseriva l’op. 54 fra l’op. 53 e l’op. 57? Stava sı` cercando un orizzonte nuovo, lo scrutava, lo spiava, e intanto gettava l’occhio all’indietro, con un’ironia affettuosa nella quale non mancava l’amore per un mondo scomparso e non piu` raggiungibile. Avevo detto prima che Beethoven era anche un poeta del quotidiano. Nell’op. 54, come in altre pagine posteriori, egli e` il poeta delle memorie, delle memorie che non si cancellano mai. La Sonata in fa op. 57 (1804-1805, 1807) fu scritta nel periodo in cui Beethoven, dopo aver scoper-

Sonata in Sol op. 79 (Sonatina)

to, come gia` detto, il teatro, inizia a comporre l’opera Il fuoco di Vesta, che verra` presto abbandonata, e poi la Leonora, prima versione del Fidelio. Comporre per il teatro volle dire per Beethoven non solo affrontare nuovi problemi di drammaturgia, ma anche considerare la psicologia di un pubblico diverso da quello, aristocratico e altoborghese, e comunque colto, al quale si era fino ad allora rivolto. Nella Sonata op. 57, come nella Sonata op. 53, come nella Sonata per violino e pianoforte op. 47, Beethoven tende nello stesso tempo verso la semplificazione dei contenuti e verso la spettacolarita` della forma. Nessuna di queste tre opere, come ho gia` fatto notare, contiene l’adagio introspettivo che caratterizza molte Sonate precedenti, nessuna di esse contiene lo scherzo o il minuetto. Nell’op. 57 i temi del primo movimento sono soltanto due principali e due secondari (il secondo tema principale, per di piu`, deriva dal primo), e nel finale si trova in pratica un solo tema principale con alcuni elementi tematici complementari; la chiusa del finale, come nell’op. 53, e` in tempo molto piu` rapido, ed e` eccitante per il pubblico. Ogni tema e` fortemente caratterizzato rispetto agli altri, e la tensione emotiva non conosce soste. Si tratta in pratica del manifesto di un nuovo tipo di pianismo, oratorio, rivolto verso il pubblico del teatro e della grande sala invece che verso il pubblico del salotto intellettuale. Tuttavia Beethoven, dopo aver fatto un esperimento di esecuzione pubblica dell’op. 47, un esperimento risoltosi in modo insoddisfacente, non ‘‘lancio` ’’ l’op. 57 in concerto. La Sonata divenne popolare quando Liszt invento` il recital, e fu nota con il titolo Appassionata datole dall’editore Cranz di Amburgo. La dedica al conte Franz von Brunswick, fratello di The´re`se, mise in moto nell’Ottocento un meccanismo da giallo: Beethoven avrebbe dedicato la Sonata, apertamente, al fratello e, segretamente, alla sorella, della quale si diceva fosse stato innamorato. Si supponeva, fantasticando alla grande, che Beethoven e la Brunswick si fossero fidanzati segretamente, con l’approvazione di Franz, che non avessero potuto sposarsi per motivi di convenienza sociale e che fossero rimasti fedeli l’uno all’altra fino alla morte. La scoperta del diario di The´ re` se dimostro` invece che la contessina non mancava di intrattenere spensierati rapporti sessuali con i servitori di casa Brunswick. Ma prima che cio` diventasse palese Eric Blom cerco` una spiegazione in chiave psicanalitica della Sonata, che nel suo presunto contrasto di attrazione fisica e di attrazione spirituale rifletterebbe l’innamoramento di Beethoven per le due sorelle Brunswick, la bella ed estroversa Josephine e la malaticcia (ov-

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vero bruttina) The´ re` se. E` ormai accertato senza ombra di dubbio che fra Beethoven e The´re`se non esistette il legame amoroso di cui si era favoleggiato: sembra inoltre probabile che la passione amorosa fra Beethoven e Josephine, reale e documentata dalle lettere, sia esplosa piu` tardi, e quindi la supposizione di una intenzione segreta nella dedica dell’op. 57 e` una di quelle affermazioni gratuite alle quali ciascuno puo` credere o meno, a seconda della immagine piu` o meno romanzata che si e` fatta di Beethoven. Dedicata ‘‘a` Madame la Comtesse The´ re` se de Brunswick’’ e` invece la Sonata in Fa diesis op. 78, (1809, 1810), che cronologicamente veniva dopo l’Appassionata e che ottenne nell’Ottocento un plebiscito di riprovazioni da parte dei commentatori, specialmente da quando si credette, a torto, come ho appena detto, che nella dedicataria fosse da riconoscere l’Immortale Amata di una celebre lettera di Beethoven. Oggi l’assegnazione del titolo di Immortale Amata e` stata decisa per lo meno al 99% in favore di Antonia Brentano, e The´ re` se von Brunswick e` comunque uscita definitivamente dal novero delle possibili pretendenti al trono. Il mondo di oggi ammira dunque senza riserve quel piccolo gioiello re´tro che e` la Sonata op. 78, di delicatissimo colore strumentale e tutta volta verso la riscoperta del passato prossimo, del passato emblematicamente rappresentato da Carl Philipp Emanuel Bach, le cui musiche intimistiche per tastiera vennero studiate da Beethoven (ce lo attesta una sua lettera proprio nel 1809). La Sonata e` in due movimenti, la scrittura e` neoclavicembalistica per lo meno nel secondo movimento, e leggera e delicata nel primo. Il particolare colore e` timbrico e` dovuto al fatto che la tonalita` di Fa diesis comporta l’impiego di tutti i tasti neri, e quindi una posizione delle dita piu` allungata del solito. Una regola spesso citata a sproposito dice che nel periodo classico era vietato usare pollice e indice sui tasti neri. In realta` questa regola riguardava soltanto la diteggiatura delle scale, perche´ sarebbe altrimenti stato impossibile eseguire non solo la Sonata op. 78, ma gia` la Sonata op. 27 n. 2. La Sonata in Sol op. 79 (1808-1809, 1810) uscı` a Lipsia con il titolo Sonatina e per questa ragione fu talvolta esclusa nelle esecuzioni della ‘‘integrale’’ delle Sonate di Beethoven. In Germania la Sonatina, o Sonata op. 79 e` nota con il titolo Il Cuculo, dovuto all’intervallo di terza minore che compare insistentemente, in funzione melodica, nella sezione centrale del primo movimento. Il primo movimento, Alla tedesca, e` un La¨ ndler, di scrittura agevole ma molto brillante; la stessa cellula tematica dell’inizio, per moto contrario, verra` 97

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impiegata nel Alla danza tedesca del Quartetto op. 130. Il dolcissimo secondo movimento precorre le Barcarole di Mendelssohn. Il finale, che per una sonatina non e` affatto facile poiche´ pone non semplici problemi di indipendenza ritmica fra le due mani, e` graziosissimo, birichino, e richiama lo stile di Haydn. Nel primo movimento, come nel primo movimento dell’op. 78, Beethoven mantiene l’uso dei due ritornelli, e questo e` un altro segno di arcaismo che spiaceva a quei commentatori per i quali l’evoluzione creativa di Beethoven era progresso verso la perfezione. Il secondo ritornello era stato eliminato a partire dal primo movimento dell’op. 7, il primo ritornello era sparito nell’op. 57. Che ci stavano dunque a fare, i due scandalosi ritornelli dell’op. 78 e dell’op. 79? Erano la spia di una inconcepibile regressione... Parecchie Sonate di Beethoven sono note con titoli, ma soltanto due di esse furono intitolate dall’Autore: l’op. 13, Pathe´ tique, Patetica, e l’op. 81a, Das Lebewohl, L’Addio. La Sonata in Mi bemolle op. 81a (1809-1810, 1811), che fu pubblicata con l’aggiunta della a al numero d’opera 81 perche´ Beethoven si era dimenticato di avere gia` assegnato quel numero a un’altra composizione, reca un titolo programmatico in quanto la sua nascita e` legata a una precisa esperienza di vita. Nel 1809 gli eserciti austriaco e francese si fronteggiarono, e fu subito chiaro che il primo avrebbe avuto la peggio. Il 4 maggio la corte imperiale austriaca, di cui faceva parte l’arciduca Rodolfo, allievo di Beethoven per la composizione, fuggı` da Vienna, che venne occupata dai francesi il 12. Durante l’occupazione, che duro` fino al 20 novembre (ma la corte rientro` a Vienna solo il 30 gennaio 1810), Beethoven copio` a mano per il suo allievo alcuni squarci di opere di teoria musicale. Oltre a questo segno di amicizia manifesto` all’arciduca il suo affetto iniziando a comporre la Sonata il 4 maggio stesso, e annotando sul primo abbozzo ‘‘scritto col cuore per Sua Altezza Imperiale’’. Sui tre primi bicordi traccio` la parola Le-be-wohl, intesa di solito come ‘‘addio’’ ma che significa letteralmente ‘‘vivete bene’’. E all’arciduca, ovviamente, la Sonata venne dedicata. Quando la Sonata fu pubblicata l’editore preferı` il titolo Les Adieux perche´ il francese era la lingua correntemente impiegata dalle classi colte di tutta l’Europa. E Beethoven si arrabbio` e protesto`, sostenendo che ‘‘addio’’ si dice a chiunque e ‘‘vivete bene’’ solo a una persona cara. Il Le-be-wohl e` basato sulle note che venivano suonate dal corno del postiglione per annunciare la partenza della carrozza. Oltre a questo elemento naturalistico l’ascoltatore potra` notare, all’inizio dell’Allegro, il ritmo che tradizionalmente simbo98

Sonata in Mi bemolle op. 81a

leggia il galoppo dei cavalli e, poco piu` oltre, un movimento continuato del basso che puo` essere riferibile allo scorrimento delle ruote della carrozza sul selciato. Il Lebewohl domina tematicamente tutto il primo movimento ed e` presentato alla fine in due canoni che simboleggiano l’incrociarsi dei ‘‘vivete bene’’ fra i due amici al momento della separazione. Il primo canone e` limitato all’aspetto melodico della cellula tematica, il secondo estende l’imitazione canonica anche all’aspetto armonico, provocando incontri durissimi che parvero inconcepibili ai contemporanei. E Ferdinand Ries, che pure era stato allievo di Beethoven, dovette pensare che il dolore per la partenza dell’arciduca avesse fatto dare di volta il cervello al Maestro, tanto che semplicemente soppresse il canone incriminato. Il secondo movimento e` intitolato Abwesenheit, Assenza, e il terzo Das Wiedersehen, Rivedersi, ed entrambi illustrano pienamente le loro denominazioni programmatiche. Gli elementi onomatopeitici e programmatici della Sonata diedero luogo nell’Ottocento a una curiosa disputa fra chi provava imbarazzo di fronte a esplicite dichiarazioni di contenuti, e quindi tendeva a considerarle aggiunte per calcolo al fine di compiacere l’arciduca, e chi invece trovava banale che i contenuti fossero riferiti a un amico altolocato e cercava quindi la radice emotiva del pezzo in una donna di cui Beethoven era innamorato (e The´re`se von Brunswick diventava allora la candidata piu` gettonata). Questa disputa non ha da gran tempo piu` ragione d’essere e noi possiamo tranquillamente ammirare la concisione e la chiarezza formale della Sonata e i suoi simboli riferiti a un sentimento cosı` nobile e disinteressato e raro qual e` l’amicizia. Nella Sonata in mi-Mi op. 90 (1814, 1815), dedicata al principe Moritz Lichnowsky, colpiscono subito due caratteristiche insolite: una composizione di grandi dimensioni (non di piccole dimensioni come l’op. 78) in due movimenti invece che in tre o in quattro, con titoli e principali didascalie in tedesco. La scelta della lingua fu sicuramente dovuta all’insorgere del sentimento nazionale tedesco, provocato dalle guerre fra l’Austria e la Francia e dalla caduta dell’Impero Francese. La grande architettura in due soli movimenti e` invece una felice sperimentazione che apre la via alla Sonata op. 111, ultima e conclusiva creazione nel catalogo beethoveniano. Si usa dire che la Sonata op. 90 e` in mi: in mi e` in realta` il primo movimento, mentre il secondo e` in Mi. E il passaggio dal minore al maggiore senza l’intermediazione di un’altra tonalita` crea un contrasto forte, persino violento, non insolito nella dialettica compositiva di Beethoven ma qui presentato, per cosı` dire, allo stato puro. Il

Sonata in Si bemolle op. 106

primo nucleo dell’op. 90 e` ancora il tema Lebewohl (con una variazione di intervalli perche´ il pezzo e` in modo minore), e il secondo movimento inizia con quello stesso nucleo per moto contrario: Beethoven, come fara` poi negli ultimi Quartetti, si sofferma a lungo su certe cellule tematiche e le sfrutta intensamente. Anche nel primo movimento dell’op. 90 c’e` un canone sul Lebewohl, e naturalmente saltano di nuovo fuori gli incontri durissimi, complicati ancora dal fatto che il canone si svolge, in parte, all’unisono anziche´ all’ottava. Qualche commentatore noto` che il radicale contrasto fra i due movimenti potrebbe essere messo in relazione con la vicenda personale del dedicatario, innamorato di una donna di condizione sociale inferiore alla sua, che sposo` dopo lunghi tentennamenti: e quindi, lotta fra la mente e il cuore, e colloquio con l’amata. Il Novecento fu categorico, nel respingere le storie di questo tipo: oggi siamo un po’ piu` tolleranti, e domani, chissa`. La divisione dell’opera di Beethoven in tre ‘‘periodi’’ o ‘‘stili’’, che risale a Wilhelm de Lenz e che, pur essendo molto discussa, divenne moneta corrente nella critica beethoveniana dell’Ottocento e le cui fortune non tramontarono mai del tutto nel Novecento, fa iniziare l’ultimo periodo dalla Sonata in La op. 101 (1816, 1817). Tutti i commentatori, sia che dividano, sia che non dividano l’opera di Beethoven in piu` fasi, dicono del resto che con la Sonata op. 101 succede qualcosa, qualcosa di importante e nello stile e nell’espressione musicale. Una svolta molto netta. A che si deve attribuirla? La risposta a questa domanda intreccia necessariamente vicende personali e vicende politiche. Nell’ultimo scorcio del 1814, durante la prima fase del Congresso di Vienna, parecchie musiche di Beethoven vennero eseguite e furono molto ammirate dal pubblico internazionale dei diplomatici di tutti i paesi e dei loro familiari che per l’occasione era convenuto nella capitale austriaca. Ma poi l’interesse del pubblico si sposto` verso altri musicisti, come Hummel e Moscheles, che alla chiusura del Congresso (giugno 1815) avevano del tutto scalzato Beethoven nel favore del pubblico. Nel novembre del 1815 morı` il fratello minore di Ludwig, Karl, che nel testamento affido` la tutela dell’unico figlio, congiuntamente, a Beethoven e alla vedova. La tutela, confermata dal tribunale il 9 gennaio 1816, rappresento` per Beethoven un compito gravosissimo, che lo mise in lotta con la cognata e con il ragazzo stesso. Affanni familiari, delusione per la mancata diffusione delle sue opere, profondo contrasto con le linee politiche liberticide che erano state imposte dal Congresso e che venivano rigidamente applicate in Austria, destinata a dive-

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nire in breve tempo uno stato di polizia. A tutto cio` si aggiunga l’aggravarsi della sordita` e si comprendera` come in questa tremenda situazione esistenziale Beethoven reagisse nell’unico modo che gli era concesso, e cioe` proiettando verso il futuro, in una dimensione profetica, la sua fede umanistica di intellettuale formatosi nell’Illuminismo. La ricerca di una espressione capace di dar forma a questi suoi sentimenti porta Beethoven verso rivoluzionarie ricerche sul linguaggio e verso l’ambizione di conciliare l’essenza della classicita`, cioe` lo sviluppo tematico e la forma-sonata, con l’essenza del barocco, cioe` il contrappunto e la fuga. Nella Sonata op. 101 troviamo diversi brevi canoni nella parte centrale del secondo movimento e un ampio fugato nella parte centrale del finale. Siccome il finale e` in forma-sonata, il fugato vi assume la funzione di sviluppo, e la compresenza di classico e barocco e` percio` lı`, lampante, dimostrativa. Ma le ricerche di Beethoven vanno oltre: il primo movimento viene citato nella parte che collega l’Adagio e il finale, l’espressione getta fasci di luce sul futuro: su Brahms (primo movimento), su Schumann (secondo movimento). Anche la sonorita` pianistica presenta tratti nuovi e rivoluzionari. Oltre all’uso avveniristico del pedale di risonanza, gia` attuato nelle opere 31 n. 2 e 53, Beethoven fa suonare il terzo movimento su una corda (mediante l’azione di un meccanismo comandato a pedale la tastiera viene spostata verso destra e i martelletti colpiscono una corda sola invece delle tre all’unisono) e fa passare gradualmente alle tre corde prima di citare il tema del primo movimento (Poco a poco tutte le corde). Nell’ultimo movimento vengono toccate le due note estreme della tastiera, che erano state aggiunte molto di recente da qualche fabbricante, e l’estrema tessitura grave viene sfruttata anche melodicamente. Il futuro si e` messo decisamente in marcia... La Sonata in Si bemolle op. 106 (1817-1819, 1819) e` detta Hammerklavier dal titolo della prima edizione viennese, Grosse Sonate fu¨ r das Hammerklavier, che significa semplicemente Sonata grande per la tastiera a martelli. Nel momento in cui il sentimento nazionale austriaco si era risvegliato dopo le sconfitte che l’antico sacro romano impero aveva patito a opera dell’imperatore francese parvenu, Beethoven si era sentito in dovere di coniare termini tedeschi che sostituissero quelli tradizionali italiani e francesi, e per arrivare allo Hammerklavier aveva persino consultato un linguista. Nelle Sonate op. 90 e op. 101 aveva usato il tedesco anche nelle indicazioni dei vari movimenti (Lebhaft o Geschwind invece di Allegro, Langsam invece di Adagio, e cosı` via). Nell’op. 99

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106 ritorno` ai termini italiani per le indicazioni di tempo, ma mantenne il tedesco Hammerklavier, che del resto non soltanto era esatto linguisticamente ma che aveva anche un precedente storico nel ‘‘cembalo di piano e forte detto volgarmente di martelletti’’ che era stato adottato nel 1732 dal pistoiese Lodovico Giustini. Questa imponente parola, Hammerklavier, in se´ e per se´ generica, divenne per i non-tedeschi – e anche per i tedeschi, che oggi si accontentano di Klavier o, per il pianoforte da concerto, di Flu¨gel – il maestoso portale di una sonata imponente, la piu` imponente di Beethoven e seconda soltanto per questo aspetto, in tutta la storia della letteratura pianistica, alla Seconda di Charles Ives, la Concord, Mass., 18401860. Con l’op. 106 Beethoven raggiunge le colonne d’Ercole dei quaranta minuti di durata, spingendo e l’esecutore e l’ascoltatore in una dimensione che richiede uno sforzo di concentrazione inusitato e difficilissimo da reggere. La forma e` nei primi tre movimenti quella tradizionale: allegro di sonata piu` ampio del solito, ma non proprio fuori misura, scherzo con trio di dimensioni normalissime, adagio smisurato in forma bitematica senza sviluppo (la stessa che troviamo, nella dimensione tradizionale, nel secondo movimento della Sonata op. 31 n. 2). Gia` l’Adagio sostenuto, mirabile pagina lirica di intensita` espressiva lancinante, mette a dura prova l’ascoltatore. Ma la vera sorpresa arriva con il finale, che inizia in modo improvvisatorio e vago e prosegue con una fuga gigantesca, una fuga a tre voci ‘‘con alcune licenze’’ nella quale il soggetto viene anche rivoltato sottosopra e viene anche presentato dalla fine al principio (cancrizzante, cioe` secondo la camminata dei gamberi). La vitalistica, travolgente fuga trova un breve momento di quiete in un seconda fuga su un dolcissimo soggetto, che funge da breve intermezzo, dopodiche´ la corsa sfrenata riprende. Fin dall’inizio dell’Ottocento Beethoven aveva preso a riconsiderare la fuga, rimasta dopo il tramonto del barocco a vivacchiare stentatamente nella musica sacra. Nelle Variazioni op. 35, nel terzo dei Quartetti op. 59, nella Sonata op. 101, nella Sonata op. 102 n. 2 per violoncello e pianoforte si trovano delle vere e proprie fughe, ed episodi a modo di fuga si trovano in parecchie altre composizioni. Con la Fuga dell’op. 106, pero`, Beethoven esagera, cioe` si misura orgogliosamente con tecniche contrappuntistiche sofisticate che non gli erano familiari, e dimostra di saperle piegare alla sua volonta` creatrice, sia pure ‘‘con alcune licenze’’. Non era ancora arrivato alla cima della Grande Fuga op. 133 per quartetto d’archi, ma vi si stava avvicinando a grandi passi. E l’ascoltatore non professionista, an100

Sonata in Si bemolle op. 106

che se non puo` capire intellettualmente quali procedimenti compositivi straordinariamente complessi vengano messi in atto, resta soggiogato dalla monumentalita` dell’architettura e dalla sua vibrante lucentezza. Ho parlato della teatralita` delle Sonate op. 53 e op. 57. La difficolta` esecutiva di queste due Sonate diventava un elemento di valutazione per un pubblico non colto ed era, diciamo cosı`, dimostrativa. Al tempo della Hammerklavier questo problema non rientrava invece piu` nell’ottica di Beethoven, che lo aveva risolto respingendolo. La Hammerklavier, enorme composizione, densissima di contenuti e di altissima difficolta` concettuale, e con uno smisurato Adagio, mentre l’adagio era assente nelle op. 53 e 57, era pensata come tragedia da lettura, esattamente come certi lavori drammaturgici nati prescindendo dal teatro, che pongono problemi quasi irrisolvibili quando se ne tenta la rappresentazione. A tentare la impossibile ‘‘rappresentazione’’ dell’op. 106, e a vincere la scommessa, fu Liszt. Nel 1837 Liszt si misuro` a Parigi cin Sigismund Thalberg, astro sorgente che minacciava di diventare il pianista dei tempi nuovi. Liszt ‘‘dimostro` ’’ che il rivale non poteva vantare tali ambizioni: si presento` al pubblico dell’Ope´ra (tremila posti), mentre Thalberg aveva suonato nella sala del conservatorio (quattrocento posti), e successivamente eseguı` nella piu` piccola Sala E´rard (circa quattrocento posti), appunto, la Hammerklavier. Di questa esecuzione abbiamo la recensione di Berlioz, che dice di aver tenuto sotto gli occhi il testo e di aver constatato che non una nota era stata eliminata. Liszt riuscı` dunque a far accettare al pubblico, abituato a durate che oscillavano dai dieci ai quindici minuti, con punte eccezionali intorno ai venti minuti, una durata superiore ai quaranta minuti, e riuscı` a rendere spettacolare un testo nato per la lettura. Berlioz, essendo musicista, in fondo aggiro` il problema vero perche´ tenne sotto gli occhi il testo scritto. Il problema affrontato da Liszt, e poi da tutti gli interpreti successivi, era pero` di far ‘‘capire’’, solo facendolo ‘‘percepire’’ esattamente, un testo che il pubblico non aveva sotto gli occhi e che, se lo avesse avuto sotto gli occhi, non avrebbe saputo leggere. E per rendere completa la ‘‘rappresentazione’’ Liszt eseguı` la Hammerklavier a memoria, creando simbolicamente anche per l’esecutore le condizioni ‘‘innaturali’’ in cui era stato messo il pubblico. Sembra molto probabile che, per raggiungere il suo fine, Liszt sfruttasse le scoperte e le esperienze fatte con la sua trascrizione della Sinfonia fantastica di Berlioz, pubblicata nel 1834. Avendo trascritto per pianoforte, e avendo eseguito in pubblico la

Sonata in La bemolle op. 110

trascrizione di una sinfonia strumentata per un organico orchestrale straordinariamente ricco di colori timbrici, Liszt aveva dovuto inventare una eccezionale varieta` di modi d’attacco del tasto, cioe` di varianti timbriche del suono pianistico, impiegando una gestualita` ‘‘ingrandita’’ che era insieme funzionale e spettacolare (le caricature del tempo ci fanno vedere un Liszt spiritato che solleva le mani, alte sopra la tastiera, e che la tastiera, di conseguenza, la aggredisce invece di maneggiarla con nonchalance). Sembra dunque probabile, come dicevo, che le scoperte effettuate con la trascrizione della Fantastica diventassero la chiave di volta per l’esecuzione della Hammerklavier, che veniva cosı` intesa – il lettore perdoni l’astrusita` del discorso, che e` pero` conseguenza diretta della complessita` dell’argomento – come una trascrizione per pianoforte da un immaginario originale per orchestra. La difficolta` della Hammerklavier non e` dunque tanto meccanica quanto coloristica: si tratta di virtuosismo, altissimo, del tocco. Che dai tempi di Liszt e` ancora aumentato perche´ il pianoforte moderno differisce sensibilmente dal pianoforte romantico, se non quanto a principi di costruzione, quanto a caratteristiche strutturali, e che offre magari qualche possibilita` in piu` ma che impone anche una maggior fatica. Beethoven comincio` a comporre tutte insieme le sue ultime tre Sonate. Comincio` nel 1819, continuo` a lavorarci mentre faticava sulla Missa solemnis. Ma le tre Sonate non vennero pubblicate insieme, con lo stesso numero d’opera, probabilmente perche´ i dilettanti di pianoforte, ai quali gli editori facevano riferimento, non accoglievano piu` le sonate con lo stesso entusiasmo d’un tempo. La Sonata in Mi op. 109 (1819-1820, 1821) fu ceduta all’editore Schlesinger, che aveva ‘‘casa’’ a Berlino e a Parigi e che pubblico` il pezzo con dedica a Massimiliana Brentano (la figlia dell’Immortale Amata). Dopo la Sonata op. 106, che adotta le strutture tradizionali, sia pure innestando su di esse la fuga barocca ma portandole ad una dimensione mai vista prima, la Sonata op. 109, di proporzioni normali, e` invece innovativa nella forma. Nel primo movimento Beethoven alterna infatti due tempi diversi, e non solo diversi ma radicalmente diversi, trattandosi di un Vivace ma non troppo e di un Adagio espressivo. E mentre il primo e` ritmicamente lineare, il secondo e` molto ornato. In un movimento di sonata l’alternanza di due tempi, non la compresenza di un tempo introduttivo e di un tempo principale come nelle opere 13 e 31 n. 2, presenta sempre ardui problemi architettonici. Beethoven qui li affronta, e li risolve: non li aveva mai affrontati prima e non li affronte-

Ludwig van Beethoven

ra` mai piu` in seguito. In forma bitematica e tripartita tradizionale e` invece il secondo movimento, che ha carattere di vivacissima danza popolare. Il finale e` formato da una serie di variazioni sopra una melodia molto cantabile e dolcemente luminosa, che secondo il Rolland e` imparentata con il primo Lied del ciclo All’amata lontana. Ora, il Rolland non poteva saperlo ma, come dicevo prima, nella madre della dedicataria fu identificata alla fine del secolo scorso l’Immortale Amata. Un caso? Un’inconscia reminiscenza? Un omaggio indiretto alla donna che era stata disposta a lasciare il marito per andare a vivere con Beethoven e che Beethoven non aveva avto il coraggio di accogliere sotto il suo tetto? Chissa`! Certo, l’empito di tenerezza amorosa pervade, dopo il tema, le variazioni, e culmina nella sesta variazione, che diventa un gioioso grido delirante prima di acquetarsi estaticamente nella ripresa conclusiva del tema. Le variazioni sintetizzano, pianisticamente, le diverse esperienze fatte con il secondo movimento dell’op. 53, il primo dell’op. 78, il secondo dell’op. 90, l’Adagio dell’op. 106 (fioriture melismatiche che potrebbero essere state scritte da Chopin). La sonorita` pianistica dell’ultima variazione e` di una morbida luminosita` che non ha riscontro in altre pagine dell’epoca: bisogna arrivare al Liszt dei Giochi d’acqua alla Villa d’Este, per ritrovare qualcosa di simile; e qualcosa di simile si ritrovera`, secondo Martin Cooper, nelle ‘‘imitazioni di sonorita` gamelan’’ di Debussy. Forma nuova, sonorita` nuove, quelle della Sonata op. 109. Ma si potrebbe anche dire che Beethoven avesse presente la prima delle tre Lezioni di Ha¨ndel: Preludio in arpeggi, Allegro vivace tripartito, Aria con variazioni. E i procedimenti contrappuntistici che si incontrano nelle variazioni ci dicono che la dimensione della storia era ormai penetrata nel linguaggio di Beethoven in un modo organico, non piu` come ripresa o citazioni di antichi procedimenti compositivi. La Sonata in La bemolle op. 110 (1820-1822, 1822) fu terminata, nella prima stesura, il 25 dicembre 1821. Il 25 dicembre si celebra il Natale di Cristo, e Beethoven era cattolico: il Natale non era dunque per lui una giornata come un’altra qualsiasi, e la data da lui apposta sul manoscritto di una composizione a cui aveva lavorato in modo intermittente per quasi due anni non sembra costituire un semplice dato di cronaca. La mancanza di dedica, del tutto inusuale in Beethoven, sollevo` altre osservazioni e fece pensare che la Sonata venisse tacitamente destinata a Dio, nel senso della Canzona di ringraziamento offerta alla Divinita` da un guarito del Quartetto op. 132. In verita` pare che Beethoven, dopo aver dedicato la Sonata op. 109 101

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a Massimiliana Brentano, intendesse dedicare l’op. 110 alla madre di lei, Antonia, che, come gia` detto, e` stata identificata al 99% come l’Immortale Amata. Quale che sia l’intima motivazione che mosse Beethoven nella creazione della Sonata op. 110 e nella rinuncia alla dedica, certo e` che un compositore non uso a cercar di intenerire l’ascoltatore non indica a caso didascalie, bilingui, come Klagende Gesang. Arioso dolente e Ermattet, klagend. Perdendo le forze, dolente. E` evidente che il cammino dall’Arioso dolente alla Fuga, seguito dalla ripresa dell’Arioso e dalla ripresa della Fuga, con la conclusione giubilante nella quale il soggetto diventa melodia, e` un cammino dall’afflizione piu` disperata alla catarsi. Ma tutta la Sonata, non solo la seconda parte di essa, tende verso il culmine, verso l’apoteosi delle ultime due pagine della Fuga. Dal punto di vista formale la Sonata op. 110 rappresenta una mirabile sintesi della classicita` e del barocco: primo movimento in forma-sonata classica, secondo movimento in forma di scherzo con trio, e poi una toccata barocca con introduzione, Arioso e Fuga. I problemi formali che Beethoven dovette affrontare per alternare l’Arioso e la Fuga sono testimoniati dagli schizzi e dalle correzioni e aggiunte apportate ancora dopo che il manoscritto definitivo era stato consegnato al copista. L’Arioso fu rifatto piu` volte e la prima parte della Fuga, soprattutto, fu per Beethoven un problema tormentoso di proporzioni fra gli episodi in cui domina il soggetto e gli episodi intermedi. Nella Fuga, a tre voci, le entrate complete del soggetto sono nove; e cio` fece sorgere il sospetto che Beethoven pensasse a una simbologia numerica (tre, la Trinita`, moltiplicato per tre). Anche la conclusione della Sonata, nella quale lo stile contrappuntistico a tre parti viene completamente abbandonato, lascia pensare che la volonta` di Beethoven seguisse un piano definito, realizzato in una forma musicale coerente. Nascita a Betlemme, tentazione nel deserto, passione, morte e resurrezione di Cristo, come pensano alcuni, con la identificazione nel Cristo di Beethoven? Potrebbe essere cosı`. La Sonata in do-Do op. 111 (1821-1822, 1822) fu pubblicata da Schlesinger contemporaneamente a Berlino e a Parigi, con dedica all’arciduca Rodolfo. L’ultima Sonata di Beethoven e` esattamente contemporanea dell’ultima Sonata di Weber e della Fantasia op. 15 di Schubert e della Polacca in sol diesis del dodicenne Chopin. Quattro grandi compositori, quattro composizioni diversissime che, messe insieme, raggiungono la durata di un recital: a scoprirlo fu il pianista bavarese Michael Braunfels, nato nel 1917, che porto` in tourne´e il programma ‘‘Musica del 1822’’. L’ultima Sonata di 102

Sonata in do-Do op. 111

Beethoven e` in due movimenti. Un vasto primo movimento con introduzione in tempo lento comportava di norma, nel 1820 o giu` di lı`, un successivo tempo lento e un finale. I contemporanei restarono molto sorpresi dall’op. 111, e Anton Schindler, lo studente che Beethoven impiegava come famulus per tante piccole incombenze quotidiane, chiese al Maestro perche´ mancasse il terzo movimento. Beethoven rispose che, essendo molto occupato (in verita` stava lavorando alla Missa solemnis e aveva iniziato la Nona Sinfonia), aveva preferito allungare un po’ il secondo movimento e rinunciare al terzo. Risposta scherzosa, che Schindler prese pero` sul serio e che venne spesso discussa nell’Ottocento. Da essa trasse lo spunto Thomas Mann nel romanzo Doctor Faustus. Nel Doctor Faustus il musicista Wendell Kretschmar tiene infatti una lezione-concerto intitolata ‘‘Perche´ Beethoven non ha aggiunto un terzo movimento alla Sonata per pianoforte, op. 111’’, servendosi di un concetto-chiave, quello della fine della sonata ‘‘come forma artistica tradizionale’’ che muore, appunto, con l’estatica Arietta dell’op. 111. Tesi affascinante, che ci dice come per la cultura tedesca la Sonata op. 111 potesse rappresentare la chiusura di un’epoca di grandezza inattingibile, il nec plus ultra posto da Beethoven-Ercole ai confini dell’arte. Thomas Mann dimenticava tuttavia che, sei anni dopo, Schubert-Ulisse avrebbe scritto la Sonata in Si bemolle D 960 e che le colonne d’Ercole avrebbero dovuto essere spostate un po’ piu` in avanti. Il primo tema del primo movimento era stato annotato in un quaderno di appunti del 1801. Theodor von Frimmel ritrovo` quel tema, quasi identico, nel Dardanus di Antonio Sacchini, che era andato in scena a Parigi nel 1784. Manca la prova documentale che Beethoven conoscesse l’opera di Sacchini. Il problema critico vero non riguarda tuttavia il tema ma cio` che con il tema si costruisce. Negli schizzi della Sonata (non nel quaderno del 1801) il tema e` trattato come soggetto di una fuga a tre voci di cui Beethoven annota le tre entrate e la conclusione. In un altro schizzo il tema e` scritto in valori metrici raddoppiati, viene fissato un controsoggetto e viene abbozzato uno stretto. Ad ascoltare il primo movimento dell’op. 111 sembrerebbe impossibile che Beethoven avesse pensato di fare, con il primo tema, qualcosa di diverso da cio` che poi fece. In realta`, gli studi sulle potenzialita` contrappuntistiche del tema vennero sfruttati da Beethoven nella versione definitiva, che presenta alcuni episodi in contrappunto doppio che simulano dei fugati e una esposizione di fughetta. Siccome Beethoven, impegnato con la Missa solemnis, studiava in que-

24 Variazioni su un tema di Righini in Re WoO 65

Ludwig van Beethoven

gli anni i dogmi del Credo, qualche commentatore vide nell’op. 109 la Creazione, nell’op. 110, come gia` ho accennato, la Nascita, Tentazione, Passione, Morte e Resurrezione, e nell’op. 111 il Giudizio Universale con la condanna dei reprobi (primo movimento) e l’ascesa al cielo degli eletti (Arietta). Questo tipo di interpretazione contenutistica fu respinto nettamente nel Novecento. Oggi si va piu` cauti prima di negare ogni rapporto fra la musica strumentale di Beethoven e l’evoluzione spirituale della sua personalita`, e seppure con estrema prudenza si stanno investigando gli elementi storici che possono permettere di meglio ricostruire la sua poetica senza inserirla aprioristicamente nel solco di teorie posteriori. L’Ottocento fatico` comunque ad accettare la Sonata cosı` come si presentava, e forse per questo motivo penso` che il contrasto radicale fra i due movimenti celasse una intenzione programmatica precisa. Il carattere del primo movimento, assai vicino ad alcune impetuose creazioni beethoveniane degli anni intorno al 1800, sembrava inconciliabile con l’estatica Arietta, con le sue deboli cadenze arcaiche senza l’accordo di settima, con le sue incantate variazioni e con la sua coda celestiale. I giudizi negativi sul secondo movimento furono percio` numerosi e la ‘‘giustificazione’’ della drammaturgia fu trovata nella contrapposizione reprobi-beati. La tesi di Thomas Mann si inseriva invece, quasi come un simbolo, nel tema della morte dell’arte, uno dei temi prediletti dal romanziere. Tutto il suo commento – affascinante non solo esteticamente, ma

anche come sintesi culturale della critica beethoveniana dell’Ottocento – si reggeva pero` sul filo di affermazioni sempre contestabili e si concludeva con un piccolo errore di fatto: ‘‘Poi finisce. Un seguito di terzine veloci e dure si affretta a formare una conclusione qualunque, che potrebbe benissimo stare alla fine di altri brani’’. Le cose non stanno cosı`, perche´ il nucleo generatore dell’Arietta, per il quale Mann riteneva adatte le parole ‘‘Tempo fu’’ o ‘‘Puro ciel’’, ricompare dopo le terzine ‘‘veloci e dure’’, e senza il suono aggiunto, do diesis, che in precedenza aveva dato la sensazione di un ‘‘addio per sempre’’. Difficile dire se il romanziere si identificasse con il suo personaggio aderendo ai concetti esposti da questi e non avvedendosi della loro ambiguita`, o se intendesse caratterizzare un ambiente sociale e culturale, offrendo nello stesso tempo al lettore gli spunti per una controcritica. L’osservazione sarebbe stata comunque piu` sottile se Mann avesse notato che nelle ultime battute il nucleo generatore dell’Arietta non compare soltanto con le note do-sol ma anche con l’inverso, sol-do, e anche con il fa-si che, come tutti sanno, era per i teorici medievali il diabolus in musica. E da qui si potrebbe persino partire per un divertissement teologico in cui non e` il caso di lanciarsi in questa sede. Non senza aver fatto pero` notare al lettore la dolorosa ma dolce tensione di quel fa-si che si scioglie nella beatitudine degli ultimi echi sonori di un poema musicale – possiamo dirlo? – ancora enigmatico.

Le Variazioni L’esordio di Beethoven avviene con le 9 Variazioni su una marcia di Dressler in do WoO 63 (1782, 1782), per le quali il Neefe trovo` un editore e che presento` in una rivista musicale dicendo che il suo allievo sarebbe diventato un secondo Mozart. Le Variazioni presentano, com’era ovvio in un debuttante, un campionario tecnico, al modo della variazione-studio, con un finale in modo maggiore. Curiosa e divertente come una barzelletta, piu` delle Variazioni, e` la marcia di Dressler (1734-1779), che e` un perfetto esempio, involontario, dello stile parodiato da Mozart nei sestetto I Musicanti del villaggio. Fra il 1790 e il 1800 Beethoven compose ben sedici serie di variazioni per pianoforte solo e due per pianoforte a quattro mani, oltre ad altre per violino e per violoncello, alle quali, come gia` detto in precedenza, non assegno` il numero d’opera. La implicita ‘‘svalutazione’’ di Beethoven verso questi suoi lavori e` stata presa sul serio dai suoi interpreti, e ben raramente capita di trovare una delle variazioni giovanili in un programma di recital. E questa e` una grave lacuna

culturale perche´ il Beethoven delle variazioni giovanili senza numero d’opera, essendo un Beethoven ‘‘mondano’’, non e` affatto un Beethoven ‘‘minore’’. Basti dire che non c’e` bisogno di leggere le Sonate op. 2, per scoprire la statura artistica di Beethoven: basta leggere le 24 Variazioni su un tema di Righini in Re WoO 65 (1791, 1791). Queste Variazioni, pubblicate a Magonza nel 1791, prima della partenza di Beethoven per Vienna, furono ripubblicate nella capitale nel 1802. Non essendo stata ritrovata alcuna copia della prima edizione si suppose, anzi, si diede per certo che il Beethoven trentaduenne avesse risistemato cio` che aveva fatto il Beethoven ventunenne. Dal grazioso e schematico tema di Righini, ‘‘Venni amore’’, tratto da una arietta da camera, Beethoven aveva infatti sviluppato un caleidoscopio di variazioni di carattere, tanto multiforme quanto inventivo e geniale, non tributario della moda convenzionale del momento e con un finale pieno di sorprese che svanisce nel nulla, un po’ come l’ultimo numero dei Papillons di Schumann. Sembrava 103

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Ludwig van Beethoven

impossibile, ripeto, che il Beethoven del 1791 fosse stato in grado di inanellare ventiquattro variazioni inventando uno schema tutto suo e saltando dal sentimentale all’elegiaco al patetico all’umoristico al grottesco senza disperdere e frammentare la forma ma, al contrario, conseguendo una coerenza e una consequenzialita` saldissime. Il ritrovamento nel 1984 dell’unica copia superstite della prima edizione (oggi conservata in un archivio dell’Aja) ha dimostrato invece che Beethoven non aveva fatto altro che passare a un nuovo editore un suo lavoro di undici anni prima senza cambiare in pratica una nota. Dalla schematicita` sia melodica che armonica del tema sorge un lavoro di brulicante fantasia con una organizzazione in due parti perche´ le due Variazioni centrali – la dodicesima e la tredicesima – sono in modo minore (re). C’e` in verita` un netto salto qualitativo nel blocco delle Variazioni dalla diciassettesima all’ultima, con un grande Adagio ornato e a modo di duetto, e proprio questo blocco trasse in inganno chi ipotizzava un intervento migliorativo di Beethoven nel 1802. In generale Beethoven organizza il seguito delle Variazioni basandosi sui contrasti di densita` ritmica, e riesce cosı` a dare fluidita` a una forma a piccoli pannelli che copre l’enorme durata di una ventina di minuti (la durata media, a quel tempo, di una sonata in tre o anche in quattro movimenti). Data la vivacita` dell’invenzione e la varieta` degli atteggiamenti espressivi la insolita durata viene percorsa senza che l’ascoltatore avverta la monotonia della tonalita` che non muta. E questo e` un vero e proprio tour de force, che riporta almeno tendenzialmente la variazione di Beethoven verso le concezioni spazio-temporali del barocco. Le Variazioni su un’aria svizzera in Fa WoO 64 (1790, 1798) sono per pianoforte o arpa e sono talmente facili da dar l’impressione di rispondere alla richiesta esplicita di un committente, anche se furono pubblicate parecchi anni dopo essere state composte. Le 13 Variazioni su un tema di Dittersdorf in La WoO 66 (1792, 1793) e le 12 Variazioni su un tema di Haibel in Do WoO 68 (1795, 1796) presentano motivi di interesse per certe sorprese armoniche che dovevano lasciare di stucco i contemporanei e per certe arditezze virtuosistiche che oggi sembrano persino eccessive, in lavori destinati ai dilettanti. Ma bisogna pensare, come si pensa quando si leggono certe Variazioni di Mozart, che i dilettanti di fine Settecento fossero portati a considerare la pratica del pianoforte come esercizio sportivo che comportava impegno e fatica. Il tema delle Variazioni WoO 68 e` un ‘‘Minuetto alla Vigano`’’. Petrus Jakob Haibl o Haibel, cantante e compositore oggi non piu` citato neppu104

Variazioni su un’aria svizzera in Fa WoO 64

re fra i minori, ottenne ai suoi giorni successi persino superiori a quelli di Mozart. Il minuetto alla Vigano` presenta la caratteristica insolita di essere in ritmo binario invece che ternario. A Vienna il Minuetto di Haibel fece furore e venne variato anche da Gelinek, grande specialista del genere, che non disdegno` in questa occasione di giocare persino con il contrappunto canonico. Le Variazioni di Beethoven sono, sorprendentemente, meno audaci e piu` convenzionali di quelle di Gelinek. Beethoven, che non era ancora pienamente affermato e che non poteva permettersi scherzi eccentrici, si muove con prudenza. Il taglio della struttura beethoveniana non e` pero` del tutto tradizionale: due, non una sola, sono le variazioni in modo minore (la quarta e la settima), e la chiusa non e` brillante ma, al contrario, misteriosa, sfuggente, allusiva. Beethoven, che arriva a Vienna quando gia` si e` imposto in tutta Europa Clementi, porta il pubblico dei dilettanti, come prima accennavo, su una casistica tecnica che era stata in passato appannaggio dei professionisti: ottave, terze e seste nella prima variazione, ottave – con due canoni non rigorosi, tanto per non restare indietro a Gelinek – nella dodicesima variazione. La quinta e la sesta variazione rivelano il gusto di Beethoven per l’umoristico gioco di botte e risposte rapidissime (questo e` un topos delle sue Variazioni giovanili), e nella decima variazione gratifica il dilettante di un altro luogo topico del genere, l’incrocio della mano destra, cioe`, per la precisione, del braccio destro sopra il sinistro. Le 8 Variazioni su un tema del conte Waldstein in Do per pianoforte a quattro mani WoO 67 (1791-1792, 1794) sono un omaggio a un protettore che in Beethoven riponeva le piu` alte speranze. Non c’e` in esse nulla di particolarmente notevole oltre a un generico brio ma, semmai, un certo impaccio nel trattare il pianoforte a quattro mani. Le 9 Variazioni su un tema di Paisiello in La WoO 69 (1795, 1795) e le 6 Variazioni su un tema di Paisiello in Sol WoO 70 (1795, 1796) prendono entrambe lo spunto dalla Molinara, rappresentata a Vienna nel 1795 con un successo sensazionale. I due temi sono ‘‘Quant’e` piu` bello l’amor contadino’’ e ‘‘Nel cor piu` non mi sento brillar la gioventu`’’. Temi teneramente sentimentali che Beethoven tratta con delicatezza, senza forzarne la natura e senza cercare il gioco dei travestimenti. La seconda serie e` molto piu` nota della prima, anzi, e` stata ed e` ancora un caposaldo nel repertorio dei principianti. Il gioco dei travestimenti regge invece le 12 Variazioni su un tema di Wranitzky in La WoO 71 (1796, 1797). Tema di ‘‘danza russa’’ di un balletto, costruito ‘‘esoticamente’’ su frasi irre-

6 Variazioni facili su un tema originale in Sol WoO 77

Ludwig van Beethoven

golari di cinque battute. Variazioni brillanti, impetuose, ma con ben tre episodi in modo minore. Le 8 Variazioni su un tema di Gre´try in Do WoO 72 (1796-1797, 1797) sono meno inventive, ma valsero a Beethoven la prima recensione, laudativa, apparsa nella rivista Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia, che era allora l’araldo del gusto e che si sarebbe poi distinta come severa bacchettatrice delle bizzarrie di Beethoven. Le 10 Variazioni su un tema di Salieri in Si bemolle WoO 73 (1799, 1799) prendono lo spunto dall’aria ‘‘La stessa, la stessissima’’ del Falstaff, andato in scena a Vienna il 3 gennaio 1799. Beethoven era gia` diventato il leader del pianoforte a Vienna, aveva pubblicato molti lavori, stava per uscire, con i Trii per archi op. 9, dalla specializzazione del pianistacompositore e stava per lanciarsi nel campo, il quartetto per archi, dominato dal suo maestro Haydn. Quattro almeno delle Variazioni su un tema di Salieri – la seconda, la sesta, l’ottava e la nona – sembrano pensate per quartetto d’archi; meno palese, ma pur sempre riconoscibile, e` il riferimento al quartetto d’archi nelle variazioni prima e terza. Spesso si notano nell’opera pianistica di Beethoven ricerche su rapporti di altezze e di spettro sonoro complessivo che vengono piu` tardi usate in composizioni per orchestra. Piu` rara e` la sperimentazione, attraverso il pianoforte, di soluzioni che verranno impiegate in complessi da camera (ad esempio, il primo movimento della Sonata op. 7 sembra uno studio per il sestetto di fiati). Le altre tre delle Variazioni su un tema di Salieri sono invece nettamente pianistiche, con sfoggio di agilita` e di brillantezza di sonorita`, e con un burlesco pseudofugato nella sesta. Particolarmente virtuosistica, sia pure in limiti che non eccedono le possibilita` del dilettante ‘‘impegnato’’, e` la decima variazione, che si prolunga nel finale Alla austriaca, molto ampio, costruito al modo delle pesanti danze saltate delle campagne. Qui Beethoven ci riserva una di quelle sorprese armoniche che lo portano a giocare con le tonalita` come un prestigiatore, e conclude con un altro tocco di umorismo, cioe` con una finta ripresa del tema che si perde in un indistinto borbottio, finche´ due battute assolutamente banali, e percio` micidiali, suggellano lo scherzo. Purtroppo la musica senza testo non riesce a far ridere, anche quando la risata ci starebbe a puntino... Le 6 Variazioni su ‘‘Ich denke dein’’ in Re WoO 74 per pianoforte a quattro mani (1799-1804, 1805) furono scritte per l’album delle contesse Josephine e The´re`se con Brunswick. Il tema e` quello di un Lied su testo di Goethe, ‘‘Penso a te’’, per il quale Beethoven fece degli abbozzi ma che non

completo` mai. Beethoven compose le prime due e le ultime due variazioni nel 1799, e aggiunse la terza e la quarta in vista della pubblicazione. Dei rapporti fra Beethoven e le sorelle Brunswick ho parlato a proposito della Sonata op. 57. Aggiungo soltanto che l’amore di Beethoven per Josephine fu appassionato e persino furioso e che venne fatta persino la supposizione che una figlia naturale di Josephine – vedova del conte von Deym – fosse nata dal seme di Beethoven. Nel 1799 l’amore fra Beethoven e Josephine non era ancora scoppiato, e le Variazioni morbide e ossequiose sono un po’ come un omaggio di un cavalier servente per due ragazze da cui si cerca di conquistare un sorriso di gratitudine. Le 7 Variazioni su un tema di Winter in Fa WoO 76 (1799, 1799) ci confermano la disinvoltura con cui Beethoven sa ormai trattare in modo umoristicamente salottiero qualsia tema alla moda, anche insolitamente lungo. Le 8 Variazioni su un tema di Su¨ ssmayr in Fa WoO 76 (1799, 1799) si fanno notare per alcune piccole, ma significative novita`. Il pezzo e` in Fa, ma la immancabile Variazione in modo minore non e` in fa: e` in re, e modula in Si bemolle legandosi direttamente alla Variazione successiva, che a sua volta modula da Si bemolle a Fa, legandosi alla Variazione seguente. L’ultima Variazione, altra novita`, inizia con un piccolo fugato a tre voci. Le 6 Variazioni facili su un tema originale in Sol WoO 77 (1800, 1801) concludono il gruppo delle variazioni ‘‘mondane’’. Lo schema, dato lo scopo didattico, e` quello delle variazioni-studi, con agilita` sia alla mano destra che alla mano sinistra, con scale, arpeggi, ottave spezzate, elementari polifonie. Nel 1802, per ragioni che ci sfuggono ma che dovettero rappresentare per lui un’autentica scoperta, Beethoven guardo` con occhi nuovi al genere della variazione. Una ragione possiamo immaginarla, se non provarla. Alla fine del 1801 si stabiliva a Vienna Antonin Reicha, che verso il 17851790 era vissuto a Bonn e che si era trovato a suonare insieme con Beethoven – lui, abile flautista, l’altro, volonteroso e impacciato violista – nell’orchestra di corte. Nel 1802 fu offerto a Reicha l’incarico di maestro di cappella e insegnante del principe Louis Ferdinand di Prussia, che era pianista e compositore, e che era anche un personaggio illustre da Beethoven conosciuto a Berlino e a cui sarebbe stato dedicato il Concerto n. 3 op. 37. Reicha non accetto` l’offerta del principe, ma scrisse per lui l’Arte di variare, quasi un trattato pratico con ben cinquantasette variazioni su un tema originale. Sarebbe diventato piu` tardi un grande teorico della composizione, Antonin Reicha, e gia` alla fine del Settecento i suoi interessi speculativi 105

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lo avevano portato a studiare i trattati di composizione del periodo barocco. Cosı`, nell’Arte di variare egli affrontava il genere in un modo che non era piu` quello galante e leggero del rococo` e del primo periodo classico, e che tendeva invece verso la ricerca radicale del virtuosismo pianistico e verso la trasformazione delle strutture organiche del tema. Sebbene non si abbiano notizie se non labilissime dei rapporti Beethoven-Reicha nei primi anni dell’Ottocento, sembra tuttavia molto probabile che il rinnovato interesse del primo per la variazione nascesse in relazione con la creazione dell’opus magnum del secondo. Composte nel 1802 due nuove serie di variazioni, Beethoven le propose agli editori con la lettera del 18 ottobre che ho gia` in parte citato parlando delle Bagatelle op. 33. Aggiungo ora la chiusa: ‘‘Di solito devo aspettare che siano gli altri a dirmelo, quando esprimo idee nuove, perche´ non me ne rendo conto da solo. Ma questa volta posso io stesso assicurare che in tutte e due queste opere il metodo, per quanto mi riguarda, e` interamente nuovo’’. Lo era, indubbiamente. Nelle 6 Variazioni su un tema originale in Fa op. 34 (1802, 1803) il tema, bellissimo, e` in forma di canzone, e quindi di tipo tradizionale; ma le Variazioni non si limitano a ornamentarlo: se ne allontanano invece di molto, e sono fortemente caratterizzate per quanto riguarda tonalita`, ritmo, velocita`. Il piano tonale segue infatti uno schema per terze discendenti: Fa, Re, Si bemolle, Sol, Mi bemolle, do (con conclusione in Do), Fa. Com’e` evidente, terminando con una piccola coda in Do la Variazione in do, Beethoven si porta sulla dominante della tonalita` principale e salta il passaggio sul La bemolle. Lo schema ritmico alterna misure binarie semplici, misure binarie composte, misure ternarie. E la velocita` va da Adagio (tema e prima variazione) a Allegro ma non troppo (seconda Variazione), Allegretto (terza Variazione), Tempo di Minuetto (quarta Variazione), Marcia, Allegretto (quinta Variazione), Allegretto (sesta Variazione), Molto Adagio (ripresa ornamentata del tema, che Beethoven non considera come variazione). L’insieme delle Variazioni da` l’idea – non dico che Beethoven ci avesse pensato, riferisco la mia impressione – di una sfilata di maschere della commedia dell’arte, Colombina, Arlecchino, Leandro, il Dottor Balanzone, la marcia funebre di una marionetta, la danza generale con la apparizione di una fata dall’abito fantasmagorico. Nelle 15 Variazioni su un tema originale in Mi bemolle op. 35 (1802, 1803), il tema e` quello della Contraddanza WoO 14 n. 7 (1800-1801), gia` ripreso nel balletto Le Creature di Prometeo (1801) e che tornera` nel finale della Sinfonia Eroica 106

6 Variazioni su un tema originale in Fa op. 34

(1803). Si tratta di variazioni da concerto che si affiancano alla Sonata a Kreutzer e alle Sonate op. 53 e op. 57 e che postulano una netta differenziazione fra tecnica accessibile ai dilettanti e tecnica da professionisti. L’inizio dell’Ottocento vede sorgere la didattica dei professionisti: fenomeno molto rilevante, che nasce in conseguenza dello sviluppo di un nuovo virtuosismo, formatosi con Mozart e con Clementi nella improvvisazione del virtuoso e che con la successiva generazione di pianisti (da Beethoven e Hummel fino a Kalkbrenner e Moscheles) si trasferisce decisamente nel campo della creazione, investendo soprattutto i generi della variazione e del concerto. Il significato storico dell’op. 35 di Beethoven e` pero` piu` complesso e non si esaurisce nella ricerca del virtuosismo brillante. Vero e` che Variazioni come la terza, la nona e la tredicesima si pongono nella prospettiva di un virtuosismo non sperimentato nelle Sonate (senza tuttavia raggiungere mai gli estremi che ho segnalato negli Esercizi). Ma l’altra grande, e maggiore novita` dell’op. 35 e` costituita dal Finale. Alla Fuga, dai procedimenti contrappuntistici della Introduzione e dal canone all’ottava della settima Variazione. Beethoven inizia qui, dopo gli accenni di alcune delle precedenti Variazioni e di alcuni tratti delle Sonate, quel recupero del barocco che rappresentera` la costante della sua poetica. Le Variazioni op. 35 si aprono con la Introduzione col basso del Tema. Dopo l’accordo tonale di Mi bemolle il basso viene presentato da solo, in due frammenti di otto battute ciascuno ripetuti due volte; molto caratteristica e` la contrapposizione clamorosa di tre note in fortissimo, e isolate, rispetto ad altre diciannove in pianissimo e una in piano. Dopo il basso non viene presentato il tema, ma un contrappunto A Due, con basso e soprano. Nel seguente A Tre, in contrappunto cosiddetto doppio, cioe` reversibile, il basso passa anche al soprano e al contralto, nell’A Quattro diventa soprano, melodia. Finalmente, dopo tutto questo sfoggio di contrappunto rivisitato alla moderna, arriva il tema, dolce e molto cantabile, ma sempre con la contrapposizione del fortissimo verso la meta`. La presentazione del basso e il lavorio contrappuntistico costruitogli intorno potrebbero far pensare alla ripresa delle danze barocche, ciaccona e passacaglia, su basso ostinato. Beethoven non segue invece ancora questo schema, ma varia la melodia modificando, quando lo ritiene opportuno, il basso. L’accostamento di stili diversi raggiunge il limite del collage fra la settima e la decima Variazione: la settima e` un canone, l’ottava un preromantico studio melodico, la nona uno studio brillante in doppie note, la decima uno studio a mani

32 Variazioni in do WoO 80

alternate che riprende una tecnica cara a Carl Philipp Emanuel Bach e a Haydn. Anche la quindicesima Variazione e l’Allegro con brio del Finale. Alla Fuga introducono nel contesto classico un intermezzo barocco secondo la tecnica del collage. La quattordicesima Variazione, preschumanniana e in modo minore, potrebbe legarsi direttamente alla ripresa conclusiva del tema, Andante con moto. Al termine della Fuga lo stesso melisma che aveva preceduto la quindicesima Variazione ritorna per aprire l’Andante con moto, ultima e ampliata esposizione del tema. La quindicesima Variazione e la Fuga diventano dunque una vera e propria fantasia e fuga barocca in un contesto contrastante, creando di nuovo un tipo di discontinuita` stilistica che piu` tardi, con la Sonata op. 106 e con le Variazioni op. 120, diventera` sintesi storica di classico e barocco. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, potremmo dire anche per un personaggio tetragono come il Nostro: dopo questo meraviglioso exploit dell’op. 35 Beethoven compone le 7 Variazioni su God save the King in Do WoO 78 1803, 1804) e le 5 Variazioni su Rule Britannia in Re WoO 79 (1803, 1804), che rappresentano una specie di omaggio all’Inghilterra. Non si sa se queste due serie venissero composte su richiesta di qualcuno (non hanno dedica) e non si capisce nemmeno bene perche´ Beethoven non assegnasse loro il numero d’opera: entrambe sono lavorate con impegno, le prime in modo serioso, le seconde in modo umoristico. Forse Beethoven non assegno` loro il numero d’opera in omaggio al suo nuovo look di Tondichter... Anche le celeberrime 32 Variazioni in do WoO 80 (1806, 1807) sono prive di numero d’opera e di dedica, e sembra anzi che Beethoven, risentendole dopo qualche anno da una pianista dilettante, non le riconoscesse e, saputo di chi erano, si desse dell’asino. In questo lavoro Beethoven torna al tipo della variazione-studio. Tuttavia l’insieme, con un gruppo di Variazioni in do, un gruppo centrale in Do e un altro gruppo in do, fa pensare che Beethoven riprendesse la forma barocca della variazione su basso ostinato, e in particolare che avesse presente la Ciaccona per violino solo di Bach. Le Sonate e Partite di Bach furono pubblicate per la prima volta nel 1802 dall’editore Simrock di Bonn, con il quale Beethoven era in rapporti di affari e di amicizia. Non e` certo che Beethoven conoscesse questa pubblicazione. L’analisi delle 32 Variazioni dimostra tuttavia che la supposizione, per quanto non provata, non e` campata in aria. La struttura del tema e` ingegnosissima nella sua estrema semplicita`: con dinamica forte il basso scende per cinque semitoni consecutivi

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e poi per un tono, la melodia sale per due toni consecutivi e poi per quattro semitoni; nel punto di massima divaricazione fra melodia e basso, e di massima intensita` (sforzato) c’e` un arresto, seguito (piano) da una cadenza elementare senza armonizzazione, banale e beffarda. Le Variazioni sono organizzate per cicli e per gruppi: Var. I-III: sugli arpeggi e sulle note ribattute (mano destra, mano sinistra, due mani insieme), Var. IV-VI: due variazioni ritmiche incorniciano una variazione melodica, quasi scherzo con trio, Var. VII e VIII: sugli accordi spezzati; la ottava e` uno sviluppo della settima, una variazione della variazione, Var. IX: isolata, sul trillo, Var. X e XI: sui tratti di agilita` brillante (mano sinistra, mano destra), Var. XII-XVI: in Do, tema con variazioni in miniatura, quasi un intermezzo fra i due cicli maggiori, che inizia con una variante semplificata del tema principale e si sviluppa in due piccoli gruppi: contrappunto in note semplici e in note doppie, e due Variazioni in ottave, Var. XVII-XXII: prima e ultima Variazione a canone; le quattro Variazioni intermedie sono sulla scale alla massima velocita` possibile e sui tratti di agilita` di forza (mano destra, mano sinistra, mano destra; con questo gruppo si ritorna al do, che non verra` piu` abbandonato), Var. XXIII: isolata e misteriosissima, sugli accordi ribattuti, Var. XXIV-XXVII: due coppie di Variazioni di carattere contrapposto, due leggere e scherzose, due virtuosistiche, di scrittura massiccia, sulle terze e gli accordi, Var. XXVIII-XXX: costituiscono, a rovescio, il pendant delle Variazioni IV-VI: una melodia accompagnata in valori tutti uguali e un corale incorniciano una Variazione di agilita` di forza per le due mani, Var. XXXI-XXXII: formano il finale dell’opera, con ripresa del tema su un indistinto mormorio del basso e una Variazione conclusiva seguita da un’ampia coda; la coda comprende una ulteriore Variazione, la trentatreesima, non numerata come tale da Beethoven. La struttura generale dell’opera e` dunque simmetrica: un pezzo (tema), undici pezzi, cinque pezzi, quattordici pezzi, due pezzi. E` evidente il riferimento a una forma ternaria con introduzione e coda, enormemente ampliata e molto variegata nel suo interno. Se la suddivisione ternaria appare evidente per l’alternarsi delle tonalita` minore e maggiore e per i caratteri espressivi, il fatto che la undicesima e la dodicesima Variazione siano diretta107

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mente collegate mette in luce un raggruppamento dei primi due cicli di Variazioni, e quindi una suddivisione binaria perfettamente simmetrica: sedici e sedici Variazioni. La simmetria e` accentuata dal fatto che al tema corrisponde, alla fine, la non numerata trentatreesima Variazione, la cui funzione architettonica si spiega dunque in questo senso. Si tratta di un’opera calcolatissima, che il pubblico segue sempre con entusiasmo ma che viene guardata con distacco da molti critici e che da qualcuno, troppo fidante nel giudizio di Beethoven, e` anche trattata a pesci in faccia. La sistematicita` del disegno generale viene presa per schematismo e l’esplorazione della tecnica per aridita`. Sara` che il pubblico e` troppo facilone, o sara` che i critici sentono odore di bruciato dove di bruciato non c’e` nulla? Dopo il 1806 l’interesse di Beethoven per la variazione pianistica cade bruscamente. Le 6 Variazioni su un tema originale in Re op. 76 (1809, 1810), deliziosamente divertite e divertenti, sono basate su un tema che Beethoven avrebbe ripreso due anni piu` tardi, come Marcia turca, nelle musiche di scena per il dramma di Kotzebue Le Rovine d’Atene. Erano passati piu` di cent’anni dall’assedio di Vienna, i turchi non facevano piu` paura, i giannizzeri erano diventati maschere carnevalesche, non piu` feroci guerrieri. Non abbiamo notizie sulle circostanze di composizione delle Variazioni op. 76, ma e` certamente un po’ strano che Beethoven si divertisse a mettere alla berlina i giannizzeri proprio mentre infuriava la guerra che nel 1809 avrebbe visto l’occupazione di Vienna da parte delle truppe francesi. I Sei temi variati op. 105 (1818-1819, 1819) e i Dieci temi variati op. 107 (1818-1819, 1820) sono per pianoforte con flauto o violino ad libitum ma possono essere e sono talvolta eseguite in versione per pianoforte solo. Si tratta di cosette graziosissime e originalissime su arie scozzesi, austriache, tirolesi e russe, tutt’altro che indegne di Beethoven ma la cui inclusione nel catalogo numerico ci stupisce non poco, specie per uno che fra le due raccolte piazzava la Sonata Hammerklavier op. 106. Le circostanze che favorirono la composizione delle 33 Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120 (1819-1823, 1823) sono assai note, tanto che bastera` qui riassumerle molto brevemente. L’editore viennese Antonio Diabelli ebbe l’idea di mettere insieme una specie di Parnaso nazionale chiedendo a molti compositori residenti nell’impero asburgico di scrivere ciascuno una variazione su un suo Valzer. La raccolta, pubblicata nel 1824 sotto il titolo pomposo di Societa` Nazionale degli Artisti. Variazioni per pianoforte su un tema origi108

6 Variazioni su un tema originale in Re op. 76

nale, composte dai piu` eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e dell’Impero Austriaco, comprendeva cinquanta variazioni di cinquanta diversi compositori. Fra i cinquanta troviamo molti musicisti oggi sconosciuti e qualche celebrita` : Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny, Kalkbrenner, il tredicenne Liszt (non troviamo alcun compositore del Lombardo-Veneto, appartenente allora all’Impero, mentre avrebbero potuto ben figurare Bonifazio Asioli, Francesco Pollini, Antonio Fanna). Non troviamo Beethoven perche´ Beethoven si era messo a lavorare sul Valzer di Diabelli fin dal 1819, e nel 1823 aveva consegnato all’editore un monumento di ben trentatre Variazioni, pubblicate con dedica ad Antonia Brentano, moglie del banchiere Franz e cognata di Bettina e Clemens Brentano. Siccome Vincent d’Indy sostenne un tempo una sua tesi sulle convinzioni razzistiche di Beethoven, affermando fra l’altro che il compositore non aveva dedicato a ebrei nessuna delle sue opere, non e` fuor di luogo osservare che Antonia Brentano, nata von Birbenstock, era ebrea. Ed era con ogni probabilita`, l’ho gia` detto, la Immortale Amata che nel 1812 non aveva ricevuto, perche´ non era mai stata spedita, la fluviale lettera di Beethoven. Devo ancora aggiungere che, contrariamente a quanto si ripete spesso, i rapporti fra Beethoven e Diabelli erano molto cordiali e che l’editore, pur rammaricandosi per ragioni commerciali che l’op. 120 fosse eccessivamente lunga, si rese conto della importanza della composizione e la parogono` alle Variazioni di Goldberg di Bach. Paragone divenuto poi proverbiale, non tanto perche´ i procedimenti compositivi di Beethoven siano affini a quelli di Bach – lo sono in parte, come vedremo fra breve –, quanto perche´ le due opere sono concordemente giudicate come i due maggiori monumenti di un genere che non difetta certamente di capolavori. Le Variazioni op. 120 sono la composizione che riassume in se´ , in una sintesi storica irripetibile, tutto il cammino a ritroso compiuto dalle due generazioni di musicisti che avvertirono per prime il problema di inserire la creazione musicale anche nella storia anziche´ nella sola attualita`. Partendo dalla geometria elementare – ma non banale, secondo me – del Valzer di Diabelli, Beethoven trascorre attraverso atteggiamenti stilistici diversi per concludere con cinque Variazioni di sapore arcaico, che ricordano il barocco e, l’ultima, un Settecento sentito come luogo di un’arcadia trasfigurata. La definitiva riacquisizione di stilemi del passato e` un tratto fondamentale del tardo Beethoven (si pensi non solo alle fughe ma alla modalita` antica della Missa solemnis e del Quartetto op. 132).

33 Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120

Nell’op. 120 Beethoven torna verso il barocco, rappresentato da Bach e da Ha¨ndel: le Variazioni ventinovesima e trentunesima sono due adagi barocchi (il secondo del tipo dell’adagio violinistico con fioriture improvvisate), la Variazione trentesima e` una invenzione a quattro voci, non rigorosa, e la trentaduesima e` una doppia fuga haendeliana; la trentatreesima e` un Tempo di Minuetto, cioe` un minuetto stilizzato e trasfigurato, che il Geiringer chiama giustamente ‘‘un epilogo in cielo’’ e che cita alla fine, fuggevolmente, l’Arietta della Sonata op. 111. Ma non basta. A parte la Variazione ventiduesima, indicata da Beethoven come ‘‘Alla giorno e notte faticar’’, che parafrasa il tema della prima aria di Leporello, si possono notare stilemi della musica pianistica fra il Settecento e l’Ottocento talmente numerosi da aver indotto William Kindermann a parlare di ‘‘parodia’’, intesa nel senso barocco, e cioe` non come distorsione burlesca ma come esercizio su stili storicizzati (fino, paradossalmente, al Beethoven della contemporanea op. 111). Le suddivisioni strutturale non sono indicate da Beethoven, ma la cura dell’Autore, evidentissima, nel differenziare le Variazioni mediante l’alternarsi di ritmi, velocita`, modi di attacco del suono diversi pone, a chi studia l’op. 120, il problema di individuarle. La divisione in due parti e` evidente: la straordinaria ventesima Variazione, che Liszt chiamava La Sfinge e che tanto piaceva a d’Annunzio, tutta condotta ai limiti di intensita` del piano e del pianissimo, con bassissima densita` ritmica e senza che venga mai toccato il registro acuto del pianoforte, rappresenta nel modo piu` chiaro la conclusone della prima parte e lo spartiacque fra la prima e la seconda. Le due parti seguono quindi la proporzione della sezione aurea, perche´ il rapporto fra i trentaquattro pezzi (Tema e trentatre Variazioni) dell’insieme e i ventuno (Tema e venti Variazioni) della prima parte e` uguale al rapporto fra i ventuno della prima e i tredici (Variazioni dalla ventunesima alla trentatreesima) della seconda parte. E questa proporzione venne raggiunta in un secondo momento perche´ Beethoven aggiunse le prime due Variazioni dopo aver terminato la trentatreesima. Anche le due parti sono a loro volta suddivise secondo la sezione aurea: la prima parte presenta una suddivisione fra la dodicesima e la tredicesima Variazione, la seconda parte fra la ventottesima e la ventinovesima. La composizione e` quindi organizzata secondo questi quattro gruppi principali: 1) Tema-Var. XII (13 pezzi), 2) Var. XIII-Var. XX (8 pezzi), 3) Var. XXI-Var. XVIII (8 pezzi),

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4) Var. XXIX-Var. XXXIII (5 pezzi). Infine, anche il primo gruppo e` suddiviso secondo la sezione aurea. Questa suddivisione e` meno evidente, ma in realta` e` importantissima, perche´ nella quinta Variazione viene cambiata per la prima volta la struttura tonale del Valzer (invece dell’andamento dalla tonica alla dominante e viceversa, nella quinta Variazione si passa dalla tonica al relativo minore della dominante e viceversa). Con la ulteriore suddivisione del primo gruppo Beethoven stabilisce quindi, all’interno della suddivisione generale secondo la sezione aurea, una suddivisione simmetrica: 5, 8, 8, 8, 5 pezzi. La serie delle variazioni, che non aveva trovato se non per eccezione una vera concentrazione formale, si organizza cosı` per gruppi e su un arco serrato, scandito secondo proporzioni precise e funzionali che diventeranno un modello di organizzazione per i cicli romantici di pezzi brevi. Accanto alle Variazioni op. 120 terminate nel 1823 si pongono infatti subito i Valzer sentimentali op. 50 di Schubert, composti fra il 1823 e il 1824 e pubblicati nel 1825: un ciclo di trentaquattro pezzi, organizzato secondo rapporti formali molto sottili che tengono conto di simmetrie geometriche e della sezione aurea. Il passo rivoluzionario che Schubert compie, rispetto a Beethoven, riguarda la struttura tonale: mentre le Variazioni op. 120 mantengono ancora l’unita` tonale, i Valzer di Schubert la spezzano, creando un inedito rapporto fra una prima e una seconda area tonale, distanziate di una terza maggiore discendente (Beethoven aveva sperimentato un che di simile nelle Variazioni op. 34; lo riprendera` in modo piu` rigoroso nelle Bagatelle op. 126). Non abbiamo dati statistici sul numero di copie smerciate delle Variazioni op. 120 e quindi non siamo in grado di capire quale fosse il loro grado di diffusione rispetto alle variazioni di altri compositori molto popolari o rispetto alle Sonate dello stesso Beethoven. Possiamo dire che, mentre le edizioni complete delle Sonate cominciavano gia` ad apparire verso il 1840 e si infittivano progressivamente nella seconda meta` del secolo, le edizioni complete delle Variazioni furono molto rare per tutto l’Ottocento e anche nel Novecento. Nel periodo in cui le Sonate, nel loro complesso, diventavano dunque un testo generalmente adottato, solo poche serie di Variazioni venivano studiate da tutti gli allievi di pianoforte. La stessa sproporzione si nota nei repertori concertistici. Parecchie Sonate venivano gia` eseguite nel periodo 1830-1850, e la prima esecuzione pubblicata delle trentadue al completo arrivo` nel 1861. La prima esecuzione pubblica di tutte le Variazioni, di cui si abbia noti109

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" Dohna´nyi, che e` addirittura zia, e` quella di Erno del 1920 e che avvenne nell’ambito di una presentazione dell’intera opera pianistica di Beethoven (analoghe iniziative furono piu` tardi condotte a termine da Mieczysl/ aw Horszowski nel 1954 e da Robert Haag nel 1972). Nel corso dell’Ottocento solo le 32 Variazioni in do furono veramente popolari. Molti pianisti, a cominciare da Clara Schumann, ebbero pero` in repertorio le Variazioni op. 35, che vennero costantemente eseguite ma che non ottennero mai un completo gradimento, ne´ da parte del pubblico, ne´ da parte della critica. La ricerca tecnica di Beethoven nelle Variazioni op. 35, insomma, suscito` sempre l’interesse e il divertimento dei professionisti, ma il pubblico preferı` la maggiore semplicita` e la piu` chiara impaginazione delle Variazioni in do. A parte le impopolari Variazioni op. 35 e le popolarissime 32 Variazioni, solo le Variazioni op. 34 furono insistentemente riproposte, senza fortuna, prima da Liszt e poi da Hans von Bu¨low. Le altre Variazioni, comprese le Diabelli, destarono una certa attenzione specialmente nei concertisti che progettavano cicli di serate di grande impegno culturale. Il ciclo di cinque concerti dedicati a Beethoven, che Hans von Bu¨ low tenne piu` volte negli anni ottanta, comprendevano le Variazioni su un tema di Wranitzky, le opere 34, 35, 120, e le 32 Variazioni; in un altro programma beethoveniano, in cui venivano incluse otto Bagatelle, Bu¨low inseriva le Variazioni op. 76. Nel ciclo di quattro concerti beethoveniani che Frederic Lamond tenne nei primi anni del Novecento erano comprese le opere 35, 76, 120 e le 32 Variazioni. Nell’intero programma dedicato a Beethoven da Anton Rubinsˇtejn nel suo famosissimo ciclo storico che stupı` l’Europa negli anni ottanta non era compresa nessuna serie di Variazioni. Ne´ vi era compresa nei cicli storici di Annette Auerbach (1875), Annette Essipova (1877), Carl Wolfsohn (1877), Charles Jarvis (1878), Carlyle Petersilea (1888), Franz Rummel (1892), Alfred Reisenauer (1900), E´ douard Risler (1900), Friedirch Ha¨ckel (1913). I cicli di Godowsky (1895) e di Gabrilovic (1915) comprendevano solo le 32 Variazioni in do. Nel ciclo tenuto a Monaco di Baviera da Gottfried Galston fra il 1919 e il 1921, e che comprendeva ben quaranta programmi, erano contenute le Variazioni su un tema di Wranitzky, le opere 35, 76 e 120: meno di quante ne fossero entrate nei programmi beethoveniani di Hans von Bu¨low. Nel Novecento e fino a oggi non e` accaduto nulla che abbia fatto mutare l’atteggiamento del pubblico verso le Variazioni di Beethoven nel loro complesso; le Variazioni, come blocco, sono il settore

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33 Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120

dell’arte beethoveniana meno conosciuto. In una civilta` come la nostra, che ritorna insistentemente sul passato e che si preoccupa di ampliarne la conoscenza, la scarsa attenzione che viene riservata al corpus delle Variazioni di Beethoven non puo` non stupire. L’ammirazione per le Diabelli e per le Goldberg di Bach e` l’omaggio reverente e timoroso che viene tributato rispettosamente a due opere imponenti, monumentali. Ma la variazione destinata al dilettante, e che per definizione e` dilettevole, non suscita simpatie: l’umorismo non paga. Il vantaggio delle Sonate, nel passaggio dalla privata lettura alla pubblica rappresentazione avvenuto verso la meta` dell’Ottocento, e` di poter sfruttare i grandi contrasti di tonalita`, i forti contrasti espressivi, i blocchi molto differenziati, cioe` i diversi movimenti che mimano la divisione teatrale in quadri con cambi di scena. La variazione e` tonalmente unitaria, con una tonalita` che statisticamente prevale in misura elevatissima, ed e` un continuum fatto di tanti tasselli, che non presenta contrasti radicali di opposizione ma solo diversita` nella somiglianza. Sono le scomposizioni, piu` che le variazioni di un tema (come nelle Sonate op. 14 n. 2 e op. 57), che creano la flessibilita` e la fluidita` della forma e che non sconcertano ne´ affaticano l’ascoltatore. Oppure l’interesse dell’ascoltatore puo` essere stimolato dalla estrema caratterizzazione di ogni Variazione, come nel primo movimento della Sonata op. 26 e nel finale dell’op. 109; oppure, come nel finale della Sonata op. 111, la forma a variazioni si organizza verso un punto culminante centrale. In tutti questi casi, pero`, il numero delle scomposizioni o delle variazioni e` limitato a una sezione delle sonate ed e` solo uno dei quadri in cui si sviluppa la forma. Ma non appena le variazioni diventano a se` stanti e aumentano di numero, la mancanza di contrasti dialettici crea una staticita` di fondo che rende difficoltoso l’ascolto (mentre non rende difficoltosa la lettura). E sebbene l’organizzazione della forma studiata da Beethoven sia di estremo interesse, le sue Variazioni non stimolano la curiosita` del pubblico. Per questo motivo Wilhelm de Lenz, Arthur Friedheim, e alla fine del Novecento Alfred Brendel cercarono di spostare l’interesse del pubblico sulla caratterizzazione e diedero percio` un titolo a ognuna delle Variazioni op. 120. Particolarmente ‘‘audace’’, e secondo me lungimirante, era l’iniziativa di Brendel, che arrivava in un momento in cui si puntava sulla struttura e si sdegnavano come dilettanteschi i tentativi di ricercare contenuti di immagini che non fossero rigorosamente documentati. La difficolta` reale dell’ascolto in sala di concerto e` poi accresciuta, in tutte le serie giovanili di Bee-

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thoven, dalla superficialita` o dalla banale piacevolezza dei temi, che provoca persino un certo imbarazzo nell’ascoltatore medio. Nella considerazione dell’ascoltatore di questo tipo la variazione prende inequivocabilmente l’aspetto dell’arte applicata. Ed e` in realta` arte applicata, che vuole dilettare attraverso il travestimento di un tema noto e gradito. Si potrebbe dire che, rispetto alla sonata, la variazione e` come il cartellone pubblicitario rispetto alla pittura da cavalletto. La cultura della comunicazione musicale e` in realta` ben lungi dall’aver fatto nel suo campo l’equivalente di cio` che nella diffusione colta delle arti figurative e` stato gia` da gran tempo compiuto per studiare e valutare il cartellone o il design. C’e` comunque un problema,

Ludwig van Beethoven

che e` problema di fondo della cultura musicale quale oggi si sviluppa attraverso il concerto pubblico e il disco: non si mette a fuoco la personalita` di Beethoven se, accanto alle Sonate, non si conoscono altrettanto bene le Variazioni; non si capisce la crisi che in Beethoven si verifica fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento se non si studia tutto insieme il blocco delle Sonate op. 26, 27, 28, 31 e delle Variazioni su temi di Salieri, Winter, Su¨ ssmayr, op. 34 e 35, e delle Bagatelle op. 33. Non si tratta tanto di colmare una astratta lacuna di enumerazione, quanto di avere, di Beethoven, una immagine non parziale e tendenziosa. Concetto duro da digerire. Ma che proprio non si puo` aggirare.

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Alban Berg

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Alban Berg (Vienna, 9 febbraio 1885-ivi, 23 dicembre 1935) Le uniche composizioni per pianoforte di Alban Berg, eccettuato il Concerto da camera per violino, pianoforte e fiati, che presenta caratteristiche del tutto particolari, appartengono agli esordi della sua attivita` di compositore. I Sette pezzi (19071908) sono brevi – non semplici – lavori di scuola di impronta generalmente schumanniana, in uno stile che sarebbe potuto appartenere a Theodor Kirchner o ad Adolf Jensen, per non dire addirittura a Niels Gade. Sembra evidente che Scho¨ nberg tenesse fermamente le briglia sul collo del suo puledro e che lo mettesse al riparo da modelli piu` moderni. Ci sono poi un Tema in la e un Tema in fa (1907-1908), ciascuno con una sola variazione. Il lavoro conclusivo degli studi con Scho¨nberg e` rappresentato dalle 12 Variazioni in Do su tema proprio (1907-1908), il cui breve tema non e` precisamente ‘‘proprio’’ perche´ inizia con le prime note del cosiddetto Tema degli spiriti di Schumann, variato da Schumann e variato da Brahms. Le variazioni sono inanellate secondo il principio dei contrasti repentini e pur nella loro genericita` stilistica sono anche ingegnose, ma manca in esse secondo me una organizzazione formale dettata da una drammaturgia. Anche la Sonata op. 1 (19071908, rev. 1920) fu composta mentre ancora Berg era studente. Ma quella volta Berg – con l’approvazione di Scho¨ nberg, evidentemente – ritenne che la composizione potesse dare inizio al suo catalogo e assegno` alla Sonata il fatidico numero d’opera 1. Non si trattava di cosa di poco conto, di un passo che si faceva alla leggera. Beethoven, ad esempio, decise di numerare le sue composizioni quando aveva ventitre anni e, insoddisfatto, comincio` due volte, tanto che esistono due sue ‘‘opera 1’’. Berg esordı` a venticinque anni, perche´ la Sonata fu pubblicata nel 1910. E la Sonata da` benissimo il via al catalogo di un compositore che fu sempre lento e prudente, e che quindi non scrisse molto. La Sonata, dicevo, conclude gli anni di studio e apre la fase della professionalita`: ce lo fa capire gia` il fatto stesso che sia una sonata, perche´ all’inizio del Novecento il genere della sonata era ancora comune nella musica da camera, ma da circa cinquant’anni non veniva piu` praticato in area tedesca, se non del tutto eccezionalmente, da compositori di musica per pianoforte solo. Diversa era la 112

situazione in Russia, civilta` nata da poco, dove Skrjabin, di dieci anni piu` anziano di Berg, aveva composto tre Sonate secondo gli schemi consueti in piu` movimenti, ma che dalla Sonata n. 4 (1903) si era limitato al movimento unico, sullo schema del cosiddetto allegro bitematico e tripartito. A questo schema formale, che rappresenta un ‘‘mirabile arnese di costruzione dei suoni, paragonabile alle piu` alte creazioni dello spirito umano, al sonetto, all’ottava, alla pianta di cattedrale romanica o al palazzo rinascimentale’’ (M. Mila), guarda anche Berg. La Sonata op. 1 e` dunque in un solo movimento e rispetta scrupolosamente lo schema tradizionale, fino al punto di far ripetere tutta l’esposizione. Anche il metodo di composizione e` tradizionale. Berg ricava tutto il materiale sonoro da poche cellule fondamentali, come faceva Scho¨ nberg, ma come avevano gia` fatto il tardo Beethoven e Chopin e Schumann e Liszt. Tradizionali, infine, sono le curve della dinamica, che simboleggiano la tensione emotiva: nella esposizione si passa per tre volte dal piano al fortissimo, poi, ripartendo dal piano, si arriva a un piu` che fortissimo segnato con tre f e a un piu` che fortissimo con quattro f. La riesposizione limita a due i passaggi dal piano al fortissimo. Il punto di massima tensione, piu` che fortissimo con quattro f, e` raggiunto dopo centocinquantacinque battute dall’inizio, e dal punto di massima tensione alla fine restano ottantanove battute; la curva ascendente della dinamica, fino al climax, al punto culminante dei romantici, e` dunque calcolata secondo la classica proporzione della sezione aurea (l’intero sta alla parte maggiore come la parte maggiore sta alla parte minore). Berg riprova quindi, da studente coscienzioso che ripercorre le esperienze esemplari della tradizione, a utilizzare schemi sperimentati e collaudatissimi. Perche´, allora, la Sonata puo` fregiarsi legittimamente dell’opera 1, cioe`, in altre parole, che cosa resta in essa di Berg? Restano le idee tematiche e l’uso del linguaggio, che pur essendo legati anch’essi alla tradizione ne deviano, innovandola. L’analisi del linguaggio rappresenterebbe certamente il piu` importante elemento di conoscenza e della Sonata e della personalita` di Berg, ma il linguaggio, se il lettore perdona la banalita` della osservazione, si ‘‘sente’’, e la sua originalita` si ricono-

Concerto da camera per violino, pianoforte e tredici strumenti a fiato

sce anche alla semplice audizione. Se l’interprete piu` realista del re non colloca idealmente la Sonata di Berg in un periodo posteriore a quello della sua composizione non sara` nemmeno difficile cogliere nelle sinuose melodie e nei ‘‘tanti palpiti’’ di cui il pezzo e` intriso l’eco un po’ distorta della Vienna di Kreisler. Cio` che all’audizione si puo` invece solo intuire, e confusamente, e` la logica dell’architettura. E su questa ho inteso attirare l’attenzione, per farne notare i caratteri strettamente tradizionali, dai quali si comprende la concezione della tradizione come deposito di cultura da cui non si puo` prescindere, concezione che guida l’operare sia di Scho¨nberg che dei suoi allievi.

Alban Berg

Il Concerto da camera per violino, pianoforte e tredici strumenti a fiato (1924-1925) e` articolato in tre movimenti, il primo per pianoforte e fiati, il secondo per violino e fiati, il terzo per tutto il complesso. Il tono espressivo di volta in volta leggero, lirico, ritmico, nasconde una ferrea organizzazione sia delle forme che del linguaggio, con l’impiego di procedimenti canonici vetusti che ricevono nuova vita e nuovo slancio. Si tratta di una delle piu` riuscite partiture di Berg, ma per quanto riguarda l’impiego del pianoforte – e del violino – il loro ruolo di solisti viene evidenziato soltanto nelle rispettive Cadenze.

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Luciano Berio

Linea per due pianoforti, vibrafono e marimba

Luciano Berio (Oneglia, 24 ottobre 1925-Roma, 27 maggio 2003) Le prime composizioni per pianoforte di Berio, la Pastorale (1937) e la Toccata a quattro mani (1939) risalgono agli anni della sua adolescenza e del suo alunnato presso il padre. La Piccola Suite (1947) – Preludio, Arietta I, Gavotta, Arietta II, Giga – si muove ancora nell’ambito del neoclassicismo. Con le Cinque Variazioni (1952-1953) incontriamo il Berio che dopo il diploma in composizione conseguito nel 1950 nel conservatorio di Milano, e dopo il corso di perfezionamento a Tanglewood con Dallapiccola nel 1951, ha adottato la serialita`. Il titolo Cinque Variazioni ha un significato preciso perche´ il tema, tratto dal Prigioniero di Dallapiccola (alla parola ‘‘Fratello’’ pronunciata dal Grande Inquisitore) non viene esposto all’inizio ma viene ‘‘rivelato’’ solo nella coda conclusiva. La versione del 1952-1953 era influenzata dagli usi melodici della serie dodecafonica che ricorrevano di frequente nella musica di Dallapiccola (nel Quaderno musicale di Annalibera, ad esempio, che e` del 1951). La versione oggi nota e` del 1966 ed e` notevolmente rimaneggiata, con aggiunte e con una condotta seriale piu` rigorosa. La scrittura pianistica e` virtuosistica, con veri e propri passi di agilita` del tutto eccezionali nella musica di avanguardia di quegli anni. Wasserklavier (pianoforte d’acqua, letteralmente, 1965), composto in un primo momento per due pianoforti e poi riscritto per pianoforte solo, dimostra l’interesse di Berio per l’armonia, cioe` per gli accordi tradizionali accostati secondo una logica non funzionale. Il pezzo e` in fa, ma la successione lenta e come in lontananza di accordi, anche in posizione larga e arpeggiati secondo le tradizioni romantiche di Schumann e di Chopin, non stabilisce il centro tonale quanto, piuttosto, da` l’impressione dell’acqua come simbolo di morte, di ‘‘morta gora’’. Pezzo breve ma affascinante, che fu molto eseguito anche – miracolo! – nei conservatori. Nella Sequenza IV (1966) troviamo diversi strati di triadi perfette e di accordi di settima, che grazie all’uso del terzo pedale si sovrappongono dando luogo a complessi armonici molto complessi e dinamicamente differenziati, con la creazione di veri e propri timbri artificiali. Questo e` l’aspetto secondo me piu` interessante del pezzo, che presenta anche, come accade spessissimo in Berio, tratti di virtuosismo digitale. Rounds (Circoli, 1967) e` la versione rifatta per pianoforte 114

del pezzo analogo per clavicembalo del 1965. Berio adotta una tradizionalissima forma, quella della canzone bitematica: A, B, ripetizione di A, ma il procedere del pezzo e` basato sulla discontinuita`, sia del discorso, sia dei registri, sia della dinamica. Il secondo dei pezzi ispirati ai quattro elementi, Erdenklavier (pianoforte di terra, 1969) e` tutto fatto di suoni e di echi di campanacci alpestri di sapore mahleriano. Gli altri due pezzi che completano il ciclo, Luftklavier (pianoforte d’aria, 1985) e Feuerklavier (pianoforte di fuoco, 1989) sono onomatopeici nel suggerire i fruscii dell’aria e il borbottio del fuoco. Altri due brevissimi pezzi, Leaf (Foglia, 1990) e Brin (1990) vennero uniti ai quattro precedenti nella raccolta Six Encores (Sei Bis). Gia` nelle Cinque Variazioni, e soprattutto nella Sequenza si nota l’interesse di Berio per il rapporto fra l’esecutore e lo strumento, la lotta del primo per ‘‘domare’’ il secondo, che diventa un fatto rappresentativo, teatrale, una sorgente di spettacolo. Il Concerto per due pianoforti e orchestra (1972-1973), in questo senso, non e` soltanto spettacolare ma addirittura drammatico perche´ al virtuosismo della scrittura pianistica si aggiunge il rapporto fra i due solisti e la grande orchestra (Berio realizzo` poi una versione di questo lavoro per pianoforte e orchestra da camera, ma successivamente la ritiro`). La partitura e` costruita, piu` che su una polifonia di linee, su una molteplicita` di eventi che si intersecano, ma per quanto ci interessa in questa sede cio` che mi sembra da rilevare e` l’elemento vituosistico della scrittura pianistica, che lascia pero` spazio ad apparizioni altrettanto virtuosistiche di strumenti dell’orchestra. Molto piu` semplice come composizione, e secondo me tanto piu` attraente e` Linea per due pianoforti, vibrafono e marimba (1973), dedicata a Vittoria Ottolenghi, critico della danza. La dedica spiega i titoli delle varie parti di Linea, che impiegano termini coreutici: Mane`ge I, Entre´e I, Ensemble I, Mane` ge II, Ensemble II, Mane` ge III, Ensemble III, Entre´e II, Coda I, Allegro, Coda II, Ensemble IV, Notturno. La composizione viene eseguita senza soluzione di continuita` e la differenza fra ‘‘maneggio’’ (che nella danza accademica indica il percorso che il ballerino, girando su se stesso, compie su un ampio cerchio), ‘‘entrata’’ e ‘‘insieme’’, puo`

Sonata

essere avvertita non auditivamente ma solo osservando la scelta delle serie di note e l’evoluzione della massa. Il calcolo sulla natura timbrica della massa, sulle sue modificazioni e sulla sua collocazione spaziale e` minuziosissimo. I due pianoforti sono collocati in primo piano, affiancati e con la tastiera rivolta verso il pubblico, il vibrafono e la marimba sono collocati in secondo piano e in posizione a ‘‘T’’ rispetto ai pianoforti; l’uso e il non uso dei pedali sono esattamente e costantemente indicati, e viene indicato il modo di usare la bacchetta del vibrafono (con o senza rimbalzo). Per fare un esempio minimo prendiamo l’inizio, basato sui suoni do diesis e mi ripetuti cinque volte in piu` che pianissimo per una durata complessiva di circa sei secondi e cinquanta centesimi. I due pianoforti tolgono e rimettono piu` volte i pedali, il vibrafono alterna suoni con pedale di risonanza e suoni senza pedale, con rimbalzo e senza rimbalzo, e solo la marimba non modifica ne´ risonanza ne´ timbro. All’audizione non si avvertono le quattro fonti del suono e le relative loro modificazioni, ma solo un sottilissimo trascolorare di due suoni in movimento. Ed e` su questo effetto, che in gran parte puo` essere calcolato dal compositore e che in minima parte sfugge al suo dominio perche´ intervengono piccole e praticamente ineliminabili differenze di intonazione dei quattro strumenti, e` su questo effetto, dicevo, che si gioca la fortissima suggestione acustica di sei secondi e mezzo di musica. La formazione compatta in cui i quattro strumenti sono disposti favorisce il trascolorare dei timbri ma non impedisce l’indipendenza delle quattro fonti di suono quando il compositore usa linee con andamenti di altezze divergenti o con divergenti andamenti delle dinamiche. La massa si evolve e si trasforma continuamente, con effetti di spaziatura che si collegano decisamente all’estetica del simbolismo. Una buona parte della musica di Linea, in quanto sistema di altezze, potrebbe essere affidata, con scrittura virtuosistica, a un solo pianoforte. Ma Berio scrive in un’epoca in cui la sonorita` del pianoforte e` gia` stata esplorata in tutte le sue possibilita` timbriche. Il secondo pianoforte, e la percussione sulle lamine del vibrafono e sulle tavolette della marimba, servono in realta` a rinnovare il suono pianistico. Poco tempo prima, in Mantra, Stockhausen aveva modificato la timbrica del pianoforte, in live, mediante apparecchiature elettroacustiche. Il tentativo di Berio si colloca invece ancora in una ricerca tradizionale, e di questa ricerca e` il punto estremo. Il successivo ritorno al pianoforte solo, con Luftklavier e con Feuerklavier, prescindera` dalla novita` timbrica e

Luciano Berio

cerchera` invece, come ho gia` detto, la suggestione naturalistica. Il concerto per pianoforte e ventidue strumenti ‘‘Points on the Curve to Find...’’ (Punti da trovare sulla curva..., 1973-1974), rispetto a cio` che lo precede, e` auditivamente molto piu` semplice. Scrive Berio: La parte del pianoforte (quasi sempre monofonica), deve essere compresa come una curva complessa, una linea continua che ricorre quasi costantemente, sulla quale gli altri strumenti si posano per interpretarne e svilupparne i caratteri armonici. Come un disegno gia` fatto, sul quale si aggiungono in punti diversi altre linee che ne modificano il senso mettendone in luce le proprieta` nascoste. Per la velocita` dell’articolazione, gli slittamenti di tempo e la particolare natura di quei caratteri armonici, l’insieme puo` essere talvolta percepito come una ‘‘forma d’onda’’ piu` o meno complessa. L’intera parte del pianoforte fu composta per prima e su di essa venne costruita la parte orchestrale. La formazione dell’orchestra da camera e` del tutto particolare: tre flauti, oboe, corno inglese, tre clarinetti, due sassofoni, fagotto, due corni, due trombe, trombone, tuba, celesta, viola, due violoncelli e contrabbasso. Una seconda versione della composizione, Concerto II-Echoing curves (Curve in eco, 1988) impiega il pianoforte e due gruppi di strumenti (trenta esecutori nel primo, cinquantatre nel secondo). Sia l’una che l’altra versione – e` banale dirlo, ma anche cio` ha la sua importanza – pongono problemi pratici di impiego degli strumentisti d’orchestra, problemi che limitano le occasioni di esecuzione. Ed e` un peccato, perche´ la partitura e` tra le piu` vivaci, fresche e coinvolgenti di Berio. Il catalogo di Berio comprende ancora tre brevi pezzi – Interlinea (1990) per pianoforte solo, Touch (Tocco, 1991) e Canzonetta (1991) per pianoforte a quattro mani – e la Sonata (2001). Per la prima esecuzione della Sonata, tenuta da Andrea Lucchesini, Berio preparo` una breve nota di presentazione: Tutte le sonate, di ogni tempo e luogo, propongono e sviluppano, sempre e comunque, un dialogo fra diversi caratteri espressivi, fra diverse identita` strutturali e tecniche, fra continuita` e discontinuita`, fra semplice e complesso, fra presenza e assenza... In questa mia ‘‘Sonata’’ – scritta nel 2001 e dedicata a Reinhold Brinkmann – quel dialogo e` certamente presente ma la sua distribuzione nel tempo, cioe` la sua sintassi, e` indifferente alla natura dei suoi stessi caratteri espressivi. La dichiarazione e` semplice e diretta ma la conclusione sembra a me enigmatica o, per dirlo in altri termini, mi sembra una excusatio non petita. La 115

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Luciano Berio

persistenza di un si bemolle durante quasi tutta la Sonata, la frequenza con cui ritornano le rapidissime ribattiture di note, i grappoli fruscianti o scintillanti di suoni, l’impalpabilita` degli sfondi rispetto al primo piano sono suscitatrici di immagini che si possono ricollegare ai piccoli pezzi sui quattro elementi, e se e` vero che la sintassi non e` quella delle sonate ‘‘d’ogni tempo e luogo’’ che procedono anche per tensione e distensione e per climax, e` vero altresı` che i ‘‘carateri espressivi’’ del ‘‘dialogo’’ che e` ‘‘certamente presente’’ avrebbero potuto essere precisati. Per quanto riguarda la composizione la Sonata e` costruita intorno al si bemolle a cui accennavo prima e a tre accordi ‘‘storici’’: il cosiddetto ‘‘accordo del Tristano’’ di Wagner, l’accordo bitonale di Mi bemolle e Mi della Danza degli adolescenti nella Sagra della primavera di Stravinskij, e l’accordo di quattro suoni del Klavierstu¨ck IX di Stockhausen, il famosissimo accordo ribattuto del Klavierstu¨ ck che negli anni sessanta aveva fatto impennare la notorieta` di Stockhausen al di la` degli ambienti dell’avanguardia. La

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Sonata

scrittura pianistica, di estrema raffinatezza e di realizzazione molto ardua, e` costantemente tenuta su due piani dinamicamente diversi di sonorita` : mentre in Linea troviamo la distribuzione fra due pianoforti di un tessuto che potrebbe essere realizzato da un solo pianoforte, qui abbiamo una resa sonora che fa pensare a due pianoforti. La Sonata chiude il catalogo di Berio con il suo piu` impegnativo lavoro dedicato al pianoforte e, come dicevo, lo chiude in modo enigmatico. Il dedicatario Reinhold Brinkmann, che non e` di certo un sentimentaloide, non manca di porsi e di porre a noi una domanda: ‘‘C’e` conformita` fra l’inizio (si bemolle piu` accordo pentatonico) e la fine (si bemolle piu` lo stesso accordo pentatonico). Che cosa significa questo accordo pentatonico? Da dove viene? Cosa vuole rappresentare? Si ispira forse all’op. 11 n. 1 di Scho¨ nberg? (E perche´ cerchiamo sempre dei modelli?) Sono molte le domande del genere che emergono’’. Domande a cui Berio non volle dare risposta e su cui potranno o sbizzarrirsi o affaticarsi i futuri esegeti.

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Ernest Bloch

A Ernest Bloch (Ginevra, 26 luglio 1880-Portland, 15 luglio 1959) Nella produzione pianistica di Bloch non c’e` nulla che eguagli secondo me il suo Quintetto n. 1 per pianoforte e archi, molto eseguito in passato e che meriterebbe di essere ripreso di frequente. L’Exvoto (1914, 1914) e` una paginetta collocabile fra Debussy e Faure´, i Poemi del mare (1923, 1923) hanno un titolo che attribuisce loro una importanza eccessiva, mentre sono dei semplici preludi (Onde, Canzone dei marinai, Sul mare), pianisticamente non impegnativi e ingenui nell’espressione, che sarebbero andati a fagiolo per una categoria, i dilettanti, in via di estinzione. Nella notte (1922, 1923) e` un bel notturno romantico che trova la sua collocazione piu` appropriata nella versione orchestrale, i Cinque Schizzi a seppia (1923, 1924) formano un ciclo non diverso poeticamente dai Poemi del mare ma piu` organico formalmente, con un Epilogo che cita frammenti dei quattro pezzi precedenti (Preludio, Fumi sulla citta`, Lucciole, Incertezza), e Pezzi infantili (1923, 1924) non possono essere annoverati fra le grandi pagine per l’infanzia o sull’infanzia. I Quattro Pezzi da circo (1922) sono piu` spiritosi e piu` spensieratamente infantili, ma gli eredi di Bloch ne hanno consentito soltanto la registrazione in disco, non la pubblicazione a stampa. Nirvana o Danza sacra (1923, 1924) e Visioni e Profezie (1935, 1936) presentano gli stessi pregi e gli stessi limiti dei pezzi precedenti. Bloch appare veramente impegnato a servirsi del pianoforte per una creazione non occasionale solo nella Sonata (1935, 1847),

nata nel momento in cui l’Europa, con l’avvento del nazismo in Germania, stava camminando sull’orlo della guerra. La Pastorale, secondo movimento della Sonata, si colloca come sogno di pace fra il minaccioso Maestoso ed energico e il Moderato alla marcia che evocano gli orrori della guerra. La strumentazione pianistica mostra pero` i limiti di Bloch in questo campo specifico, e la Sonata, dedicata a Guido Agosti, non e` mai parsa interessante ai maggiori pianisti del Novecento. Piu` importante la produzione di Bloch per pianoforte e orchestra. Il Concerto grosso n. 1 per pianoforte e archi (1924, 1925) rappresenta l’adeguamento di Bloch al clima culturale neoclassico e neobarocco degli anni venti che gli era intimamente estraneo. Dei quattro movimenti che compongono il Concerto grosso sono realmente neobarocchi il primo, Preludio, e l’ultimo, Fuga, mentre i movimenti intermedi, Canto funebre, Pastorale e Danza rustica, sono piuttosto neoromantici. Il Concerto sinfonico (1946, 1948) e` denso, turgido, con un primo movimento che risponde in pieno alla didascalia Pesante, un secondo movimento Allegro vivace in forma di scherzo e un brillantissimo Allegro deciso. Il pezzo, completamente dimenticato dopo le prime esecuzioni, meriterebbe di essere ripreso. E meriterebbe di essere ripreso anche lo Scherzo fantastico (1948, 1948), in forma ternaria ma assai sviluppato (circa diciotto minuti), con una sorprendente molteplicita` di idee e una scrittura non virtuosistica ma spettacolare.

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Johannes Brahms

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Johannes Brahms (Amburgo, 7 maggio 1833-Vienna, 3 aprile 1897) Di tutti i grandi pianisti-compositori, da Clementi, che era nato nel 1752, fino a Sˇostakovicˇ, nato nel 1906, conosciamo le composizioni infantili. Non di Brahms. L’esordio di Brahms e` folgorante: Scherzo op. 4, Sonate op. 1, 2, 5. Ma lo Scherzo fu composto a diciott’anni, le Sonate fra i diciannove e i venti. Come Brahms fosse arrivato alla maturita` sconcertante di questi lavori non sappiamo. Anzi, sappiamo molto poco, anche indirettamente, di tutto il periodo della sua formazione. Fu Schumann a scrivere nel 1853 che il ventenne Brahms incarnava, ‘‘come Minerva [che] sorge armata dalla testa di Giove’’, ‘‘la piu` alta espressione dell’epoca’’. Che era un modo perfettamente sintetico, ma anche semplificatorio, di riconoscere una verita`. E su questa furono poi costruite, per lo meno per quanto riguarda il linguaggio pianistico, altre semplificazioni. Sicche´ e` oggi ben noto il cammino spirituale di Brahms, mentre non si e` notata ne´ la complessita` delle premesse, ne´ la ricchezza delle successive acquisizioni nel rapporto fra Brahms e quello che fu il suo primo e piu` immediato strumento di musica. Figlio di un umile musicista, che aveva cominciato come suonatore ambulante ed era arrivato fino allo status professionale del modesto orchestrale, Brahms fu presto affidato da suo padre a uno stimato insegnante di Amburgo, Otto Friedrich Wilhelm Cossel. Dopo un paio d’anni il Cossel porto` il bambino dal suo maestro, Eduard Marxsen, che risiedeva ad Altona, a pochi chilometri da Amburgo. Dapprima Brahms continuo` a studiare con il Cossel e a essere seguito di tanto in tanto da Marxsen, ma all’eta` di dodici anni divenne allievo di quest’ultimo e con lui proseguı` gli studi fin verso il 1850. Possiamo paragonare la figura di Marxsen con quella di Elsner, maestro di Chopin, con la differenza che Marxsen insegnava il pianoforte e la composizione ed Elsner soltanto la composizione. Nell’un caso e nell’altro abbiamo il musicista di provincia, il buon musicista di provincia che comincia gli studi in patria segnalandosi per le sue inconsuete capacita`, li completa all’estero, trova in patria una collocazione professionale non brillante ma che soddisfa tutte le sue ambizioni, diventa il leader del movimento culturale locale. Come Elsner, Marxsen soggiorno` a Vienna e da Vienna ricevette il sigillo di una educazione classica. Ad 118

Amburgo, dove erano ancora vive le memorie del lungo soggiorno di Carl Philipp Emanuel Bach, aveva avuto istruzioni da Johann Christian Clasin, allievo di un allievo del Bach amburghese. A Vienna rimase dal 1831 al 1834, studiando con Ignaz von Seyfried e con Carl Maria von Bocklet, che avevano fatto parte dei circoli di Beethoven e di Schubert. Tornato ad Amburgo vi fondo` l’Accademia di Canto e vi diresse i concerti dell’orchestra filarmonica, lavorando come compositore e come didatta. In senso lato possiamo dire che la Vienna in cui Marxsen compı` la sua formazione era quella – il lettore non si adonti per la barbara parola – dello czernismo. Dopo la morte di Beethoven e di Schubert, e dopo che Hummel e Moscheles avevano da tempo abbandonato la capitale austriaca, Carl Czerny era in campo pianistico l’esponente sommo della cultura viennese. Czerny non era ne´ un teorico ne´ uno storico ma un didatta. Aveva sı` interessi molto vivi, e di teorico e di storico, ma questi interessi li poneva al servizio di una visione ‘‘progressista’’ del pianoforte in cui Beethoven, maestro di Czerny, era considerato la figura centrale. Czerny recuperava Johann Sebastian Bach e recupero` piu` tardi Domenico Scarlatti non perche´ li considerasse esponenti di un’eta` dell’oro ma perche´ li riteneva didatticamente utili, e venerava Beethoven ma considerava attuale e... appetibile anche il dopo-Beethoven rappresentato dal virtuosismo di bravura di Thalberg, di Chopin, di Liszt, di Do¨hler, di Willmers. Si e` spesso lodato Marxsen per avere educato Brahms nello studio dei classici, e si e` ricordato con soddisfazione che gia` nei primi programmi concertistici brahmsiani (28 settembre 1848, 14 aprile 1849) figurano una fuga di Bach e la Sonata op. 53 di Beethoven. Si e` pero` anche detto, con una punta di rammarico, che il giovane Brahms dovette sacrificare alla moda inserendo nei suoi programmi concertistici fantasie di Thalberg e di Do¨hler, uno Studio di Herz, musiche di Jakob Rosenhain e di Charles Mayer. Ora, lo czernismo, che mi sembra di vedere riflesso nell’insegnamento di Marxsen, era un indirizzo culturale composito che in Thalberg trovava valori autentici, non adescamenti e concessioni al gusto perverso del popolaccio. Applicato alla formazione di Brahms, un giudizio di valore sulla musica degli anni trenta e quaranta elaborato in un’epoca po-

Scherzo in mi bemolle op. 4

steriore non puo` che riuscire fuorviante. Si tratterebbe invece di verificare gli interessi concreti di Brahms rivelati dalle sue composizioni giovanili, da quelle composizioni giovanili che non ci sono pervenute. Si tratterebbe di capire quali furono gli autori contemporanei con cui Brahms ebbe maggiore dimestichezza, visto che dichiaro` di non avere conosciuto da ragazzo le musiche di Chopin e di Schumann. Si tratterebbe, insomma, di ripercorrere quel processo formativo che cogliamo benissimo in Chopin, tanto che non ci sorprende, sebbene ci colmi di ammirazione, l’esplosione geniale degli Studi op. 10 e dello Scherzo op. 20. In Brahms ci troviamo invece di fronte a un lavoro, che non ha entroterra, insieme originale e capace di nascere da una sintesi di aspetti salienti del recente passato. E questo e` , come gia` detto, lo Scherzo in mi bemolle op. 4 (1850-1851, 1854). Apro una breve parentesi per dire che, a quanto pare, Brahms pubblico` da ragazzo molti arrangiamenti e pot-pourri sotto gli pseudonimi di G.W. Marks e di Carl Wu¨rth. A parte il dubbio residuo che G.W. Marks sia proprio il giovane Brahms, il Souvenir de Russie op. 151 (!) per pianoforte a quattro mani, unico lavoro di Marks a me noto, sembra rispondere a precise esigenze editoriali. Il pezzo e` comunque frutto di una espertissima mano di arrangiatore che non pare essere quella di un ragazzo, e nel suo n. 2, Chansonnette de Titoff con variazioni, almeno la seconda Variazione esce dagli schemi consueti ed e` basata su una ingegnosa trovata ritmica. Chiusa la parentesi, torniamo allo Scherzo op. 4, che si suppone facesse parte di una sonata, soltanto progettata o di cui furono distrutti tutti gli altri movimenti. Si puo` notare il possibile riferimento a Beethoven e in particolare al Beethoven delle Sinfonie, e si puo` supporre che Brahms non restasse insensibile di fronte allo Scherzo op. 39 di Chopin. Quest’ultima osservazione la fece gia` Joachim Raff nel 1853, e Brahms, ci racconta William Mason che era presente, ‘‘disse che non aveva mai visto ne´ ascoltato alcuna opera di Chopin’’ (cio` e` confermato anche da una lettera di Albert Dietrich a Ernest Naumann, del dicembre 1853). L’influenza chopiniana potrebbe pero` essere arrivata fino a Brahms seguendo vie trasverse anziche´ dirette, perche´ dopo il 1840 Chopin era un autore di successo che aveva gia` degli imitatori Si tratterebbe di sapere quali delle musiche pianistiche che venivano pubblicate a Parigi – fulcro, fra il ’40 e il ’50, di tutto cio` che riguardava il pianoforte – capitassero fra le mani di Brahms, e si tratterebbe di vedere se egli conoscesse le Sinfonie di Beethoven n. 5, n. 6 e n. 7 nella trascrizione di Liszt, che era stata pubblicata

Johannes Brahms

nel 1840. Sembra invece molto probabile che conoscesse la Sonata n. 4 di Weber, del cui Minuetto si trova una eco inconfondibile nel primo Trio dello Scherzo op. 4. E sembra che conoscesse la forma dello scherzo con due trii prediletta da Schumann. Ma e` inutile fare troppe supposizioni: bastano queste a dirci che, per quanto segnato dalla personalita` di Brahms, lo Scherzo op. 4 ci rimanda anche ad altri, a un contesto molto ricco in cui manca la bussola che ci orienti con sicurezza. Pur se ci sfugge il processo formativo attraverso il quale Brahms pervenne alla matura sintesi dello Scherzo op. 4, e pur se le oscure tracce di un processo formativo vi si notano, la composizione si impone per alcune caratteristiche architettoniche inusuali e per la compattezza discorsiva dell’eloquio. Lo schema architettonico dello scherzo con due trii, cioe` dello scherzo a rondo`, non e` infrequente in Schumann, come dicevo poc’anzi. Ma nel caso che qui ci interessa sembra di poter notare che lo stadio finale della elaborazione formale fosse raggiunto in due successivi momenti. Le proporzioni dello Scherzo, del primo Trio e della ripetizione senza ritornello dello Scherzo sono quelle dei minuetti di Weber e degli Scherzi delle tre Sonate di Brahms, e il piano tonale (mi bemolleMi bemolle-mi bemolle) non esce dalle consuetudini. In questa fase di elaborazione – scherzo con trio – si puo` effettivamente pensare a un brano di sonata. Il secondo Trio, sia perche´ di piu` ampie proporzioni, sia perche´, essendo in Si, devia dalla traiettoria tonale consueta, fa pensare alla trasformazione in pezzo autonomo di un brano ideato inizialmente come parte di un tutto. Anche il collegamento del secondo Trio con la successiva ripresa dello Scherzo fa pensare alla deliberata ricerca dell’autonomia formale della composizione. E le transizioni graduate fra Trio e ripresa dello Scherzo erano state una invenzione e una... specialita` di Chopin. Insomma, se il blocco Scherzo-Trio I-Scherzo fa pensare a Weber, il blocco ScherzoTrio II-Scherzo fa pensare a Chopin, e il blocco complessivo fa pensare a Schumann. Indipendentemente dall’insolubile problema della formazione di Brahms, sembra a me che nello Scherzo op. 4 si noti, piu` che la scelta classicistica, una sintesi fra il protoromanticismo di Weber e il romanticismo di Chopin e di Schumann. Weber, Chopin, Schumann. Possiamo aggiungere, per quanto riguarda la strumentazione pianisticoorchestrale, Liszt? Non il Liszt delle grandi fantasie drammatiche e dei Grandi Studi, ma il Liszt delle trascrizioni da Beethoven. Come gia` detto, Liszt aveva pubblicato nel 1840 le trascrizioni di alcune Sinfonie, e nel 1842 la trascrizione del Set119

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timino op. 20. Se nelle fantasie egli aveva sviluppato all’estremo, raggiungendo effetti illusionistici da due pianoforti, la tecnica della sovrapposizione di una melodia e di una ornamentazione coloristica, nella trascrizione della Sinfonia fantastica di Berlioz e in modo piu` maturo nelle trascrizioni da Beethoven aveva sviluppato una vera e propria scienza della riproduzione pianistica di una partitura – partition de piano – mediante la dislocazione sulla tastiera degli eventi sonori, dei modi d’attacco, dei raddoppi. Ora, non e` chi non veda come la strumentazione pianistica dello Scherzo op. 4 appaia molto spesso orchestrale (a parte il fatto che un nucleo del primo tema e` preso dalla ouverture per l’opera Hans Heiling di Marschner). Chi, oltre a Liszt, sapeva pero` impiegare questo stile di trascrizione? Io non ne conosco, e mi sembra dunque che molti particolari della scrittura brahmsiana dimostrino una conoscenza delle trascrizioni beethoveniane di Liszt, specialmente della Sinfonia Pastorale. Quel che appare comunque con chiarezza e` che Brahms, avendo per lo meno conoscenza delle fantasie di Thalberg e di Do¨hler, scarto` il loro stile di scrittura molto ornamentata, uno stile che alla meta` del secolo era ormai al tramonto. Se consideriamo il cammino compiuto da Liszt, anche quanto alla scrittura strumentale, dal Gran solo da Concerto del 1849, che e` una vera e propria fantasia drammatica su temi originali, alla Sonata del 1852-1853, non possiamo che restare stupefatti di fronte al Brahms che con la preveggenza di chi legge l’avvenire sceglie a diciott’anni la strada giusta. Alla luce di tutte queste considerazioni che sono venuto faticosamente ammassando conviene leggere la illuminante e illuminata sintesi di Schumann nel celeberrimo Vie nuove: ‘‘Avendo guardato con viva simpatia il cammino percorso da questi eccezionali artisti [Joachim, Naumann, Bargiel, Kirchner, Scha¨ffer, Dietrich, Gade, Mangold, Franz, Heller], pensavo che dopo un simile periodo preparatorio sarebbe apparso, avrebbe per forza dovuto apparire all’improvviso qualcuno chiamato a tradurre in modo ideale la piu` alta espressione dell’epoca e la cui abilita` non sarebbe scaturita dallo sviluppo progressivo delle sue capacita`, ma di colpo, come Minerva sorge armata dalla testa di Giove’’. Quando scrisse queste righe Schumann conosceva lo Scherzo op. 4 e la Sonata op. 1. Solo piu` tardi, durante l’internamento a Endenich, lesse la Sonata op. 2, composta prima dell’op. 1. E allora, in una lettera a Brahms del marzo 1855, ritorno` sul concetto di Minerva uscita armata dalla testa di Giove: ‘‘Una corona d’alloro per questo Johannes che non si sa da dove venga’’. Anche nel diario di Cla120

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ra troviamo una prima impressione sulle musiche di Brahms, che riflette evidentemente il pensiero di Schumann: ‘‘Egli ha studiato ad Amburgo con Marxsen, ma cio` che ci ha suonato e` di tale maestria che si puo` solo pensare che Dio lo ha mandato nel mondo gia` bell’e fatto’’ (1 ottobre 1853). Tutto cio` e` molto poetico, e non lo dico con ironia ma con ammirazione. Pero` non mette a tacere le domande che l’opera pianistica di Brahms suscita. Le prime due Sonate aggiungono alcuni elementi alla definizione del linguaggio pianistico brahmsiano. La scrittura che lega insieme molti eventi sonori e che impone posizioni in estensione della mano, tanto frequente nelle trascrizioni beethoveniane di Liszt, vi si afferma come dato costante. Ma la sonorita` risulta meno squillante di quella lisztiana, perche´ in genere l’attacco del tasto avviene piu` da vicino. Bisogna dire che spesso si puo` scegliere fra diverse altezze d’attacco e che solo la conoscenza di tutta l’opera pianistica di Brahms induce a preferire una tecnica piu` nettamente ‘‘brahmsiana’’ per ottenere quel ‘‘un po’ grigio di tono’’ che Liszt notera` nel Concerto op. 83; tuttavia, se la sonorita` di Brahms si fara` sempre piu` nettamente definita nel corso degli anni, fino al culmine del Concerto op. 83, i suoi caratteri di fondo si presentano gia` fin dagli inizi. Nelle Sonate, particolarmente nella Prima, sembra di trovare anche tracce di stile schubertiano. E qui, finalmente, abbiamo una precisa conferma della familiarita` di Brahms con alcune Sonate di Schubert, dovuta probabilmente all’insegnamento di Marxsen, che a Vienna aveva studiato con un intimo amico di Schubert come Carl Maria von Boklet. Nel diario di Clara Schumann, alla data 8 maggio 1854, troviamo infatti scritto: ‘‘[Brahms] suono` parti della Sonata in la [forse l’op. 42] di Schubert, il Rondo` della Sonata in re [op. 49] di Weber e un movimento [di una Sonata] di Clementi – tutto a memoria’’. E il 19 maggio. ‘‘Brahms mi suono` le Sonate di Schubert in La [op. 120 o D 959] e il Rondo` della Sonata in Re [op. 53] a proposito delle quali avevo appena letto le magnifiche parole di Robert, e la Sonata in Si bemolle di Clementi’’. Nelle apparizioni pubbliche del concertista di pianoforte Johannes Brahms fra il 1853 e il 1870 (piu` tardi suono` quasi esclusivamente musiche sue) le Sonate di Schubert non compaiono. Compaiono invece – non elenco i pezzi brevi – la Fantasia cromatica e fuga e la Toccata in Fa (dall’organo) di Bach, una non precisata Sonata di Clementi, le Sonate op. 27 n. 1 e n. 2, op. 54, op. 109, op. 111, la Fantasia op. 77, le 32 Variazioni in do e le Variazioni op. 35 di Beethoven, due non precisati Improvvisi di Schubert, i Da-

Cadenze

vidsbu¨ndlerta¨nze op. 6, la Toccata op. 7, le Sonate op. 11 e op. 14, gli Studi sinfonici op. 13, i Kreisleriana op. 16, la Fantasia op. 17 di Schumann, il Concerto in re di Bach, i Concerti K 466 e K 491 di Mozart, il Quarto e il Quinto Concerto e la Fantasia op. 80 di Beethoven, il Concerto di Schumann; secondo quanto si trova citato in carte d’archivio a Detmold, Brahms, durante la sua permanenza in quella cittadina come pianista di corte, avrebbe eseguito concerti di Moscheles, Mendelssohn, Chopin. Dalle cronache giornalistiche e dai ricordi degli ascoltatori non si riesce bene a capire come Brahms suonasse; dal parere positivo di una persona affidabile come Clara Schumann si va al parere negativo dell’altrettanto affidabile William Mason, dal parere parzialmente negativo di un competente come Ferruccio Busoni si va al parere parzialmente positivo di un competente come Euge` ne d’Albert, e le lodi e le riserve si alternano senza che si riesca a fissare con esattezza il termine di riferimento del recensore, sicche´ diventa difficile districarsi fra le insolubili contraddizioni. Che Brahms potesse affrontare qualsiasi pagina della letteratura risulta dal suo repertorio, che potesse inventare spericolatezze e tour de force risulta non solo dalle Variazioni su un tema di Paganini ma gia` dalla trascrizione del Rondo` in Do di Weber, che oggi viene datata al 1852, e dalle Cadenze scritte per vari concerti negli anni cinquanta. Marxsen racconto` a Klaus Groth che, avendo egli assegnato a Brahms il Rondo` di Weber (finale della Sonata op. 24), il ragazzo lo preparo` e lo eseguı` ‘‘in modo irreprensibile, esattamente come volevo’’. Complimentato dal maestro, il giovanissimo Brahms disse di aver preparato il pezzo anche in un altro modo e ‘‘suono` la parte della mano destra con la sinistra’’! Non sappiamo, naturalmente, in che cosa consistesse questa prima trascrizione, ma non doveva essere molto diversa da quella che conosciamo e che venne pubblicata dapprima nel 1869 e poi nella raccolta Cinque Studi speciali (1852-1879, 1879), comprendente, oltre al Rondo` di Weber, la parafrasi in doppie note dello Studio op. 25 n. 2 di Chopin, due trascrizioni diverse del Presto della Sonata n. 1 per violino solo e la trascrizione per la sola mano sinistra della Ciaccona di Bach. La trascrizione del Rondo` di Weber e` di una difficolta` terrificante e, bisogna aggiungere, astratta. Il disegno del moto perpetuo e` pensato da Weber a misura di mano destra, sia per quanto riguarda la posizione delle dita (esterna del mignolo, interna del pollice), sia per quanto riguarda la trazione del braccio rispetto alla mano. Se il disegno viene eseguito dalla mano sinistra tutto l’aspetto tecnico dell’esecuzione va risolto con artifi-

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ciosissimi aggiustamenti della diteggiatura. Per di piu` – per giuste ragioni musicali, s’intende – Brahms e` costretto ad aggiungere qualche basso, che complica ulteriormente l’esecuzione. La scrittura pianistica che astrae dalla mano destinata a realizzarla non sara` infrequente in Brahms, e non solo in composizioni scritte a scopo di esercitazione, come gli Studi speciali, o di ricerca virtuosistica, come le Variazioni su un tema di Paganini. C’e` forse, in questa caratteristica, una qualche eredita` clementina; non a caso, penso, Brahms aveva in repertorio almeno un Sonata di Clementi quando, ai concertisti, Clementi non interessava minimamente: ‘‘E` un peccato’’, scriveva Clara Schuman nel suo diario il 4 dicembre 1879, ‘‘che nella Sonata [op. 78 per violino e pianoforte] ci siano alcuni passaggi aspri, come sfortunatamente cosı` spesso e` il caso di Brahms’’. Proprio quello che viene da sospirare di frequente, quando si esegue Brahms. Tutti conoscono del resto i passi dei Concerti che creano disperanti problemi tecnici, e tutti ricordano le battute o addirittura i frammenti di battuta di ardua esecuzione in pezzi, per il resto, di media difficolta`. Si tratta di una caratteristica ben nota: la musica pianistica di Brahms non risulta, all’audizione, cosı` difficile com’e` in realta`, e la sua rendita in termini di spettacolarita` e` di molto inferiore a quella dei pianisti-compositori della generazione precedente. Non appena si lasciano pero` da parte i casi estremi diventa difficile o impossibile capire quale fosse esattamente, per Brahms, il rapporto fra la musica scritta e la musica percepita, perche´ proprio la natura e la densita` della sua scrittura, che rimanda all’orchestra, postula una complessita` di rapporti di intensita` e di timbri che non e` piu` realmente ricostruibile oggi. Comunque, le caratteristiche basilari del pianoforte di Brahms si rivelano subito agli inizi degli anni cinquanta e si sviluppano per almeno una decina d’anni. Dopodiche´ avremo piuttosto l’utilizzazione sempre piu` raffinata di alcune parti del vocabolario pianistico brahmsiano, con poche ulteriori acquisizioni. Le Cadenze (1854-1856, 1927) per il Concerto in re di Bach, per i Concerti K 453, 466 e 491 di Mozart, per il Concerto n. 4 di Beethoven ci dicono che Brahms tendeva a ‘‘modernizzare’’ i testi del passato sia in ordine alla scrittura che alla sonorita`. Ad esempio, nella Cadenza per il 491 di Mozart troviamo agilita` leggera in posizione della mano allargata e con suoni tenuti, con un effetto timbrico assai diverso da quello della scrittura mozartiana, e sempre nella stessa Cadenza troviamo un esempio di virtuosistico impiego delle ottave e dei salti della mano sinistra. Nella Cadenza per il Quarto di Beethoven troviamo un effetto romanti121

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co ‘‘a tre mani’’ e una catena di trilli molto complessa. Resterebbe da vedere se – il che e` probabile – e come – il che e` impossibile da verificare – il concertista Brahms ritoccasse la scrittura di Mozart e di Beethoven anche al di fuori delle Cadenze, cioe` se, in qualche modo, la ‘‘trascrivesse’’ per i pianoforti del suo tempo. Non e` illegittimo supporre che Mozart e Beethoven suonassero brahmsianamente, sotto le dita di Brahms. Ma la modernizzazione non doveva essere solo a senso unico: come vedremo fra breve Brahms, partito dal rifiuto dello stile thalberghiano-lisztiano delle fantasie drammatiche, ricava dalla musica del Settecento gli stimoli maggiori per inventare la sua dimensione del pianoforte. Questo giovanotto di vent’anni, che musicalmente mostra di saper cogliere tratti essenziali della tradizione romantica e che non arretra di fronte a nessuna vertigine tecnica, esordisce con tre Sonate, cioe` con il genere per antonomasia della classicita`. Della classicita` o, meglio, di Beethoven. L’inizio della Sonata n. 1 in Do op. 1 (1852-1853, 1853) richiama nettamente l’inizio della Sonata op. 106 di Beethoven al punto da apparire come intenzionale citazione di un momento culminante, e gia` mitico, della classicita` viennese. Ma bisogna subito notare che lo schema formale della sonata non viene inteso da Brahms in senso neppure minimamente accademico. Sono soprattutto i rapporti di tonalita` a essere ripensati: nel primo movimento della Sonata op. 1, in Do, il secondo tema non e` in Sol ma in la nella esposizione, e non e` in Do ma in do nella riesposizione. Nel primo movimento della Sonata n. 2 in fa diesis op. 2 (1852, 1853) il secondo tema non e` in La ma in do diesis nella esposizione, e non e` in Fa diesis ma in fa diesis nella riesposizione. Nella Sonata op. 1 Brahms intende dunque spezzare l’unita` classica del modo, alternando maggiore e minore, nella Sonata op. 2 intende mantenere l’unita` del modo minore. Vero e` che qualcosa di analogo – unita` del modo minore – lo si trova per eccezione nella Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven. E` pero` evidente che il ventenne Brahms possiede la capacita` e il coraggio di procedere al di fuori e contro cio` che la tradizione classica aveva praticato e che proprio negli anni quaranta aveva ricevuto la ‘‘certificazione’’ dei teorici. Applicando in modo anacronistico una teoria che Busoni avrebbe espresso quasi settant’anni piu` tardi si potrebbe dire che l’estetica di Brahms e` quella della ‘‘giovane classicita`’’ e non del neoclassicismo: ‘‘Per nuova classicita`’’, dice Busoni, ‘‘intendo il dominio, il vaglio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti; il racchiuderle in forme solide e belle’’. Lo schema dell’allegro di 122

Sonata n. 1 in Do op. 1

sonata classico non viene ricalcato da Brahms, ma ridiventa principio del comporre ed e` usato con quella curiosita` dello sperimentatore che era stata di Beethoven e di Schubert. Un accenno alla unificazione tematica si trova nelle prime due Sonate, in termini molto discreti che fanno pensare a Mendelssohn: il finale della Sonata op. 1 e` costruito su una variante del primo tema del primo movimento, nella Sonata op. 2 il tema dello Scherzo e` una variante del tema del secondo movimento, e sempre nella Sonata op. 2 il primo tema del primo movimento e il tema del secondo movimento sono costruiti sulla stessa cellula motivica. Nella Sonata n. 3 in fa op. 5 (1853, 1854) Brahms, usando una cellula motivica di tre suoni che sta alla base di piu` temi, va molto oltre questi primi e un po’ primitivi esperimenti. Si tratta della tecnica compositiva che viene impiegata sia dal tardo Beethoven che da Schumann; la cellula motivica della Sonata op. 5 e` anzi identica – difficile dire se per caso o per scelta deliberata – a quella del Concerto op. 54 di Schumann (costruita sul nome CHiArinA, che sta per Clara). Brahms, a ventun’anni, dimostra anche per questo aspetto di saper scegliere cio` che della tradizione e` suscettibile di sviluppo, e di saperlo dominare. Le Sonate op. 1 e op. 2 sono in quattro movimenti e con il secondo movimento in forma di variazioni (come nelle opere 47 e 57 di Beethoven). I temi delle variazioni sono in entrambi i casi canti d’amore popolari (o creduti tali da Brahms). Il testo poetico riportato da Brahms nel secondo movimento dell’op. 1 dice, cantato dal solista: ‘‘Furtiva sorge la luna, come attraverso nuvole d’argento’’. E il coro risponde: ‘‘Blu, blu, fiorellino, rose nella valle, nella stanza una ragazza, oh, Rosa, la piu` bella’’. Nell’op. 2 il testo, non riportato da Brahms ma riferito dal suo amico Albert Dietrich, e`: ‘‘Sono triste, perche´ l’inverno ha spogliato la foresta e la landa’’. E il tono di ballata nordica popolare pervade effettivamente entrambe le Sonate, con percorsi drammaturgici epico-leggendari che culminano ogni volta in finali di apoteosi. Un percorso analogo regge la Sonata op. 5, ma il tono, qui, non e` piu` epico ma introspettivo. Il nucleo emotivo della Sonata e` centrato sul secondo movimento, Andante espressivo, che e` un grande duetto d’amore con una epigrafe da Sternau: ‘‘Cala la sera, brilla la luce lunare. Due cuori fusi in amore si uniscono nell’estasi’’. Il pezzo, che e` in La bemolle, si chiude con una estatica coda – Andante molto, poi Adagio – in Re bemolle. Nella economia dell’opera il Re bemolle si collega con il si bemolle (tonalita` relativa minore di Re bemolle) del quarto movimento, intitolato Rimebranze, e con il Re bemolle del trio dello Scher-

Gavotta di Gluck

zo e del terzo tema del finale, entrambi a modo di corale. La decisione di terminare il secondo movimento in una tonalita` diversa da quella dell’inizio, fatto del tutto eccezionale alla meta` del secolo, era sicuramente dovuto a una scelta di timbro perche´ il Re bemolle, che impiega tutti i tasti neri, richiede una posizione delle dita diversa da quella ordinaria e favorisce la produzione di una sonorita` calda e vellutata. Ma il Re bemolle del secondo movimento viene inserito in una rete di tonalita` che non lo rende estraneo all’insieme dell’architettura. Rimembranze, costruito sullo stesso tema del secondo movimento, del movimento notturno e amoroso, indica l’esito tragico della vicenda. Il finale termina pero` con l’apoteosi, a modo di giga e in Fa, del terzo tema, del corale in Re bemolle. Su questi dati si puo` costruire lo sviluppo drammaturgico, e ciascuno puo` immaginare una precisa vicenda di amore, morte e rinascita. Nella Sonata op. 5 Brahms, come dicevo, costruisce piu` temi su cellule comuni. E, a proposito del suo pendant per la criptografia, di cui diro` piu` avanti, dopo avere indicato il rapporto fra il primo nucleo e il tema CHiArinA faccio notare che il secondo tema del finale e` costruito sulle note fa-la-mi, cioe` sulla denominazione tedesca di Frei, Aber Einsam (Libero, ma solo), che era il motto di Josef Joachim, intimo amico di Brahms. Nel ventenne e classico-romantico Brahms si scorge pero` anche l’ambizione a ricollegarsi a una tradizione piu` antica, quella barocca. Non solo si trovano nello Scherzo op. 4 e nelle Sonate dei brevi canoni. I canoni, di per se´, non comportano nessuna intenzione arcaicizzante: le Due Gavotte (1854-1855, 1976), le Due Gighe (1855, 1927) e le Due Sarabande (1855, 1917) testimoniano invece una insolita curiosita` verso il genere antico della suite. La composizione di fughe o di preludi e fughe non ci colpirebbe, perche´ il preludio e fuga era un recupero romantico del barocco – basti pensare a Mendelssohn. La suite era invece completamente desueta verso il 1850, e neppure la pratica didattica aveva ancora veramente preso in considerazione le suite di Bach e di Ha¨ndel, mentre aveva invece gia` stabilmente adottato il Clavicembalo ben temperato. L’idea della suite potrebbe essere stata suggerita a Brahms da AlexandrePierre-Franc¸ ois Boe¨ ly, nato nel 1785, che fra il 1853 e il 1855 scriveva otto suite ‘‘composte nello stile degli antichi maestri’’, quattro delle quali venivano pubblicate nel 1854. Brahms conobbe le suite di Boe¨ly? O aveva conosciuto la Giga e Aria da ballo nello stile antico op. 24 di Alkan, pubblicata nel 1844? O conobbe la Suite op. 7 del fratellastro di Clara Schumann, Voldemar Bargiel? Non

Johannes Brahms

siamo in grado di rispondere. Ma sembrerebbe molto singolare che un anziano compositore francese e alcuni giovani compositori tedeschi e francesi pensassero contemporaneamente a riportare in vita la suite. Brahms, al contrario di Boe¨ly, di Alkan e di Bargiel, non pubblico` pero` questi suoi lavori, e non sappiamo neppure se veramente porto` a termine almeno una suite, come sembrerebbe probabile, o se si limito` a comporre alcuni pezzi in stile antico. Nel giugno del 1854 Brahms inviava al suo maestro Marxsen, insieme con le Variazioni op. 9, dei pezzi per pianoforte sulla cui pubblicazione chiedeva un parere. Potrebbe trattarsi di brani di suite. Sappiamo che Marxsen sconsiglio` la pubblicazione. Clara eseguı` nel 1854 una Sarabanda e nel 1855 una Gavotta di Brahms, nel 1856 mise in repertorio ben sette Sonate di Scarlatti, nel 1857 la Suite in sol di Ha¨ndel e nel 1859 alcune danze tratte dalle Suite inglesi di Bach. L’interesse di Brahms per la suite si inseriva dunque entro una ricerca culturale a cui aderivano Bargiel e Clara che, ripresa intensamente la carriera concertistica dopo il ricovero in clinica e la morte del marito, stava ampliando e rinnovando il suo repertorio. Un affettuso omaggio a Clara e` la trascrizione della Gavotta di Gluck (1855 ca., 1871), tratta da Paride ed Elena (Paride-Brahms, Elena-Clara?). L’attenzione che Brahms rivolge all’antico, pur non avendo negli anni cinquanta un vero sbocco creativo, ci interessa particolarmente per le conseguenze che provoco` sulla evoluzione del suo stile pianistico. Un passo della Giga in la ci dice che Brahms pensava all’organo (o al pianoforte con pedaliera, sostituto domestico dell’organo, di cui si era occupato dieci anni prima Schumann). Altri esempi di scrittura organistica li troviamo in altri pezzi arcaicizzanti del 1854-55. Ma organistico e` in realta` gia` l’inizio della Sonata op. 5, cosı` come organistici sono altri particolari dello stesso pezzo, a cominciare dalle tre battute che precedono e introducono il secondo tema. Brahms, comincio` a comporre brani di suite nel 1854. Gia` nell’anno precedente si nota pero` nelle sue opere pianistiche qualche rifdlesso della scoperta dell’organo e del trasferimento al pianoforte di composizioni organistiche. Si possono a questo proposito fare tre ipotesi, che non si escludono videndevolmente e che sono tutte e tre indimostrabili. Brahms pote´ conoscere, quando divenne intimo degli Schumann, le composizioni di Robert per organo e per pianoforte con pedaliera, ma non e` detto che fossero queste a suggerire il grandioso, bachianamente grandioso e drammatico inizio della Sonata op. 5. Clara trascrisse per pianoforte, nel 1854, il Preludio e fuga in la per organo di Bach, che non 123

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pubblico` mai, e Brahms trascrisse la Toccata in Fa, che figura nei suoi programmi di concerto nel 1856. La terza ipotesi e` solo teoricamente possibile ma, secondo me, non e` la meno affascinante: nel 1852 Liszt pubblico` la sua trascrizione di sei Preludi e fuga per organo di Bach, quella trascrizione che dava il via a una nuova avventura storica del pianoforte. E Brahms, gia` lo sappiamo, aveva un occhio che vedeva lontano. Nella Sonata op. 5, rispetto alle Sonate op. 1 e op. 2, e` comunque evidente sia un arricchimento dei mezzi pianistici, sia la capacita` di Brahms di scrivere in modo solo piu` indirettamente riconducibile alla trascrizione dall’organo. Nel Concerto n. 1 in re op. 15 (18541858, 1861) lo stile pianistico del giovane Brahms e` pienamente maturo nello sfruttamento di una concezione della tastiera che, per quanto ricca di rischi e fonte di fatica per l’esecutore, e` finalizzata perfettamente a un colore della sonorita` che preannuncia la futura strumentazione per orchestra di Brahms e che non ha precedenti nella definizione di una tavolozza timbrica particolarissima e personalissima. Nessun compositore, neppure Mozart, aveva mai fatto a venticinque anni cio` che a venticinque anni fa Brahms. Il concerto per pianoforte e orchestra era passato da Mozart a Beethoven ai compositori biedermeier (ivi compreso Chopin). Poi Mendelssohn aveva avviato una nuova fase di rapporto fra il solista e l’orchestra ed era nata – da una teorizzazione di Schumann – l’idea del concerto sinfonico a cui si erano applicati molti compositori oggi dimenticati come Charles Mayer, Auguste Dupont, Michail Bergson, Emile Prudent, Emil Wroblenski, Franz Bendel, e Theodor Kullak, ricordato come didatta, e Henry Litolff, i cui cinque Concerti, composti fra l’inizio degli anni quaranta e il 1855, sono oggi presenti nella discografia. Brahms lavora al suo Concerto n. 1 mentre Liszt termina il suo Concerto n. 1, iniziato quasi vent’anni prima. E se Liszt trova una soluzione del problema che equilibra il virtuosismo del solista con un ruolo da protagonista dell’orchestra in un lavoro di snelle proporzioni, Brahms raggiunge lo stesso risultato in una dimensione di titanica monumentalita`. Perfezione strutturale, perfezione architettonica, e perfezione drammaturgica, che riprende da Beethoven l’idea di primo movimento come lotta eroica, secondo movimento come preghiera, terzo movimento come festa. Qui Brahms si collega a Beethoven e va oltre, tanto da farci dire, parafrasando Hans von Bu¨low, per il quale la Sinfonia n. 1 di Brahms era la Decima di Beethoven, tanto da farci dire che questo e` il Sesto Concerto di Beethoven. L’ampiezza degli orizzonti culturali del giovane 124

Concerto n. 1 in re op. 15

Brahms non esclude la sua piena appartenenza al romanticismo. Il punto di partenza dello Scherzo op. 4, come abbiamo visto, e` il Hans Heiling di Marschner, e parecchi critici hanno molto insistito sul ‘‘clima della ballata nordica cara a Brahms, un clima di volta in volta eroico e fantastico, oppure tenero e sognante, il suo clima, quello delle naturali inclinazioni che tendono verso il Nord, dei ricordi dell’infanzia, delle canzoni ascoltate’’ (C. Rostand). Secondo le mie impressioni la Sonata op. 2 ha qualcosa a che vedere con le leggende nordiche di cavalieri, destrieri, draghi, fanciulle rapite, coboldi, e con aperture paesistiche nordiche nel brano introduttivo dell’ultimo movimento. Nelle Ballate op. 10 si trova certamente un riscontro preciso a cio` che dice il Rostand e alle mie impressioni sulla Sonata op. 2. Le quattro Ballate op. 10 (1854, 1856) sono ispirate a una ballata scozzese, Edward, pubblicata da Herder, storia di un ragazzo che, istigato dalla madre, uccide il padre. Si e` molto discusso sul fatto che l’epigrafe tratta dalla ballata scozzese riguardi la sola Ballata op. 10 n. 1 o tutto il ciclo. Ho detto ciclo, non raccolta. Il carattere di ciclo e` dato dalla rete delle tonalita`: re, con parte centrale in Re, nella Ballata n. 1, Re, con parte centrale in si, nella n. 2, si nella n. 3, intitolata Intermezzo, Si nella n. 4. Io ritengo dunque che il rapporto con Edward riguardi tutta l’op. 10. Tuttavia, non e` poi cosı` importante scoprire la presenza in Brahms di quegli afflati romantico-leggendari che in senso lato possiamo definire wagneriani. E` piuttosto la familiarita` con cio` che il romanticismo tedesco ha di piu` proprio, l’intimismo, cio` che qui ci interessa esaminare. A me sembra che nel secondo movimento della Sonata op. 2 si possa filtrare una radice schumanniana: il Quasi Variazioni della Sonata n. 3 op. 14. Pero`, gia` lo abbiamo visto, pare che la musica di Schumann fosse malnota al Brahms diciannovenne. E allora basta arrivare alla Sonata op. 5, che venne costruita intorno al secondo e al quarto movimento, composti prima degli altri e dei quali ho gia` detto. Siamo qui nel piu` puro romanticismo schumanniano. E schumannianamente il quarto movimento, costruito sullo stesso tema del secondo ma in modo minore e tragicamente disperato, e` intitolato Rimembranze. Romantico nella Sonata op. 5, e vicino al poema sinfonico di Liszt – e` paradossale che la Sonata di Liszt non abbia un programma palese e che lo abbia invece la contemporanea Sonata di Brahms – Brahms e` romanticissimo sia nelle Ballate op. 10 che nelle Variazioni su un tema di Schumann op. 9 (1854, 1854). Nelle Variazioni dedicate a Clara Schumann – ‘‘Variazioni su un tema di Lui, dedicate a Lei’’ nel mano-

Variazioni su un tema di Schumann op. 9

scritto – lo schumannismo e` totale: il Tema e` il Foglio d’album op. 99 n. 4, la Variazione nona e` modellata sul Foglio d’album op. 99 n. 5, alla fine della decima Variazione viene citato il tema della Romanza variata op. 3 che la quattordicenne Clara aveva dedicato a ‘‘Monsieur Robert Schumann’’ e che Monsieur Robert Schumann aveva preso a prestito per gli Improvvisi su una romanza di Clara Wieck op. 5. Divenuto di casa dagli Schumann, Brahms – Johannes Kreisler junior, come amava chiamarsi – era dunque persino capace di imitare i giochi criptografici in cui Robert era stato maestro. E non c’e` bisogno di molta scienza per capire che l’intrico delle citazioni e delle dediche rivela l’intrico dei sentimenti in cui si avvolgevano e Clara e Brahms in quel 1854 in cui Robert Schumann venne internato a Endenich. Lo ‘‘schumannismo’’ di Brahms ci interessa pero` anche per altre ragioni, e cioe` perche´ lo porta a geniali ricerche di scrittura pianistica. Clara e` presente nell’op. 9 di Brahms, oltre che per la citazione della Romanza variata, pure per la disposizione pianistica (melodia nel registro medio-acuto, armonia figurata che si distende dal registro medio al registro acuto, basso di sostegno) della meravigliosa Variazione quindicesima, che si riallaccia alla parte finale delle Variazioni op. 20 di Clara sullo stesso tema. La` dove Clara aveva pero` semplicemente utilizzato un modulo pianistico inventato da Mendelssohn e poi sviluppato da Schumann, Brahms trasforma il basso di sostegno in una linea di canto: il basso ripete in canone, alla sesta inferiore, la melodia. Ben difficilmente l’ascoltatore si accorge del canone, anzi, non se ne accorge nemmeno se e` un professionista. Ma sente che il basso acquista un rilievo maggiore di quello della romantica contro-melodia e, nello stesso tempo, l’intensita` espressiva del basso modifica la risonanza dei suoni intermedi. Brahms rinnova cosı` , modificandone alcuni caratteri, la pienezza della scrittura eufonica dei romantici, di cui non si era molto curato nelle Sonate. La scrittura canonica di questa Variazione, dicevo, non e` avvertibile all’audizione. Tanto meno e` avvertibile il canone della Variazione ottava, canone all’ottava bassa che appena si delinea fra le nebbie delle oscillazione dei suoni della mano sinistra. Si tratta senza dubbio della invenzione stupefacente di una sensuale sonorita` pianistica che si basa su una forma dotta e scolastica come il canone. Anche la sesta delle Variazioni op. 20 di Clara era un canone, un canone che era solo un canone... E nelle Variazioni di Brahms si puo` cogliere, insieme con l’omaggio devoto a Robert e amoroso a Clara, la inconscia crudelta` di chi rimette nella piccola nicchia che le e` propria la compositrice, dimo-

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strandole quale giardino di incantesimi puo` nascere dal bellissimo Tema del marito. Un canone e` la Variazione quattordicesima di Brahms, un canone che pone e risolve un altro problema di sonorita` pianistica. Canone alla seconda, a due voci, con un basso libero di accompagnamento. Questo tipo di canone poteva averlo trovato, Brahms, nelle Variazioni di Goldberg di Bach, ripubblicate nel 1851 dalla Bachgesellschaft. Nella realizzazione pianistica della scrittura di Bach i pianisti erano pero` in grado di differenziare col tocco le due voci del canone, cosa impossibile sul clavicembalo. E questa e` la soluzione tecnico-coloristica che permette di rendere con chiarezza percettiva il tessuto di Brahms: tocco differenziato alla mano destra, usando poco o non usando affatto, dato lo staccato del basso, il pedale di risonanza. Quale fosse in concreto l’esecuzione di Brahms non sappiamo. Ma la sua scrittura postula indubbiamente i tocchi differenziati nello stesso registro dello strumento: soluzione che ritroviamo, con una importante variante (uso continuo del pedale di risonanza) nella seconda parte della Ballata op. 10 n. 4, e che nella Ballata non da` luogo a dubbi quanto alla tecnica di esecuzione. Ora, gia` i romantici avevano cominciato a usare il tocco differenziato nello stesso registro, di modo che lo stesso tasto, al limite, fornisse di volta in volta la sonorita` per la melodia e la sonorita` per l’accompagnamento. La scrittura della Ballata op. 10 n. 4 non e` sostanzialmente diversa da quella della parte centrale nello Scherzo op. 20 di Chopin. Ma la scrittura della Variazione quattordicesima dell’op. 9 pone problemi nuovi perche´ non piu` di melodia e di accompagnamento si tratta. Si tratta di due voci. E per di piu`, la limitazione nell’uso del pedale di risonanza costringe a un lavoro minuziosissimo, calibratissimo delle dita. Ancora un gioco contrappuntistico crea una novita` di sonorita` pianistica nella Variazione decima, aggiunta due mesi dopo che il lavoro era stato terminato: nelle prime otto battute il basso e` l’inversione della melodia; poi questa prima parte, solennemente misteriosa, e` seguita dalla ‘‘normale’’ variazione a cui funge da introduzione. Insieme con queste straordinarie scoperte troviamo nelle Variazioni op. 9 la ripresa di moduli conosciuti. Ad esempio, la Variazione sesta ricorda la tecnica biedermeier di Moscheles che ritroviamo nella quarta delle Variazioni op. 20 di Clara. Le Variazioni quarta e quinta ricordano le disposizioni pianistiche care a Mendelssohn. La Variazione nona, come gia` detto, ricorda il Foglio d’album op. 99 n. 5 di Schumann, e schumanniane sono le Variazioni terza e prima; questa, la prima, sembrerebbe anzi pensata 125

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11 Variazioni sopra un tema originale in Re op. 21 n. 1

per il pianoforte con pedaliera che Schumann predilesse nei suoi ultimi anni. Schumanniana sarebbe, secondo Otto Schumann, la Variazione tredicesima, che a me sembra piuttosto di sonorita` chopiniana (Preludio op. 45). La Variazione seconda puo` essere considerata schumanniana di scrittura, ma in realta` richiama addirittura una ricerca – suoni tenuti su suoni staccati – che aveva molto appassionato il giovane Beethoven. Molto indirettamente, a Beethoven si richiamano la Variazione settima, che e` un vero e proprio studio sulla risonanza del pianoforte in due registri alternati (medio e basso). E, sempre in modo indiretto, si puo` ritenere che la sedicesima Variazione risenta della Variazione ventesima delle Diabelli di Beethoven. Infine, nelle Variazioni undicesima e dodicesima la scrittura di trascrizione dall’orchestra si trasforma in vera e propria strumentazione pianistica; nella Variazione undicesima, mirabile, con la fusione di trutti i registri, in pianissimo, mediante l’uso continuo del pedale di risonanza, e nella dodicesima, all’opposto, con la dissociazione dei registri. Nelle Variazioni op. 9 e` infine da notare il piano tonale, che dipende in gran parte dal colore timbrico a cui il compositore mira: fa diesis (Tema e Var. I-VIII), si (Var. IX), Re (Var. X), Sol (Var. XI, ma la tonalita` non e` praticamente riconoscibile), fa diesis (Var. XII-XIV), Sol bemolle (Var. XV), Fa diesis (Var. XVII). Meno ricche di scoperte sono le Ballate op. 10, nelle quali ricompare spesso la scrittura delle Sonate, sia pure con varianti che la trasformano. Ad esempio, l’inizio a modo di leggenda della Ballata n. 1, con il raddoppio della melodia a una e a tre ottave di distanza suona arcano rispetto all’inizio della Sonata op. 1, in cui il raddoppio avveniva a una e a due ottave. Nella parte centrale della Ballata n. 3 Brahms trova un altro uso dissociato dei registri, questa volta con pedale di risonanza e con un effetto che non e` esagerato definire mahleriano. Fino al 1858 Brahms resta impegnato nella composizione del Concerto op. 15 in cui tutti i caratteri del suo linguaggio pianistico trovano impiego, come s’e` detto, in modo maturo. Il Concerto ha caratteri anche classicistici: oltre agli impianti tonali, regolarissimi, l’entrata del pianoforte riprende certo modo mozartiano di dare la parola al solista; il finale ricorda in piu` d’un punto il finale del Concerto n. 3 di Beethoven, e quasi una citazione della classicita` puo` essere considerato il fatto che il solista non suoni nelle ultime battute (al tempo di Mozart cio` avveniva perche´ il solista era anche direttore). I contemporanei, e non solo i contemporanei, ritennero che piu` che di concerto si trattasse di sinfonia concertante con pianoforte

obbligato. Per quanto puo` valere una definizione, questa, in fondo, non e` inaccettabile. Quel che non puo` essere minimizzato e` pero` il ruolo solistico del pianoforte, non solo perche´ il pianoforte suona molto ma perche´ rappresenta una alternativa all’orchestra, tanto che non si capisce come Brahms avesse non pensato, ma scritto il primo movimento dapprima come sinfonia e poi come sonata per due pianoforti. Le prime opere pianistiche elaborano una sonorita` pianistica e il Concerto conclude questa fase con una architettura che in termini di durata sara` la piu` vasta pensata da Brahms. Subito dopo, Brahms sviluppa quegli aspetti del suo linguaggio pianistico non ancora condotti fino alle estreme conseguenze. Facciamo prima un passo indietro per accennare alle 11 Variazioni sopra un tema originale in Re op. 21 n. 1 (1856-1857, 1861) e alle 13 Variazioni sopra un tema ungherese in Re op. 21 n. 2 (1853, 1861). Le due serie, poco note, ci interessano perche´ ritornano allo schema arcaico che non prevede, come nella suite, cambiamento di tonalita` ma solo di modo. Rispetto all’op. 9, l’op. 21 n. 1 rinnova il miracolo di un canone (Var. V), questa volta per moto contrario, in cui l’invenzione pianistica cela la dottrina compositiva. Il Tema e la conclusione sembrano pensati per il pianoforte con pedaliera, e certe linee costruite su intervalli ampi (Var. II e IX) sviluppano in senso ornamentale e con risultati sonori di grande suggestione le estensioni che nelle Sonate erano dovute al trasferimento pianistico di un pensiero orchestrale. L’op. 21 n. 1 fu eseguita per la prima volta da Clara Schumann in un concerto privato a Lipsia nel 1860; e a Clara si riferisce probabilmente la citazione, nell’ultima pagina, del Lied di Schubert Der Wanderer, Il Viandante, alle parole ‘‘La`, dove tu non sei’’. Piu` virtuosistiche le Variazioni op. 21 n. 2, con le linee ispessite e irrobustite da raddoppi in ottava, in terza, in sesta. Nella Variazione sesta un dialogo fra le due parti, affidato alla mano destra sugli staccati della sinistra (quasi pizzicato) pone problemi di tocco analoghi a quelli della Variazione quattordicesima dell’op. 9. Il blocco delle Variazioni VII-XI sembra a me quello piu` ricco di invenzioni pianistiche; e, detto per inciso, la parte della mano sinistra delle Variazioni decima e undicesima ci conferma – ‘‘indizi’’ analoghi si trovano nelle Sonate – che la mano di Brahms arrivava a prendere, tenendola, la decima maggiore. Nel finale troviamo invece un esempio di scrittura a due voci con raddoppio in ottava che ci porta diritti diritti nelle Variazioni su un tema di Ha¨ndel. Prima di parlare delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel bisogna pero` ricordare una trascrizione, dal

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25 Variazioni e fuga su un tema di Ha¨ndel op. 24

Tema con variazioni del Sestetto per archi op. 18, scritta per Clara. Si tratta del Tema e variazioni in re (1860, 1927), con Tema in re, tre Variazioni in re, due Variazioni in Re, ripresa abbreviata e ornata del Tema e coda in re. L’organizzazione delle Variazioni e` classicheggiante perche´ da una densita` ritmica prevalente di due suoni per unita` di misura del Tema si passa ai quattro nella prima Variazione, ai sei nella seconda, agli otto nella terza; si ritorna a due suoni nella prima Variazione in modo maggiore e si passa a quattro nella seconda. Del tutto particolare e` invece la curva della dinamica: largamente prevalente il forte nel Tema e nelle prime tre Variazioni, largamente prevalente il piano nella seconda parte dell’opera. Troviamo in queste Variazioni un principio arcaico del comporre che comincia a essere ripreso da Brahms, con le conseguenze che vedremo fra breve. La scrittura pianistica e` quella della trascrizione da un complesso strumentale molto denso, ed e` quindi ricchissima di raddoppi e, al basso, di arpeggiamenti che permettono di coprire grandi distanze. A leggere la trascrizione, che si estende al basso (non con un semplice raddoppio ma con una parte reale) fino a una quinta sotto la quarta corda del violoncello, si penserebbe che l’originale fosse in la o in sol o in fa. L’originale e` invece in re, ed e` la sua trascrizione pianistica a modificarne in parte la struttura sonora. E l’esito, cosa che qui piu` ci interessa, richiama spesso lo stile di trascrizione pianistica da musiche barocche. L’ultimo omaggio a Schumann e` rappresentato dalle 10 Variazioni sul Tema degli Spiriti per pianoforte a quattro mani op. 23 (1861, 1863). La dedica a Julie Schumann, figlia minore di Robert e di Clara, e` una manna per gli psicanalisti. Il Tema era quello, variato solo in parte da Schumann, che poco prima dell’internamento a Endenich era stato ‘‘dettato’’ dagli spiriti di Schubert e di Mendelssohn e che in realta` era stato ripreso dal Concerto per violino. Con quest’ultimo omaggio Brahms conclude l’elaborazione del lutto per la scomparsa di una figura nello stesso tempo di padre e di rivale (il piu` classico dei complessi edipici!) e da` inizio allo spostamento del desiderio erotico dalla madre alla figlia. Nel 1869 Brahms penso` effettivamente di sposare Julie e fu molto contrariato quando la ragazza si fidanzo` con un nobile piemontese, vedovo e con figli. Il tono espressivo e` sempre intimo e rievocativo del passato, l’ultima Variazione e` in pratica una marcia funebre. Si tratta di un capolavoro che purtroppo e` poco conosciuto ed e` la prima dimostrazione della capacita` di scrivere per pianoforte a quattro mani in un modo che mette

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Brahms, qualitativamente se non quantitativamente, sullo stesso piano di Schubert. Non siamo piu` in grado di capire, oggi, quale vero e proprio esercizio di ascesi rappresentasse per Brahms la composizione delle 25 Variazioni e fuga su un tema di Ha¨ndel op. 24 (1861, 1862). Ma il mantenimento per tutta l’opera della secca quadratura del Tema e i limitatissimi mutamenti di tonalita` (tre sole Variazioni in si bemolle, e una in sol) rappresentavano una vera sfida, un ritorno programmatico a schemi settecenteschi, una rinuncia alla liberta` con cui i romantici, e Brahms stesso nell’op. 9, avevano affrontato il genere. ‘‘Chiaramente, questo metodo di costruire variazioni’’, osservava ancora nel 1948 Ernest Hutcheson, ‘‘e` formale all’estremo, ma l’ispirazione di Brahms e`, come spesso, libera sotto le restrizioni autoimposte, che in altri avrebbero potuto uccidere l’immaginazione. Qualcuno puo` ritenere lungo il pezzo (molti esecutori omettono molti o tutti i ritornelli), ma non si puo` accusarlo di monotonia, tanto le miniature sono contrastanti in sentimento, tempo, modi maggiore e minore’’. Sorprendente, ma rivelatrice e` la conclusione: ‘‘La composizione e` stata prodigalmente lodata dagli esperti, ma e` piu` un fatto intellettuale che un lavoro di bellezza. La poesia e` per la maggior parte latente e si afferma senza vergogna solo nella Variazione ungherese, n. 13, e nei meravigliosi cromatismi della n. 20’’. Che le Variazioni op. 24 siano un lavoro in cui l’intelligenza raggiunge vertici di incredibile sottigliezza e` certamente vero. Basti considerare la Variazione ventunesima, nella quale il Tema – a ‘‘scoprirlo’’ fu addirittura un segugio dell’analisi come Heinrich Schenker – e` nascosto nelle acciaccature. Il canone della Variazione sesta, non mascherato e non ‘‘poeticizzato’’ come nelle op. 9 e 21 n. 1, puo` suonar gelido alle orecchie degli ascoltatori, gli artifici contrappuntistici della Fuga (soggetto per moto contrario e per aggravamento, pedale di dominante) hanno tutti, e scoperti, i caratteri della scolasticita`, e la ritmica spesso uniforme puo` far pensare alla variazione intesa come studio. Ma a stupire e` soprattutto una scrittura pianistica che torna a riconsiderare seriamente la semplicita` della struttura discorsiva a due voci: il che, rispetto al romanticismo, rappresenta una vera controrivoluzione. Le Variazioni op. 24 di Brahms precedono di un anno le Variazioni su un tema di Bach di Liszt. Ma mentre Liszt sceglie in Bach un tema cromatico, tormentato, impiegato in una Cantata e nel Crucifixus della Messa in si e che si inserisce naturalmente nello sviluppo del linguaggio armonico verso il 1860, Brahms sceglie in Ha¨ndel un tema 127

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diatonico, schematico e sorridente, scritto per la figlioletta del duca di Galles. E mentre la scrittura di Liszt e` molto densa, in Brahms trionfa la scrittura lineare. Il celebre manifesto contro la ‘‘scuola neotedesca’’, firmato da Brahms nel 1860, e` dunque solo l’aspetto esteriore di un contrasto profondo che si va delineando negli anni cinquanta e che all’inizio degli anni sessanta si definisce con estrema chiarezza nelle opere, e proprio nelle Variazioni su un tema di Bach e nelle Variazioni su un tema di Ha¨ ndel, che per ciascuno dei due artisti rappresentano momenti creativi cruciali. Se nelle precedenti serie di Variazioni di Brahms i canoni davano luogo a soluzioni in cui il procedimento dotto veniva mascherato attraverso l’illusionismo timbrico, e se nelle danze antiche la scrittura arcaicizzante veniva trasferita sul pianoforte con pochi ritocchi riferentisi al nuovo strumento, nelle Variazioni su un tema di Ha¨ndel Brahms reinventa una scrittura neoclavicembalistica e neoorganistica che impiega l’armonia in funzione timbrica. Ad esempio, le due linee della prima Variazione, eseguite in staccato e quindi percepibilissime, non vengono lasciate isolate ma non vengono neppure raddoppiate parzialmente in ottava (era il modo delle Variazioni op. 21 n. 2) per colmare il vuoto che si crea fra di loro; suoni di armonia ispessiscono invece e modificano timbricamente i suoni lunghi della mano destra, aumentandone la risonanza. Lo stesso procedimento viene impiegato nella Variazione terza nella quale, attraverso un gioco di silenzi, di vuoti e di pieni, viene simulato un canone immaginario; e nella Variazione quinta vengono ammorbidite con armonie intermedie le distanze, quando le due voci si allontanano. Nella Variazione undicesima il ‘‘riempimento’’ armonico fa invece nascere un barlume di terza voce, uno di quei controcanti delle parti interne che i pianisti del tardo Ottocento amarono poi mettere in evidenza in Mozart e nel primo Beethoven. Piu` tradizionali sono i raddoppi in ottava e in sesta, assai frequenti. Nella Variazione sesta, ad esempio, l’ottava serve pero` non a rinforzare, ma a incupire la sonorita` (anche se, in questo caso, l’indicazione di legato non e` realizzabile se non con un lavoro di tocco e pedale di difficilissima calibratura). Il culmine dell’arcaismo viene toccato, piu` che nella Fuga, nella Variazione diciannovesima, con la didascalia leggero e vivace, che e` una siciliana e che potrebbe appartenere a una raccolta di danze antiche trascritte: non e` lontano, lo Scarlatti delle pastorali. Ma alla diciannovesima segue la Variazione ventesima, con i suoi cromatismi in cui, a detta di Ernest Hutcheson, la poesia ‘‘si afferma senza vergogna’’. Non solo, in verita`, nella Varia128

Variazioni su un tema di Paganini op. 35

zione ventesima o nella tredicesima, quella all’ungherese. Gli scivolamenti cromatici delle parti nella Variazione seconda non sono immaginabili se non con la sonorita` fremente e sensuale del romanticismo, sebbene la scrittura sia rigorosamente a parti reali, e cosı` la melodia della Variazione quinta o la melodia della sinuosa Variazione dodicesima, soave, per la quale vengono alla memoria le lunghe spiegazioni del romanticissimo Antoine de Kontski sul tocco carezzando. L’accostamento di un passato sognato e amorosamente ricreato e di un presente voluttuosamente goduto raggiunge un momento di sublime poesia nella Fuga, quando un procedimento strettamente contrappuntistico, l’inversione del soggetto, da` luogo alla piu` bella, alla piu` cullante barcarola che si possa immaginare. Le Variazioni su un tema di Ha¨ ndel furono pubblicate senza dedica. Il 7 dicembre 1861 erano state eseguite ad Amburgo, per la prima volta, da Clara Schumann; e in una lettera di Clara alla figlia Marie, del 23 novembre 1861, troviamo scritto: ‘‘Johannes ha composto alcune bellissime cose e delle Variazioni che mi hanno proprio deliziata, piene di genio e con una Fuga alla fine che combina abilita` e ispirazione in una maniera di cui raramente ho veduto l’uguale. Sono spaventosamente difficili, ma le ho quasi imparate – sono dedicate ‘‘a una cara amica’’, e tu puoi immaginare quale gioia mi da` il fatto che egli abbia pensato a me mentre scriveva queste magnifiche Variazioni’’. Ma la dedica rimase segreta. Scritte a conclusione di un periodo in cui Clara, come artista e come concertista – oltre che come donna – aveva costituito il polo di attrazione di Brahms, le Variazioni su un tema di Ha¨ndel furono seguite dalle due serie delle Variazioni su un tema di Paganini op. 35 (1862-1863, 1866), cioe` sul Tema del Capriccio n. 24 che era gia` un tema con variazioni. L’op. 35 nasce insieme con l’amicizia che a Vienna aveva legato Brahms al ventunenne e ‘‘lisztiano’’ Carl Tausig. Nel rifiuto, o nella impossibilita` di Clara a mettere in repertorio le nuove Variazioni, di cui diro` fra breve, c’e` anche, simbolicamente, il segno di una svolta profonda nei suoi rapporti con Brahms, il quale cessava di essere per lei una figura sostitutiva di Robert. Clara definı` Hexenvariationen, variazioni stregate, l’op. 35. Ne scrisse a Brahms una prima volta il 18 ottobre 1863: ‘‘I miei speciali ringraziamenti per le Hexenvariationen – ho cominciato a studiarle con grande zelo, ma non mi sembrano adatte per l’esecuzione pubblica perche´ le combinazioni sono troppo sorprendenti e ai non professionisti potrebbero non piacere. Io penso che se ne venissero inserite alcune con piu` semplici armonie, qualcuno

Variazioni su un tema di Paganini op. 35

(cioe` l’ascoltatore) potrebbe avere qualche riposo. Ci pensi sopra: la terza, quinta, sesta, decima, diciassettesima e diciannovesima sono le mie preferite – molte altre lo diventeranno non appena riusciro` a suonarle correttamente’’. Da Mosca nel 1864, scrivendo a Brahms che le aveva parlato di Tausig in termini elogiativi, Clara diceva: ‘‘Fui sorpresa che Lei mi parlasse cosı` di Tausig; prima avevo sentito parlare di lui solo come di un pestone; e io sto provando sempre piu` avversione per il pestaggio, cosı` che ora non posso davvero tollerarlo – qui in Russia ho dovuto di nuovo sentirlo, da Bu¨low’’. Il 19 luglio Clara ritornava sulle Variazioni op. 35: ‘‘Sono stata a studiare le Variazioni di Paganini molto laboriosamente, ma piu` ci lavoro, piu` le trovo difficili. Tuttavia non intendo fermarmi finche´ non le conoscero`, e sono interessata alle loro abili combinazioni. Non mi sembrano adatte da suonare in concerto, perche´ neppure un musicista puo` seguire le loro curiose ramificazioni e i giri piccanti; tanto piu` il normale pubblico le giudicherebbe come se fossero dei geroglifici’’. Infine, l’1 maggio 1865, da Londra, Clara riassumeva il suo pensiero dicendo innanzitutto di non vedere la ragione di due serie di variazioni sullo stesso tema di Paganini; consigliava di ridurre il tutto a una sola serie, omettendo alcune variazioni e usando come finale quello della prima serie. Le Variazioni da escludere, secondo Clara, erano la n. 8 della prima serie e i numeri 4, 11, 12, 7a e 16 della seconda serie (non si capisce bene a che cosa alludesse Clara con i numeri 7a e 16). E concludeva: ‘‘Le Variazioni mi fanno sempre pensare al titolo Studi in forma di variazioni [il titolo con cui erano diventati noti gli Studi sinfonici di Schumann], che converrebbe loro benissimo. Sarei felice di essere capace di studiarle nuovamente’’. Clara non eseguı` mai le Variazioni. Le eseguı` Tausig a Berlino il 25 marzo 1865 e le eseguı` Brahms a Zurigo il 25 novembre 1865 e a Vienna il 17 marzo 1867, ma non sappiamo se si trattasse o no di esecuzioni integrali. Penso di no, perche´ Brahms autorizzo` poi il pianista Hans Barth a presentare in pubblico una scelta comprendente il Tema, le Variazioni nn. 1, 3, 5 e 9 della prima serie, le Variazioni nn. 6, 7 e 12 della seconda serie, per concludere con le Variazioni nn. 10, 11, 13 e 14 e con il finale della prima serie. Piu` tardi, a detta dell’interessato, Brahms autorizzo` anche Moriz Rosenthal a presentare una scelta dalle due serie, e diverse scelte furono adottate da altri interpreti. L’amicizia con un grande allievo di Liszt, la difficolta` estrema, la stessa decisione, necessariamente emblematica, di variare un tema di un virtuoso come Paganini possono far pensare a un ritorno ver-

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so il romanticismo demoniaco degli anni trenta. La ricerca virtuosistica delle Variazioni op. 35, per quanto strano cio` possa sembrare a tutta prima, prosegue invece coerentemente la linea delle Variazioni op. 24. Non si incontrano nelle Variazioni op. 35 ne´ i trilli e melodia nella stessa mano, ne´ i trilli doppi, ne´ i passi di agilita` della mano sinistra, ne´ la coloratura che copre tutta la tastiera avvolgendo le melodie, ne´ le ottave prolungate, ne´ altre di quelle ardite sperimentazioni virtuosistiche che spesseggiano nelle pagine scritte dai virtuosi negli anni trenta. Vi si trovano invece molti esempi di scrittura neoclavicembalistica e neoorganistica. E forse Tausig interesso` a Brahms, piu` che come allievo di Liszt, come trascrittore della Toccata in re di Bach, presentata a Berlino nello stesso programma in cui vennero incluse le Variazioni su un tema di Paganini. Ci sono nelle Brahms-Paganini due Variazioni famose, famose fino a essere proverbiali fra i pianisti, la n. 13 della prima serie (sulle ottave in glissando) e la n. 11 della seconda serie (sulle ottave cieche). Tanto famose e tanto difficili che i competenti pubblici americani degli anni venti e trenta del Novecento applaudivano quando a eseguirle era Joseph Lhevinne, al quale riuscivano, pare, in un modo inimmaginabile. E Lhevinne, ben lungi dal risentirsi perche´ l’esecuzione veniva interrotta dagli applausi, concedeva subito il bis. Orbene, in entrambi i casi non e` improprio pensare a una trascrizione dall’organo o da un clavicembalo con registri di 4 e di 16 piedi. Cosı` com’e` del tutto evidente che Brahms ha in mente una registrazione organistica nella undicesima Variazione della prima serie, con la destra (in pianissimo e molto legato e dolce) che fa da riflesso impallidito alla sinistra (in piano espressivo). Nella successiva Variazione il canone e` strumentato in un modo che ricorda le cineserie dell’op. 9, ma non senza un’idea di registrazione organistica su due manuali. Piu` diretto, piu` palmare ancora e` il riferimento a registrazioni organistiche nella settima, ottava e nona Variazione della prima serie, nella nona, nella decima e nel finale della seconda serie. Un altro esempio di scrittura per nulla romantica lo abbiamo nelle due Variazioni (n. 4 e n. 12 della seconda serie) basate su melodie che vengono esposte in registro acuto e sopracuto, mentre il romanticismo aveva puntato piuttosto, per le melodie, sulla densita` corposa del registro medio e aveva usato poco il raddoppio in ottava come mezzo espressivo. Molto raro e` il riferimento al violino, che ci si aspetterebbe invece di trovare in variazioni su un tema di Paganini: in pratica, dopo la prima Variazione, ispirata alla seconda delle serie paganiniana, sono violinistiche solo la terza Va129

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Johannes Brahms

riazione della prima serie, l’ottava della seconda serie (con la didascalia quasi pizz.) e un passo del finale della prima serie. Persino il Tema viene strumentato da Brahms con un semplice raddoppio in ottava e con appena qualche accenno di armonizzazione: basta paragonare la trascrizione brahmsiana con quella di Liszt (nell’ultimo degli Studi da Paganini) per capire quanto eterodossa dovesse parere la concezione di Brahms rispetto alla tradizione pianistica romantica che aveva rispecchiato in se´ il virtuosiso demoniaco di Paganini. Diro` per curiosita` che, a quanto risulta dai taccuini di August Go¨llerich e di Karl Lachmund, gli allievi di Liszt eseguivano le Variazioni di Brahms nei corsi di perfezionamento che il Maestro teneva negli anni ottanta. Il Go¨ llerich riporta due commenti di Liszt, senza dirci a quali Variazioni fossero riferiti: ‘‘Questo e` il mormorio del maggiolino’’ e ‘‘Questo e` dolce, corroborante latte’’. Sembra strano che Clara non capisse la ragione delle due serie di variazioni sullo stesso tema, ed e` strano che Brahms autorizzasse il me´ lange delle due serie. La ragione delle due serie consiste secondo me nella diversa sonorita`. Pur nel comune denominatore di una scrittura, nella sua radice, arcaicizzante, la tessitura della sonorita` e` piu` densa nella prima serie, piu` trasparente nella seconda: la prima serie, mi sembra di poter dire, e` paraorganistica, mentre la seconda e` paraclavicembalistica. Questa e` una differenza netta, che si impone da sola quando le due serie vengono eseguite di seguito, e con la ripetizione del tema, mentre mancano l’obbiettivo tutte le soluzioni che tentano la sintesi delle due serie e la costruzione di una architettura paragonabile a quella delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel. La perfetta riuscita formale e` raggiunta da Brahms con le due serie, impeccabilmente equilibrate nelle loro piu` brevi proporzioni e che, insieme, costituiscono un dittico in cui le due ‘‘ante’’ sono complementari. Le Variazioni op. 35 concludono a parer mio le ricerche brahmsiane sul pianoforte, ma le concludono come conseguenza di una evoluzione storica della scrittura che durante il romanticismo aveva avuto due direzioni: assorbimento del teatro, assorbimento della musica sinfonica. Dopo il 1860 gli interessi dei giovani virtuosi sono ancora in parte indirizzati verso l’opera di Wagner, ma trovano maggiori stimoli nella trascrizione dall’organo e dal clavicembalo, che consente nello stesso tempo un allargamento del repertorio concertistico e una ricerca sullo strumento non ancora condotta fino in fondo. Non solo le Variazioni su un tema di Ha¨ndel, ma anche le Variazioni su un tema di Paganini acquistano il loro significato storico piu` profondo se 130

Variazioni su un tema di Paganini op. 35

sono viste nel contesto delle trascrizioni dall’organo e dal clavicembalo di Tausig e di Bu¨low, di Julis Schulhoff, Reinecke, Raff, Saint-Sae¨ns, Plante´, Auguste Dupont, Brassin: trascrizioni che sono prima di tutto ricerche sul colore pianistico. Si capisce cosı` una affermazione di Oscar Bie, che nel 1898, ancora a ridosso della generazione di cui ci stiamo qui occupando, scriveva: ‘‘Egli [Brahms] lavoro` nel mondo del suono, senza tracce di virtuosismo, senza un sospetto di concessione alla comprensione del mero dilettante’’. Affermazione che apparirebbe assurda se si considerassero le Brahms-Paganini solo sotto l’aspetto della difficolta` meccanica. Come tutti i musicisti della sua generazione e ancora della successiva, Brahms lesse molta musica a quattro mani e guardo` al quattro mani come a un mezzo di diffusione delle sue opere non pianistiche. La figlia di Schumann, Eugenie, nella biografia del padre pubblicata nel 1925 ricordava che alla fine degli anni cinquanta ‘‘a tutti noi bambini piaceva Brahms: eravamo rapiti dalle sue Serenate e dai suoi Sestetti e non ci stancavamo mai di suonarli come duetti [al pianoforte]’’. Non si stancava nemmeno l’Autore, che scrivendo a Joachim nella primavera del 1869 diceva: ‘‘Nei giorni scorsi ho trascritto la mia seconda Serenata [op. 16] a quattro mani. Che divertimento! Ero completamente lieto: raramente ho scritto musica con un tale piacere’’. Piu` tardi, com’e` ben noto, Brahms avrebbe eseguito a quattro mani o a due pianoforti le sue Sinfonie, insieme con il pianista-compositore Ignaz Bru¨ ll, facendole conoscere agli amici prima che avesse luogo l’esordio pubblico della versione originale. Data questa usanza non stupisce che nella musica per pianoforte a quattro mani di Brahms si trovino dei veri e propri esempi di trascrizione da una immaginaria versione sinfonica, e studi di rapporti di altezza da cui nascera` l’orchestrazione brahmsiana. Nelle Variazioni su un tema di Schumann op. 23, ad esempio, si trovano tratti che ‘‘suggeriscono lo scuro colore dei legni della scrittura orchestrale di Brahms’’ (E. Lubin). In questo senso sarebbero da studiare le equivalenze timbriche orchestra-pianoforte, non solo nelle trascrizioni ma ancora di piu` nelle versioni alternative, rispettivamente per orchestra e per due pianoforti, delle Variazioni su un tema di Haydn op. 56. Ma le analisi di questo tipo vorrebbero uno spazio e una serie di esempi musicali che eccederebbero i limiti di questo scritto. Quel che si nota nella trascrizione per pianoforte solo dei 16 Valzer op. 39 (1865, 1867), originali a quattro mani, non e` solo la inevitabile semplificazione del tessuto, quanto la difficolta` che si

Danze ungheresi a quattro mani

crea per il pianista nell’ottenere qualita` di suono delicatamente sfumate nei registri estremi. Se queste sonorita` possono ancora essere ottenute a bassa velocita`, nei rapidi tratti brillanti il suono diventa subito piu` pungente nella versione per pianoforte solo, mentre resta, nella versione a quattro mani, incomparabilmente sfuggente, inafferrabile, perche´ i due esecutori, seduti l’uno di fronte alla parte sinistra e l’altro di fronte alla parte destra della tastiera, attaccano il tasto frontalmente, non trasversalmente. E nella trascrizione Brahms e` per di piu` costretto, per ragioni di eseguibilita`, a trasportare talvolta l’originale in un’altra tonalita`. La grazia e la bellezza melodica dei Valzer (basti pensare al celeberrimo n. 15) permangono anche nella versione per pianoforte solo, che perde pero` l’inimitabile tono colloquiale, raccolto, da musica ascoltata al lume di candela, della versione a quattro mani. Gia` nei Valzer, ma soprattutto nelle prime dieci, trascritte da Brahms, delle ventitre Danze ungheresi a quattro mani (1852-1869, I e II quaderno 1869, III e IV quaderno 1880), la trascrizione non evita la trasformazione virtuosistica del tessuto, non arretrando nemmeno di fronte a soluzioni prossime alla ineseguibilita` (i passi in seste della decima Danza, ad esempio, sono piu` difficili di quelli della difficile prima Variazione dell’op. 35). In generale la trascrizione ci da` una versione meno ricca e piu` tesa di quella originale, ma in qualche momento, come nella terza parte della quarta Danza, Brahms inventa una scrittura, per quanto spericolata, di grande fascino. Il trasporto dal fa della versione a quattro mani al fa diesis della versione a due mani da` modo di rendere l’originale come uno schizzo a penna e di mutare i caratteri della sonorita`, che diventano addirittura pre-scriabiniani. Altre volte la ricerca della completezza porta Brahms a una scrittura che non ha nulla da invidiare a quella dei passi piu` azzardati dei Concerti. La scrittura a quattro mani di Brahms non differisce sostanzialmente da quella di Schubert, che sul duetto si era impegnato piu` di qualsiasi altro compositore. Un vero sviluppo, uno sviluppo di segno virtuosistico lo si nota pero` nel terzo e quarto quaderno delle Danze ungheresi. La coloratura, che in Brahms troviamo raramente e che viene impiegata a velocita` moderata e nella parte piu` acuta dell’oggetto sonoro nella prima delle Variazioni op. 23, nelle Danze ungheresi nn. 12, 13, 17, 18 e 21 compare anche nella posizione intermedia, centrale, e a velocita` elevata o elevatissima, al limite in cui l’orecchio percepisce una traccia sonora invece di una successione di suoni distinti. La prima parte della Danza n. 12 e` veramente im-

Johannes Brahms

pressionante, in questo senso. Cosı` come impressionanti sono la vaporosita` sonora dell’episodio in Re nella stessa Danza o l’incantato Poco meno presto della Danza n. 16 o gli effetti di pedali di tonica e di dominante ribattuti rapidamente ad altezze diverse nella Danza n. 18. Effetti assolutamente non trascrivibili per un solo esecutore; la trascrizione di Theodor Kirchner, che pure e` talvolta (come all’inizio della Danza n. 14) veramente geniale, lo dimostra chiaramente. La seconda serie delle Danze ungheresi e` molto notevole per gli aspetti compositivi, per certe varianti inattese della forma di canzone, per la creazione di ricalchi del lessico folclorico; ma e` notevole soprattutto perche´, nella ricerca di soluzioni sonore inusitate, introduce nella musica a quattro mani, tradizionalmente destinata all’esecuzione familiare, il concetto di bravura e quindi la dimensione concertistica. Nella musica per pianoforte solo il limite estremo della bravura viene raggiunto, come ho detto poc’anzi, nelle prime dieci Danze ungheresi e, in un modo piu` speculativo, nei gia` citati Studi speciali. Ho accennato prima al Rondo` della Sonata n. 1 di Weber. Lo Studio op. 25 n. 2 di Chopin viene trascritto in terze e seste, nelle due trascrizioni del Presto della Sonata n. 1 per violino solo di Bach il testo viene eseguito rispettivamente dalla mano destra e dalla mano sinistra (un’ottava sotto), con l’aggiunta di un contrappunto nota per nota. La difficolta` e` estrema, Brahms non tiene conto delle posizioni delle mani ma si preoccupa solo – e in verita` ci riesce – di creare un vorticoso moto perpetuo di due linee appaiate che s’avvicinano e s’allontanano. La Ciaccona e` affidata alla sola mano sinistra – il testo e` quello della revisione di Ferdinand David, pubblicata nel 1843 e adottata per tutto il secolo – senza aggiunte di qualche rilievo; ma tutto il tessuto e` trasportato all’ottava bassa, ed e` questa la trovata che rende sul pianoforte il carattere violinistico del pezzo. Lo rilevo` Clara Schumann non appena ricevette la trascrizione: ‘‘Nessuno, se non Lei, avrebbe potuto scrivere cio`, e quel che a me sembra tanto straordinario e` che Lei rende effettivamente l’effetto del violino. Come ha fatto a pensarci? Questo e` cio` che mi stupisce’’ (lettera del 6 luglio 1877). In verita` e` un po’ curioso il fatto che Clara si stupisse: nel primo degli Studi da Paganini di Liszt, a Clara dedicati, l’originale violinistico e` trasportato all’ottava bassa e, all’inizio, e` affidato alla sola mano sinistra. Il ‘‘segreto’’ consiste precisamente in cio`: il trasporto all’ottava bassa incupisce la sonorita` del pianoforte e ricrea quello che nel violino e` il registro basso, e l’esecuzione con la sola mano sinistra, in posizioni scomode e spesso con forti tensioni muscolari, ri131

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crea la trasformazione in pezzo virtuosistico che la Ciaccona aveva ricevuto con la revisione di David e con le esecuzioni di Joachim. Basta pero` paragonare i momenti culminanti della composizione (gli episodi in arpeggi, ad esempio) nella trascrizione di Brahms e nella quasi contemporanea trascrizione, anch’essa per la sola mano sinistra, di Ge´za Zichy, per capire che cosa fosse un modo romantico-demoniaco-paganinesco di intendere Bach in un delirio di virtuosismo trascendentale. Con Zichy siamo ancora al sabba delle streghe presso lo scuro noce di Benevento, con Brahms siamo alla danza di Puck su una lucente ragnatela. Con le Variazioni su un tema di Ha¨ndel Brahms crea un genere che fino alla Grande Guerra sostituira`, nella civilta` tedesca, la sonata. I precedenti di Beethoven (Variazioni op. 35, Variazioni op. 120) erano lontani e non avevano avuto un seguito per tutta una generazione. Un precedente di Friedrich Kiel, le Variazioni e fuga op. 17, composte nel 1860, era vicinissimo ma troppo dottrinario. Brahms, che come pianista aveva in repertorio l’op. 35 di Beethoven, potrebbe essere partito da Beethoven o potrebbe aver ripreso l’idea del Kiel, che viveva a Berlino e che non era affatto uno sconosciuto. In verita`, da chi prendesse l’idea ha pero` poca importanza. Le Variazioni del Kiel non ebbero successo. Le Variazioni di Beethoven furono assai eseguite ma non divennero mai popolari, mentre le Variazioni di Brahms, accolte all’inizio con rispetto e con un po’ di diffidenza, divennero ben presto amatissime e suscitarono una marea di imitazioni. Brahms bado` pero` bene a non imitare se stesso, e a non ripetersi, e nei trentasei anni che gli restavano da vivere non tento`, in campo pianistico, nulla di altrettanto grandioso. Dal 1873 in poi il campo massimo delle sue ambizio, il suo – per dirla con Charles Rosen – ‘‘veicolo del sublime’’ furono le opere sinfoniche, fra le quali porremo anche il Concerto n. 2 in Si bemolle op. 83 (18781881, 1882). Troviamo nel Concerto tutto quello che Brahms aveva imparato dal pianoforte, ivi comprese quelle che Alfred Brendel, riferendosi proprio all’op. 83, chiama le ‘‘aberrazioni pianistiche’’. Tutto quello che Brahms aveva imparato dal pianoforte, da un pianoforte che era stato all’inizio il riflesso di una orchestrazione classica. Sinfonia con pianoforte obbligato, dissero di nuovo i contemporanei, come avevano detto del Concerto op. 15. Il che, anche questa volta come nella prima, non era inesatto. Nel Concerto op. 83 non c’era l’idea del concerto romantico, e non c’era neppure piu` l’idea del concerto classico. C’era – se mi si perdona l’apparente paradosso – l’idea di concerto per due orchestre, un’orchestra sinfonica e un pia132

Concerto n. 2 in Si bemolle op. 83

noforte sinfonico, in se´ compiuti, che si ponevano di fronte come alleati, non come antagonisti. Basta pensare all’inizio. Il corno e il pianoforte fanno udire da una grande lontananza il nucleo fondante del primo tema, intervengono gli strumentini, poi il pianoforte fa una Cadenza che dimostra, piu` che la sua bravura, le sue potenzialita`, quindi l’orchestra, senza il pianoforte, espone il materiale tematico. E nel corso del primo movimento l’orchestra e il pianoforte, oltre che procedere insieme, si alterneranno. Nel secondo movimento il discorso e`... equamente distribuito fra i due protagonisti, e nel terzo movimento emerge dall’orchestra il primo violoncello con un tema liederistico. Nel quarto movimento, leggero di tono, blandamente scherzoso, e che per questo motivo non trova un plebiscito di approvazioni da parte dei critici che lo giudicano troppo disimpegnato rispetto a cio` che lo precede, la scrittura per due orchestre e` di nuovo tipica, ed equilibratissima. La qualita` estetica del Concerto n. 2 e` superba e la sua popolarita` dipende proprio dalla sua lucente bellezza. Dal punto di vista storico non si puo` dire che Brahms facesse evolvere dopo un quarto di secolo la sua concezione del concerto, e percio` il suo ‘‘impossibile’’ capolavoro resta secondo me il Concerto n. 1. Quando comincio` a fidarsi delle sue capacita` di sinfonista il pianoforte divenne per Brahms, invece di una macchina da battaglia, un confidente delle ore liete e delle ore tristi, divenne, come del resto fu piu` volte notato, un diario sonoro dei sentimenti piu` intimi. Gli Otto Pezzi op. 76 (1871-1888, 1889), il primo dei quali, Capriccio in fa diesis, composto molto prima degli altri e pensato per Clara Schumann (la Sonata op. 2 e le Variazioni op. 9, entrambe dedicate a Clara, sono in fa diesis, come il Capriccio op. 76 n. 1), contiene quattro Capricci e quattro Intermezzi. Non vorrei che sembrasse una fissazione, la mia, se dico che l’inizio del Capriccio mi ricorda i Preludi delle Suite per violoncello solo di Bach. Si potrebbe citare, come piu` vicino a questa pagina brahmsiana, il Preludio op. 45 di Chopin. Ma il sottovoce di Brahms ha un suono diverso dal piano di Chopin, e l’arpeggio che snodandosi prende figura di melodia, ha in Brahms un profumo di antico che non ha in Chopin, come un’arcana voce del passato che sa consolare la malinconia di chi del romanticismo ha veduto la fine dolorosa. Dopo la voce di Bach e` la voce di un ‘‘bachiano’’ come Mendelssohn, ad affacciarsi alla coscienza. Ma e` proprio di Brahms il saper combinare la gravita` di Bach e la tenerezza di Mendelssohn, trasformando in una nuova melodia, dolce fino allo strazio, il ‘‘rove-

Due Rapsodie op. 79

scio’’ della melodia esposta prima. C’e` anche l’organo, in questa mirabile pagina di Brahms, con i suoi raddoppi che danno consistenza alle cose appena sussurrate e con il soffio tenue del pedale. E alla fine, quando la melodia ricompare un’ottava sotto, nel registro delle piu` toccanti note del tenore, noi dobbiamo farci imprestare da Antonio Somma (e da Verdi) il ‘‘raggiante di pallor’’ che solo nella sua irreale incongruenza puo` definire questo momento affettivo. Nelle tarde pagine pianistiche di Brahms ci sono anche i momenti di incontenibile esplosione della vigoria fisica e persino del virtuosismo (Capricci op. 76 n. 4 e n. 8), e ci sono i momenti dell’umore bizzarro e salottiero (Capriccio op. 76 n. 2) E questa varieta` che si riscontra nell’op. 76 ritorna nelle raccolte successive, le Sette Fantasie op. 116 (1891-1892, 1892), comprendenti tre Capricci e quattro Intermezzi, i Tre Intermezzi op. 117 (1892, 1892), i Sei Pezzi op. 118 (1892, 1893), comprendenti quattro Intermezzi, una Ballata e una Romanza, e i Quattro Pezzi op. 119 (1892, 1893), comprendenti tre Intermezzi e una Rapsodia. Ci sono anche, nelle Due Rapsodie op. 79 (1879, 1880), degli studi sull’allegro di sonata: un perfetto allegro bitematico e tripartito e` la Rapsodia op. 79 n. 2, una sintesi di allegro di sonata e di scherzo con trio – una sintesi che fa pensare a Liszt – e` la Rapsodia op. 79 n. 1. Ci sono ricerche su delicatissimi rapporti tonali (tra il sol e il Si nella Ballata op. 118 n. 3) e costruzioni irregolari delle frasi (Intermezzo op. 76 n. 3, Rapsodia op. 119 n. 4) che danno al discorso la mutevolezza e la precarieta` di equilibrio delle cose dette con il pudore di chi non ha certezze da comunicare. Tutti i temi dell’op. 118 sono costruiti su un nucleo di tre suoni, ripreso dalla Sonata op. 5. Se li indichiamo con 1, 2 e 3, abbiamo, dopo l’1-2-3, il 2-1-3 e il 32-1, e poi il 1-3-1-2. e due volte il 1-2-1-3, senza che nessuno possa accorgersi di questi intarsi se non si astrae dalla poesia per tuffarsi nell’analisi astratta. Il tono che piu` ci affascina nel tardo Brahms e` pero` quello di molti Intermezzi, la malinconia senza dolore o la contemplazione serena del dolore, quel tono che sta a mezzo e che concilia la Stimmung del secondo e del quarto movimento della Sonata op. 5. Riaffiora il tedesco del Nord, ma riaffiora soprattutto la Empfindsamkeit, la sensibilita` del Bach amburghese, Carl Philipp Emanuel. E i cicli di Pezzi che Brahms pubblica fra il 1879 e il 1893 ripetono a distanza di un secolo le raccolte Per Conoscitori e Amatori che Carl Philipp Emanuel aveva pubblicato fra il 1779 e il 1787. Le acquisizioni del linguaggio pianistico non sono

Johannes Brahms

di certo l’elemento predominante delle tarde composizioni. Qualcosa va tuttavia segnalato. Ad esempio, l’arpeggio acquista talora una misteriosa vibrazione, come nell’Intermezzo op. 117 n 2. Nell’Intermezzo op. 118 n. 6 l’arpeggio rapidissimo e al limite della udibilita` e` come un vento di morte, una presenza paurosa e inafferrabile. E l’arpeggio lento, lo stanco cadere uno dopo l’altro dei suoni di un accordo non aveva mai raggiunto l’intensita` emotiva dell’Intermezzo op. 119 n. 1. La composizione pianisticamente piu` incantevole, perche´ trascende completamente il pianoforte, e` pero` la Romanza op. 118 n. 5. Formalmente e` un doppio tema con variazioni: Tema A (Fa), I Variazione, II Variazione, Ripetizione della I Variazione, Tema B (Re), I Variazione, II Variazione e coda del Tema B, Tema A (Fa), III Variazione del Tema A e coda. L’arte della variazione e` qui ingenua, antichissima. I due temi non vengono trasformati ma solo ritoccati con aggiunta di poche note ornamentali e con modificazioni del flusso ritmico. La dinamica e` piattissima, non c’e` nemmeno un forte, ci sono dei piano, molto piano, pianissimo, con indicazioni di espressivo, piu` espressivo, dolce, leggero. L’estensione e` quella dei grandi clavicembali, da fa-1 a fa5, e la strumentazione, con raddoppi all’ottava e alla doppia ottava, rende la sonnorita` lattea, tenue, lontanissima, la sonorita` dello strumento settecentesco riudito fra sogno e veglia. E` alle viste il Debussy della Suite bergamasque in una pagina che lega Brahms al decadentismo. Dopo, a raccogliere le ultime annotazioni del diario segreto di Brahms sara`, nei Preludi-Corali op. 122, la tastiera dell’organo. Fino alla pagina ultima, quella dell’addio: ‘‘O Welt, ich muss dich lassen’’, O mondo, ti devo lasciare. Avevo detto prima che si nota una implicita presenza dell’organo nella musica pianistica brahmsiana fin dalla Sonata op. 5, scritta nell’anno in cui Brahms conobbe Robert e Clara Schumann, ne fu affascinato e li affascino`. Non ci vuol molto, a immaginare l’arrivo di Brahms in casa Schumann come l’apparizione di un angelo biblico, di un messaggero. L’evento parve a Robert e a Clara cosı` straordinario da tingersi – ne fa fede il linguaggio con cui ne parlano – da tingersi di soprannaturale. E c’e` qualcosa che sfugge a ogni analisi, in quell’arrivo di Brahms a Du¨sseldorf, nel suo inserirsi nella vita di Robert e di Clara pochi mesi prima che Robert tentasse il suicidio, nei suoi lunghi soggiorni in casa Schumann, con Clara, mentre Robert era internato a Endenich. Il problema non e` di sapere, notarilmente, se fra Brahms e Clara ci fosse, come dicono i biografi anglosassoni, sexual connection. E non e` nemmeno necessario sapere 133

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Johannes Brahms

fino a che punto la vita matrimoniale di Robert e Clara fosse entrata gia` in crisi e quali sentimenti contrastanti nascessero in Clara. Come nel rapporto che negli stessi anni lego` Wagner e Mathilde Wesendonck, ci fu certamente, e di questo nessuno dubita, un amore profondo e misterioso che lego` Clara a Brahms e Brahms a Clara, e che ebbe una sua vita e un suo decorso e che, pur trasformandosi, non venne mai meno. Ma di queste cose hanno parlato e parlano ancora i biografi. Qui abbiamo visto quello che l’incontro significo` per Brahms, pianista, e per Clara, pianista. E a questo punto io non posso non attribuire al pianoforte e all’organo anche un significato simbolico. Nello stesso anno della morte di Schumann, 1856, Brahms scrisse le sue prime composizioni per organo, la Fuga in la bemolle e il Preludio-corale ‘‘O tristezza, o sofferenza’’. Due Preludi e fuga per or-

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Romanza op. 118 n. 5

gano scrisse Brahms fra la fine del ’56 e l’inverno ’57, dedicandoli a Clara. All’organo torno` solo trentanove anni piu` tardi, quando Clara morı`, il 20 maggio 1896, e quando si manifestarono in lui i sintomi della malattia mortale. Se per il pianista Brahms il pianoforte e` l’essere nel mondo, l’organo sembra essere l’annuncio della morte, la presenza che per due volte entra nella vita e che piu` volte si fa sentire. Ad apparire nel pianoforte di Brahms, ma senza entrare mai nella sua vita di musicista, non c’e` pero` solo l’organo. Ho piu` volte parlato del clavicembalo. E mi e` caro pensare che questo sia il simbolo di cio` che il trovatore Johannes Brahms, giunto a vent’anni nel castello di Du¨sseldorf e perdutamente votatosi alla castellana, inseguı` per lungo tempo e che intravide, perfetto, nella tenerezza estenuata della Romanza op. 118 n. 5.

Romanza op. 118 n. 5

Benjamin Britten

A Benjamin Britten (Lowestoft, 22 novembre 1913-Aldeburgh, 4 dicembre 1976) Benjamin Britten fu per lungo tempo l’accompagnatore al pianoforte del liederista Peter Pears e fu piu` volte partner di Richter in esecuzioni a quattro mani, ma per pianoforte compose pochissime pagine, e tutte, con una sola eccezione, prima di compiere i trent’anni. I Valzer op. 3 (19231925, 1970) sono cinque pezzi di un ragazzino, e sono ingenui e freschi come comporta l’eta` di un Autore di genio. Britten li revisiono` e li pubblico` solo molti anni piu` tardi. I primi quattro sono in forma di valzer e trio, il quinto e` un tema con quattro variazioni e coda. L’Holiday Diary op. 5 (Diario delle vacanze, 1934, 1935) e` un ciclo di quattro brevi pezzi: Bagno al mattino, In barca a vela, Luna park, Notte, Il riferimento ai Preludi di Debussy si presenta immediatamente alla mente dell’ascoltatore, ed e` persino ovvio. Ma il linguaggio non e` debussista: caute esplorazioni della bitonalita` e del cromatismo lo situano all’inizio della parabola creativa di Britten, ancora influenzato dall’insegnamento di Frank Bridge. Il Concerto in Re op. 13 (1938) fu composto da Britten per se stesso, e fu da lui eseguito per la prima volta il 18 agosto 1938 a Londra sotto la direzione di Sir Henry Wood. I quattro movimenti hanno ciascuno un titolo: Toccata, Valzer, Recitativo e Aria, Marcia. Nel 1945 Britten sostituı` il Recitativo e Aria con l’Improvviso. Il Concerto e` molto brillante, specie nel primo e nel quarto movimento, e vuole valorizzare il solista, con l’orchestra in funzione di accompagnamento. In un certo senso Britten segue l’esempio di Ravel, che per il Concerto in sol aveva dichiarato di aver preso come modelli Mozart e Saint-Sae¨ns, cioe` una concezione non tanto sinfonica quanto parateatrale. Prokof’ev, ascoltando la prima esecuzione del Concerto di Ravel, aveva osservato che sarebbe stato piu` appropriato il titolo Divertimento. Senza farne una questione nominalistica si puo` dire lo stesso del Concerto di Britten: Divertimento, o Suite, definirebbero meglio il carattere del Concerto op. 13 nella sua versione originale. La ragione che indusse Britten a sostituire il Recitativo e Aria con l’Improvviso non e` chiara per me. Il Recitativo e l’Aria, con recitativo molto ampio e burlesco e con l’aria come nostalgico valzer lento, si inserivano secondo me perfettamente nel carattere generale del Concerto, mentre l’Improvviso, che e` in forma di

passacaglia, cioe` di tema con variazioni senza soluzione di continuita`, introduce un elemento di seriosita` in una composizione di tono leggero e scanzonato. Durante il soggiorno negli Stati Uniti, che duro` dal 1939 al 1942, Britten ricevette una commissione da Paul Wittgenstein, il pianista mutilato che bussando alla porta di molti compositori – con un sacchetto di monete d’oro in mano – si era formato un repertorio per la sola mano sinistra. Nacquero cosı` le Diversions on a Theme op. 21 (Diversioni su un tema, 1940). Tema e undici variazioni caratteristiche (Recitativo, Romanza, Marcia, Arabesco, Canto, Notturno, Badinerie, Burlesca, Toccata I, Toccata II, Adagio, Tarantella), composte senza l’ambizione di mascherare i limiti dell’esecuzione con la sola mano sinistra. Il tessuto e` leggero, scintillante, il tono salottiero e mondano. Purtroppo il pezzo, proprio perche´ non mette in mostra le virtu` sovrumane di chi opera con una sola mano, e` rimasto pressoche´ ignorato dai pianisti celebri. Sempre negli Stati Uniti venne composta la Ballata scozzese per due pianoforti e orchestra op. 26 (1941). I temi scozzesi sono tre: il salmo Dundee, il lamento funebre The Flowers of the Forest, e un reel (danza popolare). Britten dichiaro` di aver voluto rendere ‘‘un seguito di idee ed emozioni che furono caratteristiche della vita del popolo scozzese durante secoli di storia tempestosa’’. Il passaggio dall’atmosfera funebre alla vitalita` della danza e` mediato dal ritorno del salmo, e la drammaturgia del lavoro ricorda quella della Rapsodia spagnola di Liszt, che e` incentrata su un analogo contrasto. Sempre durante il soggiorno negli Stati Uniti Britten compose l’Introduzione e Rondo` alla burlesca per due pianoforti op. 23 n. 1 (1940, 1945) e la Mazurca elegiaca per due pianoforti op. 23 n. 2 (1941, 1942). L’op. 23 n. 1 e` basata sul contrasto, e si potrebbe dire sulla rivalita` e sullo spirito agonistico dei due pianisti, particolarmente evidente nella Cadenza, in cui il secondo pianoforte riprende le figurazioni del primo per moto contrario. Il pezzo e` articolato in quattro episodi: Grave, Allegro moderato ma con spirito, Grave, Allegro. Il termine Rondo` viene usato piu` nel senso antico, ronde, che nel senso tradizionale, e la forma non e` dunque quella del rondo` classico-romantico. Anche la Mazurca, pensata come omaggio alla memoria di Paderew135

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Benjamin Britten

ski, non segue la forma tradizionale con trio ma si sviluppa su un tema principale preceduto da introduzione. Il tessuto sonoro e` ricco di procedimenti contrappuntistici che non appaiono tali, cioe` ‘‘sapienti’’, all’ascolto, e la scrittura e` tra le piu` equilibrate ed efficaci di tutta la letteratura per due pianoforti. L’op. 23 ci si presenta cosı` come un dittico contrastante: neobarocco e neoromantico. L’ultima composizione pianistica del ri-

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Night Piece

stretto catalogo di Britten e` il Night Piece (Pezzo notturno, 1963), commissionato dal Concorso di Leeds come pezzo d’obbligo per tutti i candidati. Il pezzo non richiede all’esecutore nessuna dimostrazione di bravura: non e` il tipico ‘‘pezzo da competizione’’. Richiede invece una capacita` di controllo delle mezze tinte e delle sfumature piu` delicate del suono in una scrittura di carattere orchestrale.

Romanza senza parole in do

Ferruccio Benvenuto Busoni

A Ferruccio Benvenuto Busoni (Empoli, 1º aprile 1866-Berlino, 27 luglio 1924) Figlio di genitori entrambi musicisti, e abituato a sentire i suoi cari che studiavano e provavano, gia` sui tre anni Ferruccio Busoni cercava e trovava sul pianoforte e sul violino le melodie che lo avevano colpito e accompagnava la madre pianista con un flauto da ragazzi. Nel 1871 Ferdinando e Anna Busoni decisero di separarsi per qualche tempo perche´ la vita concertistica errabonda non permetteva loro di occuparsi dell’educazione del figlio: Ferdinando, che in quel momento otteneva ancora considerevoli successi come virtuoso di clarinetto, continuo` a dar concerti qua e la`, mentre Anna visse a Trieste in casa del padre, riprendendo la sua vecchia occupazione di insegnante privata di pianoforte. Ferruccio comincio` allora a studiare metodicamente il pianoforte sotto la guida di sua madre, mentre non trascurava la pratica del violino e iniziava gli studi letterari. Nel 1873 Ferdinando Busoni si riunı` alla famiglia e si incarico` di dirigere gli studi del figlio, sebbene la sua competenza musicale, come disse piu` tardi Ferruccio, fosse assai limitata, e assolutamente inesistente una sua qualsiasi conoscenza del pianoforte. Fino alla fine del 1875, cioe` fino a nove anni e mezzo di eta`, Ferruccio non ebbe altri maestri che i suoi genitori e non ebbe altre occasioni di ascoltare musica se non quelle offerte dalla vita musicale di Trieste. Anna Busoni, scrive Ferruccio, ‘‘aveva una scuola corretta, e suonava nello stile di Thalberg, con grande agilita`, in modo un po’ salottiero e di bravura’’. Pianista abile, quindi, era Anna; ma nel 1870 ci voleva ben altro che lo stile di Thalberg, per impiantare su basi sicure un ragazzo di grande talento: Liszt e gli allievi di Liszt, Anton Rubinsˇ tejn, Leschetizky, Clara Schumann rappresentavano le tendenze culturalmente avanzate del pianismo contemporaneo, tendenze che, sebbene diverse fra di loro, erano tutte ben oltre il pianismo thalberghiano. Quanto a Ferdinando Busoni, egli era, come ho gia` detto, un virtuoso di clarinetto privo di una vera cultura musicale: i suoi gusti erano quelli del musicista italiano medio del tempo, convinto della schiacciante superiorita` della musica operistica di casa, fanatico della melodia e del virtuosismo di stampo vocalistico: un suo opuscolo su Wagner, pur non essendo piu` spregevole di tanti altri opuscoli pubblicati in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento, denuncia crudelmente i ristrettissimi

limiti culturali dell’autore. Vero e` che molti anni piu` tardi Busoni lodo` suo padre per avergli fatto studiare Bach. Ma a noi interessa vedere che cosa, il giovane Busoni, pote´ imparare dai genitori, cioe` dai suoi primi maestri. E sembra certo che imparasse pochissimo. Infine, l’ambiente culturale di Trieste. Non c’e` dubbio che verso il 1870 un gruppo di musicisti, segnatamente due ungheresi, il violinista Giulio Heller e il pianista Edoardo Bix, stessero svolgendo nello Schillerverein un programma di ampliamento della cultura assai sistematico e lungimirante. Ma cio` non toglie che a Trieste fosse ancora necessario preparare con cautela il terreno per introdurre le opere di Wagner e che si cominciasse appena a eseguire, a larghi intervalli, gli ultimi Quartetti e le ultime Sonate di Beethoven. La vita culturale di Trieste era in sostanza quella di una citta` italiana, in ritardo di almeno un decennio rispetto alle grandi citta` tedesche. A Ferruccio Busoni mancarono quindi gli stimoli ambientali e i termini di confronto per un precoce sviluppo del suo vivacissimo ingegno musicale. La sua prima composizione, Canzone in Do (1873), non e` stata pubblicata e io non la conosco. Ho visto invece l’autografo della Romanza senza parole in do (24 maggio 1874), corretta imitazione dei piu` piatti e banali pezzi da salotto allora imperanti: il pezzo dimostra certamente le capacita` di apprendimento del bambino di otto anni, ma nello stesso tempo fa vedere quali miserabili modelli di composizione gli venissero proposti. Anche le prime imprese pianistiche di Ferruccio, sebbene considerevoli, non hanno nulla di portentoso e non giustificano i sogni di Ferdinando, che nel 1875 porto` suo figlio a Vienna per farne un fanciullo-prodigio. Un vero fanciullo-prodigio, per guadagnare le somme che Ferdinando aveva in mente, a nove anni e mezzo doveva essere in grado di eseguire un repertorio di pianista completo. Per fare un confronto, andando a Vienna il piccolo Busoni aveva in repertorio il Concerto K 491 di Mozart e una ventina di pezzi di media difficolta` di vari autori. Josef Hofmann, a dieci anni, poteva eseguire il Concerto K 466 di Mozart, i Concerti op. 15 e op. 37 di Beethoven, il Concerto in sol e il Rondo` brillante di Mendelssohn, il Concertstu¨ck di Weber e molti pezzi solistici di grande impegno virtuosisti137

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Ferruccio Benvenuto Busoni

co. Una ambizione sbagliata e una imperfetta conoscenza del livello raggiunto dalla vita musicale nei paesi tedeschi fecero quindi sı` che Ferdinando Busoni spingesse suo figlio verso una carriera lucrativa di fanciullo-prodigio, mentre sarebbe invece stato opportuno cercare qualche maestro di grande talento e di gran nome, che fosse in grado di formare musicalmente il bambino e di proteggerne piu` tardi gli esordi. In circa tre anni nei quali soggiornarono quasi costantemente a Vienna i Busoni non riuscirono a ottenere nessun risultato materiale, e non riuscirono neppure a inserirsi nel mondo musicale locale, sebbene Ferruccio frequentasse per qualche tempo, ma di malavoglia, il conservatorio. Ferruccio ebbe modo pero` di ascoltare molti artisti e molta musica, e la sua formazione musicale ricevette un primo, fortissimo impulso. La Sonata in Re (1875), inedita, non eccede ovviamente i limiti di una sonatina e i suoi modelli possono essere trovati nelle sonatine di Dussek e di Kuhlau. Non conosco la Sonata in Do op. 7 (1877), la Sonata in Re op. 8 (1877) e la Sonata in Mi op. 9 (1877), che sono rimaste inedite, ma il fatto stesso che a undici anni Busoni si cimentasse intensamente con il genere piu` alto della letteratura pianistica e` indice di un impegno mutato rispetto ai panorami italiani. Lo Scherzo op. 8 in Mi (1877, 1882; questo Scherzo faceva parte di una Sonata rimasta frammentaria) mostra l’interesse per il contrappunto e una certa influenza del giovane Beethoven. I Cinque Pezzi op. 3 (1877, 1877), che Busoni eseguı` a Vienna e a Baden, accentuano l’orientamento nettamente classicistico del ragazzo perche´ comprendono Preludio, Minuetto. Gavotta, Studio e Giga: una suite, in pratica. Il Minuetto op. 14 (1878, 1882) e` pero` un esempio sorprendente di maturita`, in un dodicenne, che per di piu` aveva ricevuto soltanto saltuarie lezioni di composizione. La forma e` quella classica, gli andamenti armonici sono quelli tradizionali che ritroviamo nella lunga serie di minuetti pseudoarcaici prodotti negli ultimi decenni dell’Ottocento. Ma Busoni domina perfettamente i modelli che ha davanti agli occhi, sa alternare abilmente la scrittura a due, a tre e a quattro parti, sa conferire a tutta la composizione un carattere unitario. E c’e` almeno un particolare che fa intravvedere il compositore di genio: la capacita` di far sorgere la composizione da una cellula tematica unica. L’inciso tematico iniziale, trasportato al basso, da` origine alla seconda frase, e poi, ampliato e trattato a canone, da` origine al Trio: una raffinatezza da artista consumato. Altra notevole riuscita del Busoni fanciullo e` la Suite campestre op. 18 (1878, 1881), formata da cinque brevi pezzi caratteristici, evi138

Sonata in Re

dentemente orientati verso l’Album per la gioventu` di Schumann ma spontanei e seducenti nella loro ingenuita`. Il classicismo, di cui il Minuetto op. 14 e` un esempio fra i tanti, e` la prima, la fondamentale componente culturale della personalita` di Busoni. Il nome di Bach, naturalmente, sale subito alle labbra. Ma nel giovane Busoni il classicismo non significa ancora pienamente ritorno a Bach: significa invece adesione a una corrente culturale che nel corso dell’Ottocento ha una certa importanza nella letteratura pianistica e violinistica, e per la quale Bach e` un modello remoto, pallido, e tendenzialmente scolastico. Nell’Ottocento i veri ritorni al classicismo, cioe` gli impieghi di procedimenti tecnici arcaici che si rinnovano nel contatto con un materiale sonoro di caratteristiche nuove sono molto rari: dopo le fughe di Beethoven un rinnovato e promettente interesse per il contrappunto si nota in Mendelssohn negli anni trenta, in Chopin, Schumann e Liszt fra il 1845 e il 1852. Ma soltanto il Brahms delle Variazioni su un tema di Schumann e delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel fa del contrappunto una costante della sua tecnica. Il classicismo, eccettuati Brahms e poi Franck, nella letteratura pianistica si nutre invece di cose che incarnano l’immagine fantastica del Settecento arcadico e innocente (basti pensare al Minuetto di Paderewski). Busoni sacrifico` non poco a questa tendenza della letteratura ottocentesca: nel catalogo delle sue composizioni giovanili troviamo un bel mazzetto di preludi e fughe, di invenzioni, di minuetti, di gavotte e di gavottine, di bourre´e, di gighe, che per la maggior parte sono di scarso interesse. Fra queste pagine, una delle migliori e` il Minuetto op. 10 n. 1 (1878, 1880). Qui si ritrovano gli stessi caratteri positivi del Minuetto op. 14. Busoni, inoltre, dimostra di sapersi servire di un artificio contrappuntistico, l’inversione degli intervalli, che impiega con ottimo effetto nel Trio. Ma questo tipo di classicismo, in un compositore di genio come Busoni, esaurisce ben presto la sua funzione: il maneggiare le forme e la tecnica barocche diventa un gioco, una specie di ginnastica mentale che non favorisce lo sviluppo di una personalita` creativa. Il Concerto in re per pianoforte e archi (1878, 1887) e` insieme con le Sonate il lavoro piu` ambizioso del Busoni ragazzino. Il titolo parla di ‘‘pianoforte con accompagnamento di quartetto d’archi’’ e non si capisce bene se il pezzo, che e` in quattro movimenti, sia da intendere come concerto o come quintetto. Busoni non ebbe occasione di eseguirlo, e quindi non sappiamo come intendesse sfruttarlo per la sua attivita` concertistica. La

Racconti fantastici op. 12

scrittura dei primi tre movimenti e` senza dubbio quella del quintetto concertante biedermeier, mentre la scrittura del finale e` quella del concerto, sia per il maggiore predominio del solista che per la breve Cadenza prima della fine. Tuttavia la difficolta` tecnica della parte pianistica non e` quella dei quintetti di Hummel, Moscheles, Kalkbrenner, o del Sestetto di Mendelssohn, e se un nome viene spontaneo come referente e` quello di George Onslow, che ben difficilmente, alla fine degli anni settanta, poteva essere noto a Busoni. Il linguaggio e` classico-biedermeier e il Concerto ha il tono della esercitazione stilistica, resa pero` da un compositore che domina le forme e che sa condurre il discorso in modo discorsivamente serrato, anche nel lungo Adagio patetico. Due anni dopo il Concerto Busoni compose la Sonata in fa op. 49 (1880) e un’altra Sonata che e` andata perduta. La Sonata op. 49 fu composta sotto la guida di Meyer-Re´my, con cui Busoni stava studiando a Graz. L’impianto e` molto piu` ampio, si nota un certo interesse per le Sonate di Brahms, la scrittura pianistica e` molto ricca. Ma piu` interessanti sono secondo me i 24 Preludi op. 37 (1880, 1881). Nei Preludi possiamo individuare i diversi interessi culturali del Busoni quattordicenne: vi troviamo il classicismo, che in un solo caso (Preludio in Do) riesce secondo me a sottrarsi alla dimensione scolastica, vi troviamo il virtuosismo pianistico del ragazzo che aveva ormai affrontato la letteratura concertistica, vi troviamo il pezzo di genere, vagamente popolaresco o esotico (Preludi in la, fa diesis, Mi), vi troviamo infine, ed e` la tendenza piu` interessante, l’intimismo, il tipico intimismo romantico della seconda meta` del secolo, di derivazione mendelssohniano-schumanniana piu` che chopiniana. Il Preludio in Sol, fra i pezzi intimistici, non e` il piu` personale, ma lo cito perche´ dimostra la sensibilita` formale di Busoni che, qui come nei Minuetti prima citati, sa costruire un discorso perfettamente proporzionato anche partendo da uno spunto abbastanza generico. Il Preludio in si raggiunge un livello estetico piu` alto, anzi, e` gia` un piccolo capilavoro anche a considerarlo in assoluto, senza tener conto del fatto che sia stato scritto da un ragazzo. Il modello formale che Busoni ha presente e` evidentissimo: il breve corale, con melodia al soprano, armonizzato a quattro voci con raddoppio in ottava del basso. E` il corale pianistico romantico, del quale si trovano mirabili esempi in Schumann. Ma se la struttura e` tradizionale e a noi ben nota, il contenuto e` originale; il contenuto, in questo caso, e` l’armonizzazione, che procede per collegamenti armonici non tradizionali, eppure logici e conseguenti. L’originalita` dell’armonia, a

Ferruccio Benvenuto Busoni

dire il vero, non e` molto frequente in Busoni. Nel Preludio in sol diesis, che armonicamente e` meno nuovo del Preludio in si, troviamo pero`, verso la meta` circa della composizione, una modulazione molto efficace (da Si bemolle a Sol), con la quale Busoni apre una via al discorso musicale senza dover ricorrere al contrasto tematico. Noto infine che con questa modulazione incontriamo il rapporto dirretto fra le tonalita` di modo maggiore di tonica e di sopradominante, rapporto destinato a diventare tipico dello stile di Busoni. I Preludi in Sol e in sol diesis, come la maggior parte dei Preludi di Busoni, sono in forma monotematica tripartita: esposizione, sviluppo, riesposizione. Nel Preludio in Fa diesis troviamo invece un Busoni alle prese con la forma tripartita bitematica: prima parte, seconda parte, ripetizione della prima parte e breve coda finale. Per questo la composizione ci interessa, anche se nel complesso l’equilibrio architettonico ed espressivo non e` perfetto. La prima parte e` molto attraente per l’andamento ritmico irregolare, per un paio di giri armonici inattesi e per il carattere interrogativo del breve inciso tematico. La seconda parte contrasta con la prima per la tonalita` (fa diesis), per il ritmo, per la velocita`, per la maggiore trasparenza della scrittura, per il carattere espressivo piu` franco e scherzoso. Busoni si e` quindi reso perfettamente conto di un problema formale e drammaturgico fondamentale, e cio`, in un ragazzo, non e` cosa comune. Ma la seconda parte non e` all’altezza della prima: teoricamente e` giusta, realmente le manca qualcosa, quel qualcosa che, se si potesse misurarlo, chiunque sarebbe artista. Nel 1880, come avevo prima accennato, Busoni aveva trovato finalmente un ‘‘porto’’ sicuro: grazie all’impegno di generosi mecenati studiava a Graz con Wilhelm Mayer, detto Mayer-Re´ my. Dal Mayer-Re´my il ragazzo ricevette una educazione scolastica completa, che comprendeva la composizione, la strumentazione e la storia della musica. Come compositore, scrive il Dent, Mayer ‘‘apparteneva alla tarda scuola romantica, con una certa propensione allo stile illustrativo, sebbene egli destestasse cordialmente la musica di Wagner e avesse poca simpatia per quella di Brahms’’. Non conosco le musiche del Mayer-Re´ my, ma non mi sembra improbabile che alla sua influenza sia dovuto l’interesse per il piccolo pezzo caratteristico, che si manifesta in Busoni fra il 1881 e il 1883. Il pezzo caratteristico, pero`, a Busoni non riesce bene: qualche buon frutto viene colto soltanto in alcuni numeri delle Macchiette medievali op. 33 (1882-1883, 1883), mentre Una festa al villaggio op. 9 (1881, 1882) e i Racconti fantastici op. 12 139

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Ferruccio Benvenuto Busoni

(1881-1882, 1882) non si staccano dalla produzione corrente del tempo. L’insegnamento del Mayer-Re´my non aveva condotto Busoni a comprendere Wagner e Brahms, cioe` i due maggiori creatori del momento, e magari a intossicarsene per poi superarli. Ne´ l’ambiente familiare, con il padre fervente antiwagneriano – e antilisztiano per motivi di personale inimicizia (Liszt aveva disapprovato le mire ambiziose di Ferdinando) –, aveva incoraggiato Busoni a studiare da solo Wagner e Brahms. Nelle corrispondenze da Vienna che Busoni pubblico` sul quotidiano triestino L’Indipendente nel 1884-85 e in un articolo pubblicato in un giornale di Graz, tutte le sue lacune culturali vengono in luce: totale incomprensione di Liszt, Wagner, Brahms e del tardo Verdi, un’incomprensione che, favorita dal desiderio di mantenere il tono caustico allora di moda fra gli scrittori di feuilleton, diventa in qualche caso saccenteria presuntuosa. L’antiwagnerismo di Busoni e` ben lontano dalle posizioni di Debussy e la sua mancanza di interesse per Brahms e` quella di un vecchio conservatore: della Sinfonia n. 3, ascoltata in prima esecuzione assoluta, Busoni dice sı` che puo` essere annoverata ‘‘fra le piu` grandi creazioni moderne’’, ma si affretta ad aggiungere che ‘‘l’essere il piu` grande in un’epoca in cui tutti sono piccoli non e` cosa difficile’’ e che ‘‘scienza e profondita` non bastano a mascherare poverta` di invenzione’’. Giornalista per caso, Busoni era pero` compositore per vocazione. Come compositore aveva da affrontare un preciso problema, del quale ho dato i termini essenziali parlando del Preludio in Fa diesis: il dominio di strutture formali piu` complesse di quelle classiche. L’intimismo era stato fino a quel momento la sua piu` felice possibilita` creativa, ed era quindi un limite da superare. Ma da superare mediante che cosa? Non mediante il classicismo di scuola che andava a sboccare nella impersonale esercitazione accademica, e non mediante stimoli letterari o naturalistici che avevano nella fantasia di Busoni una eco debolissima. Proprio per questa ragione, secondo me, diventava inevitabile l’accostamento a Brahms. Il primo maturo tentativo di Busoni nel campo della grande forma e` rappresentato dalla Introduzione e Scherzo per pianoforte e orchestra (1882, revisione 1884), tuttora inedita. La struttura prevede la Introduzione in piu` parti e lo Scherzo con due Trii (Scherzo I, Trio I, Scherzo I, Trio II, Scherzo I e coda), con il tema della Introduzione che, trasformato, diventa il tema dello Scherzo e, ulteriormente trasformato, da` origine ai due temi principali dei due Trii, in movimento lento. La 140

Introduzione e Scherzo per pianoforte e orchestra

struttura richiama alla mente lo Scherzo op. 4 di Brahms, ma Busoni va oltre perche´ apre la composizione con la Introduzione e perche´ persegue – con tecnica in verita` lisztiana – la unita` tematica di tutto il pezzo. L’orchestra (3 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, tuba, timpani, piatti, archi) e` molto nutrita. Il divario rispetto al Concerto in re e` immenso, gli studi con Mayer-Re´ my avevano evidentemente fatto di un geniale ‘‘dilettante’’ un professionista completo. La Sonata in fa op. 20 (1883, 1983), dedicata ad Anton Rubinsˇtejn, e` in parte una riscrittura della Sonata op. 49 (i numeri di opera del catalogo di Busoni erano un rebus inestricabile per Busoni stesso; rinuncio a spiegare perche´ l’op. 20 sia stata composta dopo l’op. 49). La composizione non e` ancora brahmsiana perche´ tiene conto delle Sonate di Rubinsˇtejn e perche´ guarda anche al Beethoven della Hammerklavier. Ma e` soprattutto interessante scoprire in essa l’oscillazione fra due culture. Dopo gli studi a Graz Busoni era rimasto per circa due anni in Italia e aveva tentato di procurarsi dalla editrice Giovannina Lucca la commissione per un melodramma. Non l’aveva ottenuta ed era ritornato con il padre a Vienna perche´ nei paesi tedeschi poteva cogliere in numero maggiore le occasioni per tenere concerti, ma non aveva rinunciato all’opera e stava anzi lavorando alla Figlia del re Renato che non avrebbe mai portato a termine. Il primo movimento della Sonata e` costruito secondo lo schema – rete tonale, proporzioni, drammaturgia – che i teorici del tempo consideravano esemplare. In particolare e` evidente la cura di Busoni nel differenziare i due temi principali come incarnazioni del principio maschile e del principio femminile, non dei beethoveniani ‘‘principio di opposizione’’ e ‘‘principio implorante’’. L’impostazione, in altre parole, non e` drammatica ma celebrativa, e i due temi sono secondo me le raffigurazioni musicali del Cavaliere e della Dama che troviamo nelle Macchiette medievali. Il primo tema, che si sposerebbe tanto bene con gli squilli delle trombe, sembra prefigurare il primo tema della Sonata n. 1 di Rachmaninov, sonata a programma ispirata al mito di Faust. E questo rapporto potrebbe anche non essere casuale perche´ la cellula motivica della Sonata op. 20 venne ripresa da Busoni nella Sonata n. 2 per violino e pianoforte, che Rachmaninov avrebbe in ipotesi avuto modo di conoscere. La dipendenza dal melodramma, che e` immanente nel primo movimento, diventa palese nel secondo, in tempo lento e in Si bemolle. Gia` Emanuele Arciuli, primo interprete che registro` la Sonata in disco, osservo` che il secondo mo-

Marcia funebre di Sigfrido dal ‘‘Crepuscolo degli dei’’

vimento ‘‘e` una sorta di grande scena lirica di un melodramma tardoromantico trasportato al piano solo’’. E a dare questa impressione sono prima di tutto sia la mancanza di simmetrie architettoniche in un movimento che dura piu` di dieci minuti, sia la serie dei punti culminanti, e sono poi i sedici cambiamenti di tempo e il linguaggio, che risente di Rubinsˇ tejn, operista oltre che compositore di musica pianistica. Il finale e` una fuga preceduta da una introduzione ‘‘nella guisa di un’improvvisazione’’, una fuga che ha come evidente modello la Fuga della beethoveniana Sonata op. 106 anche se tematicamente ricorda piuttosto il finale dell’Appassionata. La Fuga di Busoni e` doppia: la prima sul soggetto per moto retto, la seconda sul soggetto per moto contrario, con ripresa del soggetto per moto retto e citazione finale, in Fa, del primo tema del primo movimento. Sarebbe assurdo paragonare la Fuga del quarantasettenne Beethoven con la Fuga del diciassettenne Busoni. Ma e` evidente che Busoni prende come modello il piu` alto traguardo che il classicismo non accademico aveva raggiunto nell’Ottocento. E, detto per inciso, anche l’amico-nemico di Busoni, Euge`ne d’Albert, avrebbe concluso con una Fuga la Sonata op. 10, composta a ventinove anni. Per due forti ingegni come Busoni e d’Albert, coetanei, si trattava di pervenire a una sintesi storica. E il fatto che non vi pervenissero in modo maturo non significa che non avessero saputo individuare il problema che la Storia additava loro come traguardo. Con la Fuga della Sonata op. 20 Busoni – e sarebbe stata la tragedia della sua vita di creatore e di uomo – imboccava la strada che lo avrebbe portato a essere considerato tedesco dagli italiani senza che i tedeschi lo accettassero come compagno di strada (negli anni trenta, con l’avvento del nazismo, le opere di Busoni su testo tedesco non vennero considerate tedesche di spirito e furono escluse dalle programmazioni dei teatri pubblici). Alla produzione di questo periodo appartiene ancora la Scena di ballo op. 6 (1883 ca., 1884), bellissimo pezzo da concerto, molto disinvolto, molto elegante e molto virtuosistico, anzi, molto effettistico, che sfrutta l’ostinato in ottave al basso esemplato sulla Polacca op. 53 di Chopin. I lavori nei quali si manifesta maggiormente l’influenza brahmsiana sono i Sei Studi op. 16 (1883, 1883), dedicati a Brahms, lo Studio in forma di variazioni op. 17 (1883, 1884), anch’esso dedicato a Brahms, e le Variazioni e fuga in forma libera sul Preludio in do minore di Chopin op. 22 (1884, 1885), dedicate a Carl Reinecke, direttore del Gewandhaus e del conservatorio di Lipsia e grande estimatore di Brahms. Nello stesso periodo Busoni

Ferruccio Benvenuto Busoni

mise in repertorio ed eseguı` a Vienna le Variazioni su un tema di Ha¨ndel e la Sonata op. 5 di Brahms. E` quindi evidente che, preso fra l’incudine e il martello, preso fra i fuochi altrettanto minacciosi di due ‘‘partiti’’ allora in lotta feroce, i lisztiani-wagneriani e i brahmsiani, il diciottenne Busoni scelse di appoggiarsi sui brahmsiani. Come scelta di vita professionale fu una mossa azzeccata perche´ Busoni, spostatosi da Vienna a Lipsia nel 1886 ed entrato in ottimi rapporti con Reinecke, fu da questi raccomandato a Helsinki, dove ando` nel 1888 come professore di pianoforte del conservatorio. Come scelta artistica non fu invece felice, sebbene gli giovasse per imparare meglio il mestiere. Alcuni anni piu` tardi, nel 1910, Busoni scrisse che l’inizio degli anni novanta era stato ‘‘il momento della mia vita in cui mi resi conto di lacune ed errori tali nel mio modo di suonare, che con decisione energica ripresi lo studio del pianoforte dall’inizio, su basi completamente nuove’’. E concluse: ‘‘Le opere di Liszt divennero la mia guida e mi dischiusero una conoscenza intimissima della sua scrittura del tutto speciale; sul suo ‘periodare’ basai la mia ‘tecnica’: gratitudine e ammirazione mi resero allora Liszt maestro e amico’’. L’accostamento a Brahms, propiziato da circostanze casuali, e cioe` dalla permanenza a Vienna, fu per Busoni una esperienza in realta` ineludibile. Esperienza, tuttavia, prudentissima e faticosissima: Busoni guarda al Brahms del 1860-70, non del 1885, ed e` ancora sensibilissimo agli esempi beethoveniani, mendelssohniani, schumanniani, e persino rubinsteiniani, i cui echi ritornano molto di frequente nei lavori prima citati (e, aggiungo, nel Quartetto n. 2): ‘‘[...] l’epoca del Secondo Quartetto’’, scrisse Busoni alla moglie il 4 settembre 1905, ‘‘e` stata terribile. Il primo movimento e` rimasto incompiuto per piu` d’un anno e non avevo ne´ il coraggio, ne´ l’ispirazione per continuare. Il compito era troppo grande per me; solo l’anno dopo m’ero maturato un po’ e lo potei portare a termine, con un grande sforzo di volonta`’’. Negli Studi non mancano nemmeno alcuni spezzoni stilistici che sembrano risalire a Thalberg (movimenti melodici di una parte all’interno di ottave ribattute, melodia nel registro centrale eseguita dai pollici delle due mani). E stilemi thalberghiani si ritrovano nella Marcia funebre di Sigfrido dal ‘‘Crepuscolo degli dei’’ (1883, 1883), trascritta ancora durante la permanenza in Italia ed eseguita per la prima volta a Trieste. L’attenzione rivolta a Brahms si manifesta tuttavia bene nell’op. 16 e nell’op. 17, con esclusione dello Studio op. 16 n. 4, molto virtuosistico nella parte della mano sinistra e che ricorda curiosamente – con una dozzina 141

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d’anni di anticipo – il Momento musicale op. 16 n. 4 di Rachmaninov. Curioso il fatto che i numeri d’opera coincidano e che coincida pure la tonalita`, mi minore. Tenendo anche conto della circostanza che Busoni insegno` nel conservatorio di Mosca nel 1890-91, e che Rachmaninov era studente in quel conservatorio, non mi sembra affatto improbabile che la somiglianza non sia casuale ma che Rachmaninov abbia preso lo spunto – spunto, non imitazione – da Busoni. Detto per inciso, il seguito delle tonalita` – Do, la, Sol, mi, Re, si – fa pensare che Busoni avesse l’intenzione di comporre ventiquattro Studi nelle ventiquattro tonalita`. L’op. 22 si compone di tema, diciotto variazioni e fuga. L’impianto e` evidentemente brahmsiano, ma il lavoro e` solido, ben costruito e vario, con momenti (filigrane di suoni volanti) che si ritroveranno in Busoni ancora molti anni piu` tardi; piuttosto convenzionale e` pero` la fuga, con le linee contrappuntistiche spesso ispessite con terze e con un andamento verso il modo maggiore finale che appare fin da subito scontato. Nel 1922 Busoni riprese questo suo lavoro, ne elimino` sette variazioni e gran parte della fuga, opero` spostamenti, riscrisse in modo diverso molte cose, incise profondamente sul linguaggio. Il titolo divenne Dieci Variazioni su un Preludio di Chopin (1922, 1922), la dedica fu sostituita – il dedicatario divenne Gino Tagliapietra, allievo di Busoni – e l’ombra di Brahms fu cancellata e sostituita in parte con l’ombra di Chopin. Da questa operazione da camaleonte nacque un lavoro diverso, che affianca il suo ‘‘progenitore’’ senza sostituirlo perche´ entrambi presentano motivi di interesse nella evoluzione creativa di Busoni. La Seconda Scena di ballo op. 20 (1884, 1885) e` molto piu` complessa della prima: e` un valzer con trio, ma seguito da un intermezzo contrastante, dalla riesposizione variata del valzer e del trio e da una coda con nuovo materiale tematico. Non piu` che un divertissement sono le Variazioni sulle Variazioni di Siegfried Ochs sulla canzone ‘‘Viene volando un uccello’’ (1886, 1987), una specie di a` la manie`re de... che prende di mira burlescamente lo stile di vari autori, fra cui Wagner. Ne´ piu` importante e` la spiritosa Fuga sul canto popolare ‘‘O, du mein lieber Augustin’’ (1888, 1987) su una canzone viennese molto nota (la cita persino Scho¨nberg), da cui nasce un soggetto di fuga che viene impiegato anche per moto contrario. Trasferito a Lipsia, dicevo. Lipsia era una delle capitali della editoria musicale, e Busoni trovo` modo di guadagnare qualche spicciolo ricevendo ordinazioni, in massima parte riduzioni per pianoforte solo da opere orchestrali o cameristiche, da vari edito142

Dieci Variazioni su un Preludio di Chopin

ri. Questi lavori di routine – un esempio per tutti: la riduzione per due pianoforti delle Novellette op. 29 di Gade per trio con pianoforte – ci interessano poco. Sono da citare invece le due parafrasi su temi d’opera, la Fantasia sopra motivi del ‘‘Barbiere di Bagdad’’; (1886, 1886), dall’opera di Cornelius, e il Merlino. Trascrizione da concerto (1887, 1887), dall’opera di Goldmark. Con la prima parafrasi Busoni guadagno` 150 marchi lavorando per tutta una notte, e senza pianoforte, sullo spartito di un’opera che non conosceva. A parte il tour de force, la sua Fantasia non esce dagli schemi che egli conosceva benissimo perche´ sua madre aveva avuto in repertorio molti lavori del genere. Il Merlino e` piu` ampio di struttura e molto piu` virtuosistico. Busoni si limita a parafrasare il materiale della ouverture e del primo atto. Scelta legittima, naturalmente, ma che impedisce di mirare alla sintesi della drammaturgia dell’opera, sintesi che piu` tardi, commentando le parafrasi di Liszt, Busoni avrebbe giudicato necessaria e che avrebbe attuato nella sua Fantasia da camera sopra la ‘‘Carmen’’. Una diversione, non la risoluzione della crisi che lo travagliava, Busoni la trovo` impiegando dopo il suo arrivo a Helsinki i canti popolari finlandesi. L’improvvisa scoperta di un canto popolare con caratteristiche lessicali insospettate interesso` moltissimo Busoni. Avevo gia` detto che nei Preludi si trova qualche pezzo vagamente esotico, dovuto a impressioni suscitate, mi pare, da compositori slavi contemporanei. In Finlandia Busoni lavora invece su un materiale di prima mano ma senza mutare i termini del problema, che era quello dell’inserimento di canti popolari in forme e modi della musica colta occidentale. I Canti popolari finlandesi per pianoforte a quattro mani (1888, 1889) rappresentano appunto una diversione, non la risoluzione della crisi, anche se Busoni riesce a produrre un lavoro in cui un rinnovato entusiasmo per la composizione illumina il prodotto del momento e trova soluzioni che tengono desto anche oggi l’interesse dell’ascoltatore. Poco prima di partire per Helsinki Busoni, con il Preludio e fuga in Re BWV 332 (1888, 1890) aveva dato l’avvio alla sua opera di trascrittore da Bach. Nelle prime trascrizioni bachiane e` evidente che lo studio di Brahms e` stato decisivo: terze, seste, accordi, e soprattutto una scrittura molto piena, densa di raddoppi e ricca di contrappunti melodici nelle parti di mezzo. Nel loro complesso le trascrizioni da Bach sono pero` una sintesi di stile lisztiano e di stile brahmsiano, con molti apporti originali. Gli stilemi lisztiani vengono accolti con prudenza, come se fossero severamente selezionati, e si uniscono a stilemi

Concerto-Fantasia op. 29

brahmsiani assai numerosi. Busoni vuole pero` raggiungere il massimo volume di sonorita` ottenibile sul pianoforte insieme con la massima compostezza nella disposizione delle parti, e quindi non adotta, tranne che in rari casi, ne´ le anticipazioni di una parte sull’altra, ne´ gli arpeggiamenti che si ritrovano sia in Liszt che in Brahms, ne´ le ottave alternate che si ritrovano in Liszt e in Tausig, allievo di Liszt. La tradizionale posizione lata dell’accordo con relativo arpeggiamento viene sostituita da Busoni con l’accordo placcato in posizione stretta, anche nella estremita` grave dello strumento: effetto di grande potenza, ma anche di notevole impurita` e asprezza armonica perche´ fa risuonare per simpatia il terzo armonico della terza e della quinta dell’accordo. Le ottave alternate vengono usate molto raramente: Busoni preferisce le ottave cieche anche quando la dinamica raggiunge il forte; in questo caso la sonorita` risulta assai omogenea, ma l’esecuzione e` faticosa e di poco effetto ‘‘visivo’’ (mentre le ottave alternate al modo di Liszt e di Tausig sono di agevole esecuzione e impressionano l’ascoltatore per i vivaci movimenti dell’avambraccio che richiedono). Queste disposizioni strumentali che, dal punto di vista del virtuosismo lisztiano sarebbero da giudicare di scarso rendimento pratico, erano gia` state sperimentate in gioventu` da Brahms, il quale le aveva poi abbandonate in parte. Busoni riprende la vecchia tecnica, la sviluppa e la porta alle ultime conseguenze, anche, secondo me, per mantenere il legato organistico nei raddoppi su tre ottave e per assumere una gestualita` piu` ‘‘sacerdotale’’, diversa dalla gestualita` romantica che alla fine del secolo stava diventando gesticolazione. In questa caratteristica consiste secondo me l’aspetto storicamente piu` importante della trascrizione bachiana che Busoni definisce ‘‘da concerto’’. Accanto alle trascrizioni da concerto ci sono le trascrizioni ‘‘da camera’’ dei Preludi-corali per organo. I Dieci Preludi-corali per organo (1897 ca., 1898) riflettono lo studio di Liszt, cioe` del Liszt simbolista. Nella Fuga di ‘‘Per il fallo di Adamo tutto e` perduto’’ il pianoforte acquista la sonorita` purissima, eterea, translucida degli organi antichi, in ‘‘Rallegratevi o Cristiani’’ il pianoforte diventa uno strumento veramente polifonico: non piu` una scrittura contrappuntistica disposta in modo da esaltare una parte, ma il procedere distinto di tre parti con sonorita` completamente indipendenti, come se provenissero da tre strumenti diversi. Nei due Preludi-corali ora citati si manifesta, dal punto di vista dello strumento, l’aspetto piu` interessante e piu` nuovo del ritorno a Bach di Busoni: non si tratta piu` di trasferire sullo strumento mo-

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derno il materiale antico, adattandolo a caratteristiche timbriche gia` note; e` invece lo stesso materiale che costringe lo strumento a metamorfosarsi, ad assumere caratteristiche inusitate. Qui, specialmente, si attua pienamente la teoria della trascrizione di Busoni. Egli distingue idea e notazione e considera la scrittura gia` come trascrizione dell’idea, trascrizione, diciamo cosı`, di primo grado che crea una dialettica fra l’idea e la materia. Nella trascrizione di secondo grado, secondo Busoni, non si tratta di procedere dalla notazione ma dalla idea: non idea-notazione-trascrizione ma idea-notazione-idea-trascrizione. Il compito del trascrittore non consiste nel trasferire la notazione nella trascrizione ma nel risalire all’idea e nel calarla nella diversa materia sonora, creando una nuova dialettica. Detto per inciso, le trascrizioni da Bach alimentarono il repertorio concertistico di Busoni e furono una delle carte vincenti che egli gioco` nella ‘‘corsa alla successione’’di Rubinsˇtejn e di Bu¨low, che per quarant’anni avevano dominato il mondo concertistico e che erano scomparsi entrambi nel 1894. Busoni, dopo aver insegnato a Helsinki e successivamente a Mosca, aveva avuto una cattedra di pianoforte a Boston e si era fermato negli Stati Uniti per alcuni anni, perdendo i contatti con l’Europa. Nel 1894 si stabilı` con la famiglia a Berlino, appena in tempo per farsi notare nel momento in cui il pubblico stava cercando di individuare i nuovi leader. Le trascrizioni da Bach, dicevo, specialmente la sontuosa Ciaccona (1893 ca., 1897), entusiasmarono il pubblico europeo. Un ruolo minore ma non ininfluente lo giocarono inoltre due trascrizioni da Liszt, la Rapsodia spagnola (1894 ca., 1894), trascritta per pianoforte e orchestra dall’originale per pianoforte solo, e la Fantasia e fuga sul corale ‘‘Ad nos, ad salutarem undam’’ dal Profeta di Meyerbeer (1897 ca., 1897), trascritta per pianoforte dall’originale per organo. Si pensi che, esordendo ad Amburgo sotto la direzione di Mahler nel 1894, dopo gli anni dell’‘‘esilio’’ negli Stati Uniti, Busoni si presento` proprio con la Rapsodia spagnola. Riprendo ora il discorso dagli anni di Helsinki. Poco dopo l’arrivo in Finlandia Busoni compose il Concerto-Fantasia op. 29 (1888-1889), che eseguı` a Lipsia sotto la direzione di Reinecke, ma che poi rimaneggio` a fondo, facendolo diventare il Poema sinfonico op. 32a. Nel 1890 venne bandita la prima edizione del Concorso Anton Rubinsˇtejn, diviso nella sezione di esecuzione e nella sezione di composizione per pianoforte. Busoni decise di iscriversi a entrambe le sezioni, ma il Concorso chiedeva che le composizioni presentate fossero 143

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inedite e mai eseguite. Non potendo quindi sfruttare nel Concorso il Concerto-Fantasia Busoni scrisse di volata il Concertstu¨ ck in Re op. 31a (Pezzo da concerto, 1890, 1892). Vinse il Concorso e dedico` il Concertstu¨ck a Rubinsˇtejn. In verita` aveva tenuto conto e di dover andare davanti a una giuria e che il presidente della giuria era Rubinsˇtejn, acerrimo nemico di Brahms; percio` stette attento a non cascare in stilemi brahmsiani che per Rubinsˇtejn sarebbero stati intollerabili. Larry Sitsky scrive che ‘‘anche quando la parte solistica suona e sa di Brahms, la combinazione con l’orchestra non ha nulla della opulenza brahmsiana’’ e che e` ‘‘pensata in modo contrappuntistico piu` che armonico’’. Non mancano infatti il fugato, non mancano i canoni, non manca l’episodio simil-passacaglia. Ma per questo aspetto non siamo molto oltre alla Fuga delle Variazioni op. 22. La forma e` quella, interpretata con larghezza, del primo movimento di concerto, con quattro temi principali e con doppia esposizione. Lo stile e` composito perche´ i procedimenti contrappuntistici finiscono per confliggere con la discorsivita` di tipo romantico, ma la costruzione e` sapiente, il lavoro di trasformazione e di combinazione dei temi dimostra il possesso di una ragguardevole tecnica compositiva. Busoni si sta in realta` preparando per il Concerto op. 39, che estendera` in una dimensione babilonica i principi e la tecnica compositivi maturati attraverso anni di piccoli passi in avanti. Sembra pero` che Busoni pensasse piu` in senso sinfonico che solistico e che sapesse come usare il pianoforte in funzione concertante, come una sezione dell’orchestra, piu` che come protagonista. E sono proprio gli episodi solistici quelli che appaiono slegati dal contesto. Il Concorso Rubinsˇtejn richiedeva anche brani di musica da camera e brani per pianoforte solo. Busoni, che di pronto non aveva nulla di non eseguito, scrisse la Sonata n. 1 per violino e pianoforte e i Due Pezzi per per pianoforte op. 30a (1890, 1891), comprendenti il Pezzo di danza contrappuntistico e la Piccola scena di ballo n. 3. Queste composizioni vennero rivedute e pubblicate come Due Pezzi di danza (1914, 1914), con i titoli Danza di guerra (Danza d’armi) e Danza di pace. La seconda versione e` ritoccata soprattutto nella seconda danza, che diventa piu` angolosa e che si avvicina allo stile di Prokof’ev, mentre la prima mantiene in sostanza l’impostazione contrappuntistica, soltanto alleggerita nella strumentazione. La Scena di ballo n. 4 in forma di valzer da concerto op. 33a (1892 ca., 1894) venne riveduta e ripubblicata con il titolo Quarta Scena di ballo (Valzer e Galop) (1913, 1913). Busoni aveva in repertorio tre 144

Concertstu¨ck in Re op. 31a

parafrasi di Tausig da valzer di Johann Strauss e nella Scena di ballo n. 4 adotto` lo stile che dopo Tausig si era molto diffuso, ma su materiale suo, originale, talvolta fascinoso come quello di Strauss, talora piu` generico. La versione riveduta, con la trasformazione della Stretta nel Galop, sembra a me meno felice della versione originale. Ma le quattro Scene di ballo rivelano comunque il penchant del severo contrappuntista Busoni per la musica leggera, il penchant che lo avrebbe portato nei suoi ultimi anni a comporre il meraviglioso Valzer danzato per orchestra ‘‘in memoria di J. Strauss’’. Negli anni novanta Busoni, molto impegnato con le trascrizioni e con la musica sinfonica, compone per pianoforte soltanto i Sei Pezzi op. 33b (1895, 1896), che riflettono le sue esperienze di concertista: vi troviamo tre pezzi ‘‘alla Liszt’’ (n. 1, Malinconia, n. 5, Ballata finlandese, n. 6, Exeunt omnes), il pezzo alla Moszkowski (n. 2, Gaiezza – spiace che non se ne sia accorto Horowitz), il pezzo alla Saint-Sae¨ns (n. 3, Scherzino), e persino il pezzo alla Bach-Busoni (n. 4, Fantasia in modo antico, basata sulla Fantasia e fuga in la di Bach). Il nuovo secolo si apre con il Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile op. 39 (1901-1904, 1904), in cui la scrittura pianistica e` come una enciclopedia di tutto l’enorme patrimonio culturale assimilato da Busoni in venticinque anni di lavoro sul pianoforte. Il Concerto e` in cinque movimenti: Prologo e Introito, Pezzo giocoso, Pezzo serioso, All’Italiana, Cantico. Nell’ultimo movimento il coro maschile intona un frammento del poema Aladino, in tedesco, del danese Oehlenschleger. La composizione del Concerto fu molto tormentata perche´ Busoni poteva lavorarci solo fra una tourne´e concertistica e l’altra, e anche l’idea di inserire un finale con canto non fece parte del primo progetto. Anzi, Busoni preparo` poi una versione con ‘‘Coda supplementaria corrispondente alla Versione in quattro movimenti omettendo il coro finale’’. Inserendo nel secondo e nel quarto movimento alcune canzoni italiane (Fenesta ca lucive, E sı` che la porteremo, La piuma sul cappello, La dis che l’e` malada), basando il terzo movimento su un tema della sua parawagneriana opera incompiuta Sigune (in tedesco), usato anche in uno Studio degli anni ottanta rimasto inedito, e chiudendo con le parole in tedesco di un poeta danese Busoni raggiunse il raro risultato di scontentare tutti. Il critico meno negativo, dopo la prima esecuzione a Berlino, parlo` di ‘‘spettacolo infernale’’, e all’opposto un critico allievo di Busoni, Leo Kestenberg, ando` molto al di sopra delle righe parlando di Creazione, di Adamo ed Eva, di Paradiso Ter-

An die Jugend

restre, e concludendo con la Verita` Eterna. Altri critici deplorarono con alti lai d’aver dovuto ascoltare tre canzonacce italiane ‘‘in una sala consacrata al nome di Beethoven’’. In realta`, secondo me, Busoni aveva posto l’asticella troppo in alto. Volle sintetizzare tutta la storia del concerto per pianoforte e orchestra, mettendoci dentro anche la Fantasia op. 80 con coro di Beethoven. E l’assunzione delle canzonette italiane non significo` , come in Mahler, l’irruzione del popolaresco nel colto ma la stilizzazione, secondo la definizione di Barto´k, del colto-popolaresco, che perdeva cosı` la sua carica di ‘‘volgarita`’’ e la sua funzione di provocatoria denuncia della scissione della cultura. I critici videro la provocazione dove in realta` non c’era, perche´ Busoni lavorava le canzonette con la mano finissima del manierista. Si tratta secondo me di un lavoro intimamente contradditorio, ma non di un lavoro mancato, perche´ la volonta` e la sapienza costruttiva di Busoni non vengono meno e non si smarriscono di fronte agli enormi problemi formali. In fondo, la migliore valutazione che io conosca e` ancora quella di Busoni stesso, in una nota del 1912: ‘‘E` un’opera che tenta di riassumere i risultati del periodo della mia prima maturita` e che rappresenta la sua conclusione. Come ogni opera che sorge in tale periodo di sviluppo, e` matura per esperienza acquisita e si basa sulla tradizione. Non indica certo il futuro, ma rappresenta il momento della sua nascita. Le proporzioni e i contrasti sono distribuiti con cura e, per il fatto che il piano era stabilito definitivamente prima che si incominciasse l’esecuzione, non c’e` niente in essa di casuale’’. Busoni riteneva che il ‘‘futuro’’ fosse rappresentato dalle Elegie (1907, 1908), raccolta contenente sei pezzi, ai quali dopo la morte di Busoni venne aggiunto come settimo pezzo la Berceuse (1909, 1909). Secondo me si puo` essere d’accordo con Busoni per quanto riguarda il primo pezzo, Dopo la svolta. Raccoglimento, e per la Berceuse. Gli altri pezzi ripetono, mi sembra, il patchwork stilistico dei Pezzi op. 33b, sia pure con un linguaggio molto piu` personale ed evoluto. Il n. 2, All’Italia! In modo napolitano, riprende materiale della Tarantella del Concerto, il n. 3, Preludio-corale ‘‘La mia anima ti desidera e spera in te’’, e` un BachBusoni molto particolare (il corale di Bach e` comunque ‘‘Dio solo nell’alto dei cieli sia glorificato’’; non si sa perche´ Busoni cambio` le parole), il n. 4, Il Gineceo di Turandot, e` una parafrasi della canzone scozzese Greensleves gia` impiegata nelle musiche di scena per la Turandot, il n. 5, Valzer notturno, e` ripreso anch’esso dalle musiche di scena per la Turandot, il n. 6, Notturno, e` talmente operistico da trovare la sua migliore collocazione

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nell’opera La sposa sorteggiata che Busoni inizio` a comporre nel 1906. Le Elegie sono molto significative sia per lo sviluppo del linguaggio armonico di Busoni, che acquisisce la politonalita`, sia perche´ i pezzi gia` esistenti in altra forma non sono mai identici al cento per cento (la teoria della trascrizione di secondo grado!), ma appaiono a me piu` come studi su... che come lavori autonomi, eccettuati, dicevo, il n. 1, originale, e la bellissima Berceuse, pur collegata con la Berceuse e´le´giaque per orchestra, che venne pero` composta quattro mesi piu` tardi. Come appendice alle Elegie ci starebbe benissimo il Klavierstu¨ck op. 11 n. 2 di Scho¨nberg (Pezzo per pianoforte, 1910, 1910) nella ‘‘interpretazione concertistica’’ di Busoni, che inserisce nel testo originale qualche amplificazione e qualche ritocco. Scho¨nberg reagı` vivacemente, contestando gli interventi di Busoni. E con ragione, dal suo punto di vista, perche´ il Pezzo ‘‘interpretato’’ diventava piu` busoniano che scho¨nberghiano. Ma proprio per questo motivo potrebbe figurare, dicevo, come appendice alle Elegie. Quel tanto di virtuosistico, nel senso di decorativo, che si trova nelle Elegie, pezzi da concerto, sparisce in un piccolo gioiello, Notte di Natale: Schizzo (1909, 1909), che Busoni compose su richiesta dell’editore francese Durand, che rappresenta una specie di obliquo omaggio a Debussy e che conferma una volta di piu` la forte presenza del... camaleontismo stilistico – cioe`, nel senso barocco, della parodia – come componente basilare della creativita` di Busoni. La Fantasia da Johann Sebastian Bach (1909, 1909), composta in memoria del padre, prende lo spunto da tre temi di corale di Bach e adotta una forma riferibile alla vecchia fantasia su temi di melodrammi. Si tratta in un certo senso di una ‘‘fantasia da camera’’ come quella che Busoni adottera` nella Sonatina n. 6, ma il tono espressivo sempre grave e raccolto fa della Fantasia da Bach piu` un lavoro da lettura che da esecuzione. I primi tre, dei quattro fascicoli di An die Jugend (Alla gioventu`, 1909, 1909), perseguono la semplificazione della scrittura pianistica dalla quale nasceranno alcuni capolavori di Busoni. Confesso di non provare alcuna simpatia per i primi due fascicoli, Preludio, Fughetta ed Esercizio, e Preludio, Fuga e Fuga figurata (quest’ultimo sul Preludio e fuga in Re del primo libro del Clavicembalo ben temperato), che mi sembrano molto piu` dottrinari che poetici, mentre mi sembra ammirevole il terzo fascicolo, Giga, Bolero e Variazione, che unendo la piccola Giga K 574, il Fandango delle Nozze di Figaro e una variazione della Giga recupera in una dimensione concertistica una delle piu` singolari composizioni di Mozart, che 145

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per la sua brevita` poteva trovare difficilmente una collocazione in un programma di recital. Il quarto fascicolo, Introduzione, Capriccio paganinesco ed Epilogo, e` sorprendente e sconcertante insieme. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, trattandosi di Paganini, l’Introduzione e il Capriccio parafrasano Capricci in movimento moderato, e quindi non virtuosistici, ma l’uso della sola mano sinistra li rende di ardua esecuzione. La difficolta` tecnica, molto alta, non e` dimostrativa, e l’originale violinistico induce Busoni a riprendere le anticipazioni del basso e l’arpeggiamento degli accordi che aveva escluso nelle trascrizioni da Bach. L’Epilogo, tematicamente busoniano, e` una pagina enigmatica che stilisticamente contrasta in modo stridente con quanto precede. In questo momento, come sempre, le esperienze del Busoni interprete si riflettono sul Busoni compositore. E l’esperienza si chiama in questo caso Liszt, cioe` il tardo Liszt. Nel 1905 Busoni mette in repertorio una pagina lisztiana giovanile, la Apparizione n. 1, onirica, possiamo dire stralunata, e nel 1909 esegue per la prima volta al completo il terzo Anno di pellegrinaggio. Sursum corda, il pezzo che chiude la raccolta di Liszt, sembra una composizione di Busoni. Liszt. E Bach. ‘‘Bach e` la base, Liszt e` la cima’’, dice Busoni per quanto riguarda il pianoforte. E a Bach e` dedicata la successiva fatica di Busoni, la Grande Fuga (1910, 1910), che diventa sei mesi piu` tardi la Fantasia contrappuntistica (1910, 1910). Poi esce la Fantasia contrappuntistica (edizione minore) (1912, 1912) e infine la Fantasia contrappuntistica (1921, 1922) trascritta per due pianoforti. Si dice spesso che con la Fantasia contrappuntistica Busoni perseguiva lo scopo di completare la Fuga incompiuta dell’Arte della fuga di Bach. Questa fu in realta` la primissima intenzione che Busoni ebbe dopo aver conosciuto gli studi di Bernhard Ziehn e del suo allievo Wilhelm Middelschulte sulle possibilita` combinatorie dei tre soggetti della Fuga incompiuta con l’unico soggetto delle altre Fughe. Il ‘‘completamento’’, cioe` la creazione della quadrupla Fuga cosı` come ipoteticamente sarebbe uscita dalle mani di Bach, fu pero` opera per primo di Donald Tovey e poi di altri. Busoni opero` in modo diverso e ben altrimenti ambizioso. Egli trascrisse la tripla Fuga come Fuga I, Fuga II e Fuga III (che fu da lui completata), inserı` un intermezzo sul nome BACH, proseguı` con tre Variazioni, cioe` con tre fughe sue che trattavano in vario modo e in linguaggio non bachiano i tre soggetti, poi con una Cadenza, con la Fuga IV che combina i quattro soggetti e con la Stretta. Non, quindi, un semplice completamento, 146

Grande Fuga

ma uno sviluppo di potenzialita`, e alla luce di un secolo e mezzo di evoluzione del linguaggio musicale. In una lettera alla moglie del 19 febraio 1910 Busoni disse che la Grande Fuga avrebbe ‘‘suonato come un qualcosa fra una composizione di C. Franck e la Hammerklavier, con una sfumatura individuale’’. La ‘‘sfumatura individuale’’ e` molto di piu` di una sfumatura, naturalmente, ma la familiarita` di Busoni con la Hammerklavier di Beethoven e il Preludio, Corale e Fuga di Franck e` del tutto evidente. Va allora da se´ che la Grande fuga e` stilisticamente disomogenea, un po’, tanto per fare un esempio, al modo del Duomo di Siracusa, nato dalla trasformazione di un tempio dorico in chiesa bizantina e poi normanna e piu` volte rimaneggiato nei secoli. Grandiosa e contradditoria, la Grande Fuga, e purtuttavia affascinante. La versione successiva, Fantasia contrappuntistica, non sembra a me migliorativa. Busoni fa precedere la Grande Fuga dalla Elegia n. 3 (sul Corale ‘‘Solo Dio nell’alto dei cieli sia glorificato’’), ampliata e con varie modifiche di strumentazione, introduce il tema del Corale nella Fuga II, fa alcuni aggiustamenti qua e la`, taglia una parte della Fuga IV per riprendere il Corale e amplifica la Stretta. La ‘‘edizione minore’’ comprende tre nuove variazioni sul Corale e le sole quattro Fughe, con qualche ritocco e qualche taglio. La versione per due pianoforti non e` una semplice trascrizione. Busoni mantiene intatta la struttura generale ma riscrive ex-novo diverse cose e ne modifica altre, radicalizzando certe scelte linguistiche. La prima edizione a stampa riporta un disegno architettonico, ‘‘Piano dell’opera’’, con un cupo palazzo rigidamente simmetrico. Larry Sitsky ha osservato che le proporzioni del disegno, rispetto alla musica, sono arbitrarie. E io non capisco perche´ Busoni, volendo mettere in luce le simmetrie sulle quali aveva lavorato, disegnasse una cosı` tetra facciata di Lager invece di un giardino all’inglese. E` probabile che, se non fosse scomparso a cinquantotto anni, egli avrebbe ripreso ancora in mano questo work in progress che e` la Fantasia contrappuntistica e che ne avrebbe preparato una versione per orchestra, sicuramente adatta a rendere piu` ‘‘intelligibile’’ all’ascolto il densissimo tessuto. Cosı` com’e`, dice giustamente Larry Sitsky; la Fantasia contrappuntistica ‘‘e` studiata piu` spesso di quanto sia ascoltata, e piu` discussa di quanto sia suonata’’. A partire dal rientro in Europa del 1894 Busoni aveva profuso una parte cospicua delle sue energie nella carriera concertistica, ed era riuscito effettivamente a spartire con Paderewski e con d’Albert la grande eredita` di Rubinsˇtejn e Bu¨low. Una volta raggiunto questo traguardo rinasceva pero` in lui,

Sonatina ad usum infantis Madeline Americanae pro clavicimbalo composita

dopo i tentativi infruttuosi della Figlia del re Renato e di Sigune, la vocazione del drammaturgo. Come ho gia` detto incidentalmente, nel 1906 Busoni comincio` a lavorare alla Sposa sorteggiata, che ando` in scena soltanto nel 1912, in un teatro secondario, quello di Mannheim, e senza successo. Ne´ ando` meglio la versione riveduta, presentata sempre a Mannheim nel 1913 e che durante la vita di Busoni non ebbe altre rappresentazioni. A quel punto Busoni non poteva non paragonare quello che aveva messo lui in cascina con quello che ci avevano messo i suoi coetanei: nel 1905 Richard Strauss era entrato da trionfatore nel teatro con la sua terza opera, Salome, Euge`ne d’Albert aveva ‘‘sfondato’’ nel 1903 con la sua settima opera, Tiefland, che nel giro di venticinque anni avrebbe avuto nella sola Berlino piu` di trecento rappresentazioni. E persino l’unica opera di Paderewski, Manru, trovava aperte le porte di molti teatri tedeschi e del Metropolitan di New York. Dopo il sostanziale insuccesso della Sposa sorteggiata Busoni non ebbe altro pensiero che di prendersi la rivincita. Abbiamo gia` visto che alcune Elegie derivano dalle musiche di scena per la Turandot e dalla Sposa sorteggiata. Molte delle successive composizioni per pianoforte sono legate al teatro. La Sonatina n. 1 (1910, 1910) e` una riscrittura del primo fascicolo di Alla gioventu`, con l’aggiunta dell’Epilogo del quarto fascicolo. Rispetto al Alla gioventu` , la Sonatina n. 1 e` discorsivamente piu` diretta e piu` varia, e il materiale viene trattato in modo piu` cantabile, paraoperistico. Tuttavia la composizione non ebbe e non ha alcuna diffusione. La Sonatina Seconda era in origine uno studio per l’opera Leonardo, opera che non fu realizzata, ma il suo materiale confluı` poi nei due Preludi del Doktor Faust. La Sonatina n. 3 era uno studio per l’Arlecchino, e la Sonatina n. 4 per il Doktor Faust. Nella Toccata ritroviamo temi della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust. La Sonatina Seconda (1912, 1912), in un solo movimento, e` una composizione sorprendente, che suscito` a suo tempo irritazione e scandalo. Scriveva Busoni alla moglie il 28 settembre 1913, dopo avere tenuto la prima esecuzione assoluta a Milano: ‘‘Anfossi ha detto a proposito della ‘Seconda Sonatina’ che io non so quel che faccio (‘... creda a me’)’’. E Anfossi era un insegnante di pianoforte molto reputato: dalla sua scuola sarebbe uscito vent’anni piu` tardi Arturo Benedetti Michelangeli. Della Sonatina Seconda e` stato anche detto, per biasimarla o per lodarla, che segna il punto di massimo accostamento di Busoni a Scho¨nberg. Busoni mette in realta` in evidenza una tecnica di composizione, basata sulla trasformazione di cellule tematiche, di estrema raf-

Ferruccio Benvenuto Busoni

finatezza (si e` parlato a questo proposito persino di serialita`), ma senza che la realizzazione denunci nulla di dottrinario. La didascalia dell’inizio – ‘‘il tutto vivace, fantastico, con energia, capriccio e sentimento’’ – e` in realta` una perfetta descrizione del contenuto. Fra la Sonatina Seconda e la Terza Sonatina Busoni si occupo` della Fantasia indiana per pianoforte e orchestra op. 44 (1913-1915, 1915) e del Diario indiano (1916, 1916). Egli lavoro` su melodie raccolte da Natalie Curtis e peno` molto per venire a capo della Fantasia, pensata in un primo momento come concerto in tre movimenti e che pur nella struttura senza soluzione di continuita` mantiene la tripartizione. L’armonizzazione di canti monodici presentava difficili problemi per chi non voleva ricascare in moduli ottocenteschi. Busoni vide il pericolo ma non pote´ evitarlo in ogni momento (ad esempio, non lo evito` nella sezione centrale), mentre in altri momenti tenne evidentemente conto di procedimenti novativi messi in atto da Barto´k, di cui conosceva da tempo le Bagatelle. Il risultato e` una partitura brillante e scorrevole ma che cambia pelle piu` volte e che secondo me diventa veramente attraente solo nella sezione finale, nella quale i canti indiani prendono un po’ l’aspetto delle cineserie della Turandot. Molto piu` felice secondo me la riuscita del Diario indiano, in forma di suite di quattro pezzi, che per tre quarti (nn. 1, 3 e 4) e` come un estratto semplificato della Fantasia, mentre la parte nuova (n. 2) mostra la piena acquisizione delle maniere di Barto´k. La Improvvisazione sul Corale di Bach ‘‘Wie wohl ist mir, o Freund der Seelen’’ per due pianoforti (1916, 1917) e` un altro saggio del camaleontismo di Busoni, che riscrive per un medium strumentale diverso, e con varie novita`, il finale della Sonata n. 2 per violino e pianoforte. La Sonatina ad usum infantis Madeline Americanae pro clavicimbalo composita (1916, 1916) e` in cinque brevi movimenti. Busoni mette il titolo in latino, suppongo, per accentuare il carattere sovranazionale, universale della musica, e quindi per affermare a suo modo la condanna della guerra in atto (questo e` d’altronde il senso dell’Arlecchino). Il termine clavicembalum viene usato in sostituzione del tedesco Klavier, e non come corrispondente di clavicembalo. La scrittura pianistica semplicissima e la particolare natura melodica degli incisi tematici principali sembrerebbero pero` adattarsi al pianoforte antico piu` che al pianoforte da concerto moderno. Con questa Terza, e poi con la Quarta Sonatina Busoni inizia per primo il ritorno a un tipo di scrittura prebeethoveniana che diventera` usuale in molti compositori dieci anni piu` tardi. Titolo in latino anche per la Sonatina in diem na147

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Ferruccio Benvenuto Busoni

tivitatis Christi MCMXVII (1917, 1918), dedicata al figlio Benvenuto che contava venticinque anni. Per una bambina americana la Terza Sonatina, per Benni la Quarta: Busoni ripone nei giovani tutte le sue speranze per il futuro dell’umanita`. La Quarta Sonatina e` un altro studio per il Doktor Faust: importante soprattutto, per ritrovare il sentimento che ha ispirato l’artista, e` il passaggio di collegamento fra la prima e la seconda parte, una serie di semplici accordi che nel Doktor Faust diventeranno l’inizio del Credo cantato dal coro interno alla fine del secondo Preludio. Il Credo scompare lentamente, immerso in una nebbia sonora creata dal pedale di risonanza, e al suo posto compare un ingenuo tema di pastorale; alla fine della pastorale ricompare, sempre avvolto in un velo sonoro che rende confusi i contorni, il Credo. Non e` difficile, e non e` azzardato dare un’interpretazione psicanalitica della Sonatina: nostalgia della fede religiosa dell’infanzia o, meglio, nostalgia delle semplici certezze dell’animo infantile. La Sonatina brevis in signo Johannis Sebastiani Magni (1918, 1919) e` basata sulla Fantasia e fuga BWV 905 di Bach, che oggi e` considerata spuria. Il lavoro di Busoni, che attraverso un logico uso del contrappunto scardina l’armonia settecentesca e la proietta in avanti di due secoli e` sicuramente geniale, ma non, secondo me, esteticamente risolto. Nella Fantasia da camera sulla Carmen di Bizet (1920, 1921), come nella Terza e nella Quarta Sonatina, scompare la tradizionale cantabilita` del pianismo romantico, e almeno alcune parti della composizione, classificata come Sesta Sonatina, sembrano pensate per un pianoforte dell’inizio dell’Ottocento. Predomina, anche nelle parti cantabili, il suono che Ferruccio Bonavia, riferendosi alle ultime apparizioni concertistiche di Busoni, definı` ‘‘bianco’’, un suono che permette un uso del pedale di risonanza al modo di Beethoven e di pianisti del tempo di Beethoven. La Sesta Sonatina, considerata sotto l’aspetto della sonorita` strumentale, e` in fondo vicina alle fantasie di Francesco Pollini o del Moscheles giovane piu` che alle parafrasi di Thalberg e di Liszt. L’omaggio al Bizet della Carmen e` come un tributo a una delle pochissime opere che Busoni avesse ammirato sempre, fin dalla adolescenza. Nel 1917, nel saggio che accompagnava la sua revisione della lisztiana Fantasia sul ‘‘Don Giovanni’’, Busoni aveva esposto un sintetico schema di parafrasi sulla Carmen secondo gli esempi di Liszt. Nella Sonatina lo amplia perche´ lavora sulla Scena del mercato, sulla romanza di Don Jose´, sulla Habanera con variazioni, sulla Scena dell’arrivo della quadriglia dei toreri e sul Tema di Carmen. Anziche´ finire con 148

Sonatina in diem nativitatis Christi MCMXVII

un profluvio di sonorita` (come in una parafrasi ottocentesca) la Sonatina si conclude quindi con la morte di Carmen. L’ultima pagina rende veramente la inebetita fissita` di don Jose´ che contempla Carmen, e Busoni giustamente modifica la didascalia di Bizet, Andante moderato, in Andante visionario. I Tre Fogli d’album (1917-1921, 1922) non aggiungono nulla a cio` che gia` sappiamo dalla Quarta Sonatina. Busoni ci sconcerta molto spesso per la sua indifferenza alla coerenza stilistica. In questo senso si potrebbe dire che egli sia un precursore del postmoderno. Ma cio` non toglie che la sua disinvoltura nel servirci a merenda cavoli e cioccolata ci lasci ancor oggi di sasso. Il Concertino op. 54 e` la risultante di una somma: Concertstu¨ck op. 31a e Romanza e Scherzoso (1921, 1922). Vero e` che le due parti possono essere eseguite separatamente, ma Busoni assegna il numero d’opera al Concertino, all’insieme. Romanza e Scherzoso sono, ancora una volta, il riflesso delle esperienze del Busoni interprete, che nel dopoguerra stava rilanciando alla grande i Concerti di Mozart. Il linguaggio e` diatonico, il lavoro tematico e` minimo rispetto al decorativismo delle figurazioni. Perche´ mai Busoni ando` a inventare questo paradosso che e` il Concertino? Qualcuno pensa che egli volesse trovare un appiglio per far eseguire il giovanile Concertstu¨ck, che era caduto nel dimenticatoio. Ma questa mi sembra una motivazione troppo banale e prosaica, per un eccentrico come Busoni. E se del resto questo era il fine, il fine non fu raggiunto. Mi sembra piuttosto che Busoni mettesse insieme, focalizzandolo sulla sua persona, un ‘‘ieri e oggi’’, i trent’anni nei quali la musica aveva fatto una conversione a centottanta gradi quale non si era mai vista. Dallo Scherzoso Busoni estrasse il Perpetuum mobile (1922, 1922), che non e` una semplice trascrizione ma un riadattamento con varie modifiche. A latere del lavoro grandioso sui Concerti di Mozart stanno tre riuscitissime trascrizioni per due pianoforti, il Duettino concertante (1919, 1921, dal finale del Concerto K 459), la Fantasia in fa per un organo meccanico K 608 (1922, 1922), e la Ouverture dell’opera Il Flauto magico (1923, 1924). La Toccata (1921, 1922), formata da Preludio, Fantasia e Ciaccona, e` un pezzo da concerto che pote´ contare fra i suoi ammiratori un Serkin e un Brendel. Io confesso che dopo aver ammirato il brillantissimo Preludio mi trovo spiazzato di fronte alla Fantasia e alla Ciaccona, che mi sembrano provenire da mondi sconosciuti per i quali non ho un pass utilizzabile. Il Preludio e Studio (1923, 1923) fu composto per la Scuola degli arpeggi di

Veloce e leggero (senza titolo)

Isidor Philipp ed e` del tutto in linea con la sua destinazione. Il decorativismo dell’arpeggio era stato da sempre una componente dello stile di Busoni. Qui diventa il protagonista, come un quadro in cui le nuvole non sono lo sfondo di un paesaggio ma sono il paesaggio. Busoni diede vita a due edizioni del Klavieru¨ bung (Esercizio per tastiera, 1918-1922, 1922, e 1922-1924, 1925); la seconda edizione, in dieci densi fascicoli, e` una versione modificata e ampliata della prima, una vera e propria enciclopedia del sapere che comprende esercizi su vari problemi tecnici, esempi tratti dalla letteratura, edizioni da studio di pagine di vari autori e, di Busoni, le Dieci Variazioni su un Preludio di Chopin e il Perpetuum mobile di cui ho gia` detto, i Sette Pezzi brevi per lo studio dello stile polifonico e un pezzo senza titolo, veloce e leggero, che il Sitsky definisce ‘‘un sinistro saggio di cinque pagine nel migliore stile spettrale di Busoni’’. Per mettere insieme le due edizioni dell’Esercizio per tastiera Busoni rubo` il tempo al Doktor Faust. Ci teneva, al Doktor Faust, come al culmine della sua vita di creatore. Nel 1919 erano state eseguite a Londra la Sarabanda e il Corteggio tratti dall’opera ancora incompiuta. Il 25 novembre Busoni incontro` per strada Frederick Delius, vecchio ami-

Ferruccio Benvenuto Busoni

co dei tempi eroici di Lipsia, che aveva ascoltato i due pezzi. Scrive Busoni alla moglie: ‘‘Abbiamo combinato, per suo desiderio, un pranzo in comune. Dopo essersi accomiatato torno` indietro un’altra volta, come se si fosse scordato di un atto formale di cortesia: ‘La parte che mi piace di piu` (disse in tono di conforto) e` la Sarabanda’; gli volsi le spalle e – nel taxi mi lasciai andare; avevo bisogno di sfogarmi a piangere, per una volta’’. L’indifferenza verso le sue composizioni feriva Busoni nel profondo. Eppure qualcosa si stava muovendo. L’Arlecchino e la Turandot, andate in scena a Zurigo nel 1917, dalla fine della guerra alla morte di Busoni erano eseguite, insieme o separatamente, in sette teatri tedeschi. Il piu` ponderoso Doktor Faust, ultimato da Philipp Jarnach, fu eseguito in sedici teatri tedeschi prima di esservi bandito dai nazisti. Busoni, che stava raggiungendo un successo a lungo agognato, rinuncio` a terminare il Doktor Faust per lavorare all’Esercizio per tastiera, mentre avrebbe potuto dedicare all’opera ogni minuto del suo tempo. Gli siamo grati per cio`, naturalmente, ma ci chiediamo perche´. E la risposta e` secondo me una sola: il pianista e il drammaturgo erano stati sempre in conflitto, in lui, e nessuno dei due era riuscito ad atterrare l’altro.

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John Cage

Solo

John Cage (Los Angeles, 15 settembre 1912-New York, 13 marzo 1992) Indipendentemente dal valore della sua musica, a proposito del quale si possono esprimere non pochi dubbi, Cage passa alla storia della letteratura pianistica per due motivi. Agli inizi dell’Ottocento il suono del pianoforte poteva essere modificato o arricchito nel timbro mediante l’impiego di meccanismi comandati a pedale che davano gli effetti di ‘‘voce celeste’’ e di ‘‘fagotto’’, o con macchinari muniti di piatti e campanelli, o con una mazza morbida che percuotendo la tavola armonica provocava l’effetto della grancassa. Nel 1938 Cage ebbe la commissione di un breve balletto. Non potendo per motivi finanziari permettersi, come avrebbe voluto, di impiegare un gruppo di percussioni, egli penso` di modificare il suono del pianoforte inserendo fra le corde – non fra tutte – pezzi di metallo, pezzi di gomma, pezzi di panno, pezzi di cartone, pezzi di cotone. E questo e` il ‘‘pianoforte preparato’’. L’inserimento fra le corde di vario materiale modifica comunque il timbro, ma se lo spessore del materiale e` leggtermente superiore allo spazio fra le corde modifica anche l’altezza del suono. Cage ottenne cosı` un sostituto di una orchestrina di percussioni e lo impiego` in Baccanale (1938, perduto; seconda versione, 1940) e in molti altri pezzi, fra cui le suite The perilous Night (La notte pericolosa, 1943-1944) e A Valentine out of the season (Un S. Valentino fuori stagione, 1944), fino al vasto ciclo Sonate e Interludi (1946-1948). Il termine sonata e` inteso da Cage all’antica, come pezzo da suonare: pezzi brevi, organizzati per gruppi di quattro ciascuno e inframmezzati dagli Interludi, che in verita` si distinguono dalle Sonate solo per il titolo. Sedici Sonate e quattro Interludi, uno allocato fra le Sonate n. 4 e n. 5, due fra il n. 8 e il n. 9, uno fra il n. 12 e il n. 13 (i due Interludi consecutivi fanno sı` che il percorso della prima meta` venga riprodotto a specchio nella seconda meta`). La stragrande maggioranza dei pezzi e` in forma binaria con ripetizione, qualcuno e` in forma ternaria ma non simmetrica (A-B-C, non A-B-A), la scrittura e` molto semplice, i ritmi elementari. Cage dichiara di aver voluto esprimere le ‘‘nove emozioni permanenti della tradizione estetica dell’India’’, e cioe` l’eroico, l’erotico, il meraviglioso, la gioia, il dolore, la paura, la collera, l’odioso, la tranquillita`, tranquillita` che e` la ‘‘tendenza comune’’ di tutte le emozioni. Il fascino del pianoforte 150

preparato risiede nella timbrica che, detto un po’ in soldoni, fa pensare al gamelan giavanese (qualche critico parlo` a questo proposito, censurando il compositore, di neocolonialismo). E la musica di Cage induce a un ascolto contemplativo, alla nonidentificazione psicologica dell’ascoltatore nella emozione, evocata ma non rivissuta. Il limite consiste secondo me nella monotonia, perche´ i congegni meccanici ottocenteschi comandati a pedale potevano essere inseriti o disinseriti a piacere, mentre un do ‘‘preparato’’ con un pezzo di gomma resta identico a se stesso, e ne viene anche ridotto in buona parte il ventaglio dinamico. Nel comporre il Concerto per pianoforte preparato e orchestra da camera (1951) Cage si valse di diagrammi e accordo` al pianista la massima liberta`, facendone in pratica un co-autore. Cage si preoccupa soprattutto di indicare le pause, i silenzi, progressivamente sempre piu` lunghi nel terzo movimento, che finisce con nove battute vuote, con la paradossale indicazione ritardando. In un momento in cui la Nuova Musica marciava compatta verso la serializzazione di tutti i parametri del suono, Cage dava la dimostrazione pratica che il dominio totale della struttura non era auditivamente distinguibile dalla casualita` programmata. E questo e` il secondo motivo che ‘‘consegna’’ Cage alla storia della musica. Music of Changes (Musica di mutazioni, 1951) lega la ‘‘impersonalita`’’ della composizione al libro degli oracoli cinesi, I Ching, con relativa estrazione a sorte per tutti i parametri della composizione, che sono indicati in partitura e che devono essere rispettati dall’esecutore. La relativa indeterminazione del risultato sonoro del Concerto per pianoforte preparato diventa completa nel Concerto per pianoforte e orchestra (1957), in cui il pianista sceglie fra ottantaquattro nuclei, scritti con ottantaquattro diversi sistemi di notazione, cioe` come gli garba, e dispone cio` che sceglie nell’ordine che vuole; anche gli strumenti dell’orchestra possono cambiare di volta in volta e, anzi, e` concesso – Solo (1958) – di eseguire la sola parte solistica. Viene cosı` rivalutato fino al paradosso il ruolo del pianista, a cui viene restituita la funzione dell’interprete, chiamato non piu` a realizzare un disegno tecnico-esecutivo completo in ogni particolare ma a operare delle scelte entro un larghissimo campo

Due

di possibilita` e che, in accordo con il direttore, decide la durata; la parte del direttore e` soltanto gestuale e non ha a che vedere con cio` che avviene in orchestra, salvo che per l’inizio e la fine del pezzo. Cage abbandona il pianoforte preparato che, come dicevo, porta a risultati di monotonia, e adotta invece la tecnica di Cowell dell’esecuzione sulla cordiera e dello sfruttamento percussivo del mobile del pianoforte. Il silenzio diventa vieppiu` importante nelle sue musiche, tanto che in certi casi le pause occupano un tempo maggiore di quello delle note. E` molto raro che Cage si affidi al continuum sonoro, e quando cio` avviene, come nel n. 5 e nel n. 20 di Solo, la musica e` seguita lunghissimi silenzi. L’ultima raccolta di pezzi di Cage, gli Studi australi (1974-1976), trasforma in occasione di suono antiche carte astronomiche. Ed e` evidente che anche in questo caso, come nel Concerto,

John Cage

non si puo` parlare dell’‘‘opera’’, ma solo di singole esecuzioni che presentano molte diversita` fra di loro. Cage compose anche vari lavori per piu` pianoforti, fra cui parecchi per due pianoforti. Il Libro di musica (1944), dedicato al duo Gold-Gizdale, e Ie Tre Danze (1944-1945), entrambi per pianoforti preparati, sono esempi, rarissimi in Cage, di musica a destinazione concertistica che non rifiuta il virtuosismo esecutivo dimostrativo. Del tutto opposti, e appartenenti all’ultimo periodo della attivita` di Cage sono invece Musica per due (19841987) e Due (1989). La musica e` in questi casi scritta, il procedimento compositivo e` influenzato dalle strutture della poesia giapponese, ma la ‘‘spersonalizzazione’’ del comporre e` molto attenuata rispetto al passato, sebbene venga mantenuto un ampio margine di discrezionalita` degli esecutori.

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Pe¨tr Il’icˇ Cˇajkovskij

Due

Pe¨tr Il’icˇ Cˇajkovskij (Kamsko-Votkinsk, 7 maggio 1840-S. Pietroburgo, 6 novembre 1893) Brahms, uomo di sentire neoclassico e attentissimo al recupero di valori che il romanticismo aveva accantonato, inizia la sua attivita` creativa, ventenne, con tre Sonate. La sonata, prediletta da Beethoven, e` il mito che deve rivivere, e che rivive con Brahms. Ma poi Brahms, negli altri quarant’anni della sua attivita` quale creatore di musica per pianoforte, di sonate non ne scrivera` nemmeno piu` una. Ne´ Liszt scrivera` altre sonate dopo la sua unica, rivoluzionaria Sonata in si minore. Ne´ la letteratura francese mettera` in vetrina una sonata prima dell’inizio del Novecento. Questa quercia rinsecchita che nella seconda meta` dell’Ottocento e` la sonata per pianoforte solo, questo organismo destinato a diventare un fossile da laboratorio viene da Anton Rubinsˇtejn trapiantato in Russia, dove si sviluppa rigogliosamente. Cˇajkovskij, che di Rubinsˇtejn e` allievo, comporra` due Sonate. La prima, la Sonata in do diesis opera postuma 80 (1865, 1900) e` un lavoro di scuola, uno di quei lavori (fughe, quartetti, cantate, saggi di strumentazione) che l’insegnamento accademico alla tedesca, adottato nel conservatorio di S. Pietroburgo, reputava indispensabili. L’atteggiamento di Cˇajkovskij e` quello del buon allievo al quale viene spiegata con dovizia di esempi illustri la storia della formasonata da Mozart a Schumann, con una certa attenzione verso un sonatista, Schubert, non tanto in odore di santita`, e con l’appendice dello stesso Rubinsˇtejn. La redazione che abbiamo della Sonata fu curata da Sergej Taneev, che ritocco` l’originale senza stravolgerne i caratteri. Nei quattro movimenti che compongono la Sonata troviamo alcuni temi che gia` appartengono alla piu` familiare immagine di Cˇajkovskij. Perfettamente riuscito e` lo Scherzo, di cui Cˇajkovskij utilizzo` la prima parte nello Scherzo della Sinfonia n. 1 op. 13 (1866). La Sonata op. 80 viene eseguita a ogni morte di papa. Ma le sue potenzialita`, e il suo essere sı` lavoro di scuola ma di un genio della musica furono messe in luce dalla sorprendente interpretazione che ne diede Emil Gilels. Il catalogo ufficiale di Cˇ ajkovskij si apre con lo Scherzo alla russa e Improvviso op. 1 (1867 e 1864, 1867) e con il Ricordo di Hapsal op. 2 (1864-1867, 1868). Lo Scherzo e` basato su una vivace canzone ucraina, con un trio a modo di notturno, mentre l’Improvviso e` romanticamente tor152

mentato, in forma di canzone tripartita. Il Ricordo di Hapsal... ciurla un po’ nel manico perche´ il primo e il terzo dei pezzi da cui e` formato – Rovine d’un castello e Canto senza parole – furono effettivamente composti nella localita` di villeggiatura sul Mar Baltico in cui Cˇ ajkovskij aveva soggiornato durante l’estate del 1867, mentre lo Scherzo e` un ‘‘ripescaggio’’ degli anni di scuola. Di qualche interesse e` secondo me solo il carattere neogotico delle Rovine d’un castello, nei suoi tre momenti di contemplazione del silenzioso testimone di un passato arcano, di evocazione di un torneo cavalleresco, e di ritorno alla contemplazione delle rovine. La prima composizione pianistica di Cˇ ajkovskij che suscito` l’ammirazione dei dilettanti e` la Romanza in fa op. 5 (1868, 1868), dedicata alla cantante De´sire´e Artoˆt con la quale il compositore – omosessuale – ebbe un rapido flirt. Pezzo malinconico, con una melodia nella quale si intravvede il futuro Cˇajkovskij, ma con una parte centrale a modo di danza, che viene ripresa nella coda, la Romanza e` un quadretto borghese di grande fascino e una testimonianza del gusto del tempo. La produzione pianistica di Cˇajkovskij e` ricca di pezzi destinati ai dilettanti, che in Russia e non solo in Russia formavano una classe di... consumatori di cui si poteva tener conto anche quando le ambizioni creative andavano oltre la conquista di un mercato molto redditizio. Tra le varie composizioni di questo tipo, successive alla Romanza, sono da segnalare i Due Pezzi op. 10 (1871, 1876), specialmente il secondo, Umoresca, che e` vera e propria, e deliziosa musica da balletto. I Sei Pezzi op. 19 (1873, 1874) mischiano il livello tecnico del dilettante e il livello tecnico del professionista. Virtuosistico e` il n. 2, Scherzo umoristico, e vero e proprio pezzo da concerto e` il n. 6, Tema con variazioni. Tema a modo di corale, nobile ma non personale, diciotto variazioni che oscillano fra i momenti introspettivi e i momenti estroversi, e coda finale: l’impaginazione concertistica e` perfetta, l’ombra di Schumann si proietta sul lavoro come nume tutelare ma anche come limite. Il critico Leonid Sabaneev disse una volta che la musica russa l’avevano fatta Glinka, Schumann e Berlioz, e il Tema con variazioni di Cˇ ajkovskij e` la dimostrazione della bonta` di questa tesi paradossale. I Sei Pezzi sullo stesso tema op.

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21 (1873, 1873) sono interessanti per l’idea che perseguono, piu` che per i risultati raggiunti. Cˇajkovskij fa evidentemente riferimento al Carnaval op. 9 di Schumann, ‘‘piccole scene su quattro note’’, e costruisce sei pezzi molto variati – Preludio, Fuga a quattro voci, Improvviso, Marcia funebre, Mazurca, Scherzo – sullo stesso nucleo tematico. L’organizzazione tonale segue una logica impeccabile: i primi tre pezzi sono in do diesis, il quarto in la bemolle, il quinto e il sesto in La bemolle (la tonalita` finale e` la dominante della tonalita` dell’inizio, perche´ sul pianoforte il la bemolle e` identico al sol diesis). Ma i sei pezzi, che impegnano Cˇajkovskij nella tecnica della trasformazione dei temi, non sollecitano in pari misura la sua fantasia, e l’ambizione di strumentare la musica in modo degno del grande virtuoso, Anton Rubinsˇtejn, che ne e` il dedicatario spinge Cˇ ajkovskij su un terreno che in verita` non e` il suo. Le vicende che accompagnarono la composizione del Concerto n. 1 in si bemolle op. 23 (18741875, 1879) sono abbastanza note. Le riassumero` in breve. Cˇajkovskij insegnava nel conservatorio di Mosca, il cui direttore, Nicolai Rubinstein, era un grande pianista che teneva ogni anno un concerto molto reclamizzato e molto mondanamente seguito. Per la serata che Rubinstein avrebbe dato nel 1875 Cˇajkovskij preparo` il Concerto e lo fece vedere a Rubinstein, suonandolo alla meglio perche´ come pianista era un poppante, nella vigilia di Natale. Rubinstein critico` aspramente molte parti del Concerto, Cˇajkovskij si risentı` e dichiaro` che non avrebbe cambiato nemmeno una nota. Tramontata cosı` la speranza di sentire il Concerto a Mosca, e in una serata particolare, Cˇajkovskij spedı` la partitura a Hans von Bu¨low. La prima esecuzione, con Bu¨low al pianoforte, ebbe percio` luogo a Boston il 25 ottobre 1875. Non sappiamo se Bu¨low eseguisse il Concerto cosı` com’era scritto o se, come faceva spesso, introducesse delle modifiche. Ma la versione originale ci dice che Nicolai Rubinstein si era forse sbagliato nel tono, non nella sostanza. E Cˇ ajkovskij non si risentı` quando il pianista Edward Dannreuther, che stava preparando la prima esecuzione a Londra, gli mando` una lunga serie di proposte di cambiamenti, cambiamenti che non riguardavano il tessuto musicale ma la strumentazione. Cˇajkovskij non solo diede la sua autorizzazione, ma introdusse tutti i cambiamenti suggeriti dal Dannreuther nella edizione a stampa del Concerto, e altre ancora ne introdusse in una edizione successiva, dopo aver ascoltato il suo lavoro nella esecuzione di Alexandr Siloti. La versione che si ascolta generalmente e` dunque quella di Cˇajkovskij con modifiche di Dannreuther e di Siloti. Al-

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fred Brendel parla delle ‘‘perversioni pianistiche’’ del Concerto n. 2 di Brahms. La stessa cosa varrebbe per la prima versione del Concerto di Cˇajkovskij. E non tutte le originarie ‘‘perversioni’’ furono eliminate con gli interventi successivi. Mi riferisco in particolare ai tre celebri passi in ottave, che non potevano essere emendati perche´ non esisteva una soluzione tecnica alternativa. I tre passi richiedono velocita` e potenza non superiori a quelle che sono richieste in molti lavori di Liszt. Ma mentre la scrittura di Liszt e` sempre fisiologicamente giusta, Cˇajkovskij costringe troppo spesso l’esecutore a rapidissimi cambi di direzione perche´ l’andamento dei passi e` a zig zag. E inoltre, se il direttore non trattiene e frena lo slancio dell’orchestra, il solista non e` in grado di sostenere il confronto, ne´ in velocita`, ne´ in potenza. Il Concerto di Cˇajkovskij ha finito cosı` col diventare molto spesso una palestra di atletismi, anche se l’incisione in disco di Vasilij Sapelnikov, che lo aveva eseguito sotto la direzione di Cˇajkovskij, ci dice che il compositore mirava piu` all’eleganza che alla forza e alla velocita`. I concerti per pianoforte che pareggiano la popolarita` del Primo di Cˇajkovskij si contano sulle dita di una mano. Dalla melodia della imponente introduzione in tempo lento, introduzione che e` un vero e proprio tema con prima variazione, cadenza, seconda variazione e coda, fino alla melodia esposta dapprima del flauto nel secondo movimento, e fino al secondo tema del finale, che viene portato all’apoteosi nella coda, e` tutto un insieme di punti culminanti in una caleidoscopica varieta` di atteggiamenti espressivi. Un uso consolidato, che partiva addirittura da Haydn, riguardava l’inserimento di temi popolari nei finali dei concerti. Cˇajkovskij non solo segue quest’uso, ma su una canzone popolare ucraina basa il primo tema del primo movimento (non quello dell’introduzione), e basa la parte centrale del secondo movimento su una canzonetta francese molto popolare in Russia, ‘‘Bisogna divertirsi, danzare e ridere’’. Il Concerto op. 23, concerto ‘‘russo’’, che divenne popolarissimo in breve volger di tempo (e che fu poi eseguito anche da Nicolai Rubinstein), diventava cosı` un manifesto del diritto che la Russia avanzava ad allargare con la sua presenza il... G3, il club delle grandi civilta` musicali che comprendeva allora l’Italia, la Francia e la Germania. Non si sa per quale misteriosa ragione la Sonata in Sol op. 37 (1878, 1879) e il ciclo Le Stagioni op. 37bis (1875-1876, 1876) portino lo stesso numero d’opera. I dodici pezzi delle Stagioni – che dovremmo chiamare I Mesi – furono composti su richiesta di una rivista che usciva mensilmente. ‘‘Il 153

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nostro celebre compositore Cˇajkovskij’’, annuncio` la rivista alla fine del 1875, ‘‘ha promesso di collaborare alla redazione del Novellista, che s’appresta a pubblicare dal prossimo anno una serie di pezzi per pianoforte scritti appositamente per la nostro rivista, pezzi il cui carattere corrisponde tanto ai loro titoli quanto alle impressioni dei mesi che vedranno la loro pubblicazione’’. Non si trattava di un soffietto: Cˇajkovskij fu di parola. Ognuno dei pezzi ha un doppio titolo: ad esempio, Gennaio (Accanto al fuoco), Febbraio (Carnevale), Marzo (Canto dell’allodola), e cosı` via fino a Dicembre (Natale). Tutti i pezzi sono melodicamente accattivanti, l’armonia non e` mai banale e spesso e` preziosa, prevalgono le melodie accompagnate ma non mancano i momenti di polifonia. La forma e` sempre di canzone tripartita (A-B-A), ma la riesposizione di A e` spesso identica alla esposizione. Questo carattere, che ha nuociuto persino alla diffusione di certe Polacche e di certe Mazurche di Chopin, ha limitato la popolarita` delle Stagioni di Cˇajkovskij. Se a cio` si aggiunge la semplicita` della scrittura, che e` di media difficolta`, si capisce perche´ il ciclo non venga mai eseguito per intero. Rachmaninov aveva in repertorio Novembre (Troika), Cherkassky Ottobre (Canto d’autunno), Richter aveva Gennaio, Maggio (Notte stellata), Giugno (Barcarola) e Novembre. Ma e` oggi raro che si ascoltino in concerto anche i pezzi formalmente piu` elaborati delle Stagioni. Nel 1878 Cˇ ajkovskij era un artista ormai pienamente affermato internazionalmente, autore di quattro opere, un balletto, quattro sinfonie, un concerto per pianoforte. Sinfonie e concerti erano tipi di composizione che andavano come il pane in tutto il mondo; altrettanto dicasi delle sonate per violino e pianoforte e per violoncello e pianoforte. La sonata per pianoforte solo era invece quanto mai fuori moda, ma Cˇajkovskij la scelse e compose un lavoro in quattro movimenti (Grande Sonata in Sol op. 37), monumentale, a cui non nuoce affatto di essere toccato dall’ombra di una grande sonata romantica, l’op. 11 di Schumann, e che presenta tratti di estrema originalita`, come l’inizio, che introduce un inatteso contrasto drammatico nel corpo stesso del primo gruppo tematico. Cˇajkovskij vinse indubbiamente, con la Sonata, la scommessa con se stesso. Non la vinse con il mondo, che di nuove sonate per pianoforte solo proprio non voleva saperne, tutto teso com’era a divorare le appassionate e le chiaro di luna e ad assaggiare le 110 e le 111. La Sonata di Cˇajkovskij venne eseguita da Nicolai Rubinstein, ma fu poi ripresa molto di rado, sebbene da alcuni grandissimi pianisti come d’Albert, Igumnov, Elly Ney, Friedman, e Proko154

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f’ev, che la presento` anche negli Stati Uniti. La vera riscoperta fu opera di Sviatoslav Richter che, si potrebbe dire come Bruno Walter diceva di Euge`ne d’Albert interprete dell’Imperatore di Beethoven, la Sonata non la interpretava neppure ma la ‘‘impersonava’’. Nella visione che Richter proponeva della storia c’era una tesi di fondo: la civilta` classico-romantica emigra dalla Germania nella Russia e vi trova una nuova eta` dell’oro con Prokof’ev. Al principio di questo cammino che culmina in Prokof’ev Richter non colloco` la Sonata op. 41 di Anton Rubinsˇtejn, come forse sarebbe stato giusto, ma l’op. 37 di Cˇajkovskij. E la suono` con una fierezza che vorrei definire nazionalistica: ecco, sembro` dirci, quello che un russo sapeva fare con un vecchio stampo, quando tutti gli altri lo giudicavano inutilizzabile. Aveva ragione. E dopo di lui la Sonata, senza mai diventare veramente popolare, il suo posto nel repertorio se lo conquisto`. La Sonata op. 37 e` in quattro movimenti, di taglio complessivamente tradizionale ma non senza caratteri, anche formali, assai inconsueti. Ad esempio, il primo gruppo tematico del primo movimento, come dicevo, e` una canzone tripartita con un forte contrasto interno, e in conseguenza di cio` il secondo gruppo tematico e` episodico, non contrapposto al primo. Nella riesposizione, poi, il primo gruppo tematico viene ripresentato in forma soltanto bipartita (secondo tema, primo tema), e questi caratteri eterodossi, sia pur parziali, conferiscono alla struttura un aspetto formale insolito, che sorprende e stupisce l’ascoltatore avvezzo alle quadrature e alla simmetrie della cultura tedesca. Nel secondo movimento Cˇajkovskij articola la tradizionale struttura tripartita in un modo molto originale. Invece di un semplice primo tema espone un gruppo tematico (tema A, tema B, tema A sviluppato e variato, coda); al centro colloca un secondo tema che funge da intermezzo; nella terza parte riespone il primo gruppo tematico, ma con importanti variazioni e con un taglio formale diverso; la conclusione e` una coda che svanisce nel nulla (dolcissimo, piu` che pianissimo con tre p, poi con quattro p, morendo e perdendosi). Formalmente tradizionalissimo e` invece lo Scherzo, molto originale ritmicamente e scritto in un modo – quartettistico – che mette a dura prova il pianista perche´ richiede una estrema precisione di attacco e di accento. La struttura del finale e` quella tipica del rondo`, ma con un andamento tonale inconsueto (Sol-si-Sol-Mi bemolle-Sol-si-Sol). Piu` che l’impianto tonale si nota pero` il carattere ballettistico dei temi. L’anno prima Cˇajkovskij aveva scritto la Sinfonia n. 4 ma aveva anche visto rap-

Cinquanta canti popolari russi

presentato per la prima volta il Lago dei cigni, e dopo la Sonata op. 37 avrebbe composto la Suite n. 1 op. 43 per orchestra, di carattere piu` ‘‘leggero’’ di quello delle sinfonie. Anche in una composizione pianistica di grande impegno, qual e` la Sonata op. 37, si avverte dunque il riflesso di una svolta ideologica che possiamo oggi considerare rivoluzionaria: Cˇajkovskij e` il primo compositore di alte ambizioni e aspirazioni con cui la musica di balletto cessa di essere funzionale ed entra a pieno titolo nella sfera dell’arte. L’Album per bambini op. 39 (1878, 1878) nasce in dichiarata concorrenza con l’Album per la gioventu` di Schumann ed e` dedicato al nipotino di Cˇajkovskij, che aveva allora sei anni. I ventiquattro piccoli pezzi si aprono con la Preghiera del mattino e finiscono con In chiesa, ma non seguono una traccia narrativa. Non manca nemmeno un intermezzo macabro... con lieto fine: La bambola malata (n. 6), Sepoltura della bambola (n. 7), La nuova bambola (n. 9). Ci sono canzoni popolari di vari paesi, fra cui una Aria di danza napoletana (n. 18) ferocemente caricaturale, una Canzone italiana (n. 15) e molti quadretti di genere. Ma nell’insieme l’Album per bambini non e` secondo me pari, ne´ per valore artistico, ne´ per valore didattico, al miracoloso Album per la gioventu` . Con i Dodici Pezzi di media difficolta` op. 40 (1878, 1879) Cˇajkovskij passava al gradino di impegno tecnico superiore a quello dell’Album, ma con risultati complessivamente non superiori, anzi, meno efficaci didatticamente. Quando una ciambella riesce ben al di la` delle aspettative del pasticcere che l’ha fatta e` molto difficile che ci sia la replica. Tanto osannato e` il Concerto n. 1 di Cˇajkovskij, tanto trascurati sono il Concerto n. 2 in Sol op. 44 (1879-1880, 1881) e il Concerto n. 3 in Mi bemolle opera postuma 75 (1893, 1894). Il Concerto n. 2 e` mastodontico e assegna al violino di spalla e al primo violoncello dell’orchestra compiti di co-solisti. E` sontuoso, ricco di melodie, ma piu` ballettistico che sinfonico, tanto da essere diventato splendidamente la musica per una grande coreografia di Balanchine, Balletto Imperiale. Alexandr Siloti ne preparo` una versione con molti tagli, ma neppure in questa redazione, che lo rende piu` snello, il Concerto e` diventato popolare. Del Concerto n. 3 fu ultimato da Cˇajkovskij, sfruttando temi di una Sinfonia n. 7 presto abbandonata, solo il primo movimento. Un Andante e Finale opera postuma 79 (1893, 1897), che rappresentavano probabilmente il completamento del Concerto, furono ultimati da Taneev e da lui strumentati per pianoforte e archi. Il Concerto n. 3 e` interessante per certi particolari di

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scrittura percussiva che fanno pensare a un Prokof’ev avanti lettera, e per la gigantesca Cadenza che ne costituisce la parte centrale. Anch’esso e` diventato pero` noto come musica di un altro balletto di Balanchine, Allegro Brillante. La produzione di Cˇajkovskij per pianoforte e orchestra comprende ancora la Fantasia da concerto op. 56 (1884, 1893), detta Concerto delle Dame perche´ dedicata in un primo momento a Anna Essipova e poi, siccome la Essipova non si decideva a suonarla, a Sophie Menter, anche lei, come la Essipova, celebre pianista e insegnante nel conservatorio di S. Pietroburgo. La Fantasia da concerto e` in due movimenti. Il primo movimento e` giocato sulla... schiavizzazione dell’orchestra, che assiste a una esibizione mostruosamente lunga del solista, intervenendo solo al principio e alla fine. Nel secondo movimento, Contrasti, il pianoforte diventa una sezione dell’orchestra e il discorso si sviluppa sulla intersecazione fra eventi diversi. Molto ingegnosa come concezione, ma priva di quel melodismo ammaliante che ha fatto la fortuna di tanti lavori di Cˇajkovskij. Ho appena accennato a Sophie Menter, allieva di Liszt e amicissima di Cˇajkovskij. La Menter compose dei Canti popolari ungheresi che Cˇajkovskij strumento` per pianoforte e orchestra nel 1893. Del tutto inattendibile e` la diceria che il lavoro della Menter fosse in realta` il completamento dell’abbozzo di un Concerto in stile ungherese che il vecchio benevolo Liszt aveva regalato all’allieva prediletta. Dei Sei Pezzi op. 51 (1882, 1882), ognuno dei quali e` dedicato a una donna, e` da ricordare soltanto il quarto, il Valzer di Natalia dedicato a Nathalie Pleskaja, che in una prima e privata redazione del 1878 portava una curiosa didascalia, in italiano: ‘‘Con sentimento, pensando a Pietro’’. L’unico pezzo per pianoforte solo di Cˇajkovskij che abbia incontrato una certa fortuna concertistica e` la Dumka op. 59 (1886, 1886), composta su richiesta di un editore francese e dedicata a Franc¸ois-Antoine Marmontel, illustre cattedratico del conservatorio di Parigi. La prima esecuzione ebbe pero` luogo solo dopo la morte di Cˇajkovskij, il 20 novembre 1893, a opera del futuro maestro di Horowitz, Felix Blumenfeld. La Dumka e` una rapsodia ucraina che segue il modello delle Rapsodie ungheresi di Liszt, pero` i suoi temi non sono presi dal canto popolare. Cˇajkovskij aveva armonizzato e strumentato per pianoforte a quattro mani Cinquanta canti popolari russi (1868-1869) e in questa raccolta aveva poi ‘‘pescato’’ per vari suoi lavori, a partire dalla Sinfonia n. 2. La sua conoscenza del canto popolare gli permetteva di creare temi stilisticamente affini al folclore, cosı` come aveva 155

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fatto Chopin. E la Dumka, pur non citando musica autenticamente russa, merita pienamente il sottotitolo ‘‘scena rustica russa’’. La composizione e` un pezzo da concerto, impaginata in modo da colpire il pubblico per la molteplicita`, la varieta` , il colore popolaresco degli eventi che vi si susseguono. E l’esempio lisztiano viene seguito anche per quanto riguarda la strumentazione, sebbene l’invenzione pianistica, in un non-pianista come Cˇajkovskij, non sia pari non solo a quella di Liszt ma neppure a quella di Balakirev. Nel suo ultimo anno di vita Cˇajkovskij riprese e ritocco` alcuni brevi pezzi per pianoforte, ne scrisse altri, e mise insieme una raccolta che pubblico` come Diciotto Pezzi op. 72 (1893, 1893). Raccolta, non ciclo organico, in cui manca un ordinamento tonale generale e in cui si incontrano caratteri diversissimi che vanno dall’intimismo romantico alla brillantezza della pagina da concerto. Si tratta quindi – e non lo dico in senso negativo – di uno zibaldone che veniva offerto sia ai dilettanti che ai professionisti. Ne´ gli uni ne´ gli altri dimostrarono pero` di apprezzare l’offerta, e solo due dei diciotto pezzi – il n. 2, Berceuse, e il n. 12, Il Monello – divennero veramente noti. Il Monello e Un poco di Chopin raggiunsero poi una grande fama ma come musica di balletto, perche´ furono inseriti, con la strumentazione di Riccardo Drigo, nella versione del Lago dei cigni che rimase in repertorio in Russia per molti anni. L’Improvviso che apre la raccolta e` un vero e proprio modello di composizione per dilettanti: formalmente squadrato, melodicamente piacevole, variato con bellissimi effetti di pedale di risonanza nella parte centrale, e scritto per lunghi tratti in modo da ‘‘dimostrare’’ l’utilita` di certi Studi di Cramer. Il riscontro ‘‘artistico’’ del lavoro ‘‘tecnico’’ gia` svolto non e` il minor motivo di interesse di un pezzo come questo, che va anzi valutato in rapporto con le finalita` che Cˇajkovskij perseguiva, e che sono quelle di un prodotto, insieme, di qualita` e di consumo. La Berceuse fu un tempo molto nota. Cˇajkovskij costruisce la prima e la terza parte (che riprende, variata, la prima) sulla insistente ripetizione di due suoni alternati al basso e su una cantilenante melodia, interrotta da un ‘‘motto’’ di quattro suoni; nella parte centrale, piu` breve, l’armonia e` piu` mossa ma l’aspetto dell’oggetto sonoro non viene sostanzialmente modificato. L’impianto compositivo e` lo stesso dei Pezzi

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op. 3 di Rachmaninov, scritti nel 1892: piu` elementi tematici, nessuno dei quali ha una forza plastico-rappresentativa sufficiente a fissare su di se´ l’attenzione dell’ascoltatore, vengono presentati insieme. Sebbene i tre elementi siano concepiti secondo un ordine gerarchico di importanza, manca la convergenza verso uno di essi, e si ha piuttosto una compresenza non ordinata secondo la prospettiva. Per quanto si tratti di un pezzo breve non si puo` non segnalare la novita` insita in questo carattere, nella sua radice eversivo rispetto alla tradizione romantica a cui sembra apparentemente richiamarsi. Tra gli altri pezzi dell’op. 72 e` da segnalare innanzitutto il n. 5, Meditazione, che divenne celebre quando Sviatoslav Richter lo incluse in una antologia di piccoli brani di Cˇajkovskij che formava la prima parte di un programma di concerto. Richter chiudeva la raccolta, appunto, con la Meditazione, e metteva in luce un rapporto, in verita` molto difficile da cogliere, fra Cˇajkovskij e il giovane Skrjabin. Nel rapporto Cˇajkovskij-Rachmaninov e Cˇajkovskij-Skrjabin non si tratta solo di una influenza del piu` anziano, e autorevolissimo, sui piu` giovani, ma di uno scambio di esperienze in cui Cˇajkovskij da` e raccoglie, accettando in Rachmaninov la distruzione della prospettiva e in Skrjabin il disfacimento della materia. Si tratta di un argomento da studiare a fondo, cosa che evidentemente non e` possibile fare qui. Tuttavia mi e` sembrato opportuno indicare i motivi di interesse storico e critico che si possono ritrovare in quest’ultima raccolta di Cˇajkovskij, messa insieme con una certa casualita` e senza apparenti ambizioni. Sono infine da citare nell’op. 72 i numeri 9, Un poco di Schumann, e 15, Un poco di Chopin, che sono parafrasi stilistiche perfettamente riuscite, anche se la mazurca alla Chopin e` formalmente piu` squadrata di quanto sarebbe desiderabile, e anche se le ornamentazioni ricordano molto da vicino le trascrizioni di Liszt dei Sei Canti polacchi di Chopin. Nel repertorio concertistico del pianoforte il nome di Cˇajkovskij figura anche con alcune trascrizioni e parafrasi. Liszt trascrisse la Polacca dell’Evgenij Onegin, Rachmaninov la Ninna-nanna op. 16, Feinberg il terzo movimento della Sinfonia Patetica, e Pletnev la suite del balletto Lo schiaccianoci. Paul Pabst compose la parafrasi da concerto sull’Evgenij Onegin e Grainger parafraso` il Valzer dei fiori dello Schiaccianoci.

Diciotto Pezzi op. 72

Elliott Carter

A Elliott Carter

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(New York, 11 dicembre 1908) Nella lunghissima attivita` creativa di Carter la presenza del pianoforte e` del tutto episodica, ma a lui si devono alcuni lavori di spicco nella storia della letteratura dello strumento. La Sonata (19451946), in due movimenti, e` ancora legata alla influenza di Stravinskij e in parte di Copland. Entrambi i movimenti sono in tempo mosso con introduzioni in tempo lento; il primo e` in forma classica, il secondo e` in pratica una ouverture alla francese. La scrittura pianistica sfrutta ampiamente gli armonici ottenuti, come nel lontano esempio storico del Pezzo op. 11 n. 1 di Scho¨ nberg, con l’abbassamento di tasti senza produzione di suono e con successioni di brevi frammenti sonori che fanno vibrare per simpatia le corde rese libere dall’abbassamento del tasti. Nel 1982 Carter pubblico` una edizione riveduta della Sonata, limitandosi a introdurre poche varianti nella dinamica e a precisare l’uso del terzo pedale. Anche il Concerto (1964-1965) e` in due movimenti (Fantastico e Molto giusto). Si tratta di un lavoro della maturita` del compositore, di concezione rigorosissima e minutamente costruito, basato sulla contrapposizione drammatica tra il solista (l’uomo) e l’orchestra (il mondo), con la ‘‘intermediazione’’ di un gruppo di sette strumenti. Dodici serie di tre suoni ciascuna vi sono impiegate, ma tre di esse appaiono esclusivamente nella parte del pianoforte e le altre tre solamente nella parte dell’orchestra, e ciascuna delle serie ha un suo tempo e un suo carattere espressivo. Gia` da questa sommaria descrizione sara` facile capire quanto intricata sia la costruzione e quanto problematica sia l’esecuzione. Il Concerto appare infatti molto raramente nelle stagioni sinfoniche perche´ richiede un numero straordinariamente alto di prove, ed e` cosı` diventato, alla fine, una specie di antica tragedia da lettura. Night Fantasies (Fantasie della notte, 1980, 1982) e` un pezzo di dimensioni enormi (516 battute, 48 pagine a stampa) e di terribile difficolta`, con passi che sembrerebbero richiedere un pianoforte con due tastiere. Anche Night Fantasies risponde alla poetica del Concerto, la musica strumentale come rappresentazione di un conflitto. Il rapporto fra l’esecutore e lo strumento, la scoperta di potenzialita` segrete e inesplorate e la lotta contro lo strumento formano il dato costitutivo di questo lavoro. Nel corso di tutta l’opera si alternano episodi

– collegati, s’intende – in movimento lento e basati su blocchi sonori complessi, ed episodi in movimento rapido con tracce sonore semplici. L’idea e` di alternare la densita` massima nella sovrapposizione di suoni con densita` minima nella successione e la densita` minima nella sovrapposizione e con densita` massima nella successione: due densita` opposte, dunque, corrispondenti rispettivamente a momenti in cui l’esecutore ‘‘ascolta’’ le risposte della materia e momenti in cui cerca il dominio totale. Piu` di un esecutore usa dire che lo strumento gli parla. Suscitata dall’uomo, la materia sonora si evolve, specie sul pianoforte, in modi indipendente dalla volonta` di chi l’ha creata. Era stata un po’ la scoperta di Morton Feldman, negli anni cinquanta, quella di offrire all’esecutore combinazioni di suoni o anche suoni isolati da produrre sul pianoforte e da ascoltare passivamente fino alla loro naturale estinzione. Nel momento in cui la Nuova Musica ricercava il controllo sulla organizzazione del suono in termini e in limiti mai prima perseguiti, e in realta` irraggiungibili, quella di Feldman era stata un’intuizione liberatoria. Trent’anni piu` tardi Carter non e` e non puo` essere altrettanto naı¨f: il suo modo di far ascoltare la risposta della materia e` invece molto complesso e la materia viene interrogata e analizzata con vigile tensione intellettuale e senza alcun abbandono edonistico. L’uso del pedale di risonanza e del terzo pedale e le ribattiture o le aggiunte successive di suoni arricchiscono e complicano lo spettro armonico naturale; e tuttavia il calcolo e` pur sempre indirizzato verso un risultato non completamente previsto ne´ prevedibile, verso un ignoto. Ad esempio, nelle prime quattordici battute Carter conduce un gioco di risonanze e di battimenti su due intervalli molto ampi (vigesimeseste), ottenendo effetti che possono essere calcolati in un ampio limite di probabilita` ma la cui esatta definizione dipende anche dallo strumento, dalla sala, dalla sensibilita` tattile dell’esecutore. Nell’episodio successivo, fino alla battuta 37, l’esecutore ‘‘strappa’’ invece allo strumento un caleidoscopio di suoni sui quali – fatto salvo l’errore di esecuzione, che in verita` e` sempre in agguato – puo` esercitare un totale dominio. Due atteggiamenti contrastanti, dunque, nella forma della materia e nell’atteggiamento dell’esecutore verso di essa. La schematicita` delle alternanze viene pero` 157

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Elliott Carter

temperata, e superata, mediante una variabilita` delle densita` molto sfaccettata e flessibilissima. I modi di attacco del tasto che Carter impiega sono di tre tipi: attacchi ‘‘impressionistici’’ (con tenue articolazione iniziale), attacchi scattanti e brillanti, e attacchi ‘‘di peso’’ che creano sonorita` romanticheggianti. Nelle partiture pianistiche contemporanee, per lo meno in quelle di musicisti della generazione di Carter e della sua preparazione intellettuale, non si trovano pressoche´ mai i ‘‘ben cantando’’, ‘‘cantando sempre ben in fuori’’, ‘‘cantando sempre legato espressivo’’ che si trovano in Night Fantasies; ci sono persino due ‘‘appassionato’’, un ‘‘recitativo collerico’’ e un ‘‘con eloquenza’’ che sembrano scappati fuori per errore da una partitura di Rachmaninov. E cio` senza nessuna ironia, ma in relazione con una tradizione che vuole nel pianoforte anche il grande oratore, il retore dominatore, perche´ Carter si adatta allo strumento

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90+

e alla sua storia, e nel passato non vede fantasmi da esorcizzare. Nella prefazione Carter dichiara di essersi trovato in sintonia con i Kreisleriana di Schumann. Sintonia spirituale, perche´ mancano del tutto i riferimenti strutturali all’opera di Schumann e la costruzione di Night Fantasies dipende semmai, molto alla lontata, dalla tecnica del leitmotiv di Wagner. Ma l’impressione delle ossessioni notturne e` molto forte, e in questo senso il riferimento a Schumann appare quanto mai pregnante. Carter, dopo aver impiegato il pianoforte tre volte soltanto in quasi quarant’anni, vi e` ritornato spesso, sia pure per brevi pagine, nella sua vecchiaia. 90+ (1994), Due Diversioni (1999), Dialoghi per pianoforte e insieme strumentale (2003), Intermittenze (2005), Catenaires (2006), Intervenzioni per pianoforte e orchestra (2007) completano il suo catalogo.

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Alfredo Casella

A Alfredo Casella

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(Torino, 27 luglio 1883-Roma, 5 marzo 1947) Nell’infuriare di una delle tante polemiche che accompagnarono la vita di Alfredo Casella – al quale piaceva del resto recitare la parte dell’enfant terrible e che le polemiche se le andava anche a cercare – ci fu chi lo accuso` di fare l’italiano all’estero e lo straniero in Italia. Assolutamente risibile sul piano del virulento attacco personale, l’accusa non era pero` priva di motivazioni sul piano culturale. La formazione di Casella era infatti avvenuta a Parigi, la sua fraterna amicizia con Ravel, il suo alunnato presso Faure´ , la sua frequentazione di Debussy, l’attivita` di clavicembalista nel complesso di strumenti antichi diretto da Henry Casadesus, la sua ammirazione per Cortot lo avevano profondamente segnato: quando si stabilı` definitivamente in Italia, nel 1916, Casella aveva trentatre anni ed era un musicista e un artista maturo. La sua ‘‘crisi espressionista’’ e il suo ‘‘bordeggiare l’atonalita`’’, come dice nell’autobiografia, li aveva vissuti in modo non sostanzialmente diverso da quello di Ravel, e le sue scelte di fondo, nel 1916, le aveva gia` fatte, e le aveva fatte respirando per vent’anni l’aria culturale di Parigi. Ma gia` prima, negli anni dell’infanzia, era stato orientato verso la cultura francese. La Torino di fine secolo era stata sı` tutta presa da Wagner, ma come ne era presa Parigi. Con la differenza che a Torino le opere di Wagner venivano eseguite, mentre a Parigi la sconfitta con la Prussia del 1870 bruciava ancora e Wagner poteva essere ascoltato solo nei salotti, in letture al pianoforte e a due pianoforti. Torino adorava pero` anche Bizet e Massenet, che al Teatro Regio c’era venuto di persona per la ‘‘prima’’ italiana di una sua opera, e i testi che venivano adottati per l’insegnamento della composizione erano francesi: Giovanni Cravero, l’insegnante di cui Casella parla con riconoscenza nella autobiografia, ammirava del resto l’armonia di Bizet piu` di quella di Wagner. Il passaggio da Torino a Parigi non rappresento` dunque per Alfredo Casella l’ingresso in un altro mondo culturale, ma solo il trasferimento dalla provincia alla capitale. E i suoi studi di pianoforte e di composizione nel conservatorio, e la sua immersione nella vita culturale parigina fecero di lui un francese, non, o non ancora, un italiano all’estero. La prima composizione pianistica di Casella che ci e` pervenuta, la Pavana op. 1 (1901-1902, 1902) –

il Valzer capriccio degli stessi anni e` andato perduto – e` un semplice omaggio a Faure´, la cui Pavana era uno dei pezzi forti dell’arcaismo francese. Anche le Variazioni su una Ciaccona op. 3 (1903, 1903) si iscrivono a pieno titolo nell’arcaismo. Faure´, e questo e` persino ovvio, e` l’ispiratore non occulto del tema modaleggiante della Ciaccona. Pero` il genere della variazione si presta a escursioni stilistiche, a un viaggio del presente verso il passato o del passato verso il presente. La dicotomia passato-presente e` un tratto caratteristico delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel di Brahms, ed e` un tratto caratteristico delle Variazioni, Interludio e Finale su un tema di Rameau di Dukas (1902). Casella, che varia un tema arcaicizzante sı`, ma di sua invenzione, non si sposta invece stilisticamente dal centro da cui muove e mira a scrivere un buon pezzo da concerto con tanto di maestosa fuga finale – riuscito, in quanto tale – che sembra un falso antico, una finta trascrizione per pianoforte da un inesistente originale seicentesco francese. La strumentazione pianistica non risente ne´ di Liszt ne´ di Brahms ne´ di Busoni, ma semmai del SaintSae¨ns trascrittore di Bach. E la composizione appare meno innovativa, meno ‘‘moderna’’ della arcaicizzante Suite bergamasca del piu` anziano Claude Debussy, in verita` non ancora pubblicata nel 1903 ma che dal suo autore aspettava solo di ricevere l’ultima mano. Vicina alle Variazioni, sia per ragioni... anagrafiche, sia perche´ vuole essere innanzitutto un pezzo da concerto, e` la Toccata op. 6 (1904, 1919), che in passato godette di grande fama e che oggi – sia detto senza voler mancare di rispetto a Casella – fa persino un po’ sorridere. Fa sorridere perche´ e` una prova di incredibile ingenuita` in un giovane che vedeva quotidianamente Ravel, il quale aveva gia` composto i Giochi d’acqua, e che viveva in una citta` in cui Debussy aveva gia` composto le Estampes. Casella scrive, per i tempi, un ottimo pezzo da concerto, un pezzo in cui l’impianto e` tradizionalissimo e la ‘‘modernita`’’ e` costituita da qualche accordo tonale ‘‘sporco’’ e da un pizzico di orientalismo nello spunto iniziale. Il secondo tema dei Giochi d’acqua e` orientaleggiante, orientaleggiante e` Pagode delle Estampes. Casella costruisce una scala pentafonica – una specie di modo giavanese – sottraendo due suoni alla scala di 159

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Alfredo Casella

do diesis; siccome quattro dei cinque suoni della sua sua scala capitano sui tasti neri, il pollice puo` realizzarli ottenendo una sonorita` da metallofono, e l’aura orientale avvolge cosı` una composizione che non racchiude secondo me alcuna altra ambizione oltre a quella del successo. Non voglio assolutamente fare il moralista e riterrei sciocco rimproverare ad Alfredo Casella la ricerca del successo, del tutto ovvia in un giovane espatriato. Mi sembra invece di poter dire che nelle sue prime composizioni per pianoforte gia` si manifesta il suo... moderatismo di fondo, la sua prudenza – di piemontese, mi vien da dire – nell’evitare di spingersi in un terreno da cui sarebbe poi difficile tirarsi indietro. Devo comunque dire che la produzione pianistica di Casella e` , per un pianista di professione come lui, sorprendentemente ridotta, e che non riflette se non a sprazzi la sua evoluzione d’artista. La Sarabanda op. 10 (1908), il Notturnino (1909 ca.), la Berceuse triste op. 14 (1909) e la Barcarola op. 15 (1910) sono idealmente destinate al buon dilettante che compera la musica e se la suona per conto suo. Credo che anche in questo caso giocassero in Casella preoccupazioni di mercato, di successo presso un pubblico ben definito, tanto che sembra un po’ di leggere le composizioni di Debussy del 1890-1891. Solo qualche ricercatezza armonica ci dice che siamo nel Novecento. Qualche ricercatezza e qualche durezza che, ‘‘torturando’’ temi non lontani stilisticamente da Grieg e da Mendelssohn, avra` magari spaventato, soprattutto nella Barcarola, i dilettanti. Pero` Casella resta fuori dai paraggi delle pagine pianistiche rivoluzionarie di quegli anni a Parigi, la seconda serie delle Images di Debussy e Gaspard de la nuit di Ravel. E fuori dai pericoli delle rivoluzioni Casella si mantiene nelle due serie, spiritose a garbate, di Alla maniera di... op. 17 e op. 17 bis (1913), nelle quali vengono umoristicamente imitati gli stili di Wagner, Faure´ , Brahms, Debussy, R. Strauss, Franck, d’Indy e Ravel. Fino al 1913, secondo me, Casella si serve saltuariamente del pianoforte ma con il pianoforte non misura se stesso. I Nove Pezzi op. 24 (1914), la Sonatina op. 28 (1916), A notte alta op. 30 (1917, con la versione per pianoforte e orchestra op. 30 bis, 1921) e le Pagine di guerra op. 25 a quattro mani (1915) sono invece il riflesso di un artista che attraverso il pianoforte cerca una sua dimensione e che intende ‘‘storicizzarsi’’. Nei Nove Pezzi Casella si pone veramente di fronte a Debussy, a Ravel, anche a Scho¨nberg e a Barto´ k (non a Skrjabin, per il quale confessera` piu` tardi di aver sempre provato antipatia), e parte da 160

Sarabanda op. 10

loro gesti sonori per studiarli e per inserirli nei suoi schemi ritmici, perche´ per lui la musica e` prima di tutto durata e forma ritmica. Il Casella di questi anni e` sicurissimo nell’articolare ritmi, nel raggrupparli in frasi, nel condurre la forma. La sua ricerca tormentosa si volge invece verso l’armonia, verso la saturazione dell’armonia funzionale, verso il passaggio all’armonia come colore timbrico, e infine verso la riconquista del timbro puro. In A notte alta egli fa anche i conti con il simbolismo e, marginalmente, con Skrjabin. In fondo, si tratta per lui di fare veramente i conti con Wagner, con il Wagner per cui la Torino degli anni novanta delirava, e con tutto cio` che a Wagner era seguito. La riuscita estetica e` a parer mio maggiore nella Sonatina che nei Nove Pezzi, in Pagine di guerra piu` che in A Notte alta. Quel che importa tuttavia notare e` che in questi pezzi Casella perviene a una, diciamo cosı` , rigerarchizzazione degli elementi del linguaggio musicale, con un posizionamento di melodia e contrappunto in primo piano, e di armonia e timbro in secondo piano. Pupazzetti op. 27 a quattro mani (1915) occhieggia chiaramente verso Stravinskij, ma non rappresenta l’alternativa delle approfondite ricerche degli anni di guerra. I Due Contrasti op. 31 (1916) sı`, la rappresentano; e anche le Inezie op. 32 (1918), la Cocktail-dance (1918), il Preludio, Valzer e Ragtime op. 33 per pianoforte riproduttore (1918,). Confesso di non amare affatto queste musiche di Casella, tranne la Cocktail-dance, che e` diretta e genuina, autentica musica di consumo, mentre le altre sono indirette e, secondo me, intellettualistiche. E in fondo non mi sembrano particolarmente apprezzabili nemmeno le pagine neoclassiche di Casella, gli Undici Pezzi infantili op. 35 (1920), la Partita op. 42 per pianoforte e orchestra (19241925), in cui la parte del solista e` marginale, e la Scarlattiana, divertimento su temi di Domenico Scarlatti op. 44 per pianoforte e piccola orchestra (1926). Mi sembra che qui riappaia sotto altra veste il vecchio Casella alla ricerca del successo e che in particolare nella Scarlattiana, costruita con temi di Domenico Scarlatti sulla scia del Pulcinella pergolesiano di Stravinskij, venga mancato l’obbiettivo primario di riconquista di una tradizione italiana non-melodrammatica. E` una partitura elegantissima e sapida, la Scarlattiana. Negli anni venti e trenta ottenne un successo fenomenale ma non duraturo, e tuttavia bisogna dire che, pur avendo mancato lo scopo ambizioso postosi dall’Autore, potrebbe oggi riprendere le luci della ribalta. L’elemento stilistico piu` interessante e` senza dubbio il suono pianistico a punta secca, senza ombreggiature. Cio` che pare a me meno convincente e` il ten-

Sei Studi op. 70

tennante accostamento alla poetica di Stravinskij e dei Six, che ripugna in realta` al moderatismo di fondo di Casella. Il modo di fraseggiare, nella Scarlattiana, e` modellato assai piu` sulle revisioni di Hans von Bu¨low e di Alessandro Longo che sulla prassi barocca, e l’ampio uso del legato e` piu` ottocentesco che settecentesco o novecentesco. Il distacco di Casella dall’Ottocento non era affatto cosı` netto come egli credeva che fosse, e dalla Scarlattiana, piu` che il forte odore dell’antico, si sprigiona un sottile profumo di patchouli che in qualche momento puo` ricordarci persino il Rachmaninov trascrittore di Bach. Casella, in altre parole, evita la lussuosa linea otto-novecentesca di rivisitazione del Settecento Brahms-Reger-Scho¨nberg, ma l’Ottocento non lo evita affatto perche´ ce l’ha nel cuore. In questo collage di temi scarlattiani noi ritroviamo oggi assai piu` la fine dell’Ottocento che non il secolo delle macchine, la vaporosa grazia salottiera assai piu` che la durezza della struttura d’acciaio. Anche se qualche armonia suona un po’ acidula, il gusto del rosolio resta sulla lingua. E non e` sgradevole, s’intende. Le Due Canzoni italiane op. 47 (1928) sono semplici trascrizioni e stilizzazioni del folclore, rispettivamente, sardo e abruzzese, mentre molto impegnativi, malgrado la loro brevita` , sono i Due Ricercari sul nome BACH op. 52 (1932), violentemente contrastanti, il primo contrappuntistico ma con una forte propensione alla melodia elegiaca (il pezzo fu scritto in memoria della madre), il secondo come una specie di tarantella orgiastica. Si tratta forse delle sole pagine di Casella che, insieme con la Sonatina, potrebbero esser riprese con qualche speranza di farle entrare nel repertorio concertistico del pianoforte. Mentre credo che non si otterrebbe alcun concreto risultato con la Sinfonia, Arioso e Toccata op. 59 (1936), scritta per Gieseking, che Gieseking studio` ed eseguı` ma di cui disse candidamente nella autobiografia che appartiene ‘‘al novero della musica che il pubblico non vuole ascoltare’’. Il trittico e` caratteristico, come sostituto della sonata, della cultura francese del Novecento. Con il suo trittico Casella tenta di far rivivere non solo l’archetipo della sonata, ma della sonata ‘‘italiana’’. Come compositore, come artista operante in un paese in cui il nazionalismo e` negli anni trenta una direttiva di stato, e come concertista militante Casella impegna tutto se stesso nella Sinfonia, Arioso e Toccata. Non saprei dire perche´ egli abbia mancato l’obbiettivo, ma penso di poter dire che lo ha mancato, e che la letteratura pianistica italiana non ha conquistato, ne´

Alfredo Casella

con lui ne´ con altri, la sonata o il trittico che possano competere con i traguardi raggiunti nel Novecento da altre culture. Il Ricercare sul nome Guido M. Gatti (1942) e` un semplice omaggio al direttore della Rassegna Musicale e all’organizzatore del Maggio Musicale Fiorentino. I Sei Studi op. 70 (1942-1944) nacquero un po’ per caso, con lo Studio sulle terze scritto per una antologia pianistica di autori italiani contemporanei. Lievemente ritoccato, questo Studio divenne il primo dei sei, che furono composti mentre altri piu` importanti lavori occupavano lo scrittoio di Casella. Negli Studi Casella si riallaccia idealmente a Debussy, perche´ come questi scrive studi ‘‘artistici’’ partendo da problemi pianistici (terze, quarte, ecc.). Ma mentre gli Studi di Debussy sono ampi strutturalmente e tecnicamente molto difficili, gli Studi di Casella sono di dimensioni piu` ridotte (tranne l’ultimo, Toccata) e tecnicamente meno impegnativi. Il loro apporto alla letteratura del virtuosismo pianistico e` dunque nullo, e bisogna valutarli per la loro riuscita estetica. In questo senso dividerei gli Studi in due gruppi: gli Studi per le terze, per le quarte e per le quinte, riuscitissimi, gli altri ripetitivi e, secondo me, manierati. Nello Studio per le terze e nello Studio per le quarte e` da apprezzare il ritorno alla sonorita` frusciante e setosa dei tre Studi di Chopin per il Metodo dei Metodi di Moscheles e Fe´tis. Nello Studio per le quinte, ‘‘autoimprestito’’ con vari ritocchi dai Due Contrasti del 1918, colpisce l’atmosfera fumosa e languida del cabaret berlinese anni venti: stilisticamente diverso dagli altri cinque, ma molto azzeccato. Gli altri tre Studi suscitano interesse secondo me solo se vengono eseguiti a velocita` nettamente piu` alte di quelle indicate dall’Autore, cioe` se i suoni non vengono percepiti singolarmente ma a macchia, o come scie. Ho gia` detto, e ripeto, che l’opera pianistica di Casella non riflette interamente la sua evoluzione d’artista. Aggiungo adesso, ma mi pare di averlo gia` fatto ampiamente capire, che secondo me il pianoforte di Casella non riveste un interesse storico rilevante. Sarebbe piuttosto da valutare l’influenza che nel periodo fra le due guerre egli esercito` sui giovani compositori e sui giovani pianisti italiani, un’influenza che grazie alla sua statura di musicista e alle posizioni di prestigio da lui occupate – professore di pianoforte nell’Accademia di S. Cecilia e nell’Accademia Chigiana, condirettore del Festival di Musica Contemporanea di Venezia – fu di capitale importanza per la cultura italiana.

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Mario Castelnuovo-Tedesco

Sei Studi op. 70

Mario Castelnuovo-Tedesco (Firenze, 3 aprile 1895-Los Angeles, 17 marzo 1968) Castelnuovo-Tedesco, allievo prediletto di Pizzetti, fu una presenza significativa della musica pianistica (e non solo pianistica) italiana negli anni venti e trenta del Novecento. Le sue musiche venivano regolarmente eseguite ed erano recensite con rispetto nelle riviste. Poi la vita musicale italiana lo perdette di vista perche´ , essendo israelita, nel 1939 egli se ne ando` negli Stati Uniti, dove si inserı` molto bene nella industria cinematografica e godette della stima di Jascha Heifetz e di Andre´s Segovia, che eseguirono varie sue musiche. Castelnuovo-Tedesco continuo` a scrivere saltuariamente per pianoforte negli anni americani, componendo fra l’altro l’ambiziosa serie di quadretti musicali intitolata Evangelion, la storia di Gesu` narrata ai fanciulli in 24 piccoli pezzi op. 141 (1959), nonche´ una in verita` interminabile cascata di ‘‘cartoline d’auguri’’ che traducevano in temi musicali, secondo una corrispondenza da lui inventata, i nomi di amici. Castelnuovo-Tedesco comincio` a scrivere musica pianistica molto presto. A quattordici anni compose una innocente Suite inglese (1909) con Preludio, Andante e Giga, che venne pubblicata soltanto nel 1962. A diciott’anni produsse un lavoro che attiro` su di lui l’attenzione del pubblico quando Alfredo Casella, sempre molto generoso verso i giovani, lo incluse nel suo repertorio: ‘‘Questo fu il carro della morte’’ op. 2 (1913), composizione a programma ispirata alla Vita di Pier di Cosimo di Giorgio Vasari, che descrive un paradossale carro carnevalesco. Si puo` dire che a diciott’anni Castelnuovo-Tedesco era gia` quello che conosciamo, con il suo stile in quanto ha di esteriormente caratteristico e di interiormente vero. Come avviene a quasi tutti i compositori italiani del tempo, l’istinto creativo di Castelnuovo-Tedesco si risveglia a contatto con qualche spettacolo, ma il giovanotto, come ai piu` non accade, sa trovare lo spunto musicale illuminante, chiarificatore, e non subordinato ne´ privo di una vita autonoma. Nelle composizioni pianistiche scritte fra il 1916 e il 1921 e un tempo notissime – Il raggio verde op. 9 (1916), Alghe op. 12 (1919), I Naviganti op. 13 (1919), Cipressi op. 17 (1920), Vitalba e Biancospino op. 21 (1921) – i vari spunti tematici divengono subito autosufficienti, si legano fra di loro e si organizzano. Talvolta il musicista, che e` preparato e che e` uomo di gusto, sostituisce 162

la sua abilita` alla partecipazione interiore, ma di solito la costruzione del pezzo risulta salda e senza suture. Le influenze piu` sensibili che si notano in Castelnuovo-Tedesco sono quelle di Pizzetti, Liszt, Albe´niz, Debussy, Falla. Pizzettiane, in parte, sono l’armonia e una vena melodica popolaresca spesso enfatizzata in brevi imitazioni a canone; dal simbolismo Castelnuovo-Tedesco trae molti procedimenti pianistici e anche qualche resto di armonia wagneriana filtrata attraverso il prisma di Debussy; Liszt e Albe´niz suggeriscono altre disposizioni pianistiche tipiche. Le varie influenze, evidentissime, non danno pero` luogo a un eclettico aggregato ma si compongono in un piacevole impasto che appartiene indubbiamente al solo Castelnuovo-Tedesco e che quindi puo` essere qualificato come stile, tant’e` che prima dei trent’anni il compositore aveva gia` addirittura degli imitatori (Vittorio Rieti, Vito Frazzi, Pietro Montani). Verso il 1920 Castelnuovo-Tedesco comincia a perdere la sicurezza degli anni precedenti e comincia a ripetersi nel Cantico op. 19 (1920), nella Sirenetta e il pesce turchino op. 18 (1920), nella Epigrafe op. 25 (1922), nelle Stagioni op. 33 (1924). In alcuni suoi articoli del 1923-1925, pubblicati nella rivista torinese Il Pianoforte, affiorano certi problemi di poetica. Il punto che interessa soprattutto a Castelnuovo-Tedesco, autore nel 1926 dell’opera La mandragola, e` la natura del dramma, contrasto e catarsi, in contrapposizione a lirica, effusione non frenata (e` qui evidente l’influenza dell’estetica di Pizzetti). Per quanto riguarda il pianofortre il problema si risolve per Castelnuovo-Tedesco in tre direzioni: contenutisticamente nella ricerca di tragicita`, formalmente nell’allargamento delle proporzioni e stilisticamente nel ricorso a temi e stilemi del canto popolare. Ecco Alt-Wien, Rapsodia viennese op. 30 (1923), Piedigrotta, Rapsodia napoletana op. 32 (1924), Le Danze del Re David, Rapsodia ebraica op. 35 (1925). Nelle prime due rapsodie l’ispirazione tragica, ricercata ansiosamente, resta secondo me gesto fra il truculento e il sarcastico. La terza Rapsodia, malgrado la fondamentale magniloquenza, e` piu` equilibrata, ed e` viva e trascinante. In tutti i casi, e questo e` un dato costante in CastelnuovoTedesco, la strumentazione pianistica rimane molto efficace. La ricerca della tragicita` ispira anche la

Concerto n. 2 in Fa op. 92

Sonata op. 51 (1928), dedicata a Gieseking e da questi eseguita piu` volte. Le intenzioni di Castelnuovo-Tedesco appaiono gia` chiare nelle didascalie del primo e del terzo movimento, rispettivamente Rude e violento e Allegro furioso, ma anche qui il gesto prevale secondo me sulla invenzione musicale. Fra le composizioni successive sono da ricordare, piu` della Fantasia e fuga sul nome di I. Pizzetti op. 63 (1930), i Passatempi op. 54 (1928), filiazione in sedicesimo delle Valses nobles et sentimentales di Ravel, formati da cinque valzer e un epilogo riassuntivo. Qui la brevita` dei pezzi, il garbo del tratto e un uso molto discreto e gustoso della politonalita` portano a risultati nuovamente apprezzabili, mentre i due studi Onde (1935) si fanno notare soltanto per la scrittura, che nel secondo pezzo sfrutta abilmente la tecnica romantica del ‘‘suonare a tre mani’’. Nella piu` tarda produzione si distingue la Sonatina zoologica op. 187 (1960), in quattro movimenti, che contiene un pezzo del 1916, Lucertolina, e che, pur senza assumenre un particolare rilievo nella storia della letteratura pianistica, e` una graziosa miniatura che ripropone la gradevole lievita` di alcune pagine del primo Castelnuovo-Tedesco. Per pianoforte e orchestra Castelnuovo-Tedesco compose il Concerto n. 1 in Sol op. 46 (1927) e il Concerto n. 2 in Fa op. 92 (1936-1937), entrambi in tre movimenti e di impostazione formale classi-

Mario Castelnuovo-Tedesco

ca. Nel n. 1, di contenuto e di scrittura molto piu` leggera di quella delle Rapsodie e della Sonata, compare in controluce un personaggio che mai ci saremmo aspettati di trovare: Camille Saint-Sae¨ns, maestro del concerto di intrattenimento. Mi sembra che sia da preferire il Concerto n. 2, che Castelnuovo-Tedesco presento` in prima esecuzione assoluta a New York nel 1939 sotto la direzione di John Barbirolli. Questo Concerto e` del tutto privo di preoccupazioni di linguaggio e si basa su un melodismo molto accattivante a cui non mancano, nel finale, i ricordi del canto popolare ebraico. La scrittura pianistica, messi da parte come nel n. 1 i simbolisti francesi e Liszt, si rifa` piuttosto a Martucci, esponente massimo della scuola di Beniamino Cesi nella quale, attraverso il suo maestro Edgardo Del Valle de Paz, Castelnuovo-Tedesco si era formato come strumentista. Del tutto disimpegnato, il Concerto mira apertamente a soddisfare un pubblico del periodo fra le due guerre che, come diceva nella autobiografia Gieseking commentando l’insuccesso della Sonata di Castelnuovo-Tedesco, ‘‘rifiuta ogni sforzo intellettuale’’ e mantiene ‘‘una passivita` pigra e confortevole’’. In questo senso Castelnuovo-Tedesco, presentandosi con il Concerto n. 2 negli Stati Uniti come profugo, vinceva un terno al lotto. E tuttavia la piacevolezza del Concerto e` tale da mantenerne intatta tutta la freschezza di invenzione diretta e cordiale.

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Emmanuel Chabrier

Concerto n. 2 in Fa op. 92

Emmanuel Chabrier (Ambert, 18 gennaio 1841-Parigi, 13 settembre 1894) Chabrier, nato in Alvernia, si trasferı` molto presto a Parigi e vi studio` il pianoforte e la composizione, ma la sua educazione musicale non fu sistematica perche´ la famiglia gli impose di studiare anche giurisprudenza. A vent’anni egli trovo` un impiego presso il Ministero degli Interni e fino al 1880 pratico` la musica nei momenti liberi. Nel 1880 diede le dimissioni e pote´ dedicarsi all’arte a tempo pieno. Non era un pianista di livello professionale ma suonava il pianoforte con una foga travolgente (esiste una fotografia del suo pianoforte: l’interno del coperchio della tastiera e` tutto segnato dalle sue unghiate). E per pianoforte compose alcune pagine significative e foriere di sviluppi storici importanti. I Souvenirs de Brunehaut (Ricordi di Brunehaut, 1862), che sono una raccolta di valzer, rappresentano l’esordio pianistico di uno Chabrier che punta sul teatro leggero. Anche la Suite de Valses (Suite di valzer, 1872) si muove nella stessa ottica. E l’Improvviso in Do (1872 ca.), dalla vaga aura spagnola, procede oltre di poco. Liberatosi dalle incombenze ministeriali, Chabrier si presenta con un volto nuovo nei Dieci Pezzi pittoreschi (1881). La strumentazione pianistica e` secca, essenziale, tanto che, si dice, Franck avrebbe affermato di ‘‘aver ascoltato qualcosa di straordinario, una musica che lega il nostro tempo a quello di Couperin e di Rameau’’. La ricerca delle fonti antiche della musica nazionale era molto forte nella Francia che aveva patito l’onta della sconfitta nella guerra con la Prussia. E percio`, presumo, Franck vide nei Pezzi pittoreschi la nascita di una scrittura neoclavicembalistica francese. L’impressione che ricaviamo dalla lettura dei Pezzi pittoreschi e` piuttosto quella di appunti per una strumentazione orchestrale, ma cio` non esclude che la vivacita` ritmica e la sagomatura senza ombre e con poche mezze tinte non siano efficacissime anche sul pianoforte. La raccolta pare a me di valore diseguale: il n. 4 (Sottobosco), il n. 6 (Idillio), il n. 7 (Danza villereccia), il n. 9 (Minuetto pomposo) e il n. 10 (Scherzo. Valzer) mi sembrano di gran lunga i piu` riusciti, e sono anche quelli che maggiormente influenzarono l’arte di Debussy e di Ravel. L’espressione e` semplice, diretta, ingenua, le forme sono le piu` elementari, canzone tripartita o scherzo con trio. Questo grande amico di Verlaine e di Manet e` quanto di meno complicato si possa immaginare, 164

la sua rude natura di montanaro dell’Alvernia non viene mai meno, la sua arte ricorda da vicino non quella dei pittori impressionisti di cui colleziona i quadri, ma quella del doganiere Rousseau. Nel 1888 Chabrier trascrisse per orchestra i numeri 6, 7, 4, 10 con il titolo Suite pastorale. I Tre Valzer romantici per due pianoforti (1883) sono miracolosamente tenuti in equilibrio fra la espressione diretta della nostalgia e una ironia sottile. Alfred Cortot cita una osservazione di Robert Brussel: ‘‘Ciascuno di questi Valzer e` un ritratto femminile, e ciascuno ha un suo carattere. L’uno e` tenero, l’altro e` vivace, il terzo ha quasi gli accenti della passione’’. L’avere a disposizione due pianoforti invece di uno consente al non-pianista Chabrier di costruire oggetti sonori piu` sfaccettati ed effetti spaziali, effetti di stereofonia che vengono sagacemente sfruttati. E` pero` singolare l’organizzazione dei tre pezzi in ciclo. Chabrier voleva scrivere un lavoro da concerto, e partecipo` lui stesso alla prima esecuzione, in duo con il direttore d’orchestra Andre´ Messager. In realta`, la Socie´te´ Nationale de Musique, che organizzava concerti di musiche francesi, disponeva di pochi fondi e, non potendo scritturare spesso l’orchestra, chiedeva ai compositori di... accontentarsi dei due pianoforti. I Tre Valzer romantici non sono pero` organizzati per ottenere successo in un’esecuzione pubblica, perche´ la velocita` diminuisce progressivamente, la vivacita` del tono espositivo segue lo stesso indirizzo, e l’ultimo Valzer, che oltretutto e` del triplo piu` lungo del primo, svanisce nel nulla. A cio` s’aggiunge una strana fissazione di Chabrier, che apre uno spiraglio sulla esecuzione da lui desiderata. Era d’uso, e faceva parte della retorica espositiva del concertismo romantico inteso come arte oratoria, che si rallentasse il tempo in prossimita` della fine, proprio per dare il segnale che il discorso stava per concludersi. Chabrier e` il primo compositore che nelle ultime battute indica spesso ‘‘non rallentare’’. Come se un oggetto sonoro dovesse sparire di botto dalla vista. L’estetica antiromantica dello straniamento si manifesta dunque in nuce prima della sua data ufficiale di nascita, gli anni venti del Novecento. Nel Corte`ge burlesque per pianoforte a quattro mani (Corteo burlesco, 1883), rifacimento di un giovanile paso doble, ritroviamo lo Chabrier mon-

Bourre´e fantasque

tanaro che sentiamo affine al doganiere Rousseau. Il pezzo e` bandistico, paesano: potrebbe essere la musica per un corteo nuziale contadino, e ha persino un qualcosa di antico, di bruegheliano. Ravel strumento` il Corte`ge burlesque per orchestra nel 1917. Molto irriverenti, tanto da scatenare le rampogne dei wagneriani intus et in cute come Cortot, sono i Ricordi di Monaco per pianoforte a quattro mani (1885-1886, 1911). Chabrier aveva pianto, ascoltando a Monaco il Tristano nel 1880, e nelle opere Gwendoline e Brise´is avrebbe offerto il suo obolo devoto al wagnerismo. Ma il suo antimisticismo, il suo senso comune di montanaro lo inducono a parodiare cinque temi del Tristano facendoli diventare una quadriglia, cioe` musica da ballo. Era stato un uso molto diffuso al tempo di Mozart. Non lo era piu` al tempo di Wagner. Lo era ancora per Chabrier come per Faure´ e Messager, autori di una quadriglia su temi della Tetralogia. La breve, umoristica, motteggiatrice Joyeuse marche per pianoforte a quattro mani (Marcia giocosa, 1888) fu poi trascritta da Chabrier per orchestra, e in quella versione trova secondo me la sua piu` appropriata veste timbrica. I Cinque Pezzi (1890-1891, 1897) non vennero pubblicati da Chabrier e, eccettuata la Ronda campestre, non toccano il livello dei migliori fra i Dieci Pezzi pittoreschi. L’ultimo lavoro pianistico di Chabrier, un tempo celebre, oggi rarissimamente eseguito, e` la Bourre´e fantasque (Bourre´e fantastica, 1891). I due temi – il primo ritmico, imperioso, diatonico, il secondo vago, cromatico – sin-

Emmanuel Chabrier

tetizzano due aspetti fondamentali dell’arte di Chabrier, la vigoria fisica e la tenerezza sentimentale. Ma anche il primo tema viene trasformato im senso sentimentale quando riappare in valori metrici raddoppiati e in modo maggiore invece che minore. La strumentazione pianistica, lineare come al solito, esplora pero` diversi modi di attacco del tasto, tanto che Chabrier, sparandola grossa, in una lettera al dedicatario E´douard Risler disse di avervi ‘‘contato centotredici sonorita` diverse’’. Pezzo che trasuda vitalita` da ogni nota, la Bourre´e fantasque e` uscita dal repertorio pianistico e non e` mai entrata, nella orchestrazione di Felix Mottl, nel repertorio sinfonico. Le ragioni di questo tramonto possono essere molteplici. Ma secondo me ne esiste una, di fondo, che e` imputabile allo stesso Chabrier. Gli interpreti si fanno un dovere di rispettare l’indicazione di metronomo originale, che da` luogo a un tempo molto rapido. Orbene, quella rapidita` fa perdere chiarezza alla percezione auditiva di un tessuto in cui ogni particolare e` determinante nella costruzione dell’oggetto sonoro. Poulenc, grande ammiratore di Chabrier, scrive che le innovazioni pianistiche della Bourre´e fantasque sono pari a quelle ‘‘degli Studi di Debussy o di Gaspard de la nuit di Ravel’’. Non mi sembra che si possa concordare con questa affermazione. Ma e` anche vero che la Bourre´e fantasque meriterebbe di essere conosciuta come tassello essenziale, per quanto limitato, nel panorama della musica pianistica francese.

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Fryderyk Chopin

Bourre´e fantasque

Fryderyk Chopin (Zelazowa Wola, 1º marzo 1810-Parigi, 17 ottobre 1849) La scomparsa di Fryderyk Chopin venne annunciata dal Musical World di Londra con un trafiletto di dieci righe, sotto il titolo: Morte del pianista Chopin. Pianista! Per i contemporanei esisteva la figura del pianista che componeva per il suo strumento e che faceva ascoltare le sue musiche privatamente o pubblicamente (nel caso di Chopin, soprattutto privatamente). Per essere definito compositore tout court si dovevano invece comporre opere, oratori, sinfonie. Presentando Johannes Brahms nel famoso articolo Vie Nuove Robert Schumann incitava infatti il ‘‘giovane alla cui culla hanno vegliato Grazie ed Eroi’’, e che fino a quel momento aveva scritto soltanto musiche da camera, pianistiche e liederistiche, a valersi in un vicino futuro delle ‘‘masse orchestrali e corali’’. Il maestro di Chopin, Jo´zef Elsner, rimase terribilmente deluso quando il suo ex-pupillo, trasferitosi a Parigi, rifiuto` categoricamente di cercare un libretto per scrivere un’opera. E la convivente di Chopin, George Sand, profeto` nell’autobiografia che il nome di Chopin sarebbe diventato popolare quando le sue musiche per pianoforte fossero state trascritte per orchestra sinfonica. Il nome di Chopin divenne invece popolare, e poi popolarissimo com’e` ancor oggi, grazie all’affermazione del recital e ad Anton Rubinsˇ tejn e agli allievi di Liszt, che sperimentando i programmi concertistici piu` gra-

diti s’accorsero molto presto di quanto un pubblico piu` vasto di quello dei salotti fosse in grado di amare, anzi, di idolatrare le musiche del Polacco. Nessuno aveva immaginato, nel 1849, che Chopin fosse un compositore alla pari con i maggiori geni della musica, che il suo linguaggio cosı` personale e la sua altrettanto personale maniera di trattare le forme classiche avrebbe potentemente influenzato il corso della storia, e che le sue tracce sarebbero riapparse ben visibili, oltre che nei minori imitatori, in Debussy, Skrjabin, Barto´k. Questo fu invece l’esito a cui la musicologia pervenne alla fine del secolo, ed oggi nessuno sarebbe piu` cosı` out da affermare che il pianista Chopin non sia uno dei massimi compositori, sebbene non abbia neppure tentato l’opera vagheggiata da Jo´zef Elsner, e sebbene un critico solitamente acuto come Schumann avesse scritto di lui, nel 1841: ‘‘[...] la sua attivita` si limita al ristretto ambito della musica pianistica, mentre egli, con le sue forze, avrebbe potuto raggiungere mete ancora piu` elevate ed esercitare una sua influenza sullo sviluppo della nostra arte in generale’’. Come dire, in fondo: ai posteri l’ardua sentenza. E la sentenza e` arrivata puntualmente, in barba a Robert Schumann e ad altri critici tutt’altro che privi, e` vero, di intelligenza, ma incapaci di collocare storicamente fuori dal pianoforte uno che solo del pianoforte si era servito.

Le Ballate Le forme musicali classiche che permettono al pensiero musicale di esprimersi con ampiezza e vastita` di respiro sono la sonata, il rondo` e la variazione. Chopin scrive un rondo` nel 1825, una sonata e delle variazioni nel 1828, ma non tarda a capire che le forme classiche sono ormai troppo cariche di storia per poter essere assunte da chi non abbia maturato un suo stile e una sua incondibile personalita` . Il 1831, anno del definitivo distacco da Varsavia, e` per Chopin l’anno della crisi, l’anno in cui vengono messe in dubbio le beate certezze dell’adolescenza per dare inizio alla tormentata ricerca dell’io. Nel 1831, nella solitudine spirituale di Vienna, Chopin scrive un pezzo rivoluzionario, lo Scherzo op. 20, in cui una forma tradizionale viene dilatata fino a limiti parossistici. E sempre nel 1831 a Vienna inizia un pezzo che terminera` solo qattro anni piu` tardi e che verra` denominato Ballata.

La radice etimologica del termine ballata e` evidente per chiunque, ma l’uso che del termine era stato fatto nel corso di cinque secoli ne aveva progressivamente ampliato di molto il sigificato. Al tempo di Chopin era popolarissima la ballata per canto e pianoforte, di contenuto epico-leggendario (ad esempio, il Re degli Elfi di Goethe, musicato da Schubert, da Loewe e dal altri compositori, e` una ballata). Chopin fu il primo ad usare il termine ballata per composizioni puramente strumentali, analogamente a quanto aveva fatto poco prima di lui Mendelssohn con le Romanze senza parole. Il titolo ballata, novativo, e` riferibile a un contenuto altrettanto novativo. Sappiamo che Chopin, come dichiaro` lui stesso a Schumann, era stato ‘‘stimolato’’ dalle ballate di Adam Mickiewicz, cioe` dalle Romanze e Ballate pubblicate nel 1822. Mickiewicz aveva ripreso, e narrato con altissimo afflato poetico, miti e leg-

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I Concerti

Fryderyk Chopin

gende di una antica Polonia indipendente e forte e non ancora spartita, come era avvenuto alla fine del Settecento, fra Russia, Prussia e Austria, e le sue Romanze e Ballate erano state avidamente divorate dall’adolescente Chopin, che ne aveva acquistato addirittura una seconda copia per spedirla a un amico residente in provincia. Si e` molto discusso, e si discute ancora sul rapporto fra i poemi di Mickiewicz e la musica delle Ballate di Chopin, cioe` su una possibile corrispondenza fra singole ballate e singoli poemi. La critica non e` giunta finora a conclusioni certe. Resta, indiscutibile, la generica indicazione di Schumann, lo ‘‘stimolato’’ (angeregt) che testimonia soltanto una corrispondenza di clima culturale, di adesione di Chopin al destarsi di quella coscienza nazionale che avrebbe portato alla disperata insurrezione polacca del novembre 1830, domata dai russi nel corso del 1831. Ai forti fattori culturali s’aggiungevano per Chopin fattori emotivi altrettanto forti. Durante il soggiorno a Vienna del 1830-31 Chopin si reco` da pellegrino sulla collina in cui piu` d’un secolo prima aveva posto il campo militare il re polacco Jan Sobieski III, giunto con il suo esercito a soccorrere la citta` assediata dai turchi, stacco` una foglia da un albero e la mando` alla sorella come un talismano. E il cosiddetto Diario di Stoccarda dell’autunno 1831 testimonia lo straziante sconvolgimento emotivo provocato in Chopin dalla vittoriosa avanzata dei russi verso Varsavia. Tuttavia il contenuto delle quattro Ballate, epico-nazionalistico sempre, ma molto differenziato in concreto, lascia effettivamente supporre una corrispondenza, forse inconscia, con singole ballate di Mickiewicz. La Ballata in sol op. 23 (1831-1835, 1836) e` infatti drammatica, la Ballata in Fa-la op. 38 (1836-1839, 1840) e` leggendaria, la Ballata in La bemolle op. 47 (1840-1841, 1842) e` lirica, e la Ballata in fa op. 52 (1842, 1843) e` introspettiva fino all’ipocondria. Le ricerche svolte in questa direzione, come dicevo, non sono fino a oggi approdate a conclusioni certe, e quindi possiamo solo ancorare le Ballate al nazionalismo polacco e, piu` in generale, alla riscoperta romantica di miti ancestrali. Tuttavia, aggiungo da storico poco coscienzioso, la identificazione tradizionale della Prima Ballata con il Konrad Wallenrod e della Seconda con Svitez e` a parer mio convincente. In senso piu` generale sembra inoltre a me, ad esempio, che l’inversione dei due temi principali – il primo tema riappare dopo il secondo – nella riesposizione della Ballata op. 47 sia

dovuta ad una struttura drammaturgica archetipica, che io collegherei con le antiche leggende della separazione degli sposi provocata da agenti esterni e del ritorno trionfante dell’uomo. Ballata come titolo e come contenuto, cioe` come genere. Non si puo` invece, a rigore, parlare di ballata come forma. L’aggancio delle Ballate di Chopin al bitematismo classico, e in particolare alla forma dell’allegro di sonata o forma-sonata, appare con tutta evidenza. Due temi principali, due o piu` temi secondari, esposizione-sviluppo-riesposizione, sistematico contrasto di modo maggiore e modo minore. Ma mentre nelle sue Sonate Chopin mantiene anche il piano tonale piu` tradizionale, nelle Ballate i piani tonali sono del tutto insoliti. C’e` una evidente preferenza per i rapporti ‘‘deboli’’ di terza e di sesta, che erano gia` stati sperimentati da Beethoven nelle Sonate op. 31 n. 1, op. 53 e op. 111 (sol minore-mi bemolle maggiore nella Ballata op. 23, fa maggiore-la minore nell’op. 38, la bemolle maggiore-do maggiore nell’op. 47), ma nell’op. 52 il rapporto fa minore-si bemolle maggiore esce da qualsiasi schema precedente. Il tempo e` costantemente quello composto (sei quarti o sei ottavi). In due casi (op. 23 e op. 52) troviamo una introduzione ed una coda che fanno pensare alla ouverture da concerto. In un caso (op. 38) i due temi sono in tempi non solo diversi ma molto contrastanti (Andantino e Presto con fuoco). La Ballata op. 23, che costo` a Chopin quattro anni di lavoro, e` in astratto analizzabile sia come primo movimento di sonata, sia come rondo`, sia come variazione di due temi. Ma l’astrazione perde in ogni caso il rapporto con la concretezza. In realta` Chopin riesce a rielaborare a venticinque anni esperienze quasi secolari per creare una forma sua, nella quale i precedenti esistono come reperti storici, come sedimentazioni della memoria, ma che presenta caratteri di assoluta novita` . E una volta elaborato uno schema nell’op. 23 non lo riprende tale e quale nelle opere 38, 47 e 52. In conclusione, le Ballate rappresentano formalmente uno sviluppo evolutivo della tradizione classica, ma con i loro tratti di originalita` e con le loro differenze di tono espressivo sono anche la dimostrazione del postulato romantico di Liszt, secondo il quale le nuove musiche ‘‘non attenendosi ad alcuno speciale schema prenderanno di volta in volta i ritmi, le movenze, le figure piu` appropriate a esprimere il sogno, la passione, il pensiero che le avra` ispirate’’.

I Concerti Potrei dire – scherzando un po’, ma non troppo – che i sei lavori di Chopin per pianoforte e or-

chestra furono creati per errore e che non servirono affatto agli alti scopi che l’Autore si proponeva 167

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Fryderyk Chopin

grazie ad essi di raggiungere. Nell’estate del 1829 il diciannovenne Chopin, vissuto fino ad allora nella provinciale Varsavia, si reco` in... missione esplorativa in una delle grandi capitali della musica, Vienna. Con sua grande sorpresa gli venne chiesto di suonare con orchestra – gratuitamente –, si presento` al pubblico con le Variazioni su un tema del ‘‘Don Giovanni’’ op. 2 composte due anni prima, improvviso` su temi scelti al momento, fu applaudito, i giornali lo lodarono, e il successo ottenuto gli procuro` un’altra apparizione – gratuita – di fronte al pubblico viennese. Tornato a Varsavia, e convinto di avere gia` a portata di mano e il necessario successo e i conseguenti cospicui onorari delle sue future esibizioni, Chopin compose in tutta fretta i due Concerti, indispensabili per rappresentarlo al pubblico viennese con tutto lo spendore dell’homo novus che sfidava i grandi del momento. Non aveva calcolato, Chopin, che durante l’estate l’aristocrazia villeggiava nelle localita` termali alla moda e negli aviti castelli di campagna e che i pianisti importanti inseguivano le orme dei magnati. Nel 1829 non aveva avuto rivali. Arrivato a Vienna alla fine di novembre del 1830 raccolse invece tante parole gentili e tanta simpatia dai conoscenti dell’anno prima ma non ricevette nessun invito a farsi ascoltare nelle fastose dimore del patriziato. E senza l’appoggio dell’aristocrazia era impensabile che un ragazzo polacco la spuntasse sulla concorrenza. Negli otto mesi della sua permanenza a Vienna Chopin riuscı` a eseguire – gratuitamente – solo il Concerto op. 11, in una serata a beneficio di un ballerino. ‘‘Non so cosa mi manca e ho gia` piu` di vent’anni’’, scriveva Chopin nel diario. Gli mancavano innanzitutto il principe Metternich, il principe Schwarzenberg, il conte Dietrichstein e il grande pianista Hummel che preparavano l’esordio professionale di Sigismund Thalberg, allievo di Hummel e compagno di studi niente po’ po’ di meno che del Duca di Reichstadt (il figlio di Napoleone, tenuto in gabbia a Vienna). Gli mancava il grande didatta Carl Czerny, che preparava l’esordio del giovanissimo Theodor Do¨hler, prote´ge´ del duca di Lucca. Ma gli mancava anche qualcos’altro, qualcosa di cui s’accorse quasi vent’anni piu` tardi quando, a Londra, riuscı` a tenere due soli concerti in case private, parcamente retribuiti, mentre Thalberg ne teneva, profumatissimamente compensati, dodici in teatro: ‘‘Per la classe borghese ci vuole qualcosa di straordinario e di meccanico, che io non posseggo’’. Il confronto fra il Concerto op. 11 di Chopin e il Concerto op. 5 di Thalberg, che venne eseguito a Vienna dall’Autore nel 1830, ci dice a chiare lettere che con il suo sogno di gloria Cho168

Concerto op. 21

pin si era cacciato in un vicolo cieco. E i suoi Concerti li eseguı` poi, malvolentieri, a ogni morte di papa. La difficolta`, lo spolvero virtuosistico sia del Concerto op. 11 che del Concerto op. 21 di Chopin e` nettamente inferiore a quello del Concerto op. 5 di Thalberg. E va da se´ che il profumo inebriante della poesia emana dai Concerti del primo con un’intensita` che copre abbondantemente il senso della maraviglia emanante dall’unico Concerto del secondo. Il punto debole di entrambi, il punto che ha fatto sparire il Concerto di Thalberg e che ha limitato la diffusione dei Concerti di Chopin, e` rappresentato dal ruolo marginale attribuito all’orchestra. Nel dopo-Beethoven i pianisti-compositori come Hummel, Moscheles, Kalkbrenner (e i violinisti come Paganini e Vieuxtemps) riescono a far defluire una fetta del pubblico della lirica, pubblico in prevalenza borghese, verso il concerto sinfonico. Ma devono assumere in proprio e l’organizzazione del concerto e le relative spese, e quindi, per ridurre al minimo le costose prove, sviluppano all’estremo il virtuosismo del solista e limitano l’impiego dell’orchestra alle introduzioni, ai raccordi fra le varie sezioni dell’architettura e a funzioni di sostegno e di accompagnamento. Questo tipo di concerto, che si suole definire biedermeier, viene poi a patti con le esigenze di un pubblico nuovo fondendo stilemi della tradizione sinfonica classica con stilemi dell’opera italiana e del balletto. Le strutture del Concerto in fa op. 21 (1829-1830, 1836), primo in ordine di composizione, sono classiche. Primo movimento con due temi principali e due temi secondari e con esposizione, sviluppo e riesposizione. Una particolarita` e` pero` da segnalare. La riesposizione e` abbreviata rispetto alla esposizione, e il primo tema vi viene citato piu` che riesposto: lo Chopin maturo, lo Chopin delle Sonate op. 35 e op. 58 eliminera` addirittura il primo tema nella riesposizione. Il primo e il secondo tema, operistici (appassionato il primo, sognante il secondo), sono in realta` degli ariosi, mentre i temi secondari, virtuosistici, corrispondono alle caratteristiche della cabaletta. Una dolcissima melodia regge il secondo movimento, in forma di canzone con al centro un drammatico recitativo (probabilmente esemplato dal secondo movimento del Concerto op. 58 di Moscheles, che Chopin aveva studiato da ragazzo, eseguendone anche in pubblico il primo movimento). Scrivendo a un amico che lo aveva scherzosamente preso in giro per una ipotetica passioncella suscitata da una graziosissima pianista conosciuta a Vienna, Chopin disse, il 3 ottobre 1829: ‘‘[...] forse per mia disgrazia ho gia` in-

Improvviso op. 36

Fryderyk Chopin

contrato il mio ideale, che servo fedelmente da sei mesi senza parlargli dei miei sentimenti. Lo sogno; ad esso mi sono ispirato per l’Adagio del mio Concerto e, questa mattina, per il piccolo Valzer che ti mando’’ (op. 70 n. 3). L’‘‘ideale’’, una giovane cantante di Varsavia, non seppe se non molti anni dopo la morte di Chopin di aver suscitato un sentimento amoroso nel ragazzo che tanto volentieri aveva accompagnato al pianoforte le sue lezioni nella classe di canto del conservatorio senza osare mai di dirle ‘‘ti amo’’. L’amore di Chopin, pur virtuale com’era, possedeva pero` tutti i crismi della passione. Quando si trovo` solo e disperato a Vienna, Chopin confesso` di continuare a sognare la sua donna ideale non solo con infinita tenerezza ma anche con una gelosia da Otello. E questo particolare ci da` secondo me la chiave per capire psicologicamente la parte centrale dell’Adagio. Il finale, in forma di rondo`, e` basato su temi riconducibili al folclore polacco a cui Chopin si era appassionato fin da ragazzino, con passi virtuosistici originali, personali, non basati su stereotipi come le scale in terza, in sesta e per moto contrario, le scale in doppie terze e gli arpeggi che si incontrano ad ogni pie’ sospinto nei concerti di Hummel, di Moscheles e di Kalkbrenner, cioe` dei maggiori virtuosi della generazione che precede quella di Chopin. Le stesse caratteristiche strutturali e strumentali reggono il Concerto in mi-Mi op. 11 (1830, 1833), pubblicato prima dell’op. 21 ma posteriore come composizione. Nel primo movimento e` tuttavia singolare la struttura tonale: il secondo tema e` esposto nella tonalita` principale e riesposto nella tonalita` relativa maggiore, come avviene talvolta nelle sinfonie d’opera italiane (ad esempio, nella notissima Sinfonia della Norma di Bellini). A proposito del secondo movimento, Romanza, abbiamo una dichiarazione a un amico, del 15 maggio

1830, che apre parecchi spiragli sulla poetica di Chopin: ‘‘Nell’Adagio del mio nuovo Concerto non ho ricercato la forza. E` piuttosto una romanza calma e melanconica. Deve dare l’impressione d’un dolce sguardo rivolto verso un luogo che evoca mille cari ricordi. E` come una fantasticheria al tempo della primavera, ma al chiar di luna’’. Anche in questo Concerto il finale, in forma di rondo` , e` basato su temi riconducibili al folclore polacco, e i passi virtuosistici non si affidano a stereotipi se non nelle ultime battute (una grande scala con le due mani in ottava). Virtuosismo elegante e stilizzato, non aggressivo, che non poteva piacere al pubblico degli anni trenta dell’Ottocento perche´ non lo stupiva (si pensi a cio` che accade nel balletto romantico, che desta ancor oggi gli entusiasmi incontenibili degli spettatori quando la ballerina esegue con classe uno stereotipo come i trentadue fouette´). Chopin aveva proprio sbagliato tutto... E lo capı` ben presto. Nel 1832, a Parigi, abbozzo` il primo movimento di un terzo Concerto, stilisticamente in linea con gli altri due. Non ando` oltre uno schematico, seppur abbastanza esteso schizzo. Ma nove anni piu` tardi riprese il materiale che aveva abbandonato e compose l’Allegro da concerto in La op. 46 (1841, 1841) per pianoforte solo, nel quale si riconoscono l’esposizione orchestrale, l’entrata e la esposizione del solista, un accenno di sviluppo e di riesposizione e la coda. La dimensione di questa operazione e` nettamente manieristica, una vera e propria ‘‘parodia’’ nel senso antico del termine, cioe` di rifacimento stilistico su un oggetto del passato. L’Allegro da concerto e` ben poco noto, ma e` opportuno ricordarlo perche´ si tratta di un primo ripiegamento di Chopin, intellettualistico e non ancora emotivamente sofferto, verso la sua adolescenza.

Gli Improvvisi Il termine improvviso fa pensare ad un che di sorgivo e di non definito in tutti i particolari. In Chopin, come prima di lui in Schubert, il termine e` invece attribuito a composizioni che di improvvisatorio non hanno proprio nulla. Tre dei quattro Improvvisi di Chopin, l’op. 29 in La bemolle (1837, 1838), l’op. 66 in do diesis (1835, 1865) e l’op. 51 in Sol bemolle (1841, 1843) sono in forma di canzone tripartita (primo tema, secondo tema, primo tema), la forma, cioe`, che si riscontra spesso nei Notturni. Ma mentre nei Notturni, tranne qualche eccezione, il clima espressivo e` omogeneo per tutto il pezzo, i tre Improvvisi alternano un primo tema a modo di studio (moto perpetuo) e

un secondo tema lirico, il tutto lavorato con minuziosa arte da orafo. Solo la parte centrale dell’Improvviso op. 66, non pubblicato da Chopin ed apparso dopo la sua morte sotto il titolo FantasiaImprovviso, mantiene i segni di una mancata elaborazione. L’Improvviso in Fa diesis op. 36 (1839, 1840) e` invece un brano formalmente ed emotivamente piu` articolato, al quale converrebbe forse di piu` il titolo Leggenda. La forma e` ancora quella della canzone, ma la prima parte presenta un gruppo tematico invece di un tema (cantilena e carillon), la seconda parte e` una marcia guerriera con un effetto ‘‘spaziale’’ di avvicinamento, e la riesposizione sfocia in una coda molto ornamenta169

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Fryderyk Chopin

Mazurca op. 68 n. 4

ta con effetto naturalistico di un vento leggero e con ripresa finale del carillon. Una leggenda, dicevo, o un micro poema sinfonico – il termine, in

verita` , sarebbe stato inventato da Liszt quindici anni piu` tardi – su una saga nordica, in un miracoloso equilibrio fra il realistico e l’arcano.

Le Mazurche Una semplice osservazione... contabile puo` bastare a mettere in luce l’appartenenza di Chopin a una ‘‘scuola polacca nazionale’’ (anche se il termine entro` nell’uso piu` tardi), malgrado tutte le componenti di cultura internazionale (italiana, biedermeier, austro-tedesca, francese) che confluiscono nella sua arte; infatti, la sua prima composizione e` una polacca, la quarta e` una mazurca, l’ultima polacca viene composta tre anni prima della morte, l’ultima mazurca, che e` anche in assoluto l’ultima composizione di Chopin, e` dell’anno della morte. Le polacche sono in tutto sedici, la mazurche cinquantasette. L’ultima mazurca, la Mazurca in fa op. 68 n. 4 (1849, 1855), venne pubblicata postuma con il titolo Dernie`re Pense´e Mazurka in una versione riveduta da Auguste Franchomme, grande violoncellista e grande amico di Chopin, che con le migliori intenzioni del mondo intendeva ricondurre a una misura di piana comprensibilita` un pensiero che gli sembrava sfuggente o appena abbozzato o addirittura delirante. La versione originale della Mazurca, pubblicata soltanto nel 1965, ci ha fatto invece conoscere un pezzo visionario, che preannuncia le sonorita` opache e appiattite di Barto´k. Chopin si lega cosı` al compositore che all’inizio del Novecento avrebbe condotto le piu` avanzate ricerche sul canto popolare. Ben diversa la prima mazurca, la Mazurca in Re (1820, 1910), breve e semplice paginetta che non oltrepassa il gusto salottiero dei compositori polacchi piu` anziani di Chopin. Il cammino percorso da Chopin nelle sue Mazurche e` appunto quello di un progressivo allontanamento e dal gusto imperante in Polonia e dal folclorismo, cioe` dalla citazione di elementi pittoreschi inseriti nel linguaggio tradizionale occidentale, per procedere verso la scoperta del folclore come espressione di una civilta` che puo` condizionare, e non viceversa, il linguaggio delle civilta` dominanti. Per avere un’idea di cio` che significa l’inserimento pittoresco del canto popolare basta esaminare la Mazurca in Fa op. 68 n. 3 (1829, 1855). Nella prima parte troviamo un tema che solo ritmicamente e` riferibile alla danza popolare, mentre melodicamente, fraseologicamente ed armonicamente e` del tutto occidentale (con un unico momento di eccezione alla battuta 20). La parte centrale e` invece basata sul canto popolare ‘‘Oj Magdalino’’: l’alterazione del quarto grado, l’accompagnamento da cornamusa ed alcuni accenti spostati solleticano la curiosita` del pub-

blico e lo divertono nel modo in cui potrebbe divertirlo un comune oggetto d’uso – un ciotola o un cucchiaio, ad esempio – costruito con materiale inconsueto e di forma inusitata, ‘‘popolare’’. La successiva ripresa della parte iniziale riporta l’ascoltatore negli ambiti stilistici consueti. Nella Mazurca in la op. 68 n. 2 (1827, 1855), un tempo celeberrima, l’inserzione del quarto grado alterato in funzione melodica conferisce alla composizione un tocco di languido esotismo (lo zal polacco su cui tanto insistevano i commentatori dell’Ottocento, che e` malinconia e rimpianto, parole che non bastano tuttavia a definire una condizione psichica inspiegabile). Come esempio di trasformazione della tradizione occidentale attraverso gli stilemi che provengono dal canto popolare si puo` citare invece la Mazurca in la op. 17 n. 4 (1832-1833, 1834, forse gia` schizzata nel 1824), che nel suo complesso, e non soltanto in una parte, suona quanto mai eccentrica per l’orecchio dell’ascoltatore occidentale: ritmicamente, armonicamente, melodicamente, persino nelle fioriture, che sono tanto frequenti e tanto vocalisticamente italiane in molte opere di Chopin, qui si insinuano cromatismi e ribattiture di note che sanno di improvvisazione popolare slava, non di belcantismo. Il forte legame con la tradizione e` dovuto soprattutto alla forma, che e` classica: introduzione, prima parte, seconda parte, ripresa abbreviata della prima parte, coda che si conclude enigmaticamente con la citazione dell’introduzione, come un cammino psicologico che non conduce a nessuna modificazione psichica. Infine, come esempio di parificazione delle due culture, dotta e popolare, si puo` citare la Mazurca in Do op. 56 n. 2 (1843, 1844). Tutta la prima parte e` basata sul bordone della cornamusa, e per ventotto battute (il pezzo ne conta in tutto ottantaquattro) si sente risuonare al basso la quinta do-sol. La seconda parte inizia con un tema di gusto biedermeier e prosegue con armonie tradizionali in progressione tanto scolastica quanto efficace perche´ ‘‘rozza’’. La terza parte e` un secco canone di quattro battute, ripetuto ossessivamente quattro volte, su una melodia popolare con il quarto grado alterato: folclore+Bach! L’ultima parte riprende, abbreviandola, la prima. Il mosaico e la superposizione di frammenti stilistici diversi assumono l’aspetto della reminiscenza come luogo della memoria, in cui non si da` piu` scelta e subordinazione, ma solo l’accostamento sentimentale

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I Notturni

Fryderyk Chopin

dell’interiore colloquio. In Chopin l’esito ideologico del rapporto con il canto popolare e` individuale e probabilmente inconscio, mentre in Barto´ k verra` portato a livello di coscienza critica e sociale. Ma le premesse della rivoluzione bartokiana si trovano gia`, cinquant’anni prima, in Chopin. Le quattro Mazurche in fa diesis, do diesis, Mi e mi bemolle op. 6 (1830, 1832) e le cinque Mazurche in Si bemolle, la, fa, La bemolle e Do op. 7, (1824-1831, 1832) furono composte o rivedute (l’op. 7 n. 2 e l’op. 7 n. 4, che risalgono rispettivamente al 1829 e nel 1824) durante il soggiorno a Vienna. Chopin abbandona, ma non del tutto, il gusto salottiero e il gusto per il folclore pittoresco. Si consideri come avviene qui lo sfruttameto delle quinte di bordone: nella Mazurca op. 6 n. 3 sono riconoscibilissime, nell’op. 6 n. 2 sono completate da un contrappunto nel registro medio, e nell’op. 7 n. 3 sono mascherate da movimenti contrappuntistici cromatici. Permane l’uso di scale popolari, che pero` comincia a influire sull’armonia, ormai in grado di aprirsi la via verso l’ambiguita` modale. Nelle quattro Mazurche in Si bemolle, mi, La bemolle e la op. 17 (1832-1833, 1834) Chopin da` il via all’organizzazione del ciclo, e la quarta Mazurca, della quale ho gia` detto prima, e` sensibilmente piu` lunga delle altre. Questa tendenza si afferma decisamente nelle quattro Mazurche in sol, Do, La bemolle e si bemolle op. 24 (1834-1835, 1836), che sfruttando le scale lidia, eolia e zingaresca introducono nell’armonia elementi di profonda trasformazione del linguaggio. Infine, nelle Mazurche in do, Re bemolle e do diesis op. 30 (18361837, 1837), in sol diesis, Re, Do e si op. 33 (1837-1838, 1838), in mi, Si, La bemolle e do op. 41 (1838-1839, 1840) e in Sol, La bemolle e do diesis op. 50 (1841-1842, 1842), tutte le composizioni che chiudono i tre cicli sono architettonicamente molto vaste e assumono il tono epico-nazionalistico delle Ballate. Con le Mazurche in Si, Do e do op. 56 (1843, 1844), in la, La bemolle e fa diesis op. 59 (1845, 1845) e in Si, Fa e do diesis op. 63 (1846, 1847), Chopin ritorna verso le memorie del periodo di Varsavia e, pur con una qualita` estetica del tutto in linea con le creazioni degli ultimi anni, rinuncia alla organizzazione ciclica e al tono epico nelle Mazurche che concludono le tre

raccolte. La drammaturgia della Mazurca op. 63 n. 3 e` tipica di una condizione psichica di ritorno al passato: la prima parte e` percorsa da una domanda angosciante che non trova risposta, la seconda parte e` religiosa, consolatoria, la terza ed ultima parte riprende con piu` insistenza la domanda della prima parte, la sviluppa in un dialogo e si conclude con un grido disperato. Qui, come in tante altre occasioni, si puo` parlare di vicinanza di Chopin al pessimismo di Giacomo Leopardi. Al capitolo delle danze nazionali, oltre alle mazurche e alla polacche, appartengono anche le tre Scozzesi in Re, Sol e Re bemolle op. 72 n. 3 (1826, 1855), il Bolero in Do-la-La op. 19 (1833, 1834) e la Tarantella in La bemolle op. 43 (1841, 1841). Le Scozzesi, brevi e graziosissime, sono, piu` che danze, ballabili veri e propri; furono probabilmente composte per le serate danzanti che si svolgevano nella casa paterna e in case di amici della famiglia, e alle quali Chopin partecipava attivamente, molto ammirato per le sue virtu` di ballerino. Il Bolero, di forma molto vasta e molto ben articolata, gia` prelude alle soluzioni geniali della Ballata op. 23, ma strumentalmente, per evidenti ragioni di commerciabilita` in un mercato sul quale Chopin si era affacciato da poco, riprende lo stile della Polacca op. 22. Piu` che di drammaturgia si puo` parlare per il Bolero di illustrazione di un evento spettacolare secondo l’idea che Chopin, vivendo a Parigi, si era fatto della Spagna e della corrida. La parte introduttiva del pezzo illustra secondo me l’annuncio della corrida e l’entrata tumultuosa della folla seguita dalla calma e sussiegosa entrata dei nobili, mentre nel corpo maggiore della composizione appaiono i picadores e l’espada. Non e` di bon ton parlare in Chopin di musica illustrativa. Ma se non si fa ricorso a questa categoria di giudizio il Bolero diventa una composizione minore, mentre invece, secondo me, minore non e` affatto. Cosı` come non e` minore la Tarantella, che coglie i caratteri tipici del folclore stilizzato e non manca affatto di suonare ‘‘napoletana’’ ai nostri occhi. La sonorita` e` lucida, dura, scintillante; non sembra improbabile che Chopin ne prendesse lo spunto dalle Sonate di Domenico Scarlatti, ripubblicate da Czerny nel 1839 e che egli, pare, faceva studiare ai suoi allievi.

I Notturni Il Settecento musicale aveva celebrato la notte in senso eminentemente sociale, come il luogo delle feste e dello svago, l’Ottocento la celebro` come il rifugio dell’io che si ritrae in se stesso, isolato dal mondo e, non di rado, preda di fantasmi. Comincio` John Field, che scelse il titolo Nocturne per

brevi composizioni pianistiche di tono intimistico e di non elevata difficolta` tecnica, adatte per i dilettanti che sul pianoforte potevano sfogare i loro accessi di malinconia. In molti seguirono l’esempio di Field, e tra i molti anche la bellissima Maria Agatha Szymanowska detta Il Field Femmina, pia171

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nista e compositrice polacca che Chopin, giovanissimo, conobbe e ammiro` . Il Notturno in mi-Mi op. 72, pubblicato postumo nel 1855, risale al 1827. E` una pagina di tormentato lirismo, un minidramma che si conclude in catartica serenita` , una pagina sulla cui datazione esistono dubbi perche´ una cosı` profonda maturita` di pensiero mal si concilia con l’eta` del compositore, diciassette anni. I tre Notturni in si bemolle, Mi bemolle e Si op. 9 (1830-1831, 1833) sono come pagine di diario che Chopin, deluso e amareggiato per l’accoglienza di Vienna, annota soffrendo terribilmente di nostalgia ma, paradossalmente, assaporando voluttuosamente la sofferenza. Una visita alla cattedrale di S. Stefano, la notte di Natale, potrebbe aver ispirato il Notturno n. 1: ‘‘Dietro di me, una tomba; ai miei piedi, una tomba. Ne mancava solo una sopra la mia testa. Un’armonia lugubre sorse in me... piu` che mai sentii la mia solitudine’’ (lettera del 26 dicembre 1830). Il Notturno n. 2 ha il tono di una lettera amorosa per la fanciulla tenuta all’oscuro della fiamma suscitata in Chopin e il Notturno n. 3 e` come una scena di ballo di societa` nel quale non manca un attacco di gelosia: ‘‘Ah! mi strappo i capelli al pensiero che lei potrebbe dimenticarmi... Che Otello sono oggi!’’ (26 dicembre 1830). I Notturni in Fa, Fa diesis e sol op. 15 (1830-1833, 1833) riuniscono tre brani molto diversi fra di loro. Il n. 1, con la sua contrapposizione di una prima e una terza parte sognanti e una parte centrale agitata da un incubo, sembra uno schizzo per la Ballata op. 38 e di questa ha il tono di leggenda. Il n. 2 e` una grande romanza amorosa, ed e` secondo in celebrita` solo all’op. 9 n. 2. Il n. 3 e` costruito in un modo che ha lasciato sconcertati tutti i commentatori: tre temi invece di due, architettura priva di simmetrie, tono espressivo che enigmaticamente trascorre dal lamento alla preghiera e, infine, ad un ritmo ipnotico, ossessivamente ripetuto. I Notturni in do diesis-Do diesis e Re bemolle op. 27 (1835, 1836) formano un dittico. Drammatico e teatrale il primo, che contiene anche un recitativo, liricamente disteso e affettuoso il secondo. Il primo Notturno termina in do diesis maggiore, tonalita` che sulla tastiera del pianoforte e` identica a re bemolle maggiore: da qui il legame anche strutturale fra i due Notturni. L’idea del dittico non viene ripresa nei due Notturni in Si e La bemolle op. 32 (1836-1837, 1837), piuttosto ‘‘fieldianamente’’ morbidi di tono, ma viene ripresa nei due Notturni in sol-Sol e Sol op. 37 (1838-1839, 1840). Anche qui il passaggio dal primo Notturno al secondo e` mediato dalla conclusione in sol maggiore del primo. Il primo Notturno presenta una situazione drammaturgica 172

Notturno op. 72

tipica del melodramma: prima parte come lamento, seconda parte come corale religioso in lontananza (dietro le quinte), ripresa della prima parte con conclusione catartica, armonicamente tanto sorprendente quanto geniale nella sua semplicita`. E il secondo Notturno e` una vera e propria barcarola, con un percorso tonale ardito ma logicissimo. Lo schema drammaturgico del Notturno op. 37 n. 1 si ripresenta nel Notturno in do op. 48 n. 1 (1841, 1842), la cui conclusione e` pero` tragica: si pensa al finale di Romeo e Giulietta. Il suo compagno di numero d’opus, in fa diesis-Fa diesis, non si lega ne´ emotivamente ne´ strutturalmente al primo, ma procede dalla sofferenza alla serena accettazione della stessa, con una conclusione che anticipa quella della Barcarola. Identico lo schema drammaturgico del Notturno in fa-Fa op. 55 n. 1 (1843, 1844), che inizia con una vera e propria marcia funebre e termina con una linea ornamentale di tipo flautistico che pare simboleggiare la vita celeste, mentre il Notturno in Mi bemolle op. 55 n. 2 e` un intenso colloquio d’amore in cui, sul placido andamento della mano sinistra, la mano destra dell’esecutore compie prodigi di scienza del tocco. I Notturni in Si e Mi op. 62 (1846, 1846) chiudono splendidamente questo capitolo della creativita` di Chopin. Il primo, che un tempo era detto La Tuberosa, e` ancora una canzone tripartita, ma con l’aggiunta di un’ampia coda, costruita su una melodia flautistica che sembra librarsi nell’aria e che rinnova l’idea della vita celeste. Il secondo presenta nella prima parte una calma, intensa melodia collocata nella estensione della voce di contralto, mentre di solito le melodie chopiniane sono sopranili, e ha una parte centrale mossa e agitata. Si suole elencare fra i Notturni, infine, una composizione senza titolo, molto nota, il Lento con gran espressione in do diesis (1830, 1875), caratterizzato dalla citazione nella seconda parte di un tema del finale del Concerto op. 21 e da una terza parte con ornamentazioni leggerissime che danno modo ai virtuosi del tocco di sfoggiare il cosiddetto velluto, deliziosamente carezzoso per le orecchie degli ascoltatori. Non e` improprio parlare, in appedice al capitolo sui Notturni, della Barcarola in Fa diesis op. 60 (1845-1846, 1846) che senza grandi forzature potrebbe essere intitolata Notturno a Venezia. Le influenze operistiche dello Chopin adolescente, che erano state soprattutto influenze dell’opera italiana, tornano ancora, lontanamente, nella Barcarola: il primo e il terzo tema sono cantati in terza, procedimento caratteristico dell’opera italiana sentimentale, e il continuo riaffacciarsi di stilemi della giovinezza nell’ultimo Chopin, che non intacca mi-

Polacche op. 40

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nimamente la coerenza stilistica delle sue composizioni, da` il senso del ripiegarsi sulle memorie del passato. Si nota nella Barcarola, come in tutte le composizioni posteriori alla Polacca op. 53, un nuovo equilibrio spirituale, una nuova maturita`, una saggezza in cui si compongono le aspirazioni di tutta la vita. In questo senso si potrebbe forse parlare per Chopin non gia` di decadimento fisico, ma di serenita` della vecchiaia, intendendo per vecchiaia, appunto, la saggezza che conosce la realta` in tutti i suoi aspetti e l’accetta qual e`. La morte a trentanove anni non tronca la vita di Chopin ma la conclude, e la sua presenza, non piu` terrorizzante come nella Sonata op. 35, e` avvertibile nelle ultime opere, e in particolare proprio nella Barcarola, che con il suo movimento ondulatorio e ipnotico

celebra la citta` morta che Chopin non aveva mai visto ma che gli era stata raccontata, oltre che dal suo mito, da George Sand, fuggita quindici anni prima sulla laguna in compagnia di Alfred de Musset. Il tono coloristico ed impressionistico della Barcarola indusse Ravel a un commento di attonita meraviglia, tanto piu` sorprendente in un critico di solito molto controllato: ‘‘La linea melodica e` continua. Per un momento una melopea si stacca, resta sospesa e ricade mollemente, attratta da accordi magici. L’intensita` aumenta. Un nuovo tema, d’un lirismo magnifico, tutto italiano, esplode, poi tutto si calma. Dal grave si leva un movimento rapido, come un brivido che plana su armonie preziose e tenere. Si fantastica di una misteriosa apoteosi’’.

Le Polacche Le prime due composizioni di Chopin, scritte (o, piu` esattamente, da lui composte al pianoforte e messe in carta dal suo maestro) all’eta` di sette anni, sono le due Polacche in sol e in Si bemolle (1817, 1817 e 1834) che seguono fedelmente gli schemi di un compositore polacco dilettante, Michal Kleofas Oginski, molto famoso, e non solo in Polonia, per le sue numerose polacche di concezione ancora settecentesca. Specialmente nella prima delle due Polacche di Chopin si notano pero` un certo piglio teatrale che stupisce, e una scrittura con incrocio della mano destra sopra la sinistra che in un bimbetto di quella eta`, seduto al pianoforte e che non arrivava probabilmente a toccare con i piedi il pavimento, doveva dar luogo ad una gestualita` quasi acrobatica. Dopo una Polacca in La bemolle (1821, 1902), ancora oginskiana, la Polacca in sol diesis (1820, 1864) mostra l’acquisizione di uno stile pianistico piu` evoluto, in linea con la tecnica dei virtuosi biedermeier. Questo stile diventa ancora piu` sviluppato nella Polacca in re op. 71 n. 1 (1825, 1855) e soprattutto nelle due Polacche in Si bemolle e in fa op. 71 nn. 2 e 3 (1828, 1855), che mimano il carattere di fastose danze cerimoniali delle Polacche di Weber, mentre piu` intimistica e` la Polacca in si bemolle (1826, 1826, senza numero d’opera), composta per un amico nel momento in cui Chopin partiva per le vacanze estive e detta percio` L’Adieu, che nella parte centrale impiega il tema della Gazza ladra di Rossini ‘‘Vieni fra queste braccia’’. Tra le polacche giovanili deve ancora essere citata la Grande Polacca brillante in Mi bemolle op. 22 per pianoforte e orchestra, composta fra il 1830 e il 1831 e pubblicata nel 1836 con l’aggiunta come introduzione dell’Andante spianato in Sol (1834, 1836). Chopin eseguı` questo lavoro con orchestra

in una sola occasione, a Parigi il 26 aprile 1835, e riprese invece talvolta, isolatamente, l’Andante spianato. La parte orchestrale della Polacca e` talmente ridotta da permettere senza grossi problemi l’esecuzione per pianoforte solo. L’Andante spianato, delicatissima filigrana melodica su un basso cullante, con l’intermezzo di una mazurca, riflette lo stile chopiniano della meta` degli anni trenta, mentre la Polacca brillante e` un pezzo dimostrativo, elegantissimo ma spettacolare, che i maggiori virtuosi inserirono stabilmente nel repertorio, in versione per pianoforte solo, a partire da circa il 1870. Le prime due composizioni di questo genere a cui Chopin assegna il numero d’opera sono le Polacche in do diesis e in mi bemolle op. 26 18341835, 1836). La ratio della polacca cambia qui completamente, rispetto al passato, le due Polacche op. 26 formano un dittico (la prima finisce per cosı` dire di punto in bianco, mentre la seconda ha una coda conclusiva) e ci rappresentano non piu` la patria trionfante dei tempi d’oro degli Jagelloni ma la patria piagata che non solo ha perduto la sua identita` nazionale ma che e` diventata, dopo la rivolta del 1830-1831, una provincia dell’impero russo. Dolorosa la prima Polacca, cupamente drammatica la seconda, oggi non piu` popolare ma che sotto le dita di un patriota polacco come Ignaz Jan Paderewski acquistava i toni di un funebre epicedio. Le Polacche op. 26 sono complementari, mentre le due Polacche in La e in do op. 40 (1838-1839, 1840), pur formando anch’esse un dittico (solo la seconda ha la coda) sono violentemente contrastanti. Trionfante la prima, detta Militare perche´ sembra effettivamente pensata per una banda militare e per una sfilata all’aperto, dolorosissima la seconda, che inizia con una grave, 173

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Polacca op. 44

arcana melodia nell’estremita` bassa del pianoforte e che ha una parte centrale palpitante di nostalgia: la Polonia di ieri, si direbbe, e la Polonia di oggi. Nella Polacca in fa diesis op. 44 (1840-1841, 1841) Chopin costruisce la parte centrale su un tema di mazurca, riunendo simbolicamente, in tal modo, la danza popolare (mazurca) e la danza aristocratica (polacca). La costruzione e` grandiosamente ricca di episodi contrastanti, non solo per il rapporto fra polacca e mazurca ma anche, nella polacca, per l’inserimento di momenti lirici e di un episodio guerriero con imitazione di trombe e tamburi, con effetto spaziale di avvicinamento e allontanamento degli eserciti, una vera e propria visione. La Polacca in La bemolle op. 53 (1842, 1843), detta Eroica, e` anch’essa costruita fondamentalmente in tre parti ma con una molteplicita` di episodi che la portano al livello di poema. La parte centrale sfrutta genialmente un ‘‘ostinato’’ rullante nel basso su cui si staglia la fanfara, con effetto di avvicinamento ripetuto due volte: e` la visione del galoppo dei cavalli e delle trombe da segnali di battaglia, un effetto classico di carica di cavalleria. Ma dopo questa parte Chopin inserisce un episodio dolce e cullante che da` l’idea della trepidazione di chi attende con ansia e gioia il ritorno dei guerrieri. L’ultima polacca e` talmente complessa sia formalmente che contenutisticamente da aver meritato da Chopin, dopo molte incertezza e molta esitazione, un titolo particolare. Si tratta della Polacca-Fantasia in La bemolle op. 61 (1845-1846, 1846), che presenta interamente, e non solo piu` episodicamente, il carattere di una vi-

sione. La forma e` cosı` minutamente articolata e cosı` sfuggente da aver suscitato forti perplessita` nei primi commentatori, ivi compreso Franz Liszt, che solo trent’anni piu` tardi si accorse di aver mal compreso la genialita` costruttiva di una delle ultime grandi creazioni di Chopin. Prima di dare inizio alla parte conclusiva della composizione Chopin riprende in pianissimo, e la ripresa ha tutto il carattere di una citazione simbolica, un accordo che nella coda dello Scherzo op. 20 veniva ribattuto spasmodicamente in fortissimo e che era talmente inconsueto e dissonante da non rientrare in nessuna classificazione scolastica. Nel momento conclusivo della sua vita di creatore Chopin si riallacciava dunque retrospettivamente a quell’anno 1831 in cui, isolato socialmente a Vienna e angosciato per la guerra scatenata dai russi contro i polacchi, aveva scritto ad un amico dicendo: ‘‘Nei salotti sembro calmo, ma rientrato a casa fulmino sul pianoforte’’. Questo e` il tema dominante nella poetica di Chopin. L’allontanamento da Varsavia significa per lui la perdita della felicita` di una vita patriarcale, gratificante e protetta. Pero` l’accadimento personale si identifica con la perdita della indipendenza della patria, divisa alla fine del Settecento fra russi, prussiani e austriaci. E in senso universale il sentimento della felicita` perduta diventa il mito del rimpianto di un’eta` dell’oro rispetto alla tristezza del presente. In calce a una delle sue ultime composizioni, la lirica per canto e pianoforte Melodia, Chopin annoto` i versi di Dante: ‘‘Nessun maggior dolore / Che ricordarsi del tempo felice / Nella miseria’’.

I Preludi I termini preludio e interludio, e i corrispettivi introduzione e intermezzo, dovrebbero logicamente riguardare composizioni legate ad altre composizioni, ma nell’uso comune durante l’Ottocento sia il preludio che l’intermezzo – non l’interludio e l’introduzione – vennero impiegati anche per composizioni del tutto indipendenti. Il problema di scrivere ventiquattro diversi pezzi nelle ventiquattro diverse tonalita` maggiori e minori si affaccia alla coscienza dei compositori verso il 1830, quando il primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach – ventiquattro preludi e fughe nelle ventiquattro tonalita` – comincia a diventare il pane quotidiano del pianista. Johann Nepomuk Hummel scrive ventiquattro Preludi e ventiquattro Studi nelle ventiquattro tonalita`, ma i Preludi sono pezzi brevissimi, pensati per fornire agli esecutori dei brani con cui saggiare il pianoforte e richiamare l’attenzione degli ascoltatori nei salotti dove si fa musica. Liszt progetta quarantotto Studi, cioe`

due cicli completi, ne pubblica dodici e non andra` mai oltre. Joseph Kessler, compositore tedesco residente per alcuni anni a Varsavia durante l’infanzia di Chopin, pubblica nel 1835 ventiquattro Preludi e ventiquattro Studi in tutte le tonalita`. I ventiquattro Preludi di Kessler sono dedicati a Chopin, e l’edizione tedesca dei Preludi op. 28 di Chopin (1836-1839, 1839) e` dedicata a Kessler. Chopin, di dieci anni piu` giovane di Kessler, apprezza l’esempio del conoscente ed amico. Negli Studi op. 10 e op. 25 troviamo tracce di un ordinamento tonale che non e` tuttavia completo, mentre i Preludi op. 28 sono nelle ventiquattro tonalita`. Ma che fatica, per arrivare a pubblicare quell’op. 28! Chopin comincia a scrivere i Preludi nel 1836 o forse anche prima, e nello stesso anno, consegnati all’editore i Notturni op. 27, lascia libero il numero d’opera 28 perche´ pensa di terminare in breve il lavoro. Invece appariranno successivamente le opere 29-34, e l’op. 28 vedra` la luce solo

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Preludio in do diesis op. 45

nel corso del 1839. Perche´ un cosı` grande travaglio? Perche´ scrivere ventiquattro pezzi nelle ventiquattro tonalita` non sarebbe poi tanto difficile, come non e` difficile mettere assieme un qualsiasi bric a` brac. E` invece ardua impresa fare in modo che il bric a` brac risponda nel suo complesso non solo ad un’architettura geometrica, ma anche estetica. Chopin vive in anni nei quali, tramontata e divenuta problematica la grande forma classica della sonata, i compositori tendono a recuperare le architetture vastissime attraverso il polittico basato su piccoli pannelli. Questo processo storico viene iniziato da Beethoven (Bagatelle op. 126) e da Schubert (Valzer op. 34) e si conclude trionfalmente con Schumann. Chopin non rinuncia a creare forme vaste e non segue Schumann nel polittico che si presenti effettivamente come tale. Ma tende a integrare le forme brevi in organismi molto complessi in alcune raccolte di Mazurche, di Valzer, in modo piu` limitato di Notturni e di Polacche, e in grado eminente nei Preludi. I Preludi sono, all’apparenza, un centone di pagine che formalmente vanno dal foglio d’album allo studio al notturno alla marcia al recitativo. Ma se si esamina con attenzione il complesso dei pezzi si scopre una cura minuziosa nell’alternare e nell’accostare velocita`, caratteri espressivi, densita`, estensioni diverse. Il tutto entro il rigido schema geometrico che prevede il regolare alternarsi del modo maggiore e del modo minore, e il procedere attraverso la discesa alternata di una terza minore (do maggiore-la minore) e di una seconda minore (la minore-sol maggiore). L’alternanza di modo maggiore e modo minore diventa sistematicamente alternanza di gioia e di dolore con grandi sbalzi dell’armonia, le dimensioni architettoniche aumentano progressivamente fino alla parte centrale e decrescono in misura minore nella parte terminale, la scrittura pianistica e` molto varia (agilita` sia della mano destra che della mano sinistra, doppie note, ottave, accordi, estensioni, cantabilita` sia alla destra che alla sinistra), e le velocita` sono alternate sistematicamente fra veloce e lento o moderato e lento o moderato e veloce; solo il quindicesimo Preludio ha la prima e la terza parte in modo maggiore e la parte centrale in modo minore: la gioia e il dolore convivono, il Preludio n. 15 rappresenta il punto culminante dell’opera, punto culminante che articola il tutto secondo la classica proporzione della sezione aurea. Se si tengono presenti tutti questi fattori si capisce quale lavoro da certosino dovesse fare Chopin per arrivare a rendere organica la raccolta, cioe` a fare della raccolta un polittico. I contemporanei non si resero conto della titanica impresa di Chopin. Schumann, nella sua re-

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censione, parlo` di ‘‘schizzi, principi di studi o, se si vuole, rovine e penne d’aquila, tutto disposto selvaggiamente e alla rinfusa’’ e, pur riconoscendo che Chopin ‘‘e`, e rimane il genio poetico piu` ardito e piu` fiero del tempo’’, aggiunse: ‘‘Il fascicolo contiene pure qualcosa di malato, di febbrile e di repulsivo’’. Lo sconcerto che i commentatori provavano di fronte a certi Preludi fu tale che ancora un critico del Novecento, E´ douard Ganche, in una lettera ad Andre´ Gide del 1932 ‘‘assolse’’ il Preludio in la minore perche´ secondo lui era ‘‘la notazione esatta di un rintocco suonato da due campane del campanile di una chiesa di borgata. Sia per la mancanza di intonazione delle campane, sia in seguito alla modificazione del suono sotto l’azione del vento, o per questi due motivi insieme, ho sempre sentito nella mia infanzia questo rintocco funebre, cosı` dissonante, che annunciava una morte o una prossima sepoltura, tal quale Chopin lo riproduce con le stesse funebri dissonanze, e tal quale deve averlo certamente sentito nella solitudine delle borgate polacche’’. Uno dei brani armonicamente piu` straordinari di Chopin viene giustificato con l’imitazione di campane stonate! Il Ganche, comunque, risolse... genialmente un problema apparso insolubile a Jan Kleczinski che, nato in Polonia ma talmente distratto da non aver individuato la campane stonate nella solitudine delle borgate polacche, aveva scritto: ‘‘Il secondo Preludio non dev’essere suonato perche´ e` bizzarro’’. Il catalogo delle opere di Chopin comprende ancora, alla voce Preludi, due pezzi. Il Preludio in La bemolle (1834, 1918) non ha nel manoscritto un titolo, solo la data 18 luglio 1834 e la dedica al pianista Pierre Wolff. Il pezzo e` pieno di charme ma non aggiunge nulla a cio` che il preludio rappresento` per Chopin, e del resto chi lo pubblico` avrebbe anche potuto initolarlo studio o moto perpetuo. Molto importante e` invece il Preludio in do diesis op. 45 (1841, 1841), particolarmente significativo perche´ con esso Chopin da` inizio ai suoi studi sulla sonorita` e sui rapporti di sonorita` che convenzionalmente vengono definiti preimpressionistici. Il pezzo avrebbe potuto appartenere ad una raccolta di studi, a conferma del fatto che per Chopin non si puo` propriamente parlare di concezione del preludio, al contrario di quanto sarebbe avvenuto con Skrjabin, per il quale preludio significa aforisma. In Chopin e` invece di fondamentale importanza il concetto di collana come polittico, che richiede il massimo della fantasia nel massimo della rigidezza del disegno generale. Chopin, per riuscire a completare i Preludi op. 28, impiego` tre anni, altri non ci riuscirono mai. 175

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I Rondo` La numerazione delle opere assumeva per il compositore del Settecento e del primo Ottocento un significato che andava al di la` della semplice catalogazione. Si numeravano soltanto le opere pubblicate, e neppure tutte, e il pubblico si regolava sui numeri d’opera per conoscere la ‘‘produttivita`’’ di un autore. L’iscrizione della fatidica opera 1 in cima ad un catalogo era dunque psicologicamente molto importante: era la declarazione al pubblico di un nuovo talento, di un nuovo professionista, di un nuovo candidato alla immortalita`. Orbene, nel portale del catalogo di Chopin noi troviamo una composizione che pochissimi appassionati, e persino pochi professionisti conoscono: il Rondo` in do op. 1 (1825, 1825). Il Rondo` fu pubblicato a Varsavia senza numero d’opera. Ma nel 1835, quando la composizione fu acquistata da un editore di Berlino, Chopin le assegno` il numero fatidico: 1. Nel 1830 era pero` gia` stata pubblicata l’opera 2, e alla fine del 1834 risultavano gia` pubblicate a Parigi sedici composizioni di Chopin. E` quindi evidente che Chopin aveva assegnato in cuor suo l’opera 1 a una delle sue precedenti composizioni e che aspettava l’occasione per rivelarla. L’occasione arrivo` nel 1835 e Chopin, che aveva allora venticinque anni ed era gia` noto in tutta Europa, giudico` degno di inaugurare il suo catalogo di fronte ai contemporanei ed ai posteri quel Rondo` che aveva scritto all’eta` di quindici anni e che ripubblico` senza cambiare nemmeno una nota. Chiunque ami Chopin dovrebbe dunque desiderare di conoscere il Rondo` op. 1. E il Rondo` in do minore e` in realta` una creazione incantevole, che in una graduatoria delle creazioni di musicisti quindicenni verrebbe a parer mio collocata appena dopo il Rondo` capriccioso di Mendelssohn e i tre Quartetti per pianoforte e archi di Beethoven. Le influenze stilistiche che si notano in questo lavoro sono soprattutto di due tipi: il ritornello risente dello stile brillante e della capricciosa ornamentazione del rondo` pianistico fra il 1790 e il 1825 (Dussek, Steibelt, Hummel, Field, Czerny, ecc.), che probabilmente pervenne a Chopin anche attraverso la mediazione di pianisti-compositori polacchi; il secondo tema rieccheggia lo stile vocalistico ornato dell’opera italiana (da Paisiello e Cimarosa a Pae¨r e Rossini). Negli episodi di collegamento e nel terzo tema compare invece gia`, embrionalmente, lo stile tipico dello Chopin ventenne. Meravigliosamente libero il piano tonale generale, con il secondo tema prima in Mi e poi in Re bemolle invece che in Mi bemolle e Do, e con il terzo tema in Re bemolle invece che in La bemolle. 176

Rondo` op. 1

Nel 1826 Chopin compose il Rondo a` la Mazur in Fa op. 5 (1826, 1828), anch’esso pubblicato senza numero d’opera e ripubblicato come opera 5 nel 1836. Rondo` alla Mazurca, e cioe` su temi non tratti dal canto popolare ma stilisticamente a questo affini. Pianisticamente piu` complesso del precedente, ma meno originale come rete di tonalita`, il Rondo` op. 5 si caratterizza per l’uso di scale della musica popolare non piu` presenti nella musica colta europea (scala ipolidia e scala cosiddetta zingaresca). Il Rondo` in Do op. 73 (1828, 1954) e` un pezzo molto brillante e con passi di estrema difficolta` meccanica. Chopin, che era un pianista di primissimo ordine ma non un virtuoso di mirabolanti qualita`, ne ridusse la difficolta` preparandone una versione per due pianoforti che eseguı` due volte a Varsavia e che venne pubblicata nel 1855. Piu` interessante del Rondo` op. 73 e` il Krakowiak. Grande Rondo` da concerto in Fa op. 14 (1828, 1834). Il krakowiak e` una danza popolare del distretto di Cracovia, meno nota della mazurca e della polacca. Con questo lavoro Chopin tento` di agganciarsi a una moda dell’Europa biedermeier, cosmopolita e curiosa delle culture periferiche, che adorava i Souvenirs d’Irlande di Moscheles e le Variazioni su un’aria svedese di Ferdinand Ries. Sebbene l’adesione ai modelli internazionali sia rispettosissima, il Krakowiak di Chopin si distingue sia per il profumo leggermente esotico dei temi, sia per l’impiego dell’orchestra nella parte introduttiva. Una pagina breve ma che dimostra l’istintiva sensibilita` di Chopin per l’uso del pianoforte in funzione di timbro, di sezione timbrica dell’orchestra. Proprio la sonorita` , piu` della melodia, sorprende l’ascoltatore: su accordi tenuti degli archi, come un prato dal colore di velluto, ‘‘passeggia’’ una melodia raddoppiata due ottave piu` in basso: e` un procedimento che Chopin non rirprese poi, e che troveremo frequentemente soltanto in Albe´niz, ma e` un momento magico. Forse forse Chopin avrebbe potuto inserirsi in quel filone paesistico-illustrativo del biedermeier che aveva visto apparire di recente concerti a programma di Steibelt e di Field. Non con i forse si fa la storia, s’intende. Tuttavia e` da segnalare il fatto che Chopin, notoriamente negato all’uso dell’orchestra, era in realta` estraneo al sinfonismo classico e al rapporto sinfonico tra pianoforte e orchestra, ma non era affatto privo di idee quando trattava pianoforte e orchestra fuori dai canoni tradizionali. Il Rondo` in Mi bemolle op. 16 (1832, 1834) fu dedicato ad una giovane pianista molto nota, Caroline Hartmann. Probabilmente Chopin, sbarcato fresco fresco nell’autunno del 1831 in quella megalopoli

Scherzi op. 39

Fryderyk Chopin

musicale che era la Parigi di Luigi Filippo, scrisse il Rondo` su misura per una pianista che con le esecuzioni nei salotti avrebbe attirato l’attenzione su un compositore sconosciuto. Lo stile strumentale del Rondo` e` all’incirca quello della Polacca op. 22, stile che Chopin, dopo gli Studi op. 10 e lo Scherzo op. 20, aveva superato e a cui fa qui ricorso per evidenti e non spregevoli ragioni di opportunita`. La parte piu` significativa della composi-

zione e` senza dubbio l’Introduzione in do minore e in movimento lento che progressivamente si anima. La drammaticita` dell’Introduzione rivela un problema espressivo che impegnava Chopin nei primi anni del suo espatrio, ma il seguito e` virtuosistico ed estroverso, con un episodio popolaresco. Tuttavia la qualita` musicale del pezzo non e` affatto mediocre, tanto che il Rondo` op. 16 fece parte del repertorio di Rachmaninov e di Horowitz.

Gli Scherzi Al tempo di Chopin il termine scherzo era usato per uno dei movimenti della sonata, solitamente il secondo o il terzo. Nella sonata – e nella sinfonia – lo scherzo era diventato con Beethoven alternativo al minuetto e ne aveva mantenuto la forma e il tempo: prima parte divisa in due sezioni (con ripetizione di entrambe le sezioni), seconda parte (detta trio) seguita dalla ripetizione della prima parte piu` eventuale coda, e metro ternario. Questo schema viene conservato nello Scherzo in si op. 20 (1831-1832, 1835), ma le proporzioni sono molto ampliate (693 battute invece ad esempio delle 196 dello Scherzo, tra i piu` lunghi di Beethoven, della Sonata op. 2 n. 3). E in ragione delle sue dimensioni il pezzo non e` piu` collocato nel contesto di una sonata. La forma rappresenta dunque l’aspetto meno rilevante di questa composizione, diventata giustamente celebre per il contrasto fra una prima parte di espressione violenta, angosciata, e un trio che cita un canto natalizio polacco, la ninna-nanna ‘‘Dormi, piccolo Gesu`’’. L’armonia, che nello Chopin adolescente era tutt’altro che banale ma non eterodossa, si spinge verso un uso esasperato della dissonanza, con accordi che la teoria armonica dell’epoca non aveva classificato e che ancora oggi danno luogo a classificazioni contrastanti perche´ sono essenzialmente acustici, come gesti sonori della mano che si abbatte sulla tastiera. Lo Scherzo op. 20 fu composto in gran parte a Vienna, nel momento in cui Chopin vedeva svanire brutalmente le rosee speranze di successo con le quali era arrivato nella capitale austriaca. Piu` ancora che rivoluzionario, com’e` , il pezzo appare dettato da uno spirito insurrezionale che reagisce contro un mondo rivelatosi inaspettatamente ostile e, nel trio, dalla lancinante nostalgia per la patria e la famiglia, per la felicita` perduta. Lo Scherzo in si bemolle-Re bemolle op. 31 (1837, 1837) inizia in una tonalita` minore e termina nella tonalita` relativa maggiore di questa, ma con la parte centrale in la maggiore, tonalita` molto lontana dalle principali. In passato venne imputato a Chopin il fatto di scegliere spesso le reti tonali, si diceva, non in base alla logica musicale ma alla

comodita` dell’esecuzione pianistica. In realta` non la comodita` esecutiva, ma la specificita` timbrica che ogni tonalita` ha sul pianoforte guidava le scelte di Chopin, che seguiva quindi le esigenze dell’orecchio senza curarsi della loro ‘‘legittimita`’’ teoretica. Il risultato, nel caso dello Scherzo op. 31 come di altri lavori, e` un pezzo ammaliante per varieta` di colori e di espressione e, nello stesso tempo, di originale e ferrea organizzazione formale: lo schema dello scherzo con trio viene fuso con lo schema del primo movimento di sonata, su una scala diversa ma in modo analogo a quello che vent’anni piu` tardi avrebbe fatto Liszt nella Sonata in si minore. Lo Scherzo op. 20 aveva ampliato le proporzioni dello scherzo classico ma non la sua ratio. Lo Scherzo op. 31 e` pienamente autonomo sotto l’aspetto della forma e sotto l’aspetto del contenuto; il dramma solipsistico di una vicenda esistenziale e` diventato dramma – a lieto fine – di piu` personaggi, cioe` ha acquisito un significato poematico. Questo carattere spicca fortemente anche nello Scherzo in do diesis-Do diesis op. 39 (1839, 1840), che ‘‘interpreta’’ evolutivamente la forma, adottata talvolta da Beethoven nelle Sinfonie, della ripetizione del trio dopo la ripetizione della prima parte, ma con una rete tonale del tutto diversa. La contrapposizione fra un primo tema demoniaco e un secondo tema (trio) di paradisiaca dolcezza (un corale i cui versetti si alternano con carezzose cascatelle di note dell’arpa) fanno pensare alla contrapposizione dello Scherzo op. 20. Ma il dramma, qui, non e` piu` personale: e` cosmico, e` la lotta di due elementi che trascendono l’individuo e che si conclude con la vittoria dell’elemento positivo. Lo Scherzo op. 39 fu composto in gran parte durante il soggiorno di Chopin nella Certosa di Valldemossa nell’isola di Maiorca, una costruzione gotica ormai abbandonata dai monaci che conservava ancora la sua aura di arcana testimonianza di un mondo perduto. La tentazione di inserire lo Scherzo op. 39 nel grande filone culturale del neogotico ottocentesco e` molto forte, e io credo che si possa soddisfarla, anche se nessun documento ci indica 177

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Scherzo op. 54

a questo proposito una precisa consapevolezza culturale di Chopin. Lo Scherzo in Mi op. 54 (1842, 1843) e`, dei quattro, il meno noto. Piu` allusivo che affermativo, piu` impressionistico che realistico, di sonorita` morbida e translucida, con un trio basato su una melodia cantilenante che non si imprime nella mente dell’ascoltatore, lo Scherzo op. 54 apre l’ultima fase della creativita` di Chopin, gia` preannunciata dal Preludio op. 45 (1841, 1841) e dai Tre Nuovi Studi senza numero d’opera (1839, 1840), la fase del ripiegamento verso il passato e dei sentimenti crepuscolari. Per la critica dell’Ottocento questo fu il

momento dell’affievolirsi delle forze creative e della decadenza, una decadenza che fu attribuita o al progredire della malattia o alla cattiva influenza di George Sand, la convivente che, essendo donna di sinistra ed emancipata, aveva in parte distolto Chopin dalla frequentazione del mondo aristocratico. Il tardo stile e` invece secondo me il riflesso della tranquillita` e della sicurezza affettiva a cui Chopin aveva aspirato fin dal suo arrivo a Parigi e che per alcuni anni si era realizzata proprio nella unione con la romanziera ‘‘sociale’’ che fumava il sigaro, indossava i pantaloni, si serviva di parolacce e non andava alla messa della domenica.

Le Sonate Nel catalogo delle opere di Chopin ricorre piu` volte – casualmente, s’intende – il numero quattro, numero di valenza simbolica: quattro Ballate, quattro Scherzi, quattro Improvvisi, quattro Rondo`, e quattro Sonate, di cui tre per pianoforte solo e una per pianoforte e violoncello. In se´ e per e´ il quattro non ci dice nulla, ma se ci riflettiamo sopra constatiamo che le Sonate, come le Ballate e gli Scherzi, appartengono a fasi diverse e molto caratterizzate della vita e della evoluzione artistica di Chopin. Percio`, alla fine, il numero quattro acquista per noi un significato. La Sonata in do op. 4 (1828, 1851) e` un lavoro di scuola, ma geniale, composto durante il penultimo anno del corso di composizione seguito da Chopin nel conservatorio di Varsavia. In passato si insistette molto sulla educazione ‘‘classica’’ di Chopin, e si porto` anche come esempio dimostrativo di questa tesi l’inizio con imitazione contrappuntistica della Sonata in do, riferibile, si sosteneva, a una influenza bachiana. A parte il fatto che qui l’imitazione e` all’ottava, cosa inconcepibile per Bach, le cui imitazioni avvengono normalmente alla quinta ed eccezionalmente alla quarta, non si puo` non osservare che il nome di Bach ricorre nell’epistolario di Chopin, incidentalmente, nel 1829, e in riferimento al Clavicembalo ben temperato solo nel 1839. Si puo` quindi addirittura supporre che Chopin studiasse l’opera di Bach soltanto dopo essere giunto a Parigi. E del resto e` documentato dalle lettere, e lo si verifica chiaramente nelle opere successive, che il contrapputo lo studio` davvero nel 1839, Chopin, accoppiando il grande Trattato di Cherubini e il Clavicembalo ben temperato. L’inizio della Sonata op. 4 e` invece riferibile secondo me alla temperie della cultura polacca, nella quale il primato del melodramma restava incontestabile: entrata delle viole, imitazione dei violoncelli con sostegno armonico dei fagotti, tre violenti accordi di tutta l’orchestra. Nulla di bachiano, in cio`, ma un inizio

di scena lirica che introduce sinteticamente i temi della afflizione e della violenza. Le lettere del 1832 ci dicono che il maestro di composizione di Chopin, Jo´zef Elsner, pensava che il suo geniale allievo fosse destinato a creare l’opera nazionale polacca capace di imporsi in tutto il mondo. Da cio` si puo` ragionevolmente presumere che l’educazione scolastica di Chopin fosse indirizzata verso questo fine. E la Sonata in do minore contiene in effetti elementi di teatralita` talmente numerosi da farla inserire storicamente non nell’alveo della tradizione beethoveniana ma del sonatismo biedermeier di Hummel e di Weber. Anche la scrittura pianistica e` biedermeier, con numerosi e assai difficili passi in terza che non torneranno mai piu` , tranne che nello Studio op. 25 n. 6, nelle opere successive. Dopo un tormentato, drammatico primo movimento, vengono un elegantissimo Minuetto (con imitazioni all’ottava), un misterioso intermezzo lirico nel tempo inconsueto di cinque quarti, un tempestoso finale: non sarebbe difficile ricavare da cio` lo schema di un racconto, di un melodramma strumentale al modo della Sinfonia Fantastica di Berlioz. Anzi, i titoli della Sinfonia di Berlioz, esclusa la Scena nei campi, sono applicabili alla Sonata di Chopin: Sogni, passioni - Un ballo - Marcia al supplizio - Sogno di una notte del Sabba. Lasciata a vent’anni la Polonia, Chopin rinuncio` ben presto, con fredda determinazione, alla carriera di operista. Ma il teatro, uscito dalla porta, rientro` nei suoi orizzonti dalla finestra. La Sonata in si bemolle op. 35 (1837-1839, 1840) venne composta nel momento in cui ricorrevano di frequente nella musica di Chopin sia stilemi tipici del melodramma (marcia, corale, recitativo), sia una scrittura pianistica di tipo sinfonico. Il primo movimento, strutturalmente addirittura schematico nella sua semplicita`, vive nel contrasto violentissimo fra un ‘‘violento motto’’ di quattro battute, un

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Sonata op. 58

primo tema ansante, ansimante, un secondo tema che e` come un duetto d’amore (tenore, poi soprano, infine tenore e soprano insieme) e un martellante tema di conclusione. Anche lo Scherzo ha la sua ragion d’essere in un analogo contrasto fra un elemento di barbarica violenza, lo Scherzo vero e proprio, e l’elemento dolcissimo, cullante del trio. Alla fine viene ripreso il tema del trio, e il pezzo, in mi bemolle, termina in Sol bemolle. Ma questa conclusione consolatoria e` subito smentita dalla tremenda Marcia funebre in si bemolle. Schumann, recensendo la Sonata, scrisse: ‘‘[la Marcia] ha addirittura qualcosa di repulsivo; al suo posto un Adagio, ad esempio in re bemolle avrebbe sortito un effetto incomparabilmente piu` bello’’. Ma la Marcia funebre, in realta`, non e` angosciante in se´ e per se´, quanto per il fatto che, al contrario di quanto avviene nello Scherzo, Chopin non riprende alla fine il tema del trio, in Re bemolle e di sognante e serena espressione, e soprattutto perche´ fa seguire alla Marcia un finale desolato, di cui Schumann disse ‘‘questa non e` musica’’. La concezione classica del dolore e della morte come momenti di passaggio a una gioia piu` grande, quella concezione che troviamo nella Sonata op. 26 e nella Sinfonia ‘‘Eroica’’ di Beethoven, entrambe con Marcia funebre, viene rovesciata nella Sonata op. 35 di Chopin. Il finale, di cui Chopin disse che in esso la due mani borbottano all’unisono, secondo Schumann non e` musica perche´, penso io, un seguito ininterrotto e rapidissimo di suoni, senza rilievo melodico e senza armonizzazioni, manca di alcuni requisiti essenziali. Non era musica? L’Ottocento disse che era ‘‘il vento fra le tombe’’, e non solo accetto`, ma predilesse l’op. 35, molto piu` popolare della sorella, l’op. 58. Anton Rubinstein, seguendo questa concezione naturalistica, modifico` la curva dinamica della Marcia funebre con un crescendo progressivo nella prima parte e un decrescendo progressivo nella terza parte (identica alla prima): il corteo funebre si avvicina, si arresta per il compianto (parte centrale in Re bemolle), si allontana. E per aumentare l’effetto Anton Rubinstein sposto` all’ottava bassa alcuni accordi, su note gravi che il pianoforte del tempo di Chopin non aveva, ottenendo in tal modo un lugubre effetto di campana mortuaria. Partendo da qui la Sonata puo` essere vista come un seguito realistico di eventi luttuosi. Ma puo` anche essere vista come medievale Trionfo della Morte in cui si mischiano immagini ed elementi simbolici. e che si conclude pero`, non medievalisticamente, con l’annientamento. In realta`, il pessimismo cosmico dell’op. 35 rispondeva pienamente al pessimismo della filosofia di Schopenauer e di Hartmann che godette di

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grande fama nella seconda meta` del secolo. E` probabile che la ratio emotiva della Sonata sia da ricercare nel traumatico fallimento di un progetto di matrimonio, vanificatosi per l’opposizione del padre della ragazza amata da Chopin, e` probabile che la Sonata rappresenti il momento della elaborazione del lutto. Ma la vicenda esistenziale diventa la metafora di una condizione umana universale. L’inizio del primo movimento – e` un input che do` al lettore, il quale e` padronissimo di non seguirmi – rappresenta il Fato, il primo tema, agitato, la corsa angosciosa dell’Uomo che si sente braccato, il secondo tema, sostenuto, il colloquio degli amanti ignari, il tema di conclusione l’esercito della Morte, lo sviluppo la lotta fra il Fato e l’Uomo, e cosı` via. Le perplessita` di Schumann non riguardavano secondo me in realta` un finale che non era musica, quanto l’affacciarsi di una visione decadentistica della vita che travalicava il suo tempo. Alfredo Casella, che nel 1896 preparava l’esame d’ammissione al conservatorio Parigi, richiese il parere sul programma da presentare all’autorevolissimo professore Louis Die´mer. Die´mer sconsiglio` nettamente la Sonata op. 58 di Chopin, da lui ritenuta ‘‘arida’’. E questa era un’opinione assai diffusa. La Sonata in si op. 58 (1844, 1845), pur essendo anch’essa in modo minore, contraddice totalmente la ratio dell’op. 35. Il primo movimento inizia in si minore e termina in si maggiore, lo Scherzo alterna mi bemolle maggiore e si maggiore, il terzo movimento alterna si maggiore e mi maggiore, e il finale inizia in si minore e termina in si maggiore. Tanto cupa e corrusca l’op. 35, tanto luminosa e serena l’op. 58. Mentre il primo movimento dell’op. 35 era persino schematico formalmente perche´ il discorso era serrato e incalzante, nel primo movimento dell’op. 58 il discorso e` disteso, si potrebbe dire persino divagante. Il collegamento fra i due temi principali occupa diciotto battute invece delle quattro dell’op. 35 e contiene due temi invece di uno. La sezione conclusiva della esposizione e` come un gioco di scatole cinesi, con temi che scaturiscono uno dall’altro, un po’ al modo di Schubert, e tutti incantevoli. Lo Scherzo e` un racconto di fate di mendelssohniana leggerezza, frusciante e silvestre, il Largo e` una vera e propria aria da melodramma, con una melodia a modo di lentissima marcia processionale e un’ampia sezione centrale sognante, paesistica. Il primo tema del finale ha la la didascalia agitato che troviamo anche nel primo tema dell’op. 35, primo movimento. Ma il tono non e` piu` quello della cavalcata della Morte, bensı` quello di una baldanzosa cavalcata da torneo, e la sezione ultima in si maggiore e` 179

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Gli Studi

trionfale, giubilante. Composta nel 1844, la Sonata op. 58 riflette il momento in cui Chopin, convivente di George Sand, godeva felicemente di un’unione che gli garantiva la sicurezza affettiva della famiglia senza le responsabilita` del capofamiglia (detto per inciso, il capofamiglia era la Sand, mentre Chopin svolgeva piuttosto il ruolo materno). Questo equilibrio si sarebbe rotto di lı` a poco, e l’ultima Sonata, l’op. 65 che non e` qui da analizzare perche´ appartiene al campo della musica da camera, avrebbe rappresentato il ritorno verso l’altro momento felice della vita di Chopin, quello dell’a-

dolescenza. Se la Sonata op. 35 dava l’idea del Trionfo della Marte, la Sonata op. 58 da` l’idea di quello che Schumann, riferendosi a Schubert, chiamava l’‘‘elemento trovadorico’’. Nelle Sonate n. 2 e n. 3 si manifestano, in diverse circostanze della vita che ne favoriscono l’affiorare, i temi profondi della educazione di Chopin, l’amore per i racconti e le leggende ancestrali polacche che si era destato prepotentemente in lui quando aveva divorato le Romanze e Ballate di Mickiewicz. La grande opera nazionale sognata dal suo maestro non l’aveva scritta. Ma l’epopea nazionale sı`.

Gli Studi Nelle due prime raccolte di Studi di Chopin, op. 10 e op. 25, si notano le tracce di due problemi di fondo che dovettero preoccupare l’autore e che furono risolti in modo diverso da quello progettato: la catalogazione della tecnica e l’ordinamento tonale. Il progetto di Chopin doveva essere quello, realizzato recentemente sia da Hummel che da Kessler, di ventiquatro pezzi nelle ventiquattro tonalita`, e l’andamento tonale geometrico appare come traccia in cinque coppie di Studi op. 10 (numeri 1-2, 3-4, 5-6, 10-9, 11-12) uniti dal rapporto maggiore-minore. C’e` anche uno Studio, il n. 8, in fa maggiore. Manca pero` uno Studio in re minore, e a questo proposito si puo` osservare che la tonalita` di re minore non doveva essere congeniale a Chopin: in re minore egli scrisse soltanto nell’adolescenza una Polacca, e un Preludio nella maturita`. Minori preoccupazione di schemi tonali si trovano nell’op. 25, nei quali il rapporto maggiore-minore esiste soltanto nei numeri 1-2 e 5-7 (lo Studio n. 7 fu spostato dalla sua collocazione piu` ovvia per ragioni di equilibrio complessivo della raccolta). Nel complesso dei ventiquattro pezzi mancano dunque nove tonalita`. L’intenzione dell’ordinamento tonale geometrico resta tuttavia, come simbolo, nel numero degli Studi, dodici per ogni raccolta e ventiquattro in tutto. Anche la catalogazione della tecnica pianistica fu tentata da Chopin, ma non in modo sistematico. Nei ventiquattro Studi troviamo gli arpeggi in posizione lata e inconsueta (op. 10 n. 1), la scala cromatica (op. 10 n. 2), le doppie note (op. 10 n. 7), la melodia e l’accompagnamento nella stessa mano (op. 10 n. 3), gli arpeggi con nota di passaggio (op. 10 n. 8), gli accordi spezzati (op. 10 n. 10) e gli accordi arpeggiati in varie forme (op. 10 n. 11, op. 25 n. 1, op. 25 n. 12), l’agilita` leggera della mano destra (op. 25 n. 2) e delle due mani insieme (op. 25 n. 3), l’agilita` drammatica della mano sinistra (op. 10 n. 12), della mano destra (op. 25 n. 11) e delle due mani insieme (op. 10 n. 4), i sal-

ti della mano sinistra (op. 25 n. 4), le terze (op. 25 n. 6), le seste (op. 25 n. 8), le ottave leggere di polso (op. 25 n. 9) e drammatiche di braccio (op. 25 n. 10). Ma se si dovesse badare veramente alla catalogazione si dovrebbe subito notare che mancano gli studi sulle cinque note, sui trilli, sulle note ribattute con o senza note tenute. Anche la catalogazione, come l’ordinamento tonale, fu probabilmente un’idea che Chopin tenne presente, ma che abbandono` nel corso del lavoro. Lo spirito della catalogazione si affaccia in realta` in epoche che concludono un grande ciclo storico, e Chopin si trovava infatti alla conclusione di un grande ciclo storico, quello del pianismo classico, ma nello stesso tempo le novita` introdotte negli anni venti nella costruzione del pianoforte lo mettevano nella condizione di aprire un’epoca nuova. In una lettera a Jo´zef Elsner del 14 dicembre 1831 Chopin diceva: ‘‘Sono talmente convinto che non saro` mai una copia di Kalkbrenner che nulla potrebbe distogliermi dall’idea e dal desiderio, forse troppo audace ma nobile, di creare un mondo nuovo’’. Mentre gli studi classici seguono la letteratura classica, gli Studi di Chopin precedono la letteratura romantica. La tecnica classica viene messa a confronto con le nuove possibilita` timbriche che portano i virtuosi a sperimentare con entusiasmo l’attacco trasversale invece che verticale del tasto e le oscillazioni della mano e dell’avambraccio che si aggiungono alla classica immobilita` della mano e al mantenimento sulla stessa linea della mano e dell’avambraccio. Cosı` viene ‘‘riformata’’ la tecnica classica. In questo senso gli Studi op. 10 nn. 1, 4, 5, 7, 8, 10 e 11, e op. 25 nn. 1, 3, 11 e 12 sono i piu` geniali. Negli Studi meno nuovi la genialita` di Chopin si manifesta nella novita` dell’armonia e in caso, op. 10 n. 2, nell’economia del materiale usato. Lo Studio op. 10 n. 2 ha un evidente antecedente nello Studio op. 70 n. 3 di Moscheles; Chopin, al contrario di Moscheles, non solo affida pero` il compito piu` difficile alle dita cosiddette de-

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Gli Studi

boli (anulare e mignolo), con la necessita` implicita di adottare l’attacco trasversale del tasto, ma basa tutta la composizione sulla sola scala cromatica trattata a moto perpetuo, mentre Moscheles alternava la scala cromatica con un ritmo di marcia, rendendo molto meno faticoso il compito dell’esecutore. La tecnica degli Studi e` novativa, e la tecnica novativa scopre le potenzialita` timbriche del pianoforte romantico con corde piu` grosse e piu` tese e con il rivestimento del martelletto in feltro anziche´ in pelle di daino. Ma che se ne fa, Chopin, di una timbrica resa possibile sul pianoforte romantico e per ottenere la quale egli scopre la tecnica appropriata? Che cosa ‘‘studia’’, negli Studi? Per secoli i pittori si erano esercitati a disegnare e a dipingere gli alberi, le nuvole, l’acqua. Si esercitavano e poi mettevano alberi e nuvole nello sfondo di grandi quadri e quando dipingevano il battesimo di Cristo nel Giordano riuscivano a rendere visibile l’acqua incolore in cui erano immersi i piedi del battezzando. Nel 1826 John Constable dipinge invece dei quadri in cui vengono raffigurate soltanto nuvole, nient’altro che nuvole, li espone in una galleria londinese e li vende: l’esercitazione di bottega diventa oggetto d’arte e, in quanto tale, diventa oggetto smerciabile. Con gli Studi op. 10 e op. 25 Chopin crea lo studio da concerto: i pianisti cominciano a eseguire i suoi Studi gia` negli anni trenta e poi sempre piu` frequentemente, fino a che Busoni instaura l’uso di presentare al completo l’una o l’altra serie, o entrambe. Che cosa favorı` la popolarita` degli Studi? La loro qualita` estetica? Certamente. La loro intensita` di sentimento ? Certamente. Qualcos’altro ancora? Secondo me, sı`. Fino ad ora mi sono mosso volteggiando un po’ nel vuoto ma con la sia pur tenue rete di protezione dei documenti e dei fatti storicamente provati. Da questo punto in poi mi manca la rete, e non so se il lettore vorra` seguirmi in quel salto mortale che per me rappresenta il traguardo piu` affascinante. Sputo subito il rospo: secondo me molti degli Studi suggeriscono o evocano fenomeni naturali come l’acqua, l’aria, il fuoco, le cose della terra. Prendo il titolo apocrifo con cui e` noto lo Studio op. 25 n. 1, Arpa eolia. Il titolo e` una conseguenza della recensione di Schumann, che parlo` di un’arpa eolia, la piccola arpa che in Germania veniva appesa fuori dalla finestra e le cui corde vibravano per azione del vento. Questo titolo non mi convince. Quei movimenti rapidi di accordi e di arpeggi spezzati, con suoni tenuti dal pedale di risonanza che creano una massa mobile ma densa mi suggeriscono l’acqua, non l’aria. E siccome c’e` anche una melodia penso, aulicamente, a una cascata

Fryderyk Chopin

animata dal canto delle naiadi. Vedo evocata l’acqua del mare nello Studio op. 10 n. 1, con grandi ondate che battendo contro la costa rocciosa balzano in alto e poi ricadono, e nello Studio op. 25 n. 12 trovo cavalloni giganteschi e un canto corale (gli ebrei al passaggio del Mar Rosso?). Vedo evocati i getti di una fontana negli Studi op. 10 n. 5 e n. 11, il fuoco ruggente nello Studio op. 10 n. 4, la superficie mortifera di uno stagno nello Studio op. 10 n. 6, il fuoco del caminetto nello Studio op. 25 n. 3, la brezza leggera della notte nello Studio op. 25 n. 2, il gelido Vento d’inverno del titolo apocrifo nello Studio op. 25 n. 11, non una, ma molte farfalle, secondo un altro titolo apocrifo, nello Studio op. 25 n. 9, e vedo nello Studio op. 25 n. 6 la slitta scivolante (battute 3-4 e simili), le sonagliere (battute 1-6 e simili) e gli zoccoli tambureggianti dei cavalli (battute 5-6 e simili) sulla neve indurita dal gelo. La linea cromatica dello Studio op. 10 n. 2 evoca a parer mio il fuoco. Una volta un ragazzo, eseguendo questo Studio, mi disse che gli sembrava di vedere un treno correre nella notte. Quando scrisse questo Studio Chopin non conosceva ancora il treno, ma credo che l’immagine sia suggestiva: la locomotiva a carbone lascia una striscia di fuoco, come nella descrizione che del treno nella notte fa Dickens nel romanzo Dombry e figlio, mentre lo scorrimento delle ruote crea un ritmo nei punti di disgiunzione delle rotaie. Francis Plante´ intitolava La Passeggiata in automobile lo Studio op. 10 n. 7. Ancora piu` anacronistico, si capisce, del treno nella notte. Pero`, se penso alle automobili di fine Ottocento – Plante´ era nato nel 1835 – non le vedo tanto diverse dai birrocci che correvamno nelle campagne e sui quali Chopin era certamente salito da bambino. E La Caduta di Varsavia, lo Studio op. 10 n. 12? Il collegamento dello Studio con la notizia della caduta di Varsavia in mano ai russi, che Chopin ebbe nel settembre del 1831 mentre si trovava a Stoccarda, non e` accertata. Il cosiddetto Diario di Stoccarda ci rivela pero` tutto il tormento di Chopin al pensiero dei pericoli che correvano sia i suoi familiari che Konstancja Gladkowska, e ci dice anche che Chopin sfogava la sua tensione emotiva suonando il pianoforte. Il collegamento fra lo Studio e le vicende intime di Chopin nel settembre del 1831 non e` dunque dimostrabile ma e` per lo meno possibile e non improbabile. Tutti conoscono i rapporti fra Chopin e Debussy e fra Chopin e Skrjabin, nonche´ i rapporti fra Liszt e Ravel e fra Liszt e Rachmaninov. Orbene, secondo me non si tratta soltanto di rapporti musicali ma anche di rapporti di poetiche. Cosa evi181

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Studi op. 10

dente se si pensa a Liszt e ai suoi Giochi d’acqua alla villa d’Este, che sono considerati il manifesto del simbolismo decadentistico. Ma perche´ escludere Chopin? Perche´ non vedere in certi aspetti del suo linguaggio pianistico – il ‘‘preimpressionismo’’ di cui sı` e` tante volte parlato – la radice di una poetica che sarebbe diventata dominante sessant’anni piu` tardi? Solo perche´ egli non adotto` titoli caratteristici o evocativi? Francamente, cio` mi sembrerebbe molto riduttivo. I titoli caratteristici che spesseggiano nella letteratura pianistica negli anni trenta e quaranta dell’Ottocento arrivano dopo gli Studi di Chopin. Ma io ritengo che proprio negli Studi di Chopin avvengano quelle scoperte di timbro che permettono al suono del pianoforte di diventare evocativo non solo della vocalita`, non solo di squilli marziali e di funebri tamburi, ma di rumori della natura. Le radici del simbolismo decadentistico, ritengo, le troviamo in pezzi che avrebbero dovuto servire ad aprire nuovi spazi alla tecnica dei pianisti, e che aprono invece un capitolo meraviglioso nella storia dell’arte. I dodici Studi in Do, la, Mi, do diesis, Sol bemolle, mi bemolle, Do, Fa, fa, La bemolle, Mi bemolle e do op. 10 (1829-1832, 1833) dedicati a Liszt, e i dodici Studi in La bemolle, fa, Fa, la, mi, sol diesis, do diesis, Re bemolle, Sol bemolle, si, la e do op. 25 (1832-1836, 1837) dedicati alla convivente di Liszt, Marie d’Agoult, si collocano come pietre miliari al confine di due epoche. Ben addentro nella nuova epoca sono i Tre Nuovi Studi in fa, La bemolle e Re bemolle (1839, 1840), che sfruttano la poliritmia fra le due mani (n. 1), gli accordi (n. 2) e la melodia con accompagnamento nella mano destra (n. 3). Nei ventisette Studi di Chopin si accende e si brucia quindi la ricerca sul

pianoforte in una delle epoche piu` straordinarie che lo strumento abbia conosciuto. Nello stesso tempo pero` si attua inoltre con Chopin la distinzione del concetto di esercizio e del concetto di studio. La bella copia degli Studi op. 10 n. 1 e n. 2 ha il titolo Exercises en forme, ma il primo schizzo dell’op. 10 n. 2 e` intitolato Studio. Nell’esercizio la formula tecnica viene ripetuta piu` e piu` volte, a scopo di allenamento, su diversi gradi della scala e in diverse tonalita`, secondo nessi meccanici, non organici. Nello studio il procedimento compositivo e` artistico. Ma gli Studi di Chopin posseggono una compiutezza estetica tale da staccarli dagli studi classici: sono, come ho gia` detto, studi da concerto, e per essi si potrebbe citare addirittura una frase del sofista Gorgia: ‘‘Non c’e` arte senza esercizio, ne´ esercizio senza arte’’. Non si puo` parlare di una vera e propria forma dello studio, prevalente in tutti i compositori, ma piuttosto di alcune varianti di forme ternarie, monotematiche (esposizione, sviluppo, riesposizione e coda) o bitematiche (primo tema, secondo tema, primo tema e coda). La forma monotematica e` di gran lunga la piu` frequente in Chopin, ed e` del resto la piu` frequente nel periodo classico. Il periodo classico l’aveva derivata dal preludio bachiano in arpeggi e del tipo moto-perpetuo: la formula tecnica viene esposta, sviluppata su gradi diversi della tonalita` principale secondo uno schema tonale variabile, e infine viene riproposta come all’inizio. La forma ternaria adottata da Chopin negli Studi op. 10 n. 3, op. 25 n. 5 e op. 25 n. 10 e` invece quella della canzone bitematica. Ma questa forma e` cosı` rara da far considerare come tipica in Chopin la forma ternaria monotematica.

I Valzer Chopin scrisse molti valzer, venti, ma ne pubblico` soltanto otto, meno della meta`. Non e` chiaro perche´ Chopin non licenziasse alle stampe alcuni valzer che, come quello in la bemolle maggiore detto L’Addio, divennero celeberrimi quando uscirono dopo la sua morte. La cessione agli editori delle sue composizioni – non esisteva ancora il copyright – rappresentava per lui l’unico introito garantito dal lavoro creativo, ed egli era molto tenace nel trattare gli affari sulla base di richieste che gli editori stessi giudicavano il piu` delle volte troppo alte, per non dire esose. L’inedito costituiva dunque per Chopin una perdita di denaro, e quindi, come dicevo, non si capisce perche´ egli tenesse in portafoglio certe musiche che, quanto a originalita` e finitezza, non avevano nulla da invidiare alle altre, e che venivano del resto fatte cir-

colare in copie manoscritte, regalate ad amiche e ammiratrici. Tra quelli usciti postumi spicca il gia` citato Valzer in La bemolle op. 69 n. 1 (1835, 1855), donato alla quasi-fidanzata nel momento di una temporanea separazione e che alterna una sezione molto cromatica e due sezioni diatoniche per un quadro triste e sereno ad un tempo. Al primo amore di Chopin, Konstancja Gladkowska, e` invece ispirato il Valzer in Re bemolle op. 70 n. 3 (1829, 1855), che nella prima parte presenta un esempio molto interessante di scrittura polifonica affidata alla mano destra, e che nella parte centrale, come Chopin spiego` in una lettera ad un amico, fa ‘‘cantare’’ la mano sinistra. Nel periodo varsoviano e` infine ancora da ricordare il Valzer in Mi bemolle (1829-1830, 1902), sulla cui autenticita` furono espressi dubbi ma che nell’esecuzio-

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Variazioni brillanti

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ne di Arturo Benedetti Michelangeli acquisto` la celebrita`. Il Valzer in Mi bemolle op. 18 (1831, 1834), primo pubblicato da Chopin, fu composto a Vienna e segue lo schema del valzer viennese con esposizione di molti temi e coda riassuntiva. Anche il secondo dei tre Valzer in La bemolle, la e Fa op. 34 (1831-1835, 1838), fu composto a Vienna: introspettivo fino all’ipocondria, e oscillante fra lo scoramento, la speranza, la delusione, riflette in modo impressionante lo stato d’animo di profondo sconforto che avveleno` il soggiorno di Chopin nella capitale austriaca. Gli altri due Valzer dell’op. 34 sono invece estroversi e gioiosi, e rispondono perfettamente all’immagine dello Chopin che passa le serate nelle dimore patrizie, ospite adorato che delizia gli ospiti con musiche improvvisate e con certi ‘‘numeri’’ macchiettistici nei quali esibisce il suo talento mimico. Sia per il loro carattere diversificato, sia per le loro proporzioni architettoniche i Valzer op. 34 formano un trittico coerente che appare esemplato sullo schema archetipico della sonata. Molto complesso

formalmente e` il Valzer in La bemolle op. 42 (1840, 1840), che riprende, in modo piu` sofisticato, lo schema dell’op. 18. Nei tre Valzer in Re bemolle, do diesis e La bemolle op. 64 (18461847, 1847) Chopin torna invece al semplice schema tripartito (A-B-A). Il primo dei tre e` detto Valzer del cagnolino perche´ Chopin lo avrebbe composto dopo essersi divertito ad osservare il cagnolino di George Sand che giocava, girando vorticosamente su se stesso. Il secondo, in do diesis minore con la sezione centrale in re bemolle maggiore, malinconico e languido, e` formalmente piu` articolato perche´ inserisce tre volte, fra i due temi principali molto espressivi, un intermezzo volante e civettuolo. Il terzo Valzer, in la bemolle maggiore con la sezione centrale in do maggiore, e` caratterizzato da una secondo tema a modo di dialogo a botta e risposta, di impronta molto teatrale, che ha dato origine a interpretazioni diverse ed opposte, da quella amorosa, la piu` frequente, a quella ironica e motteggiatrice di Sergej Rachmaninov.

Le Variazioni e le Fantasie La variazione cembalo-pianistica fu fiorentissima durante il rococo` e il periodo classico, epoche storiche durante le quali le musica da camera era pensata per un ‘‘consumatore’’ non professionista. Alla fine del periodo classico e durante il biedermeier la variazione si evolve in due direzioni: da una parte Beethoven ne fa un genere di sperimentazione linguistica e formale, dall’altra parte i virtuosi brillanti ne fanno una palestra di prodezze tecniche strepitose, che solo i professionisti arrivano ad affrontare e superare. L’antica variazione rococo` e protoclassica, la variazione che si suona per divertimento e senza doversi troppo rompere la testa e le dita, sopravvive pero` anche durante il romanticismo, sebbene tenda progressivamente a divenire preda di mestieranti e di furbacchioni che conservano l’antica ricetta e continuano a spacciarla per buona anche quando non corrisponde piu` ai nuovi tempi e alla nuova cultura. Nel catalogo di Chopin la variazione dilettevole compare raramente. Le Variazioni su un’aria nazionale tedesca in Mi (1826, 1851) sono tipiche di un rapporto con un committente-consumatore, la moglie del generale Sowin´ski. Il tema e` preceduto da un introduzione ‘‘a capriccio’’, diretta e brillante. La prima variazione, Elegantemente, e` semplicemente ornamentale, la seconda, Scherzando, e` in accordi su registri alternati, la terza, Tranquillamente, e` basata su ampi movimenti melodici del basso, la quarta, Meno mosso, e` la tradizionale va-

riazione patetica e sospirosa in modo minore, la quinta, Tempo di valzer, e` seguita da un finale che si conclude in modo spettacolare. Spettacolare ma non troppo, sempre nei limiti di un gusto salottiero e della valentia di una generalessa. Piu` sviluppate e piu` smaliziate sono le Variazioni brillanti sul rondo` favorito ‘‘Io vendo gli scapolari’’ del ‘‘Ludovic’’ di He´rold e Hale´vy in Si bemolle op. 12 (1833, 1833). Il Ludovic, rimasto incompiuto per la morte di He´ rold, era stato completato da Hale´vy e rappresentato a Parigi il 16 maggio 1833. Sfruttando il successo ottenuto dall’opera Chopin scelse a tamburo battente un tema divenuto subito popolare e che fu variato anche da grandi confezionatori di musica per dilettanti come Pixis, Hu¨nten e Herz. Il tema e` preceduto da un’ampia introduzione, le quattro variazioni sono ben caratterizzate e differenziate ritmicamente ed espressivamente. La variazione piu` ‘‘chopiniana’’ e` senza dubbio la terza, un Lento e con anima in Re bemolle con carattere di notturno. La quarta variazione si lega, come di consueto, a un finale in cui viene toccato il culmine – relativo – del virtuosismo. Al tempo di Chopin la variazione era un genere favorito che comprendeva tre partizioni: la variazione di non ardua difficolta` tecnica, destinata ai dilettanti, la variazione virtuosistica, riservata ai professionisti, e la variazione improvvisata che i professionisti dovevano essere in grado di realizza-

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re seduta stante su un tema indicato dal pubblico. Le variazioni viste or ora appartengono alla prima categoria. Alla terza categoria appartengono le variazioni che – mi si passi la precisazione lapalissiana – non potremo mai conoscere, quelle che Chopin improvviso` a Vienna l’11 agosto 1829, a Varsavia il 22 marzo 1830, a Breslavia l’8 novembre 1830 e in altre serate ancora. Alla seconda categoria appartengono le Variazioni su un tema del ‘‘Don Giovanni’’ di Mozart in Si bemolle op. 2 (1827, 1830), costruite secondo un modulo esemplato sulle Variazioni sulla marcia di Alessandro di Ignaz Moscheles (1815): introduzione, tema, cinque variazioni (la quinta in Re bemolle), finale Alla polacca. Le variazioni sono intese come tanti ‘‘numeri’’ spettacolari con i quali il pianista mette in mostra certe virtu` rare: prima variazione in cui la mano destra esegue contemporaeamente tema e ornamentazione, seconda variazione sull’agilita` prolungata di entrambe le mani che suonano in ottava, terza variazione sulla agilita` della mano sinistra, quarta variazione sui salti combinati con le doppie note, quinta variazione sulla cantabilita` espressiva, e finale alla polacca, molto ballettistico. Il ruolo dell’orchestra sottolinea quella esaltazione dello strumentista che e` implicita nello studio di bravura: l’orchestra accompagna con discrezione nel corso delle variazioni, e alla fine di ogni variazione esegue da sola un ritornello che serve a far riposare il solista e a segnare per il pubblico il momento della distensione psicologica prima del nuovo numero acrobatico. Quando Chopin eseguı` le Variazioni a Vienna – lo racconta lui, scrivendo alla famiglia – il pubblico applaudı` dopo ogni variazione, coprendo con il rumore degli applausi l’esecuzione dell’orchestra. Nell’op. 2 si colgono oggi piu` gli aspetti che denotano l’ossequio alle formule correnti che le novita`. Ma la novita` c’era, e risiedeva nella originalita` delle figurazioni pianistiche, tanto che, come e` noto a tutti, Schumann, recensendo il lavoro nel 1831, inizio` il suo lunghissimo articolo con le parole: ‘‘Giu` il cappello, signori: un genio’’. Chopin supero` ben presto il gusto che aveva dettato le variazioni come quelle dell’op. 12 e vi ritorno` solo, casualmente, per comporre una variazione sul tema ‘‘Suoni la tromba’’ dei Puritani di Bellini. Questa variazione, che non e` affatto di bravura e che trasforma il tema a modo di notturno, venne pubblicata nell’opera collettiva – di Liszt, Thalberg, Pixis, Herz, Czerny, Chopin – He´xameron (1837, 1839). Dopo questo occasionale contributo ad un genere a` la page Chopin abbandono` la variazione. Ma con la Berceuse in re bemolle maggiore op. 57 (1843-1844, 1845) egli ripenso` in mo184

Variazioni su un tema del ‘‘Don Giovanni’’ di Mozart op. 2

do nuovo la forma tradizionale. La Berceuse, la cui gestazione fu tormentatissima e di cui si conoscono schizzi pieni di cancellature e di pentimenti, e` un seguito di variazioni su un basso ostinato (cioe` un basso che si ripete quasi identico dal principio alla fine). In una lettera al suo editore Chopin parlava di Varianti, e con questo titolo il pezzo fu annunciato nella Gazette Musicale del 15 febbraio 1845. Il termine varianti sarebbe di certo il piu` indicato per definire la forma della Berceuse, che non consiste esattamente in un tema con variazioni quanto piuttosto nel divenire di un tema piu` volte trasformato secondo una curva psicologica di aumento della tensione fino a un punto culminante, seguito da una rapida distensione. Si puo` trovare un precedente della Berceuse nel Souvenir de Paganini in La (1829, 1881) che Chopin aveva composto a Varsavia dopo aver ascoltato da Paganini le Variazioni sul Carnevale di Venezia. In questo pezzo il basso si muove costantemente sulle armonie di tonica e di dominante, toccando due volte soltanto la sottodominante, e lo stesso avviene nella Berceuse. Per la Berceuse si puo` quindi parlare di ritorno nostalgico verso l’adolescenza. Ma tra la Berceuse e il Souvenir corre una differenza sostanziale, che da` il senso del distacco e della lontananza: la sonorita`. Nel Souvenir il suono e` semplicemente morbido e dolce, nella Berceuse e` necessaria una totale trasparenza, che permetta di annullare completamente le tensioni dell’armonia e l’asprezza di certe sovrapposizioni. La dinamica psicologica e` ottenuta non attraverso la dinamica del suono ma attraverso l’intensificazione della densita` ritmica, e lo psicologismo romantico – la partecipazione affettiva dell’ascoltatore – viene superato e reso indiretto, contemplato, sognante. La Berceuse supera dunque la poetica romantica, aprendosi verso quelle concezioni che sarebbero state esplorate, cinquant’anni piu` tardi, dai simbolisti. Al tempo della giovinezza di Chopin era invalso l’uso di denominare fantasia il brano introduttivo delle variazioni, ed era diventata usuale la fantasia, con o senza variazioni, su temi di melodrammi o su temi popolari. Chopin si allineo` alla moda con la Grande Fantasia su arie nazionali polacche in La op. 13 (1828, 1834). Tre temi principali, complementari fra di loro: il canto popolare ‘‘Quando la luna si levava i cani dormivano’’, un’aria di Karol Kurpinski, e un kujawiak (danza del distretto di Kujavia). Nella Fantasia, come nel Krakowiak scritto un mese piu` tardi, e` molto interessante la scrittura orchestrale, che non si limita, come altre volte in Chopin, all’accompagnamento, ma che viene talvolta integrata con la scrittura del piano-

Fantasia op. 49

forte. Del tutto diversa e` la Fantasia in fa-La bemolle op. 49 (1841, 1841), ripensamento personale e radicale della forma del primo movimento di sonata ed architettura fra le piu` complesse e geniali che siano uscite dalla penna di Chopin. Tanto geniale e personale da sconcertare un critico acutissimo come Schumann, che cosı` la recensı` : ‘‘... l’opera nel suo complesso non si e` voluta sottomettere a una forma bella’’. Molti commentatori dicono che la Fantasia potrebbe essere la quinta Ballata di Chopin. L’osservazione e` esatta quanto al contenuto, perche´ il mondo epico-drammatico delle Ballate e` presente nella Fantasia (ma anche nello Scherzo op. 39, nella Polacca op. 44 e in alcune Mazurche) e perche´ alla base sia delle Ballate che della Fantasia si trova lo schema del primo movimento di sonata. Ci sono pero` ragioni formali chiarissime che separano la Fantasia dalle Ballate: il metro (binario invece che ternario), il carattere di improvvisazione nella transizione dalla parte introduttiva, quasi marcia funebre, al corpo maggiore della composizione, alcuni passaggi virtuosistici,

Fryderyk Chopin

e l’inserzione di un intermezzo in metro e a velocita` molto diversa da tutto il resto. La forma raggiunge qui il massimo grado di complessita`, e la presenza dell’intermezzo ci dice che la sintesi di Chopin riguarda, oltre che la forma del primo movimento di sonata, anche la forma cosiddetta con alternativo (ad esempio, minuetto I, minuetto II, minuetto I). La Fantasia op. 49 riprende secondo me il carattere della Grande fantasia drammatica alla Liszt e alla Thalberg conferendole la piu` completa unita` e la massima concentrazione formale (e, ovviamente, con temi originali invece che tratti da melodrammi). Il carattere teatrale, seppur in senso traslato della Fantasia appare evidente quando si consideri lo sfruttamento di momenti tipici del melodramma, come la marcia, il corale, il recitativo, nonche´ l’adozione di una scrittura pianistica ricchissima, di tipo orchestrale, e l’accentuato virtuosismo, quasi bravuristico, di certi passi. E la Fantasia rappresenta dunque un momento unico nella produzione di Chopin, e unico anche in tutta la letteratura pianistica romantica.

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Muzio Clementi

Fantasia op. 49

Muzio Clementi (Roma, 23 gennaio 1752-Evesham, 10 marzo 1832) Mentre Mozart componeva in Austria sonate per pianoforte, Clementi componeva in Inghilterra sonate per pianoforte, mentre Mozart componeva concerti Clementi non componeva concerti. Paradossalmente, poiche´ non si tratta di qualita` ma di fama, proprio questa constatazione sta alla base del fatto che le Sonate di Clementi non siano mai entrate nel repertorio concertistico. Le opere didattiche di Clementi furono subito adottate un po’ ovunque, le musiche pianistiche sia di Mozart che di Clementi furono ripubblicate piu` volte durante l’Ottocento, ma sempre con finalita` didattiche: servivano ai docenti per avviare gli allievi alla comprensione del ‘‘classico’’, e segnatamente di Beethoven. Per tutto l’Ottocento il repertorio concertistico del pianoforte si baso` largamente sul romantico e su Beethoven e sul barocco, originale o trascritto. Quando finalmente il pubblico s’accorse che, oltre al Concerto in re minore, Mozart aveva composto parecchi altri Concerti che non erano proprio da buttar via, la fama del Salisburghese comincio` a crescere ben al di la` del Don Giovanni, del Requiem, delle ultime due Sinfonie e del Concerto in re minore che l’Ottocento aveva adottato. La scoperta dei Concerti fu seguita a tempo debito dalla scoperta delle Sonate: i Concerti di Mozart fecero da traino, da apripista alle sue Sonate. Clementi, come del resto Haydn, che aveva composto concerti giudicati troppo facili per i leoni della tastiera, rimase escluso da questa svolta radicale del repertorio concertistico: non aveva scritto alcun Concerto. E le Sonate? Camille Saint-Sae¨ns aveva sentenziato che le Sonate di Clementi erano aride: doveva essere un esperto in

materia, visto che spesso si esibiva anche lui in saggi di alta aridita` . Ma la sua era comunque un’opinione largamente diffusa. Ci furono sı` nel Novecento alcuni cirenei – Horowitz, Gilels, Benedetti Michelangeli – capaci di dimostrare in modo lampante come e qualmente le Sonate clementine, che Horowitz giudicava superiori a quelle di Mozart, aride non fossero affatto. Ma non basto`. In realta` i tre imperatori non ebbero vassalli e valvassori per una semplicissima ragione: erano troppo grandi per costituire un esempio allettante. Le Sonate di Clementi richiedono infatti imperiosamente, e i tre lo sapevano, di essere purgate, oltre che dalla apparente aridita`, anche dalla collocazione che ne avevano dato storici autorevoli: prebeethoveniane. Se non si considera Clementi come un portatore d’acqua per il sitibondo Beethoven saltano fuori tre conseguenze capitali: lo spirito creativo di Clementi e` quello dell’opera italiana seria e buffa, non quello della classicita` viennese, le velocita` da adottare devono essere molto alte nei movimenti veloci perche´ Clementi costruisce con scie e strisce fiammeggianti di suono, non con linee, e nei movimenti lenti e moderati si deve fraseggiare con estrema larghezza e con grande agogica perche´ cosı` esige il loro pathos teatrale. Ed ancora: molte Sonate sopportano bene le ornamentazioni aggiunte dall’esecutore (lo faceva Clementi, e lo scriveva: certe Sonate ripubblicate nelle sue Opere Complete presentano varianti nelle ornamentazioni). Gli esecutori di fortepiano, in verita`, ci sono gia` arrivati, i pianisti no. Clementi e` un autore famoso. E sconosciuto.

Le Sonate Il corpus delle Sonate di Clementi e` il piu` alto che esista per un autore del periodo classico: sono, comprese quelle a quattro mani, per due pianoforti e per pianoforte con accompagnamento di violino o flauto, sono centoventisette. Clementi comincio` a pubblicarne a Londra nel 1771, ma le sei Sonate op. 1, e le sei Sonate senza numero d’opera che suscirono a Parigi verso il 1780, essendo prossime allo stile galante degli italiani attivi come Clementi nella capitale britannica (Paradisi, Vento, Rauzzini, Tommaso Giordani), nonche´ allo stile di Johann Christian Bach, non hanno mai attirato,

seppure non del tutto giustamente, l’attenzione degli storici. Ben altro discorso va invece fatto per le tre Sonate in Do, La e Si bemolle op. 2, apparse nel 1779. L’op. 2 n. 1 – nota anche come op. 2 n. 2 in una successiva edizione piu` diffusa (i numeri d’opera di Clementi sono spesso un rebus quasi inestricabile) – e` un manifesto di pianismo nuovo: il secondo movimento (sono due in tutto) e` ancora stilisticamente incerto, ma nel primo movimento compare una scrittura orchestrale di grande potenza sonora, e compaiono le ottave rapide che non erano allora frequenti. Un tempo si rite-

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Sonate op. 25

neva che questa Sonata risalisse al 1772 circa, e la sua scrittura pareva non solo rivoluzionaria ma in forte anticipo sui tempi. La datazione esatta ne riduce un po’ la portata storica, che e` comunque grande. La seconda Sonata riunisce il cantabile vocalistico e i lunghi passaggi in terze e in doppie note per i quali Clementi fu poi famoso (e criticato). Le terze si ritrovano nella terza Sonata, ma in misura in verita` meno dimostrativa, meno baldanzosa. Un’osservazione si impone subito. Il virtuosismo giovanile di Clementi venne definito fine e a se stesso, e quindi semplicemente vanitoso. La realta` e` un po’ piu` complessa. Clementi era a Londra un libero professionista e in quanto tale portava nel suo campo specifico di attivita` cio` che muoveva l’interesse della societa` in cui viveva e dalla quale dipendeva economicamente. Ora, gli inglesi stavano alla fine del Settecento scoprendo – si potrebbe dire inventando – lo sport, in cui la fatica e l’abilita` sono, appunto, fine a se stesse. Cosı`, i passi in doppie note di Clementi non sono altro che attrezzi di una palestra in cui si pratica uno sport, quello di suonare il pianoforte. Ma l’attivita` sportiva puo` portare chi la pratica a fare scoperte che con lo sport non hanno a che vedere. Chi pratico` sportivamente l’alpinismo trovo` con sorpresa, ad alta quota, i gusci di conchiglie marine che stavano lı` da secoli. E cosı` si avvio` su nuove basi lo studio della geologia. Vedremo ben presto quale utilita` artistica rivestissero per le Clementi le doppie note fine a se stesse. Le tre Sonate in Mi bemolle, Do e sol op. 7, pubblicate a Vienna durante il primo viaggio di Clementi sul continente, presentano nella terza Sonata un autentico capolavoro, un capolavoro nel quale le ottave, rapidissime, non sono piu` dimostrative ma drammatiche, e il discorso e` pieno di un pathos intensissimo. A Vienna, come tutti sanno, si colloca la ‘‘gara’’ che vide contrapposti Clementi e Mozart, e tutti ricordano che Mozart salvo` di Clementi ben poco (‘‘Un bravo pianista, ma questo e` proprio tutto. Grande agilita` della mano destra. I suoi migliori passaggi sono le terze. Per il resto, non un soldo di gusto e di sentimento. Un semplice Mechanicus’’). Gli aficionados di Clementi (ne ebbe qualcuno, ai primi del Novecento), rieccheggiando le parole dell’allievo di Clementi Ludwig Berger e volendo assolvere l’inattaccabile Mozart, dicevano: era vero, era proprio cosı`, allora; ma Clementi avrebbe ben presto smentito, ecc. ecc. E invece non era vero. Clementi suono` su un pianoforte viennese, ben diverso dai pianoforti inglesi a cui era avvezzo, e dovette dare la dimostrazione del suo sorprendente virtuosismo perche´ cosı` voleva l’erede al trono degli zar che lo aveva

Muzio Clementi

eletto a suo campione (Mozart aveva dalla sua l’imperatore Giuseppe II). Clementi, questa la mia opinione, si propose di vincere sfruttando quello che aveva in tasca di piu` sensazionale. Non vinse, pareggio`. Ma la Sonata op. 7 n. 3 dimostra che gia` aveva altre frecce al suo arco. Delle tre Sonate in sol, Mi bemolle e Si bemolle op. 8 e` soprattutto da considerare la prima, altro autentico capolavoro. Ma un certo affetto lo desta la seconda, dedicata a Victoire Imbert, la ragazza lionese con la quale Clementi tento` di fare la fuitina. Anzi, la fece, ma il gagliardo genitore inseguı` i due colombi, li raggiunse e si riporto` a Lione la figliola. Nulla di nuovo ci dicono le tre Sonate op. 9, ne´ le tre op. 10. L’op. 11 e` formata da una aggraziata Sonata in Mi bemolle e dalla Toccata in Si bemolle che Clementi eseguı` molto probabilmente durante la gara con Mozart e che con le sue terze e le sue doppie note da` oggi ancora qualche grattacapo ai pianisti. Nelle quattro Sonate in Si bemolle, Mi bemolle, Fa e Mi bemolle op. 12 ci colpisce la prima, prediletta da Benedetti Michelangeli: vi scopriamo un primo e grande esempio dell’umorismo clementino, sia nel vivacissimo primo movimento, sia nel finale con variazioni concluso dalle solite terze che mettono ancor oggi in imbarazzo. Ed ecco che arrivano le tre Sonate in Si bemolle, Fa e fa op. 13: la terza di queste e` l’esatto contrario dell’op. 12 n. 1: una Sonata patetica costruita su brevi incisi di forte espressivita`. L’esecuzione di Horowitz ne rivela tutti i pregi; purtroppo non e` molto conosciuta. La prima Sonata, piu` nota come op. 47 n. 2, e` quella che Clementi asserı` di aver eseguito durante la gara con Mozart, aggiungendo a chiare lettere in una nota della prima pagina che Mozart era presente, perche´ il primo inciso del tema iniziale ricorre tale e quale nella ouverture del Flauto magico. E` una bella Sonata, spiritosa, briosa, con un finale che eseguito da Horowitz era una meraviglia di suono cosiddetto perlato. Viene poi, e siamo appena al 1786, la Sonata in Re op. 16, intitolata La Caccia e che imita effettivamente molto bene le musiche di caccia, e non senza una ambientazione paesistica. Mi sento autorizzato a superare senza fermarmi la Sonata op. 20, le tre Sonate op. 21 e le tre op. 22. Ma le tre Sonate in Mi bemolle, Fa e Mi bemolle op. 23 mi impongono l’alt. Tutte e tre gaie, vivaci, la seconda molto esuberante. Riprendo i pellegrinaggio, ma passo e chiudo di fronte alle due Sonate op. 24, mentre le sei Sonate in Do, Sol, Si bemolle, La, fa diesis e Re op. 25 mi sbarrano di nuovo la strada. Quattro Sonate, la prima, la seconda, la terza e la sesta mi riportano all’opera 187

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buffa italiana, con un vero e proprio culmine di scoppiettante comicita` nella sesta. La quarta, anch’essa prediletta da Horowitz, con il suo primo movimento dolcemente cantabile e il secondo movimento spiritoso e giocherellone mi fa pensare all’opera semiseria, tenera di sentimenti. Pero` la quinta, l’unica oggi abbastanza nota, mi costringe a sedermi per terra per contemplarla tutta intera. Sonata drammatica ma non genericamente drammatica: un primo movimento tutto percorso da brividi di un dolore lancinante, e con un inizio di riesposizione contrappuntistico di altissima tensione, una scena da grande contralto nel secondo movimento, un ansimante terzo movimento in cui le terze borbottano minacciosamente, un lavoro cosı` originale da essere senza confronti. Lasciando a dormire parecchie raccolte che dicono poco arriviamo alle tre Sonate in La, Fa e Do op. 33. La seconda, rispetto alle altre due, fa soltanto numero. La prima e` tenera e placida (qui si dovrebbe parlare dell’evidente ambito espressivo che Clementi assegna ad ogni tonalita`, ma sarebbe un discorso troppo specialistico). La terza Sonata, monumentale, sembra un concerto, ed e` in effetti nota come concerto. Ma il Concerto in do maggiore, secondo il mio modesto parere, e` una trascrizione dalla Sonata, non viceversa, una trascrizione che non e` di Clementi ma di Johann Schenk, compositore viennese amico di Beethoven e, forse, suo maestro di contrappunto. Bach aveva scritto il Concerto italiano, Beethoven avrebbe scritto la Sonata op. 47 ‘‘quasi nello stile d’un concerto’’, Chopin avrebbe scritto l’Allegro da concerto, Alkan avrebbe scritto il Concerto per pianoforte solo. Perche´ Clementi non potrebbe aver avuto la stessa idea? La mia opinione e` che egli compose una Sonata nello stile di un concerto. E il solito Horowitz ce ne ha dato un’esecuzione di folgorante splendore, e condotta con quella liberta` agogica che, ho detto prima, e` indispensabile per cogliere in pieno lo stile di Clementi. Emil Gilels, viceversa, ha dimostrato quel che puo` diventare la Sonata in Do op. 34 n. 1, da lui eseguita a velocita` supersonica e con un dominio del suono che tiene lontani altri esecutori. Ancora Horowitz ha fatto da levatrice alla Sonata in sol op. 34 n. 2, monumentale come l’op. 33 n. 3 ma in un altro modo, e cioe` sinfonica, grandiosa, magniloquente. Siamo al 1797. Le due prime Sinfonie di Clementi sono lontane di circa dieci anni, e sono incomparabilmente piu` leggere della Sonata, autentico movimento sinfonico di potenza sonora ed emotiva impressionante. Nelle tre Sonate in Do, Sol e Re op. 37 troviamo un’altra Caccia, cioe` la terza Sonata che illustra molto bene il suo titolo, e 188

Sonate op. 33

troviamo nella seconda un capolavoro di umorismo: un primo movimento giocato come una commedia e costruito con una grande economia di materiali, un secondo movimento che parafrasa lo stile di Ha¨ndel, un terzo movimento travolgente di una gaiezza sfrenata. Purtroppo nessun pianista l’ha ancora rivelata al pubblico. Le tre Sonate in Sol, Si e re-Re op. 40 sono stupefacenti per la grandiosita` delle architetture e per la qualita` dei materiali. La prima e` appesantita da un movimento in canone molto ingegnoso ma non cosı` spiritoso come il secondo movimento dell’op. 37 n. 2. La seconda, in due movimenti tematicamente collegati, ha un primo movimento di potenza terrificante e un secondo movimento inquieto e sfuggente. Fedele d’Amico raccontava di averla fatta vedere a Gieseking, che l’aveva eseguita seduta stante, salvo a dichiarare poi cocciutamente che non poteva essere tutta farina del sacco di Clementi: qualcun altro doveva averci la mano molto piu` tardi (Gieseking doveva avere in mente la brutta faccenda di un nipote di Rust che, pubblicando le Sonate del nonno, le aveva rimaneggiate in modo da farle apparire precorritrici di Brahms e di Bruckner). La terza Sonata e` sorprendente: un Adagio introduttivo che fa pensare ad un successivo fosco quadro. Invece l’Allegro cambia le carte in tavola come nel Quartetto delle Dissonanze di Mozart, come nella seconda e nella quarta Sinfonia di Beethoven. E il resto non disdice il primo movimento. Si e` cominciato per scherzo con un carro funebre e gli si e` tolta la bardatura, scoprendo una carrozza di cristallo. L’umorismo di Clementi e` anche di questo tipo. Con l’op. 40 siamo arrivati al 1804. Quando l’op. 40 fu pubblicata Clementi era gia` partito per un lunghissimo giro in Europa. Non si presentava piu` come pianista (e come propagandista dei pianoforti di John Broadwood). Ormai era un compositore con un catalogo chilometrico e un didatta di reputazione internazionale, ed era editore e costruttore di pianoforti, insomma, era un uomo d’affari molto indaffarato che riuscı` persino a domare quell’orso irsuto di Beethoven, dal quale acquisto` un bel po’ di musica. Clementi aveva cominciato a insegnare a Londra, aveva avuto per allievi tre campioni come Cramer, Hummel, Field e un bel po’ di aristocratiche damigelle, aveva rifiutato di diventare pianista di corte perche´, da buon libero professionista, badava al soldo. E le immodificabili tariffe della corte erano inferiori a quelle che lui guadagnava facilmente con le sue ricercatissime lezioni private. Durante il suo giro europeo diversi giovani virtuosi che avrebbero fatto una grande carriera nell’epoca biedermeier lo avvicinarono,

Introduzione all’arte di suonare il pianoforte

Muzio Clementi

magari per una sola lezione (tra i molti, Kalkbrenner, Moscheles, Czerny, Henri Bertini, Ludwig Berger, e persino Meyerbeer, che non aveva ancora ricevuto l’eredita` del nonno materno e pensava di fare il pianista). L’insegnamento di Clementi, che fu determinante per lo sviluppo virtuosistico della esecuzione pianistica, gli avrebbe alla fine procurato, sulla sua tomba nella cattedrale di Westminster, l’epiteto glorioso di ‘‘padre del pianoforte’’. Dopo il 1804 bisogna dunque saltare di sedici anni in avanti per trovare un’altra Sonata di Clementi. Nel frattempo il Nostro, autentico stakanovista, non era pero` rimasto del tutto inoperoso. Si era dato alla sinfonia con ben quattro lavori, aveva pubblicato il primo volume del Gradus ad Parnassum. Nel 1820 fu editore, oltre che autore, della Sonata in Si bemolle op. 46, dedicata ‘‘al suo amico Kalkbrenner’’. Ambiziosa, la Sonata, e buon pane per i denti di Kalkbrenner. Ma il tempo trascorso aveva un po’ oscurato la creativita` di Clementi: nella nuova sonata non ritroviamo il superbo Clementi dell’op. 40. Lo ritroviamo invece nelle tre Sonate in La, re e sol op. 50 (1820), dedicate a Luigi Cherubini. Nelle prime due Sonate sono soprattutto notevoli i secondi movimenti, Adagio sostenuto e patetico e Adagio con espressione. La

terza Sonata, intitolata Didone abbandonata, conclude degnamente il corpus sonatistico di Clementi. I tre movimenti sono Largo patetico e sostenuto-Allegro con espressione, Adagio dolente, Allegro agitato e con disperazione. Didascalie molto eloquenti, come si vede, rafforzate da un numero insolitamente alto di altre didascalie sparse qua e la`. La musica rende benissimo l’impegno del titolo, a patto pero` che sia eseguita con slancio, fuoco, liberta` agogica, fraseggio scolpito, e non, come e` avvenuto e avviene, con una pesantezza e una gravita` che con la Didone abbandonata non hanno nulla da spartire. Clementi aveva ancora davanti a se´ dodici anni di vita. Completo` il Gradus ad Parnassum, si reco` piu` volte nel continente, poi liquido` tutti gli affari, ando` a vivere in campagna e, come capita sempre a coloro che si mettono in pantofole dopo essere stati attivi tutti i giorni e a tutte le ore del giorno, scivolo` pian piano nell’ipocondria. Ma prima che si ritirasse i musicisti di Londra avevano organizzato un banchetto in suo onore. Alla fine Moscheles prese l’iniziativa di condurre Clementi verso il pianoforte. Clementi improvviso` a lungo su un tema di Ha¨ndel. E la sua antica maestria non era stata scalfitta dal dente edace del tempo.

Le opere didattiche Come ho gia` detto, Clementi fu un grandissimo didatta, il ‘‘padre del pianoforte’’, e le sue opere didattiche, nel rapporto qualita` musicale-efficacia didattica, sono seconde soltanto a quelle di Bach. Undici volumi costituiscono in questo campo il lascito di Clementi: – le Sonate di Domenico Scarlatti; – il Metodo; – i quattro volumi dell’Armonia Pratica; – i Preludi ed esercizi; – le Sonatine op. 36; – i tre volumi del Gradus ad Parnassum. Le venti Sonate di Scarlatti (due di esse non sono autentiche), che uscirono nel 1791 con il titolo Capolavori di Scarlatti, mettevano a disposizione dei dilettanti musiche che non erano mai scomparse del tutto, in Inghilterra, ma che dopo trent’anni di quasi oblio erano state rispolverate nel 1785 da Ambroise Pitman ‘‘con miglioramenti’’. Con questa pubblicazione Clementi si inserı` da pioniere in quel movimento culturale che non aveva ancora riscoperto Bach, e non se ne allontano` mai, come vedremo ben presto. Clementi interviene sul testo di Scarlatti. Lo trasporta quando le tonalita` originali sono troppo cariche di segni di alterazione che richiedono una capacita` di lettura gia` smalizia-

ta, aggiunge pochi segni di espressione, aggiunge poche legature, cambia pochissime note, comportandosi in modo ben diverso da quello di Pitman. E` pur sempre Scarlatti, ma e` uno Scarlatti ritoccato come poteva piacere alla fine del secolo. La Introduzione all’arte di suonare il pianoforte, piu` nota come Metodo, fu pubblicata nel 1801. Contiene spiegazioni teoriche sulla musica, due pagine di esercizi, e cinquanta Lezioni con musiche di vari autori, da Bach a Beethoven. Clementi era una persona colta ed era molto interessato – questo era l’effetto della cultura storicistica inglese, che nel 1776 aveva acquisito l’opus magnum di Sir John Hawkins, la Storia Generale della Scienza e della Pratica (musicale, s’intende) – Clementi, dicevo, era molto interessato agli autori ‘‘antichi’’ o, meglio, ‘‘arcaici’’. La sue Lezioni vogliono costituire – ci riescono – un panorama sintetico della evoluzione della musica dal barocco al classico. La finalita` non e` di suonar bene il pianoforte, ma di saper bene che cosa era e che cos’e` la grande musica. Quindi il Metodo si rivolge, piu` che ai futuri professionisti, ai dilettanti assetati di cultura. Uscita come detto nel 1801, la pubblicazione ottenne un successo inimmaginabile e resto` nell’uso fino a che il romanticismo non allargo` a dismisura la 189

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Muzio Clementi

cultura della storia. Ma Clementi aveva introdotto ad ogni ristampa – ce ne furono almeno venticinque – delle novita`, seguendo passo per passo il cammino della musica. Cosı`, nell’ultima edizione curata dall’Autore troviamo persino pezzi di Rossini e di Weber. A una piu` allargata conoscenza della storia aveva pero` contribuito anche Clementi, anzi, di questa svolta della cultura era stato lui una delle molle che avevano messo in moto la macchina. I quattro volumi della Armonia pratica, usciti dal 1810 al 1815, contengono ‘‘Voluntary [composizioni che in origine aprivano e chiudevano il culto anglicano, ed erano percio` per organo], Fughe, Canoni ed altri pezzi ingegnosi’’, e allargano il campo perche´ partono da Frescobaldi e arrivano fino ad Albrechtsberger. In realta`, pero`, le tre fughe attribuite a Frescobaldi non sono di Frescobaldi. Di chi sono? C’e` il sospetto che Clementi, conoscendo il nome di Frescobaldi perche´ era stato educato a Roma, e di Frescobaldi non possedendo nulla, abbia composto lui le fughe, cosicche´ la raccolta comincia effettivamente da Alessandro Scarlatti. Clementi ‘‘ammodernava’’ con segni di espressione aggiunti il barocco, ed era opportuno che facesse cosı` perche´ non si rivolgeva agli eruditi. Si rivolgeva al pubblico, e per il pubblico era molto soddisfacente vedere che, se lo stile era diverso da quello contemporaneo, le intenzioni musicali erano le stesse. La Quinta edizione del Metodo, del 1811, ha come appendice i Preludi ed Esercizi. Gli esercizi sono in tutti i sensi studi: studi sulle scale, illustrate nei vari modi che sarebbero diventati canonici (in ottava, in terze, in seste, per moto contrario). Nei Preludi ed Esercizi troviamo brani, anche a canone, di alto valore musicale, e brani, detto schiettamente, cosı` aridi che avrebbero dato ragione a Saint-Sae¨ns. La loro diffusione fu pero` enorme, e Liszt ne ripubblico` addirittura nel 1827 una nuova edizione, ulteriormente arricchita. Il vecchio maestro settantacinquenne veniva attualizzato del giovane virtuoso sedicenne. Un bel paradosso! Tutti i didatti dell’Ottocento tenevano i Preludi ed Esercizi in grande considerazione. Fra i tanti mi limitero` a citare Chopin, il quale propinava a tutti quanti i pezzi del secondo fascicolo (da La bemolle in poi). C’era un Esercizio che terrorizzava gli allievi, proprio il primo, definito ‘‘disgraziato’’ dall’allieva polacca Zofia Zaleska che, nata nel 1824, si era stabilita a Parigi nel 1841 e che con Chopin, sempre premuroso con i connazionali, aveva legato magnificamente. ‘‘Bisognava studiarlo in tutte le maniere’’, dice ancora la Zaleska, ‘‘veloce e lento, e forte e piano, e staccato e legato, fino a che il tocco non diventava uguale, delicato, leggero sen190

Armonia pratica

za debolezza’’. A Chopin, credo, non interessavano molto le tonalita` con pochi diesis e pochi bemolli, cioe`, pianisticamente, con pochi tasti neri. Egli faceva infatti eseguire gli esercizi sulla cinque note nella posizione con due dita, pollice e mignolo, sui tasti bianchi, e le altre dita sui tasti neri, e riteneva che la scala di do maggiore, tutta sui tasti bianchi, fosse la piu` difficile. L’esercizio in La bemolle inizia con un accordo arpeggiato. E gia` lı` cascava l’asino. Racconta l’Eigeldinger, attribuendo l’aneddoto alla Zaleska, che ‘‘bisognava eseguire [l’accordo arpeggiato] rapidamente, crescendo, ma senza asprezza. Questo e` l’arpeggio che costo` ad un allievo questa apostrofe un po’ troppo brusca del maestro, che facendo sulla sua sedia un sobbalzo grido`: Che cosa e` questo? Un cane che abbaia?’’ Chopin sfruttava evidentemente i Preludi ed Esercizi finalizzandone l’esecuzione non alla meccanica ma al tocco e quindi alla sonorita`. E in questo risiederebbe ancora oggi l’utilita` dei Preludi ed Esercizi, che pero` sono ormai praticamente usciti dal repertorio didattico. E veniamo alle sei Sonatine in Do, Sol, Do, Fa, Sol e Re che tutti i principianti mettono sul leggio e nelle dita e nella mente. Uscirono nel 1797, furono piu` volte ristampate con aggiunte (il pianoforte stava ampliando la sua estensione nell’acuto, e Clementi adattava il suo vecchio testo secondo le novita` del giorno). Sono perfette, le Sonatine. Perfette come musica, perfette perche´ non bamboleggiano, perfette perche´ divertono in modi sempre diversi, perfette perche´ seguono un ordine progressivo di difficolta` , perfette perche´ – se l’insegnante le sfrutta anche in questo senso – fanno conoscere attraverso la pratica le forme della musica. Trascrivendo da Sonate con accompagnamento Clementi pubblico` ancora altre due raccolte di Sonatine, che nella confusione del suo catalogo si sono appropriate dei numeri d’opera 37 e 38. Ma quella volta alla ciambella manco`, didatticamente, il buco. Il Gradus ad Parnassum in tre volumi, pubblicati nel 1817, nel 1819 e nel 1826, e` una summa dell’arte pianistica classica. Il titolo fu esemplato dal trattato di contrappunto di Fux, pubblicato nel 1725. I tre volumi conprendono cento Studi, senza un ordine di tonalita` e senza progressivita` nella difficolta`. Sono centoni nei quali Clementi fa sfilare composizioni che allenano alla velocita` le mani, sia la destra che la sinistra, sia in posizioni strette che in posizioni larghe, sia di forza che di leggerezza, e poi le note tenute, le terze, le seste, le ottave, gli accordi, il legato e lo staccato, le estensioni, la sostituzione del dito sullo stesso tasto, l’incrocio delle dita, i salti, le acciac-

Gradus ad Parnassum

cature, i trilli, i mordenti, il trillo con accompagnamento di altre voci nella stessa mano, le formule ritmiche inconsuete. L’allenamento si estende alle forme: di primo tempo di sonata (in genere senza sviluppo come si usava in Italia – un critico tedesco disse che gli italiani facevano cosı` perche´ erano pigri), le forme ternarie semplici, canoni e fughe, e indicazioni di tempo dal Largo al Velocissimo, e una Scena patetica, una Bizzarria, una Stravaganza. Non di rado piu` pezzi sono legati in suite. Vediamone qualcuna: Preludio, Canone infinito per moto contrario e per giusti intervalli, Allegro moderato e cantabile, oppure Introduzione e fuga, Canone, Allegro con fuoco, oppure Preludio, Allegro moderato, Scena patetica, Fuga, Finale, oppure Allegretto vivace, Canone, Presto, Fuga, Scherzo (lo Scherzo non nella forma con alternativo). Le suite contengono quasi sempre un canone o una fuga (in un solo caso una fuga doppia) perche´ a Clementi sta a cuore l’esecuzione di pezzi contrappuntistici che insegna a legare e a evidenziare gli intrecci delle voci. E non ci sono danze, troppo mondane per una ascesa al Parnaso.

Muzio Clementi

Mentre Clementi pubblicava il terzo volume del Gradus Moscheles pubblicava il secondo fascicolo degli Studi op. 70 e Liszt gli Studi op. 1. Tre generazioni si trovavano riunite, una al traguardo, una al mezzo del cammin, una alla partenza, e i due piu` giovani sapevano di aver preso lo spunto dal piu` vecchio. I cento Studi, infatti, non sono ‘‘moderni’’: hanno come una patina di antico e di cose senza tempo. Clementi non prendeva nulla dai suoi allievi maggiori, che pure stimava molto, e continuava ad andare sulla sua strada. La qualita` musicale non e` costante: le fughe, frutti fuori stagione, non reggono il paragone con Bach, pero` vanno in parallelo con gli sforzi di Beethoven di riappropriarsi del barocco contrappuntistico. Alcuni Studi sono focosissimi (uno di questi, in fa diesis, piaceva molto a Verdi), alcuni profondamente espressivi, alcuni selvaggi (ma non romantici). La posterita` scelse nel Gradus cio` che le tornava piu` utile, e la raccolta completa fu studiata da pochissimi stakanovisti. Oggi i cento Studi sono disponibili sul mercato discografico, e chi vuole se li puo` ciucciare, anche se non suona il pianoforte: ne vale la pena.

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Aaron Copland

Gradus ad Parnassum

Aaron Copland (Brooklyn, 14 novembre 1900-Westchester, 2 dicembre 1990) Il catalogo pianistico di Copland si apre con lo Scherzo umoristico (1920), sottotitolato Il Gatto e il topo e ispirato a una favola di La Fontaine. Consciamente o inconsciamente Copland componeva un breve pezzo, bizzarro e spiritoso, che avrebbe potuto farlo ben figurare a Parigi, dove si sarebbe recato nel 1921 per studiare con Nadia Boulanger. Il 23 settembre 1921 Copland eseguı` lo Scherzo umoristico nella Salle Gaveau, durante una manifestazione promossa dal conservatorio americano di Fontainebleau. L’editore Durand, che era presente, acquisto` il pezzo e lo pubblico`. Copland aveva pronto anche il Piccolo Ritratto (1921), costruito sul nome, ABE (la-si bemollemi), di un suo amico violinista: il pezzo sembra influenzato da certe composizioni ‘‘metafisiche’’ di Busoni. Parigi stava pero` impazzendo per il jazz, non per le astrazioni busoniane, e Copland aveva portato in Francia anche i Tre Schizzi (19201921), rispettivamente ‘‘amaro’’, ‘‘sognatore’’, ‘‘jazzistico’’, che eseguı` essi pure il 23 settembre, sperando che il terzo pezzo avrebbe fatto ‘‘drizzare le orecchie ai miei vecchi professori’’. Che drizzarono le orecchie e non disdegnarono il jazz ma che imposero a Copland la composizione della Passacaglia (1921-1922), ovviamente neobarocca, severa e imponente. L’interesse di Copland per il jazz non era semplicemente di facciata o di convenienza. Rientrato in patria egli compose il Concerto (1926), che impiegava stilemi jazzistici non alla Gershwin ma, diciamo, un po’ alla parigina (il Concertino di Honegger, che assimila modi del jazz e che Copland conosceva di sicuro, e` del 1924). Il Concerto di Copland e` in due movimenti collegati e ha una durata limitata (circa diciotto minuti). La strumentazione pianistica e` neoclassica, sia perche´ cosı` suggerivano i tempi, sia perche´ Copland, che non era un virtuoso del pianoforte, voleva eseguire personalmente il suo lavoro (lo eseguı` piu` volte e lo registro` anche in disco). Un tema non utilizzato nel Concerto divenne la Melodia sentimentale (1926), e un altro tema scartato venne ripescato per l’ultimo dei Quattro Blues (1926-1948). Dopo la Passacaglia il primo lavoro ‘‘serioso’’ di Copland e` costituito dalle Variazioni (1930). Tema lapidario, basato su una cellula di quattro note, costruttivismo puro nelle venti variazioni e nel192

la coda, nulla di specificatamente ‘‘pianistico’’ ma un pensiero musicale che si serve del pianoforte senza lasciarsi condizionare da maniere pianistiche tradizionali. Copland parlo` piu` tardi delle Variazioni come di ‘‘una specie di mostruosita` da sopportare per dieci minuti’’. E le Variazioni sono un lavoro di ricerca che impegna Copland, eclettico per natura, in una direzione che verra` subito dopo abbandonata ma che frena la sua facilita` di mano. L’altro Copland, quello dello Scherzo umoristico, risbuca fuori nei Giovani pionieri (1935) e nella Musica della domenica (1935), brevi pezzi, il primo estroverso, il secondo meditativo, che in senso lato sono ‘‘educativi’’, o propedeutici alla musica contemporanea. Passano alcuni anni e il pendolo oscilla di nuovo nella direzione opposta. Ma l’asprezza concettuale delle Variazioni si stempera, e direi che si ‘‘umanizza’’ nella Sonata (1939-1941), che e` essenzialmente melodica. L’armonia e` coloristica, non funzionale, sia nel primo e nel terzo movimento, solenni e grandiosi, sia nel movimento intermedio a modo di danza vivacissima, che a me da` l’idea, sicuramente del tutto infondata, di una cerimonia dei pellerossa. La Sonata fa parte del diario intimo di Copland, cioe` non e` pensata come lavoro da concerto, anche se l’Autore ne tenne la prima esecuzione pubblica (a Buenos Aires, dove si trovava per una visita culturale ufficiale nell’America latina, il 21 ottobre 1941). Dal punto di vista concertistico la Sonata avrebbe potuto diventare popolare se, dopo l’imponente Molto moderato e il saltellante e umoristico Vivace, non avesse avuto l’appendice del bellissimo, ma statico e sognante, e percio` distraente, Andante sostenuto. Lo schema lento-veloce-lento e` molto raro, in pezzi in tre movimenti, proprio perche´ non favorisce la concentrazione del pubblico. Ma Copland, che con il balletto Billy the Kid (1938) aveva mirato al successo, e lo aveva ottenuto, sentiva la necessita` di non rinunciare alla sua duplice natura. Un piccolo pezzo lirico, il Notturno di mezza estate (1947), precede il terzo lavoro di grande impegno compositivo di Copland, la Fantasia (1955-1957), che impiega procedimenti seriali senza venir meno a un impianto tonale. Il pezzo e` costruito con rigore ma senza la esibita meticolosita` delle Variazioni, ed e` la piu` lampante dimostrazione della versatilita`, dell’eclettismo di Copland, che

El Salo´n Me´xico

alternava disinvoltamente l’austerita` e l’affabilita`. Il resto della produzione pianistica di Copland e` fatto di pochi pezzi brevi. La pastorale Lungo un sentiero di campagna (1962) fu composta per Life e fu pubblicata come ‘‘Pezzo di un grande compositore destinato ai bambini’’. Nell’aria della sera (1966) porta una epigrafe da Theodor Roethke che contiene forse un risvolto autobiografico: ‘‘Vedo, nell’aria della sera, quanto la penombra si spanda su quello che facciamo’’. Pensieri della notte (1972), a cui fu poi aggiunto il sottotitolo Omaggio a Ives, fu composto per il Concorso Van Cliburn, con l’intenzione, rivoluzionaria per una gara riservata ai virtuosi, di ‘‘testare la musicalita` e l’attitudine dell’interprete a dare coerenza a una forma musicale libera’’. Pensieri di mezzogiorno (1944-1982) riprende il tema di una Ballata per

Aaron Copland

pianoforte e orchestra iniziata e subito abbandonata, e Proclamazione (1973-1982) riprende uno schizzo per una composizione seriosa, ‘‘nello stile’’, dice Copland, ‘‘che uno dei miei critici ha ben denominato come ‘stile dittatore’ ’’. Copland aveva probabilmente avuto nel 1973 l’intenzione di aggiungere un quarto grande pezzo ai tre che figuravano nel suo catalogo. Ma la malattia, il morbo di Alzheimer, da cui era affetto, gli aveva impedito di attuare il proposito. Copland trascrisse per due pianoforti sette pezzi dal balletto Billy the Kid (1946), la Danza dell’adolescente (1968) dal giovanile balletto Grogh, e la Danza di Jalisco (1963), originalmente per orchestra da camera. Ma la trascrizione di gran lunga piu` efficace resta quella, di Leonard Bernstein, del pezzo sinfonico El Salo´n Me´xico.

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Henry Cowell

El Salo´n Me´xico

Henry Cowell (Menlo Park, 1º marzo 1897-Shady, 10 dicembre 1965) In una guida della letteratura pianistica non puo` mancare il nome di Henry Cowell, sebbene le sue musiche siano in gran parte inedite e vengano eseguite rarissimamente. Cowell dev’essere ricordato come co-inventore del cluster e come re-inventore dello string piano. Il cluster – grappolo, o ammasso – e` il gruppo di suoni, piu` o meno numerosi, ottenuti comprimendo i tasti con il pugno o con la mano aperta o con l’avambraccio. Cowell se ne valse per la prima volta quando aveva quindici anni in The Tides of Manaunaun (Le maree di Manaunaun, 1912, 1922), ispirato a un racconto fantastico di John Varian. Manaunaun, dio del movimento, provoco` formidabili sommovimenti nell’universo prima della creazione. Si formarono cosı` i materiali e le particelle elementari con cui gli dei crearono i soli e i mondi. Nelle Maree di Manaunaun i cluster impiegati nel registro basso dello strumento danno l’idea del caos primordiale e fanno da sfondo a un corale in si bemolle, armonizzato nel modo piu` semplice, che emerge progressivamente come principio ordinatore. I cluster sono molto efficaci, in questo specifico caso, ma non aprono affatto vasti orizzonti creativi. Sono possibili tre tipi di cluster: sui tasti bianchi, sui tasti neri, sui tasti bianchi e neri insieme. Nella prima eventualita` abbiamo grumi di scala diatonica, nella seconda eventualita` di scala pentatonica, nella terza di scala cromatica. In seguito, Cowell avrebbe preferito usare il termine ‘‘armonia di seconde’’ invece di cluster. Il cluster sui tasti bianchi e`, teoricamente, un accordo di tredicesima in posizione stretta (per cui le sovrapposizioni sono formate dagli intervalli di seconda maggiore e minore), ma il concetto di armonia postula sul pianoforte la necessita` di intonazione dinamica differenziata dei suoni dell’accordo, cosa impossibile con il cluster. Percio` il cluster pianistico si avvicina agli effetti delle percussioni, distinti in zone di altezza ma senza un significato armonico, e i suoi usi sono limitati. Dicevo prima che Cowell e` il co-inventore del cluster. Nel 1912 Ives stava componendo la Sonata n. 2, nella quale viene impiegato il cluster. Non esaminero` qui la questione, molto intricata e in pratica insolubile, della datazione e delle opere di Cowell e delle opere di Ives, che sembrerebbe essere stata alterata dai due artisti. Prendendo per buone le date ufficiali non si puo` sapere chi fra i 194

due compositori arrivasse per primo a servirsi del cluster per ottenere effetti non altrimenti ottenibili. Fatto sta che ci arrivarono e, probabilmente, l’uno indipendentemente dall’altro. Nel dittico Aeolian Harp - The Banshee (Arpa eolica - La Dama bianca, 1913 e 1925, 1930) Cowell richede l’esecuzione diretta sulle corde, string piano. Nel primo pezzo la mano destra preme i tasti relativi ad accordi senza mettere in azione i martelletti, e quindi facendo soltanto sollevare gli smorzatori, e la mano sinistra pizzica le corde corrispondenti; il pezzo, molto gradevole da ascoltarsi, dura meno di due minuti. Nella Dama bianca entrambe le mani agiscono sulle corde, ma il pianista dev’essere aiutato da un... compare che tiene schiacciato il pedale di risonanza perche´ le corde possano vibrare liberamente. La tecnica di esecuzione sulla cordiera e` in questo caso molto piu` sviluppata: pizzicati con le unghie, pizzicati con i polpastrelli, percussioni. Anche qui gli usi dell’dea di Cowell sono pero` limitati. Le corde del pianoforte sono molto piu` tese di quelle dell’arpa e molto piu` difficili da maneggiare, nell’arpa due corde per ogni ottava sono di colore diverso e servono come punti di riferimento, mentre per avere punti di riferimento sulla cordiera del pianoforte bisogna fare dei segni sugli smorzatori o legare nastrini colorati a certe corde, e le barre metalliche del telaio rendono disagevoli o impossibili, sulla cordiera del pianoforte, certi effetti di glissando. Cowell immagino` l’esecuzione sulla cordiera senza conoscere il precedente storico di questa sua trovata, ma in due Sonate di Friedrich Wilhelm Rust (1739-1796) venivano indicati effetti di pizzicati e di armonici sulla cordiera. E percio` ho detto che a Cowell spetta il titolo di re-inventore. Nelle Sonate di Rust, pensate per clavicordo, l’esecuzione sulla cordiera era molto piu` semplice, sia perche´ non esisteva ancora l’ingombrante telaio metallico, sia perche´ le corde erano disposte parallelamente, non verticalmente, rispetto alla tastiera. Fra i pezzi di Cowell con cluster ricordero` il trittico Exaltation - The Snows of Fujiyama - The Harp of Life (Esaltazione - Le nevi del Fujiyama L’arpa della vita, 1919, 1927). Tutti i tre pezzi sono tipici dello spirito di Cowell, sperimentatore della materia, non del linguaggio. In Esaltazione i cluster accompagnano una melodia popolaresca su

Episode

scala pentafonica. La pentafonia appare a maggior ragione nella giapponeseria del secondo pezzo, con melodia in Fa diesis e cluster sui tasti neri. Nel terzo pezzo un corale in si e` gentilmente accompagnato da cluster. Melodia in Fa diesis e cluster sui tasti neri ritornano in The Lilt of the Reel (Il canto del reel, 1918, pubblicazione senza anno; il reel e` una tipica danza scozzese, e il folclore scozzese e irlandese ritorna di frequente nella musica di Cowell). Il canto del reel e` accoppiato al piu` famoso pezzo di Cowell, Tiger (Tigre, 1928, s.a.), che esaurisce in pratica tutte le possibilita` del cluster. Piece for piano with strings The Fairy Bells (Pezzo per pianoforte con corde - Le Campane delle fate, 1924 e 1929, 1982) riuniscono le due tecniche eterodosse di Cowell in due pezzi in cui l’ingenuo entusiasmo dello sperimentatore ha ancora modo di sbizzarrirsi. Cosa che secondo me non avviene piu` nel Concerto per pianoforte e orchestra (1928, 1929), in cui

Henry Cowell

Cowell esce dalla dimensione della miniatura che gli era piu` congeniale. Cowell compose anche pezzi senza cluster e senza tocchi sulle corde. I Nine Ings (Nove Ando, 1917-1924, 1982) usano burlescamente la desinenza inglese del gerundio (Floating, Galleggiando, Frisking, Saltellando, ecc. ecc.) in una serie di piccoli brani stilisticamente molto eterogenei, vero postmoderno avanti lettera. I tre pezzi Rhytmicana (1938, 1975), trasferiscono sul pianoforte le sovrapposizioni ritmiche complesse ottenibili con un apparecchio, il Rhytmicon, inventato da Cowell. Pezzi tonali, sovrapposizioni (cinque note contro sette, undici contro otto, ecc. ecc.) che si trovano ad esempio nelle fioriture di Chopin, ma che in Chopin vengono eseguite con flessibilita`, mentre in Cowell il tactus dev’essere uniforme. Episode (Episodio, 1916, 1922) e` uno studio in sol diesis sulle note doppie.

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Johann Baptist Cramer

Studi

Johann Baptist Cramer (Mannheim, 24 febbraio 1771-Kensington, 16 aprile 1858) Cramer e` l’autore degli Studi che tutti i pianisti conoscono e su cui hanno tutti lavorato, ed e` un musicista a cui un Fato generoso permise di nascere un anno dopo Beethoven e di morire due anni dopo Schumann. Quando Cramer esordı` in pubblico, nel 1781, il pianoforte era ancora gracile e cominciava appena a contendere al clavicembalo la supremazia. Quando morı` la Steinway & Sons, che ancor oggi e` la fabbrica di maggior prestigio, stava brevettando il pianoforte a corde incrociate. E ancora. Quando Cramer nasceva, Mozart trascriveva per pianoforte e archi tre Sonate di Johann Christian Bach, e quando moriva Brahms aveva appena ultimato il Concerto op. 15. Il pianoforte aveva percorso un enorme cammino, durante la vita di Cramer. E l’avevano percorso i pianisti. Cramer era stato anche lui viandante per una bella pezza, viandante alla ricerca di paesaggi inesplorati. Poi si era seduto su un sasso e aveva guardato chi passava, pago di cio` che aveva ottenuto. Negli anni trenta, quando aveva lasciato Londra per Parigi, aveva inventato una boutade sui pianisti della sua epoca e sui pianisti del tempo presente: una volta, diceva, si suonava fort bien, adesso si suona bien fort. Aveva abitato a Parigi piu` o meno in incognito, Cramer. Chopin, che nella capitale francese ci viveva pure lui e che come insegnante di pianoforte adottava gli Studi di Cramer, nella corrispondenza non lo cita mai, ed e` probabile che mai lo incontrasse. In realta`, Cramer, detto dagli inglesi John Il Glorioso, era stato un pianista molto brillante e molto apprezzato per il legato e per il cantabile. Grande interprete di Mozart, il suo idolo, aveva eseguito da ragazzo il Concerto K 414, aveva poi... sponsorizzato il Concerto in re minore K 466 e il Concerto in do minore K 491 (ma di quest’ultimo teneva i primi due movimenti e sostituiva il terzo con il finale, Rondo` all’ungherese, del suo Concerto in do minore op. 48). Era stato un compositore molto prolifico, Cramer – cinquantanove Sonate, mica uno scherzo. Ma sia la sua attivita` di concertista che la sua produttivita` di compositore si erano addensate in un periodo abbastanza breve. Quando sull’orizzonte apparvero i romantici lui, l’anziano classicista, si ritiro` in buon ordine e si limito` a riapparire di tanto in tanto con piccoli lavori didattici che non potevano competere, nonche´ con i contempo196

ranei, neppure con i suoi vecchi Studi. Dei suoi otto Concerti sopravvisse per breve tempo l’ultimo, il Concerto in Si bemolle op. 70 (1822 ca.) con il Rondo` alla spagnola come finale. Le cinquantanove Sonate non superarono la boa degli anni trenta. Carl Philipp Emanuel Bach aveva pubblicato sonate ‘‘per conoscitori e amatori’’. Cramer scrisse sonate per conoscitori e sonate per amatori. Oggi le prime sono sconosciute ai concertisti, che hanno sostituito i conoscitori, e le seconde sono sconosciute ai didatti, che per educare gli amatori adottano invece ancora le sonatine di Dussek e di Kuhlau. Le Sonate di Cramer per conoscitori meriterebbero pero` una certa considerazione. Le tre Sonate op. 8 (1795 ca.) ci presentano il giovane virtuoso che si compiace delle sue strepitose doti di esecutore, e la Sonata op. 23 n. 1 (1799) dovette piacere a Beethoven, che ne ricavo` uno spunto per il finale della sua Sonata op. 26. Della Sonata in la op. 53, intitolata L’Ultima (1813), e` particolarmente notevole il drammatico primo movimento con introduzione in tempo lento eseguita con il pedale ‘‘una corda’’. Essendosi legato le mani con quella malaugurata Ultima appiccicato all’op. 53, Cramer intitolo` spiritosamente Le Seguenti le tre Sonate op. 57, 58 e 59 (1817). Nell’ultima di queste tre si segnala di nuovo il primo movimento, Allegro agitato, con due temi fortemente contrastanti e un impianto tecnico spettacolare. Rientrando in Inghilterra dopo un viaggio sul continente Cramer intitolo` Il Ritorno a Londra la Sonata in Mi op. 62 (1818), nella quale vengono impiegati anche temi ricavati da canti di strada. L’ultima, la vera ultima di Cramer e` la Sonata in Fa op. 74, misteriosamente intitolata Il Mezzo (1827), che si rivolge al passato sia per le ridotte dimensioni che per il linguaggio ispirato a Mozart. Di Cramer sopravvisse la prima serie di ottantaquattro Studi (due fascicoli, 1804 e 1810). Non tutti e ottantaquattro, pero`, ma i sessanta che furono scelti e riveduti da Hans von Bu¨low, e ripubblicati da lui con commenti e diteggiature. Gli Studi sono una miniera di formule ricavate dalla tecnica classica e sviluppate in pezzi di ridotte dimensioni, strutturalmente ed esteticamente perfetti. Adolph von Henselt, che era un grandissimo

Studi

pianista ma che di mestiere faceva nell’Impero russo l’ispettore degli stabilimenti per l’educazione delle ragazze nobili, trascrisse molti Studi di Cramer per due pianoforti, rendendoli cosı` ancor piu` gradevoli per le illustri educande. Nella trascrizione di Henselt il primo pianoforte, affidato all’allievo, suona gli Studi cosı` come sono, mentre il secondo pianoforte, affidato al maestro, suona i corali a quattro parti che degli Studi sono il telaio nascosto. La base dello studio di Cramer, grande adoratore di Johann Sebastian Bach, e` il corale organistico figurato. Con Cramer le figure prese dal-

Johann Baptist Cramer

la tecnica vengono inserite sul corale, poi il corale sparisce, come cera a perdere. Henselt rimette in gioco cio` che in Cramer era sotteso e nascosto. E ascoltando la sua versione si capisce come mai gli Studi di Cramer, pur essendo studi, emanino un cosı` sottile profumo d’arte. Non siamo ancora agli Studi di Chopin, nei quali la finalita` didattica cede interamente il passo allo splendore dell’arte, ma siamo per lo meno a un felice matrimonio fra l’utile e il dilettevole. E per lo meno in questo campo John Il Glorioso non ha perduto la gloria che ebbe in vita.

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Carl Czerny

Studi

Carl Czerny (Vienna, 20 febbraio 1791-ivi, 15 luglio 1857) Il primo degli Studi di Debussy e` intitolato Per le cinque dita secondo il Signor Czerny. Carl Czerny era diventato all’inizio del Novecento il simbolo dell’insegnante sistematico e pignolo, e veniva garbatamente satireggiato da Debussy perche´ nello Studio n. 1 le cinque note non vengono sviluppate secondo un concetto di esercitazione ma vengono interrotte da un ritmo di giga, e poi riprese e poi interrotte di nuovo, come se l’allievo impaziente volesse liberarsi dalla costrizione accademica e scivolasse continuamente verso immagini musicali meno aride. Una decina d’anni piu` tardi, pero` , Stravinskij, che per motivi finanziari voleva lanciarsi nella carriera concertistica, riprese a esercitarsi sugli Studi di Czerny, e nelle Cronache della mia vita ricordo` di aver provato piacere e di aver apprezzato quegli Studi anche per la loro musicalita`. Czerny aveva insegnato e aveva prodotto opere didattiche con mentalita` sistematica ma non con cieca pignoleria. Nel campo della didattica pianistica la sua figura giganteggia: fu l’unico grande insegnante che al fiuto e all’abilita` pragmatica seppe unire l’indagine teoretica saldamente ancorata alla realta`, e nel Metodo op. 500 lascio` un lungimirante trattato non solo di come si suona il pianoforte, ma anche di come si diventa concertisti. Tuttavia cio` che veramente ci fa amare Czerny, al di la` della ammirazione che abbiamo per il didatta, e` la sua vita, la vita grigia e operosa di uno che sacrifico` se stesso per gli altri e che, partito da zero, lascio` ai suoi due domestici e in beneficenza centomila fiorini (quando il salario medio di un operaio era di circa duecentocinquanta fiorini all’anno). Il padre di Czerny, Wenzel, era di famiglia poverissima ed era stato educato in un convento benedettino in Boemia. Dotato di una bella vocina di soprano e di un ottimo orecchio, era diventato solista del coro di voci bianche. Al momento della muta della voce – come era capitato a Haydn e come sarebbe capitato a Schubert – Wenzel Czerny era pero` stato messo alla porta e aveva dovuto cominciare a badare da solo a se stesso. Si era arruolato nell’artiglieria, ma dopo quindici anni di naja aveva abbandonato il servizio militare, aveva sposato una contadina (Czerny figlio dice una mietitrice) e, sfruttando l’educazione musicale ricevuta in convento, si era messo a dare con successo le198

zioni private di pianoforte. Carl, unico figlio della coppia, era venuto al mondo quando i suoi genitori erano ormai ‘‘attempati’’. Era un ragazzo di grande talento, non solo musicale: fino agli otto anni parlava soltanto la lingua di casa, il boemo, ma a dodici sapeva destreggiarsi benissimo con il tedesco, il francese e l’italiano. Suo padre, avendo moltissimi allievi di varie nazionalita`, aveva proposto ad alcuni di essi di scambiare la gratuita` delle lezioni di pianoforte con conversazioni con Carl nelle diverse lingue. Carl imparo` cosı` tre lingue, e per conto suo studio` il latino. A quattordici anni comincio` a insegnare e ben presto si trovo` occupato in questa attivita` per dodici-quattordici ore al giorno. La giornata, si capisce, era di ventiquattr’ore anche per lui. Ma lui dormiva poco e mentre con le lezioni aiutava la famiglia a tirare avanti piu` confortevolmente sfruttava le ore libere per comporre e per frequentazioni sociali. Era uno straordinario lettore a prima vista e aveva una memoria fotografica, e quindi era accolto a braccia aperte nelle case e nei palazzi in cui faceva musica e in cui si passavano al setaccio le pubblicazioni che uscivano a Vienna e altrove. Czerny era ospite abituale nella casa della vedova di Mozart, nei palazzi del principe Lichnowsky, del principe Lobkowiz, del conte Stadion, del conte Czernin. Aveva studiato il pianoforte con Beethoven, dal 1800 al 1803, e Beethoven pensava che avesse tutte le doti per fare il concertista. Ma papa` Wenzel, visto da Beethoven come il fumo negli occhi, fece opposizione a queste poetiche fantasie, sia dicendo ‘‘e` il nostro unico figlio’’, sia sostenendo che il concertismo comportava una certa dose di ciarlataneria, cosa da lui aborrita. Carl si adeguo` docilmente al diktat paterno. Suono` in pubblico a Vienna – si deve a lui la prima esecuzione del Concerto op. 73 di Beethoven nella capitale austriaca – senza mai abbandonare le lezioni private e senza mai spostarsi all’estero, ma visse con i genitori, che scomparvero l’uno, la madre, nel 1827, e l’altro, il padre, nel 1832. Quando si trovo` solo, Czerny aveva superato i quarant’anni: troppo tardi per mutare le abitudini di vita. Le uniche conseguenze che si notarono in lui fu che la sua calligrafia divenne piu` slanciata e le sue lettere piu` sciolte e brillanti. Czerny non si sposo` (e non risulta che fosse omosessuale); di lui si conoscono solo tre let-

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terine da rispettoso adoratore, forse neppure spedite, per una Resi che non e` stata mai identificata. Nel 1837 Liszt, che di Czerny era stato allievo e che voleva fondare una scuola per concertisti, chiamo` il suo vecchio maestro a Parigi. Czerny accetto` l’invito, rimase nella capitale francese per alcuni mesi e contribuı` con una variazione all’He´xameron, variazioni sul tema ‘‘Suoni la tromba’’ dei Puritani di Bellini, composte, oltre che da lui, da Liszt, Chopin, Herz, Pixis e Thalberg. E` probabile che nel Supplemento al Metodo op. 500 Czerny desse veste sistematica alle idee discusse a Parigi con Liszt, che stava arrivando alla decisione, attuata nel 1839, di proporre al pubblico il recital. Ma sta di fatto che il Metodo di Czerny rappresenta la tavola delle leggi del concertismo moderno. Tramontata la nuova scuola per concertisti Czerny fece una gita a Londra e rientro` a Vienna, ma per ragioni di salute dovette limitare di molto i suoi impegni di insegnante. Nel 1846 si reco` a Milano, ospite dell’editore Ricordi per il quale lavorava regolarmente. Nel 1857, rispondendo all’editore Andre´ che gli aveva chieso un po’ dei soliti pezzi per dilettanti, e declinando timidamente l’offerta, Czerny scrisse che se il Buondio gli avesse concesso ancora uno scampolo di vita avrebbe voluto dedicarsi a ‘‘qualcosa di piu` serio’’. Morı` dieci giorni piu` tardi. In realta`, Czerny aveva gia` scritto qualcosa di piu` serio. La sua Sinfonia in sol (1854), ad esempio, non ha nulla da invidiare alle Sinfonie di Mendelssohn. Tuttavia e` vero che il grosso della sua enorme produzione (861 numeri d’opera pubblicati, molti dei quali formati da decine di pezzi) risponde a pure esigenze di mercato. Tra le sue composizioni ‘‘piu` serie’’ sono da ricordare il Concerto in Do op. 153 per pianoforte a quattro mani, leggero e fluente come una commediola, e soprattutto le composizioni giovanili, scritte quando le pubblicazioni didattiche e per dilettanti non facevano sgobbare il povero Czerny da stakanovista. Innanzitutto la Sonata in La bemolle op. 7 (1810), che ai quattro movimenti tradizionali aggiunge come finale un Capriccio Fugato, e la Grande Sonata brillante in do-Do op. 10 per pianoforte a quattro mani (1810), gia` nettamente biedermeier per la sua teatralita`. Horowitz inserı` nel suo repertorio, dandone una folgorante interpretazione, le Variazioni sulla Ricordanza di Rode op. 33, altri pianisti riproposero le Variazioni su un Valzer bellissimo op. 12, cioe` le variazioni sul Trauerwalzer di Schubert (op. 9 n. 2), che fu attribuito anche a

Carl Czerny

Beethoven. E qualche chance in campo concertistico potrebbe averla secondo me il Valzer di bravura op. 35. La Ouverture caratteristica e brillante op. 54 per pianoforte e quattro mani puo` ben figurare accanto ad alcune consimili pagine di Schubert. Citero` infine la Toccata in Do op. 92, moto perpetuo in doppie note, molto virtuosistico, che potrebbe affiancare la Toccata op. 7 di Schumann. Ma veniamo alla pietra dello scandalo, agli Studi che procurarono al Nostro la immeritata fama di sadico torturatore di giovani talenti. Fra le innumerevoli raccolte di Czerny sono rimaste nel repertorio didattico la Scuola della velocita` op. 299, la Scuola del legato e dello staccato op. 335 e L’arte di rendere agili le dita op. 740. Se si leggono questi pezzi come musica, non come esercizi, si deve dar ragione a Stravinskij. A un patto, pero` : che le velocita` siano quelle, altissime, indicate da Czerny con tempi di metronomo. Prendiamo lo Studio op. 299 n. 1, tutto sulle scale alla mano destra con accompagnamento di accordi alla mano sinistra. Alla velocita` di Czerny abbiamo circa quattordici suoni al secondo nelle scale e un accordo ogni due secondi circa. Il nervo acustico trattiene l’immagine sonora per circa un decimo di secondo, e quindi l’orecchio e` in grado di percepire suoni distinti nel limite di circa dieci al secondo. Se si va oltre questa soglia i suoni si accavallano o, se vogliamo, invece di sentire i suoni correre li si sente volare. La frequenza di un accordo ogni due secondi circa fa sı` che quasi non si avverta la diminuzione di intensita` che e` tipica del suono del pianoforte dopo l’emissione, e cosı` la semplice armonia di Czerny mantiene la tensione, elementare ma forte, che si ‘‘sgonfia’’ se invece il suono manca di continuita` dinamica. Questo discorso puo` esser fatto per ognuno degli Studi di Czerny, che sono ritenuti aridi perche´ vengono eseguiti a bassa velocita` sul pianoforte moderno con resistenza e affondo del tasto maggiori di quelle dei pianoforti viennesi dell’epoca di Czerny. La velocita`, unita alla bellezza del suono, e` il ‘‘segreto’’ che aveva permesso a Horowitz, e piu` recentemente al Duo TalGroethuysen, di rendere giustizia alla musica di Czerny. In realta`, se eseguiti da grandi virtuosi, gli Studi di Czerny, specie quelli dell’op. 740, sono godibili, anzi, sono entusiasmanti, magari non come le prediche di S. Bernardino da Siena ma per lo meno come le giravolte dei trapezisti e dei diavoli volanti.

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Luigi Dallapiccola

L’arte di rendere agili le dita op. 740

Luigi Dallapiccola (Pisino d’Istria, 3 febbraio 1904-Firenze, 19 febbraio 1975) Molti importanti compositori del Novecento – basti pensare a Scho¨nberg, Berg, Webern – scrissero pochissimo per pianoforte. Ma non erano pianisti. Luigi Dallapiccola, allievo a Firenze di un concertista di fama internazionale, Ernesto Consolo, comincio` a suonare in pubblico da solo negli anni venti, con programmi in parte insoliti che comprendevano – grande novita` , a quei tempi! – i Quadri di una esposizione di Musorgskij, e continuo` poi per tutta la vita a suonare in duo con il violinista Sandro Materassi. Ma l’intera sua produzione pianistica puo` essere comodamente contenuta in un solo CD . Si puo` pero` dire, come avviene anche per Goffredo Petrassi, che le poche composizioni pianistiche di Dallapiccola capitino in momenti cruciali della sua evoluzione di creatore. Il primo momento e` quello degli anni trenta, con l’intima e sincera adesione all’indirizzo fortemente nazionalistico impresso alla cultura italiana dal fascismo. Dallapiccola compone allora la Musica per tre pianoforti (1935), con il sottotitolo Inni, trittico che segue l’archetipo della sonata nei suoi tre movimenti, Allegro, molto sostenuto, Un poco adagio, funebre, e Allegramente, ma solenne. Musica modale, linee chiare e lucenti, polifonia melodica, ritmi semplici e uniformi, tono discorsivo. La concezione del suono deriva direttamente secondo me dalle esperienze del Dallapiccola concertista e dalla sua familiarita` con i Quadri di Musorgskij, per la cui esecuzione della Passeggiata iniziale egli consiglia nella sua revisione la caduta alternata degli avambracci, una tecnica che tiene evidentemente conto della trascrizione orchestrale di Ravel, nella quale il tema e` inizialmente affidato alla tromba (mentre in altre trascrizioni, ad esempio in quella di Stokowski, e` affidato agli archi), una tecnica che mira a un suono con sensibile presenza di armoniche dissonanti e quindi metallico e ‘‘percussivo’’ ma non voluminoso. A dire il vero, questa sonorita` puo` essere ottenuta tecnicamente anche in un altro modo, e io ricordo di avere assistito a una esecuzione della Musica in cui soltanto Dallapiccola adottava la tecnica delle cadute alternate senza che si avvertisse una apprezzabile differenza rispetto alle sonorita` degli altri due pianisti. Ma la tecnica di Dallapiccola era comunque funzionale alla sua gestualita`, e la sua gestualita` alla sua statura (era piuttosto piccolo). Gli Inni sono 200

musica diretta e chiara, e in senso lato ‘‘ottimistica’’, che a me ricorda un po’ certa pittura di Sironi e che si inserisce perfettamente nel clima culturale italiano ‘‘progressista’’ – il fascismo di sinistra – degli anni trenta. Questo mondo riappare in modo piu` sfaccettato ma non superato nel Piccolo Concerto per Muriel Couvreux per pianoforte e orchestra da camera (1941), composto per una bambina di sette anni, che tiene conto per lo meno idealmente e delle qualita` musicali e dei mezzi tecnici della destinataria. E` in due movimenti articolati in piu` parti: Pastorale, Girotondo e Ripresa, e Cadenza, Notturno e Finale. Il linguaggio e` quello degli Inni, e non solo tonale ma diatonico, anche se nessuna tonalita` ne costituisce la struttura portante (l’accordo finale di tonica di Re e` un tocco di colore, non la chiusa di un percorso) perche´ il pensiero si organizza, piu` che negli Inni, attraverso il contrappunto e attraverso il colore armonico, non attraverso le funzioni dell’armonia. Il primo movimento e` in forma di pastorale con trio e pastorale da capo, ma il ‘‘da capo’’ e` una completa riscrittura della prima parte e accentua il carattere espressivo dell’idillio agreste (Moderato con poesia e, piu` avanti, molto affettuoso, dolcisimo, didascalie del tutto sorprendenti in un compositore del Novecento). La Cadenza e` tecnicamente piu` impegnativa di quanto sia in genere la parte solistica, ed e` ampia (quattro pagine a stampa). Il materiale sul quale la Cadenza e` costruita e` quello del Finale, il che sconvolge la funzione tradizionale della cadenza, che per definizione impiega temi gia` noti all’ascoltatore (ma c’e` l’analogo precedente della Tzigane di Ravel). Il linguaggio diventa meno trasparente, meno, direi, ‘‘solare’’ nel Notturno, e riprende invece i suoi caratteri predominanti nel Finale. Il panorama cambia completamente nei Tre Episodi del balletto ‘‘Marsia’’ (1943) e nella Sonatina canonica su ‘‘Capricci’’ di Niccolo` Paganini (1942-1943). I Tre Episodi sono di scrittura pianistica molto complessa, la Sonatina predilige i timbri da glockenspiel e i timbri misteriosi, soffocati, ed e` di tessitura trasparentissima pur nella scrittura canonica che nella musica di Paganini non cerca il virtuosismo ma tende a mettere in luce le potenzialita` contrappuntistiche. I temi trattati nel primo movimento sono quelli dei Capricci n. 20 e

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n. 13, sono quelli del Capriccio n. 11 nel secondo movimento, del Capriccio n. 19 nel terzo movimento, e del Capriccio n. 14 – uno dei due tradizionalmente detti La Caccia – nel quarto movimento, con rapide citazioni dei Capricci n. 9 e n. 17 (il quarto movimento fu pubblicato dapprima a parte, con alcune modifiche, in una antologia di autori italiani contemporanei). Mentre negli Inni, e ancora nel Piccolo Concerto la concezione del suono era secondo me riferibile in senso lato a Busoni, nelle opere degli anni di guerra si mostra la figura di Arturo Benedetti Michelangeli. Questa asserzione potrebbe parere azzardata, e ingiusta nei confronti di Pietro Scarpini, interprete di Dallapiccola da lui molto ammirato. A me sembra tuttavia che nella evoluzione di Dallapiccola si attui il recupero del valore strutturale del timbro sulla base delle sorprendenti interpretazioni che Benedetti Michelangeli dava di Debussy e di Ravel quando cominciava a percorrere l’Italia nei primi anni di guerra, dopo la vittoria del 1939 nel Concorso di Ginevra. Suprema arte del tocco di Benedetti Michelangeli, e anche assenza di gesto, cioe` capacita` di variare all’infinito il timbro senza variare sensibilmente il gesto, considerando il timbro come valore strutturale piu` che come elemento coloristico e retorico. L’impassibilita` gestuale di Benedetti Michelangeli trova secondo me riscontro nella impassibilita` gestuale che e` la grande novita` delle composizioni di Dallapiccola negli anni di guerra. Non voglio con cio` dire che l’apparizione di Benedetti Michelangeli sia stata determinante per la svolta di Dallapiccola: intendo invece dire che Benedetti Michelangeli appare come traguardo e sublimazione della cultura neoclassica italiana, cultu-

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ra di cui Dallapiccola e` uno dei protagonisti. Che poi la cronaca non registri Benedetti Michelangeli fra gli interpreti di Dallapiccola e` cosa deprecabile e anche, sostanzialmente, inspiegabile: Benedetti Michelangeli, prima della guerra, eseguı` ripetutamente le pagine per pianoforte di Scho¨nberg, e il suo successivo estraniarsi da scelte culturali di avanguardia e` uno dei piccoli misteri della nostra storia. Certamente, una pagina cosı` pianisticamente problematica come i Tre Episodi avrebbe trovato in Benedetti Michelangeli l’interprete ideale, e probabilmente insostituibile. Il momento nel Dallapiccola pianistico dell’impiego della tecnica dodecafonica e` rappresentato dal Quaderno musicale di Annalibera (1952), dedicato alla figlia di otto anni, opera che ‘‘reinterpreta’’ in modo originale, e sostanzialmente lirico, la tecnica di Scho¨nberg e che si inserisce a buon diritto fra le grandi pagine ispirate all’infanzia, dalle Scene infantili di Schumann al Children’s Corner di Debussy, toccando, come quelle, il massimo del virtuosismo compositivo attraverso il massimo della semplificazione meccanica. Undici pezzi basati su una sola serie, impiegata anche nei Canti di liberazione, che nel Simbolo iniziale incorpora le note del nome BACH e che prosegue alternando semplici melodie e procedimenti canonici molto complessi che tuttavia si presentano, come nelle Invenzioni di Bach, con l’apparenza di una estrema naturalezza. Le esecuzioni del Quaderno musicale di Annalibera sono molto rare, e non si capisce bene perche´: nel non foltissimo panorama della musica pianistica italiana del Novecento sono un lavoro a cui dovrebbero essere dedicate le cure piu` solerti e affettuose.

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Achille-Claude Debussy

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Achille-Claude Debussy (Saint-Germain-en-Laye, 22 agosto 1862-Parigi, 25 marzo 1918) Per capire quale uso Debussy facesse del pianoforte bisogna secondo me immaginare quale avrebbe potuto farne, e non fece. Non si tratta – almeno, lo spero – di fantastoria, ma piuttosto di metastoria, perche´ la via su cui si mosse Debussy traeva origine da una precisa scelta, e per comprendere la scelta e` opportuno conoscere il ventaglio delle scelte possibili. Una nota che troviamo nella prima pagina delle cosiddette Immagini dimenticate (1894, 1978) ci aiuta a mettere a fuoco il problema: ‘‘Questi pezzi avrebbero una gran paura dei ‘saloni sfarzosamente illuminati’ dove han costume di riunirsi le persone che non amano la musica. Sono, piuttosto, ‘Conversazioni’ fra il pianoforte e l’esecutore; non e` d’altra parte vietato di metterci la propria piccola sensibilita` delle buone giornate di pioggia’’. Non si tratta – e con Debussy non si trattera` mai – dei consigli paradossali che Satie indirizza all’esecutore. Ma ci siamo molto vicino, cioe` ci siamo vicino in positivo. Cio` che entra subito in gioco, per Debussy, e` il rifiuto della concezione professionale del concertismo quale s’era formata all’epoca in cui l’attivita` internazionale del concertista stava divenendo, in sostanza, quella che e` ancor oggi: ‘‘L’attrazione che il virtuoso esercita sul pubblico sembra paragonabile ai giochi del circo. Si spera sempre di assistere a qualche cosa di pericoloso: il signor Ysay¨e suonera` il violino prendendo il signor Pugno sulle sue spalle’’, ecc. ecc. I primi dieci anni della carriera di Debussy ci dicono che dopo aver ottenuto un Secondo Premio nel concorso annuale di pianoforte del conservatorio di Parigi egli non tento` neppure di diventare concertista e che nel secondo decennio della sua carriera si impose all’attenzione di tutti con un’opera di musica da camera (il Quartetto), con due lavori sinfonici (il Preludio al pomeriggio d’un fauno e i Notturni) e con un’opera (Pelle´as et Melisande). Nel corso di questo secondo decennio, fra i trenta e i quarant’anni, Debussy, per impiegare il linguaggio delle commedie borghesi, trova la sua strada e si fa una posizione. Fino ai quarant’anni egli non esiste pero` ancora, praticamente, in quanto compositore di musica per pianoforte solo, come gli dice diplomaticamente Ravel quando rivendica la sua ‘‘primogenitura’’ nella scoperta del ‘‘nuovo’’ pianoforte. Non esiste. O, per dir meglio, non esiste per gli intellet202

tuali che si riconoscono nei suoi lavori orchestrali e nell’opera. Ma per un mondo del tutto diverso egli e` quasi un’autorita`, perche´ le due Arabesche, pubblicate nel 1891, sono state un successo editoriale. La prima composizione pianistica di Debussy a noi pervenuta e` la Danza boema (1880, 1932). Madame von Meck, che aveva per due volte assunto Debussy come maestrino delle figlie e membro del trio che faceva musica per il piacere della grandama, mando` la Danza a Cˇajkovskij, che espresse un vivo apprezzamento per la grazia, osservando pero` che nessuna idea era condotta a compimento e che la forma era evanescente. Questo giudizio limitativo appare oggi incomprensibile. I temi di Debussy non erano sinfonici, non avevano in se´ potenzialita` di sviluppo: erano semplicemente graziosi, ed esposti in modo lineare e senza ridondanze, ragion per cui noi vediamo nella Danza boema – che, detto per inciso, ha ben poco di zingaresco – vi vediamo, dicevo, il manifestarsi dell’istinto di Debussy per la concisione della forma. All’inizio degli anni novanta, ormai vicino alla trentina, Debussy si arrabattava fra progetti grandiosi, regolarmente non condotti a termine, e lezioni private di pianoforte a cinque franchi all’ora, come egli dice in una lettera al principe Poniatowski. Piu` di cinquant’anni prima, nel 1836, Charles Halle´, arrivato a Parigi dalla natia Germania, s’era guardato attorno e aveva scoperto che i prezzi delle lezioni private di pianoforte oscillavano dai venti franchi richiesti da Chopin e da Liszt ai cinque franchi di un professore purchessia. Ignoro quale fosse il corso della moneta nel 1836 e nel 1890, ma mi sembra che, tenuto conto della disfatta militare del 1870, Debussy, con i suoi cinque franchi all’ora, fosse persin meno di un professore purchessia. Il mondo che con cinque franchi retribuiva Debussy dispensatore di sapere pianistico non era economicamente debole: era lui, Debussy, che si trovava nel gradino piu` basso della scala. Ma se l’insegnante era in condizione di aprirsi il cammino verso la cima della piramide sociale, che dalle figlie dei mercanti di primizie saliva fino alle figlie dei banchieri e dei magnati dell’industria, le lezioni di pianoforte potevano, e in modo consistente, portare i loro frutti Orbene, questo mondo dei dilettanti, che consumava molta musica e che chiedeva

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molta musica nuova, rinnovava negli anni novanta il suo guardaroba di lusso con il Tango di Albe´niz (1890), il Preludio in do diesis di Rachmaninov (1892), la Scatola sonora di Liadov (1893), l’Andalusa di Granados (1893), l’Umoresca in Sol bemolle di Dvorˇa´k (1894), il Poema di Fibich (1895), A una rosa selvaggia di MacDowell (1896), il Risveglio di primavera di Sinding (1896), il Giorno di nozze a Troldhaugen di Grieg (1896). Ho citato i nomi dei compositori che la storia della ‘‘grande’’ musica ha fatto suoi ma che nel mondo di cui sto parlando non erano pero` ne´ i soli, ne´ i piu` celebri. Un successo ancor maggiore era riservato nel 1890 alla Danza delle sciarpe e poco dopo a La Lisonjera di Ce´ cile Chaminade, nel 1891 alle Scene acquatiche di Ethelbert Nevin, il cui Narciso mando` letteralmente in delirio i dilettanti, all’Edelweiss di Vanderbeck e, nel 1893, al Cuori e Fiori di The´odor Moses-Tobani che fece scorrere fiumi di lacrime. In questo contesto si inseriscono, di Debussy, la Reˆverie, un poco timidamente, nel 1890, e piu` decisamente le Due Arabesche (1888-1891, 1891). Nelle Arabesche mancano soltanto i titoli caratteristici – potrei suggerire La Fontana e Le Farfalle – per avere lo specchio perfetto della musica di consumo dei dilettanti. In realta`, Debussy segue fedelmente la ratio del pezzo di consumo ‘‘colto’’ che in Francia aveva molti specialisti e parecchie celebrita`, fra cui la beniamina del pubblico, la gia` citata Ce´cile Chaminade, nata nel 1857. Non e` offensivo affermare che questo Debussy ventiseienne rimodella la sua natura musicale sugli stampi della Chaminade, magari aggiungendovi un lieve profumo preraffaellita. E ottiene il successo, anche se le vendite dei due pezzi aumenteranno a dismisura solo piu` tardi: 1.200 esemplari smerciati nei primi dodici anni, 50.000 nei successivi sette, 123.150 alla morte di Debussy. Tra il 1889 e il 1891 Debussy pubblicava in rapida successione una produzione densa di pezzi destinati al mercato dei dilettanti, ottenendo un successo incontestabile, appunto, con le Arabesche. In quel momento della sua carriera egli poteva sia premere l’acceleratore ed imporsi definitivamente nella categoria delle Chaminade e dei Nevin, sia abbandonare questa strada e lanciarsi in nuovi grandi progetti. Da autentico bohe`mien qual era opto`, come sappiamo, per i grandi progetti. Tuttavia il suo nome mantenne un posto stabile nel mercato della musica per dilettanti, tanto che, quando il Pelle´as fece di Debussy un autore sulla cresta dall’onda e un protagonista delle cronache giornalistiche, gli editori andarono a ripescare le sue opere pianistiche d’una dozzina d’anni prima. Debussy stesso finı` per riprendere interesse alla

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Suite bergamasque del 1890 che gli era rimasta nel cassetto e la fece pubblicare nel 1905, ricevendo una accoglienza trionfale per il terzo pezzo, Chiaro di luna. Nel gruppo di queste composizioni si nota un interessante particolare: il pianoforte postula talvolta la presenza dell’orchestra. La Tarantella stiriana (1890, 1891), ripubblicata poi come Danza, composizione piuttosto estesa (quattordici pagine a stampa) e musicalmente perfettamente riuscita, sembra pero` una trascrizione da un originale per orchestra. Sembra, non e`. Il pezzo, per cosı` dire, e` transpianistico, come un lavoro di ricerca di orchestrazione realizzato al pianoforte. E sebbene la scrittura pianistica sia razionalissima il riferimento ad altri timbri e` molto evidente, cosicche´ , ad esempio, l’esposizione del primo tema risulta molto meglio quando, nella trascrizione per orchestra di Ravel, viene affidato al corno. La Ballata slava (1890, 1891), ripubblicata come Ballata, sembra anch’essa un esperimento di scrittura orchestrale realizzato al pianoforte. E lo stesso si puo` dire del Valzer romantico (1890, 1890), che inizia con uno spunto felicissimo e perde poi di interesse con una serie di svolazzi e con una scrittura accordale massiccia, piuttosto generica. Il Notturno (1892, 1892) e` piu` ambizioso della Ballata perche´ Debussy disegna con esso un poemetto orientaleggiante con introduzione, canzone piena di malinconia, altra canzone in lontananza, ripresa della prima canzone e coda. Non si tratta di un semplice pezzo per pianoforte ma di una scena d’opera a cui non faticheremmo affatto, con un pizzico di immaginazione, a dare un contenuto preciso. Ma la scrittura pianistica sembra a me troppo semplice rispetto alle potenzialita` della musica, e percio` il Notturno e` meno perfetto delle Arabesche. La Reˆ verie (1890, 1891) e` secondo me il piu` ‘‘debussiano’’ di tutti i pezzi giovanili, un delicato pastello che apre una finestra sul mondo della simbologia dell’acqua. Proprio per questa ragione, credo, Debussy sconsiglio` a un editore di ripubblicarlo nel 1905: nel 1905 stavano uscendo a stampa i Riflessi nell’acqua, che erano ben altra cosa. La Mazurca (1890, 1904) e` robusta e vivace, e` danza contadina, come del resto e` in Polonia. La tonalita` di fa diesis minore oscilla spesso verso un re ipolidio, cioe` verso una scala modale tipica che troviamo nel giovane Chopin. Ma ritorniamo al 1890. Debussy, vincitore nel 1884 del Prix de Rome, vivacchia grazie alle lezioni a cinque franchi e compone la Fantasia in Sol per pianoforte e orchestra (1889-1890, 1920), che avrebbe dovuto essere eseguita nel corso di un lunghissimo programma sinfonico dedicato ai gio203

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vani compositori francesi e diretto da d’Indy, ma che viene ritirata per la scarsita` di prove. La Fantasia non viene pubblicata e non verra` mai piu` ripresa da Debussy. La forma e` quella di un concerto in tre tempi, ma manca nella Fantasia, filiforme, tutta giocata sulle tinte pastello, con un pianoforte che guarda piu` agli sfioramenti dell’arpa che alla percussivita` insita nel suo DNA, manca nella Fantasia, dicevo, tutto cio` che mette in luce l’ego esibizionistico del pianista. Non era quello, il lavoro che avrebbe dato visibilita` a Debussy, anche se non lo avesse ritirato. Era il 1890, dicevo, e nel 1890 Richard Strauss, piu` giovane di due anni, aveva gia` composto il Don Giovanni e Morte e trasfigurazione, ed era celebre. Gustav Mahler, piu` anziano di due anni, era direttore dell’Opera Reale di Budapest. Una dozzina d’anni piu` tardi Debussy otterra` a sua volta una rinomanza internazionale; ma nel 1890 la sua situazione personale e` davvero miserabile, in assoluto e in paragone con quella dei piu` importanti colleghi della sua stessa eta` . E tuttavia la musica per pianoforte che egli scrive intorno al 1890, prima delle Immagini del 1894, e` gia` interamente centrata sul carattere peculiare della ‘‘conversazione fra il pianoforte e l’esecutore’’. Che cosa significa, conversazione fra il pianoforte e l’esecutore? Significa che l’esecutore – e prima di lui il compositore, che gli fornisce l’argomento della conversazione – non si preoccupa di cio` che puo` essere percepito a dieci o a trenta metri dal pianoforte, ma soltanto di cio` che si percepisce a due o tre metri. Prendiamo ad esempio la Seconda Arabesca, che secondo me e` il capolavoro assoluto di questo modo di comprendere il rapporto fra l’interprete e lo strumento. Non e` un pezzo che s’ascolta di frequente nelle sale da concerto. Non lo si sente quasi mai. Quando capita di ascoltarlo si rileva che il pianista adotta un tempo, approssimativamente, di 100 al quarto, utilizza il pedale di risonanza per prolungare e rimpolpare le vibrazioni, tocca la tastiera con delicatezza e rende cosı` percepibile, anche a trenta metri, il piano e leggerissimo di Debussy in tempo Allegretto scherzando. Alla velocita` di 100 al quarto il suono delle terzine dura un decimo di secondo, al limite della durata dello stimolo della percezione acustica e, di conseguenza, il legato diventa fisiologico. L’ottavo che segue, staccato, occupa una durata di tre decimi di secondo. Se l’esecutore utilizza il pedale di risonanza in modo da non prolungare il suono (cosa che di solito non avviene), lo staccato e` reale, fisiologico. La grafia di Debussy viene ‘‘telegrafata’’ ad ascoltatori che stanno a molta distanza dal pianoforte. Aggiungo che il risultato non e` di204

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verso in disco perche´ oggi il disco, salvo rarissime eccezioni, e` concettualmente e stilisticamente lo specchio dell’esecuzione pubblica. Al contrario, nell’esecuzione che volesse essere una conversazione fra l’esecutore e lo strumento, l’esecutore potrebbe sentire con precisione l’evoluzione dei tre suoni della mano sinistra, che durano per tutta la battuta mentre la destra esegue quattro gruppi di quattro suoni ciascuno. A molti metri di distanza si ha un’immagine sonora, come dire?, di un gatto che saltella su un soffice tappeto erboso; da molto vicino si vedono anche le modificazioni di luminosita` che il tappeto erboso subisce, i giochi della luce sui fili d’erba che vengono toccati. L’esecutore che conversa con lo strumento adotta un tempo sensibilmente inferiore, circa 80 al quarto. A questa velocita` i suoni delle terzine non durano piu` un decimo di secondo ma un ottavo di secondo, e l’orecchio li percepisce distintamente. Per quanto riguarda i tre ottavi di secondo di durata del quarto suono, la percezione dura circa un decimo di secondo, dopodiche´ si hanno un po’ piu` di due ottavi di secondo di silenzio. E durante il silenzio l’esecutore puo` sentire che cosa succede nei tre suoni della mano sinistra. Succede che nei tre suoni, la cui intensita` va decrescendo in modo oggettivo, si rafforzano gli armonici dei suoni prodotti dalla mano destra. L’esecutore non ha interesse a tenere abbassato il pedale di risonanza, che intorbiderebbe la sua percezione degli armonici; al contrario, ha tutto l’interesse a mantenere un tempo di scansione che gli permetta di ascoltare come i suoni della mano destra interagiscono con i suoni della sinistra. Questo e` il tipo d’ascolto che riguarda esclusivamente l’esecutore, o ascoltatori che stiano molto vicini a lui. Potrebbe forse valere per il disco ma mai per una sala di concerto, anche di piccole dimensioni. Nella Seconda Arabesca troviamo anche un altro tipo d’ascolto del gioco degli armonici, al Meno mosso della riesposizione, con il pedale invece che senza pedale: il suono piu` basso e` distanziato dagli altri, e gli altri sono disposti seguendo l’ordine degli armonici naturali: l’ascoltatore sente cosı` che i suoni intermedi si sovrappongono agli armonici del suono piu` basso e li rinforzano leggermente. Questa percezione e` in parte possibile anche in sala di concerto, in modo tuttavia molto rudimentale a confronto con la percezione dell’esecutore. Il primo effetto che ho spiegato avviene in piano e leggerissimo, il secondo in pianissimo armonioso. E` evidente che sibaritiche cineserie di questo genere sono possibili solo con una dinamica molto bassa, dal momento che una dinamica intensa tende, come dire?, ad abbagliare, ad assordare il ner-

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vo acustico. La varieta` degli effetti di cui ho parlato, al contrario, avviene al limite dell’udibilita`. E potrei ovviamente citare le numerose testimonianze sul tocco di Debussy pianista a proposito dei suoni che sembravano prodotti dall’azione delle sue dita direttamente sulle corde, senza l’intermediazione della tastiera. Tutto cio` e` ben noto ed e` superfluo ripeterlo. Bisogna aggiungere che i rulli di pianoforte riproduttore e le poche facciate di disco di Debussy non ci rendono l’idea dei miracoli del suo tocco di cui parlano i testimoni, che non dobbiamo del resto sospettare di essersi lasciati ingannevolmente impressionare, di aver preso lucciole per lanterne. E per due precise ragioni: perche´ il riproduttore Welte Mignon impiegato da Debussy aveva gradi fissi di dinamica, dinamica che per di piu` non veniva registrata subito ma aggiunta posteriormente, e perche´ per incidere un disco nel 1904 bisognava picchiare sui tasti con un certo vigore, altrimenti non si incideva ma si facevano solo dei graffietti. Si potrebbero cercare dei precedenti storici all’uso debussiano della dinamica. Gia` nel Brahms della Sonata op. 5, del resto, troviamo piano, piu` piano, pianissimo e piu` pianissimo. Ma piu` che a circostanze culturali bisogna secondo me fare appello a circostanze sociologiche, e cioe` al fatto che Debussy, non essendo concertista e trovandosi nella necessita` di insegnare il pianoforte a persone senza ne´ dita vigorose ne´ una gran preparazione musicale, comincio` a esplorare in senso positivo questi limiti, vale a dire concentrandosi piu` sulla sensibilita` dell’orecchio che sulla forza delle dita o sul sapere. Le dita incapaci di ottenere una sonorita` ampia e brillante stimolano le ricerche sui gradi minimi di intensita` e sulle varianti timbriche prossime all’impercettibile: e le teste che non pervengono a capire le ragioni dell’armonia cromatica di Franck sviluppano il gusto per il suono dell’accordo singolo, staccato dalla logica dei concatenamenti. Aggiungo ancora che le teste che non capiscono lo sviluppo tematico di tipo bramhsiano inducono a evitare lo sfruttamento dei temi. Come scriveva Cˇajkovskij alla von Meck a proposito della Danza boema, ‘‘non ci sono sviluppi e la forma e` appena abbozzata’’. Cosa che si puo` applicare, e non in senso limitativo, a tutta l’opera pianistica di Debussy. Questo periodo dell’arte di Debussy culmina nella Piccola Suite per pianoforte a quattro mani (1886-1889, 1889), la cui tessitura e` piu` ricca perche´ impiega due esecutori, e in cui si affaccia la simbologia dell’acqua. La versione per pianoforte e` del tutto adeguata ma, come gia` mi e` accaduto di dire ad altro proposito, la composizione trova a

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parer mio la sua piu` perfetta collocazione timbrica nella trascrizione per orchestra di Henri Bu¨sser. Negli anni novanta, mentre comincia ad affermarsi come compositore a tutto campo, Debussy si occupa marginalmente del pianoforte, ma nel pianoforte rivoluziona il precedente indirizzo culturale: le pareti del confortevole salotto borghese vengono abbattute e lo sguardo si proietta lontato. Anche dalle finestre del salotto si era in verita` potuto guardare lontato, lontano nel tempo e nello spazio. Gli innumerevoli minuetti, le innumerevoli serenate spagnole della musica d’uso dei dilettanti introducevano nella cultura borghese e piccolo borghese gli elementi ideologici dell’arcaismo e dell’esotismo. Ma Debussy, dicevo, invece di affacciarsi alle finestre abbatte le pareti e si immerge nelle correnti nazionalistiche che si erano messe in moto in Francia dopo la rovinosa guerra con la Prussia del 1870: non piu` l’arcaismo salottiero e zuccheroso di un minuetto che evoca un buon tempo antico, ma una suite, Pour le piano (Per il pianoforte, 1894, 1901), il cui secondo pezzo, Sarabanda, era in origine il Ricordo del Louvre delle Immagini dimenticate. Il richiamo – intimo, non propagandistico – alla Francia del Re Sole, alla vittoriosa Francia che aveva conquistato l’Alsazia e con essa la frontiera sul Reno perduta poi nel 1870, e` evidente. Ma e` anche evidente che l’arcaismo e` ideologico (oserei persino dire politico), non stilistico: Debussy crea una immagine sonora di un’epoca, ‘‘con un’eleganza grave e lenta’’, e la crea con la modalita` e con una scrittura pianistica novativa, senza riprendere gli stilemi storici di Couperin e di Rameau. Il Ricordo del Louvre, che era stato pubblicato separatamente nel 1894, subisce pochissimi cambiamenti nella versione di Pour le piano. L’inizio del pezzo ci fa conoscere una novita` molto importante nella strumentazione pianistica di Debussy, e cioe` la nascita del concetto di timbro artificiale. La melodia (scala naturale minore, vale a dire modo ipodorico), che nel corso del pezzo apparira` anche con un’armonizzazione molto semplice e tradizionale, seppur molto raffinata, appare nella prima esposizione come smembrata in tre strumentazioni diverse: armonizzata (battute 2, 4, 6, 7, 8), non armonizzata (battuta 5), posata, per cosı` dire, su colonne d’accordi di settime parallele (battute 1 e 3), accordi intesi non come funzioni dell’armonia ma come colori armonici, o timbri artificiali che dir si voglia. Questo modo di strumentare, che appare all’inizio, viene poi ripreso piu` volte nel corso del pezzo, diventandone un elemento stilistico permanente. Il concetto di timbro artificiale pianistico deriva dai registri di mutazione dell’organo, nei 205

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quali suoni diversi, intonati con dinamiche differenziate, vengono percepiti come suono singolo. Nella Ricordo del Louvre siamo all’inizio di una ricerca, e nella versione del pezzo contenuta in Pour le piano la sistematicita` del procedimento diventa piu` sfumata. Siamo all’inizio, dicevo. Ma il primo passo e` fatto. Ed e` un passo importante perche´ apre la dimensione fisica e psicologica della sala da concerto senza che Debussy debba rinnegare la ‘‘conversazione’’ fra l’esecutore e lo strumento ma trovando il mezzo di inserirvi una massa di spettatori. Con il timbro artificiale Debussy puo` infatti caratterizzare il suono in modo da proiettarlo nel grande spazio senza doverne accrescere l’intensita`. L’altra grande novita` di Pour le piano concerne l’uso del pedale di risonanza. Credo che in questo senso fosse stata decisiva per Debussy l’esperienza che egli aveva fatto trascrivendo nel 1891 per pianoforte gli Studi in forma di canone op. 56 per pianoforte con pedaliera di Schumann. Molte parti del Preludio e alcune parti della Toccata di Pour le piano sembrano pensate per pianoforte con pedaliera e poi trascritte per pianoforte. Ma la mancanza della pedaliera in una scrittura che esige la permanenza di un suono basso, con il tasto toccato e subito abbandonato dalle dita, impone di mantenere la vibrazione del basso mediante il pedale di risonanza, ‘‘sporcando’’ la percezione di cio` che sopra il basso galleggia. Armonie diverse, suoni diversi della melodia risuonano uno sull’altro, creando iridescenti alonature di colori multiformi. Liszt, creatore del recital, non ignorava affatto questo effetto di macchia sonora. Debussy lo riscopre e, applicandolo a una scrittura lineare come quella del Preludio, si apre un’alternativa per proiettare in una grande sala un suono impalpabile: cosı` verra` creata, dodici anni piu` tardi, l’atmosfera brumosa della Cattedrale sommersa. Ideologicamente analoga a Pour le piano, esteticamente piu` suggestiva, stilisticamente piu` composita e` la Suite bergamasca (1890-1905, 1905). Il terzo brano della Suite, il fascinosissimo Chiaro di luna che fece fare follie ai dilettanti e che fu trascritto per ogni sorta di strumenti, appartiene alla piu` quintessenziata maniera salottiera di Debussy, e il delizioso Passepied e` evidentemente esemplato sulle musiche di Delibes per Le roi s’amuse di Hugo (1882). Il Preludio e il Minuetto sono invece stilisticamente simili ai pezzi di Pour le piano, specie per quanto riguarda la scrittura che ricorda di nuovo quella di una trascrizione dal pianoforte con pedaliera. La differenza sostanziale fra la Suite bergamasca e il Pour le piano consiste secondo me nel fatto che la prima e` ancora destinata all’intimi206

Suite bergamasca

ta` del salotto e la seconda allo splendore dei ‘‘saloni sfarzosamente illuminati in cui e` costume che si riuniscano le persone che non amano la musica’’, ma che, aggiungo io, vanno pazze per lo spettacolo fatto con la musica. La differenza tra un pastello e un manifesto, entrambi con lo stesso contenuto ideologico ed entrambi di alta classe. Nella Suite bergamasca non viene ripreso il principio dell’unita` tonale e neppure della prevalenza d’una tonalita` , ma ogni brano e` costruito in base al rapporto tonalita`-timbro (era cio` che che un grande teorico della composizione come Vincent d’Indy rimproverava a Chopin, di scegliere le tonalita` a seconda della sonorita` che acquistavano sul pianoforte). In Fa e` il Preludio, in la il Minuetto, in Re bemolle il Chiaro di luna. Se fino a questo punto si poteva pensare a una schubertiana propensione per le terze maggiori ascendenti, il fa diesis del Passepied provvede a dissipare qualsiasi sospetto di sistematicita` o di geometricita` della scelta. Il Passepied e` di scrittura neoclavicembalistica, i temi sono due, presentati consecutivamente in un’ampia esposizione e ripresi in modo sintetico nella riesposizione. Ma particolarmente suggestiva, e caratterizzante rispetto all’insieme, e` la incantata conclusione, con le prime note del primo tema che si ripercuotono a grande distanza per poi avvicinarsi, come cercandosi, e con una sonorita` vaghissima, impalpabile, al limite della udibilita`. La visione della Francia di Luigi XIV sfuma in un alone di orientalismo. Una spruzzata di orientalismo era in verita` gia` sbucata fuori nel Minuetto, non si sa da dove perche´ non preparata musicalmente in alcun modo ma logica in una visione dell’esotismo settecentesco e dei suoi salotti alla cinese. L’esotico musicale, per l’epoca di Debussy, e` ancora quello che comincia nella Spagna moresca e si espande fino alla Cina e al Giappone. Lindaraja per due pianoforti (1901, 1926) rappresenta il primo volo immaginario di Debussy al di la` dei Pirenei. Il carattere esotico dell’opera stimola Debussy verso la ricerca di un suono pianistico che mimi gli strumenti della musica popolare spagnola e anche – la habanera e` di origine cubana – caraibica. Per certi aspetti siamo ancora all’interno di un solco che era stato tracciato cinquant’anni prima da Louis Moreau Gottschalk, fortunato esportatore di folclore louisiano e antillano trasferito al pianoforte per la gioia dei parigini. Ma per altri aspetti siamo prossimi a grandi novita`: pensando a musiche collocate in uno spazio aperto Debussy comincia a concepire la contemporaneita` di piu` eventi sonori diversi e ad avviarsi verso accenni di politonalita`. Singolare e` anche l’impianto tonale della composizione,

L’isola giocosa

che e` in re minore con una parte centrale in fa diesis maggiore. La derivazione dalla Habanera di Ravel e` evidente: l’Habanera era stata eseguita il 5 marzo 1898, Debussy l’aveva ascoltata e ne aveva richiesto la copia al giovane collega. Lindaraja e` un po’ una parodia, detto nel senso antico di studio stilistico, della Habanera, e probabilmente per questa ragione Debussy non la pubblico` . E cosı` veniamo alle Stampe (1903, 1903), nelle quali l’esotico e l’arcaico trovano la loro celebrazione piu` diretta e piu` fastosa. Pagode: l’Estremo Oriente. Sera a Granada: la Spagna andalusa. Giardini sotto la pioggia: il clavicembalo francese di Couperin. Come in Pour le piano Debussy cerca, come si diceva nell’Ottocento, il colore locale e il colore del tempo, e li trova. Ma questa volta usando anche stilemi caratteristici: la scala pentafonica cinese e i suoni di gong e litofoni per le Pagode, la scala zingaresca e il tango per la Sera, una antica canzone popolare francese nei Giardini. Nella Sera a Granada piu` eventi distinti, che corrispondono alle serenate all’aperto e alle danze di taverna, vengono accostati secondo una logica architettonica cinematografica, non teatrale, secondo una sintesi da reportage. La visione di uno spazio fisso in cui si succedono eventi diversi viene sostituita dagli stacchi della macchina da presa che permettono fulminei cambi di scena, cosicche´ noi passiamo direttamente, e sorprendentemente, da un canto a una danza che si svolgono in spazi diversi. Difficile capire oggi, dopo cento e piu` anni di cinematografo, quanto fosse a suo tempo sconcertante questo modo di costruire un pezzo pluritematico. Ma se ci riflettiamo ci rendiamo conto di quali prospettive si aprissero per Debussy... e per la musica. Debussy adotta raramente i segni per il pedale di risonanza, preferendo invece indicarlo implicitamente con la grafia delle note (il che, detto per inciso, induce spesso i pianisti incapaci di rinunziare alla ‘‘pulizia’’ della linea a rendere trasparente, e povero, cio` che e` nebuloso). Nelle Stampe troviamo varie indicazioni per il pedale: i due pedali tenuti abbassati per quattro battute una volta, e per cinque battute un’altra volta in Pagode, precise indicazioni per tutta l’ultima riga della Sera, il pedale di risonanza tenuto per tre battute alla fine dei Giardini. In verita`, si tratta di effetti di pedale non ‘‘compromettenti’’. Non compromettenti perche´ nei Giardini l’unico suono estraneo che permane insieme ai suoni dell’accordo tonale e` il settimo armonico della tonica e il quinto armonico della mediante, perche´ nella Sera l’armonia resta immacolata, e perche´ in Pagode si tratta di passaggi pentatonici che fanno colore locale evocando l’Orien-

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te con i suoi litofoni e metallofoni. In Maschere (1903, 1904), scena notturna e misteriosa con crepitanti tamburi, troviamo per tre volte l’indicazione di un pedale di risonanza tenuto per quattro battute, con la didascalia, la prima volta, ‘‘lasciar vibrare durante queste quattro battute’’. Anche in questo caso la musica ha una leggera patina di orientalismo, ma senza la scala cinese che e` priva di semitoni e quindi, in una certa misura, ‘‘neutra’’. In Maschere i semitoni ci sono e l’effetto e` quanto mai armonicamente impuro, tanto che i non numerosi interpreti del pezzo sono spesso indotti a usare il terzo pedale che consente loro di salvare la capra della scrittura e i cavoli della purezza. Le indicazioni di Debussy sono fortemente novative perche´ all’inizio del Novecento i pianisti erano contrari ad accettare le indicazioni molto audaci di Beethoven, di Chopin e di Liszt, ritenendo che fossero legate non a precise intenzioni musicali ma alle caratteristiche sonore del fortepiano e del pianoforte romantico, modificatesi nel piu` evoluto pianoforte moderno. Le edizioni rivedute delle Sonate di Beethoven della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento eliminano sistematicamente le piu` problematiche indicazioni originali per il pedale. E il disco di un grande pianista come il belga Arthur de Greef, nato nel 1862 e quindi esattamente coetaneo di Debussy, rivela una modificazione (fatta, bisogna dirlo, con gusto raffinato) dei pedali indicati nel Trio della Marcia funebre della chopiniana Sonata op. 35; e queste indicazioni di Chopin, se prese invece alla lettera, richiamano nettamente il Debussy dell’inizio del Novecento, il Debussy delle Immagini. Debussy neoromantico? Sı`, almeno per questo aspetto. Ma anche per altri, come vedremo poi. Gattopardesco, in un certo senso: tutto deve cambiare perche´ tutto ridiventi come prima. Di Da un quaderno di schizzi (1903, 1904) si puo` dire che nessun titolo fu mai piu` azzeccato: il pezzo, che e` poco conosciuto, sembra una trascrizione da uno schizzo per orchestra (inizio con quartetto di corni, ma non solo). Cio` non esclude che il suo evidente rapporto con il trittico Il Mare lo renda interessante e anche affascinante. Si puo` ricordare per curiosita` che la prima esecuzione pubblica del pezzo, a Parigi il 20 aprile 1910, fu effettuata da un pianista che rispondeva al nome di Maurice Ravel. Contemporanea della Maschere e di Da un quaderno di schizzi e` L’isola giocosa (L’isle joyeuse, con l’arcaico isle invece del moderno ıˆle, 1903, 1904), nella quale culmina quella che posso chiamare la fase della pubblicizzazione del privato. E non tanto perche´ Debussy scrisse il pez207

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zo a Dieppe, dov’era scappato con Emma Bardac, moglie d’un banchiere. Anche per questo, forse. Ma cio` che colpisce nell’Isola e` il carattere fortemente e tradizionalmente virtuosistico che la composizione assume progressivamente e che esplode nel finale, dove, senza dubbio, vince il pianista piu` forzuto. Oltre a questo carattere, che in passato procuro` trionfi all’Isola giocosa e che oggi lascia al contrario freddi gli spettatori snob, nella composizione si nota pero` la pubblicizzazione del privato anche perche´ Debussy tiene conto sia della forma tradizionale del primo movimento di sonata, sia del valzer da concerto con introduzione in tempo binario (come, ad esempio, il Kaiserwalzer di Strauss). Il problema della pubblicizzazione di un’arte privatissima e` nello stesso tempo problema di adattamento a spazi grandi e di rapporto con la storia della letteratura. Problema molto sentito, quest’ultimo, da tutta la cultura francese, anche per ragioni sciovinistiche conseguenti alla sconfitta del 1870. Che cosa sa creare, la cultura pianistica francese, che sia degno di competere sul piano intellettuale e della Visione del mondo con le sonate di Beethoven, con i polittici di Schumann, con le variazioni di Brahms? Saint-Sae¨ ns e Debussy ci avevano provato con la suite, come alternativa alla sonata. Dukas e` il piu` temerario, con la monumentale Sonata (1901) e con le Variazioni, Intermezzo e Finale su un tema di Rameau (1902). Ma la risposta vincente e` quella del trittico, sottratto alla forma ciclica di Franck: le Stampe. L’Isola giocosa rappresenta un tentativo di andare oltre alle Stampe e di conquistare un successo in sala di concerto. Ispirata a un quadro di Watteau, L’imbarco per Citera, L’isola giocosa appartiene ideologicamente ancora al filone dell’arcaismo. Tuttavia, se l’ispirazione e` settecentesca, le forme, il linguaggio e la scrittura non presentano tratti arcaicizzanti. L’isola e` quella di Venere, la dea dell’amore, e l’ambientazione e` del resto evidente nella simbologia delle acque, nel sensuale erotismo del valzer, nei richiami di flauti, corni e trombe. In verita`, piu` che a Watteau si pensa pero` a Bo¨ cklin, perche´ manca il colore del tempo della Suite bergamasca. La forma e` una variante molto originale del classico primo movimento di sonata, e L’isola giocosa e` in definitiva un grande, coloratissimo pezzo da concerto che risente, fatto rarissimo in Debussy, della lezione di Liszt. Di poco posteriori all’Isola sono il Pezzo da concorso (1905, 1905), e le Due Danze (1904, 1904) per arpa cromatica o pianoforte e archi. Le Danze – la Danza sacra e la Danza profana – potrebbero essere chiamate, rispettivamente, antica e moder208

Immagini

na. La Danza sacra sposta l’arcaismo verso la civilta` greca, verso le Danzatrici di Delfo che apriranno la serie dei Preludi. La Danza profana e` un valzer che si colloca a meta` strada fra i Valzer romantici di Chabrier e le Ginnopedie di Satie. Il Pezzo da concorso fu scritto per un concorso a premi: sei composizioni di sei diversi autori vennero pubblicate anonime, e al pubblico – premio, un pianoforte – fu chiesto di indicare i nomi degli autori: dei 530 partecipanti al gioco uno solo risolse correttamente l’indovinello (i compositori, oltre a Debussy, erano Rodolphe Berget, Ce´cile Chaminade, Jules Massenet, Camille Saint-Sae¨ns e Gaston Serpette). Il tema del Pezzo da concorso e` tratto da un abbozzo per l’opera Il Diavolo nel campanile (da Edgar Allan Poe), che rimase incompiuta. Bizzarro e divertente, il Pezzo presenta dunque un motivo di particolare interesse, ma aggiunge ben poco alla figura di Debussy delineata nelle composizioni del 1903-1904. Con L’isola giocosa, dicevo, Debussy cerca il successo in sala di concerto. Il successo arriva. E tuttavia il successo vero e` quello delle due serie delle Immagini (1904-1905, 1905, e 1907, 1908). La prima serie e` formata da Riflessi nell’acqua, Omaggio a Rameau, Movimento, la seconda serie da Campane attraverso le foglie, E la luna discende sul tempio che fu, Pesci d’oro. A partire da questo momento Debussy lascia praticamente insoluto il problema della pedalizzazione, anche se, induttivamente, e` lecito pensare che valga sempre la pedalizzazione per i grandi ambienti, intesa come propagazione nello spazio di un suono di volume ridotto e con un transistore d’attacco molto tenue. La scrittura, nella scelta dei registri e dei timbri, diventa tale che il pedale di risonanza puo` tranquillamente sovrapporre cio` che, sulla carta, sembra funzione tonale diversa o compresenza di tonalita` diverse: la chiarezza della percezione non viene in questi casi, in sala da concerto, minimamente turbata. Certi pezzi, non molti in verita`, si prestano ancora per l’esecuzione privata, per la ‘‘conversazione’’. E possiamo ricordare che la figlioletta di Debussy disse a Cortot che, rispetto appunto a Cortot, ‘‘papa` ascoltava di piu`’’. Basta tuttavia paragonare la strumentazione pianistica di passi analoghi nella Danza, in Maschere e in Movimento per capire come Debussy avesse messo a punto una tecnica dello sfruttamento delle altezze e dei timbri che gli consentiva di proiettare la percezione al di la` dei pochi metri di una stanza. I titoli posteriori a quelli delle Stampe sono sempre caratteristici, ma piu` ricercati e piu` sofisticati. Il pezzo di carattere, il pezzo esotico, il pezzo arcaicizzante facevano parte da tempo della cultura

Immagini

piccolo borghese: pezzi forti del dilettantismo erano in Francia e non solo in Francia Le Campane del monastero di Lefe´bure-We´ly, la Serenata spagnola e il Ricordo delle campane della sera (con il sottotitolo ‘‘uno sguardo nel passato’’) di Henri Ketten, la Danza delle Silfidi di Dieudonne´ Godefroid, la Pavana di Faure´, le Sei Arie nello stile antico di Le´o Delibes, ecc. ecc. I titoli che all’inizio del secolo Debussy da` alle sue composizioni ‘‘pubbliche’’ si iscrivono nella tipologia comunissima della musica per dilettanti, ma con una evidente mediazione colta o, se vogliamo, snobistica. Isle invece di Iˆle non e` cosa per Monsieur Dupont. E Omaggio a Rameau e` piu` solenne e piu` aristocratico del semplice Sarabanda, e c’e` una certa differenza tra un Alla Fontana di Schumann trascritto da Debussy e Riflessi nell’acqua, tra un Chiaro di luna e un E la luna discende sul tempio che fu, tra le Campane di Grieg e le Campane attraverso le foglie, tra Toccata e Movimento, e i Pesci d’oro sono quelli di una lacca giapponese che non potrebbe appartenere a una qualunque Madame Durand ma solo a Madame Bardac-Debussy, ex-moglie di un banchiere. I pezzi, del resto, hanno la durata e le vesti convenienti alle cose importanti: tutti sopra i quattro minuti, tutti sostanzialmente fuori della portata dei dilettanti, e tecnicamente e concettualmente. Il cambiamento di ratio dei titoli e la dimensione concertistica delle Immagini si accompagnano a un cambiamento di poetica: Debussy aderisce al simbolismo che era ormai il movimento piu` avanzato della cultura francese. In verita` ci aveva gia` aderito con il Pelle´ as et Me´lisande, la cui prima esecuzione aveva avuto luogo nel 1902. E dalle acque del Pelle´as arrivano i Riflessi nell’acqua delle Immagini. A scoprire le molteplici valenze simboliche dell’acqua e a trasferirle nella letteratura pianistica ci aveva in verita` gia` pensato Liszt, e fin dall’Album d’un viaggiatore del 1836. Debussy – Debussy il neoromantico – riprende il filo rosso lasciatogli da Liszt, senza seguire – si badi bene – i recentissimi Giochi d’acqua di Ravel, che sono onomatopeici e materici, non onomatopeici e simbolisti. Al contrario di quanto aveva fatto Liszt, generosissimo nello spargere epigrafi, Debussy non ci da` pero` la chiave che ci permetterebbe di definire agevolmente lo scrigno e di guardarci dentro. Qualcuno potrebbe obbiettare che non ci da` la chiave perche´ la sua poetica e` impressionistica, non simbolista, e perche´ , in quanto tale, nasconde musilianamente la profondita` nella superficie. Non ho documenti che mi consentano di controbattere un’osservazione di questo genere. Posso argomentare che secondo me – e non solo secon-

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do me – sembra del tutto improbabile che Debussy volgesse nelle Immagini le spalle al simbolismo del Pelle´as. Personalmente ritengo che Riflessi nell’acqua, costruito secondo una grande curva emotiva romantica che tocca lentamente il punto culminante e si ripiega poi su se stessa, possa essere inteso come allegoria della vita, come un lisztiano Dalla culla alla tomba. Ma non avrei nulla da eccepire se altri la pensassero diversamente. L’Omaggio a Rameau e` una cerimonia funebre, una trenodia, un compianto su una civilta` scomparsa. Protagonista di Movimento e` secondo me il vento, un vento vorticoso che ci porta visioni di fanfare guerriere e anche – ahinoi! – un frammento del Dies Irae. Le campane e le foglie sono simboli polivalenti. Difficile dire come li intendesse Debussy in Campane attraverso le foglie. Ma il carattere espressivo del pezzo non e` lieto: non le campane d’argento della nascita, secondo la simbologia di Rachmaninov nel primo movimento della Sinfonia ‘‘Le Campane’’ (da Poe), ma le campane annunciatrici dell’agonia e della morte. La luna che discende sul tempio che fu e` l’astro che, andando verso il tramonto, illumina la rovina di un tempio antico, ricostruito nella forma della sua architettura originaria da chi lo osserva a notte fonda. Un tempio – ce lo dice la musica – orientale, con i litofoni, i gong, i flauti primitivi. La luna e` simbolo di nascita, morte e rinascita, il tempio e` simbolo della divinita` della terra. L’esotismo perde il suo carattere illustrativo e diventa l’irrealizzabile sogno di accedere a una diversa visione della vita da parte di una societa` europea secolarizzata che deve esorcizzare il terrore della morte. E non c’e` altra pagina di Debussy che piu` di questa rifletta una aspirazione profonda della cultura europea durante il decadentismo. I guizzi dei pesci d’oro sono resi in modo palpabile, e cosı` pure le acque. Ma le acque sono torbide. E i pesci nascosti nelle profondita` delle acque sono un simbolo dell’inconscio. Queste interpretazioni simboliste delle Immagini, me ne rendo ben conto, corrono il gravissimo rischio di finire nel fantasioso e nel gratuito. Ho deciso di correre il rischio, senza pretendere di offrire al lettore una rivelazione incontrovertibile sui contenuti della musica, perche´ solo in questo modo mi riesce di rendere il senso del misterioso e dell’esoterico che quelle sei pagine suscitano in me. Con tante scuse per chi ritiene che i loro contenuti siano limpidi, solari. Limpide e solari lo sono, le Immagini, sotto l’aspetto della costruzione architettonica e della strumentazione. Debussy ha ormai raggiunto un grado di dominio estremamente sofisticato di tutte le sue 209

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esperienze e di tutte le sue conquiste, ed e` in grado sia di rendere flessibilissime le forme tradizionali come la canzone e il rondo`, sia di proporre al pianista problemi di tecnica trascendentale del suono fra i piu` ardui che la letteratura conosca. Mi riferisco in particolare a Movimenti e a Pesci d’oro, in cui la densita` ritmica molto fitta, non facile da realizzare meccanicamente ma che per questo aspetto non richiede una tecnica trascendentale, diventa sgomentevole quando si mira a far sentire non delle note ma dei rumori, i rumori del vento, i rumori delle acque o, per dirla in un altro modo, quando ad altissima velocita` si deve fare diventare frusciante e nebuloso il suono del pianoforte, cristallino per sua natura. Qui Debussy il neoromantico trova l’aggancio con un altro campione del simbolismo romantico, Alkan. Fra le Immagini e i Preludi si colloca L’angolo dei bambini (Childern’s corner, 1906-1908, 1908), composto per la figlia Chou-Chou e con titoli in inglese perche´ la bambina stava imparando con un’istitutrice inglese la lingua d’Albione. Doctor Gradus ad Parnassum e` una garbata caricatura dello studio pianistico, non riferibile tanto agli Studi di Clementi quanto semmai, forse, allo Studio op. 47 n. 1 di Stephen Heller, autore vissuto a Parigi al quale si devono raccolte di studi elementari, del resto eccellenti, molto diffuse. La formula meccanica e` quella di un esercizio su quattro suoni nella posizione di sei tasti bianchi, trattati sia come modulo di agilita` che per semplici imitazioni canoniche, fino a che l’allievo si stufa e si scatena in una gioiosa corsa sui tasti. Jimbo’s Lullaby e` la ninna-nanna dell’elefantino di pezza, una ninna-nanna in cui ritornano, semplificate, alcune delle sofisticate strumentazioni delle Immagini. La Serenade for the doll, con le sue strappate mandolinistiche e la sua melodia tenera e sentimentale, risponde pienamente al titolo, Serenata per la bambola. Snow is dancing rende l’idea dei fiocchi di neve danzanti facendo ricorso ad una tecnica clavicembalistica ma senza che nessun elemento stilistico neobarocco entri in gioco. In The little Shepherd possiamo, in un’atmosfera di idillio bucolico, sentire realisticamente – o quasi – il flauto del pastorello e i belati delle pecore, piu` un lontano brontolio di tuono e qualche goccia di pioggia. Il Golliwoog’s cake-walk fa danzare il pupazzo, un pupazzo nero che arriva dagli Stati Uniti. Lo strano del pezzo e` che Golliwoog, preso dalla malinconia, smette nella parte centrale di danzare e canta sulle note iniziali del Tristano e Isotta di Wagner (sullo stesso tema del Golliwoog’s cake-walk – senza il Tristano! – Debussy compose nel 1909 The Little Nigar, pubblicato nello stesso anno). Mi sono limitato a dare 210

L’angolo dei bambini

una sommaria descrizione dei pezzi. Sono tuttavia convinto che anche dell’Angolo dei bambini sia possibile una interpretazione simbolista, ma non mi vi addentrero` per non tediare il lettore che, se vorra` tentarla, sara` benissimo in grado di farsela per conto suo. I due libri dei Preludi (1909-1910, 1910, 19101912, 1913) segnano il punto di passaggio verso il ‘‘tardo stile’’ di Debussy. La prima interpretazione critica dell’opera di Debussy e` quella che ancor oggi va sotto il nome generico di ‘‘impressionismo’’: interpretazione basata soprattutto sulle composizioni del 1899-1904, che subito colpirono favorevolmente molti critici e che furono assai presto apprezzate dal pubblico delle sale di concerto. Il concetto di impressionismo puo` essere esteso, con parecchie difficolta` , anche ad opere come Il Mare, le Immagini, il primo libro dei Preludi, ma si dimostra del tutto inadatto a spiegare Jeux, il Martirio di S. Sebastiano, gli Studi, le Sonate, cosı` come si dimostra inadatto, dall’altra parte, a spiegare il neobarocco di Pour le piano e della Suite bergamasca e il simbolismo della Damoiselle e´lue e del Pelle´as. La critica rimasta ferma al concetto di impressionismo ha dovuto necessariamente parlare di ‘‘decadenza’’ (‘‘Musicalmente, Debussy morı` all’inizio della guerra’’, diceva il Lockspeiser), respingere le ultime opere e collocare al secondo libro dei Preludi il crinale, asserendo che alcuni di essi appartengono al miglior Debussy mentre in altri si avverte l’incipiente stanchezza creativa. Ora, e` evidente che pagine come La Puerta del vino e Ondine possono essere fatte rientrare nella poetica dell’impressionismo. Ma e` altrettanto evidente che una pagina come Le Terze alternate anticipa nettamente gli Studi; e persino pagine cosı` ovvie all’apparenza, come Fuochi d’artificio o Nebbie, risultano poi difficilmente interpretabili sotto l’angolatura dell’impressionismo. Il concetto di impressionismo e` pero` secondo me gia` superato nelle Immagini, simboliste, e il simbolismo si avvia verso l’astrattismo gia` nel primo libro dei Preludi, che indubbiamente conclude la piu` intensa e felice stagione creativa di Debussy nel campo del pianoforte e che fu sempre accettato senza riserve. Il segno, sia pure esterno e marginale, che denuncia il superamento dell’impressionismo e la crisi del simbolismo, e che ha colpito tutti i commentatori, lo troviamo nella collocazione dei titoli. I titoli, messi all’inizio dei singoli pezzi nelle Stampe e nelle Immagini, nei due libri dei Preludi vengono collocati alla fine del pezzo, tra parentesi e preceduti da puntini di sospensione: (... Danseuses de Delphe). Il titolo risulta cosı` estremamente sfuma-

Preludi

to, estremamente allusivo rispetto all’oggetto o all’avvenimento a cui si riferisce. Non che l’oggetto o l’avvenimento non stiano in alcuna relazione con la musica, non che l’associazione titolo-musica sia arbitraria o dadaistica avanti lettera: il soffio leggero del vento, i passi sulla neve ghiacciata, le chitarre, i tamburi, le campane trovano riscontri musicali non solo simbolici, ma spesso onomatopeici. Tuttavia la particolare collocazione dei titoli indica una tendenza a superare la suggestione ambientale e la pittura in musica per avviarsi verso l’astrattismo degli Studi. Alfred Cortot, dopo aver lodato senza riserve il primo libro, osserva a proposito del secondo che ‘‘la composizione di qualcuno di essi pare causata dalla seduzione iniziale di una combinazione di sonorita` a cui il soggetto viene adattato in seguito piuttosto che dalla sensazione stessa che questa sonorita` avrebbe espresso’’. E conclude che ‘‘Debussy pare prepararsi alla scrittura degli Studi, dove lo vedremo abbandonare la seduzione dei sentimenti e delle immagini in favore dei soli godimenti di un virtuosismo raffinato e di un piacere musicale essenzialmente fisico’’. Cortot resta titubante di fronte a quest’ultima fase della poetica di Debussy. Tuttavia egli coglie esattamente i termini di un problema che fra le due guerre fu risolto positivamente soprattutto dalla critica tedesca e nel dopoguerra da tutta la critica legata a movimenti d’avanguardia. Notero` per inciso – e per curiosita` – che la collocazione dei titoli nei Preludi segna idealmente un ritorno verso la ‘‘conversazione’’ fra l’esecutore e lo strumento. Nella esecuzione pubblica il sottile significato dei titoli scompare necessariamente: nelle prime esecuzioni dei due libri da parte di Jane Mortier (a Parigi, rispettivamente nel 1911 e nel 1913) i titoli erano stampati nel programma di sala ed erano noti agli ascoltatori prima della musica. Entrambi i libri comprendono dodici pezzi: in totale, ventiquattro Preludi. Solitamente il numero di ventiquattro pezzi stava in relazione con le ventiquattro tonalita` maggiori e minori, ma non mancavano i precedenti in contrario nelle due serie di Studi di Chopin. Nei Preludi di Debussy, come negli Studi di Chopin, si nota tuttavia la cura di non ripetere piu` volte la stessa tonalita`. Nel primo libro abbiamo le tonalita` di Si bemolle, Do, mi bemolle, La, Si, re, fa diesis, Sol bemolle, si bemolle, Do, Mi bemolle, Sol. Solo una tonalita` ricorre due volte: il Do. Ma il secondo Preludio e` piu` propriamente un pezzo sulla scala esatonale e termina su un bicordo che non stabilisce in modo inequivocabile la tonalita` di Do. Questa attenzione al seguito delle tonalita` scompare pero` nel secondo libro, perche´ e` il profumo stesso delle tonalita` e dei mo-

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di che va svanendo: anche in questo senso, dunque, il secondo libro segna una svolta. Il che da` ulteriori motivazioni alle osservazioni di Cortot e di altri, senza che se ne debbano pero` condividere le riserve. Vediamo ora il seguito dei ventiquattro Preludi. Danzatrici di Delfo: breve pezzo, vero preludio, una specie di lenta danza processionale ispirata, si dice, alle figure di una metope greca. Vele: il pezzo e` basato su un fregio, una melodia, un rintocco di campana grave: tre eventi sonori che nel loro sovrapporsi e nel loro ripresentarsi con minime variazioni acquistano un loro significato musicale e una loro grazia formale che vanno al di la` dei riferimenti agli oggetti. Piu` che il titolo, piu` che l’oggetto, piu` che il fruscio del vento e il suono cupo della campana e` la combinazione dei tre eventi che da` al pezzo il suo carattere incantatorio, quella immota grazia formale molto piu` vicina alla pittura di un Mondrian che di un Manet o di un Redon. Il Vento nella pianura: il titolo e` forse riconducibile ad un verso di Favart citato da Verlaine come epigrafe delle Ariettes oublie´es: ‘‘Il vento nella pianura arresta il suo soffio’’. Anche in questo caso, se il suono puo` suggerire il fremito leggero del vento, il significato musicale nasce dalle stesse formanti di Vele: un suono ostinato, un fregio, una melodia. Qui la disposizione sulla tastiera e` pero` diversa: i tre eventi sonori si svolgono, inizialmente e per gran parte della composizione, tutti e tre nella stessa zona, nello stesso registro. La raffinatezza, il virtuosismo della tecnica tocca qui un limite invalicabile, un culmine oltre il quale sara` possibile solo fare ricorso ad altri mezzi, non tradizionali, come l’esecuzione diretta sulla corde invece che per mezzo della tastiera. ‘‘Suoni e profumi volteggiano nell’aria della sera’’: ancora un verso, di Baudelaire, da` il titolo al quarto Preludio, un verso isolato tratto da Armonie della sera della raccolta I Fiori del male. Il verso successivo – ‘‘Valzer melanconico e languida vertigine’’ – e` tuttavia a parer mio essenziale per capire la composizione, che e` per l’appunto un valzer e che si conclude ‘‘con un lontano squillo di corni’’. La scrittura pianistica e` di una rara morbidezza e armoniosita`, e la novita` e l’audacia del tessuto musicale, soprattutto per quanto riguarda i concatenamenti di accordi complessi, sono sorprendenti. Le colline d’Anacapri: una tarantella o quasi-tarantella che spiega bastantemente il titolo. Si notano pero` i suoni di campane in distanza dell’inizio, riproposti nella riesposizione, che danno al pezzo un carattere simbolista. Alfredo Casella racconta di aver chiesto a Debussy perche´ avesse parlato di colline, mentre nella piccola isola di Capri si trova211

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no pendii ma non paesaggi collinari. Debussy avrebbe risposto che, conoscendo il vino di Anacapri, aveva pensato che il vino viene prodotto dove ci sono le colline... Passi sulla neve: pittura d’ambiente in cui si colloca una dolente presenza umana. Triste e lento e` la didascalia generale, il ritmo iniziale, dice Debussy, ‘‘deve avere il valore sonoro d’un fondo di paesaggio triste e ghiacciato’’, e la melodia e` indicata con ‘‘espressivo e doloroso’’, poi ‘‘espressivo e tenero’’, e infine ‘‘come un tenero e triste rimpianto’’. Poetica simbolista ma, pare a me, simbolismo romantico, tanto che uno dei quadri di Johann Caspar Friedrich raffiguranti un cimitero sotto la neve potrebbero benissimo illustrarla. La qualita` della sonorita` e la disposizione pianistica non possono pero` essere ricondotte allo stile di compositori come Mendelssohn e Schumann, contemporanei di Friedrich. Al contrario di quelli, Debussy crea senza partecipazione affettiva e tende a costruire un oggetto sonoro, o pittura sonora, senza valicare i limiti del simbolismo. La convergenza delle formanti verso un punto centrale, essenziale per il significato psicologico-espressivo della musica, viene rotta, e sebbene si possano trovare in Debussy la melodia, il basso e le parti di mezzo della scrittura romantica, l’insieme non converge sulla melodia. Il significato non e` dunque psicologico ma spaziale, di movimento di eventi sonori la cui correlazione dipende soltanto dalla loro contemporaneita`. Per quanto possano essere pericolosi i paragoni fra musica e pittura si puo` ripensare a Friedrich, ai suoi alberi solitari e, in confronto, alle varie versioni dell’Albero blu che Mondrian andava dipingendo proprio nel 1910, mentre Debussy scriveva i Preludi. Quel che ha visto il vento d’Occidente: da molti commentatori questo Preludio viene valutato come... sottoprodotto del trittico Il Mare. Il vento d’Occidente e` il vento dell’Atlantico, il vento del grande terrificante oceano gravido di tempeste. La composizione e` un pezzo di bravura, che risente della tradizione romantica di Liszt e persino di Rachmaninov. Questo tipo di scrittura pianistica, piuttosto raro in Debussy, e` dominato con sicurezza e nell’arco dei dodici Preludi assolve una funzione di contrasto e di varieta`, soprattutto in rapporto con la scrittura rarefatta dei due Preludi che immediatamente lo precedono e lo seguono. La fanciulla dai capelli di lino: ispirato da una poesia di Lecomte de Lisle, Canto scozzese (‘‘Seduta nel prato fiorito / Chi canta nel primo mattino? / La bella con chiome di lino, / Con labbra di rossa ciliegia’’). La composizione e` una canzone tripartita dalle tenui tinte di pastello. Debussy costruisce un oggetto sonoro semplice attraverso una strumenta212

Preludi

zione pianistica che sfruttando tutti i tasti neri e richiedendo una estrema delicatezza di tocco, non e` di agevole realizzazione. Il mondo della musica per dilettanti dell’Ottocento ricompare in questo Debussy come citazione di un passato ormai solo sognato, ed e` proprio il colore timbrico a creare, con la sua delicata opalescenza, la lontananza mitica della visione. La serenata interrotta: e` un pezzo spagnoleggiante in cui si ritrovano la chitarra e il cantore di serenate, un qualche incidente che si puo` spiegare a piacere come rottura di una corda della chitarra o colpo sul muro del battente di una finestra (un pacifico dormiente che, risvegliato dalla importuna serenata, protesta), l’arrivo da lontano di un complesso di chitarre (una serenata da ricchi, come all’inizio del Barbiere di Siviglia). In Debussy, semmai, c’e` da distinguere tra una serenata moresca e una serenata spagnola, e c’e` una dislocazione in luoghi diversi che permette la conteporaneita` delle due serenate: la serenata che dopo tutti gli incidenti puo` spiegarsi gloriosamente nella notte stellata e` quella moresca. Al di la` dell’aneddoto e` pero` del massimo interesse, ancora una volta, il senso non psicologico ma spaziale della musica: una versione in miniatura della Sera a Granada di cui gia` s’e` detto. La Cattedrale sommersa: ispirato a una leggenda bretone, la leggenda della citta` d’Ys, inghiottita dal mare per le colpe dei suoi abitanti, la cui cattedrale riemerge all’alba, a monito dei nuovi abitanti della costa, e risprofonda nelle onde. Lalo aveva sviluppato dalla leggenda una storia drammatica di amore e di gelosia nell’opera Le roi d’Ys, rappresentata per la prima volta nel 1888. Debussy si ispira alla leggenda per ritrarre un evento portentoso. La nebbia mattutina, il movimento delle onde, le campane, l’organo sono resi con effetti onomatopeici di grande efficacia, e anche la struttura narrativa viene seguita con coerenza. Il pezzo divenne percio` subito celebre e mantenne per lungo tempo una popolarita` pari a quella di alcune pagine di Beethoven e dei romantici. La danza di Puck: Puck, lo spirito folletto del Sogno d’una notte di mezza estate, il suo signore Oberon e il suo corno. I due personaggi sono presentati in successione all’inizio, e il pezzo e` costruito sui loro temi, in una forma ternaria tipica e secondo una tecnica simile a quella di Vele. Menestrelli: se si prende un dizionario e lo si apre alla voce ‘‘menestrello’’ si trova una lunga e complicata storia che parte dal Medioevo, dal 1100 circa, e arriva fino a circa il 1500. Ma non e` questa la ‘‘grande e antica menestrelleria’’, come diceva ironicamente Couperin nel 1700, che interessa a Debussy. A Debussy interessa invece un tipo di spettacolo musicale popolare,

Preludi

la Minstrelsy, che era nato negli Stati Uniti nei primi decenni dell’Ottocento, e che aveva per protagonisti i neri delle piantagioni – ignoranti, paurosi, ingenui – impersonati da neri autentici o, piu` spesso, da bianchi che si tingevano faccia e mani col sughero bruciacchiato. Gia` intorno al 1840 si trovano pubblicazioni di Celebrated Negro Melodies che, dice il frontespizio, vengono offerte ‘‘come sono cantate dai Menestrelli della Virginia’’. Per eliminare ogni dubbio il frontespizio contiene anche una vignetta con quattro neri che suonano il tamburello, il triangolo, il violino e il banjo. Nella seconda meta` del secolo la Minstrelsy si evolve, assorbe elementi lessicali delle danze europee importate negli Stati Uniti, arriva alle soglie del jazz e si trasforma da spettacolo popolare all’aperto in show del varie´te´, addolcendo e ingentilendo la caricatura del nero e toccando significati e temi comici piu` complessi. Ed e` questo lo spettacolo che, trasportato in Europa da compagnie di giro alla fine dell’Ottocento, incanta Debussy. Le percussioni, il tamburo imitato nel modo piu` onomatopeico, gli accenti, i contrattempi, il languore sentimentale, i sospiri, gli scatti burattineschi, tutto questo mondo delle maschere rivisitato dalla civilta` del Nuovo Mondo viene ritratto da Debussy con la sicurezza e l’essenzialita` di tratto di un Toulouse Lautrec. Il grottesco e` molto raro nella musica e il piu` delle volte e` costruito sulla musica, sulla distorsione di un testo musicale che resta riconoscibile. Qui abbiamo invece uno dei pochi esempi di autentico grottesco in musica. E tuttavia la scenetta da varie´ te´ non e` priva di una dimensione epica, una dimensione segreta in una pagina ispirata a un dato aneddotico molto particolare e carica di realismo, ma che sfugge anch’essa, in realta`, alla poetica dell’impressionismo. Nebbie: la disposizione dei tasti del pianoforte (cinque tasti neri, sopraelevati rispetto ai tasti bianchi) e la mano del pianista (cinque dita) offrono lo spunto per un inizio di sonorita` opaca, armonicamente ambiguo, ritmicamente sfuggente, melodicamente non determinato. Tutta la prima parte della composizione viene mantenuta quasi esclusivamente nel registro centrale dello strumento, e lo studio delle sonorita` e` sviluppato al limite fra il suono e il silenzio. La seconda parte introduce una melodia grave, mantenuta nel registro basso e nel registro sopracuto, come una sua proiezione fantomatica. La terza parte riprende la prima. La quarta parte e` caratterizzata da una melodia, in registro medio, accompagnata da rapidissimi arpeggi che coprono tutta l’estensione dal registro medio al sopracuto. L’ultima parte riassume le prime due. La forma e` dunque quella del rondo` , e

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questo aspetto rappresenta l’anello di congiunzione con la tradizione in un brano, sotto gli altri aspetti, rivoluzionario. Foglie morte: lo studio delle sonorita` , sempre in dinamica piano e pianissimo, e` di nuovo alla base della composizione. In una dinamica ridotta al minimo, Debussy impiega diversi modi di attacco del tasto, ottenendo almeno quattro varianti timbriche della sonorita`, che a meta` della composizione si trovano sovrapposte. Poco oltre la meta` si ode per due volte lo squillo lontano di tre trombe: simbolo musicale derivato dal romanticismo, che in Debussy assume un significato del tutto indiretto, e cioe` di citazione, e tragico. La Puerta del vino: pare che la composizione del Preludio sia stata suggerita da una cartolina, raffigurante la Porta del vino dell’Alhambra di Granada, inviata a Debussy da Manuel de Falla. L’evocazione della Spagna moresca e` ottenuta con il persistente ritmo di habanera del basso, con effetti percussivi e con una melodia ritmicamente variata e ricca di fioriture vocalistiche tipiche del canto jondo andaluso. Le suggestioni della Spagna sono in Debussy, com’e` ben noto, del tutto indirette: solo verso la fine della sua vita il compositore si sarebbe recato una volta in Biscaglia. La Spagna moresca fu per lui un paese esotico, sognato, desiderato, mitico, non meno di quanto lo fossero l’antica Grecia o le isole giavanesi. E il suo amore per la Spagna rientra nella nostalgia di paesi lontani, cosı` caratteristica della cultura francese di fine Ottocento. ‘‘Le fate sono squisite danzatrici’’: il titolo e` indicato da Debussy in corsivo e fra virgolette, e quindi si tratta di una citazione, ma non si sa di dove sia tratta. Secondo alcuni commentatori si tratterebbe di un riferimento a una illustrazione di Arthur Rackam per il Peter Pan di Barrie. Gli elementi simbolici sono numerosi, dal fruscio etereo dell’inizio ai suoni dei corni in lontananza ai temi di danza (di valzer: non senza qualche reminiscenza dei Valzer nobili e sentimentali di Ravel, composti nel 1911). Richiamo pero` l’attenzione del lettore sulle figurazioni rapide, nelle quali l’intervento dell’esecutore suscita sı` il suono ma non ne determina la durata: la durata e` oggettiva, cioe` relativa solo al movimento del meccanismo. Si pone qui uno dei postulati sui quali si fonda una poetica del suono in quanto materia sonora liberata, anziche´ soggiogata dall’intervento dell’uomo. Brughiere: e` uno dei Preludi piu` vicini allo stile delle precedenti opere di Debussy, anche di un decennio prima (in particolare alla Suite bergamasca). Melodicamente e formalmente lineare, adempie alla funzione di transizione dal quarto al sesto Preludio. Cio` non esclude che la pittura sonora sia molto viva, con il flauto del pastore e i canti degli 213

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uccelli. Generale Lavine-eccentrico: il sesto Preludio conclude la prima parte della raccolta con sonorita` eccezionalmente squillanti e crepitanti. Il forte prevale infatti solo in questo pezzo, in cui si trovano trentatre dei novantacinque tra forte e fortissimo che si incontrano in tutto il secondo libro (i piano e pianissimo sono quattrocento). Il fantasista americano Edward La Vine aveva creato la macchietta del Generale Lavine, ‘‘l’uomo che fu soldato per tutta la vita’’, e l’aveva presentata a Parigi, al Teatro Marigny, nel 1910 e nel 1911. Rulli di tamburi, squilli di trombe, scoppi improvvisi di sonorita` caratterizzano per Debussy il personaggio; la composizione ‘‘nello stile e nel movimento di un Cake-Walk’’. La terrazza delle udienze del chiaro di luna: il titolo figura nella prima edizione; alcuni cataloghi, dopo aver ricercato le fonti, lo modificano in La terrazza delle udienze al chiaro di luna, in relazione con due descrizioni, di Pierre Loti e di Rene´ Puaux, di palazzi indiani. La precisazione sul del o sull’al non sarebbe comunque neppur minimamente interessante in rapporto con la musica (che inoltre, inutile dirlo, non presenta alcun carattere lessicale indiano). Il settimo Preludio e` stilisticamente assai vario: accanto a movimenti armonici e a timbri pianistici nuovi si trovano armonie e disposizioni strumentali che risalgono alla prima maturita` di Debussy. Il Preludio, unico fra i dodici del secondo libro, e` costruito secondo una curva dinamica tipica del romanticismo, con progressione verso un punto culminante e lenta dissolvenza. Ondina: gli elementi simbolici sono evidentissimi: rumori di acque, temi di danza, canto – a volta a volta beffardo e fascinoso – della ninfa. Il Preludio puo` essere visto alla luce della estetica dell’impressionismo, ma rispetto alle musiche del 1902 spinge molto lontano la ricerca sull’armonia. Certo, anche la novita` armonica puo` essere vista in senso impressionistico, per giustificarla e per renderla accettabile senza pericoli per il maestoso edificio della tradizione. Per lo Schmitz, dunque, ‘‘la deformazione che storce un’immagine agitando l’acqua trova il suo logico corrispondente musicale nella politonalita` ’’. Omaggio a Sir Pickwick, P.P.M.C.P: le lettere significano Presidente Perpetuo, Membro del Circolo Pickwick. Anche in questo Preludio i simboli sono evidentissimi: la dignita` dell’Esquire (primo tema, Grave, sull’inno nazionale inglese), l’amabilita` cortese del personaggio Pickwick (secondo tema, Amabile). Tutta la composizione oscilla fra questi due atteggiamenti. Poco prima della fine viene fatta sentire in distanza un’arietta di danza, fischiettata, che probabilmente allude allo scanzonato Sam Weller, il servi214

Preludi

tore di Pickwick. Canopo: l’evocazione dell’antica citta` egizia viene condotta in senso impressionistico. Gli elementi tematici sono due: tema diatonico in accordi lenti, tema cromatico con sonorita` che suggerisce uno strumento a fiato. Questo secondo tema e` in parte ricavato dal celebre tema iniziale del Preludio al pomeriggio d’un fauno. Le terze alternate: il titolo si riferisce a un problema di tecnica pianistica: bicordi su intervalli di terza, eseguiti in rapida successione alternando le due mani. I punti di maggior interesse del Preludio si trovano all’inizio e alla meta`: la successione delle terze forma un frammento melodico, ma la percezione della melodia viene disturbata, fino ad essere resa quasi impossibile, dalla frammentazione dei nessi tradizionali fra un suono e l’altro. La strumentazione pianistica e` neoclavicembalistica, con un preciso riferimento al Couperin di Le-Tic-TocChoc del diciottesimo Ordre. Nei due punti che ho citato l’orologio smette di battere i suoi colpetti, ed e` come se il canto della macchina del tempo, che riporta la coscienza, leopardianamente, alle ‘‘morte stagioni’’, si mettesse in moto. Fuochi d’artificio: la conclusione della seconda parte dell’opera, come della prima (Menestrelli) impiega con larga misura le sonorita` piu` potenti: nei Fuochi d’artificio si incontrano trenta fra forte e fortissimo. Ancora una volta, i simboli musicali sono evidenti. In piu`, la citazione della Marsigliese, alla fine, precisa che si tratta della festa popolare francese del 14 luglio. Ma, ancora una volta, i simboli sono il pretesto, o la giustificazione, per una esplorazione di timbri pianistici, anzi, di rumori ottenuti mediante il pianoforte: rumore e` il lungo fruscio iniziale, e fatta in gran parte di rumori e` la cadenza che culmina nel glissando a due mani. In due momenti Debussy si avvicina a quel limite di sfruttamento delle risorse del pianoforte che verra` superato solo una quindicina d’anni piu` tardi da Cowell: il passaggio dall’esecuzione sulla tastiera all’esecuzione sulla cordiera. Non voglio dire che la scrittura pianistica del Preludio sia in qualche misura inadeguata ma, alla luce di posteriori esperienze storiche, non si puo` non vedere un preannuncio del glissando sulla corda nel grande glissando a due mani, e non si puo` non vedere un preannuncio del pizzicato sulla cordiera negli ultimi suoni della mano destra. Accanto a questi aspetti ‘‘futuribili’’ la tecnica del Preludio presenta tutti i tratti tipici di Debussy, e anche tratti derivati chiaramente da Liszt (o forse dal Gaspard de la nuit di Ravel, che a sua volta ripensa in termini nuovi certi aspetti della tecnica lisztiana) Per questa sua complessita` il Preludio e` ritenuto un test probantissimo ed e` prediletto da molti pianisti.

En blanc et noir

Ho trattato insieme i due libri dei Preludi per comodita` di esposizione, ma fra di essi si collocano alcune altre composizioni. La plus que lente (1910, 1910) e` un valzer... piu` che lento, meravigliosa, ironica e nello stesso tempo affettuosa raffigurazione dell’atmosfera sensuale e sonnolenta di un bistrot parigino. L’Omaggio a Haydn (1909, 1910), composto in memoria del vecchio Papa` nel centenario della morte con un tema ottenuto mediante la traduzione in suoni delle lettere del nome, e` un valzer spiritoso e bizzarro, articolato in tre parti con aumento progressivo della velocita` e con una coda statica, incantata. Sviatoslav Richter lo eseguiva talvolta come bis, lasciando allibiti gli ascoltatori che non riuscivano a indovinare, neppure a spanne, chi ne fosse l’autore. In un recente passato era invalso l’uso di considerare come opera pianistica la redazione per pianoforte del balletto La Boıˆte a` joujoux (La scatola dei giocattoli, 1913, 1913), di cui Debussy non completo` la strumentazione, condotta a termine dopo la sua morte da Caplet. Musica deliziosa. Ma quando pensava per pianoforte Debussy... pensava diversamente. Le Six E´ pigraphes Antiques per pianoforte a quattro mani (Sei epigrafi antiche, 1914, 1915) sono invece un ripensamento in termini pianistici della musica di scena composta nel 1900-1901 per le Chansons de Bilitis. Non e` offensivo supporre che nel 1914, ormai affermato e celebre e ammirato soprattutto per le sue composizioni ‘‘impressionistiche’’, Debussy pensasse di riutilizzare, destinandole ai dilettanti, le musiche di tredici anni prima che proseguivano felicemente, addirittura semplificandoli e volgarizzandoli, l’impressionismo e l’esotismo mitologici del Preludio al pomeriggio di un fauno. L’atmosfera decadente della cultura ellenistica e` creata con scelte linguistiche e tecniche perfettamente centrate. Ma la versione originale (due flauti, due arpe e celesta) e` senza dubbio piu` suggestiva di quella a quattro mani. All’inizio della guerra Debussy compose un lavoro di circostanza, pur profondamente sentito, la Berceuse he´roı¨que (Ninna-nanna eroica, 1914, 1915), dedicata al re belga Alberto I e che contiene la citazione dell’inno nazionale del Belgio (il Belgio era stato occupato dai tedeschi, che ne avevano violato la neutralita` ). Il piccolo pezzo Pour l’Oeuvre du ‘‘Veˆtement du besse´’’ (Per l’Opera dell’assistenza ai feriti, 1915, 1933) e` dedicato alla moglie, che organizzo` un concerto a beneficio dei feriti di guerra, concerto a cui Debussy prese parte come pianista. E la Elegia (1915, 1978), che reca la didascalia lento e doloroso, fu composta per gli orfani di guerra. Direttamente ispirati alla guerra sono

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inoltre i tre Capricci En blanc et noir (In bianco e nero, 1915, 1915). Il solo dei tre Capricci che non presenti problemi di interpretazione critica e` il secondo, dedicato al luogotenente Jacques Charlot, ucciso dal nemico nel 1915. L’epigrafe, tratta dalla Ballata contro i nemici della Francia di Franc¸ ois Villon, dice: ‘‘Principe, sia portato dai servi di Eolo nella foresta dove domina Glauco, o sia privato di pace e di speranza perche´ non e` degno di posseder virtu` chi vuol male al regno di Francia’’. L’inciso tematico che piu` spesso ritorna e` uno squillo militare, nel corso del pezzo viene citato il corale di Lutero ‘‘Una salda fortezza e` il nostro Iddio’’, e alla fine, come scrisse Debussy all’editore il 22 luglio, ‘‘un modesto carillon suona una pre-Marsigliese’’. Si tratta senza dubbio alcuno, dunque, d’un pezzo che per le dichiarate intenzioni programmatiche e per i simboli musicali che vi compaiono suona come canto di guerra e come augurio e presagio di vittoria delle armi francesi. Sarebbe tuttavia molto difficile cogliere all’audizione i riferimenti programmatici, e senza la esplicita dichiarazione di Debussy non sarebbe possibile parlare di ‘‘preMarsigliese’’, tanto ambiguo essendo il rintocco di dieci suoni di questo inciso tematico sull’inno nazionale frncese. Malgrado cio` la volonta` espressiva di Debussy risulta inequivocabilmente realizzata, e il brano appare essere, secondo il termine coniato in quegli anni da Alfredo Casella, una ‘‘pagina di guerra’’. Molto piu` indiretto, molto piu` incerto e` invece il riferimento al momento presente negli altri due pezzi. Il brano conclusivo, dedicato ‘‘al mio amico I. Stravinskij’’, reca un’epigrafe tratta da un verso di Charles d’Orleans, ‘‘Inverno, non siete che un villano’’. Il pezzo, che in omaggio a Stravinskij contiene una allusione a Chez Petrusˇka del balletto Petrusˇka, e` tutto giocato su fasce sonore mobilissime, da cui emergono un tema principale molto statico e vari frammenti, quasi relitti di altri temi. Ma piu` sorprendente di tutti e` il primo pezzo, dedicato a un altro amico, il direttore d’orchestra S. Koussevitzky. Sorprendente perche´ l’onore di dettare l’epigrafe viene riservato, invece che ad antichi e indiscussi poeti, a una coppia di moderni rimatori, Barbier e Carre´, con versi tratti dal libretto del Romeo e Giulietta di Gounod: ‘‘Chi resta al suo posto e non danza, confessa sottovoce qualche disgrazia’’. E sorprendente e` il carattere della musica, un grande, turbinoso valzer da concerto che termina fragorosamente in piu` che fortissimo. Il desiderio di legare tutto En blanc et noire alla guerra e al tormento di Debussy di fronte alla guerra porta Eberhardt Klemm a interpretare in un modo a parer mio curioso l’epi215

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grafe tratta da Barbier e Carre´: ‘‘I quattro versi contengono evidentemente delle allusioni agli uomini che avevano tentato di schivare la guerra’’. Mi sembra invece che in Debussy giochi, piu` che l’intento programmatico preciso, il senso del valzer come simbolo d’una civilta`. Debussy pensa alla civilta` francese della belle e´poque, e con questo valzer da` secondo me inizio a quella fase di catalogazione e di straniamento che si esplichera` pienamente negli Studi. I 12 Studi (1915, 1916)... sono in realta` tredici. L’undicesimo della serie originale fu subito sostituito dal ben piu` felicemente riuscito Per gli arpeggi composti e fu pubblicato postumo. Per gli arpeggi composti, Per le cinque dita, Per le terze, Per le seste... Cio` che innanzitutto colpisce, negli Studi, sono i titoli. Gli studi da concerto, che perseguivano finalita` piu` artistiche che didattiche, o non avevano titoli o avevano titoli caratteristici, mentre il titolo riferito a uno specifico problema tecnico era apparso nell’op. 740 di un didatta eminente come Carl Czerny (dal n. 1, Movimento delle dita e mano quieta, al n. 50, Bravura nella percussione e nel tempo). A dire il vero, Debussy era stato preceduto da Saint-Sae¨ns, nei cui Studi op. 111 del 1899 troviamo, accanto alle Campane di Las Palmas, un Per le terze minori, un Per i tratti cromatici e un Per le terze maggiori. Sedici anni dopo Debussy riprendeva con ben altra ampiezza il paradosso di Saint-Sae¨ns e offriva al pubblico studi di concezione didattica con destinazione concertistica. E destinazione concertistica significa contenuti da comunicare al pubblico, vuol dire presa di posizione nel mondo. Da questa contraddizione in termini nacquero difficolta` e incomprensioni che pesarono sugli Studi molto a lungo. La storia critica e la storia esecutiva degli Studi di Debussy sono due autentici cammini verso il Golgotha, perche´ la disistima che li circondo`, in quanto opere d’arte, fu tanto diffusa quanto diffusa fu la stima dei Preludi. Non e` il caso, e non ci sarebbe del resto lo spazio per fare qui l’antologia dei giudizi critici; posso dire pero` che le valutazioni interamente positive arrivarono soltanto verso gli anni sessanta dello scorso secolo. Altrettanto recente, e tutt’altro che definitivamente consolidato e` l’inserimento degli Studi nel repertorio concertistico. Il pianista che per primo eseguı` tutta la serie, a Parigi il 14 dicembre 1916, si chiamava Walter Rummel. Era un francese di ascendenza tedesco-statunitense nato nel 1887, noto per aver tenuto a Londra dei recital di musiche di Debussy, ... e un po’ anche per la sua ascendenza familiare: il nonno materno era l’inventore del telegrafo, Samuel Morse. Dopo Rummel nessun altro ritento` 216

12 Studi

l’impresa, sebbene le difficolta` tecniche degli Studi fossero stimolanti per i virtuosi. Con l’eccezione di Vladimir Horowitz, che ne ebbe in repertorio sei, e di Gieseking, che li registro` in disco tutti e dodici senza eseguirli in pubblico, nessuno dei maggiori pianisti, fino a Maurizio Pollini, si soffermo` sugli Studi di Debussy. Un vero interesse critico coincise con l’apparizione delle correnti delle avanguardie che diedero vita alla Nuova Musica. L’interesse delle avanguardie degli anni cinquanta era orientato specialmente su Jeux, ma l’attenzione si spostava in genere dalle pagine di Debussy piu` note a quelle che erano restate fino ad allora ai margini della vita concertistica. Le esecuzioni pubbliche degli Studi furono abbastanza frequenti per qualche anno, ma ne´ la raccolta nel suo insieme, ne´ alcuni brani di essa diventarono veramente di casa nei repertori concertistici. Solo nel 1986 un interprete di grido come Maurizio Pollini eseguı` in pubblico l’intera serie degli Studi accostandola alle opere 56, 60, 61 e 62 di Chopin. Questo ‘‘matrimonio’’ Chopin-Debussy e` significativo per due ragioni. Una ragione estrinseca e` costituita dalla dedica degli Studi ‘‘Alla memoria di Fre´de´ric Chopin’’, ed anche dal fatto che Debussy compose gli Studi mentre preparava l’edizione completa delle opere di Chopin. La ragione intrinseca risiede invece nell’indirizzo autoriflessivo preso nei loro ultimi anni di vita sia dall’uno che dall’altro dei due creatori. Stilisticamente, gli Studi di Debussy sono opere molto composite, che vanno dal radicalismo di linguaggio di Per le sonorita` opposte alle quasi-citazioni dell’esotismo orientaleggiante di Per le quarte e alla quasi-citazione del giovanile Chiaro di luna che si trova in Per le terze. Ma se per questo aspetto, per la riflessione sul proprio passato e per la ripresa manieristica di momenti stilisticamente diversi della propria evoluzione la poetica del tardo Debussy riprende la poetica del tardo Chopin, per altri aspetti Debussy e Chopin differiscono radicalmente. E differiscono soprattutto perche´ nel Debussy degli Studi e` molto vivo il piacere del gioco con l’oggetto sonoro. Per Debussy, al contrario di Czerny, non si tratta di addestrare l’esecutore nelle terze e nelle seste e nelle ottave. I titoli, in questo senso, sono dei veri e propri inganni perche´ mantengono il per utilitaristico mentre lo scopo non e` piu` utilitaristico. Anche la famosa dichiarazione della prefazione, la dichiarazione di non aver voluto indicare diteggiature perche´ ciascun esecutore deve cercarsi la sua diteggiatura, in realta` , secondo me, si prende gioco del lettore. Moscheles, nella prefazione dei suoi Studi op. 70, aveva espresso lo stesso concetto con infantile can-

‘‘Le sere illuminate dai carboni ardenti’’

dore: ‘‘Supponendo le mani dell’esecutore gia` addestrate per vincere le grandi difficolta` tecniche, [l’autore] ha creduto dover sopprimere le osservazioni relative al modo di suonare ogni Studio [...]; cosı` la diteggiatura non vi e` indicata se non accidentalmente’’. Scrivendo anche lui per mani gia` addestrate (e percio` non indicava la diteggiatura), Debussy non mirava pero` a dipingere ‘‘i sentimenti dell’animo e gli eccessi della passione’’ di cui ottant’anni prima parlava Moscheles. Il compositore del Novecento fa muovere un oggetto come giocando con esso, e non piu` per suscitare immagini. Non piu` il mago ottocentesco, ma il novecentesco fantasista. E se il sorgere del virtuosismo romantico coincide con le invenzioni di magia di RobertHoudin, il virtuosismo di Debussy coincide con il culmine dell’arte del giocoliere: proprio nel 1915 Enrico Rastelli arriva a far volare dieci palle di gomma, battendo il record di Pierre Amoros e stabilendo un insuperabile limite. Gia` nel penultimo dei Preludi, Le terze alternate, Debussy era passato dall’estetica dell’espressione all’estetica dell’oggetto (del mobile, potremmo dire anacronisticamente). Era un’estetica che partiva da Liszt e che nasceva in Sulla riva di una sorgente e che scorreva nei Giochi d’acqua alla Villa d’Este, ma che da Liszt e da altri era stata intesa in senso simbolista. Nel Saint-Sae¨ ns dell’op. 111, nello Skrjabin dello Studio op. 65 n. 1 sull’intervallo di nona (1912), nel Debussy delle Terze alternate (1913) il suono non simboleggia invece l’oggetto ma e` l’oggetto. Negli Studi quest’estetica rivoluzionaria prende corpo e si fa manifesto artistico invece che esperimento, e l’oggetto si presenta come tale, gravato di tutte le memorie storiche ma liberato, almeno apparentemente, dai significati simbolico-espressivi. Debussy ci da` l’oggetto nella sua etichettatura: le terze sono dolci e mormoranti, languide le seste, baldanzose ed eroiche le ottave, monumentali gli accordi, orientaleggianti le quarte, liquidi gli arpeggi, crepitanti le note ribattute, ecc. ecc. Catalogo degli oggetti e della loro tradizionale tipologia espressiva, una raccolta di forme sonore il cui significato permane pero` solo come memoria storica. Il giocoliere fa volare i piatti, Debussy fa volare i tratti cromatici, il giocoliere costruisce una torre di sedie e tavoli, Debussy so-

Achille-Claude Debussy

vrappone le sonorita` opposte, il giocoliere fa apparire e sparire il mazzo di carte, Debussy fa apparire e sparire le cinque note ‘‘secondo il Signor Czerny’’. Ma il gioco e` una cosa seria? E` serio giocare con le terze nel 1915, nel primo anniversario di una conflagrazione che distruggera` il vecchio ordine del mondo? E` questa la risposta di un artista, nel pericolo della sua patria e nella crisi della civilta`? La Berceuse eroica della fine del 1914 e In bianco e nero dei primi mesi del 1915 sono opere ‘‘patriottiche’’. ‘‘Patriottico’’ e` il Tombeau de Couperin di Ravel, iniziato nel 1914. Gli Studi non hanno queste ambizioni ma celebrano, catalogandola e facendola volteggiare, una civilta` che e` gia` morta. E fu, ed e` ancora difficile accettarli non per quello che sono, ma per quel che non rappresentano. Questo rapporto di Debussy con se stesso, con la sua storia personale e con la storia della civilta` del pianoforte e` cio` che personalmente mi attrae di piu` negli Studi, ed e` cio` che vi trovo quasi costantemente fino alla fine. Con un momento pero` , con un solo momento nella parte centrale dell’ultimo Studio, Per gli accordi, in cui appare qualcosa che da` ai miei occhi un significato sinistro a tutto cio` che precede. Non so esattamente di che cosa si tratti, ma questo qualcosa e` legato a una paura profonda, ancestrale. E per questa ragione mi sembra che gli Studi siano un esoterico poema in dodici parti, e sono incline a credere che anche il ludico sia simbolico e che il gioco iniziato con le cinque note ‘‘secondo il Signor Czerny’’ finisca per sollevare il velo su cio` che non ci piace guardare. Poema esoterico, dicevo. L’impressione che ricevo dagli Studi nel loro insieme mi fa talvolta addirittura supporre che la leggenda del fantomatico Gran Priorato di Sion, di cui Debussy, successore di Victor Hugo, sarebbe stato Gran Maestro dal 1885 alla morte, abbia un fondamento di verita`. Ma il catalogo pianistico di Debussy non si chiude con questa moderna apocalisse. C’e` ancora un’ultima composizione, intitolata ‘‘Le sere illuminate dai carboni ardenti’’ (1917, 2007), nella quale il verso di Baudelaire viene regalmente speso per ringraziare il carbonaio che negli inverni di guerra aveva fornito al di la` del lecito il combustibile domestico al compositore freddoloso.

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Paul-Abraham Dukas

‘‘Le sere illuminate dai carboni ardenti’’

Paul-Abraham Dukas (Parigi, 1º ottobre 1865-ivi, 17 maggio 1935) Paul Dukas aveva studiato il pianoforte addirittura con un allievo di Chopin, Georges Mathias, ma non era pianista e non era interessato al pianoforte. Per il pianoforte compose tuttavia due lavori monumentali con... finalita` patriottiche. Si trattava di dare alla Francia, dopo la guerra con la Prussia conclusasi nel 1870 con una vergognosa disfatta, qualcosa che mettesse la civilta` francese sul piano della civilta` austro-tedesca. Con i suoi quattro movimenti, le sue cinquantacinque pagine a stampa, i suoi quarantacinque minuti di durata, la Sonata in mi bemolle (1899-1901, 1901) ha le dimensioni e le ambizioni di una sinfonia per pianoforte solo. Sinfonia e sonata si identificano del resto nella ricerca di un contenuto, classico in quanto universale. Dukas e` su cioe` molto esplicito: ‘‘Siccome il pensiero e` classico, cio` il piu` generale possibile, l’opera riveste la forma classica, e non certo in virtu` di un dogmatismo reazionario che subordinerebbe il pensiero alla forma’’. Disgraziatamente, a Dukas fa difetto sul pianoforte la scienza di strumentatore, quella scienza che egli aveva invece dimostrato cosı` brillantemente di possedere nella Sinfonia in Do e nell’Apprendista stregone. L’impostazione della scrittura pianistica e` nella Sonata sinfonistica, anche con tratti che ricordano una trascrizione utilitaristica dall’orchestra e con compromessi fra la molteplicita` dei piani sonori e la chiarezza della loro percezione. In questo caso Dukas fa ricorso a raddoppi in ottava e a suoni tenuti col pedale di risonanza senza saper nulla inventare, in fatto di strumentazione pianistica, di simile a cio` che negli stessi anni stava facendo Rachmaninov; ne´ e` d’altra parte in grado di escogitare le soluzioni, pianisticamente meno efficaci ma ardite, di Reger, e non riesce a cogliere la novita` dei Quadri di una esposizione di Musorgskij, che evidentemente – si vedano le pagine finali della Sonata in rapporto con La Grande porta di Kiev – conosce. Dukas non sembra del resto avere familiari neppure le strumentazioni pianistiche dell’Ottocento austro-tedesco. Ad esempio, l’inizio del secondo movimento e` un corale a tre voci che viene trasferito pari pari sul pianoforte. Le strumentazioni pianistiche che in questo caso vengono spesso adottate da Schubert o da Schumann restano ignote a Dukas, e nella riesposizione variata, che in verita` e` di sonorita` pianistica molto azzeccata e 218

bella, il modello di riferimento non e` il pianoforte romantico ma l’organo. Le suggestioni esercitate su Dukas dal pianoforte di Franck sono tutt’altro che secondarie. Pero` si va anche al di la` di Franck, cioe` si va verso l’abitudine dell’organista di appoggiarsi su un basso distanziato, tenuto e raddoppiata in ottava. Ah!, quelle eterne ottave al basso della Sonata di Dukas, quella eterna necessita` di trovare un patteggiamento fra scrittura e pedale di risonanza o, come diceva Alfred Cortot di Florent Schmitt, tra secchezza e confusione... Perche´ Dukas, non concependo l’armonia come macchia di colore, non usa il pedale di risonanza al modo di Debussy, e non solo resta estraneo alla rivoluzione dei Giochi d’acqua di Ravel, che sarebbero stati pubblicati nel 1901, ma non coglie neppure le inquietudini del raveliano Minuetto antico, pubblicato nel 1895. Nella scrittura pianistica della Sonata non mancano tuttavia particolari che, seppure in modo indiretto, fanno presagire una svolta: qualche squisitezza di sopracuti ci dice che Debussy e` alle porte, qualche passo brillante della mano sinistra potrebbe esser detto mozartiano (ma piu` probabilmente dimostra una certa dimestichezza con gli Studi di Czerny) e qualche altro passo ci ricorda un po’ Couperin. O Albe´niz. Non l’Albe´niz di Iberia, ancora di la` da venire, ma l’Albe´niz del bozzettismo spagnoleggiante degli anni novanta. Il terzo movimento della Sonata richiama irresistibilmente, nella prima parte e nella riesposizione, il Preludio dei Canti di Spagna, non senza far intravvedere, nello stesso momento, la Toccata del Tombeau de Couperin di Ravel. Piu` curioso ancora e` il bellissimo fugato che costituisce la parte centrale del terzo movimento, in cui sembra di ritrovare il Rossini del Preludio religioso della Piccola Messa solenne. Queste considerazioni non intendono tuttavia sminuire, ma precisare, il significato storico della Sonata, che rappresenta in modo eminente una ricerca in cui tutta la cultura francese di fine secolo e` impegnata. Nella seconda meta` dell’Ottocento, dalla Sonata op. 5 di Brahms (1853) alla Sonata op. 1 di Berg (1908), la cultura tedesca lascia ai compositori minori la cura accademica di mantenere in vita la classica sonata per pianforte solo; nello stesso periodo la cultura russa, a partire da Anton Rubinsˇ tejn, accumula un patrimonio di

Il pianto, lontano, del fauno

esperienze che a fine secolo sfocia in Skrjabin. La cultura francese, che non ha il passato dei tedeschi, non ha alla conclusione del secolo il presente dei russi. E non ha neppure un talento eccentrico e isolato come Charles Ives, la cui Sonata n. 1 nasce fra il 1901 e il 1908. Nella cultura francese il tentativo di riassorbimento della classicita` tedesca e` quindi nobile sı`, ma anche antistorico e sostanzialmente accademico; e se qualcosa puo` reggere veramente il paragone con la cultura tedesca, questo qualcosa lo si trova semmai nei trittici di Franck degli anni ottanta e, all’inizio del Novecento, nelle Immagini di Debussy e in Gaspard de la nuit di Ravel. La Sonata di Dukas e` dedicata a Saint-Sae¨ns, che stava curando l’edizione moderna delle opere di Rameau. Dukas prepara il suo omaggio a Rameau senza rinnegare il problema della classicita` e della universalita` che lo assilla. Mentre finisce la Sonata, o forse mentre comincia a lavorarci, sceglie un Minuetto di Rameau intitolato Le Lardon (Il Monello) e ne fa il punto di partenza per una costruzione a variazioni che, sotto sotto, potrebbe rivaleggiare con le Variazioni su un Valzer di Diabelli di Beethoven. Le Variazioni, Interludio e Finale su un tema di Rameau (1899-1902, 1907) vengono eseguite per la prima volta a Parigi, il 23 marzo 1903. La critica grida al capolavoro, l’editore Durand iscrive il titolo entro un cartiglio antico. E` nata, nel venerato nome di Rameau, la vera opera classica francese? La storia della variazione tedesca era sfociata con Brahms nella variazione e fuga e aveva avuto moltissimi imitatori in tutta Europa. Dukas, che pure nella Sonata aveva dato il meglio di se´ nel fugato del terzo movimento, evita di concludere con una fuga le variazioni sul tema del compositore classico francese: il suo finale sara` una variazione, la dodicesima, enormemente amplificata, e sara` preceduta da un interludio propiziatorio. Il finale delle Variazioni di Dukas e` effettivamente neobarocco, e` chiaro, trasparente e variegato nella scrittura e nel tessuto musicale: sgorga certamente, e in modo palese, dal tema di Rameau, e chiude unitariamente il ciclo. Il cammino per arrivare al finale e` pero` piuttosto complicato e Dukas sembra preso da un’inguaribile attrazione per l’Ottocento, una attrazione che lo riporta con-

Paul-Abraham Dukas

tinuamente sul gia` noto. A cominciare proprio dalla prima variazione, Teneramente, che e` un corale oscillante fra la poesia di Schumann e il didatticismo di Johann Baptist Cramer, per passare alla terza variazione, che si mette all’ombra di Beethoven. La seconda variazione, col suo ritmo puntato, e` pero` indubbiamente francese, e antica nell’ispirazione musicale (non nella scrittura, addirittura sinfonica). L’alternarsi di clarte´ nazionalistica e di ripiegamenti sentimentali e` cosı` sistematica da parere intenzionale, programmatica. Ma la brevita` degli episodi e la violenza dei contrasti non sembrano a me ben calcolate, e la composizione acquista a parer mio una sua fisionomia solo a partire dalla decima variazione. La struttura della decima variazione richiama nettamente i movimenti introduttivi lenti della ouverture barocca alla francese, mentre la variazione undecima e` basata sulla oscillazione di accordi che insensibilmente trapassano dall’uno all’altro (i numi tutelari sono Schumann e, piu` ancora, Brahms). Nell’Interludio, nello stile di una improvvisazione, si fa strada l’inizio del Finale, e questo corre di slancio su un’enorme ampiezza (217 battute rispetto alle 16 del tema e alle 9-32 delle variazioni). Il blocco che parte dalla decima variazione viene quindi impaginato secondo una vera e propria sceneggiatura: la splendente immagine storica della maestosita` fastosa e regale del barocco (var. X) viene inghiottita dalla nebbia (var. XI), da cui emerge lentamente (Interludio) la nuova visione di una danza di letizia nell’Eliso (Finale). Passaggio dalla rievocazione storica alla creazione del mito, secondo il mio parere. E se c’e` una musica che porta alla memoria la metafora del nazionalista Charles Maurras, la immortale De´esse France, questa e` precisamente la parte finale delle Variazioni di Dukas. Che resta pero` un momento isolato e unico e, forse, piu` che creare un mito afferra una chimera. Il catalogo pianistico di Dukas comprende, oltre alla Sonata e alle Variazioni, soltanto due brevi pagine d’occasione. Il Preludio elegiaco (1909, 1909) e` costruito sulle lettere del nome Haydn nel centenario della morte di questi. E Il pianto, lontano, del fauno (1920, 1920) e` un commosso omaggio alla memoria di Debussy.

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Jan Ladislav Dussek

Il pianto, lontano, del fauno

Jan Ladislav Dussek

(Cˇa´slav, 12 febbraio 1760 - Saint-Germain-en-Laye, 20 marzo 1812) Per quanto risulta dalle cronache, Jan Ladislav Dussek (Dusı´k in boemo) fu il primo pianista che fece ruotare di novanta gradi il pianoforte rispetto alla sala e che invece di mostrare al pubblico la nuca mostro` il profilo (destro). Dussek, grasso e flaccido in vecchiaia, da giovane era detto Il bel Dussek, e quindi si capisce perche´ preferisse esporre il profilo piuttosto che la nuca. Ma egli fu anche il primo concertista di pianoforte itinerante. Johann Christian Bach, che per primo si servı` del pianoforte in un concerto pubblico, suonava solo a Londra, solo a Londra suonava Clementi, Mozart, di quattro anni maggiore di Dussek, usava il clavicembalo nelle tourne´e internazionali che tenne da bambino, e come pianista fu attivissimo a Vienna ma si fece ascoltare all’estero rarissimamente. Dussek fu invece un giramondo... nei limiti in cui cio` era possibile in un universo in cui non esistevano le societa` di concerti e in cui per andare da Vienna a Berlino sobbalzando in una carrozza su strade dissestate, e sempre che non fosse in corso una qualche guerra, si impiegavano cento ore filate. Dussek comincio` a suonare in pubblico nel 1779: nelle Fiandre e in Olanda, perche´ dopo gli studi a Praga era entrato al servizio di un capitano d’artiglieria austriaco che risiedeva a Malines. Nel 1782 era ad Amburgo, dove prese forse delle lezioni da Carl Philipp Emanuel Bach, e nel 1783 a S. Pietroburgo, alla corte di Caterina II. Coinvolto, sembra, in una qualche congiura di palazzo stroncata dalla terribile zarina, Dussek fuggı` nel 1784 in Lituania entrando al servizio del principe Radziwill, ma dal 1785 comincio` a viaggiare in Germania, esibendosi sia come pianista che come esecutore di glassharmonika, l’armonica a cristalli rotanti inventata da Benjamin Franklin nel 1762. Nel 1787 Dussek esordiva a Parigi, otteneva un grande successo, veniva notato dalla regina Maria Antonietta e a Parigi si stabiliva, suonando spesso e in pubblico e nei palazzi aristocratici, da solo e con i dilettanti: uno dei suoi partner fu il violinista, di professione sottotenente d’artiglieria, Napoleone Bonaparte. Rimase a Parigi per due anni, Dussek, ma durante la permanenza in Francia fece una scappata a Milano, dove il fratello era primo violino dell’Orchestra del Teatro alla Scala; a Milano si fece ascoltare al pianoforte e alla glassharmonika. Nel 1789, fiutando in tempo utile l’arrivo 220

della Rivoluzione, il Nostro se ne ando` a Londra: vi esordı` l’1 giugno e... lı` si fermo` per piu` di dieci anni. A Londra pubblico` nel 1796 il Metodo, che si apre con il famigerato esercizio detto ‘‘dei martelletti’’, con le cinque dita che, a turno, si alzano a cane di fucile e si abbassano a colpire il tasto mentre le altre dita stanno immobili sui loro tasti: ‘‘indipendenza’’, perche´ ogni dito deve muoversi senza turbare il riposo delle altre dita, e ‘‘uguaglianza’’, perche´ tutte le dita devono essere in grado di sviluppare lo stesso grado di dinamica. Quarant’anni piu` tardi Chopin avrebbe detto che la ricerca della indipendenza e della uguaglianza era stata un ‘‘agire contro natura’’. Ma intanto due generazioni di teneri virgulti pianistici si erano torturati con i martelletti di Dussek, e siccome Chopin non pubblico` le sue osservazioni sulla tecnica ci vollero altri cinquant’anni prima che i didatti andassero a verificare sperimentalmente e scientificamente i sacri precetti del buon tempo antico. Nel 1792 Dussek sposo` l’arpista Sophia Corri, figlia di un cantante italiano che aveva il bernoccolo degli affari. Concertista e compositore ammiratissimo, ricercatissimo insegnante, nel 1794 Dussek fondo` con lo suocero una casa editrice che nel 1800 ando` in fallimento: Domenico Corri finı` in prigione (qualcuno dei miei lettori ricorda la disavventura di Pickwick, incarcerato per debiti?); Dussek, per non fare buona compagnia al suocero, fuggı` ad Amburgo, ... e riprese alla grande la carriera concertistica. Nel 1804 fu assunto dal principe Louis Ferdinand di Prussia, che era pianista e compositore (in una lettera del 20 ottobre 1829 Chopin dice di avere ascoltato ‘‘il Quartetto del principe Ferdinando di Prussia, alias Dussek’’). Nel 1806 il principe cadde da soldato nella battaglia di Saafeld e Dussek rimase disoccupato, ma fu assunto nel 1807 dal principe di Isenburg e poco dopo dal principe di Benevento, il celebre diplomatico Talleyrand. Con Talleyrand ritorno` a Parigi e a Parigi visse fino alla morte. Dussek fu un compositore molto popolare, sia fra i dilettanti che fra i professionisti, e la sua fama non scemo` per molti anni dopo la sua morte, tanto che ancora nel 1868 e nel 1873 l’editore Litolff pubblico` in due volumi trentadue delle sue Sonate per pianoforte. Parecchi critici presero del resto in esame per tutto il secolo la sua produzione. Gia`

Tre Sonate op. 35

nella seconda meta` dell’Ottocento, e poi nel Novecento si ando` pero` accentuando sempre piu` la tendenza a ricercare in Dussek il ‘‘pre’’: prebeethovenismo, preweberismo, preschubertismo, prechopinismo, ecc. ecc., tanto che Dussek divenne una specie di magazzino di trovarobato in cui avevano praticamente spigolato tutti. La collocazione storica di Dussek richiede invece, secondo me, lo studio del biedermeier come primo momento epocale in cui la musica si scinde in due, in cui alcuni compositori rompono l’equilibrio tra lo sviluppo della creativita` individuale e la sottomissione a una entita` collettiva, mentre invece altri compositori lo mantengono. La storia ha per lungo tempo privilegiato i primi e solo di recente ha valutato del tutto positivamente, quand’era il caso, anche i secondi, ma limitatamente alla seconda meta` dell’Ottocento (si pensi a Johann Strauss junior e a Offenbach), mentre per la prima meta` del secolo si parla piuttosto ancora di ‘‘minori’’ o di ‘‘piccoli maestri’’. La produzione di Dussek va guardata invece come l’opera di un giornalista, non di un saggista o di un romanziere, e, come avviene per i giornalisti, e` possibile trovare in essa sia cio` che resta strettamente legato all’attualita` e con l’attualita` perisce, sia cio` che merita di entrare nell’alveo della cultura storicistica. Cominciando dai Concerti, ai quali fu soprattutto affidata la fama del Dussek pianista, bisogna soffermarsi secondo me sul Concerto in Fa op. 17 (1792), sul Concerto in Si bemolle op. 22 (1793), sul Grande Concerto militare in Si bemolle op. 40 (1798) e sul Gran Concerto in sol op. 49 (1801). Tutti questi Concerti possono essere definiti ‘‘mozartiani’’ di forma, di scrittura, di linguaggio. Ma non si tratta di imitazioni mozartiane quanto, piuttosto, di uso di una lingua franca di cui si era servito Mozart e di cui si serviva Dussek. Piu` che dipendere da Mozart, i Concerti di Dussek appartengono alla cultura inglese e sono da vedere nella scia dei concerti di Johann Christian Bach e di Johann Samuel Schro¨ter che anche Mozart aveva conosciuto nel suo soggiorno londinese degli anni sessanta. Non voglio dire con cio` che i Concerti di Dussek raggiungano la qualita` dei Concerti di Mozart, ma solo che posseggono una loro autonomia e che conseguono risultati degni di ogni considerazione. La tecnica pianistica e` piu` ‘‘moderna’’ di quella mozartiana, gia` nel Concerto op. 22 viene abolita la Cadenza nel primo movimento, i temi non sono semplicemente orecchiabili. E il Concerto op. 49, molto drammatico nel primo movimento che, insolitamente, e` in tempo di tre quarti (solo due dei ventisette Concerti di Mozart hanno il primo movimento in misura ternaria, e nessuno

Jan Ladislav Dussek

dei Concerti di Beethoven), prosegue con un Adagio nella lontana tonalita` di la bemolle maggiore e si conclude con un Rondo` malinconico e ironico insieme. Anche ammettendo che Dussek fosse partito da Mozart, il che secondo me non e`, bisogna dire che era andato oltre e che nel 1801 si trovava nei paraggi di Beethoven, il quale stava componendo il suo Concerto n. 3. Dussek compose sonate per pianoforte solo e per pianoforte a quattro mani (e per arpa, per pianoforte e flauto, per pianoforte e violino, per pianoforte, violino e basso). Le ventinove Sonate per pianoforte solo, come le Sonate di Clementi, presentano dislivelli di qualita` che riflettono sicuramente il rapporto di Dussek con un mercato editoriale sempre desideroso di novita`. La Sonata in La bemolle op. 5 n. 3 (1788) e` la prima per pianoforte solo (le altre due dell’op. 5 sono ‘‘con violino obbligato’’): e` in due movimenti e, a parte la tonalita` ancora insolita a quel tempo, si distingue dalla produzione corrente solo per un insolito uso di armonie enarmoniche. Le Tre Sonate op. 9 (1789 ca.) sono ‘‘con accompagnamento di violino’’, ma la parte dello strumento accompagnante e` del tutto sussidiaria e fu abolita dalla terza edizione in poi. La prima delle tre Sonate, in Si bemolle e in due movimenti, definisce benissimo la personalita` di Dussek: primo movimento molto ampio, turgido e di tipo sinfonico, secondo movimento a modo di pastorale, un po’ gracile di scrittura ma melodicamente molto gradevole. Altrettanto scorrevole e festosa la terza Sonata, sempre in due movimenti, e in Re. Le Tre Sonate op. 10 (1789 ca.) e le Tre Sonate op. 14 (1791) non presentano novita`, se si eccettua il Rondo` della prima, costruito su una ‘‘Aria russa’’. Il Rondo` della terza Sonata, pubblicato poi separatamente, divenne uno dei pezzi piu` ‘‘gettonati’’ dai dilettanti. Della Sonata in Si bemolle op. 24 (1793) bastera` dire che il suo primo tema e` praticamente identico al tema di ‘‘La stessa, la stessissima’’ del Falstaff di Salieri su cui Beethoven costruı` le Variazioni WoO 75. Salieri compose pero` il Falstaff sei anni piu` tardi, nel 1799. La prima sonata che esce dallo schema rococo` dei due movimenti e` la Sonata in Re op. 25 n. 2 (1795), molto originale nel primo movimento in tempo Presto con Adagio maestoso introduttivo, e con un Rondo` finale che ando` come il pane e che venne percio` ripubblicato separatamente con il titolo La Mattina. La Sonata in Re op. 31 n. 2 (1795) introduce nel finale un canto popolare scozzese. Delle Tre Sonate op. 35 (1797) e` soprattutto notevole la terza, in do-Do, in quattro movimenti e con un Intermezzo che precede il finale in modo maggiore. Questa Sonata fu una manna per 221

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Jan Ladislav Dussek

Eric Blom, che pubblicando nel 1927 il saggio Le Profezie di Dussek non ebbe difficolta` a elogiare l’op. 35 n. 3, sostenendo che meritava di essere chiamata Patetica piu` dell’op. 13 di Beethoven. La Patetica di Beethoven fu pubblicata nel 1799: non e` dunque affatto escluso che a Vienna fosse arrivata nel 1798 l’op. 35 n. 3 di Dussek e che Beethoven l’avesse avuta fra le mani. Ma se c’e` da dare a Cesare quel che e` di Cesare bisogna anche dare a Dio quel che e` di Dio. E il Dio sarebbe in questo caso, secondo me, Gluck, dalla cui Danza degli Sciti dell’Ifigenia in Tauride Dussek aveva ricavato il tema per un Rondo` in do minore pubblicato nel 1796 e che ha come indicazione di tempo un unicum: Allegretto selvatico. Possiamo saltare tranquillamente le Tre Sonate op. 39 (1799) e la Sonata op. 43 (1800), ma non la Nuova Grande Sonata per Piano Forte composta e dedicata al suo amico Muzio Clementi ‘‘L’Addio’’ in Mi bemolle op. 44 (1800), ricchissima di quelle note doppie che erano la specialita` del dedicatario. Dussek, fuggito da Londra, mantenne rapporti epistolari con Clementi, che pubblico` la Sonata op. 44 e le tre Sonate op. 45. L’op. 44 inizia con una Introduzione. Grave in mi bemolle minore e prosegue con l’Allegro moderato in mi bemolle maggiore. L’espressione patetica e` molto intensa, e intensa rimane nel Molto Adagio e sostenuto in si maggiore e nel Tempo di Minuetto in sol diesis minore, ma anche il finale, in mi bemolle maggiore, mantiene la tensione con un tema sincopato. Si direbbe che per la prima volta Dussek riversasse in una composizione un’esperienza esistenziale che dovette essere traumatizzante per lui, costretto a fuggire abbandonando la giovane moglie e la figlia. Dal continente Dussek mando` a Clementi le Tre Sonate op. 45 (1800) che... tornano poeticamente indietro, verso il mondo arcadico, e sulla stessa linea si mantenne con le due vivaci Sonate op. 47 (1801). La successiva Sonata e` la Elegia armonica sulla morte di Sua Altezza il Principe Louis Ferdinand di Prussia in fa diesis op. 61 (1806, 1807). Qui, nel Lento patetico, nel Tempo agitato e nel Tempo vivace e con fuoco, sempre in fa diesis, Dussek ritrova il mondo espressivo dell’Addio, dandoci una composizione molto densa sia melodicamente che armonicamente. L’arrivo a Parigi al seguito del principe di Benevento fu celebrato da Dussek con la sua piu` importante Sonata, Il ritorno a Parigi in La bemolle op. 64 (1807). Sfogliando questa Sonata si prova una strana sensazione: il secondo e il quarto movimento, visti dall’occhio, sembrano scritti da Schubert. A parte il fatto che Schubert aveva allora dieci anni, il finale di Dussek, soprattutto, sembra 222

Tre Sonate op. 39

schubertiano anche per l’orecchio. In questo caso il preschubertismo ci sta benissimo, a patto pero` di non intenderlo come premonizione parziale e confusa ma come appartenenza a un mondo poetico che e` nello stesso tempo complementare e alternativo rispetto a Beethoven. La Sonata op. 64 fu ripubblicata anche con il numero d’opera 70 e, con il titolo mutato in Plus ultra, con il n. 71. Joseph Woelffl aveva pubblicato una Non plus ultra Sonata op. 41. Dussek, o il suo editore inglese, volle dichiarare che la Sonata di Dussek superava in difficolta` quella di Woelffl: il che e` vero, come e` vero che entrambe, sebbene assai difficili, erano ancora al di sotto di quello che stava per capitare con Hummel e Moscheles. La Sonata in Re op. 69 n. 3 (1811) sembra in qualche momento una sinfonia di Mozart: scrittura orchestrale e grande slancio, con un finale, Caccia. Allegro scherzo, brillantissimo. E la Sonata in Mi bemolle op. 75 torna anch’essa indietro di trent’anni. Rimpianto per il Settecento arcadico? Si direbbe. Questi ripiegamenti verso il passato sono anche di Beethoven, ma in Beethoven non manca lo straniamento, il distacco manieristico che e` invece assente in Dussek. Ultima Sonata di Dussek e` L’Invocazione in fa op. 77 (1812). Dopo un drammatico primo movimento, Allegro moderato, ma energico, il Tempo di Minuetto e` indicato come Canone alla seconda. Si trovano talvolta nelle Sonate di Clementi dei canoni che in genere ‘‘raffreddano’’ l’atmosfera. Il Canone di Dussek e` invece deliziosamente umoristico, e se volessimo continuare con il giochetto del pre dovremmo questa volta tirare in causa Brahms. L’Adagio non troppo, ma solenne, e il Rondo`, insolitamente serioso, completano la Sonata. Si ignora la ragione del titolo L’Invocazione. I commentatori hanno concordemente parlato di preromanticismo. Ma io credo che si possa invece parlare di romanticismo tout court. Il tempo in cui si discuteva se Beethoven fosse classico o romantico e` passato da un pezzo e oggi si usa comunemente parlare di classicita` viennese che comprende anche Schubert. Il romanticismo e` pianta acclimatatasi in modi diversi nei diversi climi. Se il romanticismo francese nasce negli anni venti dell’Ottocento, il romanticismo tedesco e il romanticismo inglese, in letteratura, erano nati alla fine del Settecento. Dussek e` imbevuto di cultura tedesca e inglese, e quindi possiamo dire tranquillamente che, essendo partito dal rococo` di Johann Christian Bach, egli approdo` alla fine al romanticismo. Di qui la sua importanza storica, che ne fa non un ‘‘minore’’ nell’ambito della classicita` viennese ma un protagonista in un’altra civilta`.

Dodici Studi melodici op. 16

Tra le composizioni a programma di Dussek sono ancora da citare Le sofferenze della Regina di Francia, op. 23 (1793) quadro musicale che esprime i sentimenti dell’infelice Maria Antonietta durante la sua carcerazione, il processo, ecc. , in dieci movimenti con finale ghigliottinatura, e La Bat-

Jan Ladislav Dussek

taglia navale e totale disfatta della grande flotta olandese per opera dell’ammiraglio Duncan l’11 ottobre 1797 (1797). Le Sei Sonatine op. 20 (1793) sono ancor oggi utilizzate didatticamente e i Dodici Studi melodici op. 16 (1794 ca.) meriterebbero di essere ripresi.

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Antonı´n Dvorˇa´k

Dodici Studi melodici op. 16

Antonı´n Dvorˇa´k (Nelahozeves, 8 settembre 1841-Praga, 1º maggio 1904) Sviatoslav Richter scelse il Concerto in sol op. 33 (1876) di Dvorˇa´k per il suo esordio a Filadelfia nel 1960 e a Londra nel 1962. Il Concerto op. 33 faceva parte allora del repertorio di Rudolf Firkusˇny´ e di Harriet Cohen, ma era ben poco noto. Firkusˇny´ ne eseguiva la versione di Wilem Kurz, che era intervenuto sull’originale di Dvorˇa´k con radicali modificazioni della parte solistica, e anche la Cohen ne aveva preparato una sua versione. Entrambi pensavano non senza ragione che la strumentazione pianistica di Dvorˇa´k fosse inutilmente faticosa per l’esecutore e poco ‘‘redditizia’’ per lui, e avevano proceduto di conseguenza. La Cohen, che aveva eseguito il Concerto nel 1941, in occasione del centenario della nascita di Dvorˇ a´k, confessa nella autobiografia di aver dovuto fare allora ‘‘qualche alterazione’’. Richter aveva invece scelto la versione originale. ‘‘L’unica persona che ho sentito suonare ogni singola nota di questo lavoro come e` scritta e` Sviatoslav Richter’’, dice la Cohen, che dopo l’esecuzione ando` in camerino a complimentarsi con Richter. Richter le disse galantemente: ‘‘Ero un po’ nervoso quando mi fu detto che lei era qui, perche´ so che ha tenuto la prima esecuzione a Londra’’ (non era stata la prima esecuzione, il Concerto non solo era stato eseguito a Londra nel 1938 da Firkusˇny´, ma era stato presentato alla fine dell’Ottocento da Oscar Beringer e da Charles Halle´). In verita`, la scrittura pianistica del Concerto e` pensata per il pianoforte e non per il pianista, e pone all’esecutore molti problemi tecnici di difficile soluzione senza che la resa diventi spettacolare all’atto dell’esecuzione. Ragionando del Concerto op. 23 di Cˇajkovskij Richter dice nella sua breve autobiografia: ‘‘Parlando tecnicamente, questo e` forse il lavoro piu` difficile del repertorio, insieme con quello di Dvorˇa´k, pezzo che praticamente nessuno suona ma per il quale ho un particolare affetto. Nel Concerto di Dvorˇa´k ci sono taluni passaggi terrificanti dal punto di vista tecnico, con quelle doppie terze in entrambe le mani. [...] Mi ci vollero due anni prima di avere nelle mani il Concerto di Dvorˇa´k’’. Si puo` dunque applicare al Concerto di Dvorˇa´k cio` che Brendel dice delle ‘‘perversioni pianistiche’’ del Concerto n. 2 di Brahms. Ma la scrittura di Dvorˇ a´ k, come quella di Brahms, non e` in realta` ne´ emendabile ne´ migliorabile. La versione di Kurz (1872-1945), 224

ispirata alla linea Liszt-Busoni, soddisfa il solista e stravolge il quadro sonoro, tant’e` che dopo l’exploit di Richter lo stesso Rudolf Firkusˇny´, interprete storico del Concerto, comincio` a ripristinare un poco alla volta la scrittura originale. Il Concerto e` di struttura tradizionalissima e di proporzioni monumentali: tre movimenti, piu` di quaranta minuti. Dvorˇa´k, senza nulla tentare di nuovo, si vale da grande professionista delle forme tradizionali, i suoi temi, ispirati al folclore boemo e moravo, sono tali da attirare l’attenzione del pubblico. Il compositore si era pero` reso conto del fatto che nella cultura tedesca, dopo il Concerto n. 1 di Brahms, si doveva mantenere un equilibrio fra un virtuosismo pianistico esasperato e un rapporto fra il solista e l’orchestra che esaltando il ruolo del primo non vanificasse la presenza della seconda. Il problema storico, che di lı` a poco sarebbe stato risolto da Brahms, veniva individuato con esattezza, ma Dvorˇa´k non era in grado di inventare una strumentazione pianistica interamente nuova. Tratti di assoluta originalita` vanno nel Concerto accanto a tratti che sembrano addirittura citazioni di Beethoven, di Chopin, di Brahms. Questi caratteri fra il nuovo e l’anacronistico rappresentano tuttavia proprio la particolarita` che rende il Concerto storicamente interessante e significativo, e solo la versione originale, per quanto squilibrata, e` quella che conviene a mettere in luce tutto cio`. Le composizioni pianistiche piu` note di Dvorˇ a´k sono le due serie delle Danze slave a quattro mani op. 46 e op. 72 (1871 e 1886), che dovettero pero` ‘‘lottare’’ sempre con la trascrizione per orchestra che le rende timbricamente piu` ricche e piu` affascinanti. Dvorˇ a´k non impiega temi tratti dal folclore ma inventa lui un folclore immaginario perfettamente... plausibile. Accanto a danze boeme come il furiant troviamo la dumka ucraina, il kolo serbo, persino la sousedska´ op. 46 n. 5 in Tempo di minuetto. Ciascuna delle raccolte comprende otto pezzi. Fra i piu` noti sono da citare l’op. 46 n. 1, l’op. 46 n. 2, l’op. 46 n. 8, l’op. 72 n. 7 e, celeberrima come pittura della malinconia slava, l’op. 72 n. 2. Anche le dieci Leggende a quattro mani op. 48 (1880) furono trascritte per orchestra, ma non divennero note ne´ nell’una, ne´ nell’altra versione. I dieci pezzi – strano, trattandosi di Leggende – non hanno titoli, il tono e` popolaresco, la

Otto Umoresche op. 101

scrittura e` molto efficace, come del resto quella delle Danze slave. L’ultima raccolta di Dvorˇa´k a quattro mani e` Dalle foreste boeme op. 68. I sei pezzi dell’op. 68 hanno titoli: All’arcolaio, Vicino al Lago Nero, Notte di sabba, Montando la guardia, Silenzio delle foreste, Tempi torbidi. Scritta su commissione di un editore, l’op. 68 si indirizza verso i dilettanti, e quindi si mantiene nella linea del pezzo di carattere che era partita da Schumann e che era diventata popolarissima con i suoi seguaci come Reinecke e Heller. Con la scomparsa dei dilettanti che fanno musica in ambito familiare si e`... volatilizzata anche la fama dei pezzi per pianoforte a quattro mani di Dvorˇ a´ k, che tuttavia non sfigurano affatto nel panorama di una letteratura dominata dalla figura di Schubert. I pianisti sono sempre incuriositi quando vedono che Dvorˇa´k compose per pianoforte una Suite in la op. 98 (1894), tanto vicina come numero d’opera alla Sinfonia Dal Nuovo Mondo op. 95 e al Quartetto op. 96, entrambi cosı` ‘‘americani’’. La lettura della Suite dimostra pero` che Dvorˇ a´ k, componendo il pezzo in pochi giorni, lo aveva appena spruzzato un po’, e distrattamente, di profumi americani. La curiosita` iniziale si risolve cosı` in sostanziale delusione e solo l’ultimo dei cinque pezzi della Suite lascia intravvedere che cosa sarebbe potuta essere una vera Suite Dal Nuovo

Antonı´n Dvorˇa´k

Mondo. Un’impressione non migliore lascia l’altro lavoro di un certo impegno compositivo di Dvorˇ a´ k, il Tema e variazioni in La bemolle op. 36 (1876), evidente conseguenza dello studio effettuato sulle opere di Beethoven e in particolare, come e` stato notato molte volte, sulla Sonata op. 26. Dvorˇa´k sembra prendere coraggio a mano a mano che avanza nella serie delle variazioni e l’ultimo quarto del lavoro e` molto piu` interessante del resto. Il Tema con variazione non sembra comunque recuperabile alla vita musicale di oggi. Meriterebbero invece di attirare l’attenzione dei concertisti, e molto, gli otto Valzer op. 54 (1879-1880), salottieri, eleganti, piccanti, melodicamente originali, paragonabili ai Valzer op. 39 di Brahms e perfetto pendant slavo della viennesita` di quelli (detto per inciso, il fatto che cosı` tante raccolte di Dvorˇa´k siano formate da otto pezzi lascia supporre che egli attribuisse al numero un valoro simbolico; anche Schumann prediligeva il numero otto...). Nelle Otto Umoresche op. 101 troviamo uno dei pezzi piu` famosi di Dvorˇa´k, il sinuoso, nonchalant e nostalgico n. 7 in Sol bemolle, un must che in passato, nella trascrizione per violino e pianoforte, spopolo` addirittura nel caffe`-concerto. Dvorˇa´k compose ancora moltissime altre pagine per pianoforte, con risultati alterni, ma in questa sede possiamo passarle sotto silenzio senza grave danno.

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Johann Gottfried Eckard

Otto Umoresche op. 101

Johann Gottfried Eckard (Augsburg, 1º gennaio 1735-Parigi, 24 luglio 1809) Arrivando a Parigi nel 1763 la tribu` dei Mozart – padre, madre, la ragazzina Nannerl e il bimbetto Wolfgang – ebbe la sorpresa di trovarvi quattro clavicembalisti tedeschi che nella capitale francese s’erano scavata una confortevole nicchia. E trascrivendo per clavicembalo e orchestra brani diversi delle musiche di questi artisti Mozart, dopo il ritorno a casa, mise insieme i suoi primi quattro Concerti. Tutti gli esegeti mozartiani concordano nel dire che i clavicembalisti tedeschi pariginizzati – Honauer, Raupach, Eckard, Schobert – ebbero un ruolo nella formazione artistica di Mozart. E` probabile che tutti e quattro avessero anche a che fare con il pianoforte. Ma solo Eckard destino` al pianoforte alcuni suoi lavori. Il catalogo di Eckard e`... spartano: Variazioni sul Minuetto di Exaudet (1764), Sei Sonate op. 1 (1763), Due Sonate op. 2 (1764). Quarant’anni piu` tardi Eckard si rifece vivo con le Variazioni su un’aria del Don Giovanni (1804) e con le Variazioni su un’aria dei Misteri di Iside (1804; i Misteri di Iside erano una versione pasticciata del Flauto magico). Le Variazioni sul Minuetto di Exaudet – Exaudet era un notissimo violinista in servizio a corte – sono per clavicembalo. Anche le Sonate op. 1 sono per clavicembalo, ma nella prefazione Eckard dice di aver ‘‘cercato di rendere quest’opera di comune utilita` al clavicembalo, al clavicordo e al pianoforte’’, e di essersi percio` sentito ‘‘obbligato a notare molto spesso i piano e i forte, cosa che sarebbe stata inu-

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tile se avessi pensato soltanto al clavicembalo’’. Le Sonate op. 2 sono indicate nel frontespizio ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’, e le due tarde serie di variazioni sono soltanto ‘‘per pianoforte’’. Eckard non ebbe incarichi presso l’aristocrazia, ma fu un insegnante privato, molto stimato e molto richiesto, che trasse i suoi guadagni sia dalla tastiera che dall’arte della miniatura, di cui era espertissimo. Miniatura in senso letterale, non metaforico. Ma sta di fatto che anche le opere per tastiera di Eckard sono miniature, in uno stile galante gia` pienamente affermato che deve molto a Domenico Alberti e qualcosa a Carl Philipp Emanuel Bach. Una delle Sonate op. 1, la quarta, che fu scelta da Mozart per il bellissimo Andante centrale del Concerto K 40, e` in un solo movimento, le altre sono in tre movimenti. I primi movimenti sono in forma tipica di allegro di sonata, i secondi movimenti sono intrisi di tenerezza, i finali brillanti. Eckard e` certamente un poeta minore. Ma e` poeta. Le sue Sonate, che sono presenti in discografia, sono troppo semplici e troppo poco impegnative tecnicamente per interessare ai concertisti (solo Erdman ebbe in repertorio la Sonata op. 1 n. 4). Chi ama la letteratura pianistica non puo` pero` fare a meno di conoscerle: sono le prime composizioni, dopo quelle di Lodovico Giustini, che investono sul pianoforte, sia pure in coabitazione con clavicembalo e clavicordo, e che tengono conto delle sue specificita`.

Quattro Pezzi spagnoli (Aragonesa, Cubana, Montan˜esa, Andaluza)

Manuel de Falla

A Manuel de Falla

B

(Cadice, 23 novembre 1876-Alta Gracia, 14 novembre 1946) Manuel Maria de los Dolores de Falla y Matheu comincio` a studiare il pianoforte con la madre, poi fu allievo, nel conservatorio di Madrid, di un insegnante di ottima reputazione locale, Jose´ Trago´, che aveva studiato a Parigi con uno dei pochissimi discepoli maschi di Chopin, Georges Mathias. Studi regolari e coscienziosi, quelli di Falla, non mediocri e non particolarmente brillanti, coronati da un diploma con primo premio ottenuto nel 1899 e con la vittoria nel 1905 in un concorso locale di esecuzione. Le composizioni pianistiche che si collocano fra il 1896 e il 1903 ci dicono che i modelli seguiti da Falla erano i piu` convenzionali: Chopin, Schumann, Grieg, l’Albe´niz prima maniera, lo stile medio della musica da salotto. I musicologi spagnoli tendono a enfatizzare minimi particolari di questi pezzi per dimostrare che Falla arrivava a intuire qualcosa che non conosceva direttamente: ad esempio, le Gymnope´dies di Satie. Ma tutto quello che secondo me si puo` dire e` che Falla, seguendo modelli ormai logorati dal lungo uso, non mancava di riviverli con quella misura di gusto, di riservatezza e di sobrieta` che sarebbe stata poi sempre una sua caratteristica. Nelle otto composizioni del 1896-1903 (qualcosa, ma poco, e` andato perduto) noi troviamo cosı` una specie di sintetico campionario dei generi da salotto e da concerto: il Notturno (1896) e la Mazurca (1899) alla Chopin, il Corteggio di gnomi (1901) alla Grieg ‘‘arcaicizzante’’, la Serenata andalusa (1900) alla Albe´niz, la Canzone (1900) alla Cˇajkovskij, il Valzer-capriccio (1900) alla Granados, la Serenata (1901) alla Burgmein. Il pezzo di gran lunga piu` ambizioso e` ovviamente l’ultimo, l’Allegro da concerto (1903), presentato a un concorso bandito dal conservatorio di Madrid e vinto dall’Allegro da concerto di Granados. Qui, sembrerebbe, Falla prese a modello – non per la forma, ma per la scrittura – l’Allegro da concerto op. 46 di Chopin, adottando una strumentazione ricca di effetti orchestrali e che interpretava diligentemente le finalita` del concorso, ma che era per lui intimamente estranea. Il complesso di questi pezzi, paragonato con cio` che negli stessi anni faceva Szymanowski, piu` giovane di Falla di sei anni, ci dice ad abundantiam quali stimoli ricevesse uno studente di talento in una Madrid, rispetto a cio` che un altro giovane di talento riceveva in una Varsavia che

non era di certo una metropoli della musica ma che era legata alle grandi civilta` tedesca e russa. I Quattro Pezzi spagnoli (ca. 1906-1908), schizzati gia` in Spagna ma lavorati a fondo a Parigi, dove Falla si era trasferito nel 1907, ci dicono qualcosa di piu` . Ci dicono che, avendo conosciuto ed essendo diventato amico di Albe´niz, Falla si era accorto della neonata Iberia, ci dicono nello stesso tempo che non possedeva la rigogliosa invenzione pianstica del tardo Albe´niz e che non si era accorto se non marginalmente dello ‘‘spagnolismo’’ di Debussy e di Ravel, o che non ne aveva tratto conseguenze. Non si era accorto neppure del fatto che nel Debussy e nel Ravel di inizio secolo stavano apparendo di frequente esempi di scrittura neoclavicembalistica, non piu` legata alle rievocazioni nostalgiche dell’Ottocento. Scrittura neoclavicembalistica e spagnolismo compaiono fusi in una sintesi del tutto nuova nella Alborada del gracioso di Ravel, scritta fra il 1904 e il 1905, e quindi poco prima che Falla arrivasse a Parigi. L’Alborada e` una serenata spagnola con il suo bravo trio, con le strappate di accordi di chitarra, con le note ribattute tanto comode quando si tiene fra le dita un plettro e tanto scomode quando si viaggia su una tastiera accidentata, con le doppie note scivolate che vengono spontanee sulle corde e che sui tasti procurano persino abrasioni della pelle, con il cantare sentimentale e appassionato e persino tragico e fosco di quel povero gracioso, che non possiede l’eleganza e l’aplomb di Don Giovanni. E con tutto il carico del pittoresco che decenni di spagnolismo pianistico avevano depositato sul genere. Ma Ravel ricade nello spagnolismo di maniera tanto quanto vi ricade Picasso. L’angolosita` dei disegni e gli accordi grezzi nei quali vengono inserite appoggiature cromatiche aprono un modo coloristico di concepire l’armonia che non era per nulla ignoto a quello spagnolo d’acquisto che si chiamava Domenico Scarlatti. Marcel Marnat afferma che l’Alborada ‘‘appare, oggi, come una maniera di collegamento, un poco profetica, fra Scarlatti e il meglio della futura musica spagnola’’. E conclude, il Marnat: ‘‘A Ravel spetta dunque l’aver creato ‘per la Spagna’ questo pianismo secco, espressionista a furia di rigore’’. Attraverso il pittoresco delle chitarre, Ravel riscopriva la vecchia tastiera a pizzico del clavicembalo, attraverso il 227

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Manuel de Falla

popolaresco della Spagna riscopriva Scarlatti. E nacque, con l’Alborada, un nuovo pianismo trascendentale. Chiedo scusa se ho parlato della Francia e di Ravel, e non di Falla. Ma dovevo necessariamente far osservare entro quale vertiginoso volo manieristico venisse a capitare il nostro uomo intelligente e schivo, arrivando a Parigi con la sua datata cultura madrilena e con i suoi Quattro Pezzi spagnoli incominciati e non finiti. Li finı`, dicevo, accorgendosi un po’ di Albe´niz, un pochino di Debussy e non di Ravel. Ma se in senso storico stanno a latere della grande corrente, riparati in una – come dire? – tranquilla insenatura del fiume, in senso estetico i Quattro Pezzi spagnoli sono incomparabilmente piu` avanti dei lavori del 1896-1903. Aragonesa, Cubana, Montan˜esa, Andaluza: Falla e` piu` ‘‘ecumenico’’ di Albe´niz, che in Iberia esaltava solo la Spagna del Sud, perche´ spazia dalla Aragona alle montagne incastrate fra le Asturie e i Paesi baschi, non esclude, ben s’intende, la Andalusia, e inserisce persino nel quadro nazionalistico, nostalgicamente, l’isola di Cuba, ex-colonia che aveva conquistato l’indipendenza nel 1898. Ne´ la strumentazione ne´ il linguaggio sono di avanguardia, ma escono dal grigio anonimato dei pezzi precedenti, e le atmosfere sono nettamente definite e caratterizzate. Qualche spruzzatina di convenzionalita` e` riscontrabile nel primo e nell’ultimo pezzo, popolareschi e vigorosi, mentre Cubana e` una sensuale e molle scena di taverna, di grande fascino, e Montan˜esa rievoca la dolcezza e la malinconia serale dell’alpeggio con tocchi di campanacci che possono ricordare un pochino Grieg e un pochino Mahler. Falla cita direttamente qualche canto popolare autentico ma costruisce soprattutto temi di stampo folclorico di sua invenzione. Alla fine di Andaluza sbuca fuori una mascherata citazione di Sera a Granata di Debussy, pezzo ammiratissimo da Falla. Non appena battezzati i Quattro Pezzi spagnoli, affidati a un padrino di Debussy e di Ravel come il pianista spagnolo Ricardo Vin˜es, Falla comincio` a lavorare a Notti nei giardini di Spagna per pianoforte e orchestra (1909-1915). In un primo momento egli pensava di comporre tre notturni per pianoforte solo, ma Albe´niz e Vin˜es, che evidentemente sapevano ben valutare le capacita` o, meglio, le incapacita` di Falla a valersi di una scrittura concertistica, gli consigliarono di sfruttare anche l’orchestra. Lavoro lento, lentissimo, lavoro di cesello per una partitura nella quale il pianoforte e` pienamente integrato in una orchestra che e` come un antico codice miniato e smaltato. Nel 1915, quando il pezzo fu ultimato, il 228

Notti nei giardini di Spagna per pianoforte e orchestra

termine ‘‘impressionismo’’ stava andando out, ma Falla, che era un personaggio serafico, sottotitolo` le Notti ‘‘Impressioni sinfoniche’’, anche se aggiunse poi un commento: ‘‘La musica non pretende di essere descrittiva, e` pienamente espressiva’’. E parlo` anche di ‘‘evocazioni’’, non tanto dei ‘‘suoni delle festivita` e delle danze’’ quanto della ‘‘malinconia’’ e del ‘‘mistero’’. I tre pezzi sono rispettivamente ispirati ai giardini moreschi di Granata, a una Danza lontana e ai giardini della Sierra di Cordoba. Falla dichiara di essersi basato ‘‘su ritmi, modi, cadenze, figurazioni ornamentali che caratterizzano la musica popolare dell’Andalusia’’. La strumentazione risente degli esempi di Ravel, specie, ovviamente, della Rapsodia spagnola, la scrittura pianistica risente di Debussy e di Ravel, e in parte anche del Saint-Sae¨ns del Concerto n. 5 L’Egiziano e dello Studio Le Campane di Las Palmas, ma sempre in una forma semplificata, ben lontana dalle ingegnerie timbriche delle Images e del Gaspard e dell’Egiziano. Non sono abbastanza competente per capire come il linguaggio popolare andaluso passasse attraverso il filtro di Falla, ma mi sembra evidente che le Notti non fondano uno stile spagnolo nuovo quanto, piuttosto, trovano soluzioni linguistiche nuove passando attraverso la cultura francese. Questa partitura, in cui la parte del pianoforte non e` tale da esaltare il virtuoso che la esegue, trovo` un solo strenuo difensore fra i maggiori concertisti, Artur Rubinstein, che la eseguı` molto spesso e che si rammarico` per non esserne stato il primo interprete (prima di lui le Notti furono eseguite da Jose´ Cubiles e dal dedicatario, Ricardo Vin˜ es). Ed e` un vero peccato che le Notti nei giardini di Spagna abbiano cosı` poche esecuzioni. Le piu` lontane, ma dirette conseguenze della Alborada del gracioso le troviamo nella Fantasia baetica (Fantasia andalusa – Provincia Baetica era il nome latino della Andalusia –, 1919). La costruzione della Fantasia baetica e` chiarissima, comprensibilissima: struttura in tre parti, in pratica una esposizione e una riesposizione abbreviata, separate da un intermezzo. Il primo movimento della Fantasia op. 17 di Schumann e la Fantasia op. 49 di Chopin potrebbero, dico potrebbero essere stati per Falla i modelli; la struttura, sebbene molto articolata, e` pero` semplice nelle sue linee generali e l’ascoltatore vi si ritrova facilmente. I temi sono molto piacevoli, poiche´ si tratta di linee melodiche costruite da Falla tenendo conto del canto popolare del Sud della Spagna: temi, quindi, caratteristici e di grande fascino. La ambientazione andalusa e` inoltre ottenuta da Falla con disegni che ricordano con tutta evidenza i

Per la tomba di Paul Dukas

suoni delle chitarre e le serenate con chitarre, gli strumenti a percussione, il battito dei piedi e delle mani. Pero` la Fantasia baetica, che fu commissionata da Artur Rubinstein e che da lui fu eseguita pochissime volte, non solo non divenne mai popolare, ma venne e viene ripresa raramente. Che cosa ha impedito a questo capolavoro di diventare un pezzo di repertorio? Secondo me, la sua scrittura pianistica, che in realta` e` il suo carattere piu` originale. Falla stava intravvedendo lo strumento, a pizzico come le chitarre ma con tastiera, che rimandava alla Spagna barocca: il clavicembalo. Dal canto popolare, dal folclore senza storia, egli stava passando alla storia della civilta` spagnola, e nell’anno in cui compose la Fantasia baetica inizio` l’opera da camera, da Cervantes, El Retablo de Maese Pedro, nella cui piccola orchestra inserı` il clavicembalo. Il clavicembalo dell’operina non e` pero` quello autentico di Scarlatti ma quello inventato da Wanda Landowska. Rispetto a Scarlatti, la cultura tardoromantica tedesca partiva dall’idea di trascrizione pianistica del testo, la cultura francese dall’idea di trasformazione transpianistica del pianoforte. Orbene, la Landowska, residente a Parigi dal 1900 al 1913, parte da un’idea di trascrizione, non del testo ma della resa sonora del testo, perche´ il suo clavicembalo possiede potenzialita` meccaniche e coloristiche che il clavicembalo antico non possedeva. Il Concerto per clavicembalo (o pianoforte) e cinque strumenti (1923-1926) e` pensato da Falla come concepito per il clavicembalo moderno ed eseguibile anche sul pianoforte moderno. In questo strumento si incarna l’arcaismo di Falla e verso questo strumento gia` tende la Fantasia baetica. Il parallelo fra il clavicembalo moderno e i testi settecenteschi eseguiti per comodita` sul pianoforte non si pone pero`, per la Landowska, in termini diretti, ma nel senso del parallelo fra i testi settecenteschi e le trascrizioni pianistiche da concerto che dai testi settecenteschi avevano ricavato molti virtuosi. Falla, che gia` concepisce spesso la sonorita` della Fantasia baetica in termini clavicembalistici, non ‘‘trascrive’’ pero` poi il suo testo al modo dei concertisti del tardo Ottocento, non lo traduce cioe`, sul pianoforte, nei termini sonori che acquisterebbe se venisse eseguito sul clavicembalo moderno. Ne´, d’altra parte, Falla e` in grado di adottare la soluzione di Ravel, perche´ non sa o non vuole inventare – che e` lo stesso – un virtuosismo trascendentale basato sul timbro. Alla bellezza del temi, alla scintillate nettezza dei disegni, alla vivacita` ritmica della Fantasia baetica mancano non di rado gli spessori e i volumi che siamo avvezzi a trovare nella musica da concerto. Ne´ si potrebbe

Manuel de Falla

eseguire la composizione sul clavicembalo – come e` stato fatto senza successo – perche´ varie sue parti sono pensate in termini squisitamente pianistici. Come si sarebbe detto un tempo, si tratta di un’opera ‘‘di transizione’’, che richiede un ascolto non diretto ma indiretto, mediato attraverso la consapevolezza di cio` da cui Falla proveniva e di cio` verso cui si stava avviando. Non e` uno sforzo facile da compiere, per il pubblico, e in questo senso si spiega la non-popolarita` dell’opera. Ma proprio questi caratteri staccano nettamente Falla dalla cultura simbolista francese e, in particolare, da Ravel. Il superamento del pianoforte e` anche – che non e` in Ravel – superamento della funzione del pianoforte nella vita musicale: e` la dimensione dello spettacolo concertistico, cio` che Falla nega, ed e` la riconquista, neoclassica, del pianoforte da camera, cio` che acquisisce. Siamo nel 1919; non siamo ancora agli ‘‘anni 20’’ e non siamo alla Sonata di Stravinskij. Pero` siamo in quell’ottica. I dati del problema, che e` il problema stesso del comporre per un artista del Novecento, nella Fantasia baetica vengono risolti da Falla in termini nello stesso tempo aderenti a una civilta` nazionale e attuali in senso europeo. E percio` la Fantasia baetica e` un testo ‘‘necessario’’ nella letteratura pianistica del Novecento. Il Concerto dianzi citato e` un concerto da camera con flauto, oboe, clarinetto, violino e violoncello, in tre movimenti, che dura soltanto una decina di minuti in totale. La ricerca della sintesi storica e` evidente nella citazione di un madrigale di autore cinquecentesco, Juan Va´zquez, di un Tantum ergo visigotico, e di Domenico Scarlatti. La composizione, asciuttissima e severissima, non presenta le attrattive dei grandi balletti del decennio precedente ed e` poco nota. Il catalogo pianistico di Falla si completa con tre pezzi brevi: Per la tomba di Debussy (1920), Canto dei battellieri del Volga (1922) e Per la tomba di Paul Dukas (1935). Il primo pezzo, scritto per pianoforte, fu poi trascritto per chitarra su richiesta di Miguel Llobet ed e` piu` noto in questa versione; si tratta di una triste, accasciata habanera, con citazione alla fine della Sera a Granata. Il secondo pezzo e` una raffinatissima armonizzazione del canto popolare russo, in uno stile austero che ricorda Musorgskij e con cupi suoni di campane, realizzata a favore dei rifugiati russi presso la Societa` delle Nazioni, mentre il terzo e` una specie di lenta marcia cerimoniale – non funebre –, solenne e medievalistica in un modo che ricorda il Satie gotico, con frammentarie citazioni della Sonata di Dukas. Non si puo` infine non accennare alle trascrizioni, che contribuirono non marginalmente a 229

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Manuel de Falla

rendere popolare il nome di Falla fra i pianisti: cinque pezzi dal balletto Il Tricorno (1918-1919), due danze dall’opera La vita breve (1904-1905) e quattro pezzi, fra cui la proverbiale Danza rituale del fuoco con la quale Artur Rubinstein si esibiva

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Il Tricorno

nello spettacolare mulinello delle braccia, dal balletto L’Amore stregone (1914-1915). Ricordero` per curiosita` che Falla trascrisse per coro a cappella l’Andantino iniziale della Ballata op. 38 di Chopin.

L’Amore stregone

Gabriel-Urbain Faure´

A Gabriel-Urbain Faure´

B

(Pamiers, 12 maggio 1845-Parigi, 4 novembre 1924) Di tutta la produzione di Faure´ sono rimasti in repertorio, nella vita musicale di oggi, soltanto i settori della musica sinfonico-corale (in particolare il Requiem), della musica da camera e delle melodie per canto e pianoforte, mentre vengono ripresi solo rarissimamente i settori della musica sinfonica (con l’eccezione della suite dalle musiche di scena per il Pelle´as et Me´lisande) e della musica pianistica. L’opera pianistica di Faure´ risulta divisa ‘‘naturalmente’’ in tre periodi ben distinti: 1863-1888, 1893-1897, 1903-1922. Ora, per quanto riguarda il pianoforte e` evidente che nel primo periodo Faure´ aveva in Francia un solo concorrente (SaintSae¨ ns) ma che ne aveva parecchi all’estero (Brahms, Cˇajkovskij, Grieg), che nel secondo periodo cominciava ad avere in Francia la concorrenza di Debussy e che aveva da contrastare il successo folgorante ottenuto fra i dilettanti da Ce´cile Chaminade, mentre all’estero emergevano Albe´niz, Granados, Moszkowski, Scharwenka, e che nel terzo periodo dovette vedersela con Debussy, Ravel, Skrjabin, Rachmaninov. In uno dei momenti – la belle e´poque, in pratica – piu` fecondi di musiche pianistiche sia da concerto che da salotto, Faure´ ce la fece a ritagliarsi un suo spazio. Ma nessuna delle sue composizioni riuscı` durante la sua vita ad avere una effettiva diffusione fra i maggiori concertisti, e dopo la sua morte non ci fu, in campo pianistico, una Faure´-Renaissance, cosicche´ anche le sue musiche di maggiore spicco restarono e restano confinate nella discografia, praticamente affidata per intero a interpreti francesi. L’esordio pianistico di Faure´ avviene con le Tre Romanze senza parole op. 17 (1863, 1880), pubblicate tardivamente e che prima della pubblicazione circolarono manoscritte fra la vasta ‘‘clientela’’ delle lezioni private di Faure´. Dei tre pezzi e` notevole secondo me l’ultimo, e per una particolarita`: la scrittura molto semplice, tipica della musica per dilettanti non tanto ferrati tecnicamente, la cullante monotonia ritmica, la melodiosita` zuccherosa vengono vivacizzate nella riesposizione mediante un canone nel registro acuto, che riproduce sulla carta l’intervento estemporaneo del maestro sulla tastiera. Il maestro di pianoforte sedeva in genere, durante la lezione, a destra dell’allievo, e interveniva talvolta suonando qualcosa nel registro acuto per dare suggerimenti interpretativi o per

arricchire il tessuto. Ci e` stato conservato un inervento di questo genere – un canone, appunto – di Chopin nella parte centrale del Valzer op. 64 n. 2. Nella Romanza senza parole di Faure´ troviamo quindi una specie di quadretto con la lezione di pianoforte, una testimonianza di costume in un pezzo innocente, di morbido fascino melodico. Il primo periodo comprende la piu` vasta e impegnativa composizione di Faure´ , la Ballata in Fa diesis op. 19 (1877-1879, 1880), trascritta nel 1881 per pianoforte e orchestra, eseguita da Faure´ il 23 aprile sotto la direzione di E´douard Colonne e pubblicata in questa nuova versione nel 1901. I temi della Ballata sono tre, il primo in Fa diesis (che equivale a sol bemolle), il secondo in mi bemolle (che equivale a re diesis), il terzo in Si. Fa diesis, mi bemolle, Si: una terza minore e una terza maggiore discendenti, una organizzazione tonale che discende da Schubert e che si ritrova di frequente nella musica di fine Ottocento. La forma riprende sostanzialmente la versione modificata dell’allegro di sonata che si trova nella Ballata n. 3 op. 47 di Chopin. Il termine ballata, riferito da Chopin, da Liszt, da Brahms a contenuti epici o mitici, viene inteso da Faure´ in senso fiabesco: il pezzo, che in se´ non ha nulla di wagneriano, e` pero` stato con ragione paragonato al Mormorio della foresta del Sigfrido di Wagner, e il suo carattere boschivo e incantato, e i canti gioiosi degli uccelli nella parte finale si presentano spontaneamente alla fantasia dell’ascoltatore. La versione per orchestra fu la piu` eseguita, ma in realta` non aggiunge nulla di significativo alla versione originale. Nel 1877 Faure´ accompagno` il suo maestro SaintSae¨ns a Weimar per la prima rappresentazione del Samson et Dalila. Liszt era in quel momento a Weimar e Faure´ – pare, non e` sicuro – gli mostro` la Ballata. Sul tacitiano giudizio di Liszt – ‘‘troppo difficile’’ – si e` molto discusso in Francia senza arrivare a una spiegazione convincente. Jean-Michel Nectoux ritiene pero` che l’audizione della Ballata non sia avvenuta a Weimar nel 1877 ma a Zurigo nel luglio del 1882, che Liszt si sia seduto al pianoforte, che abbia cominciato a eseguire il pezzo a prima vista, e che si sia fermato dopo qualche pagine dicendo: ‘‘Non ho piu` le dita’’. Se le cose stanno cosı` l’episodio diventa chiaro e lampante e non c’e` bisogno di acrobazie mentali per trovare 231

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Gabriel-Urbain Faure´

una spiegazione a quel ‘‘troppo difficile’’ che non trova effettivamene riscontro nella scrittura pianistica della Ballata: troppo difficile per Liszt, che aveva settantuno anni e che soffriva di problemi alla vista. La Ballata viene lodata senza riserve da tutti i critici ed e` effettivamente un pezzo pensoso e meditato, che difetta pero`, secondo me, di progressione narrativa in un arco di quasi quindici minuti, tanto da farmi preferire fra le composizioni coeve – lo confesso – l’eleganza e la spontaneita` superficiale e ingenua dell’Improvviso in Mi bemolle op. 25 (1881, 1882) e della Barcarola in La bemolle op. 44 (1886, 1886). Il primo periodo della produzione pianistica di Faure´ comprende, oltre ai pezzi or ora citati, i Notturni in mi bemolle, Si e La bemolle op. 33 (1875-1882, 1883), in Mi bemolle op. 36 (1884, 1885) e in Si bemolle op. 37 (1884, 1884), le Barcarole in la op. 26 (1880 ca., 1882), in Sol op. 41 (1885, 1885) e in Sol bemolle op. 42 (1885, 1885), l’Improvviso in Fa op. 31 (1883, 1883), i Valzer-Capriccio in La op. 30 (1882, 1883) e in Re bemolle op. 38 (1884, 1884), la Mazurca in Si bemolle op. 32 (1878 ca., 1883), e si conclude con la Pavana in fa diesis op. 50 (1887, 1888) e con i goliardici e spassosi Souvenirs de Bayreuth (Ricordi di Bayreuth, 1888, 1930), ‘‘Fantasia in forma di Quadriglia su temi preferiti della Tetralogia di R. Wagner per pianoforte a quattro mani’’ (in collaborazione con Andre´ Messager). Le date di pubblicazione di queste composizioni ci dicono che Faure´, stimato organista in varie chiese e affermato insegnante privato con clientela a Parigi, Versailles, Ville d’Avray, Saint-Germain, Louveciennes, rappresentava ormai una garanzia per gli editori. Musica per salotti intellettuali che nei salotti intellettuali ottenne una buona diffusione. Ma solo la Pavana op. 50 – in fa diesis, con frequenti slittamenti modali e con la sensibile abbassata –, che era stata commissionata dalla bellissima e fascinosissima e mondanissima contessa di Greffulhe e che fu trascritta per orchestra con l’aggiunta ad libitum di un coro su testo di Robert de Montesquiou, ottenne un successo ‘‘popolare’’, anzi, divenne un emblema dell’arcaismo, dell’arcaismo nostalgico ed esclusivo che sognava i tempi di Francesco I. Non saprei dire se ci credesse o no anche Faure´ . Fatto sta che egli confeziono` con diabolica abilita` un pezzo che resuscitava una Francia mitica. Il secondo periodo, dopo gli anni dedicati alle musiche di scena per i drammi Caligula e Shylock e al Requiem, si apre con Dolly per pianoforte e quattro mani op. 56 (1893-1894, 1894), sei pezzi dedicati a Dolly – cioe` He´le`ne – Bardac. Faure`, che da 232

Improvviso in Mi bemolle op. 25

diversi anni dava lezioni di pianoforte al fratello maggiore di Dolly, era rimasto invischiato in una appassionata relazione amorosa con la madre dei due bambini e aveva cominciato ad avviare alla musica la femminuccia. La madre, Emma Bardac, era moglie di un finanziere, era molto dotata per il canto ed eseguiva nei salotti le melodie che Faure´ creava per lei. Sarebbe poi diventata la seconda moglie di Debussy. Da questo matrimonio sarebbe nata Chou-chou, per la quale Debussy avrebbe scritto il Children’s corner. I sei numeri di Dolly, brevi e semplici, sono un capolavoro di grazia, di spirito, di capacita` di interessare alla musica un animo infantile. Un tempo fu molto noto il primo pezzo, Berceuse, trascritto da Cortot per pianoforte solo, ma il piu` sorprendente e divertente e` secondo me l’ultimo, l’indiavolato Passo spagnolo. Composizione di spicco del secondo periodo e` il Tema con variazioni in do diesis op. 74 (1895, 1897). Il Tema e variazioni di Faure´ viene tradizionalmente paragonato con gli Studi sinfonici op. 13 di Schumann, e in realta` si nota nei due lavori qualcosa in comune, oltre alla tonalita` di do diesis e alla conclusione nella tonalita` simigliante maggiore (Do diesis in Faure´, Re bemolle, omologo di Do diesis, in Schumann). Entrambi i temi hanno quel carattere di lenta marcia processionale che richiama un mitico tempo passato e che li fa iscrivere spontaneamente nel grande filone culturale del neogotico. Entrambe le serie di variazioni sono strutturate non sulla evoluzione progressiva ma sulla successione di contrasti, piu` accentuati in Schumann che in Faure´. Si nota inoltre una certa somiglianza fra la decima Variazione di Faure´ e la nona di Schumann. Ma l’op. 74 di Faure´ termina con la undicesima Variazione, mentre l’op. 13 di Schumann si conclude con un ampio e virtuosistico finale in cui viene introdotto un nuovo, contrastante tema. E a Faure´ resta estranea la ricerca pianistica del ‘‘sinfonico’’, che era stata attuale negli anni trenta e che non lo era piu` negli anni novanta. Alfred Cortot cosı` commenta l’op. 74: ‘‘Il tema delle variazioni di Faure´ e` carico di un sentimento di fatalita` che persiste nella prima variazione, nella quale sembra che un’ombra si distenda su delle tombe [...] Un sentimento di grave monotonia e` quello che da` a questa frase musicale la sua grandezza’’. E` detto molto bene, ed e` vero. Ma nell’insieme il tono funerario prevale secondo me troppo, sebbene alcune Variazioni siano brillanti e impetuose. E questa, credo, e` la ragione che ha impedito alla composizione, opera senza dubbio di un grande maestro, di ottenere i consensi generalizzati del pubblico. Il secondo periodo comprende anche i Valzer-Capriccio in Sol bemolle op. 59 (1893, 1893) e in La

Notturni

bemolle op. 62 (1893-1894, 1894), i Notturni in Re bemolle op. 63 (1894, 1894) e in do diesis (1897, 1897), le Barcarole in fa diesis op. 66 (1894, 1895) e in Mi bemolle (1895, 1896). I due Notturni sono le pagine che piu` ci colpiscono per la loro gravita` di tono e per la loro concentrazione espressiva (il Notturno op. 63 e` simile a una ballata), la Barcarola op. 66 e` una delle pagine piu` dense di contenuti di Faure´, e la prima fra le sue barcarole che sfugga veramente al tono un po’ cantilenante e un po’ querulo che il genere aveva assunto nella seconda meta` dell’Ottocento, soprattutto a opera di Anton Rubinsˇtejn. Faure´ si avvicina qui alla mitica visione della Barcarola di Chopin, ma... a debita distanza, perche´ gli manca il senso narrativo che fa delle composizioni chopiniane di media durata dei poemi di leopardiana levatura. Il terzo periodo si apre con gli Otto Pezzi brevi op. 84 (1869-1902, 1903), che raccolgono pagine antiche e pagine nuove e che contengono persino due Fughe giovanili. Non si capisce bene perche´ Faure´, tornando al pianoforte dopo una... latitanza di cinque anni, abbia voluto pubblicare un insieme cosı` raccogliticcio. Molto piu` interessanti i Nove Preludi op. 103 (1909-1910, 1910-1911), in nove diverse tonalita`, tre di modo maggiore e sei di modo minore, ma senza un preciso ordinamento tonale. I Preludi di Faure´ cascavano male su un mercato in cui apparivano nel 1910 i dodici Preludi del primo libro di Debussy. Di fronte alla varieta` di contenuti e di scrittura di Debussy, che riprendeva in pratica il pezzo di carattere tanto popolare nella seconda meta` dell’Ottocento, i gravi, meditativi, elegiaci Preludi di Faure´ non potevano che restare nell’oscurita`. Almeno alcuni dei Preludi di Faure´ , non tutti, avrebbero potuto essere presentati come pezzi di carattere: ad esempio, per il n. 2 in do diesis, tagliato nella insolita forma AB, sarebbe calzato a pennello il titolo Il Calabrone. Ma Faure´ si lasciava tentare dai titoli caratteristici solo se il titolo aveva una fondata ragion d’essere. E in verita` non si capisce come mai, essendo un pianista di ottime capacita` , non trascrivesse lui stesso il terzo pezzo della suite Pelle´as et Me´lisande, La Fileuse (la filatrice), e lo lasciasse trascrivere a Cortot. Nel terzo periodo Faure´ ottiene i suoi maggiori successi con l’opera Penelope che, andata in scnea a Montecarlo il 4 marzo 1913, viene ripresa in maggio al The´atre des Champs-E´lise´es, dove arriva a diciassette rappresentazioni, e in dicembre a Bruxelles, dove raggiunge le dieci rappresentazioni. Nel 1919 viene rimessa in scena all’Ope´ra-Comique e ha sessantatre rappresentazioni. La com-

Gabriel-Urbain Faure´

media musicale Masques et Bergamasques va in scena a Montecarlo il 10 aprile 1919 e viene ripresa nel 1920 all’Ope´ra-Comique, dove restera` in repertorio fino al 1952. La produzione pianistica non diminuisce pero`, anzi, aumenta in quantita`. Faure´ compone le Barcarole in re op. 90 (1905, 1906), in Re bemolle op. 98 (1906, 1908), in la op. 101 (1909, 1909), in la op. 104 (1913, 1913), in sol op. 105 (1913, 1914), in Mi bemolle op. 106 bis (1915, 1916) e in Do op. 116 (1921, 1921), gli Improvvisi in Re bemolle op. 91 (1905, 1906) e in fa diesis op. 102 (1909, 1909), i Notturni in Re bemolle op. 84 n. 8 (che fa parte impriamente degli Otto Pezzi brevi), in si op. 97 (1908, 1908), in mi op. 99 (1909, 1909), in fa diesis op. 104 (1913, 1913), in mi op. 107 (1915, 1916) e in si op. 119 (1921, 1922). Tutte queste composizioni rientrano non soltanto cronologicamente in un terzo periodo ma appartengono a un nuovo stile, sia musicale che pianistico. La scrittura pianistica di Faure´, molto mobile e spaziata, si caratterizza per la sua predilezione per i movimenti sinuosi nel tessuto connettivo fra melodia e basso e per il suo gusto per l’ornamentazione espressiva, e deriva percio` chiaramente da quella di Chopin, a un punto tale che spesso, nelle musiche del primo e del secondo periodo, risulta molto simile a quella del primo Skrjabin. Nell’ultimo periodo Faure´ rinuncia invece generalmente ai registri estremi e si concentra sul registro centrale e sulla scrittura contrappuntistica. Non si puo` sapere in quale misura questa sua scelta dipendesse dai problemi dell’udito che lo tormentarono, ma c’e` il fondato sospetto che c’entrassero per qualcosa. Il 27 luglio 1910, avendo appena finito di comporre il Preludio op. 103 n. 6, egli cosı` scriveva alla moglie: ‘‘La disgrazia e` che quando affronto il mio lavoro sul mio ammirevole E´rard i suoni del registro medio mi arrivano lontani ma intonati, mentre il basso e l’acuto non sembrano che un indefinibile schiamazzo’’. Senza far dipendere meccanicamente l’evoluzione stilistica di Faure´ dai suoi problemi di udito si puo` pensare che proprio quei problemi favorissero il suo interesse per una scrittura contrappuntistica che, essendo in senso lato madrigalistica e quindi vocale, si collocava da se´ nel registro centrale dello strumento. Il paradosso e` che, scrivendo ormai in un modo musicalmente molto denso e linguisticamente interessante ma non molto idiomatico per il pianoforte, Faure´ soffrisse per l’indifferenza dei pianisti, mentre persino una sua fedelissima interprete come Marguerite Long avrebbe confessato piu` tardi di preferire ‘‘le opere scritte prima che la sordita` riducesse il suo campo sonoro’’, aggiungendo: ‘‘Mi sembra che in seguito 233

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Gabriel-Urbain Faure´

il suo ritmo creativo si sia rallentato, cristallizzandosi, e che la sua opera, piu` spoglia, piu` voluta, abbia perduto la sua spontaneita`’’. Il pianista Robert Lortat organizzo` nel 1914 – il 29 aprile, il 6, 13 e 20 maggio – quattro concerti con presentazione, dedicati alla musica di Faure´ cameristica e pianistica, e ripete´ l’esperimento a Londra il 16, 19 e 22 giugno, invitando lo stesso Faure´ ad accompagnare la cantante Germaine Sanderson. ‘‘Grandissimo successo a Londra di Lortat con i pezzi per pianoforte. Molti di essi non erano noti che a qualche appassionato’’, scrisse Faure´ al suo editore il 7 luglio. Ma era un fuoco di paglia, e l’insoddisfazione di Faure´ per la impopolarita` delle sue pagine pianistiche non diminuı`. Anche la sua ultima composizione pianistica molto impegnativa, la Fantasia in Sol op. 111 (1918, 1919), sollecitata da Alfred Cortot e a lui dedicata, ebbe un esito deludente. Cortot, al quale Faure´ mostro` la redazione per due pianoforti, chiese delle modifiche e le suggerı`. Faure´ gli scrisse da Montecarlo, umilmente, il 22 marzo 1919: Ho pensato molto alle modifiche che avete escogitato e che, in molti casi, amplificheranno la sonorita` dei passaggi. Ma per l’inizio ho qualche timore sulla disposizione in ottave, a causa della replica dell’orchestra che bisognera` necessariamente disporre nella stessa maniera. Vorreste rifletterci e dirmi che cosa ne pensate? Notate che il tema in questione non vuole esprimere che una sorta di allegria, di soddisfazione generalizzata. Ho paura che le ottave e soprattutto gli accordi di accompagnamento nel registro grave del pianoforte possano appesantirlo.

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Fantasia in Sol op. 111

Faure´ aveva settantaquattro anni, Cortot ne aveva quarantadue, nel 1907 Faure´, direttore del conservatorio di Parigi, aveva chiamato Cortot a occupare un cattedra di pianoforte nel corso superiore. Questo rispettoso tono di sostanziale sottomissione del piu` anziano verso il piu` giovane ci stupisce dunque non poco. Ma Faure´, pur desiderando il successo, non pensava la musica in modo da conquistarlo, mentre al successo badava Cortot, che nel dopoguerra stava scalzando E´douard Risler come maggior pianista francese. La Fantasia fu eseguita a Montecarlo, durante il festival dedicato a Faure´ , il 12 aprile 1919, non da Cortot ma da Marguerite Hasselmans. Cortot tenne la prima esecuzione a Parigi il 14 maggio. ‘‘Nulla nello schema di questa composizione’’, avrebbe scritto Cortot nel 1922, ‘‘eccede il carattere di una musica da camera i cui elementi sono semplicemente piu` numerosi del solito’’. E Jean-Michel Nectoux commenta: ‘‘In Cortot c’e` qualcosa del romantico inveterato, che la disincantata estetica dell’ultimo Faure´ non poteva soddisfare appieno’’. La Fantasia e` in forma di enorme canzone tripartita, con un movimento molto mosso centrale e due movimenti moderati. Il carattere del linguaggio e` riassunto benissimo dal Nectoux: ‘‘[...] il canto e` fermo, il ritmo e` coinvolgente e giunge sino all’ostinato, l’armonia si colora di dissonanze e la polifonia afferma chiaramente la sua preminenza’’. Ma la parte solistica, che non era soddisfacente per Cortot, non lo fu neppure per nessun altro concertista di fama, e la Fantasia di Faure´ fece la fine della Fantasia, che un po’ le somiglia, di Debussy.

Fantasia in Sol op. 111

John Field

A John Field

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(Dublino, 26 luglio 1782-Mosca, 23 gennaio 1837) La sua opera di creatore e di didatta fece sı` che Muzio Clementi fosse detto, trent’anni dopo la morte, ‘‘padre del pianoforte’’. L’influenza che la sua attivita` e che l’eredita` trasmessa agli allievi avevano avuto nella storia del pianoforte era stata effettivamente molto alta. Ma tutti i suoi maggiori discepoli, tranne uno, avevano studiato con lui quando erano gia` formati. Ad esempio, Johann Baptist Cramer era stato prima allievo di Johann Samuel Schro¨ter, e Jan Nepomuk Hummel aveva imparato il mestiere nientemeno che con Mozart. Gli allievi di Clementi fecero dunque con lui quello che oggi chiameremmo il ‘‘corso di perfezionamento’’. Tutti, dicevo, tranne uno. E quell’uno e` l’irlandese John Field, trasferitosi a Londra quando aveva dieci anni e divenuto, possiamo dire, il piu` puro prodotto della scuola di Clementi. Nel 1802 Clementi, che era diventato anche editore e socio di una fabbrica di pianoforti, partı` per un lungo viaggio nel continente come promotore delle sue imprese commerciali, e porto` con se´ Field. Il Magister sceglieva una citta` che gli sembrava adatta alle sue iniziative, vi apriva un deposito dei suoi pianoforti e lasciava al garzone di bottega il compito di far capire ai visitatori quanto fossero meravigliosi gli strumenti creati dalla sapienza del Capo. Field suonava, suonava molto bene, ed era convincente. Dopo un soggiorno a Vienna e in altri siti i due arrivarono a S. Pietroburgo, vale a dire a quello che era allora cosiderato il confine del mondo civile. Clementi ripartı` nel 1803 ma lascio` a S. Pietroburgo John Field come suo fiduciario. E Field, rinunciando a percorrere una carriera concertistica internazionale, resto` confinato in Russia per ventotto anni. Il primo quindicennio dell’Ottocento, con tutte le turbolenze politiche e le guerre che si susseguivano, non era di certo il piu` adatto per favorire il concertista itinerante. Ma dopo il Congresso di Vienna il concertismo ebbe un periodo di fortissima espansione che vide salire alle stelle la fama di Hummel, di Kalkbrenner e di Moscheles. Field resto` tagliato fuori dall’agone. Era un grande pianista, ma era un uomo molto pigro e molto bon vivant e molto preso dal bel sesso e, soprattutto, non era capace di improvvisare su temi scelti lı` per lı` dal pubblico, mentre l’improvvisazione era diventata un ‘‘numero’’ imprescindibile del concerti-

smo pianistico. Field aveva un giro di lezioni private principescamente retribuite che gli garantiva l’agiatezza, suonava nei salotti aristocratici e, raramente, in pubblico, e con il nocturne si era garantito il favore e l’ammirazione dei pianisti dilettanti di tutti i paesi. Ma era pigro, dicevo. Quando Daniel Steibelt, abile pianista e avventuriero senza scrupoli, arrivo` a S. Pietroburgo fuggendo dalla Francia dove era perseguito per debiti, Field non raccolse la sfida del nuovo venuto ma gli lascio` libero il campo per andare a dissodare, a Mosca, un tennero vergine. Nel 1812 – sembra, non si sa bene come ando` la faccenda – Field propose a Steibelt lo scambio delle rispettive posizioni, e torno` a S. Pietroburgo mentre il rivale si spostava a Mosca (Steibelt torno` poi a S. Pietroburgo, e Field riando` a Mosca). Nel 1831, improvvisamente, l’ormai quarantanovenne Field ricomparve in un’Europa in cui la generazione Hummel-Kalkbrenner-Moscheles era ormai al tramonto e in cui i nuovi giovani leoni si chiamavano Liszt e Thalberg. Field suono` a Londra e a Parigi con caloroso ma non entusiastico successo, passo` in Belgio, in Svizzera e in Italia. Nel 1834 ripartı` da Napoli, accompagnato dal figlio e da una famiglia di amici russi, si fermo` per qualche giorno a Vienna e vi tenne tre concerti, e torno` a Mosca. Gravemente malato – tumore intestinale – morı` tre anni dopo il rientro. L’insegnamento di Field lasciava frutti copiosi. Vero e` che, essendo intimo amico dello champagne, capitava che si assopisse durante le lezioni e si facesse ridestare di brutto dalle sue allieve che, per quanto avvezze a gettare il denaro dalla finestra, non intedevano sborsare dei bei rubli d’oro per vegliarlo nei suoi sonni. Ma se ci metteva un po’ di impegno ci sapeva fare. Glinka studio` con lui, con lui studio` il maestro di Balakirev, Alexander Dubuque, con Dubuque studio` Villoing, maestro dei fratelli Rubinsˇ tejn. Insomma, la grande scuola pianistica russa ha in Field il suo capostipite. L’eredita` del Field creatore non era altrettanto rigogliosa ma non era neppure trascurabile. Il Concerto n. 1 in Mi bemolle (1799, 1811) e` un simpatico centone di luoghi comuni assemblati in modo spiritoso e aggraziato. Il Concerto n. 2 in La bemolle (1811 ca., 1816) sarebbe rimasto in vita per tutto il secolo. Meno virtuosistico dei Concerti di Hummel e di Moscheles, non brillante, 235

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John Field

melodicamete gradevole, con un finale (Moderato innocente) che sembra musica per un balletto campestre, il Concerto n. 2 fu un modello per Chopin e rimase in repertorio, data la sua non elevata difficolta`, per gli esordi dei ragazzini particolarmente dotati. Il Concerto n. 5 in Do, L’incendio nella tempesta (1817, 1817) e` ispirato all’incendio di Mosca e vuol essere la ‘‘risposta’’ al Concerto n. 6 di Steibelt, Viaggio sul Monte S. Bernardo, che aveva ottenuto un particolare successo. Il Concerto n. 7 in do (1822-1832, 1836) sarebbe il capolavoro di Field se fosse limitato al primo movimento, eseguito da solo dall’Autore a Mosca il 6 marzo 1822; gli altri due movimenti, aggiunti dieci anni piu` tardi, mostrano invece la stanchezza creativa di un Field che non e` piu` pari a se stesso. Le tre Sonate op. 1 (1801) dedicate a Clementi, tutte e tre in due movimenti, sono come un grazioso frutto rococo` fuori stagione. Piu` ambiziosa, e meno fluida, la Sonata in Si bemolle (1813). Il maggior apporto di Field alla letteratura pianistica risiede pero` nella ‘‘invenzione’’ del nocturne. Il termine notturno era stato usato nel Settecento per musiche da suonare all’aperto, di notte ovviamente, ed equivaleva in pratica a serenata e a cassazione. Field diede nel 1814 il titolo Nocturne a due pezzi che nella prima edizione erano usciti come Romances. Si trattava di romanze senza parole avanti lettera, di melodie vocalistiche trasferite sul pianoforte – alla mano destra – con un accompagnamento molto semplice – alla mano sinistra e frazionato su due registri tenuti uniti dal pedale di risonanza. La trovata, la grande trovata di Field consisteva nell’inserire il pianoforte nel clima romantico della fantasticheria notturna al limite tra la veglia e il sonno, in uno stato crepuscolare della coscienza. La romanza per canto e pianoforte, molto diffusa all’inizio dell’Ottocento ed eseguita in famiglia, creava un sia pur elementare rapporto sociale, mentre la romanza trasferita sul solo pianoforte apriva la via al solipsismo romantico, diventando specchio della solitudine. E una volta trovata la chiave per entrare in questo mondo, Field lo esploro` senza cambiare mai la formula ma anche senza cadere nella routine. Il Notturno n. 5 in Si bemolle non manco` di fare bella mostra di se´ sul leggio del dilettante per tutto il secolo e oltre. Una melodia appena lievemente malinconica, con un accompagnamento mormorante in accordi spezzati, con una coda in accordi placcati che e` come un sommesso e ammirato commento al canto. Il tutto ripetuto con poche varianti ornamentali (repetita juvant). Liszt, che ripubblico` i Notturni con un’ampia prefazione, disse che Field, eseguen236

Concerto n. 5 (L’incendio nella tempesta)

doli, li ornamentava a profusione, li ‘‘inghirlandava’’. Sembra dunque che Field gratificasse il dilettante con il canto spianato e prevedesse che il professionista lo trasformasse in canto ornato o di coloratura. Karl Mikuli, allievo di Chopin, dice che il suo maestro eseguiva i Notturni di Field ornamentandoli. E Ferruccio Busoni, per il quale i Notturni di Field erano ‘‘piu` casti’’ dei Notturni di Chopin, nei suoi ultimi anni di vita stava progettando di inserire Field nel suo repertorio e intendeva aggiungere ai Notturni una ornamentazione. Possiamo aspettarci che qualche esecutore di fortepiano prima o poi provi a proporci i Notturni ornamentati, ma cio` non e` per ora accaduto. Una osservazione di Liszt e` pero` da citare per esteso, perche´ da essa capiamo come Field intendesse i suoi Notturni: ‘‘Il suo atteggiamento pressoche´ immobile e il suo viso quasi inespressivo quasi non attiravano l’attenzione. Il suo occhio non cercava altri occhi. La sua esecuzione fluiva chiara e limpida. Le sue dita scivolavano sui tasti e i suoni che risvegliavano sembravano seguirle come la spumeggiante cresta di un’onda. Era facile vedere che per lui il principale ascoltatore era lui stesso. La sua tranquillita` era prossima alla sonnolenza e cio` di cui si curava meno era l’impressione che avrebbe fatto sui suoi ascoltatori’’. La mancanza di sviluppi tematici, il ritmo di fondo mormorante su cui si delinea appena la melodia in bassorilievo, gli aloni di timbri impalpabili suscitati dal pedale di risonanza usato costantemente, l’assenza di contrasti danno ad alcuni dei Notturni di Field un’aura ipnotica che sospende il tempo e che mima l’intuizione di una realta` sognata. Piu` ancora di alcune pagine che furono celebri e imitatissime – i Notturni n. 1, n. 5, n. 8 – sono il Notturno n. 11 in Mi bemolle e il Notturno n. 13 in Do, Reˆverie-Nocturne che attirano oggi la nostra attenzione per la presenza di un clima poetico paragonabile a quello dei pittori e dei poeti preromantici. Il Notturno n. 13 comincia con dieci battute che sembrano un’introduzione per l’esposizione di un’ampia melodia, dieci battute che, secondo la comune esperienza, dovrebbero dare in anticipo gli elementi secondari di un evento principale. Invece, finita la supposta introduzione, Field la riprende con gli stessi elementi. Non avviene altro: ancora per ottantuno battute l’ascoltatore si trovera` di fronte lo stesso evento sonoro, appena variato nella dinamica e spostato in tonalita` vicine. Alla fine una didascalia di quelle che sarebbero poi piaciute tanto a Chopin, ‘‘estinto’’, fa svanire nell’estremita` acuta della tastiera un rintocco che era risuonato fin dalla prima battuta. Il mondo che ci

Notturno n. 13 (Reˆverie-Nocturne)

si apre davanti – poeticamente, non linguisticamente – e` quello del tardo Liszt. Meno radicale, il Notturno n. 11 espone invece, dopo un’introduzione di quattro battute, una melodia di una bellezza di linea e di una lunghezza di respiro degne di Bellini. Il ritmo non cambia per tutto il pezzo – 118 battute – e nessun accadimento drammatico ne turbera` il fluire: solo l’espressione si gonfiera` un po’ in un ‘‘molto espressivo’’ o si addolcira` ulteriormente in un ‘‘languido’’. L’analisi di Liszt e` basata secondo me so-

John Field

prattutto su questo Notturno, e qui Field sintetizza tutta la sua arte. Certamente si tratta di una grande pagina, che purtroppo rimane oggi sconosciuta. Il successo dei Notturni fu tale che, arrivato al n. 17 e ancora pressato dagli editori, Field trascrisse per pianoforte solo, e pubblico` come n. 18, il Rondo` finale del suo Divertimento per pianoforte e archi, che nell’originale era intitolato Le Midi, Il Mezzogiorno, concludendo con questo paradosso la raccolta delle pagine che lo avrebbero consegnato alla storia.

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Ce´sar Franck

Preludio, Aria e finale

Ce´sar Franck (Liegi, 19 dicembre 1822-Parigi, 8 novembre 1890) Il padre di Ce´sar Franck era uno di quei tremendi genitori che si reputavano degni di ripetere le gesta eroiche di Leopold Mozart, accorto impresario di suo figlio Wolfgang. Papa` Franck fallı` nelle sue ambizioni di manager, ma il suo figliolo, pur senza raggiungere fama e guadagni da fanciullo-prodigio, tenne molti concerti e compose un bel po’ di lavori che seguivano i profumi della moda: due Concerti, quattro Trii, un profluvio di pezzi per pianoforte solo. A noi e` pervenuto solo il Concerto n. 2 in sol op. 11 (1835 ca.), che non e` affatto un lavoro trascurabile, per un tredicenne: segue gli schemi biedermeier, che negli anni trenta erano ormai obsoleti, ma li segue in modo non pedissequo. Piu` accademiche sono le Variazioni brillanti op. 5 (1834) e le Variazioni brillanti op. 8 (18341835), che comunque, in un pianista-compositore appena adolescente, dimostrano il possesso di un virtuosismo da professionista. Tra le pagine per pianoforte solo sono da ricordare, per l’impegno compositivo che comportano, la Sonata n. 1 op. 10 (1835), la Sonata n. 2 op. 18 (1840 ca.) e la Ballata op. 9 (1844). Della Fantasia n. 1 su ‘‘Golestan’’ op. 11 (1844) e della Fantasia n. 2 su ‘‘Golestan’’ op. 12 (1844) conosciamo la data di pubblicazione ma non la data di composizione (il numero d’opera riguarda la pubblicazione, mentre il Concerto op. 11 non era stato pubblicato). A giudicare dal contenuto sembrano scritte almeno dieci anni prima perche´ seguono ancora lo schema della introduzione e variazioni. Singolare e` anche il fatto che Franck scegliesse temi di un’opera di Dalayrac che era stata rappresentata nel 1805 e che era ormai ‘‘antica’’. Da ricordare e` anche la Fantasia su due arie polacche op. 15 (1840 ca.), ma semplicemente perche´ uno dei due temi e` lo stesso che si trova nella Fantasia su arie nazionali polacche op. 13 di Chopin e che in verita` non e` ‘‘popolare’’ ma opera di Kurpinski. Mettendoci un po’ di buona volonta` si puo` scorgere una pallida silhouette del futuro Franck nel Primo Gran Capriccio op. 5 (1843), che in qualche particolare preannuncia il Finale del Preludio, Aria e Finale. Uscito nel 1842 dal conservatorio di Parigi con alcuni lauri accademici ma, stranamente, con solo il ‘‘secondo premio’’ in organo, Franck abbandono` ben presto ogni velleita` di grandezza e divenne un oscuro insegnante privato di pianoforte. Nel 1844 238

o giu` di lı` dedico le Due Melodie a una certa Fe´licite´, cosa che mise in grave sospetto suo padre. Si trattava allora di una semplice amicizia, ma Franck si separo` dai suoi genitori, ando` a vivere da solo e nel 1848, quando gli arrivo` la nomina a organista di Notre-Dame-de-Lorette, si sposo`. Con Fe´licite´, naturalmente, Fe´licite´ Saillot. Dieci anni piu` tardi Franck passava agli organi di Sainte-Clotilde. La sua posizione non era economicamente molto remunerativa, ma apriva la porta delle famiglie facoltose che sostenevano la parrocchia e allargava cosı` il cerchio delle lezioni private. Vent’anni dopo avere abbandonato il pianoforte, Franck vi ritorno` per una paginetta, I Pianti della bambola (1865), che ottenne un inatteso successo fra i dilettanti. Franck non intendeva pero` scavare la miniera appena scoperta perche´ puntava all’oratorio. Diciannove anni piu` tardi, anche grazie alle iniziative della Socie´ te´ Nationale de Musique, sorta dopo la sconfitta con la Prussia del 1870 e che promuoveva esecuzioni di musica francese contemporanea, Franck torno` alla grande al pianoforte con Les Djinns per pianoforte e orchestra (1884, 1892), il Preludio, Corale e Fuga (1884, 1892), le Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra (1885, 1892) e il Preludio, Aria e finale (1886-1887, 1902). Le Djinns e` ispirato a un poema delle Orientales di Hugo: les Djinns sono gli istinti diabolici che cercano di perdere le anime ma che sono vinti dalla dolcezza e dalla bonta`. La parte del pianoforte e` concertante, e piu` che di un lavoro per pianoforte e orchestra si tratta di un impiego del pianoforte, con funzione eminentemente coloristica, in una partitura sinfonica. Di grande interesse, dunque, perche´ nel pianoforte Franck non vede il protagonista solitario che si oppone alla massa, ma... poco soddisfacente per i pianisti, tanto che fra i maggiori virtuosi l’unico che lo eseguı`, e per due volte soltanto in tutta la sua carriera, fu Sviatoslav Richter. Il Preludio, Corale e Fuga, eseguito per la prima volta dalla dedicataria Marie Poitevin il 25 gennaio 1885, ottenne immediatamente un trionfo e resto` in repertorio per almeno settant’anni. Nell’ultimo mezzo secolo e` stato eseguito piu` raramente e ha condiviso il cammino che ha portato all’‘‘oscuramento’’ delle altre composizioni di Franck, eccettuata la Sonata per violino. Vincent

Preludio, Aria e finale

d’Indy dice che in primo momento Franck aveva intenzione di comporre un semplice preludio e fuga, e che solo in un secondo momento decise di aggiungere il corale. Il trittico viene spesso visto come un ritorno a Bach e al misticismo di Bach. La Toccata in do maggiore di questi, articolata in Toccata, Adagio e Fuga, potrebbe essere stata in effetti un modello per Franck. Ma il carattere del trittico franckiano fa pensare piuttosto alla Fantasia e Fuga sul Corale ‘‘Ad nos, ad salutarem undam’’ per organo di Liszt, che prendeva lo spunto da un tema musicale e ideologico del Profeta di Meyerbeer. Sembra a me che, assai piu` di Bach, i motori del Preludio, Corale e Fuga siano Liszt e, piu` in generale, la fantasia su temi di melodrammi che era stata la regina del concertismo pianistico negli anni della formazione di Franck. Il Preludio e` bitematico, la sua struttura archetipica e` quella dello scherzo con doppia esposizione del trio: AB-A-B-A. Il tono espressivo e` gravemente meditativo nell’episodio A, e disperato nell’episodio B. La struttura del Corale e` C-D-C-D-C-D-coda, con il tema C derivato dal tema A del Preludio e con il vero e proprio tema del Corale, D, di cui e` stata molte volte fatta notare la somiglianza con il tema delle campane del Graal del recentissimo Parsifal di Wagner. Qui il doloroso tema C e` controbilanciato dal consolatorio, ‘‘angelico’’ tema D, strumentato come un carillon e che a ogni apparizione diventa sempre piu` forte, maestoso, risolutorio del conflitto. Una coda-transizione porta alla Fuga. Il soggetto della Fuga, cromatico, e per cio` stesso doloroso, e` derivato indirettamente dal tema A. Ma questo elemento di unificazione formale e` ben difficile da cogliere alla audizione, e la riconoscibile coerenza del trittico e` percio` di natura drammaturgica, non strutturale. Il soggetto della Fuga viene esposto varie volte, anche per moto contrario, ma piu` come melodia accompagnata che come generatore di polifonia contrappuntistica, tanto che Saint-Sae¨ns pote´ affermare acidamente che ‘‘la Fuga non e` una fuga’’. La Fuga culmina in una cadenza. Dopodiche´, a seguito di una breve preparazione, riappare il tema D, il tema del Corale, strumentato come il tema A del Preludio. Lo schema drammaturgico desolazione-consolazione-conversione-accettazione, per il quale potremmo parlare di Orazione nell’Orto di Getsemani, e` a questo punto completo. Ma Franck si lascia prendere secondo me la mano dalla dottrina e nella apoteosi giubilante del tema D inserisce in sovrapposizione il soggetto della Fuga. L’idea puo` racchiudere in se´ un valore simbolico, ma la strumentazione non e` tale da tenere in chiara evidenza i due eventi. Per risolvere il problema tecnico ci sarebbe voluta

Ce´sar Franck

la registrazione organistica, e Franck non aveva esperienza di trascrizione dall’organo. Sappiamo che Ferruccio Busoni, grande trascrittore dall’organo, ristrumento` pianisticamente il trittico di Franck. Ne abbiamo notizia perche´ la sua esecuzione ‘‘infedele’’ gli attiro` le aspre rampogne di un critico, ma in concreto non ne sappiamo nulla. La parte finale della Fuga non rende del tutto il clima di esaltazione a cui l’ascoltatore era stato preparato. Ma non credo sia questo il motivo della rarefazione delle esecuzioni che si e` verificata nell’ultimo mezzo secolo. Credo sia invece la natura stessa del linguaggio di Franck, ad apparire desueta. Il che non esclude che il capriccioso pendolo della Storia non possa poi oscillare in senso contrario. Anche le Variazioni sinfoniche si legano idealmente, secondo me, alla giovinezza di Franck, alle variazioni su temi di melodrammi nella forma introduzione, tema, variazioni, finale, quella forma che ritroviamo ad esempio nelle Variazioni op. 2 di Chopin. E melodrammatico e` lo spirito che anima le Variazioni sinfoniche, con un inizio che richiama irresistibilmente l’invocazione di Orfeo alle Furie. L’introduzione e` basata su questi due temi, ampiamente sviluppati e con una vera e propria cadenza-orazione del pianoforte, ma preannuncia anche, per cosı` dire sotto traccia, il tema che Franck variera`. Questo tema triste, elegiaco, e` una melodia interrotta da silenzi che danno la sensazione del sospiro, dell’incertezza d’animo, dell’angoscia. La prima variazione e` un dialogo fra il solista e l’orchestra. Poi l’atmosfera si rasserena, e dopo una variazione a carillon e una brillante si arriva alla quarta variazione, eroica, e alla quinta, danzante. La sesta variazione, con i mormorii del pianoforte e il tema, senza pause, affidato alla intensa cantabilita` dei violoncelli, e` in modo maggiore (Fa diesis). Segue, senza interruzione, un intermezzo in modo minore in cui i violoncelli riprendono, come uno sguardo rivolto al passato, il tema dell’introduzione, il tema, tanto per intenderci, di Orfeo. E questo tema, trasformato in marcia trionfale in modo maggiore, diventa il protagonista del finale, che e` pero` costruito come sintetico primo movimento di concerto, con esposizione di due temi principali, sviluppo, riesposizione abbreviata e coda. Questa sommaria descrizione basta a far capire quanto sia complicata la costruzione di un pezzo che in quindici minuti di musica racchiude una straordinaria quantita` di eventi e che all’ascolto appare non solo coerente, ma anche facilissimo da seguire come discorso. La curva drammaturgica e` quella, molto frequente in Liszt, afflizione-consolazione-trionfo. E` evidente che il mito classico di Orfeo non e` riferibile a questo schema, ma e` al239

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trettanto evidente che a esso e` invece riferibile lo scioglimento positivo del dramma che, con l’intervento di Amore, porta alla ricongiunzione di Orfeo ed Euridice nell’opera di Gluck. Il riferimento a Orfeo non e` tuttavia affatto necessario, mentre e` fondamentale lo schema drammaturgico a cui Franck da` vita artistica con una sapienza e una pienezza di ispirazione che raramente si riscontrano nella letteratura per pianoforte e orchestra. Prima di impegnarsi in un nuovo grande lavoro Franck scrive per una rivista la Danza lenta (1886, 1886) che preannuncia molto curiosamente Satie, e della quale il solito acidissimo Saint-Sae¨ns avrebbe detto che non era lenta e che non era una danza. Il secondo trittico di Franck fu eseguito per la prima volta, sempre dalla pianista Marie Poitevin, il 12 maggio 1888. Il trionfo del Preludio, Corale e Fuga non si rinnovo` e il pezzo ebbe poi esecuzioni saltuarie. Lo stesso Alfred Cortot, che al Preludio, Corale e Fuga e alle Variazioni sinfoniche eleva archi di trionfo, esprime delle riserve sul Preludio, Aria e Finale. La sapienza costruttivistica di Franck non si smentisce affatto nel secondo trittico. Ma l’ombra dell’organo, che si proiettava sulla Fuga del primo trittico, qui diventa piu` presente, e lo schema drammaturgico, che parte dalla calma serenita` del Preludio e dall’estasi dell’Aria, viene turbata nel Finale, un Finale di battaglia che s’acqueta con il ritorno dell’Aria e svanisce nel

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Danza lenta

nulla. Cortot parla del Coro degli Angeli di Piero della Francesca, ma dice anche che secondo lui Franck fu condizionato dal desiderio di presentare alla fine i temi principali in sovrapposizione, cedendo quindi a un impulso intellettualistico piu` che a ragioni poetiche. Quale che sia la motivazione della sostanziale delusione che si prova di fronte al trittico, sta di fatto che la delusione c’e`, e che riguarda l’ultima parte del Finale. Il Preludio e` basato su due temi, uno di marcia religiosa, l’altro di corale; l’Aria giustifica del tutto l’idea di Cortot, ma il finale in forma di primo movimento di sonata, con un tema tumultuoso e un tema cavalleresco, introduce un contrasto inatteso che non conduce a una sintesi ma solo a un inopinato superamento, come se fosse intervenuto il deus ex machina. Dopo aver licenziato il Preludio, Aria e finale Franck affronto` la Sinfonia in re minore, che non ottenne un successo pieno. Il suo breve momento di gloria stava passando, e lui, sebbene fosse diventato fin dal 1872 professore d’organo nel conservatorio, continuava a essere l’organista di Sainte-Clotilde che correva da una parte all’altra di Parigi per le sue lezioni private di pianoforte. Correndo e correndo si ammalo` di pleurite e` morı` ancor giovane, avendo appena assaggiato ma non gustato la gloria.

Danza lenta

George Gershwin

A George Gershwin

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(New York, 26 settembre 1898-Beverly Hills, 11 luglio 1937) George Gershwin fu pianista? Indubbiamente sı`. E non solo nel senso che si serviva del pianoforte e che lo suonava anche in pubblico. Ravel, ad esempio, si serviva del pianoforte e lo suonava anche in pubblico, ma non si puo` dire che fosse pianista. Pianista era invece Rachmaninov, pianista era Barto´ k, pianista era Prokof’ev. Pianista era Gershwin, di cui abbiamo in disco alcune esecuzioni della Rapsodia in blu, esecuzioni parziali del Concerto in fa, esecuzioni degli altri pezzi per pianoforte e orchestra e innumerevoli solos per pianoforte. Pianista, dunque, sı`. Non tuttavia al modo di Rachmaninov o di Barto´ k o di Prokof’ev, che potevano eseguire non solo le loro musiche ma anche una sonata di Beethoven o un notturno di Chopin. Gershwin eseguiva se stesso. E la sua attivita` di pianista presenta due aspetti: da una parte il pianista che esegue le musiche sue scritte per pianoforte e inserite in concerti ‘‘regolari’’, dall’altra il pianista che esegue la musiche sue non scritte per pianoforte. Il primo aspetto appartiene soltanto all’ultima parte della carriera di Gershwin, quella che ha per teatro il mondo; il secondo aspetto e` un pedale costante e rappresenta in realta` il primo e vero mestiere di Gershwin. Il compositore dell’Ottocento che scriveva per un’opera, una sinfonia, un concerto, un quintetto, una sonata, una romanza, e che avendo scritto cercava un impresario o un editore, doveva essere in grado, servendosi del pianoforte, di dare un’idea sonora della sua musica. Nel caso dell’opera era necessario, o per lo meno era molto gradito che l’autore sapesse anche cantare. Faccio due esempi. Un Albe´niz non ancora affermato gira in vari teatri europei per far sentire la sua Pepita Jime´nez, e strappa qualche scrittura. Mahler e` il direttore dell’Opera di Vienna, Euge` ne d’Albert ha scritto un’opera, Flauto solo. Sebbene sia e un celebre pianista e l’autore di alcune opere di successo, d’Albert non manda a Mahler la partitura di Flauto solo ma gli chiede di fargliela sentire. Mahler fissa l’audizione e d’Albert suona e canta tutta la sua opera. Gershwin non aveva fatto regolari studi in conservatorio. Ma sapeva benissimo che il pianoforte era lo strumento del compositore, e sapeva benissimo che se scriveva una canzone doveva farla sentire al cantante o al grande impresario di Broadway o al piu` piccolo editore della X street.

Sapeva anche che se lo invitavano a un cocktailparty avrebbe avuto piu` successo se si fosse messo al pianoforte per far sentire la sua musica. E al pianoforte Gershwin ci si metteva volentieri, e sapeva starci. Durante la giovinezza di Gershwin la vita sociale acquisto` pero` un potente sussidio. Nell’Ottocento gli invitati a una festa in famiglia si disponevano intorno al pianoforte di fronte al quale sedeva un pianista qualunque o un ospite illustre. Chi non ricorda il salotto provinciale di Madame Bovary, con al pianoforte Madame Bovary in persona? Chi non ricorda il salotto di Cristina di Belgiojoso, con al pianoforte Chopin o Liszt o Thalberg? All’inizio del Novecento gli invitati si disponevano ancora intorno al pianoforte, ma se, deplorevolmente, mancava l’ospite illustre, potevano consolarsi con il fantasma dell’ospite illustre. Era stato infatti inventato il pianoforte riproduttore, che riproduceva, mediante un semplice rullo di carta perforata scorrente in un certo macchinario, l’esecuzione di Paderewski o di Busoni o di d’Albert, oppure una romanza di Puccini o di Mascagni o di Giordano, oppure... un song di un giovanotto che si era segnalato a Broadway. Cosı`, fin dal 1916 Gershwin comincio` a perforare rulli di pianoforte riproduttore e ad apparire come fantasma di pianista nei salotti americani. Il pianoforte riproduttore aveva pero` un concorrente: il disco. I due rivali cominciarono a duellare veramente dopo la guerra. E negli anni venti Gershwin entro` nei salotti, con gli ospiti che si disponevano attorno a un grammofono invece che intorno a un pianoforte, anche con il disco. La vita sociale del Novecento venne pero` modificata, o arricchita che dir si voglia, da un terzo incomodo, che entro` potentemente in gioco alla fine degli anni venti: la radio. E negli anni trenta Gershwin comparve di frequente alla radio, ... suonando il pianoforte. Pianoforte riproduttore, disco, radio. C’erano in cio` molti vantaggi e qualche svantaggio. Se la principessa di Belgiojoso aveva ospite Chopin e moriva dalla voglia di ascoltare di Chopin la Ballata in sol minore non aveva che da dire: ‘‘Fre´ de´ ric, mon ami, suonereste per me la Ballata in sol minore’’? Se aveva ospite Liszt e moriva dalla stessa voglia non aveva che da dire: ‘‘Franz, mon ami, suonereste per me la Ballata in sol minore di Fre´de´ric’’? 241

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George Gershwin

Se una qualsiasi Madame Bovary dell’Alabama o della Carolina del Sud moriva dalla voglia, per ragioni strettamente personali, di ascoltare The man I love o That Certain Feeling, non poteva soddisfare il suo innocuo capriccio se il rullo o il disco dei due pezzi non erano in commercio o se le due agognate canzoni non erano comprese nel programma radiofonico. Poteva invece invece soddisfarlo con la musica stampata. E Gershwin provvide alla bisogna di chi sapeva e leggere la musica e suonare il pianoforte con il Song Book (Libro delle Canzoni, 1932), raccolta di diciotto canzoni in versione per pianoforte solo. Sorpresa. La musica del Song Book corrisponde a quella suonata da Gershwin su rullo o disco, la strumentazione pianistica non corrisponde. Che cosa e` capitato? E` capitato che per imprescindibili ragioni commerciali il Song Book deve andare incontro alle capacita` dei pianisti medi, e che George Gershwin non e` un pianista medio e non rinuncia a essere cio` che e` non solo quando esegue la Rapsodia in blu per un pubblico pagante ma anche quando fa ascoltare Clap Yo’ Hands a quattro amici. Artis Wodehouse riscrisse percio` otto canzoni, non comprese nel Song Book, cosı` come Gershwin le eseguiva (Gershwin’s Improvisations, 1987). Improvvisazioni di Gershwin. Gershwin come Fats Waller o come Earl Hines? Non direi proprio. Il pianista Gershwin non era un vero jazzman e non improvvisava su un tema ma il tema, di solito, lo ornamentava soltanto, badando sempre a mantenergli la sua riconoscibilita`. Detto in termini ‘‘classici’’, c’e` una bella differenza fra Bach, che su un soggetto di Federico II improvvisa il Ricercare a 3 dell’Offerta musicale, e Nannerl Mozart, che aggiunge qualche fioritura a un andante del fratello Wolfgang. Senza volere fare a tutti i costi del nominalismo, ma solo per intenderci meglio possiamo dire che il termine parafrasi, piu` che il termine improvvisazione, corrisponde al modus operandi del pianista Gershwin, messo sulla carta da Artis Wodehouse. Prendiamo ad esempio Looking for a boy. Il ritmo di marcia con due accenti per battuta viene realizzato da Gershwin non solo in modo tradizionale, ma anche con accordi di decima arpeggiati sul primo e sul terzo quarto della battuta. Cio` significa che la mano di Gershwin e` grande ed elastica, perche´ una mano normale, che non prende agevolmente la decima, puo` eseguire accordi di decima arpeggiati ma non sostenerli a lungo. E invece sappiamo che Gershwin stava al pianoforte per ore. La sua mano destra esegue all’inizio la melodia e una parte dell’accompagnamento. Molto probabilmente la melodia viene eseguita quasi 242

Song Book (Libro delle Canzoni, 1932)

tutta con il pollice, usato non come dito indipendente ma come prolungamento della mano, e quindi con un’azione che coinvolge tutto il braccio. L’immagine che ci si presenta subito e` quella di un pianista che, pur agendo in velocita`, suona molto rilassato e usando poco le dita. Infatti, in tutto il pezzo non troviamo alcun passaggio che richieda agilita` digitale, se non una brevissima scaletta in la minore, in ottava, che puo` essere eseguita con trascinamento delle dita, non con articolazione, e due piccoli passi a mani alternate. Possiamo tranquillamente dire che se Art Tatum avesse improvvisato su Looking for a boy troveremmo nella sua esecuzione ben altri passi virtuosistici. In Looking for a boy la melodia viene spostata nel registro medio-grave in un solo episodio: l’esecuzione della melodia viene tuttavia affidata anche in questo caso alla destra. In Sweet and low-down questo procedimento viene ripreso in due episodi, ma c’e` anche un episodio in cui la funzione melodica viene affidata alla mano sinistra. Il registro medio-grave, che e` il piu` sonoro dello strumento e il piu` ‘‘umano’’ di colore, viene dunque impiegato da Gershwin per la melodia solo per eccezione. Egli preferisce ‘‘cantare’’ nel registro medio-acuto, sia con suoni singoli che con raddoppi in ottava, anche con suoni intermedi che scuriscono il timbro. Mi sembra che il suo cantabile pianistico sia esemplato su voci esili e chiare come quelle di Adele Astaire o anche di Al Jolson, non ‘‘impostate’’ e nemmeno ricche di armonici come quelle dei cantanti neri. Sweet and low-down, per questo aspetto, e` emblematico. Ma nulla di diverso troviamo negli altri song. Tutt’al piu` si puo` citare un episodio di May-be, con melodia in registro medio-grave alla mano sinistra e batterie di accordi alla destra, che pare esemplato sulla parte centrale della Elegia op. 3 n. 1 di Rachmaninov. Ma Gershwin non tiene evidentemente conto di quella specie di manifesto del cantabile sul pianoforte moderno che e` la Melodia op. 3 n. 3 di Rachmaninov. I caratteri stilistici degli altri song non si scostano da quelli visti sino a qui. Qua e la` si trovano piccoli passaggi di agilita` leggera, di non difficile esecuzione. Ed e` tutto. Ben piu` complessa era la tecnica non solo di un Art Tatum, ma anche di un Fats Waller e di altri meno famosi. Ci sono altre trascrizioni per pianoforte e altre riscritture da rulli ‘‘bucati’’ da Gershwin, che non presentano elementi di novita`. Gli unici pezzi originali per pianoforte solo, essendo andata perduta la prima composizione, Novelletta, sono i 3 Preludi (1926), che nella loro articolazione veloce-lentoveloce seguono l’archetipo della sonatina, che riprendoono il linguaggio della Rapsodia in blu e

Concerto in fa

che per queste due ragioni hanno secondo me incontrato molta fortuna in sede concertistica. La fama di Gershwin nel mondo della musica ‘‘classica’’ e` tuttavia affidata alla Rapsodia in blu (1924) e al Concerto in fa (1925). La Rapsodia in blu venne eseguita per la prima volta da Gershwin il 12 febbraio 1924 nella Aeolian Hall di New York con l’orchestra diretta da Paul Whiteman. Whitman, violinista nelle orchestra sinfoniche di Denver e di S. Francisco, aveva fondato nel 1918 una jazz-band che aveva in breve tempo acquisito una buona fama. Nel dicembre del 1923 egli annuncio` che Gershwin, noto per i suoi successi a Broadway, stava scrivendo un ‘‘concerto jazz’’ che sarebbe stato presentato in una serata di nuova musica americana. E dell’americanismo il populista Whitman (lo avrebbe poi fatto anche Gershwin) si riempiva orgogliosamente la bocca. Con Gershwin ci aveva parlato, Whiteman, del concerto. Ma niente di piu`. Era solo un progetto, e all’alba del 1924 Gershwin stava scrivendo un musical che doveva andare in scena il 21 gennaio al Teatro Astor. Letta la dichiarazione di Whiteman nella New York Herald Tribune mentre stava giocando a bigliardo, Gershwin ci si mise davvero, a scrivere un concerto per pianoforte e jazz-band: cosı` nacque la Rapsodia in blu che Whiteman incluse nella serata reclamizzatissima, e attesa dai nuovayorchesi come avvenimento mondano scicchissimo. Whiteman prometteva una carrellata di musica ‘‘americana’’ con un ‘‘poema sinfonico sincopato’’ di Irving Berlin, la Rapsodia in blu di Gershwin e una ‘‘suite americana’’ di Victor Herbert. Il pezzo di Herbert fu poi una pacifica suite di serenate (spagnola, cinese, cubana, orientale) e di Berlin vennero presentati tre famosi song strumentati da Ferde Grofe´. La Rapsodia in blu divenne cosı` il clou della serata. Pubblico delle occasioni solenni. Basti dire che nella platea che ascolto` la Rapsodia e gli altri pezzi di cosiddetto jazz sinfonico sedevano i pianisti Rachmaninov e Godowsky, i violinisti Kreisler, Elman, Heifetz, i direttori d’orchestra Stokowski, Mengelberg, Damrosch, nonche´ Igor Stravinskij e il vecchio John Philip Sousa, autore di Stelle e Strisce per sempre. Per parecchio tempo non si parlo` d’altro che del concerto alla Aeolian Hall e della Rapsodia in blu, che era stata orchestrata da Grofe´ a mano a mano che Gershwin la componeva. In verita`, Whiteman ci rimise di tasca sua settemila dollari... Ma il successo c’era stato: un successone, e la Rapsodia in blu aveva colpito gli americani al cuore. Ma perche´ ‘‘rapsodia’’? e perche´ ‘‘in blu’’? Il termine rapsodia, gia` usato fin dal 1802, era di-

George Gershwin

ventato popolare per merito di Liszt, che tra il 1852 e il 1853 aveva pubblicato quindici Rapsodie ungheresi. Il termine indicava una composizione non programmaticamente legata a forme consolidate della tradizione: un po’ l’equivalente del vecchio ‘‘fantasia’’ ma con un sapore nuovo, e nobilitato dal riferimento ai rapsodi greci. Dopo Liszt si scrissero molte rapsodie, ma di rado – Brahms e Debussy sono gli esempi piu` cospicui – senza una specificazione. E la specificazione fece quasi sempre riferimento alla musica folcloristica, dalla, tanto per citare due casi, Rapsodia norvegese di Lalo alla Rapsodia spagnola di Ravel. Ci fu anche la Rapsodia nera per pianoforte e orchestra di John Powell, composta nel 1918, che alla contaminazione tra jazz e musica sinfonica arrivava sei anni prima di Gershwin. Il blues e` la musica dei neri americani che precede il jazz, perche´ il termine ‘‘jazz’’ compare per la prima volta nel 1913, mentre ‘‘blues’’ venne usato fin dagli anni ottanta dell’Ottocento. Quindi, in soldoni, in soldonissimi, Rapsodia in blu significa Rapsodia nero-americana. La forma della Rapsodia in blu e` quella della ouverture-centone che era stata molto usata nell’operetta dell’Ottocento e che s’usava molto nel musical americano: sfilata di temi gradevoli, con forti variazioni dell’espressione e con ricapitolazione finale di una parte del materiale impiegato. L’abilita` di Gershwin consiste nel saper collocare come punto culminante un vero e proprio song di Broadway, sentimentale e languido, e di parafrasarlo subito dopo in modo tendente al grottesco. Ma anche molto azzeccato e` il percorso tonale, che dal Si bemolle dell’inizio passa al La bemolle, al La, al Do, al Sol, al Mi (punto culminante), e torna al Si bemolle iniziale attraverso il La, il Do e il Mi bemolle. L’arco armonico Si bemolle-Mi-Si bemolle era stato impiegato di rado nella musica ‘‘classica’’, e in questo senso, oltre che nella invenzione e nella impaginazione degli eventi, si puo` parlare della originalita` creativa di Gershwin. La strumentazione, con la scelta dei colori e degli impasti timbrici, contribuisce non di poco alla felice riuscita dell’opera. Grofe´ strumento` la composizione per jazz-band, cioe` per flauto, oboe, due clarinetti, tre saxofoni, due corni, due trombe, trombone, timpani, batteria, banjo, otto violini, contrabbasso, pianoforte di ripieno. Successivamemte Grofe´ ristrumento` pero` la Rapsodia per orchestra sinfonica: due flauti, due oboi, due clarinetti e clarinetto basso, tre saxofoni, due fagotti, quattro corni, tre trombe, due tromboni, tuba, timpani, piatti, grancassa, tamburo, triangolo, gong, glockenspiel, archi. E questa e` di gran lunga la versione piu` nota. 243

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George Gershwin

Tra gli spettatori della serata nella Aeolian Hall c’era, come ho detto, il direttore d’orchestra Walter Damrosch, che era succeduto al padre a capo dell’Orchestra Filarmonica di New York. Damrosch chiese subito a Gershwin di scrivere un vero e proprio concerto per pianoforte e orchestra, da eseguire nella sacra sede della Carnegie Hall e da portare in tourne´e a Washington, Filadelfia e Baltimora. Gershwin era tentato, e nello stesso tempo dubitava delle sue forze. Per intanto si reco` per lavoro a Londra, dove era gia` stato nel ’23. Poi torno` a New York e scrisse Lady Be Good, che ando` in scena l’1 dicembre. Ma Damrosch era un manager tenace. Torno` all’assalto, e il 17 aprile 1925 Gershwin firmo` il contratto per il New York Concerto da eseguire due volte alla Carnegie Hall e poi in sei altre citta`. In maggio Gershwin torno` a Londra, e a Londra si mise a buttar giu` delle idee per il Concerto. Di ritorno a New York comincio` il 22 luglio il lavoro di composizione e termino` il Concerto ai primi di ottobre; la strumentazione fu ultimata il 10 novembre. Gershwin era cosı` preoccupato per la strumentazione, di cui non aveva molta pratica, che in novembre assoldo` un’orchestra di sessanta elementi per provare il Concerto, diventato nel frattempo Concerto in fa invece che New York Concerto. Damrosch, che assistette alla prova, consiglio` qualche ritocco e qualche piccolo taglio. Poi Gershwin scrisse una presentazione, che venne pubblicata il 29 novembre nella New York Herald Tribune: ‘‘Il primo movimento impiega il ritmo del charleston. E` veloce e pulsante, e rappresenta il giovane spirito entusiastico della vita americana. Il secondo movimento ha un poetico tono notturno e utilizza l’atmosfera di cio` che si usa defiinire il blues americano, ma in forma piu` pura di come viene di solito trattato. Il finale ritorna allo stile del primo movimento. E` un’orgia di ritmi che comincia con violenza e mantiene sempre lo stesso passo’’. Tutta questa preparazione psicopubblicistica ebbe come conseguenza uno schietto successo del Concerto in fa presso il pubblico tradizionale e snob della Carnegie Hall, che ascolto` il pezzo il 3 dicembre. Ma tra i critici importanti solo Samuel Chotzinoff ritenne che Gershwin fosse davvero il capofila della moderna espressione musicale dell’America, mentre il temibilissimo Lawrence Gilman, critico della New York Herald Tribune, trovo` il Concerto ‘‘trito, convenzionale’’. Il giro nelle altre citta` non fu trionfale e il successone della Rapsodia in blu non si rinnovo`. L’Europa snobbo` il Concerto in fa, che venne eseguito all’Ope´ ra di Parigi il 29 maggio 1928, diretto da Vladimir Golschmann e suonato da Dmitri Tiomkin, futuro 244

Seconda Rapsodia

autore di musiche per film e vincitore di tre Oscar. Tra il pubblico c’erano Prokof’ev e Djagilev. Prokof’ev disse di essere interessato alla scrittura pianistica del Concerto e volle conoscere Gershwin, che soggiornava a Parigi, per sentire da lui certi passi, ma confido` poi a Vernon Duke la sua opinione: secondo lui il pezzo era costruito con brevi melodie maldestramente legate insieme. E il Concerto venne in genere considerato un lavoro riuscito a meta`, mentre le luci si accesero violentemente sul poema sinfonico Un americano a Parigi, composto nella capitale francese ed eseguito per la prima volta a New York il 13 dicembre. Il Concerto in fa comincia come una introduzione di musical, al termine della quale compare – sembra che si accenda un grande seguipersona – la diva-pianoforte. Questo e` l’elemento proprio di Gershwin, il suo humus, che adotta, forse inconsapevolmente e forse no, la poetica del music hall e del circo che andava tanto di moda nella Parigi degli anni venti. Nella stessa ottica si muove il Concertino di Honegger (1925) e nella stessa ottica si muovera` il Concerto in sol di Ravel (1931). Solo che Gershwin trasporta direttamente nella forma classica l’‘‘aura’’ della spettacolo leggero, mentre i francesi sottopongono il materiale leggero a una radicale stilizzazione. Il Concerto in fa di Gershwin e` sbalorditivamente ingenuo nella sua ricerca della ‘‘vera musica americana’’ in veste classica, e Lawrence Gilman non aveva poi tutti i torti, nel definirlo ‘‘trito, convenzionale’’. Ideologicamente e architettonicamente sta ad anni luce di distanza dalle musiche ‘‘americane’’ che Charles Ives aveva composto nei primi due decenni del secolo. Ma i suoi molti pregi sono da ricercare a parer mio nella invenzione melodica, nella grazia giovanile, nella capacita` di rappresentare con vivace immediatezza il mondo artificioso e tutt’altro che ‘‘popolare’’ del musical play. Nel novembre del 1930 Gershwin si reco` a Hollywood per comporre la musica del film Delicious. Nel film, come spiego` Gershwin stesso, ‘‘un compositore viene negli Stati Uniti, e io volli scrivere musica che esprimesse la sue reazioni emotive all’arrivo a New York’’. Nacque cosı` la New York Rhapsody, detta anche Rhapsody in Rivets in riferimento ai martelli pneumatici e al rumore delle strade metropolitane. Da questa prima stesura, molto ampliata e rielaborata, nacque poi la Seconda Rapsodia (1931), ultimata in maggio, ‘‘provata’’ privatamente con orchestra il 23 giugno ed eseguita per la prima volta da Gershwin il 29 febbraio 1932 nella Symphony Hall di Boston sotto la direzione di Serge Koussevitzky. Nella Seconda Rapsodia manca lo charme della Rapsodia in blu,

Variazioni su I Got Rhythm

e manca soprattutto un song ammaliante nella sezione centrale, ragion per cui il pezzo non ottenne successo e fu poi ripreso molto di rado. Nel 1934 venne celebrato il decennale della Rapsodia in blu con una tourne´ e di ventotto concerti negli Stati Uniti e in Canada, con un programma comprendente la Rapsodia in blu, il Concerto in fa, Un Americano a Parigi, alcuni song ed un pezzo nuovo di zecca, le Variazioni su I Got Rhythm (1933). Si tratta di un lavoro breve, circa dieci minuti, con Introduzione, Tema, cinque Variazioni. I got rhythm era uno dei song che Gershwin eseguiva molto spesso nei party. Nel pezzo orchestrale egli non va molto lontano, limitandosi a travestire

George Gershwin

da ‘‘valzer triste’’ nella seconda variazione e da ‘‘cinese’’ nella terza variazione un tema molto asciutto, e a trattarlo secondo i suoi moduli da party nelle altre tre variazioni. Nel 1934 Rachmaninov avrebbe dimostrato tutto quello che non solo di musicale ma anche di drammaturgico si poteva ricavare da un tema essenzialmente ritmico nella Rapsodia su un tema di Paganini. Le Variazioni di Gershwin, pur simpaticamente scorrevoli nel loro tono salottiero, umoristico, piccante, sono troppo semplici architettonicamente e troppo poco inventive nella scrittura del solista, e come la Seconda Rapsodia non sono entrate nel repertorio concertistico.

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Alberto Ginastera

Variazioni su I Got Rhythm

Alberto Ginastera (Buenos Aires, 11 aprile 1916-Ginevra, 25 giugno 1983) Il grosso della produzione per pianoforte solo di Ginastera cade prima del ‘‘mezzo del cammin’’: fra la Sonata n. 1 e la Sonata n. 2 trascorrono ventinove anni di totale assenza di pagine pianistiche, cosa che lascia scoperto nel campo del pianoforte il periodo creativamente piu` ricco di Ginastera. Il primo periodo e` dominato dal nazionalismo, a cominciare dalle Danze argentine op. 2 (1937), due pezzi in tempo rapido (Danza del vecchio bovaro, Danza del gaucho malizioso), inframmezzati da un pezzo in tempo moderato (Danza della ragazza graziosa). Il folclorismo fervente ma ingenuo non e` esente da una certa faciloneria, e la scrittura pianistica e` terribilmente convenzionale. Ma non si puo` negare che i tre pezzi siano in genere molto graditi per il pubblico. I Tre Pezzi op. 6 (1940) sono armonicamente piu` evoluti ma praticamente non diversi e il Malambo op. 7 (1940) e` appena appena piu` smaliziato, ma anche in questo caso il fiuto di cio` che piace al pubblico rende concertisticamente efficace la musica. Il Concerto argentino per pianoforte e orchestra (1941) e` un lavoro immaturo a cui Ginastera non assegno` il numero d’opera. I Preludi americani op. 12 (1944), brevissimi, oscillano fra il pezzo di carattere (Triste, Danza criolla, Pastorale), lo studio (Per gli accenti, Per le ottave) e gli esperimenti linguistici (Nel primo modo pentafonico minore, Nel primo modo pentafonico maggiore), piu` quattro Omaggi (a Roberto Garcı´a Morillo, a Juan Jose´ Castro, a Aaron Copland, a Heitor Villa-Lobos). La Suite di danze criollas op. 15 (1946, revisione 1956) segna l’accostamento al Barto´k giovanile delle Sei Danze rumene, e sempre a Barto´k e` riferibile il Rondo` su temi infantili argentini op. 19 (1947). Questo periodo si chiude con la Sonata n. 1 in la op. 22 (1952), che non sfrutta temi folclorici autentici ma che e` segnata da caratteri lessicali popolari che fanno parte di uno stile piu` evoluto e personale. Quattro movimenti, una durata sui sedici minuti, una discorsivita` serrata con molti colpi di scena. Qualche suggestione della recente Sonata di Barber e della piu` vecchia Sonata di Copland non condiziona l’esito complessivamente felice del pezzo, calcolato per piacere al pubblico ‘‘moderno’’ che non ama le avanguardie, e in questo senso colpisce in pieno il bersaglio. Nei ventinove anni che separano la Sonata n. 1 e 246

la Sonata n. 2 Ginastera compone il Concerto n. 1 op. 28 (1961) e il Concerto n. 2 op. 39 (1972). Entrambi sono in quattro movimenti, entrambi dimostrano una volta di piu` la capacita` di Ginastera di soddisfare le esigenze di un pubblico che accetta qualcosa di non del tutto consueto ma non di provocatorio. Ginastera e` un po’ come un pastore che non conduce il gregge verso nuovi pascoli ma che sa come curare i pascoli vecchi e come arricchirli con qualche erba diversa dalle solite. Nel Concerto n. 1 troviamo un moderato ricorso alla dodecafonia e una struttura particolare che invece di un primo movimento in forma classica presenta un tema con variazioni intitolato Cadenza e varianti. Il secondo movimento, molto riuscito, e` lo Scherzo allucinato, il terzo un Adagissimo, e il quarto una Toccata concertata. Il rapporto fra il solista e l’orchestra e` condotto sia nei termini della contrapposizione anche violenta che della integrazione, il discorso procede attraverso accumuli di tensione, punti culminanti e distensione. Insomma, un lavoro artigianalmente perfetto che non trascura nulla e che mira al successo senza rincorrerlo troppo scopertamente. Il Concerto n. 2 e` costruito in un modo ancora piu` insolito. Primo movimento come tema con trentadue variazioni, ma il tema e` un accordo della Sinfonia n. 9 di Beethoven. Il secondo movimento e` uno scherzo per la mano sinistra sola, il terzo e` un tempo lento. Il quarto movimento sfrutta diversi temi, fra cui il finale della Sonata op. 35 di Chopin. ‘‘Tragico e fantastico’’, dice Ginastera del quarto movimento, e per il tema chopiniano parla, secondo la vecchia tradizione risalente ad Anton Rubinsˇtejn, di ‘‘vento fra le tombe’’. Il linguaggio, sostanzialmente tonale, non esclude accordi non esattamente classificabili secondo la teoria dell’armonia, e la scrittura pianistica e` tributaria di Liszt, ma e` dominata con mano molto sicura. I due Concerti non sono entrati nel repertorio perche´ la... concorrenza e` troppo numerosa e troppo agguerrita, ma senza dubbio sono da ricordare fra le cose migliori che il genere abbia avuto nella seconda meta` del Novecento. La Toccata (1970) e` una curiosa trascrizione da un originale di Domenico Zipoli, il gesuita di Prato che visse a lungo in Argentina e che vi morı` nel 1726. Lo stile, massiccio, monumentale, e` quello

Sonata n. 3 op. 55

delle trascrizioni di Busoni dall’organo di Bach e secondo me non rende un buon servizio allo Zipoli, la cui musica e` troppo poco concettosa per reggere una tale profusione di raddoppi e di ispessimenti. La Sonata n. 2 in la op. 53 (1981) e` ancora folclorica di carattere ma non e` piu` ispirata alle pampas, quanto alla musica delle tribu` native della parte Nord dell’Argentina. Il tono espressivo non e` in verita` diverso, almeno apparentemente, da quello della Sonata n. 1, ma l’armonia e` piu` ricca, il ritmo piu` complesso, la scrittura pianistica piu` densa. La Sonata n. 3 op. 55 (1982) e` sonata nel senso scarlattiano del termine: un solo movimento, circa cinque minuti di musica, forma bipartita, te-

Alberto Ginastera

mi basati ‘‘su danze indigene e coloniali dell’America latina’’. La scrittura e` fortemente virtuosistica e percussiva, tanto che un commentatore ha parlato scherzosamente di ‘‘pianoforte da boxeur’’, e secondo me non manca, come quella delle Danze argentine, di una certa faciloneria di strumentazione, con un abuso del glissando che ricorda i momenti piu` convenzionali della musica di Villa-Lobos. Ginastera e` praticamente eseguito soltanto piu` dai pianisti argentini. Ma credo che a quasi trent’anni dalla morte e dopo il tramonto del radicalismo delle avanguardie la sua musica potrebbe rappresentare una risorsa per il repertorio concertistico.

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Lodovico Giustini

Sonata n. 3 op. 55

Lodovico Giustini (Pistoia, 12 dicembre 1685-ivi, 7 febbraio 1743) Lodovico Giustini, organista delle congrega dello Spirito Santo nella sua citta`, sarebbe forse ricordato soltanto da qualche amante delle minuzie per essere nato nello stesso anno in cui videro la luce Johann Sebastian Bach, Domenico Scarlatti e Georg Friedrich Ha¨ndel, se non avesse avuto l’idea di pubblicare dodici Sonate da cimbalo di piano e forte detto volgarmente di martelletti op. 1 (1732), che uscirono a Firenze e che quattro anni piu` tardi vennero ristampate ad Amsterdam. La dedica ‘‘a Sua Altezza Reale il Serenissimo D. Antonio Infante di Portogallo’’ ci dice che il Giustini doveva avere delle conoscenze nella corte di Firenze, ricca di relazioni internazionali. La destinazione al pianoforte ci dice inoltre che egli doveva essere stato in contatto con Bartolo-

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meo Cristofori, scomparso nel 1731, e con il suo allievo Giovanni Ferrini. Giustini e` un conservatore che non risente dello sperimentalismo del pisano Azzolino Bernardino Della Ciaja (16711755) e che rispecchia invece lo stile medio italiano del tempo. Le sue Sonate sono in parte in quattro e in parte in cinque movimenti e seguono i modelli della sonata da camera, contigua alla suite. La Sonata I in sol, ad esempio, e` formata da Balletto, Corrente, Sarabanda, Giga, Minuetto, la Sonata IV in mi comprende Preludio, Presto, Sarabanda, Giga, la Sonata VII in Sol Alemanda, Corrente, Siciliana, Gavotta. Non risulta che dopo l’op. 1 il Giustini pubblicasse altro. Ma le 12 Sonate bastarono a farlo entrare nel Guinness dei primati.

Sonata n. 3 op. 55

Aleksandr Glazunov

A Aleksandr Glazunov

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(S. Pietroburgo, 10 agosto 1865-Neuilly-sur-Seine, 21 marzo 1936) Settantun’anni di vita, di cui trentacinque nell’Ottocento e trentasei nel Novecento. Compositore che esordisce a sedici anni con la Sinfonia n. 1 diretta a S. Pietroburgo da Balakirev e da RimskijKorsakov a Mosca, la nomea del ‘‘Brahms russo’’, la notorieta` internazionale raggiunta molto presto. Ma il Brahms russo mette la parola fine al suo corpus di otto Sinfonie nel 1906, a quanrantun’anni, e tenta invano di comporre una Nona Sinfonia, in re come quella di Beethoven. Per meta` della vita Glazunov crea il suo patrimonio, per l’altra meta` ne gode i frutti andandolo a dirigere qua e la` per il mondo – era un pessimo direttore – e accrescendolo di poco senza ottenere piu` il successo. Assiste impotente al trionfo di Strauss, ‘‘quell’infame scribacchino’’, assiste al trionfo di Stravinskij, che ritiene possessore di un orecchio difettoso, e non cambia una virgola della sua poetica e della sua tecnica. Glazunov e` un sinfonista che al pianoforte si dedica saltuariamente, ma dimostrando sempre di sapersi servire idiomaticamente dello strumento, non di adattare a esso le sue idee. Il suo esordio avvenne con la Suite sul tema SASCHA op. 2 (1882-1883). Sascha e` il diminutivo di Aleksandr, e quindi l’imberbe Glazunov faceva un omaggio a se stesso con quattro pezzi – Preludio, Scherzo, Notturno, Valzer – sul tema mi bemolle-la-mi bemolle-do-si-la. Aveva cominciato nel 1881 con un Intermezzo e una Fuga su quello stesso tema, ma poi li scarto` , e mise insieme una suite spigliata e briosa che ricalcava l’archetipo della sonatina. Il giochetto del nome tradotto in suoni gli riuscı` anche meglio nel Valzer sul tema SABELA op. 23 (1890), dedicato a una signora e mondanamente frivolo ma tutt’altro che sciatto. La ‘‘traduzione’’ del nome in tema musicale e` curiosa: SABE alla tedesca (mi bemolle-la-si bemolle-mi) e LA alla italiana (la). Eleganza e gusto salottiero non mancano mai nella produzione pianistica di Glazunov, e il tono da lui prediletto e` quello della improvvisazione nonchalante, solidamente inserita in strutture elementari e quindi formalmente coerente, ma ondivaga, priva di elaborazione. Esempi tipici dello stile di Glazunov sono in questo senso il Preludio e Due Mazurche op. 25 (1888), che risentono molto di Balakirev, la Barcarola sui tasti neri (1887) e tante altre pagine. E questo carattere non viene meno

neppure nei Tre Studi op. 31 (1889), che essendo per definizione tecnicamente impegnativi non potrebbero essere improvvisati ma che lo sembrano ugualmente. Il Tema e variazioni op. 72 (1900) ricorda la improvvisazione degli organisti, sia perche´ il tema – canzone popolare finlandese – e` brevissimo (sette battute soltanto), sia perche´ la fantasia... vola di palo in frasca, talvolta prendendoci in pieno, talvolta inciampando. All’inizio del nuovo secolo il Brahms russo decise di onorare la sua nomea anche con il pianoforte. Ed ecco la Sonata in si bemolle-Si bemolle op. 74 (1901) e la Sonata in mi-Mi op. 75 (1901). Brillantissima la prima, lirica la seconda, entrambe le Sonate sono in tre movimenti, entrambe sono magistralmente scritte sia come struttura che come strumentazione, ed entrambe mancano di caratterizzazione tematica. La maggiore scorrevolezza discorsiva e` raggiunta nel secondo movimento della Sonata op. 75, Scherzo, e le idee piu` originali si trovano nel finale della stessa Sonata, con un grandioso fugato e una coda che riprende gloriosamente, a modo di corale, il tema dello Scherzo fra scampanii da grande carillon, e con la sovrapposizione conclusiva del soggetto della fuga e del tema del corale. Glazunov in questo caso fa effettivamente il Brahms russo, e lo fa bene: peccato – chiedo scusa per la battuta – che non sia Brahms. Le due Sonate sono precedute dal Preludio e fuga in re op. 62 (1899), con un Preludio, Andante capriccioso, che ‘‘impersona’’ l’idea stessa di preludio, e con una Fuga a due soggetti, uno diatonico e uno cromatico secondo certa tradizione di Bach. Non e` improbabile che Glazunov decidesse di comporre il Preludio e fuga nel momento in cui otteneva la nomina a professore nel conservatorio di S. Pietroburgo. E` evidente che per lui l’ideale del preludio e fuga e` il dittico organistico di Bach trascritto da Busoni o da d’Albert, piu` ‘‘moderni’’ di Tausig o di Bu¨ low. Ma questo modello si aggiunge a un altro, rappresentato da Mendelssohn. I quattro Preludi e fuga op. 101 (1918-1921) sono molto meno dimostrativi e molto piu` introversi, i primi tre in modo minore, il quarto in modo maggiore. Pagine tormentate e torturate, nelle quali Glazunov porta all’estremo la sua esplorazione del cromatismo, trasformandosi, si potrebbe dire, da Brahms russo in Reger russo. Ma l’ultimo Preludio 249

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Aleksandr Glazunov

e fuga risolve in senso positivo le tensioni, tanto da dare l’impressione che il ciclo di quattro pezzi nasconda una simbologia. Il Concerto in fa op. 92 (1911) e il Concerto in Si op. 100 (1917) ebbero e hanno una limitatissima diffusione. Il n. 1 fu registrato da Richter, che pero` lo eseguı` soltanto sette volte in tutta la sua lunghissima carriera. Il Secondo e` un concerto ciclico alla Liszt, di durata limitata. Il Primo e` in due movimenti, con un secondo movimento in forma di tema con nove variazioni che fa da movimento lento, da scherzo e da finale. Questo Concerto

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Concerto in fa op. 92

meriterebbe una maggiore attenzione, ma il repertorio pianistico e` cosı` folto da impedirgli di emergere, mentre il Concerto per violino e` rimasto in repertorio. Dopo la guerra Glazunov compose soltanto il Preludio e fuga in mi (1926) e l’Idillio op. 103 (1926). Il Preludio mostra qualche segno di evoluzione del linguaggio armonico di Glazunov, ma la Fuga si incarica subito di smentire la svolta. L’Idillio e` una pagina sincera e disarmata, una contemporanea della Sonata di Barto´k che sembra risorgere da un passato appena appena posteriore alla scomparsa di Schumann.

53 Studi sopra gli Studi di Chopin

Leopold Godowsky

A Leopold Godowsky

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(Vilnius, 13 febbraio 1870-New York, 21 dicembre 1938) Il volume dell’opera omnia di Godowsky che contiene la produzione originale per pianoforte solo supera di poco le 440 pagine. Ci sarebbe dunque materia per un’ampia analisi. Ma Godowsky non e` passato alla storia ne´ per la Suite Giava (1925), che portava all’attenzione del pubblico internazionale il Sud-Este asiatico, fino ad allora ignorato dalla letteratura pianistica ‘‘orientalistica’’, ne´ per l’enorme Sonata in mi (1911), in cinque tempi con fuga finale che dura quasi quanto una sinfonia di Mahler, ne´ per la Passacaglia in si (1928), composta per onorare il centenario della morte di Schubert, basata sul basso iniziale della Sinfonia Incompiuta e sviluppata in quarantaquattro variazioni, cadenza e fuga. Godowsky e` invece passato alla storia per le sue trascrizioni e per le sue parafrasi. Trascrizioni nel senso ordinario del termine, come quelle, bellissime, di dodici Lieder di Schubert. Ma Godowsky trascrive per pianoforte, paradossalmente, anche da originali per pianoforte. Ad esempio, egli ‘‘trascrive’’, complicandoli, il Valzer op. 18 di Chopin, Triana di Albe´ niz, ecc. ecc. Quest’uso non era in verita` nuovo: Henselt aveva trascritto le quattro Sonate di Weber, Tausig l’Invito alla danza di Weber (trascritto anche da Godowsky). Pero` Godowsky estende quest’uso in limiti fino ad allora mai tentati e, non di rado, con interventi che fanno passare la trascrizione nella parafrasi, per non dire, in qualche caso, nella creazione originale. Tutto cio` si verifica nei 53 Studi sopra gli Studi di Chopin (1893-1914), celeberrimi per sentito dire e non altrettanto per sentito fare, una foresta tropicale in cui occhieggiano creature alate, scimmie, serpenti, in cui si fondono le grida e i canti di un popolo arboricolo, in cui migliaia di colori lampeggiano e scompaiono. Godowsky riduceva la figurazione pianistica di Chopin alle sue componenti armoniche di base, e su queste innestava figurazioni diverse. La componente armonica astratta, e le stesse figurazioni di Chopin acquistavano per Godowsky una diversa fisionomia timbrica a seconda della collocazione sulla tastiera, a seconda della tonalita` , a seconda della mano – destra o sinistra – che le eseguiva. Cosı`, i trasferimenti da una zona all’altra e da una tonalita` all’altra e da una mano all’altra, e gli innesti che fiorivano continuamente sul tronco spostato di qua e di la` non preludono soltanto a giochi

di abilita` prestidigitatoria ma allo stupore del significato diverso che l’oggetto assume in ambienti diversi. Non dico che tutti gli Studi incarnino questa poetica, ma mi sembra che a tanto si arrivi se si esamina nel suo complesso l’enorme raccolta (circa 350 pagine). Il rapporto Chopin-Godowsky nasce dall’analisi di certe potenzialita` compositive rimaste tali in Chopin. E infatti egli conclude la prefazione dicendo di ‘‘poter affermare che lo studio assiduo della presente versione portera` il lettore attento a scoprire, nel cuore della versione originale, delle bellezze che fino ad allora gli erano rimaste sconosciute’’. Vero o no che sia tutto cio`, non resta che inchinarsi alla fede di Godowsky, lasciando cadere ogni obbiezione di principio. Godowsky classifica i suoi Studi in cinque categorie: ‘‘1) Trascrizioni rigorose, in cui il testo originale e` tanto fedelmente rispettato quanto lo permette una trasposizione alla mano sinistra. 2) Trascrizioni libere, in cui il testo appare o trattato liberamente, o per moto contrario, o combinato con un altro studio, o imitando il carattere d’un altro studio. 3) Studi su ‘cantus firmus’, in cui il testo e` trascritto fedelmente per la mano sinistra, mentre la destra l’accompagna con una libera invenzione contrappuntistica. 4) Studi in forma di variazioni, in cui il testo originale serve di base a libere variazioni. 5) Metamorfosi, in cui il carattere, il disegno e il ritmo del testo originale vengono cambiati, mentre la forma resta la stessa, sebbene i suoi contorni melodici e armonici siano considerevolmente modificati’ ’’. Come si vede, il progetto e` di un’ambizione che confina con il delirio narcisistico. E quel che Godowsky chiede al pianista sembra da delirio. ‘‘Tutto cio` e` mai possibile?’’, ci si chiede quasi a ogni pagina, di fronte a combinazioni polifoniche e coloristiche (ai problemi meccanici non bisogna neppur pensare, tanto sono spaventosi) che sembrano scritte per pianoforte in modo del tutto teorico. Pero`, i suoi Studi, Godowsky li suonava, e li suono` in modo da strappare l’applauso frenetico del pubblico e le lodi entusiastiche della critica quando ne eseguı` un bel mazzetto al suo esordio a Berlino, citta` in cui risiedevano virtuosi del calibro di d’Albert e di Busoni. Verso la fine del secolo un grande critico americano, James Huneker, arrischio` una profezia: ‘‘Entro dieci anni – l’evoluzio251

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Leopold Godowsky

ne della tecnica e` molto rapida – [gli Studi] saranno utilizzati per la formazione degli studenti’’. Cio` non avvenne. Ne´ la critica, quando negli anni venti arrivo` la ‘‘musica al quadrato’’, annovero` Godowsky fra i precursori della stessa. In senso puramente teorico non esiste una sostanziale differenza fra Godowsky che parafrasa Chopin e Stravinskij che parafrasa Pergolesi. In senso pragmatico una differenza c’e`, e come!, perche´ altro e` parafrasare autori di un’epoca che ammetteva e praticava co-

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53 Studi sopra gli Studi di Chopin

munemente la parodia, altro e` parafrasare autori di un’epoca che aveva il culto dell’individuo, non del topos. E, per di piu` , gli Studi di Godowsky erano il delta di un fiume di tradizione virtuosistica che il gusto neoclassico tendeva a tappare alla fonte. Solo negli ultimi decenni gli Studi sopra gli Studi di Chopin hanno cominciato a comparire, sia pure in modo saltuario, nei programmi di concerto. E non sono parsi cosı` mostruosi come si diceva.

53 Studi sopra gli Studi di Chopin

Stefano Golinelli

A Stefano Golinelli

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(Bologna, 26 ottobre 1818-ivi, 3 luglio 1891) I pianisti-compositori italiani che si collocano cronologicamente dopo Clementi e prima di Sgambati sono moltissimi, ma pochi fra di loro godettero di una fama che varco` i confini delle Alpi. Gli Studi op. 15 (1842 ca.) di Golinelli furono positivamente recensiti nel 1844 – ‘‘segno improvviso di vita per l’Italia’’ – nella rivista fondata e diretta per dieci anni da Schumann, una rivista di larga diffusione in tutta Europa. Questa era una carta da giocare per dare l’avvio a una carriera internazionale, e infatti Golinelli, gia` noto in Italia, suono` in Francia e in Inghilterra, e successivamente in Germania. Ma Golinelli era un uomo schivo e timido, inadatto ad affrontare in modo intensivo le luci della ribalta. Suono` spesso, finche´ ci fu, alla corte della duchessa di Parma, Maria Luigia d’Austria, e una volta stabilito un rapporto di fiducia con l’editore Ricordi, che gli pubblico` tutto quello che scriveva e che lo impegno` come curatore di edizioni dei classici, si rintano` a Bologna, spendendo nella Accademia Filarmonica, in cui insegnava dal 1840, e nelle lezioni private il tempo lasciatogli libero dalla composizione. La produzione di Golinelli, quasi tutta pianistica, arriva fino all’opera 234 e comprende cinque Sonate (op. 30, 53, 54, 70, 140), tre serie di ventiquattro Preludi (op. 23, 69, 171), gli Studi prima citati, molte raccolte di pezzi caratteristici e moltissime parafrasi su temi d’opera. In questa montagna di pagine spiccano di una luce tenue, ma tuttora visibile, gli Studi op. 15, lo Studio in Do in forma di variazioni scritto per il Metodo di Lebert e Stark (1870 ca.), i Due Studi op. 47 (1847), la Sonata op. 53 (1850) e i Preludi op. 69 (1857 ca.). Per gli Studi op. 15 si puo` sottoscrivere anche oggi la valutazione della rivista tedesca: l’Italia, che esportava a valanga melodrammi, con Golinelli riusciva a mettere il piede in un campo in cui da tempo immemorabile contava meno del due di picche. Lo Studio per il Metodo di Lebert e Stark, essendo in forma di variazioni, affronta vari tipi di

tecnica (anche il glissando in ottave alla mano destra) ed e` vivace e interessante. La Sonata op. 53, dedicata a Thalberg, ha il pregio di non volere ‘‘far grande’’ a ogni costo, e con un po’ di buona volonta` puo` essere accostata per certi aspetti alle contemporanee Sonate di Brahms. I Preludi op. 69 sono brevi – al massimo quattro pagine a stampa, ma piu` spesso una o due –, sono organizzati tonalmente come i Preludi di Chopin, e secondo la mia opinione sono pensati come raccolta, non come ciclo organico, sebbene non manchi in essi la varieta` degli atteggiamenti espressivi. Vi si alternano con una certa regolarita` la melodia accompagnata e lo studietto, in forme generalmente monotematiche. Ad esempio, il Preludio in Do e` una trasognata melodia con un placido accompagnamento in accordi sciolti in posizione lata, il Preludio in la che segue e` uno studio in doppie note nella mano destra su un ritmo saltellante della sinistra, ecc. ecc. La qualita` estetica si mantiene costante, il Preludio in Fa, una specie di serenatella con accompagnamento di chitarre, e` scritto su tre righi e sfrutta abilmente la possibilita` di affidare alla mano destra una doppia funzione: melodia per il mignolo e l’anulare, partecipazione all’accompagnamento per il pollice. I Due Studi op. 47 non perseguono precise finalita` didattiche, ma sono piuttosto, rispettivamente, un valzer da concerto e una polca da concerto, molto brillanti e concertisticamente efficaci. Fra le numerossime parafrasi su temi d’opera ricordero` soltanto quella, di tecnica lisztiana, sul Don Carlo, che reca un titolo molto curioso: Don Carlo di Verdi. Pianisteria di S. Golinelli op. 199 (1880 ca.). Golinelli appartiene alla prima generazione dei romantici e appare influenzato soprattutto da Schumann ma, come Stephen Heller, mantiene una sua specifica fisionomia entro un indirizzo di gusto largamente diffuso in Europa e in cui si ritrovano molti artisti, di maggiori o di minori capacita` creative. Ed e` sicuramente il piu` originale fra i molti suoi coetanei italiani.

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Louis Moreau Gottschalk

53 Studi sopra gli Studi di Chopin

Louis Moreau Gottschalk (New Orleans, 8 maggio 1829-Tijuca, 18 dicembre 1869) Con Louis Moreau Gottschalk l’Europa prende per la prima volta coscienza di una musica degli Stati Uniti che presenta elementi lessicali non riconducibili alla tradizione consolidata. Molti compositori emigrati dall’Europa si erano stabiliti negli USA, e qualcuno, come l’inglese di origine tedesca Alexander Reinagle (1756-1809) vi aveva creato musica per pianoforte di un certo rilievo. Ma Reinagle si manteneva ben aderente al linguaggio europeo, e quindi poteva interessare solo la comunita` entro la quale operava, mentre Gottschalk faceva conoscere con le sue musiche il folclore creolo della Louisiana proprio nel momento in cui l’esotismo, sullo slancio della passione per la Spagna suscitata dai letterati, stava diventando di gran moda anche in musica. Venuto a Parigi nel 1842, Gottschalk vi studio` il pianoforte con Charles Halle´ e con Camille Stamaty, ricevette l’approvazione di Chopin, di cui eseguı` in un negozio di musica il Concerto op. 11 con l’Autore che lo accompagnava al secondo pianoforte, e verso il 1844 comincio` a tenere con successo e a pubblicare musiche che vennero lodate persino da un severo critico come He´ctor Berlioz. Durante il soggiorno a Parigi, che duro` fino al 1853, Gottschalk si reco` anche in Spagna per una tourne´e di diciotto mesi. Tornato negli Stati Uniti, esordı` a New York con un successo strepitoso e svolse un’attivita` concertistica intensa, che si intensifico` ulteriormente durante la Guerra di Secessione, quando Gottschalk, convinto abolizionista sebbene la sua famiglia fosse proprietaria di schiavi e lui stesso fosse stato allevato da una schiava, tenne centinaia di concerti di beneficenza per ospedali e vittime civili. Le sue esperienze durante questi anni americani furono da lui narrate in diari vivaci e spiritosi, pubblicati nel 1881 come Notes of a Pianist. Recatosi nell’America del Sud nel 1868, sia per concerti che per sfuggire – era un gran dongiovanni – alle sgradevoli conseguenze di un affare di cuore che aveva preso una brutta piega, Gottschalk morı` appena quarantenne di febbre tifoidea nei pressi di Rio de Janeiro. La leggenda volle – ma e` una leggenda – che egli cadesse fulminato dopo aver eseguito il suo Morte! Lamentation (Morta! Lamento, 1868). Tuttavia e` documentato il fatto che Gottschalk svenne dopo aver eseguito durante un concerto quel pezzo jettatorio, e che morı` alcune settimane 254

piu` tardi. La musica di Gottschalk, caduta nel dimenticatoio, fu resuscitata negli anni quaranta del Novecento da John Kirkpatrick; eseguita raramente in concerto, ha pero` trovato ampi spazi nella discografia. I primi pezzi di Gottschalk a essere apprezzati a Parigi furono la ‘‘danza negra’’ Bamboula (Bambula, 1844-1845; il bambula e` un tamburo delle Antille), la ‘‘canzone negra’’ Le Bananier (Il Banano, 1845-1846) e la ‘‘ballata creola’’ La Savane (La Savana, 1845-1846), di tessitura relativamente semplice ma molto brillanti. Si dice spesso che il pianismo di Gottschalk sia influenzato da Liszt. A me pare invece che Gottschalk, avendo studiato con due allievi di Kalkbrenner, avesse mantenuto una concezione del suono pianistico che rispetto a quella di Liszt sembra essere un po’ arcaica ma che ritroviamo ad esempio in Saint-Sae¨ns, allievo anche lui di Stamaty. Sebbene sia difficile arrivare in questa materia a conclusioni certe, la strumentazione di Gottschalk sembra riferibile all’azione delle dita e del polso, senza tener conto dell’assioma di Chopin, che negli appunti per un Metodo diceva: ‘‘Non bisogna suonare tutto di polso, come vorrebbe Kalkbrenner’’. La strumentazione di Gottschalk, come del resto quella di Saint-Sae¨ns, e` pero` efficace, con un suono di piccolo volume e di timbrica un po’ metallica e crepitante, un timbro che ‘‘corre’’ bene anche in una grande sala. E cio` non soltanto nelle rapidissime colorature leggere nel registro sopracuto dell’ultima sezione della Savane, che non potrebbero essere materialmente realizzate in altro modo, ma anche nella scrittura piu` massiccia – non pero` corposa – di Bamboula. L’ispirazione folclorica porta Gottschalk a sfruttare una timbrica da strumenti popolari a percussione (ivi compreso il battere delle mani e dei piedi), e un canto con voce non ‘‘impostata’’. E quindi anche il suo cantabile richiede un volume non grande e una ‘‘pasta’’ non densa. Oltre all’eredita` di Kalkbrenner sembra a me che si ritrovino nella strumentazione di Gottschalk alcuni stilemi derivati da Thalberg, ma credo di poter escludere per lui l’influenza dell’estetica di Liszt. Dopo i tre pezzi creoli Gottschalk, di ritorno dalla Spagna, incanto` i parigini con il Souvenir d’Andalousie (Ricordo dell’Andalusia, 1851), melodicamente accattivante e ricco di spettacolari effetti,

The Last Hope. Meditation

una specie di rutilante Espan˜a di Chabrier ante litteram (ascoltando Gottschalk si pensa spesso a Chabrier). Vari pezzi – The Banjo (Il banjo, 18541855), Ojos criollos (Occhi creoli, 1859), La Gallina (danza cubana, 1859 ca.), Pasquinade (Pasquinata, 1869 ca.) e altri ancora – riprendono i modi dei primi successi di Gottschalk. Piu` originale e` lo studio Manchega (1855-1856), spagnoleggiante, con effetti di strumenti a pizzico. Il capolavoro di Gottschalk nel campo del folclore creolo e` senza dubbio il Souvenir de Puerto Rico. Marche des Gibaros (Ricordo di Portorico. Marcia dei Gibaros, 1857), basato su un canto del Gibaros, i facchini che caricavano le banane sulle navi da trasporto, e organizzato come tema con variazioni, con una scrittura che inizia con il solo basso, aumenta di densita` di variazione in variazione e, dopo aver raggiunto il climax, riprende a ritroso il cammino delle variazioni e finisce con il solo basso. Il tema e` in due parti: un triste canto corale a modo di marcia, un malinconico canto solistico, e l’effetto e` quello dell’arrivo da lontano dei facchini alle prime luci dell’alba, della sfilata e dell’allontanamento, come se uno spettatore insonne osservasse l’accaduto dal balcone di casa sua. E` una piccola scena d’ambiente, una tranche de vie che pur nella sua semplicita` di impaginazione sprigiona una forte carica emotiva e un suggestivo ‘‘colore locale’’. Il pezzo piu` ambizioso di Gottschalk e` The Union (L’Unione, 1862), ‘‘parafrasi da concerto su arie nazionali’’ (i temi sono Star Spangled Banner, Yankee Doodle, Hail Columbia), che secondo me non va pero` oltre lo schema del pot-pourri, del centone su temi molto noti, messi insieme per contingenti motivi patriottici. Molto piu` compatta e coerente e` la Grande Fantasia Trionfale sull’Inno Nazionale Brasiliano (1868 ca.). Si tratta in pratica di variazioni sull’inno, in uso ancor oggi, di stile italianeggiante, e piu` precisamente rossiniano, che Gottschalk organizza come cerimonia-spettacolo, con la sfilata dei soldati, con ragazze che suonano arpe, con concerti di tamburi e con una carica di cavalleria ripetuta due volte. Anche in questo caso la pittura d’ambiente e` perfetta e la tecnica impiegata con diabolica abilita` consente di ottenere effetti di grandiosa spettacolarita` senza che venga richiesto all’esecutore un livello di virtuosismo trascendentale ‘‘lisztiano’’. Fra i pezzi originali di Gottschalk e` da segnalare innanzitutto The Dying Poet (Il Poeta morente, 1863-1864), melodia nel registro di contralto trattata a variazioni senza soluzione di continuita`, come nel Souvenir de Paganini e nella Berceuse di Chopin. La melodia, italianeggiante, non e` proprio

Louis Moreau Gottschalk

di... levatura belliniana, ma non e` nemmeno dozzinale e presenta due caratteri non consueti: nel giro di sole otto battute si estende sullo spazio di due ottave, e tocca il punto culminante all’inizio della sesta invece che della settima battuta. Questa melodia, in ritmo di valzer lento (il poeta morente canta un po’ come il verdiano Manrico, chiuso nella torre ‘‘dove di stato gemono i prigionier’’), e` strumentata, dalla prima esposizione con le mani incrociate fino all’ultima lunghissima sezione in note ribattute, e` strumentata, dicevo, con una conoscenza semplicemente prodigiosa di cio` che si puo` ottenere dal pianoforte senza mettere alla disperazione l’esecutore dilettante. Il gia` citato Morta!, al quale mi permettevo di appiccicare la qualifica di jettatorio, fa fare gli scongiuri a qualunque persona saggiamente superstiziosa quando, dopo il titolo funereo, legge didascalie come ‘‘malinconico’’, ‘‘con rimpianto’’, ‘‘piangendo’’, ‘‘campana funebre’’. Un vero funerale. Gottschalk mando` il manoscritto al suo editore di Rio de Janeiro, nell’estate del 1869, dicendo: ‘‘Credo che sia la mia piu` riuscita fatica da anni. Quando l’ho suonato l’ho sempre replicato, e un gran numero di donne hanno avuto attacchi isterici e sono svenute’’. Potenza dell’arte, e` il caso di dire. Con Morta! Gottschalk ci lascio` la pelle, l’editore si costruı` una fortuna... Il pezzo celeberrimo di Gottschalk fu pero` The Last Hope. Meditation (L’ultima speranza. Meditazione, 1854), composto a Cuba. Gottschalk accenna nel suo diario a un ‘‘episodio commovente’’ da cui dipende il ‘‘carattere melanconico’’ del pezzo. Molti anni piu` tardi un tal Gustave Chouquet avrebbe narrato sulla France Musicale la storia o presunta storia da cui era nato il capolavoro di Gottschalk. Il compositore aveva conosciuto a Santiago di Cuba ‘‘una donna di mente e di cuore’’ che lo aveva preso in simpatia, ‘‘uno di quei dolci affetti, teneri quasi quanto l’amore materno’’. Affetta da un grave male che non ci viene rivelato, la signora aveva trovato nella musica di Gottschalk ‘‘il suo piu` potente medico’’. Una sera, essendo piu` del solito sofferente, la donna invoco` il suo ippocrate cosı`: ‘‘Per pieta`, mio caro Moreau, una piccola melodia, l’ultima speranza’’. Gottschalk, obbedientissimo e sollecito, improvviso` il pezzo; pochi giorni piu` tardi la signora spiro`. Pezzo molto meno banale di quanto la lacrimosa storia farebbe supporre, e scritto con una scaltrita conoscenza degli effetti che si possono trarre dal pianoforte alternando e sovrapponendo suono cantabile e leggerissime filigrane ornamentali, l’Ultima Speranza spicca nella produzione originale di 255

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Louis Moreau Gottschalk

Gottschalk e nel panorama foltissimo della musica da salotto della seconda meta` dell’Ottocento. Un Concerto in fa per pianoforte e orchestra (1858) e` andato perduto, mentre la Gran Tarantella (1868), pur essendo piacevole, appare un po’ scontata nel suo napoletanismo di maniera. Prima di andarsene a soli quarant’anni Gottschalk era stato in Europa e nelle due Americhe un re dei salotti, idolatrato e coperto d’oro. Oro che aveva saputo redistribuire: aveva provveduto al mantenimento della madre, rimasta a Parigi, aveva liquidato i debitucci del padre, rimasto a New Orleans, aveva passato una pensione alla sua vecchia nutrice, la ex-schiava Sally che lo aveva portato bambino nei quartieri creoli di New Orleans in cui si faceva musica per strada a tutte le ore, aveva fatto doni regali agli amici e a chinque gli riuscisse simpatico. Era stato un artista, della musica e della vita. Ma con la sua vita svanı` anche la sua musica. Nella divisione della musica in seria e leggera che si attua nella seconda meta` dell’Ottocento, Gottschalk si colloca indubbiamente sul versante ‘‘leggero’’. La musicologia, che e` arrivata a non fare distinzioni di generi ma di qualita` nel caso di Jo-

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Concerto in fa per pianoforte e orchestra

hann Strauss junior o di Offenbach, non e` fino ad ora riuscita ad applicare lo stesso metro alla musica pianistica, e Gottschalk, come del resto altri compositori della sua epoca, e` guardato come un abile intrattenitore di un pubblico che non aveva ancora imboccato decisamente il cammino della grande arte, e quindi come una figura magari storicamente interessante ma che non sopravvive alla sua epoca. In realta`, se ammiriamo e sentiamo vicino a noi non solo Brahms ma anche Johann Strauss, se i quadri degli impressionisti non fanno escludere dal nostro panorama culturale le litografie di Achille Deveria o di Franz von Reznicek, se la scultura di Rodin non cancella per noi le lussuriose zuppiere e salsiere francesi, allora non c’e` ragione per non accettare senza riserve mentali per lo meno certe musiche di Gottschalk, per accettarle non per quello che rappresentarono alla meta` dell’Ottocento ma per quello che possono rappresentare oggi, e cioe` l’aspetto del delectare che i teorici barocchi vedevano e riconoscevano per essenziale nella musica accanto agli aspetti del docere e del movere.

Danze spagnole

Enrique Granados y Campin˜a

A Enrique Granados y Campin˜a

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(Lleida, 27 luglio 1867-Canale della Manica, 24 marzo 1916) Non e` facile pensare a Enrique Granados y Campin˜a come a un contemporaneo di Debussy o di Mahler o di Strauss. Eppure Granados era piu` giovane di questi artisti ed era appena un poco piu` anziano di Ravel, di Skrjabin, di Scho¨nberg. Ma la Spagna in cui viveva Granados non era culturalmente simile alla Francia o all’Austria o alla Russia di fine secolo. Non che la Spagna stesse su un altro pianeta, non che fosse un’isola felice: nell’autunno del 1893, a Barcellona, l’anarchico Paulino Palla´s lanciava una bomba contro un generale, era preso e giustiziato, e nel novembre dello stesso anno Santiago Salvador, per vendicare il compagno, compiva un attentato nel teatro d’opera durante la rappresentazione del Guglielmo Tell, causando la morte di venti persone. Granados, scrive un suo autorevole biografo dopo aver parlato degli sconquassi provocati dagli anarchici, ‘‘rimase fuori da ogni implicazione negli avvenimenti’’. Mentre la situazione politico-sociale dei rispettivi paesi si rifletteva sulla musica francese, austriaca e russa come crisi di identita` del musicista e come crisi della tradizione e del linguaggio, in Spagna si ripeteva con quarant’anni di ritardo il rapporto musicista-societa` del periodo immediatamente posteriore al 1848, a tal punto che Granados poteva sentirsi successore di Mendelssohn e di Schumann assai piu` che contemporaneo di Debussy e di Ravel. Le aspirazioni che il poco piu` che trentenne Granados confessava in una lettera alla moglie sono curiosamente anacronistiche, ma anche rivelatrici per noi: ‘‘Ho l’ambizione di essere nel mio paese quello che Saint-Sae¨ns e Brahms sono nel loro’’. Se si pensa che Brahms era nato nel 1833 e Saint-Sae¨ns nel 1835 si puo` capire fino a che punto Granados si identificasse con la generazione precedente alla sua. Avrebbe mai potuto lasciarsi ‘‘implicare’’ negli avvenimenti politici della Spagna del suo tempo? Granados, figlio di un militare, aveva cominciato a studiare musica con un musico militare, poi, trasferitasi la famiglia a Barcellona, aveva proseguito gli studi con un oscuro maestro e infine con un insegnante localmente molto reputato, Juan Bautista Pujol. Si era diplomato nel 1883 con una esecuzione della Sonata op. 22 di Schumann e aveva iniziato gli studi di composizione con Felipe Pedrell, che tutte le storie definiscono ‘‘padre’’ della mo-

derna musica spagnola. Siamo ben lontani dai maestri che un giovane talento poteva trovare a Parigi o a Lipsia o a Vienna o a S. Pietroburgo, ed e` probabile che questi inizi condizionassero non solo la carriera, ma anche la mentalita` riservata e schiva di Granados. I primi e unici contatti con un ambiente musicalmente piu` evoluto ebbero luogo fra il 1887 e il 1889, quando Granados, aiutato finanziariamente da un commerciante, visse a Parigi. La capitale francese era il centro in cui tutti i giovani musicisti spagnoli di qualche talento completavano la loro educazione. Ci ando` anche Granados... senza far faville. Avrebbe dovuto sostenere l’esame di ammissione al conservatorio, ma s’ammalo` di febbre tifoide e annullo` la prova; frequento` invece il conservatorio come uditore e prese qualche lezione da Charles de Be´riot junior, conobbe alcuni musicisti, soprattutto quelli che gravitavano intorno alla Schola Cantorum fondata da d’Indy. Nell’estate del 1889 era di ritorno a Barcellona, tra l’inverno e la primavera del 1890 si presentava due volte in pubblico nel Teatro Liceo; un recital e una serata con orchestra, in cui eseguiva il Concerto di Grieg, lo inserivano nel lucroso giro delle lezioni private. Mentre gli anarchici tiravano le bombe, Granados si era da poco accasato con Amparo Gal (detta Titin) dopo un corteggiamento iniziato con le Lettere amorose (1887) e con i Valzer amorosi (1887), e stava aspettando il regolare arrivo del primogenito. Badava quindi a mettere insieme tante lezioni private di pianoforte quante ne servivano per tirare avanti confortevolmente la famiglia e componeva lentamente, pubblicandole una alla volta, le dodici Danze spagnole (1892-1900). Era il suo cliche´, il cliche´ che aveva scelto contro le abitudini dei suoi coetanei spagnoli giramondo e che impersonava con fermezza da alcuni anni: il cliche´ del modesto insegnante di pianoforte che, vivendo e lavorando sodo in una citta` culturalmente provinciale, aspira con le sue composizioni a rendersi noto presso il pubblico internazionale dei dilettanti di pianoforte, un pubblico amante del frutto esotico ma tradizionalista e conservatore. E Granados, operando con coerenza in questo mondo di gente non implicata negli avvenimenti, con le Danze spagnole riuscı` a sfondare. Aveva cominciato a comporre a diciassette anni, 257

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Enrique Granados y Campin˜a

Granados, con le mazurche Clotilde e Elvira (1884), aveva proseguito con le Lettere e i Valzer gia` menzionati e con la Mazurca alla polacca, nonche´ con un valzer piu` audace, Carezza (1887), e con un Minuetto della felicita` (1887). Da quel buon ragazzo che era non aveva mancato di metterci un contrappeso con la Moresca (dedicata a sua madre). La qual sua madre cosı` aveva presentato il figliolo alla futura consuocera: ‘‘Come madre devo dire tutta la verita` a un’altra madre. Mio figlio e` povero, molto povero. Per ora non ha altro che un buon nome. Non dubito che col tempo potra` crearsi una posizione, ma questa non si improvvisa e la lotta sara` dura. Per il resto, Loro lo conoscono. Se com’e` lo accettano, cosı` lo prendano’’. Lo avevano preso, ed Enrique badava onestamente a crearsi una posizione. Lezioni di pianoforte, composizioni che potessero soddisfare i dilettanti. Questo benedetto pubblico internazionale di dilettanti, come dicevo, amava l’esotico, e dopo aver adottato successivamente il polacco Chopin, l’ungherese Liszt, il creolo Gottschalk, lo scandinavo Grieg e il russo Cˇajkovskij stava adottando lo spagnolo Albe´niz. Granados avanzo` prudentemente nella breccia aperta da Albe´niz: partı` all’attacco con i Sei Pezzi sopra canti popolari spagnoli (1890), conquistando qualche favore soprattutto con l’ultimo, Zapateado, e proseguı` con le Danze spagnole che suscitarono ammirazione nei ‘‘contemporanei’’ di Granados come Ce´sar Cui, come Grieg e come Saint-Sae¨ns. La prima danza, Galante, doverosamente dedicata ad Amparo Gal, piacque discretamente, e cosı` la seconda, Orientale, la terza, Fandango, e la quarta, Villanesca. La quinta, Andalusa, uscita nel 1893, fu una bomba. Chi, essendo interessato alla letteratura pianistica, non ha sentito mai le chitarre crepitanti e la malinconica melodia di Andalusa oscillante fra il modo minore e il modo maggiore, chi non ha goduto mai ‘‘l’atmosfera voluttuosa e tragica dei patios di Granada ai tempi dei mori’’ (H. Collet) puo` tranquillamente concorrere per un premio di sordita`. Eseguita da dilettanti, trattata con tutti i riguardi da concertisti come Josef Hofmann e Arturo Benedetti Michelangeli, Andalusa si e` conquistato un inattaccabile seggio nel regno della piccola musica da salotto che e` buon cosa senza essere di pessimo gusto, e che sarebbe bastata da sola a tenere in vita il nome di Granados, cosı` come basto` da sola a incrementare le finanze affidate alla Titin. Non abbiamo i libri della contabilita` familiare che – ne siamo sicuri – Titin teneva scrupolosamente, ma possiamo ragionevolmente supporre che il costo orario delle lezioni di chi aveva composto Andalusa facesse un bel salto in alto. Per evitare che il 258

Clotilde

suddetto costo venisse riafferrato dalla legge della gravitazione universale Granados continuo` a comporre le Danze spagnole, consolidando la sua fama pur senza riottenere un successo pari a quello di Andalusa. Granados ‘‘evase’’ pero` dallo spagnolismo con i Valzer poetici (1895 ca.), sette valzer con preludio e postludio, formalmente non lontani dai Valzer nobili e sentimentali di Ravel che sarebbero stati composti sedici anni piu` tardi, e come quelli, sia pure con un linguaggio datato, evocativi di un’epoca lontana. Nel 1895 Granados riprese a suonare in pubblico dopo cinque anni di assenza dalle sale di concerto. Nel 1900 fondo` la Societa` dei Concerti Classici, nel 1902 rilevo` la Accademia di Musica del violinista Crickboom e divenne il piu` autorevole e affermato insegnante di Barcellona. Come compositore aveva messo al suo attivo alcune opere teatrali, ottenendo sı` dei discreti successi, ma solo localmente. Una posizione sicura, una moglie adorata, figli a giusti intervalli (alla fine sarebbero stati sei, quattro maschi e due femmine). Perche´ mai un essere cosı` deliziosamente prosaico viene tanto spesso paragonato dai musicologi spagnoli a Chopin, ed e` definito dal suo maggior biografo ‘‘el ultimo romantico’’? Forse per via delle Scene romantiche (1901)? Le Scene romantiche non sono dedicate a Titin ma a una Marı´a Olivero´, ‘‘un innamoramento passeggero’’, come certifica il solito biografo. Ci spiace per quella santa donna di Titin, ma con le Scene romantiche Granados esce per la prima volta dalle convenzioni, dal cliche´ che si era imposto. Niente di paragonabile a un lavoro rivoluzionario come i Giochi d’acqua di Ravel, scritto appunto nel 1901, e tuttavia il Granados delle Scene romantiche e` diverso da quello che fino a qui avevamo conosciuto. La struttura e` tale da far pensare a un programma segreto e inespresso, ma che viene lasciato supporre o intravvedere. Il primo pezzo e` una Mazurca: un incontro a un ballo, secondo la tradizione romantica di Weber e di Berlioz? Dopo la Mazurca viene un tormentato Recitativo, che la conclude con reminiscenze di danza e un ricorrente frammento interrogativo. Il secondo pezzo e` una Ninna-nanna, una dolcissima incantata ninna-nanna tutta in pianissimo: un sogno d’amore? Il terzo e` un Lento con estasi con una parte centrale mossa, appassionatamente. Un brevissimo Allegretto, n. 4, e` in realta` una mazurca, o un sogno di mazurca. Poi c’e` il vero pezzo forte, un ansiosissimo Allegro appassionato, e infine l’Epilogo, Andante spianato con esaltazione poetica, magnifica conclusione che risuona come un canto dal profondo dell’essere: un brano che non divenne celebre ma che riesce veramente a far

Goyescas

rivivere le esaltazioni amorose di Schumann e che conclude con un estatico inno a Venere il poemetto di una passione impossibile. Impossibile – pasajera – perche´, anche se divenuto romantico, Granados non apparteneva alla razza dei Liszt e dei Wagner ma a quella, fondamentalmente monogama, dei Mendelssohn e degli Schumann. Con le Scene romantiche Granados, gia` fratello spirituale della generazione 1830, aveva pero` compiuto un passo, il suo secondo passo dopo il primo dei Valzer poetici, alla ricerca del tempo perduto. Con il 1901 il Granados saggio amministratore delle sue fortune si scinde dal Granados poeta. Il primo fa prosperare l’Accademia che intitola al suo nome, compone per i suoi allievi i Sei Studi espressivi, i Soldati di cartone, i Bozzetti, i Racconti per la gioventu` dedicati al primogenito Eduardo, partecipa a un concorso bandito dal conservatorio di Madrid, e lo vince, con l’Allegro da concerto (1904), opera di un pianista competente e di un compositore che conosce i suoi polli, cioe` i giudici del concorso, organizza concerti a Barcellona entrando in rapporto con i piu` noti concertisti internazionali, e nel 1905 si presenta come pianista nella Sala Pleyel di Parigi, ottenendo uno schietto successo con musiche sue, con musiche di Chopin e con sette Sonate di Scarlatti. Accanto al Granados professionista – abile professionista che aveva ottenuto quello che sua madre aveva tracciato per lui – viveva il Granados poeta, quello che si era scoperto postumo cittadino del romanticismo. E l’autore delle Scene romantiche prosegue il suo cammino con due raccolte di brevi pezzi per pianoforte, le Scene poetiche (1904) e il Libro delle ore (1907). La difficolta` tecnica e` qui limitata e lo stile pianistico e` tradizionale (solo in Al supplizio Granados dimostra di aver notato la scrittura di Debussy, ma la usa in modo semplificato, quasi didascalico). La destinazione ai dilettanti sembra indubitabile, senza che manchi l’impegno concettuale, e i dieci quadretti sono anzi densi di contenuti e, spesso, di ispirazione tragica. L’ultimo, Sogni del poeta, porta una epigrafe che dice: ‘‘Nel giardino dei cipressi e delle rose, seduto sul piedistallo di marmo bianco, sperando nella sua ora s’addormento` il poeta... accanto a lui, corrugando la fronte, veglia la sua musa’’. E il tema principale, quasi corale armonizzato, molto schumanniano, viene attraversato e interrotto da due cupi episodi minacciosi. La Canzone di Margherita condensa in due paginette un perfetto ritratto psicologico della Margherita del Faust, il Ricordo di paesi lontani e` un momento di ansiosa nostalgia che finisce non sull’accordo fondamentale ma sulla dominante, Eva e Walter, evidentemente ispirato

Enrique Granados y Campin˜a

ai Maestri cantori di Norimberga di Wagner ma per nulla ‘‘wagneriano’’, e` un tenero ricordo di teatro, L’inverno (La morte dell’usignolo) e Al supplizio sono, come il Sogno del poeta, momenti di tetro umor nero, di un tedium vitae che non ci stupisce soltanto se lo mettiamo in rapporto con il contrasto intimo fra il raggiunto successo, ma limitato alla professione e al mondo dei dilettanti, e le ambizioni non confessate del creatore. L’incontro con il mondo goyesco permette a Granados di sintetizzare le due fasi precedenti della sua creativita`. La scoperta della pittura di Goya risaliva al 1897, quando in Spagna si era celebrato con grande rilievo il centocinquantenario della nascita del pittore. Granados si era entusiasmato per la vena visionaria e popolaresca di Goya (non per il Goya ritrattista di corte), e negli anni successivi aveva anche fatto schizzi – era naturalmente dotato per il disegno – alla maniera di Goya. Solo nel 1908 egli comincio` pero` a pensare di scrivere musica ispirata a Goya e alla Spagna dei tempi di Carlo III e di Carlo IV. Compose la suite Goyescas (1909-1911) ed eseguı` i sei pezzi che formano l’opera il 9 marzo 1911 a Barcellona. Aggiunse poi alla suite Il Pelele (1913) e fece schizzi per un’altra scena goyesca, Alla prateria (1913). Le Goyescas e le Tonadillas in stile antico per canto e pianoforte, eseguite a Parigi il 4 aprile 1914, valsero a Granados la legion d’onore e, il 15 giugno, la commissione dell’Ope´ra per un lavoro teatrale intitolato Goyescas. I sei pezzi di Goyescas, a cui s’aggiunge come settimo, ma in realta` con carattere di prefazione, il Pelele, sono di gran lunga il capolavoro pianistico di Granados. La scoperta di Goya non significa la scoperta di un mondo musicale goyesco o dell’epoca goyesca, ma di una realta` storica che e` stata rappresentata in un’arte suprema. La musica colta del tempo di Goya era infattti stata affidata in Spagna agli ultimi clavicembalisti della tradizione scarlattiana e a compositori italiani come Boccherini. In Granados gioca senza dubbio l’ammirazione per Domenico Scarlatti, compositore dell’epoca anteriore a quella di Goya, ma l’ammirazione per Scarlatti non comporta pero` la riscoperta ne´ di Soler (scoperto piu` tardi da un seguace di Granados, Joaquı´n Nin che, per chi non lo sapesse, era il padre di Anaı¨s), ne´ di Boccherini. Granados non si trova quindi nella posizione dei compositori italiani della cosiddetta ‘‘generazione dell’ottanta’’, che scavalcando all’indietro l’Ottocento vanno a ritrovare una cultura nazionale scomparsa, e neppure nella posizione di Jana´cˇek, che studia a fondo il canto popolare moravo, perche´ Granados, che usa stilemi popolareschi e popolareggianti fin dagli ini259

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zi della sua attivita` di creatore, non decide mai di analizzare le radici del canto popolare spagnolo. Il mondo di Goya gli offre invece una cornice poetico-storica in cui confluiscono il suo vecchio folclorismo, non piu` convenzionale, e il suo pessimismo tragico. Il sottotitolo di Goyescas, Los Majos enamorados (i majos sono gli alteri giovani madrileni dipinti tante volte da Goya), esprime chiaramente la volonta` di unificare i sei pezzi in una specie di poema sinfonico in piu` parti (in questo senso si capisce facilmente come Granados potesse poi trarre rapidamente un’opera teatrale da una suite di pezzi pianistici). I titoli bastano infatti da soli a delineare il dramma: Los requiebros (Complimenti galanti), Coloquio en la reja (Colloquio amoroso alla finestra grigliata), El Fandango da Candil (Il fandango alla luce delle lampade), Queias o´ la Maja y el Ruisen˜or (Lamenti, o la ragazza e l’usignolo), El Amor y la Muerte (L’amore e la morte), Serenata del espectro (Serenata dello spettro). Il primo incontro, il colloquio degli innamorati, il ballo in cui compare il rivale, l’angoscia della fanciulla contesa fra due amori, il duello, il fantasma dell’innamorato che ritorna a fare la serenata alla fidanzata. El Pelele, il gioco del burattino lanciato in aria e fatto rimbalzare su un telo, diventera` la musica per la prima scena dell’opera, gli altri pezzi racconteranno la storia di Rosario, amata dal capitano Fernando e dal torero Paquito, del duello e della morte di Fernando. La volonta` di unificare il lavoro e` resa evidente anche dal ritorno di alcuni temi in piu` pezzi, e la capacita` di costruire forme che mantengono un carattere di improvvisazione dimostra la maturita` dell’autore. La composizione non si distingue pero` ne´ per novita` di linguaggio, ne´ per novita` di scrittura strumentale. L’armonia, che nel Colloquio e nella Serenata e` piu` evoluta di quanto sia solitamente in Granados, resta lontanissima non solo dal radicalismo di Scho¨nberg ma anche dai simbolisti francesi e da Skrjabin. Lo stile strumentale e` nettamente derivato da Liszt, senza raggiungere l’originalita` di rilettura lisztiana di Ravel o di Szymanowski, e neppure di Albe´niz; anzi, i Complimenti galanti, sebbene basati su temi di tonadilla, sono addirittura un grande valzer da concerto scritto secondo i moduli di Tausig, di Godowsky, di Friedman. La novita` e l’originalita` di Goyescas risiedono secondo me nel tono ossessivo che pervade tutta la serie di pezzi e che si accentua progressivamente fino alla Serenata dello spettro. Persino in un brano come il Fandango, in cui ricompaiono temi e ritmi spagnoli simili a quelli della prima maniera di Albe´niz e una scrittura che ricorda sia Albe´niz che l’Allegro da con260

Los requiebros

certo, il tono non e` di festa popolare, di festa galante, di pittoresca cartolina illustrata, ma di incombente tragedia. Granados scrisse che la sua intenzione era stata di rendere ‘‘il ritmo, il colore e la vita nettamente spagnoli, la nota del sentimento tanto improvvisamente amorosa e appassionata che drammatica e tragica, cosı` come si mostra in tutta l’opera di Goya’’: bisogna riconoscere che riuscı` a realizzare le sue intenzioni. Granados si trovava sul Lago di Ginevra, ospite del compositore e pianista americano Ernest Schelling, e stava lavorando all’opera Goyescas quando scoppio` la guerra. L’anno dopo, con Parigi minacciata di invasione e senza prospettive di rappresentarvi la sua opera, egli accetto` la proposta di presentare Goyescas a New York. Imbarcatosi con la moglie sul transatlantico Montevideo, arrivo` il 15 novembre a New York, dove fu ospite dello Schelling. Lo stesso Schelling, Kreisler e Casals fecero conoscere negli States alcune composizioni di Granados, e la Sinfonica di Chicago eseguı` il poema sinfonico Dante: tutto in preparazione per la ‘‘prima’’ di Goyescas, che ebbe luogo al Metropolitan il 28 gennaio 1916 con grande successo. Granados cosı` scrisse a un amico: ‘‘Sono pieno di fiducia e di entusiasmo per lavorare sempre di piu` . Sto cominciando’’. L’invito per un concerto alla Casa Bianca ritardo` la partenza da New York, cosicche´ Granados e la moglie sbarcarono a Londra solo il 19 marzo. Il 24 marzo si imbarcarono a Folkestone sul Sussex, con un tempo splendido: durante la traversata della Manica il piroscafo venne silurato senza preavviso da un sottomarino tedesco. Un passeggero racconto` che Granados, gia` in salvo su una scialuppa, aveva visto la moglie fra le onde e si era lanciato in acqua per soccorrerla. Scomparirono insieme, e i loro corpi non furono ritrovati. Con Goya Granados aveva scoperto un suo mondo da esplorare, e aveva riunito insieme la ricerca poetica con il successo di pubblico. In quel momento il saggio professor Granados, proprietario e gestore di una Accademia, avrebbe potuto tranquillamente cedere il passo a un artista non ancora cinquantenne che, come abbiamo letto nelle sue parole, stava cominciando. La guerra si porto` invece via il giovane creatore in un modo orrendo che ancora offende l’umanita`. La discografia di Granados e` oggi abbastanza folta, le sue musiche compaiono del tutto sporadicamente nei programmi dei recital pianistici. Il Novecento, che privilegiava e stimava negli artisti piu` la ricerca linguistica e formale che la ricerca poetica, non fu veramente interessato a Granados. E il canone neoclassico dell’interpretazione, affermato-

Serenata del espectro

si dopo il 1920, non giovo` e non giova alla sua musica. Abbiamo alcuni dischi e vari rulli di pianoforte riproduttore con musiche di Granados eseguite da lui. Basta ascoltare Andalusa per capire che i maggiori interpreti neoclassici del Nostro, e cito per tutti Alicia de Larrocha, avevano riletto la musica di Granados alla luce di principi che con Granados non avevano nulla a che spartire. L’unica eccezione che io conosca e` rappresentata da un giovanissimo Arturo Benedetti Michelangeli esecutore, appunto, di Andalusa. Questo stile, che nel Novecento veniva considerato antiquato, in realta` e` ‘‘autentico’’; e questo stile, applicato da Granados ad alcune Sonate di Scarlatti, ricorda molto da vicino quello che oggi fanno i clavicem-

Enrique Granados y Campin˜a

balisti che interpretano Scarlatti: quindi, come diceva Verdi, tornare all’antico sarebbe un progresso. I quattro primi pezzi di Goyescas, piu` il Pelele, eseguiti da Granados per il pianoforte riproduttore, sono la testimonianza di uno stile esecutivo fortemente improvvisatorio, con estrema flessibilita` del tempo, con forte irregolarita` ritmica e con un fraseggio decisamente declamatorio. Secondo le concezioni neoclassiche dell’interpretazione, Granados non sapeva ‘‘tenere il tempo’’ e declamava ‘‘da trombone’’. In realta`, Granados sapeva benissimo eseguire la sua musica in modo efficace. Tocchera` alla cultura del Duemila applicare a lui la ‘‘prassi autentica’’ invece di legarlo nella camicia di forza di Ravel.

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Edvard Hagerup Grieg

Umoresche op. 6

Edvard Hagerup Grieg (Bergen, 15 giugno 1843-ivi, 4 settembre 1907) In un mondo dominato da tre civilta` musicali – l’italiana, la francese e la tedesca – i paesi periferici iniziano a fare la loro comparsa verso il 1830: arriva dalla Polonia Chopin, arriva dall’Ungheria Liszt, arriva dall’Inghilterra Bennett, arriva dalla Russia Glinka, arriva dai Caraibi Gottschalk, e a tempo debito arriva dalla Scandinavia Grieg. Tutti questi compositori avevano studiato il pianoforte, e nel pianoforte le civilta` francese e italiana erano marginali rispetto alla civilta` austro-tedesca. Sulla loro formazione ‘‘alla tedesca’’ Chopin e soci innestarono elementi linguistici presi dal canto popolare dei rispettivi paesi, e il loro successo fu anche, diciamo cosı`, il successo dell’esotico che chiese per la prima volta udienza alle civilta` dominanti e che trovo` un terreno preparato dalla moda dei viaggi che stava esplodendo con le ferrovie e con le navi a vapore. Grieg inizia gli studi in patria, con la madre, ma si forma a Lipsia, nel conservatorio fondato nel 1843 da Mendelssohn e diventato nel giro di una decina d’anni la roccaforte della tradizione classico-romantica. I maestri di Grieg a Lipsia sono per la composizione il mendelssohnianoschumanniano di ferro, e acerrimo nemico di Wagner, Carl Reinecke, e per il pianoforte Ernst Ferdinand Wenzel, allievo del suocero di Schumann Friedrich Wieck, e il grande – e vecchio – Ignaz Moscheles. Moscheles guido` il discepolo quindicenne attraverso tutti i suoi ventiquattro Studi op. 70 che, pubblicati in due fascicoli nel 1826 e nel 1827, riassumevano la tecnica classica e introducevano la tecnica romantica. Grieg non divenne un concertista ma imparo` a maneggiare agevolmente la tastiera – lo dimostrano i dischi che incise e i rulli di pianoforte riproduttore che registro` negli ultimi anni di vita, con esecuzioni di musiche sue che fanno testo ancor oggi. Gli studi di composizione riguardarono l’armonia e il contrappunto ma non le forme. Reinecke assegno` come compito a Grieg la composizione di un quartetto senza spiegargli la forma bitematica e tripartita dell’allegro di sonata che era gia` stata oggetto di analisi e dissertazioni di vari teorici. E Grieg studio` da solo i Quartetti op. 18 di Beethoven, ricavandone gli schemi che applico` per assolvere il compito assegnatogli da Reinecke (il Quartetto in re, composto da Grieg nel 1861, e` pero` andato perduto). Licenziatosi alla fine del 1862 dal conservatorio, il 18 262

agosto 1863 Grieg tenne a Karlshamm in Svezia il suo primo concerto. Ottenne una borsa di studio e divenne allievo a Copenaghen di Niels Gade, che aveva lavorato a lungo a Lipsia come direttore d’orchestra e che era stato grande amico di Mendelssohn e di Schumann. A Gade fu dedicata la Sonata in mi op. 7 (1865, 1867). Il catalogo pianistico di Grieg comprendeva nel 1867 alcune composizioni inedite (fra cui i Tre Pezzi del 1860, nettamente ‘‘lipsiensi’’ e un Agitato, del 1864, insolitamente virtuosistico), ed inoltre i Quattro Pezzi op. 1 (1861, 1867), le sei Immagini poetiche op. 3 (1863, 1864) e le quattro Umoresche op. 6 (1865, 1865) che mostrano, specie nella quarta, Allegro alla burla, il nascente orientamento ‘‘nazionalistico’’ del compositore ventiduenne. I quattro movimenti della Sonata op. 7 sono formalmente scolastici, molto scolastici: forma di allegro di sonata nel primo e nel quarto movimento, forma di canzone nel secondo, forma di minuetto con trio nel terzo. La novita` risiede nel linguaggio melodico: il secondo tema del primo movimento, il primo tema e soprattutto il secondo tema a modo di danza del secondo movimento, il trio del minuetto, il secondo tema del finale sono un qualcosa che la vecchia Europa non aveva ancora conosciuto. Che il melodismo di Grieg sia diverso da quelli di Mendelssohn e di Schumann lo capiamo benissimo anche oggi. Difficile e` invece capire quanto sorprendente esso suonasse per le orecchie degli ascoltatori del 1867. Ad esempio, in Grieg la sensibile, invece di risolvere la tensione salendo sulla tonica (o, eccezionalmente, sulla mediante) spesso risolve scendendo sulla dominante. E questo, diciamo cosı`, andamento altimetrico della melodia sapeva di esotico molto piu` di quanto appaia a noi. Anche la costruzione della frase non seguiva costantemente gli schemi usuali, basati sulle quattro battute. Il primo tema della Sonata e` un periodo di dodici battute, suddiviso in tre tronconi di quattro battute ciascuno: tutto regolare. Il secondo tema e` un periodo di sedici battute suddiviso in quattro tronconi, ma la ‘‘quadratura’’ dei primi due tronconi e` ottenuta con la ripetizione della terza battuta: 1-2-3-3 invece di 1-2-3-4. E poi l’armonia: ad esempio, le ultime righe del secondo movimento ci presentano una concatenazione di accordi del tutto inconsueta. Anche l’impiego del modo ipodori-

Umoresche op. 6

co e del modo misolidio aggiunge un tocco d’esotico al linguaggio di Grieg, che nella Sonata appare come abbozzato ma che colpisce ugualmente per la sua originalita`. Il tono espressivo, che e` di tenue malinconia ‘‘nordica’’ nei primi tre movimenti, subisce un brusco cambiamento nel finale, in cui si fronteggiano un primo tema sarcastico, demoniaco, e un secondo tema a modo di corale religioso. Il mito della lotta fra il Male e il Bene viene ripreso da Grieg con la finale vittoria del Bene, anzi, con la conciliazione dei due opposti nel segno del Bene, e il pezzo finisce in mi maggiore. Tuttavia nel momento dell’apoteosi Grieg si limita a rendere piu` veloce il tempo e non muta il tipo di strumentazione, che resta lineare e, rispetto al tripudio sonoro che ci si aspetta da una apoteosi, poco efficace. I ventiquattro Studi di Moscheles non avevano in questo caso offerto a Grieg il modello piu` adatto: ci sarebbero voluti i dodici Trascendentali di Liszt. Nella musica per pianoforte solo Grieg non tentera` mai piu` la strada del drammaturgo. Con la pubblicazione degli otto Pezzi lirici op. 12 (18641867, 1867) egli si presenta al pubblico internazionale, appunto, come poeta lirico, nella scia delle Romanze senza parole di Mendelssohn ma con un linguaggio, come dicevo prima, originale. Il primo quaderno di Pezzi lirici, uscito a Copenaghen, si diffonde molto lentamente ma alla fine attira l’attenzione della potentissima Casa Peters di Lipsia, che stipula con Grieg un contratto in esclusiva. I successivi nove quaderni (op. 38, op. 43, op. 47, op. 54, op. 57, op. 62, op. 65, op. 68, op. 71) seguiranno fra il 1883 e il 1901 per un totale di sessantasei pezzi, quasi tutti brevi o brevissimi e di media difficolta`. La diffusione dei Pezzi lirici fu enorme nel mercato dei dilettanti in un momento storico in cui Flaubert, nel Dizionario dei luoghi comuni, definiva il pianoforte come ‘‘indispensabile in un salotto’’, in cui Paul de Kock asseriva che il pianoforte verticale, con le candele che ‘‘vengono accese quand’e` necessario’’, troneggiava anche nel salotto di coloro ‘‘che non lo suonano e che non amano affatto la musica’’, in cui Jules Sandeau diceva che ‘‘e` difficile passare tra due file di case senza ricevere una sonata nel petto’’. Per questa tifoseria pianistica Grieg fu un dio quanto Beethoven e Chopin. Ma e` singolare, e per me inspiegabile, che a un certo punto egli decidesse di mettere sui Pezzi lirici una pietra tombale. L’op. 12 si apriva con la Arietta in Mi bemolle, pezzo molto breve (una pagina sola) e molto semplice, di strumentazione nettamente mendelssohniana ma con una costruzione della melodia legggermente asimmetrica e che termina citando l’inizio, come un

Edvard Hagerup Grieg

qualcosa di non concluso e che potrebbe ripetersi all’infinito. Trentaquattro anni dopo, l’ultima raccolta si chiude con le Rimembranze in Mi bemolle, che e` un Tempo di Valzer sul tema dell’Arietta, nostalgico, fascinosissimo, estenuato, un vero e proprio addio. Nei Pezzi lirici troviamo una specie di diario degli interessi culturali della piccola borghesia, dal bozzetto caratteristico (Marcia dei nani op. 54 n. 3) alla contemplazione della natura (Danza degli Elfi op. 12 n. 4, Butterfly op. 43 n. 1, Uccellino op. 43 n. 4, Silfo op. 62 n. 1, Ruscelletto op. 62 n. 4) al sentimento panico della natura (Alla Primavera op. 63 n. 6, Sera nelle montagne op. 68 n. 4, Sera d’estate op. 71 n. 2, Pace dei boschi op. 71 n. 4) al quadro popolaresco (Giorno di nozze a Troldhaugen op. 65 n. 6) alla malinconia ipocondriaca (Notturno op. 54 n. 4, Illusione op. 57 n. 3, Fantasma op. 62 n. 5, Melanconia op. 65 n. 3), persino all’amore masochistico (Ai tuoi piedi op. 68 n. 3), non senza qualche danza di societa` (Valzer op. 12 n. 2, op. 38 n. 7, op. 47 n. 1, Lei danza op. 57 n. 5, Valzer della malinconia op. 68 n. 6), qualche danza popolare (Halling op. 38 n. 4, 67 n. 4 e op. 71 n. 5), un tocco di arcaico (Canone op. 38 n. 8, Minuetto della nonna op. 68 n. 2). In Chopin e in Liszt c’era stata una tale compenetrazione fra caratteri stilistici appartenenti al folclore e caratteri appartenenti alla tradizione occidentale da rendere evidentissima la sintesi, la novita` rivoluzionaria del linguaggio, la creazione di una diversa sintassi invece della sistemazione nella sintassi vecchia di neologismi. Se e` facile distinguere i caratteri folclorici delle Mazurche di Chopin o delle Rapsodie ungheresi di Liszt, solo attraverso la riflessione si puo` arrivare a capire che certe loro armonie derivano rispettivamente da scale musicali polacche e dalla scala zingaresca. In Grieg, invece, il folclore nordico e le strutture formali tradizionali vengono, per cosı` dire, innestate l’uno sulle altre rimanendo distinte e distinguibili. Un pezzo famosissimo come Giorno di nozze a Troldhaugen e` una vera e propria cartolina illustrata che rende perfettamente un’immagine d’ambiente. Ma anche un altro pezzo famosissimo, Alla Primavera, profuma di nordico: a nessuno, ascoltandolo, verra` mai in mente una primavera mediterranea, bensı` una primavera con gemme che si stagliano su spezzoni di ghiaccio, con venti freddi, con acque scroscianti. E la Butterfly di Grieg e` indubbiamente una farfalla norvegese e la sua Marcia dei nani (dei Troll) non potrebbe essere ambientata nella Foresta Nera, ne´ un pezzo d’interno borghese come Ai tuoi piedi potrebbe suscitare l’immagine di una villetta italiana, ne´ il Valzer op. 12 n. 2, pur inquadrato 263

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Edvard Hagerup Grieg

nel piu` ortodosso la minore, potrebbe richiamare Vienna o Parigi, ne´ le splendide Campane op. 54 n. 6, tutte giocate su intervalli ‘‘vuoti’’ di quinta, sarebbero concepibili in una valle tedesca. I Pezzi lirici furono eseguiti raramente in concerti pubblici, ma di essi abbiamo in disco interpretazioni di Arthur de Greef, Gieseking, Richter, Gilels, Benedetti Michelangeli. Non so se potranno mai sfondare veramente le porte della sala da concerto. Ma la loro assenza dal repertorio usuale, oggi che i dilettanti si sono ridotti a uno sparuto gruppetto, e` un difetto della nostra cultura. Oltre alla Sonata op. 7 Grieg compose un solo pezzo per pianoforte di vaste dimensioni, la Ballata in forma di variazioni su un canto popolare norvegese in sol op. 24 (1875-1876, 1876). La Ballata fu composta poco dopo la morte, a un mese di distanza l’uno dall’altro, dei genitori di Grieg, ‘‘in giorni di lutto e di disperazione’’. Ma la condizione esistenziale sembra avere soltanto suggerito la scelta del triste canto popolare ‘‘Il contadino del Nord’’ che, armonizzato da Grieg con straordinaria finezza, viene poi variato secondo moduli concertistici e spettacolari per essere citato parzialmente alla fine: si finisce come si era cominciato, ma il percorso intermedio non e` stato tutto di lutto e disperazione perche´ difficilmente il pubblico avrebbe accettato un tono espressivo costantemente lugubre. La strumentazione pianistica e` virtuosistica, il pezzo entro` nel repertorio di divi della tastiera come Euge`ne d’Albert (Grieg ammiro` incondizionatamente la sua interpretazione) e Leopold Godowsky, ma oggi viene ripreso – ed e` un peccato – molto raramente. La suite Dai tempi di Holberg op. 40 (1884, 1884), piu` nota nella trascrizione per orchestra d’archi che nell’originale pianistico, fu composta per celebrare il duecentenario della nascita del letterato norvegese Ludwig Holberg. Cinque pezzi neobarocchi – Preludio, Sarabanda, Gavotta, Aria, Rigaudon – che attraverso lo sfruttamento di stilemi tipici sia tedeschi che francesi ricreano l’atmosfera di un passato dolcemente, teneramente evocato. Fatte salve le differenze del linguaggio, Dai tempi di Holberg puo` essere accostato al Tombeau de Couperin di Ravel. Il linguaggio di Grieg nasce dal canto popolare, ma inventa, per cosı` dire, un folclore letterario. Invece in quattro raccolte – le venticinque Danze e canti norvegesi op. 17 (1869-1870, 1870), le Sei Melodie montanare norvegesi senza numero d’opera (1874-1875, 1880), le Diciannove Melodie popolari norvegesi op. 66 (1893-1896, 1896) e le diciassette Danze paesane norvegesi op. 72 (19021903, 1903) – troviamo il folclore autentico ‘‘rivi264

Ballata

sitato’’ pianisticamente, con una evoluzione delle armonizzazioni che si allontana sempre di piu` dalla koine´ ottocentesca e che nell’op. 72 porta Grieg, alla chiusura della sua creativita`, vicino al cinquantenne Jana´cˇek e all’esordiente Barto´k. Con le nostalgiche Rimembranze, come ho detto, Grieg aveva chiuso il ciclo dei Pezzi lirici. Ma in realta` aveva ancora qualcosa da aggiungere, in questo campo. Ed ecco le sette Impressioni op. 73 (1904-1905, 1905), che non si distinguono dall’ultima raccolta di Pezzi lirici e fra le quali si fanno notare particolarmente la Rassegnazione (n. 1) e la Cavalcata notturna (n. 3). Ho lasciato per ultimo il pezzo piu` celebre di Grieg, il Concerto in la op. 16 (1868, 1872) che ottenne un grande successo fin dalla prima esecuzione, tenuta dal pianista norvegese Edmund Neupert. La versione originale differiva in parecchi punti da quella che oggi conosciamo, messa a punto definitivamente da Grieg soltanto poco prima della morte dopo vari ritocchi e ripensamenti. Le varianti riguardano in minima parte la scrittura pianistica e in gran parte, invece, l’orchestrazione. Ad esempio, il secondo tema del primo movimento era in origine ‘‘cantato’’ dalla tromba invece che dai violoncelli, cosa che, ascoltata oggi, ci fa un sorprendente effetto di straniamento ma che in realta` non e` meno suggestiva della versione definitiva. La prima versione e` frutto di una intuizione sulle possibilita` espressive della tromba che era gia` balenata a Donizetti (introduzione dell’aria ‘‘Cerchero` lontana terra’’ del Don Pasquale), ma che non era stata ripresa da altri e che sarebbe stata veramente esplorata dal jazz, mentre il trasferimento del tema ai violoncelli rientra nel quadro di una orchestrazione del tutto normale. Con cio` non voglio dire che la prima versione sia da preferire alla seconda, ma solo che la seconda rende omogenea l’orchestrazione, privandola di un tratto di bizzarria che attirava pero` tutta la nostra simpatia. Si era molto insistito in passato sulla dipendenza del Concerto di Grieg dal Concerto di Schumann. Che Schumann abbia costituito entro certo limiti un modello per Grieg e` evidente. Ma cio` vale, appunto, entro certi limiti, e piuttosto ristretti. Grieg riprende da Schumann l’idea della brevissima introduzione che nel primo movimento precede l’esposizione del primo tema e che viene ripresa nello sviluppo, ma ne amplia il significato perche´, al contrario di Schumann, la riprende anche nella coda. L’idea di collegare il secondo e il terzo movimento risaliva a molti anni prima di Schumann, risaliva a Beethoven, a Hummel, a Moscheles. La particolarita` di Schumann era la citazione del tema principale del primo movimento nella cerniera fra

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il secondo e il terzo, e su questo punto Grieg non segue Schumann. Del tutto diversa e` poi l’impostazione del finale, che in Schumann e` un enorme allegro di sonata con un tempo unico e con riesposizione al quarto grado, mentre in Grieg e` un allegro di sonata senza sviluppo, in piu` tempi senza soluzione di continuita` e di carattere espressivo molto differenziato. Non si e` prestata molta attenzione all’architettura di questo finale, che secondo me ha qualcosa a che fare con la Sonata di Liszt, sebbene di dimensioni meno titaniche. Il tema del Poco piu` tranquillo in fa maggiore, che sostituisce lo sviluppo, tiene luogo di movimento lento, il Quasi presto che segue la riesposizione tiene luogo di scherzo, e quindi la forma del finale e` come una sintesi dell’archetipo della sonata (la stessa, ovviamente, della sinfonia). Per quanto riguarda la drammaturgia, il secondo tema del finale, breve ed episodico, non e` in contrasto con il primo, mentre il contrasto, molto netto, si stabilisce fra il primo tema e il tema del Poco piu` tranquillo. In questi due temi possiamo vedere rispettivamente i simboli del principio maschile e del principio femminile, ma anche la dicotomia, sempre molto netta nel folclore di tutti i paesi, fra danza e canto. Nella coda in la maggiore – Quasi presto che usa il primo tema, Andante maestoso che usa il tema del Poco piu` tranquillo – troviamo, come nella Sonata op. 7, la conciliazione fra i due principi contrastanti. E per tutte queste ragioni, secondo me, il Concerto di Grieg fa parte a pieno titolo della storia del concerto per pianoforte e orchestra, non come sottoprodotto del Concerto di Schumann ma come lavoro originalissimo anche sotto l’aspetto della struttura.

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Le critiche negative che furono riservate al Concerto di Grieg verso il 1920 riguardavano il primitivismo dei temi e degli sviluppi. Non si puo` dire che, in astratto, cosı` non fosse. Lo sviluppo del primo movimento e` una semplice fantasia sul primo tema e sull’introduzione, la Cadenza e` una parafrasi del primo tema. Il primo tema del Concerto e` ancora piu` primitivo dei temi della Sonata op. 7 cui accennavo prima. Otto battute suddivise in quattro e quattro, prima frase con inciso A, inciso A leggermente variato, inciso A una terza sopra, inciso A leggermente variato una terza sopra, seconda frase con inciso B, inciso B una quarta sopra, formula di chiusura di due battute che sfrutta l’intervallo di seconda minore presente nell’inciso B. La costruzione e` sı` primitiva, ma la forza emotiva dei due incisi e` molto alta e Grieg, dopo aver esposto il tema prima in orchestra e poi al pianoforte, passa subito al tema di collegamento in tempo piu` mosso e con carattere di danza, ben diverso dal lirismo malinconico del primo tema. Certo, in Brahms un primo tema e` un qualcosa di molto piu` complesso, di molto piu` ricco di potenzialita` di sviluppo. Ma Grieg non e` l’erede di una tradizione e non sente, come diceva Brahms di se stesso, il peso del confronto con i giganti che stavano alle sue spalle. Grieg era un compositore periferico che si aggregava alla tradizione austro-tedesca prendendo da essa cio` che gli serviva per far entrare il suo paese nel mercato globale. E che ci riuscisse e` dimostrato dal fatto che tutti i maggiori concertisti, da Teresa Carren˜o e Paderewski fino a Richter, Lipatti, Benedetti Michelangeli, Lupu, Zimerman, ebbero e hanno in repertorio il suo Concerto.

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Georg Friedrich Ha¨ndel

Concerto op. 16

Georg Friedrich Ha¨ndel (Halle, 23 febbraio 1685-Londra, 14 aprile 1759) Gli oratori di Ha¨ndel ebbero un ruolo fondamentale nella svolta epocale che nella seconda meta` del Settecento riporto` nell’alveo della cultura di attualita` la musica ‘‘antica’’. Ma le sue opere per clavicembalo non entrarono nel repertorio didattico del pianoforte, e solo pochi brani isolati furono adottati dai concertisti quando venne istituzionalizzato il recital. Il pezzo ha¨ndeliano piu` famoso, e di cui abbiamo in disco molte esecuzioni di celebri pianisti, e` il tema con variazioni Il fabbro armonioso (1720), tratto dalla Suite n. 5. Il titolo e` dovuto a un aneddoto sulla cui autenticita` e` lecito nutrire fieri dubbi: Ha¨ndel avrebbe sentito un fabbro che cantava durante il lavoro e gli avrebbe... carpito la canzone. Il tema, come in molte danze barocche, e` in due parti asimmetriche (4 e 8 battute). Le cinque variazioni, ornamentali, sono organizzate secondo il principio della progressiva intensificazione ritmica: due suoni per tactus nel tema, quattro nella prima variazione (alla mano destra) e quattro nella seconda (alla sinistra), sei e sei nella terza e nella quarta, otto, alternati fra le due mani, nella quinta. La Suite n. 5, che appare molto saltuariamente nei programmi dei concerti, comprende, prima delle Variazioni, il Preludio, l’Alle-

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manda e la Corrente. Alla Suite n. 7 appartiene la Passacaglia in sol (1720), preceduta da Ouverture (alla francese), Andante, Allegro, Sarabanda e Giga. La Passacaglia e` un tema con variazioni. Tema in ritmo puntato alla francese, di sole quattro battute, ripetute, e quindici variazioni robuste e virtuosistiche. Peccato che un pezzo cosı` rude e spettacolare sia stato abbandonato dai pianisti. Ed e` da citare infine la Ciaccona in Sol (1720 ca.), della quale esistono cinque versioni. La versione piu` ampia e` un pezzo monumentale perche´ il tema della Ciaccona e` seguito da ben sessantadue variazioni. Sviatoslav Richter, autentico Don Giovanni della letteratura pianistica, ebbe in repertorio otto delle diciassette Suites di Ha¨ndel, ma la sua ‘‘provocazione’’ non e` stata finora raccolta. Sarebbe invece auspicabile che venissero ripresi per lo meno i tre pezzi dianzi citati, che i clavicembalisti eseguono oggi con dovizia di ornamentazioni aggiunte. E se i pezzi staccati sono vietati dalla mentalita` storicistica c’e` pronta la Suite n. 2 (1720), in quattro movimenti (Adagio, Allegro, Adagio, Allegro), che finisce con una fuga e che con i suoi nove minuti circa di durata e` un magnifico brano di apertura di recital.

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Joseph Franz Haydn

A Joseph Franz Haydn

B

(Rohrau, 1º aprile 1732-Vienna, 31 maggio 1809) Joseph Haydn, la cui attivita` creativa si sviluppo` nel periodo in cui il clavicembalo e il clavicordo vennero gradualmente sostituiti dal ‘‘moderno’’ fortepiano, scrisse una sessantina di Sonate per gli strumenti a tastiera di cui disponeva. Scrisse circa sessanta Sonate, Haydn (alcune sono andate perdute, alcune sono di dubbia autenticita` ), ma da quando e` stato inventato il recital il suo nome figura nei programmi concertistici molto e molto meno di quanto vi figurino il suo amico Wolfgang Mozart, che di sonate ne scrisse soltanto diciotto, e il suo allievo Ludwig van Beethoven, che si fermo` a trentacinque sonate, tre delle quali giovanili e pubblicate senza numero d’opera. Di tutte le Sonate di Haydn solo la n. 52 del catalogo Hobochen, solo una apparve nel Novecento in sala di concerto con una frequenza tale da poter essere classificata come ‘‘di repertorio’’. Ma c’e` di piu`: il grandissimo e intelligentissimo Artur Schnabel, che eseguı` tutte le Sonate di Beethoven e tutte le Sonate complete di Schubert, nell’ultimo ventennio della sua luminosa carriera scelse spessissimo programmi imperniati sistematicamente sulla trinita` , non sulla quaternita` dei ‘‘classici’’ viennesi: Mozart, Beethoven, Schubert. Andando controcorrente rispetto ai suoi tempi, Schnabel non identifico` la classicita` viennese in un sommo Beethoven circondato da due precursori e da un caudatario, e pose quindi sullo stesso piano Mozart, Beethoven e Schubert, ... ma escluse dal panorama il buon papa` Haydn. Tra i grandi interpreti della generazione di Schnabel il solo Wilhelm Backhaus riservo` un piccolo settore del suo repertorio a Haydn, nelle generazioni successive gli ‘‘haydniani’’ convinti si chiamarono Sviatoslav Richter, Alfred Brendel, Radu Lupu e Andra´s Schiff. Pochi ma buoni, verrebbe di dire, e il discorso potrebbe finire lı`. Ma non mi sembra fuor di luogo chiedersi che cosa ci trovassero di interessante in Haydn le mosche bianche che lo frequentarono, e che cosa non ci trovassero coloro che lo ignorarono. L’Ottocento amo` in Beethoven l’homo novus che, vivendo in una societa` ancora sostanzialmente feudale, seppe piegarla al suo volere e seppe essere indomabile e libero. Il Novecento ammiro` in Mozart l’uomo che, pagando un prezzo enorme, ebbe l’ardire di affrancarsi dalla condizione servile in cui la societa` collocava il musicista, e scoprı` in

Schubert, e amo` in lui la vittima predestinata, che nella societa` in cui gli tocco` di operare non trovo` piu` gli spazi della condizione servile e non trovo` ancora quelli della libera professione. Haydn era stato invece un salariato al soldo dell’aristocrazia, un salariato che tutte le mattine, in livrea, si presentava insieme al capocuoco al cospetto del padrone per ricevere il menu` musicale della giornata e che come premio per il servizio fedelmente prestato ricevette a cinquantotto anni una cospicua pensione che gli permise di guardare con tranquillita` alla vecchiaia e di impiantare senza le ambasce di Mozart e di Schubert un’attivita` supplementare di libero professionista. Va da se´ che un uomo simile, un uomo cosı` terragno e prosaico non poteva personificare l’eroe, ne´ romantico ne´ moderno, in cui ci si identifica. Ma Haydn, vissuto serenamente in una condizione servile, aveva anche un animo servile? Gia` nel 1801 un pastore protestante tedesco scriveva che la grandezza di Haydn risiedeva ‘‘in cio` che gli inglesi chiamano humour’’. Ecco, la chiave per capire Haydn e` l’umorismo o, per essere piu` franchi e brutali perche´ l’umorismo di Haydn e` diversissimo da quello di cui e` intrisa l’opera di Beethoven, la chiave per accedere alla poetica di Haydn tastierista e` il riconoscimento della doppiezza come valore. Se ci mettiamo su questa strada ci viene subito in mente Giuseppe Parini, e potra` anche venirci in mente, anacronisticamente, il concetto di ‘‘emigrazione interna’’ che venne creato per spiegare la condizione di quegli intellettuali che durante il nazismo non uscirono dalla Germania e, non testimoniando quindi visibilmente il loro dissenso, mantennero tuttavia l’indipendenza di giudizio su cio` che stava accadendo. Giuseppe Parini e Joseph Haydn vivono al servizio di una classe che fornisce loro i mezzi di sussistenza ma non rinunciano a valutarla da uomini liberi. Talvolta Haydn si lascia prendere dalla malinconia, talvolta si commuove e rinuncia all’ironia. In lui opera pero` un vigile doppiogiochista che nelle Sonate crea un’inesauribile miniera di cortesi modi cortigiani accompagnati da fulminee strizzatine d’occhio. Questo carattere di freddo umorismo all’inglese venne capito dal pubblico contemporaneo, cosı` come il pubblico contemporaneo decreto` il successo del Giorno del Parini: Haydn pote´ 267

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Joseph Franz Haydn

I Concerti

pubblicare trentotto delle sue quasi sessanta Sonate, che ebbero una grande diffusione internazionale perche´ uscirono presso editori austriaci, tedeschi e inglesi. Ma il romanticismo accantono` le sue composizioni pianistiche che, come del resto anche quelle di Mozart, vennero confinate nel settore della didattica. Il Novecento ebbe il meri-

to di rivalutare le Sonate di Mozart e il limite di non accorgersi delle Sonate di Haydn. Questo e` il compito che il Duemila dovra` affrontare, perche´ la cultura storicistica che stiamo facendo crescere ormai da due secoli non puo` dirsi veramente tale se non accoglie nel suo largo seno un creatore come Haydn.

I Concerti Haydn sapeva servirsi del clavicembalo e poi del fortepiano perche´ lo strumento a tastiera era lo strumento del compositore, ma non era clavicembalista o pianista: era violinista e, soprattutto, era direttore d’orchestra e capo dei servizi musicali del principe Esterha´zy. Percio`, proprio perche´ doveva provvedere quotidianamente a esaudire i desiderata del padrone, non poteva farsi... beccare impreparato se gli si chiedeva di inserire concerti per strumento solista nei trattenimenti musicali che gli toccava per contratto di organizzare. Nel suo catalogo troviamo cosı` concerti per violino, violoncello, violone (cioe` contrabbasso), corno, tromba, flauto, baryton, lire organizzate (il baryton era lo strumento suonato dal principe, le lire organizzate erano una fissazione del re di Napoli Ferdinando IV, che aveva contatti con l’Austria perche´ era sposato con una figlia dell’imperatrice Maria Teresa). E nell’elenco non potevano mancare i concerti per strumenti a tastiera: quattro per organo, uno per violino e clavicembalo e quattro per clavicembalo. Di questi ultimi, tre vennero pubblicati vivente Haydn, due a Parigi ed uno a Vienna, l’altro uscı` soltanto nel 1966. L’unico che sia noto a tutti e` l’ultimo, il Concerto in Re (1784 ca., 1784), mentre il Concerto in Sol fece parte del repertorio di Arturo Benedetti Michelangeli ma non ebbe altri ‘‘campioni’’ oltre a lui. Il Concerto in Re dormiva da cent’anni sonni tranquilli quando venne ridestato dal bacio di un Principe Azzurro, Robert Teichmu¨ller, un insegnante del conservatorio di Lipsia che pur innamorandosene ritenne che i suoi abiti fossero un po’ troppo fuori moda e che percio` lo ripubblico` arricchendone la strumentazione pianistica con raddoppi delle linee e spostamenti di registro, e rimpolpando gli accordi. Il Concerto, che era stato pensato per i dilettanti e che nell’originale era di media difficolta`, nella versione Teichmu¨ller diventava appetibile anche per i concertisti. Ci furono percio` molte esecuzioni di concertisti grandi e piccoli. Ma anche la versione originale del Concerto pote-

va diventare un test per i virtuosi se l’attenzione veniva spostata sul tocco, su quelle preziose qualita` di suono che i dilettanti non potevano nemmeno sognarsi di andare a scovare nella pancia del pianoforte. Mentre Benedetti Michelangeli continuo` a servirsi della versione Teichmu¨ller appena appena alleggerita qua e la`, Edwin Fischer, e poi Dinu Lipatti ed Emil Gilels ripresero la versione originale, che fu successivamente adottata da tutti. Il Concerto in Re e` in tre movimenti. Il primo movimento e` umoristico e, come avviene talvolta in Haydn, ha un secondo tema, in la maggiore, praticamente identico al primo tema. Ma Haydn evita la monotonia che potrebbe nascere da cio` aggiungendo un terzo tema, sincopato e ansimante, in la minore. E` un inatteso colpo di scena che spiazza l’ascoltatore e che nell’atmosfera ridanciana che si era creata introduce la smorfia burlesca del clown. Anche lo sviluppo, che e` schematico e ripetitivo, viene vivacizzato dall’alternanza dei modi maggiore e minore. Il secondo movimento e` una specie di notturnino molto tenero e mormorante. Il finale e` il Rondo` all’ungherese che mette il fuoco addosso agli ascoltatori. La ‘‘ungheresita`’’ dei temi consiste soprattutto nella costruzione delle frasi per sei battute invece delle quattro consuete; in realta`, non precisamente sei, ma quattro con la ripetizione della terza e della quarta oppure della prima e della seconda, il che fa diventare il discorso comicamente spezzato. Due episodi in modo minore, falsamente seriosi, aggiungono legna al fuoco. Non e` nemmeno piu` umorismo all’inglese, e` comicita` allo stato puro, quel comique absolu che Stendhal trovava nelle farse di Rossini e che noi attribuiamo alle comiche di Ridolini. Questo tipo di comicita` e` del tutto inconsueto, nella musica pianistica, e il saggio che ce ne ha lasciato qui Haydn ne e` un modello di rara perfezione. Percio` il Concerto in Re, che negli ultimi decenni e` stato un po’ messo in disparte, meriterebbe di rientrare con tutti gli onori nel comune repertorio.

Le Sonate Circa sessanta Sonate, dicevo prima. Non tutte le composizioni di Haydn che appartengono senza

ombra di dubbio al genere della sonata sono pero` intitolate Sonata. Le prime sono intitolate di volta

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Sonata (Divertimento) n. 32 H 44

in volta Divertimento o Partita, in un caso (H 14) Divertimenta ac Galantheriae. Il termine sonata compare solo con la n. 20, composta nel 1773. Le Sonate che precedono la H 20 sono ovviamente presenti nelle raccolte complete pubblicate in disco, che sono ormai parecchie, ma e` molto raro che vengano incluse in programmi di recital. Poteva capitare che Brendel terminasse un recital con il Divertimento H 44, composto almeno tre anni prima della Sonata n. 20; era come un congedo sorridente e cordiale del concertista al suo pubblico dopo le fatiche della Fantasia op. 17 di Schumann. Anche Richter aveva in repertorio il Divertimento H 44, e in piu` una Partita, la H 2. Ma le Sonate composte prima del 1773, tranne la H 19, che e` di impianto gia` vasto, vengono di norma scelte dagli insegnanti per i loro allievi ed effettivamente sono troppo semplici per poter muovere l’attenzione del pubblico delle sale di concerto. Richter ebbe in repertorio quindici Sonate di Haydn, Brendel tredici. Nell’insieme, considerando il fatto che otto Sonate sono presenti sia nel repertorio di Richter che in quello di Brendel, abbiamo venti Sonate che, eseguite dai due maggiori interpreti haydniani del Novecento, hanno dimostrato di avere le carte in regola per attirare tutta la nostra attenzione. E se aggiungiamo la H 19, che ne´ Richter ne´ Brendel scelsero ma che secondo me merita di essere conosciuta, abbiamo un corpus di ben ventuno Sonate di rilevanza concertistica che il pubblico conosce solo in parte e che non ha comunque familiari. Vediamone qualcuna. Partiamo proprio dalla Sonata (Divertimento) in Re H 19 (1767, 1788). Diciannovesima secondo la numerazione di Anthony van Hoboken, che con parecchi errori di cronologia elenca cinquantadue Sonate. La successiva numerazione di Christa Landon, che elenca sessantadue Sonate comprendendo anche quelle andate perdute ma di cui sono rimasti gli incipit, e` piu` precisa, ma e` arrivata troppo tardi per essere adottata comunemente. E` invalso cosı` l’uso di indicare la progressione cronologica delle Sonate secondo la numerazione della Landon e di aggiungere il numero del catalogo Hoboken, che colloca le Sonate nel capitolo XVI, omettendo per brevita` il numero romano. Il Divertimento H 19 e` il n. 30 della classificazione Landon. La strumentazione di Haydn, nella Sonata n. 30, e` di una ricchezza insospettabile in un non-clavicembalista. Alla quarta battuta la tessitura, che si era mantenuta nei settori centrali, si allarga improvvisamente ai registri medio-acuto e grave, lasciando uno spazio vuoto al centro, con un effetto di enfatizzazione del basso del tutto inusitato (questa sara` una ‘‘specialita`’’ di Beetho-

Joseph Franz Haydn

ven). La scrittura diventa nettamente sinfonica dal secondo tema in poi, sfrutta tutti i registri e non fa distinzioni di impegno fra la mano destra e la mano sinistra. Negli anni sessanta del Settecento, cioe` in pieno rococo`, erano molto diffuse le Sonate ‘‘ad uso del bel sesso’’. Haydn si portava decisamente oltre il costume imperante e probabilmente per questo motivo tenne in portafoglio la Sonata n. 30 per piu` di vent’anni: nel 1788 anche i dilettanti avevano acquisito una tecnica piu` sviluppata e potevano apprezzare e misurarsi con un pezzo di impostazione sinfonica. Il primo movimento e` seguito da un intensissimo Adagio ma non troppo in cui il canto patetico viene collocato in tutti i registri, dando luogo a un dialogo a piu` voci, piu` voci timbricamente molto ben caratterizzate. Bisognera` aspettare Beethoven, per ritrovare uno sfruttamento dei registri medio e basso in funzione cantabile cosı` pronunciato. Il finale, Allegro assai, e` un rondo` umoristico e tecnicamente tutt’altro che semplice. La Sonata (Divertimento) in La bemolle n. 31 H 46 (1770 ca., 1788) e` un altro esempio di composizione in contrasto con i suoi tempi. Gia` la scelta di una tonalita` con quattro bemolli era inconsueta sia perche´ provocava problemi di decifrazione, sia perche´ la accordatura della tonalita` di La bemolle secondo un ‘‘buon temperamento’’ richiedeva una non comune perizia (nessuna delle Sonate di Mozart ha piu` di tre diesis o tre bemolli in chiave, e tra le composizioni con pianoforte il solo Trio K 563 e` in Mi, quattro diesis). Il primo movimento e` un esempio lampante di quanto poco si possa applicare a Haydn il concetto stereotipo ma duro a morire di classicismo come ‘‘calma semplicita` e nobile grandezza’’: e` un pezzo pieno di sorprese e di bizzarrie. Ancora piu` problematica l’intonazione del secondo movimento, Adagio in re bemolle maggiore. Lo stile e` una abilissima rivisitazione del barocco, questo Adagio sembra composto per una sonata a tre di trent’anni prima, gli urti armonici della scrittura contrappuntistica sono all’ordine del giorno e non manca verso la fine, dopo sei battute armonicamente sconcertanti, la ‘‘offerta’’ all’esecutore di una cadenza improvvisata. Il finale, Presto, e` in forma di allegro di sonata, non, come d’uso, di rondo`. La Sonata (Divertimento) in sol-Sol n. 32 H 44 (1771 ca., 1788), tanto amata da Brendel, e` in due movimenti ed e` di piccole dimensioni. Il tono espressivo e` quello della malinconia, con sospiri e con un uso abilissimo dei silenzi che creano tensione senza diventare drammatici. Il secondo movimento e` in tempo di minuetto con trio in Sol, 269

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trio che ritorna inaspettatamente a concludere la Sonata dopo la riesposizione della prima parte. Tra le piu` note di Haydn bisogna annoverare la Sonata in do n. 33 H 20 (1771, 1780), che sembrerebbe pensata per clavicordo piu` che per clavicembalo e che fu sicuramente influenzata dalle opere empfindsam, sentimentali, di Carl Philipp Emanuel Bach. Gli anni intorno al 1770 rappresentano il periodo della creativita` haydniana che si suole definire dello Sturm und Drang, movimento letterario preromantico. Sono gli anni della Sinfonia n. 39 in sol, della Sinfonia funebre n. 44 in mi, della Sinfonia degli Addii n. 45 in fa diesis, della Sinfonia della Passione n. 49 in fa. Si e` osservato piu` volte che Haydn scrisse in quel periodo piu` composizioni in modo minore che in qualsiasi altro periodo della sua vita. E la Sonata in do rivela anch’essa un momento di lotta interiore del compositore quarantenne, preoccupato per la sua non buona salute e per il proposito del Principe di ridurre il numero dei musicisti al suo servizio e di diminuire loro gli stipendi, e sconcertato anche dal tradimento della moglie, divenuta l’amante di un pittore arrivato da poco al servizio degli Esterha´zy. Il primo movimento della Sonata, costruito su due temi nei quali si manifestano inquietudine e incertezza emotiva, comprende per la prima volta uno sviluppo altamente drammatico che si conclude con un passaggio cromatico piu` barocco che protoclassico, e la riesposizione e` piu` variata di quanto non fosse d’uso. Anche nel secondo movimento, nel quale si scorge di piu` l’esempio di Bach figlio, cio` che maggiormente ci sorprende e` lo sviluppo, ingegnoso ed essenziale nell’economia del pezzo. Anche nel finale il punto di maggiore creativita` e` rappresentato dallo sviluppo, di scrittura polifonica superbamente dominata. La riesposizione e` variata anche qui minutamente, ed e` seguita da una coda che non porta alla convenzionale conclusione in modo maggiore. La Sonata in Fa n. 38 H 23 (1773, 1774) e` la terza della prima raccolta di sei Sonate pubblicata da Haydn, con il numero d’opera 13 e con dedica al Principe Esterha´zy (dedica doverosa: il suo contratto vietava a Haydn di pubblicare musica, ma il Principe di quando in quando gli concedeva un permesso). La raccolta ottenne un grande successo, tanto che Haydn comincio` subito a prepararne un’altra, uscita nel 1778 con il numero d’opera 14 ma gia` diffusa nel 1776 in copie manoscritte. La Sonata n. 38 e` una delle piu` brillanti e delle piu` umoristiche di Haydn. La vivacita` ritmica del primo movimento ci fa capire perche´ il pastore protestante prima citato scrivesse nel 1801 che ‘‘la quintessenza’’ della grandezza di Haydn risiedeva 270

Sonata n. 33 H 20

‘‘nel trattamento sempre sciolto del ritmo, in cui nessuno lo eguaglia’’. Le figure ritmiche cambiano continuamente, l’agilita` della mano destra diventa vorticosa e il gioco delle mani alternate (esemplato da Bach figlio) fa perdere la percezione della linea a favore della striscia di suono. Il secondo movimento, Adagio in fa, e` , come spesso avviene in questo periodo in Haydn, arcaico di stile, come una malinconica siciliana. Il finale, vivacissimo, non e` un rondo` ma un allegro di sonata con un solo tema. La Sonata in si n. 47 H 32 (1774-1776, 1778) conclude la raccolta op. 14. Sonata drammatica, com’era ovvio per la tonalita` di si minore, poco praticata durante il periodo protoclassico, con un primo movimento molto elaborato e un finale martellante e aspro. L’uso delle linee raddoppiate in ottava senza armonizzazione, che dai trattatisti d’estetica del tempo viene indicato come stilema del sublime, ci fa capire quali fossero le intenzioni di Haydn, che s’accosta qui, in modo per lui ancora insolito, al sublime moderno, cioe` al sublime degli spettacoli della natura capaci di suscitare terrore nell’uomo che si sente di fronte a essi impotente. Il secondo movimento non e` un adagio ma un Minuetto in Si il cui carattere amabile e` controbilanciato da un trio misterioso e cupo. La Sonata in do diesis n. 49 H 36 (1771-1780, 1780) e` la seconda della raccolta op. 30 e fu composta probabilmente all’inizio degli anni settanta. L’uso della linea semplicemente raddoppiata in ottava la accomuna alla Sonata n. 47 nella ricerca del sublime moderno, e la scelta di una tonalita` con quattro diesis rinnova i problemi di intonazione della Sonata in La bemolle. Ricca di contrasti e di sorprese armoniche nel primo e nel terzo movimento, la Sonata n. 49 suscita qualche perplessita` nel secondo movimento, Scherzando in forma di tema con variazioni, che non sembra inserirsi drammaturgicamente nell’insieme della composizione. La Sonata in Re n. 50 H 37 (1771-1780, 1780) e` la terza dell’op. 30. La tonalita` di re maggiore e` sempre sentita da Haydn come ideale per ambientarvi la farsa, e la Sonata n. 50 e` farsesca, con un primo tema che evoca irresistibilmente il verso dei tacchini, e un turbinio di suoni, sia nel primo che nel terzo movimento, da fattoria degli animali. Il tono farsesco viene pero` contraddetto dal breve Largo e sostenuto collegato con il finale, che ancora una volta riprende lo stile barocco, in questo caso lo stile grave della sarabanda, dando cosı` alla farsa un tocco di umorismo nero. La Sonata in mi n. 52 H 34 (1783 ca, 1783) fu pubblicata isolatamente a Londra da un editore

Sonata n. 59 H 49

che, pur di avere in catalogo il nome famoso di Haydn, accettava una Sonata da sola invece della consueta raccolta di sei, e che da sola pubblico` anche la Sonata n. 51. Se leggiamo in un catalogo gli incipit della Sonata n. 52 – gli incipit contengono di solito soltanto un frammento della parte principale dei temi, parte principale che sul pianoforte e` quasi sempre affidata alla mano destra – abbiamo l’impressione di una musica fatta di tenere frasette sospirose che delineano il quadro di un sentimentale idillio amoroso. La parte della mano sinistra, tutta staccatissima, suona pero` come una beffarda risatina che muta il significato del primo tema. Come dice un libretto d’opera coevo, nel giardino della villa di campagna ‘‘Il padron con la padrona / Fa l’amor con civilta`’’, ma dietro una siepe c’e` il villico che se la spassa un mondo nel cogliere lo spettacolo del corteggiamento ‘‘alto’’. E tutto il primo movimento e` giocato drammaturgicamente sulla rappresentazione arcadica contrappuntata dall’ironia. Diverso e` il secondo movimento, tipica trasposizione tastieristica di un’aria operistica molto ornata. Tra le incombenze del maestro di cappella Joseph Haydn c’era anche quella di dirigere il teatro privato che allietava gli ozi del padrone di casa e dei suoi ospiti. L’esperienza del teatrante regge il secondo movimento, teneramente affettuoso e inequivocabilmente edonistico. Il secondo movimento e` collegato al finale, Vivace molto con la didascalia innocentemente. La forma e` basata su due temi, uno in minore ed uno in maggiore, che si alternano regolarmente, ogni volta variati, secondo lo schema del rondo`. Si tratta di un rondo` atipico, in cui mancano o il terzo tema o lo sviluppo, ma lo spirito e` quello gaio e scherzoso dei finali in forma di regolare rondo`. Dei finali di sonata in modo maggiore, in verita`, mentre qui siamo in modo minore. Gaio e scherzoso sı`, ma motteggiatore: rientriamo nel clima umoristico che avevano trovato nel primo movimento. E l’innocentemente, che di per se´ non e` riferibile a un contenuto emotivo, definisce invece, ironicamente, il carattere del pezzo. La Sonata in Sol n. 54 H 40 (1783, 1784) e` la prima di un gruppo di tre Sonate in due movimenti che vennero pubblicate da un editore di Spira, lo stesso che nel 1783 aveva pubblicato le tre Sonate senza numero d’opera del tredicenne Beethoven. Il primo movimento della Sonata n. 54, Allegretto innocente, si riallaccia sia formalmente che contenutisticamente al finale della Sonata n. 53: doppio tema con variazioni. Il successivo Presto e` costruito sullo stesso tema principale del primo movimento, con un secondo tema in modo minore. L’umorismo di Haydn tocca qui, in una composi-

Joseph Franz Haydn

zione breve come una storiella, uno dei suoi maggiori vertici, in un tono espressivo piu` da balletto che da opera. Anche la Sonata in Do n. 58 H 48 (1789, 1789) e` in due soli movimenti, e anch’essa fu pubblicata isolatamente da un editore di Lipsia. Il primo movimento, Andante con espressione, e` un modello di melodia operistica variata piu` volte al modo dei grandi cantanti dell’epoca, con una predilezione per il registro centrale dello strumento che evoca la voce maschile. Il secondo movimento, Rondo` (Presto), e` un vero e proprio finale da opera buffa. La Sonata in Mi bemolle n. 59 H 49 (1789-1790, 1791) fu scritta per un’amica di Haydn, Marianne von Genzinger, e offrı` anche al compositore l’occasione per un guadagno extra. Haydn consiglio` infatti alla signora von Genzinger di acquistare un pianoforte del costruttore Johann Schantz, uno strumento che avrebbe reso giustizia alla novita` di scrittura della Sonata. La signora seguı` il consiglio, ... e Haydn intasco` la percentuale che lo Schantz gli riconobbe come dovuta. Il primo movimento della Sonata e` una commedia brillante con piu` personaggi, piena di botte e risposte e abbastanza difficile tecnicamente, specie per l’incrocio della mano destra sulla sinistra, cosa che non crea oggi nessun particolare problema ma che creava non pochi imbarazzi ad una dama del Settecento in crinolina, maniche a sbuffo e monumentale acconciatura. Nel secondo movimento troviamo l’incrocio della mano sinistra sulla destra, e cio` preoccupo` la Genzinger, che espresse le sue perplessita` in una lettera a Haydn e fu da questi rassicurata. Prima della riesposizione del primo movimento c’e` una piccola cadenza virtuosistica, indicata con ‘‘a piacere’’ nelle vecchie edizioni e con ‘‘a suo piacere’’ negli Urtext; nell’autografo la dizione e` non solo personalizzata ma spinta fino alla cortigianeria: ‘‘a Suo piacere’’. Il secondo movimento, Adagio e cantabile, e` una grande aria operistica piu` volte ornamentata, con una parte centrale drammatica. Il terzo movimento, Tempo di Minuetto, e` piu` sviluppato di quanto non avvenga di solito nel minuetto perche´ si tratta di dare alla Sonata un finale confacente. Spiritosissimo, il Tempo di Minuetto, con una escursione alla tonalita` di mi bemolle minore che comporta sei bemolli in chiave. Come tutti ricorderanno di certo, Haydn, dopo essere andato in pensione, era stato scritturato nel 1791 dall’impresario Johann Peter Salomon, che gestiva a Londra una stagione di concerti sinfonici. Haydn conobbe a Londra una vita musicale diversa da quella di Vienna, conobbe i pianoforti inglesi piu` robusti di quelli viennesi, conobbe la 271

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Joseph Franz Haydn

scuola di Clementi da cui erano usciti Cramer e Hummel e, di recente, John Field, conobbe grandi virtuosi del pianoforte, tra i quali Dussek, a cui la Rivoluzione Francese aveva consigliato di andare a piantar le tende in Inghilterra finche´ non fosse passata la buriana. Durante il suo secondo soggiorno a Londra Haydn compose la Sonata in Do n. 60 H 50 (1794-1795, 1800), la Sonata in Re n. 61 H 51 (1794-1795, 1805) e la Sonata in Mi bemolle n. 62 H 52 (1794, 1798). Le tre Sonate furono scritte per ‘‘la celebre signora Teresa de Janson’’, cioe` per The´re`se Jansen, allieva di Clementi e insegnante molto stimata, che nel 1795 sposo` l’incisore Gaetano Bartolozzi avendo come testimone di nozze proprio Haydn. Haydn tenne certamente conto, nel comporre le Sonate, delle doti della Jansen, e nella terza Sonata, soprattutto, sviluppo` un virtuosismo superiore a quello di tutte le altre sue composizioni pianistiche e una ratio diversa da quella tradizionale della musica da camera. Oltre all’alto valore estetico, la Sonata in Do e` storicamente importante per diversi motivi. Nella concezione del primo movimento viene portata in primo piano la ricerca della differenza timbrica fra suono staccatissimo e suono tenuto e legato del pianoforte inglese, sia in successione che in sovrapposizione. La netta contrapposizione delle sonorita` favorisce anche l’uso dei silenzi, in cui Haydn era sempre stato maestro: si crea cosı` una vera e propria dialettica tra suono e silenzio, e il silenzio diventa elemento costitutivo della tematica. Beethoven, che nel 1794 era ufficialmente ancora allievo di Haydn, avrebbe fatto tesoro di questa lezione, e avrebbe tenuto presenti i caratteri espressivi dei finale quando avrebbe trasformato in scherzo il tradizionale minuetto. Di un’altra lezione haydniana Beethoven avrebbe invece fatto tesoro piu` tardi: le due indicazioni per il pedale di risonanza che si trovano nel primo movimento creano zone armonicamente intorbidate, nebbiose, tanto audaci e tanto ‘‘avveniristiche’’ quanto le celebri indicazioni della Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven. Il secondo movimento, Adagio, e` un grande momento lirico con una coda visionaria, un momento di profonda meditazione in cui alcuni commentatori hanno ritenuto di vedere, per qualche somiglianza che vi si riscontra con il secondo movimento della Sonata K 310, un omaggio alla memoria di Mozart. La Sonata in Re, in due movimenti, e` considerata da qualcuno come ‘‘musica dell’avvenire’’ per il suo primo movimento che annuncia Schubert e per il secondo movimento che annuncia Schumann. E` del tutto probabile che Schubert la cono272

Sonata n. 60 H 50

scesse, e` molto improbabile che la conoscesse Schumann. Ma il fatto che la Sonata ci faccia pensare a Schubert e a Schumann ci dice quanto Haydn, artista sempre alla ricerca del nuovo, aprisse spazi in cui si sarebbero infilati i romantici. L’ultima Sonata e` quella che piu` di tutte risente della vita musicale londinese, nella quale la musica strumentale stava uscendo dal consumo privato e trovava nel sistema della stagione sinfonica in abbonamento la istituzione che l’avrebbe messa in concorrenza con l’opera. Haydn ‘‘sente’’ la presenza di un pubblico vario, non omogeneo, non unito da legami di amicizia e neppure di conoscenza, facile alla distrazione, desideroso di cose che non richiedano riflessione. Egli gioca sugli spostamenti rapidi di registro, sui contrasti di masse di diversa sonorita` , su trapassi improvvisi a tonalita` molto lontane, su temi brevi e fortemente caratterizzati, sull’alternarsi dei temi invece del loro sviluppo, e sfrutta i silenzi che, precedendo la comparsa di nuovi temi-personaggi, costituiscono veri e proprii segnali d’attenzione per l’ascoltatore. Non si tratta, in assoluto, di novita` dello stile haydniano. Ma qui la scienza del teatrante, e del compositore che otteneva con le Sinfonie Londinesi i maggiori successi della sua vita, passa al servizio del pianoforte: il primo movimento della Sonata in Mi bemolle e` un miracolo di costruzione in cui le ragioni della musica e le ragioni dello spettacolo trovano un punto d’equilibrio stupefacente. Il secondo movimento e` nettamente sinfonico. In apparenza si tratta di una melodia che si sviluppa dal medio verso l’acuto e dal piano verso il forte; in realta` si tratta di un nucleo melodico che viene ripetuto mimando successive aggiunte di strumenti secondo una concezione orchestrale (una sezione sola, due sezioni, tutte le sezioni), una concezione orchestrale, dicevo, di sviluppo dinamico ottenuto attraverso l’aumento della densita` . Evidentissimi sono poi, nel secondo movimento, i riferimenti a tipiche situazioni orchestrali, come recitativi di violoncelli e contrabbassi, entrate del flauto e dell’oboe, suoni ribattuti degli archi. Solo nell’ultimo tempo Haydn sfrutta anche un virtuosismo piu` propriamente pianistico, senza inventare nulla di nuovo e senza aderire ai moduli di Clementi ma riprendendo invece ed enfatizzando all’estremo la tecnica rococo` dei passi brillanti a mani alternate che gli era stata sempre cara. Nella storia della letteratura pianistica le tre Sonate londinesi si collocano dunque in un modo singolare. Rappresentano, esse sole, la classicita` viennese nel periodo che va dalla morte di Mozart, 1791, alla pubblicazione delle sonate op. 2 di Beethoven, 1796. E la Sonata in Mi bemolle, in particolare, introduce nella clas-

Fantasia in Do

sicita` viennese il concetto di ‘‘sonata da concerto’’ che verra` ripreso dallo Hummel dell’op. 13 e dal Beethoven delle opere 53 e 57. In calce alle Sonate bisogna ricordare l’unica composizione pianistica di Haydn che, insieme con l’ultima Sonata, apparve in modo abbastanza regolare nei programmi di concerto della seconda meta` dell’Ottocento e della prima meta` del Novecento: l’Andante con variazioni in fa-Fa (1793, 1799), intitolato Sonata nell’autografo. Si tratta di un doppio tema con variazioni (tema in fa minore, tema in fa maggiore), molto ampio, perennemente sospeso fra la tristezza e la serenita`, con una coda di espressione tragica, desolata, che si conclude in

Joseph Franz Haydn

modo maggiore ma in un clima espressivo tutt’altro che positivo, anzi, sconsolato. La Fantasia in Do (1789, 1789) fu la prima composizione creata dopo che Haydn aveva acquistato un pianoforte Schanz. Haydn scrisse al suo editore dicendo che il pezzo ‘‘tenuto conto del suo stile, della sua originalita` e del modo in cui e` stato composto non potra` mancare di ottenere l’approvazione sia dei conoscitori che degli amatori’’. Musica vivace e allegra, musica di caccia, nella quale non manca l’effetto curioso del glissando in ottava e di un lungo suono del basso con una annotazione che potremmo definire ‘‘atmosferica’’: ‘‘tenere fino a quando il suono sara` diventato inudibile’’.

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Stephen Heller

Fantasia in Do

Stephen Heller (Pest, 15 maggio 1813-Parigi, 14 gennaio 1888) Heller era nato in Ungheria ma, come Liszt pochi anni prima di lui, studio` a Vienna con Czerny, allievo di Beethoven, e poi con Anton Halm, che di Beethoven era amico, e vi conobbe, come disse orgogliosamente in una lettera, Beethoven e Schubert. Esordı` come concertista nel 1826 e negli anni seguenti viaggio` in Europa (suono` anche a Varsavia quando ancora vi abitava Chopin). Si stabilı` poi ad Augusta e dal 1838 fino alla morte visse a Parigi, suonando in pubblico rarissimamente ma svolgendo una intensa attivita` di insegnante privato e scrivendo saltuariamente nella Revue et Gazette Musicale. Era stato anche collaboratore della rivista di cui era proprietario e direttore Schumann, firmando con lo pseudonimo Jeanquirit assegnatogli da Schumann quando lo aveva accolto nella sua immaginaria Lega dei Compagni di Davide. Schumann recensı` la sua Introduzione, Variazioni e Finale su due temi favoriti di ‘‘Zampa’’ [di He´rold] op. 6 (1836 ca.), sia dispensando lodi – ‘‘Nelle Variazioni di Stephen Heller si puo` riconoscere sicuramente il musicista nato’’ – che facendo qualche riserva – ‘‘Le Variazioni si assomigliano troppo e scorrono troppo piano verso l’audace Canzone dei briganti. Invece il Finale possiede spirito e anzi poteva essere ancora piu` impetuoso’’. Vivendo a Parigi Heller vi conobbe Chopin, Liszt, Berlioz e altri, fra cui il pianista e direttore tedesco Carl Halle (che si trasferı` poi in Inghilterra assumendo il nome Charles Halle´), con il quale ebbe per molti anni una regolare corrispondenza epistolare. Le lettere di Heller sono state pubblicate nel 1981 e costituiscono una preziosa fonte di notizie sulla psicologia e sugli orientamenti di gusto dello scrivente. Heller ammirava Berlioz, detestava Liszt, e in Chopin apprezzava la ‘‘grazia’’ e la ‘‘finezza’’ e deplorava la mancanza di ‘‘grandezza’’, grandezza che trovava invece in Beethoven, che stava al culmine delle sue preferenze, e che ritrovava in Schumann. Concludendo il suo discorso su Chopin egli diceva: ‘‘[...] quando si e` un vero genio si puo` avere anche grazia e ingenuita` ma, se non lo si e`, questa e` una misura troppo piccola per un grande talento’’. Heller, in fondo, condivideva e accentuava anzi le riserve su Chopin che, dopo la fiammata del primo entusiasmo, si erano lentamente fatte strada anche nella critica di Schumann. E abbiamo inoltre motivo di supporre 274

che Heller vedesse in Chopin un rivale piu` fortunato di lui. Franc¸ois Fe´tis, autorevole storico, nella voce Heller del suo diffusissimo dizionario dei musicisti pubblicato nel 1862 si fa profeta per dire: ‘‘Giorno verra` in cui la sparizione delle influenze delle cricche lascera` giudicare del merito reale delle cose; allora si riconoscera` senza ombra di dubbio che Heller, ben piu` di Chopin, e` il poeta moderno del pianoforte’’. La posterita` ha smentito le previsioni di Fe´tis e il repertorio concertistico del pianoforte non ha riservato a Heller un seggio permanente ma solo, in passato, uno strapuntino che poi gli e` stato sottratto. In passato furono eseguiti non di rado i 4 Studi sul ‘‘Franco cacciatore’’ di Weber op. 127 (1872) e alcuni dei 24 Preludi op. 81 (1853). Oggi sono del tutto sconosciute le sue quattro Sonate, op. 9, op. 65, op. 86, op. 143 (1829, 1844, 1856, 1878), anche se per lo meno l’op. 143, concisa formalmente e serrata nella sua ininterrotta discorsivita`, meriterebbe secondo me che ci si occupasse un pochino di lei. Gli storici citano i tre quaderni di Im Walde op. 86, 128, 136; (Nel bosco, 1855, 1872, 1873), le tre serie delle Promenades d’un Solitaire op. 78, 80, 89 (Passeggiate di un solitario, 1851, 1852, 1857) e le Reˆveries du Promeneur solitaire op. 101 (Fantasticherie del passeggiatore solitario, da Rousseau, 1862). Tutte queste composizioni si muovono, con eleganza e con particolari ritmici e armonici non privi di originalita`, nella scia di Mendelssohn e di Schumann. Nella prima e nella seconda raccolta delle Promenades le dimensioni e i caratteri sono quelli delle mendelssohniane Romanze senza parole, nella terza sono piuttosto quelle, piu` ampie, delle schumanniane Novellette. Ma solo una scelta molto limitata potrebbe secondo me farne rivivere una parte. Di Heller sono molto interessanti due serie di variazioni su temi di Beethoven gia` da questi variati: le 33 Variazioni su un tema di Beethoven op. 130 (1872) e le 27 Variazioni su un tema di Beethoven op. 133 (1873), rispettivamente sul tema delle 32 Variazioni in do e del secondo movimento dell’Appassionata. Risalendo alle strutture profonde dei temi Heller non soltanto varia la superficie ma innesta spunti tematici tratti da altri temi di Beethoven e persino di Chopin e di Schumann, e inoltre scopre che i temi del secondo e del terzo movi-

24 Studi d’espressione e di ritmo op. 125

mento dell’Appassionata sono sovrapponibili. Con questi lavori Heller dimostra due cose: 1) che i temi di Beethoven sono una fonte inesauribile e che possono subire trasformazioni stilistiche radicali, e 2) che Heller possiede la capacita` di sfruttarne sagacemente le potenzialita` nascoste. Schumann aveva fatto un qualcosa di analogo con gli Studi su un tema di Beethoven, basati sull’Allegretto della Sinfonia n. 7 che gia` era in forma di variazioni. Ma difficilmente Heller poteva conoscere il lavoro di Schumann, incompiuto e inedito. E` probabile invece che egli seguisse l’esempio di Brahms, del Brahms che nelle Variazioni su un tema di Ha¨ndel e nelle Variazioni su un tema di Paganini aveva ripreso temi gia` variati dai rispettivi autori. Gli esiti artistici a cui perviene Heller non sono evidentemente pari a quelli di Brahms, ma la sua ingegnosita` nel far sbocciare nuovi fiori dal vecchio ceppo non e` minore. I Preludi op. 81 che ho prima citato meriterebbero di essere ripresi, almeno in parte. Theodor Leschetizky ci ha lasciato la registrazione su rullo di pianoforte riproduttore di alcuni di essi, a dimostrazione della considerazione di cui godevano presso uno fra i piu` grandi didatti dell’Ottocento. Ma, al di la` della stima di Leschetizky, si puo` affermare che i Preludi di Heller, insieme con l’op. 69 di Golinelli e con l’op. 36 del giovanissimo Busoni, sono i soli, fra le numerose raccolte dello stesso genere pubblicate nell’Ottocento, che non escono distrutti nel confronto con l’op. 28 di Chopin e con l’op. 11 di Skrjabin. L’ordinamento tonale e` quello adottato da Chopin, ma le dimensioni sono molto ridotte (al massimo due pagine a stampa). Curiose certe didascalie: ‘‘Allegro assai, quasi nel genere del Teniers’’ (n. 3), ‘‘Quasi improvvisando, con veloce leggerezza, nel modo d’un disegno grafico’’ (n. 10), ‘‘Molto lento e con l’espressione di un amaro dolore’’ (n. 20). Una seconda serie di 20 Preludi op. 150 (1882) e` di una qualita` molto piu` modesta e dimessa. Nel repertorio didattico del pianoforte sono rimasti stabilmente gli Studi di Heller: L’Arte di fraseggiare op. 16 (1840), i 25 Studi per servire di introduzione all’Arte di fraseggiare op. 45 (1844), i 30 Studi progressivi op. 46 (1845), i 20 Studi per formare al sentimento del ritmo e al-

Stephen Heller

l’espressione op. 47 (1849), i 24 Nuovi Studi op. 90 (1859), e piu` tardi i 24 Studi d’espressione e di ritmo op. 125 (1868). L’Arte di fraseggiare e` in realta` una raccolta di ventiquattro pezzi caratteristici in tutte le tonalita`, senza un ordinamento sistematico, l’op. 90 e` ripetitiva e gli Studi op. 125 riprendono gli schemi delle op. 45, 46 e 47 in un momento in cui – spero che questa non sia soltanto una mia maligna supposizione – era stato riconosciuto il copyright internazionale e all’autore spettava dunque una percentuale sul ricavo delle vendite. Ma gli Studi op. 45, 46 e 47 sono dei capolavori del sapere didattico in un campo, quello dell’espressione, che il genere dello studio aveva abbandonato dopo il Gradus di Clementi e, anzi, dopo gli Studi melodici di Dussek, perche´ Clementi non si era occupato dell’apprendimento elementare dell’espressione. Delle tre raccolte di Heller la piu` diffusa e` di gran lunga l’op. 47 (le op. 45, 46 e 47 sono pensate in ordine di difficolta` decrescente), che affronta problemi basilari di ritmo e di espressione in tempi sia lenti che rapidi che intermedi e in atmosfere che vanno dalla marcia funebre alla serenata amorosa alla sognante fantasticheria. Il linguaggio risente fortemente dell’esempio di Mendelssohn e di Schumann, ma Heller non e` un semplice epigono. Le sue sono scelte di gusto, di affinita`, di compartecipazione culturale, ed entro questo indirizzo comune egli riesce a ritagliarsi un suo spazio di originalita`. Per questa ragione i suoi Studi possono rivaleggiare con l’Album per la gioventu` e con i Fogli d’album di Schumann, rispetto ai quali presentano il vantaggio, come gia` dicevo, della sistematicita` dell’indagine. Gli Studi di Heller vengono oggi utilizzati molto, ma in esecuzioni di stile neoclassico che secondo me ne limitano la funzione. Il modo di fraseggiare e il rubato di pianisti come Carl Reinecke, nato nel 1824, o di Theodor Leschetizky, nato nel 1830, e quindi contemporanei di Heller, sono molto diversi, e con ogni probabilita` sono piu` vicini alle intenzioni di Heller. Una ricognizione sulla ‘‘prassi autentica’’ e una sua applicazione alle composizioni di Heller a destinazione didattica potrebbe dunque aprire prospettive nuove per l’interpretazione dei romantici.

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Adolf Henselt

24 Studi d’espressione e di ritmo op. 125

Adolf Henselt (Schwabach, 9 maggio 1814-Warmbrunn, 10 ottobre 1889) Adolf Henselt, allievo di Hummel, esordı` da professionista nel 1836 dopo alcune esibizioni come fanciullo-prodigio e conquisto` rapidamente le prime posizioni nel mondo del concertismo che si stava rigogliosamente sviluppando. Era compositore ma era piu` giovane di Liszt e, al contrario di quello che era stato d’uso fino a Chopin, non eseguiva esclusivamente musiche sue: fu anche interprete di Beethoven, Hummel, Weber, Chopin. Henselt capito` a S. Pietroburgo nel 1838. Gli venne offerto il posto di pianista di corte dello zar, lo accetto` e si occupo` degli incarichi ufficiali che gli vennero affidati – fu Ispettore deli Istituti Femminili che in sei citta` ‘‘strategicamente’’ dislocate nell’impero educavano le future mogli dei politici e dei militari, fu insignito dell’Ordine di Vladimiro e fu nominato Consigliere di Stato – si occupo`, dicevo, di affari pubblici a tal punto da abbandonare praticamente sia la carriera concertistica che la composizione. Come compositore aveva esordito con la Introduzione e Variazioni su un tema di Donizetti op. 1 (1836) (il tema, tratto dall’Elisir d’amore, e` quello della barcarola ‘‘Io son ricco e tu sei bella’’), che vennero recensite con entusiasmo da Schumann – ‘‘e` una persona straordinaria che ha cuore e testa al posto giusto, si chiama Adolf Henselt, e sono pienamente d’accordo con la Sorella della Lega di Davide Sara che lo stima fra i migliori delle nuova generazione di compositori, lui che pure ci ha dato cosı` poco e che a malapena ha al suo attivo un’opera uno’’. Oggi le Variazioni ci sembrano un lavoro di un dotatissimo scolaro di Hummel che si aggancia a uno stile pianistico gia` tramontato. Ma Schumann... sparava in realta` una profezia. A fare veramente sensazione nel mondo della musica furono i 12 Grandi Studi caratteristici op. 2 (1837). La recensione di Schumann inizia cosı`: ‘‘Si puo` davvero dire che la recensione di questi Studi e` un inutile sovrappiu` aggiunto a un carro trionfale, e che oltretutto arriva in ritardo: prima ancora della loro pubblicazione essi erano infatti gia` noti a un tal numero di persone che, se non fosse ancora stata inventata la notazione musicale, essi si sarebbero comunque tramandati come i poemi omerici di bocca in bocca o di mano in mano; adesso che si e` sparsa la voce della loro pubblicazione quasi tutti i pianisti validi (e ciascuno vorrebbe es276

sere tale) si sono buttati immediatamente a capofitto a studiarli e a provarli’’. La recensione degli Studi op. 25 di Chopin, uscita l’anno prima, non era altrettanto entusiastica ed era molto piu` breve: una pagina e mezza invece di quasi quattro. Schumann stravedeva? Sı` e no. Gli Studi op. 2 portavano romanticissimi titoli fantasiosi – ‘‘Tempesta, tu non saprai abbattermi’’, ‘‘Se fossi uccello, a te volerei’’, ‘‘Tu m’attrai, m’attiri, m’inghiotti’’ – e sviluppavano soprattutto la tecnica delle estensioni. Henselt, che non aveva mani abnormemente grandi, lavoro` come un forsennato per sfruttarne al massimo grado la flessibilita`. Egli voleva conciliare le estensioni con il classico legato con articolazione delle dita, con mano ferma e polso immobile, senza sfruttare la rotazione dell’avambraccio e senza tener conto del pedale di risonanza, mediante il quale e` possibile ottenere il legato sostituendo la divaricazione delle dita con i fulminei cambiamenti di posizione. Il problema tecnico delle figurazioni basate su intervalli maggiori di quelli che la mano normale copre naturalmente, il problema che era stato molto raramente affrontato da Beethoven e un po’ di piu` da Weber, negli anni trenta era ormai all’ordine del giorno. A quanto pare, proprio il tentativo di ampliare la divaricazione fra le dita con un apparecchio meccanico causo` il trauma irreversibile che tronco` le aspirazioni concertistiche di Schumann, e un altro apparecchio meccanico dello stesso tipo, il ‘‘pianoforte slegatore’’, fu brevettato verso il 1840 da Josef Jacques Gregoir. Chopin affronto` le estensioni nello Studio op. 10 n. 1 (per la mano destra), nello Studio op. 10 n. 9 (per la sinistra), e nello Studio op. 10 n. 11 (per le due mani insieme), e risolse il problema tecnico, pare, con la rotazione combinata con il pedale. Henselt si comporto` in modo piu` convenzionale. Ma, al di la` del problema strettamente tecnico, le estensioni aprivano il campo a sonorita` nuove e Henselt, come Chopin e come Liszt, cominciava a sfruttarle. Tuttavia gli Studi di Henselt basati sulle estensioni risultavano, e risultano faticosi, tranne che per le mani grandissime, anche se vengono affrontati con tecnica adeguata. E per questa ragione, credo, entro` in repertorio solo lo Studio n. 7, ‘‘Se fossi uccello’’, che sfrutta la tecnica delle doppie note al-

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ternate fra le due mani, e di cui abbiamo in disco una celebre esecuzione di Rachmaninov. Oltre agli Studi op. 2 il lavoro piu` significativo di Henselt e` il Concerto in fa op. 16 (1839 ca.), che fu eseguito anche da Liszt, che fu ripreso nella seconda meta` del secolo da diversi grandi pianisti e che fu inserito da Busoni sia nel 1896 che nel 1919 nel ciclo che ripercorreva la storia del concerto per pianoforte e orchestra da Bach a Brahms e, nel 1919, allo stesso Busoni. Il Concerto di Henselt e` di struttura biedermeier, fortemente bravuristico, ma le figurazioni impiegate non sono stereotipe e la strumentazione orchestrale non e` soltanto di sostegno al solista. Nel 1839 Schumann teorizzava il passaggio dal tradizionale concerto biedermeier con orchestra semplicemente in funzione di accompagnamento a un concerto in cui lo splendore virtuosistico e bravuristico della parte solistica non sacrificasse ma, al contrario, esaltasse la parte orchestrale. Questo auspicio non venne raggiunto da Schumann nel suo Concerto op. 54 (1841-1845) e il problema fu risolto negli anni cinquanta da Liszt. Il Concerto op. 16 di Henselt rappresento` percio` un punto intermedio fra il Konzertstu¨ck di Weber, che era sfuggito al biedermeier senza pero` portare la tecnica al livello della bravura e di cui Henselt era un grande interprete, e il Concerto n. 1 di Liszt, assolvendo in tal modo a un preciso compito storico. In tal senso si spiega la stima di un pianista dalla acutissima intelligenza come Busoni. E non si puo` non dargli ragione. L’ammirazione di Henselt per Weber risulta anche da una sua iniziativa editoriale: Henselt ripubblico` le quattro Sonate da lui ristrumentate, cioe` rese piu` ‘‘moderne’’ pianisticamente, e quindi, almeno in ipotesi, piu` spettacolari concertisticamente. Un’altra curiosa iniziativa di Henselt, legata al suo incarico di Ispettore Imperiale, riguarda gli Studi

Adolf Henselt

di Cramer: Henselt li trascrisse per due pianoforti, mantenendo al primo pianoforte l’originale e aggiungendo al secondo pianoforte un accompagnamento che in genere metteva in luce la struttura profonda, cioe` il corale a quattro parti. In questo modo le ragazzotte degli Stabilimenti Imperiali ispezionati da Henselt facevano tre cose in una: muovevano diligentemente le dita, avevano nel contempo nelle orecchie una struttura melodica che addolciva la noia dell’esercizio, ed erano tente in riga con il tempo, perche´ il tempo lo dava al secondo pianoforte l’inflessibile maestro. Henselt era stato una personalita` molto viva nel mondo della musica negli anni trenta. Ma era anche una meteora. Schumann scrisse nel 1842: ‘‘Adolph Henselt e` purtroppo stato negli ultimi anni poco fecondo. Puo` darsi che egli fosse trattenuto da cause esterne; non e` infatti possibile che una sorgente che aveva cominciato a zampillare in modo cosı` fresco e lieto si sia inaridita cosı` rapidamente’’. E invece era possibile. Gia` i 12 Studi da sala op. 5 (1838 ca.) erano meno inventivi di quelli dell’op. 2. Le altre composizioni brevi non andarono oltre una generica grazia salottiera, e l’unico lavoro di ampio respiro, la Ballata op. 31 (1850 ca.) dimostro` soltanto quale abissale distanza separasse ormai Henselt dal creatore del genere, Chopin. Trattenuto da cause esterne, dice Schumann. Splendidamente incastrato, o incatenato che dir si voglia nella burocrazia zarista, Henselt tenne negli ultimi trentatre anni di vita non piu` di tre concerti pubblici, passo` regolarmente in Russia nove mesi all’anno e nei restanti tre mesi, i mesi di congedo retribuito, girovago` altrettanto regolarmente dall’una all’altra stazione termale. In una stazione termale della Slesia chiuse i suoi giorni, lasciando dietro di se´ una fama leggendaria di cui le generazioni piu` giovani non avevano visto neppure l’ombra.

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Paul Hindemith

Ballata op. 31

Paul Hindemith (Hanau, 16 novembre 1895-Francoforte sul Meno, 28 dicembre 1963) Hindemith, che era un eccellente violista e che se la cavava da autodidatta un po’ con tutti gli strumenti, impiego` molto spesso il pianoforte nella musica da camera ma scrisse anche un bel ‘‘pacchetto’’ di pagine in cui il pianoforte e` protagonista, da solo o con orchestra. I Sette Valzer a quattro mani op. 6 (1916) sono andati perduti e altre pagine, come la Polacca in do diesis (1917) sono rimaste inedite. I quattordici pezzi di In einer Nacht op. 15 (In una notte, 1917-1919) rimasero inediti fino al 1990. La raccolta e` quanto mai eterogenea: dal postromanticismo decadente di Stanchezza (nn. 1 e 2) si passa all’impressionismo del Duetto fantastico di due alberi davanti alla finestra (n. 3) e a mano a mano si arriva fino al grottesco del Fox-trot (n. 13) e alla monumentalita` della Doppia Fuga (n. 14), non senza aver ironizzato a dovere sul Rigoletto nel Cattivo sogno (n. 12). Della Sonata op. 17 (1920,), il cui autografo e` andato perduto, e` stato recuperato un abbozzo molti anni dopo la morte di Hindemith, ed e` stato cosı` possibile ricostruire almeno in via ipotetica il pezzo. Lo schema e` limitato a due movimenti (allegro di sonata e variazioni, un po’ come la 111 di Beethoven) e la personalita` di Hindemith stenta a farsi largo in un lavoro in cui – ma stiamo sempre parlando di un abbozzo – sembra che l’ambizione urti continuamente contro ostacoli insormontabili. Un Ragtime ben temperato (1921) che mette in tempo di rag il soggetto della Fuga in do del primo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach (Hindemith lo trascrisse poi per orchestra) fa da... contrappasso ironico alla Doppia Fuga. Ma il compositore che negli anni venti apparve come un iconoclasta si mostra veramente nei cinque Tanzstu¨cke op. 19 (Pezzi di danza, 1922), che precedono di poco il primo lavoro di Hindemith di importanza storica, la Suite 1922 op. 26 (1922). La Suite fece dapprima scandalo per la sua brutale ‘‘volgarita`’’, poi fu considerata, com’e`, opera di rottura di aspra ma forte creativita`. Piu` tardi Hindemith diede pero` ragione ai suoi detrattori perche´, scrivendo al suo editore a proposito della ripubblicazione della Suite e parlando in terza persona, disse che ‘‘un vecchio uomo e` seriamente depresso nel vedere che i suoi peccati di giovinezza fanno piu` impressione sulla gente che le sue creazioni migliori’’. La Marcia di apertura, armonicamente du278

rissima, melodicamente sarcastica, e` il piu` perfetto pendant musicale della pittura di Otto Dix, mentre lo Shimmy, con le sue volute orientaleggianti e il suo climax – non esagero – lascivo potrebbe fare da musica di sottofondo in una scena di bordello (nei bordelli di lusso c’era stato sempre il pianoforte suonato da un professionista, sostituito nel Novecento dal pianoforte automatico). La Nachtmusik (Notturno) capovolge bruscamente l’atmosfera espressionistica: e` una specie di lenta e grave danza antica, con un intermezzo a modo di carillon: se prima mi era venuto in taglio il nome di Otto Dix (o di Grosz), ora mi viene da pensare a Ferdinand Hodler. Il Boston, versione americana del valzer lento, vorrebbe forse essere sarcastico, ma in concreto e` disperato, con i ricorrenti rintocchi di una campana funebre e il ritmo esitante e affannato. Il Ragtime conclusivo riprende i modi della Marcia, maltrattando il pianoforte con brutali pestaggi. Famose le ‘‘istruzioni per l’uso’’ con cui Hindemith raccomanda all’esecutore di dimenticare tutto cio` che ha imparato in conservatorio, di non preoccuparsi di dover suonare ‘‘con il quarto o con il sesto dito’’ e di tenere un ‘‘ritmo sempre stretto, come una macchina’’. La Suite 1922 non fa parte del normale repertorio concertistico: e` ancora sconcertante per l’ascoltatore e non e` abbastanza virtuosistica per il pianista. Nella Klaviermusik per mano sinistra e orchestra op. 29 (Musica per pianoforte, 1923) Hindemith si sforzo` di tener conto dei gusti del committente Paul Wittgenstein. Mandando a Wittgenstein il lavoro ancora mancante del primo movimento egli scrisse fiduciosamente, il 9 maggio 1923: ‘‘E` un pezzo semplice, completamente privo di probemi, e io sono sicuro che dopo un po’ di tempo Le piacera` ’’. Molto ottimistico: Wittgenstein pago` il prezzo convenuto e non eseguı` mai il pezzo (come non eseguı` mai il Concerto n. 4 di Prokof’ev). La Musica per pianoforte e` piuttosto breve (circa diciotto minuti). O meglio, c’e` una certa sproporzione fra il secondo, terzo e quarto movimento e il primo movimento, scritto per ultimo e probabilmente con qualche fretta di finire un lavoro che, seppur ben compensato dal committente, stava intralciando la composizione del ciclo liederistico Das Marienleben a cui Hindemith teneva molto. Hindemith diceva il vero, quando affermava che il

Sonate in La, Sol e Si bemolle

pezzo e` semplice e senza problemi. Semplice, senza problemi, e molto gradevole. Ma per un virtuoso come Wittgenstein, che aveva trascritto per la sola mano sinistra il Concerto n. 4 di Rubinsˇtejn, c’era un enorme difetto che pesava come un macigno: troppo facile da suonare, la Musica, troppo ‘‘concerto per bambini’’, senza un passo di vera agilita`, senza ottave e accordi impegnativi, senza un cantabile, con un movimento lento di piu` di sei minuti fatto con quattro note in croce. Wittgenstein avrebbe potuto sopportare l’asciutto linguaggio di Hindemith, ma non avrebbe mai potuto rinunciare alla spettacolarita`, a dimostrare di essere un virtuoso fuoriclasse, sia pure con una sola mano. E la Musica resto` ineseguita e inedita fino a che, piu` di ottant’anni dopo, non fu pubblicata da Schott ed eseguita da Leon Fleisher. La Suite 1922 si lega alla Kammermusik n. 1 con il suo Finale 1921. La Kammermusik n. 2 op. 36 n. 1 per pianoforte obbligato e dodici strumenti (Musica da camera, 1924) appartiene invece gia` in pieno al ‘‘ritorno a Bach’’. Quattro movimenti con un Piccolo Potpourri al posto dello scherzo, quintetto di strumentini, trio d’ottoni, quartetto d’archi (con contrabbasso, senza secondo violino). La composizione e` musica da camera nel senso dei Concerti brandeburghesi di Bach, la scrittura pianistica e` prevalentemente a due voci. Si tratta di una delle piu` belle partiture di Hindemith, rarissimamente eseguita a causa dell’insolito organico strumentale. La Klaviermusik op. 37 (Musica per pianoforte, 1925-1927) e` per pianoforte solo ed e` in due parti. La prima e` sottotitolata Esercizio in tre pezzi: una sonata, in pratica, molto difficile tecnicamente, che mira a rendere l’esecutore padrone della tecnica polifonica in un linguaggio ‘‘moderno’’ e con una ritmica complicata. La seconda parte e` sottotitolata Serie di piccoli pezzi, ma non si tratta affatto di pezzi semplici. Dodici pezzi nella maggior parte polifonici, non tutti della stessa levatura estetica, con momenti di alta ispirazione (gli ultimi due, ad esempio) e momenti di costruzione assai arida (i nn. 8 e 9, ad esempio). Difficolta` tecnica molto alta anche qui, ma difficolta` non da virtuoso, non spettacolare. E siccome i pianisti faticano molto ad accettare cio` che e` difficile senza essere spettacolare, l’op. 37 di Hindemith e` rimasta sempre nell’ombra. Al contrario, la Kleine Klaviermusik op. 45 n. 4 (Piccola musica per pianoforte, 1929) e` destinata ai principianti che vogliono imparare il contrappunto (il che, secondo me, e` una pia illusione: per imparare il contrappunto si scelgono le Invenzioni di Bach e basta, ... quando non si rispolverano ancora i venerandi Canoni di Kunz). I principianti che li cono-

Paul Hindemith

scono – non molti, in verita` – adorano invece i pezzi tratti dalla commedia per ragazzi Wir bauen eine Stadt (Costruiamo una citta` , 1931). Nella Konzertmusik per pianoforte, ottoni e due arpe op. 49 (Musica da concerto, 1930), in cinque movimenti, la parte del pianoforte e` concertante e non richiede un pianista tecnicamente ferratissimo. Partitura ricca di colori, lirica nel secondo movimento a variazioni. Ma l’organico strumentale di quattro corni, tre trombe, tre tromboni e tuba mette allo scoperto i problemi di intonazione della sezione degli ottoni e ne impedisce in pratica l’esecuzione nelle stagioni sinfoniche. Siamo cosı` arrivati alle tre Sonate in La, Sol e Si bemolle (1936), le sole composizioni pianistiche di Hindemith che appaiano ancora talvolta, specie la seconda e la terza, nei programmi di concerto. La Sonata n. 1 e` intitolata Der Main (Il Meno) ed e` ispirata a un poema di Ho¨lderlin. Il Meno e` il fiume di Francoforte, ma e` anche il fiume della citta` natale di Hindemith, Hanau. In cinque movimenti, la neoromantica Sonata n. 1 e` come un poema sinfonico in piu` parti, senza un argomento narrativo preciso ma con un forte riferimento sentimentale alle citta` turrite, alle campagne, alla nostalgia del tempo passato, com’e` del resto spiegato dall’epigrafe: ‘‘Mai dimentichero` te, o mio bel Meno, e le tue rive felici, per quanto lontano mi portino i miei passi’’. Sviatoslav Richter eseguı` quindici volte la Sonata nelle sue prime tourne´e in Occidente senza riuscire a farla accettare, tanto che la tolse poi dal suo repertorio; non miglior fortuna ha avuto Olli Mustonen che l’ha ripresa di recente. I trentadue minuti circa della Sonata sono appesantiti da un secondo movimento di quasi dieci minuti, una ‘‘marcia molto lenta’’ in cui alcuni particolari squisiti finiscono per annegare nella generale e funerea monotonia. Nel 1981 furono pubblicate le Variazioni che secondo il progetto primitivo erano destinate alla Sonata. Il mio parere e` che l’idea di eliminare queste variazioni per sostituirle con la marcia non fu affatto felice. Se il costume concertistico lo consentisse – ma attualmente non lo consente – penso che tagliando via del tutto il secondo movimento si renderebbe alla Sonata un buon servizio (forse basterebbe pero` limitarsi ad eseguire il finale, pianisticamente molto piu` ricco di tutto il resto). Rispetto alla Sonata n. 1, la Sonata n. 2, con i suoi circa dodici minuti, e` poco piu` di una sonatina. Tre movimenti, un tono espressivo disteso e sereno, temi spigliati e gradevoli (specialmente il primo tema del primo movimento e il primo tema del finale), e una scrittura haydniana. Non precisamente un pezzo da concerto, soprattutto perche´ 279

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l’introduzione in movimento lento del Rondo` finale viene ripresa al termine, chiudendo il discorso in modo diverso da come sarebbe stato prevedibile. Non musica da concerto, dunque, ma musica da camera nella tradizione della civilta` tedesca, musica fatta per il consumo privato del dilettante e dei suoi familiari. Musica da concerto e` invece la Sonata n. 3, in quattro movimenti, che chiude con una Fuga vivacissima e di splendente colore. Primo movimento pastorale, quasi siciliana, scherzo con trio sbarazzino, terzo movimento a modo di marcia con un fugato come trio, e doppia fuga, con due soggetti vigorosi, martellanti, che vengono alla fine sovrapposti in un clima trionfale di apoteosi. Poco piu` di venti minuti di durata, nei quali solo il fugato del terzo movimento, in verita` breve, appare statico. Dal soggetto del fugato deriva il secondo soggetto della doppia fuga, ma questa ‘‘parentela’’ non puo` essere colta all’audizione e la compresenza nella Sonata di un fugato e di una doppia fuga non sembra giustificata da ragioni drammaturgiche. Si e` spesso paragonato questa Sonata con la Sonata op. 101 di Beethoven. A me pare che lo schema formale della Sonata di Hindemith sia riferibile in parte alla Sonata op. 101 e in parte alla Sonata op. 106. E` comunque evidente che Hindemith intende porsi come erede sia della tradizione sonatistica tedesca nel momento del suo massimo splendore che del Brahms delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel. Al momento del massimo splendore del barocco tedesco si collega invece il Ludus tonalis (Gioco tonale, 1942), ciclo di dieci Fughe, collegate da undici Interludi, con Preludio e Postludio. L’insieme e` governato dalle relazioni di affinita` fra i dodici suoni della scala cromatica che per Hindemith erano quelle ‘‘naturali’’, vale a dire: do, sol, fa, la, mi, mi bemolle, la bemolle, re, si bemolle, re bemolle, si, fa diesis. Senza voler qui discutere la teoria, esposta da Hindemith nel trattato in due volumi Unterweisung im Tonsatz (1937-1939), si nota subito che i primi cinque suoni mantengono relazioni di affinita` tradizionale, e che il rapporto di minima affinita` fra il primo e l’ultimo suono (do-fa diesis) altro non e` che il tritono, il medievale diabolus in musica. I sei suoni rimanenti sono collocati in modo che, presi a coppie, la loro distanza aumenta graficamente sul pentagramma, passando dalla quarta giusta alla sesta minore e alla sesta eccedente. Il sistema teorico di Hindemith non si affermo` se non presso pochi epigoni, ma rappresento` per il suo autore uno stimolo creativo che trova nel Ludus tonalis i piu` chiari e convincenti risultati. Il Preludio e` come una toccata barocca, con im280

Ludus tonalis

provvisazione, arioso e corale-inno. Il Postludio e` la versione per moto contrario e a specchio del Preludio. Le dodici Fughe alternano soggetti con caratteri molto differenziati (Lento, Allegro, Andante, ecc., e Con energia, Con forza, Moderato scherzando, ecc.), sono tutte a tre voci e impiegano l’arsenale completo della tecnica contrappuntistica. Gli undici Interludi assolvono la funzione sia di preparazione alle Fughe che di ‘‘evasione’’ intellettuale dalla densita` del pensiero contrappuntistico di queste, e nel loro vario atteggiarsi formano una specie di ciclo romantico di pezzi caratteristici. Neobarocco sı` , moderno Clavicembalo ben temperato sı`. Ma Clavicembalo ben temperato secondo le revisioni dell’Ottocento tedesco, che con i segni di articolazione del suono e con le didascalie di espressione aggiunti copiosamente da Tausig e da altri avevano fatto di Bach il... precursore di Schumann. Detto in altre parole, il neobarocco di Hindemith e` radicato nel romanticismo, non nella prassi autentica su cui negli anni trenta gia` avevano lavorato parecchi interpreti. La Sonata per pianoforte a quattro mani (1938), in tre movimenti senza il tempo lento, tratta lo strumento un po’ come organo da sala e un po’ come carillon. L’ambito espressivo e` prossimo a quello della Sonata n. 2, ma Hindemith sfrutta sagacemente le possibilita` offerte dai due esecutori, sia per raddoppi che fanno pensare, come dicevo, all’organo, sia per una scrittura polifonica di ricchezza orchestrale. Predomina il legato romantico, e quando il pianoforte viene trattato come strumento a percussione siamo lontanissimi dalla brutalita` della Suite 1922 e siamo invece vicini ai dolci e giocondi rintocchi del glockenspiel. La Sonata per due pianoforti (1942), in cinque movimenti, inizia con un primo movimento indicato appunto come glockenspiel, che precede il piu` tradizionale Allegro. Segue un Canone molto melodico, e armonizzato, in pratica un discorso in se´ completo affidato al primo pianoforte, che viene ripetuto a una battuta di distanza e un’ottava sotto dal secondo pianoforte. La sapienza contrappuntistica e` stupefacente, ma piu` stupefacente ancora e` il fatto che tutto suoni come una eco perpetua senza che si creino difficolta` di ascolto. Il quarto movimento, Recitativo, e` ispirato a un poema medievale, Le gioie del mondo, che parla delle natura effimera di un mondo in cui tutto perisce. Quando il poema accenna al Salvatore si riodono i rintocchi del glockenspiel iniziale e si passa direttamente alla Fuga, in realta` una doppia fuga a quattro voci che riprende e anzi moltiplica lo splendore del finale della Sonata n. 3. I Quattro temperamenti per pianoforte e archi (1940) fu commissionato a Hindemith da Balan-

Concerto per pianoforte e orchestra

chine per un balletto che rendesse spettacolarmente la antica dottrina dei fluidi del corpo umano (sangue, flegma, bile, atrabile). Hindemith scelse la forma del tema con variazioni, disponendo i quattro temperamenti in un ordine diverso da quello tradizionale: Tema, Malinconico, Sanguigno, Flemmatico, Collerico. Il Tema e` in tre parti (Moderato, Allegro assai, Moderato), ma non in forma di canzone A-B-A, bensı` in forma A-B-C, molto difficile da equilibrare e che Hindemith domina invece perfettamente. Tripartito e` il Malinconico (Slow, Presto, Slow March), il Sanguigno e` un Valzer, il Flemmatico e` tripartito (Moderato, Allegretto, Allegretto scherzando), e piu` articolato ancora e` il Collerico, che comprende il finale (Vivace, Vivace, Appassionato, Maestoso). La composizione fu eseguita in forma di concerto gia` il 3 settembre 1940 a Boston, mentre il balletto fu coreografato soltanto nel 1946. Hindemith dipinge benissimo i quattro temperamenti, che sono poi quattro caratteri; la scrittura pianistica e` molto ricca e brillante, gli archi sono trattati in modo superbo da un compositore che, come gia` detto, era un eccellente violista. Il Concerto per pianoforte e orchestra (1945) chiude il catalo-

Paul Hindemith

go pianistico di Hindemith diciotto anni prima della morte. Non si puo` dire in verita`, secondo il mio parere, che si tratti di un’opera riuscita. In tre movimenti tradizionali, ampi (trenta minuti di durata complessiva), musicalmente inventivo e di tono generalmente piuttosto leggero e disimpegnato, con una curiosa Danza medievale come finale, il Concerto tiene secondo me troppo spesso separati il pianoforte e l’orchestra: si direbbe che a volte Hindemith non sappia che fare dell’orchestra, e a volte non sappia che fare del pianoforte. Ne risulta un insieme frammentato che non e` interamente ne´ un concerto ne´ una sinfonia concertante, e le molte belle idee di cui il pezzo e` ricco risultano disperse. Il catalogo pianistico di Hindemith che abbiamo scorso rapidamente non e` affatto ristretto e rappresenta bene il suo Autore. Ma, come dicevo, ben poca di questa musica trova ancora la via della sala di concerto. Non mancano le iniziative discografiche importanti: basti citare le registrazione di Gould delle tre Sonate, di Richter del Ludus tonalis. Ma la conoscenza dell’opera pianistica di Hindemith e` lasciata alla iniziativa individuale dell’ascoltatore e non viene proposta dalle istituzioni.

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Jan Nepomuk Hummel

Concerto per pianoforte e orchestra

Jan Nepomuk Hummel (Bratislava, 14 novembre 1778-Weimar, 17 ottobre 1837) Hummel era di ventidue anni piu` giovane di Mozart e di trentatre piu` anziano di Liszt. Fu lui il primo pianista – il secondo fu Liszt – che cerco` di ripercorrere la favolosa cavalcata dell’enfant prodige Mozart attraverso l’Europa. Solo che Mozart era un bimbetto quando suo padre lo porto` in giro per le corti, mentre Hummel e Liszt si lanciarono nell’impresa quand’erano ragazzini, e i loro remake non furono altrettanto fantasmagorici. Di Mozart ce n’era stato, e ce ne sarebbe stato uno solo. Hummel, figlio d’un musicista, comincio` a muovere le dita sulla tastiera in casa, ma i suoi doni erano talmente portentosi da convincere il padre della propria inadeguatezza e della necessita` di cercare un maestro all’altezza. La scelta cadde su Mozart, che non solo accetto` di far lezione al ragazzo ma che per due anni, nel 1787 e nel 1788, lo tenne presso di se´. Hummel studiava con Mozart, metteva in bella copia le musiche di Mozart, giocava con Mozart al bigliardo – i birilli erano la grande passione del Maestro – e nelle faccende domestiche dava una mano a Madame Mozart. Insomma, era stato messo a bottega come si usava in antico per i pittori, e da Mozart imparo` tutto quello che alla sua verde eta` era in grado di imparare da uno dei maggiori geni della musica. Nel 1789 il padre ritenne che Hummel fosse pronto per l’esordio e lo porto` in giro per la Germania. Nel 1790 arrivarono a Edimburgo e poi a Londra e lı` si fermarono, perche´ Hummel padre capı` che un periodo di studi con Clementi avrebbe messo la ciliegina sulla torta. Jan Nepomuk divenne allievo di Clementi e, protetto da questi e da Haydn, fu scritturato dall’impresario Salomon: il ragazzino eseguı` il piu` ‘‘clementino’’ dei Concerti di Mozart, il K 503, e suono` poi varie volte in pubblico, oltre a prodursi nei salotti. Nel 1793 torno` a Vienna e studio` la composizione con Albrechtsberger e Salieri, e l’organo con Haydn. Beethoven, che era giunto a Vienna nel 1792 e che aveva ben presto preso la successione di Mozart come esecutore e come improvvisatore sbaragliando tutti i pianisti della capitale e tutti i pianisti di passaggio, trovo` in Hummel, alla fine del secolo, un degno competitore in entrambi i campi. Legato come era stato a Mozart, Hummel era assiduo visitatore della vedova, che teneva salotto aperto. Tra i frequentatori di casa Mozart ci fu all’inizio dell’Ottocento un 282

ragazzino, Carl Czerny, che studiava con Beethoven. Czerny racconta nelle Memorie della sua sorpresa quando vide in casa Mozart un signore molto brutto, butterato e con un qualcosa di cattivo nell’espressione del viso, vestito in modo cosı` goffo e trasandato da sembrare un maestro di scuola di campagna ma che non poteva essere un maestrucolo qualunque perche´ portava anelli con diamanti a quasi tutte le dita. Quando gli fu chiesto di suonare il brutto uomo cattivo poso` le dita inanellate sulla tastiera e comincio` a improvvisare: Czerny rimase folgorato. Il critico Adolph Bernhard Marx ci ha lasciato una descrizione di una improvvisazione di Hummel alla quale gli capito` di assistere: ‘‘Un’introduzione, cinque temi, dei quali uno semplicemente esposto, un altro con sette o otto variazioni, e gli altri tre con semplici modulazioni, ora nel basso, ora nella voce mediana, ora nell’acuto; per ultimo il finale del primo atto del Don Giovanni’’. A Vienna, racconta Czerny, si erano formati due partiti, quello dei beethoveniani che nel loro campione magnificavano la irruenza e la ricchezza di idee, e quello degli hummeliani, che andavano in estasi per l’eleganza e per l’aplomb del nuovo venuto. Varzi e Nuvolari, Coppi e Bartali, Federer e Nadal... Le musiche di Hummel ci fanno capire di che tipo fosse il suo virtuosismo, ma ancora di piu` ce lo fanno capire le sue modifiche ai ‘‘passi’’ dei sette Concerti di Mozart che egli trascrisse per pianoforte solo: scale molto piu` complicate e aggiunta di doppie note, quanto bastava per mettere in luce cio` che il virtuosismo aveva acquisito di nuovo e di soprendente dopo la morte di Mozart e grazie alle scoperte di Clementi, definito da Mozart ‘‘un semplice Mechanicus’’ ma che aveva fatto scuola. Hummel nutriva pero` ambizioni molto alte, e di essere un principe dei pianisti gli importava poco, cosı` come importava poco a Beethoven. Nel 1804 si lancio` nel teatro lirico e assunse la carica di maestro di cappella del principe Esterha´zy (fu licenziato nel 1811 per negligenza, perche´ passava troppo tempo a Vienna, dove era diventato il principale fornitore di danze per la Sala Apollo, grande stabilimento coreutico sui cui parquet tirati a cera comincio` la follia del valzer). Nel 1815, durante il Congresso di Vienna, Hummel invento` i Concerti da un Ducato, cosiddetti dal prezzo di abbonamento, che tenne insie-

Concerto op. 89

me al violinista Joseph Mayseder e al chitarrista Mauro Giuliani e che costituirono la premessa storica del futuro recital perche´ crearono il paradosso di un pubblico che andava ad ascoltare, pagando un ducato, la musica da camera che si faceva di solito in casa, tra amici. Certo, la musica da camera come la intendevano Hummel, Mayseder e Giuliani era – mi si passi il termine – musica da camera da concerto: le Variazioni sulla Sentinella per le quali il pubblico internazionale del Congresso ando` in delirio non erano eseguibili da non-professionisti. Ne´ lo era il Settimino op. 74 di Hummel, che nei Concerti da un Ducato fu il clou. Nel 1816 Hummel divenne maestro di cappella a Stoccarda, e nel 1818 assunse la stessa carica a Weimar, restando al servizio del granduca fino alla morte. Il contratto di Weimar gli concedeva tre mesi di permesso all’anno, e Hummel li sfrutto` per la sua attivita` concertistica (ando` in Francia, Belgio, Inghilterra, Polonia e Russia, oltre che in Germania). Era pur sempre un maestro incontestato, ma negli anni trenta non fu piu` il virtuoso che incantava le folle: il suo allievo Sigismund Thalberg che, particolare non trascurabile, era un bellissimo uomo con i modi di un granduca e che i diamanti li piazzava sui bottoni della camicia, era diventato lui il pifferaio. Per curiosita` ricordero` infine che i rapporti di Hummel con Beethoven furono sempre cordiali, salvo qualche sfuriata, immotivata, dell’iracondo Beethoven. Nella moglie di Hummel, la cantante Elisabeth Ro¨ckel, qualcuno ha creduto ultimamente di poter identificare la Elise del cosiddetto Fu¨r Elise di Beethoven. Hummel aveva diciannove anni quando compose il Concertino in sol op. 73, destinando al mandolino la parte solistica. Nel 1816 il pezzo fu trascritto per pianoforte senza mutarne i caratteri stilistici. Fresco, ingenuo, leggero di tono ma non banale, e scritto con mano sicurissima, il Concertino sembra al primo momento mozartiano. A rifletterci sopra ci si accorge pero` del fatto che in realta` fa pensare piu` al giovane Rossini delle farse che a Mozart. E siccome nel 1797 Rossini era un bamboccio e` chiaro che l’opera comica italiana di Salieri – e di Paisiello e di Cimarosa – era il brodo di cultura in cui aveva nuotato il girino Hummel. Il Concerto in la op. 85 (1816) segue ancora il tipo del concerto militare che ritroviamo in moltissimi autori dell’inizio dell’Ottocento, ivi compreso Beethoven. Primo movimento a modo di marcia, architettonicamente ben equilibrato e con temi melodicamente accattivanti. Il virtuosismo, non stratosferico, esplode pero` nella coda in tempo un po’ piu` mosso. Questo e` un tipico espediente – del tutto legit-

Jan Nepomuk Hummel

timo – a cui fa ricorso anche Beethoven, ma solo nei finali dei Concerti op. 37 e op. 58 e, in misura molto contenuta, op. 73. Con il tempo piu` mosso il pubblico capisce che il virtuoso sta sparando le sue cartucce migliori, e il discorso diventa eccitante. Hummel fece ricorso a questo topos anche nel primo movimento perche´ era invalso l’uso di non eseguire i concerti di seguito ma di separarne i movimenti: primo movimento nella prima parte del programma, secondo e terzo movimento nella seconda parte. Conoscendo i suoi polli Hummel sapeva bene che il trionfo del primo movimento era la chiave di volta per il trionfo del Concerto, e si comporto` di conseguenza. Il secondo movimento, come nei due ultimi Concerti di Beethoven, e` un momento meditativo che introduce il finale. E il finale, insolitamente, e` basato su un tema non giocoso ma dolcemente malinconico, ... salvo che per il fuoco d’artificio dell’ultima pagina. Il Concerto in si op. 89 (1819) differisce notevolmente dal Concerto op. 85, a dimostrazione del fatto che Hummel aveva imparato da Mozart a non riprodurre passivamente un prototipo che aveva avuto successo. Gia` l’esposizione orchestrale del primo movimento, con il minaccioso brontolio dei timpani, ha un respiro sinfonico che non ci aspetteremmo in un virtuoso biedermeier. L’entrata del pianoforte e` a fantasia, e` improvvisatoria come in molti Concerti di Mozart. Il regolare alternarsi del momento lirico, sinuoso e sensuoso, e del momento ginnico, scattante e vigoroso, dimostra quanto Hummel, uomo di teatro, avesse imparato dal balletto e come fosse arrivato a... miscelare con gusto infallibile gli ingredienti spettacolari di cui si serviva. Il virtuosismo e` molto sviluppato, con passi in doppie terze non facilmente eseguibili neppure sui pianoforti viennesi del 1820 e quasi ineseguibili sui pianoforti moderni. Hummel, pur enfatizzando al massimo il ruolo del solista, non rinuncia pero` a rendere l’orchestra co-protagonista e apre il secondo movimento con una ampia introduzione affidata ai quattro corni che fa pensare a Weber. Il finale e` una danza orgiastica che e` tutta un fuoco d’artificio e che mette a dura prova il colpo d’occhio e la resistenza del solista. Ferruccio Busoni, che nel 1896 traccio` la storia del concerto per pianoforte e orchestra in quattro serate, non manco` di includere nel programma, e con ottime ragioni, il Concerto op. 89 di Hummel. E` probabile che Busoni, come faceva abitualmente, avesse riscritto i passi del Concerto che sui pianoforti moderni risultavano pressoche´ ineseguibili o che, per lo meno, richiedevano di concentrare troppo l’attenzione sull’aspetto meccanico dell’esecuzione. Ed e` un peccato che non ci sia pervenuta la sua 283

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Jan Nepomuk Hummel

versione, perche´ il Concerto in si dovrebbe essere conosciuto da chi frequenta le stagioni sinfoniche. Il clima boschivo del secondo movimento del Concerto ritorna nella fantasia Il Corno magico di Oberon op. 116 (1830), molto eseguita e molto lodata negli anni trenta. Il Concerto in Mi Gli Addii op. 110 (1814) e il Concerto in La bemolle op. 113 (1827) non reggono il paragone con l’op. 85 e l’op. 89, ma il secondo e` il piu` ‘‘chopiniano’’ di tutti i Concerti di Hummel, ben strumentato per orchestra, scritto benissimo per pianoforte, tematicamente piacevole, costruito con impaginazione spettacolare efficace. L’unico... difetto del Concerto op. 113 e` di essere arrivato due anni soltanto prima dei Concerti di Chopin e di essere percio` storicamente, diciamo cosı`, superfluo. Il Concerto in Fa, in cui spicca il finale graziosissimo, fu eseguito senza successo a Londra nel 1833. Fu pubblicato postumo e fu recensito con rispetto ma con forti riserve da Schumann. Il Tema e Variazioni in Fa op. 97 (1820 ca.), composto poco dopo il Concerto in si, e` singolarmente re´tro, ma tuttavia spigliato e spiritoso. Sia il tema che le variazioni sono stilisticamente riferibili a trent’anni prima. Mozartiane, ma non genericamente mozartiane: si tratta di una parodia, di un rifacimento stilistico condotto nello spirito del Flauto magico, come se Mozart, dopo le fatiche del Flauto, della Clemenza di Tito e del Requiem, invece di volare al Creatore avesse pensato di fare un qualcosa di simile al Rondo` K 382. La Sonata in Do op. 2 n. 3 (1792, le altre due Sonate sono con accompagnamento di violino o flauto) e`, ovviamente, l’opera di un allievo di Mozart che stava studiando con Clementi e che ammirava Haydn. Nel primo e nel terzo movimento il ragazzino se la cava molto bene, ma nel secondo movimento, pur prendendo Haydn come modello, riesce soltanto a menare il can per l’aia. Il primo pezzo pianistico di Hummel che divenne rapidamente famoso e` il Rondo` brillante in Mi bemolle op. 11 (1804). Si tratta di un brano spiritosissimo, con un primo tema per il quale non trovo altro aggettivo che comicamente claudicante, e con un secondo tema che potrebbe traslocare pari pari in un’opera comica di Cimarosa. La Sonata in Mi bemolle op. 13 (1805) si colloca stilisticamente sulla stessa linea del Rondo`: strutture classiche, temi da melodramma. Nel primo movimento il primo tema, molto incisivo e accompagnato da un basso staccatissimo, e` indicato nella sua ultima apparizione con ‘‘Alleluja’’. Puo` darsi, ma non si e` trovata fino ad ora la fonte, che si tratti di una citazione da una messa o da un oratorio, ma comunque sia il tono di giubilo dell’Alleluja percorre tutto il primo 284

Il Corno magico di Oberon op. 116

movimento. Il secondo movimento, in forma bitematica tripartita, e` una vera e propria scena lirica intensamente patetica, e il terzo movimento riunisce i caratteri dello scherzo e della marcia in quello che in realta` e` un vero e proprio concertato operistico. La Sonata in fa-Fa op. 20 (1807) e` poeticamente e in parte anche stilisticamente diversa dalla precedente. Meno classicamente strutturata, piu` improvvisatoria e piu` drammatica, sembra dimostrare che Hummel non era insensibile di fronte allo sviluppo della creativita` del Beethoven ‘‘seconda maniera’’. I rari commentatori che si sono occupati ex-professo delle Sonate di Hummel la preferiscono all’op. 13, per la ragione, credo, che il dramma e` piu` apprezzabile della commedia. A me sembra che nell’op. 20 manchi la continuita` discorsiva dell’op. 13. Il suo tratto piu` originale lo trovo nel finale, che e` in pratica una breve toccata barocca con preludio e fugato; il fugato riprende il soggetto del finale della mozartiana Sinfonia Jupiter. La Sonata in Do op. 38 (1808) ritorna verso i modi dell’op. 13 ma non raggiunge nel secondo movimento la stessa intensita` patetica. Compattissima e` invece la Sonata in fa diesisFa diesis op. 81 (1819), tecnicamente molto difficile. Per apprezzare un lavoro come la Sonata op. 81 e` pero` necessario superare un pregiudizio assai diffuso. Nei passi virtuosistici Hummel fa ricorso a stereotipi come le scale e le sue predilette doppie terze. Qui, come del resto nei Concerti, non conta l’invenzione musicale, ma contano l’ingegnosita` delle combinazioni degli stereotipi e la nonchalance dell’esecuzione. Insomma, i momenti virtuosistici in Hummel e in genere negli autori biedermeier vanno valutati cosı` come si valutano nel balletto il pas brise´ e il pas chasse´ e il pas coupe´ e tutti i pas convenzionali. Ma so bene che per arrivare a questo risultato ci vorrebbe una piccola rivoluzione del gusto. Vista in questa avveniristica prospettiva la Sonata op. 81 e` un capolavoro di musica da concerto, da spettacolo. Dubito invece che pur in questa prospettiva sarebbe recuperabile la Sonata in Re op. 106 (1824), ultima delle Sonate di Hummel, che solo nel secondo movimento, uno Scherzo all’antico, mantiene vivo l’interesse dell’ascoltatore e che e` secondo me particolarmente debole nel movimento lento, un quasi-notturno alla Field senza l’invenzione melodica di Field. La produzione pianistica di Hummel meriterebbe una ricognizione molto piu` ampia di quella che posso fare in questa sede. Mi limitero` percio` a citare la Fantasia in Mi bemolle op. 18 (1805), magnifico pezzo da concerto che fu molto noto nel-

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l’Ottocento e che tra i suoi estimatori pote´ contare Chopin, le Variazioni su un tema dell’Armida di Gluck op. 57 (1812 ca.), che stilisticamente sono simili alle Variazioni giovanili di Beethoven senza numero d’opera. Da ricordare infine l’incantevole An Alexis, n. 4 dei Sei pezzi facili op. 42, la ‘‘fantasia piccola’’ La contemplazione op. 107 n. 3 (1825 ca.), pezzo intimistico che precorre le romanze senza parole di Mendelssohn, e i 24 Grandi Studi op. 125 (1833) nelle ventiquattro tonalita`,

Jan Nepomuk Hummel

che provocarono una delle piu` singolari recensioni di Schumann, di Schumann nei suoi tre ego di Eusebio, Florestano e Maestro Raro, il primo entusiasta, il secondo perplesso, e il terzo che dice: ‘‘Giovani, sbagliate entrambi! Un nome famoso ha conquistato l’uno e reso arrogante l’altro’’. Maestro Raro cita poi quattro versi di Goethe: ‘‘Come se nel nome consistesse / Cio` che solo tacendo si dispiega! / Preferisco piuttosto la bonta` e la bellezza / Che da Dio vengon create’’.

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Charles Ives

24 Grandi Studi op. 125

Charles Ives (Danbury, 20 ottobre 1874-New York, 19 maggio 1954) Ives, dopo aver studiato la musica nell’universita` di Yale e dopo essere stato per qualche anno organista in varie chiese, scelse nel 1902 di fare l’assicuratore e come assicuratore divenne un professionista di successo, continuando a coltivare come hobby la composizione fino al 1926, dopodiche´ non scrisse piu` una nota. La ‘‘scoperta’’ di Ives ebbe inizio negli anni quaranta. Negli anni cinquanta egli fu considerato uno dei protagonisti dell’avanguardia storica e alcune delle sue musiche furono molto eseguite, anche a opera di celebri interpreti come Stokowski, Ormandy, Bernstein, il Quartetto Juilliard. Oggi, a distanza di piu` di quarant’anni, sono restate la fama e la collocazione storica di Ives, del resto meritatissime, ma la sua musica, specie quella per pianoforte, e` risprofondata nell’ombra. Per quanto riguarda i lavori pianistici, negli anni cinquanta e sessanta fu esaltata la Sonata n. 2, che era stata proposta da John Kirkpatrick fin dal 1939 ma che non entro` nel repertorio di nessuno dei protagonisti assoluti del concertismo, di nessuno di quei pianisti che, per la loro fama e per la loro autorevolezza, fanno opinione. Ives e` dunque, in pratica, un nome celebre e un artista sconosciuto. La Sonata n. 2, Concord, Mass., 1840-1860 (Sonata n. 2, Concord, Massachusetts, 1840-1860, 1909-1915, 1920) e` un lavoro monumentale in quattro movimenti, ciascuno dei quali ispirato a un filosofo o scrittore vissuto nella cittadina di Concord. Il primo movimento, Emerson, rievoca la figura di Ralph Waldo Emerson, pensatore della ‘‘scuola trascendentalista’’, movimento filosofico, letterario e religioso che si opponeva al razionalismo illuministico e che aspirava a un umanesimo di caratteristiche specificatamente americane: ‘‘Sembra che sia molto facile per l’America ispirare ed esprimere lo spirito piu` umano e piu` universale. Lei deve parlare in nome della razza umana tutta intera’’ (Emerson). Il secondo movimento, Hawthorne, e` ispirato all’autore del romanzo La lettera scarlatta, il terzo movimento, Gli Alcott, rievoca il pedagogista Bronson Alcott e la figlia Louisa, l’autrice del romanzo Piccole donne, e il quarto, Thoreau, e` ispirato a un altro pensatore della scuola trascendentalista, autore del breve trattato La disobbedienza civile e al quale si deve il detto ‘‘Bisogna essere prima uomo, poi cittadino’’. Nei Saggi prima di una Sonata, pubblica286

ti insieme con la Concord, Ives spiega minutamente il programma da lui seguito. Il piu` importante simbolo, formato dalle prime quattro note del ‘‘tema del Destino’’ nella Sinfonia n. 5 di Beethoven e detto da Ives ‘‘l’oracolo’’, e` affiancato da altri due temi tratti da inni religiosi della Nuova Inghilterra, mentre un quarto tema simboleggia ‘‘la fede nell’uomo, abbastanza trascendente e sentimentale, rispettivamente, per l’entusiasta e per il cinico’’. A questi quattro temi, che ricorrono sempre, s’aggiungono poi dei temi relativi a ciascun movimento. La trama polifonica e` fittissima, politonalita` e poliritmia s’affiancano a formule linguistiche piu` tradizionali, la difficolta` tecnica e` elevatissima (‘‘e` forse colpa del compositore’’, dice Ives, ‘‘se l’uomo ha soltanto dieci dita?’’). In realta` la difficolta` meccanica e` sı` molto alta ma l’esecuzione e` sotto questo aspetto possibile anche per pianisti che non sono in possesso di una tecnica trascendentale. La vera difficolta` e` invece coloristica, e in questo senso molti tratti della Concord possono essere sı` eseguiti ma senza che si riesca a far percepire con chiarezza la trama polifonica. Il movimento piu`... addomesticabile e` il terzo, ispirato alla vita patriarcale degli Alcott, con la citazione di vecchie canzoni scozzesi e con un accenno alla Marcia nuziale del Lohengrin, che simboleggia il felice matrimonio di Louisa. Nella Concord, che segue l’archetipo, non le forme della sonata classica, il terzo movimento e` l’adagio. Il secondo movimento, Hawthorne, e` lo scherzo, e dello scherzo ha il carattere fantastico, bizzarro, turbolento. Qui Ives si serve del cluster, anche su una estensione talmente ampia da eccedere la lunghezza dell’avambraccio e da richiedere l’impiego di un regolo. Il movimento formalmente piu` rapsodico, e percio` piu` difficile da seguire, e` il primo, formato da tasselli che si susseguono senza un riconoscibile ordine e che riflettono probabilmente l’abitudine di Emerson di prendere appunti eterogenei da sviluppare oralmente nelle sue conferenze. Il quarto movimento ripercorre un racconto di Thoreau, ovvero La vita nei boschi. Per due anni Thoreau era vissuto in solitudine sulle rive dello stagno di Walden, vicino a Concord. La musica narra una giornata di Thoreau dall’alba al tramonto, dalle brume mattutine sullo stagno al sorgere del sole, alla passeggiata nel bosco, alle campane lontane. E siccome Thoreau

Waltz-Rondo

suonava bucolicamente il flauto, Ives introduce un episodio flautistico, che puo` essere incorporato nella parte del pianoforte ma perdendo in questo modo gran parte del suo potere di suggestione (nel primo movimento ci sono alcune note che dovrebbero essere eseguite dalla viola). Questa indifferenza di fronte alle modalita` di ascolto della Concord riguarda in realta` tutta la produzione pianistica di Ives e ne ha reso difficile la diffusione. La Concord, in fondo, e` musica piu` da lettura che da ascolto, o da ascolto combinato con la lettura in una piccola cerchia familiare, con fermate, riletture, commenti. Anche l’ascolto di un disco, accompagnato dalla lettura, non risolve il problema, perche´ il tempo di scorrimento della musica non coincide con il tempo di assimilazione dell’ascoltatore-lettore. E cosı`, come dicevo prima, le esecuzioni della Concord, dopo gli entusiasmi pionieristici degli anni cinquanta e sessanta, sono diradate fino a diventare rarita` assolute. La Sonata n. 1 (1901-1909, 1954) fu eseguita per la prima volta nel 1949 da William Masselos ma non colpı` i critici e il pubblico quanto la Concord. I cinque movimenti che la compongono sono ispirati alla ‘‘vita in campagna nei villaggi del Connecticut nel 1880-1890, le impressioni, i riflessi, i ricordi della vita dei fattori’’. Ma Ives suggerisce anche un programma piu` preciso, riferibile alla parabola del Figliol Prodigo, con ‘‘la famiglia riunita nel primo e nell’ultimo movimento, i ragtime [del secondo e del quarto movimento] che evocano il ragazzo partito per l’avventura, e nel movimento centrale l’ansia dei genitori’’. Anche qui troviamo citazioni di canti popolari, di danze, di inni religiosi, di marce. La pittura d’ambiente e` molto suggestiva, la forma del primo movimento e` organizzata sull’aumento progressivo di velocita` (Adagio con moto-Andante con moto-Allegro risoluto) e la difficolta` esecutiva non e` cosı` scoraggiante come nella Concord. I due ragtime sono irresistibilmente vitalistici, trascinanti, ma alla fine del secondo di essi non manca il breve episodio intimistico che suggerisce l’idea della decisione del ragazzo di tornare in famiglia. Il terzo movimento e` basato sull’inno ‘‘Quale amico noi abbiamo in Gesu`’’ ed e` tripartito, con due Largo che incorniciano un Allegro. Il finale e` il movimento piu` ampio e piu` articolato, con un grande momento di intimismo nell’Adagio cantabile e con una conclusione grandiosa in un inequivocabile Mi. Fra le due monumentali Sonate (circa 35 e circa 43 minuti) si ‘‘incuneano’’ i nove minuti della Three Pages Sonata (Sonata di tre pagine, 1905, 1949), detta cosı` perche´ il manoscritto e` di tre pagine. La Sonata di tre pagine e` piu`... sonata delle

Charles Ives

consorelle, sia pure nel modo critico e ironico che caratterizza una certa parte della produzione pianistica di Ives. La prima sezione del pezzo consiste infatti, come nella sonata classica, nella esposizione di due temi in rapporto tonale tradizionale. Alla fine della esposizione Ives annota: ‘‘Ritorno al Primo Tema – tutte le belle Sonate devono avere il Primo Tema’’. Ma il ritorno al primo tema manca del tutto e il pezzo prosegue, senza soluzione di continuita`, con un trasognato Adagio. Sempre senza soluzione di continuita` segue un vigoroso Tempo di marcia. Sia pure ridotto a tre elementi essenziali – esposizione bitematica, adagio, finale alla marcia – vive dunque nella Sonata di tre pagine qualcosa di piu` della idea archetipica di sonata: c’e` anche il ricordo di forme create dalla classicita` viennese e rivissute, magari con difficolta` concettuali disperanti, dalle varie civilta` musicali dell’Ottocento. Ives – il lettore gia` lo ha capito benissimo – non era un lavoratore sistematico. Nella Sonata n. 2 vengono ripresi momenti di varie composizioni non condotte a termine, e materiali scartati nelle due Sonate vengono sfruttati negli Studi (19081916, 1949). Lo Studio n. 9, The Anti-Abolitionists Riots in the 1830’s and 1840’s (Le Sommosse antiabolizioniste negli anni trenta e quaranta dell’Ottocento) proviene da una Emerson Ouverture, dura poco piu` di quattro minuti ma e` di un impatto emotivo terribilmente intenso nel suo clima espressivo cupo, che in verita` pare piu` da cospirazione che da sommossa . Lo Studio n. 20, Even durations – unevenly divided (Durate uguali – divise in modo diseguale) e` suddiviso in episodi disposti secondo una successione simmetrica che ricorda il rondo`, anche se manca il vero e proprio refrain, e si basa su temi popolari trattati secondo tecniche contrappuntistiche molto elaborate. Some South-Paw Pitching (Qualche lancio con la mano sinistra) e` lo Studio n. 21; il titolo e` riferito al gergo dei giocatori di baseball, e giocatore di baseball era stato durante il periodo di studi a Yale lo stesso Ives, che aveva poi conservato inalterata la passione per il gioco nazionale degli Stati Uniti. Si tratta di un pezzo virtuosistico per la mano sinistra – ovvio! – con la citazione di un tema popolare triste riferito ai perdenti e un tema giocondo riferito ai vincitori. Il primo di questi due temi, di Stephen Foster, era stato impiegato nella Sonata n. 1. Frammenti del quarto movimento della Sonata n. 1 e del primo movimento della Sonata n. 2, piu` una canzone popolare, si trovano nello Studio n. 23. Fra le altre composizioni di Ives sono da citare il Waltz-Rondo (Valzer-rondo`, 1911, 1978), che riunisce in poco piu` di cinque minuti una miriade di 287

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Charles Ives

temi, trattati con armonizzazioni politonali di rara – per Ives – piacevolezza. Varied Air and Variations (Aria variata e Variazioni, 1923 ca., 1947) e` un mini poema sinfonico burlesco. Un compositore suona un suo tema variato di fronte a un pubblico di belle donne che non puo` soffrire le dissonanze e che protesta dopo l’aria e dopo ciascuna delle sue cinque varianti (le Variazioni sono le proteste), salvo che dopo la quarta, in mi e in stile pseudobarocco, che riceve applausi scroscianti su un accordo di Do. Ma il compositore... non fa tesoro della lezione e nell’ultima variante del tema scatena il peggio, concludendo con un cluster che manda definitivamente in bestia le femmine snob. Semplici di tessitura sono i Three Quarter-tone Pieces for Two Pianos (Tre Pezzi a quarti di tono

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Varied Air and Variations

per due pianoforti, 1903-1923, 1968) in cui i due strumenti sono accoridati con un quarto di tono di differenza. Tre pezzi austeri – Largo, Allegro, Corale – per i quali Ives scelse i due pianoforti dopo aver pensato agli archi, al quintetto pianoforte-archi e al pianoforte con due tastiere. Gli esperimenti con quati di tono di Ives non hanno a che vedere con le iniziative di Alois Haba o di Ivan Wyschnegradsky, ma riprendono le memorie della fanciullezza perche´ gia` il padre di Ives, maestro della banda cittadina, aveva sperimentato i microintervalli. L’interesse di Ives per il quarto di tono resta pero` del tutto episodico e i suoi Tre Pezzi appaiono in realta` politonali perche´ manca nell’armonia, che e` coloristica, il concetto di accordo alterato.

Sonata per pianoforte

Leo´sˇ Jana´cˇek

A Leo´sˇ Jana´cˇek

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(Hukvaldy, 3 luglio 1854-Ostrava, 12 agosto 1928) Jana´cˇek era organista, non pianista, e dalla scuola d’organo da lui fondata a Brno nel 1881 ricavo` per quasi quarant’anni il necessario per vivere. Organista, dicevo, non pianista. Ma nella sua musica per pianoforte, al contrario di quanto avviene ad esempio con Franck o con Reger, non si nota affatto la sua familiarita` con un altro strumento. Questo e` del resto un carattere generale della musica di Jana´cˇek, per lo meno nel periodo della maturita`: l’orchestra, il coro, il quartetto, il pianoforte ricevono sempre la sua impronta, un colore jana´cˇekiano tutto particolare, inconfondibile, cosı` come inconfondibile e` il suo linguaggio, basato sul canto popolare delle campagne morave ma che non viene ‘‘adattato’’ alle strutture linguistiche della tradizione mitteleuropea. Linguaggio e strumentazione sorprendentemente originali, dunque. Per chi si occupa di letteratura pianistica e` pero` soprattutto sorprendente la strumentazione: nell’epoca di strumentatori come Debussy, Ravel, Rachmaninov c’era ancora qualcuno che riusciva a far suonare il pianoforte a modo suo... Cio` non vale in verita` per le Variazioni di Zdenka op. 1 (1880, 1944), composte durante il periodo di studi a Lipsia e dedicate alla fidanzata, che risentono ancora dei modelli di strumentazione e di linguaggio di Schumann e di Brahms, numi tutelari del conservatorio diretto da Carl Reinecke. E vale solo in parte per le Danze nazionali morave (1893, 1953), che risentono del modello di Smetana, e per la Musica per ginnastica ritmica (1893, 1950), che per rispondere allo scopo doveva essere semplice e lineare. Ma vale per la produzione maggiore, che si riduce in realta` a pochissimi titoli perche´ Jana´cˇek fu prima di tutto operista. La composizione dei quindici brevi pezzi raccolti sotto il titolo Sul sentiero di rovi (1901-1911, 1947) si protrasse per un periodo molto lungo. Cinque dei primi dieci pezzi (i numeri 1, 2, 4, 7 e 10) furono scritti per harmonium e vennero pubblicati come Melodie slave. Jana´cˇek li riscrisse poi per pianoforte, aggiunse altri pezzi e termino` il lavoro nel 1911. Ma non lo pubblico` e, anzi, non diede titoli ai pezzi dal n. 11 al n. 15, mentre li diede, e molto caratteristici, per gli altri dieci. Il titolo generale, che e` in ceco, e stato variamente tradotto in diverse lingue. In italiano e` stato reso come Sul sentiero di rovi, Sul sentiero erboso, Sul

sentiero ricoperto. L’idea di Jana´cˇek e` quella del ritorno e della riscoperta del passato, simboleggiato da un sentiero abbandonato su cui sono cresciute erbacce e rovi ma che e` ancora riconoscibile. Il titolo generale farebbe pensare a un ciclo organico al modo di Schumann. Ma i titoli dei primi dieci pezzi – Le nostre serate, Una foglia portata via, Venite con noi, La Vergine di Frydek, Come le rondini, Senza parole, Buona notte, Indicibile angoscia, In lacrime, La civetta prese il volo (gli ultimi tre sono forse riferibili alla morte dell’unica figlia, Olga) – smentiscono questa impressione, e anche l’articolazione dei tempi, con un solo Con moto, un solo Moderato, un solo Larghetto, un solo Grave e sei Andante ci dice che, se ciclo avesse voluto essere, avrebbe mancato di varieta` . I quindici pezzi – anche quelli senza titolo – si situano nell’ambito del descrittivismo e dello psicologismo tanto cari alla musica della piccola borghesia negli ultimi decenni dell’Ottocento. Non si tratta di adesione diretta verso un mondo in via di estinzione ne´, alla Satie, di un’adesione finta che apre la via al grottesco. Per Jana´ cˇ ek, come per altro verso per Debussy e per Rachmaninov, si puo` parlare di epicizzazione del sentimentalismo piccolo borghese. E la sonorita` soffocata e opaca non trova praticamente riscontri nella letteratura del pianoforte. All’inizio di ottobre del 1905 venne effettuata a Brno una grande manifestazione popolare per chiedere al governo austroungarico il permesso di aprire una universita` ceca. Scoppiarono dei tafferugli, la polizia aprı` il fuoco e un operaio rimase ucciso. A questo luttuoso evento fa riferimento il titolo Nella strada, 1 ottobre 1905 (1905, 1949) dell’unica Sonata per pianoforte di Jana´cˇek. Ci sono pervenuti soltanto i primi due dei tre movimenti che formavano la Sonata. La Sonata intera era stata consegnata alla pianista Ludmila Tutchikova che ne preparo` la prima esecuzione; ma alla vigilia di questa prima esecuzione Jana´cˇek ritiro` il terzo movimento e lo distrusse, consentendo che venissero eseguiti solo i primi due. Piu` tardi il compositore distrusse anche il manoscrtitto dei primi due movimenti (si dice, romanzescamente, che lo stracciasse e lo gettasse nella Moldava a Praga), cosı` che a noi e` pervenuta soltanto la copia che ne era stata fatta dalla prima interprete. Il pri289

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Leo´sˇ Jana´cˇek

mo movimento ha il sottotitolo Presentimento e il secondo Morte. Si e` supposto che il terzo movimento fosse intitolato Redenzione e che Jana´cˇek non accettasse piu`, dopo la prima viva impressione provocata dalla uccisione dell’operaio, la progressione verso la conclusione positiva, in qualche modo apparentata con la straussiana Morte e Trasfigurazione. I due movimenti che ci rimangono sembrano formare un tutto coerente sotto l’aspetto dello sviluppo emotivo; formalmente, invece, si nota l’incompletezza, perche´ il primo movimento tiene conto, sia pure in modo molto libero, della struttura della sonata tradizionale, cosı` che il secondo movimento resta come sospeso. E` difficile credere che un drammaturgo come Jana´cˇek scrivesse quattro pezzi e li intitolasse Nella nebbia (1912, 1913) senza pensare a un programma che li legasse insieme. Il piano tonale definitivo – Re bemolle, Re bemolle, Sol bemolle, Re bemolle –, che modifica il piano primitivo con il quarto pezzo in Mi bemolle, e` quanto mai organico, il seguito dei quattro pezzi – Andante, Molto Adagio, Andantino, Presto – potrebbe essere quello di una sonata. Che si tratti di un ciclo non c’e` dubbio, ed e` altrettanto indubbio che il titolo sia da intendere

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Nella nebbia

in senso simbolico, non impressionistico. Il discorso e` improvvisatorio e solipsistico, e` un parlare a se stesso senza dialettica, in uno stato crepuscolare della coscienza. Sembra probabile che le motivazioni personali di Nella Nebbia siano da ricercare nella biografia di Jana´cˇek, il quale, dopo la rappresentazione a Praga dell’opera Jenu˚ fa, nel 1904, aveva visto arrestarsi la sua carriera, aveva dovuto tenersi nel cassetto sia Destino che il Viaggio del signor Broucˇek sulla luna, e a cinquantotto anni era ancora un oscuro compositore di provincia. Non c’e` niente di sicuro in cio`, ma mi pare che sia questa l’unica supposizione possibile. La nascita della repubblica cecoslovacca dopo la guerra fu provvidenziale per Jana´cˇek, che fu sostenuto dal suo governo e che ebbe molti riconoscimenti all’estero. Egli impiego` ancora il pianoforte in importanti lavori da camera, ma per pianoforte solo scrisse soltanto piu` una breve pagina per una rivista, Ricordi (1928, 1928). Pezzo interrogativo e, se cosı` posso dire, stralunato, che s’accende improvvisamente in un moto di rabbia e si spegne rapidamente. La affinita` con certe pagine del tardo Liszt e` evidente, e sorprendente.

Sonata n. 3 in Fa op. 46

Dmitrij Kabalevskij

A Dmitrij Kabalevskij

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(San Pietroburgo, 30 dicembre 1904-Mosca, 14 febbraio 1987) Kabalevskij fu un fecondissimo compositore di pezzi per l’infanzia, e in questo campo raggiunse un notevole successo internazionale con le Due Sonatine op. 11 (1930 e 1933), la prima in Do, la seconda in sol. La Sonatina n. 2 cerca di essere complementare alla n. 1 nel modo minore, e secondo me manca lo scopo, mentre la n. 1, melodicamente gradevole, varia, brillante, puo` essere accostata, se non alle Sonatine op. 36 di Clementi, per lo meno alle Sonatine di Kuhlau. Un buon successo arrise anche alle Variazioni facili op. 40 (1944) e alle Variazioni facili op. 51 (1952). Nei sei Preludi e fuga op. 61 (1958-1959) Kabalevskij cerca di unire il pezzo di carattere e il contrappunto. Mattino d’estate, Storia di un eroe... L’idea non era priva di originalita`, e la musica era quella di uno che aveva il bernoccolo della didattica, ma gli allievi continuarono a preferire le fughette di Bach. Le Variazioni su temi popolari op. 87 (1967) prendono lo spunto non da temi russi, come ci si aspetterebbe, ma da un tema americano, uno francese, uno giapponese. Piu` ambiziose le Avventure infantili op. 89 (1972), trentacinque pezzi in ordine progressivo di difficolta`, abilmente calcolati e, come sempre in Kabalevskij, musicalmente piacevoli. Il Rondo` in la op. 60 (1958) fu composto come pezzo d’obbligo per la prima edizione del Concorso Cˇajkovskij, vinto da Van Cliburn. Abilmente costruito per mettere in luce nei concorrenti la precisione ritmica e la cantabilita`, al tirare delle somme il Rondo` e` troppo perfetto come pezzo da concorso per diventare interessante come pezzo da concerto. Agli allievi Kabalevskij destina anche il Concerto di Praga per pianoforte e archi (1979), la Rapsodia su un tema della canzone Anni di scuola op. 75 (1964) e il Concerto n. 3 op. 50 (1952), sottotitolato Gioventu`, in tre movimenti e fatto in modo da apparire per il pubblico piu` virtuosistico di quanto non sia in realta`. Il Concerto op. 50 e`... doppiamente n. 3: terzo dei Concerti ‘‘Gioventu`’’ (il primo per violino, il secondo per violoncello), e terzo dopo il Concerto n. 1 in la op. 9 (1929) e il Concerto n. 2 in sol op. 23 (1935), entrambi in tre movimenti, di forme tradizionali, il primo neoclassico, il secondo neoromantico, tutt’e due scritti da una mano competente e smaliziata ma creativamente poco originali. Fra le raccolte di pezzi non a destinazione didatti-

ca sono da segnalare i Ventiquattro Preludi op. 38 (1943-1944), ovviamente nelle ventiquattro tonalita`, con oscillazioni di livello qualitativo ma con buon momenti, specie quando vengono impiegati canti popolari russi armonizzati con gusto, e il Giochi e Danze di primavera op. 81 (1965), in forma di rondo` in sette episodi con quattro temi, costruito con perfetto senso delle proporzioni e con continuita` discorsiva. Il nome di Kabalevskij ottenne notorieta` in campo concertistico internazionale con le Sonate. La Sonata n. 1 in Fa op. 6 (1927), in tre movimenti, segue diligentemente le forme classiche senza essere scolastica e dipende ancora in parte dall’armonia cosı` particolare di Skrjabin. La Sonata n. 2 in Mi bemolle op. 45 (1945) fu eseguita da Vladimir Horowitz negli Stati Uniti ma non ebbe in Occidente un interprete di rilievo. Si tratta di una ‘‘Sonata di guerra’’, senza un programma dichiarato e tuttavia implicito. Dalla serenita` della vita pacifica, con esposizione di due temi di tipo folclorico, il primo in Mi bemolle, il secondo in Re, si passa nel primo movimento (Allegro moderato, festivamente) ai minacciosi squilli di ottoni della conclusione della esposizione ed al drammatico sviluppo in modo minore (Allegro molto); la riesposizione, regolare formalmente, non porta pero` drammaturgicamente, come di solito avviene, al superamento del contrasto, e finisce in modo minore e con la didascalia drammatico. Secondo movimento, in si, di dolore e di lutto. E terzo movimento di riconquistata serenita`, con una fine trionfale. Anche la Sonata n. 3 in Fa op. 46 (1946) fu eseguita da Horowitz (abbiamo la sua incisione in disco sia dell’op. 45 che dell’op. 46). La Sonata n. 3 non solo porta il numero d’opera successivo a quello della n. 2 ma ne e` la prosecuzione sul piano drammaturgico. Sonata di pace rispetto alla Sonata di guerra, e` appena velata da qualche momento di malinconia o, se vogliamo, di sguardo rivolto al passato. Cio` si verifica soprattutto nella parte centrale del secondo movimento, mentre il terzo movimento e` scherzoso e sorridentemente ironico. Le forme sono sempre quelle classiche, ma qui anche lo spirito e` classico, nel senso che il mondo vi e` visto come kosmos ordinato. Sebbene fosse un intellettuale pienamente funzionale alla ideologia sovietica, Kabalevskij non scam291

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Dmitrij Kabalevskij

po` del tutto agli attacchi virulenti che nel 1948 colpirono Prokof’ev, Sˇostakovicˇ, Mjaskovskij, Katcˇaturjan. Pur senza cercare in quella circostanza di saltare subito sul carro del vincitore, Kabalevskij, in qualita` di membro della commissione della Unione Compositori che giudicava le musiche nuove, non risparmio` piu` tardi le critiche piu` aspre a Sˇostakovicˇ, svolgendo il ruolo di custode

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Sonata n. 3 in Fa op. 46

dell’ortodossia. Queste furono le ragioni che procurarono a Kabalevskij una disistima, estesa dall’uomo alle sue musiche. A un quarto di secolo dalla sua morte e` opportuno che si faccia un riesame della sua figura e che si rivalutino per quello che sono, cioe` per lavori artisticamente apprezzabili, seppur non di prima grandezza, i Preludi e le Sonate n. 2 e n. 3.

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Gyo¨rgy Ligeti

A Gyo¨rgy Ligeti

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(Dicso¨szentma´rton, 28 maggio 1923-Vienna, 12 giugno 2006) Le musiche composte da Ligeti prima della rivolta ungherese del 1956 e dell’espatrio sono malnote e in parte inedite. Per quanto riguarda il pianoforte si parte dal Capriccio n. 1 (1947), dal Capriccio n. 2 (1947) e dalla Invenzione (1948). L’ordine di composizione dei due Capricci e` il contrario delle loro numerazione, ma Ligeti desiderava che fossero eseguiti uno di seguito all’altro e percio` numero` come primo quello meno virtuosistico (in verita` non si capisce bene perche´ non li mettesse insieme nell’ordine che voleva, intitolando il tutto Due Capricci; ma di fronte a qualsiasi problema Ligeti non sceglieva mai la soluzione piu` ovvia). Il Capriccio n. 2 e la Invenzione, di scrittura lineare e trasparente, sono piu` genericamente neoclassici, mentre nel Capriccio n. 1 si nota subito l’influenza diretta di Barto´k. Ancora neoclassica e` la Sonatina a quattro mani (1950), molto divertente e che non potrebbe essere piu` ... sonatina di cosı` perche´ i suoi quattro movimenti durano in tutto cinque minuti. Fin da questi primi pezzi si capisce comunque che Ligeti non e` interessato a ricerche sul ritmo, sempre tradizionale, e che tende a trattare il pianoforte secondo la sua natura di strumento a percussione, con melodie senza legato ma piuttosto come suonate su metallofoni. Questi caratteri si accentuano nella Musica Ricercata (1951-1953), formata da undici pezzi brevi, in parte trascritti poi per quintetto di fiati, e l’ultimo, Omaggio a Girolamo Frescobaldi, per organo. Gli undici pezzi sono pensati come ciclo, ciclo governato da un rigido disegno geometrico: il primo pezzo e` una invenzione su una nota e sulle sue trasposizioni di ottava, con l’aggiunta alla fine di una seconda nota, il secondo pezzo impiega tre note, il terzo quattro, e cosı` via fino a che l’undicesimo, una fuga ispirata al Ricercar cromatico di Frescobaldi, ne impiega dodici. Ligeti arriva in questo modo a crearsi un fac-simile di tecnica seriale, fino alla dodecafonia, senza nulla conoscere ancora di Scho¨nberg e della sua ‘‘scuola’’, banditi nei paesi del blocco sovietico. La Musica Ricercata mantiene la struttura discorsiva del neoclassicismo, con una forte predilezione per l’ostinato ritmico e, in qualche caso, con melodie infantili che provengono sı` da Barto´k, dai fascicoli di Per Bambini, ma piu` generalmente dal ‘‘folclore rumeno e ungherese’’ di cui Ligeti disse piu` tardi di essere ‘‘impregnato fin

dalla sua gioventu`’’. In questo senso il n. 7 e` come il seme da cui nasceranno tanti pezzi di Ligeti: ostinato ritmico molto veloce, melodia in ritmo bulgaro. Una curiosa conseguenza della trasposizione d’ottava e` che quando una melodia, nel n. 2, viene eseguita nel registro grave estremo, con raddoppio nel registro sovracuto, l’orecchio non percepisce l’acuto come raddoppio ma come suono leggermente diverso. I modus operandi e` gia` quello che si ritrovera` poi sempre in Ligeti: una serie di problemi astratti – che cosa posso fare con un suono, con quattro, con sei? – diventa per lui lo stimolo per una ricerca poetica. Quello che riuscira` a fare con un suono, con quattro, con sei, dovra` infatti essere interessante e bello, e mentre la autocostrizione sviluppa la creativita` Ligeti comincia a crearsi una tecnica compositiva sua e un suo modo di rapportarsi all’ascoltatore che gli permetteranno poi, in Occidente, di sviluppare il suo personale concetto di avanguardia. Monument - Selbstportrait - Bewegung per due pianoforti (Monumento, Autoritratto, Movimento, 1976) ottenne al suo apparire non solo un ottimo successo ma un vero e proprio ‘‘gradimento’’ da parte del pubblico, un gradimento del tutto eccezionale per la musica di quegli anni. La gradevolezza, la piacevolezza sensuale di certi suoi lavori, gia` a partire da Atmosphe`res per orchestra (1961), procuro` a Ligeti le accuse di aver rinnegato il proprio recente passato di artista di avanguardia, autore di musica elettronica, e di cercare il successo, e di essere troppo sensibile a quei tentativi di reinserimento della musica d’arte in un mercato di consumo che venivano tentati da musicisti piu` giovani. Nei tre pezzi per due pianoforti si scopre in realta` la continuita` che lega l’ungherese Ligeti all’umanista ungherese Barto´ k. E tutti sanno che Barto´k non fu un modello per le avanguardie degli anni cinquanta e sessanta, che a lui guardarono anzi con distacco e con un certo sospetto, mentre lo fu per certi giovani musicisti degli anni settanta. Cio` non escludeva che il modus operandi di Ligeti restasse quello di chi pensa la musica nei termini delle avanguardie. Gli esiti concreti erano pero` di grande immediatezza di rapporto con l’ascoltatore e di grandissima suggestione immaginativa. Per fare un esempio, il collegamento fra l’Autoritratto e le cosiddette musiche della notte di Barto´k appare 293

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subito evidente. Ma siamo ben lontani da un semplice ritorno a Barto´k: siamo invece al ritorno alla poetica bartokiana attraverso procedimenti compositivi e di tecnica pianistica che tengono conto del presente. In un ampio commento al suo lavoro (in Musik Protokoll 1984) Ligeti spiegava di aver ‘‘applicato’’ e ‘‘sviluppato ulteriormente’’ nell’Autoritratto la ‘‘tecnica del bloccaggio dei tasti, creata da Karl-Erik Welin e da Henning Siedentropf’’. Una mano abbassa a vuoto e blocca alcuni tasti, l’altra suona rapide sequenze toccando sia tasti non bloccati che tasti bloccati. ‘‘Dato che alcuni tasti’’, spiega Ligeti, ‘‘non producono alcun suono, si ottiene una musica discontinua e ritmicamente imbrogliata’’ (aggiungo che i tasti bloccati non producono suono, ma che il tocco del dito provoca una lieve quantita` di rumore, in verita` non sempre avvertibile). Conclude Ligeti: ‘‘Per l’impiego di questa tecnica e` ideale disporre di due pianoforti: con un unico strumento il risultato sarebbe povero, giacche´ solo una mano produce suoni. In verita`, i due pianoforti sono qui un unico pianista con due mani’’. Ligeti rinuncia dunque ad annotare le sottigliezze irrazionali del ritmo, che e` appunto cosa da musica d’avanguardia degli anni cinquanta, ma fa diventare la musica ‘‘ritmicamente imbrogliata’’ mediante un procedimento che non impegna l’esecutore, sul piano della scansione ritmica, al di la` delle sue abitudini e della sua tranquillita` nel controllo: l’esecutore suona in un ritmo uniforme, l’ascoltatore percepisce un ritmo discontinuo, e il ritmo discontinuo non e` potenzialmente drammatico come sarebbe invece se l’effetto della discontinuita` fosse dovuto all’esecuzione. E`, in questo caso, la piu` semplice applicazione di un principio, cioe` ‘‘la produzione [...] di forme e di processi che non vengono immediatamente manifestati dagli interpreti, ma che nascono su un piano illusorio’’. Il titolo completo di Autoritratto e`: Autoritratto con Reich e Riley (e c’e` anche Chopin). Ligeti riprende procedimenti compositivi dei minimalisti Reich e Riley e li ‘‘amalgama’’ fra di loro e con procedimenti suoi: ‘‘Cosı` nacque il triplice ritratto Riley-Reich-Ligeti, nel cui sfondo sorge, quasi spettrale, anche il profilo di Chopin’’. E Chopin e` chiamato in causa mediante un movimento continuo velocissimo e raddoppiato in ottava che, senza citare espressamente il finale della Sonata op. 35, ne suscita il ricordo a causa della ‘‘aura propria dell’elemento eminentemente pianistico’’. Si tratta di una operazione capillare, persino maniacale, che tende pero` a ritrovare, sia pure sul ‘‘piano illusorio’’, certi elementi di una tradizione che, facendo ormai parte della comune cultura del tempo, 294

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portano automaticamente l’ascoltatore entro il flusso della continnuita` storica. Rivolgendosi a una sensibilita` non ipotetica ne´ ‘‘naturale’’, ma culturale, Ligeti riusciva nell’intento... ed era gradito. Il che, a seconda dei punti di vista, poteva anche essere una colpa. Ma era prima di tutto una novita`. Anche Monumento riprendeva un procedimento tradizionale di balance in una molteplicita` di eventi sonori. La natura linguistica di un accordo o di una polifonia viene ‘‘messa in prospettiva’’ ed e` resa percepibile in orchestra dalla molteplicita` dei timbri, ma nel pianoforte, o in un complesso timbricamente omogeneo come il quartetto d’archi, diventa invece percepibile mediante la molteplicita` della dinamica. E` un paradosso della percezione, ma sta di fatto che due suoni vengono percepiti distintamente in prospettiva, sul pianoforte, solo se fra di essi esiste una differenza di dinamica. In Monumento, e in Movimento, Ligeti studia le combinazioni dei gradi di dinamica ottenibili sul pianoforte, che formano una ricca scala, ed e` favorito anche dalla spazializzazione del suono che si ha automaticamente quando i due pianoforti sono disposti coda contro coda, non fianco a fianco. ‘‘Una realizzazione accurata delle differenziazioni dinamiche ‘‘, dice Ligeti, ‘‘da` alla musica una apparenza tridimensionale, come fosse un ologramma, situato in uno spazio immaginario. Questa illusione spaziale conferisce alla musica un carattere statuario, immobile (appunto, Monumento)’’. I tre pezzi formano un ciclo con connessioni strutturali: ‘‘[...] i rapporti formali si stabiliscono a molti livelli; cosı`, il terzo pezzo rappresenta una variante piu` scorrevole del primo, caratterizzato da una dura fissita`; anche il passo conclusivo del terzo pezzo, a modo di corale, e` una coda comune a tutti e tre i pezzi. Nelle prime due composizioni il movimento viene assorbito nel nulla; nella terza, dopo che il movimento veloce scompare nei due registri estremi – il piu` acuto e il piu` grave – rimane, come in una vasta pianura, il corale. Questo corale e` formato dalle parti di un canone speculare a otto voci, il quale, telescopicamente, si contrae sempre di piu`’’. Leggendo cio` che Ligeti dice dei suoi pezzi si ha spesso l’impressione di un ossesso che vuole prevedere e controllare tutto. Impressione sbagliata. Non abbiamo un Bach che ci parla della sua Arte della fuga. Ma se Bach avesse voluto spiegare l’Arte della fuga non avrebbe potuto dire cose diverse da quelle che dicono gli analisti, e che occupano interi volumi. Quando Bach scriveva una fuga a quattro soggetti in contrappunto quadruplo non poteva di certo abbandonarsi all’estro del momento, ma metteva a frutto una sapienza nel calcolo combinatorio che aveva prima

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appreso e poi sviluppato per tutta la vita. Ligeti ci spiega, descrivendoli invece di analizzarli, i procedimenti compositivi che impiega. Non cerca invece di spiegare le motivazioni che lo muovevano a comporre, ne´ perche´ in un triplice autoritratto dovesse agitarsi sullo sfondo, al posto di una qualche innocua nuvoletta, lo spettro di un gigante della musica come Chopin, ne´ perche´ i tre pezzi dovessero necessariamente concludersi con un corale canonico speculare a otto voci, isolato ‘‘come in una vasta pianura’’ e che si contrae ‘‘telescopicamente’’. Si tratta solo di immagini che aiutano pietosamente il lettore-ascoltatore dal duro comprendonio, o si tratta anche di qualcosa che ha avuto una sua funzione nella creazione? La musica della notte di Barto´k era popolata dagli stridii degli insetti, e l’inizio dell’Autoritratto ci da` l’impressione di analoghi rumori naturali, mentre il Movimento non ci appare, come dice, l’Autore, una versione piu` scorrevole del Monumento, ma suscita in noi l’immagine di un altro scorrere, quello delle acque. Tutto cio` ha a che vedere con la creativita` di Ligeti? La domanda e` legittima, visto che l’esito artistico e` cosı` poetico e cosı` ricco di suggestioni. La risposta non e`, almeno per ora, possibile. Ma gli Studi avranno il piu` delle volte titoli caratteristici. L’interesse di Ligeti per il pianoforte fu intermittente. Fra la Musica ricercata e i tre pezzi per due pianoforti passano piu` di vent’anni. Inizia, otto anni dopo, un lungo periodo in cui nascono i maggiori capolavori pianistici di Ligeti: gli Studi, I Libro (1984-1985), gli Studi, II Libro (1988-1894), gli Studi, III Libro (1995-2001) e il Concerto (1985-1988). Il Concerto, in cinque movimenti, e` un vero concerto che impegna molto il pianoforte, sempre con una scrittura percussiva e netta. Il solista interviene poco, diventa cioe` un semplice colore timbrico dell’orchestra, soltanto nel movimento in verita` piu` impressionante del Concerto, il Lento e deserto collocato al secondo posto. Lento e deserto. Ancora una volta musica della notte al modo di Barto´ k senza una diretta influenza del linguaggio bartokiano. Ma a lasciare sbalorditi e` la vertiginosa poeticita` di questa raffigurazione di una notte misteriosa, popolata di rumori indistinti e di scoppi improvvisi. Nella prima versione del lavoro questo movimento, il Vivace molto ritmico e preciso che lo precede e il Vivace cantabile che lo segue erano tutto il Concerto. Ligeti aggiunse poi due gli altri movimenti, l’Allegro risoluto, molto ritmico, e il Presto luminoso, fluido costante, sempre molto ritmico. Secondo il mio sommesso parere la prima versione in tre movimenti era piu` compatta e piu` coerente e piu` accentrata sul cuore

Gyo¨rgy Ligeti

emotivo dell’opera, mentre nella versione definitiva il quarto movimento, che deve necessariamente differenziarsi dal terzo, mi sembra piu` dettato dall’intelligenza che necessario all’equilibrio poetico complessivo. Si tratta in ogni caso di una delle piu` significative partiture della seconda meta` del Novecento. Possiamo immaginare senza sforzo che Ligeti abbia seguito un piano minuziosamente calcolato, ma quello che ci conquista emotivamente, come nei tre pezzi per due pianoforti, e` l’immediatezza delle immagini musicali, che sembrano cariche di significati espressivi per lo meno simbolici (ma direi anche naturalistici). Gli Studi, diciotto in totale, di cui sei nel primo libro, otto nel secondo e quattro nel terzo, rispondono in parte, e in parte no, al contenuto tecnico che sarebbe in genere connesso con il loro titolo. In qualche caso Ligeti avrebbe forse potuto ricorrere al termine Klavierstu¨ck. Ma sembra a me che egli abbia preso come modello Liszt, nei cui Studi l’aspetto tecnico, pur molto presente e importante, e` subordinato al contenuto immaginifico. L’aspetto studio e` in realta` il meno frequente in Ligeti, ed e` dichiarato direttamente o indirettamente nel titolo. Prendiamo il n. 3, Touches bloque´es (Tasti bloccati). E` la tecnica dell’Autoritratto, che evidentemente, lavorandoci sopra, puo` essere utilizzata senza poverta` di risultati anche con un solo pianoforte. Il n. 2, Cordes vides (Corde vuote), e` uno studio... violinistico trasferito sul pianoforte, e quindi non uno studio tecnico pianistico in senso proprio, sebbene si possa chiamarlo studio sulle quinte. Il travolgente n. 10, Der Zauberlehring (L’apprendista stregone), e` sulle note ribattute. Ma sarebbe molto difficile considerare come studio tecnico in senso tradizionale l’affascinante n. 5, Arc-en-ciel (Arcobaleno), in cui Ligeti affronta sı` il legato che di solito non fa parte del suo vocabolario pianistico, ma in cui l’ascoltatore viene soggiogato da ben altro che dal legato. Lo Studio n. 6, Automne a` Varsovie (Autunno a Varsavia) e` tecnicamente geniale nella esplorazione di un tipo di tecnica, che si incontra di frequente in Rachmaninov, con la quale il compositore mira a collocare sul pianoforte due eventi concomitanti e distinti che si intersecano nello stesso registro, come se si trattasse di due pianoforti. Pero` neppure il professionista si cura di cio` , mentre cio` che mediante una scrittura di acrobatico virtuosismo arriva a coinvolgere emotivamente l’ascoltatore e` il senso della eterna giornata autunnale, grigia e con pioggia, la cui collocazione geografica a Varsavia e` soltanto un tocco di civetteria un po’ snob. Non posso tuttavia non dire che secondo me, dopo i primi sei Studi, costantemente inventivi, originali, tor295

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renziali di creativita`, il seguito denuncia spesso la ripresa di procedimenti gia` sfruttati. La ripetitivita` che ne consegue non giova alla raccolta, che diventa monotona, e che anche sul piano delle im-

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magini perde di forza. Ma i diciotto Studi costituiscono comunque un grandioso monumento elevato al pianoforte in anni in cui i grandi compositori poco si occupavano dello strumento.

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Franz Liszt

A Franz Liszt

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(Raidig, 22 ottobre 1811-Bayreuth, 31 luglio 1886) Senza volere minimamente mancare di rispetto al piu` grande creatore di parabole, vissuto dal primo al trentaquattresimo anno dell’Evo Antico, io sottoparlante confesso davanti alla benevola platea dei miei ascoltatori che per collocare storicamente un artista enigmatico come Liszt ho sentito il bisogno, pur nella mia pochezza, di cimentarmi con una parabola. Ed eccola qui, con le piu` vive scuse per chi pensa che io stia rischiando di venir meno ai miei sacri doveri istituizionali. Immaginiamo che nell’immenso Impero di Grandarte esista un ducato istituito apposta per fornire la frutta a tutti gli abitanti. Negli anni venti dell’Ottocento muoiono due importantissimi contivassalli, grandi frutticultori al servizio della Duchessa dei Grandarte – pare si chiamassero Franz Beethbert e Ludwig Schutoven – e la loro eredita` viene spartita. Due conti, i frutticultori Chopin detto Il Poeta e Liszt detto Il Sofista, che erano stati prima impiegati nella fiorente ditta Pere & Bonta`, ereditano la zona in cui si producono solo le pesche nettarine. Accettano l’eredita` ma non vanno d’accordo sulla destinazione da dare alla produzione, e si separano. Il frutticultore Chopin sceglie di stare sul mercato delle pesche nettarine e ne cura gli alberi con rinnovata inventiva, mentre il frutticultore Liszt abbatte tutti gli alberi e cerca di introdurre la coltivazione del kiwi. I vecchi consumatori di pesche approvano – non tutti, qualcuno opina che la coltivazione delle pesche stia subendo un colpo mortale –, i vecchi consumatori approvano, dicevo, le innovazioni di Chopin e non sanno che farsi del kiwi, ma il kiwi trova molti sostenitori fra coloro che consumavano soltanto mele e pere. Cosı`, i due frutticultori hanno ciascuno la sua bella fetta di mercato. Ma Chopin muore a trentanove anni e la sua contea passa a Liszt. Il quale, essendo ormai diventato piu` saggio, abbatte sı` i peschi della nettarina ma per inventare la pesca-noce, e produce sia pesche che kiwi. Passano gli anni, e il frutticultore Liszt ne inventa un’altra delle sue: scopre la pesca-ghiaccio, che non conquista pero` se non una piccolissima fetta del mercato. Alla sua morte la contea che prima era stata di Chopin passa per una parte a un frutticultore francese, certo Claude Debussy, uomo di sibaritica raffinatezza che si specializza nella preziosa pesca nettarina a polpa bianca chiamata per

brevita` padella, mentre per un’altra parte va a un nominato Skrjabin che inventa le pesche allo spirito, pronte a infiammarsi quando un fuoco divino verra` a salvare l’Umanita` (da che, non lo si sa). La contea di Liszt passa per una parte a un frutticultore di origine tartara che si chiama Sergej Rachmaninov e che abbatte pero` gli alberi della pescaghiaccio per ritornare alla piu` smerciabile pescanoce. L’altra parte del patrimonio va ad un basco, tale Velar dell’Orologio, che inventa una specie nuovissima di pesca quadrata. Molti cambiamenti di proprieta` erano avvenuti frattanto anche nelle altre contee. Il frutticultore Richard Wagner, socio della ditta Mele & Toglilmedico, prima inventa la peramela che ottiene qualche buon successo, poi fonda la ditta Mele & Domani, e con l’aiuto del conte Liszt riesce a spuntarla, anche se i migliori medici ritengono che i frutti di quell’imbroglione rubagalline contengano diossina. Un altro conte, Johannes Brahms detto ai suoi tempi Lo Scassa, che si scopre essere anche lui fra gli eredi di Beethbert e di Schutoven, afferma con decisione che bisogna ritornare, pur rinfrescandolo, al modo piu` nobile di produrre le pesche, quello piu` antico, e si conquista anche lui una fetta dell’eredita` che era finita per poco tempo nelle mani onestissime di Mendelmann e Schumannsohn. E cosı` trascorrono settant’anni di leale concorrenza fra gagliardi conti, tutti fedeli vassalli della Granduchessa dei Grandarte che da settant’anni incassa regolarmente lei i grassi dividendi. Fra i coeredi di Liszt c’e` un un conte unno che risponde al barbaro nome di Barto´k Be´la, il quale prosegue coraggiosamente nella produzione della pesca-ghiaccio, che gli porta una fettina di mercato. Il frutticultore Wagner ha per intanto concluso una lunga lotta con due produttori della ditta Mele & Toglilmedico, tali Verdi Giuseppe, senatore e ricchissimo e, inaspettatamente, tale Bizet Georges, giovane e appena benestante, che pero` viene aiutato dal coltivatore di funghi Friedrich Nietzsche, un voltagabbana che era uscito dalla ditta Mele & Domani dopo esserne stato il vigoroso capo ufficio stampa perche´ gli era venuto, appunto, l’ingiustificato sospetto che la medesima stesse mettendo in giro veleni mortali. Una parte cospicua dell’eredita` di Liszt passa a Richard Strauss, detto L’Epigono per distinguerlo dallo Strauss Jo297

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Franz Liszt

Album d’un viaggiatore

hann detto Il Sorridente, che per via del casino in cui e` ormai piombata la genealogia dei frutticultori riceve un lascito pure da Wagner. E fra i discendenti di Wagner c’e` poi il conte Arnold Scho¨nberg, che dal mango e dalla papaja wagneriani ormai venduti a occhi chiusi passa alla noce, sconvolgendo il palato di tutti quelli che, avvezzi ad affondare i denti nella polpe succose dei frutti comuni, non sanno, tranne alcuni pochi privilegiati, che la noce e` godibile solo quando viene spaccata, altrimenti ti rompe i denti o, se te la ingoi come un’ostrica, ti manda dritto dritto al pronto soccorso. E cosı` via. Nella lunga storia dei frutticultori ci sono molti altri vassalli della Granduchessa dei Grandarte, ma il sottoparlante ha gia` parlato fin

troppo, ragion per cui lascia per ora che a raccontarla siano altri. Fine del discorso. Ma subito si alza in piedi nella platea uno che ha in mano tutto il mercato della frutta e che lo gestisce come gli talenta, Sua Eccellenza il Principe Rossi-Buonlettore, discendente alla lontana dal barone Don Magnifico dei Rossini. E questi cominca a parlare dicendo: Ma di un mito sı` imbrogliato ecco il simbolo svelato. E attaca: La noce e` la dodecafonia, e la pesca-ghiaccio e`, ecc., ecc., fino all’ ultimo passaggio, che rivela come e qualmente le mele erano il melodramma e la ditta in cui avevano lavorato all’inizio Il Poeta e Il Sofista era il biedermeier. Ed io, ben lungi dal dispiacermi che Sua EccellenzaRossi Buonlettore mi abbia scoperchiato gli altarini, mi sento contento come una pasqua.

Gli Anni di pellegrinaggio Tre raccolte di pezzi di Liszt recano il titolo Anni di pellegrinaggio. La prima, Svizzera, e` di ispirazione paesistica, la seconda, Italia, di ispirazione pittorico-letteraria e, nel Supplemento, popolaresca, la terza, ancora Italia, e` di ispirazione simbolista. Nel loro insieme, considerando anche la versione piu` antica del primo Anno, le tre raccolte sono come un sunto completo della poetica di Liszt nelle sue diverse fasi evolutive. La prima versione or ora citata era intitolata Album d’un viaggiatore. Liszt, fuggito a Ginevra nel 1835 perche´ la sua amante, la contessa d’Agoult, era incinta, si fermo` in Svizzera fino alla primavera del 1837, e della Svizzera visito` i luoghi piu` tipici. L’Album d’un viaggiatore (1835-1836) e` formato da tre parti che furono pubblicate in anni diversi; nel 1840 le prime due, nel 1836 la terza, uscita insieme con la Fantasia romantica su due melodie svizzere di cui parlero` nel capitolo dedicato alle fantasie. Le tre parti dell’album sono suddivise in Impressioni e poesie (sette composizioni originali, la prima delle quali, Lyon, non ha a che vedere con la Svizzera ma e` ispirata alle lotte operaie della citta` manifatturiera), Fiori melodici delle Alpi (nove trascrizioni di canti popolari), Parafrasi (elaborazioni brillanti di canti popolari). Un’analisi dei pezzi di questa raccolta non sarebbe inopportuna ma ci porterebbe via troppo spazio. Devo pero` citare la prefazione, che espone due idee-chiave della poetica lisztiana negli anni trenta, fortemente anticlassicista. Problema della forma: Liszt dice di aver composto ‘‘un seguito di pezzi, che non attenendosi ad alcuna forma convenzionale, non chiudendosi in alcuno speciale schema, prenderanno di volta in volta i ritmi, le movenze, le figure piu` appropriate a esprimere il sogno, la passione o il pensiero che le avra` ispirate’’. La natura della mu-

sica strumentale: ‘‘Quanto piu` la musica strumentale progredisce, si sviluppa, si libera dai primieri legami, sempre piu` intende improntarsi della idealita` che ha segnato la perfezione delle arti plastiche, a diventare non piu` una semplice combinazione di suoni, ma un linguaggio poetico, piu` adatto forse della stessa poesia a esprimere tutto cio` che ci spalanca orizzonti inconsueti, tutto cio` che sfugge all’analisi, tutto cio` che s’agita nelle profondita` inaccessibili dei desideri imperituri, dei presentimenti, dell’infinito’’. Nel 1825 Liszt aveva composto l’Allegro di bravura e il Rondo` di bravura che rispondono all’estetica dello spettacolo, non della poesia, e che seguono gli schemi formali ordinari, nel 1826 aveva studiato con Antonin Reicha, amico di Beethoven e grande teorico che nel 1824 aveva pubblicato il Trattato di alta composizione musicale nel quale analizzava lo schema della ‘‘grande coupe binaire’’, cioe` dell’allegro di sonata bitematico e tripartito. Aggiungo, per completare il quadro, che nel 1827 Liszt aveva scritto una o forse due Sonate che non ci sono pervenute e che nel 1835 aveva fatto schizzi per una Sonata, mettendoli pero` subito da parte. Non posso sapere come Liszt considerasse l’insegnamento di Reicha, ma Reicha, analizzando statisticamente molte sonate, ne aveva ricavato uno schema prevalente che veniva dato come modello al discente, e quindi anche a Liszt. Respingendo l’eredita` della tradizione classica, Liszt entrava forse in quella fase psicologica dell’uccisione simbolica del padre che gli avrebbe permesso di affrontare soggettivamente i problemi fondamentali della musica? Penso che sia cosı`. Tuttavia, come si capisce dalle sue parole, egli identificava la forma con lo schema-modello (la formula, avrebbe detto piu` tardi Boito) e non faceva distinzioni fra schema e principio. La

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Anni di pellegrinaggio. Secondo anno: Italia

forza della forma classica non risiede pero` negli schemi della tripartizione, della simmetria, della rete delle tonalita`, ma nella presenza dei due principi definiti da Beethoven come ‘‘principio implorante’’ e ‘‘principio di opposizione’’. Mentre l’espressione lirica della musica nasce da uno solo di questi principi, l’espressione drammatica nasce dalla lotta tra i due. E dai principi nasce in ogni caso la forma, che poteva essere sı` fossilizzata, e` vero, in schemi e formule, ma che non era mai stata ridotta a schema da Beethoven. Il concetto della musica strumentale come espressione dell’ineffabile rientra nel panorama dell’estetica romantica, che in linea di principio era stata accettata – Romanze senza parole – persino da un classicista come Mendelssohn. Liszt radicalizza pero` questo concetto perche´ respinge contestualmente le forme classiche. Ma e` secondo me interessante notare che nel momento in cui stava per realizzare la sua aspirazione... democratica di portare la musica per pianoforte solo nelle grandi sale da concerto egli seguiva la gnoseologia dei sofisti, sebbene fra le sue piu` appassionanti letture giovanili citasse Platone, non Protagora o Gorgia. Non il pensiero socratico della ricerca della verita` assoluta sta alla base della musica da concerto e del concertismo quale Liszt lo creo`, ma il pensiero sofistico delle molte verita`, e della ‘‘persuasione’’ e dell’‘‘inganno’’. Cosı` Liszt opero` negli anni trenta e quaranta, poi avvertı` certe aporie del suo pensiero teorico e nel periodo di Weimar riprese le forme classiche senza cadere negli schemi e nelle formule, cioe` lavorando sui principi. Andando a risiedere a Weimar, e abbandonando la vita del concertista militante, Liszt sentı` un problema di cui parlero` piu` ampiamente a proposito degli Studi: per mantenere la diffusione della sua musica bisognava ridurre le esigenze di un virtuosismo che solo a lui era stato concesso di avere. La revisione tecnica del passato investe dunque non soltanto gli Studi ma anche cio` che dell’Album d’un viaggiatore, suo maggiore sforzo creativo giovanile, Liszt ritiene di poter ancora salvare. I pezzi dell’Album che confluiscono nel primo Anno di pellegrinaggio. Svizzera (1836-1853, 1855) sono sette, di cui cinque tratti da Impressioni e poesie e due dai Fiori melodici delle Alpi. Due pezzi, Orage (Tempesta) e Eglogue (Egloga), non erano invece compresi nell’Album. La semplificazione, o razionalizzazione che dir si voglia della strumentazione balza evidente se si confrontano le due versioni di Sulle rive d’una sorgente. L’effetto naturalistico dello scorrere dell’acqua viene raggiunto in entrambi i casi, ma le minori esigenze della meccanica permettono nella seconda versione di ottene-

Franz Liszt

re due risultati positivi: i caratteri ‘‘liquidi’’ del suono vengono mantenuti con maggiore continuita`, e la gestualita` dell’esecutore, che non deve piu` sbracciarsi, rende visivamente meglio la pace rassererante della visione naturalistica. I due fattori esteriori, insieme, permettono poi di afferrare meglio il significato simbolico della composizione, che reca un’epigrafe da Schiller: ‘‘Nella mormorante frescura iniziano i giochi della giovane natura’’. La Cappella di Guglielmo Tell e` molto singolare. Chi ricorda questo monumento votivo all’eroe nazionale, sito sul Lago di Lucerna, non mette facilmente in rapporto la musica con la costruzione architettonica piattamente neoclassica. Ma cio` che da` il tono alla composizione e` l’epigrafe schilleriana: ‘‘Uno per tutti, tutti per uno’’. Inno, tempesta, canto di gloria sono i tre momenti della creazione di Liszt, che sfrutta tutta la imponente potenza sonora del pianoforte, dandoci un quadro di grandezza umana che va ben al di la` della convenzionale cappella sul Lago di Lucerna. L’epigrafe foscoliana ‘‘A forti cose accendono l’urne dei forti’’ non sarebbe stata meno valida della citazione schilleriana. Il pezzo della raccolta formalmente piu` articolato e` La Valle d’Obermann, ispirata ad un allora celebre romanzo di Pivert de Se´nancour di cui viene pubblicata in apertura una lunga citazione. La valle e` simbolica, e` la vita: ‘‘Chi sono io?’’, e` la prima domanda. E Liszt, ritoccando in modo geniale la prima piu` convenzionale versione, parte con un inizio che comunica una sofferenza, un male di vivere impressionante. La composizione e` molto varia, e passa dalla disperazione alla lotta alla speranza. Ma a me interessa farne notare la fine. Fine trionfante, con lo splendore di un grande e potentissimo arpeggio di Mi che lascia presagire qualche accordo finale massiccio. Liszt riprende pero` inaspettatamente, in fortissimo, con un urlo invece che in pianto, l’inizio della composizione. Tutto e` vano, nulla puo` essere mutato. Una visione pessimistica della vita in un uomo che aveva appena messo al mondo una bambina e che l’adorava e` sbalorditiva. Ma la vita avrebbe dimostrato che Liszt aveva avuto il ‘‘presentimento’’ degli intimi drammi che avrebbero costellato i momenti culminanti della sua vita. Dalla primavera del 1837 all’ottobre del 1839 Liszt rimase in Italia (a Como, Milano, Roma, Pisa, ecc.), dove nacquero gli altri suoi due figli. In quel periodo egli visito` molti edifici storici e musei, e conobbe Dante e il Petrarca, letti e spiegati per lui dalla sua compagna, che conosceva l’italiano. Da qui deriva il carattere degli Anni di pellegrinaggio. Secondo anno: Italia (1838-1856, 1858). Le date di composizione fanno pensare a 299

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Franz Liszt

Venezia e Napoli. Supplemento agli Anni di pellegrinaggio, volume II

una lunga gestazione, ma in realta` cinque pezzi (nn. 1, 2, 4, 5, 6) vennero composti in Italia e rivisti all’inizio degli anni cinquanta, uno (n. 3) fu composto nel 1849, e solo il settimo, Fantasia quasi Sonata dopo una lettura di Dante, diede veramente un gran daffare a Liszt: composto nel 1839 in due movimenti con lo stesso materiale tematico, e da Liszt eseguito in alcuni suoi concerti come Frammento Dantesco, il pezzo venne ripreso piu` volte – ne esistono quattro versioni – con profonde modifiche, ed entro` nella raccolta nella definitiva versione in un solo movimento. Lo Sposalizio, da Raffaello, e` un pezzo incantato che da` veramente l’idea di una contemplazione senza tempo, il secondo, La Notte, da Michelangelo, e` un pezzo cupamente pessimistico che verra` ripreso molto piu` tardi in una versione per orchestra, la Fantasia quasi Sonata e` uno stupendo esempio di riappropriazione di principi classici del comporre, ma siccome la versione definitiva fu ultimata dopo la Sonata in si non e` necessario esaminarla qui. Dei Tre Sonetti del Petrarca divenne celebre il secondo, il Sonetto n. 104. Piu` interessanti sul piano della strumentazione sono pero` gli altri due, n. 47 e n. 123, nei quali Liszt trova una sonorita` molto tenue, affine a quella del tardo Chopin, la sonorita` trasparente che sta al limite fra il suono e il silenzio senza perdere la nettezza del transistore d’attacco: un po’ come, anzi, proprio come il ‘‘suonare sulle corde’’ di Debussy, che sarebbe nato di lı` a poco. Il Venezia e Napoli. Supplemento agli Anni di pellegrinaggio, volume II (1839, 1860) riunisce due visioni veneziane (Gondoliera, parafrasi della canzone ‘‘La biondina in gondoleta’’, e Canzone, parafrasi del ‘‘Nessun maggior dolore’’ dell’Otello di Rossini) e la visione partenopea della Tarantella, spettacolare e tumultuosa scorribanda tra i vicoli di Napoli, e non senza la serenata accompagnata dai mandolini su un tema di Cottrau. La raccolta era pronta per la stampa gia` nel 1840 ma venne ritirata per ragioni che non si conoscono. Liszt la riprese, la riscrisse eliminandone un numero che non ho citato e la pubblico` due anni dopo il Secondo Anno di Pellegrinaggio. Gli Anni di pellegrinaggio. Terzo anno (18671877, 1883, il sottotitolo Italia venne aggiunto piu` tardi) e` una raccolta di pezzi scritti nel corso di dieci anni senza un disegno complessivo preciso, ma che insieme acquistano il senso di un simbolo della vita di Liszt negli anni romani. I due pezzi intitolati I Cipressi della Villa d’Este sono come trenodie in cui la figura dell’albero e` simbolo della croce, l’Angelus e` la ‘‘preghiera agli angeli custodi’’ che Liszt recitava sempre con devozione, i celeberrimi Giochi d’acqua alla Villa d’Este ricorda300

no i numerosi soggiorni di Liszt nella dimora di campagna del cardinale Hohenlohe e vedono l’acqua come fonte di vita eterna, Il Sunt lacrimae rerum ‘‘in modo ungherese’’ prende a prestito il verso di Virgilio sulla caduta di Troia e lo trasferisce in Ungheria per simboleggiare la catastrofe esistenziale di Liszt. Catastrofe che diventa annientamento nella Marcia funebre scritta nel 1867 in memoria dell’imperatore del Messico Massimiliano d’Asburgo, fucilato a Queretaro, ma la cui epigrafe in latino, ‘‘Nelle grandi cose basta aver voluto’’, ci da` tutto il senso delle delusioni e della dignita` di chi aveva creduto di poter fare di Weimar una Atene della musica e che aveva sperato di essere chiamato a riformare la musica sacra cattolica. La conseguenza, positiva, della Marcia funebre si trova nell’ultimo pezzo, Sursum corda, In alto i cuori, che nella accettazione della volonta` divina trovano il riscatto e la pace. Liszt non cita il seguito di Sursum corda, cioe` Habemus ad Dominum, Sono presso il Signore, ma il significato simbolico della chiusa della raccolta e` chiarissimo. E` oggi invalso l’uso di eseguire per intero i primi due Anni di pellegrinaggio, il cui disegno programmatico e` soltanto esterno, Svizzera, Italia. Il terzo Anno, sebbene composto a pezzi e bocconi, e` invece assemblato secondo un disegno organico, e meriterebbe piu` degli altri due l’esecuzione completa. Ma c’e` una difficolta`, e grossa. Lo stile pianistico dei primi due Anni e` quello del grande concertista, del grande oratore che si rivolge idealmente a una folla anche quando parla in famiglia di una gita sul Lago di Wallenstadt, mentre lo stile del terzo Anno e` quello spoglio ed essenziale di un uomo staccato dal mondo, di un anacoreta che medita sui misteri della vita e che non vuole piu` persuadere, e tanto meno ‘‘ingannare’’ nessuno. L’antico sofista e` diventato un mistico, l’antico cuoco regale che serviva mirabolanti creazioni culinarie e` diventato l’eremita che si nutre di bacche e di radici. Cosı` , il suono perde la sua carica di sensualita`, e la timbrica dell’Angelus, che riprende in modo ancora piu` sfumato la sonorita` del Sonetto del Petrarca n. 123, e` solo piu` un soffio che, come dice lo spartito, e` stato pensato ‘‘per pianoforte o harmonium’’, strumenti antitetici, o forse per uno strumento come l’armonica a cristalli o forse per uno strumento che non esiste. Resta come eccezione la popolarita` di Giochi d’acqua, che pur senza pretese di efficacia oratoria rende talmente bene lo sprizzare delle fontane e i gorgoglii delle cascatelle da essere incantevole di per se´, anche se non viene colto il significato simbolico che, come dicevo, e` quello della frase dal Vangelo di S. Giovanni posta fra due righi: ‘‘Ma l’acqua ch’io vi

Armonie poetiche e religiose

Franz Liszt

daro` sara` per voi fonte di vita eterna, e non avrete piu` sete’’. Il terzo Anno di pellegrinaggio e` uno

scrigno da cui abbiamo tratto una sola pietra preziosa: ce ne sono altre.

Le altre raccolte Liszt inizia la carriera di concertista a undici anni e la sviluppa, dopo l’esordio a Vienna, in Francia, in Svizzera e in Inghilterra. Non ha ancora compiuto sedici anni quando, alla fine di agosto del 1827, muore il padre che gli faceva da impresario. E Liszt, sazio della vita del concertista, si ritira dall’agone: si fissa a Parigi con la madre, subisce una tremenda delusione amorosa, pensa di farsi prete, campa la vita con le lezioni private e in pratica abbandona la composizione. Nel 1829 si risveglia con la Fantasia sulla tirolese di Auber, ma poi ricade in letargo: la sua attivita` di compositore, dopo qualche troppo ambizioso tentativo andato a vuoto, riprende soltanto nel 1834. E nel 1834 vengono composte le tre Apparizioni (1834, 1835). Schumann scrisse che nelle Apparizioni vediamo un Liszt ‘‘perso a distillare le piu` cupe fantasie, indifferente e quasi blase´’’. Questo giudizio, in se´ molto sorprendente, ha secondo me una origine autobiografica che investe un importante capitolo della storia. Schumann lo scrisse nel 1839. Nel 1837 egli aveva pubblicato gli Studi sinfonici op. 13 dopo avere eliminato cinque Studi della precedente versione del 1834, gia` pronta per la stampa e con tanto di numero d’opera 9. E la poetica e l’estetica dei cinque Studi espunti ricordano molto da vicino, sorprendentemente, quelle della prima Apparizione. Oggi tutti sono d’accordo nel dire che la qualita` artistica dei cinque Studi espunti e` talmente alta da non lasciar capire perche´ Schumann li sacrificasse. Li sacrifico`, secondo me, perche´ lo portavano in acque che gli parevano troppo pericolosamente vicine alle Colonne d’Ercole, le acque, lisztianamente detto, delle ‘‘profondita` inaccessibili dei desideri imperituri, dei presentimenti, dell’infinito’’. Nel 1839 Schumann vide nelle Apparizioni il distillato delle ‘‘piu` cupe fantasie’’, e nel 1841 scrissse, del finale della Sonata op. 35 di Chopin, ‘‘questa non e` musica’’. Noi potremmo dire oggi che Schumann, Liszt e Chopin gettavano la lenza nell’inconscio, mentre Schumann pensava che tutti e tre avessero pescato nel torbido. Purgo` i suoi peccati, Schumann, bollo` come peccatori Liszt e Chopin. E del resto lo stesso Liszt, ritornando dopo vent’anni su un pezzo di cui ci occuperemo fra breve, lo censuro` e, correggendolo, ne muto` radicalmente la poetica. Alan Walker dice, dello Scherzo op. 39 di Chopin, che ‘‘il tuono partito da questa specie di fulmine si riverbera attraverso il diciannovesimo secolo e ha la sua conseguenza finale nella musica di Scho¨ n-

berg’’, cioe` nell’espressionismo. Ben detto, ed applicabile anche a Liszt e a Schumann. Delle tre Apparizioni e` straordinaria soprattutto la prima, che effettivamente distilla le piu` cupe fantasie. La seconda e` quasi graziosa, e la terza e` una parafrasi su un Valzer di Schubert, una scena di ballo ‘‘Molto agitato e appassionato’’ in cui, a dar retta alle didascalie di espressione, ne succedono di tutti i colori: precipitato, vibrante, delirando, avec coquetterie, religiosamente... Visto che eravamo in tema di espressionismo, un ballo in maschera alla Otto Dix? Delle sei Consolazioni (1849-1850, 1850) esistono due versioni sensibilmente diverse, ma ne e` nota soltanto la seconda e, di questa, particolarmente il terzo pezzo, una specie di notturnino in re bemolle maggiore che ricorda sia i Notturni di Field sia il Notturno op. 27 n. 2 di Chopin. Questo fu il pezzo scelto da Horowitz per ‘‘provare’’ l’acustica del Teatro alla Scala prima di decidere di ritornarvi dopo quasi cinquant’anni. Le lunghe note tenute del basso, i cullanti mormorii della parte di mezzo, la dolcezza trasognata della melodia sono un test formidabile per saggiare le potenzialita` di diffusione del suono in una grande sala. Charles Widor diceva che nell’orchestrazione ‘‘quando il quartetto va bene, tutto va bene’’. Horowitz sapeva che se il pianissimo va bene, tutto va bene. E percio` scelse la Consolazione n. 3. La raccolta, che comincia con un corale e finisce con una quasi serenatella, e` pero` tutta dello stesso livello, e meriterebbe che le venissero riservate dai concertisti maggiori attenzioni. La raccolta delle Consolazioni e` formata da pezzi brevi. Di tutt’altra mole sono i pezzi che compongono le Armonie poetiche e religiose (1834-1852, 1853). La raccolta non fu messa insieme nel corso di diciotto anni, come sembrerebbe dalle date di composizione. In realta`, un solo pezzo e` del 1834, e venne rielaborato a fondo nel 1850. I nn. 2 e 5 (Ave Maria, Pater noster) sono trascrizioni di due composizioni vocali del 1846, il n. 6 (Inno del Fanciullo al suo risveglio) e` anch’esso una trascrizione di un lavoro vocale della fine degli anni quaranta. Nel loro insieme, dunque, la Armonie poetiche e religiose non presentano tratti stilistici riferibili a un periodo anteriore a quello di Weimar. Tranne il n. 4, Pensiero dei morti. Qui converra` dare la parola allo stesso Liszt: ‘‘Un frammento di questa raccolta era stato pubblicato, alcuni anni or sono, con troppa frettolosa sbadataggine. L’autore 301

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Franz Liszt

sconfessa completamente questa edizione, tronca e scorretta per tanti aspetti, collocando lo stesso frammento all’inizio della quarta Armonia, Pensiero dei morti, con i necessari cambiamenti’’. L’edizione ‘‘tronca e scorretta’’ era quella del 1834, intitolata Armonie poetiche e religiose. Nel 1834 Liszt aveva citato un passo di Lamartine che parlava delle ‘‘anime meditative, che la solitudine e la contemplazione elevano invincibilmente verso le idee infinite, cioe` verso la religione’’. La composizione di Liszt, che iniziava con un ‘‘Lento assai con un profondo sentimento di noia’’, finiva pero` – ecco il perche´ del ‘‘tronca e scorretta’’ – con un ‘‘Lento disperato’’ che non aveva in se´ nulla di religioso. Nella versione definitiva non si tratto` nemmeno piu` di correggere la poetica: la correzione riguardo` l’ideologia. Il salto dal nichilismo giovanile di uno che aveva desiderato di prendere i voti sacerdotali alla fede riconquistata di uno che dopo un lungo martellamento del De Profundis aggiunge al suo vecchio pezzo una sezione finale consolatoria, celestiale, il salto, dicevo, e` molto forte. Ma riconquista non significa per Liszt dominio. Due demoni opposti si agiteranno costantemente in lui, e la vittoria del bene – vedasi il terzo Anno di pellegrinaggio – sara` come sempre il frutto di una dura lotta. Le Armonie poetiche e religiose sono pressoche´ sconosciute nel loro insieme. In passato fu famosissimo il terzo pezzo, Benedizione di Dio nella solitudine, scritto nella tonalita` di Fa diesis che, impiegando tutti i tasti neri, permette di ottenere una timbrica da concerto di arpe e di canto da coro di voci bianche che simboleggiano di per se´ la vita celeste. Funerali, Ottobre 1849, settimo pezzo della raccolta, viene invece ancora eseguito spesso oggi, dopo essere stato in passato un test per il cantabile e per le ottave. La precisazione ‘‘Ottobre 1849’’ e il lungo rullare delle ottave al basso nella parte centrale fecero pensare che Funerali fosse stato scritto in morte di Chopin, scomparso il 17 ottobre 1849. Il passo d’ottave, indipendentemente dalle intenzioni di Liszt, ha indiscutibilmente il suo modello nella Polacca op. 53 di Chopin. Ma il pezzo fu iniziato prima della morte di Chopin, e l’intenzione di Liszt era di onorare la memoria di tre suoi amici, il principe Felix Lichnowsky e i conti Ladislaus Teleky e Ludwig Batthyany, il primo linciato dalla folla a Francoforte sul Meno, gli altri due fucilati dagli austriaci che avevano domato la rivolta ungherese. Liszt, che non aveva preso parte alla rivolta (e questa scelta antirivoluzionaria gli era stata rimproverata dalla principessa di Belgiojoso), riunisce, nella morte, l’aristocratico legittimista satireg302

Albero di Natale

giato da Heine e i due ribelli ungheresi, rendendo a tutti la testimonianza dell’amicizia e del dolore senza schierarsi politicamente. Il pezzo mima con la sua struttura una cerimonia funebre pubblica riservata alle esequie di grandi personaggi. Inizia con i rintocchi profondi di enormi campane e con una marcia funebre, continua con una mesta melodia di rimpianto, ‘‘lagrimoso’’, e con la rievocazione delle battaglie combattute dall’eroe – ed e` qui il famoso passo d’ottave che, come nella Polacca di Chopin, da` l’impressione della carica che s’avvicina con galoppo di cavalli e squilli di trombe. Viene quindi la ricapitolazione nella quale sono ripresi brevemente la marcia fumebre, il ‘‘lagrimoso’’ e la cavalcata, e il pezzo finisce, invece che in gloria, con tre grumi di suoni soffocati. Il piano tonale e` in parte consueto e in parte no: fa, La bemolle, Re bemolle, fa, Mi, Fa. E basta quel mi maggiore per far capire che Liszt non e` un compositore come ce ne sono tanti. L’Albero di Natale (1874-1876, 1882) e` una raccolta di dodici pezzi di media difficolta` che Liszt dedico` alla nipotina Daniela, figlia di Cosima Liszt e di Hans von Bu¨ low. Nonno Franz mette sotto l’albero quattro semplici parafrasi di canzoni popolari natalizie, un delizioso Scherzoso, un Carillon che fa apparire all’orizzonte Debussy, una Ninna-nanna, un Antico canto provenzale natalizio, le Campane della sera, un C’era una volta che non e` l’inizio di una fiaba ma un moto di rimpianto da cui il vecchio si lascia prendere, e due pezzi finali, Ungherese, Polacco, che sono come il saluto dei nonni: nonno Liszt era effettivamente ungherese, polacca era la sua Ninfa Egeria, Elisabeth Sayn-Wittgenstein, che Liszt aveva invano cercato di avere in moglie. Per colmo di benevolenza Liszt prepara anche una accurata versione per pianoforte a quattro mani del dono natalizio. Nessun concertista, dopo Ferruccio Busoni, ha mai ripreso tutta la serie. Ma Horowitz ha fatto di C’era una volta, Ehemals, un preziosissimo gioiello. Nel 1885 Liszt ultimo` i Sette Ritratti Storici Ungheresi (1870-1885, 1956), composti saltuariamente nel giro di quindici anni. Nel 1885 la raccolta era completata e si stava preparandone la stampa, ma la morte di Liszt nel 1886 ne blocco` praticamente la pubblicazione perche´ nessun editore si fidava piu` di quello che usciva dalla bacchetta del vecchio mago che era andato fuor di senno. La pubblicazione del 1956 fu accompagnata da una ‘‘risistemazione’’ di Sa´ndor Veress, il quale, ritenendo che si trattasse di un brogliaccio per una scrittura orchestrale, ne muto` la strumentazione, rendendola piu` confacente alla immagine tradizionale di Liszt. La versione originale ricorda certe

Leggende

Franz Liszt

durezze e certe scabrosita` della scrittura dei Quadri di una esposizione di Musorgskij, i quali subirono la stessa sorte dei Ritratti Storici Ungheresi e furono da vari concertisti ‘‘risistemati’’ fino a che non fu trovata la chiave per recuperare la versione originale. I Ritratti non ebbero pero` nessuna diffusione, ne´ nell’originale ne´ nella versione Veress. Lo stile di strumentazione e` privo di qualsiasi grazia, e` primitivistico, e il discorso, che non si vale di

alcuno stilema popolare ungherese, e` come un monologo di un vate che davanti allo specchio parla degli uomini insigni, letterati, poeti, musicisti, politici della sua patria. Non si tratta di orazione celebrativa, si tratta di mitologia della patria. Che ci sia o non ci sia il modo di far diventare pubblico cio` che ha tutta l’aria di essere privato, anzi, solipsistico, e` un problema che non e` stato ancora risolto.

Le Ballate e le Leggende La Ballata op. 23 di Chopin era uscita nel 1836, ma Liszt, di solito prontissimo nel cogliere le novita`, era talmente preso dalle fantasie e dalle trascrizioni che non mostro` di accorgersi della nascita di un nuovo genere che per le sue caratteristiche corrispondeva in pieno a quella che lui, Liszt, pensava fosse la strada da prendere. Liszt... rimedio` alla disattenzione nel 1845, quando comincio` a scrivere a sua volta una ballata. Ma era ancora tanto immerso negli impegni concertistici che riuscı` a finirla solo nel 1848, nella pace di Weimar a cui lui era approdato mentre in tutta Europa infuriava la rivoluzione, quel 1848 che ancora adesso ci fornisce il termine quarantotto per indicare uno sconvolgimento spaventoso. Le ragioni del mancato appoggio di Liszt alla rivoluzione non sono mai state chiarite. Egli riteneva probabilmente che i suoi compatrioti si stessero dimostrando incapaci di ottenere dall’Austria cio` che si poteva ottenere con trattative diplomatiche e che far la voce grossa e armare un esercito nazionale fosse solo il frutto di un cieco velleitarismo. Liszt non intendeva del resto mettere a rischio con una rivoluzione destinata a fallire la posizione che stava acquisendo a Weimar, e che gli permise in effetti di svolgere per dieci anni una straordinaria azione di promozione della musica nuova. Insomma, Liszt, quando Vienna insorse, se la filo` via con la sua nuova compagna e divenne il dominus della Weimar di Goethe, di Schiller, di Wieland. La Ballata in Re bemolle (1845-1848, 1849) uscı` con il titolo Canto del Crociato. Due temi contrastanti, il canto vero e proprio e una marcia, vi si alternano senza dar luogo a sviluppi ma solo a variazioni. La composizione non pote´ mai rivaleggiare con le Ballate di Chopin, ma e` interessante per noi perche´ rappresenta il primo momento in cui Liszt si riaccosta al bitematismo classico da cui si era polemicamente staccato all’inizio degli anni trenta. La Ballata in si (1853, 1854), senza altro titolo nell’originale, e` oggi conosciuta come ‘‘Ero e Leandro’’ perche´ molti allievi di Liszt dissero che il loro maestro si era ispirato al mito greco narrato da Museo. La Ballata venne composta dopo la So-

nata in si, e cio` si avverte subito. Due temi vengono esposti in si e subito riesposti in si bemolle. Si pensa che si tratti dei due temi principali, dei temi di Leandro e di Ero, e cosı` e` infatti, ma l’Allegro deciso che da` inizio al corpo maggiore della composizione ci fa capire che nelll’economia dell’opera i temi di Ero e Leandro sono i due temi secondari, mentre i due temi principali, astratti, che simboleggiano in Leandro l’ardimento e in Ero l’amore, sono altri. Sviluppi, riesposizione, amplissima coda ‘‘raccontano’’ tutta la vicenda, come spiega punto per punto Claudio Arrau, che non era un sentimentaloide ma che nel programma della Ballata ci credeva, e secondo me con ragione. Il mare oscuro ma non ostile accompagna con il suo brontolio la traversata a nuoto dell’Ellesponto di Leandro, poi diventa minaccioso, raffiche di vento e cavalloni giganteschi sommergono il povero ragazzo, che annega (Arrau indica il punto preciso in cui cio` avviene). Si possono successivamente cogliere senza difficolta` la disperazione e il compianto di Ero e l’apoteosi di Leandro, il cui tema viene riesposto e variato due volte, inframmezzato dal tema dell’amore, e variato altre due volte con una accumulazione parossistica della sonorita`. Liszt termino` in un primo tempo il pezzo con due pagine esaltate e potentissime, ma in un secondo tempo sostituı` questa fine con la ripresa del tema di Ero, finendo quietamente. La Ballata in si, come la Sonata, godette per molto tempo di pessima stampa, ma ormai e` stata ‘‘rivalutata’’ da tempo grazie alle esecuzioni di Arrau e di Horowitz, ed e` effettivamente un pezzo che colpisce al cuore un pubblico non piu` disposto a discettare di musica assoluta e di musica a programma. Le Leggende (1863, 1866) sono due: San Francesco d’Assisi. La predicazione agli uccelli e San Francesco da Paola cammina sui flutti. La seconda Leggenda non ci sorprende. Liszt era gia` da tempo un pittore in musica specializzato nelle acque (abbiamo appena visto come facesse dell’Ellesponto il protagonista in negativo della Ballata n. 2), e quindi le ondate che il Santo affronta impavidamente per attraversare lo Stretto di Messina do303

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Franz Liszt

De Profundis. Salmo strumentale

po il rifiuto dei barcaioli di traghettarlo rientra in uno stile che conosciamo (e che, s’intende, ammiriamo). Anche il canto solenne, simbolo della fede incrollabile che vince la natura, rientra in ambiti di espressione che Liszt aveva gia` sondato piu` volte. La prima Leggenda, ispirata al sedicesimo capitolo dei Fioretti di S. Francesco, ci sorprende invece del tutto. Qui si trattava di inventare qualcosa che rendesse l’idea del canto degli uccelli. Non il canto dell’usignolo, di cui Liszt era gia` esperto, ma il cinguettio di una miriade di piccole creature alate che accorrono festanti ad ascoltare la parola del Poverello d’Assisi. Volatine, trilli, scale e disegni cromatici rendono perfettamente cio` che Liszt vuole comunicarci. Il recitativo che arriva quando il cinguettio si e` calmato non e` qui il simbolo di qualcosa ma e` proprio la predica, nel tono tranquillo e privo di tensione oratoria tipico di San Francesco, e l’inno di lode a Dio che segue non lo cantano solo i passeri, ma tutto il creato. Liszt, che

in certe pagine delle Armonie poetiche e religiose si era mostrato prossimo alla religiosita` dei pittori nazareni, qui si avvicina ai preraffaelliti: il paragone con il Walter Pater narratore di leggende medievali viene spontaneo, e secondo me del tutto giustamente. L’11 luglio 1863 il Papa Pio IX accompagnato da due alti prelati si reco` nel Convento della Madonna del Rosario in cui Liszt viveva in una cella monacale, lo saluto` dicendogli ‘‘Mio caro Palestrina’’, e dopo una breve conversazione gli chiese di suonargli qualcosa. Liszt suono` la Leggenda di S. Francesco d’Assisi, e poi il ‘‘Casta diva’’: il Sommo Pontefice, commosso, si alzo` dalla sedia, si accosto` al pianoforte e canto` tutta l’aria di Bellini – con voce di baritono. Possiamo dire che accompagnando un Papa in Casta diva Liszt aveva conquistato un primato imbattibile, e che con la Leggenda si era forse giocato il posto di successore di Palestrina?

I Concerti Il catalogo lisztiano dei lavori per pianoforte e orchestra e` assai piu` ampio di quanto di solito si crede. Negli anni venti Liszt compose un Concerto in la che, a detta di Moscheles, conteneva ‘‘caotiche bellezze’’ ma che e` andato smarrito. Nel 1830 comincio` a lavorare sul De Profundis. Salmo strumentale (1830-1840, 1988 nel completamento di Joseph Acs), su cui ritorno` piu` volte nel corso della decade ma che non finı` mai. Ne utilizzo` invece una parte in una delle tante versioni del Totentanz, espungendola pero` nella versione definitiva. Il De Profundis fu completato in modi diversi da diversi curatori negli ultimi decenni del Novecento, fu eseguito e registrato in disco. E` un lavoro molto ampio (circa trentaquattro minuti) in un solo movimento articolato in piu` sezioni, una specie di poema sinfonico avanti lettera che con la cupezza del salmo e l’espressione cavalleresca di una parte a modo di polacca da` l’impressione di una affinita` culturale con il neogotico che si stava imponendo in Francia grazie all’architetto Viollet Le Duc. Sempre nel 1830 Liszt comincio` a comporre un pezzo per pianoforte e archi, Male´ diction (1830-1840, 1915), che avrebbe dovuto far parte, sembra, di un trittico. Male´ diction e` un lavoro, byronianamente corrusco, fatto soprattutto di gesti sonori che non mancano di efficacia ma che non posseggono la forza icastica di quella che Verdi definiva la ‘‘parola scenica’’. Il De Profundis e Male´ diction sono tuttavia molto indicativi della volonta` del giovane Liszt di ‘‘riformare’’ la musica strumentale facendola diventare, attraverso il contenuto programmatico, un linguaggio capace di

coinvolgere nuove classi di ascoltatori. La Grande Fantasia Sinfonica su temi del Le´ lio di Berlioz (1834, reperibile solo in noleggio) appartiene invece al Liszt che prende in prestito temi da elaborare (in questo caso la Ballata del pescatore e la Canzone dei briganti). Liszt presento` questa Fantasia a Parigi il 24 novembre 1834 sotto la direzione di Berlioz in una serata in cui venne eseguito anche il Le´lio, ma la riprese poi una volta sola, il 9 aprile 1835. Sparita dalla circolazione per piu` di cent’anni, la Fantasia fu dissotterrata a fine Novecento per il Festival Berlioz di Lyon e registrata in edizioni complete delle opere per pianoforte e orchestra di Liszt. I due Concerti e il Totentanz furono schizzati alla fine degli anni trenta, durante il soggiorno in Italia, ma Liszt non ando` oltre qualche sia pure esteso abbozzo. Tra gli abbozzi si trovava molto piu` materiale in Mi bemolle di quello confluito nel Concerto n. 1. Si pensava che si trattasse di materiale di scarto. Invece un piu` attento esame fece saltar fuori addirittura un altro Concerto in Mi bemolle, che ebbe qualche esecuzione e che fu registrato, ma che e` subito riaffondato nel nulla. Scomparsa e` altresı` la Fantasia su temi delle Rovine d’Atene di Beethoven (1848-1852, 1865) che piaceva molto a Ferruccio Busoni, il quale ci ha lasciato della versione per pianoforte solo la sua interpretazione in un rullo del pianoforte riproduttore. Liszt scelse alcuni temi delle musiche di scena di Beethoven per il dramma di Kotzebue, e fra questi quello, notissimo, della Marcia turca che era servita allo stesso Beethoven per una serie di variazioni pianistiche. La scrittura pianistica della

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Danza dei morti

Fantasia di Liszt e` supervirtuosistica, e l’orchestra e` molto folta (con tanto di trombe, tromboni e la musica turca formata da piatti, triangolo e grancassa), ma i due potenziali contendenti restano preferibilmente separati e solo a tratti trovano un rapporto di integrazione che prefigura quello dei Concerti. La piu` importante scoperta, in questo senso, consiste nell’uso del pianoforte come elemento coloristico dell’orchestra: il che accade nella sezione conclusiva del pezzo, ed e` favorito dalla musica della marcia turca, che induce Liszt a sviluppare il rapporto fra gli strumentini e il registro sopracuto del pianoforte. La strumentazione pianistica percussiva e il tono sottilmente parodistico fanno pensare talvolta a un Petrusˇka avanti lettera. Il Concerto in stile ungherese di cui si parlo` negli anni ottanta del Novecento era in realta` un lavoro di Sophie Menter strumentato da Cˇajkovskij. Siccome il nome Menter non diceva piu` nulla, e siccome la Menter era stata un’allieva prediletta di Liszt, si suppose che il Maestro le avesse graziosamente donato il materiale di un suo progetto non portato a termine. Bislacca teoria che fece un piccolo botto e nulla piu`. Restano cosı`, finiti ed eseguiti da Liszt o dai suoi allievi, sei lavori: i due Concerti, la Fantasia ungherese, il Totentanz, la trascrizione per pianoforte e orchestra della Fantasia op. 15 di Schubert e la trascrizione per pianoforte e orchestra della Polacca brillante op. 72 di Weber (con l’introduzione presa dalla Polacca op. 21). La Fantasia su temi popolari ungheresi (1852, 1864) e` la trascrizione della Rapsodia ungherese n. 14, con inserzione di nuovi episodi che imitano le funamboliche cadenze dei suonatori di cimbalom. La struttura, che e` quella della Rapsodia, presenta la particolarita` di un tema iniziale, quasi marcia funebre con tanto di rulli di tamburi velati, che rovescia improvvisamente il suo carattere diventando canto trionfale. L’Allegretto alla zingaresca che segue e` strumentato in modo da riprodurre le sonorita` delle orchestrine zigane, la parte conclusiva, vivacissima danza, conclude splendidamente la composizione, non senza una ripresa del canto trionfale. La Fantasia ungherese, un tempo notissima, e` praticamente scomparsa dai programmi concertistici di oggi. Rimane invece in repertorio la Danza dei morti (1838-1859, 1863), che anche in Italia e` ormai nota con il titolo tedesco, Totentanz. I primi schizzi risalgono al 1838, dopo che Liszt aveva visitato il Camposanto di Pisa e visto l’affresco Il Trionfo della Morte, allora attribuito ad Andrea Orcagna ed oggi, con qualche dubbio, a Buffalmacco. Si tratta in sostanza di variazioni sul Dies Irae, congegnate in modo da farvi apparire il

Franz Liszt

mondo dei cavalieri, il mondo dei prelati e l’esercito della Morte. Il lavoro costo` a Liszt molta fatica. Egli ne fece una prima versione completa nel 1849, con l’inserimento di un episodio del De Profundis, la rielaboro` nel 1853, ma arrivo` finalmente al traguardo, senza l’aggiunta del De Profundis, solo nel 1859. Alla prima esecuzione – 15 aprile 1865 all’Aja, solista il dedicatario ed allievo e genero di Liszt Hans von Bu¨ low – la reazione del pubblico fu molto tiepida e la critica fu acerbamente ostile. Il Totentanz continuo` del resto a suscitare reazioni contrastanti. Chi scorgeva in esso grandiosita` medievale la giudicava degna illustrazione musicale dell’affresco, ma c’era anche chi vi vedeva un monumento del kitsch, pieno di effetti senza causa e apprezzabile solo in alcuni, rari momenti. La predilezione che per il Totentanz ebbero artisti come d’Albert, Busoni, Barto´k, Benedetti Michelangeli dovrebbe costituire un valido lasciapassare per l’immortalita`. Ma fatto sta che il Totentanz suscita spesso perplessita` anche oggi e che non e` prescelto di frequente dai concertisti. I due Concerti affrontano e risolvono in un modo genialissimo un problema che si era presentato fin dagli anni trenta e che era stato messo a fuoco con il solito acume da Schumann nel 1839. Il concerto biedermeier aveva enfatizzato all’estremo il ruolo del solista sacrificando l’orchestra, ridotta a funzione di caudatario del principe. Schumann rilevava il fatto che di recente erano apparsi pochi nuovi concerti, e diceva: ‘‘Sarebbe di certo una spiacevole perdita se il Concerto per pianoforte e orchestra andasse completamente in disuso, d’altra parte non si puo` dar torto ai pianisti quando dicono: Non abbiamo bisogno di nessun aiuto, anche da solo il nostro strumento e` assolutamente completo. E quindi dobbiamo stare tranquillamente ad aspettare che arrivi il genio che sappia collegare l’orchestra al pianoforte in modo nuovo e scintillante, sı` che il protagonista seduto al pianoforte possa dispiegare tutta la ricchezza del proprio strumento e della propria arte mentre pero` all’orchestra e` affidato qualcosa di piu` di una semplice funzione di spettatore, potendo intervenire in scena arricchendo la trama musicale con i suoi multiformi caratteri’’. Piu` avanti Schumann si chiedeva se fosse stato possibile ‘‘introdurre efficacemente nel concerto anche lo scherzo, quale ormai ci e` stato reso familiare dalla sinfonia e dalla sonata’’. Sempre nel 1839 Schumann si mise a comporre un Concerto in re minore che abbandono` ben presto. Nel 1841 compose la Fantasia, bellissimo lavoro che non risolveva pero` il problema perche´ tutto lo sviluppo era un monologo del solista. Ne´, quattro anni dopo, l’aggiunta alla Fantasia di un 305

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Intermezzo e di un Finale avviava il problema a soluzione perche´ se nell’Intermezzo il ruolo dell’orchestra era pari a quello del solista, nel Finale la struttura tornava ad essere quella del concerto biedermeier. Il Concerto op. 54 di Schumann, al di la` del suo valore artistico, non rappresentava dunque la soluzione di un problema che la cultura aveva messo a fuoco. I Concerti che Henry Litolff compose negli anni quaranta lo risolvevano invece, il problema, e Litolff, oltre che a individuare una scrittura sinfonica che soddisfaceva le esigenze sia del solista che dell’orchestra, introduceva nel concerto lo scherzo. Proprio a Litolff e` dedicato il Concerto n. 1 in Mi bemolle di Liszt (1830-1856, 1857). La prima idea tematica del Concerto risale addirittura al 1830. L’idea musicale e` gia` quella definitiva, la strumentazione e` ben diversa: ipervirtuosistica e piena di rischi com’e`, sembra la trascrizione di un originale violinistico. Nel 1849 Liszt, ormai padrone di una tecnica trascendentale specificatamente pianistica, lavoro` intensamente sul Concerto. Ma la sua esperienza di orchestratore era ancora limitata. Cosı`, il Concerto fu sottoposto ad una revisione nel 1853 e venne di nuovo ritoccato nel 1856, dopo la prova del fuoco della prima esecuzione che aveva avuto luogo a Weimar il 17 febbraio 1855 con Liszt solista e Berlioz direttore. Era passato piu` d’un quarto di secolo da quando Liszt aveva buttato sulla carta la prima idea del Concerto, e c’erano voluti tutti quegli anni per arrivare alla fine a mettere a punto meno di venti minuti di musica. Ma il risultato compensava la fatica. L’importanza storica del Concerto n. 1 viene generalmente riconosciuta per due motivi: 1) in un movimento unico articolato in quattro parti senza soluzione di continuita` si ritrovano i tre movimenti tradizionali del concerto e in piu` lo scherzo e, 2) la parte finale impiega soltanto, tali e quali o trasformati, i temi delle tre parti precedenti. Ma sul valore estetico del Concerto vengono spesso espresse riserve, soprattutto per il kitsch della marcetta che apre la quarta parte e per il volgare baccano delle ottave rombanti dell’ultima pagina. Bisogna invece secondo me badare innanzitutto alla capacita` di sintesi di cui Liszt da` dimostrazione: venti minuti era diventata la durata ordinaria dei primi movimenti dei concerti biedermeier, mentre qui in meno di venti minuti abbiamo un concerto sinfonico perfettamente delineato e completo, e con le forme delle quattro parti assolutamente originali. Nella prima parte Liszt, reinterpretando la forma dell’allegro di sonata, costruisce una architettura basata sul principio di opposizione e sul principio implorante trasformati in orgogliosa fierezza e ma306

Concerto n. 1 in Mi bemolle

gnanima umanita` di un eroe. Nella seconda parte prima espone una lunghissima, dolcissima, appassionata melodia vocalistica, poi la sviluppa spezzandola in due tronconi contrastanti, cosa che gli offre il destro per un drammatico recitativo. Quando il dissidio viene ricomposto l’ascoltatore si aspetta la riesposizione variata della melodia iniziale, mentre invece arriva in modo del tutto inatteso un episodio pastorale. Nella terza parte i temi dello scherzo e del trio sono ridotti a motti di esplosiva forza emotiva – le parole sceniche di Verdi – e vengono alternati in una serie di doppie variazioni senza far ricorso agli schemi usuali. La transizione dalla terza alla quarta parte riprende senza trasformarli i temi della prima parte e poi il tema pastorale della terza parte. E finalmente arriva la famigerata marcetta, costruita sulla melodia della seconda parte, che secondo me non e` affatto kitsch se non al modo di Mahler perche´ apre una kermesse in cui passano come in una sfilata carnevalesca tutti i temi delle parti precedenti, in certi casi trasformati e in certi altri non trasformati ma legati insieme secondo una impeccabile progressione di spettacolo. E dopo tutto cio` non si vede perche´ non si dovrebbe riconoscere che Liszt fu, nel campo del concerto, il genio atteso da Schumann. La marcetta che fa storcere il naso agli olfatti delicati non manca neppure nel Concerto n. 2 in La (1839-1861, 1863). L’abbozzo risale al 1839, al 1849 la prima stesura completa, al 1853 e al 1857 due revisioni, e al 1861 l’ultimo tocco, quattro anni dopo la prima esecuzione avvenuta a Weimar il 7 gennaio 1857 con Hans von Bronsart solista e Liszt direttore. Mentre il Concerto n. 1 era la sintesi del concerto sinfonico, del concerto con lo scherzo, il Concerto n. 2 e` un poema sinfonico con pianoforte solista, ed e` nel contempo la sintesi della fantasia biedermeier. I temi sono soltanto due: uno lirico, morbido, tenero, l’altro altero, rude, eroico. Non e` difficile scorgere nei due temi il principio femminile e il principio maschile, ma meglio ancora la dama e il cavaliere dei racconti medievali. Liszt trasforma piu` volte i due temi, creando all’interno dei due principi una galleria di personaggi: non piu` una kermesse, ma un torneo, in cui la marcetta simboleggia secondo me il trionfo dell’amor cortese. Liszt mi sembra qui vicino al medievalismo dei preraffaelliti, che sara` ancora piu` evidente nella Leggenda di S. Elisabetta. E percio` me la sento di azzardare un altro paragone ancora: la donna come Ginevra, l’uomo come Merlino, cioe` Liszt, ritratto dal preraffaellita Edward Burne Jones, appunto, nei panni del celebre Mago delle saghe bretoni.

Valzer di Mefistofele

Le Danze Liszt compose un numero straordinario di valzer. Ne ricordero` qui solo i piu` importanti. Il Valzer infernale dal Roberto il Diavolo di Meyerbeer (1841, 1841) e` una parafrasi, molto spettacolare, di una musica che aveva fatto impazzire Parigi nel 1831, quando per la prima volta era stata impiegata la luce del gas per illuminare le scene. Con il gas si si poteva aumentare o diminuire a piacere l’intensita` della luce, cosa impossibile con le candele, e l’effetto ‘‘infernale’’ del valzer era stato moltiplicato da questo nuovo mezzo di illuminazione. Nove anni piu` tardi, ancora Meyerbeer offre a Liszt l’occasione per un altro valzer spettacolare in cui l’impiego del glissando, cioe` scivolando, diventa, come dire?, onomatopeico: I Pattinatori, dal Profeta (1849-1859, 1850). Il primo valzer che entra trionfalmente nel repertorio concertistico e` pero` un altro: e` il Valzer dell’opera Faust (di Gounod, ovviamente, 1861, 1862). Liszt concilia qui il massimo della spettacolarita` con un tasso non elevatissimo di difficolta` tecnica, e la strumentazione pianistica alla ripresa del Valzer dopo l’intermezzo-idillio del primo incontro di Faust e Margherita trova un uso dello staccato che da` ‘‘visivamente’’ l’idea della maligna soddisfazione di Mefistofele. Nello stesso anno del Valzer del Faust usciva quello che sarebbe diventato il piu` celebre valzer di Liszt, celebre e battuto al punto da apparire persino stucchevole: il Valzer di Mefistofele (1859-1860, 1862) che anche gli italiani chiamano comunemente Mephistowalzer. Il sottotitolo del Mephisto, ispirato al poema di Nikolaus Lenau, e` ‘‘La danza nell’osteria di villaggio’’. Faust e Mefistofele arrivano in un villaggio in cui si sta festeggiando un matrimonio. Mefistofele sa benissimo che cosa si agiti nel compagno di viaggio che ha appena riacquistato la giovinezza, e gli dice (la traduzione e` di Vincenzo Errante): ‘‘L’ardore del tuo sguardo mi rivela / che il folle stormo de’ tuoi sensi, a lungo / costretto in prigionia, libero irrompe / fuor della carne infine. Una femmina / stringi, ed all’orgia della danza sfrenati’’. Faust mette subito a fuoco una bella ragazza ‘‘dagli occhi neri’’, ma non ha l’‘‘ardire’’ di avvicinarla e di invitarla alla danza (nell’osteria del villaggio vige evidentemente lo stesso cerimoniale dei balli di societa`). Allora Mefistofele lo rimbrotta aspramente, si rivolge ai suonatori, prende in mano un violino, e la danza villereccia si trasforma in danza orgiastica, descritta da Lenau con agitazione spasmodica e con immagini di sensualita` travolgente. Faust balla con la ragazza dagli occhi neri, e ballando la conduce fuori dalla taverna. I due giovani si inoltrano nella foresta, la musica svanisce. Ma il violino di

Franz Liszt

Mefistofele viene sostituito dall’usignolo, che ‘‘esaspera col canto il desiderio della coppia bramosa, come fosse del demonio la voce’’. Morale (prevedibilissima): ‘‘Il mare immenso della volutta` rumoreggiando li sommerge e copre’’. Liszt parte da Lenau ma non lo segue fino in fondo, perche´ l’impaginazione del suo valzer non corrisponde in tutto e per tutto all’impalcatura del poema. Manca la parte introduttiva e il valzer inizia quando Mefistofele comincia a suonare, di modo che non esiste il contrasto fra la musica dei villici e la musica demoniaca. Questa e` in verita` una scelta che elimina solo un aspetto secondario, sebbene musicalmente stimolante, del poema. Pero` la danza orgiastica viene da Liszt interrotta con un lungo episodio, dolce e sognante, tanto che secondo la mia opinione si verifica una commistione drammaturgica fra il racconto di Lenau e il primo incontro di Faust e Margherita in Goethe (e in Gounod). Il fatto di stare lavorando nello stesso periodo al Valzer del Faust di Gounod potrebbe aver suggerito a Liszt questa modifica, che non e` di poco conto. La forma del Mephistowalzer e` in tre parti, con nette ed equilibrate suddivisioni. Non si tratta pero` della forma tradizionale con il ‘‘da capo’’, ma di una sua variante di grande interesse. La sezione introduttiva (con la citazione della intonazione per quinte giuste delle corde del violino) e` seguita dal tema principale del valzer e da un secondo tema, e il carattere espressivo della prima parte e` quello della danza orgiastica di Lenau. Liszt apre pero` la seconda parte con un lungo momento di tenerissimo idillio, drammaturgicamente molto elaborato: vi troviamo una sezione che potremmo chiamare della dichiarazione d’amore di Faust, un intermezzo che e` come un commento beffardo di Mefistofele, la risposta della ragazza, di nuovo la risata di Mefistofele, e il canto estatico dei due giovani insieme, cioe` un vero e proprio duetto d’amore in cui non tace la presenza del Tentatore. Terminato questo episodio ci aspetteremmo la riesposizione della prima parte. Liszt inventa invece un grandioso sviluppo dei due temi principali. La drammaturgia di Lenau, che era univoca, viene sostituita dall’opposizione di Cielo e Inferno, di Bene e Male. Lo sviluppo simboleggia la lotta fra i due principi opposti e la vittoria del Bene: tra squilli di trombe, rombi di tuono e guizzare di fulmini il tema di Faust, in imponente veste, sbaraglia il nemico, il vortice caotico si dissolve, la risata di Mefistofele non e` piu` trionfante, il ritmo di valzer scompare e il tema del duetto viene ripreso estaticamente prima da Faust, poi dalla ragazza, infine... dall’usignolo, che non ‘‘esaspera col canto il 307

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Danza macabra

desiderio della coppia bramosa’’ ma lega invece il canto d’amore con una chiusa trionfale. Si potrebbe anche pensare che la chiusa simboleggi ‘‘il mare immenso della volutta`’’. Ma secondo il mio parere il significato drammaturgico della chiusa non e`, perche´ non potrebbe piu` essere, quello di Lenau: e`, piuttosto, l’et amor vincit omnia. Decenni di usura, migliaia di esecuzioni ciecamente virtuosistiche hanno deteriorato l’immagine del Mephistowalzer, che oggi non gode in genere di buona stampa. Si tratta invece di una delle creazioni piu` geniali di Liszt. Nel 1876 Liszt ritorna al demoniaco con la trascrizione della Danza macabra di Saint-Sae¨ns (1876, 1876), che e` una trascrizione fedele e molto asciutta, gia` presaga del tardo stile lisztiano. Il Mephistowalzer n. 2 per orchestra (1880-1881, 1881) e` dedicato a Saint-Sae¨ns. Liszt ne pubblico` anche la trascrizione per pianoforte. Qui manca l’impianto narrativo: Liszt esplora piuttosto, nella figura di Mefistofele, l’idea del demoniaco. Il pezzo fu eseguito da Sofronickij e da Richter ma non ha mai potuto minimamente scalfire la fama del fratello maggiore. Il Mephistowalzer n. 3 (1883, 1883) e` tipico del tardo stile di Liszt: pianisticamente scabro, costruito con intere ripetizioni di sezioni senza variazioni, e senza sviluppi, e armonicamente visionario, con accordi, pensati come colori, sconosciuti al lessico contemporaneo e privi di rapporti funzionali fra di loro, con vere e proprie sospensioni del senso tonale. Nessuno dei grandi concertisti si e` mai occupato di questo valzer scandalosamente rivoluzionario, e in verita` sembra impossibile che possa diventare un pezzo da concerto, ma e` molto importante per capire come il personaggio di Mefistofele, raffigurazione del male, continuasse a destare interesse in un Liszt che aveva preso gli ordini minori (era anche esorcista!) e che scriveva a getto continuo musica sacra. Il Mephistowalzer n. 4 (1885-1886, 1952) fu lasciato incompiuto da Liszt. Chi lo completo` si limito` a trovare una chiusa, e in questo modo il pezzo ritrova, forse contro le intenzioni di Liszt, la concisione che era stata perduta nel precedente Valzer. Per molto tempo si ritenne che il quarto Mephistowalzer fosse le Bagatella senza tonalita` (1885, 1956), pezzo visionario, che fu il cavallo di troia per portare Liszt all’attenzione delle avanguardie del Novecento, e che fa onore al suo titolo senza minimamente far danni alla musica. Tra i piu` riusciti valzer di Liszt devono essere cita-

te le Serate di Vienna. Valzer-capricci da Schubert (1852, 1852-1853), fantasie che legano insieme valzer di Schubert tratti da varie sue raccolte. La felice scelta e i felici raggruppamenti dei temi, e l’eleganza della strumentazione hanno fatto delle Serate uno tra i piu` riusciti pastiche di Liszt, artista capace di calarsi nei panni altrui senza cambiare i panni proprii. Liszt compose in vecchiaia i Quattro Valzer dimenticati, Valses oublie´ es (1881-1883, 1881, n. 1, 1884, nn. 2 e 3, 1954, n. 4). Se il primo di questi Valzer e` ancora un elegantissimo pezzo da salotto, gli altri sono come musica suonata da un organetto, sono nervosi, meccanici, annunziano profeticamente che Stravinskij e` gia` nato e che fara` qualcosa di simile nel Petrusˇ ka. Ma con una differenza essenziale: non c’e` in Liszt l’ironia stravinskiana: c’e` una contemplazione stuporosa che ci lascia attoniti. Allo stesso indirizzo estetico appartiene anche l’ultimo... omaggio di Liszt a Mefistofele, la Polca di Mefistofele (1883, 1883), che puo` essere annoverata fra le pochissime composizioni del tardo Liszt eseguite oggi con una certa frequenza. Gli altri contributi di Liszt alle danze sono meno importanti. Il Gran Galop cromatico (1838, 1838) e` travolgente musica circense di grandissimo effetto che per il fatto di presentare successioni cromatiche di accordi fu addirittura ascritta fra gli antenati della dedacafonia. La Mazurca brillante (1850, 1850) si mantiene nel campo del virtuosismo elegante e non considera cio` che della mazurca aveva fatto Chopin. Le Due Polacche (1851, 1852) sono invece una specie di commentario alle Polacche op. 40 di Chopin. Potremmo definirle paralipomeni, termine usato da Liszt in una delle varie versioni della Fantasia quasi Sonata dopo una lettura di Dante, paralipomeni nel senso di opera che costituisce la continuazione di un’opera precedente. La prima delle due Polacche, in do, e` riferibile al tono sofferto e nostalgico della seconda Polacca di Chopin, la seconda, in Mi, e` un grande e pomposo pezzo da concerto che, nell’ambito espressivo della Polacca ‘‘Militare’’ op. 40 n. 1, amplia la strumentazione pianistica mettendo la musica, come dire?, in alta uniforme, pronta per la parata. Polacca, trio, polacca da capo. Ma il da capo e` variato in un modo fantasmagorico, con festoni floreali di suono che evitano al pezzo di cadere nel de´ja` vu della semplice ripetizione.

Le Fantasie Il comparto delle fantasie e` quello meno studiato dell’opera di Liszt. In genere si scelgono tre o

quattro pezzi-chiave e si commentano quelli, senza cercare di vedere la molteplicita` dell’insieme. Per-

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Reminiscenze su motivi favoriti dell’opera Lucrezia Borgia

cio` io, che sono di diverso avviso, mi prendero` tutto lo spazio di cui ho bisogno, anche se cio` potra` parere a qualcuno eccessivo. La musica possiede quattro tipi di fantasia: la fantasia tout court su temi originali, la fantasia drammatica su temi di melodrammi altrui, oppure di temi popolari (nel qual caso si identifica con la rapsodia), la parafrasi su un tema soltanto di melodramma, e il potpourri, centone di temi operistici non legati da ragioni drammaturgiche. Liszt e` senza se e senza ma il piu` grande produttore di fantasie drammatiche e di parafrasi che sia mai esistito. Comincia con un lavoro che intitola con modestia Improvviso su temi di Rossini e Spontini (1824, 1824), ma che in realta` e` un potpourri perche´ vi sono impiegati due temi della Donna del lago e della Armida e due dell’Olimpia e del Fernand Cortez. Liszt aveva allora tredici anni e, del resto, chi sarebbe mai riuscito a legare drammaturgicamente gli incantesimi dell’Armida, la Scozia della Donna del lago, la Efeso della Olimpia e il Messico del Fernand Cortez? Non ci sarebbe riuscito nemmeno Domeniddio. I quattro temi sono percio` tenuti insieme un po’ con lo spago ma avviano con dignita` un discorso destinato a durare poi fino al 1882, quasi sessant’anni piu` tardi. A diciott’anni Liszt si fa notare con la Grande Fantasia sulla tirolese dell’opera La Fiance´e (di Auber, 1829, 1829), che e` in realta` una parafrasi e il cui maggior pregio consiste nello sfruttamento intensivo e a grande velocita` delle note ribattute, rese possibili sul pianoforte con l’adozione del doppio scappamento inventato di recente dal costruttore Se´bastien E´rard. Prosegue con altri lavori, Liszt, ma fa delle scoperte timbriche e meccaniche solo con la Grande Fantasia di bravura sulla Campanella (1831-1832, 1834), orgogliosamente creata per non far sottostare il pianoforte al violino del mago Paganini. La Fantasia e` un bel rebus. A leggerla sembra magnifica, ma tra gli esecutori che hanno provato a farla diventare suono l’unico che non sia rimasto bruciato e` John Ogdon: uno solo da quando e` nato il disco! Una vera e propria fantasia paganiniana, risalente al 1845 e in due versioni, nessuna delle quali ultimata, fu scoperta piu` di cent’anni piu` tardi e pubblicata nel 1989 con il titolo Variazioni di bravura su temi di Paganini. I temi trattati da Liszt sono quello della Campanella e quello del Carnevale di Venezia, la difficolta` tecnica e` molto alta, e dopo pochi anni dalla pubblicazione il pezzo e` sprofondato nell’oblio. Nella seconda meta` degli anni trenta Liszt comincia a dedicarsi con passione alla fantasia su temi di opere italiane. Due anni dopo La Campanella crea una parafrasi di grande successo che viene intitola-

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ta Divertimento sulla cavatina ‘‘I tuoi frequenti palpiti’’ (di Pacini, 1835-1836, 1837), e che insieme con le Reminiscenze della Juive (di Hale´ vy, 1835, 1836) entra a far parte del primo recital tenuto da Liszt, a Parigi, nel quale le due fantasie hanno per compagna la Sonata op. 106 di Beethoven in prima esecuzione pubblica. Ma nello stesso tempo Liszt conquista con le Reminiscenze della Lucia di Lammermoor (1835-1836, 1840), che sono anch’esse una parafrasi, una tecnica del suono ancora sconosciuta, e cioe` il cantabile ottenuto con le cadute del braccio, una scoperta che mima veramente per la prima volta il canto teatrale capace di diffondersi in grandi sale. Reminiscenze, dice Liszt, forse perche´ si occupa di un solo brano dell’opera donizettiana, il concertato ‘‘Chi mi frena in tal momento’’. Tuttavia, che sia reminiscenza o che sia parafrasi (i termini che ho prima elencato non erano istituzionalizzati), Liszt scopre anche nella Lucia che per avviare le parafrasi ci sta bene un inizio che metta sinteticamente in evidenza il dramma: la breve introduzione della Lucia riesce infatti a farci capire perfettamente che il pezzo vertera` sullla furia e sul dolore, anche se non sappiamo che il furente e` Enrico e la dolorosa e` Lucia. E questa e` una grande conquista. Dopo la Lucia passano dal teatro alle dita di Liszt ancora il Donizetti della Lucrezia Borgia, e I Puritani e la Sonnambula di Bellini. Dei Puritani riuscira` bene a Liszt, un lustro dopo, il rifacimento intitolato Introduzione e polacca (1841, 1842), mentre le Reminiscenze (1836, 1837), pluritematiche, presentano accanto a pagine perfette alcune incertezze di concezione. Liszt sta individuando lo schema che poi seguira` sempre, ma non e` ancora in grado di dominarlo del tutto. Pero` quel diavolo d’uomo affronta anche la rapsodia nell’Improvviso sul Ranz des vaches (1836, 1836), frutto del suo soggiorno in Svizzera che sara` cosı` commentato da Schumann: ‘‘Echi, suoni di campanacci, giovani che cantano Jodel, prati color verde dorato: questo e altro ancora vediamo nell’Improvviso, grazie alla fertile fantasia del grande virtuoso’’. Nessun grande virtuoso di oggi ci ha ancora guidati nella scoperta di questo Improvviso, ma il nome di Schumann ci impone di cavarci rispettosamente il cappello. Gli anni quaranta si aprono per Liszt con la Fantasia sul Freischu¨tz (1840, 1842) che non si conquista la sua nicchia perche´ la fama dell’opera di Weber e` limitata ai paesi tedeschi, mentre la Fantasia sopra motivi dell’opera La Sonnambula (1840, 1842) e le Reminiscenze su motivi favoriti dell’opera Lucrezia Borgia (1841-1842, 1848), oltre che a contenere entrambe pagine meravigliose 309

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di strumentazione pianistica, nascono da opere popolarissime. Pero` a far fare a Liszt il definitivo balzo in avanti nella costruzione di una fantasia sono le Reminiscenze della Norma (1841, 1844), che vengono tenute nel cassetto per anni insieme alla Lucrezia perche´ Liszt vuole portare lui i suoi lavori piu` sbalorditivi in tutta Europa. Quando decide di pubblicare la Norma quel dongiovanni ingenuo che e` Liszt si fa pero` mettere sconsideramente nel sacco dalla bellissima pianista Marie Pleyel, alla quale dedica il pezzo scatenando le ire funeste della sua convivente Marie d’Agoult, che sospetta di dover vedere in Norma se stessa e in Adalgisa la supposta rivale. Nella Norma Liszt impiega l’inizio della Sinfonia e ben sei temi, collocati in una rete tonale basata sull’intervallo di terza maggiore e sull’alternanza del modo maggiore e del modo minore (sol-Sol-si-Si-mi bemolle-Mi bemolle). La rete tonale o, credo io, una precisa ragione drammaturgica fa sı` che ‘‘Guerra, guerra’’ arrivi, al contrario di quanto accade nell’opera, dopo, non prima di ‘‘Qual cor tradisti’’. La mia opinione e` questa. Liszt vuole rivelare il dramma intimo di Norma come donna. Ora, in ‘‘Guerra, guerra’’ il popolo, istigato dalla sacerdotessa Norma, si esalta nella smania di farla vedere brutta ai romani. E cio` non serve a Liszt, che nella sua drammaturgia ha eliminato Pollione. Il coro, coro di odio, viene cosı` sfruttato da Liszt per esprimere il sentimento popolare dopo che Norma ha confessato il tradimento dei sacri voti. E per chi ascolta le Reminiscenze senza pensare alla Norma va benissimo cosı`. La costruzione e` superba, la strumentazione pianistica mostra un po’ la corda in ‘‘Ite sul colle’’ ma giganteggia in ‘‘Qual cor tradisti’’, con l’effetto del battito ossessivo dei timpani in una scrittura di miracolosa densita`, e in ‘‘Guerra, guerra’’ per la tagliente percussivita` che fa pensare addirittura a Prokof’ev. Nelle ultime pagine Liszt si impadronisce da par suo della tecnica dell’‘‘effetto delle tre mani’’ che era stato inventato pochi anni prima nel Mose` di Thalberg per rendere sul pianoforte lo scatenarsi di ondosi suoni rapidissimi che spazzano tutta la tastiera, e nello scolpire nello stesso tempo nel registro centrale la preghiera ‘‘Dal tuo stellato soglio’’. ‘‘Arpeggiando con grandezza’’ e ‘‘sempre marcatissimo la melodia’’, prescrive Liszt all’esecutore. E se questo ce la fa, il che avviene di rado, l’effetto non e` inferiore a quello che si raggiunge nel grande concertato dell’opera. Si deve infine osservare, come gia` accennavo prima, che con la sua scelta dei temi Liszt crea una drammaturgia basata soltanto sul contrasto fra druidi e guerrieri da una parte e dall’altra la Norma donna, non sacerdotessa. Percio`, credo, 310

Reminiscenze della Norma

viene anche sacrificato il brano piu` celebre dell’opera, ‘‘Casta Diva’’, che solo nella cabaletta ‘‘Ah! bello a me ritorna’’ rivela l’angoscia della povera incauta. Ferruccio Busoni scrisse queste sante parole: ‘‘Chi ha ascoltato o suonato senza emozione il finale della Lucrezia, l’episodio centrale della Norma, l’adagio della Sonnambula non e` ancora arrivato a Liszt. Forse per godere pienamente questa musica occorre avere una vena di sangue latino, comunque un sangue germanico non troppo puro’’. Busoni, che per parte di padre era di sangue latino e per parte di madre di sangue tedesco non troppo puro, prediligeva anche il Valzer a capriccio su motivi di Lucia e Parisina (1841, 1842, Parisina e` di Donizetti), che come in un balletto fa danzare Lucia ed Edgardo sulle note alate di ‘‘Verranno a te sull’aure’’. Il 1841 e` per Liszt un anno fecondissimo, perche´ oltre alla Norma ospita le Reminiscenze del Don Giovanni (1841, 1843). Le fantasie sulla Norma e sul Don Giovanni rappresentano il culmine dell’attivita` di Liszt in questo campo. Per quest’ultimo lavoro egli sceglie tre temi: l’apparizione del Commendatore, il Duetto Zerlina-Don Giovanni e la canzone di Don Giovanni ‘‘Fin ch’han dal vino’’ con minacciose citazioni della musica del Commendatore. Il disegno drammaturgico e` chiaro: la giustizia divina, l’amore, il libertinaggio. Il centro e` rappresentato dal Duetto, che viene preso per intero (non la sola prima parte, come aveva fatto Chopin nelle Variazioni op. 2) e che viene variato. Liszt sfruttando la sua scienza del cantabile, con la sapiente dislocazione sui diversi registri rende perfettamente ‘‘verosimili’’ le due voci del basso e del soprano (questo effetto riesce a meraviglia sui pianoforti degli anni quaranta, con molta difficolta` sui pianoforti di oggi). Nell’apparizione del Commendatore il ‘‘Don Giovanni, a cenar teco’’ risuona terribile e fatale, circondato da ondate di suoni cupi, sinistri. L’ultima parte presenta per noi un problema di interpretazione. Data la complessita` della scrittura, il tempo di ‘‘Fin ch’han dal vino’’ non puo` essere eseguito alla velocita` a cui siamo oggi abituati. Nel 1841 i cantanti prendevano un tempo piu` lento? Oppure Liszt bado` a un effetto di scatenata sensualita` pur in un tempo piu` lento? Non saprei proprio dare una risposta. Concludero` dunque il discorso citando di nuovo Ferruccio Busoni, il quale dice che ‘‘per chiarezza, disinvoltura e attenuazione del lato patetico ci si avvicina qui nuovamente all’originale mozartiano, in quel senso a cui mi sembra giusto mirare’’. Liszt aveva affrontato negli anni trenta il teatro francese con la parafrasi gia` citata dall’Ebrea di Hale´vy e con la Grande Fantasia su temi dell’ope-

Pezzo fantastico su temi del Rienzi

ra Gli Ugonotti (1836, 1837), che per arditezza di concezione e resa strumentale prelude alle Reminiscenze della Norma. Ma, stranamente per lui, cosı` pronto a cogliere le novita` del momento, egli lascia passare dieci anni prima di occuparsi dell’altra opera di Meyerbeer, popolarissima: solo nel 1841 escono le Reminiscenze del Roberto il Diavolo (1841, 1841), che sono una parafrasi, molto riuscita e molto difficile, del Valzer infernale. Superfluo dire che questa parafrasi rappresenta la prima scorribanda di Liszt in un campo, il demoniaco, in cui sarebbe ritornato di frequente. Nel 1848, quando Liszt ha ormai abbandonato l’attivita` concertistica, compare nel suo catalogo per la prima volta il nome di Verdi con la Salve Maria dal Je´rusalem (1848, 1848). Il pezzo non presenta nessuna difficolta` tecnica ma si spinge invece nella ricerca di una sonorita` velata che circonda il canto. Il principio tecnico e` sempre quello del suonare con tre mani, ma in una dimensione intima e raccolta che non ha bisogno di virtuosismi quanto di una tecnica trascendentale del tocco. All’anno successivo risale l’Ernani. Parafrasi da concerto (1849, 1860) che non viene pero` ultimato e che verra` ripreso solo dieci anni piu` tardi. La mano di Liszt e` sicurissima, ma la Parafrasi, che in realta` e` una fantasia, non puo` essere annoverata fra le sue migliori. Divenuto nel 1847 direttore a Weimar del teatro di corte ed essendosi ritirato dall’agone concertistico, Liszt continua sı` a comporre parafrasi e fantasie, ma non piu` per suo uso personale, e quindi rinuncia a prodezze legate alle sue straordinarie doti psicofisiche. La Marcia nuziale (1849-1850, 1851) di Mendelssohn, nella quale viene inserito un frammento della Danza degli Elfi, presenta ancora difficolta` trascendentali altissime e richiede un pianista di grandi potenzialita` tecniche. Altre parafrasi sono meno esigenti. Nel 1860 vengono pubblicati l’Ernani di cui ho appena detto, il Miserere del Trovatore (1859, 1860) e il Rigoletto. Parafrasi da concerto (1859, 1860). Il Trovatore e` notevole per gli effetti della campana mortuaria, dell’atmosfera da incubo in cui viene cantato il Miserere e per l’eccellente gioco delle tre mani nell’inciso di Manrico ‘‘Sconto col sangue mio’’. Ma questi pregi non sono bastati a garantirgli la popolarita`. In teatro il pezzo ha cinque fonti sonore diversamente collocate: l’orchestra in buca, Leonora in scena, Manrico da una parte e il coro dall’altra dietro la quinte e, sempre dietro le quinte ma piu` lontano, il campanone. Una stereofonia da far girare la testa. La strumentazione pianistica di Liszt, pur condotta da una mano magica, non e` nel suo insieme abbastanza variata, e forse non po-

Franz Liszt

teva esserlo. Non lo e` comunque sui pianoforti moderni, che non presentano differenze timbriche strutturali nei diversi registri e che hanno attenuato l’effetto del pedale una corda. Sui pianoforti del 1860 il pezzo acquista una fisionomia meglio definita, ma anche lı` si avvertono le frequenti ripetizioni di moduli di strumentazione gia` noti. Il Rigoletto fu invece per molti anni l’unica parafrasi di Liszt che rimase in repertorio, per lo meno fino a che fu operante la generazione dei concertisti 1860-1880. Liszt scelse, del Quartetto del terzo atto, solo la seconda parte, eliminando l’azione e concentrandosi sulle reazioni emotive dei personaggi. Nel corso del lavoro il dominatore diventa Il Duca, il cui ‘‘Bella figlia dell’amore’’ compare e ricompare sia ‘‘nudo’’ che attorniato da colorature di due tipi (un sinuoso disegno basato sull’arpeggio e la scala cromatica in terza). Per di piu`, riempiendo con un cromatismo l’intervallo di terza maggiore dopo ‘‘core’’, e modificando una sola nota della prima frase del Duca (quinta diminuita al posto di quinta giusta alle parole ‘‘le mie pene’’), Liszt accresce di parecchio la sensualita` dell’approccio dello scapestrato a Maddalena. Ma essendone stata tagliata la prima parte – ‘‘Un dı`, se ben rammento, / o bella t’incontrai’’ – il Quartetto non puo` cominciare da ‘‘Bella figlia’’. Dev’esserci, e c’e`, una introduzione in cui due incisi caratterizzanti fanno apparire le ombre della sfacciata Maddalena e dell’appassionata Gilda. Poi i fantasmi scompaiono in un pulviscono di suono e la Maddalena in carne ed ossa appare languida e seducente davanti al Duca che, rapito, attacca con foga ‘‘Bella figlia dell’amore’’. Rigoletto non c’e`. Ma in realta`, siamo sinceri, Liszt se lo toglie giustamente dai piedi perche´ nel Quartetto il personaggio che da` il titolo all’opera fa soltanto la parte del gufo. La parafrasi, pur centrata sul Duca, vede pero` la vittoria dell’infelice che si sacrifica per amore. Ancora una frasetta tratta da ‘‘Bella figlia dell’amore’’, languidissima, la risposta sommessa di Maddalena, ormai ansiosa di consolare le pene del bel giovanotto, i singhiozzi strazianti di Gilda. E la chiusa rapida e potente ci comunica il senso della tempesta che si agita in Gilda e della decisione liberatoria che la portera` a dare la vita per salvare il fedifrago. Negli anni quaranta Liszt aveva conosciuto Wagner, e dall’incontro era nata una saldissima amicizia. Liszt si impegna molto sulla musica di Wagner, sia dirigendone a Weimar due opere, sia richiamando su di lui l’attenzione del mondo con una serie di trascrizioni. Trascrizioni, appunto, che esaminero` nel capitolo adatto. Le uniche fantasie wagneriane sono il Pezzo fantastico su temi del Rienzi (1859, 1861) e il piu` tardo e piu` breve 311

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Festa e canto nuziale

Walhall (1871, 1871), magnifico araldo della Tetralogia andata poi in scena nel 1876, mentre il Rienzi, pubblicato quando altre opere di Wagner si stavano affermando nei teatri tedeschi, non giovo` all’opera e non aggiunse nulla alla maestria di Liszt. Oltre alle due fantasie c’e` una parafrasi wagneriana, la Festa e canto nuziale dal Lohengrin (1854, 1854), che comprende il preludio e la marcia nuziale e che, pur essendo di alta qualita` e di spettacolare impiego delle ottave ribattute, non ha mai stimolato l’orgoglio di nessun virtuoso. La musica dell’avvenire non distoglie pero` Liszt da Verdi. Ecco il funesto Don Carlo. Coro di festa e marcia funebre (1868, 1868) e l’Aida. Danza sacra e duetto finale (1871, 1879), in cui il suono soffocato della danza fa da cornice al suono diafano del canto elegiaco degli amanti che s’avviano verso la morte per inedia, un suono che viene da lontano, che viene dalla Berceuse di Chopin. Diversa dal Rigoletto, l’Aida non gli cede nulla in fatto di qualita` di vigile intelligenza e di geniale strumentazione. Sembrava che Liszt avesse abbandonato il genere della fantasia, e in effetti passarono ventidue anni dal Rienzi prima che l’ormai vecchio mago si sentisse nuovamente attirato dal demone del rifacimento drammaturgico. Ecco le Reminiscenze del Boccanegra (1882, 1883), una delle piu` riuscite fantasie di Liszt, ma con uno stile asciutto ed essenzializzato che suona del tutto nuovo. Delle tante fantasie e parafrasi lisztiane restarono in repertorio, oltre al Rigoletto di cui ho detto, il Don Giovanni, eseguito ancora da pianisti ‘‘classici’’ tedeschi come Edwin Fischer e Wilhelm Backhaus. I pianisti nati nel Novecento, tranne uno specialista come Earl Wilde, non ebbero invece in repertorio alcuna fantasia. L’importanza storica delle fantasie lisztiane viene oggi ricono-

sciuta da tutti. Gli si attribuisce il merito di essere servite a Liszt per canalizzare verso il recital il pubblico del melodramma, ma si ritiene che un genere diventato obsoleto dopo il Boccanegra non sia da riconsiderare. Obsoleto o no, fatto sta che solo alcune fantasie ricompaiono oggi nei programmi concertistici, e anche piuttosto raramente, sebbene i virtuosi piu` giovani abbiano ripreso frequentemente, e con successo, il Don Giovanni. L’ampliamento del repertorio storico avvenuto tra il 1860 e il 1914 ci fa capire che il pubblico, attratto dal ‘‘classico’’, aveva condizionato gli esecutori e tolto spazi alle fantasie. Se il Don Giovanni fara` o no da apripista per le consorelle e` cosa che non si puo` sapere e che e` prudente non profetare. Stupisce pero` che le fantasie siano da lungo tempo abbandonate anche dalla didattica, mentre, a parte il virtuosismo della scrittura, sono preziosi serbatoi delle piu` alte conquiste timbriche di Liszt, conquiste timbriche che trovarono ampia applicazione nell’esecuzione di tutta la musica per pianoforte solo scritta prima, e trasformata grazie a Liszt da musica da camera per esecuzioni private in musica da concerto per le grandi sale. Detto cio` cedero` per l’ultima volta la parola a Ferruccio Busoni, che con piu` autorevolezza della mia chiudera` il discorso: ‘‘Sfruttamento di mezzi fino agli estremi limiti – per esempio dell’estensione della tastiera, della tecnica degli accordi, della piu` alta virtuosita` –, intensificazione dei contrasti dell’espressione patetica, grandissima liberta` e soggettiita` di interpretazione sono le principali caratteristiche di questo lato della sua creazione. Ma accanto a questo modo pittorico-decorativo sono la nobilitazione, l’elevazione e l’ingrandimento del contenuto musicale che conferiscono alle Fantasie un alto livello d’arte’’. A buon intenditor...

I Notturni Il capitolo dei Notturni non e` in Liszt cosı` esteso come e` in Chopin, ma ci offre tuttavia una visione sintetica e completa della evoluzione poetica e stilistica lisztiana. Nella terza parte dell’Album d’un viaggiatore troviamo un pezzo intitolato Una sera nelle montagne. Notturno su un canto montanaro (1836, 1836). Il canto montanaro non e` un canto popolare ma una melodia di argomento montanino di Ernest Knop: si tratta quindi, come del resto dice il titolo della terza parte dell’Album, di una parafrasi, non di una rapsodia. Il Notturno e` piu` descrittivo che introspettivo. Schumann, spesso e volentieri non benevolo nei confronti di Liszt, lo capı` subito e lo commento` in un modo che non richiede aggiunte e chiose: nel Notturno ci sono

‘‘campane di chiesette, corni alpini alla sera, una tempesta in arrivo, cascate e slavine, per concludere poi con il dolce richiamo delle campane gia` udite all’inizio, mentre il vecchio fo¨hn torna brontolando a nascondersi nelle gole montane’’. L’unica cosa da dire in aggiunta e` che Liszt non si dimentica qui della sonorita` pianistica che aveva inventato per rendere la Scena nei campi della Fantastica di Berlioz. I Sogni d’amore. Tre Notturni (1845-1850, 1851) sono trascrizioni di tre Lieder, i primi due su testi di Ludwig Uhland, il terzo su testo di Ferdinand Freiligrath. Il terzo di questi Notturni fu per molto tempo portato come esempio del gusto sentimentale di Liszt confinante – e sconfinante – con

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Variazioni su un tema di Johann Sebastian Bach

il kitsch, una melassa in cui affogava la dignita` del compositore colto. Il pubblico adorava pero` il Sogno d’amore, e quindi i concertisti, convinti o non convinti, lo tennero in repertorio fino a che la... avanzata degli eserciti di Bach e di Mozart non lo misero in fuga. Chi si fosse preso la briga di ascoltare l’esecuzione di Euge`ne d’Albert, che era un artista grandissimo e che di Liszt era stato allievo, avrebbe pero` avuto modo di ricredersi. Nulla di sdolcinato, nell’interpretazione di d’Albert, ma una malinconia sofferta e serena, perfettamente rispondente al testo di Freiligrath, che e` una esortazione ad amare, ‘‘ama, finche´ puoi amare’’, sulla quale si proietta l’ombra della morte perche´ il funesto poeta predice alla donna la vedovanza. Per lo meno romanticismo nero, se non proprio decadentismo. Ma il rullo di pianoforte riproduttore di d’Albert era solo piu` in mano ai collezionisti. Ne´ giovo` molto al pezzo il fatto che Sviatoslav Richter ne desse a partire dagli anni quaranta una austera interpretazione perche´ le sue esecuzioni furono dieci soltanto, nessuna delle quali nelle tourne´e in Occidente iniziate nel 1960. Arrau ripropose il Sogno d’amore nei suoi tardi concerti degli anni ottanta, riallacciandosi a d’Albert. Anche la sua proposta non trovo` allora consensi generalizzati, ma la patina vischiosa del kitsch che gli era stata spalmata addosso veniva raschiata via e oggi il Sogno d’amore fa parte del repertorio di Kissin e di Lang Lang. Richter eseguı` sempre il Sogno d’amore n. 3 insieme con il n. 2, che prima di lui era stato presente nel repertorio del solo Cortot. La melodia del Sogno d’amore n. 2, sospirante e fascinosissima, non trova

Gli Omaggi La classificazione per generi, come tutte le classificazioni, presenta vantaggi e svantaggi. Il vantaggio – penso io – e` che i compositori del Settecento e dell’Ottocento ritenevano che il genere avesse certe sue proprieta` che bisognava tenere sempre presenti. E siccome la letteratura pianistica e` stata per due terzi creata da compositori che nel genere ci credevamo, la classificazione per generi e` parsa a me, quando potevo seguirla senza forzature, la piu` opportuna. L’inconveniente maggiore e` che ci sono sempre composizioni difficilmente inseribili nei generi, o generi che un certo autore ha trattato molto poco. E` questo il caso di Liszt per quanto riguarda la variazione: abilissimo trasformatore di temi, un vero proteo, Liszt ha praticato poco la variazione. E oltre alle variazioni altri suoi pezzi non possono trovare una adatta sistemazione in un loro specifico capitolo. Percio` ho pensato di raggruppare tutti questi extravaganti in un capitoletto intitolato Gli Omaggi.

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obbiettori quando la si ascolta in una versione semplificata nel primo di quattro pezzi brevi scritti per la baronessa Olga von Meyerdorff, grande amica e forse anche piu` che amica di Liszt. Quando si sente la stessa melodia come Sogno d’amore fioccano invece le riserve. Il titolo della lirica di Uhland e` ‘‘Morte beata’’ e il primi due versi dicono ‘‘Ero morto, / d’estasi d’amore’’. Come sogno d’amore non c’e` male. E come musica siamo al top. Il brevissimo paragrafo dei notturni di Liszt comprende ancora Insonne, Domanda e Risposta. Notturno da un poema di Toni Raab (1883, 1927). E` una pagina breve, intensa, disperata, strumentata con l’economia di mezzi del tardo Liszt e che svanisce nel nulla. Liszt, dice con felice espressione Alan Walker, qui come in altre composizioni della vecchiaia non ‘‘finisce’’ il pezzo, lo ‘‘abbandona’’. La novita` di questa chiusa e` pero` tale da indurre Liszt a stampare un ‘‘ossia’’ in cui la voce che si perdeva nel nulla viene armonizzata, e la fine avviene su un familiarissimo accordo di mi maggiore. Liszt aveva pieta` degli ascoltatori tradizionalisti, che in verita` erano un compatto gruppone, tanto che nessuno dei suoi ultimi pezzi ebbe mai una sia pur minima diffusione prima che ci mettesse dentro le mani Alfred Brendel negli anni cinquanta del Novecento. Ultimissimo dei notturni di Liszt e` In Sogno, En reˆ ve (1885, 1888): due paginette incantevoli che sembrano pensate non per il pianoforte ma per la celesta e che richiedono la sonorita` del ‘‘suonare sulle corde’’ che sara` il tratto stilistico di base del pianismo di Debussy.

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Tre sono gli omaggi di Liszt a Bach. Nel 1859, dopo la morte del figlio Daniel, Liszt compose il preludio Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen cioe` Pianti, Lamenti, Afflizioni, Trepidazioni (1859, 1863), pezzo di poche pagine sul basso della Cantata omonima BWV 12, usato da Bach anche nel Crucifixus della Messa in si che Liszt aveva diretto a Weimar nel 1859. Dopo la morte della figlia maggiore Liszt riprese il basso cromatico del Crucifixus, di chiarissimo significato simbolico, per le Variazioni su un tema di Johann Sebastian Bach (1862, 1864). Piu` che di variazioni in senso stretto si tratta di una passacaglia, con escursioni, suggerite dal basso cromatico, in zone inesplorate dell’armonia. Il significato drammaturgico dell’opera e` cristiano: dopo la passacaglia, e dopo un drammatico recitativo, una portentosa perorazione porta alla palingenesi del corale bachiano ‘‘Tutto cio` che Dio fa e` ben fatto’’, che e` diatonico. Anche qui il significato e` chiaro: il dolore e` simboleggiato dal 313

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Fantasia e fuga su BACH

cromatismo, la consolazione della fede dal diatonismo. Le Variazioni furono trascritte nel 1863 per organo. Per pianoforte, dalla seconda versione dell’originale per organo, fu invece trascritta la Fantasia e fuga su BACH (1871, 1871), nella quale il cromatismo del nome Bach offre il destro per altre ardite sperimentazioni armoniche che scivolano in qualche caso nella atonalita`. L’omaggio di Liszt a Ha¨ndel e` rappresentato dalla Sarabanda e Ciaccona dal Singspiel Almira (1879, 1880), che trascrive i due brani ha¨ndeliani in modo essenziale senza piu` farne, al contrario di quanto sarebbe accaduto trent’anni prima, dei pezzi da concerto. Un singolare omaggio a due artisti del passato e` la Evocazione alla Cappella Sistina. Miserere di Allegri e Ave verum corpus di Mozart (1862, 1865), anch’essa originale per organo. Liszt prende lo spunto dal famoso aneddoto di Mozart ragazzino che durante le cerimonie religiose della Settimana Santa ascolta nella Cappella Sistina il Miserere di Gregorio Allegri e, sfidando il divieto papale, lo riscrive a memoria. Anche questo, come altri pezzi di Liszt dell’ultimo periodo, rientra nella poetica dei preraffaelliti. Possiamo considerare come omaggio a Diabelli la Variazione (1822, 1823) sul Valzer variato da Beethoven e da quarantanove altri musicisti residenti nei domini dell’imperatore austriaco. L’undicenne compositore scrive una variazione di due pagine che e` uno vigoroso studio a moto perpetuo, portandosi all’altezza per lo meno di Kalkbrenner, che di anni ne aveva trentasette, e facendo mordere la polvere ad altri compositori dai capelli bianchi. Infine, Wagner. Richard Wagner. Venezia

(1883, 1952) e` un pezzo di due sole pagine, nettamente divise dal simbolismo del cromatismo e del diatonismo: la morte e la gloria, una pagina armonicamente tortuosa, una pagina di squilli eroici, una riga di ritorno all’inizio per un pezzo che nella sua estrema brevita` condensa un contenuto di grande respiro. Sulla tomba di Richard Wagner (1883, 1952), originale per quartetto d’archi e arpa, rappresenta, possiamo dirlo?, una timida, ma ferma rivendicazione del ruolo svolto da Liszt nell’ascesa di Wagner. Il tema – Liszt lo esplicita in una breve prefazione – e` quello dell’Excelsior della cantata di Liszt Le Campane del Monastero di Strasburgo, pubblicato nel 1875, di cui Wagner si era servito nel Parsifal. E il presentimento della morte di Wagner detto` a Liszt due pezzi divenuti famosi negli anni cinquanta del Novecento, La lugubre gondola I e II (1882, 1916). Liszt si era recato nel dicembre del 1882 a far visita a Wagner, che soggiornava nel Palazzo Vendramin a Venezia, e aveva visto passare sul Canal Grande, rimanendo molto impressionato, la gondola che portava i feretri al cimitero. Al momento di partire aveva salutato Wagner ed era disceso verso l’imbarcadero mentre l’amico rientrava in casa. Ma Wagner, voltatosi all’improvviso, lo aveva rapidamente raggiunto e lo aveva abbracciato, e Liszt aveva avuto il presentimento che non si sarebbero piu` rivisti. I due pezzi rendono in modo straordinario questa funesta atmosfera di minaccia incombente, e la loro diffusione negli anni cinquanta del Novecento, sia pure relativa, fece sı` che si cominciasse a parlare di Liszt come del padre della musica moderna.

Le Rapsodie Ho gia` detto che la rapsodia rientra nel concetto di fantasia, e che viene distinta dalla fantasia, per lo meno per quanto riguarda Liszt, perche´ costruita su temi popolari. Liszt era nato in un villaggio al confine fra l’Austria e l’Ungheria, i suoi antenati e i suoi genitori erano austriaci, in famiglia si parlava il tedesco, e Liszt imparo` stentatamente un po’ di ungherese quando era ormai gia` avanti negli anni. Ma Liszt si sentiva, e proclamava di essere ungherese. Difficile capire il perche´. La sua appartenenza a un piccolo popolo di origine orientale faceva di lui, per gli europei dell’Occidente, un personaggio esotico, e non e` improbabile che Liszt valutasse quanto questo cliche´ gli avrebbe giovato. Ma la sua rivendicazione di magiarita` aveva anche inspiegabili radici sentimentali, molto forti. Come ungherese che faceva il musicista in campo internazionale egli sentı` dunque il dovere di celebrare con la musica la sua patria. Cosı` faceva Chopin,

che fin da bambino aveva mostrato interesse per il folclore polacco, e cosı` fece Liszt. Liszt, come tutti sanno, credette pero` di scoprire la musica autenticamente ungherese nella musica degli zingari, che aveva invece origini oscure, certamente non ungheresi, e che si basava sulla elaborazione di melodie del verbunkos (dal tedesco Werbung, arruolamento, la musica di danza suonata dai reclutatori di soldati per l’esercito austriaco). Con i suoi pezzi impropriamente definiti ‘‘ungheresi’’ e con la monografia Degli zingari e della loro musica in Ungheria Liszt celebro` sı` alla grande la sua patria, ma si attiro` anche le acerbe rampogne dei magiari autentici, per niente affatto contenti di essere rappresentati musicalmente dagli zingari, tanto che le rampogne perseguitarono non solo Liszt ma anche la sua memoria. La prima... dichiarazione di magiarita` di Liszt risale addirittura al 1828: due brevi pezzi su melodie

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Cinque canti popolari ungheresi

di La´szlo´ Fa´y e Ja´nos Bihari. Una decina d’anni piu` tardi Liszt comincio` a mettere insieme i dieci fascicoli (ventuno pezzi) delle Melodie nazionali magiare e delle Rapsodie magiare (1839-1847, 1840-1847), affiancate da altre tre Melodie nazionali ungheresi (1840, 1840). In parte riprendendo in modo piu` ampio alcuni di questi pezzi Liszt compose poi le quindici Rapsodie ungheresi (1840-1853, 1851-1853) che sono per noi le Rapsodie ungheresi. Liszt trascrisse inoltre le diciotto melodie del Romanzero ungherese (1853, inedito). Una dichiarazione nel libro Degli zingari e della loro musica in Ungheria (1859) mette a fuoco benissimo le intenzioni ambiziosissime di Liszt... e aggrava la sua posizione di intellettuale che agli occhi dei magnati ungheresi prendeva l’abbaglio di identificare la musica della nazione nella musica degli emarginati: ‘‘Ho voluto dare una specie di epopea nazionale con la musica zingaresca. Con il termine ‘rapsodia’ ho voluto designare l’elemento fantasticamente epico che ho creduto di scorgervi. Ciascuna di queste produzioni mi e` sempre apparsa come parte di un ciclo poetico. Questi frammenti, e` vero, non narrano fatti; ma le orecchie che sanno intendere vi troveranno l’espressione di certi stati d’animo nei quali si riassume l’ideale di una nazione’’. Ce n’era abbastanza per scatenare le ire dei magiari che mordevano il freno sotto l’Austria contro la quale si erano battuti dieci anni prima e che si vedevano spacciata per epopea nazionale la musica che impazzava in tutte le brasserie di Vienna. Liszt, diciamolo pure, nel suo entusiasmo d’ungherese in ispirito l’aveva proprio fatta grossa. Ma a noi cio` poco importa. La nostra domanda e` questa: che cosa rappresentano le Rapsodie ungheresi nella produzione di Liszt? Rappresentano secondo me un capitolo molto importante. Per una ragione, innanzitutto. Liszt vi fa uso della scala zingaresca (scala minore armonica con il quarto grado alterato, cioe` con due intervalli di seconda eccedente), una scala che apre orizzonti nuovi all’armonia e che provoca un arricchimento del linguaggio lisztiano anche al di fuori delle Rapsodie (ad esempio, la scala della quinta e sesta battuta della Sonata in si e` zingaresca: e` come la ‘‘firma’’ dell’ungherese Liszt; e sempre nella Sonata il passaggio diretto dalla tonalita` principale alla tonalita` del quarto grado alterato e` una conseguenza dell’uso della scala zingaresca). In secondo luogo, la composizione di pezzi pluritematici non riferibili a melodrammi, e quindi privi di una loro implicita drammaturgia, favorisce lo sviluppo delle capacita` architettoniche di Liszt, che pur seguendo uno schema di base crea per ogni Rapsodia una forma

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diversa. E in terzo luogo, lo stile improvvisatorio delle orchestrine zigane e il virtuosismo del suonatore di violino e del suonatore di cimbalom offrono a Liszt nuovi input. La musica verbunkos riunisce nella Csa´rda´s due tipi di danza: il Lassu, lento, e la Friska, vivace. La Rapsodia ungherese n. 2 comprende una breve introduzione e due parti indicate espressamente come Lassu e Friska. Ma cio` che nei precedenti lavori era ancora trascrizione di canti popolari qui acquista un senso poematico. Nel Lassu della Rapsodia ungherese n. 2 abbiamo due temi che evocano la visione degli uomini, forti e rudi, e delle donne, graziose e seducenti. La Friska, dopo un inizio che riprende il tema femminile del Lassu, e` una successione di temi di danza sempre piu` vorticosi. Liszt, prima della martellante ultima pagina, concede all’esecutore di improvvisare una Cadenza: concessione che e` anche un tranello perche´ e` molto difficile mantenere nella Cadenza il livello artistico della Friska: a riuscirci veramente, per quanto mi consta, e` stato il solo Rachmaninov. Nella Rapsodia ungherese n. 6 lo schema LassuFriska viene integrato nella forma archetipica della sonata: primo episodio baldanzoso, secondo episodio a modo di scherzo, terzo episodio in recitativo, ultimo episodio di danza veloce di resistenza (celeberrimi passi di ottave che tolgono veramente il fiato anche a chi delle ottave ha fatto il suo cavallo di battaglia). Nella Rapsodia n. 11 lo schema di base viene integrato nello schema recitativo-arioso-cabaletta, ecc. ecc. La fantasia di Liszt trova soluzioni formali ogni volta diverse, sia per le Rapsodie piu` lunghe (n. 1, n. 2, n. 9, n. 12, n. 14), sia per quelle brevi (n. 3, n. 8). La strumentazione pianistica e` generalmente virtuosistica, con punte che toccano il limite del trascendentale nelle Rapsodie nn. 2, 9, 12, 14. Ma non mancano le preziose ricerche coloristiche, ad esempio, nella Rapsodia n. 3, che meccanicamente e` di media difficolta`, e nella n. 5, sottotitolata He´roı¨de E´legiaque. Un’altra Rapsodia ungherese fu composta da Liszt nel 1854 e altre tre negli anni ottanta. Gia` in quella del 1854, destinata all’album del giornale Le Figaro, la grandiosita` epica diventa come un racconto per bimbi, e nelle altre tre lo stile del tardo Liszt sposta la poetica su un piano non celebrativo e fastoso ma intimo e meditativo. Questa svolta era stata del resto gia` anticipata nei Cinque canti popolari ungheresi (1873, 1873), destinati non ai virtuosi della sala da concerto ma ai dilettanti che la musica se la suonavano in casa loro. Come accennavo prima, il Lassu e la Friska costituivano insieme la Csa´rda´s (da csa´rda, osteria), ma Liszt non aveva mai impiegato questo termine negli anni cin315

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Csa´rda´s macabra

quanta. Lo impiego` negli anni ottanta, limitatamente alla Friska, nella Csa´rda´s macabra (18811882, 1951) e nelle Due Csa´rda´s (1884, 1886). Stile percussivo che anticipa Barto´k, temi di sapore folclorico ma non presi dal folclore, tonalita` spesso non definite fanno di questi tre pezzi un altro dei grimaldelli che permisero a Liszt di essere visto come il padre della musica moderna. La Rapsodia spagnola (1863, 1867) riprende in un certo senso lo schema Lassu-Friska perche´ comprende il tema di una danza lenta, la cosiddetta Follia di Spagna, e il tema di una danza veloce, la Jota aragonese. Ma questo e` solo un dato di fondo, che ci dice quanto congeniale fosse per Liszt lo schema su cui aveva basato le Rapsodie ungheresi. Nella Rapsodia spagnola il tema della Follia di Spagna viene esposto dopo una breve ma vorticosa introduzione e viene variato piu` volte, con un aumento progressivo della eccitazione motoria che conduce irresistibilmente alla brillante Jota aragonese, variata piu` volte con strumentazioni pianistiche che vanno dal carillon al martellato.

Ma nel corso della Jota Liszt fa comparire un altro tema, non popolare, un tema quasi di barcarola che da` origine ad un duetto amoroso nel quale, in modo analogo a quello del Mephistowalzer n. 1, non mancano le volatine e i trilletti dell’usignolo. La ripresa della Jota sfocia in un finale, al solito, spettacolare, ma anche riassuntivo di tutti i temi. Le intenzioni di Liszt sembrano chiare. Egli ci da` le due immagini consuete della Spagna: la Spagna oppressiva e mortifera della Inquisizione e la Spagna esuberante e vitalistica del popolo, con l’intermezzo amoroso e non sensuale, sempre cosı` caro al cuore di chi aveva creato il Sogno d’amore. Anche la Rapsodia spagnola, come tante altre pagine di Liszt, non gode oggi di buona stampa dopo essere stata una delle colonne del repertorio. E anche in questo caso si tratta di uno dei piu` geniali lavori di Liszt, un lavoro di cui la interpretazione di Nikita Magaloff rivelava gli aspetti decadentistici piu` che gli aspetti del bozzettismo popolaresco prevalenti in altre interpretazioni.

La Sonata in si Parlando delle Ballate ho gia` detto che con la prima di esse Liszt comincia a riconsiderare in modo dubitativo i giudizi negativi che aveva dato dieci anni prima sulla ‘‘forma convenzionale’’, e che con la seconda mostra di avere ripensato e riscoperto le ragioni del pluritematismo classico, portato al piu` alto grado di sviluppo con il primo movimento di sonata, l’allegro bitematico e tripartito. Il cammino che ha inizio con la Ballata n. 1 presenta diverse tappe. Terminata nel 1848 la Ballata, Liszt compone il Gran Solo da Concerto (1849, 1851), pezzo in un solo movimento che sembra essere la risposta a una previsione di Schumann, il quale aveva nel 1839 considerato ragionevole di chiedere ai compositori piu` giovani, ‘‘in cambio della severa e degna forma del Concerto, dei pezzi solistici altrettanto degni, non dei Capricci, non delle Variaazioni, ma dei tempi d’Allegro elegantemente compiuti e ben caratterizzati, da suonare eventualmente all’inizio d’un concerto’’. Liszt era andato oltre le speranze di Schumann, perche´ negli anni quaranta era riuscito a imporre il recital in cui venivano presentate non solo le fantasie e le trascrizioni composte appositamente per la sala di concerto, ma anche le Sonate di Beethoven, il cui humus era stato il salone aristocratico o il salotto borghese. Il Gran Solo di Concerto e` dunque sı` un pezzo che risponde ai voti di Schumann, ma e` anche, assai di piu` , un esperimento di Liszt con una forma molto articolata nella quale i temi, non desunti da melodrammi come nelle fantasie, devono trovare una ragione

dell’essere insieme senza cadere nello schematismo del potpourri. In fondo, il Gran Solo da Concerto e` il corrispettivo della Fantasia op. 49 di Chopin, da cui resta lontano perche´ gli esperimenti di Chopin con la forma dell’allegro di sonata erano iniziati gia` nel 1827. Il fatto che il Gran Solo fosse stato richiesto a Liszt per l’esame del concorso annuale del conservatorio di Parigi pone anche in evidenza un problema di fondo degli anni di Weimar: trovare una strumentazione pianistica che senza perdere gli splendori degli anni trenta e quaranta non sia legata alle doti personali e irripetibili di Liszt, che sia un ‘‘pianismo per tutti’’. Clara Schumann, alla quale Liszt mando` una copia del pezzo con il non celato invito a suonarlo, si trovo` presa tra due fuochi. Avrebbe mandato volentieri al diavolo il Gran Solo da Concerto e il suo inventore, ma l’inventore stava per dirigere a Weimar il Manfred di Robert. Percio` la falsissima Clara accampo` furbescamente per il rifiuto la sua debolezza di donna, dicendo che nessuno avrebbe potuto suonare il pezzo come Liszt. Il che era stato vero per altri pezzi ma non era piu` vero per questo. Sia la forma che la strumentazione del Gran Solo rappresentano un punto intermedio della evoluzione di Liszt all’inizio degl anni cinquanta. Liszt ne preparo` piu` tardi una trascrizione per due pianoforti sotto il titolo di Concerto patetico (1856, 1866), ripubblicata in seguito con un’ampia aggiunta di Hans von Bu¨ low, ma nemmeno in questa versione il pezzo divenne popolare.

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Sonata in si

L’altra importante tappa di avvicinamento di Liszt alla sonata e` rappresentata dallo Scherzo e marcia (1853, 1854), che dilata enormemente la cosiddetta forma con alternativo (minuetto I, minuetto II, minuetto I; in questo caso scherzo, marcia, scherzo), in modo analogo ma piu` babilonico di quello di Chopin nello Scherzo op. 20. Lo Scherzo e` un pezzo demoniaco, ironico, rabbioso, pianisticamente inventivo in un modo strepitoso, la marcia, che arriva di lontano con un impressionante effetto di avvicinamento, e` baldanzosa ma spettrale, la resposizione abbreviata dello scherzo e` seguita da una coda sul tema della marcia. Da qualunque parte lo si guardi, il pezzo mostra tutta la sua originalita` e tutta la sua bellezza. Tranne che in un caso, la estensione dello Scherzo, con ripetizioni che Liszt avrebbe potuto probabilmente evitare. Lo Scherzo e marcia fu eseguito sia da Horowitz che da Richter: il secondo lo manteneva cosı` com’e`, il primo operava un taglio nello Scherzo. Ma anche con questo accorgimento il pezzo non ha mai colpito veramente la fantasia del pubblico. Non so, francamente, spiegarmi il perche´. I primi schizzi della Sonata in si (1851-1853, 1854) risalgono al 1851, ma il grosso del lavoro fu effettuato negli ultimi mesi del 1852 e nel gennaio del 1853. Il 2 febbraio 1853 il pezzo era ultimato, e nel 1854 usciva a stampa con dedica a Robert Schumann. Liszt mando` a Schumann una copia della Sonata, ma il plico fu aperto da Clara perche´ Robert era gia` ricoverato nella clinica per malattie nervose in cui sarebbe morto di lı` a due anni. Clara lesse al pianoforte il pezzo insieme a Brahms, che soggiornava in casa sua. La sua reazione, testimoniata nel diario, e` quella che si sarebbe poi ripercossa per lunghissimo tempo nei musicisti del ‘‘partito’’ a cui appartenevano sia lei che Brahms: ‘‘Null’altro che un cieco rumore, neppure una minima idea sana, tutto e` imbrogliato, impossibile trovarci un collegamento armonico chiaro, e bisogna tuttavia che lo ringrazi. E` veramente troppo spaventevole’’. Il disgusto per quella schifezza di sonata fu pero` cosı` grande che Clara venne poi meno al proposito e non ringrazio` Liszt per la dedica a Robert. La valutazione opposta fu quella di Wagner, che nel 1855 cosı` scrisse all’amico: ‘‘La Sonata e` indicibilmente bella, grande, graziosa, profonda, nobile, sublime come tu sei. Ne sono stato sconvolto fino al fondo del mio essere’’. Il 22 gennaio 1857 Hans von Bu¨low tenne a Berlino la prima esecuzione pubblica della Sonata, con esito disastroso. Freddissimo il pubblico, feroce la critica: ‘‘Un invito a fischiare e a battere i piedi’’ (National-Zeitung), ‘‘Non solo non aveva nulla a che fare con la bellezza, ma urtava per di piu` la natura

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e la logica’’ (Spener’schen Zeitung). La Sonata fu eseguita piuttosto raramente durante l’Ottocento, ma quando nel 1881 capito` sotto le grinfie di Eduard Hanslick, autore del Bello in musica, si sentı` cantare il fatto suo: ‘‘Chi l’ha sentita e la trova bella, e` irrecuperabile’’. Persino nel 1931 il novantasettenne Francesco Berger, segretario per venticinque anni della Philharmonic Society di Londra, scrisse di non aver mai capito perche´ due artisti come Busoni e Sapelnikov avessero voluto eseguire ‘‘una simile mostruosita`’’. Val la pena di capire che cosa, nella Sonata in si, provocasse la ripulsa di Clara Schumann e di coloro che seguirono le sue orme. Nel 1837 Liszt aveva recensito sulla Gazette Musicale di Parigi tre lavori di Schumann, e Schumann, riconoscente, gli aveva dedicato nel 1839 la Fantasia op. 17. Liszt doveva ricambiare la dedica, perche´ questo era l’uso. Ma trascorsero piu` di dieci anni prima che dal suo cervello scaturisse la degna risposta. La Sonata in si e` davvero una degna risposta, e non solo grazie al suo valore estetico e alla monumentalita` dell’impianto architettonico. Che cos’e` formalmente, la Sonata di Liszt? E` un regolarissimo primo movimento di sonata, con inserito un intermezzo in tempo piu` lento. Che cos’e`, in sintesi, il primo movimento della Fantasia di Schumann? Un regolare e classicamente proporzionato primo movimento di sonata con una sezione, in tempo piu` lento, che sostituisce lo sviluppo. Liszt amplia dunque a dismisura l’idea formante del primo movimento della Fantasia di Schumann. Non l’idea, pero` , ma la dimensione della Sonata, di circa il doppio piu` lunga del primo movimento della Fantasia, sconcerto` i primi ascoltatori, che per ovvi motivi non conoscevano ancora le dimensioni di certi primi movimenti delle Sinfonie di Mahler. Ma l’altro, e piu` grave motivo di sconcerto, nasceva dalla mutevolezza dei temi. Il primo gruppo tematico comprende tre icastici motti: 1) il tema misterioso con le lente note ribattute e le scale discendenti; 2) l’altero tema in doppie ottave senza armonizzazione; 3) il demoniaco terzo tema al basso con la tremenda nota ribattuta. Orbene, secondo la tecnica classica i temi vengono sı` sviluppati, ma il loro carattere espressivo non viene modificato se non attraverso il cambiamento del modo. Il secondo tema del primo gruppo si presenta invece piu` avanti, nella Sonata, anche secondo la categoria del grazioso (Wagner aveva ragione), e il terzo anche sotto la categoria del tenero e persino del pastorale. Per la trasformazione dei temi Liszt aveva un grande modello nello Schubert della Fantasia ‘‘Il Viandante’’ op. 15. Solo che il tema, una volta, trasformato, in Schubert non torna piu` nella 317

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Franz Liszt

sua precedente formulazione. In Liszt no. E l’ascoltatore si trova di fronte a temi-personaggi che si moltiplicano senza che si capisca se sono sempre gli stessi, travestiti, o se sono altri. L’economia dei mezzi, la riduzione dei temi-personaggi a non piu` di quattro era stata ed era una delle ragioni di successo per il Beethoven ‘‘seconda maniera’’ (e anche per il melodramma romantico). Liszt, trasformando i temi e mischiandoli, si avventura su un terreno pericoloso, nel quale il pubblico lo seguira` molti anni piu` tardi, in pratica quando staranno trionfando i lunghi poemi sinfonici – in un movimento solo – di Richard Strauss. L’architettura della Sonata e` troppo grande perche´ possiamo afferrarla, all’audizione, come un tutto: e` come un tempio talmente esteso in larghezza da non entrare nel nostro campo visivo. Pero` la forma, come dicevo prima, e` semplice. Il primo gruppo tematico – sol, poi si – viene enunciato e subito sviluppato; il secondo tema e` in Re, la conclusione dell’esposizione e` un altro ampio sviluppo del primo gruppo tematico, con varie trasformazioni dei temi. Ora, e` ben evidente che per reggere tutti questi sviluppi i temi devono essere trasformati, altrimenti il discorso diventa stucchevole. Ma chi non si lascia trasportare dallo scorrere della musica e cerca di capire il percorso si trova a mal partito. Lo sviluppo vero e proprio e` piuttosto breve e comprende due sezioni: una sezione di recitativo e l’Andante sostenuto in cui viene introdotto un nuovo tema che pero` non si espande solitario ma entra in conflitto con gli altri. La riesposizione inizia un mezzo tono sotto la tonalita` di base, in si bemolle anziche´ in si. Gia` questo e` un bel... colpo basso. Ma Liszt lo carica ancora di piu` perche´, invece di riprendere semplicemente il primo gruppo tematico, sfodera un fugato con tanto di soggetto per moto retto e contrario. Finito il fugato si rientra nei ranghi e si procede in modo comprensibile – con il secondo tema, regolarmente, in Si – fino al termine della riesposizione. Poi c’e` la coda, prevedibile, e necessaria in un pezzo di queste dimensioni. Nella prima versione la coda era trionfale, e la ratio classica della sonata veniva salvata. Nella versione definitiva compaiono nella coda il tema dell’Andante sostenuto e poi, in un clima allucinato e in ordine inverso, i tre temi del primo gruppo. Questa fine e`, di nuovo, sconcertante per chi pensava che si stesse per arrivare finalmente in porto in santa pace: il cambiamento del modo – il pezzo finisce in Si – sarebbe quello della conclusione positiva, ma il clima espressivo ci riporta all’inizio, rendendo ambigua la ‘‘morale’’. I tre temi del primo gruppo e il secondo tema 318

Sonata in si

vengono, dicevo, trasformati piu` volte. Il tema dell’Andante sostenuto no. La domanda e` inevitabile: perche´ no? Basandosi sul senno di poi, e cioe` sulla Sinfonia Faust (1854) nella quale il tema raffigurante Margherita non viene mai trasformato perche´ Mefistofele tenta invano di impadronirsi dell’anima della fanciulla, si puo` supporre che la Sonata sia un po’ come un cartone preparatorio della Sinfonia. Ma piu` in generale ci si puo` chiedere se la Sonata, capolavoro pianistico del creatore della musica a programma, sia musica a programma con, diciamo cosı`, un programma celato. Oltre alla ipotesi-Faust sono state proposte altre ipotesi: opera autobiografica, opera ispirata al Paradiso perduto di Milton, opera allegorica sulla Creazione, la Caduta e la Redenzione, opera priva di alcun programma. Di tutte queste ipotesi la piu` probabile resta secondo me la prima, che fu accettata dalla stragrande maggioranza dei critici e anche da Claudio Arrau e da Alfred Brendel, i quali spiegarono, ciascuno a suo modo, come secondo loro il mito di Faust trovasse nella musica della Sonata precisi riscontri. Il problema del programma, e l’analogo problema della sua negazione, e` ancora discusso oggi dai musicologi, ma in termini ben diversi da quelli di un non tanto lontano passato in cui su argomenti del genere si facevano professioni di fede e ci si sbudellava vicendevolmente. Resta comunque il fatto che Liszt, autore di poemi sinfonici e di innumerevoli pezzi caratteristici, per la Sonata (e per la Ballata n. 2) uso` un titolo generico. La scelta di Liszt fu sicuramente dettata da motivazioni precise, che pero` ci sfuggono. E forse si potrebbe volgere contro di lui l’obbiezione che nel 1837 egli mosse al finale della Sonata op. 11 di Schumann: ‘‘Il Finale e` di una grande originalita`. Tuttavia, per quanto logico sia l’andamento delle idee principali e nonostante il trascinante calore della perorazione, l’effetto generale di questo brano e` spesso spezzato, interrotto. Forse la lunghezza degli sviluppi contribuisce a generare incertezza sull’insieme. Forse anche il senso poetico avrebbe bisogno di essere indicato. Il senso musicale, per quanto completo in se stesso, non basta del tutto, secondo noi, alla comprensione di tutti i dettagli’’. Queste ragioni spiegano perche´ il problema programma-non programma appassioni ancora chi non fa piu` questioni di legittimita` o di illegittimita` della musica a programma. Ma la preoccupazione musicologico-critica sembra non aver piu` a che fare con la reazione del pubblico, che ascolta oggi la Sonata di Liszt piu` frequentemente dell’Appassionata di Beethoven. E non se ne duole.

Studi di esecuzione trascendentale da Paganini

Gli Studi Da Clementi in poi non ci fu nei primi quattro decenni dell’Ottocento nessun pianista-compositore di successo che non scrivesse studi. Liszt non fece eccezione alla regola. Anzi, a scrivere studi comincio` fin da ragazzino: a sedici anni pubblico` la prima parte dello Studio in quarantotto Esercizi in tutti i toni maggiori e minori (1826-1827, 1827), limitato per il momento ai primi dodici pezzi. Il disegno del giovanissimo Liszt era di rivaleggiare addirittura con i quarantotto Preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato di Bach. Non solo: Liszt ripubblicava insieme agli Esercizi una sua revisione dei Preludi ed Esercizi di Clementi con aggiunta di segni e con numeri di metronomo. Se si pensa che Liszt aveva sedici anni e Clementi, maestro incontestato di piu` generazioni di pianisti, ne aveva settantacinque, si ha un’idea del folle ardire del ragazzo. L’organizzazione tonale degli Esercizi di Liszt era diversa sia da quella di Bach che da quella di Clementi. Liszt alternava il modo maggiore e il modo minore per quinte discendenti (Do, poi la, poi Fa, poi re, ecc. ecc.). Con il dodicesimo Esercizio arrivo` a si bemolle. E lı` si fermo`, perche´ la prima parte del suo Studio non ebbe mai un seguito. ‘‘Studio’’ ed ‘‘Esercizio’’. Liszt usava evidentemente i due termini in un modo diverso dall’usuale. Con Studio egli indicava il proposito di una indagine tecnica sistematica, con Esercizio il riferimento al singolo problema tecnico affrontato in ciascuno dei pezzi. Ma questa distinzione, visto che l’opera e` monca, perche´ mancano trentasei Esercizi, non e` piu` tenuta in considerazione da nessuno. Gli Esercizi del sedicenne Liszt si inseriscono nella linea degli Studi classici di Cramer, e tecnicamente non sono molto impegnativi. Molto piu` ardui sono l’Allegro di bravura e il Rondo` di bravura composti nel 1824. Nel 1827 Moscheles, che era uno dei maggiori concertisti dell’epoca, ascoltato Liszt a Londra scrisse nel suo diario che il ragazzo ‘‘supera per potenza e dominio delle difficolta` tutto cio` che ho mai sentito’’. Mi sembra dunque evidente che con gli Studi, musicalmente molto espressivi e piacevoli, Liszt mirasse non a dare la chiave didattica del suo virtuosismo ma ad accaparrarsi un posticino accanto ai Cramer, agli Steibelt, ai Berger e ai vari altri compositori i cui studi soddisfacevano le esigenze dei dilettanti. Un decennio piu` tardi Liszt riprendeva i suoi giovanili Esercizii e li trasformava, sostituendone uno e trasportandone un altro in una diversa tonalita`, li trasformava, dicevo, nei Ventiquattro Grandi Studi (1837, 1839). Ventiquattro di nome, dodici in effetti, Liszt non avrebbe mai completato nep-

Franz Liszt

pure una serie di Studi nelle ventiquattro tonalita`. Se i vecchi Studi passeggiavano su ondulati e agevoli terreni collinari, i Grandi Studi si arrampicavano su cime del virtuosismo su cui ben pochi pianisti potevano issarsi. Schumann recensı` nel 1839 entrambe le raccolte, la vecchia e la nuova. In linea generale disse che Liszt avrebbe dovuto ‘‘soprattutto ritornare alla serena semplicita` che cosı` gradevolmente si manifesta nella sua prima raccolta di Studi, dovrebbe ripercorrere in senso inverso il cammino compiuto, procedendo cioe` in direzione dell’alleggerimento anziche´ in quella dell’appesantimento’’. Ma nello stesso tempo non si lascio` sfuggire il fatto che i Grandi Studi non erano tanto cose da esercitazione quanto sperimentazioni nella direzione dello spettacolo: ‘‘Fare la solita critica, cercando le quinte e le false relazioni e tentando una correzione, sarebbe in questo caso un’inutile fatica. Le composizioni di questo genere bisogna sentirle; sono cose che le mani hanno strappato allo strumento, e solo le mani sullo strumento possono renderci l’immagine di esse. E poi bisogna anche vedere il compositore, perche´ se lo spettacolo di qualunque virtuosismo ha un effetto di corroborante elevazione sullo spettatore, tanto piu` forte sara` tale effetto vedendo il compositore stesso lottare col suo strumento, domarlo e farlo obbedire in ciascuno dei suoni che egli vuole. Sono veri Studi di tempesta e di orrore, Studi per dieci o dodici persone al massimo in tutto il mondo; se vi si cimentassero dei pianisti di scarso valore farebbero solo ridere’’. Mentre pubblicava i Grandi Studi Liszt aveva gia` pronti i sei Studi di esecuzione trascendentale da Paganini (1838, 1840). La recensione di Schumann apparve nel 1842. Schumann limitava a ‘‘forse non piu` di quattro o cinque in tutto il mondo’’ i pianisti ‘‘in grado di venirne a capo’’. Osservava pero` che ‘‘se consideriamo alcune cose contenute in questa raccolta non potremo avere dubbi circa il fatto che il contenuto musicale di fondo spesso non sta in nessun rapporto con le difficolta` tecniche’’. Apprezzava sopra tutti l’ultimo Studio, trascrizione del Capriccio n. 24, e diceva: ‘‘Chi possiede alla perfezione queste Variazioni, chi cioe` sapra` suonarle in modo leggero e scherzoso tale per cui esse, come dev’essere, ci scorrano innanzi come scene di un teatro di burattini, colui potra` tranquillamente viaggiare per il mondo per ritornarsene poi con un’aurea corona d’alloro come un secondo Paganini-Liszt’’. Schumann era troppo ottimista. Da quando esiste il disco pochissimi pianisti hanno registrato questi Studi da Paganini, e nessuno ha mai dimostrato di poter suonare le Va319

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Franz Liszt

Studi d’esecuzione trascendentale

riazioni ‘‘in modo leggero e scherzoso’’: una evidente fatica da bestie, invece, e risultati appena appena dignitosi. I dieci o dodici pianisti che il fiducioso Schumann ipotizzava capaci di venire a capo dei Grandi Studi, o i quattro o cinque in grado di fare i burattinai con gli Studi da Paganini erano in realta` una chimera. Il solo, l’unico era Liszt. E cio`, se poteva andare magnificamente bene per il Liszt trentenne che girava il mondo, che suscitava fanatismi e che incassava sacchi di monete d’oro di tutte le zecche, non andava piu` tanto a fagiolo per il Liszt che aveva detto per sempre addio alla sala da concerto e che lavorava come illuminato maestro di cappella presso l’illuminato Granduca di Weimar. Nelle osservazioni di Schumann c’era qualcosa di profondamente vero. Per Liszt si trattava di trovare un nuovo equilibrio tra la musica e la strumentazione, di ottenere gli stessi effetti o effetti analoghi con mezzi diversi. Questa constatazione urta in verita` contro uno dei canoni della musicologia del Novecento, che non ammetteva la distinzione tra il pensiero musicale e la strumentazione. Il che e` sacrosantamente vero per Boulez o per altri compositori della sua generazione, ma non puo` essere preso a misura di giudizio per i musicisti del Settecento o dell’Ottocento. Liszt riprese in mano nel 1851 sia i Grandi Studi che gli Studi da Paganini. Opero` tagli e modifiche anche nella sostanza musicale, ma intervenne in modo radicale sulla strumentazione. Le nuove versioni, Studi d’esecuzione trascendentale (1851, 1852) e Grandi Studi da Paganini (1851, 1851), mantenevano rispettivamente il carattere di ‘‘Studi di tempesta e di orrore’’ e di ‘‘scene di un teatro di burattini’’, ma erano abbordabili anche da pianisti di non mostruose capacita` virtuosistiche. Vero e` che neppure dieci o dodici pianisti sono arrivati a rendere pienamente giustizia ai Trascendentali, e pochi di piu` agli Studi da Paganini, vero e` che molte esecuzioni tecnicamente inappuntabili sono ben lungi dal comunicarci il senso della tempesta e dell’orrore. Ma gli Studi in versione anni cinquanta non sono piu` proibitivi, mentre continuano a esserlo le versioni della fine degli anni trenta. La difficolta` piu` grande degli Studi trascendentali nasce secondo me dal fatto che si tratta di minipoemi sinfonici. Gia` nel 1840 Liszt aveva rielaborato lo Studio n. 4, dandogli il titolo Mazeppa. Nella versione definitiva dieci Studi su dodici hanno titoli, e sono titoli non casuali, ma dettati da

una simbologia che sebbene venga spiegata solo per Mazeppa con la citazione di un verso del poema di Victor Hugo non e` per questo meno evidente. Bisogna pero` considerare la natura di retore che e` fondamentale nel concertista, il quale, anche quando compone, non vive il sentimento ma lo rappresenta, e lo rappresenta enfatizzandolo al massimo grado possibile. Cosı`, Visione ci travolge in un caos primordiale, Mazeppa ci scuote con una terribilita` che ci mette la paura addosso, Tempesta di neve esprime un’angoscia esistenziale senza riscatto e, all’opposto, Armonie della sera comunica la serenita` della morte, Caccia selvaggia fa balenare lance e balestre, squilli di corni, e un amore senza speranza (chissa` se Liszt conosceva la novella di Nastagio degli Onesti del Decamerone). E cosı` via. Per rendere gli Studi trascendentali non occorrono soltanto dita d’acciaio e di velluto, occorre anche credere che la musica a programma non e` una fola. E questo, per il Novecento, e` stato molto difficile. Meno difficile e` stato arrivare a rendere gli Studi da Paganini, che conservando il loro carattere originario di Capricci, e tecnicamente semplificati rispetto alla prima versione, lasciano spazio alla grazia e al gioco. Di grande interesse e` nei Trascendentali l’impiego delle forme – variazioni senza soluzione di continuita` (n. 4, n. 7), allegro di sonata senza sviluppo (n. 8), allegro di sonata (n. 10) – che testimoniano l’interesse di Liszt per la tradizione classica. Nel 1840 Liszt compose per il Metodo dei Metodi di Fe´tis e Moscheles lo Studio di perfezionamento (1840, 1840), che rivide piu` tardi facendolo diventare lo studio Ab irato (1852, 1852). I Tre Studi da concerto (1848, 1849) sono intitolati rispettivamente Il Lamento, La Leggierezza, Un Sospiro, i Due Studi da concerto (1862, 1863) recano i titoli Mormorii del bosco e Ronda di gnomi. In questi Studi gli eccessi dei Trascendentali vengono riportati a una misura piu` familiare, la grande eloquenza cede il passo alla poesia, i temi sono piu` piacevolmente melodici, la tecnica e` raffinatissima ma e` basata sull’agilita` piu` che sulla potenza e non richiede la resistenza alla fatica fisica che in parecchi dei Trascendentali e degli Studi da Paganini costituisce un ostacolo non lieve. Pero` qualcosa impedisce ancora alla cultura di oggi di accettare anche gli Studi da concerto di Liszt per quello che sono: pagine significative della cultura romantica e, nel campo degli studi, tra le piu` significative.

Le trascrizioni Le trascrizioni e le fantasie sono confinanti. Ma si tratta di uno strano confine, un confine che le fan-

tasie devono sempre varcare e le trascrizioni mai. La distinzione fra i due generi e` netta, anche se

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Episodi della vita di un artista. Grande Sinfonia Fantastica

talvolta ci scappa qualche eccezione. La fantasia sceglie i temi, li riorganizza, li ornamenta, cambia se necessario qualche nota della melodia e qualche accordo dell’armonia, e taglia e cuce, mentre la trascrizione sceglie un pezzo, non un tema, e lo strumenta per pianoforte senza cambiare una virgola del tessuto musicale se non quando certi effetti impossibili sulla tastiera richiedono delle alternative. Anche la fantasia, pero`, trascrive, perche´ strumenta anche lei per pianoforte la musica nata per altri media. La differenza sostanziale e` che la fantasia non e` possibile senza la trascrizione e che alla trascrizione e` vietato di travestirsi da fantasia. Avendo gia` ampiamente parlato della fantasia ho dunque implicitamente parlato anche della trascrizione, il che mi permettera` di essere piu` sintetico in questo capitolo, pur molto importante nel catalogo di Liszt. Ho detto che Liszt e` indiscutibilmente il piu` grande creatore di fantasie che sia mai esistito. Lo stesso discorso vale per la trascrizione. Anzi, in questo campo Liszt esordisce a ventidue anni con una vera e propria bomba, gli Episodi della vita di un artista. Grande Sinfonia Fantastica (1833, 1834). La Fantastica di Berlioz risaliva a soli tre anni prima, ed era stata a sua volta una bomba. Liszt la trascrive nota per nota, indicando i piu` importanti strumenti dell’orchestrazione, e mette il sottotitolo ‘‘Partitura per pianoforte’’. La possibilita` di non fare semplicemente una trascrizione utilitaristica, com’era d’uso, viene offerta a Liszt dall’adozione del doppio scappamento nella meccanica del pianoforte, e soprattutto dall’adozione del rivestimento del martelletto con uno spesso strato di feltro anziche´ con una sottile pelle di daino. Quando il martelletto colpisce la corda il feltro, che e` elastico, si schiaccia in modi diversi a seconda della velocita` del martelletto, creando cosı` differenze di timbro (non grandi, ma avvertibili), mentre la pelle di daino, non elastica, non consente di variare se non di poco il modo di attacco. Per di piu` Liszt si agevola la scoperta delle nuove possibilita` timbriche del pianoforte perche´ abbandona la classica posizione fissa del corpo, con i gomiti aderenti al busto e con lo sfruttamento della potenzialita` delle sole dite, e alza invece le braccia di mezzo metro, spinge il corpo avanti e indietro, si sposta da un lato e dall’altro sullo sgabello, suona con la testa quasi sui tasti o fissando nel cielo qualcosa che vede solo lui: in sintesi, come dicono scandalizzati i chierici, si dimena senza gusto ne´ signorilita`, sembra un ossesso, fa solo scena. I movimenti ampi e talora convulsi del corpo e l’attacco con caduta dell’avambraccio o del braccio fanno certamente scena ma non fanno solo scena: moltiplicano inve-

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ce i modi di far arrivare il martelletto contro la corda e nello stesso tempo, cosa di cui ci accorse solo ottant’anni piu` tardi, aggiungono al suono i rumori dell’impatto del dito con il tasto e del rilascio rapido del tasto stesso, i rumori che non vengono avvertiti come tali ma che influiscono sulla timbrica. Liszt impara tutto cio` nel tentativo spasmodico e furioso di ricreare sul pianoforte gli effetti del violino di Paganini, come ho detto parlando delle fantasie, e dell’orchestra di Berlioz. Schumannn, che lesse la Fantastica dalla partitura pianistica di Liszt, non dalla partitura orchestrale, disse che ‘‘la riduzione pianistica’’ poteva ‘‘essere ascoltata accanto alla stessa esecuzione orchestrale’’, e analizzo` in questo modo, molto acutamente, le novita` del lavoro lisztiano: ‘‘Quest’arte dell’interpretazione, cosı` totalmente diversa dal pianismo basato sui dettagli tipico del virtuoso, la multiforme varieta` di tocco che esige, l’efficace uso del pedale, il chiaro intrecciarsi delle singole parti, il riassumere le masse, in breve: la conoscenza dei mezzi e dei molti segreti che ancora nasconde il pianoforte, – tutto cio` puo` essere opera solo di un Maestro, di un genio dell’interpretazione quale Liszt e` da tutti considerato’’. La recensione e` del 1835. Schumann aveva appena terminato la prima versione degli Studi sinfonici, titolo che aveva sostituito il precedente Studi di carattere orchestrale, e nel 1835 cominciava a comporre un pezzo che avrebbe ultimato l’anno dopo, dandogli il titolo di Concerto senza orchestra, che non vuol dire – mi scuso per la precisazione – pezzo in forma di concerto per pianoforte solo, ma pezzo da concerto per pianoforte solo. Il problema di inventare il trattamento sinfonico del pianoforte non era dunque una fissazione di Liszt ma investiva la cultura europea e preludeva alla conseguenza a cui tutti miravano: rendere possibile il concerto pubblico sostenuto dal solo pianista, cioe` il recital che avrebbe trasportato la musica da camera nella sala da concerto e che avrebbe cosı` creato una rivoluzione epocale nella diffusione della musica. Le trascrizioni e le fantasie di Liszt risolvono il problema non solo sul piano della scrittura ma anche sul piano dei contenuti perche´ si impadroniscono di musiche, operistiche e sinfoniche, che gia` avevano nella grande sala la loro collocazione. E il pianoforte della Fantastica, come diceva Schumann, poteva rivaleggiare con l’orchestra, cosa che avvenne effettivamente, ma per la sola Marcia al supplizio, eseguita a Parigi da Liszt e in proseguimento dall’orchestra. Liszt imparava poco piu` tardi – l’ho detto parlando della parafrasi sulla Lucia di Lammermoor – come trasferire sulla tastiera il canto melodramma321

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Franz Liszt

tico. Doveva pero` trovare ancora il mezzo per fare dei Lieder musica da concerto. Comincio` nel 1835 con Der Rose, continuo` nel 1838 con Lob der Tra¨nen e dodici altri Lieder di Schubert, fra i quali Erlko¨ nig, Gretchen am Spinnrade, Sta¨ ndchen, Ave Maria, che avrebbero spopolato per tutto il secolo nel repertorio concertistico. Il cantabile liederistico-pianistico appare pienamente conquistato in Sta¨ ndchen, Serenata (bisogna ascoltarla nell’esecuzione di Rachmaninov), dove pero` Liszt non si limita a riprendere la melodia principale sempre nello stesso registro, ma trasferendola su due registri e creando alcuni piccoli canoni trasforma la lirica in duetto (il lettore ricorda il finale del primo atto della Traviata di Verdi, il ‘‘Sempre libera’’ di Violetta su cui si insinua dall’esterno la voce di Alfredo?). In Erlko¨nig, Il Re degli Elfi, Liszt non ha bisogno di aggiungere personaggi perche´ ne trova gia` quattro nell’originale di Schubert. Certi baritoni riescono a dare alla voce sfumature diverse a seconda se gli interventi sono del narratore, del padre, del figlio, del re. Liszt gioca sui registri, disponendo la tessitura come se nell’originale ci fossero le voci di baritono, di tenore, di fanciullo e di evirato (questo e` il terribile Re degli Elfi, viscido personaggio che Liszt fa salire ad altezze a cui la voce umana non arriva). Il pezzo e` famoso per le ottave ribattute velocissime, che pero` ci sono anche nell’originale. Sono le ottave che colpiscono sempre il pubblico perche´ il movimento vorticoso delle braccia e` gia` da se´ uno spettacolo. Ma la genialita` della trascrizione di Liszt risiede nella sua capacita` di andare persino oltre la drammaticita` di Schubert. Gretchen am Spinnraden, Margherita all’arcolaio, e` la progenitrice di tutti gli arcolai che avrebbero ronzato poi in gran copia sul pianoforte. Qui Liszt crea il piccolo miracolo di rendere distinti la melodia e l’accompagnamento affidati alla sola mano destra. E nell’Ave Maria, che a ogni strofa aggiunge nuovo materiale ornamentale, da` l’impressione del suonare a quattro mani. Non siamo nemmeno piu` nell’ambito della trascrizione: siamo nell’ambito dello spettacolo. Ed io credo che le scoperte di Liszt andassero di pari passo con altre sbalorditive scoperte che a Parigi avevano negli anni trenta la loro culla come, nel balletto La Sylphide che fece impazzire nel 1832 tutta la citta` , la danza sulle punte di Maria Taglioni in gonna bianca di mussola (il futuro tutu`), come l’adozione nel 1831 della illuminazione scenica a gas, realizzata per la prima volta nel Roberto il Diavolo di Meyerbeer, come le magie dell’illusionista Robert-Houdin. Non credo dunque che sia giusto limitare le conquiste di Liszt alla musica e al pianoforte: Liszt inserisce 322

Ouverture del Tannha¨user

il pianoforte in una svolta storica del concetto stesso di spettacolo, e riuscira` definitivamente nell’intento nel 1839, quando inventera` il recital e percorrera` tutta l’Europa suscitando fanatismi di massa che erano stati prima riservati al solo Paganini. Un paragrafo molto importante nel capitolo delle trascrizioni e` quello delle opere di Wagner. La Ouverture del Tannha¨ user (1848, 1850) e` dopo quello della Fantastica di Berlioz il piu` splendido esempio che esista di trascrizione che regge il confronto con la grande orchestra, ed e`, nello stesso tempo, terrificante per l’esecutore, non tanto e non soltanto per il virtuosismo, quanto perche´ richiede una abnorme capacita` di resistenza alla fatica: si dice che lo stesso Liszt vi trovasse degli ostacoli che lo mettevano alle corde, e questa notizia sembra del tutto verosimile. Nella Coro delle filatrici dal Vascello fantasma (1860, 1861) Liszt non ha altro da fare che riprendere la tecnica della schubertiana Margherita all’arcolaio, e lo fa conseguendo un risultato molto felice che fa felici i pianisti che vi si cimentano. Meravigliosamente delineato con piccoli tocchi divisionistici di suono translucido e` il Sogno di Elsa dal Lohengrin (1854, 1854, pubblicato insieme con il Festa e canto nuziale). Ma il vero must delle trascrizioni wagneriane, amatissimo dal pubblico, ammiratissimo dai pianisti che vi trovano materia per esporre tutta la loro scienza del tocco, e` la Morte di Isotta dal Tristano e Isotta (1867, 1868). Chi crede che sul pianoforte tutte le tonalita` siano uguali provi a trasportare in qualsiasi altra tonalita` il Si della Morte di Isotta, e vedra`... Il catalogo delle trascrizioni di Liszt e` sterminato: Bach, Mozart, Beethoven, Hummel, Schubert, Berlioz, Chopin, Mendelssohn, Schumann e tanti altri ancora, tra i quali lo stesso Liszt, che delle sue musiche pubblico` quarantasette trascrizioni per pianoforte solo, cinquantotto per pianoforte a quattro mani e ventitre per due pianoforti. Il lettore potra` trovare in qualche enciclopedia tutto l’elenco, che non potrei dare io qui. Il mio discorso critico a questo punto e` pero` completo, e io mi limitero` a segnalare le trascrizioni piu` importanti, a cominciare dalla Ouverture del Guglielmo Tell (1838, 1842) della quale Rossini, riconoscendone la terrificante difficolta`, avrebbe detto: ‘‘Peccato che non sia ineseguibile’’. Quando l’esecutore e` in grado di superare senza schiantarsi questa immane fatica il pubblico non era e non e` del parere di Rossini. Il quale non aveva pero` nulla da obbiettare sulle Soire´es musicales (1837, 1838), frutto del soggiorno di Liszt a Milano e che presentano sontuosamente trascritte dodici romanze da camera

Soire´es musicales

del Pesarese, fra cui la divertentissima Regata Veneziana e la Danza, cioe` la celebre Tarantella. Di estrema importanza sono le trascrizioni delle nove Sinfonie di Beethoven e della Nona Sinfonia per due pianoforti. Basta confrontare la versione di Liszt con le versioni di Czerny o di Kalkbrenner per capire che l’uso del pedale di risonanza creava con Liszt volumi e macchie sonore che mascheravano i limiti del pianoforte. Alcuni commentatori ritengono che la pedalizzazione di Liszt ipotizzasse nei fatti il terzo pedale, ma secondo me egli non aveva scrupoli, come non li aveva avuti Beethoven, nello ‘‘sporcare’’ l’armonia, e nei fatti anticipava

Franz Liszt

invece le pedalizzazioni dei simbolisti. Dei sei Lieder di Mendelssohn e` celebre Auf Flu¨geln des Gesanges, Sulle ali del canto, e dei dodici Lieder di Schumann due, Widmung (Canto d’amore, 1848, 1848) e Fru¨hlingsnacht (Notte di primavera, 1877 ca.) sono le gemme piu` lucenti. Questa parte del catalogo di Liszt e` conosciuta oggi dal pubblico in una percentale minima, ma se si andasse a esplorarla sistematicamente si capirebbe quanto, per la bellezza melodica, la brevita`, la scintillante strumentazione, potrebbe essere utile per la formazione di un nuovo pubblico. Come lo fu nell’Ottocento.

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Sergej Mikhailovicˇ Ljapunov

Soire´es musicales

Sergej Mikhailovicˇ Ljapunov (Jaroslavl’, 30 novembre 1859-Parigi, 8 novembre 1924) Il primo conservatorio russo fu aperto nel 1862 a S. Pietroburgo da Anton Rubinsˇ tejn. Nel 1866 Rubinsˇtejn aprı` il secondo conservatorio, a Mosca, affidandone la direzione al fratello Nicolaj. I due conservatori nascevano un po’ come un affare di famiglia dei Rubinsˇtejn, ma ben presto fra la vecchia capitale, Mosca, e la nuova capitale fondata da Pietro il Grande, S. Pietroburgo, si sviluppo` una rivalita` molto forte. Sergej Ljapunov, allievo a Mosca di Karl Klindworth e di Paul Pabst per il pianoforte e di Cˇajkovskij e di Taneev per la composizione, si trasferı` a S. Pietroburgo nel 1885, ma invece di entrare in rapporto con l’ambiente del conservatorio si rifugio` sotto l’ala protettiva di Mili Balakirev, storico rivale di Anton Rubinsˇtejn e creatore di una Scuola Libera. L’influenza di Balakirev, ‘‘ardente lisztiano’’ secondo quanto diceva Cˇajkovskij, porto` Ljapunov a sviluppare una ammirazione per Liszt che sfiorava il fanatismo. La Sonata in fa op. 27 (1906-1908) segue il modello formale lisztiano con fedelta` persino maggiore di quella degli allievi di Liszt come Reubke e Draeseke, ma con una sconcertante semplificazione – cioe` impoverimento – sia della drammaturgia che della scrittura. Il piu` affettuoso omaggio di Ljapunov a Liszt consistette tuttavia nel progetto di ‘‘completare’’ il ciclo dei ventiquattro Studi trascendentali. Liszt si era fermato alla dodicesima tonalita`, si bemolle minore. Nei suoi dodici Studi trascendentali (1897-1903) Ljapunov ripartı` dal fa diesis maggiore e arrivo` fino al mi minore, allo Studio intitolato Elegia in memoria di F. Liszt, non senza aver dedicato di passaggio un pensiero riconoscente al suo mentore nello Studio n. 10, Lesginka (Stile Balakirev). Proprio Lesginka si conquisto` una certa popolarita` . Gli altri undici Studi non entrarono, nonche´ nei programmi concertistici, neppure nei programmi didattici: per gli uni e per gli altri erano piu` che sufficienti i dodici Trascendentali di Liszt. Se la valutazione critica si basa sulla evoluzione storica del linguaggio, e quindi sulla ‘‘attualita` ’’ degli Studi di Ljapunov al momento della composizione, e` evidente che quei poveri pezzi, composti lisztianamente mentre fiorivano i primi capolavori di Debussy e Ravel e, in Russia, di Rachmaninov e Skrjabin, restano tagliati fuori. Se questo criterio

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viene invece visto come secondario rispetto ai risultati artistici raggiunti, allora, se non proprio tutti, almeno alcuni dei Trascendentali di Ljapunov – il n. 2, Ronda di fantasmi, il lisztianissimo n. 3, Carillon (con canti religiosi e concerti di campane), il n. 4, Te´rek (da una poesia di Lermontov), il n. 6, Tempesta, il n. 7, Idillio, il n. 10 Lesginka, ovviamente, e il n. 11, Ronda delle silfidi – possono vantare secondo me dei titoli di nobilta`. Oltre all’ovvio rapporto di Lesginka con Islamey, parecchi Studi riprendono la tecnica e lo stile di Studi di Liszt con una sorprendente capacita` mimetica. Il ‘‘completamento’’ dei Trascendentali di Liszt sarebbe, di per se´, una semplice curiosita`, persino una bizzarria. Ma i Trascendentali di Ljapunov sono piu` di una curiosita` e di una bizzarria. Il Concerto n. 1 op. 4 in mi bemolle (1890) segue – c’era da dubitarne? – un grande modello lisztiano. Non pero` quello, piu` celebre, del Concerto n. 1, ma quello del meno noto, e piu` interessante, Concerto n. 2. Dopo aver scelto un ottimo punto di partenza Ljapunov difetta tuttavia della forza creativa che servirebbe per dimenticarlo. Ma il suo Concerto, scritto con impeccabile professionismo, ottenne nel 1904 il Premio Glinka insieme con il Concerto n. 2 di Rachmaninov, il Trio in re di Arenskij, le Sonate n. 3 e n. 4 di Skrjabin e la Sinfonia in do di Taneev, e fu eseguito nel 1907 da un leone della tastiera come Josef Hofmann. Il Concerto n. 2 op. 38 in Mi (1909), a cui tocco` in sorte, dopo essere stato eseguito dall’Autore, di venir ripreso da Ferruccio Busoni, non abbandona il modello lisztiano, con esiti tuttavia non superiori a quelli del Concerto n. 1. Piu` riuscita la Rapsodia su temi ucraini op. 28 (1907), dedicata a Busoni, che ripropone ancora la piu` piena fiducia nel russismo ottocentesco mentre Stravinskij e` ormai alle porte, ma in cui Ljapunov puo` far valere le sua perizia di strumentatore senza dover inventare temi suoi. Fra le numerose pagine di Ljapunov per pianoforte solo sono da ricordare secondo me le Variazioni su un tema russo op. 49 (1912), che si agganciano al modello delle variazioni con fuga reso popolare cinquant’anni prima da Brahms, e il Preludio e fuga op. 58 (1913), che dimostra la valentia di Ljapunov, allievo di un teorico della forza di Taneev, come contrappuntista.

Soire´es musicales

Edward MacDowell

A Edward MacDowell

B

(New York, 18 dicembre 1860-ivi, 23 gennaio 1908) MacDowell inizio` la sua attivita` come pianistacompositore, poi divenne compositore, e poi insegno` nella Columbia University prima di finire tragicamente i suoi giorni, a quarantasette anni, nella notte della pazzia. Al primo periodo appartengono alcun impegnativi lavori come la Suite moderna n. 1 op. 10 (1881), il Preludio e fuga op. 13 (1882), la Suite moderna n. 2 op. 14 (1882), lo Studio da concerto op. 36 (1887), i Dodici Studi op. 39 (1889-1890), varie altre pagine di minore interesse e i Concerti op. 15 e op. 23. Leggendo il termine suite moderna si pensa ovviamente a un insieme di danze in auge nella seconda meta` dell’Ottocento, valzer e polche e mazurche e scozzesi e galop. MacDowell forma invece la prima Suite con Preludio, Presto, Andantino, Intermezzo, Rapsodia e Fuga. Che cosa ci sia di ‘‘moderno’’ in tutto cio` e` un... segreto di MacDowell. Moderno puo` essere tutt’al piu` considerato il tedium vitae da cascame schopenaueriano che suggerisce al compositore di collocare come epigrafe della Rapsodia il dantesco ‘‘lasciate ogni speranza’’. Ma la Suite moderna n. 1 piacque al vecchio Liszt, che ne caldeggio` la pubblicazione presso una importante casa editrice di Lipsia. Il Preludio e fuga op. 13 e la Suite moderna n. 2 op. 14 sono costruiti con piu` scaltrezza (la Suite porta un epigrafe tratta dal Manfred di Byron), ma MacDowell abbandono` subito questo filone serioso per darsi alle musiche di genere come i Pezzi fantastici op. 17 (1884), gli Idilli della foresta op. 19 (1884), i Sei Idilli da Goethe op. 28 (1887), i Sei Poemi da Heine op. 31 (1887), i Quattro Piccoli Pezzi op. 32 (1887) e Le Orientali op. 37 (1887-1888). Uno solo fra tutti questi pezzi e` sopravvissuto, ma fu quello che fece la fortuna di MacDowell. Con il secondo numero dell’op. 17, Hexentanz, Danza delle streghe, MacDowell vinse un terno al lotto perche´ Teresa Carren˜o, celeberrima pianista con la quale egli aveva studiato prima di spostarsi in Europa, se ne entusiasmo`. La Carren˜o mise in repertorio la Danza delle streghe e lo Studio da concerto op. 36, scritto per lei e a sua misura. Con le esecuzioni di una pianista sulla cresta dell’onda e con le pubblicazioni in Germania MacDowell si guadagno` i titoli da spendere nelle germanofile citta` della costa occidentale degli Stati Uniti, dove rientro` dopo una lunga pernanenza in Europa (studi nel conservatorio di

Francoforte sul Meno, insegnamento a Darmstadt, soggiorno a Wiesebaden). Il Concerto n. 1 in la op. 15 (1882) fu eseguito da MacDowell a Weimar, con Euge`ne d’Albert al secondo pianoforte, durante una masterclass di Liszt, ma non ebbe fortuna e la sua pubblicazione fu postuma. La sua piu` notevole particolarita` consiste nella introduzione in tempo Maestoso, affidata al solo pianoforte, che precede l’Allegro con fuoco. Sebbene dedicato a Liszt, il Concerto risente molto degli esempi di Joachim Raff, con il quale MacDowell stava ancora studiando, e del Concerto n. 4 di Rubinsˇtejn, e mostra una qualche influenza lisztiana solo nella bella Cadenza del primo tempo, che secondo me dimostra la conoscenza del lisztiano Grosses Konzertsolo. La ripresa nel finale di temi del primo movimento e` da attribuire, credo, all’esempio di Mendelssohn. Il Concerto n. 2 in re op. 23 (1885) fu composto a Francoforte sul Meno ma venne eseguito per la prima volta dall’Autore a New York il 5 marzo 1889. Fu dedicato a Teresa Carren˜o, che lo fece conoscere in tutto i mondo. Salutato al suo apparire dalla critica americana come un capolavoro (dopo la prima esecuzione la recensione di un importante quotidiano asserı` che era da preferire alla Sinfonia n. 5 di Cˇajkovskij, eseguita nella stessa serata, un altro scrisse che con esso MacDowell si era assicurato ‘‘una nicchia nel pantheon degli immortali’’), il Concerto rimase in repertorio per parecchi anni e venne poi ripreso con una certa frequenza dai pianisti degli Stati Uniti (fece parte del repertorio di Van Cliburn). La scrittura pianistica, decisamente orientata su Liszt, e` ipervirtuosistica ma idiomatica, e quindi tale da soddisfare il concertista, mentre la musica, turgida e sensuale, e` perfettamente adatta al pubblco della belle e´poque. Il Concerto ha una struttura molto originale, con un primo movimento a fantasia (Larghetto calmato e, con un italiano ancora piu` curioso, Poco passione), un secondo movimento a modo di scherzo e un finale Molto allegro, che riprende temi del primo movimento, introdotto da un Largo. I temi mancano di una decisa impronta personale, e cio` spiega secondo me perche´ il Concerto sia oggi raramente eseguito, malgrado la brillantezza della scrittura e l’originalita` formale. Il punto criticamente piu` interessante consiste nel fatto che nel Concerto in re si intravvedono i segni 325

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Edward MacDowell

della poetica che negli anni novanta, come diremo fra breve, porto` MacDowell a prediligere le saghe nordiche. I Dodici Studi op. 39, che concludono la prima fase della creativita` di MacDowell, non sono pezzi da concerto. Sono invece studi caratteristici di media difficolta`, con titoli attraenti come Arabesco, Idillio, Danza di gnomi, All’ungherese. MacDowell mirava evidentemente a entrare nel mercato che era dominato dagli Studi di Cramer nella scelta e revisione di Hans von Bu¨low, divenuta popolarissima. Non sembra che ci riuscisse, o per lo meno non ci riuscı` a lungo. Nell’ultimo decennio del secolo MacDowell punta a qualificarsi come compositore tout court con le due suite per orchestra, con i due frammenti dalla Chanson de Roland e con le Sonate per pianoforte solo. Le Sonate sono quattro: Sonata n. 1 in solSol op. 45, Tragica (1891-1892), Sonata n. 2 in sol op. 50, Eroica (1894-1895), Sonata n. 3 in si op. 57, Nordica (1898-1899), Sonata n. 4 in mi op. 59, Celtica (1900). La Sonata n. 2 e` sottotitolata Fiore del re Artu`, la Sonata n. 3 e` un racconto del bardo che narra gli amori di Sigurd e Gutrun, e la Sonata n. 4 e` sottotitolata Racconti del tempo antico ed e` ispirata alla bella Deirdre e al prode Cuchullin, personaggi della mitologia celtica. Ma anche la prima Sonata e` riferibile alle leggende e ai miti del ciclo bretone. MacDowell, la cui famiglia aveva origini scozzesi e irlandesi, con le quattro Sonate intese forse creare un poema sinfonico plurimo, un po’ al modo della Mia Patria di Smetana. Ma mentre Smetana aveva badato bene a differenziare i suoi sei poemi, MacDowell ripete per quattro volte le cupe atmosfere delle leggende nordiche, gli amori infelici, le tragiche vicende degli eroi, le battaglie, le cavalcate, il mare. Negli stessi anni Albe´niz affrontava con un librettista inglese il mito del re Artu` in una trilogia operistica che non avrebbe mai condotto a termine, e nel decennio successivo Joseph Holbrooke avrebbe composto una trilogia operistica sulle leggende celtiche. MacDowell era dunque partecipe di un movimento culturale, il Celtic Revival, che ebbe in Yeats il suo maggiore esponente. Non affronto` l’opera, MacDowell, e si limito` a quattro Sonate, ma in verita` non ottenne risultati piu` rilevanti di quelli di Albe´niz e di Holbrooke. Le prime due Sonate sono in quattro movimenti, le altre in tre. Gia` Wagner, parlando di Liszt, aveva detto che nei poemi sinfonici il minuetto o lo scherzo sono presenti solo se sono giustificati da ragioni drammaturgiche, e aveva citato il Tasso, in cui il minuetto e` riferito a un ballo alla corte estense di Ferrara. Nella Sonata n. 1 di Mac Dowell, Tragica, lo Scherzo non aveva ragioni drammaturgiche (ma era il movi326

Sonata n. 1 in sol-Sol op. 45, Tragica

mento piu` riuscito). Nella Sonata n. 2 MacDowell salva capra e cavoli con un Elf-like (Come l’elfo) che nel triangolo Artu`-Ginevra-Lancillotto introduce un personaggio non del tutto... illegittimo (e anche in questo caso lo scherzo e` il movimento piu` riuscito). Nelle altre due Sonate il racconto non divaga mai. Nella Sonata n. 3 troviamo un Mesto, ma con passione, un Tristamente, ma con tenerezza, e un Allegro con fuoco in cui rientrano a meraviglia le storie di Sigurd e di Gutrun. Altrettanto coerente lo sviluppo drammaturgico della Sonata n. 4, che termina con la morte di Cuchullin, simboleggiata in un corale con rintocchi di campane funebri. MacDowell, che strumenta splendidamente per pianoforte, maneggia con disinvoltura anche le forme tradizionali della sonata e sa evitare le dispersioni. Enfatico sı` , ma non bombastico. E le sue quattro Sonate, che non hanno pecche sotto l’aspetto della ideazione e della realizzazione, sono tuttavia monotone di espressione, ripetitive, e con temi ai quali manca il piu` delle volte, per dirla alla Verdi, la parola scenica. C’e` pero`, dalla Prima alla Quarta, un progresso, una lenta messa a fuoco del problema: tre tappe di avvicinamento alla soluzione, non del tutto trovata nella Sonata Celtica, che tuttavia e` quella che presenta i maggiori motivi di interesse. Mentre componeva le Sonate MacDowell mise in cantiere i Dodici Studi di virtuosismo op. 46 (1893-1894) e proseguı` con le raccolte di pezzi di carattere. Negli Studi op. 46 troviamo pezzi riusciti (il n. 3, Caccia selvaggia, il n. 7, Burlesca, il n. 10, Vento di marzo), pezzi che servono solo a far numero, e nulla che possa essere paragonato ai grandi studi pianistici romantici. Infinitamente migliori sono i Woodland Sketches op. 51 (Schizzi della foresta, ma il termine indica piu` un terreno boscoso che un foresta, 1896) e i Sea Pieces op. 55 (Pezzi marini, 1896-1898). To a Wild Rose op. 51 n. 1 (A una rosa selvatica), che verra` ripreso nel secondo movimento della Sonata Celtica, e` il piccolo pezzo di due pagine che insieme con la Danza delle streghe e` entrato nell’immaginario collettivo, per lo meno in quello dei pianisti. Una melodia dolce (con semplice tenerezza, dice la didascalia), armonie elementari ma trattate con gusto raffinatissimo, un tempo placido e cullante: un pezzo incantevole. Grieg si aggira senza dubbio nelle vicinanze, il Grieg norvegese ma di origine scozzese, come dire un intreccio di radici celtiche che non mina l’originalita` di MacDowell. La celebrita` della rosa selvatica ha gettato la sua ombra sugli altri nove pezzi, che meriterebbero anch’essi di essere conosciuti, e in particolare il n. 5, In una capanna indiana, e il n. 8, A un giglio acquatico.

New England Idyls op. 62

Nella capanna indiana MacDowell utilizza tre melodie dei pellerossa per un quadretto molto piu` drammatico che sentimentale, e il giglio acquatico, cioe` la ninfea, potrebbe accompagnare musicalmente i quadri di Monet. I Pezzi marini sono un po’ come cartoni preparatori per le ultime due Sonate. Non un generico mare, ma l’Oceano che fu solcato dalle navi dei vichinghi, maestoso e terribile, con le sue immense profondita` , con le stelle che splendono su di lui. Si comincia con l’omaggio To the Sea (Al Mare), si finisce In Mid-Ocean (Nel mezzo dell’Oceano). Cartoni preparatori, dicevo, con gli stessi limiti, attenuati, delle Sonate. I boschi, in fondo, convengono alla vena creativa di MacDowell piu` dell’epica marina. Dopo la Sonata n. 4 MacDowell compose soltanto piu` i Fireside Tales op. 61 (Racconti accanto al fuoco, 1901-1902) e i New England Idyls op. 62 (Idilli della Nuova Inghilterra, 1901-1902), rispettivamente di sei e di nove pezzi, che riprendono semplicemente i modi espressivi delle precedenti raccolte, riportandosi raramente – Da una foresta germanica op. 61 n. 1, Salamandre op. 64 n. 4 – allo stesso livello di genuina poesia della natura. Nel 1904 MacDowell si dimise dall’incarico alla Columbia University e scivolo` lentamente nella follia. Gli avevano detto di essersi assicurato una

Edward MacDowell

nicchia nel pantheon degli immortali, e non lo aveva preso per un semplice complimento. Nel 1904 scrisse una letteraccia al direttore tedesco Felix Mottl, ospite del Metropolitan, che pensando di fare cosa gradita al paese che lo aveva chiamato aveva messo in programma un concerto di musiche di autori americani: ‘‘Dare un concerto come questo’’, scrisse MacDowell, ‘‘significa ammettere tacitamente che noi siamo troppo inferiori per essere paragonati ai compositori europei’’. Chiedeva che il suo nome fosse escluso dal programma e si impegnava a rifondere le spese di ristampa del manifesto. Forse aveva delle ragioni, ma non si puo` dire onestamente che le sue musiche o quelle di Chadwick o di Paine o di Parker potessero reggere il confronto, per citare solo i coetanei, con quelle di Richard Strauss o di Debussy o di Sibelius. Ma MacDowell, dilaniato dall’ambizione, comprensibilissima, di creare una civilta` americana in grado di rivaleggiare con le civilta` piu` antiche, e fuorviato dall’orgoglio di esserci gia` riuscito, aveva perso il senso delle proporzioni e soffriva di mania di persecuzione. Stati d’ansia e di depressione, e insonnia, precedettero la demenza presenile e MacDowell si spense poco dopo aver compiuto i quarantasette anni.

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Gian Francesco Malipiero

New England Idyls op. 62

Gian Francesco Malipiero (Venezia, 18 marzo 1882-Treviso, 1º agosto 1973) Fra i maggiori compositori della sua generazione, la cosiddetta ‘‘generazione dell’ottanta’’ a cui appartengono Respighi, Pizzetti e Casella, Gian Francesco Malipiero fu quello meno versato nel maneggio della tastiera ma fu paradossalmente anche quello che lascio` il catalogo pianistico piu` dovizioso, sebbene formato in buona parte da pezzi brevi e di limitato impegno tecnico. Nell’opera pianistica giovanile di Malipiero si nota una evoluzione che dura circa dieci anni. I Sei Pezzi (1905) sono curiose mescolanze di scolastica schiavitu` nel movimento delle parti e di sgraziati tentativi di eleganza salottiera: il modello potrebbe essere stato Marco Enrico Bossi, con il quale Malipiero studio` a Venezia e con il quale si diplomo` nel Liceo Musicale di Bologna, ma in realta` poco importa analizzare le origini culturali quando il risultato e` cosı` poco significativo. Neppure le Bizzarrie luminose dell’alba, del meriggio e della notte (1908) ci dicono molto di piu` , anche se certo modalismo e certo arcaismo di scrittura strumentale – un momento dei Fantasmi che pare un’antica canzone accompagnata dal liuto – ci fanno intravvedere il futuro Malipiero. Faticosamente costruiti, ma originali negli spunti melodici e, soprattutto, nella individuazione di particolari atmosfere sonore sono i sette Poemetti lunari (1909-1910). Sembra evidente che lo stile pianistico dei Poemetti lunari derivi dalla scoperta e dalla personale meditazione del ‘‘fenomeno Debussy’’, ridotto pero` quasi al solo aspetto della creazione di timbri mediante accordi e raddoppi che non vengono percepiti come accordi e raddoppi ma come registri di mutazione. Sebbene questa tesi sia la piu` semplice e diretta, e in ultima analisi la piu` probabile, non si puo` ignorare un’altra tesi che viene sfiorata indirettamente da Vladimir Janke´le´vitch quando dice: ‘‘Il demone della bizzarria che dettera` a Malipiero i Poemetti lunari ispira a Satie l’immobilita` enigmatica, la stranezza delle sue prime opere’’. La conoscenza delle opere di Satie era probabilmente preclusa a Malipiero, che si reco` per la prima volta a Parigi soltanto nel 1913. Ma la derivazione dello stile pianistico di Malipiero dal primo Satie piuttosto che dal Debussy maturo mi sembra non del tutto improbabile, perche´ la derivazione da Debussy presuppone una semplificazione e un impoveri328

mento, mentre la derivazione da Satie significherebbe acquisizione per un futuro sviluppo. Con i quattro Preludi autunnali (1914) Malipiero da` inizio a una ricca e matura produzione pianistica, che durera` per una decina d’anni: si tratta di molte composizioni, scritte da un musicista che si e` formato un suo linguaggio e che procede senza impacci, anche se non sempre con lo stesso impegno. Come esempi dello stile pianistico (e del linguaggio) di Malipiero si possono citare il n. 2 e il n. 3 dei Preludi autunnali. L’inizio del Preludio n. 3 presenta una melodia in registro centrale su blocchi di accordi, con gli accordi divisi fra le due mani e la melodia affidata a medio, anulare e mignolo della destra. La costruzione e` tradizionalissima: due battute introduttive per far partire il primo ‘‘evento’’ (accompagnamento ritmico-timbrico), e poi esposizione del secondo ‘‘evento’’ (melodia di otto battute). Sia la costruzione che la strumentazione sono quelle della tradizione nata con le Romanze senza parole di Mendelssohn e ripresa in migliaia di pezzi pianistici della seconda meta` dell’Ottocento. E, secondo la stessa tradizione, dopo le 2+8 battute la melodia viene ripresa e sviluppata un’ottava sopra. Il procedimento pianistico e` qui molto schematico, cioe` e` quello di un non-pianista: raddoppio all’ottava della melodia (per non perdere, cambiando registro, l’intensita` espressiva) e semplificazione dell’accompagnamento (perche´ l’accompagnamento non puo` piu` essere diviso fra le due mani). Lo schema, in fondo, e` quello dell’E´tude-Tableaux op. 39 n. 5 di Rachmaninov, e anche il nucleo melodico e` identico a quello di Rachmaninov, ma la strumentazione di Rachmaninov ci da` la misura del concertista che sa calcolare le distanze e gli spazi della sala da concerto, mentre Malipiero non esce dalla dimensione del brogliaccio pianistico per uso di lettura privata. Nel Preludio n. 2 si puo` trovare una tematica probabilmente ispirata, come nella prima serie (1910) delle Impressioni dal vero per orchestra, al canto degli uccelli, con una perfetta individuazione di registri e di rapporti di altezze. Malipiero si serve delle sovrapposizioni di suoni sia, tradizionalmente, in senso armonico (cadenza ad inganno, quinto-sesto grado, fra la fine della terza e l’inizio della quarta battuta), sia, alla Debussy, in senso timbrico (movimenti accordali paralleli nella se-

Tre Preludi a una fuga

conda e nella terza battuta). L’armonizzazione di un suono della prima batuta, re diesis, armonizzazione che suona consonante sebbene il suono melodico stia a distanza di settima maggiore dal basso e` dovuta a sensibilita` acustica, non a rapporti armonici tradizionali, tanto e` vero che quando la nota-melodia si sposta al basso l’armonizzazione cambia perche´ e` cambiato il registro. La forma del pezzo e` quella della canzone tripartita. Dopo l’A arriva puntualmente il B. E qui fa la comparsa non piu` un principio di strumentazione pianistica debussiano ma un modello stilistico che Debussy aveva ripreso da Mendelssohn. L’ovvia domanda e` dunque questa: si tratta di modello stilistico preso da Debussy o di un mendelssohnismo filtrato attraverso Satie? Non-pianista Malipiero, non-pianista Satie: in entrambi opera una vivacissima fantasia timbrica, ma entrambi, secondo me, pensano manualmente la tastiera al modo dei dilettanti che hanno suonato con gusto, tutt’al piu`, le Romanze senza parole di Mendelssohn e i loro innumerevoli derivati. Spesso, in Malipiero, certo stile tipico di Debussy – ad esempio, all’inizio di Risonanze (1918) – arriva in modo cosı` scoperto da sembrare persino citazione. Questi momenti si incontrano continuamente in Malipiero ma, tranne che in certi casi come quello or ora segnalato, non mi sembra che si possa veramente parlare di imitazione, di ricalco, perche´ gli atteggiamenti derivati da Debussy rientrano nell’equilibrio strutturale delle composizioni, tanto che, come dicevo prima, non mi spiace la tesi di uno sviluppo di Malipiero da Satie, in parallelo con la conoscenza di Debussy. C’e` poi un fatto che a me sembra indubitabile: il pianoforte di Malipiero, malgrado la sommarieta` e la genericita` di certa sua scrittura, e` sempre riconoscibile, anche se non saprei citare invenzioni propriamente strumentali attribuibili al Nostro. I tre Poemi asolani (1916) sono secondo me il capolavoro pianistico di Malipiero. Il primo pezzo, La notte dei morti, fu ispirato dalla visione dei cimiteri di guerra da Asolo al Monte Grappa, nella notte fra l’1 e il 2 novembre, con le luci tremolanti dei lumini e i suoni lontani delle campane. Malipiero non da` indicazioni programmatiche che spieghino il secondo pezzo, Dittico. Con il terzo pezzo, I partenti, siamo di nuovo a una visione di guerra, opposta a quella della Notte dei morti: i giovani soldati partono baldanzosi per il fronte, ignari della sorte che li attende. La Notte dei morti e` in forma tripartita, con la prima parte, Lento, in cui si aggiungono uno dopo l’altro elementi tematici diversi che si sovrappongono. La parte centrale, Agitato ma non molto, e` una specie di marcia, la terza parte riprende a rovescio, e in una to-

Gian Francesco Malipiero

nalita` diversa, il procedimento compositivo della prima parte fino a spegnersi nel silenzio. Nel Dittico si fronteggiano, per cosı` dire, due elementi tematici, il primo ispirato probabilmente a stridii di insetti (Malipiero, detto per inciso, faceva collezione di insetti; nella sua villa di Asolo si trovano ancora le scatole che ne contengono, bene ordinati, molti esemplari) e il secondo a cupi suoni di campane. Nei Partenti la marcia guerriera che occupa la parte centrale e` incorniciata da due episodi in cui si delinea la premonizione del destino di morte dei giovani soldati. I Poemi asolani rappresentano pero` una eccezione nella produzione pianistica di Malipiero, che e` prevalentemente orientata verso l’umore bizzarro o verso una tetra melanconia e che raramente diventa cosı` diretta e umanamente sentita nella espressione del senso tragico della vita. I Barlumi (1917), le Maschere che passano (1918), le gia` citate Risonanze, gli Omaggi (1920) e le Cavalcate (1921) sono altrettanti momenti dell’umorismo nero di Malipiero. La Siesta (1920) e Il Tarlo (1922), formati entrambi da quattro pezzi, nascono in momenti opposti della vita di Malipiero. La Siesta e` la rievocazione di una vacanza marina (la tarantella del terzo pezzo ci fa pensare a Capri), il Tarlo fu scritto dopo che Malipiero aveva perduto la prima moglie ed e` un pezzo angoscioso e angosciante, con un Gaio finale sinistro che si spegne in un Molto lento e triste. In A Claudio Debussy (1920), scritto per la raccolta di pezzi dedicati alla memoria di Debussy che venne pubblicata dalla Revue musicale e a cui contribuirono fra gli altri Barto´k, Stravinskij, Dukas e Falla, Malipiero si trova un po’, come dire?, a casa sua. La sua congenialita` con Debussy gli ispira un pezzo che e` una specie di distillato del suo modo di concepire la musica secondo quanto egli deve al creatore francese. Pasqua di resurrezione (1924) e` un tentativo di uscire dalla notazione breve e icastica per costruire un vero e proprio pezzo da concerto; sembra a me che il tentativo non abbia raggiunto lo scopo prefissosi. Nei Tre Preludi a una fuga (1926) Malipiero offre il suo obolo al neoclassicismo imperante negli anni venti senza rinunciare pero` a una virgola del suo stile. I tre Preludi sono concatenati, la Fuga e` una specie di summa del contrappunto, prima cromatico fino a perdere la percezione della tonalita`, poi diatonico come nei vecchi maestri dei quali Malipiero stava pubblicando i 10 Cori antichi. La Fuga si conclude, mendelssohnianamente, con la ripresa a modo di corale del secondo Preludio. Per vent’anni, dopo i Tre Preludi a una fuga, Malipiero, intensamente e costantemente impegnato 329

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Gian Francesco Malipiero

con il teatro, compone per pianoforte solo pochi pezzi d’occasione. Il brevissimo Preludio a una fuga immaginaria (1932) e` un omaggio a Bach, patrocinato dalla Revue musicale, che impiega le note del nome BACH (si bemolle-la-do-si). Gli Epitaffi (1931), i Ritmi e canti gregoriani (1937) e il Preludio e fuga (1940) furono piu` tardi liquidati dall’Autore con un ‘‘senza commenti’’ che non puo` non essere condiviso. Il ritorno alla composizione impegnata avviene con Hortus conclusus. Primo Libro (1946), ciclo di pezzi brevi che alterna gli umori bizzarri e la tristezza ipocondriaca in perfetto equilibrio. Il Primo Libro lasciava supporre una precisa intenzione di continuita`, ma il Secondo Libro non arrivo` mai. Arrivarono invece, dopo tredici anni di silenzio, i Cinque Studi per domani (1959), pianisticamente piu` asciutti e lineari e che contengono, il n. 5, una vera e propria fuga a quattro voci. La Variazione (1959), scritta per il centenario delle Edizioni Chester, e` una breve parafrasi sulla Pantomima dell’Amore stregone

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Preludio a una fuga immaginaria

di Falla. Il catalogo di Malipiero si chiude con Bianchi e neri (1964), pezzo contrappuntistico e privo di orientamenti tonali precisi che sembrerebbe scritto negli anni venti, gli anni nei quali l’evoluzione della cultura, non condivisa da Malipiero, aveva portato molti artisti all’abbandono dell’armonia coloristica. La produzione di Malipiero per pianoforte e orchestra e` molto ricca, ma i pezzi compresi in questo settore ebbero pochissime esecuzioni e non sono stati piu` ripresi da molti anni. Le Variazioni senza tema (1923) ripetono gli schemi delle contemporanee raccolte per pianoforte solo. Dei sei Concerti (1934, 1937, 1948, 1950, 1958, 1964) il piu` eseguito fu in passato il n. 2, in cui la parte solistica e` concertante. Il concetto di concerto come messa in luce del virtuosismo del solista ispira in verita` soltanto il n. 5. Nel n. 6, ‘‘Delle macchine’’, ritroviamo per l’ultima volta il fondamentale contrasto fra il vitalismo e l’angoscia esistenziale.

Piccola Sinfonia concertante per pianoforte, clavicembalo, arpa e due orchestre d’archi

Frank Martin

A Frank Martin

B

(Eaux-Vives, 15 settembre 1890-Naarden, 21 novembre 1974) Gli Otto Preludi (1948) di Frank Martin sono una specie di oggetto misterioso della letteratura pianistica. Composti su richiesta di Dinu Lipatti, erano stati progettati in numero di dodici. Ma Lipatti, gia` molto malato (morı` nel 1950) non pote´ assicurarne l’esecuzione, e cosı` Martin si fermo` a otto. Otto Preludi che godono, come dire? di una fama soprattutto cartacea, perche´ sono citati in tutte le storie della letteratura pianistica ma non vengono quasi mai eseguiti e non e` nemmeno facile reperirli in disco. Sia linguisticamente che strumentalmente gli Otto Preludi oscillano fra diversi poli: andiamo dalla scrittura canonica (dodecafonica) a due voci del n. 6 al virtuosismo brllante del n. 8, dalla solennita` patetica del n. 1 alla leggerezza di spirito del n. 2 e alla violenza del n. 4, e andiamo dal recitativo al moto perpetuo, dall’armonia tonale al cromatismo. Il rapporto che il compositore stabilisce con l’interprete designato, che e` un tratto comune a molti lavori di Martin, diventa qui evidente nel n. 7, in cui si trova una sezione affidata, senza un apparente motivo, alla sola mano sinistra. La motivazione e` che Lipatti aveva scritto nel 1947 la Sonatina per la sola mano sinstra. Martin non segue un piano drammaturgico complessivo, ne´ cerca di integrare gli otto pezzi in un ciclo organico attraverso rapporti tonali, quanto, piuttosto, di offrire al pianista una raccolta che metta in luce tutte le sue qualita` di concertista, di pubblico oratore. Lo scopo viene raggiunto, e gli Otto Preludi meriterebbero senza dubbio di godere di una fama non solo cartacea. L’altro importante lavoro pianistico di Martin e` la Fantasia su ritmi flamenco (1973) in quattro parti: Rumba lenta, Rumba rapida, Soleares, Peternera. Nella Fantasia e` prevista la ‘‘danza ad libitum’’, e per la prima esecuzione, tenuta da Paul Badura-Skoda a Lucerna il 18 agosto 1974, il pezzo fu coreografato dalla figlia del compositore, che aveva ‘‘iniziato’’ il padre al flamenco. Martin intende esprimere lo spirito del flamenco, ‘‘misto di tragico, di fierezza di fronte al destino e di gaiezza’’, e il pezzo corrisponde alle sue intenzioni, riuscendo specialmente in Soleares a creare una scena di lamento funebre, di nenia, di forte impatto emotivo. Una versione per cosı` dire primitiva, e un lontano ascendente della Fantasia e` la trascrizione per pianoforte di Gui-

tarre (Chitarra, 1933), offerta a Segovia e da questi rifiutata. Guitarre e` una suite in quattro brevi parti, spagnoleggiante, con un Lamento come terza parte. Le poche altre pagine per pianoforte solo di Martin sono brevi e nate occasionalmente. Il Concerto n. 1 (1933-1934), la Ballata (1939) e il Concerto n. 2 (1969) costituiscono il non trascurabile contributo di Martin alla letteratura per pianoforte e orchestra. Il Concerto n. 1, in tre movimenti, appartiene al momento in cui Martin adotto` la tecnica dodecafonica, interpretandola in modo personale, e cioe` piu` come ultimo approdo del cromatismo melodico che come incipiente organizzazione seriale del discorso. Piu` che a Scho¨nberg e a Webern, Martin guardava a Berg, e il Concerto e` intensamente lirico, e` musica in senso lato teatrale. Il linguaggio della Ballata e` del tutto personale; il pezzo e` costruito come un allegro da concerto con Andante introduttivo e Allegro vivace di carattere danzante (tarantella e valzer), molto elegante e discorsivamente continuo. Il Concerto n. 2 e` condotto nello spirito del concerto tardoromantico, tecnicamente molto difficile ma tale da conferire al virtuosismo un carattere spettacolare: ‘‘[...] la mia preoccupazione dominante’’, dice Martin, ‘‘e` stata di fissare una costruzione solida, pur dando al gioco tra il solista e l’orchestra l’occasione di un incessante dialogo. Questo dialogo assume sovente un aspetto ritmico’’. Ma Martin non dimentica che se si vuol fare un buon concerto si devono affidare al solista anche temi melodici, e provvede a soddisfare per questo aspetto il committente, Paul Badura-Skoda. Uno dei lavori piu` noti di Martin e` la Piccola Sinfonia concertante per pianoforte, clavicembalo, arpa e due orchestre d’archi (1945). Paul Sacher, committente del Divertimento per archi di Barto´k e delle Metamorfosi per ventitre archi di Strauss, aveva chiesto a Martin un pezzo che riprendesse l’orchestrazione settecentesca della composizione per archi con basso continuo realizzato dal clavicembalo e dal liuto. Martin ando` molto piu` oltre. La Piccola Sinfonia concertante non e` neobarocca ma, semmai, neoclassica. Due movimenti – Adagio-Allegro molto, Adagio-Allegretto alla marcia – entrambi in forma di allegro di sonata con introduzione, temi dodecafonici ma non tecnica dode331

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Frank Martin

Piccola Sinfonia concertante per pianoforte, clavicembalo, arpa e due orchestre d’archi

cafonica, e funzione concertante, non di ripieno, affidata ai tre solisti. Il pianoforte, il clavicembalo e l’arpa agiscono non come concertino barocco ma come un solo strumento che unisce le caratteristiche della corda pizzicata e della corda percos-

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sa. La difficolta` pratica di disporre di tre solisti (e anche il loro costo) indusse tuttavia Martin a trascrivere la composizione per grande orchestra sinfonica, comprendente arpa e pianoforte senza piu` ruolo e responsabilita` solistiche.

Tre Danze ceche

Bohuslav Martinu˚

A Bohuslav Martinu˚

B

(Policˇka, 8 dicembre 1890-Liestal, 28 agosto 1959) L’atteggiamento mentale con cui Martinu˚ si metteva a comporre era quello, secondo la definizione di Hindemith, della Gebrauchsmusik, della musica d’uso. Non musica che riflettesse in se´ i destini del mondo, ma che rispondesse alle esigenze della societa` . Martinu˚ si comportava come un artigiano del Settecento che il piu` delle volte lavorava su commissione. E anche in quanto a ‘‘capacita` produttiva’’ era in linea con gli standard antichi. Pur essendo violinista, non pianista, Martinu˚ impiego` il pianoforte spessissimo, e il corpus delle sue musiche pianistiche e` percio` molto vasto. Mi limitero` qui a parlare delle composizioni di maggior spicco, rinunciando per motivi di spazio a delineare un panorama completo. Il settore quantitativamente piu` importante e` quello del concerto, e nei quattro Concerti e nei due Concertini, piu` la Fantasia concertante, e nell’unico Concerto per due pianoforti si coglie molto bene l’evoluzione stilistica di Martinu˚. Il Concerto n. 1 (1925) riflette in se´ l’‘‘aura’’ della Parigi anni venti, innamorata del jazz come della pastoralita` arcadica. Il Concertino per la mano sinistra (1926), scritto come il Concertino di Jana´cˇek per il pianista ceco Otakar Ollmann si mantiene sulla stessa linea ma la scrittura, al contrario che nel Concerto, e` molto virtuosistica perche´ Martinu˚ impiega l’intera tastiera dando l’impressione che a suonare siano entrambe le mani. Il Concerto n. 2 (1933, revisione 1944) e` neoclassico, come si diceva allora, molto lontano tuttavia dalle rivisitazioni neoclassiche di Stravinskij perche´ Martinu˚ e` un artista per cosı` dire ‘‘moderato’’, a cui piace essere a` la page ma senza radicalismi. Il Concertino (1938), che in realta` ha le dimensioni di un concerto, appartiene al momento in cui nascono il Concerto grosso e il Concerto per due orchestre d’archi, pianoforte e timpani, cioe` appartiene alla fase neobarocca della poetica di Martinu˚. E anche il Concerto per due pianoforti (1943) si apparenta al concerto grosso, con una scrittura virtuosistica per i due solisti e un ruolo piu` modesto per l’orchestra, che spesso si limita ad accompagnare. Il Concerto n. 3 (1948) fu composto non solo dopo che Martinu˚ si era spostato negli Stati Uniti, ma dopo la fine della guerra, ed e` condizionato da vicende esistenziali dolorose. Il colpo di stato che nel 1948 instauro` in Cecoslovacchia la dittatura

comunista impedı` a Martinu˚ di ritornare, come aveva vivamente desiderato, nella sua patria. Il linguaggio diventa piu` nettamente tonale, l’espressione perde la gaiezza ottimistica dei precedenti lavori. C’e` tuttavia nei primi due movimenti una netta discrasia fra la densita` della scrittura orchestrale e la strumentazione lineare della scrittura solistica. Il Martinu˚ anteguerra ricompare nel finale, un finale ‘‘alla polca’’ in cui la scrittura ritrova complessivamente l’equilibrio di un lieto fine che supera le tensioni dei due movimenti precedenti. Sembra probabile che la drammaturgia della composizione fosse aderente a un programma, ma non abbiamo in proposito dichiarazioni dell’Autore, mentre ne abbiamo per il successivo Concerto n. 4. Il Concerto n. 4 (1955-1956), in due movimenti, e` sottotitolato Incantation (Incantesimo) e segna stilisticamente il ritorno verso la giovinezza, quando il ventenne Martinu˚ era rimasto folgorato dal Pelle´as et Me´ lisande di Debussy. Lavoro simbolista, il Concerto n. 4 e`, dice il compositore, ‘‘l’espressione di una sconsolata ricerca della verita` e del significato della vita’’. La forma dei due movimenti e` rapsodica, l’espressione e` tesa e la scrittura pianistica piu` complessa, con ‘‘liquidita`’’ impressionistiche e con tratti molto virtuosistici, il linguaggio evidenzia le memorie del folclore ceco. Si potrebbe dire scherzando che con il Concerto n. 4 Martinu˚ avesse trovato il significato della vita, visto che nella Fantasia concertante (1957), detta anche Concerto n. 5, il panorama spirituale e` tornato sereno e luminoso e il fantasma di Debussy si e` fatto piu` vicino. Le tre raccolte di Marionette (1914-1924) legano il passato trascorso a Praga (prima per gli studi in conservatorio, poi come violinista dell’Orchestra Filarmonica Ceca) con il momento del trasferimento a Parigi, avvenuto nel 1923. Si tratta di pezzi brevi, melodicamente e ritmicamente semplici, e pianisticamente non impegnativi: musica per dilettanti al modo dell’Ottocento, ma scherzosa invece che sentimentale. I Film in miniatura (1925), altrettanto semplici, sono invece riferibili al milieu parigino che andava pazzo per il music-hall. Nelle Tre Danze ceche (1926) Martinu˚ si presenta con pezzi pianisticamente ambiziosi che poeticamente si riallacciano ai grandi compositori ceki del passato, sia pur con un linguaggio degli anni venti pari333

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Bohuslav Martinu˚

gini. Il folclore del suo paese, che non viene citato direttamente ma che e` una costante della poetica di Martinu˚, trova la sua piu` matura realizzazione nei tre libri degli Studi e Polche (1945). Sedici pezzi in totale, di cui nove Studi, sei Polche e una Pastorale, tutti brevi (tre minuti al massimo), scritti in un momento in cui Martinu˚ pensava di poter tornare presto a Praga e di assumervi, dato il suo prestigio internazionale, una posizione di grande rilievo. In verita` a me sfugge la ragione per cui Martinu˚ abbia voluto mischiare Studi e Polche, e tanto meno perche´ abbia voluto aggiungere la Pastorale. Manca, o io non lo vedo, un disegno complessivo, e si nota un netto divario di capacita` inventiva fra gli Studi e le Polche, genericamente ‘‘tecnici’’ i primi, ben caratterizzate e spiritose le seconde, che rendono con gusto smaliziato il popolaresco. Le Tre Danze ceche (1949), molto piu` sviluppate e pensate per la sala di concerto, concludono questo settore del catalogo pianistico di Martinu˚. La Fantasia e Toccata (1940), fu composta a Aixen-Provence, nella zona ‘‘libera’’ della Francia in

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Studi e Polche

cui Martinu˚ si era rifugiato quando i tedeschi avevano occupato Parigi. Il compositore e la moglie, francese, sarebbero poi riusciti a raggiungere gli Stati Uniti nel 1941. La Fantasia e Toccata, per una volta tanto, non nasce da una commissione ma dalla necessita` interiore di sublimare nella musica una condizione esistenziale angosciante, ed e` da annoverare fra le cose migliori di Martinu˚. Non direi altrettanto della Sonata (1954), composta a Nizza e dedicata a Rudolf Serkin che la eseguı` spesso. Martinu˚, roso dal desiderio di tornare in Cecoslovacchia, aveva preso domicilio a Nizza per sentirsi geograficamente piu` vicino a casa. E questa condizione di profondo disagio spirituale si avverte benissimo nella Sonata, molto tormentata, e originale nella struttura non convenzionale dei suoi tre movimenti, ma che non sembra a me risolta sul piano estetico. Intendo dire che l’intenzionalita` e` evidente e che lo sforzo creativo e` ammirevole ma che i risultati non rispecchiano l’assunto. La Sonata e` un po’ come la premessa del Concerto n. 4, che senza dubbio consegue risultati di molto maggior peso.

Studi e Polche

Giuseppe Martucci

A Giuseppe Martucci

B

(Capua, 6 gennaio 1856-Napoli, 1º giugno 1909) In un’Italia dell’Ottocento tutta votata al melodramma non furono rari i pianisti-compositori che dal melodramma traevano la linfa per le loro parafrasi e che per il resto seguivano la moda internazionale. Alcuni di essi furono noti anche all’estero, e a questi vale la pena di accennare rapidamente sia perche´ furono i predecessori di Martucci, sia perche´ furono ‘‘dislocati’’ su tutto il territorio nazionale. Il trevigiano Luigi Sartori (1814-1844), personalmente legato in amicizia con Liszt, ottenne molto successo in Francia, Austria e Germania (morı` a Dresda durante una tourne´e). Theodor Do¨hler (1814-1856) era di genitori austriaci e aveva studiato a Vienna, ma era nato a Napoli, era un protege´ del duca di Lucca che lo nomino` suo ‘‘virtuoso di camera’’ e che piu` tardi gli conferı` il titolo di barone, visse in Toscana fra l’una e l’altra delle sue tourne´e internazionali e morı` a Firenze. Possiamo considerarlo italiano? O italoaustriaco? Certamente era un grande virtuoso che in Italia porto` il profumo di una vita concertistica internazionale fra noi latitante e che, con le composizioni pubblicate e ripubblicate da Ricordi, influı` sull’indirizzo del gusto nazionale. Stefano Golinelli (1818-1891) fece tourne´e in vari paesi prima di ritirarsi nella sua Bologna a comporre come uno stakanovista, Adolfo Fumagalli (1828-1856), lombardo purosangue, fu un pianista portentoso che con le parafrasi operistiche per la sola mano sinistra trionfo` a Parigi. Il napoletano Beniamino Cesi (1845-1907), che fu anche compositore, fu pero` soprattutto interprete (a lui si deve la prima esecuzione in Italia della Sonata op. 106 di Beethoven), insegno` a Napoli e, chiamato da Anton Rubinsˇtejn, a S. Pietroburgo. Con Cesi l’Italia si adegua – in ritardo – alla evoluzione del costume che non premiava piu` il pianista-compositore puro. E il romano Giovanni Sgambati (1841-1914) impersono` per primo in Italia la figura del pianista-compositore, interprete e direttore d’orchestra. Alfonso Rendano (1853-1931), che non fece il direttore d’orchestra, fu compositore e come interprete ebbe un repertorio sterminato. Giuseppe Martucci, compositore, pianista e direttore, fu l’ultimo anello di una catena che culmina e che si conclude con Busoni (1866-1924), una catena di cui bisogna essere consci se si vuole capire l’evoluzione della cultura pianistica italiana durante l’Ottocento.

Martucci aveva studiato con Cesi, che aveva studiato con Thalberg, ritiratosi dall’agone e stabilitosi a Posillipo. L’esordio ufficiale di Martucci come pianista e come compositore, dopo le pagine di scuola che in gran parte sono rimaste inedite, avviene, nel segno di Thalberg, con la Fantasia da concerto sull’opera ‘‘La Forza del destino’’ [di Verdi] op. 1 (1871), dedicata a Cesi ‘‘in segno di stima e di rispetto’’. Seguono, nella stessa corrente culturale, i Capricci op. 2 e op. 3 (1872), la Mazurca da concerto op. 4 (1872), l’Andante e Polca da concerto op. 5 (1872) e la Tarantella op. 6 (1873). La Tarantella, vivacissima, colorita, non veramente difficile tecnicamente ma di grande effetto spettacolare, ottenne il successo che segnalo` il nome di Martucci al pubblico italiano: fu molto eseguita fino all’incirca al 1940. Un buon successo, non tuttavia duraturo, ottennero anche i Pensieri sull’opera ‘‘Un ballo in maschera’’ di Verdi per pianoforte a quattro mani op. 8 (1873), che andavano pienamente incontro alle esigenze dei dilettanti. La produzione pianistica di Martucci prosegue su questa strada fino alla Sonata in Mi op. 34 (1876), dedicata a Rendano. In questo campo non era esistito in Italia dopo Clementi, che in verita` era italobritannico, pressoche´ nulla che potesse rappresentare un punto d’aggancio per un compositore di vent’anni. Ma la Sonata mostra una evoluzione della personalita` di Martucci, che abbandona momentaneamente la mondanita` del salotto e della sala da concerto per misurarsi con la tradizione classico-romantica austrotedesca. L’aspetto positivo della Sonata, che creativamente e` acerba, e` dunque culturale: una cultura provinciale, e conscia di essere provinciale, si rivolge verso una cultura dominante per farla propria. Il Concerto in re op. 40 (1878) compie un passo avanti nella stessa direzione. Il Concerto fu pubblicato solo nel 1979, e in un elenco delle sue composizioni Martucci aggiunse per lui, vicino alla indicazione ‘‘inedito’’, un ‘‘per fortuna’’ che la dice lunga. In realta` il Concerto op. 40 e` interessante non in se´ ma per quello che rappresenta nella evoluzione creativa del suo autore. Martucci proveniva dalla cultura del melodramma e, come per la Sonata, non aveva per il Concerto dei modelli nazionali a cui collegarsi. Anzi, ne aveva ancora di meno, perche´ Golinelli aveva gia` tentato di dare 335

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Giuseppe Martucci

un volto italiano alla sonata, mentre nel campo del concerto Martucci si doveva muovere su un terreno completamente e desolantemente vergine. L’introduzione orchestrale del Concerto op. 40, piuttosto ampia (piu` di tre minuti) e di colore e carattere pensosi e cupi, potrebbe essere il preludio di una scena di melodramma, ma l’entrata imperiosa e pomposa del pianoforte ne contraddice la ratio. E cio` avviene poi piu` volte, e piu` volte disturba l’ascoltatore, sebbene il secondo tema sia molto suggestivo, una delle migliori melodie che Martucci abbia scritto. Martucci oscilla tra i modi dell’opera e i modi del concerto, guardando in questo caso verso Anton Rubinsˇtejn con un preciso riferimento, nel secondo movimento, al secondo movimento del rubinsteiniano Concerto op. 70. Del resto, il Concerto op. 40 fu composto durante alcuni mesi di permanenza per concerti a Parigi, e Rubinsˇtejn, che vi si trovava, assistette a una esibizione di Martucci e la lodo` molto. Che il ragazzo di ventidue anni restasse soggiogato dalla formidabile personalita` del cinquantanovenne orso russo e` del resto il meno che ci si potesse aspettare. E si comprende benissimo come non capisse che la melodia del secondo movimento richiedeva una voce capace di sostenere il canto spianato, non il pianoforte, e come, di conseguenza, seguisse Rubinsˇtejn in quello che era stato un vero e proprio errore di concezione. Martucci metteva insieme la civilta` che lo aveva nutrito in Italia e un modello che godeva in quegli anni di un altissimo prestigio internazionale. Il risultato di questa me´ salliance non poteva che essere immaturo. Ma era altrettanto logico, direi obbligato. Per le numerosissime raccolte di pezzi brevi o di medie dimensioni di Martucci che seguono gli esperimenti piu` ambiziosi e che continueranno ad apparire fino alla fine si potrebbe ripetere quello che Mozart diceva dei suoi Concerti K 413-415: ‘‘[...] un buon medium fra cio` che e` troppo facile e cio` che e` troppo difficile; sono molto brillanti, piacevoli all’orecchio, e naturali senza essere insipidi. Ci sono qua e la` passaggi da cui i conoscitori possono cavare la loro soddisfazione; ma questi passaggi sono scritti in modo che anche i meno colti non possono non essere contenti, senza sapere il perche´ ’’. Questo Martucci che, non meno dello Stivale del Giusti buono a servire ‘‘da bosco e da riviera’’, si trova a suo agio sia in salotto che in sala da concerto, e` del tutto delineato nei Sei Pezzi op. 44 (1879) e non si smentira` mai piu` e non smettera` mai piu` di produrre composizioni poste fra i due poli ‘‘napoletani’’ della tenerezza sentimentale dei Notturni e delle Romanze e della gaiezza sbarazzina degli Scherzi e dei Capricci 336

Sei Pezzi op. 44

(Martucci – strano, per un compositore della sua epoca – non e` interessato al valzer). Semmai gli capitera` piu` d’una volta di provare un eccesso di piacere per uno spunto azzeccato e di rimanerci affezionato troppo a lungo. Tuttavia Martucci, non meno di Sgambati, sebbene in modo diverso, e` un pianista che del suo strumento sa sempre cosa fare. Entrambi presentano nel loro stile una radice mendelssohniana, ma il secondo guarda a Liszt, il primo a Thalberg. In verita` si suol dire, e ripetere pigramente, che la agilita` scintillante di Martucci sia una eredita` di Domenico Scarlatti. E` facile capire la motivazione originaria di questa tesi. Ma, a parte il fatto che nel repertorio concertistico di Martucci non risultano piu` di due pezzi di Scarlatti, l’agilita` scintillante e` un tratto comune dei clavicembalisti italiani, che l’avevano mutuato dai belcantisti e che l’avevano diffuso in tutta Europa. Io penso quindi che il riallacciare Martucci a Scarlatti sia semplicemente un escamotage per affermare che la cultura italiana ando` a riscoprire le sue radici anche prima dell’azione rinnovatrice della cosiddetta ‘‘generazione dell’ottanta’’, e ritengo che quel carattere stilistico del pianismo martucciano dipenda da un modo molto diffuso di considerare il suono. Lo troviamo in un contemporaneo di Martucci come Moritz Moszkowski (1854-1925), per il quale non ci pensiamo nemmeno per sbaglio a scomodare Scarlatti. In Mendelssohn, in Moszkowski, in Martucci ritroviamo sı` il suono ‘‘scarlattiano’’, ma non ritroviamo le arditezze virtuosistiche che fra i molti clavicembalisti italiani sono proprie del solo Scarlatti. La Fantasia in Do op. 51 (1880), dedicata a Cesi, raggiunge il traguardo che non era stato toccato dalla Sonata e dal Concerto. La forma e` quella della ouverture da concerto: ampia e multiforme: introduzione di carattere improvvisatorio, allegro bitematico e tripartito, perorazione finale basata sulla introduzione. Nell’allegro centrale Martucci padroneggia perfettamente la forma complessa del primo movimento di sonata. Sebbene il taglio sia geometrico e del tutto prevedibile, le proporzioni sono armoniose e la scrittura, snella e brillante, non entra in competizione con la sostanza musicale. E questo e` il progresso decisivo della Fantasia rispetto ai precedenti consimili lavori. La tematica e` personale nel briosissimo allegro, un po’ piu` scontata nella introduzione, che dopo un felice inizio con un ‘‘gesto sonoro’’ modellato sullo Studio op. 2 n. 7 di Henselt si perde secondo me nei meandri di un melodismo generico e troppo insistito. Ma a ventiquattro anni Martucci dimostra una maturita` di pensiero e una originalita` vera-

Notturni op. 70

mente sorprendenti rispetto allo stato della cultura italiana. Il piccolo miracolo della Fantasia si ripete con il Tema e Variazioni in Mi bemolle op. 58 (1882), dedicato a Sgambati. Dell’op. 58 esistono due versioni per pianoforte solo (la seconda del 1886), una per due pianoforti (1900) e una, incompiuta, per pianoforte e orchestra (1882 ca.). A parte alcuni spostamenti nell’ordine delle variazioni, alcune soppressioni e alcuni ritocchi della strumentazione, la versione definitiva differisce sostanzialmente dalla prima versione perche´ elimina la doppia fuga e la sostituisce con un altro finale. Sembra chiaro che Martucci avesse dapprima tenuto conto delle Variazioni su un tema di Ha¨ ndel di Brahms, che erano state all’origine di un vero e proprio genere, la variazione con fuga, molto ‘‘visitato’’ negli ultimi anni dell’Ottocento. La rinuncia alla doppia fuga, monumentale ma felicemente giocosa, dovette essere provocata dalla accoglienza del pubblico, oppure dal rifiuto del salto stilistico che si verificava fra il manierismo romantico dell’ultima variazione, Adagio (alla Chopin), e il manierismo neobarocco del finale. La variazione chopiniana a modo di notturno, bel saggio di ricalco stilistico condotto con gusto raffinato, contrasta indubbiamente in modo vistoso con la fuga. Tuttavia, a me sembra preferibile la prima versione, che per l’Italia di quel tempo era la dimostrazione di un’insolita audacia. Il Concerto in si bemolle op. 66 (1884-1885) rappresenta un po’ la prova generale prima che Martucci... doppiasse il capo periglioso della sinfonia. Delle due Sinfonie di Martucci si dice spesso che sono influenzate da Brahms. Senza voler verificare qui la veridicita` di questa affermazione si puo` pero` dire che Martucci, che come direttore d’orchestra si adopero` molto per far conoscere Brahms, e che per Brahms aveva una venerazione, nel Concerto op. 66 non deve a Brahms proprio nulla. Se per Martucci c’e` un referente, questi e` semmai, ancora, Anton Rubinsˇtejn, ma senza piu` la... sottomissione che si notava nel Concerto op. 40. La scrittura del pianoforte e` molto virtuosistica, le dimensioni sono monumentali (circa quaranta minuti, di cui venti del solo primo movimento), l’impaginazione degli eventi risponde alla logica del genere, che vuole varieta` e sorprese, o colpi di scena che dir si voglia. E il ruolo dell’orchestra non e` affatto marginale. Martucci dimostra di aver saputo assimilare i topoi del concerto in un momento in cui stanno nascendo a ritmo tropicale le orchestre sinfoniche stabili, con stagioni di concerti istituzionalizzate nelle quali e` richiesto anche lo splendore dell’assieme, non solo l’esibizione del divo. Non

Giuseppe Martucci

mancano tuttavia i tratti originali. Ad esempio, la grande Cadenza del primo movimento non e` preceduta dal tradizionale e fragoroso ‘‘tutti’’ dell’orchestra ma da un calmo e meditativo corale degli ottoni. Ad esempio, nella prima entrata del pianoforte, a modo di cadenza, il primo tema viene presentato con un ritmo modificato rispetto a quanto avviene poi nella canonica esposizione. La modificazione riguarda il ritmo: invece del ‘‘naturale’’ ritmo cosiddetto francese, il ritmo cosiddetto lombardo. Il carattere espressivo del tema ne risulta profondamente mutato: non appassionato ed eroico, ma come impaurito e risentito. Per la drammaturgia, questo potrebbe essere un elemento simbolico molto forte, che pero` resta isolato e che non influisce sulla costruzione del primo movimento e, tanto meno, dell’intera composizione. Nel Concerto op. 66 troviamo innanzitutto il grande pianista che sa suonare con il brio e lo charme di Franz Xaver Scharwenka, i cui primi due Concerti, del 1876 e del 1881, trionfano in quel mondo concertistico internazionale in cui si colloca con successo il Concerto di Martucci. Successo molto vivo. Oltre alle numerose esecuzioni dell’Autore in vari paesi si contano fino al 1914 le esecuzioni di Cesi a S. Pietroburgo (direttore Anton Rubinsˇtejn), di Euge` ne d’Albert a Berlino (direttore Weingartner), di Ernesto Consolo a New York (direttore Mahler: l’ultimo concerto della sua vita). Nel 1931 avrebbe dovuto dirigere il Concerto a Bologna, con Adriano Ariani solista, Arturo Toscanini, ma l’esecuzione non ebbe luogo per le ben note vicende dello schiaffo. Toscanini, che aveva diretto il Concerto a Milano con Martucci solista, lo riprese a New York, con Glauco d’Attili e con Mieczysl/ aw Horszowski; di queste esecuzioni abbiamo la registrazione. Ci si puo` chiedere allora perche´ il Concerto di Martucci sia scomparso dalle stagioni sinfoniche. Non c’e` dubbio che si tratti di un prodotto di alto contenuto oratorio e spettacolare; ma il suo limite e` rappresentato dalla qualita` della invenzione tematica, che non e` costantemente originale. Costruito con una sapienza di fondo e con una competenza specifica che superano secondo me quelle riscontrabili nel Concerto op. 16 di Grieg e nel Concerto op. 23 di Cˇajkovskij che lo precedono di poco, il Concerto di Martucci uscı` dal repertorio perche´ non pote´ competere con il fascino melodico che costituı` la carta vincente e di Cˇajkovskij e di Grieg. Dopo aver affrontato la sinfonia Martucci rallenta il ritmo della sua produttivita` al pianoforte. Fra le composizioni posteriori al Concerto sono da segnalare soprattutto i due Notturni op. 70 (1891). La natura profonda del Notturno in sol bemolle 337

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Giuseppe Martucci

op. 70 n. 1 risulta meglio nella trascrizione per orchestra del 1900 che nell’originale per pianoforte. Lı` si capisce bene che cosa fosse per Martucci il Brahms che veniva a fare i suoi viaggi di piacere in Italia (treno+bicicletta): una figura di nordico gigante, di cui si ammirava con stupore il colore vellutato della sonorita` orchestrale, tanto diverso dai colori ‘‘mediterranei’’, dai barbagli di luce e dalla dolcezza sensuale di Verdi: un gigante dell’arte che faceva immaginare un altro cielo, un altro modo di vita, uno spessore di pensiero che attenuava gli istinti e dava loro una profondita` metafisica. Il Notturno in fa diesis op. 70 n. 2 forma con il n. 1 un dittico, legato, come in certi dittici di Chopin, dal rapporto tonale (sul pianoforte il fa diesis e` omologo del sol bemolle). Ma qui il modello chopiniano prevale sul rifacimento stilistico ‘‘alla Cho-

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Notturni op. 70

pin’’ e il pezzo non regge veramente il confronto con il gemello. Concludendo si puo` dire che la cultura italiana ha contratto con Martucci un debito che e` stato saldato solo in parte. Benedetti Michelangeli, allievo di un allievo di Martucci, sarebbe stato l’interprete piu` adatto per trasmettere alla storia una immagine veritiera dell’arte martucciana. Egli ebbe in repertorio, ma solo in gioventu`, la Romanza op. 27 n. 3, la Tarantella op. 44 n. 6, lo Studio op. 47 e il Tema con variazioni op. 58, di cui non abbiamo le registrazioni. La discografia si e` occupata di Martucci in modo non occasionale, ma siamo lontani dal poter offrire al pubblico dei discografici – almeno a quello – una molteplicita` di approcci interpretativi che mettano in luce la complessita` di una figura di artista a cui, ripeto, dobbiamo molto.

Notturni op. 70

Nicolai Medtner

A Nicolai Medtner

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(Mosca, 5 gennaio 1880-Londra, 13 novembre 1951) Medtner, nato da genitori di origine tedesco-scandinava trapiantati in Russia da due generazioni, si formo` nel conservatorio di Mosca studiando il pianoforte con Pabst, Sapelnikov e Safonov, e la composizione con Arenskij e Taneev, e vincendo nel 1900, con l’esame di diploma di pianoforte, la Grande Medaglia d’Oro che veniva assegnata raranente. Nello stesso anno prese parte a Vienna al Concorso Rubinsˇtejn – nella sezione di pianoforte – ricevendo una menzione d’onore. E` importante tener conto della formazione accademica di Medtner per valutare il suo piu` ambizioso lavoro, il Concerto n. 1 in do op. 33 (1914-1918), composto lentamente durante la guerra ed eseguito per la prima volta dall’Autore a Mosca dopo la Rivoluzione, il 12 maggio 1918, sotto la direzione di Koussevitzky. Il Concerto e` in quattro parti collegate (Allegro, Tema e variazioni, Ricapitolazione, Coda), per una durata di circa trentacinque minuti. Il sistema didattico russo, ormai collaudatissimo, aveva dotato Medtner di superbe capacita` di strumentatore: Medtner domina completamente sia la scrittura pianistica che la orchestrazione, e sa trattare impeccabilmente il pianoforte da solo, l’orchestra da sola, il pianoforte e l’orchestra insieme. Sa anche che nel concerto vanno come il pane i gesti prometeici maschili e la dolce remissivita` femminile, e sa che e` bene finire un grande pezzo in modo minore con il glorioso modo simigliante maggiore. Il suo Concerto e` una specie di esemplificazione pratica di un ipotetico trattato, datato al 1890, su come scrivere un buon concerto per pianoforte. Ma Medtner e` capace sı` di inventare forti gesti, non pero` temi icastici, e tanto meno melodie orecchiabili. Per di piu`, adottando una forma in piu` parti collegate, egli non si mantiene nei limiti di Liszt ma li aumenta di piu` che il 50%, e accumula i punti culminanti invece di ordinarli in progressione. Arriva un punto culminante imponente e comincia subito dopo la stretta che, cosı` pensa l’ascoltatore, portera` alla risoluzione della tensione. Invece la stretta porta a un altro imponente punto culminante e a un’altra stretta, e la seconda stretta a una terza ripassata. La strumentazione pianistica e` tributaria soprattutto della lezione di Liszt e di Rachmaninov, la coloratura e` lussureggiante: un esempio paradigmatico di concerto in

stile floreale, che nel 1918 era ormai poco piu` di un relitto della belle e´poque. Il Concerto n. 2 in do op. 50 (1920-1927) venne composto in gran parte dopo che Medtner aveva lasciato, nel 1921, l’Unione Sovietica per stabilirsi prima a Berlino e poi a Parigi. I concertoni ipertrofici non andavano piu` al passo con i tempi. Era inevitabile che Medtner se ne accorgesse perche´ a Parigi era il momento dei Six. E cosı` il lupo si traveste da agnello, presentandosi con un Concerto n. 2 formato da Toccata, Romanza e Divertissement. A vederlo cosı` sembra una cosa piu` o meno alla Poulenc. Sono invece quaranta minuti di densa musica, di musica che non toglie nemmeno un grammo al peso delle fede professata. Medtner intendeva la storia come progresso fino a uno stadio di perfezione che poteva solo piu` essere conservato. In un suo polemico libro del 1935 egli avrebbe scritto: ‘‘Le leggi dell’armonia non sono inventate, ma dedotte dalla pratica di Bach, Beethoven, Chopin’’. Dal che si capisce, o si sospetta, che Wagner dovesse essere considerato il primo guastatore. Nel 1935, fidando nel buon successo che aveva avuto come pianista-compositore in Inghilterra, Medtner si stabilı` a Londra, nella Londra piu` conservatrice di Berlino e di Parigi. Il Concerto n. 3 in mi op. 60 (1941-1943) e` sottotitolato Ballata ed e` un’opera a programma, ispirata a una ballata di Lermontov il cui giovane protagonista e` visto simbolicamente come la ‘‘personificazione dello Spirito Umano’’. Primo movimento, brevissimo Interludio e vastissimo Finale (‘‘Svegliando, eroico’’), collegati fra di loro per circa trentacinque minuti di musica. Non si puo` dire che le spettacolari qualita` professionali di Medtner fossero venute meno, e non c’e` piu` la sfilata dei bombastici punti culminanti, ma la sapienza costruttiva cozza come sempre contro la impersonalita` dei temi. Viene spontaneo paragonare il Concerto n. 3 di Medtner con il ben piu` modesto e primitivo Concerto di Varsavia di Richard Addinsell, che essendo stato composto nel 1942 gli e` contemporaneo. Il linguaggio di entrambi sarebbe databile alla fine dell’Ottocento, non agli anni quaranta. Ma non e` questione, o non e` piu`, oggi, questione di linguaggio. La popolarita` del pezzo di Addinsell nasce dalle sue accattivanti melodie. Nella maestosa costruzione 339

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Nicolai Medtner

di Medtner si cerca invano un volto amico che ci aiuti a trovare il bandolo della matassa. Questo discorso vale solo parzialmente per quattordici Sonate di Medtner. La Sonata Reminiscenza in la op. 38 n. 1 e` la piu` nota. Apre la raccolta delle Melodie dimenticate (1919-1922) ed e` in parte connessa tematicamente con la Canzona serenata (n. 6). Detto per inciso, val la pena di leggere i titoli dei pezzi che formano l’op. 38, tutti in italiano: Sonata Reminiscenza, Danza graziosa, Danza festiva, Canzona fluviala, Danza rustica, Canzona serenata, Danza silvestra, Alla Reminiscenza (l’italiano di Medtner e` spesso fantasioso: da ragazzino egli aveva scritto un Adagio funebre, cacofoniale). I temi principali della Sonata Reminiscenza sono tre, i temi secondari sono quattro, la forma e` quella classica dell’allegro di sonata (nella riesposizione i temi, con l’aggiunta di un ottavo, appaiono in un ordine diverso), il pezzo e` in un solo movimento e il tono espressivo e` lirico, introspettivo. Si tratta della composizione piu` personale di Medtner, nell’ambito della sonata, e parecchi interpreti, a cominciare da Horowitz e da Gilels, la ebbero e la hanno in repertorio. Accanto all’op. 38 n. 1 gode di una certa notorieta` la Sonata in sol op. 22 (1901-1910), essa pure in un solo movimento, che fu eseguita anche da Prokof’ev e, nei primi anni di carriera, da Horowitz (e piu` tardi da Moiseiwitsch e da Gilels). L’op. 22, che personalmente preferisco, e` l’opposto dell’op. 38 n. 1, e` il lato prometeico contrapposto al lato nostalgico della personalita` di Medtner; comincia con un Tenebroso, sempre affrettando e comprende un Andante lugubre prima del Molto appassionato conclusivo. Op. 22 in sol, come la Sonata n. 2 di Schumann. E la Sonata op. 5 in fa (1895-1903) richiama la Sonata op. 5 in fa di Brahms. Non puo` essere un caso. La seconda serie delle Melodie dimenticate op. 39 (1919-1920) comprende un’altra Sonata: Meditazione, Romanza, Primavera, Canzona matinata, Sonata tragica in do, tematicamente legata alla Canzona matinata, che si iscrive nel solco della Sonata op. 22 e che e` tipica della gestualita` eroicomacabra di Medtner. La Sonata romantica in si bemolle op. 53 n. 1 (1929-1930) e la Sonata minacciosa in fa op. 53 n. 2 (1929-1931) non hanno suscitato interesse in alcun interprete, salvo quelli che hanno affrontato la ‘‘integrale’’, mentre la Sonata-Idillio in Sol op. 56 (1935-1937) risponde bene alla Stimmung del suo titolo. Per completezza di informazione citero` le altre Sonate di Medtner:

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Melodie dimenticate

3 Sonate in La bemolle, re e Do op. 11 (19041907), Sonata-Skazka in do op. 25 n. 1 (19101911) e Sonata Vento della notte in mi op. 25 n. 2 (1910-1911), Sonata-Ballata in Fa diesis op. 27 (1912-1914), Sonata in la op. 30 (1914). La Sonata-Skazka ci introduce nel settore in cui Medtner da` il meglio di se´. Skazka significa favola, ma non bisogna pensare a favole di fate e folletti, e il titolo Fairy Tale adottato in Occidente e` ingannevole. Le Skazka sono piuttosto pezzi fantastici al modo di Schumann. Medtner comincio` con le Skazka op. 8 (1904-1905) e con le Skazka op. 9 (1904-1905) e proseguı` fino agli Schizzi romantici per la gioventu` op. 51 (1931-1932), mettendo insieme trentotto pezzi, alcuni dei quali godettero di una autentica popolarita` . Rachmaninov, che di Medtner era molto amico, ebbe in repertorio le Skazka op. 14 n. 2, op. 20 n. 1 e 2, op. 26 n. 3, op. 34 n. 1, 2 e 3, op. 51 n. 1, oltre alla SonataSkazka op. 25 n. 1 e ad altri pezzi. Horowitz, dopo aver eseguito molti pezzi di Medtner prima di lasciare l’Unione Sovietica, mantenne poi in repertorio soltanto la Skazka op. 51 n. 3 perche´ in Occidente la musica di Medtner non piaceva a nessuno. L’op. 20 n. 2 potrebbe essere scambiata tranquillamente per una E´tude-Tableau di Rachmaninov, e l’op. 26 n. 3 per un Preludio di Rachmaninov. E questo basta a farci capire che certe qualita`, Medtner, ce le aveva. Il paradosso di Medtner e` che egli abbandono` per incompatibilita` ideologica l’Unione Sovietica, dove la sua musica sarebbe stata rispondente alle direttive di regime, per emigrare dove la sua estetica appariva antiquata e reazionaria, tanto che dovette condurre durante la seconda guerra mondiale un’esistenza al limite dell’indigenza, e tanto da essere salvato – miracolato – dopo la guerra dal mecenatismo del suo unico ammiratore, il Maharaja di Mysore. A partire dagli anni ottanta del Novecento ci fu un certo risveglio di interesse per Medtner, limitato quasi esclusivamente alla Russia e all’Inghilterra ma che porto` a una ripresa di esecuzioni in concerto e a un fiorire di studi critici. La discografia di Medtner non e` oggi avara e comprende anche una larghissima scelta delle sue musiche eseguite da lui (su commissione del Maharaja). Non credo che la figura di Medtner possa ‘‘crescere’’ ulteriormente, ma un gruppo delle sue composizioni – Sonata Reminiscenza, Sonata op. 22, molte Skazka – potrebbe far parte stabilmente del repertorio concertistico.

Melodie dimenticate

Felix Mendelssohn-Bartholdy

A Felix Mendelssohn-Bartholdy

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(Amburgo, 3 febbraio 1809-Lipsia, 4 novembre 1847) Si discute ancora talvolta, e piu` si discuteva in passato, sul classicismo o sul romanticismo di Mendelssohn, sul suo essere un po’ di qua e un po’ di la`, classico romanticheggiante o romantico classicheggiante che dir si voglia. L’essere classici o classicheggianti non dovrebbe suonare a disonore, ma per Mendelssohn sı`, perche´ per lui esser tale vorrebbe dire essere in arretrato sul suo tempo, al contrario di Chopin, Schumann e Liszt, o persino di Alkan e di Henselt. Vedremo poi se Mendelssohn musicista sia da considerare o no, e in che termini, uomo di tempi nuovi. Per lo meno nella scelta della professione che fu la sua egli ci appare indubbiamente homo novus: non rampollo di una famiglia di onesti musicisti, non ragazzo di umilissime origini messo all’onor del mondo da mecenati, ma figlio di un ricco banchiere e nipote di un famoso filosofo. Una simile discendenza familiare non s’era mai vista dai tempi di Benedetto Marcello, che del resto non era musicista di professione. E infatti la musica rappresento`, nella adolescenza di Mendelssohn, non il tirocinio per procacciarsi il pane ma un elemento di un’educazione armonica che mirava a sviluppare tutte le facolta` intellettuali del ragazzo e a formarne il carattere nella tradizione della borghesia imprenditoriale tedesca. Accuratissima l’educazione musicale. A scoprire e a saggiare il talento del fanciullo furono delegati, a Parigi, Marie Bigot, prima interprete dell’Appassionata di Beethoven, e Cherubini. Poi, a Berlino, Mendelssohn fu affidato a Carl Zelter per la composizione e a Ludwig Berger per il pianoforte. Quest’ultimo, che apparteneva alla generazione di Beethoven e di Hummel, aveva studiato anche con Clementi e, come dimostrano i suoi Studi, era rimasto fedele all’insegnamento clementino, guardando con prudenza alla radicalizzazione del virtuosismo perseguita da Moscheles, da Kalkbrenner, e in parte un po’ minore da Hummel. Guidato da Berger, nel 1818 Mendelssohn era gia` in grado di apparire in pubblico in un trio di Woelfl, e negli anni successivi teneva alcune esecuzioni pubbliche o piu` spesso private – in casa del padre, in case di amici, in casa di Goethe a Weimar – sempre pero` come educato gentiluomo che educatamente e modestamente dispensa i talenti di cui l’Onnipotente gli ha fatto largo e generoso dono. Nel 1824, pur contando gia` al suo attivo una ricca

produzione, Mendelssohn non aveva ancora affatto scelto la professione di musicista,... o meglio, i suoi genitori non erano ancora per nulla sicuri che la eventuale scelta sarebbe stata ragionevole. Nell’autunno del 1824 capitava a Berlino uno fra i maggiori pianisti dell’epoca, il boemo Ignaz Moscheles, e la riflessiva famiglia Mendelssohn non si lasciava scappare l’occasione di consultare la celebrita` di passaggio. ‘‘Felix, ragazzo di quindici anni, e` un fenomeno’’, annoto` Moscheles nel diario dopo l’audizione. E cito` ‘‘un Concerto in la minore e un doppio Concerto’’ che Mendelssohn gli aveva fatto sentire. Il Concerto in la per pianoforte e archi (1823-1824) dimostra un vivo interesse per quella interpretazione della tecnica e del suono mozartiani che storicamente sono impersonati da Hummel, tecnica che permetteva effetti di sonorita` brillantissima, con percussione rapida e slanciata del tasto. Piu` tardi i disegni tematici e le figurazioni diventeranno in Mendelssohn, ovviamente, piu` personali, ma questa concezione della sonorita` non verra` in lui mai meno. Il Concerto doppio citato da Moscheles potrebbe essere il Concerto in re per violino, pianoforte e archi (1821) o piu` probabilmente il Concerto in Mi per due pianoforti e orchestra (1823, 1961), se non addirittura il Concerto in La bemolle per due pianoforti e orchestra (1824, 1960), creato fra ottobre e novembre. I Concerti per due pianoforti sembrano riflettere l’orientamento non marcatamente virtuosistico di Berger perche´ l’effetto complessivo, a parte i dialoghi fra i due solisti, e` un po’ quello di un concerto per pianoforte molto difficile. In un certo senso l’adolescente Mendelssohn immagina un tessuto musicale come quello degli spettacolari concerti che Hummel e Moscheles avevano composto dopo il Congresso di Vienna, ma lo distribuisce saggiamente fra due esecutori, rinunciando al titanismo. Moscheles possedeva sicuramente una tecnica del tocco piu` sviluppata di quella di Berger, e sebbene attribuisse importanza preponderante alle dita praticava e consigliava l’esecuzione delle seste e delle ottave di braccio. Il suo stile di esecutore dovette quindi impressionare Mendelssohn e aprirgli un nuovo campo di esperienza. Prima di ripartire da Berlino il 15 dicembre Moscheles diede a Mendelssohn diverse lezioni che oggi chiameremmo di 341

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Felix Mendelssohn-Bartholdy

perfezionamento, annotando nel diario di aver fatto studiare al ragazzo i suoi Allegri di bravura e i suoi Concerti, non specificati (probabilmente il n. 2 e il n. 3). Non e` facile distinguere nello stile pianistico di Mendelssohn cio` che fu dovuto al rapido insegnamento di Moscheles. Il Rondo` capriccioso op. 14 (forse 1824, ma piu` probabilmente 1826, 1827) presenta alcune novita` e alcuni elementi stilistici che resteranno poi sempre tipicamente mendelssohniani, come le ottave, alternate fra le due mani in martellato, che in verita` compaiono gia` nel Concerto in la ma in modo piu` primitivo. Le ottave alternate rappresentano un punto intermedio fra le classiche ottave spezzate e le romantiche ottave doppie: piu` brillanti e piu` incisive delle prime, meno sonore e massicce delle seconde. Non e` neppure da trascurare il valore gestuale delle ottave alternate, che e` forse meno maestoso di quello delle ottave doppie, ma che con il vorticare degli avambracci risulta assai eccitante per il pubblico. E nel Rondo` capriccioso Mendelssohn, da buon showman, colloca il piu` lungo passo in ottave alternate alla fine del pezzo. L’inizio del Rondo` capriccioso e` un esempio tipico di presentazione mendelssohniana di una melodia: tre battute e mezza di introduzione, in cui ‘‘parte’’ il primo evento sonoro (basso e accompagnamento in accordi ribattuti), poi l’entrata del tema. Modello di questo inizio e` probabilmente il primo movimento della Sonata op. 27 n. 2 di Beethoven, che ebbe sui romantici una forte influenza. Mendelssohn lo adotta e lo adottera` di preferenza rispetto a un’altra alternativa (inizio contemporaneo di tutti gli eventi) che verra` sfruttata soprattutto da Schumann, e dell’ultima possibile alternativa (inizio della melodia prima del basso e dell’accompagnamento) che verra` preferita da Chopin. La melodia accompagnata, diffusissima durante il romanticismo, e` per definizione ‘‘sentimentale’’ non solo in quanto espressione di sentimento ma in quanto identificazione emotiva dell’ascoltatore nell’oggetto sonoro. Ora, l’identificazione psicologica dell’ascoltatore nella musica presuppone la convergenza degli eventi concomitanti verso un punto centrale primario, come la collocazione pittorica di una figura umana in un paesaggio che la circonda senza contrastarla. E tanto piu` si ha convergenza verso un punto centrale in cui l’ascoltatore si identifica quanto piu` gli altri eventi sono nettamente subordinati a quello, quanto piu` sono ‘‘rassicuranti’’ perche´ non assumono aspetti indipendenti e antagonistici. La presentazione separata di bassoaccompagnamento e melodia accentua al massimo il carattere non ostile e non antagonistico del basso-accompagnamento, e l’espressione del senti342

Rondo` capriccioso op. 14

mento – del sentimento il piu` vario, dal dolore alla gioia – viene goduta dall’ascoltatore come intima e serena esperienza di reminiscenza, non turbata da eventi drammatici. Mendelssohn e` un maestro, anzi, e` il maestro incontrastato di questo tipo di rapporto con la psicologia dell’ascoltatore. E va da se´ che una simile concezione della musica lo colloca immediatamente fuori dal classicismo, facendo di lui, grande estimatore dei classici, un musicista che della lezione classica assume, come vedremo, certi aspetti stilistici e formali ma non la poetica. Con Mendelssohn si afferma insomma fin dalla adolescenza, e restera` fino alla maturita` la dissociazione tra razionale e affettivo ereditata dai musicisti del biedermeier, e la sua arte non verra` toccata dall’irrazionale e dal demonismo dei grandi romantici. All’inizio del Rondo` capriccioso l’ascoltatore viene dunque portato verso l’apparizione del tema su cui si adagera` con un sospiro. Mendelssohn crea persino una leggerissima tensione e un piacevole senso di attesa dando all’accompagnamento, durante le battute introduttive, una significazione melodica che fa presagire l’arrivo della melodia vera e propria. La identificazione, stimolata nella introduzione, diventa completa nella prima frase della melodia, che si sviluppa nell’ambito di una decima minore e che sembra vocalistica, sopranile. La melodia di Mendelssohn non e` pero`, in questo caso, interamente vocalistica. Gia` il raddoppio in terza degli ultimi tre suoni ci dice che il rafforzamento espressivo della conclusione della prima frase non e` ottenuto con mezzi paravocalistici. E il seguito lo conferma: la melodia dell’Andante copre una estensione troppo ampia per la voce ed e` piu` mossa e capricciosa di quanto non sarebbe una melodia vocale. La cantabilita` di questo inizio, come l’inizio del Concerto in la, e` in realta` modellata sullo stile violinistico biedermeier, e tutto il Rondo` capriccioso potrebbe essere un pezzo per violino e orchestra. L’inizio e` evocativo di un mondo irreale, il mondo delle fate e dei folletti, e il rondo` vero e proprio e` come una danza di creature fiabesche sotto la luna: la Ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate, rivelatrice del mondo poetico che si apre con Mendelssohn e di cui egli sara` incontrastato sovrano fino alla apparizione di Cˇajkovskij, e` del 1826. Avevo detto che Mendelssohn, mentre si crea il suo mondo, non manca di assumere stilemi dalla tradizione. La fase giovanile neoclassica di Mendelssohn si fissa nella Sonata in sol op. 105 (1821, 1868), nella Sonata in Mi op. 6 (1826, 1826) e nella Sonata in Si bemolle op. 106 (1827, 1868). Julius Rietz, che assegno` i numeri d’opera alle due

Perpetuum mobile op. 119

Sonate pubblicate postume, non scelse certamente a caso il fatidico numero 106. Mendelssohn aveva evidentemente letto la Hammerklavier di Beethoven, che porta quel numero e che e` in Si bemolle. L’aveva letta e meditata ricavandone due idee: la struttura di tutti i temi basata sull’intervallo di terza, la struttura tonale del primo movimento basata sul rapporto tonica-sopradominante maggiore invece che tonica-dominante. Mendelssohniane, non certo beethoveniane, sono invece le dimensioni, perche´ la 106 di Mendelssohn si adagia comodamente in diciotto pagine a stampa, mentre la 106 di Beethoven ne esige almeno quarantacinque. Ne´ Mendelssohn conclude la Sonata con una fuga ciclopica, ma accenna appena a un fugato all’acqua di rose nello sviluppo del primo movimento. Mendelssohn ha pero` in realta` qualcosa di suo da dire anche sul piano della forma: il cavalleresco primo movimento si collega con uno scherzo (in metro binario) che e` una danza di silfidi, il terzo movimento potrebbe entrare in un quaderno di Romanze senza parole ed e` collegato con il finale attraverso un episodio intermedio che cita il primo movimento. A meta` del finale viene riproposto lo scherzo, e la conclusione svanisce nel nulla, lasciando una scia di accordo di Si bemolle ‘‘sporcata’’ da vaghissime appoggiature cromatiche. Non musica da melodramma, perche´ Mendelssohn non sara` mai operista. Ma musica da teatrante sı`: ed e` come se Mendelssohn sentisse che nel balletto sta per arrivare la rivoluzione della illuminazione scenica a gas, del tutu`, di Maria Taglioni e della Silfide. Di fronte a questa entusiasmante freschezza di immaginazione impallidisce la sorella maggiore, l’op. 105 scritta sei anni prima e da Mendelssohn fatta ascoltare a Goethe. Esile e ingenua, l’op. 105. Ma questo dodicenne, che dal suo maestro Ludwig Berger ha assorbito lo stile di Clementi, e` gia` un musicista che non fallisce le proporzioni e a cui bastera` ben poca sapienza in piu` per trasformare in una frase di ampio respiro melodico uno spunto preparato sagacemente e concluso per ora troppo in fretta. La Sonata op. 6, che Mendelssohn pubblico` nel 1826, nasce dallo studio dell’op. 101 di Beethoven. Quel che affascina Mendelssohn e` l’idea beethoveniana del terzo movimento collegato con il finale attraverso la citazione del primo movimento, idea che egli sviluppa avventurandosi in un recitativo da cui traspare anche il suo interesse per il toccatismo barocco, cosı` come traspare il suo interesse per Schubert nel primo movimento, e nel finale, in modo assai meno felice, per Hummel. Non c’e` invece un termine di riferimento per il secondo movimento, lo stupefacente tempo di

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minuetto, un nocciolo su cui si fondera` il neoclassicismo nostalgico della seconda meta` del secolo. Saint-Sae¨ns o Reinecke, ma persino Brahms avrebbero potuto essere gli autori di una composizione che appartiene al genio creativo di un ragazzo di diciassette anni. A confronto con il Rondo` capriccioso e con la Sonata op. 106 sembrano, e sono meno nuovi il Capriccio op. 5 (1825, 1825), il Capriccio brillante per pianoforte e orchestra op. 22 (1825-1826, 1831), i Sette Pezzi caratteristici op. 7 (1827, 1827), la Fantasia in Mi su una canzone irlandese (1827, 1833) e le Tre Fantasie o Capricci op. 16 (1829, 1829). Non faccio questione di valore estetico: il Capriccio, ad esempio, e` un modello perfetto di scherzo mendelssohniano e la seconda delle Fantasie, intitolata Scherzo, e` una specie di trasposizione pianistica della Ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate (nello Scherzo si trova un breve, ma ardito passo in doppie ottave, che suona nuovo nello stile pianistico del Nostro). Non e` improbabile che Mendelssohn ampliasse le sue concezioni del suono pianistico attraverso lo studio delle composizioni di Weber (il Perpetuum mobile op. 119, di incerta datazione e pubblicato nel 1873, potrebbe essere la conseguenza di uno studio condotto sul finale della Sonata op. 24 di Weber). Mendelssohn, al contrario di Chopin che alla fine della decade comincia a comporre gli Studi op. 10, si dedica con passione a due soli tipi di tocco, lo staccato e lo staccatissimo, e lavora con fantasia ma senza andare tecnicamente oltre i risultati gia` raggiunti da Weber o addirittura da Beethoven. Piu` che di sviluppo della tecnica si puo` piuttosto parlare gia` in questo periodo di ritorno a Mozart, di superamento all’indietro del bierermeier e di riutilizzazione di una tecnica barocca della tastiera (si vedano soprattutto il n. 3 e il n. 5 dei Pezzi caratteristici), il tutto da mettere ovviamente in rapporto con l’esperienza della direzione della Passione secondo Matteo di Bach, che avviene nel 1829. Dal 1829 il contributo mendelssohniano alla storia del pianoforte si fa rilevante anche sotto l’aspetto della diffusione. Mendelssohn partiva nel 1829 per una serie di viaggi che sarebbero durati fino al 1832 e che avrebbero toccato l’Inghilterra e la Scozia, Weimar, Monaco, Vienna, l’Italia, la Svizzera, Parigi, di nuovo l’Inghilterra. Il giovane tedesco non si presentava pero` ai pubblici europei come musicista professionista ma piuttosto come gentiluomo che completava una sua varia e profonda educazione, e sotto questa maschera, la maschera del viaggiatore intellettuale che non si mette in concorrenza con gli arrabbiati aspiranti alla 343

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gloria, ma che con aristocratico distacco acconsente a farsi conoscere, egli fece ascoltare musiche sue, diresse orchestre, suono` da gran signore il pianoforte. Il concertismo pianistico attraversava in realta`, verso il 1830, una grave crisi, e i giovani pianisti non potevano semplicemente subentrare, con lo stesso tipo di repertorio, ai pianisti affermati. Lo verifico` a sue spese Chopin, che provenendo da una cultura provinciale ed essendosi preparato un repertorio tradizionale non riuscı` ad affermarsi. Liszt, che scrutava il mondo da un osservatorio privilegiato come Parigi, sospese invece una carriera concertistica trionfalmente iniziata e la riprese solo dopo aver trovato nuove motivazioni culturali all’esecuzione pubblica. Mendelssohn, educato nella civilissima Berlino che stava riscoprendo Bach, non partı` da casa con il repertorio del pianista-compositore alla Hummel, ma del pianista-interprete, e proponendo quindi precocemente quella svolta dell’esecuzione che sarebbe stata attuata verso il 1835, sperimentalmente, da Moscheles, e poi, definitivamente, da Liszt. Mendelssohn, pur eseguendo il suo Capriccio brillante op. 22 e poi il Concerto op. 25, presento` infatti al pubblico il Concerto in re e, con Moscheles, il Concerto per due pianoforti di Mozart, i Concerti n. 4 e n. 5 di Beethoven, il Concertstu¨ck di Weber, e in concerti privati eseguı` molto Bach e le Sonate op. 27 n. 2, op. 53, op. 57 e op. 111 di Beethoven. La carriera concertistica del pianista Mendelssohn non ebbe lo sviluppo che si poteva prevedere perche´ dopo il 1833, anno in cui fu nominato direttore dei concerti a Du¨sseldorf, egli scelse come principale attivita` professionale la direzione d’orchestra, tornando al pianoforte raramente e casualmente, soprattutto per esecuzioni dei suoi Concerti, del Concerto per due pianoforti di Mozart e del Concerto in re per tre pianoforti di Bach. Soltanto il Concerto n. 4 di Beethoven fu da lui eseguito ancora di frequente, fino all’aprile del 1847, sette mesi prima della morte. Cosı` come precocemente intuı` la trasformazione dell’esecuzione pubblica in pubblica lettura dei classici, Mendelssohn precocemente supero` la crisi, il punto morto a cui era giunto verso il 1830 il concerto per pianoforte e orchestra. Il problema di base era che lo sviluppo ipertrofico della scrittura pianistica aveva limitato progressivamente il ruolo dell’orchestra fino a farne un semplice caudatario. Le soluzioni alternative erano molteplici. Si poteva eliminare l’orchestra, riportando sul solo pianoforte il peso di un discorso complesso, e sul solo pianista l’impatto visivo del pubblico. Questa soluzione, sperimentata sia da Schumann (Concerto senza orchestra op. 14) che da Chopin (Allegro 344

Concerto in sol-Sol op. 25

da concerto op. 46) e da Liszt (Gran Solo da concerto), avrebbe trovato il suo compimento manieristico nel Concerto per pianoforte solo di Alkan, nel 1857. L’altra possibile soluzione consisteva nello sviluppo di una concezione sinfonica del rapporto solista-orchestra, che partisse dall’esperienza del Concertstu¨ ck di Weber. Fu questa la strada tentata da Liszt nel Salmo strumentale, incompiuto, e nel pezzo noto come Male´ diction. Ma solo Mendelssohn, con il Concerto in sol-Sol op. 25 (1831, 1832) riuscı` allora a risolvere in modo positivo il problema di perpetuare, di mantenere in uso il concerto per pianoforte e orchestra. Il Concerto di Mendelssohn non e` assimilabile a una ben definita tipologia: non e` ne´ classico, ne´ romantico, ne´ biedermeier, e presenta invece caratteri sia classici, sia romantici, sia biedermeier. La concezione classica del rapporto solista-orchestra viene ripresa da Mendelssohn che, conoscendo a fondo l’orchestra (al contrario dei suoi grandi coetanei), puo` reinventare una scrittura integrata affidando al pianoforte passi di ornamentazione che si inseriscono su un tessuto orchestrale di base. Le tracce di stile biedermeier sono vistose: ad esempio, il secondo tema del finale e` un moto perpetuo del pianoforte, di scrittura completa e autonoma, su cui l’orchestra si inserisce con semplici compiti di sostegno, come se ritmasse i passi di un ballerino. Non mancano pero` neppure, ed e` questo il carattere romantico, i segni premonitori di un nuovo predominio del solista in una scrittura integrata: ad esempio, l’entrata del pianoforte, con le doppie ottave e con tutta l’imponenza del primo assolo, preannuncia nettamente il Concerto n. 1 di Liszt, di piu` di vent’anni posteriore. A questa singolarita` di scrittura fa riscontro la singolarita` della struttura formale. Mendelssohn mantiene i tre movimenti tradizionali e le forme tradizionali, ma lega fra di loro il primo e il secondo, e il secondo e il terzo movimento con brevi intermezzi, ottenendo la continuita` della forma pur senza inventare alternative radicali alla tradizione. La doppia esposizione viene eliminata (una breve introduzione orchestrale porta all’entrata impetuosa del solista), le nette partizioni classiche e biedermeier, con i ritornelli orchestrali che scandiscono le suddivisioni strutturali, sono rese molto fluide, e anche la Cadenza del primo movimento, che arriva sul sacramentale accordo di quarta e sesta, non spezza il discorso ma e` intesa come ‘‘cadenza in tempo’’. Altro singolare carattere del Concerto in sol e` costituito dall’impianto tonale (sol-Mi-Sol, che modifica la progressione tradizionale (sol-Mi bemolle-Sol). Probabilmente il mi maggiore del secondo movimento venne scelto per ragioni timbri-

Romanze senza parole

che, e cioe` perche´ sul pianoforte quella tonalita` suona piu` morbidamente, direi piu` morbidamente notturna. Mendelssohn riesce pero` a mediare i rapporti tonali fra primo e secondo movimento usando nel primo movimento, oltre al tradizionale Si bemolle, il Re bemolle. La struttura tonale complessiva, veramente geniale, vede dunque oscillazioni di tonalita` attraverso il modulo ricorrente della terza minore (sol-si bemolle-re bemolle-misol). Se il Concerto in sol fa di Mendelssohn un compositore d’avanguardia, composizioni di avanguardia, malgrado la loro modesta apparenza, sono anche le sei Romanze senza parole op. 19 (18291830, 1830). La scelta della piccola forma e` tipica del romanticismo, ma i motivi di interesse sono soprattutto altri. Nella prima Romanza troviamo una disposizione pianistica che cava dallo strumento due qualita` ben distinte di suono e che, coprendo una distanza di poco piu` di due ottave, con una fitta ragnatela di suoni intermedi, consente il massimo di vibrazioni per simpatia e quindi di eufonia. Mendelssohn amplia e sviluppa una scoperta fatta col secondo tema del Rondo` capriccioso, dividendo le mani in due settori e sfruttando le qualita` anatomiche delle dita: l’anulare e il mignolo, dotati di limitate capacita` percussive, ma adattissimi alla presa, abbassano il tasto e vi rimangono afferrati, permettendo al peso del braccio di rimanere appoggiato sul tasto abbassato e di essere trasferito passivamente da un tasto all’altro; pollice e indice, dotati di ampia articolazione e di grandi possibilita` percussive, restano alla superficie dei tasti, seguendoli leggermente, ma senza afferrarli, durante la discesa; il medio, che in certi limiti puo` svolgere altrettanto bene l’una o l’altra funzione, si aggrega di volta in volta all’una o all’altra parte della mano. Invece di cercare di egualizzare le dita nella azione della percussione (muscoli estensori), si usano verso l’esterno delle mani i flessori e si sfruttano al meglio le proprieta` anatomiche delle dita. Il risultato e` una melodia alla mano destra, un basso – contromelodia – alla mano sinistra, un accompagnamento ritmico-armonico frazionato fra le due mani. Romanza senza parole: melodia accompagnata che, con il quieto fluire dell’accompagnamento rende l’immagine pastorale di un cantore, con l’immancabile arpa, presso un ruscello. La novita` rivoluzionaria della Romanza e` rappresentata dal sistematico frazionamento dell’accompagnamento fra le due mani: frazionamento che permette un equilibrio e, come dicevo, un’eufonia, e un controllo del tocco non raggiungibili con la strumentazione biedermeier di Field, che Mendelssohn aveva in sostanza adottato nell’Andante

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introduttivo del Rondo` capriccioso. Rispetto al Rondo`, la Romanza op. 19 n. 1 rappresenta dunque un progresso decisivo. E un progresso decisivo per il coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore e` rappresentato dalla piu` limitata estensione della melodia: eccettuate due battute, dove il canto prende un carattere strumentale, la melodia e` vocalistica, con cauti spostamenti di registro e con uno spettro totale che non copre due ottave. Un mezzosoprano potrebbe cantare la Romanza senza sforzo, e un qualunque ascoltatore potrebbe cantarla... silenziosamente o a mezza voce: da cui, come ho detto ripetutamente, nasce l’identificazione dell’ascoltatore nell’oggetto sonoro. La cantabilita`, la qualita` del suono cantabile della Romanza op. 19 n. 1 potrebbe – dico potrebbe – essere dovuta alla rivelazione dell’arte di Maria Malibran. Mendelssohn ascolto` a Londra la Malibran, che cantava il repertorio del soprano protoromantico con una voce ricca di armonici, di timbro piu` contraltile che sopranile. I pianoforti del 1830, gia` sensibilmente diversi dai pianoforti del 1820, consentivano una maggiore varieta` timbrica e un suono di piu` lunga risonanza, che forse Mendelssohn trovo` tentando di mimare la vocalita` della Malibran. O, forse, la Malibran e Mendelssohn sono soltanto esempi emergenti di una nuova estetica del suono, del canto spianato. Tuttavia, poiche´ l’estetica del suono strumentale ha seguito sempre l’estetica della vocalita` , non mi sembra illogico che fosse la ‘‘novita` ’’ del suono della Malibran a stimolare Mendelssohn nelle sue rivoluzionarie ricerche sul suono pianistico. Le raccolte delle Romanze senza parole sono otto. Dopo la prima, op. 19, abbiamo l’op. 30 (18331834, 1835), l’op. 38 (1836-1837, 1837), l’op. 53 (1841, 1841), l’op. 62 (1842-1844, 1844), l’op. 67 (1843-1845, 1845), l’op. 85 1844-1845, 1851) e l’op. 102 (1842-1845, 1851 ca.). Ogni raccolta comprende sei pezzi. Il modello di composizione, di cui la Romanza senza parole op. 19 n. 1 e` il prototipo, ritorna in tutte le raccolte, con una strumentazione sempre simile e tuttavia variata in modi molteplici che non staro` a elencare. Un altro modello di strumentazione, che ritorna spesso in Mendelssohn, e` quello della Romanza senza parole op. 19 n. 5: basso alla sinistra, accompagnamento e melodia alla destra. La disposizione pianistica e` quella del finale della Sonata op. 90 di Beethoven, che Mendelssohn aveva ricalcato nella Fantasia op. 16 n. 3; ma per ottenere un maggiore rilievo della melodia e una maggiore velocita` di scansione (cioe` una maggiore densita` ritmica e una maggiore concitazione), Mendelssohn raddoppia qualche suono in ottava. Il capolavoro di Mendelssohn in questo 345

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campo – almeno tecnicamente – e` la Romanza senza parole op. 38 n. 6, intitolata Duetto. La melodia, alla destra, e` strumentata come nell’op. 19 n. 5; ma alla quinta battuta subentra una nuova melodia, nel registro centrale, ed eseguita da pollice e indice della mano destra. E` ovvio – il pezzo e` intitolato Duetto – che Mendelssohn sta esponendo una proposta-risposta fra mezzosoprano e baritono, e gia` il semplice spostamento di registro, un’ottava sotto, modifica il timbro. Ma il timbro e` anche modificato dal fatto che le due parti della mano si scambiano le funzioni: anulare e mignolo ‘‘cantano’’ come nella Romanza op. 19 n. 1, pollice e indice come nel secondo tema del Rondo` capriccioso; la sonorita` delle due dita esterne – prensili – e` piu` ricca di armonici consonanti, la sonorita` delle due dita interne – percussive – e` piu` ricca di armonici dissonanti, piu` metallica e ‘‘virile’’, e a queste due diverse qualita` di suono cantabile si aggiungono la chiara sonorita` del basso e il mormorio dell’accompagnamento in terzine: la musica pianistica non virtuosistica, destinata ai dilettanti colti piu` che ai professionisti, non potra` mai superare i risultati a cui Mendelssohn perviene nel Duetto, e che verranno largamente imitati. Il Duetto merita pero` di essere analizzato anche per altri motivi. Alla prima proposta-risposta seguono una seconda proposta-risposta e uno sviluppo in cui ciascuna delle due voci elabora, alternandosi con l’altra, parti della propria melodia. Sull’ultima proposta del mezzosoprano, il baritono entra a canone: la dinamica aumenta (molto crescendo), le due voci si bloccano sull’intervallo di sesta, e in ottava, fortissimo, intonano la melodia iniziale del baritono, sviluppandola e chiudendola in piano. Dopo due battute e mezza di solo accompagnamento, in cui le terzine ascendono gonfiandosi, il baritono... riprende le forze e mormora – con due singhiozzi! – la sua melodia, il mezzosoprano entra con un contrappunto, poi il baritono riprende come un soffio l’inizio della melodia, il mezzosoprano risponde con gli stessi suoni, un’ottava sopra. E il pezzo finisce. Ho descritto con insistenza e in modo certamente un po’ tendenzioso una forma che in fondo e` molto semplice: esposizione, sviluppo, riesposizione, coda, codetta. Ma la forma tradizionale assume qui un forte risvolto psicologico perche´ la melodia del mezzosoprano non ritorna nella riesposizione. E il significato drammaturgico e` secondo me chiaramente erotico: seduzione, che vuol dire cattura e riduzione del due all’uno: il mezzosoprano, nella riesposizione, non ha altra melodia se non quella del baritono, e la sua melodia – le regole della forma tradizionale vanno a farsi benedire – non viene piu` sentita dal346

Romanze senza parole

l’ascoltatore. Sembra difficile poter parlare di erotismo in Mendelssohn, buon borghese tedesco, buon marito, idolatrato dalla societa` vittoriana, mentre sarebbe molto facile parlarne in Wagner, che e` tutto l’opposto. A me sembra pero` che l’erotismo, e non un patetico sentimentalismo, sia il tema di fondo delle Romanze senza parole, di questo cantare malinconico, di questo cantare agitato, di questo cantare gioioso, di questo cantare felice. E percio` ho analizzato in modo inusuale il Duetto, che pero` non rappresenta secondo me l’eccezione ma solo il culmine del Mendelssohn intimistico e il momento in cui la dissociazione fra razionale e l’affettivo sfiora l’irrazionale romantico. Nelle Romanze senza parole si trovano sicuramente anche altri temi poetici. La Romanza op. 19 n. 3, spesso intitolata La Caccia, apre quel filone di stampa d’ambiente di cui l’op. 67 n. 4, nota come La filatrice, e` il piu` eminente esempio. La Romanza op. 19 n. 4 e` un esempio, che ritornera` nelle altre raccolte, di Lied corale trasportato sulla tastiera, e l’op. 19 n. 6, espressamente intitolata Barcarola veneziana, fa sognare al filisteo tedesco la laguna... Non solo la bellezza della laguna, in verita`. La melodia dell’op. 19 n. 6 e` preceduta dalla solita introduzione, ed e` cantata, secondo l’uso delle barcarole, da due voci che si muovono parallelamente. Nella introduzione emerge pero` un frammento tematico di quattro suoni, molto in rilievo, che non assume il significato rassicurante che aveva l’animazione melodica dell’accompagnamento all’inizio del Rondo` capriccioso: qui un vero e proprio motto, un memento, si stacca dall’accompagnamento come un’epigrafe che precede il breve racconto e che ritorna alla fine, chiudendolo con un senso di fatalita` e di tragedia: barcarola veneziana sı` , ma anche ballata popolare tedesca. Ritroviamo la stessa struttura psicologica nella Barcarola veneziana op. 30 n. 6 e soprattutto nella Barcarola veneziana op. 62 n. 5, dove il motto fatale non compare solo all’inizio e alla fine ma anche nel corso del pezzo, e in fortissimo e con accenti marcati, anche in contesto pianissimo. Nella interpretazione di Walter Gieseking la Barcarola veneziana op. 62 n. 5 diventava il lontano antecedente delle due La lugubre gondola di Liszt. Gieseking, in altre parole, riusciva a scorgere in Mendelssohn le premonizioni del cammino che il solo Liszt, fra tutti i pianisti della generazione 1810, avrebbe potuto percorrere fino alla fine, fino alla consumazione delle idealita` rivoluzionarie da cui erano partiti verso il 1830 i giovani romantici. In Mendelssohn, diventato nella seconda meta` del secolo il caposcuola della musica per famiglie, il degno musicista che, al contrario

Rondo` brillante per pianoforte e orchestra op. 29

del ‘‘morboso’’ Chopin, si poteva suonare senza tema nei salotti, Gieseking vedeva il primo barlume della disperazione, della disillusione, della coscienza tragica della vita e della storia a cui Liszt sarebbe pervenuto passo dopo passo. Posizione che puo` essere confermata quando si consideri il riemergere delle Romanze senza parole nelle ultime raccolte di pezzi pianistici di Brahms, posizione che puo` essere resa piu` evidente da sottili ma chiari rapporti fra Mendelssohn e il primo Satie: si legga la Romanza senza parole op. 67 n. 6 secondo l’ottica di Satie, come faceva Francis Plante´, nato nel 1839, e si ritroveranno subito le Gymnope´ dies. Questa modernita` di Mendelssohn, questo suo andare al di la` del proprio tempo per profetizzare la corruzione e la fine di una civilta` che si contribuisce a edificare puo` essere ritrovata solo nel complesso delle Romanze senza parole, e solo con un sottile lavoro di analisi per il quale e` necessaria l’acutezza di un lettore come Gieseking. Le Romanze senza parole restano come un diario segreto dei dubbi inconsci di Mendelssohn, mentre le altre sue musiche rispecchiano piuttosto l’aspetto pubblico dell’uomo di successo e, sebbene denuncino qualche crisi, non partecipano nel complesso al dibattito dei problemi che la generazione 1810 affronta fra il 1835 e la meta` del secolo. Gia` le Romanze senza parole non sono organizzate come cicli, e Mendelssohn non se ne preoccupa: cio` dopo che Beethoven aveva inteso come ciclo le Bagatelle op. 126 e Schubert alcune raccolte di danze, e mentre Schumann creava il polittico. Su questo problema essenziale per i romantici – servirsi delle piccole forme senza rinunciare alla complessita` del discorso e dell’architettura – Mendelssohn non ha nulla da dire. E dopo il Concerto op. 25 non ha nulla da dire sull’altro problema essenziale per i romantici: far evolvere le grandi forme della tradizione. I tre Capricci op. 33 (1833-1835, 1836) sono in forma di allegro di sonata, allegro di sonata tradizionale quale avrebbe potuto essere immaginato da un buon artigiano della musica negli stessi anni. Chopin arrivava con enorme fatica a trasformare lo schema dell’allegro di sonata nella forma della Ballata op. 23. E Chopin aveva gia` ripreso e trasformato radicalmente, con lo Scherzo op. 20, la forma tradizionale dello Scherzo con trio. Mendelssohn non si pone di questi problemi. Dopo il 1831 il piu` significativo sforzo di rinnovamento di Mendelssohn e` rappresentato dalla Fantasia in fa diesis op. 28 (1833, 1834), intitolata in origine Sonata scozzese. Lavoro di atmosfera, per il quale era molto azzeccata la denominazione primitiva, con tre movimenti collegati, rispettivamen-

Felix Mendelssohn-Bartholdy

te evocazione di paesaggio brumoso, di canzone a ballo popolare e di tempesta. Nella Fantasia gioca pero` la tentazione della semplificazione della forma invece che della sintesi storica, la tentazione del ritorno a un tempo sentito idealmente come luogo della felicita` e della bellezza. Partito, come ho detto, dalla quella interpretazione dell’arte di Mozart che era la musica di Hummel, Mendelssohn tende a ritornare verso Hummel e verso Mozart, affiancandosi quindi, da musicista, alla visione dell’arte mozartiana come serena e apollinea contemplazione che in sede critica sarebbe stata proposta verso la meta` del secolo da Otto Jahn. Anche Bach, a cui Mendelssohn guarda quando compone i sei Preludi e fuga op. 35 (1832-1837, 1837), e` un compositore classico e austero, ben diverso dal ‘‘fosco gotico tedesco’’ che in lui vedevano Liszt e Wagner. Non c’e` in Mendelssohn ne´ l’aspirazione, che e` di Liszt, a un’arte nata da una poetica rivoluzionaria, ne´ la sintesi appropriatrice e totalizzante dell’ultimo Beethoven, ne´, come in Chopin e in Schumann, lo sviluppo di germi che la tradizione ha lasciato intatti. Neppure l’evoluzione della tecnica pianistica interessa a Mendelssohn veramente, dopo il 1831. I Tre Preludi op. 104a (1834, 1865) e i Tre Studi op. 104b (18341838, 1876) non sembrano appartenere tecnicamente agli anni trenta. E anche, nel primo Studio, la curiosita` per una felice trovata di Thalberg, che modificava e ampliava una altrettanto felice trovata di Mendelssohn, collocando la melodia, anziche´ l’accompagnamento, al centro del tessuto, la curiosita`, dicevo, da` luogo a un gioco troppo elegante, distaccato, un po’ da uomo di mondo che puo` capire tutto ma che non si fa coinvolgere da nulla. E questo suo distacco dal presente e` tale che Mendelssohn puo` vedere se stesso attraverso gli altri: il Foglio d’album op. 117 (1837, 1872) e` come una Romanza senza parole di Mendelssohn scritta da Schumann nello stile di Mendelssohn. Lo Studio op. 104b n. 1 e il Foglio d’album op. 117, nei quali Mendelssohn si rispecchia in altri creatori, sono secondo me l’indice di un disinteresse che si e` gia` consumato e che non coinvolge necessariamente Mendelssohn in quanto artista, ma in quanto compositore di musica per pianoforte. Se fra il 1829 e il 1831 Mendelssohn era stato un pianista d’avanguardia, e se fra il 1837 e il 1842 egli ripropone senza svilupparle le sue conquiste giovanili, fra il 1833 e il 1836 si collocano i suoi tentativi di ritorno a Mozart e a Bach e la sua crisi di rigetto verso cio` che Schumann, Chopin e Liszt stavano facendo. Lavoro emblematico, in questo senso, e` il Rondo` brillante per pianoforte e orchestra op. 29 (1834, 1835), dedicato a Mo347

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scheles. Tre anni dopo avere composto il Concerto op. 25, cioe` una partitura sinfonica, Mendelssohn riprende il piu` tipico stile biedermeier, con un virtuosismo datato al 1815 e con un’orchestra di contorno che potrebbe facilmente essere eliminata. Un discorso analogo puo` essere fatto per la Serenata e Allegro gioioso per pianoforte e orchestra op. 43 (1838, 1839) e in misura un po’ minore per il Concerto n. 2 in re-Re op. 40 (1837, 1838), spiritoso e garbato, con un inizio che e` quasi una citazione di Bach, ma su cui lo stesso Schumann espresse, fra le lodi, riserve sostanziali. In questi lavori non c’e` neppure, o almeno a me pare che non sia riscontrabile un minimo di formalizzazione e quindi di distacco critico; c’e` invece un ritorno regressivo verso un mondo, e verso un rapporto fra il musicista e la societa`, che il Mendelssohn del 1829-1831 aveva nettamente superato. L’eccezione, in questo panorama, e` rappresentata dalle Variations se´rieuses op. 54 (Variazioni serie, 1841, 1842), che nascono in un momento esistenzialmente difficile per Mendelssohn, e che secondo me lo riflettono. Mendelssohn, che a Lipsia aveva svolto con l’orchestra del Gewandhaus un lavoro di profondo e rivoluzionario rinnovamento del concerto sinfonico, anzi, che aveva messo le basi della programmazione sinfonica quale si e` mantenuta fino a oggi, ricevette la proposta di passare a Berlino per riformare e dirigere la Cappella Reale e per fondare un conservatorio. Era una di quelle offerte che non si potevano ragionevolmente rifiutare, ma Mendelssohn desidero` con tutte le sue forze di riuscire a tirarsi decorosamente indietro. Non si fidava della burocrazia prussiana, e a Berlino vivevano la madre e la sorella, a lui legatissime e tutt’altro che benevole nei confronti della ragazza renana che Mendelssohn aveva sposato. Un trasferimento a Berlino avrebbe turbato il modus vivendi che bene o male era stato raggiunto dopo un matrimonio approvato solo da una zia mattoide che a suo tempo aveva abbandonato il marito per andare a vivere con Friedrich Schlegel e che si era convertita al cattolicesimo. E le previsioni non furono poi smentite dalla realta`. A Berlino Mendelssohn avrebbe composto musiche di scena per tragedie greche di cui il re di Prussia era appassionato cultore, e avrebbe preparato molti memoriali e molti progetti senza poter realizzare nulla di cio` che gli era stato chiesto di fare. Le Variazioni op. 54 sono serie, cioe` non-brillanti come era d’uso, ma nel loro contenuto sono piu` che serie: sono ipocondriache, angosciate, tempestose, e riflettono un tedium vitae appena temperato da una variazione in modo 348

Serenata e Allegro gioioso per pianoforte e orchestra op. 43

maggiore. La costruzione risente indubbiamente della Ciaccona per violino solo di Bach, che Mendelssohn aveva eseguito spesso, con il violinista Ferdinand David, aggiungendo un accompagnamento per pianoforte (venne pubblicato nel 1847). Il fatto sorprendente, e per me inspiegabile, e` che mentre si immergeva nella ipocondria delle Variations se´rieuses Mendelssohn componesse le Variazioni op. 82 (1841, 1849), le Variazioni op. 83 (1841, 1850) e l’Allegro brillante per pianoforte a quattro mani op. 92 (1841, 1850), che appartengono al filone della musica per famiglie. Fra il 1835 e il 1847 Mendelssohn, favorito dalla scelta della direzione d’orchestra come occupazione predominante, sposta in realta` verso altri campi di attivita` musicale i suoi interessi, e in altri campi ripropone in modo storicamente significante cio` che in campo pianistico aveva creato nella prima maturita`. Il Concerto per violino inaugura un tipo di composizione alternativa al concerto dei virtuosi paganiniani e diventa un modello che verra` fedelmente seguito per almeno un quarto di secolo. I Preludi e fughe op. 37 e le sei Sonate op. 65 riprendono in considerazione l’organo con una serieta` di intenti quale non si era piu` vista dopo il tramonto del barocco, gli oratori Paulus ed Elijah ridanno vita dopo trent’anni a un genere che sembrava aver concluso il suo ciclo storico. Mendelssohn non si chiude in se stesso e continua la sua azione culturale che incide sulla storia dell’arte e del costume, e che fa di lui, nella societa` della seconda meta` del secolo, l’incontrastato maestro del gusto. Si puo` anche vedere in Mendelssohn la figura del musicista che, non condividendo le tensioni rivoluzionarie del cosiddetto Vorma¨rz, prepara quella che per almeno un quarto di secolo sara` in tutta l’Europa la cultura dominante dopo il fallimento della rivoluzione del 1848-1849. Ma pur non volendo e potendo qui approfondire il problema si puo` ben dire che per il pianoforte Mendelssohn resta il musicista della rivoluzione borghese. Educato durante il biedermeier e in un ambito di cultura biedermeier, egli sviluppa la sua azione di artista di avanguardia durante la rivoluzione borghese del 1830-1831 e non diventa poi, al contrario di Chopin, Schumann e Liszt, il musicista del Vorma¨rz, del periodo che precede la rivoluzione del 1848-1849. Proprio per questo motivo egli fu tanto stimato nella seconda meta` del secolo dai circoli conservatori, e proprio per questo motivo, secondo me, le esecuzioni delle sue composizioni pianistiche diradarono sempre di piu` nel Novecento. Ma l’inquietudine segreta e angosciosa che

Allegro brillante per pianoforte a quattro mani op. 92

percorre le Romanze senza parole e` di una ‘‘modernita`’’ senza tempo. E la riscoperta del Mendelssohn pianistico significa la riscoperta di un protagonista, per il quale le etichette di classico romanticheggiante o di romantico classicheggian-

Felix Mendelssohn-Bartholdy

te valgono solo a nascondere una posizione ideologica non riducibile in realta` a schematismi e tanto meno a giudizi moralistici, ma che e` invece da analizzare per la sua importantissima funzione nella storia della civilta`.

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Olivier Messiaen

Allegro brillante per pianoforte a quattro mani op. 92

Olivier Messiaen (Avignone, 10 dicembre 1908-Parigi, 28 aprile 1992) Gli Otto Preludi (1928-1929) escono un anno dopo il pezzo per organo, Il Banchetto celeste, che rivela in Messiaen uno dei piu` promettenti talenti della musica francese. La semplice elencazione dei titoli degli Otto Preludi ci dice che l’Autore non ‘‘abita’’ spiritualmente gli anni venti parigini ma che, gia` stufo di Cocteau, dei Six, del music-hall e del circo, va a cercare i suoi mani piu` indietro, piu` indietro di un buon quarto di secolo: La Colomba, Canto estatico in un paesaggio triste, Il Ritmo leggero, Istanti defunti, I suoni impalpabili del sogno, Campane d’angoscia e lacrime d’addio, Calmo lamento, Un riflesso nel vento. Titoli, come si vede, simbolisti, talora alla seconda potenza. E musica tutt’altro che linearmente neoclassica, ma ricca invece di raddoppi, di timbri artificiali, di tempi flessuosi, di fruscii, di polveri impalbabli e iridescenti, di suoni della natura, e ricca soprattutto di un pathos che sgorga direttamente dal cuore e dai sensi e che non e` stato filtrato dell’intelletto. Nello stesso tempo Messiaen adotta pero` le forme classiche, prevalentemente di canzone tripartita ma anche di rondo` in sette episodi (n. 5) e di primo movimento di sonata (n. 8). Un tratto caratteristico di Messiaen e` l’associazione suono-colore. Dice Messiaen: Avevo vent’anni. Non mi ero ancora dedicato alle ricerche ritmiche che avrebbero trasformato la mia vita. Amavo appassionatamente gli uccelli, ma non ero ancora in grado di scriverne il canto. Tuttavia ero gia` un musicista del suono-colore. Per mezzo dei modi armonici che si possono trasformare solo un determinato numero di volte e derivando da questo fatto il loro particolare valore coloristico, ero giunto a contrapporre dei dischi di colori, a combinare degli arcobaleni, a scoprire nella musica dei ‘‘colori complementari’’. I titoli dei Preludi rimandano a studi sui colori. E la triste storia a cui si riferisce il sesto Preludio, Campane d’angoscia e lacrime d’addio, e` sepolta in suntuosi drappi violetti, arancioni e purpurei. Questi Otto Preludi sono figli delle Images di Debussy e dei trittici di Franck, figli che dei genitori hanno il DNA e qualche tratto fisiognomico, ma che pur conservando l’aria di famiglia sono autonomi. E` raro trovare una tale compiutezza di scrittura e una tale sicurezza di poetica in un 350

compositore di ventun’anni, soprattutto quando lo stile e la poetica si staccano dai canoni della dominante cultura contemporanea. Viene da pensare al Brahms ventenne che elegge a sua guida Beethoven, scomparso da venticinque anni. E un altro pregio caratterizza i Preludi, un pregio che non sara` sempre il maggiore della musica di Messiaen: la concisione. Messiaen non cambia nella Fantasia burlesca (1932), che segue la scia del Debussy umorista. E tanto meno cambia in quelle lacrimanti lapidi funerarie che sono le due pagine del Pezzo per la tomba di Paul Dukas (1935). Il Rondo` (1943), commissionato a Messiaen come pezzo d’obbligo per il concorso annuale del conservatorio di Parigi, tiene conto della finalita` che lo ha fatto nascere ma ci dice che ci troviamo di fronte a un artista in evoluzione. E insieme con il Rondo` arrivano infatti le sette Visioni dell’Amen per due pianoforti (1943). Il lavoro fu commissionato a Messiaen e fu da lui eseguito per la prima volta, insieme con la sua diciannovenne allieva Yvonne Loriod, il 10 maggio 1943 a Parigi. Non so se la commissione prevedesse esplicitamente una composizione per due pianoforti o se questa fosse la scelta di Messiaen. Certamente, la spiegazione di Messiaen fa un po’ sorridere, e fa insieme tenerezza: ‘‘Ho affidato al primo pianoforte le difficolta` ritmiche, i gruppi d’accordi, tutto quello che e` velocita` , charme, qualita` del suono. Ho affidato al secondo pianoforte la melodia principale, gli elementi tematici, tutto cio` che richiede emozione e potenza’’. Messiaen divideva i compiti non fra due ipotetici pianisti ma fra se stesso e la Loriod, strumentista eccellente e che, detto per inciso, sarebbe diventata la sua seconda moglie quand’egli sarebbe rimasto vedovo. Questa ‘‘astuzia’’ del candido Messiaen non rimase senza conseguenze sull’equilibrio strumentale delle Visioni dell’Amen, che non sono precisamente pensate per due pianoforti ma per primo e secondo pianoforte. Per quanto riguarda la poetica, l’epigrafe di Ernest Hello sembra a me tale da confondere le idee al lettore, piu` che a chiarirle: ‘‘Amen, parola della Genesi, che e` l’Apocalisse dell’inizio. Amen, parola dell’Apocalisse, che e` le Genesi della consumazione’’. La spiegazione di Messiaen, che rinuncia a spiccare il volo pindarico, e` piu` rassicurante:

Venti Sguardi sul Bambino Gesu`

L’Amen racchiude quattro diversi significati: Amen, che cosı` sia! L’atto Creatore. Amen, io mi sottometto. Lo accetto. Sia fatta la Vostra volonta`! Amen, l’augurio, il desiderio che cosı` sia, che Voi Vi diate a me e io a Voi! Amen, cosı` e`, tutto e` fissato per sempre, consumato nel Paradiso. Aggiungendovi la vita delle creature che dicono Amen per il fatto stesso di esistere, ho cercato di esprimere le ricchezze cosı` varie dell’Amen in sette visioni musicali. Sette e` il numero perfetto, i sei giorni della Creazione, santificati dal Sabato divino. Amen, cosı` sia. Messiaen si ispira all’insieme dei libri sacri, la Bibbia, i Vangeli, l’Apocalisse. Ed e` un po’ strano che non consideri l’Annunciazione, l’Amen di Maria. Le sette Visioni concernono infatti: Amen della Creazione, Amen delle stelle, dell’anello dei pianeti, Amen dell’Agonia di Gesu` , Amen del Desiderio, Amen degli Angeli, dei Santi, del canto degli uccelli, Amen del Giudizio, Amen della Consumazione. E` evidente che Messiaen organizza le Visioni come un ciclo pittorico medievale. Musicalmente egli si serve di temi che nascono dalla simbologia dei titoli, con un tema ricorrente, solenne e armonicamente densissimo, quello della Creazione, e con una tonalita` ricorrente, La, in maniera da dare unita` e coerenza all’insieme. L’insieme e` pero` coerente non solo sul piano musicale, ma anche sul piano drammaturgico e persino sul piano spettacolare. Direi anzi, se posso permettermi questa osservazione da ‘‘laico’’, che il piano teologico patisce secondo me qualche aggiustamento a favore dello spettacolo. La quarta Visione, l’Amen del Desiderio, e` il pannello di maggiori dimensioni, e in quanto tale svolge la funzione di centro architettonico. Ma drammaturgicamente e spettacolarmente la visione del Paradiso come Desiderio del Paradiso e` secondo me strumentale rispetto alla necessita` di creare un forte contrasto con la visione precedente, l’Agonia di Gesu` , mentre teologicamente dovrebbe semmai precedere la Visione del Giudizio. Non dico cio` per muovere un appunto a Messiaen – sarebbe stupido da parte mia –, ma solo per far notare com’egli riesca a conciliare diverse esigenze per creare un ciclo che, tenendo inchiodato il pubblico per circa quarantasette minuti, ne mantenga desta l’attenzione. Sotto questo aspetto i Venti Sguardi sul Bambino Gesu` (1944) confidano secondo me troppo nella pazienza (o nella devozione) del pubblico. Detto per inciso, successe talora nel Novecento che i compositori, non avendo contribuito essi stessi a

Olivier Messiaen

far diventare il concerto una istituzione permanente della vita musicale, ma essendoselo trovato bell’e pronto e a disposizione, cercassero di... occuparlo per intero. I centoventi minuti dei Venti Sguardi eccedono addirittura la durata di un normale concerto. Vero e` che molti pianisti scelgono soltanto qualcuno dei Venti Sguardi. Ma e` vero anche che Messiaen, pur rendendo eccessiva la mole del ciclo, seppe condurlo unitariamente sotto l’aspetto drammaturgico, tanto che ogni pannello trova la sua ragion d’essere nel contesto. Messiaen cita in prefazione i testi teologici sui quali si e` basato per costruire l’ordito del ciclo, in particolare quelli di Dom Columba Marmion e di Maurice Toesca, dicendo – candidamente, al solito – di aver ‘‘ripreso la stessa idea, trattadola in maniera un po’ diversa e aggiungendo sedici nuovi sguardi’’. Qualche volta Messiaen si fa prendere nei lacci dell’arguzia verbale, come quando intitola il quinto pezzo Sguardo del Figlio sul Figlio, salvo a spiegare poi la differenza tra il Figlio-Verbo e il Figlio-Gesu`, o come quando, nell’undicesimo pezzo, definisce il concepimento per opera dello Spirito Santo del Figlio-Gesu` come Prima Comunione della Vergine perche´ nel sacramento della Comunione il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo, e la Madonna, concependo il Figlio, fa dunque la comunione prima che il sacramento sia stato istituito nell’Ultima Cena. Per quanto riguarda l’organizzazione musicale Messiaen dice: Un tema d’accordi circola da un pezzo all’altro, frazionato o concentrato in arcobaleno; non mancano canoni ritmici, polimodalita`, ritrmi non retrogradabili amplificati nei due sensi, valori progressivamente accelerati o rallentati, ingrandimenti asimmetrici, cambiamenti di registro, ecc. La scrittura pianistica e` molto ricercata: arpeggi inversi, risonanze, passi diversi. [...] Piu` che in tutte le mie precedenti opere ho cercato qui un linguaggio d’amore mistico, tutt’insieme variato, possente, e tenero, talvolta brutale, con disposizioni multicolori. Messiaen non si limita a elencare in premessa il suo armamentario tecnico, ma indica in partitura i temi e i ritmi non retrogradabili e compagnia bella, facendo – candidamente – l’esegeta di se stesso. La tonalita` prevalente nei Venti Sguardi e` Fa diesis e Messiaen, naturalmente, non rinuncia a cio` che predilige, i canti degli uccelli, i carillon, i pulviscoli sonori. Non mancano neppure i simboli numerici. Lo Sguardo del Padre e` al n. 1, lo Sguardo del Figlio sul Figlio al n. 5, lo Sguardo dello Spirito Santo al n. 10, il Bacio del Bambino Gesu` al n. 15, lo Sguardo della Chiesa d’amore al n. 20. Dopo il n. 1 – lo Sguardo del Padre non poteva che essere l’inizio – le persone della Trinita` 351

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Olivier Messiaen

vengono simboleggiate nel 5 e nei suoi multipli. Dalle Visioni dell’Amen sappiamo che il numero della Creazione e` il 6, e negli Sguardi troviamo al n. 6 Per mezzo di lui tutto e` stato fatto, al n. 12 La Parola onnipotente, al n. 18 lo Sguardo dell’Unzione terribile (‘‘Il Verbio assume una certa natura umana, scelta della carne di Gesu`’’). Sempre dalle Visioni sappiamo che il numero perfetto e` il 7. Il settimo pezzo degli Sguardi e` lo Sguardo della Croce perche´ la morte di Cristo sulla croce ristabilisce la perfezione dell’ordine divino, rotto dal Peccato Originale. E al n. 14 troviamo lo Sguardo degli Angeli, esseri perfetti. In conclusione, Messiaen organizza il ciclo capillarmente, la sua fantasia e` inesauribile, la sua sapienza e` somma, il suo sforzo intellettuale e` titanico, la sua fede e` ardente, ma la sua costruzione e` babilonese al punto che l’ascoltatore non riesce ad afferrarla nel suo insieme. Le esecuzioni integrali sono percio` rarissime, e dei Venti Sguardi sul Bambino Gesu` sopravvivono in concerto, come dicevo, alcuni brani separati, strappati dal contesto. Cante´ yodjagaˆ (1949; il termine e` inventato da Messiaen in uno pseudosanscrito) e` costruito come un pullulare di idee diverse, inframmezzate da un tema ricorrente. Non mancano, in partitura, le indicazioni di analisi, e fra queste non manca quella del ‘‘modo di durate, di altezze e di intensita`’’ che rappresenta il primo esempio di serializzazione estesa a parametri del suono non considerati dalla dodecafonia. Manca ancora la serializzazione dei modi di attacco, che compare invece nel secondo dei Quattro Studi di ritmo (1949), intitolato Modo di valori e di intensita` , in cui le regole autoimposte sono tali da costringere il compositore, per venirne a capo, a concedersi alcune licenze. Il ‘‘modo’’ comprende trentasei suoni, ventiquattro durate, dodici attacchi, sette intensita`. Al pianista viene richiesto di essere solo ed esclusivamente esecutore, anche in quegli aspetti del suono, come l’intensita` e il modo d’attacco, per i quali non esistono termini di riferimento assoluti. Il tentativo di Messiaen, che avrebbe influenzato in modo determinante il corso della Nuova Musica, era in realta` utopistico, e il concreto risultato sonoro sfuggiva al controllo auditivo, tanto che lo stesso Messiaen, quando assisteva a esecuzioni della sua musica, leggeva la partitura e controllava visivamente l’esattezza dell’esecuzione. L’astrattezza del secondo Studio, e del terzo, Neumi ritmici, che intende organizzare razionalmente l’indeterminatezza ritmica dei neumi gregoriani in notazioni proporzionali precise, contrasta vivamente con la sfrenata, barbarica vitalita` del primo e del quarto Studio, intitolati entrambi Isola di fuoco e dedicati 352

Cante´yodjagaˆ

alla Papuasia. Anche questi due Studi sono minuziosamente organizzati, ma il calcolo da` forma a violentissimi impulsi sensoriali e non diventa dimostrativo, autospecchiantesi. Dicevo prima che gli Studi furono determinanti sul corso della Nuova Musica. Non pero` della musica di Messiaen, che nel 1960, al termine di un percorso che aveva coperto gli anni cinquanta, consigliava ai giovani compositori di studiare ‘‘l’armonia del vento fra gli alberi, il ritmo delle onde del mare, anche i canti degli uccelli e le grida degli animali e le tante altre meraviglie che sarebbe troppo lungo enumerare’’. Non piu` lo sviluppo di regole inventate dall’uomo ma lo studio del caos, armonia, ritmo, timbro in quanto caos. Su questa via Messiaen si era gia` addentrato nel Catalogo d’uccelli (1956-1958), dove pero` compare un carattere secondo me piu` pericoloso ancora del calcolo autospecchiantesi, e cioe` la pignoleria del discorso esaustivo. Messiaen era sempre rimasto incantato dal canto degli uccelli. Nel Catalogo egli affronta in modo sistematico non solo la trasposizione sul pianoforte del canto di questo o di quell’uccello, ma di tutti i settantasette di cui ha conoscenza (‘‘abitanti’’, precisa, ‘‘nelle province francesi’’), e anche dell’ambiente in cui vivono: ‘‘Ogni solista e` presentato nel suo habitat, circondato dal suo paesaggio e dai canti degli altri uccelli che popolano la stessa regione’’. Detto per inciso, la tendenza a condensare nella musica un racconto temporale si era manifestata gia` nel primo pezzo pianistico noto di Messiaen, La Signora di Shalott (1917), da una poesia di Tennyson. Nel Catalogo c’e` la musica del pennuto (nei dodici suoni del temperamento equabile, ovviamente, non com’e` in natura), coscienziosamente dichiarata in partitura, e c’e` la musica, con le relative spiegazioni, dell’ambiente e dell’ora del giorno e della notte, oltre alle indicazioni dei principali procedimenti tecnici di composizione. Non manca nemmeno, nella premessa, l’indice alfabetico di tutti gli uccelli i cui canti confluiscono nel Catalogo, indice redatto in piu` lingue, in modo che ogni lettore possa verificare la presenza o meno del suo volatile preferito. Tredici pezzi per una durata di due ore e quarantacinque minuti, nei quali, il piu` delle volte, il delirio classificatorio prevale sulla creazione musicale. E il quattordicesimo pezzo, La fauvette des jardins (Il beccafico, 1970), che puo` essere considerato come una appendice al Catalogo (il rimedio di una precedente, imperdonabile dimenticanza?), non cambia veramente registro, anzi, la sua esecuzione sfiora i trenta minuti. Il Catalogo degli uccelli, carico di spiegazioni com’e`, solleva lo stesso problema di esecuzione di certe raccolte di Satie.

Des Canyons aux E´toiles

Questo e` il busillis: Messiaen, annotando sotto la musica le indicazioni che riguardano l’uccello-protagonista, gli altri uccelli, l’habitat, il paesaggio, l’ora, a chi si indirizzava in realta`? All’esecutore? All’ascoltatore? Didascalie cosı` precise e circostanziate servono a stimolare la fantasia dell’esecutore? Ma l’esecutore non deve fantasticare, deve soltanto realizzare scrupolosamente cio` che e` scritto. Devono allora essere rese note all’ascoltatore mediante un lettore, o mediante una proiezione? La semplice esecuzione musicale non e` secondo me sufficiente, ma non mi risulta che siano state sperimentate altre soluzioni. Un po’ diversi dal Catalogo sono i Piccoli Schizzi di uccelli (1985), sei pezzi per circa quindici minuti di durata, nei quali Messiaen smette di fare l’ornitologo coscienzioso per ridiventare l’artista sovrano che seleziona gli eventi e che... manomette la natura. Messiaen impiega piu` volte il pianoforte sia nella grande orchestra che in complessi orchestrali ridotti (quanto tutto cio` abbia a che vedere con il suo fortissimo legame affettivo con la Loriod e` cosa che tocchera` ai biografi di investigare). Una importante parte di pianoforte solista si trova nella Sinfonia-Turangalıˆla (1946-1948; il termine, sanscrito, significa ‘‘canto d’amore, inno alla gioia, tempo, movimento, ritmo, vita e morte’’). Enorme partitura, nella quale il pianoforte, insieme con i metallofoni a percussione forma un gruppo orchestrale che riproduce le sonorita` del gamelan giavanese. Le Re´veil des Oiseaux (Il Risveglio degli uccelli, 1953) e` come un concerto in quattro parti (Mezzanotte, Le quattro del mattino, Canto del

Olivier Messiaen

mattino, Mezzogiorno) ed e` rigorosamente basato sul canto degli uccelli della regione di Parigi, dall’usignolo che apre al cucu` che chiude il pezzo. Oiseaux exotiques (Uccelli esotici, 1955-1956) rinuncia al paesaggio e alle ore della giornata, ma unisce ‘‘artificialmente [quarantotto] uccelli di abitudini, di paesi, di continenti diversi, artisti che si ignorano e che non si incontreranno mai’’. India, Cina, Malesia, America del Nord e del Sud per una musica che, essendo come sempre rispondente alla associazione suono-colore, e` ‘‘rosa, arancione, blu, verde, porpora come gli stessi uccelli’’. Non mancano gli uccelli – giapponesi – nei Sette Haikaı¨ per pianoforte e piccola orchestra (1962: gli Haikaı¨ sono brevissimi poemetti giapponesi di tre versi ciascuno), ma qui gli uccelli sono protagonisti di due pezzi soltanto, mentre due pezzi sono ispirati a paesaggi, uno all’antica musica di corte, e due – Introduzione e Coda – inquadrano il tutto. Couleurs de la Cite´ ce´leste per pianoforte e insieme strumentale (Colori della Citta` celeste, 1963), ispirato all’Apocalisse, impiega pianoforte, strumentini, ottoni e percussioni, e mischia musicalmente quattro Alleluja gregoriani, ritmi greci e indu` , canti di uccelli (esotici). Infine, Des Canyons aux E´toiles (Dai canyon alle stelle, 19711974) e` ispirato al rosso Brice Canyon dello Utah, al Zion Park e alla stella Alde´baran. Dodici pezzi suddivisi in tre parti, due dei quali, il quarto e il nono, per pianoforte solo. E naturalmente non mancano, anche in questa visione mistica, gli uccelli: dello Utah, ovviamente, e, sorprendentemente, delle Isole Hawaii.

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Des Canyons aux E´toiles

Darius Milhaud

Darius Milhaud (Aix-en-Provence, 4 settembre 1892-Ginevra, 22 giugno 1974) Di tutta la produzione pianistica di Milhaud, che nel suo sterminato catalogo di piu` di quattrocento numeri d’opera occupa in verita` una posizione non rilevante, e` rimasta in vita la suite Scaramouche per due pianoforti op. 165 (Scaramuccia, 1937), ricavata in parte dalle musiche di scena per il Medico volante di Molie`re. I tre pezzi di Scaramouche – Vivo, Moderato, Brasileira – sono irresistibilmente briosi, il primo e il terzo, e languidi, il secondo. Molie`re, Scaramuccia e la commedia dell’Arte sono spariti, e noi ci troviamo nel pieno del Carnevale di Rio: un mazzetto di pezzi, nel loro genere, perfetti. E perfetto e` il Carnaval d’Aix per pianoforte e orchestra op. 83b (Carnevale d’Aix, 1926), dodici pezzi tratti dal balletto Salade del 1924. Ispirati a personaggi della commedia dell’Arte (Tartaglia, Coviello, Pulcinella, Isabella, ecc., ma non manca un tango intitolato Ricordo di Rio.), sempre brevi, e di volta in volta umoristici o sentimentali, i dodici pezzi incarnano una delle due opzioni che secondo Prokof’ev erano teoricamente possibili per il compositore del Novecento, l’opzione della musica ‘‘seriamente leggera’’. Ma la parte del pianoforte, che Milhaud riservo` a se stesso per la prima esecuzione, non e` tale da mettere in luce il solista, che ha a sua disposizione un enorme e piu` soddisfacente repertorio storico. Nemmeno gli altri pezzi per pianoforte e orchestra di Milhaud hanno potuto del resto reggere la concorrenza dei concerti di Ravel e di Prokof’ev. La Ballata op. 61 (1961) e` in verita` un notevole e originale esempio di musica schietta e vigorosa. Leggendo il titolo ci si aspetta qualcosa di simile alla Ballata di Faure´, qualcosa di leggendario o di epico, e invece, dopo una breve e misteriosa introduzione, ci si trova di fronte a un rude, sensuale, barbarico tango. La composizione sembra una premonizione di quello che sara` il Bolero di Ravel. Ma anche qui la parte solistica e` pensata per le non eccelse forze di Milhaud, che negli anni venti, come Stravinskij e come altri, aveva scoperto la possibilita` di sommare i diritti d’autore con gli onorari dell’esecutore. I Cinque Studi op. 63 (1920) sono sperimentazioni sul linguaggio e sui rapporti fra il pianoforte e gruppi di strumenti dell’orchestra. La sperimentazione del linguaggio riguarda soprattutto la politonalita` che, gia` presente nella Ballata, qui viene portata a conseguenze 354

estreme, tanto che la prima esecuzione dei Cinque Studi, nel 1921, provoco` un tale tumulto da costringere la polizia a sgomberare la sala. Gli Studi durano ciascuno da un minimo di un minuto a un massimo di tre minuti e mezzo, e sono quindi da intendere come cartoni preparatori. Il massimo della sperimentazione si ha con il terzo Studio, intitolato Fughe, non Fuga, perche´ vi si trovano contemporaneamente quattro fughe in quattro diverse tonalita`. Nel quarto Studio Milhaud adotta un procedimento che sara` poi caro in particolare a Hindemith: la prima parte, di venti battute, viene ripresa a specchio nella seconda parte, di ventuno battute. Il Concerto n. 1 op. 127 (1933) fu scritto per Marguerite Long, dedicataria e prima interprete del Concerto in Sol di Ravel. In tre movimenti, breve (tredici minuti), di scrittura neoclassica con un occhio rivolto al barocco francese, il Concerto rappresenta un momento felice della creativita` di Milhaud. Ma la scrittura pianistica, programmaticamente ‘‘difficile’’ perche´ destinata a una professionista molto nota, non e` idiomatica, e la Long, dopo aver tenuto la prima esecuzione nel 1934, preferı` puntare le sue carte sul Concerto di Ravel. La Fantasia pastorale op. 188 (1938), tre movimenti collegati per poco meno di dieci minuti, sarebbe stata alla portata del Milhaud pianista, che preferı` invece prendere la bacchetta per la prima esecuzione, affidata a un giovane americano. La Fantasia e` semplice, bucolica, e si direbbe influenzata dal Concerto campestre di Poulenc, che e` pero` molto piu` vario e armonicamente piu` ricco. Milhaud, israelita, emigro` negli Stati Uniti allo scoppio della guerra. Il Concerto n. 2 op. 225 (1941) fu eseguito per la prima volta dall’Autore. In tre movimenti con una Romanza al centro, il Concerto mischia stilemi barocchi e stilemi del rag e del blues, e` scritto con finezza di particolari ma nell’insieme manca di forza espressiva. Piu` riuscito sembra a me il Concerto n. 1 per due pianoforti e orchestra op. 228 (1941), vario di espressione e spettacolare. Il Concerto n. 3 op. 270 (1946) ritorna verso il clima pastorale. Linee melodiche semplici, tessiture leggere, ma il contrasto fra i tre movimenti conferisce al Concerto la varieta` che mancava nella Fantasia pastorale. Il Concerto n. 4 op. 295 (1949) fu composto su commissione di un pianista, Zodel Skolovsky, che non e` passato alla

Une journe´e op. 269

storia ma che ai suoi tempi era molto noto per le sue esecuzioni di musica contemporanea. Milhaud tiene conto dei desideri del committente e inzeppa la parte pianistica di ottave, accordi, doppie note (anche settime), salti, chiedendo al solista doti acrobatiche calcolate pero` in astratto, non nate sulla tastiera. La ricca scrittura orchestrale sommerge spesso la parte solistica e non ne esalta il virtuosismo, sicche´ il Concerto, musicalmente turgido, viscerale, travolgente, non raggiunge lo scopo che si era prefisso e scoraggia gli interpreti. La Suite per due pianoforti e orchestra op. 300 (1950) rappresenta il momentaneo ritorno allo spirito degli anni venti. Entrata, Notturno, Giava, Fugato, Moto perpetuo e Finale per una durata di circa diciotto minuti. Pezzo d’effetto, e divertente, che i duo pianistici non hanno pero` mai mostrato di apprezzare. Il Concerto n. 5 op. 346 (1955) fu scritto per il pianista, Stell Andersen, che aveva presentato per primo la Fantasia pastorale. Fu eseguito in un ambiente molto vasto, il Lewisohn Stadium di New York, mentre aveva semmai le caratteristiche del concerto da camera, con un secondo movimento, che occupa da solo meta` della durata del Concerto, tutto lavorato sulla raffinatezza timbrica (ad esempio, dialogo fra il pianoforte, i campanelli, l’arpa e la celesta, o flauto piccolo e contrabbasso insieme) e con una scrittura contrappuntistica del finale che richiedeva una grande concentrazione d’ascolto. Infine, il Concerto II per due pianoforti e percussione (1961) e` secondo me, insieme con Scaramouche, la piu` riuscita composizione di Milhaud che impiega il pianoforte. Sembra probabile che Milhaud avesse in mente di fornire il pezzo da accoppiare alla Sonata di Barto´k. Ma mentre Barto´k richiede due percussionisti, Milhaud ne richiede quattro, e cosı` il Concerto II, che avrebbe meritato migliore fortuna, viene eseguito rarissimamente. Il catalogo per pianoforte solo di Milhaud si apre con i cinque movimenti della Suite op. 8 (1913), fortemente influenzati dal pianismo di Debussy. La Sonata n. 1 op. 33 (1916) e` ricca di idee, anzi, sovrabbondante. Milhaud, recensendo nel 1920 sul Courrier musical la prima esecuzione, scrisse che la Sonata gli era ‘‘apparsa troppo lunga e di una scrittura troppo sovraccarica’’. In verita`, piu` che troppo lunghi e sovraccarichi (durano circa diciassette minuti in tutto), i tre movimenti della Sonata sembrano un po’ caotici. I sei pezzi raccolti nei due quaderni di Printemps op. 25 e op. 66 (Primavera, 1915-1920) segnano il passaggio dal simbolismo ancora dominante durante la guerra all’antisimbolismo del dopoguerra, dalla scrittura folta alla scrittura lineare, dalla prevalenza dell’ar-

Darius Milhaud

monia alla prevalenza del contrappunto. Il primo pezzo e` collocabile nel mondo della Suite op. 8, l’ultimo preannuncia le Saudades do Brazil op. 67 (Saudade del Brasile, 1920-1921). Nel 1917 e nel 1918 Milhaud era rimasto a Rio de Janeiro come segretario dell’ambasciatore di Francia in Brasile, il commediografo Paul Claudel, e si era appassionato e aveva studiato il folclore locale. La saudade e` una danza, e il termine, portoghese, e` in realta` intraducibile ma significa approssimativamente nostalgia di cose care. Non tutte le dodici danze di Milhaud rispondono in verita` a questa definizione, anzi, alcune sono esuberanti o addirittura frenetiche. Il termine, in se´ e per se´ suggestivo, viene quindi usato da Milhaud in senso estensivo, e il contenuto e` riferito ai molteplici aspetti della vita musicale popolare nei diversi quartieri di Rio. I temi sono di Milhaud, che li crea sulla base del lessico del folclore da lui studiato, e i ritmi sono quelli del samba e del tango. Le armonizzazioni sono ‘‘moderne’’, spesso politonali o polimodali, la scrittura pianistica e` di media difficolta`, tanto che le Saudades divennero piu` note nella trascrizione per orchestra che nella versione originale. I Trois Rag-Caprices op. 78 (Tre Capricci Rag, 1922) rappresentano l’omaggio di Milhaud alla moda parigina del jazz, ma sono organizzati, come i Preludi di Gershwin, secondo lo schema della sonatina, con addirittura, al centro, una Romanza. L’Automne op. 115 (1932) fu composto a seguito di un viaggio in Portogallo. Tre pezzi, il primo dei quali intitolato Settembre, il secondo ispirato a un quartiere popolare di Lisbona, Alfana, e il terzo intitolato Addio. Seguo altre raccolte, sempre di pezzi di media difficolta` e di limitato interesse. Una menzione va fatta pero` per la Muse me´nage`re op. 245 (La Musa familiare, 1945), raccolta di quindici pezzi brevi nella scia di Schumann e di Debussy, che dopo la dedica alla moglie inizia con Il Risveglio, prosegue con La Poesia, La Cucina, e passo dopo passo finisce con le Letture notturne e con il Ringraziamento alla Musa. Milhaud, gravemente malato d’artrite e costretto su una carrozzella, era assistito amorevolmente dalla moglie Madeleine, alla quale era legatissimo. L’op. 245, vero e proprio diario di una giornata scritto con umilta` e semplicita` di cuore, e` per questo aspetto commovente, ma... Schumann e Debussy stanno molto lontano. Milhaud compose anche varie raccolte di pezzi facili, fra cui Une journe´e op. 269 (Una giornata, 1946), con L’alba, La mattina, Mezzogiorno, Il pomeriggio, Il crepuscolo. La sua proverbiale facilita` di mano non nuoce alla qualita` della sua invenzione musicale, ma nessuna delle raccolte di Milhaud a destinazione didattica e` stata adottata 355

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Darius Milhaud

stabilmente (e del resto solo Barto´k, Prokof’ev e Sˇostakovicˇ, fra i compositori del Novecento, hanno trovato consensi generalizzati fra i didatti). Nel secondo dopoguerra le composizioni pianistiche di Milhaud maggiormente ambiziose sono la Sonata n. 2 op. 293 (1949) in quattro movimenti e la Sonatina op. 354 (1956) in tre movimenti. Il Milhaud anni venti, il Milhaud colorito, vitalistico, provocatorio, e` sparito, e al suo posto troviamo un compositore che ha prosciugato il suo linguaggio e che non si cura di riuscire gradito ne´ all’ascoltatore, ne´ all’esecutore, messo di fronte a una strumentazione astratta che tiene conto solo in minima parte delle caratteristiche dello strumento. La maggiore concisione formale gioca a favore della Sonatina, che resta tuttavia sconosciuta al pubblico, non meno di tante altre pagine di Milhaud. Molto curiose sono le Sei Danze in tre movimenti per due pianoforti op. 433 (1970), nei cui accoppiamenti di Tarantella e Bourre´e, Sarabanda e Pavana, Rumba e Giga rispunta un po’ il giovane Milhaud. Ho parlato incidentalmente di musica

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Sonata n. 2 op. 293

‘‘seriamente leggera’’. Questo e` il campo in cui Milhaud raggiunge i risultati migliori, e questo e` il campo in cui si colloca Scaramouche, il suo capolavoro per pianoforte. La percussione, e il suono percussivo del pianoforte in Scaramouche e nelle Saudades do Brazil permettono a Milhaud di sfuggire alla seriosita`, e Brasileira suona come se fosse eseguita su un pianoforte automatico, una pianola. Nella maggior parte delle altre sue composizioni la qualita` artigianale del manufatto e il gusto del musicista colto non vengono mai meno, e non si puo` dire che nella sua produzione pianistica ci siano delle grosse oscillazioni. Ma non c’e` neppure nulla che spicchi veramente in una serie di pagine che in grandissima misura sembrano destinate al pubblico dei pianisti dilettanti, quel pubblico che nell’Ottocento costituiva una robusta componente dei fruitori di musica e che nel Novecento stava scomparendo. In fondo, Milhaud, se non riceveva commissioni dai professionisti, scriveva sı` idealmente per i dilettanti, ma in realta` per un dilettante solo: se stesso.

Sonata n. 2 op. 293

Nikolaj Jakovlevicˇ Mjaskovskij

A Nikolaj Jakovlevicˇ Mjaskovskij

B

(Novo-Georgievsk, 20 aprile 1881-Mosca, 8 agosto 1950) Mjaskovskij, che con le sue ventisette Sinfonie e` in questo campo il primatista fra i compositori del Novecento, per pianoforte scrisse relativamente poco: nove Sonate, una Sonatina, sette raccolte di pezzi brevi, nessun concerto, nessuna variazione. Le nove Sonate avrebbero potuto essere pubblicate per gruppi di tre, come ai tempi di Beethoven. La Sonata n. 1 in re op. 6 (1907-1909), la Sonata n. 5 in Si-si op. 64 n. 1 (1907-1908) e la Sonata n. 6 in La bemolle op. 64 n. 2 (1907-1908) sono lavori giovanili (la numerazione dipende dalla data di pubblicazione), la Sonata n. 2 in fa diesis op. 13 (1912), la Sonata n. 3 in do op. 19 (1920) e la Sonata n. 4 in do-Do op. 27 (1917-1924) presentano caratteri linguistici simili, la Sonata n. 7 in Do op. 82 (1949), la Sonata n. 8 in re op. 83 (1949) e la Sonata n. 9 in Fa op. 84 (1949) appartengono all’ultimissima stagione creativa di Mjaskovskij. Ho detto che le prime tre Sonate sono opere giovanili. Vero e` che Mjaskovskij le compose fra i ventisei e i ventotto anni, e a ventisei anni Chopin o Schumann o Brahms (per non parlare di Pergolesi, che a ventisei anni morı`) erano ben oltre quel che si intende di solito per ‘‘giovanile’’. Ma il caso di Mjaskovskij e` un po’ diverso. Destinato alla carriera di ingegnere militare, egli entro` nel conservatorio di S. Pietroburgo a venticinque anni e termino` gli studi accademici a trenta. Le Sonate composte fra il 1907 e il 1909 sono dunque opera di uno studente che e` ancora alla ricerca di modelli. Nella Sonata n. 1 il modello linguistico, specie nel finale, e` Skrjabin. Non tuttavia lo Skrjabin di quel momento, ma lo Skrjabin di dieci anni prima. Scegliere un modello non significa necessariamente esserne schiavi. E Mjaskovskij ‘‘spara’’ come primo movimento della sua Sonata un qualcosa che fa a pugni con Skrjabin: una fuga, una fuga su un soggetto meditativo e melanconico. La fuga come ultimo movimento di sonata e` rara ma non rarissima. Per trovare una fuga come primo movimento e` inutile frugare nella letteratura pianistica: bisogna andare al Quartetto op. 131 di Beethoven. L’originalita` di questo inizio di Mjaskovskij e` tale che Glenn Gould, tornato dalla sua unica tourne´e concertistica nell’Unione Sovietica, scrisse un saggio in cui parlo` di Mjaskovskij con lucida comprensione: La sua nozione della forma e` profondamente sogget-

tiva e meditativa. Tenuto conto dell’epoca e del contesto, la Prima Sonata di Mjaskovskij, scritta nel 1907, e` un’opera straordinariamente novativa. Il suo primo movimento si distingue per il suo stile fugato – uno stile fugato male infagottato, ma comunque uno stile fugato. [...] Egli e` molto sensibile a cio` che c’e` di misterioso nel fenomeno di una sola voce che si accorda in un’armonia processionale con altre voci in imitazione, ed e` proprio stupefacente trovare cio` in una sonata per pianoforte che procede dalla tradizione virtuosistica del volgere del secolo. Mjaskovskij costruisce ogni movimento di questa sonata sullo stesso materiale fugato, anche se abbandona, dopo il primo movimento, lo stretto stile fugato. In ragione della sua imitazione non casuale di un tardo Beethoven, della fondamentale ricchezza dell’idea esplicata, del soggettivismo che sembra trarre la sua origine diretta da quella lamentosa ricerca di identita` che aveva segnato la generazione di Mussorgski, questa sonata e` probabilmente una delle piu` notevoli della sua epoca. Nella Sonata n. 1 la fuga e` collegata direttamente al secondo movimento, Allegro affettuoso, e il soggetto della fuga diventa il secondo tema dell’Allegro. Il terzo movimento – Largo espressivo-Andante con elevazione – e` in forma di canzone, con la parte centrale che riprende il soggetto della fuga. Un lungo e complesso finale si conclude – c’era da dubitarne? – con un’ultima apparizione del soggetto della fuga, Maestoso e patetico. Come lavoro di scuola non c’e` proprio male e noi possiamo ben capire Glenn Gould, che a vedere una fuga gli si muovevano i precordi. Meno originale la Sonata n. 5, in quattro movimenti, sorprendente solo perche´, iniziando in modo maggiore, termina in modo minore; nel terzo e nel quarto movimento non mancano i fugati... La Sonata n. 6, in tre movimento, e` la piu` melodica, la piu` romantica delle tre, con echi mendelssohniani. Ma la Sonata n. 1 si distanzia nettamente dalle altre e non si capisce bene perche´ Mjaskovskij decidesse di pubblicarle nel 1946. O meglio, lo capiremo forse quando esamineremo le ultime tre Sonate. La Sonata n. 2 piacque molto a Prokof’ev, compagno di studi e intimo amico di Mjaskovskij. E` in un solo movimento, un Allegro affannato con un Lento ma deciso introduttivo, secondo il modello della Sonata n. 4 di Skrjabin. L’Allegro affannato 357

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Nikolaj Jakovlevicˇ Mjaskovskij

diventa poi Allegro con moto e tenebroso, e infine Allegro disperato. Non manca una fuga sul primo tema, e non manca il Dies Irae, Skrjabin prende sottobraccio Rachmaninov, l’armonia diventa intricatissima. Se la Sonata n. 2 piange e si dispera, la Sonata n. 3 non ride affatto. Anch’essa in un solo movimento, composta dopo la Rivoluzione, la Sonata n. 3 nuota nello stesso fiume di lacrime e d’angoscia. Didascalie nettamente scriabiniane – con desiderio, con languidezza, molto desiderato – rinangono come relitti del passato, ma il linguaggio e` completamente personale. Richter la fece conoscere in tutto il mondo. La Sonata n. 4 torna alla articolazione in tre movimenti e tende a superare il pessimismo ipocondriaco delle due che la precedono. Si comincia con un Allegro moderato, irato, ma dopo l’Andante non troppo quasi sarabanda si finisce con l’Allegro con brio in modo maggiore. Lo sviluppo drammaturgico si sposa simbolicamente con la progressiva chiarificazione dell’armonia, cromatica fino al limite dalla atonalita` nel primo movimento, tendente al modalismo nel secondo, chiaramente tonale nel terzo: composizione, potremmo dire gramscianamente, che concilia il pessimismo dell’intelletto e l’ottimismo della volonta`. Nelle ultime tre Sonate c’e` solo piu` l’ottimismo della volonta`, ed e` un ottimismo, secondo me, di convenienza. Sentiamo ancora cosa pensa Glenn Gould: Durante una dozzina d’anni Mjaskovskij continuo` a scrivere una musica di interesse ancora maggiore. In certi momenti le sue preferenze idiomatiche ebbero la tendenza ad assomigliare sorprendentemente a quelle di Charles Ives; vi si trova la stessa volonta` di sperimentazione, la stessa inclinazione per la suntuosita` dei colori e la vivacita` dei contrasti; e vi si trova, in tutta l’ampiezza delle tessiture e dei suoni che emerge da questi intrecci, la stessa disposizione fondamentalmente simpatica e onesta. Tuttavia, in modo ancora piu` acuto che in Sˇostakovicˇ, qualcosa si insinuava tragicamente nella vita creativa di Mjaskovskij. All’epoca della sua morte, nel 1950, egli scriveva musica sotto forma di semplici sonate e sonatine destinate ai bambini che, con la loro maniera laboriosa e apatica, sono la triste testimonianza del modo in cui era avvenuta la sua evoluzione. La data di composizione delle ultime tre Sonate, 1949, e` determinante per capire la svolta di Mjaskovskij. Nel 1948 Mjaskovskij, e con lui vari colleghi fra i quali Prokof’ev e Sˇostakovicˇ, era stato duramente attaccato dall’ideologo Zˇdanov e aveva rischiato di perdere le sue fonti di reddito. La pubblicazione delle due Sonate op. 64, ripescate nel cassetto dopo trentotto anni e non imputabili 358

Sonatina in mi op. 57

di ‘‘formalismo’’, poteva essere stata un tentativo di mettersi al riparo nella imminenza della bufera. Gia` la Sonatina in mi op. 57 (1942) si affidava alla scrittura a due voci e a una armonia lineare, ma cio` poteva essere dovuto all’intento didattico. Le ultime tre Sonate rappresentano invece secondo me la resa incondizionata al diktat di Zˇdanov. Sono semplici, candidamente infantili, talvolta appena appena elegiache, spesso popolareggianti, trasparenti di scrittura, tecnicamente di media difficolta`. L’ultima Sonata termina con un finale toccatistico a modo di tarantella che ci riporta ideologicamente – non linguisticamente – alla musica per dilettanti dell’Ottocento. Non conosco le vicende biografiche di Mjaskovskij. Ma le sue ultime tre Sonate, cosı` linde e spoglie, suscitano in me un grande senso di pena e di compassione per un artista tenuto sotto il tiro di un fucile mentre gli restava un solo anno di vita. Nelle raccolte di pezzi brevi Mjaskovskij riprese piu` volte composizioni che risalivano agli anni del conservatorio. Abbiamo cosı` anacronismi di stile che evidentemente non infastidivano ne´ il compositore ormai affermato, ne´ l’autorevolissimo professore di conservatorio, ma che ci stupiscono non poco. Le Bizzarrie op. 25 (1917-1919), raccolta di sei pezzi, oscillano fra l’innocenza del mondo infantile (n. 1, n. 4), l’angoscia esistenziale (n. 2, n. 3, n. 6) e il sarcasmo (n. 5). Le Reminiscenze op. 29 (1907-1917), sei pezzi caratteristici in cui non mancano la Disperazione (n. 3) e i lugubri Sogni d’inverno (n. 6), riflettono il pessimismo ipocondriaco che e` un tratto basilare della psicologia di Mjaskovskij. Curiosa la didascalia del n. 3, che ricorda l’italiano di Medtner: Largo con afflitto. I sette Fogli ingialliti op. 31 (19061919, revisione 1928) sono stilisticamente i piu` incoerenti. Anche qui predomina la lugubre malinconia, ma non manca in verita` la banale escursione nel folclore russo (n. 7). I Pezzi infantili op. 41 (1907-1917) furono pubblicati nel 1938 in tre quaderni in ordine progressivo di difficolta`. Si puo` dire, guardandoli, che Kabalesvkij, allievo di Mjaskovskij, con i bambini ci sapeva fare meglio del maestro. La Canzone e Rapsodia op. 58 (1942) riparte dall’ottimismo della volonta` che era stato l’esito drammaturgico della Sonata n. 4. Ma sembra evidente che Mjaskovskij si fosse posto gli stessi problemi di ‘‘comunicazione’’ con un pubblico nuovo che si era posti Prokof’ev quando era rientrato nell’Unione Sovietica dopo un lungo periodo trascorso in Occidente. Le Improvvisazioni op. 74 (1906-1917, revisione 1946) e gli Schizzi polifonici op. 78 (1907-1908, revisione 1947) concludono lo strano recupero del lon-

Schizzi polifonici op. 78

tano passato che non saprei a che cosa attribuire se non, in via ipotetica, al tentativo di ‘‘cancellare’’ i trascorsi formalisti del Mjaskovskij trentaquarantenne. Campane op. 74 n. 4 e Penombra op. 74 n. 5 si distinguono secondo me in modo

Nikolaj Jakovlevicˇ Mjaskovskij

particolare. Il tentativo di creare una scuola della fuga, nei sei Schizzi polifonici in ordine crescente di difficolta`, non poteva che essere velleitario, visto che per la didattica della polifonia basta e avanza il vecchio Bach.

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Federico Mompou y Dencause

Schizzi polifonici op. 78

Federico Mompou y Dencause (Barcellona, 16 aprile 1893-ivi, 30 giugno 1987) Il lettore che possiede qualche disco di Arturo Benedetti Michelangeli avra` probabilmente presente la Canzone e danza n. 1 (1921) di Federico Mompou, o la Canzone e danza n. 6 (1942), oppure entrambe, ma non avra` mai avuto occasione di ascoltare musiche di questo compositore da altri pianisti di fama mondiale. Le Canzoni e danze di Mompou sono quattordici in tutto, di cui tredici per pianoforte solo e una per chitarra, ed essendo distribuite su un arco di tempo che va dal 1921 al 1980 sono come un manifesto dell’arte di Mompou. Si tratta di pagine di grande valore poetico ma non pensate per la sala di concerto e che nella sala di concerto non si sono mai ‘‘acclimatate’’, malgrado l’iniziativa di Benedetti Michelangeli. In verita` , neppure le Mazurche di Chopin, e neppure le Sonate di Beethoven erano state pensate per la sala di concerto. Ma nel loro caso era bastato che Liszt le inserisse in programmi ricchi di pezzi spettacolari. Ed era bastato perche´ Liszt ne sviluppava, forzandone un po’ la natura, certe latenti potenzialita` teatrali. Nella musica di Mompou non si trovano potenzialita` teatrali latenti. Le sue emozioni sono sempre intense, la loro rappresentazione e` fatta con mezzi primitivi: composizioni che raramente arrivano e pochissime volte superano i quattro minuti di durata, aggregati sonori elementari, predilezione per il registro centrale dello strumento, tempi prevalentemente moderati o lenti, discorsivita` pacata e allusiva. Primitivismo, dicevo. La canzone e la danza sono i due modi primitivi del far musica: cantare, e cantare ballando. Nei primitivi cio` avviene o senza strumenti, o con strumenti funzionali al canto e alla danza. Il primitivismo di Mompou e`, per cosı` dire, di secondo grado: la sua musica e` solo strumentale, le sue pagine per pianoforte sono raffigurazioni di un modo di esprimersi musicalmente dei primitivi: Mompou inventa e fa diventare storica la vita preistorica. La forza rappresentativa delle Canzoni e danza n. 1 e n. 6 risulta in piena evidenza nelle esecuzioni di Benedetti Michelangeli. Meno evidente risulta invece nelle esecuzioni di altri interpreti, e nelle esecuzioni dello stesso Autore, che ne ha registrato la serie quasi completa (manca soltanto l’ultima). Il fatto e` che Beethoven non sarebbe quale noi lo conosciamo se l’interpretazione delle sue opere non fosse passata dalle mani di un gigante come Liszt a quelle di Hans von Bu¨low e di Anton 360

Rubinsˇtejn, e poi su su fino a Brendel. E cosı` dicasi di Chopin e di Schumann e di tanti altri. I valori profondi della musica hanno bisogno di minatori e di palombari, e una volta estratti devono essere resi fruibili. Benedetti Michelangeli c’era riuscito, con Mompou. Ma solo in due pezzi, anzi, per essere precisi, in tre, perche´ nel suo repertorio, non nella sua discografia, c’era anche la suite Suburbis (Periferia, 1916). Suburbis e` il terzo lavoro pianistico di Mompou. Il secondo e` Pessebres (Presepi, 1914-1917); tre pezzi – rispettivamente Danza gioiosa, L’eremita, Il pastore – legati alle tradizioni popolari natalizie della Catalogna. Le primissime composizioni di Mompou sono quelle raccolte in Impressioni intime (1911-1914, revisione 1959), nove pezzi scritti in parte prima ancora di ricevere lezioni di composizione. ‘‘Ho soltanto voluto esprimere delle impressioni intime nella maniera la piu` semplice possibile’’, dice Mompou, che con questa dichiarazione spiega in realta` la sua poetica, gia` evidente nel suo primo lavoro, anche se non sappiamo quanto la revisione del 1959 abbia modificato la scrittura di piu` di quarant’anni prima. I cinque pezzi di Suburbis, rispetto a cio` che seguira`, sono piu` tradizionalmente pianistici, ma in fondo non perdono la natura di schizzi sul taccuino di un pittore che ha fatto una passeggiata in un quartiere periferico di Barcellona e che non ha poi sviluppato in quadri cio` che aveva annotato. Il primo pezzo – La strada, il chitarrista e il vecchio cavallo – e` sorprendentemente evocativo di una grigia atmosfera di periferia, ed e` descrittivo dei contenuti del titolo, ma le note sono talmente poche che, per cosı` dire, non c’e` modo di mettere bene a fuoco gli eventi. Molti Preludi di Debussy non hanno una durata maggiore, ma il rapporto fra lo spazio temporale, il numero degli eventi e la densita` della scrittura e` del tutto diverso, mentre qui il quadro, come dicevo, e` primitivistico. In realta` , solo una esecuzione in cui ogni suono illumini come in un lampo un particolare, o solo un’esecuzione ripetuta piu` volte possono rendere chiaro per l’ascoltatore il significato della pagina. Quindi, o Benedetti Michelangeli, o un modo di ascolto che non e` quello della sala di concerto e che non e` usuale – sebbene sia possibile, ma nessuno ci pensa – con il disco. Il secondo e il terzo pezzo – Gitane I, Gita-

Musica callada

ne II – raffigurano vividamente due zingarelle, una che piagnucola chiedendo l’elemosina ‘‘senza speranza’’, l’altra che canta e danza con ‘‘furore’’ e con ‘‘cattivo umore’’. Due zingarelle sı` ma, dice l’Autore, ‘‘sottili e svelte come palme, ben diverse dalle volgari zingare ungheresi che battono le strade’’. La Piccola cieca e` il titolo del terzo pezzo. La bambina si muove incerta, ‘‘penosamente’’, il tema e le preziose armonie destano nell’ascoltatore un sentimento di pieta` profonda. Chiude la suite L’uomo dell’aristo´ , il suonatore ambulante con l’organetto meccanico, il vecchio ‘‘garibaldino’’ che girando pigramente la manovella offre ai passanti un’aria ‘‘burlesca’’ e un tema di habanera ‘‘gemente e stonato’’. E sembra che nessuno gli dia retta. Nei tredici minuti di Suburbis, nel ragazzo di ventitre anni gia` troviamo un poeta che sa racchiudere in pochi versi impressioni di vita folgoranti ma che non diventera` mai drammaturgo, troviamo il pittore che lavora di penna e di colore sul taccuino senza passare mai non solo all’affresco ma neppure al quadro da cavalletto. I due pezzi delle Scene di bambini (1915 e 1918), i Canti magici (1917-1919), le Feste lontane (1920), i Charmes (Incantesimi, 1920-1921) proseguono su questa linea e portano alla prima Canzone e danza del 1921, con la quale la poetica di Mompou raggiunge la pienezza della maturita`. Nella Canzone e danza n. 1 si nota una certa aura che ricorda Satie, ma gli elementi stilistici riferibili a Satie, che spariranno ben presto, sono soltanto, secondo me, la spia di una somiglianza delle rispettive poetiche, sebbene a Mompou sia del tutto estraneo lo spirito corrosivo di Satie (aggiungo che l’unico riferimento a un grande compositore, oltre a questo, lo si trova nei due Dialoghi del 1923, nei quali compare l’ombra di Skrjabin). Charmes evoca non la vita primitiva ma la religiosita` primitiva. Ispirandosi idealmente alle Sei Epigrafi antiche di Debussy, Mompou intitola i suoi pezzi Per alleviare le sofferenze, Per penetrare le anime, Per ispirare l’amore, Per le guarigioni, Per evocare l’immagine del passato, Per chiamare la gioia. Il termine charme, dal latino carmen, viene impiegato da Mompou nel senso originario di ‘‘formula magica’’. La raccolta, pubblicata nel 1925 a Parigi, segnalo` il nome di Mompou al pubblico internazionale e fu accolta con molto favore. Ma venne presa come opera di esordio di un artista in via di sviluppo, mentre era la manifestazione di un talento che aveva gia` raggiunto la piena esplicazione di se´ e che sarebbe rimasto uguale a se stesso, poeta del frammento, pittore dello schizzo. L’unico ampio lavoro pianistico di Mompou, e secondo me non il suo migliore, sono le Variazioni

Federico Mompou y Dencause

su un tema di Chopin (1957). Il tema e` – ovviamente – il piu` breve che si poteva reperire nell’opera di Chopin, il Preludio in La op. 28 n. 7, di sedici battute. L’Autore lo esegue molto lentamente (cinquanta secondi rispetto ai trentacinque-quaranta della maggior parte degli interpreti) e con una bassissima tensione ritmica. Tema, undici Variazioni, Galop ed Epilogo. Quattro Variazioni erano state composte nel 1938 in vista di un progettato lavoro per violoncello e pianoforte, ma la distanza di quasi vent’anni e la diversa destinazione strumentale che separano la prima ideazione e la creazione vera e propria, dato l’immobilismo della poetica di Mompou, non influiscono sulla coerenza e sulla compattezza delle Variazioni su un tema di Chopin. Il rapporto che si crea fra Chopin e Mompou e` molto singolare: c’e` un Mompou (Variazioni n. 1, n. 2, n. 5, n. 7, n. 8, n. 9, n. 10, quest’ultima intitolata Evocazione, con citazione del secondo tema della Fantasia-Improvviso op. 66) che si traveste da Chopin, c’e` un Mompou (Variazione n. 3) che mette Chopin sotto il prisma di Skrjabin, c’e` un Mompou (Variazioni n. 4, n. 6, n. 11) che... fagocita Chopin, c’e` un Galop che non e` ne´ Chopin ne´ Mompou ma un po’ di Rachmaninov, e c’e` un Epilogo in cui Chopin e Mompou si allontanano tenendosi per mano. Le Variazioni su un tema di Chopin sono, come dicevo, l’eccezione, e l’eccezione conferma la regola. La regola regge la raccolta di pezzi in cui la poetica di Mompou raggiunge lo stadio della rarefazione, la Musica callada (Musica della solitudine, 1959-1967). Musica della solitudine e` un modo di rendere in un’altra lingua un termine in realta` intraducibile. Il mistico San Juan de la Cruz aveva scritto in una poesia ‘‘la musica callada, la soledad sonora’’. Musica del silenzio, musica della solitudine, musica, dice cripticamente Mompou, ‘‘che tace mentre la solitudine si fa musica’’, musica, per il mistico, del colloquio dell’anima con Dio, musica, per Mompou, del colloquio con se stesso, un triste, desolato colloquio con se stesso in ventotto pezzi brevi distribuiti in quattro quaderni. Si comincia con un Angelico, si prosegue con Lento, Placido, Afflitto e penoso, e si arriva fino a Lento, Lento molto, Lento. Un solo Allegretto, un solo Luminoso, una musica talmente intima e... solitaria che Mompou aveva l’intenzione di non pubblicarla. Due balletti composti quando Mompou aveva superato i sessant’anni, un oratorio composto a settantun’anni e una cantata a settantasette non hanno spostato realmente la collocazione storica dell’artista, che resta legata alla sua produzione pianistica, rimasta fino a ora ai margini e della vita concertistica e della discografia ma, come il lettore avra` capito, ricca di contenuti poeticamente espressi. 361

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Ignaz Moscheles

Musica callada

Ignaz Moscheles (Praga, 23 maggio 1794-Lipsia, 10 marzo 1870) Gli allievi di pianoforte a cui insegnanti saggiamente conservatori mettono in mano alcuni degli Studi op. 70, e i discofili piu` accaniti che non si lasciano sfuggire le stuzzicanti rarita` conoscono ancora il nome di Ignaz Moscheles, che fu pianista, compositore, didatta, direttore d’orchestra. Moscheles studio` prima a Praga e poi a Vienna, dove conobbe Beethoven e dove preparo`, per incarico di Beethoven, la riduzione per canto e pianoforte del Fidelio. Nel 1815, durante il Congresso che doveva ridisegnare la carta politica dell’Europa, Hummel ottenne un fantastico successo con i concerti in abbonamento che dal costo del biglietto d’ingresso vennero detti Concerti da un Ducato, e Moscheles ottenne un successo altrettanto fantastico presentando a scopo benefico la sera del Mercoledı` delle Ceneri, a teatri d’opera chiusi perche´ in un paese cattolico il periodo della Quaresima imponeva il sacrificio dei minuti piaceri, le Variazioni sulla Marcia d’Alessandro per pianoforte e orchestra. Alessandro era lo zar russo, titolare di un reggimento austriaco che, come tutti i reggimenti, aveva la sua marcia e la sua banda che suonava all’aperto per la gioia dei viennesi. Scegliendo quella popolarissima Marcia legata alla piu` popolare fra le teste coronate. Moscheles dimostrava di avere un invidiabile fiuto. Il pubblico internazionale che era confluito a Vienna accorse in massa al suo concerto – ‘‘tutti i Principi Alleati erano presenti’’, scrisse Moscheles nel suo diario – e il successo supero` ogni aspettativa. Cosı` ebbe inizio la carriera concertistica che Moscheles sviluppo` nella Mitteleuropa, in Belgio, in Olanda, a Parigi e in Inghilterra. Carriera intensa e breve perche´ dal 1826, avendo preso dimora a Londra, avendo cominciato a insegnare nella Royal Academy of Music ed essendo diventato nel 1832 vice direttore della Royal Philharmonic Society, Moscheles limito` di molto i suoi ritorni nel continente. Dal 1836 tenne a Londra i Classical Chamber Concerts con i quali avvio` la rivoluzione culturale che sarebbe sfociata nel recital di Liszt. Moscheles eseguiva in questi concerti musiche contemporanee, specie di Beethoven e di Weber, ma anche molte musiche ‘‘antiche’’ di Bach, Ha¨ndel, Domenico Scarlatti e altri, impiegando per di piu`, di tanto in tanto, il clavicembalo. Il culto per gli autori del passato non impediva a Moscheles di ammirare Schumann 362

e Chopin, ne´ di essere molto amico di Mendelssohn, ne´ di approvare l’esecuzione ‘‘ricreatrice’’ che Liszt dava dei suoi Studi op. 95, ne´ di studiare i lavori di Thalberg, ne´ di interessarsi, nell’anno della morte, persino ai Maestri cantori di Norimberga di Wagner e di studiarne la partitura. Egli era pero`, fondamentalmente, un classicista, e i suoi interessi culturali e le sue aperture intellettuali non modificarono la sua creativita` in armonia con i tempi nuovi. Quando torno` a suonare al Gewandhaus di Lipsia nel 1835 Schumann scrisse: ‘‘Moscheles ha imboccato una strada che necessariamente influisce sul suo virtuosismo. Cosı` come sprizzava gioventu` nel Concerto in Mi bemolle, nella Sonata in Mi bemolle, come esprimeva profondita` di pensiero e artistica nel Concerto in sol e nei Nuovi Studi, cosı` ora egli percorre strade ben piu` oscure e misteriose, senza preoccuparsi se cio` possa piacere alle masse come finora e` sempre successo. Gia` il Quinto Concerto (in Do) inclinava talvolta al romanticismo; i piu` recenti dimostrano che cio` che finora appariva oscillante fra il vecchio e il nuovo si e` ormai del tutto maturato e consolidato. La vena romantica che qui si svolge non e` pero`, come in Berlioz, Chopin e altri, molto avanti rispetto al livello medio del presente, ma e` piuttosto rivolta verso il passato: e` un romanticismo dell’antichita`, come quello che ci guarda intensamente dai templi gotici che sono le creazioni di Bach, Ha¨ndel, Gluck’’. Romanticismo dell’antichita`, cioe` romanticismo come atteggiamento dello spirito, non come epoca storica. Schumann aveva perfettamente ragione, ma lo stile di Moscheles stava diventando obsoleto. Nel 1840 egli si ritiro` dall’attivita` concertistica, nel 1846 venne chiamato da Mendelssohn ad occupare una cattedra di pianoforte nel neonato conservatorio di Lipsia, e da quel momento fino alla morte fu uno degli insegnanti piu` reputati d’Europa. Come protagonista nella storia della cultura Moscheles si era conquistato sul campo altissimi meriti. Come creatore aveva fatto in tempo a veder tramontare del tutto la sua stella. E in vecchiaia scrisse nel suo diario di aver sperato che almeno il suo Concerto in sol sarebbe rimasto in repertorio. Il che non era avvenuto. Ma potrebbe avvenire se le maglie della nostra cultura continuassero ad aprirsi come era accaduto nella prima meta` del Novecento, mentre si

Fantasia su temi del Nabucco

sono richiuse – in campo concertistico, non in campo discografico – nella seconda meta` del secolo trascorso. Le Variazioni sulla Marcia d’Alessandro op. 32 sono il prototipo di un genere che incontro` una fortuna smisurata nel corso di un quindicennio circa e che contribuı` in maniera determinante a mettere il pianoforte in competizione con il violino per la conquista del primo posto nella vita concertistica del romanticismo. L’estetica delle Variazioni e` circense (lo dico in senso positivo, il circo e` per me una nobilissima forma di spettacolo): ogni variazione e` come uno studio che sviluppa un problema tecnico al limite dell’acrobatico, ed e` seguita da un intervento della sola orchestra che permette al solista di prepararsi, muscolarmente, per la prossima prodezza. La discografia non si e` ancora occupata di queste Variazioni, ma chi vuole farsene un’idea non ha che da ascoltare le Variazioni op. 2 di Chopin, il quale aveva tenuto ben presente il modello. Il Concerto n. 1 in Fa op. 45 (1818, 1818), composto poco dopo le Variazioni e`, inaspettatamente, classicheggiante, tanto che fu pubblicato con il titolo Concerto di Societa`. Mozartiano di tecnica, ma biedermeier di spirito, al punto da giustificare pienamente una spiritosa boutade, secondo la quale in esso ‘‘Haydn incontra Rossini’’. Il Concerto n. 2 in Mi bemolle op. 56 (pubblicato nel 1825, composto prima) e` un esempio del biedermeier che entra in gara con il virtuosismo dei cantanti d’opera e dei ballerini. Moscheles sfrutta tutti gli stereotipi – la scale, gli arpeggi, le doppie note, i trilli, nelle combinazioni piu` complesse e piu` acrobatiche – che erano stati catalogati nei metodi. Il terzo movimento del Concerto, Allegretto. Tempo di Polacca, fu uno dei pezzi maggiormente ammirati in quell’epoca e si stacca effettivamente dalla routine della orchestrazione biedermeier perche´ impiega in funzione di co-solisti i timpani. Il Concerto n. 3 in sol op. 58 (1820) fu eseguito da Liszt e persino da Chopin ragazzo, oltre che da innumerevoli altri pianisti. Come abbiamo visto piu` sopra, Schumann lo giudicava in modo molto positivo. La tensione virtuosistica e` altissima, il finale a modo di quasi-tarantella e` travolgente, e il secondo movimento contiene un drammatico recitativo che sicuramente venne ricordato da Chopin quando compose il secondo movimento del Concerto op. 21. Fra gli altri Concerti – sono otto in tutto – e` da ricordare il Concerto ‘‘Fantastico’’ n. 6 in Si bemolle op. 80 (1834, 1834), in quattro movimenti collegati e molto breve (diciassette minuti) rispetto alla nor-

Ignaz Moscheles

ma. Il Sesto Concerto anticipa di vent’anni l’impostazione formale del Concerto n. 1 di Liszt ed e` la dimostrazione dell’intelligenza di Moscheles, intelligenza non equilibrata da una capacita` creativa altrettanto forte e originale. La Sonata in Mi bemolle op. 47 per pianoforte a quattro mani (1816), fu dedicata all’arciduca Rodolfo che la suono` a prima vista insieme all’Autore. La Sonata fu eseguita in pubblico da Chopin in duo con Liszt, e nella reggia di Luigi Filippo da Chopin e Moscheles. Si tratta di una composizione scorrevole, di contenuti leggeri ma di gusto squisito, un tipico prodotto da salotto di cui si potrebbe dire che in esso Haydn incontra Schubert, se Schubert non avesse avuto all’epoca solo diciannove anni. La Grande Sonata sinfonica in si op. 112 per pianoforte a quattro mani (1845) e` molto piu` ambiziosa, in pratica una sinfonia per pianoforte. I movimenti sono Allegro agitato preceduto da Andante patetico introduttivo, Andante espressivo, Scherzoso alla tedesca antica e Allegro con brio preceduto da Andante patetico. L’Omaggio a Ha¨ndel op. 92 per due pianoforti (1822, 1833), che cerca di ricreare il senso della grandiosita` barocca degli oratori di Ha¨ ndel, molto popolari in Inghilterra, incontro` l’entusiastica approvazione non solo del pubblico inglese ma anche del pubblico tedesco. Tra le quattro Sonate per pianoforte solo e` notevole la Sonata melanconica in fa diesis op. 49 (1814) in un solo, ampio movimento ben bilanciato tra momenti espressivi e momenti moderatamente virtuosistici: il mondo delle Sonate di Schubert e` gia` delineato in questo lavoro di un compositore di vent’anni che con le Variazioni sulla Marcia d’Alessandro del 1815 avrebbe imboccato un’altra strada. La Sonata caratteristica in Si bemolle op. 27 (1814) fu composta per celebrare il ritorno a Vienna dell’imperatore d’Austria. Il primo movimento dipinge la gioia dei viennesi all’annuncio dell’arrivo del loro sovrano, il secondo movimento e` basato sulla canzone popolare ‘‘Rallegratevi della vita’’ e il terzo – poteva essere diversamente, in una Vienna festante? – e` un valzer. I ventiquattro Studi op. 70 (1825-1826) fanno ancora parte del repertorio didattico ma alcuni di esssi – in la minore, in re minore, in mi bemolle maggiore, in si bemolle minore – potrebbero reggere l’esecuzione in concerto. Non e` infine da trascurare l’apporto di Moscheles alla storia della fantasia drammatica, specialmente per la Fantasia brillante su temi favoriti dell’opera Don Pasquale op. 109a (1845 ca.) e per la Fantasia su temi del Nabucco (1845 ca).

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Moritz Moszkowski

Dodici Studi per la mano sinistra sola op. 92

Moritz Moszkowski (Breslavia, 23 agosto 1854-Parigi, 4 marzo 1925) Non c’era prima della guerra mondiale 1914-1918, non c’era a quel tempo, dicevo, dilettante di pianoforte a cui non fossero familiari le Danze spagnole a quattro mani op. 12 (1878 ca.) di Moszkowski, e non c’era ospite di Spa o di Carlsbad che non le avesse ascoltate dalla orchestrina che degli sfaccendati ospiti allietava le soste fra l’una e l’altra bevuta delle salutari acque termali. Non c’era allora frequentatore delle sale di concerto che non si deliziasse con le schitarrate del Capriccio spagnolo op. 37 (1885 ca.), eseguito dal grande Josef Hofmann o dal giovane Wilhelm Backhaus con lo sfoggio delle crepitanti note ribattute che riescono tanto facili sugli strumenti a plettro e che per nove pianisti su dieci sono una mezza tortura. Non c’era violinista che non tenesse pronto come bis Guitarre op. 45 n. 2 (Chitarra, 1890 ca.) nella trascrizione di Sarasate. Non c’e` oggi possessore di una pur modesta discoteca che non ricordi E´tincelles op. 36 n. 6 (Scintille, 1885 ca.) o lo Studio op. 72 n. 6 (1903) ricreati dalle dita fatate di Horowitz, di cui abbiamo in disco, rispettivamente, ben otto e cinque esecuzioni. E se la discoteca e` appena un pochino piu` che modesta vi si trova anche La Jongleuse op. 52 n. 4 (La Giocoliera, 1893 ca.) eseguita da Sergej Rachmaninov. Tutti questi pezzi meritarono la loro fama ed entrarono nel repertorio di pianisti che sapevano affrontare i maggiori capolavori della letteratura perche´ qualche virtu` preclara la possedevano: se non la virtu` del docere, per lo meno la virtu` del movere, e soprattutto quella del delectare. Il Capriccio spagnolo eseguito da Hofmann o da Backhaus, di cui abbiamo in disco le registrazioni, non e` affatto un plateale e vuoto sfoggio di virtuosismi (e il pezzo non e` del resto nemmeno – note ribattute a parte – tanto difficile tecnicamente). Si tratta invece dell’equivalente musicale, vividamente colorito e delineato con pochi tratti essenziali, di una stampa raffigurante un tablao animato da chitarristi, cantanti, danzatrici, una pittura d’ambiente che sollecita la fantasia verso una visione esotica, affascinante e sensuale. Nelle Danze spagnole op. 12, nelle Nuove Danze spagnole op. 65 (1900 ca.), nelle Danze Popolari polacche op. 55 (1895 ca.), in Dal Mondo intero op. 23 (1880 ca.), nelle Danze in tondo tedesche op. 25 (1880 ca.), e beninteso nel Capriccio spagnolo, Moszkowski si compor364

ta come un pittore reporter che fa conoscere al pubblico borghese centroeuropeo spezzoni di vita popolare di vari paesi e del suo stesso paese, con una... evidente predilezione e specializzazione per la Spagna. Non solo le Danze spagnole op. 12 furono le sue cose piu` celebri e ammirate, ma in Dal mondo intero c’e` un netto salto di spontaneita` e di felicita` della invenzione fra Russia, Germania, Polonia, Italia (tarantella, ovviamente) e Ungheria da una parte, e Spagna dall’altra. Dell’unica opera lirica di Moszkowski, Boabdil, ispirata al re moro che consegno` Granata a Isabella di Castiglia e a Ferdinando d’Aragona, sopravvisse soltanto la Malaguen˜a. Pittore, dicevo, non fotografo, perche´ Moszkowski non impiega temi autenticamente popolari ma il popolare lo inventa lui, interpretandolo e dandogli la sua impronta. Moszkowski non deve uscire da questo ambito di illustratore di gran classe, e di solito non ne esce. Non ne esce, prudentemente, nemmeno nelle Danze popolari polacche, due Mazurche e due Polacche, dove, facendo musica per la sua terra natale, scavalca all’indietro il temibile Chopin per legarsi a un piu` pacioso Oginski rivisitato. Quando ne esce – nel primo movimento del Concerto in op. 59 in Mi (1898) – perde subito il suo charme e la sua eleganza. Che riacquista pero` nel finale del Concerto dove, seguendo l’esempio illustre di Saint-Sae¨ns, si tuffa con decisione nell’operetta. Che e` il suo mondo e che e` il suo reame. Come i re di qualcosa che erano anche principi di qualcos’altro, Moszkowski e` un principe negli studi. La sua Scuola delle doppie note op. 64 (1901) si conclude con quattro Studi di ottima qualita` musicale e didatticamente utili. Qualita` e utilita` si sommano anche nei Quindici Studi di virtuosismo op. 72 (1903) e nei Dodici Studi per la mano sinistra sola op. 92 (1915). Utili, gli Studi di Moszkowski, dimostrativi, malgrado il suo forte penchant per l’agilita` ornamentale, della sua capacita` di individuare vari problemi tecnici del pianoforte e di farli esercitare senza aridita`. Utili, dunque, sı`. Non indispensabili. La letteratura degli studi pianistici e` talmente folta ed esaustiva da ricacciare in secondo piano Moszkowski, la cui tecnica non procede oltre Czerny. D’altra parte, la seriosita` dei programmi di recital, che si e` diffusa sempre piu` dopo il tramonto della belle e´poque, ha mandato in cantina i pezzi di ca-

Barcarola

rattere di Moszkowski. Polacco educato a Berlino, Moszkowski fu pero` una personificazione della belle e´poque parigina, e a Parigi visse dal 1897, continuando tuttavia a fidarsi della proverbiale solidita` germanica al punto da investire tutti i suoi averi in titoli di stato tedeschi. Titoli di stato tedeschi: dopo la guerra, carta straccia. Moszkowski, malato di cancro, si trovo` nella piu` nera indigenza e la sua drammatica situazione esistenziale diede lo spunto a una delle piu` singolari iniziative concertistiche che si siano mai viste: quattordici fra i maggiori pianisti del momento tennero nella Carnegie Hall di New York nel 1921, e a Filadelfia nel 1922, uno spettacolare recital collettivo, dividendosi fra l’altro il Carnaval di Schumann. Furo-

Moritz Moszkowski

no raccolti cosı` i diecimila dollari che resero meno angoscianti gli ultimi anni dell’esistenza di Moszkowski. Tutti i quattordici pianisti, tutti sulla cresta dell’onda, avevano in repertorio musiche di Moszkowski, ma tutti erano nati nell’Ottocento. I pianisti nati nel Novecento, eccettuato Horowitz, misero i pezzi caratteristici di Moszkowski, come dicevo, in cantina. Il che non significa che, se ne uscissero, non avrebbero dei nuovi aficionados. Come ne avrebbero le sue trascrizioni, fatte con la scienza del grande strumentatore, della Chanson bohe`me (Canzone boema) della Carmen di Bizet, del Venusberg (Monte di Venere) del Tannha¨user di Wagner e della Barcarola dei Racconti di Hoffmann di Offenbach.

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Wolfgang Amadeus Mozart

Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756-Vienna, 5 dicembre 1791) Mozart nacque piu` di cinquant’anni dopo che era stato inventato il pianoforte e piu` di trent’anni da quando il pianoforte era stato introdotto nei paesi di lingua tedesca. Si puo` dunque dire che quando Mozart venne al mondo il pianoforte non era piu` uno strumento sperimentale, tanto che nel 1753 Carl Philipp Emanuel Bach lo aveva preso in considerazione nel suo grande trattato per le tastiere. Lo aveva preso in considerazione, ma posponendolo in realta` sia al clavicembalo che al clavicordo, del resto prediletto da lui anche rispetto al clavicembalo. Conosciuto, dunque, ma non amato da un compositore fra i piu` eminenti del suo tempo, e ancora ben lontano dal poter competere con il clavicembalo e, in certe aree culturali, con il clavicordo, il pianoforte dovette aspettare gli anni sessanta per essere messo veramente all’onor del mondo, e gli anni settanta per cominciare a sostituirsi, in certe circostanze, al clavicembalo. Johann Andreas Schachter, trombettista di corte di Salisburgo e amico di famiglia dei Mozart, racconta che Wolfgang comincio` a scrivere, bimbetto com’era, un Concerto per clavicembalo. Quando a sei anni e mezzo suono` alla corte dell’imperatrice Maria Teresa, Mozart eseguı` a prima vista un Concerto per clavicembalo di Wagenseil, con il compositore che gli voltava le pagine. Alla fine del Novecento Eva Badura-Skoda scovo` una notizia che dimostrava come il pianoforte fosse conosciuto a Vienna fin dal 1763. Il dato cronachistico non e` privo di interesse perche´ non si puo` escludere che alla corte viennese gia` si parlasse nell’autunno del 1762 del nuovo strumento che nel 1763 sarebbe stato utilizzato in un concerto pubblico. Il Robbins Landon ha tuttavia ragione di concludere a questo proposito dicendo che ‘‘si puo` affermare con una certa sicurezza che prima del 1765 circa o del 1770 nell’impero austroungarico il pianoforte fosse pressoche´ sconosciuto’’. Se anche non ebbe l’opportunita` di conoscere il pianoforte a Vienna, Mozart ebbe pero` certamente occasione di vederne piu` esemplari a Parigi nel 1763-64 e a Londra nel 1764-65: nel 1764 venivano pubblicate a Parigi le Sonate op. 2 di Eckard ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’ e nel 1766 sarebbero state pubblicate a Londra le 12 Sonate di John Burton ‘‘per clavicembalo, o organo, o pianoforte’’. E siccome e` evidente che la pubblicazione di musiche segue, e 366

non precede la fortuna di uno strumento presso l’utente, e` altrettanto evidente che Mozart non pote´ non trovare i pianoforti negli ambienti musicali di Parigi e di Londra che frequento` intensamente. Cio` non significa tuttavia che Mozart, destinato a diventare uno dei primi e maggiori pianisti della storia, al pianoforte si volgesse subito. Anzi, la sua ‘‘conversione’’ al pianoforte fu tardiva, e non venne di certo favorita dai tre viaggi in Italia, paese in cui lo strumento creato da Bartolomeo Cristofori era stato ben presto dimenticato. Dice ancora Robbins Landon: ‘‘La prima prova del fatto che Wolfgang comincio` a guardare il pianoforte con occhi nuovi risale al suo sfortunato viaggio in Germani e a Parigi nel 1777’’. A questo punto e` giocoforza rileggere un frammento di una celebre lettera che Mozart scrisse al padre, il 17 ottobre 1777, dopo aver visitato ad Augusta l’atelier di Johann Andreas Stein, geniale cembalaro che si era specializzato nella costruzione dello strumento a corde percosse. Ma dalla lettera si ricava anche la notizia che, prima di andare ad Augusta, Mozart aveva conosciuto il Tangentenflu¨gel di Franz Jakob Spa¨th, costruttore di Ratisbona che aveva inventato uno strumento intermedio fra il clavicordo e il pianoforte, uno strumento che nella seconda meta` del Settecento godette di una certa fortuna in un’area geografica limitata. Ecco il frammento della lettera di Mozart che ci interessa particolarmente: Devo ora parlarvi dei pianoforti di Stein. Prima di aver visto gli strumenti costruiti da quest’ultimo i miei preferiti erano gli strumenti di Spa¨th, ma ora devo dare il vantaggio a quelli di Stein perche´ smorzano molto meglio di quelli di Ratisbona. Se tocco la nota con forza posso lasciare il dito sul tasto o toglierlo, e il suono si spegne nel momento stesso in cui lo lascio. Posso toccare la nota come voglio, il suono sara` sempre regolare. Non tintinna, non e` ne´ troppo forte ne´ troppo debole, ed esce sempre; in una parola, e` sempre regolare. [...] I suoi strumenti differiscono da tutti gli altri nel senso che hanno lo scappamento. Non c’e` che un costruttore su cento che si occupi di questo problema. Ma senza scappamento i pianoforti hanno un suono distorto e sfrigolante. I martelletti dei suoi pianoforti ricadono immediatamente dopo aver percosso le corde, quando

Wolfgang Amadeus Mozart

si sono toccati i tasti, sia che li si tengano, sia che li si lascino. Mozart cita anche, lodandolo, il ‘‘meccanismo su cui si agisce con il ginocchio’’, cioe` il sollevamento completo degli smorzatori, comandato allora a ginocchiera e piu` tardi a pedale: ‘‘Basta toccarlo che funziona; e non appena sposti di pochissimo il ginocchio, gia` non si sente piu` la minima risonanza’’. In quel momento nasceva ufficialmente il pianista Mozart. Ma gia` a Salisburgo e a Monaco, mentre componeva le Sonate K 279-284, Mozart aveva cominciato a pensare da pianista, sebbene non disponesse dello strumento: il passaggio dal clavicembalo al pianoforte era stato mediato dal Tangentenflu¨gel, e scrivendo al padre Mozart poteva dire che ‘‘l’ultima Sonata in re maggiore [K 284] suona incomparabilmente bene sul pianoforte’’. Sul pianoforte Mozart eseguı` ad Augusta i Concerti K 238, 246, 271 e, con lo stesso Stein e con J.M. Demmler, il Concerto per tre pianoforti K 242. Ora, il Concerto K 238 era stato composto a Salisburgo nel gennaio del 1776, il K 242 nel successivo febbraio, il K 246 in aprile e il K 271 nel gennaio del 1777. Tutti questi Concerti erano evidentemente adatti al pianoforte Stein. Ma quando aveva veramente iniziato, Mozart, a pensare in termini pianistici? Le uniche indicazioni relativamente sicure per ipotizzare la destinazione al pianoforte invece che al clavicembalo sono quelle riguardanti la dinamica. E le indicazioni di dinamica cominciano ad apparire dal finale del Concerto K 238. Ma troviamo una ricca serie di segni dinamici gia` nelle Variazioni su ‘‘Mio caro Adone’’ K 180, composte nell’agosto del 1773 a Vienna, e li ritroviamo in altre pagine per pianoforte solo, fino a che constatiamo, nella Sonata K 284 composta a Monaco, un sistema integrato di altezze e di dinamica. Possiamo dunque prospettare la seguente ipotesi: Mozart conosce il pianoforte a Parigi e a Londra fra il 1763 e il 1765, non ha occasioni di suonarlo fra il 1767 e il 1773, periodo dei viaggi in Italia, e periodo del resto in cui quasi non scrive per tastiera. Ritornato a Vienna nel 1773 scopre che nella capitale il pianoforte comincia a essere uno strumento alla moda e ne tiene conto. Ritornato a Salisburgo compone delle Variazioni senza pensare specificatamente al pianoforte ma applicandosi su una ricerca virtuosistica molto spinta, piu` tastieristica in genere che clavicembalistica o pianistica in specie. A Monaco, nel 1775, ritrova il pianoforte e riprende interesse verso l’esplorazione delle possibilita` dello strumento. Il ritorno a Salisburgo provoca un arretramento della ricerca, che tuttavia riprende con forza nell’ultimo brano composto a casa

prima della partenza, cioe` il Concerto K 271. Ad Augusta, nell’autunno del 1777, Mozart scopre un pianoforte che lo soddisfa interamente, e da quel momento in poi non cessera` piu` di pensare la musica per tastiera in termini pianistici. Gli effetti di dinamica, tipici del pianoforte, possono essere concepiti in due modi differenziati: come spazializzazione o come declamazione. L’uso del piano e del forte nel finale del Concerto K 271 non crea semplicemente effetti di eco o di doppia eco, cioe` di spazio unidirezionale, ma da` la netta sensazione di distanze e direzioni diverse, come di segnali che si rincorrono dalle torri di una cerchia di mura. Quando la dinamica mima la collocazione della musica nello spazio il crescendo diventa un effetto di avvicinamento e il diminuendo di allontanamento. Il crescendo e il diminuendo sono in verita` rari nel primo Mozart che pensa per pianoforte. Barto´k aggiunge pero` segni di crescendo e di diminuendo nella Sonata K 284 nel cui testo originale, dicevo prima, si trovano il piano e il forte in modo frequente e integrato rispetto al tessuto musicale. L’effetto che si ottiene assolutizzando i segni di Mozart e` di collocazione nello spazio degli eventi sonori. Se si aggiungono i segni di Barto´k l’effetto e` anche di movimento nello spazio. Non vorrei tentare paragoni che, essendo anacronistici, potrebbero sembrare forzati o eccessivi, ma per suggerire l’idea direi che si tratta del passaggio dalla fotografia alla cinematografia. In termini settecenteschi si potrebbe dire che si tratta del passaggio dal gioco delle silhouette al gioco delle ombre cinesi. In termini di spettacolo possiamo dire che la collocazione nello spazio rimanda alla cerimonia religiosa e che il movimento nello spazio rimanda al teatro. Secondo me Mozart scoprı` nel pianoforte lo strumento con cui poteva ottenere l’illusionismo sia della lanterna magica – collocazione nello spazio – che del teatro d’ombre – movimento nello spazio. Personalmente penso pero` che a sollecitare la sua fantasia fossero soprattutto gli effetti del teatro d’ombre, teatro artificiale in miniatura molto diffuso nei paesi tedeschi (ricordo solo per inciso quale importanza ebbe per i letterati, da Goethe a Mo¨rike, il teatro d’ombre). Un tempo, in verita` , si pensava che la revisione di Barto´k appartenesse ancora alla tradizione del ‘‘romantico’’ stravolgimento del testo. Oggi si e` giunti alla ipotesi che egli si collocasse piuttosto alla conclusione di una lunga tradizione sette-ottocentesca che aveva esplicitato cio` che nel testo mozartiano era implicito. E sebbene non si possa affermare che questa tesi sia certa sembra tuttavia molto probabile. La dinamica puo` essere concepita pero` anche per 367

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Concerto K 37

mimare la declamazione. Se prendiamo il secondo movimento della Sonata K 280 notiamo subito le anomalie della forma, con le dimensioni del secondo tema di abnorme ampiezza rispetto a quelle del primo tema e della coda. La ragione delle anomalie risiede secondo me nel fatto che Mozart intende inquadrare entro l’architettura della forma-sonata due ariosi vocalistici, con preludio, intermezzi e postludio strumentali. Gli ariosi sono tali, dal punto di vista del compositore, perche´ ci sono poche note inframmezzate da pause-sospiri e perche´ la dinamica e` piu` volte variata. La realizzazione iperespressiva richiesta dal testo, dal punto di vista dell’esecutore, puo` nascere o dalla aggiunta di ornamentazioni o dall’uso di una dinamica molto sfaccettata che renda parlante il discorso. Nel primo caso siamo ancora nell’ambito della estetica clavicembalistico-barocca, nel secondo siamo nel campo dell’estetica empfindsam, preromantica. Personalmente sono convinto che sia valida la seconda ipotesi: ogni suono degli ariosi ha allora una sua gradazione di dinamica, di volta in volta statisticamente rapportabile al campo del piano o al campo del forte, ma mai uniforme. E, infine, possiamo dire che nel secondo movi-

mento della Sonata K 280 Mozart pensasse anche a variazioni di timbro? L’uso di diverse articolazioni del suono (non-legato, legato, staccato) lo fa supporre, ma soprattutto sarebbe importante capire come Mozart usasse il pedale di risonanza. I segni di espressione e le indicazioni per il pedale che si trovano nella revisione di Barto´k sono nuovamente tali, secondo i concetti di interpretazione del Novecento, da ‘‘romanticizzare’’ all’eccesso il testo. Oggi si pensa piuttosto che si tratti di interventi di un tipo che mira a restaurare – con tutte le incognite del restauro – una prassi settecentesca conservatasi durante l’Ottocento. Non e` difficile capire che non si trovera` mai una documentazione sufficiente per dimostrare inconfutabilmente questa tesi. Ma la dimostrazione dialettica puo` valersi di una cospicua serie di indizi, e oggi l’interpretazione delle opere pianistiche di Mozart sta attraversando una fase di evoluzione dagli sbocchi imprevedibili. A me interessava pero` far notare come Mozart, al quale per tutta la vita importo` soprattutto di fare del teatro, nel pianoforte potesse trovare un modellino di teatro strumentale, e come, secondo il mio parere, egli si comportasse di conseguenza.

I Concerti Mozart e` uno tra i maggiori creatori di musica per pianoforte che siano mai esistiti, ed era un grande pianista, ma non era simile a Clementi. Per Clementi, e piu` tardi per Chopin, il pianoforte era la vita. Per Mozart, la vita era il teatro. Clementi era un re, Mozart un imperatore: governava il suo stato e governava i domini imperiali che si chiamavano musica sacra, musica sinfonica, musica da camera, ecc. ecc., e sapeva condurli convenientemente, ma si divertiva veramente solo quando poteva comporre opere. Il guaio, per Mozart, fu che suo padre non seppe cogliere l’occasione per immettere l’adorato figliolo nel grande fiume del teatro dell’opera italiana con circolazione internazionale. Nel 1773 il diciassettenne Wolfgang si vide offrire un contratto da un impresario teatrale di Venezia. Leopold Mozart, ragionando con la sua quadrata mentalita` di dipendente a tempo indeterminato del principe-arcivescovo di Salisburgo, lascio` cadere l’offerta veneziana per puntare tutte le carte su un impiego stabile alla corte del granduca di Toscana. Gli ando` buca, e Wolfgang perdette l’unica opportunita` che ebbe per affermarsi da free lance nella sia pur perigliosa professione dell’operista itinerante fra le capitali della musica. Il pianoforte divenne cosı` per lui, nello stesso tempo, un mezzo di sostentamento e un tranfert delle sue pulsioni di drammaturgo. E in questo senso,

anzi, in questi due sensi, specie dopo il trasferimento a Vienna, il concerto per pianoforte e orchestra divenne la barca di maggiore affidabilita` per tenersi a galla in un mare infido e tempestoso. Mozart comincio` molto presto a comporre concerti, ma esercitandosi con musiche per tastiera non sue, da lui trascritte e adattate. Ludwig von Ko¨chel, che ignorava questa circostanza, classifico` come originali il Concerto in Fa K 37 (1767, 1877), il Concerto in Si bemolle K 39 (1867, 1877), il Concerto in Re K 40 (1867, 1877) e il Concerto in Sol K 41 (1867, 1877), che erano in realta` trascrizioni per clavicembalo e orchestra di movimenti di sonate di Raupach, Honauer, Schobert, Eckard, tedeschi residenti a Parigi, e di Carl Philipp Emanuel Bach. Questo lavoro venne compiuto dall’undicenne Mozart fra aprile e luglio, e l’orchestra da lui scelta fu quella standard dell’epoca, con due oboi, due corni e archi, con l’aggiunta di due trombe nel K 40 e la sostituzione degli oboi con i flauti nel K 41. Se parlassimo di un pittore diremmo che Mozart si fa la mano attraverso la copia, arricchita, di lavori che esprimono il gusto del suo tempo. Gli interventi di Mozart mostrano che la mano del ragazzino era molto sicura (aveva gia` composto almeno tre Sinfonie), e siccome il linguaggio e` quello della koine´ europea del rococo` si capisce bene come il Ko¨chel potesse essere trat-

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Concerto K 271

to in inganno. Non pote´ invece sbagliare, il Ko¨ chel, con le Tre Sonate del Sgr. Giovanni Bach ridotte in Concerti dal Sgr. Amadeo Wolfgango Mozart K 107 (1772, 1833), tecnicamente meno impegnative perche´ l’orchestra e` formata dai soli archi (le tre Sonate appartengono all’op. 5 di Bach: sono i numeri 2, 3 e 4). Un anno piu` tardi Mozart affronto` per la prima volta il genere, come dire?, in proprio, con il Concerto in Re K 175 (1773, 1879), inserendo nell’orchestra standard due trombe e i timpani. Mozart, appena rientrato dal suo ultimo viaggio in Italia, nel secondo movimento si mosse nell’ottica del melodramma italiano. Nel primo movimento, e soprattutto nel finale, scavalco` invece l’imperante rococo` mediante una specie di omaggio, un po’ ironico ma non troppo, al defunto barocco, con un tono di giubilante solennita`, squilli di trombe e botti di timpani, tipica pulsazione ritmica da concerto grosso nel primo movimento, piccoli canoni e due fugati nel finale. Quando nel marzo del 1782 decise di sfruttare questo suo Concerto per la sua prima apparizione pubblica a Vienna, qualcosa o qualcuno dovette fargli notare che il finale sarebbe parso antiquato. E Mozart, aggiungendo all’orchestra anche un flauto, sostituı` il finale baroccheggiante con il Rondo` in Re K 382 (1782, 1785, insieme con i primi due movimenti del K 175), che in realta` e` un bellissimo tema con variazioni nello spirito del Ratto dal serraglio che sarebbe andato in scena il 16 luglio di quell’anno. Il Concerto in Si bemolle K 238 (1776, 1782), il Concerto in Fa per tre pianoforti K 242 (1776, 1802) e il Concerto in Do K 246 (1776, 1800) furono composti a Salisburgo, gli ultimi due sicuramente, e probabilmente anche il primo, su ordinazione. Orchestra standard, con due flauti al posto dei due oboi nel secondo movimento del K 238. Ma era normale che gli oboisti posassero i loro strumenti e soffiassero nei flauti o, in anni posteriori, nei clarinetti, cosı` come i cornisti sapevano imboccare pure le trombe. Il ventenne Mozart era diventato il coqueluche della aristocrazia e dell’alta borghesia salisburghesi: nel 1776 ebbe in nove mesi ventisette commissioni per lavori di vario genere e seppe soddisfare appieno il gusto dei committenti. Il linguaggio dei tre Concerti e` piano, le forme sono quelle consuete, la piacevolezza melodica non viene mai persa di vista perche´ il tono dev’essere quello, affabile, della commedia borghese, mentre la difficolta` tecnica, pur non elevata, non e` limitata se non in un caso, dato che i pianisti dilettanti del tempo erano un po’ come i golfisti o gli sciatori dilettanti di oggi, che non mancano di fare gli allenamenti faticosi e che prendo-

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no molto sul serio il loro hobby. Solo nel Concerto K 242, scritto per la contessa Lodron e le sue due figlie, la parte del terzo pianoforte e` tecnicamente facile perche´ Mozart doveva tener conto della eta` , nove anni, della esecutrice. Mozart distribuı` poi fra gli altri due pianoforti la parte del terzo, ‘‘soli accomodati a Due’’, e in questa versione il Concerto fu pubblicato per la prima volta nel 1802. La parte della novenne contessina Giuseppina Lodron pote´ essere sostenuta, in certe specialissime circostanze, da un cancelliere tedesco e da un primo ministro inglese che un po’ di pianoforte lo avevano studiato da ragazzi. Un po’ piu` difficile e` il Concerto K 246, scritto per la contessa Lu¨tzow, allieva di Leopold Mozart. Ben altrimenti impegnativo e` pero` il Concerto in Mi bemolle K 271 (1777, 1800), composto per una pianista francese di cui conosciamo solo il cognome, Jeunehomme. La Jeunehomme (che Mozart nelle sue lettere chiama sempre Jenome´) doveva essere capitata a Salisburgo all’inizio del 1777, e doveva essere molto piu` brava della brava contessa Lu¨ tzow perche´ il Concerto K 271 non cerca soltanto di far fare bella figura al solista ma lo mette anche alla frusta, specie nel finale. Quando nella vita di un artista compare una donna si sveglia sempre la curiosita` del pubblico e i commentatori fanno a gara nell’accumulare le ipotesi. I biografi seri non sono riusciti a scovare nessuna sexual connection di Mozart, tranne lapalissianamente quella con la moglie, i biografi fantasiosi ne hanno trovate a decine. Su Mozart e mademoiselle Jeunehomme e` stato persino scritto un romanzo, di Carlo Alberto Corsi. Ma di lei, ripeto, fino a oggi non sappiamo nulla piu` del nome, e dobbiamo solo supporre, come dicevo, che fosse molto brava. Con il Concerto K 271 Mozart, liberatosi dai vincoli che derivavano dalle ovvie attese dei committenti dilettanti, fa un gran balzo in avanti. Nel primo movimento fa intervenire brevemente il solista all’inizio, e lo fa intervenire dopo la Cadenza, mettendo a segno due innovazioni che riappariranno come novita` nel Concerto n. 3 (la seconda) e nel Concerto n. 4 (la prima) di Beethoven. Il secondo movimento, in do, e` una vera e propria scena lirica... senza parole, con ampio uso di stilemi barocchi (canoni, ornamentazioni vocalistiche, recitativi). E quando, piu` tardi, compose la Cadenza per questo movimento, Mozart accentuo` ulteriormente questi caratteri. L’espressivita` del pezzo e` tale da mettere in evidenza la discrepanza fra le potenzialita` dell’orchestra e le potenzialita` del pianoforte,... a danno di quest’ultimo. Sia con strumenti d’epoca, sia con strumenti moderni, l’entrata del solista dopo l’esposizione orchestrale 369

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e` un... mezzo flop, e tutti rimpiangono la scura voce di contralto che non c’e` . Per questo motivo Ferruccio Busoni trascrisse il secondo movimento per pianoforte solo, impoverendo il colore sonoro ma evitando di mettere in luce la sostanziale inadeguatezza del pianoforte di fronte a una cosı` sublime pagina (a meno che, forse, il Mozart esecutore ornamentasse molto il testo, in modo barocco). Il finale e` un vorticoso Rondo`, interrotto da un Menuetto. Cantabile che non solo introduce una Stimmung fortemente contrastante, e notturna, ma che con gli archi in pizzicato e con sordina crea preziosita` timbriche in cui il pianoforte si inserisce a meraviglia. Nel primo movimento Mozart si diverte spesso a subordinare il solista all’orchestra: il solista puo` mostrare sı` la sua bravura, ma e` anche costretto ad accompagnare l’orchestra. Questi caratteri fortemente novativi non vengono mantenuti nel Concerto in Mi bemolle per due pianoforti K 365 (1779, 1800), che per il fatto stesso di aver da gestire un coppia di solisti deve limitare il ruolo dell’orchestra e deve assumere un tono celebrativo. Il Concerto K 365 e` un episodio di un interesse di Mozart per il concerto doppio perche´ si colloca fra il Concerto per flauto e arpa e la Sinfonia concertante per violino e viola, cioe` fra l’intrattenimento elegante del primo e l’afflato sinfonico della seconda. La soluzione del Concerto K 365 e` intermedia: gara di abilita` fra i due solisti con il sostegno di un’orchestra che e` da camera nel 1779 e che diventera` sinfonica quando, nel 1781, Mozart presentera` il Concerto ai viennesi. Mozart compose il Concerto K 365 per se´ e per la sorella, e lo eseguı` a Vienna con un’allieva molto brava (e molto brutta), Josephine von Aurnhammer, la stessa che ebbe come partner nella Sonata per due pianoforti K 448. La tecnica pianistica e` piu` evoluta nel Concerto K 365, i due strumentisti, dicevo, gareggiano in bravura, il finale e` veramente travolgente. Trasferitosi a Vienna nella primavera del 1781, Mozart vi esordisce in un concerto privato con il Concerto K 365, e in un concerto pubblico, il 3 marzo 1782, con il K 175/382. Per il 1783 prepara il grand colpo di presentarsi al pubblico con tre nuovi pezzi: sono il Concerto in Fa K 313 (17821783, 1785), il Concerto in La K 414 (1782, 1783) e il Concerto in Do K 415 (1783, 1785). Il disegno del compositore non e` pero` quello, semplicemente tattico, di attirare l’attenzione sul solista, che si fara` invece valere con le improvvisazioni su temi suggeriti dal pubblico, ma quello di mettere strategicamente in mostra proprio i Concerti che, offerti prima in copie manoscritte e poi pubblicati, dovranno andare ad arricchire il repertorio 370

Concerto K 365

dei dilettanti. Percio` gli oboi e i corni sono indicati ad libitum ed e` concessa l’esecuzione ‘‘a quadro’’, cioe` con due violini, viola e violoncello. Il 5 gennaio 1783 comparve nel Wiener Diarium l’annuncio che il ‘‘signor Maestro di cappella Mozart’’ aveva pronti tre Concerti e che li avrebbe ceduti in copie manoscritte, al costo di quattro ducati, a chi avesse sottoscritto la prenotazione. ‘‘[...] mancano ancora due Concerti alla mia sottoscrizione’’, scrive Mozart al padre il 28 dicembre 1782, ‘‘essi tengono il giusto mezzo fra il troppo difficile e il troppo facile – sono molto brillanti – gradevoli all’orecchio – naturali senza cadere nella piattezza – qua e la` solo i conoscitori vi troveranno la loro soddisfazione – ma in modo – che i non-conoscitori possano esserne contenti senza sapere perche´’’. Mozart e` il miglior esegeta di se stesso: si da` un fine strategico, sceglie i mezzi per raggiungerlo e lo raggiunge. Ma non pensa al successo in astratto. Nel Concerto K 413 cerca di soddisfare, e soddisfa il gusto degli anziani, cresciuti nel rococo` e non immemori del barocco. Nel primo movimento il solista entra mentre gli archi stanno portando a termine un piccolo canone, e nello sviluppo, con temi che arieggiano il minuetto, una spruzzatina di modo minore – gli anziani sono anche malinconici – evita di cadere nello zuccheroso. Il secondo movimento espone una bella melodia su un placido basso albertino. Il finale e` un Tempo di Menuetto molto sfaccettato, con orchestra e solista che s’alternano in una gara di arcadiche galanterie. Il Concerto K 414 e` invece idealmente destinato al mondo femminile. Grazia, tenerezza, un pizzico di civetteria nel finale. E un secondo movimento che fa suo un tema di Johann Christian Bach, il tema di una ouverture che l’amico-maestro da poco scomparso aveva composto nel 1763 per La Calamita de’ cuori di Galuppi. Il ricordo delle musiche ascoltate tanti anni prima in Italia plana come un velo dorato su questo Concerto che annuncia anche, alla lontana, il prisma femminile delle Nozze di Figaro. Il Rondo` in La K 386 (1782, 1839) potrebbe essere stato pensato in origine come finale del Concerto K 414, ma la sua grazia e` un po’ leziosa e per questo motivo, probabilmente, Mozart non lo eseguı` mai. Nel 1839 Philip Hambly Cipriani Potter ne pubblico` la trascrizione per pianoforte solo. Nel 1840 William Sterndale Bennett acquisto` il manoscritto e lo regalo`, un foglio alla volta, ad amici. Tutti i fogli, tranne uno, furono poi recuperati, e per il foglio mancante venne utilizzata la trascrizione di Cipriani Potter. Questo bonbon piacque straordinariamente – strano a dirsi – a Barto´k, che lo eseguı` come pezzo a se stante (della sua esecuzione e` restata una registrazione).

Concerto K 451

Dopo gli anziani e le donne Mozart tiene conto nel Concerto K 415 dei militari. In orchestra aggiunge le due trombe e i timpani, inizia il primo movimento con un tema marziale esposto a canone (partenza dei fantaccini a piccoli scaglioni) e continua coerentemente, dandoci un bell’esemplare di quel ‘‘concerto militare’’ che avrebbe tenuto banco fino al Congresso di Vienna, anche con l’apporto di Beethoven e di Weber. La Cadenza che Mozart compose piu` tardi inizia con un canone, strumentato in ottave sia alla mano destra che alla sinistra. L’equilibrio cosı` delicato dei due precedenti Concerti viene pero` rotto perche´ il solista svolazza molto con scale e scalette e, tranne che nella Cadenza, non adotta la scrittura polifonica dell’orchestra (Mozart, lo vedremo piu` avanti, nel 1782 aveva studiato per la prima volta le musiche di Johann Sebastian Bach, e alla fine del 1783 avrebbe composto la prodigiosa Fuga in do per due pianoforti). Rotto un equilibrio se ne cerca un altro, che secondo me non viene ancora trovato nel primo movimento del Concerto K 415. Uno schizzo in do per il movimento lento, ben presto abbandonato, ci dice dei dubbi di Mozart, che opto` poi per un tranquillo Andante in Fa. Il finale, potremmo dire, si ispira alla servitu` e grandezza della vita militare. Un tema di carattere pastorale in Do, Allegro, e` interrotto due volte da un tema malinconico in do, Adagio. Nessun altro concerto di Mozart avra` un che di simile. E, paradossalmente per un concerto di questo tipo, la conclusione svanisce con la ripresa del tema in Do sui trilli misurati del pianoforte. Beethoven se ne ricordera` nel finale del suo Concerto n. 2. Con i Concerti K 413, 414 e 415 Mozart punta al successo, e lo ottiene. Ma dopo averlo cosı` ben conquistato, il successo, egli non lo sfrutta con sagacia amministrativa ma rovescia sui suoi sbalorditi ascoltatori una girandola di invenzioni capaci di sconcertare persino i professionisti: figuriamoci i dilettanti. Mozart riesce cosı`, come un banchiere d’assalto, a tenere in pugno il suo pubblico per circa tre anni, guadagna bene, progetta varie pubblicazioni e qualcosa pubblica, e... non riesce a radicarsi veramente nel gusto dei viennesi, a diventare banchiere di famiglia. Guardiamo per un momento il Concerto in Mi bemolle K 449 (1784, 1792), primo dei tre nuovi concerti che Mozart include nella sua stagione per sottoscrizione del 1784. La durata non supera quella dei tre precedenti concerti, l’orchestra e` quella standard con i due oboi e i due corni ad libitum, la difficolta` tecnica non e` elevata. Ma chi legge il secondo movimento capisce subito che la sonorita` dei corni e` invece essenziale per l’equilibrio sonoro del pezzo.

Wolfgang Amadeus Mozart

Gia` subito, fin dalle battute iniziali del primo movimento, c’e` del resto di che far spaventare il dilettante: la struttura portante del periodo classico, la tonalita`, diventa chiara e riconoscibile solo all’ottava battuta, perche´ prima si e` vagato fra do, Si bemolle e fa. E il tema non e` semplicemente melodico: siamo alla costruzione della melodia attraverso la variazione di un nucleo generatore, siamo cioe` alla individuazione di una tecnica compositiva che supera il rococo` non attraverso procedimenti contrappuntistici fra il neobarocco e la citazione erudita, ma attraverso il principio dello sviluppo tematico. Nell’ultimo giorno del 1782 Mozart aveva terminato il Quartetto K 387, primo dei sei dedicati a Haydn, nel corso del 1783 aveva composto i Quartetti K 421 e K 428, in novembre aveva ultimato la Sinfonia n. 36, cosiddetta di Linz. Lo sviluppo tematico, messo a punto nel 1783 dopo gli studi del 1782 sul barocco, invade il campo del concerto e ne cambia radicalmente la connotazione. Gli scherzetti del K 271, con i quali Mozart si divertiva a schierare il pianista in funzione subordinata, diventa una costante alternativa alla preminenza solistica, tanto da far dire a Ludwig Spohr che i concerti per pianoforte di Mozart sono concerti per fiati con accompagnamento di pianoforte. E nel 1842 Pietro Lichtenthal dira` che questa e` la ‘‘seconda specie’’ di concerto, la ‘‘specie piu` nobile e piu` artificiale’’, e che ‘‘alcuni di questi Concerti palesano tanta grandezza di sentimento e di profondita` che vengono meritatamente paragonati ad altrettanti drammi lirici’’. Farei una sola aggiunta a questa giustissima osservazione: non ‘‘alcuni’’ ma ‘‘tutti’’. Con il Concerto K 449 inizia una ricerca di contenuti nuovi che progressivamente portera` Mozart lontano dal suo pubblico. Con il Concerto in Si bemolle K 450 (1784, 1798) e con il Concerto in Re K 451 (1784, 1785), definiti in una lettera di Mozart alla famiglia come quelli ‘‘che fanno sudare’’, la ricerca virtuosistica torna in primo piano. L’orchestra – senza ad libitum – si accresce: flauto e due fagotti, oltre agli oboi e ai corni, nel K 450, flauto, due fagotti, due trombe e timpani nel K 451. Il Concerto K 450 ottenne nel Novecento una popolarita` che fu negata al suo gemello. In realta` il K 450 fa pensare piu` alle grandi serenate che alle sinfonie, e il suo secondo movimento, tipico tema con variazioni da serenata notturna, e` uno di quei gioielli che fanno gridare al miracolo. Il tema e` in due parti, entrambe ripetute. L’orchestra espone la prima parte, il pianoforte la riespone con alcune varianti, poi si passa, analogamente, alla seconda parte. E` assolutamente certo che, suonando nel 1783 i Concerti destinati ai dilettanti, 371

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Mozart ornamentava estemporaneamente la sua parte. Qui la ornamentazione e` scritta, il che non esclude che Mozart la variasse ulteriormente nelle sue esecuzioni. Ma l’ornamentazione estemporanea coesiste qui con la ornamentazione strutturale. Il finale, come tutti i finali di Mozart in 6/8, e` popolareggiante, e la relativa semplicita` della tessitura sinfonica consente lo sfolgorio virtuosistico della scrittura pianistica. Il Concerto K 451 e`, lui sı`, una sinfonia con pianoforte obbligato, con un primo movimento che sperimenta impasti timbrici variegati e ricchi di potenziali sviluppi. Questa impostazione viene mantenuta nel secondo movimento che, eccezionalmente, e` in forma di rondo`. Il finale rida` al solista una...parte di quello che gli era stato tolto, e gli concede di brillare. Ma la forma – rondo`-sonata – e` sinfonica, e i vagabondaggi tonali sono labirintici. Rispetto al K 450, il K 451 e` dunque piu` concettoso, e cio` spiega perche´ il pezzo, genialissimo, sia rimasto nell’oscurita`. Il Concerto in Sol K 453 (1784, 1787 ca.) fu composto per l’allieva Barbara Ployer, anzi, per esaltare le virtu` della ragazza, figlia dell’incaricato di affari della corte di Salisburgo a Vienna e signore molto benestante che per il 10 giugno 1784 offriva ai suoi ospiti, nel sobborgo di Do¨bling, un pranzo e un concerto con tanto di orchestra scritturata appositamente. Barbara Ployer eseguı` il Concerto K 453, Mozart il Quintetto K 452, maestro e allieva insieme eseguirono la Sonata per due pianoforti K 448. Mozart scrisse al padre, il 9 giugno, che sarebbe ‘‘andato a prendere in carrozza Paisiello, perche´ senta la mia allieva e il mio Concerto’’. Paisiello, che era sulla via del ritorno in Italia dopo un lungo soggiorno a S. Pietroburgo, si era fermato a Vienna per comporvi, con un compenso doppio rispetto alla norma, il Re Teodoro in Venezia. Poi sarebbe andato ad assumere un incarico alla corte di Napoli, dove regnava una arciduchessa austriaca, sorella dell’imperatore Giuseppe II. Invitando Paisiello al concerto, Mozart faceva un po’ di volonterosa autopromozione. Poteva scapparci un invito a Napoli come maestro di pianoforte delle principessine partenopee... Non ci scappo` ma... tentar non nuoce. La scrittura pianistica e` meno virtuosistica nel K 453 rispetto al K 450, ma l’invenzione tematica e` prodigiosamente ricca sia nel primo che nel secondo movimento, con un primo tema del secondo movimento che deriva dall’‘‘Et incarnatus est’’ della incompiuta Messa in do K 427. Il carattere dei due movimenti e` pero` nettamente operistico. E operistico e` il terzo movimento, tema con cinque variazioni e coda. La coda, in tempo Presto, e` un vero finale di opera buf372

Concerto K 453

fa che sembra pensato per le capriole di Leporello. Una ragazza da` a Mozart l’occasione per il K 453. Ed e` molto probabile, sebbene non sicuro al cento per cento, che un’altra ragazza, Maria Theresia von Paradis, gli abbia chiesto il Concerto in Si bemolle K 456 (1784, 1792). La Paradis, non vedente, aveva tenuto concerti nel 1784 a Parigi, a Londra e in Germania. Mozart compose per lei un Concerto con un primo tempo deliziosamente ‘‘militare’’, militare da soldatini di piombo, senza trombe e senza timpani. Il secondo movimento, tema con cinque variazioni, e` in sol ed e` malinconico e notturnale, quasi uno studio per il quarto atto delle Nozze di Figaro. Ma sorprendente e` il finale, un rondo` ‘‘di caccia’’. La Paradis era stata allieva di Antonin Kozeluch, concorrente di Mozart che aveva appena pubblicato i Concerti op. 12 e che nel giro di pochi anni avrebbe sottratto a Mozart i favori dei volubili viennesi. Il finale del K 456 rifa` il verso alle banalita` di Kozeluch, ma in un episodio, nella lontanissima tonalita` di si, diventa, da blandamente ironico che era, grottesco. Secondo me non si tratta tanto di Kozeluch quanto della societa` di cui Kozeluch stava diventando il referente musicale. La critica sociale delle Nozze di Figaro, detto con altre parole, fa gia` capolino nei Concerti per pianoforte. Mozart incluse il K 456, non il K 453, nella sua stagione del 1785 che vide la nascita del Concerto in re K 466 (1785, 1796) e del Concerto in Do K 467 (1785, 1800). Non fu invece incluso, a meno che gli attentissimi ricercatori del Mozarteum di Salisburgo non si siano lasciati scappare la notizia, non fu invece incluso, dicevo, il Concerto in Fa K 459 (1784, 1794), concerto ‘‘militare’’ in modo manieristico nel primo movimento, cosı` come manieristico e` il secondo movimento su un tranquillo tema pastorale, ‘‘distorto’’ perche´ basato su frasi di cinque invece che di quattro battute (si pensa per analogia della Rapsodia op. 119 n. 4 di Brahms, ‘‘antieroica’’ per eccellenza). E nel finale si accentua ancora di piu` la comicita` burattinesca del primo movimento. Il manierismo del pezzo, con il ritmo ossessivo e meccanico del finale, non sfuggı` a Ferruccio Busoni, che nel Duettino concertante per due pianoforti trascrisse il testo mozartiano dandogli la veste di una sonorita` da pianola, adatta per accompagnare una comica da film muto. Il Novecento neoclassico vide nel Concerto K 459 un suo... antenato. L’Ottocento vide invece nel Concerto K 466 un suo profeta, tanto piu` perche´ Beethoven lo aveva eseguito nel marzo del 1795 (e dunque prima della pubblicazione) ed aveva pure scritto per esso due Cadenze. Senza voler negare

Concerto K 491

l’evidenza del preromanticismo del K 466 bisogna pero` dire che, isolandolo dal contesto, l’Ottocento dimostrava di non avere buoni occhi. Fra il Ratto dal serraglio (16 luglio 1782) e le Nozze di Figaro (1º maggio 1786), precedute di pochi mesi dal piccolo Singspiel Il Direttore di teatro (3 febbraio 1786), e cioe` per tre anni e mezzo, non va in scena nessuna opera di Mozart e vengono composti quattordici Concerti per pianoforte. Abbandonando le prospettive di successo dei Concerti K 413415 Mozart trovava secondo me una valvola di sfogo alle sue pulsioni di drammaturgo che intendeva rappresentare la vita, e come drammaturgo maturava nei Concerti. Cosı` si spiega il rapporto fra il K 466 e il Don Giovanni che lo segue di due anni, fra il K 482 e le Nozze di Figaro, fra il K 459 e Cosı` fan tutte. E l’Ottocento scelse solo il K 466 cosı` come scelse solo il Don Giovanni, e il Novecento scoprı` il K 459 insieme con Cosı` fan tutte. Il Concerto in re, con la sua fosca, demoniaca drammaticita`, e` come un inconscio cartone preparatorio per il Don Giovanni, sia in senso generale che in senso specifico: la fatalita` nel primo movimento, l’idillio con Zerlina e l’irruzione di Donna Elvira nel secondo movimento, la sfrontatezza di Don Giovanni nel finale, e il brusco trapasso dalla punizione divina alla normalita` della vita nel re maggiore dopo la Cadenza. Rispetto al dramma cosmico del K 466 Mozart passa nel K 467 alla commedia degli equivoci, con temi che nel primo movimento sbucano uno dopo l’altro come se uscissero da una scatola cinese, e con un finale che, piu` ancora che sinfonia concertante, prende l’aspetto di concerto per orchestra con pianoforte obbligato. Fra queste due esplosioni di gioia selvaggia si colloca il celeberrimo Andante in Fa con una lirica melodia del pianoforte sul morbido colore degli archi con sordina e con frequente uso del pizzicato. La ‘‘scoperta’’ di questo dolcissimo Andante avvenne in un modo curioso. Camille Saint-Sae¨ns lo trascrisse per violino e pianoforte, dandogli l’aspetto di una romantica serenatella notturna, eseguita all’epoca con i portamenti vocalistici consueti nel violinismo dei Bruch, dei Lalo e, ovviamente, dei Saint-Sae¨ns. L’ultima stagione ‘‘buona’’ di Mozart fu quella che precedette l’andata in scena delle Nozze di Figaro e che vide fiorire il Concerto in Mi bemolle K 482 (1782, 1800), il Concerto in La K 488 (1786, 1800) e il Concerto in do K 491 (1786, 1800). C’e` una particolarita` , in questi tre Concerti, che ha fatto aguzzare le orecchie ai commentatori: tre tonalita` con tre bemolli (K 482, K 491) o tre diesis (K 488) in chiave, tre bemolli e tre diesis anche nei movimenti intermedi. Dodici volte tre: forse

Wolfgang Amadeus Mozart

un omaggio alla massoneria, forse una dichiarazione di fede massonica? Il 14 dicembre 1784 Mozart era stato ammesso in una loggia, e da semplice apprendista e poi compagno era rapidamente diventato maestro. Lascio decidere al lettore – io ne dubito – se i tre bemolli e i tre diesis siano da mettere in conto alla massoneria. Devo invece far notare che nel K 482 e nel K 488 Mozart sostituisce gli oboi con i clarinetti, e che nel K 491, riprendendo gli oboi, mantiene i clarinetti e mantiene le trombe e i timpani del K 482. Il colore dell’orchestra viene modificato, e anche la scrittura pianistica perde i caratteri di luminosita` del K 467. Del K 482 piacque straordinariamente, nella prima esecuzione del 23 dicembre 1785, l’Andante centrale in do, che fu bissato. In questo Andante, in cui tacciono le trombe e i timpani, il ruolo dei clarinetti diventa piu` importante, e Mozart, dopo il primo tema affidato agli archi con sordina, azzarda persino l’esposizione del secondo tema affidata ai soli strumenti a fiato. Il settimino di fiati (flauto, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni) diventa per un momento una sezione autonoma dell’orchestra, non subordinata agli archi. In un altro episodio Mozart si affida a flauto, fagotto e archi, e infine impiega l’orchestra intera, con il pianoforte. In senso strutturale si puo` notare sia un certo riferimento al Concerto K 450, sia, nel finale con inserito un minuetto, al Concerto K 271. Ma l’esperienza del K 466 condiziona Mozart, che sta lavorando ormai sulla intricata psicologia delle Nozze di Figaro e su una drammaturgia che oscilla fra diversi generi. Nei tre movimenti del Concerto K 482 troviamo quindi, rispettivamente, l’opera comica, l’opera seria, l’opera pastorale. Anche nel Concerto K 488 il centro emotivo si colloca nel secondo movimento. Adagio in fa diesis al modo di una siciliana, che sfrutta il colore opaco dell’orchestra e i grandi sbalzi di registro della melodia. Si puo` osservare che Mozart aveva iniziato a scrivere un movimento in Re, secondo lo schema del Concerto K 414. La scelta del fa diesis non fu dovuta secondo me ai tre diesis... massonici, ma alla ricerca di un equilibrio dei modi maggiore e minore che e` il riflesso di un approfondimento psicologico teso alla conciliazione degli opposti, perche´ il modo maggiore simboleggiava la gioia e il modo minore il dolore. Cio` vale anche per il K 482 e per il K 491. Il Concerto K 488, tra i piu` amati di Mozart fin dalla fine dell’Ottocento, si impone immediatamente per il suo tono colloquiale e per la perfezione formale. Ed e` l’unico Concerto di Mozart che contenga nella partitura autografa anche la Cadenza del primo 373

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movimento, mentre tutte le altre Cadenze furono scritte a parte. Il Concerto K 491 e` il secondo e ultimo in modo minore di Mozart, ma affronta la dimensione della drammaticita` in una maniera piu` radicale. L’inizio ricorda quello del Concerto K 449 perche´ la struttura del primo tema, con i salti di settima diminuita e le fratture del discorso, rende ambigua la tonalita` o, meglio, apre orizzonti tonali molteplici che vengono subito contraddetti. Cromatismo esasperato nel primo tema, diatonismo nel secondo e nel terzo: la contrapposizione non riguarda solo la diversita` dei temi ma anche la loro divergente struttura linguistica, e probabilmente ha persino un significato simbolico. Probabilmente e` simbolico pure il fatto che l’esposizione orchestrale utilizzi soltanto il primo tema e che il pianoforte esponga due temi in Mi bemolle invece di uno solo, invertendone l’ordine nella riesposizione. Con questo materiale fortemente caratterizzato Mozart lavora senza aggiungere temi secondari e fa suonare il pianoforte, come nel K 271, nella coda dopo la Cadenza. Questo episodio, piu` di quello analogo del K 271, che e` in modo maggiore, influenzera` profondamente Beethoven nella composizione del suo Concerto op. 37, anch’esso in do. Il secondo movimento e` in una forma allargata di canzone tripartita, con la parte centrale comprendente due episodi in luogo di uno, e con la citazione, fra i due, del primo tema. Anche qui, come nel Concerto K 482, i fiati diventano una sezione autonoma dell’orchestra, in grado di reggere da sola la tensione della forma. Il finale e` un tema a modo di marcia con sette variazioni e con coda in metro diverso. Si nota innanzitutto il tono serioso di questo finale, che rifiuta persino la chiusa in modo maggiore del K 466. E si nota poi la complessita` della architettura, che si articola in do, La bemolle e Do, con il ritorno inaspettato del do quando era prevedibile la conclusione catartica in modo maggiore. Anche in questo caso il cambiamento di metro nella coda influenzera` il Beethoven del Concerto n. 37, il quale non tornera` pero` al modo minore. Il Concerto K 491 rivoluziona dunque la storia del genere: il concerto, che era per definizione opera di intrattenimento, attinge i vertici della tragedia e rappresenta percio` un culmine che non verra` piu` raggiunto ne´ da Beethoven ne´ dai romantici, i quali – Weber, Mendelssohn, Chopin, Schumann, Liszt, Brahms, Grieg, Cˇ ajkovskij – comporranno sı` concerti o pezzi da concerto in modo minore ma li termineranno sempre in modo maggiore. E cosı` si comporteranno persino, nella estrema e nella postuma stagione del concerto romantico, Rachmaninov e Medtner. Di solito non si 374

Concerto K 503

fa caso a questo aspetto del Concerto K 491, che e` considerato un grande capolavoro ma non un unicum che dimostra nello stesso tempo il coraggio estremo di Mozart e la sua noncuranza verso una tacita norma che rispondeva in realta` a un bisogno profondo del pubblico. Il Concerto in Do K 503 (1786, 1798) arrivava non solo dopo le Nozze di Figaro che offendevano la autostima della nobilta`, ma anche dopo il tellurico Concerto K 491. Il torto di Mozart, per i viennesi che nel 1782 lo avevano portato in palma di mano, era di non essere rimasto fedele all’archetipo che aveva cosı` ben funzionato nei Concerti K 413-415. Mozart avrebbe dovuto variarne l’ornato ma non la struttura, e non avrebbe dovuto stravolgere la poetica del genere. Percio` Antonin Kozeluch, abilissimo nel coltivare l’abitudinarieta` del pubblico, scalzo` un poco alla volta Mozart. E se a cio` aggiungiamo l’‘‘affronto’’ delle Nozze capiamo bene come la lista delle sottoscrizioni ritornasse a Mozart, nell’estate del 1786, con una sola firma invece delle circa centocinquanta consuete. Mozart organizzo` comunque i suoi concerti nell’inverno del 1787, eseguendo probabilmente – non ne abbiamo notizia certa – il Concerto che aveva terminato nel precedente dicembre. La particolare natura del Concerto K 503 ci fa pensare che egli volesse tentare la riconquista del suo pubblico: primo movimento imponente, solenne per certi aspetti e malizioso per certi altri, secondo movimento lirico che, se prestiamo fede a Carl Philipp Hoffmann, che aveva conosciuto Mozart a Magonza nel 1790, veniva ornamentato estemporaneamente fino a diventare un grande aria cantata da un castrato, e finale popolaresco. E dappertutto uno sfoggio di abilita` virtuosistica che dimostra una certa attenzione verso l’evoluzione tecnica di cui si stavano facendo portatori alcuni giovani come August Eberhardt Mu¨ ller, e che e` evidente anche nel giovanile Concerto in Mi bemolle di Beethoven, composto a Bonn. Questo l’aspetto socievole e ridente con cui il K 503 si presentava. Ma chi andava a scoprirgli le carte si accorgeva del bluff. Il secondo tema del primo movimento viene esposto dall’orchestra prima in modo minore e poi nel canonico modo maggiore, nel finale lo slittamento dal maggiore al minore e` continuo e il tema principale e` costruito in una maniera sofisticatissima che ne contraddice il carattere popolaresco, quasi infantile. E cento e cento altri particolari ci dicono che Mozart si sforzava forse di fare la sua – il lettore si ricorda di Sˇostakovicˇ? – ‘‘risposta di un artista a una giusta critica’’, ma che non poteva rinunciare a se stesso. E che in un certo senso faceva persino il profeta di cio` che sa-

Fantasie, Fughe, Rondo`

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rebbe avvenuto di lı` a brevissimo tempo. Carl Philipp Hoffmann, che citavo poco prima, pubblico` nel 1801 la sua Cadenza per il primo movimento del K 503, inserendovi in modo del tutto logico, perche´ derivava da una piccola trasformazione del secondo tema, nientemeno che la Marsigliese. Il Concerto in Re K 537 (1788, 1794) fu composto probabilmente in vista di una esecuzione che non ebbe luogo e venne sfruttato da Mozart solo nell’anno seguente, durante il viaggio che lo porto` a Berlino: la prima esecuzione ebbe luogo a Dresda il 14 aprile 1789. Il manoscritto del Concerto non e` completo e la sua pubblicazione fu curata dall’editore Andre´, che fece delle aggiunte. Cosı` come ci e` pervenuto il Concerto K 537 e` un’altra ‘‘risposta di un artista a una giusta critica’’, pero` molto piu` sincera della prima. Primo movimento di impianto architettonico lineare e tradizionale, temi cantabili che rievocano la grazia del rococo`, un secondo movimento talmente affabile e colloquiale da precorrere i notturni di John Field, e un finale, come si diceva una volta in genere di Mozart, tutto pizzi e merletti, con un excursus tonale nella parte centrale che e` armonicamente arditissimo ma che e` scritto in modo da apparire come uno spiritoso gioco di societa` che fa accettare senza problemi il paradosso. Il Concerto in Si bemolle K 595 (1791, 1791) fu eseguito da Mozart il 4 marzo – ed era la sua ultima apparizione come pianista a Vienna – in una serata non organizzata da lui ma dal cla-

rinettista Joseph Ba¨ hr. Robbins Landon aveva trovato una esatta definizione per il ‘‘tardo stile’’ mozartiano: ‘‘Abilita` tecnica enorme ma agevole, una specie di passivita` lontana e leggera, e carattere sempre piu` astratto del pensiero musicale’’. Pensiero astratto, dice il Robbins Landon, ma che secondo me stilizza all’estremo, nel K 595, il popolaresco. Tutti i temi, melodicamente tali da poter essere memorizzati istantaneamente, sono costruiti con una sapienza che fa perdere il senno a chi si mette ad analizzarli. Che cosa c’e` di piu` candido, di piu` ingenuo, di piu` vicino allo spirito del popolo dei temi principali di tutti i tre movimenti? Che cosa c’e` , di piu` pacificato con il mondo, di piu` rivolto con benevolenza all’umanita`, del Concerto K 595? Voltaire aveva simboleggiato la vita pacifica nel mito del giardino da coltivare. E Mozart condivide questa utopia, e il suo Concerto con due soli bemolli e` il piu` massonico che egli abbia creato. Con questo sorriso, che scavalcando i secoli ci fa pensare a Mahler e al suo Canto della terra, Mozart chiude il catalogo dei Concerti per pianoforte che abbiamo osservato a volo d’uccello. I Concerti di Mozart, lo abbiamo constatato, sono come un grande labirinto che ci porta a conoscere mondi celesti e mondi infernali, nel piu` profondo recesso del quale, s’intende, non troviamo pero` il Minotauro ma un cuore puro che, ben lungi dall’imporci altri sacrifici, dispensa a tutti noi la gioia infantile di chi sa tutto.

Fantasie, Fughe, Rondo` I generi piu` tipici della musica barocca per clavicembalo – la suite di danze, la fantasia, il preludio e fuga, la toccata – diventano desuete durante il rococo`, tutto inteso a sviluppare invece la sonata che sara` poi detta ‘‘drammatica’’, la sonata in piu` movimenti e con il primo movimento in forma bitematica e tripartita, nonche´ la variazione su temi di opere o di canzoni molto popolari. A partire dal 1779 escono pero` a Lipsia le raccolte di sonate, rondo` e fantasie di uno dei figli di Johann Sebastian Bach, che ripropone nella letteratura pianistica lo stile intimistico e introspettivo del clavicordo. Educato alla musica da suo padre, Carl Philipp Emanuel aveva seguito e stimolato l’evoluzione del gusto ma non aveva mai dimenticato le sue origini, cercando invece di operare costantemente una sintesi fra le nuove scoperte e la tradizione barocca. Per Mozart la conoscenza delle opere di Bach figlio significa molto di piu` dell’incontro con un artista dalla singolare personalita`: significa la scoperta o la riscoperta della vitalita` del barocco, riscoperta che avviene non solo a li-

vello di conoscenza storica – nel 1782 Mozart ha modo di leggere e studiare composizioni del vecchio Bach e di Ha¨ndel, di cui il barone van Swieten possiede copie manoscritte – ma anche a livello di riassunzione di principi compositivi. Nasce cosı` una serie di creazioni mozartiane che possiamo ben definire neobarocche e che impegnano l’artista per tutto il 1782. Conviene elencare, per avere un quadro completo, la produzione compiuta e incompiuta del 1782, tutta legata e al barocco e a Carl Philipp Emanuel Bach: – Fuga in Sol (frammento) per due pianoforti K Anh. 45 (primavera), – Fuga in sol (frammento) per pianoforte a due o a quattro mani K 401 (primavera), – Fuga in Sol (frammento) K Anh. 41 (primavera), – Fantasia e fuga in Do K 394 (aprile), – Fuga in re (frammento) K Anh. 40 (primavera), – Fantasia in fa (frammento) K Anh. 32 (primavera), 375

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– Fuga in do (incompiuta) K 396 (agosto o settembre), – Fantasia in re (incompiuta) K 397 (datazione incerta, ma 1782), – Suite in Do (incompiuta) K 399 (idem), – Fuga in sol (frammento) K 154 (idem). Al 1782 risalgono inoltre le trascrizioni per quartetto d’archi di sei Fughe di Johann Sebastian Bach, K 405, e del dicembre 1783 e` la Fuga in do per due pianoforti K 426. La curiosita` e l’impegno di Mozart sono evidenti, cosı` come evidenti, considerando l’altissimo numero di tentativi non condotti a termine, sono i problemi che l’artista incontrava. Sembrerebbe che fosse Costanza Weber, che Mozart stava per sposare, a spingere il fidanzato a comporre fughe, per le quali professava una vera passione. Non si riesce a capire perche´ una creatura di animo cosı` pedestre e infantile come Costanza venisse attratta da un tipo di composizione desueta e che, alla fine del Settecento, era rimasta viva soltanto piu` nella musica sacra. Comunque, auspice la consorte o un qualche piu` profondo demone, Mozart per circa un anno lavoro` da una parte sul barocco, e dall’altra sullo stile empfindsam (sentimentale), introspettivo e malinconico di Carl Philipp Emanuel Bach: cosa tanto piu` sorprendente in quanto, il 29 maggio, egli aveva posto termine a un’opera gioiosa come il Ratto dal serraglio, che sarebbe andata in scena il 16 luglio. La Fantasia in do K 396 (1782, 1802) e` un grande Adagio in forma bitematica e tripartita, con ripetizione integrale della prima parte. Mozart scrisse per pianoforte le prime ventidue battute, poi introdusse una parte di violino nelle cinque battute successive, in uno stile da sonata per strumento a tastiera con accompagnamento. Con la ventisettesima battuta si conclude l’esposizione, e di mano di Mozart non resta altro. L’abate Maximilian Stadler, compositore e teorico, completo` la Fantasia su sollecitazione della vedova di Mozart, che stava sagacemente gestendo il lascito del marito per concludere affari con gli editori. Siccome la parte del violino riguardava poche battute, e non era importante, lo Stadler riadatto` prima di tutto per pianoforte solo cio` che Mozart aveva scritto. Basandosi poi sulla forma della composizione, che era chiarissima, scrisse la riesposizione di ventisette battute, con i necessari mutamenti nel piano tonale e con una enfatizzazione strumentale delle ultime battute. Il problema piu` grosso era costituito dalla parte centrale, lo sviluppo. Lo Stadler compose uno sviluppo di diciotto battute, ben proporzionato e di alta qualita` estetica. Si tratta di una invenzione tutta dell’Abate, o questi pote´ lavorare 376

Fantasia K 396

su un abbozzo mozartiano che non ci e` pervenuto? La domanda e` ovvia, ma la risposta e` impossibile. La qualita` della composizione e` pero` tale che, senza offendere la memoria del buon abate Stadler, e` lecito supporre che una qualche traccia fosse stata lasciata da Mozart. D’altra parte, la scrittura strumentale, molto mossa, con un impiego del registro grave estremo e con l’incrocio della sinistra sulla destra, non sembra attribuibile al 1782 ma a epoca posteriore di una decina d’anni, e dovrebbe quindi essere opera dello Stadler. Anche il tipo di espressione dello sviluppo, assai passionale, contrasta con la drammaticita` classica e severa, sebbene intensissima, della esposizione. Ne´ lo stile ne´ la Stimmung espressiva sono secondo me omogenee, e neppure la forma mi sembra del tutto equilibrata, perche´ Mozart non si sarebbe probabilmente accontentato della enfatizzazione finale ma avrebbe ampliato la riesposizione con una coda conclusiva. Tuttavia, e pur con il grande rammarico che Mozart non abbia condotto a termine la composizione, c’e` da esser grati all’abate Stadler per il suo lavoro, che ha per lo meno favorito la conoscenza di una pagina mozartiana di impressionante tensione. Neppure la Fantasia in re-Re K 397 (1782, 1804) fu ultimata da Mozart: le battute conclusive furono aggiunte da August Eberhardt Mu¨ller. Le proporzioni dell’ultima parte sembrano un po’ ridotte rispetto al resto, e si tratterebbe anche di sapere se Mozart non avrebbe ripreso alla fine, com’e` stato da qualcuno supposto, l’episodio iniziale, cosı` come fece poi nella Fantasia K 475. Su cio` si puo` discutere all’infinito e non in modo conclusivo. Cosı` come ci e` pervenuta, la Fantasia in re e` fra le pagine piu` precorritrici dello spirito romantico, o che piu` impressionarono i romantici, e fu infatti popolarissima nell’Ottocento presso i dilettanti. La struttura e` in tre parti. Una specie di grave e meditativo preludio introduttivo in arpeggi, Andante, e` seguito senza soluzione di continuita` da un patetico Adagio bitematico: caratteristica importante dell’Adagio e` che i due temi, esposti in rondo` (primo tema in re, secondo in la, primo in la, secondo in sol, primo in re) sono interrotti da due cadenze virtuosistiche che ne spezzano l’andamento e ne prolungano i due momenti di massima tensione espressiva, con evidente riferimento alle ‘‘corone’’ delle arie vocali che erano lasciate alla improvvisazione del cantante, ma con il significato di veri e propri punti culminanti drammatici (in questo modo si comportera` spesso il Liszt delle parafrasi operistiche). Senza soluzione di continuita` segue l’Allegretto in Re, sereno e trasparente, quasi tutto giocato sui soli registro

Fantasia per un organo meccanico K 608

medio e acuto. Proprio l’intervento del registro basso e una piu` massiccia scrittura alla fine costituiscono, oltre alle proporzioni, la spia dell’intervento di un’altra mano. Nessun dubbio di tipo filologico, finalmente!, per la Fantasia e fuga in Do K 394 (1782, 1800), tranne che per il titolo: Fantasia, o Preludio? Mozart non pubblico` la composizione e l’autografo del primo pezzo (non della Fuga) e` andato smarrito. In una lettera al padre, Mozart parla di Preludo, ma non si puo` asserire categoricamente che il termine Fantasia sia stato inventato dall’editore, e quindi anche questo piccolo enigma e` destinato a non avere scioglimento. La Fantasia e` formata da un ampio Andante, introdotto da un breve Adagio e inframmezzato da un episodio, a cadenza, in arpeggi. La scrittura pianistica dell’inizio dell’Adante – accordi ribattuti, incrocio della sinistra sulla destra – potrebbe aver ispirato all’abate Stadler lo sviluppo della Fantasia K 396; ma qui la disposizione strumentale e` piu` secca e severa, e anche l’uso del pedale di risonanza (non indicato da Mozart) sembra dover essere piu` limitato. La costruzione delle frasi, rigidamente simmetrica, parrebbe ispirata dall’idea che Mozart si era fatto del barocco, e nettamente barocco e` l’episodio cadenzante, con grandi arpeggi che ricordano le fantasie di Bach padre e figlio. La Fantasia e` collegata alla Fuga a tre voci, su soggetto dal geometrico profilo e di austera costruzione. Mozart impiega i classici artifici del soggetto aggravato, dello stretto e del pedale, non disdegna lunghe progressioni, conclude raddoppiando in ottava i bassi: riprende insomma gli stilemi della antica musica cembalo-organistica, lasciando trasparire l’epoca in cui vive soltanto nell’uso di cromatismi che sarebbero parsi eretici a un compositore del buon tempo antico (magari, non al vecchio Bach). La Fantasia in do K 475 (1785, 1785), che rappresenta il culmine dello stile empfindsam in Mozart, fu pubblicata insieme con la Sonata K 457, con dedica a The´ re`se von Trattner. Pare che Mozart avesse mandato i due pezzi alla dedicataria, sua allieva, con una lettera esplicativa sulla esecuzione: lettera che, tanto per non smentire la tradizione dei piccoli rebus connessi con le Fantasie di Mozart, e` andata perduta. Sul contenuto della lettera non si son fatte supposizioni; sui rapporti fra Mozart e la von Trattner, giovane seconda moglie di un commerciante di lei molto piu` anziano (e che del resto le sopravvisse), di supposizioni se ne son fatte fin troppe. Che la Fantasia nasconda o no una qualche trama sentimentale e` cosa che non potra` mai essere chiarita. Certo e` che se una pagina pianistica puo` far pensare a un accostamento di

Wolfgang Amadeus Mozart

Mozart agli incubi del suo coetaneo Johann Heinrich Fu¨ ssli, questa e` la Fantasia in do. La prima parte dell’Adagio iniziale e` segnata dal cupo ritorno di un tema di sei suoni e da un’estrema mobilita` tonale, tanto che partendo dal do si arriva a concludere sul si (non si sa esattamente come Mozart accordasse il pianoforte, ma certamente non lo intonava secondo il temperamento equabile, e quindi certe tonalita`, come il si, dovevano suonare stridenti). La seconda parte dell’Adagio e` invece tonalmente immota (sempre in Re) ed e` caratterizzata dalla ossessiva, maniacale ripetizione di un breve frammento melodico. Un breve e tempestoso Allegro in la, tematicamente e tonalmente spezzettato e che si conclude con una cadenza di bravura, conduce a un Andantino in Si bemolle, bitematico. L’esposizione e` quella di un movimento intermedio di sonata, ma il discorso non si organizza e la forma viene mantenuta aperta: il senso della fantasia errabonda, del trascorrere di stato d’animo in stato d’animo non soggetto a vincoli formali, e quindi effettivamente fluttuante, e` qui tanto piu` vivo quanto piu`, all’apparenza, i due temi sembrerebbero dover dare vita a una forma chiusa. Mozart impiega in funzione cantabile tutti i registri, anche il registro basso, dando luogo a una specie di prebeethovenismo perche´ il basso cantante avrebbe catturato la fantasia del giovane Beethoven. Un nuovo episodio mosso, Piu` allegro in sol, quasi moto perpetuo, si spegne subito per dare origine a un recitativo in tempo, di intensa drammaticita` . La riesposizione abbreviata della prima parte dell’Adagio iniziale conclude la composizione, che riceve cosı` un inatteso suggello formale. La Fantasia in fa per un organo meccanico K 608 (1891) fu pubblicata nel 1799 in una trascrizione per pianoforte a quattro mani, opera forse di Johannes Mederitsch, maestro di composizione del figlio di Mozart. Piu` tardi uscı` la trascrizione di Clementi per pianoforte solo e uscirono trascrizioni per vari complessi strumentali; la trascrizione di Ferruccio Busoni, un tempo molto nota, e` per due pianoforti. La Fantasia e` in tre parti collegate: una fuga, un Andante, una doppia fuga. Ma la forma e` articolata in un modo originalissimo. La prima fuga e` preceduta da un episodio nello stile tipico dei movimenti lenti delle ouverture di Ha¨ndel, e siccome questo episodio viene riproposto alla fine della fuga e` proprio a una ouverture ha¨ndeliana che si pensa, sebbene le modulazioni seguano una logica per niente affatto barocca. L’Andante non ha nulla di barocco e il suo stile contrasta vistosamente con quanto si era ascoltato prima. La seconda fuga e` a sua volta preceduta e seguita dall’e377

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pisodio iniziale, ma alla sua conclusione troviamo una brevissima esposizione di un’altra fuga e una coda che con il barocco... non ci azzecca proprio. Lo strano miscuglio stilistico non impedisce pero` alla composizione di possedere una sua coerenza che non e` facile spiegare ma che si avverte molto bene. Sembrerebbe tuttavia che lo spazio disponibile nel rullo dell’organo meccanico costringesse Mozart a scorciare la doppia fuga e a concludere il pezzo piu` rapidamente di quanto non comportasse l’arco formale che si era fino a quel momento creato. La versione per pianoforte solo e` strumentalmente troppo povera, la versione di Ferruccio Busoni, strumentalmente magnifica, e` piu`... creativa di quanto sarebbe desiderabile e modifica formalmente e drammaturgicamente il testo mozartiano, dando cosı` luogo non a una trascrizione ma a un Mozart-Busoni. Percio` si preferisce oggi la versione a quattro mani che pero` , se presa cosı` com’e`, si sofferma troppo sul registro acuto dello strumento. E questo carattere, se e` sı` ‘‘fedele’’ alla destinazione all’organo meccanico che aveva poca estensione verso il basso, diventa pero` sul pianoforte un monotono carillon. La Fantasia e` cosı` meno nota di quanto meriterebbe di essere, non solo perche´ e` un pezzo affascinante ma perche´ apre anche la strada al recupero del barocco in Beethoven. Il Capriccio in Do K 395 (1777, 1833) era stato datato dal Ko¨chel al 1782 perche´ sembrava che fosse riferibile alla impressione suscitata in Mozart dalle composizioni di Carl Philipp Emanuel Bach. Si era poi supposto che si trattasse della composizione mandata da Mozart alla sorella il 31 luglio 1778 come dono di compleanno – in ritardo. L’analisi del manoscritto, ritrovato casualmente, ha fatto anticipare la datazione all’autunno 1777, durante la permanenza a Monaco, mentre il dono di compleanno dovrebbe piu` verosimilmente essere costituito dai Preludi K 284a (numero del catalogo Ko¨chel riveduto dall’Einstein). Il Capriccio ha il carattere di una improvvisazione, e potrebbe essere intitolato Fantasia o Cadenza perche´ della cadenza presenta certi caratteri (ad esempio, il trillo conclusivo e l’agilita` alternata fra mano destra e mano sinistra). Sono tre episodi collegati secondo lo schema mosso-lento-mosso, in una forma priva di simmetrie e con un linguaggio ricco di sperimentazioni che nel contesto delle produzione mozartiana dell’autunno 1777 spiccano per la loro singolarita`, tanto da avere comprensibilmente tratto in inganno il Ko¨chel. La Suite K 399 (1782, 1799) e` incompiuta e tonalmente non definita sebbene la si classifichi abitualmente come in Do. In Do e` la Ouverture nello sti378

Capriccio K 395

le di Ha¨ndel che apre la Suite, in do e` l’Allemanda, in Mi bemolle la Corrente, in sol la Sarabanda, che si arresta dopo sei sole battute. E` certamente singolare il fatto che, riprendendo un antico genere, Mozart non ne rispettasse una caratteristica essenziale, e cioe` la stabilita` tonale che prevedeva soltanto il mutamento del modo ma non della tonalita`. La parte lenta della Ouverture e` imponente e fa secondo me... sperare piu` di quanto la fuga non mantenga. Le due danze ultimate, sia per i profili melodici che per le reti tonali, sono molto piu` classiche che neobarocche. E la Sarabanda, che parte benissimo, in un modo che richiama le piu` severe composizioni analoghe di Bach, fa solo venire l’acquolina in bocca a chi legge le sue sei battute. La Fuga in sol K 401(1782, 1800), incompiuta, fu pubblicata in una versione per pianoforte a quattro mani dall’abate Stadler, che la ultimo`. Il suo carattere e` abbastanza anonimo, tanto che oggi si pensa sia stata composta ancora a Salisburgo intorno al 1772, quando Mozart era rientrato in patria dopo essere stato accolto nella Accademia Filarmonica di Bologna, e quindi prima di aver studiato le fughe di Bach. La Fuga in do per due pianoforti K 426 (1783, 1788) conclude e suggella gli studi di Mozart sul contrappunto barocco. Fuga a quattro voci, con impiego del soggetto per moto retto e per moto contrario, ampiamente sviluppata, solenne e severa di espressione, di impianto che solo verso la fine esce dal contrappunto rigoroso, e di sonorita` ‘‘barocca’’ nel senso del grandioso. Il soggetto codensa in poche battute l’opposizione fra quelli che Beethoven avrebbe definito ‘‘principio di opposizione’’ e ‘‘principio implorante’’, e il contenuto del pezzo e`, per questo motivo, drammatico. Mozart abbozzo` per la Fuga un Preludio ma non lo ultimo`. Nel 1788 trascrisse la Fuga per quartetto d’archi, facendola precedere da un Preludio del tutto diverso dall’abbozzo. La Piccola Giga in Sol K 574 (1789, 1792) e` una specie di appendice agli studi di Mozart sul barocco. Fu composta a Lipsia durante il viaggio che Mozart, in cerca di fortuna, intraprese in compagnia del principe Lichnowsky e che lo porto` a Berlino passando per Praga, Dresda e Lipsia. Mozart improvviso` a Lipsia sull’organo della Chiesa di S. Tommaso, l’organo che era stato di Bach, e ascolto` l’esecuzione di un mottetto di Bach. La Piccola Giga segue lo schema bachiano – scrittura contrappuntistica e inversione del tema nella seconda parte –, ma non e` un ricalco stilistico, anzi, la personalita` creativa di Mozart vi si afferma prepotentemente, pur nella brevita` quasi aforistica dell’impianto. La

Sonata per clavicembalo a quattro mani K 19d

Wolfgang Amadeus Mozart

Giga, trascritta per orchestra, apre la Suite n. 4 ‘‘Mozartiana’’ di Cˇajkovskij. Il Rondo` in Re K 485 (1786, 1786) fu composto per un’allieva di cui non si conosce altro che il cognome, von Wu¨ rben. La forma non e` quella canonica del rondo` con tre temi ma quella dell’allegro di sonata, monotematico invece che bitematico. Il tema e` tratto dal Quintetto op. 12 n. 6 di Johann Christian Bach, compositore che Mozart aveva conosciuto a Londra e rivisto a Parigi, e per il quale provava un sentimento di filiale devozione. Il tema di Bach viene usato da Mozart in modo del tutto autonomo senza che la sua grazia rococo` venga mai contraddetta. Diffusissimo fra i dilettanti nell’Ottocento, il Rondo` K 485 entro` raramente nel repertorio dei concertisti, ma fu uno dei pezzi di Mozart che Horowitz eseguı` spesso negli ultimi

anni della sua carriera. Il Rondo` in Fa K 494 (1786, 1788), in parte ritoccato, fu aggiunto ai due movimenti della Sonata K 533. Il Rondo` in la K 511 (1787, 1787) segue lo schema ordinario del rondo`, con primo tema in la, secondo in Fa, terzo in La, con un’espressione che oscilla fra una malinconia non dolorosa e una attonita serenita` , e con una coda che ha il tono di un addio alla vita. L’11 marzo Mozart componeva il Rondo`. Il 4 aprile, scrivendo al padre, ammalato, parlava della morte come di ‘‘questa amica sincera e carissima dell’uomo’’ in cui si trovava ‘‘la chiave della nostra vera felicita`’’. Il Rondo` K 511, insieme con la Fantasia K 397, colpı` fortemente la fantasia dei romantici e fu molto spesso eseguito dai maggiori concertisti (abbiamo in disco l’esecuzione di Paderewski).

Le Sonate Aveva cinque anni, Mozart, quando sentı` che il suo genio voleva dettargli qualcosa. Prese penna, carta e calamaio, e scrisse. O meglio, non scrisse perche´ non sapeva scrivere. Quello che il suo genio gli dettava lo eseguı` sul clavicembalo, e il buon papa` Leopold, che sapeva, prese carta, penna e calamaio, e scrisse. Il risultato e` un pezzo di dieci battute. Un tantino anomalo, specie per chi comincia a comporre, perche´ tutti sanno che la musica si organizza di solito per multipli di quattro battute, e il dieci... Ma molto anomalo per un altro verso: il suo genio detto` a Mozart quattro battute in 3/4 seguite da sei in 2/4. Comincio` cosı`, Mozart, come gli dettava un genio estroso che non si adeguava con facilita` agli schemi costituiti. Imparo` tuttavia anche gli schemi: imparo` prestissimo, ad esempio, a comporre minuetti che nella loro estrema semplicita` non avevano nulla da invidiare a quel che sapeva fare il professionista, imparo` a usare il basso albertino, imparo` a maneggiare l’allegro di sonata. Ma nel primo quaderno scritto da suo padre, e nel Quaderno londinese (1765, non numerato dal Ko¨chel) troviamo sempre, accanto alle buone maniere, anche le maniere sbarazzine di chi si fida piu` del suo orecchio che delle regole. E cosı` inciampiamo piu` volte nello ‘‘Io speriamo che me la cavo’’ che ha per noi un sapore piu` genuino e piu` piacevole dello ‘‘Io spero di cavarmela’’, e seguiamo con trepidazione il piccolo Mozart che cerca anche qualcosa non ancora trovato da nessuno. Come fara` per tutta la vita. Mozart, dicevo, comincio` a impratichirsi della forma tipica dell’allegro di sonata mentre era a Londra e poteva analizzare le Sonate di Johann Christian Bach. Nel cosiddetto Quaderno londinese si trovano varie esercitazioni di questo tipo. Le So-

nate K 6-9 (1762-1764, 1764) sono per clavicembalo con accompagnamento ad libitum di flauto o violino. Di alcune Sonate abbiamo notizia da una lettera della sorella di Mozart, ma non ne e` mai stata trovata traccia. Le due Sonate K 46d e 46e (1768), notate su due righi senza indicazioni di strumento, potrebbero essere per clavicembalo ma sembra a me, e a molti altri, che siano piuttosto per violino e violoncello. Le sei Sonate K 279-284, come ho gia` detto all’inizio, sono invece indubitabilmente pianistiche, sebbene scritte, almeno le prime cinque, senza che Mozart disponesse materialmente di un pianoforte. Prima di passare alle Sonate pianistiche bisogna pero` parlare di tre lavori che le precedono e nei quali Mozart acquisisce, se non proprio il dominio, per lo meno la disinvoltura nel trattare le forme. La Sonata in Do per clavicembalo a quattro mani K 19d (1765, 1788), scritta per un clavicembalo con due tastiere e che Mozart compose per eseguirla insieme con la sorella (un ritratto di famiglia dei Mozart, opera di Johann Nepomuk della Croce, molto piu` tardo perche´ del 1780-81, ci mostra Nannerl e Wolfgang che suonano a quattro mani, con la mano destra di Wolfgang che incrocia la mano sinistra di Nannerl), la Sonata K 19d, dicevo, e` davvero sorprendente, in un bambino di nove anni. Tre movimenti, senza movimento lento perche´ al secondo posto troviamo un Menuetto. Mozart sapeva scrivere graziosissimi minuetti fin dall’eta` di sei anni, e qui non si smentisce. Il primo movimento e` stilisticamente affine all’opera italiana del tempo, e del resto Mozart aveva sotto gli occhi le composizioni pianistiche di Johann Christian Bach, compositore di opere italiane di successo. Piu` sorprendente di tutti e` il terzo movimento, Rondo` , briosissimo e 379

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con inserito prima della conclusione un episodio in tempo lento. Un tempo si diceva che Mozart avesse addirittura inventato la sonata a quattro mani, poi si scoprirono altri lavori analoghi, press’a poco contemporanei. La Sonata K 19d dimostra dunque soltanto, ma non e` cosa da poco, che a nove anni Mozart seppe cogliere una novita` che si andava affacciando nel mondo della musica per tastiera e che seppe gia` tener testa ai suoi piu` anziani colleghi. La Sonata in Re K 381 (1772, 1783) e la Sonata in Si bemolle K 358 (1774, 1783), entrambe per pianoforte a quattro mani, portano numeri di catalogo che non corrispondono alla cronologia di composizione ma alla data di pubblicazione. La prima delle due Sonate fu composta dopo il secondo viaggio in Italia, la seconda poco prima del viaggio a Monaco per la messa in scena della Finta giardiniera, e quindi in momenti nei quali Mozart era molto impegnato con il melodramma. La Sonata K 381, scorrevolissima e brillantissima, risente di cio` in modo particolare: il primo movimento e` una vera e propria ouverture teatrale, il secondo e` un’aria e il terzo un finale d’atto. Nella Sonata K 358 gli spunti tematici sono ancora da melodramma ma vengono trattati in modo stilisticamente meno diretto, e anche la scrittura strumentale e` piu` inventiva nella distribuzione del tessuto fra i due esecutori. Questa Sonata rappresenta il tramite che porta alla Sonata in Do K 279 (1775, 1799). Il primo movimento ha un che di scenografico: il discorso e` largamente basato sull’eccitazione motoria di un ritmo uniforme, ma i temi sono formati da piu` sezioni e ogni nuovo disegno viene segnalato da spostamenti in zone diverse della tastiera o da assottigliamenti della sonorita`. Il secondo movimento e`, molto chiaramente, una traposizione sulla tastiera di un discorso che potrebbe appartenere a un complesso d’archi o a un’orchestra con archi e due coppie di strumenti a fiato: terze, seste, ottave, cioe` ispessimenti che aumentano la massa della sonorita` sono impiegati da Mozart in alternanza con la piu` semplice e lineare scrittura per tastiera del rococo`. I frequenti segni di dinamica fanno pensare a una precisa destinazione al pianoforte. Anche le ottave alla mano sinistra che si incontrano in alcuni punti del finale fanno pensare a una trasposizione pianistica di musica sinfonica e l’uso attentissimo e sagace delle diverse zone della tastiera mira a suggerire la varieta` timbrica dell’orchestra. La Sonata in Fa K 280 (1775, 1799) e` piu` ricca di invenzioni nella tecnica della tastiera. Particolarmente brillante e` il finale, che sfrutta una velocita` insolitamente alta in Mozart. Di certe caratteristiche del secondo movi380

Sonata K 381

mento ho gia` detto. Aggiungo che la qualita` musicale di questo movimento e` molto elevata e che la struttura di forma-sonata, bitematica e tripartita, malgrado le anomalie che ho fatto notare, appare in concreto perfettamente proporzionata. Anche il primo movimento e` in tempo piu` mosso dell’ordinario (Allegro assai invece di Allegro), e siccome il secondo movimento e` un Adagio invece di un Andante, si puo` supporre che Mozart intendesse sperimentare un effetto di massimo contrasto fra il movimento intermedio e i movimenti estremi, differenziando inoltre i caratteri espressivi fino a fare del movimento lento il centro emotivo, e fortemente emotivo della Sonata. Nella Sonata in Si bemolle K 281 (1775, 1799) la sonorita` diventa meno brillante e piu` sfumata. E` sempre molto difficile valutare la sonorita` di una composizione del Settecento e c’e` sempre il pericolo di fraintendere, col senno di poi, le intenzioni del compositore. Tuttavia e` per lo meno evidente che la sonorita` della Sonata K 281, pur non esattamente ricostruibile quale fu pensata da Mozart, e` diversa da quella della Sonata K 280. Il tessuto muscale e` molto leggero, le linee sono due soltanto, una delle quali sempre nettamente subordinata all’altra. Mozart non incontra dunque problemi nel rendere percepibili sulla tastiera i due eventi, e tutt’al piu` usa qua e la` qualche ispessimento della sonorita` per sottolineare alcuni particolari. Il secondo movimento, Andante amoroso, ricorda, come l’Andante della Sonata K 279, lo stile della musica orchestrale dell’epoca: il primo tema e` distinto chiaramente in due parti, una affidata alla massa intera, l’altra a due solisti, e nel secondo tema si notano interventi alternati di ‘‘soli’’ e di ‘‘tutti’’ (la composizione e`, anche in questo caso, una forma-sonata in miniatura). Il termine ‘‘amoroso’’, non infrequente nello stile galante, indica un intenerimento sentimentale che noi, oggi, possiamo solo ricostruire in ipotesi, ma che testimonia senza ombra di dubbio le intenzioni espressive del compositore. Il rondo` finale e` a nove episodi. La composizione e` dunque molto varia, ma breve, perche´ Mozart non sviluppa i temi e non inserisce passaggi di figurazioni virtuosistiche. La destinazione al pubblico dei dilettanti appare nella Sonata K 281 con evidenza maggiore che nelle due precedenti Sonate, e non e` neppure da escludere che Mozart avesse in mente diverse figure di dilettanti per i quali preparare di volta in volta la musica piu` adatta. La differenziazione dei pezzi, in una raccolta (e pare evidente che la prime sei Sonate siano state pensate come raccolta), era del resto condizione essenziale per interessare all’acquisto un pubblico il piu` vasto possibile. Mozart, nel 1775,

Sonata K 284

si trovava in un momento della sua carriera in cui la ricerca del successo stava venendo in primo piano. E il successo significava nello stesso tempo e prospettiva di lavoro in ambienti culturalmente qualificati e liberazione dalla tutela artistico-morale del padre. La Sonata K 282 (1775, 1799) e` la piu` breve e la piu` atipica della raccolta: sei pagine a stampa invece delle solite otto o dieci, un primo movimento lento invece che in tempo mosso, due minuetti come secondo movimento. Il minuetto, abituale nelle sinfonie e nei quartetti, frequente nelle Sonate per strumento a tastiera di Haydn, appare raramente nelle Sonate di Mozart. Altra caratteristica insolita della Sonata K 282 e` costituita dalla forma del primo movimento: forma-sonata, ma senza il primo tema nella riesposizione, e cioe` secondo un modulo molto raro, gia` in verita` incontrato nella Sonata K 19d, che sara` prediletto, molti anni piu` tardi, da Chopin. Il finale e` in forma-sonata, regolarissimo. Nella quinta Sonata in Sol K 283 (1775, 1799) notiamo un salto di qualita` che stacca piu` nettamente Mozart dai suoi contemporanei. Sia il primo che l’ultimo movimento, entrambi in forma-sonata, sono ricchi di trovate strumentali che rendono piu` varia la scrittura e che si discostano dai moduli riscontrabili in altri compositori. La pagina decisiva, per la definizione della personalita` di Mozart, e` tuttavia il movimento intermedio, Andante in Do. Lo schema espositivo di base e` ancora quello della alternanza fra la massa dell’orchestra e alcuni solisti, ma i trapassi dall’una all’altra alternanza sono levigatissimi, tanto che non si puo` piu` parlare di trasposizione dall’orchestra alla tastiera, ma solo di movimento di masse e densita` diverse. In precedenza, in altre parole, Mozart aveva usato la tastiera al modo di un microcosmo con cui si puo` riprodurre come in una stampa il macrocosmo dell’orchestra, qui usa la tastiera come laboratorio sperimentale per invenzioni che piu` tardi potranno essere adottate in orchestra. Da notare anche che il trapasso dal primo al secondo tema – siamo sempre alla forma-sonata, che in genere Mozart predilige per tutti i movimenti – avviene senza soluzione di continuita`, ed e` da notare inoltre che una parte del primo tema, nella riesposizione, e` trasportato al quarto grado (soluzione strutturale che verra` adottata spesso da Schubert). Mozart, dicevo, adotta di preferenza lo schema della cosiddetta forma-sonata – bitematico e tripartito – che era stato messo a punto di recente e che consentiva percio` il massimo di sperimentazione individuale. Nel giro di pochi mesi egli riesce cosı` a individuare persino due possibili varianti che, come detto, verranno esplorate a fondo da Schubert e da Chopin.

Wolfgang Amadeus Mozart

La Sonata in Re K 284 (1775, 1784) fu composta a Monaco per il barone Thadda¨ us von Du¨ rnitz (che fece poi penare Mozart prima di versargli la somma pattuita). Il titolo di uno schizzo (Sonata VI) e la scelta della tonalita` dimostrano la volonta` di Mozart di avere pronto un ciclo di sei Sonate: K 279 in Do (nessuna alterazione in chiave), K 280 in Fa (un bemolle), K 281 in Si bemolle (due bemolli), K 282 in Mi bemolle (tre bemolli), K 283 in Sol (un diesis), K 284 in Re (due diesis). La partecipazione alla intensa vita musicale di Monaco, che lo porto` a scrivere in brevissimo lasso di tempo un considerevole numero di composizioni di vario genere, indusse pero` Mozart a rinnovare a fondo le prospettive entro le quali si era mosso nelle prime cinque Sonate: rispetto alle sei o otto o dieci pagine a stampa delle precedenti la K 284 occupa diciotto pagine, e la sua difficolta` tecnica e` piu` elevata. Lo schizzo prima citato e` di una scrittura tanto poco pianistica da parere – se non ci fosse il titolo Sonata VI – l’abbozzo di una sinfonia. La versione definitiva, scritta superbamente per tastiera, con movimenti delle braccia che hanno un valore gestuale tutt’altro che secondario a fini spettacolari, conserva in parte il carattere d’una sinfonia, di grandi movimenti di masse e di timbri, perche´ la conoscenza dell’orchestra di Monaco, molto piu` evoluta di quella di Salisburgo, conduce di nuovo Mozart a cercare di riprodurre sulla tastiera immagini sinfoniche e a scoprire nel pianoforte risorse ancora non note. Il secondo movimento e` apparentemente meno nuovo perche´ per lunghi tratti presenta la semplice scrittura dello stile galante. Le prime quattro battute riproducono pero` in termini pianistici l’alternanza rapida di archi e fiati, giocando sul contrasto fra forte e piano e su minimi spostamenti sulla tastiera. Le prime quattro battute del primo tema ritornano altre cinque volte nel corso del pezzo e ogni volta sono variate nel disegno e nella strumentazione senza perdere mai le loro caratteristiche di fondo. Si dovrebbe qui aprire un discorso sulle varianti ornamentali che Mozart concedeva all’iniziativa dell’esecutore. Si tratta di un tema molto interessante, ma che mi porterebbe troppo lontano. Faccio pero` notare come in questa occasione, e in altre ancora, Mozart preferisca scrivere le varianti invece di affidarle al gusto dell’esecutore: la variante diventa, da ornamentale che era, strutturale, e su questa trasformazione verra` piu` tardi impostato uno dei piu` geniali movimenti lenti mozartiani, l’Adagio della Sonata K 457. Il secondo movimento della Sonata K 284 non e` un vero e proprio movimento lento ma un Rondeau en polonaise (rondo` alla polacca, ma il ritmo 381

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Wolfgang Amadeus Mozart

non e` quello, notissimo, della polacca ottocentesca). Il finale e` un tema con ben dodici variazioni. Il tema – a modo di canto popolare, forse una canzone parafrasata da Mozart – e` seguito da un primo gruppo di quattro variazioni virtuosistiche che servono a dimostrare l’agilita` dell’esecutore (anche della mano sinistra, la piu` impacciata per natura). Dopo una variazione di collegamento, un secondo gruppo di quattro variazioni e` organizzato come polittico in cui al primo pannello (var. VI) fa da corrispettivo, da pendant, l’ultimo (var. VIII); le due variazioni intermedie sono invece fortemente contrastanti: una (VI) sull’incrocio delle mani, una (VII) molto espressiva, in modo minore. La variazione IX riprende timidamente e un poco ironicamente i procedimenti imitativi del barocco, accennando a due canoni, uno per moto retto e uno per moto contrario. La variazione X sfrutta la caratteristica sonorita` delle ottave spezzate, piu` vaga e piu` ‘‘impressionistica’’, sui pianoforti del tempo di Mozart, di quanto non sia oggi sui nostri pianoforti. Centro emotivo della collana di variazioni, la XI, Adagio cantabile, trasporta sulla tastiera la cantabilita` ornata in cui erano maestri i cantanti evirati: cantabilita` non patetica, ma tenera e sentimentale, fatta di ricami espressivi e adattissima al pianoforte perche´ priva dei lunghi suoni sostenuti che al pianoforte sono preclusi. La variazione XII conclude il lavoro in modo deciso e brillante, e con un passo finale della mano sinistra che mette spettacolosamente in mostra la bravura dell’esecutore. Mozart non riuscı` a pubblicare nel 1775 le sei Sonate, ne´ ci riuscı` a Parigi nel 1778, ne´ quando si stabilı` a Vienna; anche suo padre tento` invano di ‘‘piazzare’’ la raccolta. Nel 1784, capitatagli l’occasione di pubblicare tre Sonate per un editore viennese, Mozart scelse la K 454 (con accompagnamento di violino), la K 333 e la K 284, aggiungendo nella variazioni XI della K 284 una piu` ricca ornamentazione. Nel momento in cui faceva conoscere al pubblico di Vienna i Concerti K 449, 450 e 451, Mozart ritenne dunque ancora degna del suo nome la Sonata K 284, che si stacca effettivamente dalle cinque che la precedono non tanto per il valore estetico assoluto, quanto per le piu` ampie proporzioni e, soprattutto, per una ricerca sullo strumento che fa di Mozart il primo grande pianista. Partendo da Salisburgo nel settembre del 1777, con meta Parigi, Mozart portava con se´ sei Sonate, due serie di variazioni e cinque Concerti. Durante le varie tappe del viaggio – Monaco, Augusta, Mannheim – riuscı` a far ascoltare tutti i Concerti ed eseguı` in pubblico le Sonate K 283 e 284; in riunioni private eseguı` piu` volte le sei Sonate e le 382

Sonata K 309

due Variazioni. In novembre, mentre si trovava a Mannheim, aggiunse al suo repertorio la Sonata in Do K 309 (1777, 1782) che, come apprendiamo dalle lettere al padre, fu scritta per Rose Cannabich, figlia del musicista di corte con cui Mozart si era legato di viva amicizia. Se la Sonata K 309 fu calcolata sulla capacita` di una ragazzina bisogna dire che la quindicenne Rose Cannabich, descritta nelle lettere di Mozart come personcina sensibile e riflessiva, doveva essere pianista dotata di una tecnica molto brillante, perche´ la Sonata e` difficile e richiede incisivita` di suono, indipendenza fra le mani e una completa padronanza della scansione ritmica. Qualcuno ha fatto l’ipotesi, essendo andato smarrtito il manoscritto, che la copia in nostro possesso, opera di Leopold Mozart, sia frutto di un... rimaneggiamento paterno, e per questa ragione Friedrich Gulda escludeva la Sonata dalla sua ‘‘integrale’’. A parte cio` , e prendendo la Sonata per come la conosciamo, possiamo dire che la difficolta` tecnica non consiste piu` nel movimento di masse diverse della Sonata K 284. Non si puo` del resto non ricordare che fra le due Sonate si colloca il Concerto K 271, decisivo nella evoluzione stilistica di Mozart per la maturazione di una personale concezione dello strumento. Fra le piu` interessanti novita` strumentali della Sonata K 309 c’e` da ricordare l’uso in funzione melodico-tematica dei registri medio e grave. Il secondo tema del primo movimento viene presentato, nella esposizione, in una posizione tradizionale, con l’evento secondario in registro medio e l’evento principale in registro acuto, ben distanziati e facilmente percepibili, come se fossero collocati in un primo e in un secondo piano. Nella riesposizione la collocazione e` all’inverso, e la posizione e` piu` stretta: l’orecchio dell’ascoltatore, colto l’arrivo dell’evento secondario, deve poi andare alla ricerca dell’evento principale, che proviene da un posizione imprevedibile (e Mozart introduce un crescendo sfociante in piano, che accentua l’emozione dell’attesa). Lo spostamento di registro non e` piu` solo usato, come nella Sonata K 279, per avvertire l’ascoltatore del mutare degli eventi, ma per un effetto di sorpresa e quindi, in senso lato, di teatralita`. Di forte teatralita` e` la conclusione della Sonata: al termine di un Rondo` molto movimentato, con passi di agilita` a due mani e continui cambiamenti di densita` ritmica, l’ascoltatore si aspetterebbe due accordi clamorosi e secchi che dessero il segnale della fine. Invece Mozart riprende, per le otto battute conclusive, il frammento iniziale del tema principale, in modo quieto e mormorato, usando il registro medio-grave e costringendo anche questa volta l’ascoltatore ad andare a cercare un evento che giun-

Sonata K 311

ge da una posizione inattesa. Il senso scenografico-teatrale degli eventi sonori costituisce secondo me il momento piu` interessante degli esordi di Mozart sonatista. Per questo aspetto Mozart e` molto di piu` l’erede dell’italo-spagnolo Domenico Scarlatti che del tedesco Johann Sebastian Bach. Bach usa la tastiera come spazio sferico e convergente su un punto che viene spostato ma che resta sempre il centro focale dell’attenzione. Scarlatti e Mozart la usano come spazio aperto, multidimensionale, in cui gli eventi sonori coesistono da protagonisti e si muovono, scompaiono, riappariscono. Se per Bach spazio e tempo coincidono, nel Mozart di questo periodo la tastiera mima un teatro che a sua volta mima uno spazio naturalistico in cui gli stimoli auditivi provengono all’ascoltatore da piu` direzioni. Si potrebbe benissimo dire che il secondo tema della Sonata K 309 e` come un evento sonoro che, presentatosi la prima volta di fronte all’ascoltatore, si presenta una seconda volta alle sue spalle, e che Mozart, dopo aver creato l’equivalente della sala teatrale, utilizza talvolta, oltre al palcoscenico, la platea e i palchi, o si potrebbe dire che sfrutta l’esperienza delle audizioni musicali nel duomo di Salisburgo – spazio barocco che i musicisti locali usavano in tutte le sue potenzialita`, collocandosi accanto ai diversi organi situati in posizioni diversificate – e delle serenate all’aperto. Il paragone non puo` essere spinto oltre limiti che diventerebbero paradossali; a me sembra pero` che nelle Sonate del 1775-1778 si manifesti in modo lampante la vocazione teatrale di Mozart, che non e` ancora vocazione alla drammaturgia ma alla utilizzazione dello spazio come luogo di collocazione degli eventi sonori. Nel secondo movimento della Sonata K 309 Mozart si riallaccia alle esperienze del secondo movimento della K 284, conducendole in modo piu` coerente perche´ nessun residuo vi rimane di stile galante. Il principio che Mozart segue e` quello della ripetizione variata, ma la forma e` atipica (tema A a sua variazione, tema B e seconda variazione del tema A, variazione del tema B, terza variazione del tema A, coda). La Sonata in Re K 311 (1778, 1782), composta a Mannheim, era probabilmente destinata a far valere il pianista Mozart: e` difficile, molto difficile, con alcuni passi che anche oggi richiedono una tecnica da concertista. Mozart sfrutta qui le trovate della Sonata K 309 in modo piu` marcatamente bravuristico, e soprattutto il Rondo` finale, molto ampio, richiede una padronanza della tastiera e una capacita` di sostenere la tensione virtuosistica che rivelano chiaramente il rapporto con il pubblico eterogeneo della sala di concerto. Il concerto per pianoforte e orchestra, la

Wolfgang Amadeus Mozart

sonata per pianoforte solo, l’improvvisazione erano i generi che i pianisti praticavano in pubblico. Ad esempio, il programma che Mozart sostenne ad Augusta il 22 ottobre 1777 comprendeva: 1) Sinfonia; 2) Concerto per tre pianoforti [K 242]; 3) Sonata [K 284]; 4) Concerto [K 238]; 5) ‘‘Secondo il tempo che rimarra` , una fantasia liberamente fugata nello stile della musica chiesastica’’; 6) Sinfonia. Pochi anni piu` tardi Mozart non avrebbe piu` eseguito sonate per pianoforte solo, evidentemente perche´ il pieno gradimento del pubblico pagante per il genere era scemato, e per molto tempo ancora, fino a circa il 1830, nessun pianista avrebbe abitualmente eseguito in pubblico sonate. Ma nel 1777, dando inizio a un processo storico che nel giro di cinquant’anni circa avrebbe portato alla affermazione del concerto pubblico come forma istituzionale di diffusione della musica, Mozart cercava di portare in sala di concerto anche la sonata, legata fino a quel momento all’uso privato dei dilettanti. Il senso della sonorita` orchestrale nella Sonata K 284, il senso dello spazio nella Sonata K 309, il virtuosismo di bravura nella Sonata K 311 rivelano appunto una trasformazione nella concezione della sonata per pianoforte solo, che da composizione adatta alla lettura nella piccola cerchia familiare aspira a diventare spettacolo. Fra i tanti caratteri spettacolari della Sonata K 311 possiamo notare un episodio di agilita` prolungata nel primo movimento, che postula il concetto di resistenza, un episodio alla conclusione del secondo movimento in cui il tessuto, fino ad allora squisitamente pianistico, prende d’improvviso l’andamento di un grande ‘‘tutti’’ orchestrale, un passo del primo movimento in cui un breve frammento viene spostato successivamente in tutte le zone della tastiera in cui puo` essere collocato. La trasposizione delle molteplici dimensioni dello spazio nella dimensione unidirezionale e priva di profondita` del pianoforte e` analoga alla riduzione a due dimensioni dello spazio nel quadro e alla ricostruzione mentale dello spazio stesso nella visione dello spettatore. In questo momento della sua attivita` creativa Mozart, impegnato nella conquista di un pubblico che lo viene ad ascoltare in quanto pianista-concertista, non in quanto compositore, cerca secondo me di riprodurre sulla tastiera l’immagine della musica negli ambienti – il teatro, la chiesa, l’aria aperta – tradizionalmente riservati alle audizioni musicali di massa. E, sia detto per inciso, solo ponendo mente a questi caratteri della sua ricerca si possono valutare e apprezzare pienamente le prime otto Sonate di Mozart. La maggiore popolarita` delle Sonate successive non dipende infatti soltanto dall’ovvia constata383

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zione che l’artista diventa sempre piu` maturo, ma anche dalla non individuazione del problema che Mozart si poneva agli inizi della sua attivita` di esecutore in pubblico e nella cui soluzione gettava una capacita` inventiva gia` in tutto degna del suo genio. La Sonata in la K 310 (1778, 1782) sfrutta i risultati, ma capovolge le intenzioni della ricerca condotta con le Sonate K 284, 309 e 311. La strumentazione pianistica, che nella Sonata K 311 era pervenuta alla maturita`, viene volta nella K 310 verso significati non piu` semplicemente teatrali ma drammatici: nello sviluppo del primo movimento, ed e` questo uno dei momenti memorabili della letteratura pianistica del Settecento, il flusso ritmico continuo e le ripercussioni di frammenti, simili a quelli della Sonata K 311, suggeriscono, invece dell’idea dello spazio, una sensazione di vortice in cui cozzano, con inaudita asprezza armonica, spezzoni di melodia. Anche nel secondo movimento, molto ampio e in forma-sonata, il punto culminante e` raggiunto nello sviluppo, in un lungo episodio in cui il ritmo diventa ossessivo. L’impiego di tutti i registri, la scrittura ricchissima, la tensione virtuosistica a cui e` sottoposto l’esecutore diventano gli elementi costitutivi di un affresco apocalittico e la forma-sonata scopre lo sviluppo come culmine di un dramma che si placa catarticamente nella riesposizione. Nel finale il ritmo ossessivo pervade tutta la composizione. La forma e` tripartita: prima parte (esposizione di forma-sonata monotematica), seconda parte (secondo tema), riesposizione abbreviata e brevissima coda. Il culmine emotivo e` raggiunto anche qui nella parte centrale (il nuovo tema che sostitusce lo sviluppo), ed e` raggiunto, paradossalmente, con il massimo della dolcezza, con una mormorante ninna-nanna di angosciosa fissita`. La Sonata fu scritta probabilmente durante la malattia o poco dopo la scomparsa della madre, che aveva accompagnato Mozart a Parigi e che vi morı` il 3 luglio. Le vicende tragiche e i sentimenti che appaiono nelle lettere al padre e a un amico di famiglia potrebbero condurre, e potrebbero giustificare anche una spiegazione psicanalitica della Sonata. Penso che cio` non sia necessario: il significato emotivo appare evidente quando si consideri lo stato d’animo di un giovane che a ventidue anni, partito per una capitale della musica in cui aveva trionfato da fanciullino, assiste all’agonia della madre e vede svanire a una a una tutte le speranze di successo. Questa terrificante esperienza umana porta Mozart a scoprire non solo nella musica, ma nella forma-sonata e nel pianoforte il linguaggio dei piu` profondi sentimenti dell’uomo. Al di la` della personale vicenda esistenziale e` pero` lo spiri384

Sonata K 310

to dei tempi, e` lo Sturm und Drang che scuote Mozart, come scuote Haydn, e che stacchera` da questo momento la cultura tedesca dalle culture inglese, francese, italiana. A un periodo di stile internazionale, lo stile galante del rococo`, segue un periodo di differenziazione delle culture. E l’inizio di questo momento e` segnato, per Mozart, dalla Sonata in la minore, prima presa di coscienza che portera` piu` tardi l’artista alla ricerca dell’indipendenza dal potere economico delle classi dominanti e a un tentativo di liberazione che cozzera` non tanto contro i tempi quanto contro la struttura sociale ancora semifeudale dell’Austria, e che verra` percio` duramente pagato. Una importante scoperta del periodo parigino riguarda la rottura delle simmetrie apollinee, sia nella Sonata K 310 che nella K 309, mentre meno inmovativa e` sotto questo aspetto la K 311. Le architetture musicali sono basate sul modulo di quattro battute (la battuta e` il nucleo metrico fondamentale). Se guardiamo l’esposizione del primo movimento nella Sonata K 284 troviamo questi raggruppamenti di battute: 4, 4, 4, 4, 5, 4, 4, 4, 4, 3, 3, 4, 4. Le irregolarita` sono quindi limitate e riguardano nel primo caso un allungamento della transizione prima del secondo tema, e nel secondo caso un piccolo colpo di scena che avviene nella coda. I raggruppamenti, nella esposizione della Sonata K 309, sono i seguenti: 7 (2 + 5), 7 (2 + 5), 3, 3, 6, 6, 6, 4, 3, 4, 4. Nell’esposizione del primo movimento della Sonata K 310 abbiamo: 5, 3, 7, 4, 3, 4, 5, 3, 5, 5, 5. Nell’esposizione del primo movimento della Sonata K 311 abbiamo: 3, 3, 4, 2, 4, 4, 3, 4, 4, 4, 4. Nelle Sonate K 309 e K 310 il raggruppamento ordinario di quattro in quattro battute diventa dunque eccezionale invece che normale, e cio` porta allo sconvolgimento della struttura fraseologica, come se dall’ottava passassimo alla strofa libera, con raggruppamenti di cui l’ascoltatore non puo` prevedere la dimensione. La regolarita` fraseologica viene invece usata per un effetto di ossessione ipnotica nel finale della Sonata K 310, in cui troviamo cinquantasette raggruppamenti di quattro battute contro quattro soli di tre battute e due di sei (4 + 2). La regolarita` o la irregolarita` dei raggruppamenti metrico-ritmici della musica del periodo classico non viene oggi facilmente percepita dall’ascoltatore; anzi, si puo` dire che non viene percepita affatto, neppure nelle musiche di danza uniformemente ritmate. Le Sonate del periodo parigino postulano quindi problemi di esecuzione, o meglio si dovrebbe dire, di comunicazione, cioe` di percezione da parte dell’ascoltatore di una struttura metrico-ritmica non ele-

Sonata K 332

mentare. E questo problema non e` stato ancora affrontato in profondita`. Le Sonate K 309, 310 e 311 vennero acquistate dall’editore Heina di Parigi ma furono da lei – era una donna – pubblicate solo quattro anni dopo. Il 13 agosto 1778 Leopold Mozart mandava al figlio una lettera giudiziosa, consigliandogli di scrivere qualcosa ‘‘di facile, di popolare’’. E aggiungeva: ‘‘Credi forse di abbassarti, scrivendo cose di tal genere? Non e` assolutamente il caso! Che altro ha pubblicato Bach a Londra, se non simili bagatelle? Quel che e` piccolo e` grande, purche´ sia naturale, di scrittura fluida e facile e ben costruito. Cio` e` piu` difficile di tutte le progressioni armoniche artificiali incomprensibili ai piu`, e piu` delle melodie difficili da eseguire. Bach si e` percio` abbassato? Per niente!’’. Le Sonate di Hu¨llmandel e i Concerti di Scho¨ ter, che Mozart acquisto` a Parigi, e le Sonate che Bach stava per pubblicare erano cio` che il mercato poteva in quel momento assorbire con facilita`. L’editore Heina fece uscire le tre Sonate di Mozart quando il mercato diede qualche segno di evoluzione, e cioe` dopo la pubblicazione a Parigi delle rivoluzionarie Sonate op. 2 di Clementi, che Clementi aveva fatto conoscere e apprezzare frequentando i salotti. Si direbbe che Wolfgang facesse tesoro dei consigli paterni quando, ormai trapiantato a Vienna, compose la Sonata in Do K 330 (1781 o 1783, 1784). Dal punto di vista della strumentazione pianistica questa Sonata rappresenta infatti un ritorno alle concezioni del 1775, cioe` della musica per i dilettanti colti. L’impegno virtuosistico e` limitato sia nel primo che nel terzo movimento, la mano sinistra viene lasciata in pace, non vengono scomodati i registri estremi e il massimo della concentrazione musicale e` riservato al movimento intermedio, in cui il tempo moderato consente all’esecutore dilettante di dominare un tessuto piu` complesso. Dopo l’Andante con espressione della K 311 e dopo il Cantabile con espressione della K 310, Mozart riprende di nuovo il termine ‘‘cantabile’’. L’attenzione di Mozart e` rivolta in questo caso a durate del suono pianistico in cui venga ridotta al minimo la riduzione di intensita` che e` tipica del pianoforte e che impedisce al pianoforte, in senso stretto, di ‘‘cantare’’. L’Andante cantabile della Sonata K 330 scopre quel cantabile pianistico intimistico che verra` prediletto dai miniaturisti romantici e, come generalmente nei romantici, adotta la forma di canzone, con un primo tema, uno stupendo secondo tema in modo minore di una dolcezza trasognata, la riesposizione del primo tema e una breve cosa basata sul secondo tema in modo maggiore. Insolito il piano tonale – Fa-fa-Fa – che probabilmente venne scelto da

Wolfgang Amadeus Mozart

Mozart per mantenere inalterata la qualita` di base della sonorita`. L’autografo della Sonata K 330 porta il titolo Sonata I, quello della Sonata K 332 porta il titolo Sonata III (dell’autografo della Sonata K 331 ci sono rimaste solo alcune pagine del finale). Sembra dunque certo che, pur avendo ancora da ‘‘piazzare’’ il primo gruppo di sei Sonate, Mozart vedesse la possibilita` di trovare un acquirente per una raccolta scritta tenendo ben d’occhio il mercato. Riuscı` nel proposito, e ci riuscı` anche se, dopo la K 330 ben adatta a mani graziose e un poco maldestre, richiese pazienza e tenacia ai dilettanti che volevano uscire indenni dalle insidie della Sonata in La K 331 (1781 o 1783, 1784). Composizione atipica e di forma unica nella produzione di Mozart, la Sonata K 331 comincia con un tema con sei variazioni. Il tema e le prime due variazioni confermano l’intenzione di adeguarsi al gusto e alla cultura dei probabili utenti. La terza variazione, in la, segna pero` un brusco trapasso verso un diverso orizzonte stilistico. Il demone della ricerca sperimentale porta Mozart a studiare di nuovo la trasposizione sul pianoforte dei timbri orchestrali: qui e` l’ottava legata, che riprende evidentemente la strumentazione flauto-oboe, e che sul pianoforte, al contrario che sul clavicembalo, puo` essere intonata con timbri e intensita` leggermente diverse. Nella quarta variazione Mozart scopre una forma di raddoppio orchestrale ancora piu` raffinata, sfrtuttando l’incrocio della mano sinistra sulla destra e, probabilmente, il pedale di risonanza. Le altre due variazioni tornano verso piu` consueti moduli stilistici (il che non influisce sulla loro qualita` estetica, e non la limita), cosı` che tutto il primo movimento acquista una curva psicologica di distensione-tensione-distensione. Il Minuetto e` nettamente sinfonico; specialmente nel trio, sfruttando a fondo l’incrocio della mano sinistra sopra la destra, Mozart trova soluzioni illusionistiche di timbrica molto variegata. Il finale, il celeberrimo Alla turca, cosı` intitolato perche´ suggerisce in alcuni momenti l’insieme di triangolo, piatti e grancassa che si trovava nelle musiche militari dei reggimenti ottomani, e` costruito in modo singolarissino: tema A, ritornello, tema B, ritornello, tema A, ritornello variato, coda. All’origine c’e` dunque una marcia (tema A) con trio (tema B), ma Mozart, che gia` aveva adottato la forma con trio nel Minuetto, rende piu` flessibile e piu` ambiguo il finale con la geniale inserzione del ritornello. La Sonata in Fa K 332 (1781 o 1783, 1784) e` assai difficile, specialmente nel finale, ma di scrittura molto lineare. La serenita` del primo movimento e` appena turbata da un episodio con improvvisi ac385

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centi, e cosı` pure il lirismo disteso del secondo movimento si increspa per le oscillazioni di modo (maggiore-minore) che diventeranno molto piu` tardi una costante dello stile mozartiano. La forma dell’Adagio e` una forma-sonata senza sviluppo: esposizione, riesposizione. Si tratta di una forma non infrequente nelle ouverture teatrali, e che in questo caso porta a risultati espressivi soltanto parateatrali. Mozart, dopo la Sonata K 310, ci sembra orientato verso la drammaticita` e l’intimismo interiorizzato della introspezione e, forse, sta rinunciando alla sonata come veicolo di comunicazione con il pubblico delle sale da concerto. Il finale della Sonata K 332 e` pero` ancora un finale virtuosistico in cui il Mozart pianista doveva sfoggiare la leggerezza e la brillantezza del suo tocco. Si noti pero` come il virtuosismo sia qui tutto affidato a movimenti fulminei di linee, non di masse e di volumi. Al primo periodo viennese e` ancora da ascrivere l’Allegro in Si bemolle K 400 (1781, 1826), scherzosa e bizzarra composizione scritta per la fidanzata e che avrebbe dovuto essere un primo movimento di sonata. Mozart si interesso` alla musica per due pianoforti nel 1781, dopo essersi stabilito a Vienna e nel periodo in cui cercava di sfruttare tutti i modi possibili per affermarsi nella capitale, la ‘‘pianolandia’’, come egli la definiva. La Sonata in Re K 448 (1781, 1795) fu composta per uno di quei concerti privati che servivano a Mozart da biglietto di presentazione; fu eseguita insieme con una bravissima allieva, Josephine Aurnhammer, ‘‘con molto successo’’, come Mozart scrisse al padre, e fu rieseguita, sempre con la Aurnhammer, all’inizio del 1782. Abbiamo notizia certa di una sola altra esecuzione, nel 1784, con Barbara Ployer. La musica per due pianoforti puo` essere strutturata come musica per un pianoforte, ma con raddoppi, ispessimenti della sonorita` ed effetti di stereofonia, oppure puo` dare origine a un discorso polifonico irrealizzabile su una sola tastiera. Nella Sonata K 448 Mozart scelse l’alternativa piu` semplice. Le possibilita` delle due tastiere dovettero tuttavia stimolare molto il suo interesse, se al principio del 1782 inizio` una nuova Sonata, in Si bemolle, da eseguire con la Aurnhammer. Questa Sonata, nettamente piu` evoluta della sorella, non fu compiuta; ne´ fu compiuta un’altra Sonata, anch’essa in Si bemolle, iniziata nello stesso periodo, e una Fuga, destinate entrambe a essere eseguite da Mozart con la sua prossima sposa Costanza Weber, mentre... ando` in porto la Fuga in do di cui ho gia` detto. Nella Sonata K 448 la sensibilita` pianistica di Mozart si rivela dal modo in cui sono scritti i raddoppi, che avvengono prevalentemente a incastro 386

Allegro in Si bemolle K 400

fra i due pianoforti, cosı` da creare una massa di suono spazialmente omogenea. In alternativa alla massa omogenea, Mozart cerca l’effetto stereofonico. Ad esempio, il secondo tema del primo movimento, che potrebbe essere eseguito senza alcun sforzo da un solo esecutore, viene invece diviso fra i due pianoforti: uno esegue la melodia, l’altro una specie di rintocco intermittente, con un effetto curioso e affascinante di spazializzazione delle fonti sonore. Molto frequenti gli effetti di ripetizione immediata, che creano antagonismo fra i due esecutori. Gli effetti polifonici, potenzialmente i piu` singolari della scrittura per due pianoforti, nella Sonata in Re vengono appena accennati, specialmente nell’episodio che segue il secondo tema del primo movimento (un piccolo canone libero alla seconda) e, sempre nel primo movimento, all’inizio dello sviluppo. La Sonata, scritta in uno stile piano, tradizionale, galante, e pensata come brillante opera di intrattenimento, non di ricerca, non presenta per l’ascoltatore altri problemi che non siano quelli di seguire effetti strumentali insoliti in un discorso agevolmente comprensibile. Per due pianoforti Mozart compose ancora, e lascio` incompiuti, un Larghetto e Allegro in Mi bemolle (1782-1783, 1964), non schedati dal Ko¨ chel e completati dall’abate Stadler. Si tratta in realta` non di due pezzi ma di un Allegro con introduzione, pensato forse come fantasia, molto spigliato, vivace e cinguettante, che non presenta alcuna novita` di scrittura rispetto alla Sonata in Re. La Sonata in Si bemolle K 333 (1783 o 1784, 1784) e` la piu` perfetta e la piu` varia commedia sentimentale fra le Sonate di Mozart per pianoforte solo, e ricorda il teatro borghese di Lessing con la sua analisi dei sentimenti razionalistica e affettuosa insieme. E` stata piu` volte notata la somiglianza fra l’inizio della Sonata di Mozart e l’inizio della Sonata op. 17 n. 4 di Johann Christian Bach. Puo` darsi – scarto la supposizione, molto improbabile, di una somiglianza casuale – che Bach avesse mostrato a Parigi le Sonate che stava per pubblicare e che Mozart avesse costruito su uno spunto bachiano un romanzo-saggio o una commedia-saggio. Stile parabachiano che pervade il primo movimento. Ma non il secondo, per un uso del registro basso posto in evidenza e per certi rigiri di suoni strani che esemplificano ad abundantiam le ‘‘progressioni armoniche artificiali incomprensibili ai piu`’’, da Leopold tanto paventate. Il tono leggero di commedia ritorna nel finale, che e` un normale rondo` in sette episodi. Prima dell’ultima apparizione del tema principale Mozart spezza pero` il tranquillo scorrere della composizione con una ‘‘cadenza in tempo’’ che occupa ben il 15%

Sonata K 457

del pezzo. Gia` nel finale della Sonata K 311 Mozart aveva inserito una Cadenza, ma molto breve, piu` come raccordo a capriccio di due episodi che come cadenza. La Cadenza in tempo della Sonata K 333 trasporta invece nella musica da camera un elemento stilistico del concerto per pianoforte e orchestra. L’effetto e` molto singolare e molto convincente, anche se non si capisce bene la ragione che porto` Mozart a immaginare questa soluzione formale. La contaminazione dei generi riesce a Mozart splendidamente. Ma l’inserzione di una grande Cadenza nel contesto non virtuosistico della Sonata K 333, invece che nelle spettacolose Sonate K 309 e K 311, denuncia subito l’impossibilita` di un seguito e acquista piuttosto il significato, piu` che di esperimento, di disincantata riflessione sulle speranze del 1777, rivelatesi nel 1778 per illusioni di un giovane provinciale troppo fiducioso delle sue forze e troppo inesperto delle cose del mondo. Il 1784 fu per Mozart un anno editorialmente fortunato, perche´ riuscı` a pubblicare parecchie Sonate. Mozart e la moglie vivevano in casa del ricco libraio-editore Johann Thomas von Tra¨ttner, molto piu` anziano – aveva sessantasette anni – della sua seconda moglie The´re`se, che di anni ne contava appena ventisei. Quando ai Mozart nacque il figlio Carl Thomas, il 21 settembre, il padrone di casa accetto` di fare da padrino al neonato. Ma il 29 settembre, d’improvviso, i Mozart traslocarono, mentre di solito la puerpera restava a letto per due settimane dopo il parto. Niente di piu`,... ma quanto bastava per imbastire una trama sentimentale con i fiocchi. Il libraio-editore aveva forse scoperto che fra la moglie e l’ospite si stava muovendo del tenero? Certo, se la drammatica Sonata in do K 457 (1784, 1785), dedicata a The´re`se, e` legata a una tragedia amorosa, la ferita doveva sanguinare a fiotti ancora nel febbraio del 1785, quando Mozart compose il Concerto in re, e il 20 maggio, quando iscrisse nel suo catalogo la Fantasia K 475 di cui ho gia` detto. Sull’accoppiamento di Fantasia e Sonata si e` molto discusso. Al tempo di Mozart la pubblicazione di una sonata isolata era un fatto del tutto eccezionale. La pubblicazione di una sonata da sola, e preceduta da una fantasia, sottolineava l’innovazione stilistica e la svolta ideologica con la quale Mozart introduceva nel campo della sonata per pianoforte solo contenuti nuovi e inusitati. Non si puo` tuttavia tacere il fatto che due grandi interpreti come Schnabel e Brendel ritenessero che la Fantasia K 475 non fosse da intendere come introduzione alla Sonata, a tal punto da includerle magari entrambe in un programma di concerto, ma separate da altri pezzi. Nella Sonata

Wolfgang Amadeus Mozart

in do, al contrario che nella Fantasia, il discorso e` organizzato secondo moduli classici e il piano tonale e` chiarissimo, tipico. Ma vi si ritrovano anche fratture, contrasti, varieta` ritmica non comuni a quel tempo. Di qui un carattere drammatico, teso, esasperato, a cui non furono piu` tardi insensibili il Beethoven della Sonata op. 10 n. 1 e lo Schubert della Sonata D 958. Il primo tema dell’Allegro iniziale e` formato da due elementi contrastanti, drammaticissimi nella loro contrapposizione. Il secondo tema parebbe piu` disteso e sereno, ma viene da Mozart reso inquieto e inquietante con inusitati sbalzi di registro e poi con con interruzioni e passaggi subitanei dal forte al piano e viceversa. Nella Sonata K 457 e` in effetti molto significativo l’impiego della possibilita` di variare sullo strumento a tastiera la dinamica. Si paragoni il primo movimento della Sonata K 457 con il primo movimento della Sonata che la precede, la K 333: ventisette segni di dinamica (otto forte, sette piano, otto forte-piano, un mezzoforte, un crescendo, un diminuendo, un crescendo-diminuendo) nella K 333, ottantasei segni (trentuno forte, cinquantotto piano, due pianissimo, uno sforzato, un crescendo) nella K 457. E la contrapposizione di piano e forte viene usata da Mozart non per effetti di spazializzazione della musica, ma per effetti drammatici, che insieme con le interruzioni tendono a mimare una scena di tragedia con piu` personaggi. Tutto il primo movimento della Sonata e` tenuto su questo insolito clima espressivo, e un ultimo, culminante momento di drammaticita` e` offerto dalla coda, eccezionale in Mozart (e solita invece in Beethoven), con la sua progressiva discesa di tutta la massa di suono verso il registro grave. Il secondo movimento, per la varieta` e il virtuosismo della ornamentazione e per l’insolita ampiezza, fa pensare ai movimenti lenti dei grandi Concerti mozartiani per pianoforte e orchestra. La forma e` quella tripartita, di canzone, ma il tema principale viene appunto variato molte volte, e il secondo tema, impiantato in La bemolle, viene esposto anche in Sol bemolle, con una ricchezza di atteggiamenti nuova e foriera di futuri sviluppi. Il rapporto fra il secondo tema dell’Adagio della K 457 e l’Adagio della Patetica di Beethoven e` tanto evidente che non occorre insistervi. Il terzo movimento e` formalmente un rondo` . Anche qui Mozart impiega con suprema genialita` i contrasti di dinamica, le interruzioni, gli sbalzi di registro in funzione drammatica. L’uso del registro grave estremo e` molto insistente, tanto da postulare quell’ampliamento della tastiera che sarebbe stato iniziato dai costruttori all’inizio del nuovo secolo. E il registro grave estremo del pia387

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noforte richiama irresistibilmente le voci teatrali dei draghi o degli oracoli. Ho gia` fatto il nome di Fu¨ssli a proposito della Sonata K 310 e potrei citarlo con altrettante buone ragioni per la Fantasia e la Sonata in do. Ma Fu¨ssli si era stabilito in Inghilterra e nella cultura inglese aveva trovato un sicuro inserimento. Che pensava, di quel piccolo salisburghese attratto dal demoniaco, il pubblico di Vienna che acquistava musica stampata? Non sappiamo quante copie della pubblicazione furono vendute; sappiamo solo che dopo la accoppiata in do Mozart non riuscı` piu` a pubblicare nessuna sonata per pianoforte solo. Eppure la Sonata in Do K 545 (1788, 1805) rivelava uno scopo commerciale fin dal titolo con cui Mozart la iscriveva nel suo catalogo privato: ‘‘Una piccola Sonata per principianti’’. L’assunto didattico e` evidente, ed e` puntigliosamente mantenuto fino alle ultime battute, quando Mozart si lascia scappare un passettino in terze assai difficile. Il primo movimento presenta l’insolita caratteristica formale della riesposizione al quarto grado, di cui ho parlato ad altro proposito. Il secondo movimento e` uno dei piu` tipici esempi di musica per dilettanti, con la mano sinistra impegnata nel piu` semplice movimento ritmico-armonico possibile, il cosiddetto basso albertino, e con la destra che snocciola una melodia in suoni brevi e di lunghissima gittata. Il finale fu ripreso nella Sonata in Fa K 547a (1788, 1799), che in parte e` una trascrizione per pianoforte solo della Sonata K 547 per pianoforte e violino, e in parte un riadattamento del rondo` della Sonata K 545. Sembra certo che fosse Mozart stesso a mettere insieme la Sonata K 547a, ma e` molto curioso osservare che, sia essa o no opera di Mozart, i punti difficili del rondo` della K 545 vennero semplificati nel riadattamento. La comodita` espositiva, e chiedo scusa, mi ha fatto perdere di vista la cronologia. Prima della Sonata K 545 Mozart compose due Sonate a quattro mani, la Sonata in Fa K 497 (1786, 1787) e la Sonata in Do K 521 (1786, 1787). La prima, composta dopo che le Nozze di Figaro avevano allontanato da Mozart il pubblico aristocratico, adirato perche´ nell’opera un popolano, Figaro, metteva nel sacco un Grande di Spagna, e` una pagina superbamente complessa, una specie di sinfonia per pianoforte che adotta persino nel primo movimento l’introduzione in tempo lento (Adagio-Allegro). Mozart, dopo un quinquennio in cui aveva costantemente mantenuto il favore del pubblico pur senza blandirlo, era piombato, anche se ancora non lo sapeva, nei guai piu` neri. Dopo le Nozze, appunto, egli fece circolare il foglio di sottoscrizione per i concerti che avrebbe dato nella stagione 1786-1787, e 388

Sonata K 545

mentre in passato aveva raccolto circa centocinquanta firme di adesione, nel 1786, come ho gia` detto, ne raccolse una sola, quella del barone van Swieten. Secondo quello che possiamo capire o intuire oggi, Mozart era caduto in una trappola. L’imperatore, che con le sue riforme illuministiche si era messo in un serio urto con l’aristocrazia, aveva proibito la rappresentazione della commedia di Beaumarchais. Richiesto da Lorenzo da Ponte, autorizzo` invece l’opera. Il da Ponte racconta orgogliosamente come riuscı` a strappare a Giuseppe II l’augusto consenso. Tutto lascia invece supporre che l’imperatore vedesse nel libretto dell’opera, una volta smussate dal da Ponte le punte estreme della critica sociale di Beaumarchais, un mezzo per mettere in ridicolo la nobilta` . E la nobilta` messa in ridicolo si vendico`, bastonando metaforicamente il povero Mozart. Il quale, nella stagione di concerti che gli procurava i maggiori guadagni, riuscı` a organizzare l’esecuzione del solo Concerto K 503 invece dei tre soliti. La Sonata K 497 non era pero` tale da annacquare il fiele di chi aveva voltato le spalle a Mozart. Nulla di facile e di popolare – ah!, i saggi consigli di Leopold! –, tutt’al piu` un gaio finale pastorale con temi non orecchiabili, ma un primo movimento severo malgrado la tonalita` di modo maggiore, un secondo movimento di contenuti molto densi, un discorso polifonico che, pur senza far ricorso ai dotti procedimenti canonici barocchi, si insinuava in ogni piega del tessuto, cacciando via la messa in vetrina di melodie-regine. Mozart, sorpreso dal poco successo ottenuto dalla sottoscrizione dei suoi concerti invernali, cerco` di correre ai ripari con l’Allegro in Sol K 357 (1786, 1796) e con l’Andante in Sol K 357 (1786, 1796), entrambi per pianoforte a quattro mani, che lascio` incompleti e che vennero ultimati dall’editore Julius Andre´. Si trattava forse di due tempi di sonata, ma non della stessa sonata perche´ nel secondo movimento era di prammatica il cambio di tonalita`. I musicologi hanno discusso a lungo sulla destinazione dei due pezzi. A me interessa fare qui osservare che in entrambi Mozart... retrocede di una dozzina circa d’anni, cercando di ritornare allo stile e allo spirito che gli aveva portato il successo (ricordiamo che le Sonate K 358 e K 381, composte nella prima meta` degli anni settanta, erano state pubblicate a Vienna nel 1783), e riesce tanto bene nell’intento da trarre in inganno il Ko¨chel, che assegna loro un numero di catalogo corrispondente a molti anni prima. L’Allegro e` molto brioso, operistico, scorrevolissimo; si puo` solo osservare che lo sviluppo, completato dall’editore, sembra troppo breve rispetto all’architettura della esposi-

Sonata K 570

zione. L’Andante e` spiritoso, birichino, ma il completamento dell’Andre´ non pare convincente. Mozart ando` veramente a Canossa – inutilmente! – con la Sonata in Do K 521 (1787, 1787), anch’essa... retrodatabile, ma non agli settanta, semmai ai primi anni ottanta, quando Mozart stava abbattendo a Vienna quasi tutti gli ostacoli che si frapponevano alla sua affermazione (il quasi e` d’obbligo: Mozart non riuscı` mai a spuntarla sul segaligno Salieri da Legnago, che a corte sapeva giostrarsi con la scaltrezza di un diplomatico veneziano). Lo spunto tematico del godibilissimo tema principale del finale e` preso dal finale della Sonata K 330, e tutta la Sonata intende rimanere appesa ai consigli di Leopold. Non vi rimane del tutto perche´ la difficolta` tecnica e` considerevole e perche´ la rete delle relazioni tonali e` piu` ricca di quanto non sarebbe stata cinque o sei anni prima. La Sonata e` come una commedia giocosa, il drammaturgo Mozart, che stava per iniziare a comporre il Don Giovanni, si mantiene ancora per un momento nel mondo delle Nozze di Figaro, o anticipa Cosı` fan tutte. Ma la Sonata fu scritta in un periodo in cui Mozart pensava alla morte. Ne ho parlato a proposito del Rondo` K 511. E il 29 maggio, quando mando` la Sonata K 521 all’amico Gottfried von Jacquin, Mozart scrisse: ‘‘Le comunico che proprio oggi, appena rientrato, ho ricevuto la dolorosa notizia della morte del mio eccellente padre. Le lascio immaginare il mio stato’’. La Sonata rappresenta dunque forse, secondo me, una evasione dalla depressione, oppure, forse, uno sforzo per riconquistare il pubblico. Ma la parabola ascendente della vita di Mozart a Vienna stava ormai discendendo senza che fosse possibile farla cabrare un’altra volta. L’Allegro in Si bemolle Anh. 136 (1786 ca., 1805) fu pubblicato insieme con una riduzione del secondo movimento del Concerto K 450, una trascrizione di un Minuetto per archi, e un Rondo` costruito sui temi dei finali dei Concerti K 450, 456 e 595. Il titolo era Grande Sonata composta da W.A. Mozart, opera postuma. Si sospetta che autore di questo pasticcio fosse August Eberhardt Mu¨ller, peraltro devotissimo estimatore di Mozart. Non sarebbe il caso di parlarne se Barto´k non l’avesse inclusa nella sua revisione di tutte le Sonate. La Sonata in Fa K 533/494 (1786-1788, 1788) e` un bel rebus. Avevo detto prima che dopo la K 457 Mozart non riuscı` piu` a vendere a un editore nessuna sonata. Vendette in realta` questa, ma mettendo insieme due movimenti che riflettevano il Mozart giunto alla sapienza del compositore che riesce a sintetizzare la storia, e un gradevole Rondo` rimasto nel cassetto. L’Allegro e l’Andante so-

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no lavorati sia sul piano della polifonia che sul piano dell’armonia con una originalita` e con una audacia che hanno del prodigioso perche´ non sono debitori a nessuno. ‘‘[...] grazie a questi due stupendi brani’’, dice Hermann Abert, ‘‘il clima espressivo del Don Giovanni ha trovato una sua adeguata realizzazione anche nel pianoforte’’. Il che e` vero e non e` sufficiente, perche´ piu` che al Don Giovanni in genere io penso sia piu` opportuno riferirsi, specie per il secondo movimento, al personaggio di Donna Elvira. E rispetto ai due primi movimenti il finale denuncia la sua estraneita` spirituale, anche se Mozart non riprese pari pari il Rondo` del 1786 ma lo rielaboro` con l’aggiunta di una impegnativa Cadenza e di una diversa conclusione. E questa Cadenza, non contenuta nel manoscritto, fu addirittura ritenuta opera di Beethoven fino a che non ne fu ripescato l’autografo. L’Adagio in si K 540 (1788, 1788) fu composto, sembra, per la sorella, ma avrebbe potuto essere il cuore di una grande sonata. La tonalita` di si, come quella di mi, era poco praticata da Mozart, probabilmente perche´ esigeva una accordatura dello strumento diversa da quella ordinaria. Per l’Adagio in si Mozart doveva aver pensato a una accordatura particolare, che purtroppo non siamo in grado di ricostruire. A parte cio` , l’Adagio e` una delle piu` profonde pagine introspettive di Mozart, un densissimo pezzo in forma-sonata con ripetizione di entrambe le sezioni, un pezzo che eseguito da un grande interprete di Beethoven come Claudio Arrau aveva una durata di sedici minuti senza che si avvertisse l’allentarsi della tensione (le esecuzioni dei filologi si aggirano fra i nove e i dieci minuti). Il primo tema, come nella Sonata K 457 ma con una ampiezza molto maggiore, impersona, si potrebbe dire, sia il ‘‘principio implorante’’ che il ‘‘principio di opposizione’’ di Beethoven, e il pezzo ha il carattere di un intermezzo fra due scene-madri di un’opera (ad esempio, fra una condanna a morte e un’esecuzione). Piu` che al generico termine di adagio converrebbe a questa straordinaria composizione il Largo e mesto della Sonata op. 10 n. 3 di Beethoven. Mozart, dicevo, non riuscı` a trovare un editore per la Sonata ‘‘per principianti’’ K 545. E non lo trovo` per la Sonata in Si bemolle K 570 (1789, 1796), che era di media difficolta` . Anzi, all’atto della pubblicazione un anonimo musicista aggiunse al testo mozartiano una parte di violino. La media difficolta` tecnica non significa semplicita` concettuale: il primo movimento e` costruito su due temi in buona parte identici, e quindi senza contrasti drammatici ma con la raffinatezza e l’eleganza di dettato di un gioiellino lavorato in ogni particola389

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re, e il finale presenta momenti di complicata armonia e una coda popolaresca veramente incantevole. In alcuni punti del primo e dell’ultimo movimento compare una scrittura contrappuntistica a due voci che nel 1789 andava ben oltre il consueto standard della musica non difficile e che si rivolgeva all’ipotetico dilettante colto a cui non era estraneo l’interesse per il barocco che cominciava a ridestarsi negli ultimi due decenni del Settecento. L’Adagio centrale e` una fra le piu` pure e commoventi creazioni del Mozart maturo. La forma – rondo` con cinque episodi e tre temi, e coda – non era usuale in un movimento lento, ma Mozart la adotto` per poter tornare piu` volte su un primo tema di una bellezza melodica assoluta, che trasporta l’ascoltatore in un clima di sospensione della realta` e del tempo. Si possono ricordare alcune delle ultime pagine pianistiche di Brahms o alcune delle Bagatelle op. 126 di Beethoven o gli ultimi Pezzi di Schubert per l’analogia con un clima trasumanato, denso della saggezza di chi gia` contempla la morte e l’accetta. L’Allegro in sol K 312 (1790, 1806 ca.), rimasto incompiuto e ultimato da uno sconosciuto musicista, e` stato variamente datato, al 1774, al 1785, al 1790. L’analisi stilistica non ci porta a conclusioni certe; l’unica cosa sicura e` che bisogna escludere il 1774; personalmente propenderei per la data posteriore al 1787, cioe` posteriore al Don Giovanni. L’Allegro meriterebbe di essere piu` conosciuto di quanto non sia, anzi, avrebbe meritato di essere ultimato da Mozart, non da una mano estranea. Il Minuetto in Re K 355 (1790, 1806) fu pubblicato con un trio dell’abate Stadler. Il pezzo, che alterna un cromatismo esasperato e un candidissimo diatonismo, dimostra quali prospettive avveniristiche si stessero aprendo nel linguaggio di Mozart nell’anno che precede la morte. Tanto avveniristico, il Minuetto, da poter figurare nella Suite n. 4 op. 61 ‘‘Mozartiana’’ di Cˇajkovskij senza profumare di arcaismo. Dopo i vari tentativi di agganciare di nuovo il mercato dei dilettanti, Mozart concluse il catalogo delle sue Sonate con un lavoro ampio e impegnativo, legato al suo ultimo e disperato tentativo di trovare soluzione a problemi economici sempre piu` assillanti. Nella primavera del 1789 il Nostro, come gia` mi e` accaduto di dire, si era recato a Berlino, era stato ricevuto a corte ed era tornato con la ‘‘ordinazione’’ di sei Quartetti per archi, destinati al re, e di sei Sonate facili per pianoforte, destinate alla principessa Friederike. La Sonata in Re K 576 (1789, 1805) dovrebbe essere la prima delle sei commissionate dal re di Prussia. Ma non si tratta affatto di una Sonata facile; anzi, si tratta di una delle piu` difficili, e la destinazione alla 390

Allegro K 312

principessa non sembra dunque affatto sicura. Si puo` allora supporre che Mozart progettasse di includere di nuovo una sonata virtuosistica in un suo concerto pubblico, tenendo anche conto del fatto che desiderava andare a Londra, dove le sonate facevano ancora parte del repertorio concertistico. Potrebbe essere cosı`, ma non sappiamo nulla di preciso. La destinazione della Sonata K 576 non e` un elemento secondario di valutazione critica, anche perche´ Mozart – in una composizione vasta, impegnativa, difficilissima, ben diversa dalle piccole Sonate K 545 e K 570 scritte dopo la K 457 – dimostra di voler fare uno sforzo per attenuare, per normalizzare il linguaggio di avanguardia a cui era pervenuto nella Sonata in do. La Sonata in Re si presenta con certe caratteristiche che riprendono analoghe caratteristiche della Sonata in do; ad esempio, in entrambe il primo tema e` formato da due nuclei, il primo semplicemente raddoppiato in ottava e molto deciso, il secondo armonizzato e fiorito con trilli. Entrambi i temi posseggono quella plastica, icastica evidenza, ‘‘beethoveniana’’ per antonomasia, che cattura da subito l’attenzione dell’ascoltatore per la sua brevita` e per il suo marcato carattere (basti pensare all’inizio dell’Appassionata: nucleo raddoppiato a due ottave di distanza, armonia coronata da un trillo). Ma nella Sonata K 576 mancano la tensione drammatica, le contrapposizioni, gli sbalzi di registro, la grande differenziazione della dinamica (quattordici soli segni nel primo movimento: sette piano, sei forte, un forte-piano), e si ritrova invece un tono di cordiale conversazione, quel tono tradizionale di intrattenimento che la Sonata in do aveva superato e che appariva superato anche nella K 533/ 494. Sotto l’aspetto compositivo e` da notare soprattutto, nel primo movimento della Sonata K 576, il frequente impiego di procedimenti contrappuntistici, cioe` di piccoli e brevi canoni. Il contrappunto e` diventato ormai, per Mozart, principio di organizzazione del discorso musicale, sganciato da suggestioni barocche e potenzialmente capace di sviluppi imprevedibili. Ora, il senso che la scrittura contrappuntistica assume nella Sonata K 576 e` di spazializzazione del suono. Questa volta pero`, secondo me, in modo coreutico: i piccoli canoni diventano partenze sfalsate che ci ricordano i movimenti del pas de deux. Non risulta che Mozart, adoratore della danza da sala, avesse interesse per il balletto oltre ai pochi isolati episodi capitatigli durante la carriera, e puo` benissimo darsi il caso che la mia impressione sia priva di fondamento. Ma l’ho esposta perche´ si tratta di una impressione per me molto viva, che si inserisce bene nel carattere indubbiaente spettacolare, e

12 Variazioni K 179

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non drammatico ne´ lirico del primo movimento della Sonata. L’Adagio in La e` in forma di canzone, con una parte centrale in fa diesis di una bellezza straordinaria e una coda di sapore preromantico. La melodia della prima parte – e della riesposizione – e` infiorata da cromatismi che dovevano apparire scandalosi per la loro sensualita` e ‘‘mollezza’’, ben diversa dalla nobile semplicita` e dalla calma grandezza dell’arte apollinea. Il finale, molto ampio e difficile, con passi virtuosistici anche alla mano sinistra, e` un rondo`-sonata, cioe` un rondo` che presenta, al posto del terzo tema, uno sviluppo del primo tema. Ma il semplice schema formale non da` ragione della ricchezza compositiva del finale, nel quale il dominio del primo tema – anzi, del primo nucleo del primo tema – e` sostenuto da uno sfavillare di trovate brillantissime. Siamo ben lontati dal virtuosismo massiccio, imponente di Clementi, ma non sembra improbabile una attenzione verso un pubblico piu` vasto di quello rappresentato dai dilettanti e dalle sale aristocratiche e altoborghesi di Vienna. Con la sua ultima Sonata Mozart fa dunque l’ultimo tentativo di mettersi in rapporto con un pubblico che dopo la Sonata K 457 continua a sfuggirgli e che egli, in fondo, non capisce. Johann

Christian Bach pubblica in tutto due raccolte di sei Sonate ciascuna, che vengono ripubblicate piu` volte e che gli danno fama europea. Haydn pubblica tutte le trentadue Sonate che scrive dal 1773 in poi. Mozart scrive diciotto Sonate e riesce a pubblicarne dieci, con un successo limitato alla sola Vienna. La sua ricerca di un rapporto col pubblico, sostanzialmente, fallisce; ma proprio perche´ non riesce quasi mai – ci riesce solo con le Sonate K 330-332 – a individuare il gusto dell’utente, Mozart tocca successivamente diverse potenzialita` della sonata per pianoforte solo, aprendo un campo di ricerche che gli altri compositori potranno ripercorrere e ampliare. Le Sonate di Mozart non conquistarono ai suoi tempi una popolarita` europea, furono utilizzate nel corso dell’Ottocento quasi esclusivamente a fini didattici, e anche oggi sono note, nella loro totalita`, solo a chi compra dischi. Eppure i trionfi che accompagnarono le tre esecuzioni della integrale tenute da Friedrich Gulda nel 1981 dimostrarono quanto il blocco delle Sonate potesse far pulsare attraverso i suoni la vita del passato e – lo dico parafrasando Plinio il Giovane – fermare l’orecchio del conoscitore e piacere all’ignorante. Ci sarebbe solo da augurarsi che l’ormai lontana impresa di Gulda trovasse dei successori, geniali e spregiudicati quanto lui.

Le Variazioni Le Variazioni, che pur essendo numerose non assumono nella produzione pianistica di Mozart il rilievo che hanno invece, ad esempio, in Beethoven o in Brahms, integrano il discorso che e` stato fatto sulle Sonate. Ben poche, delle molte serie di variazioni, sono pari all’impegno compositivo e all’ampiezza architettonica che si notano nel finale a variazioni della Sonata K 284, del quale ho parlato prima. Rilevante e` invece, in taluni casi, l’impegno virtuosistico, e in un solo caso sono di grande interesse e la struttura e la poetica. Nessuna delle serie di Mozart e` in modo minore, tutte adottano pero` il modo minore in una variazione, anche a costo di capitare in tonalita` con molti bemolli che creavano di sicuro problemi di accordatura dello strumento. Altro elemento ricorrente e` l’adagio ornato, che di solito viene collocato in prossimita` della fine. E in quasi tutte le serie si trovano variazioni a modo di studio di agilita`, anche per la mano sinistra. Talvolta Mozart riprende alla fine il tema, chiudendo cosı` la forma, talvolta cambia metro nell’ultima variazione, talvolta inserisce una Cadenza prima della fine. E` unfine interessante constatare che nelle variazioni che precedono lo studio a Vienna della composizioni di Johann Sebastian Bach gia` fanno capolino alcuni momenti di contrappunto imitati-

vo, che secondo me non sono da mettere in relazione con tecniche barocche ma con tecniche del teatro contemporaneo. Le 8 Variazioni su una canzone olandese in Sol K 24 (1766, 1766) e le 7 Variazioni sull’inno nazionale olandese in Re K 25 (1766, 1766) furono scritte durante un soggiorno all’Aja e ad Amsterdam su commissione della principessa Weilberg. Sono per clavicembalo e sono molto semplici, ma dimostrano come Mozart, a dieci anni, fosse in grado di adottare con disinvoltura i moduli correnti. La 6 Variazioni su ‘‘Mio caro Adone’’ in Sol K 180 (1773, 1778) furono composte a Vienna e rappresentano un omaggio che Mozart, ‘‘alla ricerca di un posto di musico’’, faceva al potente Antonio Salieri, dalla cui opera La fiera di Venezia ricavava un tema che era diventato popolare. Mozart fece qui il minimo indispensabile, compatibilmente con il suo genio che non gli permetteva mai di sfornare nulla di dozzinale. Non sappiamo – peccato! – come la prendesse Salieri. Le 12 Variazioni su un Minuetto di Fischer in Do K 179 (1774, 1778) non nascono da una ricerca sul pianoforte ma dalla esplorazione della tastiera, indipendentemente dal modo in cui attraverso la tastiera si crea il suono. Il tema, tratto da un Concerto per il suo strumento di un oboista 391

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celebre in tutta Europa, non presenta un interesse musicale elevato, e Mozart lo tratta, in parte, virtuosisticamente, con incroci delle mani, ottave e ottave spezzate, tour de force della mano sinistra, e inserendo dopo la variazione X in movimento lento una spettacolosa Cadenza. In realta`, l’architettura di questa serie e` assai strana perche´ c’e` un divario di contenuto tecnico netto fra variazioni di media difficolta` , e variazioni molto piu` difficili. Durante il viaggio verso Parigi del 1777-78 Mozart ‘‘estrasse’’ le variazioni piu` facili per farle studiare agli allievi che gli capitava di istruire. Arrivato a Parigi il 23 marzo del 1778, Mozart non tento` di farsi scritturare come pianista dal Concert spirituel per il quale compose la Sinfonia n. 31 K 297, naturalmente a titolo del tutto gratuito e con l’unico premio che risulta dalla lettera al padre del 3 luglio: ‘‘[...] appena terminata la Sinfonia andai al Palais Royal, mi presi un gelato, recitai il rosario che avevo promesso e andai a casa’’. Non si capisce bene perche´ Mozart rinunciasse a far sentire i Concerti che aveva pronti e che aveva eseguito durante il viaggio. Probabilmente l’aspirazione a essere chiamato a scrivere un’opera condiziono` tutte le sue mosse, ma fatto sta che il grande pianista Mozart non apparve a Parigi neppure nei concerti privati. Oltre alla Sonata K 310 egli compose negli ultimi due mesi del suo soggiorno a Parigi le 9 Variazioni su ‘‘Lison dormait’’ in Do K 264 (1788, 1786), le 12 Variazioni su ‘‘Ah! vous dirai-je, Maman’’ in Do K 265 (1778, 1786), le 12 Variazioni su ‘‘La belle Franc¸oise’’ in Mi bemolle K 353 (1778, 1786) e le 12 Variazioni su ‘‘Je suis Lindor’’ in Mi bemolle K 354 (1778, 1778), riuscendo, come si vede, a trovare allora un editore per una sola delle quattro serie, che fu unita a due serie piu` vecchie. E sı` che Mozart, componendo le Variazioni K 264, si era buttato a tamburo battente sul tema ‘‘Lison dormait’’, tratto dall’ope´ra comique Julie di N. Deze`de che era andata in scena il 20 agosto. Ma si trattava di variazioni difficili che sarebbero andate a fagiolo se Mozart avesse potuto tenere un concerto (nella Cadenza troviamo persino una tecnica che non verra` piu` ripresa: una rapida scala in seste che con ogni verosimiglianza deve essere eseguita dalla mano destra in glissando, cioe` scivolando sui tasti). Le quattro serie di Variazioni erano l’ultimo tentativo di trovare a Parigi uno... spazio vitale. Dopo il burrascoso licenziamento dell’anno precedente, il padre aveva manovrato in modo da ottenere per Wolfgang il ‘‘perdono’’ magnanimo dell’arcivescovo di Salisburgo. A Salisburgo era pronto per il figliol prodigo un impiego e un salario, e siccome c’erano anche da saldare i debiti che il padre aveva con392

9 Variazioni K 264

tratto per finanziare il disgraziato viaggio a Parigi, il ritorno in patria rappresentava un dovere morale al quale Mozart non poteva ragionevolmente sottrarsi. ‘‘Le mie cose cominciano ad andare meglio’’, egli scrisse al padre l’11 settembre, aggiungendo uno speranzoso ‘‘non dubito che, se decidessi di restare ancora qualche anno, mi sistemerei sicuramente benissimo’’. Ma partı` il 26 settembre e si trovo` ben presto... fagocitato dalla provincialissima Salisburgo. Le quattro serie di variazioni composte fra l’agosto e il settembre del 1778 sono di impegno diverso. Le ultime, K 354, su tema di Antoine-Lambert Baudron (per il Barbiere di Siviglia di Beaumarchais, ovviamente) sono a mio giudizio le meno personali. Le penultime, K 353, hanno il difetto di variare un tema popolare poco attraente ma sono ben lavorate sul piano dell’impegno tecnico, e le prime, K 264, spiccano anch’esse per il lavorio tecnico piu` che per sfoggio di inventiva nel variare. Le Variazioni K 265 su un tema tratto da un’opera per bambini sono le piu` seducenti del periodo parigino e furono un tempo popolarissime. Nulla di stratosferico, ma una grazia, una tenerezza, una capacita` di capire la psicologia del mondo infantile che ci dicono come l’Autore fosse prima di tutto un drammaturgo. Appena stabilitosi a Vienna, e liberatosi dall’insopportabile catena che lo aveva legato a Salisburgo per quasi tre anni, Mozart compose le 8 Variazioni su ‘‘Dieu d’amour’’ in Fa K 352 (1781, 1786). ‘‘Attualmente ho una sola allieva’’, scriveva al padre il 6 giugno, ‘‘la contessa Rumbeke’’. E facendo un po’ il gradasso aggiungeva: ‘‘Naturalmente potrei averne di piu` se fossi disposto ad abbassare il prezzo, ma cosı` perderei subito la mia reputazione’’. E poi, filosoficamente: ‘‘Con questa allieva riesco d’altra parte a tirare avanti, il che per il momento mi basta’’. Per la contessina Rumbeke Mozart scovo` un tema, ‘‘Dio d’amore’’, tratto dall’opera I Matrimoni sanniti di Gre´try, ascoltata a Parigi tre anni prima, e sopra di esso costruı` le otto variazioni per le quali non dovette spremersi le meningi. Le 6 Variazioni su ‘‘Salve tu, Domine’’ in Fa K 398 (1783, 1786), su tema burlescamente pomposo tratto da I Filosofi immaginari di Paisiello, furono improvvisate da Mozart nel concerto che tenne a Vienna il 23 marzo 1783, presente l’imperatore Giuseppe II. In questa serie colpisce l’uso insistito del trillo lungo ed e` di particolare interesse la variazione VI, con le due mani che lavorano in velocita` con terze e ottave, alternandosi, con rischiosi salti per moto contrario. L’episodio e` breve, ma Mozart sembra essere attratto dalle virtu` dell’unico vero rivale incontrato in tutta la carriera, Muzio Clementi. Clementi era uno ‘‘speciali-

8 Variazioni K 613

sta’’ delle terze, delle seste e delle ottave, avendoci, come Mozart scrisse al padre, ‘‘faticato sopra giorno e notte a Londra’’. Le terze e le seste sono rare nella scrittura virtuosistica di Mozart, mentre non sono rarissime le ottave. Comunque, a Mozart resta estraneo il colore denso delle terze nei tempi rapidi, e gli e` del tutto estraneo, salvo rari casi, il concetto di resistenza, di superamento di una difficolta` protratta, che si riscontra invece in molti passi delle Sonate di Clementi. In Mozart non ritroviamo dunque il gusto sportivo che confluisce nella creazione del virtuosismo pianistico e che non ne uscira` mai, il gusto della diffficolta` finalizzata al suo superamento, mentre ritroviamo il gusto, che del virtuosismo e` anch’esso un elemento costitutivo, della difficolta` finalizzata a creare stupore e illusione magica, il gusto del giocoliere. Clementi e Mozart posero in realta` le basi di due modi del virtuosismo pianistico che con Liszt e Chopin avrebbero trovato nell’epoca romantica la seconda coppia di dioscuri. Anche le 10 Variazioni su ‘‘Unser dommer Po¨bel meint’’ in Sol K 455 (1784, 1785) furono improvvisate da Mozart durante il concerto del 23 marzo, e furono messe in carta l’anno dopo. Il tema (l’aria ‘‘Il nostro sciocco popolo crede’’, cantata da un fratacchione gaudente in fama usurpata di ascetismo) era tratto dal Singspiel di Gluck I Pellegrini della Mecca. Si tratta della piu` elaborata e meno convenzionale serie di variazioni composte da Mozart fino a quel momento, un capolavoro di umorismo e di sapiente architettura, tanto perfetto da poter figurare in trascrizione per grande orchestra nella Suite n. 4 op. 61 ‘‘Mozartiana’’ di Cˇajkovskij. Delle ricerche timbriche di Mozart sul pianoforte, come ho detto parlando dell’Adagio della Sonata K 280, non sappiamo quasi nulla. Ma nulla ci vieta del resto di pensare – da impenitenti sognatori – che la strumentazione di Cˇajkovskij non faccia altro che rendere evidenti le molte potenzialita` timbriche del testo pianistico. Le 8 Variazioni su ‘‘Come un agnello’’ in La K 460 (1784, 1803) sono basate su un tema dell’opera I Due litiganti di Giuseppe Sarti, lo stesso tema che sarebbe stato scelto tre anni piu` tardi da Mozart per la ‘‘musica da tavola’’ del solitario banchetto di Don Giovanni nell’opera omonima. L’autenticita` di questa serie e` stata pero` contestata, mentre sono senza dubbio di mano di Mozart due altre variazioni sullo stesso tema, completamente diverse dalle otto. Le differenze stilistiche fra queste e le 8 Variazioni sono notevoli soprattutto sul piano della strumentazione, e l’impressione che si ha e` che sia esistito un abbozzo di Mozart su cui un altro abbia lavorato. Ma il risultato non e` secondo me indegno di

Wolfgang Amadeus Mozart

Mozart. Le 12 Variazioni su un Allegretto in Si bemolle K 500 (1786, 1786) furono composte per una pubblicazione didattica dell’editore Hoffmeister, su un tema che forse e` di Mozart e forse no. L’assunto pratico fa sı` che Mozart faccia ricorso a un quieto e gentile neorococo`, piu` intimistico di quello della Sonata K 521, con l’eleganza e con la dolcezza dello sguardo rivolto al passato. Si potrebbe dire scherzando che queste Variazioni siano... ornitologiche perche´ impiegano molto di frequente il trillo breve e il gruppetto. L’Andante con variazioni in Sol per pianoforte a quattro mani K 501 (1786, 1787), scritto anch’esso per Hoffmeister, e` breve – cinque variazioni soltanto – e molto semplice, con la sua brava variazione in modo minore e con la ripresa del tema, dopo la quinta variazione, che suggella la forma. Anche qui Mozart tiene conto del destinatario, il dilettante, e fa ricorso a uno stile datato, il rococo`. Ma il suo e` un neorococo`, un rococo` rivisitato alla luce delle esperienze del polifonista che, partito dal piu` giovane dei Bach, aveva poi studiato il vecchio Bach e sapeva farli andare, il padre e il figlio, in buona compagnia. Le 9 Variazioni su un Minuetto di Duport in Re K 573 (1789, 1792) furono composte a Postdam durante il breve soggiorno di Mozart alla corte del re di Prussia, e violoncellista dilettante, Federico Guglielmo II. Il Duport, grande violoncellista, era il maestro del re ed era il direttore musicale della corte. Sia i pianisti che il pubblico hanno dimostrato una particolare predilezione per queste Variazioni, mentre la critica non e` stata sempre benevola nei loro confronti. ‘‘Opera assai banale, senza grande ricerca tematica, scritta solo per guadagnare i favori della corte berlinese’’ (B. Massin). ‘‘Le Variazioni su un tema di Duport, un buon pezzo pianistico lavorato da mano maestra, non raggiungono pero` il livello dei lavori analoghi scritti in precedenza’’ (H. Abert). A me sembra che la Variazioni K 573 siano un capolavoro di quel gusto mondano che non necessariamente dev’essere giudicato deteriore. Al contrario del tardo Beethoven che compone prima di tutto per se´, Mozart e` a seconda delle circostanze uomo di alta e aspra speculazione intellettuale o gradevole conversatore da salotto. In ogni caso egli sa trattare il suono con una lievita` e un distacco emotivo che trasfigurano la materia e che la rendono evocativa di un mondo iperrealistico, di un teatro d’ombre che si stacca del tutto dal teatro di figure in carne e ossa. In questo senso va letta secondo me l’ultima composizione pianistica mozartiana, le quasi ignote 8 Variazioni su ‘‘Ein Weib ist das herrlichste Ding’’ in Fa K 613 (1791, 1791), che forse furono eseguite 393

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Wolfgang Amadeus Mozart

da Mozart nel suo ultimo concerto viennese del 4 marzo. Il tema – ‘‘Una fanciulla e` la cosa piu` bella’’ – e` tratto da un Singspiel di Benedikt Schack e Franz Gerl, cantanti-attori della compagnia di Schikaneder che impersonarono rispettivamente Tamino e Sarastro nelle prime rappresentazioni del Flauto magico. Un tema di Singspiel e` ‘‘leggero’’ per definizione. Leggero per definizione era pero` anche il tema delle Variazioni K 455. Eppure il tema di Gluck aveva dato origine a una serie di variazioni lussureggianti e suntuose, ricche di umori e di autentica vitalita` comica. Nelle Variazioni K 613 le note sono poche, il tono espressivo e` di attonito stupore, e otto battute di introduzione precedono il tema e ritornano come un motto e vengono variate prima di ogni variazione (tranne l’ultima) senza mai legarsi al carattere della variazione a cui fanno da vallette. Abbiamo cosı` una specie di dop-

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8 Variazioni K 613

pio tema con variazioni, e non comprendiamo perche´ un piccolo tema e un grande tema debbano intersecarsi andando ciascuno per conto suo. Solo nella coda dopo l’ottava variazione Mozart scioglie l’indovinello: l’introduzione e l’inizio del tema sono sovrapponibili, sono due facce della stessa idea. Un piccolo gioco innocente, in fondo. Ma ne´ divertente ne´ divertito perche´ si tratta di una burla intellettualmente dominata, fredda, priva di cordialita` e di bonomia. Chi lo conduce e` quel particolare aspetto della personalita` di Mozart che si chiama Don Alfonso. E il lettore, come lo spettatore alla fine di Cosı` fan tutte, resta sgomento di fronte all’asserita identita` di cinismo e saggezza. Con questa pagina enigmaticamente sorridente Mozart si congeda dal pianoforte, lo strumento nuovo dei tempi nuovi che con lui era cresciuto e che – possiamo dirlo? – lo aveva fatto crescere.

8 Variazioni K 613

Modest Petrovicˇ Musorgskij

A Modest Petrovicˇ Musorgskij

B

(Karevo, 21 marzo 1839-S. Pietroburgo, 28 marzo 1881) Fino al 1862, quando Anton Rubinsˇtejn riuscı` finalmente a racimolare i finanziamenti che servirono per aprire a S. Pietroburgo il primo conservatorio pubblico, l’insegnamento della musica avveniva in Russia attraverso le lezioni private e, per quanto riguardava il pianoforte, sotto l’egida di maestri stranieri reputati e dei loro allievi, e successivamente attraverso viaggi e lezioni di perfezionamento. I dominatori del gusto e della didattica erano stati per piu` di mezzo secolo i pianisti di varie nazionalita` che in Russia s’erano scavata una comodissima nicchia. Johann Wilhelm Ha¨ssler, nipote e allievo di un allievo di Bach e competitore di Mozart in una famosa gara organistica e pianistica a Dresda, aveva vissuto a S. Pietroburgo dal 1792 e a Mosca dal 1794 alla morte (1822), John Field, arrivato in Russia con Clementi nel 1802, per piu` di trent’anni aveva operato fra la capitale e Mosca, Ernst Haberbier, norvegese, aveva conquistato i dilettanti russi negli anni trenta, e finalmente il grandissimo Adolph Henselt, allievo di Hummel, era stato nominato nel 1838 maestro di musica dei principi e pianista di camera dell’imperatrice. Musorgskij, che aveva studiato lo strumento con la madre e che, accompagnato dalla madremaestra al secondo pianoforte, si era persino gia` esibito nell’esecuzione di un Concerto di Field (probabilmente il Secondo, pietra del paragone dei fanciulli dotati), nel 1849 venne portato dal padre nella capitale e venne affidato alle cure di Anton Herke, pianista che aveva girato il mondo per mettere insieme un tris di insegnanti celebri (Kalkbrenner a Parigi, Moscheles a Londra, Ferdinand Ries ad Amburgo) e che aveva poi completato il full con John Field a Mosca e con Adolph Heselt a S. Pietroburgo. I biografi di Musorgskij lodano Herke perche´ sapeva insegnare benissimo la tecnica di agilita` e destare l’interesse degli allievi per la grande letteratura pianistica, e lo rimproverano perche´ non curava l’insegnamento della teoria e dei rudimenti dell’armonia. L’unica testimonianza concreta che ci resti dell’insegnamento impartito da Herke a Musorgskij e` per noi la Porte-enseigne polka (Polca portinsegna, 1852), scritta per i compagni della Scuola dei Cadetti della Guardia e pubblicata nello stesso 1852 a spese del padre. Il pezzo, che e` del resto piacevole, ci dice che Herke doveva avere in-

dirizzato l’allievo verso la letteratura di intrattenimento, piu` che verso la ‘‘grande’’ letteratura. Nello stesso anno Balakirev, di due anni maggiore di Musorgskij, affrontava un’impresa non indifferente con la Grande Fantasia su temi russi per pianoforte e orchestra. Il modello stilistico era ancora lo Chopin biedermeier, e quindi si puo` dire che Balakirev non era aggiornato ma che guardava alla grande musica pianistica. Musorgskij era invece aggiornato, ma guardava alla musica piccola, poiche´ la sua Polca potrebbe benissimo essere attribuita, putacaso, a Theodor Do¨hler, che nel 1846 era stato in Russia (aveva persino sposato una nobildonna del posto, grazie al suo protettore, il duca di Lucca, che di punto in bianco lo aveva nominato barone) e che alla meta` del secolo aveva lanciato due esemplari del piu` puro Kitsch con la Polca brillante op. 50 n. 1 e con Cascina-Marcia op. 68 n. 2. Vari biografi suppongono che dopo il primo brillante saggio di stile alla moda Musorgskij scrivesse altri pezzi dello stesso tipo. Non abbiamo pero` null’altro fino al Souvenir d’enfance (Ricordo d’infanzia, 1857), noto poi come Souvenir d’enfance n. 3. Qui il panorama e` molto diverso perche´ il pezzo, pur ispirato a un folclorismo di maniera, e` strutturalmente abbastanza complesso per meritare, essendo opera di un diciottenne, una sommaria analisi. Lo schema formale a cui Musorgskij fa riferimento e` la canzone tripartita con introduzione in tempo piu` lento, ma la griglia tonale non e` consueta: Introduzione si Primo tema si Secondo tema Sol Riesposizione abbreviata del primo tema mi Coda mi-si-Si. La inconsueta, schubertiana riesposizione al quarto grado rappresenta per Musorgskij una scelta obbligata, poiche´ , siccome il primo tema viene esposto e sviluppato, per 44 battute, su un pedale di tonica, una riesposizione alla tonica sarebbe stata terribilmente monotona. Ma la riesposizione alla sottodominante risolve bene il problema, e il passaggio attraverso la tonalita` di Sol aggancia perfettamente esposizione e riesposizione. Nella coda Musorgskij gioca abilmente sull’equivoco con l’ac395

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Modest Petrovicˇ Musorgskij

cordo si-re diesis-fa diesis impiegato come dominante di mi e come falsa tonica di Si. Ne´ la tonica di si, ne´ la dominante di si e di Si vengono poi toccate nella coda e al Si finale si arriva cadenzando su una settima sul secondo grado di si (variante di un procedimento caro a Chopin). Meno problematici e meno interessanti sono lo Scherzo in Si bemolle (1858) e lo Scherzo in do diesis (1858). Del tradizionalissimo Scherzo in Si bemolle, che fu trascritto da Musorgskij per orchestra, non abbiamo piu` la versione originale ma la versione a quattro mani e la ‘‘ritrascrizione’’ a due mani di Ljapunov. Lo Scherzo in do diesis e` di ridotte proporzioni e di scrittura strumentale molto schematica. Il fatto compositivo piu` notevole consiste nella derivazione del tema del Trio dal tema della prima parte. I due Scherzi aprivano un momento neoclassico nell’attivita` creatrice di Musorgskij, perche´ nello stesso anno in cui compose i due pezzi scrisse anche una Sonata in Mi bemolle (1858) e una Sonata in fa diesis (1858). Dopo il 1850 il recupero critico della sonata e piu` in generale il recupero critico di procedimenti formali classici era un problema generalizzato, sentito dall’ultimo Schumann come da Liszt e da Brahms. Per i compositori russi il problema era ancora scolastico e accademico; sarebbe diventato manieristico nel momento della maturita`, e allora la musica pianistica russa avrebbe ripercorso con Skrjabin la sintesi storica di Liszt e con Prokof’ev la volonta` di restaurazione di Brahms. Fra il 1850 e il 1860 i giovani russi non erano in grado di andare oltre il neoclassicismo accademico dei mendelssohniani tedeschi e anglosassoni, ma cio` non toglie che si applicassero al problema con impegno e con la orgogliosa convinzione di operare nella storia. Non per nulla, nei programmi ‘‘storici’’ che Anton Rubinsˇtejn avrebbe eseguito negli anni ottanta, sarebbero state assenti le sonate di Liszt e di Brahms e inclusa invece la Sonata n. 3 op. 41 dello stesso Rubinsˇtejn, composta negli anni cinquanta. E la Sonata op. 41 era stata salutata come capolavoro di levatura beethoveniana persino da certa critica tedesca. Anche Balakirev scrisse negli anni cinquanta la sua Sonata, poi profondamente rimaneggiata, e alcune Sonate scrisse in quello stesso momento Nikolaj Afanas’ev. Di come Musorgskij affrontasse la sonata possiamo pero` avere una certa ipotetica idea non dalle due Sonate del 1858, che sono andate perdute, ma dall’Allegro di una Sonata per pianoforte a quattro mani (1860) rimasta incompiuta, nella quale si nota soprattutto il disegno di costruire su un solo tema una forma cosı` articolata, puntando sulla dialettica dei rapporti tonali invece che sui contrasti tematici. 396

Scherzo in Si bemolle

Completano il gruppo dei lavori neoclassici un Preludio in modo classico (1860), perduto, l’Intermezzo in modo classico (1860-1861), e un Menuet monstre (1861), perduto, che forse faceva parte di una Sonata in Re (1861), perduta. L’Intermezzo fu trascritto per orchestra nel 1867, con l’inserimento di un nuovo episodio centrale, e ritrascritto per pianoforte nello stesso anno (il mio commento riguardera` la prima versione, secondo me piu` interessante). Il ‘‘classico’’ di Musorgskij e` cio` che oggi chiameremmo ‘‘barocco’’. Il tema principale dell’Intermezzo imita infatti un tema di concerto grosso per archi. Ma la vera e propria imitazione barocca, la ‘‘sceneggiatura barocca’’ del tema avviene alla seconda, non alla prima esposizione. Nella prima esposizione il legato, il fraseggio che tende a spostare gli accenti in contrattempo, l’embrionale contrappunto armonico portano il significato del tema verso il romanticismo neoclassico brahmsiano (ed e` facile vedere il rapporto di scrittura strumentale con l’Intermezzo op. 117 n. 3 di Brahms, che sarebbe stato scritto trent’anni piu` tardi). Nello sviluppo, che segue senza soluzione di continuita` la prima esposizione, la strumentazione con le doppie ottave e il contrappunto armonico interno fanno diventare ‘‘russo’’ il tema ‘‘classico’’. Una successiva esposizione del tema viene strumentata in un modo tale che, con lo sfruttamento di suoni martellati, la timbrica non e` neppure piu` ‘‘russa’’ ma decisamente ‘‘musorgskiana’’. L’Intermezzo in modo classico, che secondo me e` un piccolo capolavoro sconosciuto, e` in realta` un serbatoio di stilemi pianistici che si ritroveranno nei Quadri. Cosı`, ad esempio, dai legato ancora espressivi e dalle appoggiature sospirate del secondo tema si sta gia` staccando la liscia superficie di linee che si ritrovera` in certe trasformazioni della Promenade. E, inoltre, una tipica costruzione melodica musorgskiana, che aumenta a dismisura la tensione degli intervalli, e` messa in evidenza dai forti sbalzi di registro. Il discorso sulla fase neoclassica della produzione pianistica di Musorgskij mi ha portato a superare due pagine nettamente romantiche, schumanniana la prima, mendelssohniana la seconda: l’Impromptu passione´ (Improvviso appassionato, 1859) e Une Plaisanterie (Una celia, 1859). In entrambe la ‘‘trovata’’ che rivela il distacco dal modello studiosamente e riflessivamente imitato arriva alla fine. Lo schumannismo delle ultime battute dell’Improvviso e` ancora evidente, ma e` anche evidente che Schumann non avrebbe concluso il brano in modo cosı` spoglio, con un accordo perfetto di Fa diesis all’acuto, distanziato di una quindicesima dal basso semplicemente raddoppiato in ottava.

Quadri di una esposizione

Nella Celia il finale mendelssohniano termina con il curioso sberleffo di un enorme balzo della mano sinistra, che deve scavalcare all’ingiu` la destra. La Capricieuse (La Capricciosa, 1865), su tema del conte di Heyden, Duma (1865), su tema di V.A. Loginov, e i due Souvenirs d’enfance: Niania et moi, Premie`re punition (Ricordi d’infanzia: Niania e me, Prima punizione, 1865) non sono composizioni che ci dicano molto sulla evoluzione di Musorgskij nel momento in cui lavorava all’opera Salammboˆ. Il pezzo che mi sembra piu` interessante e` Niania e me, la cui scrittura – legato a mignolo e anulare, staccato alle altre tre dita della mano destra – ricorda la strumentazione non consueta dello Studio in Re bemolle dei Tre Nuovi Studi di Chopin. La costruzione della melodia presenta un tratto singolare quando, alla quarta battuta, invece di ripetere la prima parte della seconda, come sarebbe stato normale, Musorgskij ripete la prima parte della terza. Curiosa e` anche la conclusione: dopo la cadenza di Sol una piccola chiusa finale porta il pezzo, con una cadenza plagale, a terminare in un interrogativo mi. Prima punizione, che ha carattere di studio pianistico, e` da notare per la scoperta di una tecnica – la caduta alternata delle mani – che sarebbe stata impiegata splendidamente alla fine di Baba Yaga. Non ci sono altre composizioni per pianoforte fino ai Quadri di una esposizione (1874). Fra i due Ricordi d’infanzia e i Quadri si collocano le due versioni del Boris Godunov e l’inizio della composizione della Chova´nsˇcˇina, mentre nel 1874 Musorgskij iniziava anche La Fiera di Sorocinzy. Le circostanze della composizione dei Quadri – visita a una mostra postuma dell’architetto e pittore Hartmann – sono cosı` note, e l’originalita` del linguaggio dei Quadri e` stata cosı` spesso conclamata da permettermi di non parlarne per soffermarmi invece su tre aspetti essenziali e non spesso commentati dell’opera: la struttura formale, la scrittura pianistica, il significato poetico. I Quadri portano a maturazione il problema che non solo Musorgskij, ma tutta la cultura russa aveva affrontato negli anni cinquanta, quando, accademicamente, diversi compositori avevano ripreso la sonata: il problema di uscire dal bozzettismo e dal frammentismo per organizzare in modo complesso e dialettico il discorso musicale. Non solo Musorgskij ritornava su questo problema negli anni settanta, ma anche Rimskij-Korsakov con i Sei Pezzi sul nome BACH op. 10 (1878) e Cˇajkovskij con la Sonata op. 37 (1878), nonche´ Anton Rubinsˇtejn, che nel 1877, ventidue anni dopo la Terza, componeva la sua Quarta Sonata op. 100 – il numero d’opus non puo` non essere simbolico – per pianoforte so-

Modest Petrovicˇ Musorgskij

lo. Musorgskij trovo` un modello a cui guardare nei grandi polittici di Schumann, aggiungendovi, come elemento estrinseco-narrativo di coesione formale, la Promenade, Passeggiata: la Promenade, strumentata in modi diversi, compare nei Quadri due volte, varianti di essa compaiono alla fine dei pezzi nn. 1, 2 e 4, sul tema della Promenade e` costruito Con mortuis (Cum mortuis, s’intende: l’italiano e il latino di Musorgskij sono spesso di fantasia), e il tema della Promenade viene citato nel pezzo conclusivo. Dicevo, un po’ astrattamente, che la Promenade e` un elemento estrinseco-narrativo di coesione formale, e lo dicevo nel senso che i Kreisleriana di Schumann, ad esempio, non hanno bisogno di ritorni tematici per essere un’opera unitaria. Nei Quadri l’unitarieta`, programmaticamente, e` data dal riferimento al mondo poetico di Hartmann, come in Schumann di Hoffmann, ma Musorgskij sente la necessita` di aggiungere un particolare in se´ aneddotico – la passeggiata da una sala all’altra della esposizione – facendolo diventare tema musicale che ritorna periodicamente. Pare a me che questo particolare della struttura vada visto in relazione con l’intenzione, di cui ho detto prima, di costruire un primo movimento di sonata su un tema solo e di spostare la dialettica del discorso sulla struttura tonale: struttura tonale che anche nei Quadri sta alla base della singolarissima forma. L’opera inizia in Si bemolle e termina in Mi bemolle: rapporto fra la tonalita` del primo grado e la tonalita` del quarto grado, frequente in Schumann, che porta a considerare la tonalita` iniziale come dominante della tonalita` finale, integrando il ciclo nell’arco di una grande cadenza perfetta, elementare. All’interno di questo arco si colloca una netta bipartizione, segnata in modo inequivocabile dal ritorno, dopo il n. 6, dell’intera Promenade in una nuova strumentazione. La prima parte inizia dunque in Si bemolle (Promenade) e termina in si bemolle (Due ebrei); la seconda inizia in Si bemolle (Promenade) e termina in Mi bemolle (La porta dei Bohatyr). Il rapporto Si bemolle-Mi bemolle acquista cosı` un grado maggiore di complessita` , articolandosi anche attraverso il modo, e siccome la Promenade ha carattere introduttivo lo schema generale diventa questo: – Si bemolle (Promenade) – mi bemolle (Gnomus) – si bemolle (Due ebrei) – Si bemolle (promenade) – Mi bemolle (Limoges) – Mi bemolle (La porta dei Bohatyr). Nella prima parte la ragnatela delle tonalita` e` assai fitta: 397

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Si bemolle (Promenade) mi bemolle (Gnomus) La bemolle (prima variante della Promenade) sol diesis (che equivale a la bemolle; Il vecchio castello) – Si (seconda variante della Promenade) – Si (Tuileries) – sol diesis (Bydlo) – re (terza variante della Promenade) – Fa (Balletto dei pulcini nel loro guscio) – si bemolle (Due ebrei). L’aggancio delle tonalita` e` molto fluido fino a Bydlo. La tensione tonale e` invece altissima al passaggio da sol diesis a re, e Musorgskij la segnala con una corona alla fine di Bydlo e sopprimendo i primi due suoni del successivo tema della Promenade, in modo da far iniziare la variante che precede il Balletto con l’accordo di re, seguito per di piu` dall’armonia di dominante sulla scala naturale. Lo iato della forma corrisponde qui a un delicato equilibrio strutturale. La grande divisione in due parti, leggermente asimmetrica, viene riequilibrata da un’altra divisione: sei pezzi contiene la prima parte, quattro la seconda; quattro pezzi vengono prima, sei dopo il brusco passaggio da sol diesis a re. Nella seconda parte i rapporti sono tradizionali e accentuano il senso di non ritorno alla fine della tonalita` dell’inizio, cioe` del circolo classico che si trasforma in spirale romantica: – Si bemolle (Promenade) – Mi bemolle (Limoges) – si-Si (Catacombae, Con mortuis) – Do (La capanna su zampe di gallina, cioe` Baba Yaga) – Mi bemolle (La porta dei Bohatyr). Il passaggio dal Mi bemolle al si, tonalita` molto lontane, non e` immediato, ma viene mediato, in Catacombae, attraverso blocchi accordali che solo a tratti assumono un chiaro orientamento tonale e che, sia per la posizione nel registro medio-grave della tastiera, sia per i bruschi contrasti di dinamica, prendono piuttosto l’aspetto di variazioni di timbri intorno a due suoni, fa diesis e sol. La tonalita` fondamentale viene continuamente turbata in Con mortuis, e nella Capanna e` addirittura difficile la percezione della tonalita` di base. Nella seconda parte Musorgskij crea quindi un’ampia zona di tonalita` intorbidita fra i due piloni in Mi bemolle, differenziando in tal modo non solo l’assetto tonale, ma anche il colore della prima e della seconda parte. Posto che le due parti sono indubbiamente integrate e che l’opera consegue una unita` formale complessiva saldissima, direi che si possa parlare di una struttura teatrale, con primo e secondo atto 398

Quadri di una esposizione

che potrebbero anche essere separati da una lunga pausa (e dall’applauso del pubblico). Se l’aspetto strutturale appare sicuramente legato alla lezione di Schumann e, forse, alla vocazione teatrale di Musorgskij, la scrittura pianistica dei Quadri e` abnorme nel panorama della letteratura dell’Ottocento. Qualche evidente riferimento al Liszt di Weimar (Con mortuis, La capanna) e qualche esempio di strumentazione romantico-intimista (Il vecchio castello) non incidono in modo rilevante sull’aspetto strumentale dei Quadri, aspetto che contraddiceva la concezione tardoromantica del suono pianistico a tal punto da provocare forsi perplessita`, sostanziale rifiuto e vari tentativi di riaggiustamento. La prima edizione, curata da Rimskij-Korsakov, ritoccava qua e la` il testo ma lasciava quasi intatta la struttura. Si e` spesso vituperato Rimski per aver ‘‘corretto’’ il Boris e la Chova´nsˇ cˇ ina, e si e` spesso riconosciuto che egli aveva per lo meno eliminato certi problemi di esecuzione che le due opere, capolavori di un genio ‘‘dilettante’’, ponevano ai professionisti. L’edizione rimskiana dei Quadri, paradossalmente, puo` solo essere vituperata perche´, non toccando la scrittura pianistica, non eliminava alcun problema di esecuzione. Fatto e` che Rimskij-Korsakov, grande strumentatore ma non concertista di pianoforte, non sapeva spostare i Quadri nel... campo gravitazionale del concertismo professionistico. E cosı`, mentre il Boris, seppure nella versione di Rimskij-Korsakov, veniva eseguito e suscitava ammirazione, i Quadri restarono a dormire. Passarono piu` di trent’anni prima che un grande pianista inglese, Harold Bauer, provasse a fare con i Quadri cio` che Rimskij-Korsakov aveva fatto con il Boris e la Chova´nsˇcˇina. Con qualche taglio e con una revisione talvolta radicale della scrittura i Quadri vennero ammessi all’onor del mondo e comparvero sempre piu` di frequente nelle sale da concerto, con tutto il fascino e l’originalita` del loro discorso e sia pur vestendo abiti di societa` che non erano di loro spettanza. I Quadri peccavano contro la scrittura pianistica considerata esemplare nella seconda meta` dell’Ottocento per due motivi soprattutto. Musorgskij impiegava poco la coloratura e non prevedeva la possibilita` di sfruttare il tasto abbassato come punto d’appoggio. La coloratura, intesa non tanto come ornamentazione, quanto come elemento strutturale della sonorita`, permette di far vibrare uno spettro sonoro pari a quello dell’orchestra; mediante il pedale di risonanza e i rapidi spostamenti delle mani su piu` registri si puo` mettere e tenere in vibrazione una massa di suono compatta, completa, dalla estremita` grave alla estremita` acu-

Une larme

ta. La scrittura di Musorgskij e` invece ‘‘magra’’, secca, priva delle ripercussioni, delle scie, del tessuto connettivo che serve ad amalgamare insieme i punti acusticamente salienti. Tanto piu` magra risulta la scrittura in quanto Musorgskij non usa il tasto abbassato come punto d’appoggio per sollevare agevolmente le grandi masse muscolari del braccio e della spalla, e per sfruttarne elasticamente la caduta. Tutta la tecnica pianistica degli ultimi decenni dell’Ottocento tende alla conquista del peso come fonte di sonorita`, e Busoni dira`, all’inizio del nuovo secolo, che ‘‘suonare il pianoforte e` complessivamente caduta e non sollevamento di pesi’’. Musorgskij richiedeva invece il maggior sforzo per sollevare i pesi e, in pratica, la tecnica postulata dalla sua scrittura non permetteva di ottenere il massimo volume di suono che il pianoforte poteva dare. Gli aggiustamenti del Bauer e di altri permettono lo sfruttamento completo delle potenzialita` dinamiche del pianoforte con telaio fuso in un blocco solo, ma modificano la timbrica e persino l’effetto ritmico. La strumentazione di Musorgskij, in realta`, e` molto piu` raffinata e molto piu` sottilmente pianistica di quanto non lo sia una versione di tipo piu` tradizionale. E cosı` si e` indotti a concludere ogni qualvolta si analizzano le modificazioni della scrittura, da Bauer fino a Horowitz, per quanto piu` sicura per l’esito tecnico sia la versione di Bauer, per quanto piu` spettacolare sia la versione di Horowitz. La versione piu` ‘‘pianistica’’ e` quella di Musorgskij, sia pure di un pianismo che potrei definire non da altorilievo ma da graffito. La scrittura dei Quadri non va vista in relazione con la evoluzione della tradizione romantica che arriva fino a Rachmaninov e a Ravel, ma va inserita in quella svolta rivoluzionaria che dal Liszt delle Leggende porta al Liszt dei Ritratti storici ungheresi, ancor oggi problematici e ancora oggi non inseriti nel repertorio pianistico. Il rapporto con Liszt vale pero` anche per un altro motivo. Se si giudicano anacronistiche le motivazioni critiche della versione Bauer e` giocoforza respingere del pari certe didascalie esplicative della prima edizione. Le didascalie di Musorgskij si limitavano ai titoli e a un breve commento a pie’ di pagina in Con mortuis. Le altre didascalie che vengono in genere riportate sono del critico Vladimir Vasilievicˇ Stasov, al quale i Quadri furono dedicati. Stassov aggiunse le didascalie, in parte valendosi di accenni contenuti in lettere che il compositore gli aveva indirizzato durante la composizione dei Quadri, con la lodevolissima intenzione di aiutare il lettore e per meglio spiegare un titolo che appariva enigmatico. Ma, ad esempio, la didascalia di

Modest Petrovicˇ Musorgskij

Gnomus – ‘‘disegno rappresentante un piccolo gnomo che cammina goffamente’’ – si addice proprio a un pezzo cupo, violento, beffardo, disperato, e quant’altro voglia aggiungere chiunque lo abbia ascoltato? Non mi sembra, e non mi sembra che nessuna delle didascalie di Stassov spieghi la musica, cosı` come non mi sembra che la spieghino neppure le modestissime opere grafiche di Hartmann. Le didascalie di Stassov indulgono al descrittivismo e al bozzettismo che tanto piacevano ai dilettanti di fine Ottocento, mentre i Quadri sono invece da considerare, mi sembra, opera simbolista come gli ultimi grandi lavori di Liszt. E una lettura simbolista dei Quadri mi sembra non solo possibile ma anche del tutto in linea con la ricerca ideologica di Musorgskij fra Boris e Chovansˇ cˇ ina. I Quadri, possiamo dire, realizzano il passaggio che nella contemporanea Fiera resta in sospeso e incompiuto: il passaggio dal bozzetto popolaresco al grande ciclo dei miti e dell’anima russa. Gli ultimi lavori per pianoforte solo di Musorgskij consistono in alcune piccole composizioni scritte al tempo e poco dopo il breve giro di concerti con la cantante Dar’ja Leonova. Il pezzo che, dal titolo, sembrerebbe il piu` impegnativo, Tempesta sul Mar Nero (1879), e` andato perduto, ma Musorgskij potrebbe averlo improvvisato – lo ascoltarono Stassov e Rimskij-Korsakov – senza mai fissarlo sulla carta. Abbiamo invece i due pezzi riuniti sotto il titolo In Crimea: Hursuff. Note di viaggio e Capriccio (1880). Due danze orientaleggianti quali avremmo potuto tranquillamente trovarne in Rimskij-Korsakov. Le danze sono pero` la parte centrale di due forme ternarie elementari; la ‘‘cornice’’, in entrambi i casi, e` sorprendentemente dura, meccanica, tale da cambiare il significato della parte centrale e da farla apparire come citazione straniata. Le due danze diventano cosı` un momento non pittoresco ma surreale. Il montaggio surrealistico dell’oggetto banale fa pensare a certe pagine di Rossini. E del piu` puro Rossini dei Peccati di vecchiaia sono Me´ditation (Meditazione, 1880) e Une larme (Una Lacrima, 1880). Meditazione comprende una prima e una terza parte, identiche, in stile pseudoreligioso: uno spoglio contrappunto a due voci che sembrerebbe richiedere un harmonium. La parte centrale e` sentimentale e sentimentaleggiante come la musica da salotto piccolo borghese russa, e ancora piu` sentimentale e` la coda, che si conclude con una scoperta citazione dello stile armonico di Cˇajkovskij. Nettamente cˇajkovskiana e` altresı` Una Lacrima, ma forse, piu` ancora che a Cˇajkovskij, ci si deve riferire alla musica per dilettanti che pullulava in Russia a opera di com399

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Modest Petrovicˇ Musorgskij

positori come Sˇcˇerbacˇe¨v, Antipov, Karganov, Alferakij, elevati da competenti classificatori germanici nella sezione Modeliteratur. Il rifacimento di Musorgskij e` serio, non ironico: il suo distacco, la sua desolazione si avvertono solo nella costruzione irregolare del periodo, di nove battute invece che di otto (di undici invece che di dodici nella parte centrale), e non si puo` neppure escludere che il compositore non desiderasse veramente di arrivare sul leggio dei dilettanti che aveva conosciuto durante il viaggio nel Sud in compagnia della cantante. Anche La Couturie`re. Scherzino (La Cucitrice, 1880) e` un pezzo di genere in cui lo stile della musica d’uso viene rifatto con lievi accentuazioni che lo portano verso l’assurdo. Non siamo a Stravinskij o a Sˇostakovicˇ: siamo a Rossini, ma la strada verso il Novecento e` gia` spalancata. L’ultimo pezzo, Au Village (Al villaggio, 1880 ca.), piccola sce-

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La Couturie`re. Scherzino

na popolare, sta fra il Liszt delle Cinque Canzoni popolari ungheresi e il Barto´k di Sera dai Sze´kely. L’inizio e` uno splendido esempio di evocazione di atmosfera contadina ottenuta con i mezzi piu` semplici: canto popolare armonizzato e strumentazione che si allarga progressivamente verso il registro basso. Un modo moderno di guardare il folclore, ma che proviene da uno stile antico, rimasto sommerso nella vita musicale dell’Ottocento: lo stile di Glinka nella Canzone popolare finlandese. Circa cinque anni piu` tardi Liszt sarebbe pervenuto, con l’aforistico Abschied, alla estrema rarefazione nella armonizzazione del canto popolare, completando la catena che lega Ottocento e Novecento. Dal salotto della Polca, dunque, al simbolismo dei Quadri, al predecadentismo delle piccole pagine ultime: in meno di trent’anni il cammino di Musorgskij era stato spaventisamente grande.

Pezzo in Do

Carl Nielsen

A Carl Nielsen

B

(Sortelung, 9 giugno 1865-Copenaghen, 3 ottobre 1931) L’interesse per il pianoforte di Nielsen, che era innanzittutto un sinfonista, si fissa in tre distinti periodi della sua vita. I Cinque Pezzi op. 3 (1890), la Suite sinfonica op. 8 (1894), le Bagatelle umoristiche (1894-1897) e il Preludio festivo (1899) precedono la Sinfonia n. 2 (1902) che rappresenta il primo importante risultato creativo di Nielsen, il Sogno della ‘‘Notte silente’’ (1905) rimane isolato, la Ciaccona op. 32 (1916), il Tema e variazioni op. 40 (1916) e la Suite op. 45 (1919-1920) si collocano fra le Sinfonie n. 4 e n. 5, i Tre Pezzi op. 59 (1928), la Musica per pianoforte per grandi e piccini op. 53 (1930) e il Pezzo in Do (1931) giungono dopo la Sinfonia n. 6 e il Quintetto per fiati. I Cinque Pezzi si muovono piuttosto goffamente nell’orbita di Schumann e di Grieg, la Suite sinfonica e il massiccio Preludio festivo sembrano pianisticamente tagliati con l’accetta invece che lavorati di cesello come gli Studi sinfonici di Schumann. Le sei Bagatelle umoristiche sono innocui pezzi infantili che si distaccano da Schumann e che riprendono la scrittura prebeethoveniana con curiosi risultati di neoclassicismo fuori stagione, ma anticipando alla lontana il tono dell’opera Mascherata (1906), di ambientazione settecentesca. Tecnicamente sono facili, tranne il n. 2, che spaventerebbe il bambino o il dilettante che volesse addentrarvisi. Il Sogno e` un pezzo d’occasione che sfrutta abilmente le prime note del popolarissimo Stille Nacht di Franz Xaver Gruber. I tre lavori del 1916-1920 sono invece opera di un musicista maturo che si e` forgiato un linguaggio armonico personale ma che destina al pianoforte un pensiero non sempre idiomaticamente adatto allo strumento. Il tema e le diciotto variazioni della Ciaccona sono magistralmente costruite e la coda conclusiva e` sorprendente perche´ evita l’imperiosa riaffermazione del tema come nella Ciaccona di Bach, modello di tutte le ciaccone, ma sfuma invece in leggerissimi arabeschi nel registro acuto. Tuttavia la scrittura pianistica e` talvolta incerta, e piu` allusiva alla complessita` del pensiero che realmente esplicativa. Nella Ciaccona le variazioni sono concatenate. Nel Tema e variazioni ciascuna variazione e` in forma chiusa. Si nota pero` una divisione in tre parti: Tema e sei Variazioni, Variazioni nn. 7-10, Variazioni nn. 11-15, con la parte centrale lirica e meditativa, e quindi con un riferimento al-

l’archetipo della sonata con movimento lento al centro. L’armonia di Nielsen e` qui veramente unica per il suo personalissimo uso degli accordi perfetti, sebbene si mantenga strettamente legata al sistema tonale. Ad esempio, il Tema inizia in si e finisce in sol, la Variazione n. 7 riprende il tema ma arriva dal si al sol attraverso altre modulazioni, caratterizzando cosı` in modo diverso il gruppo delle Variazioni nn. 7-10. Dalla Variazione n. 11 viene ripreso il cammino che era stato interrotto. Il modello che Nielsen puo` aver tenuto presente risiede nelle 32 Variazioni in do di Beethoven. Tuttavia non si tratta di imitazione ma di riassunzione di una drammaturgia, e la conclusione di Nielsen non e` come quella, paradossale, di Beethoven, che chiude con due scheletrici accordi in piano e in modo minore dopo aver fatto i fuochi artificiali: Nielsen fa anche lui i fuochi artificiali nella penultima Variazione, ma riprende il discorso in modo pacificato nell’ultima, concludendola estaticamente in Si. La scrittura pianistica e` qui piu` matura che nella Ciaccona e non manca in certi momenti di fulgore, sebbene non sia mai veramente inventiva. Anche in questo caso si tratta di una costruzione magistrale che avrebbe in astratto i numeri per far parte del repertorio concertistico. A sbarrarle questo traguardo sta secondo me la mancanza di icasticita` del tema, che e` un tranquillo corale armonizzato, non tale melodicamente da imprimersi nella mente dell’ascoltatore e da consentirgli di pagaronare il tema, matrice dell’opera, con le sue successive trasformazioni. La Suite op. 45 avrebbe dovuto essere intitolata Suite luciferina, non in riferimento al Lucifero caduto e diventato Satana ma al Portatore di luce. Tuttavia, titolo a parte, i sei movimenti della Suite sono ispirati alla duplice natura di Lucifero, la fulgente bellezza dell’angelo e la indomabile superbia del ribelle. Il secondo, quarto e quinto movimento sono leggeri, idilliaci, innocenti, tutti giocati sul registro del pianoforte che ricorda il carillon, gli altri movimenti sono alteri, massicci. E in questi rispuntano le goffaggini di scrittura della Suite sinfonica, in un modo tale da squilibrare l’insieme. Gli ultimi lavori pianistici di Nielsen sono meno ambiziosi. Nei Tre Pezzi op. 59 il linguaggio presenta novita` che sembrano almeno in parte derivare dal tardo Busoni. Senza... scomodare il cromatismo Nielsen arriva ad allenta401

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Carl Nielsen

re le fuzioni tonali del diatonismo in un modo che fa balenare talvolta la sospensione della tonalita`. Piu` che una ricerca di linguaggio sembra pero` a me che Nielsen sia attratto dal gusto della parodia. I ventiquattro pezzi Per grandi e piccini, e il Pezzo in Do che ne prosegue gli indirizzi, sono tecnicamente molto facili e di contenuto, secondo me, piu` bamboleggiante che infantile. Nielsen, che aveva accolto una richiesta, o diciamo pure un appello rivolto dalla Societa` degli insegnanti danesi

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Pezzo in Do

ai compositori nazionali, si impegna nel difficile compito di scrivere ventiquattro pezzi nelle ventiquattro tonalita`, mantenendo sempre la mano nella posizione delle cinque note. Per chi non e` pianista e` paradossalmente piu` difficile scrivere pezzi facilissimi che pezzi difficili. Nielsen fa del suo meglio, ma il paragone con la Musica per bambini op. 65 di Prokof’ev, posteriore di cinque anni, ci dice che cosa poteva trarre un concertista dalla autocostrizione dello scrivere facile.

Pezzo in Do

Luigi Nono

A Luigi Nono

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(Venezia, 29 gennaio 1924-ivi, 8 maggio 1990) L’interesse di Nono per il pianoforte fu legato alla sua amicizia con Maurizio Pollini, dedicatario insieme a Claudio Abbado di Como una ola de fuerza y luz (Come un’onda di forza e luce, 1971-1972) per soprano, pianoforte, orchestra e nastro magnetico. La composizione nasce da una intima motivazione: testimoniare il dolore e l’amore, celebrare la morte di Luciano Cruz, giovane cileno appartenente al Movimento della Sinistra Rivoluzionaria, la cui scomparsa aveva ispirato una poesia all’argentino Julio Huasi. Delle quattro parti senza soluzione di continuita` in cui il pezzo si articola, la prima e` un grande lamento per la perdita di Luciano, la seconda e` dedicata alla sua presenza spirituale oltre la morte, la terza all’avanzare delle forze rivoluzionarie, la quarta alla unione solidale del popolo. La partitura, con un’orchestra molto fitta, i solisti, l’elettronica, vede una partecipazione del pianoforte senza dubbio significativa ma non di spicco. La scrttura pianistica e` concentrata sui cluster e sugli accordi nel registro medio e nel registro grave, con modi di attacco del tasto violenti ed effetti sonori materici. Il secondo e ultimo pezzo pianistico di Nono, ...sofferte onde serene... (1976), e` dedicato a Maurizio e Marilisa Pollini e impiega il pianoforte e il nastro magnetico. Anche in questo caso la composizione rappresenta la trasposizione musicale di una esperienza esistenziale, una serie di eventi dolorosi accaduti nella famiglia del compositore e nella famiglia dei dedicatari. ‘‘Segni di vi-

ta sulla laguna, sul mare. Inviti al lavoro, alla meditazione, avvisi’’, dice Nono. Il nastro e` la elaborazione elettronica di suoni registrati da Pollini e analizzati negli attacchi, nelle risonanze e nei rumori concomitanti (anche i rumori dei pedali, che acquistano un grande rilievo). Si crea cosı` un rapporto fra le due fonti sonore, il pianoforte live e il nastro, un rapporto di rimandi e di integrazioni. Ma la tecnica di composizione impiegata e` di relativa importanza per l’ascoltatore, mentre cio` che conta veramente e` la ‘‘espressione volta verso l’elegia e la contemplazione filosofica, espressione d’una interiorita` autenticamente commovente’’ (Harry Halbreich). La scrittura pianistica impiega ancora largamente il cluster ma e` molto piu` sfaccettata che in Como una ola de fuerza y luz. Tuttavia il rapporto fra il live e l’elettronica appare oggi problematico, sia perche´ – banalmente – il nastro e` tecnicamente invecchiato, sia e soprattutto perche´ il fatto di aver elaborato il nastro partendo da suoni creati da un pianista di forte personalita` limita la rispondenza fra le due fonti sonore quando il solista e` diverso. Sembra che Nono avesse l’intenzione di rifare il nastro, e forse di rivedere tutta la composizione utilizzando la sua successiva esperienza del live electronics, che poteva aprire un campo nuovo e rendere il pezzo piu` facilmente utilizzabile da altri interpreti. Non sono mancate in verita` le esecuzioni di vari pianisti, ma ...sofferte onde serene... resta legato alla presenza del suo dedicatario.

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Goffredo Petrassi

Pezzo in Do

Goffredo Petrassi (Zagarolo, 16 luglio 1904-Roma, 2 marzo 2003) Per Petrassi, come del resto per molti compositori del Novecento, non si puo` propriamente parlare di ‘‘opera pianistica’’, cioe` di un che di costante e di uniformemente distribuito durante lo sviluppo creativo dell’artista, quanto piuttosto di qualche esperimento e di qualche occasione in cui lo strumento viene impiegato. E le ‘‘occasioni pianistiche’’ di Petrassi sono veramente poche: meno di una decina in un arco creativo che coprı` piu` di sessant’anni. Dopo la Partita (1926), che con la sua articolazione in Preludio, Aria, Gavotta e Giga e con il suo linguaggio porta il suo obolo alla moda del momento, anche se il linguaggio stesso oscilla in realta` fra il neobarocco e l’intimismo romantico, la prima composizione pianistica di Petrassi e` la Siciliana e Marcetta a quattro mani (1930), che nasce in evidente riferimento al pianoforte di Alfredo Casella e in particolare agli 11 Pezzi infantili del 1920. In un certo senso, i due brevi pezzi di Petrassi si fissano anzi sui due poli opposti della poetica di Casella, il momento sentimentale-affettivo della berceuse (nella Siciliana) e il momento meccanicistico-motorio della tarantella e della marcia (nella Marcetta). Curiosa, e non ‘‘caselliana’’ e` tuttavia l’accelerazione finale della Marcetta. Ancora da Casella prende lo spunto la Toccata (1933), in particolare dai Due Ricercari sul nome Bach del 1932. Il distacco dal lessico caselliano e` pero` molto netto, e il significato storico della Toccata si amplia fino alla sintesi del genere: da un lato la toccata barocca e neobarocca nei suoi due momenti della improvvisazione di figure virtuosistiche e del fugato, dall’altro la toccata otto-novecentesca basata sulla iterazione ritmica del moto perpetuo. La Toccata e` costruita su due soggetti, il secondo dei quali nasce dalla inversione della prima cellula del primo. Nella esposizione sia del primo che del secondo soggetto Petrassi evita la ‘‘risposta’’, cioe` la trasposizione su altezze che non corrispondano all’intervallo di ottava e dei suoi multipli. Viene cosı` evitata qualsivoglia logica tonale, e una sorta di richiamo alla ‘‘risposta’’ si ha soltanto con la riesposizione alla quinta superiore del primo soggetto, che serve pero` a ‘‘dimostrare’’ la sovrapponibilita` dei due soggetti. Questa prima parte, di rigorosa scrittura contrappuntistica a tre voci, potrebbe sfociare direttamente nella ricapitolazione a modo di ‘‘stretto’’, che viene invece po404

sposta. Con un imprevedibile colpo di scena stilistico Petrassi passa invece a una quasi-improvvisazione sul primo soggetto con strumentazione piu` organistica che pianistica, cioe` con suoni gravi tenuti e con raddoppi in ottava o con movimenti paralleli di gruppi accordali che derivano dalle possibilita` dei registri dell’organo, comprese le misture (Petrassi era diplomato in organo, oltre che in composizione). La toccata in senso novecentesco inizia col Presto in cui predomina la testa del primo soggetto. Non si puo` parlare di vero e proprio bitematismo, tuttavia l’archetipo della sonata classica e` certamente presente, sia con una tripartizione esposizione-sviluppo-riesposizione, sia con un contrasto fra tema ‘‘maschile’’ e tema ‘‘femminile’’ (quest’ultimo con la didascalia ‘‘espressivo’’). Anche in questa parte la strumentazione e` prevalentemente di tipo organistico, sebbene non manchino, con funzione di contrasto, momenti di scrittura neoclavicembalistica. Non si puo` parlare nella Toccata di armonia funzionale, ma solo di sovrapposizioni di intervalli come risultanti del movimento dei contrappunti. Gli accordi, anche i piu` semplici e piu` tradizionali, sono intesi come colori timbrici, non come funzioni di campi armonici. Il Concerto per pianoforte e orchestra (19361939) impegno` Petrassi per diversi anni e fu eseguito per la prima volta da un pianista celebre, Walter Gieseking, ma suscito` perplessita` nella critica e fu poi guardato dallo stesso Petrassi come un lavoro non significativo nell’insieme della sua opera, al punto da definirlo in una intervista ‘‘una porcheria’’. La struttura del Concerto e` classica, e sembrerebbe che Petrassi si fosse lasciato tentare dalle caratteristiche storiche di un genere per il quale non aveva in realta` un vero interesse. La scrittura e` diversissima da quella della Toccata, e sembra mirare – per le posizioni late, i salti e i rapidissimi spostamenti su piu` registri, la fitta coloratura – allo stile pianistico del Concerto n. 5 di Prokof’ev. Nelle otto Invenzioni (1944) la strumentazione appare depurata dal concetto di ‘‘bravura’’ che informava la parte solistica del Concerto e che finiva col renderla complessivamente impersonale: Petrassi ritorna piuttosto verso la strumentazione della Toccata, ma molto semplificata e assai piu` raffinata. Nelle Invenzioni la composizione e` prevalentemente a due parti, o a due parti che si

Oh, les beaux jours!

scindono in tre. Su questo tessuto compositivo molto lineare e di perfetta audibilita` la strumentazione pianistica interviene con ombreggiature e ispessimenti in cui vengono impiegate molto spesso le ottave, ma molto spesso anche le seste e le quinte, e piu` raramente le terze, le quarte e le settime: rarissimi sono gli usi in funzione timbrica delle seconde, usuratissime da vent’anni di neoclassiche imbandigioni. In questo contesto di scrittura pianistica in cui i registri di mutazione organistici vengono ripensati e adattati al pianoforte con molta eleganza, restano (come, si puo` dire, relitti) certe zone di rigorosa scrittura contrappuntistica a tre e a quattro voci, nettamente legate alla prima parte della Toccata. In particolare la Invenzione VI, a quattro voci, appare come uno studio contrappuntistico astratto che non trova sulla tastiera del pianoforte, secondo me, una strumentazione adeguata. A rendere poco efficace la strumentazione non e` tanto la dislocazione delle voci su una tastiera monocroma, quanto il carattere fortemente espressivo dell’insieme, la messa in rilievo delle voci mediante la sola dinamica, la progressione verso punti culminanti, il rallentamento e l’allargamento del tempo alla fine. Si tratta di una fuga a due sog-

Goffredo Petrassi

getti, in cui acquista un forte rilievo il secondo soggetto. La strumentazione resta efficace finche´ il tessuto e` semplice. Lo sviluppo verso il punto culminante, con le entrate a ‘‘stretto’’ del secondo soggetto e con l’entrata del primo soggetto nel punto di massima tensione non risulta invece chiaramente percepibile. Un contrappunto metafisico, puramente combinatorio, suonerebbe sul pianoforte in modo piu` coerente. Questo contrappunto espressivo, o neobeethoveniano tout court (con un ovvio riferimento a Barto´k) richiederebbe invece probabilmente il quartetto d’archi. Pagina compositivamente magistrale e strumentalmente problematica, l’unica interamente problematica di tutta la raccolta, l’Invenzione VI sembra portare Petrassi verso concezioni diverse del suono e della strumentazione pianistica, mutuate appunto dagli archi. L’opera pianistica di Petrassi si arresta pero` qui, perche´ il Piccolo Pezzo (1950) non e` stilisticamente diverso dalle Invenzioni, e i tre pezzi Oh, les beaux jours! (Oh, i bei giorni!, 1976) risalgono circa agli stessi anni delle Invenzioni e vengono solo ritoccati per la pubblicazione, senza che siano intervenute nel frattempo concezioni evolutive della scrittura strumentale.

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Ildebrando Pizzetti

Canti di ricordanza

Ildebrando Pizzetti (Parma, 20 settembre 1880-Roma, 13 febbraio 1968) Pizzetti, che era essenzialmente operista, scrisse saltuariamente per pianoforte ma lasciando con la Sonata una composizione che spicca nel panorama della musica pianistica italiana della prima meta` del Novecento. Le sue prime composizioni – Sogno (1900), Poemetto romantico (1903), Foglio d’album (1906), Le Danze (1908) – non escono dalla dimensione del bozzettismo tardoromantico. Sogno e` in realta` un notturno in cui si nota l’attenzione rivolta al Martucci intimistico, i tre pezzi del Poemetto romantico – Appassionato, Intermezzo, Triste – sembrano improvvisazioni su temi annotati per un’opera di gusto vagamente francese, il Foglio d’album dimostra secondo Marco Vincenzi la conoscenza di Faure´, e le Danze, trascritte dalle musiche di scena per La Nave di d’Annunzio, sono brillanti e vivaci ma rendono solo pallidamente i colori sgargianti dell’originale. Da un autunno gia` lontano (1911) conclude il catalogo delle composizioni giovanili di Pizzetti. I tre pezzi che lo compongono – Sole mattutino sul prato del Roccolo, In una giornata piovosa, nel bosco, Al Fontanino – mostrano una piu` marcato interesse per Debussy e, nel brano conclusivo, una certa aria da strapaese, ma lasciano nello stesso tempo intravvedere la personalita` di Pizzetti quale si sarebbe rivelata di lı` a poco nella Fedra. I Canti della stagione alta (1930) sono un vero e proprio concerto per pianoforte e orchestra che adotta le forme tradizionali dell’allegro di sonata, della canzone e del rondo`. Alcune belle melodie modali e un trattamento molto sfaccettato dell’orchestra con numerosi assoli affidati a vari strumenti rendono secondo me interessante il primo movimento ma non bastano a renderlo emozionante nei suoi circa tredici minuti di durata, che mancano di varieta`. Gli assoli si sovrappongono senza che venga stabilito un ordine di priorita` nella loro importanza e l’ascoltatore... non capisce bene su quale di essi sia opportuno fissare l’attenzione. Questo carattere viene mantenuto e anzi si accentua nel secondo movimento. Il discorso diventa piu` diretto e si anima invece, inaspettatamente, nel finale, molto vivace e in cui il pianoforte la fa veramente da primus inter pares, con una conclusione clamorosa, orgiastica, che sembra ripresa dalla tradizione Cˇajkovskij-Rachmaninov. 406

L’ultimo momento di interesse di Pizzetti per il pianoforte capita nel bel mezzo della guerra, con il Preludio ‘‘L’Ombra’’ (1942), la Sonata (1942) e i Canti di ricordanza (1943). Il Preludio fu composto per una antologia di autori italiani contemporanei e, contrariamente alle prime intenzioni di Pizzetti, non fu seguito da altri. Il titolo e` dovuto al trattamento a canone che viene riservato al tema principale, anzi, all’unico tema al quale si contrappongono brevi, seppur molto caratteristici, incisi. La Sonata, in tre movimenti, segue come il Concerto gli schemi formali tradizionali, sia pure ‘‘rivisitati’’ (ad esempio, la riesposizione del primo movimento e` considerevolmente abbreviata). Predominano nel primo e nel terzo movimento, rispettivamente in modo ipolidio e in modo frigio, le melodie modali che hanno la loro lontana origine del gregoriano, mentre il secondo movimento, in si bemolle, alterna un recitativo-arioso e un canto corale. La situazione e` tipicamente teatrale, con protagonista in primo piano e corale in lontananza, dietro le quinte (si pensa al quadro della monacazione nel Trovatore). La concezione teatrale pervade in realta` tutta la Sonata, con l’eccezione del fugato che conclude lo sviluppo del primo movimento, e la strumentazione pianistica nasce con ogni evidenza da un pensiero sinfonicocorale che viene adattato alla tastiera ma senza forzature e senza velleitarismi. La drammaturgia delle Sonata sembra essere legata al momento in cui stava infuriando la guerra, con un primo movimento (Allegro mosso e arioso, ma non molto vivace) che getta lo sguardo su un passato felice, un secondo movimento (Adagio) in cui si alternano l’angosciato recitativo-arioso e il corale ‘‘religioso’’ che apre il cuore all speranza, e un finale (Turbinoso) cupo e minaccioso. I Canti di ricordanza portano come sottotitolo Variazioni su un tema del Fra Gherardo, opera del 1928 particolarmente cara a Pizzetti perche´ l’azione, che si svolge nel XII secolo, e` ambientata nella natia Parma. Le quattro variazioni – il tema non viene esposto – sembrano riferibili al complesso e contradditorio carattere di Gherardo, giovane di forti sentimenti religiosi che in un momento di ‘‘tentazione’’ seduce e abbandona una ragazza, torna a Parma dopo molti anni come predicatore, ritrova la ragazza, viene accusato di eresia, promette di

Canti di ricordanza

abiurare le sue tesi ma all’ultimo momento rifiuta di andare contro la sua coscienza. Le quattro variazioni – Molto largo, Allegro moderato (quasi marcia), Appassionato, Andante largo – si conclu-

Ildebrando Pizzetti

dono con una pagina estatica E i Canti di ricordanza, ultimo lavoro di Pizzetti dedicato al pianoforte, sono anche i piu` ‘‘pianistici’’, quelli che piu` direttamente nascono sullo strumento.

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Francis Poulenc

Canti di ricordanza

Francis Poulenc (Parigi, 7 gennaio 1899-ivi, 30 gennaio 1963) Per Francis Poulenc si puo` fare un discorso analogo a quello che si fa di solito per Gabriel Faure´: nella vita musicale di oggi sono rimasti molti suoi lavori (le liriche da camera, le opere I Dialoghi delle carmelitane e La Voce umana, il Gloria e lo Stabat mater), ma ben poco, per non dire praticamente nulla, e` rimasto della sua produzione per pianoforte. Fa eccezione il Concerto in re per due pianoforti e orchestra (1932), per un motivo, pero` , del tutto casuale. Il repertorio con orchestra del duo pianistico e` talmente asfittico – lasciamo fuori causa Bach, che scriveva per clavicembalo – che il Concerto di Poulenc ne diventa subito un faro. Non perche´ nel regno dei ciechi il monocolo e` re. Assolutamente no. Si puo` discutere se il Concerto di Poulenc sia meglio o no del Concerto di Mozart, e i motivi per preferire l’uno o l’altro sono secondo me di uguale importanza. Ma Poulenc non ha comunque, all’infuori di Mozart, nessun altro che possa stargli alla pari. E percio` la ristrettezza del repertorio per due pianoforti e orchestra gioca semplicemente a favore di una composizione che merita tutta la nostra attenzione, che, per continuare con la metafora, di occhi ne ha due, e di lince. La meriterebbe anche, tutta la nostra attenzione, il Concerto campestre per clavicembalo o pianoforte e orchestra (1927-1928), che pero` non compare quasi mai nelle stagioni sinfoniche per due motivi: e` scritto per il clavicembalo moderno di Wanda Landowska che i clavicembalisti non usano piu`, e nella versione per pianoforte e` incastrato storicamente fra due tipetti tosti come il Concerto n. 3 di Prokof’ev e il Concerto in Sol di Ravel. Ma nella storica esecuzione di Emil Gilels la amabilita` e il gusto aristocraticamente decadente del pezzo sfolgorano di viva luce, cosı` come sfolgora l’intellettualistica naı¨vete´ del ‘‘concerto coreografico per pianoforte e diciotto strumenti’’ Aubade (Albata, 1929), quando, s’intende, e` eseguito da Sviatoslav Richter. Non direi altrettanto del Concerto per pianoforte e orchestra (1949), che Poulenc scrisse per suo uso personale (ricordo bene di averlo sentito da lui: moriva di paura) e che risente troppo dei limiti tecnici di un pianista che poteva accompagnare superbamente un cantante ma che come virtuoso era timidissimo. Il Concerto per due pianoforti, nei tre movimenti tradizionali e di proporzioni classicheggianti (un 408

po’ meno di venti minuti), e` un coacervo stilistico di materiali i piu` svariati, dal Settecento arcadico al music-hall con ammiccamenti trasversali a Mozart, Stravinskij, Prokof’ev, Ravel e persino Puccini, il tutto governato da una intelligenza e da un gusto che non cascano mai nel banale o nel gratuito e che, discendendo alla lontana dallo spirito del quodlibet barocco, rendono coerente la misticanza. Il Concerto campestre inizia con un solenne, barocco Adagio introduttivo. Ma il seguente Allegro molto si incarica subito di contraddirne la seriosita` con un inizio che si richiama allo Haydn umoristico. Il primo movimento e` articolato in episodi contrastanti che oscillano fra il serioso (anche con la didascalia tragico e feroce) e lo scherzoso, e comprende una meditativa Cadenza del pianoforte, Cadenza ‘‘in tempo’’ a cui prende parte l’orchestra. La chiusa riprende l’inizio dell’Allegro molto, con un classico senso delle simmetrie. L’Adagio introduttivo tiene evidentemente conto dello Stravinskij neoclassico (il Concerto per pianoforte e fiati), ma soprattutto per quanto riguarda la – mi vien da dire cigolante – strumentazione, perche´ l’armonia di Poulenc e` assai meno angolosa. Il secondo movimento e` una siciliana di espressione distesa e tenera, con un drammatico recitativo nella parte centrale (anche qui sembrerebbe di poter dire Stravinskij docet, lo Stravinskij del Capriccio, s’intende; ma il Concerto campestre ebbe la prima esecuzione otto mesi prima del Capriccio). Il finale, Presto, e` toccatistico e haydniano di spirito, nel senso, per la precisione, della Sinfonia classica di Prokof’ev. Non mancano pero` una citazione del Fabbro armonioso di Ha¨ndel e un episodio a modo di marcia, e non manca nemmeno qui una breve Cadenza in tempo del solista, meditativa e introspettiva, che chiude inaspettatamente la composizione senza la prevedibile, direi inevitabile stretta finale, che viene invece evitata. Poulenc si mantiene per tutto il Concerto in equilibrio instabile fra il banale e il patetico, sviluppando la poetica del clown che e` tipica dell’arte parigina degli anni venti con una maturita` di pensiero e con una sicurezza di mano prodigiose. Concerto campestre non significa Concerto pastorale: campestre, invece, contrapposto a urbano, campagna contrapposta a citta`, Poussin contrapposto a Grosz. In questo senso la fine quieta del Concerto simboleggia a

Elegia

parer mio la sparizione di una visione gratificante che era iniziata con il doloroso Adagio introduttivo. Aubade non regge secondo me il confronto con il Concerto campestre, eseguito per la prima volta sei settimane prima. La drammaturgia del Concerto, che non e` lineare, si sviluppa in tre movimenti su quasi trenta minuti di musica. I circa ventidue minuti di Aubade comprendono otto pezzi di musica per i dieci quadri del soggetto di Jean Cocteau. Il ‘‘concerto coreografico’’ e` ispirato a Diana, ma non al notissimo mito di Diana e Atteone. ‘‘Diana’’, spiega Poulenc, ‘‘si ribella contro la legge divina che la condanna alla eterna verginita`’’, ... ma alla fine trova conforto nella caccia. I coreografi hanno raramente rispettato questa impostazione e, a cominciare da Balanchine nel 1930, hanno messo in scena anche Atteone. Ma pur senza il voyeur Atteone la musica di Poulenc non e` sempre consona, secondo me, alle situazioni drammaturgiche: ad esempio, Poulenc liquida la disperazione di Diana in un Allegro feroce di soli quaranta secondi che diventa come un siparietto, non un quadro. L’articolazione drammaturgica prevede: Introduzione, Le compagne di Diana, Diana e compagne, Entrata di Diana, Uscita di Diana, Toilette di Diana, Variazione di Diana, Disperazione di Diana, Addio e partenza di Diana, Conclusione. I difetti della logica drammaturgica non danno luogo a manchevolezze della musica, che risente in parte della influenza di Prokof’ev, grande amico di Poulenc e suo partner in partite di bridge, ma che e` inventiva e, soprattutto, che mette in rapporto il pianoforte solista con formazioni strumentali molto variabili. La partitura e` dunque lavorata con estrema intelligenza. Ma il Concerto campestre e` poeticamente di un’altra pasta. Oltre al Concerto i duo pianistici riprendono di tanto in tanto le musiche originali solistiche di Poulenc: la Sonata a quattro mani (1918) e, per due pianoforti, L’Embarquement pour Cythe` re (L’imbarco per Citera, 1951), il Caprice (Capriccio, 1952), La Sonata (1952-1953) e la Elegia (1960). La Sonata a quattro mani e` talmente breve – sei minuti appena – da raggiungere a stento la dimensione della sonatina. Tre movimenti smilzi e monelleschi nei quali sembra a tutta prima di vedere un riflesso dei pezzi facili a quattro mani di Stravinskij; ma la cronologia ci dice che questa tesi e` per lo meno dubbia, mentre e` del tutto probabile che Poulenc avesse nel cuore due grandi amori della sua vita di musicista, Chabrier e Satie. Imbarcarsi per Citera vuol dire imbarcarsi per l’isola di Venere, l’isola dell’Amore. Il famoso quadro di Watteau era stato probabilmente all’origine del-

Francis Poulenc

l’Isola giocosa di Debussy. Poulenc non sembra invece avere in mente il Settecento galante ma semmai un Maurice Chevalier che fischiettando segue su un lungosenna una ragazza per abbordarla con la paglietta sulle ventitre: due minuti di valse-musette costruiti su due temini che si imprimono subito nella mente dell’ascoltatore, un esempio di come la musica seria puo` essere ‘‘leggera’’ senza cessare di essere seria. Il Capriccio e` tratto dal Ballo mascherato per baritono e strumenti del 1932: tre brevi movimenti che si susseguono senza soluzione di continuita`, con al centro un tango. La Sonata e` seria non solo di spirito ma anche di apparenza (‘‘con la gravita` di un quartetto per archi’’, dice di essa Poulenc, che di quartetti non ne scrisse nessuno). I quattro movimenti sono intitolati Prologo, Allegro molto, Andante lirico, Epilogo. Poulenc vuole mantenere l’archetipo classico della sonata senza impiegarne le forme tradizionali: secondo la sua analisi, il centro emotivo della Sonata e` l’Andante, mentre l’Allegro ha funzione di scherzo e l’Epilogo rappresenta, con l’aggiunta di un nuovo tema sorprendentemente sbarazzino, la ricapitolazione di cio` che lo precede. E il Prologo? ‘‘La prima parte non e` concepita come la prima sezione di una sonata classica ma come un autentico Prologo’’. L’inizio, accordale e armonicamente tesissimo, riprende la scrittura corale dei Quattro Mottetti per il tempo di Natale (1952) e prepara l’entrata del tema animato, ‘‘semplice progressione ritmica la cui funzione e` di far valere il lirismo della melodia, ‘estremamente lenta’ in Do, che forma l’episodio centrale’’. Quindi, se vogliamo, una canzone tripartita con introduzione, ma nella quale il B, non l’A, e` l’elemento emotivamente predominante. Il secondo movimento e` lo scherzo con trio. Anche qui, pero`, Poulenc attribuisce la maggiore importanza al trio, calmo e meditativo. Due movimenti, in realta`, preparatori per cio` che veramente coinvolge fino in fondo Poulenc, l’Andante lirico (anzi, lyrico) in cui ritorna la scrittura corale della musica sacra a cui Poulenc, fervente cattolico, si era sempre dedicato e che occupava negli anni cinquanta i suoi pensieri, anche in preparazione dei Dialoghi delle carmelitane. L’ultimo lavoro pianistico di Poulenc, l’Elegia, esce completamente da questo clima ascetico e ci ripropone un ambiente ben diverso da quello del chiostro, l’ambiente del bistrot in cui si beve assenzio, si fuma, si guarda nel vuoto, con beatitudine, senza lasciarsi prendere da un pensiero qualsiasi. ‘‘Elegia per due pianoforti in accordi alternati’’, dice Poulenc. Gioco stereofonico di echi, ma atmosfera in cui stilla una sensualita` , indistinta e 409

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torbidamente intensa, che esercita sull’ascoltatore una attrazione morbosa. Parlando della sua musica per pianoforte solo con Claude Rostand nel 1954 Poulenc diceva di apprezzarne ancora una parte, di ‘‘condannare senza appello Napoli e Les Soire´es de Nazelles’’ e di non curarsi troppo del resto. Vediamo allora subito se meritassero o no l’anatema la suite Napoli (19221925) e il ciclo Les Soire´es de Nazelles (Le Serate di Nazelles, 1930-1936). Napoli e` una suite in tre parti: Barcarola, Notturno, Capriccio italiano, rispettivamente in Re, Re bemolle e Mi, e quindi senza una rete tonale logica complessiva. Poulenc comincio` a scriverla durante un soggiorno in Italia ma la completo` solo dopo parecchi anni. Si nota facilmente in essa una differenza di concezione fra i due primi pezzi e il terzo: i primi due sono musica da camera intimistica, il terzo e` virtuosistico, da concerto, ed e` formalmente sviluppato secondo uno schema A-B-C con il quale e` in verita` molto difficile non dare l’impressione del pot-pourri. Mi sembra probabile che Poulenc volesse alla fine comporre una suite che potesse interessare ad Artur Rubinstein, il quale aveva mostrato per la sua musica una calda simpatia, e che dovesse quindi proporre qualcosa che stimolasse l’interprete anche sul piano del virtuosismo. La prima esecuzione fu in verita` effettuata da Marcelle Meyer il 2 maggio 1926, ma Napoli entro` nel repertorio di Rubinstein (abbiamo anche la sua incisione in disco), e con Rubinstein... viaggio` speditamente nel mondo. A Poulenc era congeniale il virtuosismo come gioco trascendentale di colori, mentre gli era estraneo il virtuosismo come gioco di volumi. La strumentazione della Barcarola e del Notturno rientra in pieno nelle caratteristiche del suo stile, la strumentazione del Capriccio italiano e` spesso un po’ maldestra, e dopo essere partita benissimo nel primo episodio a modo di tarantella accumula negli altri due episodi i particolari invece di seguire una linea continua e manca di varieta`. Ma cio` non toglie che Napoli sia un pezzo concertisticamente efficace perche´ la visione del pianista alle prese con problemi tecnici di ardua soluzione sostituisce nel Capriccio cio` che fa difetto come concezione. Napoli merita dunque, secondo me, il processo d’appello, dal quale esce per lo meno assolta per insufficienza di prove. Lo stesso si deve dire per le Serate di Nazelles. A Nazelles, vicino ad Amboise nella valle della Loira, Poulenc aveva la sua residenza extracittadina nella vecchia casa di una zia carissima, a Nazelles completo` Napoli e a Nazelles ebbe spesso molti ospiti. Le Serate sono, secondo la prefazione, il riflesso ‘‘delle lunghe serate in campagna in cui l’autore si divertiva a fare 410

Napoli

dei ritratti con gli amici raggruppati intorno al suo pianoforte’’. Preambolo e Cadenza, otto Variazioni, Cadenza e Finale, un qualcosa che oscilla fra il Carnaval e gli Studi sinfonici di Schumann e le Enigma Variations di Elgar. Non si tratta pero` di variazioni di un tema musicale, ma di variazioni di tipi umani (Il massimo della distinzione, Il cuore in mano, La disinvoltura e la discrezione, e cosı` via). Poulenc non fa un preciso riferimento agli amici che sedevano intorno al suo pianoforte e che ‘‘ritraeva’’ nelle sue improvvisazioni. Forse, alla fine, si tratta di una galleria di autoritratti... Ma poco importa di sapere se e quali fossero i modelli viventi o se il modello fosse uno solo nei vari aspetti contrastanti del suo carattere. Il ciclo e` pieno di vitalita` e di inventiva ed e` vario e continuamente sorprendente. Si tratta della composizione pianistica piu` vasta di Poulenc e non si capisce davvero perche´ l’Autore se ne vergognasse. O forse lo metteva fin troppo allo scoperto? ‘‘Tollero i Mouvements perpetuels’’, dice Poulenc nell’intervista prima citata, che non dovette coglierlo in un momento di sfrenato buonumore. I tre Mouvements perpetuels (Movimenti perpetui, 1918) fecero parte del repertorio di Artur Rubinstein e furono il biglietto da visita che Poulenc poso` nella storia della letteratura pianistica dopo i Preludi del 1916 che si sono persi nei meandri del falansterio. Movimento perpetuo fa pensare a perpetuum mobile, alla eccitazione motoria dei tanti moto perpetuo che da Paganini in poi fecero la gioia dei violinisti. I tre pezzi che Poulenc riunisce sotto questo titolo sono invece ipnotici, la ripetitivita` non s’accoppia alla velocita`, e quindi l’insieme non e` affatto... movimentato. La simpatia per Satie vi e` manifesta e la riuscita estetica dei tre pezzi e` totale. Il primo Movimento fu scelto da Hitchcock come motivo ricorrente nel film del 1948 Rope (Corda, ma noto in Italia come Nodo alla gola). Dopo i Mouvements perpetuels troviamo il Valzer (1919), pubblicato nell’Album des Six che lanciava i giovani musicisti destinati, nei sogni di Jean Cocteau, a rinnovare ab imis la musica francese. Il Valzer e` scanzonato, inelegante, con un accompagnamento ‘‘stupido’’ e una melodia con ‘‘note sbagliate’’; un minuscolo ma perfetto esempio di musica antiromantica e antisimbolista. Le Tre Pastorali (1918) e i Sei Improvvisi (1920), sei che sono cinque perche´ nel 1924 Poulenc ne soppresse due e li sostituı` con uno solo, precedono la Suite in Do (1920), seconda raccolta che l’Autore diceva di poter ancora tollerare. Perche´ mai Poulenc denomini Suite questo pezzo e` un mistero: si tratta di una sonatina in tre movimenti (primo e terzo in Do, secondo in Si bemolle), spigliata ma meno vi-

Novelletta n. 3

vace della Sonata a quattro mani che la precede di due anni. Poi vengono le Promenades (Passeggiate, 1921), dieci pezzi nei quali si passeggia a piedi, in auto, a cavallo, in aereo, in barca, in autobus, in carrozza, in ferrovia, in bicicletta e in diligenza. Poulenc evita come la peste qualunque riferimento onomatopeico: non c’e` il trotto del cavallo, non c’e` lo sferragliamento della ferrovia, l’aereo va avanti lentissimo, piu` come un vecchio condor che come una macchina volante. La presenza di Satie, del Satie degli Sports et Divertissements e` incombente, e la raccolta e` secondo me la meno interessante di Poulenc. Le Due Novellette (1927-1928)... cambiano le carte in tavola. L’antiromantico Poulenc si ricollega a Schubert, allo Schubert biedermeier, e scrive una minuscola collana di valzer e una minuscola collana di scozzesi, rievocando senza dirlo una di quelle serate in cui Schubert improvvisava danze per le prodezze coreutiche dei suoi amici. I Tre Pezzi (1918-1928) sono, nell’insieme, un paradosso. La Pastorale, composta nel 1918, risente del Debussy anni novanta, l’Inno e` una pomposa marcia eroica, con un trio melodico e ornato, la Toccata e` un virtuosistico moto perpetuo pensato apposta per le dita di Horowitz, che lo eseguı` molto di frequente... finche´ non si innamoro` di E´tincelles di Moszkowski. Il Pezzo sul nome di Albert Roussel (1929) trae un buon partito dalla casualita` di un tema basato sulle lettere del nome, mentre il Valzer-Improvvisazione (1932) trascina nella danza il nome di BACH con una disinvoltura e con una monelleria che solo a un parigino puro sangue e` consentita. Possiamo passare sopra i tre Feuillets d’album (Foglietti d’album, 1933) e sulle piacevoli Villageoises (Rustiche, 1933), sei pezzi tratti dalle musiche di scena per Intermezzo di Gidaudoux e destinate ai bambini. Un piccolo commento richiedono i Due Intermezzi (1934), nei quali Poulenc si abbandona al suo piacere di fare salotto alla Mendelssohn. ‘‘Suono sempre l’intermezzo [secondo], che mi fa piangere’’, scrisse Poulenc alla dedicataria, Marie Blanche de Polignac, e non si capisce se scherzasse o se dicesse sul serio. Ma la musica fa pensare che non scherzasse. Il Presto in Si bemolle (1934) e` un omaggio alle dita fatate di Horowitz, che lo eseguı` spesso, e la Umoresca in Sol (1934) fu pensata per Walter Gieseking, mentre il Badinage (1934) resto` ... orfano di grande pianista e fu pochissimo apprezzato dai critici. La Suite franc¸aise (Suite francese, 1935) e` formata da sette pezzi tratti dalle musiche di scena per La Reine Margot di Bourdet. Pezzi non originali ma trascritti dalle danze popolari raccolte da un musicista del sec. XVI, Claude Gervaise, di cui si sa

Francis Poulenc

molto poco. Perfetti come musica di scena, i sette pezzi suonano comunque meglio nella versione per orchestra. Nella intervista con Claude Rostand gia` piu` volte citata, Poulenc dice: ‘‘Mi piacciono molto le mie due raccolte di Improvvisazioni, un Intermezzo in La bemolle e certi Notturni’’. L’Intermezzo in La bemolle (1943), che fece parte del repertorio di Rubinstein, evidenzia la vena sentimentaleggiante di Poulenc: doveva essergli caro per motivi intimi che lui solo conosceva. Sentimentaleggiante e` altresı` un pezzo intitolato Melanconia (1940), che guarda al passato, al passato di Debussy ma piu` ancora di Faure´. Le Improvvisazioni (I quaderno 1932, II quaderno 1933-1941, III quaderno 19581959) assommano in totale a quindici pezzi brevi che avrebbero potuto essere detti preludi ma che nascono comunque come pagine di diario spontanee. Gia` nella prima serie (nn. 1-6) ci troviamo di fronte a un Poulenc che sta sempre piu` limando il suo linguaggio, depurandolo dei ‘‘modernismi’’ della bitonalita` e delle appoggiature inserite nelle armonie e allontanandosi in sostanza dal cosiddetto totale cromatico per riconquistare lo spazio diatonico. Ho parlato prima di somiglianze di Poulenc con Stravinskij e con Prokof’ev, che vivevano a Parigi e con i quali Poulenc aveva occasioni di incontri frequenti. Nella prima serie delle Improvvisazioni, che e` stilisticamente la piu` compatta, vengono in luce affinita` con Sˇostakovicˇ, confinato in patria, che dimostrano secondo me quanto profondi fossero i legami culturali che si erano stabiliti fra la Francia e la Russia da quando Camille Saint-Sae¨ns aveva portato a Parigi lo spartito del Boris Godunov. Il ritorno alla tradizione si accentua nella seconda serie (nn. 7-12), che inizia con uno sguardo rivolto a Mozart, che contiene (n. 10) l’Elogio delle scale e che si conclude con l’Omaggio a Schubert. Le ultime tre Improvvisazioni completano il cammino, approdando alla fine all’Omaggio a E´dith Piaf in do, vera e propria canzone ‘‘leggera’’, infinitamente triste, dolorosa, disperata, un puro distillato di sentimento in cui l’intelligenza abbandona completamente il campo. Poulenc ricompone qui veramente la frattura fra la musica d’arte e la musica d’uso che si era verificata nell’Ottocento e che aveva in realta` perseguito per tutta la vita senza riuscire mai ad abbandonare le riserve mentali dell’intellettuale. A quest’ultimo approdo appartiene anche la Elegia per due pianoforti di cui ho gia` detto, e appartiene la Novelletta n. 3 (1959) su un tema tratto dall’Amore stregone di Falla, che Poulenc lavora piu` nella stile di Granados che in quello di Falla, ottenendo anche questa volta un condensato di sentimento ele411

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Francis Poulenc

giaco molto raro non solo in lui ma in qualsiasi altro compositore del Novecento. Gli otto Notturni (1929-1938) furono pubblicati nel corso di piu` anni ma sono da intendere come ciclo perche´ la coda del primo viene ripresa alla fine dell’ultimo (un po’ come aveva fatto Grieg, il cui ultimo Pezzo lirico riprende il tema del primo). Otto pezzi in cui Poulenc segue gli impulsi del suo animo senza sottoporli, ancora di piu` che nelle Improvvisazioni, a un processo di formalizzazione. Poulenc diceva che gliene piacevano ‘‘certuni’’. Senza cercare di indovinare quali fossero posso dire che i miei preferiti sono quelli con titolo caratteristico, e cioe` il secondo, Ballo delle ragazze, il terzo, Le campane di Malines, il quarto, Ballo di fantasmi, e il quinto, Falene. Il Tema variato (1951) fu dedicato nella edizione a stampa a Genevie` ve Sinkiewicz, ma nel manoscritto si trova una dedica diversa: ‘‘Al mio caro Volodia, il pianista del mio cuore e della mia musica, affettuosissimamente, Francis’’. Il pezzo – Tema e undici Variazioni, con l’ultima ampliata perche´ possa fungere da Finale e Coda – e` tutto minuziosamente cal-

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colato sulla caratteristiche di Horowitz, che non lo eseguı` mai. Sembra difficile che nessun altro possa darne un’esecuzione soddisfacente: certe Variazioni che si ‘‘bruciano’’ in trenta o quaranta secondi suonano monche, se manca loro l’apporto della timbrica e dello spirito clownesco di Horowitz, certe Variazioni in tempo lento... invocano il suono del cantabile horowitziano che come un trapano attraversa le costole per penetrare nel cuore. Le Variazioni sono basate strettamente sul tema ma il seguito e` un catalogo di caratteri: Giocoso, Nobile, Pastorale, Sarcastico, Melanconico, Elegiaco, Volubile, Fantastico, Sibillino. Un magnifico pezzo, a leggerlo sulla carta, ma tale da mettere lo spavento addosso al pensiero di eseguirlo. Abbiamo le Arie di Farinelli. Che sono le Arie, senza Farinelli? Poulenc diceva di riuscire a sopportare la sua Pastourelle (Pastorella, 1927), tratta dalle musiche per il balletto Il Ventaglio di Jeanne, solo se ‘‘eseguita da Horowitz, che le da` ogni volta una nuova freschezza’’. La Pastorella eseguita da Horowitz ce l’abbiamo, il Tema variato no. Disgraziatamente.

Notturni

Sergej Prokof’ev

A Sergej Prokof’ev

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(Sontsovka, 23 aprile 1891-Mosca, 5 marzo 1953) Prokof’ev aveva studiato il pianoforte con una celebre pianista, Annetta Essipova, che era stata prima allieva e poi moglie di uno dei maggiori didatti dell’Ottocento, Theodor Leschetizky, e aveva conquistato brillantemente il diploma di pianoforte in un conservatorio, quello di S. Pietroburgo, che a meno di mezzo secolo dalla sua fondazione era diventato una fucina di portentosi pianisti. La carriera di pianista-compositore non fu abbandonata da Prokof’ev fino agli inizi degli anni quaranta. Ma quando, con regolare permesso, uscı` dalla neonata Unione Sovietica e ando` a guadagnarsi il pane prima negli Stati Uniti e poi nell’Europa occidentale, Prokof’ev, non ancora abbastanza affermato come pianista-compositore, tenne molti concerti come pianista-interprete, eseguendo fra l’altro pagine di estremo impegno come la Sonata op. 101 di Beethoven, il Carnaval di Schumann, i Quadri di una esposizione di Mussorgski, la Sonata op. 37 di Cˇajkovskij. E i brani dei Quadri che registro` per il pianoforte riproduttore ci dimostrano che egli era un interprete fantasioso, personalissimo. Si diceva un tempo, ed era un biasimo, che con Rachmaninov interprete tutto diventava Rachmaninov. Si puo` dire che con Prokof’ev interprete tutto diventa Prokof’ev, e non e` piu` un biasimo ma una lode, perche´ i tempi sono cambiati. I tempi sono cambiati anche per quanto riguarda un’altra faccenda. Prokof’ev, che per un certo tempo fu un enfant terrible della composizione, non divenne mai un compositore d’avanguardia, non fu mai tentato, ed era un biasimo, dalla dodecafonia. Quando rienbtro` nella Unione Sovietica dopo molti anni di permanenza e di lavoro all’estero, egli pubblico` alcuni articoli sulla Pravda, dichiarando le sue intenzioni: Quale musica si debba scrivere oggi e` questione di grande importanza per molti compositori sovietici. Ho molto riflettuto su questo problema negli ultimi due anni e credo che la seguente possa essere la soluzione giusta. Quello che occorre innanzitutto e` della grande musica, della musica, cioe`, che tanto nella forma quanto nel contenuto risponda alla grandezza dell’epoca. Essa dovrebbe costituire uno stimolo per il nostro sviluppo muscale e rivelare la nostra realta` all’estero. [...] Allo stesso tempo, volgendo la sua attenzione alla musica seria, significativa, il compositore avra` presente che nell’Unione So-

vietica la musica si indirizza a milioni di gente gia` priva o quasi di ogni contatto con essa: il nuovo, immenso uditorio che il moderno compositore sovietico dovra` sforzarsi di raggiungere. [...] Non e` certo cosa agevole trovare l’idioma conveniente. Esso dovra` essere innanzitutto melodico, e dalla melodia chiara e semplice, senza peraltro cadere nel derivativo o nel triviale. Molti compositori gia` trovano piuttosto difficile qualsiasi tipo di melodia, una melodia presa in se´ avente una qualche definita funzione da svolgere. Lo stesso vale per la tecnica e la forma, che esigono chiarezza e semplicita`, senza alcunche´ di stereotipo (16 novembre 1934). Si ritenne in passato che queste, e analoghe dichiarazioni successive, fossero da intendere come furbesca captatio benevolentiae di un artista che per oscuri motivi aveva deciso di rientrare nel suo paese in un momento in cui stavano per partire le grandi purghe staliniane. Oggi si ritiene che Prokof’ev si ponesse seriamente e profondamente il problema di mettersi in rapporto con un pubblico ‘‘vergine’’. Romeo e Giulietta (19351936) e Pierino e il lupo (1936) sarebbero state le esemplificazioni pratiche delle intenzioni di Prokof’ev, e sarebbero diventate, non solo nell’Unione Sovietica ma anche presso i ‘‘colti’’ pubblici occidentali, composizioni fra le piu` popolari del Novecento. Per Prokof’ev il problema del linguaggio fu secondario rispetto al problema della comunicazione, mentre avvenne l’inverso nelle avanguardie. Cio` che e` accaduto nella musica nella seconda meta` del Novecento ha dimostrato che le ragioni di Prokof’ev erano in realta` lungimiranti. Nella autobiografia (1941) Prokof’ev analizza le ‘‘linee basi’’ della suo sviluppo di artista: la prima e` la ‘‘linea classica’’ che ‘‘talvolta assumera` una forma classica’’ e ‘‘talaltra imitera` i classici del Settecento’’, poi viene ‘‘il filone moderno’’, che e` ‘‘inizialmente identificabile nella ricerca di un mio linguaggio armonico’’ e che ‘‘si sviluppa nella ricerca di un linguaggio capace di esprimere delle forti emozioni’’, e poi la ‘‘terza linea’’, la ‘‘toccatistica o motoria’’, ‘‘probabilmente la meno importante’’, e la ‘‘quarta linea’’, quella ‘‘lirica’’, che inizialmente ‘‘appare come un sentimento pensoso e meditativo, non sempre associato con la melodia, o comunque con melodie lunghe’’. Prokof’ev dice 413

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Concerto n. 1 in Re bemolle op. 10

che per molto tempo gli fu ‘‘negato qualsiasi dono lirico, e la mancanza di incoraggiamento ne rallento` lo sviluppo sino a che giunse l’ora in cui questo aspetto della mia opera ottenne sempre piu` attenzione’’. La ‘‘quinta linea’’, la ‘‘grottesca’’, e` per Prokof’ev ‘‘una semplice deviazione’’: ‘‘Preferisco che la mia musica sia descritta come di sostanza

‘scherzevole’, o meglio con le tre parole che descrivono i vari gradi dello scherzo: capricciosita` , ilarita`, beffa’’. Tutti questi aspetti, tutte queste linee verranno in evidenza a mano a mano che percorreremo l’opera pianistica di Prokof’ev. Ed e` una manna per noi che l’Autore ci abbia fornito la mappa della sua isola del tesoro.

I concerti Il Concerto n. 1 in Re bemolle op. 10 (1911, 1911) fu composto dopo il conseguimento del diploma di composizione (1909), ma prima che Prokof’ev concludesse i suoi studi nel conservatorio di S. Pietroburgo, dove rimase fino al 1914 come allievo di pianoforte e di direzione d’orchestra. Volendo tentare nel 1912 la conquista del Premio Rubinstein, consistente in un pianoforte da concerto che veniva assegnato ogni anno dopo un severo concorso interno, Prokof’ev comincio` a scrivere un lavoro per pianoforte e orchestra, Concertino, ma la parte solistica acquisto` presto una tale importanza e una tale carica di virtuosismo da giustificare il titolo Concerto, sebbene la composizione non arrivasse ai quindici minuti di durata e fosse articolata in piu` episodi concatenati che seguivano sı` allusivamente, ma in modo ben poco appariscente, i vari movimenti di un vero e proprio concerto alla maniera di Liszt. Il programma del concorrente Prokof’ev consistette in un Contrappunto dell’Arte della fuga di Bach, nella spettacolare trascrizione di Liszt della ouverture del Tannha¨user di Wagner, e nel Concerto op. 10. Prokof’ev aveva escogitato un... piano diabolico: ‘‘Mentre non sarei stato in grado di competere con successo nell’esecuzione di un concerto classico, c’era una possibilita` che il mio Concerto potesse impressionare gli esaminatori per la novita` della sua tecnica; semplicemente, essi non sarebbero stati capaci di valutare se stavo suonando bene o no! D’altro canto, se non avessi vinto, la sconfitta sarebbe stata meno mortificante perche´ nessuno avrebbe saputo se avevo perduto perche´ il Concerto era cattivo o perche´ la mia esecuzione era stata insufficiente’’. Sfidando la giuria ed essendosi nel contempo assicurata la via di fuga, Prokof’ev eseguı` il Concerto il 5 maggio con accompagnamento di un secondo pianoforte. La giuria si spacco` a discutere per ore, mentre Prokof’ev giocava tranquillamente a scacchi con la sua piu` quotata concorrente – avrebbe giocato a scacchi per tutta la vita, misurandosi persino a testa alta con tre campioni del mondo. La Essipova, i cui rapporti con l’allievo geniale erano sempre stati turbolenti, si batte´ pero` come una leonessa, e Prokof’ev fu dichiarato vincitore da un furibondo Glazunov, di-

rettore del conservatorio. L’11 maggio il Concerto fu eseguito da Prokof’ev con l’orchestra degli allievi, con esito trionfale. Seguı` poi a Mosca, il 7 agosto, l’esecuzione pubblica, con un esito... quasi terrificante. Il critico Leonid Sabaneev definı` il Concerto una ‘‘energetica, ritmica, aspra, grezza, primitiva cacofonia’’, mettendo il sostantivo sbagliato dopo cinque aggettivi giusti. Succede spesso che con le stesse identiche motivazioni si esalti o si seppellisca un’opera d’arte. Quel che Sabaneev non aveva capito era che il Concerto del ventunenne Prokof’ev – energetico, ritmico, aspro, grezzo, primitivo – metteva sangue fresco nelle vene del concerto per pianoforte e orchestra dopo che il Terzo di Rachmaninov (1909) aveva chiuso un’epoca apertasi circa cent’anni prima con l’Imperatore di Beethoven. Il ‘‘rilancio’’ avveniva innanzitutto nella sonorita` pianistica. Prokof’ev padroneggiava benissimo la scrittura virtuosistica romantica, e in particolar modo quella di Liszt. Allievo della Essipova, egli era un pianista di scuola russa, non francese o tedesca, e la scuola russa curava innanzitutto il suono cantabile e il virtuosismo. Pero` la sonorita` che Prokof’ev inventava nel Concerto, e che avrebbe trovato di lı` a poco il suo manifesto programmatico nella Toccata op. 11, si staccava nettamente dalla tradizione nazionale. Sembra che Prokof’ev, molto alto di statura (sfiorava i due metri) e con braccia lunghissime, agisse soprattutto con avambraccio e dita e poco o nulla con braccio e spalla. Da qui, credo, la sua predilezione per il suono ‘‘percussivo’’ che doveva essergli, a parte le sue scelte di natura estetica, anatomicamente piu` congeniale. Il suono del pianoforte, ovviamente, e` sempre percussivo. Ma quando si parla di ‘‘suono percussivo’’ ci si riferisce al tasto picchiato e sbilanciato con un forte impulso e non accompagnato durante le sua discesa. Il suono percussivo, detto metaforicamente, e` lampeggiante e aguzzo, disegna per punti e per linee e non per volumi, e` diverso dall’oleoso suono tardoromantico e mette bene in evidenza le tessiture polifoniche. Prokof’ev ha un bel dire che la linea ‘‘toccatistico o motoria’’ e` nella sua musica la ‘‘meno importante’’, ma e` proprio quella che caratterizza la sua produzione e che la rende inconfondibile gia`

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Concerto n. 2 in sol op. 16

a partire dagli Studi op. 2 e soprattutto dal Concerto op. 10 e dalla Toccata op. 11. Il Concerto op. 10 e` un piccolo gioiello di costruzione architettonica e di continuita` discorsiva. L’idea-base e` di sintetizzare in un movimento continuato i quattro movimenti della sonata, avendo come punto di partenza sia il Concerto op. 30 di Rimskij-Korsakov, assai ammirato da Prokof’ev, che il Concerto n. 1 di Liszt ma, soprattutto, la Sonata di Liszt. Introduzione e due temi principali (primo movimento), intermezzo (movimento lento), sviluppo (scherzo), riesposizione e coda, simmetrica ma in ordine inverso rispetto alla esposizione. Il Concerto dura circa la meta` della durata della Sonata di Liszt ed e` costruito con un maggior numero di temi e con una piu` elementare tecnica di trasformazione dei temi stessi. Ma il Prokof’ev del Concerto aveva ventun’anni, il Liszt della Sonata ne aveva quarantadue. Prokof’ev, ben conscio delle sue giovani forze, evita il pericolo di voler fare le cose troppo in grande, e` padrone del suo materiale, e` padrone della forma e sa come condurre il discorso con attica concisione: per un ventenne, e non solo per un ventenne, si tratta di doti straordinarie. Peccato che la durata limitata di questo capolavoro non ne abbia favorito la presenza nel repertorio, orientato per banali ragioni organizzative a preferire i concerti che durano intorno alla mezzora. Non miglior sorte e` arrisa in fondo al Concerto n. 2 in sol op. 16 (1912-1913, 1925), che pure e` di durata ‘‘giusta’’. Il Concerto n. 2 e` tremendamente difficile e i suoi temi non sono cosı` melodicamente accattivanti come quelli del Concerto n. 3, tra l’altro anche meno arduo virtuosisticamente. Il primo movimento entra subito in medias res con un tema del pianoforte eroico e protervo, indicato con la didascalia, in italiano, ‘‘narrante’’, e culmina in una Cadenza fra le piu` ardue che si conoscano, ben dieci pagine a stampa nelle quali troviamo due didascalie – con effetto, colossale – che sono tutto un programma. Il secondo movimento, Scherzo, e`, per usare la dizione di Prokof’ev, ‘‘toccatistico e motorio’’ al massimo grado, con il pianoforte che snocciola a velocita` altissima una linea raddoppiata in ottava, un po come succedeva in certi episodi dei concerti biedermeier. Il terzo movimento, Intermezzo, a modo di marcia, introduce un finale spettacolare con una Cadenza che nel suo delirio virtuosistico sembra simboleggiare una lotta sovrumana contro una forza schiacciante. Si e` spesso cercato di mettere il finale, che effettivamente conclude la composizione in un modo drammaturgicamente diverso da quello che ci si aspetterebbe dopo i primi due movimenti, di met-

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tere il finale, dicevo, in relazione con una tragica vicenda che colpı` molto Prokof’ev. Maximilian Schmidthof, condiscepolo e amico fraterno di Prokof’ev, e al quale sono dedicati il Concerto n. 2 e le Sonate n. 2 e n. 4, si suicido` in un bosco in Finlandia. Prokof’ev racconta di aver ricevuto, il 13 maggio 1913, una cartolina che diceva. ‘‘Caro Sergej, ti comunico l’ultima novita`: mi sono suicidato. Non rattristarti, rimani indifferente: onestamente, e` tutto cio` che l’incidente merita. Addio, Max. Le cause non sono importanti’’. Il corpo dello Schmidthof fu ritrovato soltanto alcune settimane dopo l’arrivo della cartolina e l’agghiacciante vicenda sconvolse Prokof’ev. Puo` anche darsi che il carattere del finale, con i lenti accordi della parte centrale che potrebbero essere intesi come campane funebri, abbia a che vedere con il suicidio dell’amico. Ma il significato storico del Concerto n. 2 e` quello di una ripresa del titanismo del concerto tardoromantico in un clima culturale del tutto diverso: con il Concerto op. 10 Prokof’ev sfidava una giuria accademica, con il Concerto op. 16 entrava in competizione con il Terzo Concerto di Rachmaninov, ristabilendo, dopo la rottura, il rapporto con la storia del concerto. Il Concerto op. 16 fu eseguito da Prokof’ev a Pavlovsk il 6 settembre 1913. E se l’esito del Primo era stato quasi terribile, l’esito del Secondo fu tempestosissimo. La Gazzetta di S. Pietroburgo fa un resoconto dicendo che Prokof’ev pare ‘‘si metta a spolverare i tasti e a percuotere a casaccio note acute e gravi’’. ‘‘Ha un tocco tagliente, secco’’, nota il cronista che evidentemente, pur disapprovando, ci prende. Il pubblico e` sconcertato, si sentono mormorii di indignazione, e qualche spettatore comincia ad andarsene. Prokof’ev ‘‘conclude il Concerto con una spietata combinazione cacofonica di ottoni’’. Arrivano puntuali i fischi, ma il solista, ‘‘dopo un beffardo inchino’’, suona un bis. Una parte consistente degli ascoltatori fugge, gridando‘‘all’inferno questa musica futurisa’’ e ‘‘i nostri gatti, sui tetti, fanno una musica migliore di questa’’, mentre un gruppuscolo grida ‘‘questa e` l’opera di un genio, che freschezza, che novita`, che temperamento, che originalita` ’’. Prokof’ev fece ascoltare il Concerto a Djagilev, a Londra, nell’estate del 1914: ne nacque un progetto di balletto che non si realizzo`, ma Prokof’ev venne a Roma per parlare con Djagilev e il 7 marzo 1915 eseguı` il Concerto nella stagione dell’Accademia di S. Cecilia, conseguendo inaspettatamente un grande successo. Durante la guerra la partitura ando` perduta e Prokof’ev la riscrisse, eseguendo la nuova versione a Parigi l’8 maggio 1924. La ‘‘cacofonica combinazione di ottoni’’ di cui parlava la Gazzetta 415

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di S. Pietroburgo non compare in questa versione, ma non si puo` sapere se il cronista avesse aggiunto un tocco di fantasia macabra al suo resoconto o se Prokof’ev avesse attenuato il ‘‘futurismo’’del Concerto. Un tema del Concerto n. 3 in Do op. 26 (19161921, 1923) venne annotato nel 1916, subito dopo la composizione della Sinfonia classica op. 21. Seguirono alcuni abbozzi, ma solo nell’estate del 1921, dopo il primo lungo soggiorno negli Stati Uniti, Prokof’ev termino` il lavoro a E´ tretat in Normandia. Per le Variazioni del secondo movimento Prokof’ev si servı` di un tema annotato senza una precisa destinazione nel 1913 e nel terzo movimento uso` due temi del Quartetto bianco (cioe`, interamente diatonico) iniziato nel 1917 e mai condotto a termine. La prima esecuzione fu programmata a Chicago il 16 dicembre 1921, con ripetizione il giorno dopo. Successo cordiale (il Daily Herald parlo` del ‘‘piu` bel concerto moderno per pianoforte’’). Il 26 e il 27 gennaio l’esecuzione fu ripetuta a New York, con un successo rinnovato, anche se Prokof’ev si aspettava una accoglienza piu` calorosa. Fra le esecuzioni di Chicago e di New York aveva avuto luogo, a Chicago, la trionfale prima dell’Amore delle tre melarance. In aprile Prokof’ev riprese il Concerto a Parigi e a Londra, poi lo eseguı` sempre piu` di frequente e lo incise anche in disco. Se consideriamo il Novecento come ‘‘secolo breve’’, segnato dalla vittoria e dalla caduta del comunismo nell’Unione Sovietica, il Terzo Concerto di Prokof’ev e` quello che meglio sintetizza la sotterranea continuita` fra il romanticismo e il moderno. Il primo movimento comincia, in modo inusuale, con un Andante introduttivo della sola orchestra, molto lirico e nostalgico, si potrebbe dire paesistico, che fa da lever du rideau all’irrompere del primo tema motorico dell’Allegro. Il secondo tema ha un andamento di gavotta, il tema che conclude l’esposizione, bizzarro e ‘‘scherzevole’’ (cioe`, chiedendo scusa a Prokof’ev, grottesco) aggiunge una quarta linea alle prime tre, la lirica, la motorica e la classico-imitativa. Nello sviluppo Prokof’ev riprende il tema della introduzione e procede poi a costruire con estrema sicurezza l’architettura della forma-sonata, nella quale e` maestro. Il secondo movimento, Andantino con variazioni, presenta un tema di marcia seguito da cinque variazioni di carattere molto differenziato che richiamano strutture coreografiche e che evitano il patetismo tradizionalmente associato al movimento lento dei concerti. Ballettistico anche il finale, Allegro ma non troppo, non costruito secondo schemi formali tradizionali ma abilmente condotto verso un punto culminante in cui Proko416

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f’ev sfodera sorprendentemente un tema intensamente lirico e amoroso, esposto prima dai legni e poi dagli archi, un tema che tiene ben conto del pubblico americano e dei successi in America di Rachmaninov. Ma non si tratta, preciso, di una semplice furbata, bensı` della piu` matura sintesi della tradizione a cui Prokof’ev aveva mirato nel Concerto n. 2, e che arrivava proprio nel momento in cui il Concerto n. 4 di Rachmaninov si muoveva con maggiore incertezza fra il passato e la ricerca del rinnovamento. Il Concerto n. 4 in Si bemolle op. 53 (1931, 1956) fu commissionato a Prokof’ev da Paul Wittgenstein, cugino del filosofo Ludwig, che avendo subito l’amputazione del braccio destro per una ferita di guerra stava costruendosi un repertorio per la sola mano sinistra. Prokof’ev lavoro` al suo Concerto per la mano sinistra a Parigi, mentre Ravel lavorava anche lui sull’ analogo progetto. Wittgenstein espresse molte riserve sul Concerto in Re di Ravel ma lo eseguı`, ... aggiustandone qualche passo, mentre rifiuto` categoricamente il Concerto op. 53 di Prokof’ev, pur versando all’Autore la somma pattuita. Il contratto prevedeva l’esclusiva riservata al Wittgenstein per sei anni. Nel 1937 Prokof’ev avrebbe dunque potuto eseguire lui il Concerto, ma nel frattempo aveva composto il Concerto n. 5 e stava anzi riducendo sempre di piu` la sua attivita` di pianista-compositore. La prima esecuzione ebbe cosı` luogo solo il 5 settembre 1956 a Berlino, solista un altro mutilato di guerra, Siegfried Rupp, che era andato a recuperare la partitura, rimasta inedita, presso la vedova di Prokof’ev. La ragione del rifiuto del Wittgenstein risulta evidente quando si paragonano i due concerti per la mano sinistra di Prokof’ev e di Ravel. Si disse spesso che il Concerto in Sol di Ravel sembra scritto per una mano sola e il Concerto in Re per due mani. Ravel sciorina una diabolica abilita` nel confezionare un pezzo in cui la menomazione fisica del solista viene mascherata attraverso un virtuosismo gestuale spettacolare che fa spalancare tanto d’occhi agli spettatori, mentre Prokof’ev punta piuttosto sul decorativismo e offre al solista qualche occasione di virtuosistico splendore solo nel terzo dei quattro movimenti. E` certamente paradossale, ma e` un fatto incontestabile che la scrittura di Ravel sembra russa e quella di Prokof’ev francese: Ravel riprende i miracoli del Preludio e Notturno op. 9 di Skrjabin e degli Studi di Blumenfeld, mentre Prokof’ev si riallaccia agli Studi op. 135 di SaintSae¨ns. La scrittura pianistica di Prokof’ev si era evoluta verso la trasparenza nella Sonata n. 5 e nelle Choses en soi op. 45, e per lui la limitazione impostagli dalla mutilazione del Wittgenstein di-

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Sergej Prokof’ev

ventava la soluzione precostituita di una leggerezza di scrittura sulla quale stava lavorando da tempo. La struttura sembra essere quella di un concerto classico in tre movimenti, con primo movimento in forma atipica di allegro di sonata, un secondo movimento nostalgico che riprende la Stimmung del balletto biblico Il Figliol prodigo, un terzo movimento con introduzione e Allegro moderato, che termina in fortissimo. Ma il terzo movimento e` seguito da un quarto movimento brevissimo e misterioso (piano dall’inizio alla fine) che spegne gli eventuali entusiasmi suscitati dal terzo movimento. Il Concerto n. 5 in Sol op. 55 (1932, 1933) fu l’ultima composizione terminata da Prokof’ev a Parigi, prima del suo rientro nell’Unione Sovietica, e fu eseguito per la prima volta dall’Autore a Berlino il 31 ottobre 1932 sotto la direzione di Furtwa¨ngler. Curiosamente, al concerto prendeva parte anche Hindemith come solista nell’Aroldo in Italia di Berlioz, e in sala sedevano Stravinskij e Scho¨ nberg. Prima della fine dell’anno Prokof’ev aveva eseguito il nuovo Concerto a Varsavia, Mosca, Leningrado, e nella primavera dell’anno successivo lo porto` negli Stati Uniti. Ma dopo la prima fiammata il Concerto ebbe pochissime esecuzioni e dovette aspettare Sviatoslav Richter per essere ripreso da un grande pianista. Prokof’ev dichiaro` in una intervista le sue intenzioni: ‘‘Il mio problema essenziale, in questo Concerto, fu di creare una tecnica che fosse diversa da quella dei miei Concerti precedenti’’. Doveva avere evidentemente dimenticato il Concerto n. 4, perche´ il Concerto op. 55 prosegue, senza le limitazioni forzate del precedente lavoro, la prospettiva di semplicita` perseguita nell’op. 53. Il Concerto n. 5 e` in cinque movimenti. Il primo movimento in forma classica e` seguito da un Moderato a modo di marcia che fa pensare a una struttura in quattro movimenti. Il terzo movimento e` invece una breve toccata, che riprende il primo tema del primo movimento e che e` in realta` una cosiddetta, posticipata, Cadenza in tempo, cioe` con accompagnamento d’orchestra. Il quarto movimento, Larghetto, e` lirico ed e` l’unico in cui l’orchestra venga usata in modo tradizionale, cioe` con prevalenza degli archi. Il finale,

articolato in piu` tempi – Vivo, Appena piu` mosso, Piu` mosso, Piu` tranquillo, Coda: Allegro non troppo – e` trasparentissimo di struttura sonora, con una tecnica che rappresenta il punto di arrivo del cammino iniziato con la Sonata n. 5 e che verra` abbandonato nelle trascrizioni da Romeo e Giulietta e nelle Sonate nn. 6, 7 e 8. Nella autobiografia Prokof’ev ritorno` piu` ampiamente sul significato del Concerto n. 5: Non avevo l’intenzione di scrivere un concerto particolarmente difficile e dapprima volevo chiamarlo Musica per pianoforte e orchestra, in parte per evitare una confusione con la numerazione dei miei Concerti, ma alla fine convenni che la mia opera si complico`, come fu in verita` il caso di molte composizioni di quel periodo. Qual era la spiegazione [di cio`]? Nel mio desiderio di semplicita` ero intralciato dalla paura di ripetere le vecchie formule, di ritornare verso la ‘semplicia` antica’ che tutti i compositori moderni cercano di evitare. Cercavo dunque una ‘nuova semplicita`,’con il risultato di scoprire che essa, con le sue forme originali e soprattutto con la sua nuova struttura tonale, non veniva capita. Il fatto che i miei sforzi per scrivere con semplicita` non fossero coronati dal successo resta secondario. Non abbandonai questa via, sperando che quando l’orecchi so fosse assuefatto alle nuove melodie, vale a dire quando queste melodie fossero diventate un linguaggio accettato, l’insieme della mia musica avrebbe dimostrato di essere semplice. Si tratta di una riflessione a posteriori che non riconosce cio` che era avvenuto con il rientro nella Unione Sovietica, cioe` con Pierino e il lupo e con Romeo e Giulietta. Il Concerto op. 53, la Sonata op. 56 per due violino, le due Sonatine op. 54, il Concerto op. 55 sono scritti con mano maestra e con ammirevole purezza stilistica, e tutti mancano di quei caratteri di umana cordialita` che coinvolgono emotivamente l’ascoltatore non professionista. Prokof’ev si rese conto dello sconcerto che queste sue musiche provocavano nel pubblico rispetto, ad esempio, al Concerto n. 3, ma nella autobiografia ne fece una questione di semplice assuefazione, mentre rientrando nell’Unione Sovietica si era posto invece il problema della comunicazione in termini diversi.

Le raccolte I Quattro Studi op. 2 (1909, 1912) nacquero come omaggio e come congedo dal primo maestro di pianoforte che Prokof’ev ebbe in conservatorio, Alexander Winkler. Prokof’ev aveva gia` da tempo capito che da Winkler non aveva piu` nulla da imparare, e diversi amici gli consigliavano insistentemente di passare in un’altra classe. Annette Essi-

pova aveva ascoltato Prokof’ev in un concerto studentesco ed era disposta a prenderlo come allievo ma non voleva urtarsi con il collega. Mjaskovskij trovo`, per tacitare gli scrupoli di Prokof’ev, la frase sentenziosa che tagliava la testa al toro: ‘‘Quando marci verso la tua meta non devi guardare i corpi su cui stai camminando’’. Affrontato con im417

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barazzo Winkler, Prokof’ev ebbe la sorpresa di trovare la porta aperta perche´ il savio maestro gli chiese soltanto di terminare nella sua classe l’anno in corso. Accompagno` Prokof’ev al secondo pianoforte (‘‘in modo piuttosto pallido’’) nel Concerto di Rimskij-Korsakov e ‘‘con un debole sorriso’’ gli consegno` ‘‘il passaporto’’, la dichiarazione del nulla osta per il trasferimento nella classe della Essipova. Gli Studi op. 2, dedicati a Winkler, affrontano problemi di tecnica pianistica in modo, in fondo, convenzionale, ma il terzo di essi, in do, basato sulla progressiva accelerazione – da Andante fino a Prestissimo – fa pensare all’avvio di una locomotiva e si stacca nettamente dagli altri. Si tratta del primo pezzo di Prokof’ev ispirato alla modernita` della macchina ed e` percio` indicativo di una personalita` incofondibile, mentre gli altri tre Studi sono poeticamente oscillanti fra la tradizione della bravura e fra Rachmaninov e Skrjabin. I Quattro Pezzi op. 3 (1911, 1911) e i Quattro Pezzi op. 4 (1912, 1913) riprendono i caratteri delle Bagatelle di Beethoven e dei cicli di Schumann. Racconto, Badinage, Marcia e Fantasma formano l’op. 3 e sono deliziosamente salottieri. Dell’op. 4 divenne celebre la Suggestione diabolica, che fu spesso e che viene ancora eseguita staccata dal contesto. Si tratta invece di un ciclo organico e drammaturgicamente compatto, in cui la Suggestione diabolica e` preceduta dalle Reminiscenze, dallo Slancio e dalla Disperazione, e che segue dunque una logica narrativa precisa. I Dieci Pezzi op. 12 (1906-1913, 1914) formano invece un centone che raccoglie composizioni scritte in un non breve volgere d’anni e stilisticamente non del tutto omogenee. Spiccano, fra i dieci, il n. 1, Marcia, il n. 2, Gavotta, il n. 6, Leggenda, il n. 7, Preludio, romanticamente melodico e sognante, e il n. 9, Scherzo umoristico, che Prokof’ev trascrisse piu` tardi per quattro fagotti. Nell’op. 12 appaiono come in un catalogo le varie componenti della poetica di Prokof’ev: la neobarocca, la neoromantica, la grottesca, la favolistica. Gli aspetti neobarocchi garantirono a Prokof’ev il successo a partire dalla Sinfonia classica. Gli aspetti neoromantici nell’arte del giovane Prokof’ev – il lettore ricorda le sue lamentele a questo riguardo? – non vennero in genere colti dai contemporanei, inclini piuttosto a bollare il Nostro, o a lodarlo, come iconoclasta e modernista a oltranza. L’op. 12, proprio perche´ disomogenea stilisticamente, ci offre pero` uno spaccato dei germi che sarebbero sbocciati piu` tardi. I Sarcasmi op. 17 (1912-1914, 1916) ci danno invece l’essenza del grottesco-macabro secondo Prokof’ev. Cinque pezzi percussivi, aspri, irridenti, ar418

Quattro Pezzi op. 3

monicamente spigolosi (il terzo e` politonale: mano destra in fa diesis, mano sinistra in si bemolle), con una fine soffocata, sinistra. Prokof’ev precisa in questo modo le sue intenzioni: ‘‘Ci capita a volte di ridere crudelmente di qualcuno o di qualcosa, ma quando ci guardiamo piu` da vicino ci accorgiamo quanto sia degno di pieta` e infelice cio` di cui abbiamo riso. Allora cominciamo a sentirci a disagio. Il riso risuona ancora nelle nostre orecchie, ma adesso ridiamo di noi stessi’’. Le Visioni fuggitive op. 22 (1915-1917, 1917) sono un po’ il pendant maturo dell’op. 12. La raccolta di venti brevi pezzi e` poeticamente composita ma vi predominano i misteri delle favole simboliste e la scrittura pianistica e` di una raffinatezza e di una genialita` che Prokof’ev aveva appena sfiorato in precedenza. Un solo pezzo, il n. 14, Feroce, appartiene al Prokof’ev ‘‘barbarico’’, pochi altri riprendono la vena del grottesco, uno, il n. 7, Pittoresco, e` di scrittura romantica, con melodia accompagnata e un andamento da barcarola. La sorpresa, la vera sorpresa e` la scrittura allusiva di una sonorita` tenue e trasparente, evocativa, una sonorita` da mondo di fate che nell’ultimo pezzo, Lento irrealmente, da` corpo a un valzer lentissimo, estenuato. Le Visioni fuggitive sono visioni di larve e di fantasmi che sorgono e scompaiono, e sebbene i venti pezzi non siano ordinati in ciclo ne´ da un filo narrativo ne´ da una rete tonale la coerenza dell’insieme e la inesplicabile logica che li governa lasciano, come e` stato varie volte notato, una impressione analoga a quella dei Preludi di Chopin, che Schumann definiva, con deplorazione ma cogliendone il carattere saliente, ‘‘rovine e penne d’aquila’’. I Racconti della nonna op. 31 (1918), 1937, quattro pezzi tutti in modo minore, sono di carattere ‘‘russo’’, cosa abbastanza rara in Prokof’ev, ed essendo stati composti subito dopo l’arrivo negli Stati Uniti sembrano esprimere la nostalgia per la patria e portano alla memoria la pittura di Chagall. I Quattro Pezzi op. 32 (1918, 1922) furono composti, come i Racconti op. 31, su commissione di un editore. Si tratta di quattro danze, la prima intitolata semplicemente Danza, le altre tre, rispettivamente, Minuetto, Gavotta e Valzer. La Gavotta, di cui abbiamo l’incisione in disco di Prokof’ev, divenne cosı` celebre da mettere in ombra gli altri tre pezzi. Tutta la suite meriterebbe invece di essere conosciuta. Le Choses en soi op. 45 (Cose in se´, 1928, 1928) sono ispirate, dice Prokof’ev, dalla lettura di Kant. Si tratta di due pezzi in Do, introspettivi, indirizzati verso ricerche armoniche e polifoniche e che richiedono dall’ascoltatore molta concentrazione. Le due Sonatine op. 54 (1931,

Sonata n. 1 op. 1 in fa

1932), ciascuna in tre movimenti, perseguono la ‘‘nuova semplicita`’’ di cui ho parlato a proposito del Concerto n. 5 ma sono molto tormentate e non presentano motivi di attrazione ne´ per gli allievi ne´ per i concertisti. Solo il finale della Sonatina n. 1, che e` una serenata spagnola, sembra indirizzarsi... con benevolenza al principiante. Molto piu` attraenti sono i Tre Pezzi op. 59 (1933-1934, 1935), che formano un piccolo ciclo bucolico con Passeggiata in Do, Paesaggio in Sol e Sonatina pastorale in Do. Per la loro scrittura e per la loro francescana semplicita` i Tre Pezzi sono come un omaggio a Poulenc, con cui Prokof’ev giocava di frequente a bridge (si organizzavano dei veri e propri tornei fra amici, con poste in gioco in denaro, e sembra che Prokof’ev non fosse il piu` fortunato dei... biscazzieri). I Pensieri op. 62 (19331934, 1934) riprendono la poetica delle Choses en

Le sonate Nella prima meta` del Novecento i compositori di tutti i paesi, eccettuati i russi, trattano la sonata per pianoforte solo con timoroso rispetto, con riverenza, persino con circospezione. e` come se a lei si rivolgessero chiamandola Maesta` o Santita` o per lo meno Altezza reale. I russi no. I russi sono gli unici che trattano la sonata per pianoforte solo come una persona di famiglia: le danno del tu. Anatolij Alexandrov scrive quattordici sonate e quattordici ne scrive Medtner, dodici Feinberg, dieci Skrjabin, nove Mjaskovskij e nove Prokof’ev, otto Leo Ornstein, cinque Roslavec e Mossolov, tre Kabalevskij, due Glazunov, Rachmaninov, Stravinskij, Sˇostakovicˇ, e una sola Liapunov, Lopatnikov, Alexandr Krejn. I russi danno del tu alla sonata perche´ non hanno alle spalle il monumento della sonata classico-romantica austro-tedesca. In verita` non ce l’hanno neppure i francesi e gli italiani, i quali vantano pero` un loro glorioso passato e non intendono competere con Beethoven & C. La civilta` musicale russa nasce invece solo verso la meta` dell’Ottocento con l’intento di diventare rapidamente adulta e di porsi alla pari con le civilta` piu` antiche. ci riesce nel giro di una generazione e non ha timore di misurarsi con le ombre gigantesche che affollano il passato di Vienna. Cosı`, i russi sono nel Novecento gli unici convinti sonatisti. E Prokof’ev e` il maggiore di essi. Prokof’ev comincia a comporre Sonate per pianoforte nel 1907, e tra i sedici e i diciotto anni ne sforna ben sei. Non le pubblica, pero`, e le riguarda anzi con occhio critico. Di due smarrisce l’autografo. Delle altre quattro prende i materiali che gli sembrano utilizzabili e li sfrutta in altro modo. Nasce cosı` la Sonata n. 1 op. 1 in fa (1907-1909,

Sergej Prokof’ev

soi e sono altrettanto belli quanto... inavvicinabili, tanto che solo il discofilo appassionato delle ‘‘integrali’’ li conosce. L’ultima raccolta e` quella dei dodici Pezzi infantili op. 65 (1935, 1936). C’e` nella raccolta una parvenza di filo narrativo con Il Mattino al n. 1, La Sera al n. 11 e La Luna crescente si libra sul prato al n. 12, e non mancano la Passeggiata (n. 2), la Pioggia e l’arcobaleno (n. 8), una Tarantella (n. 4), una Marcia (n. 10). Il valore artistico della raccolta, che e` assoluto, si aggiunge al valore pedagogico. Ma e` soprattutto importante notare come la ricerca della ‘‘nuova semplicita`’’, di cui ho parlato a proposito del Concerto n. 5, trovi qui la prima felice sintesi fra l’intenzionalita` e la raggiunta poesia. I Pezzi infantili op. 65 saranno infatti seguiti dai Sei Canti popolari op. 66 per canto e pianoforte e da Pierino e il lupo op. 67.

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1911). La versione del 1907 era in tre movimenti, la versione definitiva e` limitata al primo movimento. Nel 1910 usciva a Berlino la Sonata op. 1 di Berg, che e` un primo movimento di sonata. E` certamente singolare il fatto che i cataloghi di Berg e di Prokof’ev si aprano con una op. 1 che e` una sonata limitata al solo primo movimento. Ma in realta` cio` avviene perche´ nella forma classica del primo movimento di sonata, bitematico e tripartito con esposizione, sviluppo e riesposizione, risiede la particolarita` architettonica e drammaturgica piu` sorprendente, risiede l’essenza stessa della sonata. La Sonata op. 1 di Prokof’ev segue in generale lo schema che i teorici avevano considerato esemplare, ricavandolo da certe – non da tutte – Sonate di Beethoven. Tonalita` di fa, secondo tema in La bemolle, sviluppo assai piu` breve della esposizione, coda conclusiva che equilibra architettonicamente la brevita` dello sviluppo, e due temi secondari (di collegamento fra i due principali e di conclusione dopo il secondo) ben definiti, e contrasto fra un primo tema fiero, appassionato e ‘‘maschile’’ e un secondo tema sognante e ‘‘femminile’’, e punto culminante alla fine dello sviluppo. Quasi come un trattato. Irregolare, rispetto alla sonata accademica, e` pero` la riesposizione: il primo tema, sfruttato nel punto culminante dello sviluppo, viene appena accennato nella riesposizione, e il secondo tema viene ripresentato in Re bemolle invece che in Fa. Quest’ultima singolarita` , che in astratto e` certamente la piu` notevole, dipende dal fatto che Prokof’ev era un pianista coi fiocchi e che pensava la musica in senso pianistico. Proprio all’inizio del Novecento un insigne teorico come Vincent d’Indy, pubblicando il Corso di composizione musica419

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le, osservava acidamente che Chopin sceglieva le reti tonali non in funzione della logica musicale ma della comodita` di esecuzione sul pianoforte. In realta`, Chopin pensava le reti tonali in funzione del timbro pianistico. E cosı` si era comportato di recente Rachmaninov nel Concerto n. 2, e cosı` si comportava Prokof’ev. La logica della musica invocata dal d’Indy, che e` logica del pensiero, viene soppiantata dalla logica della sensazione. Che e` un principio squisitamente ‘‘moderno’’. La scrittura pianistica della Sonata op. 1 e` nettamente riferibile allo Skrjabin delle prime quattro Sonate, con momenti di vero e proprio ricalco stilistico, soprattutto in relazione con la Quarta. L’espressione e` sempre diretta, tesissima, appassionata, in sostanza romantica, anche se, rispetto a una vera musica romantica, mancano le indicazioni di carattere (Prokof’ev si limita ai segni di dinamica e di agogica). Prokof’ev, che di lı` a poco verra` considerato un iconoclasta, apre dunque il suo catalogo con un lavoro ‘‘antiquato’’ che non tiene conto di Debussy, di Ravel, dello Skrjabin piu` recente, di Reger, di Busoni, di Albe´niz. La Sonata op. 1, insomma, e` una tesi di laurea che dimostra la bonta` degli studi fatti e la conoscenza del linguaggio e della formaregina della tradizione, e che sperabilmente non fara` arricciare il naso a nessun professore. Queste le trasparenti intenzioni. In realta` il professor Liadov restera` scandalizzato, osservando – del resto giustamente, dal suo punto di vista – che i giovani scimmiottano Skrjabin, il direttore Glazunov mostrera` silenziosamente il suo malumore, il professor Vithol restera` neutrale, e l’allievo Prokof’ev avra` il suo diploma di Libero Artista con la votazione B invece della A. Il 10 aprile 1911 Prokof’ev suono` nelle Serate di Musica Contemporanea di S. Pietroburgo facendo ascoltare i suoi Studi op. 2, i suoi Pezzi op. 3 e i tre Pezzi op. 11 di Scho¨nberg, pubblicati da pochissimo tempo. Poi compose la Toccata op. 11 (1912, 1913), di cui parlero` qui perche´ potrebbe essere un finale di sonata e, soprattutto, perche´ dovrei altrimenti collocarla solitariamente in un paragrafo ad hoc. La Toccata divenne in breve tempo celebre e venne valutata, insieme con l’Allegro barbaro di Barto´k (1911), come il manifesto di un nuovo pianismo, del pianismo del Novecento e anche, in senso poetico, come la musica della ‘‘civilta` delle macchine’’. In verita`, come ho gia` detto, la civilta` delle macchine inizia dallo Studio op. 2 n. 3, che pero` non fu conosciuto quanto sarebbe stato opportuno. Prokof’ev prospetta una derivazione della sua dalla Toccata op. 7 di Schumann, ‘‘forse per la profonda impressione che questo pezzo desto` in me la prima volta che lo udii’’. Ma 420

Toccata op. 11

questa derivazione sembra a me del tutto indiretta e limitata all’aspetto ‘‘motorico’’ della Toccata di Schumann, che formalmente e` un primo movimento di sonata con tanto di secondo tema cantabile, mentre la Toccata di Prokof’ev e` monotematica. Altrettanto probabile potrebbe essere la derivazione dalla Toccata op. 92 di Czerny o dallo Studio op. 26 n. 2 di Rubinsˇ tejn che Prokof’ev aveva eseguito in un concerto di studenti il 5 dicembre 1908, o da un qualsiasi altro studio a moto perpetuo. La differenza sostanziale che separa la poetica della Toccata op. 11 da quella di tutti i suoi possibili modelli risiede secondo me nel fatto che Prokof’ev impiega il modo minore invece del modo maggiore. Tutto quello che di luminoso e di gioioso si trova nelle toccate di Czerny e di Schumann e nello Studio di Rubinsˇtejn, tutti in Do, diventa oscuro e angoscioso nel re della Toccata di Prokof’ev, e anche la conclusione in modo maggiore perde qualsiasi significato catartico perche´ il tema sull’accordo di re viene sı` trasferito alla fine in Re, ma distorto, con la modificazaione di un intervallo (fa diesis-si bemolle invece di fa diesis-la) che lo rende, da angoscioso che era, orrorifico. Viene qui celebrata la civilta` delle macchine? E viene celebrata nello Studio op. 2 n. 3? Forse sı`. Ma se sı`, si tratta di una celebrazione in negativo: una condanna, non una esaltazione. A poca distanza dalla Toccata nasce la Sonata n. 2 in re op. 14 (1912, 1913), dedicata, come ho gia` detto a proposito del Concerto n. 2, a un amico morto suicida. Anche nella Sonata n. 2 Prokof’ev riprende un lavoro composto precedentemente, utilizzandolo nel secondo movimento. Non conosciamo la ‘‘matrice’’ di questo secondo movimento ma nella Sonata non notiamo in verita` la minima frattura stilistica. Il primo movimento e` in formasonata perfettamente individuabile anche al semplice ascolto: il primo tema (una piccola canzone A-B-A) e` nettamente separato dal tema di transizione, oltretutto in tempo Piu` mosso, il secondo tema dolorosamente sognante non potrebbe essere piu`... secondo tema di cosı`, e altrettanto differenziato espressivamente e` il brusco tema di conclusione. Lo sviluppo, molto ampio, e` condotto magistralmente, dapprima con il secondo tema e il tema di conclusione, poi con la sovrapposizione di elementi tematici diversi: sapienza contrappuntistica e scrittura pianistica di una chiarezza abbagliante sono qui dispiegate, direi, con regale noncuranza. La riesposizione, abbreviata, e` regolare, e la coda sul primo tema, sintetica e dura, conclude in modo perfetto una composizione che, rapportata all’eta` dell’Autore, ci lascia sbalorditi. Nel 1911, dopo l’esecuzione di due lavori orche-

Sonata n. 3 in la, d’apre´s des vieux cahiers op. 28

strali di Prokof’ev (Sogni e Autunno), Leonid Sabeev aveva scritto: ‘‘Ho l’impressione che tutto il modernismo di Prokof’ev sia cucito con un filo grosso, poiche´ la sua anima non ha nulla di moderno, non possiede quell’affinamento sentimentale, quei nervi scoperti che trovano sfogo nella estetica della dissonanza’’. Fra il 1911 e il 1912 l’‘‘affinamento sentimentale’’ era avvenuto, e Prokof’ev poteva persino permettersi di usare didascalie tritamente tardoromantiche come tristemente e dolce, oltre allo scherzando che rivela la sua inclinazion al grottesco. Grottesco-macabro che esplode nello Scherzo in la, feroce nella prima e nella terza pare, derisorio nella parte centrale, una molle e sensuale danza con andamenti di gavotta. Il terzo movimento, in sol diesis, e` cupo, ipocondriaco: due didascalie – con tristezza, e il basso tenebroso – ci sorprendono se pensiamo alla fama di lucido ‘‘modernista’’ che circondo` Prokof’ev, ma non se ascoltiamo questa pagina con il cuore oppresso, appunto, da una cosmica tristezza. Piu` volte si e` accostato questo Andante al Vecchio castello dei Quadri di una esposizione di Mussorgski. La densita` della scrittura e` tuttavia in Prokof’ev molto maggiore, e molto maggiore e` l’impressione di desolazione che si riceve. La costruzione formale e` singolare: primo tema, secondo tema, variazione del primo tema, variazione del secondo tema. Il primo tema del finale nasce, anche se la derivazione e` molto sottile, dal primo tema del primo movimento, ed e` sviluppato come una tarantella tragica. Il secondo tema e` costruito su un elemento ritmico martellato e su un elemento melodico ‘‘sguaiato’’ che ricorda le canzoni popolari russe eseguite con la fisarmonica. Ma riappare – dolcissimo e molto espressivo – il secondo tema del primo movimento, prima esposto, poi distorto grottescamente. Lo sviluppo e` un’altra dimostrazione della maturita` di Prokof’ev come contrappuntista e come strumentatore per pianoforte. Terrificante un suono di campana, in un episodio indicato come giocoso (e chi ricorda ancora Sviatoslav Richter nella Seconda Sonata rabbrividisce, risentendo nella memoria quel suono, violentissimo e ‘‘brutto’’). La riesposizione e` regolare ma viene variata nell’ultima parte con altri virtuosismi contrappuntistici. La citazione nel finale del secondo tema del primo movimento non puo` non essere legata a una intenzsione programmatica, e l’apparizione di Margherita nel Sabba Infernale del Faust e` la prima immagine che viene alla mente. Piu` che a una specifica opera letteraria bisogna pero` far riferimento secondo me a un mito, quello della fanciulla perseguitata e rapita... che in questo caso non viene liberata. E qui conviene riflettere sugli aspet-

Sergej Prokof’ev

ti della ‘‘crudelta`’’ della poetica di Prokof’ev, crudelta` che appare in modo impressionante gia` nel libretto della prima opera, Il Gigante, scritta e musicata a nove anni d’eta`. Il Gigante e` un fellone che ne combina di ogni colore, il Re cerca di punirlo ma viene sfidato a singolar tenzone, si batte, e` sconfitto e per l’onta subita si suicida. E tutti i personaggi, facendo i voltagabbana, intonano in coro ‘‘Lunga vita al nostro Gigante’’. La madre di Prokof’ev riferisce che il marito tento` di convincere il bambino a cambiare la conclusione, se non con la punizione del Gigante per lo meno con la riconciliazione dei due avversari. Prokof’ev, furioso per essere stato censurato, rifiuto` ogni accomodamento e il suo Gigante resto` vincitore in barba a tutte le leggi del diritto e della morale. La Sonata n. 3 in la, d’apre`s des vieux cahiers op. 28 (da vecchi quaderni, 1917, 1918) fu composta durante un soggiorno in una piccola stazione termale del Caucaso. Dopo aver effettuato la prima esecuzione il 15 aprile 1918 (e dopo aver diretto l’1 aprile la prima esecuzione assoluta della Sinfonia classica), Prokof’ev partı` il 17 maggio per gli Stati Uniti. Con la guerra che ancora infuriava in Europa egli dovette attraversare l’Asia con il treno della Transiberiana, passo` in Giappone, raggiunse Honolulu, poi S. Francisco, arrivo` a New York in settembre. La costruzione della Sonata n. 3, che e` in un solo movimento, segue lo schema della forma-sonata con qualche singolarita` . Primo tema toccatistico e ossessivo, brevissimo collegamento (come raccordo, non come tema) e secondo tema molto contrastante in Do, altro brevissimo collegamento e ampio sviluppo, perfettamente calcolato su una prima ascesa verso un punto culminante negativo (brusca caduta della dinamica, movimento piu` lento e citazione del secondo tema) e seconda ascesa verso il punto culminante positivo: punto culminante per il quale Prokof’ev fa ricorso a tre didascalie inconsuete come con effetto, alzando, e infine – logico! – con elevazione. La riesposizione immette il secondo tema nel flusso vorticoso del primo tema, non propriamente riesponendolo ma citandolo in un contesto straniante (lo stesso procedimento tornera` nella Sonata n. 7). Qualcosa di simile avviene nel primo movimento del Concerto n. 3 di Rachmaninov, e non e` improbabile che Prokof’ev abbia ripreso un’idea del suo piu` anziano collega, dei quale ammirava del resto molto i Concerti. Una coda frenetica, con forti sbalzi di dinamica e con un inatteso quasi tromba conclude il lavoro. Eseguita di frequente da Prokof’ev e poi da Horowitz e da Cherkassky, la Sonata n. 3 divenne popolarissima negli anni trenta. 421

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Sergej Prokof’ev

Ma piu` tardi il pubblico le preferı` la Seconda e anche oggi la Terza e` poco eseguita. Composta insieme con la Sonata n. 3 e insieme con la Sonata n. 3 presentata per la prima volta al pubblico, la Sonata n. 4 in do-Do op. 29 (1917, 1918) e` pero` molto piu` complessa sul piano e drammaturgico e stilistico. Il primo e il terzo movimento sono riscritture – probabilmente radicali, visto il loro atteggiarsi – di una Sonata giovanile, il secondo movimento e` la trascrizione di un movimento della Sinfonia in mi composta nel 1908 e che, eseguita nelle Serate di Musica Contemporanea di S. Pietroburgo, aveva raccolto un... plebiscito di disapprovazioni. Non perche´ fosse un lavoro avanguardistico: c’era stata disapprovazione, non scandalo. Si era invece capito, e lo aveva capito Prokof’ev stesso, che si trattava di un pezzo in cui si manifestava tutta l’inesperienza di un allievo non ancora padrone della scienza della strumentazione. La Sinfonia sparı` dalla scena per sempre, ma Prokof’ev ritenne che l’Andante in la meritasse di essere salvato. L’Andante meritava il salvataggio: e` una pagina di grande intensita` lirica, musicalmente densissima e sapientemente costruita. E` pero` nettamente romantica e rispetto al primo e al terzo movimento suona arcaica o, all’opposto, profetica, perche´ anticipa certe atmosfere del balletto Romeo e Giulietta. La complessita` musicale e il lirismo dell’Andante inducono Prokof’ev ad adottare una strumentazione pianistica romantico-simbolista, con atmosfere nebulose, scure o iridescenti ma prive della cruda trasparenza del primo e del terzo movimento (e delle Sonate n. 2 e n. 3). Mentre lo stile pianistico che Prokof’ev individua in modo perfettamente maturo a partire dalla Toccata op. 11 puo` essere paragonato alla pittura fauve, nell’Andante abbiamo piuttosto un possibile riferimento alla pittura di Monet. E la Sonata n. 4 risente secondo me di questo contrasto e lascia percio` spesso perplesso il pubblico che ne rileva l’intima contraddizione. Ho parlato di Monet. Per il primo movimento della Sonata potrei parlare di Chagall, dei suoi angeli, dei suoi mendicanti, dei suoi ebrei piagnucolosi, dei suoi animali e dei suoi carri: un quadro multiforme, unitario e surreale, tagliato nella piu` classica forma-sonata, chiara in modo persino didascalico. Il finale e` un rondo` tritematico in sette episodi, formalmente regolarissimo, in Do. Il primo tema e` luminoso e, con i suoi ritmi balzanti e i suoi accompagnamenti meccanici, e` nettamente neoclassico, settecentesco. Ma il secondo tema modifica il significato drammaturgico del primo per il suo clima inquieto, ossessivo. E il terzo tema, dolce e semplice, poi con una dolce espressione, ci ri422

Sonata n. 4 in do-Do op. 29

porta alla apparizione di un tema femminile e indifeso nel finale della Sonata n. 2. Anche in questo caso la fanciulla non verra` liberata e il primo tema trionfera` alla fine in un’orgia di sonorita` splendenti e di vampate di fuoco che mettono a durissima prova l’esecutore (‘‘Nel finale della Quarta Sonata sbaglio completamente i quattro passaggi con una mano sopra l’altra’’, scrive Prokof’ev di una sua esecuzione a Mosca del 15 febbraio 1928; e il 22 febbraio: ‘‘Suono il finale in modo corretto per la prima volta in questa tourne´e’’). Non manca pero`, poco prima della fine, la didascalia con effetto a cui Prokof’ev sembra essere molto affezionato. E sebbene il pezzo sia in Do, un re diesis e un si inseriti nell’ultimo accordo rendono torbida e torva la conclusione. Dopo il primo soggiorno negli Stati Uniti (19181920) Prokof’ev si sposta in Francia e negli anni successivi alterna le visite negli Stati Uniti con la permanenza nell’Europa occidentale. La Sonata n. 5 in Do op. 38/135 (1923, 1925, revisione 1953, 1955) venne scritta in parte a Ettal in Baviera e fu terminata a Parigi, dove ebbe luogo la prima esecuzione il 9 marzo 1924. La Sonata n. 5 risente senza dubbio del clima artistico parigino nel momento in cui Jean Cocteau aveva lanciato il Gruppo dei Sei, e il primo tema del primo movimento e il primo tema del finale potrebbero benissimo appartenere a una sonata per flauto e pianoforte di Poulenc, compositore con cui Prokof’ev intratteneva cordiali relazioni. Si e` parlato molte volte della arroganza di Prokof’ev. Certamente egli non faceva mai ricorso alla diplomazia ed esprimeva le sue opinioni e i suoi giudizi con rude (e rozza) schiettezza. Si veda questa lettera a Poulenc da Ettal, del 21 agosto 1923: Caro Poulenc, grazie per le vostre Promenades. Mi piacciono molto la prima e la terza. Nelle altre ci sono troppe voci parallele e troppo Chopin. Le mando a Mosca. Al piacere di rivedervi in ottobre Tutto vostro Serge Prokofieff Perche´ lento e allegro? Siete nato a Modane? Perche´ accelerare e rallentare? Perche´ un punto dopo Poulenc? Se questa e` amicizia... Poulenc, dal canto suo, mostro` sempre verso Prokof’ev una vera e propria devozione. La Sonata n. 5 non ebbe successo a Parigi e non ebbe successo durante la tourne´e nell’Unione Sovietica del 1927. Leggiamo un appunto di Prokof’ev, datato 23 gennaio e riferito a una riunione con vari musicisti: ‘‘[...] suono la Quinta Sonata. Se non la suono qui, dove potrei suonarla? Ascoltano in silenzio e con intensa attenzione e

Sonata n. 6 in La op. 82

non esprimono le loro impressioni. Mi si chiede di suonare ancora qualcosa – suono la Terza’’. Poi, il 28 gennaio: ‘‘Il primo pezzo in programma e` la Terza Sonata – tempo fa Suvcˇinskij mi ha raccomandato di cominciare i miei recital con la Terza Sonata. Poi, dieci Visioni fuggitive. L’accoglienza e` molto favorevole, ma non molto appassionata. Il pezzo seguente, la Quinta Sonata, e` accolta in modo evidentemente riservato, sebbene un gruppo di una cinquantina di persone applauda fragorosamente e gridi, chiamandomi senza sosta’’. E il 9 marzo: ‘‘[...] nessuno capisce la Quinta’’. Infine, il 13 marzo, a Kharkov: ‘‘Eccettuata la Quinta Sonata, tutti i pezzi ottengono un colossale successo’’. Nel 1953 Prokof’ev riprese la Sonata n. 5 modificandone qualche tratto e ripubblicandola con un nuovo numero d’opera. La versione definitiva e` quella oggi comunemente eseguita, e a essa faccio riferimento. La costruzione del primo movimento e` , ancora una volta, classica fino allo schematismo. Lo sviluppo e` tutto calcolato in funazione d’un punto culminante raggiunto alla fine, con rapidissima discesa di tensione e tranquillo passaggio alla riesposizione, regolare. Una piccola e gaia coda sul primo tema conclude il primo movimento. Il secondo movimento e` un incantevole momento musicale umoristico e grazioso, con un primo tema assai sviluppato, un secondo tema episodico, una riesposizione abbreviata e variata del primo tema e una coda che svanisce nel nulla. L’atmosfera bucolica del primo movimento ritorna nel finale, un rondo`-sonata (rondo` con un episodio di sviluppo tematico) tutto sorridente e gradevole. La coda, stranamente, e` pero` oscura e un po’ minacciosa. E` come se questo Prokof’ev pariginizzato si togliesse la maschera e ricomparisse con il suo vero volto. Ma l’atmosfera di tutta la Sonata e` bucolica, come dicevo, e favolistica; il Prokof’ev dell’Amore delle tre melarance e` lı` dietro l’angolo e la fiaba Pierino e il lupo e` all’orizzonte. Aggiungo che a Ettal Prokof’ev viveva con la cantante Lina Codina, che avrebbe sposato l’8 ottobre 1923 (il 27 febbraio 1924 sarebbe nato il primo figlio della coppia). Vedremo poi come la Sonata n. 9, anch’essa in Do, sia detta Sonata domestica da Richter: a me sembra che questa denominazione convenga semmai alla Quinta. Racconta la sua seconda moglie, Mira Mendelssohn, che Prokof’ev, letto il Beethoven di Romain Rolland, penso` di scrivere una sonata in undici movimenti. Le Sonate n. 6, n. 7 e n. 8 assommano dieci movimenti... Ma non si tratta tanto di dare o no credito alla affermazione della Mendelsohn. E` importante invece notare il fatto che la Sesta, la

Sergej Prokof’ev

Settima e l’Ottava Sonata furono pensate come ciclo, allo stesso modo delle op. 109, 110 e 11 di Beethoven, allo stesso modo delle ultime tre Sonate di Schubert, D 958, 959 e 960. Le tre Sonate di Prokof’ev furono iniziate tutte insieme e furono completate nel giro di cinque anni, ma ebbero tre numeri d’opera consecutivi sebbene fra il completamento della Settima e il completamento della Ottava si collocassero le trascrizioni per pianoforte di pezzi del balletto Cenerentola, la Sonata per pianoforte e flauto, il completamento di due opere e vari altri lavori minori. La Sonata n. 6 in La op. 82 (1939-1940, 1941) ebbe la prima esecuzione, a Mosca il 24 novembre 1940, ad opera di Sviatoslav Richter. Richter dice di aver ascoltato due volte la Sonata n. 6 eseguita privatamente da Prokof’ev in casa del musicologo Pavel Lamm e di aver subito deciso di studiarla. La studio` durante l’estate – su una copia manoscritta, perche´ la pubblicazione avvenne l’anno dopo – e la eseguı` in pubblico senza averla fatta prima ascoltare al compositore. Prokof’ev, molto soddisfatto, propose a Richter di studiare il Concerto n. 5, ‘‘che e` sempre stato un fiasco’’, e di eseguirlo sotto la sua direzione: come poi avvenne. Sˇostakovicˇ, scrivendo a Prokof’ev, disse: ‘‘La vostra Sesta Sonata e` magnifica. Dal principio alla fine. E` stata per me una gioia ascoltarla due volte e una tristezza non averla ascoltata che due volte’’. La Sonata n. 6 ottenne un grande successo. Prokof’ev la spedı` negli Stati Uniti e Horowitz la eseguı` nella Carnegie Hall il 30 gennaio 1942, ma poi le preferı` la Settima. Victor Merzhanov e Josef Pa´lenı´cˇek la eseguirono e la incisero in disco. Tuttavia la Sesta Sonata non entro` in repertorio e solo dopo le esecuzioni di Richter in Occidente negli anni sessanta comincio` a diventare popolare. Oggi, insieme con la Seconda e con la Settima, e` la piu` eseguita fra tutte le Sonate di Prokof’ev. Le tre Sonate scritte durante la guerra sono dette comunemente Sonate di guerra. E certamente l’atmosfera guerresca del primo e del quarto movimento della Sesta, e l’atmosfera idilliaca del secondo e del terzo fanno pensare all’opera Guerra e pace. Ho gia` riportato parte di un articolo pubblicato nella Pravda. Cito ora un frammento di un altro articolo, del 1937, che spiega benissimo le prospettive che Prokof’ev si era posto al rientro nell’Unione Sovietica e che nella Sonata n. 6 trovano una piena applicazione: Nella mia produzione di quest’anno fruttuoso [era stato l’anno delle due cantate, quella Per il XX anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e quella intitolata I Canti dei nostri giorni] ho mirato alla chiarezza e alla melodiosita`; nel contempo ho scru423

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Sergej Prokof’ev

polosamente evitato l’inganno di ricorrere ad armonie e motivi familiari. Questo e` cio` in cui consiste la difficolta` di comporre in modo chiaro, diretto: la chiarezza deve suonare nuova, non vecchia. Musica in senso lato ‘‘patriottica’’ e` la Sonata n. 6. Non credo invece che sia da seguire la tesi secondo la quale la Sonata sarebbe una critica al culto della personalita`, con il leitmotiv di Stalin messo alla gogna alla fine dell’ultimo movimento. Non mi sembra, in altre parole, che si possa interpretare retrospettivamente la composizione alla luce del post-1989, limitandone cosı` il significato di alta e nobile e serena testimonianza di fede nella patria in pericolo. Il primo movimento della Sonata n. 6 – ormai potevamo persino prevederlo prima ancora di leggerlo – e` un modello di forma-sonata con due temi principali contrastanti (‘‘maschile’’ e ‘‘femminile’’), un tema di collegamento e un tema di conclusione. Lo sviluppo, straordinariamente ampio, e` basato sul secondo tema, che perde progressivamente il suo carattere sognante per diventare alla fine urlato. E` raro trovare nella musica strumentale una simile espressione del terrore, ed e` come se davanti ai nostri occhi passasse, e s’allontanasse, una cieca forza distruttrice. La riesposizione e` molto abbreviata. Il secondo movimento, in Mi, e` una breve marcia che puo` ricordare certo Schubert, strumentata pianisticamente con una genialita` sconcertante. La forma e` quella tradizionale: marcia, trio, marcia. La funzione drammaturgica del secondo movimento e` di spazzare via le immagini di morte e di disperazione del primo movimento. Il terzo movimento, valzer in Do, e` tutto immerso in una atmosfera di sogno, di reminiscenza degli anni felici. Il finale, vastissimo rondo`, inizia in la e termina in La. I contrasti tematici sono molto forti, ma la citazione di temi del primo movimento in tempo rallentato e` veramente sinistra. Nell’ultima sezione domina l’inciso melodico caratteristico del primo tema del primo movimento in una parossistica sonorita` e con squilli di trombe che richiamano irresistibilmente l’immagine di una battaglia mortale. Scrive Sviatoslav Richter: Un avvenimento particolarmente importante ebbe luogo nella mia vita nel 1943. Prokof’ev aveva appena terminato la sua Settima Sonata e aveva deciso di affidarmene la prima esecuzione. Ricevetti la musica, manoscritta, solo poco avanti la prima esecuzione ed abbi soltanto quattro giorni per mandarla a memoria. Fui quasi responsabile della morte della seconda moglie di Neuhaus, Silvia Fiodorovna, che era malata con febbre a 40 gradi e il cui appartamento era il solo posto in cui potevo studiare. Il pianoforte era collocato nella sua camera da letto. 424

Sonata n. 7 in Si bemolle op. 83

La povera donna venne sottoposta agli assalti dell’ultimo tempo per tre o quattro ore e per un periodo di quattro giorni interi. La Sonata ebbe un immenso successo [Richter la ‘‘bisso`’’ per intero]. E` un lavoro fantastico, ma io ancora le preferisco la Quarta e, soprattutto, l’Ottava. La Sonata n. 7 in Si bemolle op. 83 (1939-1942, 1943) fu eseguita da Vladimir Horowitz nella Carnegie Hall il 14 marzo 1944, dopo alcune audizioni private e una audizione semipubblica al Consolato Sovietico. Notevole il commento di Toscanini: ‘‘Non e` grande musica. Lui la fa grande’’. Eseguita nell’Europa occidentale, nel 1946, da Nikita Magaloff e da Friedrich Gulda, la Sonata n. 7 divenne in breve tempo popolarissima. Malgrado cio` la critica, come spesso accade con lavori che ottengono immediatamente successo e popolarita`, sfodero` la faccia feroce: ‘‘Il signor Horowitz fece tutto cio` che e` umanamente possibile per il nuovo lavoro, ma ne´ nella sostanza ne´ nello stile esso puo` essere paragonato al meglio di questo compositore’’, scrisse il New York Herald Tribune il 15 marzo 1944. E ancora nel 1955 l’autorevole The Record Guide cosı` liquidava il pezzo: ‘‘La Settima Sonata e` un esempio particolarmente arido di un compositore che in certe occasioni puo` superare in aridita` ogni altro. Tuttavia [...] puo` interessare agli appassionati della scrittura pianistica. Il finale a modo di toccata [...] e` eccitante come una cinematografica caccia all’uomo’’. Caccia all’uomo? Perche´ no? Il ritmo implacabile e ossessivo che percorre tutto il finale (nove pagine a stampa), la misura irregolare di sette/ottavi, l’insistenza su due suoni del basso (si bemolle e do diesis), la dinamica di potenza apocalittica delle ultime due pagine sono ben degne di una caccia all’uomo. E quel tanto di spregiativo che nel 1955 era ancora appiccicato al ‘‘cinematografica’’ e` scomparso per noi, dopo tanti film di 007 et similia. La didascalia generale di tempo, Precipitato, puo` pero` prestarsi a qualche equivoco. Precipitato non e` Precipitoso, ammoniva saggiamente Magaloff. E nemmeno Precipitando. Pero` Precipitato, in realta`, si riferisce a qualcosa di statico. Penso percio` che Prokof’ev, il quale parlava bene il francese ma non conosceva l’italiano se non da musicista, avesse in mente il significato di pre´cipite´ nel senso di affannoso (respiration pre´cipite´e, respirazione affannosa). E il carattere espressivo del finale e` secondo me proprio quello dell’affanno e dell’angoscia di chi fugge. Nel secondo movimento, in Mi, colpisce il caloroso che Prokof’ev aggiunge all’Andante: un termine non facilmente associabile con un uomo e con un artista come Prokof’ev, e che qui viene speso a ra-

Sonata n. 9 in Do op. 103

gion veduta. Pagina lirica, superbamente costruita e che recupera a tratti una scrittura pianistica molto spaziata e romantica, il secondo movimento svolge una funzione drammaturgicamente analoga a quella del valzer nella Sonata n. 6. Nei primi movimenti delle sue Sonate Prokof’ev differenzia talvolta il tempo del secondo rispetto al primo tema (Poco piu` mosso nella Sesta, Moderato nella Terza), ma con scarti di velocita` non vistosi. Il primo movimento della Sonata n. 7 e` invece costruito su una radicale contrapposizione, oltre che di carattere espressivo, di movimento: Allegro inquieto e Andantino. La struttura diventa cosı` ancora piu` evidente e il ritmo da tarantella tragica del primo tema viene contrapposto al ritmo da ninna-nanna del secondo tema (espressivo, dolente). Come gia` nella Sonata n. 6 il secondo tema compare nello sviluppo ma ‘‘urlato’’. Unica particolarita` della costruzione architettonica: il primo tema, che domina tutto lo sviluppo, ricompare nella riesposizione dopo il secondo tema. Anche il primo movimento della Sonata n. 8 in Si bemolle op. 84 (1939-1944, 1946) e` costruito sui contrasti tematici di movimento, oltre che espressivi, con il primo tema, pero`, in tempo piu` lento (Andante dolce) del secondo (Allegro moderato). Il lontano modello a cui Prokof’ev puo` aver fatto riferimento – si tratta di una pura supposizione, beninteso – e` la Ballata n. 2 di Chopin, lavoro formalmente singolarissimo in tutto il panorama dell’Ottocento pianistico. Il secondo tema di Prokof’ev nasce pero` all’interno del primo tema, e in questo modo la coerenza formale del primo movimento diventa piu` salda e piu` sicura, mentre Chopin... corre maggiori rischi. La scrittura pianistica alterna momenti di rarefazione e momenti di estrema densita`, tanto che in un episodio Prokof’ev deve fare ricorso all’utilizzo di tre righi invece di due. Nell’Andante che conclude lo sviluppo troviamo una disposizione pianistica nettamente lisztiana, retaggio della giovinezza e del tutto insolita in Prokof’ev. Dopo l’Andante caloroso della Sonata n. 7 e dopo l’Andante dolce del primo movimento della n. 8 Prokof’ev sfodera nel secondo movimento un Andante sognando in cui si alternano i colori caldi di due tonalita` come Re bemolle e Re. Il tema principale di questo secondo movimento e` ricavato dal Minuetto delle musiche di scena per l’Eugenio Onegin, composte nel 1936, e anche questo particolare e` indicativo del clima da Guerra e pace di questa, come delle due precedenti Sonate. Il secondo movimento e` costruito con un solo tema principale e con un tema secondario episodico, praticamente come tema con variazioni. La scrittu-

Sergej Prokof’ev

ra pianistica e` anche qui complessa e in sostanza romantica. Il finale, vastissimo, e` costruito su due temi, il primo toccatistico e rapinoso, il secondo (in Re bemolle) ritmicamente implacabile e con andamento (malgrado la misura ternaria) di marcia. La parte centrale si conclude con la citazione in pianissimo del tema secondario della prima parte, in tempo piu` lento e con la didascalia, molto rara, irresoluto. E` ben difficile non supporre che questa particolarita` sia legata a una intenzione programmatica, ma non abbiamo alcuna testimonianza documentaria del pensiero di Prokof’ev in proposito. L’ultima pagina del finale, sia detto per inciso, e` una delle piu` ardue che Prokof’ev abbia mai scritto, ed e` ben degna del sommo virtuoso a cui fu affidata il 30 dicembre 1944 la prima esecuzione, Emil Gilels. Prokof’ev eseguı` preventivamente nel 1944 la Sonata, com’era di prammatica, per l’Unione Compositori. Sentiamo ancora Richter, nostro preziosissimo informatore: Prokof’ev la suono` due volte. Dopo la prima esecuzione fu chiaro che si trattava di un’opera notevole, ma quando mi fu chiesto se avessi in animo di suonarla non seppi rispondere. Sergej Sergeevicˇ aveva adesso delle difficolta` nel suonare. Gli mancava la sua passata sicurezza e le sue mani fluttuavano incerte sui tasti. Dopo la seconda esecuzione decisi fermamente di imparare il pezzo. Qualcuno cominciava a ridacchiare: ‘‘E` del tutto antiquata. Davvero volete suonarla?’’ Questa e` la piu` ricca di tutte le Sonate di Prokof’ev. Ha una vita interiore profonda, complessa e piena di contrasti. Talvolta sembra essere intorpidita, come abbandonandosi alla marcia inflessibile del tempo. Talvolta e` inaccessibile a causa della sua ricchezza, come un albero stracarico di frutti. Richter incluse la Sonata n. 8 nel programma del Concorso Pansovietico che nel 1945 vinse ex-aequo con Merzhanov, e il 9 maggio 1946 eseguı` tutte insieme le Sonate di guerra, rendendo palese il loro carattere ciclico. La Sonata n. 8 fu presentata da Horowitz al pubblico della Carnegie Hall di New York l’8 aprile 1945, dopo un’audizione semipubblica al Consolato Sovietico. Ma, come ho gia` detto, Horowitz mantenne poi in repertorio solo la Sonata n. 7. Neppure Gilels eseguı` di frequente la Sonata n. 8. Ma anche Richter torno` di preferenza sulla Sonata n. 2 (95 esecuzioni della Seconda rispetto alle 69 della Ottava). E solo alla fine del Novecento la Sonata n. 8 comincio` ad... allargare il suo mercato, un po’ a scapito della n. 7. Richter racconta che Prokof’ev gli fece vedere gli abbozzi della Sonata n. 9 in Do op. 103 (1947, 425

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Sergej Prokof’ev

Preludio e fuga in re di Buxtehude

1955) dicendogli: ‘‘Sara` la vostra Sonata. Ma non pensate che sia intesa per creare un effetto. Non e` la specie di lavoro che fara` saltare il tetto della Sala Grande [del conservatorio di Mosca]’’. La prima esecuzione, il 21 aprile 1951, ebbe luogo nella sede della Unione Compositori. Prokof’ev, gia` malato, la ascolto` per telefono: ‘‘[...] suonai per la prima volta la Nona Sonata, un lavoro raggiante, semplice e addirittura intimo. In un certo senso e` una Sonata domestica. Piu` la si ascolta, piu` ci si innamora di lei e si avverte il suo magnetismo. E piu` appare perfetta. Mi piace molto’’ (Richter). Richter ha senza dubbio ragione. Ma la Sonata n. 9 e` pressoche´ sconosciuta, oggi come sempre, e del resto Richter la eseguı` soltanto 25 volte. Singolare la sua costruzione: alla fine del primo movimento viene preannunciato il secondo, alla fine del secondo il terzo, alla fine del terzo il quarto, e alla fine del quarto viene richiamato, ovviamente, il primo. Ma ben difficilmente il pubblico puo` cogliere all’audizione questa idea di circolarita` , di eterno ritorno, e ben pochi dei temi presentano quei caratteri di estrema plasticita` e di icasticita` che colpiscono cosı` vivamente nelle tre precedenti Sonate. Richter parla di Sonata domestica, parafrasando evidentemente la straussiana Sinfonia domestica. La vita familiare di Strauss diventa pero` epica e teatrale rappresentazione nella Sinfonia domestica, mentre in Prokof’ev tutto resta allusivo, segreto. E la fine cosı` evanescente del quarto movimento con il ‘‘da lontano’’ delle ultime righe

non e` fatta, per quanto cio` possa sembrar banale, per muovere l’entusiasmo dell’uditorio. Nel primo movimento in forma-sonata e in Do la riesposizione inizia in Si, tonalita` piu` morbida: anche questo particolare non contribuisce a chiarire la struttura, che gia` di per se´ e` assai meno schematica del solito. Molto piu` chiaro il secondo movimento, in sostanza una marcia baldanzosa e umoristica con un trio trasparente, magico, tutto condotto su una scrittura di due sole voci. E chiaro nella struttura e tematicamente gradevole e` il terzo movimento, con due temi in tempo diverso (senza sviluppo). Ma con il quarto movimento ricominciano i problemi, come dire?, di ‘‘afferrabilita`’’ del discorso, e lo stesso alternarsi di temi in tempi diversi non risponde piu` alla forte dialettica delle Sonate n. 7 e n. 8. Nel 1953, come ho gia` detto, Richter ritocco` la Sonata n. 5, e iscrisse inoltre nel suo catalogo la Sonata n. 10 op. 137 e la Sonata n. 11 op. 138, ma riuscı` solo a comporre le prime quarantaquattro battute della Decima (un minuto di musica). Morı` il 5 marzo, nel giorno stesso della morte di Stalin, e la sua scomparsa passo` inosservata: la sua morte fu annunciata su un giornale americano solo il 9 marzo, e solo l’11 sulla Pravda. Neanche la stampa specializzata celebro` con impegno la morte di Prokof’ev. Erano i tempi della Nuova Musica, e Prokof’ev era considerato un artista superato e non piu` interessante. Poi il clima e` cambiato. Molto.

Le trascrizioni Prokof’ev e` l’unico compositore del Novecento nel cui catalogo occupino un posto di rilievo le trascrizioni per pianoforte. Durante gli anni del primo dopoguerra in cui svolgeva regolarmente una attivita` concertistica Prokof’ev trascrisse il Preludio e fuga in re di Buxtehude (1923, 1923) e redasse una suite da Valzer di Schubert (1920), preparandone tre versioni: per pianoforte solo, per pianoforte a quattro mani e per due pianoforti, pubblicate rispettivamente nel 1956 e nel 1923. Della versione per pianoforte solo della Sinfonia classica (1916-1917) divenne molto nota la Gavotta, della quale esiste l’incisione in disco dello stesso Prokof’ev. Dell’opera L’amore delle tre melarance Prokof’ev trascrisse lo Scherzo e Marcia op. 33 ter (1919, 1922). Rarissime le esecuzioni dello Scherzo. La ironica, marionettistica Marcia fu invece eseguitissima in passato e compare ancora talvolta nei concerti, specialmente come bis. I Sei Pezzi op. 52 (1928-1931, 1931) sono trascrizioni da concerto di brani tratti da varie composizioni: i prmi tre – Intermezzo, Rondo` ,

Studio – appartengono al balletto Il figliol prodigo, lo Scherzino ai Canti senza parole op. 35 bis, l’Andante al Quartetto op. 58, e lo Scherzo alla Sinfonietta op. 48. Le dediche a quattro grandi pianisti (Rubinstein, Borovskij, Orlov, Horowitz) ci dicono che Prokof’ev intendeva ‘‘provocare’’ l’inserimento nel repertorio di musiche sue in misura maggiore di quanto gia` non avvenisse, ma le sei trascrizioni non hanno mai avuto fortuna. Grande fortuna hanno invece incontrato, se non proprio tutti, almeno alcuni dei Dieci Pezzi da Romeo e Giulietta op. 75 (1937, 1938). Scena (n. 2), Minuetto (n. 3), Maschere (n. 5), Montecchi e Capuleti (n. 6) Mercuzio (n. 8) e Gli Addii (n. 10) sono le musiche di Prokof’ev per pianoforte che suscitano ammirazione incondizionata anche presso chi la musica ‘‘classica’’ la pratica poco. Gli Addii e` un esempio di scrittura pianistica romantica, con una tessitura molto complessa che Prokof’ev domina perfettamente e in cui riappare il suo antico amore per il virtuosismo lisztiano. Il Divertimento op. 43 bis (1938, 1940) porta un

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Sei Pezzi op. 102

numero d’opera ma e` in realta` una trascrizione semplicemente utilitaristica della composizione per orchestra del 1925-1929, mentre la Gavotta op. 77 bis (1938, 1939), dalle musiche per il film Amleto, avrebbe le carte in regola per competere con la celebre Gavotta della Sinfonia classica. Nei Tre Pezzi op. 96 (1941-1942, 1943) troviamo tre danze: Valzer, da Guerra e pace, Contraddanza e Valzer di Mefistofele dalla musica per il film Lermontov. A me sembra che solo la Contraddanza presenti motivi di interesse. Infine, le musiche trascritte dal balletto Cenerentola. Sono tre suite: Tre Pezzi op. 95 (1942, 1944), Dieci Pezzi op. 97 (1943, 1944) e Sei Pezzi op. 102 (1944,

Sergej Prokof’ev

1944). I primi quattro numeri dell’op. 97 sono quelli delle fate delle quattro stagioni e formano un grazioso ciclo che puo` essere eseguito isolatamente. La rivisitazione del Settecento e` una componente fondamentale della Cenerentola, e` la componente che caratterizza il mondo dei ‘‘cattivi’’, ma la versione per pianoforte delle danze barocche perde in gran parte il profumo della particolare strumentazione orchestrale degli originali. E anche nel Valzer di Cenerentola, il valzer lento dell’arrivo di Cenerentola alla festa nel palazzo del Principe, la ricreazione dello stile romantico non e` cosı` felice come negli Addii del Romeo e Giulietta.

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Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

Sei Pezzi op. 102

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov (Oneg, 1 aprile 1873-Beverly Hills, 28 marzo 1943) Nato nel 1873, Rachmaninov appartiene alla ‘‘generazione del sessanta’’, una generazione nella quale la specializzazione – vedi Toscanini tra gli interpreti, vedi Ravel tra i compositori – era ancora l’eccezione, non la regola, mentre nelle generazioni successive la situazione si sarebbe capovolta. Mahler, come tutti sanno, era grande come direttore quanto come compositore, Richard Strauss esordı` a Berlino dirigendo il Tristano e Isotta di Wagner e fu poi un direttore attivissimo e un accanito ‘‘mozartiano’’, Paderewski, d’Albert, Busoni, Felix Mottl, Weingartner e tanti altri si consideravano, come poi Furtwa¨ngler, compositori trasmigrati nell’interpretazione, non viceversa. E Rachmaninov fu compositore, pianista, direttore d’orchestra, eccellente in tutti e tre i campi. Ma, al contrario degli altri, per un certo periodo egli fu soprattutto compositore (e pianista-compositore), per un altro fu soprattutto direttore d’orchestra, per un altro fu soprattutto pianista-interprete. Il fatto che la sua attivita` di pianista-interprete – cioe` concertista – si sviluppasse dopo il 1917 potrebbe far pensare che Rachmaninov, avendo perduto con la Rivoluzione d’Ottobre i beni che possedeva in patria, avesse scelto, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti, la professione piu` lucrosa, quella che in parole povere gli avrebbe permesso di ricostruirsi un patrimonio. Fu questo il motivo che spinse Stravinskij, altro esule russo, a diventare pianista, pianista tanto coscienzioso quanto limitato, e poi, come direttore d’orchestra, batteur de mesure che a detta del fedelissimo Robert Craft faceva una fatica da Sisifo per sbrogliarsela con le misure asimmetriche della sua musica, ... e che spesso non se la sbrogliava affatto. Stravinskij aveva capito benissimo che per una strana legge di mercato gli interpreti guadagnavano piu` dei compositori e si era adeguato e investiva in borsa i suoi guadagni e stava attentissimo nell’amministrarli. Anche Rachmaninov si era adeguato, anche lui e giocava in borsa e studiava i listini delle quotazioni. Ma mentre Stravinskij si improvviso` interprete per convenienza esistenziale, Rachmaninov si stava orientando verso il campo dell’interpretazione gia` qualche tempo prima che arrivasse la Rivoluzione d’Ottobre. Nel 1915 moriva tragicamente Skrjabin, vittima di una puntura d’insetto che aveva provocato la setti428

cemia. Rachmaninov, che negli ultimi vent’anni aveva sempre e soltanto eseguito al pianoforte musiche di Rachmaninov, preparo` con grande sorpresa di tutto il mondo musicale un intero recital di pagine pianistiche e il Concerto op. 20 di Skrjabin. Non erano mai andati d’amore e d’accordo, Rachmaninov e Skrjabin (pare del resto che fosse impossibile restare in buoni rapporti con Skrjabin, tipo orgoglioso, arrogante, sprezzante). Tuttavia Rachmaninov sentı` il dovere di onorare il collega scomparso prematuramente e di aiutarne finanziariamente la famiglia. Racconta Prokof’ev che i vedovi di Skrjabin inorridirono, quando seppero che le sacre note del loro vate sarebbero state contaminate dal suono di Rachmaninov, un suono simile secondo Skrjabin al prosciutto di Praga. E anche Prokof’ev ando` a sentire il recital con un atteggiamento prevenuto. Alla fine, pero`, penso` di doversi complimentare con Rachmaninov: ‘‘Malgrado tutto, Sergej Vasil’evicˇ, gli disse, ‘avete suonato molto bene’. ‘Pensavate forse che io potessi suonar male?’, replico` duramente Rachmaninov, e volto` seccamente le spalle al giovane e sprovveduto collega. Anche Rachmaninov, insomma, in fatto di suscettibilita` non scherzava. Per molti anni Rachmaninov venne considerato dalla critica, sprezzantemente, come un epigono del romanticismo. La stessa sorte tocco` del resto a Richard Strauss il quale, sentendosi superiore a qualsiasi giudizio, prese per buona la definizione e, a quanto racconta Ernest Ansermet, disse tranquillamente a Furtwa¨ngler: ‘‘Io non sono che un epigono’’. Strauss non era un epigono, e non lo era Rachmaninov. L’eredita` romantica era presente nell’uno e nell’altro (e non era forse presente anche in Scho¨nberg?), e tuttavia Rachmaninov andava e va semmai etichettato correttamente come simbolista. Simbolista che resta simbolista anche quando il simbolismo sta tramontando e che non si tuffa nel magma della palingenesi mistica a cui, con tutte le conseguenze sul piano del linguaggio, approda Skrjabin nell’ultimo periodo della sua attivita` creativa. Nel 1917, prima della Rivoluzione, Rachmaninov si misura per la prima volta nel Concerto n. 1 di Liszt e nel Concerto n. 1 di Cˇ ajkovskij. Tra il 1918 e il 1919 mette in repertorio pagine pianistiche di molti autori. Quando nel 1918 si stabilisce

Notturni

negli Stati Uniti per affrontare alla grande la carriera concertistica Rachmaninov non e` piu` il pianista-compositore ben noto anche al pubblico americano, ma e` un pianista-interprete che in breve tempo raggiunge le quotazioni dei due divi piu` popolari, Paderewski e Hofmann, e che non cessa di accrescere poi il suo repertorio. Fino al 1916 Rachmaninov scrisse le sue opere dal n. 1 al n. 39, dal 1926 al 1940 il resto, opere 40-45. E` dunque evidente che nel periodo tra le due guerre a Rachmaninov era restato l’hobby della composizione ma che la sua aspirazione – realizzata – fu quella di entrare da dominatore nella storia dell’interpretazione. Questa aspirazione non nacque pero` ne´ astrattamente ne´ per semplice necessita` : nacque invece dal fatto che nel 1916 Rachmaninov ritenne di aver concluso il suo apporto alla creazione musicale e di non voler entrare da protagonista nella nuova era storica che gia` si stava profilando. Tiuttavia, anche le musiche scritte, come dicevo, per hobby si sono conquistate il diritto di entrare nel panorama storico della musica del Novecento, a ulteriore dimostrazione del fatto che Rachmaninov non era un semplice epigono. La critica esalto` il Rachmaninov interprete e, quando non lo esalto`, gli riconobbe per lo meno il supremo magistero nel dominio dello strumento. Il Rachmaninov compositore ottenne invece dalla critica, contemporanea e non solo, una specie di plebiscito negativo. Nel 1942 veniva pubblicata a New York la seconda edizione di uno tra i primi cataloghi generali di discografia, il Gramophone Shop, compilato con sommo impegno e ricchissimo di dati. Dati e dati e dati prima di tutto. Ma per dar forse all’elencazione un aspetto meno ‘‘arido’’ la discografia di ogni compositore veniva introdotta da un giudizio critico sintetico, una specie di pagella o di segnapunti argomentato che doveva offrire al lettore un’idea precisa della categoria di appartenenza, del blasone. Cosı`, per Bach si cominciava con ‘‘generalmente considerato il piu` grande dei compositori’’, per Beethoven con ‘‘probabilmente il piu` popolare di tutti i compositori’’, per Debussy con ‘‘un maestro quasi in ogni campo della composizione’’, per Liszt con ‘‘la figura piu` brillante e teatrale tra i musicisti dell’Ottocento’’, per Mozart con ‘‘forse il piu` prodigiosamente dotato tra tutti i geni musicali naturali’’, per Prokof’ev con ‘‘il piu` completo, versatile e talentoso tra i compositori russi piu` giovani di Stravinskij’’, per Schumann con ‘‘uno tra i piu` personali compositori di tutta la storia’’, ecc. ecc. Il giudizio su Sergej Rachmaninov cosı` suonava: ‘‘Considerato da molti come il piu` completo dei pianisti viventi, Rachmaninov e` anche un com-

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

positore prolifico e popolare. La sua musica e` melodicamente scorrevole e attraente e accuratamente rifinita. Tuttavia essa, in molti casi, e` puramente decorativa (i fantasmi di Liszt, Cˇajkovskij, Arenskij, e anche Brahms, mormorano in gran parte di essa) ed e`, storicamente parlando, statica: lascia la musica esattamente dove Rachmaninov l’ha trovata. Cio` non impedisce tuttavia alle sue migliori opere di presentare un’attrattiva [appeal] potente, sebbene temporanea’’. Non riesco a immaginare la reazione del lettore (di allora, 1942). Il lettore che s’era comprato il grosso catalogo spendendo una cifra non indifferente, se si metteva a consultare la discografia e andava a cacciare il naso proprio lı`, in quel punto, perche´ Rachmaninov gli interessava, o gli piaceva, o tutt’e due le cose. Dopo una presentazione di tal fatta poteva ancora permettersi, il tapino, di comprare un disco con musiche di Rachmaninov? O lo faceva magari di nascosto, e vergognandosi di chiedere a un commesso un autore cosı` poco accreditato criticamente? Forse, a ripensarci, il lettore se ne impippava pero` altamente perche´ , purtroppo, i critici ne avevano dette gia` cosı` tante nel 1942, ne avevano gia` sparate di cosı` grosse che la loro influenza sui gusti del pubblico ‘‘popolare’’ era diventata minima, come poi e` rimasta. Ma le musiche di Rachmaninov le avevano eseguite anche artisti di cultura tutt’altro che ‘‘popolare’’ come Hofmann e come Backhaus, o addirittura di gusto sofisticatissimo come Gieseking. E i concerti di Rachmaninov, con Rachmaninov al pianoforte, li avevano diretti artisti come Walter e Furtwa¨ngler. Possibile che il loro implicito giudizio positivo non instillasse qualche dubbio nei critici? I critici pensano pero` spesso che gli esecutori sappiano piu` di successo che di musica, e che il successo non faccia testo rispetto ai puri valori dell’arte. La distinzione di arte e moda, che forse e` persino giusta, e` in certi casi molto comoda, e chi saggia i valori con i metri e i pesi e gli acidi di cui dispone si sente poi la coscienza tranquilla e puo` guardare serenamente all’avvenire: attrattiva – appeal – potente, ma temporanea come il fascino carnale. Solo che l’avvenire non e` l’eterno. Quanto dura una moda? Fino a quando si puo` continuare a dire che solo la moda e l’imperante cattivo gusto e i tempi artisticamente calamitosi consentono ad un compositore dotato di appeal di essere ancora amatissimo dal pubblico e onoratissimo dagli interpreti? Non so se esista la risposta scientificamente esatta. Ma penso che i molti decenni passati dacche´ Rachmaninov e` scomparso ai viventi dovrebbero esser bastati per farlo scomparire dalla memoria, se la sua fama fosse stata legata a un appeal tem429

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Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

poraneo. Tutti sappiamo invece che non e` cosı`. E tutti sappiamo che, non essendoci finora liberati di Rachmaninov, non ce ne libereremo piu`, o almeno non ce ne libereremo finche´ la nostra vita musicale non sara` organizzata in modo tutt’affatto diverso da quello attuale. Il che non sembra debba avvenire tanto presto. E allora il capire perche´ non ce ne siamo liberati e` un obbligo che non possiamo permetterci di evadere. Rachmaninov non fu precisamente un fanciulloprodigio e non fu neppure un artista precocissimo. Si segnalo` – e in verita` con molta forza – tra i diciotto e i vent’anni. Ma prima era solo un eccellente allievo di pianoforte del conservatorio di Mosca e un compositore che al di fuori dei compiti di scuola – si vedano i tre Notturni (1887-1888) – si avventurava con prudenza e con parsimonia. Le composizioni di Rachmaninov fino al Concerto n. 1 op. 1 in fa diesis (1890-1891, rev. 1917) sono indicative della disciplina scolastica a cui il creatore in formazione viene sottoposto e della pratica della strumentazione pianistica appresa attraverso lo studio di pagine virtuosistiche. In questo senso si puo` citare soprattutto la Rapsodia russa per due pianoforti (1891), scritta in tre giorni per essere eseguita in sede scolastica insieme con il condiscepolo Joseph Lhe´vinne. Pagina curiosa, di un russismo di maniera che nella sua radice risale addirittura a John Field, progenitore del pianoforte russo, e in cui l’influenza delle suite per due pianoforti di Arenskij, con il quale Rachmaninov studiava composizione, determina i caratteri della scrittura strumentale in un modo che sta a mezza strada tra la timida imitazione di un modello autorevole e l’omaggio devoto al maestro. L’importanza della Rapsodia, come diverra` chiaro piu` avanti, risiede pero` nella scrittura per due pianoforti, che nella ricerca stilistica di Rachmaninov diventera` fondamentale. Il Concerto n. 1 e` oggi noto nella versione del 1917. La prima versione era piu` semplice nella scrittura pianistica perche´ Rachmaninov non aveva ancora individuato il modo di usare la tastiera che sarebbbe poi stato cosı` caratteristicamente suo, e anche, forse, perche´ la sua tecnica di virtuoso non era pienamente formata neppure in senso tradizionale. Nella Rapsodia poc’anzi citata si nota del resto che la parte destinata a Rachmaninov e` virtuosisticamente meno impegnativa di quella riservata a Lhe´vinne. Nel Concerto n. 1 le idee tematiche non sono convenzionali, il senso dello spettacolo e` gia` molto vivo, l’architettura e` invece piuttosto impersonale. La versione del 1917, con la riscrittura di molti particolari (non meno di trentacinque interventi ‘‘migliorativi’’) rende l’insieme del tutto 430

Morceaux de fantasie op. 3

coerente, e la scrittura, piu` che riagganciarsi a quella dei Concerti nn. 2 e 3, preannuncia il Concerto n. 4. Tuttavia i temi sono meno ammalianti di quelli dei Concerti nn. 2 e 3, e cio` ne´ ha giovato, ne´ giova alla fama del Concerto. Rachmaninov lo eseguı` del resto soltanto ventitre volte, mentre eseguı` centoquarantatre volte il Concerto n. 2 e ottantasei volte il Concerto n. 3. I Morceaux de fantasie op. 3 (Pezzi di fantasia, 1893) comprendono cinque composizioni caratteristiche. La Elegia in mi bemolle con cui la raccolta si apre fu scritta mentre Puccini componeva la Manon Lescaut... e non sarebbe fuor di luogo nel quarto atto dell’opera. E` una pagina lirica in tre parti, costruita, nella prima sezione, su una melodia vocalistica che copre solo una decima minore, con il fraseggio spezzato e i suoni accentati della vocalita` ‘‘verista’’ fondata sul canto sillabico. Rachmaninov strumenta pianisticamente la melodia in modi consueti: in note singole, con sesta inferiore, con sesta e ottava superiori, e per eccezione con terza inferiore. Ogni suono, in ogni situazione, e` pero` marcato ed appoggiato, anche il gruppetto di cinque note che dovrebbe, per definizione, essere ornamentale. Questa concezione di un suono cantabile scolpito e imponente sara` poi sempre la base dello stile pianistico di Rachmaninov. Rachmaninov, nato nel 1873, appartiene alla prima generazione di pianisti che iniziano gli studi quando il pianoforte da concerto con telaio metallico fuso in un blocco solo e` ormai stato messo perfettamente a punto e utilizzato in tutte le sue potenzialita`. Lo sfruttamento delle possibilita` sonore di questo pianoforte avviene in modi diversificati in Francia, in Germania, in Russia, negli Stati Uniti. E spetta ai concertisti russi, e a Rachmaninov in primis, il merito d’aver individuato la sonorita` profonda, densa, ricchissima di armonici che nel cantabile puo` essere ottenuta con ampio impiego del peso delle braccia e con controllata accelerazione dell’azione del peso stesso. Il risultato e` una cantabilita` paravocalistica – come paravocalistiche erano la cantabilita` del pianoforte classico e del pianoforte romantico – che viene pero` mutuata dalla evoluzione dello stile vocale verso la fine dell’Ottocento, cioe` al tempo del ‘‘verismo’’: il pianoforte, detto proprio in soldoni, diventa l’equivalente di Caruso e sodali. E faro` notare, per semplice curiosita` , che Rachmaninov nasce l’1 aprile e Caruso il 27 febbraio 1873. La Elegia e` in forma di canzone tripartita: primo tema, secondo tema, primo tema. Le proporzioni e l’impaginazione sono gia` tipiche di Rachmaninov: la prima parte (in mi bemolle) e` di quaranta battute, la seconda (in Sol bemolle) di quarantatre

Morceaux de fantasie op. 3

battute, la terza (in mi bemolle) di ventitre´ battute. Dal punto di vista delle proporzioni sembra che la riduzione del numero di battute nella riesposizione sia dovuta a un calcolo sulla sezione aurea, con raggruppamento della seconda e della terza parte: il rapporto tra le quaranta battute della prima parte e le sessantasei (43+23) della seconda e della terza unite equivale all’incirca al rapporto tra le sessantasei e le centosei dell’insieme (40+43+23). Non si tratta pero` di un rapporto esatto – la divisione perfetta sarebbe 41,5 e 64,5 invece di 40 e 66 – e quindi rispondente piu` a un inconscio lavorio della sensibilita` formale che non a una misurazione. La curva delle dinamiche conferma l’impressione di implicito raggruppamento della seconda e della terza parte, e quindi il taglio formale secondo la sezione aurea. Nella prima parte la melodia, partendo dal mezzoforte, si gonfia due volte prima di raggiungere il punto culminante (fortissimo alla battuta 26, molto vicino al taglio di questa parte secondo la sezione aurea), si distende dopo un acme di quattro battute (decrescendo, battuta 32) e resta sul forte fino al termine: la linea e` di accumulo progressivo e di parziale distensione, le ultime due battute del basso sono identiche alle due battute iniziali, e la forma si chiude nettamente su se stessa. Nella seconda parte il tempo e` piu` mosso, la nuova melodia viene presentata in un altro registro, piu` basso, sviluppata progressivamente fino al punto culminante (battuta 70, piu` che fortissimo) e mantenuta sull’acme per ben tredici battute. La dinamica viene quindi bruscamente spezzata e una battuta lentissima, sottile di linea ed inframmezzata da silenzi, introduce la riesposizione, che inizia in pianissimo. La terza parte ha uno sviluppo dinamico molto lento, con un violento aumento alla quartultima battuta, un acme nella terzultima (piu` che fortissimo e suono martellato), rafforzamento che sposta alla fine il punto culminante. In termini di teatro verista, un grido disumano a cui possono solo piu` seguire dei singhiozzi soffocati. Nel secondo pezzo dell’op. 3, il Preludio in do diesis noto come Le Campane di Mosca, la forma e` assai piu` schematica e la strumentazione e` meno inventiva. In questo senso e` solo da notare che nella prima parte il raddoppio in ottava degli accordi viene distribuito tra le due mani in modo che l’altezza dei polsi sia costantemente diversificata. Dal punto di vista compositivo e` invece fondamentale la capacita` di creare tensione tra due eventi che singolarmente non posseggono una grande forza plastico-espressiva. Sara` poi tipico di Rachmaninov saper sempre suscitare una situazione drammatica dalla compresenza di temi, sempli-

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

ci fino al punto di apparir banali. Rachmaninov si rendeva perfettamente conto di questa caratteristica del suo stile. In un ampio commento al Preludio, scritto nel 1910, egli diceva: ‘‘Queste tre note [le tre note iniziali], suonate insieme al basso e all’acuto, dovrebbero risonare con una sinistra solennita`. Dopo questa introduzione il canto di tre note attraversa il primo gruppo di dodici battute in contrasto con la melodia in accordi nelle due chiavi [di violino e di basso]. Abbiamo due distinti motivi melodici che, lavorando in opposizione, devono ottenere come risultato di far fissare su di loro l’attenzione dell’ascoltatore’’. Di grande interesse e` la strumentazione del terzo pezzo, Melodia in Mi. Il canto viene presentato solo in suoni singoli o in raddoppi in ottava, ma la distribuzione sulle ottave avviene in modi che inducono e quasi costringono l’esecutore a portare il peso delle braccia sul tasto con angolazioni del polso variabili e quindi con soluzioni timbriche raffinatissime e cangianti. La declamazione della melodia non e` piu` basata, come nella Elegia, sul canto sillabico (se la Elegia ricorda ‘‘Sola, perduta, abbandonata’’, la Melodia ricorda ‘‘Io voglio il tuo perdono’’). Altro carattere da melodramma verista sono gli accompagnamenti a blocchi di accordi leggerissimi e staccati (strumentini), stagliati sulla intensa sonorita` del canto. Pulcinella, quarto pezzo dell’op. 3, e` il piu` convenzionale e nell’invenzione e nella scrittura, e cosı` il quinto, Serenata, che potrebbe entrare tranquillamente in Pagliacci (potrebbe entrarci concettualmente, come momento del ‘‘popolaresco’’ che nell’opera verista compare spesso, non c’entrerebbe del tutto stilisticamente perche´ la melodia di questa serenata e` vagamente spagnoleggiante). La demoniaca capacita` di Rachmaninov di creare attesa e interesse intorno a eventi musicali banalissimi e` pero` dimostrata nella riesposizione, in cui una linea interna lascia intendere molto piu` che non dica. Nell’op. 3 la poetica di Rachmaninov si definisce in un modo che non verra` mai piu` smentito. Il dato fondamentale sembra a me essere la scelta del melodramma contemporaneo come luogo di elezione: scelta favorita dalla vita musicale russa in cui il teatro contava circa un secolo di tradizioni mentre molto piu` recente, circa trent’anni, era la tradizione della musica sinfonica. Ho accennato a Puccini e ai ‘‘veristi’’. Per quali vie Rachmaninov arrivasse a pensare il cantabile pianistico in termini analoghi a quelli del canto verista e` pero` problema che non sono in grado di analizzare storicamente e tanto meno di risolvere. Circa cinquant’anni prima Thalberg e Liszt avevano affrontato il trasferimento sul pianoforte del melodramma bel431

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Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

liniano-donizettiano e meyerbeeriano vivendo nel milieu in cui si giocavano i destini del teatro musicale, e Liszt aveva poi affrontato il melodramma verdiano, il melodramma francese e il dramma wagneriano seguendone da vicino l’evoluzione. Rachmaninov non solo era ancora un ragazzo, nel 1892, ma viveva a Mosca, dove la vita musicale europea arrivava di riflesso. Aveva ascoltato di sicuro la Cavalleria rusticana di Mascagni, rappresentata al Teatro Bolshoi nel 1891 e nel 1892, poteva conoscere la Gioconda e la Marion Delorme di Ponchielli. Pero` non puo` trattarsi soltanto di imitazione da Ponchielli-Mascagni: si tratta a parer mio di profonda congenialita` con un momento del teatro musicale che ha, se non tutte le radici, per lo meno la massima espansione nell’Italia dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Come e perche´ cio` avvenisse e` un capitolo tutto da esplorare e che in questa sede io non potrei percorrere. Il diciannovenne Rachmaninov fa dunque una ‘‘scoperta’’ di cui ignoriamo la genesi e la provenienza, una scoperta tanto geniale quanto intesa soprattutto a mantenere in vita per l’ultima volta una poetica dell’Ottocento, la poetica del pianoforte come emulo della voce in teatro. Ed e` una scoperta, detto per inciso, che permettera` al Rachmaninov pianista-interprete di rendere ‘‘moderno’’ il repertorio storico del pianoforte. L’altra scelta fondamentale riguarda il ‘‘taglio’’ delle composizioni, tenute nella dimensione della musica da salotto che in Russia aveva, non meno della romanza da salotto, una tradizione antica quasi quanto quella del teatro. Molta musica pianistica dell’Ottocento, con le eccezioni che tutti conoscono, vive nella dimensione del salotto aristocratico e piccolo-borghese. Il rapporto tra la musica da salotto e il teatro, quel rapporto che fa del salotto un teatro semplificato e in miniatura, sono soprattutto evidenti nelle culture pianistiche tardoromantiche, come la francese e l’italiana, che si possono considerare ‘‘minori’’. E sono evidenti anche nella cultura russa, sia in certi compositori di successo e di corto respiro, sia nel Musorgskij e nel Cˇajkovskij dei pezzi brevi. Nell’op. 3 questa provenienza storica e ideologica si somma alla scoperta, di cui s’e` detto prima, che caratterizza Rachmaninov rispetto agli altri. L’op. 3 deriva dalla musica da salotto anche perche´ le scoperte di strumentazione non comportano ancora scoperte virtuosistiche. Il virtuosismo di Pulcinella, per quanto brillante, e` ben lungi dall’essere inventivo e non distingue la scrittura del giovane Rachmaninov da quella di un non-pianista come Cˇajkovskij. La scoperta di possibilita` nuove del virtuosismo pianistico avviene 432

Suite n. 1 op. 5 per due pianoforti

invece attraverso l’esperienza della Suite n. 1 op. 5 per due pianoforti (1893). Il titolo originale della Suite n. 1 e` Fantaisie (Tableaux), Fantasia (Quadri). Ognuno dei quattro pezzi ha un titolo – Barcarola, La notte, l’amore, Lacrime, Pasqua russa – ed e` preceduto da una citazione letteraria, rispettivamente da Lermontov, Byron, Tiutcˇev, Chomjakov. Titoli e citazioni pongono in realta` il problema dei rapporti di Rachmaninov con il simbolismo, problema che, in mancanza di studi specifici, non saro` di certo in grado di risolvere qui. Non mi sembra azzardato affermare che Rachmaninov si ricollegasse istintivamente al simbolismo di Liszt, specie agli Anni di Pellegrinaggio e alle Armonie Poetiche e Religiose. Ma la scelta di Tiutcˇev, che proprio in quegli anni veniva attentamente studiato da Vladimir Soloveev, potrebbe suggerire un’indagine sui rapporti con il simbolismo russo contemporaneo. E non a caso, mi sembra, Lacrime e` il pezzo che meno si inquadra nel panorama musicale europeo dell’inizio degli anni novanta e che prefigura invece il successivo Campane attraverso le foglie di Debussy. Nell’op. 5 siamo comunque in grado di scoprire, se non di capirne ogni volta il significato profondo, i simboli che, qui comparendo, ricorreranno poi sempre in Rachmaninov: l’acqua, la notte, le campane, i canti degli uccelli (in questo caso l’usignolo, simbolo dell’amore, in altri il gabbiano, simbolo della liberta`, e il cuculo, simbolo di morte annunciata) E dal punto di vista estetico possiamo ben dire che la letteratura pianistica non presenta negli stessi anni, eccettuato il Brahms che conclude la sua lunga attivita` creativa, nulla di altrettanto alto. Almeno due dei quattro pezzi affrontano una problematica, insolita in Rachmaninov, che probabilmente rappresenta una ricerca di alternativa e allo sviluppo tematico tedesco e alla costruzione melodica italiana. La struttura dei primi due pezzi e` pluritematica ma fortemente ripetitiva: i temi, non trasformati ne´ sviluppati, vengono contornati da figurazioni ornamentali, immersi in vere e proprie sceneggiature sonore che tengono destissima l’attenzione dell’ascoltatore e la soddisfano con la varieta` del paesaggio. Gli ultimi due pezzi sono invece monotematici, con ossessive ripetizioni. In Lacrime la ripetitivita` maniacale sfocia alla fine in un ritmo di marcia funebre con sovrapposto un frammento di corale. Nella Pasqua russa il carillon che suona a distesa e le campane a stormo compongono un quadro in cui domina l’accumulo di sonorita` spasmodiche (si parte da un fortissimo con due effe e si termina con un piu` che fortissimo con quattro effe), con un’armonia ridotta per lunghi

Pezzi da sala op. 10

tratti al semplice alternarsi di due accordi di settima (settima di dominante di re, settima sul secondo grado di sol) legati da due suoni comuni e che acquistano un significato puramente acustico. Dal punto di vista stilistico, infine, interessa notare nell’op. 5 lo studio piu` approfondito delle prime due suite per due pianoforti di Arenskij (op. 15, 1888, e op. 23, 1892). La scrittura per due pianoforti serve ad Arenskij, e a Rachmaninov, per moltiplicare la profondita` dei piani: non occasione di discorso polifonico complesso (come in Brahms) o di stereofonia (come in Saint-Sae¨ns), ma studio di trasformazione in scenografia del quadro da cavalletto. Se il pianoforte romantico aveva in qualche modo inventato una prospettiva a piu` dimensioni, riportando entro un angolo e in una profondita` molto ridotti la molteplicita` delle dislocazioni spaziali dell’orchestra, Arenskij usa i due pianoforti per creare effetti di estrema lontananza e di rispecchiamento, dimostrando che un forte e un piano contemporanei, con calcoli minuziosi di timbrica, di registri e di densita` ritmiche, diventano perfettamente audibili e che, detto rozzamente, il forte non ‘‘copre’’ e non cancella il piano. Da questo studio delle prime due suite di Arenskij, Rachmaninov passa, nei Duetti op. 11 a quattro mani (1894), al tentativo di ottenere analoghi risultati su un pianoforte solo, e infine, nei Momenti musicali op. 16 (1896), su un solo pianoforte a due mani. Un primo tentativo in questa direzione era gia` avvenuto con il Pulcinella dell’op. 3. Detto per inciso, anche il Preludio in do diesis minore dell’op. 3 potrebbe esser stato inizialmente pensato per due pianoforti. Per lo meno, la versione che l’Autore ne preparo` nel 1938 non tanto arricchisce di nuove figurazioni quella originale quanto ne ‘‘spazializza’’ le componenti. Alla luce della versione per due pianoforti la versione per pianoforte solo puo` dunque preformarsi come ricerca di un gioco illusionistico di profondita`. Nei Pezzi da sala op. 10 (1893-94), al di la` di qualche eccellente riuscita estetica nei pezzi piu` propriamente da salotto, Rachmaninov non aveva progredito oltre il Pulcinella e, anzi, nella Umoresca e nella Mazurca aveva semmai fatto ricorso a manierismi scontatissimi. Nei Momenti musicali l’invenzione strumentale e` invece del tutto matura e lo stile di Rachmaninov si fissa in quello che sara` senza dubbio il capolavoro della sua giovinezza e un momento veramente significativo nella plurisecolare storia dello strumento. Il termine ‘‘momento musicale’’ era stato usato da Schubert, settant’anni prima, per una raccolta di sei pezzi in forma di canzone tripartita. Il titolo e il numero dei pezzi non puo` essere, in Rachmani-

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

nov, casuale, e il riferimento a Schubert sembra fuor di dubbio. Pero` l’intimismo schubertiano, la poesia da salotto di limitata complessita` tecnica e destinata all’uso privato dei dilettanti viene da Rachmaninov trasformata in rappresentazione teatrale dell’intimismo. Il parallelo con quel teatro di prosa di fine Ottocento che metteva in scena ambienti e vicende della piccola borghesia si impone da solo, cosı` come si impone da solo il parallelo con il romazo in Joyce, in Kafka, in Svevo. E la costruzione dei pezzi di Rachmaninov si complica in funzione non dei contenuti ma della teatralizzazione dei contenuti. Cosı` , nel primo Momento musicale, in si bemolle minore, il primo tema non viene mai esposto nella sua semplicita` da filastrocca: una prima volta viene presentato su un ricco accompagnamento in doppie note (degno dello Studio op. 25 n. 8 di Chopin), una seconda volta viene unito a una melodia cromatica che gli crea attorno una drammatica tensione, una terza volta viene sciolto in rapidissime, fruscianti figurazioni ornamentali, una quarta volta e` accompagnato da larghi accordi arpeggiati a modo di corale. In mezzo, un secondo tema esposto una volta sola riesce a equilibrare, con l’instabilita` ritmica e con una virtuosistica cadenza, il peso architettonico della doppia esposizione e della doppia riesposizione del primo tema. Il secondo Momento musicale, in mi bemolle minore, puo` essere considerato uno studio per la mano sinistra (mentre il primo potrebbe essere un notturno). La mano sinistra viene quasi costantemente impegnata in un rapido movimento perpetuo, mentre la melodia della destra, strumentata in ottava, e` costruita secondo moduli correnti e facilmente prevedibili; ma Rachmaninov, facendo eseguire la melodia da pollice e mignolo, sfrutta le altre tre dita per aggiungere una parte intermedia in movimento rapido. La melodia perde cosı` il rilievo che altrimenti avrebbe e, perdendolo, non viene piu` percepita come banale, scontata. L’effetto che Rachmaninov ottiene e` veramente straniante e lo sfruttamento non solo dei movimenti attivi della mano, ma dei movimenti passivi che ne conseguono e` ingegnoso oltre ogni immaginazione. Dopo un primo pezzo bitematico, che puo` ricordare in nuce un primo tempo di sonata, e dopo un secondo pezzo che puo` ricordare uno scherzo, il terzo Momento musicale, Andante cantabile in si minore, puo` ricordare un tempo lento di sonata o una funebre trenodia. La melodia di questa composizione, basata su un breve inciso e interrotta da silenzi, e` sempre tenuta nel registro medio dello strumento e raddoppiata in terza, ed e` armonizzata con una disposizione larga delle parti, in modo 433

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Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

da far risuonare il piu` possibile l’estremita` grave della tastiera. La melodia, in se´, potrebbe essere portata come esempio di cinico mestiere: la strumentazione, come al solito, e` tale da cancellare quest’impressione. Il Momento musicale n. 4, in mi minore, da` l’impressione di un finale di sonata, anche perche´ dal Presto iniziale si passa a un Piu` vivo e poi ad un Prestissimo, terminando con un’impressionante massa di sonorita`. Non voglio con cio` dire che i primi quattro Momenti musicali formino una sonata o un fac-simile di sonata; ma mi sembra che Rachmaninov, volendo raggiungere un minimo di organizzazione in ciclo della raccolta di pezzi, abbia alternato i caratteri espressivi tenendo conto del consolidato modello, o archetipo, della sonata. Il Momento musicale n. 4 ricorda il n. 2 per l’impegno virtuosistico della mano sinistra e per certe ingegnose disposizioni pianistiche della destra. Mentre nel n. 2 il filo conduttore e` una melodia ansimante, nel n. 4 la melodia e` pero` sostituita da un appello eroico, a cui si contrappone una lamentosa scala discendente. Il Momento musicale n. 5, Adagio sostenuto in re bemolle maggiore e`, come concezione pianistica, una variante del n. 3: melodia in registro centrale raddoppiata in terza, armonizzazione in posizione lata; ma qui l’armonizzazione, invece che in accordi placcati, e` sciolta in accordi arpeggiati e l’espressione e` incantata, una notte d’amore. Di nuovo eroico e` il Momento musicale n. 6, Maestoso in do maggiore. La quantita` di cose che Rachmaninov riesce a far fare contemporaneamente alle due mani e` veramente incredibile: blocchi di accordi come un corale guerriero, di durate variabili tra i due e i tre secondi; martellante movimento ostinato, con densita` ritmica di due suoni al secondo; moto perpetuo rapidissimo, con densita` ritmica di otto suoni al secondo. E tutto cio`, implacabilmente, per la bellezza di dieci pagine a stampa, con solo una breve sospensione del corale eroico (per farlo rientrare con maggior effetto). Il modello potrebbe anche esser stato l’ultimo Studio dell’op. 25 di Chopin, con l’idea di una immensa massa di suono in movimento su cui si staglia una grandiosa melodia. Certo e` pero` che l’idea di Chopin, se di questa si tratta, viene ripresa in un contesto diverso e con una forza di invenzione strumentale al limite estremo delle possibilita` fisiche della mano. A proposito dei Momenti musicali, che rivelano pienamente le caratteristiche peculiari della poetica di Rachmaninov, si puo` parlare di grande arte di strumentatore, piu` che di creatore di musica. I ‘‘materiali da costruzione’’ dei quali Rachmaninov si serve sono in genere ricalcati su schemi comuni nella musica russa da salotto del suo tempo, che 434

Pezzi da sala op. 10

era ormai, prevalentemente, musica d’uso della piccola borghesia. La sua capacita` di mettere in opera questi materiali reificati in un quadro di strumentazione pianistica che conclude, rinnovandolo e ampliandolo, il grande serbatoio del virtuosismo ottocentesco derivato da Thalberg, Henselt, Liszt, Tausig, e` cio` che lo distingue da tutti e che fa di lui un artista da studiare in una prospettiva che non sia semplicemente ed esclusivamente quella della ‘‘grande musica’’. Arte della strumentazione come creazione di materia sonora e organizzazione della percezione. Arte di scenografo, potremmo dire ampliando ed estendendo il concetto. In senso piu` stretto e storicamente piu` preciso, arte di pianista-compositore, di strumentista che lavora sul pianoforte in vista di un’esecuzione nelle sale e per il pubblico che la vita concertistica ha prodotto nell’arco di circa un secolo. La distinzione di pittura e di scenografia puo` allora darci ragione e aiutarci a capire un fenomeno che nell’Ottocento esplode con Paganini e che comprende non pochi violinisti e pianisti. Se per misurarlo si usano pero` strumenti critici che non tengano conto della storia del pianoforte e della storia del concertismo, il rischio e` non solo di valutarlo a torto, ma di non capire che cosa rappresenti. Al termine del discorso dovro` necessariamente ritornare su questi concetti. Mi interessava pero` avanzare fin da ora alcune ipotesi critiche generali che mi permetteranno poi di scorrere piu` rapidamente sulle opere, come i Preludi e le E´tudes-Tableaux (Studi-Quadri), che dai Momenti musicali direttamente derivano. Nel maggio del 1892 Rachmaninov ottenne il diploma di compositore conquistando per di piu` la Grande Medaglia d’Oro che in quasi trent’anni di vita del conservatorio di Mosca era stata assegnata solo altre due volte. L’esordio come ‘‘libero artista’’ ebbe luogo al Teatro Bolshoi il 27 aprile 1893 con l’opera in un atto Aleko. Sembrava che in questo campo Rachmaninov dovesse ottenere il maggior successo. La prima esecuzione della sua Sinfonia n. 1 op. 13, a S. Pietroburgo il 15 marzo 1897, fu pero` un fiasco colossale che segno` un brusco arresto della sua carriera. Una affermazione nella capitale, S. Pietroburgo, avrebbe rappresentato la consacrazione per un compositore di ventiquattro anni che si era fino ad allora presentato soltanto a Mosca. Rachmaninov, educato nel conservatorio di Mosca, era pero` visto come un... adepto del clan moscovita Rubinsˇtejn-Cˇajkovskij. Disgraziatamente, Cˇajkovskij, che aveva manifestato una grande simpatia per Rachmaninov, era scomparso nel 1893, e Anton Rubinsˇtejn nel 1896. L’insuccesso della Sinfonia n. 1 fu dunque proba-

Variazioni sul Preludio di Chopin op. 22

bilmente provocato anche da rivalita` artistico-culturali tra citta`, istituti musicali e clan (a S. Pietroburgo Rimskij-Korsakov era la figura dominante), e a Rachmaninov non solo fu negato l’accessit nella capitale ma venne impartita una dura lezione di modestia. Dopo il tonfo della Sinfonia n. 1 Rachmaninov resto` praticamente del tutto inattivo come compositore: mise da parte gli schizzi di una nuova sinfonia, non suono` in pubblico per un paio d’anni (e, sia detto per inciso, si dette al bere). Il 19 aprile 1899 ottenne un buon successo a Londra. Avrebbe dovuto tornare nel 1900 per presentarvi un nuovo concerto per pianoforte e orchestra, ma la sua... vena inaridita non voleva saperne di riprendere a scorrere. Com’e` a tutti noto, Rachmaninov venne allora curato da uno psichiatra, Nicolai Dahl, che per piu` mesi lo sottopose a sedute di ipnosi durante le quali gli ripeteva che avrebbe ripreso a comporre e che il concerto sarebbe stato eccellente. Il primo frutto della rinnovata attivita` creativa di Rachmaninov fu la Suite n. 2 op. 17 per due pianoforti (1901), brillantissima e spettacolarmente molto efficace, con un sontuoso valzer come secondo brano e una vorticosa tarantella come finale, e tuttavia meno interessante e meno inventiva della Suite n. 1. Il secondo frutto fu il Concerto n. 2 in do op. 18, dedicato al dottor Dahl (1900-1901). Pochi mesi dopo la prima esecuzione, avvenuta a Mosca il 27 ottobre 1901 con Rachmaninov al pianoforte e Siloti direttore, il Concerto op. 18 era gia` stato presentato con grande successo a Londra, a S. Pietroburgo e a Lipsia, cioe` in tre centri che facevano opinione. Da quel momento iniziava davvero la carriera di Rachmaninov – che aveva messo la testa a partito tenendosi lontano dalla vodka e prendendo moglie – come pianista-compositore di grande rinomanza internazionale. Nel 1904 Rachmaninov assunse poi l’incarico di direttore del Teatro Bolshoi, e nel 1906, con la presentazione al Bolshoi delle opere Il Cavaliere avaro e Francesca da Rimini, riprese in pieno anche la carriera del compositore drammatico. Il Concerto n. 2 non richiede un ampio commento. E` celeberrimo, tutti ne conoscono l’originalita` dell’inizio con i funerei rintocchi delle campane, il fascino sensuoso dei ‘‘secondi temi’’ e del tempo lento e l’aggressivita` del ‘‘primi temi’’ e la fine gloriosa in modo maggiore, e tutti sanno che la forma, sebbene la rete tonale sia calcolata in modo tutt’altro che tradizionale, anzi, in modo anticonvenzionale e originalissimo, in alcuni punti e` sbrigativamente inchiodata a forza, piu` che fusa in un blocco continuo. Nel Concerto n. 2 Rachmaninov, riprendendo a comporre, non si pone problemi

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

per lui nuovi e bada invece a sfruttare fino in fondo e bene – riuscendoci – tutto quello che aveva acquisito tra il 1892 e il ’96. Problemi nuovi vengono invece affrontati nelle vastissime Variazioni sul Preludio in do minore di Chopin op. 22 (1902-1903), di fondamentale importanza nell’evoluzione creativa di Rachmaninov. In quanto compositore di musica per pianoforte solo Rachmaninov, fino al 1901, non era andato oltre la dimensione della canzone tripartita allargata, cioe` non oltre i sette minuti del Momento musicale n. 1. L’impegno costruttivistico del rinato Rachmaninov poteva esercitarsi, entro la tradizione del tardo Ottocento, verso il genere della sonata o verso il genere della variazione. Rachmaninov scelse la variazione e, forse, non senza tener conto del fatto che il suo coetaneo Skrjabin aveva terminato nel 1898 la grande Sonata n. 3 op. 23, che il ‘‘Brahms russo’’ Glazunov aveva composto nel 1901 le sue due sonate, op. 74 e op. 75, e che il suo amico Medtner stava componendo la sua prima sonata, op. 5. Le monumentali – trenta minuti – Variazioni op. 22 affiancano Rachmaninov, rappresentante della civilta` russa, al francese Paul Dukas, che nel 1902 terminava le Variazioni, Interludio e finale su un tema di Rameau, e al tedesco Max Reger, che nel 1904 avrebbe scritto le Variazioni e fuga su un tema di Bach op. 81. Si tratta, in tutti e tre i casi, di opere orientate verso la ricerca di una identita` culturale nazionale e verso la saldatura del nuovo secolo con le tradizioni. Dukas nel nome di Rameau, Reger nel nome di Bach, intendono riallacciare il mondo contemporaneo a momenti storicamente eccelsi della civilta` francese e della civilta` tedesca. A parer mio le stesse motivazioni ideologiche avevano gia` mosso Liadov nelle Variazioni su un tema di Glinka op. 35 (1895) e muovono Rachmaninov nella scelta del compositore con cui la civilta` slava si era veramente affacciata in Europa: Chopin. Punto di riferimento ideologico-nazionalistico, Chopin. Ma Rachmaninov, sorprendentemente, non gli perdona la morbosita` del salotto parigino e il dandismo dell’esteta. In altre parole, la costruzione del tema di Chopin viene violentata perche´ la melodia non si stemperi nella volutta` di una compiaciuta ripetizione. Per chi conosce il Preludio di Chopin basta dire che Rachmaninov ne taglia via le battute 9-12, che ripetono le battute 58. Per chi, pur avendo ascoltato il Preludio, non ha pratica della grafia musicale, bisogna aggiungere che Rachmaninov respinge una costruzione in parte autospecchiantesi e, percio`, ‘‘squilibrata’’. Il Preludio e` un corale armonizzato, di due versetti: il primo versetto (battute 1-4) viene presentato in 435

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fortissimo, il secondo (battute 5-8) in piano e poi ripetuto (battute 9-12) in pianissimo; una ripercussione dell’ultimo accordo della battuta 12 occupa, concludendo, tutta la battuta 13. L’intervento di Rachmaninov, che per certi aspetti e` indubitabilmente ‘‘censorio’’, per altri aspetti e` indice di un coraggio e di una determinazione che lasciano ammirati. Non si trattava tanto, per Rachmaninov, di ritoccare la forma in un modo per lui piu` congeniale, ma di mettere in luce la radice arcaica del testo di Chopin, da Chopin modernizzata e attenuata: non avendo nella propria civilta` nazionale un Bach e un Rameau, cioe` una divinita` antica a cui attingere, Rachmaninov giunge a retrodatare a un tempo lontano il testo chopiniano con un’operazione chirurgica che, per quanto brutale, ha lo scopo e il merito di aprire la via a un ripensamento arcaicizzante della melodia di corale. Nella prima variazione spunta subito l’ombra – mormora il fantasma, avrebbe potuto dire il Gramophon Shop – di un Bach rivisitato: una linea continua in sedicesimi, come in certi preludi o in certe allemande di Bach, con i rigonfiamenti e gli sgonfiamenti della dinamica che dai primi pianistirevisori dell’Ottocento erano stati aggiunti ai testi bachiani di questo tipo, e con una sola nota al basso, come un pedale d’organo. Il seguito sposta l’obbiettivo sul secondo ‘‘grande’’ della musica tedesca, Beethoven: nella seconda variazione il movimento continuo passa alla sinistra, sorreggendo frammenti di melodia, nella terza variazione due movimenti continuati si snodano per moto contrario, con un basso che da essi si stacca per sostenerli. Il modello di riferimento e` qui molto chiaro: le 32 Variazioni in do minore di Beethoven. Pero` si tratta appena di un parziale modello di organizzazione formale della microstruttura, che non comporta estensioni alla macrostruttura. Nella macrostruttura di Rachmaninov manca infatti l’elemento che rappresentava il pilone portante delle variazioni dell’Ottocento – le Variazioni in do minore di Beethoven e le Variations se´ rieuses di Mendelssohn –, indirettamente o direttamente derivate dalla Ciaccona per violino solo di Bach: manca l’apertura, al centro, sulla tonalita` corrispondente maggiore. L’organizzazione tonale delle Variazioni di Rachmaninov segue invece quest’altro schema: – do minore (tema e var. I-X); – mi bemolle maggiore (var. XI); – do minore (var. XII-XIV); – fa minore (var. XV-XVI); – si bemolle minore (var. XVII-XVIII); – la maggiore (var. XIX); – do diesis minore (var. XX); 436

Variazioni sul Preludio di Chopin op. 22

– re bemolle maggiore (var. XXI); – do maggiore (var. XXII e finale). Il primo cardine formale e` rappresentato dalla variazione in Mi bemolle, undicesima, che spezza inaspettatamente un grosso blocco di tredici variazioni in do (I-X e XII-XIV). Spezzatura certamente non casuale, e drammatica, perche´ la decima variazione e` un punto culminante a cui potrebbe seguire in radicale contrasto la dodicesima variazione, che e` una fughetta. L’inserimento, nel blocco, della variazione undicesima suona come vera e propria forzatura, come violenza che frattura l’arco e lo tende all’estremo perche´ non crolli. E` questo un modo molto sottile di introdurre un principio strutturale caro al giovane Chopin rivoluzionario, che elevava parossisticamente la tensione della forma tradizionale inserendole dentro, a viva forza, episodi che assumevano l’apparenza dell’albero cresciuto entro l’arco romano. Nel caso che qui ci interessa, l’invenzione formale di Rachmaninov si somma all’idea di creare una variazione cromatica (la linea superiore della undicesima variazione si compone di 166 intervalli, di cui 8 diatonici e 158 cromatici). Si costituisce cosı` un blocco di quattordici variazioni tutto sbilanciato verso la fine, che viene riequilibrato sull’arco totale perche´ con la quattordicesima variazione, modulante a fa minore, il primo blocco viene legato al blocco successivo. Il secondo blocco presenta dapprima uno schema di modulazioni per quinte discendenti (da do si e` passati a fa, e si prosegue con si bemolle). Ci si aspetterebbe un proseguimento con mi bemolle, Mi bemolle, do e Do. Rachmaninov scivola invece bruscamente, senza alcuna preparazione, in la maggiore, evita poi il fa diesis minore e piomba altrettanto bruscamente sul do diesis minore con un ‘‘omaggio a Liszt’’, un sofisticatissimo valse de salon che si pone nella scia delle lisztiane Valses oublie´ es. A questo punto puo` essere considerato consueto il passaggio al re bemolle maggiore della ventunesima variazione. L’ampia coda della ventunesima variazione introduce di colpo il do maggiore e un ritmo di polacca: polacca che non e` affatto un ‘‘omaggio a Chopin’’ ma che proviene invece direttamente dall’atto polacco del Boris Godunov e dall’Evgenij Onegin. L’ultima variazione, Maestoso, e` una polacca arcaica e celebrativa, una polacca da incoronazione, con un trio molto sviluppato in una tonalita` inattesa (mi minore). Dopo la riesposizione della polacca Rachmaninov riprende il trio in do maggiore, inserendovi, come di consueto per lui, un contrappunto che e` in realta` una semplice scala cromatica discendente, ma disposta in modo da non poter essere percepita come tale.

Concerto n. 3 op. 30

Una prima coda, sulle prime due battute del tema, sembra condurre a una conclusione di pace notturna, come se i clamori della festa stessero sparendo. Rachmaninov dispone persino i diversi elementi musicali, molto semplici, in uno spazio ristretto e ‘‘lontano’’, rinunciando a una strumentazione piu` ricca e piu` suggestiva. Ma e` un falso, e` un inganno, perche´ sta arrivando la vera coda trionfale, con tutti i pennacchi e gli oricalchi che il pianoforte di Rachmaninov puo` persino prendere in prestito da Cˇajkovskij. A me sembra che il carattere nazionalistico delle Variazioni su un tema di Chopin non possa esser messo in dubbio. Nazionalismo che non significa pero` ‘‘scuola nazionale’’ nel senso dell’Ottocento, perche´ i referenti di Rachmaninov non sono Musorgskij e i Cinque ma gli anziani del suo clan, Cˇajkovskij e Anton Rubinsˇtejn. Pur avendo studiato con Taneev, allievo di Cˇajkovskij, Rachmaninov non segue il suo maestro nella linea della conciliazione, del moderato accostamento alle posizioni teoriche dei Cinque che Taneev andava tentando all’inizio del Novecento. In Rachmaninov vale invece ancora la fierezza aristocratica del cosmopolitismo russo che alla meta` del secolo diciannovesimo si era fitto in capo il proposito di far sua la cultura occidentale e di porsi in concorrenza con le civilta` piu` antiche. Le ombre di Bach e di Beethoven compaiono nelle Variazioni op. 22 non tanto come fantasmi che mormorano, quanto piuttosto come prede di guerra dilavate e rinsecchite. Vi compaiono anche le ombre di Schumann, nella quindicesima variazione, del Brahms delle Variazioni su un tema di Ha¨ndel op. 24 nella undicesima, cromaticissima variazione, e del Brahms delle Variazioni su un tema di Schumann op. 9 nella ventunesima variazione, che inizia come un canone alla terza. Vi compare persino un’ombra che mai ci aspetteremmo di incontrare qui: quella di Mahler, nella diciassettesima variazione. Le Variazioni su un tema di Chopin non sono affatto – non vorrei alla fine aver dato questa impressione – un lavoro eclettico. Non imitazioni, ma altere ricapitolazioni dei trofei che la cultura russa ha saputo strappare agli altri nei cinquant’anni della sua esistenza, insieme con Liszt, con Chopin e con le scoperte che i russi avevano derivato da Chopin. Tutto, s’intende, sotto il sigillo inconfondibile del Rachmaninov strumentatore, capace qui di raffinare e prosciugare la sua arte in un modo che in futuro gli riuscira` raramente. Non si tratta soltanto di un capolavoro, ma di un’opera che, affrontata senza remore e in profondita`, apre molti interrogativi e fa crollare nel vuoto l’immagi-

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

ne stereotipa del Rachmaninov capace soltanto di azzeccare temi fascinosi e melodie sensuali. I dieci Preludi op. 23 (1903, tranne il celeberrimo n. 5, che risale al 1901), ci riportano il Rachmaninov per il quale si potrebbe ripetere quel che Mario Lavagetto diceva di Svevo: ‘‘[...] una stupenda, sofisticata, perversa, unilaterale macchina da racconto’’. E non diverso e` il panorama dei tredici Preludi op. 32 (1910) e della prima serie delle E´tudes-Tableaux, op. 33 (1911). Le ambizioni costruttivistiche delle Variazioni op. 22 si riaffacciano invece nella Sonata op. 28 in re minore (1907), ispirata al Faust di Goethe, e nella Sonata op. 36 in si bemolle minore (1913); in mezzo, il Concerto n. 3 in re op. 30 chiude a distanza di cent’anni il capitolo del concerto virtuosistico del pianistacompositore, capitolo che era iniziato con l’Imperatore di Beethoven. Per il Concerto n. 3 si potrebbe ripetere, mutatis mutandis, quello che vale per il Concerto n. 2, con la differenza che la forma e` piu` fluida e flessuosa e che la parte del solista e` piu` ricca di pulviscoli di note. Il film Shine fece fare un balzo in avanti alla fama del Concerto n. 3, del resto gia` molto noto ma non al di la` della barriera che separa il pubblico dei musicofili dal pubblico ‘‘grosso’’. La trama del film si basava sul fatto che il Concerto n. 3 e` quanto di piu` difficile esista pianisticamente. Il che non e` vero. La parte del solista, come dicevo, e` straordinariamente... ripiena di note, ma la scrittura e` perfettamente idiomatica e quindi il Concerto n. 3 non e` di difficolta` esecutiva maggiore di quella del Concerto n. 2. Ne´ maggiore e` la bellezza sensuale dei temi. Prima della prima guerra mondiale Rachmaninov e` un pianista-compositore di grande rinomanza internazionale. E` pero` anche un compositore tout court che con la Sinfonia n. 2 op. 27 si prende la rivincita del fiasco di S. Pietroburgo. Con l’Isola dei morti op. 29, da Bo¨cklin, Rachmaninov ottiene un franco successo, e con la Liturgia di San Giovanni Crisostomo op. 31 e la sinfonia-cantata Le Campane op. 35 lascia due lavori che nella musica del Novecento sono da collocare tra le cose veramente significative. Le due Sonate non raggiungono a parer mio un livello altrettanto alto. Nel primo tempo della Sonata n. 1 troviamo, ingigantite, le proporzioni tra le parti della Elegia op. 3 n. 1. L’originalita`, e nello stesso tempo la contraddittorieta` della struttura consiste nel fatto che l’ampiezza delle proporzioni non viene ottenuta attraverso lo sviluppo e la trasformazione dei temi, ma attraverso l’utilizzazione di frammenti tematici per figurazioni pianistiche che si articolano nella forma dello ‘‘studio’’. Cosı` nel primo tempo, cosı` nell’enorme finale. Nel contesto dello stile sonatistico, 437

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questo e` un carattere arcaico, addirittura tardosettecentesco, sia pure impiegato qui in proporzioni giganteggianti. Per questo aspetto si potrebbe parlare della Sonata n. 1 come di una ‘‘sonata da studio’’ al modo dei pianisti-compositori del biedermeier. E siccome si nota nei temi cantabili del primo e del terzo tempo, e in tutto il secondo tempo il richiamo al genere del nocturne di John Field, irlandese russificato, sembra di poter ipotizzare uno scavalcamento all’indietro del romanticismo, e russo e mitteleuropeo, per un riaggancio alla fonte della civilta` pianistica russa. Originale, dunque, la ricerca di un’identita` culturale, antica e nazionale. Contraddittoria la soluzione, che non riesce a fondere i due elementi stilistici antitetici dello studio e del nocturne. Ben diversamente si presenta la Sonata n. 2, scritta nel 1913 ma considerevolmente riveduta e abbreviata nel 1931. Non posso qui accennare alle diversita` esistenti tra le due versioni, ne´ alla versione di Horowitz che, sembra, fu approvata da Rachmaninov. Basti dire che dopo l’esperienza della Sonata n. 1 Rachmaninov sviluppa nelle due serie delle E´tudes-Tableaux op. 33 (1911) e op. 39 (1913) la sua piu` originale concezione ipervirtuosistica del pianoforte, e definisce nell’ultima serie dei Preludi op. 32, (1910) gli aspetti piu` personali del suo lirismo ipocondriaco e notturnale. I due elementi, separati e accostati nella Sonata n. 1, vengono sintetizzati nella Sonata n. 2, che acquista cosı` caratteri inconfondibilmente individualizzati. Molto piu` eseguita e molto piu` gradita dal pubblico, la fluidissima Sonata n. 2 si pone pero` in rapporto consequenziale con la piu` aspra e grezza Sonata n. 1 ed entrambe rappresentano un capitolo significativo in quel singolare momento che e` la sonata per pianoforte solo nella civilta` russa del primo Novecento. Nelle E´ tudes-Tableaux op. 39 l’organizzazione formale del ciclo e` calcolata con molta attenzione: alla base ci sono due blocchi (n. 1-4, n. 6-9) che mimano entrambi l’archetipo della sonata in quattro tempi, con un pezzo centrale (n. 5) che funziona da separazione e da cerniera. Nell’insieme, tuttavia molto omogeneo esteticamente, spiccano violentemente i tre pezzi in movimento lento, il n. 2, il n. 5, il n. 7. Il n. 5 – molto noto, anzi, celebre – non presenta grandi novita` stilistiche e di linguaggio rispetto alle precedenti opere di Rachmaninov, e in sostanza risale ancora alla radice della Elegia. Il n. 2 e il n. 7 si impongono invece per una serie di novita`, che in verita` non sono sempre valutate positivamente e che quindi ci interessano anche per questo motivo. Nel n. 2 l’armonia, che in Rachmaninov era sempre stata molto ricca di tensioni e di ombre, cede il passo all’organizzazione 438

E´tudes-Tableaux op. 33

lineare del discorso, composto con frammenti ripetuti in ‘‘ostinato’’. Rachmaninov scopre inoltre il valore coloristico, non funzionale dell’accordo: scoperta che sara` determinante nel definire il suo stile dopo la guerra. Anche nel n. 7 l’armonia e` spesso la risultante, non prevedibile, di un moto delle parti, e gli accordi vengono considerati come ‘‘colori’’. Formalmente il n. 7 riprende le maldestre soluzioni dell’adolescenza. La prima parte (trentotto battute) e` imponente e densissima di avvenimenti, ma retrospettivamente acquista carattere di introduzione perche´ la seconda parte e` molto piu` vasta (sessantaquattro battute). La terza parte e` una coda ricapitolativa della prima parte (sette battute). La forma e` quindi ‘‘squilibrata’’ rispetto alle tradizionali proporzioni, ma trova in se´ la sua giustificazione. Il Rachmaninov quattordicenne dei tre Notturni poteva sembrare, ed era maldestro. Per il Rachmaninov quarantatreenne bisogna invece scomodare Busoni e lo Schizzo per una nuova estetica (1907): ‘‘Ogni motivo, cosı` mi sembra, racchiude in se´ il suo impulso vitale come un seme’’. Quando termino` la seconda serie delle E´tudes-Tableaux Rachmaninov aveva gia` ripreso la carriera del pianista-interprete. Non sara` inopportuno accennare qui alla sua concezione del ‘‘punto culminante’’, che vale per la composizione come per l’interpretazione. Enrico Mancini ha esaminato il pensiero teorico di Rachmaninov, concludendo il ragionamento in questo modo: ‘‘E` evidente che Rachmaninov coglieva del punto culminante la dimensione psicologica nel suo portato metastorico, con un atteggiamento che puo` essere scambiato per naı¨f, ma che a nostro parere rivendica invece con audacia critica la peculiarita` creativa dell’interpretazione musicale: la forma dell’interpretazione – ci si passi il termine – acquista una sua autonomia, potendosi svincolare dalla forma della composizione, che altro non rappresenta che una ipostatica matrice. E tutto cio` condito da una dose di cosı` scaltrito disincanto nel predisporre cerebralmente un effetto che mira al cuore, da far pensare a Igor Stravinskij. Va da se´ che il pensiero di Rachmaninov non puo` non presupporre quella capacita` gestaltica di percepire una composizione nella sua interezza, quella forza mnestica di ricostruirla eideticamente, in una parola quell’‘ascolto da lontano’ (Fernho¨ren) che trova la sua chiarificazione concettuale negli scritti di Schenker’’. Il parallelo con Stravinskij e` a parer mio illuminante perche´ al di la` della personale antipatia che i due provavano reciprocamente, nel Rachmaninov esule si colgono dei punti di appartenenza alla cultura russa d’avanguardia: e non solo Stravinskij, ma an-

Danze sinfoniche per orchestra op. 45

che Prokof’ev. I rapporti con Prokof’ev – con la scrittura pianistica di Prokof’ev – vengono in luce gia` nel rifacimento del Concerto n. 1, che risale al 1917, e nel Concerto n. 4 in sol op. 40 (1926, ma piu` volte ritoccato fino alla definitiva versione del 1941). Nel Concerto n. 4 l’impiego dell’accordo come entita` coloristica e` assai piu` esteso che nelle E´tudes-Tableaux op. 39 e le deviazioni dalle forme tradizionali sono numerose. Non si tratta pero` tanto di novita` , quanto di approfondimenti e di maturazione delle sperimentazioni dell’op. 39, e quindi non proseguiro` piu` oltre il discorso. Dopo il Concerto n. 4, le cui prime idee risalivano ancora agli anni russi, Rachmaninov compose per pianoforte soltanto le Variazioni su un tema di Corelli op. 42 (1932) e la Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 (1934). Le Variazioni, che godono oggi di una notevole fortuna nelle sale di concerto, sono una specie di studio preliminare e di ‘‘incubazione’’ della Rapsodia. E la Rapsodia conclude il catalogo pianistico di Rachmaninov – in cui comparira` solo piu` la splendida trascrizione per due pianoforti delle Danze sinfoniche per orchestra op. 45 (1940) – con l’autorita` che le deriva dal successo immediato e clamoroso e dal fatto di essere rimasta nel repertorio concertistico ancora piu` di settant’anni dopo essere stata composta. Se, partendo dal successo, si va ad analizzare la musica, cioe` se il successo induce il critico a ricercare le ragioni del successo, la Rapsodia rivela una scienza della comunicazione di massa – costruzione architettonica, trasformazione del tema, strumentazione – che lascia esterrefatti: la stupenda, sofisticata, perversa, unilaterale macchina da racconto continua a funzionare perfettamente anche in un’epoca diversa, anche adattandosi ai tempi per quel tanto che basta a non farla apparire desueta. E quando a eseguire la Rapsodia erano due artisti ‘‘moderni’’ come Artur Rubinstein e Fritz Reiner, la sotterranea parentela con Stravinskij saltava tranquillamente in luce. Nato entro il melodramma verista, scenografo e illustratore e narratore, Rachmaninov non ha verita` da sostenere ma cose da rappresentare. E piu` ancora della ‘‘cosa’’ gli interessa il modo della rappresentazione, come accade ai grandi narratori del decadentismo. Una ricognizione critica della sua arte in questa chiave, in chiave decadentistica, non mi risulta sia stata ancora fatta, e chi lo ha visto come semplice epigono tardoromantico ha tentato

Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov

piuttosto di valutarlo positivamente sotto l’aspetto della ‘‘sincerita` ’’. Come Vladimir Ashkenazy: ‘‘Nessuno dovrebbe pensare di collocare Rachmaninov sullo stesso piano di Beethoven e di Mozart; ma nessuno, allo stesso modo, dovrebbe veramente dubitare della sincerita` della sua opera’’. La sincerita` e` prima di tutto una categoria morale, e in questo senso nessuno si sentirebbe di negarla a un lavoratore come Rachmaninov. Ma non e` necessariamente la regina delle categorie estetiche. E quando si parla di decadentismo anche il suo opposto, la insincerita`, anche la malafede possono diventare categorie estetiche. Rachmaninov si collega in questo senso direttamente a Liszt, al Liszt che il pittore Edward Burne-Jones aveva preso a modello per impersonare il Mago Merlino. Per due motivi, per il suo virtuosismo e per il suo cattolicesimo venato di papismo, Liszt fu in qualche modo ‘‘sospetto’’. La massa degli studi critici su di lui e un lungo dibattito sviluppatosi intorno alla sua arte consentono pero` oggi di operare senza limiti l’analisi critica e di trarre delle conclusioni. Per Rachmaninov non troviamo solidi agganci ne´ in studi sistematici, ne´ in epistolari completi, in memorie, in vaste biografie critiche. La derivazione da Liszt non e` sufficiente, e la collocazione di Rachmaninov nel simbolismo decadentistico di fine Ottocento, russo e non solo russo, non e` stata ancora studiata. Quel che si coglie benissimo nelle pagine pianistiche di Rachmaninov e` il senso di un raccontare epico che giunge a noi dal fondo dei secoli, di vicende immutabili che ci vengono narrate in una lingua sconosciuta e di cui cogliamo, e ci affascina, soprattutto la costruzione del racconto. Il problema critico e` facilmente risolvibile se, prendendo in considerazione solo le pagine piu` celebri di Rachmaninov, le mettiamo in rapporto con il gusto hollywoodiano della musica cinematografica anni ’30-’50 per spiegare cosı` la loro fortuna concertistica. Se invece, e a parer mio piu` ragionevolmente, cominciamo a pensare che qualche piu` seria motivazione deve esserci, a sostegno della predilezione per Rachmaninov di cervelli musicali come quelli di Richter o di Ashkenazy, ci troviamo poi spesso spiazzati nell’analisi critica. Mi spiace di non saper arrivare a delle conclusioni, dopo aver avanzato delle ipotesi e dopo aver esposto delle idee preliminari. Ma non posso fare altrimenti: il popolarissimo Rachmaninov resta ancora per me, per noi, un enigma.

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Maurice Ravel

Danze sinfoniche per orchestra op. 45

Maurice Ravel (Ciboure, 7 marzo 1875-Parigi, 28 dicembre 1937) Le opere pianistiche di Ravel non sono – lo dico con tutto il rispetto per Malipiero – le opere pianistiche di Malipiero. C’e` dell’ottima musica per pianoforte di Gian Francesco Malipiero, ma non c’e` in esso dell’ottimo pianoforte. Malipiero, in altre parole, inventa musica al pianoforte ma non inventa strumentazioni pianistiche mai esistite prima di lui, e non interpreta neppure in modo originale, cioe` non reinventa, cio` che trova nella tradizione. Ravel e` invece un grande inventore di musica e un grande inventore di strumentazioni pianistiche. Di solito i grandi inventori di strumentazioni pianistiche, da Clementi fino a Prokof’ev passando attraverso Mozart, Beethoven e tanti altri, sono anche grandi pianisti. Ravel no: Ravel – questo il suo paradosso – e` un pianista mediocrissimo. Negli anni venti, seguendo una moda lanciata da Stravinskij e che coinvolse un po’ tutti i grandi compositori, anche perche´ si guadagnava di piu` con i concerti che con i diritti d’autore, Ravel suono` spesso in pubblico il pianoforte e diresse musiche sue (o, rarissimamente, musiche di altri, come la Sinfonia in sol minore di Mozart). Orbene, il 17 aprile 1923, proponendo un programma di musiche sue a una societa` di Bruxelles, Ravel scriveva: 1) La Sonata per violino e violoncello se, si capisce, avete degli interpreti che abbiano gia` studiato questo pezzo, la mia opera piu` recente, che e` molto difficile. 2) O il Quartetto o il Trio (pianoforte, violino, violoncello), ma senza la partecipazione dell’autore, che sarebbe assolutamente incapace di suonare la parte del pianoforte. 3) Con una cantante che io accompagnerei e alcuni pezzi per pianoforte, che io suonerei malissimo, mi sembra che il programma sarebbe completo. ‘‘... che io suonerei malissimo’’. Ravel aveva, ovviamente, studiato il pianoforte, e lo aveva studiato in una classe dal conservatorio di Parigi che, senza essere la prima, non era neppur l’ultima. Nel 1891, e dunque a sedici anni, era diventato allievo di Charles-Wilfrid de Be´ riot, oggi ricordato solo piu` perche´ figlio del grande violinista Charles-Auguste de Be´ riot e della ancor piu` grande Maria Malibran, ma autore di quattro Concerti per pianoforte e orchestra, di musica sinfonica, di musica da camera, di musica vocale e, in collaborazione col padre, di un Metodo d’accompagnamento per 440

pianoforte e violino e di una Arte dell’accompagnamento applicata al pianoforte. Prima, a sei anni, Ravel aveva studiato con Henry Ghys, il quale ando` famoso per una Air Louis XIII che solleticava il gusto francese per l’arcaismo e che fu un cavallo di battaglia di Kreisler. Verso i dodici anni era passato dalle mani di Ghys alle mani di Emile Descombes, che avrebbe poi ‘‘svezzato’’ Alfred Cortot. Dalla classe preparatoria di Descombes Ravel passo` in quella superiore di de Be´riot dopo aver superato un esame con musiche di Hummel e di Schumann. Suo compagno di classe fu un ragazzino suo coetaneo con cui aveva fatto amicizia tre anni prima e che avrebbe presentato molte musiche sue in prima esecuzione assoluta: Ricardo Vin˜es. Nella classe di de Be´riot Ravel ci rimase per quattro anni: dovette uscirne nel 1895 perche´ non era mai riuscito a vincere un premio nei concorsi annuali del conservatorio. Al suo illustre maestro rimase molto affezionato, tanto che nel 1907 gli dedico` la Rapsodia spagnola. Ma a suonare da virtuoso non imparo` mai e il suo maggiore tour de force fu un’esecuzione a La Rochelle della Rapsodia d’Alvernia di Saint-Sae¨ns... in un concerto di beneficenza. Manuel Rosenthal, che con Ravel studio` la composizione, in un’intervista a France Culture del 1985 disse che nelle mani del suo maestro si ‘‘notavano pollici molto staccati dal resto della mano e che arrivavano quasi all’altezza degli indici’’. ‘‘Pollici da strangolatore’’, dice scherzosamente il Rosenthal. Pollici lunghissimi o indici cortissimi? Ravel era alto 1,57 e pesava 54 chili: la sua mano era proporzionata alla sua statura, ed era quindi piccola, con il pollice... fuori misura. Il Rosenthal asseriva che la conformazione della mano spiega certa scrittura pianistica di Ravel: ‘‘In effetti, nella sua scrittura si trova sempre il pollice che, stando sotto la mano, suona una qualche nota, mentre il resto della mano fa un accompagnamento’’. Ma, con buona pace del Rosenthal, questo tipo di scrittura non solo non e` frequente in Ravel, ma la si trova nella letteratura pianistica gia` negli anni trenta dell’Ottocento. E` probabile invece che i limiti della mano scoraggiassero Ravel dal perseguire la carriera del concertista. Tuttavia egli sapeva dare al pianoforte un’idea della sua musica. Olin Downes, critico del New York Times, scrisse nel 1928 che

Pavane pour une infante de´funte

‘‘Ravel si acconcento` di rialzare l’interesse del concerto con la sua presenza e di dare delle chiare illustrazioni della sua musica’’, aggiungendo: ‘‘Niente e` piu` rivelatore della precisione, dell’economia e del raffinamento di questa musica del gentiluomo minuto, aristocratico, con i capelli sul grigio e un po’ impacciato che si e` presentato con tutta semplicita` sulla pedana, rendendo la sua musica con una riservatezza e con una modestia caratteristiche, pago di proporre un’antologia del suo lavoro e di lasciare poi ai suoi uditori di trarre le loro conclusioni. E, in verita`, una tale perfezione parla da sola’’. Ernesto Hallfter va piu` oltre, parlando di una esecuzione della Sonata per violino e pianoforte: ‘‘Faceva molte note false. Ma dava benissimo l’idea di quel che voleva. Io preferisco Ravel con le note false che un altro senza’’. Sembra pero` che Ravel soffrisse di un timor panico da infarto. Vincenzo Vitale raccontava di aver voltato le pagine a Ravel nei primi due tempi della Sonatina (il terzo, piu` difficile, non veniva eseguito) e di essersi subito trovato a non capire cosa diavolo stesse succedendo. L’unica voltata del primo movimento l’aveva fatta a naso, e Ravel si era fermato per un attimo per dirgli merci, prima di riprendere a zappare nei tasti. Alla base della straordinaria strumentazione pianistica di Ravel non c’era dunque una manualita` da pianista. C’era un’intuizione miracolosa? Credo piuttosto che ci fosse un miracoloso orecchio interiore, capace di elaborare cio` che l’orecchio esterno captava nelle esecuzioni dei virtuosi. Il catalogo ufficiale delle opere pianistiche di Ravel inizia con il Menuet antique. Mi sembra pero` opportuno accennare brevemente anche ai lavori inediti. La Giovinezza d’Ercole, trascrizione per pianoforte a due mani del poema sinfonico di Saint-Sae¨ns, e` probabilmente un compito assegnato a Ravel dal suo primo maestro, Henry Ghys. Il manoscritto non e` datato, ma e` sicuramente anteriore al 1888. Il Movimento di sonata, composto dopo il 1887, e` andato perduto. Si tratta di un compito di composizione svolto per Charles-Rene´, allievo di Le´o Delibes, con il quale Ravel studio` prima di entrare in conservatorio. Le Variazioni su un tema di Grieg sono un altro compito di composizione; il tema e` quello della Morte di A˚ase delle musiche di scena per il Peer Gynt. Altro compito di composizione sono le Variazioni su un tema di Schumann; il tema e` quello del corale Freute dich, o meine Seele dell’Album per la gioventu` op. 68. Della Serenata grottesca (18921893, 1975) Ravel disse, in una conversazione con il Roland-Manuel, che ‘‘vi e` visibile l’influenza di Emmanuel Chabrier’’. Dopo il Menuet antique

Maurice Ravel

troviamo ancora: un Valzer in Re, forse del 1898, cinque fughe composte per il Prix de Rome nel 1899, 1900, 1901, 1902, 1903 (Ravel detiene un primato di partecipazioni al Prix, che non gli venne mai assegnato), una Fuga su un tema di Reber del 31 maggio 1900, e un Preludio e fuga del 1901, composto per un concorso, che e` andato perduto. Il Menuet antique (Minuetto antico, 1895, 1898) venne trascritto per orchestra nel 1929 e in questa versione fu diretto da Ravel a Parigi l’11 gennaio 1930. Si suole indicare nel Minuetto pomposo di Chabrier l’antecedente del Minuetto antico. Alfred Cortot cita la melodia della romanza di Xavier Leroux Le Nil come l’ispiratrice della melodia del trio. Ravel ammirava Chabrier e nel 1917-18 avrebbe trascritto per orchestra il Minuetto pomposo. A me pare tuttavia che l’influenza di Chabrier non sia determinante, soprattutto per quanto riguarda la strumentazione pianistica. Mentre la strumentazione di Chabrier e` tradizionale e suggerisce semmai l’orchestra, la strumentazione di Ravel suggerisce i registri di mutazione dell’organo. Proprio l’analisi dei registri di mutazione permette a Ravel di cercare dei timbri pianistici artificiali e di spingere l’armonia verso audacie che sono in realta` funzionali al timbro piu` che allo sviluppo del linguaggio. Lo stesso problema veniva affrontato da Debussy nel Ricordo del Louvre, prima versione della Sarabanda di Pour le piano. La composizione di Debussy venne pubblicata nel 1896, e quindi non possiamo sapere se Ravel e Debussy affrontassero lo stesso problema indipendentemente l’uno dall’altro o se Ravel modificasse la prima stesura della sua composizione al momento della pubblicazione. I due pezzi per due pianoforti pubblicati sotto il titolo Sites auriculaires (Siti da ascolto, 1895 e 1897, 1975) ebbero un diverso destino. Il primo, Habanera, divenne nel 1907 il terzo movimento della Rapsodia spagnola per orchestra, Rapsodia spagnola di cui Ravel curo` anche la versione per due pianoforti. Il secondo pezzo, Entre Cloches (Fra le campane), che rimane pressoche´ sconosciuto, e` un breve studio di stereofonia, molto suggestivo, influenzato forse dalla Suite n. 1 op. 5 di Rachmaninov (1893). La Pavane pour une infante de´funte (Pavana per un’infanta defunta, 1899, 1900) fu trascritta per orchestra da Ravel nel 1910 e venne pubblicata in innumerevoli altre trascrizioni. La composizione non godette e non gode di buona stampa. Il Roland-Manuel dice che la Pavana ‘‘procuro` a Ravel la stima dei salotti e l’ammirazione delle signorine che non suonano bene il pianoforte’’. Cortot scri441

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Maurice Ravel

ve: ‘‘La popolarita` di quest’opera mi e` sempre sempre sembrata in contraddizione con le ragioni di una ammirazione intelligente del genio di Ravel’’. Ma lo stesso Ravel, recensendo nel 1912 un concerto sinfonico, scrisse: ‘‘Non provo alcun imbarazzo a parlarne: e` abbastanza antica perche´ la distanza la faccia lasciare dal compositore al critico. Da cosı` lontano non ne vedo piu` le qualita`, ma ne vedo, ahime´, molto bene i difetti: l’influenza di Chabrier, troppo flagrante, e la forma assai povera. La notevole interpretazione di quest’opera incompleta e senza audacia ha molto contribuito, penso, al successo’’. Di fronte a uno schieramento cosı` compatto bisogna forse alzare le mani e dichiarare indifendibile la Pavana?, ... che Ravel continuo` tuttavia a suonare e a dirigere negli anni venti perche´ piaceva al pubblico, e che nel 1922 registro` su un rullo di pianoforte riproduttore. Rispetto a quella del Minuetto antico la strumentazione della Pavana e` effettivamente piu` tradizionale e piu` scontata. La` era evidente il richiamo all’organo, qui all’orchestra d’archi, succedanea dei seicenteschi complessi di viole. L’esecuzione di Ravel ci dice pero` che, al di la` della sontuosa strumentazione pianistica, egli pensava al clavicembalo o forse alle chitarre (l’ambientazione, come dice il titolo, e` spagnola, e la chitarra e` in Spagna lo strumento nazionale). Bisogna sempre stare attenti, a prendere come oro colato i rulli del pianoforte riproduttore. Ma i rulli Duo-Art del 1922 non sono i rulli Welte Mignon del 1905, e l’ascoltatore puo` farsi con essi un’idea della qualita` del suono originale. Ora, a me sembra che proprio questa sonorita` da corda pizzicata, non implicita nella scrittura ma resa esplicita dall’esecuzione di Ravel, sia il tratto piu` interessante della Pavana. Nel dicembre del 1896, del resto, Ravel aveva scritto una lirica dagli epigrammi di Clement Marot, D’Anne jouant de l’e´ pinette, per canto e clavicembalo (o pianoforte), e nel 1899 aveva ritentato l’esperimento con un altro epigramma di Marot, D’Anne qui me jecta de la neige. Quindi, verso la fine del secolo Ravel era interessato al clavicembalo, che era stato ripreso vari anni addietro da Louis Die´mer e che veniva usato a Parigi per esecuzioni di musica antica. A parte i difetti che Ravel ci vedeva, la Pavana ci colpisce dunque come testimonianza di una poetica dell’arcaismo che tocca Ravel perche´ percorre tutta la cultura francese degli ultimi decenni dell’Ottocento, e che negli anni novanta informa di se´ anche la produzione pianistica di Debussy. Siccome le poetiche di Debussy e di Ravel correranno poi in parallelo conviene soffermarsi per un momento su questo tema critico. Debussy apre il 442

Jeux d’eau

suo catalogo pianistico con pagine che si inseriscono nel filone della musica da salotto, ma nelle quali e` presente anche l’arcaismo, visto sotto una luce di sentimentalismo nostalgico. La Suite bergamasca si stacca in gran parte da questo mondo e si colloca ancora, sı`, nell’ambito del salotto, ma altoborghese e intellettuale. Nella Suite bergamasca e in Pour le piano di Debussy come nel Minuetto antico e nella Pavana per un’infanta defunta di Ravel troviamo il riflesso dell’interesse della cultura francese per l’antico, anche come contrapposizione al dominio culturale della classicita` tedesca. La individuazione del timbro artificiale e` l’apporto piu` notevole che i compositori francesi offrono alla storia del pianoforte. Oltre a Debussy e a Ravel bisogna anche ricordare il Satie delle Ginnopedie (1888). Chi tuttavia si lascia indietro i giovani e` il sessantunenne Camille Saint-Sae¨ns, che nell’inverno del 1896 compone il suo Concerto n. 5, nel secondo movimento del quale crea timbri artificiali facendo suonare il pianoforte, mediante la politonalita`, come una marimba. Jeux d’eau (Giochi d’acqua, 1901, 1902) fu eseguito per la prima volta in pubblico a Parigi, il 5 aprile 1902, insieme con la Pavana per un’infanta defunta, anch’essa in prima esecuzione. La Pavana passo` trionfalmente, mentre i Giochi d’acqua suscitarono molte perplessita`. Oggi entrambi i pezzi sono poco eseguiti in concerto (le durate sui cinque minuti creano sempre problemi di articolazione dei programmi), ma per la Pavana permangono le riserve critiche di cui ho detto, mentre ai Giochi d’acqua si riconosce non solo un sommo valore ma una importantissima funzione storica. I ‘‘precedenti’’ dei Giochi d’acqua vengono da sempre individuati in Sulle rive di una sorgente e in I giochi d’acqua alla Villa d’Este di Liszt. Ravel aggiunge al titolo un verso tratto da La citta` delle acque di Henri de Re´gnier, ‘‘Dio fluviale che ride perche´ l’acqua lo solletica’’. Nello Schizzo autobiografico di Maurice Ravel, ricavato dal Roland-Manuel da appunti stenografici presi durante una conversazione e pubblicati nel 1938, Ravel cosı` spiega il pezzo: ‘‘I Giochi d’acqua, apparsi nel 1901, sono all’origine di tutte le novita` pianistiche che si sono volute notare nelle mie opere. Questo pezzo, ispirato dal rumore dell’acqua e dai suoni musicali che getti d’acqua, cascate e ruscelli fanno sentire, e` basato su due motivi al modo di un primo movimento di sonata, senza tuttavia essere assoggettato al piano tonale classico’’. Non c’e` da aggiungere altro, solo da spiegare qualcosa. Prima di tutto i ‘‘suoni musicali’’ dell’acqua in movimento. Giochi d’acqua inizia con una semplice cadenza plagale nella parte inferiore del

Jeux d’eau

tessuto, affidato alla mano sinistra del pianista. La parte piu` acuta e con densita` ritmica maggiore riflette in se´ la cadenza plagale ma aggiungendovi note estranee all’armonia tradizionale. Le antiche speculazioni di Cartesio (‘‘al di la` del sei la mente umana si smarrisce’’) e la razionalizzazione di Rameau, che aveva teorizzato la natura dell’accordo perfetto maggiore limitando il fenomeno fisico degli armonici ai primi sei suoni, vengono contraddette da Ravel, che concepisce l’accordo acusticamente. Il ‘‘suono’’ dell’acqua comprende anche altre frequenze, oltre a quelle ammesse da Rameau, e l’accordo-base di Mi, tonalita` dei Giochi d’acqua, non e` formato solo dal mi, dal sol diesis e dal si, ma anche dal re diesis e dal fa diesis. Non che Rameau, e la tradizione dell’Ottocento, non conoscessero quest’accordo. Lo conoscevano pero` come accordo dissonante, come accordo di moto, come accordo instabile che risolve su un accordo consonante, cioe` che cadenza con un altro accordo meno complesso. In altre parole, Ravel, valendosi di elementi morfologici dell’armonia tradizionale, cambiava la loro funzione e la loro sintassi. Oggi e` difficile rendersene conto, ma la sorpresa, nel 1902, fu enorme, sebbene qualcosa di analogo si trovasse gia` in Chopin, nel Notturno op. 9 n. 3, nel Preludio op. 28 n. 23. Pero` Chopin finiva il pezzo su un accordo dissonante usato come consonante, mentre Ravel cominciava il pezzo con questo capovolgimento e continuava coerentemente fino alla fine. Bisogna aggiungere inoltre che in Chopin contava non solo l’astrazione dell’accordo considerato nella sua definizione morfologica, ma anche, soprattutto, la sua collocazione sulla tastiera, con la posizione assegnata alla nota dissonante e con la dinamica molto tenue. Anche Ravel bada a questi elementi: la sua dinamica e` minima, il registro scelto e` quello medio-acuto. Quindi, in realta`, i Giochi d’acqua, che si sviluppano in prevalenza nel registro medio-acuto e nel registro acuto, e con dinamica che raramente diventa molto intensa, aprono la via a sperimentazioni sull’armonia e introducono un ripensamento dell’armonia che prende in considerazione anche la concreta acusticita` del suono, ma non mettono in crisi la tonalita`, cardine del linguaggio musicale. Ne´ mettono in crisi le forme perche´ adottano anzi, come dice lo stesso Autore, la forma piu` carica di storia, di memorie, di aura. La concezione acustica del suono postula una tecnica pianistica che innova la tradizione. Ne parla Vlado Perlemuter in un libro-intervista con He´le`ne Jourdan-Morhange del 1953: ‘‘C’e` un modo di ottenere questo suono che plana, ed e` di aver la mano leggera ma le dita vicino ai tasti’’. ‘‘Lo si

Maurice Ravel

sente spesso molto articolato’’, osserva l’intervistatrice. ‘‘Effettivamente’’, risponde Perlemuter, ‘‘perche´ e` difficile ottenere la fluidita` desiderata con il legato, e tuttavia... Ravel mi aveva chiesto che questo inizio fosse elastico e legato’’. Una discussione tecnica sarebbe qui fuor di luogo. Basti dire che la non-articolazione postula il trascinamento del dito sul tasto, e che questo comporta un assetto muscolare di tutto il braccio, della spalla e del busto diverso da quello tradizionale (per lo meno da quello tradizionale scolastico dell’Ottocento, perche´ le analisi sulla tecnica trascendentale del tocco hanno inizio poco dopo, ma comunque dopo la composizione dei Giochi d’acqua). Fino a qui ho cercato di spiegare quel che dice Ravel. C’e` un punto su cui Ravel non si sofferma, e su cui dobbiamo invece soffermarci noi: la poetica dei Giochi d’acqua e` simbolista, o no? In una conferenza tenuta il 7 aprile 1928 nella Rice University di Houston, e intitolata La musica contemporanea, Ravel dice: ‘‘Per Debussy, il musicista e l’uomo, ho avuto una profonda ammirazione, ma, per natura, sono diverso da lui. Sebbene egli non sia del tutto estraneo alla mia personale formazione io accosterei alla prima tappa della mia evoluzione Gabriel Faure´, Emmanuel Chabrier ed Erik Satie. L’estetica di Edgar Allan Poe, il vostro grande americano, e` stata di singolare importanza per me, cosı` come l’immateriale poesia di Mallarme´ – visioni illimitate (ma disegno preciso), chiuse in un mistero di oscura astrazione, un’arte in cui tutti gli elementi sono cosı` intimamente legati fra di loro che non si possono analizzare gli effetti ma solo percepirli. Tuttavia, io penso di aver sempre personalmente seguito una direzione opposta a quella del simbolismo di Debussy’’. In genere si prende Ravel in parola e per i Giochi d’acqua si parla di impressionismo, di musica descrittiva o, piu` aulicamente, di ‘‘poema dell’acqua’’ (Aguettant) o di ‘‘poesia liquida’’ (Cortot). Il ‘‘tuttavia’’ di Ravel mi sembra pero` aprire uno spiraglio verso qualche riflessione. Il ‘‘tuttavia’’ risponde evidentemente a un’ovvia obbiezione: Mallarme´ non e` forse uno fra i maggiori poeti simbolisti? Poe non e` forse considerato il maggior precursore del simbolismo? E infine, pensando ai Giochi d’acqua, Henri de Re´gnier non e` annoverato ‘‘tra i promotori del movimento simbolista’’ persino dall’Enciclopedia Treccani? Possiamo allora sospettare che nel 1928, tramontato ormai il simbolismo, Ravel non volesse apparire come un sopravvissuto? Non posso affrontare qui un tema critico che richiede una profonda riflessione e una approfondita discussione. Ma faccio notare che l’acqua ha, nella cultura occidentale, valenze simboliche poli443

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Maurice Ravel

valenti, e che il ‘‘dio fluviale’’ di de Re´gnier e Ravel potrebbe essere un parente del fauno di Mallarme´ e Debussy. Direi di piu`. Il secondo tema costruito su una scala di quattro suoni nella prima sezione, e di sei suoni nella seconda, senza semitoni, ha un carattere orientaleggiante. Non e` difficile immaginare, invece di un dio fluviale in carne e ossa, la statua in pietra di un dio – orientale – ridente, in una fontana. E se Oriente e`, l’Oriente e l’acqua hanno qui il significato che hanno nel simbolismo, di vita e di esorcizzazione dell’angoscia della morte, cioe` di rapporto sereno con la morte. La Sonatina (1903-1905, 1905), eseguita per la prima volta a Lione il 10 marzo 1906 e poi a Parigi il 31 marzo, ottenne ben presto un’ampia diffusione. Ravel ne registro` i primi due movimenti, nel 1914, per il pianoforte riproduttore. I Giochi d’acqua avevano provocato in Debussy un ripensamento del suono pianistico, ripensamento evidente nel passaggio da Pour le piano alle Estampes. Ma Ravel, prima di passare dalle audacie dei Giochi d’acqua alle piu` radicali audacie dei Miroirs, sfrutto` le conquiste dei Giochi d’acqua nella riposante, tranquilla, accattivante Sonatina. Forma classica nel primo movimento, forma settecentesca (minuetto-trio-minuetto) nel secondo movimento, forma classica (bitematica e tripartita) nel terzo movimento, collegamento tematico fra primo e terzo movimento, tema del minuetto ripreso nel trio con un tocco di civetteria arcaicizzante, e cioe` in canone per aggravamento (forse in relazione con l’analogo procedimento dell’Intermezzo op. 118 n. 2 di Brahms). La scrittura pianistica presenta inoltre tratti clavicembalistici (l’inizio, ad esempio, che fa pensare a una registrazione con il ‘‘sedici piedi’’, o gli abbellimenti del secondo movimento). E la prima esecuzione, altro tratto di civetteria, fu affidata a una pianista, Paule de Lestang, che suonava anche il clavicembalo e che come una damina del rococo` cantava da soprano, accompagnandosi (abbiamo un disco del 1927, con D’Anne jouant de l’epinette, ‘‘exe´ cute´ et chante´ par M.me de Lestang, clavecin avec chant’’). Un lavoro neoclassico, dunque, che si iscrive ancora nella poetica degli anni novanta. Bisogna pero` aggiungere che la Sonatina risponde in un modo curioso a un problema molto vivo nella cultura francese fra il 1870 e il 1914. La sconfitta subita dalla Germania nel 1870 provoca un sentimento di rivolta che nel campo della musica pianistica trova il suo riflesso nell’ansia di uguagliare i tedeschi in quello che e` il loro maggior titolo di gloria, la sonata. In questo campo, tuttavia, i francesi potranno vantare soltanto, fra i tanti, i due nobili tentativi di Paul Dukas (Sonata, 1899-1901) e di Vincent d’Indy (So444

Sonatina

nata, 1907). Ma Debussy, con le Estampes, aveva gia` creato la vera carta vincente della cultura francese, il trittico modellato sull’archetipo della sonata. Ravel si allineera` con Gaspard de la nuit. Nel 1904, prima di terminare la Sonatina, Ravel compose un breve Minuetto in do diesis, ritrovato sul retro di un compito scolastico del suo amico Maurice Delage. Subito dopo la Sonatina vennero composti i Miroirs (Specchi, 1904-1905, 1906), cinque pezzi che uscirono con dediche a cinque amici, fra cui Ricardo Vin˜es (n. 2) e Maurice Delage (n. 5). Il terzo pezzo, Una barca sull’oceano, venne trascritto da Ravel per orchestra nel 1906 (e riveduto nel 1926), il quarto pezzo, Alborada del gracioso, venne trascritto nel 1918. I dedicatari degli Specchi sono i compagni di Ravel in una sorta di congregazione di artisti, gli Apaches, versione francese e novecentesca dei Davidsbu¨ ndler di Schumann, che dibattevano nelle loro riunioni i temi culturali del momento. Scrive Marcel Marnat: ‘‘Sono i suoi compagni Apaches che, senza saperlo, lo inciteranno a sfuggire da questi cammini della maestria classica [quelli della Sonatina]. Ravel mette immediatamente a punto un linguaggio sufficientemente nuovo per riflettere il mondo tale quale lo ha loro descritto e tale e quale egli ormai lo percepisce. Lavorava gia` a Uccelli tristi quando una sera Vin˜es affermo`, in casa di Delage, che Debussy sognava adesso di proporre ‘una musica la cui forma fosse abbastanza libera da sembrare improvvisata’, e di produrre opere che paressero ‘strappate da un quaderno di schizzi’ ’’. Questo proposito colpı` Ravel, che dichiaro` di aderirvi interamente, aggiungendo, secondo il Roland-Manuel, ‘‘vorrei proprio fare qualcosa che mi liberasse dai Giochi d’acqua’’. Nello Schizzo autobiografico troviamo questa affermazione: ‘‘I Miroirs (1905) formano una raccolta di pezzi per pianoforte che segnano nella mia evoluzione armonica un cambiamento abbastanza considerevole da sconcertare anche i musicisti piu` avvezzi fino ad allora alla mia maniera. Il primo in ordine cronologico di questi pezzi – e il piu` tipico di tutti, secondo me – e` il secondo della raccolta: Les Oiseaux tristes. Vi evoco degli uccelli perduti nel torpore di una foresta molto scura nelle ore piu` calde dell’estate’’. I temi critici dei Miroirs, molteplici e molto spinosi, sono evidenti gia` da queste citazioni. Aggiungero` una piu` ampia citazione, da Cortot, che cerca di legare insieme la Sonatina e i Miroirs: ‘‘Le parole definirebbero con minore sicurezza della musica, che avrebbero la tentazione di spiegare, lo charme, la tenerezza carezzevole del primo movimento [della Sonatina], l’eleganza e la riservatezza

Gaspard de la nuit

discreta di questo adorabile secondo movimento, l’effervescente entusiasmo del finale. Tali sono, se le riassumiamo, le modalita` di sentimento di cui quest’opera esprime felicemente l’intima e calda poesia. E la sottile perfezione del mestiere che le traduce e` tale che pare non tendere ad altro che a farsi dimenticare, che a rendere, in qualche maniera, piu` musicale la musica. Questa sensibilita` di scrittura, questo atticismo, noi lo ritroviamo nei cinque pezzi dei Miroirs. Ma qui, come nei Giochi d’acqua, al servizio di un’arte descrittiva, analitica, visuale, com’e` indicata dal titolo. Se, per meglio definire le tendenze che si fanno largo in questa suite, si intendesse persistere nel parallelo fra Debussy e Ravel, a cui abbiamo fatto ricorso all’inizio di questo studio, si potrebbe azzardare che la`, dove Debussy aveva annotato le sensazioni causate dalla vista dell’oggetto, Ravel descrive l’oggetto stesso’’. Descrivere con i suoni un oggetto: un’ardua impresa, potrebbe dire Jago. Ma senza troppo insistere sull’argomento, a cui ho accennato parlando dei rumori dell’acqua nei Giochi, faccio solo notare che le farfalle notturne (n. 1, Noctuelles), gli uccelli, per di piu` tristi (n. 2, Les Oiseaux tristes), la barca e l’oceano (n. 3, Una barque sur l’Oce´an), le campane nella valle (n. 5, La Valle´e des cloches) sono elementi simbolici che troviamo nella pittura dell’Ottocento, nella musica di Liszt, nella musica di Rachmaninov. Per quanto problematica si presenti l’interpretazione simbolista dei Giochi d’acqua e degli Specchi io non credo sia necessario far ricorso alle acrobazie dialettiche di Cortot per spiegare un’arte i cui contenuti esercitano una fortissima presa sull’ascoltatore. Piu` difficile, ma secondo me inutile, sarebbe l’interpretazione simbolista del quarto pezzo, Alborada del gracioso, che potremmo tradurre con Serenata mattutina (cioe` Albata) del buffone. Un gracioso – cosı` lo definisce Tirso de Molina nel Burlador de Sevilla – e` Leporello. E basta pensare alla serenata che Don Giovanni, travestito da Leporello, canta alla cameriera di Donna Elvira. Chitarre e canto caricaturale: la versione novecentesca e ironica della serenata spagnola che era andata cosı` di moda nell’ultimo trentennio dell’Ottocento. Gaspard de la nuit (Gasparo della notte, 1908, 1909) e` sottotitolato ‘‘tre poemi da Aloysius Bertrand’’. I sessantacinque brevi poemi in prosa di Aloysius Bertrand (1807-1841), pubblicati postumi nel 1842, erano stati ripubblicati nel 1895 e nuovamente stampati nel 1908. Gaspard de la nuit, personaggio che da` il nome alla raccolta di cui, nella finzione letteraria, figura essere l’autore, e` il diavolo. Aloysius Bertrand, figlio di un ufficia-

Maurice Ravel

le napoleonico e di una italiana, era nato a Ceva in provincia di Cuneo. Nelle leggende popolari delle montagne del cuneese il diavolo e` spesso detto Gasparo, in dialetto Gasparin. E non sembra a me improbabile che ricordi d’infanzia, ricordi di racconti di diavoli e di masche (fantasmi) nelle veglie invernali abbiano suggerito al poeta il nome del suo diavolo. Ravel rimase colpito dall’atmosfera cupa, ossessiva, allucinata dei poemi di Bertrand, ma anche dalla concisione, dalla precisione maniacale del particolare, dal lavoro minuziosissimo sulla parola, sul ritmo della frase, sull’architettura del discorso: caratteri che si ritrovano tutti nella sua musica. Il tema della corrispondenza poesia-musica in Gaspard de la nuit non e` affrontabile in questa sede, ma e` stato analizzato con profondita` di intenti da qualche studioso, con risultati positivi. Nello Schizzo autobiografico Ravel cita appena il Gaspard de la nuit: ‘‘Gaspard de la nuit, pezzi per pianoforte da Aloysius Bertrand, sono tre poemi romantici di virtuosismo trascendentale’’. ‘‘Poemi romantici’’ e ‘‘virtuosismo trascendentale’’. Due caratteri che erano stati profeticamente individuati, in negativo, dal critico simbolista Camille Mauclair dopo l’audizione dei Miroirs: ‘‘Siamo veramente in presenza di un’arte che non era nemmeno concepibile qualche anno addietro. Ma io non so a che cosa ci potra` portare questa arte. Io temo che essa ci riporti alle pericolose e stucchevoli prodezze del virtuosismo fine a se stesso, perche´ la musica di Maurice Ravel e` piena di tenerezza, d’emozione e di pensiero, ma essa vela tutto cio` entro una cortina di pietre preziose tremule e multicolori che ben poche mani saprebbero agitare senza credere che lo scintillio sia tutto lo scopo dei loro gesti, e il dispiegarsi di abilita` tecnica dev’essere qui tale che vien fatto di pensare, piu` che alla maestria classica, al fascino ingannevole del prestigiatore giapponese’’. Se si esclude la premessa negativa, il tutto diventa il miglior commento a Gaspard de la nuit, che in fatto di linguaggio e di strumentazione pianistica non procede a parer mio di un passo oltre i Miroirs, ma che di quelli rappresenta il raffinamento estremo, il punto di non-ritorno. Faccio pero` notare che, unica importante novita` formale, i tre pezzi riprendono nel loro dispiegarsi l’archetipo della sonata: con le Estampes e con le due serie delle Images di Debussy, e con Gaspard de la nuit di Ravel la cultura francese ottiene veramente la sua rivincita sulla cultura tedesca, creando un monumento senza pari nel panorama internazionale di inizio secolo. Non dispongo purtroppo dello spazio necessario per riprodurre qui i tre poemi di Bertrand, fatti stampare da Ravel prima della mu445

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Maurice Ravel

sica. Mi limitero` a brevi accenni. Ondine (Ondina) e` la mitologica creatura delle acque che tenta invano di conquistare il poeta, il quale, amando una mortale, rifiuta di seguirla nel suo regno incantato. Le Gibet (La forca) e` ‘‘la campana che rintocca sui muri di una citta`, sotto l’orizzonte, e la carcassa di un giustiziato che s’arrossa mentre il sole tramonta’’: Visione medievale, terrificante, che Ravel, con supremo virtuosismo compositivo, rende con il costante rintocco di un suono, un si bemolle. Scarbo e` lo gnomo che puo` diventare alto come un campanile, la creatura beffarda e maligna che gratta ‘‘con le sue unghie la seta delle cortine del mio letto’’. Citero` ancora, perche´ rivela l’umanita` di Ravel nascosta sotto cortine di riserbo, la lettera del 2 settembre 1908 con la quale il compositore chiese al pianista svizzero Rudolf Ganz l’assenso alla dedica di Scarbo: ‘‘Caro Signore, ho appena terminato 3 pezzi per pianoforte, Gaspard de la nuit, che stanno per uscire presso Durand. Desidererei vivamente che Lei accettasse la dedica di uno di essi, Scarbo. Cio` come testimonianza di gratitudine che sarei felice di comunicarLe a viva voce, se Lei passera` un giorno a Parigi. Sarei curioso di conoscere il paradossale virtuoso che s’interessava a una musica per la ragione che gli sembrava nuova, in un momento in cui i nostri virtuosi nazionali s’ostinavano con audacia a rivelare le sonate di Beethoven. Creda, caro Signore, ai miei sentimenti di viva simpatia. Maurice Ravel’’. La suite per pianoforte a quattro mani Ma me`re l’Oye (Mia madre l’Oca, 1908-1910, 1910) rappresenta in un certo senso la ‘‘risposta’’ di Ravel al Children’s corner di Debussy, pubblicato nel 1908. I cinque pezzi che formano la suite – Pavana della Bella Addormentata nel bosco, Pollicino, Laideronette imperatrice delle pagode, Colloquii della Bella e della Bestia, Il giardino incantato – sono ispirati a fiabe francesi del Seicento di Charles Perrault, della contessa d’Auloye e di Marie Leprince de Beaumont. La caratterizzazione musicale e` perfetta, la scrittura pianistica e` pero` calcolata in modo da poter essere affrontata da pianisti adolescenti (la prima esecuzione, il 20 aprile 1910, fu affidata a due giovanissime allieve di Marguerite Long). Per questi motivi, secondo me, le potenzialita` espressive e immaginifiche della suite sono meglio rivelate dalla trascrizione orchestrale che Ravel realizzo` nel 1911 e che nel 1912, con l’aggiunta di altri pezzi, utilizzo` per un balletto. Per quanto evocativo possa essere il suono del pianoforte, e per quanto possa entro certi limiti diventare transpianistico, solo gli armonici del violino in Pollicino, il silofono in Laideronette, il controfa446

Ma me`re l’Oye

gotto nella Bella e la Bestia rendono veramente palpabile la delicata, sfuggente atnosfera fiabesca creata da Ravel. Il Menuet sur le nom de Haydn (Minuetto sul nome Haydn, 1909, 1910) fu scritto su richiesta della Revue musicale, che intendeva celebrare il centenario della morte di Haydn. Anche Debussy e altri, fra cui d’Indy, Dukas e Hahn, accolsero l’invito. Il nome HAYDN viene interpretato secondo la denominazione tedesca delle note, estesa oltre alla H che e` il termine ordinario. Ravel usa il tema anche a ritroso (NDYAH) e con i suoni sovrapposti l’uno sull’altro, anticipando cosı` uno dei caratteri linguistici tipici della dodecafonia. La collana delle otto Valses nobles et sentimentales (Valzer nobili e sentimentali, 1911, 1911) fu eseguita per la prima volta il 9 maggio 1911, da Louis Aubert che ne fu anche il dedicatario, in un concerto in cui tutti i pezzi venivano presentati anonimi e il pubblico veniva invitato a tentare le attribuzioni. Qualche ascoltatore risolse l’indovinello, ma la maggior parte delle attribuzioni, per le Valses nobles et sentimentales, andarono a Erik Satie e a Zolta´n Ko´daly. A Ravel vennero invece attribuiti una Me´lodie di un certo Fraggi e i Deux Rondels di Lucien Wurmser. Nel 1912 Ravel strumento` la composizione per orchestra, facendola diventare il balletto Ade¨ laide ou le langage des fleurs. Schubert aveva intitolato Valses nobles e Valses sentimentales due raccolte di danze. Dice Ravel, nello Schizzo autobiografico: ‘‘Il titolo Valses nobles et sentimentales indica abbastanza bene la mia intenzione di comporre una collana di valzer seguendo l’esempio di Schubert. Al virtuosismo che faceva la base di Gaspard de la nuit succede una scrittura nettamente piu` chiarificata, che indurisce l’armonia e accentua i rilievi della musica’’. Prendiamo in considerazione l’epigrafe delle Valses nobles et sentimentales, da Henri de Re´ gnier: ‘‘Il piacere delizioso e sempre nuovo d’una occupazione inutile’’. Avevo detto prima che il virtuosismo raggiunge nel Gaspard un punto di nonritorno: mantenerlo significherebbe ripetersi. E Ravel non si ripete. Le Valses sono magari difficili ma non virtuosistiche, e l’impegno emotivo del piacere delizioso d’una occupazione inutile non e` quello terrificante della Forca. L’ultima delle Valses, in cui ritornano nella nebbia, e potrei persino dire nella putrefazione, i temi delle altre Valses, ci dice pero`, forse, che l’occupazione inutile e` corteggiare la morte. Ma la morte non abbandona del resto mai l’opera pianistica di Ravel, e la sua presenza non ci stupisce affatto in questa rievocazione di Schubert, che inizia con una danza sfrenata e vitalistica. La chiarificazione della scrittura piani-

Le tombeau de Couperin

stica provoca pero` , o ne e` la conseguenza, una evoluzione nella concezione dell’armonia. Gli accordi, che erano intesi nei Miroirs e nel Gaspard prima di tutto acusticamente, secondo una corrispondenza suono-colore, nelle Valses riacquisiscono pienamente la loro tradizionale funzione sintattica, proprio perche´ i suoni che li costituiscono sono nettamente percepibili. L’accordo-base della prima Valse e` l’accordo di tredicesima, che esaurisce tutti i suoni della scala diatonica. Ravel se ne serve, come si serve dell’accordo di undicesima, senza aggravarlo di cromatismi, e si serve di appoggiature non risolte che non mascherano l’accordo funzionale: l’effetto puo` ricordare la ‘‘durezza’’, ma anche la chiarezza fauve dello Stravinskij degli anni dieci. Nel 1913 Rene´ Lenormand pubblico` un saggio sull’armonia moderna in cui prendeva in esame molti esempi tratti dalle opere di Ravel. Un manoscritto autografo, ritrovato nella biblioteca dell’Ope´ra di Parigi, ci dice che la scelta di alcuni esempi e le relative analisi sono opera dello stesso Ravel. Ravel, a proposito di un frammento delle Valses, annota per il Lenormand: ‘‘Ecco qui, in relazione con le appoggiature senza risoluzione, un passaggio che potrebbe interessarle. Questo frammento e` composto di un solo accordo, accordo gia` impiegato da Beethoven senza preparazione, all’inizio di una sonata (op. 31 n. 3). Ecco ora il passaggio con le risoluzioni delle appoggiature, risoluzioni che, in realta`, avvengono tutte solo nella misura A [l’ultima dell’esempio], in cui l’accordo cambia di posizione’’. L’accordo di Beethoven e` quello di terza, quinta e sesta, o di ‘‘sesta aggiunta’’, gia` utilizzato da Rameau. E questo esempio basta a dire come, nel momento in cui si discuteva accanitamente di Scho¨nberg e dell’atonalita`, Ravel volgesse i suoi interessi verso la restaurazione della tonalita`, restaurazione che avrebbe avuto il suo definitivo compimento, nel 1914, nel Trio. Il Pre´lude (Preludio, 1913, 1913) fu composto su richiesta del conservatorio di Parigi per un esame di lettura a prima vista. Questa breve composizione, che ricorda un po’, in controluce, lo stile di Faure´, segue due composizioni A` la manie`re de... (Alla maniera di..., 1912-1913, 1914). La prima – alla maniera di Borodin – e` un valzerino affettuosamente ironico, in uno stile lontanamente ispirato a quello dello Scherzo in La bemolle di Borodin, popolarissimo all’inizio del Novecento. La seconda composizione e` un gioco molto divertito su una supposta lettura dell’aria di Siebel nel secondo atto del Faust di Gounod fatta al pianoforte da Chabrier. Ragionando... con la testa di Chabrier, Ravel toglie all’aria tutta la patina un po’ sciropposa del

Maurice Ravel

‘‘sentimento’’. Le distorsioni angolari melodiche, ritmiche e armoniche del testo di Gounod sono esilaranti, senza che si tocchi il limite stravinskiano o prokofieviano del grottesco. La suite di sei pezzi Le tombeau de Couperin (La tomba di Couperin, 1914-1917, 1918), comprendente Preludio, Fuga, Furlana, Minuetto, Rigaudon e Toccata, e` il lavoro che riflette il clima della guerra, con le pulsioni nazionalistiche che, mai sopite dopo la sconfitta del 1870, esplodono nel 1914. Ciascuno dei sei pezzi e` dedicato a un amico caduto in guerra, e il frontespizio, disegnato da Ravel, ci fa vedere un’urna funeraria nello stile del Direttorio. Nel 1919 Ravel trascrisse per orchestra quattro dei sei pezzi, escludendo la Fuga e la Toccata. Il termine Tombeau era stato usato dai liutisti e dai clavicembalisti francesi del Cinque-Seicento per indicare una composizione in onore di un artista o di un potentato scomparso. Ravel lo riprese per una suite nella quale, come dice nello Schizzo autobiografico, ‘‘l’omaggio si indirizza in realta` meno allo stesso Couperin che alla musica francese del XVIII sec.’’. Il primo titolo, nel 1914, avrebbe infatti dovuto essere genericamente Suite francese. Ma il titolo definitivo suona certamente piu` suggestivo. Iniziato e gia` ben lavorato nel 1914, il Tombeau de Couperin fu terminato solo nel 1917 a causa di vicende connesse con il conflitto mondiale. Ravel, che era stato scartato alla visita di leva per la statura e per il peso, nel 1914 si presento` volontario e non venne accettato. Ritento` piu` volte, finche´ riuscı` – lo dico senza alcuna ironia perche´ le parole corrispondono esattamente ai suoi sentimenti e alla sua pertinace volonta` – a servire la patria in armi come autista di camion. Congedato per motivi di salute, nel gennaio del 1917 riprese e porto` a termine il Tombeau de Couperin. La prima esecuzione, l’11 aprile 1919, avvenne in un clima di grande commozione patriottica, anche perche´ l’interprete, Marguerite Long, era la vedova del capitano Joseph de Marliave, alla memoria del quale era dedicata la Toccata conclusiva della suite. Tanto intensa fu la commozione, tanto clamoroso fu il successo che l’intero Tombeau venne bissato. E` a parer mio importante osservare che il Tombeau de Couperin, divenuto alla fine opera di guerra, non era pero` tale all’inizio. Ravel aveva concepito l’omaggio alla musica clavicembalistica francese indipendentemente dalle vicende belliche. Egli ritorno` in realta` in modo piu` maturo al clima degli anni novanta, al clima post-1870, quando la Francia cercava nel suo passato le glorie musicali nazionali da contrapporre alle glorie tedesche. Il Tombeau de Couperin conclude cosı` , come un 447

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Maurice Ravel

frutto fuori stagione ma come logica coseguenza, quell’esperienza culturale a cui avevano contribuito, oltre a Ravel e a Debussy, anche l’anziano Saint-Sae¨ns (Suite op. 90, 1892) e il giovane Gustave Samazeuilh (Suite, 1902) e altri di minore importanza. Stilisticamente il Tombeau de Couperin non ha a che vedere con la cosiddetta, e posteriore, ‘‘musica al quadrato’’, e non contiene neppure citazioni di temi da Couperin o da altri. La Furlane appare in verita` modellata su una composizione di Claude Gervaise, ma non pare che il riferimento fosse in Ravel conscio. Oltre ai titoli delle danze, l’aura arcaica del Tombeau e` data dall’armonia modale e dalla sonorita`, che in parte ricrea, sul pianoforte, il clavicembalo. La scrittura pianistica, che spesso impiega entrambe le mani nello stesso registro, crea non pochi problemi all’esecutore, gli stessi problemi che vengono creati, nelle Variazioni di Goldberg di Bach, dalla scrittura clavicembalistica per due tastiere. Ravel sembra ispirarsi in realta`, piu` che al clavicembalo bachiano, al clavicembalo fatto costruire da Wanda Landowska, ricco di colori e, con l’uso di pedali, di frequenti cambiamenti di colore. Ma, quale che ne sia l’origine, resta il fatto che la Toccata, apparentemente lineare, e` il terrore dei virtuosi, che devono giocare con le due mani entro spazi di pochi centimetri. Una sfida al virtuosismo, dunque. Che venne raccolta da uno dei massimi virtuosi del tempo, Rachmaninov, il quale eseguı` in tutto e per tutto, di Ravel, proprio la Toccata. Il lettore che conosce la discografia raveliana potrebbe fare un’obbiezione fondata: se la Toccata e` cosı` scorbutica e se Ravel era un cosı` debole virtuoso, com’e` che l’Autore la registro` nel 1922 a Londra per il pianoforte riproduttore? Questa ragionevole domanda apre il passo a un piccolo giallo. Con i rulli perforati, premetto, non si puo` mai essere sicuri del tutto. Comunque, nei riversamenti su CD la Toccata viene eseguita da Ravel a un tempo di metronomo di 108 al quarto invece del 144 indicato nello spartito. E alla velocita` di 108, ovviamente, tutto si semplifica. Ma in una lettera al critico, e amico personale Calvocoressi del 24 marzo 1922, indirizzata a Londra, Ravel scrive: ‘‘Rassicuri la Compagnia Aeolian: sto studiando cinque pezzi per pianoforte, e mi sto dando da fare per trovare uno piu` pianista di me per altri cinque’’. Nel giugno del 1922 Ravel si fece accompagnare, nel viaggio a Londra, dal giovane Robert Casadesus. E tutto lascia credere che la Toccata e il Gibet del Gaspard de la nuit, pezzi mai eseguiti da Ravel in pubblico, venissero registrati da Casadesus. Non possiamo sapere con certezza come siano andate le cose, e la velocita` di 108 della Toccata rimane in 448

Frontispice

ogni caso un mistero. Resta pero` fuori di dubbio il fatto che, se diamo fede al 144 dello spartito, la Toccata e` un test che mette l’affanno addosso ai virtuosi. Di nuovo, dunque, il virtuosismo, di nuovo il prestigiatore giapponese che il profetico Camille Mauclair aveva visto in agguato nei Miroirs. Solo che invece di pietre preziose vengono agitate qui ossa spolpate di scheletri. Al di la` dell’arcaismo di partenza, il Tombeau de Couperin e` medievalista. E se ne azzardassimo un’interpretazione simbolista dovremmo citare il Trionfo della Morte di Brueghel. Il Frontispice (Frontespizio, 1918, 1919) per due pianoforti a cinque mani e` un pezzo aforistico (quindici battute, un minuto e mezzo scarso), scritto per il Poe`me de Vardar di Ricciotto Canudo e che sembra pensato come pendant musicale del testo poetico di avanguardia. Su un basso ostinato di una sola nota Ravel muove tre linee melodiche indipendenti e alcuni accordi, altrettanto indipendenti, eseguiti dalla quinta mano. Nell’ultimo scorcio del Novecento ottenne una certa fortuna concertistica in versione per pianoforte solo il poema coreografico per orchestra La Valse (Il Valzer, 1919-1920, 1920). La prima esecuzione della Valse, in versione per due pianoforti, ebbe luogo a Vienna il 23 ottobre 1920, con Ravel e Alfredo Casella. Questa versione, molto elaborata, e` dunque da considerare autentica, e alternativa alla versione orchestrale. La versione per pianoforte e` invece il brogliaccio di lavoro e non e` realizzabile pianisticamente nella sua interezza ma costringe l’esecutore a sacrificare questo o quel particolare e a trovare dei compromessi non sempre, anzi, quasi mai felici. Veramente pianistica, e geniale, e` semmai la trascrizione di Glenn Gould, che puo` essere ascoltata in disco ma che non e` stata pubblicata. Il Concerto in Re per la mano sinistra (19291930, 1931) fu composto su ‘‘ordinazione’’ – convenientemente retribuita – del pianista Paul Wittgenstein, cugino del filosofo, che aveva perduto in guerra il braccio destro e che si stava forgiando un repertorio per la sola mano sinistra (per lui aveva gia` scritto due imponenti pezzi Richard Strauss, per lui avevano scritto altri compositori di minor fama, per lui avrebbero ancora scritto Prokof’ev e Britten). La prima esecuzione ebbe luogo a Vienna il 5 gennaio 1932, sotto la direzione di Robert Heger e con solista il Wittgenstein, che si era riservato per sei anni l’esclusiva. Ma siccome la partitura era stata pubblicata nel 1931, il 19 marzo 1937 pote´ aver luogo a Parigi la prima esecuzione ‘‘libera’’, con Jacques Fe´vrier al pianoforte e sotto la direzione di Charles Munch. La scrittura piani-

Concerto in Sol

stica del Concerto in Re, ingegnosissima, mira a far dimenticare i limiti fisici del solista Wittgenstein, o i limiti imposti al solista che, pur non essendo mutilato, deve far tutto con una mano sola. Ravel riesce nell’intento. Ma in passato parecchi critici si chiesero, e la domanda era secondo me ragionevole, se non fosse opportuno trascrivere il Concerto per le due mani. Questa e` una posizione che affiora nella critica idealista, che nella musica tiene conto del pensiero e poco o nulla del gesto. Il gesto e` pero` funzionale alla materia, al suono, che acquista i suoi caratteri in rapporto con l’azione delle dita, e delle dita sotto sforzo. Ad esempio, un esempio fra i molti possibili, certi arabeschi dell’Allegro centrale vengono eseguiti con la mano sinistra in estensione e con rotazione alternata dell’avambraccio verso il corpo e verso l’esterno. La nota piu` acuta di ogni arabesco viene eseguita dal pollice, che raggiunge il tasto di slancio; se il passo venisse diviso fra le due mani la nota piu` acuta verrebbe eseguita dal mignolo della mano destra, e in posizione statica, senza rotazione. Allo stesso modo i tremendi salti della sezione conclusiva dell’Allegro cambierebbero di sonorita` se fossero divisi fra le due mani. Il virtuosismo e` quindi, per Ravel, l’aspetto piu` evidente di una segreta alchimia che attraverso il gesto crea sonorita` inaudite – come del resto in Chopin, come in Liszt, come nel padre del virtuosismo moderno, Paganini. Pero`, detto doverosamente cio`, bisogna riconoscere che ben pochi pianisti sono in grado di reggere nel Concerto in Re l’impatto con la massa di suono di un’orchestra nutritissima, e quindi, probabilmente, non un semplice adattamento a due mani ma una completa riscrittura avrebbero portato acqua alla fama del pezzo, la cui popolarita` non e` pari al valore musicale. Forse Ravel, che non era mai rimasto soddisfatto della esecuzione di Paul Wittgenstein, ci avrebbe pensato. Ma al tempo della prima esecuzione ‘‘libera’’ egli era gia` mortalmente malato. La forma e` articolata in piu` tempi senza soluzione di continuita`, una forma a incastro che fa intersecare fra loro due parti distinte. Nella parte centrale non mancano elementi lessicali derivati dal folclore basco (Ravel, ricordiamo, era nato in una provincia francese della Biscaglia), e non manca, sorprendentemente, un episodio che sembra ispirato alla musica cinese o, meglio, all’immagine musicale della Cina che era stata offerta dall’esotismo della belle e´poque. Nell’interpretazione ‘‘barbarica’’ di Sviatoslav Richter il Concerto in Re diventava una specie di poema sinfonico russoorientaleggiante. Forse una forzatura, ma una forzatura che portava alla superficie un carattere pro-

Maurice Ravel

fondo dell’opera. Mi scuso se ritorno ancora su questo tema, ma l’interpretazione di Richter rappresenta un invito a nozze per chi volesse tentare un’interpretazione simbolista del Concerto: non piu` con Breughel, naturalmente, ma con Sacher Masoch. Il Concerto in Sol (1929-1931, 1932) fu composto contemporaneamente al Concerto in Re. La prima esecuzione ebbe luogo a Parigi, con Ravel direttore e Marguerite Long solista, il 14 gennaio 1932, Nel giugno dello stesso anno il Concerto fu inciso in disco, ufficialmente con gli stessi interpreti. Numerose testimonianze assicurano pero` che Ravel, direttore molto incerto ed esitante, resto` nella cabina di regia e che l’orchestra fu diretta da Pedro de Freitas-Branco. Manca la testimonianza diretta della Long, ma si ritiene oggi verosimile che il direttore fosse il de Freitas-Branco con la ‘‘supervisione’’ di Ravel. Negli anni venti molti compositori s’accorsero del fatto che gli onorari degli esecutori superavano di parecchio i proventi del diritto d’autore e, quando erano in grado di farlo disinvoltamente o anche quando lo facevano con difficolta` e paura, eseguirono con orchestra i loro lavori, ottenendo molte importanti scritture... e relativi importanti onorari. Ravel, come gia` detto, suono` varie sue composizioni per pianoforte solo e di musica da camera, girando molto in Europa e facendo anche una lunga tourne´e negli Stati Uniti. Con un atto di coraggio di cui si pentı` ben presto Ravel penso` cosı` di scrivere un concerto per suo proprio uso e si mise al lavoro gia` nel 1929. La composizione del Concerto in Re, per il quale gli era stata offerta dal Wittgenstein una bella sommetta, ritardo` la composizione del Concerto in Sol. Comunque, ancora nell’autunno del 1930 Ravel pensava di riservare a se stesso il nuovo concerto. Il 24 settembre scriveva a Charles Mapon: ‘‘Ho ultimato l’orchestrazione del Concerto per la mano sinistra. Ho ancora tre mesi per quello che dovro` portare nelle cinque parti del mondo. Sempre che ce la faccia’’. Ma gia` alla fine dell’anno precedente aveva ricevuto una concreta proposta dell’Orchestra Sinfonica di Boston: tremila dollari (oggi non sarebbero nulla: allora erano una gran cifra) per un ‘‘concerto per orchestra sinfonica e pianoforte’’. Il 20 dicembre 1929, scrivendo al direttore della Sinfonica di Boston, Serge Koussevitzky, Ravel aveva detto che non poteva firmare il contratto perche´ ‘‘il Concerto e` ben lontano dall’essere finito’’. Diceva pero` anche: ‘‘Appena finito il mio Concerto lo portero`, come le ho detto, nelle cinque parti del mondo. Tutto cio` che posso prometterle e` di riservarle la prima esecuzione in the vorld’’ (sic). Alla fine, pero`, Ravel rinuncio` a ese449

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Maurice Ravel

guire personalmente il Concerto, e scelse invece di dirigerlo avendo come collaboratrice la fida Marguerite Long. Come direttore d’orchestra Ravel non era piu` professionale di quanto fosse come pianista. ‘‘La sua direzione, purtroppo, era molto incerta’’, dice la Long. Ed E´tienne Baudo, che alla prima esecuzione suonava il corno inglese, racconta: ‘‘Il tema del secondo movimento, esposto dapprima dal pianoforte, torna poi al corno inglese. Per me era una parte molto pericolosa, e Ravel, che non era assolutamente direttore d’orchestra, sbaglio` proprio prima del mio assolo. Ci fu un piccolo gelo, ma tuttavia attaccai, e tutto s’aggiusto`’’. Aggiunge la Long: ‘‘Il terzo movimento fu bissato, e io non ricordo di aver eseguito questo lavoro, in Francia e all’estero, senza dover bissare il finale’’. La scrittura pianistica del Concerto in Sol, molto meno virtuosistica di quella del Concerto in Re, riflette, in fondo, la decisione iniziale di Ravel di esporsi come esecutore. Il calcolo, a conti fatti, si dimostro` troppo... ottimistico, ma il Concerto in Sol non si inserisce comunque nella tradizione del concerto romantico, al contrario del Concerto in Re o di concerti quasi contemporanei di quello di Ravel, come il Terzo di Prokof’ev e il Secondo di Barto´k. Piuttosto, il Concerto in Sol e` prossimo, e pour cause, al Capriccio di Stravinskij (19281929), che Stravinskij scrisse per se stesso. Il 30

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Concerto in Sol

ottobre 1931 la rivista Excelsior pubblico` una dichiarazione di Ravel in cui si diceva fra l’altro: ‘‘... questo Concerto, che all’inizio avevo pensato di chiamare Divertimento, comprende le tre parti abituali: a un allegro iniziale, di un serrato classicismo, succede un adagio col quale ho voluto rendere un profondo omaggio alla scolastica e che mi sono sforzato di scrivere il meglio possibile; per finire, un movimento vivace in forma di rondo`, anch’esso concepito secondo le piu` immutabili tradizioni classiche’’. Una composizione, dunque, neoclassica in senso lato, nella quale confluiscono pero` materiali stilisticamente eterogenei: prima di tutto quelli di un lavoro per pianoforte e orchestra intitolato, in basco, Zagpiat-bat (Le sette province), di cui restano schizzi del 1913 e di cui parlano Alfred Cortot e Gustave Samazeuilh, e poi l’impressionismo, il jazz, il music-hall, la musica da circo che i Six avevano rivalutato negli anni venti. Un concerto, dunque, nello stesso tempo ‘‘alla moda’’ (e l’immediato successo e` di cio` testimonianza) e ‘‘profetico’’, perche´ di eterogeneita` stilistica che diviene stile si discusse molto nel primo decennio del Duemila. Ravel precursore del postmodernismo? Lascio al lettore la risposta, dopo aver cercato di guidarlo nei meandri delle poetiche raveliane.

Concerto in Sol

Max Reger

A Max Reger

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(Brand, 19 marzo 1873-Lipsia, 11 maggio 1916) Max Reger era innanzitutto organista, ma svolse anche attivita` di pianista concertista in trio. La sua abbondantissima produzione pianistica, di cui ripercorreremo qui i momenti piu` rilevanti, riflette in modo chiarissimo la sua evoluzione creativa. Gli inizi avvengono sotto il segno di Schubert: i 12 Valzer-Capricci op. 9 per pianoforte a quattro mani (1892), le 20 Danze tedesche op. 10 a quattro mani (1892), i 7 Valzer op. 11 (1893), i 14 Fogli perduti op. 13 (1894) rivelano l’amore, anzi, la nostalgia per Schubert (e anche, un po’, per lo Chopin giovane): un amore ingenuo e diretto, non mediato attraverso il clima del decadentismo, come avverra` con Ravel. Poi Reger... cambia il padrino: Dal tempo della gioventu` op. 17 (1895) e le Improvvisazioni op. 18 (1896) guardano a Schumann (ma l’op. 18 n. 6, Allegretto con grazia, e` una mazurca con tratti stilistici del primo Chopin). Nel 1897, concludendo il periodo dei suoi studi con il grande teorico Hugo Riemann, Reger si accorge pero` di stare battendo le strade dell’accademismo, e liquida tutto cio` che aveva scritto fino ad allora come ‘‘imbecillita` senza scusanti’’, giudizio che non mi sento affatto di condividere. Il faro di Reger diventa in quel momento Brahms, e i grandi del passato a cui guarda diventano Bach e Beethoven, sebbene ne´ Schubert ne´ Schumann (specie quest’ultimo) scompaiano mai dai suoi orizzonti. Le 5 Umoresche op. 20 1898) e i 6 Pezzi op. 24 (1898) mostrano lo studio dello stile di Brahms. Anzi, l’ultimo dei pezzi op. 24, Rapsodia, e` sottotitolato Ai mani di J. Brahms. Piu` personali, dopo altri lavori dello stesso tipo, sono i 6 Intermezzi op. 45 (1900) e le 7 Silhouettes op. 53 (1900), nelle quali il linguaggio armonico si arricchisce e la strumentazione, pur molto densa, diventa piu` trasparente. Vivacissime e umoristiche, vero riflesso dell’ottimismo di Reger sono le 6 Burlesche a quattro mani op. 58 (1901). Le Variazioni e fuga su un tema di Bach op. 81 (1904) segnano la maturita` di Reger. Il breve tema (14 battute) e` tratto dalla Cantata n. 128. Reger si serve soltanto della introduzione, affidata nell’originale all’oboe, e del basso continuo di un duetto per contralto e tenore, prendendo quindi come spunto non un brano formalmente chiuso ma un frammento di una composizione assai piu` vasta: procedimento, questo, del tutto insolito. Il ritorno programmatico a

tecniche settecentesche si nota subito nelle prime due variazioni, puramente ornamentali, che sono basate sul principio della progressiva intensificazione della densita` ritmica. La terza variazione e` invece ‘‘moderna’’ per la varieta` della scrittura strumentale, per l’armonia e per la sottigliezza della derivazione dal tema; la scrittura e` in parte brahmsiana, ma rivela anche una viva attenzione rivolta allo Schumann esoterico e segreto delle variazioni espunte dall’Autore dagli Studi sinfonici op. 13. Con le successive tre variazioni ci imbattiamo in moduli schumanniano-brahmsiani (e talvolta mendelssohniani e lisztiani) piu` noti, con un ordinamento che segue un disegno di progressivo aumento del virtuosismo e della bravura di cui l’esecutore deve dar prova. Il culmine virtuosistico non e` ancora raggiunto, ma Reger, prima di toccarlo nella ottava variazione, intercala una bellissima variazione, la settima, nuovamente legata allo Schumann intimistico. Una maggiore originalita` di scrittura si nota nella nona e nella decima variazione, specie in quest’ultima. Nella undicesima variazione non si puo` fare a meno di notare quanto interessassero a Reger le ricerche virtuosistiche del suo coetaneo Rachmaninov, dal quale tuttavia resta lontanissimo per educazione e per gusto. Nella dodicesima variazione ricompare lo Schumann visionario della Fantasia op. 17. Estremamente virtuosistiche le due ultime variazioni, tredicesima e quattordicesima. Nella doppia fuga finale Reger sfrutta tutte le tecniche contrappuntistiche tradizionali, con quella maestria che anche i suoi piu` acerbi critici gli riconoscono. Ma e` secondo me piu` importante osservare come tutto l’interesse del compositore sia in realta` accentrato sull’accumulo progressivo di sonorita` , ottenuto con una lenta evoluzione della scrittura fino alle pagine finali, nelle quali, praticamente, tutta la cordiera viene fatta vibrare mediante l’uso del pedale di risonanza combinato con la tecnica dei salti e della produzione contemporanea di piu` tipi di suono. Il parossismo orgiastico su cui si chiude la fuga rappresenta secondo me uno dei momenti migliori e piu` sorprendenti di un’opera che nel suo insieme mi pare di valore ineguale, soprattutto perche´ l’impiego di vari modi storici di strumentazione non raggiunge, diciamo cosı` , la temperatura di fusione che era stata raggiunta da Brahms nelle Variazioni 451

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Max Reger

su un tema di Ha¨ndel e da Beethoven nelle 33 Variazioni su un Valzer di Diabelli. Nel corso dell’Ottocento il genere delle variazioni culminanti in una fuga aveva assunto progressivamente il significato di una sintesi storica, e quindi di un ritorno nel tempo fino alla riscoperta e alla riassunzione dello stile barocco. Prima delle Variazioni su un tema di Bach Reger aveva composto le Variazioni e fuga su un tema originale op. 73 per organo. E a breve distanza dall’op. 81 compose due imponenti lavori per due pianoforti, le Variazioni e Fuga su un tema di Beethoven op. 86 (1904) e la Introduzione, Passacaglia e Fuga op. 96 (1906). Le Variazioni sfruttano all’estremo una paginetta come la Bagatella op. 119 n. 11 di Beethoven. L’Introduzione, le ventotto variazioni della Passacaglia e la Fuga sono colossali: l’op. 96 puo` rivaleggiare con le grandi pagine organistiche dello stesso periodo e rappresenta un culmine del neobarocco tedesco dell’Ottocento, di cui sintetizza tutte le caratteristiche di magniloquente grandiosita`. Il Concerto in fa op. 114 (1910) e` un lavoro manieristico che non tiene conto della linea Beethoven-Brahms ma di un’altra linea poco battuta, Beethoven-Schumann-Rubinsˇtejn, e che persegue i suoi scopi con estrema lucidita` intellettuale. Tecnicamente e` molto difficile, ma e` soprattutto scritto in un modo da far sudare sette camicie all’esecutore che cerca di renderne percepibile la complessita`. Alfred Brendel diceva scherzosamente che se fosse stato messo nell’alternativa di suonare il Concerto di Reger o di morire avrebbe probabilmente preferito morire. E sebbene sia stato ‘‘sponsorizzato’’ da un interprete come Rudolf Serkin, il Concerto di Reger ha sempre visto i pianisti girare alla larga dalla sua terrificante ombra. In passato furono invece molto eseguite le Variazioni e Fuga su un tema di Telemann op. 134 (1914), che talvolta ricompaiono anche oggi nei programmi concertistici. La datazione dell’op. 134 – dall’8 al 15 agosto 1914 – e` sorprendente. Iniziate quaranta giorni dopo l’attentato di Sarajevo e mentre gia` era scoppiata la guerra, e dunque mentre l’Europa precipitava nel conflitto che avrebbe distrutto l’ordine del mondo, le Variazioni partono da un innocentissimo Minuetto della Tafelmusik (Musica da tavola) per due oboi e archi di Telemann e non si allontanano dalla sua bonomia, dalla sua positivita` . Da quel grasso ottimista che era, Reger si rifugiava secondo me in un mondo di sogno, in un Settecento arcadico che rappresentava l’antitesi dell’agosto 1914. Tema in due parti con ritornello, ventitre variazioni e fuga, il tutto per una durata di circa sessantotto minuti, riduci452

Variazioni e Fuga su un tema di Beethoven op. 86

bili a trentacinque perche´ Reger concede all’esecutore di non realizzare i ritornelli. Un lavoro magistrale, senza dubbio, ma condotto con uno spirito sistematico che possiamo a buon diritto chiamare teutonico. Esaminando le Variazioni su un tema di Ha¨ ndel di Brahms, che dell’op. 134 di Reger sono il lontano ma non dimenticato modello, vediamo subito che Brahms non mantiene mai lo stesso modulo per piu` di due variazioni consecutive. Reger lo mantiene invece nelle prime nove variazioni: nessuna idea, nessuna possibilita` viene sacrificata a favore dell’equilibrio architettonico e drammaturgico dell’insieme. Reger possedeva una fiducia in se stesso a prova di bomba: ad esempio, non gli bastava che le sue musiche venissero inserite nei concerti sinfonici ma chiedeva imperiosamente agli organizzatori la Regerabend, il programma interamente dedicato a lui. E nelle prime nove variazioni dell’op. 134 e` evidente che egli considera oro puro tutto cio` che il tema gli suggerisce nel bollore della fantasia appena destatasi. Il clima espressivo cambia di botto nella decima variazione, Quasi Allegro a modo di corale, armonicamente molto intricata. Da questo punto in poi cessa la monotonia della prima parte, ma il cambiamento di modo (si bemolle minore invece che maggiore) arriva solo alla sedicesima variazione (in Brahms arrivava alla quinta). Nelle variazioni e nella fuga, colossale come quella dell’op. 96, Reger da` fondo alla sua enorme sapienza di musicista. Quel che gli manca e` secondo me la sobrieta` di cui aveva invece dato prova Brahms: le Variazioni di Reger sono una abbuffata di piatti forti con i quali si rischia l’indigestione. Si dice che quando viveva a Monaco Reger andasse spesso a mangiare salsicce di fegato in una birreria: non ne ordinava un paio, come i comuni avventori, o quattro, come i mangioni, ma se le faceva servire ininterrottamente per un’ora intera, da mezzogiorno all’una. Le Variazioni op. 134 sono un po’ lo specchio della sua voracita`. Ben diverse sono invece le Variazioni e Fuga su un tema di Mozart op. 132 (1914), di cui Reger preparo` la trascrizione a quattro mani dall’originale per orchestra. Dal tema tratto dalla Sonata K 331 e gia` variato dallo stesso Mozart si sviluppano otto variazioni nelle quali rivive la grazia del rococo`, e la Fuga, su un lungo soggetto, e` trasparente... e la durata non arriva a ventisei minuti. Questo Gargantua era pero` capace di creare deliziosi snack quando rinunciava alla monumentalita` babilonese. Fra le sue cose migliori sono da ricordare i quattro fascicoli di Aus meinem Tagebuch op. 82 (Dal mio diario, 1904, 1906, 1911, 1912), e soprattutto i Tra¨ ume am Kamin op. 143 (Sogni

‘‘Ewig dein’’ op. 17523

accanto al caminetto, 1915), dodici piccoli pezzi che si concludono con una allucinata rilettura straniante della Berceuse op. 57 di Chopin. Citero` infine un breve pezzo che mette alla berlina la musica di consumo dei dilettanti, ‘‘Ewig dein’’ op. 17523 (‘‘Per sempre tuo’’ op. 17523, 1905), nel quale il numero d’opera e` uno sfotto` per autori popolarissimi come Charles Acton, che sfornava pezzi idioti a centinaia. Ma il pezzo di Reger e` un elegantissimo valzer capriccioso, e tecnicamente non facile, che non ha stilisticamente nulla a che

Max Reger

vedere con la musica di consumo. Le trascrizioni e le parafrasi di Reger (Toccata in re minore di Bach, Sul Bel Danubio blu di Strauss, Studi da Chopin, ecc) soffrono in genere della stessa ipertrofia che limita l’impatto con il pubblico dei due cicli di variazioni con fuga. Ma esemplari sono invece le trascrizioni per pianoforte a quattro mani dei Concerti brandeburghesi e di alcuni corali per organo di Bach, che si accomunano allo ‘‘stile da camera’’ che in una analoga situazione venne adottato da Ferruccio Busoni.

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Julius Reubke

‘‘Ewig dein’’ op. 17523

Julius Reubke (Hausneindorf, 23 marzo 1834-Pillnitz, 3 giugno 1858) L’organista Julius Reubke, di cui tutti gli organisti conoscono la Sonata sul Salmo 94, e` entrato anche nella storia della letteratura pianistica con la Sonata in si bemolle (1856-1857, 1871), composizione ciclopica in un solo movimento che discende direttamente dalla Sonata in si di Liszt e che a Liszt, di cui Reubke era stato allievo a Weimar, e` dedicata. La Sonata di Reubke e` articolata in tre grandi sezioni – Allegro maestoso, Andante sostenuto, Allegro assai – ed e` in realta` un vastissimo primo movimento di sonata che ingloba un intermezzo. Per questo aspetto la derivazione da Liszt e` palmare. L’armonia e` pero` persino piu` ‘‘avveniristica’’ di quella di Liszt, e l’espressione e` piu` immediata, bruciante, sovreccitata. I limiti della Sonata di Reubke, i limiti che non le hanno permesso di entrare a pieno titolo nel repertorio concertistico del pianoforte, sono secondo me da ricercare nella relativa genericita` dei temi, nella limitata trasformazione dei temi stessi, nella frequenza delle progessioni e nella strumentazione pianistica, che nella sua grandiosita` e complessita` di scrittura manca della razionalita` del virtuosismo di Liszt. Si potrebbe dire che la strumentazione di Reubke, virtuoso dell’organo, e` tanto idiomatica nella Sonata sul Salmo 94 quanto e` poco idiomatica nella Sonata in si bemolle, e che in questo senso Reubke e` il rovescio di Liszt, i cui grandi lavori organistici non sono un modello di sfruttamento sagace delle potenzialita` dello strumento. La drammaturgia della Sonata in si bemolle, con la sua conclusione

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trionfalistica, sembra inoltre esemplata sulla prima versione della Sonata di Liszt, piu` scontata di quella della seconda e definitiva versione. Ma bisogna anche aggiungere che la Sonata di Reubke e` la testimonianza di un ‘‘pensare grande’’ e di un’audacia creativa che stupiscono in un giovane poco piu` che ventenne, e che la morte prematura non permise a Reubke di raggiungere i risultati a cui lo destinava il suo vivacissimo talento. Il resto della produzione pianistica di Reubke comprende soltanto lo Scherzo in re (1852 ca., 1858) e la Mazurca in Mi (1852 ca., 1859). Lo Scherzo, che e` in forma di rondo` (o di scherzo con due trii, come lo Scherzo op. 4 di Brahms), riflette con tutta evidenza gli studi di Reubke nel conservatorio di Berlino con Theodor Kullak, pianista e compositore allievo di Czerny, e con Adolf Bernhard Marx, compositore, grande teorico classicista e amico di Mendelssohn. La scrittura pianistica dello Scherzo e` lineare e molto elegante, con pochi tratti di bravura e per niente affatto lisztiana, il tono discorsivo e` piano e scorrevole. Gli stessi caratteri stilistici ritornano nella Mazurca, che all’eleganza aggiunge un tocco di piccanteria e un tono leggero da operetta, assai sorprendenti nel prossimo autore della Sonata. Sembra evidente che Reubke, educato nella buona e solida cultura accademica tedesca, cadesse fulminato sulla strada di Damasco quando conobbe Liszt e quando, da Liszt, apprese ad amare Wagner.

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Gioachino Rossini

A Gioachino Rossini

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(Pesaro, 29 febbraio 1792-Passy, 13 novembre 1868) I pezzi per pianoforte e, piu` in generale, tutta la tarda produzione di Rossini rappresentano un annoso problema critico. Un compositore che non solo si colloca incontestabilmente fra i grandi di ogni tempo ma che, in giovane eta`, gia` era diventato un arbitro del gusto, conclude a trentasette anni la sua carriera pubblica, per circa ventisette anni compone pochissimo, quindi riprende intensamente la sua attivita` creativa ma quasi in segreto, nel chiuso del circolo familiare e di pochi illustri amici e lascia, morendo a settantasei anni, una ricca messe di manoscritti, che dispone negli album complessivamente intitolati Pe´che´s de vieillesse (Peccati di vecchiaia) e che per molto tempo restano in gran parte inediti. Un solo lavoro dell’ultimo periodo, la Petite Messe solennelle, viene eseguito, e` conosciuto dal pubblico, e` giudicato dalla critica un capolavoro, mentre quasi tutti gli altri, e tra questi le pagine pianistiche, non superano mai il livello della curiosita`, degli studi critici parziali e della sporadica riproposta concertistica. Negli ultimi decenni le cose vanno molto meglio a livello di discografia, ma si tratta di iniziative tanto in se´ e per se´ meritorie quanto per il pubblico, come si usa dire, di nicchia. E fino ad oggi manca lo studio critico sistematico e completo con cui siano stati esaminati a fondo i molti volumi in cui sono raccolte le pagine pianistiche rossiniane, che assommano alla non trascurabile cifra di un centinaio circa. Sia le non numerose esecuzioni, sia gli studi critici si sono finora indirizzati di preferenza verso gli aspetti umoristici o grotteschi della produzione di Rossini. Un petit train de plaisir, comico-imitatif (Un trenino di piacere, comico-imitativo) e` la storia di un viaggio in ferrovia, con chiamata dei viaggiatori e salita sui vagoni, lento avviamento della macchina a vapore, viaggio per un po’ tranquillo e allegro, deragliamento, un morto che va in Paradiso e un altro che va all’Inferno, funerali, disperazione – un brillante valzerino – degli eredi, Petit Caprice Style Offenbach (Piccolo Capriccio nello stile di Offenbach) e` un ironico divertimento con stilizzata citazione di un can-can e, all’inizio, con una diteggiatura indice-mignolo per entrambe le mani che mimando le corna allude alla fama di menagramo del popolare compositore, Marche et Reminiscences pour mon dernier voyage (Marcia [funebre] e Reminiscenze per il mio ul-

timo viaggio) e` un pot-pourri con citazioni di temi da varie opere di Rossini, quasi l’omaggio di personaggi al defunto loro creatore, Un caresse a` ma femme (Una carezza a mia moglie) e` la piccola storia di un placido e sonnolento idillio familiare, con bisticcio e riconciliazione, Un enterrement en Carneval (Una sepoltura a Carnevale) non necessita di spiegazioni, ecc. ecc. Questo atteggiamento e` certamente interessante, e a ragione viene collegato con la posteriore vocazione al surrealismo di Erik Satie, ma non e` a parer mio il piu` importante. Spesso solo il titolo – Pre´lude fugasse´ (Preludio fugazzato), Valse boiteuse (Valzer zoppo), Bolero tartare (Bolero tartaro: il bolero, chiedo scusa per la precisazione pignolesca, e` per definizione una danza spagnola), Valse anti-dansante (Valzer antidanzante), Pre´lude soidisant dramatique (Preludio sedicente drammatico) – appare umoristico soltanto in se´ e per se´ , senza che l’umorismo, al contrario di quanto avviene con Satie e con i pezzi che avevo prima elencato, investa veramente le strutture musicali e il linguaggio. E ci sono molti pezzi, specie i ventiquattro dei Quelques riens pour album (Qualche bagatella per album) in cui l’espressione e` diretta e sincera e in cui troviamo tutt’al piu` una Danse sibe´rienne (Danza siberiana) il cui contenuto non trova riscontro nel titolo bizzarro. Il carattere generale dell’opera pianistica di Rossini, il carattere di cui l’umorismo spinto fino al grottesco rappresenta il rovescio in negativo, e` secondo me la conseguenza del rifiuto di quella svolta storica che il mondo aveva conosciuto nel 183031 con la Rivoluzione di Luglio a Parigi. Nella letteratura per pianoforte c’e` un punto di rottura che segna emblematicamente la nascita di una nuova epoca: lo Scherzo op. 20 di Chopin, composto a Vienna nel 1831. I due celebri accordi con cui la composizione si apre e il celeberrimo accordo di dieci suoni furiosamente ripercosso nove volte, poco prima della fine, sono come il manifesto di un impiego dell’armonia, a fini drammatici, che non ha precedenti nella letteratura pianistica. E che non li ha non tanto nella civilta` musicale viennese di Beethoven e di Schubert, mondo che nel 1830 aveva ormai concluso il suo primo grande ciclo, quanto nel biedermeier internazionale, trionfante in tutta Europa fino all’avvento della genera455

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Gioachino Rossini

zione romantica di Chopin, Schumann, Liszt. Dopo il Guglielmo Tell (1829) Rossini si ritrae da un mondo che cambia – per lui, in peggio – e, come dicevo, per molti anni mantiene un silenzio interrotto soltanto dallo Stabat Mater, dalle Soire´ es Musicales e da pochi lavori di circostanza. Dopo il 1856, dopo che Chopin e Schumann sono scomparsi, dopo che Liszt si e` fatto, da rivoluzionario arrabbiato che era, filosofo della storia, dopo che il romanticismo ha cominciato a stemperarsi in bozzettismo sentimentale e in psicologismo, il mondo perento puo` tornare in vita con la sua dignita` e con il suo fascino di epoca di grande civilta`, di cui spiccano nuovamente i valori. Liszt, per un verso, Brahms in modo piu` radicale potranno allora rivolgersi alla classicita` viennese. Rossini, che i classici li aveva conosciuti solo a scuola e che, in fondo in fondo, era italiano, risale ai suoi mani: a Palestrina, a Marcello, a Domenico Scarlatti, a Muzio Clementi e, last but not least, a se stesso, al Cigno di Pesaro gia` assurto da trent’anni nell’empireo del melodramma. Trent’anni sono una generazione. E dopo che una generazione di rivoluzionari ha scosso le radici dell’arte senza metterle allo scoperto, Rossini esce dall’ibernazione e riprende a conversare con la musica, sia pure in privato e in modo privatissimo. Non si tratta pero` di un ripensamento personale e individuale della propria storia, ma di una originale partecipazione a un movimento di cultura che sta sorgendo nella patria di adozione, Parigi, la citta` cosmopolita in cui Rossini trascorre serenamente la vecchiaia. Persino un romantico incendiario come Berlioz ha guardato gia` nel 1850-54, un po’ per scherzo e molto per un indefinibile sentimento di nostalgia, verso un remoto passato francese, scrivendo quella Enfance du Christ che fa credere essere opera di un antico maestro. Un preromantico come Alexandre-Pierre-Franc¸ois Boe¨ly compone verso il 1855 otto Suite nello stile dei vecchi maestri, il romanticissimo Alkan scrive gighe e minuetti, parecchi pianisti – Aristide e Louise Farrenc, Ame´de´e de Me´reaux, il giovanissimo Louis Die´mer – ricercano, eseguono e ripubblicano antiche musiche per tastiera. Die´ mer, insieme con Francis Plante´, George Mathias e Camille SaintSae¨ ns, compone il quartetto dei grandi pianisti preferiti di Rossini, che fa loro eseguire nel suo salotto molti dei suoi pezzi per pianoforte. Rossini, scrive Die´mer, ‘‘suona il pianoforte in modo delizioso, senza usare il pedale e con un tocco argentino’’. Die´mer, di cui sono restati alcuni dischi e che fu tra i primi a riprendere la pratica del clavicembalo, aveva un suono leggero e secco, usava poco il pedale, possedeva una tecnica di dita fantastica; 456

Pre´lude pe´tulant rococo

e cosı` Saint-Sae¨ns, e cosı` un altro, piu` giovane pianista francese di cui sono rimasti dischi, Raoul Pugno. La Gavotta variata di Rameau, eseguita da Pugno, e` un esempio e un modello perfetto di timbrica pianistica per l’esecuzione dei clavicembalisti. E a questa estetica della sonorita` ci rimanda irresistibilmente certa scrittura pianistica rossiniana: ad esempio, nel Pre´ lude pe´tulant rococo (Preludio petulante rococo` ). Rarissimi sono in Rossini gli stilemi pianistici posteriori al 1830: esempi di scrittura lisztiana – ma non ben dominati, semplificati, quasi arcaicizzanti – si trovano nello Spe´cimen de l’avenir (Modello dell’avvenire), dove sono... obbligati, dato il titolo; il pezzo intitolato Gymnastique d’e´ cartement (Ginnastica di estensione) potrebbe essere una ‘‘rilettura’’ e uno studio di un pezzo famoso, il Canto della filatrice op. 81 di Henry Litolff. Ma non c’e` altro. E che a Rossini non piacesse il moderno sviluppo del virtuosismo in genere, e vocale e pianistico, e` cosa ben nota. Moscheles, che nel 1860 si reco` piu` volte nella villa di Passy a trovare Rossini, racconta di avergli detto che ‘‘tutto cio` che sono e` dovuto alla vecchia scuola, al vecchio maestro Clementi’’. E Rossini ‘‘si alzo`, ando` al pianoforte e suono` a memoria frammenti delle sue [di Clementi] Sonate’’. Si dice anche – e se non e` vero e` ben inventato – che dopo aver ascoltato da Liszt la trascrizione per pianoforte solo della ouverture del Guglielmo Tell, Rossini esclamasse sornionamente: ‘‘E` veramente molto, molto difficile. Peccato che non sia ineseguibile’’. Di solito la scrittura di Rossini riprende tale e quale – esempio tipico, il Bolero tartaro – la scrittura biedermeier di Moscheles e di Kalkbrenner. Il grosso della scrittura rossiniana e` arcaico, i piani di sonorita` sono due soli e senza profondita`, arcaico e` il gusto della melodia e della ornamentazione, l’armonia e` usata a fini coloristici, non espressivi, le forme sono quelle classicheggianti e dilatate – spesso, enormemente dilatate – dell’epoca biedermeier. Ci sono persino squarci di musica da melodramma 1820, trasferita sulla tastiera: si vedano ad esempio il temporale ed i corni da caccia di Un Reˆ ve (Un sogno). Ma anche quando la trasposizione non e` palese e` sempre presente la stilizzazione del melodramma che era stata la specialita` e il merito dei pianisti biedermeier, compreso il giovane Chopin. Tuttavia, cio` malgrado, l’opera pianistica di Rossini non sarebbe databile al 1820-30, cosı` come la pittura preraffaellita non sarebbe databile al Rinascimento. L’intervento di Rossini su uno stile, storicizzato e riconoscibilissimo, e` sottile e poco appariscente ma continuo, e la dimensione manieristica si rileva in ogni momento. Si consideri anche

Album de Chaˆteau

soltanto un pezzo programmaticamente arcaico come lo Spe´cimen de l’Ancien Re´gime (Modello dell’antico regime): i richiami alla melodia dell’opera seria rossiniana sono evidentissimi, uno splendido fugato a tre voci risuscita i tempi antichi, le riprese variate sono ornamentate con fioriture arcaicizzanti: eppure certi cromatismi della prima parte non rientrano nell’Ancien Re´gime ed il tema di valzer lento si snoda con una sinuosita` elegante che preannuncia la belle e´poque piu` che non ricordi i tempi di Carlo X. La fedelta` di Rossini al mondo scomparso non e` quella di un reazionario che vorrebbe riprodurre il passato, ma di un esteta che il passato vuole ricordarlo anche reinventandolo: ed e` l’uso dell’armonia, soprattutto, che rende l’idea di una distanza non colmata ne´ colmabile. Forse non c’e` un preciso disegno nella distribuzione dei pezzi che Rossini riunisce in vari album, e quindi la scelta antologica che gli interpreti prediligono e che io stesso ho seguito nella mia breve analisi non spezza una architettura cercata dall’autore. Ma forse, al contrario, c’e`, o c’e` almeno in un caso. Chi direbbe che non sia intenzionale l’ordine dell’Album de Chaˆteau (Album del castello), con lo Spe´cimen de l’Ancien Re´gime al primo po-

Gioachino Rossini

sto, lo Spe´cimen de Mon Temps al sesto (alla meta`) e lo Spe´cimen de l’Avenir al dodicesimo (all’ultimo)? Chi non vede alla prima occhiata la costruzione simmetrica dell’Album de Chaˆteau, con un preludio (Preludio petulante rococo`) al secondo posto e uno (Preludio sedicente drammatico) al penultimo, una grande danza (Bolero tartaro) al quarto e una grande danza (Tarantella di sangue) al quartultimo, un pezzo intimistico (Un rimpianto, una speranza) al terzo e uno (Un sogno) al terzultimo? Ma e` anche vero secondo me che nell’Album del castello (questo castello avra` per caso un significato simbolico?) si trova una organizzazione generale che soltanto con acrobazie e contorsioni intellettuali sembra sia possibile ricostruire negli altri album. Cosı`, per lo meno, pare a me. C’e` pero` una regola che le generazioni dei musicologi e degli interpreti imparano spesso a loro spese: quando si dice che un grande creatore dormitat, chi dormitat della grossa sono in realta` il musicologo e l’interprete. La produzione pianistica di Rossini, dopo gli entusiasmi degli anni sessanta e malgrado il lavoro intenso che e` stato fatto dalla discografia, e` ancora, nel suo insieme, un enigma. E che l’enigma nasconda il vuoto e` cosa tutta da dimostrare.

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Albert Roussel

Preludio e fuga op. 46

Albert Roussel (Tourcoing, 5 aprile 1869-Royan, 2 agosto 1937) La fama di Roussel e` oggi affidata alla sua opera di sinfonista, sia per le Sinfonie n. 3 e n. 4, sia per le suite dai balletti Le Festin de l’araigne´e e Bacchus et Ariane. Non e` pero` noto il Concerto in Do per pianoforte e orchestra op. 36 (1927), di cui Cortot, che pure lo apprezzava molto, ebbe a dire: ‘‘Lo strumento solista e` trattato rudemente e al modo d’un complemento necessario alla argomentazione musicale. E` tenuto fermamente al suo posto, che non consiste in altro se non nell’aggiungersi ai timbri dell’orchestra’’. Roussel, che non era pianista, usa il pianoforte come se fosse uno strumento dell’orchestra con interventi solistici (si pensi a quanti assoli importanti hanno, nel repertorio sinfonico, il primo violino e il primo violoncello) e la sua invenzione musicale e` in questo senso molto viva. Un primo movimento tesissimo, percussivo, persino violento, un Adagio estatico (con un grande assolo del corno inglese, come nel Concerto in Sol di Ravel che sarebbe stato composto tre anni piu` tardi), un finale danzante. Durata breve (circa diciassette minuti), discorsivita` serrata, drammaturgia tradizionale ma perfettamente dominata. Il Concerto op. 36 potrebbe avere una collocazione nel repertorio, ma l’osservazione di Cortot basta a farci capire perche´ non la ha. I lavori per pianoforte solo, che non sono molti ma che non sono nemmeno pochi, soffrono tutti delle limitate capacita` di strumentatore di Roussel e non possono veramente reggere il confronto con cio` che scrissero negli stessi anni due strumentatori come Debussy e Ravel. Des heures passent op. 1 (Le ore passano, 1898) raccoglie quattro pezzi molto influenzati da Vincent d’Indy, con il quale Roussel aveva studiato alla Schola Cantorum dopo essere stato ufficiale di marina. Rustiques op. 5 (Rustici, 1904-1906) sono opera di un artista che tiene invece conto di Debussy. Danza al bordo dell’acqua, Passeggiata sentimentale nella foresta, Ritorno dalla festa, tre pezzi caratteristici ben costruiti, di tono spesso popolaresco, armonicamente e ritmicamente vivaci. Musica per le novelle di Maupassant che raccontano le scampagnate fuori porta dei parigini... La Suite op. 14 (1909-1910) e` piu` ambiziosa, piu` lavorata e, secondo me, meno genuina. Roussel sceglie una tonalita`, Fa diesis, che ha un timbro 458

particolare ma che e` anche molto difficile da maneggiare pianisticamente. E` la tonalita` della Sonata op. 78 di Beethoven, della Barcarola di Chopin, della Gondoliera di Liszt. Ma Beethoven, Chopin, Liszt erano pianisti sommi, Roussel, nel passare dalle idee alla strumentazione, trovava mezzi non del tutto appropriati. Preludio, Siciliana, Bourre´e (in fa diesis), Ronda. La qualita` musicale e` alta, la drammaturgia trascorre dalla tragicita` del Preludio alla gaiezza della Ronda (i rari interpreti invertono in genere le posizioni della Siciliana e della Bourre´ e, ottenendo cosı` una progressione piu` sfumata), la resa pianistica esige cure infinite e una tecnica coloristica di cui pochi sono in possesso. E quei pochi si dedicano preferibilmente al Gaspard de la nuit di Ravel, che e` contemporaneo della Suite di Roussel. La Sonatina op. 16 (1912) e` in due movimenti, il primo basato su due temi trattati in due modi diversi, prima in tempo Moderato, poi in tempo Vivo e leggero, quasi scherzo, il secondo con introduzione in tempo Lentissimo e un Moderato con progressiva accelerazione fino al Vivo. Due movimenti, ma in realta` quattro, un po’ come il Concerto n. 4 di Saint-Sae¨ns, per una composizione meno densa di contenuti rispetto alla Suite. I Tre Pezzi op. 49 (1933) arrivano dopo un lungo periodo in cui Roussel compone per pianoforte soltanto alcune pagine brevi e di circostanza alle quali non assegna il numero d’opera, come il Canone perpetuo (1913), che rimane inedito, il Doute (Dubbio, 1919), L’accueil des muses (L’accoglienza delle muse, 1920), scritto in memoria di Debussy, lenta marcia processionale armonicamente molto dura, dettata da una emozione profonda. I Tre Pezzi sono quasi come una sonatina senza adagio, anche se le proporzioni non sono sonatistiche (Allegro con brio, Allegro grazioso, Andante-Allegro con spirito); sono dionisiaci come il balletto Bacchus et Ariane del 1931, spigliati, vivaci, e pianisticamente molto meglio strumentati della Suite e della Sonatina. La dedica a Robert Casadesus, che ne assicuro` la prima esecuzione, mi fa pensare che la scrittura dei Tre Pezzi sia stato frutto della collaborazione, o per lo meno dei consigli del pianista. Il Preludio e fuga op. 46 (1932-1934) nacque da una richiesta della Revue musicale, che

Preludio e fuga op. 46

voleva pubblicare pezzi pianistici sul nome BACH. Roussel compose nel 1932 la Fuga in Fa sul nome BACH spostando all’ottava alta il si corrispondente alla H e creando in tal modo nel tema l’inedita tensione intervallare della settima

Albert Roussel

maggiore in luogo della seconda minore. Due anni dopo il compositore aggiunse il Preludio in fa, drammatico e fortemente contrastante con la Fuga. E fu l’ultima volta che Roussel scrisse per pianoforte.

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Anton Rubinsˇtejn

Preludio e fuga op. 46

Anton Rubinsˇtejn (Vychwatinez, 28 novembre 1829-Peterhof, 20 novembre 1894) Nei quarant’anni che corrono fra il ritiro di Liszt dall’attivita` concertistica e l’apparizione folgorante di Paderewski, Anton Rubinsˇtejn fu il pianista piu` popolare e piu` osannato. I suoi soli rivali erano Hans von Bu¨low, considerato pero` troppo dottrinale per suscitare fanatismi, e Carl Tausig, morto troppo presto, a trent’anni, per poter rappresentare veramente una valida alternativa. Cosı`, Rubinsˇtejn regno` incontrastato, svolse un’attivita` frenetica, invento` il ciclo dei ‘‘concerti storici’’ con musiche da Byrd a Cˇajkovskij, e fece anche in tempo a fondare i conservatori di S. Pietroburgo e di Mosca, a insegnare e a scrivere libri. Un’attivita` per la quale, apparentemente, non basta una vita. Ma Rubinsˇtejn ne aveva tante, di vite. E la sua vita di compositore non fu da meno di quella del virtuoso e dell’educatore. Quindici opere, sei oratori, sei sinfonie, cinque concerti per pianoforte, un concerto per violino e due per violoncello, dieci quartetti e una strabocchevole quantita` di musica da camera, circa duecento composizioni per pianoforte solo. La musica di Rubinsˇtejn... cesso` in pratica di esistere dopo la prima guerra mondiale, ma la discografia della seconda meta` del secolo non fu avara con lei e, oggi, chi ha questa curiosita` puo` farsi un’idea non settoriale di cio` che Rubinsˇtejn rappresento` nel campo della musica. C’e` pero` un problema, insoluto, che riguarda particolarmente il settore pianistico. Massimo Mila disse una volta che i Concerti di Liszt, piu` che grande musica, erano saggi di alta eloquenza. Questa definizione, che secondo me e` assurdamente limitativa per Liszt, calza invece a pennello per Rubinsˇ tejn. Qualsiasi discorso parlato, per quanto eloquente, perde di forza se viene messo sulla carta e se viene letto senza che vi si ritrovi il fuoco incandescente della tensione oratoria. Percio` le musiche di Rubinsˇtejn, generalmente scritte di getto e poco elaborate concettualmente, richiedono un atteggiamento del tutto particolare da parte dell’interprete, l’atteggiamento oggi non consueto di chi ha a cura la retorica musicale piu` della musica. E ha ragione Mario Bortolotto quando afferma: ‘‘Quanto e` evidente all’esame meditato scompare, o sfuma peraltro all’audizione: tale e` la forza propulsiva del pianismo splendidissimo, che riempı` ancora di epico spavento gli ascoltatori dell’unico allievo privato, Jozef Hofmann’’. Se si eccettuano i Concerti 460

n. 3 e n 4, dei quali abbiamo la registrazione di Hofmann, e poche altre cose, si deve dire che la discografia ha perseguito la causa di Rubinsˇtejn piu` quantitativamente che qualitativamente, e che l’interpretazione del Nostro, come di altri compositori della sua epoca e della sua tempra, postula un ripensamento dei canoni affermatisi nel corso del Novecento. Il Concerto n. 1 in Mi op. 25 (1850) e il Concerto n. 2 in Fa op. 35 (1851) vennero ben presto abbandonati dallo stesso Rubinsˇtejn. Il Concerto n. 3 in Sol op. 45 (1853-1854) e` un lavoro fresco e spontaneo che trovo` una sua collocazione nel repertorio e che si segnala perche´ presenta nei due primi movimenti molti temi arieggianti il valzer e perche´ il terzo movimento sembra pensato per un balletto. Rubinsˇtejn disse di aver avuto per il Concerto un programma: gli strumenti dell’orchestra si riuniscono nel Tempio dell’Arte per valutare la domanda di ammissione del pianoforte, e il pianoforte viene attentamente esaminato, ma siccome dimostra di essere lui stesso un’orchestra viene cacciato dal Tempio. Il Concerto n. 4 in re op. 70 (1864) fu popolarissimo fino al 1914. Il primo e il terzo movimento (quest’ultimo a modo di danza popolare slava) sono discorsivamente vari e coerenti, e turgidamente eloquenti come grandi arringhe oratorie. La derivazione ideologica – non stilistica, ovviamente: siamo negli anni sessanta – dal biedermeier degli anni venti e` evidente, ed e` evidente il fatto che Rubinsˇ tejn pensa la musica da operista, non da sinfonista. Il punto debole del Concerto e` rappresentato secondo me dal primo tema del secondo movimento, una melodia elegiaca troppo generica che si affida interamente alla bellezza del suono e che appare legata alle qualita` individuali del suo autore, famoso per il fascino sensuale del suo cantabile. Il Concerto n. 5 in Mi bemolle op. 94 (1874) esige moltissimo dall’esecutore in fatto di virtuosismo e manca secondo me di continuita`. Ferruccio Busoni lo incluse nel 1919 nel suo secondo ciclo della storia del concerto (il primo era del 1896) e in una lettera al marchese Silvio della Valle di Casanova trovo` per esso la definizione adatta: ‘‘Il Concerto di Rubinsˇtejn (in Mi bemolle), rozzamente grandioso, presenta un tipo pianistico speciale’’. Il resto della produzione di Rubinsˇtejn con orchestra – Fantasia in Do op. 84

Sonata op. 100

(1871), Capriccio russo op. 102 (1883), Fantasia eroica op. 110 (1886 ca.), Pezzo da concerto op. 113 (1887 ca.) – ebbe soltanto spodariche esecuzioni, ma il Pezzo da concerto meriterebbe di essere riportato in vita. Il catalogo della musica per pianoforte solo di Rubinsˇ tejn si apre con lo Studio ‘‘Ondina’’ op. 1 (1843 ca.), che venne recensito benevolmente da Schumann: ‘‘Il primo lavoro del giovinetto di grande talento che, come esecutore, ha gia` raggiunto una fama notevole. Ma dopo questa prima prova non possiamo ne´ affermare ne´ negare che egli possieda un grande talento creativo. Il fatto che in questo piccolo pezzo sia preponderante l’elemento melodico, pur senza offrire una vera e propria e bella melodia, lascia tuttavia sperare che egli abbia cominciato ad afferrare la vera essenza della musica e che in tal senso egli possa sempre piu` felicemente svilupparsi’’. Rubinsˇtejn, che per tutta la vita sarebbe stato effettivamente un melodista, valuto` piu` tardi questo Studio e altre cose sue come puerilia, e arrivato all’op. 10 ricomincio` da capo la numerazione. Il pezzo che segnalo` Rubinsˇtejn all’attenzione del mondo musicale, che arrivo` sul leggio di tutti i dilettanti e che venne trascritto per ogni sorta di strumenti fu la Melodia in Fa op. 3 n. 1 (1852). Melodia cullante in ritmo dattilico, del tutto vocalistica (nel registro di contralto), e quindi gia` di per se´ fascinosa ma strumentata abilmente al modo, semplificato, del ‘‘suonare con tre mani’’ di Thalberg. La melodia viene infatti eseguita dai pollici delle due mani che s’alternano regolarmente, ed e` accompagnata, sopra e sotto, da accordi quasi arpa: una raffigurazione paradisiaca, una replica romantica della Danza degli Spiriti Beati nell’Orfeo di Gluck. La Melodia op. 3 n. 1 ha una compagna, la Melodia in Si op. 3 n. 2, che venne pero` sempre trattata, non del tutto a ragione, come la figlia della serva. Le tre giovanili Sonate (1851-1853), in Mi op. 12, in mi op. 20, in Fa op. 41, presentano un unico e indiretto, ma non secondario motivo di interesse: sono contemporanee delle tre Sonate di Brahms e, come quelle ma in modo molto meno creativo, indicano l’intento neoclassico perseguito dai loro autori. Nel decennio 1851-1860 Rubinsˇtejn affronto` le forme e le tradizioni classiche in molte sonate per vari strumenti, cercando, attraverso l’assimilazione della classicita` e del romanticismo austrotedesco, di fondare una civilta` musicale russa, e affiancandosi in cio` a Balakirev e a Musorgskij, autori di sonate che rimasero pero` incompiute. I Sei Studi op. 23 (1849-1850) toccano vari problemi di tecnica pianistica, ma solo due di essi, il secondo e il terzo, si distinguono secondo me dalla

Anton Rubinsˇtejn

pletora di pubblicazioni similari che si sviluppo` come una fungaia verso la meta` dell’Ottocento. Lo Studio n. 2, in forma di grande canzone tripartita, sviluppa lo staccato molto incisivo in una scrittura di accordi, e il legato in una scrittura di doppie note. La sua esecuzione e` faticosa, e quindi la sua utilita` didattica e` accertata, ma i temi sono spiritosi e il pezzo scorre piacevolmente come una toccata; peccato che la frequenza di accordi di decima ne limiti l’esecuzione alle mani molto grandi. Lo Studio n. 3, bitematico anch’esso ma in forma AB-A-B, alterna una melodia che, con l’incrocio delle mani, allena all’uso del peso della spalla, e un movimento rapido sulle estensioni, di evidente derivazione da Chopin ma inventivo. Molto piu` compatta musicalmente e` la seconda raccolta di studi, i Sei Studi op. 81 (1870), che non si pongono specifiche finalita` didattiche ma che sono piuttosto studi da concerto e piu` ancora e´tudes-tableaux al modo di Rachmaninov; il terzo Studio, in particolare, potrebbe figurare in una raccolta di Rachmaninov senza destare in noi troppo stupore. Fra i pezzi di Rubinsˇtejn che divennero celebri sono da ricordare la Romanza op. 44 n. 1 (1854), che venne considerata, non meno dell’op. 3 n. 1, un modello di melodia romantica, e il Valzer-Capriccio in Mi bemolle senza numero d’opera (datazione incerta), piccante e spettacolare, di cui abbiamo in disco esecuzioni di Paderewski, di Hofmann e di Artur Rubinstein. Dopo i saggi giovanili delle Sonate Rubinstein affronto` di nuovo le grandi forme con la Fantasia in mi op. 77 (1866) e con il Tema con variazioni in Sol op. 88 (1871), entrambi di enormi, anzi, di babiloniche dimensioni. La Fantasia avrebbe meritato, lisztianamente, il titolo fantasia quasi sonata, perche´ di sonata si tratta, ma al contrario della Sonata-Dante di Liszt, che dura quanto una sonata di Mozart, raggiunge le dimensioni della Hammerklavier di Beethoven. Nell’op. 88 il tema e le dodici variazioni durano piu` di quaranta minuti. Se si pensa che gli Studi sinfonici di Schumann – tema, undici variazioni e finale – durano meno di trenta minuti, si ha l’idea di quanto disperante sia lo star dietro alle variazioni di Rubinsˇtejn, nelle quali l’invenzione musicale non e` geniale e per il salvataggio delle quali non basta secondo me la esuberante strumentazione pianistica. Tuttavia si deve dire per scrupolo che sarebbe molto confortante se le impressioni della lettura potessero essere verificate sulla esecuzione di Ferruccio Busoni, che ebbe le Variazioni op. 88 in repertorio. Rubinsˇtejn ritorno` sulla forma classica piu` illustre con la Sonata in la op. 100 (1877; il numero d’opera, credo, e` simbolico). La composizione e`, in461

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Anton Rubinsˇtejn

solitamente per Rubinsˇtejn, meditata e lavorata a puntino, ma la Russia stava ormai per trovare nella Sonata op. 37 di Cˇajkovskij una misura di creativita` che portava l’asticella piu` in alto. E bisogna di nuovo dar ragione a Mario Bortolotto, unico critico che abbia affrontato la produzione di Rubinsˇ tejn con profondita` e acutezza di analisi: ‘‘In quell’ultima grande offerta al pianoforte, l’insolenza della scrittura, che e` quella di un dio della tastiera, non puo` essere retta da alcuna disciplina formale: la sproporzione divampa, fino a sperequazioni insensate’’. Fra le varie raccolte di pezzi di Rubinsˇtejn sono da ricordare Kamennoi-Ostrov op. 10 (Isola Kamennoi, 1852 ca.), le Soire´es de St. Petersbourg op. 44 (Serate di S. Pietroburgo, 1854), l’Album de Peterhof op. 75 (Album di Peterhof, 1866) e le Soire´es musicales op. 109 (Serate musicali, 1884). Rubinsˇtejn abito` per qualche tempo nel palazzo della granduchessa Elena, cognata dello zar, sull’isola Kamennoi, e nell’op. 10, formata da ventiquattro ‘‘ritratti’’, si ispiro` a personaggi che gli capitava di incontrare. Anche le Serate sono ‘‘ritratti’’, ma di grandi pianisti, di ciascuno dei quali viene preso affettuosamente di mira qualche carattere che confina con il tic. Qui, nell’ambito della Salonmusik, della musica da salotto, leggiamo senza annoiarci pezzi, composti magari, come diceva Donizetti della sue romanze, ‘‘mentre il riso cuoceva’’, che sono pero` pienamente indicativi della civilta` del far musica in casa, una civilta` che pochi interpreti – Gieseking, Richter – furono in grado di trasferire a livello concertistico. Nel catalogo di Rubinsˇtejn troviamo anche musica per pianoforte a quattro mani. Il Bal costume´ op. 103 (Ballo in costume, 1879) tenta la sintesi di esotismo e arcaismo, di lontano nello

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Kamennoi-Ostrov op. 10

spazio e di lontano nel tempo. Nei venti pezzi, piu` introduzione e ballo finale, che compongono la raccolta e che sono pianisticamente assai impegnativi, Rubinsˇtejn ci presenta varie coppie di personaggi in costume, citando il rispettivo secolo di appartenenza; la maggior parte delle coppie e` collocata nel sec. XVIII, evidentemente perche´ il Settecento e` musicalmente meglio noto dei secoli precedenti, ma abbiamo anche il sec. XVII (Corsaro e donna greca), il XVI (Astrologo e boema, Boiardo e boiarda), il XV (Selvaggio e indiana), il XIII (Trovatore e donna sovrana), il XII (Cavaliere e castellana). Non cerchero` di spiegare come Rubinsˇtejn caratterizzi musicalmente le coppie che prende in considerazione: mi limito a dire che secondo me il colore locale gli riesce assai meglio del colore del tempo. La raccolta e` tuttavia molto piacevole e meriterebbe di ritornare in vita, anche nela sala da concerto. Nel capitolo che gli dedica in Est dell’Oriente (Milano 1999) Mario Bortolotto dice: ‘‘La lettura sistematica di Rubinsˇtejn e` un compito da cui non si puo` piu` prescindere; se ne avranno a spigolare, oltre l’ammirazione di convenienza, non pochi spunti musicali’’. E la valutazione analitica e` accompagnata da una premessa: ‘‘[...] la prospettiva e` ben chiara: il sublime non e` l’unico spazio della musica, e delle Muse: esse frequentano non solo gli Elisi, ma le gargotes, i trivi, gli angiporti, le piazze e i bordelli, seguendo l’immortale favola del piacere’’. Un recupero di Rubinsˇtejn in sede concertistica, oltre che critica, sembra a me possibile. Ma, come dicevo all’inizio, questa possibilita` e` legata non soltanto al lavoro del critico: c’e` bisogno dell’interprete che sappia uscire dai canoni tradizionali del Novecento.

Concerto n. 3 op. 29

Camille Saint-Sae¨ns

A Camille Saint-Sae¨ns

B

(Parigi, 9 ottobre 1835-Algeri, 16 dicembre 1921) Saint-Sae¨ ns, compositore, insegnante, organista, critico, commediografo, archeologo e astronomo dilettante, cultore di scienze occulte, era prima di tutto un pianista. Era un pianista che, allenato a dovere da Camille Stamaty con il Guidamani del suo maestro Kalkbrenner, riponeva una totale fiducia nelle ‘‘cinque dita’’, nelle scale, negli arpeggi, e che anche in tardissima eta` si teneva in forma facendo regolarmente le sue due ore di esercizi giornalieri. Delle sue agili dita e del suo tocco secco di cui parlano i contemporanei abbiamo una qualche testimonianza pure noi, perche´ SaintSae¨ns registro` rulli di pianoforte riproduttore (anche con musiche di Beethoven e di Chopin) e incise qualche rullo di cera. I programmi dei suoi concerti ci dicono che egli non era un semplice pianista-compositore ma anche un pianista-interprete a tutto campo, al punto da impegnarsi nell’esecuzione di sedici Concerti di Mozart in quattro serate, e sostenendo di tasca sua le spese perche´ nessuno voleva finanziargli un’impresa cosı` fuori dal seminato. Ci stupisce quindi, a tutta prima, il fatto che un pianista di tal fatta non componesse per il suo strumento ne´ sonate ne´ pezzi di una certa ampiezza. Ma la motivazione di Saint-Sae¨ns, uomo pragmatico se mai ce ne fu un altro al mondo come lui, diventa evidente quando si pensa allo stato della vita concertistica durante la belle e´ poque. Per saziare la fame di cultura di un pubblico che si era destato sotto la sferza di Liszt e che stava diventando lo zoccolo duro della vita concertistica c’erano le sonate di Beethoven, c’erano i polittici di Schumann, c’erano le ballate di Chopin, c’erano le rapsodie ungheresi di Liszt, e i lavori consimili di Saint-Sae¨ns, in mezzo a una cosı` schiacciante concorrenza, non avrebbero trovato spazio. La concorrenza era molto meno agguerrita nel campo del concerto per pianoforte e orchestra, e lı` SaintSae¨ns impegno` al massimo le sue forze creative, conseguendo risultati che la critica in genere non gli riconosce ma che sono del tutto meritevoli di alta considerazione. Sigismund Stojowski invento` per il Concerto n. 2 di Saint-Sae¨ns una fortunata boutade: ‘‘Comincia con Bach, finisce con Offenbach’’. Cio` vale in realta` per tutti i Concerti di Saint-Sae¨ns, nei quali si trovano i topoi dell’opera, dell’operetta, del balletto, della sinfonia, assunti e usati a seconda della

convenienza in una dimensione di raffinato manierismo. Il carattere della predominante cultura tedesca, che aveva attuato la separazione del campo ‘‘classico’’ e del campo ‘‘leggero’’ e nella quale un Bruckner non avrebbe mai scritto operette e un Johann Strauss non avrebbe mai scritto sinfonie divenne un canone di giudizio che fu surrettiziamente applicato alla cultura francese. Saint-Sae¨ns compose opere e operette, sinfonie e musica da film, e vide il concerto come un crocevia in cui confluivano i vari generi. Questa e` la sua ratio, e la valutazione dei suoi prodotti dovrebbe essere semplicemente qualitativa, non ancorata alla classificazione dei generi e della loro purezza. Tuttavia e` vero che i pregiudizi del passato hanno ancora un loro peso nella cultura di oggi e che i Concerti di Saint-Sae¨ns sono guardati molto spesso, a torto, come musica di second’ordine. Il Concerto n. 1 in Re op. 17 (1858) comincia in un’atmosfera – richiami dei corni – boschereccia che si rifa` al Weber del Franco cacciatore (SaintSae¨ns disse di essersi ispirato alla foresta di Fontainebleau), poi si distende in una piacevole conversazione galante, come un quadro che raffigura un pic nic durante una caccia. Il secondo movimento e` un dolce notturno con ornamentazioni leggere che richiamano il canto dell’usignolo, e il finale e` operettistico; qualche reminiscenza del Concerto n 5 di Beethoven non turba la individualita` del tessuto e della scrittura in un pezzo che, per essere stato composto da un ventitreenne, si presenta come un prodotto fuori del comune. Il Concerto n. 2 in sol op. 22 (1868) viene ripreso con una certa frequenza anche oggi. Formalmente molto originale, con uno Scherzo come secondo movimento, un inizio a fantasia che fa pensare ai momenti di quasi-improvvisazione delle toccate barocche e un finale a modo di tarantella, il Concerto n. 2 amalgama perfettamente gli elementi stilistici piu` disparati – il tema principale del primo movimento fu preso addirittura da una composizione sacra di un allievo che si chiamava Faure´ – in un tutto coerente e spettacolare. Il Concerto n. 3 in Mi bemolle op. 29 (1869) fu scritto immediatamente dopo il n. 2 per essere eseguito a Lipsia, dove fece un tonfo clamoroso dal quale non riuscı` piu` a sollevarsi. Molto suggestivo e` l’inizio, ispirato, dice Saint-Sae¨ns, dalle maestose cascate d’ac463

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Camille Saint-Sae¨ns

qua delle Alpi e che per tutto il vasto primo movimento si muove in atmosfere paesistiche. Il secondo movimento e` di nuovo, come nel Concerto n. 1, un notturno, ma di carattere spiccatamente operistico, un intermezzo lirico in cui il ruolo dell’orchestra e` prevalente e il solista e` pienamente integrato nella massa. Proprio questo incantato Andante provoco` le furie del pubblico di Lipsia. Ma a raccogliere poi i rimbrotti dei musicologi fu il finale, un finale che per un po’ va avanti diritto e baldanzoso e che poi, purtroppo, si trascina con convenzionali ripetizioni e che inoltre, essendo molto difficile tecnicamente, non ripaga adeguatamente il solista della fatica che gli impone. Saint-Sae¨ns si prese la rivincita, una grande rivincita, con il Concerto n. 4 in do-Do op. 44 (1875), che per un certo periodo fu popolare quanto il Secondo. La forma e` in due movimenti, e si potrebbe dire in due atti, con una articolazione interna molto originale. Il primo movimento e` in due parti, Allegro moderato in do e Andante in La bemolle. Il secondo movimento riprende, trasformati, i temi del primo movimento ed e` anch’esso in due parti: Allegro in do e Allegro vivace in Do, collegati da un Andante. L’Allegro vivace, a modo di valzer, e` come un finale di operetta, con molti couplet, che contrasta violentemente con l’inizio del Concerto, in cui il primo tema veniva esposto come uno scolastico ‘‘canto dato’’. I quattro movimenti del Concerto n. 1 di Liszt sono collegati fra di loro, ma per una durata che non arriva ai venti minuti. Il Quarto di Saint-Sae¨ns dura circa ventisei minuti, e percio`, credo, l’Autore preferı` l’articolazione in due movimenti, sebbene la struttura in quattro movimenti sia evidente e sebbene la cesura fra il primo e il secondo movimento sia piu` apparente che reale. L’invenzione tematica e` originale, la scrittura e` brillantissima, e il Concerto scorre felicemente dall’inizio alla fine senza alcun momento di stanchezza. Il Concerto n. 5 in Fa op. 105 (1896) fu composto da Saint-Sae¨ns, che come al suo solito svernava in Africa, a Luxor, in previsione della serata in cui sarebbe stato celebrato il cinquantenario del suo esordio di concertista. Oltre al nuovo Concerto e a una nuova Sonata per violino Saint-Sae¨ ns eseguı` , il 2 giugno 1896, il Concerto K 450 di Mozart con il quale aveva debuttato – ragazzino di undici anni – e inoltre la Morte di Thaı¨s da lui trascritta dall’opera di Massenet. Preparo` anche, e recito`, una poesia che rievocava la serata di cinquant’anni prima. Con tutto quel bendiddio il Concerto n. 5 non divenne il clou della serata e negli anni seguenti non pote´ contrastare la popolarita` del Secondo e del Quarto. Venne pero` ripreso da Busoni nel ciclo di cin464

Concerto n. 4 op. 44

que serate che, a Zurigo nel 1919, esponeva per capisaldi la storia del concerto per pianoforte e orchestra. Rispondendo al marchese Silvio della Valle di Casanova, che su Saint-Sae¨ns aveva espresso delle riserve, Busoni disse: ‘‘Non posso ammettere che quello di Saint-Sae¨ns (in Fa) sia, come Ella dice, ‘assolutamente insipido’; anzi, io lo stimo squisito e curioso’’. Non abbiamo l’esecuzione di Busoni, ma abbiamo l’esecuzione di Sviatoslav Richter, che rivela tutta l’importanza storica e la compiutezza estetica del Concerto n. 5. I tre movimenti sono molto differenziati. Il primo e` come un paesaggio autunnale nella campagne francesi: colori delicati, figurazioni fruscianti, temi di poco rilievo plastico ma evocativi. Certi particolari ricordano il primo movimento della Sinfonia n. 6 di Beethoven, la Pastorale, ma sono come citazioni di un precedente illustre a cui ci si riaggancia idealmente. Il secondo movimento sfrutta una melodia nubiana che Saint-Sae¨ns disse di aver ascoltato dai barcaioli del Nilo (e percio` il Concerto n. 5 e` detto l’Egiziano). Saint-Sae¨ns riproduce anche in modo realistico il gracidio delle rane e la sua strumentazione, sia orchestrale che pianistica, raggiunge qui un livello altissimo di raffinatezza e di eleganza. Alcuni tratti melodici del pianoforte, eseguiti in mezzoforte, sono raddoppiati in pianissimo da bicordi paralleli in una diversa tonalita`. Dal punto di vista armonico si tratterebbe di politonalita`, pero` l’effetto acustico e` quello di un timbro artificiale, un fac-simile di una marimba. Il finale e` tutto parigino, una scena di vita sui boulevard con carrozze e una folla festante, un can-can stilizzato e affettuosamente ironico di travolgente vivacita` motoria. La produzione di Saint-Sae¨ns per pianoforte e orchestra comprende inoltre l’Allegro appassionato op. 70 (1884), composto per pianoforte solo per un concorso del conservatorio di Parigi e poi trascritto in veste piu` opportuna per pianoforte e orchestra; il pezzo e` del tutto funzionale allo scopo che si prefigge, mettere alla prova i concorrenti all’ultimo esame in un istituto scolastico. La Rapsodia d’Alvernia op. 73 (1884) e` invece, insolitamente per il Nostro, non virtuosistica. I temi sono popolari, la posizione dominante e` riservata a un canto delle lavandaie. La relativa difficolta` della composizione permise a un timidissimo pianista come Maurice Ravel, che era uscito dal conservatorio di Parigi senza conquistare nessun premio, di eseguirla a La Rochelle nel 1897 in un concerto di beneficenza. Il Wedding-Cake per pianoforte e archi (1886) e` un delizioso valzerino, composto per le nozze di Caroline Montigny-Re´maury, allieva di Saint-Sae¨ns e figlia di una collega che insegnava

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nel conservatorio di Parigi. Nella stilizzazione di qualsiasi cosa Saint-Sae¨ns e` un maestro incontestabile, e in questo caso egli ci da` la dimostrazione di come si tratta il ‘‘frivolo’’ senza scadere nel frivolo. La fantasia Africa op. 89 (1891) e` come un cartone preparatorio per il secondo movimento del Concerto n. 5, ma la sostanza musicale non fa pensare a un Continente Nero, sia pure di invenzione. I temi, originali, sono ispirati al folclore andaluso, il pianoforte e` impiegato come uno strumento dell’orchestra, sebbene la sua parte sia tecnicamente molto difficile, e il quadro che ne risulta e`, per cosı` dire, il corrispettivo dei racconti esotici nei quali non ci si preoccupava troppo della verosimiglianza ma solo del pittoresco. Le musiche di Saint-Sae¨ ns per due pianoforti si collocano a mezza strada fra i pezzi da concerto e i pezzi da salotto, perche´ possono far fare una bella figura a due virtuosi ma possono anche essere alla portata di due figliole di buona famiglia che abbiano lavorato a dovere il pianoforte sotto la guida di una qualche diplomata del conservatorio fornita di occhiali spessi, dentatura cavallina e un buon metodo di studio. Quanto al contenuto, beh!, niente che farebbe scappare gli ascoltatori nella sala da concerto, niente che farebbe sbadigliare nel salotto. E soltanto – occhio alle possibilita` di assorbimento del mercato! – cinque pezzi in ventiquattro anni. Le Variazioni su un tema di Beethoven op. 35 (1874) sono dedicate ‘‘a` Monsieur & Madame Alfred Jae¨ll’’. Alfredo Jae¨ll, triestino corto, grasso e gioviale, aveva sposato nel 1866 Marie Trautmann, alsaziana lunga, secca e taciturna; insieme avevano costituito uno dei primi duo pianistici non occasionali e svolgevano un’attivita` concertistica internazionale. Il tema di Beethoven scelto da Saint-Sae¨ns, probabilmente a causa della struttura a domanda e risposta che permetteva agevolmente e quasi suggeriva la divisione fra due pianoforti, e` quello del Trio del Minuetto nella Sonata op. 31 n. 3. Preceduto da una breve introduzione, il tema viene seguito da sei variazioni, strettamente legate alla struttura di base e sempre impostate sulla botta e riposta tra i due strumenti secondo una concezione spaziale della sonorita` . Dopo la sesta variazione ha inizio il finale, non piu` legato alla struttura del tema e articolato in tre sezioni: un Alla Marcia funebre in do, notevole per lo sfruttamento in senso ironicamente serioso di un intervallo tradizionalmente dolce e ‘‘amoroso’’ come la terza, un Allegro fugato che dipinge un altrettanto ironico quadro classicistico, e un Presto a modo di scherzo, turbinoso e brillantissimo. La Polacca op. 77 (1886) ci mostra un Saint-Sae¨ns attratto dagli aspetti celebrativi e fastosi della po-

Camille Saint-Sae¨ns

lacca, messi in luce da Weber, piu` che dagli aspetti drammatici, messi in luce da Chopin. La Polacca di Saint-Sae¨ns, malgrado la tonalita` minore di fa, dipinge un quadro fantastico ed eroicamente rappresentativo di una danza-marcia della nobilta` polacca in fastosi costumi, ... non senza un eccentrico tocco di bolero spagnolo. La forma e` quella tradizionale, ma ampliata mediante l’inserzione di una sezione di sviluppo. Alla fine della introduzione Saint-Sae¨ ns cita un particolare della Polacca ‘‘Militare’’ op. 40 n. 1 di Chopin e alla fine della Polacca parafrasa il trio della chopiniana Polacca ‘‘Eroica’’ op. 53: sono dunque le polacche marziali di Chopin quelle che maggiormente interessano a Saint-Sae¨ns, che tuttavia resta estraneo al senso di epopea nazionale dell’opera chopiniana. Nello Scherzo op. 87 (1889) il titolo e` inteso in senso etimologico, non formale. Non si tratta dunque di uno scherzo con trio ma di un pezzo di carattere umoristico in forma di valzer da concerto. Da notare l’introduzione, nella quale la tonalita` non e` chiaramente definita, e il sapido piacere con cui viene lievemente distorta, e caricaturata, la banalita` di alcune melodie. E` un esempio molto fine e molto divertente, sebbene minimo, del consapevole gusto del kitsch e della contaminazione fra musica colta e musica leggera di cui Saint-Sae¨ ns e` maestro. Il Capriccio arabo op. 96 (1894), composto a Las Palmas, e` simile alla fantasia Africa di cui ho gia` detto. Il Capriccio eroico op. 106 (1898) e` dedicato alla memoria di una contessa del gran mondo. La struttura e` in tre parti: un Allegro elegantissimo a modo di gavotta, un Vivace in tempo di valzer, un Allegro conclusivo che sfocia in una specie di can-can. Se si comprende bene la corrispondenza della forma al Capriccio del titolo, si capisce meno bene in che consista l’eroico: eroica e` tutt’al piu` la lisztiana transizione dal valzer al finale; il resto porebbe anche fare da sfondo a un’esibizione di Nana` in un teatrino di vaudeville. Piacere della danza, dunque, definito eroico e dedicato a una contessa defunta: saremmo quasi tentati di frugare fra i segreti d’alcova della nobildonna. Nel settore del pianoforte solo spiccano innanzitutto tre raccolte di sei studi ciascuna: i 6 Studi op. 52 (1877), i 6 Studi op. 111 (1899) e i 6 Studi per la sola mano sinistra op. 135 (1912). Gli Studi op. 52 comprendono due Preludio e fuga (n. 3 e n. 5) di limitato interesse sia artistico che didattico. Didatticamente utile e` lo Studio di ritmo (n. 4) e molto utile e` lo Studio per l’indipendenza delle dita (n. 2), che persegue la messa in evidenza, uno alla volta, di tutti i suoni di accordi ribattuti. Nell’esecuzione dell’accordo e` molto semplice porre 465

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in evidenza la nota piu` acuta o la nota piu` bassa, mentre e` molto difficoltoso far emergere e far balzare in primo piano le note intermedie: l’indipendenza delle dita non riguarda quindi, come di solito, un problema meccanico ma un problema di tocco differenziato. La raccolta si apre con un inoffensivo Preludio e si chiude con lo Studio in forma di valzer, bellissimo e bizzarro pezzo da concerto che solo nella coda, in doppie note, persegue veramente finalita` didattiche. Anche l’op. 111 contiene un Preludio e fuga (n. 3) con un gradevole Preludio e una Fuga accademica. Lo studio conclusivo, Toccata, e` una trascrizione del finale del Concerto n. 5. Il n. 4, Le Campane di Las Palmas, e` un pezzo evocativo e moderatamente esotico che non stonerebbe del tutto fra le Stampe di Debussy. Gli altri tre studi – Terze maggiori e minori, Tratti cromatici, Terze maggiori cromatiche – sono a destinazione squisitamente didattica ma perseguono finalita` piu` coloristiche che meccaniche, e in questo senso anticipano gli Studi di Debussy. Gli Studi op. 135, composti per la dedicataria del Wedding-Cake che aveva avuto un incidente alla mano destra, sono in realta` una suite neobarocca in cui si insinua una Elegia romantica; solo il n. 4, Bourre´e, fu un tempo molto noto, ed e` del resto l’unico in cui la scrittura per la sola mano sinistra non costringa il compositore a sche-

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Suite op. 90

matizzare e impoverire il pensiero. Saint-Sae¨ ns aveva gia` affrontato la rinascita del barocco nella Suite op. 90 (1892), che comprende Preludio e fuga, Minuetto, Gavotta e Giga, precedendo il Debussy della Suite bergamasque e di Pour le piano. E al filone dell’arcaismo appartengono anche il Capriccio su temi dell’Alceste di Gluck, di incerta datazione, molto brillante e che contiene un vero e proprio tema con variazioni, e le numerose trascrizioni da Bach. Saint-Sae¨ns e` un personaggio da romanzo. Nacque quando Schumann aveva appena composto il Carnaval e Bellini i Puritani, fece in tempo a sentire (e a disgustarsi) la Sagra della Primavera di Stravinskij, e avrebbe potuto assistere, se l’avesse voluto, a una rappresentazione di Assassino, speranza delle donne di Hindemith. A vent’anni era un wagneriano per la pelle, sui trent’anni suonava a memoria, a Wagner, il Tristano, e a ottant’anni era un antiwagneriano feroce. Le sue vicende coniugali non sarebbero fuor di luogo in un romanzo di Kafka. Forse e` lui, il Vinteuil della Recherche di Proust, e la sua prima Sonata per violino e` una delle candidate in cui si puo` identificare la ‘‘piccola frase’’ proustiana. Ma, come dicevo all’inizio, Saint-Sae¨ns fu innanzitutto un pianista, e senza i suoi cinque Concerti la storia della letteratura pianistica sarebbe priva di un capitolo essenziale.

Gnossiennes

Erik Satie

A Erik Satie

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(Honfleur, 17 maggio 1866-Parigi, 1º luglio 1925) Satie era pianista. Non concertista, non insegnante, ma accompagnatore di cantanti – tapeur a` gages, diceva lui, strimpellatore salariato – nei cabaret di Parigi. Musicista professionista con un’educazione accademica carente, a trentanove anni Satie si iscrive alla Schola Cantorum del severissimo d’Indy, studia con Roussel e a quarantadue anni si diploma. Appassionato di occultismo e di medievalismo, lettore assiduo dei libri del grande restauratore delle cattedrali gotiche, l’architetto Violletle-Duc, diventa membro della setta dei Rosa-Croce di Josephin Pe´ladan, ne esce per fondare la sua Chiesa Metropolitana d’Arte di Gesu` Conduttore, di cui scrive lo statuto, descrive e disegna le divise, decide di ammettervi fino a duecento ‘‘ufficiali claustrali bianchi’’ e ‘‘quarantamila grigi’’, otto milioni di ‘‘cavalieri professi’’ e un miliardo e seicento milioni di ‘‘cavalieri conversi’’, e assume le cariche di Maestro di cappella e di Grande Elemosiniere, pur restandone l’unico fedele. Il misticismo medievalistico di Satie ispira le Ogives (Ogive, 1886), le Sonneries de la Rose-Croix (Suonerie della Rosa-Croce, 1891), i Quattro Preludi (1892), i Preludi della Figlie delle stelle (1892), le Danze gotiche (1893), il Preludio della Porta eroica del Cielo (1894). La scrittura di Satie e` accordale ma l’armonia non e` funzionale: lunghe sfilate di accordi consonanti si susseguono come le colonne delle cattedrali, ieratiche melodie modellate sul gregoriano, ritmo statico, incedere lento, strutture ripetitive, poderosi cori maschili ed eterei cori di pueri cantores, un insieme che persegue la monotonia come chiave per accedere al mondo della contemplazione che esclude passioni e dramma. Delle Danze gotiche si capisce il... goticismo, ma non si capisce, perche´ non c’e`, il senso coreutico. Una nota precisa pero` che i pezzi sono una ‘‘novena per la piu` gran calma e forte tranquillita` della mia anima’’ e che sono dedicati a S. Benedetto. I singoli pezzi hanno titoli penitenziali e finiscono con ‘‘Dopo aver ottenuto la remissione dei peccati’’. Nelle Danze gotiche si ha l’impressione che il misticismo, contaminato dal gusto del gioco spinto all’eccesso, sia diventato una maschera. In fondo, a rappresentare il Satie mistico e il suo medievalismo nostalgico in cio` che ha di piu` genuino bastano secondo me le Ogive e l’estatico e bellissimo Preludio n. 4, Festa data da cavalieri normanni in

onore d’una giovane damigella, con la precisazione cronologica: XI secolo. Troviamo il Satie tapeur a` gages nei valzer Polvere d’oro e Io ti voglio (1892 ca.) e nel rag Le Picadilly (1892 ca.), programmaticamente Kitsch, micidiali nella loro banalita`. Banali, ma in modo diverso, erano un Allegro (1884) di venti secondi e le prime due composizioni pubblicate di Satie, il Valzer-Balletto (1885) e il Valzer-Fantasia (1885), usciti nella antologia La Musica delle famiglie, nei quali il ventunenne compositore si mette coscienziosamente nei panni delle ragazze piccolo borghesi che studiano il pianoforte come ornamento sociale. Il Satie piu` tipico compare gia` nelle tre Sarabande (1887), che usano come consonanti, non dissonanti, gli accordi di settima e di nona, e ‘‘sboccia’’ nelle tre Ginnopedie (1888), che sono ancora oggi le sue composizioni piu` celebri. Il termine gymnopedie e` riferibile alla danza rituale dei giovani spartani nudi. Ma la Grecia classica del Peloponneso non c’entra per niente. Le melodie primitivistiche, il modalismo, gli accordi usati come colori o grumi armonici, i ritmi giambici danno piuttosto l’idea di musica popolare medievale, canto lamentoso del mendicante accompagnato da piccoli strumenti a percussione. Le differenze fra i tre pezzi sono minime: ritmo sempre uguale, strumentazioni sempre uguali, tempo sempre soporifero (Lento e dolcemente, Lento e triste, Lento e grave). Esteticamente riuscitissimi, linguisticamente originali, i tre pezzi caddero nella vita musicale francese come sassi nello stagno. Fino al 1888 Debussy, di quattro anni maggior di Satie, per pianoforte aveva soltanto composto la Danse bohe´mienne, e le Ginnopedie gli aprirono un panorama tutto da scoprire. Nel 1897 egli trascrisse per orchestra la Prima e la Terza Ginnopedia, testimoniando in questo modo l’importanza che l’esempio di Satie aveva avuto per lui. Per il termine gymnopedie e` stata trovata una origine greca classica. Per le Gnossiennes (18901893), tre delle quali pubblicate da Satie, e tre uscite postume, si e` scomodato persino il palazzo di Cnosso nell’antica Creta ma non si e` venuti a capo dell’enigma. Se per le Ginnopedie viene da pensare alla piazza di Noˆtre Dame, per le Gnossiennes si pensa ai saraceni della corte di Federico II: lo stile e` sempre quello, ma le melodie sono in467

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Erik Satie

fiorate da melismi orientali. Qui fa pero` la sua comparsa un’altra mascheratura di Satie, quella, per cosı` dire, del suggeritore occulto. Molti insegnanti di pianoforte usavano – usano ancora – notare sulle musiche le sintetiche tracce scritte dei consigli elargiti verbalmente. Satie si assume lui stesso questo compito. ‘‘A poco a poco’’, ‘‘piantare il suono’’, ‘‘molto lucente’’, ‘‘con grande bonta`’’, ‘‘cercare in se stesso’’. Fino a qui siamo alla esortazione appena velata di ironia. Ma con ‘‘non uscire’’ (di senno?), ‘‘sulla lingua’’, ‘‘aprire la testa’’ siamo alla battuta ferocemente grottesca. E su questa strada Satie tornera` molto spesso, anzi, tornera` quasi sempre. Prima di entrare alla Schola Cantorum Satie compose un lavoro che, malgrado il titolo provocatorio, mostra un impegno compositivo piu` serioso. Si tratta dei Tre Pezzi in forma di pera per pianoforte a quattro mani (1903). I pezzi sono in realta` sette, cioe` tre centrali, due preludi e due postludi. Musica seriosa, dicevo, con temi talvolta baroccheggianti. In abito da cavallo per pianoforte a quattro mani (1911) segna il distacco di Satie dagli studi accademici: due Fughe, ciascuna preceduta da un suo Corale. Il Satie che ha in tasca il diploma della Schola Cantorum esordisce nei Pre´ludes flasques (Preludi flaccidi, 1911), con la precisazione pour un chien (per un cane). L’editore li rifiuta e Satie gli presenta i Ve´ ritables Pre´ludes flasques (Veri Preludi flaccidi, 1912), sempre pour un chien, che sono accettati. I consigli per l’esecuzione vengono dati anche in latino (fra l’altro, corpulentus, caerimoniosus), la musica e` pianamente scorrevole, e gentile, la staticita` ieratica e` molto attenuata sebbene la tensione ritmica sia bassa. Seguono altre raccolte, tutte umoristiche, ma di un umorismo corrosivo nei titoli e nelle didascalie, non nella musica, che non abbandona mai il tono di bonomia dei Pre´ludes flasques, anche quando, nel secondo degli Embrioni disseccati, fa apparire il Trio della Marcia funebre della Sonata op. 35 di Chopin in Do e con la didascalia ‘‘citazione della celebre Mazurca di Schubert’’. Il capolavoro del Satie umorista arriva con gli Sports et Divertissements (Sport e Divertimenti, 1914). Si tratta di venti pezzi brevi, preceduti da un Corale introduttivo, pubblicati in edizione di lusso in fac-simile, con riproduzioni di acquerelli di Charles Martin. In un primo momento l’editore si era rivolto a Stravinskij, che aveva... sparato una cifra giudicata troppo elevata. La proposta era cosı` stata girata a Satie che, essendo un povero diavolo, non faceva questioni di prezzo. La pubblicazione della musica in fac-simile ci permette di valutare e di apprezzare la minuziosa cura grafica di Satie, 468

Tre Pezzi in forma di pera per pianoforte a quattro mani

che non scrive ma ‘‘disegna’’ le note come un amanuense medievale. Il ciclo si apre con il Corale stomachevole, in cui Satie dichiara di aver voluto mettere ‘‘tutto cio` che sa della noia’’. Poi cominciano i Divertimenti con l’Altalena. Pensando all’altalenta viene spontaneo di vedere la sorridente ragazzina che dondola, con il vestitino di organza e un fiore fra i biondi capelli. Sull’altalena di Satie c’e` invece... il suo cuore: ‘‘E` il mio cuore che si dondola cosı`’’. La musica suggerisce il dondolio, Satie osserva l’aspetto del suo cuore: ‘‘Che piedini’’. E alla fine si chiede: ‘‘Vorra` rientrare nel mio petto?’’ Musica realistica per storie surreali in tutti i capitoletti del ciclo, che dopo l’Altalena fanno sfilare La Caccia, La Commedia italiana, Il Risveglio della maritata, A mosca cieca, La Pesca, Sullo yacht, Il Bagno di mare, Il Carnevale, Il Golf, La Piovra, Le Corse, Il Flirt, Fuoco artificiale, Il Tennis. Qualcuno si e` chiesto che cosa ci sia di sportivo o di divertente nel risveglio della maritata, qualcun’altro se il flirt vada assegnato agli sport o ai divertimenti, o che c’entri la piovra. A parte il fatto che la piovra e` il soggetto, non l’oggetto dell’attivita` sportiva perche´ caccia un granchio, lo inghiotte, gli va di traverso ed e` costretta a bere un bicchiere d’acqua per rimettersi, a parte cio`, dicevo, Satie non e` un notaio che sia obbligato a tenersi stretto al programma. Egli coglie tutte le occasioni che gli consentono di giocare con i nonsense verbali, senza che il nonsense venga esteso alla musica. Solo nelle Corse, quando il testo addita i ‘‘perdenti’’, la musica cita perfidamente la Marsigliese. Altrimenti la musica scorre svelta e tranquilla, e se non si conosce il testo, come accennavo a proposito dell’Altalena, l’ascoltatore immagina panorami del tutto diversi da quelli che Satie gli propone. Il fascino degli Sports et Divertissements, che e` fortissimo, dipende secondo me proprio dalla discrasia che si crea fra la musica e il testo (gli acquerelli di Charles Martin non sono ne´ carne ne´ pesce). E da cio` sorge un problema di comunicazione praticamente insolubile. Satie non pensa al melologo – recitazione sulla musica –, anzi, lo esclude, e del resto le esecuzioni in forma di melologo, che sono state tentate, hanno avuto un esito deludente. Tutta la musica pianistica di Satie e` in realta` pensata per un lettore solitario, non per un pubblico di ascoltatori, o tutt’al piu` per ascoltatori che, non sapendo suonare il pianoforte, sappiano leggere la musica. Il pezzo di Satie piu` provocatorio – e piu` rivelatore – e` in questo senso Vexations (Vessazioni, 1895 ca.), che porta questa istruzione per l’uso: ‘‘Per suonarsi 840 volte di seguito questo motivo sara` bene prepararsi preventivamente, e nel piu` gran silenzio, per mezzo di se-

La Belle Excentrique per pianoforte a quattro mani

riosa immobilita`’’. ‘‘Per suonarsi’’, non per suonare... Chi ascolta gli Sports et Divertissements in concerto o in disco coglie solo parzialente il senso della sottilissima operazione culturale compiuta da Satie, anche se legge il testo nel programma di sala o nel booklet, perche´ non puo` cogliere l’esatta collocazione delle parole sulla musica. Il problema che puo` essere risolto solo parzialmente negli Sports et Divertissements si aggrava nella Sonatina burocratica (1917). La musica e` quella della Sonatina op. 36 n. 1 di Clementi, trasportata da Do in La, letta per lo piu` per moto contrario e sottilmente distorta. Il testo verbale di Satie racconta la grigia giornata di un burocrate, ma di un piccolo burocrate, di un travet. Umorismo amaro e melanconico, che apre la via all’ultimo periodo della creativita` di Satie, quello del Socrate. Nascono i cinque Notturni (1919). Scomparso ogni intento satirico, scomparse le istruzioni per l’uso, scomparse le storie surreali, resta una musca intimamente commossa ma pudica, indifesa, velata di una malinconia serena e senza rimpianti. Un Primo Minuetto (1920) che non sara` mai seguito da un Secondo chiude il catalogo per pianoforte solo di Satie. Ma Satie non si lascia imprigionare nell’icona del veggente e torna inaspettatamente allo stile del tapeur a` gages, reso molto

Erik Satie

piu` acido, con La Belle Excentrique per pianoforte a quattro mani (1922), denominata ‘‘fantasia seriosa’’ e formata da Marcia franco-lunare, Gran Ritornello, Valzer del misterioso bacio nell’occhio, Gran Ritornello, Cancan molto mondano. La produzione pianistica di Satie, che non e` molto varia, richiede una precisazione generale che secondo me e` essenziale: lo strumento di Satie non e` il pianoforte a coda ma il pianino verticale del tapeur a` gages, ogni suo pezzo – egli scrisse anche un Preludio in tappezzeria e una Musica d’arredamento – non richiede da parte dell’ascoltatore la concentrazione della identificazione psicologica, ma e` come uno strip di Charlie Brown o di Wizard che si legge stando seduti al caffe`, in pace con se stessi e con il mondo, sorridendo, facendo correre l’immaginazione secondo le provocazioni del testo e senza curarsi troppo della perfezione del suono, che e` invece soggetto a tutte le incognite della meccanica di un vecchio verticale che e` stato pestato da molti avventori. L’esecuzione della musica di Satie richiede una qualita` paradossale per un professionista, ma fondamentale: la trascuratezza. Percio` Satie non e` un autore per concertisti, sebbene molti concertisti lo adorino: la trascuratezza acquisita e` la dote piu` rara che si conosca.

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Domenico Scarlatti

La Belle Excentrique per pianoforte a quattro mani

Domenico Scarlatti (Napoli, 26 ottobre 1685-Madrid, 23 luglio 1757) Per orientarsi nella fitta selva della produzione clavicembalistica di Scarlatti, come per tutti gli autori che pubblicarono solo una piccola parte delle loro opere e che usarono preferibilmente titoli generici (concerto, sonata, sinfonia, ecc.), serve un catalogo. Per alcuni autori usiamo un solo catalogo che si e` imposto per la sua completezza (la H di Haydn, la K di Mozart, la D di Schubert), per altri sono per cosı` dire in lotta piu` cataloghi (la R e la S di Liszt, la F e la P di Vivaldi). Accanto alle Sonate di Scarlatti il musicofilo trova la L o la K, o entrambe. La L e` la iniziale del nome Longo. Alessandro Longo, pubblicando a partire dal 1906 tutte le Sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti, in buona parte ancora inedite, le aveva classificate secondo un numero progressivo da 1 a 500, aggiungendo poi altre quarantacinque Sonate, classificate da 1 a 45 con una S (Supplemento). Le cinquecento Sonate erano ordinate in suite di cinque Sonate ciascuna, e stampate in dieci volumi di dieci suite ciascuno: le suite, che del resto nessuno prese in considerazione, erano state esse insieme dal Longo, senza alcuna base o giustificazione di natura storico-musicologica. Il criterio della catalogazione era estetico, per non dire astrologico, vista la sistematicita` con cui ritornavano il cinque e il dieci. Una catalogazione, per tornare veramente utile, dev’essere invece condotta con criteri scientifici, deve cioe` indicare anche, fin dove possibile, la cronologia di composizione. Il numero d’opera delle Sonate per pianoforte di Beethoven – da opera 2 a opera 111 – non ci serve solo per sapere a quale Sonata, precisamente, vogliamo riferirci, ma ci indica anche un prima e un dopo. Sappiamo che le Sonate opera 2 vengono prima, molto prima della Sonata op. 111, e non ci accorgiamo neppure piu` di quanto importante sia sapere che l’op. 111 non fu scritta da un giovanotto, ne´ l’op. 2 da un uomo maturo. Viceversa, i numeri del catalogo Longo sono utili per andare a pescare in un libro o in un disco quella tal Sonata che ci e` molto piaciuta quando l’abbiamo ascoltata in concerto, ma non ci dicono niente di piu`. La K e` la iniziale del nome Kirkpatrick. Ralph Kirkpatrick affronto` il problema di una catalogazione che fosse sı` di utilita` pratica, ma che partisse anche, per quanto possibile, da basi scientifiche. Purtroppo non ci sono pervenuti gli autografi di 470

nessuna delle Sonate di Scarlatti, e quindi ci mancano eventuali elementi diretti (data in calce all’autografo) o indiretti (tipo di carta e di inchiostro, grafia) atti a fornirci la cronologia di composizione. Le fonti di valore scientifico sono quindi soltanto le pubblicazioni e le copie manoscritte antiche. Domenico Scarlatti pubblico` una raccolta di 30 Esercizi (1738), ristampati un anno piu` tardi con l’aggiunta di altri dodici pezzi. Alcuni pezzi sono inoltre contenuti in pubblicazioni di minore importanza, apparse mentre Scarlatti viveva ancora. Fra le fonti manoscritte, due sono di capitale importanza: una raccolta di Sonate, di mano di un copista di professione, si trova in quindici volumi, ora alla Biblioteca Marciana di Venezia; un’altra raccolta, sempre di mano di un copista e in quindici volumi, e in gran parte di contenuto identico a quello dei volumi della Marciana, si trova ora nella Biblioteca Palatina di Parma. Entrambe le raccolte sono di provenienza spagnola, e le armi di Spagna e del Portogallo incise nei volumi della Marciana ci dicono, insieme con altre notizie, che si tratta di belle copie destinate a Maria Barbara di Braganza, figlia del re del Portogallo e moglie del re di Spagna, presso la quale Scarlatti presto` servizio per piu` di trent’anni. Siamo quindi sicuri che si tratto` di raccolte preparate sotto la diretta sorveglianza di Scarlatti, e siccome i volumi della Marciana e della Palatina sono datati e` possibile stabilire l’anno di copiatura (che non corrisponde necessariamente, com’e` evidente, alla data di composizione). Dal complesso delle fonti ora citate si arriva quindi a stabilire il termine, come dicono gli specialisti, ante quem, cioe` si puo` sapere se la Sonata X o la Sonata Y venne composta prima dell’anno in cui fu pubblicata o copiata. Su questa base il Kirkpatrick preparo` il suo catalogo, che fino ad ora non e` stato superato perche´ nessun nuovo elemento di valutazione e` venuto ad aggiungersi a quelli di cui lo studioso americano disponeva nel 1953. Cio` non significa che i criteri seguiti dal Kirkpatrick siano condivisi da tutti. Esistono anche i cataloghi di Giorgio Pestelli (1967) e di Emilia Fadini (1978), basati su criteri diversi, che non hanno pero` ‘‘scalzato’’ la L e la K. La larghissima maggioranza delle Sonate di Scarlatti adotta la forma in un solo movimento, in due parti con ripetizione di entrambe le parti e con an-

Sonata K 20 L 375

damento tonale tonica-dominante-tonica nel modo maggiore, tonica-relativa-tonica nel modo minore; le tonalita` di impianto sono prevalentemente quelle con poche alterazioni in chiave, ma nell’insieme delle Sonate si trovano ventuno delle ventiquattro tonalita` in uso. C’e` pero` una tesi del Kirkpatrick che non e` stata accettata da tutti e che non ha avuto conseguenze pratiche durature, ma che merita tuttavia un po’ piu` di un cenno. Mentre studiava le fonti il Kirkpatrick osservo` che in alcuni volumi della Marciana e della Palatina le Sonate apparivano legate a due a due per mezzo di varie indicazioni, come ‘‘Volti subito’’ (avvertimento all’esecutore, comunissimo nel Settecento, per significare che il pezzo non termina a fine pagina ma continua alla pagina successiva), o ‘‘Al cader dell’ultimo termine di questa Sonata, attacca subito la seguente’’, o altre ancora. Le osservazioni del Kirkpatrick sono inoppugnabili, cosı` com’e` fuori discussione il fatto che moltissime sonate di autori italiani coevi di Scarlatti siano in due movimenti. Non tutti gli studiosi hanno tuttavia accettato la tesi del Kirkpatrick. Innanzitutto, si fa osservare, i 30 Esercizi, sicuramente pubblicati per volonta` di Scarlatti, sono numerati singolarmente, e ciascuno e` in un movimento solo; mancando inoltre gli autografi di Scarlatti non si puo` sapere se egli abbia composto a coppie certe sonate o se si sia limitato ad accoppiare, aderendo a una richiesta della regina, sonate composte separatamente. Ralph Kirkpatrick sostenne con convinzione, anche come concertista, la sua teoria, che indubbiamente appare fondata su solidissime ragioni, sebbene non sia stata ancora dimostrata – e probabilmente non sara` dimostrata mai – in modo definitivo. A me sembra pero` che in molti casi la tesi del Kirkpatrick sia illuminante. Ad esempio, la popolareggiante Sonata in Mi K 380 L 23, divenuta celeberrima con Wanda Landowska con il titolo apocrifo Corte`ge e prediletta da Gieseking, Horowitz, Gilels, Lipatti, che vi dispiegavano tutte le delizie del loro magico tocco, si ‘‘sposa’’ splendidamente con la Sonata in Mi K 381 L 225, brillantissima. Qui si ha veramente la sensazione che la coppia di Sonate sia stata composta come dittico, al modo delle sonate in due movimenti di Domenico Alberti o di Paradisi. Altro esempio secondo me molto probante e` quello della Sonata in Fa diesis K 318 L 31 e della Sonata in Fa diesis K 319 L 35. Sono le uniche Sonate di Scarlatti in Fa diesis e sono consecutive nei volumi della Marciana e della Palatina. Nella K 319 il percorso tonale e` arditissimo: dal Fa diesis iniziale si passa, dopo sole sei battute, a mi bemolle, e poi a do Do diesis (e fino a qui non c’e` in realta` nulla di eterodosso, perche´ sulla

Domenico Scarlatti

tastiera il mi bemolle e` l’equivalente del re diesis, ma cio` che stupisce e` il modo di scrivere, che non si cura della correttezza accademica). Nella seconda parte Scarlatti perviene a una zona di tonalita` indeterminata: sul movimento uniforme della mano destra si delineano le tonalita` di do e poi di la, che tuttavia non vengono chiaramente afffermate. Il rapporto fra la tonalita` principale (in questo caso Fa diesis) e la tonalita` della dominante abbassata (in questo caso do) e`, nel sistema tonale tradizionale, il piu` lontanto possibile. Scarlatti spinge quindi fino ai limiti estremi – qui come in molti altri casi che non staro` a citare – la sperimentazione delle potenzialita` del sistema temperato. Nelle ‘‘accoppiate’’ di Ralph Kirkpatrick (o, per essere precisi, dei reali copisti di Spagna guidati da Scarlatti) troviamo sia Sonate nella stessa tonalita` e nello stesso modo, sia Sonate con cambiamento del modo: ad esempio, Sonata in sol K 347 L 126 e Sonata in Sol K 348 L 127, o Sonata in re K 213 L 108 e Sonata in Re K 214 L 165. La dimostrazione filologica del Kirkpatrick era stata del resto preceduta, in un certo senso, da una intuizione di Carl Tausig, autore del celeberrimo dittico Pastorale e Capriccio formato dalla Sonata in re K 9 L 413, trasportata in mi, e dalla Sonata in Mi K 20 L 375. Tausig aveva parafrasato pianisticamente le due Sonate e le a veva unite in modo del tutto arbitrario, ma aveva intuito secondo me le potenzialita` del dittico lento-veloce. Il pianoforte aveva acquisito le Sonate di Scarlatti a partire dal 1785, quando Ambroise Pitman inseriva nel frontespizio di una sua antologia scarlattiana la fatidica dizione ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’. E ‘‘per clavicembalo o pianoforte’’ e` l’antologia scarlattiana che Clementi pubblico` nel 1791. Nel 1839 usciva la prima grande raccolta: duecento Sonate in due volumi, a cura di Carl Czerny. Schumann recensı` la pubblicazione con acutezza: Scarlatti ha molti eccellenti pregi che lo distinguono dai suoi contemporanei. Non si trovera` in lui il cosiddetto ferreo ordine bachiano in cio` che riguarda il corso delle idee; egli e` di gran lunga meno profondo, piu` leggero e rapsodico; si ha un bel daffare a segurlo, tanto velocemente egli sa intessere e sciogliere i fili; il suo stile e`, in rapporto alla sua epoca, conciso, piacevole e piccante. Nell’ambito della letteratura clavicembalistica le sue opere occupano un posto di grande importanza per vari motivi: perche´ presentano molte novita` per la loro epoca, perche´ in esse lo strumento appare utilizzato in modo assai vario e infine perche´ la mano sinistra, in particolare, possiede un’autonomia fino ad allora inconcepibile. Queste illuminanti osservazioni sono pero` con471

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Domenico Scarlatti

traddette dai limiti che uno Schumann fattosi di botto cieco e sordo vede in Scarlatti: ‘‘Chi mai potrebbe infatti anche solo confrontare una simile composizione con un’opera di uno dei nostri migliori compositori? Come e` ancora impacciata la forma, poco sviluppata la melodia, come e` limitata la modulazione! E a confronto con Bach!’’ La conclusione salomonica era che le composizioni di Scarlatti, eseguite ‘‘con parsimonia e al momento giusto’’, non avrebbero ‘‘mancato di avere, anche oggi, un effetto di vivace freschezza sugli ascoltatori’’. Ci provo` Liszt, che proprio nel 1839 riprendeva la carriera concertistica abbandonata dodici anni prima, e che incluse nel suo nuovo repertorio la Sonata in sol K 30 L 499, detta Fuga del gatto perche´ si raccontava che Scarlatti ne avesse ricavato il soggetto dalle note prodotte casualmente da un felino a passeggio sulla tastiera. Nel 1837 Ignaz Moscheles aveva pero` eseguito in pubblico, sia pure in una piccola sala, alcune Sonate di Scarlatti, ‘‘compresa la celebre Fuga del gatto’’, usando il clavicembalo. Clavicembalo o pianoforte? Questo dilemma fu molto dibattuto verso la meta` del Novecento, ma si risolse come si era risolto riguardo a Bach: Scarlatti e Bach non possono essere sottratti al pianoforte, che li ha acquisiti per... diritto di conquista. Ma una tesi piu` sottile ci dice che la regina Maria Barbara di Braganza possedeva, oltre a molti clavicembali, anche alcuni pianoforti costruiti Firenze, e quindi o di Bartolomeo Cristofori, l’inventore, o del suo allievo Giovanni Ferrini. E qualcuno ha cercato di capire quando probabilmente Scarlatti aveva scritto per pianoforte, non per clavicembalo, sia pur tenendo conto del fatto che il pianoforte del Settecento e il pianoforte di oggi sono identici quanto al principio di produzione del suono, ma molto diversi nella qualita` del suono stesso. Il pionerismo di Moscheles non ebbe pero` seguito nell’Ottocento e le Sonate di Scarlatti divennero sı` pianistiche ma in una misura molto ridotta (come del resto capito` alle composizioni originali di Bach, perche´ nella seconda meta` dell’Ottocento fu popolarissimo solo il Bach trascritto dall’organo). I concertisti individuarono come filone principale da scavare nella poetica di Scarlatti l’aspetto della arditezza virtuosistica (la velocita` estrema accoppiata alla brillantezza, le doppie note, le ottave, i

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Sonata K 30 L 499 (Fuga del gatto)

salti vertiginosi, gli incroci delle mani) e come filone secondario la grazia rococo` dei minuetti e delle gavotte e dei cosiddetti tempi di ballo, mentre rimasero praticamente inesplorate l’influenza su Scarlatti della musica popolare portoghese e spagnola e gli aspetti di introspezione spinta fino alla ipocondria. E le aspre armonie con l’appoggiatura incorporata nell’accordo, che danno effetti ‘‘sporchi’’ di percussione, di rumori, vennero ‘‘purgate’’. Le edizioni didattiche, massimamente quella di Czerny, aggiungevano al testo scarlattiano, e con una certa moderazione, legature e segni di espressione; i concertisti prepararono invece vere e proprie trascrizioni, come quelle di Tausig che ho prima citato, e come quelle di Hans von Bu¨low e piu` tardi di Godowsky e di Friedman. Il Novecento respinse le trascrizioni ma tenne per buono, fino alla meta` del secolo, il testo di Alessandro Longo, che in realta`, pur essendosi in suo curioso poemetto rivolto familiarmente a Scarlatti per assicurargli di aver reso ‘‘tue carte integre ed incorrotte’’, aveva seguito i criteri di Czerny quanto a segni di espressione ed era andato anche oltre con i raggruppamenti in suite e con le indicazioni per il pedale di risonanza. Le fortune concertistiche di Scarlatti rimasero brillanti con le prime generazioni di interpreti neoclassici, da Gieseking alla Haskil, alla Hess, alla Meyer, a Casadesus, a Horowitz, a Zecchi, a Gilels, a Lipatti, a Benedetti Michelangeli, a Ciccolini, ma decaddero del tutto verso la meta` del secolo. Brendel, Ashkenazy, Pollini, Lupu non hanno incluso Scarlatti nel loro repertorio. Ma una ripresa di interesse c’e` stata con Schiff, Zacharias, Pogorelich, Pletnev e altri. Il grande lavoro di rivisitazione e` stato tuttavia fatto dai clavicembalisti, non dai pianisti, che hanno rivoluzionato lo stile di esecuzione e che hanno rivelato la straordinaria molteplicita` di aspetti della poetica scarlattiana. Non si vede perche´ il pianoforte non possa far sua la lezione che e` stata data dalla applicazione pratica della filologia in cui si sono immersi i clavicembalisti. Ma cio` non e` per ora avvenuto, o e` avvenuto in misura molto limitata, e le esecuzioni di Scarlatti al pianoforte sono piuttosto un revival degli anni fra le due guerre mondiali che l’apertura di una nuova epoca. Io credo pero` che Scarlatti possa pazientare: e` il pianoforte che ha bisogno di lui, non viceversa.

Sonata K 30 L 499 (Fuga del gatto)

Arnold Scho¨nberg

A Arnold Scho¨nberg

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(Vienna, 13 settembre 1874-Los Angeles, 13 luglio 1951) L’esordio pianistico ufficiale di Arnold Scho¨nberg avviene all’eta` di trentacinque anni. Questo era un fatto del tutto eccezionale per l’epoca e per l’area culturale in cui il pianoforte rappresentava ancora una specie di laboratorio sperimetale in cui i compositori facevano prima i latinucci e poi le prime prove creative. Scho¨nberg, in verita`, i latinucci li aveva fatti con alcuni pezzettini e abbozzi per pianoforte, tra i quali ci sono pervenuti i Tre Pezzi (1894, 1968) e i Sei Pezzi a quattro mani (1896 ca., 1973), che seguono le scie del tardo Brahms. Non era pero` andato al di la` di questi timidi tentativi, il giovane Scho¨nberg, e il suo esordio era cosı` avvenuto con i due Lieder op. 1, pubblicati nel 1898. Undici anni piu` tardi, quando fece conoscere i Tre Pezzi op. 11 (1909, 1909) Scho¨nberg aveva gia` alle sue spalle lavori di capitale importanza come il sestetto Notte trasfigurata, i Quartetti op. 7 e op. 10, la Sinfonia da camera op. 9 e il poema sinfonico Pelleas und Me´lisande. Tra i primi due pezzi dell’op. 11, composti in febbraio, e il terzo, composto in agosto, Scho¨nberg avrebbe terminato il Buch der ha¨ngenden Ga¨ rten e i Cinque Pezzi per orchestra op. 16. L’artista che compone i Pezzi op. 11 e` dunque un musicista non solo gia` pienamente maturo, ma ormai consegnato alla storia. Pero`, mentre logico e consequenziale e` il passaggio dal pianoforte-laboratorio ai complessi strumentali e all’orchestra, il passaggio inverso e` molto problematico. E nell’op. 11 l’inesperienza di Scho¨nberg nel valersi del pianoforte si nota qua e la`. Tuttavia – quasi incredibilmente, non essendo pianista – egli riesce a crearsi uno stile pianistico suo. Si suole indicare nelle ultime raccolte pianistiche di Brahms, specie negli Intermezzi, l’antecedente storico immediato dell’op. 11 di Scho¨nberg. Cio` puo` valere, limitatamente, per la Stimmung dei primi due pezzi, ma non vale certamente per il terzo pezzo e per il linguaggio pianistico, che in Brahms nasce da una lunga conoscenza manualistica dello strumento e in Scho¨nberg da una immaginazione sfrenata che, specie nel terzo pezzo, costringe l’esecutore a reinventare la tecnica. A dire il vero, i tre pezzi non sono stilisticamente omogenei, e certi particolari anche pianistici del primo e del secondo possono giustificare del tutto l’accostamento a Brahms e alla tradizione dell’Ottocen-

to. Ad esempio, la sintetica riesposizione del n. 1 inizia con il tema raddoppiato in ottava: strumentazione ultratradizionale che, nel contesto, suona curiosamente anacronistica. Altro esempio, nel n. 2: l’uso del raddoppio in ottava per sottolineare espressivamente un nucleo del secondo tema ‘‘sfora’’ terribilmente e rende in realta` banale, secondo me, la sottolineatura. Questi, e altri particolari candidamente tradizionali non intaccano pero` l’originalita` anche pianistica dei due pezzi; nel terzo, che sotto tutti gli aspetti rappresenta una svolta nella sua poetica, Scho¨nberg inventa poi una scrittura virtuosistica che non ha riscontro nella tradizione europea e che si avvicina piuttosto alle scoperte dell’americano Charles Ives. Si puo` dire in generale, con una certa approssimazione, che la` dove il tessuto musicale non richiede l’invenzione di tecniche nuove Scho¨nberg attinge ancora a una tradizione dalla quale muove anche, negli stessi anni, il linguaggio pianistico di Barto´k. La` invece dove il tessuto si fa denso e complesso, e la tecnica virtuosistica, il pianista Barto´k sviluppa un nuovo linguaggio ancora basato sulla tradizione, mentre i non-pianisti come Scho¨ nberg e come Ives passano a una sorta di violenza esercitata sullo strumento, a una lotta dell’esecutore contro la tastiera, a una gestualita` non esplicativa ma funzionale. La strumentazione pianistica del primo pezzo presenta poi – e questo viene fatto notare molto spesso – un tratto di assoluta originalita` nel breve episodio in cui Scho¨nberg, facendo abbassare alcuni tasti senza produrre suono, e quindi liberando le relative corde dalla pressione degli smorzatori, ottiene da queste, con violente scariche di suoni brevi e martellati su altre corde, un cumulo di vibrazioni per simpatia. La radice sostanzialmente psicologica dei Pezzi op. 11 appare chiaramente fin dall’inizio del primo. Il tema e` costruito sull’intervallo di terza, in modo insieme rigoroso ed elementare (e quindi facilmente comprensibile); ma la costruzione del tema (cellula discendente, e ripetizione un tono sotto, cellula ascendente, ripetuta tre volte con brevi silenzi fra l’una e l’altra ripetizione) corrisponde alla simbologia romantica che attribuisce all’intervallo ascendente il significato di una interrogazione angosciosa. L’origine romantica del linguaggio e` evidente, cosı` come e` evidente l’origine classica 473

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Arnold Scho¨nberg

delle strutture formali. Scho¨nberg rinuncia pero`, molto piu` di quanto aveva fatto il suo allievo Berg nella Sonata op. 1 del 1908, a quell’elemento di organizzazione concettuale che e` la tonalita`. Il suo discorso si sviluppa per accumulo di particolari iperespressivi, il cui collegamento non e` dovuto a una dinamica psicologica di tipo tradizionale ma a rapporti che – cio` va detto con prudenza e senza pretendere di esaurire cosı` tutti i problemi critici – dipendono semmai dalla psicologia dell’inconscio. Senza negare il carattere espressivo della musica romantica, Scho¨ nberg rifiuta pero` la logica che nel secolo precedente incanalava e razionalizzava gli impulsi emotivi. L’organizzazione formale del terzo pezzo e` radicalmente diversa da quella dei primi due: in forma ternaria i primi due, sia pure con asimmetrie che modificano gli equilibrii architettonici tradizionalli, informale il terzo. Tanto rispondente all’estetica dell’informale, il terzo, da giustificare ampiamente una tesi di Reinhold Brinkmann, secondo il quale le varie sezioni della composizione sarebbero intercambiabili. I Pezzi op. 11, non ancora pubblicati, destarono un profondo interesse in Ferruccio Busoni, al quale l’Autore li aveva inviati in visione. Busoni raccomando` la pubblicazione dei tre pezzi a due editori, ma non aderı` all’invito di Scho¨ nberg, che lo pregava di eseguirli in pubblico. Scrisse e pubblico` invece la ‘‘interpretazione da concerto’’ del n. 2. Nello scambio di lettere che avvenne fra i due artisti furono messi in chiaro alcuni concetti per noi molto interessanti, soprattutto perche´ sulla opportunita` della ‘‘interpretazione da concerto’’, che Busoni reputava assolutamente necessaria, Scho¨nberg non era affatto d’accordo (per non dir pari pari che la cosa gli seccava maledettamente). Difendendo con calore il suo punto di vista, il 18 agosto 1909 Scho¨nberg scriveva: ‘‘[...] la mia musica dev’essere breve, concisa! In due parole: non costruire ma esprimere!’’. Lo scambio di vedute – un vero e proprio dibattito di concetti divergenti – duro` a lungo. Ancora il 3 luglio 1910, sempre battagliando sulla ormai famigerata interpretazione da concerto, Scho¨nberg scriveva: ‘‘Per il mio senso della forma non e` affatto lo stesso se in un punto c’e` un accordo di tre oppure di quattro suoni. Ne viene spostato l’equilibrio’’. Quando leggiamo il carteggio Busoni-Scho¨nberg noi sappiamo che il dibattito verte sul Pezzo op. 11 n. 2, ma in verita` ci sembra che Scho¨nberg, piu` che difendere una composizione gia` ultimata, stesse mettendo a punto la poetica di un lavoro non ancora composto: i Sei Piccoli Pezzi op. 19 (1911). Brevita`, concisione, non costruire ma esprimere, cioe` forma non architettonica ma organica: tutte cose 474

Sei Piccoli Pezzi op. 19

che s’attagliano assai meglio all’op. 19 che all’op. 11. Cio` dato, il problema che bisogna porsi quando si tenta di analizzare l’op. 19 e` questo: le si possono applicare strumenti di metodologia dell’analisi che valgano indistintamente per ogni musica o si deve procedere a definire strumenti analitici che nascano dalla poetica di Scho¨nberg e quindi dalla stessa op. 19? Sono subito evidenti due considerazioni: se si adotta la prima soluzione c’e` il rischio di concludere, come avvenne con alcuni dei primi critici, negando all’op. 19 la qualita` di opera d’arte, oppure, nel migliore dei casi, facendone non un’analisi ma una specie di descrizione catastale. La seconda soluzione sembra essere la sola valida, e tuttavia non si puo` tacere il fatto che esista per essa il rischio di scambiare per concetti ben definiti quelli che in Scho¨ nberg potrebbero anche essere semplici desideri. Di alcuni elementi della poetica espressionista di Scho¨ nberg ho gia` detto, citando le sue stesse parole. Nella lettera a Busoni del 18 agosto 1909 troviamo ancora questa radicale affermazione: ‘‘Aspiro a una liberazione completa da tutte le forme, da tutti i simboli, dalla coerenza e dalla logica’’. Ed ecco che si pone subito un altro problema. Si puo` parlare allora, come fece il Leibowitz, di implicita riesposizione nel secondo e nel sesto pezzo dell’op. 19? Scho¨nberg, aspirando a un’arte libera dalle forme (e quindi, a maggior ragione, da una forma architettonica tipica come quella ternaria), non riusciva poi, in concreto, a disfarsi del ritorno, magari mascheratissimo, della esposizione? Non sembra possibile, in verita`, dare una risposta del tutto univoca. I sei suoni che si odono alla fine dell’op. 19 n. 2 sintetizzano i due eventi con i quali il pezzo era iniziato. Ma siccome la musica di Scho¨nberg non e` ‘‘musica per gli occhi’’, il ritorno finale dell’inizio non viene sentito come tale dall’ascoltatore. E` pero` parimenti innegabile il fatto che l’ultima battuta dell’op. 19 n. 6 viene percepita dall’ascoltatore come riproposta dell’inizio. Riesposizione implicita, dunque? A parer mio no, perche´ ai due blocchi di tre suoni, ripresi dall’inizio, seguono due suoni quasi inaudibili, ‘‘come un soffio’’, che vanificano la chiusura architettonica della forma. Converra` allora parlare, piu` che di forma ternaria, di ‘‘forma circolare’’, che non si esaurisce ma si autorigenera. Cio` non vale pero` per il pezzo n. 4, nel quale il senso della riesposizione viene colto anche all’audizione, oltre che alla lettura. Una ulteriore difficolta` consiste nel pericolo di ricadere nelle aporie della critica bozzettistica, impressionistica. Nella lettera del 24 agosto 1909 Scho¨nberg difendeva la sua scrittura pianistica, in opposizione a Busoni che parlava di ‘‘stru-

Suite op. 25

mentazione pianistica’’, cioe` di efficace resa su uno strumento di un pensiero astratto, dicendo: ‘‘Credo che la mia scrittura pianistica non sia il risultato di incompetenza, ma espressione di una ferma volonta`, di determinate tendenze, di sentimenti chiari e palpabili’’. Cio` che noi verifichiamo, analizzando l’op. 19, e` la ferma volonta` che da` corpo a determinate tendenze (ad esempio, la liberazione dalle forme, dai simboli, dalla coerenza e dalla logica tradizionali). Ma come riusciremo a scoprire, con l’analisi, cio` che evidentemente rappresenta l’elemento piu` importante, i sentimenti chiari e palpabili? Oppure quei sentimenti sono chiari e palpabili in quanto divenuti musica, ma sono anche ineffabili secondo un linguaggio che non sia quello dei suoni musicali? I Sei Piccoli Pezzi per pianoforte sfiorano una concezione eversiva del linguaggio, per lo meno in rapporto con la civilta` tedesco-viennese di cui Scho¨nberg si sentiva erede e continuatore. La manifestazione dell’espressione viene ridotta nell’op. 19 a singoli momenti non collegati, alla notazione aforistica in composizioni che durano ciascuna un minuto o meno d’un minuto. Questo aspetto, che piu` ha colpito i commentatori e di cui si e` molto parlato, non e` pero` , a parer mio, il piu` significativo. Scho¨nberg arriva invece a sfiorare la rottura con la tradizione quando considera il suono non piu` soltanto come simbolo dell’umano (e meno che mai come rumore naturalistico), ma come materia in se´. La riflessione sulla natura della musica porta Scho¨nberg ad analizzare la sonorita` del pianoforte: in sette pagine a stampa troviamo un vero e proprio campionario dei timbri e delle dinamiche pianistiche, che vanno dalla impalpabilita` al confine fra il suono e il silenzio fino al fortissimo piu` incisivo e violento. Nell’ultimo pezzo Scho¨nberg arriva anche ad accettare la piu` rivoluzionaria scoperta dei simbolisti francesi, e cioe` la creazione di timbri artificiali, ottenuti con sovrapposizioni di suoni la cui concomitanza e` dovuta unicamente alla sensazione che producono, cioe` al timbro puro. Con l’op. 19, come con i Pezzi per orchestra op. 16, Scho¨nberg costeggia i confini dell’informale e dell’astrattismo, ma secondo il mio parere non li valica perche´ il significato profondo dei sei brevissimi pezzi risiede nella tensione spasmodica fra un mondo ignoto a cui il compositore guarda e una tradizione nella quale si sente incorporato. Le strutture formali, per quanto allusive, sono nell’op. 19 tradizionali; il rapporto fra due poli tonali (si e fa) non manca, e non manca la tendenza a integrare i sei momenti in un ciclo organico, tanto che appare addirittura provocatoria e patetica insieme la didascalia iniziale: ‘‘Dopo ogni pezzo,

Arnold Scho¨nberg

lunga pausa; i pezzi non devono concatenarsi l’un l’altro’’. Se non si rispetta la didascalia, la concatenazione mette in luce sia il carattere ciclico, sia il rapporto del si e del fa, cioe` quei tenacissimi legami con la tradizione dell’intimismo romantico che comparivano con ogni evidenza nei brevi e ingenui Sei Pezzi per pianoforte a quattro mani del 1894, e che nel 1911 Scho¨nberg, mi sembra, intendeva celare per una sorta di disperato pudore. Anche da queste marginali osservazioni, riferite per di piu` a un settore, la musica per pianoforte, quantitativamente non rilevante nella produzione del compositore, si capisce quale drammatica avventura stesse vivendo allora Scho¨ nberg. Autodidatta e suddito dell’imperatore austroungarico, come tutti gli intellettuali del tempo Scho¨nberg sentiva che l’assetto politico del suo paese stava avvicinandosi alla fine, e avvertiva con angoscia il pericolo che la fine dell’assetto politico comportasse la morte della cultura. Intendendo la storia come progesso Scho¨nberg vedeva nella cultura tedesco-viennese il traguardo di maggior civilta` raggiunto dall’uomo, e quindi la morte della cultura viennese avrebbe assunto per lui le dimensioni della catastrofe, della fine del moderno umanesimo. Anche per Scho¨nberg vale la frase famosa del suo amico Karl Kraus, che nell’estate del 1914 vide Vienna come ‘‘terreno di prova per la distruzione del mondo’’, e la sua attivita` creativa assume il significato di una scomposizione della tradizione per separare gli elementi eterni dagli elementi caduchi, i principi dalle forme storiche. La soluzione, valida sul piano individuale, Scho¨nberg la trovo` nel dopoguerra con una organizzazione razionale del linguaggio, che preservava la tradizione senza soggiacere alla ripetitivita` accademica, e che gli permise di dire all’allievo Josef Rufer, con orgoglio infinito e infinita ingenuita`, di aver scoperto cio` che avrebbe garantito per cent’anni la supremazia della musica tedesca. I Pezzi op. 23 (1920-1921) e la Suite op. 25 (1921-1923, 1925) vanno considerati insieme come il momento del trapasso stilistico e poetico che porta alla adozione del ‘‘metodo di composizione con dodici suoni’’, la dodecafonia. Il Walzer op. 23 n. 5 e` il primo pezzo dodecafonico pubblicato da Scho¨nberg, e rappresenta, almeno cronachisticamente, la data di nascita della dodecafonia; la Suite e` interamente dodecafonica. Nel Walzer la dodecafonia e` pero` appena embrionale. Piu` ricco di future implicazioni, nella storia della tecnica compositiva scho¨nberghiana, e` il terzo pezzo, non dodecafonico ma seriale, che indaga in modi gia` elaborati le possibilita` virtuali di una serie di cinque suoni. Ma in tutti i pezzi si nota comunque 475

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Arnold Scho¨nberg

una tendenza a fondare il discorso musicale sulla serialita`, anche se l’organizzazione fraseologica, al contrario di quanto era avvenuto nell’op. 19, resta non solo tradizionale ma tardoromantica. Il linguaggio pianistico dell’op. 23 e` completamente maturo e, come diro` poi, trascendente rispetto al pianoforte. Scompaiono del tutto i tradizionali raddoppi della strumentazione dell’Ottocento e vengono invece presi in considerazione modi di attacco del tasto che non facevano parte della tradizione o che, pur facendone parte, venivano affidati in precedenza a scelte di gusto dell’esecutore. La riduzione del tessuto pianistico all’essenziale e la cura dei modi d’attacco rendono Scho¨nberg... sospettoso nei confronti del mezzo, il pedale di risonanza, che creando alonature armoniche incontrollabili intorno al suono ne rende ambigua la natura, la fisicita`. Da cui l’avvertenza, famosissima, che ‘‘in generale la miglior diteggiatura e` quella che consente l’esatta realizzazione dei gruppi di note senza l’aiuto del pedale’’. Avvertenza che costringe l’esecutore scrupoloso a incredibili virtuosismoi di diteggiatura, ma che crea anche la trasparenza del tessuto, essenziale per percepire l’intricata polifonia. Cio` va detto perche´ non di rado si e` citata questa avvertenza a riprova del conservatorismo di Scho¨nberg, mentre si tratta semmai di storico superamento dei concetti che avevano prevalso durante il tardoromanticismo e, soprattutto, durante il simbolismo, quando al predominio del disegno era subentrato il predominio del colore e della macchia. L’altro aspetto fondamentale dell’op. 23 e` rappresentato dalle rispettive proporzioni dei cinque pezzi. Lo stile e` pienamente omogeneo e l’architettura generale e` equilibratissima, con la durata piu` alta nel pezzo centrale, durate un po’ piu` brevi nei pezzi estremi, durate piu` brevi ancora nei pezzi intermedi. Anche le dinamiche e la masse vengono organizzate in modo che alla maggiore brevita` corrisponda un maggior peso sonoro. E se nell’op. 11 era giustificato in una certa misura il parallelo con le ultime raccolte pianistiche di Brahms, nell’op. 23 e` giustificato il parallelo con i cicli a pannelli di Schumann. In verita`, in Scho¨nberg giocano sempre, e giocheranno anche in futuro la preoccupazione e l’orgoglio di riallacciarsi alle radici della musicalita` tedesca. Preoccupazione e orgoglio che definiscono la posizione non solo estetica ma morale di Scho¨nberg nel momento in cui la tradizione della ‘‘grande musica’’ veniva ripresa in altre aree culturali sotto l’ottica dello straniamento e della reificazione. Va da se´ che tutti i concetti aspramente dibattuti e difesi con Busoni tra il 1909 e il 1910 sono qui 476

Pezzi op. 33a

capovolti, e ancora di piu` sono capovolti nei cinque pezzi della Suite (Preludio, Gavotta con Musetta, Intermezzo, Minuetto con Trio, Giga), in cui l’architettura complessiva e` rigorosamente calcolata e in cui vengono riprese pedissequamente le forme barocche con tutte le simmetrie e le ripetizioni di rito. Si puo` dunque ben parlare di fase neobarocca di Scho¨nberg, ma non si puo` assimilarla alla poetica di Stravinskij, che dalla tradizione riprendeva forme e linguaggio, lavorando su quest’ultimo nel senso, appunto, dello straniamento. Scho¨nberg riprende invece i principi costruttivistici antichi ma, pur mantenendo alle danze il loro tipico carattere, compone secondo il metodo dodecafonico in un modo gia` molto articolato e flessibile. Il tessuto musicale – non il linguaggio – e` neobarocco, mentre il tessuto musicale dell’op. 23 era neoromantico, ma talmente denso da risultare talvolta difficilmente percepibile nella sua completezza all’audizione. Mentre nei romantici la distinzione fra una parte principale e le parti secondarie e` sempre molto netta, in vari punti dell’op. 23 la polifonia presenta quattro parti di pari importanza, e cio` supera le capacita` timbriche del pianoforte e fa diventare il tessuto ‘‘musica per gli occhi’’. Le osservazioni di Busoni sulla strumentazione di un pensiero astratto riprendono qui tutto il significato che veniva respinto da Scho¨nberg, e il ricorso al suono tenuto e ai registri dell’organo renderebbe secondo me un miglior servizio ad alcuni episodi dell’op. 23. Il pianoforte rende invece senza problemi il tessuto neobarocco dell’op. 25, e l’espressione raggiunge in certi momenti (la Musetta, l’inizio dell’Intermezzo) una piacevolezza d’ascolto che e` in Scho¨nberg molto rara. Il catalogo pianistico di Scho¨ nberg si conclude con i Pezzi op. 33a e op. 33b (1928-1929 e 1931), che secondo me si riallacciano alle ultime raccolte di Brahms, sia per l’espressione introspettiva che per la compressione in una dimensione ridotta di forme tradizionalmente ampie come il primo movimento di sonata. L’op. 33a e` infatti un regolare primo movimento di sonata, l’op. 33b un primo movimento di sonata senza sviluppo. La tecnica compositiva e` dodecafonica (la serie e` nei due pezzi diversa), ma resta il dubbio se gli accordi debbano essere intesi dodecafonicamente o come timbri artificiali. Se si sceglie la seconda soluzione, magari contro le intenzioni di Scho¨nberg, il rigore della costruzione cede il passo a una sofferta espressivita` e a quei sentimenti ‘‘chiari e palpabili’’ a cui Scho¨ nberg faceva riferimento nella lettera prima citata. Il Concerto op. 42 (1942) fu composto su richiesta – sorprendente – del pianista americano Oscar Le-

Pezzi op. 33a

vant, che con Scho¨nberg aveva studiato la composizione ma che era un affermato specialista della musica di Gershwin. La prima esecuzione, il 6 febbraio 1944 a New York, non fu pero` tenuta da Levant ma da Eduard Steuermann, sotto la direzione di Stokowski. Il Concerto segue lo schema lisztiano dei quattro movimenti collegati e si riallaccia indirettamente alla musica a programma di Liszt. La drammaturgia del pezzo viene cosı` infatti spiegata in un appunto di Scho¨nberg (la spiegazione non fu tuttavia pubblicata nella partitura): ‘‘La vita era cosı` facile (Andante) – ma improvvisamente esplose l’odio (Molto Allegro) – si creo` una gra-

Arnold Scho¨nberg

ve situazione (Adagio) – tuttavia la vita continua (Giocoso)’’. Il programma e` molto probabilmente autobiografico (Scho¨nberg, ebreo, aveva dovuto emigrare negli Stati Uniti, passando dalla tranquilla condizione economica di professore nella Accademia di Berlino alla incerta condizione della libera professione nel Nuovo Mondo) e la musica ne e` tutta impregnata. Per questa ragione, e per il conseguente uso di una tecnica dodecafonica che riprende ampiamente il principio del tematismo e che recupera zone tonali, il Concerto ha ottenuto una diffusione superiore a quella di altre opere sinfoniche di Scho¨nberg.

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Franz Schubert

Pezzi op. 33a

Franz Schubert (Vienna, 31 gennaio 1797-ivi, 19 novembre 1828) Schubert, come Haydn, fu educato alla musica nel convitto annesso alla cattedrale di S. Stefano a Vienna, il convitto che ospitava i pueri cantores addetti al servizio liturgico. Istruito soprattutto nel canto, ma anche in vari strumenti e nella composizione, egli pote´ cosı` accumulare una vasta esperienza fino a che, a sedici anni, ritorno` presso il padre, maestro di scuola elementare. Schubert dovette lottare durante tutta la vita, per sottrarsi alla prospettiva di succedere al padre di cui fu per qualche tempo assistente, e sebbene fosse sostenuto da Antonio Salieri, suo maestro di composizione, non riuscı` mai a ottenere ne´ un impiego fisso ne´ una soddisfacente condizione di libero professionista. Il pianoforte fu per lui un mezzo di sopravvivenza, sia con i Lieder, sia con le danze e le marce che gli editori gli richiedevano, sia accompagnando i cantanti e suonando nelle serate in casa di amici (in un bel quadretto di Leopold Kupelwieser vediamo Schubert al pianoforte – con un cane accovacciato sotto – che accompagna con la sua musica, probabilmente improvvisando, un ‘‘quadro vivente’’ raffigurante la Cacciata dal Paradiso Terrestre). Come pianista, Schubert non si esibı` mai in concerti con un pubblico pagante. E nell’unico concerto di musiche sue che riuscı` a organizzare, a Vienna il 26 marzo 1828, cedette la tastiera a un suo amico professionista, Carl Maria von Boklet. La produzione pianistica di Schubert e` enorme. Ma il fatto piu` sorprendente e` che egli si applicasse cosı` intensamente alle sonate per pianoforte solo: fra complete, incompiute e abbozzate ne scrisse ventidue. L’abbondanza della sua produzione sonatistica lascerebbe supporre un fecondo rapporto con il mercato editoriale. Invece Schubert riuscı` a pubblicare solo tre delle sue numerose Sonate, mentre Beethoven le pubblico` tutte: ben trentacinque, comprese le tre composte all’eta` di undici anni. Sembra dunque singolare che Schubert, il quale non era un ricco dilettante ma un musicista spiantato che dalla musica traeva tutte le magre fonti del suo reddito, inseguisse cosı` pervicacemente la sonata per pianoforte... tenendosela poi nel cassetto. Quando si analizza la cronologia dei lavori destinati da Schubert al teatro si nota pero` che le Sonate per pianoforte si incastrano nei periodi in cui, come compositore drammatico, Schubert era rimasto inattivo. Se alle Sonate 478

per pianoforte solo aggiungiamo alcune grandi pagine per pianoforte a quattro mani abbiamo una perfetta integrazione fra pianoforte e teatro. E` dunque lecito prospettare la tesi che la sonata per pianoforte abbia rappresentato per Schubert un transfert e una sublimazione delle sue aspirazioni di compositore drammatico? E che la sua evoluzione di drammaturgo si sia svolta rimbalzando alternativamente fra il pianoforte e il teatro? Secondo me il significato profondo dell’opera sonatistica di Schubert e` proprio questo: mantenere viva, e dare anzi espressione e compimento in circostanze storiche concretamente sfavorevoli alla voce profetica di chi aveva statura di artista e di musicista tale da poter ambire alla universalita` del dramma e non solo alla creazione di musica per una classe sociale ben definita. Le circostanze storiche, dicevo, erano pero` nettamente sfavorevoli. La drammaticita` teatrale di Schubert, lo sappiamo bene, e` giudicata come spettacolarmente inefficace, e le sue opere non ottennero e non ottengono alcun successo. E non solo per quanto concerne le fortune nella vita musicale, perche´ neppure la critica ha ripensato e riveduto il suo giudizio tradizionale. Per il teatro di Schubert l’insuccesso e` stato totale. Nessun successo ottennero del resto le sue Sonate nel periodo, dal 1830 circa al 1914, in cui la musica per pianoforte solo, creata nell’eta` precedente per private esecuzioni, venne progressivamente trasferita nella sala da concerto, con una indubbia forzatura rispetto al suo significato originario, ma anche con uno sviluppo, con uno ‘‘scatenamento’’ delle sue potenzialita` e drammatiche e spettacolari. Durante questo lungo processo storico, che occupa tre generazioni di concertisti, l’unica composizione schubertiana di vaste proporzioni che subı` e ‘‘tollero`’’ la acclimatazione nella sala da concerto fu la Fantasia op. 15, Il Viandante. Ma a partire da circa il 1920, cioe` da Schnabel in poi, ebbe inizio un altro processo storico molto lungo e non ancora del tutto esaurito, che progressivamente acquisı` alla vita concertistica tutte le Sonate per pianoforte di Schubert, comprese quelle incompiute. Come avvenne questo miracolo? Le difficolta` erano innanzitutto di ordine concettuale, perche´ si doveva uscire, diciamo cosı`, dall’orbita di Beethoven e trovare in Schubert una al-

Trenta Minuetti con Trio D 41

Franz Schubert

ternativa, appunto, a Beethoven. Ed erano anche di rapporto con il pubblico, il quale, a sua volta, non vedeva alternative al primato conquistato nell’Ottocento da Beethoven. Si aprı` allora un dibattito culturale, combattuto sul campo, cioe` nelle sale di concerto, che porto` lentamente alla ‘‘parificazione’’ di Beethoven e di Schubert. Detto in altri termini: le Sonate per pianoforte di Schubert sono oggi considerate come il contraltare, o il completamento, delle Sonate di Beethoven. L’impegnativa affermazione, per dirla molto sommariamente, si spiega in questo modo: mentre Beethoven, formato ideologicamente dalla Rivoluzione francese, percorre tutte le delusioni seguite agli entusiasmi del 1789 ma riafferma valori umanistici perenni, Schubert vive esistenzialmente la disfatta ideologica seguita al Congresso di Vienna. L’assenza di contrasti in Schubert, contrapposta alla ricchezza di contrasti e di superamenti in Beethoven, rivela l’impossibilita` di un rapporto dialettico con il mondo, il senso della solitudine, la nostalgia priva di oggetto determinato. Cio`, ripeto, e` detto sommariamente e rinunciando ad analizzare il tipo di rapporto, non dialettico, che Schubert instaura con la realta` circostante; ma e` essenziale far notare come Schubert rappresenti il compimento della civilta` viennese che negli ultimi decenni del XVIII

sec. esprime Haydn e Mozart, e che esprime Beethoven nei primi due decenni del sec. XIX. Fra il 1920 e la fine del secolo si verifica un rovesciamento dei giudizi che l’Ottocento aveva dato sullo Schubert sonatista. E ci si puo` chiedere perche´ quella piccola-grande rivoluzione avvenisse proprio in quegli anni. E` sempre difficile analizzare i processi storici che sconvolgono le coordinate di base della cultura. La mia opinione, detta in modo schematico, e` che il passaggio delle Sonate di Schubert dalla dimensione privata a quella pubblica, e lo ‘‘scatenamento’’ delle loro potenzialita` drammatiche e spettacolari fossero rese possibili dopo che erano state affermate, sperimentate e assimilate concezioni innovative della rappresentazione teatrale. Nelle Sonate di Schubert troviamo uno sviluppo della drammaturgia che, partendo nel 1815 dal teatro biedermeier, approda nel 1828 a un teatro fatto soprattutto di luci e di gesti, a un teatro, in senso lato, pantomimico e onirico, in cui la successione si struttura secondo nessi che non rispecchiano piu`, al contrario di quanto avviene in Beethoven, l’organizzazione archetipica del teatro classico. E in questo senso Schubert rappresenta l’antitesi di Beethoven, l’antitesi che completa e conclude la grande epoca della classicita` viennese, l’epoca che muore con lui.

Danze e Marce La produzione di Schubert comprende quasi mille lavori, un centinaio dei quali vennero pubblicati dall’Autore: il che significa che trovarono editori che con essi pensavano di ricavarci un guadagno. Dei cento numeri d’opera pubblicati da Schubert, dieci sono raccolte di danze e cinque sono marce. Un 15% di musica ‘‘leggera’’, di consumo e di svago: questo particolare ci dice come i viennesi vedessero in Schubert non il grandissimo creatore che vediamo noi ma un buon professionista che non si distavccava veramente dagli Josef Lanner e dagli Johann Strauss senior che andavano creando la ‘‘specializzazione’’ della musica leggera. Le raccolte di danze rappresentano pero` , per i motivi che vedremo, un importante momento di passaggio dalle forme classiche alle forme romantiche, dal blocco monolitico della sonata al polittico schumanniano. Schubert tende progressivamente a organizzare le raccolte in cicli. In questo senso si possono distingere nella sua attivita` tre distinti periodi: 1812-1815 (prime raccolte, soprattutto di minuetti, di impostazione ancora tradizionale), 1816-1823 (progressivi esperimenti di organizzazione formale che culminano nelle opere 33, 50, 171: con l’op. 171 sembra iniziare una nuova fase, che non avra` seguito), 1824-1828 (alcune danze

isolate e pochi cicli perfettamente organizzati, ma in modo meno nuovo e meno ricco di futuri sviluppi). La prima raccolta di danze di Schubert comprende i Dodici Minuetti con Trio D 22 (1812; la D indica la numerazione del catalogo curato da Otto Deutsch), che sono andati perduti. Dei Trenta Minuetti con Trio D 41 (1813, 1889) ne sono pervenuti a noi venti. Questi Minuetti sono modellati sullo schema classico, che aveva trovato in Haydn il suo codificatore. Le tonalita` scelte sono le piu` semplici e le piu` agevoli da leggere, la forma e` quella tipica Minuetto-Trio-Minuetto da capo, le proporzioni sono basate sulla divisione in due parti (ciascuna con ripetizione, ‘‘ritornello’’, di entrambe le parti sia nel minuetto che nel trio e con frasi formate in gran parte da multipli di quattro battute). Schubert dimostra pero` una certa volonta` di uscire dallo schema piu` comune perche´ qualche volta cambia la tonalita` nel trio. Un ulteriore momento di distacco dalla tradizione e` rappresentato in tre casi dal cambiamento di modo nel trio. Chi legge o ascolta oggi i Minuetti D 41 non puo` fare a meno di ricercare i segni della personalita` di Schubert nello stile ancora scolastico di un artista sedicenne. E la personalita` di Schubert balena in479

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Franz Schubert

fatti qua e la`. Ma se si leggono invece i Minuetti semplicemente come si leggerebbe una raccolta analoga di fine Settecento o del principio dell’Ottocento non si puo` che ammirare la ricchezza delle idee melodiche e la sicurezza del mestiere nell’ordinarli in forme elementari sı`, ma non per questo facili da trattare senza pedanteria e senza accademismo. L’apprendistato di Schubert e` quello di un adolescente che arriva con stupefacente rapidita` a impadronirsi della tradizione e a maneggiarla con scioltezza: il passo verso la personalizzazione dello stile potra` cominciare ben presto, e sara` fondato su basi solidissime. I Letzte Walzer op. 127 D 146 (Ultimi Valzer, 1815-1823, 1830) sono un pastiche messo insieme da un editore poco scrupoloso che accozzo` due serie distinte di valzer e altri valzer presi dalle opere 33 e 50. La raccolta, ovviamente, e` stilisticamente contradditoria, ma nell’insieme segna il trapasso dalla prima produzione di danze schubertiane, ricca soprattutto di minuetti, a quella della giovinezza, accentrata soprattutto sul valzer nelle sue varie specie. I Valzer con Trio risentono ancora in parte dello stile di Clementi e in genere sono scritti in un modo che sembra ispirarsi all’orchestra. I tratti dello stile schubertiano si fanno pero` strada nel n. 5, nel n. 8, nel n. 10 e nel n. 11 (tutti del 1815). Gli altri Valzer sono stilisticamente affini a quelli dell’op. 18 e dell’op. 50: particolarmente notevoli il ‘‘brahmsiano’’ n. 12 e l’umoristico n. 19. Tralasciando altre danze di non grande interesse arriviamo alle Dodici Scozzesi D 299 (1815-1816, 1897 e 1922), che uscirono postume in due riprese. I numeri pari fanno da trio ai numeri dispari: dopo il n. 2 si ripete il n. 1, dopo il 4 il 3 e cosı` via. L’organicita` della raccolta nasce dal percorso tonale, con il ritorno alla fine della tonalita` dell’inizio (La bemolle), con escursioni verso tonalita` anche molto lontane ma con impeccabile logica. La scrittura e` molto varia e la raccolta puo` quindi essere considerata come il capolavoro del periodo giovanile di Schubert nel campo delle danze per pianoforte. Le Dodici Wiener Deutsche D 128 (1815, 1897) hanno un titolo difficilmente traducibile: si dovrebbe dire Danze Tedesche Viennesi o Danze Tedesche di Vienna. Sembrerebbe un gioco di parole, mentre si trattava soltanto di specificare che a Vienna la Deutsche aveva assunto caratteri particolari. Schubert affronta qui per la prima volta il problema del ciclo organico, e lo risolve premettendo alla prima danza una Introduzione di undici battute e facendo tornare alla fine la tonalita` dell’inizio (questo modello verra` seguito da Schumann nei Papillons op. 2). L’alternarsi di to480

Letzte Walzer op. 127 D 146

nalita` diverse, le lunghezze leggermente diverse dei pezzi, la varieta` della scrittura, qualche ritorno tematico contribuiscono a rendere conseguente il ciclo. E sebbene non si possa paragonare quest’opera giovanile ai grandi cicli della maturita` , le Wiener Deutsche pongono le premesse di quella che sara` una delle ricerche formali piu` emozionanti di Schubert. Alla fine di novembre del 1821 uscı` la prima pubblicazione schubertiana a spese di un editore: si trattava degli Originalta¨nze op. 9 D 365 (Danze originali, 1816-1821, 1821), comprendente trentasei pezzi in tre/quarti. In tre/quarti sono il valzer, la deutsche e il la¨ndler, ma la distinzione fra l’uno e l’altro e` molto sottile. Si puo` tuttavia dire che nell’op. 9 prevalgono i valzer, e siccome l’op. 9 e` la prima raccolta di danze pubblicata da Schubert il titolo comunemente adottato piu` tardi fu Erste Walzer (Primi Valzer). La composizione dei pezzi, dapprima casuale, divenne piu` organica nel 1819 e riprese intensamente nel 1821. Nel novembre del 1819 Schubert completo` in realta` un primo ciclo di tredici Valzer, tutti in La bemolle e tutti nella stessa forma di sedici battute suddivise in due parti. Questo ciclo, di un tipo elementare che s’incontra piu` volte in Schubert, divenne la base di un ciclo piu` ampio, formato da tre grandi sezioni con una piccola sezione di collegamento (nn. 1-13, nn. 14-15, nn. 16-28, nn. 29-36). Il compositore non si limito` a raggiungere una dimensione, che probabilmente gli era stata richiesta dall’editore, allineando un pezzo dietro all’altro, ma riuscı` a organizzare la raccolta secondo un disegno architettonico, dando all’insieme un carattere complessivo. E questa preoccupazione del disegno architettonico generale aprira` la strada a prospettive formali diverse da quelle classiche e che diventeranno nei romantici di importanza fondamentale. Nell’op. 9, che da questo carattere formale trae i maggiori significati, si notano invece, a tutta prima, certi momenti di grande piacevolezza melodica. Mi limitero` qui a citare il Valzer n. 2, celeberrimo, che fu denominato Trauerwalzer (Valzer della tristezza) o Sehnsuchtwaler (Valzer della nostalgia) o Le De´sir (Il Desiderio) e che fu anche impropriamente attribuito a Beethoven. I Valzer, La¨ ndler e 3 Scozzesi op. 18 D 145 (1815-1823, 1823) comprendono dodici Valzer, diciassette La¨ndler e tre Scozzesi; nella edizione delle opere complete che uscı` alla fine dell’Ottocento venne aggiunto un gruppo di sei Scozzesi. Si ignora se il curatore del volume avesse ritrovato una fonte oggi sconosciuta o se l’aggiunta fosse puramente arbitraria. Nell’op. 18 i dodici Valzer sono organizzati come ciclo che inizia e termina

Danze tedesche e 2 Scozzesi op. 33 D 783

nella stessa tonalita`, Mi, cambiando pero` tonalita` a ogni pezzo. Le dimensioni sono piu` ampie di quelle dell’op. 9, la scrittura e` piu` piena, con momenti di vero e proprio virtuosismo. Tra i Valzer piu` noti sono il n. 2, e specialmente il n. 6, di carattere nettamente chopiniano e che con ogni verosimiglianza fu ben noto a Chopin. L’organizzazione tonale dei diciassette La¨ndler e` molto strana. Si puo` supporre che in origine dovesse esserci un ciclo di nove pezzi, tutti in Re bemolle. Oltre alla tonalita` i nove pezzi hanno in comune una scrittura pianistica aggraziata e piccante, che sfrutta di preferenza il registro sopracuto. Del tutto casuale mi sembra la riunione delle prime sei Scozzesi, una delle quali, la terza, e` notissima a tutti coloro che hanno un po’ strimpellato il pianoforte. Le Diciassette Deutsche Ta¨nze dette La¨ ndler D 366 (1816-1824, 1869) furono messe insieme da Brahms prendendole da vari manoscritti. La differenza fra Deutsche e La¨ndler e` difficile da stabilire e dipende soprattutto dai passi di danza piu` che da ragioni musicali. La raccolta non mi sembra pensata da Brahms come ciclo ma come antologia di deliziose invenzioni melodiche. Molto notevole e` la scrittura pianistica, ed e` da osservare anche la scelta di alcune tonalita` (Si, mi bemolle, si bemolle, Re bemolle), molto amate da Schubert per il loro colore timbrico, e non molto gradite dai vari editori e dal pubblico dei dilettanti. Un piccolo, ma perfetto ciclo e` quello formato dalle Sei Scozzesi D 421 (1816, 1889). Sei danze di sedici battute ciascuna, di scrittura simile e che usano prevalentemente il registro acuto del pianoforte. Data la brevita` del ciclo basta lo schematico ritorno simmetrico verso la tonalita` dell’inizio per dare coerenza all’insieme e per rendere magistrale una composizione di apparenza tanto modesta. Gli Otto La¨ ndler D 378 (1816, 1888) sono tutti nella stessa tonalita` . La scrittura, sempre leggera nei primi cinque pezzi, si appesantisce nel sesto e nel settimo: l’ultimo pezzo, che e` il piu` vario di scrittura, acquista cosı` un carattere conclusivo. Le Dodici Danze tedesche D 420 (1816, 1870) sono tra le piu` aggraziate, semplici e piacevoli di Schubert. L’organizzazione formale tiene conto di certe esperienze di Haydn: la tonalita` principale, Re, torna piu` volte, alternandosi con tonalita` vicine, e dopo l’ultima danza una coda molto ampia, che occupa da sola piu` di un sesto dell’opera, riafferma il carattere ciclico della raccolta. Le Otto Scozzesi D 529 (1817, 1870 e 1889) contengono un pezzo, il n. 3, che doveva piacere molto a Schubert, visto che lo riprese, modificandolo, due anni piu` tardi. La Scozzese n. 8 fu intitolata ‘‘da un canto popolare’’; il canto non e` mai stato identifi-

Franz Schubert

cato. I Wiener Damen La¨ ndler (Hommage aux belles Viennoises) und Zwei Ecossaises op. 67 D 734 (La¨ndler delle Dame di Vienna, Omaggio alle belle viennesi, e Due Scozzesi, 1822, 1827) ha un curioso titolo che non sappiamo, essendo andato perduto l’autografo, se scelto da Schubert o dall’editore. Il ciclo di sedici La¨ndler presenta i piu` tipici caratteri della musica a uso dei dilettanti: piacevolezza melodica, limitato impegno tecnico, facilita` di lettura (due sole danze sono in tonalita` difficili, Mi e Si). La tonalita` prevalente e` il Sol, con alcuni notevoli passaggi ad altre tonalita`. Le due Scozzesi, brevi, semplici, sbarazzine, completano la raccolta. Le Valses sentimentales op. 50 D 779 (Valzer sentimentali, 1823, 1825) portano un titolo in francese che non sappiamo se dovuto all’Autore o all’editore (ci e` pervenuta solo una parte del manoscritto). L’organizzazione formale del ciclo, vastissimo perche´ comprende ventiquattro Valzer per una durata superiore ai venticinque minuti, e` articolatissima, personalissima, matura, sofisticata. Il percorso tonale generale va da Do a La bemolle, tonalita` che sta una terza maggiore sotto la prima. All’interno di questo percorso Schubert stabilisce una partizione simmetrica, con diciassette e diciassette Valzer. Il primo gruppo inizia e termina in Do, il secondo in La bemolle. All’interno di ciascun gruppo si snoda un percorso tonale diverso, ma il secondo, nel quale ritorna il Do, e` complementare del primo. Altro elemento di coesione e` rappresentato dagli incisi ritmici iniziali, che sono due soli, ciascuno con diverse varianti. Superfluo richiamare l’attenzione sulla bellezza melodica dei Valzer op. 50; si notano anche facilmente le anticipazioni di stile chopiniano e, molto notevoli soprattutto nel n. 22, di stile brahmsiano. Il brano piu` celebre, molto noto per essere stato poi utilizzato da Liszt nella piu` eseguita delle sue Soire´es de Vienne, la sesta, e` il Valzer n. 13. Tralasciando di nuovo alcune danze isolate e piccole raccolte arriviamo alle Undici Scozzesi D 781 (1823, 1889), che formano un ciclo organico di struttura tonale molto originale: questo ciclo diventa quasi come un modellino per i grandi cicli che Schubert scrivera` nel 1823 e nel 1824. Le Danze tedesche e 2 Scozzesi op. 33 D 783 (18231824, 1825) comprendono diciotto pezzi, ma gli ultimi due, le Scozzesi, sembrano essere state aggiunte solo per completare l’ultima pagina (gli editori preferivano mantenere una misura standard nel numero di pagine). Nelle Danze tedesche dell’op. 33 troviamo un tipo di organizzazione formale tipicamente schubertiano: il ciclo inizia in La e termina in Fa, una terza maggiore sotto. All’inter481

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no di questo grande arco vengono toccate altre otto tonalita`, due delle quali di modo minore, e l’alternanza di caratteri espressivi e di tipi di strumentazione garantisce la varieta` e la piacevolezza del ciclo. Fra i brani piu` celebri dell’op. 33 sono il n. 7 (pezzo forte di film e di operette su Schubert), e i due in modo minore, che richiamano immediatamente alla memoria lo stile del giovane Chopin. Questo ciclo, in se´ perfetto, puo` essere considerato come un taccuino musicale, analogo al taccuino pittorico o al taccuino poetico. Cosı` come il pittore delineava in brevi schizzi i componenti di una famiglia o di un gruppo di amici, e cosı` come il poeta poteva fare la stessa cosa con i suoi propri mezzi, Schubert dipinge musicalmente un padrone di casa un po’ autoritario (n. 1), una padrona di casa un po’ languida (n. 2), una vivace ragazzina (n. 3), un ragazzino esuberante (n. 4), una giovane zia appassionata (n. 5), uno zio ufficiale di cavalleria (n. 6), i nonni che guardano malinconicamente al passato (n. 7), e cosı` via. I 12 La¨ndler op. 171 D 790 (1823, 1864) formano probabilmente la piu` sorprendente, la piu` preziosa raccolta di danze che Schubert abbia scritto. Schubert non trovo` un editore disposto ad acquistarla e percio` trasferı` il n. 2 nell’op. 33 (come n. 1) e la seconda parte del n. 8, con adattamenti vari, ancora nell’op. 33 (come n. 10). La raccolta vide la luce per cura di Johannes Brahms. Ho parlato di raccolta, non di ciclo. Dopo l’op. 50, che costituisce la piu` originale e perfetta esperienza di Schubert nell’organizzazione delle piccole forme, l’op. 171 appare aperta a esperienze nuove che non vengono condotte a compimento o di cui non sono riuscito a capire il disegno. La raccolta pare divisa in due parti e una coda: cinque danze, sei danze e una danza conclusiva. Il primo gruppo si organizza intorno al Re, il secondo intorno a La bemolle. Il rapporto Re-La bemolle equivale al rapporto di quarta eccedente, cioe` al diabolus in musica che tende allo scardinamento della tonalita` classica. In questo senso parlavo di esperienza nuova. Ma non capisco perche´ l’ultima danza sia in Mi, e posso supporre che Schubert, se avesse pubblicato la raccolta, ne avrebbe riveduto l’organizzazione. Se l’insieme lascia secondo me insoluto il problema formale, la qualita` di inventiva musicale di quasi tutte le danze e` veramente straordinaria. Tutta la raccolta si avvia del resto verso quella trasfigurazione nostalgica di Vienna che fa di Schubert, prima di Brahms, un artista ‘‘postumo’’, un artista in cui la memoria del tempo e` gia` nel presente, nel momento stesso in cui il tempo trascorre senza essere vissuto. Le Sei Danze tedesche D 820 (1824, 1931) fanno parte della ricca messe 482

12 La¨ndler op. 171 D 790

di danze che Schubert scrisse durante i suoi soggiorni in Ungheria presso gli Esterha´ zy. Di esse esiste la strumentazione per orchestra di Anton Webern. La maturita` e la personalita` del linguaggio sono quelle delle grandi opere del 1823-1824: non per nulla Schubert non riuscı` poi a piazzare la Danze tedesche D 820 presso alcun editore. Nel luglio del 1827 Schubert accetto` un invito a trascorrere alcune settimane a Graz in Stiria. L’invito proveniva da una eccellente pianista dilettante, molto ammirata anche da Beethoven, Marie Leopoldine Koschak, moglie dell’avvocato Karl Pacher e comunemente ricordata come Marie Pacher-Koschak. Schubert partı` il 2 settembre da Vienna insieme con l’amico Jenger, che aveva vissuto a Graz per vari anni e che aveva propiziato l’invito. I due arrivarono a Graz dopo pochi giorni, trovarono un’accoglienza festosissima, parteciparono a riunioni musicali e a scampagnate. Tre settimane dopo Schubert ritornava a Vienna e componeva i Gra¨zer Walzer op. 91 D 924 (Valzer di Graz, 1827, 1828). L’op. 91 ripete lo schema dell’op. 18: dodici Valzer con inizio e fine nella stessa tonalita`, che anche in questo caso e` il Mi. Un poco insolita e` la lunghezza del Valzer n. 10 (44 battute) e del Valzer n. 12 (48 battute). Ma nel complesso i Valzer di Graz sembrano a me opera di circostanza, che non presenta tratti evolutivi rispetto ai traguardi gia` raggiunti da Schubert in passato. Anche nel caso delle Valses nobles op. 77 D 969 (Valzer nobili, 1827 ca., 1827), come nel caso dei Valzer sentimentali op. 50 non si sa se il titolo sia dovuto all’Autore o all’editore. Autentici che siano, o appiccicati, i titoli dell’op. 50 e dell’op. 77 definiscono pero` bene i due aspetti tipici dei Valzer di Schubert, il valzer intimo, il valzer d’apparato. E proprio per questo motivo Ravel intitolo` Valses nobles et sentimentales la raccolta di danze con la quale evocava nostalgicamente la Vienna dell’eta` biedermeier. Come nell’op. 18 e nell’op. 91 il numero dei Valzer e` di dodici, e la raccolta inizia e termina nella stessa tonalita`. Do. La scrittura strumentale – fatto in Schubert un po’ insolito – e` massiccia, con molte ottave e accordi e con tratti virtuosistici. Non sembra improbabile che Schubert guardasse con una certa attenzione al valzer brillante e al valzer di bravura, che verso la fine degli anni venti cominciavano a imporsi. Le danze di Schubert per pianoforte a quattro mani sono molto poche. Per completzza di informazione ricordero` qui le Deutsche con due Trii, e due La¨ ndler D 618 (1818, 1909), tecnicamente molto facili e pensati probabilmente per qualche bambino, le semplici e graziose Quattro Polacche op. 75 D 599 (1818, 1827), a cui Schubert fara` ri-

Kindermarsch D 928

corso quando ne prendera` un tema (il Trio della Polacca n. 3) per trasferirlo nell’ultimo dei Momenti musicali, i Quattro La¨ndler D 814 (1824, 1870), brevissimi, e le Sei Polacche op. 61 (1826, 1826), insolitamente ampie e molto lavorate sul piano dell’armonia; queste Polacche escono dal cliche´ ancora comune negli anni venti e che veniva seguito dallo stesso Chopin, e preannunciano la drammatizzazione della danza nazionale a cui Chopin sarebbe pervenuto una decina d’anni piu` tardi. Passiamo ora alle Marce, tralasciando le poche per pianoforte a due mani, di scarsa importanza nel contesto dell’opera di Schubert, per soffermarci su quelle a quattro mani. Le Trois Marches he´ roı¨ques op. 27 D 602 (Tre Marce eroiche, 1818, 1824) fanno fede al loro titolo. Squilli eroici nella prima Marcia, accenti pomposi nella seconda, lunghissima. Ma la terza Marcia e` ironica: non dico antimilitarista, ma poco ci manca. L’individualita`, la presenza di un gusto personale, il desiderio di intervenire sugli schemi tradizionali, anche per ironizzarli, rivelano un piacere di comporre che in sostanza e` adesione a una ideologia dominante. Nelle piu` mature Trois Marches militaires op. 51 D 733 (Tre Marce militari, 1818 ca., 1826) l’assunzione degli schemi piu` banali significa il raggiungimento dell’autonomia critica e del distacco ideologico, cioe` la riconquista sotto altra forma delle prospettive rivoluzionarie del 1813. Le musiche di parata abbondavano ovunque, in tempi nei quali ogni reggimento aveva la sua banda che serviva per il lustro dell’esercito, per il conforto dei soldati, e anche – last but not least – per la cultura musicale popolare. Schubert non scrisse musiche militari, non essendo di cio` uno specialista, ne´ essendo, al contrario di Beethoven, un compositore ‘‘serio’’ abbastanza famoso da ricevere ordinazioni da colonnelli o da burocrati del Ministero della Guerra. Ma le sue marce militari, se e` vero che non sono musica d’uso, sono una sorta di trasferimento fra le quattro mura familiari della musica che il cittadino incontrava uscendo per strada nei giorni di festa. La prima delle tre Marce militari costituisce l’esempio piu` famoso di questo aspetto dell’arte schubertiana, nel quale lo straniamento non comporta ne´ ironia ne´, tanto meno, parodia, ma una specie di distaccata analisi stilistica. La struttura in tre parti, i ritmi balzanti, la disposizione strumentale, il carattere fra l’allegro e il marziale sono esattamente quelli della musica d’uso, ma nello stesso tempo il distacco critico del compositore e` tale che una trascrizione per banda, cioe` un impiego come musica d’uso, sarebbe impossibile. Si tratta insomma, tanto per usare una parola forse un po’ troppo grossa, piu` di un discorso sul mili-

Franz Schubert

tarismo che una imitazione della musica militare. La prima Marcia, celeberrima, inclusa in operette e in film sulla vita di Schubert, fu trascritta per pianoforte solo da Carl Tausig e in questa versione fece parte a lungo del repertorio concertistico. La terza Marcia fu trascritta da Wilhelm Backhaus. Le Six Grandes Marches en Trio op. 40 D 819 (Sei Grandi Marce con Trio, 1824, 1825) appartengono al periodo del secondo soggiorno presso gli Esterha´zy a Zseliz. Delle sei Marce, tre sono in modo maggiore e tre in modo minore; le tre in modo minore hanno il trio nella tonalita` corrispondente maggiore, delle tre in modo minore, due hanno il trio nella tonalita` del quarto grado e una nella tonalita` del sesto grado abbassato. Non tutte le sei composizioni presentano i caratteri tipici della marcia. Sonora, squillante, ritmicamente molto marcata e` la n. 1, e molto tradizionale la n. 4. Ma la Marcia n. 2 e` giocata sulle secche sonorita` dello staccato e su un ritmo uniforme, mentre la n. 3 ricorda il celebre Intermezzo della Rosamunda e tocca rapporti tonali inconsueti. La n. 5 accenna ad andamenti di marcia funebre, che tuttavia non sono prevalenti, pur caratterizzando fortemente il contesto. Nella Marcia n. 6 la stilizzazione della tradizione e della musica d’uso e` condotta a un grado estremo di raffinatezza, che preannuncia la musica di balletto della seconda meta` del secolo. Lo zar Alessandro I, che durante il Congresso del 1814-1815 s’era guadagnato a Vienna molte simpatie, morı` l’1 dicembre 1825. Schubert compose allora la Grande Marcia funebre per la morte dello zar Alessandro op. 55 D 859 (1825, 1826), in do, molto sviluppata e del tutto priva di accenti convenzionali: una specie di austero corteo funebre con rulli di tamburi velati e con un Trio, in La bemolle, di carattere religioso. Salito al trono il successore di Alessandro I, Schubert compose la Grande Marcia eroica per la consacrazione dello zar Nicola I op. 66 D 885 (1826, 1826). La tonalita` principale e` di modo minore, cosa molto strana per una marcia di incoronazione, ma Schubert passa presto al modo maggiore. La Marcia, sviluppatissima, monumentale, comprende due Trii e ha una coda riassuntiva dei temi precedentemente esposti. Rimskij-Korsakov la trascrisse per orchestra. Schubert ritorno` alle dimensioni abituali nelle Due Marce caratteristiche op. 121 D 886 (1826, 1829), che riprendono il tono delle Tre Marce militari ma sono piu` vivaci, quasi marce di cavalleria. La Kindermarsch D 928 (Marcia infantile, 1827, 1870) fu composta durante il soggiorno a Graz di cui ho gia` detto, probabilmente per essere suonata da Marie Pacher-Koschak insieme con il figlioletto 483

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Fantasia D 1 per pianoforte a quattro mani

di otto anni. Facile da suonare, ma non banale, non bamboleggiante, la Marcia mette alla prova il

bambino che la esegue con il cosiddetto ‘‘due contro tre’’ nel Trio.

Fantasie e Divertimenti I primi tentativi dello Schubert creatore non ci sono noti; ci sono invece pervenuti, databili all’inizio del 1810, tre brevi frammenti di musica per pianoforte a quattro mani, due frammenti molto piu` ampi di due Lieder, che dimostrano una mano gia` addestrata nella composizione, e la Fantasia in Sol-Do D 1 per pianoforte a quattro mani (8 aprile-1 maggio 1810, 1888). Nella Fantasia il volto di Schubert comincia a balenare attraverso le impronte, riconoscibilissime, di Haydn e di Mozart, e di autori minori ma allora rappresentativi, come Leopold Kozeluch. Impronte haydniane e mozartiane, o piu` genericamente ‘‘classiche’’, si trovano nel primo tema dell’Allegro iniziale, nel Piu` moto, nel Presto, nella Marcia, nell’Allegretto, nel mozartianissimo Comodo, nel Finale. Ma gia` il primo tema dell’Allegro modula in modo sorprendente alla nona battuta, quando tocca il re minore invece del re maggiore che tutti si aspetterebbero, e l’instabilita` tonale di parecchi brani, lo slittamento dal maggiore al minore e viceversa, l’uso di tonalita` impiegate anche da Haydn ma certamente non usuali all’inizio dell’Ottocento, come il mi bemolle minore, il si bemolle minore, il si maggiore, danno la misura di un ingegno e di una inventiva che non s’accontentano di rifarsi al linguaggio istituzionalizzato. Manca invece ancora a Schubert la capacita` di organizzare in una forma coerente un insieme fin troppo numeroso di idee che si susseguono tumultuosamente. Si nota tuttavia un qualche tentativo di forma organica: l’Adagio, l’Andante e l’Allegro con cui la Fantasia ha inizio, e la Marcia, collocata all’incirca a un terzo del percorso, sono basati su una stessa cellula tematica, e il tema principale del Finale puo` essere considerato come una derivazione dall’Adagio iniziale. I numerosi tratti modulanti servono a mediare il passaggio fra idee diverse e spesso stilisticamente divergenti. La stessa concatenazione delle tonalita` dimostra uno sforzo di unificazione della forma. La Fantasia inizia pero` in una tonalita` e termina in un’altra, rinunciando al mezzo piu` semplice e piu` tradizionale di unificazione formale. Ma proprio in questo particolare, che gia` il fratello di Schubert, Ferdinand, definiva ‘‘sorprendente’’, si manifesta un istinto formale che cerca soluzioni architettoniche diverse da quelle della tradizione. Il modello formale al quale Schubert fece probabilmente riferimento fu la ‘‘battaglia’’, genere di musica a programma che alternava squarci di composizione tradizionale, citazioni di canti popo-

lari e nazionali, tentativi onomatopeici. L’ipotesi che Schubert fanciullo abbia avuto presente la battaglia e` suggerita sia dal pullulare di idee senza sviluppo, sia dal carattere popolaresco dell’inizio, sia dalla Marcia, sia dall’indicazione Trompeten (trombe) che si trova in un breve Allegro a meta` circa della composizione. Altra possibile supposizione e` che Schubert abbia tenuto presente il potpourri su temi d’opera, ipotesi che sembra pero` poco probabile perche´ verso il 1810 il pot-pourri era ancora poco diffuso. Le mie supposizioni possono anche essere errate. Ma mi sembra che un giovanissimo creatore non potesse prescindere da un punto di riferimento a generi della produzione musicale contemporanea. Ed e` altrettanto evidente che Schubert non scelse la forma della sonata ne´ quella della variazione, predominanti agli inizi dell’Ottocento, e neppure della fantasia quale era stata intesa da Mozart e da Carl Philipp Emanuel Bach. Mi sembra quindi che solo la battaglia o forse il pot-pourri possano aver suggerito a Schubert, e giustificato ai suoi occhi di adolescente, una Fantasia formata da una miriade di temi concatenati da semplici modulazioni. Proprio la volonta` di unificare la forma attraverso le modulazioni da tema a tema dimostra pero`, secondo me, un contrasto fra l’istinto di un creatore rivoluzionario e i condizionamenti dell’ambiente socioculturale. L’istinto portava Schubert a non sviluppare i temi e a non terminare nella tonalita` dell’inizio; in eta` piu` matura egli avrebbe imparato a non collegarli e a creare invece forme a pannelli – ad esempio, nei cicli di valzer per pianoforte e nei grandi cicli liederistici – che avrebbero aperto un nuovo capitolo di ricerche formali nella musica colta europea. La Fantasia a quattro mani in sol D 9 (1811, 1888) non presenta novita` tali da richiedere un commento, mentre un ampio commento dev’essere dedicato alla Fantasia a quattro mani in do-Mi bemolle D 48 (1813, 1888). La Fantasia venne pubblicata nel 1871, con il titolo Grande Sonata, senza la Fuga finale. La versione completa dimostra invece che Schubert, come nelle sue precedenti Fantasie, cercava deliberatamente di eludere la forma della sonata classica, per riallacciarsi semmai al barocco. Il primo movimento, Adagio, annuncia un tema cromatico di un curioso colore arcaico, barocco nel senso in cui il barocco veniva inteso da Mozart. Il tema da` infatti origine, Allegro agitato, a un regolarissimo fugato a quattro

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Fantasia op. 15, detta ‘‘Der Wanderer’’

voci, che prosegue con episodi di sviluppo e riprese del fugato, senza che venga mai presentato un secondo tema. Segue l’Andante amoroso, di carattere mozartiano, in semplice forma tripartita ma con una coda drammaticamente marziale. Molto drammatico e` l’Allegro seguente, su un tema esposto fra un cupo tremolo al basso inframmezzato da silenzi minacciosi. La condotta tonale dell’Allegro e` molto eccentrica, rispetto alle norme tradizionali dell’inizio dell’Ottocento. Alla fine viene toccato e affermato il fa minore, ma subito l’Adagio che segue inizia in re bemolle maggiore per chiudere poi, con cadenza sospesa, in fa maggiore. Una breve Fuga su tema cromatico, Allegro maestoso, conclude la vasta composizione. La Fuga e` in mi bemolle maggiore. Considerando il fatto che l’inizio era in do minore si avra` l’idea di quanto dovesse suonare rivoluzionario, alle orecchie dei contemporanei, un pezzo in piu` movimenti collegati che iniziava in una tonalita` e terminava in un’altra. La Fantasia D 48 e` certamente un’opera sperimentale e immatura, nella quale la deviazione dalla regola e dalla tradizione e` dovuta piu` a istinto e a gusto dell’avventura che a consapevole superamento. Tuttavia la rottura degli schemi tonali usuali denuncia con forza la personalita` rivoluzionaria di Schubert e la sua partecipazione agli ideali illuministici: una personalita` che gli avvenimenti politici degli anni successivi al Congresso di Vienna avrebbero condotto verso il pessimismo, verso l’interiore introspezione, verso la rinuncia, ma che si distingue da quella dei musicisti del periodo biedermeier proprio perche´ nella sua origine e` beethovenianamente ribelle e nel suo sviluppo manterra` i segni di una volonta` prometeica sconfitta. Sulla autenticita` della cosiddetta Fantasia di Graz in Do D 605A (1818, 1969) sussistono forti dubbi. La composizione ci e` pervenuta in una copia di mano di Josef Hu¨ttenbrenner, amico di Schubert e compositore dilettante, fratello minore di quell’Anselm che dal 1825 lavoro` a Graz. La Fantasia presenta caratteri cosı` maldestri da far pensare che si tratti o di un lavoro interamente di Josef Hu¨ttenbrenner o di un suo arrangiamento di appunti di Schubert. Di questo pezzo si parlo` molto quando venne scoperto e ‘‘lanciato’’ in un disco di Lili Kraus, ma poi fu rapidamente accantonato. La Fantasia in Do op. 15, detta ‘‘Der Wanderer’’ (Il Viandante, 1822, 1823) rappresenta uno dei rarissimi momenti di accostamento di Schubert al virtuosismo brillante che prevalse ai suoi tempi con Hummel, Moscheles, Kalkbrenner e altri pianisti-compositori. La decisione di scrivere un pezzo spettacolare non fu tuttavia di Schubert, il qua-

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le, pur detestando il ‘‘maledetto martellamento’’, come dice in una lettera, dei virtuosi del suo tempo, dovette fare di necessita` virtu` perche´ ricevette una commissione da un ricco dilettante allievo di Hummel. La tecnica pianistica della Fantasia e` di difficolta` trascendentale, anzi, alcuni passi di ottave alla fine del primo movimento, i salti alla fine del terzo, e quasi tutto il finale sono tra i piu` ardui di tutta la letteratura e ben raramente vengono veramente dominati dall’esecutore. Per questa ragione, e anche per la problematica resa sonora di alcuni tratti, Liszt, dopo avere eseguito la versione originale, trascrisse la Fantasia per pianoforte e orchestra. La trascrizione, che entro` subito in repertorio e che vi rimase fino all’incirca alla prima guerra mondiale, oggi viene eseguita di rado. Ma il fatto stesso che un pianista come Liszt si decidesse a questa impresa da` un’idea di quanto incerto sia, nella Fantasia, il rapporto fra la monumentalita` della concezione e i mezzi strumentali messi in opera dall’Autore. Liszt pubblico` piu` tardi una revisione della versione originale, rendendo razionali i passi scorbutici e ristrumentando per intero il finale (Liszt pubblico`, una sopra l’altra, la versione di Schubert e la sua). Faccio un piccolo esempio su come Liszt risolse un problema, quello delle ottave alla fine del primo movimento: invece di quattro ottave per tactus, tre ottave, togliendo via una nota del disegno. In una situazione analoga si era comportato nello stesso modo Brahms che, al contrario di Schubert, era un concertista. Nel primo movimento del Concerto op. 15 gli archi hanno una figurazione di quattro suoni in scala; quando la stessa figurazione viene esposta dal pianoforte, in ottave alla mano destra, Brahms toglie un suono (invece di re-mi bemolle-fa-sol, re-fa-sol), senza che l’effetto suoni molto diverso. Sembra probabile che non solo per la tecnica, ma anche per la concezione formale Schubert abbia guardato al virtuosismo brillante. Verso il 1820 la forma piu` tipica impiegata dal virtuosismo brillante era ancora quella della introduzione, variazioni e finale su una melodia d’opera o presa dal canto popolare; ma gia` cominciavano ad apparire le fantasie monotematiche o pluritematiche, soprattutto su temi popolari. Schubert scelse un suo Lied composto nel 1816 – Der Wanderer (Il Viandante) – e su di esso costruı` una fantasia in quattro parti che segue lo schema classico della sonata: allegro, adagio, scherzo, finale. I rapporti tonali fra le quattro parti, che si susseguono senza soluzione di continuita`, sono del tutto inconsueti: do maggiore, do diesis maggiore e mi maggiore, la bemolle maggiore, do maggiore. Schubert sceglie quindi una delle possibili divisioni dell’ottava in parti 485

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uguali, quella per terze maggiori (do-mi-la bemolle-do), abolendo i tradizionali rapporti classici, quelli di quarta e di quinta. E la Fantasia, sia perche´ basata tutta sulle trasformazioni di un solo tema, sia per la novita` dei rapporti tonali, diventa il primo momento di una ricerca che si sviluppera` da Liszt a Franck e oltre, e cioe` per tutto l’Ottocento. La Fantasia non e` costruita su tutta la melodia del Viandante ma su un breve frammento di essa, alle parole ‘‘Qui il sole mi sembra cosı` freddo, il fiore appassito, la vita finita, e cio` che raccontano e` vuoto rumore; dappertutto io sono un estraneo’’. Questo tema viene esposto nel secondo movimento, che e` in forma di variazioni, e nel secondo movimento mantiene il clima espressivo del Lied. Da questo vengono derivati tre temi di carattere contrastante sia con l’originale che fra di loro, che danno vita al primo movimento. Il terzo movimento e` uno scherzo con trio, con due temi, sempre derivati dal tema del secondo movimento. E un’altra trasformazione da` origine all’unico tema del finale, che viene dapprima esposto in un fugato. La drammaturgia della composizione e` in se´ e per se´ chiarissima: tre momenti vitalistici, di forte estroversione, un momento di ripiegamento su di se´ e di desolazione. Questo schema corrisponde in gran parte alla drammaturgia del Lied, che dopo la desolata riflessione che ho citato si apre alla visione di un paese felice, ‘‘cercato, immaginato e mai conosciuto’’, il paese ‘‘dove passeggiano i miei amici, dove resuscitano i miei morti’’. Ma l’ultimo verso – ‘‘La` dove tu non sei, la` c’e` la felicita`’’ – non ha nulla a che vedere con il finale della Fantasia. I primi mesi del 1828 segnarono un promettente avvio di rapporti fra Schubert e due importanti editori non viennesi: Probst di Lipsia e Schott di Magonza. Sia Probst che Schott, scrivendogli entrambi il 9 febbraio, chiedevano a Schubert di proporre per la pubblicazione pezzi per pianoforte e per canto, con la raccomandazione – di Probst – di un ‘‘tariffario ragionevole’’. Rispondendo il 21 febbraio a Schott, ‘‘una cosı` solida casa d’arte che sembra particolarmente indicata per far maggiormente conoscere le mie opere all’estero’’, Schubert offrı` una serie di composizioni bell’e pronte, da cedere contro ‘‘onorari moderati’’; tra di esse, al quarto posto, e` elencata una ‘‘Fantasia per pianoforte a quattro mani, dedicata alla contessa Karoline Esterha´ zy’’. L’editore rispose il 29 febbraio, chiedendo l’invio di otto degli undici lavori offerti da Schubert e raccomandandogli caldamente di ‘‘indicare l’onorario il piu` modesto possibile’’: la Fantasia e` compresa nell’elenco. Schubert rispose 486

Fantasia per pianoforte a quattro mani op. 103 D 940

soltanto il 10 aprile, dicendo di aver fatto preparare le copie di tre lavori e fissandone il prezzo: la Fantasia non e` compresa. Nello stesso giorno Schubert scrisse a Probst, e a Probst e a Schott propose un Trio, senza dire che di Trii ne aveva pronti due. Schott, il 28 aprile, accetto` i prezzi proposti per due lavori e rifiuto` il terzo (il Trio, per il quale Schubert aveva chiesto cento fiorini). Ando` a finire che Schubert vendette due composizioni invece di undici, un solo Trio – a Probst – invece di due, e per sessanta fiorini invece di cento. Cosı`, le promettenti trattative si risolsero in bel fiasco, e la Fantasia fu pubblicata postuma dal fido editore Diabelli di Vienna. Se in febbraio Schubert diceva di aver pronta la Fantasia in fa per pianoforte a quattro mani op. 103 D 940 (1828, 1829), in realta` l’aveva appena abbozzata: la completo` in aprile e il 9 maggio la provo` al pianoforte, insieme con Franz Lachner, in presenza dell’amico Eduard Bauernfeld. La dedica a Karoline Esterha´zy ha mosso talvolta la fantasia dei biografi, ma solo la testimonianza di alcuni amici ci dice di un sentimento amoroso di Schubert per Karoline. Ed e` probabile che questa testimonianza perseguisse in realta` lo scopo di mascherare l’omosessualita` di Schubert. La dedica dovette rivestire soltanto il significato di una dimostrazione d’amicizia e di stima che Schubert, assai parco nel distribuire dediche, riservava a pochi. La Fantasia segue nelle linee generali lo schema della sonata, essendo formata da un Allegro molto moderato, un Largo, un Allegro vivace e un Tempo I, e anche le strutture dei singoli movimenti ricordano quelle tradizionali dei quattro movimenti dalla sonata. I movimenti della Fantasia sono pero` collegati fra di loro, l’ultimo movimento e` una ripresa variata del primo e, soprattutto, le dimensioni sono molto piu` ridotte di quelle che la sonata aveva assunto nello Schubert maturo. Il primo movimento e` un condensato della forma bitematica e tripartita. Un primo tema elegiaco, di una bellezza suprema e commovente, viene esposto, sviluppato, riesposto nella tonalita` corrispondente maggiore (fa maggiore). Il secondo tema, in fa minore come il primo, e` cromatico. Seguono un breve sviluppo dei due temi e una riesposizione abbreviata, con primo tema in fa minore e secondo tema in fa maggiore. Il gioco tonale maggioreminore, frequente in Schubert, assume qui un tono che puo` veramente simboleggiare il continuo trapasso dal turbamento alla serenita` e viceversa, in un clima di drammaticita` non eroica, ben diversa da quella di Beethoven. Il passaggio dal primo al secondo movimento comporta una modulazione

Divertissement sur des motifs originaux franc¸ais a quattro mani D 823

enarmonica, la piu` elementare possibile, per raggiungere una tonalita` lontanissima, fa diesis minore. Anche il secondo movimento e` bitematico, ma in forma di canzone: un primo tema maestoso e marcato, che ricorda i movimenti introduttivi delle ouverture barocche e che, forse, risente l’esempio della Fantasia in fa minore per organo meccanico di Mozart, e` seguito da un secondo tema, in fa diesis maggiore, che e` una specie di arioso operistico, inatteso e di straordinario effetto psicologico sull’ascoltatore; la riesposizione del primo tema e` variata. L’Allegro vivace e` piu` tradizionale di forma e piu` prevedibile nel suo sviluppo: si tratta in realta` di un tipico terzo movimento in metro ternario, con trio e ripetizione della prima parte (l’andamento e` quello dello scherzo, ma il carattere espressivo ricorda piuttosto il minuetto). Dopo la ripetizione della prima parte una breve coda collega tonalmente, con semplicissimo ma sorprendente passaggio enarmonico, l’Allegro vivace al Tempo I. Il Tempo I riprende tutta la prima parte dell’Allegro molto moderato iniziale, fino alla esposizione del secondo tema. Da qui ha inizio la sezione veramente piu` sorprendente di tutta la Fantasia: un enorme sviluppo fugato del secondo tema (al quale viene sovrapposta una nuova cellula tematica), sviluppo che raggiunge progressivamente un culmine parossistico di sonorita` e di tensione. Dopo una battuta di silenzio una breve coda sul primo tema conclude la Fantasia, chiudendola con una cadenza insolita ed enigmaticamente ambigua. Il Divertissement a` la hongroise per pianoforte a quattro mani op. 54 D 818 (Divertimento all’ungherese, 1824, 1826) fu pubblicato da un editore, Artaria, che lo pago` l’enormita` di 300 fiorini (si calcoli che una sonata per pianoforte veniva valutata sui 70 fiorini, e un trio sui 100). La composizione, in tre movimenti, ha la vastita` di impianto e l’impegno concettuale di una sonata, ma non sarebbe definibile come sonata perche´ la forma del primo movimento e` rapsodica. Il primo movimento segue infatti lo schema del rondo`: l’Andante in sol che lo inizia e lo conclude viene brevemente citato anche a meta` della composizione. Ma il secondo e il quarto episodio, entrambi indicati Un poco piu` mosso, raggiungono ampiezze esorbitanti rispetto all’Andante, e quindi la struttura tradizionale del rondo` viene completamente rinnovata. Non e` difficile riconoscere i peculiari caratteri lessicali del primo movimento; si osservi anche, alla fine del secondo e del quarto episodio, il lungo tremolo, ispirato al cimbalom ungherese, e la cadenza di tipo violinistico tzigano.

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Il secondo movimento e` una Marcia in do, con Trio in La bemolle: molto breve, e non specificatamente ungherese, la Marcia appartiene al tipo delle numerose composizioni consimili scritte da Schubert per pianoforte a quattro mani, e di esse possiede tutto il brio e la piacevolezza. Il terzo movimento riprende lo schema del primo, ampliandolo ulteriormente (il numero degli episodi e` identico, ma le dimensioni sono quasi doppie). Il secondo e il quarto episodio, entrambi in forma ternaria e con uno sviluppo formale compiuto, potrebbero essere due danze ungheresi indipendenti, al modo di Brahms. Il primo tema del finale e` autenticamente ungherese: Schubert lo aveva sentito cantare a Zseliz, da una domestica, e lo aveva notato per pianoforte solo come Melodia ungherese. Tutti gli altri temi sono originali, ma sono strutturati sui peculiari caratteri lessicali, soprattutto armonici e ritmici, della musica che veniva allora detta ungherese e che deve piu` esattamente essere definita zingaresca. Nel finale del Divertimento, come nel primo movimento, risalta la volonta` di Schubert di riunire in un vastissimo affresco una serie di temi all’ungherese, sviluppati in forma chiuse e non dialettizzati nella tradizionale formasonata. Si tratta dunque di una proposta alternativa alla sonata, che della sonata mantiene pero` tutta la complessita` e l’impegno intellettuale. Da qui discende l’importanza storica del Divertimento, che supera nettamente l’apparenza casalinga e dimessa della composizione destinata ai dilettanti con dita non troppo esperte. Le vicende del Divertissement sur des motifs originaux franc¸ais a quattro mani op. 63 n. 1-op. 84 nn. 1 e 2, D 823 (Divertimento su motivi originali francesi, 1825 ca., 1826 e 1827) sono piuttosto singolari. A parte il fatto che non si sono mai ritrovate le fonti del motivi ‘‘originali’’, il primo movimento del Divertimento, Marcia brillante (e ragionata) in mi, fu pubblicato separatamente come op. 63 n. 1 (non ci fu mai il n. 2), e gli altri due movimenti, Andantino variato in si e Rondo` brillante in mi, uscirono l’anno dopo, sempre presso lo stesso editore. La qualita` del Divertimento alla francese non e` pari a quella del Divertimento all’ungherese. Una bella marcia, un rondo` esuberante. Ma l’invenzione di Schubert brilla soprattutto nel tema variato: tema di marcia lenta, melanconico e sognante, quattro variazioni molto ben caratterizzate e coda. L’Andantino variato, che viene talvolta eseguito come pezzo a se´, nell’ultimo trentennio dell’Ottocento ottenne una certa diffusione concertistica nella trascrizione per pianoforte solo di Carl Tausig. 487

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Improvvisi e pezzi brevi Il termine Impromptu venne usato per la prima volta da Vorisek nel 1822 e poco piu` tardi fu ripreso da Marschner. L’editore Tobias Haslinger lo adotto` per quattro pezzi di Schubert, che apparvero come Impromptus op. 90 D 899 (Improvvisi, 1827, nn. 1 e 2, 1827, nn. 3 e 4, 1857). Non sappiamo come Schubert intendesse intitolare il suo lavoro, ne´ se avesse pensato a un titolo. E` evidente comunque che i quattro pezzi seguivano nel loro insieme lo schema della sonata: primo movimento, scherzo, adagio, finale. Anche l’organizzazione formale interna dei quattro pezzi fa pensare alla sonata, sebbene il primo pezzo sia monotematico e il quarto sia tagliato in una forma ternaria che sarebbe molto insolita in un finale. Ma per carattere e ampiezza, e in parte anche per il taglio formale i quattro pezzi rispondono a una specie di idea archetipica della sonata. Non, pero`, per i rapporti tonali. In do, con conclusione in Do, il primo pezzo, in Mi bemolle, con conclusione in mi bemolle, il secondo, in Sol bemolle il terzo, in La bemolle, con inizio in la bemolle, il quarto. Secondo le consuetudini dell’epoca erano ‘‘regolari’’ le prime due tonalita`, mentre la terza stabiliva con la prima un rapporto di quinta diminuita che era allora inconcepibile, e la sesta non sanciva il ritorno alla tonalitu` dell’inizio. Quattro pezzi, dunque, o un ciclo in forma eterodossa di sonata? Ci sono due segnali inequivocabili della volonta` di Schubert di unificare i quattro pezzi in un ciclo. Il secondo pezzo termina – e si tratta di un particolare eccezionale – nella tonalita` corrispondente minore, che e` nel contempo la tonalita` relativa minore del terzo pezzo, e quindi l’intenzione di legare tonalmente i due pezzi sembra del tutto evidente. Il quarto pezzo, con armatura in chiave di La bemolle, inizia in la bemolle, tonalita` correlata con la tonalita` del terzo pezzo: le conclusioni sulle intenzioni di Schubert sono le stesse di prima. Il rapporto fra il do del primo pezzo e il La bemolle del quarto, cioe` il rapporto fra due tonalita` distanziate di una terza maggiore discendente, non e` consueto nell’epoca classica, ma viene esplorato da Schubert in vari cicli di danze, e tornera` nei Momenti musicali. In realta`, Schubert stava sperimentando la possibilita` di una forma in piu` movimenti non unificata da una tonalita` principale, aprendo cosı` la via alle grandi esperienze dei polittici di Schumann. Altre relazioni interne nei quattro pezzi (Mi bemolle-si nel n. 2, La bemolle-do diesis nel n. 4) completano poi una rete tonale meravigliosamente equilibrata, sebbene del tutto eterodossa rispetto alla tradizione classica. Per quanto riguarda la drammaturgia, sembra a me che il primo Improvviso 488

Impromptus op. 90 D 899

evochi una cerimonia funebre, il secondo una passeggiata con l’intermezzo di un canto zingaresco, il terzo una preghiera presso un ruscello, il quarto un momento di introspezione angosciosa che si risolve in una serenita` riconquistata. Il titolo degli Impromptus op. 142 D 935 (Improvvisi, 1827, 1839) fu scelto da Schubert, probabilmente perche´ la prima meta` dell’op. 90 era stata bene accolta dal pubblico. Schumann, recensendo gli Improvvisi appena pubblicati, noto` che i quattro pezzi... nascondevano una sonata. Anzi, tre dei quattro pezzi, perche´ il terzo, Allegretto con variazioni, veniva da Schumann considerato musica di second’ordine. Se si esclude l’Allegretto con variazioni si ha una sonata in tre movimenti di andamento tonale ortodosso (fa-La bemolle-fa), che non risponde pero` agli equilibrii architettonici consueti perche´ il secondo movimento risulta troppo breve rispetto al primo e al finale. Ne´ si capisce bene perche´ il terzo Improvviso avesse destato in Schumann un cosı` deciso moto di disgusto. O meglio, lo si comprende solo se si guarda ai contenuti ideologici, perche´ il terzo Improvviso e` legato all’estetica del biedermeier, mentre gli altri appartengono allo Schubert visionario dell’ultimo anno di vita. Non si tratta tanto di qualita` musicale – in cio` non si puo` essere d’accordo con Schumann – quanto di contenuti emotivi. In questo senso, anzi, poche pagine – di Schubert e non – possono pareggiare l’abissale, ma dolce e rassegnata desolazione del primo Improvviso, e l’umore fatastico, veramente hoffmanniano del quarto. Per tornare all’affermazione di Schumann, io penso che effettivamente l’idea archetipica di sonata regga anche il ciclo op. 142, comprendendovi pero`, al contrario di quato pensava Schumann, il terzo pezzo. Tuttavia, l’organizzazione di un ciclo di pezzi secondo gli schemi della sonata era piu` originale, piu` innovativa e piu` ricca di futuri sviluppi nell’op. 90. In conclusione direi – forse troppo salomonicamente – che nell’op. 90 ci interessa soprattutto l’idea formale e nell’op. 142 soprattutto i contenuti. Il favore che la musica di Schubert ottenne nel mondo dei dilettanti, a cui era destinata, non ci e` noto. Dobbiamo pensare che gli Improvvisi, costantemente ripubblicati nel corso dell’Ottocento, fossero molto diffusi, ma non sappiamo come venissero considerati. Possediamo qualche maggior dato conoscitivo a proposito della loro fortuna concertistica. Nel corso dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento non vennero praticamente eseguiti in pubblico i primi Improvvisi di entrambe le raccolte, che formalmente erano i piu` complessi. Limitata la diffusione dell’Im-

Rondo` op. 138 D 608

provviso op. 142 n. 4 dal vago sapore zingaresco, mentre gli altri cinque furono popolarissimi. L’Improvviso op. 90 n. 3, in Sol bemolle, con sei bemolli in chiave, fu pubblicato nel 1857 in Sol, con un diesis in chiave, e circolo` in questa versione fino all’incirca alla fine del secolo. Un esperimento di Paul Mies ben noto agli specialisti dimostro` che un pubblico non educato, e quindi non prevenuto, preferiva istintivamente la versione in Sol bemolle, a dimostrazione di quanto importante fosse per Schubert il colore timbrico della tonalita`. I Six Moments musicals op. 94 D 780 (Sei Momenti musicali 1821-1828, 1828) riuniscono pezzi creati in momenti diversi. Notero` en passant che il plurale musicals non e` erroneo; oggi si scriverebbe musicaux, ma nel 1828 il plurale di musical era ancora musicals. Il terzo pezzo dell’op. 94 era gia` uscito nel 1823 con il titolo Air russe (Aria russa) e il sesto era uscito nel 1824 con il titolo Plaintes d’un Troubadour (Lamenti di un trovatore). Composti dunque in tre momenti distinti, i Momenti musicali sono pero` organizzati in ciclo secondo il rapporto, preferito da Schubert, di terza maggiore discendente e ascendente, con terminazione una terza piu` in basso della tonalita` iniziale: Do, La bemolle, fa, do diesis (che equivale a re bemolle), fa. La bemolle. Le forme sono in tre casi ternarie (nn. 1, 4 e 6), secondo lo schema del minuettotrio-minuetto, monotematiche in due casi (nn. 3 e 5), e in un caso (n. 2) ternarie, ma con doppia ripetizione del trio, e quindi in cinque episodi. Il primo Momento e` basato su uno squillo militare ma tutt’altro che marziale (prima e terza parte) e su un corale di carattere religioso (seconda parte). Il secondo Momento ha andamento di ninna-nanna o di barcarola, con una parte centrale appassionata, il terzo, fascinosissimo nel suo andamento pseudorusso, e` strumentalmente molto semplice e percio` venne reso piu` ‘‘concertistico’’ da Leschetizky e da Godowsky, che ne prepararono due diverse trascrizioni. Il quarto Momento e` un mormorante moto perpetuo nella prima e nella terza parte, e una canzone ritmicamente molto singolare nella seconda parte, mentre il quinto potrebbe essere musica per una carica di cavalleria. Il sesto, infine, fa onore al titolo originario, Lamenti di un trovatore. Ma il lamento e` piu` nostalgico che doloroso, tanto che un commentatore ha potuto con ragione parlare di ‘‘dolce piacere delle lacrime’’. I Drei Klavierstu¨cke D 946 (Tre Pezzi per pianoforte, 1828, 1868), sebbene piu` ampi architettonicamente, sono certamente accostabili agli Improvvisi, e pare anzi che Schubert intendesse completare la raccolta con un quarto pezzo e darle il titolo Impromptus. La somiglianza e` stilistica e insieme

Franz Schubert

ideologica, perche´ negli Improvvisi come nei Tre Pezzi Schubert si rivolge al mondo dei dilettanti, e presta una certa attenzione nel limitare la difficolta` tecnica e concettuale, sebbene, come abbiamo visto prima, il suo demone lo porti poi lontano dalle sue prime intenzioni. Nei Tre Pezzi compare marginalmente l’aspetto biedermeier dell’opera pianistica di Schubert, cioe` il momento del tentativo di un rapporto positivo con la societa` che lo circonda... e lo nutre. Percio` non molti critici apprezzarono interamente le tre composizioni, e persino uno schubertiano per eccellenza, l’Einstein, dice, con una piccola nota di fastidio, che il primo e` un pezzo ‘‘alla francese’’, soprattutto a causa della parte centrale, ‘‘Romanza nel tipico stile di Kreutzer o di Rode’’, il secondo ‘‘una Cavatina veneziana un po’ languida, nello stile tipicamente all’italiana’’, e il terzo e` ‘‘all’ungherese’’. Osservazioni in se´ e per se´ giustissime, che svelano un momento signficativo della poetica di Schubert ma che non giustificano un giudizio limitativo ne´, tanto meno, negativo. Basti infatti osservare come l’evidente tentativo di ingraziarsi il lettore, della prima, terza e quinta parte del secondo pezzo, sia contraddetto dalla seconda e dalla quarta (lunghissima, questa, e chiaramente rapportabile a certi tratti della Sonata D 960); analogamente, la vivacita` esteriorizzata della prima e terza parte del terzo pezzo e` contraddetta dalla ossessiva monotonia ritmica della parte centrale. E anche nel primo pezzo la dolce romanza ‘‘alla francese’’ in Si e` contornata da una prima e una terza parte in mi bemolle piene di fuoco e di passione. L’autografo del primo pezzo contiene una quarta parte che venne cancellata con un tratto di penna da Schubert, e che alcuni interpreti hanno voluto ripristinare. Nella produzione a quattro mani troviamo parecchi pezzi brevi o di media durata. Innanzitutto il Rondo` op. 138 D 608 (1818, 1838), che fu pubblicato postumo con il titolo apocrifo ‘‘Notre amitie´ est invariable’’ (La nostra amicizia e` immutabile). La composizione, incompiuta nel manoscritto autografo, era stata parzialmente tagliata dall’editore. La versione originale, uscita nel 1953, richiede pochi completamenti per essere eseguibile. Quanto al titolo, si suppone che l’editore fosse a conoscenza di un qualche legame fra il pezzo e l’amicizia di Schubert con il pianista Joseph von Gahy, da lui conosciuto proprio nel 1818. Il tema principale del Rondo` e` grazioso ed elegante, di una grazia discreta e riservata che definisce il periodo biedermeier, il periodo della rinuncia alle ambizioni rivoluzionarie e del gusto per il quotidiano in un mondo che non muta. Il primo tema e` in Re, il secondo in re (la tonalita` piu` usuale sa489

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Allegro moderato e Andante D 968

rebbe stata Sol o La), il terzo tema, dopo la ripresa del primo, e` in Sol. L’ultima ripresa del tema e` seguita da una coda di una certa ampiezza, con alcuni tratti virtuosistici e con una imitazione a canone alla fine, quasi una dotta citazione in un discorso salottiero. L’Allegro moderato e Andante D 968 (1818 ca, 1888) erano sicuramente intesi come primi due movimenti di una sonatina: primo movimento in Do, in forma classica, secondo in la, in forma ternaria con coda. Le proporzioni ridotte e la scrittura strumentale facile fanno pensare che Schubert intendesse impegnarsi in un genere editorialmente molto vantaggioso e quindi molto sfruttato. Questa supposizione sembra del tutto plausibile, ma in realta` si ignorano le circostanze della composizione, la cui autenticita` fu in passato messa in dubbio, e anche le ragioni che indssero Schubert a non completare il lavoro. Scrive il musicista Franz Lachner, intimo amico di Schubert: ‘‘Durante il 1828, il 3 giugno, il redattore della Modezeitung W. Schick invito` Schubert e

me a una gita in campagna a Baden vicino a Vienna. Alla sera Schick ci disse: ‘Domani potremmo andare alla Santa Croce a sentirvi gli organi; forse potreste comporre qualche cosetta da eseguire laggiu` ’. Schubert propose di comporre una fuga a quattro mani, che fu terminata a mezzanotte. Il giorno dopo, alle sei della mattina, andammo alla Santa Croce, dove le due fughe furono eseguite in presenza di molti monaci’’. Il manoscritto della Fuga in mi op. 152 D 952 (1828, 1844) fu conservato dal Lachner, che quindici anni dopo lo passo` all’editore Diabelli. La Fuga non e` lunga – 96 battute – e non e` molto elaborata: esposizione, divertimenti, stretto e pedale sono semplici e tradizionali, sia pure con qualche excursus tonale eterodosso. L’estensione e` quella della tastiera di un piccolo organo, non di un pianoforte, e la destinazione pianistica appare, se non impropria, certamente riduttiva rispetto alla sonorita` che Schubert poteva aver trovato sull’organo del monastero cistercense di Santa Croce.

Le Sonate Le prime due Sonate di Schubert, la Sonata in Mi D 157 (1815, 1888) e la Sonata in Do D 279 (1815, 1888) sono incompiute. Del primo movimento della Sonata D 157 esiste una prima versione della esposizione e dello sviluppo (D 154) che in parte differisce da quella definitiva. A proposito del passaggio dalla prima alla seconda versione Alfred Einstein ritenne che Schubert avesse modificato il primo gruppo tematico perche´ ‘‘troppo mozartiano, troppo poco moderno, troppo poco eroico’’. A me sembra che la prima versione fosse non tanto mozartiana quanto, piuttosto, piu` nettamente ‘‘pianistica’’, e rapportabile allo stato del pianismo viennese al tempo del Congresso di Vienna, mentre la versione definitiva rivela invece, sempre secondo il mio parere, il passaggio da una concezione pianistica a una concezione orchestrale, e orchestrale da melodramma, con due semifrasi di collegamento affidate all’arpa, strumento che non compare nella musica sinfonica dell’epoca e che e` invece di casa nella musica di teatro. Con le modifiche della versione definitiva il primo tema si rapporta perfettamente al seguito, che rispetto alla prima versione viene sı` trasportato da Mi a Si, ma non ritoccato strumentalmente. Il primo movimento finisce cosı` coll’assumere un aspetto da ouverture operistica: ouverture che oggi tenderemmo a definire protorossiniana perche´ solo Rossini ci e` ormai familiare, ma che si inserisce invece perfettamente nella koine´ del melodramma italianeggiante del tempo. Nel secondo movimento, in mi,

e` stato notato piu` volte l’uso del silenzio in funzione drammatica. Del primo movimento della Sonata D 279, che inizia come una ouverture trascritta per pianoforte, dice l’Einstein che ‘‘la riesposizione ci si presenta nella sottodominante, consuetudine questa che, se ammissibile nelle ouverture italiane e in lavori dello stesso tipo, in una sonata e` pero` segno di imperdonabile pigrizia’’. La riesposizione alla sottodominante (il quarto grado della tonalita` di impianto), che anche in seguito sara` impiegata spessissimo da Schubert, viene giudicata dall’Einstein un comodo espediente perche´, consentendo la riesposizione simmetrica della esposizione, puo` addirittura essere affidato a un copista capace di operare la trasposizione di tonalita` (italiani, pigri e frettolosi!). Non e` qui il luogo per discutere le ragioni dell’Einstein, ma a me interessava notare come un grande studioso di Schubert avesse avvertito nelle prime Sonate momenti di stile melodrammatico, sebbene la sua intuizione non venisse poi volta in positivo e, anzi, egli reputasse che ‘‘non esiste alcuna connessione fondamentale tra i lavori drammatici di Schubert e il resto della sua musica’’. Superfluo aggiungere che nel 1817 Schubert avrebbe composto due Ouverture in stile italiano, di cui avrebbe preparato anche (D 592 e D 597) la versione per pianoforte a quattro mani. I Due Pezzi D 459 (1816, 1843) e i Tre Pezzi D 459a (1816, 1843) vennero pubblicati sotto il titolo Cinque Pezzi. Secondo l’opinione di qualche

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Rondo` D 506

studioso i Cinque Pezzi formano una Sonata. Sui Due Pezzi si trova infatti scritto Sonata, sui Tre Pezzi nulla. Puo` darsi che anche i Tre Pezzi venissero pensati come movimenti di sonata o forse, il terzo, di fantasia. La pubblicazione dei Cinque Pezzi e` editorialmente efficace, ma io ritengo che non ci siano ragioni probanti per considerare il gruppo come una raccolta ne´, tanto meno, come una sonata in cinque movimenti e con due Scherzi, che sarebbe del tutto fuori dagli usi del secondo decennio dell’Ottocento. Si possono invece considerare i Due Pezzi come movimenti di una sonata incompiuta. E` da notare che, mentre nelle prime due Sonate lo stile e la scrittura erano teatrali, qui la scrittura e` nettamente quartettistica, non senza un qualche riferimento al Beethoven del periodo di mezzo. Nell’Allegro moderato, in forma di primo movimento di sonata, le idee tematiche sono molto differenziate e anche i temi secondari acquistano un insolito rilievo. Anche qui la riesposizione e` al quarto grado. Lo Scherzo, in Mi, ha una parte centrale, che Schubert non denomina trio, in Do; e anche la prima parte e` formalmente un po’ anomala perche´ priva di suddivisione. Nel 1817 Schubert compose sonate per pianoforte a un ritmo intensissimo: una in marzo, una in maggio, tre in giugno, una in luglio e una in agosto. Pur tenendo conto del fatto che non tutte le Sonate furono completate, l’insieme che Schubert crea nell’arco di sei mesi e` imponente. E tanto piu` perche´ Schubert non si limita a creare sonate per pianoforte: insieme con queste scrive molti Lieder e la Sonata D 574 per violino e pianoforte. La Sonata in la op. 164 D 537 (1817, 1832) e` in tre movimenti; mancano il minuetto o lo scherzo, ma il finale, in metro ternario, ha carattere di scherzo. La scrittura e` orchestrale, con momenti, specie nel secondo movimento, che potrebbero essere facilmente trasferiti in partitura. La costruzione del primo movimento e` tutta centrata sul primo tema, che presenta gia` nel suo interno un forte contrasto drammatico fra due cellule: una massiccia, in accordi, l’altra leggera, quasi un fantastico valzer. Le frasi sono irregolari (cinque battute invece di quattro), e questa caratteristica rende inquieto e instabile il discorso. La riesposizione inizia alla sottodominante e tutto il piano tonale e` inconsueto: nella esposizione, la (primo tema), Fa invece di Do (secondo tema), e nella riesposizione re invece di la (primo tema) e La (secondo tema). Inconsueto e` anche l’impianto tonale del secondo movimento, che inizia con una delle piu` belle, e piu` celebri melodie di Schubert. Alla tonalita` di impianto di Mi (primo tema) seguono Do (secondo tema), Fa (riesposizione variata del primo tema), re (terzo te-

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ma), Mi (altra riesposizione variata – uno splendido carillon – del primo tema). Lo schema e` quello classico del rondo`, ma i piani tonali sono straordinariamente innovativi e anche la Stimmung e` ben diversa da quella del tono disimpegnato e salottiero che il rondo` aveva assunto nella Vienna della Restaurazione; anzi, nell’episodio in re minore compare quel topos della marcia lontana, misteriosa e fantomatica che diverra` piu` tardi usuale in Schubert. La Sonata in La bemolle-Mi bemolle D 537 (1817, 1888) e` un delizioso ninnolo che della sonata ha tutti i crismi meno uno: secondo movimento in Mi bemolle, finale in Mi bemolle. Finale, dico, e non terzo movimento perche´ la composizione presenta tutte le caratteristiche, e di forma e di stile, del finale di sonata. Ma e` in Mi bemolle, non in La bemolle. E` mai possibile che Schubert abbia pensato a una sonata che inizia in una tonalita` e termina in un’altra, con secondo movimento e finale nella stessa tonalita`? Per quanto poco convenzionale sia Schubert, cio` non sembra possibile. E non si capisce il perche´ della stranezza, a meno che non sia valida un’ipotesi che faro` fra breve. La Sonata in mi-Mi D 586 (1817, 1888) e` completa nei primi due movimenti, Moderato in mi e Allegretto in Mi. Completo e` lo Scherzo in La bemolle. Manca il finale, ma si suppone che come tale sia da considerare il Rondo` D 506. I problemi testuali delle opere incompiute di Schubert sono troppo complessi perche´ io possa esaminarli qui. Ma se facciamo l’ipotesi che Schubert scrivesse dei movimenti di sonata senza avere ancora dei piani precisi per quella o quell’altra sonata, possiamo anche supporre che il terzo movimento della D 566 non fosse destinato alla D 566, e che non fosse destinato alla D 557 il finale in Mi bemolle. Se cosı` e` – e non dico che cosı` sia – si potrebbe pensare che i primi due movimenti della D 566 siano in realta` l’intera sonata e che il modello seguito da Schubert sia la Sonata op. 90 di Beethoven, pubblicata nel 1815. La supposizione sembra confermata dal seguito delle tonalita` e dall’ampiezza del secondo movimento, di 227 battute in metro di 2/4, soprattutto in rapporto con l’ampiezza del primo movimento, che e` di sole 96 battute in tempo ordinario. La struttura del primo movimento e` molto sempice, ma e` ricca di sorprese. Ad esempio, la prima frase e` di sei battute invece che di quattro; si tratta in realta` di una frase di quattro battute, dilatata a sei attraverso la ripetizione della seconda semifrase, ripetizione resa possibile mediante una squisita trovata armonica e sottolineata da uno spostamento di registro. L’insieme e` di una eleganza parnassiana e di una semplicita` estrema, 491

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senza che l’ascoltatore si renda conto dei mezzi impiegati da Schubert per catturare fin dall’inizio la sua attenzione. Il secondo movimento e` caratterizzato da due temi di Lied, strofici e popolareschi. La scrittura pianistica si iscrive interamente nello stile della musica biedermeier per dilettanti. Su alcune Sonate del 1817 appaiono delle numerazioni; si suppone percio` che Schubert intendesse comporre un ciclo di sei Sonate da offrire a un editore. Non andava piu` tanto di moda, nel secondo decennio dell’ottocento, la raccolta di sei sonate, e neppure piu` di tre. Ma Schubert doveva avere in mente la riproposizione di un costume gia` tramontato. E per questa ragione, pensando a una grande raccolta e al mercato dei dilettanti, rinuncio` alla Sonata in Re bemolle D 567 (1817, 1897) perche´ la tonalita` con cinque bemolli era di lettura troppo difficile, e la trascrisse in Mi bemolle. La Sonata in Mi bemolle op. 122 D 568 (1817, 1829) e` in quattro movimenti ed e` molto omogenea. Ma, come quasi sempre in Schubert, uno dei suoi temi (in questo caso il secondo del primo movimento) spicca per una sua grazia mondanamente civettuola che lo rende memorabile. L’op. 122 e` una commedia sentimentale che dispone sistematicamente l’evento principale in registri diversi, creando un mondo maschile e un mondo femminile. I piani tonali del primo movimento sono ancora una volta eterodossi. Il secondo movimento, in sol, e` di espressione tragica e di carattere fortemente teatrale. Il Minuetto e` grazioso, nostalgicamente rivolto verso il Settecento, e il finale, strutturato nella forma del primo movimento di sonata, e` tutto giocato su domande e risposte civettuole. Commedia, dicevo. E potrebbe anche darsi che Schubert pensasse a una vera e propria commedia del teatro semiserio. La Sonata in Si op. 147 D 575 (1817, 1846) contiene anch’essa due temi memorabili, il secondo del primo movimento e il primo dello Scherzo. Alla fama della Sonata op. 147 nuoce pero` il finale, che e` di scrittura pianistica molto secca, quasi scheletrica rispetto alla opulenza di strumentazione degli altri tre movimenti. Si tratta tuttavia di una composizione ricca di tratti geniali, soprattutto nella sperimentazione di rapporti tonali inconsueti. La tonalita` di Si era molto rara all’inizio dell’Ottocento e non era mai stata impiegata in una sonata perche´ avrebbe complicato la lettura. Un problema analogo veniva risolto nella D 567 con il trasporto in una tonalita` piu` facile. Non si poteva invece rinunciare al Si della D 575 perche´ il suo primo tema nasceva secondo una precisa gestualita` pianistica – attacco di slancio e rimbalzo dal tasto bianco al tasto nero – che sarebbe risultata molto 492

Sonata D 567

ridotta in altre tonalita`. Una volta adottato un Si nato sulla tastiera, Schubert non adotta pero` la rete tonale della tradizione, ma passa subito a Sol ed espone in Mi, invece che in Fa diesis, il secondo tema, riservando poi il Fa diesis al tema di conclusione. Dopo un breve sviluppo in cui la gestualita` pianistica assume, a causa dei grandi sbalzi di registro, tratti spettacolari, la riesposizione inizia alla sottodominante, il secondo tema e` in La invece che in Si, mentre in Si e` il tema di conclusione. Il secondo movimento, Andante in Mi, e` una pagina di ampio respiro, di carattere nettamente orchestrale, con giochi di staccato e di staccato-legato che simulano perfettamente il dolce pettegolio degli strumentini. E incantevole e` lo Scherzo in Sol, con accenni di imitazioni canoniche, anche per moto contrario, che insaporiscono l’andamento villereccio del pezzo. Il finale, come dicevo, e` pianisticamente scritto in modo sommario e provoca un calo di interesse, tanto piu` grave dopo la delicatezza di tinte dello Scherzo. Al 1817 appartiene ancora il frammento di Sonata in fa diesis D 571 (1817, 1897). Qualche commentatore ritiene che la Sonata sia formata dall’Allegro moderato D 571, da un Presto in La D 604, dallo Scherzo in Re e dall’Allegro in fa diesis D 570. Il primo e l’ultimo di questi pezzi sono incompleti, e io dubito comunque che i quattro pezzi dovessero formare una sonata. Ma qui importa far notare la straordinaria qualita` del primo frammento, di una scrittura spoglia e scarnita (non sommaria come quella del finale della D 575), e di un’espressione pietrificata, attonita, quale si ritrovera` solo nello Schubert maturo. Durante un soggiorno a Zseliz in Ungheria, dove era stato chiamato come insegnante delle figlie del conte Esterha´zy, Schubert compose la Sonata in Si bemolle per pianoforte a quattro mani op. 30 D 617 (1818, 1823). Questa Sonata e` uno di quei lavori giovanili nei quali, come nella Sinfonia n. 1, lo studio delle opere strumentali di Haydn e di Mozart assume i caratteri del neoclassicismo, di un ritorno a un’eta` d’oro della musica che scavalca all’indietro le inquietanti esperienze del Beethoven posteriore alla Sinfonia n. 2. Questo fenomeno si sviluppa nella musica centroeuropea durante il periodo della Restaurazione e da` luogo al fiorire del biedermeier. L’ultimo punto di riferimento beethoveniano, nella Sonata op. 30 di Schubert, e` la Sonata in Fa per pianoforte e violino, la cosiddetta Primavera: le proporzioni sono classiche, cioe` concise e lineari, l’espressione e` serena, e in questo quadro che lo soddisfa Schubert inserisce nel primo movimento un impianto tonale insolito e insolite modulazioni, sceglie per il se-

Sonata op. 120 D 664

condo movimento una tonalita` , re minore, che nessuno s’aspetterebbe, e... modula come gli pare nel terzo movimento. Il momento piu` ‘‘schubertiano’’ lo troviamo nel secondo movimento, in forma di canzone su un tema di sapore vagamente popolare; e` notevole soprattutto, oltre alla bellezza melodica del tema principale, la riesposizione, in re maggiore invece che in re minore, con squisite fioriture ornamentali. Di rilevante interesse nella produzione sonatistica di Schubert e` la incompiuta Sonata in fa D 625 (1818, 1897). Il primo movimento si arresta alla battuta 117, nel momento in cui, presumibilmente, avrebbe dovuto iniziare la riesposizione. Lo Scherzo e` praticamente completo. Del finale non sono complete 70 battute, nelle quali Schubert indica soltanto la melodia. Nel catalogo redatto da Ferdinand Schubert, fratello di Franz, la Sonata e` indicata come in quattro movimenti con, come secondo movimento, l’Adagio in Re bemolle D 505, che in versione abbreviata e trasportato in mi maggiore era stato pubblicato verso il 1845 come introduzione al Rondo` op. 145. Non entrero` nella selva intricata dei problemi testuali che nascono con la Sonata in fa minore. Mi limito a dire che sono stati tentati vari completamenti ma che la maggioranza degli interpreti preferisce lasciare in sospeso il primo movimento ed escludere l’Adagio. E` stato notato piu` volte il carattere beethoveniano della Sonata, che il Brown definisce la ‘‘Sonata Appassionata di Schubert’’. Il carattere beethoveniano, in apparenza innegabile, si limita pero` ai temi iniziali del primo e dell’ultimo movimento, perche´ ne´ le forme ne´ lo stile sono rapportabili a Beethoven. Anzi, sembra a me che il riferimento a Beethoven sia piu` apparente che reale, e che sia forse dovuto alla suggestione della tonalita` di fa minore. Il tema iniziale puo` essere definito beethoveniano nel senso che segue la struttura del primo tema dell’Appassionata. Beethoven aveva esposto il tema prima in fa minore e subito dopo, senza transizione, in sol bemolle maggiore. Questa idea, di enorme forza drammatica, viene per cosı` dire stabilizzata e commentata da Schubert, che passa dal fa minore al sol bemolle maggiore discendendo per terze: fa minore, re bemolle maggiore, si bemolle minore, sol bemolle maggiore. Il potente scorcio beethoveniano viene aperto da Schubert, che intende servirsi di una cellula tematica fondamentale per costruire poi una melodia. Dopo aver esposto la cellula, Schubert presenta infatti la melodia, e nel corso dell’esposizione non le contrappone un secondo tema, ma continua a sviluppare la cellula tematica fondamentale. Non la dialettica beethoveniana, dunque, ma una specie

Franz Schubert

di monodramma che si arresta alla fine dello sviluppo perche´, forse, la semplice riesposizione sarebbe risultata scontata e banale. Nella incompiutezza del primo movimento si riscontra dunque, secondo il mio parere, una logica: la logica non tanto di una forma non compiuta, quanto di un problema formale non risolto. Lo Scherzo e` costruito, insolitamente, con la prima ripetizione (il ritornello) variata, e senza la seconda ripetizione. Tradizionale e` invece la struttura del Trio, ma basta la singolarita` dello Scherzo a rendere del tutto nuova, e affascinante, la forma complessiva. L’inizio del finale, a moto perpetuo, ricorda il finale dell’Appassionata. L’analogia e` pero` momentanea e appena allusiva perche´ Schubert arresta ben presto la corsa vorticosa del moto perpetuo, variando anzi piu` volte la densita` ritmica. L’Adagio D 505 e` in forma di canzone, con una parte centrale che sembra pensata piu` per orchestra che per pianoforte. Sebbene la qualita` estetica del brano sia elevata, il contrasto stilistico con gli altri movimenti giustifica i dubbi sulla collocazione del pezzo nella Sonata. Rispetto alle altre Sonate di Schubert, la Sonata in La op. 120 D 664 (1819, 1829) e` ‘‘piccola’’. Centotrentatre battute nel primo movimento invece delle duecento circa che per Schubert costituiscono una misura ordinaria, tre movimenti invece di quattro, quattordici pagine a stampa invece delle venticinque dell’op. 122 e delle diciotto dell’op. 147. Sia per questa sua snellezza di proporzioni, sia per un tono affettivo intimo e tenero che e` l’immagine stessa della Vienna schubertiana, sia per l’indicibile fascino del secondo tema del finale (ampiamente sfruttato nell’operetta La Casa delle tre ragazze, specie di telenovela ante litteram sulla vita di Schubert), la Sonata op. 120 godette fin dall’inizio del Novecento di una popolarita` che fu per lungo tempo negata alle consorelle maggiori e che nella prima meta` del Novecento fu raggiunta soltanto dall’ultima Sonata, in si bemolle maggiore. La costruzione del primo movimento risponde a un’economia di mezzi che nel secondo decennio dell’Ottocento era ormai del tutto insolita. Piu` che un primo tema, Schubert presenta all’inizio una piccola canzone in tre parti, agganciata direttamente, senza episodio di transizione, al secondo tema. Secondo tema che e` invece un tema vero e proprio, subito sviluppato e che esaurisce l’esposizione senza il consueto episodio di conclusione. Il grande sviluppo sembra impostato in modo monumentale, con imitazioni canoniche e una densa sonorita` di tipo orchestrale. Ma il climax scoppia subito e non e` tanto tematico quanto piuttosto dinamico, vitalistico, con grandi scale gioiose in ottave 493

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il cui slancio e` tanto intenso quanto breve; un altro episodio dello sviluppo serve in realta` ad annunciare il sospirato ritorno del bellissimo primo tema. La riesposizione e` tradizionalissima; una breve coda riporta pero` ancora una volta l’attenzione sul primo tema. Schubert sfugge dunque alla dialettica beethoveniana del contrasto fra i temi, dello sviluppo, della catarsi, soffermandosi voluttuosamente su un primo tema gia` in se´ completo e affiancandogli un secondo tema dai contorni piu` ondeggianti. Nel secondo movimento rinuncia addirittura a un secondo tema e lavora su un tema unico, variandolo soprattutto nella strumentazione pianistica e facendogli assumere cosı` due aspetti ben diversificati. Di estrema sottigliezza, come al solito, il piano tonale. L’ultimo movimento e` in forma di allegro di sonata, bitematica e tripartita, con una struttura un po’ piu` complessa di quella del primo movimento perche´ fra i due temi si colloca un episodio di collegamento. Tutta l’attenzione e` pero` spostata sul secondo tema, celeberrimo come s’e` detto, che viene sviluppato a variato. La riesposizione inizia nella tonalita` della sottodominante. Nelle Sonate del 1817-1819 si notano sia le aspirazioni di Schubert a inserirsi nel fiorente mercato editoriale della musica per dilettanti, sia il lento formarsi della sua drammaturgia. La scrittura spesso orchestrale e i temi graziosi e gradevoli richiamano il teatro leggero, il Singspiel. Schubert aveva composto nel 1815 quattro Singspiele, nessuno dei quali era stato rappresentato, e aveva iniziato nel 1816 un’opera, rimasta incompiuta. Con le Sonate per pianoforte, come ho detto prima, egli continua a lavorare da drammaturgo perche´ il teatro resta chiuso per lui con sette sigilli. E nel frammento in fa diesis minore D 571 scopre un modo di pensare il dramma che sfugge a ogni rapporto con il teatro contemporaneo. Dopo un frammento di Sonata in mi D 994 (1823 ca., 1958), con la Sonata in la op. 143 D 784 (1823, 1839) ritroviamo lo schema in tre movimenti dell’op. 120, ma con una maturita` e una originalita` di concetti che fanno veramente nascere un momento nuovo nella letteratura pianistica: Schubert si pone qui su un piano di universalita` che trascende il genere. Secondo la tradizionale divisione in sonate ‘‘d’apprendistato’’ e sonate ‘‘della maturita`’’, che ha le sue valide ragioni ma che, come tutte le divisioni in periodi, pecca di una certa rozzezza, la Sonata op. 143 non sta bene ne´ di qua ne´ di la`: non si puo` classificarla tra le opere attraverso le quali si forma la personalita` di Schubert, e non e` omologa alla Sonata op. 42 che la segue nel catalogo schubertiano. In realta` , la 494

Sonata D 994

Sonata op. 143 va collocata stilisticamente com’e` collocata cronologicamente, e cioe` fra le opere Alfonso ed Estrella e Fierabras. Non si capisce bene perche´ Schubert componesse una sonata per pianoforte nel momento in cui era in tutt’altre facccende affacendato: non perche´ gliel’avesse chiesta un editore e non perche´ gliel’avesse chiesta un dilettante. Si potrebbe allora avanzare l’ipotesi che la Sonata op. 143 costituisse un momento di ricerca drammaturgica, un cartone di studio per situazioni teatrali. Il carattere della scrittura pianistica del primo movimento, che e` totalmente privo di coloratura, si riferisce infatti chiaramente all’orchestra. Ma ancor piu` impressionante e` il frazionamento dei temi in cellule e l’uso ossessivo della ripetizione della cellula. La logica classica dello sviluppo tematico viene cosı` completamente superata e l’organizzazione del discorso si avvia verso tensioni che non sembra esagerato definire espressionistiche. Il principio del contrasto drammatico trasferito all’interno dei temi, anziche´ fra temi diversi, regge anche il secondo movimento. Il primo tema, che e` un semplicissimo corale armonizzato, viene continuamente interrotto da una cellula tematica contrastante. E, per dare maggior rilievo e significato a questa cellula, Schubert prescrive l’uso di un pedale, il ‘‘sordino’’, che non viene piu` montato sui pianoforti moderni e che soffocava in parte la vibrazione delle corde. Sia l’uso di questo pedale tipicamente timbrico, sia una strumentazione pianistica attentamente studiata e in qualche caso (riesposizione del primo tema) di sconcertante genialita`, aprono una concezione del suono nello spazio – in orchestra, sulla scena, dietro le quinte – che fa della tastiera un luogo teatrale, un laboratorio in cui vengono simulate situazioni ben diverse da quelle tradizionali della musica da camera. Nell’ultimo movimento Schubert ritorna invece a una logica classica del comporre, con due temi ben differenziati e contrastanti (il secondo e` una di quelle ‘‘celestiali’’ melodie per cui Schubert ando` famoso) e una chiara ripartizione del materiale entro lo schema del cosiddetto rondo`-sonata. L’unita` della Sonata non viene pero` minimamente compromessa, perche´ Schubert fa nascere il primo tema del finale dalla cellula di contrasto del primo tema del secondo movimento. Il finale si pone cosı`, se mi si consente l’espressione, come una specie di postumo commentario – al tempo di Schubert si sarebbe detto prolegomeno – dei primi due movimenti, e la Sonata diventa la cerniera che permettera` a Schubert di trovare nel pianoforte il transfert delle sue aspirazioni di drammaturgo. La Sonata (o Gran Duo) in Do per pianoforte a

Sonata D 840

quattro mani op. 140 D 812 (1824, 1838) fu composta a Zseliz, dove Schubert era tornato per insegnare la musica alle figlie del conte Esterha´zy. Nei sei anni trascorsi dalla prima scrittura Schubert si era fatto una sua piccola fama, anche se non aveva ottenuto un impiego stabile o un incarico ufficiale. Pote´ cosı` spuntare dagli Esterha´zy condizioni finanziarie e trattamento migliori: cento fiorini al mese invece di settantacinque, alloggio e tavola degli ospiti invece che dei domestici. E invece dell’innocente Sonata op. 30 compose l’imponente Sonata op. 140. Non discutero` qui la questione, sollevata da Schumann nella sua recensione e ancora attuale, sulla origine sinfonica della Sonata: ‘‘Il Duo specialmente mi sembra nato sotto l’influenza di Beethoven, tanto ch’io lo ritenni la trascrizione di una sinfonia, finche´ il manoscritto originale, su cui stava scritto di suo pugno Sonata a quattro mani, volle convincermi di tutt’altro. Dico volle perche´ non ho rinunciato alla mia idea’’. La Sonata op. 140 e` qui da esaminare per altri motivi. La struttura tonale del primo movimento devia vistosamente dalla tradizione perche´ il secondo tema, invece che in Sol, viene esposto in La bemolle. Questa impostazione eterodossa provoca tutta una serie di rapporti armonici diversi da quelli usuali: ad esempio, gia` alla quindicesima battuta viene toccata improvvisamente la tonalita` di Mi, e alla trentaquattresima battuta viene introdotto, di nuovo ex abrupto, il do diesis. Una caratteristica inconsueta, per un compositore postbeethoveniano, e` la derivazione del secondo tema dal primo. Beethoveniano e` invece un altro carattere strutturale: sviluppo breve, riequilibrato da un’ampia coda. Inconsueto anche l’impianto tonale del secondo movimento, in La bemolle, con tema di transizione una prima volta in Mi e una seconda volta in Do: evidente la tendenza alla integrazione fra primo e secondo movimento. Il secondo tema, come nota Schumann, richiama la Sinfonia n. 2 di Beethoven; ma non mancano riferimenti al secondo movimento della Sinfonia n. 5, che si fanno piu` chiari nella coda, di carattere drammatico e fortemente contrastante con quanto precede. Nello Scherzo, in Do, la rete tonale continua a stabilire rapporti fra i diversi movimenti. Nel finale, vastissimo, la scruttura e` quella classica della forma-sonata bitematica e tripartita. Una coda molto ampia riespone pero` il primo tema in tempo piu` lento e nella lontana tonalita` di do diesis, modula enarmonicamente al fa per passare al La bemolle, e ritorna infine al Do accelerando la velocita` fino alla conclusione. Il complicato intreccio delle tonalita` tende non solo a richiami fra i diversi movimenti

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ma, piu` in generale, all’integrazione fra il sistema classico (basato sui rapporti tonica-sottodominante-dominante) e il sistema dei rapporti di terza maggiore, scoperto nella Fantasia op. 15. In se´ meno rivoluzionaria della Fantasia, la Sonata op. 140 puo` dunque essere considerata come il momento di sintesi fra la tradizione e una alternativa alla tradizione, da Schubert individuata e sperimentata e che verra` ripresa di frequente durante tutto il secolo. Anche il primo movimento della Sonata in Do D 840 (1825, 1861), di scrittura pianistica molto lineare, scabra, potentissima nel suo radicale contrasto tra la forza e la dolcezza, ha un impianto totale al di fuori da ogni norma. Non solo il secondo tema e` in modo minore, fatto gia` di per se´ eccezionale, ma la tonalita` in cui viene esposto, si, e` lontanissima dalla tonalita` principale. Il secondo tema viene anche presentato in Sol alla fine della esposizione, per ragioni di equilibrio strutturale, ma l’esposizione ‘‘normale’’ in Sol non attenua l’effetto di una sorpresa inaudita della esposizione in si, complicata ancora da imprevedibili modulazioni. Altrettanto sorprendente e` l’aggancio fra sviluppo e riesposizione, che avviene senza cesura e che e` graduato in modo da rendere inavvertibile all’ascoltatore il passaggio dall’una all’altra sezione. Nella riesposizione il secondo tema viene presentato in la, e alla fine in Do. La coda conclusiva e` insolitamente ampia. Il secondo movimento, in do, e` certamente da considerare fra i piu` impressionanti momenti tragici di Schubert. La forma e` bitematica: primo tema in do, secondo tema in La bemolle, primo tema, variato, in do, secondo tema in Do, coda su elementi del primo tema. Una forma con due temi fortemente caratterizzati e ricchi (specie il secondo) di contrasti drammatici lascerebbe supporre uno sviluppo con i due temi contrapposti. E` invece tipica di Schubert la mancanza di sviluppo, tanto che il contenuto emotivo della sonata, divenuto dramma con l’ultimo Mozart e con Beethoven, tende con Schubert a trasformarsi in tragedia, e dominata dal Fato. Con i suoi due movimenti completi, potente e scabro fino a essere grezzo il primo, tremendamente sottile di contenuti emotivi il secondo, la Sonata D 840 sembra far riaffiorare in Schubert la memoria del teatro greco. Ma l’incompletezza dello Scherzo e del finale ci lascia molti dubbi sul sigificato di questa Sonata, perche´ la poetica del finale contrasta con la poetica dei primi due movimenti. La Sonata non fu mai completata. Lo Scherzo si arresta alla riesposizione, il finale si arresta durante lo sviluppo. Nella prima pubblicazione la Sona495

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ta ebbe l’immotivato sottotitolo Reliquie (Reliquia), con la specificazione ‘‘ultima Sonata di Schubert’’. Avrebbe potuto essere il pendant della Sinfonia Incompiuta, pubblicata nel 1867 e divenuta presto celebre. Ma cosı` non avvenne. Anche l’esecuzione della Sonata D 840, come della D 625, pone molti problemi che non tocchero` qui. Basti dire che, una volta scartata la soluzione del completamento, pur tentata da diversi musicisti, l’esecuzione dei suoi primi due movimenti e` senza dubbio la piu` logica. Nel primo movimento della D 625 l’incompletezza non dipende dalla mancanza di un’intera sezione, bensı` dalla non soluzione di un problema formale. E nella D 840 l’incompletezza consegue alla non soluzione di un problema gia` affacciatosi nella poetica di Schubert, e che verra` ripreso nelle Sonate successive. A questo punto devo al lettore una piccola spiegazione. La mia insistenza sulla rete delle tonalita`, che a qualcuno potra` essere parsa fastidiosa, non e` una fissazione che mi perseguita. Le diverse tonalita` non sono semplici trasposizioni della tonalita` di base (Do, maggiore o minore), ma implicano uan diversita`, un carattere individuale, sia per quanto riguarda minime varianti degli intervalli costitutivi, sia, soprattutto, per quanto riguarda la timbrica. Le tonalita` sono diverse. Ma se anche non lo fossero resta il fatto che erano comunque ritenute diverse ai tempi di Schubert (si veda la nota di Schumann, Caratteristica delle tonalita`, che e` del 1835 e che affronta il problema con molto equilibrio). La scelta di una tonalita` significava allora la individuazione di un campo di sentimenti, e l’uscita da una rete tradizionale significava l’apertura di spazi psicologici non, o raramente indagati. Nella Sonata op. 140 in Do il fatto che il secondo tema si presenti in La bemolle invece che in Sol introduce una variante di espressione: il modo maggiore apre comunque un campo di sentimenti positivci, ma il La bemolle e` meno diretto e meno gioioso del Sol. Nella Sonata D 840 in Do il secondo tema in si introduce addirittura, con il cambiamento del modo, un campo di sentimenti opposti. Ma la scelta del si invece che ad esempio del sol rende ancora piu` drammatico il trapasso. Le reti tonali di Schubert sono dunque da mettere in relazione con significati psicologici complessi che puntano verso una concezione non piu` classica del mondo: il mondo come caos, non come kosmos. La Sonata in la op. 42 D 854 (1825, 1826) fu offerta a un editore il quale rispose cortesemente che, essendo Schubert un ‘‘principiante’’, avrebbe dovuto accontentarsi del ‘‘prezzo piu` basso possibile’’. Schubert aveva al suo attivo ottocento composizioni gia` scritte e quaranta lavori pubblicati, 496

Sonata op. 42 D 854

ma era quasi sconosciuto. Non poteva dunque che prendersi in santa pace il ‘‘principiante’’ e accettare un prezzo stracciato, oppure tentare con un altro potenziale acquirente. Si rivolse a un editore principiante, Adolf Pennauer, che accetto` la Sonata (non sappiamo per quale prezzo). Schubert dedico` il suo lavoro all’allievo, amico e protettore di Beethoven, l’arciduca Rodolfo, che accettando la dedica – una dedica non concordata con un personaggio altolocato sarebbe stata giudicata una imperdonabile scortesia – diede prova di quella sensibilita` e di quel gusto e di quel fiuto che nessuno gli puo` negare. Fiuto che non manco`, oltre che all’arciduca, neppure al critico Gottfried Wilhelm Finck: recensendo la Sonata nel maggior periodico del tempo, l’Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia, il Finck concludeva dicendo che l’op. 42 ‘‘probabilmente puo` essere paragonata soltanto alle piu` grandi e libere Sonate di Beethoven’’. Di Beethoven, si noti, che aveva pubblicato quattro anni prima le sue ultime Sonate, l’op. 110 e l’op. 111. Prima di racimolare l’editore principiante Schubert aveva spesso eseguito la Sonata, nell’estate del 1825, durante un viaggio artistico di cui diro` piu` avanti. In una lettera alla famiglia, del 25 luglio, egli diceva: ‘‘Piacquero specialmente le variazioni della mia nuova Sonata a due mani, che eseguii da solo e non senza merito. Alcune persone mi assicurarono che i tasti diventavano voci cantanti sotto le mie dita, cio` che, se vero, mi fa molto piacere perche´ non posso sopportare il maledetto martellamento a cui indulgono anche distinti pianisti e che non diletta ne´ l’orecchio ne´ la mente’’. La Sonata, benche´ lodata da un autorevole periodico, non aveva alcuna probabilita` di essere adottata da pianisti per i quali il ‘‘maledetto martellamento’’ era un’imprescindibile condizione di successo. E non solo al tempo di Schubert, ma durante tutto l’Ottocento, mentre gli elementi piu` spettacolari del concertismo pubblico continuavano a dettar legge, la Sonata op. 42 fu eseguita molto raramente. Nel Novecento la composizione fu proposta dapprima al pubblico dal grande scopritore di Schubert, Artur Schnabel, e poi da Kempff. Una confessione di Wilhelm Kempff e` preziosa per intendere il ruolo giocato nel Novecento dall’op. 42 nella scoperta dello Schubert sonatista: ‘‘Stimavo molto la grande Sonata op. 42 perche´ mi sembrava congeniale allo spirito di Beethoven’’. La Sonata parrebbe infatti beethoveniana – beethoveniana della ‘‘seconda maniera’’, quella dell’Appassionata – per la ricchezza di contrasti e per la plasticita` dei temi; una diretta influenza di Beethoven su Schubert e` inoltre quasi sicuramente da rilevare, nello

Sonata op. 78

Scherzo, che pare ricalcare l’esempio della quinta variazione delle Variazioni su un Valzer di Diabelli, pubblicate nel 1823. E` percio` comprensibile che per Kempff, come per altri, l’op. 42 rappresentasse il punto di incontro fra Beethoven e Schubert. Ma a me non sembra che si possa parlare di un sostanziale ‘‘beethovenismo’’ dell’op. 42: il tipo di struttura e di scrittura pianistica del primo e dell’ultimo movimento, analizzate a fondo, si rivelano per schubertiane o recano tutt’al piu` tracce di stilemi classici che secondo me sono da ricondurre a Clementi, non a Beethoven. L’interpretazione di Sviatoslav Richter, di una generazione piu` giovane di Schnabel e di Kempff, ebbe la funzione e il merito di riportare questa Sonata entro una poetica schubertiana: tragicita` pietrificata nel primo movimento, malinconia struggente nel secondo (le ‘‘variazioni’’ di cui alla lettera di Schubert), amaro umorismo nello Scherzo, smarrimento della coscienza nel finale. Da qui partiva veramente, e non piu` al modo isolato e profetico di Schnabel, la rilettura che la cultura avrebbe compiuto sulle Sonate di Schubert, scoprendo in esse, come ho gia` detto, il termine complementare della grande opera sonatistica di Beethoven. Nella primavera del 1825, dopo aver trascorso l’inverno con la famiglia, Schubert aveva trovato da affittare una camera, con vista e sulla citta` e sulla campagna, nell’appartamento di un negoziante di vini situato presso la chiesa di S. Carlo. Nella vita di Schubert, che non giro` il mondo ma che a Vienna cambio` domicilio innumerevoli volte, l’appartamento del vinaio rappresento` un porto ameno e felice, in cui rimase del resto per poco piu` d’un anno. Poco dopo aver preso possesso della camera, alla fine di maggio del 1825, Schubert partiva per Steyr, dove lo attendeva il cantante Johann Michael Vogl, suo grande amico e suo compagno nei concerti che accompagnarono il vagabondaggio dei due musicisti nelle piccole stazioni di villeggiatura austriache. Da Steyr il duo VoglSchubert passo` a Linz e a Kremsmu¨nster, torno` a Steyr, ando` a Gmunde, ripasso` per Linz, si sposto` a Salisburgo e poi a Gastein (‘‘una delle piu` famose stazioni termali’’, scrisse Schubert a un amico), torno` a Gmunden e a Steyr. Schubert era di ritorno a Vienna all’inizio di ottobre. Una tourne´e di concerti? Sı`, in un certo senso. ‘‘Il modo di Vogl di cantare e mio nell’accompagnarlo, questo nostro parere una persona sola durante i concerti rappresenta per questa gente una assoluta novita` e una straordinaria esperienza’’, scrisse Schubert ai genitori. E in un’altra lettera, di cui ho gia` detto, parlava delle lodi ottenute come pianista. Ma non si trattava certo di una tourne´ e come potevano

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farne in quegli anni Moscheles o Hummel, che durante le estati toccavano le cittadine in cui soggiornavano i regnanti e i grandi feudatari, che facevano incassi cospicui e che davano lezioni private a prezzi piu` cospicui ancora. Vogl e Schubert ricavavano dai loro concerti il piacere di un rapporto con un pubblico molto amante della musica, ospitalita` e cordiali inviti a pranzi e a gite. Ma proprio perche´ non era troppo occupato a contare fiorini e corone, Schubert trovava il tempo per scrivere, e la serenita` di cui godeva favoriva il suo piacere di comporre. Tra i lavori della felice estate del 1825, oltre alla perduta Sinfonia detta di Gastein, c’e` la luminosa Sonata in Re op. 53 D 850 (1825, 1826). Sullo slancio del successo editoriale ottenuto con l’op. 42, anche l’op. 53 ebbe un editore, un grande editore, Artaria, e sembro` aprire a Schubert una prospettiva che... si chiuse immediatamente. La Sonata op. 53 e` dedicata a Carl Maria von Bocklet, violinista e pianista molto noto a Vienna e amicissimo di Schubert. Qualche commentatore noto` che, se la Sonata op. 42 riflette forse le caratteristiche del pianista Schubert, l’op. 53 dovrebbe riflettere le caratteristiche del pianista von Bocklet. Nel primo movimento si notano infatti tratti di agilita` virtuosistica a due mani, e nello Scherzo giochi di masse che in Schubert non sono frequenti. Non sembra in realta` improbabile che Schubert, alla ricerca del successo, badasse a soddisfare il gusto per il virtuosismo brillante, che andava rapidamente diffondendosi fra il 1820 e il 1830 e che anche il von Bocklet impersonava. E certamente il primo e il terzo movimento, estroversi e trascinanti, contrastano con l’intimismo incantevole del secondo movimento (uno dei piu` belli di Schubert) e con il sottilissimo umorismo del finale. Senza che la diversita` di impostazione influisse sul risultato complessivo, che e` quello di una grande kermesse popolare, le sue caratteristiche contrastanti influirono sulle fortune della Sonata. Il successo di critica non si rinnovo`; lo stesso Schumann, grande ammiratore di Schubert, espresse alcuni anni dopo qualche riserva, e anche nel Novecento, in piena Schubert-Renaissance, l’op. 53 venne presa in considerazione da pochi interpreti. Dopo un vana trattativa con un editore di Zurigo, Schubert pote` vendere a uno dei piu` importanti editori di Vienna, Tobias Haslinger, la Sonata in Sol op. 78 (1826, 1827). Verrebbe da pensare che Schubert, avendo stabilito buoni rapporti con l’arciduca Rodolfo e con Haslinger, potesse subentrare a Beethoven, scomparso nel 1827, quale leader della cultura musicale viennese. Invece, per ragioni che ci sfuggono, Schubert incontro` di nuovo 497

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molte difficolta` nel ‘‘piazzare’’ presso gli editori le sue ultime composizioni. Fra i lavori per pianoforte solo del 1827-1828 pote´ cedere a Haslinger soltanto gli Improvvisi op. 90 e due raccolte di danze, e a un altro editore i Momenti musicali op. 94. La pubblicazione degli Improvvisi e dei Momenti musicali si legava a un mutamento di gusto del pubblico, che non gradiva piu` le sonate e che si stava invece appassionando per le raccolte di pezzi brevi. Non si trattava di una moda passeggera ma di una profonda evoluzione storica che in breve avrebbe portato al superamento della sonata come forma maggiore del comporre (e lo stesso Beethoven aveva concluso il corpus delle sue musiche pianistiche con le Bagatelle op. 126). In questa prospettiva di storico mutamento del gusto l’editore Haslinger, vecchia volpe del mercato, aggiunse al primo movimento della Sonata op. 78 il titolo Fantasia, che non figura nell’autografo. La composizione fu poi nota come Sonata-Fantasia, titolo che ricordava quello delle Sonate op. 27 di Beethoven. La Sonata op. 78 fu commentata con entusiasmo da Schumann, e Clara, sua moglie, la inserı` nel suo repertorio nel 1865. Ma solo un centinaio d’anni piu` tardi il pezzo entro` a far parte del repertorio ordinario. La collocazione nel repertorio di musiche nate per l’esecuzione privata, come e` la Sonata op. 78, pone sempre problemi che talvolta vengono risolti con difficolta` e con enormi ritardi. Sul valore assoluto dell’op. 78 non possono sussistere dubbi. Le difficolta` di ‘‘adattamento’’ alla sala da concerto sono pero` molto rilevanti nel quarto movimento, tutto giocato sulle mezze tinte e su contrasti sottili e poco appariscenti, con ritmi uniformi e senza colorature virtuosistiche. E si sa che un finale che non scuota il pubblico mette sempre in sospetto il concertista. In questi casi Liszt o Tausig o Henselt o Busoni riscrivevano completamente la composizione, adattandola alla sala da concerto mediante un’operazione di radicale ‘‘cosmesi’’; nel Novecento la soluzione fu trovata nel virtuosismo del colore sonoro. Il primo movimento, all’opposto del quarto, e` tra le composizioni di Schubert piu` ricche di contrasti dinamici esasperati. La costruzione e` quella tradizionale, ma presenta caratteristiche strtutturali insolite. Il primo tema e` una vera e propria canzone che improvvisamente, senza alcuna transizione, sbocca nel secondo tema. Questo, a sua volta, e` un tema atipico: si tratta di una melodia con andamento di valzer, seguita da una variazione. Il tema di conclusione, breve e molto caratteristico per la particolare strumentazione (grande distanza fra soprano e basso), ingloba elementi del primo tema. 498

Sonata op. 78

A conti fatti, Tobias Haslinger non aveva poi tutti i torti nell’intitolare Fantasia questo primo movimento, che prosegue con uno sviluppo in cui i due temi principali compaiono alternativamente senza perdere mai nulla della loro fisionomia. Regolarissima la riesposizione, con una incantevole coda in cui la musica svanisce in lontananza. Il secondo movimento riunisce i caratteri formali della canzone e del rondo`: 1) primo tema, cantabile, in Re; 2) secondo tema, fortemente contrastante e drammatico, in si: 3) primo tema, variato, in Re; 4) secondo tema, in re; 5) primo tema in Re, variato e molto abbreviato, con una breve coda conclusiva. La ripetizione del secondo tema in re giunge assolutamente inattesa e ha un valore emotivo molto alto, tanto da fare di questa pagina uno dei momenti piu` drammaticamente tesi della produzione di Schubert. E` poi da notare la strumentazione, con raddoppi in ottava che intensificano l’espressione senza aumento della dinamica; Schubert, in altre parole, trova sul pianoforte l’equivalente delle capacita` espressive della voce in una zona di dinamica tenue, sommessa, che possiamo definire liederistica. Il terzo movimento fu in passato eseguito spesso come brano staccato. E con ragione (nel contesto storico in cui si collocavano quelle esecuzioni), perche´ si tratta veramente di un finissimo gioiello. Schubert lo intitola Menuetto, ma non e` facile, anzi, e` addirittura impossibile cogliervi una differenza di carattere espressivo rispetto a molti valzer. La ‘‘viennesita`’’ ottocentesca prevale certamente di fronte all’arcaismo della danza settecentesca; e ancor piu` valsant e` il Trio, tanto morbido e scivolante quanto rude e balzante era il Menuetto. Inconsueta la scelta della tonalita`, si. Con un primo movimento in Sol e un secondo in Re sarebbe stato normale, nel terzo movimento, il ritorno al Sol o, tutt’al piu`, una incursione verso il mi. Il si del Menuetto e il Si del Trio costituiscono invece una sorpresa e una modificazione della scacchiera tonale, che sposta addirittura verso il terzo movimento il centro e il punto culminante di tutta la Sonata. L’ultimo movimento e` un estesissimo rondo` in cinque episodi con tre temi. Il piano tonale non si discosta molto dalla norma. Abnormi sono invece le proporzioni del terzo tema, articolato in tre parti, e che in realta` e` un vero e proprio momento musicale, come Schubert ne scrivera` poco piu` tardi, incastonato nella struttura del rondo`. Di fascino straordinariamente suggestivo e` la coda, che vaga su tutta la tastiera in un modo che sembra aprirsi verso l’infinito e che si arresta invece su una citazione del primo tema a modo di ‘‘motto’’: ‘‘Rimanga lontano dall’ultima parte chi non ha la

Sonata D 959

fantasia per sciorglierne l’indovinello’’, scriveva Schumann. E il problema, come dicevo prima, e` tanto piu` grave quando dalla privata lettura si passa all’esecuzione pubblica. Nel settembre del 1828, due mesi prima della morte, Schubert compose il Quintetto per archi, alcuni Lieder e tre Sonate per pianoforte. Il 12 ottobre, scrivendo all’editore Probst di Lipsia, propose i suoi ultimi lavori, dicendo di voler dedicare le Sonate a Hummel. La proposta non ebbe seguito. Ne´ accetto` le Sonate Haslinger, quando, in dicembre, gli furono offerte dal fratello di Schubert a un prezzo, settanta fiorini, molto modesto. La pubblicazione avvenne soltanto dieci anni piu` tardi, a opera dell’editore Diabelli. E siccome nel frattempo Hummel era morto l’editore dedico` le Sonate a Schumann, che in quegli anni andava affermando vigorosamente, nella sua rivista, la grandezza di Schubert. La Sonata in do D 958 (1828, 1838) non e` priva di suggestioni mozartiane e beethoveniane, legate a cio` che il do minore aveva rappresentato nei due grandi predecessori di Schubert. La qualita` propria del tardo stile schubertiano non manca tuttavia di farsi luce e di fondere in una sintesi nuova gli elementi tratti dalla tradizione. Si veda il primo movimento. Dopo l’inizio beethoveniano, che ricorda le 32 Variazioni in do, il secondo tema, in Mi bemolle, presenta una caratteristica strutturale del tutto insolita. Non e` infatti un tema di sonata ma un tema con variazioni: una melodia di quattordici battute, seguita da due variazioni, la prima in Mi bemolle, la seconda in mi bemolle, la prima con densita` ritmica prevalente di tre suoni per unita` di misura (rispetto ai due del tema), la seconda con densita` di quattro suoni. E la conclusione della esposizione introduce un nuovo tema, breve ma molto ben caratterizzato, al posto del materiale amorfo o derivato dal primo tema che si usava normalmente per la conclusione. Lo sviluppo inizia su frammenti derivati dal primo tema, ma continua poi con un tema brevissimo, appena lontanamente imparentato con il materiale tematico della esposizione e la cui... parentela non e` comunque riconoscibile all’audizione. Sono da notare anche l’impiego dell’estremo registro grave dello strumento e la trasformazione di carattere espressivo, quasi un’incombente minaccia, della scala cromatica, tanto spesso usata per scopi ornamentali. Il tema dello sviluppo ritorna in una coda assai ampia, probabilmente non immemore della coda della Sonata K 457 di Mozart. L’originalita` del primo movimento della Sonata di Schubert, che ho cercato di mettere in luce con un’analisi, in verita`, molto sommaria, e` dunque ta-

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le che la suggestione indubbiamente esercitata da Mozart e da Beethoven diviene un puro dato di rapporto, di collocazione storica. Rapporto che non puo` essere pero` trascurato perche´ nell’ultimo Schubert, come poi nei romantici, la forma-sonata e` una forma storicizzata, scegliendo la quale il compositore accetta un legame e un confronto con tutto il passato. Anche il secondo movimento richiama all’inizio Beethoven, il Beethoven del secondo movimento della Sonata op. 10 n. 1 e in minor misura del secondo movimento dell’op. 13. Mentre Beethoven non mantiene pero` il tono drammatico nei suoi secondi movimenti, che sono invece meditativi e consolatori, Schubert introduce nel secondo movimento un contrasto drammaticissimo fra i due temi, e per sfruttarlo meglio adotta una forma con cinque episodi (A-B-A’-B’A) invece della forma con tre episodi. Di struttura tradizionale e` il malinconico Minuetto con Trio. Il finale risente forse lontanamente, all’inizio, del finale della Sonata op. 31 n. 3 di Beethoven. Il secondo tema e` invece una delle piu` sorprendenti – ed entusiasmanti, se si puo` usare questo aggettivo per un simile autore – intuizioni di Schubert: su un ritmo di tarantella si sviluppa un inciso elementare, drammaticissimo, con uno sfruttamento geniale degli sbalzi di registro, cioe` della tecnica dell’incrocio delle mani, veramente stupefacente in un compositore che, come ho gia` detto piu` volte, non era un virtuoso del pianoforte. La forma e` quella del rondo` . Il terzo tema, quasi scherzoso, segue pero` immediatamente il secondo, poi la forma mantiene fino alla fine lo schema tradizionale. Il piano tonale generale e` tuttavia molto insolito (do-do diesis-Si-do-si bemolle-do). La tradizione avrebbe previsto l’impiego del Mi bemolle, del Sol o del sol, del La bemolle o del fa. Schubert imposta un sistema di rapporti nel piccolo spazio cromatico si bemolle-do diesis: sistema del tutto al di fuori delle tradizioni e delle abitudini del tempo, e destinato anche in futuro a non avere seguito. Il primo movimento della Sonata in La D 959 (1828, 1838) e` costruito apparentemente secondo i piu` tradizionali canoni della cosiddetta forma-sonata, ma in realta` secondo una concezione che rode all’interno la tradizione. Manca infatti la contrapposizione dialettica fra due temi principali, e manca, di conseguenza, lo sviluppo, sostituito da una lunga fantasia sul secondo tema: una soluzione diversa di quella stessa volonta` costruttiva che aveva animato il primo movimento della Sonata in do. Nella Sonata in La la struttura stessa del primo movimento appare ambigua rispetto alla tradizione: il tema e` formato da piu` elementi contrastanti, e perde cosı` la plastica evidenza, la forza 499

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rappresentativa e accentratrice di un primo tema di sonata. Il primo elemento tematico, eroico e solenne, non conclude e viene subito contrastato, ma negativamente, dal secondo elemento; quando quest’ultimo, alla chiusa del suo logico percorso, pare condurre a una nuova entrata del primo elemento, appare invece un terzo elemento. Manca poi un vero e proprio collegamento dal primo al secondo tema e c’e` invece, al suo posto, un graduale trapasso. La seconda parte della esposizione e` come un vastissimo commentario a un secondo tema brevissimo, e la cui conclusione, secondo un modo di sospensione della frase che e` tipico di Schubert, non viene mai esplicitamente affermata. In tal modo la struttura sonatistica perde la classica monumentalita` dell’architettura a grandi blocchi in favore di un sistema di rapporti molto piu` sfumati, flessibili, non-dialettici. I contrasti drammatici, che mancano nel primo movimento, costituiscono la piu` peculiare caratteristica del secondo movimento. E si comprende bene perche´ cio` avvenga. Il pessimismo schubertiano non rifiuta affatto il dramma, ma rifiuta il superamento dialettico dei contrasti. La forma tradizionale del primo movimento di sonata porta necessariamente al superamento del contrasto, se contrasto c’e`, mentre la tradizionale forma del secondo movimento, la forma di canzone, puo` tollerare al massimo un contrasto non mediato. Schubert evita quindi di impostare sulle contrapposizioni fra i temi il primo movimento, e imposta invece il secondo su un violentissimo contrasto fra la malinconica elegia della prima e della terza parte, e l’angoscia, la disperata protesta della seconda parte, seconda parte senza un vero tema, ma costruita invece su varianti di un elemento ossessivo (nota ribattuta) e di un recitativo. Minori novita` presentano gli altri due movimenti. Nell’incantevole Scherzo e` caratteristica la ricerca della melodia, che viene enunciata dopo episodi di quasi-improvvisazione; nel Trio viene usata largamente la tecnica dell’incrocio delle mani, in un modo che forse e` da ricondurre a momenti analoghi della Sonata in La K 331 di Mozart. Il Rondo` finale, in forma di rondo`-sonata, e` costruito sul tema principale che Schubert aveva impiegato nel secondo movimento della Sonata op. 164 del 1817. E` subito da notare la diversita` della strumentazione: il tema, melodicamente affascinante, e` gia` perfetto nella Sonata op. 164, ma la scrittura pianistica vi appare un po’ rigida, tributaria di una concezione orchestrale della disposizione delle parti. Il tema resta pressoche´ invariato nella Sonata D 959, ma la strumentazione tiene conto di tutti i mezzi sonori specifici dello strumento e li combi500

Sonata D 960

na con una finezza e un gusto insuperabili. Il secondo tema del Rondo` richiama l’atmosfera drammatica della seconda parte del secondo movimento, le ultime battute richiamano l’inizio del primo movimento. Il Rondo`, che e` molto lungo (e che, considerato a se` stante, potrebbe apparir prolisso), riceve il suo vero significato proprio per i rapporti tematici, per quanto allusivi essi siano, con i primi due movimenti. La Sonata in Si bemolle D 960 (1828, 1838) non solo e` l’ultima ma, per comune consenso, e` anche considerata la maggiore opera pianistica di Schubert, un culmine di perfezione estetica assoluto e splendente, tale da permettere a questa composizione di far da... cavallo di Troia per la conquista di un mondo concertistico che delle Sonate di Schubert non voleva proprio sapere: basti dire che la eseguirono non solo tutti gli specialisti schubertiani ma anche pianisti come Backhaus o Horowitz o Rubinstein che a Schubert riservavano un settore molto ristretto del loro repertorio. La struttura armonica del primo movimento e` di nuovo sorprendente. Schubert adotta il rapporto-cardine della tradizione classica (Si bemolle-Fa), mediandolo tuttavia attraverso il fa diesis (nella esposizione) e il si (nella riesposizione), e creando cosı` uno slittamento cromatico, con cambio di modo, che screzia e complica la rete tonale e che consente l’inserzione non occasionale di tonalita` lontane dalla tonalita` principale (ad esempio, lo sviluppo inizia in do diesis, che sara` poi la tonalita` del secondo movimento). Detto questo, e non potendo fare qui un’analisi neppure sommaria dei procedimenti armonici che si trovano nella Sonata, segnalero` solo lo straordinario, metafisicamente umoristico inizio del finale, nel quale la frase, introdotta da un suono isolato, comincia in do per concludersi inaspettatamente in Si bemolle. La strumentazione della Sonata mostra lo sfruttamente estremo della zona centrale della tastiera e la sottilissima variazione di timbri in un suono quasi sempre di limitata intensita`, cameristico, corrispondente al piccolo volume di voce e alla varieta` di accento richiesta dal Lied. Ho detto poc’anzi che la Sonata D 960 viene unanimemente collocata al culmine della produzione pianistica di Schubert. Cio` vale anche per quanto concerne l’individuazione di una scrittura pianistica che, pur nella sua semplicita`, ha ben pochi termini di paragone. Faro` un esempio su due modelli di strumentazione che postulano l’uso timbrico degli intervalli. All’inizio viene usato in funzione timbrica l’intervallo di ottava, con una scrittura che costringe l’esecutore a tenere le dita vicine ai tasti: la melodia viene raddoppiata in ottava non per enfatizzarla ma per

Tredici Variazioni su un tema di Anselm Hu¨ttenbrenner D 576

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ottenere una intensificazione espressiva della parte superiore, un modo ‘‘parlante’’ e ‘‘narrante’’ di espressione del suono in una dinamica minima, e quindi a un livello di dizione appena mormorata: un cantare iperespressivo ma a fior di labbra. Il secondo esempio riguarda l’inizio del secondo movimento. Qui l’ombreggiatura espressiva della sonorita` cantabile e` ottenuta con l’intervallo di terza, che incupisce e rende patetico il suono. Si puo` trovare un antecedente storico a questa strumentazione nelle Fantasie per clavicordo di Carl Philipp Emanuel Bach; ed e` proprio di Schubert il trasferire sul pianoforte il mondo onirico, surreale di certa esoterica letteratura clavicordistica. Questa concezione del suono pianistico porta Schubert, come dicevo, a usare di preferenza il registro centrale e le dinamiche piu` raccolte. Il registro grave e il fortissimo intervengono per eccezione o con funzione specificatamente strutturale (si notino il trillo al grave che chiude, interrompendola, la prima frase, o il fortissimo che segna lo spartiacque fra il primo tema e il tema di transizione). Ultima osservazione: nella prima e nella terza parte del secondo movimento l’uso del pedale di risonanza e l’incrocio delle mani permettono di far risuonare contemporaneamente registri e timbri diversi: soluzione tecnica ricchissima di conseguenze che si estenderanno fino ai simbolisti di fine secolo. Ho accennato piu` volte ai rapporti fra le Sonate di Schubert e il teatro, contemporaneo e non. Nelle ultime tre Sonate non troviamo piu` nulla che sia palesemente rapportabile al teatro contemporaneo, ma ci colpiranno subito la teatralita` immanente del finale della Sonata in do, l’inspiegabile contrasto che nel secondo movimento della Sonata in La viene creato fra il lirismo sommesso e soffocato delle parti estreme e la gesticolante drammaticita` della parte centrale, e lo humour fantastico nel finale della Sonata in si bemolle. Il commento di Brigitte Massin e` molto acuto: ‘‘Se la fluidita` schubertiana si afferma qui come sempre, i silenzi, con le brusche rotture che impongono, gia` incontrate nel pianoforte schubertiano, assumono un’importanza primordiale’’. La fluidita` e la rottu-

ra, che sono il contrario della accumulazione fino al climax e della distensione, stanno alla base del teatro quale fu concepito all’inizio del Novecento. Partendo da questi momenti tipici di teatralita` immanente sara` poi facile penetrare in un mondo che richiamera` alla mente sia concezioni di regia teatrale non naturalistica, sia un teatro non classicamente organizzato: ad esempio, quello di certo Hugo von Hofmannsthal, di certo Schnitzler, di molto Strindberg, persino di certo Wedekind. Non intendo di certo forzare il paragone oltre i suoi ovvi limiti, e abbiamo visto del resto che nell’opera sonatistica di Schubert confluiscono altri generi da lui trattati, come la danza o il piccolo pezzo per pianoforte o il Lied. Ma queste osservazioni, in se´ esattissime e che rivelano in realta` la sostanziale indifferenza di Schubert al problema dei generi (ai suoi tempi molto sentito), se vengono prese come base di giudizio non possono che pervenire a conclusioni limitative sulle Sonate, e non possono non lamentare un’aporia di fondo fra contenuto e forma, tutt’al piu` temperata dalla ‘‘celestiale lunghezza’’. La sostanziale parificazione di Schubert e Beethoven passa invece secondo me attraverso il riconoscimento della particolare ‘‘teatralita`’’ delle Sonate, sia pure intesa in senso traslato: la sonata di Schubert non come rifugio segreto e come fantasticheria di una bell’anima ferita, ma come theatrum mundi di un drammaturgo che riflette sui destini dell’uomo. Accanto alle visioni profetiche e utopistiche di Beethoven, Vienna esprime nel terzo decennio dell’Ottocento un’altra profezia, realistica: quella della morte. A proposito della forma classica come viene da Schubert impiegata nella sonata si puo` allora fare ricorso alla metafora della ‘‘serra’’, usata non di rado per la Vienna di fine Ottocento; nella serra schubertiana vengono coltivati splendidi fiori velenosi che sbocceranno en plein air ottant’anni piu` tardi. E accanto al veggente Beethoven, che profetizzava la palingenesi, il veggente Schubert scopre le ragioni profonde della profezia apocalittica di Karl Kraus.

Le Variazioni Il genere della variazione era verso il 1820 fra i piu` graditi dal pubblico dei dilettanti di pianoforte, ma Schubert lo pratico` raramente. Le Dieci Variazioni su un tema originale in Fa D 156 (1815, 1887) sono del tutto sconosciute al pubblico perche´ non sono entrate nel repertorio concertistico e sono anche state molto raramente registrate in disco. Si tratta di un lavoro giovanile ma di grande interesse, sia per la melodiosita` del tema, di strut-

tura asimmetrica, sia per la originalita` delle variazioni, fra le quali spiccano le due, la quarta e la nona, in tempo piu` lento. Il tema viene richiamato dopo la decima variazione, prima di essere spazzato via da una breve e brillante conclusione. Le Tredici Variazioni su un tema di Anselm Hu¨ttenbrenner in la D 576 (1817, 1867) sono meno inventive. Il tema, non immemore dell’Allegretto della Sinfonia n. 7 di Beethoven, e` tratto da un 501

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Franz Schubert

Quartetto di un intimo amico di Schubert: sedici battute in ritmo uniforme. Schubert si stacca dalle sedici battute in una sola variazione, la nona, creando una melodia tutta sua in La. Queste Variazioni fecero parte del repertorio di Sviatoslav Richter, ma neppure l’interpretazione di uno fra i maggiori pianisti del Novecento riuscı` a farle veramente conoscere. La Variazione su un Valzer di Diabelli D 718 (1821, 1824) rappresenta il contributo di Schubert alla celeberrima iniziativa dell’editore Antonio Diabelli, che aveva chiesto a cinquanta compositori residenti nell’Impero austriaco di comporre una variazione ciascuno su un suo tema. Ai cinquanta s’aggiunse, come tutti sanno, Beethoven, che non si limito` a una variazione ma che ne compose trentatre, la sua op. 120. La variazione di Schubert e` personalissima. Il modo maggiore dell’originale viene cambiato in modo minore e i particolari dell’armonia e della disposizione strumentale fanno diventare completamente schubertiana la composizione. Le Otto Variazioni su un canto francese per pianoforte a quattro mani op. 10 D 624 (1818, 1822) furono composte a Zseliz durante il primo soggiorno di Schubert presso i conti Esterha´ zy. Al ventunenne Schubert vennero affidate le due figlie del conte, Marie e Karoline, entrambe gia` ben addestrate nell’esecuzione pianistica e, la prima, assai brava anche come cantante. Ingaggiato per settantacinque fiorini al mese, piu` vitto, alloggio e viaggio, Schubert ritiro` il 7 luglio il passaporto per l’Ungheria e partı` pochi giorni dopo per percorrere con la carrozza di posta, in quattordici stazioni, i circa duecentocinquanta chilometri che separano Vienna da Szeliz (attualmente in Slovacchia). Giunto a Zseliz si inserı` facilmente nel nuovo ambiente e prese a comporre per le sue allieve. Per se´ scrisse altri lavori, fra cui una Messa, e passo` quattro mesi felici e spensierati. Come tema per le Variazioni op. 10 Schubert scelse una canzone francese, appartenente a una pubblicazione che si trovava nella biblioteca del conte. Autore, anzi, autrice della raccolta era S.M.L.R.H. (Sua Maesta` La Regina Hortense), cioe` la figlia di Josephine Beauharnais e moglie del re d’Olanda Luigi Bonaparte;

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Variazione su un Valzer di Diabelli D 718

ma sembra che il vero autore fosse il flautista Louis Drouet, solista nella cappella del re. Il tema, a modo di marcia, e` breve e semplice, ma per nulla banale, e Schubert lo vario` con molto impegno. Otto variazioni, ordinate secondo un piano tonale insolito (mi-Do-mi-Mi-do diesis-mi-Mi). L’elaborazione del tema e` progressiva e raggiunge il culmine nell’ultima variazione, che e` un vero e proprio finale a fantasia. L’op. 10 fu dedicata a Beethoven. Sui rapporti fra Beethoven e Schubert molto si e` scritto e molto si e` fantasticato. Secondo alcuni biografi i due musicisti non si parlarono mai, secondo altri si incontrarono forse una volta o due. Il nome di Schubert, del resto, compare molto raramente nei Quaderni di conversazione di Beethoven, citato dal nipote di Beethoven, Karl, o dal famulus Anton Schindler. Sembra tuttavia certo che Beethoven accettasse la dedica delle Variazioni e che le suonasse con il nipote. Le Otto Variazioni su un tema originale a quattro mani op. 35 D 813 (1824, 1825), pur senza raggiungere dimensioni e ambizioni beethoveniane, si staccano dalle piu` comuni caratteristiche del genere allora in voga. Il tema, di ventiquattro battute con carattere di marcia, non segue lo schema formale piu` ovvio ma lo varia leggermente. Le prime due variazioni sono ornamentali su movimenti ritmici continuati. La terza variazione introduce, ancora sul movimento continuato della voce intermedia, piccole imitazioni canoniche che rivelano lo studio del Clavicembalo ben temperato di Bach, intrapreso da Schubert nel 1824. La quarta e` una variazione virtuosistica, brillante. La quinta e` in modo minore. Con la sesta, riprendendo il modo maggiore, Schubert introduce una densita` ritmica nuova. Secondo gli schemi usuali la sesta variazione avrebbe potuto essere seguita da una coda conclusiva. Schubert apre invece una settima variazione in tempo lento, espressiva e a fantasia, che si lega all’ultima variazione, variazione amplificatrice su un ritmo molto caratteristico. Le ultime due variazioni conferiscono dunque alla composizione una dimensione formale piu` monumentale di quanto non ci si sarebbe aspettati all’inizio.

Variazione su un Valzer di Diabelli D 718

Robert Alexander Schumann

A Robert Alexander Schumann

B

(Zwickau, 8 giugno 1810-Endenich, 29 luglio 1856) Un giovane nato intorno al 1810 che voleva intraprendere la carriera di compositore si sarebbe trovato a vent’anni, intorno al 1830 o giu` di lı`, in una ben strana posizione. Posizione storica, intendo dire. Strana perche´ i maggiori compositori delle generazioni precedenti scomparivano rapidamente uno dietro l’altro. Nel 1826 Weber, nel 1827 Beethoven, nel 1828 Schubert. E Rossini, dopo aver trionfato nel 1829 con il Guillaume Tell, si ritirava a vita privata. Clementi scompariva nel 1832, a ottant’anni. E questo era nell’ordine delle cose. Secondo l’ordine delle cose, invece, Weber avrebbe dovuto rimanere sulla scena fin verso il 1860, Beethoven fin verso il 1840 e Schubert fin verso il 1870. La Storia, la Storia arcigna non permetteva ai giovani virgulti di maturare all’ombra dei grandi ma li esponeva agli ardori brucianti del sole quando ancora erano in boccio: dovevano dimostrare che la Musica poteva rimanere, grazie a loro, ai piu` alti livelli dell’Arte. Quelli che avevano qualche anno in piu`, come Berlioz in Francia e Bellini in Italia, e quelli che avevano appena finito di succhiare il latte, come Mendelssohn, Chopin, Schumann, Liszt, entravano in scena da protagonisti. Schumann, rispetto a tutti gli altri, partiva pero` con un grave handicap. Tutti gli altri si erano formati come musicisti in conservatorio o privatamente, e quando la tremenda Storia li chiamo` all’appello erano gia` dei professionisti. Schumann, figlio di un libraio-editore-poligrafo, aveva fatto il suo bravo liceo praticando la musica per diletto, e a diciott’anni si era iscritto alla facolta` di legge dell’universita` di Lipsia. A vent’anni compiuti, nel luglio del 1830, scrisse alla madre chiedendole il permesso di dedicarsi alla musica. Lo ottenne, e alla fine dell’anno intraprese lo studio professionale del pianoforte. Poi comincio` a studiare anche la composizione. Non aveva aspettato di studiare, per comporre musica: dalla sua penna erano gia` usciti Lieder, pezzi per pianoforte, un quartetto con pianoforte. Ma Schumann, proprio perche´ cominciava in ritardo, era ansioso di bruciare le tappe. Cosı`, fra il novembre del 1832 e il febbraio del 1833 compose i primi tre movimenti di una Sinfonia in sol minore e abbozzo` il quarto. Riuscı` a far accettare il primo movimento dal Gewandhaus, dove si svol-

gevano regolarmente concerti: l’esecuzione non ebbe successo. Sempre nel 1832, e sempre per bruciare le tappe, Schumann si sottopose a un training pianistico dissennato con un apparecchio di sua invenzione che gli procuro` una lesione a un dito, una lesione tale da pregiudicargli la carriera del virtuoso. Noi abbiamo fondatissimi motivi di sospettare che la lesione non fosse poi tanto grave, che fosse psicosomatica e che Schumann la prendesse a pretesto per giustificare il suo fallimento nello studio del pianoforte. Ma fatto sta che la carriera pianistica era ormai preclusa. Nel 1833, a ventitre anni, Schumann era un genio della musica ma non un compositore professionale, non era e non sarebbe potuto diventare un pianista professionista, non sapeva dirigere l’orchestra, istruire un coro, preparare cantanti. Aveva una piccola rendita che gli proveniva dal padre, morto prematuramente, e avrebbe potuto rientrare nella citta` natale e lavorare nella azienda familiare che era gestita dai fratelli. E questo sarebbe stato il disastro, il disastro totale, la distruzione di tutte le ambizioni. Schumann trovo` la soluzione del terribile rebus facendo ricorso a cio` che lui aveva e che non avevano gli altri, l’educazione letteraria ricevuta in un liceo tedesco di quelli di una volta: nel 1834 fondo` con tre amici una rivista di musica e in breve tempo, da semplice socio che era all’inizio, ne divenne unico proprietario, oltre che direttore e redattore capo. La rivista ebbe molto successo. Cosı` Schumann, alla fine, un mestiere ce l’aveva: critico musicale. E non gli bastava. I suoi maestri di pianoforte e di composizione li aveva lasciati da un pezzo, ma non aveva trascurato di comporre. E in pratica studio` da solo componendo, componendo per pianoforte perche´ cosı` poteva avere subito un’idea di come suonasse la sua musica. La sua autoeducazione si completo` nel 1842. Dopo aver praticato fino al 1839 il solo pianoforte se l’era sentita nel 1840 di affrontare il Lied, poi la musica da camera e la musica sinfonica. Si poteva essere grandi compositori anche con il solo pianoforte, e Chopin ne era la prova vivente. Ma Schumann doveva dimostrare a se stesso, prima ancora che agli altri, di essere un creatore completo, non solo grande. E lo dimostro`.

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I Concerti Nella sua attivita` di critico Schumann affronto` spesso il problema del concerto, il problema di un genere a cui la classicita` aveva dato una forma che il biedermeier aveva fatta sua, adattandola pero` alle sue particolari esigenze, che erano da un lato di svilupo estremo del virtuosismo pianistico, e dall’altro di accompagnamento orchestrale, non di integrazione sinfonica. Tra il concerto classico che si chiude con Beethoven e il concerto biedermeier che si apre con Steibelt e Field ci sono di mezzo il melodramma e il balletto, che provocano una trasformazione nella drammaturgia del concerto. Schumann tento` alla fine degli anni venti di comporre un Concerto in Mi bemolle e un Concerto in Fa, dei quali esistono abbozzi che non sono mai stati pubblicati. Credo pero` di non andare lontano dal vero se penso che si trattasse di concerti in stile biedermeier, visto che Schumann aveva studiato il Concerto in la minore di Hummel e le Variazioni sulla marcia d’Alessandro di Moscheles. Ma per i compositori che s’affacciavano sulla scena all’inizio degli anni trenta il concerto biedermeier aveva ormai fatto il suo tempo e si poneva percio` il problema di superarlo. Non lo superarono Thalberg e Henselt, ma non lo supero` nemmeno Chopin, che dopo aver portato il concerto biedermeier al massimo splendore abbandono` il genere. Ne´ lo supero` Liszt, che negli anni trenta tento` invece i generi della fantasia e del pezzo a programma. Lo supero` Mendelssohn con il Concerto op. 25, che ritornava verso il concerto classico senza imitarlo, e lo supero` Moscheles, originale sperimentatore anche se non sommo creatore. Tutti gli artisti che ho citato erano grandi pianisti, e Mendelssohn e Moscheles avevano anche pratica dell’orchestra. Schumann non era un grande pianista e non sapeva trattare l’orchestra. Nel 1839, dopo aver giudicato insoddisfacente il Concerto n. 2 di Mendelssohn, tento` di provarcisi lui. Scrivendo alla fidanzata Clara disse di avere in mente ‘‘un qualcosa a meta` tra sinfonia, concerto e grande sonata’’, aggiungendo di ‘‘non poter scrivere un concerto da virtuoso’’ e di ‘‘dover mirare a qualcos’altro’’. Il risultato e` il Concerto in re, di cui esistono estesi abbozzi che promettono molto, ma senza che si capisca dove Schumann avrebbe potuto arrivare (i tentativi di ‘‘completamento’’ che sono stati fatti non hanno raggiunto risultati apprezzabili). Nel 1841, dopo avere sposato Clara, che era in attesa del primo figlio, Schumann offrı` pero` alla moglie un pezzo per pianoforte e orchestra intitolato Fantasia. Nella fantastica Lega dei Compagni di Davide di cui parlero` piu` avanti Clara era iscritta con il nome Chiarina. E con le quattro lettere del nome Chiari504

Concerto in Mi bemolle

na, che nella notazione musicale tedesca corrispondono a suoni (CHiArinA) Schumann creo` il tema principale, anzi, l’unico tema della Fantasia. La Fantasia e` in forma di primo movimento di concerto, con esposizione, due temi principali praticamente identici, sviluppo, riesposizione, cadenza e coda. C’e` un tema secondario che collega i due temi principali ma non c’e` un tema di conclusione, perche´ la conclusione dell’esposizione e` gia` uno sviluppo del primo tema. Schumann, in altre parole, compone una novella nella quale non troviamo due personaggi principali ma un personaggio e il suo doppio. Il che e` entusiasmante... Ma siccome siamo pignoli non possiamo fare a meno di ricordare quello che il critico Schumann chiedeva ai compositori di concerti: ‘‘[...] dobbiamo aspettare di buon animo il genio che ci mostri in modo brillante come si possa unire l’orchestra al pianoforte, tanto da lasciare al virtuoso la possibilita` di sviluppare la ricchezza della sua arte e del suo strumento, mentre l’orchestra, intrecciando piu` artisticamente l’insieme nei suoi svariati caratteri, avrebbe una parte piu` importante di quella del semplice spettatore’’. Con il viatico dell’Autore non possiamo allora non dire che la scrittura pianistica del Concerto op. 54 non e` virtuosistica e che l’inesperienza dell’orchestratore richiede agli esecutori robuste fatiche. La Fantasia venne provata privatamente da Clara il 13 agosto 1841 ma non venne eseguita pubblicamente nemmeno dopo che Clara era uscita dal puerpuerio. Quattro anni piu` tardi Schumann ritocco` la Fantasia e le aggiunse l’Intermezzo e il Finale, collegati fra di loro dalla citazione del tema del primo movimento. Anche il primo tema del finale derivava dalla cellula CHiArinA, ... ma non il secondo e i temi secondari. Era nato cosı` il Concerto in la-La op. 54 (1841-1845, 1846), eseguito per la prima volta a Dresda l’1 gennaio 1846, con Clara al pianoforte e sotto la direzione di Ferdinand Hiller. Malgrado la sua origine cosı` strettamente legata a Clara, il Concerto non fu dedicato a lei ma a Hiller. Il tono espressivo di tutto il Concerto e` bene rivelato dalla indicazione di tempo del primo movimento: Allegro affettuoso. I temi principali sono cantabili, la tenerezza, l’intimita`, il gaudio amoroso pervadono ogni pagina del Concerto, il canto spiegato dei violoncelli nell’Intermezzo e` un vero e proprio inno all’amore, un inno a Venere. Ma la costruzione architettonica, molto fluida nel primo movimento e nell’Intermezzo, diventa un po’ greve nel finale. La forma del finale e` quella bitematica e tripartita con esposizione, sviluppo e, in questo caso, riesposizione alla sottodominante, i due

Papillons op. 2

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temi principali sono affascinanti e i temi secondari nascono nello spirito del valzer. I raccordi insistono pero` molto su movimenti a moto perpetuo nei quali, al contrario di quanto avviene nei Concerti di Chopin, si sente la carenza di una scrittura pianistica inventiva e originale. Questi limiti, che provocarono gia` nella seconda meta` dell’Ottocento degli appunti di critici molto attenti, non nocquero e non nuocciono alla popolarita` del Concerto, che e` anzi uno tra i piu` eseguiti del repertorio pianistico e che puo` vantare uno straordinario palmare`s di interpreti illustri. La Introduzione e Allegro appassionato in Sol op. 92, nota anche come Konzertstu¨ck (Pezzo da concerto, 1849, 1851) e` poco conosciuta, anche se ha fatto parte del repertorio di interpreti come Kempff e Richter. Si tratta in pratica di un ampio primo movimento di concerto con introduzione in tempo lento. Il rapporto fra solista e orchestra e` di

integrazione, non di contrapposizione fra i due o di sottomissione della seconda rispetto al primo. Partitura concertante, dunque, e strumentazione che risente delle esperienze dei lavori sinfonici e operistici nati fra il 1845 e il 1848, e anche di qualche esperienza di direzione d’orchestra, e quindi assai piu` matura di quella del Concerto op. 54, con un colore timbrico particolare, potrei dire autunnale. La Introduzione e Allegro da concerto in re-Re op. 134 (1853, 1855) e` l’ultima partitura sinfonica di Schumann, terminata tre mesi prima dell’internamento nella clinica per malattie mentali e dedicata a Brahms. La composizione denota un certo ripensamento dello stile brillante di Mendelssohn, ma la strumentazione pianistica e` molto faticosa per l’esecutore, e cio` ha limitato secondo me la diffusione del lavoro, che ha avuto pochissime esecuzioni in concerti pubblici.

I polittici Nel catalogo pianistico di Schumann, oltre a titoli che ricorrono nei cataloghi di molti compositori dei periodi classico e romantico si trovano anche denominazioni che non definiscono e non indicano una forma o un genere, ma un contenuto, e che vennero usati dal loro creatore in un solo caso o al massimo in due. A volte questi titoli hanno un piu` o meno preciso riferimento programmatico (ad esempio, Carnevale di Vienna), altre volte il titolo generale riassume, come un’etichetta, i titoli dei singoli brani che compongono la raccolta (ad esempio, Scene infantili). In ogni caso, cio` che Schumann presenta al pubblico con titoli pittoreschi riguarda ricerche sia poetiche che formali. Egli fa concettualmente ricorso a modi diversi di organizzare un ampio discorso musicale inventando ogni volta una forma generale nuova invece che, come facevano Mozart e Beethoven, variando all’infinito la classica forma della sonata. Un genio della composizione musicale ha idee, un compositore completo le sa sviluppare. Un genio della poesia sa inventare versi, un poeta completo sa comporre un poema. Che Schumann fosse un genio della composizione lo si capisce fin dai suoi primi... vagiti. Che non fosse un professionista della composizione lo si capisce dal Quartetto e dalla Sinfonia dianzi citati. Il giovane Beethoven, per il quale la sonata era la forma per eccellenza, solo alle sonate attribuiva il numero d’opera. Ma nel 1801 pubblico` come op. 33 sette pezzi brevi intitolati collettivamente Bagatelle. Con cio` egli riconosceva dignita` d’arte e capacita` di rappresentare di fronte alla Storia il suo creatore anche al ‘‘pensiero fuggitivo’’ non eleborato in una sonata. La

sonata e` una grande forma pluritematica, la variazione e` una grande forma monotematica. La bagatella, come dice il nome, e` una piccola forma monotematica. Tante piccole forme monotematiche legate insieme da fili misteriosi possono creare una grande forma? Nel caso delle Bagatelle op. 33 di Beethoven direi di no, e direi di no anche per le Bagatelle op. 119. Ma direi di sı` per le Bagatelle op. 126, pubblicate nel 1825 e che l’Autore indicava nel manoscritto come zyklus, e direi di sı` per i Momenti musicali di Schubert, pubblicati nel 1828, e a maggior ragione direi di sı` per i cicli liederistici di Beethoven e di Schubert. La classicita` consegna dunque al romanticismo alcuni principi che il romanticismo sviluppa e che sono rapidamente riassumibili in cinque specie: 1) le piccole forme monotematiche possono essere legate in una grande forma pluritematica senza simmetrie evidenti; 2) i rapporti tonali possono essere organizzati, oltre che sulle quinte, sulle terze; 3) la tonalita` finale puo` non essere identica alla tonalita` dell’inizio; 4) una raccolta di pezzi diventa ciclo unitario se ha una motivazione contenutistica. Questo e` il modello che il giovane Schumann arriva a dominare piu` rapidamente di altri modelli. E per i suoi lavori di questo tipo possiamo usare il termine ciclo, che e` pero` piu` legato alla liederistica oppure, rubandolo alla pittura, polittico. I dodici pezzi dei Papillons op. 2 (1829-1831, 1832) hanno un riferimento, dichiarato da Schumann, al penultimo capitolo del romanzo di Jean Paul Richter Anni acerbi, che racconta di un ballo in maschera durante il quale succede un’infinita` di cose curiose. Papillons vuol dire farfalle ma anche 505

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fogli volanti, e secondo me il polittico deve essere inteso nel secondo significato, come il taccuino di un cronista che fara` su un giornale di moda una recensione del ballo, corredando l’articolo con schizzi pittorici. Il n. 2 e` riferibile – lo dice una nota sull’autografo – allo sfavillio delle luci della sala e al brusio della folla, e il n. 3 – lo dice sempre l’autografo – a un ballerino travestito... da stivale. I tentativi di stabilire altri paralleli con il capitolo del romanzo non sono secondo me giunti a conclusioni veramente convincenti. Il mio parere, come dicevo, e` che il tutto sia da vedere come un seguito di annotazioni di un cronista e che i vari pezzi siano da mettere in relazione con il cronista stesso (n. 1) e con tipi diversi di partecipanti al ballo o di situazioni che si creano – una ragazza coquette (n. 4), una ragazza sentimentale (n. 5), un geloso (n. 6), un tenero colloquio amoroso (n. 7), un bisticcio (n. 9), il valzer (n. 8, n. 10), la polacca (n. 11), il congedo (n. 12) con la ‘‘danza del nonno’’ del XVIII sec., l’uscita dalla sala del cronista e il suo avviarsi nella piazza mentre l’orologio della torre batte le sei. Le forme impiegate, miniaturizzate, vanno dalla canzone tripartita, monotematica (n. 5) o bitematica (n. 11), al rondo` (n. 6). Ma il n. 2 e` bitematico senza riesposizione e il n. 12 e` in una forma del tutto libera e che viene spiegata dalla drammaturgia (richiamo al tema del n. 1, combinato con il tema della danza del nonno, e sei battiti dell’orologio). Il seguito delle tonalita` non rispecchia un ordine geometrico perche´ dal Re del n. 1 si passa direttamente al Mi bemolle del n. 2, al fa diesis del n. 3, al La, ma con terminazione in Fa diesis, del n. 4, al Si bemolle del n. 5, ecc. ecc., per ritornare infine al Re. E nessun analizzatore ha mai scoperto un nucleo tematico ricorrente in tutti i pezzi, come e` invece avvenuto per le Scene infantili op. 15. La logica formale dei Papillons resta, per ora almeno, misteriosa. Ma non si puo` dubitare che esista e, per quanto sembri paradossale il dirlo dopo gli sviluppi che l’analisi ha avuto nel Novecento, bisogna riconoscere che e` semplicemente poetica. Neppure nei sei brani degli Intermezzi op. 4 (1832, 1832) si trovano corrispondenze tematiche sufficienti a garantire la coesione formale; eppure una coesione formale complessiva e` chiaramente percepibile. Il problema della forma in un polittico come gli Intermezzi non e` in fondo diverso dal problema della forma nel rapporto fra i quattro movimenti di una sonata di Beethoven o fra i sei movimenti di una suite di Bach. Ma mentre la sonata e la suite avevano trovato uno schema-base tradizionale sempre riconoscibile, che il compositore variava nei particolari e non del disegno gene506

Intermezzi op. 4

rale, in Schumann e in altri romantici non esiste uno schema precostituito che garantisca un minimo di comprensibilita`: esiste invece una unita` di concezione che di volta in volta crea la forma, la cui coesione strutturale finisce per risultare chiara all’audizione piu` che all’analisi. La validita` di queste soluzioni formali non fu riconosciuta dalla critica se non molto lentamente. Ancora in un passato non remoto si presentavano separatamente alcuni brani di polittici che oggi consideriamo unitari: ad esempio, venivano eseguiti molto spesso, separatamente, il Sogno delle Scene infantili, L’uccello profeta delle Scene del bosco, il quarto dei Pezzi notturni op. 23. Ma cio` non avvenne per gli Intermezzi, che restarono e che sono ancora collocati ai margini del repertorio concertistico. Rispetto ai dodici Papillons, i sei Intermezzi sono formalmente piu` sviluppati e melodicamente meno piacevoli. Il maggior motivo di interesse risiede nella scrittura pianistica piu` virtuosistica, nella complessita` del ritmo, nella mobilita` tonale, nell’umorismo. La rete delle tonalita` sembra piu` logica di quanto non sia nell’op. 2 (e nella successiva op. 6) perche´ il percorso si svolge fra La, mi, la, Do, re, si. Si puo` osservare che il si minore e` il relativo minore di re maggiore e che il rapporto con il la maggiore del primo pezzo rientra dunque nello schema primo grado-quarto grado che ricorre spesso – op. 6, op. 16, op. 23 – nei polittici di Schumann che iniziano in una tonalita` e terminano in un’altra. Per quanto riguarda la drammaturgia, una didascalia nel secondo Intermezzo, con le parole Meine Ruh ist hin (La mia pace e` perduta), tratte dalla canzone dell’arcolaio nel Faust di Goethe, ci portano nel dramma di Margherita. Partendo di qui non e` difficile vedere nel primo, fiero Intermezzo un ritratto psicologico di Faust ringiovanito, e nel beffardo terzo Intermezzo il ritratto di Mefistofele. Ma e` piu` difficile trovare corrispondenze faustiane negli altri tre pezzi, anche se il titolo Intermezzi, usato qui per la prima volta nella letteratura pianistica, fa pensare a intenzioni teatrali. I Davidsbu¨ndlerta¨nze op. 6 (Danze dei Compagni della Lega di Davide, 1837, 1838) furono composti e pubblicati dopo che era gia` stata composta e pubblicata l’op. 14. Sia che Schumann numerasse i suoi lavori al momento della composizione, sia che li numerasse al momento della pubblicazione, in quell’op. 6 attribuita alle Danze c’e` dunque qualcosa che non quadra e che solletica nel musicologo l’istinto dello Sherlock Holmes. Il mistero e` presto spiegato. All’inizio della Danza n. 1 si trova una didascalia che dice: ‘‘Motto di C.W.’’. Si tratta di una riga di musica, ripresa dalla Mazurca

Davidsbu¨ndlerta¨nze op. 6

op. 6 n. 5 di Clara Wieck, a quel tempo fidanzata di Schumann ma per Schumann divenuta inavvicinabile a causa dell’arcigna opposizione alle nozze del padre di lei. Schumann, a cui piacevano le annotazioni criptografiche, doveva avere avuto l’idea di riprendere il ‘‘motto’’ quando la Mazurca era stata pubblicata, e cioe` nel 1836, e percio` aveva tenuto libero il numero-simbolo 6 nel suo catalogo. Un anno dopo compose le Danze, inserendovi all’inizio la citazione, ma senza sfruttarne le potenzialita` poiche´ nulla di quel che segue deriva direttamente o indirettamente dal tema di Clara. E le Danze non furono dedicate alla promessa sposa ma a Johann Wolfgang von Goethe, nipote del poeta. Quando si scandaglia il cosmo di Schumann le sorprese di questo genere non sono inusuali. Ed e` ovvio che, se il musicologo resta incuriosito di fronte al rapporto sbilenco fra la datazione e il numero d’opera, il comune ascoltatore si chiede che cosa sia mai la Lega di Davide e che ci azzecchi con la musica. La Lega di Davide e` una associazione nata nella immaginazione di Schumann e i cui appartenenti sono personaggi reali sotto finti nomi. Florestano ed Eusebio sono entrambi Schumann, Chiarina e Zilia sono entrambe Clara, Felix Meritis e` Mendelssohn, Jeanquirit e` Stephen Heller, Serpentinus e` Carl Back, Maestro Raro e` il padre di Clara, ecc. ecc. I Compagni combattono contro i Filistei, cioe` i reazionari in musica, e il loro campo di battaglia e` la rivista fondata e diretta da Schumann. Ma i... danzanti delle Danze op. 6 sono due soli, Florestano ed Eusebio, che nella prima edizione (non piu` nella seconda) firmano i diciotto pezzi o separatamente o congiuntamente. Florestano ed Eusebio, dicevo, sono Schumann, cioe` i due aspetti della psiche di Schumann, l’appassionato e impetuoso Florestano, il riflessivo e sognatore Eusebio. Molti critici hanno commentato questa scissione in due di Schumann, e molti vi hanno visto una spia della schizofrenia. Il fatto che Schumann passasse gli ultimi due anni della sua vita in una clinica per malati mentali influisce secondo me, retrospettivamente, su questa valutazione. Io ritengo invece che l’invenzione di Florestano ed Eusebio fosse innanzittutto un felice espediente letterario che consentiva a Schumann, il quale stendeva la grande maggioranza delle recensioni pubblicate nella sua rivista, di non prendere una posizione univoca ma di esporre diversi punti di vista, contrastanti e complementari. Moltissime testimonianze sulla vita di Schumann ci dicono che per lui, piu` che di schizofrenia, si dovrebbe parlare semmai di sindrome di Asperger, cioe` di autismo, sia pure in una forma blanda. Ma, seppur

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non schizofrenica, una scissione esisteva, nella personalita` di Schumann, e le Danze, come diro` poi, potrebbero rappresentare in questo senso un momento di sublimazione. Diciotto sono i pezzi che formano le Danze dei Compagni della Lega di Davide. Le dimensioni non sono piu` quelle, aforistiche, dei Papillons op. 2 (dodici pezzi), e sono meno ampie di quelle degli Intermezzi op. 4 (sei pezzi): i Papillons durano circa 12 minuti, gli Intermezzi circa 25, le Danze circa 37. Si tratta quindi di un polittico monumentale, in cui l’unico elemento di evidente unitarieta` consiste nella ripresa della Danza n. 2 nella Danza n. 17. L’analisi del seguito delle tonalita`, che e` stata puntigliosamente condotta da qualcuno, non ha secondo me condotto alla scoperta di un disegno logico. La unitarieta` dell’op. 6, come dell’op. 2 e dell’op. 4, e` poetica. Non e` nemmeno facile trovare un disegno drammaturgico, ma si puo` ipotizzare che il tema del lavoro sia il contrasto psicologico tra Florestano ed Eusebio. Harry Halbreich ritiene che nella Danza n. 17 si pervenga a vedere ‘‘le due incarnazioni di Schumann, infine riconciliate’’, con la ‘‘vittoria di Eusebio’’. L’ultima Danza reca effettivamente una didascalia rivelatrice: ‘‘Ed Eusebio pensava ancora a molte altre cose, e nei suoi occhi si leggeva una grande felicita`’’. Piu` che alla riconciliazione io penserei pero` a un cammino iniziatico che conduce alla autocoscienza, alla accettazione di se stessi. Ma non ho nessun documento che mi permetta di dare certezza alla mia impressione. Che la musica delle Danze dei Compagni della Lega di Davide sia tra le piu` profonde e commoventi composte da Schumann e` una constatazione a cui perviene qualsiasi ascoltatore, e che si tratti di un polittico in diciotto pannelli, non di una raccolta di diciotto pezzi eterogenei, riuniti sotto un titolo accattivante, e` altrettanto vero. Se in Florestano vediamo l’uomo d’azione e in Eusebio il poeta che non domina il mondo ma che si crea il suo mondo possiamo pensare al travaglio psicologico che condusse Schumann, votatosi tardivamente alla musica con lo scopo di diventare virtuoso, cioe` uomo d’azione, che lo condusse, dicevo, ad accettare la sconfitta e a riconoscere di essere soltanto poeta. Questa accettazione di se´ non fu tuttavia ne´ salda ne´ definitiva, e la contraddizione fra le aspirazioni e la realta` riesplose nel matrimonio con Clara Wieck, grande virtuosa, e con i ripetuti tentativi di diventare direttore d’orchestra, risoltisi in un disastro totale quando un tentativo ando` a buon fine e Schumann assunse l’incarico dirigenziale a Du¨sseldorf. Se una lesione di origine psicosomatica aveva consentito a Schumann di trovare una motivazione impeccabile per la sua rinuncia alla carriera di 507

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concertista, solo il tentativo di suicidio e l’internamento in clinica gli permisero di non trovarsi senza lavoro alla scadenza del suo contratto a Du¨sseldorf. Nell’op. 6, si potrebbe dire, Eusebio vince una battaglia, ma non vince la guerra. Nel 1834 arrivo` a Lipsia una ragazza originaria della cittadina di Asch in Boemia, Ernestine von Fricken, che intendeva studiare il pianoforte con Friedrich Wieck. Wieck era stato il maestro di Schumann ed era il cofondatore della rivista, diretta da Schumann, che cominciava a uscire proprio nel 1834. Era inevitabile che Schumann e Ernestine facessero conoscenza. Schumann non tardo` a innamorarsi della fanciulla, o viceversa (dicono alcuni biografi, particolarmente esperti in affari di cuore), e i due giovani finirono per fidanzarsi segretamente; il matrimonio non ebbe poi luogo perche´, dicono ancora i soliti biografi, Schumann non trovo` in Ernestine tutte le qualita` necessarie per una sposa. Comunque, fra il 1834 e il 1835 i due veleggiavano verso Citera, e da questo felice viaggio nacque l’idea del Carnaval, Sce` nes mignonnes sur quatre notes op. 9 (Carnevale, piccole scene su quattro note, 1834-1835, 1837). La composizione – e` la prima sorpresa di questa incredibile scatola cinese che e` il Carnaval – non fu poi dedicata alla von Fricken ma al violinista Carl Lipinski. Bisogna spiegare innanzitutto che cosa significhino le ‘‘quattro note’’. Le note musicali, nei paesi tedeschi, vengono denominate con lettere dell’alfabeto dalla A alla H. Tutti sanno che un nome composto da lettere dalla A alla H puo` essere ‘‘tradotto’’ in suoni: da Bach a Decca abbiamo un bel po’ di nomi, celebri o meno celebri, che per scherzo, per gioco, o per impegno a trasformare in fatto musicale organizzato la casualita` di una serie di suoni, possono diventare cellule tematiche. Il nome di Ernestine von Fricken non si prestava a formare un tema musicale, ma il nome della sua citta` , Asch, vi si prestava benissimo, ... con un piccolo trucco: il mi, in tedesco, e` E, il mi bemolle e` ES, e la lettera S, sempre in tedesco, si legge ES. Asch diventa dunque la, mi bemolle, do, si. Proseguendo nel gioco si puo` leggere la parola Asch suddividendola in As e Ch: cosı` si arriva a la bemolle, do, si. Infine, se si legge musicalmente il nome Schumann, per quanto puo` essere musicalmente tradotto, abbiamo di nuovo le lettere del nome Asch nella formulazione Scha: un modo ingegnoso di intrecciare insieme qualcosa di Ernestine von Fricken e del suo innamorato Robert Schumann. Questa complicatissima traduzione concettuale di un sentimento amoroso, degna di un medievale ideatore di acrostici, e` espressa, per gli iniziati, dalle 508

Carnaval, Sce`nes mignonnes sur quatre notes op. 9

Sfingi, scritte in chiave di basso usando la antica, misteriosa figura della breve, che praticamente non esisteva piu` nella pratica musicale del tempo di Schumann. Le Sfingi sono dunque le arcane figure che danno all’iniziato, che le sa leggere musicalmente, la spiegazione della struttura dell’opera, e che danno all’iniziatissimo, che le sa leggere intimamente, la spiegazione sentimentale dell’acrostico. Per i non iniziati ci sono ventuno pezzi con titoli (ma alcuni interpreti, fra i quali Rachmaninov e Cortot, eseguono anche le Sfingi, strumentandole con tremoli minacciosi). In una recensione del 1840 Schumann spiego` la genesi dell’op. 9 in questo modo: prima era nato il gioco delle corrispondenze, poi erano stati composti i pezzi ‘‘in una seria disposizione di spirito e di speciali circostanze’’, e piu` tardi erano stati aggiunti i titoli. Ma io non direi che i titoli siano stati concepiti soltanto per colpire la fantasia del pubblico e per seguire un uso che si andava a quel tempo affermando. Alcuni titoli del Carnaval (Pierrot, Arlecchino, Pantalone e Colombina, Coquette) si legano genericamente al tema del ciclo, altri (Valzer nobile, Valzer tedesco) a generi musicali, uno (Lettere danzanti) trascina nel vortice carnevalesco le magiche Sfingi, uno (Papillons, Farfalle, con la didascali al basso ‘‘quasi corni’’) si riferisce forse alle cravattine ma resta in sostanza misterioso, uno (Pausa) introduce il finale, altri (Riconoscimento, Confessione, Passeggiata) trovano un loro esatto corrispettivo nel quadretto di genere che la borghesia tedesca del 1830 prediligeva (basti pensare a Moritz von Schwind o a Ludwig Richter). Altri titoli rivelano il mondo sentimentale di Schumann: Florestano e Eusebio sono i suoi due aspetti, Chiarina e` Clara, Estrella e` Ernestine, Chopin e Paganini sono i musicisti contemporanei che Schumann ammirava di piu`. Fanno da cornice l’iniziale Preambolo e la conclusiva Marcia dei Compagni della Lega di Davide contro i Filistei. Questo intrecciarsi di piani diversi e` uno dei motivi del fascino che il Carnaval esercita sul pubblico. Ma il motivo di maggior interesse resta il fatto compositivo. L’uso che Schumann fa delle Sfingi crea nel Carnaval una grande divisione in due parti: i pezzi dal secondo al nono sono costruiti sulla cellula la, mi bemolle, do, si, il decimo e l’undicesimo pezzo, i pezzi dal tredicesimo al sedicesimo, il diciottesimo, il diciannovesimo e il ventunesimo sono costruiti su la bemolle, do, si. Il Preambolo, Chopin, Paganini non sono basati su Asch, ne´ lo sono Pausa e la seconda sezione della Marcia, che riprendono parte del Preambolo; nel Valzer nobile e in Eusebio le quattro note sono disposte in un ordine leggermente diverso (la, mi bemolle, si, do

Kinderszenen op. 15

invece di la, mi bemolle, do, si, Ashc). Il cambio di lettura fra il nono pezzo (Farfalle) e il decimo (Lettere danzanti) comporta anche il passaggio a un’area tonale diversa: nella prima parte si alternano le tonalita` di La bemolle, Mi bemolle, Si bemolle (che e` prevalente) e sol, nella seconda parte troviamo Mi bemolle, do, La bemolle (che e` prevalente), fa, Re bemolle. La divisione in due parti risulta quindi netta per due ordini di motivi. Ma non si puo` non dire che l’analisi non riesce a spiegare le ragioni per cui l’unita` della composizione non e` compromessa ne´ dal brusco cambiamento di lettura della parola Asch, ne´ dall’inserzione di brani non basati su Asch. Si puo` pero` ricostruire l’origine del primo pezzo: si tratta di un brano derivato in piccola parte da una composizione del 1833, dedicata a Henriette Voigt (altra fiamma, platonica, di Schumann), rimasta incompiuta e che si intitolava Variazioni su un valzer sentimentale o Scene musicali su un noto valzer di F. Schubert (il Valzer op. 9 n. 2). Siccome il primo pezzo ritorna nel penultimo e nell’ultimo si puo` affermare che le incompiute Variazioni fanno da cornice al Carnaval. Il dodicesimo pezzo, Chopin, presenta un lontano rapporto tematico con l’inizio del primo. Il diciassettesimo, Paganini, non e` tematicamente rapportabile ne´ alle due letture di Asch, ne´ al Valzer. Ma Schumann lo inserisce come Intermezzo del Valzer tedesco, e in tal modo il non tematico Paganini figura come momento contrastante di un episodio tematico, entro il quale viene nettamente inquadrato. La ragione per cui si stabilisce tra il Valzer e Asch un rapporto organico potrebbe essere forse ritrovata attraverso lo studio degli schizzi. Si puo` dire pero`, al di la` dell’analisi filologica, che lo spirito del valzer pervade tutto il Carnaval. E il valzer e` il simbolo dell’epoca, il valzer che, diventato scivolato invece che saltato da quando Sigmund Wolfsohn aveva inventato il magico parquet della fantasmagorica Apollosaal di Vienna, era il tourbillon infinito in cui l’uomo del 1830, dice il Jacob, ‘‘trovava la sensazione delirante di un tuffo nello spazio’’, mentre ‘‘nel caos dell’infinito l’uomo e` l’unico punto d’appoggio della donna, e la donna dell’uomo’’. E per questa ragione il valzer diventa la danza della emergente borghesia cittadina: ‘‘Giriamo vorticosamente nello spazio, ma anche appoggiandoci l’un l’altro. L’ottica romantica del valzer, e la sua ottica borghese’’ (Jacob). Nel Carnaval le due ottiche sono complementari: l’anelito verso l’infinito e l’intimita` amorosa percorrono l’opera, e dall’ambiguita`, dalla contraddizione del loro rapporto nasce il fascino del Carnaval, che e` tra le composizioni piu` celebri, piu` eseguite, piu` amate

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della letteratura pianistica. Opera affascinante e ambigua, dicevo, che ha dato origine a letture interpretative radicalmente diverse, da quella di Claudio Arrau, analitica, filologica, tutta centrata sulle ragioni strutturali, a quella di Alfred Cortot, poetica, entusiastica, sentimentale, a quella di Sergej Rachmaninov, tesa, violenta, negativa. Un’interpretazione giocata nel filone della storia della musica, una che condivide le illusioni dei Compagni della Lega di Davide, una che confronta i sogni di Schumann con la visione, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, della sconfitta della borghesia. Non sappiamo come il Carnaval venisse interpretato da Clara Schumann. Ma sappiamo – fragilita` di donna? – che Clara tagliava via l’inconcludente sognatore Eusebio e l’inconcludente uomo d’azione Florestano, la misteriosa Coquette (misteriosa per noi, non per lei), e Estrella-Ernestine, la prima fidanzata del suo Robert. In attesa di diventare e sposo e padre Schumann si mise a comporre pezzi ispirati all’infanzia, addirittura trenta. Alla fine ne scelse tredici e li pubblico` sotto il titolo Kinderszenen op. 15 (Scene infantili, 1838, 1839). Tredici non e` un numero consueto nella pubblicistica musicale: tre, quattro, sei, dodici, ventiquattro sono i numeri ricorrenti piu` spesso. Dodici sono del resto i pezzi che compongono i Papillons op. 2, sei gli Intermezzi op. 4, diciotto le Danze op. 6. In Schumann ricorre pero` di frequente anche il numero otto, che probabilmente aveva per lui un significato simbolico (otto sono le lettere del nome Schumann). Le Scene della foresta op. 82 sono formate da nove pezzi, e nove e` un numero tanto inusitato quanto il tredici. Scorrendo sia l’op. 15 che l’op. 82 e leggendone i titoli ci si accorge pero` del fatto che non di tredici e nove pezzi si tratta, ma di dodici+uno e di otto+uno. Nelle Scene infantili l’ultimo pezzo e` intitolato Il poeta parla, nelle Scene della foresta e` intitolato Addio. Quindi, dodici pezzi sull’infanzia, piu` il commento del poeta. Dice Liszt che il poeta ‘‘parla a quelli che riposano e da` la sua benedizione a tutti i piccoli eventi della giornata, il cui significato innalza il suo spirito perche´ nello specchio simbolico essi mostrano i grandi eventi della vita piu` matura, dove spesso, nella stessa successione, sembrano essere stimolati dalle stesse impressioni’’. E subito dopo fa una giustissima osservazione: ‘‘Si puo` constatare che con quest’ultimo tratto si concludono quasi tutte le opere di Schumann. Ci sentiamo, in tali circostanze, come investiti dalla consacrazione di un messaggio poetico. E` il poeta che sentiamo, proprio lui, e nessun altro, si e` rivolto a noi e ci ha congedato salutandoci’’. Infine, Liszt osserva che se l’op. 15 avesse avuto il ti509

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tolo Bagatelle – e in effetti e` formata da bagatelle – il suo effetto sull’ascoltatore sarebbe stato inferiore. Non musica per l’infanzia, ma musica sulla infanzia. Schumann, che non e` ancora padre, risale ai suoi primi anni e ripercorre, da adulto, quelle che erano state le sue esperienze di bambino. E nel penultimo pezzo piega il discorso verso una qualche domanda angosciante: la prima parte del Il Bimbo s’addormenta e` tranquilla ma in modo minore, la seconda parte sprofonda sı` nel sonno ma e` agitata da premonizioni, e la terza parte, dopo la ripresa della prima parte, si chiude con una cadenza arcaica – dominante-sottodominante – che lascia in sospeso la fine del pezzo. In una masterclass durante la quale esegue l’ultimo pezzo, commentandolo, Alfred Cortot dice a un certo punto: ‘‘Interrogare l’avvenire’’. E questa incertezza pervade in realta` tutto il ciclo, anche la dolcissima Fantasticheria (n. 7), tanto spesso eseguita come bis da Horowitz. L’unita` poetica del ciclo si impone da se´. Lo studioso americano Rudolf Reti sostenne la tesi che l’unita` e` dovuta anche a una cellula motivica di base, dalla quale, come nel Carnaval, nascono i temi di tutti i pezzi. La tesi del Reti e` a parer mio discutibile, ma non e` qui il luogo per dibatterla. Intendevo solo far notare al lettore il fatto che lo strutturalismo del Novecento cercava ragioni di unita` del polittico che dipendessero da motivazioni strettamente musicali. Le Scene infantili come variazioni di un nucleo. Il che, in ipotesi, potrebbe anche essere ma, possiamo oggi dirlo pacificamente, senza che cio` interessi piu` a nessuno. Il Maestro di Cappella Johannes Kreisler e` un personaggio di musicista romantico creato dalla fantasia di E.T.A. Hoffmann e protagonista di due raccolte di brevi novelle e critiche musicali ma, soprattutto, della ‘‘Filosofia della vita del Gatto Murr, con frammenti della biografia del Maestro di cappella Johannes Kreisler in fogli di carta straccia trovati per caso’’. Hoffmann immagina che il parsimonioso Gatto Murr abbia impiegato il rovescio di fogli di carta sui quali era stata scritta l’autobiografia di Kreisler e che lo stampatore ignorante abbia riprodotto il manoscritto cosı` come si presentava nella sua mera apparenza. Nel volume le pagine dovute alla penna di Murr, meschino e rancoroso piccolo borghese tedesco, si alternano con quelle di Kreisler, artista in lotta con la realta` e dall’animo lacerato da intimi conflitti. In questo modo Hoffmann indagava la condizione del musicista dopo la rivoluzione della fine del Settecento: liberatosi dalla tutela del padrone aristocratico, ma non per questo dominus di se´, anzi, 510

Kreisleriana op. 16

soggiogato dalla presenza invisibile e corposa della nuova classe dominante che serviva come libero professionista, e destinato a venire con questa a patti o a restare isolato. Schumann, ben conscio della condizione dell’artista romantico, e capace, come critico e fondatore di una rivista d’avanguardia, di tentare un rivolgimento del gusto attraverso l’educazione del pubblico, si identifico` con Kreisler sotto la spinta di vicende personali, nel periodo in cui dovette lottare con Friedrich Wieck, che s’opponeva al matrimonio di sua figlia Clara con Robert e che costrinse il giovane musicista a dimostrare davanti a un tribunale la sua capacita` di provvedere al mantenimento di una famiglia, cioe` la sua capacita` di inserimento nella societa` borghese. I Kreisleriana op. 16 (Fatti riguardanti Kreisler, 1838, 1838) divennero cosı` il suo autoritratto, sebbene Schumann scrivesse nel 1838 alla fidanzata dicendole che ‘‘tu e il pensiero di te vi avete il ruolo principale’’. Un anno piu` tardi Schumann ribadiva lo stesso concetto: ‘‘Un vero amore selvaggio, selvaggio quanto si puo` essere, si trova in alcuni pezzi, la tua vita e la mia, e piu` di un lampo dei tuoi occhi. Le mie Scene infantili sono l’opposto, gentili e tenere e felici come il nostro futuro’’. Clara preferiva pero` le Scene infantili, l’aspetto domestico e borghese del suo vulcanico promesso sposo e poi marito: nella sua lunghissima carriera di concertista avrebbe eseguito i Kreisleriana molto di rado (la prima volta nel 1856, dopo la morte di Robert). Il fatto, secondo me, e` che Schumann si illudeva di aver ritratto nei Kreisleriana Clara e se stesso. Piu` ancora che un autoritratto di Schumann i Kreisleriana sembrano una profezia, una autobiografia che narra avvenimenti divinati prima che accadessero, perche´ Schumann riuscı` – Scene infantili – a essere un marito borghese con tutte le caratteristiche del marito borghese, ma non riuscı` – Kreisleriana – a entrare da professionista nel mondo dei professionisti in cui si inserı` invece splendidamente sua moglie, e concluse la disfatta terminando i suoi giorni in una clinica per alienati. Il sottotitolo dei Kreisleriana e` Otto Fantasie. Il piano tonale e`, per le usanze del tempo, ambiguo: primo pezzo in re, secondo in Si bemolle, terzo in sol, quarto in Si bemolle, quinto in sol, sesto in Si bemolle, settimo in do, ottavo in sol. L’accentramento tonale intorno al Si bemolle e al suo relativo minore, sol, e` molto forte, ma l’inizio in re conferisce all’insieme un carattere nuovo rispetto ai tempi, un carattere che i contemporanei non potevano che ritenere bizzarro. Le forme degli otto pezzi sono di diverso tipo: canzone bitematica tripartita (A-B-A) nei numeri 1, 3, 4, 5, 6, forma mo-

Humoreske op. 20

notematica tripartita con un’ampia coda e fugato centrale (n. 7), scherzo con due trii (n. 2 e 8). La scrittura pianistica e` di particolare interesse nel primo pezzo, che sfrutta le cinque dita in posizione allargata (invece della tradizionale posizione stretta), e poi nel secondo trio, denominato Intermezzo II, del secondo pezzo, in cui una normalissima melodia in progressione discendente viene frammentata fra due registri secondo un modulo che diverra` tipico in Brahms, e nell’ottavo, in cui in un pianissimo estremo vengono sovrapposti suoni tenuti nel registro profondo dello strumento e suoni staccatissimi nel registro medio. L’armonia e` molto evoluta, soprattutto, nella transizione dall’Intermezzo II al Tempo I del secondo pezzo, e nel quarto pezzo, in cui l’ascoltatore stenta a orientarsi su una tonalita` principale, e che in realta` postula con molti anni di anticipo un concetto di tonalita` allargata che abbraccia l’area Si bemolle, sol, Mi bemolle, do. I Kreisleriana furono dedicati ‘‘al suo amico il signor Fre´ de´ ric Chopin’’ che, sembra certo da quanto dice un suo allievo, non apprezzo` affatto il dono. Chopin ricambio` comunque l’omaggio con la dedica della Ballata op. 38 ‘‘al signor Robert Schumann’’. Nella creativita` di Schumann la sonata, possiamo dire, e` sempre in agguato, con tutto il peso del suo prestigio, della sua quasi secolare tradizione, dei nomi immortali di cui puo` fregiarsi. Schumann sente con forza il fascino della sonata, e alla sonata guarda spesso in tralice. La Humoreske op. 20 (Umoresca, 1839, 1839) e` uno dei polittici che, per cosı` dire, fissano la sonata attraverso un vetro smerigliato: non e` una sonata, ma l’ombra deformata della sonata si scorge in essa benissimo. Intanto, il titolo. Umoresca non e` da intendersi come pezzo umoristico ma semmai, all’antica, come centone di vari humori. Tanto e niente, in realta`: un trascorrere fra stati d’animo diversi. E il titolo non e` piu` contenutistico di quanto sarebbe il titolo sonata. Ne´ ci aiuta molto, a precisare il contenuto, una lettera di Schumann a Clara Wieck: ‘‘Per tutta la settimana non ho quasi abbandonato il pianoforte, componendo e ridendo e gridando, tutto insieme. Il risultato e` la mia Umoresca, e tu ci troverai dentro tutto cio`’’. Preso atto delle pene amorose di Schumann vediamo come le suddette pene acquistino forma artistica. Se scorriamo con l’occhio l’Umoresca la prima cosa che ci colpisce e` la persistenza della tonalita` principale di Si bemolle. Una delle maggiori novita` formali del polittico, come ho gia` detto, era costituita dal continuo passare da una tonalita` all’altra, a volte con ritorno finale dalla tonalita` dell’inizio, a volte terminando in una tonalita` diversa. L’Umoresca non solo inizia e

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termina in Si bemolle, ma in Si bemolle e` la maggior parte dei pezzi, e il polo tonale alternativo e` il sol, tonalita` relativa minore di Si bemolle. Subito dopo ci colpisce, in una composizione senza soluzione di continuita`, il ritorno simmetrico di temi o di sezioni, ritorno che scandisce una suddivisione dell’opera in quattro parti. La prima parte e` una forma ternaria inquadrata da un preludio e da un postludio, con una classicissima rete tonale: – Semplice, Si bemolle (preludio); – Molto presto e leggero, Si bemolle (sezione A); – Ancora piu` presto, sol (sezione B); – Tempo I, Si bemolle (sezione A); – Come in principio, Si bemolle (postludio). La seconda parte e` in forma ternaria semplice: – Affrettato, sol (A); – Senza rigore di tempo-Sempre piu` accelerandoSempre piu` vivace ed energico, Si bemolle, re, Re (B); – Come prima, sol, Si bemolle (A). Alla fine della sezione B viene citato in accordi dolcissimi, come da una grande lontananza, il tema iniziale dell’Umoresca, quello che ho definito preludio. In forma ternaria anche la terza parte: – Semplice, teneramente, sol (A); – Intermezzo, Si bemolle (B); – Tempo I, sol (A). Fino a questo punto il rapporto con la sonata e` evidente: primo movimento pluritematico, secondo movimento a modo di scherzo, adagio con intermezzo. Nell’ultima parte il parallelo con il finale di sonata e` meno evidente: – Con intima espressione-Piu` presto, Si bemolle; – Assai vivace-Sempre piu` vivace-Stretto, sol, Si bemolle; – Un poco pomposo, do, Si bemolle. Non e` necessario, s’intende, trovare a tutti i costi un rapporto con un finale di sonata: mi sembra pero` che le prime due sezioni siano organizzate secondo il modulo di introduzione in tempo lento seguita da allegro con aumento progressivo della velocita`, tipico di molti finali. Dopo lo Stretto, il Poco pomposo serve a legare la quarta parte con un’ampia perorazione, intitolata da Schumann Zum Beschluss (Per concludere) in Si bemolle, con una sezione in tempo lento e un postludio Allegro. Se guardiamo alla sequenza delle composizioni di Schumann, che dall’op. 1 all’op. 22 sono tutte per pianoforte solo, sembra di poter vedere nella Umoresca la risultante delle ricerche formali che il creatore conduce e sulla sonata e sul polittico, e un modello di organizzazione formale che sintetizza la novita` e la tradizione. Capolavoro singolare, dunque, unico e sommamente interessante. E anche, bisogna dirlo con rammarico, capolavoro poco co511

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nosciuto, che e` stato eseguito da vari grandissimi interpreti – da Arrau a Horowitz a Richter – ma che non ha ancora raggiunto un grado di diffusione quale non solo meriterebbe di avere, ma quale sarebbe indispensabile per una approfondita conoscenza dell’arte di Schumann. Un’ultima osservazione. Non mi risulta che esistano studi sulla drammaturgia della Umoresca, e quindi devo limitarmi alle mie impressioni. Detto in breve, l’Umoresca sembra a me una specie di schizzo autobiografico, che nelle prime tre parti ripercorre il passato e che nell’ultima getta uno sguardo profetico nel futuro. I Nachtstu¨cke op. 23 (Pezzi notturni, 1839, 1840) furono composti durante un soggiorno di Schumann a Vienna. Il 7 aprile, scrivendo alla fidanzata Clara, il compositore spiegava la genesi del suo lavoro: ‘‘Ti ho parlato di un presentimento che ho avuto mentre lavoravo alla mia nuova composizione. C’era un passaggio che mi ritornava incessantemente, perche´ era come se qualcuno sospirasse ‘O mio Dio’ con cuore affannato. Mentre scrivevo non smettevo di avere visioni di processioni funebri, di bare, di visi infelici e disperati. Quando ebbi terminato, cercando un titolo ritornavo sempre a ‘Fantasia cadaverica’. Non e` strano? Mentre componevo ero sempre profondamente emozionato, e le lacrime colavano dai miei occhi senza una ragione apparente. Poi arrivo` la lettera di Teresa e tutto divenne di colpo chiaro’’. La lettera della cognata Teresa aveva fatto sapere a Schumann che suo fratello Eduard era gravemente ammalato. Schumann aveva deciso di partire immediatamente, ma il 6 aprile aveva sentito nella sua immaginazione un corale funebre suonato da tromboni e aveva poi appreso che suo fratello era deceduto in quel momento. Il corale eseguito dai tromboni risaliva a un’antica tradizione (i tre Equali per quattro tromboni di Beethoven, ad esempio, sono corali funebri), e Schumann aveva percio` collegato la musica sentita all’evento luttuoso. L’atomosfera allucinata e angosciante che Schumann descrive pervade pero` solo il primo dei quattro Pezzi notturni, una marcia molto instabile sia ritmicamente che armonicamente, che in un primo momento ebbe il titolo, poi eliminato, di Corteo funebre. Il secondo pezzo, intitolato in origine Curiosa assemblea, inizia con una specie di clamorosa risata e prosegue in modo tumultuoso. Il terzo pezzo, in origine Banchetto notturno, e` un vorticoso valzer con due trii, e l’ultimo pezzo, in origine Canto alterno, e` una serenata – canto e chitarra – che divenne molto popolare. Il titolo Fantasia cadaverica sarebbe dunque stato del tutto inappropriato, e inappropriato e` anche Pezzi notturni se lo intendiamo, come spesso avviene, nel senso che ha nei tragici Nachtstu¨cke di Hoffmann. 512

Nachtstu¨cke op. 23

I Pezzi notturni sono invece strutturati drammaturgicamente come transizione simbolica dalle tenebre alla luce, dall’angoscia alla serenita`, ed e` un peccato che dopo la scomparsa di Richter non compaiano quasi mai nelle programmazioni concertistiche. Tra la fine del 1838 e la primavera del 1839 Schumann soggiorno` a Vienna allo scopo dichiarato di verificare se avrebbe potuto trasferire nella capitale asburgica la sua rivista. Questa era la motivazione prima del soggiorno, la motivazione palese. Credo pero` che ci fosse ancora un’altra motivazione: dopo la morte di Beethoven e di Schubert la musica era rappresentata a Vienna da Josef Lanner e da Johann Strauss senior, grandi compositori di musica da ballo ma non grandi compositori tout court. Clara Wieck, fidanzata di Schumann, aveva esordito a Vienna nel 1838 con un tale successo da essere nominata – lei, di religione protestante – pianista della cattolicissima corte degli Asburgo. Clara era diventata una stella, Robert era un critico affermato e un compositore ancora oscuro. Se Clara si fosse stabilita a Vienna, e se a Vienna fosse stata trasferita la redazione della rivista, Schumann avrebbe potuto operarvi in condizioni favorevoli per affermarsi anche come compositore. Questo, secondo me, il disegno molto articolato del soggiorno di Schumann a Vienna. Che si concluse con un nulla di fatto. Dovevano passare ancora venticinque anni, prima che Vienna consentisse a un musicista che non era nato fra le sue mura di assumere l’eredita` dei classici viennesi. E lo ‘‘straniero’’ fu Brahms. Schumann fu respinto, cosı` come nel 1831 era stato respinto Chopin. Schumann torno` da Vienna portando con se´ il manoscritto della Sinfonia in do maggiore, La Grande, di Schubert, scoperto presso il fratello del compositore scomparso da undici anni. Da Vienna porto` un pennino trovato sulla tomba di Beethoven, con il quale vergo` la sua Sinfonia n. 1 (egli assumeva simbolicamente l’eredita` di Beethoven, anche se Vienna non lo aveva voluto fra le sue mura). E a Vienna Schumann compose molti lavori, fra cui il Faschingschwank aus Wien op. 26 (Carnevale di Vienna 1839, 1841). Carnevale di Vienna e` il titolo tradizionale in italiano, Fasching e` il termine viennese per il carnevale, Schwank significa storia allegra, facezia. Il significato piu` appropriato del titolo tedesco sarebbe dunque traducibile con Allegre storielle del carnevale di Vienna. L’op. 26 e` un lavoro ‘‘leggero’’ che gode di un certa popolarita` ma che non e` molto considerato dai critici. A parte la sua piacevolezza discorsiva, che non e` comunque da sottovalutare, il Carnevale di Vienna e` pero` notevole per l’uso delle forme: si tratta in realta` di una sonata in cinque movimenti in cui il primo

Fughe op. 72

movimento e` in forma di finale e il finale e` in forma di primo movimento. Dopo aver scritto tre Sonate e aver sintetizzato nella Umoresca la sonata e il polittico Schumann sapeva maneggiare con disinvoltura gli schemi sonatistici. Qui li impiega in senso evolutivo, e cioe` utilizzandoli in vista di uno scopo estetico e di un progetto drammaturgico. Nell’op. 26 il vero quadro carnevalesco e` costituito dal primo movimento, che presenta piu` temi-personaggi alternati con un tema ricorrente. Lo schema formale puo` essere cosı` riassunto: Tema A Tema B - Tema A - Tema C - Tema A - Tema D Tema A - Tema E - Transizione - Tema F - Tema A - Coda. Dodici episodi e sei temi: un lusso babilonese. Dicevo che questo primo movimento e` in forma di finale perche´ il periodico ritorno del tema A richiama lo schema del rondo`. Pero` nel rondo` classico almeno il tema B ritorna con tutti gli onori una seconda volta. Schumann e` piu` ... anarchico perche´, secondo me, la sua drammaturgia e` quella del cronista. Oggi diremmo del cronista televisivo: il cronista e la sua troupe (tema A) inquadrano svariati eventi in una giornata di carnevale, badando a offrirci un servizio vario e divertente. I baldi giovanotti che procedono a passo di valzer (tema A) incontrano un gruppo di damigelle (tema B), un gruppo di signori distinti (tema C), un gruppo di montanari (tema D), un gruppo di militari (tema E), fra i quali si trova un vecchio soldato che canta la Marsigliese (proibita a Vienna), un gruppo di bambini vestiti da angioletti (tema F). Nella conclusione del servizio (Coda) e` inevitabile che il cronista e la sua troupe ritrovino per un attimo fuggevole le damigelle. Se vogliamo, l’idea e` un po’ quella della Passeggiata nei Quadri di una esposizione di Musorgskij. Ma la prima parte dei Quadri e` costruita con pezzi chiusi, mentre qui il tema-passeggiata e` inserito in una architettura vastissima. Si tratta, insomma, di una commistione fra polittico e sonata. E nel termine commistione, s’intende, non e` sottinteso alcun biasimo. La Romanza e lo Scherzino, entrambi molto brevi (la prima bitematica, il secondo monotematico) formano un dittico contrastante che si incunea fra l’imponente primo movimento e l’Intermezzo, breve ma piu` impegnato sul piano emotivo. Se vogliamo proseguire il gioco di scovare la drammaturgia potremmo parlare del ritratto di una piccola mendicante nella Romanza, di due bimbi che giocano nello Scherzino e dei tormenti di un innamorato non corrisposto nell’Intermezzo. Il finale e` in forma di primo movimento, con tanto di ripetizione della esposizione. Lo sviluppo e` breve ed e` compensato architettonicamente da una coda piu` estesa del consueto. Per

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quanto riguarda l’aspetto drammaturgico il finale raffigura secondo me la folla indistinta. Ho detto all’inizio che con il pianoforte Schuman fece tra il 1831 e il 1839 il suo tirocinio di autodidatta, affrontando varie forme e vari generi della letteratura pianistica. Oltre alla sonata, lascito dell’epoca classica, la fuga, lascito dell’epoca barocca, rappresentava per i romantici una sfida a cui non sottrarsi. Esiste un Preludio e fuga del 1832, di cui non si hanno precise notizie, ed esiste una sessantina di schizzi di fughe di Schumann non condotte a termine, e cio` indica in modo palmare quali difficolta` sorgessero per chi tentava nell’Ottocento di impadronirsi in modo non accademico di una tecnica di composizione desueta. Del resto, anche Mozart, quando conobbe il Clavicembalo ben temperato di Bach, si lancio` con entusiasmo nella composizione di preludi e fuga portando pero` a compimento uno solo di molti tentativi. Schumann concluse con una fuga gli Improvvisi su un tema di Clara Wieck op. 5. Ma soltanto molto piu` tardi, e sotto lo stimolo dei Preludi e fughe op. 35 di Mendelssohn da lui molto ammirati compose le Fughe op. 72 (1845, 1850). Le edizioni ottocentesche del Clavicembalo ben temperato con aggiunte di didascalie di tempo e di segni d’espressione ci dicono che i romantici ‘‘attualizzavano’’ le fughe di Bach facendole diventare pezzi di genere in forma di fuga. E pezzi di genere in forma di fuga sono le quattro Fughe op. 72, tre delle quali trattate contrappuntisticamente in modo semplice, e una sola, la seconda, che fa ricorso agli artifici del soggetto per moto contrario e per aggravamento. Il soggetto della terza Fuga, fatto curioso, e` ricavato dal tema introduttivo dello Studio n. 1 dei Tre Nuovi Studi di Chopin, e anche la tonalita` e` la stessa. La varieta` dei tempi e dei caratteri, il piano tonale (re, re, fa, Fa) e la coda omofonica della quarta Fuga fanno supporre che Schumann vedesse nell’op. 72 un ciclo organico, con quattro pezzi complementari fra di loro. Ma il solo Richter provo` a verificare se questa unita` di concezione rendesse utilizzabile l’op. 72 in esecuzioni pubbliche. Schumann era un intellettuale impegnato, e in quanto fondatore della Lega dei Compagni di Davide si presentava in musica da protagonista del Vorma¨rz, del Prima di marzo, come venne definita piu` tardi l’epoca che andava dalla fine del Congresso di Vienna ai moti rivoluzionari del marzo 1848. Ma quando la rivoluzione scoppio` per davvero in quel di Dresda, dove abitava, Schumann si guardo` bene dal salire sulle barricate, come fece invece, incautamente, il direttore dellı`’Opera Reale Richard Wagner. Schumann si allontano` dalla citta`, ed era cosı` spaventato e cosı` inerme che tocco` 513

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alla moglie, incinta, di traferire in due riprese la famiglia in un tranquillo paesino. Gli Schumann tornarono a Dresda nel giugno del 1849. In calce alla prima delle quattro Marce op. 76 (1849, 1849) troviamo l’annotazione ‘‘composta il 12 giugno 1849 sulla strada da Kreischa a Dresda’’. Si parlava un tempo, scherzosamente, di geografi da tavolino che descrivevano l’Africa senza esserci mai stati. Il rivoluzionario da tavolino Robert Schumann, che al contrario di Wagner non dovette eclissarsi per evitare di andare a popolare le patrie galere, scrisse a un altro rivoluzionario da tavolino, Franz Liszt, dicendo: ‘‘La data che vi ho iscritto [1849] ha questa volta un significato di cui vi accorgerete subito... O tempi, o principi, o popoli!’’ Il 1849, che sarebbe stato forse compromettente, non comparve poi nella edizione a stampa dell’op. 76. Il comportamento pavido di Schumann durante la rivoluzione non significa pero` che egli non fosse con il cuore tra i rivoluzionari, e non significa che fosse insincero quando diceva a un amico: ‘‘Non ho saputo come allentare in altro modo la mia tensione. [Le Marce] sono veramente state scritte nel fuoco’’. Il pericolo di mettere in fila quattro marce consiste nella monotonia sia ritmica che espressiva. Schumann inizia in un modo eroico e popolaresco che riflette perfettamente il carattere dei moti rivoluzionari del ’48, ma prosegue poi con un tono lirico nel trio del secondo pezzo e con una grande calma interiore nello scherzoso terzo, intitolato Scena al Campo. La quarta Marcia torna all’eroico e al popolaresco e si conclude con vittoriosi squilli di fanfare guerresche. Lo schema architettonico e` quello archetipico della sonata, e la rete delle tonalita` – Mi bemolle, sol, Si bemolle, Mi bemolle – e` organico. Si tratta quindi di un polittico, anche se nessun grande interprete ne ha preso a cuore il destino e il solo Richter ha avuto in repertorio una sola, la seconda, delle quattro Marce. Le Waldszenen op. 82 (Scene della foresta, 18481849, 1851) sono l’unico polittico della maturita` che sia paragonabile con i polittici del 1831-1839. Schumann, che dal 1840 mirava a qualificarsi come compositore a tutto campo (e che rimproverava a Chopin la mancanza di questa ambizione), si occupava intensamente di musica sinfonica e da camera, di Lied, di musica sinfonico-vocale e di opera, e tornava di tanto in tanto al pianoforte ma senza ritrovare l’empito creativo che gli aveva permesso di raggiungere i traguardi dei Kreisleriana e dell’Umoresca. Le Scene del bosco nacquero nel momento in cui Clara aveva avuto la certezza di essere incinta (era la sesta volta in otto anni di matrimonio), cosa che turbo` profondamente il marito. Non sappiamo perche´ Schumann decidesse di comporre le Scene, ma non 514

Marce op. 76

sembra improbabile che l’idea gli fosse stata inconsciamente suggerita dal significato simbolico della foresta come grembo femminile. E il senso ambivalente, positivo e negativo della foresta impronta di se´ le Scene, in cui si alternano il Paesaggio sorridente e il Luogo maledetto, il Canto di caccia e il Cacciatore in agguato, i Fiori solitari e il misterioso Uccello profeta. I nove pezzi, di media difficolta` e di ridotte proporzioni, si riallacciano alle Scene infantili op. 15 e ne rinnovano l’intima poesia. Ma, al contrario delle Scene infantili, hanno raramente attirato l’attenzione dei grandi virtuosi del pianoforte. I Pezzi fantastici op. 111 (1851, 1852) sono il polittico di Schumann il piu` breve: tre soli pezzi. La volonta` unificatrice dell’Autore e` espressa dalla indicazione ‘‘attacca il n. 2’’ alla fine del primo pezzo e ‘‘attacca il n. 3’’ alla fine del secondo. La struttura archetipica e` quella della sonatina, con uno studio a moto perpetuo in do, una canzone bitematica e tripartita in La bemolle, una marcia con trio e coda in do, con citazione del trio nella coda. La strumentazione del primo pezzo venne piu` volte esemplata da Brahms. Il secondo pezzo e` una specie di omaggio a Schubert, allo Schubert dei Momenti musicali. Il polittico ha pagato lo scotto delle sue ridotte dimensioni e della sua semplicita` di concezione, ma meriterebbe di essere molto piu` conosciuto di quanto non sia. All’inizio di ottobre del 1853 capito` in casa degli Schumann, che abitavano a Du¨sseldorf, il ventenne Johannes Brahms. Il colpo di folgore che scocco` fra Brahms e gli Schumann, Robert e Clara, e` cosa di cui tutti sono a conoscenza e che e` del resto testimoniata dal breve saggio, Vie nuove, che Robert scrisse poche settimane piu` tardi e dalla amicizia piu` che quarantennale che lego` Clara a Brahms. Una novita` luminosa, la visita di Brahms, una novita` la cui unica conseguenza musicale fu costituita dai Gesa¨nge der Fru¨he op. 133 (Canti dell’aurora, 1853, 1855), rapidamente composti ai primi di novembre. Aurora, simbolicamente, per Brahms, mentre per Schumann si sarebbe trattato dell’ultimo lavoro pianistico condotto a termine: nel febbraio del 1854 egli avrebbe infatti tentato il suicidio e nei due anni di vita che gli rimanevano avrebbe fatto qualche progetto e abbozzato soltanto qualche nuova composizione. La tentazione di legare i Canti dell’aurora all’amicizia con Brahms e` lı` a portata di mano. Nessun critico le ha resistito, e io seguo la corrente. Mi corre pero` l’obbligo di dire che all’editore a cui propose il lavoro, Schumann parlo` dei Canti in questi termini: ‘‘Sono pezzi che traducono un’emozione all’approssimarsi dell’aurora; piu` che una descrizione pittoresca sono l’espressione di un sentimento’’. E l’op. 133 fu dedi-

Pezzi fantastici op. 12

cata ‘‘all’altissima poetessa Bettina’’, cioe` Bettina Brentano. Schumann pensava pero` anche a Diotima, l’ispiratrice del folle Ho¨lderlin. E non e` affatto improbabile che attraverso Diotima e Ho¨lderlin egli vedesse Clara e se stesso. I Canti dell’aurora, insomma, si inseriscono nel nodo affettivo Schumann-Clara-Brahms di cui si e` discusso nei termini piu` vari, senza raggiungere una spiegazione veramente chiarificatrice. Le vicende intime di Schumann nell’autunno del 1853 non sarebbero cosı` importanti se i Canti dell’aurora fossero un’opera solare. Sono invece un lavoro tormentato e oscuro che non solo non e` mai entrato in repertorio ma che nessun grande interprete, prima di Maurizio Pollini, aveva preso in considerazione. E per lungo tempo la critica fu del parere che, se rappresentativi erano, i Canti dell’aurora lo erano quali testimoni dell’incipiente follia. Questo giudizio non e` stato ancora rovesciato. Ma si e` pensato che l’op. 133 non tanto si leghi alle opere precedenti quanto che si apra piuttosto su un mondo sconosciuto e non esplorato poi dall’Autore. L’op. 133 e` formata da cinque brani. Il primo – Tranquillo, in Re – e` un corale armonizzato, strumentato in maniera organistica, che comincia in modo tradizionalissimo ma che subito devia dalla consuetudine perche´ il primo periodo conclude in una tonalita` (si minore) diversa da quella iniziale, e perche´ e` di nove invece che di otto battute. In questo modo viene trattata tutta la composizione, che sorprende e sconcerta non tanto per la novita`, quanto per la deviazione dalla norma, per la logica discorsiva diversa che viene introdotta a

Le raccolte I Pezzi fantastici op. 12 (1837, 1838) sono otto, ma in realta` sarebbero nove. Schumann ne scarto` uno poco prima della pubblicazione e lo sostituı` con un altro (il n. 7). Il pezzo scartato fu pubblicato molto tempo dopo la morte di Schumann e solo un interprete, Claudio Arrau, lo ricolloco` nella raccolta. L’op. 12 e` dedicata alla pianista scozzese Anna Robena Laidlow, amica di Schumann e forse sua ‘‘fiamma’’ o per lo meno ‘‘tentazione’’ durante il periodo della forzata separazione da Clara Wieck. Amica o fiamma o tentazione: forse tutte e tre le cose, tanto che Clara, quando ripubblico` le opere del marito, taglio` via la dedica dell’op. 12. Il n. 1, Des Abends (A sera) e` una specie di lentissimo moto perpetuo, di oscillazione di armonie elementari dalle quali emerge una melodia incantata e attonita. Molto singolare e` la forma: esposizione, sviluppo, riesposizione. Forma ternaria, quindi. Ma dopo la riesposizione Schumann ripete una seconda volta lo sviluppo e conclude

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governare cio` che, di per se´, apparirebbe consueto. Anche il secondo pezzo – Animato, ma non troppo, in Re – e` un corale di tipo organistico: un grave corale figurato in cui vengono inaspettatamente introdotti temi guerrieri ed eleganti arabeschi, che ne spezzano il corso ‘‘naturale’’. Il terzo pezzo – Vivace, in La – e` un quadro guerresco fantastico, spettrale, che richiama irresistibilmente la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Il quarto – Con moto, in fa diesis – ricorda certe Romanze senza parole di Mendelssohn per quanto riguarda il tipo di melodia e di scrittura pianistica. Ma anche qui la logica compositiva e` deviante: quando, dopo sedici battute, tutto farebbe pensare alla ripresa dell’inizio, Schumann attacca uno sviluppo che si prolunga per tredici battute. Poi arriva la ripresa... Ma la forma tradizionale e` stata frantumata, e del resto la ripresa e` appena accennata e una lunga coda viene a sostituirne il prevedibile corso. In pratica, l’impostazione formale sarebbe di una trentina di battute, ma il pezzo ne conta cinquantadue. Il quinto e ultimo brano – Tranquillo, poi piu` mosso, in Re – e` un corale, prima armonizzato in accordi, poi figurato, che si espande progressivamente verso un largo cantare pacificato, un cantare estatico su arpeggi oscillanti. ‘‘Ultima tappa del viaggio incompiuto che porta alle spiagge dell’oblio, alla vacuita` di questa serenita` ormai inutile, aperta alla vertigine del vuoto’’, commenta Harry Halbreich. Nel che c’e` secondo me un qualcosa di forzato. Ma che entro il tentativo di dare un significato a un’opera ultima puo` essere respinto solo se si pensa all’op. 133 come a un insolubile enigma.

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con una coda. Il n. 2, Aufschwung (Slancio) e` un rondo` con tre temi in sette episodi. Il ricorso a una forma molto popolare negli anni trenta dell’Ottocento avviene pero` in modo fortemente immaginativo. Il terzo tema, che occupa la parte centrale, e` assai piu` ampio e sviluppato di quanto non imponesse la consuetudine e acquista percio` un peso insolito, tanto da ricordare un trio di scherzo. La conclusione e` sorprendente: quando sembra che si vada verso la tonalita` dell’inizio, La bemolle, il discorso piega improvvisamente verso il fa. Il n. 3, Warum? (Perche´?) fu un pezzo prediletto da molti virtuosi, che lo impiegarono come bis (abbiamo persino, registrata per il pianoforte riproduttore, l’esecuzione di Carl Reinecke, che aveva studiato il pianoforte con Schumann). Formalmente la composizione e` una invenzione su un inciso tematico di sei suoni, che con il suo profilo ascendente e le contiue ripetizioni simboleggia la ricorrente, stuporosa e amorosa domanda che non 515

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ha risposta. Il n. 4, Grillen (Capricci), e` un vero e proprio scherzo al modo di Beethoven, sia per il carattere umoristico che per la forma. La forma viene pero` articolata in modo piu` complesso di quello tradizionale perche´ viene integrata con lo schema del rondo` . Il n. 5, In der Nacht (Nella notte), e` un agitato e cupo notturno, basato su un movimento ritmico continuo e su frammenti tematici rotti e angosciosi, che non riescono a organizzarsi in melodia se non nella parte centrale. Dopo averlo composto Schumann – lo dice in una lettera – si accorse di aver avuto presente la storia di Ero e Leandro, la storia del ragazzo che, attraversando a nuoto l’Ellesponto per raggiungere la sua amata, annega miseramente. Il n. 6, Fabel (Favola), alterna un tempo lento e un tempo rapido, e il legato e lo staccato. Nella parte centrale compare un nucleo tematico molto incisivo, quasi un motto. E` probabile che Schumann abbia qui voluto sintetizzare gli elementi tipici della fiaba popolare tedesca: la gravita`, la sentenziosita` del racconto, la vivacita` del mondo fantastico degli elfi. Il n. 7, Traumeswirren (Incoerenze di un sogno) e` un pezzo brillante, quasi toccata, di scrittura pianistica difficilissima ma efficacissima nello sfruttamento delle dita deboli (anulare e mignolo) della mano destra, ed e` percio` stato anch’esso prediletto da grandi virtuosi. L’ultimo pezzo, Ende vom Lied (Fine della canzone), risponde esattamente alla didascalia Con buonumore posta da Schumann all’inizio. Ma la conclusione del pezzo, nettamente scandita, e` inaspettatamente seguita da una coda in pianissimo, nella quale viene richiamato come da una grande lontananza il tema iniziale (forse una parafrasi della Marsigliese) che si spegne nel registro grave estremo del pianoforte. Si puo` discutere se l’op. 12 sia una raccolta o un polittico. Ci sono ragioni per entrambe le ipotesi. Il titoli, messi in rapporto con la dedica alla bionda, fascinossima Robena, potrebbero rivelarci la trama di un ‘‘sogno d’amore’’, e anche la rete delle tonalita` appare coerente. Ma personalmente non riesco a cogliere un legame organico fra gli otto pezzi. Nel fecondissimo anno 1838 Schumann compose otto pezzi, di varie dimensioni, che pubblico` sotto il nome di Novellette (1838, 1839). In una lettera alla fidanzata Clara Wieck egli affermo` che proprio lei, Clara, era l’ispiratrice dei pezzi ma che lui, Robert, non potendo intitolarli Wiecketten perche´ il termine suonava male, aveva pensato alla cantante (italo-inglese) Clara Novello e a Novelletten. Come dire: Clara (Wieck) e il suo doppio Clara (Novello): intercambiabili. Leggendo le lettere di Schumann alla fidanzata si ha pero` l’impressione che egli volesse proiettare il loro rapporto nel 516

Pezzi fantastici op. 12

mito: non semplicemente Robert e Clara ma, come in tanta pittura dell’Ottocento, il Poeta e la sua Musa. E le Novellette furono dedicate a Adolph Henselt. La prima Novelletta e` in forma di rondo` con tre temi: il primo e` una marcia, il secondo una melodia accompagnata dall’arpa, il terzo un corale religioso. Si ha l’impressione di un racconto ispirato a quell’‘‘elemento provenzale’’, cioe` a storie di trovatori e castellane, che lo Schumann critico trovava in Beethoven e in Schubert. Il piano tonale e` molto singolare: Fa (tema A), Fa (B), Fa (A), Re bemolle (C), La (B), Fa. L’‘‘elemento provenzale’’ si afferma nella Novelletta n. 2, piu` vasta della prima ma di forma piu` semplice, e cioe` di scherzo con trio: cavalcata, colloquio amoroso, cavalcata. La storia di un incontro di una notte, la storia, con settant’anni di anticipo, dell’Alfiere Christoph Rilke di Rainer Maria Rilke. La Novelletta n. 3 e` uno scherzo con trio (denominato Intermezzo). Scherzo tutto saltellante, fiabesco, Intermezzo ‘‘veloce e selvaggio’’ con carattere di scena di caccia (ma nel manoscritto si trova una citazione del colloquio delle streghe nel Macbeth). La quarta Novelletta e` un valzer con trio e una estesissima coda, sorridente e gaio ma percorso da inattese cupezze. La quinta e` uno sviluppatissimo rondo` con cinque temi, molto contrastanti e molto caratterizzati: l’episodio principale e` una polacca, che s’alterna con un episodio di densa scrittura polifonica, con un colloquio amoroso, un canto guerriero e un secondo episodio di densa scrittura polifonica. Nella conclusione, invece della polacca, viene ripreso il colloquio amoroso. Il pezzo e` come un primo studio su una forma che verra` attuata pienamente nel movimento iniziale del Carnevale di Vienna, ma possiede una compiutezza e una coerenza che ne fanno uno fra i piu` interessanti esperimenti formali di Schumann. La sesta Novelletta presenta qualcosa come otto temi in un susseguirsi di episodi senza simmetrie ricorrenti e da` un’impressione di una rapsodia in cui l’improvvisazione prende il sopravvento. La settima Novelletta e`, di forma e di carattere, uno scherzo con trio. L’ottava e` formata in realta` da due pezzi, il primo come scherzo con due trii, il secondo come rondo` con quattro temi, senza il sistematico ritorno del tema principale. I due pezzi sono tematicamente indipendenti, e sono collegati da un lungo episodio di espressione sognante in cui viene citato e sviluppato un frammento del Notturno op. 6 n. 2 di Clara. I temi anche qui molto contrastanti e i due pezzi riuniti da una citazione criptografica fanno pensare di nuovo all’‘‘elemento provenzale’’, e quindi a racconti trovadorici di cui siano protagonisti Robert e Clara.

Albumbla¨tter op. 124

Peccato che il critico Schumann, cosı` bravo nello scovare immagini e significati nelle musiche di altri, non abbia commentato anche le WieckettenNovelletten. Le Romanze op. 28 (1839, 1840) risalgono all’ultimo, fecondissimo anno in cui Schumann compoeva ancora soltanto per pianoforte. Tre pezzi, molto diversi fra di loro. Il secondo, in Fa diesis, corrisponde a cio` che si intende comunemente per romanza: una melodia intensamente lirica, nel registro centrale dello strumento che evoca la calda voce di baritono, con un accompagnamento oscillante che la avvolge. La strumentazione pianistica sfrutta la natura fisiologica dei pollici per portare automaticamente in primo piano la melodia. E la Romanza, pur breve, offriva ai pianisti l’occasione di sfoggiare le qualita` di tocco cantabile in una misura molto alta. I pianisti non si lasciarono sfuggire in passato l’occasione. Ma l’evoluzione del recital, che escluse di fatto dal repertorio i pezzi brevi, fece cadere nel dimenticatoio questo gioiello. L’alternativa, per i concertisti del Novecento, sarebbe stata infatti di eseguire per intero l’op. 28. La prima e la terza Romanza non erano pero` attraenti quanto la seconda. La prima, in si bemolle, e` in pratica uno studio di agilita` in forma di scherzo con trio, la terza, in Si, e` un rondo` con quattro temi in cui due episodi sono indicati come Intermezzo I e Intermezzo II. Il pezzo e` animato e vivace, ma l’invenzione musicale non raggiunge secondo me una varieta` tale da reggere costantemente una forma cosı` complessa. I Pezzi op. 32 (1838-1839, 1841) facevano parte del repertorio di Emil Gilels, unico grande pianista che li eseguı`, e sono percio` sconosciuti. In passato fu molto popolare il terzo, Romanza, che evocava non il salotto che viene solitamente associato a questo termine ma il mondo cavalleresco (la didascalia generale e` ‘‘Molto rapido e con bravura’’). Oggi anche la Romanza e` stata dimenticata e molti ascoltatori ignorano l’esistenza di una op. 32 di Schumann. La raccolta e` composita: lo Scherzo (n. 1) e la Romanza (n. 3) si inseriscono nel grande filone romantico del piccolo pezzo da salotto, la Giga (n. 2) e la Fughetta (n. 4) appartengono invece al filone dell’arcaismo. L’organizzazione tonale dei quattro pezzi – Si bemolle, sol, re, sol – e` organica, ma io non vedo nell’op. 32, o forse mi sfugge, l’unita` ciclica che vi vedono altri. Potrei dire scherzando che l’elemento che unisce i quattro brani e` il loro ritmo saltellante. Il che e` un po’ poco, per un ciclo. L’Album per la gioventu` op. 68 (1848, 1849) e` formato da quarantaquattro pezzi in due fascicoli, rispettivamente di diciotto e di venticinque, tutti,

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tranne tre, con titolo caratteristico. I pezzi del primo fascicolo sono disposti in ordine progressivo di difficolta`, e percio` sono i piu` frequentemente proposti ai principianti. Pezzi caratteristici, dicevo, quasi sempre melodici. Ma non mancano corali, canoni, un preludio e fughetta. Furono e sono popolarissimi fra i dilettanti il n. 6 (Il povero orfanello), il n. 8 (Cavaliere selvaggio), il n. 10 (l’immortale Contadino allegro che ritorna dal lavoro), il n. 11 (Siciliana), il n. 12 (Servo Ruperto e` la traduzione letterale; il significato e` quello di Babau), il n. 16 (Primo dolore), il n. 23 (Cavaliere), il n. 29 (Lo sconosciuto). Ma i due tetri pezzi intitolati Inverno (n. 38 e n. 39) figurarono nel repertorio di Arturo Benedetti Michelangeli. I pezzi che non ho citato non sono di una qualita` inferiore. Possiamo anzi dire che la loro genialita` non riguarda soltanto l’arte ma anche la didattica, l’approccio all’arte. E questo e` un carattere molto raro. Fino al 1834 Schumann scrive soprattutto per pianoforte, dal 1834 al 1839 scrive esclusivamente per pianoforte, dal 1840 in poi torna al pianoforte episodicamente e senza piu` sentirlo come impegno creativo primario. Nel 1851, fatta una bella pulizia nei suoi cassetti, vi trova trentaquattro piccoli pezzi composti fra il 1832 e il 1849, in parte destinati dapprima ai suoi cicli e poi scartati, in parte mai utilizzati. Divide i trentaquattro pezzi in due raccolte che pubblica come Bunte Bla¨tter op. 99 (Fogli colorati, 1836-1849, 1852) e Albumbla¨tter op. 124 (Fogli d’album, 1832-1845, 1854). Dei quattordici brani riuniti nell’op. 99 otto furono raggruppati in due piccoli cicli (rispettivamente di tre e di cinque pezzi), alcuni degli altri ebbero dei titoli caratteristici. Una raccolta di frammenti, insomma, a cui s’attaglia perfettamente la definizione, in quel caso impropria, che Schumann aveva trovato per i Preludi op. 28 di Chopin: ‘‘Rovine e penne d’aquila’’. Dell’op. 99 furono molto noti in passato il tristissimo n. 4, variato da Clara Wieck nella sua op. 20 e da Brahms nell’op. 9, e il selvaggio n. 5, in parte utilizzato da Brahms nelle stesse variaazioni. La ‘‘scoperta’’ dell’op. 99 come ciclo, non organico ma poeticamente coerente, spetta a Sviatoslav Richter, che fu seguito da altri pianisti. Schumann, fantasioso come sempre, aveva l’intenzione di cambiare il colore delle pagine per ogni pezzo dell’op. 99, ma le difficolta` di stampa lo costrinsero ad abbandonare il progetto. I venti pezzi dei Fogli d’album hanno tutti un titolo, o generico (Valzer, Improvviso, ecc.) o specifico (Dolore senza fine, Visione, ecc.). La raccolta, tutta di grande qualita` artistica, e` stata ed e` molto sfruttata in sede didattica ma non in sede concertistica. In passato veniva talvolta eseguito in pubbli517

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Sette Pezzi in forma di Fughette op. 126

co il dolcissimo pezzo n. 16, Schlummerlied (Ninna-nanna), composto nel 1841 da Schumann per la la sua primogenita. Tre dei Fogli d’album (numeri 4, 11 e 17) avevano fatto parte della prima redazione del Carnaval op. 9 e sono quindi basati sul nome ASCH. Si ignorano le motivazioni che spinsero Schumann a comporre i Sette Pezzi in forma di Fughette op. 126 (1853, 1855), ma e` facile immaginare che dopo l’Album per la gioventu` e le Sonate per la gioventu` egli intendesse completare con l’insegnamento del contrappunto il corpus dei suoi lavori a destinazione didattica, legati in origine al desiderio di educare la sua numerosa prole. Le Fughette, tranne la terza e la sesta, non sono di difficile esecuzione e sono di espressione semplice e diretta. Si tratta in realta`, come nel caso delle Fughe op. 72, di pezzi di genere in stile contrappuntistico, che superano cosı` la dimensione dell’arcaismo, inevitabilmente collegato, alla meta` dell’Ottocento, alla stessa idea di fuga. Un segno evidente del

non-arcaismo risiede nel fatto che le Fughette in modo minore non si concludono, come di norma nella musica barocca, in modo maggiore. Schumann destino` al pianoforte a quattro mani quattro raccolte di pezzi, oltre alle giovanili Polacche (1828, 1933) che riutilizzo` in parte nei Papillons op. 2: i Bilder aus Osten op. 66 (Immagini d’Oriente, 1846, 1848), sei ‘‘improvvisazioni’’ ispirate a un racconto arabo tradotto da Ru¨ ckert, i Pezzi per bambini piccoli e grandi op. 85 (1849, 1850), dodici brani che si inseriscono nel filone dell’Album per la gioventu` dell’anno precedente, le Scene di ballo op. 109 (1851, 1851), formate da sette danze incorniciate da un Preambolo e da una Passeggiata, e infine il Ballo di bambini op. 130 (1853, 1853), formato da sei danze. Musiche, tutte, deliziose, ma nate nell’ambito familiare e che non si allineano sul versante dell’impegno compositivo e spirituale con cui Schubert aveva affrontato la scrittura per due esecutori su un solo pianoforte.

I Rondo` L’Arabeske op. 18 (Arabesco, 1839, 1839) nasce nello spirito dell’improvvisazione toccatistica barocca: armonie concatenate che sprigionano nella parte superiore una elementare melodia. Quello che potrebbe essere un semplice preludio diventa pero` il tema principale di un pezzo che puo` essere classificato sia come rondo` che come scherzo con due trii. La struttura e` in cinque episodi (A-B-AC-A) e coda, il tono espressivo corrisponde in tutto e per tutto alla didascalia ‘‘leggero e tenero’’ che si trova all’inizio, ma dopo il primo mormorante tema il secondo tema, melodico e appassionato, e il terzo, ritmico e alla marcia, conferiscono varieta` al tutto. La coda, trasognata, riprende l’atmosfera dell’ultimo brano delle Scene infantili, Il Poeta parla. E il miracoloso equilibrio sia formale che drammaturgico ha fatto sı` che l’Arabesco, pur tecnicamente non difficile, venisse scelto da molti virtuosi.

Il Blumenstu¨ ck op. 19 (Pezzo di fiori o fiorito, 1839, 1839) e` costituito da nove episodi collegati. La forma e` di rondo` con quattro temi e introduzione, ma ogni episodio e` numerato. Senza farne una questione nominalistica si potrebbe anche classificarlo come polittico, sebbene del polittico non abbia una caratteristica essenziale, e cioe` la mancanza di simmetrie architettoniche. La forma e` in pratica come un cartone preparatorio per il primo movimento del Carnevale di Vienna, il tono espressivo, intimo e raccolto, e la strumentazione sono quelli del quinto brano delle Scene infantili, Felicita` perfetta. La tonalita` principale di re bemolle maggiore contribuisce a creare attraverso il timbro un colore delicatissimo, una incantevole tinta di pastello. Solo Horowitz, fra i grandi interpreti di Schumann, ebbe in repertorio il Blumenstu¨ck, che e` quindi in pratica sconosciuto.

Le Sonate Tra i generi della letteratura pianistica classica la sonata era verso il 1830 quello piu` difficile da dominare, sia perche´ carico e onusto di storia, sia perche´ si trattava di padroneggiare quattro forme diverse (l’allegro di sonata, lo scherzo con trio, la canzone tripartita e il rondo`), sia perche´, infine, la recente tradizione beethoveniana imponeva di dare all’insieme una unita` poematica, e quindi una drammaturgia. Schumann comincio` a misurarsi con la sonata fin dal 1831: lavoro` per due anni ai due primi movimenti di una Sonata in La bemolle

e poi rinuncio`. Ritento` nel 1833 con una Sonata in fa indicata come n. 4 e la trascino` per anni senza arrivare a capo del problema. Porto` invece a buon fine una Sonata iniziata nel 1833 e sulla quale lavoro` per due anni. Ma gia` prima aveva risolto per lo meno il compito piu` difficile. La Toccata op. 7 (1833, 1834) e` in forma di primo movimento di sonata, con esposizione di due temi di carattere contrastante, sviluppo, riesposizione, coda in tempo piu` mosso. Classica la forma, classiche le proporzioni, classico il piano tonale, classico il ritor-

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Grande Sonata op. 11

nello dell’esposizione, che viene quindi ripetuta, classico l’inserimento nello sviluppo di un breve fugato. L’autodidatta Schumann dimostra cosı` di essersi impadronito dello schema della tradizione senza cadere in un impersonale accademismo. Intitolato in un primo abbozzo del 1830 Esercizio fantastico, il pezzo fu poi denominato Toccata non nel senso barocco ma nel senso moderno che aveva assunto con Carl Czerny e con Charles Meyer, e cioe` di moto perpetuo: anche il secondo tema, lirico e cantabile, e` inserito sullo scorrimento di un movimento frusciante in suoni rapidi. Il primo tema, in doppie note, nasce da un movimento fisiologico di quattro dita della mano destra (pollice e mignolo, alternati con indice e anulare), anche se poi il disegno diventa meno ‘‘naturale’’ e la realizzazione tecnica si fa piu` difficoltosa. Nel corso del pezzo si trovano un passo d’ottave che provoca facilmente stanchezza e un episodio con salti che al tempo del disco a 78 giri, non correggibile, impedı` persino a un virtuoso della stazza di Joseph Lhe´vinne di suonare con esattezza tutte le note. L’esecuzione della Toccata e` tradizionalmente ipervirtuosistica, ma secondo me questa impostazione forza la composizione verso una dimensione che non le e` propria. La scrittura pianistica denuncia infatti in molti momenti una origine organistica, come una trascrizione da un originale per organo con pedaliera e piu` tastiere e piu` registri. E se la Toccata e` pensata organisticamente il tempo diventa necessariamente meno rapido, l’esecuzione non aggressiva, e la tecnica piu` agevolmente dominabile. L’Allegro in si op. 8 (1831, 1837) era inteso in origine come primo movimento di una sonata, una sonata che non venne mai completata. Che il progetto della sonata fosse ambizioso lo si capisce e dall’impianto architettonico dell’Allegro e dal fatto che l’Allegro stesso si apra con una massiccia e ardita cadenza contenente un imperioso ‘‘motto’’ di tre suoni che appare due volte. Questo motto, ‘‘tradotto’’ in lettere secondo la denominazione tedesca, da` HCF nella prima formulazione e CDE nella seconda. Se si tratta di criptografia bisogna ammettere che nessuno e` mai riuscito a svelarne il significato. Ma probabilmente la criptografia non c’entra affatto; si tratta invece di una cellula motivica che ritorna piu` volte nel corso del pezzo, sebbene non sia sempre facilmente percepibile. Oltre a questa si trovano nella cadenza iniziale altre due cellule motiviche che vengono sfruttate nella composizione. Il paradosso dell’Allegro op. 8, geniale lavoro dello Schumann ventunenne, e` dunque che il carattere del pezzo e` apparentemente improvvisatorio ma che la costruzione e` invece basata su

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un minuzioso incastro di pochi elementi. Schumann aveva avuto qualche lezione di composizione da Heinrich Dorn, un musicista di solidissima formazione che, trovandosi a insegnare il contrappunto a un giovanotto di vent’anni, non aveva fatto percorrere all’allievo la solita trafila del sacramentale Gradus ad Parnassum di Fux ma lo aveva guidato nell’analisi delle musiche di Beethoven. E l’Allegro op. 8, scritto durante il breve periodo degli studi con Dorn, e` per l’appunto il riflesso di queste analisi: Schumann imparo` da subito a lavorare secondo la raffinata tecnica motivica degli ultimi Quartetti di Beethoven. Questo l’ordito della composizione. E proprio questa singolarita`, proprio questa vocazione allo sperimentalismo in un creatore appena agli esordi e` oggi per noi il maggior motivo di interesse. L’Allegro, esteticamente e poeticamente non cosı` perfetto come altri lavori, e` invece essenziale per capire l’evoluzione di Schumann ed e` estremamente significativo per la sua collocazione storica. Con la Grande Sonata in fa diesis op. 11 (18331835, 1836), ‘‘dedicata a Clara Wieck da Florestano ed Eusebio’’, Schumann dava il via alla prima importante sonata del periodo romantico. All’origine del pezzo c’e` un Fandango, scritto nel 1832, che diventa il materiale di una parte del primo movimento (lo si ascolta all’inizio dell’Allegro vivace che arriva dopo l’introduzione in tempo lento). Il carattere della danza spagnola viene modificato e neutralizzato da un contesto in cui quello che domina e` il problema della forma. Schumann sceglie il tipo di primo movimento con introduzione che trovava in Beethoven, ma mai in sonate in quattro movimenti. L’op. 11 di Schumann, sotto questo aspetto, rappresenta dunque una assoluta novita` storica. Altra novita` e` rappresentata dal fatto che il tema dell’introduzione viene citato nello sviluppo, senza cambiamento di tempo (come avviene invece nella Patetica di Beethoven). Ultima, importante novita` formale: il secondo tema, ovviamente contrastante con il primo, e` collocato alla fine invece che ai tre quarti della esposizione, acquistando in tal modo il significato di conclusione, di pacificazione, anziche´ di contrasto drammatico. Brevissimo, ma di mirabile compattezza e densita` lirica, e` il secondo movimento, un’Aria tripartita, trascrizione per pianoforte solo di un Lied per canto e pianoforte, An Anna, composto nel 1828. Formalmente piu` complesso il terzo movimento, Scherzo e Intermezzo, nel quale la forma tradizionale dello scherzo con trio viene rinnovata in modo impensabile mediante l’inserzione dell’Intermezzo. Lo Scherzo, cioe`, e` di normali dimensioni, con prima parte, trio in tempo piu` mosso, ripresa 519

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della prima parte. Ma quando mancano quattro battute alla fine irrompe l’Intermezzo, in tempo molto piu` lento e di carattere ironico (‘‘alla burla, ma pomposo’’, dice la didascalia). L’Intermezzo e` di forma elementare (due parti con ritornello, di otto e di dodici battute) ed e` seguito da una cadenza-recitativo, sul tema dell’Intermezzo, che pare una parodia del recitativo dei violoncelli nel finale della Nona Sinfonia di Beethoven, una parodia che un commentatore dalla pelle delicata definı` ‘‘citazione blasfema’’. Il pezzo si conclude con la ripresa dello Scherzo (senza trio). La scrittura dello Scherzo e` sinfonica, e nella cadenza dell’Intermezzo una innocente scalettina e` indicata come ‘‘Quasi Oboe’’. Il recitativo, come ho appena detto, richiama un caratteristico uso dei violoncelli (poi di violoncelli e contrabbassi in ottava), il tema dell’Intermezzo potrebbe essere affidato alla grassa sonorita` di sedici violini primi, e il trio riproduce una tipica disposizione orchestrale (due oboi, fagotto, pizzicati di violoncelli e contrabbassi). Ma tratti di scrittura orchestrale erano presenti anche nei primi due movimenti (ad esempio, il basso del fandango e` fagottistico, il secondo tema dell’Aria e` violoncellistico, ecc. ecc.). E la scrittura sinfonica si presenta anche in vari tratti del finale: un passo indicato ‘‘quasi pizzicato’’, richiami a rulli di timpani e grancassa, passi violoncellistici, melodie oboistiche. Siamo gia` nel campo delle ricerche che culmineranno negli Studi sinfonici, e cioe` nel campo della differenziazione timbrica del suono del pianoforte, resa possibile dalla adozione di modi diversificati di attacco del tasto. Proprio in quegli anni Liszt scriveva: ‘‘Noi possiamo suonare gli accordi come un’arpa, cantare come strumenti a fiato, staccare, legare, eseguire sul pianoforte migliaia di passi diversissimi che prima non erano possibili che su molti differenti strumenti’’. E persino un classicista come Kalkbrenner consigliava nel suo Metodo, pubblicato all’inizio degli anni trenta, di esercitarsi a eseguire sul pianoforte parti di altri strumenti. Dalla imitazione dell’orchestra, o dall’adozione di suggestioni orchestrali nasce in realta` una ricerca specificatamente pianistica, che porta il compositore a disporre di una tavolozza timbrica del pianoforte: superata l’imitazione dell’orchestra, che e` ancora presente nella Sonata op. 11, avremo la timbrica variegata e policroma degli Studi sinfonici op. 13, che tocchera` limiti preimpressionistici nell’undicesimo Studio e nell’ultima delle variazioni espunte dalla versione definitiva dell’op. 13. Il finale della Sonata e` saldamente strutturato in due parti ma da` l’impressione di una forma caotica perche´ il numero dei temi e` insolitamente ele520

Sonata op. 14

vato e manca una sezione centrale: dalla esposizione si passa direttamente alla riesposizione con un ordine tonale diverso. Liszt, che recensı` la Sonata sulla Gazette Musicale di Parigi nel 1837, fece una riserva: ‘‘Il finale e` di una grande originalita`. Tuttavia, per quanto logico sia l’andamento delle idee principali e nonostante il trascinante calore della perorazione, l’effetto generale di questo brano e` spesso spezzato, interrotto. Forse la lunghezza degli sviluppi contribuisce a creare incertezza sull’insieme. Forse anche il senso poetico avrebbe bisogno di essere indicato. Il senso musicale, per quanto completo in se stesso, non basta del tutto, secondo noi, alla comprensione di tutti i dettagli. Si presenta qui il grande problema della musica poetica e pittorica, con o senza programma [...]’’. Senza voler qui risolvere il problema, ma dando ragione a Liszt, diro` che a me il finale della Sonata da` l’impressione di una kermesse, di una festa popolare medievale in cui troviamo l’agitazione della folla, gli acrobati, il cieco che canta accompagnandosi con ghironda, le dame, i cavalieri, la plebe. Ma non saprei collegare tutto cio` con i tre movimenti che precedono il finale. La Sonata in fa op. 14 (1835-1836, 1836) era in origine in quattro movimenti, ma con due Scherzi collegati (come la Novelletta op. 21 n. 8). La struttura era del tutto atipica, tanto che Schumann propose all’editore il titolo Concerto. Il titolo aveva un significato se lo si pensava in senso traslato, press’a poco come ‘‘pezzo da concerto’’, ma se veniva inteso in riferimento al genere del concerto per solista e orchestra confondeva le idee all’acquirente, anche perche´ il concerto per pianoforte e orchestra era in tre tempi, non in quattro (l’inclusione dello scherzo fu un’idea che Schumann avanzo` in una recensione del 1839 e che fu realizzata poco dopo da Litolff). Si aggiunga che, secondo le consuetudini editoriali dell’epoca, di un concerto non veniva pubblicata ne´ la partitura completa ne´ la riduzione per due pianoforti, ma solo la parte del pianoforte con, in piccolo, una traccia molto limitata della parte orchestrale. Il titolo Concerto sarebbe dunque stato sicuramente inteso come concerto per pianoforte e orchestra in riduzione per pianoforte solo. L’editore, preoccupandosi, appunto, di non confondere le idee al potenziale acquirente, convinse Schumann a espungere i due scherzi e a modificare il titolo in Concerto senza orchestra. I risultati non furono pero` quelli sperati. Gia` il dedicatario Ignaz Moscheles, nella lettera di ringraziamento, e poi Liszt nella recensione pubblicata nel 1837 notavano che la scrittura pianistica aveva ben poca attinenza con la scrittura di un

Fantasia op. 17

concerto. In effetti, se si paragona il Concerto senza orchestra di Schumann con l’Allegro da concerto op. 46 di Chopin (1842) o con il piu` tardo Concerto di Alkan (1859) si capisce subito dove stia la differenza. Quella di Schumann e`, piuttosto, una scrittura sinfonica, affine in parte a quella degli Studi sinfonici ma generalmente piu` densa. Per lo meno, cio` vale per il primo movimento (e per i due Scherzi espunti), vale un po’ meno per le Quasi Variazioni, vale pochissimo per il finale, che e` difficilissimo e di difficolta` nettamente ‘‘pianistica’’. E` dunque assai malagevole, al di la` del titolo, capire che cosa voglia significare Concerto senza orchestra. A me sembra che il problema si chiarisca soltanto se, come dicevo prima, si pensa che il titolo equivalga a ‘‘pezzo da concerto’’. Il termine ‘‘concerto’’ veniva gia` impiegato negli anni trenta con un duplice significato, come genere musicale e come manifestazione pubblica con esecuzioni musicali (detta fino a un passato molto recente accademia). Alla meta` degli anni trenta si stava preparando la fondamentale svolta del costume da cui sarebbe uscito il recital inventato da Liszt nel 1840: la musica per pianoforte solo, appannaggio dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, con il recital veniva messa a disposizione della media e della piccola borghesia che nel pianoforte cominciavano a vedevre uno status symbol (cinquant’anni piu` tardi Flaubert, nel Dizionario dei luoghi comuni, avrebbe detto: ‘‘Pianoforte. Indispensabile in un salotto’’). Schumann, con la sue ricerche sulla strumentazione pianistica di tipo orchestrale e con il Concerto senza orchestra coglieva dunque, pur non essendo personalmente un concertista, un problema sociologico che stava emergendo e che avrebbe di lı` a poco trovato la sua soluzione. Il centro sia emotivo che strutturale del Concerto senza orchestra e` il secondo movimento, Quasi Variazioni. Andantino di Clara Wieck. Clara era anche compositrice, come lo erano tutti i pianisti concertisti del tempo (praticamente non esisteva ancora la ‘‘specializzazione’’ del pianista-interprete), e con le variazioni Schumann faceva in apparenza un ulteriore omaggio alla sua fidanzata, dopo quelli dell’op. 5 e dell’op. 6. Ma proprio il Concerto senza orchestra ci rivela qualcosa dei rapporti sotterranei fra Clara e Robert. Quando il Concerto op. 7 di Clara venne pubblicato Robert non lo recensı` nella sua rivista e affido` l’incarico a un collaboratore, Carl Banck (che avrebbe poi cercato di soffiargli la fidanzata), raccomandandogli per di piu` la brevita`. Clara si risentı` fortemente. Non diciamo che Schumann non stimasse la qualita` di Clara come compositrice: certamente non la incoraggio` e non la sostenne quanto lei avrebbe

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desiderato. Anzi, assumendo in proprio alcuni temi di Clara diede la dimostrazione di quel che di molto meglio si poteva fare. E si poteva davvero far molto. Dal tema di Clara nasce il secondo movimento dell’op. 14, una delle piu` intense e schumanniane pagine di Schumann. E dall’incipit del tema nascono il primo tema del primo movimento e il secondo dei due Scherzi. Primo movimento in forma-sonata tipica, ma che alterna momenti sinfonici e momenti di quasi-improvvisazione (non immemori, talora, del toccatismo bachiano). Il movimento centrale, sebbene intitolato Quasi Variazioni, e` un regolarissimo tema con quattro variazioni. Il finale e` un moto perpetuo vorticosissimo (‘‘Prestissimo possibile’’), interrotto appena, poco prima della fine, da una breve, parossistica cadennza. Nel 1853 Schumann ripubblico` il Concerto senza orchestra senza cambiare il numero d’opera ma mutando il titolo in Terza Grande Sonata, modificando molti particolari e inserendo come secondo movimento il secondo dei due Scherzi espunti nel 1836. Abbiamo cosı` una discrasia nei numeri d’opera, con una Prima Sonata op. 11, una Terza Sonata op. 14 e una Seconda Sonata op. 22. Il primo dei due Scherzi del 1835-36 venne pubblicato dopo la morte di Schumann. Il pezzo, tonalmente mobilissimo e fiabesco di espressione, e` una delle piu` personali creazioni di Schumann. Purtroppo e` rimasto ignoto al pubblico. Pressoche´ ignota al pubblico e` del resto la Sonata, che venne eseguita da grandi pianisti senza riuscire a bucare mai lo schermo della popolarita`. Fra i suoi interpreti sono da citare Johannes Brahms, che ne tenne la prima esecuzione nel 1862, Hans von Bu¨low, Josef Hofmann, Rudolf Serkin, Paul Baumgartner, Jorge Bolet, Vladimir Horowitz. Maurizio Pollini fu l’unico a riproporre la versione Concerto senza orchestra, Grigory Sokolov l’unico a riprendere la versione con i due Scherzi collegati. Appena terminata l’op. 14 Schumann inizio` una Sonata che abbandono` ben presto e mise in cantiere la Fantasia op. 17 (1836-1838, 1839), intitolandola per il momento Grande Sonata. In tutti i compositori le vicende biografiche si mescolano con l’evoluzione creativa e talvolta ne determinano, o per lo meno ne favoriscono gli indirizzi. Ma in Schumann, specie nel giovane Schumann, le opere assumono molto spesso l’aspetto di diario sublimato delle vicende esistenziali. E nella Grande Sonata, divenuta tre anni dopo Fantasia, si intersecano diverse vicende che nella vita di Schumann ebbero un peso molto rilevante. Nel 1836 il bollente Robert era tutto teso nella conquista di Clara Wieck, diciassettenne graziosissima pianista, 521

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figlia dell’insegnante con cui Schumann aveva studiato e con il quale aveva fondato un’importantissima rivista di musica. Papa` Wieck non ci penso` sopra un attimo, a mettere brutalmente alla porta l’antico allievo e sodale e a tagliare tutte le vie di comunicazione fra i due colombi. ‘‘Per capire la Fantasia’’, scrisse Schumann a Clara nel marzo del 1838, ‘‘bisogna che tu ritorni a quell’antica estate del 1836 in cui avevo rinunciato a te. La prima parte e` senza dubbio cio` che ho scritto di piu` appassionato, un delirante lamento verso di te’’. Per restare in carattere, Schumann aveva intitolato il primo movimento Rovine. E nel primo movimento aveva reso epica la sua personale vicenda rivivendola al modo di una saga: non solo nella sezione centrale, ‘‘in tono di leggenda’’, ma in tutta la vasta composizione, il cui primo tema e` modellato come una melodia di una canzone popolare tedesca su quattro versi con ripetizione del quarto. Nel primo movimento della Fantasia si puo` dunque vedere un riflesso dello sforzo di riappropriazione della cultura popolare che cosı` grande parte occupa nel romanticismo tedesco, tanto che lo spunto autobiografico – l’amore contrastato di Clara e Robert – diventa narrazione di una antica leggenda sempre attuale invece che confessione di un intimo dramma. Siccome pero`, alla fine, le cose non volsero al tragico, il secondo movimento, una marcia baldanzosa e travolgente con una chiusa talmente difficile tecnicamente da mettere alla frusta qualsiasi esecutore, ebbe il titolo Trofei. E l’estatico terzo movimento fu intitolato Costellazione, e poi Palme di trionfo: esattamente come se in un’antica metamorfosi di Ovidio i due innamorati fossero stati trasformati in alberi maestosi o in astri. Nella prima versione della Fantasia l’ultimo movimento si interrompeva poco prima della fine per lasciare lo spazio a una citazione della conclusione del primo movimento. La citazione fu poi eliminata, ma il suo valore simbolico appariva certo, sebbene non chiaro. Un secolo dopo che la Fantasia era stata composta il critico inglese Gerald Abraham scoprı` (o credette di scoprire: non tutti sono d’accordo con lui) che il frammento conclusivo del primo movimento, peraltro gia` udito in precedenza, derivava dal sesto Lied del ciclo di Beethoven All’amata lontana. Senza dubbio, se non e` vero – io credo che sia vero – e` ben trovato. Per di piu` , Beethoven ha probabilmente a che vedere con la Fantasia in quanto ispiratore del piano architettonico generale: la sua Sonata quasi una Fantasia op. 27 n. 2 inizia, insolitamente, con un Adagio, e la Fantasia di Schumann termina, insolitamente, con un Adagio. Se poi consideriamo il fat522

Fantasia op. 17

to che l’op. 27 n. 2 fu destinata a una fanciulla, Giulietta Guicciardi, furiosamente amata da Beethoven (e che disgraziatamente lo pianto` in asso), i paralleli simbolici aumentano ancora di piu` . Ma Beethoven entra nella creazione della Fantasia anche ad altro titolo. Nel 1836 era stata lanciata una sottoscrizione per elevare a Bonn un monumento a Beethoven nel settantacinquesimo della nascita (1845). Nel 1837 Schumann scrisse al suo editore dicendo: ‘‘Florestano ed Eusebio vogliono contribuire all’erezione di un monumento a Beethoven e hanno scritto percio` un lavoro che porta il titolo Rovine, Trofei, Palme di trionfo – Grande Sonata per il monumento commemorativo di Beethoven, scritta da –. Ho un’idea della costruzione e ho immaginato qualcosa di molto speciale, adeguato all’importanza dell’oggetto. Una copertina nera, o meglio ancora una rilegatura con fregi in oro e con scritte, in caratteri cubitali, le parole Obolo per un monumento. Sul frontespizio un disegno di foglie di palma dovra` forse incorniciare le parole della prima riga... La Sonata, per parte sua, e` tale da farsi sufficientemente notare’’. Per rendere piu` esplicita l’intenzione Schumann aveva citato nel finale della Grande Sonata l’amatissimo Allegretto della Settima Sinfonia. La pubblicazione, per ragioni non note, non ebbe pero` luogo. Nel 1839 la sottoscrizione aveva raccolto 424 franchi, mentre la spesa preventivata era di circa 50.000. Liszt, avuta notizia della cosa, proclamo` a gran voce la sua indignazione e dichiaro` che si sarebbe accollato lui, per intero, la spesa. Schumann pubblico` allora la Grande Sonata, privata delle citazioni beethoveniane dell’ultimo movimento, intitolata Fantasia, senza sottotitoli caratteristici e con un’epigrafe da Friedrich Schlegel: ‘‘Attraverso tutti i suoni che vibrano / Intorno al confuso sogno della terra / Una nota sussurrata risuona / Per quelle orecchie che attente ascoltano’’. Il dedicatario era Franz Liszt. Liszt, molto lusingato, per ricambiare la dedica aspetto` di avere in mano una composizione degna di quella di Schumann. E solo nel 1854 spedı` finalmente a Schumann la Sonata in si minore fresca di stampa. Schumann non la vide: era ricoverato da alcuni mesi in una clinica per malati di mente. Clara, moglie di Schumann dal 1840, lesse la Sonata insieme con Brahms, e rimase orripilata a tal punto che neppure mando` a Liszt un formale ringraziamento. Anzi, quando ripubblico` la Fantasia, molti anni dopo la morte del marito, cancello` la dedica a Liszt e la sostituı` con una dedica a se stessa. La Fantasia doveva essere una cosa a due, due promessi sposi diventati dopo aspre vicende alberi maestosi o astri del firmamento. Aveva torto, Clara? Chissa`!

Gli Studi

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La gestazione sia delle Sonate che della Fantasia, come abbiamo visto, fu per un creatore fecondissimo e rapidissimo come Schumann insolitamente lunga e laboriosa. Lunga e laboriosa fu altresı` la gestazione della Sonata n. 2 in sol op. 22 (18331838, 1839), della quale esistono due versioni, con due finali completamente diversi. Il finale della prima versione, Presto passionato (1835), pubblicato postumo, viene talvolta scelto da qualche interprete o viene eseguito, come faceva Horowitz, come pezzo indipendente. Il Presto, pieno di slancio e di ardore, e ben meritevole del ‘‘passionato’’ che lo contraddistingue, e` pero` di lunghezza eccessiva rispetto ai tre movimenti che lo precedono, e bisogna cosı` dare ragione a Clara che, giudicandolo troppo lungo e di esecuzione troppo difficile, prego` il fidanzato di sostituirlo. Il primo movimento e` un precipitoso moto perpetuo, interrotto da due brevi oasi liriche – il secondo tema –, che tuttavia, con le loro sincopi e i loro ritmi protetici, sembrano affannose soste per riprendere fiato durante la fuga. La struttura e` lineare e concisa. E` stato notato piu` volte che, dopo aver indicato all’inizio il tempo ‘‘il piu` presto possibile’’, nella coda Schumann non arretra di fronte al paradosso di prescrivere un ‘‘piu` presto’’ e poi un ‘‘ancora piu` presto’’. Affannato, anzi, febbrile, il primo movimento e` come una corsa vorticosa che termina con una caduta in un orrido o in un gorgo mortale. Il secondo movimento e` la trascrizione di un Lied del 1827-1828, In Autunno. Al breve tema (undici battute soltanto) fanno seguito due variazioni, la ripresa del tema e il suo svanire in una coda di incantevole vaghezza. La strumentazione e` molto densa e nello stesso tempo molto trasparente, e raggiunge un miracoloso equilibrio fra questi due estremi. Lo Scherzo e` addirittura tacitiano nella sua concisione: scherzo e due trii in due sole pagine di musica, con un’espressione febbrile che rinnova le vertigini del primo movimento. Il secondo finale rispecchia interamente il primo movimento: moto perpetuo con due oasi liriche (emotivamente distese e dolci, questa volta) e una coda travolgente (‘‘Quasi cadenza prestissimo’’). La Sonata n. 3, malgrado le cure che le dedicarono e che le dedicano alcuni grandi interpreti, rimane pressoche´ ignota al pubblico. La Sonata n. 1 e` entrata in repertorio e viene regolarmente eseguita, ma non e` diventata veramente popolare,

probabilmente a causa delle caratteristiche, di cui ho detto, del suo finale. La Sonata n. 2 e` invece popolarissima. La sua brevita` e la sua concisione, che non escludono la densita` dei contenuti, e l’espressione esaltata e tesa, l’espressione di una oscura minaccia incombente da film dell’orrore, hanno sempre colpito il pubblico. L’esecuzione della Sonata n. 2 e` pero` difficile, o meglio, piu` che difficile, e` piena di tranelli, pericolosa. Capita percio`, anche con grandi pianisti, e soprattutto se il pezzo e` collocato in apertura di programma, di sentire precipitazioni non previste e momentanee perdite di controllo. Ma il fascino ‘‘morboso’’ della Sonata e` irresistibile e gli interpreti la affrontano con entusiasmo, ... salvo poi a pentirsi per qualche minuto quando le note gli scappano via come cavalli imbizzarriti. Con le tre Sonate per la gioventu` op. 118 (1853, 1854), dedicate rispettivamente alle figlie Julia, Elisabeth e Maria, Schumann volle aggiungere un tassello alle sue opere didattiche. Le tre composizioni sono in ordine crescente di difficolta`, e percio` la prima, la piu` semplice di scrittura e di concezione, e` dedicata alla figlia piu` piccola (Julia aveva allora otto anni, Elisabeth dieci e Maria dodici: le gravidanze di Clara erano di una precisione svizzera). Tutte le Sonate sono in quattro movimenti, e ogni volta, dopo il primo movimento, Schumann ritorna all’Album per la gioventu`, cioe` al pezzo di genere con titolo caratteristico (Ninnananna della bambola, Canto della sera, Danza di zingari, ecc.). Il primo movimento della Prima Sonata e` una canzone tripartita (A-B-A), quelli della Seconda e della Terza Sonata sono di concezione arcaica: le aree tonali sono tradizionalissime, e c’e` lo sviluppo, ma la struttura e` monotematica. Il fatto che la musica non sia affatto indegna di un creatore come Schumann non e` pero` sufficiente a garantire la diffusione delle tre Sonate. Per la sede concertistica sono tecnicamente troppo facili e poeticamente non cosı` straordinarie come le Scene infantili, per la sede didattica non vanno piu` in la` dell’Album per la gioventu`. Ragion per cui la didattica, a livello elementare, si e` basata e si basa sulle Invenzioni a due voci di Bach, sulle Sonatine di Clementi e di Kuhlau e su Per bambini di Barto´k, che danno la chiave per entrare in quattro diversi mondi musicali.

Gli Studi L’inattesa apparizione al di la` delle Alpi di Paganini non solo suscito` una frenesia nel pubblico ma ebbe forti conseguenze nel campo della letteratura pianistica. Il vecchio Cramer e il giovane Chopin,

e Moscheles e Hummel e Herz e Heller e Liszt composero musiche su temi di Paganini. E anche Schumann, pur non essendo un pianista militante, rimase colpito dal Genovese al punto di trascriver523

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Studi da Capricci di Paganini op. 3

ne sei pezzi negli Studi da Capricci di Paganini op. 3 (1832, 1832; i Capricci sono i numeri 5, 9, 11 – la sola prima parte –, 13, 19 e 16 dell’op. 1 di Paganini). Schumann considero` in qualche modo incompleto l’originale e vi aggiunse dei semplici accompagnamenti. Lo stile pianistico non solo non e` quello di Chopin o di Liszt, ma non e` neppure quello piu` baldanzoso delle Variazioni op. 1: Paganini viene riportato indietro di trent’anni, viene riportato a Cramer. Manca negli Studi op. 3 il tentativo di inventare una sonorita` pianistica che vada oltre la tradizione classico-biedermeier. Il concetto di trascrizione e` classico: l’originale viene adattato al pianoforte, praticamente senza varianti, e viene aggiunto l’accompagnamento che sul pianoforte e` possibile e che e` impossibile sul violino. Schumann, in realta`, non si discosta dai concetti risaputi che ritroviamo nelle trascrizioni paganiniane di Hummel e di Moscheles, grandi esponenti di una generazione al tramonto. Il paragone fra le rispettive trascrizioni, di Schumann e di Liszt, del Capriccio n. 9 ci dice bene come il solo Liszt abbia avuto di mira la creazione di un effetto sonoro nuovo, non di una integrazione ritmico-armonica dell’originale. Schumann, in definitiva, vede la musica innanzitutto in quanto pensiero, Liszt in quanto materia. Ed e` su questo punto che si gioca, drammaticamente, la posizione ideologica di Schumann nell’ambito del romanticismo, come avro` poi occasione di dire parlando degli Studi sinfonici op. 13. Gli Studi da concerto da Capricci di Paganini op. 10 (1833, 1835; i Capricci sono i numeri 12, 6, 10, 4, 2 e 3) battono altre strade: Schumann non si limita ad aggiungere accompagnamenti ma elabora contrappuntisticamente il suo ‘‘completamento’’. Il paragone fra le rispettive trascrizioni, di Schumann e di Liszt, del Capriccio n. 6 e` di nuovo illuminante. Liszt adotta una scrittura faticosa per l’esecutore, una scrittura che se non ben dominata puo` provocare crampi, mentre Schumann – lo dice nella sua autorecensione – evita il pericolo della stanchezza e aggiunge all’originale paganiniano, semplificato nella scrittura, un contrappunto. Quella di Schumann non e` affatto una mediocre trascrizione. Anzi! Ma e` la negazione, e` l’eliminazione del virtuosismo strumentale paganiniano e postpaganiniano. Schumann si colloca cosı` in una posizione diversa e potenzialmente antagonistica rispetto a Chopin, Liszt, Thalberg, Henselt. Ma nello stesso tempo egli effettua una apertura verso

il virtuosismo del comporre: aggiungere parti reali, non ricreare timbri, fare calcoli polifonici, non coloristici e tanto meno gestuali: non e` piu` l’ombra di Cramer, a delinearsi dietro gli Studi op. 10, ma quella di Bach. E si potrebbe dire percio` che nel romantico Schumann comincia a rivivere l’anima di un antico Kantor tedesco. Schumann fece precedere l’edizione degli Studi op. 3 da una prefazione tecnica, con spiegazioni, esercizi, diteggiature. Il tutto con grande impegno e coscienziosita` . Ma se si pensa che in quel momento Chopin stava completando gli Studi op. 10 si ha un’idea della differenza che passa fra un pianista nato e un pianista virtuale. Schumann riteneva che gli Studi op. 10 toccassero traguardi di difficolta` molto alti e che fossero, appunto, Studi da concerto. Ne´ i concertisti, ne´ i didatti hanno mai adottato gli Studi op. 3 e op. 10, che vengono ascoltati in concerto rarissimamente. Ma il lavoro fatto su Paganini aprı` a Schumann la strada che lo porto` agli Studi sinfonici op. 13. Il pianoforte con pedaliera, succedaneo del clavicembalo con pedaliera che nel periodo barocco veniva usato dagli organisti come strumento da esercitazione, e` un fiume carsico che appare e scompare nella storia del pianoforte. Mozart ne possedeva uno, e probabilmente se ne servı` nel Concerto K 466. Verso il 1840 lo strumento riapparve dopo una lunga assenza. Schumann ne noleggio` un esemplare e lo uso` per eseguire le fughe di Bach. Dopo questo ‘‘assaggio’’ compose i sei Studi op. 56 (1845, 1845), in forma di canone e di stile generalmente austero, che ricercano il colore del tempo antico ma che non rinunciano a qualche abbandono sentimentale e a qualche bizzarria. Schumann li dedico` al suo primo maestro di Zwickau, l’organista Johann Gottfried Kuntsch. Gli Studi op. 56 furono trascritti per due pianoforti da Debussy nel 1891, quando il pianoforte con pedaliera stava di nuovo scomparendo, malgrado gli sforzi di Alkan e di Gounod, e in tale versione vengono talvolta eseguiti. Gli Schizzi op. 58 (1845, 1846) sono quattro brevi pezzi di scrittura molto piu` semplice e che possono facilmente essere ridotti per un normale pianoforte, come fece Clara. Per completezza di informazione citero` infine le sei Fughe sul nome BACH op. 60 (1845, 1847), per organo o pianoforte con pedaliera, frutto di approfonditi studi contrappuntistici e omaggio devoto al Kantor il cui Clavicembalo ben temperato era per Schumann il breviario.

Le Variazioni Le danze e le variazioni erano i generi piu` in voga nella musica pianistica alla fine degli anni venti, e

Schumann, aspirante musicista, inizio` a comporre per il pianoforte destinandogli sei Valzer, che

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Studi in forma di libere Variazioni su un tema di Beethoven

sfrutto` poi nei Papillons op. 2, e le Variazioni sul nome ABEGG op. 1 (1830, 1831), che inaugurarono il suo catalogo ufficiale. Queste Variazioni rappresentano il momento in cui Schumann si accosta al trionfante biedermeier e con esso chiude rapidamente i conti. Da quando, nel 1815, Ignaz Moscheles aveva presentato al cosmopolita pubblico di Vienna, della Vienna in cui si stava svolgendo il Congresso che, come disse Talleyrand, piu` che andare avanti danzava, da quel momento fatidico, dicevo, in cui all’inizio della Quaresima Moscheles aveva eseguito per la prima volta le sue Variazioni sulla marcia di Alessandro per pianoforte e orchestra, la gente amava alla follia le variazioni. Nel 1830 Schumann non sapeva, non sapeva ancora che con le Variazioni su un tema del Don Giovanni op. 2 (1827) Chopin aveva gia` chiuso la storia di un genere appena uscito dall’infanzia. Lo seppe nel 1831, e dopo averle lette scrisse la recensione che diceva ‘‘Giu` il cappello, signori: un genio’’. Le Variazioni op. 1 ci dicono quale fosse la differenza fra l’istinto pianistico di Chopin e di Schumann, e quale fosse la differenza fra la loro preparazione professionale. Tutti sanno quanto fosse geniale Chopin nell’inventare combinazioni di suoni di difficilissima esecuzione ma perfettamente adatte alla tastiera. Il ventenne Schumann compose un pezzo molto piacevole, ben strutturato e vario, ma pianisticamente tutt’altro che nuovo. Il genere della variazione era a quel tempo suddiviso in tre specie, in progressione di crescente difficolta` tecnica: elegante, brillante, di bravura. Le Variazioni di Chopin erano di bravura, quelle di Schumann non potevano neppure aspirare al brillante: erano in tutto e per tutto appartenenti alla specie dell’eleganza. Ma in questa specie, che per le smisurate ambizioni del giovane Schumann rappresentava un limite, erano un capolavoro di gusto, di misura, di delicatezza di sentire, di tenerezza sentimentale: una piccola commedia alla, se il lettore mi perdona l’anacronismo, alla Oscar Wilde. Per quanto riguarda la traduzione in note del nome ABEGG rimando il lettore a quanto ho spiegato a proposito del Carnaval. Schumann costruisce sul nome un valzerino da salotto che sarebbe benissimo potuto entrare in un’opera buffa di Donizetti, e lo varia senza mai forzarne la natura e la collocazione sociale. L’op. 1 e` dedicata ‘‘alla contessa Pauline von Abegg’’, nobile dama che esisteva soltanto nella fantasia di Schumann. Nella realta` esisteva una borghese signorina Meta Abegg di Mannheim, conosciuta a un ballo, alla quale il Nostro rubo` il cognome senza ritenerla degna di figu-

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rare in prima persona in cima alla sua profumata op. 1. La variazione, dicevo, era di moda, e Schumann si impegno` piu` volte nel genere, ma un po’ da principiante, cercando di uscire dalla dimensione dell’eleganza cosı` felicemente azzeccata nell’op. 1. Con le Variazioni sulla Campanella (1831 ca., 1988), cioe` sul tema del finale del Concerto n. 2 di Paganini, che rimasero incompiute, egli tento` il tipo della variazione brillante, cercando anche di farne una versione con orchestra. Le Variazioni su un tema della Preciosa (1831 ca., 1988) non hanno neppure il diritto alla titolazione al plurale: sul tema dell’opera di Weber, Schumann compose una variazione soltanto. Piu` corposo il torso delle Variazioni su un noto valzer di Franz Schubert (1833, 1995), riutilizzate in parte, come gia` ho detto, nel Carnaval. Schumann lavoro` invece lungamente agli Studi in forma di libere Variazioni su un tema di Beethoven (1831-1835, 1977), mettendo insieme un grosso scartafaccio in cui vari revisori e concertisti hanno cercato invano di stabilire un ordine. L’esecuzione completa dura un po’ piu` di venti minuti, e quindi si tratta di un qualcosa di considerevole in termini quantitativi, ma e` molto difficile trovare nel susseguirsi delle variazioni un filo logico che le leghi tutte. Molto considerevole e` pero` anche la qualita` artistica, il che spiega gli sforzi degli interpreti. E Schumann esce qui dalla tipologia biedermeier per accostarsi al Beethoven della maturita`. Il tema e` quello dell’Allegretto della Settima Sinfonia, gia` trattato a variazioni da Beethoven. Schumann, come fara` poi negli Studi sinfonici, si allontana molto dal tema o, per meglio dire, costruisce sulle sue basi delle polifonie, riuscendo persino a trovare dei punti in comune con altri temi di Beethoven (della Sesta e della Nona Sinfonia). La scrittura e` spesso virtuosistica, una variazione e` uno studio contrappuntistico assai intricato. La genialita` dei procedimenti impiegati da Schumann e` persino sconcertante, e solo la sua non ancora completa padronanza delle strutture formali non consolidate attraverso la tradizione gli impedı` di arrivare al capolavoro assoluto del genere. Nel 1833 il ventitreenne Schumann era ancora, almeno nominalmente, studente di Friedrich Wieck e frequentava quasi giornalmente la casa del maestro. La figlia di Wieck, Clara, quattordicenne, aveva studiato la composizione con il Cantor della Chiesa di S. Tommaso, la chiesa di Bach. E Schumann, comportandosi come un maestro all’antica, diede alla ragazzina un basso su cui creare una melodia. Clara non solo trovo` sul basso una bella melodia di carattere popolaresco, ma la vario` bril525

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lantemente nella sua op. 3, Romanza variata, che dedico` a Robert. Su questa datazione esistono in verita` dei dubbi, e qualche studioso pensa che anche la melodia fosse opera di Schumann e che fosse stata composta in anni anteriori. Ma queste questioni non rivestono in questa sede una grande importanza. Schumann vario` a sua volta la Romanza nei suoi Improvvisi su un tema di Clara Wieck op. 5 (1833, 1833), che dedico` al padre di Clara. Il modello di Schumann e` rappresentato dalle Variazioni op. 35 di Beethoven, che esordiscono con il basso da solo e che si concludono con una fuga. Schumann inizio` le sue variazioni con il solo basso, il suo basso, in una forma semplificata rispetto a quella piu` articolata di Beethoven. Fece seguire al basso la Romanza, undici variazioni e la fuga. Il titolo Improvvisi s’attaglia bene all’op. 5 perche´ il seguito delle variazioni non segue un piano architettonico preciso e ragionato ma nasce dagli impulsi del momento, estemporaneamente. I virtuosi del tempo improvvisavano spesso su temi suggeriti dal pubblico, e sappiamo per certo che per lo meno Hummel era solito inserire nella improvvisazione un fugato. Gli Improvvisi di Schumann seguono un piano che e` quello della fantasia che si scatena, con momenti altamente ispirati e momenti convenzionali. La fuga e` basata sul basso trattato come cantus firmus, con un controsoggetto con andamento di giga che rende monotono lo svolgersi della composizione. Se paragoniamo le variazioni di Robert e le variazioni di Clara capiamo subito che la ragazzina sapeva mettere le mani sul pianoforte in modo piu` disinvolto e che sapeva come costruire un pezzo da concerto. La strumentazione di Schumann era invece piu` legnosa e non ancora cosı` personale come sarebbe stata in seguito. Nel 1850 Schumann ritorno` pero` sulle sue vecchie variazioni, ne soppresse due, introdusse modifiche nelle altre e riscrisse la conclusione della fuga, impoverendo il piano tonale generale, che nella prima versione conteneva una maggiore varieta`. In una serie di appunti pubblicati nella sua rivista nel 1833 Schumann aveva fatto dire a Eusebio: ‘‘Spesso possono esserci due varianti di eguale valore’’. E aveva fatto rispondere da Maestro Raro: ‘‘Generalmente la prima versione e` la migliore’’. A me sembra che, malgrado le sue ineguaglianze di stile e di ispirazione, la prima versione dell’op. 5 sia da preferire. Nel 1836 Schumann recensı` i Notturni op. 15 di Chopin, entusiasmandosi in particolare per il terzo, ‘‘la piu` terribile dichiarazione di guerra contro un intero passato’’, perche´, credo, la forma era tritematica senza simmetrie architettoniche. Le Variazioni su un Notturno di Chopin (1835 ca., 526

Improvvisi su un tema di Clara Wieck op. 5

1992) avrebbero dovuto essere incorporate in una Sonata, di cui abbiamo notizia solo da una lettera di Schumann a Stephen Heller. Ma non furono mai ultimate (e della Sonata non ci e` pervenuto nemmeno uno schizzo). Schumann vario` solo la prima parte del Notturno, in un modo che dimostra secondo me la sua non-affinita` con il linguaggio di Chopin. Tanto tormentata quanto quella sull’Allegretto di Beethoven fu la gestazione degli Studi sinfonici op. 13 (1834-1837, 1837), dalla cui prima redazione alla versione ultima passano quasi due decadi in cui si susseguono diversi stadi di completamento del lavoro, che dopo la pubblicazione del 1837 viene ripreso e modificato nel 1852. Conclusione: di norma, oggi, nessuna delle versioni che s’ascoltano in concerto corrisponde esattamente a una delle versioni di Schumann. E non per colpa degli esecutori, come vedremo, ma per colpa di Schumann, che non riuscı` mai a chiudere in una sola versione tutte le stupefacenti idee che un tema tutt’altro che memorabile muoveva nella sua fantasia. Il tema non era di Schumann: ‘‘Le note della melodia sono composizione d’un Dilettante’’, dice la prima delle due edizioni pubblicate da Schumann, e il dilettante era il barone von Fricken, flautista e compositore, nonche´ padre di quella Ernestine che abbiamo imparato a conoscere parlando del Carnaval. In una lettera al von Fricken, del settembre 1834, Schumann analizza con il rispetto dell’aspirante genero e con la ferocia del critico implacabilmente moralista e il tema e le variazioni che l’autore aveva rispettosamente sottoposto al suo illuminato giudizio. E alla fine aggiunge: ‘‘Ho torto, d’altronde, nel formulare questo rimprovero perche´ io stesso sto scrivendo sul Suo tema delle variazioni che conto di chiamare patetiche, ispirate come esse sono dal riferimento essenziale ai sentimenti diversi che rientrano in questa denominazione. Mi permettera` forse di fargliele conoscere, prima di pubblicarle?’’ In questo primo stadio, Variazioni patetiche, la composizione non fu terminata perche´ Schumann, come dice in una lettera al barone del 28 novembre, avrebbe voluto finire con un ‘‘canto trionfale’’ ma non riusciva a uscire dal ‘‘modo minore’’. In un amante della criptografia come Schumann le Variazioni patetiche possono ben simboleggiare il suo incompiuto fidanzamento con Ernestine von Fricken: passione che divenne di modo minore quando Schumann s’accorse che la ragazza non era la baronessina von Fricken e l’erede del barone ma solo la figlia, legittimata, della baronessa. Prima di sciogliere il fidanzamento Schumann trovo` pero` il modo di sciogliere il dilemma del finale. E lo trovo` facendo ricorso

5 Studi postumi

a due temi dell’opera di Marschner Il Templare e l’Ebrea; uno dei due temi musicava le parole ‘‘Rallegrati, fiera Inghilterra’’: il che, come si vedra` in seguito, avrebbe avuto poi un risvolto criptografico. Il 15 gennaio 1835 Schumann completava una versione che intitolo` Fantasie e Finale, a cui assegnava il numero d’opera 9 e che dedicava alla baronessa von Fricken. Un lavoro pronto per la pubblicazione, che non fu pubblicato per ragioni ignote. Schumann riprese in mano la composizione nel 1837: modifico` radicalmente il tema, scarto` cinque variazioni, conservo` cinque variazioni e il finale, compose sei nuove variazioni e pubblico` il tutto con il numero d’opera 13 e il titolo Studi sinfonici (aveva pensato anche al titolo Studi di carattere orchestrale di Florestano ed Eusebio). Il numero d’opera veniva cambiato perche´ nel frattempo era stato composto e pubblicato il Carnaval op. 9. Il tema del Dilettante veniva scardinato ma non soppresso, cosicche´ abbiamo variazioni sulla prima versione e variazioni sulla seconda versione del tema. La dedica alla baronessa von Fricken non era piu` opportuna perche´ Schumann aveva sbarcato Ernestine per iniziare una perigliosa navigazione in compagnia di Clara Wieck. La nuova dedica a un giovanissimo compositore inglese in cui Schumann riponeva molta speranze, William Sterndale Bennett, era emblematica. ‘‘Rallegrati, fiera Inghilterra’’. Di che? Di aver dato i natali al successore di Purcell, atteso da piu` di un secolo. Nel 1852, pero`, Schumann riprese un’altra volta in mano il lavoro, lo ritocco` con modifiche di scrittura in vari punti e con alcuni tagli nel finale, ne elimino` due variazioni e pubblico` la nuova versione sotto il titolo Studi in forma di Variazioni. Nel 1883 i cinque pezzi della versione 1835, espunti dalla versione 1837, vennero pubblicati come 5 Studi postumi. L’op. 13 era gia` nella seconda meta` dell’Ottocento uno dei pezzi favoriti del repertorio concertistico, e tale e` rimasta. La versione del 1835 non fu pero` piu` eseguita e la versione del 1837 fu scelta da pochissimi interpreti. Sia nel corso dell’Ottocento che del Novecento venne invece eseguita la versione del 1852, ma con l’aggiunta delle due variazioni che Schumann aveva eliminato, e venne molto spesso usato il titolo misto Studi sinfonici in forma di Variazioni. Venne anche affrontato il recupero dei 5 Studi postumi. Ferruccio Busoni e altri li eseguirono come blocco a se stante, Sviatoslav Richter inserı` il blocco fra il quinto e il sesto studio, Alexis Weissenberg fra il nono e il decimo, mentre Alfred Cortot e Claudio Arrau inserirono i cinque pezzi in un ordine sparso.

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La tormentata cronistoria degli Studi sinfonici, che richiede spiegazioni complicate e di non agevole lettura, e` densa e e complessa quanto densi e complessi sono i contenuti musicali di questo capolavoro. Schumann coglie innanzitutto il momento del passagggio dalla concezione classica alla concezione romantica del suono pianistico. L’adozione di barre metalliche inserite nel telaio di legno, la copertura in feltro anziche´ in pelle di daino del martelletto, l’invenzione del ‘‘doppio scappamento’’ trasformano lo strumento classico dotandolo di maggior volume di suono e di maggiori potenzialita` timbriche, e i compositori romantici possono cosı` affrontare il problema di rendere audibili sul pianoforte tre o quattro eventi sonori invece dei due che di norma costituivano il tessuto della composizione. Questa ricerca sperimentale condotta sul suono in quanto materia e` opera di pianisti-compositori come Mendelssohn, Chopin, Liszt, Thalberg, Henselt. Schumann, che pianista non era, riesce tuttavia a capire immediatamente l’essenza e la vastita` del fenomeno che si sta sviluppando e arriva a scoprire certe possibilita` sinfoniche del pianoforte – sinfoniche nel senso di timbricamente pluridimensionali, non di imitative dell’orchestra – che altri non avevano scoperto: basti considerare la strumentazione del secondo studio, con il tema al basso come cantus firmus, o dell’ultimo studio, in sol diesis minore, con la melodia che ‘‘galleggia’’ su un mormorio indistinto che con il suo brontolio materico fa rabbrividire l’ascoltatore. Nello stesso tempo Schumann coglie nella variazione un principio di organizzazione del discorso alternativo alla forma della sonata. Gia` Beethoven aveva lavorato sulla variazione per costruire grandi architetture e per riconquistare l’altissimo significato concettuale che la variazione aveva avuto nel periodo barocco e che aveva perduto nel periodo classico. Nella prima versione compiuta degli Studi sinfonici il tema e` solo piu` il supporto di una quantita` di altre idee e quindi, in un certo senso, e` un generatore di polifonie come il cantus firmus del Rinascimento. La rapidita` di questo processo di maturazione, che si sviluppava fra il 1834 e il 1835, proietto` pero` Schumann verso limiti che probabilmente mettevano in crisi le sue concezioni estetiche. La versione 1835 degli Studi manca certamente di continuita` stilistica e discorsiva; ma bisogna chiedersi perche´ nel 1837 Schumann non cercasse di attenuare gli spigoli e di mediare i salti stilistici e decidesse invece di eliminare cinque pezzi di una qualita` estetica assolutamente straordinaria (e che percio` , giustamente, gli interpreti cercano di recuperare). 527

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La risposta secondo me piu` probabile, ma non certa, e` che l’elaborazione del suono considerato in quanto materia avesse portato Schumann alle soglie di una poetica decadentista e che egli si ritraesse di fronte a un pensiero estetico in cui la ragione si sarebbe smarrita. Liszt arrivava anche lui negli stessi anni, nella prima Apparition (1834), ai confini del mondo della materia, della epifania del suono, e anche lui se ne ritraeva. Il concetto di colore come forma invece che come illustrazione della forma si presenta del resto in quegli anni nella pittura di Turner, e in quegli anni non viene esplorato a fondo. I 5 Studi opera postuma, e specialmente l’ultimo di essi, rappresentano secondo me l’intiuzione fulminea e accecante del traguardo a cui la musica sarebbe pervenuta alla fine del secolo, ma dopo una lunga maturazione e con il supporto di un completo ripensamento della musica barocca e della musica classica. Nel 1835 ne´ Schumann ne´ Liszt potevano immaginare che l’interesse per il timbro avrebbe provocato la crisi della musica intesa come linguaggio, ma Liszt lo avrebbe constatato al termine di una tormentosa e coraggiosissima analisi delle ragioni del comporre, proseguita per mezzo secolo dopo il 1835. Il carattere complessivo degli Studi sinfonici, che non ha nulla a che vedere con cio` che nell’opera di Schumann li precede, si chiarisce secondo me nel finale, ed e` molto significativo il fatto che Schumann uscisse dall’impasse in cui si trovava ricorrendo a temi di un’opera di Marschner di argomento medievale, che non provocano alcun salto stilistico rispetto a cio` che precede. Gli Studi sinfonici rientrano secondo me nel clima culturale del neogotico che fioriva nella architettura e nella letteratura, e posseggono quello che veniva detto il colore del tempo, di cui si preoccupavano i teorici

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Variazioni op. 46

del melodramma (ad esempio, Mazzini). Anche in questo senso Schumann rivela antenne sensibilissime a cio` che di nuovo e di rivoluzionario stava accadendo, e non solo nel mondo della musica. Di fronte ai traguardi raggiunti negli Studi sinfonici le Variazioni op. 46 (1843, 1844), di cui esistono due versioni, una per due pianoforti soli e una per due pianoforti, due corni e due violoncelli, le Variazioni op. 46, dicevo, impallidiscono. Sia il tema, Andante, che le variazioni sono quasi sempre di scrittura antifonale: un pianoforte e` il protagonista, l’altro lo accompagna, e poi i due si due si scambiano i rispettivi ruoli. Le integrazioni fra i due strumenti sono molto rare, e quindi Schumann sfrutta semplicemente le possibilita` di giochi stereofonici che il complesso di due pianoforti gli offre. L’ultima composizione di Schumann e` costituita dalle cosiddette Variazioni sul tema degli spiriti (1854, 1939). Schumann pensava che quel tema gli fosse stato dettato dagli spiriti di Schubert e di Mendelssohn; in realta` si trattava di un tema del suo Concerto per violino, composto pochi mesi prima. Il tema e quattro variazioni furono messe in bella copia il 27 febbraio 1854, il giorno stesso del tentato suicidio. A Endenich, dove era stato ricoverato, Schumann porto` a termine la quinta variazione ma non fu in grado di proseguire oltre. Il tema e` un corale, melodico e semplice, le variazioni elaborano il tema con altrettanta semplicita`. Anche qui, come nei Canti dell’alba, si ha l’impressione che Schumann stesse entrando in una nuova fase della sua creativita`, non ancora definita. Ma il ‘‘tema degli spiriti’’ divenne l’occasione di un capolavoro della letteratura pianistica quando Brahms lo riprese nelle Variazioni su un tema di Schumann op. 23 per pianoforte a quattro mani.

Notturni

Giovanni Sgambati

A Giovanni Sgambati

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(Roma, 28 maggio 1841-ivi, 14 dicembre 1914) La unificazione dell’Italia nel 1861 provoco` qualche piccola conseguenza anche in campo musicale. Fino al 1859 c’erano stati nella penisola a forma di stivale sette stati sovrani, e ognuno di essi aveva avuto i suoi servizi musicali di corte. Nel 1861 i sette si erano ridotti a due: Italia e Vaticano. Il Vaticano mantenne in servizio il coro della Cappella Sistina. Il re Vittorio Emanuele II soppresse la Cappella Regia, trasferı` la proprieta` del Teatro Regio alla Municipalita` di Torino e non fece diventare regio il S. Carlo di Napoli. Ma nomino` ‘‘pianista del Re d’Italia’’ un piemontese di Dogliani in provincia di Cuneo, Giuseppe Unia, nato nel 1818 e che si diceva fosse stato allievo di Hummel. Unia, autore fra l’altro di una Sonata appassionata in re e di un volume di Arpeggi eleganti, espleto` le sue funzioni fino alla morte, il 23 novembre 1871, e quindi dopo che la Breccia di Porta Pia aveva portato a Roma la capitale del Regno. Non fu sostituito, Unia, forse perche´, come si puo` maliziosamente supporre conoscendo le idiosincrasie del Re piemontese, non era disponibile sulla piazza un boˆgianen di buona fama. Ma tre anni dopo l’ascesa al trono di Umberto I la regina Margherita autorizzo` Giovanni Sgambati a chiamare Quintetto della Regina la Societa` del Quintetto da lui fondata, e gli affido` la gestione dei concerti di corte. Sgambati, dopo la fanciullezza trascorsa a Trevi, viveva a Roma da vent’anni. A Roma aveva studiato con Liszt, che in casa di Sgambati teneva le sue masterclass, aveva al suo attivo un’attivita` concertistica e un’attivita` direttoriale, e le sue musiche, su sollecitazione di Liszt e di Wagner, erano state pubblicate in Germania. Nel 1870, quando la nobilta` papalina legata al Sommo Pontefice si era dimessa in massa per protestare contro i nuovi venuti, Sgambati era stato chiamato a far parte del comitato direttivo della Accademia Filarmonica Romana. Nel 1877 aveva fondato con altri il Liceo Musicale annesso alla Accademia di S. Cecilia, in cui insegnava. Con la nomina a corte diventava a quarant’anni il dominus delle vita musicale romana, una figura carismatica. La produzione di Sgambati comprende 42 numeri d’opera. Il grosso del suo catalogo pianistico, che non e` cospicuo, si colloca negli anni settanta-novanta e, escluso il Concerto e il Preludio e fuga, non comprende pagine

di grande impegno. Come compositore di musiche pianistiche Sgambati bado` soprattutto a fornire materiale per la sua legione di allievi, fra i quali le ragazze rappresentavano la magna pars. Ragazze della nobilta` romana e molte inglesine e americanine soggiornanti a Roma per qualche mese, perche´ Sgambati, di padre italiano e di madre britannica, padroneggiava bene la lingua d’Albione. La fama internazionale di Sgambati fu affidata a tre pagine pianistiche, il Vecchio Minuetto op. 18 n. 2 appartenente alla raccolta Quattro Pezzi di seguito (1872-1882), la Gavotta op. 14 (1880), e la Melodia (datazione incerta), trascrizione della Danza degli Spiriti Beati dell’Orfeo di Gluck. La Melodia, di cui ci sono rimaste in disco le esecuzioni di Rachmaninov, Hofmann, Petri, Levizki, e` la dimostrazione del possesso di una straordinaria scienza della strumentazione. In effetti, la scrittura pianistica di Sgambati e` idiomatica quanto quella del suo maestro Liszt. Le sue idee musicali, al confronto, sono soltanto modeste. Un vero modello di strumentazione pianistica tardoromantica e` il Concerto in sol op. 10 (1878-1880). Liszt si adopero` per farlo pubblicare da un editore tedesco e lo propose ai suoi allievi: abbiamo notizia certa di una esecuzione in una masterclass di Liszt a Weimar nel 1884, con Sauer solista e Reisenauer al secondo pianoforte, e di un’altra esecuzione del 1885. Oggi il Concerto op. 10 e` reperibile in disco, ma le sue esecuzioni pubbliche si contano sulla punta delle dita. Non solo come strumentazione, ma anche come impaginazione degli eventi il Concerto di Sgambati non ha nulla da invidiare ai concerti virtuosistici da Saint-Sae¨ns fino a Rachmaninov: nulla, salvo le idee tematiche che non escono dall’animato della koine´. Il Preludio e fuga op. 6 (1876) e` ammirevole, al solito, per la strumentazione, e i Due Studi da concerto op. 7 (1880) scritti per il Metodo di Lebert e Stark sono realmente utili per l’educazione del concertista. I dodici Fogli volanti op. 12 (1879-1880) e i sei Pezzi lirici op. 23 (1893), di scrittura prevalentemente mendelssohniana, rappresentano nel modo piu` diretto ed emblematico la musica di buona qualita` per i dilettanti, mentre, con l’eccezione dell’op. 20 n. 3, non escono secondo me dall’anonimato i sei Notturni (op. 3, 1873 ca:, op. 20 nn. 1, 2 e 3, 1873-1887, op. 31, 1897, op. 33, 1897). 529

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Giovanni Sgambati

La piu` personale, fra le raccolte di pezzi, e` a parer mio la Suite op. 21 (1880), che comprende Preludio, Valzer, Aria, Intermezzo, Studio melodico. E l’ultima delle Melodie poetiche op. 36 (1903), intitolata Canto di speranza, e` strumentata in un modo cosı` ingegnoso da destare molta ammirazione al di la` della convenzionalita` della melodia (si tratta di un corale con figurazioni, al modo dei preludi-corali di Bach). Per quanto riguarda il pianoforte – per la musica da camera il discorso sarebbe diverso – Sgambati si qualifica storicamente piu` come educatore in

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Suite op. 21

senso lato che come creatore. Con il suo incarico a corte garantı` di fronte al foltissimo corpo diplomatico – c’erano a Roma molte doppie ambasciate, presso il Governo Italiano e presso il Vaticano – un’attivita` musicale di alta qualita`, e la sua collaborazione con la Accademia Filarmonica Romana e con la Societa` Orchestrale Romana contribuı` a tenere in vetrina la musica da camera e sinfonica in un’Italietta ancora tutta votata al melodramma. Due suoi allievi, Ernesto Consolo e Maria Avani Carreras, furono concertisti di fama internazionale.

Improvviso alla mazurca op. 2 n. 3

Aleksandr Skrjabin

A Aleksandr Skrjabin

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(Mosca, 6 gennaio 1872-ivi, 27 aprile 1915) La lettura dei quaderni di appunti di Skrjabin e` imbarazzante per chi non se la sente di accettare il suo misticismo, la sua ansia di palingenesi dell’umanita`, o piu` semplicemente il delirante suo narcisismo. Vi si trovano, nei quaderni, bellissimi versi come ‘‘Spettri terribili / di verita` pietrificata / il mio spirito ha sete / di vincervi’’, o come ‘‘Nello slancio Divino, senza scopo, / nel mio libero gioco, / trascinarti, meraviglioso universo’’. Ma troviamo anche ‘‘Sono venuto a rivelarvi / il mistero della vita, / il mistero della morte, / il mistero del cielo e della terra’’, o ‘‘In me la natura umana ha vinto ogni cosa e ha acquisito una piena liberta` Divina. A voi non resta che preservarla’’ (trad. di Maria Giovanna Miggiani). Non c’e` da meravigliarsi dunque per i numerosi aneddoti che ci sono stati tramandati sull’arroganza di Skrjabin. Si potrebbe dire di lui, come si disse di un altro musicista altrettanto piccolo, che la ridotta statura non gli impediva di guardare tutti dall’alto in basso. Nel clima del simbolismo russo di inizio Novecento Skrjabin trovo` molti seguaci che lo adoravano e

influı` su molti giovani compositori. Ma nel dopoguerra il suo misticismo divenne per la sua opera una palla al piede e ci vollero molti anni prima che gli si riconoscesse una statura di artista di grande rilievo storico. Il catalogo di Skrjabin comprende in larghissima misura musica per pianoforte solo che, considerata nel suo insieme, rappresenta uno dei piu` importanti contributi alla letteratura del pianoforte. Ma mentre la produzione sinfonica ha avuto e ha interpreti di tutti i paesi, la musica per pianoforte conta quasi esclusivamente grandi interpreti russi. Per Skrjabin non si e` ancora verificato il processo di ‘‘internazionalizzazione’’ che investı` la musica di Beethoven o di Schumann o di Debussy. Non saprei dire perche´ cosı` sia stato, ma e` un fatto che cosı` e`. E se e` giusto che i russi si facciano paladini di uno dei loro maggiori compositori, e` pero` limitativo che Skrjabin non venga affrontato partendo da posizioni che non hanno a che vedere con la cultura russa e che non venga esplorata la sua universalita`.

Le danze Skrjabin ebbe molta fortuna nei suoi rapporti con gli editori. Aveva vent’anni quando Jurgenson comincio` a pubblicare i suoi lavori pianistici. Nel 1895 passo` con Belajev, dopo la morte di Belajev trovo` un forte sostenitore in Sergej Koussevitzky, e dopo aver litigato con Koussevitzky ritorno` , dall’op. 65, a Jurgenson, ma non ebbe mai difficolta` a far uscire tutto cio` che componeva. La sua prima pubblicazione fu il Valzer in fa op. 1 (1885, 1892), che dimostra soprattutto quale enorme progresso Skrjabin avrebbe compiuto di lı` a un anno con lo Studio op. 2 n. 1. I Due Valzer in Re bemolle e sol diesis (1886, 1947) restano interamente nell’orbita dello Chopin giovane. Nel Valzer in La bemolle op. 38 (1903, 1904) il ritmo tipico della danza e` mantenuto nella mano destra, non nella sinistra, che ‘‘riempie’’ la misura di tre/quarti con quartine o quintine. Il QuasiValzer in Fa op. 47 (1905, 1905) e` una danza fantomatica di sole due pagine che risponde benissimo al ‘‘quasi’’ del titolo. Piu` importanti dei Valzer sono la Mazurche, ventitre in totale, due delle quali, la Mazurca in Fa (1886, 1947) e la Mazurca in si (1889, 1947), isolate e uscite postu-

me, e le altre distribute in tre numeri d’opera: le 10 Mazurche op. 3 (1893-1890, 1893), le 9 Mazurche op. 25 (1898-1899, 1899) e le 2 Mazurche op. 40 (1903, 1904). La prima raccolta, molto influenzata da Chopin e di contenuto tecnico non elevato, diffuse il nome di Skrjabin fra i dilettanti, contribuendo pero` anche a far vedere nel Nostro un imitatore del Polacco. La diceria dello chopinismo di Skrjabin, di cui parlero` piu` avanti, si basa in gran parte su questa sua opera 3. Ma la lezione di Chopin non e` seguita da Skrjabin in modo pedissequo. E` invece evidente che Skrjabin ripercorre tutta la raccolta delle Mazurche di Chopin e ne ricava degli stimoli diversi, compreso, nell’ultima in mi bemolle, l’afflato epico. La seconda raccolta presenta quasi le stesse caratteristiche, sia pure con un linguaggio armonico piu` evoluto. Non mi sembra illegittimo supporre che Skrjabin tenesse conto del successo ottenuto dall’op. 3 e che intendesse rinnovarlo presso l’editore Belajev che gli stava spianando la carriera. Le due Mazurche op. 40 non sono dissimili dal Quasi-Valzer op. 47. Al novero delle mazurche appartengono inoltre l’Improvviso alla mazurca op. 2 n. 3 (1886, 1893) e i 531

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2 Improvvisi alla mazurca op. 7

2 Improvvisi alla mazurca op. 7 (1891, 1893). L’op. 2 n. 3 non ripete il piccolo miracolo dello Studio op. 2 n. 1, l’op. 7 comprende due mazurche formalmente piu` sviluppate di quelle dell’op. 3, molto eleganti ma non particolarmente inventive. La Polacca in si bemolle op. 21 (1897, 1898) e` una delle pagine – ne parleremo piu` avanti – in cui Skrjabin si adegua per un momento al virtuosismo pianistico di fine secolo a cui aveva voltato le spalle con la Sonata op. 19. La penultima pub-

blicazione di Skrjabin porta il titolo Due Danze op. 73 (1914, 1914). I due brevi pezzi sono intitolati rispettivamente Guirlandes (Ghirlande) e Flammes sombres (Fiamme oscure). Non si tratta, come spesso avviene nel tardo Skrjabin, di schizzi, con la semplicita` e la lievita` di espressione di cio` che e` breve per sua natura, ma di compressione di cio` che per sua natura sarebbe lungo. Di cio` parlero` in particolare commentando i Preludi op. 74.

Pianoforte e orchestra Skrjabin, allievo di un grande didatta come Vasilij Safonov, si diplomo` in pianoforte nel conservatorio di Mosca nel 1892, vincendo la medaglia d’oro, ma non inizio` una carriera di concertista perche´ , avendo studiato con troppo accanimento e con troppa assiduita` la Fantasia sul ‘‘Don Giovanni’’ di Liszt, si ritrovo` con una tendinite del braccio destro che lo costrinse a un prolungato periodo di riposo. I medici pensavano anzi che il danno fosse irreversibile, ma dopo due anni Skrjabin pote´ riprendere a suonare il pianoforte. Sarebbe interessante verificare quanto la tecnica del tutto particolare di Skrjabin, della quale parlero` piu` avanti, fosse la risultante diretta o indiretta di un ‘‘riadattamento’’ del braccio alla tastiera dopo il grave infortunio. Ma su questo punto si potrebbero soltanto fare supposizioni non confortate da documenti e povere anche di indizi. Dal 1894, dopo aver conosciuto l’editore Belajev che lo appoggio` toto corde, Skrjabin comincio` a tenere molti concerti, ottenendo successo ma eseguendo soltanto i suoi lavori. Una significativa carriera di pianistacompositore non avrebbe avuto sufficiente spazio e sufficiente risonanza senza la partecipazione ai concerti sinfonici: Saint-Sae¨ ns e Franz Xaver Scharwenka, pianisti-compositori sulla cresta dell’onda alla fine dell’Ottocento, eseguivano i loro concerti, e persino Brahms, che non studiava piu` il pianoforte da anni e che suonava con tale approssimazione da mettere in imbarazzo persino i suoi amici piu` affezionati, si era imbarcato nel 18821883 in una lunga tourne´ e di presentazione del suo Concerto n. 2. Skrjabin, probabilmente su consiglio di Belajev, compose percio` il Concerto in fa diesis op. 20 (1896-1897, 1897) e lo eseguı` per la prima volta, sotto la direzione di Safonov, a Odessa il 23 ottobre 1897. Non era precisamente un pezzo che rispondesse all’idea dominante di concerto alla fine dell’Ottocento, ma con il sostegno di Belajev e piu` tardi del direttore d’orchestra Sergej Koussevitzky, Skrjabin pote´ eseguirlo molte volte. Il Concerto op. 20 fu anche eseguito da uno dei piu` popolari concertisti di inizio del Novecen-

to, Josef Hofmann, cosicche´ fino alla morte di Skrjabin godette di una buona notorieta`. Rachmaninov lo diresse nel 1911 a Mosca con Skrjabin solista e lo eseguı` quattro volte nel 1915 in concerti commemorativi di Skrjabin. Ma dopo la guerra il Concerto di Skrjabin, diciamo cosı`, non resse la concorrenza del Secondo e del Terzo di Rachmaninov. Il Concerto op. 20 e` la prima partitura sinfonica composta da Skrjabin ed e` sorprendentemente maturo sia nella scrittura orchestrale che nel rapporto solista-orchestra. Scrittura integrata, pero`, con una parte pianistica con larga prevalenza ornamentale e con un effetto complessivo che colloca il Concerto nella poetica del liberty, del floreale. La musica, liricamente calda e distesa, e` incantevole. Skrjabin sembra prendere le mosse dalla prima parte del Concerto n. 2 di Liszt, ma non segue poi Liszt nel delineare la radicale contrapposizione di due forze inconciliabili. Non ci sono temi che veramente si imprimano nella mente dell’ascoltatore, e cio` si avverte come limite specialmente nel secondo movimento, tema con quattro variazioni, la seconda sola delle quali abbandona il tono lirico. La musica, ripeto, e` tuttavia incantevole. La ragione della scarsa popolarita` del Concerto risiede secondo me in due cause. La parte del pianoforte presenta tratti, soprattutto nel finale a modo di mazurca, tremendamente ardui tecnicamente ma non appariscenti, e la mancanza di protagonismo del solista in un pezzo che pure richiede la presenza di un virtuoso non e` stimolante per l’esecutore. La presenza del solista in un pezzo di scrittura integrata con l’orchestra, per altro verso, non e` stimolante per il direttore, che preferisce sempre non perdere troppo tempo nelle prove di un concerto per concentrarsi sul ‘‘suo’’ pezzo. Sono ragioni del tutto banali, si capisce, ma sono questi i ferrei condizionamenti della vita concertistica. Viceversa non mancano le esecuzioni del Concerto in disco affidate a grandi pianisti e a grandi direttori. E la stima di cui il pezzo gode, almeno in linea di principio, e` dimostrata dal fatto che fu di-

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retto in disco anche da Pierre Boulez, certamente non tenero con prodotti di secondario interesse artistico. La prima partitura sinfonica di Skrjabin e` il Concerto op. 20. L’ultima e` il Prometeo, Poema del fuoco op. 60 (1909-1910, 1911) per pianoforte e organo solisti, ‘‘tastiera luminosa’’, coro e orchestra. La tastiera luminosa e` scritta in partitura con note, a cui corrispondono pero` non suoni ma colori: dodici colori, come le dodici note della scala cromatica. Nella prima esecuzione, il 5 marzo 1911 a Mosca sotto la direzione di Koussevitzky, non fu possibile realizzare la parte coloristica. Il 20 marzo 1915 a New York la partitura fu invece realizzata nella sua integrita` – non si sa esattamente come – sotto la direzione di Modest Altschuler. La tastiera luminosa continua a presentare problemi anche oggi. E` persino banale dirlo, ma la proie-

Poemi e pezzi vari Il titolo poema figura spesso nel catalogo di Skrjabin, sia per pezzi autonomi e di una certa ampiezza formale che per pezzi brevi inseriti in raccolte. Dei 2 Poemi op. 32 (1903, 1904), nati in un momento di intensa creativita`, divenne celeberrimo il primo, in Fa diesis, in forma, molto rara, A-B-AB, a volta a volta voluttuoso e capriccioso, straordinariamente ispirato e che si e` tentati di mettere in rapporto con il nascente amore per Tatiana Schloezer, per unirsi alla quale Skrjabin avrebbe lasciato la moglie e i figli e che sarebbe diventata la compagna di tutta la vita. La fama del n. 1 ha messo in ombra il Poema n. 2 in Re (Allegro, con eleganza, con fiducia), che ne sarebbe invece il completamento drammaturgico. Allo stesso periodo appartiene il Poema tragico op. 34 (1903, 1904), una delle pagine eroiche e proterve di Skrjabin, in Si bemolle, con un primo tema indicato con festivamente, fastoso, e un secondo tema irato, fiero. Nel 1903, anno di grazia, Skrjabin compose ancora il Poema satanico op. 36 (1903, 1904) e il Poema op. 41 (1903, 1904), ironico e sarcastico il primo, vero ritratto dello ‘‘spirito che nega’’, notturno e vaporoso il secondo. I 2 Poemi op. 44 (1904, 1905) sono talmente brevi da meritare piuttosto il titolo di preludi, mentre il PoemaNotturno op. 61 (1911-1912, 1913) e` una delle grandi pagine del tardo Skrjabin. Quattro temi, una costruzione non frequente con esposizione e riesposizione abbreviata, didascalie di espressione che insistono sulla grazia, sul sogno, sul languore, sul ‘‘confuso mormorio’’, un pezzo misterioso che immerge l’ascoltatore in un clima di sospensione del tempo reale per portarlo in una dimensione onirica. I 2 Poemi op. 63 (1911-1912, 1913), i 2

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zioni di colori su un fondale, che e` la soluzione piu` semplice da adottare, rende in modo soltanto grossolano l’idea di Skrjabin. E le luci proiettate invece su tutta l’orchestra creano problemi di lettura per gli orchestrali, cosicche´ il piu` delle volte si fa a meno dei colori. Il Prometeo e` un poema sinfonico che nelle linee generali si struttura come primo movimento di sinfonia. I temi principali, associati a colori ma anche a timbri diversi, sono quelli del ‘‘caos originario’’, della ‘‘volonta` creatrice’’, della ‘‘volonta` operante’’, della ‘‘comprensione’’ (esposto dal pianoforte) e della ‘‘affermazione’’, e il tutto sfocia nella finale ‘‘danza cosmica’’. La partitura e` una delle piu` significative del Novecento e la parte del pianoforte, di scrittura talvolta, caso raro in Skrjabin, accordale e massiccia, e` fondamentale nella economia sonora della composizione.

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Poemi op. 69 (1912-1913, 1913) e i 2 Poemi op. 71 (1914, 1914) sono contemporanei delle ultime Sonate e come le Sonate esplorano il linguaggio che Skrjabin intendeva mettere a punto per l’esoterico Mysterium che non avrebbe mai scritto. Sono tutti brevi o brevissimi, in forma bipartita come il Poema-Notturno. L’ultimo poema di Skrjabin e` intitolato Vers la flamme op. 72 (Verso la fiamma, 1914, 1914) ed e` costruito, su un solo brevissimo nucleo generatore, come progressivo crescendo e progressivo aumento della densita` ritmica e della estensione sulla tastiera, dal pianissimo al limite dell’udibilita` al fortissimo al limite delle potenzialita` dello strumento. Il fuoco aveva per Skrjabin il significato simbolico di forza primordiale, distruttrice e rigeneratrice insieme. In Vers la flamme, al contrario che in Wagner, la imitazione onomatopeica del rumore naturale diventa pero` non una delle formanti ma la principale formante della composizione, alla quale vengono subordinati gli aspetti ‘‘espressivi’’. Il pezzo, si potrebbe dire, diventa una specie di canto delle sirene del fuoco. E proprio questa identificazione dell’ascoltatore nell’elemento materico provoca un sentimento che nella musica viene rarissimamente suscitato: la paura. Vers la flamme rappresenta con ogni probabilita` uno studio per la parte conclusiva della Azione preparatoria del Mysterium: ‘‘Accenditi, tempio santo, alla fiamma dei cuori, / accenditi, divieni un santo incendio, / fonditi in noi nella gioia, o dolce padre, / fonditi con la morte, nella vertigine della danza’’. I 2 Improvvisi op. 10 (1894, 1895), i 2 Improvvisi op. 12 (1895, 1897) e i 2 Improvvisi op. 14 (1895, 1897) si iscrivono nella prima maniera di Skrjabin, 533

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Notturno in La bemolle

quella in cui l’influenza di Chopin si manifesta in modo piu` diretto, e oscillano fra andamenti di mazurca e atmosfere di notturno. Analogamente agli Improvvisi, il Notturno in La bemolle (18841886, 1947) e i 2 Notturni op. 5 (1890, 1893) sono pezzi di squisita fattura, pensati apposta per i dilettanti. Non cosı` il Preludio e Notturno per la mano sinistra sola op. 9 (1894, 1895), scritto nel periodo in cui Skrjabin stava appena uscendo dal momento di crisi dovuto alla malattia del braccio destro. Il Preludio in do diesis e` una pagina esteticamente perfetta in cui la scrittura per la sola mano sinistra non presenta particolari problemi. Nel Notturno in Re bemolle, ispirato al Notturno in Re bemolle op. 27 n. 2 di Chopin, la mano sinistra copre uno spazio enorme, saltando continuamente dalla melodia all’accompagnamento. La quantita` di note da eseguire non sarebbe debordante, ma gli spostamenti richiedono movimenti ampi e rapidissimi e i tasti possono il piu` delle volte essere soltanto sbilanciati e non accompagnati nella discesa. Questa tecnica, come vedremo, verra` poi studiata piu` a fondo e sara` applicata da Skrjabin sistematicamente. Due piccole cadenze ornamentali nel registro sopracuto sono di esecuzione disperatamente ardua perche´ Skrjabin, trascinato dalla logica della composizione, scrive due passi adatti alla mano destra, non alla povera mano sini-

stra, che deve sudare sette camicie per venirne a capo. La caratteristica piu` singolare delle due composizioni e` che, se vengono quietamente eseguiti a due mani, sembrano tradizionali pezzi da salotto espressi in modo contenuto e molto intimistico mentre, eseguiti dalla sola mano sinistra, sembrano ancora pezzi tradizionali ma eseguiti secondo la esasperata espressivita`, il fraseggio delirante, la burrascosa scansione del tempo con cui venivano risolti alla fine dell’Ottocento i pezzi intimistici di Chopin resi secondo lo stile ‘‘alto’’ della sala da concerto. Voluta o no, conscia o no, questa e` una perfetta analisi di uno stile di esecuzione che si era imposto nel passaggio del pezzo intimistico dalle mani del dilettante alle mani del virtuoso, e dal salotto alla sala da concerto. Le opere 45, 46, 49, 51, 52, 56, 57, 58 e 59, raccolgono complessivamente ventidue pezzi brevi, composti fra il 1904 e il 1910 e variamente intitolati. Sono tutti di alta qualita` ma non ho proprio lo spazio che mi servirebbe per parlarne singolarmente. Mi limitero` a citare il Feuillet d’album (Foglietto d’album) op. 45 n. 1 che Horowitz fece diventare celebre e che e` una semplicissima paginetta, quasi un valzer, in cui si delinea la forma circolare, la forma che non si chiude su se stessa ma che potrebbe essere ripetutta all’infinito.

I preludi Fra i vari compositori che dopo Chopin ritentano l’impresa titanica di costruire un ciclo organico di ventiquattro preludi nelle dodici tonalita` maggiori e nelle dodici tonalita` minori si distingue piu` di tutti il giovane Skrjabin, baldanzoso e un po’ megalomane, che a sedici anni comincia a scrivere preludi con l’intenzione di completarne ben due serie di ventiquattro ciascuna. Chopin aveva lavorato ai Preludi op. 28 per un po’ piu` di tre anni. Skrjabin ci lavora per nove anni, e alla fine si ritrova... con una sola serie e con ampi spezzoni di una seconda serie che, come vedremo, non ha piu` i caratteri del ciclo. La serie completa e` quella dei 24 Preludi op. 11 (1888-1896, 1897), alla quale Skrjabin lavora veramente fra il 1894 e il 1895; la rete tonale e` quella gia` adottata da Chopin e ripresa da Stephen Heller e dal giovanissimo Busoni: da Do e la, proseguendo per quinte ascendenti fino a chiudere il ciclo con il Fa e il re (Chopin ‘‘salta’’ dai diesis ai bemolli nel Preludio n. 14, Skrjabin nel Preludio n. 13). La maggior parte dei Preludi op. 11 fu composta a Mosca, ma Skrjabin, che aveva cominciato a viaggiare nell’Europa occidentale per tourne´e di concerti organizzati e finanziati da Mitrofan Belajev, suo editore e suo mecenate,

lavoro` anche ad Amsterdam, Dresda, Parigi, Kiev, Vitznau, Heidelberg, completando il mosaico in un modo tutt’altro che sistematico. Il problema architettonico del ciclo di ventiquattro pezzi in una rete tonale prefissata e immutabile riguarda innanzitutto l’alternarsi di tempi, di misure e di caratteri diversi. Guardando astrattamente il ‘‘quadro sinottico’’ dei Preludi si vede subito che Skrjabin tenne conto del problema, e quindi che non si limito` a scrivere un centone di ventiquattro pezzi. Ma si vede anche che mancano di varieta` i numeri 6-7-8 (Allegro, Allegro assai, Allegro agitato) e 23-24 (Vivo, Presto). La durata del n. 23 (trenta secondi circa) rispetto al n. 24 (quarantacinque secondi circa) e la variazione della scrittura (leggera nel n. 23, massiccia nel n. 24) compensano pero` la monotonia dei due tempi rapidi consecutivi. Compensazione che a parer mio non avviene invece nel gruppo 6-7-8. Rispetto a Chopin, poi, Skrjabin non sfrutta il contrasto fra pezzo aforistico e pezzo formalmente piu` articolato, perche´ tutti i suoi Preludi sono monotematici. In una ipotetica ‘‘graduatoria’’ Skrjabin sta dunque dietro a Chopin, ... ma non sta molto distante perche´ la sua invenzione musicale e` costantemente alta e il suo dominio del

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suono pianistico e` gia` completo. Si dice spesso che il giovane Skrjabin si lega strettamente a Chopin e, anzi, si cita talvolta una frase di Busoni, che in Skrjabin vedeva ‘‘una indigestione di Chopin’’. Che Chopin sia il compositore del passato con cui Skrjabin si trova piu` a suo agio e` evidente. Ma non si possono trascurare certi caratteri stilistici della sua strumentazione (passi rapidi con la mano sinistra in posizione di grande estensione) che derivano molto probabilmente da Henselt, pianista di corte a S. Pietroburgo e figura carismatica, insieme con Anton Rubinsˇtejn, del pianoforte russo dell’Ottocento. Certi stilemi tipici di Skrjabin – le combinazioni poliritmiche, ad esempio – sembrano poi esemplati su Ljadov e la fitta ornamentazione sovrapposta ai temi deriva da Liszt. Insomma, per quanto riguarda il pianoforte Skrjabin non e` da ascrivere allo ‘‘chopinismo’’ di maniera di fine secolo, quello chopinismo che a Mosca era rappresentato dal maestro di composizione di Skrjabin, Anton Arenskij. E non si puo` nemmeno dire che la sua concezione del suono pianistico abbia veramente a che vedere con la ‘‘scuola russa’’, cioe` con Nicolai Zverev e con Vasilij Safonov con i quali studio` il pianoforte. I didatti russi criticarono piu` tardi il dispendio di forze di Skrjabin nell’esecuzione piansitca, le sue tensioni muscolari giudicate eccessive, anzi, inutilmente spasmodiche, il fatto che dopo un recital fosse il piu` delle volte costretto a giacere per un giorno intero nel letto per recuperare l’elasticita` dei muscoli rattrappiti. I pochi suoi rulli di pianoforte riproduttore ci dicono soltanto che Skrjabin era un pianista eccellente ma non ci rivelano nulla della sua tecnica. Ragionando su indizi sembra di poter ipotizzare che egli avesse sviluppato all’estremo la tecnica dell’attacco tangenziale, invece che verticale, del tasto, e che non sfruttasse quindi il tasto abbassato come punto d’appoggio. Nella autobiografia di Prokof’ev troviamo un paragone fra Skrjabin e Rachmaninov che ci dice sinteticamente quale fosse la novita` della tecnica del primo rispetto a quella, tipicamente ‘‘russa’’, del secondo: ‘‘Quando Skrjabin suonava, tutto sembrava librarsi nell’aria; con Rachmaninov tutte le note rimanevano con i piedi ben piantati al suolo’’. I Preludi op. 11, insieme con gli Studi op. 8, ci danno la misura di una novita` di concezione sonora che deriva sı` da Chopin, da Henselt, da Ljadov, da Liszt, ma che diventa subito, inconfondibilmente, originale. E i Preludi sono senza dubbio un capolavoro di un genio che si affaccia sulla scena avendo gia` conquistato una capacita` di sintesi storica. Cio` che manca a Skrjabin nell’op. 11, in fondo, e` il senso del dramma cosmico che in Chopin nasce attraverso la geome-

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tria astratta delle ventiquattro tonalita`. Ma bisogna anche dire che per questo aspetto nessuno sta alla pari con Chopin. Al contrario di quanto avvenne con Chopin il preludio aforistico rappresento` una costante nella evoluzione creativa di Skrjabin. Perche´, si chiese qualcuno? Perche´ Skrjabin era piccolo di statura, si disse al tempo in cui il positivismo dettava legge. E ancora un esegeta scriabiniano molto serio, David Gravelman, scrivendo negli anni sessanta si sentı` in dovere di confutare l’accusa. Piu` ragionevole, mi pare, e` ritenere che nei Preludi e in genere nei pezzi aforistici di Skrjabin cominci a prendere forma la poetica dell’espressionsmo. Il primo Preludio di Skrjabin, pubblicato come n. 2 dell’op. 2, e` del 1886, gli ultimi cinque, raggruppati nell’op. 74, furono composti nel 1914, e dunque un anno prima delle morte; frammezzo a questi sei stanno altri ottantaquattro Preludi, talvolta inseriti in raccolte di pezzi con vari titoli. Ho detto pero` prima che Skrjabin intendeva comporre due serie di Preludi nelle ventiquattro tonalita` . Incontro` puntualmente anche lui, come Chopin, le difficolta` che l’impresa temeraria comportava inevitabilmente. Sollecitato dall’editore, egli consegno` la raccolta completa. La seconda raccolta non fu mai ultimata, sebbene le tracce del lavoro che Skrjabin aveva compiuto per... arrivare alla meta siano chiaramente riscontrabili nel complesso di ventitre Preludi pubblicati nello stesso anno in raggruppamenti di diversa entita`: si tratta dei 6 Preludi op. 13 (1894-1896, 1897), dei 5 Preludi op. 15 (18941896, 1897), dei 5 Preludi op. 16 (1894-1896, 1897) e dei 7 Preludi op. 17 (1894-1896, 1897). I Preludi op. 13 seguono puntualmente l’ordinamento tonale dei primi sei Preludi op. 11, e i primi tre e il quinto dei Preludi op. 15 riprendono lo schema dei Preludi 7-10 op. 11. I primi quattro Preludi op. 16 riprendono lo schema dei Preludi n. 11-14 op. 11, e i Preludi n. 3-4 e n. 6-7 dell’op. 17 seguono lo schema tonale del Preludi n. 15-16 e 21-22 dell’op. 11. Anche i Preludi nn. 1, 2 e 5 dell’op. 17 sarebbero collocabili in una serie di ventiquattro tonalita`. In conclusione, Skrjabin aveva pronti ventuno dei ventiquattro numeri di una seconda serie di Preludi. Ma siccome un ciclo organico di ventiquattro pezzi in ventiquattro tonalita` presenta i difficilissimi problemi di equilibrio architettonico ed espressivo complessivo di cui ho gia` detto, la decisione ultima di Skrjabin fu di non completare cio` che mancava e di cercare raggruppamenti diversi in quattro numeri d’opera, con l’inserimento di due pezzi, op. 15 n. 4 e op. 16 n. 5, in tonalita` gia` impiegate in altri pezzi. Il semplice paragone fra il primo Preludio in Do dell’op. 535

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11 (Vivace) e il primo Preludio in Do dell’op. 13 (Maestoso) ci dice che Skrjabin intendeva comporre due serie totalmente diverse. E questo scopo viene attentamente perseguito nell’op. 13. Ma nell’op. 15 troviamo due Preludi, il n. 3 e il n. 4, in Mi. Il terzo e` un Allegro assai, il quarto un Andantino. Sono entrambi bellissimi, incantevoli: ma quale dei due avrebbe potuto entrare in un ciclo? Skrjabin rinuncio` al ciclo, non ai due piccoli gioielli che aveva composto. Nell’op. 16 troviamo il n. 3, Andante cantabile, in Sol bemolle, e il n. 5, Allegretto, in Fa diesis. Sulla tastiera del pianoforte il Sol bemolle e il Fa diesis sono identici, e quindi e` anche qui evidente che Skrjabin non riuscı` a decidere per uno dei due Preludi, sacrificando l’altro. Dovette essere proprio un tormentone, la stesura della seconda serie completa, e alla fine Skrjabin, da quell’artista che era, preferı`... gettare la spugna. C’e` anche qualche Preludio (op. 17 n. 5) in cui l’ombra di Chopin appare con eccessiva evidenza, e qualcuno (op. 17 n. 7) che ricade nei moduli dello schumannismo. Nell’op. 17 si distinguono sugli altri il n. 1 in re, caratterizzato da un effetto di rubato scritto tipico del primo Skrjabin (il numero delle note eseguite dalla mano sinistra cambia a ogni battuta) e i nn. 3 e 4, che con le loro linee melodiche ondeggianti sono un altro esempio affascinante dello Skrjabin liberty. I 4 Preludi op. 22 (1897, 1898) sono la dimostrazione di un nuovo indirizzo, libero dai condizionamenti della rete tonale obbligata: tre dei quattro Preludi sono in modo minore, l’espressione e` costantemente malinconica. I 2 Preludi op. 27 (1900, 1901) sono invece contrastanti, il primo, direi, persino rabbioso, il secondo dolcissimo. I 4 Preludi op. 31 (1903, 1904), i 4 Preludi op. 33 (1903, 1904), i 3 Preludi op. 35 (1903, 1904), i 4 Preludi op. 37 (1903, 1904) e i 4 Preludi op. 39 (1903, 1904) capitano in un momento decisivo della evoluzione creativa e della esistenza di Skrjabin. Nel 1903 Skrjabin lascio` il conservatorio di Mosca, dove insegnava dal 1898, e si stabilı` in Svizzera, decidendo di correre e di far correre alla sua famiglia – aveva quattro figli piccoli – i rischi della libera professione per dedicarsi interamente alla composizione e al concertismo. Le musiche dall’op. 30 (Sonata n. 4) all’op. 42 (Studi) sono per pianoforte solo e segnano il rinnovato interesse di Skrjabin per lo strumento prima della composizione della Sinfonia n. 3 op. 43. Pagina centrale nel gruppo delle composizioni pianistiche e` la Sonata n. 4, con la quale avviene una svolta nello stile di Skrjabin. I diciannove Preludi appartengono evidentemente a questa fase di trapasso, e sono una miniera di ricerche sull’armonia, di quelle ri536

4 Preludi op. 22

cerche che condurranno poi alla individuazione dell’‘‘accordo scriabiniano’’ do-fa diesis-si bemolle-mi-la-re. Le novita` stilistiche sono particolarmente evidenti nell’op. 39 e si accentuano nei 4 Preludi op. 48 (1905, 1906), che anticipano la Sonata n. 5. Si nota anche un curioso raffinamento nelle didascalie: dopo un ancora tradizionale impetuoso, fiero, del n. 1, abbiamo il poetico con delizia del n. 2, il capricciosamente affannato del n. 3 e il festivamente del n. 4. Le ultime due serie di Preludi sono contemporanee delle ultime Sonate: i 2 Preludi op. 67 (19121913, 1913) e i 5 Preludi op. 74 1914, 1914) sono come sintetiche annotazioni per l’Azione preparatoria del Mysterium, l’opera mistica e incompiuta – ma ‘‘opera’’ non e` il termine esatto – che doveva durare una settimana, che comprendeva musica, canto, danza, recitazione, e che, nei sogni deliranti di Skrjabin, avrebbe dovuto essere eseguita in un palazzo di cristallo sulle rive di un lago, forse in India sulle pendici dell’Himalaya. I Preludi op. 67 e op. 74 sono dunque, come dice Faubion Bowers, ‘‘studi per compositore’’. Si tratta infatti di indagini su un linguaggio armonico in evoluzione, rispetto ai precedenti lavori di Skrjabin, un linguaggio che si avvicina a quei limiti di dissoluzione della tonalita` raggiunti da Scho¨ nberg nei Sei Piccoli Pezzi op. 19 del 1911. La questione non va naturalmente vista nei termini di primato sportivo o di precedenza nella scoperta di un continente sconosciuto. Nel primo quindicennio del Novecento la crisi dell’armonia tonale viene accelerata soprattutto da Scho¨nberg e dai suoi allievi, e le loro composizioni di quel periodo non sono senza conseguenze presso altri compositori e in altri paesi. Alcuni artisti russi, specialmente Skrjabin, ma anche Rebikov e Roslavets, muovono pero` verso l’annullamento dei nessi tonali indipendentemente da Scho¨ nberg, e cioe` per evoluzione interna del loro stile, e i loro risultati artistici sono diversissimi da quelli dei viennesi. I Preludi op. 74, citati in tutte le storie della musica del Novecento per il loro radicalismo, sono in realta` pochissimo noti o affatto ignorati dal pubblico perche´ ben pochi concertisti li hanno avuti e li hanno in repertorio. La semplice loro audizione permette di fare un immediato confronto con l’op. 19 di Scho¨nberg, e, allora, a parte il carattere di condensazione nella forma aforistica di contenuti complessi, la estrema diversita` dei due lavori diventa subito evidente. Si nota soprattutto che, sebbene il linguaggio armonico sia audacissimo, l’organizzazione fraseologica e formale e` ancora in Skrjabin fortemente tradizionale e che le simmetrie e le ripetizioni e le curve della dinamica sono familiari a chi conosce le pri-

Sonata in mi bemolle

Aleksandr Skrjabin

me raccolte di Preludi; anzi, nelle prime raccolte si trovano esperimenti di costruzioni delle frasi persino meno tradizionali di quelli dell’op. 74. Ben diversamente dallo Scho¨nberg del periodo espressionista, Skrjabin non cerca dunque una nuova definizione formale di un materiale armonico nuovo, ma raggiunge piuttosto un limite estremo entro la tradizione. Sarebbe stato tuttavia importante poter verificare le reali intenzioni di Skrjabin attraverso le sue esecuzioni. L’interesse per le esecuzioni dell’Autore nasce soprattutto dal fatto che Skrjabin, parlando con il critico Leonid Sabaneev, disse di aver creato musica che poteva assumere significati diversi: ‘‘E` come un cristallo, e lo stesso cristallo puo` riflettere molte luci e colori’’. L’immagine di Skrjabin e` quanto mai suggestiva, ma si tratterebbe di verificare che cos’erano, realmente, le due interpretazioni opposte che il Sabaneev ascolto` del Preludio op. 74 n. 2, la prima esprimente l’eros, la seconda la morte. Ne´ il numero delle interpretazioni dei Preludi op. 74 e` tale da poter consentire un’analisi storica di vari modi di intendere e di rendere quattro pezzi che, alla lettura, non sembrano polivalenti. E` pero` chiaro che Skrjabin, tutto teso verso la composizione del Mysterium, era alla ricerca di un linguaggio che non recasse in se´

una significazione psicologica stratificatasi attraverso la tradizione; l’immagine del cristallo potrebbe allora indicare la scoperta di una materia musicale riplasmabile, in cui fossero annullate le forze di tensione-distensione emotiva sulle quali era stato costruito il linguaggio della musica occidentale. Ma questa verifica non e` possibile. Skrjabin eseguı` il Preludio op. 74 n. 2 il 22 novembre 1914 a Mosca, bissandolo. Nuova esecuzione a Mosca il 27 gennaio 1915, a S. Pietroburgo il 12 e il 16 febbraio, a Kiev in marzo. A S. Pietroburgo, il 2 aprile, Skrjabin rieseguı` il Preludio n. 2 e ‘‘azzardo`’’ per la prima volta i numeri 4 e 1. Fu il suo ultimo recital, e siccome Skrjabin era un pianista-compositore che ottenne grandi successi, uno degli ultimi pianisti-compositori di fama internazionale, mi sembra interessante osservare il suo ultimo programma: Preludi in Re bemolle e in Si dall’op. 35, in si bemolle, Fa diesis, Si e sol dall’op. 37, in Sol dall’op. 39, Mazurca in Mi dall’op. 25, Studio in si bemolle dall’op. 8, Valzer op. 38, Sonata n. 3, Nuances op. 56 n. 3, Danse languide op. 51 n. 4, Preludi op. 74 nn. 4 e 1, Guirlandes e Flammes sombres op. 73, Preludio op. 74 n. 2, Etrangete´ op. 63 n. 2, Sonata n. 4.

Le sonate Il vertice assoluto della sonata romantica viene raggiunto da Liszt con la Sonata in si (1852-1853). E dopo Liszt, per vari decenni, la sonata diventa estremamente rara, per lo meno presso compositori, di maggiore o di minore importanza storica, non accademici. Si possono soltanto ricordare, nell’ambito della tradizione classico-romantica, le sonate di Grieg, di Adolf Jensen, di Rubinsˇtejn, di Cˇajkovskij, e nell’ambito della tradizione lisztiana quelle di Julius Reubke e di Felix von Draeseke. Skrjabin e` il primo compositore di fine Ottocento che riprende a scrivere costantemente sonate per pianoforte. I suoi primi tentativi risalgono agli anni dell’adolescenza: la Sonata-fantasia in sol diesis (1886, 1947) e la Sonata in mi bemolle (18881889, 1988) resteranno pero` inedite durante la vita di Skrjabin, e la seconda e` anzi incompiuta. La Sonata-fantasia in sol diesis – che tematicamente non ha nulla a che vedere con la Sonata n. 2, Sonata-Fantasia anch’essa, e in sol diesis – gia` individua uno schema formale che Skrjabin prediligera` per tutta la vita: Andante introduttivo e Allegro vivace. I temi non sono veramente personali ma non sono neppure triti, e la scrittura e` molto ricca, con colorature che si sovrappongono ai temi e un’ampia spaziatura della spettro sonoro. In nuce c’e` gia` Skrjabin... e c’e` anche Skrjabin nella dedica

a Natalia Sekerina, primo amore del quattordicenne ma gia` infiammabile musicista. La Sonata in mi bemolle, in tre movimenti, e` nello stesso tempo piu` ambiziosa e meno personale. Mi sembra che la forte influenza chopiniana riscontrabile nell’incompiuto secondo movimento e il costruttivismo brahmsiano del primo e del terzo e la scrittura massiccia siano da ricondurre agli insegnamenti di Vasilij Safonov, con il quale Skrjabin inizio` a studiare il pianoforte nel 1888. Safonov era stato allievo del grandissimo Theodor Leschetizky, ed era un uomo ambizioso che, formatosi nel conservatorio di S. Pietroburgo, si era fatto largo prepotentemente nel ‘‘concorrente’’ conservatorio di Mosca: era uno dei didatti che maggiormente contribuirono a stabilire la fama della ‘‘scuola russa’’, destinata a dominare il campo internazionale per tutta la prima meta` del Novecento. Penso quindi che per Safonov le composizioni dello Skrjabin adolescente fossero cosette all’acqua di rose, graziose ma non strumentalmente all’altezza della nascente tradizione russa. Non sappiamo quale fosse il tirocinio di Skrjabin durante il periodo degli studi con Safonov, ma sappiamo che quando dovette sospendere di suonare il pianoforte stava lavorando da ossesso sulla Fantasia sul ‘‘Don Giovanni’’ di Liszt, pezzo che strumentalmente sta le mille mi537

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Aleksandr Skrjabin

glia lontano dallo stile dello Skrjabin maturo. Possiamo considerare con ragione Rachmaninov come il prodotto piu` splendido di pianista-compositore formatosi nella scuola russa di fine Ottocento. E nulla di Skrjabin ricorda Rachmaninov quanto il primo movimento della Sonata in mi bemolle, ritoccato e pubblicato come Allegro appassionato in mi bemolle op. 4 (1888-1889, 1894). La scrittura ‘‘alla Rachmaninov’’ compare ancora in parte nella Sonata n. 1 in fa op. 6 (1892, 1895), composta nell’anno in cui Skrjabin conseguı` il diploma di pianoforte. La Sonata e` in quattro movimenti, con un nucleo tematico di tre suoni che ricorre in ognuno dei movimenti senza che si possa assolutamente parlare di forma ciclica. Imponente, tumultuosa, ardente, ‘‘romantica’’ nel senso gia` mitico che il termine aveva assunto alla fine del secolo, la Sonata e` pero` condotta drammaturgicamente in un modo che non era consueto nei romantici e che si trova per eccezione solo nella Sonata op. 35 di Chopin. All’Allegro con fuoco iniziale seguono un secondo movimento senza indicazione di tempo ma solo di metronomo, e un Presto rapinoso con tutti i caratteri del finale. Un brusca interruzione interrompe pero` il procedere vorticoso del Presto e poche battute appena sussurrate aprono il finale vero, una marcia funebre in fa di scrittura primitiva, con trio in Re bemolle come un coro mistico in lontananza. Il modello potrebbe essere stato il Notturno op. 37 n. 1 di Chopin, con il suo grave incedere processionale e il suo coro in distanza. Ma in Skrjabin non troviamo nulla di semplicemente ripetitivo. Questa conclusione inattesa sembra essere stata legata all’incidente piu` volte gia` da me citato. In una nota che si trova in un carnet del 1906 Skrjabin scriveva: ‘‘A vent’anni, inizio della malattia della mano. L’avvenimento piu` importante della mia vita. Ostacolo sul cammino del fine tanto sperato: lo splendore, la gloria. Mormorii contro il destino e contro Dio. Composizione della Prima Sonata con marcia funebre’’. La malattia segno` un brusco e drammatico arresto nel cammino che Skrjabin aveva percorso dal 1888 al 1892 e che in realta` lo aveva allontanato dal se stesso quale si era manifestato nella Sonata-fantasia in sol diesis e in altri pezzi della adolescenza. Il lento recupero della capacita` di suonare il pianoforte da concertista significo` anche il recupero di una personalita` che non cercava piu` di adattare se stessa al mondo ma che aspirava ad adattare il mondo a se stessa. L’incidente fu a suo modo provvidenziale, e Skrjabin uscı` grazie a esso dalla corazza in cui la scuola lo aveva rinchiuso. Al vecchio Skrjabin e` ancora da ascrivere l’Allegro da concerto in si bemolle op. 18 (1895, 1897), 538

Allegro appassionato in mi bemolle op. 4

grande pezzo virtuosistico in forma di primo movimento di sonata. Il nuovo, il vero Skrjabin fa la sua apparizione nella Sonata-fantasia n. 2 in sol diesis op. 19 (1892-1897, 1898), ripresa dopo essere stata messa in disparte e alla quale il compositore lavora anche durante un soggiorno a Roma del 1896, a seguito di un giro di concerti; la Sonata venne completata a Parigi dopo il matrimonio con la pianista Vera Isakovicˇ. Due movimenti collegati, costruzione saldissima pur nella vaghezza del primo movimento che Skrjabin dice ispirato alla ‘‘tranquillita` d’una notte meridionale sulle rive del mare’’, con lo sviluppo che rappresenta ‘‘la scura agitazione del mare profondo, profondo’’ ma la cui ‘‘sezione mediana in modo maggiore’’ evoca ‘‘il carezzevole chiaro di luna che si leva nella iniziale oscurita` della notte’’. Il secondo movimento, sempre secondo l’Autore, e` ispirato alla ‘‘vasta distesa dell’oceano sconvolto dalla tempesta’’. A dire il vero la musica non riflette secondo me del tutto, nell’Andante iniziale, l’idilliaca descrizione che ne da` Skrjabin. Il nucleo tematico dell’inizio e` un vero e proprio motto che con il ritmo guerriero e le note ribattute (quasi trombe) crea un clima di attesa e di vaga minaccia. Il contrasto fra questo nucleo, che ricompare nello sviluppo in modo piu` pressante, contrasta profondamente con il secondo tema melodico, vago, carezzevole, strumentato con ornamentazioni complesse che rinnovano una scrittura moolto frequente nelle parafrasi di Liszt. La fine, sı`, e` idilliaca, ma non manca un ultimo richiamo al motto iniziale, cosicche´ l’insieme e` percorso da una sottile inquietudine. La tempesta di mare del secondo movimento compare con tutta evidenza, e se concediamo qualcosa alla fantasia possiamo anche vedere nel secondo tema le grida d’aiuto dei naufraghi e, verso la fine, le onde gigantesche e distruttrici. Ma la raffigurazione naturalistica non sembra sufficiente a esaurire il significato della Sonata-fantasia. E io credo che le affermazioni di Skrjabin siano piuttosto da intendere come indicazioni da interpretare in senso simbolista. Il simbolismo sara` la cifra ricorrente nelle Sonate successive: non si vede perche´ questa Sonata dovrebbe essere semplicemente naturalistica. Decisamente simbolista e` la Sonata n. 3 in fa diesis op. 23 (1897, 1898), l’ultima di Skrjabin che conserva l’articolazione in piu` movimenti distinti; dopo l’op. 23 le sorelle avranno un solo movimento, nella forma dell’allegro di sonata con introduzione. Per la Sonata in fa diesis minore Skrjabin penso` a un programma esplicativo degli ‘‘stati d’animo’’, e lo mise per iscritto ma non lo pubblico`: venne riscoperto nel 1915 e la scoperta fu una

Sonata n. 4 in Fa diesis op. 30

manna per i critici, sia per quelli che lodavano che per quelli che biasimavano. Il primo movimento, Drammatico, svolge il tema ‘‘l’anima libera e scontrosa si precipita con passione nel dolore e nella lotta’’. Il secondo movimento, Allegretto, e` riferibile sempre all’anima, che ‘‘ha trovato un riposo momentaneo’’ e che, ‘‘stanca di soffrire, vuole stordirsi, cantare, e nello stesso tempo fiorire. Ma il ritmo leggero e le armonie profumate non sono che un velo attraverso il quale traspare l’anima inquieta e piagata’’. Il terzo movimento esplora il tema ‘‘l’anima vaga alla deriva in un mare di sentimenti dolci e melanconici: amore, tristezza, vaghi desideri, pensieri indefinibili d’una grazia fragile di fantasma’’, e nel movimento che conclude le sue peregrinazioni, Presto con fuoco, l’anima inquieta e piagata deve vedersela con forze che la sovrastano: ‘‘Nella tormenta degli elementi scatenati l’anima si dibatte e lotta con esaltazione. Dalle profondita` dell’essere si leva la voce formidabile dell’Uomo-Dio col suo canto di vittoria trionfante. Ma ancor troppo debole, mentre sta per raggiungere la vetta, l’anima precipita fulminata nell’abisso del Nulla’’. Capperi, vien da dire, che destino per quella meschinetta! Che l’Uomo-Dio sia Skrjabin e` qualcosa piu` di un sospetto. E si ha l’impressione che il programma sia in parte dovuto al fatto che Skrjabin componeva una sonata in quattro movimenti che doveva necessariamente avere il suo scherzo e il suo adagio. L’abbandono della articolazione in piu` movimenti sara` determinante per permettere la identificazione del simbolismo nella struttura musicale. Nella Sonata n. 3 siamo ancora a mezza strada. Ma sarebbe sbagliato ironizzare troppo sul suo programma, sebbene esso faccia di tutto per attirarsi addosso qualche strale. Skrjabin, questo lo si capisce subito, era e sarebbe restato fino all’immatura fine un mistico, e i mistici hanno delle visioni. Il messianesimo della Sonata finisce, coerentemente con il programma e inaspettatamente per l’ascoltatore, in tragedia. E perche´ finisce cosı`? Perche´ , secondo me, il canto dell’Uomo-Dio e` roboante ma non sa fare da parafulmine, mentre cio` che lo precede avrebbe dovuto portare necessariamente l’anima alla cima. Qui si pone un tema che la critica del Novecento ha in generale sempre negato ma che e` riaffiorato nel Duemila, e cioe` la distinzione fra pensiero e materia. In questo specifico caso possiamo chiederci se il giovane Skrjabin sapeva strumentare per pianoforte in modo interamente idiomatico. Il culmine glorioso del canto, che musicalmente e` ineccepibile, e` troppo schematico nella strumentazione. Liszt non cascava mai in queste trappole: nella sua Sonata l’anima perisce

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anch’essa, ma il culmine e` un travolgente trionfo e il Nulla viene raggiunto in un certo lasso di tempo che conduce psicologicalmente l’ascoltatore a dire una preghiera in suffragio della disgraziata. Se ci fosse stata ancora l’usanza artigianale di chiedere consiglio ai colleghi Skrjabin avrebbe potuto andare, morto Liszt, dal solo Rachmaninov, che da Liszt aveva preso tutto. Pero` Skrjabin non aveva nessuna simpatia per il coetaneo, il cui suono, diceva, sembrava prosciutto bollito. Skrjabin lavorava con un materiale forse piu` pregevole, ma Rachmaninov era un cuoco sicuramente piu` bravo. Prendiamo il primo movimento, che e` magnifico, che di Chopin conserva solo qualche elemento, e non primario, e che adorna il secondo tema con cascate di fiori. Il primo tema e` degno del secondo, e tutto il movimento riunisce i contrasti con una concentrazione e una continuita` che tolgono il respiro agli ascoltatori. Altrettanto convincente il secondo movimento, giovanile e battagliero, e purtroppo un tantino troppo breve, tanto che Horowitz gliene aggiungeva un pezzetto. Nulla da dire, se non ammirarlo incondizionatamente, sul terzo movimento e su gran parte del quarto. Poi arriva il canto che non scaccia il tormentone, e il precipizio e` troppo poco profondo. Skrjabin non voleva, o non sapeva condurre la musica in accordo con il programma? Io credo che non sapesse ancora, al contrario di quello che seppe invece fare nella Sonata successiva. Dopo la Sonata n. 3 Skrjabin compose molti pezzi per pianoforte, fra i quali la Fantasia in si op. 28 (1900, 1901), che e` in forma di primo movimento di sonata. La Fantasia, drammatica nei suoi radicali contrasti fra il primo e il secondo tema, e` costruita perfettamente – e` singolare il fatto che Skrjabin possa passare dall’aforisma all’allegro di sonata con un dominio della forma che non ha mai cedimenti. Ma a me sembra che vi si possano riscontrare le inadeguatezze di strumentazione dell’ultimo movimento della Sonata n. 3. Il denso tessuto polifonico e` come compresso nella tastiera e l’esecuzione non puo` renderlo percepibile auditivamente. Si ha la sensazione di blocchi sonori, non di linee fittamente intrecciate, e solo la lettura rende con chiarezza l’ordito della composizione. La Fantasia fece parte del repertorio di due sommi virtuosi, e formidabili coloristi come Rachmaninov e Horowitz. Sarebbe del massimo interesse sapere se i due, che non avevano timori di intervenire nella strumentazione, eseguissero il pezzo cosı` com’e` scritto o se ne modificassero i passi piu` problematici. Purtroppo ne´ l’uno ne´ l’altro incisero in disco la Fantasia. La Sonata n. 4 in Fa diesis op. 30 (1899-1903, 1904) era stata iniziata nel 1899 ma Skrjabin ci la539

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voro` veramente solo nel 1903. L’op. 30 e` assai breve ed e` formata da due movimenti collegati e fusi in uno, come una ouverture da concerto. Il primo movimento e` in tre parti (esposizione, sviluppo, riesposizione), con riesposizione variata secondo moduli ornamentali e disposizione pianistica tipicamente lisztiani. Il Prestissimo volando e` in forma classica, con esposizione di due temi principali, sviluppo e riesposizione: unico particolare un po’ inconsueto e` l’inizio della riesposizione che, schubertianamente, parte dalla tonalita` della sottodominante. La tendenza a unificare le forme, che si coglie benissimo nelle Sonate n. 2 e n. 3, si fa piu` evidente nella Sonata n. 4, con l’impiego del tema del primo movimento anche nello sviluppo del secondo movimento, e con la conclusione, che riprende nuovamente, in un clima di accese sonorita` e di intenso lirismo (e con strumentazione non velleitaria), il tema principale del primo movimento. L’atmosfera della composizione e` bene espressa da un breve poema misticheggiante che Skrjabin scrisse dopo aver terminato il lavoro: il poema conta quarantadue versi; citero` qui l’inizio e la chiusa: In una leggera bruma, in trasparente vapore, Perduta nella lontananza, eppure distinta Una stella luccica delicatamente. Com’e` bella! Il mistero bluastro Del suo splendore indica me, mi culla. [...] Tu, la piu` grande, Stella! Ora tu sei un sole, Sole fiammeggiante! Sole di Trionfo! A te avvicinandomi dal mio desiderio di te Io mi bagno nelle tue onde cangianti. O bene gioioso, Io ti assorbo. Mare di luce, Mio me stesso in luce, Io ti divoro! La Sonata n. 4 e` meno nota della n. 5, rispetto alla quale puo` essere considerata come studio preparatorio, ma fu prediletta da Skrjabin che, come abbiamo gia` visto, concluse con essa il suo ultimo recital. La Sonata n. 5 in Fa diesis op. 53 (1907, 1908), composta rapidissimamente a Losanna negli ultimi giorni del 1907, fu eseguita ben presto da molti pianisti (tra gli altri, dal giovanissimo Artur Rubinstein), fu ripresa nel 1915 da Rachmaninov e nel dopoguerra da Gieseking e ottenne successi clamorosi, diventando per molto tempo l’unica Sonata di Skrjabin stabilmente entrata nei comuni repertori concertistici. La Sonata n. 5 rappresenta nello stesso tempo uno sviluppo della So540

Sonata n. 5 in Fa diesis op. 53

nata n. 4 e una preparazione del Poema dell’estasi per orchestra op. 54. Preparazione per quanto riguarda l’organizzazione formale e l’armonia, ma anche per quanto riguarda il significato drammaturgico. All’inizio della Sonata, infatti, Skrjabin pone come epigrafe una citazione del lungo Poema dell’estasi, creato per illustrare l’omonima composizione orchestrale: Vi chiamo alla vita, o forze misteriose! Immerse nelle oscure profondita` Dello Spirito Creatore, timidi Embrioni di vita, a voi porto l’audacia. La Sonata n. 5 segna il momento in cui il misticismo di Skrjabin diventa visionario, proiettandosi in una concezione di radicale rinnovamento dell’uomo per mezzo dell’arte, concezione che ha profonde radici wagneriane e nietschiane e che si nutre delle tesi dei poeti simbolisti russi e delle teorie della Societa` teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatskij (Skrjabin aveva letto Le Chiavi della teosofia della Blavatskij nel 1905, scrivendo poi alla moglie: ‘‘Sono stupefatto di quanto sia vicina al mio pensiero’’). Nella Sonata n. 5 le visioni misteriosofiche di Skrjabin si realizzano musicalmente con un rinnovamento dell’armonia, rinnovamento che colloca l’Autore fra i grandi rivoluzionari del linguaggio del Novecento. La forma tradizionale a cui Skrjabin fa ancora riferimento, e che trasforma genialmente, e` quella del primo movimento di sonata, la forma-sonata per antonomasia. Il movimento unico della Sonata op. 53 puo` essere infatti considerato un primo movimento di sonata molto amplificato, con introduzione in due parti (Allegro, Impetuoso, Con stravaganza, che simboleggia le ‘‘oscure profondita`’’, e Languido, che simboleggia i ‘‘timidi embrioni di vita’’), esposizione di due temi principali (Presto con allegrezza, tema gia` in parte anticipato nel Languido, e Meno vivo) e due temi secondari (il primo con didascalia Imperioso, il secondo in tempo Presto tumultuoso esaltato). L’ampio sviluppo ingloba anche i temi della introduzione, la riesposizione e` regolarissima; nella coda conclusiva il tema simboleggiante gli ‘‘embrioni di vita’’ viene ripreso in fortissimo e con la didascalia Estatico. Ma la fine trionfale viene contraddetta dalla riapparizione dell’inizio, delle ‘‘oscure profondita`’’. Le prime cinque e le ultime due Sonate di Skrjabin riscuotono sempre il gradimento del pubblico, mentre la Sesta, la Settima e l’Ottava risultano quanto mai ostiche. Lo stesso Sviatoslav Richter lo constatava in una nota del suo diario, esprimendo benissimo il senso di attrazione e insieme di ripulsa che si prova ascoltanto la Sesta: ‘‘Sono specialmente preso dalla Sesta, e tuttavia l’ho eseguita so-

Sonata n. 9 op. 68

lo due volte e non voglio eseguirla ancora. E` un’opera notturna, misteriosa’’. E non la eseguı` piu` . Ma non la eseguı` neppure Skrjabin, mai, perche´ la vittoria delle forze tenebrose era, nella Sonata ‘‘impura e malefica’’, troppo schiacciante. Se fosse ancora invalso l’uso antico di pubblicare diverse sonate in raccolte con lo stesso numero d’opera le Sonate n. 4 e n. 5, le Sonate n. 9 e n. 10, e le Sonate n. 6, n. 7 e n. 8 avrebbero potuto apparire insieme. La complementarieta` e` soprattutto evidente nella Sonata n. 6 op. 62 (1911, 1912), nella Sonata n. 7 op. 64 (1911, 1913) e nella Sonata n. 8 op. 66 (1912-1913, 1913), tutte e tre costruite sul principio del continuum sonoro e dell’assenza di disegni chiaramente definiti e di prospettiva delineata in profondita`. L’armonia, molto evoluta ma ancora radicata nella tradizione fino alla Quinta Sonata, subisce una brusca accelerazione con la Sesta, diventando personalissima e lasciando l’ascoltatore senza punti di aggancio con cio` che gli e` consueto. L’evoluzione del linguaggio di Skrjabin e la logica della sua armonia hanno dato molto filo da torcere all’intelligenza dei teorici e danno ancora molto filo da torcere alla percezione degli ascoltatori. Le tre Sonate... incriminate richiedono in verita` un tipo di ascolto che si basa sulla contemplazione e sulla identificazione emotiva con il suono, non con il significato del suono. Skrjabin, come ho gia` detto, si stava proiettando verso il Mysterium che avrebbe dovuto diventare il culmine della sua creativita` e di cui rimangono soltanto gli abbozzi perche´ la tragica morte dell’autore a soli quarantatre anni d’eta` ne interruppe la composizione. La svolta ideologica comporta una svolta nella poetica e nel linguaggio, evidente nella Sesta Sonata anche per il fatto che non ci sono armature di chiave e non e` possibile riconoscere una tonalita` ma solo un polo tonale prevalente. Tuttavia Skrjabin attenuera` poi il radicalismo che si manifesta nel gruppo delle Sonata nn. 6-8, trovando nelle Sonate n. 9 e n. 10 un nuovo equilibrio fra linguaggio e comunicazione. Nelle ultime Sonate Skrjabin mantiene le didascalie in lingua italiana solo per le indicazioni di tempo, mentre usa il francese per le didascalie di espressione. La Sonata n. 7, la sonata della luce che segue la sonata delle tenebre, e` nota come Messa bianca. Di essa l’Autore scrisse: ‘‘Questa musica si avvicina gia` al Mysterium. Ascoltate questa gioia tranquilla. [...] Il tema scintillante in cui la fontana di fuoco conduce all’ultima danza, la dissoluzione con l’intervento della tromba degli arcangeli. E` veramente vertiginoso! L’ultima danza prima della smaterializzazione’’. Skrjabin aggiunge che la Sonata trasmette ‘‘un sentimento mistico e un’assen-

Aleksandr Skrjabin

za totale di sentimento umano o di lirismo emozionale’’. Sonata poematica, dunque, e ricca di implicazioni filosofiche. Ma l’analisi, i cui risultati non sono tuttavia verificabili all’audizione, dimostra che la costruzione e` saldamente ancorata allo schema del primo movimento di sonata. Nella Sonata n. 8, la piu` lunga delle tre, troviamo molte volte la didascalia ‘‘tragico’’. Per Skrjabin alcuni episodi della Sonata erano ‘‘la cosa piu` tragica del suo lavoro di creazione’’, e della armonia egli dice che ‘‘e` tratta dalla Natura, come se fosse preesistita, come la campane nella Settima Sonata’’. Mentre la Sonata n. 6 e la Sonata n. 7 erano blocchi architettonici con una sola indicazione di tempo – rispettivamente Moderato e Allegro – nel continuum della Sonata n. 8 troviamo molti cambi di tempo, e radicali (da Lento fino a Prestissimo). Riappare qui il modo fratto di costruire della Sonata n. 5 e ci sono i segni di quella nuova discorsivita` che troveremo nelle ultime due Sonate. La Sonata n. 9 op. 68 (1912, 1913) fu denominata Messa nera da un amico di Skrjabin, Alexandr Podgaetskij. Il titolo apocrifo, che e` diventato notissimo, non e` da prendere alla lettera, ma la Sonata puo` essere iscritta nel filone del demonismo russo, evidente soprattutto in certo Prokof’ev, e il suo significato simbolico, taciuto da Skrjabin, appare chiaro attraverso la conclusione, quando un tema raggiunge la sua formulazione piu` semplice e netta in un trionfale Alla marcia, ma viene subito interrotto e, per cosı` dire, ‘‘irriso’’ nel Piu` vivo. E la conclusione e` esitante e inquieta come l’inizio. Skrjabin eredita da Beethoven, attraverso il romanticismo e particolarmente attraverso Liszt, sia il mito prometeico della lotta che lo schema della ouverture da concerto, diventato con Liszt poema sinfonico. Questo schema formale e ideologico viene affermato nella sua formulazione positiva, come abbiamo visto, nella Sonata n. 4. Nelle Sonate successive lo schema formale si fraziona e si modifica fino a restare come una griglia e lo schema ideologico viene rovesciato in conclusioni, se non negative, per lo meno interroganti e incerte. All’inizio della Sonata n. 9 vengono presentati quattro nuclei – ‘‘motti’’ – tematici, che formano il primo tema. Un tema di transizione, caratterizzato da trilli e simboleggiante probabilmente il fuoco, porta al secondo tema che sorge a poco a poco avec una langueur naissante (con un nascente languore; negli ultimi anni, come ho detto prima, Skrjabin preferisce le didascalie in francese); il tema di transizione serve anche come tema di conclusione. Fino a questo punto lo schema classico viene in sostanza mantenuto. Lo sviluppo e` invece condotto secondo la tecnica wagneriana del leit541

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Sonata n. 10 op. 70

motiv perche´ i temi non vengono ‘‘sviluppati’’ ma ripresi in diverso ordine con variazioni di altezza e di timbro, senza che perdano mai la loro tipica individualita` e il loro valore, come dicevo prima, di perentori motti. La riesposizione arriva al culmine di uno sviluppo che e` dunque soprattutto dinamico, ed e` abbreviata; il secondo tema, non piu` avec une langueur naissante e piano, ma forte, pesante e Alla marcia, acquista la prevalenza. Eppure, come dicevo prima, non trionfa. E la Sonata termina con il motto cromatico con cui era iniziata. La Sonata n. 10 op. 70 (1913, 1913) chiude gioiosamente il ciclo che era iniziato ventisette anni prima con la Sonata-fantasia in sol diesis. La forma e` quella che Skrjabin aveva individuato come piu` confacente alle sue idee nella Sonata n. 4: introduzione in movimento moderato che fa da prologo, e allegro di sonata, con conclusione che riprende l’inizio. La forma e` facilmente individuabile. La drammaturgia e` bene espressa dalle didascalie. I due motti del prologo sono indicati con tre`s doux et pur (dolcissimo e puro) e avec une ardeur profonde et voile´e (con un ardore profondo e velato), i due temi dell’Allegro con avec e´ motion (con emozione) e avec une joyeuse exaltation (con una gioiosa esaltazione). Nel culmine dello sviluppo il secondo tema e` indicato con puissant, radieux

(possente, radioso), e la fine della Sonata e` segnata da avec une langueur de plus en plus e´teinte (con un languore vieppiu` spento). La scrittura pianistica e` leggerissima, aerea, ricca di trilli e di tratti rapidi e fruscianti, ma ricca anche di tessiture polifoniche di difficilissima realizzazione. La Sonata e` detta talvolta ‘‘degli insetti’’, denominazione dovuta a una affermazione di Skrjabin: ‘‘Gli insetti sono nati dal sole che li nutre. Sono i baci del sole, come la mia Decima Sonata, che e` una sonata di insetti. Se consideriamo le cose in questo modo, il mondo ci appare come una entita`’’. La Sonata n. 10 richiede piu` della n. 9 una sviluppatissima scienza del tocco, ma la strumentazione e` in questo caso del tutto logica e non presenta residui di stili del passato. Si tratta senza dubbio del piu` alto traguardo raggiunto da Skrjabin nel campo del pianoforte, e si affianca alle Images di Debussy e al Gaspard de la nuit di Ravel nello sfruttamento delle risorse del pianoforte moderno con telaio metallico fuso in un blocco solo e con una timbrica oggettivamente uniforme su tutti i registri ma modificabile per opera dell’esecutore. Ed e` un peccato che non sia diventata, al contrario dei lavori di Debussy e di Ravel, un test di eccellenza dei pianisti.

Gli Studi Nei 3 Pezzi op. 2 (1886, 1893) troviamo una delle composizioni piu` celebri e piu` ammirate di Skrjabin, lo Studio in do diesis che apre la raccolta (gli altri due pezzi sono il Preludio in si e l’Improvviso alla mazurca). Come studio, diciamolo pure, l’op. 2 n. 1 non e` gran cosa: due pagine di accordi, con il problema tecnico di mettere in evidenza la nota piu` acuta di ogni accordo, che appartiene alla melodia, e di individuare e di sottolineare qualche volta le voci interne. Saint-Sae¨ns aveva affrontato questo problema in termini ben piu` radicali nello Studio op. 52 n. 2 (1877), in cui le note della melodia attraversano gli accordi, scendendo e salendo, invece di essere sostenute da essi, e cosı` aveva creato, Saint-Sae¨ns, un tipo di difficolta` al limite dell’ineseguibile e che richiedeva comunque una tecnica trascendentale del tocco. Il titolo ‘‘studio’’ attribuito all’op. 2 n. 1 di Skrjabin non poteva che far sorridere chi nel 1886 era a conoscenza della letteratura pianistica: ambizione di un ragazzino che non sa cosa sia il mondo. Ma l’Andante in do diesis del ragazzino di quattordici anni si lasciava indietro di un bel po’ l’Andantino malinconico in la del quarantaduenne Saint-Sae¨ns. E non perche´ lo Studio di Saint-Sae¨ns fosse un’arida esercitazione. Anzi, esso faceva onore al malinconico appicci-

cato all’andantino. Ma nello Studio di Skrjabin l’intensita` del sentimento malinconico e` tale da lasciare sbalorditi, anche indipendentemente dal fatto che l’Autore e` un adolescente. E lo Studio op. 2 n. 1 e` l’unica composizione pianistica di un quattordicenne che sia stata inserita con tutti gli onori nei repertori di grandi virtuosi. Dopo l’isolato exploit dello Studio op. 2 n. 1 Skrjabin affronto` il genere, che rappresentava un punto d’onore per il pianista-compositore, in tre raccolte. Nei 12 Studi op. 8 (1894-1895, 1897) egli ripenso` in termini moderni la tradizione romantica, soprattutto quella che aveva avuto inizio con Chopin. ‘‘In termini moderni’’, che non significa soltanto, genericamente, secondo lo sviluppo che il linguaggio aveva percorso in un mezzo secolo, ma su un pianoforte, il pianoforte con telaio metallico fuso in un blocco solo, di cui ho gia` detto, le cui caratteristiche meccaniche e sonore erano in parte diverse da quelle del pianoforte romantico. In questo senso i due piu` noti – celebri, anzi – Studi dell’op. 8, il n. 11 e il n. 12, rinnovano perfettamente la tradizione, riproducendo sul pianoforte di fine secolo i rapporti prospettici dei piani di sonorita` che Chopin aveva creato sul pianoforte del 1830-40. Gli Studi vengono composti

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8 Studi op. 42

nel momento, che ho gia` ricordato, in cui Skrjabin riprende a suonare il pianoforte dopo due anni di sosta. Ed e` subito evidente che, cominciando a ricreare la sua tecnica in modo personalizzato e non piu` convenzionale, egli preferisce correre e saltare sui tasti neri. Questa e` probabilmente l’eredita` che Skrjabin riceve indirettamente da Chopin, i cui esercizi sulle cinque dita collocavano indice, medio e anulare sui tasti neri. Negli ultimi due Studi che prima citavo, rispettivamente in si bemolle e in re diesis, la prevalenza dei tasti neri e` assoluta, e sui tasti neri suonano anche il pollice e il mignolo. Ma gia` lo Studio n. 1, in Do diesis, impiega tutti i tasti neri, e li impiegano il n. 4 in Si, il n. 7 in si bemolle, il n. 9 in sol diesis e il n. 10 in re bemolle, mentre gli Studi n. 5 in Mi e n. 8 in La bemolle impiegano quattro tasti neri su cinque. I problemi tecnici tradizionali che Skrjabin affronta riguardano le ottave (Studi n. 5 e n. 9), le seste (n. 6) e le terze (10). Meno convenzionali sono le estensioni della mano sinistra (Studi n. 7 e n. 12), le note ribattute (Studio n. 1) e le combinazioni poliritmiche (Studi n. 2 e n. 4). Gli Studi n. 8 e n. 11, in movimento lento, potrebbero essere movimenti di sonata o notturni, ma la sistematicita` con cui viene scandagliata la tecnica del tocco differenziato nella stessa mano li rende studi a pieno titolo. La predilezione per i tasti neri fa supporre che reimpiantando la sua tecnica dopo la malattia Skrjabin adottasse una posizione della mano con il polso piu` alto delle nocche e con le dita distese, che tenesse leggero il braccio e che sfruttasse prevalentemente i muscoli flessori delle dita, abbandonando la tecnica del suo maestro Safonov che, per quanto appare negli esercizi Nuova Formula per Insegnanti e Studenti di Pianoforte (1916) era basata sulla articolazione delle dita mediante i muscoli estensori e sulla partecipazione attiva del peso del braccio. Con gli 8 Studi op. 42 (1903, 1904) Skrjabin cerca sonorita` diverse, cerca cioe` di trovare cio` che il pianoforte moderno ha di suo proprio. Non tutti gli Studi dell’op. 42 sono sperimentali, beninteso, ma nell’equilibrio della raccolta la sperimentazione gioca il ruolo preponderante. Lo Studio n. 1 in Re bemolle e` in questo senso il piu` significativo. La misura di tre/quarti viene ‘‘riempita’’ da Skrjabin con terzine alla mano destra (nove suoni) e con cinque suoni alla mano sinistra, collocati in un disegno a specchio che raggiunge una distanza massima di decimaprima – nella prima battuta, poi gli intervalli cambiano – sia alla destra che alla sinistra. Siccome pochissime mani coprono sulla tastiera la distanza di decimaprima, e non molte prendono agevolmente la decima, la scrittura dello

Aleksandr Skrjabin

Studio richiede continue oscillazioni laterali della mani, alternativamente verso destra e verso sinistra. L’alta velocita`, Presto, con una densita` alla destra di dieci suoni circa al secondo, non consente pero` spostamenti controllati ma solo una specie di fulminea serpentina. Il tasto – ne ho gia` accennato parlando dei Preludi – viene cosı` attaccato tangenzialmente invece che perpendicolarmente, la qualita` timbrica del suono e` sfuggente, impalpabile e, fatto piu` sorprendente, i suoni toccati dai pollici prendono un rilievo che non dipende dalle intenzioni dell’esecutore ma che risulta automaticamente dalla scrittura. L’impressione di una ‘‘superficie’’ sonora ondulata, l’impressione di assenza di profondita` e` molto netta, e tanto piu` sorprendente in quanto il romanticismo aveva invece lavorato nel senso opposto, nella moltiplicazione dei piani sonori e nella creazione o simulazione di una prospettiva. Si possono trovare analoghe ricerche in Chopin (nei Preludi op. 28 n. 5 e n. 19, ad esempio): analoghe, ma molto meno sviluppate e poco sfruttate dai contemporanei e dai successori, cosicche´ si puo` parlare, con Skrjabin, di scoperta di fasce timbriche che sul pianoforte moderno suonano comunque diversamente che sul pianoforte romantico. Lavorando su questa qualita` di suono Skrjabin ritrova poi, nello Studio n. 6 in Re bemolle, una possibilita` di prospettiva, diciamo cosı`, molto appiattita; ed e` qui che nasce lo stile pianistico di Skrjabin in quanto ha di piu` proprio e di piu` singolare. In Skrjabin, come ho gia` accennato, la singolare qualita` del suono era ottenuta con una tecnica altrettanto singolare e molto faticosa perche´ ‘‘non naturale’’ e antifisiologica. Il concetto stesso di tecnica ‘‘naturale’’ ha perduto oggi il significato che aveva nei primi decenni del Novecento, e anche la tecnica viene considerata, per lo meno in limiti abbastanza ampi, quale prodotto di cultura. E` tuttavia da ricordare che Skrjabin, imboccando una strada personale nel definire la sonorita` del pianoforte, si trovo` in contrasto con le ricerche teorico-pratiche di chi intendeva individuare i mezzi piu` acconci per rendere sul pianoforte moderno la letteratura romantica. Era questo il problema che i maggiori ricercatori tedeschi e inglesi stavano indagando all’inizio del secolo, era questo il problema che la scuola russa risolveva per via sperimentale, ed era questo il problema che Skrjabin aveva abbandonato dopo gli Studi op. 8. Nell’op. 42 Skrjabin non si pose problemi di tecnica istituzionalizzata. Le estensioni e le sovrapposizioni poliritmiche sono prevalenti, lo Studio n. 3 in Fa diesis sfrutta intensivamente il trillo, al punto da essersi meritato il titolo apocrifo Mosquito. Skrjabin eseguı` spessissimo lo Studio op. 543

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Aleksandr Skrjabin

42 n. 5, affannato, che e` il piu` celebre della raccolta, poco nota nel suo insieme ma molto importante sia nel corpo dell’opera di Skrjabin che nel contesto della letteratura del Novecento. Dei 3 Studi op. 65 (1911-1912, 1913) e` innanzitutto sorprendente il primo. Non ci saremmo mai aspettati dal tardo Skrjabin un pezzo basato su un problema tecnico, e abbiamo invece uno studio sull’intervallo di nona. L’intervallo di nona e` dissonante come gli intervalli di seconda e di settima, e quindi l’Ottocento non poteva nemmeno immaginare che si inzeppasse un pezzo con intervalli dissonanti. Ma la nona era diventata consonante con Debussy, e Skrjabin la sfrutta in un brano di sonorita` leggerissima e ornamentale. Le facce baffute dei giannizzeri, che avevano terrorizzato l’Europa fino alle soglie del Settecento, potevano trasformarsi, perdendo tutta la loro carica paurosa, nel logo di una tappezzeria o in un tappo di bottiglia. E le none dello Studio op. 65 n. 1 fanno questa impressione di gioco disinvolto con

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3 Studi op. 65

un babau. Le none rappresentano pero` non solo un problema linguistico ma anche tecnico perche´ la mano normale, che prende bene l’ottava, sulla nona stenta un po’. Ci sono stati pianisti di piccola statura – Artur Rubinstein, ad esempio – con mani enormi. Skrjabin era piccolo e minuto, e piccole erano le sue mani. Percio` egli non eseguı` mai lo Studio op. 65 n. 1. Lo Studio op. 65 n. 2... esorcizza l’intervallo di settima, e il n. 3 l’intervallo di quinta giusta. In verita`, la quinta non era un intervallo dissonante, anzi, era non solo consonante ma, appunto, giusta, come la quarta e l’ottava. Pero` le quinte consecutive erano vietate da tempo immemorabile, e uno studio sulle quinte non poteva che basarsi sulla ripetizione dell’intervallo. Percio` lo Studio op. 65 n. 3 esorcizza anche lui un tabu`, e tutta l’op. 65 diventa uno sberleffo ‘‘modernista’’ piu` elegante ma simile al futurismo di Prokof’ev, che nel 1911 aveva rotto i timpani alla gente con gli sferragliamenti della Toccata op. 11.

Bedrˇich Smetana

Pezzi caratteristici op. 1

A Bedrˇich Smetana

B

(Litomysˇl, 2 marzo 1824-Praga, 12 maggio 1884) Smetana opero` come musicista con l’intento, l’ambizione, la ‘‘missione’’ di creare l’opera nazionale. Ma gli inizi della sua attivita` furono quelli piu` modesti del pianista-compositore. E in quanto tale egli si impegno` su due delle tre direttrici che gli avrebbero permesso di affermarsi. Non compose concerti, probabilmente perche´ dopo una tourne´e del 1847 rinuncio` in pratica alla carriera di pianista, ma compose pezzi virtuosistici da concerto e pezzi caratteristici per il mercato dei dilettanti. Come compito scolastico compose la Sonata in sol (1846, 1949), cosı` come Chopin aveva risposto con la Sonata op. 4 a una richiesta del suo maestro. Smetana – il lettore non si stupisca – non era meno dotato di Chopin, e cosı` come la Sonata op. 4 e` ben piu` di una esercitazione scolastica, la Sonata in sol e` sorprendente per il magistero formale e per la maturita` della strumentazione. Vi si nota l’influenza di Berlioz, che a Praga, dove Smetana abitava, aveva diretto nel 1846 la sua Sinfonia fantastica. Anche la Sonata di Smetana, come la Fantastica, ha una ‘‘idea fissa’’ ricorrente. La costruzione e` classica nel primo movimento, Allegro, ma il secondo movimento, Adagio, e` eccezionalmente tagliato in forma di rondo` in sette episodi. Lo Scherzo, brevissimo, funge da intermezzo rispetto al secondo movimento e al finale, Molto vivace, al frenetico finale che comincia inaspettatamente con un fugato e che si sviluppa come rondo`. Smetana aveva ascoltato in concerto Liszt, Thalberg, Henselt, e aveva eseguito le loro musiche. La scrittura della Sonata, molto virtuosistica, non e` pero` riferibile a nessuno in particolare: a ventidue anni Smetana era gia` in grado di operare una sintesi del virtuosismo romantico. Insomma, nel giovane Smetana, come nel giovane Chopin, si vede subito il pianista nato. Il pianista-compositore Smetana comincia a spuntare gia` nelle Variazioni su un tema dei Capuleti e Montecchi di Bellini (1840, 1924), ma si mostra piu` maturo nei Due Studi (1844-1846, 1905), nell’Allegro capriccioso (1849, 1907), nella Toccatina in Si bemolle (1849, 1907) e nel Galop di bravura (1849, 1907), a cui seguiranno piu` tardi le Tre Polche da sala op. 7 (1854, 1855), lo Studio da concerto op. 12 (1858-1859, 1905) e lo Studio da concerto op. 17 (1861, 1864). Il primo dei Due Studi esplora le estensioni, il secondo gli accordi staccati, entrambi sono di difficolta` tra-

scendentale e molto idiomatici per il pianoforte. Lo Studio op. 12 e` toccatistico, uno studio di agilita`, lo Studio op. 17, intitolato Sulla riva del mare, impiega in larga misura gli arpeggi. Gli altri due pezzi da concerto di Smetana sono Macbeth e le streghe (1859, 1912) e la Fantasia concertante su temi popolari cechi (1862, 1887). La Fantasia e` una rapsodia ‘‘alla Liszt’’ che potrebbe tranquillamente entrare nel repertorio concertistico. Ma siccome il repertorio ha praticamente ‘‘espulso’’ le Rapsodie ungheresi di Liszt e` ben difficile che accolga il pezzo di Smetana. Un tempo capitava di ascoltare spesso Macbeth e le streghe da Rudolf Firkusˇ ny´, oggi il pezzo e` scomparso. Il suo programma non e` del tutto evidente. Si presume che Smetana abbia tenuto presente la scena in cui Macbeth, re di Scozia, interroga le streghe sul suo destino, ma non e` escluso che si tratti invece dell’altra scena, quella in cui Macbeth, non ancora asceso al trono, incontra nella landa le streghe, che gli predicono i prossimi avvenimenti. La struttura e` in due parti e coda, la concezione drammaturgica e la scrittura pianistica sono a tal punto lisztiane da confondersi con certe musiche di Liszt ma, sorprendentemente, non con quelle della fine degli anni cinquanta, quanto piuttosto con quelle posteriori di almeno dieci anni. Per cosı` dire, Smetana, partendo da Liszt, ne anticipa gli sviluppi. Splendido pezzo da concerto che dovrebbe essere conosciuto da tutti e che rimane invece ignoto. Lo Smetana che cerca di inserirsi nel mercato dei dilettanti esordisce con piccoli pezzi che rimangono inediti, fra i quali la innocentissima Polca Luisina (1840, 1924) dedicata a una cuginetta, ma riesce poi a far pubblicare, grazie all’intervento di Liszt, i Pezzi caratteristici op. 1 (1847-1848, 1851). Smetana, come ho detto, aveva rinunciato a proseguire la carriera appena iniziata del pianistacompositore e si proponeva invece, come avrebbero fatto molto piu` tardi Jana´cˇ ek e Granados, di fondare una scuola. Dedico` l’op. 1 a Liszt e gliela spedı` il 23 marzo 1848, chiedendo con disperazione un aiuto finanziario per avviare la scuola. Liszt rispose scusandosi di non poter inviare denaro ma espresse un alto apprezzamento per i pezzi e segnalo` calorosamente il nome di Smetana a un editore di Lipsia. I Pezzi caratteristici non erano esattamente cio` che poteva lusingare Liszt, perche´ na545

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Bedrˇich Smetana

scevano sotto il segno di Schumann. Ma Liszt era la generosita` fatta persona e... guardo` al sodo. Il sodo era una raccolta di sei pezzi con un motto ricorrente, simile all’idea fissa della Sonata. L’organizzazione tonale era singolare ma nello stesso tempo logicissima: Do, do, Sol, sol, Re, re. Il brano d’apertura, Nella foresta, e` un canone, intitolato in un primo momento Gretel. L’idea era di riprodurre il canto di una fanciulla e l’eco del canto nella foresta, ma Liszt ritenne che un canone fosse la cosa meno adatta per una gentile figura femminile, e cosı` il titolo fu cambiato. Vengono poi la Nascente passione, La pastorella, il Desiderio, Il guerriero, la Disperazione. Smetana non andava sul leggero, come si vede, nella sua immersione nel patetismo romantico, ma la sua sincerita` e la sua genialita` di creatore riscattavano e riscattano cio` che di ingenuo e di eccessivo si trova nei suoi Pezzi caratteristici. L’8 agosto 1848 Smetana pote´ inaugurare il suo Istituto di Educazione per l’Esecuzione Pianistica, a cui affluirono subito molti allievi, e l’anno dopo si sposo`. Per i concerti che intendeva far sostenere agli allievi piu` bravi egli trascrisse per piu` pianoforti diverse pagine sinfoniche e compose la Sonata in mi (1849, 1906) e il Rondo` in Do Giovinezza (1849, 1906), entrambi per due pianoforti a otto mani. La Sonata e` in realta` un primo movimento di sonata in forma classica e di stile classicheggiante, una cosa che sta a mezza strada fra Hummel e Mendelssohn ma che e` di struttura non ridondante. Convenzionale sul piano linguistico e formale, la Sonata e` invece originale sul piano drammaturgico: un tema burbero e nervoso, un tema grazioso e sorridente ci danno l’idea di due personaggi, diciamo un qualcosa che ricorda la Serva padrona di Pergolesi. E la discorsivita` non conosce soste. Smetana, ho detto prima, era un pianista nato. Dalla Sonata si capisce che era anche un operista nato. Il Rondo` e` decisamente biedermeier, molto spigliato e spensierato, brillantissimo, con una coda in tempo accelerato. Leggendo due pezzi cosı` piacevoli e tradizionali si capisce bene come gli allievi e le loro famiglie dovessero essere entusiaste dell’insegnamento di Smetana. Insoddisfatto, come vedremo fra poco, era invece lui, a cui il mestiere di insegnante assicurava il pane ma non... il companatico. L’organizzazione tonale dei cicli sembra essere stata una costante preoccupazione del giovane Smetana. Gia` le otto Bagatelle e Improvvisi (1844, 1903) seguono l’ordinamento, da Do a fa diesis procedendo per quinte ascendenti, che era in quel momento il piu` frequentemente scelto per le raccolte di ventiquattro pezzi nelle ventiquattro tonalita`. I sei Fogli d’album op. 2 (1848-1850, 1851), 546

Sonata in mi

pubblicati dallo stesso editore presso il quale era uscita l’op. 1, erano la prima tranche di un ciclo nelle ventiquattro tonalita`. Ma siccome l’editore non accetto` l’idea, e Smetana non trovo` un altro editore, della progettata serie restarono solo gli spezzoni. L’op. 2 e` organizzata, alla Chopin, sulla sequenza Do, la, Sol, mi, Re, si. I Tre Fogli d’album op. 3 (1856, nn. 1 e 2 1857, n. 3 1903) sono in Mi, La e do diesis (da notare che i primi due Fogli furono fatti pubblicare da Liszt in una collezione di pezzi di vari autori). I Quattro Schizzi op. 4 e i Quattro Schizzi op. 5 (1856-1857, 1858) sono sempre i... relitti, diversamente denominati, dei Fogli d’album (in fa diesis, Si, sol diesis, Fa diesis; ma a questo punto troviamo un altro pezzo in sol diesis, e poi proseguiamo con Re bemolle e fa), e l’ultimo relitto pubblicato da Smetana e` l’Andante in Mi bemolle (1855, 1856). I restanti Sei fogli d’album (1848-1854, 1903) sono in si, Si bemolle, sol, Sol, mi bemolle, si bemolle. Dunque, ventiquttro Fogli d’album in ventidue tonalita`. E` un vero peccato che Smetana non abbia avuto modo di lavorare al ciclo completo. Si potrebbero trasportare in do il doppione in sol diesis e in Fa il doppione in Sol. Non mi risulta che qualcuno ci abbia provato. Ma l’unita` del ciclo sarebbe tuttavia del tutto ipotetica. Dall’op. 3 Smetana aggiunse talvolta dei titoli che portavano i suoi fogli d’album nel campo del caratteristico: A Robert Schumann, Canto di marcia, Idillio, Malinconia e cosı` via. E l’op. 4 e l’op. 5 furono dedicate a Clara Schumann, che gradı` l’omaggio e che valuto` positivamente i pezzi. Ma che non li eseguı`. Ne´ Liszt, che nel 1847 si era ritirato dal concertismo, pote´ far girare il nome di Smetana. A trentadue anni Smetana, che aveva raggiunto il successo come didatta, non era dunque riuscito ad affermarsi come compositore ne´ in patria, ne´ in Austria e in Germania. Nel 1856, su raccomandazione del pianista ceko Alexander Dreyschock, fu nominato direttore d’orchestra della Societa` Filarmonica di Go¨ teborg e fino al 1861, salvo viaggi estivi a Praga e a Weimar, rimase confinato a guadagnarsi la pagnotta – e fare un’eccellente opera di propagazione della cultura musicale – in Svezia. Nel 1862, rientrato a Praga con una certa nomea conquistata all’estero, comincio` a scrivere l’opera I Brandeburghesi in Boemia e al pianoforte penso` sempre meno, anzi, dal 1863 al 1875 non ci penso` affatto. Ho segnalato le pagine pianistiche che nel periodo corrente fra la conclusione degli studi e il ritorno in patria dalla Svezia meritano secondo me di essere ricordate. Certo, nessuna delle musiche pianistiche di questo periodo eguaglia il Trio in sol del 1855, originalissimo, un autentico capola-

Polca Bettina

voro. E lo slancio con cui Smetana componeva per pianoforte quando ancora pensava di ottenere con esso la fama si era progressivamente intiepidito. La vocazione teatrale esplodeva in uno Smetana prossimo ai quarant’anni e non avrebbe piu` cessato di alimentare la sua creativita`, facendo di lui il capoflia della musica boema. Il ritorno di Smetana al pianoforte avviene con Sogni (1875, 1878): sei pezzi dedicati a sei diverse contesse, il che ci dice come il compositore fosse diventato il beniamino del gran mondo. Si tratta di pezzi caratteristici ma non pensati per i dilettanti perche´ la loro scrittura e` virtuosistica. La Felicita` spenta che apre la raccolta si pone sotto l’ala di Liszt, gli altri cinque pezzi – La Consolazione, In Boemia, Nel salotto, Vicino al castello, Festa di contadini boemi – sono piu` personali. Sembra che i primi due pezzi siano da legare alle vicende esistenziali di Smetana, che nel 1874 aveva avvertito i primi sintomi della malattia che lo avrebbe portato alla completa sordita`. Nel salotto e` un disinvolto valzer da concerto, gli altri tre pezzi rientrano evidentemente nel solco del ciclo di poemi sinfonici La mia patria, iniziato nel 1874 e ultimato nel 1879. Ho citato all’inizio la prima Polca di Smetana. Fra il 1840 e il 1860 egli compose altre diciotto polche complete e sei che rimasero allo stato di frammenti piu` o meno estesi. Riprendendo a comporre per pianoforte dopo la lunga pausa di cui s’e` detto, Smetana fece uscire dopo i Sogni le due serie di Danze ceche (1877 e 1879, 1880 e 1881), comprendenti rispettivamente quattro Polche e dieci danze di vario tipo. La forma delle quattro Polche e` quella usuale con o senza trio, senza pero` le estensioni e le finezze architettoniche che si riscontrano in certe Mazurche di Chopin. La scrittura e` molto virtuosistica, lisztiana, e richiede un interprete tecnicamente ferratissimo. La seconda serie comprende danze maschili e danze femminili, le prime in tempo mosso, le seconde in tempo moderato, le prime robuste ed estrose, le seconde liriche e sognanti. Le forme sono un po’ piu` variate di quelle della prima serie, ma la base e` sempre la tripartizione danza-trio-danza da capo. La schematicita` della forma sta in relazione con la semplicita` della drammaturgia, che non sfiora nemmeno alla lontana il tono epico di certe Mazurche e di certe Polacche di Chopin o delle Rapsodie ungheresi di Liszt. Ma i temi – quelli della seconda serie sono presi in gran parte da una raccolta pubblicata da tempo e molto diffusa – sono splendidi, la scrittura e` brillantissima, e quindi le Danze ceche sono a tutti gli effetti pezzi da concerto di fattura impeccabile, ... che non vengono mai proposti al pubblico. In passato godettero pero` di una certa

Bedrˇich Smetana

fama la danza n. 2 della seconda serie, La Gallinella, la n. 4, L’Orso, la n. 5, La Cipollina, e la n. 7, L’Ulano. La cronologia non giustifica interamente l’impressione che mi fanno le Danze ceche, ma io ho il sospetto che Smetana, pianista, volesse dimostrare che cosa si poteva fare di grandioso con un solo esecutore, mentre il non-pianista Dvorˇa´k impegnava due esecutori nelle Danze slave op. 46 per pianoforte a quattro mani, composte e pubblicate nel 1878. L’idea delle danze slave era nell’aria da quando erano usciti con grande successo i primi due fascicoli delle Danze ungheresi di Brahms (nel 1869 nella versione a quattro mani, nel 1872 nella difficilissima trascrizione a due mani). Smetana era stato appoggiato da Liszt, Dvorˇa´k era stato ed era appoggiato, e molto, da Brahms. Per di piu` Dvorˇa´k, dopo aver composto copiosamente musica strumentale, dal 1874 aveva intrapreso il mestiere dell’operista in cui Smetana non aveva avuto fino ad allora competitori in Boemia. E quindi io suppongo che Smetana, infastidito dalla concorrenza di Dvorˇa´k, pensasse alle Danze ceche per dimostrare la sua valentia in un campo in cui il rivale non poteva tenergli testa e in cui lui poteva tener testa Brahms. Se questo era il suo desiderio si tratto` di un flop... Le ultime pagine pianistiche di Smetana sono l’Andante in fa (1880, 1880), scritto per contribuire a una raccolta di fondi per il Teatro Nazionale, e la Romanza in sol (1881, 1881), armonicamente preziosa, scritta per un album in onore del principe Rodolfo (quello di Mayerling...). Ma c’e` ancora una ultimissima pagina, la Polca Bettina (1883, 1904), la cui storia e` assai singolare. Smetana l’aveva abbozzata nel 1859, quando cominciava a corteggiare quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, Bettina Ferdinandi, figlia di un proprietario terriero di origine italiana. La ragazza lo aveva al primo momento snobbato, e lui non aveva finito la Polca. Nel 1883, dopo ventitre anni di matrimonio, la riscrisse, a memoria, e la completo`. Credeva che l’abbozzo del 1859 fosse andato perduto. Fu invece ritrovato, e fra le due versioni si poterono notare differenze notevoli nella conclusione, tormentata ed enigmatica nella seconda redazione. Forse un simbolo di un matrimonio non felice? Ma perche´ riprendere un pezzo nato nel primo innamoramento, se nel matrimonio qualcosa era poi andato storto? In conclusione si puo` dire che Smetana, dopo un inizio molto promettente, non esplico` nel campo del pianoforte il talento che lo porto` ai capolavori della musica teatrale, della musica sinfonica e della musica da camera. Il che sicuramente e` motivo di rammarico per i pianisti... ma non per la musica. 547

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Kaikhosru Shapurji Sorabji

100 Studi trascendentali

Kaikhosru Shapurji Sorabji (Chingford, 14 agosto 1892-Dorchester, 15 ottobre 1988) La composizione di Sorabji che piu` di tutte riflette gli umori bizzarri dell’Autore e` – titolo originale in italiano – il Concerto per suonare da me solo (1946). Precisazione, in fondo, superflua, perche´ dieci anni prima Sorabji aveva proibito a tutti i pianisti di suonare la sua musica, e solo nel 1976 avrebbe concesso a qualche privilegiato di ficcare il naso – e le dita – nelle pagine sue che rivaleggiavano in magnificenza e in mole con le costruzioni dell’antica Babilonia. Sorabji e` autore di cinque Concerti per pianoforte e orchestra (1917, 1920, 1924, 1927, 1928), piu` le Variazioni sinfoniche (1955) l’Opus clasymphonicum (1955) e l’Opus claviorchestrale (1975), La sua produzione per pianoforte solo comprende cinque Sonate (1919, 1920, 1922, 1929, 1935, quest’ultima sottotitolata Opus archimagicum), sette Sinfonie (1939, 1955, 1960, 1964, 1974, 1976, 1978), un Preludio, Interludio e Fuga (1920), le Variazioni e fuga sul Dies Irae (1926), la Sequentia cyclica sul Dies Irae (1949) e, summa babilonensis fra i babilonesi confratelli, l’Opus clavicembalisticum (1929-1930). Il padre di Sorabji, ricco uomo d’affari la cui eredita` permise al figlio di vivere largamente di rendita, era persiano (la madre ispano-siciliana), e mi sembra evidente che il penchant per le costruzioni ciclopiche arrivasse al Nostro come eredita` ancestrale. Costruzioni ciclopiche, difficolta` tecnica mostruosa, spesso al limite dell’ineseguibile. Sorabji eseguı` l’Opus clavicembalisticum a Glasgow nel 1930 e lo pubblico` nel 1931, vietando nella edizione a stampa le esecuzioni non autorizzate, salvo poi a vietare completamente, come ho gia` detto, l’esecuzione di tutte le sue musiche. L’Opus clavicembalisticum e` in tre parti, suddivise in dodici numeri da eseguire di seguito: – Pars prima: Introito, Preludio corale, Fuga, Fantasia, Fuga a due soggetti, – Pars altera: Interludium I (Thema cum XLIV variationibus), Cadenza, Fuga a tre soggetti, – Pars tertia: Interludium alterum (Toccata: adagio passacaglia cum LXXXI variationibus), Cadenza, Fuga a quattro soggetti, Coda stretta. Il totale e` di duecentoquarantotto pagine a stampa (per farsi un’idea della mostruosita` dell’Opus clavicembalisticum si tenga conto del fatto che i quarantotto Preludi e fuga del Clavicembalo ben temperato di Bach ci stanno comodamente in poco 548

piu` di duecento pagine). Tutto e` fuori misura, in questo lavoro che l’Autore definı` con somma modestia ‘‘il piu` importante per pianoforte dal tempo dell’Arte della fuga’’, tutto e` eccessivo, tutto e` titanico. Sorabji, com’e` evidente anche dalla struttura e poi dal tipo di strumentazione, e` influenzato dalla Fantasia contrappuntistica di Busoni, che gia` non scherza in fatto di complessita`, ma la supera di molto, di moltissimo. Al limite della eseguibilita` e tuttavia eseguibile, come hanno dimostrato, a parte l’Autore della cui esecuzione non abbiamo testimonianze dirette, Geoffrey Donald Madge e John Ogdon, che ce ne hanno lasciato la registrazione in disco. Cio` non esclude pero` che l’esecuzione rispecchi cio` che si immagina alla lettura perche´ la densita` del tessuto urta contro la mancanza di una timbrica molto variegata del pianoforte. In realta`, l’Opus clavicembalisticum e` come un meraviglioso progetto architettonico per la cui realizzazione mancano – fino ad oggi – i materiali. Nell’Opus clavicembalisticum Sorabji deve fare piu` volte ricorso alle quattro portate. Nel Concerto n. 2, in un solo movimento per una durata di circa quaranta minuti, arriva anche a cinque portate. Piu` ‘‘umani’’, malgrado il loro numero esorbitante, sono i 100 Studi trascendentali (19401944), che se fossero eseguiti integralmente durerebbero circa sette ore (le Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra ne durano circa nove), ma che possono essere presentati in numero variabile. Molti Studi, di durata – per Sorabji – limitata, affrontano problemi tecnici. Pero` , invece di studi veri e proprii, troviamo molto spesso pezzi di vario genere e sempre piu` estesi, dalla Passacaglia con cento variazioni a una elaborazione della Fantasia cromatica di Bach e a una Fuga quintupla che coprono ciascuna circa tre quarti d’ora. Busoni, di cui ho gia` detto, per il contrappunto, Godowsky per la complessita` della strumentazione, e Skrjabin per l’armonia sono gli autori che maggiormente interessano a Sorabji e da cui prende piu` spesso lo spunto (lo Studio n. 4 e` intitolato Skrjabinesco, diversi altri sono nettamente tributari dello stile di Skrjabin). Il Sorabji piu` seducente lo troviamo nei pezzi a modo di notturno, come lo Studio n. 14 (Tranquillamente soave), che sembra un lontano progenitore di Arc-en-ciel di Ligeti, o come lo Studio n. 44 (Bis cantato. Dolce e sciaro:

100 Studi trascendentali

rinuncio a capire che voglia dire sciaro), che dura ‘‘soltanto’’ quindici minuti mentre il n. 14 dura quattro minuti e mezzo. Ma molto attraenti sono anche alcuni Studi sullo staccato. Sorabji, dotato di sufficienti mezzi di fortuna, si dedico` all’otium romano snobbando il negotium, ma nella incontinenza del suo otium si riscontra senza dubbio un

Kaikhosru Shapurji Sorabji

che di patologico. I suoi lavori per pianoforte solo assommano a sessantadue, per una durata di circa novanta ore. In questa immensa e intricata e inospitale selva troviamo pero` qualche fiore di cui possiamo aspirare il profumo anche senza essere superuomini. E ritengo che non sarebbe sbagliato cercarli.

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Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

100 Studi trascendentali

Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ (S. Pietroburgo, 26 settembre 1906-Mosca, 9 agosto 1975) Talvolta, quando possiamo permetterci il lusso di un ozioso girovagar di pensieri, ci vien da calcolare quante cose potremmo possedere se il buon Dio avesse permesso all’umanita` di inventare la conservazione del suono con duecent’anni di anticipo. Per limitarci al pianoforte, noi saremmo ad esempio in grado di sentire il Concerto n. 2 di Beethoven suonato da Beethoven e diretto da Haydn, il Concerto n. 1 di Liszt suonato da Liszt e diretto da Berlioz, il Concerto n. 3 di Rachmaninov suonato da Rachmaninov e diretto da Mahler, e tante e tante e tante altre cose che a digerirle tutte, pur senza scarrucolar fuori dal pianoforte, non basterebbe una vita. I disegni del buon Dio, si sa, sono imperscrutabili. Ma se l’Onnipotente, anche senza concederci duecent’anni di anticipo, ce ne avesse donato almeno una ventina noi ascolteremmo oggi Dmitrij Sˇostakovicˇ eseguire il Concerto op. 23 di Cˇ ajkovskij e il Concerto n. 1 di Chopin. Conoscendo ed ammirando toto corde la musica di Sˇostakovicˇ abbiamo bene il diritto di chiederci: ma che ci azzecca Sˇostakovicˇ con Chopin e con Cˇajkovskij? Legittima domanda, legittima curiosita` . La risposta non esiste: la storia ci racconta cose vere che la nostra gracile immaginazione non riesce purtroppo a far diventare verosimili. Eppure Sˇ ostakovicˇ eseguı` sı` il Concerto di Cˇajkovskij quando aveva diciannove anni e il Concerto di Chopin e il Concerto per due pianoforti di Mozart quando di anni ne aveva venti. Eseguı` anche la Sonata op. 106 di Beethoven, la tremenda Hammerklavier, e musiche di Chopin e di Liszt. Sˇostakovicˇ, insomma, era un pianista concertista. La storia ce lo attesta e noi le crediamo. Quel che non riusciamo a capire e` che cosa fosse mai come interprete. Certo, un creatore che scrisse cosı` tanti memorabili adagi doveva aver qualcosa di suo da dire, nel fluviale Adagio sostenuto (appassionato e con molto sentimento) della Hammerklavier. Purtroppo, noi conosciamo pero` Sˇostakovicˇ solo come interprete di se stesso. E non possiamo percio` che indirizzare al buon Dio i nostri lai, che non riguardano ovviamente Sˇostakovicˇ e basta. A meno che non venga prima o poi inventata per davvero l’invenzione favolosa di cui parlava Ferruccio Busoni, l’invenzione dello scienziato Kennelton Humphry Happenziegh che senza sapere il come e il perche´ 550

aveva trovato incisa su un disco musica del futuro: ‘‘Un grido dunque’’, diceva Busoni, ‘‘risuona nel domani e nel posdomani e cosı` via, diminuendo d’intensita`, ma logicamente anche nell’ieri e nell’avant’ieri’’. Ebbene, speriamo che Busoni sia stato buon profeta! Ma disgraziatamente la sua comunicazione e` datata 1 aprile 1911. La famiglia di Sˇostakovicˇ era borghese, benestante e appartenente all’intellighenzia. Il padre, biologo e ingegnere, aveva lavorato presso la Direzione dei Pesi e delle Misure, poi in una fattoria ed infine nell’industria delle munizioni. La madre, nata in Siberia perche´ figlia del direttore di una miniera d’oro, aveva frequentato un collegio per fanciulle nobili a Irkutsk. In questi istituti scolastici, strategicamente sparsi su tutto il territorio russo, si formavano le future spose degli appartenenti alle classi dirigenti e insieme con le lingue, la danza e la preparazione del te` si studiava anche il pianoforte secondo le direttive che a suo tempo erano state impartite dal grande Adolph Henselt, virtuoso della corte zarista, consigliere di stato, insignito dell’Ordine di Vladimiro. Quando suo padre ritorno` a S. Pietroburgo Sofia Kokaulina, futura madre del nostro Dmitrij, proseguı` gli studi pianistici nel conservatorio. Era quindi ovvio che a lei personalmente toccasse l’onere di istruire al pianoforte i suoi tre figli, due femminucce ed un maschietto. Gli Sˇostakovicˇ disponevano di un vasto appartamento, ricevevano molti amici, avevano diversi domestici e – nel primo decennio del Novecento! – ben due automobili. Tuttavia l’educazione dei ragazzi era severissima. La mamma, due giorni dopo aver messo al pianoforte il suo riluttante figliolo di otto anni che preferiva altre occupazioni, disse ai familiari: ‘‘Abbiamo un ragazzo straordinariamente dotato’’. Ma si guardo` bene dal tentare di farne un enfant-prodige: Sˇostakovicˇ studiava il pianoforte, componeva, improvvisava, suonava musica da ballo durante quei ricevimenti – non erano ancora tramontati, i tempi di Orgoglio e pregiudizio della Austen! – che la madre offriva copiosamente ai suoi ospiti e ai quali partecipava spesso Alexandr Glazunov, amico della famiglia. Il giovane Dmitrij, detto Mitya, studiava sı`, componeva sı`, improvvisava sı`, faceva sı` muovere i garretti ai ballerini, ma frequentava anche diligentemente le scuole ordinarie e solo nel 1919, a tre-

Sonata n. 1 op. 12

dici anni, venne iscritto nel conservatorio, completando tuttavia regolarmente il corso della scuola secondaria superiore prima di dedicarsi interamente alla musica. Al conservatorio studio` la composizione e il pianoforte, pianoforte che, come scrisse a Denisov il 22 aprile 1950, ritenne sempre parte primaria nella educazione del compositore: ‘‘Qualsiasi compositore, questa e` la mia profonda convinzione, deve saper suonare, e molto bene, il pianoforte: Precisamente il pianoforte’’. Le prime composizioni di Sˇostakovicˇ che ci sono pervenute sono lo Scherzo op. 1 per orchestra, composto nel 1919 e dedicato a Maximilian Steinberg, suo professore di composizione, e cinque degli otto Preludi op. 2 (1919-1921), che avrebbero dovuto far parte di un ciclo di ventiquattro da scrivere in collaborazione con due compagni di studi. I cinque brevissimi pezzi – la durata complessiva non supera i sei minuti e mezzo – oscillano stilisticamente fra Musorgskij, Cˇ ajkovskij e Prokof’ev, ma gia` mettono a fuoco una caratteristica essenziale dei futuri 24 Preludi op. 34, e cioe` l’atteggiamento ironico nei confronti della musica di consumo della piccola e media borghesia. Questa personalissima poetica appare perfettamente matura nelle Tre Danze fantastiche op. 5 (19201922, pubblicate dapprima come op. 1). Le tre danze – meno di quattro minuti di durata complessiva – sono come degli epigrammi: una marcetta che sembra anche una mazurchetta sghemba, un valzerino, una polchetta che nelle strutture e negli andamenti discorsivi seguono i modelli consueti ma che linguisticamente risultano, rispetto ai modelli, deformate. Non si tratta in verita` di grottesco, di ironia distruttiva, ma di leggera e, in fondo, affettuosa caricatura di un mondo ben conosciuto, appena scomparso socialmente e tuttora presente nel background di chi vi apparteneva. Un mondo appena scomparso, il mondo che aveva bevuto a lunghi sorsi le piccole pagine pianistiche di Kuij, di Anton Rubinsˇtejn, di Cˇajkovskij, di Liadov, di Arenskij, di Grecˇ aninov, di Eduard Schu¨tt, di Maikapar, di Nicolai von Wilm, di Alferakij e di tanti altri valent’uomini della taglia di Alferakij che con il pianoforte s’erano scavata la loro bella nicchia nel variegato mondo della Russia zarista. Quel mondo era scomparso, o forse solo sommerso, con la Rivoluzione d’Ottobre che aveva fra l’altro causato un abbassamento nel tenore di vita degli Sˇostakovicˇ. La repentina morte del padre per una polmonite, nel 1922, costrinse Dmitrij a cercare di guadagnar qualcosa: vinse alcune borse di studio e dal novembre del 1923 fino al 1926 lavoro` come pianista per il cinema muto: il Pellicola Luminosa, il Piccadilly e lo Splendid Palace

Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

lo videro suonare, e piu` spesso improvvisare musica durante le proiezioni, sempreche´ egli non approfittasse della circostanza per provare con due amici, scandalizzando gli spettatori, il Trio op. 8. La Suite op. 6 per due pianoforti (1922), formata da quattro pezzi, riflette il clima della classe di pianoforte di Leonid Nikolaev nel conservatorio di S. Pietroburgo. L’illustre Maestro era uso a dilatare spesso fino a tre o a quattro ore il canonico quarto d’ora di ritardo. Molti allievi se ne andavano allora per i fatti loro, ma Sˇ ostakovicˇ e Maria Yudina approfittavano dell’assenza di Nikolaev per passare insieme musica a quattro mani. La Suite ambisce ad esser degna dei compagni di classe e non rivela, al contrario delle Tre Danze fantastiche, un’estetica in nuce. Nel luglio del 1923, non avendo ancora compiuto i diciassette anni, Sˇostakovicˇ cominciava a lavorare su una sinfonia; la completo` il 26 aprile 1925, a diciott’anni e mezzo. Poco piu` di un anno dopo, il 12 maggio 1926, la Sinfonia n. 1 veniva eseguita per la prima volta dall’Orchestra Filarmonica di Leningrado – S. Pietroburgo era diventata Pietrogrado dopo la Rivoluzione, e Leningrado dopo la morte di Lenin, scomparso nel 1924 – sotto la direzione di Nicolaij Mal’ko, che insegnava nel conservatorio di cui Sˇ ostakovicˇ era allievo. ‘‘Enorme successo della Sinfonia di Mitya’’, scrisse nel suo diario Maximilian Steinberg, ‘‘lo Scherzo fu replicato. Dopo il concerto cenammo in casa Sˇostakovicˇ fino alle due, con commensali in prevalenza giovani. Ritornammo a casa con Mal’ko e sua moglie, a piedi, fino alla via Sadovaya. Notte bianca, ma fredda (2 gradi)’’. Ah, le notti bianche di Leningrado, ex-S. Pietroburgo! Ah, il successo clamoroso di un lavoro appena composto! Ah, gli applausi poderosi dopo ogni tempo, e lo Scherzo bissato seduta stante, prima di passare al Lento, Largo! Adesso in Leningrado, tornata a essere S. Pietroburgo, ci sono solo piu` le notti bianche. All’inizio di luglio Mal’ko diresse la Sinfonia a Kharkov, con esito artistico mediocre ma con un vivo successo di pubblico (anche a Kharkov venne replicato lo Scherzo). Il 12 luglio Sˇostakovicˇ suono` il Concerto di Cˇajkovskij sotto la direzione di Mal’ko e il 17 tenne un recital con il suo Trio op. 8, i suoi Preludi op. 2 e Venezia e Napoli di Liszt. Pote´ cosı` smettere di strimpellare nei cinematografi. Ritornato a casa, Sˇostakovicˇ scrisse la Sonata n. 1 op. 12 (1926) che in un primo momento, con trasparentissima allusione alla Rivoluzione, intitolo` Ottobre. La eseguı` a Leningrado il 12 dicembre privandola del titolo caratteristico, che fu riservato invece alla Sinfonia n. 2, composta nell’anno successivo. La Sonata e` in un solo movimento suddi551

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Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

viso in piu` parti (Allegro, Meno mosso, Adagio, Allegro, Lento, Allegro). Il riferimento alla Sonata n. 3 di Prokof’ev e` tutto sommato assai trasparente, ma cio` non comporta alcuna subordinazione di Sˇ ostakovicˇ verso il collega, di lui piu` anziano di quindici anni. La scrittura pianistica, che nei Preludi e nelle Danze fantastiche non eccedeva la capacita` del medio dilettante, e` qui marcatamente virtuosistica e impegna a fondo un solista che deve possedere, per venirne a capo, la tecnica lisztiana. Il linguaggio e` aspro, assai piu` aspro che nella Sinfonia n. 1, e dimostra come Sˇostakovicˇ guardasse, oltre che in casa sua, anche al di la` dei confini. Il compositore del Naso, scritto due anni piu` tardi, fa qui la sua apparizione. E, naturalmente, la Sonata, come la Sinfonia n. 2 e il Naso, verra` trascinata nella polvere dall’accusa di formalismo che colpira` l’altro capolavoro teatrale di Sˇ ostakovicˇ , Lady Macbeth del distretto di Mzensk. Il 9 gennaio 1927 Sˇostakovicˇ sostenne a Mosca la prova pubblica di selezione per il primo Concorso Chopin di Varsavia, e fu promosso; il suo programma comprendeva il Concerto op. 11, la Ballata op. 47, la Polacca op. 44, i Preludi op. 28 nn. 13 e 16, gli Studi op. 10 n. 4 e op. 25 n. 1, due notturni e due mazurche di cui non abbiamo notizie precise. Il Concorso si svolse dal 23 al 30 gennaio. Ventisei candidati, di cui ben sedici polacchi, e poi quattro russi, un austriaco, un tedesco, un belga, un olandese, un ungherese e uno svizzero. Dopo la prova preliminare la giuria di undici membri, tutti polacchi, assegno` il premio speciale per l’esecuzione delle mazurche al polacco Henryk Sztompka e ammise alla prova finale otto candidati, di cui quattro polacchi e al completo tutta la rappresentanza russa, che non lasciava sul campo nemmeno un caduto. I polacchi ci tenevano da morire, a laureare come vincitore un loro ragazzo. Ma i pronostici erano tutti per i russi: ‘‘Al concerto ho suonato in modo particolarmente soddisfacente’’, scriveva Sˇostakovicˇ alla madre, ‘‘e tra gli otto prescelti ho avuto il successo maggiore, addirittura piu` che a Mosca. Mi hanno accolto con un’ovazione entusiastica e congedato con una ancora piu` entusiastica. Tutti mi hanno fatto le congratulazioni e hanno detto che per il primo premio c’erano due candidati: Oborin e me. Inoltre dei pianisti sovietici hanno detto e scritto che sono andati meglio di tutti gli altri. E che se qualcuno si meritava tutti e quattro i premi, eravamo noi. Cio` nondimeno, ‘‘a malincuore’’, la giuria ha deciso di attribuire il primo premio a un russo, lo hanno assegnato a Le¨va [Oborin]. L’attribuzione degli altri premi ha suscitato completo sconcerto nel pubblico. Io ho ricevuto un diploma d’onore. Maliszev552

Sonata n. 1 op. 12

ski [presidente] della giuria], che leggeva l’elenco dei premi, ha dimenticato di leggere il mio cognome. Allora tra il pubblico si sono sentite delle voci: ‘‘Sˇostakovicˇ, Sˇostakovicˇ!’’. Allora Maliszevski ha letto il mio cognome e il pubblico e` partito con un’ovazione entusiastica per me, alquanto provocatoria. Non rattristarti. Ora e` qui un impresario con cui sto discutendo i concerti. Andro` a Berlino la prossima settimana. Sabato 5 daro` un concerto a Varsavia’’. Il 5 Sˇostakovicˇ suono` l’Appassionata di Beethoven, la sua Sonata, tre Studi e la Ballata op. 47 di Chopin. Sˇostakovicˇ approfitto` della venuta a Varsavia per fare una scappata a Berlino, dove acquisto` il suo primo cappello. E torno` a Leningrado con un diploma, un cappello e una gran voglia di lavorare alla composizione piu` che al pianoforte. Il 20 febbraio fece pero` ascoltare a Prokof’ev, tornato nell’Unione Sovietica per un giro di concerti, la Sonata op. 12. Non posso certamente sottrarmi all’obbligo di trascrivere qui le impressioni che Prokof’ev affido` al suo diario. Egli ascolto` due ragazzi, Iosif Schillinger e Sˇostakovicˇ, non apprezzo` affatto il pezzo del primo e, venendo meno per una volta alla sua proverbiale e brutale franchezza, tento` di cavarsela ‘‘facendo delle domande e senza dir nulla delle sue impressioni’’. ‘‘Il secondo’’, prosegue Prokof’ev, ‘‘e` un giovanottello, Sˇ ostakovicˇ , che non e` soltanto compositore ma anche pianista. Suona in un modo molto vivo, a memoria – dopo avermi collocato la partitura sul divano. La sua Sonata comincia con un canone a due voci pieno di slancio, un po’ influenzato da Bach; il secondo movimento della sonata, che segue il primo senza interruzione, e` composto con armonie dolci con una melodia al centro. E` gradevole, seppur discorsivo e un po’ lungo. Dall’andante [Lento] si passa a un finale rapido, sproporzionato rispetto al resto, tanto e` corto. Ma l’insieme e` talmente piu` vivo e piu` interessante di Schillinger che io mi lancio, tutto felice, in un elogio di Sˇostakovicˇ. Asafiev [il critico a cui Prokof’ev aveva dedicato la Sinfonia classica] si diverte e dice che Sˇ ostakovicˇ mi piace perche´ la prima parte della sua sonata e` scritta sotto la mia influenza’’. L’estemporanea osservazione di Prokof’ev, ‘‘dall’andante si passa a un finale rapido, sproprozionato rispetto al resto, tanto e` corto’’, ha secondo me un valore critico. Se pensiamo al sottotitolo Ottobre, che non venne appiccicato a caso, noi possiamo capire come manchi nella Sonata una parte finale che – si veda la conclusione della Sinfonia n. 2 ‘‘Ottobre’’, in un tempo solo – celebri la vittoria della Rivoluzione. Non posso esaminare qui questo problema, e in verita` non posseggo

Concerto op. 35 per pianoforte, tromba e archi

nemmeno gli strumenti metodologici per affrontarlo in profondita`, ma faccio notare al lettore che effettivamente la conclusione della Sonata appare all’ascolto troncata. Nel maggio del 1927 la Sinfonia n. 1 venne diretta a Berlino nientemeno che da Bruno Walter. Un balzo simile nella gloria non lo si era mai visto, per un ragazzo di vent’anni, e non lo si sarebbe visto mai piu`. Tuttavia Sˇostakovicˇ, che frequentava ancora il corso post-diploma di composizione in conservatorio e che era in eta` di compiere il servizio militare, non si precipito` o non ebbe il permesso di precipitarsi a Berlino, a farsi visibilmente incoronare da un’autorita` del mondo musicale come il cinquantunenne Bruno Walter. Componeva e componeva e componeva, il ventenne Sˇostakovicˇ. Dalla sua penna uscivano gli Aforismi op. 13 per pianoforte e poi la Sinfonia n. 2 op. 14 e poi Il naso op. 15. Il ciclo degli Aforismi op. 13 (1927) e` formato da dieci pezzi, con titoli. In un primo momento il ciclo era intitolato Suite, nome generico che venne criticato da Boleslav Yavorsij, compositore e teorico, e amico devoto che si era adoperato perche´ Nicolaij Mal’ko dirigesse la Sinfonia n. 1 e che era stato determinante nella decisione di mandare Sˇostakovicˇ a Varsavia. Sˇostakovicˇ accetto` l’opinione di Yavorsij, giustissima, e alla fine gli dedico` l’op. 13, felicemente ribattezzata con il titolo Aforismi. Molti anni piu` tardi Sˇostakovicˇ dichiaro`: ‘‘Ho concepito gli Aforismi mentre andavo a letto una notte all’inizio di febbraio, a Berlino. In quel periodo pensavo spesso a una certa legge di natura e cio` mi diede lo stimolo a comporre gli Aforismi, che sono guidati da un’unica idea. Qual sia questa idea non voglio svelarlo adesso’’. Senza pretendere di penetrare nei segreti della creazione possiamo dire che i dieci pezzi sono da considerare come ciclo organico, non come semplice raccolta, perche´ a unirli non c’e` soltanto il tono espressivo cupo, ipocondriaco, ma soprattutto il senso della sofferta riconquista della continuita` espositiva e della logica formale classica. Il discorso e` tremendamente frammentato nei primi otto pezzi, con contenuti formali che contraddicono i titoli perche´ Sˇostakovicˇ lavora su schegge, sulle macerie di cio` che erano state tradizionalmente la serenata, il notturno, l’elegia, la marcia funebre, rimontandole secondo una logica espressionistica che rifiuta la forma classica e le sue simmetrie (e la sua retorica). Ma dallo Studio in poi il discorso prende a strutturarsi secondo schemi razionalmente verificabili e il pezzo conclusivo, Ninna nanna, e` – sintatticamente, non linguisticamente – un adagio barocco fiorito. Eric Roseberry ha giustamente osservato che ‘‘questi pezzi sono ben lungi dall’essere esercizi ac-

Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

cademico/retorici di iconoclastia’’. Sˇostakovicˇ non e` mosso infatti da furore distruttivo ma da volonta` di ricerca di un nuovo ordine. Si potrebbe dire, celiando un po’ ma non troppo, che egli parta dall’Urschrei scho¨nberghiano per approdare all’Adagietto della Sonata di Stravinskij. Certamente gli Aforismi rappresentano il momento in cui Sˇostakovicˇ sperimenta, in un laboratorio qual era stato per molti altri prima di lui il pianoforte, una scelta di campo che indirizza tutto il suo successivo cammino di creatore. Dopo la Rivoluzione molti musicisti russi erano emigrati legalmente, o illegalmente fuggiti all’estero, seguendo le tre grandi direttrici di Berlino, Parigi e gli Stati Uniti. Chi era rimasto in patria – e Sˇostakovicˇ era stato troppo giovane per poter emigrare finche´ le maglie erano state abbastanza larghe, cioe` fino a circa il 1922 – restava in pratica tagliato fuori dalla vita concertistica internazionale. Gli editori russi, che avevano promosso la musica nazionale all’estero prima della guerra, avevano trasferito in Occidente le loro aziende o erano stati espropriati, e la Casa Editrice di Stato che era gestita da persone senza relazioni internazionali si curava solo del mercato interno. Percio` Sˇostakovicˇ non ando` ad assistere alle esecuzioni della sua Sinfonia n. 1 quando venne diretta da Bruno Walter, e poi da Arturo Toscanini e da Otto Klemperer, e non ando` in tourne´e come pianista. Non sappiamo se Sˇostakovicˇ soffrisse o no di questa sua condizione di recluso in patria. Sembrerebbe di no. Riservato e timido, egli non era e non sarebbe mai stato un uomo di pubbliche relazioni, un adepto dell’autopromozione. Lavorava quanto voleva, tutte le sue composizioni venivano eseguite nell’Unione Sovietica, incassava i diritti d’autore, se gli andava di farlo suonava e intascava gli onorari da concertista, era ormai una specie di coqueluche dell’establishment. Che piu`? Dal 1923 al 1932 ebbe una lunga relazione amorosa con Tatiana Glivenko, poi sposo` la bellissima Nina Varzar, poco dopo essersi sposato si fece un’amante che lascio` presto. Che piu`? I Preludi op. 34 (1933) e il Concerto in do-Do op. 35 per pianoforte, tromba e archi (1933) sono gli impegnativi lavori con i quali Sˇostakovicˇ arricchisce il suo repertorio di concertista. I 24 Preludi op. 34 si riallacciano alle Danze fantastiche op. 5, sebbene siano anche la logica conseguenza della crisi testimoniata dagli Aforismi. Scrivere ventiquattro preludi nelle dodici tonalita` maggiori e nelle dodici tonalita` minori sembrerebbe essere, ed e` una cosa di poco conto se si inanellano due dozzine di pezzi cosı` come vengono. Se si prova invece l’orgoglio di dare alla raccolta un senso or553

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Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

ganico i problemi sorgono da subito e si moltiplicano a mano a mano che si procede. Sˇostakovicˇ, spirito metodico e lavoratore indefesso, dette il via alla composizione il 30 dicembre del 1932, subito dopo aver terminato l’opera Lady Macbeth del distretto di Mzensk, e ad una pagina alla volta, seguendo rigorosamente l’ordine delle tonalita` e delle modalita`, termino` il ciclo il 2 marzo del 1933. I ventiquattro pezzi sono organizzati secondo lo schema di Chopin: partenza dal do maggiore, alternanza regolare di modo maggiore e modo minore, successione per quinte ascendenti (Do, la, Sol, mi, Re, ecc. ecc.). Ma l’analogia con Chopin qui comincia e qui finisce. Il ciclo e` un vero e proprio campionario della musica per dilettanti dell’epoca che precede la prima guerra mondiale. Si parte da una pastorale seguita da una danza orientale e si finisce con una ninna-nanna seguita da una gavotta passando attraverso una moltitudine di specie e sottospecie di quella che era definita internazionalmente la Salonmusik, la musica da salotto. Parodia? Gusto del grottesco? Non esattamente. Quel mondo tramontato era per Sˇostakovicˇ anche il mondo della mamma carissima educata nel collegio di Irtkusk, era il mondo che si era mantenuto in vita, come mi e` accaduto di dire incidentalmente, dai tempi di Jane Austen e del suo Orgoglio e pregiudizio fino all’estate funesta del 1914. Come gia` nelle Danze fantastiche non manca nei Preludi una sottile vena affettiva, a dimostrazione del fatto che il mondo scomparso era in realta` un sommerso. Dice molto bene a questo proposito Elena Averbakh: ‘‘Questi brani di carattere colpiscono per la ricchezza di stati d’animo e di riferimenti; non si tratta di semplici parodie dei generi musicali. Qui la concezione dell’autore opera una trasfigurazione dello studio, della tarantella, della fughetta, del can-can, della gavotta, della mazurca, del valzer, fino al quadretto di un’infelice ‘‘banda di paese’’ che cade a pezzi (n. 6), di una dolorosa orazione funebre (n. 14) [...], di uno scherzo, soffocato dalla tenerezza di un valzer’’. Aggiungo che la scrittura pianistica, sebbene piu` elaborata e ricca di quella delle Danze fantastiche, e` sempre alla portata del diligente dilettante del buon tempo antico. Nel 1933 Prokof’ev scriveva le musiche per il film Il luogotenente Kije´ : secca parodia, come film, della burocrazia militare russa al tempo del tedescofilo zar Paolo I, rievocazione ironica ma sentimentalmente non distaccata, come musica, di tempi, in fondo in fondo, felici. Lo stesso stato d’animo molto complesso si ritrova secondo me nei Preludi di Sˇostakovicˇ, ai quali non arrise disgraziatamente la fortuna concertistica che avrebbero 554

Concerto op. 35 per pianoforte, tromba e archi

meritato e che meriterebbero. Eseguiti da Sˇostakovicˇ il 24 maggio 1933, subito ripresi da Neuhaus e da Oborin nell’Unione Sovietica, ripresi in parte da Artur Rubinstein in Occidente, i Preludi non sono entrati in repertorio e sono praticamente sconosciuti al pubblico delle sale di concerto. Peccato! Il mondo di oggi ci si ritroverebbe tutto... Il Concerto op. 35 e` molto piu` noto dei Preludi, anzi, e` uno tra i lavori di Sˇostakovicˇ piu` noti. Sˇostakovicˇ lo compose immediatamente dopo aver ultimato i Preludi e lo eseguı` il 15 ottobre 1934 a Leningrado sotto la direzione di Fritz Stiedry. Indubbiamente il Concerto e` da mettere in relazione sia con i Preludi, di cui rappresenta – come dire? – la versione da grande sala, sia con la composizione della successiva Suite n. 1 per orchestra jazz, scritta nel 1934 per un concorso. Piu` ancora che al jazz il Concerto, con tutto il pettegolo cicalare della tromba nel finale, sembra tuttavia far capo da un lato alla fiera, a quel clima popolaresco che in Italia era detto strapaese, e dall’altro – valzer lento del secondo tempo – al teatro leggero, al vaudeville. L’inizio e` invece serioso, ma secondo me le prime tre note non rappresentano, come si dice spesso, una citazione dell’Appassionata di Beethoven o, se la rappresentano, cio` avviene in un clima di completo straniamento. Il Concerto sfrutta gli archi come strumenti eminentemente melodici, il pianoforte come strumento a percussione, la tromba nella duplice veste di strumento da segnali e, nel jazz (con sordina), come simbolo della nostalgia. L’equilibrio fra questi aspetti contrastanti e` perfetto e il Concerto e` nello stesso tempo un divertissement e un esempio di teatro strumentale. Avevo detto che, poco dopo il matrimonio, Sˇostakovicˇ si era fatto un’amante. Era una traduttrice, si chiamava Elena Konstantinovskaya, e la sua apparizione aveva provocato una temporanea separazione di Sˇostakovicˇ dalla moglie. Il compositore se ne ando` in vacanza da solo. Non aveva stimoli per comporre ma non era capace di stare inoperoso e quindi, seguendo il lontano esempio di RimskijKorsakov, decise di scrivere ogni giorno una fuga. Ne butto` faticosamente sulla carta tre, che giudico` ‘‘molto cattive’’, come disse a Elena in una lettera del 26 luglio. ‘‘In generale’’, confessava alla donna, ‘‘e` molto piu` piacevole lavorare febbrilmente senza sosta che stare qua e la` senza far niente, ‘riposando’ ’’. In agosto la vena creativa era ritornata, e lavorando metodicamente Sˇostakovicˇ supero` il difficile momento esistenziale, ottenne il divorzio e... sposo` di nuovo la moglie. Che piu`?, avevo detto prima, sostituendomi piratescamente a Sˇostakovicˇ. Che cosa aveva da desiderare Sˇ ostakovicˇ , nel

Quaderno musicale

1933? Nulla. Ma il destino, lo abbiamo appena visto, bussava alla sua porta nel 1934 sotto forma di una sbandata. E ribusso` con molta piu` violenza nel 1936. Sˇostakovicˇ aveva cominciato nel 1935 a comporre una gigantesca sinfonia (sei flauti, otto corni, due tube), la sua Quarta, che completo` nel 1936, che fu subito accettata da Fritz Stiedry, che fu messa in prova e che non fu eseguita perche´ Sˇostakovicˇ ritiro` la partitura. Era successo che il 28 gennaio era uscito sulla Pravda un articolo non firmato, intitolato Caos invece di musica, in cui si attaccava violentemente la Lady Macbeth del distretto di Mzensk. Si penso` addirittura che ne fosse autore Stalin. E certamente Stalin, se non autore, ne era stato ispiratore. Il 6 febbraio uscı` un secondo articolo che attaccava negli stessi termini il balletto di Sˇostakovicˇ Chiaro fiume (uscı` anche un terzo articolo, contro la pittura non ortodossa). Di punto in bianco Sˇostakovicˇ si trovo` isolato, senza amici, senza sostenitori: solo il compositore Seˇbalin e il georgiano Andre´ Balanchivadze (il fratello del coreografo Balanchine) gli scrissero per esprimergli la loro solidarieta` . Solo il maresciallo Tukhacˇevskij, violinista dilettante, prese le difese di Sˇ ostakovicˇ scrivendo una lettera direttamente a Stalin. E fu tutto. Il presidente del Comitato delle Arti, consultato per un autorevole parere, consiglio` a Sˇostakovicˇ di ‘‘confessare i suoi errori’. Sˇostakovicˇ non si presento` pero` di fronte ai suoi colleghi dell’Unione Compositori di Leningrado e di Mosca, che avevano ufficialmente approvato gli articoli della Pravda, e non pronuncio` l’autocritica. Non e` qui il luogo adatto per ripercorrere tutto il calvario – il primo – di Sˇostakovicˇ. Bastera` dire che, ritirata la Sinfonia n. 4 che sarebbe stata sicuramente imputata di formalismo, egli ottenne la ‘‘riabilitazione’’ quando, il 21 novembre 1937, venne eseguita a Leningrado la sua Sinfonia n. 5, sottotitolata poi, per la prima esecuzione a Mosca del gennaio 1938, ‘‘risposta di un artista sovietico a una giusta critica’. Sˇostakovicˇ ricomincio` a comporre con il ritmo forsennato di un tempo. E nel 1943 fu nominato professore di composizione nel conservatorio di Mosca: l’ex-formalista, redento, accedeva al rango di educatore. Il pianoforte scompare dagli orizzonti di Sˇostakovicˇ per molti anni, dal 1934 al 1943. La Sonata n. 2 op. 61 (1943), scritta a Kuybishev, dove Sˇostakovicˇ era sfollato a causa della guerra e dedicata alla memoria di Leonid Nikolaev, rappresenta in un certo senso il momento della distensione spirituale dopo l’impegno civile della Sinfonia n. 7 ‘‘di Leningrado’’ op. 60. Si puo` osservare che mentre la Sonata n. 1, difficile da capire a causa dei suoi contrasti e della durezza del suo linguaggio, e` pero`

Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

pensata per la sala di concerto e cattura il pubblico come ‘‘pezzo d’azione’’, la Sonata n. 2, facile da capire linguisticamente ed emotivamente pressoche´ priva di forti contrasti, non e` pensata per la sala di concerto e, come ‘‘pezzo di pensiero’’, non tiene desta l’attenzione dell’ascoltatore. Il primo movimento, Allegretto, scorre in verita` piacevolmente: e` costruito su due temi, il primo melodico con un semplice accompagnamento settecentesco, il secondo a modo di marcia, ed e` strutturato nella classica forma di allegro di sonata con esposizione, sviluppo e riesposizione. Il senso oratorio della composizione e` quello classico-romantico, con accumuli di tensione che portano a punti culminanti e con una prodezza compositiva nella riesposizione, quando i due temi vengono sovrapposti. Ma il secondo movimento, Largo, che e` in forma di canzone tripartita con primo tema, secondo tema e riesposizione del primo tema, ritorna verso le frammentazioni discorsive degli Aforismi e, data una dimensione superiore ai sei minuti, risulta difficilissimo da seguire. Il finale, Moderato con moto, e` in forma di tema con variazioni senza soluzioni di continuita` . Un tema piuttosto lungo, cantabile, esposto come melodia di carattere popolare non accompagnata, viene variato secondo moduli che in senso lato si richiamano alla tradizione barocca, tanto che il movimento assume le movenze di una passacaglia. Anche qui la scrittura spesso rarefatta e la mancanza di progressioni dinamiche rendono pero` arduo l’ascolto, per lo meno in sala di concerto. In realta` , la Sonata n. 2 non e` una sonata da concerto ma piuttosto, come nel Settecento, una sonata da lettura privata, stupendamente composta e lavorata, sognante, evocativa, dolcemente dolorosa ma serena. Sˇostakovicˇ la eseguı` per la prima volta il 6 giugno 1943 a Mosca. Nessuno dei grandi pianisti sovietici del momento la riprese (Gilels la mise in repertorio molto piu` tardi), ne´ fu eseguita in Occidente. La sua diffusione e` oggi garantita quasi esclusivamente dalle registrazioni discografiche, tra le quali si segnalano in particolare quelle di Gilels e di Vladimir Ashkenazy. Il Quaderno musicale (1944-1945), raccolta di sette pezzi facili con titoli caratteristici – Marcia, Valzer, L’orso, Una storia buffa, Una storia triste, La bambola meccanica, Il compleanno, fu composto da Sˇostakovicˇ per la figlia Galina. Si tratta di paginette degne di figurare accanto a quelle analoghe di Schumann, ma che impegnano piu` il papa` che il compositore. Ben altrimenti poderoso e` invece il ciclo pianistico che Sˇostakovicˇ inizio` a comporre, dopo un altro considerevole intervallo di tempo, nel 1950. Nel 1947 le sue fortune politiche aveva555

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Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

no toccato lo zenit. Era stato chiamato ad insegnare anche a Leningrado, era diventato presidente dell’Unione Compositori Leningradesi ed era stato eletto deputato al parlamento dell’URSS. Nel maggio e nel giugno di quell’anno fu a Praga per concerti di musiche sue. La tempesta si stava pero` avvicinando, il destino baro bussava di nuovo alla sua porta. Nel 1946 la poetessa Anna Akhmatova e l’umorista Mikhail Zosˇcˇhenko, accusati di ‘‘degenerazione borghese’’ dall’ideologo del Partito, Andreij Zˇdanov, erano stati esplusi dall’Unione Scrittori e ridotti alla fame. Zˇdanov si incarico` poi di sistemare per le feste il cinema, quindi il teatro, ed infine, nel febbraio del 1948, la musica. Senza entrare nei particolari di questa tristissima e assurda vicenda bastera` dir qui che Sˇostakovicˇ pronuncio` al congresso dell’Unione Compositori dell’URSS un’autocritica che gli fu consegnata gia` bell’e scritta. Esonerato dall’insegnamento, riprese a comporre, senza esporre tuttavia per prudenza le sue musiche al giudizio dei troppo zelanti colleghi. Ma nel marzo del 1949 dovette pronunciare a New York, in una conferenza-stampa convocata in occasione del Congresso per la Pace nel Mondo, la condanna della musica occidentale borghese e decadente (confessando di aver lui pure percorso questa strada di perdizione) ed esaltare la nuova cultura sovietica. Rientro` in patria e compose l’oratorio Il canto delle foreste, che gli valse il Premio Stalin con annessi centomila rubli. Ed essendo diventato ormai una figura di regime venne mandato al Congresso della Pace di Varsavia nel 1950. Nel 1951 fu rieletto deputato al parlamento. La riacquistata ‘‘rispettabilita`’’ politica permise a Sˇostakovicˇ di recarsi a Lipsia nel 1950 come membro della commissione giudicatrice in un concorso pianistico dedicato a Bach nel duecentenario della morte. E a Lipsia gli venne l’idea, grandiosa e un po’ folle, di scrivere i Ventiquattro Preludi e fughe op. 87 (1950-1951), cioe` un nuovo Clavicembalo ben temperato. Bach era partito da un gruppo di pezzi gia` esistenti, li aveva rielaborati, aveva completato il ciclo seguendo un ordine di composizione che non conosciamo. Cosı` si era comportato nel 1722, per il primo libro, cosı` si era comportato per il secondo libro nel 1742. Sˇostakovicˇ non aveva dei pezzi gia` pronti da sfruttare, perche´ le tre fughe del 1934 erano ‘‘molto cattive’’ e non erano state sostituite da piu` formose sorelle. Secondo il suo costume Sˇostakovicˇ mise dunque un mattone sopra l’altro fino ad arrivare a ventiquattro, ritirandosi nella tranquillita` della Casa di Riposo e Creativita`. Comincio` il Preludio in Do il 10 ottobre e lo ultimo` nello stesso giorno. L’11 compose la Fuga, tutta sui tasti bianchi. Finito il ditti556

Ventiquattro Preludi e fughe op. 87

co in Do passo` al la (12 e 13 ottobre). E con cio` aveva gia` rinunciato a fare la copia conforme del Clavicembalo ben temperato perche´ Bach era passato dal do maggiore al do minore. Dopo il la Sˇostakovicˇ aveva davanti a se´ due strade aperte: il ciclo delle quinte ascendenti (do, sol) dei Preludi op. 34, oppure il ciclo delle quinte discendenti (do, fa) che Liszt aveva seguito negli Studi trascendentali. Decise per le quinte ascendenti: nacquero i Preludi e fuga in Sol (14 e 16 ottobre) e in mi (22 e 27 ottobre). A questo punto era possibile un altro snodo: proseguire con il circolo delle quinte ascendenti, come nei Preludi op. 34, o alternare quinte ascendenti e quinte discendenti, come Clementi nei Preludi ed Esercizi. Sˇostakovicˇ proseguı` nel modo piu` semplice: Preludio e fuga in Re (29 ottobre e 1 novembre), Preludio e fuga in si (2 e 9 novembre). E cosı` via. L’ultimo Preludio e fuga, in re, vide la luce il 23 e il 25 febbraio: in quattro mesi e mezzo Sˇostakovicˇ aveva creato un ciclo di circa due ore e mezza di musica, due ore e mezza senza un solo momento di stanchezza creativa, senza un solo cedimento alla routine: un monumento aere perennius. Un monumento con il quale Sˇostakovicˇ riuscı` nella rara impresa di scontentare tutti. Scontento` alla grande l’establishment sovietico. L’Unione Compositori, oltre a gestire la Casa di Riposo e Creativita`, era il filtro – per un residuo di pudore non diciamo l’ufficio di censura – attraverso il quale doveva passare qualsiasi composizione prima di esser resa pubblica. Il 31 marzo e il 5 aprile Sˇostakovicˇ eseguı` dunque i ventiquattro Preludi e fuga, spiegando poi umilmente quali erano state le sue intenzioni e chiedendo, riferisce Ljubov Rudneva, che gli si dicesse se aveva ‘‘creato un lavoro artisticamente valido o se sembrava arido e noioso’’. Qualche timida voce levatasi in suo favore fu subito zittita, e solo due interventi ‘‘tecnici’’ delle pianiste Tatiana Nikolaeva e Maria Yudina poterono sviluppare un discorso di apprezzamento e di difesa. Tatiana Nikolaeva, vincitrice del concorso di Lipsia, era pero` troppo giovane per aver veramente voce in capitolo, e Maria Yudina, ultracinquantenne, era da tutti ritenuta piu` pazza di una lepre in marzo. Le obiezioni dei censori si preoccupavano molto della sanita` mentale del popolo. Che avevano mai a che fare con l’educazione del popolo ventiquattro fughe? Poco, anzi, nulla. Un tale (ne´ Sˇ ostakovicˇ ne´ gli altri lo sapevano) ci aveva provato qualche anno prima. Si chiamava Zaderatskij, era gradito ospite di un gulag e aveva scritto ventiquattro preludi e fuga sul retro di moduli di telegrammi. Le fughe erano cosa degna della Siberia? Parrebbe. In realta`, Zˇdanov e gli zˇdanovini,

Ventiquattro Preludi e fughe op. 87

sembrerebbe, provavano difficolta` a capire perche´ la musica strumentale, che per secoli e per millenni aveva fatto da ancella al canto e alla danza, si fosse resa autonoma durante il Rinascimento. Kabalevskij prese la parola per dire: ‘‘Quest’opera e` basata su un grave errore di calcolo. Non vi sarebbe servita ad esempio, Dmitrij Dmitrievicˇ, come preparazione per il Canto delle foreste’’ (Premio Stalin). E fu ancora il piu` gentile, perche´ altri attaccarono violentemente sia l’idea generale che questo o quel preludio e fuga, specialmente il n. 15 su cui dovremo dir poi qualcosa. A Sˇostakovicˇ venne tuttavia concesso di eseguire qualche dittico in provincia e alla fine dell’anno Gilels presento` alcuni Preludi e fuga in Finlandia. Nel 1952, dopo un secondo dibattito all’Unione Compositori, arrivo` il permesso per la pubblicazione, e a seguire la somma che secondo il tariffario spettava all’autore. La prima esecuzione, pianista la Nikolaeva, ebbe cosı` luogo, in due serate, quasi due anni dopo il completamento del ciclo, il 23 e il 28 dicembre 1952, e nella piccola Sala Glinka del conservatorio di Leningrado. Per ragioni opposte i ventiquattro Preludi e fuga furono passati nel tritacarne anche in Occidente. Tra il 1950 e il 1951 erano nati Poliphonie X di Boulez e il Formel di Stockhausen, la Sonata di Barraque´ e i 3 Chants sacre´ di Pousseur, nel 1952 Stockhausen iniziava i Kontra-Punkte per dieci strumenti. Si affermava l’idea, inaugurata con il Mode de valeurs et d’intensite´ di Messiaen, della serializzazione totale, si recuperavano procedimenti contrappuntistici antichissimi e dimenticati e se ne inventavano di nuovi. A che servivano quelle fughe di Sˇostakovicˇ che sembravano scritte tenendo a portata di mano il Traite´ de la fugue di Andre´ Ge´ dalge, onusto di quasi cinquant’anni di onorato ma accademico servizio? A che servivano quelle dinamiche e quei segni d’espressione che sembravano presi dalle revisioni del Clavicembalo ben temperato di Busoni e di Barto´k? Sˇostakovicˇ, compositore d’avanguardia fino alla Lady Macbeth, per l’avanguardia degli anni cinquanta era uscito dalla storia. Era magari uscito per salvare la pelle come artista e forse anche come uomo, ma era uscito. C’era posto per lui nella Filosofia della nuova musica di Adorno? Niet. Boulez si sarebbe mai scomodato per scrivere un saggio su di lui? Mai, nemmeno per stroncarlo. E poi – questo possiamo capirlo di piu` – quell’intervista a New York del 1949 aveva corroso anche la figura morale di Sˇostakovicˇ. Ma con i ventiquattro Preludi e fuga, ci chiediamo, Sˇostakovicˇ aveva forse voluto dimostrare qualcosa? Bach aveva a suo tempo dimostrato che il

Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

clavicembalo, se ‘‘ben temperato’’, poteva suonare in qualsiasi tonalita`. Quale dimostrazione voleva mai dare Sˇostakovicˇ? Le ipotesi, come gli enigmi di Turandot, sono tre. Prima ipotesi. Alla meta` del Novecento, quando i compositori d’avanguardia della musica colta occidentale davano per spacciate la tonalita` e la modalita`, Sˇostakovicˇ voleva forse testimoniare la sua fede incrollabile nel do maggiore e compagni? Seconda ipotesi. Siccome la dodecafonia e la serialita` occidentali facevano parte di quel ‘‘formalismo’’ che il regime sovietico aveva condannato e condannava in nome del ‘‘realismo socialista’’, Sˇostakovicˇ voleva forse dire a Stalin e ai suoi bracci secolari di esser lı`, presente, allineato con le sante direttive? Io credo invece – ed e` la terza ipotesi – che Sˇostakovicˇ non fosse mosso da nessun calcolo di natura non artistica e che non intendesse fare alcun manifesto, ma che a quarantatre anni, semplicemente, egli si sentisse abbastanza forte da mettersi a confronto con Bach, il quale aveva ultimato a trentasette anni il primo libro del Clavicembalo ben temperato. L’idea, dicevo prima, era insieme grandiosa e un po’ folle. A piu` di cinquant’anni di distanza possiamo pero` dire che la follia era in realta` il suo rovescio, che era saggezza. L’analisi dell’op. 87 richiederebbe un volume, e l’etichettatura di ogni preludio e fuga con una o due frasette non servirebbe a nulla. Mi limitero` percio` a elencare alcuni problemi critici. Il riferimento a Bach e` pressoche´ costante. La prima battuta del primo preludio usa, in posizione di accordi, gli stessi suoni che Bach aveva usato nel primo preludio del primo libro in posizione di accordi arpeggiati, e la scrittura pianistica delle fughe e` quasi sempre bachiana ma con un importante ‘‘allargamento’’ perche´ ingloba procedimenti tecnici della trascrizione dall’organo di musiche di Bach che troviamo in d’Albert e soprattutto in Busoni. La estrema varieta` dei caratteri espressivi era certamente necessaria in un lavoro cosı` vasto, ma si ha la netta impressione che fosse ottenuta non volontaristicamente, non attraverso un calcolo di retorica espositiva, ma riflettendo invece sull’ethos immanente delle tonalita` quale si rivelava nella storia della musica colta europea dal barocco in poi (questa, lo sappiamo per certo, era l’intenzione di Sˇostakovicˇ nella composizione dei Quartetti, intenzione non portata a termine). Il terzo tema critico riguarda la natura ciclica dell’opera. Sˇostakovicˇ dichiaro` all’Unione Compositori che pensava a esecuzioni parziali di gruppi di sei o anche di tre o di quattro dittici, non all’esecuzione completa. La Nikolaeva sostiene invece che il compositore era molto interessato all’esecuzione completa, e Rich557

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Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ

ter ci racconta della delusione di Sˇostakovicˇ per la mancata inclusione in repertorio di tutti i Preludi e fuga: ‘‘Ho suonato molte delle sue composizioni, il Quintetto, il Trio, e sedici dei suoi ventiquattro Preludi e fuga, tutte partiture grandiose che considero tra le piu` importanti del nostro secolo. Sˇostakovicˇ, tutto sommato, e` un discendente di Beethoven attraverso Mahler e Cˇajkovskij. Ma lui sperava che io ne suonassi ventiquattro. Non aveva di che sentirsi ferito: suonavo quelli che mi piacevano, perche´ suonare quelli che non mi andavano? Lui si offese’’. Il fatto significativo non riguarda pero` secondo me l’esecuzione ma la concezione. I ventiquattro pezzi formano senza dubbio un ciclo organico che ha il suo punto culminante nel Preludio e fuga in re bemolle maggiore, l’unico la cui scrittura non nasca dal ripensamento dello stile bachiano. Preludio a modo di valzer inteso come danza macabra, fuga costruita su un soggetto di undici suoni e di espressione violentissima, sarcastica, demoniaca: una parodia apocalittica, secondo il mio parere, della musica neoclassica del Novecento. E il Preludio e fuga in re bemolle maggiore e` il quindicesimo dei ventiquattro: sul numero 15 cade la divisione del numero 24 secondo il rapporto della sezione aurea. Dopo aver parlato diffusamente, seppure in breve, dell’op. 87, posso permettermi, credo, di sbrigare con poche parole il Concertino op. 94 per due pianoforti (1953), scritto per il figlio Maxim che studiava per diventar pianista (e che divenne invece direttore d’orchestra). Il pezzo, in un solo movimento articolato in piu` parti contrastanti, usa formule pianistiche tipiche ed e` brillantissimo e gradevole da ascoltare, ma non si puo` dire che la sua stesura abbia mosso alcunche´ di inesplorato

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Concertino op. 94 per due pianoforti

nell’animo di Sˇ ostakovicˇ . Quasi la stessa cosa si puo` affermare del Concerto n. 2 op. 102 in Fa (1957) scritto anch’esso per il figlio Maxim. Il Concerto vuol essere, ed e` , musica di piacevole, brillante, spiritoso intrattenimento, intrattenimento che riprende nel primo tempo la tradizione del concerto militare, che nel dolcissimo, incantevole secondo tempo sfiora l’atmosfera del piano bar, che nel finale espone anche un’eccitante danza popolare e che, sempre nel finale, cita burlescamente il primo esercizio del Pianista virtuoso di Charles Hanon. Nel 1957 un pezzo di tal genere parve in Occidente un offesa non solo al buon gusto ma all’Arte. Oggi il Concerto e` un pezzo di repertorio che il pubblico mostra di gradire moltissimo. Il catalogo per pianoforte solo di Sˇostakovicˇ si chiude con le Danze di bambole senza numero d’opera (1952-1962), sette pezzi su temi tratti da vari balletti e da musiche per film. Piccole cose anche queste, e tuttavia interessanti perche´ si legano, ammorbidite nel tono, alle Tre Danze fantastiche dell’adolescente Sˇostakovicˇ. Nel luglio del 1975 Sˇ ostakovicˇ fu ricoverato in ospedale per problemi di cuore e di polmoni. Ci sarebbe rimasto, pensava, per un paio di settimane. Venne infatti dimesso l’1 agosto, ma il 3 dovette ritornare nel nosocomio (senza saperlo, era malato di cancro ai polmoni, e anche i reni e il fegato erano stati attaccati dal male). Il 6 agosto il violista Druzhinin ricevette la copia della Sonata per viola e pianoforte, ultimo lavoro di Sˇostakovicˇ; chiamo` il suo pianista, lessero e rilessero il pezzo. Druzhinin scrisse nella notte a Sˇostakovicˇ ringraziandolo per la dedica e proponendo che la prima esecuzione avesse luogo il 25 settembre, nel sessantanovesimo compleanno dell’Autore. La lettera rimase senza risposta: Sˇostakovicˇ morı` il 9 agosto.

Klavierstu¨ck V

Karlheinz Stockhausen

A Karlheinz Stockhausen

B

(Mo¨drath, 22 agosto 1928-Ku¨rten, 5 dicembre 2007) Nel catalogo ufficiale delle composizioni di Stockhausen i Klavierstu¨cke I-IV (Pezzi per pianoforte I-IV, 1952-1953) occupano il secondo posto, dopo Kontrapunkte. In ordine di composizione nacquero per primi i nn. 3 e 2, poi i nn. 4 e 1, e se si leggono i quattro pezzi in quest’ordine si nota il passaggio dalla scrittura ‘‘puntilistica’’ alla ‘‘composizione per gruppi’’. Nel loro insieme i quattro pezzi si configurano pero` come ciclo di lontana ascendenza schumanniana e la loro notazione ritmica, molto complessa e di difficile realizzazione, recupera in realta` il senso del rubato romantico. Stockhausen disse di aver avvertito nel 1954 la necessita` di ritrovare su uno strumento le scoperte che aveva fatto dopo aver lavorato per un anno e mezzo in uno studio di fonologia, componendo esclusivamente musica elettronica: [...] nelle composizioni piu` fortemente strutturate ho incontrato importanti fenomeni musicali che sono non-quantificabili. Non percio` essi sono meno reali, riconoscibili, concepibili e palpabili. Io mi trovo meglio – almeno in questo momento – a chiarire queste cose con l’aiuto di uno strumento e di un interprete, piu` che nel campo della composizione elettronica. Cio` dev’essere fatto soprattutto con un nuovo senso del tempo musicale, per mezzo di cui le sfumature ‘‘irrazionali’’ infinitamente sottili, e le tensioni, e gli indugi di un buon interprete sono spesso piu` veri, ai fini degli effetti voluti per il pezzo, della misurazione in centimetri [della notazione elettronica]. Tali criteri formali statistici ci daranno uno stile di rapporti fra il suono che e` ‘‘dello strumento’’ e il suono che e` ‘‘del suonare lo strumento’’, completamente nuovo e prima d’ora sconosciuto (Texte, Colonia 1964). La distinzione fra il suono ‘‘dello strumento’’ e il suono ‘‘del suonare lo strumento’’ puo` sembrare fin troppo sottile. Ma in realta` era essenziale e, secondo me, non era affatto nuova come Stockhausen credeva. Era nuova in rapporto con il tipo di esecuzione che si era affermata con la Nuova Musica, ma nella sua radice era arcaica. L’esperienza dei Klavierstu¨cke I-IV era quella della organizzazione capillare della composizione, non solo riguardo alle altezze ma anche alle durate e alle intensita`. La stessa finalita`, perseguita attraverso il mezzo elettronico, doveva aver rivelato al compositore la radicale differenza esistente fra la musica

pensata e la musica percepita. I problemi che sorgevano nella esecuzione dei Klavierstu¨cke I-IV potevano essere attribuiti alla mancanza di tecnica specifica dell’esecutore o, in senso lato, alla sua abitudine a relativizzare le durate e le intensita`. I colloquii con un pianista apertissimo come David Tudor, e ancora di piu` il lavoro con il mezzo elettronico, che realizzava immediatamente e con estrema precisione sia le durate che le intensita`, e che sgombrava dal campo l’alterita` di compositore ed esecutore, rivelava a Stockhausen i problemi della percezione e l’esistenza di leggi dell’ascolto non solo fisiche ma fisiologiche. Cosı`, come nota acutamente Robin Maconie, nello Stockhausen che dopo l’esperienza della musica elettronica scrive i Klavierstu¨cke V-VIII non si nota ‘‘un cambiamento di intelligenza ma un cambiamento di orecchio’’. Detta in questo modo, la conclusione e` fin troppo semplice. In realta` , Stockhausen ripensa teoreticamente e recupera intellettualmente una secolare esperienza che era rimasta confinata nel campo del pragmatistico e che si era evoluta nel corso del Novecento fino a distinguere e contrapporre grossolanamente il compositore in quanto ‘‘creatore’’ dall’interprete in quanto ‘‘tecnico’’. Il gruppo di nove suoni con cui inizia il Klavierstu¨ck V (1954-1955, revisione 1961), e che viene percepito come accordo arpeggiato, comporta tre diversi gradi di dinamica; il primo accordo della pag. 5, di sei suoni con il basso anticipato, comporta quattro diversi gradi di dinamica. Il primo accordo della Patetica di Beethoven, di sette suoni, comporta un solo grado di dinamica. Ma nella pratica dell’interpretazione il pianista, seguendo i dettami della piu` rigorosa ‘‘prassi autentica’’, puo` scegliere e di arpeggiare l’accordo e di anticipare il basso. E se anche non e` ferrato nella prassi autentica, il pianista professionista non esegue con un forte uniforme tutti i sette suoni dell’accordo, cioe` non distribuisce uniformemente il peso delle braccia su sette tasti. La distribuzione uniforme del peso e il forte uniforme darebbero il suono che e` ‘‘dello strumento’’ e farebbero percepire una massa bruta che, nel contesto della poetica di Beethoven, non avrebbe le caratteristiche di elemento significativo del linguaggio. Anche il pianista meno esperto da` percio`, per lo meno, un certo rilievo al suono piu` acuto dell’accordo. Ma il pianista vera559

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Karlheinz Stockhausen

mente esperto ‘‘concerta’’ la distribuzione delle dinamiche su sette suoni al modo di un direttore d’orchestra che stabilisce i livelli e i rapporti, il balance, ottenendo in tal modo il suono che e` ‘‘del suonare il pianoforte’’. Un ragionamento analogo potrebbe esser fatto riguardo alla articolazione ritmica. I valori temporali indicati dalla notazione musicale, che sono comunque soltanto relativi fra di loro e non assoluti, sono matematici, mentre i valori reali sono irrazionali. Misurando lo spettro sonoro realizzato graficamente da un analizzatore si constata che le durate proporzionali dell’esecuzione – ad esempio, dell’inizio della Patetica – corrispondono solo all’ingrosso alle durate proporzionali della grafia (Elisa di Paolo Castaldi, che riproduce semplicemente il cosiddetto Per Elisa di Beethoven notato ritmicamente come e` nell’esecuzione di Artur Schnabel, ha tutta l’apparenza grafica di una pagina di Stockhausen). Nel Klavierstu¨ ck V Stockhausen usa una notazione che tiene conto del risultato finale da raggiungere e che elimina almeno in linea di principio la differenza fra notazione e risultato. Le dinamiche e l’uso del pedale di risonanza (il pedale una corda viene indicato saltuariamente, ma l’Autore avverte che l’esecutore puo` impiegarlo ogni volta che lo desideri) sono notati con estrema minuzia. Il risultato non puo` pero` in pratica essere immaginato: dev’essere verificato, sentito allo strumento o, in altre parole, per capire la notazione e` necessario l’intervento dell’orecchio e delle sue capacita` di risoluzione sintetica di un evento complesso. Con estrema precisione sono altresı` indicati i valori proporzionali di durata. Tuttavia la scansione del tempo, approssimativamente indicata mediante il metronomo, e` soggetta a fluttuazioni continue, non esattamente misurabili e che dipendono percio` e dal gusto e dal senso estetico dell’esecutore. Da una parte abbiamo quindi l’intervento dell’Autore anche nel campo tradizionale di competenza dell’esecutore, ma dall’altra, rispetto ai Klavierstu¨ cke I-IV, il ruolo estetico e percio` ‘‘creativo’’ dell’esecutore viene riconosciuto e rivalutato. L’organizzazione della forma sembra chiarissima alla lettura ma viene percepita in modo diverso all’esecuzione. Anche qui, in realta`, la notazione e` intesa in senso non tradizionale per recuperare un dato della prassi tradizionale e delle leggi fisiologiche che la prassi seguiva senza una preventiva indagine teorica. Curiosa, a questo proposito, un’osservazione di Jonathan Harvey: [...] la percezione di sei sezioni chiaramente tagliate, di una certa evidenza, e` piu` evidente sulla carta che all’orecchio, a meno che non ci si riferisca allo 560

Klavierstu¨ck V

spartito. Perche´ sia importante per Stockhausen scrivere un pezzo in un modo, mentre e` poi ascoltato in un altro, solo lui potrebbe dirlo. Cio` induce al sospetto che teoria e musicalita` non siano sempre la stessa cosa. Secondo me, invece, il significato del Klavierstu¨cke V e` proprio di sciogliere la teoria nella musicalita` e di rinunciare a operazioni teoriche non verificabili alla percezione. E con cio`, detto pragmaticamente, qualsiasi analisi formale del pezzo diventa superflua. Piuttosto e` da notare, di fronte all’aspra tensione intellettuale dei Klavierstu¨cke I-IV, la poeticita` estrema del Klavierstu¨ck V, che attraverso l’attenzione portata verso la percezione riscopre il piacere sensuale del suono. Il piacere sensoriale della sonorita` non manca in nessuno dei Klavierstu¨cke V-VIII (1954-1955) e culmina nel Klavierstu¨ ck IX (1961), che rispetto ai quattro precedenti, studi di poesia, e` poesia allo stato puro, dalle incantatorie ribattiture iniziali di gruppi di suoni fino alle filigrane sopracute conclusive. Il recupero della piacevolezza sonora s’accompagna al recupero, sia pure adombrato, di una forma archetipica, la forma ternaria, tanto che qualche commentatore, forzando secondo me la realta`, ritiene di poter parlare di forma-sonata. Per l’insieme di queste ragioni, ritengo, il pezzo ottenne un insolito successo al suo apparire e sembro` destinato a entrare nel normale repertorio concertistico. Eventualita` non verificatasi, ma che potrebbe ripresentarsi perche´ nel Klavierstu¨ck IX si manifesta una svolta decisiva nella poetica di Stockhausen, ‘‘una transizione’’, dice Robert Maconie, ‘‘che in vista del successivo sviluppo del compositore appare chiaramente profetica: il trionfo della liricita` sulla struttura’’. La stessa poetica ispira il Klavierstu¨ck X (1961), smisuratamente lungo, che secondo me non ritrova pero` la fluidita` discorsiva e l’affettivita` creativa del pezzo precedente. Il Klavierstu¨ck XI (1956) ci fa pensare di primo acchito che ci sia un errore nella sua datazione. Viviamo in un’epoca molto attenta alle cronologie, e giustamente, perche´ la modificazione della data di composizione di una, ad esempio, sonata di Mozart provoca un riesame di tutti i problemi critici inerenti alla evoluzione artistica dell’autore. Chi osserva la cronologia dei Klavierstu¨cke di Stockhausen non puo` non restar colpito dal fatto che i primi otto furono composti fra il 1952 e il 1955, l’undicesimo nel 1956, il nono e il decimo nel 1961. Perche´ mai un pezzo composto prima del nono e del decimo venne numerato come undicesimo? Nel 1954 Stockhausen aveva progettato un ciclo di ventuno Klavierstu¨cke, ordinati in sei gruppi rispettivamente di quattro, sei,

Klavierstu¨cke XII-XVIII

uno, cinque, tre, due pezzi ciascuno. Il progetto fissava un lavoro sistematico su tutti gli aspetti di definizione e di organizzazione del suono. Era come il piano di un romanzo, e Stockhausen, dopo averne scritto l’ottavo capitolo, fu preso dalla frenesia di scrivere l’undicesimo, l’undicesimo che, come diro` fra poco, sembrava essere il piu` allettante. Passarono cinque anni prima che Stockhausen mettesse mano ai capitoli nono e decimo. E dopo averli scritti ritenne che con l’undicesimo capitolo il romanzo fosse bell’e terminato. Gli altri dieci capitoli progettati non furono mai scritti. O meglio, esistono altri Klavierstu¨ cke, di cui diro` poi, ma non composti secondo il progetto del 1954. Cio` che attiro` irresistibilmente Stockhausen verso l’undicesimo Klavierstu¨ck e` l’alea, il caso. Su un grande foglio si trovano diciannove cellule musicali. L’interprete comincera` con la cellula che piu` gli garba, decidendo a suo arbitrio la velocita`, la dinamica e il tocco, poi passera` a un’altra cellula, che sara` pero` eseguita secondo velocita` , dinamica e tocco indicati al termine della cellula precedente, e cosı` via; se una cellula viene ripresa una seconda volta il modo di esecuzione dovra` essere diverso, se viene ripresa una terza volta il pezzo sara` arrivato alla fine. Non piu` composizione in senso stretto, ma assemblaggio ogni volta diverso di tasselli combinabili fra di loro all’infinito. Ricordero` che nel 1956 John Cage terminava il ciclo di ottantaquattro pezzi Music for piano, basato sull’alea, e che Pierre Boulez stava lavorando alla Sonata n. 3, che introduce nella composizione il principio del ‘‘caso controllato’’. Stockhausen voleva quindi sperimentare subito la sua soluzione di un problema, quello antichissimo della cooperazione fra autore e interprete, nel quale l’avanguardia aveva inciampato e che capiva di non poter scansare. La fase dell’estremo rigore si chiudeva e rispuntava timidamente, sotto specie di alea, la liberta`. Mantra (1970) prevede l’impiego di due pianoforti, due microfoni, due modulatori ad anello e altre apparecchiature elettroacustiche, woodblock e cimbali antichi, ed e` indicata come ‘‘per due pianisti’’, non per due pianoforti, perche´ ai pianisti viene chiesto di suonare anche gli strumenti a percussione. Il lavoro, che ha una durata di circa sessantacinque minuti, e` minutamente calcolato. Il mantra e` una ‘‘formula sonora’’ di tredici suoni divisi in quattro sezioni, esposta anche a specchio e in cui ogni nota e` caratterizzata in modo diverso (ritmo, ornamentazione, tipo d’attacco). L’organizzazione formale e` di tredici ‘‘grandi cicli’’, con impiego di elaborate tecniche contrappuntistiche. La partitura e` scritta con colori diversi (rosso, verde,

Karlheinz Stockhausen

giallo, blu, oltre al nero) che facilitano l’esecuzione. Ma la particolarita` piu` singolare e` costituita dall’impiego dei modulatori ad anello. ‘‘Ciascun pianista’’, dice Stockhausen, ‘‘ha alla sua sinistra un amplificatore microfonico, un compressore, un filtro, un modulatore ad anello, un generatore d’onde sinusoidali con scala graduata e un potenziometro. Il suono del pianoforte, captato dai microfoni, viene amplificato e rimodulato mediante un’onda sinusoidale. Dietro ciascun pianoforte, a una qualche distanza, si trovano gli altoparlanti, che emettono il suono modulato insieme al suono diretto. Il suono modulato dovra` essere un po’ piu` forte del suono originale’’. L’aggiunta del suono sinusoidale modifica timbricamente il suono originale e l’ascoltatore percepisce, sfasati, i suoni originali del Mantra e i suoni modificati. Le istruzioni di Stockhausen sono minutissime, ma per il mio lettore non e` importante conoscere ne´ l’organizzazione particolareggiata della forma, ne´ i criteri di esecuzione. Il misticismo di Stockhausen appare chiaro nella conclusione della sua spiegazione: ‘‘Naturalmente, la costruzione unitaria di Mantra e` una miniatura musicale della macrostruttura unitaria del Cosmos, ed e` anche un ampliamento nel campo crono-acustico della microstruttura unitaria delle oscillazioni armoniche all’interno dello stesso suono’’. A parte tutte le intenzioni mistiche e tutta la scienza compositiva messe in atto, Mantra risulta molto suggestivo all’ascolto, ma viene eseguito di rado perche´ la fase di montaggio delle apparecchiature elettroacustiche necessarie richiede giornate di lavoro e presenta costi aggiuntivi che le societa` di concerti non sostengono volentieri. Verso il 1970 si pensava che le apparecchiature elettroacustiche sarebbero diventate d’uso comune e che le sale da concerto se ne sarebbero dotate stabilmente. Cio` non e` avvenuto, e cosı` la musica di Mantra, che avrebbe tutte le carte in regola per far parte del repertorio, e` confinata praticamente nel disco, che non puo` renderne il carattere spaziale. I Klavierstu¨cke XII-XVIII (1983-1996) sono tratti dall’opera Licht: i primi tre sono per pianoforte, gli altri impiegano anche la tastiera elettrica e il sintetizzatore. A me non sembra che posseggano una autonomia sufficiente a renderli interessanti quando sono staccati dal contesto dell’opera teatrale. Ad esempio, il Klavierstu¨ck XIII. Il Sogno di Lucifero, dura piu` di venticinque minuti e richiede una continua azione scenica, fissata con minuziosissime indicazioni di regia, che in sala di concerto distrae l’attrenzione. Stockhausen, da vero imprenditore-patriarca, impegnava nell’esecuzione di Licht i suoi familiari e i pezzi per pianoforte erano destinati alla figlia Majella. L’esecuzio561

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Karlheinz Stockhausen

ne staccata dall’opera serviva per i concerti di musica da camera, ma questa utilizzazione sembra dettata piu` da ragioni di convenienza che da motivazioni artistiche. Il Tierkreis (Zodiaco, 1975) comprende dodici piccoli pezzi che in origine dovevano essere realizzati – e furono realizzati – su carillon. Nella pubblicazione a stampa si trovano sia le melodie, da eseguire su qualsivoglia strumento melodico, sia le melodie accompagnate, come nei carillon, da eseguire su strumenti a tastiera. Si possono eseguire tutti i dodici pezzi o anche soltanto una parte di essi, e si possono alterare le altezze sia con trasporti di ottava che con trasporti su altri intervalli. Stockhausen concede persino all’esecutore con mani piccole, ad esempio al bambino, di omettere alcune note dell’accompagnamento. La notazione ritmica, tradizionale, sfrutta soltanto la suddivisione per due e per tre, non c’e` nessuna indicazione di dinamica. Stockhausen dice infine, pensando evidentemente al carillon, che ogni pezzo deve essere eseguito ‘‘piu` volte, ad esempio tre o quattro volte di seguito in modo irregolare’’. I pezzi non sono disposti nell’ordine tradizionale, con inizio dall’Ariete, ma partendo da gennaio, cioe` dall’Acquario. Balza evidente agli occhi l’intenzione di Stockhausen di comporre musica non reservata, musica per tutti, come gia` nei grandi affreschi sinfonici di Inori (1974) e di Sirius (1975). Nello Zodiaco egli recupera in realta` un modo rinascimentale di concepi-

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Tierkreis

re la musica, un modo in cui lo strumento e la dinamica non hanno nessuna importanza determinante, cioe`, in altre parole, un modo in cui timbro e dinamica sono variabili indipendenti, non elementi della struttura portante. La struttura e` formata dalle sole note, la materializzazione delle note e` affidata all’esecutore, e tutti gli schermi prudenziali e i limitativi del Klavierstu¨ck XI vanno, giustamente, a farsi benedire. Tuttavia l’organizzazione ciclica risulta evidente quando si consideri – e il frontespizio lo fa vedere chiaramente – che l’Acquario comincia e finisce sul re diesis, i Pesci sul mi, l’Ariete sul fa, e cosı` via, esaurendo tutti i dodici suoni della scala cromatica. Per ognuno dei pezzi sono indicati il tempo di metronomo e la durata ideale, dal minimo di 25 secondi e 4 decimi del Sagittario al massimo di 30 secondi e 4 decimi dei Pesci. Ma si ha l’impressione che Stockhausen concederebbe volentieri scostamenti dalle durate indicate. I dodici pezzi ‘‘interpretano’’ i segni dello zodiaco in un modo chiaramente simbolico: ad esempio, il Cancro, segno d’acqua, ha andamento di barcarola, frammentata all’inizio e alla fine, continua nella parte centrale, l’Acquario, segno d’aria, e` una sorta di valzerino, il Toro, segno di terra, viene eseguito costantemente con il pedale di risonanza, il che crea intorno ai suoni una specie di leggera nebbia mattutina, i Pesci guizzano, il Leone solleva fieramente il capo nel ritmo puntato...

Tierkreis

Johann Strauss jr.

A Johann Strauss jr.

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(Vienna, 25 ottobre 1825-ivi, 3 giugno 1899) Johann Strauss, figlio dell’altro Johann autore della Marcia di Radetzky, era violinista, non pianista, ed era direttore di una sua orchestra famosa in tutto il mondo. Tanto famosa e tanto proverbiale che nella scena del ballo dei fantasmi nel romanzo Il Maestro e Margherita di Bulgakov, l’orchestra e` diretta appunto da Johann Strauss. Il giovane Strauss, che per pianoforte non scrisse nulla, in una guida della letteratura pianistica sarebbe un... intruso, se non fosse che molte delle sue musiche furono parafrasate da grandi virtuosi. Il primo di essi e` Carl Tausig (1840-1870), che seguendo l’esempio del suo maestro Liszt, autore delle Serate di Vienna su temi di Schubert, pubblico` le Tre Nuove Serate di Vienna, Tre Valzer-Capricci su temi di Johann Strauss, che stilisticamente fanno soprattutto riferimento al lisztiano Valzer del ‘‘Faust’’ di Gounod. Liszt aveva assemblato temi tratti da varie raccolte di Schubert. Tausig parafraso` singoli valzer di Strauss, che al contrario di quelli di Schubert erano pluritematici, dando loro una lussuosa veste pianistica e aggiungendo delle cadenze di raccordo. Il successo della sua iniziativa fu tale da indurlo a pubblicare le Due Nuove Serate di Vienna, dando inizio a un vero e proprio genere che fiorı` fino a circa il 1914. Fra la pletora delle parafrasi sui valzer di Strauss, a cui non manca persino il contributo di un serioso compositore come Max Reger, sono per lo meno da citare quelle di Alfred Gru¨ nfeld (1852-1924), di Eduard

Schu¨ tt (1856-1933), di Moriz Rosenthal (18621946), di Leopold Godowsky (1870-1938), di Er" Dohna´ nyi (1877-1960), di Ignaz Friedman no (1882-1948), tutte pianisticamente scintillanti e in qualche caso – Rosenthal, Godowsky – anche elaborate contrappuntisticamente. Ma una citazione particolare va fatta per Adolf Schulz-Evler(18521904), i cui Arabeschi sul valzer ‘‘Il bel Danubio blu’’ divennero un test per i pianisti che, affrontandolo, dovevano dimostrare di saper conciliare la miriade delle ornamentazioni con la proverbiale signorilita`, eleganza e nonchalance del valzer viennese. Schulz-Evler, allievo di Tausig, trasporta l’originale, che era in Re, in Mi bemolle, pianisticamente piu` adatto, e fa precedere il vero e proprio valzer da una introduzione in cui il tema principale vien fatto apparire come in lontananza, in un luminoso pulviscolo di suoni sopracuti. I vari temi sono presentati sempre nella loro nuda semplicita`, ma la quantita` delle ornamentazioni e` strabocchevole e non scontata. La strumentazione richiama subito alla memoria le piu` complesse pagine di Rachmaninov e dimostra il possesso di una scienza che, sia pur basata com’e` su Liszt e su Tausig, riesce ancora a non scadere nella banale ripetitivita`. Dopo il 1914, dicevo, il gusto si allontana dalle parafrasi spettacolari e il genere si estingue. Solo Gyo¨rgy Cziffra (1921-1994) cerchera` di farlo rivivere con la Trisch-Trasch Polka, pallida rimembranza degli splendori d’un tempo.

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Richard Strauss

Burlesca in re per pianoforte e orchestra

Richard Strauss (Monaco di Baviera, 1º luglio 1864-Garmisch-Partenkirchen, 8 settembre 1949) Strauss, compositore precoce quasi quanto Mozart, comincio` a scrivere per pianoforte quando aveva sei anni. Fino a oggi, tuttavia, ben poco e` stato possibile conoscere dello Strauss bambino o giovinetto. La Schneider-Polka (Polca del sarto, 1871 ca.) e` graziosissima ma non ci dice molto. Sarebbe certamente interessante poter esaminare la Sonata in Mi (1878) e la Grande Sonata in do (1879). Ma dobbiamo partire dai Cinque Pezzi op. 3 (1880-1881, 1881), nei quali si notano le forti influenze di Schumann (nn. 1, 2, 5) e di Mendelssohn (nn. 3 e 4). Non si tratta tuttavia di semplici imitazioni da apprendista, quanto piuttosto di esercizi di stile, di studi che permettono di impadronirsi di cio` che e` essenziale nei due creatori, non di cio` che e` derivato da loro nella legione degli epigoni. La Sonata in si op. 5 (1880-1881, 1883) dimostra invece che Strauss comincia a tener conto di Brahms, per lo meno nel primo e nel quarto movimento, mentre il secondo e il terzo sono ancora mendelssohniani. Le proporzioni sono classiche (circa venti minuti di durata) e le forme sono trattate in modo gia` maturo, ma il primo movimento, basato su un primo tema principale che riprende il ‘‘motto’’ della Sinfonia n. 5 di Beethoven, non ha temi secondari e diventa monotono. Neppure il primo movimento della Sinfonia di Beethoven ha in verita` temi secondari, ma e` evidente che uno Strauss diciassettenne puo` prendere da Beethoven un’idea, non tenergli testa nel realizzarla. Dei quattro movimenti della Sonata solo lo Scherzo, che dura due minuti e mezzo, e` un piccolo gioiello di felicita` inventiva e di brillantezza di umori. Gli Stimmungsbilder op. 9 (Quadri di atmosfera, ma il titolo e` pressoche´ intraducibile, 1884, 1885) ritornano verso Schumann, e in particolare verso lo Schumann paesistico-simbolista delle Scene della foresta. Tuttavia si nota nel secondo pezzo qualche occhiata gettata verso Liszt, e verso Dvorˇa´k nel quarto e piu` insistentemente verso Grieg nel quinto. Del Tema con 15 improvvisazioni e fuga in la (1884-1885) fu pubblicata nel 1889 la sola Fuga in una storia della letteratura pianistica di Oscar Bie: troppo poco per poter valutare il lavoro. La Burlesca in re per pianoforte e orchestra (1885-1886, 1890) fu composta mentre Strauss lavorava a Meiningen come direttore-assistente di Hans von Bu¨low. Strauss fu in grado di 564

eseguire il 18 ottobre 1885 il Concerto K 491 di Mozart, per il quale scrisse le Cadenze, sotto la direzione di Bu¨low, e di dirigere nello stesso concerto la sua Sinfonia op. 12, ottenendo il plauso non solo di Bu¨low ma anche di Brahms, che si trovava a Meiningen per concerti di musiche sue. Nel febbraio dell’anno successivo Strauss offrı` al suo ‘‘capo’’, che era anche un sommo pianista, la Burlesca. Con sua grande sorpresa il pezzo fu cortesemente ma fermamente rifiutato. La prima esecuzione ebbe cosı` luogo solo il 21 giugno 1890, con Strauss direttore e Euge`ne d’Albert solista, e trovo` subito un editore; ma Strauss, per ragioni che non sono note, non le assegno` il numero d’opera. La forma e` quella di un primo movimento di concerto con una coda ampia che occupa quasi il 14% del totale. La costruzione e` saldissima, i temi non sono ancora cosı` personali come saranno di lı` a poco nel poema sinfonico Don Juan, ma non sono nemmeno anonimi. Il maggiore interesse risiede tuttavia nella strumentazione, che impiega molteplici moduli e, soprattutto, la contrapposizione fra il solista, considerato come ‘‘altra orchestra’’, e l’orchestra. Co-protagonista della Burlesca e` il timpano, che da` il via alla composizione e che la chiude, e che sfrutta con inesausta genialita` i quattro suoni che formano tutto il suo arsenale di battaglia. La coda costituisce il momento di maggior inventiva: Cadenza del pianoforte, valzer – del tutto inatteso – di mendelssohniana leggerezza, divertimento toccatistico che sembra portare a una chiusa trionfale, e sezione conclusiva che svuota invece il fortissimo poderoso fino al limite della audibilita`. La Burlesca rappresenta, nella evoluzione di Strauss, l’abbandono delle prospettive classicheggianti della Sinfonia op. 12 e l’apertura verso i poemi sinfonici. Sembra probabile, viste le sue caratteristiche e viste anche certe didascalie (si consideri l’episodio con un concitato botta e risposta fra l’orchestra, feroce, e il pianoforte, tranquillo), sembra probabile, dicevo, che Strauss avesse in mente un programma, a proposito del quale si potrebbero pero` fare soltanto supposizioni. Certamente, il pezzo e` non solo molto significativo, come dicevo, nella evoluzione di Strauss, ma presenta anche caratteristiche che ne fanno un episodio tutt’altro che trascurabile nella storia del concerto per pianoforte e orchestra. Gli altri due pezzi di

Panathena¨enzug

Strauss per pianoforte e orchestra sono legati alla vicende esistenziali di Paul Wittgenstein che, come tutti sanno, avendo perduto in guerra il braccio destro commissiono` nuove composizioni a molti creatori importanti e mise insieme un vero e proprio repertorio, di cui si servı` per riprendere e sviluppare la sua attivita` concertistica. Il Parergon zur Sinfonia Domestica op. 73 per mano sinistra e orchestra (Appendice alla Sinfonia domestica, 1924-1925, 1926) e` basato sul tema del figlioletto di Strauss nella Sinfonia domestica del 1903. La forma oscilla fra le improvvisazioni e le variazioni. La scrittura e` piuttosto singolare perche´ Strauss esclude di norma il registro basso del pianoforte, cioe` quello su cui si muove di solito la mano sinistra, e sviluppa la parte solistica come se si trattasse di un lavoro violinistico. Il Panathena¨ enzug (Processione per le feste panatenee, 1926-1927, 1950) e` sottotitolato ‘‘Studi sinfonici in forma di passacaglia’’ (cinquantuno variazioni su basso ostinato). Strauss terminava nel 1927 l’opera Elena egizia, e il titolo del pezzo per la mano sinistra sembra essere dovuto al volgersi verso l’antichita` classica degli interessi dell’Autore. La scrittura e` semplicissima, classicheggiante, ma nel senso paradossale che sembrerebbe tale con l’impiego di entrambe le mani, mentre invece Strauss ha a disposizione una sola mano. Strauss non era come il po-

Richard Strauss

lemico Scho¨nberg, che di fronte al neoclassicismo di Stravinskij invento` il personaggio Modernski, protagonista della Satira op. 28 n. 3 del 1925. Molto piu` sornione, Strauss arriva a dimostrare senza dichiararlo che per ottenere gli effetti della scrittura neoclassica di Stravinskij basta in fondo una mano sola. Il pezzo e` brillante, distaccato, divertente, ... tutto il contrario del Parergon, pezzo romantico-tenebroso che s’addiceva di piu` a un virtuoso di mentalita` tradizionalista come Wittgenstein, il quale eseguı` la passacaglia molto raramente, tanto che la pubblicazione fu posposta di piu` di vent’anni. Se fosse vissuto cinquant’anni prima Strauss avrebbe visto fiorire le trascrizioni per pianoforte dei suoi lavori sinfonici e cameristici e le fantasie sulle sue opere teatrali. Invece le trascrizioni e le fantasie erano ormai relitti del passato. Due importanti trascrizioni di pezzi sinfonici di Strauss non sono mai uscite a stampa: si tratta del Till Eulenspiegel trascritto da Risler e di Vita d’eroe trascritto da Barto´k. L’unica fantasia e` quella di Percy Grainger sul Cavaliere della rosa, pianisticamente geniale e che impiega in modo inventivo il terzo pedale. La Serenata op. 17 n. 2 e` stata trascritta con risultati ugualmente rilevanti da Godowsky e da Gieseking. Strauss trascrisse per pianoforte a quattro mani la Suite op. 4 per ottoni.

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Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

Panathena¨enzug

Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij (Oranienbaum, 17 giugno 1882-New York, 6 aprile 1971) Il catalogo pianistico di Stravinskij si apre con una Tarantella (1898) rimasta inedita e della quale e` stato ritrovato solo un frammento. Lo Scherzo in sol (1902, 1973), in forma classica con trio, e` un delicato pezzo da salotto, ritmicamente un poco bizzarro e perfettamente coerente nella sua semplicita`. La Sonata in fa diesis 1903-1904, 1973), assegnata a Stravinskij come compito di scuola dal suo maestro Rimskij-Korsakov e composta secondo i consigli di questi, fu eseguita il 9 febbraio 1905 dal pianista Nicolaj Richter a S. Pietroburgo ma non fu pubblicata. Considerata perduta da Stravinskij, fu ritrovata a Leningrado e uscı` postuma. Stravinskij, parlandone, supponeva che fosse influenzata dal tardo Beethoven. Le influenze riscontrabili sono invece quelle di Cˇ ajkovskij e in minor misura di Skrjabin. La costruzione corrisponde allo schema scolastico e l’insieme della Sonata risulta assai impersonale e costruito con una certa fatica, con l’eccezione del secondo movimento, Vivo, in forma di scherzo con trio, esteticamente continuo e molto brillante. Nei Quattro Studi op. 7 (1908, 1910) appare in modo piu` evidente l’influenza di Skrjabin, in particolare degli Studi op. 42. Gli Studi nn. 1, 2 e 4 sono virtuosistici, e trascinanti per la loro vitalita` ritmica. Ma il n. 3, Andantino in mi, e` secondo me il piu` interessante, anche pianisticamente, perche´ affida alla mano sinistra una scrittura a piu` voci, mentre la destra ornamenta con leggerezza ed eleganza la melodia. Stravinskij tenne lui stesso la prima esecuzione degli Studi. Se riuscı` davero a condurli in porto senza rischiare a ogni momento di affondare tragicamente bisogna dire che a ventisei anni era un pianista infinitamente migliore di quello che appare a noi nelle incisioni realizzate dopo i quarant’anni. Durante la guerra Stravinskij compose alcuni pezzi facili e brevi. Il Souvenir d’una marche boche (Ricordo di una marcia crucca, 1915, 1916) parodizza lo stile delle marce militari tedesche, la Valse pour les enfants (Valzer per bambini, 1917, 1922) rieccheggia i modi ironici di Satie. I Tre Pezzi facili (1915, 1917) e i Cinque Pezzi facili (19161917, 1917) sono per pianoforte a quattro mani e perseguono chiare finalita` didattiche perche´ nella prima serie il ‘‘facile’’ e` riservato alla mano sinistra e nella seconda serie alla mano destra. Marcia, 566

Valzer, Polca, Andante, Espan˜ola, Balalaika, Napoletana, Galop: questi i titoli degli otto pezzi, ed e` chiaro che Stravinskij riprende, parodiandoli, i modi tipici delle raccolte per principianti o per dilettanti. Le potenzialita` di queste... caricature spiritose risultano pero` meglio nella trascrizione per orchestra da camera (Suite n. 1, 1917-1925, Suite n. 2, 1921). Pezzo da concerto e` invece, almeno nelle intenzioni, il Piano-Rag-Music (Musica pianistica rag, 1919, 1920), dedicato a Artur Rubinstein e che questi non eseguı` mai perche´ la stilizzazione del jazz e` talmente sofisticata da sconcertare l’ascoltatore. Non miglior fortuna ebbe il Ragtime (Tempo di rag, 1918, 1920), abbozzato per pianoforte, orchestrato per nove strumenti, cimbalom e percussione, ma pubblicato anche in versione per pianoforte con frontespizio di Picasso. I Trois Mouvements de Petrouchka (Tre Movimenti di Petrusˇka, 1921, 1922) furono trascritti dal balletto del 1911. Il balletto era pero` il risultato ultimo di un precedente progetto di pezzo per pianoforte e orchestra. Scrive Stravinskij: Componendo questa musica aveva nettamente la visione di un burattino subitamente scatenato, che con le sue diaboliche cascate di arpeggi esaspera la pazienza dell’orchestra, la quale a sua volta gli replica con minacciose fanfare. Ne segue una terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si conclude con l’accasciarsi doloroso e lamentevole del povero burattino. Terminato questo bizzarro pezzo, per ore e ore, passeggiando sulle rive del Lemano, cercavo il titolo che esprimesse in una sola parola il carattere della mia musica e, di conseguenza, la figura del mio personaggio. Un giorno ebbi un sussulto di gioia: Petrusˇka! L’eterno, l’infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi! Era questo che volevo, avevo trovato il mio titolo! Stravinskij racconta poi come Djagilev lo convincesse a utilizzare per un balletto la musica che gia` aveva scritto. Nella partitura di Petrusˇka il pianoforte ha dunque una parte di grande rilievo, anche se non decisamente solistica come nella prima concezione del lavoro (prima concezione che, a quanto dice Stravinskij, non era un abbozzo: peccato che non sia stata recuperata). Quando decise di trascrivere tre brani del balletto per ‘‘offrire ai virtuosi della tastiera un pezzo di una certa ampiezza che permettesse loro di completare il loro

Concerto per pianoforte e fiati

repertorio moderno e di far brillare la loro tecnica’’, Stravinskij pote´ partire da due pezzi del balletto, la Danza russa e Presso Petrusˇka, il cui trasferimento al pianoforte solo non presentava gravi problemi. Molto difficile dovette invece risultare la trascrizione dei quarto e piu` ampio quadro del balletto, La Settimana grassa, pezzo di complessa polifonia e di colori sgargianti. Stravinskij era un modestissimo pianista, era tutt’altro che un gande virtuoso, tanto che i Tre Movimenti di Petrusˇka, se servirono a far brillare la tecnica di un bel po’ di concertisti, non andarono a rimpolpare lo scheletrico repertorio del loro Autore, che non pote´ mai azzardarne un’esecuzione pubblica. Tuttavia, pur non essendo in grado di inventare nulla che nascesse da un preciso calcolo di movimenti della mano sulla tastiera, cioe` da una personale esperienza di esecutore, Stravinskij riuscı` a creare una trascrizione di sbalorditiva efficacia. Sembra probabile che Stravinskij, come Ravel (altro pianista pellegrino), sapesse sfruttare le sue esperienze di ascoltatore e che dall’audizione di grandi dominatori della tastiera arrivasse a immaginare effetti che di solito solo compositori-virtuosi come Liszt o Tausig o Busoni o Rachmaninov erano riusciti a scovare. I Tre Movimenti di Petrusˇka furono dedicati ad Artur Rubinstein e per Stravinskij furono un buon affare. Rubinstein, contento come una pasqua, gli verso` una somma maggiore di quella che Djagilev gli aveva accordato per l’intero balletto (vero e` che c’erano state di mezzo la guerra e l’inflazione...) ed eseguı` spesso il lavoro, riadattandolo pero` in parte. Scrive Rubinstein: Era una trascrizione straordinaria; sembrava di sentire tutta l’orchestra. Tuttavia era molto difficile da eseguire. Feci qualche osservazione su alcuni passaggi che avrebbero potuto ritardare la progressione dinamica del pezzo, al che Stravinskij mi disse: ‘‘Suonalo come preferisci. Ti do` carta bianca’’. Approfittai del suo permesso, ma non realizzai mai un’incisione del pezzo perche´ conoscevo bene il mio Igor; quando fosse stato di cattivo umore avrebbe potuto annunciare: ‘‘Rubinstein tradisce la mia opera’’. Gli aggiunstamenti di Rubinstein, dei quali non abbiamo alcuna precisa notizia ma solo qualche ricordo, provocarono piu` tardi un’aspra polemica perche´ il pianista russo Leo Sirota eseguı` i Tre Movimenti, e li incise in disco, senza cambiare una nota. Rubinstein fu accusato di incapacita`. Ma secondo me aveva ragione lui perche´ in certi particolari della Settimana grassa il rischio e` tale da attrarre tutta l’attenzione dell’esecutore e da fargli perdere di vista la logica della declamazione. I Tre Movimenti entrarono anche nel repertorio di Alfred Cortot, che negli anni venti era assai piu` cele-

Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

bre di Rubinstein, e diventarono in breve tempo una delle pietre del paragone del virtuosismo. E tanto importante era la loro funzione che scamparono alla caduta a picco delle tascrizioni, scomparse in pratica dal repertorio nella seconda meta` del Novecento. Le cinq doigts (Le cinque dita, 1921, 1922), ‘‘8 melodie molto facili su 5 note’’, riprendono in modo ancora piu` semplificato gli intenti didattici degli otto pezzi facili per pianoforte a quattro mani, secondo un modulo, in questo caso, che era diventato comune nella didattica pianistica dopo Il Primo maestro di pianoforte di Czerny. Stravinskij dice di essersi proposto di ‘‘destare nel bambino il gusto del disegno melodico nelle sue combinazioni con un accompagnamento rudimentale’’. E l’intento didattico e` spinto a un punto tale che spesso la mano destra non cambia posizione per tutta la durata del pezzo. Nella composizione degli otto pezzi non fu estranea la circostanza che il figlio di Stravinskij, Soulima, nato nel 1910, aveva iniziato a studiare il pianoforte. Fatto curioso, mentre nella letteratura per l’infanzia la parte della mano sinistra e` sempre piu` facile di quella affidata alla mano destra, in Stravinskij avviene il contrario, perche´ la formula di accompagnamento e` piu` mobile della melodia ed evita ogni formalizzazione stereotipa. Lo stile degli otto pezzi risente evidentemente della recente Histoire du soldat, ma secondo me anche, soprattutto nel Pesante conclusivo, degli Sports et Divertissement di Satie. Molto piu` tardi, addirittura all’inizio degli anni sessanta, Stravinskij trascrisse gli otto pezzi per orchestra. In Stravinskij c’e` la scoperta del pianoforte come strumento di abbaglianti possibilita` timbriche, e cio` avviene nella parte pianistica del Petrusˇka. C’e` poi la scoperta del pianoforte come... gagne pain, e cio` avviene con il Concerto per pianoforte e fiati (1923-1924, 1924) Perdute le sue rendite patrimoniali in Russia e non potendo incassare all’estero i diritti d’autore per le partiture pubblicate da case editrici russe, giacche´ ne´ la Russia aveva mai aderito alla convenzione internazionale sul copyright, ne´ vi aveva aderito l’Unione Sovietica, Stravinskij si era accorto che per un grande compositore, capace di muovere decentemente le dita sul pianoforte, esisteva la possibilita` di inserirsi nell’organizzatissimo e lucroso mondo concertistico internazionale e nel nascente mondo della musica riprodotta. Scrisse cosı` ed eseguı` ovunque il Concerto, che pote´ sfruttare per una quarantina di esecuzioni in Europa e negli Stati Uniti. Nello stesso periodo, come vedremo fra breve, scrisse ed eseguı` la Sonata, scrisse, eseguı` e incise la Serenata, realizzo` sul pianoforte riproduttore, facendo tutto da solo, 567

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Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

l’esecuzione di molte delle le sue opere orchestrali nella trascrizione per pianoforte a quattro mani. Uomo pratico, Stravinskij mise a profitto tutto cio` che poteva procurargli guadagni, e piu` tardi, com’e` ben noto, riscrisse le sue partiture di prima della guerra, pubblicandole in Occidente. Il Concerto e` in tre movimenti, organizzati tonalmente in un modo singolare: primo movimento che inizia in la e finisce in La, secondo movimento in Do, terzo movimento in Do. La struttura del primo movimento fonde insieme l’allegro di sonata classico e la ouverture barocca, con il maestoso Largo in ritmi puntati all’inizio e alla fine, e al centro, invece del fugato della ouverture barocca, l’allegro tripartito classico. Il secondo movimento e` in forma di canzone tripartita, con secondo tema in tempo piu` mosso e con riesposizione abbreviata del primo tema. Il finale segue nella grandi linee la forma del rondo` ma inizia con un fugato molto ingegnoso. Tre temi – in Do, in Mi bemolle, in La bemolle –, riesposizione abbreviata del secondo tema in Do, e riesposizione abbreviata del primo tema. Prima della fine viene citato il Largo iniziale del primo movimento, a cui segue una chiusa fulminea – Stringendo – in tempo accelerato e che sembra uno sberleffo da marionetta. La citazione del primo movimento non risponde a ragioni strutturali ma soltanto psicologiche, e la costruzione neoclassica viene cosı` contraddetta nella parte terminale del terzo movimento, tanto da aver indotto qualche critico a giudicare il Concerto difettoso, cioe` contrario alla poetica di Stravinskij, alla poetica che negava alla musica la capacita` di esprimere sentimenti. Ma e` chiaro che Stravinskij non si riteneva legato mani e piedi alle tesi piu` radicali della sua poetica. Piuttosto, se e` lecito pensarlo e dirlo, egli teneva d’occhio il successo presso il pubblico, e sotto questo aspetto riusciva a sprigionare nell’ultima parte del finale un alto valore emotivo e spettacolare. L’orchestra e` formata da tre flauti, tre oboi, due clarinetti, due fagotti, quattro trombe, tre tromboni, tuba, timpani, contrabbassi. Stravinskij, come del resto altri compositori del suo tempo, pensava che il timbro del pianoforte fosse adatto a fondersi con gli strumenti a fiato piu` che con gli archi. Ma la sua orchestra di fiati e` , in realta` , un condensato della banda, con un nutrito gruppo di legni, un gruppo di ottoni, uno strumento a percussione e i contrabbassi a corda: i timpani e i contrabbassi a corda non mancavano in effetti mai nelle grandi bande che tenevano concerti sulle piazze, eseguendo sinfonie classicoromantiche e pezzi sinfonici (ad esempio, a Roma opero` fino al 1921 la banda municipale diretta da Alessandro Vessella, che teneva i suoi concerti al 568

Sonata

Pincio). E nell’Unione Sovietica l’uso del concerto bandistico, anche con pianoforte solista, continuo` fino a oltre la meta` del secolo. Nel Concerto di Stravinskij troviamo cosı` , attraverso il ricorso a forme classiche ma con orchestra di fiati, una specie di ‘‘musica al quadrato’’ non solo per quanto riguarda lo stile, ma anche per quanto riguarda la strumentazione. La Sonata (1924, 1925) fu eseguita per la prima volta dall’Autore a Venezia nell’autunno del 1925 durante il Festival della Societa` Internazionale per la Musica Contemporanea, e causo` sensazione, sbalordimento, anche scandalo per le sue caratteristiche formali e per la sua scrittura strumentale. Le strutture erano prebeethoveniane, la scrittura era di una linearita` inconsueta, per lo meno nella musica che si eseguiva in concerti pubblici, e ricordava anch’essa modelli prebeethoveniani di tecnica della tastiera o tutt’al piu` il Beethoven che piaceva a Stravinskij, quello delle Sonate ‘‘piccole’’ come l’op. 54, l’op. 78, l’op. 79. Non si trattava in verita` di una novita` assoluta, tale da far sbalordire, perche´ gia` il Busoni delle Sonatine n. 3 e n. 4 (1916-1918), e gia` il Prokof’ev della Sonata n. 5 (1923) avevano inagurato tipi di scrittura non virtuosistica e nettamente in contrasto con i culmini della tradizione dell’Ottocento. Le Sonatine di Busoni e la Sonata di Prokof’ev erano pero` pur sempre opere di concertisti in carriera, mentre la Sonata di Stravinskij era il prodotto di un pianista, come ho appena detto, di modestissime capacita`, che si presentava e veniva compensato come concertistica di recital confezionandosi un pezzo ad hoc. Ma, quali che fossero le motivazioni pratiche, che potevano anche parere ‘‘scandalose’’, Stravinskij arrivava in concreto a far coincidere pragmatismo e ideologia mediante il radicalismo di una scelta che lo portava verso la civilta` del Settecento, razionalista e a-romantica. Attraverso una ricreazione stilistica prodigiosa Stravinskij ripensava nella Sonata la scrittura a due voci nei movimenti rapidi e la melodia ornata nel movimento lento, l’Adagietto, cancellando piu` di cent’anni di storia del pianoforte con una decisione e una forza che Busoni e Prokof’ev, proprio in quanto concertisti, non potevano raggiungere. Mentre il neoclassicismo di Busoni e di Prokof’ev e` infatti intriso di una malinconia sottile, di una consapevole nostalgia di un mondo perduto, il neoclassicismo di Stravinskij e` quello di chi non cerca la semplicita` come rinuncia, come ascesi, ma come via verso una civilta` incorrotta. Incorrotta, se vogliamo, anche perche´ non fa distinzioni fra autore ed esecutore, fra pianista e concertista. L’unico segno di preromanticismo lo troviamo nella struttura tonale

Concerto per due pianoforti

della Sonata: primo movimento in Do, secondo in La bemolle, terzo in Mi. I rapporti di terza maggiore discendente (do, la bemolle, che e` uguale a sol diesis, e mi) non sono infatti tipici del Settecento ma del primo Ottocento, e in particolare di Schubert. Uno ‘‘sbaglio’’ che in realta` e` il primo segno della modernita` della Sonata, il cui linguaggio, inutile dirlo, non e` settecentesco. Subito dopo la Sonata Stravinskij compose, e rinforzo` il suo repertorio, con la Serenata in la (1925, 1926). Confesso di non provare molta simpatia per la Serenata. Stravinskij, che voleva procurarsi introiti di denaro anche attraverso il disco, compose un pezzo in quattro parti, ciascuna delle quali non superava la durata della facciata di disco a 78 giri. A me sembra che i quattro movimenti della Serenata – Inno, Romanza, Rondoletto, Cadenza finala (sic) – siano costruiti in modo intellettualistico e manchino della felicita` inventiva e del vigore ritmico della Sonata. Dopo aver quasi esaurito le possibilita` di essere scritturato per il Concerto, Stravinskij compose il Capriccio per pianoforte e orchestra (1929, 1930), con un’orchestra formata da un grosso numero di strumenti a fiato ma comprendente, oltre al ‘‘ripieno’’ degli archi, un ‘‘concertino’’ di archi solisti (violino, viola, violoncello, contrabbasso). Spiega Stravinskij: Invitato molto spesso negli ultimi anni a suonare il Concerto [...] pensai che fosse venuto il momento di presentare al pubblico un’altra composizione per pianoforte e orchestra. Per questo motivo scrissi un nuovo concerto al quale diedi il titolo Capriccio, titolo che rispondeva meglio al carattere della sua musica. Pensavo alla definizione di un ‘‘capriccio’’ data da Pretorius, il celebre musicologo del XVII secolo. Egli vi scorgeva il sinonimo di una ‘‘fantasia’’, che era una forma libera di pezzi strumentali fugati. Tale forma mi dava la possibilita` di far procedere la musica accostando degli episodi di genere vario che si susseguono e che, per la loro natura, danno al pezzo il carattere capriccioso da cui prende il nome. Stravinskij aggiunge di aver tenuto presente Weber, compositore ‘‘al cui genio si confaceva mirabilmente questo genere’’. Il Capriccio e` in tre movimenti. Nei primi due movimenti non si riscontra in verita` l’ammirazione per Weber perche´ la scrittura pianistica e` lineare, persino piu` lineare di quella della Sonata. E il concertino dell’orchestra non colloca la musica, come ci si aspetterebbe, nell’ambito stilistico del barocco. L’ammirazione per Weber si manifesta in parte nel finale, con le doppie note, le seste, le ottave. Il primo movimento e` minuziosamente calcolato su un sistema di simmetrie assai poco capricciose, ma capriccioso e`

Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

il piano tonale, che partendo dal la non tocca mai il prevedibile Do e termina con la ripresa dell’inizio in sol. Il secondo movimento – Andante rapsodico – e` in forma di canzone, con una melodia accompagnata, un drammatico recitativo e la riesposizione variata della melodia. La situazione drammaturgica non ricorda il Settecento quanto piuttosto, sia pure alla lontana, il secondo movimento del Concerto n. 2 di Chopin; nella riesposizione compaiono nella parte solistica alcune vaporose volatine che richiamano il perle´ romantico. Il finale, in forma di rondo`, si colloca decisamente nel solco della musica dell’Ottocento, ma della musica francese della belle e´poque, tanto che, piu` che a Weber, si pensa a Saint-Sae¨ ns (e magari a Poulenc). Il Capriccio da` spesso l’impressione di una partitura per balletto e fu varie volte coreografato. La piu` celebre e piu` geniale coreografia e` quella di Balanchine in Rubins (Rubini), seconda parte della trilogia Jewels (Gioielli). Quando il figlio Soulima, allievo di Isidor Philipp, ebbe completato il corso di studi, Stravinskij, diciamo cosı`, lo associo` alla ditta. Il Concerto per due pianoforti (1931-1935, 1936) fu eseguito da padre e figlio per la prima volta a Parigi il 21 novembre 1935, in un programma comprendente inoltre i Tre Movimenti di Petrusˇka eseguiti da Soulima. La Ditta Igor Stravinskij & Figlio continuo` poi per vari anni a girare l’Europa e l’America con un programma da camera, costituito in genere dai Tre Movimenti, eseguiti dal figlio, dal Concerto per due pianoforti, dalla Sonata e dalla Serenata eseguite dal padre, e dalla ripetizione del Concerto. La prima esecuzione era stata patrocinata dalla Universite´ des Annales, che il 15 dicembre pubblico` nel suo Journal il testo del discorso, premesso da Stravinskij all’esecuzione. La presentazione del Concerto, secca ed essenziale, e` preziosa per noi. Stravinskij dice che concerto ‘‘deriva dal termine italiano concertare, che significa concorrere, partecipare a un concorso, a un match. Di conseguenza, il concorso presuppone logicamente una rivalita` fra piu` strumenti concertanti o tra un solo strumento e un complesso che gli si contrappone’’. E piu` avanti dice: Mentre la concezione piu` naturale di un accompagnamento e` d’ordine armonico, il concorso concertante, per sua stessa natura, richiede una concezione d’ordine contrappuntistico. Quest’ultimo e` il principio che ho applicato nella mia nuova opera, nella quale i due pianoforti, ugualmente importanti, concorrono l’uno con l’altro e assumono cosı` un ruolo concertante; ed e` cio`, esattamente, che mi ha permesso di dare alla mia opera la denominazione di Concerto. 569

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Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

Nel Concerto per due pianoforti l’impegno costruttivo, architettonico, e` mantenuto con rigore e con un riferimento, flessibile, a forme codificate della tradizione. L’inizio del primo movimento e` molto originale. Stravinskij sembra entrare subito in medias res, ma in realta` comincia con una specie di breve preambolo nel quale vengono esposti i due temi principali del pezzo fra una serie di scale diatoniche, di note ribattute e di tremoli, che fanno loro da velo, da scenario. Viene quindi esposto il primo tema, quasi una fanfara, marziale e marcata. Dopo l’episodio di transizione arriva il secondo tema, piu` lirico, contrastante con il primo; segue l’episodio di conclusione. Stravinskij scandisce la struttura architettonica dell’esposizione mediante la dinamica, impiegata come segnale, come mezzo di spiegazione didascalica. La transizione dalla esposizione allo sviluppo e` segnalata, oltre che dal passaggio dal fortissimo al mezzopiano, da una pausa breve, il primo attimo di silenzio sin qui incontrato e che, proprio per essere il primo, acquista un rilievo enorme. Lo sviluppo e` in tre parti. La riesposizione, abbreviata (manca il secondo tema) e` seguita da un’ampia coda sul primo tema: anche il passaggio dalla riesposizione alla coda e` sottolineato da un subitaneo subentrare del piano al fortissimo. Un’architettura scandita dalla dinamica pone problemi non lievi agli esecutori, complicati ancora dal fatto che Stravinskij impiega soltanto il tocco sciolto, limitando il legato a brevissimi frammenti. Il classicismo della struttura e della scrittura pianistica non viene pero` esteso al piano tonale: il pezzo e` in mi, ma la tonalita` del secondo tema non e` chiaramente definita e il secondo tema non torna del resto nella riesposizione, eliminando in tal modo uno dei pilastri della struttura tradizionale. La tensione tonale che si stabilisce nel primo movimento avviene invece fra due tonalita` le piu` lontane possibili, secondo uno stilema tipico di Barto´ k: mi nella esposizione e nella riesposizione, Si bemolle nella prima e nella terza parte dello sviluppo. Questo rapporto e` sottolineato dalla brusca variazione della scrittura pianistica: tutti riconoscono facilmente le ascendenze jazzistiche dello sviluppo. Il titolo Notturno del secondo movimento non e` riferibile, dice Stravinskij ai ‘‘pezzi di carattere sognante e senza forma determinata’’, ma ‘‘ai pezzi del sec. XVIII detti Nachtmusik, meglio ancora, alle cassazioni tanto comuni presso i compositori dell’epoca’’. Il rapporto tonale fra il primo e il secondo movimento e` classico: mi-Sol. La fusione dei diversi movimenti della cassazione in un movimento solo, di cui parla Stravinskij, e` verificabile anche alla semplice audizione per il fiorire di epi570

Concerto per due pianoforti

sodi svariati che sbocciano l’uno dopo l’altro. Il piano architettonico e` pero` molto piu` complesso di quanto appaia all’audizione: il primo episodio, in Sol, e` tripartito (esposizione, sviluppo, riesposizione di un solo tema), il secondo episodio, in Re bemolle, e` costruito su tre temi, il terzo, brevissimo, e` una riesposizione-coda nella quale viene appena citato il tema del primo episodio. Nella conversazione di cui ho riferito prima un frammento Stravinskij dice che il Concerto e` in tre movimenti, con il terzo movimento preceduto da alcune variazioni. La partitura a stampa indica quattro movimenti, con il terzo che e` definito Quasi variazioni. Stravinskij supera quindi l’imbarazzo dell’apparente paradosso: un pezzo che inizia con una Variazione I senza che sia stato enunciato il tema da variare potrebbe infatti apparire contradditorio. Una contraddizione esiste, del resto. Secondo la prima stesura, come si nota nell’autografo, le Variazioni seguivano la Fuga. Non volendo rinunciare a far notare il rapporto tematico tra Fuga e Variazioni, Stravinskij parlo` dapprima di un ‘‘terzo movimento [...] formato da un preludio e una fuga, preceduto da alcune variazioni’’, poi riconobbe come piu` esatta la struttura in quattro movimenti, ma parlo` di Quattro Variazioni senza tema. In realta`, all’audizione, l’ascoltatore percepisce inevitabilmente la prima Variazione come tema, arrivando poi, forse, a cogliere il rapporto tematico fra il terzo e il quarto movimento. La prima Variazione viene percepita come tema anche perche´ la sua struttura e` ternaria: esposizione, sviluppo, riesposizione abbreviata. Di particolare interesse e` il piano tonale delle Variazioni: la prima inizia in sol e termina in Si bemolle, la seconda inizia in Si bemolle e termina in do diesis, la terza inizia in do diesis e termina in si bemolle, la quarta si svolge su un ostinato in sol che modula alla fine in Re, collegandosi con la tonalita` del Preludio che viene attaccato senza soluzione di continuita`, sebbene sia indicato in partitura come quarto movimento. Il piano tonale per terze minori ascendenti e discendenti, geometrico, e` integrato dal rapporto con il primo e il secondo movimento e dalla conclusione in Mi della Fuga: mi (primo movimento), Sol (secondo movimento), sol-Si bemolle-do diesis-si bemolle-sol (Variazioni), Mi (conclusione della Fuga). Questo piano generale complessivo, che si ispira a una delle possibili divisioni dell’ottava in parti uguali, non e` classico ma, come ho gia` osservato in analoghe situazioni, romantico. La compresenza di parametri del lessico romantico insieme con parametri, piu` numerosi, del lessico classico e` da tener presente quando si vuol definire il carattere del neoclassicismo stravinskiano, che

Movements per pianoforte e orchestra

tende a porsi come sintesi di tutta la tradizione musicale occidentale. Si noti anche, a questo proposito, come la scrittura pianistica, classica per eccellenza nel primo movimento, recuperi nel secondo un ampio uso del romantico legato e come pervenga, nella seconda delle Variazioni, a uno stile di bravura – trilli a mani alternate, doppie ottave, salti – che non sarebbe improprio in Rachmaninov. Il Preludio, piuttosto breve, e` come una improvvisazione sul soggetto della Fuga. La Fuga e` costruita su un soggetto molto caratteristico; ma ancor piu` caratteristico e` l’ostinato ritmico che dura ininterrottamente fino all’attacco dello stretto. Troviamo qui una compresenza di due eventi sonori, distinti e intersecantisi: l’autonomo svolgersi della Fuga, l’ostinato ritmico che su quello svolgersi si staglia. La logica della fuga classica viene come proiettata su uno schermo che le da` un senso motorio diverso da quello originario. Per fare un paragone si puo` pensare a un dialogo che si svolga in un ambiente fisso e allo stesso dialogo che si svolga su un mezzo mobile, treno o auto che sia: la possibilita` cinematografica di un dialogo su un paesaggio mobile, rispetto al dialogo in ambiente teatrale, puo` darci un’idea del senso particolare che la Fuga, pur con tutti i suoi procedimenti classici, acquista in Stravinskij (il lettore perdonera` la banalita` del paragone, che vuole avere un significato puramente didascalico, di stimolo a cogliere una dimensione del tutto particolare di un fatto musicale). Tutta la Fuga, fino alla conclusione dello stretto, e` di dinamica forte, e termina con uno sforzatissimo. Stravinskij inizia quindi, in un piano improvviso, un nuovo stretto, molto piu` complesso e geniale; ripreso brevemente il Preludio, riprende brevemente anche la Fuga, ma con il soggetto per moto contrario. Ultimo stretto e con-

Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij

clusione trionfale in Mi, in rapporto, barocco, con il mi del primo movimento. Il Concerto e` sicuramente la piu` significativa, la piu` importante composizione che Stravinskij abbia destinato al pianoforte. Il Tango (1940, 1941) e` una spiritosa stilizzazione del volgare, ma secondo me suona meglio nella successiva versione per orchestra, e analoga considerazione va fatta per la trascrizione pianistica della Circus Polka (Polca da circo, 1942, 1944), composta per un balletto di elefanti – con coreografia di Balanchine! – del Circo Barnum. La Sonata per due pianoforti (19431944, 1945) e` musica da camera nel senso settecentesco del termine. Sembra pensata per pianoforte a quattro mani, non per due pianoforti, e` tecnicamente semplice, e` di una ampiezza da sonatina, non da sonata (poco piu` di dieci minuti di durata), e` melodicamente gradevole e finisce quietamente. I movimenti sono tre: primo in forma classica, secondo in forma di tema con quattro variazioni (la terza variazione e` una fughetta molto semplice), terzo, Allegretto, in forma di canzone. I Movements per pianoforte e orchestra (19581959, 1960) sono cinque brevi pezzi, costruiti su una serie di dodici suoni, nei quali Stravinskij non contrappone ne´ integra il solista nell’orchestra ma esplora i rapporti timbrici che si possono creare di volta in volta fra il pianoforte e gruppi diversi di strumenti. Le tecniche seriali impiegate sono sofisticate, la frantumazione del ritmo e delle altezze porta l’attenzione dell’ascoltatore sul singolo suono e sul singolo timbro. Il discorso e` ‘‘puntilistico’’, ma la strumentazione non esplora tanto le possibilita` teoriche quanto ripercorre piuttosto, retrospettivamente, le tecniche di strumentazione di Stravinskij, cosicche´ i cinque pezzi ‘‘suonano’’ del tutto stravinskiani.

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Karol Szymanowski

Movements per pianoforte e orchestra

Karol Szymanowski (Tymoszo´wka, 16 ottobre 1882-Losanna, 29 marzo 1937) Nato in Ucraina da genitori polacchi benestanti e nazionalisti, Szymanowski non poteva che iniziare la sua attivita` creativa sotto il segno della cultura russa, di quella cultura che in nome del panslavismo aveva fatto suo il polacco Chopin e che nell’ultimo decennio dell’Ottocento aveva espresso un artista come Alexandr Skrjabin, definito da Ferruccio Busoni ‘‘un’indigestione di Chopin’’. Se per un toscano lucido come Busoni, che gia` aveva Chopin in qualche sospetto, Skrjabin era un tipo da cui tenersi accuratamente alla larga, per un giovanissimo pianista-compositore polacco una ‘‘indigestione di Chopin’’ diventava quanto di piu` seducente potesse esistere in un mondo da cui era appena scomparso Brahms e in cui era appena apparso Debussy. Di due Sonate di Szymanowski composte durante l’adolescenza non abbiamo notizie certe. I nove Preludi op. 1 (1899-1900, 1906) prendono le mosse da Skrjabin, ma non dallo Skrjabin che gia` aveva composto la Mazurche op. 25. Attraverso Skrjabin, Szymanowski risale al vate Chopin e a quella sua fondamentale innovazione tecnica che adottando una posizione raccolta e appoggiata della mano destra e una posizione aperta e ondeggiante della sinistra aveva strutturalmente collocato due distinti piani di prospettiva, la melodia e il suo accompagnamento, perfezionando in tal modo il trasferimento al solo pianoforte, gia` tentato da Field, della romanza da camera per canto e pianoforte. Ancoratosi tecnicamente a una gloriosa scoperta del suo antenato polacco e armonicamente alle morbose maniere di Skrjabin, Szymanowski sparge poi il testo di quelle didascalie che convenivano alla stremata disperazione di fine secolo: dolce, dolcissimo, affettuoso, sospirando, mesto, afflitto, dolente e, ovvio, disperato. E ha cura di suggerire il fluttuare della fantasticheria mediante un profluvio di segni di dinamica e di indicazioni di movimento, non arretrando neppure di fronte a quel rubato che Chopin aveva adottato solo in gioventu` e che pochissimi dopo Chopin avevano ancora avuto il coraggio di riprendere. Come se non bastasse, il vibratile Szymanowski si preoccupava di lanciare avvertimenti agli interpreti craponi: ben marcato la melodia (dove ci vorrebbe la sensibilita` di un rinoceronte, per non capire che lı` la melodia e` la melodia), ben marcato le voci (dove il passo e` talmente pianistico che solo il 572

piu` inetto dei dilettanti potrebbe fare il pastone), basso marcato (dove il basso ha gia` di per se´ l’energia di una cannonata). La basse lie´e, n’est pas?, scriveva Satie negli stessi anni, ‘‘in un caso’’, diceva Massimo Mila, ‘‘dove neppure la piu` sregolata fantasia potrebbe immaginare un’esecuzione diversa’’. Satie, con i suoi ‘‘consigli’’ all’esecutore, di cui quello dianzi citato e` il meno cruento, rovesciava in parodia grottesca la realta` del suo tempo, la realta` a cui il diciottenne Szymanowski si uniformava ingenuamente. Che non era pero` soltanto il sentimentalismo piccolo borghese, pur evidentissimo, quanto il lavoro del compositore su parametri del suono non tradizionalmente soggetti a misura precisa – come l’intensita` e il timbro e l’agogica – che venivano sottratti all’iniziativa dell’interprete. Le future polemiche di Stravinskij contro le licenze degli interpreti non si collocano in realta` entro l’estetica neoclassica, ma nascono dal liberty dell’Ottocento, in cui anche il diciottenne Szymanowski fiuta l’esigenza di fissare attraverso la scrittura non un pensiero polivalente destinato a entrare in rapporto dialettico con il lettore-esecutore (e quindi con l’ascoltatore), ma la mappa di un oggetto sonoro che tocchera` al lettore-esecutore di costruire e di porgere all’ascoltatore. In questo senso, l’atto di nascita di Szymanowski, la sua opera 1, colloca subito l’autore tra coloro che svilupperanno la poetica del Novecento, anche se la sua musica nasce con tutte le connotazioni dello psicologismo, del salotto, del sentimentalismo piccolo borghese del tardo Ottocento. L’appartenenza dei Preludi op. 1 a questo filone della letteratura appare anche evidente dalla loro non elevata difficolta` tecnica. Mentre nel primo Skrjabin la limitatissima difficolta` non e` indice di adesione al medium piccolo borghese, perche´ Skrjabin e` ‘‘freddo’’ e sensuale, non sentimentale, l’intenerimento e la commozione fanno capolino nello Szymanowski dell’op. 1 e non scompariranno mai del tutto nella sua produzione pianistica, costantemente segnata non solo dal sentimentalismo ma dalla retorica del sentimento. Nelle Variazioni op. 3 (1901-1903, 1910), nei Quattro Studi op. 4 (1900-1902, 1906) e nelle Variazioni su un canto popolare polacco op. 10 (1903-1904, 1907) Szymanowski assimila pienamente lo stile del primo Skrjabin e mostra di es-

Maschere op. 34

sersi accorto anche di un altro russo, ideologicamente opposto a Skrjabin, cioe` Sergej Rachmaninov. Da Skrjabin, e soprattutto da Rachmaninov, Szymanowski trae i modelli e gli stimoli per una scrittura pianistica molto complessa, di una scrittura ‘‘da concerto’’ degna di chi intende porsi, all’inizio del Novecento, come continuatore delle tradizioni di Chopin e di Liszt e come ‘‘fornitore’’ dei grandi virtuosi del momento. In verita` solo un virtuoso di indiscutibile e indiscussa fama, oltre ai giovani Henrik Neuhaus e Artur Rubinstein, guardo` con simpatia a queste composizioni: Ignaz Jan Paderewski mise infatti in repertorio lo Studio op. 4 n. 3, intensamente elegiaco, anche se evidentemente modellato sullo Studio op. 8 n. 11 di Skrjabin, e con questa sua scelta fece fare al nome di Szymanowski il giro del mondo. La Sonata in do-Do op. 8 (1903-1904, 1910) e la Fantasia op. 14 (1905, 1911) sono composizioni, al confronto con la facilita` discorsiva delle opere 1, 3, 4 e 10, molto tormentate e faticate. Insieme alla persistente influenza di Skrjabin e a una piu` profonda conoscenza di Liszt (gli squili eroici della Fantasia arrivano dritti dritti dalla Fantasia quasi Sonata ‘‘Dopo una lettura di Dante’’) cominciano a farsi sentire gravi preoccupazioni formali: Sonata e Fantasia sono gli indici di una fase di ampliamento degli orizzonti del compositore ventitreenne, ma le nuove acquisizioni non appaiono assimilate e i nuovi problemi non appaiono compiutamente risolti. Al contrario di quanto era avvenuto con la contemporanea cultura russa, fatta propria con sicurezza e con immediatezza di risultati, Szymanowski procede ora a tentoni, senza punti di riferimento precisi. Il 1905 e` l’anno in cui Barto´k volge le spalle alla tradizione culturale nella quale era stato educato, in cui Debussy compone la prima serie delle Images e Ravel i Miroirs. Ignaro di cio` che succede a Parigi, Szymanowski potrebbe scegliere fra Skrjabin e Rachmaninov, con la nuova interpretazione dei principi formali classici a cui il primo perviene con la Sonata n. 5 del 1907, e con l’omaggio del secondo al costruttivismo tedesco con la Sonata n. 1, del 1907 essa pure. Szymanowski, direi, inclinerebbe verso Rachmaninov, ma... preferisce risalire alla fonte, tanto che si stabilisce a Berlino dove fonda con Fitelberg, Ro´ zycki e Szeluta la casa editrice Giovani Compositori Polacchi. E cosı` si imbarca, con la Sonata op. 8, in una avventura stilistica perigliosa: due movimenti densi ed emotivamente turgidi, seguiti da un grazioso minuetto con trio e da una fuga solare, come una immagine bivalve del mondo presente e del mondo passato. L’ideologia nazionalistica porta Szymanowski a spostare i suoi inte-

Karol Szymanowski

ressi verso la cultura tedesca, cercando al di la` delle frontiere dell’Impero Russo, di cui la Polonia e` parte, l’occasione di una alternativa culturale che si affianchi alla alla opposizione politica. Questo tipo di scelta seguiva in realta` da vicino quella di Paderewski, nazionalista con ambizioni di fondatore di una cultura polacca, che nel 1903 aveva scritto la Sonata op. 21 e le Variazioni e fuga op. 23, composizioni, entrambe, pesantemente condizionate dalla tradizione accademica tedesca simboleggiata da Brahms e dai brahmsiani. Szymanowski, di ventidue anni piu` giovane di Paderewski, compone il Preludio e fuga in do diesis (19051909, 1910), molto attento a rispettare i modelli mendelssohniani, con cui vince il secondo premio in un concorso ad hoc bandito da una rivista, e poi si accosta a un creatore tedesco di quarant’anni piu` giovane di Brahms: la Sonata n. 2 in La op. 21 (1910-1911, 1912) dimostra che sull’orizzonte di Szymanowski e` comparso l’astro di Max Reger. Una Sonata in due tempi, il primo in forma classica, il secondo in forma di tema con variazioni e fuga. Se si pensa che nel 1908 Barto´k aveva terminato le Bagatelle op. 6 e che nel 1911 Scho¨nberg componeva i Sei Piccoli Pezzi op. 19 si capisce quanto antistorico fosse il tentativo di Szymanowski di impadronirsi e di riprodurre le due formesimbolo elaborate dalla cultura tedesca, il beethoveniano allegro di sonata e le brahmsiane variazioni con fuga. E Szymanowski non tardo`, dopo aver studiato e assimilato la cultura tedesca, a rivolgersi a un’altra cultura, quella francese. Le Metopi op. 29 (1915, 1922) e le Maschere op. 34 (1915-1916, 1919) dimostrano che sull’orizzonte di Szymanowski sono apparsi questa volta Debussy e Ravel, e un pochino anche Stravinskij. La prima rivelazione che la cultura francese offre a Szymanowski e` che la fonte di una civilta` nuova non puo` essere rintracciata in una cultura ancora vivente, ma bensı` in un mondo mitico, lontano e immaginario come l’Allemonde del Pelle´as o come la Russia pagana della Sagra della Primavera: la Grecia omerica, la Spagna, l’Oriente sono i prodromi della Sicilia a cui Szymanowski approdera` infine con l’opera Re Ruggiero (1928-1924), ambientata in una Sicilia metastorica in cui si troveranno contrapposti il re normanno Ruggiero e il dio greco Dionisos. Seconda rivelazione, la costruzione a trittico, forma francese e moderna dell’idea antica di sonata: i due trittici di Szymanowski seguono da vicino i tre grandi trittici di Debussy e il trittico di Ravel. Da Debussy e da Ravel Szymanowski impara inoltre ad usare la sonorita` pianistica in modo piu` raffinato o, potremmo dire, piu` scaltrito (si vedano, come esempi lampanti di trasposizione di stilemi 573

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Karol Szymanowski

simbolisti, l’inizio dell’Isola delle sirene delle Metopi e l’inizio di She´he´razade delle Maschere), e dallo Stravinskij dell’Uccello di fuoco e di Petrusˇka impara ad usare una politonalita` che sfrutta la disposizione stessa dei tasti del pianoforte (si veda specialmente l’ultima parte di Nausicaa delle Metopi e l’introduzione della Serenata di Don Giovanni delle Maschere). Ma le influenze raveliane e stravinskiane diventano un po’ fastidiose la` dove si fanno sentire in modo piu` scoperto (e cio` avviene specialmente in She´he´razade e in Tantris il buffone delle Maschere, dove Szymanowski si lascia incantare dai modelli e non si limita a carpir loro qualche invenzione tecnica). Szymanowski prende per vero cio` che in Ravel e` finzione manieristica, ed e` allora la retorica dei grandi gesti sonori che si insinua in tutti i tre pezzi delle Maschere e in misura minore in Nausicaa. Ben diverso e` il caso delle prime due Metopi, costruite secondo la tecnica romantica del progressivo aumento di tensione fino a un punto culminante seguito da una immediata e improvvisa distensione: anche il pensiero dello Szymanowski maturo riesce a organizzarsi perfettamente nella forma gia` impiegata negli Studi op. 4 (diretta filiazione degli Studi di Chopin, e in particolare dell’op. 25 n. 7, vera matrice di tanta letteratura di tutto l’Ottocento e oltre), mentre le preoccupazioni formali della Fantasia op. 14 ritornano negli altri casi. Gli Studi op. 33 (1914, 1922) rappresentano il piu` deciso superamento della fase che si era aperta con il soggiorno a Berlino e che aveva portato, oltre che alla Sonata n. 2, alla Sinfonia n. 2 del 1909-1910. I dodici pezzi dell’op. 33 sono denominati Studi e sono infatti basati in genere sull’esplorazione di formule tecniche tipiche: le quinte sciolte (n. 1), le seconde e le settime (n. 2), le mani alternate (n. 3), le ottave e gli accordi (n. 6), ecc. L’armonia, politonale come nelle opere 26 e 34, tende qui alla chiarificazione, tanto che alcuni pezzi terminano con l’affermazione di una precisa tonalita` (vien da pensare che prima della pubblicazione, posteriore di otto anni alla composizione, Szymanowski avesse riveduto il lavoro, mutandovi qualcosa). Ma e` soprattutto interessante l’organizzazione in ciclo dei dodici pezzi, al modo di un polittico di Schumann, organizzazione che non nasce solo dall’obbligo, imposto dall’autore all’interprete, di eseguire tutti gli Studi, ma dal ritorno finale della tonalita` dell’inizio e dal gioco di successioni di velocita`, densita` e caratteri espressivi diversi. Basta del resto gettare uno sguardo sulle didascalie per accorgersi che il seguito dei pezzi e` organizzato in ciclo: Presto, Andantino soave, Vivace assai, Presto, Andante espressivo, Vivace, Al574

Studi op. 33

legro molto, Lento assai mesto, Animato, Presto tempestoso, Andante soave, Presto. Il concetto di studio era gia` stato ampliato da Chopin a significati molto diversi da quelli dell’esercizio, e nello studio rientrava non solo l’allenamento tecnico ma anche la ricerca sul timbro. Tuttavia, per quanto ampio sia il concetto di studio, sarebbe difficile dare questa denominazione, se fossero staccati dal contesto, a pezzi come il n. 5 e il n. 11, che sono funzionali nell’op. 33 per moviti di equilibrio architettonico complessivo del ciclo, non per la loro natura. L’op. 33, che non riprende in realta` le concezioni sperimentali di Chopin o di Liszt o di Debussy, trova la sua collocazione poetica fra le Metopi e le Maschere, e trova la sua collocazione formale nella tradizione schubertianoschumanniana del ciclo di pezzi brevi. Si nota anzi una certa schematicita` nel susseguirsi di quattro piccoli trittici del tipo-sonatina (Presto-Andantino-Vivace, Presto-Andante-Vivace, Allegro-LentoAnimato, Presto-Andante-Presto) e si puo` supporre che gli Studi venissero iniziati come cartoni preparatori per le Metopi e le Maschere, e che siano quindi da considerare come lavori che si iscrivono nell’evoluzione di un creatore, non nell’evoluzione di un’epoca: da cui, ritengo, la rilevanza storica non assoluta dell’op. 33 di Szymanowski di fronte agli Studi di Debussy (1915) e agli Studi op. 18 di Barto´k (1918). Dopo le Maschere Szymanowski compone la Sonata n. 3 op. 36 (1917, 1919), con la quale applica a una forma classica la tecnica pianistica e il linguaggio a cui era pervenuto a trentacinque anni. Non e` ancora il tempo del neoclassicismo, sia del neoclassicismo prebeethoveniano della Sonata di Stravinskij (1924) che del neoclassicismo beethoveniano della Sonata di Barto´ k (1926). L’inizio della Sonata n. 3 di Szymanowski, scritto in un modo che farebbe supporre un pezzo alla Tombeau de Couperin di Ravel, fa soltanto da elegante lever de rideau a un tema che ricorda le Foglie morte di Debussy e che sara` seguito da episodi di scrittura virtuosistica ottocentesca. Forte di una raggiunta maturita` nell’impiego di un linguaggio armonico personale, Szymanowski intende ripercorrere la storia dello strumento e, piu` in generale, intende riprendere l’idea ultima di Beethoven, la sonata come sintesi storica che unisce i principi del bitematismo classico e della fuga barocca, aggiungendovi l’idea della fusione in un continuum dei quattro movimenti tradizionali per ottenere una sonata di taglio formale lisztiano, senza soluzioni di continuita`, che si conclude con una fuga monumentale. Opera di smisurata ambizione, a cui manca la forza della creazione poetica assoluta

Sinfonia concertante op. 60 per pianoforte e orchestra

ma non la lucidita` e la coerenza dei propositi, la Sonata n. 3 conclude cosı` il lungo e tormentato cammino di Szymanowski fra le tre culture, la russa, la tedesca, la francese. Sette anni dopo la Sonata n. 3 Szymanowski inizia a comporre le venti Mazurche op. 50 (1924-1925, 1926-1931), alle quali fara` seguire il Valzer romantico senza numero d’opera (1925, 1967), le quattro Danze polacche senza numero d’opera (1926, 1926) e le due Mazurche op. 62 (19341935, 1935). Nelle Mazurche e nelle Danze polacche (Mazurca, Krakowiak, Oberek, Polacca) troviamo in modo del tutto logico quella scelta ideologico-stilistica che Szymanowski non aveva saputo o voluto compiere nel 1905, la scelta di Barto´k, il canto popolare analizzato in se´ e non piu` in rapporto con la tradizione colta. Szymanowski aveva guardato a Barto´k, di sfuggita, solo nel terzo e nel sesto Studio op. 33. Nelle Mazurche op. 50 egli accetta di compiere ponderatamente quel passo che Barto´k aveva compiuto con audacia infinita e che lo aveva fatto passare dalla Rapsodia op. 1 alle Bagatelle op. 6. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. E sarebbe superfluo aggiungere che Szymanowski non era Barto´k: ci fu disparita` di ingegno, ma ci fu anche disparita` di condizioni di partenza perche´ l’Ungheria aveva avuto il vecchio Liszt, prima di Barto´ k, mentre la Polonia non aveva mai sviluppato la lezione di Chopin, scomparso prima della meta` del secolo. Polacco nato in Russia e suddito dello zar, Szymanowski non e` il fondatore di un nuovo regno ma il profeta che vede la Terra Promessa prima di morire. E contribuisce, per primo, a far uscire la cultura polacca dalle posizioni di Paderewski, cosmopolite e soggette all’egemonia di altre culture. Senza la genialita` del suo coetaneo Barto´k e senza raggiungere le posizioni universali di questi, ma con l’autocoscienza dell’uomo di cultura che sa veder lontano. Oltre al ricco catalogo della musica per pianoforte

Karol Szymanowski

solo Szymanowski scrisse la Sinfonia concertante op. 60 per pianoforte e orchestra (1932, 1938). Questo lavoro si inserisce esteriormente in una corrente, in una tendenza comune a quasi tutti nel periodo fra le due guerre e che si puo` definire di... pensiero economico. I compositori capiscono, anzi, constatano che nella organizzazione della vita musicale, malgrado la ormai annosa introduzione del diritto d’autore, le cose continuano a marciare all’antica, e cioe` che gli interpreti, non i creatori, ricevono i compensi di gran lunga maggiori. Non solo Rachmaninov e Prokof’ev e Barto´k e Casella, che avevano ricevuto una educazione da pianisti concertisti, si fanno allora scritturare come interpreti (delle loro musiche e di musiche di altri), ma anche Stravinskij, modestissimo pianista, anche Ravel, pianista pressoche´ inesistente, anche Respighi, che era stato violista, mettono le mani sulla tastiera, si esercitano e, per quanto possono, vanno a predicare il loro verbo nel mondo. Forse Szymanowski avrebbe composto in ogni caso la Sinfonia concertante. La compose pero` per proporsi con essa nelle stagioni sinfoniche e per trarre un guadagno maggiore di quello che gli avrebbero portato i diritti d’autore se a suonare il suo pezzo fosse stato soltanto il suo amico, e dedicatario della Sinfonia concertante, Artur Rubinstein. Nella Sinfonia concertante Szymanowski si accosta al neoclassicismo, non nel modo un po’ sempliciotto di Martinu˚, ma senza la complessita` manieristica del Concerto per violino di Stravinskij. La scrittura e` semplificata rispetto sia alle opere sinfoniche che alle opere pianistiche precedenti, le architetture sono lineari. Il materiale tematico e` costruito sulle caratteristiche lessicali del canto popolare dei Monti Tatra, gia` felicemente imiegato nel balletto Harnasie, completato nel 1931. I tre movimenti seguono lo schema tradizionale, con una caratterizzazione piu` apertamente folcloristica nel terzo, che in sostanza e` una mazurca.

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Sigismund Thalberg

Sinfonia concertante op. 60 per pianoforte e orchestra

Sigismund Thalberg (Ginevra, 8 gennaio 1812-Posillipo, 27 aprile 1871) Thalberg fu uno dei maggiori protagonisti del concertismo romantico e insieme con Liszt, tanto piu` geniale di lui, provvide a... mettere al mondo e a nutrire la fantasia su temi di melodrammi che si e` soliti chiamare fantasia drammatica. Gli imitatori di Thalberg furono piu` numerosi degli imitatori di Liszt, i critici si divisero e qualcuno dei piu` importanti, come ad esempio Franc¸ois Fe´tis, ritenne che Thalberg, non Liszt, fosse l’uomo dei tempi nuovi. Lo stesso Schumann, che ammiro` incondizionatamente il Liszt pianista ma che espresse piu` volte riserve sul Liszt compositore, guardo` Thalberg con sostanziale rispetto. Solo Chopin fu elegantemente ironico nei confronti di Thalberg e non si lascio` mai impressionare ne´ dai successi deliranti che il suo concorrente otteneva ovunque, ne´ dalla ammirazione che Thalberg, in giro di concerti a Varsavia, manifesto` nei suoi confronti durante una visita di cortesia ai suoi familiari. Il ruolo delle fantasie drammatiche nel consolidamento del concertismo fu tanto essenziale quanto transitorio. Se negli anni trenta e quaranta dell’Ottocento non poteva in pratica esserci concerto pianistico senza fantasia drammatica in programma, gia` negli anni cinquanta la fantasia drammatica stava andando fuori moda e negli anni sessanta era ormai una anticaglia. Si salvarono fino alla prima guerra mondiale soltanto alcune delle fantasie drammatiche di Liszt, mentre quelle di Thalberg divennero materia di studio per gli storici. Thalberg comincio` con le fantasie drammatiche quando era ancora adolescente: la sua opera 1 e` una fantasia sull’Euryanthe di Weber. La sua prima uscita ambiziosa come compositore avvenne pero` con il Concerto in fa op. 5 (1830 ca.), eseguito a Vienna il 20 marzo 1831, nel quale si notano stilemi residuali che arrivano dritti dritti da Hummel, con il quale Thalberg aveva studiato, ma che allarga di molto gli orizzonti del maestro. Rispetto a Hummel, Thalberg usa in modo sistematico e diretto i caratteri dell’opera italiana del tempo e quindi, in particolare, di Rossini. Credo pero` che, vivendo a Vienna, Thalberg avesse avuto modo di ascoltarvi nel 1828 Paganini. La musica di Rossini faceva parte della cultura di base di Paganini, che non solo conosceva personalmente il Pesarese ma che aveva persino diretto alcune recite della Matilde di Shabran. Hummel aveva impiegato ampiamente gli stilemi 576

della musica operistica italiana, ma acquisendoli e trasformandoli nel contatto con le strutture formali della classicita` viennese. Thalberg e` invece piu` diretto e il suo Concerto e` quanto di piu` paganiniano si possa trovare nel fittisimo repertorio dei concerti pianistici biedermeier. Il primo movimento sembra una grande fantasia drammatica, da un immaginario melodramma rossiniano, in forma di allegro di sonata. Dopo la riesposizione viene mantenuta la fermata dell’orchestra sull’accordo di quarta e sesta, seguita dalla Cadenza del solista; questo particolare, che si trova nei Concerti di Paganini, e` invece inusuale nei concerti biedermeier (si pensi ai Concerti di Chopin). Il secondo movimento e` un arioso ornato che introduce il finale. E il finale, spiritoso e brillante, potrebbe ancora interessare il pubblico delle sale di concerto, a patto di non essere eseguito seriosamente ma con charme, con eleganza, con aristocratica nonchalance. Thalberg, prote´ge´ del conte Dietrichstein, e avviato alla carriera diplomatica prima di scegliere la professione del musicista, era un raffinatissimo gentiluomo che sapeva muoversi in qualsiasi ambiente del gran mondo, comprese le corti. Nel finale del Concerto egli si mostra al meglio delle sue qualita`, opposte a quelle del vulcanico indomabile Liszt. Nella Sonata in do op. 56 (1844 ca.) Thalberg tiene a freno la sua abilita` di virtuoso e si misura con la grande tradizione viennese senza rompersi le ossa. Lo Scherzo pastorale e l’Allegro vivace quasi presto finale sono secondo me i momenti migliori della Sonata e meriterebbero forse, staccati dal contesto, di attirare l’attenzione dei concertisti. Lo Scherzo in do diesis op. 31 (1840 ca.) fu recensito da Schumann, che non risparmio` le critiche ma che concluse dicendo: ‘‘Quanto all’impianto complessivo e al carattere questo pezzo e` tuttavia, come s’e` detto, fra le cose migliori di Thalberg’’. E della Fantasia op. 22 (1837 ca.) Schumann disse: ‘‘Ha in se´ qualcosa di aggraziato e dolce, benche´ sia scritta in modo difficile e contrappuntisticamente complesso’’. Ma essenziale e` l’osservazione conclusiva, che mette allo scoperto la ragione prima della breve vita delle composizioni di Thalberg: ‘‘ [...] il fatto che in Thalberg, come in Herz e in Czerny, la cosa principale resti sempre il gioco manuale e digitale e che egli sappia, grazie alla

L’Arte del canto applicata al pianoforte

brillantezza dei suoi mezzi tecnici, nascondere spesso la debolezza di certe idee, fa sorgere un dubbio: fino a quando il mondo provera` piacere per una musica cosı` meccanica?’’ I Dodici Studi op. 26 (1839 ca.) sono scritti benissimo, con una conoscenza dello strumento che pochi pianisti possedevano, e sono anche molto gradevoli. Hanno un solo torto: arrivano dopo gli Studi di Chopin e contemporaneamente agli Studi op. 2 di Henselt e ai Grandi Studi di Liszt. A proposito degli Studi op. 26 Schumann osserva che Thalberg ‘‘possiede un certo stile melodico, simile a quello degli italiani, che tende al riposo a ogni otto battute, con certe particolari modulazioni, ecc., e il modo in cui egli sa trasportare, raddoppiare, intessere la melodia con altre figure sonore e` un modo tutto suo, spesso sorprendente, abbagliante e travolgente’’. E questo e` cio` che si nota nelle fantasie drammatiche: la grande scienza della strumentazione. La ‘‘invenzione’’ di strumentatore che ha fatto passare Thalberg alla storia consiste nel ‘‘suonare con tre mani’’ che trova il suo manifesto nella Fantasia sul Mose` di Rossini (1835 ca.), pezzo spettacolare che lascio` di sasso il pubblico di Parigi e che costrinse Liszt, fuggito a Ginevra con la contessa d’Agoult incinta, a rientrare nella capitale francese per contrastare lo spelndore dell’astro sorgente. Molti anni piu` tardi AntoineFranc¸ois Marmontel rievocava l’apparizione a Parigi di Thalberg in questo modo: ‘‘Si cercava di indovinare il segreto di quella possente sonorita`. La bella e larga melodia [‘‘Dal tuo stellato soglio’’], che a ogni strofa s’accresceva di forza, emergeva sotto il torrente degli arpeggi che percorrevano la tastiera in tutta la sua estensione’’. Nella parte finale della Fantasia Thalberg sfoderava la sua grande trovata: detto schematicamente, la mano destra suonava una nota della melodia nel centro della tastiera e si spostava fulmineamente verso i sopracuti con una fitta figurazione in arpeggi, la seconda nota della melodia veniva affidata alla mano sinistra, che prima aveva eseguito un massiccio accordo nel basso e che si era spostata verso il centro piu` lentamente, con una figurazione di accordi. Il lettore che non conosce e che non ha modo di reperire la Fantasia di Thalberg puo` pensare alla parte finale delle Reminiscenze della Norma di Liszt, che impiega lo

Sigismund Thalberg

stesso modulo ma ottenendo una sonorita` meno potente. E Thalberg, al contrario di Liszt, metteva in moto questo torrente di suono senza perdere il suo aplomb di gran signore, senza muovere il busto, senza agitare le braccia, e passeggiando invece sulla tastiera con tutta calma: il contrasto fra la prodigiosa massa degli eventi e la placidita` dell’esecutore era per il pubblico piu` eccitante di quanto lo sarebbe stata una gestualita` esagitata. Il suonare a tre mani non manca mai nelle piu` note fantasie di Thalberg, che in genere sono formate da una introduzione su temi originali e da due temi di melodrammi. E non manca nemmeno nei Souvenirs de Beethoven op. 39 (Ricordi di Beethoven, 1839 ca.), dove – Schumann lo noto` subito – ci sta proprio come i cavoli a merenda. La divisione fra le due mani sia dei temi che delle figurazioni, che da` l’effetto del suonare con tre mani, richiede necessariamente l’impiego costante del pedale di risonanza, altrimenti la melodia viene spezzata. Thalberg, che badava alla purezza dell’armonia, usava percio` in genere figurazioni basate sull’arpeggio, mentre Liszt arricchiva l’arpeggio con note di passaggio, ottenendo effetti piu` ‘‘torbidi’’ ma in realta` piu` ricchi di colore. E le fantasie di Thalberg, confezionate in modo concertisticamente efficacissimo, non diventano mai sintesi della drammaturgia delle opere. La raccolta di trascrizioni L’Arte del canto applicata al pianoforte (1851 ca.) e` formata da ventiquattro trascrizioni che vanno da una canzone popolare del Galles fino ai contemporanei e che, date le finalita` didattiche, non sono cosı` complesse come le fantasie drammatiche. Piu` interessante del contenuto e` la prefazione, nella quale Thalberg cerca di spiegare la sua tecnica del cantabile, partendo dal principio che ‘‘il pianoforte non puo`, razionalmente parlando, riprodurre la bell’arte del canto in quello che essa offre di piu` perfetto, cioe` non ha la facolta` di prolungare i suoni’’. Thalberg parla anche di atteggiamenti muscolari diversi per il canto drammatico e per il canto di grazia, ma la sua ricetta chiede al discente qualcosa che pochi discenti sono in grado di fornire: ‘‘Il sentimento ci rende ingegnosi, e il bisogno di esprimere cio` che proviamo sa creare dei mezzi che sfuggono al meccanico’’. E che ciascuno faccia il fuoco con la legna che ha.

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Heitor Villa-Lobos

L’Arte del canto applicata al pianoforte

Heitor Villa-Lobos (Rio de Janeiro, 5 marzo 1887-ivi, 17 novembre 1959) Villa-Lobos e` ancora molto amato in Brasile – i suoi connazionali sono, giustamente, orgogliosi di lui –, ma con la scomparsa di Artur Rubinstein e` venuto a mancare l’unico pianista di fama mondiale che avesse fatto un investimento sulla sua musica. Rubinsten porto` al successo A Prole do Bebeˆ n. 1 (La famiglia del bebe´ n. 1, 1918) eseguendola a Rio de Janeiro il 5 luglio 1922 e poi in tutto il mondo, e riprendendone spessissimo come bis il settimo pezzo, O Polichinelo (Il Pulcinella), la cui melodia e` una ninna-nanna popolare. Noi possiamo persino vederlo, Rubinstein, che a settantasette anni conclude con il quarto bis il recital del suo ritorno a Mosca dopo tempo immemorabile, che conclude il recital, dicevo, proprio con il Polichinelo, sfoggiando con le scariche di note martellate a mani alternate, anche in eta` cosı` avanzata, tutta la sua leggendaria potenza. Il martellato a mani alternate e` un tipo di tecnica che a Villa-Lobos piace pazzamente: ce lo mette dappertutto, cosı` come dappertutto mette il glissando. Non si tratta di tecniche rare, nella letteratura pianistica, ma a esse si fa in genere ricorso cum grano salis perche´, essendo spettacolarmente efficaci e non cosı` difficili come appaiono essere, vengono riservate ai climax. In Villa-Lobos le smanacciate e le scivolate sono cosi abituali da diventare non preziosita` ma espedienti. E` tuttavia importante osservare che il martellato a mani alternate e il glissando sono tecniche istintive in chi, ad esempio i bambini, maneggia per la prima volta la tastiera, perche´ permettono di ottenere immediatamente masse di suoni imponenti e fitte. Sono talmente istintive, e soddisfacenti per il principiante, che Gyo¨rgy Kurta´g le sceglie nei suoi Giochi come punto di partenza per l’insegnamento del pianoforte. Ora, l’abuso di queste tecniche dipende in Villa-Lobos proprio dal suo approccio eminentemente insintivo alla tastiera e dal suo modo primitivo di concepire la musica, un modo che e` in realta` un segno distintivo della sua poetica. Villa-Lobos, che suonava il violoncello e la chitarra, non il pianoforte, sa pero` , ed e` una sorpresa, come servirsi dello strumento a tastiera, sa mescolare i registri, sa distribuire i raddoppi, sa sfruttare il suono percussivo, dallo squillo angelico della campana fino alla brutalita` barbarica del tam-tam. La sua musica e` innanzitutto melodica. Non melodie accompagna578

te armonicamente. Melodie, invece, sostenute da strumenti a percussione oppure immerse in suoni della natura. Queste caratteristiche, che rendono riconoscibile Villa-Lobos, non compaiono in verita` nelle sue prime composizioni pianistiche, che si inseriscono invece nel filone della musica da salotto europeizzante Ad esempio, Tristorosa (Triste e piangente, 1910) e` un valzer lento del tutto convenzionale nella sua generica malinconia, salvo che per il fatto di avere due trii contrastanti e animosamente scontrosi. Del Valzer-Scherzo (1911) dice giustamente un commentatore che si tratta di ‘‘temi e armonie da retrobottega romantico’’. E sempre nel retrobottega romantico ci troviamo con lo studio da concerto Ondulando (1914), mentre ci spostiamo nel retrobottega debussiano con Il gatto e il topo (1914) e con la Suite floreale (19161918), formata da tre pezzi impressionistici che prendono lo spunto da Debussy senza ricalcarlo pedissequamente. Le Tre Danze caratteristiche africane (1914-1915) sfruttano, a detta del compositore, il folclore di una tribu` india del Mato Grosso, originaria del Nordafrica. Gli etnomusicologi mettono in forse l’esattezza della affermazione di Villa-Lobos, ma cio` ha per noi ben poca importanza. Che si tratti di folclore autentico o di una frottola, sta di fatto che nelle Danze africane troviamo un Villa-Lobos non piu` legato a modelli salottieri o concertistici europeizzanti. E troviamo le melodie con accompagnamento di strumenti a percussione e il martellato a mani alternate. Amazonas (Amazzonia, 1917), trascritto piu` tardi per orchestra, va piu` in la`, sia perche´ la sua durata e` di circa sedici minuti, sia perche´ abbandona il pittoresco delle Danze africane in favore del simbolismo. Il pezzo e` in realta` un poema sinfonico, ispirato alla storia tragica di una bella, giovane donna india che attende l’aurora danzando sulla riva del fiume e bagnandosi nelle acque. Tentata dal dio dei venti, geloso della sua bellezza, la ragazza gli si abbandona e perisce. La forma e` quella – lo dico in senso non negativo – del pot-pourri: una serie di temi che si susseguono senza sviluppi e senza simmetrie architettoniche ma seguendo lo svolgersi della narrazione. E allo stesso modo e` almeno apparentemente costruito il pezzo piu` ambizioso di Villa-Lobos, il Rudepoeˆma (Poema rude, 19211926), dedicato a Rubinstein e da questi eseguito

Caixinha de mu´sica quebrada

per la prima volta a Parigi il 24 ottobre 1927. Nella autobiografia Rubinstein parla con ragione di un ‘‘monumentale tentativo, coronato da una danza selvaggia, di rappresentare le origini degli indigeni brasiliani caboclos, con le loro gioie e dolori, la pace e la guerra’’. E aggiunge: ‘‘L’idea alla base di quest’opera e` in certo modo simile a quella della Sagra della primavera, con la differenza che mentre il balletto di Stravinskij e` chiaramente spiegato e ogni pezzo ha una forma perfetta, la grande opera di Villa-Lobos e` una grande improvvisazione, come tutti i suoi grandi poemi orchestrali, sebbene la mancanza di forma e il rifiuto della disciplina siano spesso compensati dal suo immenso talento per l’invenzione musicale’’. Poema rude e` la traduzione letterale, ma il significato piu` appropriato sarebbe Poema selvaggio. Il Poema non ha un programma, pero` il suo sviluppo sembra essere narrativo. Il susseguirsi degli episodi contrastanti, e la conclusione in apoteosi (con gli immancabili martellamenti a mani alternate) fanno pensare, appunto, a una vicenda narrativa. La costruzione da` l’impressione, all’audizione. del pot-pourri. L’analisi dice invece – e Rubinstein non se n’era accorto – che c’e` un nucleo tematico di quattro suoni, tipico del folclore indio, su cui Villa-Lobos lavora, sia pure in modo non sistematico. Il Rudepoeˆma fu composto durante il lungo soggiorno di Villa-Lobos a Parigi, ma non riflette assolutamente il clima culturale parigino di quegli anni quanto, piuttosto, le lussureggianti e incantate visioni di foreste equatoriali del doganiere Rousseau. E sebbene la poetica di Villa-Lobos non subisca evoluzioni, ne´ si arricchisca di nuovi apporti, la densita` del ‘‘panorama’’ in cui sono immerse le melodie e` tale da richiedere talvolta la scrittura su tre e persino su quattro portate. Oltre a Amazonas e al Rudepoeˆma il solo pezzo di Villa-Lobos di forma non miniaturizzata e` il Bachiana Brasileira n. 4 (Bachiana brasiliana, 19301941). La serie delle Bachianas Brasileiras contribuı` molto alla fama di Villa-Lobos. Non direi pero` che fra le tante Bachianas sia memorabile la quarta, per pianoforte solo, in quattro movimenti (Preludio, Corale, Aria, Danza). Le buone intenzioni e l’impegno a testimoniare l’amore per Bach portano Villa-Lobos lontano dal suo humus e gli consentono di essere simpaticamente se stesso solo nella Danza. Anche la Bachiana Brasileira n. 3 per pianoforte e orchestra (1938) presenta secondo me gli stessi limiti della n. 4 (che fu trascritta per orchestra). Del resto, quando Villa-Lobos tenta qualcosa, che in un modo o nell’altro rientra nelle tradizioni della musica colta europea, manca se-

Heitor Villa-Lobos

condo me il bersaglio. Ed e` questo il caso dei cinque Concerti per pianoforte e orchestra (1945, 1948, 1952-1957, 1952, 1954), nei quali la freschezza delle idee, di certe idee, non basta a sostenere la forma caotica. Piu` riuscito, piu` spontaneo e coloristicamente non solo ricco ma sgargiante e` il Choˆ ro n. 8 per due pianoforti e orchestra (1925). Il choˆ ro era il complesso di musicisti di strada che improvvisavano su arie folcloristiche molto note. In gioventu` lo stesso Villa-Lobos aveva fatto parte di un choˆro, suonando la chitarra, e negli anni venti compose quindici lavori cosı` intitolati, per i complessi strumentali piu` vari. Il Choˆro n. 11 per pianoforte e orchestra (1928) riprende con minor vigore i modi del Choˆros n. 8. Il lavoro piu` felice di Villa-Lobos per pianoforte e orchestra e` pero` , secondo me, Momo precoce (1929; Momo e` il re del carnevale dei bambini), vivacissimo, diretto, spontaneo. Ma e` ricavato in massima parte del Carnaval das crianc¸as brasilerira (Carnevale dei bambini brasiliani, 1918-1920), raccolta di otto pezzi per pianoforte solo ispirati all’infanzia. Ho gia` citato la Prole do Bebeˆ n. 1, in cui il Pulcinella ci sta un po’ come i cavoli a merenda perche´ gli altri sette pezzi sono intitolati alle bambole (la bianca, la bruna, la meticcia, la mulatta, la nera, la poveretta, la streghetta). A Prole do Bebeˆ n. 2 (1921) inanella nove pezzi ispirati agli animali di gomma o di carta o di legno o di cotone, agli animali con cui il bimbo gioca. Le due serie della Prole do Bebe´ (la terza, dedicata a sport e giochi, e` andata perduta), insieme con il Carnevale dei bambini brasiliani, sono le cose piu` schiette e inventive che questo grande conoscitore dell’animo infantile – e psicologicamente infantile lui stesso – abbia dedicato ai bambini per il loro divertimento. Per la loro educazione musicale VillaLobos compose invece Petizada. Brinquedo de roda (Gruppo di monelli. Ronda di bambini, 1912), la Suite infantile n. 1 (1912) e la Suite infantile n. 2 (1913), che oscillano fra i retrobottega, romantico e debussista, a cui accennavo prima, e piu` tardi le Historias de Carochinha (Storie di Carochinha, 1919), le Cirandinhas (Canzoncine infantili, 1925), Francette et Pie´ (1929) il Guia pratico (Guida pratica, 1932-1935). Nelle Cirandas (Canzoni infantili, 1926) e` di nuovo l’adulto che osserva il mondo infantile. Fra le composizioni idealmente destinate non ai bambini e non ai concertisti, ma ai dilettanti, sono da citare le Saudades das selvas brasileiras (Nostalgia delle foreste brasiliane, 1927), che riprendono in modo piu` pacato le atmosfere selvagge e violente del Rudepoeˆma, la Caixinha de mu´sica quebrada (Carillon rotto, 1931), che po579

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Heitor Villa-Lobos

trebbe fare il paio con il celebre Carillon di Liadov, As tres Marias (Le tre Marie, 1939), delizioso trittico su tre ragazze che passano insieme la vita e vengono trasformate in stelle ‘‘per illuminare il cammino dei bambini sulla terra’’, e infine New York Sky Line (La linea del cielo di New York, 1939), in cui il tema e` ottenuto sovrapponendo al pentagramma una cartolina con il profilo dei grattacieli, brevissimo pezzo che, al di la` dell’origine aneddotica, dipinge un’idea grigia e triste della metropooli ststunitense. Due pezzi che avrebbero potuto davvero riscuotere le simpatie dei dilettanti sono A Lenda do Caboclo (La Leggenda del meticcio, 1920), che fu pero` pubblicato soltanto un anno dopo la morte di Villa-Lobos, e A Fiandeira (La filatrice, 1921), pubblicato nel 1973. La Leggenda non ha un programma esplicito, ma rende piuttosto, e con grande efficacia per nella sua brevita`, l’atmosfera dei racconti dei meticci indio. Per i concertisti Villa-Lobos scrisse il Choˆro n. 5 (1925), sottotitolato Anima brasiliana.

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As tres Marias

Il pezzo e` in tre parti, e l’anima brasiliana e` vista nei suoi due aspetti del sentimentalismo con le lacrime agli occhi e della frenesia di vita, ed e` perfettamente calcolato sul pubblico della sala da concerto. Il Ciclo brasileiro (Ciclo brasiliano, 1936- 1937) presenta una serie di quadri della vita del meticcio nelle piantagioni del Nord-Est, nei diversi momenti del lavoro penoso, della languida serenata al chiaro di luna, della festa notturna e della danza travolgente. Negli ultimi due pezzi Villa-Lobos scatena i sacramentali martellati a mani alternate, ma l’eccitazione frenetica e la bruciante sensualita` fanno dimenticare la genericita` della strumentazione. Le ultime composizioni pianistiche di Villa-Lobos sono i due pezzi intitolati Hommage a` Chopin (Omaggio a Chopin, 1949 e 1955), il primo, Notturno, composto su commissione dell’Unesco, il secondo, Ballata, aggiunto successivamente. Due pezzi in si bemolle, tonalita` molto chopiniana, tristi e desolati, con una inattesa fanfara nel secondo.

Jan Va´clav Vorˇı´sˇek

New York Sky Line

A Jan Va´clav Vorˇı´sˇek

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(Vanberk, 11 maggio 1791-Vienna, 19 settembre 1825) Jan Va´clav Vorˇı´sˇek (Worzischek in tedesco), che e` passato alla storia perche´ fu il primo a usare il termine improvviso per certe composizioni pianistiche, merita di essere ricordato anche per altri motivi. Era figlio di un musicista e aveva fatto studi musicali approfonditi a Praga e poi a Vienna, ma aveva studiato anche filosofia e diritto, e dal 1821 fu impiegato, con mansioni musicali, presso il Ministero della Guerra austriaco. La sua produzione, se la paragoniamo con quella di Schubert, che morı` a trentun’anni, e` quantitativamente ridotta. Ne´ si potrebbe dire che Vorˇı´sˇek faccia con Schubert pari e patta quanto a qualita`. Tuttavia le Dodici Rapsodie op. 1 (1818) vennero lodate da Beethoven e rappresentano un notevole esordio. Qualche stilema derivato dal canto popolare boemo e qualche didascalia (Allegro furioso, Allegro risvegliato, Allegro tempestoso) proiettano la poetica di Vorˇ´ısˇek verso il romanticismo. La forma e` sempre molto semplice: scherzo con trio. Ritroviamo la stessa forma negli Improvvisi op. 7 (1822), sei pezzi ordinati tonalmente per quinte ascendenti (Do, Sol, Re, La, Mi, Si) e che presentano vari tratti schubertiani. Che Vorˇı´sˇek fosse un cuginetto spirituale di Schubert ce lo dicono anche i due pezzi Le De´sir op. 3 (Il Desiderio, 1820) e Le Plaisir op. 4 (Il Piacere, 1820), sempre in forma di scherzo con trio. Vorˇı´sˇek esce dalla prediletta forma con alternativo nella Fantasia in Do-do op. 12 (1822), che in pratica e` una sonata senza primo movimento

perche´ comprende un lungo Andante serioso e un Allegro con brio. La Sonata in si bemolle op. 20 (1824 ca.), in tre movimenti, presenta la particolarita` di non avere il movimento lento. Il primo movimento, con esposizione e riesposizione di proporzioni normali e con un succinto sviluppo, e` basato su due temi contrastanti e molto ben caratterizzati. La rete tonale e` quella tradizionale, ma le escursioni verso tonalita` lontane sono numerose. Lo stile fa pensare al giovane Mendelssohn. Lo Scherzo e` in Re bemolle, tonalita` relativa maggiore di si bemolle, ma e` scritto in Do diesis, con sette diesis in chiave, cosa che non facilita di certo la lettura. Il tema principale deriva del primo tema del movimento precedente, il che rende evidente la ricerca della unificazione strutturale. Il finale e` in forma di rondo`-sonata, con una coda incalzante e trascinante. Avvezzi come siamo alla musica di Beethoven e di Schubert e di Mendelssohn noi troviamo in questo finale echi beethoveniani. Ma dovremmo cominciare invece a pensare alla koine´, alla lingua franca a cui contribuiscono e da cui attingono molti compositori. Vorˇı´sˇek compose anche due serie di variazioni e due rondo` brillanti con accompagnamento d’orchestra, che possono tranquillamente essere eseguiti per pianoforte solo. Fra le quattro composizioni e` secondo me da ricordare il Rondo espagnol op. 17 (Rondo` spagnolo, 1821 ca.), tributario dei moduli tecnici di Hummel e di Moscheles ma tutt’altro che accademico.

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Richard Wagner

New York Sky Line

Richard Wagner (Lipsia, 22 maggio 1813-Venezia, 13 febbraio 1883) Il pianoforte fu per Wagner, come per molti altri compositori, soltanto lo strumento utile per saggiare nella sua concretezza fisica la materia presentatasi alla sua fantasia. In Wagner non si nota l’inclinazione a fissare nel timbro pianistico le idee musicali, ma sempre e solo l’aspirazione a far musica per mezzo del pianoforte, e cio` fin dai primi anni, fin da quella eta` nella quale raramente il fanciullo musicalmente dotato sfugge al fascino del virtuosismo strumentale, e in particolare del virtuosismo pianistico. Nella autobiografia Wagner ci narra come, dopo i primi tentativi effettuati da solo sulla tastiera, egli iniziasse i suoi studi pianistici e come li concludesse non appena arrivato a ‘‘non dover dipendere piu`, per la musica, dalla esecuzione di altri’’. Mentre studiava – male – con il suo primo maestro di composizione, Wagner butto` giu` alla meglio una Sonata in Si bemolle a quattro mani (1830), da suonare con la sorella Ottilia. Poi, sotto la guida del maestro adatto per lui, Theodor Weinlig, compose la Sonata in Si bemolle op. 1 (1831). La Sonata e` in quattro tempi. Si tratta, come Wagner dichiara nella autobiografia, di un lavoro di imitazione o, meglio, di un esercizio di stile. E sotto questo aspetto il pezzo e` interessante perche´ lo stile imitato – lo stile di Pleyel – viene seguito con sorprendente coerenza, mentre di solito, anche nelle prime opere drammatiche, Wagner e` piuttosto goffo quando si vale di stilemi tradizionali. La costruzione della Sonata e` asciutta, essenziale, eccettuate alcune parti del secondo movimento che appaiono pleonastiche. Assai piacevoli e ben caratterizzati sono in genere i temi, piuttosto sommaria e disadorna e` invece la scrittura strumentale, che solo nel finale acquisisce una certa individuazione pianistica. ‘‘Una volta ultimata la Sonata’’, scrive Wagner, ‘‘Weinlig mi permise ogni cosa. Come prima ricompensa potei applicarmi a tutto mio piacimento a una Fantasia per pianoforte in fa diesis minore, nella quale mi mossi in piena liberta`, secondo uno stile melodico quasi recitativo; ne trassi per mio conto una benefica soddisfazione e insieme mi guadagnai l’elogio di Weinlig’’. La Fantasia in fa diesis (1831) ha il carattere di una improvvisazione. Ma non perche´ sia formalmente dispersiva, incoerente. Anzi! Tutta quanta la composizione, che dura circa diciotto minuti, e` basata strettamente 582

su due soli spunti tematici, e anche piuttosto brevi. Il carattere di improvvisazione proviene invece dal fatto che gli spunti tematici acquistano una precisa fisionomia a poco a poco, e che si organizzano in movimento continuo dopo essere stati tentati, ‘‘saggiati’’ in una serie di recitativi. La costruzione formale si compone di quattro grandi episodi: recitativo e andante, recitativo e allegro agitato, recitativo e adagio, conclusione, che e` come una summa nella quale i precedenti episodi con i relativi recitativi ritornano, quasi reminiscenze, molto abbreviati. Come si vede, quindi, si tratta di una forma organica e abbastanza complessa che il diciottenne Wagner riesce a fissare in modo unitario e con esatta proporzione fra le parti. I primi due episodi sono costruiti con lo spunto tematico iniziale, il terzo con il secondo spunto, il quarto, ovviamente, con entrambi. Il secondo spunto tematico presenta un modo di melodizzare destinato a diventare caratteristico di Wagner. Il nume tutelare della composizione e` pero` quasi ovunque l’adorato Beethoven. Ma il fatto che Weinlig allentasse le briglie non significa che il suo insegnamento e che la tradizione bachiana di cui egli era portatore non si avvertano nella Fantasia: il recitativo del terzo episodio e` di provenienza nettamente bachiana, sia per l’andamento generale, sia per lo stile arcaico della conclusione, e pare anzi richiamare piu` d’una volta in modo esplicito il recitativo della Fantasia cromatica. In un certo senso si sarebbe persino tentati di dire che il decorso formale della Fantasia avrebbe potuto sboccare, a quel punto, anche in una fuga, anziche´ in un movimento lento. Cio` sia detto come ipotesi, non per avanzare riserve sul bellissimo Adagio cantabile, nella cui calma rasserenata si placa invece perfettamente la continua, angosciata inquietudine dei due primi episodi. Cio` che guasta in parte la riuscita complessiva del pezzo e` una certa qual trascuratezza della scrittura strumentale nel secondo episodio e, piu` ancora, nel primo: la scrittura e` qui piatta e monotona, con la melodia in ottava e l’accompagnamento in accordi arpeggiati. Ho detto che e` trascurata, ma avrei dovuto dire, meglio, che manca di invenzione, che e` impersonale. In questo caso si fa molto sentire la mancanza di interesse per lo strumento. Pero`, ripeto, mentre la Sonata in Si bemolle non presenta che alcuni motivi marginali di interesse,

Foglio d’album n. 1

la Fantasia e` composizione da studiare con molta attenzione. Dopo la Fantasia Wagner aveva composto le due innocenti Polacche a quattro mani (1832), frutto dell’entusiasmo per la rivolta di Varsavia, la seconda delle quali era stata subito pubblicata. Al tempo in cui detto` l’autobiografia Wagner si era pero` completamente dimenticato di avere composto una terza, vasta opera pianistica, la Sonata in La op. 4 (1832). Entrando in possesso del manoscritto, che gli fu donato da un editore di Zurigo, egli disse a un amico che la Sonata gli sembrava opera di un qualunque allievo di Spohr. Spohr o no, la Sonata in La, in fondo, e` anch’essa, come la sorella maggiore, un esercizio di stile, sebbene il modello sia sentito in modo piu` indiretto e non sia univoco perche´ vi si palesano le influenze di Beethoven e di Hummel. La parte piu` debole della Sonata, che e` in tre movimenti, e` l’Adagio centrale, smisuratamente lungo rispetto ai movimenti estremi e non ben caratterizzato tematicamente, malgrado il bellissimo, commovente spunto melodico iniziale, al quale non nuoce affatto l’imitazione beethoveniana. Pianisticamente, per di piu`, l’Adagio e` basato su quei procedimenti triti che si notavano gia` in un episodio della Fantasia. Il primo movimento, Poco Allegro con moto, e` invece assai ben riuscito e si presenta giovanilmente sano e franco, sebbene musicalmente vago, e con una chiusa molto efficace. Meno interessante in complesso il terzo movimento, un Allegro molto preceduto da una introduzione: l’introduzione e` pero` sorprendente, sia perche´ di sostanza musicale superiore a gran parte della Sonata, sia perche´ e` molto simile alla introduzione dell’ultimo movimento della Sonata op. 2 che Brahms avrebbe scritto una ventina d’anni piu` tardi. Dopo il 1832 Wagner abbandono` il pianoforte, al quale torno` solo occasionalmente, tranne, si capisce, durante il periodo parigino, quando per campare fu costretto a ridurre per pianoforte alcune opere di Donizetti e di Hale´vy. Al periodo parigino appartiene la Romanza senza parole in Mi (1840), dono a un amico. La prima vera occasione per scrivere un pezzo pianistico arrivo` al quarantesimo compleanno di Wagner, con la Polca (1853) e la Sonata d’Album per Matilde Wesendonck (1853). Quando il secondo pezzo fu pubblicato, nel 1878, Wagner scrisse a Giuditta Gautier: ‘‘Non cercate troppe cose indicibili nella Sonata d’Album. L’avevo promessa a una giovane donna, che era stata gentile con me, in cambio di un cuscino di canape´ ch’ella mi aveva donato’’. La Sonata d’Album non e` di certo paragonabile ai Wesendonck Lieder, ma e` un lavoro piacevole, quasi

Richard Wagner

un piccolo saggio della sapienza dell’Autore nel legare unitariamente una fitta rete di cellule tematiche apparentemente eterogenee. La Polca e la Sonata d’Album rappresentano inoltre un qualcosa di biograficamente notevole, oltre che per la vita sentimentale, anche per l’attivita` di compositore di Wagner, il quale con questi modesti pezzi per pianoforte ricominciava a creare, dopo una interruzione durata ben sei anni, e provava cosı` le sue forze prima di iniziare, nell’autunno di quell’anno, la stesura dell’Oro del Reno. Per la sorella di Mathilde, Wagner scrisse un brevissimo Valzer (1854). La seconda occasione per riprendere a scrivere per pianoforte capito` a Wagner nel 1861, al tempo dello scandalo parigino del Tannha¨user. Dopo che la tempesta fu passata Wagner trascorse alcune settimane nella sede della ambasciata di Prussia: ‘‘Lavoravo ogni mattina’’, egli scrive, ‘‘alla traduzione dell’Olandese volante, e composi due fogli d’album. Ne dedicai uno alla principessa Metternich, e fu piu` tardi pubblicato; era fondato su un bel motivo che da tempo assillava la mia fantasia; dell’altro, dedicato alla signora Pourtale´s, ho perduto ogni traccia’’. Il Foglio d’album n. 2 (1861) reca il titolo ‘‘Arrivo di cigni neri’’. Wagner vuole ricordare con il titolo il palazzo della ambasciata di Prussia, nel cui laghetto in giardino nuotavano due bellissimi cigni neri, e la contessa Pourtale´s era figlia dell’ambasciatore BethmannHollweg. Personalmente preferisco il Foglio d’album n. 1 (1861), ma questa non e` altro che un’opinione. Stilisticamente entrambi i pezzi sono incondibilmente wagneriani, il primo un po’ piu` sotto il segno dei Maestri cantori, il secondo un po’ piu` sotto il segno degli Dei del Walhalla. Piuttosto e` da notare anche nelle pagine brevi un certo imbarazzo di Wagner nel valersi del pianoforte. Il modo di trattare il pianoforte, in questi due pezzi, e` ispirato allo stile pianistico di alcune pagine di Liszt, ma la scrittura wagneriana e` sempre piu` o meno – absit iniuria verbis – quella di un dilettante. L’ultima occasione per scrivere un pezzo pianistico capito` a Wagner nel 1875. Prima ancora di iniziare gli studi di composizione Wagner aveva trascritto per pianoforte solo la Nona Sinfonia di Beethoven e l’aveva mandata a un editore. La riduzione dormı` il sonno del giusto negli archivi della Casa Schott per piu` di quarant’anni, poi il manoscritto fu donato a Cosima Wagner che, ringraziando, scrisse a Betty Schott per dirle che le sarebbe stato mandato un pezzo scritto appositamente per lei. La lettera di Cosima e` del 16 gennaio 1872. Tre anni dopo, il 2 febbraio 1875, ven583

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Richard Wagner

ne spedito a Betty Schott il Foglio d’album (1875). Tre anni sono forse un po’ tanti, per sdebitarsi con un regalino? Sono tanti sı`. Ma Wagner in quei tre anni aveva lavorato senza sosta per finire, nientemeno, il ciclo dei Nibelunghi. Il Foglio d’album, scrive Wagner, ‘‘contiene i primi impulsi musicali che io abbia sentito dopo aver terminato, esausto, il Crepuscolo degli Dei’’. In un certo senso, dunque, le composizioni pianistiche per Mathilde Wesendonck e per Betty Schott stanno un po’ come i cartelli di entrata e di uscita dall’immenso edificio nibelungico. Fra i quattro Fogli d’album, quello per Betty Schott e` secondo me il piu` perfetto, il piu` coerente nella continuita` dello stato d’animo che lo ispira. Ed e` quindi con una pagina, seppur brevissima, degna del suo creatore, che si conclude l’opera pianistica di Wagner. Nella storia del concertismo pianistico i lavori originali di Wagner, com’e` chiaro, contano meno del due di coppe. Ma contarono invece molto le trascrizioni e le parafrasi dai suoi lavori drammatici.

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Foglio d’album

Il corpo piu` nutrito delle trascrizioni da concerto, e i risultati piu` geniali, sono senza dubbio quelli di Liszt, che coprono un lungo periodo e che in qualche caso – Morte di Isotta, Ouverture del Tannha¨user – furono dei best seller. Non bisogna pero` dimenticare il pianista triestino Alfredo Jae¨ll, le cui trascrizioni, eleganti e meno difficili di quelle di Liszt, ebbero una notevole diffusione. Delle varie trascrizioni di Carl Tausig divenne celebre quella della Cavalcata delle Valchirie. E poi sono da ricordare Hans von Bu¨low, Joachim Raff, Otto Singer, la cui trascrizione a quattro mani dell’Idillio di Sigfrido fu amatissima dai dilettanti, Ernest Hutcheson, il giovanissimo Busoni della Marcia funebre per la morte di Sigfrido, e ancora Louis Brassin, il cui Incantesimo del fuoco fu famosissimo nella esecuzione di Josef Hofmann. Nel Novecento la pratica della trascrizione da concerto fu quasi del tutto abbandonata, ma a trascrivere Wagner si dedicarono ancora Glenn Gould e Zolta´n Kocsis.

Gran Concerto n. 2 op. 32

Carl Maria von Weber

A Carl Maria von Weber

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(Eutin, 18/19 novembre 1786-Londra, 5 giugno 1826) Carl Maria, unico figlio di secondo letto di Franz Anton von Weber, non era un semplice Weber come ce n’erano tanti in Germania, ma era cugino in secondo grado di Konstanze Weber in Mozart. Franz Anton, che fantasticava di diventare un altro Leopold Mozart, aveva invano cercato di scovare un enfant prodige fra i suoi otto figli di primo letto, tutti come lui musicisti. Lo scovo` solo nell’ultimo nato, che divenne la stella della girovaga Compagnia Teatrale Weber, attiva non gia` nelle corti internazionali – Franz Anton, alla fine della fiera, non era Leopold, e Carl Maria non era Wolfgang: a dodici anni era pero` in grado di scrivere un Singspiel, a quattordici anni componeva una vera e propria opera, si ripeteva a quindici e, sempre quindicenne, componeva pure una messa. Weber era un brillantissimo pianista, ma il teatro era il suo luogo di elezione. Esattamente come Mozart. E, come Mozart, Weber sfruttava il pianoforte quando gli tornava utile e si dava al teatro non appena gliene capitava l’occasione. Al contrario di Mozart, di occasioni Weber ne ebbe pero` molte. Direttore di teatro a Breslavia a diciott’anni, dipendente dei duchi del Wu¨ rttemberg dai venti ai ventitre, direttore di teatro a Praga a ventisette anni, e poi, a trenta, maestro di cappella nel teatro reale di Dresda, capitale del regno di Sassonia. L’attivita` concertistica di Weber fu intensa solo fra il 1810 e il 1813. All’inizio del 1810 venne arrestato per questioni di denaro. La sua innocen-

za fu ben presto riconosciuta, ma egli fu bandito dal ducato del Wu¨ rttemberg e per tre anni non trovo` impiego stabile in teatro; giro` quindi molto in Germania, suonando musiche sue, cantando anche, se del caso, ariette italiane che il pubblico gradiva particolarmente, e concludendo le sue esibizioni pianistiche con lodatissime improvvisazioni. Con il pianoforte ce la fece a sbarcare il lunario. Ma non appena riuscı` a ottenere la nomina a Praga rallento` le sue apparizioni concertistiche, che in breve divennero del tutto sporadiche. Oltre che compositore in tutti i generi, Weber fu uno dei primi direttori d’orchestra nel senso ‘‘moderno’’ del termine: egli assunse la piena responsabilita` delle produzioni operistiche, muto` la disposizione tradizionale dell’orchestra, aumento` il numero delle prove, pretese di fare prove separate con i cantanti e prove d’assieme con gli scenari gia` montati, si occupo` della regia e dei cosiddetti ‘‘programmi di sala’’ con note esplicative sulle opere nuove che andavano in scena, fu insomma un despota in un mondo che per cambiar pelle aveva bisogno di despoti. Morı` di tubercolosi a Londra, dove si era recato per mettere in scena il suo Oberon, a meno di quarant’anni, e la sua scomparsa fu per il mondo della musica una perdita gravissima. Nel 1827, ricordandolo, la rivista Caecilia disse che ‘‘Weber trattava l’orchestra come un virtuoso il suo strumento’’.

I Concerti Il Concerto n. 1 in Do op. 11 (1810, 1812) fu eseguito per la prima volta da Weber il 19 ottobre 1810 a Mannheim. Lo schema seguito qui da Weber e` quello ben noto del ‘‘concerto militare’’, molto frequente tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento e ispirato alla battaglia, con primo movimento-battaglia, secondo movimentopreghiera di ringraziamento, terzo movimento-festa popolare danzata. I temi sono freschi, genuini, spontanei, molto spesso di natura schiettamente operistica, il genio di Weber per l’orchestrazione si manifesta luminosamente nel secondo movimento, un notturno in cui la compagine orchestrale e` ridotta a due corni, viola, due violoncelli e contrabbassi. Tranne che per alcuni passi di accordi, la tecnica pianistica e` ancora settecentesca: se

guardassimo il Concerto soltanto sotto questa prospettiva dovremmo pensare a una datazione intorno al 1795, con riferimenti precisi al Concerto n. 1 op. 15 di Beethoven. Ma basta il secondo movimento per dirci che l’aspetto settecentesco e` solo di superficie. Anche il Gran Concerto n. 2 in Mi bemolle op. 32 (1811-1812, 1814) e` legato al periodo in cui Weber si guadagnava la pagnotta con il pianoforte. Il 14 marzo 1811 egli era approdato a Monaco e, sfruttando a dovere una lettera di presentazione per il primo ministro, aveva ottenuto udienza dalla regina, alla quale aveva strappato la promessa per un concerto e per la rappresentazione di un’opera. Il concerto ebbe luogo il 15 aprile, l’opera in un atto Abu Hassan ando` in scena il 4 giugno. Inizio 585

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Carl Maria von Weber

promettente. Ma la sorda opposizione del direttore del teatro, che temeva con ragione, diciamolo pure, l’arrivismo del nuovo venuto, impedı` a Weber di ottenere a Monaco un incarico di corte. Rifiutato un posto troppo poco retribuito nel teatro di Wiesbaden, Weber si allontano` da Monaco, ma vi ritorno` a fine ottobre. Il 9 novembre eseguı` il Concerto n. 1 con un nuovo finale, poi partı` in compagnia del clarinettista dell’orchestra monacense, Heinrich Ba¨rmann, per il quale aveva gia` composto vari lavori. Durante la tourne´e compose il primo e il secondo movimento del Concerto n. 2, ai quali aggiunse come finale il finale alternativo del Concerto n. 1. La prima esecuzione ebbe luogo a Gotha il 17 dicembre 1812. All’inizio del 1811 Weber – lo sappiamo dal suo diario – aveva acquistato una copia del Concerto n. 5 di Beethoven. Il piano tonale del Concerto di Beethoven, in Mi bemolle con il secondo movimento in Si, era del tutto insolito. Lo ritroviamo pari pari nel Concerto n. 2 di Weber, e sembra percio` evidente che Weber sfruttasse un’idea di Beethoven che gli era piaciuta. Idea timbrica. La tonalita` di si maggiore, tanto piu` con gli archi con sordina e divisi, come fa Weber, e` coloristicamente dolcissima, setosa (Berlioz, nel Grande Trattato di Strumentazione, la definisce ‘‘nobile, sonora, raggiante’’, raggiante che diventa lunare con la sordina). Qualche passo del primo movimento e del finale lascia pensare che Weber rimanesse influenzato anche dalla scrittura pianistica del Concerto di Beethoven. Ma fra i due corre una sostanziale differenza: Beethoven cerca l’integrazione fra solista e orchestra, con il solista che funziona come una sezione dell’orchestra, mentre Weber sviluppa il virtuosismo del pianista. Passi in doppie note, ottave, salti, esaltano le virtu` acrobatiche del pianista e prefigurano in qualche momento la bravura di Liszt, anche se, bisogna dirlo, la scrittura di Weber doveva riuscire agevole alla sua grandissima mano – arrivava alla dodicesima – piu` di quanto non sia per le mani normali. Da segnalare anche l’ardire costruttivo di Weber: nel primo movimento la tradizionale Cadenza non e` collocata alla fine della riesposizione ma alla fine dello sviluppo, e la riesposizione non comprende il primo tema. L’architettura del primo movimento risulta percio` rinnovata, e il delicato secondo movimento, con il suo particolare colore e la sua calma, trasognata atmosfera, crea un suggestivo contrasto con i due vitalistici, impetuosi movimenti che lo circondano. Il Concerto n. 2 meriterebbe indubbiamente una fortuna maggiore di quella che ha avuto e che ha, ma attualmente non fa parte del repertorio corrente, sebbene sia sufficientemente rappresentato in disco. 586

Konzertstu¨ck op. 79

Nel 1815 Weber penso` di scrivere un terzo Concerto. Lo sappiamo da una sua lettera al critico Johann Friedrich Rochlitz: ‘‘Ho progettato un concerto per pianoforte, in fa minore. Ma siccome i concerti in modo minore, senza evidenti idee evocative, raramente piacciono al pubblico, ho insintivamente inserito nel progetto una specie di storia che come un filo conduttore unisca e definisca il suo carattere: una storia cosı` particolareggiata e allo stesso tempo drammatica che mi trovo costretto a esprimerla con i seguenti titoli: Allegro (Separazione), Adagio (Lamento), Finale (La piu` profonda miseria, Consolazione, Giubilo)’’. Questo schema drammaturgico regge il Konzertstu¨ck in fa-Fa op. 79 (Pezzo da concerto, 1821, 1823), che non e` in forma di concerto e che non porta come sottotitolo o in prefazione alcuna dichiarazione programmatica. Il programma venne spiegato molti anni piu` tardi, addirittura nel 1881, da Julius Benedict, che di Weber era stato allievo dal 1821 al 1823. La traccia del Benedict riguarda il mito del ritorno del crociato: ‘‘Larghetto. La castellana, sulla terrazza, scruta tristemente l’orizzonte. Il suo cavaliere e` partito per la Terra Santa. Sono passati anni. Egli vive ancora? Lo rivedra` mai piu`? Prega Dio, ma invano. Allegro appassionato. Una visione si presenta d’improvviso al suo spirito torturato: il suo sposo, ferito e abbandonato, giace sul campo di battaglia. Ah! Potesse lei volare a lui e morire con lui! Adagio e Tempo di marcia. Ascolta! Che sono questi rumori in distanza? Al limitare della foresta brillano nel crepuscolo delle armature, cavalieri e scudieri con la croce, e bandiere svolazzanti s’avvicinano; si odono le acclamazioni del popolo. Piu` mosso e Presto assai. Eccolo, e` la`! Lei si precipita fra le sue braccia. Felicita` infinita! Foreste e onde dell’oceano proclamano con mille voci il trionfo dell’amore fedele’’. La struttura della composizione, del tutto atipica, rispecchia fedelmente questo schema narrativo, e la rinuncia alla forma tradizionale del concerto dipende proprio dal seguito degli avvenimenti. Senza la storia l’inserimento della marcia in lontananza non risponderebbe infatti, anche in un pezzo di forma libera, a nessuna logica strutturale. Non si capisce bene perche´ Weber rinunciasse a specificare le sue intenzioni. Forse egli temeva che la spiegazione del programma avrebbe avuto come conseguenza la collocazione critica del suo pezzo nell’ambito della musica descrittiva, ormai screditata dopo il profluvio delle composizioni ispirate alle battaglie terrestri e navali che erano andate tanto di moda fra il 1790 e il 1814. Resta pero` il fatto che il Pezzo da concerto anticipa di dieci an-

Invito alla danza in op. 65

Carl Maria von Weber

ni l’estetica rivoluzionaria della Sinfonia fantastica di Berlioz, che avrebbe avuto importanti conseguenze nella storia della musica dell’Ottocento. Weber eseguı` il Pezzo da concerto a Berlino il 25 giugno 1821, una settimana dopo la ‘‘prima’’ del

suo capolavoro teatrale, il Franco cacciatore. Il Pezzo da concerto fu poi, negli anni quaranta, un cavallo di battaglia di Liszt, che ne pubblico` la sua versione con aggiunte e la sua trascrizione per pianoforte solo.

Le Danze e i Rondo` Il Momento capriccioso op. 12 (1808, 1811) e` ‘‘Dedicato al suo Amico Meyer-Beer, Compositore e Professore di Cembalo’’. Giacomo Meyerbeer, compagno di studi di Weber presso l’abate Vogler, iniziava nel 1811 la carriera come pianista con un suo Concerto, seguito nel 1812 da un Sonata e da altri pezzi per pianoforte solo. La dedica dell’op. 12 e` anche la testimonianza dell’abilita` di Meyerbeer al pianoforte, perche´ il Momento capriccioso e` un difficile moto perpetuo in doppie note staccate, e con passi di agilita` in entrambe le mani. Lo spirito e` quello delle musiche fiabesche di Mendelssohn (ad esempio, la Ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate) e la forma segue lo schema del rondo`, con sviluppi piu` estesi del consueto. La Grande Polacca in Mi bemolle op. 21 (1808, 1810), con Introduzione in mi bemolle, e` una composizione fastosa e teatrale, anzi, ballettistica, strutturata in forma di rondo`. Il Rondo` brillante in Mi bemolle op. 62 (1819, 1819), celeberrimo nell’Ottocento e oggi sconosciuto, e` come una danza di folletti, di vivacita` ritmica elettrizzante. La Grande Polacca brillante in Mi op. 72 (1819, 1819) e` ancora piu` estroversa dell’op. 21. La forma e` quella del rondo`-sonata: al posto del terzo tema abbiamo un ampio sviluppo. Liszt trascrisse l’op. 72 per pianoforte e orchestra, aggiungendole l’Introduzione dell’op. 21, e la sua trascrizione fu molto eseguita fino alla fine del secolo. Di scarsa importanza sono nel catalogo di Weber le brevissime Sei Fughette op. 1 (1798 ca., 1798), le Dodici Allemande op. 4 (1801 ca., 1801), le Sei Scozzesi senza numero d’opera (1802, 1802) che il compositore sedicenne dedico` galantemente ‘‘alle signore di Amburgo’’, e i Sei Valzer senza numero d’opera (1812, 1812) per la moglie di Napoleone, la ‘‘regina Maria Luisa di Francia’’. Di maggior interesse sono invece le tre raccolte per pianoforte a quattro mani, i Sei Pezzi facili op. 3 (1801, 1803), i Sei Pezzi op. 10 (1809, 1809) e gli Otto Pezzi op. 60 (1818-1819, 1818-1819). Nell’op. 3 il quindicenne Weber dimostra di saper gia` scrivere pezzi non solo graziosissimi ma anche di notevole valore didattico, con ruoli differenziati al primo e al secondo esecutore, quasi maestro e allievo. L’op. 10 e l’op. 60 impegnano alla pari i due esecutori,

ma non escono dall’ambito della buona, anzi, dell’ottima musica per dilettanti Weber, il cui padre era un mitomane e un gradasso che seminava debiti a destra e a manca, fu per colpa dell’augusto genitore incarcerato per truffa, ma fu espulso da Stoccarda, capitale del ducato del Wu¨rttemberg, per la sua scandalosa e burrascosa relazione con una cantante. Tutti i biografi attestano che la giovinezza di Weber fu ‘‘dissoluta’’, termine che fa da cortina a una sequela di amorazzi. Divenuto direttore del teatro di Dresda, Weber, come dicevano i nostri avi, mise testa a partito sposando nel 1817 la cantante Caroline Brandt, alla quale dedico` l’Invito alla danza in Re bemolle op. 65 (1819, 1821). L’Invito alla danza, in forma di rondo`, e` un valzer con una introduzione in tempo lento che ritorna come conclusione. Weber spiego` alla moglie il programma del pezzo, parlando di ‘‘primi approcci del cavaliere, a cui la dama risponde evasivamente’’, di ‘‘piu` pressante invito’’, di ‘‘assenso’’, di conversazione, di danza, di finale ringraziamento e di congedo. La struttura drammaturgica e` molto chiara, i preliminari e il congedo occupano una porzione limitata della musica, il valzer e` costruito con molti temi (due dei quali principali) che si susseguono entro uno schema generale senza soluzione di continuita`. La novita`, la grande novita` dell’Invito alla danza – oltre, ovviamente, la sua qualita` estetica – riguarda la trasformazione in poema della tradizionale collana di brevi valzer. Mozart, Clementi, Beethoven, Hummel, Weber stesso avevano composto valzer, per cosı` dire, di piccolo taglio, tutt’al piu` accostati, ma restando indipendenti e senza simmetrie architettonichde, in ghirlande di sei o di dodici. Nel 1819 Weber compie invece un’operazione che anticipa di trent’anni quella che Liszt, con le Serate di Vienna, avrebbe fatto con i Valzer di Schubert: creare continuita` fra diversi temi di valzer per arrivare a una forma pluritematica unitaria. Ma c’e` di piu`. Il valzer, affermatosi a Parigi durante le scostumatezze del Direttorio e a Vienna durante le frivolezze del Congresso, nel 1819 era ancora guardato con sospetto dai moralisti perche´ la coppia dei danzatori si muoveva abbracciata, stabilendo cosı` fra la donna e l’uomo un rapporto di isolamento e di intimita`, sconosciuto al minuetto e alla gavotta settecenteschi. E questo rapporto viene

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Carl Maria von Weber

Sonata in Do op. 24

bene messo in evidenza nell’Invito alla danza, nel quale gli episodi di sfavillante mondanita` s’alternano con episodi che profumano lontano un miglio d’erotismo. Un critico di poco posteriore a Weber, Henry Blaze de Bury, disse che l’Invito alla danza era ‘‘una di quelle deliranti ispirazioni che in poche pagine ci rivelano abissi di dolore e di volutta`, di frenesia e di disperazione’’. E aggiunge-

va: ‘‘Chi non ha mai ascoltato Liszt tradurre con la sua anima e il suo genio questo episodio fantastico ignora a quale grado di sovreccitazione possa condurre il senso della musica’’. Oggi queste affermazioni ci fanno un po’ sorridere. Ma se mettiamo da parte lo scetticismo di cui ci ha corazzati il Novecento l’Invito alla danza ci trascina ancora nel suo gorgo peccaminoso.

Le Sonate Il blocco delle quattro Sonate di Weber non e` interamente ascrivibile al contesto del sonatismo ne´ della classicita`, ne´ del biederrmeier, ne´ del romanticismo, ma preannuncia piuttosto, come vedremo meglio poi, la fantasia pluritematica del romanticismo basata su melodie di melodrammi. Questo carattere, teatrale piu` che drammatico, compare fin dalla Sonata in Do op. 24 (1812, 1812). La Sonata inizia con un accordo, fortissimo, e un arpeggio, risoluto, di settima diminuita. Questo accordo potrebbe normalmente risolvere in otto diverse tonalita` e, eccezionalmente, in altre otto. Un campo aperto, dunque, su ben sedici delle ventiquattro tonalita` . Sedici su ventiquattro; ma tra le sedici non c’e` il do maggiore, tonalita` principale della Sonata. Oggi un inizio del genere non provoca piu` il senso di sorpresa che provocava nell’ascoltatore del 1812. Ma non e` difficile immaginare quanto dovesse sentirsi disorientato, da un simile inizio, chi era abituato a distinguere auditivamente le tonalita` e a riconoscere nella rete delle strutture tonali le formanti dello schema della sonata. Per trovare un qualcosa di analogo, nella classicita` viennese, bisogna aspettare l’ultima Sonata di Beethoven, l’op. 111, posteriore di dieci anni. Certamente, la tensione creata dal Maestoso dell’op. 111 sara` di molto maggior peso e di altra natura, cioe` cosmica. Il ventiseienne Weber non nutre ambizioni altrettanto grandi. E, tuttavia, con l’inizio della sua prima Sonata egli si pone al di fuori della cultura dominante, la cultura viennese, e crea un colpo di scena, eccitante e inquietante, di carattere veramente teatrale. L’Adagio e il trio del Minuetto precisano questo carattere genericamente teatrale in carattere nettamente melodrammatico, perche´ gli stilemi impiegati e il tipo di strumentazione fanno pensare a scene d’opera. Anche in Beethoven, si sa, si incontrano continuamente riferimenti, suggestioni di timbri, giochi di volumi e di masse mutuati dall’orchestra. In Beethoven il riferimento e` pero` quasi sempre sinfonico, mentre in Weber e` l’opera lirica che si delinea sullo sfondo e non soltanto sullo sfondo. Accanto al melodramma e` il virtuosismo strumentale, specie violinistico, cio` che desta

l’attenzione di Weber: l’attacco del Minuetto, ad esempio, mima chiaramente un’entrata misteriosa dell’orchestra accompagnante, seguita dall’imperiosa apparizione del violino solista. E il finale, che non per nulla sara` ribattezzato da Alkan Perpetuum mobile, scopre il senso ipnotico che il movimento incessante crea in un pubblico di massa: il Moto perpetuo op. 11 di Paganini, scritto dopo il 1830, riprendera` semplicemente, in un’epoca diversa, questa scoperta di Weber. Si puo` osservare che una tendenza alla teatralizzazione del discorso si affaccia anche in Beethoven, in Hummel, in Dussek. Le Sonate di Beethoven op. 26, op. 27 n. 2, op. 31 n. 2, op. 53, op. 57 saranno predilette dai romantici e diventeranno esempi probanti del ‘‘romanticismo’’ di Beethoven. Ma la teatralizzazione del discorso musicale, che significa tendenza a rivolgersi verso il pubblico di massa invece che il verso il pubblico dei saloni aristocratici, investe Beethoven marginalmente e appare gia` superata nelle ultimi cinque Sonate, ascrivibili, in senso lato, all’estetica del sublime piu` che all’estetica del caratteristico. Weber, al contrario di Beethoven, approfondira` il discorso iniziato con l’op. 24, e tutte le sue Sonate troveranno, per cosı` dire, orecchie aperte nel periodo romantico. Persino la Prima, la piu` vicina al biedermeier, restera` in repertorio fino alla prima Guerra Mondiale. Prediletta dai romantici fu pero` la Sonata in La bemolle op. 39 (1816, 1816). L’op. 39 di Weber e` contemporanea della Sonata op. 101 di Beethoven ma non ha in se´ nulla di beethoveniano ed e` anzi difficile da analizzare secondo gli schemi della sonata classica. Nel primo movimento colpisce innanzitutto l’abbondanza delle didascalie: con anima, morendo, passionato, con passione, espressivo, dolce, leggermente, con molt’affetto, con duolo, agitato (Liszt, che pubblico` una revisione della Sonata, aggiunse di suo con grazia, Chopin, dando lezione all’allievo Georges Mathias, cerco` una volta di suggestionarlo, nell’episodio indicato da Weber con duolo, dicendogli ‘‘un angelo passa in cielo’’). L’abbondanza di didascalie che si rivolgono al sentimento dell’esecutore fa pensare a un sostrato programmatico, o per lo meno a una concezio-

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Sonata op. 70

ne teatrale. L’uso del tremolo, all’inizio, al termine dello sviluppo e all’inizio della riesposizione, fa pensare a suggestioni orchestrali, perche´ il tremolo non e` presente nella musica pianistica di Mozart e di Beethoven, e` raro in Schubert e in Chopin, ed e` frequente solo con Liszt. E il tremolo in pianissimo dell’inizio, con l’entrata bucolica dei corni, richiama immediatamente l’immagine del bosco. Se si volta pagina e si legge l’Andante in do minore, secondo movimento della Sonata, l’impressione di una scrittura orchestrale viene riconfermata: tema con suono tenuto e cantabile, quasi clarinetto, su accordi staccatissimi, quasi pizzicati degli archi; poi la melodia passa al registro medio-grave, con sonorita` che richiama l’unisono di violoncelli e fagotti, e piu` avanti si individuano facilmente altri timbri (viole, corni, ecc.). L’attacco del Menuetto capriccioso mostra l’alternarsi di archi e strumentini, e l’attacco del Rondo` metamorfosa nettamente la sonorita` di flauto, clarinetto e fagotto. Sta nascendo, nel pianoforte, la sonorita` dell’orchestra di Weber. Nel 1816 l’orchestra weberiana non era ancora quella che noi oggi abbiamo in mente per ‘‘orchestra di Weber’’; ne´ la sonorita` delle due sinfonie (1807), ne´ la sonorita` dei due Concerti per pianoforte era la sonorita` del Weber maturo, che si comincia a intravvedere solo nei due Concerti per clarinetto (1811). La Sonata op. 39 rappresenta dunque anche uno studio dei colori timbrici e dei loro impasti, studio da cui derivera` – e non vicevesa – il particolare colore dell’orchestra di Weber. C’e` infine il problema delle didascalie, il problema da cui siamo partiti. L’idea di un sostrato programmatico si affaccia irresistibilmente alla mente. Sappiamo, da documenti sicuri, che Weber aveva immaginato una traccia programmatica per l’Invito alla danza e per il Konzertstu¨ck, e sappiamo anche che queste tracce programmatiche non vennero da lui pubblicate. Weber temeva forse di cadere nel descrittivismo della battaglia, genere assai diffuso nel primo decennio dell’Ottocento e, nel caso della Sonata, non voleva accomunare la sua opera alle sonate caratteristiche che pure potevano vantare il blasone della Sonata op. 81a di Beethoven? La supposizione nasce dall’ipotesi di un contenuto programmatico, suggerita, come dicevo, dalle didascalie e dallo stile. Ma potrebbe invece darsi benissimo il caso che nessun contenuto programmatico sia stato immaginato da Weber e che la Sonata vada invece collocata nell’estetica della musica come espressione di stati d’animo legati alla fantasticheria e al sogno, ricchi di accostamenti non dialettici che danno tuttavia origine a contrasti drammatici e a catarsi risolutorie. Un simile indirizzo avrebbe portato Schumann a orga-

Carl Maria von Weber

nizzare le grandi forme secondo schemi nuovi, che solo molto indirettamente risentono della classica tradizione della forma-sonata. In Weber la sonata in quattro movimenti viene conservata, e viene mantenuto lo schema piu` tipico del primo movimento; ma la forma reale modifica lo schema in termini tali da denunciare la crisi storica della sonata. Mentre la sonata radicatasi nella cultura viennese (e nello spirito dell’Illuminismo) si sviluppa con Beethoven per giungere con Schubert alla morte, in Germania sorge l’alternativa capace di diventare a sua volta cultura dominante: con Weber, con Schumann e, in un campo diverso da quello della musica strumentale, con Wagner. Tipica sonata alternativa, dunque, l’op. 39, e percio` amatissima dal romanticismo, programmaticamente anticlassicistico. C’era pero` chi preferiva la Sonata in re-Re op. 49 (1816, 1817), in tre soli movimenti, che inizia con un Allegro feroce e termina con un ampio Rondo` che sembra preso di peso da un melodramma. La preferenza per la Terza Sonata, che fu dell’eccentrico Hans von Bu¨low e piu` tardi di un altro grande eccentrico, Sviatoslav Richter, era stata prima di Blandine, primogenita di Liszt e della contessa Marie d’Agoult. Scriveva la quindicenne Blandine al suo grande padre, il 15 ottobre 1850: ‘‘Studio molto il pianoforte, suono la Sonata in re minore di Weber. Questa sonata e` magnifica e mi interessa molto; e` una delle piu` belle cose che io abbia suonato’’. Rispondeva Liszt – padre, educatore, mentore, Virgilio che soccorre l’errante – il 5 novembre: ‘‘Per quanto mi riguarda, anch’io ho una grande predilezione per questa Sonata, nonostante alcuni difetti assai rilevanti che vi si trovano, come ad esempio la fine brusca e scorciata della prima e della seconda parte del primo movimento, una certa mancanza di proporzione fra l’Allegro, l’Andante e il Finale, proporzione che mi sembra ben piu` felicemente riuscita nella Sonata in la bemolle maggiore, dello stesso autore, e persino in quella in do maggiore, che formano, e l’una e l’altra, un insieme piu` armonico, piu` completo’’. Liszt non vedeva male, ma se l’esecuzione e` travolgente, com’era quella di Richter, tutti i difetti diventano marginali. La Sonata in mi op. 70 (1819-1822, 1823) e` cosı` intrisa di spiriti drammatici e, forse, programmatici, da poter essere vista come una specie di Aroldo in Italia pianistico. Meditativo e agitato il primo movimento, che inizia con duolo e finisce mormorando con dolore, scattante e danzante il Menuetto con il suo fantomatico trio, un secondo movimento che preannuncia e Mendelssohn e il giovane Brahms, idilliaco il terzo movimento, che non 589

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Carl Maria von Weber

Sei Variazioni su un tema originale op. 2

per nulla e` indicato nella didascalia generale come consolente (sic), autentica tarantella e` il finale, travolgente anche sul piano puramente virtuosistico. Non c’e` neppure bisogno di richiamare il programma a cui s’aspira il contemporaneo Konzertstu¨ck per immaginare che una qualche romantica storia di viaggio in Italia sia all’origine di questa Sonata in quattro quadri caratteristici. Ma il punto che storicamente pare oggi il piu` significativo consiste nel superamento della concezione dualistica del primo movimento di sonata. Nel primo movimento della Sonata op. 70 Weber sembra voler esporre un secondo tema contrastante, che si rivela pero` subito come episodico: il vero secondo tema non e` altro che il primo, in modo maggiore anziche´ minore, e presentato in una elementare struttura a quattro parti invece che come recitativo accompagnato. Al posto del tradizionale primo movimento di sonata abbiamo cosı` un pezzo di

struttura definibile o come molto arcaica, premozartiana, o futuristica. Futuristica, secondo me: lo schema tradizionale della forma-sonata, che era ancora restato come intelaiatura nelle opere 39 e 49, viene superato, e Weber crea una fantasia monotematica preannunciante la svolta che nella letteratura pianistica avra` luogo negli anni trenta, quando la fantasia su uno o su piu` temi d’opera affianchera` e infine sostituira` la forma biedermeier delle variazioni su temi popolarissimi. La sonata per pianoforte di Weber, presa nel suo insieme di quattro poemetti nell’arco di dieci anni, apre dunque un capitolo che non sara` quello della sonata romantica, problematica e preoccupata del rapporto con il passato, ma della fantasia drammatica, autentica invenzione romantica, anche se praticata ad altissimo livello creativo da uno solo dei maggiori artisti dell’epoca, Liszt.

Le Variazioni Tra le Sei Variazioni su un tema originale op. 2 (1800 ca., 1800) e le Sette Variazioni su una canzone zingaresca op. 55 (1817, 1819) si collocano altre sei serie di variazioni di Weber. Nel catalogo di un compositore che scrisse soltanto quattro Sonate, rispetto alle trentadue di Beethoven, la variazione occupa dunque un posto di rilievo. Ma in diciassette anni non si nota un vero mutamento d’orizzonte poetico, solo una mano piu` scaltrita e un moderato incremento del virtuosismo strumentale. Weber, come ho gia` detto, era un pianista molto brillante, e le Variazioni erano per lui l’occasione di dar prova delle sue virtu` preclare. Ottave rapide per entrambe le mani, note doppie, accordi, agilita`, melodia e figurazione ornamentale nella stessa mano, e qualche momento di non semplice scrittura polifonica. Non di rado Weber inserisce una variazione di carattere: una Mazurca nelle Otto Variazioni su un tema di Vogler op. 5

(1804, 1804), uno ‘‘Spagnolo moderato’’ nelle Variazioni su un tema originale op. 9 (1808, 1810), un Espagnuolo nelle Sette Variazioni su un tema russo op. 40 (1815, 1815). Nell’op. 40 il tema russo, di sole 16 battute, e` preceduto da una introduzione di 25 battute, nell’op. 9 la penultima variazione e` una Fantasia, con recitativo, assai drammatico, l’ultima delle Sette Variazioni su un tema di Me´hul op. 28 (1812, 1812) e` estesissima, con passi in ottave e accordi molto virtuosistici. Nell’op. 55 troviamo un canone, strumentato in ottave alle due mani. E nell’op. 28 e nelle Sette Variazioni su un tema di F. Bianchi op. 7 (1807, 1811) troviamo le parole delle arie originali, fatto che ci da` una testimonianza diretta di cio` che sappiamo dalle cronache, e cioe`, come ho gia` detto, che Weber eseguiva cantando, nei suoi concerti pubblici, i temi su cui sviluppava l’improvvisazione.

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Variazioni op. 27

Anton von Webern

A Anton von Webern

B

(Vienna, 3 dicembre 1883-Mittersill, 1 novembre 1945) Le pagine pianistiche che Webern compose verso i vent’anni sono molto numerose ma in grandissima parte sono rimaste inedite. Sono da prendere in considerazione un Movimento di sonata in Do (1906) e un Movimento di sonata in do (1906). Trattandosi nel primo caso di forma assimilabile all’allegro di sonata e nel secondo caso al rondo` si e` supposto che si tratti di due movimenti di una progettata sonata che non venne mai ultimata. Il linguaggio risente sı` dell’insegnamento di Scho¨nberg, che aveva da poco ultimato il Quartetto op. 7, ma anche, sembrerebbe, di Franz Schreker. Si tratta in definitiva di due pezzi culturalmente collocabili entro lo Jugendstil viennese e che ci fanno conoscere, come gli altri lavori cameristici del momento, un Webern turgido e passionale che non ritroveremo piu`. Il Kinderstu¨ck (Pezzo infantile, 1924) e il Klavierstu¨ ck (Pezzo per pianoforte, 1925) sono nello stesso tempo elementari esercitazioni sul metodo di composizione dodecafonico e miniature lavorate con perizia da orafo. Nel 1936 Webern scriveva all’amica Hildegard Jone-Humplick: ‘‘Le ho gia` detto che sto scrivendo qualcosa per pianoforte. La parte che ho finito e` un movimento in forma di variazioni; verra` una specie di suite. Spero di aver realizzato con le Variazioni qualcosa che avevo in mente gia` da anni’’. Si puo` supporre che il ‘‘qualcosa’’ che Webern aveva in mente gia` da anni fosse il ripensamento di schemi strutturali archetipici della tradizione, senza il ritorno al tematismo che in quegli schemi si era sviluppato negli ultimi due secoli. Il concetto di variazione non corrisponde interamente, in Webern, a quello tradizionale di tema con variazioni, ma piuttosto alla variazione di una struttura di intervalli (di cui si puo` trovare un parziale precedente nel Carnaval di Schumann). Il primo movimento delle Variazioni op. 27 (1936) e` chiaramente in forma tripartita, con una divisione rigidissima: diciotto battute nella prima parte, diciotto nella seconda, diciotto nella terza. La struttura tripartita viene messa in evidenza mediante la densita` ritmica, che e` molto piu` alta nella parte centrale, e mediante la dinamica, che nella parte centrale e` piu` ampia. La parte iniziale e` costruita pero` in modo talmente singolare, rispetto alla tecnica dodecafonica di cui Webern si serve, da far pensare a un ripensamento della forma classica di alle-

gro di sonata. La prima presentazione della serie dodecafonica e` tipica, con un evidente gioco di simmetrie che puo` essere messo in luce anche semplicemente con numeri al posto dei suoni: 1 2

3 12 10 8 11 9

4 5 6

5 4 6 7 7

3

1 2

C D E F

8 10 12 9 11.

E` evidente come nelle prime due righe (mano destra del pianista) vengano esposti i primi sei suoni, e nella terza e quarta riga (mano sinistra) gli altri sei, come ognuno dei quattro tronconi venga letto prima a diritto e poi a rovescio, ‘‘a specchio’’, e come sia simmetrico il gioco delle densita`, che sono qui espresse dalle distanze fra i numeri. L’episodio che segue e` pero` difficilmente analizzabile in termini di tecnica dodecafonica, sebbene siano evidenti la costruzione simmetrica delle densita` e degli intervalli e la parziale rilettura a specchio. Nella continuita` dello stile Webern cerca in realta` un contrasto fortissimo di linguaggio, contraddicendo il rigore della costruzione dodecafonica con un episodio che la supera. E mi sembra che si possa vedere in cio` un’allusione ai due principi contrastanti che Beethoven citava a proposito delle sue Sonate op. 14. Il terzo episodio riprende il primo in un ordine diverso, il quarto riprende, in un ordine diverso, il secondo; la prima parte puo` cosı` essere vista come esposizione di due principi, la seconda come svilppo, la terza come riesposizione, e tutto il primo movimento diventa una sintesi del classico allegro di sonata. Un brevissimo secondo movimento, bipartito e con ritornello in ciascuna delle parti, si richiama evidentemente allo scherzo della sonata classica. Si puo` invece parlare per il terzo e ultimo movimento, al contrario che per i primi due, di tema con variazioni. Il tema e` in forma ternaria (prima parte, sviluppo, riesposizione a specchio) e la parte centrale, come nel primo movimento, non e` rigorosamente dedotta secondo la tecnica dodecafonica. Le prime quattro variazioni sono organizzate, al modo barocco, sul progressivo aumento della densita` ritmica e della dinamica, fino al punto cuminante (molto fortissimo) che inizia con la nota piu` acuta toccata in tutto il pezzo. La tensione emotiva, alla conclusione del punto culminante, e` 591

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Anton von Webern

sottolineata dall’arresto improvviso e da un valore di durata non misurato (corona alla battuta 55), che viene affidato alla scelta e alla discrezione dell’esecutore. La quinta variazione, calmissima, si chiude sul suono piu` grave che venga toccato in tutta la composizione. Allegro di sonata, scherzo, variazioni; sia pure con una certa cautela e con qualche dubbio si puo` avanare l’ipotesi di una specie di parafrasi formale della Sonata op. 109 di Beethoven, costruita in modo analogo a livello di macrostruttura. Ho cercato di dare una sommaria descrizione del lavoro per mettere in evidenza quello che a parer mio e` il carattere di fondo, il ripensamento di forme classiche. Faro` ancora notare un rapporto numerico, evidentemente intenzionale: il primo movimento e` indicato con il metronomo ‘‘circa 40’’, il secondo ‘‘circa 160’’, il terzo ‘‘circa 80’’ (ottanta pulsazioni cardiache al minuto era, secondo il teorico del Settecento Joachim Quantz, l’ideale dell’uomo ben riposato e tranqullo). Tutti i minuziosissimi calcoli che controllano la forma del pezzo non restano pero` assoluti e teorici ma, sorprendentemente, vengono contraddetti in rapporto con fatti musicali o, per meglio dire, con esigenze melodiche e quindi con fattori espressivi. Ad esempio, nella battuta n. 14 del primo movimento i due bicordi della mano sinistra non vengono riprodotti nella posizione che avevano nelle battute 3 e 2 ma in posizione rovesciata, creando un diverso andamento melodico della linea superiore, e in genere la scelta delle zone d’altezza e delle dina-

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Variazioni op. 27

miche non risponde tanto a esigenze costruttive quanto espressive. A esigenze fortemente espressive corrisponde la tecnica pianistica su uno strumento come il pianoforte, che non puo` praticare un legato vero e proprio. Webern non lega mai piu` di due e al massimo, per eccezione, tre suoni, puntando quindi su quella forma di legato pianistico iperespressivo che era stato individuato da Beethoven nella Sonata op. 2 n. 3. E la scrittura non e`, spesso, la piu` comoda possibile, ma e` quella che costringe l’esecutore (se viene rispettata, s’intende, il che non sempre accade) a un gran numero di movimenti degli avambracci, per ottenere attacchi controllati e suono mai troppo pastoso. L’aggancio alla espressione classico-romantica non e` di per se´ evidente nella scrittura, ma diventa chiaro quando si prendono in esame le richieste di Webern al primo interprete, Peter Stadlen: ogni nota dev’essere ‘‘cantata’’, la radicalita`, l’asciuttezza, l’essenzialita` del linguaggio non devono risolversi in formalismo ma in emotivita` palpitante, e il pianoforte carico d’anni, il vecchio strumento a corde percosse, mantiene intatta la carica di utopia che lo aveva fatto nascere. Il pianoforte deve cantare. E canta. Come puo`. Ma spasima su ogni suono. Il carattere neoclassico delle Variazioni si estende dunque, coerentemente, a tutti gli aspetti della composizione che, sebbene apparentemente lontanissima dalla tradizione, e` in realta` un punto fermo e un traguardo assoluto di quella ripresa di principi classici del comporre che vide impegnata la cultura europea fra le due guerre.

Indici

Indice cronologico dei compositori

Indice cronologico dei compositori

1650-1699 1685 Georg Friedrich Ha¨ndel ({1759): 266 1685 Johann Sebastian Bach ({1750): 16 1685 Domenico Scarlatti ({1757): 470 1685 Lodovico Giustini ({1743): 248 1700-1749 1714 Carl Philipp Emanuel Bach ({1788): 13 1732 Joseph Franz Haydn ({1809): 267 1735 Johann Gottfried Eckard ({1809): 226 1735 Johann Christian Bach ({1782): 15 1750-1799 1752 Muzio Clementi ({1832): 186 1756 Wolfgang Amadeus Mozart ({1791): 366 1760 Jan Ladislav Dussek ({1812): 220 1770 Ludwig van Beethoven ({1827): 67 1771 Johann Baptist Cramer ({1858): 196 1778 Jan Nepomuk Hummel ({1837): 282 1782 John Field ({1837): 235 1786 Carl Maria von Weber ({1826): 585 1791 Carl Czerny ({1857): 198 1791 Jan Va´clav Vorˇı´sˇek ({1825): 581 1792 Gioachino Rossini ({1868): 455 1794 Ignaz Moscheles ({1870): 362 1797 Franz Schubert ({1828): 478 1800-1849 1809 Felix Mendelssohn-Bartholdy ({1847): 341 1810 Fryderyk Chopin ({1849): 166 1810 Robert Alexander Schumann ({1856): 503 1811 Franz Liszt ({1886): 297 1812 Sigismund Thalberg ({1871): 576 1813 Stephen Heller ({1888): 274 1813 Richard Wagner ({1883): 582 1813 Charles-Henri-Valentin Morhange detto Alkan ({1888): 8 1814 Adolf Henselt ({1889): 276 1818 Stefano Golinelli ({1891): 253 1822 Ce´sar Franck ({1890): 238 1824 Bedrˇich Smetana ({1884): 545 1825 Johann Strauss jr. ({1899): 563 1829 Louis Moreau Gottschalk ({1869): 254 1829 Anton Rubinsˇtejn ({1894): 460 1833 Johannes Brahms ({1897): 118 1834 Tekla Ba˛darzewska-Baranowska ({1861): 51 1834 Julius Reubke ({1858): 454

1835 1837 1839 1840 1841 1841 1841 1843 1845

Camille Saint-Sae¨ns ({1921): 463 Milij Alekseevicˇ Balakirev ({1910): 53 Modest Petrovicˇ Musorgskij ({1881): 395 Pe¨tr Il’icˇ Cˇajkovskij ({1893): 152 Emmanuel Chabrier ({1894): 164 Giovanni Sgambati ({1914): 543 Antonı´n Dvorˇa´k ({1904): 224 Edvard Hagerup Grieg ({1907): 262 Gabriel-Urbain Faure´ ({1924): 231

1850-1899 1854 Leo´sˇ Jana´cˇek ({1928): 289 1854 Moritz Moszkowski ({1925): 364 1856 Giuseppe Martucci ({1909): 335 1859 Sergej Mikhailovicˇ Ljapunov ({1924): 324 1860 Isaac Albe´niz ({1909): 3 1860 Edward MacDowell ({1908): 325 1862 Achille-Claude Debussy ({1918): 202 1864 Richard Strauss ({1949): 564 1865 Carl Nielsen ({1931): 401 1865 Aleksandr Glazunov ({1936): 249 1865 Paul-Abraham Dukas ({1935): 218 1866 Ferruccio Benvenuto Busoni ({1924): 137 1866 Erik Satie ({1925): 467 1867 Enrique Granados y Campin˜a ({1916): 257 1869 Albert Roussel ({1937): 458 1870 Leopold Godowsky ({1938): 251 1872 Aleksandr Skrjabin ({1915): 529 1873 Max Reger ({1916): 451 1873 Sergej Vasil’evicˇ Rachmaninov ({1943): 428 1874 Arnold Scho¨nberg ({1951): 473 1874 Charles Ives ({1954): 286 1875 Maurice Ravel ({1937): 440 1876 Manuel de Falla ({1946): 227 1880 Nicolai Medtner ({1951): 339 1880 Ernest Bloch ({1959): 117 1880 Ildebrando Pizzetti ({1968): 406 1881 Be´la Barto´k ({1945): 56 1881 Nikolaj Jakovlevicˇ Mjaskovskij ({1950): 357 1882 Gian Francesco Malipiero ({1973): 328 1882 Igor’ Fe¨dorovicˇ Stravinskij ({1971): 566 1882 Karol Szymanowski ({1937): 572 1883 Alfredo Casella ({1947): 159 1883 Anton von Webern ({1945): 591 1885 Alban Berg ({1935): 112 1887 Heitor Villa-Lobos ({1959): 578 1890 Frank Martin ({1974): 331 595

Indice cronologico dei compositori

1890 1891 1892 1892 1893 1895 1895 1897 1898 1899

Bohuslav Martinu˚ ({1959): 333 Sergej Prokof’ev ({1953): 413 Kaikhosru Shapurji Sorabji ({1988): 548 Darius Milhaud ({1974): 354 Federico Mompou y Dencause ({1987): 360 Mario Castelnuovo-Tedesco ({1968): 162 Paul Hindemith ({1963): 278 Henry Cowell ({1965): 194 George Gershwin ({1937): 241 Francis Poulenc ({1963): 408

1900-1949 1900 Aaron Copland ({1990): 192

596

1904 1904 1904 1906 1908 1908 1910 1912 1913 1916 1923 1924 1925 1928

Luigi Dallapiccola ({1975): 200 Goffredo Petrassi ({2003): 404 Dmitrij Kabalevskij ({1987): 291 Dmitrij Dmitrievicˇ Sˇostakovicˇ ({1975): 550 Olivier Messiaen ({1992): 350 Elliott Carter: 157 Samuel Osborne Barber ({1981): 55 John Cage ({1992): 150 Benjamin Britten ({1976): 135 Alberto Ginastera ({1983): 246 Gyo¨rgy Ligeti ({2006): 293 Luigi Nono ({1990): 403 Luciano Berio ({2003): 114 Karlheinz Stockhausen ({2007): 559

Indice dei nomi

Indice dei nomi

Abbado Claudio: 403 Abegg Meta: 525 Abert Anna Amalie: 393 Abert Hermann: 389 Abraham Gerald: 522 Acs Joseph: 304 Acton Charles: 453 Adam Jean-Louis: 18 Adams John: 18 Addinsell Richard: 339 Adorno Theodor Ludwig Wiesengrund: 557 Afanas’ev Nikolaj Yakovlevicˇ: 396 Agosti Guido: 117 Aguettant Louis: 443 Akhmatova Anna: 556 Albe´niz Clementina: 3 Albe´niz Isaac: 3-8, 58, 162, 176, 203, 218, 227228, 231, 241, 251, 258, 260, 326, 420 Albe´niz y Gauna A´ngel: 3 Albe´niz, famiglia: 3 Alberti Domenico: 22, 34, 471 Alberto I, re: 215 Albinoni Tomaso: 18, 44 Albrechtsberger Johann Georg: 88, 190, 282 Alcott Bronson: 286 Alcott Louisa: 286 Alessandro I, zar: 483 Alferakij Akhilles Nikolaevicˇ: 400, 551 Alfonso XII: 4 Alkan Charles-Henri-Valentin Morhange detto: 812, 123, 188, 210, 341, 344, 456, 521, 524, 588 Allegri Gregorio: 314 Altschuler Modest: 533 Amato Pasquale: 133 Amoros Pierre: 217 Andersen Stell: 355 Anna Ferdinando: 137 Ansermet Ernest: 428 Ansorge Conrad: 67 Antheil George: 65 Antipov Konstantin Afanas’evicˇ: 400 Antonio Infante di Portogallo: 248 Arciuli Emanuele: 140 Arenskij Anton: 324, 339, 429-430, 433, 535, 551 Argerich Martha: 67 Ariani Adriano: 337

Arrau Claudio: 20, 39, 67, 79, 303, 313, 318, 389, 509, 512, 515, 527 Artoˆt De´sire´e: 152 Ashkenazy Vladimir: 439, 472, 555 Asioli Bonifazio: 108 Astaire Adele: 242 Auber Daniel Franc¸ois Esprit: 301, 309, 446 Auerbach Annette: 110 Aurnhammer Josephine: 386 Austen Jane: 554 Avani Carreras Maria: 530 Bach Anna Magdalena: 16, 46 Bach Carl Philipp Emanuel: 13-14, 18, 21, 30, 44, 48, 67, 81, 88-89, 96-97, 107, 118, 133, 196, 220, 226, 270, 366, 368, 375-376, 378, 484, 501 Bach Jakob Johann: 43 Bach Johann Christian: 15, 48, 53, 65, 73, 88, 159, 161, 174, 178, 186, 188-189, 191, 196, 220-222, 370, 379, 386, 391 Bach Johann Christoph: 44 Bach Johann Sebastian: 3, 13, 15-50, 67-68, 89, 107-110, 118, 120-121, 123-125, 127-129, 131132, 137-138, 142-148, 197, 201, 239, 242, 247-249, 270, 277-280, 291, 294, 313-314, 319, 322, 330, 339, 343-344, 347-348, 359, 362, 369, 371, 375-379, 383, 385-386, 391, 393, 395, 401, 408, 414, 429, 435-437, 448, 451453, 463, 466, 472, 502, 506, 508, 513, 523525, 530, 548, 552, 556-557, 579 Bach Wilhelm Friedemann: 16, 33, 37, 40, 42, 46, 48 Back Carl: 507 Backhaus Wilhelm: 6, 56, 67, 267, 312, 364, 429, 483, 500 Ba˛darzewska-Baranowska Tekla: 51-52 Badura-Skoda Eva: 366 Badura-Skoda Paul: 331 Ba¨hr Joseph: 375 Balakirev Milij Alekseevicˇ: 53-54, 156, 235, 249, 324, 395-396, 461 Balanchine George: 155, 281, 409, 555, 569, 571 Balanchivadze Andre´: 555 Balzac Honore´ de: 51 Banck Carl: 521 Barber Osborne Samuel: 55, 246 597

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Barbier Jules: 215-216 Barbirolli John: 163 Barblan Guglielmo: 25 Bardac Emma: 208-209 Barenboim Daniel: 67 Bargiel Woldemar: 120, 123 Barrie James Matthew: 213 Bartali Gino: 282 Barth Hans: 129 Barto´ k Be´la: 18, 35, 56-66, 145, 147, 160, 166, 170-171, 241, 246, 250, 264, 293-295, 297, 305, 316, 329, 331, 355-356, 367-368, 370, 389, 400, 405, 420, 450, 473, 523, 557, 565, 570, 573-575 Batthyany Ludwig, conte: 302 Baudelaire Charles Pierre: 211, 217 Bauer Harold: 398-399 Bauernfeld Eduard: 486 Baumgartner Paul: 521 Beauharnais Josephine: 502 Beaumarchais Pierre-Augustin Caron de: 388, 392 Beethbert Franz: 297 Beethoven Johann van: 3, 72 Beethoven Karl van: 502 Beethoven Ludwig van: 3, 9-10, 13, 17-18, 21, 26, 29, 39, 52-53, 56, 58, 60, 63, 65, 67-112, 118-122, 124, 126, 128, 132, 137-138, 140-141, 145-146, 148, 152, 154, 167-168, 175-177, 179, 183, 186, 188-189, 191, 196, 198-199, 207-208, 212, 219, 221-222, 224-225, 241, 246, 249, 262-264, 267, 269, 271-276, 278, 280, 282-286, 298-299, 304, 309, 314, 316, 318, 322-323, 335, 339, 341-345, 347, 350, 357, 360, 362, 369, 371-372, 374, 377-378, 387, 389-391, 393, 401, 413-414, 418-419, 423, 429, 436-437, 439440, 446-447, 451-452, 455, 458, 461, 463-465, 470, 478-480, 482-483, 486, 491-493, 495-499, 501-506, 512, 516, 519-520, 522, 525-527, 531, 541, 550, 552, 554, 558-560, 564, 566, 568, 574, 577, 581-583, 585-592 Belajev Mitrofan: 534 Belgiojoso Cristina Trivulzio: 241, 302 Bellini Vincenzo: 169, 184, 199, 237, 304, 309, 466, 503, 545 Bendel Franz: 124 Benedetti Michelangeli Arturo: 5, 92, 147, 183, 186-187, 201, 258, 261, 264-265, 268, 305, 338, 360, 472, 517 Benedict Julius: 586 Bennett Joseph: 262, 527 Bennett William Sterndale: 370 Berg Alban: 112-113, 200, 218, 331, 419, 474 Berger Francesco: 317, 319 598

Berger Ludwig: 187, 189, 319, 341, 343 Berget Rodolphe: 208 Bergson Michail: 124 Berio Luciano: 114-116 Berlin Irving: 243 Berlioz Hector: 11, 13, 17, 100, 120, 152, 178, 254, 258, 274, 304, 306, 312, 321-322, 362, 417, 456, 503, 545, 550, 586-587 Bernstein Leonard: 193, 286 Bertini Gary: 189 Bertrand Aloysius: 445 Bie Oscar: 130 Bihar Ja´nos: 315 Bizet Georges: 3, 8, 148, 159, 297, 365 Blavatskij Helena Petrovna: 540 Bloch Ernest: 117 Blom Eric: 97, 222 Blumenfeld Felix: 155 Boccherini Luigi: 259 Bocklet Carl Maria von: 118, 497 Bo¨cklin Arnold: 208, 437 Bodky Erwin: 25, 27-28, 30 Boe¨ly Alexandre-Pierre-Franc¸ois: 123, 456 Boito Arrigo: 298 Boklet Carl Maria von: 120, 478 Bolet Jorge: 521 Bonaparte Gerolamo, re: 81 Bonaparte Luigi, re d’Olanda: 502 Bonavia Ferruccio: 148 Borodin Aleksandr Porfir’evicˇ: 447 Borovskij Eugene: 426 Bortolotto Mario: 460, 462 Bossi Marco Enrico: 328 Boulanger Nadia: 192 Boulez Pierre: 320, 533, 557, 561 Boult Adrian Sir: 65 Bowers Faubion: 536 Brahms Johannes: 10, 25, 29, 58, 99, 112, 118134, 138-144, 152-153, 159-161, 166, 188, 196, 205, 208, 218-219, 222, 224-225, 231, 243, 249, 253, 256-257, 265, 275, 277, 280, 289, 297, 317, 324, 337-338, 340, 343, 347, 350, 357, 372, 374, 390-391, 396, 429, 432-433, 435, 437, 444, 451-452, 454, 456, 461, 473, 476, 481-482, 485, 487, 505, 511-512, 514-515, 517, 521-522, 528, 532, 547, 564, 572-573, 583, 589 Brandt Caroline: 587 Brassin Louis: 3-4, 130, 584 Braun Peter von: 102 Brendel Alfred: 13, 20, 39, 92, 110, 132, 148, 153, 224, 267, 269, 313, 318, 360, 387, 452, 472 Brentano Bettina: 108

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Brentano Birkenstock Antonia: 97, 102, 108 Brentano Clemens: 108, 514 Brentano Franz von: 108 Brentano Massimiliana: 101-102 Breuning Eleonore von: 88 Bridge Frank: 135 Brinkmann Reinhold: 115-116, 474 Britten Benjamin: 135-136, 448 Bronsart Hans von: 306 Brown Maurice John Edwin: 493 Browne Anna Margarete von: 90 Browning John: 55 Bruckner Anton: 188, 463 Brueghel Jan: 448 Brugnoli Attilio: 56 Brunswick Franz von: 97, 105 Brunswick Josephine: 97, 105 Brunswick The´re`se: 97-98, 105 Brussel Robert: 164 Bulgakov Mikhail: 563 Bu¨low Daniela von: 302 Bu¨low Hans von: 19, 40, 110, 124, 129-130, 143, 146, 153, 161, 196, 249, 302, 305, 316-317, 326, 360, 460, 472, 521, 564, 584, 589 Burgmein Jules: 227 Burne-Jones Edward: 439 Burney Charles: 27 Burton John: 366 Bury Blaze Henry de: 588 Busoni Ferdinando: 3, 137-138, 140 Busoni Ferruccio Benvenuto: 18-19, 22, 25, 27, 32, 39-40, 59-60, 62, 121-122, 137-149, 159, 181, 192, 201, 224, 236, 239, 241, 247, 249, 251, 275, 277, 283, 302, 304-305, 310, 312, 317, 324, 335, 370, 372, 377-378, 399, 401, 420, 428, 438, 453, 460-461, 464, 474, 476, 498, 527, 534-535, 548, 550, 557, 567-568, 572, 584 Bu¨sser Henri: 205 Buxtehude Dietrich: 27 Byrd William: 460 Byron George Gordon: 325, 432 Cage John: 150-151, 561 Cˇajkovskij Pe¨tr Il’icˇ: 20, 61, 152-156, 202, 205, 224, 227, 231, 258, 291, 305, 324-325, 337, 342, 374, 379, 390, 393, 397, 399, 406, 413, 428-429, 432, 434, 437, 460, 462, 537, 550551, 558, 566 Calvocoressi Michel Dimitri: 448 Campanella Bruno: 309 Cannabich Rose: 382 Canudo Ricciotto: 448 Caplet Andre´: 215

Carlo Federico di Sassonia-Weimar-Eisenach, granduca: 320 Carlo III di Spagna: 259 Carlo IV di Spagna: 259 Carlo X, re di Francia: 457 Carlo XII, re di Svezia: 43 Carre´ Albert: 215-216 Carren˜o Teresa: 67, 265, 325 Carter Elliott: 157-158 Caruso Enrico: 430 Casadesus Henry: 159 Casadesus Robert: 448, 458 Casella Alfredo: 4, 159-162, 179, 211, 215, 328, 404, 448, 575 Castaldi Paolo: 560 Castelnuovo-Tedesco Mario: 162-163 Castro Juan Jose´: 246 Caterina II, zarina: 220 Cavalieri Catarina: 5 Cavour Camillo Benso conte di: 51 Cervantes Saavedra Miguel de: 229 Cesi Beniamino: 163, 335-337 Chabrier Alexis-Emmanuel: 164-165, 208, 255, 409, 441-443, 447 Chagall Marc: 418, 422 Chaminade Ce´cile: 203, 208, 231 Charles d’Orleans: 215 Charlot Jacques: 215 Cheret Jules: 5 Cherkassky Shura: 154, 421 Cherubini Luigi: 178, 189, 341 Chevalier Maurice: 409 Chevillard Camille: 57 Chiantore Luca: 67 Chomjakov Aleksej Stepanovicˇ: 432 Chopin Fryderyk: 3-5, 8-10, 33, 52-55, 57, 87, 89, 95, 101-102, 112, 114, 118-119, 121, 124-125, 131-132, 138, 141-142, 149, 154, 156, 161, 166-185, 188, 190, 195-197, 199, 202-203, 206207, 211, 216, 218, 220, 224, 227-228, 230231, 233, 236, 238-239, 241, 246, 251-255, 258-259, 262-263, 274-277, 284-285, 294-295, 297, 300-303, 308, 310, 312, 314, 316-317, 322, 337-339, 341-344, 347-348, 357, 360-364, 368, 374, 381, 393, 395-397, 418, 420, 422, 425, 433-437, 443, 449, 451, 453, 455-456, 458, 461, 463, 465, 468, 481-483, 503-505, 508-509, 511-514, 517, 521, 523-527, 531, 534536, 538-539, 542-543, 545-547, 550, 552, 554, 569, 572-577, 580, 588-589 Chotzinoff Samuel: 244 Chouquet Gustave: 255 Ciaja Azzolino Bernardino della: 64, 248 Ciccolini Aldo: 472 599

Indice dei nomi

Cimarosa Domenico: 176, 283-284 Clasin Christian Johann: 118 Claudel Paul: 355 Clementi Muzio: 14, 18-19, 72, 80, 86, 88-89, 92, 104, 106, 118, 120-121, 186-191, 210, 220-222, 235-236, 253, 272, 275, 282, 284, 291, 319, 335, 341, 343, 368, 377, 385, 391-393, 395, 440, 456, 469, 471, 480, 497, 503, 523, 556, 587 Cliburn Van: 291 Cocteau Jean: 350, 409-410, 422 Codina Lina: 423 Cohen Harriet: 65, 224 Collet Henri: 258 Colonne E´douard: 231, 301 Consolo Ernesto: 200, 530 Cooper Martin: 101 Copland Aaron: 157, 192-193, 246 Coppi Fausto: 282 Corelli Franco: 36, 44 Corri Domenico: 220 Corri Sophia: 220 Corsi Carlo Alberto: 369 Cortot Alfred: 5-6, 34, 159, 164-165, 208, 211, 218, 232-234, 240, 313, 440-441, 443-445, 450, 458, 508-510, 527, 567 Cossel Otto Friedrich Wilhelm: 118 Cottrau Teodoro: 300 Couperin Franc¸ ois: 3, 8, 36, 39, 49, 164, 205, 207, 212, 214, 218, 264, 447-448, 574 Cowell Henry: 151, 194-195, 214 Craft Robert: 428 Cramer Johann Baptist: 156, 188, 196-197, 219, 235, 272, 277, 319, 523-524 Cravero Giovanni: 159 Crickboom Mathieu: 258 Cristofori Bartolomeo: 17, 248, 366, 472 Cruz Luciano: 403 Cui Ce´sar: 258 Curtis Alan: 147 Czernin, conte: 198 Czerny Carl: 18, 21, 26, 51-52, 63, 68, 73, 79-80, 93, 95, 108, 118, 168, 171, 176, 184, 189, 198199, 216-217, 274, 282, 323, 364, 420, 454, 471-472, 519, 567, 576 Czerny Wenzel: 198 Cziffra Gyo¨rgy: 563 D’Agoult Marie, contessa: 298, 310, 577, 589 Dahl Nicolai: 435 Da¨hler Jo¨rg Ewald: 39 Dalayrac Nicolas: 238 D’Albert Euge`ne: 67, 82, 121, 141, 146-147, 154, 600

241, 249, 251, 264, 305, 313, 325, 337, 428, 557, 564 Dallapiccola Luigi: 114, 200-201 D’Amico Fedele: 188 Damrosch Walter: 243-244 Dannreuther Edward: 153 D’Anglebert Jean-Henri: 49 D’Annunzio Gabriele: 109, 406 Da Ponte Lorenzo: 388 D’Attili Glauco: 337 De Be´riot Charles-Auguste: 440 De Be´riot Charles-Wilfrid (Charles jr.): 257, 440 Debussy Achille-Claude: 3-4, 6-8, 20, 59-60, 62, 101, 117, 133, 135, 140, 145, 159-161, 162, 164-166, 181, 198, 201, 202-219, 227-229, 231234, 243, 257, 259, 289, 297, 300, 302, 313, 324, 327-329, 333, 350, 355, 360-361, 406, 409, 411, 420, 429, 432, 441-446, 448, 458, 466, 467, 524, 531, 542, 544, 572-574, 578 Debussy Emma-Claude: 210 De Greef Arthur: 207, 264 Del Valle de Paz Edgardo : 163 Delaborde E´li Miriam: 8 Delage Roger: 444 Delibes Le´o: 206, 209, 441 Delius Frederick: 149 Della Croce Johann Nepomuk: 379 Della Valle di Casanova Silvio, marchese: 460, 464 De Molina Tirso: 445 Demus Jo¨rg: 38-39 De Musset Alfred: 173 De Pellegrin Simon-Joseph: 300, 393, 432 de Polignac Marie Blanche: 411 De Re´gnier Henri: 442-444, 446 De Stae¨l-Holstein (Necker Germaine), baronessa: 60 Deveria Achille: 256 Deym Joseph Carl Graf, conte: 105 Diabelli Anton: 108, 314, 486, 490, 499, 502 Diario di Stoccarda: 167, 181 Dickens Charles: 181 Die´mer Louis: 8, 179, 442, 456 D’Indy Vincent: 108, 160, 204, 206, 239, 257, 419-420, 444, 446, 458, 467 Dietrich Albert: 119-120, 122 Dietrichstein, conte: 168, 576 Dieupart Charles: 36, 48-49 Dittersdorf August Carl Ditters vo: 104 Dix Otto: 278, 301 Djagilev Sergej: 244, 415, 566-567 Do¨blin Alfred: 372 Do¨hler Theodor: 52, 118, 120, 395 " : 20, 56, 58, 110, 563 Dohna´nyi Erno

Indice dei nomi

Domingo Placido: 52, 90 Donizetti Gaetano: 264, 276, 309-310, 462, 525, 583 Dorn Heinrich: 519 Downes Olin: 440 Draeseke Felix: 324, 537 Dreyschock Alexander: 546 Drigo Riccardo: 156 Drouet Louis: 502 Druzhinin Fyodor: 558 Du Mage Pierre: 49 Dubuque Alexander: 53, 235 Dukas Paul: 62, 159, 208, 218-219, 229, 329, 350, 435, 444, 446 Duke Vernon: 244 Duncan Todd: 223 Dupont Auguste: 124, 130 Dussek Jan Ladislav: 14, 18-19, 77, 138, 176, 196, 220-223, 272, 275, 588 Dvorˇa´k Antonı´n: 203, 224-225, 547, 564 Eberlin Johann ernst: 19 Eckard Johann Gottfried: 226, 366, 368 Edward Burne Jones: 306 Eigeldinger Jean-Jaques: 190 Einstein Alfred: 378, 489-490 Elena, granduchessa: 462 Elgar Edward: 410 Elias Rosalind: 26 Elman Mischa: 243 Elsner Jo´zef: 118, 166, 178, 180 Emerson Ralph Waldo: 286-287 Enescu George: 4 E´rard Se´bastien: 309 Erdman Ernie: 226 Erkel Ferenc: 56 Erkel La´szlo´: 56 Ernest Johann: 33 Ernest Johann, principe: 31 Ernesti Johann Heinrich: 23 Eschilo: 10 Essipova Anna: 110, 155, 413-414, 417-418 Esterha´zy Karoline, principessa: 486, 502 Esterha´zy Marie: 502 Esterha´zy, conte: 492, 495, 502 Esterha´zy, principe: 268, 282, 482-483 Exaudet Andre´-Joseph: 226 Faccio Franco: 84, 93, 381 Fadini Emilia: 470 Fanna Antonio: 108 Farina Carlo: 18 Farinelli (Broschi Carlo): 412 Farrenc Aristide: 456

Farrenc Louise: 456 Faure´ Gabriel-Urbain: 4, 117, 159-160, 165, 209, 231-234, 354, 406, 408, 411, 443, 447, 463 Favart Charles-Simon: 211 Fa´y La´szlo´: 315 Federer Roger: 282 Federico Guglielmo II di Prussia: 393 Federico II, re di Prussia: 13, 44, 48 Feinberg Samuel: 156, 419 Feldman Morton: 157 Ferdinand Louis di Prussia, principe: 105, 220, 222 Ferdinandi Bettina: 547 Ferdinando d’Aragona: 364 Ferdinando IV di Borbone: 268 Ferrini Giovanni: 248, 472 Fe´tis Franc¸ois-Joseph: 161, 274, 320, 576 Fe´vrier Jacques: 448 Fibich Zdeneˇk: 203 Field John: 53, 55, 78, 171, 176, 188, 235-237, 272, 284, 301, 345, 375, 395, 430, 438, 504, 572 Finck Gottfried Wilhelm: 496 Fiodorovna Silvia: 424 Firkusˇny´ Rudolf: 224, 545 Fischer Edwin: 20, 92, 312 Flaubert Gustave: 263, 521 Fleisher Leon: 279 Fontana Luca: 209 Forkel Nikolaus: 14, 29, 37, 39-40, 48-49 Foster Jenkins Florence: 27 Foster Stephen: 287 Francesco I di Valois: 232 Franchomme Auguste: 170 Franck Ce´sar: 138, 146, 160, 164, 205, 208, 218219, 238-240, 289, 350, 486 Franck Nicolas-Joseph: 3 Franc¸ois-Sappey Brigitte: 10 Franklin Benjamin: 220 Franz Robert: 120 Frazzi Vito: 162 Freiligrath Ferdinand: 313 Freitas-Branco de Pedro: 449 Frescobaldi Girolamo: 44, 48, 64, 190, 293 Fricken Ernestine von: 508, 526-527 Friedheim Arthur: 110 Friedman Ignaz: 154, 260, 472, 563 Friedrich Johann Caspar: 212 Frimmel Theodor von: 89, 102 Froberger Johann Jakob: 47-48 Furtwa¨ngler Wilhelm: 57, 417, 428-429 Fu¨ssli Johann Heinrich: 377, 388 Fux Johann Joseph: 67, 190, 519 601

Indice dei nomi

Gabrilovic: 110 Gade Niels Wilhelm: 112, 120, 112, 142, 262 Gahy Joseph von: 489 Gal Amparo: 257-258 Galston Gottfried: 110 Galuppi Baldassarre: 370 Ganche E´douard: 175 Ganz Rudolf: 446 Gatti Gabriella: 161 Gaugin Paul: 6 Gautier Giuditta: 583 Ge´dalge Andre´: 557 Geiringer Karl: 109 Gelinek Josef: 19, 104 Genzinger Marianne von: 271 Gerber Heinrich Nikolaus: 47 Ge´ricault Jean-Louis The´odore: 9 Gerl Franz: 394 Gershwin George: 192, 241-245, 355, 477 Gervaise Claude: 411, 448 Geyer Stefi: 59 Ghys Henry: 440-441 Gide Andre´: 175 Gieseking Walter: 20, 161, 163, 188, 216, 264, 346-347, 404, 411, 429, 462, 471-472, 540, 565 Gilels Emil: 67, 152, 186, 188, 264, 268, 340, 408, 425, 471-472, 517, 555, 557 Gilman Lawrence: 244 Ginastera Alberto: 246 Giordani Carlo: 186 Giordano Umberto: 241 Giorgio I di Gran Bretagna: 48 Giotto: 18 Giuliani Mauro: 283 Giustini Lodovico: 100, 226, 248 Gizdale Robert: 151 Gladkowska Konstancja: 181-182 Glazunov Aleksandr: 249-250, 414, 419-420, 435, 550 Glinka Michail Ivanovicˇ : 4, 54, 152, 235, 262, 324, 400, 435, 557 Glivenko Tatiana: 553 Gluck Christoph Willibald: 123, 222, 240, 285, 362, 393-394, 461, 466, 529 Godowsky Leopold: 5-6, 110, 243, 251-252, 260, 264, 472, 489, 548, 563, 565 Goethe Johann Wolfgang von: 85, 92, 105, 166, 285, 303, 307, 341, 343, 367, 437, 506-507 Goldberg Johann Gottlieb: 37 Golinelli Stefano: 253, 275, 335 Go¨llerich August: 130 Golschmann Vladimir: 244 Gorgia da Leontini: 182, 299 Gottschalk Louis Moreau: 206, 254-256, 258, 262 602

Gould Glenn: 17, 20, 35, 39, 357-358, 448, 584 Gounod Charles: 24, 215, 307, 447, 524, 563 Goya Francisco: 259-260 Graeser Wolfgang: 21 Grainger Percy: 156, 565 Granados Enrique: 4, 7, 203, 227, 231, 257-261, 411, 545 Gravelman David: 535 Gray Cecil: 24-25 Grecˇaninov Alexander: 551 Greffulhe Marie Anatole Louise E´lisabeth, Contessa: 232 Gregoir Josef Jacques: 276 Gre´try Andre´: 105, 392 Grieg Edvard Hagerup: 4, 39, 59-61, 160, 203, 209, 227-228, 231, 257-258, 262-265, 326, 337, 374, 401, 412, 441, 537, 564 Griepenkerl Friedrich: 18 Grigny Nicolas de: 36, 49 Grofe´ Ferde: 243 Grosz George: 278, 408 Groth Klaus: 121 Gruber Emma: 58 Gruber Franz Xaver: 401 Gru¨nfeld Alfred: 563 Gubaidulina Sofia: 18 Guicciardi Giovanni: 81, 93, 522 Gulda Friedrich: 20, 382, 391, 424 Gyo¨rgy Sa´ndor: 58 Haba Alois: 288 Haberbier Ernst: 395 Ha¨ckel Friedirch : 110 Hahn Reynaldo: 446 Haibel Jakob: 104 Halbreich Harry: 403, 507, 515 Hale´vy Jacques Fromental: 183, 309-310, 583 Halffter Cristo´bal: 4 Halle´ Charles: 95, 202, 254, 274 Hallfter Ernesto: 441 Ha¨ndel Georg Friedrich: 3, 19, 22, 25, 34, 37, 68, 101, 109, 123, 126-128, 130, 132, 138, 141, 159, 188-189, 248, 266, 275, 280, 314, 337, 362-363, 375, 377-378, 408, 437, 452 Hanslick Eduard: 317 Happenziegh Humphry Kennelton: 550 Hartmann Georges: 176, 179, 397 Hartmann Victor: 399 Harvey Jonathan: 560 Haskil Clara: 472 Haslinger Tobias: 488, 497-499 Hassan Abu: 585 Hasselmans Marguerite: 234 Ha¨ssler Johann Wilhelm: 395

Indice dei nomi

Haussmann Elias Gottlob: 38 Hawkins John Sir: 189 Haydn Franz Joseph: 3, 13-14, 69, 73-74, 78, 8890, 94, 98, 105, 107, 130, 153, 186, 198, 219, 267-273, 282, 284, 363, 371, 381, 384, 391, 408, 446, 470, 478-479, 481, 484, 492, 550 Heger Robert: 448 Heifetz Jascha: 162, 243 Heine Heinrich: 302 Heller Stephen: 4, 120, 137, 210, 225, 253, 274275, 507, 523, 526, 534 Henselt Adolf von: 54, 196-197, 251, 276-277, 336, 341, 395, 434, 498, 504, 516, 524, 527, 535, 545, 550, 577 Herbert Victor: 243 Herder Johann Gottfried: 124 Herke Anton: 395 He´rold Ferdinand: 183, 274 Herz Henri: 9, 52, 118, 183-184, 199, 523 Heselt Adolph: 395 Hess Myra: 472 Hess Willy: 72 Hiller Ferdinand: 33, 504 Hindemith Paul: 278-281, 333, 354, 417, 466 Hines Earl: 242 Hipkins Alfred: 39 Hoboken Anthony van: 269 Hodler Ferdinand: 278 Hoffmann Carl Philipp: 374 Hoffmann Ernst Theodor Amadeus: 39, 67-68, 365, 375, 397, 510, 512 Hofmann Casimir: 3 Hofmann Josef: 82, 137, 258, 324, 364, 429, 460461, 521, 529, 532, 584 Hofmannsthal Hugo von: 501 Hohenlohe-Schillingsfu¨rst Gustav Adolf von, cardinale: 300 Holbrooke Joseph: 326 Ho¨lderlin Friedrich: 279 Honauer Leontzi: 226 Honegger Arthur: 192, 244 Horowitz Vladimir: 55, 144, 155, 177, 186-188, 199, 216, 291, 301-303, 317, 340, 364-365, 379, 399, 411-412, 421, 423-426, 438, 471-472, 500, 510, 512, 518, 521, 523, 534, 539 Horszowski Mieczysl/ aw: 110 Huasi Julio: 403 Hugo Victor-Marie: 206, 217, 238, 320, 451 Hu¨llmandel Nicolas-Joseph: 385 Hummel Jan Nepomuk: 8, 71-72, 86, 91, 99, 106, 108, 118, 139, 168-169, 174, 176, 178, 180, 188, 222, 235, 264, 272-273, 276, 282-284, 322, 341, 343-344, 347, 362, 395, 440, 485,

497, 499, 504, 523-524, 526, 529, 546, 576, 581, 583, 587-588 Huneker James: 251 Hu¨nten Franz: 183 Hutcheson Ernest: 127-128, 584 Igumnov Konstantin: 154 Ingres Jean-Auguste-Dominique: 6 Isabella di Castiglia: 364 Isabella II, regina: 3 Isakovic Vera: 538 Ives Charles: 100, 193-194, 219, 244, 286-288, 358, 473 Jae¨ll Alfredo: 465, 584 Jan Sobieski III, re: 167 Jana´cˇek Leo´sˇ: 259, 264, 289-290, 333, 545 Janke´le´vitch Vladimir: 328 Jansen Jacques: 272 Jarnach Philipp: 149 Jarvis Charles: 110 Jensen Adolf: 112, 537 Joachim Joseph: 120, 123, 130, 132 Johann Baptist Cramer: 80, 326 Jolson Al: 242 Jone-Humplick Hildegard: 591 Jourdan-Morhange He´le`ne: 443 Joyce James: 433 Kabalesvkij Dmitrij: 291-292, 358, 419, 557 Kabos Ilona: 65 Kacˇaturjan Aram Il’icˇ: 292 Kafka Franz: 433, 466 Kalkbrenner Friedrich: 8, 52, 106, 108, 139, 168169, 180, 189, 235, 254, 314, 323, 341, 395, 456, 463, 485, 520 Kant Immanuel: 418 Karganov Genari: 400 Keglevics Babette, contessa: 90 Kempff Wilhelm: 496-497, 505 Kentner Louis: 65 Kessler Joseph: 174, 180 Kestenberg Leo: 144 Ketten Henri: 209 Keyserlingk Hermann Carl von: 37 Kindermann William: 109 Kinsky Ferdinand, principe: 81 Kirchner Theodor: 112, 120, 131 Kirkpatrick John: 254, 286 Kirkpatrick Ralph: 20, 470-471 Kirnberger Johann Philipp: 26 Kleczinski Jan: 175 Klemm Eberhardt: 215 Klemperer Otto: 553 603

Indice dei nomi

Klindworth Karl: 324 Knop Ernest: 312 Ko¨ chel Ludwig Ritter von: 368-369, 378-379, 386, 388 Kocsis Zolta´n: 584 Ko´daly Zolta´n: 446 Koessler Hans: 56, 58 Kokaulina Sofia: 550 Kollmann August: 18 Konstantinovskaya Elena: 554 Kontski Anton de: 53 Ko¨rner Theodor: 80 Kotzebue August von: 108, 304 Koussevitzky Sergej: 215, 244, 339, 449, 531-533 Kozeluch Antonin: 372, 374 Kozeluch Leopold: 78, 484 Kraus Karl: 475, 501 Kraus Lili: 485 Kreisler Fritz: 39, 113, 121, 243, 260, 440, 510 Kreisler Johannes: 510 Kreisler Johannes jr.: 125 Krejn Alexandr: 419 Kretschmar Wendell: 102 Kreutzer Rodolphe: 86, 96, 106, 489 Kuffner Christoph: 81 Kuhlau Friedrich: 138, 196, 291, 523 Kuhnau Johann: 23, 45 Kuij Ce´sar: 551 Kullak Theodor: 53, 124, 454 Kuntsch Johann Gottfried: 524 Kunz Konrad Max: 279 Kupelwieser Josef: 478 Kurpinski Karol: 184, 238 Kurta´g Gyo¨rgy: 578 Kurz Wilem: 224 Ku¨then Hans-Werner: 75 Lachmund Karl: 130 Lachner Franz: 486, 490 La Fontaine Jean de: 192 Laidlow Anna Robena: 515-516 Lalo E´douard: 212, 243, 373 Lamartine Alphonse de: 302 Lamm Pavel: 423 Landon Christa: 269 Landon Robbins: 366, 375 Landowska Wanda: 19-20, 39, 41, 229, 408, 448, 471 Lang Paul Henry: 99, 313, 540 Lanner Josef: 479, 512 La Vine Edward: 214 Lebert Sigmund: 253, 529 Le Duc Viollet: 304 Legrenzi Giovanni: 44 604

Lenau Nikolaus: 307-308 Lenormand Rene´: 447 Lenz Wilhelm de: 83, 87, 92, 99, 110 Leonhardt Gustav: 21, 33 Leonova Dar’ja: 399 Leopardi Giacomo: 171 Leprince de Beaumont Jeanne-Marie: 446 Lermontov Michail Jur’evicˇ: 54, 324, 339, 427, 432 Leschetizky Theodor: 137, 275, 413, 489, 537 Lestang Paule de: 444 Levant Oscar: 477 Levin Robert: 50 Levizki Mischa: 529 Lhe´vinne Joseph: 129, 430, 519 Liadov Anatoly: 203, 420, 435, 551, 580 Liapunov Sergei: 419 Lichnowsky Felix, principe: 198, 302 Lichnowsky Henriette: 81, 88 Lichnowsky Moritz, principe: 98 Lichtenstein Giovanna, principessa: 93 Lichtenthal Pietro: 371 Ligeti Gyo¨rgy: 293-295, 548 Lipatti Dinu: 41, 265, 268, 331, 471-472 Lipinski Carl: 508 Liszt Adam: 3 Liszt Cosima: 302 Liszt Daniel: 313 Liszt Franz: 3-4, 6, 8-9, 11, 16, 19, 25, 33, 39, 56, 58, 62, 66-67, 77, 83-84, 87, 97, 100-101, 108110, 112, 118-120, 124, 127-131, 133, 135, 137-138, 140-144, 146, 148, 152-153, 155-156, 159, 162-163, 166-167, 170, 174, 177, 181-182, 184-185, 190-191, 199, 202, 206-209, 212, 214, 217, 224, 231-232, 235-237, 239, 241, 243, 246, 250, 254, 258-260, 262-263, 265, 274, 276-277, 282, 290, 295, 297-326, 335-336, 339, 341, 344, 346-348, 360, 362-363, 374, 376, 393, 396, 398-400, 414-415, 428-429, 431-432, 434, 436-437, 439, 442, 445, 449, 454, 456, 458, 460-461, 463-464, 470, 472, 477, 481, 485-486, 498, 503-504, 509, 514, 520-524, 527529, 532, 535, 537-539, 541, 545-547, 550-551, 556, 563-564, 567, 573-577, 583-584, 586-590 Litolff Henry Charles: 53, 124, 220, 306, 456, 520 Ljadov Anatolij Konstantinovicˇ: 535 Ljapunov Sergej Mikhailovicˇ: 53, 324, 396 Llobet Miguel: 229 Lobkowitz Franz Josef Maximilian, principe: 79, 81, 198 Loewe Carl: 166 Loginov V.A.: 397 Long Marguerite: 233, 446-447, 449-450

Indice dei nomi

Longo Alessandro: 161, 470, 472 Lopatnikov Nicolaj: 419 Loriod Yvonne: 350 Loti Pierre: 214 Lubin E.: 130 Lucchesi Andrea: 72 Lucchesini Andrea: 115 Luigi Filippo di Francia: 177, 363 Luigi XIV, re di Francia: 206 Lupu Radu: 267, 472 MacDowell Edward: 203, 325-327 Maconie Robert: 560 Maconie Robin: 559 Madge Geoffrey Donald: 548 Magaloff Nikita: 316, 424 Mahler Gustav: 143, 145, 204, 228, 241, 251, 257, 306, 317, 337, 375, 428, 437, 550, 558 Malats Joaquı´n: 6-7 Malfatti Teresa (Therese): 71 Malibran Maria: 345, 440 Malipiero Gian Francesco: 328-330, 440 Mal’ko Nicolaij: 551, 553 Maliszevski Witold: 552 Mallarme´ Ste´phane: 443-444 Mancini Enrico: 438 Manet E´douard: 164, 211 Mangold Carl Armand: 120 Mann Thomas: 102 Mapon Charles: 449 Marcello Benedetto: 18, 31, 33, 64, 341, 456 Marchand Louis: 36, 49 Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena: 220, 223 Maria Barbara di Braganza: 472 Maria-Cristina d’Asburgo Lorena: 4 Marini Biagio: 18 Marks G.W.: 119 Marliave Joseph de: 447 Marmion Columba Dom: 351 Marmontel Antoine-Franc¸ois: 3, 8, 155, 577 Marnat Marcel: 444 Marot Clement: 442 Marpurg Friedrich Wilhelm: 19, 33 Marschner Heinrich August: 120, 124, 488, 527528 Martin Frank: 331-332 Martini Giovanni Battista: 17, 19, 34 Martinu˚ Bohuslav: 333-334, 575 Martucci Giuseppe: 163, 335-338, 406 Marx Adolph Bernhard: 282, 454 Marxsen Eduard: 118, 120-121, 123 Mascagni Pietro: 241, 432 Masoch Sacher: 449 Mason William: 33, 119, 121

Masselos William: 287 Massenet Jules: 5, 159, 208, 464 Massimiliano d’Asburgo, imperatore: 300 Massin Brigitte: 393, 501 Materassi Sandro: 200 Mathias Georges: 218, 227, 456, 588 Mauclair Camille: 445, 448 Maurras Charles: 219 Mayer Charles: 4, 118, 124 Mayer-Re´my Wilhelm: 139-140 Mayseder Joseph: 283 Mazzini Alessandro: 528 Meck Nadezˇda von: 202, 205 Mederitsch Johannes: 377 Medtner Nicolaj: 339-340, 358, 374, 419 Me´hul E´tienne Henri (Nicolas): 590 Mendelssohn Fanny: 19 Mendelssohn Mira: 423 Mendelssohn-Bartholdy Felix: 3, 19, 33, 40, 52, 64, 71, 80, 98, 121-125, 127, 132, 137-139, 160, 166, 176, 199, 212, 249, 257, 259, 262263, 274-275, 285, 299, 311, 322-323, 325, 328-329, 336, 341-349, 362, 374, 411, 436, 454, 503-505, 507, 513, 515, 527-528, 546, 564, 581, 587, 589 Mengelberg Willem: 57, 243 Menter Sophie: 155, 305 Me´reaux Ame´de´e de: 456 Merzhanov Victor: 423 Messager Andre´: 164-165, 232 Messiaen Olivier: 20, 34, 350-353, 557 Metternich, principe: 168 Meyer Charles: 519 Meyer Marcelle: 410 Meyerbeer Giacomo: 143, 189, 239, 307, 311, 322, 587 Meyerdorff, Olga von: 313 Michelangelo Buonarroti: 300 Mickiewicz Adam: 166-167 Middelschulte Wilhelm: 146 Mies Paul: 489 Mikuli Karl: 236 Mila Massimo: 112, 460, 572 Milhaud Darius: 354-356 Mjaskovskij Nikolaj Jakovlevicˇ : 292, 357-359, 417, 419 Moiseiwitsch Benno: 340 Molie`re (Poquelin Jean-Baptiste): 354 Mompou y Dencause Federico: 360-361 Mondrian Piet: 212 Monet Claude: 6, 327, 422 Money-Coutts Francis: 5 Montani Pietro: 162 Montesquieu (Charles-Louis de Secondat): 232 605

Indice dei nomi

Montigny-Re´maury Caroline: 464 Mo¨rike Eduard: 367 Morillo Roberto Garcı´a: 246 Mortier Gerard: 211 Moscheles Ignaz: 3, 8, 33, 52, 99, 106, 108, 118, 121, 125, 139, 148, 161, 168-169, 176, 180181, 184, 189, 191, 216-217, 222, 235, 262264, 304, 319-320, 341-342, 344, 348, 362-363, 395, 456, 472, 485, 497, 504, 520, 523-525, 581 Moses-Tobani The´odor: 203 Mossolov Alexander: 419 Moszkowski Moritz: 4-5, 144, 231, 336, 364-365, 411 Mottl Felix: 5, 165, 327, 428 Mozart Carl Thomas: 387 Mozart Leopold: 3, 72, 226, 238, 368-369, 379, 382, 385-386, 388-389, 585 Mozart Maria Anna Nannerl: 72, 226, 242, 379 Mozart Wolfgang Amadeus: 3, 13, 15, 17, 21, 36, 52, 68-69, 72-79, 83-85, 88-92, 95, 103-104, 106, 121-122, 124, 126, 128, 135, 137, 145, 148, 152, 165, 184, 186-188, 196, 198, 220222, 226, 235, 238, 242, 267-269, 272, 282284, 313-314, 322, 336, 343-344, 347, 363, 366-395, 408, 411, 429, 439-440, 452, 461, 463-464, 470, 479, 484, 487, 492, 495, 499500, 505, 513, 524, 550, 560, 564, 585, 587, 589 Mu¨ller August Eberhardt: 67, 374, 376, 389 Munch Charles: 448 Musorgskij Modest Petrovicˇ: 200, 218, 229, 303, 395-400, 432, 437, 461, 513, 551 Muzio Claudia: 80, 235 Nadal Rafael: 282 Napoleone Bonaparte: 220 Naumann Ernest: 119-120 Nectoux Jean-Michel: 231, 234 Neefe Christian Gottlob: 18, 81, 83, 87, 103 Neuhaus Henrik: 424, 573 Neumeyer Fritz: 39 Neupert Edmund: 264 Nevin Ethelbert: 203 Newman Ernest: 87 Newman William S.: 83 Ney Elly: 154 Nicola I di Russia: 483 Nielsen Carl: 401-402 Nietzsche Friedrich Wilhelm: 297 Nikolaev Leonid: 551, 555 Nikolaeva Tatiana: 556-557 Nin Joaquı´n: 259 Nohl Ludwig: 72 606

Nono Luigi: 403 Nuvolari Tazio: 282 Oborin Lev: 552, 554 Offenbach Jacques: 73, 221, 256, 365, 455, 463 Ogdon John: 548 Oginski Michal Kleofas: 173 Olivero´ Marı´a: 258 Ollmann Otakar: 333 Ormandy Eugene: 58, 286 Ornstein Leo: 419 Pabst Georg Wilhelm: 156, 324, 339 Pachelbel Johann: 44 Pacher-Koschak Marie: 483 Pacini Giovanni: 309 Paderewski Ignaz Jan: 60, 136, 138, 146-147, 173, 241, 265, 379, 428-429, 460-461, 573, 575 Pae¨r Ferdinando: 176 Paganini Niccolo` : 67, 121, 128-131, 146, 184, 200, 245, 275, 309, 319-322, 410, 434, 439, 449, 508-509, 523-525, 576, 588 Paisiello Giovanni: 104, 176, 283, 372, 392 Pa´lenicek Josef: 423 Palestrina Giovanni Pierluigi da: 304, 456 Palla´s Paulino: 257 Paradis Maria Theresia von: 372 Paradisi Pietro Domenico: 186, 471 Parini Giuseppe: 267 Parker Dorothy: 327 Pavlovicˇ Aleksej principe: 27 Payne Burney Sarah: 83 Pears Peter: 135 Pedrell Felipe: 257 Pe´ladan Josephin: 467 Pembaur Josef: 94 Pennauer Adolf: 496 Pergolesi Giovanni Battista: 252, 357, 546 Perlemuter Vlado: 443 Perrault Charles: 446 Pertl Anna Maria, Mozart: 226 Pestelli Giorgio: 470 Peters Carl Friedrich: 70, 263 Petersilea Carlyle: 110 Petrarca Francesco: 300 Petrassi Goffredo: 200, 404-405 Petri Egon: 529 Philipp Isidor: 8, 149, 569 Piaf E´dith: 411 Picasso Pablo: 227, 566 Pier di Cosimo: 162 Piero della Francesca: 240 Pietro I il Grande: 324 Pio IX, papa: 304

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Piringer Ferdinand: 83 Pitman Ambroise: 189, 471 Pixis Johann Peter: 183-184, 199 Pizzetti Ildebrando: 162-163, 328, 406-407 Plante´ Francis: 8, 130, 181, 347, 456 Platone: 299 Platti Giovanni Benedetto: 13 Pleskaja Nathalie: 155 Pletnev Mikhail: 156, 472 Pleyel Ignaz Joseph: 68, 582 Pleyel Marie: 310 Ployer Barbara: 372, 386 Podgaeski Alexandr: 541 Poe Edgar Allan: 208-209, 443 Pogorelich Ivo: 472 Poitevin Marie: 238, 240 Polgreen Bridgetower George Augustus: 96 Pollini Francesco: 108 Pollini Maurizio: 148, 216, 403, 472, 515, 521 Ponchielli Amilcare: 432 Poniatowski, principe: 202 Potter Cipriani: 370 Poulenc Francis: 165, 339, 354, 408-412, 419, 422, 569 Pourtale´s Hubert de, contessa: 583 Poussin Nciolas: 408 Principe Quirino: 34, 215, 268, 270, 298 Probst, editore: 499 Prokof’ev Sergej Sergeevicˇ: 55, 60, 63, 135, 144, 154-155, 241, 244, 278, 310, 340, 354, 356358, 396, 402, 404, 408-409, 411, 413-426, 428-429, 439-440, 448, 450, 535, 541, 544, 551-552, 554, 568, 575 Protagora: 299 Proust Marcel: 466 Prudent Emile: 124 Puaux Rene´: 214 Puccini Giacomo: 241, 408, 430-431 Pugno Raoul: 456 Pujol Juan Bautista: 257 Purcell Henry: 64, 527 Quantz Joachim: 592 Rachmaninov Sergej Vasil’evicˇ: 56, 60, 140, 142, 154, 156, 158, 161, 177, 181, 183, 203, 209, 212, 218, 231, 241-243, 245, 277, 289, 295, 297, 315, 322, 324, 328, 339-340, 358, 361, 364, 374, 399, 406, 413-416, 418-421, 428-439, 441, 445, 448, 451, 461, 508-509, 529, 532, 535, 538-540, 550, 563, 567, 571, 573, 575 Rackam Arthur: 213 Raff Joachim: 119, 130, 325, 584 Rainer Rilke Maria: 516

Rameau Jean-Philippe: 3, 159, 164, 205, 208-209, 219, 435-436, 443, 447, 456 Ramin Gu¨nther: 20 Rastelli Enrico: 217 Raupach Ernst: 368 Raupach Hermann: 226 Rauzzini Venanzio: 186 Ravel Maurice: 4, 6, 20, 36, 60, 135, 159-160, 163-165, 173, 181, 200-203, 207, 209, 213-214, 217-219, 227-229, 231, 241, 243-244, 257-258, 260-261, 264, 289, 324, 354, 399, 408, 416, 420, 428, 440-451, 458, 464, 482, 542, 567, 573-575 Rebikov Vladimir: 536 Redon Odilon: 211 Reger Max: 39-40, 70, 161, 218, 249, 289, 420, 435, 451-453, 563, 573 Reich Steve: 294 Reicha Antonin: 63, 67, 105-106, 298 Reichstadt, duca di: 168 Reinagle Alexander: 254 Reinecke Carl: 95, 130, 141, 143, 225, 262, 275, 289, 343, 515 Reiner Fritz: 65, 439 Reinken Adam Johann: 45-46 Reisenauer Alfred: 110, 529 Rendano Alfonso: 335 Rene´-Charles: 441 Respighi Ottorino: 328, 575 Reti Rudolf: 510 Reubke Julius: 324, 454, 537 Reznicek Franz von: 256 Rheinberger Joseph Gabriel: 40 Richter Ludwig: 508 Richter Nicolai: 566 Richter Sviatoslav: 35, 46, 135, 154, 156, 215, 224, 238, 264-267, 269, 279, 281, 308, 313, 317, 358, 408, 417, 421, 423-426, 439, 449, 462, 464, 497, 502, 505, 512-514, 517, 527, 540, 558, 589 Ridolini (Larry Semon): 268 Riemann Hugo: 13 Ries Ferdinand: 3, 68, 74, 88, 94, 98, 176, 395 Rieti Vittorio: 162 Righini Vincenzo: 103 Riley Terry: 294 Rimskij-Korsakov Nikolaj Andreevicˇ: 249, 397399, 415, 418, 435, 483, 554, 566 Risler douard: 165 Risler E´douard: 110, 234 Robert McLiam Wilson: 316 Robert-Houdin Jean Euge´n: 217, 322 Rochlitz Johann Friedrich: 586 Ro¨ckel Elisabeth: 71, 283 607

Indice dei nomi

Rodolfo d’Asburgo-Lorena, arciduca: 79-81, 98, 102, 363, 496-497 Roethke Theodor: 193 Roland-Manuel Alexis: 441-442, 444 Rolland Romain: 423 Rosbaud Hans: 57 Roseberry Eric: 553 Rosen Charles: 85-87 Rosenhain Jakob: 118 Rosenthal Moriz: 6, 54, 129, 440, 563 Roslavec Nicolaj: 419 Roslavets Nikolai: 536 Ro¨sler Josef: 73 Rossi Michelangelo: 64 Rossini Gioachino: 11, 173, 176, 190, 218, 268, 283, 298, 300, 309, 322, 363, 399-400, 455457, 490, 503, 576-577 Rostal Max: 63 Rostand Claude: 410-411 Rousseau Jean-Jacques: 164-165, 274, 579 Roussel Albert: 411, 458-459, 467 Rubini Giovanni Battista: 569 Rubinsˇtejn Anton: 4, 33, 53, 56, 57, 67, 84, 110, 137, 140-141, 143-144, 146, 152-154, 166, 218, 233, 246, 279, 324-325, 335-337, 339, 360, 395-397, 420, 434, 437, 452, 460-462, 535, 537, 551 Rubinstein Artur: 6, 228-230, 410-411, 414, 426, 439, 461, 500, 540, 544, 554, 566-567, 573, 575, 578-579 Rubinstein Nicolai: 53, 153-154 Rubinsˇtejn, fratelli: 235, 324 Rudneva Ljubov: 556 Rufer Josef: 475 Rumbeke Rosa Thiennes de: 392 Rummel Walter: 3, 110, 216 Rupp Siegfried: 416 Rust Wilhelm Friedrich: 194 Sabaneev Leonid Leonidovicˇ: 152, 414, 537 Sacchini Antonio: 102 Safonov Vasilij: 339, 532, 535, 537, 543 Saillot Fe´licite´: 238 Saint-Sae¨ ns Camille: 135, 159, 186, 190, 208, 216-217, 219, 239-240, 254, 257-258, 308, 433, 440-442, 448, 463-466, 529 Salieri Antonio: 73-74, 90, 105, 111, 221, 282283, 389, 391, 478 Salomon Johann Peter: 271, 282 Samazeuilh Gustave: 448, 450 Samuel Harold: 39 Sand George: 8, 166, 173, 178, 180, 183 Sandeau Jules: 263 Sanderson Germaine: 234 608

Sapelnikov Vasilij: 153, 317, 339 Sartori Luigi: 335 Satie Erik: 7, 202, 208, 227, 229, 240, 289, 328329, 347, 352, 361, 409-411, 442-443, 446, 455, 467-469, 566-567, 572 Sauer Emil von: 529 Sayn-Wittgenstein Elisabeth: 302 Scarlatti Alessandro: 190 Scarlatti Domenico: 3-4, 14, 16, 35, 41, 47, 118, 160, 171, 189, 227-229, 248, 259, 261, 336, 362, 383, 456, 470-472 Scarpini Pietro: 201 Sˇcˇerbacˇe¨v Nikolaj Vladimirovicˇ: 400 Schachter Johann Andreas: 366 Schack Benedikt: 394 Schalk Franz: 5 Schanz Johann: 271, 273 Scharwenka Franz Xaver: 4, 231, 337, 532 Schelling Ernest: 260 Schelling Friedrich: 260 Schenk Johann Baptist: 88, 188 Schenker Heinrich: 127, 438 Schiff Andra´s: 20-21, 267, 472 Schikaneder Emanuel: 394 Schiller Johann Christoph Friedrich von: 79, 137, 299, 303 Schinck Modezeitung W.: 490 Schindler Anton: 94, 102, 502 Schlegel Friedrich von: 348, 522 Schmitt Florent: 218 Schnabel Artur: 67, 267, 387, 478, 496-497, 560 Schneider Herbert: 80, 564 Schobert Johann: 226, 368 Scho¨nberg Arnold: 11, 49, 55, 63, 112-113, 116, 142, 145, 147, 157, 160-161, 200-201, 257, 260, 293, 298, 301, 331, 417, 420, 428, 447, 473-477, 536-537, 553, 565, 573, 591 Schopenauer Arthur: 179 Schott Betty: 583-584 Schreker Franz: 591 Schro¨ter Johann Samuel: 221, 235, 385 Schubart Christian Friedrich Daniel: 13 Schubert Ferdinand: 493 Schubert Franz: 3, 5, 8, 52, 71, 90-91, 102, 108109, 118, 120, 122, 126-127, 131, 152, 166, 169, 175, 179, 198-199, 218, 222, 225, 231, 251, 267, 272, 274, 301, 305, 308, 317, 322, 343, 347, 363, 381, 387, 390, 411, 423-424, 426, 433, 446, 451, 455, 468, 470, 478-503, 505, 509, 512, 514, 516, 518, 528, 563, 569, 581, 587, 589 Schulhoff Julis: 130 Schulz-Evler Adolf: 563 Schumann Clara: 546

Indice dei nomi

Schumann Eduard: 512 Schumann Elisabeth: 523 Schumann Eugenie: 130 Schumann Julia: 523 Schumann Marie: 128, 523 Schumann Robert: 3, 8-9, 39, 52-53, 56, 71, 81, 87, 96, 99, 103, 112, 114, 118-130, 133-134, 138-139, 152-156, 158, 166-167, 175, 179, 181, 184-185, 196, 199, 201, 206, 208-209, 212, 218-219, 225, 227-228, 232, 250, 253, 257, 259, 262, 264-265, 269, 272, 274-277, 280, 284-285, 289, 301, 305-306, 309, 312, 316-323, 340-342, 344, 347-348, 355, 357, 360, 362-363, 365, 374, 396-398, 401, 410, 413, 418, 420, 429, 437, 440-441, 444, 451-452, 456, 461, 463, 466, 471-472, 476, 480, 488, 495-499, 503-528, 531, 546, 555, 564, 574, 576-577, 589, 591 Schumann Teresa: 512 Schutoven Ludwig: 297 Schu¨tt Eduard: 551, 563 Schwarzenberg, principe: 168 Schwencke Friedrich Gottlieb: 18 Schwind Moritz von: 508 Segovia Andre´s: 162, 331 Sekerina Natalia: 537 Selva Blanche: 19 Serkin Rudolf: 148, 334, 452, 521 Serly Tibor: 58 Serpette Gaston: 208 Se´verac De´odat de: 7 Seyfried Ignaz von: 118 Sgambati Giovanni: 253, 335-337, 529-530 Shakespeare William: 94 Sibelius Jean: 327 Siciliano Enzo: 32 Siedentropf Henning: 294 Siloti Alexandr: 153, 155, 435 Silvestri Andrea: 23 Simrock Nikolaus: 94 Sinding Christian: 203 Singer Otto: 584 Sitsky Larry: 146, 149 Skolovsky Zodel: 354 Skrjabin Aleksandr Nikolaevicˇ: 6, 112, 156, 160, 166, 175, 181, 217, 219, 231, 233, 257, 260, 275, 291, 297, 324, 357-358, 361, 396, 416, 418-420, 428, 435, 531-544, 548, 566, 572-573 Smetana Bedrˇich: 289, 326, 545-547 Sofia Carlotta, regina: 15 Sofronickij Vladimir Vladimirovicˇ: 308 Sokolov Grigorij: 521 Soloveev Vladimir: 432 Solti Georg: 65

Somma Antonio: 133 Sorabji Kaikhosru Shapurji: 11, 87, 548-549 Sˇostakovicˇ Dmitrij: 118, 292, 356, 358, 374, 400, 411, 419, 423, 550-558 Sˇostakovicˇ Maxim: 558 Suvcˇinskij Peter: 423 Sowin´ski Jo´zef: 183 Spa¨th Franz Jakob: 366 Spita Philipp: 19 Spohr Louis: 583 Spontini Gaspare: 309 Stadion, conte: 198 Stadlen Peter: 592 Stadler Maximilian: 376-378, 386, 390 Stalin Iosif Vissarionovicˇ: 424, 426, 555-557 Stamaty Camille: 254, 463 Stasov Vladimir Vasilievicˇ: 399 Steibelt Daniel: 19, 78, 84, 86, 176, 235-236, 319, 504 Stein Andreas: 366-367 Steinberg William: 551 Stendhal (Beyle Marie-Henri): 268 Stenhammar von Wilhelm: 56 Steuermann Eduard: 477 Stich Wenzel: 96 Stiedry Fritz: 554 Stockhausen Karlheinz: 115-116, 557, 559-562 Stockhausen Majella: 561 Stokowski Leopold: 243, 286, 477 Stradal August: 34 Strauss Johann: 256, 479, 512, 563 Strauss Johann jr.: 208, 221, 256, 453, 563 Strauss Richard: 56, 144, 147, 160, 204, 249, 257, 297, 318, 327, 331, 426, 428, 448, 564-565 Stravinskij Igor’ Fe¨ dorovicˇ : 20, 57, 62-63, 65, 116, 157, 160-161, 198-199, 215, 229, 243, 249, 252, 308, 324, 329, 333, 354, 400, 408409, 411, 417, 419, 428-429, 438-440, 447, 450, 466, 468, 476, 553, 565-575, 579 Stravinskij Soulima: 569 Strindberg August: 501 Sue Euge`ne: 9 Su¨ssmayr Franz Xaver: 105, 111 Svevo Italo: 433, 437 Swieten Gottfried van: 375, 388 Sztompka Henryk: 552 Szymanowska Maria Agatha: 83, 171 Szymanowski Karol: 227, 260, 572-575 Tagliapietra Gino: 142 Taglioni Maria: 322 Takahashi Yurji: 40 Taneev Sergej: 152, 155, 324, 339, 437 Tasso Torquato: 326 609

Indice dei nomi

Tatum Art: 242 Tausig Carl: 44, 67, 128-130, 143-144, 249, 251, 260, 280, 434, 460, 471-472, 483, 487, 498, 563, 567, 584 Teichmu¨ller Robert: 268 Teleky Ladislaus, conte: 302 Telemann Georg Philipp: 19, 22, 31, 33-34 Teresa Maria, imperatrice: 268 Thalberg Sigismund: 19, 33, 52-53, 100, 118, 120, 137, 141, 148, 168, 184-185, 199, 235, 241, 253-254, 283, 310, 335-336, 347, 362, 431, 434, 461, 504, 524, 527, 545, 576-577 Theobald von Bethmann-Hollweg: 583 Theodor Carl: 582 Theodor Do¨hler: 168, 335 Thoma´n Istva´n: 56 Thomas Mann: 102-103 Thoreau Henry David: 286 Tiomkin Dmitri: 244 Tiutcˇev Fyodor: 432 Toesca Maurice: 351 Torelli Giuseppe: 31, 33, 44 Torrefranca Fausto: 13 Torres Jacinto: 4 Toscanini Arturo: 337, 424, 428, 553 Tovey Donald: 92, 146 Trago´ Jose´: 227 Tra¨ttner Johann Thomas von: 387 Trattner The´re`se von: 377 Tukhacˇevskij Mikhail: 555 Tureck Rosalyn: 39 Uhland Ludwig: 312-313 Unia Giuseppe: 529 Vanderbeck Friedric Eduard: 203 Vare`se Edgard: 65 Varian John: 194 Varzi Achille: 282 Vasari Giorgio: 162 Va´zquez Juan: 229 Vecsey Ferenc: 56 Vento Mattia: 186 Verdi Giuseppe: 133, 140, 191, 253, 261, 297, 304, 306, 311-312, 322, 326, 335, 338 Veress Sa´ndor: 302-303 Verlaine Paul: 164, 211 Vernet Horace: 6 Vessella Alessandro: 568 Vianna da Motta Jose´: 39 Vigano` Salvatore: 92 Villa-Lobos Heitor: 246-247, 578-580 Villoing Xavier: 235 Villon Franc¸ois: 215 610

Vincenzi Marco: 406 Vin˜es Ricardo: 228, 440, 444 Virgilio Publio Marone: 300, 589 Vitale Vincenzo: 441 Vittorio Emanuele II, re: 529 Vivaldi Antonio: 17-18, 29, 31, 33-34, 41, 470 Vogl Johann Michael: 497 Voigt Henriette: 509 Voltaire (Arouet Franc¸ois-Marie): 375 Vorˇı´sˇek Jan Va´clav: 581 Wagner Cosima: 583 Wagner Mathilde: 583 Wagner Ottilia: 582 Wagner Richard: 6, 19, 25, 116, 130, 134, 137, 139-140, 142, 158-160, 165, 210, 231-232, 239, 259, 262, 297-298, 311-312, 314, 317, 322, 326, 339, 346-347, 362, 365, 414, 428, 454, 466, 513-515, 529, 533, 582-584, 589 Waldstein Ferdinand Ernst Joseph Gabriel, conte: 96, 104 Walker Alan: 301, 313 Wallenrod Konrad: 167 Waller Fats: 242 Walter Bruno: 154, 429, 553 Watteau Antoine: 208, 409 Weber Carl Maria von: 3, 5, 68, 82, 102, 119121, 131, 137, 173, 178, 190, 251, 258, 274, 276-277, 283, 305, 309, 343-344, 362, 371, 374, 463, 465, 503, 525, 569, 576, 585-590 Weber Costanza: 73, 376, 386 Weber Franz Anton von: 3, 585 Webern Anton: 200, 331, 482, 591-592 Wedekind Frank: 501 Weingartner Felix: 337, 428 Weinlig Christian Theodor: 582 Weissenberg Alexis: 39, 527 Welin Karl-Erik: 294 Wenzel Ernst Ferdinand: 262 Wesendonck Mathilde: 134 Wesendonck Otto: 583-584 Whiteman Paul: 243 Widor Charles-Marie: 301 Wieck Friedrich: 262, 508, 510, 522, 525 Wieck Schumann Clara: 33, 110, 120-134, 137, 316-317, 498, 504, 507-517, 519, 521-527 Wieland Christoph Martin: 303 Wilde Earl: 312 Wilde Oscar: 525 Willmers Rudolf Heinrich: 118 Wilm Nicolai von: 551 Winkler Alexander: 417-418 Winter Peter: 105, 111 Wittgenstein Ludwig: 416

Indice dei nomi

Wittgenstein Paul: 278-279, 416, 448-449, 565 Wodehouse Artis: 242 Woelffl Joseph: 222 Wolff Christoph: 21-23, 26, 37, 43, 45 Wolff Ernst Wilhelm: 92 Wolff Pierre: 175 Wolfsohn Carl: 110 Wolfsohn Sigmund: 509 Wood Henry Sir: 135 Wranitzky Paul: 104, 115 Wroblenski Emil: 124 Wu¨rben von: 379 Wurmser Lucien: 446 Wu¨rth Carl: 119 Wyschnegradsky Ivan: 288 Yavorskij Boleslav: 553

Ysay¨e Euge`ne: 202 Yudina Maria: 556 Zacharias Christian: 472 Zaderatskij Vsevolod Petrovicˇ: 556 Zaleska Zofia: 190 Zˇdanov Andrej Aleksandrovic: 358, 556 Zecchi Carlo: 472 Zelter Carl: 341 Zichy Ge´za: 19, 58, 132 Zimerman Krystian: 265 Zimmerman Pierre: 8 Zimmermann Bernd Alois: 17, 32-33, 41 Zipoli Domenico: 64, 246-247 Zoschenko Mikhail: 556 Zverev Nicolai: 535

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Indice delle opere citate Le composizioni con titolo generico (sonata, concerto, ecc.) sono individuabili attraverso la numerazione, il numero d’opera, il numero di un catalogo, la tonalita`. In questo indice la tonalita` e` indicata soltanto quando mancano gli altri dati.

Albe´niz Isaac – Amalia op. 95: 4 – Azulejos: 7 – Canti di Spagna op. 232 (Preludio, Orientale, Sotto il palmizio, Cordoba, Seguidillas): 5 – Champagne (carte blanche): 4 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 78: 4 – Espan˜a op. 165 (Preludio, Tango, Malaguen˜a, Serenata, Capriccio catalano, Zortzico): 5 – Iberia (Evocacio´ n, El Puerto, El Corpus en Sevilla, Ronden˜a, Almeria, Triana, El Albaicin, El Polo, Lavapie´s, Malaga, Jerez, Eritan˜a): 6 – La Vega: 5 – Marcia Militare: 4 – Navarra: 7 – Pavana-Capriccio op. 12: 4 – Rapsodia spagnola per pianoforte e orchestra op. 70: 4 – Rico`rdati op. 96: 4 – Ricordi di viaggio op. 71 (Sul mare, Leggenda, Alborada, Nell’Alhambra, Porta di Terra, Rumori della caletta, Sulla spiaggia): 4 – Sette Studi nei toni naturali maggiori op. 65: 4 – Sonata n. 5 op. 82: 4 – Suite nello stile antico n. 3 senza numero d’opera: 4 – Suite nello stile antico op. 54: 4 – Suite nello stile antico op. 64: 4 – Suite spagnola n. 1 op. 47 (Asturias, Castiglia, Granada, Sevilla): 4 – Yvonne en visite: 7 Alkan Charles-Henri-Valentin Morhange detto – 25 Preludi op. 31: 11 – 48 Motivi op. 63: 11 – Bombardo-carillon per pianoforte con pedaliera, a quattro piedi soltanto: 12 – Canti, op. 38: 11 – Canti, op. 38 bis: 11 – Canti, op. 65: 11 – Canti, op. 67: 11 – Canti, op. 70: 11 – Capriccio alla soldatesca op. 50 n. 1: 11 – Dodici Studi nei toni maggiori op. 35: 9 612

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Dodici Studi nei toni minori op. 39: 9 Gli Omnibus op. 2: 9 Grande Sonata ‘‘Le Quattro Eta`’’ op. 33: 9 I Mesi. 12 Pezzi caratteristici op. 74: 11 La Ferrovia: 9 Palpitamento per pianoforte solo: 12 Ricordi. Tre Pezzi nel genere patetico op. 15 (Il Vento): 9 Schizzi: 11 Sonatina op. 61: 11 Tre Grandi Studi per le due mani separate e riunite: 9 Tre Studi di bravura (Scherzi) op. 16: 9 Variazioni su un tema di Steibelt op. 1: 9

Bach Carl Philipp Emanuel – 12 Variazioni sulla Follia di Spagna W 118,9: 14 – Concerto per clavicembalo, pianoforte e orchestra W 46: 13 – Concerto per clavicembalo, pianoforte, archi e due corni W 47: 13 – Fantasia in Do W 61,6: 14 – Solfeggio (Solfeggietto): 13 – Sonata in fa W 57,6: 14 – Sonata in La W 55,4: 14 – Sonata in mi W 59,1: 14 – Sonata in Sol W 55,6: 14 – Sonata in sol W 65,17: 14 – Sonate per conoscitori e amatori: 14 Bach Johann Christian – Sei Concerti per pianoforte e orchestra op. 1: 15 – Sei Concerti per pianoforte e orchestra op. 7: 15 – Sei Concerti per pianoforte e orchestra op. 13: 15 – Sei Sonate op. 5: 15 – Sei Sonate op. 17: 15 Bach Johann Sebastian L’Arte della Fuga (Die Kunst der Fuge): 21 Il Clavicembalo ben Temperato: 22

Indice delle opere citate

I Concerti – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto

Invenzioni e Sinfonie: 42 BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV BWV

592: 33 593: 33 594: 33 595: 33 596: 33 982: 33 983: 33 984: 33 985: 33 986: 33 987: 33 1052: 32 1053: 32 1054: 32 1055: 32 1056: 32 1057: 32 1058: 32 1059: 33 1060: 33 1061: 33 1062: 33 1063: 33 1064: 33 1065: 33

L’Esercizio per Tastiera (Clavieru¨bung) – Aria con diverse variazioni BWV 988 (Variazioni di Goldberg): 37 – Clavieru¨bung op. 1: 34 – Concerto nel gusto italiano BWV 971: 36 – Duetto BWV 802: 37 – Duetto BWV 803: 37 – Duetto BWV 804: 37 – Duetto BWV 805: 37 – Ouverture nello stile francese BWV 831: 36 – Partita n. 1 BWV 825: 34 – Partita n. 2 BWV 826: 35 – Partita n. 3 BWV 827: 35 – Partita n. 4 BWV 828: 35 – Partita n. 5 BWV 829: 35 – Partita n. 6 BWV 830: 35 Fantasie e Toccate – Fantasia BWV 906: 41 – Fantasia cromatica e fuga BWV 903: 40 – Fantasia e fuga BWV 904: 40 – Toccata BWV 910: 41 – Toccata BWV 911: 41 – Toccata BWV 912: 41 – Toccata BWV 913: 41 – Toccata BWV 914: 41 – Toccata BWV 915: 41 – Toccata BWV 916: 41

Pezzi diversi – Aria variata alla maniera italiana BWV 989: 44 – Capriccio in honorem Joh. Christoph Bachii Ohrdrufiensis BWV 993: 44 – Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo BWV 992: 43 – Quadernetto per tastiera per Wilhelm Friedemann Bach: 16 – Preludio, Fuga e Allegro BWV 998 per liuto o clavicembalo: 44 – Quadernetto per tastiera per Anna Magdalena Bach: 16 – Ricercare a tre dall’Offerta musicale: 44 Le Sonate – Adagio BWV 968: 46 – Fuga BWV 954: 45 – Pezzo BWV 967: 46 – Sonata BWV 963: 45 – Sonata BWV 964: 46 – Sonata BWV 997: 46 – Sonata in Do BWV 966: 45 – Sonata in la BWV 965: 45 Le Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite – Suite

inglese n. 1 BWV 806: 48, 49 inglese n. 2 BWV 807: 48, 49 inglese n. 3 BWV 808: 48, 49 inglese n. 4 BWV 809: 48, 49 inglese n. 5 BWV 810: 48, 49 inglese n. 6 BWV 811: 48, 49 francese n. 1 BWV 812: 46 francese n. 2 BWV 813: 46 francese n. 3 BWV 814: 46 francese n. 4 BWV 815: 46 francese n. 5 BWV 816: 46 francese n. 6 BWV 817: 46 BWV 818: 50 BWV 996: 50

Ba˛darzewska-Baranowska Tekla – La preghiera di una vergine: 51 Balakirev Milij Alekseevicˇ – Au jardin: 54 – Berceuse: 54 – Concerto n. 1 op. 1 per pianoforte e orchestra: 53 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra: 53 – Grande Fantasia su arie russe per pianoforte e orchestra op. 4: 53 – Improvviso su due Preludi di Chopin: 54 613

Indice delle opere citate

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Islamey, fantasia orientale: 53 L’allodola di Glinka: 54 La Fileuse: 54 Mazurca n. 4: 54 Reminiscenze dell’opera La vita per lo zar: 53 Sonata in si bemolle: 53

Barber Samuel Osborne – Ballata op. 46: 55 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 38: 55 – Due Interludi, Tre Schizzi, Qualche Canzone jazz, Dopo il concerto: 55 – Excursions op. 20: 55 – Notturno in La bemolle op. 33: 55 – Sonata in mi bemolle op. 26: 55 – Souvenirs op. 28: 55 Barto´k Be´la I Concerti – Concerto n. 1: 57 – Concerto n. 2: 57 – Concerto n. 3: 58 – Rapsodia op. 1: 57 – Scherzo (o Burlesca) op. 2: 57 Le opere per pianoforte – 15 Canti contadini ungheresi: 61 – All’aria aperta: 63 – Allegro barbaro: 60 – Danze popolari rumene: 61 – Dieci Pezzi facili: 59 – Due Danze rumene op. 8a: 60 – Due Elegie op. 8b: 59 – Improvvisazioni su canti contadini ungheresi op. 20: 62 – Marcia funebre dal poema sinfonico Kossuth: 58 – Melodie di canzoni natalizie rumene: 61 – Mikrokosmos: 64 – Nove Pezzi brevi: 64 – Per bambini: 59 – Quattordici Bagatelle op. 6: 59 – Quattro Nenie op. 9a: 59 – Quattro Pezzi: 58 – Rapsodia op. 1: 58 – Sette Schizzi op. 8b: 59 – Sonata: 62 – Sonata per due pianoforti, timpani e percussioni: 65 – Sonatina su melodie popolari rumene: 61 – Suite op. 14: 61 – Tre Burlesche op. 8c: 59 – Tre Canzoni popolari del distretto di Csik: 59 614

– Tre Rondo` su melodie popolari: 64 – Tre Studi op. 18: 62 – Variazioni in mi: 58 Beethoven Ludwig van Le Bagatelle – Allegretto in do WoO 53: 71 – Bagatella WoO 59: 71 – Bagatella n. 5 WoO 54: 72 – Bagatelle in do e in Mi bemolle: 72 – Bagatelle op. 33: 69 – Bagatelle op. 119: 70 – Bagatelle op. 126: 70 – Presto WoO 52: 71 I Concerti – Concerto WoO 4: 72 – Concerto op. 61: 80 – Concerto n. 1 op. 15: 78 – Concerto n. 2 op. 19: 77 – Concerto n. 3 op. 37: 78 – Concerto n. 4 op. 58: 79 – Concerto n. 5 op. 73: 80 – Fantasia per pianoforte, coro e orchestra op. 80: 80 – Rondo` WoO 6: 73 Rondo` e pezzi vari – Andante favorito WoO 57: 82 – Fantasia op. 77: 82 – Grande Fuga per pianoforte a quattro mani op. 134: 83 – Pezzo WoO 60: 82 – Pezzo WoO 61: 82 – Pezzo WoO 61a: 83 – Polacca op. 89: 82 – Preludi per pianoforte o organo op. 39: 82 – Preludio per pianoforte o organo WoO 55: 82 – Rondo` a capriccio op. 129: 81 – Rondo` op. 51 n. 1: 81 – Rondo` WoO 48: 81 – Rondo` WoO 49: 81 – Rondo` op. 51 n. 2: 81 – Scozzesi WoO 63: 83 – Tre Marce per pianoforte a quattro mani op. 45: 83 Le trentadue sonate – Sonata n. 1 op. 2 n. 1: 88 – Sonata n. 2 op. 2 n. 2: 88 – Sonata n. 3 op. 2 n. 3: 88 – Sonata n. 4 op. 7 ‘‘Grande Sonata’’: 89 – Sonata n. 5 op. 10 n. 1: 90 – Sonata n. 6 op. 10 n. 2: 90

Indice delle opere citate

– Sonata n. 7 op. 10 n. 3: 90 – Sonata n. 8 op. 13 ‘‘Grande Sonata Patetica’’: 91 – Sonata n. 9 op. 14 n. 1: 91 – Sonata n. 10 op. 14 n. 2: 91 – Sonata n. 11 op. 22: 91 – Sonata n. 12 op. 26: 92 – Sonata ‘‘quasi una Fantasia’’ n. 13 op. 27 n. 1: 92 – Sonata ‘‘quasi una Fantasia’’ n. 14 op. 27 n. 2 ‘‘Al chiaro di luna’’: 92 – Sonata n. 15 op. 28 ‘‘Pastorale’’: 93 – Sonata n. 16 op. 31 n. 1: 93 – Sonata n. 17 op. 31 n. 2 ‘‘Tempesta’’: 93 – Sonata n. 18 op. 31 n. 3 ‘‘La Caccia’’: 93 – Sonata ‘‘facile’’ n. 19 op. 49 n. 1: 95 – Sonata ‘‘facile’’ n. 20 op. 49 n. 2: 95 – Sonata n. 21 op. 53 ‘‘Waldstein’’: 96 – Sonata n. 22 op. 54: 96 – Sonata n. 23 op. 57 ‘‘Appassionata’’: 96 – Sonata n. 24 op. 78: 97 – Sonata n. 25 op. 79 (Sonatina): 97 – Sonata n. 26 op. 81 ‘‘Les Adieux’’: 98 – Sonata n. 27 op. 90: 98 – Sonata n. 28 op. 101: 99 – Sonata n. 29 op. 106 ‘‘Hammerklavier’’: 99 – Sonata n. 30 op. 109: 101 – Sonata n. 31 op. 110: 101 – Sonata n. 32 op. 111: 102 Le altre sonate – Sonatina in Fa: 88 – Sonatina in Sol: 88 – Sonate WoO 47: 87 – Sonata WoO 50: 88 – Sonata WoO 51: 88 – Sonata per pianoforte a quattro mani op. 6: 89 Le Variazioni – 5 Variazioni su Rule Britannia WoO 79: 107 – 6 Variazioni facili su un tema originale WoO 77: 105 – 6 Variazioni su un tema di Paisiello WoO 70: 104 – 6 Variazioni su un tema originale op. 34: 106 – 6 Variazioni su un tema originale op. 76: 108 – 6 Variazioni su ‘‘Ich denke dein’’ per pianoforte a quattro mani WoO 74: 105 – 7 Variazioni su God save the King WoO 78: 107 – 8 Variazioni su un tema del conte Waldstein per pianoforte a quattro mani WoO 67: 104

– 8 Variazioni su un tema di Gre´try WoO 72: 105 – 9 Variazioni su un tema di Paisiello WoO 69: 104 – 9 Variazioni su una marcia di Dressler WoO 63: 103 – 10 Variazioni su un tema di Salieri: 105 – 12 Variazioni su un tema di Haibel WoO 68: 104 – 12 Variazioni su un tema di Wranitzky WoO 71: 104 – 13 Variazioni su un tema di Dittersdorf WoO 66: 104 – 15 Variazioni su un tema originale op. 35: 106 – 24 Variazioni su un tema di Righini WoO 65: 103 – 32 Variazioni WoO 80: 107 – 33 Variazioni su un Valzer di Diabelli op. 120: 108 – Dieci temi variati op. 107: 108 – Sei temi variati op. 105: 108 – Variazioni su un’aria svizzera WoO 64: 104 Berg Alban – 12 Variazioni in Do su tema proprio: 112 – Concerto da camera per violino, pianoforte e tredici strumenti a fiato: 113 – Sette pezzi: 112 – Sonata op. 1: 112 – Tema in fa: 112 – Tema in la: 112 Berio Luciano – ‘‘Points on the Curve to Find...’’ per pianoforte e orchestra: 115 – Brin: 114 – Canzonetta: 115 – Cinque Variazioni: 114 – Concerto II-Echoing curves per pianoforte e orchestra: 115 – Concerto per due pianoforti e orchestra: 114 – Erdenklavier: 114 – Feuerklavier: 114 – Interlinea: 115 – Leaf: 114 – Linea per due pianoforti, vibrafono e marimba: 114 – Luftklavier: 114 – Pastorale: 114 – Piccola Suite: 114 – Rounds: 114 – Sequenza IV: 114 – Six Encores: 114 – Sonata: 115 615

Indice delle opere citate

– Toccata per pianoforte a quattro mani: 114 – Touch: 115 – Wasserklavier: 114

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Tema e variazioni in re: 127 Tre Intermezzi op. 117: 133 Variazioni su un tema di Paganini op. 35: 128 Variazioni su un tema di Schumann op. 9: 124

Bloch Ernest – Cinque Schizzi a seppia: 117 – Concerto grosso n. 1 per pianoforte e archi: 117 – Concerto sinfonico per pianoforte e orchestra: 117 – Danza sacra: 117 – Ex-voto: 117 – Nella notte: 117 – Nirvana: 117 – Pezzi infantili: 117 – Poemi del mare: 117 – Quattro Pezzi da circo: 117 – Scherzo fantastico per pianoforte e orchestra: 117 – Sonata: 117 – Visioni e Profezie: 117

Britten Benjamin – Ballata scozzese per due pianoforti e orchestra op. 26: 135 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 13: 135 – Diversions on a Theme per pianoforte (mano sinistra) e orchestra op. 21: 135 – Holiday Diary op. 5 (Bagno al mattino, In barca a vela, Luna park, Notte): 135 – Introduzione e Rondo` alla burlesca per due pianoforti op. 23 n. 1: 135 – Mazurca elegiaca per due pianoforti op. 23 n. 2: 135 – Night Piece: 136 – Valzer op. 3: 135

Brahms Johannes – 10 Variazioni su un tema di Schumann per pianoforte a quattro mani op. 23: 127 – 11 Variazioni sopra un tema originale op. 21 n. 1: 126 – 13 Variazioni sopra un tema ungherese op. 21 n. 2 : 126 – 16 Valzer op. 39: 130 – 25 Variazioni e fuga su un tema di Ha¨ndel op. 24: 127 – Ballate op. 10: 124 – Cadenze: 121 – Cinque Studi speciali: 121 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 15: 124 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 83: 132 – Danze ungheresi per pianoforte a quattro mani: 131 – Due Gavotte: 123 – Due Gighe: 123 – Due Rapsodie op. 79: 133 – Due Sarabande: 123 – Gavotta di Gluck: 123 – Otto Pezzi op. 76: 132 – Quattro Pezzi op. 119: 133 – Scherzo op. 4: 119 – Sei Pezzi op. 118: 133 – Sette Fantasie op. 116: 133 – Sonata n. 1 op. 1: 122 – Sonata n. 2 op. 2: 122 – Sonata n. 3 op. 5: 122

Busoni Ferruccio Benvenuto – 24 Preludi op. 37: 139 – An die Jugend: 145 – Berceuse (Elegie): 145 – Canti popolari finlandesi per pianoforte a quattro mani: 142 – Canzone in Do: 137 – Ciaccona: 143 – Cinque Pezzi op. 3: 138 – Concertino per pianoforte e orchestra op. 54: 148 – Concerto per pianoforte quartetto d’archi op. 17: 138 – Concerto per pianoforte, orchestra e coro maschile op. 39: 144 – Concerto-Fantasia per pianoforte e orchestra op. 29: 143 – Concertstu¨ ck per pianoforte e orchestra op. 31a: 144 – Diario indiano: 147 – Dieci Preludi-corali per organo: 143 – Dieci Variazioni su un Preludio di Chopin: 142 – Due Pezzi di danza: 144 – Due Pezzi op. 30a: 144 – Duettino concertante per due pianoforti: 148 – Elegie: 145 – Fantasia contrappuntistica: 146 – Fantasia contrappuntistica (edizione minore): 146 – Fantasia da camera sulla Carmen di Bizet: 148 – Fantasia da Johann Sebastian Bach: 145

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Indice delle opere citate

– Fantasia e fuga sul corale ‘‘Ad nos, ad salutarem undam’’ dal Profeta di Meyerbeer: 143 – Fantasia in fa per un organo meccanico: 148 – Fantasia indiana per pianoforte e orchestra op. 44: 147 – Fantasia sopra motivi del ‘‘Barbiere di Bagdad’’: 142 – Fuga sul canto popolare ‘‘O, du mein lieber Augustin’’: 142 – Grande Fuga: 146 – Improvvisazione sul Corale di Bach ‘‘Wie wohl ist mir, o Freund der Seelen’’ per due pianoforti: 147 – Introduzione e Scherzo per pianoforte e orchestra: 140 – Klavieru¨bung: 149 – Macchiette medievali op. 33: 139 – Marcia funebre di Sigfrido dal ‘‘Crepuscolo degli dei’’: 141 – Merlino. Trascrizione da concerto: 142 – Minuetto op. 10 n. 1: 138 – Minuetto op. 14: 138 – Notte di Natale: Schizzo: 145 – Ouverture dell’opera ‘‘Il Flauto magico’’ per due pianoforti: 148 – Perpetuum mobile: 148 – Preludio e fuga BWV 332: 142 – Preludio e Studio: 148 – Quarta Scena di ballo (Valzer e Galop): 144 – Racconti fantastici op. 12: 139 – Rapsodia spagnola per pianoforte e orchestra: 143 – Romanza e Scherzoso per pianoforte e orchestra: 148 – Romanza senza parole in do: 137 – Scena di ballo n. 4 in forma di valzer da concerto op. 33a: 144 – Scena di ballo op. 6: 141 – Scherzo op. 8 in Mi: 138 – Seconda Scena di ballo op. 20: 142 – Sei Pezzi op. 33b: 144 – Sei Studi op. 16: 141 – Sette Pezzi brevi per lo studio dello stile polifonico: 149 – Sonata op. 7: 138 – Sonata op. 20: 140 – Sonata op. 49: 139 – Sonata op. 9: 138 – Sonata in Re: 138 – Sonata op. 8: 138 – Sonatina ad usum infantis Madeline Americanae pro clavicimbalo composita: 147 – Sonatina brevis in signo Johannis Sebastiani Magni: 148

– Sonatina in diem nativitatis Christi MCMXVII: 148 – Sonatina n. 1: 147 – Sonatina Seconda: 147 – Studio in forma di variazioni op. 17: 141 – Suite campestre op. 18: 138 – Toccata: 148 – Tre Fogli d’album: 148 – Una festa al villaggio op. 9: 139 – Variazioni e fuga in forma libera sul Preludio in do minore di Chopin op. 22: 141 – Variazioni sulle Variazioni di Siegfried Ochs sulla canzone ‘‘Viene volando un uccello’’: 142 – Veloce e leggero (senza titolo): 149 Cage John – A Valentine out of the season: 150 – Baccanale: 150 – Concerto per pianoforte e orchestra: 150 – Concerto per pianoforte preparato e orchestra da camera: 150 – Due per due pianoforti: 151 – Libro di musica: 151 – Music of Changes: 150 – Musica per due per due pianoforti: 151 – Solo: 150 – Sonate e Interludi: 150 – Studi australi: 151 – The Perilious Night: 150 – Tre Danze: 151 Cˇajkovskij Pe¨tr Il’ic – Album per bambini op. 39 (Preghiera del mattino, In chiesa, La bambola malata, Sepoltura della bambola, La nuova bambola, Aria di danza napoletana, Canzone italiana): 155 – Andante e Finale per pianoforte e archi 79 opera postuma: 155 – Cinquanta canti popolari russi: 155 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 23: 153 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 44: 155 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra opera postuma 75: 155 – Diciotto Pezzi op. 72 (Improvviso, Berceuse, Il Monello, Un poco di Chopin, Meditazione, Un poco di Schumann): 156 – Dodici Pezzi di media difficolta` op. 40: 155 – Due Pezzi op. 10: 152 – Dumka op. 59: 155 – Fantasia da concerto per pianoforte e orchestra op. 56: 155 – Le Stagioni op. 37bis: 153 617

Indice delle opere citate

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Ricordo di Hapsal op. 2: 152 Romanza op. 5: 152 Scherzo alla russa e Improvviso op. 1: 152 Sei Pezzi op. 19 (Scherzo umoristico, Tema con variazioni): 152 Sei Pezzi op. 51 (Valzer di Natalia): 155 Sei Pezzi sullo stesso tema op. 21 (Preludio, Fuga a quattro voci, Improvviso, Marcia funebre, Mazurca, Scherzo): 153 Sonata opera postuma 80: 152 Sonata op. 37: 153 Umoresca: 152

Carter Elliott – 90+: 158 – Catenaires: 158 – Concerto per pianoforte e orchestra: 157 – Dialoghi: 158 – Due Diversioni: 158 – Intermittenze: 158 – Intervenzioni: 158 – Night Fantasies: 157 – Sonata: 157 Casella Alfredo – A notte alta per pianoforte e orchestra op. 30: 160 – Alla maniera di... op. 17: 160 – Alla maniera di... op. 17 bis: 160 – Barcarola op. 15: 160 – Berceuse triste op. 14: 160 – Cocktail-dance: 160 – Due Canzoni italiane op. 47: 161 – Due Contrasti op. 31: 160 – Due Ricercari sul nome BACH op. 52: 161 – Inezie op. 32: 160 – Notturnino: 160 – Nove Pezzi op. 24: 160 – Pagine di guerra per pianoforte a quattro mani op. 25: 160 – Partita per pianoforte e orchestra op. 42: 160 – Pavana op. 1: 159 – Preludio, Valzer e Ragtime per pianoforte riproduttore op. 33: 160 – Pupazzetti per pianoforte a quattro mani op. 27: 160 – Ricercare sul nome Guido M. Gatti: 161 – Sarabanda op. 10: 160 – Scarlattiana, divertimento su temi di Domenico Scarlatti per pianoforte e piccola orchestra op. 44: 160 – Sei Studi op. 70: 161 – Sinfonia, Arioso e Toccata op. 59: 161 – Sonatina op. 28: 160 618

– Toccata op. 6: 159 – Undici Pezzi infantili op. 35: 160 – Variazioni su una Ciaccona op. 3: 159 Castelnuovo-Tedesco Mario – Alghe op. 12: 162 – Alt-Wien, Rapsodia viennese op. 30: 162 – Cantico op. 19: 162 – Cipressi op. 17: 162 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 46: 163 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 92: 163 – Epigrafe op. 25: 162 – Evangelion, la storia di Gesu` narrata ai fanciulli in 24 piccoli pezzi op. 141: 162 – Fantasia e fuga sul nome di I. Pizzetti op. 63: 163 – I Naviganti op. 13: 162 – Il raggio verde op. 9: 162 – Le Danze del Re David, Rapsodia ebraica op. 35: 162 – Onde: 163 – Passatempi op. 54: 163 – Piedigrotta, Rapsodia napoletana op. 32: 162 – La sirenetta e il pesce turchino op. 18: 162 – Sonata op. 51: 163 – Sonatina zoologica op. 187: 163 – Stagioni op. 33: 162 – Suite inglese: 162 – Vitalba e Biancospino op. 21: 162 Chabrier Alexis-Emmanuel – Bourre´e fantasque: 165 – Cinque Pezzi: 165 – Corte` ge burlesque per pianoforte a quattro mani: 164 – Dieci Pezzi pittoreschi: 164 – Improvviso in Do: 164 – Joyeuse marche per pianoforte a quattro mani: 165 – Ricordi di Monaco per pianoforte a quattro mani: 165 – Souvenirs de Brunehaut: 164 – Suite de Valses: 164 – Tre Valzer romantici per due pianoforti: 164 Chopin Fryderyk Le Ballate – Ballata – Ballata – Ballata – Ballata

op. op. op. op.

23: 38: 47: 52:

167 167 167 167

Indice delle opere citate

I Concerti – Allegro da concerto per pianoforte solo op. 46: 169 – Concerto op. 11: 169 – Concerto op. 21: 168 Gli – – – –

Improvvisi Improvviso Improvviso Improvviso Improvviso

op. op. op. op.

29: 36: 51: 66:

169 169 169 169

Le Mazurche – Bolero op. 19: 171 – Mazurca in Re: 170 – Mazurche op. 6: 171 – Mazurche op. 7: 171 – Mazurche op. 17: 171 – Mazurca op. 17 n. 4: 170 – Mazurche op. 24: 171 – Mazurche op. 30: 171 – Mazurche op. 33: 171 – Mazurche op. 41: 171 – Mazurche op. 50: 171 – Mazurche op. 56: 171 – Mazurca op. 56 n. 2: 170 – Mazurche op. 59: 171 – Mazurca op. 68 n. 2: 170 – Mazurca op. 68 n. 3: 170 – Mazurca op. 68 n. 4: 170 – Mazurche op. 63: 171 – Scozzesi op. 72 n. 3: 171 – Tarantella op. 43: 171 I Notturni – Barcarola op. 60: 172 – Lento con gran espressione: 172 – Notturni op. 9: 172 – Notturni op. 15: 172 – Notturni op. 27: 172 – Notturni op. 32: 172 – Notturni op. 37: 172 – Notturni op. 48: 172 – Notturni op. 55: 172 – Notturni op. 62: 172 – Notturno op. 72: 172 Le Polacche – Andante spianato in Sol: 173 – Grande Polacca brillante per pianoforte e orchestra op. 22: 173 – Polacca in La bemolle: 173 – Polacca in Si bemolle: 173 – Polacca in sol: 173 – Polacca in sol diesis: 173 – Polacche op. 26: 173

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Polacche op. 40: 173 Polacca op. 44: 174 Polacca op. 53: 174 Polacca-Fantasia op. 61: 174 Polacca op. 71 n. 1: 173 Polacca op. 71 n. 2: 173 Polacca op. 71 n. 3: 173

I Preludi – Preludi op. 28: 174 – Preludio op. 45: 175 – Preludio in La bemolle: 175 I Rondo` – Krakowiak. Grande Rondo` da concerto per pianoforte e orchestra op. 14: 176 – Rondo a` la Mazur op. 5: 176 – Rondo` op. 1: 176 – Rondo` op. 16: 176 – Rondo` op. 73: 176 Gli – – – –

Scherzi Scherzo op. 20: 177 Scherzo op. 31: 177 Scherzi op. 39: 177 Scherzo op. 54: 178

Le Sonate – Sonata op. 4: 178 – Sonata op. 35: 178 – Sonata op. 58: 179 Gli – – –

Studi Studi op. 10: 182 Studio op. 25: 182 Tre Nuovi Studi: 182

I Valzer – Valzer – Valzer – Valzer – Valzer – Valzer – Valzer – Valzer

in Mi bemolle: 182 op. 18: 183 op. 34: 183 op. 42: 183 op. 64: 183 op. 69 n. 1: 182 op. 70 n. 3: 182

Le Variazioni e le Fantasie – Berceuse op. 57: 184 – Fantasia op. 49: 185 – Grande Fantasia su arie nazionali polacche per pianoforte e orchestra op. 13: 184 – He´xameron: 184 – Souvenir de Paganini: 184 – Variazioni brillanti sul rondo` favorito ‘‘Io vendo gli scapolari’’ del ‘‘Ludovic’’ di He´rold e Hale´vy op. 12: 183 – Variazioni su un tema di Mozart per pianoforte e orchestra op. 2: 184 619

Indice delle opere citate

– Variazioni su un’aria nazionale tedesca in Mi: 183 Clementi Muzio Le opere didattiche – Armonia pratica: 190 – Capolavori di Scarlatti: 189 – Gradus ad Parnassum: 190 – Introduzione all’arte di suonare il pianoforte: 189 – Preludi ed Esercizi: 190 – Sonatine op. 36: 190 Le Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonata – Sonata – Sonata – Sonate – Sonate – Sonata – Sonata – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonate – Sonata – Sonate – Sonate

senza numero d’opera: 186 op. 1: 186 op. 2: 186 op. 7,: 187 op. 8: 187 op. 9: 187 op. 10: 187 op. 11: 187 op. 12: 187 op. 13: 187 op. 16: 187 op. 20: 187 op. 21: 187 op. 22: 187 op. 23: 187 op. 24: 187 op. 25: 187 op. 34: 188 op. 33: 188 op. 37: 188 op. 46: 189 op. 40: 188 op. 50: 189

Copland Aaron – Billy the Kid: 193 – Concerto per pianoforte e orchestra: 192 – Danza dell’adolescente: 193 – Danza di Jalisco: 193 – El Salo´n Me´xico: 193 – Fantasia: 192 – Giovani pionieri: 192 – Lungo un sentiero di campagna: 193 – Melodia sentimentale: 192 – Musica della domenica: 192 – Nell’aria della sera: 193 – Notturno di mezza estate: 192 – Passacaglia: 192 – Pensieri della notte: 193 – Pensieri di mezzogiorno: 193 620

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Piccolo Ritratto: 192 Proclamazione: 193 Quattro Blues: 192 Scherzo umoristico: 192 Sonata: 192 Tre Schizzi: 192 Variazioni: 192

Cowell Henry – Aeolian Harp - The Banshee: 194 – Concerto per pianoforte e orchestra: 195 – Episode: 195 – Exaltation - The Snows of Fujiyama - The Harp of Life: 194 – Nine Ings: 195 – Piece for piano with strings – The Fairy Bells: 195 – Rhytmicana: 195 – The Lilt of the Reel: 195 – The Tides of Manaunaun: 194 – Tiger: 195 Cramer Johann Baptist – Concerto per pianoforte e orchestra op. 70: 196 – Sonata op. 53 (L’Ultima): 196 – Sonata op. 62 (Il Ritorno a Londra): 196 – Sonata op. 74 (Il Mezzo): 196 – Sonate op. 57, 58 e 59 (Le Seguenti): 196 – Studi: 196 Czerny Carl – Concerto per pianoforte a quattro mani e orchestra op. 153: 199 – Grande Sonata brillante per pianoforte a quattro mani op. 10: 199 – L’arte di rendere agili le dita op. 740: 199 – Ouverture caratteristica e brillante per pianoforte e quattro mani op. 54: 199 – Scuola del legato e dello staccato op. 335: 199 – Scuola della velocita` op. 299: 199 – Sonata op. 7: 199 – Toccata op. 92: 199 – Valzer di bravura op. 35: 199 – Variazioni su un Valzer bellissimo op. 12: 199 – Variazioni sulla Ricordanza di Rode op. 33: 199 Dallapiccola Luigi – Musica per tre pianoforti (Inni): 200 – Piccolo Concerto per Muriel Couvreux per pianoforte e orchestra da camera: 200 – Quaderno musicale di Annalibera: 201

Indice delle opere citate

– Sonatina canonica su ‘‘Capricci’’ di Niccolo` Paganini: 200 – Tre Episodi del balletto ‘‘Marsia’’: 200 Debussy Achille-Claude – 12 Studi: 216 – Ballata slava (Ballata): 203 – Berceuse he´roı¨que: 215 – Children’s Corner (Doctor Gradus ad Parnassum, Jimbo’s Lullaby, Serenade for the doll, Snow is dancing, The little Shepherd, Golliwoog’s cake-walk): 210 – Da un quaderno di schizzi: 207 – Danza boema: 202 – Due Arabesche: 203 – Due Danze: 208 – Elegia: 215 – En blanc et noir per due pianoforti: 215 – Fantasia in Sol per pianoforte e orchestra: 203 – Immagini (Riflessi nell’acqua, Omaggio a Rameau, Movimento, Campane attraverso le foglie, E la luna discende sul tempio che fu, Pesci d’oro): 208 – Immagini dimenticate: 202 – L’isola giocosa: 207 – La Boıˆte a` joujoux: 215 – La plus que lente: 215 – Le sere illuminate dai carboni ardenti: 217 – Lindaraja per due pianoforti: 206 – Maschere: 207 – Mazurca: 203 – Notturno: 203 – Omaggio a Haydn: 215 – Pezzo da concorso: 208 – Piccola Suite per pianoforte a quattro mani: 205 – Pour l’Oeuvre du ‘‘Veˆtement du blesse´’’: 215 – Pour le piano: 205 – Preludi: 210 – Reˆverie: 20 – Six E´ pigraphes Antiques per pianoforte a quattro mani: 215 – Stampe (Pagode, Sera a Granada, Giardini sotto la pioggia): 207 – Suite bergamasca: 206 – Tarantella stiriana: 203 – The Little Nigar: 210 – Valzer romantico: 203 Dukas Paul – Il pianto, lontano, del fauno: 219 – Preludio elegiaco: 219 – Sonata in mi bemolle: 218

– Variazioni, Interludio e Finale su un tema di Rameau: 219 Dussek Jan Ladislav – Concerto per pianoforte e orchestra op. 17: 221 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 22: 221 – Dodici Studi melodici op. 16: 223 – Elegia armonica sulla morte di Sua Altezza il Principe Louis Ferdinand di Prussia op. 61: 222 – Gran Concerto per pianoforte e orchestra op. 49: 221 – Grande Concerto militare per pianoforte e orchestra op. 40: 221 – Il ritorno a Parigi op. 64: 222 – L’Invocazione op. 77: 222 – La Battaglia navale e totale disfatta della grande flotta olandese per opera dell’ammiraglio Duncan l’11 ottobre 1797: 223 – Le sofferenze della Regina di Francia: 223 – Nuova Grande Sonata per Piano Forte composta e dedicata al suo amico Muzio Clementi ‘‘L’Addio’’ op. 44: 222 – Sei Sonatine op. 20: 223 – Sonata op. 5 n. 3: 221 – Sonata op. 24: 221 – Sonata op. 25 n. 2: 221 – Sonata op. 31 n. 2: 221 – Sonata op. 43: 222 – Sonata op. 69 n. 3: 222 – Sonata op. 75: 222 – Sonate op. 47: 222 – Tre Sonate op. 9: 221 – Tre Sonate op. 10: 221 – Tre Sonate op. 14: 221 – Tre Sonate op. 35: 221 – Tre Sonate op. 39: 222 – Tre Sonate op. 45: 222 Dvorˇa´k Antonı´n – Concerto per pianoforte e orchestra op. 33: 224 – Dalle foreste boeme op. 68.: 225 – Danze slave per pianoforte a quattro mani op. 46 e op. 72: 224 – Leggende per pianoforte a quattro mani op. 48: 224 – Otto Umoresche op. 101: 225 – Suite op. 98: 225 – Tema e variazioni op. 36: 225 – Valzer op. 54: 225 621

Indice delle opere citate

Eckard Johann Gottfried – Due Sonate op. 2: 226 – Sei Sonate op. 1: 226 – Variazioni su un’aria dei Misteri di Iside: 226 – Variazioni su un’aria del Don Giovanni: 226 – Variazioni sul Minuetto di Exaudet: 226 Falla Manuel de – Allegro da concerto: 227 – Canto dei battelieri del Volga: 229 – Canzone: 227 – Concerto per clavicembalo (o pianoforte) e cinque strumenti: 229 – Corteggio di gnomi: 227 – Danza rituale del fuoco: 230 – Fantasia baetica: 228 – Il Tricorno: 230 – Mazurca: 227 – Notti nei giardini di Spagna per pianoforte e orchestra: 228 – Notturno: 227 – Per la tomba di Debussy: 229 – Per la tomba di Paul Dukas: 229 – Quattro Pezzi spagnoli (Aragonesa, Cubana, Montan˜esa, Andaluza): 227 – Serenata: 227 – Serenata andalusa: 227 – Valzer-capriccio: 227 Faure´ Gabriel-Urbain – Ballata op. 19: 231 – Barcarola op. 26: 232 – Barcarola op. 41: 232 – Barcarola op. 42: 232 – Barcarola op. 44: 232 – Barcarola op. 66: 233 – Barcarola op. 98: 233 – Barcarola op. 90: 233 – Barcarola op. 101: 233 – Barcarola op. 104: 233 – Barcarola op. 105: 233 – Barcarola op. 106 bis: 233 – Barcarola op. 116: 233 – Dolly per pianoforte a quattro mani op. 56: 232 – Fantasia per pianoforte e orchestra op. 111: 234 – Improvviso op. 31: 232 – Improvviso op. 25: 232 – Improvviso op. 91: 233 – Improvviso op. 102: 233 – Mazurca op. 32: 232 – Notturno op. 36: 232 – Notturno op. 37: 232 622

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Notturni op. 33: 232 Notturno op. 84 n. 8: 233 Notturno op. 97: 233 Notturno op. 99: 233 Notturno op. 104: 233 Notturno op. 107: 233 Notturno op. 119: 233 Nove Preludi op. 103: 233 Otto Pezzi brevi op. 84: 233 Pavana op. 50: 232 Souvernirs de Bayreuth per pianoforte a quattro mani: 232 Tema con variazioni op. 74: 232 Tre Romanze senza parole op. 17: 231 Valzer-Capriccio op. 30: 232 Valzer-Capriccio op. 38: 232 Valzer-Capriccio op. 59: 232 Valzer-Capriccio op. 62: 233

Field John – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra: 235 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra: 235 – Concerto n. 5 (L’incendio nella tempesta) per pianoforte e orchestra: 236 – Concerto n. 7 per pianoforte e orchestra: 236 – Notturno n. 5: 236 – Notturno n. 11: 236 – Notturno n. 13 (Reˆverie-Nocturne): 236 – Sonata in Si bemolle: 236 – Sonate op. 1: 236 Franck Ce´sar – Ballata op. 9: 238 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 11: 238 – Danza lenta: 240 – Due Melodie: 238 – Fantasia n. 1 su ‘‘Gulistan’’ op. 11: 238 – Fantasia n. 2 su ‘‘Gulistan’’ op. 12: 238 – Fantasia su due arie polacche op. 15: 238 – I Pianti della bambola: 238 – Les Djinns per pianoforte e orchestra: 238 – Preludio, Aria e finale: 238 – Preludio, Corale e Fuga: 238 – Primo Gran Capriccio op. 5: 238 – Sonata n. 1 op. 10: 238 – Sonata n. 2 op. 18: 238 – Variazioni brillanti per pianoforte e orchestra op. 5: 238 – Variazioni brillanti per pianoforte e orchestra op. 8: 238 – Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra: 238

Indice delle opere citate

Gershwin George – 3 Preludi: 242 – Concerto in Fa per pianoforte e orchestra: 243 – Gershwin’s Improvisations, 1987: 242 – Looking for a boy: 242 – May-be: 242 – Rapsodia in blu per pianoforte e orchestra: 243 – Seconda Rapsodia per pianoforte e orchestra: 244 – Song Book (Libro delle Canzoni, 1932): 242 – Sweet and low-down: 242 – Variazioni su I Got Rhythm per pianoforte e orchestra: 245 Ginastera Alberto – Concerto argentino per pianoforte e orchestra: 246 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 28 (1961): 246 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 39: 246 – Danze argentine op. 2: 246 – Malambo op. 7: 246 – Preludi americani op. 12: 246 – Rondo` su temi infantili argentini op. 19: 246 – Sonata n. 1 op. 22: 246 – Sonata n. 2 op. 53: 247 – Sonata n. 3 op. 55: 247 – Suite di danze criollas op. 15: 246 – Toccata: 246 – Tre Pezzi op. 6: 246 Giustini Lodovico – Sonate da cimbalo di piano e forte detto volgarmente di martelletti op. 1: 248 Glazunov Aleksandr – Barcarola sui tasti neri: 249 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 92: 250 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 100: 250 – Idillio op. 103: 250 – Preludi e fuga op. 101: 249 – Preludio e Due Mazurche op. 25: 249 – Preludio e fuga in mi: 250 – Preludio e fuga in re op. 62: 249 – Sonata op. 74: 249 – Sonata op. 75: 249 – Suite sul tema SASCHA op. 2: 249 – Tema e variazioni op. 72: 249 – Tre Studi op. 31: 249 – Valzer sul tema SABELA op. 23: 249

Godowsky Leopold – 53 Studi sopra gli Studi di Chopin: 251 – Passacaglia in si: 251 – Sonata in mi: 251 – Suite Giava: 251 Golinelli Stefano – Don Carlo di Verdi. Pianisteria di S. Golinelli op. 199: 253 – Due Studi op. 47: 253 – Preludi op. 23: 253 – Preludi op. 69: 253 – Preludi op. 171: 253 – Sonata op. 30: 253 – Sonata op. 53: 253 – Sonata op. 54: 253 – Sonata op. 70: 253 – Sonata op. 140: 253 – Studio in Do: 253 – Studi op. 15: 253 Gottschalk Louis Moreau – Bamboula: 254 – Concerto in fa per pianoforte e orchestra: 256 – Gran Tarantella per pianoforte e orchestra: 256 – Grande Fantasia Trionfale sull’Inno Nazionale Brasiliano: 255 – La Gallina: 255 – La Savane: 254 – Le Bananier: 254 – Manchega: 255 – Morte! Lamentation: 254 – Ojos criollos: 255 – Pasquinade: 255 – Souvenir d’Andalousie: 254 – Souvenir de Puerto Rico. Marche des Gibaros: 255 – The Banjo: 255 – The Dying Poet: 255 – The Last Hope. Meditation: 255 – The Union: 255 Granados Enrique – Allegro da concerto: 259 – Bozzetti: 259 – Carezza: 258 – Clotilde: 258 – Danze spagnole (Galante, Orientale, Fandango, Villanesca, Andalusa): 257 – Elvira: 258 – Goyescas (Los requiebros, Coloquio en la reja, El Fandango da Candil, Queias o´ la Maja y el 623

Indice delle opere citate

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Ruisen˜or, El Amor y la Muerte, Serenata del espectro, El Pelele): 259 Lettere amorose: 257 Libro delle ore: 259 Mazurca alla polacca: 258 Minuetto della felicita`: 258 Moresca (dedicata a sua madre): 258 Racconti per la gioventu`: 259 Scene poetiche: 259 Scene romantiche (Mazurca, Recitativo, Ninna-nanna, Lento con estasi, Allegretto, Allegro appassionato, Epilogo, Andante spianato con esaltazione poetica): 258 Sei Pezzi sopra canti popolari spagnoli (Zapateado): 258 Sei Studi espressivi: 259 Soldati di cartone: 259 Valzer amorosi: 257 Valzer poetici: 258

Grieg Edvard – Agitato: 262 – Ballata in forma di variazioni su un canto popolare norvegese op. 24: 264 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 16: 264 – Dai tempi di Holberg op. 40: 264 – Danze e canti norvegesi op. 17: 264 – Danze paesane norvegesi op. 72: 264 – Diciannove Melodie popolari norvegesi op. 66: 264 – Immagini poetiche op. 3: 262 – Impressioni op. 73: 264 – Pezzi lirici op. 12: 263 – Quattro Pezzi op. 1: 262 – Sei Melodie montanare norvegesi: 264 – Sonata op. 7: 262 – Tre Pezzi: 262 – Umoresche op. 6: 262 Ha¨ndel Georg Friedrich – Ciaccona in Sol: 266 – Concerto in Re: 268 – Il fabbro armonioso: 266 – Passacaglia in sol: 266 – Suite n. 2: 266 Haydn Joseph Franz I Concerti: 268 Le Sonate – Andante con variazioni in fa-Fa: 273 – Fantasia in Do: 273 – Sonata (Divertimento) H 19: 269 624

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Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata Sonata

(Divertimento) n. 31 H 46: 269 (Divertimento) n. 32 H 44: 269 n. 33 H 20: 270 n. 38 H 23: 270 n. 47 H 32: 270 n. 49 H 36: 270 n. 50 H 37: 270 n. 52 H 34: 270 n. 54 H 40: 271 n. 58 H 48: 271 n. 59 H 49: 271 n. 60 H 50: 272 n. 61 H 51: 272 n. 62 H 52: 272

Heller Stephen – 4 Studi sul ‘‘Franco cacciatore’’ di Weber op. 127: 274 – 20 Preludi op. 150: 275 – 20 Studi per formare al sentimento del ritmo e all’espressione op. 47: 275 – 24 Nuovi Studi op. 90: 275 – 24 Preludi op. 81: 274 – 24 Studi d’espressione e di ritmo op. 125: 275 – 25 Studi per servire di introduzione all’Arte di fraseggiare op. 45: 275 – 27 Variazioni su un tema di Beethoven op. 133: 274 – 30 Studi progressivi op. 46: 275 – 33 Variazioni su un tema di Beethoven op. 130: 274 – Im Walde op. 86: 274 – Im Walde op. 128: 274 – Im Walde op. 136: 274 – Introduzione, Variazioni e Finale su due temi favoriti di ‘‘Zampa’’ [di He´rold] op. 6: 274 – L’Arte di fraseggiare op. 16: 275 – Promenades d’un Solitaire op. 78: 274 – Promenades d’un Solitaire op. 80: 274 – Promenades d’un Solitaire op. 89: 274 – Reˆveries du Promeneur solitaire op. 101: 274 – Sonata op. 9: 274 – Sonata op. 65: 274 – Sonata op. 86: 274 – Sonata op. 143: 274 Henselt Adolf von – 12 Grandi Studi caratteristici op. 2: 276 – 12 Studi da sala op. 5: 277 – Ballata op. 31: 277 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 16: 277 – Introduzione e Variazioni su un tema di Donizetti op. 1: 276

Indice delle opere citate

Hindemith Paul – Concerto per pianoforte e orchestra: 281 – In einer Nacht op. 15: 278 – Kammermusik n. 2 op. 36 n. 1 per pianoforte obbligato e dodici strumenti: 279 – Klaviermusik op. 37: 279 – Klaviermusik per pianoforte (mano sinistra) e orchestra op. 29: 278 – Kleine Klaviermusik op. 45 n. 4: 279 – Konzertmusik per pianoforte, ottoni e due arpe op. 49: 279 – Ludus tonalis: 280 – Polacca in do diesis: 278 – Ragtime ben temperato: 278 – Sette Valzer per pianoforte a quattro mani op. 6: 278 – Sonata op. 17: 278 – Sonata per due pianoforti: 280 – Sonata per pianoforte a quattro mani: 280 – Sonate in La, Sol e Si bemolle: 279 – Suite 1922 op. 26: 278 – Tanzstu¨cke op. 19: 278 – Wir bauen eine Stadt: 279 Hummel Jan Nepomuk – 24 Grandi Studi op. 125: 285 – An Alexis, n. 4: 285 – Concertino per pianoforte e orchestra op. 73: 283 – Concerto Gli Addii per pianoforte e orchestra op. 110: 284 – Concerto in Fa per pianoforte e orchestra: 284 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 85: 283 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 89: 283 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 113: 284 – Fantasia op. 18: 284 – Il Corno magico di Oberon per pianoforte e orchestra op. 116: 284 – La contemplazione op. 107 n. 3: 285 – Rondo` brillante op. 11: 284 – Sei pezzi facili op. 42: 285 – Sonata op. 2 n. 3: 284 – Sonata op. 13: 284 – Sonata op. 20: 284 – Sonata op. 38: 284 – Sonata op. 81: 284 – Sonata op. 106: 284 – Tema e Variazioni op. 97: 284 – Variazioni su un tema dell’Armida di Gluck op. 57: 285

Ives Charles – Sonata n. 1: 287 – Sonata n. 2, Concord, Mass., 1840-1860 : 286 – Studi: 287 – Three Pages Sonata: 287 – Three Quarter-tone Pieces per due pianoforti: 288 – Varied Air and Variations: 288 – Waltz-Rondo: 287 Jana´cˇek Leo´s – Danze nazionali morave: 289 – Musica per ginnastica ritmica: 289 – Nella nebbia: 290 – Ricordi: 290 – Sonata: 289 – Sul sentiero di rovi: 289 – Variazioni di Zdenka op. 1: 289 Kabalevskij Dmitrij – Avventure infantili op. 89: 291 – Concerto di Praga per pianoforte e orchestra: 291 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 9: 291 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 23: 291 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 50: 291 – Due Sonatine op. 11: 291 – Giochi e Danze di primavera op. 81: 291 – Preludi e fuga op. 61: 291 – Rapsodia su un tema della canzone Anni di scuola op. 75: 291 – Rondo` in la op. 60: 291 – Sonata n. 1 op. 6: 291 – Sonata n. 2 op. 45: 291 – Sonata n. 3 op. 46: 291 – Variazioni facili op. 40: 291 – Variazioni facili op. 51: 291 – Variazioni su temi popolari op. 87: 291 – Ventiquattro Preludi op. 38: 291 Ligeti Gyo¨rgy – Capriccio n. 1: 293 – Capriccio n. 2: 293 – Concerto per pianoforte e orchestra: 295 – Invenzione: 293 – Monument - Selbstportrait - Bewegung per due pianoforti: 293 – Musica Ricercata: 293 – Sonatina per pianoforte a quattro mani: 293 – Studi, I Libro: 295 – Studi, II Libro: 295 – Studi, III Libro: 295 625

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Liszt Franz Gli – – – – – – –

Anni di pellegrinaggio Album d’un viaggiatore: 298 Allegro di bravura: 298 Anno di pellegrinaggio. Primo anno: Svizzera: 299 Anni di pellegrinaggio. Secondo anno: Italia: 299 Anni di pellegrinaggio. Terzo anno: 300 Rondo` di bravura: 298 Venezia e Napoli. Supplemento agli Anni di pellegrinaggio, volume II: 300

Le altre raccolte – Albero di Natale: 302 – Apparizioni: 301 – Armonie poetiche e religiose: 301 – Consolazioni: 301 – Sette Ritratti Storici Ungheresi: 302 Le Ballate e le Leggende – Ballata in Re bemolle: 303 – Ballata in si: 303 – Leggende (San Francesco d’Assisi. La predicazione agli uccelli, San Francesco da Paola cammina sulle onde): 303 I Concerti – Concerto in Mi bemolle: 304 – Concerto in stile ungherese: 305 – Concerto n. 1: 306 – Concerto n. 2: 306 – Danza dei morti: 305 – De Profundis. Salmo strumentale: 304 – Fantasia su temi delle Rovine d’Atene di Beethoven: 304 – Fantasia su temi popolari ungheresi: 305 – Grande Fantasia Sinfonica: 304 – Male´diction per pianoforte e archi: 304 Le Danze – Bagatella senza tonalita`: 308 – Due Polacche: 308 – Gran Galop cromatico: 308 – I Pattinatori: 307 – Mazurca brillante: 308 – Mephistowalzer n. 1: 307 – Mephistowalzer n. 2: 308 – Mephistowalzer n. 3: 308 – Mephistowalzer n. 4: 308 – Polca di Mefistofele: 308 – Quattro Valses oublie´es: 308 – Serate di Vienna. Valzer-capricci da Schubert: 308 – Valzer dell’opera Faust: 307 – Valzer infernale: 307 626

Le Fantasie – Aida. Danza sacra e duetto finale: 312 – Divertimento sulla cavatina ‘‘I tuoi frequenti palpiti’’: 309 – Don Carlo. Coro di festa e marcia funebre: 312 – Ernani. Parafrasi da concerto: 311 – Fantasia sopra motivi dell’opera La Sonnambula: 309 – Fantasia sul Freischu¨tz: 309 – Festa e canto nuziale: 312 – Grande Fantasia di bravura sulla Campanella: 309 – Grande Fantasia su temi dell’opera Gli Ugonotti: 311 – Grande Fantasia sulla tirolese dell’opera La Fiance´e: 309 – Improvviso su temi di Rossini e Spontini: 309 – Improvviso sul Ranz des vaches: 309 – Introduzione e polacca dei Puritani: 309 – Marcia nuziale: 311 – Miserere del Trovatore: 311 – Pezzo fantastico su temi del Rienzi: 311 – Reminiscenze dei Puritani: 309 – Reminiscenze del Boccanegra: 312 – Reminiscenze del Don Giovanni: 310 – Reminiscenze del Roberto il Diavolo: 311 – Reminiscenze della Juive: 309 – Reminiscenze della Lucia di Lammermoor: 309 – Reminiscenze della Norma: 310 – Reminiscenze su motivi favoriti dell’opera Lucrezia Borgia: 309 – Rigoletto. Parafrasi da concerto: 311 – Salve Maria dal Je´rusalem: 311 – Valzer a capriccio su motivi di Lucia e Parisina: 310 – Variazioni di bravura su temi di Paganini: 309 – Walhall: 312 I Notturni – Insonne, Domanda e Risposta. Notturno da un poema di Toni Raab: 313 – Sogni d’amore. Tre Notturni: 312 – Una sera nelle montagne. Notturno su un canto montanaro: 312 Gli Omaggi – Evocazione alla Cappella Sistina. Miserere di Allegri e Ave verum corpus di Mozart: 314 – Fantasia e fuga su BACH: 314 – La lugubre gondola I e II: 314 – Richard Wagner. Venezia: 314

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– Sarabanda e Ciaccona dal Singspiel Almira: 314 – Sulla tomba di Richard Wagner: 314 – Variazione: 314 – Variazioni su un tema di Johann Sebastian Bach: 313 Le Rapsodie – Cinque canti popolari ungheresi: 315 – Csa´rda´s macabra: 316 – Due Csa´rda´s: 316 – Melodie nazionali magiare: 315 – Melodie nazionali ungheresi: 315 – Rapsodia spagnola: 316 – Rapsodie magiare: 315 – Rapsodie ungheresi: 315 – Romanzero ungherese: 315 La Sonata – Concerto patetico: 316 – Gran Solo da Concerto: 316 – Scherzo e marcia: 317 – Sonata in si: 317 Gli – – – – – – – – –

Studi Ab irato: 320 Due Studi da concerto: 320 Grandi Studi da Paganini: 320 Studi d’esecuzione trascendentale: 320 Studi di esecuzione trascendentale da Paganini: 319 Studio di perfezionamento Ab irato: 320 Studio in quarantotto Esercizi in tutti i toni maggiori e minori: 319 Tre Studi da concerto: 320 Ventiquattro Grandi Studi: 319

Le Trascrizioni – Coro delle filatrici: 322 – Danza macabra: 308 – Episodi della vita di un artista. Grande Sinfonia Fantastica: 321 – Morte di Isotta: 322 – Ouverture del Guglielmo Tell: 322 – Ouverture del Tannha¨user: 322 – Sogno di Elsa: 322 – Soire´es musicales: 322 – Valzer di Mefistofele: 307 Ljapunov Sergej Mikhailovicˇ – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 4: 324 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 38: 324 – Preludio e fuga op. 58: 324

– Rapsodia su temi ucraini per pianoforte e orchestra op. 28: 324 – Sonata op. 27: 324 – Studi trascendentali: 324 – Variazioni su un tema russo op. 49: 324 MacDowell Edward – Concerto n. 1 op. 15: 325 – Concerto n. 2 op. 23: 325 – Dodici Studi di virtuosismo op. 46: 326 – Dodici Studi op. 39: 325 – Fireside Tales op. 61: 327 – Idilli della foresta op. 19: 325 – Le Orientali op. 37: 325 – New England Idyls op. 62: 327 – Pezzi fantastici op. 17: 325 – Preludio e fuga op. 13: 325 – Quattro Piccoli Pezzi op. 32: 325 – Sea Pieces op. 55: 326 – Sei Idilli da Goethe op. 28: 325 – Sonata n. 1 op. 45, Tragica: 326 – Sonata n. 2 op. 50, Eroica: 326 – Sonata n. 3 op. 57, Nordica: 326 – Sonata n. 4 op. 59, Celtica: 326 – Studio da concerto op. 36: 325 – Suite moderna n. 1 op. 10: 325 – Suite moderna n. 2 op. 14: 325 – Woodland Sketches op. 51: 326 Malipiero Gian Francesco – A Claudio Debussy: 329 – Barlumi: 329 – Bianchi e neri: 330 – Bizzarrie luminose dell’alba, del meriggio e della notte: 328 – Cavalcate: 329 – Cinque Studi per domani: 330 – Concerti per pianoforte e orchestra: 330 – Epitaffi: 330 – Hortus conclusus. Primo Libro: 330 – Il Tarlo: 329 – La Siesta: 329 – Maschere che passano: 329 – Omaggi: 329 – Pasqua di resurrezione: 329 – Poemetti lunari: 328 – Poemi asolani: 329 – Preludi autunnali: 328 – Preludio a una fuga immaginaria: 330 – Preludio e fuga: 330 – Risonanze: 329 – Ritmi e canti gregoriani: 330 – Sei Pezzi: 328 – Tre Preludi a una fuga: 329 627

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– Variazione: 330 – Variazioni senza tema per pianoforte e orchestra: 330 Martin Frank – Ballata per pianoforte e orchestra: 331 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra: 331 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra: 331 – Fantasia su ritmi flamenco: 331 – Guitarre: 331 – Otto Preludi: 331 – Piccola Sinfonia concertante per pianoforte, clavicembalo, arpa e due orchestre d’archi: 331 Martinu˚ Bohuslav – Concertino per pianoforte e orchestra: 333 – Concertino per pianoforte (mano sinistra) e orchestra: 333 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra: 333 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra: 333 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra: 333 – Concerto n. 4 (Incantation) per pianoforte e orchestra: 333 – Concerto per due pianoforti: 333 – Fantasia concertante (Concerto n. 5) per pianoforte e orchestra: 333 – Fantasia e Toccata: 334 – Film in miniatura: 333 – Marionette: 333 – Sonata: 334 – Studi e Polche: 334 – Tre Danze ceche: 333-334 Martucci Giuseppe – Andante e Polca da concerto op. 5: 335 – Capricci op. 2 e op. 3: 335 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 40: 335 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 66: 337 – Fantasia da concerto sull’opera ‘‘La Forza del destino’’ [di Verdi] op. 1: 335 – Fantasia op. 51: 336 – Mazurca da concerto op. 4: 335 – Notturni op. 70: 337 – Pensieri sull’opera ‘‘Un ballo in maschera’’ di Verdi per pianoforte a quattro mani op. 8: 335 – Sei Pezzi op. 44: 336 – Sonata 34: 335 – Tarantella op. 6: 335 – Tema e Variazioni op. 58: 337 628

Medtner Nicolaj – 3 Sonate op. 11: 340 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 33: 339 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 50: 339 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 60: 339 – Melodie dimenticate (Sonata Reminiscenza, Danza graziosa, Danza festiva, Canzona fluviala, Danza rustica, Canzona serenata, Danza silvestra, Alla Reminiscenza): 340 – Melodie dimenticate op. 39 (Meditazione, Romanza, Primavera, Canzona matinata, Sonata tragica in do): 340 – Schizzi romantici per la gioventu` op. 51: 340 – Skazka op. 8: 340 – Skazka op. 9: 340 – Sonata op. 22: 340 – Sonata minacciosa op. 53 n. 2: 340 – Sonata op. 5: 340 – Sonata op. 30: 340 – Sonata romantica op. 53 n. 1: 340 – Sonata Vento della notte op. 25 n. 2: 340 – Sonata-Ballata op. 27: 340 – Sonata-Idillio op. 56: 340 – Sonata-Skazka op. 25 n. 1: 340 Mendelssohn-Bartholdy Felix – Allegro brillante per pianoforte a quattro mani op. 92: 348 – Capricci op. 33: 347 – Capriccio brillante per pianoforte e orchestra op. 22: 343 – Capriccio op. 5: 343 – Concerto in La bemolle per due pianoforti e orchestra: 341 – Concerto in la per pianoforte e archi: 341 – Concerto in Mi per due pianoforti e orchestra: 341 – Concerto in re per violino, pianoforte e archi: 341 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 25: 344 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 40: 348 – Fantasia in fa diesis op. 28: 347 – Fantasia in Mi su una canzone irlandese: 343 – Foglio d’album op. 117: 347 – Perpetuum mobile op. 119: 343 – Preludi e fuga op. 35: 347 – Romanze senza parole op. 19: 345 – Romanze senza parole op. 30: 345 – Romanze senza parole op. 38: 345 – Romanze senza parole op. 53: 345

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Romanze senza parole op. 62: 345 Romanze senza parole op. 67: 345 Romanze senza parole op. 85: 345 Romanze senza parole op. 102: 345 Romanze senza parole op. 102, n. 1: 345 Rondo` brillante per pianoforte e orchestra op. 29: 347 Rondo` capriccioso op. 14: 342 Serenata e Allegro gioioso per pianoforte e orchestra op. 43: 348 Sette Pezzi caratteristici op. 7: 343 Sonata op. 6: 342 Sonata op. 105: 342 Sonata op. 106: 342 Tre Fantasie o Capricci op. 16: 343 Tre Preludi op. 104a: 347 Tre Studi op. 104b: 347 Variations se´rieuses op. 54: 348 Variazioni op. 82: 348 Variazioni op. 83: 348

Messiaen Olivier – Cante´yodjagaˆ: 352 – Catalogo d’uccelli: 352 – Couleurs de la Cite´ ce´leste: 353 – Des Canyons aux E´toiles: 353 – Fantasia burlesca: 350 – La fauvette des jardins: 352 – La Signora di Shalott: 352 – Le Re´veil des Oiseaux per pianoforte e piccola orchestra: 353 – Oiseaux exotiques per pianoforte e piccola orchestra: 353 – Otto Preludi: 350 – Pezzo per la tomba di Paul Dukas: 350 – Piccoli Schizzi di uccelli: 353 – Quattro Studi di ritmo: 352 – Rondo`: 350 – Sette Haikaı¨ per pianoforte e piccola orchestra: 353 – Sinfonia-Turangalıˆla: 353 – Venti Sguardi sul Bambino Gesu`: 351 – Visioni dell’Amen per due pianoforti: 350 Milhaud Darius – Ballata per pianoforte e orchestra op. 61: 354 – Carnaval d’Aix per pianoforte e orchestra op. 83b: 354 – Cinque Studi per pianoforte e orchestra op. 63: 354 – Concerto II per due pianoforti e percussione: 355 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 127: 354

– Concerto n. 1 per due pianoforti e orchestra op. 228: 354 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 225: 354 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 270: 354 – Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra op. 295: 354 – Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra op. 346: 355 – Fantasia pastorale per pianoforte e orchestra op. 188: 354 – L’Automne op. 115: 355 – La Muse me´nage`re op. 245: 355 – Le Printemps op. 25 e op. 66: 355 – Saudades do Brazil op. 67: 355 – Scaramouche per due pianoforti op. 165: 354 – Sei Danze in tre movimenti per due pianoforti op. 433: 356 – Sonata n. 1 op. 33: 355 – Sonata n. 2 op. 293: 356 – Sonatina op. 354: 356 – Suite op. 8: 355 – Suite per due pianoforti e orchestra op. 300: 355 – Trois Rag-Caprices op. 78: 355 – Une journe´e op. 269: 355 Mjaskovskij Nikolaj Jakovlevicˇ – Bizzarrie op. 25: 358 – Canzone e Rapsodia op. 58: 358 – Fogli ingialliti op. 31: 358 – Improvvisazioni op. 74: 358 – Pezzi infantili op. 41: 358 – Reminiscenze op. 29: 358 – Schizzi polifonici op. 78: 358 – Sonata n. 1 op. 6: 357 – Sonata n. 2 op. 13: 357 – Sonata n. 3 op. 19: 357 – Sonata n. 4 op. 27: 357 – Sonata n. 5 op. 64 n. 1: 357 – Sonata n. 6 op. 64 n. 2: 357 – Sonata n. 7 op. 82: 357 – Sonata n. 8 op. 83: 357 – Sonata n. 9 op. 84: 357 – Sonatina op. 57: 358 Mompou y Dencause Federico – Canti magici: 361 – Canzone e danza n. 1: 360 – Canzone e danza n. 6: 360 – Charmes: 361 – Dialoghi: 361 – Feste lontane: 361 629

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Impressioni intime: 360 Musica callada: 361 Pessebres: 360 Scene di bambini: 361 Suburbis: 360 Variazioni su un tema di Chopin: 361

Moscheles Ignaz – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 45: 363 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 56: 363 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 58: 363 – Concerto ‘‘Fantastico’’ n. 6 per pianoforte e orchestra op. 80: 363 – Fantasia brillante su temi favoriti dell’opera Don Pasquale op. 109a: 363 – Fantasia su temi del Nabucco: 363 – Grande Sonata sinfonica per pianoforte a quattro mani op. 112: 363 – Omaggio a Ha¨ndel per due pianoforti op. 92: 363 – Sonata caratteristica op. 27: 363 – Sonata melanconica op. 49: 363 – Sonata per pianoforte a quattro mani op. 47: 363 – Studi op. 70: 363 – Variazioni sulla Marcia d’Alessandro per pianoforte e orchestra op. 32: 363 Moszkowski Moritz – Barcarola: 365 – Capriccio spagnolo op. 37: 364 – Chanson bohe`me: 365 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 59: 364 – Dal Mondo intero op. 23: 364 – Danze in tondo tedesche op. 25: 364 – Danze Popolari polacche op. 55: 364 – Danze spagnole per pianoforte a quattro mani op. 12: 364 – Dodici Studi per la mano sinistra sola op. 92: 364 – E´tincelles op. 36 n. 6: 364 – Guitarre op. 45 n. 2: 364 – La Jongleuse op. 52 n. 4: 364 – Nuove Danze spagnole op. 65: 364 – Quindici Studi di virtuosismo op. 72: 364 – Scuola delle doppie note op. 64: 364 – Studio op. 72 n. 6: 364 – Venusberg: 365 630

Mozart Wolfgang Amadeus I Concerti – Concerto K 37: 368 – Concerto K 39: 368 – Concerto K 40: 368 – Concerto K 41: 368 – Concerto K 271: 369 – Concerto K 482: 373 – Concerto K 467: 372 – Concerto K 175: 369 – Concerto K 238: 369 – Concerto per tre pianoforti K 242: 369 – Concerto K 246: 369 – Concerto K 313: 370 – Concerto per due pianoforti K 365: 370 – Concerto K 414: 370 – Concerto K 415: 370 – Concerto K 449: 371 – Concerto K 450: 371 – Concerto K 451: 371 – Concerto K 453: 372 – Concerto K 456: 372 – Concerto K 459: 372 – Concerto K 466: 372 – Concerto K 488: 373 – Concerto K 491: 373 – Concerto K 503: 374 – Concerto K 537: 375 – Concerto K 595: 375 – Rondo` K 382: 369 – Rondo` K 386: 370 – Tre Sonate del Sgr. Giovanni Bach ridotte in Concerti dal Sgr. Amadeo Wolfgango Mozart K 107: 369 Fantasie, Fughe, Rondo` – Capriccio K 395: 378 – Fantasia e fuga K 394: 377 – Fantasia K 396: 376 – Fantasia K 397: 376 – Fantasia K 475: 377 – Fantasia per un organo meccanico K 608: 377 – Fuga K 401: 378 – Fuga per due pianoforti K 426: 378 – Piccola Giga K 574: 378 – Rondo` K 485: 379 – Rondo` K 494: 379 – Rondo` K 511: 379 – Suite K 399: 378 Le Sonate – Adagio K 540: 389 – Allegro in Si bemolle Anh. 136: 389 – Allegro K 312: 390

Indice delle opere citate

– Allegro K 400: 386 – Andante per pianoforte a quattro mani K 357: 388 – Larghetto e Allegro in Mi bemolle per due pianoforti: 386 – Minuetto K 355: 390 – Quaderno londinese: 379 – Sonata K 7: 379 – Sonata K 8: 379 – Sonata K 9: 379 – Sonata per clavicembalo a quattro mani K 19d: 379 – Sonata K 46d: 379 – Sonata K 46e: 379 – Sonata K 279: 380 – Sonata K 280: 380 – Sonata K 281: 380 – Sonata K 282: 381 – Sonata K 283: 381 – Sonata K 284: 381 – Sonata K 309: 382 – Sonata K 310: 384 – Sonata K 311: 383 – Sonata K 330: 385 – Sonata K 331: 385 – Sonata K 332: 385 – Sonata K 333: 386 – Sonata per pianoforte a quattro mani K 358: 380 – Sonata per pianoforte a quattro mani K 381: 380 – Sonata per due pianoforti K 448: 386 – Sonata K 457: 387 – Sonata per pianoforte a quattro mani K 497: 388 – Sonata per pianoforte a quattro mani K 521: 388-389 – Sonata K 533/494: 389 – Sonata K 545: 388 – Sonata K 547a: 388 – Sonata K 570: 389 – Sonata K 576: 390 Le Variazioni – 6 Variazioni su ‘‘Salve tu, Domine’’ K 398: 392 – 7 Variazioni sull’inno nazionale olandese K 25: 391 – 8 Variazioni su una canzone olandese K 24: 391 – 8 Variazioni su ‘‘Come un agnello’’ K 460: 393 – 8 Variazioni su ‘‘Dieu d’amour’’ K 352: 392 – 8 Variazioni su ‘‘Ein Weib ist das herrlichste Ding’’ K 613: 393

– 9 Variazioni su un Minuetto di Duport K 573: 393 – 9 Variazioni su ‘‘Lison dormait’’ K 264: 392 – 10 Variazioni su ‘‘Unser donner Po¨ bel meint’’ K 455: 393 – 12 Variazioni su un Allegretto K 500: 393 – 12 Variazioni su un Minuetto di Fischer K 179: 391 – 12 Variazioni su ‘‘Ah! vous dirai-je, Maman’’ K 265: 392 – 12 Variazioni su ‘‘Je suis Lindor’’ K 354: 392 – 12 Variazioni su ‘‘La belle Franc¸ oise’’ K 353: 392 – Andante con variazioni per pianoforte a quattro mani K 501: 393 Musorgskij Modest Petrovicˇ – Au Village: 400 – Duma: 397 – Impromptu passione´: 396 – In Crimea: Hursuff. Note di viaggio e Capriccio: 399 – Intermezzo in modo classico: 396 – La Capricieuse: 397 – La Couturie`re. Scherzino: 400 – Me´ditation: 399 – Menuet monstre: 396 – Porte-enseigne polka: 395 – Preludio in modo classico: 396 – Quadri di una esposizione: 397 – Scherzo in do diesis: 396 – Scherzo in Si bemolle: 396 – Sonata in fa diesis: 396 – Sonata in Mi bemolle: 396 – Sonata in Re: 396 – Sonata per pianoforte a quattro mani: 396 – Souvenir d’enfance: 395 – Souvenirs d’enfance: Nania et moi, Premie`re punition: 397 – Tempesta sul Mar Nero: 399 – Une larme: 399 – Une Plaisanterie: 396 Nielsen Carl – Bagatelle umoristiche: 401 – Ciaccona op. 32: 401 – Cinque Pezzi op. 3: 401 – Musica per pianoforte per grandi e piccini op. 53: 401 – Pezzo in Do: 401 – Preludio festivo: 401 – Suite op. 45: 401 – Suite sinfonica op. 8: 401 631

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– Tema e variazioni op. 40: 401 – Tre Pezzi op. 59: 401 Nono Luigi – Como una ola de fuerza y luz per pianoforte, soprano e orchestra: 403 – ...sofferte onde serene...: 403 Petrassi Goffredo – Concerto per pianoforte e orchestra: 404 – Invenzioni: 404 – Oh, les beaux jours!: 405 – Partita: 404 – Piccolo Pezzo: 405 – Siciliana e Marcetta per pianoforte a quattro mani: 404 – Toccata: 404 Pizzetti Ildebrando – Canti della stagione alta per pianoforte e orchestra: 406 – Canti di ricordanza: 406 – Da un autunno gia` lontano: 406 – Foglio d’album: 406 – Le Danze: 406 – Poemetto romantico: 406 – Preludio ‘‘L’Ombra’’: 406 – Sogno: 406 – Sonata: 406 Poulenc Francis – Aubade per pianoforte e 18 strumenti: 408 – Badinage: 411 – Caprice per due pianoforti: 409 – Concerto campestre per clavicembalo o pianoforte e orchestra: 408 – Concerto in re per due pianoforti e orchestra: 408 – Concerto per pianoforte e orchestra: 408 – Due Intermezzi: 411 – Due Novellette: 411 – Elegia per due pianoforti: 409 – Feuillets d’album: 411 – Improvvisazioni: 411 – Intermezzo in La bemolle: 411 – L’Embarquement pour Cythe`re per due pianoforti: 409 – Les Soire´es de Nazelles: 410 – Melanconia: 411 – Mouvements perpetuels: 410 – Napoli: 410 – Notturni: 412 – Novelletta n. 3: 411 – Pastourelle: 412 632

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Pezzo sul nome di Albert Roussel: 411 Presto in Si bemolle: 411 Promenades: 411 Sei Improvvisi: 410 Sonata per due pianoforti: 409 Sonata per pianoforte a quattro mani: 409 Suite franc¸aise: 411 Suite in Do: 410 Tema variato: 412 Tre Pastorali: 410 Tre Pezzi: 411 Umoresca in Sol: 411 Valzer: 410 Valzer-Improvvisazione: 411 Villageoises: 411

Prokof’ev Sergej I concerti – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto – Concerto

n. n. n. n. n.

1 2 3 4 5

op. op. op. op. op.

10: 16: 26: 53: 55:

414 415 416 416 417

Le raccolte – Choses en soi op. 45: 418 – Dieci Pezzi op. 12: 418 – Pensieri op. 62: 419 – Pezzi infantili op. 65: 419 – Quattro Pezzi op. 3: 418 – Quattro Pezzi op. 4: 418 – Quattro Pezzo op. 32: 418 – Quattro Studi op. 2: 417 – Racconti della nonna op. 31: 418 – Sarcasmi op. 17: 418 – Sonatine op. 54: 418 – Tre Pezzi op. 59: 419 – Visioni fuggitive op. 22: 418 Le sonate – Sonata n. 1 op. 1: 419 – Sonata n. 2 op. 14: 420 – Sonata n. 3, d’apre` s des vieux cahiers op. 28: 421 – Sonata n. 4 op. 29: 422 – Sonata n. 5 op. 38/135: 422 – Sonata n. 6 op. 82: 423 – Sonata n. 7 op. 83: 424 – Sonata n. 8 op. 84: 425 – Sonata n. 9 op. 103: 425 – Toccata op. 11: 420 Le trascrizioni – Dieci Pezzi da Romeo e Giulietta op. 75: 426 – Dieci Pezzi op. 97: 427

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Divertimento op. 43 bis: 426 Gavotta op. 77 bis: 427 Preludio e fuga in re di Buxtehude: 426 Scherzo e Marcia op. 33 ter: 426 Sei Pezzi op. 52: 426 Sei Pezzi op. 102: 427 Sinfonia classica: 426 Tre Pezzi op. 95: 427 Tre Pezzi op. 96: 427 Valzer di Schubert: 426

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Rachmaninov Sergej Vasil’evicˇ – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 1: 430 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 18: 435 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 30: 437 – Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra op. 40: 439 – Danze sinfoniche per due pianoforti op. 45: 439 – Duetti op. 11 per pianoforte a quattro mani: 433 – E´tudes-Tableaux op. 33: 437 – E´tudes-Tableaux, op. 39: 438 – Momenti musicali op. 16: 433 – Morceaux de fantasie op. 3 (Elegia, Preludio, Melodia, Pulcinella, Serenata): 430 – Notturni: 430 – Pezzi da sala op. 10: 433 – Preludi op. 23: 437 – Preludi op. 32: 437-438 – Rapsodia russa per due pianoforti: 430 – Rapsodia su un tema di Paganini per pianoforte e orchestra. op. 43: 439 – Sonata op. 28: 437 – Sonata op. 36: 437 – Suite n. 1 per due pianoforti op. 5 (Barcarola, La notte, l’amore, Lacrime, Pasqua russa): 432 – Suite n. 2 per due pianoforti op. 17: 435 – Variazioni su un tema di Corelli op. 42: 439 – Variazioni sul Preludio di Chopin in do op. 22: 435

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Ravel Maurice – A` la manie`re de...: 447 – Concerto in Re per pianoforte (mano sinistra) e orchestra: 448 – Concerto in Sol per pianoforte e orchestra: 449 – Frontispice: 448 – Gaspard de la nuit: 445 – Jeux d’eau: 442

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La Giovinezza d’Ercole: 441 La Valse: 448 Le tombeau de Couperin: 447 Ma me`re l’Oye per pianoforte a quattro mani: 446 Menuet antique: 441 Menuet sur le nom de Haydn: 446 Minuetto in do diesis: 444 Miroirs (Noctuelles, Les Oiseaux tristes, Une barque sur l’Oce´an, Alborada del gracioso, La Valle´e des cloches): 444 Movimento di sonata: 441 Pavane pour une infante de´funte: 441 Pre´lude: 447 Serenata grottesca: 441 Sites auriculaires (Habanera, Entre Cloches) per due pianoforti: 441 Sonatina: 444 Valses nobles et sentimentales: 446 Variazioni su un tema di Grieg: 441 Variazioni su un tema di Schumann: 441

Reger Max – 5 Umoresche op. 20: 451 – 6 Burlesche per pianoforte a quattro mani op. 58: 451 – 6 Intermezzi op. 45: 451 – 6 Pezzi op. 24: 451 – 7 Silhouettes op. 53: 451 – 7 Valzer op. 11: 451 – 12 Valzer-Capricci per pianoforte a quattro mani op. 9: 451 – 14 Fogli perduti op. 13: 451 – 20 Danze tedesche per pianoforte a quattro mani op. 10: 451 – Ai mani di J. Brahms: 451 – Aus meinem Tagebuch op. 82: 452 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 114: 452 – Dal tempo della gioventu` op. 17: 451 – Improvvisazioni op. 18: 451 – Introduzione, Passacaglia e Fuga per due pianoforti op. 96: 452 – Rapsodia: 451 – Tra¨ume am Kamin op. 143: 452 – Variazioni e fuga su un tema di Bach op. 81: 451 – Variazioni e Fuga su un tema di Beethoven per due pianoforti op. 86: 452 – Variazioni e Fuga su un tema di Mozart per due pianoforti op. 132: 452 – Variazioni e Fuga su un tema di Telemann op. 134: 452 – ‘‘Ewig dein’’ op. 17523: 453 633

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Reubke Julius – Mazurca in Mi: 454 – Scherzo in re: 454 – Sonata in si bemolle: 454 Rossini Gioachino – Album de Chaˆteau: 457 – Bolero tartare: 455 – Danse sibe´rienne: 455 – Gymnastique d’e´cartement: 456 – Marche et Reminiscences pour mon dernier voyage: 455 – Pe´che´s de vieillesse: 455 – Petit Caprice Style Offenbach: 455 – Pre´lude fugasse´: 455 – Pre´lude pe´tulant rococo: 456 – Pre´lude soidisant dramatique: 455 – Quelques riens pour album: 455 – Spe´cimen de l’Ancien Re´gime: 457 – Spe´cimen de l’avenir: 456 – Un caresse a` ma femme: 455 – Un enterrement en Carneval: 455 – Un petit train de plaisir, comico-imitatif: 455 – Un Reˆve: 456 – Valse anti-dansante: 455 – Valse boiteuse: 455 Roussel Albert – Canone perpetuo: 458 – Concerto per pianoforte e orchestra op. 36: 458 – Des heures passent op. 1: 458 – Doute: 458 – L’accueil des muses: 458 – Preludio e fuga op. 46: 458 – Rustiques op. 5: 458 – Sonatina op. 16: 458 – Suite op. 14: 458 – Tre Pezzi op. 49: 458 Rubinsˇtejn Anton – Album de Peterhof op. 75: 462 – Bal costume´ per pianoforte a quattro mani op. 103: 462 – Capriccio russo per pianoforte e orchestra op. 102: 461 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 25: 460 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 35: 460 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 45: 460 – Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra op. 70: 460 634

– Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra op. 94: 460 – Fantasia eroica per pianoforte e orchestra op. 110: 461 – Fantasia op. 77: 461 – Fantasia per pianoforte e orchestra op. 84: 460 – Kamennoi-Ostrov op. 10: 462 – Melodia op. 3 n. 1: 461 – Melodia op. 3 n. 2: 461 – Pezzo da concerto per pianoforte e orchestra op. 113: 461 – Romanza op. 44 n. 1: 461 – Sei Studi op. 23: 461 – Sei Studi op. 81: 461 – Soire´es de St. Petersbourg op. 44: 462 – Soire´es musicales op. 109: 462 – Sonata op. 12: 461 – Sonata op. 20: 461 – Sonata op. 41: 461 – Sonata op. 100: 461 – Studio ‘‘Ondina’’ op. 1: 461 – Tema con variazioni op. 88: 461 – Valzer-Capriccio in Mi bemolle senza numero d’opera: 461 Saint-Sae¨ns Camille – 6 Studi op. 52: 465 – 6 Studi op. 111: 465 – 6 Studi per la sola mano sinistra op. 135: 465 – Africa per pianoforte e orchestra op. 89: 465 – Allegro appassionato op. 70: 464 – Capriccio arabo per due pianoforti op. 96: 465 – Capriccio eroico per due pianoforti op. 106: 465 – Capriccio su temi dell’Alceste di Gluck: 466 – Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra op. 17: 463 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 22: 463 – Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 29: 463 – Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra op. 44: 464 – Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra op. 105: 464 – Polacca per due pianoforti op. 77: 465 – Rapsodia d’Alvernia per pianoforte e orchestra op. 73: 464 – Scherzo op. 87: 465 – Suite op. 90: 466 – Variazioni su un tema di Beethoven per due pianoforti op. 35: 465 – Wedding-Cake per pianoforte e archi: 464

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Satie Erik – Allegro: 467 – Danze gotiche: 467 – Ginnopedie: 467 – Gnossiennes: 467 – In abito da cavallo per pianoforte a quattro mani: 468 – Io ti voglio: 467 – La Belle Excentrique per pianoforte a quattro mani: 469 – Le Picadilly: 467 – Notturni: 469 – Ogives: 467 – Polvere d’oro: 467 – Pre´ludes flasques: 468 – Preludi della Figlie delle stelle: 467 – Preludio della Porta eroica del Cielo: 467 – Primo Minuetto: 469 – Quattro Preludi: 467 – Sarabande: 467 – Sonatina burocratica: 469 – Sonneries de la Rose-Croix: 467 – Sports et Divertissements: 468 – Tre Pezzi in forma di pera per pianoforte a quattro mani: 468 – Valzer-Balletto: 467 – Valzer-Fantasia: 467 – Ve´ritables Pre´ludes flasques: 468 – Vexations: 468 Scarlatti Domenico – 30 Esercizi: 470 – Sonata K 9 L 413: 471 – Sonata K 20 L 375: 471 – Sonata K 30 L 499 (Fuga del gatto): 472 – Sonata K 213 L 108: 471 – Sonata K 214 L 165: 471 – Sonata K 318 L 31: 471 – Sonata K 319 L 35: 471 – Sonata K 347 L 126: 471 – Sonata K 348 L 127: 471 – Sonata K 380 L 23,: 471 – Sonata K 381 L 225: 471 Scho¨nberg Arnold – Concerto per pianoforte e orchestra op. 42: 476 – Pezzi op. 23: 475 – Pezzi op. 33a: 476 – Pezzi op. 33b: 476 – Sei Pezzi per pianoforte a quattro mani: 473 – Sei Piccoli Pezzi op. 19: 474 – Suite op. 25: 475 – Tre Pezzi op. 11: 473

Schubert Franz Danze e Marce – 12 La¨ndler op. 171 D 790: 482 – Danze tedesche e 2 Scozzesi op. 33 D 783: 481 – Deutsche con due Trii, e due La¨ ndler D 618: 482 – Diciassette Ta¨nze Deutsche dette La¨ndler D 366: 481 – Dodici Danze tedesche D 420: 481 – Dodici Minuetti con Trio D 22: 479 – Dodici Scozzesi D 299: 480 – Dodici Wiener Deutsche D 128: 480 – Due Marce caratteristiche op. 121 D 886: 483 – Grande Marcia eroica per la consacrazione dello zar Nicola I per pianoforte a quattro mani op. 66 D 885: 483 – Grande Marcia funebre per la morte dello zar Alessandro per pianoforte a quattro mani op. 55 D 859: 483 – Gra¨zer Walzer op. 91 D 924: 482 – Kindermarsch per pianoforte a quattro mani D 928: 483 – Letzte Walzer op. 127 D 146: 480 – Originalta¨nze op. 9 D 365: 480 – Otto La¨ndler D 378: 481 – Otto Scozzesi D 529: 481 – Quattro La¨ ndler per pianoforte a quattro mani D 814: 483 – Quattro Polacche per pianoforte a quattro mani op. 75 D 599: 482 – Sei Danze tedesche D 820: 482 – Sei Polacche per pianoforte a quattro mani op. 61: 483 – Sei Scozzesi D 421: 481 – Six Grandes Marches en Trio per pianoforte a quattro mani op. 40 D 819: 483 – Trenta Minuetti con Trio D 41: 479 – Trois Marches he´ roı¨ ques per pianoforte a quattro mani op. 27 D 602: 483 – Trois Marches militaires per pianoforte a quattro mani op. 51 D 733: 483 – Undici Scozzesi D 781: 481 – Valses nobles op. 77 D 969: 482 – Valses sentimentales op. 50 D 779: 481 – Valzer, La¨ndler e 3 Scozzesi op. 18 D 145: 480 – Wiener Damen La¨ndler (Hommage aux belles Viennoises) und Zwei Ecossaises op. 67 D 734: 481 Fantasie e Divertimenti – Divertissement a` la hongroise per pianoforte a quattro mani op. 54 D 818: 487 635

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– Divertissement sur des motifs originaux franc¸ais per pianoforte a quattro mani op. 63 n. 1-op. 84 nn. 1 e 2, D 823: 487 – Fantasia per pianoforte a quattro mani D 9: 484 – Fantasia per pianoforte a quattro mani D 48: 484 – Fantasia per pianoforte a quattro mani D 1: 484 – Fantasia di Graz D 605A: 485 – Fantasia op. 15, detta ‘‘Der Wanderer’’: 485 – Fantasia per pianoforte a quattro mani op. 103 D 940: 486 Improvvisi e pezzi brevi – Allegro moderato e Andante D 968: 490 – Drei Klavierstu¨cke D 946: 489 – Fuga op. 152 D 952: 490 – Impromptus op. 90 D 899: 488 – Impromptus op. 142 D 935: 488 – Rondo` op. 138 D 608: 489 – Six Moments musicals op. 94 D 780: 489 Le Sonate – Adagio D 505: 493 – Cinque Pezzi: 490 – Sonata op. 78 D 894: 497 – Due Pezzi D 459: 490 – Ouverture in stile italiano: 490 – Rondo` D 506: 491 – Sonata D 157: 490 – Sonata D 279: 490 – Sonata D 537: 491 – Sonata D 571: 492 – Sonata D 586: 491 – Sonata D 625: 493 – Sonata (o Gran Duo) per pianoforte a quattro mani op. 140 D 812: 495 – Sonata D 840: 495 – Sonata op. 164 D 537: 491 – Sonata D 567: 492 – Sonata op. 122 D 568: 492 – Sonata op. 147 D 575: 492 – Sonata per pianoforte a quattro mani op. 30 D 617: 492 – Sonata op. 120 D 664: 493 – Sonata op. 53 D 850: 497 – Sonata op. 42 D 854: 496 – Sonata D 958: 499 – Sonata D 959: 499 – Sonata D 960: 500 – Sonata D 994: 494 – Tre Pezzi D 459a: 490 636

Le Variazioni – Dieci Variazioni su un tema originale D 156: 501 – Otto Variazioni su un canto francese per pianoforte a quattro mani op. 10 D 624: 502 – Otto Variazioni su un tema originale per pianoforte a quattro mani op. 35 D 813: 502 – Tredici Variazioni su un tema di Anselm Hu¨ttenbrenner D 576: 501 – Variazione su un Valzer di Diabelli D 718: 502 Schumann Robert I Concerti – Concerto in Fa: 504 – Concerto op. 54: 504 – Concerto in Mi bemolle: 504 – Concerto in re: 504 – Fantasia: 504 – Introduzione e Allegro da concerto op. 134: 505 – Konzertstu¨ck (Introduzione e Allegro appassionato op. 92): 505 I polittici – Carnaval, Sce`nes mignonnes sur quatre notes op. 9: 508 – Davidsbu¨ndlerta¨nze op. 6: 506 – Faschingschwank aus Wien op. 26: 512 – Fughe op. 72: 513 – Gesa¨nge der Fru¨he op. 133: 514 – Humoreske op. 20: 511 – Intermezzi op. 4: 506 – Kinderszenen op. 15: 509 – Kreisleriana op. 16: 510 – Marce op. 76: 513 – Nachtstu¨cke op. 23: 512 – Papillons op. 2: 505 – Pezzi fantastici op. 111: 514 – Waldszenen op. 82: 514 Le raccolte – Album per la gioventu` op. 68: 517 – Albumbla¨tter op. 124: 517 – Ballo di bambini per pianoforte a quattro mani op. 130: 518 – Bilder aus Osten per pianoforte a quattro mani op. 66: 518 – Bunte Bla¨tter op. 99: 517 – Pezzi fantastici op. 12: 515 – Pezzi op. 32: 517 – Pezzi per bambini piccoli e grandi op. 85: 518 – Polacche per pianoforte a quattro mani : 518

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– Romanze op. 28: 517 – Scene di ballo per pianoforte a quattro mani op. 109: 518 – Sette Pezzi in forma di Fughette op. 126: 518 I Rondo` – Arabeske op. 18: 518 – Blumenstu¨ck op. 19: 518 Le Sonate – Allegro op. 8: 519 – Fantasia op. 17: 521 – Grande Sonata op. 11: 519 – Sonata op. 22: 523 – Sonata op. 14: 520 – Sonate per la gioventu` op. 118: 523 – Toccata op. 7: 518 Gli Studi – Fughe sul nome BACH per pianoforte con pedaliera op. 60: 524 – Schizzi per pianoforte con pedaliera op. 58: 524 – Studi da concerto da Capricci di Paganini op. 10: 524 – Studi per pianoforte con pedaliera op. 56: 524

– Quattro Pezzi di seguito: 529 – Suite op. 21: 530 – Vecchio Minuetto op. 18 n. 2: 529 Skrjabin Aleksandr Nikolaevicˇ Le danze – 2 Improvvisi alla mazurca op. 7: 532 – 2 Mazurche op. 40: 531 – 9 Mazurche op. 25: 531 – 10 Mazurche op. 3: 531 – Due Danze op. 73: 532 – Due Valzer in Re bemolle e sol diesis: 531 – Improvviso alla mazurca op. 2 n. 3: 531 – Mazurca in Fa: 531 – Mazurca in si: 531 – Polacca op. 21: 532 – Quasi-Valzer op. 47: 531 – Valzer op. 1: 531 – Valzer op. 38: 531 Pianoforte e orchestra – Concerto op. 20: 532 – Prometeo, Poema del fuoco op. 60: 533

Le Variazioni – 5 Studi postumi: 527 – Improvvisi su un tema di Clara Wieck op. 5: 526 – Studi in forma di libere Variazioni su un tema di Beethoven: 525 – Studi sinfonici op. 13: 526 – Variazioni per due pianoforti op. 46: 528 – Variazioni su un noto valzer di Franz Schubert: 525 – Variazioni su un Notturno di Chopin: 526 – Variazioni su un tema della Preciosa: 525 – Variazioni sul nome ABEGG op. 1: 525 – Variazioni sul tema degli spiriti: 528 – Variazioni sulla Campanella: 525

Poemi e pezzi vari – 2 Improvvisi op. 10: 533 – 2 Improvvisi op. 12: 533 – 2 Improvvisi op. 14: 533 – 2 Notturni op. 5: 534 – 2 Poemi op. 32: 533 – 2 Poemi op. 44: 533 – 2 Poemi op. 63: 533 – 2 Poemi op. 69: 533 – 2 Poemi op. 71: 533 – Notturno in La bemolle: 534 – Poema op. 41: 533 – Poema satanico op. 36: 533 – Poema tragico op. 34: 533 – Poema-Notturno op. 61: 533 – Preludio e Notturno per la mano sinistra sola op. 9: 534 – Vers la flamme op. 72: 533

Sgambati Giovanni – Concerto per pianoforte e orchestra op. 10: 529 – Due Studi da concerto op. 7: 529 – Fogli volanti op. 12: 529 – Gavotta op. 14: 529 – Melodia: 529 – Melodie poetiche op. 36 (Canto di speranza): 530 – Notturni: 529 – Pezzi lirici op. 23: 529 – Preludio e fuga op. 6: 529

I preludi – 2 Preludi – 2 Preludi – 3 Preludi – 4 Preludi – 4 Preludi – 4 Preludi – 4 Preludi – 4 Preludi – 4 Preludi – 5 Preludi – 5 Preludi

op. 27: op. 67: op. 35: op. 22: op. 31: op. 33: op. 37: op. 39: op. 48: op. 15: op. 16:

536 536 536 536 536 536 536 536 536 535 535 637

Indice delle opere citate

– – – –

5 Preludi op. 74: 536 6 Preludi op. 13: 535 7 Preludi op. 17: 535 24 Preludi op. 11: 534

Le sonate – Allegro appassionato op. 4: 538 – Allegro da concerto op. 18: 538 – Fantasia op. 28: 539 – Sonata in mi bemolle: 537 – Sonata n. 1 op. 6: 538 – Sonata-fantasia n. 2 op. 19: 538 – Sonata n. 3 op. 23: 538 – Sonata n. 4 op. 30: 539 – Sonata n. 5 op. 53: 540 – Sonata n. 6 op. 62: 541 – Sonata n. 7 op. 64: 541 – Sonata n. 8 op. 66: 541 – Sonata n. 9 op. 68: 541 – Sonata n. 10 op. 70: 542 – Sonata-fantasia in sol diesis: 537 Gli – – – –

Studi 3 Studi op. 65: 544 8 Studi op. 42: 543 12 Studi op. 8: 542 Studio in do diesis: 542

Smetana Bedrˇich – Allegro capriccioso: 545 – Andante in fa: 547 – Andante in Mi bemolle: 546 – Bagatelle e Improvvisi: 546 – Danze ceche: 547 – Due Studi: 545 – Fantasia concertante su temi popolari cechi: 545 – Fogli d’album op. 2: 546 – Galop di bravura: 545 – Macbeth e le streghe: 545 – Pezzi caratteristici op. 1: 545 – Polca Bettina: 547 – Polca Luisina: 545 – Quattro Schizzi op. 4: 546 – Quattro Schizzi op. 5: 546 – Romanza in sol: 547 – Rondo` in Do Giovinezza per due pianoforti a otto mani: 546 – Sei fogli d’album: 546 – Sogni: 547 – Sonata in mi per due pianoforti a otto mani: 546 – Sonata in sol: 545 – Studio da concerto op. 12: 545 – Studio da concerto op. 17: 545 – Toccatina in Si bemolle: 545 638

– Tre Fogli d’album op. 3: 546 – Tre Polche da sala op. 7: 545 – Variazioni su un tema dei Capuleti e Montecchi di Bellini: 545 Sorabji Kaikhosru Shapurji – 100 Studi trascendentali: 548 – Concerti per pianoforte e orchestra: 548 – Concerto per suonare da me solo: 548 – Opus clavicembalisticum: 548 – Opus clasymphonicum: 548 – Opus claviorchestrale per pianoforte e orchestra: 548 – Preludio, Interludio e Fuga: 548 – Sequentia cyclica sul Dies Irae: 548 – Sinfonie: 548 – Sonate: 548 – Variazioni e fuga sul Dies Irae: 548 – Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra: 548 Sˇostakovicˇ Dmitrij – Aforismi op. 13: 553 – Concertino per due pianoforti op. 94: 558 – Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra op. 102: 558 – Concerto per pianoforte, tromba e orchestra op. 35: 553 – Danze di bambole: 558 – Preludi op. 2: 551 – Preludi op. 34 : 553 – Quaderno musicale (Marcia, Valzer, L’orso, Una storia buffa, Una storia triste, La bambola meccanica, Il compleanno): 555 – Sonata n. 1 op. 12: 551 – Sonata n. 2 op. 61: 555 – Suite op. 6 per due pianoforti: 551 – Tre Danze fantastiche op. 5: 551 – Ventiquattro Preludi e fughe op. 87: 556 Stockhausen Karlheinz – Klavierstu¨cke I-IV: 559 – Klavierstu¨ck V: 559 – Klavierstu¨cke V-VIII: 560 – Klavierstu¨ck X: 560 – Klavierstu¨ck IX: 560 – Klavierstu¨ck XI: 560 – Klavierstu¨cke XII-XVIII: 561 – Mantra per due pianoforte: 561 – Tierkreis: 562 Strauss Johann jr. – Arabeschi sul valzer ‘‘Il bel Danubio blu’’: 563 – Due Nuove Serate di Vienna: 563

Indice delle opere citate

– Tre Nuove Serate di Vienna, Tre Valzer-Capricci su temi di Johann Strauss: 563 – Trisch-Trasch Polka: 563 Strauss Richard – Burlesca in re per pianoforte e orchestra: 564 – Cinque Pezzi op. 3: 564 – Grande Sonata in do: 564 – Panathena¨enzug per pianoforte (mano sinistra) e orchestra: 565 – Parergon zur Simphonia Domestica op. 73 per pianoforte (mano sinistra) e orchestra: 565 – Schneider-Polka: 564 – Sonata in Mi: 564 – Sonata op. 5: 564 – Stimmungsbilder op. 9: 564 – Tema con 15 improvvisazioni e fuga in la: 564 Stravinskij Igor’ Fe¨dorovicˇ – Capriccio per pianoforte e orchestra: 569 – Cinque Pezzi facili: 566 – Circus Polka: 571 – Concerto per due pianoforti: 569 – Concerto per pianoforte e fiati: 567 – Les cinq doigts: 567 – Movements per pianoforte e orchestra: 571 – Piano-Rag-Music: 566 – Quattro Studi op. 7: 566 – Ragtime: 566 – Scherzo in sol: 566 – Serenata in la: 569 – Sonata: 568 – Sonata in fa diesis: 566 – Sonata per due pianoforti: 571 – Souvenir d’una marche boche: 566 – Tango: 571 – Tarantella: 566 – Tre Pezzi facili: 566 – Trois Mouvements de Petrouchka: 566 – Valse pour les enfants: 566 Szymanowski Karol – Danze polacche: 575 – Fantasia op. 14: 573 – Maschere op. 34: 573 – Mazurche op. 50: 575 – Mazurche op. 62: 575 – Metopi op. 29: 573 – Preludi op. 1: 572 – Preludio e fuga in do diesis: 573 – Quattro Studi op. 4: 572 – Sinfonia concertante op. 60 per pianoforte e orchestra: 575 – Sonata n. 1 op. 8: 573

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Sonata n. 2 op. 21: 573 Sonata n. 3 op. 36: 574 Studi op. 33: 574 Valzer romantico: 575 Variazioni op. 3: 572 Variazioni su un canto popolare polacco op. 10: 572

Thalberg Sigismund – Concerto per pianoforte e orchestra op. 5: 576 – Dodici Studi op. 26: 577 – Fantasia op. 22: 576 – Fantasia sul Mose` di Rossini: 577 – L’Arte del canto applicata al pianoforte: 577 – Scherzo op. 31: 576 – Souvenirs de Beethoven op. 39: 577 – Sonata op. 56: 576 Villa-Lobos Heitor – A Fiandeira: 580 – A Lenda do Caboclo: 580 – A Prole do Bebeˆ n. 1: 578 – A Prole do Bebeˆ n. 2: 579 – Amazonas: 578 – As tres Marias: 580 – Bachianas Brasileiras n. 3 per pianoforte e orchestra: 579 – Bachianas Brasileiras n. 4: 579 – Caixinha de mu´sica quebrada: 579 – Carnaval das crianc¸as brasileriras: 579 – Choˆro n. 5: 580 – Choˆ ro n. 8 per due pianoforti e orchestra: 579 – Choˆro n. 11 per pianoforte e orchestra: 579 – Ciclo brasileiro: 580 – Cirandas: 579 – Cirandinhas: 579 – Concerti per pianoforte e orchestra: 579 – Francette et Pie´: 579 – Guia pratico: 579 – Historias de Carochinha: 579 – Hommage a` Chopin: 580 – Il gatto e il topo: 578 – Momo precoce per pianoforte e orchestra: 579 – New York Sky Line: 580 – Ondulando: 578 – Petizada. Brinquedo de roda: 579 – Rudepoeˆma: 578 – Saudades das selvas brasileiras: 579 – Suite floreale: 578 – Suite infantile n. 1: 579 – Suite infantile n. 2: 579 – Tre Danze caratteristiche africane: 578 – Tristorosa: 578 639

Indice delle opere citate

– Valzer-Scherzo: 578 Vorˇı´sˇek Jan Va´clav – Dodici Rapsodie op. 1: 581 – Fantasia op. 12: 581 – Improvvisi op. 7: 581 – Le De´sir op. 3: 581 – Le Plaisir op. 4: 581 – Rondo espagnol op. 17: 581 – Sonata op. 20: 581 Wagner Richard – Fantasia in fa diesis: 582 – Foglio d’album: 584 – Foglio d’album n. 1: 583 – Foglio d’album n. 2 (Arrivo ai cigni neri): 583 – Polacche per pianoforte a quattro mani: 583 – Polca: 583 – Romanza senza parole in Mi: 583 – Sonata d’Album per Matilde Wesendonck: 583 – Sonata op. 4: 583 – Sonata in Si bemolle per pianoforte a quattro mani: 582 – Sonata op. 1: 582 – Valzer: 583 Weber Franz Anton von I Concerti – Concerto n. 1 op. 11: 585 – Gran Concerto n. 2 op. 32: 585 – Konzertstu¨ck op. 79: 586 Le Danze e i Rondo` – Dodici Allemande op. 4: 587 – Grande Polacca brillante op. 72: 587 – Grande Polacca op. 21: 587 – Invito alla danza op. 65: 587

640

– Momento capriccioso op. 12: 587 – Otto Pezzi per pianoforte a quattro mani op. 60: 587 – Rondo` brillante op. 62: 587 – Sei Fughette op. 1: 587 – Sei Pezzi facili op. 3: 587 – Sei Pezzi per pianoforte a quattro mani op. 10: 587 – Sei Scozzesi senza numero d’opera: 587 – Sei Valzer senza numero d’opera: 587 Le Sonate – Sonata – Sonata – Sonata – Sonata

op. op. op. op.

24: 39: 49: 70:

588 588 589 589

Le Variazioni – Otto Variazioni su un tema di Vogler op. 5: 590 – Sei Variazioni su un tema originale op. 2: 590 – Sette Variazioni su un tema di F. Bianchi op. 7: 590 – Sette Variazioni su un tema di Me´ hul op. 28: 590 – Sette Variazioni su un tema russo op. 40: 590 – Sette Variazioni su una canzone zingaresca op. 55: 590 – Variazioni su un tema originale op. 9: 590 Webern Anton – Kinderstu¨ck: 591 – Klavierstu¨ck: 591 – Movimento di sonata in Do: 591 – Variazioni op. 27: 591

Indice-sommario

Indice-sommario

Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

V

Introduzione. Il pianoforte e le sue epoche storiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

VII

Berio Luciano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 Bloch Ernest . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Brahms Johannes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118

Guida alla Musica Pianistica . . . . . . . . . . .

1

Albe´niz Isaac . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

3

Alkan Charles-Henri-Valentin Morhange detto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Britten Benjamin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Busoni Ferruccio Benvenuto . . . . . . . . . . . 137 Cage John . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150

8

Cˇajkovskij Pe¨tr Il’icˇ . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152

Bach Carl Philipp Emanuel . . . . . . . . . . . . 13

Carter Elliott . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157

Bach Johann Christian . . . . . . . . . . . . . . . . 15

Casella Alfredo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159

Bach Johann Sebastian . . . . . . . . . . – L’Arte della Fuga. . . . . . . . . . . – Il Clavicembalo ben Temperato – I Concerti . . . . . . . . . . . . . . . . – L’Esercizio per Tastiera . . . . . . – Fantasie e Toccate . . . . . . . . . . – Pezzi diversi. . . . . . . . . . . . . . . – Le Sonate . . . . . . . . . . . . . . . . – Le Suite. . . . . . . . . . . . . . . . . .

Castelnuovo-Tedesco Mario . . . . . . . . . . . . 162

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16 21 22 31 34 40 43 45 46

Ba˛darzewska-Baranowska Tekla. . . . . . . . . 51 Balakirev Milij Alekseevicˇ . . . . . . . . . . . . . 53 Barber Samuel Osborne . . . . . . . . . . . . . . 55 Barto´k Be´la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 – I Concerti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 – Le opere per pianoforte . . . . . . . . . . . . 58 Beethoven Ludwig van . – Le Bagatelle . . . . . . – I Concerti . . . . . . . – Rondo` e pezzi vari . – Le Sonate . . . . . . . – Le Variazioni . . . . .

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67 68 72 81 83 103

Berg Alban. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112

Chabrier Emmanuel . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 Chopin Fryderyk . . . . . . . . . . . . – Le Ballate . . . . . . . . . . . . . . – I Concerti . . . . . . . . . . . . . . – Gli Improvvisi . . . . . . . . . . . – Le Mazurche . . . . . . . . . . . . – I Notturni . . . . . . . . . . . . . . – Le Polacche . . . . . . . . . . . . . – I Preludi . . . . . . . . . . . . . . . – Gli Scherzi. . . . . . . . . . . . . . – Le Sonate . . . . . . . . . . . . . . – Gli Studi . . . . . . . . . . . . . . . – I Valzer . . . . . . . . . . . . . . . . – Le Variazioni e le Fantasie . .

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166 166 167 169 170 171 173 174 177 178 180 182 183

Clementi Muzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186 – Le Sonate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 186 – Le opere didattiche . . . . . . . . . . . . . . . 189 Copland Aaron. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192 Cowell Henry. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194 Cramer Johann Baptist . . . . . . . . . . . . . . . . 196 Czerny Carl . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 641

Indice-sommario

Dallapiccola Luigi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200

Kabalevskij Dmitrij . . . . . . . . . . . . . . . . . . 291

Debussy Achille-Claude . . . . . . . . . . . . . . . 202

Ligeti Gyo¨rgy. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 293

Dukas Paul-Abraham . . . . . . . . . . . . . . . . . 218

Field John . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235

Liszt Franz. . . . . . . . . . . . . . . – Gli Anni di pellegrinaggio – Le altre raccolte . . . . . . . . – Le Ballate e le Leggende . – I Concerti . . . . . . . . . . . . – Le Fantasie . . . . . . . . . . . – I Notturni . . . . . . . . . . . . – Gli Omaggi . . . . . . . . . . . – Le Rapsodie. . . . . . . . . . . – La Sonata in si . . . . . . . . . – Le trascrizioni . . . . . . . . .

Franck Ce´sar . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238

Ljapunov Sergej Mikhailovicˇ . . . . . . . . . . . 324

Gershwin George. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241

MacDowell Edward . . . . . . . . . . . . . . . . . . 325

Ginastera Alberto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246

Malipiero Gian Francesco . . . . . . . . . . . . . 328

Giustini Lodovico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 248

Martin Frank . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 331

Glazunov Aleksandr. . . . . . . . . . . . . . . . . . 249

Martinu˚ Bohuslav . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Godowsky Leopold . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251

Martucci Giuseppe. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 335

Golinelli Stefano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253

Medtner Nicolai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 339

Gottschalk Louis Moreau. . . . . . . . . . . . . . 254

Mendelssohn-Bartholdy Felix . . . . . . . . . . . 341

Granados y Campin˜a Enrique . . . . . . . . . . 257

Messiaen Olivier . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 350

Grieg Edvard Hagerup. . . . . . . . . . . . . . . . 262

Milhaud Darius . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354

Ha¨ndel Georg Friedrich . . . . . . . . . . . . . . . 266

Mjaskovskij Nikolaj Jakovlevicˇ . . . . . . . . . . 357

Haydn Joseph Franz. . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 – I Concerti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268 – Le Sonate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268

Mompou y Dencause Federico . . . . . . . . . 360

Dussek Jan Ladislav. . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 Dvorˇa´k Antonı´n . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 Eckard Johann Gottfried . . . . . . . . . . . . . . 226 Falla Manuel de . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227 Faure´ Gabriel-Urbain . . . . . . . . . . . . . . . . . 231

Heller Stephen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 274

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297 298 301 303 304 308 312 313 314 316 320

Moscheles Ignaz . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362 Moszkowski Moritz . . . . . . . . . . . . . . . . . . 364

Hummel Jan Nepomuk . . . . . . . . . . . . . . . 282

Mozart Wolfgang Amadeus – I Concerti . . . . . . . . . . – Fantasie, Fughe, Rondo` – Le Sonate . . . . . . . . . . – Le Variazioni . . . . . . . .

Ives Charles . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 286

Musorgskij Modest Petrovicˇ. . . . . . . . . . . . 395

Jana´cˇek Leo´sˇ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289

Nielsen Carl . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 401

Henselt Adolf . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276 Hindemith Paul . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278

642

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366 368 375 379 391

Indice-sommario

Nono Luigi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 403

Sgambati Giovanni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 529

Petrassi Goffredo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 404

Skrjabin Aleksandr. . . . . . . – Le danze . . . . . . . . . . . – Pianoforte e orchestra . – Poemi e pezzi vari . . . . – I preludi . . . . . . . . . . . – Le sonate. . . . . . . . . . . – Gli Studi . . . . . . . . . . .

Pizzetti Ildebrando. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 406 Poulenc Francis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 408 Prokof’ev Sergej. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – I concerti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le raccolte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le sonate. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le trascrizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

413 414 417 419 426

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531 531 532 533 534 537 542

Smetana Bedrˇich . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 545 Sorabji Kaikhosru Shapurji. . . . . . . . . . . . . 548

Rachmaninov Sergej Vasil’evicˇ . . . . . . . . . . 428

Sˇostakovicˇ Dmitrij Dmitrievicˇ. . . . . . . . . . . 550

Ravel Maurice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 440

Stockhausen Karlheinz . . . . . . . . . . . . . . . . 559

Reger Max . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 451

Strauss jr. Johann . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 563

Reubke Julius . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 454

Strauss Richard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 564

Rossini Gioachino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 455

Stravinskij Igor’ Fe¨dorovicˇ . . . . . . . . . . . . . 566

Roussel Albert . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 458 Rubinsˇtejn Anton. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 460 Saint-Sae¨ns Camille . . . . . . . . . . . . . . . . . . 463 Satie Erik. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 467 Scarlatti Domenico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 470 Scho¨nberg Arnold . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 473 Schubert Franz. . . . . . . . . . . . – Danze e Marce. . . . . . . . . – Fantasie e Divertimenti . . – Le Sonate . . . . . . . . . . . . – Le Variazioni . . . . . . . . . .

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478 479 484 490 501

Schumann Robert Alexander . . . . . . . . . . . – I polittici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le raccolte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – I Rondo` . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le Sonate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Gli Studi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . – Le Variazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

503 505 515 518 518 523 524

Szymanowski Karol . . . . . . . . . . . . . . . . . . 572 Thalberg Sigismund . . . . . . . . . . . . . . . . . . 576 Villa-Lobos Heitor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 578 Vorˇı´sˇek Jan Va´clav. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 581 Wagner Richard . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 582 Weber Carl Maria von . . – I Concerti . . . . . . . . – Le Danze e i Rondo` . – Le Sonate . . . . . . . . – Le Variazioni . . . . . .

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585 585 587 588 590

Webern Anton von . . . . . . . . . . . . . . . . . . 591

Indice cronologico dei compositori . . . . . . . . 595 Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 597 Indice delle opere citate . . . . . . . . . . . . . . . . 612

643

Annotazioni

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645

Annotazioni

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Alcuni titoli dal catalogo Zecchini Editore Le Guide Zecchini: Ettore Napoli (a cura di), Guida alla Musica Sinfonica, 2010 " Aldo Nicastro (a cura di), Guida al Teatro d’Opera, 2011 " Piero Rattalino, Guida alla Musica Pianistica, 2012 " In preparazione: Claudio Bolzan (a cura di), Guida alla Musica da Camera Manuali per pianoforte: Piero Rattalino, Manuale tecnico del pianista concertista, 2007 " Piero Rattalino, L’interpretazione pianistica. Teoria, storia, preistoria, 2008 " Nino Gardi, Il Bianco e il Nero. Considerazioni storico-critiche sulla tecnologia pianistica, 2008 " Andrea Gherzi, La sonata per pianoforte nel 1700 e 1800, 2009 " Francesco Giammarco, Il pedale di Chopin. L’estetica del pedale di risonanza nella musica pianistica di Fryderyk Chopin, 2010 " Tiziano Poli, Happy Fingers. La via fisiologica e naturale per la tecnica pianistica, 2010. Collana ‘‘Grandi Pianisti’’: Piero Rattalino: Vladimir Horowitz. Il mattatore, 2005 " Wilhelm Backhaus. Il pastore, 2005 " Sviatoslav Richter. Il visionario, 2005 " Arturo Benedetti Michelangeli. L’asceta, 2006 " Glenn Gould. Il bagatto, 2006 " Sergej Rachmaninov. Il tataro, 2006 " Ignaz Jan Paderewski. Il patriota, 2006 " Artur Rubinstein. Lo sciupafemmine, 2006 " Claudio Arrau. Il filosofo, 2006 " Josef Hofmann. La sfinge, 2007 " Ferruccio Busoni. Il mercuriale, 2007 " Friedrich Gulda. Lo scandalistico, 2007 " Alfred Cortot. Il sosia, 2010 " Alfred Brendel. La tartaruga, 2010. Collana ‘‘Grandi Voci’’: Gianni Gori, Mario Del Monaco. Mille guerrier m’inseguono..., 2008 ´ ngeles. Nella Musica per vivere (e Soprav" Vincenzo Ramo ´n Bisogni, Victoria de los A vivere), 2008 " Vincenzo Ramo ´n Bisogni, Franco Corelli. Irresistibilmente tenore, 2009. Collana ‘‘Personaggi della Musica’’: Giorgio De Martino, L’utopia possibile. Vita, Musica e Filosofia di Boris Porena, 2004 " Cord Garben, Arturo Benedetti Michelangeli. In bilico con un genio, 2004 " Roberta Paganelli, Juanita Caracciolo. Una breve e fulgida stella tra Puccini e Mascagni, 2008 " Vincenzo Ramo ´n Bisogni, Angelo Mariani tra Verdi e la Stolz, 2009 " Alessandro Mormile, Controtenori. La rinascita dei ‘‘nuovi angeli’’ nella prassi esecutiva dell’opera barocca, 2010 " Giuseppe Clericetti, CharlesMarie Widor. La Francia Organistica tra Otto e Novecento, 2010 " Marco Beghelli-Raffaele Talmelli, Ermafrodite armoniche. Il contralto nell’Ottocento, 2011 " Luciano Feliciani, Aaron Copland. Pioniere della musica americana, 2011 " Vincenzo Ramo ´n Bisogni, Joseph Schmidt. The pocket Caruso. Un tenore in fuga, 2012 Collana ‘‘Grandi Direttori’’: Alessandro Zignani, Dimitri Mitropoulos. Una luce che incatena il cielo, 2007 " Alessandro Zignani, Herbert von Karajan. Il musico perpetuo, 2008 " Umberto Padroni, Sergiu Celibidache. La fenomenologia per l’uomo, 2009 " Alessandro Zignani, Carlo Maria Giulini. Una demonica umilta `, 2009 " Maurizio Modugno, Thomas Schippers. Apollo e Dioniso, Eros e Thanatos, 2009 " Alessandro Zignani, Leonard Bernstein. Un’anima divisa in due, 2009 " Alessandro Zignani, Carlos Kleiber. Il tramonto dell’Occidente, 2010. Collana ‘‘Musica e Storia’’: Alessandro Nava, Il terzo uomo di Mussolini, 2002 " Stefano Crise, Un silenzio cantato. Hausmusik e scrittori nella Trieste asburgica, 2006 " Stefano Crise, La divina ispirazione. L’educazione musicale del popolo nella Trieste asburgica, 2007 " Marisa Malvasi, Viaggi di note, note di viaggi. L’Italia vista dai musicisti stranieri dal Grand Tour al Novecento, 2010 " Pier Vittorio Marvasi, L’Europa all’Opera. Radici musicali dell’Unione Europea, 2010.