Godard: alla ricerca dell'arte perduta 8880120867, 9788880120865


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Godard: alla ricerca dell'arte perduta
 8880120867, 9788880120865

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Suzanne Liandrat-Guigues Jean-Louis Leutrat

Godard Alla ricerca dell’arte perduta Edizione italiana a cura di Sergio Arecco

Le Mani

Edizione originale: Suzanne Liandrat-Guigues - Jean-Louis Leutrat, Jean-Luc Godard © Ediciones Càtedra, Madrid 1994 © Suzanne Liandrat-Guigues - Jean Louis Leutrat per la sezione ’Cartografìa godardiana* Traduzione italiana di Sergio Arecco.' I edizione italiana: 1998 '* © 1998 Le Mani - Microart’s Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova tei. 0185 - 730111 - fax 0185 - 720940 http://www.starfarm.it/LeMani e-mail: [email protected]

Grafica di Marco Vimercati 1SBN-88-8012-086-7

Indice

Nota del Curatore

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Alla ricerca dell’arte perduta 1. Godard prima di Godard 2. Il fuoco d’artifìcio 3. Paula-Lola 4. La discontinuità 5. Dentro/fuori 6. La Storia 1 7. Le parole e le lettere: l’ABC di JLG 8. Citazioni 9. Pittura 1 10. Resnais-Godard 11. Musica 12. Il film perpetuo 13. Pittura 2 14. Fare il ritratto 15. La Storia 2 16. Teatri della memoria 17. Atomismo lucreziano. Il lavoro delle forme 18. Deleuze-Godard 19. Il ricominciare 20. Il mare 21. Il grande ladro 5

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Indice

Cartografìa godardiana (1979-1996)

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Filmografìa

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Bibliografìa essenziale



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Indice dei nomi

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Nota del Curatore

L’edizione italiana della presente opera tiene natural­ mente conto delle esigenze del lettore italiano. Il quale, evidentemente, necessita di un maggior numero di punti di riferimento rispetto al lettore francese e quindi di un mag­ gior numero di esplicitazioni. Questo vale sia per il com­ plesso del testo tradotto, in cui il Curatore ha talvolta, quand’era strettamente indispensabile, esplicitato certi pas­ saggi o citazioni con una traduzione che fosse anche un’in­ terpretazione e un'integrazione, sia per l’ampio apparato di note appositamente predisposto. Per quanto riguarda il saggio Godard: alla ricerca del­ l’arte perduta - esclusa dunque la Cartografìa godardiana posta in appendice - si fa notare che gli Autori hanno ap­ posto in calce una sola nota: quella che nella nostra edizio­ ne reca il n. 98. Gli Autori hanno poi incorporato nel testo - in occasione di citazioni testuali da testi di Godard o di altri - alcuni rinvìi bibliografici (quelli corrispondenti alle note 6, 25, 26, 57, 62, 73, 74, 82, 95, 107, 115, 122 della presente edizione), inseriti secondo un criterio non siste­ matico. Il Curatore, nei limiti del possibile, e tenendo con­ to della traduzione italiana di parecchi dei testi indicati da­ gli Autori, si è preoccupato di introdurre una maggiore si­ stematicità, a tutto vantaggio del lettore italiano, che a mol­ ti dei testi citati potrà quindi fare riferimento nell’edizione italiana. Si spiega così l’elevato numero di note bibliografiche. E 7

Godard: alla ricerca dell’arte perduta

si spiega così anche l’elevato numero di note non biblio­ grafiche ma strettamente pertinenti il senso di molti enun­ ciati degli Autori, senso che non avrebbe fruito del pieno e meritato apprezzamento del lettore se non fossero interve­ nute alcune necessarie «pezze d’appoggio» esplicative. Per quanto riguarda la Cartografia godardiana va inve­ ce segnalato che, in molti casi, si è semplicemente trasferi­ to nelle note in calce quanto indicato tra parentesi dagli Autori come riferimento bibliografico. L’intervento esplica­ tivo del Curatore si è limitato alle note 2, 6, 7, 9, 11, 12, 13, 26, 28, 30, 35, 36, 39, 42, 44, 48, 52, 54, 55, 56, 57, e solo nel caso delle note 12, 13, 30, 42, 52, 56, 57 si è trattato di rilievi attinenti alla sostanza interpretativa del testo. A tale proposito è quasi superfluo sottolineare, soprat­ tutto per il saggio vero e proprio, l’alto livello di originalità della scrittura degli Autori, fittissima di allusioni e sottinte­ si, riferimenti colti e risonanze interne, tutto un tessuto •analogico» che, nel caso specifico dell’ermeneutica godar­ diana, si infittisce di ulteriori echi e contrappunti sia cine­ matografici sia extracinematografici, quasi in competizione col sistematico «gioco citazionale» di Godard medesimo, per cui si sono per l’appunto resi indispensabili, in alcuni passaggi, una traduzione/interpretazione e un complesso di note in qualche modo «compensativo». S^4.

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Alla ricerca dell’arte perduta

Il cinema di Godard è certamente, nel panorama cine­ matografico attuale, quello che si concilia più facilmente con la nozione di arte contemporanea. La rivista -Art Press­ ila dedicato a Godard un numero speciale1 e parecchi arti­ sti nel corso degli anni settanta hanno riconosciuto una so­ stanziale affinità tra la loro ricerca e la sua pratica di regia. In anni recenti, il rapporto di Godard col video è tornato a riproporre la legittimità della sua collocazione tra gli artisti contemporanei. Nello stesso tempo il cinema continua a costituire la settima arte, l’arte che è potuta apparire a mol­ te persone di buon senso come il mezzo espressivo per ec­ cellenza del XX secolo. In realtà, il percorso del cinema è solo parallelo a quello dell’arte contemporanea, e non si confonde con essa. Mezzo espressivo meticciato, impuro, il cinema è per definizione un’arte di frontiera. Godard alla ricerca dell’arte perduta, allora, tra Proust e Spielberg? Solo da un itinerario zigzagante attraverso la sua opera, da un contrappunto tra i film degli anni sessanta e certe opere degli anni ottanta, può scaturire una risposta. Jean-Luc Godard lavora nel cinema da oltre quarant’anni. I suoi film sono numerosi, alcuni diffìcili da visionare, altri invisibili. Ed è lecito sospettare che vi siano opere di cui non si suppone neppure 1’esistenza. In ultima analisi, sia pure per ragioni diverse, vedere tutta l’opera di Godard 1. Cfr, «Art Press-, n. 4, Special Godard (dicembre 1984).

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Suzanne Liandrat-Guigues - Jean-Louis Leutrat

è difficile come vedere tutta l’opera di un regista come John Ford, dal momento che una parte dell’opera di Ford è irrimediabilmente perduta e, in egual misura, l’accesso a quella di Godard, intesa nella sua totalità, è semplicemente rinviato a data da destinarsi. Ogni discorso su Godard deve dunque fare i conti con questi limiti oggettivi. Nell’opera di Godard, come in quella di Picasso, si di­ stinguono abitualmente più -periodi-. Da un’epoca all’altra vi si ravvisano delle costanti precise, al cui interno è possi­ bile cogliere un sottile gioco di variazioni. Alcuni passi di Berenice sono recitati sia in Una donna sposata (1964) sia in Cura la tua destra (1987), ma già in un articolo del dicembre 1958 Godard cita la tragedia di Racine. In un altro articolo del febbraio 1959 cita il finale dell’Etertra di Giraudoux, il quale riappare puntualmente in Prénom Carmen (1982). In II bandito delle undici (1965) allude a Aucassin et Nicolette2- e ripete l’allusione in Nouvelle Vague (1990): ebbene, la fiaba è ricordata fin dall’apri­ le 1959 nella recensione di Tempo di vivere, tempo di mori­ re di Douglas Sirk3. Shakespeare, Queneau, Beethoven, Pi­ casso sono riferimenti comuni ai due -periodi-. Le dernier mot (1988) riprende l’esempio di Vaugelas («Je m’en vais ou je m’en vas, car l’un et l'autre est ou sont franca is... et se dit, ou se diserri-)4 che Emile Récamier (Brialy) dice alla 2. Aucassin et Nicolette è una -chantefable- (cantafavola, fiaba in prosa e in versi) di anonimo del XH-XIII secolo, una sorta di Piramo e Tisbe con qualcosa dell' Yvain e del Lancelot. 3. Cfr. J.-L. Godard, Des larmes et de la vitesse, in «Cahiers du Cinéma-, n. 94 (aprile 1959), ora in 11 cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1971, p. 143. 4. Claude Favre de Pérouges Vaugelas (1585-1650). Letterato e gram­ matico. Fu tra i fondatori dell'Académie Fran^aise per la quale curò la pubblicazione del Dizionario (1638). L'esempio proposto, un promemoria per la flessione verbale, è intra­ ducibile. La traduzione letterale suonerebbe così: -Io me ne vado o io me ne vai, perché l'uno e l’altro è e sono francesi (...) e si dice, o si di­ cono-. In altre parole: «Se io sono io, dico me ne vado, ma se io sono tu, diventa tu te ne vai, perché l'uno se è singolare è è e se è plurale è sono, in francese, e uno da solo si dice ma più di uno si dicono. 10

Alla ricerca dell'arte perduta

moglie (Anna Karina) in La donna è donna (1961), rispon­ dendo alla domanda «Pourquoi c’est les femmes qui souffrent?-: «Parce que c’est elles qui font souffrir, ou ce sont elles, car l’un et l’autre est ou sont frangais, et se dit ou se disent-5. Sull’auto di Una storia americana (1966) è traccia­ ta la scritta «i giardini di Armida- e l’episodio di Aria (1986) si ispira ad Armida e Rinaldo di Lully, ecc. Più in generale, possiamo dire che il gusto per le dida­ scalie elaborate e strategicamente disseminate, per le dedi­ che, per i colori blu-bianco-rosso, per il lavoro sui simboli della vita moderna, per la ricerca del discontinuo e del frammentario sono altrettante costanti che fanno da ponte attraverso il tempo e consentono di stabilire un certo nu­ mero di tematiche e di interessi similari, in altre parole di proporre un’identità d’autore. Ma è altrettanto facile presu­ mere che il discontinuo e il frammentario non osservino gli stessi comportamenti nel corso di tutti i «periodi- presi in considerazione. Il metodo di lavoro di Godard si è evoluto attraverso un continuo processo di cambiamento, di diversificazione, soprattutto in funzione dei diversi partner e dei diversi obiettivi. Si possono dunque distinguere dei «periodi-, te­ nendo comunque conto che la nostra periodizzazione non ha alcuna pretesa di assolutezza. La coerenza interna a ciascun -periodo- è in realtà deducibile a posteriori. A ri­ gore, criteri sempre diversi presiedono a sceneggiature sempre diverse. E tali sceneggiature si pongono sia in un rapporto di successione cronologica sia di coesistenza atemporale. I suddetti «periodi- possono essere descritti rapidamente così. In un primo tempo Godard si realizza all’interno di una «famiglia- (quella dei cinefili parigini raccolti attorno alla 5. Come sopra. Possibile traduzione: -Perché sono le donne a soffrire? Perché è ognuna di loro a far soffrire, o sono loro a farlo, perché l’u­ no se è singolare è è e se è plurale è sono, in francese, e una donna da sola si dice ma più di una si dicono-. 11

Suzanne Liandrat-Guigues - Jean-Louis Leutrat

Cinémathèque di rue de Messine e destinati a formare il gruppo dei -Cahiers du Cinéma-, i primi «Cahiers-, quelli con la copertina gialla) e alle prese con impegni disparati: articoli (raccolti per la maggior parte nel volume Godard par Goda refi), pseudointerviste, soggetti e sceneggiature, collaborazioni al montaggio, regia di cinque cortometraggi (Opération Beton, Une femme coquette, Tous les gar^ons s’appellent Patrick, Une bistoire d’eau, Charlotte et son Jules}... Questo apprendistato dura nove anni, dal 1950 al 1958. Il -periodo- dell’apprendistato è seguito dal -fuoco d’artifìcio- degli anni sessanta, predisposto con la collaborazione di un gruppo di amici, tra cui Raoul Coutard, Agnès Guillemot, Michel Legrand, Anna Karina, ecc. Que­ sto secondo -periodo- va dal 1959 al 1966 e comprende i film Fino all’ultimo respiro, Le petit soldat, La donna è donna, Questa è la mia vita, Les carabiniers, Il disprezzo, Bande à part. Una donna sposata, Agente Lemmy Cau­ tion missione Alphaville, Il bandito delle undici, Il ma­ schio e la femmina, Una storia americana, Due o tre cose che so di lei, oltre ai cortometraggi inseriti in cinque film a episodi: L’accidia (I sette peccati capitali), Il nuovo mondo (Rogopag), Le grand escroc (Le più belle truffe del mondo, espunto dali’ed. definitiva), Montparnasse-Levallois (Paris vupar...), L’amore nel 2000 (L'amore attraver­ so i secoli). Il 1967 è l’anno di La cinese, -un film en train de se faire- (un film in corso di lavorazione), e Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, -un film trouvé à la ferraille» (un film rinvenuto fra i rottami, oppure, con un neologismo, un film sfuggito alla rottamazione), accomuna­ ti, come si vede, da una sorta di metafora meccanica. Allo stesso periodo appartengono due cortometraggi: Camera 6.

J.-L Godard, Godard par Godard, a cura di A. Bergala, Collection •Cahiers du Cinéma- / Ed. de L'Etoile, Paris 1985. Edizione accresciu­ ta del volume Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, collection •Cahiers du Cinema-, Ed. P. Belfond, Paris 1968 [in 11 cinema è il ci­ nema, tr. it. parziale di A. Aprà, cit.J. 12

Alla ricerca dell'arte perduta

Eye (episodio di Lontano dal Vietnam) e L’amore (episodio di Amore e rabbia). Successivamente, dal 1968 al 1979, Godard si mette a viaggiare e a lavorare con partner eterogenei (inglesi, ame­ ricani, italiani, tedeschi...). Tenta un’operazione nella quale la nozione di autore si confonde: La gaia scienza, Cinétracts, Un film comme les autres, One plus one, British Sounds, Pravda, Lotte in Italia, Vento dell’est, Vladimir et Rosa, Crepa padrone, tutto va bene, Letter to Jane. Poi, dal 1974 al 1979, è la volta del lavoro in coppia (in particolare con Anne-Marie Miéville), della fondazione del­ la Sonimage e dell’alternanza di cinema e video. Le opere del «periodo» sono: lei et Ailleurs, Numero deux, Comment ga va, France tour/détour deux enfants. Questo «periodo» e il precedente, i peggio conosciuti, sono momenti di un’in­ tensa rimessa in questione ma anche di una sperimentazio­ ne non meno febbrile: sono, più di altri, anni-laboratorio. Sesto -periodo»: Godard vuole ormai essere solo contro tutti e gira un film, Passion, le cui suggestioni si riverbere­ ranno in altre opere del «periodo»: Scénario video de "Sauve qui peut (la vie)», Si salvi chi può (la vita), Changer d'ima­ ge, Scénario du film ‘Passion», Lettre à Freddy Buacbe, Prénom Carmen, Petites notes à propos du film Je vous salue Marie», Je vous salue Marie, Détective, Soft and Hard, Grandeur et décadence d'un petit commerce de cinéma, opere complessivamente strutturate come un -sistema» au­ tonomo. Il complesso delle opere tra il 1987 e il 1995 finirà per costituire una sorta di settimo «periodo», raggruppando: King Lear, Cura la tua destra, On s’est tous défilé, Puissan­ ce de la parole, Le demier mot, Histoire(s) du Cinéma, Le rapport Darty, Nouvelle Vague, L’enfance de Part, Aria, Allemagne 90 neuf zèro, Hélas pour moi. Questi film (sia gi­ rati con un supporto tradizionale sia in video) costituisco­ no i frammenti di un’unica opera in espansione e, conte­ stualmente, propongono nuove soluzioni espressive so­ vrapposte alle soluzioni sperimentate negli anni sessanta. 13

Suzanne Liandrat-Guigues -Jean-Louis Leuirat

1. Godard prima di Godard

Jean-Luc Godard nasce il 3 dicembre 1930 a Parigi. Il padre è medico. La madre è figlia di banchieri svizzeri. Ha una sorella. Risiede ora in Francia, a casa del padre, ora in Svizzera, a casa della madre. Il padre è padrone di un bat­ tello battezzato significativamente Le Trait d’Union. La fa­ miglia simpatizza per il maresciallo Pétain: «Il giorno in cui Brasillach venne fucilato la nostra famiglia cadde in uno stato di prostrazione*. Jean-Luc beneficia dei vantaggi del­ l’educazione che l’appartenenza a una famiglia agiata è so­ lita procurare. Il nonno paterno era amico di Paul Valéry. Jean-Luc va a scuola a Nyon fin verso i tredici anni, poi frequenta il Lycée Buffon di Parigi fino ai vent’anni. Nel 1949 ottiene un «certificai d’ethnologie- (attestato di studi etnologici) alla Sorbona. Ma la sua formazione universitaria è di breve respiro. Sono anni in cui nuove ambizioni serpeggiano nell’am­ bito della critica cinematografica. La teoria della camérastylo di Alexandre Astruc è del 1948. Jean-Georges Auriol, nel 1946, riesuma la «La Revue du Cinema». -Les Cahiers du Cinéma» (che si presentano con un programma di piena convergenza con «La Revue du Cinéma») e «Positif» esordi­ scono nei primi anni cinquanta. I cineclub si sviluppano al­ lora. Lo «Studio Montparnasse» animato da Jean-Louis Chéray, «Objectif 49» creato come filiazione della «Revue du Cinéma», il «Ciné-Club du Quartier Latin» (il giovedì pome­ riggio al Cluny-Palace), animato da Froeschel. È frequen­ tando quest’ultimo che Godard incontra Rohmer e Rivette («la gang Scherer»7, come diceva Doniol-Valcroze), coi qua­ li fonda «La Gazette du Cinéma», cinque numeri tra il mag­ gio e il novembre 1950. André Bazin dirige un cineclub mattutino dedicato ai classici. E Francois Truffaut, sedicen­ ne, si lamenta per le sovrapposizioni d’orario col suo «Cercle Cinémane», fondato nel 1947. Alla fine del 1948 un «Fe­ stival du Noir américain» favorisce l’incontro fra il gruppo 7. Maurice Scherer è il vero nome di Eric Rohmer. 14

Alla ricerca dell'arte perduta

di «Objectif 49* e i frequentatori del «Ciné-Club du Quartier Latin*. Nel 1949 organizzano insieme il «Festival Indépendant du film maudit», in margine al Festival di Cannes. La giuria è composta da Jean Cocteau (Presidente), Robert Bresson, René Clement, Henri Langlois, Francois Mauriac, Raymond Queneau. Orson Welles fa parte del comitato di­ rettivo. Rivette, Truffaut, Godard sono evidentemente tra gli spettatori più assidui. I primi articoli di Godard appaiono tra il giugno e l’otto­ bre 1950 su «La Gazette du Cinéma». Godard propone i suoi scritti anche a «La Revue du Cinéma», che li rifiuta. Oc­ corre attendere il gennaio 1952 per vedere comparire il suo nome sui «Cahiers du Cinéma*. Nel 1952 i testi sono appe­ na tre89 . Il suo nome riappare nell’ agosto-settembre 1956°. Ci sono dunque due «silenzi* di Godard: nel 1951 e, per tre anni, dal 1953 al 1955. Nel 1951 avrebbe viaggiato nel­ l’America del Nord e del Sud. Del periplo restano tracce in due articoli. In particolare, nel 1959, in una recensione di Orfeo negro, egli evoca Marcel Camus costretto ad aspetta­ re un assegno per terminare il suo film e temporaneamente a spasso in quella città «piuttosto prodigiosa» che è Rio de Janeiro: «Io mi sono trovato esattamente nella stessa situa­ zione». E ricorda allora il piccolo aerodromo di Santos-Dumont, «i piccoli autobus a forma di station-wagon che cor­ rono a perdifiato dallo stadio di Maracanà alla spiaggia di Copacabana», il modo di tenere i biglietti di banca «piegati in lunghezza fra ogni dito delle due mani*10. Quanto al triennio 1953-55, Godard dirà di essersela do­ vuta cavare da sé in ragione delle riluttanze dei genitori a mantenerlo senza far nulla, e dirà, tra l'altro, di aver lavora­ to nel cantiere di costruzione della diga La Grande Dixen8. Due sono molto importanti: Supremazie du sujet, recensione di L’al­ tro uomo o Delitto per delitto di Hitchcock (n. 10, marzo 1952) e De­ fense et illustration du découpage classique (n. 15, settembre 1952) [entrambi in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, cit., pp. 30-41], 9. Recensione di Artisti e modelle di F. Tashlin (n.62). IO. Le Brésil vu de Billancourt, in -Cahiers du Cinéma-, n. 97 (luglio 1959) (in J.-L Godard, Il cinema è il cinema, cit., pp. 150-52]. 15

Suzanne Liandrat-Guigues - Jean-Louis Lenirai

ce, in Svizzera. Nel frattempo gira Operation Beton, che vende alla società costruttrice della diga, il che gli consente di vivere un anno o due. A proposito di questo «periodo» Godard ha fatto, o ha lasciato volutamente, correre le voci più «scandalose»; avrebbe dichiarato alla «Tribune de Genè­ ve» di «aver rubato le cineprese della TV zurighese, fatto saltare una cassaforte, lavorato come muratore, venduto qualche Renoir (Auguste), rubacchiato a suo nonno ban­ chiere e sottratto la cassa dei “Cahiers du Cinéma”. Dopo­ diché, secondo altre voci, sarebbe stato arrestato per diser­ zione e rinchiuso nel carcere di Ginevra» (Georges Sadoul). È a questo punto che Godard rompe con la famiglia. Nel corso degli anni quaranta compaiono opere di JeanPaul Sartre (1943; L'essere e il nulla, Le mosche-, 1945; A porte chiuse-, 1946: La sgualdrina timorata-, 1943: Le mani sporche), Simone de Beauvoir (1943: L'invitata), Albert Ca­ mus (1942: Lo straniero), ma anche di Louis Aragon (1941: Crepacuore-, 1942: Gli occhi di Elsa), Paul Eluard (1946: Le dur désir de durer), Francis Ponge (1942: Il partito preso delle cose), Jean Anouilh (1944: Antigone), André Malraux (1947: Le musée imaginaire), Simone Weil (1948: La pesan­ tezza e la grazia), Raymond Queneau (1943: Les ziaux-, 1948: L’istante fatale), e ancora di Jean Giraudoux (morto nel 1944: la sua Pazza di Chaillot è rappresentata postuma nel 1945), di Louis-Ferdinand Céline (1944: Guignol's Band)-, mentre il surrealismo rimane molto attuale all’epoca (1947: Arcane 17 di André Breton)11. L’educazione intellettuale di Godard si sviluppa in que­ sto clima, si nutre di questi scrittori. Il regista frequenta gli amici dei «Cahiers du Cinéma», un ambiente esclusivo, feb­ brile, appassionato, e si preoccupa di ottenere in particolare l’approvazione di Rohmer e Rivette. I «Cahiers» difendono una «politica degli autori» che si alimenterà a lungo. In pri­ mo luogo è «autore» colui che -fa» il film. In secondo luogo 11. La successione di tìt. francesi e tit. italiani si spiega col fatto che si sono lasciati in originale i tit. francesi non tradotti in Italia. Così in seguito.

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bisogna conciliare tale primato con le esigenze della regia. Nei critici dei «Cahiers» sussiste una vocazione letteraria fru­ strata (Rohmer, Truffaut, e lo stesso Godard, la cui massima ambizione è quella di pubblicare un romanzo da Gallimard, come Astruc). Non si tratta semplicemente di raccontare storie diverse, ma di raccontarle in modo diverso, a una di­ versa velocità, di proporre allo spettatore situazioni nuove. Come ha detto Godard, già nel loro atto di scrivere è impli­ cito l’atto di regia. A somiglianza dei registi che ammirano, Bresson, Tati o Rouch, cercano già altri spazi, altri corpi, al­ tri attori, tendono a un cinema che unisca il documento e la fiction, l’alea e il dispositivo, il caso e la necessità. Per un certo periodo Godard si firma Hans Lucas (JeanLuc in tedesco), per emulare Maurice Scherer che si firma con lo pseudonimo di Eric Rohmer. Ama Nicholas Ray, Bergman, i film francesi «medi* (Norbert Carbonnaux) e i film -falliti» (a suo dire) come Montparnasse di Becker o II paradiso dei barbari e II dominatore di Chicago di Ray... Sotto la sua penna torna insistentemente una domanda: che cosa è il cinema? A interessarlo sono i film che espri­ mono «contemporaneamente l’arte e la teoria dell’arte» {Eliana e gli uomini di Renoir, L'uomo del West di Wyler). Pone l’accento sul montaggio: «Se mettere in scena è uno sguardo, procedere al montaggio è un battito cardiaco». Sottolinea il legame tra documento e fiction, la capacità del cinema di mostrare, «meglio della filosofia o del romanzo», «i dati immediati della coscienza». Mette in evidenza l’uso estremista del colore (loda in La donna venduta di Ray -l’uso deliberato e sistematico dei colori più chiassosi»1213 ). Nota a proposito de II ladro di Hitchcock che «ogni inqua­ dratura ha il suo corrispettivo, il suo doppio, che la giustifi­ ca sul piano dell’aneddoto e nello stesso tempo ne raddop­ pia l’intensità sul piano drammatico»1 \ Il rilievo ha eviden­ 12. H. Lucas, Rien que le cinéma, in «Cahiers du Cinéma*. n. 68 (febbraio 1957) [in J.-L. Godard, Il cinema è il cinema, cit, p. 62). 13. H. Lucas, Le cinéma et son double, ivi, n. 72 (giugno 1957) \ibid,, p. 751. 17

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temente un valore più generale. Nel corso di questi anni, anni decisivi, Godard si costruisce una vera e propria «arte poetica», confrontando e temprando le proprie idee con quelle degli altri. La regia come esercizio geometrico (cfr. l’articolo su una Una vita di Astruc): «Ci sono due tipi di ci­ neasti»14. Nel 1950 Rivette gira a 16 mm Le quadrille. Nel 1951 Rohmer gira Presentation ou Charlotte et son steak. Godard compare come attore in entrambi i film. Ma il suo primo vero contatto con la pratica cinematografica avviene col documetario: Opération Béton è girato in 35 mm nel 1954. È un film di venti minuti, con un commento «molto alla Malraux» (secondo Lue Moullet) detto dallo stesso Godard. Il film viene distribuito dalla Gaumont. Esce nei cinema ab­ binato a Te e simpatia di Vincent Minnelli, nel luglio 1958. Nel 1955 Godard gira a Ginevra Une femme coquette. Nel 1956 compare in Le coup du berger di Rivette. Nel 1957 realizza Tous les gar^ons s’appellent Patrick ou Charlotte et Véronique (il soggetto e la sceneggiatura sono di Eric Roh­ mer, che ha già girato Charlotte et son steak e girerà nel 1958 Veronique et son cancré). Nel 1959 Godard riprende il personaggio di Charlotte incarnato dalla stessa attrice, Anne Colette, in Charlotte et son Jules, su propria sceneg­ giatura. Questo film di venti minuti esce nelle sale abbinato a Lola, donna di vita di Demy nel marzo 1961, contempo­ raneamente a Une histoire d’eau, su soggetto di Truffaut e con la regia a quattro mani di Truffaut e Godard. L’inter­ prete maschile di Tous les gar^ons s’appellent Patrick e di Une histoire d’eau è Jean-Claude Brialy; quello di Charlotte et son Jules è Jean-Paul Beimondo, doppiato dallo stesso Godard. Nel 1958-59 Godard compare ancora come attore in Paris nous appartieni di Rivette e II segno del leone di Rohmer, nel 1961 in Cléo dalle cinque alle sette di Agnès Varda, con Anna Karina. È il periodo in cui Godard cura il montaggio di alcuni 14. H. Lucas, Ailleurs, ivi, n. 89 (novembre 1958) [ibid, pp. 108-1131.

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documentari per il produttore Pierre Braunberger o di film di viaggio per l’editore Arthaud. Scrive anche dialoghi. Fa raddetto stampa per due o tre anni alla Fox, dove, prepa­ rando le brochures sui film, non manca di personalizzarle a suo piacimento. Georges de Beauregard gli propone di scrivere una sceneggiatura a partire da Pescatori d’Islanda di Loti (il film sarà realizzato da Pierre Schoendorffer nel 1959). Per lavorarvi va a trascorrere tre mesi a Concarneau, in Bretagna. È lecito supporre che sia questa l’occasione in cui ascolta i Quartetti di Beethoven -sotto le stelle, in cima a una falaise battuta dal mare-. Se ne ricorderà per tutta la vita: Una donna sposata, Due o tre cose che so di lei, Prénom Carmen... ne danno ampia testimonianza. A questo periodo di lavoro andrà fatta risalire anche la frequenza delle similitudini col mondo automobilistico. -Tashlin doppia quel babbeo di Wilder proprio come Fangio doppia Porfirio Rubirosa-; -il cinema moderno è in debito con Abel Gance nella stessa misura in cui l’automobile è in debito con André Citroen-; -ognuno sa che all’uscita da una curva il campione preme a fondo il piede sull’acceleratore per ripartire a razzo, proprio come fa Renoir sul piano estetico-; -bisogna aver visto la Lancia di Ascari sbandare sull’asfalto monegasco e piombare in mare-; -oggi non am­ miriamo più una Maserati per gli stessi motivi per cui i no­ stri nonni ammiravano una De Dion-Bouton-15. A partire da Fino all’ultimo respiro sono numerose le citazioni di no­ mi di vetture: Alfa Romeo, BMG, Oldsmobile, Thunderbird, Cadillac, Eldorado, Rolls, Ford Talbot, Simca Sport, motore Amedeo Cordini... in attesa della Ford Galaxie di Agente Lemmy Caution, missione Alphaville. Possiamo davvero di­ re che Godard -rientra nel circuito- nei termini coi quali egli stesso ha commentato Le bel indifferent di Jacques Demy, film che -assomiglia piuttosto a quelle auto sportive costrette, data la formidabile potenza del motore, a girare in prima in città. È un film che sale in crescendo fino a un 15. Id., Des épreuves suffìsantes, ivi, n. 73 (luglio 1957) {ibid., p. 771. 19

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punto estremo di tensione, dove si immobilizza come il ta­ chimetro di un bolide quando sfreccia a 240 all’ora-16.

2. Ilfuoco d’artifìcio

Godard propone il soggetto di Fino all’ultimo respiro (scritto da Truffaut) a Beauregard. Molti dettagli del film sono rintracciabili in precedenti articoli del regista. Ad esempio, nella recensione di Hollywood o morte di Tashlin, Godard parla in questi termini del fumetto The Heart ofJu­ liet Jones (Juliette de mon coeur) di Stan Drake, pubblicato da -France Soir-: -Basta sfogliare in “France Soir” Juliette de mon coeur per accorgersi che il tipo di sceneggiatura di questo fumetto è esteticamente avanti di parecchi anni su quello della maggior parte dei film francesi attuali. All’inter­ no di una scena il cambiamento d’inquadratura viene fat­ to con una tale arditezza inventiva...-17. Cita la poesia di Aragon «Au biseau des baisers / Les ans passent trop vite / Évite évite évite / Les souvenirs brisés-18 sia nel 195019 sia nel 1959, in Fino all’ultimo respiro-, nel film, intrecciata con altri versi di Apollinaire, la poesia funge da dialogo, so­ vrapponendosi ad alcune immagini di L’oro della Califor­ nia di Boetticher. Quanto al Concerto per clarinetto di Mo­ zart, Godard lo ricorda a più riprese (-11 suono mortale del clarinetto in Mozart-)20. -Qualsiasi cosa poteva essere inte­ grata al film-, ha dichiarato Godard. «Per anni si raccolgono 16. Id., Chacun son Tours, ivi, n. 92 (febbraio 1959) [Introduzione al metodo di Jacques Demy, ibid., p. 1231. 17. Id., Hollywood ou mourir, ivi, n. 73 (luglio 1957) [ibid., p. 83118. Riportiamo la traduzione di A. Aprà in J.-L. Godard, Il cinema è il ci­ nema, cit., p. 125: -Sul filo dei baci/ Gli anni scorrono troppo rapidi / Evita evita evita / I ricordi infranti-, 19. Cfr. -La Gazette du Cinéma-, n. 5 (novembre 1950), nella recensione di The Great Me Ginty di P. Sturges; nel 1959 la citazione ritorna an­ che in Chacun son Tours, cit. 20. J.-L. Godard, Pierrot mon ami, in -Cahiers du Cinéma-, n. 171 (otto­ bre 1965) [in //cinema è il cinema, cit., p. 2251.

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mucchi di cose, e poi si finisce, impensabilmente, per met­ terli in quello che si fa». «Mi dicevo: c’è già stato Bresson, adesso c’è Hiroshima, si chiude un certo genere di cinema, forse è finito, mettiamo la parola fine, facciamo vedere che tutto è permesso»21. Una pagina di «Paris Flirt» occupa tutta l’inquadratura in primo piano. Di norma un piano del genere è girato in soggettiva, ossia è fatto coincidere col punto di vista di chi legge il giornale. Nel caso di Fino all'ultimo respiro, inve­ ce, il personaggio si pone dietro il giornale, e non al posto della macchina da presa. La pagina in questione è occupa­ la dal disegno di una baby-doll: l’immagine prefigura Patri­ cia Franchini (Jean Seberg) e il suo orsetto di peluche. Di più. Patricia è anche una donna «da giornale- (vende il «New York Herald Tribune» e ne porta stampata la testata sulla maglietta). Il disegno della baby-doll è a centropagi­ na, contornato da due strisce, all’interno delle quali si di­ stinguono disegni più piccoli. Si direbbe la pellicola di un film, o lo spazio all’interno del quale andrà a morire Michel Poiccard (Beimondo) alla fine del film, tra le strisce di un passaggio pedonale. Comincia il fuoco d’artificio del primo «periodo» (raffigurato poi, fuor di metafora, in 11 bandito delle undici e adombrato nei titoli di testa di La donna è donna attraverso la menzione del 14 luglio). Se esaminiamo i film degli anni sessanta abbiamo la netta sensazione di poter procedere da un’opera all’altra seguendo un numero molteplice di traiettorie. Ogni film dà l'impressione di biforcarsi a partire dai molti che lo prece­ derebbero, essendo esso stesso un punto d’incrocio per gli altri. Così // disprezzo è «annunciato» da Les carahiniers per via di tre «indizi»: un personaggio di nome Ulisse, una foto di Brigitte Bardot e una parodia di Le déjeuner du bébé e L’arrivée d’un train à la Ciotat. Les carabiniers, a sua vol­ ta, richiama Questa è la mia vita per il riferimento a Brecht e l’allusione a Nanà (tramite una riproduzione di Manet). IX.Entretien avec Jean-Luc Godard, ivi, n. 138 (dicembre 1962) [ibid., p. 1671. 21

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Questa è la mia vita è «anticipato» da Le petit soldat (dal momento che sia Dreyer sia Pickpocket di Bresson sono ri­ ferimenti comuni a entrambi i film), come Bande à part è «anticipato» da Questa è la mia vita (la visita al Louvre e il •ritratto ovale» sono presenti «in effigie» nell’ultimo dei do­ dici -quadri» di Questa è la mia vita). Il nome Camilla, attri­ buito alla protagonista di II disprezzo, può rinviare a De Musset, alla Camilla di La carrozza d’oro o a Paul e Camil­ le dei Malheurs de Sophie della Contessa di Ségour22. Sulla scia di De Musset si può tracciare una linea che va da La donna è donna a Bande à part a II bandito delle undici, per via dei riferimenti mussettiani impliciti nei tre film (Con l’amore non si scherza e I capricci di Marianna). Sulla scia di Renoir si può individuare un altro intreccio di linee che collega La donna è donna, Les carabiniers, ecc. Se vogliamo, possiamo moltiplicare il numero di questi in­ trecci. Si articolano sempre su punti di dettaglio, inerenti alla regia, all’inquadratura, ecc. Nella scena della lavande­ ria automatica di // maschio e la femmina Jean-Pierre Léaud è inquadrato da seduto, in modo che la sua testa ri­ sulti contornata dalle aperture, nere e rotonde, di due lava­ trici: nere e rotonde proprio come le orecchie di Topolino. Il dettaglio, se involontario (che è tutto da dimostrare), non è certo sfuggito, a posteriori, a Godard, che, nel suc­ cessivo Una storia americana, chiama il personaggio in­ carnato dallo stesso Jean-Pierre Léaud «il piccolo Donald», ossia Paperino... Il «periodo» culmina e si conclude con due coppie di ope­ re incrociate: Fino all’ultimo respiro e Le petit soldat da un la­ to, Una storia americana e Due o tre cose che so di lei dall’al­ tro. Fino all’ultimo respiro e Una storia americana rimanda­ no a quella che Godard definisce una struttura narrativa tipo Alice nel paese delle meraviglie o Cappuccetto rosso, con pa­ rentele col film noir e i suoi stereotipi. In entrambi i casi, pe­ raltro, si fa esplicito riferimento a Humphrey Bogart. 22. Da notare che in // disprezzo di A. Moravia la protagonista si chiama Emilia.

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Tuttavia il percorso che porta da Fino all’ultimo respiro a Una storia americana, passando per Bande à part e II bandito delle undici, rivela un progressivo e ineluttabile al­ lontanamento dal modello americano. Le petit soldat è, a sua volta, un film nel quale Godard sostiene di aver «voluto ottenere il realismo che mancava a Fino all’ultimo respiroJS, e di aver voluto liberare tutto quello che aveva «in pancia» in quel momento della sua vita. Due o tre cose che so di lei e Le petit soldat hanno in comune il fatto di affron­ tare questioni di bruciante attualità che stanno molto a cuore al regista. Godard voleva affrontare il tema del «la­ vaggio del cervello*23 24, e la guerra d’Algeria lo porta a trat­ tare il tema della tortura. La ristrutturazione urbanistica del distretto di Parigi gli consente di parlare della «donna pro­ stituita come un pezzo di territorio, un territorio che lei è costretta a vendere, dopo averne accettato l'occupazio­ ne*25. Il rapporto fra le quattro opere richiama la figura retori­ ca del chiasmo: Fino all’ultimo respiro e Due o tre cose che so di lei sono da un certo punto di vista descrizioni di Pari­ gi e della sua banlieue (il centro che si perde nella perife­ ria), mentre Le petit soldat e Una storia americana (il pri­ mo e l'ultimo girati con Anna Karina) affrontano le questio­ ni politiche relative al Nordafrica e alla Francia, ma da una visuale eccentrica (Ginevra e Atlantic City). Al punto che l’opposizione iniziale tra fiction (Alice nel paese delle mera­ viglie) e documento si complica. Tutto il «periodo* può essere considerato come la •com­ plicazione» delle due serie, sia all’interno dello stesso film, sia da un film all'altro. Ad esempio, tra La donna è donna e Questa è la mia vita, tra Bande à part e Una donna spo­ sata, o tra II bandito delle undici e II maschio e la femmina. In tale prospettiva si costituirebbe una serie con 23. Entretien..., cit., [in 11 cinema è il cinema, cit., p. 169). 24. Ibid. 25. J.-L. Godard, Introduction à une veritable histoire du cinéma, Albatros, Paris 1980, p. 258 (Introduzione alla vera storia del cinema, ir. it. di R. Magrelli e M. Ciampa, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 2131-

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una forte indicizzazione documentaria (Questa è la mia vi­ ta, La donna è donna, Il maschio e la femmina), e un’altra serie con una forte indicizzazione fictional, pur restando entrambe le serie indicizzate sul presente. Ovviamente tale suddivisione è approssimativa: basti pensare che ci sarebbe una terza serie in cui il presente si mescola a temporalità immaginarie: può essere il futuro (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville), può essere il passato (la sovrapposi­ zione della storia di Ulisse a quella di Paul Javal ne II di­ sprezzo), può essere ancora l’epoca di un regno surreale (Les carabiniers). E anche se si tratta ogni volta di una tra­ sparente metafora del presente, questo non vuol dire che Godard non abbia tratto piacere dall’uso dell’artificio. Una storia americana, tra l’altro, uscirebbe in parte dai limiti della serie «documentaria», il che farebbe pensare che i ter­ mini del binomio documento-/?cn'ow non sono così rigidi. La cinese, film della serie -documentaria», e Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica, film della se­ rie fictional, prefigurano entrambi il futuro prossimo e l’ap­ prossimarsi di un problema nuovo: come fare -politicamen­ te» dei film politici. In questo -periodo», dunque, tre serie si alternano e si modificano, in parallelo, attorno a una griglia di temi co­ muni: l’amore, il tradimento (Fino all'ultimo respiro), la tor­ tura (Le petit soldat, Il bandito delle undici..,), la prostitu­ zione (Une femme coquette, La donna è donna, Questa è la mia vita, Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, L’amore nel 2000, Il maschio e la femmina. Due o tre cose che so di lei, Si salvi chi può (la vita)...), il cinema, la società in­ dustriale, ecc.

3. Paula - Lola Fino all’ultimo respiro è dedicato alla Monogram Pictu­ res, come Questa è la mia vita è dedicato ai film di serie B. Le due opere appartengono agli inizi di quella che conven­ 24

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zionalmente si chiama Nouvelle Vague. Entrambe sono connotate da una notevole sensibilità visiva per un passato molto amato, un passato che si vuole ritrovare per altre vie: realizzando Fino all'ultimo respiro, Godard credeva di fare un film come quelli di Preminger o di Lang. E vi molti­ plicava gli ammiccamenti in direzione del cinema america­ no classico (le locandine di Dieci secondi con il diavolo di Robert Aldrich e di 11 colosso d’argilla di Mark Robson, i ri­ ferimenti a // segreto di una donna di Preminger, L oro del­ la California di Boetticher, 40 pistole di Samuel Fuller...). La donna è donna, coevo di quel Lola, donna di vita di Jacques Demy nel quale Roland dichiara di avere un amico che si chiama Michel Poiccard, propone anch'esso lo «spiri­ to- della commedia musicale, o almeno il suo ricordo. Prénom Carmen, nel 1982, si conclude col cartello In Memoriam Small Movies. Il tono, questa volta, è irrimediabilmen­ te funebre. Ma va detto che fin dal 1966, con Una storia americana, Godard ha rotto definitivamente col cinema americano. Cinque anni separano Lola, donna di vita da Una storia americana. Nel film di Godard la scena in cui Paula Nel­ son elimina il -piccolo Donald» (Don Siegel/Jean-Pierre Léaud), come quella di Lola in cui Roland e Lola s’incon­ trano per l’ultima volta nel passage Pommeraye a Nantes (luogo amato da scrittori come Valéry Larbaud o André Pieyre de Mandiargues), è costruita su un percorso «a cir­ cuito chiuso». La scena mostra il doppio spostamento di Jean-Pierre Léaud e Anna Karina lungo i muri di un garage. Contrariamente ai personaggi di Jacques Demy, essi agisco­ no indipendentemente l’uno dall’altro. Se rimettiamo insie­ me i piani dedicati a Léaud otteniamo un tragitto coerente: ogni piano s'incastra logicamente col precedente. Al con­ trario, i piani che descrivono gli spostamenti di Anna Kari­ na presentano una situazione molto confusa. Non si rac­ cordano né tra di loro (il personaggio rifa due volte lo stes­ so tragitto) né coi piani in cui figura Léaud (quando lui passa nei punti in cui dovrebbe esserci lei, lei non c’è). Lo 25

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spazio smarrisce le sue «connessioni logiche», il tempo per­ de il suo assetto cronologico, i colori (blu, rosso, giallo) formano un'immagine ottica astratta, la narrazione è deci­ samente «a effetto». I movimenti dei personaggi non sono suggeriti né da un décor funzionale né da un percorso lo­ gico. Sono suggeriti da movimenti di oggetti visti prece­ dentemente di scorcio: orizzontali (la tastiera di una mac­ china da scrivere), circolari (le bobine di un magnetofono). Risultano sconnessi anche i suoni: ad esempio, i personag­ gi parlano e noi non li sentiamo; quando Paula uccide Do­ nald, l'evento si verifica nel sonoro, non nell’immagine (non vediamo né l’arma né il gesto). I nomi delle due eroine, Lola e Paula Nelson, non na­ scondono la loro pesante eredità: uno proviene da Stern­ berg e Ophuls, l’altro da Preminger. Demy ha scelto, col passage Pommeraye, un topos della cultura europea. Go­ dard ha scelto il décor anodino (o sordido) di un garage, dove, nei noir, hanno tradizionalmente luogo i massacri. Potremmo dunque pensare che è il film di Godard ad esse­ re più vicino al cinema americano, tanto più che l’episodio dell’assassinio di Donald inizia con l’esibizione delle foto di due film noir (uno di Samuel Fuller, l'altro di Fritz Lang, cineasti deviami rispetto al sistema hollywoodiano, ai quali Godard ha reso omaggio utilizzandoli come attori rispetti­ vamente in // bandito delle undici e II disprezzo). In realtà Demy ritrova, con l’utilizzo del passage Pommeraye, qual­ cosa dello spirito della commedia musicale, mentre Godard si allontana deliberatamente dal modello americano. Go­ dard spezza lo schema pensiero-azione per instaurare un’e­ gemonia di falsi raccordi. Nel film di Demy, Michel, l’uomo che ama, riamato, Lola, ritorna dagli Stati Uniti al volante di un’auto americana. Un’auto da sogno per il Michel Poiccard di Fino all'ultimo respiro, che, dal canto suo, ritorna da Cinecittà e non da Hollywood. E anche se Poiccard mi­ ma, col suo tic, un gesto di Humphrey Bogart, lo scarto ri­ mane sensibile (nel 1958 Godard scrive: -La macchina hol­ lywoodiana ormai perde colpi e si guasta spesso»), e Go­ 26

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dard continuerà ad approfondire quello scarto, fino a ri­ nunciare del tutto al vecchio per lanciare dei segnali verso il nuovo. Paula Nelson porta l’impermeabile di Humphrey Bogart (e Godard è quasi un anagramma di Bogart) per condurre un’inchiesta, ma l’inchiesta sfocia in una poesia di Queneau: «L’explication des métaphores» («La spiegazio­ ne delle metafore*). 4. La discontinuità In questo «periodo» la discontinuità sembra essersi issata da sola come la bandiera di un cinema della modernità, preoccupato di affrancarsi dall’idea di totalità (in Una sto­ ria americana la parola total torna spesso, sia dissimulata dal nome della nota marca di benzina, svettante coi suoi tre colori - blu bianco e rosso - peculiarmente godardiani, sia in forma avverbiale, come nella formula «Io ti amo to­ talmente^ nella quale dire «totalmente» equivale a mentire). Di qui, per esempio, la divisione di Questa è la mia vita in «quadri», quella di La donna è donna in monologhi (dopo un incipit piuttosto prolungato arrivano i primi quattro mo­ nologhi - La memoria, Il presente, L’intelligenza, Il bambi­ no - seguiti da altri tre: La giava, Il piacere e la scienza, Il teatro dell’amore) e il sottotitolo -Frammenti di un film gi­ rato nel 1964». In Bande à part si fa riferimento, attraverso il nome del­ la protagonista, Odile Monod (Anna Karina), a un romanzo di Raymond Queneau, Odile, e un passo del romanzo è letto, libro alla mano, da Franz (Samy Frey): nella fattispe­ cie, la storia di M. Delouit raccontata da Anglarès. In realtà, nel romanzo di Queneau, Anglarès non è affatto l'autore di questo piccolo racconto assurdo, che è invece tratto da Nadja di Breton. Ora, Queneau, servendosi della figura di Anglarès, regola i conti proprio con André Breton. Si potrà vedere nell’operazione di Godard un ammiccante gesto di complicità, ma quando il narratore di Bande à part dice 27

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•Arthur, Odile e Franz attraversarono, sotto un cielo di cri­ stallo, ponti sospesi su fiumi impossibili. Nulla ancora si muoveva sulle facciate dei palazzi. L’acqua era morta. Un sapore di cenere si spandeva nell’aria-, lo spettatore rico­ nosce un montaggio di quattro testi di Rimbaud: «1 ponti*, ■Il battello ebbro», -Alba- e «Frasi». Con analoghe modalità, nella scena di Agente Lemmy Caution, missione Alphaville in cui, in una camera d’alber­ go, Natacha e Lemmy Caution attendono l’arrivo dei poli­ ziotti, è recitata una poesia di sospetta appartenenza eluardiana - e il libro di Eluard, Capitale del dolore, è in mano a Lemmy Caution che lo mostra a Natacha «La tua voce, i tuoi occhi, le tue mani, le tue labbra, il silenzio, le nostre parole, la luce che se ne va, la luce che ritorna». Ebbene, il testo in realtà è composto di una quindicina di frammenti attinti dalle raccolte Le dur désir de durer, Le temps déborde, Corps memorable, Le Pbénix...2(>. Da Capitale del dolore deriva soltanto un frammento in più. Ogni citazione, dunque, invece di disporsi sotto un’uni­ ca costellazione di segni, rimanda a un soggetto che non è mai uno solo: è un soggetto sistematicamente disseminato, esploso, polverizzato. Ad esempio, nel suo primo 'perio­ do», il regista correda l’uscita dei suoi film con dichiarazio­ ni e testi vari, pubblicitari e non (un disco per La donna è donna, una scheda degli attori-personaggi per Bande à part, il pezzo Fuoco sui Carabinieri26 27 per Les carabiniers...), per non parlare degli annunci sui giornali. Tutti testi che fanno parte dell’opera, pur restandone material­ mente distinti... Potremmo dire dell’opera di Godard quello che Roland Barthes dice dell’arte di Schumann: «Al limite, è fatta soltanto di intermezzi-, l’interrotto viene a sua volta in­ terrotto, e si ricomincia». Il cinema di Jean-Luc Godard è 26. Cfr. l'antologia Ultime poesie d’amore, Lerici, Milano 1965. Il testo di Capitale de la douleur è mostrato da Godard nell'ed. originale della NRF di Gallimard. 27. Cfr. J.-L. Godard, Feti sur les Carabiniers, in -Cahiers du Cinéma-, n. 146 (agosto 1963) lin // cinema è il cinema, cit., p. 2OO-2O4J.

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anche questo. Le petit soldat è stato fatto per -elaborare il lutto» rappresentato da Fino all’ultimo respiro. Cosicché il regista finirà per vedere in La donna è donna la sua «vera opera prima», e di Questa è la mia vita dirà: «Ha rappresen­ tato per me l’equilibrio che d’un tratto ci fa sentir bene nel­ la vita, per un’ora, un giorno o una settimana»28. E via di seguito. Passando dai vuoti colmati ai pieni presto dissolti, la frattura non può fare altro che allargarsi ed essere man­ tenuta costantemente aperta. E mentre ogni film moltiplica le fratture, le rotture e le dispersioni, i personaggi non smettono mai di raccontare delle storie. La continuità del senso è sovvertita, le coordinate spazio-temporali alterate, le concatenazioni logiche disgiunte.

5. Dentro /fuori Le petit soldat comincia con la frase: «Il tempo dell’azio­ ne è passato, comincia quello della riflessione». In altre pa­ role: il tempo del cinema d’azione è concluso, arriva quello del cinema di riflessione. In tal caso si tratterebbe di una professione di fede che presiederebbe a tutta l'opera a ve­ nire di Godard. I primi personaggi del regista ci insegnano che noi non coincidiamo mai con noi stessi, che tra il no­ stro apparire e il nostro pensare, tra il fuori (l’esteriorità) e il dentro sussiste uno iato. In Fino all'ultimo respiro Patri­ cia dice a Michel Poiccard: «Tu non sai a che cosa penso io. E io vorrei sapere che cosa c’è dietro il tuo volto. Lo guardo da dieci anni e non so nulla, nulla, nulla». La do­ manda si ripete in Le petit soldat\ «Insomma, mi dica, lei a cosa pensa?», ma, grazie a un accorgimento fotografico, scatta un’analogia tra la possibile lettura dell'immagine ci­ nematografica e il processo di sviluppo dell’immagine foto­ grafica. È il lavoro fotografico a rivelare l’impronta del vol­ to di Cristo sul velo della Veronica, ed è a Véronika Dreyer che Bruno Forestier, in Le petit soldat, confida: «L’Afga Re­ 28. Entretien..., cit. [in II cinema è il cinema, cit., p. 1841. 29

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cord è una pellicola talmente sensibile che, quando si foto­ grafa un volto, mi guardi, si fotografa l’anima che c’è die­ tro». Solo facendo leva sulla tecnologia, si direbbe, possia­ mo ottenere una risposta. Invece, di fronte agli altri o a noi stessi, non sappiamo nulla: «È strano. Quando guardo il mio volto dall’esterno, ho l’impressione che non corrispon­ da all’idea che me ne sono fatta daH’interno. Secondo lei, che cosa è più importante: l’interno o l’esterno?». La dicotomia dentro/fùori ha attraversato in vari modi tutta l’opera di Godard. Proviamo a dirlo con un gioco di parole: imprimere un’espressione o esprimere un’impres­ sione. La divisione in «quadri» di Questa è la mia vita -corri­ sponde all’aspetto esteriore delle cose che mi avrebbe per­ messo di rendere meglio la sensazione dell’interiore, al contrario di Pickpocket, dove tutto è visto dal di dentro. Come rendere l’interno? Be’, appunto restando prudente­ mente all’esterno»2930 . A questo proposito, possiamo rapida­ mente esaminare il brusco passaggio da Le petit soldat a Due o tre cose che so di lei. In Le petit soldat Bruno Forestier, in una lunga scena, gi­ ra letteralmente attorno a Véronika Dreyer, la quale, a sua volta, a partire da un dato momento, si sposta, prendendo le dovute distanze. Bruno si misura sia col confronto vis-àvis sia col monologo interiore (contestualmente l’abito di Véronika Dreyer assume visuali diverse e il cambio di vi­ suale la disloca nel tempo, anche se la donna non si muo­ ve nello spazio). Il percorso di Bruno Forestier, intessuto di andate e ritorni, è chiaramente finalizzato alla materializza­ zione di formule verbali come «stringere d’assedio i propri pensieri» o -sentirsi stretti d’assedio». Il suo ricco armamen­ tario gestuale tenta di restituire un pensiero, e l’espressione che Godard ha usato a proposito di Questa è la mia vita, •ho voluto provare a filmare un pensiero in cammino»^0, appare ancora più appropriata se riletta in funzione di Le petit soldat. Bruno Forestier davanti allo specchio, poi di 29. ibid., p.185. 30. Ibid., pp. 182-83.

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fronte alla macchina da presa nell’atto di mimare, con le mani incurvate, un gesto come per descrivere l’idea che si fa di sé e l’immagine di sé che gli rimanda lo specchio, traccia una forma circolare perfettamente riassuntiva del­ l’interscambio dentro/fuori. In Due o tre cose che so di lei non c’è una scena simile, perché lì Godard non cerca più di filmare il pensiero di un personaggio. In Una storia americana e Due o tre cose che so di lei Godard affronta l’identica questione: che cosa è un bar? come descrivere un luogo del genere? quali oggetti lo compongono? Ma anche: a che cosa servono le parole che usiamo? restituiscono esattamente il nostro pensiero? Il pri­ mo piano -angolare» della scena nel caffè di Due o tre cose che so di lei rivela una struttura a quattro facce composta da: Juliette, l’uomo, la donna e, nello specchio, il riflesso di quest’ultima. È una struttura a losanga, ravvisabile del resto anche nella forma degli orecchini della donna. Dall’insieme emergono: l’oggetto in quanto «mediatore» e garante dello scambio, il doppio sguardo sull’oggetto che «soggettivizza» l’oggetto stesso, e, inversamente, lo sguardo sul soggetto che lo trasforma in oggetto (in particolare la donna, «ogget­ to» per l’uomo). Paradossalmente, attraverso questa struttu­ ra alienante traspare una sia pur minima sfumatura di soli­ darietà (il «mon semblable, mon frère» di Baudelaire...), mentre Bruno Forestier, in un’altra occasione, rischiava di non riconoscere il fratello neanche da vicino.

6. La Storia 1 Dopo le illusioni della Liberazione, il mondo sprofonda nella Guerra Fredda e la Francia nella crisi economica. Il piano Marshall viene «in aiuto» all’Europa purché i Paesi beneficiari rinsaldino la coalizione antisovietica. I comunisti lasciano il governo. Il problema dell’impegno politico tra­ vaglia gli ambienti intellettuali. Uno come Godard se ne sente coinvolto. Rohmer ha confessato il suo profondo tur31

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bamento di fronte alle scelte filocomuniste di Bazin, e sap­ piamo che il conflitto che dividerà Rohmer e Rivette sarà di natura essenzialmente ideologica. I comunisti, d’altro can­ to, mal tolleravano la passione di Bazin per il cinema ame­ ricano e le sue critiche a certi film «politicamente corretti». L’articolo Le mythe de Staiine dans le cinema soviétique, ap­ parso su -Esprit» nel 1950, segna la rottura tra Bazin e i co­ munisti. Sta per scoppiare la guerra di Corea. Georges Sa­ doul accusa Bazin di censurare la sola alternativa al cinema hollywoodiano. Il primo articolo di Godard (il primo a suo dire) era inti­ tolato Pour un cinéma politique e fu consegnato a Bazin31. Il rapporto di Godard con la Storia è, almeno negli anni sessanta, di tipo -esistenziale». Per una conferma, basti pen­ sare a Le petit soldat, tutto incentrato su una concezione narcisistica del soggetto, che fa dell’-io» il fulcro dialettico dell’opera (di qui la necessità dell’io narrante come -vocedei film). Con le parole di Godard: -Provenivo dalla bor­ ghesia agiata. Non si poteva scegliere un altro tipo di per­ sonaggio: nei nostri eroi si fondevano Malraux, Aragon e Jean Moulin». Le petit soldat, ha sottolineato sempre Go­ dard, esprime -la nostalgia della guerra di Spagna»32. -Il film vuol essere una testimonianza sul periodo in cui è stato realizzato. Vi si parla di politica, ma il film non è orientato in una direzione politica determinata. La mia ma­ niera d’essere impegnato è stata quella di dirmi: si rimpro­ vera alla Nouvelle Vague di mostrare solo gente a letto; vo­ glio mostrare adesso gente che fa della politica e che non ha il tempo di andare a letto. La politica in quel momento era l’Algeria. Ma dovevo mostrarla sotto l’aspetto in cui la conoscevo e nella maniera in cui la sentivo. [...] Io ho par­ lato delle cose che mi riguardavano in quanto parigino del I960, non incorporato in un partito. Mi riguardava il pro­ blema della guerra e delle sue ripercussioni morali. Ho 31. Cfr. -La Gazette du Cinéma-, n. 3 (settembre 1950) [in // cinema è il cinema, eie., pp. 19-211. 32. Entretien..., cit. \ibid., p. 172].

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dunque mostrato uno che si pone una gran quantità di problemi; non sa risolverli, ma il fatto di porseli, sia pure confusamente, significa già tentare di risolverli. È forse me­ glio porsi dapprima le domande piuttosto che rifiutare di porsele o credersi capaci di risolvere qualsiasi cosa»$\ Go­ dard ha molto insistito in seguito sullo stato di confusione testimoniato da Le petit soldat, simile, secondo lui, a quello leggibile in M. Il mostro di Dusseldorf di Lang. Ed è arrivato a dire che il film era sì «fascista-, ma almeno suscitava la di­ scussione. 11 film fu censurato fino alla firma degli accordi di Evian, nel (il provvedimento era stato motivato dal fatto che Algeria e Francia vi erano esplicitamente nominate). La cri­ tica di sinistra gli rimproverò di avere trattato alla stessa stregua FLN e OAS e di aver mostrato, quali responsabili delle torture, i militanti del FLN e non gli avversari. L'acco­ glienza di Les carabiniers, «una favola, un apologo» su tutte le guerre passate presenti e future, memore di L’àge d’or, rivelerà un’incomprensione altrettanto generale. La verità è che i problemi politici non rivestono un ruolo prioritario negli interessi di Godard. La tortura, ad esempio, è da lui rivissuta come materiale prevalentemente cinemato­ grafico. Sul set di Fino all’ultimo respiro scrive: «Mercoledì abbiamo girato una scena in pieno sole con la Gevaert 36. Tutti lo trovavano fastidioso. Io lo trovo abbastanza straor­ dinario. Per la prima volta obblighiamo la pellicola a dare il massimo di se stessa facendole fare esattamente quello per cui è stata fatta. È come se essa soffrisse, una volta tesa al limite delle proprie possibilità». In Le petit soldat Ginevra ri­ sorge dall’infanzia e dalla guerra nella fiction dell’attualità (guerra d’Algeria, tortura...). Di qui la necessità di filmare in diretta, con una grana fotografica da cinegiornale di guerra. Raoul Coutard, guarda caso, è stato reporter per «Life» e «Paris-Match» in Indocina, negli anni cinquanta. E ora gira Le petit soldat in Agfa Record, una pellicola ultrasensibile uti­ lizzata abitualmente solo in fotografia. 33. Ibid.. p. 170.

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7. Le parole e le lettere: l’ABC di JLG Godard è affascinato dalle didascalie del cinema muto. Prova nostalgia per l’epoca in cui il film intratteneva un rapporto quasi privilegiato con il linguaggio. Tutti i suoi film assegnano alla scrittura, sotto qualsiasi forma, un po­ sto importante: insegne luminose, lettere, cartoline, pagine scritte a mano, dialoghi rielaborati graficamente. Il cinema di Godard riflette con ogni mezzo l’unità perduta (mitica) del linguaggio e del film, sforzandosi paradossalmente di approfondire e insieme di colmare il solco che li divide. Si tratta di imprimere e di esprimere, esprimere un’impressio­ ne e imprimere un’espressione... Nell’ambito della scrittura gli ispiratori sono in primo luogo Céline e Queneau. Ma Godard sente familiari anche Michel Leiris (Glossaire j’y serre mes glosses)^ e Jean-Pierre Brisset, il cui 'delirio linguistico-, fondato principalmente sull’omofonia, le allitterazioni e il nonsenso, è stato ammi­ rato da Michel Foucault. Significativo questo passo de La science de Dieu (1900): «Per l’analisi delle parole andiamo allora a sentire parlare gli antenati che vivono in noi, attra­ verso i quali noi viviamo. Vediamo dove questi antenati erano logés (alloggiati): l’eau j’ai = ho l’acqua, oppure, io mi trovo nell’acqua. L’haut fai - sono in alto, al di sopra dell’acqua, perché i primi antenati (preistorici) costruirono le loro prime capanne (logés) sull’acqua (palafitte). L’auge ai - ho il mio letamaio. Il primo letamaio era una piccola palude: mare = mare à boue (palude fangosa) = marabout (uccello indiano che si ciba di rifiuti), con funzione di lóge (gabinetto). Pronunciamo loge e lóge come vuole il dialet­ to. Gli uomini furono dunque in principio logés dans l’eau (alloggiati nell’acqua) e à l’eau berge, sulla sponda dell’ac34. Opera sconosciuta in Italia, risale agli anni 1925-26, in cui cominciò a uscire su «La Révolution Surréaliste«: può definirsi un controdizionario, con voci in forma di calligrammi e anagrammi. 34

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qua, à l’auberge (all’albergo), dans les eaux t’es le = dans les hotels (negli alberghi)-^. Anche i più recenti film godardiani non hanno abban­ donato la tradizione del gioco di parole. All’inizio di Nouvelle Vague, la scritta sul camion «Harsh- preannuncia il ti­ tolo del giornale «Cash-, il momento in cui Richard Lennox gioca a «squash», e le cadute in acqua: «splash!-. Godard ha sempre amato giocare con le onomatopee. In Hélas pour moi il nome del velivolo che fende i flutti è L'Italie, e la li­ tania (litanie) linguistica circa il nome di uno degli attori protagonisti, dà, ritrascritta: «Depardieu, Depart, Dieu, yeux, pardi, pars, dis, Leopardi, Italie-. A cui possiamo ag­ giungere, sempre sul piano dei giochi associativi, partendo dalla Svizzera, Genève (Ginevra), dove si trovano le più belle donne (jeune Ève), il lago Léman (Caimani), Lausan­ ne (ose, Cose-Anne, quello che osa vicino ad Anne; l’eau, à vau l’eau, sale eau, salaud, porco); Sion, Simon, cammina­ re sulle acque, Ondine (on dine, hotel, dove si mangia)-, Amphitryon, Zeus, fulmine, hélas, Hellas, Grece (Grecia), graisse (grasso), lard (lardo), Cart, Mercure (mer - mare, cure • cura), Rachel (l’attrice tragica nata in Svizzera)... In A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) mancano i titoli di testa: compaiono solo il titolo e la dedica. Il titolo proietta in primo piano la lettera A. Dopodiché i gesti, i movimenti alternati dei volti, le gambe divaricate della baby-doll sulla copertina di «Paris Flirt-, la forma del brac­ cialetto al polso di Michel Poiccard, il disegno della stoffa del suo vestito, l’apertura della decappottabile, ecc., tutto, nel movimento iniziale del film, è configurato secondo la foggia della A maiuscola, una A che è la vera -piega per­ versa» del racconto, come ha modo di accorgersi lo stesso Poiccard, nel momento in cui gli si slaccia il braccialetto e scatta per lui il meccanismo funesto del destino. I titoli di testa di La donna è donna sono invece ipertrofici, scanditi 35. Si è fornita una possibile traduzione secondo le modalità seguite per VAntologia dello humour nero di Breton (Einaudi, Torino 1970), in cui sono tradotti alcuni pezzi di Brisset, alle pp. 192-201. 35

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e modulati nelle forme di una pré-ouverture musicale (che prevede il momento in cui i professori d’orchestra prendo­ no rumorosamente posto sul palco). Il problema dei film degli anni sessanta è: come passare dall’insieme tipografico dei titoli di testa al film vero e pro­ prio. Ci sono tre modi. O facendo recitare i titoli: è la solu­ zione di II disprezzo, dove un’attrice legge un testo scritto e poi, mentre la camera indugia sulle parti del suo corpo, si sgranano i nomi di coloro che hanno contribuito alla la­ vorazione del film: stessa frammentazione, stesso potere incantatorio della litania. O dilatandoli: le scritte dei nomi ri­ compaiono a intermittenza. O ancora operando un proces­ so di scambio tra titoli e sequenza d’apertura: così una sor­ ta di calligrafia organizza le prime inquadrature di Una donna sposata, passando in rassegna le posizioni del corpo di Macha Méril - la posizione della gambe evoca le lettere A o K, quella delle braccia la lettera M, ecc. Le iniziali del protagonista di Fino all'ultimo respiro sono M.P., come Mo­ nogram Pictures, e la marca di benzina BP si può interpre­ tare come Belmondo-Poiccard. Ai giochi di lettere e, più in generale, di scrittura, è sot­ teso evidentemente il gioco di parole. Godard moltiplica in modo molto ludico gli scherzi da collegiali, le ripetizioni, le gag più spicciole... Una delle formule più spesso ripetute, con le opportune varianti è: si vedrà, staremo a vedere, non preoccuparti... All’inizio di Fino all'ultimo respiro Mi­ chel Poiccard è addossato a un cancello {grille) e continua a fumare sigarette (griller des sèches), brucia d’impazienza perché non vede l’ora di raggiungere Patricia: è come sulla graticola (grille), bruciato {flambé), vale a dire senza avve­ nire, senza salvezza, col destino ormai segnato. Il poliziotto che lo insegue in moto lo avvertirà così: «Fermo o ti bru­ cio!» (più sbrigativo il doppiaggio italiano: «Fermo o spa­ ro!»). I nomi dei personaggi godardiani sono a volte traspa­ renti. Pierrot le fou (Il bandito delle undici) è sì il pericolo­ so bandito del titolo italiano ma anche «Pierrot amico mio» di Queneau, il mon ami Pierrot della canzone (Au clair de 36

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la lune,/mon ami Pierrot,/ prete-moi la plume, / pour t’écrire un mot), il Paul travestito da Pierrot di Picasso, nonché Piero della Francesca (con un rimando a II disprezzo)-, le fou richiama a sua volta Van Gogh, Raymond Devos («dites que je suis fou»), o i «j’m'en fous» («me ne infischio») di Pierrot-Ferdinand, Sui giochi di parole, magari in serie (come catene me­ taforiche), possono reggersi intere scene. In La donna è donna Emile e Angéla fanno appello all’amico Alfred per chiedergli di risolvere il loro dilemma: Angéla vuole un bambino, ai contrario Emile non ne sente il bisogno. A questo punto del film, accanto a Emile, sul tavolo, spicca un mazzo di fiori («C’est le bouquet!», e la battuta sarebbe appropriata, se non significasse anche, in gergo, «È il col­ mo!»), mentre Angéla guarda il traditore Alfred come un -giuda» (solo che -giuda», in gergo, è lo spiraglio della por­ ta: quindi lo guarda come in tralice). Il colore giallo dei fiori e della tovaglia accentua ulteriormente l’idea di tradi­ mento (o di comifìcazione). Come si suol dire: «ride giallo». E il colore del manubrio della bicicletta di Emile, visibil­ mente al centro della stanza, è appunto giallo. In effetti Emile manifesta grande interesse per le corse ciclistiche, ma ama, Emile (o aime-il, l’ama veramente?), Angéla. La bicicletta (vélo) è in gergo -la piccola regina» (forse Angé­ la). Emile verifica la condizione di ogni tubolare (pneu): -È bello gonfio». Vale a dire, Alfred non manca certo di sfac­ ciataggine, Alfred è... pieno di arie. Nel frattempo, Alfred e Angéla si trovano in bagno: un bagno utilizzato come ca­ mera oscura, quindi grande come una camera e, dato che Alfred è... pieno di arie, assimilabile a una... camera d’aria (o tubolare). Dalla camera filtra del rosso - l’operazione dello sviluppo delle foto - e del verde - la gelosia -: Emi­ le, davvero, «ne vede di tutti i colori». È in atto un dira e molla» tra Emile e Angéla: Alfred pro­ va un tiro con Angéla. Ci sta provando?, questa è la do­ manda che si pone Emile. Ed è una prova per Emile, che ha un piccolo vélo, un mulinello (di gelosia), che gli muli37

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na in testa e che gira in tondo (en vélo) come in una pista. E lui si svolge e riawolge come le bobine sulla pista di un magnetofono. Lo scherzo di Alfred «Un giorno Gesù disse a Matteo* richiama un testo di Alfred Jarry sulla Passione, una Passione rappresentata come un corsa ciclistica in sali­ ta, durante la quale la bicicletta (vélo) di Cristo buca una gomma (un tubolare, pneu) passando sopra una corona di spine5$. Conclusa la sequenza del vélo, Alfred va a pranzo al •Chez Marcel-, dove si proietta Fino all’ultimo respiro, che vuol vedere a tutti i costi. Ma ad essere proiettato non è Fi­ no all’ultimo respiro. È Opéra-Mouffe di Agnès Varda, nel quale, guarda caso, si parla di una donna incinta. Un po’ più tardi Alfred chiede a Jeanne Moreau come va con Jules e Jim. E lei risponde: «Moderato-57. Alfred deve il suo nome a (Alfred) Jarry, (Alfred de) Musset e (Alfred) Hitchcock: di cognome fa Lubitsch. Il gioco di parole diventa gioco di titoli di film e ammic­ camento complice con gli amici di allora. La successione delle inquadrature di un film, la loro organizzazione inter­ na, non è più giustificata a priori, dalla dinamica delle azioni del film. Si instaura piuttosto un discorso latente, un •discorso indiretto libero- che mescola monologo interiore (i pensieri di Emile: -È bello gonfio») e commenti dell’io narrante («Ha un piccolo vélo [mulinello] nella testa-). Non siamo molto lontani dal rebus e dal geroglifico. Un’intera scena di II bandito delle undici è costruita sul­ la frase di Paul Valéry: «La marchesa esce alle cinque- (frase con la quale Valéry pone il problema della narrazione ro­ manzesca). Marianne canticchia «Tutto va mal Madama la Marchesa- (parodia del celebre -Tutto va ben Madama la Marchesa-). Il bar-dancing si chiama «La Marchesa». E ricor­ rono frasi come -tomo tra cinque minuti-, o «ah che terribili36 37 36. Se si pensa che pneu rimanda anche a! greco pneuma, soffio e so­ prattutto anima, il gioco diventa ancora più dissacrante. 37. -Moderato» rimanda a sua volta a Moderato cantabile di Peter Brook, di cui Jeanne Moreau è protagonista l’anno prima di Jules eJim.

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cinque della sera». Uno dei gangster, con la mano alzata e il palmo aperto, indica il numero cinque, poi dice -on monte à pinces», cioè «saliamo a piedi» ma anche «con le pinze», e l’immagine figurata delle pinze fa da contrappun­ to all’immagine delle gambe a forbice del nano morto (un altro della banda). A loro volta, le forbici conficcate nel collo del cadavere richiamano un titolo di Hitchcock, Dial M for Murder (Il delitto perfetto). La lettera M è l’iniziale di Marianne (l’assassina) ma anche di Marchesa. -Abito sotto- (dessous), dice Ferdinand. -Suonagliele(Tape-lui dessus - picchialo da sopra), dice l’altro gangster. II tutto concorre a formare l’idea di un -senso sottosopra» (dessous-dessus). E, alcune inquadrature dopo, un quadro di Picasso è mostrato alla rovescia. Ancora. Prima vediamo un posacenere di colore blu. Poi una scena di tortura (pas­ sage à tabac), che provoca, a rigor di logica, dei -blu- sul corpo. Da notare che nell’oggetto posacenere convergono un’espressione familiare distorta - il posacenere è un luogo dove -passe le tabac» e Pierrot è -tabassé» (torturato) - e un senso proprio promosso a senso figurato (il blu). È questo l’aspetto mimologico dei film di Godard, non nel senso di Gérard Genette (la lingua che mima la realtà) ma nella pro­ spettiva secondo la quale sarebbe la realtà profilmica a mimare la lingua. La lingua impone e suggerisce non solo gesti o oggetti. Suggerisce, in senso lato, anche la messa in scena e il montaggio, sia visivo sia sonoro. Un esempio di montaggio suggerito dalle parole è incluso ne\Vincipit di II bandito delle undici. L’inquadratura della partita di tennis è verosi­ milmente -tenuta in gioco» dalla locuzione «gli scambi mi­ steriosi» contenuta nel testo di Elie Faure che si sta recitan­ do. Il tennis fa parte degli sport amati da Godard, perché implica un puro piacere del corpo: Godard a ventanni era un atleta, ricorda Anna Karina, e non si vergognava di camminare sulle mani. Tutto consiste nello «scambio», vale a dire nel «transizionale». Forse c’è anche un’eco della parti­ ta di tennis di Bernadette Lafont in Les mistons di Francois 39

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Truffaut. I libri della collana «Marabout- (ancora!) sulla torre girevole del libraio (il titolo della collana compare a chiare lettere) liberano la catena semantica facente capo al Norda­ frica: traffico («truc» in Africa), armi, tortura (in Algeria, pri­ ma del Vietnam), OAS, oasi, deserto, volpe del deserto, la storia dei Pieds Nickelés38 ambientata appunto nel deserto, Le grand escroc (l’episodio godardiano di Le più belle truffe del mondo si svolge in Marocco e vi si parla del marabù: se ne vede un frammento), Pépe le Moka (Jl bandito della Casbah), la principessa Aìcha e il Libano... Il montaggio può inoltre organizzarsi non più sui giochi di parole ma sulla loro ripetizione o la ripetizione di intere frasi. Un passaggio di II bandito delle undici si fonda su un recitativo («Marianne racconta») articolato in tre momenti culminanti tutti nella frase -una storia complicata». Ogni momento è composto di falsi dialoghi intessuti di frasi o pezzi di frasi detti alternativamente da Ferdinand e Marian­ ne. Alcune delle frasi sono ripetute: «ti spiegherò tutto», -in silenzio-, «partire in fretta-. Una serie frastica può inserirsi da un momento all’altro («ho conosciuto delle persone», -svegliarsi da un brutto sogno»...). Il principio iterativo è applicato anche all’immagine: Marianne si abbandona a continui andirivieni, e nel montaggio che descrive la fuga di Ferdinand e Marianne molte inquadrature sono reiterate (Ferdinand che sale sulla 404 rossa è inquadrato due-volte, la 404 in corsa sulle rive della Senna ritorna tre volte), sep­ pure non in modo perfettamente identico né immediata­ mente successivo. La scissione del tempo fa sì che il rac­ conto corra in anticipo su se stesso e che i personaggi pos­ sano agire e insieme commentare la propria azione, oppu­ re descriverla in atto (mentre non possono esserne i croni­ sti in senso tradizionale, poiché muoiono entrambi). Il tem­ po si avvolge su se stesso, si rincorre...

38. Noto fumetto francese pubblicato dal settimanale ■L'Epatant* tra il 1SXJ8 e il 1934 (anno della scomparsa del suo creatore, Louis Forton). Riprese le pubblicazioni nel dopoguerra, fino agli anni settanta.

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8. Citazioni I film di Godard contengono moltissime citazioni. Cita­ zioni di ogni genere. In senso stretto, la sola citazione ac­ cettabile nel cinema sarebbe l’innesto di un frammento di film nel film con delle particolari procedure visive o sonore in sostituzione delle virgolette. In Godard è tutto diverso. Riproduzioni di quadri, titoli di libri, brani di romanzi o di poesie detti a voce (e il più delle volte deformati, trasfor­ mati), ecc., formano un materiale culturale preesistente al film, un film che si può definire «citazionale» in senso lato. Gli elementi costitutivi dei titoli dei capitoli di II bandito delle undici, ad esempio, sono parodie di citazioni o pasti­ ches-. Capitolo secondo. Una surprise-party dal signore e dalla si­ gnora Expresso, la cui figlia è mia moglie. Capitolo seguente. Disperazione... Memoria e libertà... ama­ rezza... speranza... la ricerca del tempo scomparso. Marianne Renoir. Capitolo ottavo. Una stagione all’infemo. Capitolo ottavo. At­ traversammo la Francia... Come apparizioni... Come in uno specchio. Il paesaggio s’innalzò lentamente. Secoli e secoli fuggirono lontano come tempeste. Capitolo ottavo. Una stagione all’infemo. L’amore dev’essere reinventato di nuovo. La vera vita è altrove. Secoli e secoli fuggirono lontano come tempeste. La strinsi al mio petto... e mi misi a piangere. Era il primo... era l’unico sogno^9.

Di Bande à part Godard stesso ha fornito una scheda su personaggi e interpreti. Secondo la scheda, il personaggio di Odile sottende: Tess di Thomas Hardy, Sarn-Becco-diLepre di Mary Webb, il romanticismo inglese del XIX seco­ lo e il classicismo tedesco del XVIII (l’Ottilia delle Affinità elettive di Goethe), Marianne di de Musset, la Berenice di Racine, e, buon ultimo, il titolo del romanzo di Queneau, 39. Dai dialoghi dell’ed. it., in -Filmcritica-, n. 165 (marzo 1966), pp. 156, 157,163-65.

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«che le assomiglia». Ma Odile è anche Leslie Caron, Cathy O’Donnell, Jennifer Jones, Sylvia Sydney. Quanto ad Anna Karina, Godard fa i nomi di Asta Nielsen, Greta Garbo e Pola Negri. Arthur è chiaramente collegato a Queneau (Les enfants du limon, Loin de Rueil, L ’explication des metaphores') e a Rimbaud, oltre che alla tipologia del personaggio da «romanzo da stazione». Cinematograficamente parlando, il personaggio rimanda a René Clair, a Per le vie di Parigi e Sotto i tetti di Parigi. Il terzo personaggio, Franz, vanta parentele teatrali: il Cid, Lorenzaccio, Orfeo, Riccardo III, Brecht, Claudel. Le matrici letterarie? Frantz de Galais e Au­ gustin Meaulnes, i ragazzi umiliati di Bemanos... Simenon, Novalis, Bossuet, Breton (Nadja') e il William Wilson di Poe sono per Godard, pur nella loro eterogeneità, tutti referenti ugualmente autorevoli. I riferimenti si accavallano indiscriminatamente. Ad esempio, in Agente Lemmy Caution, missione Alphaville-. Dick Tracy, Guy L’Eclair, Eluard (Capitale del dolore), Pa­ scal («Il silenzio di questi spazi infiniti mi sgomenta»), Berg­ son («Io credo ai dati immediati della coscienza») e... Lemmy Caution. I riferimenti filosofici, a loro volta, sono sistematicamente «trivializzati», al di là del loro non indiffe­ rente peso specifico. In Una storia americana i personag­ gi, raccolti in un bar, si chiedono esattamente che cosa è un bar, ossia un insieme di oggetti e di soggetti tra loro correlati. Specularmente, Due o tre cose che so di lei dà uno sviluppo a questa scena e descrive un «insieme» e le sue parti, i grandi «insiemi» della banlieue parigina in primis. •Innanzitutto, che cos’è un oggetto?», si chiede Godard, con un richiamo preciso a Le cose di Georges Perec, da cui ha citato un passo in II maschio e la femmina (la fine de) IV capitolo: -Non era il film da loro sognato. Non era quel film totale che ognuno di loro portava dentro di sé»). In Due o tre cose che so di lei le inquadrature della tazzina di caffè, dopo che vi è caduta la zolletta di zucchero e il cuc­ chiaino ha compiuto il suo movimento circolare, sono di­ ventate celebri: sono stati scomodati la spirale di La donna

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che visse due volte, il cosmo, le galassie... Basterebbe ricor­ dare l’esperienza, descritta da Bergson, dello zucchero in un bicchiere d’acqua (qual è il movimento di scambio in quest’insieme?). Non sono del tutto da trascurare neppure i film degli anni ottanta, a proposito dei quali lo stesso Godard sostie­ ne non esservi una sola parola di suo. Dalla citazione più conosciuta («Fuir! là-bas fuir! / Je sens que des oiseaux sont ivres / D’etre parmi l’écume inconnue et les cieux! / Je par­ tirai! Steamer balan^ant ta mature, / Lève l’ancre pour une éxotique nature!», «La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres»), con l’implicito complemento di «Hélas pour moi», alla meno conosciuta, talora al limite dell’indecifrabilità. Le osservazioni di Barthelémy Amengual a proposito del •metodo» godardiano si rivelano ancor oggi puntuali: «Co­ me gli artisti pop, Godard assembla tutti quei materiali che gli sembrano in grado di creare relazioni frastornanti e in­ giuriose. È vero che sono spesso materiali residuali. Ma Godard attinge anche alle opere d’arte e dello spirito. Sen­ nonché le riduce subito a residuati: frammenti letti male, detti male, sviliti, deteriorati, scorci presi di sghembo, ri­ produzioni di riproduzioni»40. Viene anche in mente la definizione di testo seriale data da Antoine Compagnon a proposito della letteratura e della pittura: Nell’economia classica della scrittura, il dispositivo della cita­ zione e il sistema di regolazione che esso informa rispondo­ no, a pensarci bene, all'esigenza di una distribuzione rigorosa dei livelli di linguaggio. Virgolettare una frase o indicare in qualche modo che si tratta di una citazione, costruire dei me­ talinguaggi, equivale a dar prova di logica e di buon senso. Il testo seriale è fatto per alterare questa bella, precisa, ordinata costruzione discorsiva: scavalca il perimetro assegnato, sporge oltre i margini - così come il quadro di Klimt ingloba la corni­ ce: la cornice, il fuori testo, fa parte del quadro -, inverte le 40. B. Amengual, Jean-Luc Godard, in -Etudes Cinématographiques-, n. 57-61 (1967).

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direzioni (dell’intertesto o della biblioteca), appiattisce, schiaccia tutti i livelli del discorso, tutti i metalinguaggi, su una medesima superfìcie di proiezione. Con ciò abolisce l'op­ posizione fondamentale della citazione e dell’uso, sopprime la differenza tra ciò di cui parla, il linguaggio-oggetto, e ciò con cui parla, il metalinguaggio. Se non arriva a trasformare tutta l'economia della scrittura (la produzione, lo scambio e il consumo), il testo seriale rappresenta comunque una decisa rivoluzione logica. (...) Diventa una superfìcie dove i livelli di discorso premono uno sull'altro e si fondono, invece di proiettarvisi uno alla volta: si sovrappongono, si attraversano, si avviluppano. La pagina risulta stratificata. (...) Ci si deve in­ trodurre fra gli strati del testo, si deve farli emergere, perché il livellamento non annulla del tutto i gradi del discorso. Al con­ trario, questi, sovrapponendosi più strettamente, proliferano all’infinito: slittano gli uni sugli altri, configurandosi come una geologia di faglie dove tutti gli strati di terreno si urtano tra di loro.

Antoine Compagnon sostiene anche che la citazione, ciò che è richiamato, -ciò che entra ed esce dal testo, l’intertesto, un riferimento o un’intera biblioteca», «si trovava già là, sul foglio, prima che io scrivessi, un’imbrattatura, una macchia o una “macula". Superfìcie scavata dai solchi, lacerata, erosa, graffiata, alterata da tanti colpi di penna, sembra l’incisione di un’epigrafe. Io mi metto a scrivere, a tracciare dei segni su questa superfìcie, e cado in una sca­ nalatura, la mia penna scivola, affonda in un solco che c’è già». •Noi siamo i primi a sapere che Griffith esiste», scriveva Godard parlando della sua generazione. In altre parole: siamo i primi a sapere che c’è già tutto. La citazione seriale rifiuta la problematica dell’origine e della copia. Ogni cita­ zione, invece di inscriversi sotto un’unica figura, si identifi­ ca col tutto nella sua immanenza. Tutto si mescolerebbe in un grande insieme mai del tutto esaurito. Si tratta di scava­ re la frontiera del testo e del fuori-testo, di confondere il dentro e il fuori. Di qui, l’indifferenziazione dei testi di Eluard in Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, il fatto che in Una 44

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donna sposata la recitazione di Berenice e dei testi pubbli­ citari sia la medesima, il fatto che in Bande à pari un qua­ dro di David al Louvre sia omologato aU’immagine di una chiatta su un fiume (inquadrata con una rapida panorami­ ca), o l’inverso. La sequenza seriale per eccellenza è quella delle cartoli­ ne illustrate in un film peraltro memore de L'dge d'or Les carabiniers. La sequenza si basa sul principio dell’enume­ razione, sia visiva (delle cartoline, uscite impacchettate da una valigia, vengono sparpagliate su un angolo di tavolino) sia sonora (quello che ogni cartolina rappresenta è indicato dai due uomini, ora da Ulysse ora da Michel-Ange, in for­ ma seriale: i monumenti, i mezzi di trasporto...). L’enume­ razione e la litania costituiscono il fondamento stesso del film, che serializza persino l’orrore, e la derisione. All’ini­ zio, per convincere i due personaggi maschili a partire per la guerra, due carabinieri si lasciano andare a uno sprolo­ quio sulle virtù della guerra. -Visitando Paesi stranieri voi arricchirete il vostro spirito». A questo tema del viaggio è appunto legato l’invio delle cartoline. Godard ha paragona­ to il turismo a una moderna forma di guerra; per converso, la guerra può essere una forma di turismo. «State per di­ ventare molto ricchi. Potrete avere tutto quello che vorre­ te». L'asserzione è convalidata da una prima enumerazione di tutti i benefìci che potranno essere acquisiti dai due fu­ turi soldati, appartenenti, evidentemente, a una classe so­ ciale che ne è sprovvista. Alla promessa d’abbondanza, contenuta in un’enumerazione eteroclita nella quale le chi­ tarre hawaiane fanno mucchio con le fabbriche di sigarette e i fiammiferi con gli aeroporti, si aggiunge la possibilità di fare qualsiasi cosa, senza rischio di punizione. Una secon­ da enumerazione si dà sotto forma di domande poste da .Michel-Ange a un carabiniere. Il principio è: chi ha meno possibilità ha più possibilità, chi ruba dei pantaloni elegan­ ti può svaligiare degli appartamenti, chi rompe gli occhiali dei vecchi può spezzare le braccia ai bambini, chi incendia villaggi può bruciare gente nelle chiese, ecc. Se l’elenco 45

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delle atrocità è illustrato dal film nella sua quasi totalità, il primo elenco è fatto per programmare la sequenza nel cor­ so della quale i due monarchici estraggono dalla loro vali­ gia ammaccata le prove dei loro viaggi, che sono anche, ai loro occhi, i titoli di proprietà di quello che avrebbero con­ quistato. I due s’incaricano di fornire la conferma di quan­ to avevano predetto i carabinieri. La sequenza delle cartoline illustrate si colloca all’inter­ sezione delle due serie, quella iniziale delle enumerazioni verbali e quella delle cartoline che attraversa tutto il film. La serie comprende l’inquadratura-leitmotiv delle donne che si appropriano della cassetta delle lettere, quella dove leggono una delle cartoline ricevute, ecc. In questa serie va inclusa la seduta cinematografica alla quale assiste MichelAnge, per quanto paradossale possa sembrare. Questo pas­ saggio è esattamente equidistante rispetto all’enumerazione iniziale e rispetto alla sequenza finale. Quali film vede Michel-Ange? Un treno che entra in sta­ zione, la colazione del bebé e il bagno della «donna di mondo-. E ogni volta, naturalmente, si allude alla storia del cinema, ai film dei fratelli Lumière, alle torte in faccia di Mack Sennett e a titoli come Le coucher de la mariée di Méliès. Ma ogni volta, anche, la pellicola visionata entra te­ maticamente, o figurativamente, nella struttura globale del film. La locomotiva fa parte degli oggetti inclusi nell’enu­ merazione dei carabinieri, e ritorna in una delle serie della sequenza delle cartoline. La colazione del bebé si correla con l’ossessione dei due uomini di perpetuare la loro fami­ glia, cioè di riprodurre l’imbecillità umana «nei secoli dei secoli-, e l’ossessione è a sua volta legata da un lato alla collezione di donne selezionate allo scopo e dall’altro al problema più vasto della rassomiglianza. II bagno della -donna di mondo» entra necessariamente nella grande serie delle donne, -categoria a parte-, come dice Michel-Ange. All’inizio del film, il bagno di Vénus è interrotto dall’arrivo dei carabinieri; questi, poi, a convalidare le loro asserzioni, estraggono solo due immagini, due foto di donne: la pri­ 46

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ma, presentata come una «donna di mondo-, è una cartoli­ na firmata Yvon con una pin-up in costume da bagno ingi­ nocchiata nell’acqua (il bagno di una -donna di mondo-), la seconda è una -donna che si spoglia-, La sequenza delle cartoline si conclude praticamente con l’ampio panorama delle «donne di mondo- nel loro varietà. In altre parole, la seduta cinematografica nel corso della quale, una volta di più, un personaggio del film scambia la rappresentazione del reale col reale stesso41, sembra proprio la «spettacola­ rizzazione deU’immagine fissa- di cui parla Jean Rousset a proposito del romanzo di Claude Simon Storia (che utilizza abbondantemente le cartoline). L’enumerazione-fìume delle cartoline si può esaminare in molti modi. Lo slittamento che fa scivolare l’idea delle cartoline in quella del gioco delle carte è assicurato dal modo in cui gli attori manipolano le carte stesse: i due uo­ mini si ispirano al modulo della «battaglia» (ritornano dalla guerra) e le due donne a quello del «gioco delle famiglie(svolgono una funzione riproduttrice). Anche nella combi­ nazione delle cartoline di Storia si è potuta riscontrare la dinamica di «una vera e propria “mano di carte” giocata nel corso di una partita-42. A Michel-Ange tocca l’onore di reci­ tare l’elenco dei monumenti (21 cartoline). I mezzi di tra­ sporto sono enumerati alternativamente dai due uomini: Ulysse enumera quelli relativi al trasporto su acqua o su rotaia, Michel-Ange quelli relativi al trasporto su strada o aereo (rispettivamente, 15 e 19 cartoline). Il principio d’al­ ternanza scatta nuovamente al livello di due grandi «insie­ mi-: le meraviglie della natura assegnate a Ulysse (8 cartoli­ ne) e i grandi magazzini a Michel-Ange (5 cartoline). Le due serie successive sono così suddivise: i mammiferi toc­ cano a Ulysse (13 cartoline) e gli invertebrati a Michel-An41. Per vedere meglio Michel-Ange continua ad alzarsi, spostarsi, si ar­ rampica sullo schermo, e alla fine lo fa crollare. 42. C. Simon, Histoire, Ed. de Minuit, Paris 1967 [Storia, tr. il., di G. Neri, Einaudi, Torino 1971] è in qualche modo una rivisitazione post-prou­ stiana dei meccanismi analogici della memoria infantile e adolescenzia­ le, resuscitata attraverso una collezione di cartoline primo Novecento.

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ge (7 cartoline), E dal momento che Michel-Ange ha avvia­ to (o intavolato) renumerazione globale, Ulysse la chiude con le serie dell’industria e delle ricchezze della Terra (5 cartoline). La serie delle donne costituisce, s’è detto, una «categoria a parte» per due ragioni. In primo luogo suben­ tra al grande inventario precedente; in secondo luogo, la serie visiva e la serie sonora sono distinte intenzionalmen­ te: da un lato le fotografìe sono disposte su tutto il tavolo in file successive, un po’ come sono esposte le cartoline di Storia in una documentazione fotografica della Collezione Claude Simon; dall’altro solo le ultime tre sono accompa­ gnate da una «legenda» sonora, seguita peraltro da una va­ langa di nomi femminili che i quattro personaggi recitano a ruota libera in una sorta di gioco collettivo. Così le «donne di mondo» sono esposte due volte in tutta la loro... varietà. All’inizio della sequenza delle cartoline, Ulysse si limita in realtà a un’enumerazione semplicemente programmati­ ca. Alla fine constatiamo che tre delle serie da lui annun­ ciate non fanno parte di alcuna raccolta (anche se, al di là di questo, è possibile istituire delle serie trasversali). I tre temi apparentemente mai affrontati sono: le opere d’arte, le cinque parti del mondo, i pianeti. Questi ultimi restano in effetti ignorati. Ma le opere d’arte sono copiosamente di­ stribuite tra il Leprotto di Durer, le riproduzioni confluite nella serie delle donne (Modigliani, Degas, Ingres, Manet...), Palazzo Pitti, Villa Medici, nomi ai quali vanno ag­ giunti quello dello stesso Michel-Ange (Michelangelo) e quello di Rembrandt, il cui Autoritratto Michel-Ange (Mi­ chelangelo) saluta con le parole «Un soldato saluta sempre un artista» (scena ripetuta in Allemagne neuf zèro). Quanto alle cinque parti del mondo, sono in qualche modo trattate nelle serie delle meraviglie della natura e dei paesaggi. Di queste «parti del mondo» ne spiccano almeno due: il Messico e l’Egitto. Il primo è rappresentato, nelle cartoline, dalla cattedrale di Città del Messico, e, nel film nel suo insieme, dal facile gioco di parole sul messicano e il «mec si con», dall'insegna del cinema, »Le Mexico» (ubicato a Santa Cruz, 48

Alla ricerca dell arte perduta

città della Bolivia...), nel quale Michel-Ange assiste al suo primo spettacolo cinematografico43, e ancora dalla marca di cartoline «Mexichrome». All’Egitto è invece delegata una funzione preminente. La sequenza comincia e si conclude con l’immagine delle piramidi («tombe per quando saremo morti»). L’unica volta che i due soldati-turisti s’improwisano fotografi, l'obiettivo privilegiato si rivela essere la Sfin­ ge. E la cartolina con la Sfinge è l’unica veramente messa a fuoco dalle due donne. Esiste dunque una serie-Egitto che attraversa il film, passando naturalmente anche per il nome di Cleopatra, che, anch’essa, rimanda al cinema per il tra­ mite di Elizabeth Taylor. Sussiste infatti, in senso trasversa­ le, anche una serie-cinema, che compare coi tre film visio­ nati da Michel-Ange al cinema «Le Mexico- (altro incrocio) e attraversa tutta la sequenza delle cartoline: gli animali (Rin Tin Tin, il gatto Felix), le meraviglie della natura (la cartolina del canyon del Colorado sembra raffigurare la Monument Valley), i monumenti (i bastioni di Mogador do­ ve Orson Welles girò Otello), i mezzi di trasporto (La car­ rozza d’oro), le donne (le foto di Brigitte Bardot, Martine Carol, Elizabeth Taylor...). Il lavoro di tessitura, condotto in modo estremamente serrato da Godard, è evidente. Per Claude Simon «le parole hanno in sé il prodigioso potere di avvicinare e di confrontare quello che, senza di loro, rimar­ rebbe disperso» (Orion aveuglé). Godard, in Les carabiniers, suddivide questo potere tra le parole e le im­ magini.

9. Pittura 1 Godard critico è sensibile al colore nei film altrui. «Va lodato senza riserve (in La donna venduta di Ray) l’uso de­ liberato e sistematico dei colori più chiassosi che si possa­ no vedere al cinema: camicie arancione succo d’orzo, vesti­ 43. Michel-Ange, coi suoi goffi e balordi movimenti, vi appare giusto co­ me un -mec si con- (un coglione).

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ti verde acido, automobili viola, tappeti blu e rosa, il tutto non senza ricordare il miglior Van Dongen e fare giustizia una volta per tutte di chi crede ancora che il cinema a co­ lori si adegui meglio ai toni dolci che a quelli violenti-44. •Donen non ha paura di andare troppo lontano [...1 de­ streggiandosi col rosso delle labbra, l’azzurro dei blu-jeans, il verde dell’erba, il giallo dei gagliardetti, il bianco delle sottovesti per comporre il più indiavolato e formidabile dei caleidoscopi»45. E a proposito di Una vita di Astruc: «Il ver­ de chewing-gum di un gomitolo di lana [nel cinema di Di­ sney] non conta nulla. La vera bellezza di Una vita è nel vestito giallo di Pascale Petit che si agita fra le dune grigioVelazquez di Normandia»46. Riparleremo di questo grigioVelàzquez a proposito di Anna Karina - Marianne in II bandito delle undici. Il lavoro di Godard sul blu-bianco-rosso, lavoro che at­ traversa tutta la sua opera, lo apparenta ai fauves, per i quali l’imbandieramento popolare del 14 luglio era diventa­ to un’icona (Macquet, Duly, Manguin, e, prima di loro, Manet, Monet, Van Gogh...). Come i fauves, Godard tratta i colori con tonalità primarie, dense, privilegiando il cromati­ smo piatto, cioè la superfìcie piana spogliata di qualsiasi il­ lusionismo ottico. L’incipit di II bandito delle undici è l’occasione per for­ mulare una vera e propria «arte poetica», affidata da un lato a una citazione di Elie Faure riferita a Velàzquez, -pittore della sera, dello spazio e del silenzio», e dall’altro a una se­ rie di immagini sintonizzate sul testo di Faure: una ragazza, un uomo, dei libri, una donna in una città notturna in riva al mare, lo spazio, la notte, «palpitazioni colorate», -un’onda aerea che scivola sulle superfìci», insomma, -il migliore dei

44. J.-L Godard, Rieri que le cinéma, eie., p. 62. 45. Id., Voyez camme on danse (rec. dì II gioco del pigiama), in «Cahiers du Cinéma», n. 85 (luglio 1958) [in // cinema è il cinema, cit., p. 1051. 46. Id.t Ailleurs, cit., pp. 108-109.

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Alla ricerca dett arle perduta

mondi possibili-. Con l’invito a scoprire quello che si na­ sconde fra le inquadrature47. Pierrot-Ferdinand ripercorre La storia dell'arte di Elie Faure in edizione economica e -legge» le opere d’arte come fossero tante cartoline da affiggere al muro con puntine da disegno. La sua esperienza è, palesemente, quella dell’uo­ mo comune del XX secolo che si accosta al mondo dell’ar­ te leggendo piccoli saggi e accontentandosi di riproduzio­ ni. In II bandito delle undici il mondo dell’arte è rappre­ sentato o da opere che occupano tutto lo schermo o da cartoline di piccolo formato che, riprese alle spalle degli at­ tori, sono a volte diffìcilmente decifrabili. Oppure Godard si diverte a postulare un’identità tra i suoi personaggi e le rappresentazioni figurative che li accompagnano. Ad esem­ pio, Marianne e una figura femminile di Renoir si equival­ gono al punto che il personaggio si chiama Marianne Re­ noir. Dopo la scena degli -amanti della notte-, che si con­ clude con la canzone -C’que t’es belle, ma pépé, c’que t’es belle, c’que t’es belle», appare un primo piano di Marianne che pronuncia il solito -Si vedrà». Dopodiché la voce di Ferdinand s’incarica di mettere il segno «uguale» tra Marian­ ne e Renoir utilizzando come -ponte» l’inquadratura succes­ siva, il volto della Bambina presso il covone (1888): Marian­ ne, dunque, come donna-bambina, con un nastro rosso nei capelli. Un po’ più avanti, Marianne, appoggiata a un muro bianco, evoca una Bagnante del 1880, il cui volto è riutiliz­ zato poco dopo (in Fino all’ultimo respiro Patricia suscita­ va invece il confronto col ritratto renoiriano di M.lle Irène Cahen d’Anvers, sempre del 1880). Sotto il profilo narratologico i due quadri non presentano il medesimo statuto: uno, la Bagnante, appartiene all’universo diegetico; l’altro, la Bambina presso il covone, non vi appartiene, ma tutti e due entrano in una serie-Renoir, completata in un altro 47. Cfr. Id., Parlons de Pierrot, in -Cahiers du Cinema-, n. 171 (ottobre 1965) [in II cinema è il cinema, cit., p. 2361: -Velazquez alla fine della sua vita non dipingeva più le cose definite, ma quello che c’è fra le cose-.

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momento del film da un Nudo di spalle, allungato, che compare tra due inquadrature di mare scintillante ("Parlò dell’estate e del desiderio che hanno gli amanti di respirare l’aria limpida della sera*). Come si può intuire da Fino all’ultimo respiro (e già pri­ ma da Tons les garfons s’appellent Patrick) la serie-Renoir si interseca con una serie-Picasso. Nella scena in camera di Marianne, si vede lei che si aggiusta i capelli davanti a uno specchio: attaccata al muro c’è la Fanciulla allo specchio del 1932. Anche in Pierrot-Ferdinand è implicito Picasso: sopra il letto su cui è sdraiato figura Paul travestito da Pier­ rot (1925). In un altro passaggio del film, quello in cui Ma­ rianne conficca le forbici nel collo del nano, appesi al mu­ ro compaiono due Picasso del 1954: Jacqueline coi fiori e Ritratto di Sylvette sulla poltrona verde. Nell’intervallo tra le due scene si vedono Gli innamorati del 1923, proprio mentre viene pronunciata la battuta: -Tenera è la notte; è un romanzo d’amore- (questi stessi Innamorati sono pre­ senti con Jacqueline coi fiori nella camera di Patricia in Fi­ no all’ultimo respiro, e si notano quando Patricia esclama: •Vorrei che fossimo Romeo e Giulietta-). Si evidenziano dunque due serie importanti collegate al­ la pittura, e si manifestano, essenzialmente, nelle due scene in cui il nano è assassinato da Marianne con un paio di for­ bici. La serie-Picasso insiste sulla duplicità e il travestimento (come già in Fino all’ultimo respiro, e come ribadisce Ferdi­ nand in II bandito delle undici: -Siamo arrivati all’epoca de­ gli uomini doppi-). Paul travestito da Pierrot (in due versio­ ni) rimanda a Pierrot-Ferdinand; il doppio volto della Fan­ ciulla allo specchio a quello di Marianne, ora sotto il segno di Renoir (Marianne = amare Anne), ora sotto il segno di Modigliani (la Donna in cravatta nera del 1917 è esposta sopra il letto dove giace il cadavere del nano, nella camera di lei). In un’altra scena Marianne compare tra Jacqueline coi fiori e il Ritratto di Sylvette: a tale doppia raffigurazione corrispondono, in una camera vicina, due foto di donne nu­ de, una delle quali incatenata in posizione sadomaso. 52

Alla ricerca dell 'arte perdala

Le serie possono intrecciarsi e costituire aggregati relati­ vamente autonomi. Nella sequenza che si svolge neil’appartamento di Marianne, lei si sposta da una stanza all’altra cantando una canzone sulla precarietà dell’amore «senza domani» che Ferdinand e lei stessa stanno vivendo48. A se­ guire, un primo piano di lei sull’immancabile «Si vedrà» e, complice la colonna sonora con la canzoncina Au clair de la lune, mon ami Pierrot..., l’innesto delle quattro citazioni pittoriche: Paul travestito da Pierrot (in primo piano), La blusa rumena (1940) di Matisse, ancora Paul travestito da Pierrot (in primissimo piano) e il volto della Bagnante del 1880. Il sonoro, da par suo, fa dialogare Marianne e Ferdi­ nand (la voce di lei su una riproduzione maschile, la voce di lui su una femminile), e fa dire a Marianne che è arriva­ ta la moglie di Ferdinand. La blusa rumena può dunque rinviare alla moglie di Ferdinand, e la serie delle quattro ci­ tazioni può essere una rappresentazione «metaforica» della situazione affettiva di Ferdinand preso tra due donne. Le fi­ gure dipinte sostituiscono indifferentemente i personaggi e i personaggi a loro volta non fanno altro che commentarsi l’un l’altro le proprie azioni, come se ciascuno fosse il nar­ ratore della storia dell'altro. E altre serie ulteriori sembrano riaggregarsi... Nell’appartamento in cui muore il nano, due Picasso sul muro compongono un «aggregato». Un’inquadratura mostra Marianne di fronte con un paio di forbici in mano, forbici che apre e chiude imprimendo al proprio braccio un movi­ mento da destra verso sinistra. La mano che tiene le forbi­ ci, in primo piano, assume la stessa rilevanza del volto che spicca sullo sfondo, tra Jacqueline coi fiori (sulla destra) e il Ritratto di Sylvette (sulla sinistra). 11 primo dei due quadri è diviso in due parti: la parte superiore è blu, l'inferiore è rossa. Le parti sono separate da una diagonale, come se il pittore avesse giustàpposto due pezzi di carta precedente­ 48. La canzone, Jamais je ne t ai (Ut queJe t "aimerai toujours di Duhamel e Bassiak, è la stessa, citata sopra, che conclude la scena d’amore tra Marianne e Ferdinand.

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mente tagliati con delle forbici (strumento che ovviamente rinvia al montaggio: (M)arguerite Renoir fu una celebre montatrice). Il collo della modella di Jacqueline coi fiori è stato marcatamente allungato, deformazione che trova un equivalente nel trattamento stesso dell’inquadratura, ripresa con una corta focale. Dopo alcune inquadrature, è Ferdi­ nand a occupare nel campo visivo la medesima posizione di Marianne, ma girato verso destra (di profilo, dunque, co­ me le figure dipinte, però nella direzione opposta, e non di fronte come Marianne). Sta per essere torturato da un gangster, tuttavia la scena di violenza non è mostrata, come non era stata mostrata l’uccisione del nano: nel sonoro si distinguono solo delle grida. La scena è «sostituita» da Jac­ queline coi fiori in primo piano, prima in posizione norma­ le, poi alla rovescia, a testa in giù: ancora il «senso sottoso­ pra». Alle due inquadrature subentra quella del Ritratto di Sylvette, anch’esso in primo piano. Ora, questi ritratti fem­ minili non rimandano certo a Pierrot-Ferdinand, tutt’al più richiamano Marianne. Più che altro, per Godard, l’elemento importante sembra essere il colore. L’inquadratura, in effet­ ti, lascia intravedere solo la zona blu di Jacqueline coifiori. E tutte e tre le inquadrature evidenziano questo colore. Il rosso, a sua volta, è legato a Marianne (indossa un vestito rosso) e all’assassinio che commette («Niente sangue, nien­ te rosso»). Quando Ferdinand entra nella stanza coi muri bianchi in cui è disteso il cadavere del nano, sul fondo bianco spicca il rosso di una poltrona, di un cuscino roton­ do, del vestito lasciato da Marianne, di un abat-jour (come nell’appartamento di La donna è donna}... E il rosso san­ gue s’è sparso su un tappeto bianco, evocando la bandiera giapponese, mentre un posacenere »blu» preannuncia la tortura (passage à tabac) imminente. Tutto può comunque rovesciarsi: i torturatori di Ferdinand gli coprono il volto col vestito rosso di Marianne (botte); alla fine del film Fer­ dinand stesso si dipinge il volto di blu (morte). Nel 19Ó3 Godard partecipa a un film collettivo, Rogopag, il cui terzo episodio, La ricotta, è firmato da Pa­ 54

Alla ricetta dell’arte perduta

solini. La ricotta racconta la storia di un regista (Orson Welles) che realizza un film - una Passione - partendo da quadri viventi e nature morte. Godard l’ha certamente vi­ sto e meditato. Il frutto di tale riflessione è visibile ventan­ ni dopo in Passion. Anche lì si chiede al personaggio del nonno, come a Stracci, il ladrone buono di La ricotta, di ■dire la frase»49. Quanto ai primi piani del cielo di Passion, come non ricordare l’ultima inquadratura di un altro -episo­ dio» di Pasolini, Che cosa sono le nuvole}, tra l’altro incorni­ ciato da Velazquez, quello di Las Meninas e di Venere allo specchio, e la «frase» detta da Totò: «Oh, straziante, meravi­ gliosa bellezza del creato’».

10. Resnais-Godard

Nel 1959 Godard scrive che Resnais è «il secondo mon­ tatore del mondo dopo EjzenStejn. Per entrambi, montare vuol dire organizzare cinematograficamente, cioè prevede­ re drammaticamente, comporre musicalmente; in altre pa­ role, le più belle: mettere in scena»50. La visione di Le chant du styrène lo spinge a dire che Resnais «ha inventato la carrellata moderna, la sua velocità di corsa, la sua brusca partenza e il suo arrivo lento, o viceversa»51. Dunque Go­ dard colloca Resnais molto in alto. Classifica Hiroshima mon amour fra i dieci migliori film del 1959, come Muriel fra i dieci del 1963. Dichiara però di essere imbarazzato, davanti a Hiroshima mon amour, come davanti a Notte e nebbia, dalle -scene d’orrore- che, esibite senza mediazio­ ni, fanno sì che -si venga automaticamente scavalcati dai propri contenuti*. Ora, Godard ha spesso parlato del film che, dal suo punto di vista, bisognerebbe fare sui campi di 49. È l'invocazione al Cristo: -Quando sarai nel Regno dei Cieli ricordami al Padre tuo-. 50. J.-L. Godard, Chacun son Tours, cit. [in 11 cinema è il cinema, cit., p. 126]. 51. Ibid., p. 127.

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concentramento: un film basato sulle testimonianze di se­ gretari o funzionari addetti alla risoluzione delle più banali questioni pratiche connesse con la vita dei lager. Godard non ha mai realizzato questo film, ma dei lager si dibatte molto in Una donna sposata, i cui personaggi vedono alcu­ ne immagini di Notte e nebbia nella sala dell’aeroporto. L’i­ dea di un film sui campi di sterminio l’ha sempre ossessio­ nato. Vi ritornerà in Histoire(s) du Cinéma e in Allemagne neufzero. Tutto Vincipit di Una donna sposata, coi primi piani del corpo di Macha Méril, può essere letto come un contrap­ punto dellTnc/p/r di Hiroshima mon amour, coi primi piani dei corpi allacciati dei due amanti. Quanto a Muriel, Go­ dard ha dichiarato di aver voluto dare continuità, in Due o tre cose che so di lei, al -movimento» iniziato proprio da Muriel (e lo testimonia facendo apparire all’inizio di Due o tre cose un manifesto del film di Resnais). Inoltre, il fatto che Resnais abbia utilizzato anch’egli testi di Eluard e Queneau, abbia girato un film su un’opera di Picasso5253 , abbia sempre dimostrato interesse per la fantascienza e per il fu­ metto, costituisce un altro elemento di convergenza tra i due registi. Di convergenza e di divergenza. Nel corso de­ gli anni settanta Godard si dimostra infatti molto severo nei confronti di Resnais: -Resnais è un tipo ostinato: indossa sempre la stessa uniforme. Non vuole confessare a se stes­ so che non ci sa più fare |...] Dopo Hiroshima mon amour non ha fatto altro che regredire». Nell'ultimo -periodo» godardiano si rivela tuttavia un di­ verso stato d’animo. Nella serie di conferenze canadesi5*5 Godard associa L’anno scorso a Marienbad a Agente Lemmy Caution, missione Alpbaville. In quel -teatro della memoria» che è Passion viene rievocato senza mezzi termi­ ni Hiroshima mon amour, la frase -Ti dimentico, ti sto già dimenticando» è rivelatrice. In Lettre à Freddy Buache vie­ 52. Il cortometraggio Guernica, 1950. 53. Le conferenze poi raccolte nel volume J.L. Godard, Introduzione alla • vera storia del cinema, cit.

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Alla ricerca dettarle perduta

ne ripresa la battuta di Lubitsch «Se sapete filmare delle montagne, dell’acqua e del verde, sapete filmare anche gli esseri umani-, già richiamata, sia pure in veste diversa, in due articoli del 1958 e poi, dettaglio ben più importante, utilizzata da Godard nel dibattito organizzato dai «Cahiers du Cinéma» per commentare Hiroshima mon amour^. La battuta gli serve per dire che il passaggio di Resnais dal documentario alla fiction non comportava alcun problema: • «il cinema è il cinema». Che Godard riprenda il concetto, difendendo una forma cinematografica che sta a metà tra il documentario e il saggio, non è casuale. Se infine ripensia­ mo alle dichiarazioni rese da Godard all’epoca di Una don­ na sposata circa 1’esistenza di modi diversi di fare cinema, o «come Jean Renoir e Robert Bresson che fanno della mu­ sica», o «come Sergej EjzenStejn che fa della pittura», o «co­ me Alain Resnais che fa della scultura», ecco che recuperia­ mo ancora un altro punto di convergenza con Resnais. Il primo importante riferimento alla scultura nell’opera di Godard è presente in // disprezzo, non tanto per le sta­ tue degli dèi, quanto per il corpo di Camille. Nella scena in cui compare nuda, all’inizio del film, tutti hanno notato che i filtri rosso/blu e l’illuminazione -naturale» che esalta il co­ lore giallo reinventano la tricromia, in un modo che è ab­ bastanza vicino a quello della «vera statuaria antica-. Go­ dard sottolinea una rassomiglianza tra il suo personaggio e la «Èva del quadro di Piero della Francesca-54 55. Si tratta, molto verosimilmente, nell’affresco della Leggenda della Croce dedicato alla morte di Adamo, della fanciulla dal vol­ to impassibile, abbastanza somigliante a una kóre greca. Elie Faure, la guida di Godard in materia di pittura, scrive in proposito: «Torsi cilindrici, spalle larghe, braccia arcuate, colli simili a colonne, teste sferiche dallo sguardo diritto. Si direbbero delle statue in movimento-56. L’altro film coevo 54. Cfr. Hiroshima mon amour, in -Cahiers du Cinema-, n. 97 (luglio 1959). 55. Cfr. J.-L. Godard, Note per -Il disprezzo-, in II cinema è il cinema, cit., pp. 207 (inedito in francese). 56. Cfr. E. Faure, Histoire de TArt, Livre de Poche, voi. Ili, p. 121. 57

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che lascia spazio alla scultura è Una donna sposata, opera che, prima di Prénom Carmen, abbina Beethoven all’arte dello scultore. Godard, in Una donna sposata, mostra delle statue di Maillol in contrappunto con le immagini «sculto­ ree- del corpo di Charlotte (Macha Méril): un «corpo in frammenti- opposto ai corpi delle donne di Maillol che sembrano dischiuse dalla pietra. Con Prénom Carmen, scultura musica e frammentazione sono associate ancor più strettamente: -Studi su frammenti di musica e frammenti di carne: il corpo della melodia-. -Per le scene d’amore avevo chiesto ai tecnici e agli attori di andare a vedere le sculture di Rodin. (...] Procedendo io stesso al montaggio e al mis­ saggio, ho ritrovato l’idea che avevo di Rodin: l’idea di uno scultore che scava una superficie con le sue mani. Scava lo spazio. I musicisti parlerebbero senz’altro di spazio sonoro. Ecco, mi interessava scavare uno spazio sonoro»57. In un’altra occasione, alla conferenza del 26 aprile 1988 alla FEMIS, Godard, a proposito del montaggio e del mis­ saggio, dichiara: -C’è un insieme di cose che è più vicino, non so, all’architettura, o a un’arte che non ho mai ben ca­ pito e che comincio a capire solo ora, cioè la scultura. Ci sono scultori che partono dalla piega del naso e scolpisco­ no poi il seguito. Michelangelo, sembra, partiva dalle dita dei piedi, e poi faceva tutto il resto. Altri procedono per approssimazioni successive: è quello che faccio io-. A que­ sto punto Godard si potrebbe riconciliare con Resnais e comincerebbe forse, solo ora, a capirlo. Come Resnais in L'amour à mort, ma in modo diverso, Godard scolpirebbe con l’aiuto della luce e dell’ombra, e della musica, e nel­ l’interstizio fra il vedere e l’udire si farebbe luce il pensiero. Il corpus dei film di Godard degli anni 1987-95 è coevo a un’opera di Alain Resnais che corona la carriera di questo grande inventore di forme cinematografiche {Smoking/ No Smoking). Godard, come Resnais, ma in modo diverso, con­ cede alla musica un posto importante. Resnais, come Godard, ma in modo diverso, lavora sull’idea dell’opera seriale e sulla 57. Cfr. -Cinémaiographe-, n. 90 (dicembre 1983), p. 5.

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Alla ricetta dettarle perduta

frammentazione. Si può dire che il dialogo Resnais-Godard non sia mai veramente cessato dalla fine degli anni cinquanta.

11. Musica Il lavoro di montaggio può essere musicale, secondo Godard. Si può passare da un piano all’altro -per un moti­ vo drammatico, e questo è il montaggio di EjzenStejn, che oppone una forma all’altra, e le lega indissolubilmente con la medesima operazione di raccordo. Il passaggio dal totale al primo piano diventa allora come il passaggio dalla tona­ lità in minore alla tonalità in maggiore nella scrittura musi­ cale, e viceversa». Fra l’utilizzo del Concerto per clarinetto e orchestra KV 622 in Fino all’ultimo respiro (1959) e quello della Messa in do minore KV 427 in Passion (1982) intercorrono più di vent’anni e due modi diversi di procedere. Un intervallo quasi uguale separa l’utilizzo dei Quartetti di Beethoven in Una donna sposata (1964) e in Prénom Carmen (1983). Godard stesso mette a confronto questi due film: lo zio Jean (Godard) dice in Prénom Carmen di aver diretto un film con Marlene Dietrich e Ludwig van Beethoven: po­ tremmo pensare a uno scherzo, ma in Una donna sposata due inquadrature contigue mostrano il volto dell’attrice e quello del musicista. Godard, peraltro, spiega il motivo del­ la ripresa della stessa musica (utilizzata anche in Rogopag: i Quartetti n. 7, 9, 10, 14 e 75): Non sono io ad aver scelto Beethoven. Direi piuttosto che è Beethoven ad aver scelto me e che io ho risposto al suo ap­ pello. Da giovane, verso i vent’anni - l’età della giovinezza dei miei personaggi - ho ascoltato Beethoven. Ero in riva ai mare, in Bretagna. là ho scoperto i Quartetti. Ora, si sa, Carmen non esisterebbe senza la musica di Bizet. I...] Bizet faceva una mu­ sica che Nietzsche definiva «bruna»88 Era una musica del Me-58 * 58. Godard semplifica, dicendo -bruna». Nietzsche, in realtà, parla di una musica lambita da «un’ombra dorata» (Al di là del bene e del male, 255). 59

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diterraneo. Bizet è un compositore del Mezzogiorno. Inoltre è molto legato al mare. Io ho dunque scelto non un'altra musi­ ca, ma un altro mare. L’Oceano piuttosto che il Mediterraneo. Per cui, per quanto riguardava la musica, dovevo scegliere una musica «seminale». Una musica che ha segnato l’intera sto­ ria della musica. Come i Quartetti di Beethoven.

C’è verosimilmente anche un altro motivo. Se il concer­ to è la lotta di uno contro tutti, il quartetto è il corpo a cor­ po. Nel materiale documentario raccolto per il press-book, e predisposto con ogni probabilità dallo stesso Godard, al­ cune foto del Quartetto Prat tratte dal film sono giustappo­ ste ad alcune sculture di Rodin e ad alcune frasi desunte dai Quaderni di conversazione di Beethoven. Il materiale ha per titolo «Studi su frammenti di musica e frammenti di carne: il corpo della melodia». Una donna sposata («Fram­ menti di un film girato nel 1964») espone dei frammenti del corpo di Macha Méril e lascia intendere che sono come frammenti musicali. All’inizio di Prénom Carmen viene rac­ comandato a Claire, la viola del Quartetto Prat, di suonare «col corpo». La novità più stupefacente del film, in relazio­ ne alfutiiizzo della musica, sta in effetti nel mostrare veri musicisti che interpretano passaggi dei Quartetti beethoveniani, il che concretizza un'idea già espressa in Introduzio­ ne alla vera storia storia del cinema: «E siccome di colpo senti la musica, ho sempre voglia di fare una panoramica o un carrello, se fosse possibile, per andare a scoprire l'or­ chestra che sta suonando. E dopo ritornare alla scena: e che la musica smetta appena non ho più bisogno di vedere l’immagine, in modo da poter esprimere qualcos’altro»59. Godard ha scelto di fare iniziare Una donna sposata e Prénom Carmen con lo stesso movimento (il secondo) del Quartetto n. 9 in do maggiore op. 59 n. 3 di Beethoven, l’Andante con moto quasi allegretto. Al tempo della loro composizione i Quartetti -Razumovski- (i numeri 1, 2 e 3 che compongono l’opera 59) furono considerati del tutto 59. Cfr. J.-L. Godard, Introduzione..., cit., p. 242.

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Alla ricerca dell’arte perduta

stravaganti. L’opera di Godard ha suscitato reazioni dello stesso segno. Tutti i movimenti del Quartetto n. 9 hanno stupito gli studiosi. Hanno parlato di «clima di mestizia sen­ za scampo* (Joseph Kerman) e di «grande monotonia ritmi­ ca» (Daniel Gregory Mason). Il «cuore» di Una donna sposa­ ta batte con una regolarità ritmica, ripetitiva. La monotonia dei rapporti di coppia (marito o amante) traspare in ogni modo: dalla messa in scena, dalle inquadrature, dai gesti. A titolo ancora iterativo, ritorna ossessivamente la pubblicità del reggiseno, ecc. In particolare, l’Andante dei Quartetto n. 9 è utilizzato tre volte: durante i titoli (il che gli conferi­ sce un valore fondamentale, oltre a fungere da ouverture alla prima scena d’amore, quella con l’amante); successiva­ mente, quando la protagonista riallaccia il rapporto col ma­ rito-, e‘alla fine, quando incontra, sicuramente per l’ultima volta, l’amante. In Prénom Carmen l’Andante compare solo all’inizio, ma in modo radicalmente diverso. A più riprese viene inquadrato il Quartetto Prat. Prima si vedono due musicisti: un uomo di fronte e in primo piano, di spalle, una donna (Claire). Nella colonna sonora è fatto in modo che l’attacco dell’Andante introduca anche l’inquadratura successiva, la sequenza dei titoli di testa coi nomi degli at­ tori (nei titoli, separati da spaziature, i nomi sono indicati in ordine alfabetico, senza alcuna distinzione, come nei ti­ toli di Una donna sposata, compresi in un solo cartello, o in quelli di La donna è donna, distinti in venti cartelli, con i cognomi tutti dello stesso formato e senza i nomi né l’at­ tribuzione dei ruoli). L’idea-guida di Godard è proprio quella della ripetizione (i musicisti «ripetono»): un po’ più avanti l’Andante è ripreso dopo l’inizio e si prolunga nel corso dell’inquadratura successiva, che mette in scena di nuovo i musicisti (questa volta nel numero di tre: sono i mi­ racoli del controluce...). La ripetizione è scandita all’inizio da alcuni dialoghi. Lo zio Jean accoglie il medico con un •Chi è là* e Carmen con un «Dove sono? Ah no, chi sei?». Le infermiere rispondono ostinatamente ai malati: «Vi scrivere­ mo». Un paziente della clinica è inquadrato frontalmente in 61

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un corridoio bordato di piante verdi mentre canticchia e fi­ schietta in continuazione una delle arie più note dell’opera di Bizet (la celebre Habanera). L’inquadratura seguente ri­ prende su un registro ancor più parodico l'idea della ripeti­ zione: vediamo lo stesso malato «Mr. Jean-Pierre* (Mocky) attraversare un viale alberato e ritornare sui suoi passi gri­ dando compulsivamente: «C’è un francese nella sala?». Lo spunto iniziale del Bolero di Ravel si fondava su un tema non tanto lontano dal tema di Carmen (in Carmen, si sa, il tema accompagna l’uscita dalla fabbrica di operai e operaie che poi si mescolano nella danza, mentre si an­ nuncia la torbida storia del torero Escamillo, vittima desi­ gnata della gelosia di don José). Nello spirito di Godard, il passaggio dal tema spagnolo (Carmen) al Quartetto n. 9 è potuto avvenire grazie alla mediazione del Bolero, basato su un motivo ossessivo e ripetitivo. In effetti il brano di Ra­ vel è costruito su un ritmo binario. Va però sottolineato che il ritmo che scandisce normalmente un bolero è terna­ rio, esattamente come quello dell’Andante. Ancora: l’inizio del Bolero di Ravel «cresce» su un fondo di colpi di tambu­ ro e di pizzicati, e il violoncello fa il suo ingresso nell’Andante proprio con una serie di otto leggeri pizzicati. Intor­ no alla ventesima inquadratura, come se avesse bisogno di uscire dalla ripetizione iniziale, Godard assegna più tempo all’Andante per svilupparsi. Poi, alcune inquadrature dopo, il Quartetto Pratt è filmato una terza volta in un totale, con tutti e quattro i musicisti visibili^0. Interpretano sempre il Quartetto n. 9, non più l’Andante ma la fine del terzo mo­ vimento, un Minuetto grazioso, come se le sequenze inter­ medie, non musicali, avessero disegnato un’ellissi tempora­ le nel corso della quale l’esecuzione è comunque prosegui­ ta. Il rapporto tra il film e l’opera musicale in Prénom Car­ men è dunque molto più complesso che in Una donna sposata. Claire si fa riprendere, smette di suonare (e ri­ sponde col testo 103 dei Quaderni di conversazione), pro60. Nella scena, citata sopra, dei tre musicisti in controluce, i due violini­ sti e il violoncellista, restava invisibile Claire alla viola.

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prio mentre inizia la Fuga finale (Allegro molto), brano modernissimo in quanto contrassegnato dalla fluidità della scrittura musicale. Un’altra serie connotata dall’universo dei suoni e dalla musica si situa all'inizio di Prénom Carmen. Il film comin­ cia esplicitamente con l’immagine del Leone d’oro vinto a Venezia, alla quale si sovrappone la voce di Jean-Luc Go­ dard (incredibilmente bassa e roca) che annuncia la moti­ vazione del premio, un premio ottenuto «per la qualità del suono e dell’immagine». La seconda inquadratura è costitui­ ta da un cartello: «Alain Sarde presenta do re mi fa sol la produzione Sara Films - JLG Films - Films A2». E nel sono­ ro si sente la gamma do-re-mi-fa-sol. Lo scherzo è ripreso alcune inquadrature dopo, quando lo zio Jean ribatte a un’infermiera che vuol prendergli la temperatura: «Io so che se le metto un dito nel culo e lei conterà fino a 33, la do re mi fa sol, allora avrò la febbre». Partiamo ora dalla gamma sonora, dai rumori di fondo', i rumori urbani (il traf­ fico nell’inquadratura delle auto notturne), i rumori naturali (le onde e i gabbiani dopo il cartello iniziale, ancora le on­ de, poi un cielo notturno azzurrognolo), i rumori quotidia­ ni prodotti quando urtiamo gli oggetti o ci battiamo il cor­ po per verificare la nostra esistenza, o ancora quando pe­ stiamo i tasti rumorosi di una vecchia macchina da scrive­ re: è esattamente quello che vediamo e sentiamo fare dallo zio Jean nelle inquadrature iniziali che lo mostrano nella sua condizione di recluso volontario in una camera d’ospe­ dale e alle prese con le attività elementari del quotidiano. Dal fondo al fondamento, e al «tuf» delle... «materie prime» (le feci), non c’è che un passo: «Quando la merda avrà un valore, i poveri nasceranno senza culo», ecc. A Carmen che va a trovarlo, lo zio Jean mostra la sua nuova «camera», un enorme magnetofono, sofisticatissimo, dal quale le fa ascoltare arie «semplici» come Frères Jacques o Au clair de la lune, o rumori «complessi» che ricordano la guerra (altra situazione fondamentale'). Un po’ più avanti, l’amico di Carmen esclama: «Dovrà essere preciso come un orologio 63

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svizzero...61 Improvviseremo... Improvviseremo». Tutto ac­ cade dunque come se si uscisse progressivamente da una confusione originaria («Dove sono? Ah no, chi sei?»), come se, lentamente, si rioiganizzassero i suoni, una storia. Il fra­ tello di Claire, aprendole la portiera dell’auto, le chiede: •Allora, andiamo!*. Rappresentazione 'metaforica» (ma qua­ le serie è metafora dell’altra?) di quanto dovrebbe esprime­ re l’Andante del Quartetto n. 9, nel quale un contempora­ neo vide una «stranezza inconsueta». La colonna sonora di Lettre à Freddy Buache inquadra il Bolero di Ravel nella prospettiva in cui l’ha interpretato Clement Rousset: Insistere equivale a ripetere: quando insistiamo è perché tor­ niamo alla carica. Se il tema del Bolero è in effetti "insistente», è perché è innanzitutto ripetitivo. Ma, ancora una volta, non in quanto si ripete, toma su se stesso, ma in quanto è, come posso dire, «ripetitivo in prima istanza». A partire dal momen­ to in cui è annunciato dal flauto, il tema sembra richiamare per l’ascoltatore una storia già nota, che susciti in lui la remi­ niscenza di un sapere essenziale e primordiale. E alla resa dei conti tutte le ripetizioni che si avvicenderanno non ripeteran­ no più di quanto già ripeteva, a suo modo, la prima esposi­ zione del tema: non faranno che confermare un'essenza già conquistata e postulata fin dalle prime note.

Secondo Deleuze, il Bolero, «ritornello» per eccellenza, rappresenta perfettamente la musica del cinema in ciò che essa ha d’irriducibile.

12. Ilfilm perpetuo

Che cosa distingue dunque i film degli anni ottanta da quelli degli anni sessanta? Sviluppo aleatorio e rizomatico e contrappuntismo seriale sembrano essere le caratteristiche del primo «periodo» godardiano. Godard stesso, nel marzo 61. NeU’originale: «Dovrà essere preciso come una carta da musica*.

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1985, designerà a sua volta altre direzioni di ricerca, consi­ derando Si salvi chi può (la vita), al pari di Passion, Pré­ nom Carmen e Je vous salue, Marie come »i quattro gradini della stessa scala, mentre prima del ’68, ogni film era un gradino di una scala diversa»62. Godard distingue dunque nella propria opera due modi diversi di procedere, uno in ordine sparso, l’altro più coerente. Negli anni ottanta (fin verso la fine del decennio) tutto si svolge come se un’ope­ ra, e un’opera soltanto, esercitasse una funzione seminale. Possiamo, a proposito di Passion, riprendere la frase di Eugène Fromentin successiva, nel film, alle immagini della ricomposizione di La ronda di notte di Rembrandt: «È una composizione piena di buchi, di spazi male occupati», o quanto viene detto (sempre nel film) riguardo alla luce: •Non va da nessuna parte, non viene da nessuna parte». Frasi che fanno tornare alla mente un supplemento di Ro­ land Barthes a //piacere del testo-. Se il libro non è concepito come l’organizzazione di un'idea o l'esposizione di un destino, se si rifiuta di approfondirsi, di ancorarsi fuori del significante, non può che essere perpetuo: niente punto finale, niente ultima parola. E quello che in que­ sto libro è infinito, non è solo la sua fine. Il supplemento è possibile in ogni suo punto: magari più tardi, qualcosa di nuovo può sempre spuntare negli interstizi del tessuto, del te­ sto. Il libro è bucato, e in questo sta la sua produttività 1...1; non va da qualche parte, se ne va e basta, non finisce di an­ darsene6-^.

Passion sarà dunque un testo acentrico, in espansione per »supplementarità». Gli indizi per provare come Passion «non finisca di andar­ sene», sia a monte sia a valle, non mancano. «Per Passion ho voluto fare qualcosa su Beethoven e Rubens, ma non ci so­ no riuscito. E rimasto allo stadio di progetto, per un film fu62. J.-L Godard, Godard par Godard, cit., p. 19. 63. -Testo vuol dire Tessuto (...] sperduto in questo tessuto - questa tessi­ tura - il soggetto- vi si disfa*, R. Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975, p. 6365

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turo: il progetto di un film sulla Nona Sinfonia, dopodiché sono tornato a un progetto ancora più vecchio, quello del Quartetto*. Sarà Prénom Carmen, e si vede bene quello che distingue i progetti falliti del primo «periodo* dai progetti fal­ liti degli anni ottanta: è proprio il fatto che non sono falliti. Pour Lucrèce, Ubu e Èva, progetti falliti degli anni sessanta, non sono stati fatti, è vero, però possiamo rintracciarli in al­ tri film. Ad esempio, l’adattamento del William Wilson di Poe, progettato con Samy Frey, è riassorbito in una «storiaraccontata da Pierrot-Ferdinand in II bandito delle undici^. Invece il progetto sulla psicoanalisi, specificamente sul «caso Dora- di Freud («Una ragazza avrebbe dei problemi fino al momento della scoperta del giusto trattamento, o della pos­ sibilità di trattamento, dei suoi sintomi, scoperta corrispon­ dente alla scoperta dei suoi rapporti col “nome del padre” o col “nome” tout-court, perché, per quanto riguarda il padre, ho dei dubbi»), ha semplicemente assunto un diverso orien­ tamento e ha prodotto Je vous salue, Marie. Nel titolo Prénom Carmen si sviluppa in qualche modo quell’idea di sostantivo singolare puro e semplice, senza ar­ ticolo determinativo, che si concretizzerà nel titolo Passion, accompagnata dall’altra idea del prénom, quale antecedente del nome. Je vous salue, Marie è a sua volta lo sviluppo di Passion. L’aereo che decolla alla fine di Scénario du film •Passion* non è forse la traccia di un’altra traccia dissemina­ ta all’inizio di Passioni In Je vous salue, Marie l’aereo fùnge da Annunciazione, senza contare che il film trae ispirazione anche dal libro di Fran^oise Dolio, L ’évangile au risque de la psychanalyse. Una frase di Passion, la citazione da Elie Faure «A immeigersi nella luce è l’eco di quanto sommerge la notte, che a sua volta prolunga nell’invisibile quanto s’im­ merge nella luce-, ritorna in Grandeur et décadence d’un petit commerce de cinéma. Trovare dei -supplementi- a Pas­ sion è impossibile, perché è il film stesso ad essere un «sup64. -Aveva incontrato un suo sosia per la strada, lo cercò dovunque per ucciderlo. E dopo averlo fatto, si accorse che aveva ucciso se stesso. E colui che era rimasto, era il suo sosia-.

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plemento». II titolo Si salvi chi può (la vita) deriva sicura­ mente «dal desiderio di chiamare il film “la vita”, o anche “la gioia”, o “il cielo”, o “la passione”, o qualche altra cosa co­ sì... Mettere un doppio titolo equivaleva inoltre a creare un effetto-preludio in vista di un terzo titolo». In Grandeur et décadence d’un petit commerce de ciné­ ma i commenti ai quadri sono altrettanti «supplementi» a Passion. Il tema di Bacco faceva parte dei programmi di ri­ composizione figurativa che Passion mostrava: «Il giorno in cui ho voluto ricomporre un baccanale dei Tiziano con dei giovani danzanti nudi, la cinepresa è caduta dalla gru e lo scenografo è partito: due cattivi presagi». Arianna e Bacco del Tintoretto si trova «citato» in Scénario du film •Passion-: «Parlavo loro del Tintoretto, di una scena d’amore che avrebbe fatto parte del film, e la sola idea che avevo di questa scena (be’, era Tintoretto che l’aveva avuta...) era quella di collegarla ai tre personaggi del film, un ragazzo e due donne. Solo che io accennavo loro questo, e loro ve­ devano già l’immagine finita*. Il medesimo quadro, un po’ più in là nel corso del medesimo film, serve a evidenziare, grazie a una sovrimpressione, l’analogia tra i gesti del lavo­ ro e quelli delfamore: «Non è che i tre personaggi hanno a che fare, in qualche modo, con la trinità? L’amore, il lavoro e una terza cosa tra le altre due?». A proposito del quadro del Tintoretto, Jean-Pierre Léaud, in Grandeur et décaden­ ce d’un petit commerce de cinéma, pone la domanda: •Quanti personaggi ci sono nel quadro?». La risposta giusta è due (Arianna e Bacco) e non tre$5. Allo stesso modo, in L’origine della Via Lattea c’è un solo personaggio. Ed è proprio questa la domanda di Passion e di Scénario du film -Passion-. Quella della genesi del film, per non dire dell’opera d’arte. La matrice filosofica è certo più Heideg­ ger che Merleau-Ponty. 65. La risposta, in realtà, sarebbe ambigua, come sempre in Godard: il ti­ tolo dice due (Arianna e Bacco) ma il quadro dice tre: in effetti, nel­ la tela di Palazzo Ducale, sopra Arianna e Bacco, volteggia una terza figura (femminile, in veste di allegoria).

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Come Passion, Scénario du film «Passion-, Prénom Car­ men, Je vous salue, Marie, Grandeur et décadence d’un pe­ tit commerce de cinéma costituiscono altrettanti frammenti di un unico grande film, così è per Le dernier mot, Puis­ sance de la parole, Le rapport Darty, Aria, L'enfance de l’art e Allemagne neuf zèro. La maggior parte di queste opere (alle quali bisognerebbe forse aggiungere King Lear e Cura la tua destra) hanno in comune il fatto di essere realizzate, tra il 1987 e il 1993, su commissione e preferibil­ mente in video. Da un film all’altro ritornano gli stessi frammenti musicali di Honegger, di Hindemith, di Leonard Cohen, dei Rita Mitsouko, oppure gli stessi gridi di uccelli, oppure, modificate o meno, le stesse citazioni di Rilke, Elie Faure, o gli stessi quadri di Gauguin, Ernst, Picasso, o in­ quadrature di strade affollate - a partire da Lettre à Freddy Buache Godard presta grande attenzione ai movimenti del­ la gente per le strade -, gli stessi procedimenti, gli stessi battiti di palpebre. All’inizio di Puissance de la parole e di Histoire(s) du Cinéma è posta la stessa immagine della pel­ licola che si snoda tra i circuiti del tavolo di montaggio, ac­ compagnata dalla battuta di dialogo di La regola del gioco: «Mi fai il solletico!». Un papavero, rosso di vergogna e di confusione, è il fiore di Hélas pour moi, come la rosa bian­ ca è il fiore simbolo di Allemagne neuf zèro... Da un film all’altro è come una grande passerella; l’unità di un’opera come questa ha poco a che fare con l’unicità di un autore. Porta impresso, piuttosto, il segno della disseminazione. Demanda l’idea di unità non a una realtà anteriore, metafi­ sica, che precede e realizza a priori la «creazione», bensì a un possibile, concreto, avvenire.

13. Pittura 2 Serge Daney scrive a proposito di Numéro deitx (1975): •Bisogna vedere come combina, come incastra tranquilla­ mente sullo schermo tanto la foto fissa quanto l’immagine 68

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televisiva. Il cinema ha oramai solo la specificità di acco­ gliere immagini che non sono più fatte per lui-66. È in gioco lo statuto dell’immagine cinematografica che -accoglie- immagini di qualsiasi provenienza e di natura del tutto diversa dall’immagine cinematografica, ma è in gioco anche lo statuto di tali immagini airinterno deH’immagine cinematografica stessa. Questa constatazione riguarda di fatto tutti i film di tutti i -periodi-. L'iconografìa che ora, ne­ gli anni settanta, Godard decide di utilizzare appare però già coinvolta in un effetto-polverizzazione che prefigura le nuove forme elaborate dal regista negli anni ottanta, grazie soprattutto alle tecniche video. Nell’impiego del colore, ad esempio, Godard rinuncia all’appiattimento cromatico pre­ valente negli anni sessanta (in particolare in II bandito delle undici e Una storia americana), riconducibile sia al fumet­ to di allora, sia all’Antonioni di Deserto rosso, sia alle opere anni cinquanta-sessanta di un pittore come Serge Poliakoff. Passion è nello stesso tempo un film esemplare e un ca­ so unico. In esso un regista tenta in effetti di girare un film dal titolo analogo a partire da quadri celebri. Il curioso progetto si scontra con difficoltà considerevoli, accresciute dal fatto che Jerzy, il regista, è alla ricerca della -bonne lu­ mière-... La soluzione, nel film di Godard, è la ricomposi­ zione di una serie di -quadri viventi-, da Rembrandt a Goya, da Ingres a El Greco a Watteau. I -quadri viventi- de­ vono essere considerati dal doppio punto di vista dell’as­ semblaggio e della rassomiglianza, ma anche della sequen­ za seriale all'interno della quale i quadri sono collocati. Possiamo riprendere, a proposito del rapporto Godard/pittori, quanto il regista stesso scriveva del rapporto Anthony Mann/western: -Egli lo reinventa. Dico bene ri-inventa, in altre parole: mostrare e dimostrare, innovare e co­ piare, criticare e creare nello stesso tempo-67. Sfumature 66. S. Daney, La rampe, Ed. -Cahiers du Cinéma- / Gallimard, Paris 1983, p. 83. 67. J.-L. Godard, Super Mann, in «Cahiers du Cinéma-, n. 92 (febbraio 1959) (recensione di Dove la terra scotta) [in // cinema e il cinema, cit., p. 1291.

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che rendono quasi preferibile parlare di traduzione: perché si misura lo scarto tra due «lingue-, e l’effetto rassomiglian­ za può dirsi marginale. Godard si serve della pittura per privilegiare le virtualità proprie del cinema. La ricomposi­ zione dei quadri, in Passion, è un pretesto per mettere alla prova le potenzialità del cinema - con un accorgimento si­ mile al procedimento retorico, Vékpbrasis, «immaginato da­ gli autori dell’EUenismo per evocare con la scrittura lettera­ ria opere plastiche immaginarie- (definizione di Pierre Klossowski) - mettendo in concorrenza le potenzialità de­ scrittive della pittura (o della scultura) e quelle della lette­ ratura. Paradossalmente, partendo dalla pittura, Godard ri­ trova la scultura. Un «quadro vivente- è infatti più vicino al­ la scultura: lo si può visionare da ogni lato, ci si può insi­ nuare tra le figure che lo compongono. Godard dichiara apertamente, a più riprese, che i -qua­ dri viventi- di Passion sono delle metafore: -Ho provato a mostrare la pittura sotto una forma metaforica che rinvia a realtà diverse. I cavalieri sono metafore dei padroni, i fuci­ lati di Goya metafore delle giovani operaie in fabbrica-. La ricostruzione di La ronda di notte si presenta sotto la forma di un montaggio alternato (o parallelo), dal momento che dei nove piani che la costituiscono tre mostrano Isabelle in fabbrica. Lo spettatore percepisce immediatamente le op­ posizioni visive e sonore. Da un lato vede una donna al la­ voro in un luogo ingrato, il corpo incuneato tra le macchi­ ne; dall’altro personaggi in costume (la foggia rimanda al XVII secolo) che prendono posto in una sorta di non-luogo. Da un lato uno spazio dotato di profondità di campo e uniformemente illuminato; dall’altro un’assenza di profon­ dità (il fondo è uniformemente scuro) e un’illuminazione a contrasto dei volti... Il sonoro è composto di elementi di­ scordanti: il rumore assordante della fabbrica, le note del Concerto in re per la mano sinistra di Ravel, i colpi di tosse delle comparse, una sequenza di domande e risposte sul­ l’opera d’arte. Nello stesso tempo sono evidenziate la soffe­ renza di Isabelle inchiodata sul suo sgabello (ha male alle 70

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spalle, si stira) e quella delle comparse piegate sul loro la­ voro, il quale comporta un’immobilità coatta mai tollerata. Nella ricomposizione di Goya figura un solo piano di Isabelle, un piano che correla il «quadro vivente* di // Tre maggio 1808 alla scena della riunione sindacale che lo precede (il divano sul quale si sdraia Isabelle appartiene allo spazio di questa scena). Malraux pensa che «si possa immaginare un dialogo fra l’ombra tragica del Tre maggio e l’ombra di Rembrandt*. Il dialogo ha luogo in Passion sul tema dell’oppressione. Ogni «quadro vivente» può essere letto solo in funzione degli altri, ma l'«assemblare» non equivale necessariamente a «mettere insieme» quello che -sembra si somigli»**8. La serie dei «quadri viventi» è compo­ sta di elementi differenti, e sono proprio le differenze l’ele­ mento costitutivo della serie. Le serie si definiscono dun­ que tramite le differenze fra i termini che le compongono. Ad esempio, un padre spiega alla sua bambina che «Dela­ croix ha cominciato a dipingere dei guerrieri, poi dei santi, per poi passare agli amanti e alle tigri, e alla fine della vita ha finito col dipingere dei fiori». La serie dei «quadri viventi» è solo una delle serie del film: fra un quadro e il seguente o il precedente si aprono delle fratture, delle sincopi. I rapporti fra i personaggi, ad esempio, costituiscono una serie ulteriore. Ma nessuna del­ le serie ha la prevalenza sull’altra. Non esiste un primo e un secondo, un originale e una copia, un modello e una ri­ produzione. «La mia idea era di liberare un evento median­ te la metafora dell’altro». In ultima analisi, l’estensione che Godard dà alla parola «metafora» nelle sue dichiarazioni as­ simila la metafora alla serie, o a una delle serie. C’è la se­ rie-metafora e la serie-evento, la serie-lavoro e la serieamore, o la serie-fiction e la serie-documento, di cui l’una è la metafora dell’altra, e quando le serie giungono a confondersi, cioè quando la metafora si ricongiunge all’e68. La traduzione non può rendere il gioco di parole del testo originale: •assembler ne revient pas nécessairement à mettre ensemble ce qui se ressemble».

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vento, al reale, il film si conclude. Si conclude «all’interse­ zione del reale con la sua metafora, del documento con la sua fiction*, come è detto in Scénario du film "Passion*. Il momento esatto scocca quando Hanna, alla ricerca di Jerzy, incontra dei pastori (documento: ma un gregge di pecore c’è già in Week-end, un uomo e una donna dal sa­ bato alla domenica) prima di entrare nel quadro dell’Zznbarco per Citerà di Watteau (metafora) in corso di compo­ sizione. Le serie si confondono. Il documento diventa me­ tafora. «In Passion non c’era una sceneggiatura scritta, ma una mole enorme di documenti [...]. Bisognava arrivare a un testo unico che permettesse di riunire tutte le pecore». 14. Fare il ritratto Bruno Forestier dice di Véronika Dreyer che ha gli oc­ chi cerchiati, occhi grigio-Velazquez. Il progetto di Godard, negli anni sessanta, a partire da Le petit soldat, è quello di fare il ritratto della donna che ama. Il regista dedica al pro­ getto, che esplicita in una scena di Questa è la mia vita, sette film. Anna Karina, la donna che ama, è, nell’ottica del ritratto, immediatamente associata allo specchio, in sintonia con la Fanciulla allo specchio (1932) di Picasso (cfr. Il ban­ dito delle undici). Allo specchio si delega il compito di dire molte cose relativamente alla donna. Ad esempio, se lo specchio resta invisibile, vuol dire che è in atto una disso­ ciazione tra l’attrice e il suo personaggio. All’inizio di II di­ sprezzo Camille enumera le parti del proprio corpo che chiede al marito di guardare in uno specchio posto fuori campo. Se lo spettatore vede il corpo di Brigitte Bardot, Paul Javal, a sua volta, vede, nello spazio a noi precluso, quello della donna amata. La scena del «ritratto ovale» in Questa è la mia vita presenta un dispositivo complementa­ re. La voce di Godard (il quale doppia il personaggio de­ nominato «il giovane») recita il testo del racconto di Poe e l’immagine mostra un volto, quello di Nanà, colto nell’atto 72

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di riflettersi in uno specchio fuori campo. L’immagine invi­ sibile (proprio come il corpo di Godard che è solo voce) sarebbe quella di Anna Karina. Nel 1966 il regista ha dichiarato: «Il solo film che ho ve­ ramente voglia di fare non lo farò mai, perché è impossi­ bile. È un film sull’amore, o dell’amore, o con l’amore. Parlare nella bocca, toccare il seno, per le donne immagi­ nare e vedere il corpo, il sesso dell’uomo, carezzare una spalla, cose altrettanto diffìcili da mostrare e ascoltare che l’orrore, e la guerra, e la malattia. Non capisco perché, e ne soffro»69. Passion riprende l’idea del regista che fa il ritratto alla donna che ama. È la scena nella quale Jerzy e Hanna guar­ dano il video che lui ha girato su di lei. L’idea che le storie, l’individuale e la collettiva, si ripetano, è presente in modi diversi in Puissance de la parole, soprattutto con la sovrap­ posizione di una coppia terrestre a una coppia d’angeli, o con la domanda ripetuta di M.lle Oinos: «Spiegatemi o spiegatevi». La formula prende in contropiede i modi di di­ re dei personaggi femminili dei film dei precedenti «perio­ di», che tendenzialmente ripetevano «Non so». Come non vedere nell’angelo Agathos di Puissance de la parole un Godard malinconico che si confida a una giovane donna come «il più tumultuoso e il più insultato dei cuori», lui che anni prima raccomandava a Pierre Braunberger la lettura di Jean-Luc persecute di Ramuz? Come non cogliere questa malinconia attraverso la voce di Leonard Cohen utilizzata in entrambi i film, o in quella del narratore di Histoire(s) du Cinema! In quest’ultimo film una gag dà luogo a un passaggio commovente. Nel momento in cui Godard mo­ stra un frammento di Bande à part - un primo piano di Anna Karina che recita la poesia di Aragon -Le malheur au malheur ressemble» -, grazie alla sovrapposizione delle im­ magini si vede il volto di Godard piegarsi verso la mano di una pin-up di Tex Avery per baciarla e mormorare: -Addio, 69. J.-L Godard, Trots mille heures de cinéma, in «Cahiers du Cinéma», n. 184 (novembre 1966) Un II cinema è il cinema, cit., p. 2741. 73

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mia cara*. Se poi aggiungiamo che il passaggio ha per co­ rollario la voce di Godard che sussurra -Buongiorno tristez­ za* mentre su un cartello è trascritta la frase «La felicità non è felice» attribuita a Max Ophuls, possiamo renderci conto di quanto il registro della malinconia, in questo momento, sia dominante. In Puissance de la parole l’eco precisa del ricordo di Anna Karina si avverte quando Agathos e M.lle Oinos sono filmati da grande distanza sotto dei grandi al­ beri, esattamente come Marianne e Pierrot nella sequenza della «linea dell’anca e/o della fortuna*7071 di II bandito delle undici. Intanto il sonoro trasmette il secondo movimento (/’absence} della Sonata n. 26 in mi bemolle maggiore op. 81a di Beethoven intitolata Les adieux1^. Histoire(s) du Cinéma e Puissance de la parole sono due opere speculari per più di una ragione. Le ultime parole di Agathos sono: -Questa strana stella, sono io che con le mani contratte e gli occhi grondanti, ai piedi della mia amata, sono io che l’ho immolata alla vita con frasi appassionate. I suoi fiori accesi sono i più cari tra tutti i sogni non realizzati e i suoi vulcani in fiamme sono le passioni del più tumultuoso e più insultato dei cuori*. «Ai piedi della mia amata» è detto quattro volte e «questa strana stella» indicata da Agathos non potrebbe essere la stessa opera di Godard «immolata alla vita»?

15. La Storia 2 Un film video come Le dernier mot mette bene in evi­ denza lo scarto tra i -periodi». In primo luogo non si tratta di Storia in senso immediato. In qualche modo è il primo 70. Nell'originale -tigne de banche»: la lunga sequenza di II bandito delle undici gioca sulla bivalenza semantica di banche. A Marianne, che continua a ripetere, esibendo il palmo della mano, «ho una piccolissi­ ma linea della fortuna» Pierrot-Ferdinand ribatte -mi piace la tua linea dell'anca- (per l'intera sequenza cfr. -Filmcritica-, cit., pp. 168-69). 71. Il titolo della Sonata e > titoli dei singoli movimenti furono apposti da Beethoven in francese.

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film -in costume» dell’intera opera di Godard (con l’ecce­ zione di alcuni passaggi di Week-end e Vento dell’est). In secondo luogo, nel film, il «particolare» è inserito in un contesto «generale» che lo apre effettivamente a «simboliz­ zazioni multiple», sommergendolo in un flusso in cui s’e­ sprime la potenza del diverso. Così la volpe chiesta dalla donna è una pelliccia, ma rientra anche nel «bestiario» del film (la gallina, il porcellino) e, in più, appartiene al lin­ guaggio godardiano: «La famiglia è spirito, spirito di volpe». Anche se non si sono più visti da tanto tempo, i membri di una stessa famiglia si riconoscono tra loro come le volpi. E questo spiega perché il partigiano rifiuta la pelle di volpe che la donna gli offre: lui e lei non si assomigliano, non appartengono alla stessa famiglia. Tutto il film è costruito su sintesi disgiuntive che condensano una doppia serie di .sovrimpressioni (una unisce l’ufficiale tedesco alla donna, l’altra il partigiano all’ospite), o fa in modo che le Partite di Bach siano eseguite da un francese o che un tedesco snoc­ cioli dei nomi che rappresentano la cultura francese (Apol­ linaire, Corot, Nerval...). Sono in gioco, insieme, la storia personale di Godard (il padre e le sue simpatie per Pétain, la casa fra gli alberi in riva al fiume, Le Trait d’Union...), quella di Valentin Feldman, il filosofo francese fucilato dai tedeschi a trentatré anni, l’età di Cristo, e quella di certi personaggi dai nomi emblematici (l’Ospite, la Voce...). Af­ fari di famiglia... Il sistema congiunzione-disgiunzione che regolava il processo creativo delle opere del primo «perio­ do» è stato introiettato dai film stessi. La Storia è quella co­ sa che permette di riafferrare l’individuo Godard sprofon­ dato in una costellazione in cui si incrociano la scoperta dei campi di concentramento e l’assunzione su pellicola di corpi desiderabili. Eddie Constantine, in Allemagne neuf zero richiama non solo l’Eddie Constantine che fu in Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, ma anche il Buster Keaton di Film, fir­ mato da Samuel Beckett e Alan Schneider. Per una singola­ re coincidenza entrambe le opere sono del 1965. Film ela­ 75

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bora il lutto degli anni venti, quando il burlesque e tutto il cinema (dunque anche Keaton) erano ancora giovani. L’at­ tore passa rasente i muri di una città che sembra devastata come quella di Germania anno zero di Rossellini (1948). Agente Lemmy Caution, missione Alphaville descrive un fu­ turo in cui i dizionari saranno censurati e l’amore sarà un’anticaglia destinata all’oblio. L’idea di Godard è di far •ritornare* in Allemagne neuf zero il personaggio di Lemmy Caution tenendo conto di quello che è stata la storia nel frattempo e di quello che il tempo ha inscritto nel corpo di Lemmy Caution. Nel 1965 Keaton prefigurava Constantine e Agente Lemmy Caution, missione Alphaville prefigurava la Germania anni novanta (Allemagne année 90 neuf zèro è il titolo completo del film). Allemagne 90 o Allemagne neuf zèro o Allemagne année 90 neuf zero reca in sé la traccia di qualcosa che è più di un rimpianto e che riman­ da di nuovo agli anni venti, quando il comuniSmo era an­ cora giovane, le parole Russia e Felicità sembravano asso­ lutamente compatibili, e Ejzen&ejn era Sua Maestà EjzenStejn... Il film si sviluppa seguendo questo nodo di intrecci temporali. Attraverso un delicato lavoro sul tempo, la storia e i corpi, è possibile vedervi espressa un’etica. Che cosa emerge da tutto ciò? Innanzitutto un atteggia­ mento che «davanti al tribunale dei doveri accusa di falso l’indifferenza, l’arbitrio e il compromesso* (André Jacob), un atteggiamento all’interno del quale, in modo abbastanza misterioso, il politico e il poetico trovano un punto d’inte­ sa. Più che arrivare a formulare una sentenza conta pro­ muovere un dibattimento, produrre opere finalizzate a tale dibattimento, opere grazie alle quali si assicura a tale dibat­ timento la possibilità di esistere. Ci sono due tipi di dibatti­ mento, come spiega Gilles Deleuze, il dibattimento-contro e il dibattimento-fra: «Bisogna distinguere il dibattimento contro l'Altro e il dibattimento contro di Sé. Il dibattimentocontro cerca di distruggere o di respingere una forza con­ traria 1...1, il dibattimento-fra cerca al contrario di impadro­ nirsi di una forza per farla sua. Il dibattimento-fra è il pro­ 76

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cesso in virtù del quale una forza si arricchisce, incorpo­ rando altre forze e assimilandovisi per dar vita a un nuovo insieme, a un nuovo corpo in divenire». L’etica godardiana nasce dall’interazione di questi due -dibattimenti». Allemagne neuf zèro impegna un dibattimento contro coloro per i quali Karl Marx e il divenire rivoluzionario de­ gli uomini sono ormai sepolti («Buon non-compleanno»), sia in Germania sia nel mondo, contro -i rappresentanti del capitalismo internazionale» e i loro accoliti, i loro adoratori, i Signori del Mondo che per l’avvenire prevedono solo «l’autodistruzione dell’umanità» (Marcel Conche), o almeno il suo impazzimento. Impegna inoltre un dibattimento con­ tro l’oblio dei campi di concentramento e delle vittime che furono torturate, mutilate, decapitate. Impegna un dibatti­ mento contro la germanizzazione degli Stati Uniti e l’americanizzazione della Germania dell’Ovest, contro l’egemonia del modello americano, considerato come la minaccia più pericolosa per il nostro mondo, a cominciare dal cinema. In ciò consiste la parte non ambigua dei discorsi del film, quella che per la sua natura ideologica non è destinata ad assicurargli le qualità di una grande opera ma che almeno gli garantisce un punto di vista e un’unità. Serge Daney di­ ce che è un «film abitato. Senza vuoti né tempi morti. Abi­ tato dal suo soggetto». Un cartello, «Topographie des terreurs», riassume questa dimensione del film. L’espressione richiede una spiegazio­ ne, anche se si può intuire a che cosa si riferisce. Nel 1985 un gruppo di cittadini di Berlino Ovest si lamenta presso il sindaco per il fatto che il terreno un tempo occupato dal Quartier generale del Terzo Reich è rimasto in stato di ab­ bandono e si minaccia di utilizzarlo per scopi banali. Gli edifici che occupavano questo importante perimetro, molto danneggiati dai bombardamenti e dagli scontri bellici, era­ no stati per lo più distrutti dopo la guerra. Anche il vecchio Museo di etnologia, in parte restaurato e riutilizzato come Museo della preistoria e della storia antica, era stato demo­ lito nel 1963. Su questa «terra di nessuno», immagine perfet77

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ta della tabula rasa, si era progettato di costruire un elipor­ to. La facciata abbandonata del Museo di etnologia faceva angolo con la Kòniggràtzer Strasse e la Prinz-AlbrechtStrasse. Al numero 8 di quest’ultima c’erano stati gli uffici della Gestapo. A fianco, al numero 9, l’hótel Prinz-Albrecht, Quartier generale della Reichsfuhrung SS. Un museo dedi­ cato alla conservazione dei resti delle società primitive e in via di estinzione era dunque diventato, con gli edifìci vici­ ni, la sede di coloro che organizzarono scientificamente la scomparsa di comunità intere classificate in base all’appar­ tenenza politica, all’etnia, alla confessione religiosa o al comportamento sessuale. Finita la guerra, si volle far spari­ re dalla carta di Berlino Ovest la sia pur minima traccia materiale del passaggio dei nazisti. Toccò quindi ad alcuni ostinati il compito di riesumare le fondamenta degli edifìci distrutti, grazie a un lavoro di scavo che si potrebbe defini­ re archeologico se non riguardasse vestigia vecchie solo di una quarantina d’anni. In questo modo nell’area un tempo occupata dal numero 8 della Prinz-Albrecht-Strasse, sede della Gestapo, furono dissepolti muri e pareti ricoperte di piastrelle bianche: si trattava, apparentemente, di luoghi di tortura, o di cucine72. Apparentemente: l’incertezza rimane. Un piccolo edifìcio, oggi, li «ricopre» e li «protegge». Nel 1987 vi allestirono una mostra temporanea intitolata Topo­ graphic des terreurs e solo la grande affluenza di visitatori l’ha trasformata in una mostra permanente. Godard testi­ monia questo: il suo dibattimento-contro è anche un dibattimento-per. La spiegazione, data solo per giustificare alcuni piani di Allemagne neuf zero (il cartello e due inquadrature dello spazio nudo e deserto dove spadroneggiarono i capi della Germania nazista e dove soffrirono tanti esseri umani), può apparire piuttosto lunga, ma è necessaria per apprezzare il 72. Sono visibili per qualche secondo nel video di Robert Kramer, Berlin 10/90 (1991), nel quale appare a lungo inquadrato il cartello d'in­ gresso della mostra: Topographic des terreurs. Kramer ama molto l'ultimo Godard.

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loro impatto, sia documentario sia emotivo. Allo spettatore sprovvisto di spiegazioni resta il testo del cartello, che è co­ munque una «ragion sufficiente» e gli comunica, comunque, un senso inequivoco. Jean Narboni, a proposito del film, ci­ ta un’altra inquadratura, dedicata al ricordo dei giovani Hans e Sophie Scholl, uccisi per aver distribuito del mate­ riale antihitleriano: l’inquadratura di una rosa bianca, «im­ magine di grande bellezza, alla quale mi occorrerebbe non meno di una pagina per cercare di restituirne, col rischio di vanificarla, tutta la forza evocativa, simile a quella di un fio­ re giapponese imbevuto d’acqua per non farlo sfiorire». In questo caso particolare la spiegazione sta semplicemente nel fatto che il gruppo di studenti al quale appartenevano gli Scholl si chiamava proprio «La Rosa Bianca». In Devant la recrudescence des vols de sacs à main Ser­ ge Daney fa l’esempio della guerra del Golfo e degli stu­ denti di cinema che scoprono la guerra in televisione. L’as­ senza di controcampo nella «versione» televisiva del conflit­ to è per lui un’assenza di pensiero sul contenuto della guerra, cioè un’assenza di riflessione militante. Bisogna ri­ cordare agli studenti che il cinema ha -regalato» al nostro secolo strumenti per pensare che si chiamano montaggio, primo piano o campo-controcampo. Solo così Notte e neb­ bia di Alain Resnais ha potuto comunicare agli spettatori quel «senso di fierezza che li rende consapevoli di dispor­ re, malgrado tutto, del cinema come dell’unico mezzo arti­ stico capace di mantenersi con sufficiente dignità al livello di un evento come quello dell’olocausto, un mezzo capace di informare e di formare»7^. Godard è arrivato a dire che •il carrello è una questione di morale» e che il «punto di vi­ sta» è una cosa che esiste solo al cinema. La formula di Go­ dard è, per Daney, «uno di quei truismi sui quali non vale la pena di ritornare. Non io. In ogni caso». Allemagne neuf zero è una testimonianza di quello che Alain Badiou ha definito un «oscuro disastro-, cioè la disso73. Cfr. S. Daney, Devant la recrudescence des vols de sacs à main, Ed. Aiéas, Lyon 1991. p. 132. 79

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luzione del mondo comunista, con i suoi correlati, la cadu­ ta del Muro e la riunificazione della Germania. Il Paese, peraltro, ha continuato ad occupare, dalla fine della secon­ da guerra mondiale, una posizione importante nello scac­ chiere europeo, e il cinema ha rispecchiato il nuovo ruolo della Germania attraverso opere anche molto diverse come quelle di Syberbeig o Lars von Trier (ma potremmo citare anche opere più lontane come Germania anno zero di Rossellini, lì treno ferma a Berlino di Jacques Tourneur e tante altre). Non solo la Guerra Fredda si è manifestata in Germania in modo più virulento che altrove. In realtà gli eventi tedeschi (le torture, i lager...) restituivano in modo più acuto di altri, alle nostre società, un’immagine della Germania che esse condannavano, con i mezzi e il grado di valutazione che a ciascuna di esse competevano, tenen­ do conto delle loro circostanze storiche. Poi arrivò il gior­ no in cui si prese a cancellare quest’immagine, negando 1’esistenza del referente storico cui essa rimandava. Ogni volta che ['immagine viene messa a fuoco, il cine­ ma ha la sua parola da dire. In questa fine secolo, per quanto appannato possa essere, il cinema può ancora esse­ re veicolo di immagini e pensieri, soprattutto dei suoi pen­ sieri, altrimenti poco enucleabili nel tessuto variegato del secolo. È questo l’intento di Godard. Il cinema può pensa­ re il secolo, o, meglio, la fine secolo. Purché sia maneggia­ to da «osservatori scientifici-. Godard costruisce quest'anali­ si, o riflessione, o «rapporto», in un’opera frammentata e che tuttavia trova in questa stessa frammentazione la pro­ pria coerenza. Che il cinema sia una maniera di pensare, che eserciti questa facoltà, è di per sé la manifestazione di un’etica. Ci sono molti modi, per il cinema, di esprimere il proprio rap­ porto col mondo del pensiero, modi che sono più o meno gli stessi della letteratura e che Pierre Macherey ha enume­ rato (basta sostituire la parola «letteratura» con la parola «ci­ nema» e l’espressione «testo letterario» con «film»): Al livello più elementare, il rapporto tra letteratura e filosofìa

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è strettamente documentario: la filosofìa affiora alla superfìcie delle opere letterarie a titolo di referenza culturale, più o me­ no elaborata, a volte come semplice citazione destinata spes­ so a passare inosservata, data l’ignoranza di lettori e recenso­ ri. A un altro livello, l’argomentazione filosofica riveste, nel­ l’ottica del testo letterario, il ruolo di un vero operatore for­ male: il che accade quando esso disegna il profilo di un per­ sonaggio, organizza l’andamento complessivo di un racconto, oppure ne immagina lo scenario, o ne struttura le modalità narrative. Infine il testo letterario può ancora diventare il sup­ porto per un messaggio speculativo, il cui contenuto filosofi­ co è spesso ricondotto sul piano di una trasmissione ideologi­ ca del pensiero.

Il dibattimento-contro rimanda proprio a questo mes­ saggio speculativo. I riferimenti culturali, più o meno ela­ borati, in Allemagne neuf zèro, come in tutti i film di Go­ dard, non mancano certo (da Giraudoux a Rilke, da Goethe a Musil, Freud o Benjamin). L’argomentazione co­ me «vero operatore formale» è invece meno visibile e ri­ chiede attenzione per essere riconosciuta. Non perché il pensiero sarebbe «nascosto» e bisognerebbe estrarlo dall’o­ pera «come un corpo estraneo» per presentarlo qual è, ma perché «qui il contenuto non esiste al di fuori delle figure che lo rappresentano». È evidente che Godard gioca sulla diffrazione dei signi­ ficati. L’enumerazione, in Allemagne neuf zèro, dei nomi femminili (Dora, Frieda, ecc.) ricorda innanzitutto, all’inter­ no dell’opera godardiana, l'enumerazione, ludica, rintrac­ ciabile nella scena delle cartoline illustrate di Les carabi­ niere. Possiamo anche pensare, come Jean Narboni che ri­ corda Notte e nebbia, a quelle fabbriche impiantate nei la­ ger e chiamate con nomi di donna. Possiamo pensare an­ cora al racconto breve di Anna Seghers, Der Ausflug der toten Màdcben, requiem dedicato a quindici ragazze scom­ parse tragicamente sotto la dittatura hitleriana. Una delle forme attraverso le quali si rivela il contenuto di Allemagne neuf zèro sta nella differenza tra le immagini 81

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del 1990, a colori, e quelle del passato, generalmente in bianco e nero (con l’eccezione delle inquadrature di Lili Marleen di Fassbinder), visionate su uno schermo video e rielaborate nella loro scansione, con rallentamenti, fermiimmagine, ritorni all’indietro, sovrapposizioni, ecc. Godard ha messo a punto questo trattamento particolare delle im­ magini del passato (che possono anche essere dei dipinti) nelle sue Histoire(s) du Cinema del 1988, ma l’esito è la ri­ sultante di un lavoro di una dozzina d’anni. Sono immagini all’interno delle quali s'impegna un vero -dibattimento*, che mira a impossessarsi della forza di quelle del passato (si tratti di documentari, di estratti da La passeggera di Munk o di Uomini la domenica di Siodmak, o di Wilder, oppure di In riva al mare azzurro di Boris Bamet) per far­ la propria e rinvigorire le forze del presente, mortalmente minacciate dall’industria americana. Basta guardare, in successione, Le rapport Darty (col ruolo che vi svolge Marx, nonché lo scontro di cavalieri tratto da Perceval le Gallois di Rohmer), Histoire(s) du ciné­ ma (con gli estratti di I quattro cavalieri dellApocalisse di Rex Ingram, La passeggera, Alexandr Nevskij di Ejzen&ejn, La morte di Sigfrido e Mabuse di Lang) e Allemagne neuf zero per accorgersi della continuità tra l’una e l’altra opera. Il riferimento a Don Chisciotte, in Allemagne neuf zèro, ri­ manda al film incompiuto di Welles (su cui ci si interroga in Histoire(s) du Cinéma) ma anche a quello, compiuto, di Pabst, e, a colpo sicuro, a Le pont du Nord di Rivette, con i suoi draghi -impersonati- dalle armature metalliche e dai bracci d’acciaio delle gru: -I draghi, della nostra vita sono soltanto principesse che aspettano di vederci belli e corag­ giosi-... Lemmy Caution, che è stato trent’anni a girare a vuoto attorno ai problemi della Guerra Fredda, ha battuto tutti i record della Bella Addormentata nella sua bara di ghiaccio: un vero omaggio al moto perpetuo. Fa pensare a ■Simone del Deserto- isolato sulla sua colonna. A proposito di Simon del deserto di Bunuel, Serge Daney avanza l’ipote­ si secondo la quale -il Male ha vinto. E mi diverte molto im­ 82

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maginare Bunuel nelle vesti di un giornalista abbonato a una sorta di AFP, agenzia segreta della metafìsica cristiana, che un giorno legge un dispaccio in cui si dice che, dopo complicate peripezie, il Male ha vinto la guerra. Allora lui dice a Simpne: tu facevi l’imbecille sulla tua colonna e in­ tanto, da un’altra parte, succedeva tutto senza di te, e tu hai perso»74. I Masnadieri trionfano, direbbe Alain Badiou, pa­ rafrasando Robespierre. E Lemmy Caution, pensando a Schiller: «1 Masnadieri, li conosco da tutta una vita». La scala che Lemmy Caution prende in prestito all’inizio del film (e sulla quale rinuncerà a salire, proteso com’è a cercare la via dell’ovest) ricorda quella di Muriel di Alain Resnais, in cima alla quale era rinchiuso il segreto di una guerra75: il ritorno indietro dell’ultimo agente segreto (il sottotitolo di Muriel potrebbe valere anche per Allemagne neuf zèro: il tempo di un ritorno) sta semplicemente a significare la fine della Guerra Fredda. L’Ovest ha vinto per 9 a 0. L'agente segreto lo sapeva già, per lui non era un segreto. Bisogna tornare al titolo Allemagne 90 o Allemagne neuf zèro, perché è il luogo di un dibattimento-fra molto godardiano. Godard ha parlato di raddoppio del 9 nel 1990. È evidentissimo il rimando a Rossellini. Ma anche a Zèro et l’infini, a Zèro de conduite di Vigo, e ancora all’alfa e all’omega (da cui Alphaville), o al nuovo {neuf significa sia nove sia nuovo) opposto al vecchio {Il vecchio e il nuo­ vo o La linea generale di Ejzenètejn), o a Nouvelle Vague: da quest’ultimo derivano tutte le allusioni a ciò che è ulti­ mo, L’ultimo uomo di Mumau (in it. L’ultima risata), l’ulti­ mo documentario dell’UFA, la fine della Germania, finis Germaniae... Ma finis è anche la frontiera (quella da cui provengono i fantasmi), il luogo-fantasma che l’ultima spia non riesce a trovare. Scusi, dov’è il fronti {Which Way to 74. S. Daney, Devan t..., cit., p. 135. 75. Si allude alla scala del laboratorio fotografico del personaggio Ber­ nard, giovane reduce dalla guerra d’Algeria: nel laboratorio è nasco­ sta la documentazione, il segreto, delle torture inflitte da un commili­ tone alla ragazza algerina Muriel. 83

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the Front?)76, chiedeva Jerry Lewis, domanda che Lemmy Caution traduce con Which Way to the West?. «Ahimè, è di là l'Ovest- («Hélas oui, c’est par là l'Occident»), constatazio­ ne che Lemmy Caution rafforza con un 'Povero me-, «Due anime, ahimè, abitano il mio cuore- («Deux àmes, hélas, habitent ma poitrine-). Hélas pour moi è prefigurato dun­ que sia da Histoire(s) du Cinéma sia da Allemagne neuf zèro. La norma seriale e l’associazione semi-libera consen­ tono di definire un campo aperto a tutti i dibattimenti-fra. In Agente Lemmy Caution, missione Alphaville Lemmy Caution proveniva dal -mondo esterno- per poi ritornarvi. In Allemagne neuf zèro il suo viaggio lo porta dall’Est ver­ so l'Ovest, da un mondo un po’ triste, desueto e vuoto ver­ so le «incredibili schifezze- offerte dalle città occidentali. ■Test the West!» («Prova com’è l’Occidente!-). Dalla vacuità al troppo pieno (dove però non si trova quello che rispon­ derebbe ai bisogni elementari). La solitudine a due. O la riunifìcazione... fittizia (e che fiction?)-. la riunifìcazione con una A per Alphaville... Tanto che la parola Aeroflot può anche non significare più una partenza verso un altrove prima possibile (o probabile? im­ probabile?). La facoltà di parlare è svuotata del suo slancio vitale. L’approssimazione ad essa può solo portare nella città dove la Bibbia è ridotta a un dizionario di parole can­ cellate. Il che giustifica la battuta finale: -Figli di puttana!-. Le strade non portano più da nessuna parte. La facoltà di parlare è un altro legame che riallaccia le opere di Godard, dall’ultima parola {Le dernier mot) del fi­ losofo Valentin Feldman alla potenza materiale della parola {Puissance de la parole)77, al Verbo Incarnato di Hélas pour moi, passando per le parole dell’Armida di Lully e di I miserabili di Hugo. Il ricordo di Agente Lemmy Caution, missione Alphaville e della voce del suo computer Alpha 76. Accidentalmente fit. Scusi dov’è il West! risulta essere il tit. del pe­ nultimo film di R. Aldrich (.The Frisco Kid, 1979). 77. Sarebbe da aggiungere: dei filosofi greci Protagora e Gorgia. 84

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60, vale a dire della parola disincarnata, si farà sentire in Le rapport Darty e Hélas pour moi. Daney conclude la sua arrischiata interpretazione di Si­ mon del deserto scrivendo: «Come dice misteriosamente Go­ dard: la Storia è sola». Godard lo dice in Histoire(s) du Ciné­ ma. Il vero sottotitolo di Allemagne neuf zèro è: «Uno stato con variazioni», e il film è scandito dai cartelli: «Storia della Solitudine» (due volte), -Una storia sola» (tre volte)78, «Solitu­ dine della Storia» (due volte). 11 commento aggiunge che il sogno dello Stato è di essere solo, mentre quello degli indi­ vidui è di essere in due. Il cartello «Non farti del male, noi siamo ancora tutti qui» è già in Histoire(s) du Cinéma. Go­ dard ha dunque messo a punto un metodo per una «introdu­ zione a una Vera Storia del Cinema» e la parola Histoire(s) è singolare e/o plurale, »car l’un e l’autre se dit ou se disent-7980 : in altre parole una Storia multipla, le cui componenti sono tanto Allemagne neuf zèro quanto Les enfants jouent à la Russie o L'enfance de l’art. Uno stato: la solitudine, — e le sue variazioni: attraverso la storia del cinema come attraver­ so la storia della Germania attuale come attraverso la -gran­ de intima solitudine» di cui parla Rilke in Lettere a un giova­ ne poetai, quella solitudine che Maurice Blanchot -rilegge» correlandola alla dissimulazione. Il cartello bilingue -Là dove si era, devo giungere io», fa sicuramente riferimento a Freud81, ma esprime anche il condensato di alcune righe di Lo spazio letterario- -Quando gli esseri mancano, l’essere ap­ pare come la profondità della dissimulazione nella quale es­ so si fa mancanza. Quando la dissimulazione appare, la dis­ simulazione, divenuta apparenza, fa “sparire tutto", ma di questo “tutto è sparito” fa ancora un’apparenza 1...1. E \'appa­ rizione dice proprio che quando tutto è sparito, vi è ancora 78. Une bistoire seule è il titolo del secondo blocco (1B) delle Histoirefs) du Cinéma. 79. Cfr. nota 4. 80. Cfr. R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 1980, p. 41 (lettera da Roma del 23.12.1903). 81. -Dove era l'Es, deve diventare l’io» (dove l'e$, l'inconscio, equivale al si impersonale italiano): è la formula-guida di L’Io e l’Es (1923). 85

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qualche cosa: quando tutto viene meno, la mancanza fa ap­ parire l’essenza dell’essere che è di essere ancora là dove viene meno, di essere in quanto è dissimulato»82. Riconside­ riamo Allemagne neufzero: uno Stato, la Germania, »quando tutto è sparito (-Le dico addio, Mademoiselle!-); l’apparizio­ ne della dissimulazione (che cosa c’è di più dissimulato di un agente segreto?, si sarà certamente detto Godard); il mo­ mento esatto di quest'apparizione che il regista cerca di co­ gliere (il momento epifania? coinciderà col momento della resurrezione)... Tutto questo ha un bel nome, un nome «inaugurale», in tedesco: morgenròtbe (aurora)8^. «Disimpa­ riamo il silenzio, quando siamo stati tanto tempo delle talpe come lui, quando siamo stati soli». 16. Teatri della memoria

Con II disprezzo il discorso si fa molto esplicito: una forma di cinema è scomparsa. Lo dichiara, con un timbro enfatico che tuttavia vorrebbe essere ironicamente shake­ speariano, il produttore Prokosch fin dalla prima scena84. Gli stessi titoli di testa, con la loro reiterazione enumerativa, con la loro litania, officiano una sorta di liturgia. Verrà poi la liturgia più segreta, quella che confermerà il caratte­ re virtualmente sacro del cinema. Solo virtualmente, perché di fatto siamo entrati nel tempo del disprezzo, e non ci ri­ mane che tenere viva l’idea di quel cinema che non c’è più, viva per noi e per gli altri. Seguirà poi il tempo del ri­ cordo, per noi soli - si salvi chi può (il cinema). 82. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, p. 221. 83. Morgenròtbe (Aurora) è uno dei grandi libri di Nietzsche (1881). Nel testo •Cela s’appelle laurore-, tit. or. del film di Buhuel Amanti senza domani, utilizzato come gioco di parole da Godard sia alla fine di Prénom Carmen sia alla fine di For Ever Mozart («cela s’appelle l'horreur», allusivo a Sarajevo e alla Bosnia). 84. Del resto, in II disprezzo, sono lo schermo della saletta di proiezio­ ne, spicca visibilmente la scritta: «“Il cinema è un’invenzione senza avvenire* (Louis Lumière)».

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Nel momento in cui Godard si accinge a realizzare la trilogia dedicata ai registi tormentati da progetti impossibili - Si salvi chi può (la vita), Passion e Prénom Carmen (nel­ lo stesso periodo Wim Wenders gira Lo stato delle cose) una voce insistente dà il cinema per spacciato. Il cinema, secondo questa voce, sarebbe ormai giunto alla fine del cammino assegnatogli. «Penso che probabilmente morirò insieme al cinema, a que) cinema di cui abbiamo visto l’in­ venzione-, dichiara il regista alla conferenza stampa tenuta alla Mostra di Venezia nell’agosto 1983, in occasione di Prénom Carmen. «L’esistenza del cinema non può supera­ re, più o meno, la durata di una vita umana: tra i novanta e i centoventi anni. Sarà stato qualcosa di passeggero, di effì­ mero». Se un uomo (Henri Langlois) è riuscito ad essere -tutta la memoria del cinema-8586 , il cinema, invece, non su­ pererà «la durata di una vita umana». È proprio quando la Fine della Storia si avvicina che nei registi si affievolisce «il sentimento del passato». A Godard succede mentre gira Crepa padrone, tutto va bene. Gli capita di notare un fatto di cui non aveva mai preso coscienza: «Ci siamo accorti di una cosa semplicissima, che non sapevamo fare un angolo di ripresa come lo sapeva fare EjzenStejn: se provavamo a filmare qualcuno col capo leggermente reclinato, perché guardava un morto, non sapevamo assolutamente come farlo, o io facevamo in modo grottesco». Godard ha impie­ gato vent’anni per scoprire «di non saperlo più fare», ed egli stesso è consapevole di trovarsi a una svolta della sua esistenza. Si trova - sono parole sue - nella situazione di qualcuno che comincia a sapere qualcosa della storia del cinema. Forse è questa la ragione che spiega il ritorno insi­ stente, nelle sue dichiarazioni, del progetto, continuamente ridiscusso, di una serie di film (in collaborazione con Lan­ glois) sulla storia del cinema. Dopo la morte di Langlois8^, 85. Con la fondazione della Cinémathèque. Cfr. Gràce à Henri Langlois, in •Le Nouvel ©riservatene, 12/1/1966 (in II cinema è il cinema, dt., pp. 253-57). Per il testo della conferenza cfr. ■Cinematographe-, n. 95 (1983). 86. Henri Langlois mori a Parigi nel 1977, all’età di sessantaquattro anni. 87

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il progetto si concretizzò, prima delle Histoire(s) du Ciné­ ma, nella serie di conferenze tenute in Canada nel 1978. Una parte di esse è stata ritrascritta in Introduzione alla ve­ ra storia del cinema. Il libro, dal titolo davvero rivelatore, pubblicato nel 1980, due anni prima dell'uscita di Passion, contiene un programma che lo lega strettamente al film, sul filo della mediazione tra la storia generale del cinema e la storia personale di Jean-Luc Godard. Il regista vi confes­ sa in particolare di cominciare a poter vedere delle cose, «la straordinaria potenza dell’immagine e del suono che l’ac­ compagna. Ora, tutto questo, la sua geologia e la sua geo­ grafìa, è quanto è contenuto, a mio parere, nella storia del cinema, e tuttavia resta invisibile 1...]. Penso sul serio di passare il resto della mia vita e del mio lavoro nel cinema per tentare di vederlo, innanzitutto di vederlo per me stes­ so; e anche, sempre per me stesso, vedere il punto a cui sono giunto coi miei film»87. Godard coltiva dunque il progetto di una -vera storia del cinema-, una storia «fatta di immagini e di suoni, e non di testi, magari illustrati»88. Il «medium» di una vera storia del cinema dev’essere il cinema stesso. Ma è una storia ancora irrealizzabile e, per ora, Godard si accontenta di una Introduzione. Il criterio seguito nelle conferenze canadesi merita in ogni caso un attento esame. All’inizio il programma prevedeva il con­ fronto tra un campione significativo dell’opera godardiana e il passato del cinema, mostrando, in parallelo, quattordici film de) regista, in un ordine pressappoco cronologico, e brani di quarantatre film della storia del cinema che, agli occhi di Godard, potevano interagire coi suoi (all’epoca della loro realizzazione). Il confronto, in realtà, ne nascon­ deva un altro: era il confronto tra il ricordo che Godard conservava del Godard autore di Questa è la mia vita, La donna è donna, ecc. e quello che i «classici» di Murnau, 87. Cfr. J.-L. Godard, Introduzione alla vera storia del cinema, cit., pp. 15-16. 88. Ibid., p. 15.

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Flaherty, Lang, EjzenStejn, Rossellini, ecc. rappresentavano ancora per lui nel momento in cui parlava. La storia del ci­ nema acquisiva così una certa stabilità, quella stabilità di cui si sentiva la mancanza nel corpus dei suoi film, respin­ to nel passato personale del regista, sottoposto alle vicissi­ tudini della memoria (quante incertezze sulle intenzioni) e alle sorprese che la proiezione delle opere non mancava di procurargli. Il dispositivo risultava ancora più complicato per il fatto che Godard aveva inserito tra i «classici* film coevi ai suoi (Z ’anno scorso a Marienbad) o anche succes­ sivi: per esempio Effetto notte di Truffaut proiettato con­ temporaneamente a II disprezzo, New York New York di Scorsese contemporaneamente a One plus one, ecc. Nel momento in cui fa appello alla storia del cinema per percorrere il proprio itinerario, Godard non può fare a me­ no di confrontare due momenti di quella Storia (la Nouvelle Vague e ciò che l’ha preceduta) e due momenti della pro­ pria storia (quello o quelli che è stato, quello o quelli che è). Sono tutti andirivieni che l’aiutano a fare il punto su se stesso e lo stato del cinema nel momento in cui sta parlan­ do, nonché a riassestare la propria visione del passato del cinema e la visione del proprio stesso passato. L’Introdu­ zione alla vera storia del cinema si presenta dunque come un percorso regolato da due metodologie: l’associazione e la giustapposizione. L’itinerario, che è pertanto un lavoro di anamnesi, si prefigge una finalità: tra il continente per­ duto (Griffith, Mack Sennett...) e il termine presumibile del viaggio, stabilire un segnavi^, in grado di indicare la stra­ da fin dove la strada stessa si perde. In Passion i problemi incontrati dal regista nell'elabo­ razione della sua opera - la questione etica della storia umana e del suo cumulo di ingiustizie, le possibilità este­ tiche dell’allegoria - appaiono come tanti luoghi di transi­ to a cui attingere per determinare le forme sotto le quali 89. Si preferisce tradurre con questo termine di Heidegger la formula une carte constitute de repères, avendo la frase risonanze scoperta­ mente heideggeriane (Sentieri interrotti). 89

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la storia del cinema si traduce in film. Il lavoro da svolge­ re è prima di tutto di ordine archeologico, o geologico. L’Introduzione dice che la storia del cinema «sarebbe co­ me un territorio completamente sconosciuto, sepolto chis­ sà dove». L’immagine del territorio sepolto lascia capire che la storia viene da sotto, che viene per di-sotto, che •sov-viene», ritornando alla superficie attraverso chissà quale processo: senza che la si sia cercata, per dirla tutta. Il «quadro vivente- La piccola bagnante di Ingres è l’occa­ sione per una tale riesumazione: le spalle nude della gio­ vane donna recano traccia delle sovrapposizioni di pittu­ re, fotografìe e immagini filmiche (Eugène Durieu, Dela­ croix, Ingres, Man Ray, Un cbien andalou...). Teatro della memoria, Passion racchiude in sé non solo le reminiscen­ ze di Ejzenàtejn, John Ford o Bresson, ma anche quelle di tutti i film anteriori di Godard, quelli degli anni sessanta (il carrello sotto il sole attraverso gli alberi, ricordo di una citazione da Fritz Lang in Fino all’ultimo respiro-, i clacson fuori campo, come nella scena dell’acquisto della Maserati in Les carabiniere, la luce ora accesa ora spenta, come in Il disprezzo o in Agente Lemmy Caution, missione Alphaville...'), e quelli de) «periodo politico» (scena della riunio­ ne sindacale col sonoro desincronizzato). Nessuna opera del primo «periodo» è riassuntiva come questa. In fondo il ■riassunto» pubblicitario di II bandito delle undici (.•Pierrot le fou c’est: un petit soldat qui découvre avec mépris qu’ il faut vivre sa vie, qu’ ne femme est une femme, et que dans un monde nouveau, il faut faire bande à part pour ne pas se retrouver à bout de soufflé») non fa che scim­ miottare la tecnica dell’inventario, giustapponendo sem­ plicemente dei titoli: ancora una volta Godard si diverte con il collage. Godard ha preso coscienza della precarietà del cinema e della necessità di raccogliere tutte le proprie forze per uno scopo preciso: la riesumazione di un’arte in via di spa­ rizione. Alla fine degli anni ottanta, le intenzioni di Godard si fanno di ordine storico. Il regista elabora nel cuore della 90

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propria opera le proprie Histoire(s) du Cinéma, lavorando su un progetto (rimasto incompiuto) risalente a dieci anni prima, a Introduzione alla vera storia del cinema. È sicura­ mente la prima e unica volta che un regista si sia proposto di realizzare un’opera globale per raccontare, a suo modo, questa storia. Alle Histoire(s), che s’irradiano da una tale costellazione personale, va riservato dunque un posto par­ ticolare. Gli altri film del •periodo* si disseminano tutti at­ torno ad esse. Jean-Luc Godard apre il primo capitolo delle Histoire(s) du Cinéma con l’epigrafe latina: «Hoc opus, hie labor est* (Ecco l’opera, ecco il lavoro). L’utilizzo del latino è fre­ quente nei suoi film della fine degli anni ottanta. La formu­ la impiegata esprime la soddisfazione dell’artigiano davanti al lavoro ben fatto. Ci vuole un certo humour per incidere una sentenza ispirata a una modestia orgogliosa ed espres­ sa in una lingua assuefatta al marmo («pietra da costruzio­ ne*, la definisce Julien Gracq) sulla materia più fragile che ci sia, la pellicola cinematografica. Immediatamente dopo si ascolta nella colonna sonora il terzo movimento (Tema con variazione) della Sonata per alto solo op. 31 n. 4 dì Paul Hindemith, opera composta dal musicista per uso personale (Hindemith era anche un soli­ sta di viola di notevole valore). Ora, Godard, fa iniziare la sua prima conferenza sulla storia del cinema, nel 1978, con queste parole: «Sto preparando per mio uso personale una specie di storia del cinema*. Il regista condivide col musici­ sta la medesima tendenza pedagogica. Quanto a Hinde­ mith, va ricordato che durante il suo apprendistato incise musica da film sul rullo di un organo meccanico. Un rullo dopo l’altro, Godard evoca in tutti i film fine anni ottanta il rullio90 del mare (o dei Lago Lemano) sui ciottoli della spiaggia, e, in Puissance de la parole, associa quest’imma­ gine a quella del rullo di pellicola che si snoda fra i circuiti del tavolo di montaggio. 90. Il testo gioca sulla bivalenza, in italiano riproducibile solo in questo modo, della voce rouleau: rullo, rullio (ondeggiamento).

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L'incipit di Puissance de la parole propone contempora­ neamente tre consigli. Il primo è connesso con l'innesto della frase di II Gattopardo pronunciata da Tancredi secon­ do la quale «se vogliamo che tutto rimanga come è bisogna che tutto cambi». È la norma di comportamento di una classe sociale che vuol conservare i propri privilegi. All’im­ mobilismo, risultato di un «falso movimento-, Godard sosti­ tuisce un conservatorismo solo apparente («non cambiare nulla») che in realtà produce una differenza radicale («per­ ché tutto cambi»), ossia un vero movimento. Nelle due for­ mule, dunque, al movimento non competono né la stessa funzione né lo stesso posto: in quella di Tancredi il movi­ mento è il promotore del cambiamento per concorrere in realtà al mantenimento dell’esistente (si toma alla «casella di partenza»); in quella di Godard il movimento è la risul­ tante di un autentico e scrupoloso rispetto. Ma a che cosa si applica tale rispetto? che cosa deve cambiare? a chi è in­ dirizzato il consiglio? a Godard medesimo? allo storico che è in lui? e perché non allo spettatore-ascoltatore? Ecco il compito: non cambiare nulla di ciò che tu vedi e di ciò che tu ascolti se vuoi che tutto cambi (ecco la tua comprensio­ ne della Storia del Cinema). 11 problema si ripropone col terzo consiglio: non biso­ gna dire tutto, bisogna ritagliarsi un margine d’indetermina­ zione. Questo consiglio non è scritto ma detto e, del resto, mimeticamente, la parola «indeterminazione» resta incom­ pleta nel sonoro in cui viene pronunciata. Il che, conte­ stualmente, pone altri problemi: chi parla e chi scrive? e quale differenza va rilevata fra i cartelli che occupano tutto il campo visivo e le parole che vanno a incidersi nelle im­ magini? Chi parla è Godard in persona, riconoscibile dalla voce. In incipit è introdotto il microfono, simile a quelli che in Agente Lemmy Caution, missione Alphaville entravano nel campo visivo e si piazzavano davanti al vol­ to di Lemmy Caution sottoposto aH’interrogatorio di Alpha 60. Ma il microfono qui è uno solo, ed esegue un movi­ mento rotatorio che preannuncia quello di Cyd Charisse at92

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tomo a Fred Astaire nel numero di Spettacolo di varietà^ che sta per essere visionato. Il microfono è, con la moviola e la macchina da scrivere, uno degli strumenti del pensiero di Godard. Meno rumoroso dei tasti della macchina da scri­ vere o dei ronzii della pellicola che va e viene tra le appa­ recchiature del montaggio, il microfono entra in scena in modo felpato. 11 maigine d’indeterminazione assimila il mi­ crofono al libro e consente di raccontare le Histoire(s) du Cinéma col cinema, senza contare che mette in moto il processo d’interpretazione nella maniera più semplice. La­ sciare un margine d’indeterminazione richiama l’opportu­ nità, secondo Freud, di «lasciare nell’ombra» una parte del sogno durante il lavoro d’interpretazione. Il consiglio intermedio, il secondo, suona così: «Ogni oc­ chio negozia per conto suo e può significare che ognuno, cioè ogni spettatore, se la cava da sé. A meno che il motto non introduca l’idea della dissociazione: vedere e non vede­ re (stato di conoscenza e stato di cecità), oppure vedere ora con un occhio e ora con l’altro. I due riferimenti cinemato­ grafici, La finestra sul cortile di Hitchcock e Rapporto confi­ denziale di Welles illustrano effettivamente questa idea. Nel primo James Stewart distoglie lo sguardo dalla direttrice del­ l’obiettivo del suo apparecchio fotografico per guardare a occhio nudo; nel secondo ogni occhio dell’ammaestratore di pulci, Misha Auer, è di taglio diverso. Ogni volta sono giu­ stapposti un apparecchio ottico (il teleobiettivo di Stewart o la lente di Auer) e un occhio strettamente -umano», senza protesi. Godard ci sta forse dando delle indicazioni sul suo lavoro relativo alla storia del cinema: uno sguardo laterale e indiscreto alla ricerca di elementi per preparare un dossier segrete?2, un confidential report, uno sguardo-lente d’ingran­ dimento destinato a spiare un mondo di pulci bene educate, o, ancora, l’associazione di una visione «normale», media, e di una ravvicinata, che scende nel dettaglio. 91. Il numero di danza (pas-de-deux) Dancing in tbe Dark. 92. Dossier secret è il titolo francese di Confidential Report o Mr. Arkadin (Rapporto confidenziale) di Welles.

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A Histoire è aggiunta una s non solo perché ci sono mil­ le e una storia ma anche perché c’è un segreto, cioè un ri­ serbo, un ritegno. Tale sottrazione può avere un’implica­ zione estetica, per esempio la suggestione del movimento per effetto del suspense narrativo. Ma, quando si tratta di segreto, «siamo tenuti a pensare come solidali (...) riserbo e ostensione. [...] Gioco del riserbo e dell’ostensione, poiché non è in gioco un segreto da conservare, sorvegliare, pro­ teggere, ma così pure un segreto da trasmettere, esporre, tradire, tradurre-. Così le tre formule (dette e scritte) con le quali cominciano le Histoire(s) du Cinéma sono profonda­ mente ambivalenti se si tiene conto del loro rispettivo de­ stinatario, ma hanno tutte a che vedere col movimento: co­ me istituire un vero movimento, come suggerire il movi­ mento, come dividere il movimento, come dissociarlo, fare due movimenti al posto di uno. L’inizio delle Histoire(s) è attraversato dai titoli di tre film: La regola del gioco di Renoir, Sussurri e grida di Berg­ man (l’unico di cui non verrà mostrato alcun brano) e Gi­ glio infranto di Griffith; e da tre figure: Charlie Chaplin, Ni­ cholas Ray e Ida Lupino. Godard inscrive i tre colori, blubianco-rosso, suo marchio di fabbrica, e introduce le idee che gli sono più care, soprattutto riguardanti il nesso lavo­ ro-amore. Mary Meerson, a cui l’opera è dedicata (come pure VIntroduzione alla vera storia del cinema), fu la com­ pagna di Henri Langlois. Il cinema e i suoi accoppiamenti - cfr. i mormorii, i sospiri e gli ansimi del sonoro, popolato di sussurri (L’anno scorso a Marienbad) e grida (La regola del gioco) - appaiono assai prossimi all’animalità. Un’in­ quadratura di King Kong rimanda esplicitamente al tema della Bella e la Bestia. Con essa si chiude la serie che «ac­ coppia» la macchina da presa e la donna, somigliante ora a Paulette Goddard ora a Ida Lupino ora a Moira Shearer. Paulette Goddard, come le attrici di Bergman, compare come protagonista di un film diretto dall’uomo che ama: la coppia Chaplin-Goddard di Tempi moderni è un altro mo­ do per richiamare il tema dell’amore e del lavoro e insie94

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me, un modo per introdurre il cognome del regista (si pas­ sa dalla règie du jeu alla règie du je93). L’uomo-con-la-macchina-da-presa94 diventa ben presto una sorta di voyeur. La donna, come Moira Shearer in Scarpette rosse di Michael Powell (in una foto di scena scelta poi come copertina da ■Positif’), può provare il desiderio di passare dall’altra parte della macchina da presa. Impadronendosi della macchina da presa la donna (Ida Lupino, ma pure Anne-Marie Miéville) ribalta la situazione iniziale. Ida Lupino, che interpre­ ta il ruolo di una cieca in Neve rossa di Nicholas Ray, è pri­ ma inquadrata accanto a una cinepresa e poi nella scena di Mentre la città dorme di Lang in cui «gioca con uno stereo­ scopio che siamo indotti a pensare contenga immagini por­ nografiche»95, mentre viene fuori una foto di lei bambina, sdraiata nuda sulla pancia. Siamo passati dalla règie du jeu alla règie du je. Ora pas­ siamo al tu: col cartello «his toi toi toi re» Godard sembra ri­ ferirsi a Nicholas Ray, ma potrebbe anche rivolgersi allo spettatore. «Babbo, non vedi che brucio?»96: così in L’inter­ pretazione dei sogni di Freud il bambino morto a un padre che si addormenta colpevolmente accanto al cadavere del figlio, invece di vegliarlo, e, in sogno, lo vede bruciare. In La congiura dei boiardi Ejzen&ejn ha trasformato i tre com­ pagni del profeta Daniele (uomini ormai fatti), Anania Missail e Azaria, destinati alla fornace ardente da Nabucodonosor, in tre giovinetti97. Godard deve aver pensato parecchio a questi bambini che bruciano davanti agli occhi di un pa­ dre severo, «satanico, blasfemo e despota». Ma si ammuc93. Lasciamo il bisticcio originale, in quanto la tr. it. (regola del gioco/regola dell'io) ne sciuperebbe il fascino. 94. Traduciamo col titolo italiano del film di Dziga Vertov il francese l'bomme derrière la camera, che forse vi allude. 95. Cfr. L. Eisner, Fritz Lang, Mazzetta, Milano 1978, p. 300. 96. Cfr. S. Freud, L'interpretazione dei sogni, Beringhieri, Torino 1973, p. 462. Il brucio, per Freud, può alludere semplicemente allo stato feb­ brile del bambino. 97. Sequenza n. 15 del film. Cfr. Libro di Daniele, 3, in cui i tre giovani sono generalmente denominati, nell’ordine, Sidrac Misac e Abdenago.

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chiano subito le domande. Chi è questo «giglio infranto*98? Nicholas Ray? Il personaggio di Lillian Gish nel film di Grif­ fith? I film girati con le vecchie pellicole (al nitrato d'aigento, infiammabili) sopravvissute sul mercato fino al 1961? Il cinema stesso (sarebbe uigente che un Angelo del Signore venisse in suo aiuto come fece per i compagni del profeta Daniele)? E chi è il padre? La frase citata da Freud veicola tre idee: quella del «martirologio*, di cui è fatta la storia del cinema; quella della minaccia e dell’uigenza di un salvatag­ gio; quella infine di un oblio sciagurato. Il temuto pericolo consiste in una destituzione, pura e semplice. La minaccia interviene come conseguenza della situazione allestita nel sogno del bambino che brucia: colpa del padre, colpevole di essersi addormentato; colpa del vecchio (veillard) inca­ pace di assicurare la veglia (uetf/è)99. La constatazione che la riflessione freudiana sull’oblio dei sogni interviene imme­ diatamente dopo il ricordo del bambino che brucia, sugge­ risce l’esistenza di un legame tra il venir meno di una fun­ zione di vigilanza e il fenomeno dell’oblio dei sogni, cioè del cinema. La prima parte delle Histoire(s) si conclude con le ultime parole di Max Linder: «Aiuto!». Il che ci costringe a ritornare al consiglio iniziale: «Ogni occhio negozia per conto suo*, che richiama un altro sogno raccontato da Freud (e fatto proprio da lui) in occasione della sepoltura del padre, un sogno nel corso del quale ve­ de *una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pres­ sappoco come i cartelli “vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva: si prega di chiudere gli occhi»100. Freud è arrivato in ritardo al funerale e invoca in­ dulgenza. La colpevolezza, questa volta, investe il figlio. In tedesco «chiudere gli occhi su- si dice -chiudere un occhio», mentre «chiudere gli occhi» allude sia al gesto del chiudere 98. Senza dimenticare che, più avanti nel film, l’arte è definita -ciò che rinasce da ciò che è stato bruciato- (N.dAA.Y 99. Nel sogno citato è presente, quale assistente del padre, anche un vecchio guardiano, anch'egli vittima del sonno. 100. Cfr. S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, cit., p. 296.

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gli occhi al morto sia alla persona che li chiude per espri­ mere il proprio dolore. Questo sogno illustra le categorie «di contrasto e di contraddizione»101: «o-o«. Godard riassume il contrasto mantenendo non già il «siete pregati di chiudere gli occhi- (che comporta, in francese, il significato sia fisico sia morale) bensì il «siete pregati di chiudere ora un occhio ora l’altro», formula visualizzata sia con l’alternanza di due foto di Nicholas Ray (cieco da un occhio, a significare un'al­ tra alternativa: vedere e non vedere), sia con l’immagine del -Gufo» in Sciopero di EjzenStein, che prima strizza le palpe­ bre e poi con l'indice e il medio stropiccia alternativamente ora l’uno ora l’altro occhio10-. Con Nicholas Ray. mostrato all'inizio in Lampi sull acqua - Nick s Movie di Wenders, è in gioco la morte, quella di un uomo e quella del cinema. Il sogno di Freud, invece, si svolge in una sala d'aspetto ferro­ viaria, un luogo di separazioni. Il cinema è cominciato con l'arrivo di un treno in una stazione. Oggi aspettiamo in una stazione la partenza di un treno. Perché, in fondo, che cos e la storia del cinema? Una grandezza e una decadenza (.Pise and Fallì, «splendore e miseria» (il cartello ritorna alla fine della seconda parte del­ le Histoire(s), con l'aggiunta -del cinema»), una forma di lebbra (un contagio), uno sport (una corsa sul cornicione di un tetto — il filo del rasoio...). Sulle immagini di un film di Boetticher (Jack Diamond gangster, tit. or. The Rise and Fall of Legs Diamond, I960), come su quelle di Pudovkin (in uno studio del Laboratorio Kulenov, 1924) o del film di Lang II sepolcro indiano (una foto di scena in bianco e ne­ ro, 1953), Godard fa ascoltare il terzo movimento della Sinfonia •Liturgica'- di Honegger (1946), Dona nobis pacem, che il musicista commentò così: -Nulla di più inetto della barbarie scatenata, in una civiltà. Quello che ho volu­ to esprimere all’inizio della terza parte è proprio questa crescita della stupidità collettiva. Ho immaginato una mar\o\.tbid., p. 297. 102 .-Gufo- è il soprannome di uno degli -agenii per la sorveglianza esterna- della fabbrica.

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eia pesante, per la quale ho inventato di proposito un tema intenzionalmente idiota, esposto prima dal clarinetto basso È la marcia dei robot contro l’uomo civile, titolare di un corpo e di un’anima» (citato dalla monografìa di Harry Halbreich su Honegger). Tutto chiaro: sappiamo ormai quello che accelera la caduta del cinema, o ne è la causa. Al cinema alziamo gli occhi, come fa Godard, per essere folgorati: le inquadrature di una giovane donna dagli occhi blu emersa da un film di Brian De Palma ostentano uno sguardo di folgorante efficienza e insieme esprimono la fol­ gorazione stessa (assicurata dall’estrema rapidità della suc­ cessione di cinque piani sempre più ravvicinati). Dopodiché può scaturire solo una combustione o una calcinazione. Godard si lascia andare allora a un bellissimo lavoro di montaggio (si tratta di rivaleggiare con Resnais), un intreccio, un accavallamento fra l'Adagio ma non troppo del Quartetto n. 10 in mi bemolle maggiore op. 74 -Le Arpe» di Beethoven, la frase di Bazin citata nei titoli di testa di II disprezzo, «Il ci­ nema, ai nostri occhi, realizza un mondo che si accorda ai nostri desideri-, restituita in frammenti sotto forma di cartelli, e due brani del sonoro di L’anno scorso a Marienbad. L’Adagio del Quartetto n. 10, scrive Joseph Kerman, -è un pezzo meraviglioso, disteso, quasi rilassato, in confron­ to ai movimenti lenti, austeri, dei primi quartetti. Poggia quasi interamente sulla melodia d’apertura (ouverture), e questa melodia sarà, con la massima naturalezza, la cellula genetica di tutto quanto seguirà [...]. Essa riappare tre volte, in forme sempre nuove e ricche (sotto forma di leggere va­ riazioni), separate da due episodi interlocutori». L’ascolto di questo pezzo fa da punto d’incontro fra il gesto descritto in Marienbad («lo stesso modo di tendere il braccio come per allontanare qualcosa»), il saluto di Mefìstofele a Faust nel film di Mumau e le braccia alzate di Cyd Charisse volteg­ giante attorno a Fred Astaire in Spettacolo di varietà^: sia103 . L’impresario del balletto stravolge il copione per adattarlo alla gran­ de ballerina incarnata da Cyd Charisse e ne fa una moderna versio­ ne del Faust.

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mo nel momento più rilassato di tutta X ouverture, anche se dietro le luci, le sostituzioni, le complicazioni a venire, c’è «il diavolo, probabilmente»10^. L’abito rosso di Cyd Charisse, che interpreta il ruolo di seduttrice, evoca la fornace ar­ dente104 105 e i tormenti della tentazione: insomma, è un abito «bruciante» e «bruciato»10^. E quando si sovrappone all’im­ magine il «si accorda» della frase di Bazin, ecco che l’ascol­ to del Quartetto è sconvolto dalle grida del sonoro di Ran­ cho Notorious di Lang e poi dal sonoro di II Gattopardo di Visconti (durante la scena del ballo, le note della mazurca che «spezzano» alcuni brani di dialogo). È proprio dell’«accordo» che si deve parlare. Se la parola presuppone, nel suo significato banale, un’armonia, non si può dimenticare che un accordo è sia dissonante sia con­ sonante. Pierre Boulez definiva l’accordo musicale «come una sovrapposizione di suoni con una logica propria, nella loro struttura propria, e con una logica di concatenazione, in quelli che venivano chiamati gradi e consonanze e dis­ sonanze-. Tuttavia aggiungeva che, nella musica recente (si era nel 1958), «avendo l’accordo perduto a poco a poco le sue funzioni strutturali, è diventato un aggregato sonoro scelto per se stesso, per le sue possibilità di tensione o di distensione interne, a seconda dei registri che occupa e de­ gli intervalli che mette in gioco. La sua funzione strutturale si trova dunque sminuita e insieme aguzzata-107. Anton Webern spiega molto bene in una sua conferenza («In cam­ mino verso una nuova musica») quale fu il processo di tra­ sformazione degli accordi: Si cominciò a utilizzare accordi con più significati; per esem­ pio, l’accordo di quinta aumentato, che gioca un grande ruolo in Wagner |...]. Con questi accordi «vagabondi» si potrà andare in tutte le regioni possibili (...]. Poi, vennero gli accordi di 104. Allusione al film omonimo di Robert Bresson. 105. Cfr. nota 97. 106. Allusione al gioco di parole già usato per definire la posizione di Michel Poiccard in Fino all’ultimo respiro. 107. Cfr. P. Boulez, Note di apprendistato, Einaudi, Torino 1968, p. 249. 99

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quarta e le costruzioni per sovrapposizione di terze. Più tardi, tutto andò sempre più in fretta, i nuovi accordi furono a loro volta alterati, e si giunse a uno stadio in cui questi nuovi ac­ cordi furono utilizzati in maniera quasi esclusiva. Ma li si le­ gava ancora alla tonica e li si poteva ancora riallacciare alla tonalità di origine. Infine, l’ultilizzo degli accordi dissonanti [...] diede luogo a lunghe sezioni dalle quali ogni consonanza era scomparsa e, finalmente, la situazione fu abbastanza ma­ tura perché l’orecchio non considerasse più il riferimento alla tonica come indispensabile.

L’anno scorso a Marienbad occupa in tutto l’insieme una posizione nodale, in virtù della sola presenza delle vo­ ci. Nel film c’è naturalmente un castello, come in La regola del gioco di Renoir, ci sono degli oziosi, c'è un gioco con le sue regole, ci sono dei pezzi su una dama o su una scacchiera, come i cavalieri che s’infilzano sul lago Peipus ghiacciato in Alexandr Nevskij di Ejzen&ejn, e c’è il décor tradizionale di un giardino dai labirinti complicati come quelli del cuore umano. Ma ci sono soprattutto, malgrado le sottili coincidenze, delle discrepanze tra il testo di Ma­ rienbad c le immagini mostrate: il film di Resnais fu senza dubbio il primo a operare tale frattura in modo abbastanza sistematico (anche se a sprazzi) e molto suggestivo per i ci­ neasti a venire. È in gioco anche la ripetizione, presente nei testo di Marienbad e inscritta nell’incontrarsi dei gesti. Tutto ritorna (revient), è tutta una questione di revenants (il bambino che brucia, in Freud, è egli stesso uno spettro ritornante). È in gioco anche il ricordare: «Ricordate... era nei giardini di Frederiksbad-, «portate ancora il medesimo profumo», e la parola «profumo» è pronunciata mentre lo schermo diventa nero, probabile allusione al profumo della •dama in nero» (Delphine Seyrig è una Lady in the Dark, Cyd Charisse una dark lady)108. Godard ricorda come una professione di fede il titolo dell’opera di Bergson che serve ìCfi.Lady in the Dark (tit. ir. La schiava della città, 1944) è un cit. di Mit­ chell Leisen, ma qui si gioca in particolare sullo scambio tra Dan­ cing in tbe Dark, il numero di danza di Cyd Charisse in Spettacolo di varietà (cfr. nota 91), e la dark lady che è Delphine Seyrig.

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da trampolino per la riflessione sul cinema di Gilles Deleu­ ze: Materia e Memoria. Il regista sembra proporre una sto­ ria del cinema organizzata attorno alla 'complessa stratifica­ zione di una memoria virtuale, latente, efficace» (Georges Didi-Hubermann, Devant Timage), e tuttavia minacciata. In Introduzione alla vera storia del cinema associa, come s’è visto, L’anno scorso a Marienbad al Faust di Mumau e a Rancho Notorious di Lang, ma anche a La Bella e la Bestia di Cocteau. Ognuno degli «aggregati» deW Introduzione è concepito perché «si accordi» con un film di Godard. In questo caso preciso (il solo ad avere una esatta risponden­ za nelle Histoire(s)) si tratta di Agente Lemmy Caution, mis­ sione Alphaville (dove Alphaville è la «capitale del dolore» eluardiana), il film degli anni sessanta che intrattiene più rapporti con le opere dei primi anni novanta, come Alle­ magne neuf zèro, Hélas pour moi, o della fine anni ottanta come Le rapport Darty. L’espressione «a portata di mano» trova un’eco divertente nella scena di // club dei trentanove di Hitchcock, in cui la mano dell’uomo, avvinghiata dalle manette a quella della donna, sfiora la gamba di lei che si toglie le calze. Il riferi­ mento al film di Hitchcock è certamente suggerito sia dalla scalinata109 di La corazzata Potèmkin di EjzenStejn sia dal­ la camminata «a piccoli passi» (à pas comptés - a passi con­ tati) di Mitchum in La morte corre sul fiume di Laughton. I) titolo originale del film di Laughton, Night of the Hunter (La notte del cacciatore), è richiamato altresì dalla citazione delle Mille e una notte, e inoltre intreccia parentele con In­ trigo intemazionale di Hitchcock (il cui titolo francese è La morì aux trousses, La morte alle calcagna) e i cacciatori di La regola del gioco. Così come i commedianti di La car­ rozza d’oro di Renoir sono parenti stretti dei Tutti in scena, Tous en scène, che è il titolo francese di The BandWagon {Spettacolo di varietà), e l’attrice ora bionda ora bruna è certamente Cyd Charisse ma pure Ida Lupino. 109.11 tit. or., tradotto letteralmente nel tit. francese, del film è The Thirty-Nine Steps (I trentanove scalini). 101

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Così come alla caduta della donna fa eco quella dell’uomo (Cary Grant inseguito dall’aereo in Intrigo intemazionale), ecc. Arrivano poi le immagini dei piaceri semplici, come te­ nere fra le mani il corpo di una donna, ora durante una le­ zione di nuoto (Uomini la domenica di Siodmak) ora du­ rante una lezione di danza (Pericolo pubblico di Wellman): immagini in contrasto con l’idea di distanza implicita nel te­ sto di Marienbad, precedute come sono dalla danza di se­ duzione (Spettacolo di varietà), premessa e promessa del momento in cui si dischiuderanno le epidermidi (Il Club dei Trentanove). Infine, è la volta delle immagini di sofferenza, perché è questa la regola del gioco. Bisogna che vi sia della sofferenza in mezzo ai piaceri rumorosi e volgari - in que­ sto caso, uomini cavalcati da donne (Rancho Notorious) -, che vi sia un «giglio infranto» (il doppio asso di quadri pre­ sente nel mazzo, visibile alle spalle di Lillian Gish, richiama la regola del -gioco» presente nel film di Lang). Ci sono due tipi di donna: la vinta, quella che cade (Mizoguchi) o vacilla (Griffith), e la vincitrice, quella che domina, che conduce il «gioco» (Marlene Dietrich nel film di Lang). La celebre frase attribuita a Bazin si concludeva con «ai nostri desideri» (à nos désirs), ma la formula non si discosta molto da quella che si userebbe per un brindisi. Jean Douchel, nel I960, scriveva: -In La finestra sul cortile il teleobiettivo simboleg­ gia il “mondo intellettuale" che congiunge il “mondo quoti­ diano” col “mondo dei desiderio”». I cavalieri teutonici che montano le loro cavalcature (Alexandr Nevskij), come le donne che montano gli uomini (Rancho Notorious), sareb­ bero la figurazione dei nostri desideri che ci pungolano e ci crocifìggono, come sono crocifìssi gli amanti di Mizogu­ chi110: la croce è presente sette o otto volte nel campo visi­ vo (riappare nell’ombra della finestra in un’inquadratura di La morte corre sul fiume e, nella seconda parte delle Hi­ stoire(s), nella figurazione della Croce di Malta e dell’incro­ cio dei destini). 11 sogno, secondo Freud, è la «realizzazio­ 110. Allusione ad Amanti crocifissi, tit. it. (equivalente al tit. fr.) del Chikamatsu Monogatari di Mizoguchi. 102

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ne di un desiderio». «Ai nostri desideri» può rimandare an­ cora ai nostri desideri di giustizia sociale: «gli altri, chi sono gli altri?». Dietro il ballo di II Gattopardo dobbiamo ascolta­ re anche i colpi di fucile dei garibaldini. E qui ritroviamo Sussurri e grida. Le grida e il dolore (La corazzata Potèmkin, con una nota di silenzio). I sussurri del piacere.

17. Atomismo lucreziano. Il lavoro delleforme

Godard realizza quasi simultaneamente Histoire(s) du Cinéma e Puissance de la parole, con procedure identiche: bombardamenti di atomi visivi e sonori, accelerazione di particelle, effetti di riverbero e di sovraesposizione, tecni­ che che fanno tornare alla mente l’atomismo di Epicuro o di Lucrezio. Alla discontinuità atomistica sembra corrispon­ dere una continuità di «zampillamento». Godard si sforza di concretizzare contemporaneamente la visione lontana e la visione vicina, lo «zampillamento senza tregua» e l’infinita molteplicità delle gocce, somiglianti ad altrettanti (infiniti) atomi. Il riferimento di Nouvelle Vague all’atomismo antico (un cartello inalbera il titolo «De rerum natura») è un buon motivo per annunciare che finalmente Godard ha realizza­ to il suo Pour Lucrècém. La voce si fa materialità, la luce corporalità, come l’acqua di un torrente o la lava di un vul­ cano. Come dice il testo di Poe citato dal regista in Puis­ sance de la parole-. «Mentre ti parlavo così, non hai sentito il tuo spirito come attraversato da pensieri vincolati alla po­ tenza materiale delle parole? Ogni parola non è un movi­ mento creato nell’aria?». Da un lato ci sono forze che si spostano, si muovono, si urtano, dall’altro forme che si co­ stituiscono e si aggregano in una relativa stabilità. Non sia­ mo troppo lontani dalla dinamica della Storia. Le forze pro­ venienti dal di fuori lavorano a destabilizzare le forme. I si­ li 1.11 Pour Lucrèce da Giraudoux, progetto mai realizzato ed espresso per la prima volta in Entretien, cit., in -Cahiers du Cinéma-, n. 138 (dicembre 1962) [in 11 cinema è il cinema, cit., p. 1881. 103

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stemi di forze sono trascinati in flussi devastanti, sposta­ menti, deragliamenti che variano con la variazione (la sto­ ria) dei corpi, corpi che si affrontano e talvolta si distrug­ gono. Nei suoi ultimi film Godard riesce a visualizzare il pensiero dandogli una sostanza quasi materiale, riesce a oggettivarlo fra gli interstizi e le disgiunzioni del vedere e del parlare. Godard arriva anche a dire che «il postino suo­ na sempre due volte». È un regista che fin dall’inizio ha la­ vorato dentro la «carne» del cinema, incorporando le imma­ gini degli altri fra le sue, e oggi incorpora le sue fra le im­ magini degli altri. Di qui quest’arte della sovrapposizione di due-tre immagini l’una sull’altra per farne poi una sola, come in una sorta di urgenza, di affastellamento precoce e febbrile, perché la Storia potrebbe finire, lo svolgimento del nastro di pellicola fra i rocchetti della moviola (immagi­ ne appartenente sia alle Histoire(s) du Cinéma sia a Puis­ sance de la parole) bloccarsi. Il lavoro sulle forme è rintracciabile sia a un livello strutturale sia a un livello più comune di configurazione del rapporto immagine/suono. Il modulo di presentazione delle scritte, con flashes più o meno rapidi, è la figura stili­ stica principale nel Godard della fine anni ottanta. Ora può presentarsi come sconfinamento di un’immagine nell’altra esemplificato all’inizio delle Histoire(s) con l’alternanza tra la pulsazione della gola di un gufo e il battito di palpebre dell’uomo che si frega alternativamente gli occhi, senza escludere l’ulteriore alternanza dello sguardo fìsso dell’uc­ cello notturno: immagini tutte provenienti da Sciopero di Ejzenàtejn112 -, ora come inserimento di flashes bianchi al­ l’interno di un'inquadratura. Un’altra figura è quella delle dissolvenze incrociate che indugiano e non si completano del tutto, o che si dissolvono per riapparire immediatamen­ te dopo. La prima impressione è quella di una sistematica instabilità delle immagini, vuoi minacciate dall'interno, vuoi in competizione tra loro. Si potrebbe pensare a un Godard che cerchi di creare con tali procedure degli «accordi vaga­ 112. Cfr. nota 102. 104

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bondi» (Webern) o di costruire per sovrapposizioni degli •aggregati» (sonori e visivi) scelti per la loro «possibilità di tensione o di distensione interne» (Boulez). Allo spettatore si chiede di guardare un testo scritto su immagini (prima giustapposizione, puramente visiva), di ascoltare un testo detto con la musica (seconda giustapposizione, puramente auditiva) e, senza indugi, di procedere lui alla sovrapposi­ zione del visivo e dell’auditivo (terza giustapposizione). Una figura ricorrente è la scomposizione del movimen­ to, il suo rallentamento, la sua suddivisione in momenti se­ parati da fermi-immagine. Dal momento in cui si forma un’immagine in movimento che ne comporta venticinque [...1, ci si accorge che per ogni piano che si è filmato, a seconda di come lo si ferma, esistono tutto a un tratto miliardi di possibilità, tutte le permutazioni possi­ bili tra queste venticinque immagini che rappresentano miliar­ di di possibilità. Ne avevo concluso che quando si fanno dei cambiamenti di ritmo, si analizza un movimento femminile, o dei movimenti semplicissimi, come comperare una baguette, ci si accorge che ci sono un mucchio di mondi differenti al­ l’interno di un movimento femminile [...1. E io, conoscenze scientifiche e teoriche a parte, avevo l’impressione che si trat­ tasse di corpuscoli e mondi differenti, di galassie che ogni volta erano differenti.

L’idea guida è quella di un movimento interrotto, spez­ zato, come nell’opera ejzenstejniana, sottolineato (prendia­ mo l’esempio dell’inizio delle Histoire(s) du Cinéma) dal balbettio Ghis toi toi toi re»), dalle ripetizioni. Vedi il modo (spezzato) in cui viene pronunciato il titolo Giglio infranto, ecc. Giglio infranto, potrebbe essere una volta di più il ci­ nema, non più infranto daU’errore di un padre troppo bru­ tale o troppo indifferente, se mai sbriciolato, smembrato da un processo di sminuzzamento, di scomposizione, non più dotato di continuità. Dietro queste fratture, tuttavia, dei ponti restano ancora in piedi (spesso sotto forma di sugge­ stioni più o meno prolungabili). L’associazione fra La rego­ la del gioco e Amanti crocifìssi è, di colpo, sorprendente. 105

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La morte del coniglio nel film di Renoir ricorda altre esecu­ zioni (la guerra), nonché la sorte della donna perduta di Mizoguchi. La mazurca di II Gattopardo prende slancio po­ co per volta, -a piccoli passi» (