Gloria. Una estetica teologica. La percezione della forma [1, 2 ed.] 8816305010

"La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante pu

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Italian Pages 670 [653] Year 2012

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Gloria. Una estetica teologica. La percezione della forma [1, 2 ed.]
 8816305010

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HANS URS VON BALTHASAR

Gloria Una estetica teologica

Titolo originale dell’opera Titolo originale del volume © Copyright © Copyright

Herrlichkeit

Schau der Gestalt 1961 Johannes Verlag, Einsiedeln 1971 Cooperativa Edizioni Jaca Book, Milano

Gloria Piano dell’opera Volume uno

LA PERCEZIONE DELLA FORMA Volume due

STILI ECCLESIASTICI Volume tre

STILI LAICALI Volume quattro

NELLO SPAZIO DELLA METAFISICA Volume cinque

VECCHIO PATTO Volume sei

NUOVO PATTO Volume sette

ECUMENE

Volume

LA PERCEZIONE DELLA FORMA Introduzione e traduzione di Giuseppe Ruggieri

Cooperativa Edizioni Jaca Book Milano 1975

IN D ICE

XV

3

6

Introduzione alla lettura di «G loria» (Herrlichkeit) Premessa Premessa alla seconda edizione

I. Introduzione

7 9 25 36 47 60 68 103

113

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Punto di partenza e obiettivo finale Il canone estetico La disestetizzazione protestante della teologia Un’estetica teologica protestante La disestetizzazione cattolica della teologia Dalla teologia estetica all’estetica teologica Appendice

II. L ’evidenza soggettiva

115 117 128 142 142 157 175 181

A. La luce della fede 1. Pistis e gnosi 2. Delimitazione della forma della fede 3. Elementi della forma della fede 1. La testimonianza di Dio in noi 2. La testimonianza di Dio nella storia 3. Testimonianza esterna ed interna 4. Forma e segno

201

B. L ’esperienza della fede 1. Esperienza e mediazione 1. Analisi teologica dell’esistenza 2. Esperienza del logos 3. Accordatura cristiana

203 203 215 224

XI

Indice 237 4. Per la storia della critica dell’esperienza cristiana a) Nella Scrittura b) Nei Padri c) Nel medioevo 278 2. Esperienza archetipa 278 1. L ’archetipo come modello 284 2. Riflessioni generali sull’esperienza archetipa 296 3. L ’esperienza di Dio di Gesù 305 3. Esperienza di Dio del vecchio patto ‘ 311 5. Esperienza mariana di Dio 316 6. La testimonianza oculare degli apostoli - 322 7. La chiesa e il cristiano 337 3. I sensi spirituali 337 1. Aporetica dei sensi spirituali 351 2. Lo spirito e i sensi 376 3. Mistica ecclesiale 385 4. Integrazione

393

III. L ’evidenza oggettiva

395 A. Necessità di una forma oggettiva della rivelazione 403 405 411 412 417 421

B. La forma della rivelazione 1. Il fatto 2. Velamento che svela 1. Nella rivelazione dell’essere 2. Nella rivelazione della Parola 3. Nella rivelazione dell’uomo

431 C. Cristo, centro della forma della rivelazione 433 1. Plausibilità 438 2. Misura e forma 451 3. Qualità 452 1. L ’autodispiegarsi della forma 459 2. La forza propria della forma 464 3. L ’unicità della forma 477 4. Il nascondimento e il misconoscimento della forma

XTI

Indice 493 D. La mediazione della forma 495 1. La mediazione della Scrittura 500 1. Fede e divenire dell’immagine 511 2. Immagine e canone 522 2. La mediazione ecclesiale 522 1. Forma e trasparenza 535 2. Il culto eucaristico 539 3. La forma sacramentale 546 4. Fede e dogma 554 5. La predicazione ecclesiale e le altre forme della chiesa 567 569 582 582 590 604 619 620 628

E. Testimonianza della forma 1. La testimonianza del Padre 2. La testimonianza della storia 1. Figura. Il vecchio patto 2. Mito e profezia 3. Visione dell’invisibile 3. La testimonianza del cosmo 1. Le potenze e il miracolo 2. La forma della gloria e gli angeli

637

F. Riduzione escatologica

643

Indice analitico

XIII

INTRODUZIONE ALLA LETTURA DI «GLORIA» (HERRLICHKEIT) di Giuseppe Ruggieri

1. Il registro Chi ha deciso, una volta per tutte, che l’approccio privile­ giato alla realtà è quello critico-negativo, così in voga nella banaliz­ zazione dell’atteggiamento rivoluzionario, oppure quello riduttivo che si attiene solo al verificabile, nella identificazione della scienza alla misura, non può affermare il senso di un’opera come quella di Hans Urs von Balthasar. Quest’opera si muove infatti su un registro Ben diverso: «Nel libro deve rispecchiarsi molto di quello che un uomo, il quale tra l’altro scrive, tenta di dare come senso alla sua esistenza, anche se spesso questo senso gli si è impresso contro la sua volontà e la sua presunzione. Il magnete che è sospeso su di lui muta il proprio posto secondo leggi inafferrabili e la limatura si rimescola per formare una nuova figura il cui piano sta fuori. Chi ha speri­ mentato questo nella maniera giusta, rinuncia a sintonizzare la pro­ pria opera letteraria con la propria vita; scrivendo si è una volta in anticipo su se stessi, in un sogno di totalità nella quale si vorrebbero mettere al sicuro i propri frammenti; dopo tuttavia ci si attarda nuo­ vamente, zoppicando dietro se stessi, o si torna indietro addirittura, quatti quatti, per rimirarsi, come la moglie di Lot, in un’immagine amata del passato, la quale ci inchioda tanto più magicamente quanto più brucia in fiamme... Chi riesce a mantenere il passo? Che il pas­ sato non sia qualcosa di fisso e concluso, ma plasmabile attraverso le decisioni del presente: questa intuizione di Scheler mi impressionò presto; essa costituisce la speranza di colui che si trascina la trap­ pola, sempre più gravosa, dei propri libri. Egli, per il pubblico, resta innegabilmente l’uomo delle sue opere passate, mentre egli stesso solo controvoglia, anzi con angoscia, tasta una di queste pelli di serpente che gli dimostrano con certezza come egli non si trovi più nel posto di prima ed è divenuto da tempo un altro» '. XV

Introduzione alla lettura di «G loria» (Herrlichkeit) Si tratta quindi di un registro complesso che richiede nel lettore attento un duplice atteggiamento. Da una parte infatti è ne­ cessario che si faccia spazio dentro se stessi allo stesso movimento che ha generato l’opera. E questo movimento è contemporaneamente ed inseparabilmente gusto della vita come mistero e rischio di una sequela che ha accettato nel Cristo la rivelazione di questo mistero. D all’altra parte occorre che si collochi l ’opera nel contesto dei passi che l’autore va compiendo, con la coscienza tuttavia che forse è stato già intrapreso un passo ulteriore.

2. La collocazione Gloria si colloca, come primo elemento di una trilogia, nel periodo di maturazione ultima del nostro autore. Nel periodo antecedente, che può essere fatto grossolana­ mente terminare con gli anni dell’ultimo concilio ecumenico, il com­ pito era stato quello di «abbattere i bastioni» della chiesa, perché fosse più libera nella sua missione in mezzo al mondo. Esemplare era stata, in questo senso, la lettura dei Padri. La patristica infatti significava «cristianità che pensa ancora in e verso lo spazio sconfi­ nato del mondo pagano e porta la speranza nella salvezza del mondo»2. È questo un compito che non viene mai abbandonato, nem­ meno nel periodo posteriore, dall’autore. Per lui tuttavia, se auto­ critica ecclesiale esiste, questa è quella che promana dal mistero del­ la chiesa, cioè dalla santità vissuta e non da ideologie mondane in­ dotte forzatamente nella coscienza cristiana. Questa prospettiva tuttavia risulta insufficiente. Essa infatti richiede una lettura unilateralmente simpatica dell’esperienza del­ l ’uomo contemporaneo. E questa lettura è stata, e continua a sprazzi ad esserlo, del nostro autore. « Il presente è ciò che avanza incessan­ temente, spinge verso l’ignoto e costringe a nuove decisioni: questo è ciò che si sente quando per decenni si dirige una collana che porta il titolo di «Cristiano oggi» o anche soltanto ci si incontra con dei giovani. Ogni anno, ogni giorno, il tutto deve essere nuova­ mente contemplato con occhi inconsunti. Mentre tentavo di mante1 H U von Balthasar, Kleiner Lageplan zu mcincn Biicbcrn, l'.insicilcln 1955, p 3. 2 13 U von Bnlthnsiir, Rcchcnschiift 7961, F.insicileln, sci |> fi. XVI

I i II Introduzione alla lettura di «G loria» (Herrlichkeit) nere nello sguardo la pienezza della tradizione ecclesiale, tenevo sem­ pre presente questo avanzamento: solo il meglio ha possibilità di sopravvivenza e dall’altra forse è più importante aver servito ad esso anziché all’effimero evidente di oggi... H a senso il chiarire a que­ st’uomo moderno la sua particolare situazione religiosa, delimitan­ dola rispetto alle precedenti?... Il tentativo l’ho intrapreso in Die Gottesfrage des heutigen Menschen (Il problema di Dio nell’uomo contemporaneo)»3. Ma il risultato lo «d elu se»4. Infatti, limitandosi a quella prospettiva, si corre il rischio di fermarsi sempre all’implicito, a ciò che può essere e può divenire. Mentre c’è qualcosa di «irraggiungi­ bile» nel cristianesimo che occorre mettere in luce5. Abbattere i ba­ stioni sì, ma per introdurre nel mondo la specificità cristiana, l’amo­ re trinitario e crocifisso. Non a caso il contatto con il moderno ha sempre avuto, nel nostro autore, dei mediatori privilegiati: Clau­ del, Bernanos, Péguy, Schneider. In essi infatti si ha la totale as­ sunzione del peso del proprio tempo, ma nella negazione di ogni psicologismo e di ogni sublimazione ingenua dell’istanza del tempo. Si tratta piuttosto dell’orizzonte della «missione» che è «Spirito og­ gettivo», «ma non nel senso dei filosofi, ma come dono (carisma) dello Spirito Santo, che in primo luogo è lo Spirito della chiesa di Cristo, quello Spirito che con i suoi doni vitali dispiega, nell’organi­ smo del corpo sponsale, la pienezza di C risto »6.

3. La metodologia teologica Non è facile ridurre ad unità la complessità, le sfumature, il convergere differenziato degli approcci metodologici del nostro au­ tore. Sembra tuttavia poter individuare il nucleo centrale della sua prospettiva nel delicato rapporto tra ontologia e cristologia. In Cri­ sto, «una volta (e una volta per tutte!), T e s s e r e fu nell’‘esserci’» 7. La teologia sarà quindi assunzione della razionalità dentro l’orizzonte delimitato dalla «form a» di Gesù di Nazareth, vero universale con3 4 5 6 7

Ivi, p 26/27. Ivi, p 27. Ivi, p 27. Kleiner Lageplan... cit, p 11. Ivi, p 7. XVTI

Introduzione alla lettura di «G loria» (Herrlichkeit) creto. Affermazione quindi dell’ontologia, ma nella sua sottomissione a quell’«esserci» che una volta per tutte fu capace di abbracciare e contenere l’essere: l’essere di Gesù di Nazareth, Figlio dell’eterno Padre fattosi uomo. Non quindi trasposizione delle categorie filoso­ fiche in teologia, ma assunzione di esse. «G li incontri con Erich Przywara, più tardi con Karl Barth— la cui teoria universalistica della predestinazione mi confermò ciò che ricercavo da tanto tempo— , la collaborazione con Karl Rahner per l’abbozzo di una nuova dommatica, il con-teologare nuovamente patristico con Hugo Rahner: tutto ciò mi rafforzò nel proposito fon­ damentale di mostrare il cristico come la grandezza massima e ir­ raggiungibile, id quo majus cogitati nequit, perché è parola umana di Dio per il mondo, servizio umile di Dio, che supera e porta a compimento ogni aspirazione umana, amore ultimo di Dio nella glo­ ria del suo morire perché tutti vivano per Lui, al di là di loro ste ssi»8. Queste parole si riferiscono al periodo precedente, al pro­ gramma dell’abbattimento dei bastioni, all’aggiornamento. Eppure es­ se manifestano come da sempre il metodo dell’autore sia stato la ripresa di quello anselmiano: ricercare la necessità e la ragione di ciò che è creduto9. E questo programma non può essere eseguito, pena l’essere fuori posto, se non nel luogo a cui appartiene, e cioè nella perfetta immagine del Padre che è Gesù Cristo.

8 Rechenschaft... cit, pp 6/7. 9 È illuminante, se si volessero ricercare le fonti, leggere in sinossi le pagine relative al luogo della teologia in Verbum Caro, Einsiedeln 1960, pp 162/163 (tr it: Brescia 1968), e quelle di Karl Barth a commento del me­ todo anselmiano, Fides quaerens intellectum, Zurigo 1958, pp 21/25, spe­ cialmente p 24 (tr it in Filosofia e rivelazione, antologia a cura di V Vinay, Genova 1965). Del tutto fuori bersaglio ci sembra, una volta che si sia colto il rapporto tra ontologia e cristologia, la perplessità espressa a proposito del metodo di von Balthasar, da C GefEré in Una nuova epoca della teologia, Assisi 1973, pp 48/50. Rimandare infatti alla inevitabilità della precomprensione, presupposta anche dal nostro autore, è cosa ovvia. Ciò che distingue la teologia dalla filosofia non è l’assenza, nella teologia, di una precomprensione umana, ma l’assunzione concreta di questa precomprensione dentro il reale ed effettivo orizzonte dcll’«una volla per tutte» di Gesù Cristo. Cosa questa clic, in astratto, condivide anche il (ìdlré. XVIII

Introduzione alla lettura dii «G loria» (Herrlichkeit) 4. La strutturazione Dentro questa prospettiva metodologica occorre cogliere il particolare strutturarsi di Gloria e della trilogia tutta. Si tratta di un opus magnum dove l’universale percezione (estetica), prassi (dram­ matica), teoria (logica), vengono misurate dalla forma del particolare concreto che è Gesù Cristo. E questo lasciarsi misurare dell’univer­ sale dal particolare è possibile solo perché la storia di Gesù di Na­ zareth è avvenimento intratrinitario. Per cui il dispiegarsi della tri­ logia: Teo-fania = Estetica Teo-prassia = Drammatica Teo-logia = Logica Gloria costituisce solo l’estetica, la prima parte della tri­ logia, mentre è già apparso il primo volume, i prolegomena, della Teodrammatica. Per cui ancora si comprende il filo ideale che congiunge le varie parti di Gloria. Dopo il primo volume che annuncia il tema e ne delinea le coordinate fondamentali, vengono gli «stili», le di­ verse maniere di concepire (soggettivamente) e del darsi (oggettiva­ mente) della forma che è Gesù Cristo. Ma il centro dell’opera si raggiunge solo nella terza parte, dove la metafisica e il vecchio patto vengono collocati dentro il nuovo, che era da sempre e che si è manifestato a noi in Gesù Cristo. E a partire da qui si apre la via alla comprensione ecumenica di Roma, Bisanzio e Wittenberg. Sarebbe tuttavia falso intendere questo filo ideale secondo il canone di una sistematizzazione rigida. L ’autore preferisce piut­ tosto procedere per approcci concentrici, anticipando spesso e tra­ lasciando di dire quello che potrà essere ripreso dopo, senza che il sistema riesca mai a comprimere il movimento sorgivo del suo teo­ logare.

5. La destinazione Per comprendere gli scopi dell’opera del nostro autore, oc­ corre chiarirne il termine polemico e quello positivo, ispiratore. Il termine polemico è il progressismo, inteso come lettura XIX

Introduzione alla lettura di «G loria» (Herrlichkeit) lineare della storia, come fiducia in un inarrestabile e graduale pro­ gresso ascensionale (nelle forme del teilhardismo, del cristianesimo anonimo, della teologizzazione facile dell’impresa umana). Mentre la storia è irriducibile a letture coerenti. Essa è dramma, frammento che ogni volta può lasciare spazio al Tutto, ma può anche chiudersi. Giacché la salvezza non è sistema di lettura delle cose, ma possibilità e avvenimento ogni volta offerto all’uomo. L ’ispirazione viene invece dalla lezione vissuta e accolta soprattutto in tre incontri che, ad un livello ogni volta diverso, hanno segnato la vita del nostro autore; sono gli incontri con Gio­ vanni, Ignazio e Adrienne von Speyr. «Adrienne von Speyr fu colei che mostrò il cammino di compimento che da Ignazio porta a Gio­ vanni e che pose quindi il fondamento per la maggior parte di ciò che io ho pubblicato a partire dal 1940» I0. « La rivelazione di Dio in Cristo è per Giovanni l’incarnazione del Verbo in quest’Uno, Uni­ co, Amato, Adorato; Ignazio mi appare come il punto della storia in cui è diventato inevitabile l’incontro dell’uomo con il Dio che è ed ha il Verbo, che appella, sceglie e chiama. Nello spazio spirituale che corre tra Giovanni e Ignazio si svolge per me tutto ciò che è de­ cisivo» 11. Chiarita così l’ispirazione è facile intendere la destinazione. Due ci sembrano le preoccupazioni costanti del nostro autore: cristocentrismo e quindi sequela secondo la forma ecclesiale, Giovanni e Ignazio come tipi del suo programma teologico ed ecclesiale ad un tempo. «Tutto resterebbe sproloquio letterario se non stesse al ser­ vizio e sulla scia di un agire ecclesiale che non abbiamo scelto da noi stessi, ma ci è stato assegnato. Questo è il centro; tutto il resto — anche se ha avuto origine prima— si è depositato attorno ad esso. Il mistero che parte da Giovanni e da Ignazio e che deve essere vissuto come servizio e missione all’interno della chiesa, ma nel mondo più esplicitamente di quanto non sia stato fatto finora, di­ venta in questo centro, senza che ancora vi si possa dare un nome, l ’ideale del cristiano: seguire i consigli di Gesù, senza abbandonare il proprio posto, in mezzo al mondo» n. Rechenschaft... cit, p 35. Kleiner Lageplan... cit, p 5. 12 Ivi, p 1 9 . R im a n d ia m o p e r u n a in tr o d u z io n e g e n e r a le a ll’o p e r a d i H U v o n B a l th a s a r a H V o r g r im le r , « H a n s U r s v o n B a lth a s a r » , in Bilancio del­ la teologia nel xx secolo, u t , R o m a 1 9 7 2 , p p 1 2 3 /1 4 6 ; J M l 'a u x , « U n tlié o lo g ic n : “ I l a n s U rs v o n B a l t h a s a r ” » , in NR'l'b (1 9 7 2 ) p p 1 ()()*>/10 ^ 0 . 10 11

XX

La sombra que hace al alma la lampara de la hermosura de Dios sera otra hermosura al talle y propriedad de aquella hermosura de Dios... Gusta la gloria de Dios en sombra de gloria que hace saber la propriedad y talle de la gloria de Dios Juan de la Cruz Je puis bien aimer l’obscurité totale; mais si Dieu m ’engage dans un état à demi obscur, ce peu d’obscurité qui y est me obscur, parce que je n’y vois pas le mé­ nte d’une entière obscurité. C ’est un défaut, et une marque que je me fais une idole de l’obscurité, séparée de l’ordre de Dieu. Or il ne faut adorer que son ordre2. Pascal Wodurch sollen wir den erbitterten Geist der Schrift versòhnen? «Meynst du, dass ich Ochsenfleisch essen wolle und Bocksblut trinken?». Weder die dogmatische Griindlichkeit pharisaischer Orthodoxen, noch die dichterische Uppigkeit sadducàischer Freygeister wird die Sendung des Geistes erneuern, der die heiligen Menschen Gottes trieb (suxaipw? axaipcoc) zu reden und zu schreiben3. Hamann

1. L ’ombra che getta sull’anima la luce della bellezza divina sarà un’al­ tra bellezza della taglia e della qualità di quella stessa bellezza divina... Gusta la gloria di Dio attraverso quell’ombra di gloria che dà il sapore della qualità e della taglia della gloria di Dio.

2. Io posso anche amare l ’oscurità totale; ma se Dio mi costringe in uno stato oscuro solo a metà, allora resto dispiaciuto da questa semioscurità perché non riesco a scorgervi il merito di un’oscurità totale. Si tratta di un difetto ed è altresì un segno di fatto che io mi faccio un idolo dell’oscurità, separata dall’ordine di Dio. Ora non bisogna adorare che il suo ordine. 3.

In che modo dobbiamo riconciliare lo spirito adirato della Scrit­ tura: «Credi che io voglia nutrirmi di carne di bue o bere il sangue dei ca­ pri?». Né la pedanteria dogmatica dell’ortodossia farisaica, né l’esuberanza poetica e sadducea degli spiriti liberi riuscirà a rinnovare la missione dello Spirito che spinse (a tempo opportuno ed importuno) gli uomini sunti di Dio a parline c a scrivere.

PREMESSA

Quest’opera costituisce il tentativo di sviluppare la teolo­ gia cristiana alla luce del terzo trascendentale, di completare cioè la considerazione del verum e del bonum mediante quella del pulchrutn. L ’introduzione mostrerà in che misura il pensiero cristiano sia stato impoverito dalla perdita di questa prospettiva che un tempo permeava così potentemente la teologia. Non si tratta quindi, a motivo di una vaga e nostalgica malinconia, di farla scivolare su una carreggiata laterale, tranquilla e poco frequentata. Si tratta piut­ tosto di riportarla sulla strada principale, abbandonata, senza per questo voler affermare che la prospettiva estetica debba sostituire, per il futuro, nella conduzione della teologia, quella logica ed etica. I trascendentali infatti non sono assolutamente separabili e la dimenticanza di uno di essi non può che avere un effetto distruttore sugli altri. È meglio quindi, proprio per l’interesse comune, non bollare a priori questo tentativo— di più esso non può e non vuole essere— come «estetismo», per sbarazzarsene subito, ma cercare in primo luogo di prestare ascolto a ciò che esso vuol dire. Nel primo volume cercheremo lentamente, con l’aiuto di alcune approssimazioni di taglio storico-positivo, di aprirci una strada verso il nostro obiettivo. Nella parte principale di questo volume viene sollevata la questione della conoscenza teologica, in primo luogo della sua struttura soggettiva e quindi dei suoi presupposti da parte dell’oggetto della teologia. Giacché tratteremo in questa parte parecchie questioni che ordinariamente vengono studiate dalla cosiddetta teologia fondamentale, non bisogna riportarne l’impres­ sione che noi vogliamo sviluppare una teologia fondamentale di­ stinguibile dalla dogmatica e ad essa contrapposta. Il cammino del­ le nostre riflessioni tenderà piuttosto a comunicare la convinzione della inseparabilità di ambedue gli aspetti della teologia. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente per aprirci l’accesso all’obiettivo vero e proprio, alla trattazione cioè della bellezza (gloria) teologica della rivelazione stessa: a tal fine il secondo volume si 3

Premessa preoccuperà soprattutto di offrire una conferma e una dimostra­ zione storica che nello stesso tempo dovrà servire di completamento al primo volume. Non esporremo la storia progressiva dell’estetica teologica, così come ha fatto ad esempio Edgar de Bruyne per il medioevo. Offriremo piuttosto una serie di monografie sui creatori (Gestalter) più rappresentativi della teologia da Ireneo all’epoca presente; sarà quindi sbozzata una tipologia del rapporto tra bel­ lezza e rivelazione, rapporto questo estremamente variabile nel suo aspetto formale, ma che nel suo insieme dimostra eloquente­ mente come non si è data e non si può dare teologia interiormente grande e storicamente feconda che non sia stata del tutto espressamente concepita e data alla luce sotto la costellazione del bello (xaX óv ) e della grazia (yjxpic). Il terzo volume avrà come conte­ nuto principale il confronto tra l’estetica filosofica e quella teolo­ gica. Si tratterà cioè di rielaborare in profondità alcuni aspetti ri­ masti senza legittimazione sufficiente nel primo volume. In primo luogo studieremo quindi la natura della «gloria» (in quanto bellezza trascendentale), rimanendo dentro i confini della metafisica occiden­ tale (nella sua forma poetica, filosofica e religiosa); confronteremo in secondo luogo i risultati ottenuti con la «gloria» così come viene presentata nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento; tente­ remo infine di delineare lo sbocco di tutte queste considerazioni in una teologia ecumenica (Bisanzio— Roma— Wittenberg). A guisa di appendice porremo la questione dell’arte cristiana. Se tutto ciò che è bello sta oggettivamente alla confluenza di due momenti che Tommaso chiama species e lumen, forma 1 e splendore, allora il loro incontro può essere caratterizzato dai due momenti del percepire e dell’essere rapiti. Dottrina della conside­ razione e della percezione del bello («estetica», nell’uso che fa del termine la Critica della ragion pura) e dottrina della forza di rapi­ mento del bello sono vicendevolmente connesse. Nessuno infatti può percepire in verità senza essere già stato rapito e nessuno che non abbia già percepito può essere rapito. Questo vale anche per il rapporto teologico tra fede e grazia. La fede infatti afferra, do1 II termine «forma» {G estalt), con cui l’autore rende la species e la forma latina, costituisce una delle parole chiavi per intendere il suo pensiero. E sso non va preso nel suo significato corrente di termine atto a designare lo aspetto formale della realtà, distinto dal contenuto. «Form a» indica qui piut­ tosto la struttura concreta dell’essere, che è sempre dotato di una unità che «informa», pervade ed eleva gli clementi costitutivi del tutto (ndt).

4

Premessa nandosi, la forma della rivelazione e la grazia si è sempre già im­ padronita del credente per tuffarlo nel mondo di Dio. Per questo motivo il primo e il terzo volume di quest’opera si richiamano sempre vicendevolmente. Una «estetica teologica», per mantenere un giusto equili­ brio, dovrebbe prolungarsi in una «drammatica teologica» e in una «logica teologica». Se la prima ha come oggetto soprattutto la percezione della verità (Wahrnehmung) della manifestazione divina, la drammatica teologica dovrebbe trattare soprattutto il contenuto di questa percezione, Vagire di Dio con l’uomo, mentre la logica dovrebbe avere come oggetto la modalità espressiva divina (più esattamente: divino-umana e quindi sempre già teologica) di questo agire. Soltanto allora il pulchrum apparirebbe al posto nel tutto strutturato: come la maniera in cui il bonum di Dio si dona e può essere affermato da lui e compreso dall’uomo come verum. Dio non ha dato ad Abramo in parole formulate il primo comando a credere: ciò che questi percepì come vero fu la verità di un’azione di Dio nei suoi confronti; soltanto secoli dopo forse quest’azione si è espressa come parola umana. E questo non già nel senso di «all’inizio era l’azione» di Faust e Fichte, giacché il dramma tra Dio e l’uomo è sempre già parola-significato-logos. Si tratta però di una parola che avviene e che non può essere ridotta alle semplici dimensioni di una parola di testimonianza.

5

PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

La seconda edizione di questo volume appare, se si ec­ cettuano le correzioni degli errori di stampa, immutata. L ’opera completa tuttavia, nel corso della sua elaborazione, è esplosa dal suo interno oltre i confini originariamente previsti. I tre volumi programmati nella premessa alla i edizione appariranno, a partire dalla li edizione, in otto parti. Si è manifestato assolutamente ne­ cessario l’inserimento di una trattazione della metafisica occidentale (il volume m /1 sarà nel futuro composto da due parti) per mo­ strare il rapporto intrinseco tra la gloria biblica e quella filosoficopoetica. Anche il volume conclusivo (n i/2 ) è cresciuto fino a com­ prendere tre parti, in quanto da una parte la situazione attuale della teologia neotestamentaria richiedeva assolutamente una espo­ sizione più completa di quella veterotestamentaria, e dall’altra l’at­ tuale situazione del dialogo tra le chiese rendeva appropriato lo spaziare più disteso nella teologia ecumenica. Naturalmente tutto il progetto rimane troppo mediterra­ neo e soprattutto l’inserimento della prospettiva asiatica sarebbe stato importante e fruttuoso. La formazione culturale dell’autore non ha tuttavia permesso quest’ampliamento di prospettiva e non era giusto trattare la questione in maniera dilettantistica. Ai com­ petenti l’invito a colmare il vuoto attuale.

6

INTRODUZIONE

1

PUNTO DI PARTENZA E OBIETTIVO FINALE

L ’inizio non costituisce un problema unicamente per l’uomo pensante, il filosofo. Non è soltanto costui che ne rimane prigio­ niero e condizionato in tutti i suoi passi ulteriori. L ’inizio costi­ tuisce anche per l’uomo che risponde, che si decide, una decisione originaria che rinchiude in sé tutte quelle che verranno dopo. Certo, la verità di Dio è sufficientemente grande per permettere infiniti modi di pervenire ed elevarsi ad essa; essa è anche sufficientemente libera per allargare le strettoie entro cui si era pensato doveroso costringersi nel cammino intrapreso e per rimettere così in piedi chi non aveva saputo calcolare il passo giusto. Ma colui che si trova di fronte alla verità nella sua interezza— non solo di fronte alla verità dell’uomo e del mondo, ma del Dio che si fa dono, di fronte alla verità, non solo del vangelo storico e della chiesa che lo custodisce, ma del regno di Dio che cresce, tale come si presenta nella pienezza della creazione di Dio, ma anche nell’impotenza del seme morente in me e in tutti i miei fratelli, nella notte del nostro presente, nell’ambiguità del nostro futuro— , costui vorrebbe pro­ nunciare una prima parola tale da non essere più costretto a riman­ giarsela, a doverla ridimensionare di fronte alla forza delle circo­ stanze, proprio perché era una parola sufficientemente chiara per risplendere con la sua luce attraverso tutte le altre. La parola con la quale, in questo primo volume, noi diamo inizio ad una sequela di studi teologici, è una parola con la quale l’uomo filosofico non inizierà mai, ma con la quale piuttosto porrà fine alle sue riflessioni; una parola inoltre che non ha mai posse9

Introduzione duto nel concerto delle scienze esatte un posto e una voce durevoli e garantiti; una parola che quando è stata scelta come tema da parte di queste scienze sembra tradire, nel consesso degli indaffara­ tissimi specialisti, un dilettante stravagante ed ozioso; una parola infine dalla quale, nell’epoca moderna, mediante energiche delimita­ zioni di frontiere, hanno preso le loro distanze sia la religione che, in particolare, la teologia: in breve, una parola anacronistica per la filosofia, la scienza e la teologia, che non può quindi essere oggi in nessun modo sfoggiata e con la quale si rischia di non trovare ascolto da nessuna parte. Se il filosofo non può cominciare con questa parola, ma tutt’al più (qualora non se ne sia scordato per strada) finire con essa, non dovrebbe il cristiano, proprio per que­ sto motivo, sceglierla come sua parola iniziale? E giacché le scienze esatte non possono più permettersi il lusso di dedicare del tempo libero ad essa (ciò che si verifica anche per la teologia, nella misura in cui questa si assimila sempre più nel suo metodo, alle scienze esatte e si avvolge nella loro atmosfera), allora è forse più che mai venuto il tempo di sfondare la corazza di questo tipo di esattezza, che sempre e soltanto non riesce che a cogliere un aspetto parti­ colare della realtà per poter nuovamente cogliere la verità del tutto, la verità come proprietà trascendentale dell’essere e la quale non costituisce una grandezza astratta, ma il legame vitale tra Dio e il mondo. Ed infine: poiché la religione del nostro tempo ha preso le sue distanze da questa parola, potrebbe parimenti non essere vano qualche volta andare a vedere il volto (ammesso che ne abbia ancora uno) che questa religione, così spogliata, è in grado di mostrare. La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indis­ solubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bel­ lezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione, ma che, come maschera strappata al suo volto, mette allo scoperto dei tratti che minacciano di riuscire incomprensibili agli uomini. Essa è la bellezza alla quale non osiamo più credere e di cui abbiamo fatto un’apparenza per potercene liberare a cuor leggero. Essa è la 10

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Punto di partenza e obiettivo finale bellezza infine che esige (come è oggi dimostrato) per lo meno altrettanto coraggio e forza di decisione della verità e della bontà, e la quale non si lascia ostracizzare e separare da queste sue due sorelle senza trascinarle con sé in una vendetta misteriosa. Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il nin­ nolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che— segretamente o apertamente— non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare. Il secolo xix si è ancora aggrappato, in un’ebbrezza appassionata, alle vesti della bellezza fuggente, alle cocche svolazzanti del vecchio mondo che si dissolveva («Elena ab­ braccia Faust, il corporeo svanisce, la veste e il velo gli rimangono tra le braccia... le vesti di Elena si dissolvono in nubi, circondando Faust, Io sollevano in alto e si dileguano con lui», Faust li, atto n i); il mondo illuminato da Dio diventa apparenza e sogno, romanti­ cismo, presto ormai soltanto musica, ma, dove la nube si dissolve, rimane l’immagine insostenibile dell’angoscia, la nuda materia; poi­ ché però non c’è più nulla e tuttavia si ha pur bisogno di abbracciar qualcosa, allora si spinge l’uomo del nostro tempo a questo Imene impossibile, che alla fine gli fa venire in uggia qualsiasi forma di amore. Ma ciò di cui l’uomo non è più capace, ciò per cui è di­ ventato impotente, non può più, proprio perché si sottrae alla sua sottomissione, essere da lui sostenuto. Non resta che negarlo o cir­ condarlo di un silenzio di morte. In un mondo senza bellezza— anche se gli uomini non riescono a fare a meno di questa parola e l’hanno continuamente sulle labbra, equivocandone il senso— , in un mondo che non ne è forse privo, ma che non è più in grado di vederla, di fare i conti con essa, anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evi­ denza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male. Anche questo costituisce infatti una possibilità, persino molto più eccitante. Perché non scandagliare gli abissi satanici? In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica: i sillogismi cioè ruotano secondo il ritmo pre­ fissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto, ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più. E se è così dei trascendentali, solo perché uno di essi è 11

Introduzione stato trascurato, che ne sarà dell’essere stesso? Se Tommaso po­ teva contrassegnare l’essere come «una certa luce» per l’ente, questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa e non si lascia più che il mistero dell’essere esprima se stesso? Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello. Le parole che tentano di esprimere il bello, ruotano in primo luogo attorno al mistero della forma o della specie. Formosus proviene da forma, speciosus da species. Immediatamente si pone però la questione sul «grande splendore che irraggia dall’intimo» e rende speciosa la species: splendor. Nello stesso istante si ha la specie e ciò che irraggia da essa facendola preziosa e degna di essere amata. Nello stesso istante si ha il confluire degli elementi, indifferentemente dispersi, al servizio dell’uno che si rappresenta ed esprime e l’espressione dirompente di colui che riuscì a cream un siffatto corpo-parola: da se stesso, a partire da una interiorità, da una particolarità, da una radice dell’essere ed in sovrana ed ele­ vata libertà. Nello stesso istante si ha l’interiorità e la sua comu­ nicazione, l’anima e il suo corpo, la libera partecipazione secondo le leggi e la comprensibilità di un linguaggio. Questo è il fenomeno originario e chi afferma di non ve­ derlo o di non poterlo cogliere, chi non lo vuole accettare, ma lo risolve criticamente (con il pretesto di volerne scoprire la genesi) in qualcosa che pretende di stare ancora prima, precipita nel vuoto e, ciò che è ancora peggio, nell’anti-vero e nell’anti-bene. L ’origi­ nario non è né uno spirito senza corpo, uno spirito che si guarda attorno per trovare un ambito dove esprimersi, ne trova uno e se lo adatta (allo stesso modo in cui si mette a punto una macchina da scrivere e si inizia a battere sui tasti) per abbandonarlo quindi nuovamente, né un corpo senza spirito, agglomerato risultante, in un modo o nell’altro, da un giuoco inesplicabile di forze materiali (dire tendenze sarebbe già troppo), per disgregarsi quindi nuova­ mente subito dopo. Persino Platone ha voluto risalire a monte del fenomeno originario, immaginando un’anima che sarebbe caduta in un secondo tempo nella materia; ciò appare comprensibile, in quanto egli credeva di poter salvare l’unità di ciò che nella morte si dissolve, solo a paltò di porre quest’unità in una spiritualil:'i sc12

Punto di partenza e obiettivo finale parata (as-tratta e as-soluta): a tutto vantaggio della libertà e di­ gnità dello spirito, declassò l ’originario a derivato e divenne così il padre di tutti coloro i quali hanno sostituito il «simbolo» (segno del vero) con una «allegoria» (dire diversamente) e di quanti si chiedono, in forza di un atteggiamento superfluo e solo apparen­ temente scientifico, in che modo (psicologicamente) e con quali pre­ sunte «deduzioni», l’anima è in grado di raggiungere, partendo dalla sua interiorità, il cosiddetto mondo esterno. Aristotele si fermò al fenomeno; il mondo e l’uomo apparvero nella loro forma, ma si manifestarono anche i limiti: l’impossibilità di intendere e costruire una speranza della totalità umana che andasse oltre l’esistenza ter­ rena. La tragedia greca era esplosa dal grido dell’esistenza effi­ mera di fronte a questo limite. Solo il dono di Dio, promanante a noi dalla terra nuova, e la carne risorta alla vita eterna possono acquietare la domanda e impedire quella ricaduta in un platonismo esasperato che ha causato tanto male anche alla teologia cristiana. È nella contemporaneità più assoluta quindi che si mani­ festano la libertà dello spirito presente-a-se-stesso e la tastiera, pro­ porzionata ad esso della sua capacità espressiva, sulla base del suo essere-già-sempre-uscito da sé e del suo essere-presente-all’altro; questa capacità può esplodere solo nella tensione tra involon­ tario e volontario, tra un essere inchiodato al terreno dell’espres­ sione essenziale ed una spontaneità capace tuttavia di apparire dalle profondità interiori attraverso la breccia della risposta particolare ed individuale. Nel cammino che porta dalla pianta all’animale e all’uomo, questa interiorità guadagna in profondità e quindi, pro­ prio così, attraverso il continuo legame organico con il corpo, la li­ bertà celebra la sua festa sempre più inebriante, nella varietà dei giuochi espressivi delle forme. Non si tratta qui soltanto di mi­ mica o di arte fisiognomica; mediante il corpo l’uomo è nel mondo, agisce esprimendo se stesso, interviene responsabilmente nella co­ munità della condizione umana, imprime indelebilmente le sue gesta nella storia che, piaccia all’uomo o meno, ne trascina con sé l’im­ magine. Almeno qui egli deve rendersi conto di non essere padrone di se stesso, in quanto né è in grado di soggiogare nella libertà il suo stesso essere in maniera da darsi da sé la forma, né è libero nella sua partecipazione, ma, in quanto corpo, è sempre già con­ partecipato, anzi capace di riguadagnare se stesso solo a partire dalla sua con-partecipazione. Quindi egli, nella sua totalità, non è l’archetipo dell’essere e dello spirito, ma l’immagine derivata, non 13

Introduzione è la parola originaria (Urwort), ma la parola di risposta (Antwort), non è il dicitore, ma il detto, che quindi è totalmente richiesto dalla legge della bellezza, senza che egli la possa dettare a se stesso. Non gli resta che farsi tutto, nella sua spiritualità e nella sua corporeità, specchio di Dio e ricercare quella trascendenza e quell’irraggiamento che devono pur trovarsi nell’essere mondano se questo è realmente immagine e somiglianza di Dio, sua parola e suo gesto, sua azione e suo dramma. Questa è la ragione semplice in forza della quale l’essere dell’uomo è già, nella sua origine, forma che non coarta lo spirito e la libertà, ma è ad essi identica. Se la bellezza diventa una forma che non può conside­ rarsi identica all’essere, allo spirito e alla libertà, allora siamo ripiombati in una epoca dell’estetismo e i realisti hanno ragione da vendere contro la bellezza. Essi demoliscono ciò che è stato già svuotato, ma non sono in grado di trovare un surrogato alla forza dell’essere che si esprime nella posizione della forma. Nella mi­ sura in cui però la forma è vera, cioè viva ed operante, allora essa è un corpo animato dallo spirito che detta ed impone a questo il significato e la legge di unità. Il piano della forma che si mani­ festa si trascende interiormente, ma non si trascende in misura tale e così visibilmente che lo spirito non la permei immanendo e, irraggiando, non si manifesti sempre attraverso essa. Schiller, sulla scia di Kant, ha descritto questo levarsi raggiante del sole dello spirito, nella bellezza della forma, mediante una duplice dialettica. Nell’aurora cielo e terra sono come una sola cosa: la realtà è celestialmente trasfigurata, mentre la luce celeste non è ancora apparsa nelle sue qualità proprie: grazia della giovinezza, incoscienza dello spirito che gioca nel corpo. Il sole si innalza, arriva allo zenit, e allora terra e cielo si separano, ma il terreno penetra nella luce chiara del cielo a tal punto che la sovrana libertà dello spirito avvampa lo strumento e il mezzo della sua manifestazione, lo scarnifica e, in questo annientamento, annuncia la sua signoria: dignità. La seconda dialettica è tesa nel medesimo slancio: la dimensione morale emerge dall’esistenza totalmente do­ minata dalla legge estetica, grazie ad una maggiore forza di irrag­ giamento dello spirituale, ma appunto non come messa in que­ stione della bellezza, bensì come sua coordinata interna, che porta quindi al suo pieno sviluppo tutta la dimensionalità della bellezza come proprietà trascendentale dell’essere: per Schiller è proprio la dimensione estetica che fa della scena un’istituzione morale. In M

Punto di partenza e obiettivo finale maniera analoga, per Origene il significato morale della rivelazione non corre parallelo a quello mistico, cioè al significato della sua profonda irradiazione spirituale, ma indica piuttosto la forza di questa irradiazione che invade le profondità del cuore del contem­ plante: «Perché non c’è più luogo che non veda te. Tu devi cam­ biare la tua vita» (Rilke, Il torso arcaico di Apollo). Solo la forma che si colloca in questo spazio spirituale— sia essa sviluppata in pienezza o soltanto agli inizi— è forma autentica e ha diritto al nome intero della bellezza. E poiché lo spirito in questo mondo si trova sempre a decidere tra l’abisso del cielo e quello dell’inferno, qualsiasi bellezza di forma è sempre immersa nel chiaroscuro della questione che tenta di sapere di quale signore sia la gloria irradiata adesso dalla forma. E certo, anche lo spirito del contem­ platore, che sta in un contatto misterioso con lo spirito del contem­ plato, non è senza influsso, come spirito del singolo e come spirito, o spirito maligno del tempo, sulla operazione vitale del bello. Opere d ’arte possono perire se vengono confuse da troppi sguardi senza spirito ed anche un certo irraggiarsi di santità può ottundersi se non incontra che la densità opaca dell’indifferenza. E tuttavia non si tratta che di una ferita esterna che può essere sanata me­ diante la purificazione del cuore, il dissotterramento di ciò che è stato seppellito: «Tramonta o sole bello, essi hanno appena badato a te, non ti hanno conosciuto, o santo... A me splende amica la tua luce, quando tramonti e quando sorgi! E il mio occhio ti rico­ nosce, o splendore!» (Hòlderlin). E morissero pure le opere d’arte, morisse pure il «sole santo», come potrebbe morire la bellezza suprema se di essa vale che la sua forma è divenuta vita im­ mortale? Cos e un uomo senza la forma che lo segna, che lo cir­ conda come corazza inesorabile e che tuttavia lo rende malleabile, libero da qualsiasi insicurezza e dallo sgomento che inceppa, libero per se stesso e per le sue possibilità più alte: cos’è l’uomo senza tutto ciò? Cos’è l’uomo senza forma vitale, cioè senza forma che egli abbia scelto per la sua vita e nella quale egli riversa e fonde questa vita, perché possa diventare anima di questa forma e la forma possa diventare espressione della sua anima, una forma non già estranea, ma così intima che vai la pena identificarsi ad essa, una forma non costretta, ma scelta liberamente e interior­ mente donata, una forma non arbitraria, ma irrepetibile e perso15

Introduzione naie, legge individuale? Colui che spezza questa forma non cu­ randosene è indegno della bellezza dell’essere e sarà bandito come un volubile dalla durezza e dalla gloria della realtà. Egli atrofizza il proprio corpo vivente nell’inespressività infeconda ed è quel legno secco che, secondo il detto evangelico, deve essere ammas­ sato per essere gettato nel fuoco. Tuttavia, per vivere nella forma originaria, è necessario averla intravista. Occorre avere un occhio dell’anima capace di percepire, nel rispetto profondo, le forme dell’esistenza. (Quale parola: percezione, Wahr-nehmung, cioè ca­ pacità di cogliere il vero! Ma cosa ne ha fatto la filosofia: il con­ trario di ciò che esprime la parola tedesca!). Non si tratta di atti puntuali isolati nei quali l’uomo, come con uno spillo, possa per­ forare la nebbia che avvolge l’annichilimento e la quotidianeità della sua esistenza fittizia, per aprirsi un forellino attraverso cui scorgere l’assoluto; in questo modo egli non riuscirebbe a salvare la sua di­ gnità perduta. Si tratta piuttosto di una forma vitale disposta, e quindi capace, a conferire nobiltà alla sua stessa quotidianeità. Ma ancora una volta: l’uomo ha bisogno per questo di possedere occhi capaci di scorgere la forma spirituale. Si danno epoche che, inna­ morate delle forme originarie dell’esistenza, tentano di esprimerle e copiarle dappertutto, ad esempio mediante forme di convivenza e di organizzazione della vita sociale, che per un istante storico riescono ad esprimere quanto c’è di più alto, ma poi si svuotano e si atrofizzano. Ma ciò che esse propriamente hanno inteso è qual­ cosa a cui non si può mai rinunciare, a meno che non si voglia far precipitare l’uomo nell’indifferenza che è talmente indifferente, da far apparire senza differenza la sua definizione come materia o come spirito. Si danno epoche della rappresentazione nelle quali, per l’abbondanza delle forme offerte, era naturale sperimentare il kalonkagathon (bello e buono) a tal punto che si poteva facilmente incorrere nella tentazione di scivolare dalla forma originaria in quella derivata. Là dove queste forme secondarie si infrangono e si attirano il sospetto di atteggiarsi a ideologie, è ad un tempo più facile e più difficile ritrovare la strada che porta alle origini della forma; più difficile, perché lo sguardo non è esercitato alla forma, perché si è abituati a leggere la realtà dal basso in alto e non dal tutto alla parte. Il nostro occhio, ridotto ormai ad un insieme di faccette, come ommatidi di insetti, è adattato al quan­ titativo, allo sbriciolamento operato dalla divisione; siamo divenuti 16

Punto di partenza e obiettivo finale analisti del mondo e anche dell’anima e non siamo più in grado di cogliere la totalità. Perciò la psicologia (ciò che oggi si com­ prende con questo nome) ha sostituito la filosofia. Per questo non crediamo più l’uomo capace di forma, sia metafisica che etica. Ma in questa apertura senza valori, almeno per alcuni, è possibile liberare nuovamente la strada che porta alla forma originaria, la quale non è una forma tra le forme, ma forma identica con l’esi­ stenza, forma al di là di ciò che è aperto e ciò che è chiuso, al di là dell’io e del tu (perché essa ed essa soltanto li abbraccia ambedue), forma persino al di là dell’autonomia e dell’eteronomia, in quanto unisce Dio e l’uomo in una intimità che non può essere immaginata. E si danno epoche nelle quali, per la sovrabbondanza delle forme prodotte, sembra che la bellezza si trovi dappertutto; essa circonda tutto in un giuoco che trascina tutta l’esistenza, esaltando il sentimento che questa ha di se stessa. Allora la bellezza esige il bene, proprio mentre costringe l’uomo a non scendere dall’al­ tezza del contenuto vitale di cui egli rappresenta le forme esteriori. Ma si danno anche epoche nelle quali l’uomo, a causa della profa­ nazione e della negazione delle forme, si sente talmente umiliato e coinvolto in questa profanazione, da essere afferrato ogni giorno dalla tentazione di disperare della dignità dell’esistenza e di libe­ rarsi da un mondo che nega e distrugge il proprio essere-immagine. Dover ritrovare, da questo antro senza eco, l’immagine che il primo autore ci aveva destinato, è un compito che può apparire quasi disumano. E forse esso è veramente possibile solo cristianamente. E l’immagine, in un primo tempo e provvisoriamente invisibile al mondo, che però, nonostante tutto, è quella a cui si tende e che può essere formata: quest’immagine potrebbe essere quella evan­ gelica del pazzo umiliato, un’immagine che non interessa nessuno, per mostrarsi solo in un secondo tempo dal suo centro nascosto e, a partire da qui, irradiare in maniera creativa il mondo— come spesso si è dato il caso. Se ciò vale per il nostro tempo, allora è di decisiva importanza, è la stessa «parola prima», che i pochi sulle cui spalle (come spesso è già stato il caso) grava il peso del tutto, ricevano occhi per la forma originaria dell’uomo nell’esi­ stenza e che, nel coraggio fiducioso nel destino di questa forma, ri­ mettano in luce tutto assieme: il vero, il bene e il bello. La prima cosa è sempre data dalla indissolubilità della forma, la seconda dal suo condizionamento da parte dei molti pre­ supposti. Quando però per ragioni di chiarezza la si dissolve nei 17

Introduzione suoi stadi inferiori e nelle parti ausiliarie, allora abbiamo purtroppo un segno che, in realtà, non l’abbiamo ancora intravista. Ciò che l’uomo è nella sua totalità non può essere «chiarito» da ciò che è divenuto, sia che si tratti della sua preistoria evoluzionistica nel regno dell’esistenza vegetale e animale, sia che si tratti della storia umana dei suoi antenati, sia che si tratti delle forze cosmiche che contribuiscono a condizionarlo, sia che si tratti infine della stessa storia della propria vita o degli elementi del suo subcosciente, del­ la molteplicità dei suoi traumi e dei suoi impulsi istintivi. Tutte queste dimensioni sprigionano senz’altro del materiale che si depo­ sita dentro le giunture della forma e che, essendo in sé il molte­ plice e il relativamente non necessario, può ancora ulteriormente essere sottoposto ad analisi. Non varrebbe tuttavia veramente es­ sere un uomo, se tutto si riducesse qui, se non ci fosse l’unica cosa necessaria, la perla insostituibile per amore della quale ven­ dere tutto. Occorre però avere un occhio per intravedere questa perla, perché, coscienti del suo valore e trascinati dalla bellezza della forma irrepetibile, possiamo stimare tutto il resto «spazza­ tura» e guadagnare l’unica cosa (Mt 13,46; Fil 3,8) assolutamente degna di essere vissuta e che partecipa del proprio valore a tutto ciò che ancora noi siamo. Si può vedere fin da principio come, sulla base di questa piccola parabola, tra evangelo e forma si dia un intimo connubio. Infatti dove si trova nel mondo qualcosa di così prezioso per cui è possibile abbandonare tutto il resto senza rimpianti? E se ciò nondimeno si verificasse l’uno, non sarebbe allora l’assoluto senza forma, che conseguentemente dissolve dal­ l’interno la forma dell’io spirituale? In questo senso, quando ogni forma autentica del mondo diventa problematica, sono veramente i cristiani che portano su di sé la responsabilità della forma. Cosa c’è di più forte, di più incisivo nella forma della vita, che il matrimonio, che è tale solo se recinto che comprende e supera i desideri di evasione dell’individuo, rapporto indissolu­ bile che spezza inflessibilmente le tendenze dissolutrici dell’esistenza e costringe i vacillanti a crescere oltre se stessi, nella forma, verso l’amore effettivo? Nella promessa del matrimonio gli sposi non impegnano la propria fedeltà sulle sabbie mobili della loro fedeltà, non si consegnano a se stessi, ma alla forma che, scelta, li sceglie. Per essa si decidono, nell’atto della loro persona, la quale si consegna non solo al tu amato, alla legge biologica della fecondità e della famiglia, ma ad una forma con la quale essi si identificano 18

Punto di partenza e òjbiettivo finale nella loro personalità più profonda perché essa, penetrando tutti gli strati dell’essere a partire dalle radici biologiche, possa attin­ gere le altezze della grazia e dello Spirito Santo. Allora, improv­ visamente, ogni fecondità, ogni libertà, riposa nell’interiorità della forma e la vita dello sposo può essere compresa (come appare con forza dalla descrizione fatta da Claudel nella sua Ode V) solo a partire dal mistero di questa interiorità che non è più accessibile partendo dalla profanità dell’esistenza umana. Ma a cosa si riduce l’individuo che, disprezzando e travolgendo questa forma, stringe rapporti che restano prigionieri delle limitazioni della sua psico­ logia? A nient’altro che a sabbie mobili e infecondità inevitabile. Anche questa forma, da cui è generata la bellezza dell’esistenza umana, è oggi più che mai affidata alla vigilanza cristiana. Proprio l’essere cristiano è, infatti, forma. E come farebbe a non esserlo, se è grazia, possibilità dell’esistenza aperta a noi dal Dio che ci giustifica, anzi dal Dio fattosi uomo che ci redime? E non già possibilità, informe e indifferente a tutto, di una libertà immaginaria, bensì, nella misura che deriva a noi dall’essere mem­ bra del corpo di Cristo, possibilità del compito di costruirlo, della missione, del carisma, del servizio cristiano nella chiesa e verso il mondo. Cosa c’è, se la consideriamo in tutte le sue dimen­ sioni, di più totale ed indissolubile e, nello stesso tempo, di più determinato di questa forma cristiana? Essa supera la problema­ ticità dell’autodecisione e dell’autovalutazione umana, l’insicurezza e la melanconia che minano, nel profondo, la maggioranza delle forme della vita (giacché sarebbe stato possibile qualcosa di com­ pletamente diverso, giacché mai abbiamo potuto raggiungere ciò che desideriamo e a cui effettivamente tendevamo); qui però la forma è murata nel miracolo del perdono dei peccati, della giu­ stificazione, della santità, di una illuminazione e nobilitazione di tutto lo spazio esistenziale, miracolo che già da se stesso garantisce lo sviluppo più bello di una forma spirituale. L ’immagine dell’esi­ stenza è irradiata dall’archetipo Cristo e formata dalla forza dello Spirito creatore, con l’elevatezza di colui che non ha bisogno di distruggere quanto c’è di naturale per raggiungere il suo fine spi­ rituale. Per ciò stesso però è anche evidente che il cristiano solo allora compie la sua missione— sempre e anche soprattutto oggi— quando diventa questa forma voluta e fondata da Cristo, nella quale l’esterno esprime e riflette un interno credibile al mondo, e l’interno viene dimostrato e giustificato nella sua verità attraverso 19

Introduzione ciò che è rappresentato, e viene così reso degno di essere amato nella sua bellezza sfavillante. La forma compiuta del cristiano è quanto di più bello ci sia nel dominio umano; di questo è cosciente anche il semplice cristiano che ama i suoi santi anche per il fatto che l ’immagine raggiante della loro vita esercita tanta attrazione. Ma la capacità spirituale di comprendere la vita di un santo non è assolutamente ovvia ed il nostro occhio attuale sembra essere diventato «così stanco per la sfilata delle pertiche», che anche queste figure altissime dell’esistenza umana ci strappano appena al nostro letargo. A partire da qui bisogna guardare il punto più alto: la forma della rivelazione divina nella storia della salvezza fino a Cri­ sto e a partire da lui. Qui, ancora una volta, si richiede uno sguardo più affinato e non è da nutrire eccessiva speranza che questi occhi nuovi ci siano comunicati e ci vengano aperti se prima non abbiamo già imparato a contemplare con gli occhi vecchi la forma dell’essere. La soprannatura non serve a sostituire ciò in cui noi siamo falliti con le nostre capacità naturali. Grafia perficit naturam, non supplet: la grazia perfeziona la natura, non la sostituisce. Gli stessi secoli della cristianità che seppero magistral­ mente comprendere il linguaggio della forma del mondo naturale, furono dotati di un occhio eccezionalmente formato a percepire, nella illuminazione della grazia, la verità della rivelazione come forma e— solo allora!— ad interpretarla. In realtà l’incarnazione di Dio porta a compimento tutta l’ontologia e l ’estetica dell’essere creato che viene assunto, in una nuova profondità, ad espressione e linguaggio dell’essere e dell’essenza divina. Non già ciò che noi, dopo Lutero, ci siamo abituati a designare come la Parola di Dio, la Scrittura, è la sua automanifestazione ed il suo linguaggio origi­ nario, bensì Gesù Cristo, come l’uno e l’unico, da interpretare non­ dimeno solo in connessione con tutta la storia dell’umanità e con tutto il cosmo creato, è la Parola, l’immagine, l’Espressione e l ’Esegesi di Dio. A dare testimonianza è Gesù Cristo che, in quanto uomo, utilizza tutto l’apparato espressivo umano dell’esistenza storica, dal­ la nascita alla morte, in tutte le età, le condizioni, le situazioni individuali e sociali. Egli è ciò che esprime, cioè Dio, ma egli non è colui che egli esprime, cioè il Padre. Paradosso incomparabile che costituisce il punto originario dell’estetica cristiana e quindi di ogni estetica! In che misura quindi in questa sorgente la capacità di vc20

Punto di partenza e obiettivo finale dere dev’essere esigita e presupposta! Certo, i giudei furono ciechi nel punto decisivo, sebbene fossero nelle condizioni di poter vedere ogni sorta di cose importanti ed esatte nei confronti del Cristo. E certamente, il cristiano che nella fede si pone alla sequela del Cristo è invece, nello stesso punto decisivo, dotato di occhi per vedere; ma un punto non è sufficiente. Anche se è vero che si dà sempre nuovamente l’istante qualificato, nel quale l’uomo cade in ginocchio e si pone in preghiera di fronte a colui che dice: «Io sono colui che parla qui con te», la buona novella non si riduce tuttavia a siffatti istanti (che fanno scomparire dentro di sé tutto il resto). Si dà anche la superficie, il tempo, lo spazio e tutto ciò che d’umano qui si dispiega e che appartiene essenzialmente a ciò che Giovanni chiama il «rimanere», i rapporti e la familiarità con le abitudini e le vedute dell’esistenza, fino all’imponderabile. Una forma di vita. E fino a quando egli non è morto e non è risorto, gli occhi dell’ani­ ma dei discepoli sono trattenuti e hanno bisogno della distanza per essere capaci, non solo di «credere» in qualche modo, ma anche di «vedere», nella sua evidenza, il contenuto divino. Tuttavia qug^ sto contenuto era espresso nell’uomo Gesù e, in ogni loro astra­ zione e contemplazione, la memoria retrospettiva, l’ana-mnesi di quanto avevano visto, la conversio ad phantasma (verissimo!), co­ stituiscono la base di ogni comprensione. Anche questo egli aveva loro predetto, e la distanza che dovevano guadagnare non era sol­ tanto data dal ritrarsi necessario di uno spettatore davanti ad un quadro, ma dal presupposto preliminare per l’intervento dello Spi­ rito Santo che doveva loro comunicare per la prima volta lo sguardo contemplativo della fede. L ’immagine sorge in essi nello stesso istante in cui scende lo Spirito. E adesso essi possono vedere le proporzioni non solo in Cristo stesso— giacché essi comprendono il divino in lui non in maniera spoglia, ma sempre nella visione del rapporto tra l’umano-visibile e il divino-invisibile— , quanto piut­ tosto nella sua connessione e nel suo stagliarsi sullo sfondo della storia della salvezza e del cosmo creato tutto. Essi vedono la forma che Vecchio e Nuovo Testamento assieme costituiscono, essi vedono la proporzione incomparabile esistente tra promessa e compimento e il modo in cui questa stessa proporzione è distribuita nella forma, offrendo così una pluridimensionalità tutta sua e svelando la pro­ pria profondità. Oppure pensiamo noi che non si dà connessione alcuna tra proporzioni naturali e cristiane, e quindi nemmeno tra la capacità di vedere le une e quella di vedere le altre? 21

Introduzione Solo a partire da questa immagine, contemplata con gli occhi della fede e dell’intelligenza della fede, i testimoni oculari hanno dato la loro testimonianza prima orale e dopo anche scritta. E così come lo Spirito Santo era nei loro occhi, perché l’immagine risplendesse, altrettanto era nella loro bocca e nella loro penna, affinché le immagini, che essi sviluppavano dall’immagine archetipa, corrispondessero alla visione che dalla rappresentazione di Dio nella carne possiede lo stesso Spirito Santo di Dio. Presupposto quindi che la Scrittura non sia la Parola, ma la testimonianza della Parola nello Spirito, in legame e connubio indissolubile con i testimoni oculari, invitati e ammessi alla visione originaria, occorre aggiungere che questa testimonianza possiede una forma interna che, in quan­ to forma, è assolutamente canonica, oltre la quale quindi non si può risalire senza correre il pericolo di perdere contemporanea­ mente l’immagine e lo Spirito. Ciò che è ispirato è il risultato a cui termina una storia del testo, mai adeguatamente ricostruibile, e non già i brandelli che l’analisi filologica crede di poter strappare dall’insieme già costituito, per insinuarsi quasi furtivamente dietro la forma e tentare di scoprire il suo segreto a partire dal processo stesso della sua formazione. Non suscita diffidenza il tentativo di una certa filologia biblica di voler «comprendere» fondamentalmente il testo, sezionando già fin dal principio la sua forma nelle fonti, nelle finalità psicologiche e negli influssi dell’ambiente sociologico, prima ancora di aver veramente contemplato la forma in quanto tale per coglierne il senso globale? Infatti questo soltanto è certo: a partire da ciò che è stato già sezionato e scomposto— per quanto istruttivo ancora oggi possa risultare questo lavoro anatomico— mai più può essere riconquistata la totalità vivente della forma. L ’ana­ tomia può essere intrapresa solo su un corpo morto, giacché essa si contrappone al movimento della vita e tenta di pervenire dal tutto alla parte e all’elemento. Non è escluso che, anche nella forma canonica, determinate connessioni raccomandino e giustifichino que­ sto procedimento. Occorre però accertarsi ancora se questo risalire «scientifico» alle fonti vere, o presunte tali, non sia proprio allora utile, quando dimostra una volta ancora l’impossibilità di sezio­ nare la parola definitivamente fissata. Non si deve forse attribuire anche allo Spirito Santo, nei confronti degli esperti, un po’ di humor e di ironia divina? E si è del tutto fuori strada se in questo contesto si vede la quadruplice forma del vangelo? Come se la pla­ sticità incomparabile e divina della Parola viva, fattasi carne, po­ 22

Punto di partenza e obiettivo finale tesse essere diversamente testimoniata che mediante questo sistema, non ulteriormente sintetizzabile, di diverse prospettive, ma, pro­ prio per questo, stereoscopico! E come se da questo tentativo «scientifico»— dal suo fallimento e dalla sua improduttività— non risultasse sempre di nuovo la necessità evidente di un ritorno al­ l’unica cosa necessaria, a quella contemplazione centrale di ciò che è stato realmente detto, realmente presentato, realmente inteso, contemplazione che nel dominio cristiano— per quanto ciò possa Ri­ sultare spiacevole ad alcuni— corrisponde esattamente alla contem­ plazione estetica che poggia e persevera nella contemplazione della forma, che la natura o l’arte presentano al nostro sguardo. Nella forma soltanto, e non già nella psicologia o nella bio­ grafia, è possibile intendere l’ispirazione nella sua pienezza. Ogni filologia scritturistica quindi, se vuole essere feconda, deve partire dalla forma e ritornare ad essa. Solo la «Scrittura» stessa ha la forza e l’autorità di rimandare autenticamente a quella forma al­ tissima che ha calpestato il suolo terreno ed alla cui sovranità è perfettamente consono darsi da se stessa il corpo in cui esprimersi. Un corpo è però sempre un campo e ha bisogno di un cam­ po in cui estendersi e radicarsi per poter poi in seguito sollevarsi da esso. L ’insegnamento e l’esistenza di Cristo non potrebbero asso­ lutamente essere compresi, nella loro forma, al di fuori di questa sua connessione con una storia della salvezza tesa a lui: è assieme ad essa e sul fondamento di essa che egli costituisce per noi l’im­ magine che rivela l’invisibile. Ed anche la Scrittura non è un libro isolato, ma in rap­ porto con quanto Cristo ha fondato, creato ed emanato: con tutta quella realtà che è la sua opera ed il suo influsso nel mondo; solo in questo contesto essa riceve la sua forma. Solo ciò che ha forma può trasportare e rapire nell’estasi; solo attraverso la forma può guizzare il lampo della bellezza eterna. Si dà il momento in cui la luce prorompente, lo spirito zampillante, irradiano la forma esteriore— e dalla maniera e dalla misura in cui ciò avviene, dipende se è bellezza «sensibile» o «spirituale», grazia o dignità— , ma senza la forma l’uomo non può essere afferrato e rapito. Gli apostoli sono trasportati da ciò che vedono, ascoltano e toccano, da ciò che si rivela nella forma; Giovanni (soprattutto egli, ma anche gli altri) descrive sempre nuovamente come nell’incontro, nel dialogo, la forma di Gesù acquista risalto, si delineano in ma­ niera inconfondibile i suoi contorni e come all’improvviso ed in 2ì

Introduzione maniera inesprimibile il lampo dell’incondizionato guizzi e butti a terra nell’adorazione l’uomo, per ricrearlo come credente alla se­ quela del Cristo. Quale vile fuga dal mondo sarebbe questo «la­ sciar tutto e seguirlo» se non avvenisse nella pazzia di quell’entu­ siasmo che anche Platone, a suo modo, conosce, e che conoscono altresì tutti coloro i quali, per amore della bellezza, accettano vo­ lentieri e senza rimpianto di diventare insensati. Come è possibile, sia pure in misura minima, comprendere Paolo se non ci si lascia persuadere da lui che a Damasco egli ha contemplato la bellezza suprema, così come la contemplarono i profeti nelle visioni della loro vocazione, per riuscire quindi a vender tutto in cambio del­ l’unica perla, tutta la saggezza mondana e divina, qualsiasi privi­ legio all’interno del popolo santo, per compiere nella gioia il ser­ vizio di «poveri di Jahw e»? Sia gli uni che gli altri, gli entusiasti della bellezza naturale e gli estasiati della bellezza cristiana neces­ sariamente sembreranno pazzi per il mondo che tenterà di spiegare il loro stato ricorrendo alle leggi della psicologia se non addirittura a quelle della fisiologia (At 2,13). Essi sanno però ciò che hanno contemplato e non si curano quindi, nemmeno per un istante, di quanto dicono gli uomini. Essi soffrono per il loro amore e solo il fatto di essere infiammati per la bellezza suprema, coronata di spine e crocifissa, giustifica il loro con-patire. È facile stabilire una linea di demarcazione tra le due categorie. Più difficile è invece co­ gliere quanto le accomuna senza cadere nello psicologismo. Infatti laddove, per comprenderle, occorre contemplare ciò che anch’essi contemplano, inizia il dominio dell’esoterico e le dimostrazioni per la verità di esso— come appare già nel Simposio— ubbidiscono alle norme dell’iniziazione. Nessuna chiesa popolare, come è la chiesa cattolica, può abolire l’esoterismo autentico di coloro i quali sono stati afferrati dall’amore. A nessuno, che lo voglia veramente, viene sbarrata la via misteriosa dei santi. Ma chi, nella massa, si cura di costoro?

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IL CANONE ESTETICO

Per una prima presa di contatto con le dimensioni ab­ biamo percorso una strada che porta dal basso in alto, senza pre­ stare attenzione agli avvertimenti che segnalavano lo sconfinamento dal dominio della natura in quello della grazia, dalla filosofia nella teologia: la forma del bello è apparsa in una tale capacità interiore del trascendere, da scivolare, senza soluzione di continuità, dal do­ minio mondano in quello sovramondano. Charis significa incanto del bello e quindi anche grazia. «L a grazia è effusa sulle tue labbra», canta l’epitalamio del Salterio (44,3). Se è vero che la bellezza intramondana— in quanto apparizione dello Spirito— possiede una di­ mensione globale esigitiva già della decisione morale, comTè pos­ sibile escludere da essa anche la dimensione religiosa e quindi la risposta ultima dell’uomo alla domanda su Dio, anzi la domanda di Dio stesso? Si può obiettare che la parola che viene da Dio pone sotto il suo giudizio tutto ciò che è umano, per quanto questo possa essere dotato di trascendenza interiore; questo giudizio non è necessariamente condanna, ma può significare piuttosto assunzione ed elevazione; in ogni caso esso resta però il giudizio libero proma­ nato da Dio ed al quale non è giusto che il mondo si sottragga, tanto più che esso corre il pericolo di dimenticare la sovranità li­ bera del giudizio divino. Questo sconfinamento sbadato è tuttavia quasi necessariamente implicito nella essenza stessa della bellezza e dell’estetica; più della metafisica e dell’etica infatti essa tende ad un’autotrasfigurazione immanente del mondo, sia pure soltanto per l’istante del bello; e proprio laddove la metafisica e l’etica tentano, 25

Introduzione a partire da se stesse, di tracciare un’ultima linea comprensiva di riconciliazione, allora è in giuoco un sentimento ed un apprezza­ mento estetico. È compito della rivelazione smascherare, rifiutare e giudicare queste usurpazioni e la teologia deve riportare, nell’ob­ bedienza, questo giudizio della rivelazione. Questo giudizio costituisce tuttavia per l’estetica soltanto un limite, una distruzione del ponte teso tra la bellezza naturale e quella soprannaturale? Supposto che la linea ascendente che ab­ biamo indicato non sia, nella sua globalità, sbagliata, che si dà il momento quindi in cui lo spirito che irraggia dall’interno e autogenera una forma propria, senza danno della propria autonomia spirituale, anzi per conquistarla veramente, debba sottomettersi, per reperire la legge interiore della propria espressione, in quanto «ma­ teria spirituale» ( u à t ) v o y j t y ) ), all’intervento forgiatore di una mano più alta; supposto quindi che si dia, nel fenomeno dell’ispirazione, l’istante presagito sempre dall’uomo pagano, ma sperimentato pro­ priamente solo nella fede dal cristiano, nel quale l’ispirazione del proprio io si trascende misteriosamente in una ispirazione generata dal genio, dal demone, dal Dio inabitante, per cui lo spirito che nasconde in sé Dio (en-thous-iasmos) obbedisce ad un’istanza più alta che, in quanto tale, implica una forma ed è capace di realiz­ zarla: allora non è giusto rifiutare un’analogia intrinseca tra le due forme o i due gradi di bellezza. È implicito nella natura della cosa che si dia un progresso autentico dall’entusiasmo come prin­ cipio proprio della forma, all’essere inabitati da uno spirito più alto e che questo progresso, per esprimerci in termini cristiani, conduce nel dominio della fede, nella fede cioè in uno Spirito divino personale ed originario, libero e signore. È proprio della fede il consegnarsi misticamente all’assoluto, non soltanto come fondamento originario che supera qualsiasi forma del mondo, la mette in discussione, la distrugge anzi; è proprio della fede piut­ tosto l’affidarsi contemporaneamente, nella confidenza, al Creator Spiritus, al Creatore dall’inizio, il quale, per quanto nella forma del mondo e dell’uomo ci siano molte cose che debbano dissolversi, ultimamente non tende, induisticamente, ad una danza in cui il mondo, totalmente assorbito nel ritmo e nel movimento, perde la propria identità per diventare appunto soltanto danza, ma alla for­ ma creatrice. Questa forma resta la sua opera ed è dell’uomo, solo nella misura in cui egli si rende disponibile, nell’accoglimento che tutto permette e a tutto acconsente senza resistenza, aH’a/ione divina. 2(i

Il canone estetico Una siffatta «arte» diventa visibile, nello spazio cristiano, attraverso le forme della vita degli eletti. L ’esistenza profetica, nel senso esatto del termine, sta ad indicare l’esistenza di un uomo espropriato, nella fede, della pretesa di darsi una forma da se stesso e che si fa quindi «materiale», del quale l’agire divino possa disporre a piacimento. Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, i giudici carismatici, i profeti e i martiri della fede, fino al precursore e alla «serva del Signore», nella quale si compendia la sponsale plasticità femminile della figlia di Sion e nella quale è possibile misurare, nel suo grado più alto, cosa significa arte di Dio o santità «formata»: si tratta sempre di una vita nello Spirito Santo, nascosta, in-visibile e tuttavia dotata di una tale forza di ma­ nifestazione che le sue situazioni, le sue scene, i suoi incontri, acqui­ stano un profilo netto ed inequivocabile, una potenza archetipa su tutta la storia della fede. Il contrario di ciò che ci si aspetterebbe quando un uomo limitato si consegna, in una donazione radical­ mente personale, all’assoluto senza limiti e senza forma: nuova forma spirituale, scolpita nella pietra stessa dell’esistenza, forma ine­ quivocabilmente originata dalla forma dell’incarnazione divina. In qualsiasi modo questa legge della forma possa distaccarsi dalla bel­ lezza intramondana— ciò che essa deve, in modo vario, fare— , se il fine del movimento della «formazione» divina è realmente indiriz­ zato all’uomo, così com’è inteso veramente dalla volontà creatrice di Dio, ed al compimento di quel lavoro intrapreso dalle «mani» divine nel giardino dell’Eden, allora è impossibile negare qualsiasi analogia tra l’opera della «formazione» di Dio e le energie forma­ trici della natura feconda e dell’uomo. Per quanti punti interrogativi e segnali di avvertimento pos­ sano essere piantati sul ciglio della strada di quest’analogia, essi non si riferiranno mai all’uso, ma all’abuso in cui è facile incorrere. L ’abuso consiste nel fatto di sottomettere e subordinare semplicemente alle leggi della metafisica e dell’etica (privata, sociale o sociologica), o anche dell’estetica intramondana, la forma della rive­ lazione divina, invece di rispettare la sovranità chiaramente mani­ festa dell’opera di Dio. Questo accade nell’estetica, tanto più fre­ quentemente e facilmente, in quanto l’estetica mondana appare più affascinante e più stringente della metafisica e dell’etica mondana, permanentemente problematiche. Mentre i più non osano proferire alcuna affermazione sicura sulla natura ultima del fondamento del 27

Introduzione mondo e sulla giustizia ultima delle azioni umane, coloro i quali invece sono stati una volta afferrati nel loro intimo dalla bellezza mondana che permea la natura, la vita e l’arte dell’uomo, non af­ fermeranno mai di non possedere alcun concetto autentico della bellezza. Il bello comporta un’evidenza che s’impone immediata­ mente. È dovuto a questo il fatto che, quando ci accostiamo alla rivelazione divina con la categoria del bello, la trasciniamo sponta­ neamente nella sua corrispondente forma intramondana, e solo quando questa non si adatta alla forma trascendente della rivela­ zione ci arrestiamo confusi e ci rifiutiamo di andare avanti per scrupolo di coscienza. Allora o l’applicazione di ciò che noi cre­ diamo e sappiamo anche, di conoscere come bellezza, ci appare un «uso esaltato», che, nel migliore dei casi, tradisce l’ingenuità di una pia infatuazione, oppure (ciò che fondamentalmente è la stessa cosa) ci proibiamo, per riverenza di fronte alla parola di Dio, alla sua serietà e alla sua sovranità incomparabile, qualsiasi applicazione semplificatrice e falsificante delle categorie estetiche. Forse è possibile accettare l’opinione di Gerhard Nebel, secondo il quale si è dato un momento storico privilegiato del­ l ’incontro tra l’arte umana e la rivelazione cristiana, nel quale poterono germogliare le icone, le basiliche e le cattedrali, le pitture e le plastiche romaniche. Dopo sono sorti troppi equivoci e sono successe troppe cose orribili perché fossimo ancora autorizzati ad insistere più sulla somiglianza anziché sulla maggiore dissomiglianza delle due sfere. L ’abitudine dell’uomo di designare come bello solo ciò che a lui si impone come tale è, almeno sulla terra, impos­ sibile da superare. Perciò appare per lo meno pratico, raccomanda­ bile e necessario, togliere le mani dal fuoco di un impiego teologico dei concetti estetici. Una teologia infatti che fa uso di questi con­ cetti, a breve o a lungo andare, scivolerà da una estetica teologica — da tentativo cioè di costruire un’estetica sul piano oggettivo e con i metodi della teologia— in una teologia estetica, nel tentativo cioè di tradire e di vendere il contenuto teologico alle convinzioni correnti della dottrina intramondana della bellezza. Qualunque peso si voglia dare a questo pericolo— ed in questo campo bisogna darne parecchio— non è il fattore pericolo che può predeterminare la bontà teoretica dell’approccio. Una strada pericolosa rimane lo stesso una strada; questa richiede forse un equipaggiamento ed un’esperienza particolare, ma non per questo è impraticabile. La pre-decisione teoretica da prendere è la sc28

Il canone estetico guente: siamo oggettivamente giustificati a limitare il bello al do­ minio dei rapporti intramondani tra «materia e forma», tra ciò che si manifesta e la sua manifestazione, e degli stati psichici della fantasia e delle disposizioni tutt’al più necessarie per far sorgere e per percepire questi rapporti di espressione— oppure possiamo con­ siderare il bello come una delle proprietà trascendentali dell’essere in quanto tale per attribuirgli quindi la medesima estensione e la stessa forma intrinsecamente analoga dell’uno, del vero e del bene? L ’antica teologia dei Padri della chiesa e l’alta scolastica lo hanno fatto senza esitazione, partendo dal duplice motivo di una teologia della creazione che attribuisce, per la via dell’eminenza, i valori della bellezza creata, con altrettanta assenza di esitazione, al Prin­ cipio creatore, e di una teologia della redenzione e del compimento che attribuisce all’opera suprema di Dio anche la somma eminente di tutti i valori creati, soprattutto in ciò che riguarda la forma escatologica di quest’opera. Questa forma però ha già inizio con la risurrezione del Signore, la quale a sua volta effonde il suo sublime splendore (kabód, doxa, gloria) sulla chiesa e su ogni partecipazione di grazia. Si procederà così alla eliminazione di quella forma di nascondimento che l’economia della croce comporta per tutta la storia della salvezza? Parecchi Padri, ed in particolare Ago­ stino, ne sono preoccupati. Non si tratta qui per il momento di sapere se il modo del loro procedimento sia giusto. Non è ancora il metodo ad essere in discussione, bensì il punto di impatto. I Padri, partendo dai motivi suddetti, hanno considerato la bellezza come un trascendentale e hanno sviluppato una teologia coerente con questa convinzione. Questo presupposto ha segnato in maniera profondissima il modo ed il contenuto del loro lavoro teologico, giacché una teologia del bello non può essere sviluppata altrimenti che in modo estetico. La specificità dell’oggetto deve imporsi già attraverso la specificità del metodo. Questo vale per i commentari della narrazione della creazione e del paradiso di Teofilo, Ireneo, Basilio, Gregorio di Nissa, Ambrogio, Anastasio Sinaita, come per la descrizione della conservatio nel modo di una presenza perma­ nente ed, infine, incarnazione della Parola divina nella sua crea­ zione (Clemente, Origene, Metodio, Atanasio, Girolamo, Vitto­ rino, Agostino), come, in modo particolare, per l’economia della carne e della croce, per la quale si possono citare i nomi di Ignazio, Erma, Tertulliano, Gregorio di Nazianzo, Antonio, Cassiano e Be­ nedetto. Soprattutto questo vale però per la dottrina della con­

Introduzione templazione dei Padri, da Origene, attraverso Evagrio, Macario, Agostino, fino a Gregorio Magno e a Massimo il Confessore; qui si insegna l’ascesa verso l’alto e verso l’interiorità, fino al punto in cui la luce definitiva permea le forme terrene e velate della sal­ vezza: la contemplazione diventa qui anticipazione folgorante del­ l’illuminazione escatologica, presagio veggente della gloria che tra­ spare nella forma del Servo. Ci sono però anche quei Padri i quali vedono trasparire oggettivamente la bellezza storico-salvifica attra­ verso la forma del velo: così Origene vede risplendere lo Spirito attraverso la lettera; Ireneo ravvisa l’arte suprema di Dio nell’eco­ nomia, nella successione intima dei tempi della storia della sal­ vezza; Cipriano ed Ilario vedono trasparire la gloria dell’amore attraverso l’unità, morale e sacramentale-istituzionale ad un tempo, della chiesa; Leone Magno vede l’armonia più eccelsa nel ciclo delle feste della chiesa; Evagrio vede la luce eterna splendere attraverso l’anima purificata e pervenuta alla conoscenza. Qualun­ que sia l’aspetto particolare scelto da ognuno, qualunque sia il metodo impiegato, tutti sono però d’accordo nell’espresso ricono­ scimento e nella sottolineatura del momento estetico in una con­ templazione che è propriamente tesa ad esso. Si ha giuoco facile nel rimproverare1 a questa dottrina della contemplazione, la quale implica necessariamente un momento «entusiastico», di essere debitrice di un influsso indebito dell’atteg­ giamento spirituale dell’ellenismo e ci si può forse rallegrare che la teologia più recente si è liberata da questo apporto estraneo. Con maggiore ragione possono essere citate le correnti ostili al­ l’arte che accompagnano tutto il periodo patristico ed esplodono nella polemica bizantina del periodo iconoclasta, dall’editto del­ l ’imperatore Leone in (730) fino all’istituzione della «festa del­ l’ortodossia» sotto Teodora il (843). Non si può dire che l’argo­ mento teologico portato a favore delle immagini sia sempre con­ vincente, nemmeno quando, sulla base della teologia trinitaria di Basilio Magno, si argomenta sul carattere di immagine del Figlio e sul rapporto necessario e sulla distinzione tra il modello arche­ tipo e l’immagine2. Nemmeno appare convincente l’argomentazione 1 Ronald Knox, Enthousiasm, Oxford 1950 (tr it Illuminati e cari­ smatici, Bologna 1970). 2 F X Funk, «Ein angebliches Wort Basilius des Grosscn iiber die Bildervcrehrung», in TQ 70 (1888) pp 279s.

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Il canone estetico quando si sottolinea con Dionigi la necessità dei simboli religiosi per l’uomo sensibile (Dionigi è infine anche il padre della teologia negativa più rigorosa), oppure quando si rimprovera, a coloro i quali disprezzano l ’immagine, di rendere così manifesto il loro disprezzo per ciò che ivi è rappresentato; nemmeno quando il culto delle immagini viene giustificato con l’incarnazione di Cristo che esclude ogni sorta di docetismo; nemmeno, specialmente, quando si argomenta a partire dalla misteriosa «inabitazione» del modello archetipo nella sua immagine, dai miracoli operati sulle immagini e mediante esse, dalla loro origine celeste, e non da mano d ’uomo (iacheiropoia). Tutti questi argomenti risultano deboli contro la proibizione veterotestamentaria delle immagini, mai esplicitamente revocata, e contro la rarità delle immagini e del forte riserbo al loro riguardo dei primi tempi del cristianesimo. Al contrario, l’ar­ gomento dell’iconoclasta Costantino v, secondo il quale una rap­ presentazione puramente umana di Cristo— in quanto la divinità del suo essere sfugge ad ogni rappresentazione— è contraria ad una sana cristologia e conduce al nestorianesimo, dà molto a pensare; per lo meno nel senso di un continuo avvertimento a non per­ mettere che, l’immagine che Dio ha manifestato di se stesso al mondo e che è il suo Figlio unigenito, non venga prolungata senza differenziazione alcuna in altre immagini che, con tutta la loro rilevanza religiosa, appartengono alla sfera estetica. L ’iconoclastia si presenta come correttivo della teologia patristica, che, non già semplicemente come tesi, ma proprio come correttivo, deve sempre essere tenuta presente; tanto più che essa non emerge nella storia della chiesa solo sotto questa forma esasperata, ma, in parte nel periodo carolingio, in parte nella riforma cistercense e nella dura reazione contro le aberrazioni del romanico— per non parlare della Riforma— ha giuocato un suo ruolo, che può essere tutt’oggi nuo­ vamente ravvisato nell’architettura e nell’arte sacra. Tuttavia anche la coscienza di tutto ciò non può postulare nient’altro che una continua vigilanza, sia teoretica che pratica, per impedire che la bellezza trascendentale della rivelazione scivoli e si riduca nella dimensione naturale e intramondana del bello. Prima ancora di trattare la questione se i Padri abbiano parlato in modo adeguato della bellezza della rivelazione ed in qual modo debba presentarsi un siffatto discorso, occorre che noi, nella guisa di una notazione previa, riandiamo alla Scrittura che, se non nella sua totalità, è tuttavia in misura prevalente un libro

Introduzione poetico. Non si tratta tanto di insistere sulla forma poetica este­ riore, giacché potrebbero essere portati in campo importanti argo­ menti storico-positivi contro la rilevanza teologica di questa forma. Soprattutto può essere fatto valere che la maggior parte dei libri che compongono la Scrittura hanno avuto origine in un’epoca ed in un ambiente culturale nel quale è del tutto assente ciò che, in un senso solo più tardo, noi intendiamo per prosa (ad esempio quella degli storici greci); infatti non soltanto i canti, gli inni di preghiera, le parabole, i detti cultuali e della sapienza popolare, i discorsi profetici, ma anche le massime giuridiche, le narrazioni sto­ riche in stile poetico, le leggende, le novelle e così via, costitui­ scono sempre un genere letterario soggetto alle regole della tradi­ zione e, soprattutto nel periodo più antico, condizionato dagli arti­ fici della mnemotecnica. L ’elemento poetico della Scrittura dovrebbe essere quindi interpretato come un aspetto specifico di quel periodo storico, ciò che non avrebbe meravigliato un Hamann, un Herder e i loro seguaci, per i quali la poesia costituisce il linguaggio primi­ tivo e la forma espressiva più antica dell’umanità e la bibbia deve quindi essere considerata come «il documento più antico del genere umano», degno della massima fiducia. Un’altra riflessione invece ha maggior rilievo: corrispondentemente alla successione storica, som­ mariamente considerata, ed alla divisione della bibbia ebraica, gli «scrittori» vengono al terzo posto, dopo la «legge» e i «profeti». Ora fanno parte degli «scrittori» i Salmi, Giobbe, i Proverbi, il Cantico dei Cantici, il Qoelet e, nel canone della chiesa cattolica, la Sapienza di Salomone e il Siracide. In questo terzo gruppo di scritti emerge inequivocabilmente ed in maniera riflessa un tratto estetico che non è invece consapevolmente riconosciuto nei primi due gruppi. Esso emerge però nella distanza tipica dell’atteggia­ mento contemplativo del «sapiente» di fronte al dramma della storia religiosa e politica, che si svolge di fronte allo spettatore attraverso l’Eptateuco e i libri storici ad esso congiunti, ma anche attraverso i profeti tesi tutti nella storia. Senz’alcun dubbio bisogna dire che la contemplazione dei libri sapienziali è tipica di un’epoca posteriore, nella quale il dramma violento dell’epoca eroica e gli avvenimenti tragici del grande periodo della maturità sono ormai divenuti passato; com’è anche vero che influssi ellenistici hanno suscitato e stimolato l’atteggiamento contemplativo e la sensibilità, ivi implicita, per i valori estetici. Da parte protestante si può, con una certa sufficienza, guardare dall’alto in basso a questi scritti 32

Il canone estetico "\ (e tuttavia nel canone vengono conservate parti importanti anche di questo terzo gruppo). Da parte del giudaismo (Martin Buber), nella misura in cui sono scritti in greco, potranno anche essere considerati come un’aggiunta insignificante alla Scrittura. Resta però sempre vero che essi fanno parte del canone della chiesa cattolica e che devono quindi essere tenuti per ispirati alla stessa stregua degli altri. Anzi, essi stanno a significare per la chiesa, proprio per la cesura contemplativa che essi pongono tra la grande azione del vecchio patto e quella futura del nuovo, un anello necessario nel­ l’economia della rivelazione. Nei libri sapienziali lo Spirito Santo della Scrittura riflette su se stesso. Come oggetto di lode, egli non prende però sol­ tanto i fatti del passato (Sap 10/19; Sir 44/50), ma anche la glo­ ria della creazione naturale (Sap 13; Sir 42,15/43; Sai 8;104 ecc; Gb 38 s), la situazione e i sentimenti dell’uomo mortale (Qo, Gb) e soprattutto la stessa sapienza, che è cosciente di «autogloriarsi» espressamente (Prv 8,12 s; Sir 24,1 s). L ’autocontemplazione della sophia è «glorificazione». Essa è perciò, alla sua maniera, altrettanto profetica e poetica quanto la rivelazione di Dio nella storia, nella natura e nella vita umana, da essa cantata. A questo punto l’obie­ zione, secondo cui la forma poetica delle prime due parti della Scrit­ tura sia spiegabile con motivi puramente storico-culturali, non è più plausibile e suscita essa stessa un interrogativo. La forma spe­ cificamente biblica della contemplazione ispirata getta sulla storia della salvezza, su quella passata e su quella futura, una luce este­ tica che, contemporaneamente alla forma spontaneamente poetica della «legge» e dei «profeti», ne fa risaltare le dimensioni irridu­ cibilmente soprannaturali. Non si tratta qui della posticcia e lan­ guida trasfigurazione romantica di un’epopea storica del passato glo­ rioso; si tratta piuttosto di far acquisire coscienza e di svelare tutta la forza di irradiazione della dimensione estetica implicita in que­ sta irrepetibile azione drammatica, dimensione che costituisce l’og­ getto di un’estetica teologica. «Dio ha bisogno dei profeti per manifestarsi e tutti i pro­ feti sono necessariamente degli artisti; ciò che un profeta deve esprimere, non può essere detto mai in prosa» 3. Se tutti i profeti sono degli artisti, non tutti gli artisti sono nello stesso senso pro­ feti, sebbene lo possano essere in un senso diverso e più ampio. Si 1

1' M ed icu s, G run djrag.cn der À stb c tik , Je n a 1907, p 14.

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Introduzione manifesta così nuovamente quell’analogia tra estetica naturale e so­ prannaturale che fa spazio alla libertà dello Spirito divino, di ser­ virsi, per il suo genere di poesia, di tutte le forme umane del­ l’espressione. Gli studiosi hanno ragione di preoccuparsi dei generi lette­ rari della Scrittura e di tener presente, neH’interpretazione, le leggi comuni a questi generi. Ma con ciò non è stata ancora esaurita la questione sulla particolare dimensione poetica della Scrittura: essa sorge proprio laddove hanno termine le considerazioni generali e, per la comprensione di questa ispirazione particolare (anche se im­ mersa nelle forme comuni), viene presupposta una ispirazione, ac­ cordata ad essa, dell’interprete, in maniera analoga al modo in cui la sapienza divina interpreta e glorifica se stessa nei libri sapienziali. Occorre essere sempre consapevoli perciò dei limiti del metodo filo­ logico ed archeologico, perché ad un certo punto esso possa essere completato e superato da un metodo particolare, adatto alla speci­ ficità dell’oggetto. I Padri possedevano a sufficienza questo secondo tipo di approccio, mentre sentivano fortemente la mancanza del primo; presso gli studiosi moderni è possibile invece che il primo metodo esista con o senza il secondo. Si può tuttavia radicalizzare ancora una volta il problema, relativizzando storicamente la connessione della sofiologia biblica con quella patristica e della grande scolastica, sottolineando la di­ pendenza sia dell’una che delle altre da una particolare atmosfera culturale della tarda antichità, la cui fine deve essere collocata im­ mediatamente dopo il medioevo e che noi dobbiamo cercare, attra­ verso un lavoro di demitizzazione, di eliminare dalla bibbia e dalla storia della teologia per uscirne decisamente fuori. Ci si potrebbe tuttavia chiedere: a favore di che cosa? Di una «Essenza del cri­ stianesimo» alla Harnack o di una comprensione bultmanniana del­ l’esistenza? Occorre notare che dalla sofiologia degli scritti più tardi dell’Antico Testamento partono delle linee che conducono fino a Paolo, all’autore della Lettera agli Ebrei e a Giovanni, i quali stan­ no, con la vita e la passione di Gesù, in un rapporto di contem­ plazione-glorificazione analogo a quello dei «saggi» con la legge e i profeti. Ambedue i gruppi di scritti più recenti, in ambedue i Te­ stamenti, sono variamente e sotterraneamente uniti mediante una corrente di «gnosi» biblica la quale si bagna nella stessa atmosfera diffusa della tarda antichità in cui nuotano Filone, la letteratura er­ metica e misterica del primo gnosticismo e ciò che doveva poi dare VI

Il canone estetico origine all’alessandrinismo cristiano. Voler però amputare tutto ciò dalla rivelazione della Scrittura, significherebbe veramente abbando­ nare la base storica della rivelazione biblica per ritrovarsi tra le mani un moralismo che, per quanto esistentivo, è tuttavia astorico e inoperante.

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LA DISESTETIZZAZIONE PROTESTANTE DELLA TEOLOGIA

Tuttavia proprio una siffatta operazione è stata sempre nuovamente e fin dal principio tentata dalla teologia protestante. Lutero cominciò con il porre l’asse della rivelazione biblica nella dottrina della giustificazione, così com’era presentata dalla Lettera ai Galati e ai Romani, e di prolungare quest’asse nell’Antico Testa­ mento, così come veniva visto soprattutto attraverso queste due lettere. Ora è proprio questa visione paolina ad essere, nell’insieme degli scritti dell’Apostolo, quella più condizionata dal tempo, in senso soprattutto tardo-giudaico. La scelta di quest’asse avvenne non solo a motivo dell’esperienza personale della grazia in Lutero, ma anche con intenzione polemica contro tutto ciò che nel cattoli­ cesimo può essere sinteticamente definito (se ci fosse già stato il termine kierkegaardiano) come semplificazione «estetica» e smussa­ mente dell’asprezza incisiva e folgorante della Parola di Dio; la dialettica tra morte e risurrezione nell’avvenimento di Cristo appare sostituita in questo dallo schema adialettico della metafisica estetica del neoplatonismo; il mondo viene visto soltanto come «manifesta­ zione» del Dio che «non si manifesta», progressione graduale di un approccio lentamente sempre più ontologico ed etico-mistico alla divinità; la vita ha la sua più alta attuazione intellettuale nell’in­ tuizione del mondo delle idee sovratemporali; l’uomo è essenzial­ mente anima e solo accidentalmente corpo; l ’analogia armonica tra la natura e la grazia viene vista come legge generale dell’essere, ad eccezione del solo Agostino, il quale tuttavia, nel giudizio dei rifor­ matori, durante il medioevo venne abbandonato, proprio nel punto 36

La disestetizzazione protestante della teologia \

più importante e a favore di un semipelagianesimo analogizzante, mentre di lui si accettò il neoplatonismo, potentemente rafforzato mediante l’influsso di Dionigi l’Areopagita che dominava la scola­ stica e la mistica. Contro tutte queste deviazioni occorreva nuovamente ri­ mettere in movimento le articolazioni più importanti della Scrit­ tura: la libera sovranità del Dio della creazione, la cui decisione impenetrabile verso il mondo non può essere fatta derivare e resa comprensibile da alcuna dottrina delle idee, da qualsiasi forma per quanto camuffata di emanazione, da nessuna gerarchia angelica o da qualsiasi artificio volto a gettare dei ponti attraverso una dottrina della analogia; l’ancora meno comprensibile disposizione di grazia del Dio della redenzione e della salvezza per il peccatore che lo aveva abbandonato, e tutto ciò nella discesa di Cristo fino al cuore della condanna e dell’abbandono di Dio, in un’avventura da cui sgorga una salvezza che non può essere afferrata se non in un atto assolutamente cieco di dedizione fiduciale; in tutto ciò Vabsconditas Dei sub contrario, l’assoluto nascondimento di Dio non solo nella sua predestinazione, nella sua creazione, nella sua provvidenza sto­ rica, nella sua incarnazione, ma anche nel suo coinvolgimento con la contraddizione a Dio del peccatore e con lo «scambio» (Rm 1,23. 25) della gloria imperitura di Dio contro l’immagine ignominiosa degli idoli, scambio al quale Dio risponde «abbandonando» l’uomo corrotto alla perversione più degradante (l,2 6 s), per caricarsi tut­ tavia dopo, nel suo amore di sposo, di sangue per la prostituta Ge­ rusalemme (Ez 16), di tutta la perdizione in cui è ormai sprofon­ data e per trasformarla nuovamente nella sposa senza macchia di questo incomprensibile mistero d ’amore. Questo è il fine dell’incar­ nazione; solo così esso può essere compreso, o piuttosto creduto, in quanto discesa del Verbo nella carne. Se invece si rovescia la realtà e si comincia a «filosofare» sull’«analogia» e sulla connessione intima tra carne e spirito, uomo e Dio, allora anche il mistero della croce viene degradato a pura funzione di questo filosofare e privato di tutta la sua forza di scandalo (Gal 5,11). Si comprende quindi la lotta di Lutero contro la prostituta ragione che cerca di far rimare esteticamente divinità ed umanità: «Se deve valer la rima, allora non conserveremo più nessun articolo di fede». Ma possiamo far rimare le vie di Dio? «Caro, se Dio è onnipotente, com’è possi­ bile far rimare con questo fatto l’altro, per cui Dio non punisce il male, ma lo fa accadere? O egli non è in grado di punire e impe­ 37

Introduzione dire tutto, o egli non lo vuol fare. Ma se egli non vuol punire, allora è un furbo; se invece non può, allora non è onnipotente come invece Dio deve essere. E cerca di farmi rimare anche questo: che la sapienza suprema si pone come se non lo sapesse e la potenza più eccelsa come se non lo potesse; nemmeno un turco sarebbe capace di farti rimare questo. Da questo proviene che le persone sapienti... concludono liberamente, come se Dio non ci fosse». E tuttavia «sembra proprio vero il contrario, giacché non c’è nulla di più debole della sua potenza, niente di più iniquo della sua giustizia, niente di più stolto della sua sapienza. Quando si predicano que­ ste cose, è un’eresia, come voi vedete. Se si dice che lui solo è giusto, allora arriviamo noi con le nostre opere e pretendiamo che vengano considerate giuste, in modo tale che Cristo con il suo re­ gno restino sempre giù. E tutto questo accade perché esso deve essere un regno della fede, quale noi lo insegniamo; perché egli sia il vero Dio, la sapienza, la potenza, la giustizia più eccelsa, ma perché tutto ciò sia nascosto, affinché io non veda, non senta, non tocchi. Tutti i giorni ascoltiamo queste cose e ci illudiamo che siano facili; noi ne siamo capaci durante l’ascolto, ma quando si tratta di tentare e di esercitarle nel nostro cuore, allora la nostra arte vien meno». «Che il tuo cuore dica soltanto: tu hai fatto questo e questo, tu sei un peccatore. Allora si ritroveranno assie­ me il peccato, la morte, la legge e l’inferno. Dov’è qui la tua arte?» (Sermone per la xvn domenica dopo la Trinità, Torgau 1551). Tutti i discepoli hanno tradito il crocifisso: nel giorno di Pasqua «essi stanno seduti tutti assieme nel centro dell’inferno, con la loro cattiva coscienza e il terrore... Allora viene in mezzo ad essi il Signore diletto con la sua Parola, come se venisse nell’inferno, e dice loro: voi siete miei fratelli!... Tutto ciò non può essere com­ preso dentro il nostro cuore» (Sermone per il mercoledì di Pasqua, Wittenberg 1531). Nessuna rima, nessun’arte, nessuna comprensione. Ogni forma che l’uomo costruisce a partire dalla rivelazione per domi­ narla e comprenderla— e proprio questo presuppone il bello— deve naufragare nel «contrario», nel nascondimento di tutto ciò che è divino nel suo opposto, e nel nascondimento quindi di ogni misura e di ogni analogia tra Dio e l’uomo nella dialettica. Questa dia­ lettica si trova posta di fronte ad un ultima decisione: o la si intende come un’emanazione dell’esuberanza dell’amore sponsale del vangelo che, nella «beata disperazione» della fede che tutto 38

La disestetizzazione protestante della teologia dona, consegna ogni arte umana all’unica arte divina la quale così— sub contrario!— è capace di compiere ciò che l’uomo (sia sub recto che sub contrario) tenta invano di raggiungere (così l’aveva intesa Ricccardo di san Vittore, quando parlava della visione ultima come di qualcosa che «contraddice qualsiasi ragione umana»— Be­ njamin Major 4,8— ed affermava che i misteri di Dio in sé e nel­ l’incarnazione «non soltanto superano l’angusta limitatezza dell’uma­ no sofisticare, ma la spingono alla follia», ivi 4,18); oppure que­ sta dialettica viene separata dal mistero dell’amore, nel quale giace, per trasformarsi in negazione, in fredda protesta metodologica e portarsi quindi addosso un segno indelebile come quello di Caino e che fa dell’evangelismo un protestantesimo radicale. La negazione, dall’esortazione e dall’avvertimento intesi come correctio fraterna, precipita nel rifiuto radicale (scisma) e la maledizione continua di questa negazione sarà che i vari protestantesimi, che ne seguiranno e si alterneranno, non saranno quasi più capaci di ritrovare l’intui­ zione originale di Lutero (il filo della tradizione è infatti radical­ mente interrotto) e— giacché la dialettica si è trasformata nel ma­ neggio di un metodo— oscilleranno tra due estremi inconciliabili. Per la questione che ci occupa, ciò sta a significare l’aut-aut tra la paradossale estetizzazione della teologia e la disestetizzazione radicale, che sfocierà poi, per conseguenza logica, in una nuova tem­ pesta iconoclasta. Dis-estetizzazione che è tipica dell’atteggiamento sempre polemico della vecchia ortodossia protestante contro tutte le forme esteriori ed esteriorizzanti della religione— dalla justitia mere imputativa di Melantone fino alla condanna di tutti i «recipienti» e le «forme» umane della grazia nella liturgia e nella pratica— a favore di una pura «interiorità» della fede; interiorità alla quale tuttavia viene contrapposta in qualche modo l’opera della reden­ zione alla guisa di un’immagine che come tale deve essere consi­ derata e compresa: in una «sistematica dialettica» del Dio che si manifesta nel nulla e nel contrario e che possiede quindi in sé il suo nulla e il suo opposto, così come appare (per un abuso della tradizione mistica) in Jakob Bohme, in Schelling ed Hegel. Inav­ vertitamente il protestantesimo rigenera la vecchia teoria del neoplatonismo che, con una visione estetica d’insieme, giustifica in Dio stesso le contraddizioni ultime, cristianamente sublimate in cielo ed inferno. Quale meraviglia quindi se prima Hamann e dopo Kier­ kegaard intimino qui ancora una volta alt! e rifacendosi a Lutero V)

Introduzione (e Hamann consapevolmente ai Padri della chiesa) rifiutino nel do­ minio della fede un’estetica siffatta! Quando Hamann alla ragione estetizzante dell’illuminismo contrappone la sua sobria formula lu­ terana: «Mettiamoci adesso in ascolto della somma dell’ultima este­ tica, che è anche la più antica: abbiate timore di Dio e dategli onore perché il tempo del suo giudizio è venuto, e pregatelo, lui che ha fatto cielo e terra e le fontane delle acque», di fatti egli racchiude in questa formula la sua Aesthetica in nuce, mediante la quale (egli solo nel mondo protestante) ritrova un sentiero segreto verso la teologia patristica dello sposalizio tra Dio e il mondo K Il suo sentiero all’indietro non fu tuttavia più ripercorso e la sua indicazione non fu compresa da tutto l’idealismo tedesco, che invece preferì seguire la via del suo discepolo infedele Herder, attraverso Schleiermacher, fino ad Hegel. A questo punto del tempo, ormai così esasperato, Kierkegaard non è più in grado— contro la sua stessa intenzione originale e più profonda (nel n vo­ lume di Aut-Aut)— di operare l’incontro tra religione ed estetica. Egli è così costretto a definire e circoscrivere, mediante il termine «estetico», un atteggiamento fondamentale dell’esistenza che è cri­ stianamente intollerabile. L ’«armonia» originariamente intesa, l’«equilibrio» della dimensione estetica e di quella etica, cede il passo negli Stadi sul cammino della vita ad una successione inesorabile che separa l’«apostolo» ed il «martire della verità» dal «genio» e cancella dalla teologia tutte le tracce di un atteggiamento estetico. L ’entusiasmo che vibra in Kierkegaard viene impiegato a far mag­ giormente risaltare la distanza, il totalmente-altro dell’agape di Cri­ sto e di coloro che si mettono alla sua sequela, rispetto all’eros uma­ no, e a sciupare, per così dire, dall’interno, il valore della dimen­ sione estetica per l’uomo (cfr i Discorsi sull’amore). Come teologo Kierkegaard ha pronunciato già in anticipo il giudizio sul predominio rinnovato del momento estetico nella teologia liberale del xix e del xx secolo, dipendente da Schleierma­ cher ed Hegel. Era inoltre il tempo in cui, per la prima volta nella storia dello spirito, il momento estetico acquisì valore proprio, for­ temente distinto dal momento logico e da quello etico e venne da alcuni proclamato, in questa sua esasperazione, come supremo va1 Cfr a questo proposito lo studio su Hamann contenuto nel volume ir della nostra opera e, provvisoriamente, il nostro contributo dal tito'o: «Hamanns thcologisclie Àsthctik», in Fcstschrijt Alois Dcmpf.

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La disestetizzazione protestante della teologia lore ideologico; dopo gli accenni riscontrabili in Schiller, Schelling, Goethe, nel primo romanticismo tedesco e nel romanticismo clas­ sico inglese, ciò avviene per la prima volta in Schopenhauer, quindi in Fr Th Vischer, nell’hegeliano Schasler, sotto certi riguardi in J Burckhardt e nei fratelli nemici Strauss e Nietzsche. Questo isolamento della dimensione estetica (a differenza del suo inserimento totale nell’uno, nel vero e nel bene, presso i greci e la teologia più antica) dev’essere sempre tenuto presente se ci si vuole rendere conto della sua proscrizione dal campo della teologia ad opera di Kierkegaard e della teologia recente, sia catto­ lica che protestante, da lui dipendente. In Francia assistiamo allo stesso spettacolo, quando ad esempio un Léon Bloy, in reazione al cattolicesimo estetico sia di Barbey d ’Aurevilly che di Huysmans, esplode nella crudezza di uno stile capace di far abbassare le ma­ schere e Maurice Blondel, nella sua prima Action (1891), senza conoscere Kierkegaard, prende quale punto di partenza della sua riflessione, come contraddizione intrinseca per eccellenza, l’atteggia­ mento estetico della vita, per farlo arrivare, in maniera autentica­ mente kierkegaardiana, alla «opzione» religiosa, anzi espressamente cristiana, fondamento e giustificazione di ogni pensiero. La conce­ zione psicoanalitica del mondo esaspera ancora di più la situazione spirituale quando, ad esempio, interpreta la filosofia religiosa di Kierkegaard come proiezione sovrastrutturale di un atteggiamento estetico fondamentale non dominato, così come con diverse sfuma­ ture fanno Thust, Walter Rehm, Adorno. Per quanto riguarda il nostro problema questo sta a significare che, o la dimensione reli­ giosa viene considerata una protuberanza ideologica di quella este­ tica (unita alla «angoscia», che si dice ne sia inseparabile), oppure si contrappone il momento estetico a quello religioso. Ciò che qui risulta decisivo, nella sequela cosciente o meno di Kierkegaard, è l’opposizione che si vuole cogliere tra i due regni. Ed accade così che la penna dei teologi, sia cattolici che protestanti, fissa quasi spontaneamente con il termine «estetico» l’atteggiamento che è ca­ ratterizzato da una propensione puramente contemplativa, poco se­ ria e attenta unicamente all’aspetto consolatorio della fede. Inversa­ mente, per coloro i quali propugnano una visione estetica del mondo è la dimensione etico-religiosa, anzi quella cristiano-positiva, che falsa o distrugge addirittura l’atteggiamento autentico. Le categorie di Kierkegaard sono quelle dell’interiorità, del­ la soggettività religiosa, contrapposta, in maniera consapevolmente

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Introduzione antitetica, allo spirito oggettivo di Hegel. Anche se questa contrap­ posizione non è adeguata del tutto, giacché di fatto lo spirito di Hegel abbraccia in sé molti degli elementi kierkegaardiani e ne potrebbe comprendere ancora di più in linea di diritto, e poiché d ’altra parte sia all’uno che all’altro è comune il prendere le mosse dallo spirito e quindi la necessaria conclusione verso una posizione antidogmatica— tuttavia resta vero che, da una parte, è sulle tracce di Hegel che si muove qualsiasi interpretazione del cristianesimo volta a collocarlo, come «processo» oggettivo della storia, nella tra­ ma delle direzioni storico-culturali dello spirito; mentre, dall’altra parte, è ancorato alla posizione di Kierkegaard ogni tentativo di centrare, in opposizione all’altra corrente, nella decisione dell’atto di fede, il cristianesimo visto come processo dell’interiorità perso­ nale. L ’eredità speculativa di Hegel nel secolo xix e xx ha incon­ trato un duplice destino; la speculazione storica era costretta a ce­ dere continuamente il passo alla ricerca cosiddetta esatta della sto­ ria che oggi, con i suoi annessi filologici, archeologici, storico-culturali, costituisce la maggior parte degli studi biblici; dall’altra parte essa dovette anche, ed in maniera precipitosa, soccombere all’irru­ zione di Kierkegaard alla fine della prima guerra mondiale, irru­ zione che coincideva con quella di Karl Barth e della corrente per­ sonalistica che si raccoglieva attorno ai nomi di Scheler, E Brunner e Martin Buber. Parleremo ancora in seguito dello scientismo biblico. È chiaro però che non era questo scientismo e non è nemmeno ancora esso che può essere capace di reintrodurre nella teologia la dimensione perduta dell’estetica. La nuova ondata kierkegaardiana esercitò variamente il proprio influsso, all’interno della teologia, in senso antiestetico. Ad esempio in Brunner, il quale praticamente sviluppa lo schema polemico dell’opposizione kierkegaardiana in una opposizione metodologico-teologica tra «misticismo» contemplativo e fede biblico-profetica nella Parola (Die Mystik und das Wort); opposizione che, al contrario di ciò che avviene per la crestomazia della preghiera compilata da Heiler il quale lascia sussistere tipolo­ gicamente l’una accanto all’altra ambedue le forme, si converte in­ vece in una decisa contrapposizione: teologia cattolica e schleiermacheriana da una parte e teologia autenticamente protestante dall’al­ tra parte. Soprattutto però questo influsso antiestetico si fa sentire in Bultmann nel quale lo scientismo biblico distrugge ogni forma oggettivamente fondata e storicamente visibile della rivelazione e viene operato il ritorno nella interiorità assoluta e senza forma dcl42

La disestetizzazione protestante della teologia l’atto di fede, nel pro-me esistentivo della morte e della risurre­ zione del Signore. Ogni riga di Bultmann testimonia chiaramente della serietà di questo sconvolgimento soggettivo, nel senso di un essere afferrati da Cristo; si tratta però di una serietà, nella sua as­ senza di forma e di immagine, piena di angoscia: un vero e proprio vicolo cieco del protestantesimo. Qui occorre riconoscere a Karl Barth il merito di avere, unico nell’imperversare del tifone, saputo raddrizzare decisamente il timone. Superando l’aut-aut tra Hegel e Kierkegaard egli ha pro­ mosso (a partire da Hegel) una dogmatica oggettivamente normata ed anche formata che tuttavia ha il suo contenuto (a partire da Kierkegaard) nel rapporto reciproco, originato dalla fede, tra il Dio creatore e salvatore da una parte e l’uomo, disvolto da lui e a lui rivolto, dall’altra, rapporto mediato in Gesù Cristo, Dio fattosi uomo. Certo, Barth rimane nemico di qualsiasi istituzionalismo, per cui la forma da lui data alla dogmatica non è mai riuscita a radicarsi, effettivamente e adialetticamente, nella visibilità eccle­ siale. Questa forma è rimasta attualistica ed energetica; tuttavia essa è intesa e rappresentata come forma autentica dell’atto ogget­ tivo della rivelazione di Dio ed è proprio questo che permette a Barth, anzi lo costringe, alla fine della sua esposizione delle perfe­ zioni di Dio, per la prima volta nella storia della teologia prote­ stante, ad attribuire nuovamente a Dio il titolo della bellezza. Oc­ corre notare che Barth, in opposizione al concetto kierkegaardiano dell’estetica, riguadagna il contenuto della «bellezza» in maniera puramente teologica, a partire dalla considerazione dei dati biblici, in particolare della «gloria» di Dio, alla cui comprensione gli sem­ bra indispensabile la «bellezza» come «concetto ausiliare». Proprio a partire da una considerazione che è «contemplazione». Infatti, «potrebbe essere conoscenza, potrebbe essere rivela­ zione, ciò che in ultima analisi non rimane che puro oggetto— og­ getto senza forma?— ». Non occorre piuttosto prendere atto che c’è qualcosa di più che il factum brutum della gloria di Dio nella sua rivelazione e non è necessario quindi chiedersi «in qual misura, nella sua automanifestazione, la luce di Dio è luce, e quindi illu­ minante? In che misura Dio, mentre è presente a se stesso e agli altri, trasporta e convince?» (Dogmatik n /l,7 3 2 s). Questo è il punto esatto nel quale Barth, abbandonando una concezione melantoniana della nuda pistis, perviene ad una gnosis inerente alla fede stessa, costitutiva della sua intrinseca dimensione spirituale, e può 43

Introduzione così affermare che Dio è bello, «bello in una maniera propria a lui e soltanto a lui, bello come la bellezza originaria e irraggiungi­ bile, ma... proprio per questo non già soltanto come un fatto, non già soltanto come una forza, ma piuttosto: come fatto e forza che egli impone alla sua maniera, come colui che suscita il diletto, crea il desiderio e ricompensa con il godimento... come il Dio che è degno di essere amato». Barth è perfettamente consapevole di ri­ farsi qui alla «tradizione della chiesa anteriore alla riforma»; egli cita le Confessioni di Agostino e l’Areopagita e deplora che la «riforma e l’ortodossia protestante non abbiano colto affatto» que­ sto concetto e che «persino Schleiermacher, dal quale ci si aspette­ rebbe qualcosa di corrispondente, non ha tuttavia a questo riguardo niente di particolare interesse». Ma, né il fatto che la dogmatica cattolica recente prende nuovamente sul serio questo concetto, né viceversa il fatto che la teologia liberale ne fa un abuso, impedisce a Barth, anche se con una circospezione e una prudenza chiaramente percepibili, di rein­ trodurlo. «Occorrerebbe cancellare troppe cose, affermate nella bib­ bia in maniera inequivocabile, qualora si volesse assolutamente ne­ gare, in forza di una qualsivoglia concezione superpuritana e severa del peccato, la legittimità di questo concetto». E se, in Dio e nella sua gloria, si danno gioia, piacere e diletto e «non soltanto timore, gratitudine, ammirazione, soggezione», «se, proprio ciò che ci rapi­ sce alla gioia in lui e questo essere rapiti alla gioia, sono la forma inseparabile della sua gloria», in che modo si può rinunciare al concetto del bello? «Quando si pensa e si parla in maniera diversa, allora, con la migliore volontà di questo mondo, con tutta la serietà possibile e lo zelo necessario, l’annuncio della sua gloria sarà qual­ cosa di leggermente, ma forse proprio per questo più pericoloso, senza gioia, senza splendore, senza humor, per non dire noioso ed alla fin fine privo di qualsiasi forma di convinzione. Si tratta della questione della forma», ma «qualora non viene prestata attenzione a questa gioia che si irradia dal vangelo, dove resterebbe allora— tanto è importante questa questione di forma!— l’evangelico nel vangelo?» (ivi 139). Nella rivelazione è tuttavia impossibile scindere la forma dal contenuto e così Barth dimostra infine la bellezza della teologia che egli, a partire dal suo oggetto, chiama «la più bella fra le scienze» e si richiama, per questa affermazione, ad Anseimo ed alla bellezza dei contenuti teologici: 1) Alla contemplazione del-

La disestetizzazione protestante della teologia l ’essenza di Dio, dove, in una «estasi irresistibile, bisogna prendere atto che anche la forma, la maniera e il modo in cui Dio è per­ fetto, sono perfetti, sono cioè la forma perfetta»; questa forma è infatti «quella meravigliosa, sempre misteriosa e tuttavia sempre nuovamente chiara in se stessa, unità di identità e non identità, di semplicità e molteplicità, di interiorità ed esteriorità, di Dio stesso e della pienezza di ciò che egli, in quanto Dio, è». 2) Alla contempla­ zione della Trinità, nella quale si adempie in pienezza la legge hege­ liana della bellezza e della verità, come identità di identità e non identità, di «movimento e di quiete»; e questo è, «in senso stretto, ciò che rende illuminante, convincente e seducente la forza e la dignità di Dio». Si neghi pure la Trinità, ma allora si ha subito «un Dio brutto, senza splendore e senza gioia (ed anche senza humorl)». 3) Infine all’incarnazione, preparata nel fatto che l’eter­ no Figlio, come immagine del Padre, già «all’interno della Trinità rappresenta in modo particolare proprio la bellezza di D io», por­ tata a compimento nel fatto che egli, come vero uomo, concretizza questa immagine e assume in questa immagine l’uomo creato, «in uno scambio ed in una comunicazione del luogo e dei predicati» tra redentore e redenti. «Non già nella tensione, nella dialettica, nel paradosso e nella contraddizione— non è Dio, ma i difetti del nostro pensiero su Dio, che fanno in modo che noi ce ne facciamo una rappresentazione siffatta— », bensì nella realtà del calcedoniano «in maniera inconfusa e immutata, ma anche indivisa e inseparata» (ivi 741/749). Ma con ciò è detta anche l’ultima cosa e cioè che Dio, nella unità del suo abbassamento e della sua esaltazione stessa, porta con sé la forma e la bellezza propria, cosicché il detto di Isaia, «non aveva né forma né bellezza» è proprio il luogo dove risplende la bellezza specifica di Dio: «Si cerchi pure la bellezza di Cristo in una gloria di Cristo che non sia quella del Crocifisso: la si cercherà invano». «In questa automanifestazione, la bellezza di Dio abbrac­ cia sia la morte che la vita, sia la paura che la gioia, ciò che noi vorremmo chiamare odioso e ciò che noi vorremmo chiamare bello» (ivi 750). La dogmatica di Barth sta a significare, anche in questo punto, una rottura decisiva ed un richiamo che, nel suo rifarsi alla teologia anteriore alla riforma, rimane degno di fiducia per il fatto di ritenere quegli elementi soltanto del pensiero scolastico-patristico, che si possono giustificare a partire dalla rivelazione e sfuggono quindi al sospetto di platonismo indebito. Tuttavia occorre tener 45

Introduzione presente che i lineamenti offerti da Barth per una autentica estetica teologica, si trovano in un disagio consapevole nell’ambiente della teologia protestante e che Barth stesso, aH’interno della sua teo­ logia, è costretto ad una forte potatura del suo attualismo per la­ sciare spazio libero ad una forma autenticamente oggettiva. Inoltre era forse necessario far spegnere la risonanza della prima fase del pensiero barthiano, nel quale la forma interna era quella calvinista e luterana, basata sul discorso volto all’urto im­ provviso e allo scandalo, e aspettare la seconda fase che acquistò invece come sua forma interna la contemplazione tranquilla e at­ tenta (theorìa) della rivelazione in se stessa e la quale inoltre, di volume in volume, abbandona sempre più la polemica e si concen­ tra sull’affermazione positiva. Se Barth riesce così a rendere piena­ mente ragione dell’intenzione profonda di Lutero, se egli possa con 10 stesso diritto di Lutero far sfociare il suo trattato sulla bel­ lezza di Dio in una evocazione del Cantico dei Cantici, sono que­ stioni che possono anche essere lasciate aperte. Più importante è invece costatare come egli, con la sua contemplazione della rivela­ zione oggettiva non abbia, almeno fino adesso, condizionato in maniera veramente determinante l’ambiente protestante che resta ancora, e lo sarà per molto, legato al dualismo bultmanniano teso tra il criticismo e l’interiorità esistentiva priva di immagini. Qui 11 bello non viene considerato una categoria teologica e si resta piuttosto prigionieri, almeno fino adesso, della problematica, non arbitraria ma soltanto insufficiente, tra la rivelazione ed il beliti intramondano. È a questa problematica che dà una risposta origi­ nale un’importante voce del protestantesimo.

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UN’ ESTETICA TEOLOGICA PROTESTANTE

Il punto di partenza di Lutero, per quanto vicino alla Scrit­ tura nella sua origine, era attualistico e quindi essenzialmente anticontemplativo. Egli voleva penetrare nel cuore dell’avvenimento della redenzione, nell’evento stesso mediante il quale il redentore si carica della nostra colpa, scendendo fin nel cuore del peccato, nell’inferno dell’abbandono di Dio. L ’avvenimento incomprensibile per cui egli si carica del nostro peccato, l’istante del trasferimento della colpa, poteva essere espresso paradossalmente solo nella for­ mula simul justus et peccator. Questo evento non poteva e non doveva acquistare consistenza o estensione; il nascondimento sub contraria specie, «sotto una forma che contraddice al nostro inten­ dimento e al nostro pensiero» (Lezioni sull’Epistola ai Romani del 1515/16, ad 8,26) fa diventare Dio, anche laddove egli è miseri­ cordioso, in quel Dio nascosto che poi viene radicalizzato, ad opera di Calvino, nel Dio della doppia predestinazione, nel Dio del quale è radicalmente impossibile che si dia immagine o rappresentazione; a meno che non si voglia ipostatizzare la coscienza d’elezione de] predestinato per farne un’immagine (unica) nella quale in qualche modo si possa trovare uno stato di quiete «contemplativa». Ma ciò è contraddittorio ed estraneo (come ha dimostrato in maniera con­ vincente Karl Barth) a tutta la rivelazione biblica. Non rimane quindi che il luterano exaiphnés, Pavvenimento-lampo che esclude qualsiasi visione contemplativa. È stato quindi frutto di coerenza intrinseca se il protestantesimo ha escluso dal canone (anche se in maniera non sufficientemente radicale) i libri propriamente contem­ pi7

Introduzione piativi ed estetici della Scrittura e se ha preferito tra gli altri quelli particolarmente attualistici (come la Lettera ai Galati e ai Romani), mentre la contemplazione paolina delle lettere della cattività è rimasta sempre in qualche modo sotto il sospetto della non auten­ ticità. La theologia crucis, la teologia della misericordia di Dio sotto la «forma estranea» del giudizio meno misericordioso che si possa immaginare, doveva quindi apparire come l’unica ammissibile per quest’epoca della storia salvifica, mentre la theologia gloriae venne identificata, in maniera troppo affrettata, alla teologia dell’epoca futura della salvezza e della visione che la contraddistingue: come se il concetto di doxa (kabód, gloria) non costituisse già un con­ cetto chiave di questa epoca, sia nell’economia veterotestamentaria che in quella neotestamentaria. «Risplende la vita interiore del cri­ stiano», canta però anche la comunità luterana e la doxa ostracizzata si apre una strada imponente nel pietismo e nell’idealismo (si pensi al Fichte della maturità). Nel nostro tempo è stato Gerhard Nebel a intraprendere, nella sua opera poderosa Das Ereignis des Schonen 1 (L ’evento del bello), il tentativo di scrivere un’estetica protestante originaria, nella speranza che il concetto dello «evento... possa giuocare in una onto­ logia biblico-riformata... lo stesso ruolo giuocato dal concetto di so­ stanza nella metafisica aristotelico-tomista» (17). « Il bello esige dal­ l’uomo l’incontro... l’estetico diventa bello non appena l’oggetto arde nella fiamma dell’evento. Essere bello è quindi l’atto in cui il bello si offre in sacrificio ad un altro più eccelso» (19). Per i greci il bello era la presenza di Dio, non già come «presenza riposante», giacché la sua epifania era sempre «irruzione, rottura, percossa, trasformazione». Può quindi essere arrischiata l’affermazione secondo cui « l’Ellade stava sotto lo stesso Dio al quale noi sottostiamo, sotto la stessa ira, anche se forse non sotto la stessa grazia... Pro­ prio perché il Dio uno e trino era anche il Dio degli elleni, noi siamo in grado di comprendere la tragedia, il tempio e la filosofia greca; ed è per lo stesso motivo che non siamo capaci di spegnere 1 Klett 1953. Il tentativo di Nebel non è isolato, ma deve essere visto nel contesto della grande opera di Walter Otto la cui matura arte dell’inter­ pretazione della cultura ellenica, e del mito in genere, ha superato la situazione polemica (Grecia contro Cristo) stabilita a partire da Heyse, Schiller, Goethe, Hòlderlin della fase intermedia, Nietzsche, F G Jiinger ecc, senza tuttavia ca­ dere in sintesi di tipo hegeliano. Viene così rivalutato lo Schelling della fase finale.

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Un’estetica teologica protestante in noi la nostalgia dell’arte greca, quando ci richiamiamo alla di­ versità di D io» (22). Ciò che Nebel, nel corso del suo studio, de­ scrive come «analogia dell’evento», espressamente contrapposta ad una analogia «statica dell’essere», come possibilità quindi che il Dio vero della grazia possa apparire nella sua libertà anche attra­ verso l’autentica evenienzialità del bello, contiene, per la teologia e l’estetica, la stessa (analoga) intrinseca protesta contro la possi­ bile trasformazione, sia dell’una che dell’altra, in scienza e in teoria. Anche l’analogia non può essere maneggiata a piacere; non si dà né il principio che «Jahwe si manifesta nel bello», né l’altro che «Apollo può conservare e sanare» (31). Il bello non può mai, a partire da se stesso, essere un ponte portante; esso infatti appar­ tiene per se stesso, come tutto il resto, al regno dell’ira; ma ciò significa a sua volta che esso non può autarchicamente offrire, a se stesso e all’uomo, un mondo chiuso nel quale la sua inquietudine possa trasformarsi in pace (33). Il mito, che appartiene al bello, apre l’accesso al regno delle «potenze», tra le quali solo a partire da Dio può essere tracciata la distinzione tra quelle che devono essere identificate con «il principe di questo mondo» e quelle che invece sono trasparenti al «vincitore del mondo»; il mito spalanca quindi il regno delle potenze: questo equivale a dire che apre l ’accesso al regno dell’«essere» che, per i greci come per Heidegger, è permeato della potenza divina; e tuttavia anch’esso si trova nella stessa ambivalente possibilità di essere trasparenza del Dio vivente o sua sfiguratissima contraffazione idolatrica. La bellezza autentica è però sempre «favore»: «Colui il quale fa dell’uomo l’autore originario del bello... è preso nel giro vorticoso della larga corrente del titanismo... Si dimentica che egli può essere libero solo quando serve e riceve favori» (48). L ’interpretazione del bello va solo verso l’alto, nell’evento divino e deiforme; chi invece resta impigliato nel basso, coglie il bello solo nella sua «decadenza» este­ tica. La «polarità» di forma e materia, di forma e contenuto ci esilia infatti unicamente nel dominio dell’artigiano. Ora è proprio «a proposito del modello dell’artigiano che Aristotele sviluppa il suo concetto; forma e materia si sono però già dileguate, perché chi si occupa di esse cade nella noia della metafisica della sostan­ za» (53) e, dal punto di vista estetico, in quella del canone este­ tico: «arte— m useo-ellenism o». Invece è nel mito tragico, nella lotta degli dèi— da Troia e Tebe fino a Worms!— e persino nella forma senza mito dell’essere tragico dell’uomo, che ha la sua 49

Introduzione patria il bello. Esso potrà anche prender la fuga e volatilizzarsi in un mistico «tutto e nulla», diventare «infinità astratta» e affasci­ nare l’esteta sotto la forma della «religione»: la «pace» che viene qui tuttavia raggiunta è solo accomodamento e non già «vittoria». L ’aspetto agonale della grecità appartiene alla forma mondana della bellezza. E tuttavia, al tempo stesso, vale che «il bello porta in avanti il sottofondo di pace del cosmo» (79) e che può essere la sua epifania divina senza che per ciò stesso questa pace sia attual­ mente donata. Ma perché Cristo non doveva «condiscendere a por­ tare le maschere mitiche e tra queste anche quella del bello»? «La linfa del mito trae la sua scaturigine da questo super-mito» e qui «è già decisa la possibilità di un’arte cristiana; soltanto perché il Dio mitico è più che se stesso, il bello può servire a Cristo... Ap­ partiene proprio alla pienezza del bello di essere più che bello» (82/ 83). Riguardo alla coscienza di colpa, erompente nella tragedia greca, Nebel dice— per altro nello stesso senso di Hamann— «che Apollo può diventare maschera di Jahw e»: «riconosciuto questo, è impossibile evitare di porre in modo nuovo la questione sulla teo­ logia naturale, o meglio sulla teologia della creazione» (110/111). Perché il bello è «quiete e tristezza degli dèi» (Rehm)? Proprio perché nella quiete beata dell’Olimpo alita la tristezza di non es­ sere mortali, di non essere umani, perché nel bello non solo l’uomo si trasfigura negli dèi, ma anche gli dèi— in uno scambio misterioso, descritto dalla Diotima platonica nel Simposio— hanno bisogno dell’uomo. « L ’uomo è l’umore di Dio e quest’umore è cer­ tamente, non soltanto giubilo, ma anche angoscia della fine, tri­ stezza della caducità» (114). Quando il cerchio si chiude in se stesso, allora il bello diventa autarchico e si trasforma in un’autodivinizzazione demoniaca della creatura, anzi nella «manifestazione del Dio di questo mondo» (128). Se invece il cerchio si mantiene aperto, come nell’epoca dell’arte cristiana, allora esso può servire alla manifestazione di quel Dio vivente che è disceso come salvatore, per rendere l’uomo partecipe della sua natura divina. In Israele l’arte non ha successo, la «architettura» è «se­ gno di una ferita nel rapporto con D io» ed il tempio diventa su­ bito santuario degli idoli. Tuttavia c’è stato anche l’angelo di Jahwe: incarnazione anticipata, «purissimo evento di fuoco ardente, portatore o annunciatore sempre di quanto c’è di estremo, atterratore dell’uomo interpellato». Certo, a differenza dell’epifania greca, Jahwe non è costretto a manifestarsi per necessità di natura; c 50

Un’estetica teologica protestante questa libertà si esprime nella proibizione delle immagini. Attorno a Jahwe rimane l’oscurità. E l’eroe Sansone è il distruttore delle «colonne» mitiche: notte dell’oriente contro luce dell’occidente (129/134). Certo, la bibbia contiene «poesia altissima» di un pu­ rissimo lirismo e di un’estrema forza mitico-epica. Ma chi in essa cerca e trova poesia manca, proprio per questo, all’incontro con la parola di Dio. «Tuttavia!» (137). C ’è la gloria della creazione e del paradiso e qualcosa di essa irrompe sempre nuovamente nella rivelazione storica. «Regna, tra i colpiti da Apollo e i colpiti da Jahwe, una lontana somiglianza, ma è una somiglianza quale quella che si incontra nei rappresentanti prudenti della analogia entis: ciò che è comune a Dio e all’uomo è tanto piccolo, quanto c’è di diverso è invece così potente, che si colma lo iato tra il tomismo e la teologia dei riformatori» (139). Nel capitolo «Analogia pulchri» viene lanciato il sottile ponte. Niente analogia entis, nemmeno adesso che l ’«essere» è diventato, «come amitico resto del mito in avanti», una insostituibile parola magica. Persino quando si evi­ tano «le banalità scolastiche dell’ens formale» e l’essere viene in­ teso come pienezza, come «Dio che si diffonde in epifanie», come «potenza diveniente incessantemente evento, come infinito che si finitizza e si riprende nel finito— anche in questo caso oggi così raro— l’essere dell’essere è altrettanto non essere che essere, a condizione però di giudicarlo a partire dalla fede cristiana»2. Biso­ gna però, proprio per questo motivo, sottoscrivere senza riserve l’affermazione seguente di Nebel: « L ’essere non è origine, ma ori­ ginato, non divino, ma creaturale, non santo, ma ferito... Qualora quest’essere pieno, che abbraccia l’evento e la forma, fosse un essere intatto, Israele sarebbe una menzogna; e se non fosse nudo non essere, allora l ’Ellade sarebbe una frode dalla quale non varrebbe la pena prendere notizie» (146). Per quanto qui si tenti di recu­ perare accuratamente e senza «contaminazioni inammissibili», tut­ tavia è forse troppo brusco concludere, dalla connessione di essere e non essere nell’essere, al suo essere «creatura»; lo stesso Tom­ maso d’Aquino non troverebbe così facile una siffatta conclusione. Le creature, in quanto sono in quest’essere, che ha origine da Dio, che rende idonei alla partecipazione dell’essere assoluto di Dio, sono anche il luogo, da non dimenticare e da non saltare mai, 2

Si noti che Gustav Siewerth nelle sue ultime opere soddisfa piena­

m e n t e questa condizione. Lo stesso dicasi di Ferdinand Ulrich.

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Introduzione della sua (nascosta) rivelabilità. Presupposto ciò, riceve una sua ragione più profonda l’affermazione di Nebel: « Il demone del bello deve essere rapportato al Dio uno e trino, deve essere fondato nella bibbia. Noi non possiamo sfuggire a questo fatto rifugiandoci nei ben noti pretesti, tirati fuori dal cassetto al momento oppor­ tuno, e dire ad esempio che la filosofia e la teologia sono due cose differenti, che Dio, in quanto afferrabile soltanto nella fede, rientra nella trattazione teologica, mentre l’essere, raggiungibile nella fa­ tica del pensiero, rientra in quella filosofica... Se bisogna prendere le cose sul serio, allora bisogna dire che la verità è una così come Dio è uno e Adamo è uno» (148). Bisogna fare spazio quindi al demone del bello che irrompe nell’evento. Ma cos’è questo demone? «Con l’interiorità dell’uomo e con l’esteriorità del Dio creatore e misericordioso, la realtà non è ancora esaurita. E questo vale non solo per il mito, ma anche per la bibbia. I fenomeni ci obbligano a stabilire un regno inter­ medio al quale appartiene il demone del bello e che da secoli viene defraudato del proprio territorio, schiacciato da tutti i lati e persino negato. La storia del mondo moderno è, per lo meno nella stessa misura della scristianizzazione della sfera pubblica, distruzione e rifiuto di questo regno intermedio del demone». «L a gelosia di Jahwe e la storia di Israele sarebbero impensabili se i Baalim fos­ sero puri fantasmi». Cosa sarebbero la lotta di Elia, la cacciata dei demoni da parte di Gesù e l’affermazione paolina sulla concretezza delle forze cosmiche, se tutto dovesse ridursi ad immaginazione soggettiva! E non bisogna collocare anche nel mondo demoniaco « l’angelo incredibile di Rilke»? Evitando quei casi nei quali il demone ed il demone cri­ stiano vengono identificati (casi nei quali non di rado sono caduti, a causa della loro situazione polemica, i Padri della chiesa), Nebel vede che nel bello, sia della natura che dell’arte, ogni volta viene sollevata «la pretesa alla totalità»; anzi, nel bello è ogni volta svelata la totalità dell’essere: il tutto, ma come l’opera buona, l’opera migliore di Dio. «E d egli vide che era buono. Compiacenza gloriosa di Dio per l’opera delle sue mani: non è proprio il bello quel modus della creazione che suscita sempre l’autocompiacenza divina? Non è la bellezza del bello ciò per cui, nella creatura, Dio acclama se stesso? Non doveva ripetersi in noi, nell’evento del bello, questo sì divino, ... senza che siano per nulla soppresse la corruzione del nostro essere e la nostra necessaria dipendenza dal­ 52

Un’estetica teologica protestante l ’opera redentrice di Cristo?... Non è ogni incontro con il bello... un sì, donato o strappato a noi, alla creazione?». E poi, in maniera rigorosamente e perfettamente luterana: « L ’uomo penetra così, similmente che in ogni manifestazione del­ l’amore, nella situazione di Dio, ma non solo in quella della crea­ zione, bensì anche in quella dell’applauso, ed anche in questa non già mediante la propria prestazione, ma per dono... L ’uomo testi­ monia nell’opera d ’arte l’esperienza a lui concessa della riuscita della creazione. L ’opera d ’arte non è assolutamente... essa stessa creazione riuscita e sana; essa non è al di là del luogo in cui ogni creatura cade; ma essa ricorda la purezza dell’oro della creazione, l’applauso di Dio per se stesso». E la «creazione» è qui «intesa come atto e risultato dell’atto»: quindi come evento nel risultato. Per riuscita della creazione Nebel non intende la struttura finale, ad esempio il significativo ordinamento della natura tutta all’uomo, ma qualcosa di più profondo: qualcosa come lo «stupore» di Dio e la «meraviglia per la potenza dell’essere, per la densità tesa e raccolta in se stessa, per la sicurezza quasi sorridente proprio di ciò che era ancora niente. Si potrebbe quasi dire che il bello promana dalla forza divina superiore alla misura richiesta, che esso è sovrab­ bondanza ed effusione. Noi però non possiamo supporre che Dio chiami all’essere qualcosa di diverso che la sua gioia. Nella crea­ tura penetra qualcosa della gloria di D io» (149/156). Tutto ciò che resta ancora da dire non può più cancellare queste affermazioni fondamentali. Certo, Dio «si pente» della sua creazione e questo «pentimento» rimane impresso come un carat­ tere nel mondo. La gloria è paradisiaca e il paradiso è perduto; c’è la speranza escatologica nei cieli nuovi e nella terra nuova; il bello demoniaco vuole però l’istante, lo vuole come istante eterno ed è perciò riluttante alla bellezza della fede che è solo protologica o escatologica. Si tratta però soltanto di un’opposizione, o resta anche vero che «a differenza della fede il paradiso è potente in ogni uomo, per il fatto stesso che è uomo... Perciò la fede passa attra­ verso il fuoco del fatto storico, mentre il bello non è costretto a farsi strada attraverso questa gola montana» e che quindi bisogna dire che Dio dona il bello come creatore, e non come Dio del patto e della fedeltà? « E tuttavia: anche nel bello è possibile, anche se solo a partire dalla fede e con lo sguardo della fede, scoprire un rudimento del patto. Il bello è infatti la creazione sana e questa era stata pensata come luogo del patto tra Dio e 53

Introduzione Adamo. Nelle coordinate del mito la verticale indica il patto, il tu divino» (158/159). Il bello non sarebbe quindi «la salvezza (H eil), ma il sano (Heile), la densità, ciò che illumina, che è auten­ tico, che è sorgente di pace, il suono, puro e lontano dall’angoscia, di Mozart». Tutto questo però non già come stato, bensì come evento, come rivelazione dell’escatologia paradisiaca in mezzo al mondo del peccato. «Per questo la poesia non è il mondo, bensì irruzione nel mondo della prosa» (160/161). Noi non siamo però realmente redenti attraverso lo splen­ dore del paradiso, bensì attraverso «il fatto diamantino e resistente ad ogni trafittura», attraverso la sua crassità e la sua forza mor­ tale; e l’estremo è dato dalla morte stessa. È necessario che questa sia vinta e che le sia contrapposto il fatto, il fatto non mitica­ mente affievolito della risurrezione. Al livello di questa fatticità della rivelazione storica viene riferito, da Nebel, il linguaggio, al di là di tutta la sfera mitico-poetica (esattamente come Hamann). Nel linguaggio l’uomo viene aperto con violenza all’obbedienza e alla disobbedienza. Si tocca qui la ragione ultima per cui il fatto della rivelazione, inteso nella parola di Dio e nella risposta dell’uomo, rimane l’insuperabile. Non vi è bello che sia invece impossibile da superare, «ogni bellezza, in forza del senso del proprio essere, ri­ manda da sé ad un’altra bellezza, giacché nella sosta si dilegua la sua profondità... Come sempre nell’ambiente mitico, il primo segno ha una particolare dignità, una particolare forza di apertura. Chi si irrigidisce nel bello lo vela». Ma «il senso del linguaggio è la preghiera» (171/174). La festa della bellezza conduce solo fino alla soglia, dopo deve «estinguersi perché possa accadere l’inau­ dito»: morire e risorgere con Cristo. La festa può ricominciare al massimo al servizio dell’annuncio di questo evento inaudito. Il detto di Rilke, per cui «il bello non è infatti altro che l ’inizio dell’or­ rendo», viene rivestito di un senso cristiano anziché mitico. Il cri­ terio dell’arte cristiana si dà però soltanto quando, nella analogia eventus pulchri et Christi, l’evento del bello diventa il dito indice dell’evento di Cristo, dove (come è ovvio tra eventi siffatti) non è possibile dare una ricetta bella e pronta: né ciò che è sfigurato, né ciò che è armonico, né il romantico, né il classico, né la poesia e la musica come arti del tempo, né la scultura, la pittura e l’archi­ tettura come arti dello spazio, possono sollevare la pretesa ad una preminenza di principio. Inoltre è vero che lo «stile è destino sto­ rico» e non già scelta individuale e che quindi possono esserci stati 54

i Un’estetica teologica protestante «stili dell’annuncio» nella antichità cristiana e nel medioevo; «chi in seguito vuole glorificare il crocifisso è costretto a rifarsi agli stili del neopaganesimo e, giacché oggi anche questo è passato, a quelli del deserto»; l ’arte dell’annuncio può essere tanto poco restaurata come P«impero» o una cattedrale distrutta (195/196). Ma perché nel deserto della nostra noia e del vuoto del­ l ’angoscia non dovrebbe più darsi avvenimento alcuno a partire da Dio, dall’esterno e dall’alto, un avvenimento che disponga di noi e ci travolga portandoci via, nell’istante? Perché l’umanità che, sia a destra che a sinistra, si affida ad una qualche forma di hegelismo, del progresso e del successo, non potrebbe— nonostante tutte le dimostrazioni storiche dello «spirito del mondo»— essere tuttavia afferrata dallo spirito di Dio e ricondotta a casa, in ciò che unica­ mente merita di essere chiamato tempo, nell’evento esigente e che porta via con sé? (253). Infatti ciò che noi chiamiamo storia del mondo non è altro che il «deposito morenico» del tempo vero, su­ peramento del tempo dell’ira di Dio mediante il tempo della sal­ vezza che ha origine in Cristo. È caratteristico di Gerhard Nebel che egli termini rele­ gando il bello nella regione dell’ebbrezza e del sogno; questi sono dei concetti forti, segnati da Nietzsche, George, Freud, mentre l’idealismo parlava più volentieri della «fantasia produttiva». «Il sogno appartiene alla notte. Non a caso l’uomo dorme e sogna di notte. In ogni notte va perduto il rapporto con Cristo donatoci nel giorno. Noi lo abbandoniamo e ci inoltriamo nell’irresponsabilità del mito, nell’orrore dell’abbandono o in godimenti inauditi. Senza il sogno non potremmo sperimentare il bello, ... senza la venera­ zione dell’aspetto notturno e terreno della creazione non potremmo sostenerlo. Notte e terra vengono venerate nel momento in cui si tendono polarmente contro il giorno e il cielo. Nella creazione però la notte, assieme a tutto ciò che è notturno e nottetempo potente, è ciò che è stato omesso, lasciato da parte, abbandonato... il bello non conosce il fatto, ... ma solo polarità e rapporto di equilibrio. Esso perciò non può riconoscere lo svantaggio della notte nella crea­ zione. Il demone del bello aspira quindi a porre la notte e la donna in una posizione negata loro dalla creazione. Il bello è festa della notte, conduce in alto quanto secondo la creazione è più de­ bole: noi non sappiamo allora se dobbiamo cedere al terrore di fronte all’orgoglio che si erge contro l’intenzione del creatore o se dobbiamo invece lodare la cavalleria del bello» (304/309).

Introduzione L ’estetica teologica di Nebel è di gran lunga quanto di meglio la tradizione luterana, senza rinnegare se stessa, poteva produrre. Essa si eleva anche al di sopra della ingenuità stessa con la quale il confronto terribile e mortale tra Apollo e Cristo viene piuttosto evitato che sostenuto. Meno che mai si può trala­ sciare dal prestare ascolto al «correttivo» che, dopo Kierkegaard, il protestantesimo apporta alla chiesa cattolica. E bisogna dire che in questa estetica, come nella teologia di Lutero, occorre prestare orecchio con la massima attenzione agli accenti positivi e che, solo laddove l’esortazione si trasforma in una negazione che sbatte le porte e si separa, essa non può più essere seguita. È chiaro che a partire dal protestantesimo la bellezza deve essere tutta spostata sull’evento, giacché tutto ciò che è legge, immanenza come qualità inerente e stabile, come essere che sta, come habitus e facoltà di disporre, è già una sola cosa con la caduta demoniaca. A partire da qui bisogna comprendere le invettive senza fine di Nebel contro la maniera da museo, borghese e snobistica di maneggiare il bello e l’arte, e da qui proviene ancora lo spostamento dell’analogia (con l’accentuazione della dissomiglianza più grande) nell’evento della ri­ velazione del mondo e di Dio. Persino la determinazione romana della bellezza come splendor viene respinta come troppo statica. Questo no è forse più nel senso di Karl Barth che di Lutero, un no cioè che non è soltanto postscolastico, ma anche postliberale, un no che doveva ripercuotersi nell’ecclesiologia e nella stessa cristologia. Ma la serietà teologica e biblica con la quale qui ci si in­ terroga sul bello è tale da essere esemplare anche per la posizione cattolica della questione, anche se questa, sulla base di una conce­ zione diversamente strutturata della rivelazione, dell’incarnazione e della chiesa, svilupperà diversamente, a partire dalla rivelazione, le dimensioni interne del bello. Non per nulla ad esempio Nebel non fa mai cenno di Cristo come immagine del Padre e, conseguente­ mente, della profondità trinitaria della rivelazione. Nemmeno me­ raviglia che tutto ciò che è mariano venga collocato nella sfera mitico-ctonica, dalla quale ovviamente trae origine anche la Bea­ trice dantesca. Tuttavia non si tratta alla fin fine di porre accanto all’este­ tica teologica protestante un’estetica cattolica, come una variazione sullo stesso tema; non è questo il motivo per cui in questo capitolo introduttorio abbiamo chiamato in causa l’analisi delP'7]crsTai, zrjt; Sià eì'Sou? 7rtcrrecoc, tzoXXoì Siacpepouctt)?... (Joh Comm x, 43; ed Preuschen, 2 2 2 ).

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La luce della fede

Figlio), che dalla fede comoda del credente ecclesiale il quale crede di averne abbastanza del kerygma del Figlio. Nel Figlio trovare veramente il Padre, ecco ciò che costituisce l’apertura dello spazio della verità trinitaria assoluta e per ciò stesso di quella cono­ scenza nella quale noi cresciamo sempre più in profondità, quanto più ci affidiamo credendo al Figlio e ci lasciamo introdurre nel suo atteggiamento intimo. Cristo si rivolge così agli uomini: «Io dono a voi il logos, la gnosi di Dio, e così vi dono perfettamente me stesso. Io stesso infatti sono il logos e la gnosi e questo è ciò che Dio vuole; l’accordo, l’armonia del Padre, è il Figlio... voi che siete delle immagini, ma non completamente simili, voi io voglio ricondurre all’archetipo, perché diventiate a me simili. Io vi voglio ungere con l’olio della fede che vi libera dalla corruzione e vi mo­ strerò senza veli la forma della giustizia che vi guida in alto fino al Padre» (Vrotr 120,3/5). Il teologumeno alessandrino della gnosi può essere equiv cato in duplice maniera. In primo luogo, in modo tale da essere concepito come «sapere» nel senso moderno: sia nel senso hegeliano di una elevazione «all’idea dell’assoluto», che in quello teologico di una «esposizione razionale della fede». Sia l’uno che l’altra sono però esclusi dall’uso della Scrittura e non corrispondono al pensiero degli alessandrini8. In secondo luogo si può avere una equivoca­ zione, intendendo questa gnosi come una esperienza di Dio speri­ mentale, nel senso stretto della mistica; anche questa interpreta­ zione non coglierebbe l’universalità defl’affermazione biblica e della intenzione degli alessandrini, a meno che non si prenda il termine «mistica» (così come oggi qualche volta accade) in un senso tal­ mente generale da esprimere qualsiasi realizzazione della verità della fede attraverso una fede viva, penetrata dalla fiamma dei doni dello Spirito Santo. Sia in Giovanni e Paolo, che in Clemente ed Origene, la gnosi della fede può essere chiarita con l’impiego del concetto della «teoria» (0swpóa), della contemplazione prolungata e sorgente di luce, qualora si intende questo concetto assieme ai suoi presupposti teologici: incorporazione a Cristo mediante la fede e i sacramenti, partecipazione allo Spirito Santo che ci intro­ duce ad ogni verità, volontà di rivelazione del Padre celeste che 8 W. Volker ha dissipato con energia e con successo questo equivoco: Das Vollkommenheitsideal des Origenes, Tubinga 1930, pp 81/85; Der wahre Gnostiker nach Cl Alex, in Texte und Untersuchungett 57 (1952), p 375s.

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Pistis e gnosi vuole farci partecipare già adesso, mediante la Parola e lo Spirito, sotto il velo della fede, alla sua stessa verità trinitaria. Da queste prime indicazioni possiamo concludere già come siano insufficienti quelle teologie che separano, mediante un isola­ mento astratto, l’atto della fede cristiana da tutti gli elementi della visione e della comprensione e lo analizzano come un bacillo in una cultura pura. Una siffatta separazione sta a significare una di­ sincarnazione dell’atto di fede dal contesto vitale e spirituale del­ l’uomo che si incontra concretamente con Dio; essa può condurre perciò soltanto ad un razionalismo soprannaturalistico il quale sarà incapace, nonostante tutti gli sforzi posticci, di recuperare nuova­ mente il momento della gnosi per darle un posto all’interno delYanalysis fidei e ricostruire così la sintesi. La corrente teologica che tentò di preparare, in questo modo astratto, l’atto di fede, fu una reazione comprensibile e senz’altro giustificata alle semplificazioni del romanticismo e dell’idealismo, quando, non solo nella teologia liberale protestante, ma anche in quella cattolica, ogni ratio (natu­ rale) venne fondata su una luce (soprannaturale?) della intuizione di Dio, dell’esperienza interiore immediata, del sentimento reli­ gioso o della fede interpretata in corrispondenza a tutto questo. Tra fede e sapere (assoluto o religioso) non restava così, nel senso della teologia e della filosofia, che una differenza di grado. Il mo­ dernismo allargò, su base filosofico-vitale e socio-psicologica, la sem­ plificazione dell’idealismo e provocò a sua volta una reazione energica. L ’elaborazione chiara degli elementi strutturali astratti del­ la fede cristiana soprannaturale è, da allora, diventata indiscusso patrimonio comune della teologia, in modo tale che, la reintegra­ zione nel tutto di ciò che la Scrittura intende per fede, può oggi essere arrischiata senza pericolo. Una siffatta integrazione non è ne­ cessaria soltanto in forza di una esigenza teoretico-teologica. Essa è una questione vitale della cristianità attuale. Questa infatti può solo allora essere credibile per il mondo che la circonda, se inten­ de se stessa come credibile, se la fede quindi non significa per essa, per prima ed ultima cosa, il «ritener-per-vere delle afferma­ zioni» che, essendo incomprensibili alla ragione umana, possono essere accettate solo nell’obbedienza all’autorità; la fede infatti, no­ nostante tutta la trascendenza della verità divina, anzi proprio me­ diante essa, conduce l’uomo alla comprensione di ciò che Dio è in verità, ed in questa comprensione (accanto ad essa) anche alla com­ prensione di se stesso. Il pensiero idealistico non aveva le categorie 125

La luce della fede bibliche e personali che potessero impedire che il sapere di Dio si trasformasse, in un salto del dono divino della rivelazione, in un sapere umano. Mancavano cioè quelle categorie che rimandano l’uo­ mo alla sua creaturalità e gli fanno comprendere come egli non può ricevere e far propria la verità di Dio se non nell’umiltà obbe­ diente e nella distanza della fede. Nella misura in cui la rivelazione di Dio appare come la sua benevolenza libera, alla quale spetta il nome di grazia non solo per la libertà dalla necessità esterna, ma anche per la sua qualità interiore; nella misura in cui, per Giovanni e gli alessandrini in maniera assoluta, ma anche per Paolo, il conte­ nuto di questa autorivelazione di Dio porta il nome di doxa, di gloria luminosa (kabód); nella misura di tutto ciò, è possibile sta­ bilire un’analogia tra la realtà estetica e quella teologica della rive­ lazione e la sua esperienza. Da qui deriva già che il momento del­ l ’autorità, sul quale poggia, come sul suo motivo ultimo e suo oggetto formale, la fede teologica, deve possedere una sua caratte­ ristica del tutto specifica e propria di Dio soltanto. In forza di questa specificità l’autorità divina si distacca anche dalla autorità della chiesa che l’annuncia e la inculca. L ’autorità divina sta dalla parte della doxa divina che si manifesta, anzi è una stessa cosa con essa, in quanto in ambedue la divinità di Dio si fa incontro al cre­ dente. Pertanto questa rivelazione della gloria non ha bisogno di altra giustificazione al di fuori di se stessa: il logos di Dio è, nel­ l’identità, libera parola di.D io e ragione di Dio. E se il credente non percepisce provvisoriamente la ragionevolezza intima della li­ bera parola, tuttavia, a partire dal fatto: Dio parla, sa immediata­ mente che la sua parola è la ragione stessa. Anzi, tutto ciò che di questa parola gli si fa incontro e tutto ciò che egli afferra di essa, è immerso completamente nella luce di questa ragione divina e la riflette. Il mistero di Dio annunciato nella chiesa è la sua doxa divenuta visibile, un raggio della quale cade certamente sull’auto­ rità e sull’annuncio della chiesa e li giustifica. Questa doxa tuttavia, in quanto gloria di Dio, sovrasta maiestatica nello stesso tempo l’istanza subordinata che la media: «Noi non annunciamo infatti noi stessi, ma Gesù Cristo il Signore e noi stessi come vostri servitori per l’amore di Gesù. Il Dio che infatti ha detto: splenda la luce dalle tenebre, è anche colui che fa brillare nei nostri cuori (di servi) la sua luce, perché (attraverso noi) splenda la gnosi della doxa di Dio che è sul volto di Cristo» (2 Cor 4,5/6). 126

Pistis e gnosi Solo nella misura in cui l’autorità della chiesa viene consi­ derata come un momento inserito nell’autorità divina che si mani­ festa, essa può, come filo conduttore, rendere possibile l’esplicitazione dell’atto di fede che, in quanto atteggiamento globale dell’uo­ mo concreto di fronte a Dio (ed alla chiesa solo per amore di Dio), è la risposta all’atteggiamento, personale e globale, con cui Dio si volge all’uomo. La testimonianza che Dio dà di se stesso in Gesù Cristo, fattosi uomo, morto in croce e risorto dal sepolcro, iden­ tica con la testimonianza della vita di Cristo, è per Dio qualita­ tivamente diversa dalla testimonianza ufficiale, data dall’annuncio deifa chiesa, su questa testimonianza trinitaria. È a partire da que­ sta ultima che deve essere mostrata e giustificata la fede umana.

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DELIMITAZIONE DELLA FORMA DELLA FEDE

Noi siamo partiti da una unità della fede e della visione (sapere), laddove questa unità è stata fino adesso soltanto affermata ed ha quindi bisogno di essere ulteriormente esplicata. Essa tuttavia è già fondata in modo tale, da non poter essere messa più in di­ scussione da interpretazione alcuna. Se quindi «vedere» e «sapere» vengono rigidamente fissati mediante una siffatta determinazione dei concetti, che la fede appare incompatibile con essi e li esclude in­ trinsecamente (in quanto comportano una resólutio in principia evi­ denza intellectus), allora, per quanto questo possa essere essen­ ziale e fondamentale per un chiarimento della fede, bisogna tutta­ via dire che così non si coglie il vedere ed il sapere che nella Scrit­ tura vengono affermati della fede in quanto tale. Se viceversa, la fede viene considerata soltanto come un’accettazione di verità sulla base di una testimonianza autoritativa, allora viene già presa, an­ che se in maniera meno evidente, una predecisione simile a quella della interpretazione precedente, a meno che questa accettazione della testimonianza non venga essa stessa intesa come un sapere autentico e non già come un atto che esige, come fondamento e condizione di possibilità, un sapere previo (praeambula fidei). Esplicitare Patto, mediante il quale l’uomo corrisponde ri­ spondendo alla rivelazione divina, significa inoltre far comprendere, in maniera adeguala all’oggetto, l’atteggiamento totale e ultima­ mente giusto dell’uomo di fronte a Dio. Con ciò vengono esclusi due estremi. Da min parie la descrizione di quest’atto come para­ dosso o dialcttiiii di muli-addizioni in cui viene dissolta qualsiasi

Delimitazione della forma della fede forma spirituale umana, per cui varrebbe soltanto e ancora, come filo conduttore, il credo quia absurdum-, nel senso che la fede po­ trebbe essere interpretata soltanto come morte di ogni logica umana (come imitazione della morte di croce del logos divino stesso, che risorge solo in quanto crocifisso); nel significato sia soggettivo ed esistentivo di Kierkegaard che in quello oggettivo di Hegel, dove la morte del logos diventa legge stessa dell’essere e la fede si dis­ solve in pura gnosi (giovannea). L ’altro estremo da escludere consi­ ste nella spiegazione di questo ultimo atteggiamento umano, me­ diante categorie naturali ed intramondane di comprensione, con la conseguenza di una resolutio (analysis) fidei razionalistica in una struttura «scientificamente» osservabile. Se la fede cristiana è un atteggiamento ultimo dell’uomo, causato e segnato dall’oggetto della rivelazione, allora questo atteggiamento è per l’uomo altrettanto irriducibile ad una scomposizione esplicativa come il mistero stesso di Dio in Cristo. Un’analisi della fede, letteralmente intesa, è quindi una contraddizione in se stessa. Essa sarebbe infatti proprio la negazione dell’atto che si deve porre. Essa è altrettanto impossibile come la psicanalisi, se per psiche si intende quella profondità del­ l’uomo e del suo destino in cui l’uomo sta di fronte a Dio stesso e in cui può comprendere e interpretare se stesso solo a partire dalla parola che Dio gli rivolge. Del resto sia l ’uno che l ’altro estremo si trovano sempre a coincidere, sia oggettivamente che storicamen­ te: la dialettica della contraddizione si trasforma in un sapere ra­ zionale superiore e questo, se non vuole degenerare in un raziona­ lismo piatto e senza mistero, deve rivestirsi almeno di una dia­ lettica dell’esistenza. L ’ultimo atteggiamento di risposta dell’uomo all’autorivelazione di Dio deve essere necessariamente e strettamente con­ nesso con quell’ultimo atteggiamento dell’uomo che è quello filo­ sofico. Questa connessione è per sua natura molto più stretta di quella che appare, quando si guarda alla tregua d’armi ed al patto di non aggressione tra «filosofia» e «teologia» all’interno della cri­ stiana universìtas litterarum, dove la teologia assume apertamente delle funzioni che, nello spazio pre ed estracristiano, appartenevano alla filosofia. Certo, anche nello spazio non cristiano sussiste una certa tensione tra il campo del mito e quello del logos: lì avviene la rivelazione positiva a partire dal divino, qui questa positività viene concettualmente chiarita, criticata e, o assimilata interiormente, op­ 129

La luce della fede pure eliminata come una fase inferiore ed acritica. L ’atteggiamento di Platone nei confronti del mito è tuttavia meno semplicistico; esso mostra almeno che la filosofia religiosa, quando comprende se stessa, non può sfuggire al concetto di rivelazione, sia che essa prenda filosoficamente in seria considerazione il mito del Dio che si rivela, oppure lo spogli della sua veste mitica espressiva per non lasciare che una «rivelazione filosofica» ed una «fede filosofica» ad essa rispondente. Nell’insieme tuttavia, filosofia e teologia estracristiane, formano una unità perfetta, anche se mossa. Del resto non è possibile che avvenga altrimenti quando, in quanto filosofi, si ri­ flette che non ci possono essere due verità ultime sul mondo e sul­ l’uomo e che quindi non ci possono nemmeno essere due atteggia­ menti ultimi dell’uomo di fronte alla realtà definitiva. Nel momento storico nel quale la filosofia comincia a pren­ dere riflessamente le sue distanze dalla rivelazione mitica, si veri­ fica un approfondimento decisivo per la storia dell’umanità: l’uo­ mo diventa cosciente di toccare nel mito, in cui il divino possedeva per lui una forma in primo tempo positiva, o dietro di esso, l’oriz­ zonte dell’incondizionatezza. Nell’ente (che potrebbe anche essere diversamente), l’essere nella sua universalità e necessità. Questo istante è critico: gli «dèi della Grecia» minacciano di impallidire davanti al fascino dell’idea e del concetto e la filosofia rischia di presentarsi come la religione illuminata dei sapienti. Tuttavia se si mette tra parentesi l ’aspetto storico di questa crisi (che con l’irru­ zione del cristianesimo acquista una dimensione molto più impres­ sionante) e ci si ferma alla questione effettiva, non sussiste alcun motivo di scavalcare l’unità stabilita da Platone tra mito e logos, così come in ambiente tedesco viene ripresa e portata avanti da Holderlin, Schelling, Heidegger. Un siffatto scavalcamento potrebbe essere concepito in due direzioni. O cristianamente: allora la rive­ lazione biblica mette la parola fine, in quanto unica valida manife­ stazione di Dio, a tutti i miti ed assume nello stesso tempo la funzione di rivelazione che la filosofia (nel prolungamento della fun­ zione mitica) lasciava ancora all’essere stesso. Oppure razionalisti­ camente: allora la filosofia prepara in se stessa la fine del mito risol­ vendolo allegoricamente, come i neoplatonici, in un puro materiale di immagini, senza lasciare un autentico carattere di rivelazione al­ l’essere in quanto tale; l’essere diventa un concetto mediante cui ordinare tutti gli enti che ci troviamo davanti. Giacché, storica­ mente, la via della razionalizzazione (privazione del suo carattere

no

Delimitazione della forma della fede di rivelazione) della realtà era già stata intrapresa nel mondo greco, il pensiero cristiano ha battuto di preferenza questa strada più facile. Ne è derivata una precisa divisione di competenze tra la filosofia e la teologia, il cui prezzo però è consistito nel destituire e spodestare la filosofia dei suoi compiti specifici per ridurla ad un arsenale concettuale per la teologia, in quanto è a questa che appar­ tiene l’ultimo sguardo decisivo sulla realtà. È impossibile infatti che l’uomo riesca a realizzare soggettivamente due atteggiamenti ultimi o a sopportare oggettivamente, l’una accanto all’altro, due scienze definitive. Il pericolo di questa giustapposizione è ugual­ mente grande sia per la filosofia che per la teologia. Per la filoso­ fia: il suo eros infatti non è e non può essere vivente se non nella misura in cui è in grado di tendere all’incondizionatamente ultimo, vero, bello e buono, mentre si atrofizza nel formalismo se gli ven­ gono contestate la forza e la legittimità di questa tendenza. Per la teologia: priva infatti di un’autentica dottrina della saggezza, essa decade a scienza positivistica dei fatti storici della rivelazione, a dot­ trina quindi dell’ente, il cui carattere assoluto rispetto a tutti gli altri enti può essere difficilmente messo in evidenza. Certo, la rive­ lazione cristiana provocherà lo sgombero dei miti sugli «arconti del mondo» e li sostituirà con l’epifania vera della gloria di Dio. La distanza tra mito e rivelazione biblica potrà andare fino al rove­ sciamento del senso e del contenuto. Ma ciò non impedisce che la rivelazione biblica si verifichi nello stesso luogo antropologico for­ male nel quale la fantasia produttrice dei miti creava le sue imma­ gini dell’eterno. Il Dio vivente di Abramo, Isacco e Giacobbe spaz­ zerà via ugualmente tutte le teorie filosofiche su Dio, sul mondo e sull’uomo, rovesciandone senso e contenuto. Ma farà questo nello stesso luogo, nell’uomo, dove questi teneva fisso lo sguardo sul­ l’ultimo orizzonte dell’essere e lottava per il senso della realtà defi­ nitiva che conferisce senso a tutta l’esistenza. In altri termini: l’oggetto formale della teologia (e per ciò stesso anche quello dell’atto di fede) giace nel cuore dell’og­ getto formale della filosofia (e quindi della mitologia che è ad essa legata); è dalla profondità misteriosa di quest’ultimo che esso ir­ rompe, come autorivelazione del mistero dell’essere stesso, in una maniera che non può essere derivata da ciò che l’intelletto creato può, con le sue forze, decifrare del mistero dell’essere e che a questo intelletto rimane inaccessibile, senza l’illuminazione divina della grazia, anche nella rivelazione del mistero di Dio. Tuttavia 131

La luce della fede l’autorivelazione di Dio, il quale è l’Essere per eccellenza, non può che essere l’adempimento anche di tutta la problematica filosoficomitologica dell’uomo, in uno schiarimento che avviene nella parola della rivelazione di Dio (che si fa storia e carne) e perciò deve es­ sere ascoltato nell’ente; ma che non per questo cessa di essere pa­ rola su Dio, schiarimento sull’Essere stesso e quindi, nello stesso tempo, filosofia. È uno schiarimento infine che, nell’atto di fede del­ l’uomo quale è essenzialmente esigito dall’altissima autorità perso­ nale del Dio che si rivela, a cui, come Signore, «è completamente sottomessa ogni ragione creata» \ porta al suo fine interno il sapere filosofico assieme all’eros che lo anima. Una volta concesso ciò— ed i grandi pensatori cristiani, come Origene, Agostino, Anseimo, Tommaso d ’Aquino non hanno compreso mai lo intellectus fidei se non nell’inclusione di questo compimento intimo dell’atto filosofico nella teologia— , allora può essere metodologicamente delimitato il campo, di ciò che l’uomo con la propria ragione può raggiungere, da quello che è invece divenuto accessibile a partire dalla rivelazione. Ciò sarà necessario, ma non porterà più a quella paralisi e a quella sterilità pericolose delle due forme del sapere, che sono altrimenti inevitabili. E la visione teologica dell’essere che resta legata, come al luogo di prospettiva, al «m ito», cioè alla forma della rivelazione della storia biblico-salvifica nella sua condizione di «ente», ricorderà allora al­ l’uomo filosofante che un sapere ultimo per lui non può darsi (per quanto vi sia vicino) nella preclusione dal finito e dal concreto, ma in quel volgersi alle manifestazioni concrete che l’essere assume nell’ente (conversio ad phantasma) dove soltanto, per l’esistente spirituale-corporale, risplende il mistero dell’essere. La visione teo­ logica dell’essere andrà ancora più lontano: essa infatti soltanto renderà possibile, a partire dalla sicurezza ultima sulla realtà, così come può essere sperimentata dal credente che incontra Dio in Cri­ sto, l’atto filosofico dell’incontro con l’essere in tutta la sua pro­ fondità. Trovare Dio realmente in tutte le cose e quindi filosofare veramente e sempre, è una possibilità aperta soprattutto a colui che si è fatto incontro al Dio vivente, nella forma particolare della ri­ velazione da lui scelta, la quale quindi, essendo la manifestazione della vita eterna per il mondo, acquista significato universale e in­ tesse, determinandolo, l’oggetto formale della filosofia. Che una sif­ 1

Vat i, Dz 1789. 132

Delimitazione della forma della fede fatta mutua penetrazione è esatta, si può anche trarre dall’atteggia­ mento filo-sofiano o contemplativo della fede, iniziato nella bibbia, così come emerge nell’Antico Testamento soprattutto nei libri sa­ pienziali, e come viene portato ad attuazione particolarmente nel Nuovo in Paolo e Giovanni. Già la parola di Dio è intessuta di contemplazione umana che contiene in sé l’atto propriamente filo­ sofico. Nessuna meraviglia quindi se tutta la teologia cristiana si presenta come riflessione contemplante della fede, ma non in una astrazione pura o prevalente, bensì al contrario (mediante i «doni dello Spirito Santo») attraverso una sperimentazione e una scoperta, del senso nascosto dell’essere, nella concretezza della rivelazione. Solo dopo il chiarimento del rapporto dei due oggetti for­ mali è possibile porre in maniera corretta la questione sui con­ torni che delimitano la fede cristiana. Si può qui partire dall’aporia per cui Dio, fondamento stesso di ogni essere, si rivela in maniera irrepetibile in forma storico-positiva e spazio-temporale. La filosofia ha la tendenza a relativizzare questa irrepetibilità (relativa) mitica ed a voler scorgere in egual misura l’essere divino attraverso ogni ente. La teologia si oppone a questa tendenza assolutizzando in­ vece la tendenza mitica e ordinando l’unicità e l’irrepetibilità di Dio nella sua manifestazione intima e personale ed infine ad una unica Persona all’interno di questa storia. Il mistero intradivino dell’io-tu deve trovare la sua epifania in un mistero dell’io-tu intra-divino-umano: così il mito viene ad essere adempiuto e su­ perato nello stesso tempo. Ora questa forma cristiana della rivelazione può essere letta in una duplice maniera. In primo luogo come l’insieme dei segni storici e dei modi di apparizione del Dio che interviene; segni di una estrema forza di penetrazione personale e di testimonianza, che per se stessi si manifestano come segni di Dio e in quanto tali vogliono essere letti e compresi: la storia del patto di Israele, la guida carismatica del popolo attraverso i profeti, i miracoli e le profezie ed infine Cristo come colui che adempie in sovrabbondanza. I segni vengono compresi mentre ciò a cui essi rimandano e di cui rendono testimonianza viene creduto: i misteri invisibili dietro i segni (la redenzione del mondo mediante la croce e la risurre­ zione, l’eucaristia e i sacramenti, l’escatologia e soprattutto il mi­ stero del Dio uno e trino). I segni che sono leggibili manifestano ciò e richiedono questa fede; essi si sostengono da se stessi e vicendevolmente nella loro credibilità; chi volesse diffidare del 133

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La luce della fede loro rimando all’autorità divina che parla in essi agirebbe in con­ traddizione con l’evidenza umana, sia della ragione teoretica che ha mediante essi ricevuto l’evidenza della credibilità, che della ragione pratica che impone di affidarsi ad un testimonio credibile. Così intesa la ragionevolezza della fede poggia sul carattere evidente dei segni della manifestazione, in grado di convincere la ragione. È verificabile sia la credibilità dei testimoni che l’esigenza di cre­ dere ad un testimonio credibile. Così tuttavia la testimonianza di­ vina si trasforma in un caso (privilegiato) accanto agli altri; la specificità divina non emerge: né da parte dell’evidenza o della visione, né da parte della fede. In questo modo di considerare i segni ci troviamo di fronte ad una teoria antropologica della fede la quale manca della dimensione filosofica. Si tratta piuttosto della fede elaborata dalla teologia positiva, soprattutto dalla teolo­ gia gesuitica del periodo barocco e della neoscolastica. Di fronte a questa maniera di considerare i segni ce ne sta un’altra che fin dal principio ha rivolto l’attenzione all’oggetto formale della fede: la verità eterna di Dio, tale quale Dio è in se stesso e si testimonia nella rivelazione stessa. Questa verità eterna è però l’interiorità dell’essere assoluto, il mistero della sua vita e del suo amore, che costituisce anche la profondità manifestantesi dell’oggetto formale della filosofia. Questa dottrina della fede tende perciò a spostare i propri punti di appoggio da una parte nel dinamismo conoscitivo del soggetto spirituale e dall’altra nel carattere di luce e di illuminazione che conviene all’essere as­ soluto. Essa pone così il carattere specifico cristiano nella sopraelevazione del filosoficamente valido e, per quanto riguarda i fatti storici, li inserisce con forza nel dinamismo finale della conoscenza. Qui incontriamo l’illuminismo di marca alessandrina ed agosti­ niana: l’essere è luce, questa luce è la sua parola (logos) che si irraggia nello spirito e questa parola, già per l’intelletto creato, viene ricevuta come una specie di grazia e di rivelazione. Non c’è che da tradurre presso a poco la generale teoria filosofica della conoscenza nel modo cristiano trinitario e comprendere quindi Cri­ sto come colui che illumina e redime lo spirito e rivela il Padre, per guadagnare la teologia della fede a partire dalla filosofia. Per quanto nei dettagli Tommaso si possa distinguere da Agostino, nei due punti di appoggio che noi abbiamo indicato le loro posizioni sono tuttavia identiche. Ambedue si poggiano cioè sul dinamismo dello spirito conoscente che per sua stessa costituzione intrinseca 134

Delimitazione della forma della fede tende alla visione di Dio, cosicché la libera manifestazione di Dio e l’elevazione della grazia richiesta per la comprensione dei suoi misteri intimi appaiono tuttavia come un compimento diretto della struttura creata dello spirito. Ed ambedue si poggiano ancora sulla concezione dell’azione rivelatrice di Dio come concessione della luce interiore dell’essere: la fede è ornamento dello spirito con una luce nuova (lumen fidei) che, se per adesso non permette di contemplare ancora l’oggetto dell’illuminazione nelle sue ragioni intrinseche, può essere tuttavia compreso come l ’inizio di una vi­ sione siffatta (inchoatio visionis beatae). In questa seconda ten­ denza bisogna porre anche quei teologi moderni che procedono in maniera moderata (Blondel, Scheuer, Maréchal, Rousselot) dalla conoscenza soggettiva e dal dinamismo dell’azione, per concludere, dal «cuore inquieto», dal suo bisogno o dal suo vuoto (Masure), dalla sua attesa aperta all’infinito e che non è in grado di acquietare da se stesso, alla convenienza e alla ragionevolezza dell’atto di fede trascendente, reso possibile dalla luce della grazia. Questa posizione acquistò la sua colorazione estremistica nel modernismo, nel quale i fatti obiettivi della rivelazione vengono completamente dissolti nel dinamismo, interiore e soggettivo, della rivelazione tra Dio e l’anima e mantengono una validità per il credente, solo nella misura in cui essi sostengono e promuovono efficacemente questo dinamismo. Il vantaggio di questa seconda posizione, nei confronti della prima, consiste nel fatto che la dimensione storico positiva è fin dal principio inserita nel processo complessivo che si verifica tra il Dio che si rivela e l’anima del credente; è eliminata l’im­ pressione dell’esteriorità e della eteronomia, l’atto di fede è radi­ calmente e ad un tempo «soprannaturale» (perché sostenuto dalla luce e dalla fede) e «naturale» (perché compimento di ogni aspi­ razione spirituale), fondato contemporaneamente, in maniera og­ gettiva nell’atto della rivelazione di Dio, in maniera soggettiva ed esistentiva sul fatto che tutto si iscrive nel dinamismo dello spi­ rito verso il suo oggetto formale. Rimane tuttavia la questione se in questa seconda posizione si riesca a fondare oggettivamente il fatto specifico cristiano, così come si riesce a fondarlo soggetti­ vamente, e se tutta la direzione non sia minacciata da un filoso­ fismo segreto e a volte anche aperto, dove la misura interna della tendenza dello spirito, anche quando viene compresa come «vuoto», cor inquietum, potentìa oboedìentialis e simili, diventa in qualche modo misura stessa della rivelazione. L ’oscurità della fede, il suo 1«

La luce della fede legame all’autorità divina, possono essere certo salvati. Ma è forte la tendenza intrinseca di una fede siffatta a trasformarsi in espe­ rienza e visione mistica anticipatrice, che si trasfigura già in visio beata escatologica. Garrigou-Lagrange ha mostrato fondamentalmente questa strada nella sua trasposizione di Tommaso a Giovanni della Croce. Lo stesso si deve dire però, in maniera diversa, di Origene e di Agostino dei primi scritti religiosi, per i quali tutto ciò che è storico e positivo mostra fin dal principio la tendenza a dissolversi (spiritualmente o allegoricamente) nei contenuti di una «filosofia» cristianamente e soprannaturalmente rischiarata. Ambedue le tendenze colgono a loro modo un aspetto della fede cristiana e della intelligenza che le è propria. Ma mentre per la prima tendenza questa intelligenza poggia sull’evidenza di credi­ bilità dei segni della rivelazione, che esige e produce l’atto di fede (sia che l’evidenza suddetta venga incorporata nell’atto di fede sia che venga lasciata, al contrario, fuori dell’atto di fede stesso perché esso si poggi unicamente sull’autorità del testimonio), per la se­ conda tendenza l’evidenza poggia essenzialmente sul fondamento del­ la fede stessa: è alla fede infatti che si comunica la luce di Dio, mediata certo nei segni e nelle testimonianze, ma già segretamente in quella immediatezza che si avrà in modo manifesto solo nella visione beata. Per la prima tendenza le testimonianze storiche della rivelazione non stanno propriamente nella luce dell’essere di­ vino, ma rimandano soltanto ad essa. Per la seconda tendenza in­ vece esse diventano talmente trasparenti a questa luce, che nel segno interessa soltanto il significato, nell’elemento storico soltanto ciò che è eternamente valido. Ambedue le tendenze dovrebbero incontrarsi, ma sono in grado di farlo solo a patto di liberarsi di una carenza comune. Sia l’una che l’altra sono preoccupate di denominare come «segni» i fatti storici della rivelazione; questi vengono cioè presi come «indi­ cazioni»— tuttavia sufficientemente capaci di portare il loro peso— di qualcosa di misterioso che sta dietro e che deve essere creduto. Se infatti esso fosse visibile nei segni stessi, la fede non avrebbe più ragione di essere. Questo concetto di «segno» può essere tut­ tavia giustificato solo fin quando la rivelazione di Dio viene consi­ derata dal punto di vista della sua verità e della sua bontà. La fede deve essere vera, deve cioè essere la fede in una rivelazione vera e reale di Dio, un Dio che a motivo della sua veracità possiede un’autorità vera e può quindi conferire ai testimoni apostolici ed 136

Delimitazione della forma della fede ecclesiali di questa sua autorità le qualità sufficienti della veracità e, per ciò stesso, della credibilità. Ciò che manca a questo carat­ tere di verità (soprattutto nella misura in cui la verità intima del­ l’oggetto della fede non può per il momento diventare manifesta al credente) viene completato dalla prospettiva della bontà: mihi adhaerere Deo bonum est. La creatura sperimenta agostinianamentetomisticamente il suo compimento più profondo e l’acquietamento della sua inquietudine là dove, trascendendosi, si abbandona alla forza del suo amore per Dio, amore che, radicato nella profondità ultima della natura (amor pondus) e portato dalla grazia di Dio, si compie nella donazione amorosa della fede in Dio. A partire da Agostino, attraverso Bernardo, fino a Bonaventura e Tommaso, questo amore, conforme alla natura e portato dalla grazia, viene compreso come la luce intima dell’essere, giacché anche Tommaso, l’aristotelico, conosce la cognitio per inclinationem et connaturalitatem, la quale manifesta nell’essere spirituale la giusta direzione della sua tendenza. Sia per l ’una che per l’altra interpretazione resta tuttavia il fatto di rimanere fermi ad una giustapposizione di segni indi­ catori e di luce interiore significata. Questo dualismo viene a cessare solo quando si introducono le forme del pensiero e le categorie del bello. Il bello è in primo luogo una forma e la luce non cade su questa forma dall’alto o dall’esterno, ma irrompe dal suo intimo. Species et lumen sono nella bellezza una sola cosa, al­ meno se la species porta a buon diritto e realmente il suo nome (che non sta ad indicare una forma qualsiasi, ma la forma che si irradia e suscita diletto). La forma visibile non «rinvia» soltanto ad un mistero invisibile della profondità, ma ne è l ’apparizione, lo rivela proprio mentre nello stesso tempo lo nasconde e lo vela. Essa, come forma della natura e dell’arte ha un esterno che appare ed una profondità interiore, ma è impossibile separare nella forma l’esterno e l’interiorità. Il contenuto non giace dietro la forma, ma in essa. Chi non riesce a vedere e a leggere la forma, non può cogliere nemmeno il contenuto. A colui al quale la forma non dà luce, rimarrà invisibile anche la luce del contenuto. Si noti bene che richiamandoci alla ragione estetica (assie­ me a quella teoretica e a quella pratica) non intendiamo prendere una predecisione a favore del pensiero «greco» contro quello bi­ blico ed ebraico. La percezione di una forma è umano-universale. Nemmeno si tratta della preferenza accordata ad un singolo tipo 137

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La luce della fede di percezione, ad esempio al vedere (greco) rispetto all’ascolto (presunto ebraico); di questo parleremo in seguito. Per il mo­ mento si tratta soltanto del fenomeno della forma e della sua percezione nel senso più generale. Da questo punto di vista, la storia del patto e della salvezza in Israele ha almeno, sia nel suo complesso che nei dettagli, una forma altrettanto impressio­ nante che un mito greco, per non parlare della forma di Cristo, del suo messaggio e della sua esistenza divino-umana. Non si tratta per il momento nemmeno di sapere in quale modo (teoretico co­ noscitivo) la forma venga percepita, di ciò che significa ad esem­ pio l’«intuizione» per la conoscenza umana; basta per adesso ac­ cettare soltanto il fatto del vedere estetico della forma come realtà indiscutibile. Per il momento è essenziale soltanto che, senza cono­ scenza estetica, né la ragione teoretica, né la ragione pratica pos­ sono pervenire alla loro attuazione completa. Se al verum manca quello splendor che per Tommaso costituisce il contrassegno del bello, allora la conoscenza della verità rimane sia prammatica che formalistica. Essa si riduce infatti semplicemente alla costatazione di leggi e realtà esatte, per quanto le ultime leggi dell’essere o del pensiero possano essere categorie ed idee. E se al bonum manca quella voluptas che per Agostino è il segno della sua bel­ lezza, allora il rapporto al bene rimane utilitaristico ed edonistico. Esso si riduce infatti al soddisfacimento di un bisogno mediante un valore, un bene, per quanto questo possa essere fondato ogget­ tivamente nella cosa che soddisfa e soggettivamente nell’essere che tende. Solo il divenire manifesto di una forma espressiva nella cosa, conferisce ad essa quella dimensione profonda tra fondamento ed apparizione che, in quanto luogo proprio della bellezza, scopre anche il luogo ontologico della verità dell’essere e libera, il soggetto che tende, alla distanza spirituale che rende il bello della forma degno di essere amato nel suo essere in sé (e non soltanto nel suo essere per me) e quindi, solo così, degno di essere perseguito. Questo è ciò che Kant, in maniera in qualche modo equivoca, chiama la disinteressatezza del bello: l’evidenza che qui emerge a manifestazione, mi appare, una profondità dell’essere e l’evidenza che io né posso dissolvere, e quindi dominare teoreticamente in un fatto o una legge dominante questa forma che si manifesta, né posso prenderla in uso mediante la mia tendenza. Nella forma luminosa del bello, l’essere del bello diventa visibile come da I 38

Pelimitazione della forma della fede / nessun’altra parte. Perciò ogni conoscenza o tendenza spirituale deve essere accompagnata da un momento estetico. L ’essere-in-sé che è proprio del bello, l’esigenza in esso annunciata di lasciare essere ciò che è, l’esigenza quindi di una rinuncia (al dominio e al con­ sumo) per poter essere presi dalla gioia nel gusto di esso, è, nel dominio naturale, una fondazione ed una ombra anticipatrice di ciò che sarà l’atteggiamento della fede nel dominio della rivela­ zione e della grazia. Se ci avviciniamo subito, con questo risultato provvisorio, al centro della rivelazione cristiana, al Verbo di Dio fattosi carne, Gesù Cristo, Dio e uomo, allora si impone assolutamente l’affer­ mazione: qui una forma è posta davanti allo sguardo dell’uomo. Checché ne sia del nascondimento di Dio, della sua «mascherata» (Lutero), del suo «incognito» (Kierkegaard) in Cristo— di questo parleremo in seguito— , la prima cosa da dire è tuttavia che qui noi ci troviamo di fronte ad una forma autentica, «leggibile», e non soltanto di fronte ad un segno o ad un cumulo di segni. Cristo può operare e porre dei segni (e r e sia ) e questi segni staranno sempre in una connessione significativa con lui stesso; ma egli stesso è di più e diverso che un puro segno. Non è che lo si possa riconoscere come un uomo (perfetto? religioso? geniale?) mediante una cono­ scenza razionale conclusiva e, sulla base di questa conoscenza ra­ zionale, si possa quindi concludere, come da un «indizio», che egli è il Figlio di Dio e Dio stesso. Invece è vero, secondo la testimo­ nianza dei vangeli e soprattutto di Giovanni, che egli viene solo allora riconosciuto nella sua forma, quando la sua forma viene vista e compresa come la forma divino-umana, la qual cosa presup­ pone però già ed esige nello stesso tempo la fede nella sua divi­ nità. Gesù forma davanti allo spettatore una siffatta figura tale da poter essere «letta» soltanto, in quanto figura, quando ciò che in essa appare; viene— dobbiamo dire «visto» o «creduto»?— come il sor­ gere della profondità divina personale (trinitaria). Possiamo provviso­ riamente esprimerci dicendo che, così come una forma della natura, ad esempio un fiore, solo allora viene vista come essa si dà, quando viene guardata e «accolta» come apparizione di una determinata profondità della vita, altrettanto la forma di Gesù solo allora viene vista come si dà, quando viene intesa ed accolta come l’appari­ zione di una profondità divina che sorpassa ogni natura mondana. Per una siffatta percezione, l’uomo può però essere reso capace di uno sguardo adeguato all’oggetto solo attraverso la grazia di Dio, 1V)

La luce della fede

cioè attraverso una partecipazione a questa stessa profondità, per cui egli venga proporzionato alla dimensione totalmente nuova del fenomeno della forma che comprende in sé Dio e mondo. Il pensiero cristiano da sempre è stato consapevole, e tu tavia mai forse nella dottrina della fede attento, con la necessaria penetrazione, al fatto che Gesù Cristo è la forma centrale della rivelazione attorno alla quale si cristallizzano e si riuniscono tutti i restanti momenti della rivelazione salvifica. La bellezza è, se­ condo Schiller, «libertà che appare»; quest’affermazione può e deve assolutamente essere interpretata anche onticamente. La libertà tut­ tavia che appare in Cristo è quella del Dio che non è necessitato da niente, assoluto e riposante in sé, ma il quale si unisce per libero beneplacito alla creatura, in maniera indissolubile e defini­ tiva nell’unione ipostatica, per apparire e rappresentarsi in essa. Il Dio che noi conosciamo adesso e nell’eternità è Emmanuele, il Dio con noi e per noi, il Dio che si mostra e si dona e che noi, per il fatto che egli si mostra e dona, non conosciamo soltanto dal di fuori, solo «economicamente», ma possiamo anche possedere «teo­ logicamente», dal di dentro e così come egli è. Se quindi noi affer­ miamo che questo Dio, che si rivela in Cristo, non è soltanto l’og­ getto totale materiale della teologia, ma anche l’oggetto formale ed il motivo della fede, non proclamiamo con ciò una dottrina nuova, ma non facciamo che prendere nella sua realtà concreta ed indissolubile la auctoritas Dei revelantis. Al Dio che testimonia se stesso ed al quale noi crediamo, non appartiene soltanto la divi­ nità di Gesù Cristo, ma anche la sua umanità. Nel Cristo intero il Padre si rende testimonianza mediante lo Spirito Santo ed il Cristo intero, nella forma indivisibile che pone davanti a noi, rende testimonianza nello Spirito Santo al Padre. Anche qui forma e contenuto sono inseparabili. «Ogni spirito che confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio». Chiunque invece, in qualunque maniera, pre­ tende di arrivare al Padre senza il Figlio, non coglie la testimo­ nianza trinitaria e quindi la fede. Nella finitezza di Gesù e di tutto ciò che è stato dato con la sua forma ed è ad essa connesso, noi teniamo l’infinito; attraverso la finitezza di Gesù e dentro la sua profondità noi incontriamo e troviamo l’infinito, o meglio siamo trovati e attratti da esso. Anzi nel «superamento» misterioso della sua finitezza esteriore e spazio temporale, condizione della venuta dello Spirito, ma tuttavia non altrove che in una «finitezza eterna» 140 I.

Delimitazione della forma della fede della carne risorta del Cristo, diviene accessibile a noi quanto c’è di interiore, invisibile, spirituale e divino. Se la risurrezione della carne non fosse vera, allora avrebbe ragione la gnosi e qualsiasi idealismo fino a Schopenhauer ed Hegel, per il quale il finito deve veramente andare in rovina per diventare spirituale ed infinito. La risurrezione della carne dà invece ragione in maniera definitiva ai poeti: è esatto lo schema estetico che ci fa possedere l’infinito nella finitezza della forma, in qualsiasi modo la si voglia spiritualmente vedere, comprendere ed abbracciare. La decisione va presa cioè nella disputa tra mito e rivelazione.

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ELEMENTI DELLA FORMA DELLA FEDE

Conviene quindi ritornare ancora agli elementi che giac­ ciono nella fede, come atto teologico di percezione, per appro­ fondirli. Questa volta occorre seguire l’ordine inverso, secondo l’ordine della fondazione ontica. Si tratta nello stesso tempo del­ l’ordine trinitario, in quanto «nessuno viene a me se il Padre non lo attira» (Gv 6,44) e solo la luce del Padre sul Figlio porta il credente all’incontro di unione con lui, incontro che è opera dello Spirito Santo. Anche in questa fase delle nostre riflessioni oc­ corre che poniamo in primo piano la connessione mutua di filosofia e teologia (nel primo passo), di mito e di rivelazione (nel secondo), di esperienza cristiana di Dio ed esperienza estra-cristiana («mistica»). Giacché però per il momento noi consideriamo il tutto sotto l’aspet­ to dell’evidenza soggettiva— tratteremo dopo soltanto del conte­ nuto oggettivo della rivelazione— e giacché quella è interamente dipendente da questo, inevitabilmente la nostra trattazione con­ terrà, fin quando non sarà trattato tematicamente, degli elementi provvisori.

1. La testimonianza, di Dio in noi «Se noi riceviamo la testimonianza degli uomini, la testi­ monianza di Dio è più grande. Questa è infatti la testimonianza che Dio ha reso al Figlio suo: chi crede al Figlio di Dio ha questa 142

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Elementi della forma della fede

testimonianza in sé. Ma chi non crede in Dio fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha reso al Figlio suo» (1 Gv 5,9/10). La testimonianza di Dio viene qui al tempo stesso de­ scritta interiormente ed esteriormente. Essa è la testimonianza per Cristo come Figlio di Dio, esteriormente quindi: la convalida della testimonianza di Cristo per Dio da parte di Dio. Giacché però la testimonianza di Dio è più grande di quella degli uomini, essa è interna al credente stesso e diventa, nella misura in cui questi crede, identica alla sua fede. La fede è la luce di Dio che brilla nell’uomo; Dio infatti, nella sua intimità trinitaria, può es­ sere conosciuto solo mediante Dio. In questo senso i Padri e la grande scolastica hanno parlato del lumen fidei ed occorre che noi trattiamo in primo luogo di questa luce, nella quale noi cre­ diamo a Dio e la quale costituisce il fondamento intimo {causa, motivum, jundamentum) della nostra fede. Dobbiamo trattarne in primo luogo perché, anche se la testimonianza di Dio è in sé una e indivisibile e la sua luce, accesa nel cuore dell’uomo, illumina centralmente il Figlio fattosi uomo, tuttavia è anche vero che di fatto ciò che è illuminato può non essere colto dall’uomo, senza che per questo la luce interiore debba necessariamente essere estinta. Potrebbe accadere (e Dio soltanto può qui decidere) anche che una vera luce di Dio cada sui prodotti dell’immaginazione umana (miti) o della speculazione (filosofia) e che attraverso essi e la loro verità parziale conduca fino al Dio della rivelazione. La luce di Dio che «brilla nei nostri cuori» (2 Cor 4,6), splende ai fini della conoscenza del Figlio, ma anche mediante lui che, morendo nel mondo, della morte d’amore di Dio, e vin­ cendo nella sua espiazione le tenebre del cuore, rende possibile l ’irradiarsi di questa luce. Essa è luce di Dio come «vita», «grazia», «verità». Queste hanno infatti la loro casa nel Figlio che, come «parola» di Dio, è «presso D io» ed è «D io», e vengono «nel mondo» attraverso il Figlio. «Accogliere» lui, significa ad un tempo: accogliere la «parola» di Dio (tede) e diventare «figli di D io», «nati da Dio», proprio perché introdotti nella «vita, grazia, ve­ rità» di Dio. E sia l’una che l’altra cosa sono il «vedere la gloria dell’Unigenito dal Padre». Non si tratta qui assolutamente di un processo puramente «ontologico», nel senso della elevazione di una medesima esistenza p e r s o n a l e dall’ordine «naturale» a quello «soprannaturale», così

La luce della fede

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come viene descritta di preferenza da quei teologi dell’atto di fede che, da una parte traspongono semplicemente alla fede cri­ stiana la psicologia puramente umana della testimonianza di fede e dall’altra parte, coerentemente, escludono dall’atto di fede per confinarli nella sua anticamera, i motivi certi e razionali di credi­ bilità. Tommaso d ’Aquino ha ragione nel far derivare la specifica­ zione degli atti umani dal loro oggetto formale. Questo sta a significare qui che la fede cristiana, che è la testimonianza di Dio in noi, può essere compresa soltanto come risposta a questa inte­ riore ed intima autotestimonianza del Dio che si manifesta e si dona nei misteri del suo cuore. Questa è una prima costatazione formalissima, che deve essere fatta precedere a tutte le modalità condizionate dalla costituzione concreta dell’uomo (il suo allonta­ namento peccatore da Dio, il suo accecamento ed il suo indurimento, la sua conversione operata dalla grazia di Dio, la sua rottura, il suo abbassamento e la sua esaltazione). La fede è la partecipazione alla libera apertura della vita e della luce intradivina, così come la spiritualità creata significa partecipazione all’apertura della realtà in quanto tale, nella quale, in qualche modo, deve schiudersi anche contemporaneamente la realtà di Dio. Lo spirito creato non «con­ clude» da indizi e premesse logiche a questa realtà (nella quale, in qualche maniera, si schiude anche Dio). Esso è già sempre ogni volta, in quanto spirito, nella luce di questa realtà e pensa a partire da essa e verso essa. Si può dire con Claudel che Dio è dato all’interno di questa conoscenza intuitiva dell’essere «secondo il modo dell’assenza»— super omnia quae praeter ipsum sunt et concipi possunt, ineffabiliter excelsus (Dz 1782)— , ma è tuttavia dato allo spirito come omnium principium et finis (Dz 1785). Nel momento in cui lo spirito raggiunge l’essere reale, necessariamente tocca Dio sorgente e fondamento di ogni essere, il suo orizzonte non si chiude con l’essere del mondo (ens univocum), ma coll’essere in quanto tale (ens analogum) e solo in questa luce può pen­ sare, volere ed amare e ha il linguaggio, come potere di conoscere e chiamare l’ente a partire dall’essere. Altrimenti una dimostra­ zione di Dio non sarebbe né formulabile né concludente, anche se una dimostrazione siffatta può condurre solo fino alla luce su­ prema dell’essere e delle sue proprietà trascendentali e non fino al cuore di Dio che può dischiudere il suo intimo solo nella li­ bertà. Proprio perché l’essere non si identifica a nessun ente e a nulla di oggettivo, ma è ciò in cui ogni ente, in quanto oggettivo, 144

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Elementi della forma della fede

spande la sua luce; proprio perché tutto può essere visto nella luce dell’essere senza che questa luce possa essere trasformata in un dato che ci sta davanti; per questo, l’atto filosofico sta ad indi­ care per l’uomo esistente e pensante sia una felicità sovrabbon­ dante ed un fondamento ultimo, che una minaccia di tutta la sua esistenza che può comprendersi soltanto come infinita. Nel­ l’unica parola «estasi» Heidegger ha rinvenuto contemporaneamente i due aspetti necessariamente legati dell’atto filosofico: il terrore e l’angoscia dello spirito finito che, pensando, scopre in sé l’aper­ tura dell’infinità, ed il rapimento davanti all’apparizione della sor­ gente e della pienezza che dona e protegge. Solo in questo luogo intimo dello spirito può splendere, a partire dalla luce dell’essere, la luce più profonda e più alta del Dio che si apre. L ’obiezione dei filosofi, secondo cui con il sorgere della teologia cristiana si ricade dall’essere nell’ente, non ha per­ ciò ragione di essere. L ’essere stesso svela il suo volto più nasco­ sto, che per noi riceve il nome dell’amore trinitario, e solo con questo mistero ultimo rischiara l’altro mistero: perché l’essere in quanto tale è e perché si rivela a noi come luce, verità, bontà e bellezza. L ’atto filosofico (che ogni uomo pone, per quanto im­ plicitamente) incontra adesso nella profondità dell’essere la pro­ fondità ancora più profonda della luce divina. Nel momento in cui questa profondità ultima si svela realmente, si manifesta la sua libertà (come potrebbe, se l’ente può essere libero, essere privo di libertà il fondamento dell’essere che dona?); nel momento in cui si rivela la sua luce libera, è al tempo stesso detto che questa luce deve, in colui nel quale splende, liberare verso la libertà divina: essa dona cioè la libertà della risposta e quindi anche la possibilità del rifiuto. Essa opera la fede nel credente e gli lascia la libertà della non fede. Questa è la possibilità di «fare di Dio un bugiardo». L ’atto di fede che supera, compiendolo, l’atto filo­ sofico, non ha più bisogno della dialettica dell’estasi, giacché nel­ l’incontro dell’essere come amore è scomparsa, grazie all’infinità, la minaccia che grava sulla finitezza. Dio stesso nella sua incarna­ zione ha preso su di sé questa minaccia. L ’autoconsegna dello spirito finito nell’abisso di questo amore è, giacché vive dello stesso amore, rinuncia ad ogni sicurezza finita, anche spirituale, ma avviene in quell’abbandonarsi in Dio che è senza preoccupazione per il proprio destino. Con uno sguardo retrospettivo, a partire dalla fede cri­ 145

L a luce della fede stiana, si potrebbe chiamare «fede» in senso analogo l’apertura estatica dello spirito nella luce dell’essere. Di fatto la filosofia della tarda antichità, in Filone, Plotino, Proclo, Dionigi e Massimo, ha chiamato pistis l’atto che supera ogni sapere dell’ente e si incontra semplicemente con l’essere. Quest’atto, che guadagna tutto solo a patto di tutto abbandonare (come soprattutto LaoTse ne ha avu­ to coscienza), può essere chiamato assieme a Jaspers «fede filo­ sofica» 1. La differenza dalla fede cristiana si manifesta in maniera quanto mai forte secondo che la luce di Dio cada sul mito (rispet­ tivamente sul concetto) storico oppure sulla rivelazione storica: la fede filosofica si eleva necessariamente da principio ed in maniera critica al di sopra di ogni forma finita del mito, mentre la fede cristiana ritrova nella forma della rivelazione cristiana la luce propria o la guadagna solo a partire da essa. E tuttavia il maturo Aquinate non ha timore di paragonare, anche nella fede cristiana, il rapporto tra rivelazione esterna ed illuminazione interna della grazia con quello tra sensibilità e ragione, laddove per lui la ra­ gione senza sensibilità non è semplicemente «vuota», ma contiene in sé, nella pienezza dell’unità, ciò che è sensibilmente sviluppato: «Sic patet, quod fides ex duabus partibus est ex Deo, scilicet ex parte interìoris luminis, quod inducit ad assensum, et ex parte eorum, quae exterius proponuntur, quae ex divina revelatione initium sumpserunt; et haec se habent ad cognitionem fidei 1 Occorre tuttavia tener presente un duplice aspetto della questione. La fede filosofica qui intesa non ha nulla a che fare con la fides naturalis dei moderni teologi fondamentali i quali, con questa espressione, indicano il con­ seguimento (eventuale) di una fede naturale e puramente razionale mediante i segni storici della rivelazione cristiana. Inoltre la «fede filosofica» della tarda antichità si trova, come quella dei moderni, sotto la luce indiretta della rive­ lazione biblica già avvenuta e può in parte valere come una difesa contro quest’ultima o come una sua secolarizzazione. È tuttavia possibile che, proprio nella luce della rivelazione cristiana, la luce dell’essere splenda molto più chiaramente e profondamente e che ciò che noi possiamo chiamare la sua ri­ velazione, la sua grazia ed il suo favore possano essere compresi dal filosofo in maniera del tutto diversa e nuova, cosicché qui la filosofia, coscientemente o no, volente o nolente, oggettivamente o soggettivamente, entra nella luce cristiana e diventa «filosofia cristiana». Viene così a dimostrarsi valido il pen­ siero di Guardini per il quale, accanto alla filosofia pura (pura ragione che ri­ flette sulla verità puramente razionale) ed alla teologia pura (fede cristiana che riflette sulla verità della rivelazione), è possibile una terza scienza, nella quale la verità razionale, rischiarata dalla luce della rivelazione, viene penetrata da una ragione che pensa nella luce della fede.

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Elementi della forma della fede sicut accepta per sensum ad cognitionem principiorum... JJnde sicul cognitio principiorum accipitur a sensu, et tamen lumen, quo prin­ cipia cognoscuntur, est innatum, ita fides est ex auditu, et tamen habitus fidei est infusus» (Boet de Trin q 3 a 1 ad 4 ) 2. Questo pa­ ragone, desunto dalla tradizione del x i i i secolo3, era stato esaspe­ rato dal Tommaso giovane, in maniera platoneggiante, mediante l’affermazione secondo cui al credente e alla teologia «gli articoli della fede sono immediatamente evidenti (per se noti) grazie alla luce della fede», «così come anche i princìpi naturali dell’intelletto sono naturalmente innati... Da questi princìpi, con l’aiuto dei princìpi universali (naturali), procede quella scienza ed essa non possiede mezzo alcuno per dimostrarli, ma solo per difenderli contro gli avversari, allo stesso modo in cui nessun artista può dimostrare i suoi princìpi fondamentali» (Sent prol q 1 a 3 qla 2 ad 2). Tommaso ben presto (3 Sent d 24 a 2 sol 1 ad 2), ed a partire da questo momento in maniera regolare, si correggerà affermando che il paragone tra le due illuminazioni è propriamente soltanto un’analogia, in quanto gli articoli della fede non mostrano la loro evidenza interna conosciuta solo da Dio; la luce della fede rimane però per lui, in forza della natura che le è propria, adattamento iniziale, assimilazione, partecipazione alla visione che Dio ha di se stesso. Ed è ciò che conferisce alla illuminazione della fede la certezza propria, superiore a quella di qualsiasi scienza terrena. Così pensava già Alberto Magno, il quale distingue una «certezza dell’evidenza interna» ed una «certezza secundum pietatem»\ l’ultima «è al di sopra della ratio e trae la sua certezza non già dai princìpi della ragione, bensì da una luce che è simile alla prima verità; essa è semplice ed apre, per così dire, gli occhi alla visione della prima verità... questa è la certezza che ha origine dalla luce della fede che penetra la coscienza e la convince effetti­ 2 «Appare così come la fede è da Dio sotto un duplice aspetto: da parte del lume interiore che induce all’assenso e da parte di ciò che viene proposto esteriormente e che ha preso inizio dalla rivelazione; quest’ultimo si rapporta alla conoscenza della fede così come ciò che abbiamo ricevuto at­ traverso i sensi si rapporta alla conoscenza dei princìpi... Per cui, così come la conoscenza dei princìpi si riceve dal senso, e tuttavia il lume mediante il quale si conoscono i princìpi è innato, allo stesso modo la fede è dall’ascolto, e tuttavia l ’abito della fede è infuso». 3 Chenu, La théologie comme Science au x i i i ' siècle, Parigi 2 1943; (tr it La Teologia come scienza, Milano 1971).

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La luce della fede vamente della verità di ciò che deve essere creduto... E così un santo il quale è matematico, sarebbe piuttosto disposto a negare che i tre angoli di un triangolo equivalgono alla somma di due angoli retti, piuttosto che negare la verità della fe d e »4. Tommaso mantiene la stessa interpretazione ontico-intellettuale di questa conoscenza mediante Yaffectus e la pietas, così come era pervenuta a lui dalla tradizione agostiniana e bernardiana. Non si tratta di un sentire irrazionale, nemmeno nel senso di Schleiermacher e del tardo modernismo e nemmeno di una pura «sensi­ bilità religiosa, ma di qualcosa di molto più profondo»s, del po­ tenziamento entitativo dello spirito umano mediante un quoddam spirituale esse (Virt comm a 10 c), per poter intendere i misteri intradivini. Tommaso parla sempre nuovamente della istituzione di una relazione interiore e di una proporzione con questi misteri, fondamentale non soltanto per la loro conoscenza, ma già per ogni desiderio di tendere ad essi (Ver q 14 a 2; l a 2ae q 16 a 4 c); per la saggezza naturale, come beatitudine terrena, i princìpi della ragione per se stessi evidenti sono quindi infusi all’uomo come semente della saggezza contemplativa ed attiva, ma la beatitudine della vita eterna viene infusa in noi in germe, attraverso la luce infusa della fede, nella misura in cui questa viene comprensivamente intesa come quell’atteggiamento che racchiude la speranza e l’amore, anzi presuppone già l’impulso del cuore, la speranza e l’amore (3 d 23 q 2 a 5 ad 4). Perciò è l’amore che originaria­ mente apre per primo gli occhi nuovi e vuole credere tutto ciò che nell’amato gli si offre. La fede è oscura inchoatio visionis. Essa è, assieme all’amore e alla speranza, il lato cosciente della grazia, lad­ dove questa è l’assimilazione entitativa alla natura di Dio; la fede conosce nella maniera che è sua, sulla base di una connaturalitas, di una parentela della natura che viene descritta dallo stesso Tomma­ so, ed ancora più fortemente da Eckhart, come immersione gratuita della creatura nell’atto della generazione e della nascita trinitaria (co-naissance con il Figlio dal Padre). Per Tommaso, sia la dot­ trina cristiana che il miracolo che testimonia, non direbbero nulla all’uomo senza Vistinctus interior et attractus doctrinae (In Job c 6, 1 4, n 7; c 15 1 5 n 5; In Km c 8, 1 6), chiamati anche inspiratio 4 3d 23a 17sol (cit sec A Stolz, «Glaubensgnade und Glaubenslicht nach Thomas von Aquin», Stud Anselm 1 (1933), PP 82/83. 5 R Aubert, Le problème de l’acte de foi, Lovanio 2 1950, p 705.

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Elementi della forma della fede interna ed experimentum. In una nuova concezione è l’attrazione di Agostino (trahi) che, attraverso la forza di gravitazione dell’amore, è divenuta, per Tommaso, la forza di gravitazione dell’essere. Il sovrappeso entitativo di Dio nel cuore e nello spirito dell’uomo impedisce che la fede si definisca sulla base di un desiderium naturale intellectus, di un postulato della ragione, per cui il divino verrebbe ad essere «misurato» in base all’umano (cfr 2a 2ae q 7 a 2 ad 2); non siamo noi ad esigere la fede a motivo del nostro dinamismo, ma è questa che esige ed espropria noi stessi. È il suo sovrappeso in noi ciò che ci costringe ed è esso che in noi confe­ risce a Dio l’autorità assoluta. Uauctoritas Dei revelantis è, con­ siderata in questo primo aspetto fondante tutto, la rivelazione che testimonia se stessa in noi. Noi non potremmo e non dovremmo mai credere un ente storico a motivo di una testimonianza divina, se non lo credessimo in forza dell’essere di Dio che testimonia se stesso e che brilla a noi nella luce interiore della fede. Il Figlio di Dio, che nella storia testimonia Dio e riceve la testimonianza di Dio, ci convince solo perché noi abbiamo in noi stessi la testimo­ nianza di Dio: «Viene attirato a Dio l’uomo che è inebriato dalla verità, inebriato dalla felicità, inebriato dalla giustizia, inebriato dalla vita eterna e tutto ciò è il Cristo» (Agostino, In Job tr 26, c 9 n 4; allo stesso modo Origene nel primo libro del suo com­ mento a Giovanni). Nella luce della rivelazione di Dio l’uomo è messo davanti all’essere divino di Dio ed il sovrappeso infinito di Dio, la sovranità del suo essere divino, brilla come ciò che c’è di più immediato ai suoi occhi. Ciò che qui viene metaforicamente chiamato luce dell’essere (nella sua profondità divina) può quindi prendere in Agostino anche il nome «verbo»: insegnamento lumi­ noso da parte del Magister interior, come apriori teologico che fonda ogni insegnamento che viene dall’esterno, dallo spazio della chiesa e della storia: il sensorium, donato nella rivelazione stessa, per ciò che la rivelazione significa non già in generale, ma nel senso irrepe­ tibile del divenire manifesto di Dio. Nella discussione con Plotino, Agostino metterà l’accento sulla unità del cuore che costituisce il pri­ mo insegnamento ed il primo effetto del verbo luminoso divino nel­ l’uomo che vede ed ascolta. Si tratta così di una esperienza «estetica» della gloria sublime dell’essere divino, in nessun caso tuttavia di un puro scorgere, di una visione beatificante, ma, dall’origine, di una per­ fetta sottomissione sotto la sovranità di questa luce-verbo e solo que­ sta sottomissione indica la connaturalità con Dio operata dalla grazia. 149

La luce della fede Il teologo cristiano ed ogni cristiano che realizza spiritualmente la propria fede avrà dunque, come atteggiamento di fondo riguardo alla visione, uno zelo ed una passione per la divinità di Dio (Quis ut Deus?) piuttosto che una brama al riposo beatificante nella visione. N élYapriori teologico la conoscenza della qualità del divino si trova inserita, di fronte alla luce sovrana, nell’atteggia­ mento di fede; questo atteggiamento si esprime nel fatto che il soggetto che riceve è apriori pronto a considerare e a riconoscere ogni disposizione proveniente dalla luce, nella sua libertà incom­ prensibile, come un’espressione della necessità più profonda della luce. In questa suprema qualità dell’autorità della luce della rivela­ zione si radica— più profondamente di quanto non lo si ammetta ordinariamente— tutto ciò che nella teologia vale come intellectus M ei e come convenientia del singolo dogma e dei dogmi vicende­ volmente. Si tratta in ultima analisi non già di una vaga «conve­ nienza» che lascia spazio anche per soluzioni diverse e contrapposte, ma del riconoscimento che, nell’apparente non necessità dei dati sto­ rici della rivelazione, si rivela nello stesso tempo la giustezza delle disposizioni e delle decisioni divine, come espressione della natura divina stessa. Lasciare aperte altre possibilità, che spettano sempre a Dio de potentia absoluta, non è perciò altro che l’atto di omaggio della fede alla libertà divina che si manifesta contemporaneamente alla necessità, ma in nessuno modo una messa in questione della necessità teologica. Questo stato di cose può essere chiarito, nel migliore dei modi, attraverso il giudizio estetico che, nelle libere creazioni del­ l’arte, costata con ammirazione la necessità estetica, il dover-esserecosì-e-non-altrimenti. Bach non avrebbe potuto in una triplice fuga scegliere un terzo tema diverso e intrecciarlo con altrettanta ne­ cessità ai primi due? Si può rispondere affermativamente ed in questo modo rendere anche un omaggio più profondo al genio di Bach. Esteticamente tuttavia con questo non si è detto niente; l’esplorazione della necessità estetica ha come punto di partenza la stretta datità dell’opera compiuta. Qui noi non parliamo ancora dell’opera di Dio nella sua creazione, riconciliazione e redenzione, ma per poterne parlare giustamente è necessario fin dall’inizio de­ terminare la qualità con la quale ci si fa incontro il Dio che si rivela. Questa qualità ha origine dall’essere stesso di Dio e non può essere semplicemente letta o dedotta a partire dall’ente delle 150

Elementi della forma della fede sue opere, all’interno del mondo e della storia. L ’essere di Dio, che è la profondità portante di ogni essere creaturale, può manifestarsi essenzialmente don soltanto e non soprattutto là dove l’ente incon­ tra la creatura spirituale, nella percezione sensibile e nel giudizio del pensiero. L ’essere di Dio può invece emergere alla superficie, centralmente, solo a partire dall’apriori dell’essere spirituale, come suo approfondimento per grazia. La luce dell’essere, nella quale noi conosciamo ogni ente, senza poterla ogni volta osservare oggettiva­ mente e che tuttavia nello stesso tempo scorgiamo in ogni ente, giacché noi possiamo conoscere qualsiasi cosa soltanto nella luce e nella prospettiva dell’essere— questa luce si approfondisce e si eleva nel lumen fidei origeniano-agostiniano-tornano. Non quasi fosse già visione della cosa stessa, intuizione di Dio e dei misteri divini o intelligenza interiore del suo dover-essere-così-e-non-diversamente: un’intuizione siffatta è riservata alla vita eterna. E tuttavia la vita eterna è già iniziata nella grazia e la fede che si dona alla luce è quindi già una quaedam inchoatio visionis. Solo con questo pre­ supposto il credente si può sottomettere ad una autorità esterna. In­ fatti, rettamente inteso, il lumen fidei infuso in lui e al cui splen­ dore egli si sottomette, non è più «eteronomo» della luce della ra­ gione naturale innata. Infatti anche questa luce (come lumen intel­ lectus agentis) propriamente non è la luce sua propria, ma il suo essere aperto alla luce dell’essere stesso che brilla a lui. A partire da qui si hanno un paio di conseguenze che de­ vono tutte essere ben ponderate all’inizio della teologia. 1. Per lo sviluppo interno della teologia si ricava l ’esigenza che è questa luce e nient’altro a doversi mantenere e manifestare fin nelle ultime ramificazioni della speculazione teologica. Ciò è possi­ bile nella misura in cui il pensatore cristiano compie continuamente ed in maniera vitale l’atto originario della fede apriorica: quella donazione obbediente alla luce che si irraggia, nella quale sol­ tanto egli, credendo e non vedendo, riceve la partecipazione alla saggezza del Dio che rivela. Quanto più obbedientemente egli pensa, tanto più esattamente vedrà. Giacché la luce della fede proporziona tutto l’essere dell’uomo e quindi anche il suo intelletto al mistero, questi allora penserà giustamente quando assimilerà le proporzioni del suo pensiero e della sua opera, grazie alla luce della fede pro­ porzionante, alle proporzioni dell’oggetto della fede poste da Dio. Queste proporzioni non sono semplicemente dei rapporti estetici all’interno della forma creata della rivelazione ed ancor meno dei HI

La luce della fede rapporti estetici all’interno del pensiero che ne dispone umana­ mente, ma espressione di un rapporto altissimo di Dio con se stesso, della identità dinamica della luce trinitaria. Questa, in quan­ to oggetto formale della teologia, deve visibilizzarsi in tutti gli sviluppi e le articolazioni materiali della teologia stessa e solo allora sussiste la garanzia che un intelletto (filosofico) naturale può sen­ tirsi toccato dalla teologia e dalla rivelazione resa vicina da essa. 2. Una siffatta gnosis a partire dalla pistis è soprattutto opera del santo cristiano il quale ha fatto come regola di tutta la sua esistenza l’atto radicale della fede e dell’obbedienza di fronte alla luce interiore di Dio. Per questo motivo la «teologia dei santi» si svilupperà soprattutto nella direzione nella quale il lumen fidei viene a svilupparsi e trasformarsi in dato. A partire da Agostino e da Bernardo si è soliti descrivere questa dimensione mediante le cate­ gorie volontarie ed affettive in opposizione a quelle puramente teo­ retiche ed intellettuali. Ciò tuttavia è giusto solo in parte. Ciò che la vecchia teologia, a corto di altre categorie, descriveva in questo modo, viene colto più adeguatamente mediante le categorie più cen­ trali dell’esistentività e della personalità, che intendono l’atto radi­ cale della fede come un rapporto globale della persona, determinato da Dio e dalla rivelazione della sua grazia. Se si rimane invece fermi alla contrapposizione tra intel­ letto e volontà, allora la volontà appare, nella psicologia della fede, come il momento che viene in aiuto supplendo alla evidenza insuffi­ ciente dell’intelletto (Gardeil), ciò che costituisce una via d ’uscita insoddisfacente sia per l’intelletto che la volontà. Solo se sotto la «volontà» e l’«affetto» si intende l’impegno della persona nella sua profondità, allora la fede intellettuale diventa una risposta auten­ tica all’automanifestazione della profondità personale di Dio, il quale non dà in primo luogo «verità» su di sé, ma dona se stesso come verità ed amore assoluto. Per questo motivo Tommaso ha descritto, assieme a tutta la tradizione, l’approfondimento e la attuazione vitale dell’atto di fede (nella sua concretezza, implicante quindi la speranza e la carità) come lo sviluppo dello Spirito vivente di Dio nello spi­ rito dell’uomo: i doni dello Spirito Santo, radicalmente dati con la grazia, conducono il credente in una esperienza sempre più pro­ fonda, in una sperimentazione sia della presenza dell’essere divino in lui, che della profondità della verità, della bontà e della bellezza nel mistero di Dio. Ed è questa esperienza che Tommaso ha cura di indicare, in un senso generalissimo, come mistica cristiana. Che que1 *52

Elementi della forma della fede sta mistica non è identica ancora alla carismatica ecclesiale (delle missioni e dei doni particolari), ma questa presuppone normalmente lo sviluppo della «mistica» nel senso generale, è stato da noi mostra­ to altrove6. Mentre i carismi particolari della missione dei singoli nella comunità non possono essere dedotti in alcun modo dalla gra­ zia universale della fede, i doni dello Spirito Santo, anzi la stessa visione infusa, in tutti i suoi gradi e le sue forme, stanno a signi­ ficare fondamentalmente solo lo sviluppo della luce della fede, della speranza e dell’amore, infusa originariamente con la grazia. Pascal, con le sue raisons du coeur ha continuato la dire­ zione agostiniana e bernardiana ed ha iniziato in questo ad esplici­ tarla in senso piuttosto personale che affettivo. Ciò che egli chiama cuore, costituisce l’organo centrale della persona, qualcosa che non è contrapposto all’intelletto, ma fonda questo assieme a tutte le facoltà particolari. Newman ha portato a compimento questa linea quando ha inteso anche da parte sua l’atto centrale della «realizza­ zione» non già antiintellettualisticamente, bensì come approfondimen­ to di un’appercezione puramente concettuale in un’appercezione esperienziale di tutta la persona. Dopo quanto abbiamo detto, è ormai evidente come, ogni volta, l’esperienza quanto più profonda del Dio eternamente incomprensibile, introduce il credente in una gnosi cri­ stiana particolare la quale è tuttavia, al tempo stesso, pistis sempre più centrale: donazione sempre più totale alla sovrabbondanza sem­ pre più grande del Dio libero e sovrano, anzi (come la rappresenta Giovanni della Croce) consegna sempre più radicale di tutte le motivazioni ed evidenze della fede, proprie e naturali, all’unica evidenza di Dio. 3. La dottrina del lumen fidei incontra, nel campo della teo­ logia liberale e della filosofia e psicologia della religione, il concetto di apriori religioso. Questo concetto non deve essere necessaria­ mente rifiutato. Esso ha solo bisogno di essere spiegato correttamente. Si ha un apriori religioso naturale, dato con l’essenza della creatura in quanto tale, coincidente con la sua capacità di intendere ogni ente nella luce dell’essere (analogo e rimandante a Dio). L ’on­ tologia naturale è in larga misura (fin quando non rimane impi­ gliata nelle analisi singole dell’essere regionale) sempre ed anche teo­ logia naturale. Quando però noi abbiamo parlato di un apriori reli­ 6 Nel mio commento alla dottrina dei carismi di Tommaso d’Aquino, nella edizione latina tedesca delle opere di Tommaso, voi 23 (1954), pp 254/264. 153

La luce della fede gioso, non lo intendevamo in questo senso, bensì ci riferivamo al­ l’elevazione ed all’irraggiamento di questo apriori nella luce della pienezza intima e vitale di Dio che si rivela. Giacché tuttavia que­ sto rivelarsi di Dio non è rivolto soltanto a quegli uomini che si chiamano espressamente cristiani, ma fondamentalmente a tutti— in quanto tutti sono chiamati alla visione di Dio nella vita eterna e perciò, sempre, anche se in maniera nascosta, sono collocati gratuita­ mente da Dio nel rapporto intimo con questa luce della rivelazio­ ne— , allora alcuni aspetti di quello che, nello spazio estracristiano, viene indicato e descritto nelle esperienze religiose come apriori, de­ vono necessariamente essere di fatto sotto l’influsso di momenti di grazia. In che misura ciò sia pertinente, nell’insieme e ogni volta nel singolo caso, sfugge alla costatazione scientifica ed è quindi possibile che, in questo campo, dalla filosofia venga esigito come proprio oggetto ciò che nascostamente trapassa già nella teologia e che perciò la filosofia religiosa pretenda di aver esaurito la tratta­ zione del fatto cristiano assumendone i dati, alla stregua di casi par­ ticolari, sotto la legge universale, per la storia e per l ’uomo, del manifestarsi di Dio. In realtà, da un punto di vista cristiano, si può senz’altro concedere, anzi presumere, che quella luce religiosa inte­ riore la quale, dalle anime che ricercano Dio, cade sulle forme sto­ riche delle religioni estrabibliche, può essere la stessa luce che brilla nei cuori dei credenti. Perché una religione mitica, un sistema filo­ sofico religioso, un cammino mistico del ritrovamento di Dio non dovrebbero, toccati da questa luce interiore, rifletterla su di colui che ha la luce in sé? Perché costui non dovrebbe essere condotto più vicino a Dio mediante queste costruzioni e figure provenienti di per sé dall’uomo? Ancora di più: perché fondatori di religioni, rifor­ matori religiosi, poeti, pensatori e mistici non avrebbero dovuto sviluppare almeno in parte sotto l’influsso di questa luce teologica apriorica le proprie realizzazioni religiose di natura personale o sociale? A partire dal pensiero cristiano non può essere sollevata alcuna obiezione seria in senso contrario. Ci si potrebbe quindi spin­ gere fino a ritrovare, nelle creazioni della religione, della filosofia e dell’arte fuori del cristianesimo, momenti che rimandano, in mi­ sura più o meno evidente, ad un’obbedienza di fronte alla luce di Dio che si rivela. Queste creazioni si distinguono dal cristianesimo nella misura in cui possono essere testimonianze dell’uomo reli­ gioso e nel segreto persino credente, ma non già autotestimonianza

Elementi delia forma della fede immediata di Dio in forma storica, soprattutto nel Cristo il quale esige la fede in se stesso, in quanto forma storica. Ora nessun fondatore di religione o pensatore o artista può fare questo e lo potrà, qualora comprenda se stesso come un obbediente alla luce eterna. Solo i suoi discepoli, seguendo le leggi della immaginazione mitica, lo inseriranno nel mito da lui creato e trasformeranno il ri­ mando alla luce divina che il saggio, il maestro, l’iniziatore è in grado di dare grazie alla propria esperienza, in un rimando alla sua persona stessa. Se a ciò si aggiunge come sia diffìcile distinguere sog­ gettivamente una ispirazione estetica, con la sua necessità impel­ lente della forma corrispondente, da una ispirazione religiosa, con la sua esigenza altrettanto impellente di ciò che essa detta o di un qualsiasi altro compito e come sia ancora più difficile distinguere la fonte d ’ispirazione di un’esperienza religiosa dell’essere nella sua totalità da un’esperienza immediata divina, allora bisogna usare considerazione verso i grandi creatori religiosi se hanno compreso se stessi come depositari di rivelazione, come profeti ed eletti, come «incarnazione» della luce divina. Vale la stessa considerazione per la folla che si mette alla loro sequela: perché essa non dovrebbe, attraverso le creazioni religiose pervase di luce divina, trovare una via a quella luce che sente in sé in maniera oscura e impossibile ad oggettivare? Nella grande disputa dei riti sugli usi malabarici e cinesi, non si trattava per i missionari cristiani di questioni este­ riori, ma proprio di questo. Semplificando, si diede il nome di reli­ gione naturale alle forme religiose nelle quali ci si imbatteva; esse lo erano per la loro forma esterna, ma anche come tali sembravano di poter essere «battezzate» in alcuni loro elementi essenziali. Siffatti «battesimi», che si ripetono sempre nel corso della storia dello spirito cristiano, devono tener conto di una moltitudine di aspetti. Essi devono ad esempio fare attenzione al fatto che la forma destinata ad esprimere l’autentica luce divina può essere in­ giustamente oscurata, per cui spesso non riesce a filtrare che solo un bagliore e molto deve invece essere ricondotto al cuore cattivo e corrotto dell’uomo, all’orgoglio e alla concupiscenza. Così può anche accadere che la gioia del mito e della sua forma, esteticamente rac­ chiusa in se stessa, soffochi la luce di Dio. Come è anche possibile che lo splendore che avvolge una forma provenga dallo spirito, op­ posto a Dio, di questo mondo e del mondo sotterraneo. E proprio laddove l’uomo dovrebbe immergersi nell’atteggiamento di puro ab­ bandono sereno in Dio, l’impresa tutta potrebbe ancora e sempre n*»

La luce della fede mantenere il carattere di una tecnica che si apprende e padroneggia, per cui al posto della redenzione da parte di Dio subentra una tita­ nica autogiustificazione. Mentre è possibile che delle creazioni, ori­ ginariamente intese in modo puro, possano essere inserite nei loro piani da potenze spirituali e mondane e da queste provviste di con­ trassegni opposti. E soprattutto è anche possibile che un’intuizione pura ed originaria della luce divina autodonantesi venga rivestita di uno schema puramente naturale, al di sotto del suo livello, ad esempio che la creatura, per penetrare nella sfera divina, lasci ca­ dere i propri limiti e quindi se stessa, cosicché Dio, l’illimitato, stia a significare, per il fatto stesso di essere, la distruzione e la morte di tutte le forme e di tutti i limiti mondani. Siffatti oscuramenti della luce ispiratrice sono innumerevoli e indicano a colui il quale ha incontrato la forma cristiana della religione in che misura la luce divina della fede rimanga intrinseca­ mente ordinata ad una forma divina della rivelazione per formare, sul piano della rivelazione, quella sintesi che sul piano della cono­ scenza naturale corrisponde, secondo la dottrina dell’Aquinate, al­ l ’incontro di sensibilità e luce dell’intelletto. Se la luce dell’essere propria dell’intelletto agente può pervenire al dato solo nella con­ versione al fantasma, allora la luce suprema di Dio perviene solo allora al dato quando cade, non già su una qualsiasi apparizione mondana (fosse anche il riparo dove l’anima raccoglie la sua espe­ rienza interiore), ma sull’apparizione che essa stessa si è formata, per mostrarsi veramente in essa. Una siffatta «forma delle forme» deve dimostrare il proprio carattere privilegiato. In quanto appa­ rizione propria di Dio essa deve qualitativamente distinguersi da tutte le creazioni, per quanto elevate e travolgenti, della fantasia religiosa. Dio stesso deve assegnare ad essa un posto privilegiato nel teatro delle apparizioni, non soltanto facendone una forma og­ gettivamente inattaccabile ed impossibile a scambiare, ma dandole la capacità di formare, assieme alle forme che la circondano, una forma totale impossibile a trovare e a dedurre da un’altra: la testimo­ nianza che Dio dà per il Figlio suo non è incarnata soltanto in Gesù Cristo, ma anche nel tempo e nella storia salvifica che portano a Lui e che da Lui provengono. Giacché Cristo è quell’Ente storico che nella sua positività (umana) rende presente, in maniera insuperabile, l’Essere divino per il mondo, allora è anche la misura, sia di giudizio che di reden­ zione, per ogni altra forma religiosa nell’umanità. Questo giudizio e 156

Elementi della forma della fede questa redenzione gli appartengono già in proprio, in forza della sua semplice esistenza. Egli stesso redime, non giudica, ma, per il fatto di esserci, diventa giudizio per ogni forma del mondo (Gv 3 ,17/19; 5,2 9 /30; 8,15/16; 12,47/48).

2. La testimonianza di Dio nella storia La pienezza dell’essere del mondo deve svilupparsi e rap­ presentarsi nel cosmo delle entità; e l ’uomo è l’entità nella quale questa pienezza si adempie e perviene a se stessa. Proprio per questo egli può essere scelto, dalla pienezza assoluta dell’essere di Dio, per divenire quella realtà depositaria nella quale può essere rivelata al mondo questa pienezza interiore. La conversio Dei ad phantasma creaturae è in misura tale il senso profondo nel quale trova il suo compimento ogni vita e ogni forma del mondo, che essa viene, e deve essere, anticipata in tutti i tentativi religiosi. Lo spazio dell’attuazione effettiva resta libero, perché questa at­ tuazione resta sottratta ad ogni capacità inventiva della immagina­ zione umana: sia nei miti che nelle filosofie, dove non si tratta che di «apparizioni» di Dio nello spazio del mondo e dell’umanità; a meno che non si vogliano degradare il mondo e l’uomo a pura «apparizione» di Dio. L ’unificazione dell’infinito con il finito può essere al massimo rappresentata dialetticamente, in un processo che supera se stesso. Per la fede essa diventa presente in modo serio solo là dove, nell’infinito e nell’unico, si rivela il mistero della Tri­ nità e questo si rivela esclusivamente là dove ciò che è monda­ namente impossibile viene operato da Dio. Nella forma di Cristo, presente nel mondo, la luce interiore della grazia e della fede incontra la sua verifica unicamente valida, nella misura in cui qui e soltanto qui diventa visibile una forma nella quale tutto si accorda alla luce che vede, ma nella quale chia­ ramente questo accordo non poteva essere raggiunto che a partire da Dio e non può quindi essere riconosciuto come tale se non a par­ tire dalla luce della fede. La rivelazione della storia biblica della salvezza è una fi­ gura posta davanti agli occhi dell’umanità, innalzata al centro del suo divenire storico. Ogni passante quindi deve percepirla e deci­ frarne il divino enigma da sfinge. Le linee di contorno sono trac­ 157

La luce della fede ciate con una siffatta maestria, che è impossibile cambiar di posto il minimo tratto di questa figura e le sue proporzioni sono così distribuite, che si equilibrano nelPinfinito e si sottraggono quindi ad ogni cambiamento. L ’arte di Dio nel centro della storia è senza macchia ed ogni critica rivolta al suo capolavoro ricade immediata­ mente sui criticoni. La sola luce della ragione è chiaramente in­ sufficiente a illuminare quest’opera e si può dimostrare in modo irrefutabile che chiunque tenta, servendosi di questa luce, di do­ marla, non le usa giustizia; la luce divina della fede vede invece questa forma tale qual è, e per di più in maniera tale da poter di­ mostrare che l’evidenza della verità della cosa brilla nella cosa stessa e a partire da essa. In questa luce può essere dimostrato che qui non si tratta di una proiezione deH’immaginazione religiosa produttrice di miti, ma del capolavoro della fantasia divina che manda a monte qualsiasi fantasia umana. Il fatto decisivo è che questa forma presenta se stessa come la rivelazione della profondità intima di Dio. E questo essa lo fa in forza della sua stessa essenza, non attraverso semplici affermazioni a parole, poste sulla sua bocca forse in un secondo tempo dai disce­ poli, preoccupati di divinizzarla, bensì attraverso la figura della sua esistenza stessa, attraverso la reciprocità perfetta di parola ed esi­ stenza e, più profondamente ancora, attraverso l’unità irrecusabile e tuttavia indissolubile della testimonianza passiva-attiva: testimo­ nianza del Figlio per il Padre e, in questa, del Padre per il Figlio. Cristo, ponendo davanti agli uomini questa figura, osa, in piena con­ sapevolezza, proclamare l’Ente, che egli è, come espressione valida e parola dell’essere di Dio stesso: «Chi crede in me non crede in me, ma in colui che mi ha mandato e chi vede me vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44/45). Giacché stiamo trattando dell’eviden­ za soggettiva, noi non parleremo adesso della proclamazione pre­ sente in questa forma. Per il momento è importante solo che l’evi­ denza della luce della fede brilli nell’oggetto della fede come evi­ denza oggettiva. Non è la forza della luce interiore che dà alla forma storica la forza di sostenersi. È il mito invece che vive della forza di coloro che lo scoprono e credono in esso come oggettivazione, forse del tutto giustificata, di una passione estetico-religiosa. Ma non è l’amore dell’uomo per Dio che si è creato un’immagine di Dio, per poterlo amare meglio in quest’immagine e attraverso essa. L ’imma­ gine presenta piuttosto se stessa come qualcosa di non trovabile a 158

Elementi della forma della fede partire dall’uomo, che può quindi essere letta e compresa solo come una trovata dell’amore di Dio e quindi soltanto creduta. La questione centrale della cosiddetta «apologetica» o «teo­ logia fondamentale» è quindi una questione della visione della for­ ma, un problema estetico. È l’aver misconosciuto questo fatto che ha intristito in tal misura questo ramo della teologia negli ultimi cento anni. Sotto l’influsso di un concetto moderno e razionalistico della scienza la questione si è sempre più allontanata dal centro che le è proprio— «In che modo la rivelazione di Dio si fa presente all’uomo nella storia? In che modo viene percepita?»— per accam­ parsi sempre più ai margini e diventare una questione così conce­ pita: «Qui è comparso un uomo che afferma di essere Dio e, sulla base di questa affermazione, esige che si accettino da lui molte verità che si sottraggono alla verifica della ragione: in che modo è possibile fondare la sua pretesa autoritaria in un modo concilia­ bile con la ragione?». Chi pone la questione in questi termini, propriamente ha già perduto ed incappa nel dilemma insolubile o di credere sulla base di una sufficiente certezza della ragione (ma allora non crede più a motivo dell’autorità divina e la sua fede non è una fede cristiana), oppure, per poter prestare una fede veramente cristiana, di rinunciare alla certezza della ragione e di poggiarsi su semplici probabilità (ed allora la sua fede non è real­ mente ragionevole). Abbiamo a che fare qui con quell’apologetica che distingue tra un contenuto non evidente che deve essere cre­ duto ed un «segno» che appoggia la verità di questo contenuto (segno che tuttavia prova o troppo o troppo poco). Strano però: quest’apologetica non riesce a vedere la forma che Dio pone davanti a noi in modo inequivocabile. È impossibile infatti considerare Cristo come un «segno» tra gli altri. La più piccola idea di quello che è una forma dovrebbe metterci in guardia da una identifica­ zione siffatta. Non risulta nemmeno decisivo tuttavia se per sfuggire al dilemma di questa problematica, si aggiunge il punto di vista del bene, presente sempre, a dire il vero, nell’antica teologia dei Padri e degli scolastici, ma all’interno di una visione d’insieme coerente e non della visione decurtata che ha sperimentato nell’epoca moderna. Agostino, ad esempio, afferma senz’altro che noi crediamo a Cristo perché egli per noi è e porta il bene in quanto tale e perché noi, ade­ rendo a lui, perveniamo alla luce e alla felicità. Similmente anche Tommaso fonda la fede sull’appetitus boni rcpromissi, sull’attra­ 159

La luce della fede zione del bene capace di perfezionare totalmente l’uomo (De ver 14 a 1). Viene così aperta la dimensione esistentiva; la verità della rivelazione viene verificata nell’esistenza umana che perviene al giu­ sto, che passa dal suo decadimento alla sua autenticità, senza che sia necessario dire che questo punto di vista sia soggettivo e che faccia della rivelazione una funzione dell’io credente. Sempre si cade in questo pericolo se il punto di vista esistentivo viene fatto giuocare contro quello «storico-critico» (accettando così per la teo­ logia il concetto moderno di verità e di scienza), contrapponendo quindi un «Cristo della fede» ad un «Gesù storico». A questa dia­ lettica tragica, della quale resta prigioniera soprattutto la teologia protestante, manca esattamente lo stesso elemento della direzione razionalistica nell’apologetica cattolica: la dimensione della visione estetica. La figura che si presenta a noi a partire dalla sacra scrit­ tura, viene sezionata «storicamente-criticamente» fino a non lasciare che un morto ammasso di carne, sangue ed ossa. Si rivela qui, nel campo della teologia, la stessa incapacità alla lettura della forma, manifestata in tutti i gradi da una biologia e psicologia meccanici­ stiche di fronte all’unità del fenomeno vivente. La risonanza di profonda afflizione, di assenza di gioia e di godimento, emessa da queste teologie dilaniate tra scienza e fede, incapaci di visione e per ciò stesso di rendere ancora visibile qualcosa di convincente, esprime in modo inequivocabile il loro profondo fallimento. Ambe­ due le direzioni restano prigioniere del formalismo kantiano per il quale non si dà più niente che il «materiale» sensibile, ordinato ed elaborato dalle forme categoriali o dalle idee e dai postulati. Invece fu un grande passo avanti quello compiuto quando Pierre Rousselot, a partire dal 1910, cominciò a sviluppare la sua dottrina degli «occhi della fede» 1. Già lo stesso titolo, scelto come parola d ’ordine, derivato dai Padri e soprattutto da Agostino e rifacentesi alla concezione biblica della fede, indica come ci sia qual­ cosa da vedere per la fede, anzi come la fede cristiana consista es­ senzialmente in una capacità di vedere ciò che Dio vuole mostrare e che non può essere visto senza la fede. Dietro Rousselot ci stanno da una parte Tommaso d’Aquino8 e dall’altra Blondel con la sua concezione dell’apertura dinamica dello spirito alla pienezza dell’es­ 7 «Les yeux de la foi» Rech de Se Rei, I (1910) pp 241/259; 444/ 475. Articoli di completamento nella stessa rivista, annate 1913, 1914. 8 Cfr la sua importante opera: L ’intellectualisme de S. Thomas, Parigi Beauchesne 31936 (introdotta da Léonce de Grandmaison). 160

^Elementi della forma della fede sere. Solo nella conoscenza già ogni volta presente dell’essere, è possibile pensare razionalmente, volere ed amare liberamente. Lo spirito che conosce l’essere, sa ed ama, ogni volta, più di quanto non riesca a portare nelle dimostrazioni o nelle formulazioni logi­ che. Esso è energia sintetica attiva che va al reale e che ha già sempre superato, nel porsi, tutte le forme unicamente concettuali. Quando si tratta tuttavia dell’interpretazione, sulla base dei segni esistenti, di una rivelazione soprannaturale di Dio nella storia, allora lo spirito teso alla ricerca del senso ha bisogno di una luce più alta e gratuita per sintetizzare i segni: per vedere ed intendere i fatti come segni della rivelazione, lo spirito deve ricevere la capa­ cità di vedere, assieme, ciò di cui vogliono essere espressione e di occupare, in anticipo, quel punto di convergenza a partire dal quale questi segni vengono resi comprensibili. Se si ammette quindi che questo punto di convergenza è soprannaturale e che giace nella sfera propriamente divina, allora diventa chiaro come lo spirito, teso alla ricerca del senso dei segni, non lo coglierà assolutamente (e non solo parzialmente) fin quando cercherà questo punto unitario nel dominio della natura. Lo spirito non potrà decifrare così il signi­ ficato dei segni. La luce della grazia viene invece in aiuto a questa incapacità naturale, rafforza e rende più acuta la capacità visiva. La luce della grazia non mostra nuovi indizi, non compensa l’insuffi­ cienza degli argomenti «scientifici»; essa dona piuttosto la vista, proporziona l’occhio all’oggetto mostrato. Sotto l’influsso del Newman, da lui molto stimato, e del suo illative sense, Rousselot ha qualificato di preferenza il suo metodo come induzione. Come per Newman dalla convergenza degli indizi risulta improvvisamente, come un oggetto visto, la conclusione; e come nel procedimento induttivo la legge universale viene improvvisamente vista nel caso singolo o in un gruppo di casi particolari, allo stesso modo si cri­ stallizzano i segni della rivelazione attorno al centro che diviene visibile nella luce della fede. L ’atto di fede è razionale quindi pro­ prio in quell’istante in cui viene prestato come fede. È una que­ stione secondaria quella di sapere in che misura il singolo credente è capace di giustificare in maniera riflessa e razionale la sua visione; l’atto di fede non trae la sua razionalità centrale da un’attività, ad esso precedente, della pura ragione; anzi non ne sarebbe affatto ca­ pace in quanto la razionalità viene a sorgere di fatto proprio e soltanto nell’atto di fede. Tutta questa dinamica non può aver luogo che all’interno dell’orientamento generale dell’uomo a Dio, in un 161

La luce della fede contesto esistentivo quindi che impegna sia la ragione, che la vo­ lontà, la libertà e l’amore. L ’uomo è convertito e reso capace di questo approccio esi­ stentivo a Dio dalla grazia, la quale comunica, a colui che si trova in un cammino siffatto, il senso per Dio e per la sua rivelazione nella storia: luce interiore della fede e rivelazione storica esterna si incontrano, riconoscono e rafforzano vicendevolmente. Ciò che per Rousselot è importante è che la sintesi attiva dei segni della rive­ lazione e la luce che la rende possibile siano realmente iscritte nel naturale appetitus entis: che ciò che viene quindi scorto in Cristo possa essere letto e compreso essenzialmente sulla via dell’autorealizzazione dello spirito che tende a Dio così com’è in sé, ma, per ciò stesso, anche come l’espressione autentica dell’essere divino. È noto quale forte influsso abbia operato l’irruzione di Rous­ selot nella discussione teologica. Possono senz’altro esserci molti elementi nella sua costruzione che richiedono un approfondimento o una sfumatura diversa, ma ciò non toglie che la sua opera sia diventata determinante9. In questo contesto occorrerebbe soltanto notare che Rousselot, pur intuendo la strada giusta, rimane tuttavia nel suo modo di esprimersi e di pensare troppo vicino al kantismo che vuole superare. Anch’egli parla di «segni» invece che di forma. Anche per lui la capacità sintetica rimane, unilateralmente, una ca­ pacità del dinamismo soggettivo sostenuto dalla grazia; egli attri­ buisce un influsso troppo limitato, in questa sintesi, all’evidenza oggettiva della forma della rivelazione. È tuttavia esatto che que­ sta evidenza oggettiva può risplendere solo ad uno spirito preparato e proporzionato ad essa e che è possibile descrivere con categorie kantiane le condizioni soggettive della possibilità di questa perce­ zione della evidenza. Ma la capacità sistematizzatrice, costruttivoattiva, non può essere sopravvalutata a svantaggio della forza di Dio che esprime ed afferma se stessa nella sua testimonianza sto­ rica. Nel vangelo la capacità di credere dei discepoli è compietamente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù. Non è presente più alcuna traccia di una capacità creativa, mitico-proiettiva. La reperibilità del punto sintetico oggettivo è ridotta a zero, mentre è cresciuta all’infinito l’incapacità di inventare e quindi l’originalità irriducibile di Gesù, a partire da cui viene ormai gene­ rata ogni adesione ed ogni sottomissione. 9

Cfr la rassegna storica di Aubert, op cit, pp 451ss, 587ss, 689ss. 162

i,

Elementi della forma della fede Noi ci troviamo qui al polo opposto della tendenza moder­ nistica che, come è stato detto, rappresenta un’esasperazione della luce della grazia soggettiva ed esistentiva, così com’era intesa nella posizione di san Tommaso. Non è affatto vero, come potrebbe sem­ brare forse un istante per lo stesso san Tommaso, che gli articoli della fede diano per così dire solo il «momento materiale» (allo stesso modo in cui la sensibilità offre il materiale della elaborazione spirituale), mentre la luce della fede conterrebbe in sé, in modo potenziale implicito, tutto il contenuto della fede, per svilupparlo da sé in occasione degli articoli. È vero piuttosto che la disposizione della luce interiore è completamente ordinata alla forma oggettiva della rivelazione (a questa e non già alle singole formulazioni dog­ matiche), proprio per poter pervenire al suo contenuto proprio. Per il modernismo i dogmi sono soltanto delle forme di cristallizza­ zione del rapporto di fede esistentivo dell’uomo a Dio, delle sue intuizioni religiose vitali e dei suoi bisogni, valide fin quando pro­ muovono questa struttura esistentiva, ma nocive quando la vita le abbandona ed esse si irrigidiscono in forme morte. Questo processo di irrigidimento può iniziarsi solo perché la vita, che ha generato le forme, viene cercata nel soggetto religioso che ha prodotto i dog­ mi esattamente come la fantasia religiosa creatrice di miti ha sco­ perto delle forme religiose, superandole tuttavia e lasciandole alle proprie spalle dopo averle consumate. Una teologia che esige la demitizzazione del vangelo, presuppone nella sua ideologia che, ciò che nel vangelo è forma, possegga la stessa struttura limitata della forma mitica di qualsiasi altra religione dell’umanità, che il conte­ nuto della rivelazione posto dietro la forma mitica possegga quindi un’esistenza altrettanto nascosta e soggettiva come quella del sog­ getto credente. Per questo motivo quindi il soggetto creduto e na­ scosto sarebbe sempre sul punto di rovesciarsi e sparire nel soggetto credente. L ’impianto filosofico-vitale del modernismo, come quello teologico-esistenziale del protestantesimo, sono figli di uno stesso spirito e di uno stesso secolo. La riflessione sull’atto estetico può esserci qui di aiuto ul­ teriore, a patto che la si afferri nella sua ampiezza e nella sua profondità. Dapprima la scienza dell’arte può apparire come una collezione materiale di quelle cose che in generale sono conside­ rate come belle, mentre il giudizio soggettivo del gusto su ciò che è bello sembra essere sottomesso ad oscillazioni estreme. I giovani soprattutto sperimentano in modo molto forte quest’aspetto 1 63

La luce della fede soggettivo e tendono a generalizzarlo. Poiché essi non si sono an­ cora appropriati di nessun criterio oggettivo per la valutazione del­ le opere d ’arte e non hanno ancora appreso, vedendo ed ascol­ tando, a distinguere, si aiutano con l’«entusiasmo» adatto alla loro età; essi si trovano o si trasportano in uno stato d ’animo, in una vibrazione interiore che trasfigura ad essi la natura, l’arte, l’ami­ cizia, l’amore e trasmette ad essi l’esperienza del bello alla stessa guisa di uno stupefacente il cui effetto scompare nuovamente dopo l’uso. Coloro i quali rimangono fermi a questo apprezzamento della soggettività del giudizio del gusto, sono rimasti bloccati in una fase di sottosviluppo giovanile. È proprio dell’uomo maturo in­ vece, formando la propria anima secondo le immagini del bello oggettivo, appropriarsi a poco a poco dell’arte del discernimento, cioè della percezione del bello in sé. Le capacità soggettive della percezione, alle quali appartengono senz’altro anche la disposizione dell’animo e la fantasia, nel processo del loro sviluppo entrano sempre più al servizio della percezione oggettiva; il contemplatore d ’arte maturo è in grado di fondare senza difficoltà anche il suo giudizio su di un capolavoro, in maniera oggettiva ed estesa­ mente concettuale. Occorrerebbe perciò chiamare piuttosto Ausbildungskraft la Einbildungskraft, l’immaginazione che proietta so­ prattutto dall’interno verso l’esterno, mentre occorrerebbe chia mare piuttosto Einbildungskraft il processo della Ausbildung, della formazione, nel quale le immagini oggettive sono assimilate dal­ l’esterno verso l’interno 10. Anche lo sguardo filosofico sulle cose, che sembra essere penetrantissimo nell’atteggiamento totalizzante della gioventù, in quanto si svela per la prima volta all’occhio il miracolo dell’essere nella sua freschezza, deve essere lentamente iniziato— conservando il giovanile thaumazein— , da un sentimento globale alla visione dell’essere dell’ente raggiunto nell’abbandono di sé. Giacché la luce della fede, in quanto capacità di incontrare il divino di Dio, viene da una parte infusa e donata come grazia, dall’altra parte però viene infusa allo spirito nel suo apriori centrale e quindi in ma­ 10 Impossibile rendere qui il giuoco di parole dell’autore. Esso è dato dalla comune radice che, in tedesco, hanno i termini di ‘immaginazione’ (Ein­ bildungskraft) e ‘formazione’ (Ausbildung), dove la differenza è data unica­ mente dal prefisso che una volta, in Ez«-bildungskraft, indica un movimento verso l’interno ed un’altra volta, in ./4».r-bildung, esprime il movimento inver­ so (ndt).

164

Elementi della forma della fede niera radicalmente conforme alla struttura umana, per cui essa si attua percependo la realtà nel contesto del sensibile, allora, se è vero che la capacità fondante della fede è data già in anticipo ed è già posta nel credente, rimane non meno vero che essa non lo sottrae alla fatica umana di osservare ed analizzare la forma esatta di ciò che deve essere creduto, per integrarla, una volta trovata, esistentivamente in sé. La potenza sintetica della «facoltà» attiva della fede (come habitus et virtus fidei) non giace primariamente nel credente stesso, ma in Dio che rivelandosi inabita in lui, do­ nandogli di partecipare alla propria luce ed al proprio atto. Il cre­ dente sperimenta questa realtà estranea proprio nell’incontro con la forma della fede nella storia, nella quale soltanto Dio gli viene veramente di fronte. La forza, che sola rende possibile al cristiano il suo atto di sintesi, si trova per lui in Gesù Cristo («una forza usciva da lui») al quale egli può credere soltanto in modo tale che Cristo deve aiutare la sua incredulità, non solo aiutandolo una prima volta a sviluppare Yinitium fidei, ma donandogli la fede in modo tale che il centro rimane in Cristo. E non solo il centro dell’oggetto, senza il quale l’atto non sussisterebbe, ma an­ che il centro dell’atto, senza il quale l’oggetto non verrebbe mai raggiunto. Dio viene conosciuto solo grazie a Dio. La fede, as­ sieme alla carità e alla speranza, è vita divina infusa in noi, vita che non si scioglie (come nell’ordine della creazione) dalla vita eterna di Dio ma attira e incorpora in questa vita la creatura che se ne era staccata. Appare adesso definitivamente come sia possibile distinguere, ma giammai separare, l’aspetto d’atto (ciò che noi abbiamo chiamato Yapriori teologico della luce della fede) dal­ l’aspetto d’oggetto (la percezione del Cristo come epifania di Dio). Allo stesso modo in cui chiunque, al di fuori del cristianesimo, partecipa a questa luce interiore della fede, non ne diviene parte­ cipe che attraverso la mediazione oggettiva e redentiva della vita, della morte e della risurrezione di Cristo, così a fortiori ogni cri­ stiano credente non diviene soggettivamente cosciente e sicuro della fede che attraverso la contemplazione di Gesù Cristo. Fin quando tratta la «sua» fede ancora come una sua possibilità, egli non crede ancora, ma forse riflette se deve osare o meno il salto della fede; sarà capace di osarlo solo quando l’evidenza della cre­ dibilità di Gesù come apparizione di Dio prende talmente il soprav­ vento sulla sua «possibilità» che, ciò che in lui non perviene a compimento, diventa evento solo nella consegna a Gesù Cristo 16*5

La luce della fede che, solo, può venire in aiuto alla incredulità. Pertanto è impossi­ bile astrarre semplicemente questa struttura oggettiva della fede, appartenente per ogni cristiano all’oggetto della fede, dall’analisi del suo aspetto cosciente e descrivere questo come un puro pro­ cesso psicologico. È possibile obiettare (come accade soprattutto da parte della scuola gesuita contro la fondazione tomista della fede nella luce della fede) che la luce della fede, in quanto partecipazione alla natura e alla verità divina, in quanto elevazione e ordina­ mento ontologico dell’uomo alla visione di Dio, è essa stessa un mistero della fede e che non perviene quindi nella sfera della coscienza o vi perviene solo in modo inadeguato. La risposta a partire dalla visione agostiniana-tomista ribatterebbe, fondandosi sull’analogia tra luce della ragione e luce della fede, che il lumen fidei (come quello dell’intellectus agens) come tale non può dive­ nire, né diverrà mai, oggettivo, ma che brilla solo nell’atto della fede (o dell’atto di conoscenza) oggettivamente orientato. Qui tuttavia fede e conoscenza divergono: mentre ciò che, nell’atto di conoscenza, brilla nella conversio ad phantasma è la luce dell’essere, a cui l’intelletto agente in quanto tale è in «potenza», nella dona­ zione dell’uomo a Cristo non brilla la propria potenza di credere, bensì la potenza di Cristo di far partecipare alla sua luce e alla sua forza colui che non ne è capace. La luce dell’essere avvolge soggetto ed oggetto ed è, nell’atto, la loro identità superiore. La luce della fede ha origine dall’oggetto che si rivela al soggetto e lo attira al di là di se stesso (altrimenti non sarebbe fede) nella sfera dell’oggetto. Occorre qui evitare i paragoni vitalistici che suscitano l’apparenza secondo cui, nell’atto di fede, soggetto e og­ getto nuotino in un comune flusso di «vita divina». Occorre al contrario prestare fortemente attenzione al carattere unilaterale e permanente, fondato nell’evento della rivelazione divina, dell’atto con cui Dio si dà a partecipare in Gesù Cristo, atto che può essere esplicitato in un senso esageratamente protestantico ed estrinsecistico, come se la fede e la giustificazione, ad essa legata, rimanessero perciò soltanto «esterne» all’uomo e non gli potessero essere «im­ putate» che giuridicamente. La partecipazione che viene da Dio è al contrario fortemente operante. Dio ottiene ciò che vuole, allo stesso modo in cui lo ottiene nei miracoli del vangelo: i ciechi vedono realmente, i sordi odono effettivamente ed i morti risor­ gono e vivono veramente. Ma colui che è spiritualmente morto 166

Elementi della forma della fede risorge alla vita di Dio in lui. «In lui» significa che egli vive per il fatto che Dio vive in lui. Egli vive soggettivamente perché il Dio oggettivo, che egli non è, vive in lui. L ’uomo viene convinto di questa oggettività della fede per il fatto che Dio si manifesta a lui esteriormente, nella storia. Giac­ ché egli non può dissolvere questa forma oggettiva per il fatto di assimilarla interiormente ed esistentivamente, giacché egli non può volatilizzare mai il Gesù della storia in un puro Cristo della fede, allora deve lasciarsi iniziare, attraverso l’estroversione, alla forma storica di Dio, nella estroversione fondamentale a Dio del­ l’atteggiamento di fede. Non si tratta affatto della necessità di com­ portarsi in modo «storico-critico» di fronte alla forma storica, per atteggiarsi dopo di fronte al contenuto della fede in modo intimi­ stico e pietistico. Il Gesù della storia infatti non è un puro segno, bensì una forma, anzi la forma determinante di Dio nel mondo; una forma che si distingue dalle restanti immagini estetiche e forme del mondo, per il fatto di essere la forma archetipa che «ha in sé la vita» (G v 5,26) e di comunicare con l’essere, del quale qui si tratta, unicamente attraverso se stesso ed in se stesso a colui che ne riceve partecipazione. Occorre continuamente tener presente che, cristianamente, non si dà possibilità di distinguere tra l’atto di rivelazione di Dio e il contenuto di questa rivela­ zione. Questo contenuto è infatti inseparabilmente sia la vita in tra­ divina che la forma di Gesù Cristo. La parola di Dio è sia la divinità che si esprime e si rivela eternamente-trinitariamente e temporalmente-economicamente, sia l’uomo Gesù Cristo che è l’in­ carnazione di questa divinità. Egli è parola in quanto «carne», che è il rendersi presente di questa parola nella sua totalità umana, nella figura vitale nella quale esiste. Occorre tuttavia guardarsi dal dare a ciò il carattere di puro paradosso per la ragione e di spostare quindi il nucleo del cristianesimo nella pura invisibilità. La percezione della forma-spirito intramondana offre in questo un’analogia tanto più significativa in quanto la trascendenza dell’uomo al di là di se stesso che in que­ sta forma si compie, deve sempre già essere segretamente pene­ trata da un apriori religioso, anzi teologico e, per tal motivo, non è semplicemente sconosciuta all’uomo. Prendiamo l’esempio di un giovane che si entusiasma per la dottrina di Laotse. Per poter far questo egli deve, sotto forma di presentimento, averne compreso qualcosa. Una comprensione grammaticale dei detti non è sufTì167

La luce della fede ciente; la penetrazione conoscitiva avrà contemporaneamente inizio a due estremità: in un essere toccati intimamente, quasi irrazio­ nale, ed in una esaltazione esterna, conforme all’umore. Le due cose nascono approssimativamente da quello che Kierkegaard chia­ ma lo stadio estetico. Se uno, così entusiasmato, vuole appropriarsi veramente la dottrina, allora deve tentare, al di là del puro senti­ mento, di far rivivere in sé la verità che gli è stata offerta. Per far questo egli deve offrire un credito che non è originato sol­ tanto dalla «capacità di presa» dell’immaginazione creatrice e della ragione, ma dalla sua persona: egli comprende che, per compren­ dere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà «discepolo». Egli si impegna, si affida al «cammino». Presto arriverà ad un crocicchio: da una parte gli si parerà la possibilità di considerare la dottrina come mezzo per portare alla luce le sue possibilità più proprie e il maestro come un mediatore socratico che lo aiuta a trovare se stesso; egli riconoscerà allora nel genio, a qualsiasi ordine questo appartenga, la realizzazione più alta della comune natura umana alla quale egli ha piena parteci­ pazione e, di fronte all’opera geniale, sarà sommerso dall’esalta­ zione dell’essere umano: «Cosa siamo!». Dall’altra gli si parerà la possibilità di riconoscere nell’opera del maestro qualcosa che lo sovrasta essenzialmente, che gli manca, che lo mette a nudo nella sua impotenza; allora egli esigerà dal maestro e dalla sua dottrina energie delle quali egli non può disporre; allo stesso modo in cui alcuni discepoli indiani della saggezza sono convinti di poter rag­ giungere solo attraverso la mediazione di un guru, della cui forza più elevata essi non vogliono né possono mai privarsi, ciò che la sua dottrina propone. Non si tratta allora soltanto di cambiare la propria vita sulla base di una spinta che viene dall’esterno, della suggestione di un esempio, quanto piuttosto, nella forza del mae­ stro e della sua dottrina, di trascendersi assieme a lui e ad essa. Quando Kierkegaard costruisce gli stadi della esistenza pervenendo, dopo l ’anticipazione estetica e romantica della totalità, allo stadio etico dove il soggetto prende sul serio l’esistenza e, da una parte apprende la fedeltà (coniugale, trascendente), dall’altra comprende l’insostituibilità del singolo davanti a Dio (Socrate può essere sol­ tanto una «levatrice»), per incontrare infine Gesù Cristo nello stadio religioso della piena solitudine con Dio, manca a questi stadi, in maniera significativa, l’analogia che noi abbiamo sopra indicata e quindi il momento della forma tipica del cristianesimo. 168

Elementi della forma della fede Tra Socrate e Cristo, nel punto decisivo, esiste soltanto opposi­ zione, giacché Socrate può solo rimandare alla verità che egli non è, mentre Cristo è la verità e può quindi parteciparla attraverso se stesso. Hamann ha, in contrapposizione a questo punto di vista, nelle sue Sokratische Denkwiirdigkeiten, sviluppato l’analogia po­ sitiva tra Socrate e Cristo: Socrate può essere un’indicazione del Cristo per il fatto di avere sottomesso pienamente la sua esistenza, credendo ed amando fino alla pazzia, al demone che era in lui; Socrate rimanda al divino nella misura in cui è permeabile al di­ vino. La stessa cosa si potrebbe dire di Budda o Laotse, dalla cui dottrina vissuta è venuto lo Zen la cui essenza consiste nell’iniziare praticamente a trascendere se stessi al di là della propria coscienza, a fare dello spirito finito un ricettacolo di quello infinito, un flauto attraverso cui soffia l’ispirazione. Lo spirito viene così edu­ cato alla rinuncia alle proprie intenzioni perché, attraverso esso, si possano compiere le intenzioni infinite. Evidentemente si per­ viene qui in una zona di penombra pericolosissima che avvolge anche costantemente le forme storiche e concrete di queste dot­ trine e di queste pratiche. Infatti quando la dottrina (già nel mae­ stro e poi nei discepoli) diventa tecnica, allora il paradosso arriva fino all’annientamento : sforzo intenzionale per sopprimere qualsiasi visibilità, conquista con le proprie forze— con o senza il maestro— della sfera della grazia. Se in Hofmannsthal si dice: Cherubino e supremo sovrano è il nostro spirito. Se non abita in noi e nelle stelle altissime pone il suo trono, lasciandoci spesso orfani, tuttavia è fuoco nel più profondo di noi stessi — Così presentivo quando sognavo— e parla con i fuochi di quelle lontananze e vive in me come io nella mia mano così il demone resta effettivamente «spirito nostro» e la poesia porta' il titolo significativo di «Un sogno di grande magia». Tuttavia que­ sta ambiguità è attaccata solo di fatto, ma non necessariamente, a que­ sta parabola che noi prendiamo qui effettivamente come una parabola e non già alla stregua di un gradino previo che possa mediare la dimensione cristiana. Ciò che qui noi abbiamo voluto mostrare, al di là di Kierkegaard, può essere così formulato: appartiene alla forma dell’esistenza umana, ed è perciò intrinsecamente conforme 169

La luce della fede e comprensibile all’uomo, consegnare la sua esistenza nella se­ quela di una esistenza (e della sua dottrina) che gli si manifesti come trasparente a Dio. Non già quindi soltanto come viene abi­ tualmente resa l’analogia: votarsi ad una dottrina nella quale un uomo descrive la via alla salvezza che si è dimostrata a lui utile ed efficace. Bensì realmente in modo tale che la dottrina rimanda soltanto ad un «santo» ripieno di Dio e da Dio sostenuto che, in quanto tale, diventa per i discepoli una specie di sacramento. Questa possibilità, che l’essere assoluto si renda visibile in un ente privilegiato, non può essere rifiutata a limine nemmeno dalla filosofia senza che questa ricada sotto il livello della religione («na­ turale») o senza che questa possibilità stessa sia dissolta raziona­ listicamente e scolasticamente. Porfirio ha percepito una siffatta possibilità nel suo maestro Plotino e l’ha conservata nel pensiero, sebbene avesse la tendenza (così fortemente stigmatizzata da Ago­ stino) a far degenerare il «sacramentale» nel «teurgico». Questa situazione limite della religione naturale esige un accuratissimo discernimento degli spiriti da parte cristiana, ma il discernimento presuppone, accanto al no, anche un possibile sì. Come si distingue ancora questa forma della fede da quella cristiana? Grazie alla parola di Dio, alla testimonianza di Dio in Gesù Cristo; grazie alla qualità autotestimoniantesi di que­ sta parola, alla sua irreperibilità, della quale faremo parola dopo; grazie al fatto che qui non è un uomo «trasparente a D io» che manifesta la saggezza che ha sperimentato, ma dalla bocca di que­ st’uomo parla l’autorità divina in prima persona. È possibile dimo­ strare senza difficoltà che, con una usurpazione siffatta, il soggetto «ripieno di D io» contraddirebbe se stesso e negherebbe la sua esperienza religiosa. La forma che si autorappresenta è quindi strut­ turalmente una forma fondamentalmente diversa. Nell’approssima­ zione più alta si verifica la lontananza estrema. L ’uomo che è posto davanti al fenomeno di Cristo vede contemporaneamente l’una e l ’altra: vicinanza e lontananza. Esse appartengono al contorno di queste figure e sono del tutto visibili ad uno sguardo non preve­ nuto. Se a qualcuno sfugge questa visione, allora un altro che vede può mostrare esattamente dove l’interessato manca l’oggetto; egli può mostrare come costui esprima un «modo di vedere» su Cristo, proprio perché non «vede». È possibile, se si guarda alla figura del Cristo, porlo come un «maestro di saggezza» accanto a Budda o a Socrate? Lo si potrebbe, solo a patto di costatare 170

Elementi della forma della fede nello stesso tempo la distanza molto più grande che lo separa da essi. L ’analogia con il discepolo di Laotse può esserci ancora d’aiuto a privare della sua forza un’altra facile obiezione. La vi­ sione della forma, si potrebbe obiettare, presuppone la possibilità di dominare con lo sguardo la forma stessa. Il suo contorno, il suo rilievo, il rapporto dei pesi e delle misure, dei suoni e dei colori, tutto ciò deve essere ugualmente dispiegato davanti alla presa dell’organo sensibile e della facoltà spirituale. Ad esempio, non appena in un motivo musicale rimane impercettibile anche un solo tono, diventa impossibile il giudizio su questa forma so­ nora. Come si può quindi parlare della forma di Cristo se la maggior parte delle cose in lui, l’essenziale, la sua divinità e tutti i misteri ad essa connessi, rimangono nascosti e inaccessibili nella profondità interiore del loro significato? A tal proposito occorre in primo luogo far notare come l ’intenzione prima e più eccelsa del Dio che si rivela sia proprio quella di rivelarsi realmente, di rendersi, per quanto è possibile, accessibile al mondo. Se la prima intenzione fosse quella di far affermare, a coloro i quali credono in lui, verità ad essi oscure, allora ciò sarebbe indegno di Dio e in contraddizione con il con­ cetto di rivelazione. Certo, se Dio deve manifestarsi nella sua divinità, allora deve manifestarsi anche nella sua eterna inacces­ sibilità: si comprehendis, non est Deus, se comprendi allora non è Dio. Nella rivelazione tuttavia l’inaccessibilità non è la deter­ minazione negativa di ciò che non viene conosciuto, bensì la proprietà positiva e, proprio per questo, vista e compresa, di colui che viene conosciuto. Quanto meglio noi conosciamo e pe­ netriamo una grande opera d’arte, tanto più concretamente ci ap­ pare anche la sua «inintelligibile» genialità. Noi non ci innalziamo mai al di là di ciò che riconosciamo posto essenzialmente al di sopra di noi. Non sarà diverso per noi quando, nella visione beatifica, staremo davanti a Dio, perché allora vedremo che Dio è sempre il più grande. Già la forma di un uomo, che noi amiamo e che ci è familiare, resta sempre al di là della nostra capacità di penetra­ zione e, se amiamo, respingeremmo con indignazione l’offerta di una visione che sopprimesse il mistero. Quando pensiamo di com­ prendere la forma di Goethe quando essa viene evocata davanti all’occhio del nostro spirito, altrettanto siamo consapevoli al tempo 171

La luce della fede stesso del mistero che l’avvolge. Quanto più ciò vale della forma nella quale Dio si vuole svelare. Noi non ci inganniamo (proprio perché Dio non vuole ingannarci) quando pensiamo e diciamo di poter interpretare esattamente il contorno di questa forma, di poter comprendere ciò che questa forma vuole esprimere. Che sia com­ prensibile, essa stessa lo ha dato sufficientemente a intendere ed ha invitato gli uomini a misurarsi con essa, allo scopo di compren­ derla. Essa si è offerta allo sguardo dell’umanità in tutti gli aspetti possibili e questo gesto di automanifestazione— che tuttavia non ha nulla in comune con la réclame— fa parte del suo compito fondamentale di manifestare ed esprimere Dio (Gv 1,18). È singolare come i discepoli non vengano richiesti mai da Gesù di credere a delle cose che sono semplicemente sottratte alla loro compren­ sione. Persino la Trinità di Dio deve divenire accessibile nella loro esistenza. Persino la risurrezione della carne deve essere resa plausibile in tutta la sua gloria, non solo sul Tabor e nelle appa­ rizioni del risorto. Persino il mistero assolutamente invisibile del­ l’eucaristia deve apparire loro giusto, come una necessità della fede (nel senso di Anseimo), nel punto di convergenza della sua promessa, del suo atteggiamento di buon pastore, del volontario sacrificio della sua morte. In seguito parleremo ancora del rap­ porto tra misteri invisibili e misteri visibili nella fede in Cristo. Adesso basti già dire che l’adesione della fede ai misteri invisibili è richiesta solo nella misura in cui questi si rapportano organicamente alla forma vista della rivelazione e ricevono così, all’interno della figura di questa, un posto di visibilità spirituale indiretta. Non bisogna pensare che in Cristo, per così dire, vengano scoperti solo dei lembi sparsi del suo mistero, mentre il resto, e presumibilmente la parte più grande, resta semplicemente nell’oscu­ rità. Egli non vuole dare a conoscere se stesso e il Padre solo in maniera parziale, ma totalmente, cioè nelle articolazioni essen­ ziali dell’essere divino. Se i discepoli in un primo tempo non com­ prendono molto, lo Spirito Santo li introdurrà in tutta la verità (Gv 16,13); se essi davanti alla croce non riescono a comprendere, comprenderanno dopo (Gv 13,7) quando sarà comunicato loro lo Spirito che scruta tutto, anche le profondità di Dio (1 Cor 2,10), in modo tale che essi, grazie all’unzione dello Spirito, «conosceran­ no tutto», «verranno istruiti su tutto» e «non avranno più bisogno di insegnamento ulteriore» (1 G v 2,20.27). Grazie all’unzione essi potranno ad esempio distinguere con certezza se uno spirito viene 172

Elementi della forma della fede da Dio o meno. Anche se un cristiano non può «vedere» lo Spirito Santo, tuttavia è in grado di stabilire con certezza che un santo fa determinate cose e dice certe parole nello Spirito Santo e può quindi discernere lo Spirito Santo da uno spirito puramente naturale o demoniaco. Questo sta a significare che anche nella conoscenza della fede, che non contempla apertamente e in se stessi i misteri di Dio, è possibile una percezione autentica della forma. È possibile distin­ guere qui due elementi, i quali sono tuttavia connessi: la compren­ sione di una qualità unica, da attribuire particolarmente alla luce della fede nella sua soprannaturalità, e la comprensione di una giu­ stezza intrinseca (nella quale questa qualità appunto dà prova di sé e si manifesta), di una bellezza, oggettiva e costatabile, di tutte le proporzioni. Per quanto indistricabilmente intrecciati siano i rapporti, la vista si schiude sempre nuovamente, sempre si ricade ai suoi piedi, sempre una cosa rimanda, confermandola, all’altra. Sce­ gliamo quasi a casaccio alcune dimensioni: il rapporto in Gesù tra lui e il Padre, la distanza umana, la vicinanza e l’unità filiale, il rapporto di signore e servo, di altezza e di bassezza, la relazione sempre nuova di promessa e compimento e, in essa, di giudizio e di grazia, reiezione ed elezione, il rapporto tra maestro e discepolo, di totale sostituzione nella grazia e di con-presenza, di essere ri­ guardati proprio per grazia, il rapporto di innocenza che non si distanzia ma si carica di tutte le colpe, il rapporto della giustizia, che mette ogni cosa al suo posto e chiama ogni cosa per nome, con la misericordia, che sposta ogni cosa dal suo posto e ne cambia fon­ damentalmente il valore, il rapporto di gioia e sofferenza, di noncu­ ranza e di ascesi, il rapporto con la storia, adempiuta in obbedienza e trascesa sovranamente: tutti questi rapporti a loro volta nuovamente uniti in un equilibrio senza falle e tuttavia facile, non già incollato assieme con sforzo, ma armonizzato sempre già in una unità sovrana; la singolare certezza apriorica che in questo cosmo è possibile, ricer­ cando, avanzare sempre oltre, nella continua scoperta di nuovi rap­ porti e di nuove proporzioni, ma giammai un qualche disaccordo, una mancanza di equilibrio, un errore di calcolo. Il credente non solo crede questo, ma lo sa incondizionatamente. Egli l’ha letto nel fenomeno e Gesù stesso ha evocato consapevolmente questa visione: «Chi di voi mi può convincere di peccato?» (Gv 8,46), di un peccato, di una man­ canza o di un errore oggettivo di costruzione a motivo del quale crol­ lerebbe in frantumi la sua pretesa di essere il rivelatore del Padre. 173

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La luce della fede Si può e si deve qui ancora una volta sollevare la que­ stione dei praeambula fidei. La visione della forma così descritta precede (prae) l’atto di fede? Oppure è sufficiente dire che nell’atto di fede stesso è posta contemporaneamente la giustezza di ciò che viene visto, come presupposto logico intrinseco della donazione di fede? Senza dubbio gli apostoli sono nel giusto quando dicono che essi credono perché hanno conosciuto e sanno (Gv 16,30), ma lo ha mostrato ad essi «non la carne ed il sangue, ma il Padre mio nei cieli» (Mt 16,17). Il prae temporale deve essere inteso dinamicamente: come un comprendere iniziale della forma della rivela­ zione, che non può non essere scorta dall’uomo storico naturale, contro la quale egli urta costantemente e che esige una spiegazio­ ne. La ragione naturale può costatare tutta una serie delle pro­ porzioni e delle armonie indicate. Da queste in un primo tempo non se ne può che dedurre che qui «si tratta di cose autentiche», ovunque si possa trovare d ’altra parte la vera chiave dell’enigma. Anzi la ragione potrà costatare che inoltre «si tratta di cose reli­ giose»: Dio è in giuoco ed è evidente che Gesù è un «pio» e non già qualcuno che dà espressione ad una qualche hybris con i suoi detti e le sue affermazioni sulla propria persona. La riproduzione del­ la forma della rivelazione nello spirito umano è abbozzata, incoati­ va, incompiuta. Essa non si lascia essenzialmente portare a compimen­ to. E quindi lo spirito domandando ipoteticamente, yufi.vacrn.xco? deve tirare fuori la soluzione della fede: quale aspetto assumerebbe la figura se fosse affermata alla maniera cristiana? Acquisterebbe al­ lora la forma la sua trasparenza piena? Troverebbe allora tutto il suo accordo? Non si dà forse nessun’altra ipotesi nella quale il conto tornerebbe in pareggio? La ragione non può inserire la chiave di volta senza che questa le venga consegnata nell’atto di fede. Essa non può al tempo stesso osservare il fenomeno dall’esterno e dalPinterno. Voler gettare il proprio sguardo attraverso i vetri della finestra, dall’interno, significa già credere. Questa fede può, super­ ficialmente considerata, apparire come una sua prestazione allo spirito abituato ai condizionamenti psicologici; se esso tuttavia pone l’atto seriamente, allora comprende anche, nello stesso istante, che è grazia l’essere attirati da Dio, la sopraffazione della propria impotenza da parte della potenza di Cristo, il superamento di tutte le proiezioni soggettive e anticipatrici del pensiero e della fantasia grazie all’evi­ denza completamente diversa che proviene dalla cosa stessa.

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Elementi dèlia forma della fede 3. Testimonianza esterna ed interna Si dà l’istante nel quale la luce interiore degli «occhi della fede» diventa una con la luce esteriore che brilla in Cristo, perché, ciò che nell’uomo anela e ricerca Dio, perviene alla quiete nella forma della rivelazione del Figlio: «N oi abbiamo trovato...» (Gv 1,45). «A chi dobbiamo andare? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi crediamo e sappiamo che tu sei il santo di D io» (Gv 6,68/69). Colui che ci può mostrare il Padre «ci basta» (Gv 14,8). Questa parola dell’apostolo, per quanto sia vera, rimane ingenua, perché essa inconsapevolmente è ancora una giudaica ricerca dei segni, men­ tre la forma della rivelazione ha da tempo adempiuto in sovrabbon­ danza qualsiasi richiesta; davanti alla luce sovrabbondante che si effonde da questa forma, ogni ricerca soggettiva depone le armi: «Tu lo vedi, è colui che ti parla». «Signore io credo, rispose, e cadde ai suoi piedi» (Gv 9,37/38). Quiete è laddove Dio si mani­ festa nell’uomo Cristo e la consegna è superata nell’accoglimento; laddove la testimonianza, che l’uomo depone grazie alla fede, viene assunta nella testimonianza che Dio ha dato di se stesso in Cristo e la quale ormai, come «testimonianza più grande», viene «deposta a favore del proprio Figlio» (1 Gv 5,9/10) da Dio e «brilla» (2 Cor 4,6) nel cuore del credente. Il credente non può concepire la propria risposta alla luce della testimonianza di Dio come una seconda parola a se stante accanto alla parola di Cristo, nonostante egli non si sia mai trovato così adempiuto e preso seriamente nella sua personalità come quan­ do ha pronunciato questa parola. Egli sa tuttavia di essere stato assunto, assieme alla parola di risposta della propria fede, nella testimonianza trinitaria (Gv 6,36s; 8,16/18). Nell’istante in cui co­ mincia a vedere con gli occhi della fede, prende più profondamente coscienza di essere visto da Dio (Gv 1,46/48; 1 Cor 8,3; 13,12; Gal 4,9; Fil 3,12); nell’istante in cui si decide a compiere il suo gesto più grande, prende coscienza di essere «fattura» di Dio (Ef 2,10; G v 6,29). Qui occorrerebbe parlare della fides C hristi11, cioè di quell’archetipa fedeltà al patto di Dio in Cristo nei confronti del­ l’uomo, fedeltà che nella forma della rivelazione di Cristo si mani­ festa come la più alta fedeltà al patto dell’uomo nei confronti di 11 «Fides Christi», in Sponsa Verbi, Theologische Skizzcn, voi 2, l ’ insicdi'ln 1961, pp 45/79 (ir it Spnnsa Verbi, Broscia 1969). I 75

La luce della fede Dio; atteggiamento di una tale donazione illimitata e docilità obbe­ diente («Ciò che a lui piace, questo io faccio sempre» Gv 8,29), che la compiacenza del Padre può rappresentarsi senza limiti in lui (Mt 17,5). Perciò Cristo, in quanto testimonianza vicendevole tra il Padre e il Figlio, è il patto sussistente, ed il credente, che pro­ nuncia il suo sì in questo sì vicendevole, trova sempre già se stesso nell’oggetto della sua fede. Egli ritrova la propria luce di fede realmente nella luce di Cristo, ma proprio per questo non già in una proiezione ed in una oggettivazione mitica, bensì in quell’ar­ chetipo che solo rende possibile, come sua immagine, la fede. Con ciò viene ancora una volta a dimostrarsi vero come la luce della fede brilli solo a partire dall’oggetto della fede e come questa luce sia la testimonianza, sovrastante il credente, con la quale Dio dà testimonianza di sé in Cristo. L ’incontro tra soggetto e oggetto della fede deve quindi in un primo tempo essere descritto in categorie personali, le quali tuttavia in un secondo tempo, poiché l’oggetto è risolubile solo nella luce del rapporto trinitario, devono immediatamente diventare anche transpersonali. Alla teologia è stato sempre chiaro che la donazione della fede nella sua concretezza vitale (la «fede morta» è un resto ed un prodotto derivato da una rovina, inadatta a servire da modello alla fede) è radicata nell’amore. «Cosa significa credere in lui? Cre­ dendo amare, credendo donarsi a lui, credendo entrare in lui, essere incorporato alle sue membra» (Agostino, In Joh tr 29,6). « Crede in Cristo colui che ama Cristo; infatti se si crede senza speranza e amore, si crede che ci sia Cristo, ma non si crede in Cristo» (Serm 144,2). Al centro si trova l’incontro di una persona con un’altra, allo stesso modo in cui Abramo, come padre di tutti i credenti, si incontrò con Dio e aderì a lui, prima di ogni rito e di ogni dogma, nella semplice consegna di tutto il suo essere, nella rinuncia a tutti i propri piani, tutte le proprie certezze e, nel sacrificio di Isacco, ad ogni pretesa evidenza sulle vie e sulle pro­ messe di Dio. Il resto, così dimostrerà Paolo, viene dopo e resta compreso in quel primo incontro (Rm 4). Questo incontro è il più semplice che ci sia, non risultante da parti e nemmeno difficile o complicato; niente è più semplice per l’uomo che l’atto di amare, che in questo caso può rinunciare ad ogni prudenza e ad ogni preoccupazione, perché la donazione alla persona adorata è al tempo stesso donazione alla promessa di eterna beatitudine e quindi non 176

Elementi della forma della fede può essere mai superata. La perdita di terreno dell’io nell’amore autentico è, laddove l’amato al tempo stesso è Dio, quel brivido beatificante dell’abbandono di sé che ogni amante è fondamental­ mente disposto a sperimentare e che il mistico sperimenta fondamen­ talmente già quaggiù: come abbandono della propria casa nella notte oscura, come freccia ardente che viene scoccata nel centro del cuore e apre il centro dell’io per radicarvi il t u 12. Tutte le difficoltà teoretiche e pratiche della fede, come atto intellettuale, si risolvono quando viene raggiunto il piano più pro­ fondo dell’amore. Ma non di un amore qualsiasi, come quello tra uomo e uomo, che assolutizzato può diventare demoniaco (giacché un finito si consegna infinitamente ad un altro finito, assieme alla sua salvezza eterna), e nemmeno dell’amore filosofico della creatura verso Dio che Tommaso descrive come una forza di gravità onto­ logica, come quella che attrae la parte al tutto o il finito all’infinito, e del quale non si vede al di fuori del dominio cristiano come questa preferenza accordata al tutto non comporti l’annientamento della forma finita, in quella consegna della propria coscienza che si offre come goccia al mare del Nirvana— , bensì proprio dell’amore cristiano che si poggia sull’unione ipostatica di Cristo e che tiene assieme ciò che umanamente è eternamente incompatibile: l’amore ad un ente con l’amore all’essere. L ’apertura dell’Essere come asso­ luto viene manifestata a noi, dall’Ente che è l ’uomo Cristo e che noi amiamo, come amore sostanziale. L ’essere mondano viene così intrinsecamente strutturato come amore, come Agostino cerca di dimostrare nella seconda parte del suo De Trinitate; per ciò stesso l’atto filosofico dell’eros estatico-intellettuale plotiniano viene recu­ perato ed elevato, dall’atto cristiano dell’amore, nel trinitario EssereAmore. L ’amore filosofico naturale, soffocato nel peccato del mondo dall’ostinazione, dalla solitudine e dalla disperazione, viene non sol­ tanto ripristinato dall’amore di Dio che appare in Cristo, giustifi­ cato nel suo rischio e alleggerito da ogni dubbio; esso viene piutto­ sto, dalla forma trinitaria del Cristo, elevato in un senso che strut­ turalmente è altrettanto unico e filosoficamente irriducibile che la stessa unione ipostatica che fonda la fede del cristiano. L ’atto nel quale la persona finita si affida alla luce infinita dell’essere, filosofi­ 12 Per l ’aspetto personale della fede cfr, oltre Scheler (Das Etuige im Mcmchert, Lipsia 4 1954, particolarmente T Mouroux, Je crois en tot, Parigi 1919 (tr it Io credo in te, Brescia 1950). 177

La luce della fede camente, può anche possedere il carattere di un riconoscimento e di una confidenza infinita nella potenza materna e protettrice della natura, nel mistero del fondamento che irraggia, con bontà e bel­ lezza ineffabili, in e su tutti gli esseri; quest’atto è degno di ammi­ razione e i più grandi pensatori cristiani, nonostante tutte le apologetiche dichiarazioni d ’eresia, lo hanno riconosciuto. Ma esso non può mai diventare un atto di amore personale. Tra l’amore personale esistente tra le creature finite e l’amore ontologico per il fondamento che fonda ogni essere, ma lo sovrasta anche ineffa­ bilmente, può nel migliore dei casi essere posto una specie di le­ game panteistico-monistico, che deve quindi essere considerato co­ me il più positivo tra i progetti raggiungibili dalla religione e dalla mistica filosofica naturale. È molto facile dire come cristiani che il panteismo è falso. Si dimentica infatti di considerare così che la dottrina cristiana non ricade sotto il panteismo, come abbozzo di un sistema, ma deve compiere quel passo al di là di esso, che è possibile compiere solo grazie alla libera rivelazione di Dio e che libera dalla sua contraddizione interna il progetto panteista. Sotto il panteismo ricadrebbe invece un cristianesimo che volesse interpretare continuamente l’amore personale tra Dio e l’uo­ mo in Cristo, secondo lo schema dell’amore personale-mondano tra gli enti. Questa interpretazione cristiana volgare portò Scheler ad esigere la sintesi tra il Dio della metafisica e il Dio della reli­ gione personale: « Il vero Dio non è così vuoto e rigido come il Dio della metafisica. Il vero Dio non è così ristretto e vivente come il Dio della pura fede» 13. Cristianamente parlando tuttavia non dovrebbe esistere questa «pura fede», poiché, già nella visione credente della forma di Cristo, ad ogni credente deve essere anche manifesto come l’eterno Padre nel suo rapporto al Figlio, il Dio tri­ nitario che si rivela nel Figlio, non è un «ente» che ricade univoca­ mente, assieme alle creature, sotto la categoria della personalità, ma che la sempre più grande dissomiglianza dell’analogia attraversa an­ che il concetto di persona. La formulazione più semplice del mistero dell’essere trinitario manifesta questo fatto a sufficienza e questo mistero agisce in ogni singolo aspetto della cristologia; esso ci im­ pedisce di considerare quella persona divina, nella quale Dio e uomo sono ipostaticamcnte uniti, come una persona che, per così dire, si strappa dall’essenza trinitaria durante il periodo della sua esistenza 11

Dt/s ìiu'iyy iw M c h s c /j c h , L i p s i a 4 19 5 4 , p

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Elem enti d ella form a d ella fede

terrena. «Io e il Padre siamo una cosa sola. Chi vede me, vede il Padre». Anche se quest’affermazione non deve a sua volta essere interpretata modalisticamente, in quanto, nella relazione personale dell’uomo Cristo nello Spirito Santo al Padre, si rivela con chia­ rezza e realmente una relazione personale intradivina, resta tuttavia vero che così viene a mostrarsi come l’ampiezza illimitata e tutto comprendente del Padre trinitario sostituisce e supera quella dell’in­ fondatezza mistico-filosofica. Certo, molti di coloro che hanno afferrato la problematica hanno cercato di rivestire troppo in fretta la risposta con la con­ cettualizzazione neoplatonica, a partire da Origene, attraverso Ma­ rio Vittorino, fino a Scoto Eriugena e ad Eckhart, al De non aliud e al De dato patris luminum di Niccolò Cusano, a Bohme e ad Hegel. Ma non è questo che può portare pregiudizio alla legittimità dell’esigenza di raggiungere veramente ed immediatamente la verità ultima trinitaria e transpersonale nelPincontro amoroso e personale della fede. Il Tat tioam a s i14 panteistico, identificante soggetto e oggetto nella loro profondità, può essere dissolto solo grazie al­ l’unità di Dio e dell’uomo nel Figlio, il quale è sia Vars divina mundi che il compendio della creazione reale (libro in della Docta Ignorantia del Cusano), e grazie allo Spirito Santo procedente nel­ l’unità con il Padre da questo Figlio incarnato. Questo Spirito è , in identità, sia lo Spirito della rivelazione oggettiva di Dio in Cristo e della oggettivazione della forma esistentiva di Cristo nella forma della chiesa, delle sue funzioni, dei suoi carismi e dei suoi sacramenti— sia lo Spirito della soggettività cristiana come fede, speranza e carità, in quanto è solo nello Spirito che può essere detto Kyrios Jesus (1 Cor 12,13). Questa identità— non del credente con il Cristo, in quanto la fede rende evidente il contrario— , ma dello Spirito che riposa sul Cristo e si effonde da lui, e dello Spi­ rito che apre il peccatore recalcitrante per unirlo, contro la sua volontà peccaminosa e al di là di essa, con il Cristo e, nel Cristo, con il Padre: questa identità dello Spirito di Dio, unificante sog­ getto e oggetto (sia che venga compresa come opera della persona dello Spirito, oppure di tutto il Dio spirituale trinitario) è il fonda­ mento di possibilità, mai assente dall’atto, psicologico e cosciente, 14 q u e sto »

Si tratta di una form u la del b rah m an esim o , che si trad uce « T u sei ed

indica

l ’id en tità raggiu n ta

tra l ’io ( Atman ) e l ’uno laten te nel

m ondo (Wrahunm) (n d l).

179

La luce d ella fede

della fede e quindi impossibile da escludere, come irrilevante o inattuale, dalla sua coscienza. «Nella tua luce vediamo la luce». In che misura quest’opera trinitaria e transpersonale della rivelazione rispetti e porti a compimento la personalità della crea­ tura, è dimostrato dalla relazione della libertà umana allo Spirito Santo che, proprio laddove unisce a Cristo l’uomo, gli fa dono della libertà, eleva la sua libertà creaturale e legata nella libertà divina, sovrana e liberata, per rimettergli quindi anche questa li­ bertà donata della grazia, come suo possesso reale, come libertà da esercitare per se stesso. È per questo motivo che, nel dono di que­ sta libertà, si dà l’istante nel quale viene attesa l’adesione umana, ma si dà l’istante nel quale il singolo può anche rifiutarla e sce­ gliere l’incredulità. La visione della rivelazione non avviene mai sotto la costrizione della necessità. Allo stesso modo in cui Gesù si dà liberamente a vedere come Dio a chi vuole— ciò che dopo la sua risurrezione si estende anche alla sua umanità glorificata— , ugual­ mente dà, all’uomo che gli sta davanti, la libertà di vederlo o no. Certo, a questo punto vi sono dei misteri ancora più pro­ fondi che non possono essere qui trattati per esteso: il singolo non si trova posto come un individuo isolato davanti alla rivelazione e se, come è stato detto, questo singolo scorge se stesso, con la sua adesione, realmente prefigurato e rappresentato in Cristo, allora questo vale in misura maggiore della realtà sociale della chiesa, come sposa di Cristo, il cui libero consenso all’unione nuziale può essere presupposto solo in quanto nello stesso tempo è ricevuto. È quanto avviene nell’adesione di tutti coloro i quali credono con amore e assumono così una reale funzione vicaria, inaugurata dalla sposa-madre Maria. Queste implicazioni nell’adesione credente di qualsiasi cri­ stiano sono talmente necessarie, condizionano talmente anche il suo più semplice atto di fede, che la loro trattazione nella dogmatica ecclesiale coincide semplicemente con l’analisi teologica delle con­ dizioni di possibilità della conoscenza teologica stessa. In questo senso la dogmatica può essere denominata come l’autocomprensione dell’atto di fede. Nella misura in cui tutto il contenuto del kerygma, proprio in quanto dottrina dell’avvenimento pasquale, non è altro che la trasposizione in parole di Gesù, Verbo incarnato, che muore e risorge per noi, e la fede consiste nell’essere consepolti e nel conrisorgere di tutta l’esistenza credente con questa parola di Dio, allora l’atto di fede, compreso nella sua globalità, presuppone in 180

E lem enti della form a della fede

sé la dogmatica, proprio per comprendersi. Non già tuttavia una dogmatica analizzata dal credente stesso a partire dalla sua sog­ gettività, giacché la fede, in quanto partecipazione a questa vita, morte e risurrezione storiche di Gesù, guadagna se stessa a partire dall’oggetto e può quindi comprendersi soggettivamente solo in una rappresentazione obiettiva dell’oggetto. Così come questo rap­ porto del soggetto credente con l’oggetto implica, per comprendere se stesso, l’aspetto sociale: l’umanità nel suo insieme, la chiesa, la chiesa strutturata, allo stesso modo esso presuppone l ’identità dello Spirito Santo come centro fondante la comunione alla vita, alla morte e alla risurrezione di Gesù, che non può essere né infrapersonale né interpersonale (né l’uno né l’altro potrebbero fondare la partecipazione), ma solo trinitario-transpersonale. L ’atto di fede soggettivo, incapace di costruire il mistero trinitario mediante un’autoriflessione, lo riconosce tuttavia subito nel kerygma oggettivo come la condizione ultima della sua possibilità, anzi come il fondamento ul­ timo che dà significato alla propria realtà. Tutte le altre condizioni, come l’incarnazione del Verbo, la sua morte e la sua risurrezione, la chiesa, la sua compaginazione, la vita cristiana, sono soltanto vie che rendono possibile questa profondità e quest’ampiezza trinitaria della fede. Tutte le altre condizioni sono comprese nel movimento evenienziale della morte e della risurrezione, mentre solo il mo­ mento trinitario abbraccia, come fondamento e fine, ogni avveni­ mento storico-salvifico. Per usare una similitudine estetica: ogni forma bella viene percepita come l’espressione, perimibile nello spazio e nel tempo, di una bellezza sovratemporale, capace di com­ prendere e perdonare anche la morte del bello, giacché anche il morire appartiene alla forma manifestativa della bellezza immortale ed imprime, esso soltanto realmente, questa bellezza nello spirito che la contempla.

4. Forma e segno La forma di Gesù Cristo non sta isolata davanti allo sguar­ do del credente. Essa è al contrario indissolubilmente inserita: in un insieme di verità che costituiscono il contenuto della predica­ zione di Gesù e lo situano sia storicamente che dogmaticamente in varia maniera; in un insieme di avvenimenti che in parte condizio­ 181

La luce d ella fede

nano la persona storica di Gesù ed in parte sono da essa condi­ zionati e provocati; in un insieme di verità ecclesiali mediatrici che si presentano come causate da lui e a lui, come a loro origine, vo­ gliono rimandare. La forma di Gesù non si lascia percepire diver­ samente che in questi contesti che, per lo sguardo credente, sono inseparabili da lui in quanto stanno nel rapporto ontologico più stretto con la forma percepita. Una statua può essere collocata in qualsiasi ambiente, una sinfonia può essere ascoltata in qualsiasi sala da concerto, una poesia di Goethe può essere compresa e gu­ stata senza una conoscenza del suo contesto biografico. Ma la forma di Gesù non può essere sciolta dalle connessioni spazio-temporali nella quale è collocata. Egli è ciò che è, solo in quanto, da una parte adempie le promesse che tendono a lui, e a sua volta promette ciò che egli stesso porterà a compimento. Alla forza orizzontale, con la quale abbraccia i tempi e domina gli spazi «fino ai confini della terra» e centra in sé la storia del mondo, corrisponde la forza verticale, con la quale rende visibile il Padre e, nella sua testimo­ nianza sul Padre, rende presente la testimonianza del Padre per lui. Questo duplice trascendimento incrociato della forma al di là di se stessa, mediante cui egli è tuttavia ciò che è, esige da colui che lo contempla di comprenderlo all’interno di questo spazio spirituale da lui circoscritto. 1. Si danno dei segni attorno alla persona di Gesù che o rimandano a lui (come l’esistenza del popolo di Israele con la sua autocomprensione messianico-profetica) e trovano quindi in lui la loro comprensibilità, oppure sono da lui originati (come le sue pa­ role sulla sua potenza e il suo mistero) e la cui forza significativa e credibilità dipende unicamente da lui. I segni che profeticamente rimandano a lui non hanno bisogno di essere creduti, perché colui che vede realmente scorge al tempo stesso la loro congruenza con la sua forma. I segni che sono da lui originati sono al contrario di una doppia specie: miracoli che, in quanto tali, sono dei segni (ctt)(Asta) manifesti della sua potenza divina e la rendono visibile, ammesso che essi siano letti realmente come segni della sua po­ tenza divina, che l’occhio contemplante sia cioè sufficientemente chiaro ed acuto per cogliere le connessioni oggettive ed inequivo­ cabili; e in secondo luogo parole che esprimono realtà invisibili le quali devono essere credute per lui, in un senso più stretto e rigido, giacché esse non possiedono per noi altra possibilità di controllo che la sua parola. 1X2

Elementi della forma della fede Nella fede cristiana non bisogna quindi fare di ogni erba un fascio, non bisogna trattare tutto secondo lo stesso modello. Piuttosto occorre distinguere chiaramente tra la fede in Cristo, come messaggero, delegato, Figlio di Dio e la fede in quelle sue parole che esprimono misteri inverificabili— come l’eucaristia— e che noi accogliamo da lui nella fede, poiché noi, come dicono i discepoli, abbiamo riconosciuto credendo e abbiamo creduto ricono­ scendo che egli è il Figlio di Dio che ha parole di vita eterna. Questi due tipi di fede non stanno sullo stesso piano. La prima fede è quella che sostiene chiunque si metta alla sequela; è quella percezione della forma di Gesù che penetra ed è soggiogata al tempo stesso da qualcosa di più grande ed ineffabile: penetra che egli è colui al quale bisogna accordare ogni credito, amando, spe­ rando e accettando per vere le sue parole. È possibile separare i momenti astratti da questo atto personale unitario e disporli in una successione logica, ma con ciò non si è apportato nessun chia­ rimento decisivo, in quanto la forza dell’atto consiste nell’unità dei momenti, nella quale la luce della conoscenza: «Tu sei quello!», libera al tempo stesso la luce della donazione amorosa: «Rabbonii». In questa luce, con il riconoscimento della sua assoluta sovranità nel dominio della verità, della bontà e della bellezza, è già accor­ dato quel credito spirituale che si tenta di chiamare fede in senso stretto. Noi crediamo i misteri sulla sua parola perché si tratta proprio di lui, perché ciò che noi dobbiamo vedere per poter cre­ dere è sufficientemente visibile nella sua forma e figura. Anzi, egli si cura che nessuno dei suoi misteri rimanga completamente nel­ l ’invisibile, che ognuno di questi misteri possa in qualche modo pervenire a visibilità grazie alla connessione con la sua figura visi­ bile. Questo vale soprattutto del mistero della sua origine divina, trinitaria. La teofania del battesimo nel Giordano, come quella del Tabor, costituiscono la manifestazione, nella sua visibilità corpo­ rea, della sua dignità come Figlio eterno di Dio, del suo rapporto con il Padre la cui voce risuona e indica lui, del suo rapporto con lo Spirito che scende su di lui o lo circonda irraggiando come doxa di Dio. Ciò che qui appare per l’occhio e l’orecchio in una forma particolare, diventa tuttavia altrettanto visibile, per colui che ha occhi, nella forma quotidiana di Gesù: la testimonianza della sua vita e della sua parola non può essere letta nel modo giusto se in essa non viene posta nello stesso tempo la sua relazione al Padre 183

La luce della fede

e allo Spirito, come ciò che in essa si manifesta. Egli richiede espres­ samente, per la percezione di questo rapporto, non solo la fede, ma anche la capacità visiva degli occhi della fede. La ratio theologica potrebbe dedurre questa verità persino dall’unione ipostatica: se colui che vive qui come uomo in mezzo agli uomini è una per­ sona divina e le persone divine sono identiche nella natura, allora è impossibile che nell’incarnazione di una (solo di una!) anche le altre non si facciano in qualche modo visibili per concomitanza. Così non si può dire che la pienezza spirituale di cui gode la chiesa, o un santo determinato o un carismatico, sia soltanto og­ getto della fede e non già anche della percezione, sia che questa pienezza dello Spirito si manifesti adesso immediatamente in azioni miracolose fisiche o morali, oppure che si manifesti «soltanto» nel­ l’atteggiamento comune, nella forma vissuta di un uomo o della chiesa nella sua globalità. Che sia percettibile e visibile qualcosa di questa particolare presenza dello Spirito, non può essere negato da nessuno; che in questo lo Spirito Santo può essere costatato non sostanzialmente, ma attraverso le sue operazioni, è altrettanto evidente, come è anche evidente la terza cosa e cioè che, per perce­ pirlo realmente come Spirito Santo— e non come un qualsiasi spi­ rito occulto dell’uomo, dalle capacità «più alte»— è necessaria una certa conoscenza specifica dello Spirito Santo. La questione è piut­ tosto quella di sapere se, colui che lo ha riconosciuto nelle sue operazioni, lo riconosce, lo percepisce, lo vede realmente in queste come nelle sue apparizioni inconfondibili, anzi se ha l’evidenza nella percezione della forma totale (o per lo meno se la può avere), per cui questa non può essere compresa che sotto questo presupposto Il dono del discernimento degli spiriti, che è l’organo corrispon­ dente per la percezione dello Spirito, non si limita a supposizioni o a semplici probabilità, esso non è nemmeno in primo luogo un dono riservato a dei privilegiati (1 Cor 12,10), ma una capacità, data con la maturità stessa della fede (Eb 5,14), di leggere le appa­ rizioni dello Spirito oggettivamente, così come sono in sé. L ’altro dominio, chiuso all’uomo terreno in quanto tale, è il nuovo eone della risurrezione. Ma anch’esso diventa in Cristo qualcosa di più che un puro oggetto di fede: in lui esso perviene a visibilità. Ciò può essere considerato pura grazia, in quanto noi avremmo dovuto credere alla risurrezione solo a motivo delle sue promesse, se egli al terzo giorno fosse asceso direttamente al Pa­ dre, senza apparire durante quaranta giorni ai discepoli e più tardi 184

E lem enti della form a della fede

a Paolo. Il farsi visibile del nuovo eone in mezzo al vecchio (e quindi la partecipazione intima del vecchio al nuovo) non è sola­ mente un fatto di fede, la quale, a partire da determinati «segni» (ad esempio fenomeni luminosi), tira una conseguenza di probabilità sull’avvenuta risurrezione di Cristo. Si tratta piuttosto, come ci vie­ ne descritto nelle narrazioni della risurrezione, di una percezione obiettiva della sua presenza visibile la quale comporta, per il suo nuovo modo di essere, un nuovo modo di evidenza: non già di un’evidenza lacunosa, inadeguata alla capacità umana, ma di un’evi­ denza smisurata, che mette a dura prova la capacità dell’uomo, il quale viene reso capace quindi della percezione di essa solo in forza di un adattamento grazioso al suo modo di essere nella gloria. Solo così è possibile quindi che i discepoli reagiscano non soltanto con l’incredulità e il dubbio ai resoconti delle donne sulla risurrezione (Me 16,11.13.14; Le 24,11), ma che «dubitino» (Mt 28,17) anche del Cristo presente davanti ad essi corporalmente, pensino, «pieni di terrore e di paura, di vedere uno spirito» (Le 24,37), non rie­ scano «ancora a credere, davanti alla gioia e all’ammirazione» (24. 41) suscitate dall’evidenza delle mani viste e palpate, per cui egli deve assaggiare il loro stesso cibo per smorzare, per così dire, l’ec­ cessivo splendore dell’evidenza e adeguarlo al livello della loro capacità di percezione. Adesso tuttavia, nel momento in cui essi aderiscono infine a quest’apparizione che si trovano davanti, visi­ bile, udibile, palpabile, quest’adesione strappata al loro spirito viene chiamata fede. Si tratta della pienezza di quella fede che Cristo, già prima e da sempre, aveva preteso per sé e che a lui sembrava tanto poco un «rischio», una «pretesa» esagerata, quanto poco lo era adesso la fede a lui come risorto. Proprio il fatto che di fronte alle apparizioni del risorto si continua a parlare di fede, sta chiara­ mente a dimostrare che la fede davanti alla risurrezione, e la fede di coloro che non hanno avuto la possibilità di vedere corporalmente il risorto, ma credono a lui sulla base della testimonianza aposto­ lica, non è un tener per vera una probabilità, ma consiste piuttosto nell’identico dono d’amore della propria persona, con tutte le sue evidenze, alla persona divina, che contiene e racchiude in sé la forza di gravità di ogni evidenza. Questo vale fondamentalmente anche di tutti i misteri che giacciono tra l’origine divina e la gloria escatologica di Cristo, dei quali non è necessario che percepiamo l’accadere intrinseco e per i eguali deve bastarci la confidenza nella sua parola. Tutti questi 185

La luce d ella fede

misteri posseggono la loro misura di visibilità nella forma totale di Cristo, alla cui espressione essi appartengono, dalla quale ven­ gono illuminati e che illuminano a loro volta in maniera nuova e più profonda. Così il mistero deH’eucaristia, di cui nessuno è in grado di «vedere» il compiersi interno: in che modo il mangiare e il bere tra fratelli possa divenire non soltanto P«immagine», ma luogo reale dove è contenuta una manducatio spiritualis: questo avvenimento invisibile sta al punto di intersezione di linee che, partendo da punti più evidenti, mostrano, per la fede, il loro punto di incontro come «giusto» ed assolutamente adeguato e conferiscono a questo punto una necessità teologica che appare inevitabile. Qualcosa di simile bisogna dire del battesimo e degli altri sacramenti, soprattutto della penitenza: tutti i sacramenti hanno in primo luogo la forma vitale visibile nella forma del­ l’istituzione terrena di Cristo stesso; essi si distillano, per così dire, da erbe che abbiamo stretto in un primo tempo fisicamente nelle mani, per cui, quando in seguito non siamo più in grado di percepire nell’essenza la forma delle erbe, sappiamo tuttavia da dove l’essenza trae origine, anzi costatiamo come essa tradisca la sua provenienza dal sapore e dall’aroma. Chi è stato in grado di vedere e di leggere la croce non soltanto come un evento pura­ mente materiale, ma come il compimento di tutta la forma interna della vita di Cristo, per costui è ovvio, anzi è da attendersi, che il risultato di questo evento in cui il peccato del mondo è por­ tato, espiato, cancellato, venga adesso applicato, in un segno sa­ cramentale efficace, al peccatore che confessa la sua colpa e si mette sotto la redenzione operata nella croce. L ’appartenenza, la convenienza e l’accordo mutuo dei mi­ steri esige la contemplazione della fede che, laddove assume la forma tecnica e razionale dei concetti, diventa ratio theologica che rende testimonianza all’armonia interna e spirituale dei mi­ steri, alla loro necessità, una volta presupposta la libertà della rivelazione divina. Nel far venire alla luce quest’armonia interna della verità divina nelle sue forme di apparizione, giace la bel­ lezza della teologia, bellezza che da sempre ha rapito i suoi più grandi rappresentanti. Occorre che non si perda però di vista, in questa intuizione e contemplazione spirituale, l’analogia delle varie forme di evidenza a cui abbiamo accennato. Occorre evitare l’im­ pressione che si tratti semplicemente di una bellezza funzionale, che consiste e brilla soltanto nelle relazioni tra punii per sé mi1X6

Elementi della forma\ della fede steriosi ed invisibili. La forma centrale di evidenza, dalla quale dipendono tutte le altre, è la percezione della forma oggettiva di Dio in Gesù Cristo, che non è «creduta», ma «vista» pur con tutta la fede che abbiamo in Gesù Cristo. In questa forma brilla la gloria oggettiva di Dio, essa è il kabód definitivo, inviato e chiamato a coprire con la sua ombra il tabernacolo della creazione tutta. Tutte le armonie della ricerca teologica si irraggiano a partire da questa gloria e, nella misura in cui sono oggettivamente e scientificamente fondate, danno testimonianza ad essa. 2. Ciò che abbiamo detto dei misteri che noi crediamo affi­ dandoci alla parola di Cristo, vale in misura ancora maggiore di ambedue i «segni» della sua persona e della missione, considerati come privilegiati nella trattazione apologetica: miracoli e profe­ zie. Per questo motivo, quanto è stato detto precedentemente, esprime l’essenziale anche nei riguardi di questi due segni. Ambe­ due superano la contrapposizione di apologetica e dogmatica, tro­ vano la loro vera unità soltanto nella connessione fra le due disci­ pline e rendono quindi problematica una netta distinzione di esse. In quanto rendono attento alla forma di Cristo colui che sta lontano e, come segni esterni, attirano l’attenzione sulla «armo­ nia» interna della forma, fanno parte dell’apologetica o della teo­ logia fondamentale a cui spetta il compito di indicare l’approccio obiettivo alla realtà della rivelazione. Ma nella misura in cui tutta la connessione interna tra segno e forma o, con altri ter­ mini, la forma vera del segno stesso può essere colta solo se la connessione viene letta e compresa nel senso della rivelazione stessa, all’interno quindi della fede, allora sia il miracolo che la profezia appartengono alla teologia dogmatica. Ciò è quanto at­ testa in particolare Giovanni con la sua teologia dei segni e quanto testimoniano i Sinottici con le loro ripetute espressioni sul «ve­ dere e tuttavia non vedere». Cosi, tutto ciò che nella forma di Cristo va dal centro dell’appercezione alla periferia, è al tempo stesso un venire incontro di Dio a quelli che stanno fuori ed una difficoltà accresciuta la quale nasconde in sé il pericolo del disco­ noscimento e dello scandalo, in quanto tutto ciò che è simbolico può essere rettamente interpretato solo a partire dal punto cen­ trale. Per colui che crede teso al centro, i miracoli di Cristo non sono in primo luogo facilitazione soggettiva della fede, in quanto egli non no ha quasi bisogno, ma l’irraggiarsi della gloria, già IK7

La luce d ella fede

contemplata spiritualmente, sul dominio sensibile. Colui che crede in questo modo non ha difficoltà alcuna ad interpretare il mira­ colo nel senso proprio, inteso dal Signore; egli è esperto nel leg­ gere correttamente, non si ferma ai segni scritti, ma, attraverso i segni, legge lo spirituale. Colui il quale è rimandato al segno, per penetrare fino al centro, si trova nella decisione della fede: consegnarsi alla luce che irrompe dal centro e, attraverso il segno, precipitarsi incontro ad essa, oppure, arrestandosi al segno, non cogliere né il segno né il centro. Agostino ha reso in maniera plastica il simbolo della let­ tura: «Ciò che nostro Signore Gesù Cristo ha fatto corporal­ mente, ha voluto che fosse compreso spiritualmente. Egli non compiva i miracoli per il piacere dei miracoli, bensì affinché l’opera compiuta apparisse meravigliosa a quanti la vedevano, vera a quanti la comprendevano. Colui che in un libro guarda dei carat­ teri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l’opera d’arte e ne comprende il senso, colui cioè che non soltanto è in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso... Alla scuola di Cristo noi dob­ biamo essere discepoli siffatti» 15. Imparare a leggere non significa apprendere e supporre ciò che le lettere della scrittura significano, ma saperlo con certe2 za. Perciò san Tommaso parla a più riprese di una evidenza dei segni. Questa evidenza è per lui oggettiva, anche se dall’altra parte la luce della fede, almeno per l’uomo peccatore, appartiene alla percezione di questa realtà oggettiva. Questa limitazione viene operata a causa dell’espressione della Lettera di Giacomo, secondo cui anche i demoni credono e tremano; secondo Tommaso infatti il demonio possiede una maggiore capacità di comprensione natu­ rale che lo costringe a leggere, nei segni di Cristo, la sua divinità in maniera evidente: «daemonum fides est quodammodo coacta ex perspicacitate naturalis intellectus» 16. Essi credono quindi non già «volontariamente» (non voluntate assentim i), «bensì grazie alla evidenza necessitante dei 15 Se r 98,3 ( pl 38,592). 16 2a 2ac q 5 a 2 a d 1 e t ad 2. U lteriori citazion i in A u b e rt, o p c it, p 56, nota 28.

1.88

Elementi della forma d^lla fede segni dai quali si dimostra (convincitur) là verità di ciò che i fedeli credono, anche se quei segni non lasciano apparire il cre­ duto in modo tale da poter dire che essi abbiano la visione im­ mediata delle cose credute»17. Il conoscere umano infatti non è intuitivo: esso avviene per via simbolica, ma non per questo meno sicura; solo nei segni è possibile scorgere la verità, ma questa non viene giudicata dall’intelletto naturale; solo grazie alla luce di fede essa viene resa intelligibile nel suo rapporto vero con il Dio rivelatore. È proprio l ’aristotelico Tommaso che metterà l’accento sulla funzione dei segni sensibili come experimentum certurn per la parola di D io 1S. Per lui, tra le funzioni essenziali della teologia, c’è quindi quella di riprendere e descrivere tutti i prodigia della rivelazione storica19. Dall’altra parte tuttavia Tommaso non pensa a rendere indipendente, per una preoccupazione apologetica, il va­ lore dei segni, come se essi potessero da soli dare una dimostra­ zione della verità della rivelazione e far sorgere quindi necessa­ riamente nell’uomo una specie di evidenza naturale per essa. I segni, allo stesso modo che per Agostino, diventano elementi co­ noscitivi solo nel rapporto con il momento intelligibile in essi scoperto, cioè con la rivelazione spirituale e soprannaturale, per scorgere la quale è necessaria la luce della fede. Si può parlare così, assieme a Blondel, di un «segno espressivo» (symbole expressif) *°, tanto più in quanto per Tommaso il miracolo autentico è sempre un segno dell’operazione soprannaturale e dell’autotestimonianza di D io 21 ed il nesso tra Dio e il mistero della fede, che provvisoriamente non può consistere nel rendersi intrinsecamente evidente della verità, viene istituito per argumentum divinae virtu tis71. L ’esperienza della virtù e della sovranità divina consiste tuttavia sempre in un incontro con il Dio reale e vivente, che si testimonia come irreperibilmente unico; quest’esperienza non può quindi essere misurata, per vedere confermata la sua pretesa di credibilità, in base ad una pura rappresentazione naturale di Dio; 17

D e Ver 14, 9 ad 4.

18

3 d 2 3 q 2 a 2 q la 2 a d 3.

n

1 S e n t p ró l a 5 ; la q l a 2 ad 2.

211

A rt «M ira c le » in V ocab techn et crit de la p h il l, 4 7 1 , L ’A ction

(1 8 9 3 ), P a rig i 21

puf

1973, p p 3 9 5 /3 9 6 .

V an H o v e , L a doctrin e d u m iracle chez S a in t T h o m as, W etteren

1927, p p 1 3 2 /1 3 3 . n

S T h 3n, q 43 a 1.

189

La luce d ella fede

per essere comprensibile in quanto tale, questa esperienza deve essere riferita all’atto della autotestimonianza storica e vivente di Dio nella sua rivelazione. « E se l’apologetica non può trattare il fatto della rivelazione, senza riguardare almeno dall’esterno ed in generale il concetto di rivelazione, essa non oserà costruire questo concetto a partire dalle idee della ragione o di una vi­ sione essenziale. Piuttosto essa si atterrà, tanto più che il suo oggetto è costituito dai fatti della rivelazione, alla pretesa storica e reale del cristianesimo di essere la rivelazione divina» 23. In quanto segno del Dio vivente il miracolo ha sempre un senso spirituale e divino, mentre, se viene considerato nel suo carattere straordinario puramente materiale, nel migliore dei casi non fa che rinviare a delle cause nascoste preternaturali. I mira­ coli di Gesù, o i miracoli operati nel nome di Gesù, hanno tut­ tavia in se stessi, sia nelPavvenimento che nel suo contesto spi­ rituale, un rapporto evidente con la verità di Dio. La loro credi­ bilità non costituisce il contenuto dell’atto di fede e nemmeno si trova al di qua della fede, nel dominio della pura ragione, ma «appare semplicemente come accompagnamento dell’atto della ri­ velazione che si compie nel segno: ipsa credi bili tas revelationis sese revelantis, ut credibilitas, non revelatur, sed manifestatur» 24. Lo stesso vale delle profezie di Cristo, delle quali parle­ remo in seguito più dettagliatamente e che noi brevemente qui ricordiamo al loro posto. In nessun’altra parte forse, quanto nei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento, la ragione teologica deve essere talmente estetica, testimoniare cioè il senso delle pro­ porzioni, della misura per la vicinanza e la distanza, dell’equili­ brio, del peso e dell’eccedenza. La vecchia apologetica, che inizia già all’interno del Nuovo Testamento e comincia a svilupparsi in scritti come la Lettera di Barnaba e il Dialogo con Trifone di Giu­ stino, resta ferma alla lettera della profezia in un modo che a noi, alla luce degli studi veterotestamentari, appare ormai privo di forza dimostrativa. Se è possibile che Gesù abbia cosciente­ mente ripreso e «adempiuto» alcune indicazioni veterotestamen­ tarie, è tuttavia problematico spesso se il testo «adempiuto», og­ gettivamente e per se stesso (per non accennare al suo significato 23

G

Sohn gen , «W u n derzeichen u n d G la u b e » , in D ie E in h eit in der

T h e o lo g ie , M on aco 1952, p 283. 24

I I V ignon, D e V irtu lib u s in fu sis, R o m a 1943, p 163.

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Elementi della forma della fede ' f soggettivo nel pensiero dell’autore), possegga uh rapporto intrin­ seco con il messia venturo; a meno che non si tratti di una certa armonia tra i due testamenti che, in maniera generale e com­ prensiva, costituisce il presupposto teologico per l ’impiego dei sin­ goli testi e sulla quale, a partire da Origene, pone l’accento qual­ siasi teologia biblica profonda. Non sono i testi a dimostrare ine­ quivocabilmente l’esistenza dell’armonia, ma è a motivo dell’armo­ nia che i testi parlano e diventano trasparenti2S. Antico e Nuovo Testamento vengono a combaciare in una forma universale della rivelazione nella quale, l’ampio mondo delle immagini dell’Antico dispiega, in ombre prefiguratrici, l’adempimento sintetico del Nuo­ vo; l’Antico viene così ad esaurirsi nella funzione di rimandare al Nuovo, ma anche e nello stesso tempo, positivamente, sfocia nel proprio adempimento nel Nuovo. Questa figura universale è al tempo stesso assolutamente secondo la forma del mondo e del­ l’uomo, in quanto espone e rende pedagogicamente accessibile nel tempo, mediante approssimazioni e immagini, l’unità della verità e della realtà divina— e assolutamente divina, in quanto solo Dio può trovare e produrre dall’alto le immagini e le approssimazioni alla propria rivelazione verticale. Per questo l’intera struttura An­ tico-Nuovo Testamento acquista un carattere talmente eminente di segno: questo può essere letto storicamente e tuttavia può es­ sere veramente compreso solo teologicamente e nella fede. Non bisogna tuttavia pensare che l’Antico Testamento debba fornire al Nuovo solo un arsenale di immagini e situazioni tipologiche, una raccolta di tubetti di colore necessari al pittore divino per la creazione del suo capolavoro, un alfabeto o un di­ zionario con il quale il poeta divino possa porre termine al proprio poema. L ’unità è ben più profondamente fondata: là dove il vec­ chio patto è, nella sua fondazione e in tutte le sue fasi, cammino interiore al Cristo e, nell’istante decisivo, incontro con lui nella dialettica di elezione e reiezione; là dove, in conseguenza, il vec­ chio patto intimamente, a partire da Dio, viene già segretamente esigito e segnato dal Nuovo fin dentro la dialettica, interna all’An­ tico Testamento, di elezione e reiezione26. 25 J Coppens, Les Harmonies des deux Testaments, Tournai2 1949; cfr ivi anche la bibliografìa. 26 Cfr a questo proposito: «Die Wurzel Jesse», in Sponsa Verbi, Einsicdcln 1961, p 311; (tr it Sponsa Verbi, Brescia 1969). 191

La luce della fede A questo proposito non si può dire che questa forma affascinante nella quale è storicamente ordinata la rivelazione sia stata essa stessa, nel suo contenuto, rivelata. Essa infatti «appare» assieme e contemporaneamente alla rivelazione, è una forma del suo incarnarsi nel mondo e nell’uomo; essa è cioè la forma del suo ingresso e della sua diffusione nello spazio della storia. Chi viviseziona, mediante la cosiddetta critica storica, la dimensione storica della rivelazione per mantenerne il contenuto di compi­ mento come unico nucleo interiore, sarà poi cieco di fronte alla bellezza e all’evidenza tipica di questa forma. Essa invece, per colui che può vedere, costituisce un momento talmente luminoso che i più grandi contemplativi tra i teologi non si stancarono di ammirare, nella sua orizzontalità storica, la verticalità della parola che discende da Dio. Questa evidenza può incantare fino a tal punto colui che la contempla, da originare il pericolo di dimen­ ticare, sulle ali del godimento di una contemplazione puramente estetica, il dramma esistentivo della storia della salvezza, il cozzo tragico dei due Testamenti. Infatti nessuna forma è stata posta nella bibbia al fine di una contemplazione puramente estetica: nell’incontro con la figura e con l’immagine devono accendersi vita e decisione (1 Cor 10,6/13). Questo vale già nel senso in cui il Signore stesso esorta a leggere Mosè e i profeti nella propria luce (G v 5,39s), come di quello per cui ogni fede dell’Antico Testamento era iniziazione alla fede in Cristo (At 7; Eb 11) e per cui, conseguentemente, solo il Cristo offre la chiave per comprendere il segreto della Scrit­ tura antica (At 8,26s). Una siffatta visione è, in un senso parti­ colarmente forte, un videre in speculo et aenigmate (1 Cor 13,12), mentre lo sguardo che dalle immagini si volge alla verità del Cristo è «un vedere a viso scoperto la gloria del Signore» (2 Cor 3,18), anche se questa visione senza veli, paragonata con quella escato­ logica che ci è stata promessa, è sempre e ancora una visione nello specchio. La riflessione reciproca tra Antico e Nuovo Testa­ mento conferisce tuttavia allo specchio la più grande trasparenza in quanto, in un crescendo razionalmente indecifrabile, promessa e compimento ogni volta si confermano e rischiarano a vicenda. Per questo motivo alcuni tra gli interpreti antichi spiegavano, non raramente, la trasformazione del cristiano in immagine del Signore ò.nò sì? Só^av {ivi), come la trasformazione dalla gloria del vecchio patto in quella del nuovo. 192

E lem enti d ella form a d ella fede

3. È sempre a partire dallo stesso rapporto di segno e forma che bisogna trattare l’ultimo rapporto, quello tra «fede eccle­ siale» e fede in Cristo. Qui è d’obbligo la più grande prudenza perché la fede nei segni non copra il credente divenire visibile della forma della rivelazione di Dio. La chiesa è incaricata, nei suoi rappresentanti ufficiali, gli apostoli e i loro successori, di an­ nunciare autoritativamente ai popoli la dottrina del Cristo (e quindi in ultima analisi la dottrina sul Cristo, compendio della legge e della verità di Dio). Questo annuncio, questo kerygma, è la via normale attraverso la quale gli uomini vengono a contatto con la forma della rivelazione: fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi (Rm 10,17). Le parole di Paolo non sono qui del tutto univoche: auditus, stando al contesto, sembra riferirsi alla predicazione, alla parola che risuona nella chiesa (cfr 10, 14/15), ma in quanto atto dell’ascolto, attraverso la predicazione, si riferisce alla stessa parola del Cristo; per verbum Christi può stare a significare che si predica dietro comando del Cristo o per mezzo della parola del Cristo, per cui la parola del Cristo è o causa o contenuto della predicazione; in tutti e due i casi tuttavia non è la predica ad essere oggetto della fede, ma, attraverso essa, la parola del Cristo. Se quindi la chiesa ha ricevuto ufficialmente l’incarico dell’annuncio, il credente non crede tuttavia alla chiesa, ma accoglie la sua testimonianza autoritativa sul Cristo, per cre­ dere, poggiandosi a questa testimonianza accreditata, a Cristo stes­ so. Mai i messaggeri della fede esigono per se stessi l ’adesione del credente, giacché la fede, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamen­ to, significa assoggettarsi con l’intelletto, la volontà e il cuore, al Dio che già prima si è donato totalmente. La lotta condotta dal­ l’apostolo per «punire ogni disobbedienza», per «distruggere ogni potenza altera che si innalza contro la conoscenza di Dio e ren­ dere prigioniero ogni pensiero riducendolo all’obbedienza del Cristo», non viene condotta con «i mezzi della carne», ma «nella potenza per Iddio» (2 Cor 10,3/5). Ciò sta a significare che, attraverso i suoi rap­ presentanti, la chiesa non assoggetta nessuno a sé, bensì a Dio, al quale soltanto si indirizza l’atto di fede. La testimonianza degli apo­ stoli e dei loro successori, nonostante l’autorità ad essi accordata, derivata immediatamente dal Cristo e dalla sua autorità, possiede un carattere transeunte, di puro rimando, e può essere inserita nel con­ tenuto della fede solo come testimonianza transeunte. Nella misura in cui questo contenuto è la forma completa del Cristo, esso in­ 193

L a luce d ella fede

elude anche la missione di Cristo agli apostoli e tutta la realtà visibile-invisibile della chiesa fondata e originata da essi. In que­ sto senso si parla del credo ecclesiam nel simbolo apostolico e non già come se la chiesa rappresentasse Cristo come soggetto a cui è rivolto l’atto di fede. Quest’ultimo senso sarebbe in con­ traddizione con quanto abbiamo già detto sul carattere pura­ mente ufficiale dell’annunciatore e della stessa predicazione, men­ tre l’atto di fede è essenzialmente esistentivo, esige cioè, come sacrificio obbedienziale, tutta la realtà del credente. Per questo motivo tutto ciò che da parte del magistero ecclesiastico viene elaborato, ai fini di una proposizione infallibile, nelle interpretazioni e nelle formulazioni concettuali e verbali dei dogmi e delle definizioni, non può essere che un mezzo per rap­ presentare più profondamente e più chiaramente il contenuto della rivelazione di Dio in Cristo e farlo così brillare nei cuori. I sin­ goli «articoli di fede», nella loro forma concettuale e verbale, normativa per la chiesa, sono vie attraverso le quali la fede possa raggiungere la persona di Cristo e, attraverso essa, il Dio trino e personale27. La mediazione del magistero ecclesiastico e dei se­ gni esterni di credibilità avviene solo come «condizione», mentre l ’unico motivo autentico della fede cristiana è l’atto increato della rivelazione di Dio, la parola interiore di Dio con la quale lo spirito del credente viene in contatto vivente, in un atto sempli­ cissimo che lo unisce immediatamente alla verità originaria28. Così come la forma concettuale e verbale del dogma ec­ clesiale deve prendere come modello archetipo quella della parola di Dio, lasciandosi segnare dalle proporzioni intime della parola di Dio, e non introducendo nella dottrina e nella predicazione altre proporzioni se non quelle che sono già state date, altrettanto la forma originaria resta una forma che emerge solitaria dalla oscu­ rità di Dio e può essere veramente compresa solo in connessione con questo suo sottofondo. Conseguentemente essa non può mai essere resa adeguatamente mediante una costruzione razionale, quale una confessione di fede composta da proposizioni o un trattato dogmatico. Nella forma della rivelazione biblica può essere affer­ rato come compresente l’Essere sempre più grande di Dio. Ciò 27

J M o u ro u x, Ich g ìau b e ari D ich , E in sied eln 1 951, p 4 3 s (tr ted di

J e C ro is en tot). 28

G arrig ou -L ag ran g e, D e R e velation e i, R o m a 31931, p 512.

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Elementi della forma della fede non può avvenire, nella stessa misura, nella tradizione dogmatica ecclesiale, presa non già come indice che rimanda alla rivelazione, ma come forma propria. Se vogliamo esprimere la stessa cosa in altri termini pos­ siamo dire che il magistero ecclesiastico può ripresentare la verità di Cristo solo sotto il punto di vista della dottrina, non sotto quello della vita, mentre in Cristo vita e dottrina sono identiche. Que­ sta identità è essenzialmente singolare, è legata all’unione iposta­ tica e può essere imitata dalla chiesa, nella misura in cui questa è composta da uomini, solo in un dualismo: come dottrina infal­ libile nel ministero apostolico e petrino, come santità della vita nella chiesa (mariana) dei santi. Anche se nella chiesa ambedue le attualizzazioni del Cristo sono intimamente unite, l’una legata al­ l ’altra e ad essa rimandante, tuttavia una non può sostituire l’altra e pretendere di costituire tutta la rappresentazione del Cristo. La chiesa docente può presentare la verità, ma non può produrla a forza nei cuori dei fedeli. Il singolo, di fronte alla forma della rivelazione che gli viene mostrata, è libero di obbedire o di di­ sobbedire. Il kerygma ufficiale e autoritativo resta un rimando alla rivelazione. Per questo, propriamente, il credente non aderisce alle proposizioni della fede, ma a ciò che esse esprimono e che è sem­ pre il Dio vivente in Gesù Cristo. Per questo motivo è possibile che una fede autentica raggiunga il Dio vivente anche attraverso delle formulazioni di fede carenti e in certi casi errate, qualora Dio disponga così. L ’intenzione del credente è rivolta a Dio e la grazia di Dio può completare ciò che, della obiettiva e giusta forma della rivelazione, rimane nascosto ad un uomo senza sua colpa, dentro o fuori della chiesa o anche del cristianesimo in quanto tale. Una cosa è l’immediato essere rivelato di Dio in Cristo e anche nella sua chiesa ed una cosa è l’espressione adeguata di que­ sta rivelazione attraverso Cristo stesso e la sua chiesa29. Si po­ trebbe quindi pensare che uno si incontri non solo con Dio, ma anche con la vera realtà della sua rivelazione in Cristo e nell’es­ 29 «L a stessa realtà cristiana, e cioè il Cristo e la chiesa... si autopresenta direttamente a tutti nella sua specie sensibile... ma questa prima propo­ sizione diretta resta imperfetta e confusa... Perciò il mistero cristiano si pro­ pone in modo più pieno indirettamente (cioè mediatamente)... e tuttavia per­ fettamente attraverso la rivelazione mediata, cioè in Cristo mediato dalla chiesa»: Vij>non, op cit, p 156.

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La luce d ella fede

senza della chiesa pur restando, senza sua colpa, nell’opinione che la formulazione dogmatica ufficiale non costituisce un’espressione adeguata di questa realtà. Egli dovrebbe tuttavia, per sostenere questa dissociazione, non intravvedere, sempre senza colpa (come può essere il caso all’interno del protestantesimo), il nesso intrin­ seco tra la parola della rivelazione e la sua espressione ecclesiale normativa. Se la potestà ecclesiale è in primo luogo «servizio» e quindi rimando al Signore della chiesa, altrettanto la vita eccle­ siale, che procede dal Cristo nello Spirito Santo, non è soltanto vita personale, ma anche sociale, incorporazione d ’amore al Capo nello scambio vitale con gli altri membri. Questa vita intima della chiesa è a sua volta e nella sua totalità rimando alla sorgente di questa vita, alla pienezza di Cristo e di Dio in Cristo. Giacché però questa vita divina vive e si esprime veramente nella vita ecclesiale, la chiesa in quanto corpo di Cristo partecipa intima­ mente alla forma del Cristo e lo Spirito vivente e divino, che si esprime in questa vita, diventa più immediatamente «visibile» ed evidente che nel puro magistero— per quanto magistero e vita siano profondamente connessi. Mentre tuttavia il magistero esercita es­ senzialmente una funzione di servizio nei confronti del corpo ec­ clesiale sociale, questo non è sottomesso in misura uguale al magi­ stero. In primo luogo infatti esso è sottomesso al Capo ed al magistero solo nella misura in cui qui si esprime concretamente l’obbedienza di amore del Signore. L ’autorità ecclesiastica è mezzo, la vita ecclesiale è fine. Ed il fine della vita ecclesiale a sua volta è quello di incarnare ulteriormente nel mondo, a gloria del Padre, la forma del Figlio e di renderla visibile per il mondo non credente. Il singolo cristiano quindi, in quanto membro della chiesa, è real­ mente posto sotto la legge della forma del Cristo: egli deve in­ carnare per il mondo l’evidenza della verità del Cristo, quale si è manifestata a lui, nella misura del possibile (nella «analogia della fede») e secondo la grazia di santità e di missione che gli è stata donata. Qui occorre ricordarsi che ogni grazia cristiana è sempre grazia cristiforme; essa ha origine dall’unione ipostatica e parte­ cipa in qualche misura e per grazia della forma originaria e arche­ tipa. In Cristo, il Figlio, noi diventiamo figli di Dio, nella sua fratellanza anche noi, secondo la sua immagine, diventiamo fratelli. Ciò significa che, attraverso la vita cristiana esemplarmente vissuta, 1%

E lem en ti della form a ideila fede

può e deve essere reso visibile per il mondo, nel modo della for­ ma, qualcosa del mistero dell’unione ipostatica. Ciò tuttavia riu­ scirà solo laddove, ogni scambio etico o mistico del membro con il Capo ed ogni identificazione che sopprima la distanza, vengono evitati nel senso e nell’obbedienza della fede. Ciò è possibile sen­ z’altro attraverso la contemplazione continua della forma ogget­ tiva della rivelazione, alla quale rimanda la luce soggettiva della fede, della speranza e della carità. Il santo autentico è sempre colui il quale si confonde il meno possibile con il Cristo e può quindi essere, nella maniera più convincente, trasparente al Cristo. Alla fine di questo capitolo sulla luce della fede, il lettore si porrà la questione se noi siamo rimasti dentro i limiti del tema o se piuttosto non abbiamo già in larga misura anticipato il tema ulteriore dell’oggetto della fede. È tuttavia impossibile parlare di­ versamente della fede cristiana, senza trattare cioè al tempo stesso della luce e della forma (lumen et species). Anche se è possibile ed è stato da noi ammesso che la luce della fede cada su un og­ getto che non è ad essa perfettamente adeguato a raggiungere in qualche modo il suo scopo finale in connessione a quest’oggetto (tralasciando ciò che non è adeguato), essa tuttavia non è mai in maniera puramente esteriore, ma già sempre interiormente, deter­ minata dal suo oggetto adeguato. E questo non solo in quanto Cristo ci ha meritato attraverso la sua passione l’accesso al Padre, ma più profondamente, in quanto egli— come Figlio divino fattosi uomo, come parola e luce del Padre al tempo stesso— opera in noi, con la sua presenza e nel suo Spirito, la fede, la carità e la spe­ ranza. La luce della fede non può quindi essere mai concepita o sperimentata, nemmeno per un solo istante, come una realtà psi­ chica puramente immanente, bensì unicamente come irraggiamento della presenza di un lumen ìncreatum, di una grafia increata, senza che noi possiamo astrarre in questa luce e in questa grazia dalla incarnazione di Dio. Se questa luce, questa grazia, è cristiforme, allora quanto vi è di luminosità in essa è anche determinato dalla forma oggettiva e non si dà possibilità, per motivi di interiorità religiosa, di separare questa sintesi posta da Dio. Ciò che Dio mi dona interiormente come sua parola di luce e di grazia, non a caso, ma essenzialmente, possiede la forma che Gesù Cristo ha nella dimensione pubblica della storia, anche se la sua verità di forma oggettiva diventa visibile solo per gli occhi della fede. 197

La luce d ella fede

È impossibile dividere il Cristo oggettivo da una parte in una forma dotata di manifestazione solo nella sfera esteriore e dall’al­ tra in una restante luce senza forma per l’interiorità esistentiva. Tutto il mistero del cristianesimo, ciò per cui esso si distingue radicalmente da qualsiasi altro progetto religioso, consiste nel fatto che la forma, proprio perché posta ed affermata da Dio, non si oppone alla luce infinita e, anche se in quanto forma finita e mondana deve morire allo stesso modo in cui è destinata a mo­ rire ogni bellezza terrena, tuttavia non scompare in una realtà senza forma, lasciando dietro di sé una nostalgia tragica e infinita, ma risorge in Dio come forma che adesso in Dio è diventata defi­ nitivamente una sola cosa con la parola e la luce divina che Dio ha destinato e donato al mondo. La forma stessa partecipa al processo della morte e della risurrezione e diventa quindi coe­ stensiva alla luce-parola di Dio. Il cristianesimo diventa così il principio sovrabbondante e mai superabile di ogni estetica, esso diviene la religione estetica per eccellenza. Questa struttura determina in primo luogo un oggetti­ vismo radicale: nel soggetto stesso la luce di fede è solo allora luce quando l’uomo, uscendo da sé e rinunciando ad ogni evidenza propria, si consegna all’origine che gli sta aperta dinanzi, per grazia. Ma egli sarà in grado di compiere questo trascendimento interiore, senza errori e senza nascoste identificazioni mistiche, solo allora quando riconoscerà l ’origine della luce nella forma di Gesù Cristo, così come gli si fa incontro nello spazio della chiesa. L ’autoabnegazione interiore ha, non solo il suo effetto, ma anche il suo con-fondamento e la sua verifica continua nell’autoabnegazione or­ dinata al servizio del mondo: del Cristo storico quindi che mi si fa incontro nella chiesa e attraverso la chiesa e, qualora io abbia compreso il suo messaggio, in ogni prossimo e in ogni situazione mondana. Quest’oggettivismo, proprio del principio cattolico (in opposizione all’interiorità protestante e ad ogni forma di mistica fuori del cristianesimo) consiste nel prendere sul serio l’estasi del­ l ’amore fuori di sé: l’unica presa sul serio nell’uomo che corri­ sponda alla presa sul serio in Dio, all’eros divino che esce fuori di sé per farsi uomo e morire sulla croce per il mondo (Dionigi, Div Nom iv 13). L ’unico entusiasmo da prendere sul serio sarà, così, pieno di quel Dio che non è altro che colui il quale ha tanto amato il mondo, da preferirlo al suo unico Figlio. La forza del­ l’entusiasmo che spezza ogni barriera, solo allora perviene al suo ]9K

E lem e n ti della form a d ella fede

scopo finale, non quando dionisiacamente dilacerando ogni forni» o indianamente calpestandola nella danza trova la sua ultima bar­ riera nella morte, bensì quando è in grado di trasmutare la morte stessa in vita ed in energia dirompente. Per ottenere questo il cristiano non ha bisogno di aspettare la morte fisica, ma deve ini­ ziare subito, giacché col battesimo muore già radicalmente e ri­ sorge a Dio. E tutta la vita non sarà poi che l’iniziazione e l’eser­ cizio di questa morte e risurrezione radicale. Egli sperimenterà così che la sua forma terrena passa, ma che dalla luce di Cristo gli viene donata sempre nuovamente una forma cristiana. Come uomo con un corpo e un’anima egli è nascosto per Cristo in Dio. Dio, il quale si fa uomo per morire e risorgere è la gloria unica di Dio apparsa nel mondo: Cristo è tutta la doxa di Dio la quale abita corporalmente in lui (Col 2,9) e, dalla sua forma indis­ solubile, irraggia nel mondo. Questo irraggiamento deve così es­ sere inseparabilmente luce spirituale e forma strutturata: insepa­ rabilmente Spirito Santo e regola ecclesiale. Ambedue, nella loro unità, fanno da mediazione a Cristo, il quale fa da mediatore a Dio, senza che per questo nessuno di questi centri possa essere considerato una «istanza intermedia». Lo Spirito infatti è nel­ l’unità Spirito di Cristo e del Padre, come la chiesa è nell’unità corpo di Cristo e Cristo stesso è uno per essenza con il Padre. Certo, solo la fede può scoprire con la sua luce questa trasparenza irra­ diante dell’apparizione di Dio in Cristo e nella chiesa. Laddove per altri occhi non illuminati sembrano levarsi istanze intermedie di impedimento, la fede invece scorge, nella forma della rivelazione, la propria luce. Ancora di più e più propriamente: proprio nel guardare la forma della rivelazione la fede diventa luminosa a se stessa e comprende la vera estasi dell’amore, esigita da Dio: « L ’amo­ re consiste in questo: che noi non abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 G v 4,10). Proprio questa è la luce che Dio ha innalzato davanti al mondo e che è in grado di suscitare in me la fede in Dio. E anche se Dio mi ha infuso in anticipo una nostalgia per il vero amore, per trarmi ad esso (Gv 6,44), lo ha fatto solo per permettermi di riconoscerlo quando si presenta corporalmente al mio sguardo. La luce della fede è eco dell’amore di Dio che, nella fedeltà dell’Uomo Cristo, è arri­ vato «fino alla fine» dell’amore. Così Cristo non ha eliminato lutiti ciò che è legge e ha forma nell’Antico Testamento, ma lo ha 199

La luce della fede saputo rendere trasparente come luce dell’amore e lo ha vissuto come espressione del compimento della fedeltà veterotestamentaria al patto (fides in senso pieno)30. In questo senso la fides quae del cristiano è la fides qua del Cristo di fronte al Padre ed anche la fides qua del cristiano vive dell’irradiamento di questa luce del Cristo, la quale va considerata come la sua fede esemplare, che determina la totalità della sua forma facendo di tutto l’uomo una risposta adeguata alla Parola di Dio.

30 «Fides Christi», in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, pp 45/79 (tr it Sponsa Verbi, Brescia 1969).

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L’ ESPERIENZA DELLA FEDE

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ESPERIENZA E MEDIAZIONE

1. Analisi teologica dell’esistenza

Quanto abbiamo detto ci dà la possibilità di affrontare la questione dell’esperienza della fede con pieno diritto, dal punto di vista teologico, sine ira et studio. Per quanto il concetto di esperienza possa essere sovraccarico di condizionamenti nella sto­ ria della teologia e delle eresie, nella teologia cattolica, in quella protestante e in quella controversistica, esso resta tuttavia indi­ spensabile se la fede è incontro di tutto l’uomo con Dio. E Dio vuole davanti a sé tutto l’uomo. Egli vuole tutta la risposta del­ l’uomo alla sua Parola. Vuole quindi l’uomo non solo con il suo intelletto (che dovrebbe sacrificare ad una verità non evidente), ma immediatamente anche con la sua volontà, non solo con la sua anima, ma anche e allo stesso modo con il suo corpo. Per quel che riguarda la fede si farà sempre bene a rendersi conto che la fede neotestamentaria deve, anche sotto questo riguardo, non già essere inferiore, ma superare quella del vecchio patto. Per questo, anche qui, non è la fides ex auditu (praedicantium) il mo­ dello della fede come tale— con l’ex non si fa che descrivere l’ac­ cesso alla fede— bensì soltanto l ’atto di esistenza di Gesù Cristo stesso. È attraverso questo atto di esistenza che egli ha voluto e potuto divenire d p '/jjv ò q y.cà reXeico-nji; tt)? m a z s c x ;, autore e perfe­ zionatore della fede (Eb 12,2). Se l’analisi della «luce della fede», improntata alla tradizione teologica, poteva suscitare ancora l’im203

L ’esperienza della fede pressione che nella fede si tratti solo di un atto particolare e iso­ lato dell’uomo ed inoltre di un atto tale che, nella sua «sopran­ naturalità» specifica, debba essere considerato dal basso primaria­ mente solo in modo negativo, a causa della «non evidenza» dell’og­ getto creduto— impressione questa che abbiamo già tentato di dissi­ pare da tutte le parti— l’introduzione del concetto di esperienza dovrebbe eliminare del tutto quest’apparenza. E solo se questo concetto viene verificato nel dominio teologico, sarà possibile por­ tare a svolgimento il tema che ci siamo prefissi in questo studio. Il bello esige infatti assolutamente la reazione di tutto l’uomo, anche se in un primo tempo possa essere appercepito attraverso una o più facoltà sensibili. Ed infine noi siamo presenti con «tutti i sensi» quando lo spazio interno di una bella musica o di una pittura ci si apre e ci prende prigionieri. È tutto l ’uomo che allora si mette a vibrare per diventare spazio dove risuona la risposta e «cassa di risonanza» del bello che accade in lui. A maggior ragione questo si verifica nell’eros umano ed in quale misura deve allora valere per l’incontro con l’eros divino! Nondimeno qui non si tratta del­ le oscillazioni di una simpatia cosmica, bensì di quelle di una cl{jly) ). I Corinti cercano la dimostrazione che lo Spirito di Dio parla realmente per bocca di Paolo; Paolo sembra loro infatti troppo «debole» (10,10). E Paolo li minaccia di venire da loro con il giudizio di Dio; in questo modo si confermerà e manifesterà in lui la forza di Dio, a meno che essi non acconsentano a vedere e comprendere nella fede il mistero del suo reale essere autenticato. Ma far questo si­ gnifica comprendere nella fede il mistero di Cristo. Infatti proprio perché «egli fu crocifisso nella debolezza, vive nella forza di Dio». Comprendere questo significa allora anche far valere questo mi­ stero come la norma dell’esistenza di Paolo e della comunità. Tutta la forza dell’argomentazione di Paolo sta nel fatto che egli «non raccomanda se stesso», cioè «non si misura a se stesso» e «non si paragona con se stesso» (10,12). In altre parole: l’argomentazione non viene condotta sul piano psicologico; su questo piano essa non potrebbe essere condotta perché porterebbe soltanto ad una «van­ teria smisurata» del soggetto religioso e verrebbe quindi a dimo­ strare proprio il contrario della fede. «Infatti non colui che racco­ manda se stesso è confermato, ma colui che il Signore raccoman­ da» (nella misura in cui lo informa con la sua debolezza e la sua forza: 10,18). In questo senso Paolo non ha raccomandato se stesso, ma si è raccomandato solo «come servo di Dio», in tutto il destino della propria persona («con molta pazienza, nelle tribo­ lazioni, nelle prove, nelle necessità, nelle battiture, nel carcere, ecc.»), per cui viene dimostrato il farsi forma di Cristo nella sua vita (6,4/10). Ciò posto non è difficile comprendere il cap 13,3ss: «Voi volete una prova che Cristo parla in me, lui che non è debole, ma potente in mezzo a voi. Certo egli è stato crocifisso nella sua debolezza, ma adesso vive nella potenza di Dio. Ed anche noi, certamente, siamo deboli in lui, ma vivremo con lui, di fronte a voi, grazie alla potenza di Dio. Esaminate piuttosto voi stessi, cer­ cate di vedere se siete nella fede! O non avete ancora fatto l’espe­ rienza che Cristo è in voi (vivo e potente)? Ma allora sareste voi a non essere confermati. Io spero almeno che voi (in ogni caso) farete l’esperienza che in noi non manca la conferma (cioè quando 209

L ’esperienza della fede Paolo verrà ad essi con il giudizio di cui li minaccia ed essi spe­ rimenteranno nel proprio corpo la forza di Cristo che è in lui); ma noi supplichiamo che Dio vi guardi dal male, non perché ab­ biamo ad apparire confermati, ma perché voi facciate ciò che è giusto, anche se noi dovessimo così soccombere nella prova... per­ ché noi ci rallegriamo se siamo deboli, se voi siete però pieni di forza». L ’esperienza di fede è quindi per Paolo una prova strin­ gente, qualora sia condotta dalla fede alla fede: dimostrazione, manifestantesi nella vita, della giustezza del presupposto: che Cristo può mostrarsi forte nella debolezza del credente. E questo non perché laddove la creatura fragile «decresce» il Dio forte «cresce» in lei, ma perché così si afferma nell’uomo la legge fondamentale di Cristo stesso: essere forti in Dio attraverso la debolezza. Per il pieno valore della prova, così come la intende Paolo, manca an­ cora un ultimo motivo: Cristo si manifesta come «forte» in Paolo, per il fatto che lo ha costituito nell’apostolato. Il ministero in Paolo è ciò che è forte, giacché egli, assoggettando la sua vita al mini­ stero, non serve a se stesso, ma all’incarico di Cristo e quindi a Cristo stesso; ma Paolo non separa il ministero dalla forza spirituale-vivente di Cristo nella chiesa: il «puro ministero», il giudi­ zio che egli potrebbe esercitare in Corinto, viene menzionato solo come minaccia, come possibilità estrema che non dovrebbe verificarsi. A partire da questo passo potrebbe svilupparsi tutta l’ana­ lisi teologica dell’esistenza cristiana, nelle sue complesse connes­ sioni e nelle sue variazioni, ma per ritornare sempre di nuovo al punto da cui si era partiti: l’esistenza cristiana si dimostra e si conferma come una esistenza che «va», proprio perché è un’esi­ stenza nella fede, cioè nella consegna di se stessi a colui che per primo si è dato per noi. Poiché il via-da-se-stessi della fede è il fondamento e quindi anche lo scopo di ciò che deve essere dimo­ strato; allora anche la forma più alta dell’esperienza e della gnosi cristiana non può mai andare al di là di questa fede, ma soltanto rafforzarla e dimostrarla esatta. Non si può assolutamente pensare che quest’analisi dell’esistenza possa rovesciarsi inopinatamente in una «autocomprensione» chiusa in se stessa, da cui poi tranquilla­ mente e senza pericolo venga escluso l’oggetto proprio della fede, Cristo, per sostituirlo al massimo mediante un puro «Gesù sto­ rico» (historischer Jesus), pura «occasione» storica (geschichtlich) 4 di questa esistenza. Tutta la forza della argomentazione poggia piur:i

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Esperienza e mediazione tosto sul «non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me», cioè nell’oggettivo e mai superabile assoggettamento di tutta la sfera dell’io ad opera della sfera di Cristo: «Così lo conoscerò c (sperimenterò in me) la forza della sua risurrezione e la partecipa­ zione alle sue sofferenze, mentre sarò reso conforme alla sua morte, nella speranza (so tzo)c ) di pervenire alla risurrezione dai morti— non che io lo abbia già ricevuto o che sia già perfetto; piuttosto proseguo la mia corsa per cercare di afferrarlo, io che sono già stato afferrato da Gesù Cristo» (Fil 3,10/12). Tutto è situato sull’ala di questo abbandono di sé e di un esistere soltanto nel volo verso questo scopo. Dal luogo che è stato abbandonato non può più essere giudicato (1 Cor 12,14/15) colui che è «spinto» nello Spirito (Rm 8,14). Anzi costui non può nemmeno giudicare se stesso (2 Cor 4,3). Le conseguenze logiche per la formulazione dell’esperienza cristiana sono di portata enor­ me. Esse riguardano il problema, insolubile in una prospettiva statica, dell’esperienza cristiana. Riemerge qui, a livello teologico, il problema di Bergson: il volo non può essere afferrato in quanto tale attraverso i fotogrammi statici di un film, per quanto velo­ cemente essi si susseguano. Il fine della salvezza è afferrato nel volo, perché il volo può essere reso comprensibile solo attraverso il fine. E tuttavia il fine è afferrato nel volo e non in se stesso e non può quindi essere tradotto in una statica «certezza della sal­ vezza». «Io so che tutto questo contribuirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, se­ condo la mia attesa e la mia speranza di non essere confuso in nulla. Piuttosto sono assolutamente fiducioso che questa volta, come sempre già, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva, sia che io muoia» (Fil 1,19/20). Si può chiamare ciò «certezza della salvezza», la quale tuttavia non è né privata e personale (Paolo in­ fatti da quando è stato espropriato di se stesso per diventare apo­ stolo non è più una persona privata, ma una anima ecclesiastica), né semplicemente totalitaria (nel senso di una dottrina sistematica della apocatastasi), ma certezza raggiunta nell’atto del volare, ga­ rantita dallo Spirito Santo che sostiene colui che vola, perché questi gli si è affidato e abbandonato come uomo spirituale. E ciò a sua 4 L ’autore si riferisce qui alla distinzione, difficilmente traducibile tra I Ustorie, pura ricostruzione di un fatto passato, e Geschichte, considerazione ili una storia che interpella il presente e diventa quindi contemporanea (ndt).

L ’esperienza della fede volta non è opera o prestazione umana, ma l’ammissione dell’essere già stati ogni volta raggiunti dal Cristo. Questa è esperienza nel suo senso più comprensivo: con­ vinzione acquisita in un viaggio5. Questa esperienza non può essere acquisita che facendola e la può fare solo chi si abbandona e si mette in viaggio, chi mette quindi in atto la sua fede ed esiste in quanto credente. Qui avviene il trapasso dallo «psichico» il quale ha lo Spirito solo «teoreticamente» ma non lo realizza, allo «pneu­ matico» il quale fa spazio allo Spirito dentro di sé. Il primo «non comprende ciò che viene dallo Spirito; per lui infatti è stoltezza e non può afferrarlo, perché un giudizio decisivo su di esso è possi­ bile solo spiritualmente» (1 Cor 2,14). Per questo il dogma (su Cristo in quanto Figlio di Dio morente e risorgente per noi e in noi) può essere sviluppato solo in base al modello dell’uomo pneu­ matico e, nella sua verità, può essere compreso solo da lui. La dogmatica cristiana si sviluppa nell’ambiente della fede e ciò signi­ fica per Paolo: della fede vissuta nell’esistenza. Qui si radica la sua dimostrazione, la sua forza di convinzione, la sua comprensi­ bilità oggettiva e la possibilità soggettiva di intenderla. In questo senso l’esperienza non ha naturalmente nulla a che fare con il «sentimento» (nel senso di Schleiermacher) e con l’irrazionalità modernistica. Infatti ciò dentro a cui l’esistenza viaggia e sempre già è stata trasportata dalla grazia di Dio è la realtà oggettiva e tri­ nitaria del Dio che «già prima» (cfr Rm 5,8) ha avuto misericordia di noi. Ma se il dogma diventa dimostrabile e viene dimostrato nello spazio dell’esistenza spirituale, allora il cristiano «perfetto» è anche la dimostrazione perfetta della verità del cristianesimo: nella sua trasparenza esistentiva è il cristianesimo stesso ad essere comprensibile e spiritualmente trasparente in sé e per il mondo. Il santo è l’apologia della religione cristiana. Ma egli è santo nella misura in cui lascia vivere Cristo in sé e si può «gloriare» di Cristo. Per un’etica antropologicamente chiusa, l’apertura con la quale Pao­ lo dimostra in se stesso la santità cristiana, in vista della dimo­ strazione della verità dogmatica, o con la quale intraprende un’ana­ lisi della propria esistenza davanti alla chiesa e al mondo tutto, avrà sempre qualcosa di scandaloso. Essa tuttavia non è altro 5 L ’autore gioca qui sulla parola er-fahreti (sperimentare, venire a sa­ pere), dove è inclusa l’idea del viaggiare (fahreti) (ndt). 212

Esperienza e mediazione che un riflesso fedele e docile, a livello ecclesiale, della pretesu unica di Cristo di essere, egli stesso, nella sua esistenza vivente, la verità di Dio. Questa hybris apparente può essere risolta solo cristianamente, in quanto Cristo «non cerca il suo onore, ma l’onore di colui che l’ha mandato» e Paolo non dimostra se stesso, ma l’esistenza di Cristo nella sua esistenza, diventata interamente mi­ nistero e servizio. E nella misura in cui egli mostra in se stesso l’esistenza del ministero— come esistenza nella vocazione ad apo­ stolo di Cristo fin dal seno materno— anche l’autocoscienza di Pao­ lo e la convinzione del suo carattere unico appartengono alla sua maniera propria della sequela di Cristo. Essa è vocazione come mi­ nistero, espropriazione come funzione6. Certo, ciò che è decisivo nell’esperienza cristiana di Paolo si radica nella visione di Damasco la quale, nella sua convinzione, lo pone accanto agli apostoli primitivi. Per il momento è tuttavia inutile fermarsi a questo aspetto particolare della sua esperienza perché, per la comprensione che Paolo ha di sé, questo legittima al massimo la sua pretesa apostolica, ma non gli conferisce, per quel che riguarda l’esistenza cristiana, alcun privilegio particolare nei confronti degli altri cristiani. La visione originaria del Cristo appartiene in qualche modo al campo dei carismi (quosdam autem a p o s t o l o che differenziano funzionalmente un possesso dello Spi­ rito valido per tutti. Ma la dimensione esperienziale in quanto tale non appartiene alla differenziazione, ma al bene ecclesiale co­ mune. Questo bene comune può essere chiamato fede, ma anche possesso dello Spirito e, poiché lo Spirito è lo Spirito di Dio e di Cristo, può essere chiamato anche amore. È a partire dalla carità che vengono criticati i carismi (1 Cor 13), ordinati, resi compren­ sibili, così come tutto ciò che è funzionale e ministeriale nella chiesa trova la sua misura nella vita cristiana vissuta. È la carità che crede e spera (1 Cor 13,7), è essa il contrassegno centrale del volo tra il vecchio ed il nuovo eone, tra il vecchio uomo che muore ogni giorno ed il nuovo che ogni giorno risorge in Cristo e a Cristo; essa soltanto media la gnosi cristiana, così come questa deve costituirsi (1 Cor 8,1/3). Nella misura in cui essa «edifica», sorge, mediante essa, l’edificio che solo vai la pena di conoscere e che a sua volta non può essere conosciuto se non mediante la 6 Al riguardo, più diffusamente, in «Nachfolge und Amt», in Sfioristi Verbi, Einsicdeln 1961, pp 80/148 (tr it Spotisa Verbi, Brescia 1969).

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L ’esperienza della fede carità, la quale però non conosce se stessa e la propria opera, ma la pienezza di Cristo (Ef 4,13.16). Tuttavia il volo da se stessi a Dio non deve essere inteso nel senso di un «dimenticare-se-stessi» (Fil 3,13), quasi che l’uomo perda se stesso. Piuttosto è vero che nell’esperienza dello Spirito viene comunicata all’uomo l’esperienza più profonda possibile di se stesso. Lo Spirito Santo è uno Spirito di rivelazione il quale parla allo spirito umano al quale è immanente, illuminando ciò che esso è. Nel grido spirituale Abba, Padre!, «lo Spirito stesso testi­ monia al nostro spirito che noi siamo figli di D io»; e da questa testimonianza vitale Paolo deduce ciò che vi è implicito: «se figli allora anche eredi, e per di più eredi di Dio, cioè coeredi di Cri­ sto» (Rm 8,16). Anche qui quindi, nella coscienza cristiana più profonda, si ha l’autosvilupparsi del dogma dalla esperienza che non è un’esperienza psicologica (nel senso della teologia moderni­ stica o liberale), ma un’esperienza «dogmatica» fin dal principio. La testimonianza dello Spirito che ci viene detta nel nostro intimo, non può essere infatti interpretata come un soliloquio dei figli di Dio. Lo Spirito ci testimonia cioè che siamo figli di Dio solo in quanto al tempo stesso ci mostra da dove noi lo siamo diventati: uscendo dalla schiavitù del peccato e del demonio, dalla caduta in questo mondo esso stesso decaduto, da ciò quindi da cui noi— e questa è la cosa più evidente— mai ci saremmo potuti liberare. Anzi, a noi stessi non avremmo potuto ascrivere nemmeno la forza della nostalgia di liberarci da questa caduta. È lo Spirito che, nell’uomo e nel mondo, sospira con gemiti ineffabili verso Dio e rende quindi così, per la prima volta, l’uomo e il mondo consa­ pevoli della caduta in cui sono prigionieri. E nel caso che questo colloquio interiore dello Spirito possa apparire troppo vicino alla dialettica hegeliana tra spirito finito e infinito, mediante l’attribu­ zione di un carattere sufficientemente personale e dialogico a que­ sta dialettica che rimane tuttavia una dialettica tra identici, e possa quindi sorgere l’impressione che questo colloquio serva da base ad una pura teologia dell’esperienza, rimarrebbe sempre vera la di­ pendenza dal Gesù storico, morto e risorto, la cui pretesa di essere il Signore non può essere scambiata con nessun’altra e, per Paolo, non si distingue nemmeno dello spessore di un capello dalla pre­ tesa del «Gesù storico». A partire da qui occorre porre un grosso punto interroga­ tivo su tutto ciò che si presenta come analisi religiosa dell’esi214

Esperienza e mediazione stenza al di fuori del cristianesimo. Quest’analisi sarà infatti, per forza di cose, priva del fondamento oggettivo che rende possibile e che illumina il carattere religioso di «volo» dell’esistenza e non potrà quindi cogliere un’autocomprensione di una siffatta espe­ rienza di caduta. Essa potrebbe essere rilevante solo all’interno di un’astrazione costantemente mantenuta, di una rinuncia ad una interpretazione ultima, la qual cosa non può affatto essere esigita da essa proprio come analisi filosofica. Invece elementi di una tale analisi potrebbero essere impiegati per una teologia dell’esperienza cristiana, nella misura in cui essa è in grado di discernere questi elementi (1 Cor 2,15): sia per caratterizzare l’esistenza nel vec­ chio eone come esistenza verso la morte, assieme alle sue espe­ rienze e ai suoi valori, sia per cogliere la «messa a tacere», manifestantesi almeno indirettamente, delle potenze di questo mondo ad opera della morte di Cristo, cosicché in realtà in ogni «autoco­ scienza» umana sussistono alcuni «punti di aggancio» (teologici) per il messaggio cristiano. Infatti, tutto quanto è detto dalla Let­ tera ai Romani sulla condizione del peccatore e sulla sua auto­ dannazione (capp 1 /3 ; cap 7), è detto sia a partire da un fortis­ simo apriori teologico, sia a partire da uno svelamento della co­ scienza umana universale. In modo simile, su per giù, a quello con cui Agostino nella Civitas Dei pone lo stato mondano sotto la luce accecante della considerazione teologica e può tuttavia con­ durre la sua analisi, quasi interamente, mediante citazioni tratte dagli scrittori romani.

2. Esperienza del logos Se da Paolo si passa a Giovanni, il secondo luogo classico della teologia neotestamentaria dell’esperienza, allora si abbandona un mondo spirituale, agitato impetuosamente e quasi violentemen­ te, per entrare nella quiete del «rimanere». L ’esperienza fondamentale di Paolo consiste nell’essere strappati, ad opera della dynamis di Cristo, da un eone per essere trasportato nell’altro. Paolo è travolgente proprio nel suo essere travolto. Damasco è un lampo e tale rimane per tutta la vita dell’apostolo. Giovanni, al contrario, è caratterizzato fin dal primo in­ contro presso il Giordano: «Venite e vedete. Ed essi andarono c 215

L ’esperienza della fede videro dove abitava e rimasero con lui per quel giorno» (1,39). Certo, anch’egli è uno travolto nell’amore, ma egli riposa talmente nel movimento, che questo è diventato per lui presenza dell’eter­ nità, «escatologia adempiuta». Diventa poi impossibile non scorgere il parallelismo con il modo dell’esperienza estetica, qualora si pren­ da in considerazione l’affermazione che sta all’inizio della prima lettera e che esprime formalmente ciò che di fatto si compie nel vangelo: «Ciò che era dal principio, ciò che noi abbiamo ascoltato e visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della Parola della vita...» (1 G v 1,1). Dopo tante spiegazioni non è più necessario mettere in guardia dall’intendere il termine ed il concetto «estetico» nel senso moderno, svuotato e svalutato, e di prendere la struttura filosofica ed intramondana dell’estetico come base stabile, su cui misurare, senza trasposizione, la realtà teologica. Noi piuttosto presupponiamo che il lettore sia disposto ad intraprendere ambedue queste correzioni e a tenerle sempre presenti. Ma allora bisogna aggiungere che la teo­ logia giovannea è estetica, nel suo insieme ed in particolare nella prima lettera, sotto un duplice riguardo. In primo luogo perché, per Giovanni, la gloria divina si manifesta «nella carne» in un’unica forma finita, assolutamente privilegiata e non viene intravista al­ cuna possibilità filosofica, religiosa o mistica di andare al di là di questa forma, di spiritualizzarla o di volatilizzarla in qualche modo. In secondo luogo perché, in questa forma, è l’essere assoluto stesso che si manifesta. Noi non possiamo evitare qui il termine filosofico di essere, perché esso soltanto conferisce la sua portata al feno­ meno estetico intramondano e perché l’affermazione giovannea su Cristo e su Dio, teologicamente, viene fatta nello stesso luogo in cui si verifica l’affermazione mitico-filosofica dell’esperienza umana del mondo e di Dio. Con questa constatazione non abbiamo ancora detto nulla sugli «influssi» storici recepiti da Giovanni, ad esempio quelli dello gnosticismo o di qualsiasi altro pensiero filosofico-religioso del­ l’ellenismo. Ed anche se avesse avuto luogo una suggestione siffatta a partire dalle speculazioni gnostiche, certamente conosciute da Giovan­ ni proprio perché da lui rifiutate, ciò sarebbe avvenuto solo per far sorgere in lui un’affermazione di tutt’altro genere. Di fronte all’este­ tismo gnostico che si dilettava in «favole senza fondamento» e non prendeva sul serio l’incarnazione di Dio, anzi la rendeva impossibile sulla base della propria visione del mondo, si ha in Giovanni l’affer­ mazione di un definitivo diventar forma di Dio nell’uomo. 216

Esperienza e mediazione Al giuoco degradante con il sensazionale viene così oppo­ sta la serietà suprema di una sensatio della bellezza divina. Gli innumerevoli paradossi della teologia giovannea dell’esperienza, ra­ zionalmente non risolvibili, sono tutti espressioni, non di una dia­ lettica del concetto, ma di un riposare nella contemplazione (sovrafilosofica) dell’essere nel tu amato, Dio e uomo in uno, e degno di tutto l’amore credente e adorante. In lui Dio è visibile e pre­ sente, in lui è superata qualsiasi inquietudine del cuore dovuta al peccato: la sua esistenza è, nella donazione della vita per i suoi, amore che espia tutto, rappacifica tutto e lo trasfigura nella luce eterna. L ’esperienza estetica è data dall’unità della massima con­ cretezza della forma singola con la massima universalità del suo significato o dell’epifania del mistero dell’essere in questa forma. L ’esperienza più densa fuori del cristianesimo lega inoltre questa epifania al tempo e allo spazio, ad un kairos, ad un avvenimento: il divino si è fatto vicino agli uomini e si è rivelato loro nell’appa­ rizione di un dio. Giovanni non si distacca da questo kairos. Egli stesso lo ha vissuto e sperimentato e lo vuole annunciare e testi­ moniare a coloro che non hanno ascoltato, visto e toccato, perché anche loro vi possano partecipare. Il kairos infatti rimane la misura universalmente valida e «ogni spirito» che non «confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne», «non è da D io» (1 Gv 4,2/3). Si può e bisogna dire anzitutto che, nella comprensione cristiana del kairos, tutte le categorie impersonali, o personali solo a metà, del mito e della filosofia sono divenute pienamente perso­ nali. Il cpavspouv, «pavspouaOai, manifestarsi, svelarsi, rappresentare, così spesso usato da Giovanni, è liberato da qualsiasi comprensione ontologica per essere trasferito nella sfera dell’automanifestazione personale del Dio eternamente amante: l’incarnazione del Figlio è l’amore divenuto manifesto del Padre, anzi di Dio tutto. Infatti, il Figlio, mentre dà la sua vita per il mondo, è l’amore di Dio in atto (4,9/10). È la forma stessa nella carne e nel sangue ad essere quindi, in quanto tale, la luce pura dell’amore divino che si ef­ fonde: species e lumen in Cristo vengono a coincidere, come amore personale rivelato. La caratteristica di Giovanni consiste tuttavia nel fatto che egli non si ferma all’aspetto personale, ma identifica a questo la dimensione dell’essere. Quest’amore che si effonde è la luce, la verità. E questi due concetti stanno a significare la stessa cosa: In realtà trasparente, fino al fondamento, a se stessa c a 217

L ’esperienza della fede tutti quelli che la scorgono. Questo aspetto della rivelazione bi­ blica emerge solo nella sua forma finale, quella giovannea. Pei quanto sia giusto far risalire le categorie giovannee della conoscenza di Dio alle strutture del pensare veterotestamentario1, la persona di Jahwe rimane tuttavia talmente « l’Altro» nell’alleanza, da essere sempre concepita come l’assolutamente-Ente, ma non come colui che possiede il luogo dell’essere. Hegel stesso ha richiamato a que­ sto fatto e ha colto qui la novità conclusiva dell’incarnazione neo­ testamentaria, dove Dio è al tempo stesso se stesso e l’altro da se stesso e soltanto così si manifesta realmente come l’essere asso­ luto. Ciò è quanto ha visto Giovanni e quanto ha compreso nella contemplazione del Figlio di Dio. Ma proprio perché ha compreso in modo personale l’autorivelazione di Dio si è guardato di proce­ dere ad un sapere assoluto, al di là della forma, come invece ha fatto Hegel. Per Giovanni infatti è l’amore credente in quanto tale la gnosi insuperabile. L ’immanenza dell’Essere in ogni ente (nonostante la differenza ontologica permanente), posta sul piano del pensiero dell’essere, per Giovanni resta inabitazione libera, gratuita, amante di Dio nell’uomo e, fondata in questa, inabita­ zione dell’uomo in Dio. Schnackenburg ha posto a ragione l’ac­ cento sull’importanza fondamentale che rivestono in Giovanni le «formule di immanenza reciproca» (1 Gv 3,24; 4,13.15.16; Gv 14,20; 17,21.23.26), per le quali è impossibile «ritrovare un pa­ rallelo effettivo nella letteratura estracristiana» 8: Né la pietà giu­ daica, né quella filosofica ellenistica, come del resto nemmeno la gnosi, offrono un qualche appiglio in tal senso. Giovanni non è un mistico, se con questo si vuole intendere un’esperienza straordina­ ria dell’unione con Dio. Questa è infatti per lui aperta a tutti. «D all’altra parte c’è in lui una unione vicendevole talmente stretta con il Cristo, e attraverso Cristo con Dio, che si potrebbe a diritto parlare di una ‘mistica dell’essere’» 9. A partire da qui si riceve una luce nuova sul cosiddetto dualismo giovanneo della luce e delle tenebre. Se infatti si man­ tiene l’unità dell’aspetto ontologico e di quello personale, allora non si può parlare di due «regni» (fino al senso esasperato del ma-

7 E Boismard, «L a Connaissance de Dieu dans l’Alliance Nouvelle d’après la première lettre de saint Jean», Rev Bibl (1949) pp 365s. 8 Die Jobatinesbriefe, Friburgo in Br. 1953, p 93. 9 Ivi, 62. 218

Esperienza e mediazione nicheismo persiano), ma bene e male si rapportano come essere e non essere o, più propriamente, come essere (dell’uomo) nell’Essere (di Dio) e ciò che è fuori dell’essere. Questo dovrebbe portare anche a non vedere in una luce negativa l’assunzione dell’ontologia neoplatonica, ad opera dei Padri della chiesa, per l ’interpretazione della realtà biblica, come invece si tenta di fare da parte prote­ stante. La tenebra giovannea è in realtà l’esistenza che si sottrae alla luce-vita-amore di Dio. La personalità del demonio come capo di un regno contrapposto non gioca in lui alcun ruolo. Lo «spirito» d ’opposizione a Dio decide la sostituzione della «unzione nello Spirito di D io», del «seme» di Dio nell’uomo e quindi dello «essere nati da Dio», mediante il vuoto autosufficiente e autodivinizzantesi dell’io che «cerca la propria gloria». Come in Paolo, il cristiano vive un’esistenza nella fede e questa viene intesa come consegna vissuta a Dio. Per Giovanni questa consegna a Dio fattosi uomo, all’amato, è semplicemente identica con l’amore. La fede sottolinea il movimento di autori­ nuncia in questo amore e l’accettazione dell’amato, del suo essere e del suo sentire come legge propria. Per questo motivo, in Gio­ vanni, l’atto della contemplazione continua dell’amato è insepara­ bilmente «estetico» ed «etico»: vedere lui come è, presuppone non soltanto la disponibilità alla rinuncia di tutto ciò che è pro­ prio, ma la implica in ogni istante. Nello sguardo della fede si identificano beatitudine e sa­ crificio di autoconsegna. Proprio per questo l’atto della fede può essere descritto e mantenuto solo nel paradosso che possiede anche in Giovanni: da una parte tenere irrevocabilmente l’irrevocabile, dall’altra essere sospesi nel continuo pericolo di non poter ga­ rantire a se stessi il «rimanere» nell’amato. Alla base dell’atto di fede, nell’accezione di Giovanni, giace sempre già psicologicamente il paradosso insolubile, da una parte della conoscenza di se stessi (come amore) attraverso il movimento verso l’amato e, sempre in questo movimento, della esperienza di se stessi e di Dio, dall’altra tuttavia della impossibilità a riflettere su di se stessi, perché in questa riflessione si anniderebbe una perdita dell’amore. La «ve­ rità» infatti, così com’è intesa da Giovanni, giace nella consegna incondizionata, di ciò che è proprio, a favore dell’amato. Essa non risiede quindi unicamente nella validità sovratemporale di una «pro­ posizione», ma tocca esistentivamente il sovratemporale, l’eternità di Dio, partecipando ad essa, facendo spazio ad essa. La fede ?V )

L ’esperienza della fede amante è quindi esperienza dell’eterno, e la perdita di una fede siffatta diventa perciò enigma insolubile. Laddove questa perdita riguarda gli altri si può dire: «Non erano dei nostri. Se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi» (1 G v 2,19). Lad­ dove essa riguarda noi stessi non si può che avere l’esortazione pressante al «rimanere». «Se ciò che avete udito fin dall’inizio rimane in voi, allora anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre» (1 G v 2,24). Ciò che è stato udito è il comandamento di amore del credente, benché esso sia il Figlio stesso e possegga quindi l ’eternità e renda quindi partecipe dell’eternità l’atto che lo ab­ braccia. L ’aspetto etico di questa esortazione non può tralasciare la dimensione estetica della contemplazione amorosa. Nell’espe­ rienza del bello mondano l’istante è eternità. L ’eternità della forma dell’oggetto bello comunica infatti qualcosa della sua so­ vratemporalità allo stato di colui che sperimenta contemplando. E tuttavia una «tristezza divina» spira intorno alla forma bella. Essa è destinata a morire e lo stato di colui che è beata mente rapito è posto nella consapevolezza di una contraddizione tragica: atto e oggetto implicano in sé la morte che contraddice il loro contenuto. In Giovanni non può essere questione alcuna di questa «tristezza divina», in quanto l’amato che muore è morto proprio per amore e la sua morte non fu limite, ma espressione della potenza del suo amore (Gv 10,18). Il credente non ha quindi la morte in sé come «angoscia» (come nell’esperienza del bello mondano), ma, se crede veramente, è sempre già al di là dell’an­ goscia (G v 4,17/18). E tuttavia rimane un tremore della libertà che si consegna: si consegna essa realmente? Prende su di sé realmente la legge dell’amato? Ha veramente adempiuto la fede come amore? Giovanni approva questa forma di angoscia; a dif­ ferenza degli gnostici egli esige la confessione dei peccati (1 Gv 1,8) ed esorta i suoi figlioli a non peccare (1 Gv 2,1), a guardarsi dagli idoli (1 Gv 5,21), a non amare a parole, ma in opere e ve­ rità (1 G v 3,18). Nonostante questo egli vuole superare e ac­ quietare questa aperta inquietudine del cuore, giacché «se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e sa tutto» (1 G v 3,20; cfr Gv 21,17). Questo acquietamento ad opera dell’essere sempre più grande di Dio, ha tuttavia come premessa il fatto che noi ci siamo votati alla legge dell’amore. Non è che Dio, il quale sfugge 220

Esperienza e mediazione ad ogni proporzione, ed è per principio irraggiungibile, abbia posto semplicemente a partire da sé il giusto rapporto con l’uomo. Se tutto si esaurisse qui, allora l’esperienza cristiana non sarebbe niente di diverso di quella che, a partire da Lutero e nelle mo­ dalità più diverse, viene chiamata esperienza della grazia (con la permanenza della propria condizione di peccato) e della certezza della salvezza (nella e dalla propria perdizione totale). Il criterio della giusta esperienza è allora solo la coscienza di essere stati graziati. Giovanni considererebbe valido questo criterio solo se accompagnato al suo criterio centrale: «Figlioletti, non amiamo a parole e con la lingua, ma in opere e verità. In questo noi rico­ nosciamo di essere dalla verità e possiamo rassicurare il nostro cuore davanti a lui: che se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e sa tutto», cioè realmente in questo, che noi lo amiamo e che, nonostante il nostro scacco, lo vociamo amare (1 Gv 3,18/20). Jean Mouroux ha quindi ragione a sottolineare sem­ pre nuovamente il carattere strutturato e composito dell’esperienza cristiana, che non può essere fissato mai ad un solo contenuto o stato d’animo, ad un’impressione sensibile o spirituale, ad un sentimento o ad un’esperienza, ma comporta piuttosto la progressiva introdu­ zione del credente nella realtà globale della fede e la progressiva «realizzazione» di questa. Pascal, Kierkegaard, Newman non han­ no inteso diversamente l’esperienza cristiana. La migliore giustifi­ cazione di questo è costituita dai criteri dell’esperienza in Gio­ vanni rinviantesi costantemente e, per così dire, circolarmente gli uni agli altri. E l’impossibilità di ordinare i vari punti di vista in un sistema coerente a livello teologico-teorico (anche se ognuno di questi punti di vista può essere rigorosamente dimostrato, per sé, a partire dalla forma della rivelazione), rimanda ad un altro livello di sintesi, quello della esperienza cristiana come frutto della fede vissuta nell’obbedienza a Dio. Questo livello dell’esperienza è anzi il dominio in cui, già nella vita abituale, si integrano i punti di vista inconciliabili della vita. La resistenza del quotidiano e la servitù a cui ci costringe ci spingono a fuggire in una sfera illusoria nella quale pensiamo di poter incontrare il bello in forma distillata. E tutta­ via sappiamo che solo la capacità di dominare la durezza del quotidiano e la verifica raggiunta nella fedeltà ad esso sono in grado di pulire la pietra preziosa che deve sorgere dal rozzo blocco della nostra esistenza. Ciò che è realmente bello brilla là

L ’esperienza della fede dove il reale stesso ha acquistato forma ed è stato superato il contrasto fallace tra illusione e disillusione. La totalità dell’esi­ stenza resta un mistero la cui forma di manifestazione tuttavia non è un enigma estraneo, ma è diventato spazio luminoso al quale si adegua l’uomo sperimentato nella prova dell’esistenza; nell’esperienza acquisita dell’esistenza, colui che è divenuto sag­ gio comprende qualcosa del mistero dell’essere. Anche qui la filosofia (intesa questa volta come saggezza della vita) è divenuta in Giovanni permeabile ad una gnosi cri­ stiana. Se colui che è mondanamente saggio non si vergogna di parlare della legge dell’essere alla quale si sottomette e si adegua, allora si spiega perché Giovanni, uomo dell’amore, parla talmente della legge e del comandamento, sottomettersi al quale è per lui criterio dell’amore. Che si tratti di una «legge», segue già dalla nostra condizione di peccato: la legge è il volto severo dell’amore per colui che ancora non ama. Giovanni non conosce infatti altro comandamento se non quello dell’amore, nel quale sono integrati tutti gli altri. È a partire da questo presupposto che bisogna ascol­ tare le parole: « E noi da questo sappiamo d’averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice:— io lo conosco— , e non osserva i suoi comandamenti, è un bugiardo, e in lui non c’è la verità. Ma colui che osserva la sua parola, in costui vera­ mente è perfetto l’amore di Dio. Da questo sappiamo che siamo in lui. Chi dice di stare in lui, deve anch’egli camminare come lui ha camminato» (1 G v 2,3/6). Camminare quindi dietro lui: è qui che seguire il comandamento di Dio si trasforma impercetti­ bilmente in una sequela dell’esistenza di Cristo. Ma proprio Cristo non è un «ente», bensì l’apparizione dell’Essere. Perciò il «comandamento» non può procedere che dall’Essere, dal Padre: «E questo è il suo comandamento: che noi crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e che ci amiamo l’un l’altro, così come ci ha comandato. E chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui» (1 Gv 3,23/24). Cristo è la visibilità di Dio e il fratello è la visibilità di Cristo; per questo l’amore cristiano fraterno è la prova esperienziale che noi amiamo Dio (1 Gv 4,20/21). Ma questo movimento ascendente poggia su quello discendente e proprio per questo si compie assieme ad esso: colui che ama viene da Dio al fratello, «è nato da D io» (1 G v 2,29; 3,9; 4,7; 5,1.4.18), sorge, per grazia e assieme al Figlio, come frutto pieno dal fondamento fecondo dell’Essere del Padre. Per questo colui 222

Esperienza e mediazione che ama ha lo Spirito. «Che egli rimane in noi, lo riconosciamo dallo Spirito che ci ha dato» (3,24), che noi però possediamo e conosciamo solo nella misura in cui riconosciamo il Figlio come forma di Dio. É noi non operiamo questo Spirito che nella mi­ sura in cui noi camminiamo dietro il suo comandamento, in cui cioè diamo ad esso il primo posto nelle nostre azioni. Questo «nella misura in cui» può quindi essere considerato da Giovanni come criterio infallibile: colui che è unto dallo Spirito è senza errore e conosce tutto (1 Gv 2,20.27). Al quadro globale manca ancora un tratto, quello sacramentale che, per Giovanni, nonostante tutto il realismo ecclesiologico, rimane legato alla corporeità di Gesù: acqua e sangue sono la faccia corporale dello Spirito che si ef­ fonde da lui; esse formano la faccia ontica e proporzionata al­ l’uomo di quelPessere-in che fa del rapporto Cristo-chiesa una estensione del mutuo essere-in ontico-personale della Trinità (Gv 17). Questa struttura di pensiero pone l’esperienza giovannea al di là della «escatologia» e della «mistica». La mistica biblica non vuol mai stare a significare l’eliminazione della barriera esca­ tologica degli eoni e resta quindi sempre, per sua definizione, una mistica dello stato di fede. E inversamente, nella interpretazione giovannea della rivelazione (Cristo come manifestazione dell’Essere assoluto in quanto tale) viene superata la pura corsa in avanti, verso il ritorno futuro; non eliminata, perché la fede at­ tende e spera impazientemente questo ritorno (1 Gv, 2,28; 4,17), pur avendolo già raggiunto attraverso un «avere-già» quello per cui preghiamo (1 G v 5,15), un «possedere-già la vita eterna» (Gv 5,13), un «aver-già-vinto il mondo» (1 G v 5,4/5). Ciò non è pos­ sibile in una struttura di pensiero in cui la fede viene descritta primariamente in modo negativo, come un «non-ancora», ma solo laddove la fede viene intesa principalmente in modo positivo, come un’apertura e una consegna alla verità assoluta e presente e viene quindi, senza esitazione, descritta come un sapere: «noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita» (Gv 3,14); «noi sappiamo che egli ci esaudisce» (1 Gv 5,14); «noi sappiamo che chi è nato da Dio non pecca» (1 Gv 5,18); «noi sappiamo di essere da D io» (1 G v 5,19); «noi sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e che ci ha dato intelligenza per conoscere il vero; e noi siamo nel vero, nel suo Figlio Gesù Cristo. Egli è il vero Dio e la vita eterna» (1 Gv 5,20).

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L ’esperienza della fede 3. Accordatura cristiana

L ’esperienza cristiana ci è sembrata passibile di una du­ plice determinazione. In primo luogo a partire da una totalità di vita che integra in sé i singoli atti della fede, dell’amore ed anche del sentire, per lasciare che in questa integrazione si affermi e si dimostri l’esattezza di ciò che è creduto. In secondo luogo però (perché l’atteggiamento di fede nella sua interezza è un tenersi pronti per una forma diversa e attiva che viene da Dio) a par­ tire dalla forza propria di ciò che viene creduto e che si imprime nel credente. È questa forza soltanto che è in grado di rischiarare la trasformazione dell’uomo credente e la sua costituzione globale attuale. Così si è delineata infatti in Paolo la dimostrazione esi­ stenziale dell’essere cristiano, la cui esistenza è comprensibile solo come phanerosis della morte e della risurrezione di Cristo (2 Cor 4,2). Ed allo stesso modo le cose stanno in Giovanni dove il creduto e lo sperimentato determinano l’esistenza cristiana me­ diante un inscindibile influsso vicendevole. Il primo momento da solo non può fornire la prova decisiva perché, per se stesso sol­ tanto (come pura esperienza «psicologica» dell’esistenza), non può essere affatto isolato e reso comprensibile senza il secondo mo­ mento— anche se la non fede ha sempre tentato di farlo e vor­ rebbe dimostrarlo. Perciò, stando alle parole di Paolo, l’uomo psichico non comprenderà mai ciò che appartiene allo Spirito, men­ tre l’uomo spirituale comprende tutto e non può essere giudicato da nessuno, nonostante il continuo giudizio emesso dall’uomo psi­ chico su di lui, visto come esistenza mancata nella quale sembra far difetto proprio quel pezzo che è macchia oscura sull’occhio dello psichico: in iis qui pereunt est opertum (2 Cor 4,3). Ambedue i momenti, il tenersi proteso del credente a Dio e l’imprimersi della forma di Cristo nel credente ad opera di Dio, dicono totalità. L ’uomo non impegna la sua vita per un articolo di fede, ma per Gesù Cristo e per la sua verità indivisibile che si irraggia da ogni articolo. E Dio non imprime nel credente un tratto del suo Figlio, ma la sua immagine essenziale indivisi­ bile, per quanto questa in ogni anima possa apparire differen­ ziata personalmente e carismaticamente. La contemplazione costante di tutto il Cristo trasforma il contemplante tutto, ad opera dello 224

Esperienza e mediazione Spirito Santo, nell’immagine di Cristo (2 Cor 3,18). Questo mo­ vimento totalitario che supera e radica ogni singolo atto di dona­ zione della fede, della speranza e della carità, in una totalità del soggetto e dell’oggetto, permette ed esige che si parli della accor­ datura cristiana. E questo, come qui appare evidente, in primo luogo non in vista di un «sentimento» considerato come un terzo atto, prevalentemente al di sotto della sfera spirituale, diverso da­ gli atti spirituali dell’intelletto e della volontà (ci riferiamo qui agli atti dell’emozione, dell’affettività, della impressione irrazionale — odio, cupidità, gioia e paura), bensì primariamente in vista del punto centrale della totalità umana, là dove si radicano tutte le sue facoltà (potentiae) nella unità della sua forma substantìalis, sia che si tratti di facoltà spirituali, sensitive o vegetative. Non è qui il caso di sviluppare una teoria speculativa psi­ cologica dell’anima, per quanto questa sia importante per la pro­ blematica che ci occupa. La distinzione tra le singole facoltà del­ l’anima da una parte e l’anima dall’altra non dovrebbe far dimen­ ticare la loro compenetrazione vicendevole e la loro compenetra­ zione da parte dell’anima che agisce e patisce in esse. Anzi queste distinzioni, così come fa san Tommaso, dovrebbero sempre essere arrischiate in vista di una migliore comprensione dell’unità. Ciò che, in contrapposizione alla volontà e all’intelletto, viene chia­ mato «sentimento», non si trova né «accanto», né «al di sotto» delle facoltà spirituali. Questo è, ad esempio, evidente per il fatto che la bestia non è un uomo a cui siano stati sottratti intelletto e volontà, ma una totalità analoga a quella dell’uomo, la quale non è tuttavia pervenuta al grado di riflessione spirituale: quasi come un bocciolo di ninfea rimasto sotto il livello dell’acqua. Certo, è possibile distinguere nell’uomo tra atti o stati che sono prevalen­ temente intraspirituali— siano essi gli atti specifici degli organi sen­ sibili o quelli del sensus communis o gli atti e gli stati di un sen­ timento fondamentale dell’anima— e atti o stati che sono prevalente­ mente globali e personali, nei quali sono incorporate le espres­ sioni della sfera vegetativo-sensitiva senza che queste possano tut­ tavia pretendere per se stesse, in questa totalità costituita, il mo­ nopolio della dimensione del sentimento. Altrimenti il sentimento e le disposizioni d’animo sarebbero primariamente infraumane c non si comprenderebbe più perché la Scrittura indica il «cuore», anzi le «viscere» ( a T c X à y y v a , da cui r1—}.'j:r/y['ClznQr/x aver pietà) come sede delle reazioni personali più profonde dell’uomo e di Dio stesso di 225

L ’esperienza della fede fronte al mondo. L ’uomo conoscente e amante non è aperto al Tu, alle cose e a Dio solo attraverso una facoltà singola. Egli è accor­ dato in quanto totalità (attraverso tutte le sue facoltà) alla realtà intera, così come ha saputo mostrare più profondamente e radi­ calmente di tutti Tommaso d ’Aquino. Secondo lui l ’accordo coll’essere nella sua totalità, quale disposizione ontologica nel vivente e nel senziente, è una ade­ sione apriorica, con-sensus come cum-sentire (ancora prima dellVrsentire)-, nella bestia ciò avviene istintivamente, nell’uomo già sempre congiuntamente ad una compiacenza spirituale (S Th la 2ae 15, le e ad 3). L ’inclinazione alla cosa stessa (inclinatìo ad rem ipsam) a partire da un’intima connaturalità viene caratteriz­ zata come un sentire, un contatto esperienziale, in quanto il sen­ ziente è originariamente accordato con il sentito ed assente e consente quindi con esso (accipìt nomen sensus, quasi experientiam quamdam sumens de re cui inhaeret, in quantum complacet sibi in ea. Ivi, c). Questo accordo ontologico, la compiacenza dell’essere e l ’adesione implicita in esso, giacciono quindi più profonda­ mente di ogni delectatio che accompagna naturalmente tutti i sin­ goli atti spirituali misurati dal loro oggetto e la quale viene at­ tinta dalla riserva di quell’accordo originario, sia che questa delecta­ tio, in modo corrispondente agli atti e ai loro oggetti specifici, si configuri come piacere e gioia spirituale oppure come piacere e gioia sensibile. L ’accordatura del soggetto senziente ed esperimentante con l’essere è posta quindi ancora prima di ogni distinzione tra espe­ rienza attiva e passiva: nella reciprocità fondata sull’apertura al reale è iscritto sia l’accoglimento di una im-pressione estranea che l’es-pressione in qualcosa di diverso da sé. Così il sentimento fondamentale è accordo (con-sensus) sia al patire che all’agire e l ’uno e l’altro sono al tempo stesso gioia originaria. L ’opposizione tra desiderio (gioioso) e angoscia di difesa è già secondaria rispetto a questo strato profondissimo: essa tocca il singolo ente, le sin­ gole proporzioni o sproporzioni tra soggetto e oggetto, ma non il rapporto come tale con l’esser(-ci). Dio non è però un ente particolare, ma si rivela dalla e dentro la profondità dell’essere che, nella sua totalità, rimanda a lui come suo fondamento. Per­ ciò, quanto detto sopra, vale in primo luogo di lui, alle condi­ zioni che tuttavia sono imposte dall’analogia dell’essere tra Dio e la creatura: nell’ordinazione radicale della creatura a Dio che non 226

Esperienza e mediazione ha bisogno di essa, quale adesione a Dio, per essere, mentre nella sua libertà egli può attribuire alla creatura ciò che vuole. Questa è ontologicamente risonanza a Dio e per Dio, e lo è nella sua totalità, anteriormente ad ogni differenziazione delle sue facoltà in spirituali e sensibili, attive e passive. Giacché Dio non è ad alcun livello identico alla creatura e non ha alcun essere in comune con essa, questo accordo originario con lui non è un’intuizione in senso teoretico conoscitivo, ma nemmeno il risultato di una «conclusione» puramente logica dal finito all’infinito. La non fissabilità di questa esperienza originaria è solo il riflesso noetico dell’impossibilità ontica di dare un fondamento stabile all’essere nella sua totalità, distintamente da Dio. Come tale l’essere rin­ via con tutto se stesso alla sorgente inaccessibile. Le molteplici confusioni delle teologie della vita e della esperienza derivano tutte dal fatto che il sentimento viene con­ cepito troppo come un singolo atto accanto all’intelletto e alla volontà e troppo poco come l’integrazione di tutta la vita per­ sonale. Corrispondentemente, i criteri del rapporto con Dio ven­ gono posti troppo nei singoli stati d’animo emozionali e troppo poco nel diventare sperimentabile, attraverso i singoli stati d’ani­ mo, della costituzione e della disposizione globale umana, sulla quale si fonda tutto il resto. Nei confronti di una teologia del sentimento si ha un gioco troppo facile ad argomentare dalla Scrit­ tura. Ma è un’argomentazione facile solo con una teologia che vuole costruire il giusto rapporto dell’uomo con Dio sui singoli atti di fede e d’amore, ma non con una teologia che vuol fondare questo rapporto nella costituzione globale dell’uomo di fronte al Dio vivente. Poiché però Dio, conformemente al suo essere divino e soprattutto nella sua rivelazione storica, ha la piena iniziativa nei confronti delle creature, poiché è lui che dice chi è e come ci si deve porre davanti a lui, allora nella prima struttura apriorica della creatura, che viene portata alla luce e all’autenticità attra­ verso la grazia della rivelazione, la passività ha la priorità sul­ l’attività. Una passività che sia tuttavia ben compresa, come quella di un essere sempre già attivo nella sua recettività, ma il cui atto fondamentale consiste proprio nel poter ricevere. Giacché il ter­ mine sentire, sentimento, viene indifferentemente usato per un comportamento passivo o attivo e quindi (anche come «sentimento di dipendenza in quanto tale») non lascia emergere l’aspetto da 227

L ’esperienza della fede noi considerato decisivo, sarebbe meglio usare il termine «avver­ tire» 10, in quanto più atto ad esprimere la percezione di un essere toccati dal di fuori e da sopra. Come disposizione permanente e profondissima della creatura, questo «avvertire» non è, per ripe­ terci ancora una volta, un atto singolo posto accanto agli altri. Per questo motivo esso non può essere affatto escluso dagli atti della ragione, dei quali costituisce invece la condizione di possi­ bilità. La relazione con il fondamento essenziale della creatura (che in quanto tale è adesione all’essere e a Dio e quindi gioia ontologica) deve essere tenuta presente come criterio di ogni «discernimento degli spiriti» in ciò che concerne il sentimento reli­ gioso e quello cristiano! La questione resta sempre quella di sapere se la gioia dell’atto (o la tristezza dell’atto) rimanda po­ sitivamente alla gioia dell’essere. Oppure se non sia piuttosto— per quanto essa possa essere sperimentata, in modo fortemente ed evidentemente seducente, come gioia dell’atto— perturbazione ed oscuramento della gioia dell’essere. Siccome tuttavia qui noi facciamo teologia, può bastare con le riflessioni preliminari11. Veniamo adesso al fatto cristiano decisivo. Questo fatto è che Dio si è offerto al mondo nella forma del Figlio suo e che, a coloro che ha scelto e i quali rispondono alla sua chiamata, dona lo Spirito Santo perché essi possano comprendere percependo ciò che è del Figlio e del Dio trinitario. L ’esperienza religiosa riceve qui una nuova determinazione, in due direttrici vicendevolmente connesse. La grazia dello Spirito Santo crea, assieme all’ordinazione ontica dell’uomo alla forma della rivelazione, anche la facoltà di percepire questa forma: la facoltà di trovare in essa gusto e gioia, intelligenza per essa, sen­ sibilità di fronte alla sua verità interna e alla sua giustezza. Così sostenuto l’uomo però può e deve collocarsi coscientemente di fronte alla forma della rivelazione e al mistero che ne costituisce il contenuto, radicare la sua vita in essa, accordarsi ad essa con tutta la propria personalità. Dimensione ontica e dimensione esperienziale vanno assieme, in una profonda unità (ciò che abbiamo 10 L ’Autore contrappone qui il termine Fiihlen (sentire) a Spùren, che noi rendiamo con «avvertire». L ’opposizione è più eloquente in tedesco che in italiano. Non sempre quindi rispetterò questa distinzione (ndt). 11 Per un’analisi più accurata rimandiamo nuovamente a Jean Mouroux, Expérience Chrétienne, cit, dove, accanto alla filosofia e alla teologia, vengono convcnientcmcnte utilizzati anche i dati della tradizione.

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Esperienza e mediazione già illustrato parlando della luce della fede), nella quale si radica ormai la «in-formazione» di tutta la persona, per cui emerge realmente la faccia estetica dell’esperienza cristiana. Davanti al bello— anzi propriamente non davanti ad esso, ma in esso— è l’uomo tutto che vibra. Egli «trova» la bellezza non solo afferrandola, ma sperimenta piuttosto se stesso come afferrato e preso in possesso da essa. Quanto più questa esperien2 a è globale, tanto meno l’uomo cerca solo il piacere sensibile ed esaurientesi nell’atto, e tanto meno egli riflette sui propri atti o sul proprio stato, ma è globalmente rapito nella realtà del bello, consegnato ad essa, da essa determinato ed animato. Nella misura in cui queste espe­ rienze costituiscono i momenti e gli slanci più alti dell’esistenza e vengono quindi sperimentati e valutati come tali, nella misura in cui il bello come tale esercita la sua funzione totalizzante e può essere intelligibile solo come compimento nell’edificio delle pro­ prietà trascendentali dell’essere, naturalmente esso sfocia nel reli­ gioso, così come dimostra la religione mitica in tutti i suoi gradi e come può essere confermato sovrabbondantemente dalla rivela­ zione cristiana che porta a compimento e supera ogni mito. A differenza di tutti i progetti religiosi della mistica e della filosofia, qui non si fa appello soltanto alla sensibilità interiore dell’uomo, ma questa viene piuttosto vista nel contesto della vibrazione glo­ bale umana— che non è solo spirituale, ma essenzialmente anche organica e corporale. E questo non come «concessione» per la massa che non può innalzarsi fino alle esperienze puramente spiri­ tuali, ma come compimento dell’opera divina della creazione, che ha progettato l’uomo come indissolubile unità di corpo e anima e vuole quindi condurlo a compimento in questa unità. 1. Cominciamo con l’operazione della grazia la quale è al tempo stesso elevazione entitativa e trasformatrice dell’uomo ed inabitazione dello Spirito Santo in lui. La partecipazione sopran­ naturale alla natura divina crea (si tratta solo di una parola nuova per la stessa realtà) una nuova connaturalità dell’anima con le cose divine e questa connaturalità si traduce a sua volta imme­ diatamente, in quanto modificazione del rapporto puramente na­ turale tra Dio e la creatura, in nuove inclinazioni e disponibilità. Non già che l’elevazione entitativa della creatura nella sfera ili Dio possa essere adeguatamente tradotta nella coscienza. La strut­ tura del pensiero umano rimane infatti la stessa. Ma è diventata di229

L ’esperienza della fede versa la collocazione dell’essere globale della persona, a partire da cui questa pensa, vuole e sente. Gli effetti nella sfera della coscienza sono indiretti e successivi, in maniera corrispondente alla disponibilità con cui la persona libera accetta questa disposizione nuova che le è stata donata e messa a disposizione, la lascia di­ ventare vera nella propria vita e le permette di influire nella sfera personale della coscienza psicologicamente chiara. In questo modo non può essere delimitata nessuna linea di confine netta dopo la quale le virtù infuse, che hanno il loro centro vitale nella carità, possono cominciare a svilupparsi coscientemente nei «doni dello Spirito Santo»; entitativamente, questi doni sono contenuti nel dono della grazia e nella inclinazione e disponibilità nuova in essa implicite. Ma è riservato al credente che ama, conferire un peso crescente, nella sua vita di fede, a questa inclinazione. Per la teologia dei Padri della chiesa vengono a coincidere fondamentalmente la conversione dell’uomo a Dio e l’ingresso nel­ la fede ecclesiale attraverso il battesimo. Con la conversione, dalla schiavitù nel mondo alla comprensione delle opere divine, la ca­ rità si sveglia e a sua volta conferisce uno sguardo nuovo per vedere Dio e il suo amore infinito. La storia della conversione di Agostino è la storia del mutamento di direzione di una sensibi­ lità, dall’amore carnale a quello divino: «A d ogni uomo che si converte a Dio viene trasformata la delectatio e le deliciae. Infatti esse non gli vengono sottratte, ma mutate» 12. I Padri avevano la netta coscienza che questa trasformazione non era in primo luogo un frutto dello sforzo umano ma di un atto libero e decisivo di Dio. Per questo motivo essi concepivano gli atti sacramentali del battesimo e dell’eucarestia in primo luogo entitativamente, ma pa­ rallelamente anche sotto l ’aspetto noetico. Il battesimo è «rina­ scita» e al tempo stesso «illuminazione», l’eucarestia in quanto unione con il Cristo è al tempo stesso «ebbrezza»I3. Anche se l’aspetto di coscienza si sviluppa in modo apparentemente indipendente da quello sacramentale, cristianamente compreso è com­ plementare ad esso. Anzi, ancora di più: l’aspetto esperienziale è rimandato a quello sacramentale come al suo fondamento, allo stesso modo in cui lo Spirito Santo, che sviluppa il suo spirito nel­ 12 En in Ps 74, n 1 ( p l 36, 946). 13 Cipriano, Ep 63 n 11 (ed Hartel, p 701s). H Lewy, Sobria Ebrietas, Giessen 1929.

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Esperienza e mediazione l’umano, è Spirito di Cristo nella chiesa e agisce nei singoli in quanto membra ecclesiali di Cristo. L ’amore, diffuso nell’uomo dallo Spirito Santo inabitante, gli dona il sensorium per Dio, il gusto per lui e, per così dire, l ’in­ telligenza del gusto di Dio. Questo viene affermato qui senza riferimento ancora alla dottrina, da sviluppare dopo, dei singoli «sensi spirituali», ma unicamente nel significato di una xpartecipazione del sentimento fondamentale dell’uomo al modo in cui Dio stesso sperimenta il divino. Il theologumenon proveniente dai Padri (Cipriano, Origene, Macario, Diadoco, Agostino) e svilup­ pato particolarmente nella scuola di san Bernardo, sulla sapientìa come esperienza del sapor divinus fornisce a tal proposito il con­ cetto centrale. Il nuovo sensorium è infuso nel naturale e tut­ tavia non è identico ad esso: quanto più esso è donato come proprio all’uomo (quanto più l’uomo ha rinnegato se stesso), tanto più gli appartiene alla maniera del dono. Esso è una co­ scienza alla quale l’uomo deve essere lentamente introdotto dallo Spirito attraverso l’alternarsi di consolazione e sconforto, per cui egli possa imparare dall’esperienza a non attribuire a se stesso il dono dello Spirito e, soprattutto, a trasferirlo dalla sfera sen­ sibile a quella centrale-personale e a sprofondarsi in essa. Si tratta quindi di un sentimento che passa attraverso una trasformazione, sotto il primato permanente di una disponibilità passiva a ricevere la partecipazione al sentire dello Spirito Santo. Tommaso d’Aquino descrive così i doni: lo Spirito guida l’esperienza ed il suo dono è la dispositio a lasciarsi compietamente guidare dal suo impulso. I doni sono in noi ab inspiratione divina, sono un istinctus divinus e al tempo stesso un istinctus interior che fa sì che noi ci lasciamo guidare da un principio più alto della nostra ragione ( la 2ae, 68, le). Questo principio più alto non è tuttavia estrinseco, in quanto spirando esso risveglia il nostro stesso amore più profondo all’amore assoluto che ci si fa incontro dalle profondità dell’essere interpellandoci personalmente; e ci inclina verso questo amore: Spiritus sanctus sic nos ad agendum inclinat, ut nos voluntarie agere faciat, in quantum nos amatores Dei instituit (C Gent iv, 22). L ’ispirazione cade quindi sul­ l’uomo credente dall’altezza dell’assoluto, come genio assoluto che lo sovrasta sotto ogni riguardo, e sorge tuttavia al tempo stesso dalla sua profondità più intima: è l’uomo stesso che ama Dio e gode di lui c non già un principio estraneo attraverso l’uomo. 231

L ’esperienza della fede Quest’uomo è, come dice Paolo, uno spinto dallo Spirito (Rm 8,4; Gal 5,18) e quindi non «sotto la legge», ma egli è tale perché lo Spirito, che non può essere imprigionato in nessuna legge e «soffia dove vuole» (Gv 3,8), è «Spirito di filiazione» che dona la «figlio­ lanza di D io» e inserisce quindi nella legge divina del Figlio di Dio (Rm 8, 14/15). Il Figlio a sua volta, nel quale noi siamo incorporati e con il quale diventiamo coeredi del Padre, è il Figlio fattosi uomo, sofferente e risorto, che continua a vivere nella chiesa e del quale possiamo ricevere lo Spirito solo se siamo intro­ dotti nella sua forma rivelatrice. Nuovamente si trovano qui adem­ piute e sorpassate tutte le aspirazioni dell’etica naturale: il cir­ colo infrangibile del bello tra ispirazione dall’alto (e dal di dentro) e obbligo alla forma, dalla quale deve irrompere la luce del bello perché noi possiamo riconoscere come tale l’oggetto contemplato. Già nell’estetica naturale un’obbedienza misteriosa sta alla radice del processo creativo artistico (ed in qualche modo anche nel gusto estetico di fronte alla creazione artistica): l’artista ispirato, in ulti­ ma analisi non segue un’idea propria, ma lascia penetrarsi da qual­ cosa di inafferrabile. All’arte appartiene non soltanto la capacità del maestro, la trasposizione dell’intuizione nella forma sensibile, ma anche il non impedire che l’idea si irraggi e, per così dire, si inge­ neri e incarni nello spirito dell’artista. Questi può incedere orgoglio­ samente verso l’esterno, ma all’interno deve essere grembo umil­ mente accogliente della «concezione». Solo se egli impara a vivere sommessamente, l’anima canterà in lui. Il concetto dell’accordo (Stimmung) sintetizza sia i mo­ menti estetici che quelli teologici. È un’esistenza accordata come strumento dallo Spirito che (come arpa eolia) risuonerà in modo intonato sotto il soffio dello Spirito. Si tratta di un essere-accordato, come concordanza con il ritmo di Dio stesso, e quindi adesione non solo al suo essere, ma anche alla sua volontà libera che ci interpella sempre nuovamente. E solo attraverso questa disponibi­ lità, per ultimo, è anche l’accordo nell’uomo stesso, la sua rectitudo agostiniana, che lo fa opera dell’artista divino. Ma di questo lo strumento non ha bisogno di curarsi. 2. Questa concordanza con Dio non è immediata, ma mediata in una duplice maniera: in quanto l’uomo non vede immediata­ mente Dio, ma solo attraverso il medium dei propri atti intenzio­ nali umani, ed in quanto Dio si è servito da se stesso della media­ 232

Esperienza e mediazione zione creaturale per esprimersi in essa diventando uomo. Il primo aspetto costituisce una barriera deplorata da ogni mistica ascendente, tendente all’immediatezza. Così si dimentica però che Dio stesso ha trasformato il senso di questa barriera in quanto la sua azione creativa ha fatto di ciò che è un ostacolo un fattore positivo e conduttore (così come il filo porta la corrente) e continua a farlo tale per il cristiano. Dio è divenuto uomo e non deporrà mai questa umanità. Per noi l ’accesso aperto al Padre sarà sempre costituito dall’umanità del Figlio e da tutto ciò che, come realtà cosmica ed ecclesiale, ne promana e promanerà eterna­ mente. Lo Spirito di filiazione e dei sette doni è infine non solo lo Spirito del Padre, ma anche di questo Figlio incarnato e della sua sposa, la chiesa. Il Filioque mostra qui la sua portata all’interno della teologia estetica. Il Padre «senza forma» non costituisce quindi il termine di tutte le strade del mondo, nel senso che la forma del Figlio possa ad un certo punto essere superata. È nel risorto, con lui e mediante lui che noi riceviamo quello Spirito che spira al tempo stesso dal Padre e dal Figlio. La chiesa viene formata però dal Figlio, dal sangue e dai pensieri del suo cuore. Essa è l’opera da lui formata, fin nella sua dimensione visibile, per quanto essa possa essersi mescolata con i peccatori e imbrattata in questo contatto. La parola della Scrit­ tura e la forma dei sacramenti che vengono celebrati dalla chiesa, sono non soltanto luce dalla luce di Cristo, ma forma dalla forma di Cristo; forma e luce nella chiesa sono inseparabili, anche se nella modalità attuale e in relazione a questo periodo della storia del mondo. I vasi che nascondono il prezioso contenuto eterno, hanno origine finalmente dallo stesso inventore che ha trovato il loro contenuto, per quanti elementi condizionati dal tempo egli abbia usato, così come è parso giusto a lui (egli stesso anzi è dive­ nuto uomo!). Egli infatti ha la forza di comunicare anche a ciò che è storicamente situato una rilevanza storica universale. Questo esige l ’accordatura cristiana non solo con Dio, ma anche con Cristo e la chiesa. Il nostro sentire e la nostra espe­ rienza di Dio hanno la loro misura giusta nel sentire e nell’espe­ rienza di Cristo, nella maniera in cui lui stesso lasciò che fosse Dio stesso a misurare la sua esperienza di Dio, nella maniera cioè in cui lui stesso fece questa esperienza e la lasciò determinare e filtrare dall’obbedienza.’'E(xaOsv àcp’ tLv sracOev r/]v Ò7taxoY)v:egli im­ parò dalle cose che soffrì l’obbedienza (Eb 5,8), ma soffrì anche 2M

L ’esperienza della fede per obbedienza, per fare di questa qualcosa di vissuto e sperimentato umanamente. La misura, datagli da Dio, di vicinanza e lontananza da Dio, era soteriologicamente determinata. Essa, in quanto espe­ rienza così misurata, era già forma e da questa forma spirituale venne determinato ogni aspetto materiale della sua vita e della fondazione che da questa vita si innalza. A partire da qui il sentire cristiano riceve la sua misura cristologica, così come la pone Paolo: Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu. Non si tratta soltanto di un accordo senza og­ getto ed intenzione, ma di un accordarsi intenzionale con l’accordo esistente tra il Cristo e la sua missione paterna, nell’accordo sto­ rico salvifico che lo Spirito Santo è e opera in lui. Quindi prima­ riamente si tratta di un consentire con il Figlio che rinuncia alla forma di Dio e sceglie la forma di servo umiliato, una capacità di avvertire la direzione che egli prende e che porta alla croce, un sensorium per il suo «istinto di obbedienza» che non ha bisogno in lui di alcuna giustificazione umana, in quanto egli esprime il suo amore eterno, divino-naturale, al Padre, in una traduzione fe­ dele. In nessun’altra parte, al di fuori di qui, è possibile per l ’uomo partecipare al «sentire» di Dio. E questo non soltanto per le cir­ costanze eccezionali, o solo in periodi di apprendimento faticoso accanto ai quali si darebbero i tempi normali e più lunghi della distensione, del «poter-essere-uomo», ma come stato di accordatura normale del cristiano. Ed ancora più difficilmente: questo accordo normale non è in opposizione, puramente umana, alla disposizione gioiosa e confidente dell’ascesa a Dio, ma, per quanto ciò possa apparire improbabile, in una fondamentale coincidenza con essa. Per quanto questa fondamentale unità di accordo cristologico possa ancora presentarsi in modo vario nell’uomo credente e nonostante si possa dare un alternarsi di periodi di prevalente sofferenza con periodi di prevalente gioia, periodi di consolazione e di sconforto, di percezione della vicinanza di Dio e di percezione della sua lon­ tananza, di esaltazione e di abbattimento, in tutto ciò non si tratta che di variazioni dell’unica disposizione cristiana fondamentale che ha la sua unità autentica, e non solo costruita o presunta, nella disposizione di Cristo. La disposizione di Cristo è tuttavia la disposizione di colui che si è espropriato a favore di Dio e degli uomini: la sua sogget­ tività coincide con la sua missione (questa è la verità contenuta nella «cristologia funzionale» di K Barth e O Cullmann). Non si 234

Esperienza e mediazione dà in lui alcun resto soggettivo, dimenticato, che non sia assorbito nel suo compito di redentore. Tutto, fin nella sua radice, è stato posto in servizio ed è stato reso fluido per la sua opera. Per questo in lui può venire a coincidere l’alta coscienza della sua missione filiale con il senso estremo di umiltà del servo di Jahwe. Tutto ciò non può essere fondato o reso credibile sul piano puramente psicologico, perché esso acquista tutta la sua trasparenza, anche psicologica, solo a partire dalla assumptio humanae naturae in personam divinarti. Perciò anche il cristiano che si è espropriato per diventare membro di Cristo non è nella condizione di com­ prendere, e di far comprendere agli altri, la sua accordatura cri­ stiana mediante la pura psicologia umana. Egli, laddove comincia a far sul serio con l’espropriazione di sé, non può che meravi­ gliarsi sullo spostamento del proprio equilibrio interiore in una sfera a lui sconosciuta e insolita14. Il proprio accordo interiore, che altre volte gli era sembrato essere ciò che di più suo un uomo possiede, non può ormai diventargli plausibile che a partire dal dogma dell’incarnazione di Dio. Ma proprio questo dogma non è l’«altro» che gli sta di fronte. Egli è piuttosto incorporato nella realtà di questo dogma fin nelle radici del suo io ed in tutte le fibre e vibrazioni del suo sentire; certo, «egli» vive ancora, ma, da quando Cristo vive in lui, non è più un io a sé stante. Questo evidentemente non vale soltanto della totalità del suo sentire, ma anche, e allo stesso modo, dei suoi atti di intelletto e di volontà. Altrimenti resterebbe assolutamente incomprensibile il passaggio dal capitolo settimo all’ottavo della Lettera ai Romani, nel suo disprezzo di ogni psicologia e nel suo carattere improvviso. La nuova sensibilità cristiana, più accentuatamente ancora della comunicazione tra ogni forma di orientamento dell’animo uma­ no e l’essere nella sua totalità, sta al di là dell’attività e della pas­ sività. Che primariamente essa sia passiva, dipende dal suo carat­ tere soprannaturale: essa è un sentire donato e perciò piuttosto una im-pressione nel credente di un sovrano sentire umano-divino, che uno spontaneo riprodursi in lui di questo sentire. Ma lo stesso Spirito Santo che genera nell’anima questa im-pressione è in essa 14 «Improvvisamente (il pellegrino) cominciò ad avvertire nel suo in­ timo un mutamento straordinario... Egli prese ad osservare con meraviglia que­ sta trasformazione che prima non aveva notato e diceva a se stesso: cosa sarà la vita nuova che adesso intraprendo?» (Ignazio di Loyola, Autobiografia, ed B Schneider 1955, p 57).

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L ’esperienza della fede per riceverla nel modo giusto e farla diventare es-pressione del­ l ’anima stessa. E questa passività-attività dello Spirito nella sua immanenza è a sua volta espressione della sua proprietà divina come terza persona della Trinità, mediante la quale lo Spirito può coprire tutti gli abissi e le contrapposizioni, apparentemente inva­ licabili, tra persona e persona: come l’unico Spirito che procede da due, come la processione passiva che esprime ed è la più alta attività di Dio, come quell’ineffabile terzo che è compimento al di là del logos e del mondo del logos. E tuttavia egli è Spirito e splendore solo nel bagno amoroso e trasfigurante in cui esprime l’amore tra il Padre e il Figlio, tra il principio e l’immagine; l’ac­ cordo che egli è e conferisce, riflette eternamente ed instancabil­ mente questa forma dell’amore divino: emerge eternamente da essa e sprofonda nuovamente in essa. Ma se la chiesa è corpo e sposa di Cristo, allora l’accorda­ tura sua propria15 non può che essere emanazione e riflesso di quella di Cristo e, nella misura in cui essa è il suo prolungamento nel mondo e la maniera in cui egli unisce e incorpora il mondo a sé, trapasso e fluido senza legge o accentuazione propria. Perciò occorre esigere dal membro di Cristo un sentire cum ecclesia che però, per sua definizione, è la stessa cosa che hoc sentire quod et in Christo Jesu. È nel sentire di Cristo che trova la sua misura il sentire della chiesa e quindi anche il sentire con la chiesa. Nella misura in cui la chiesa è una realtà oggettiva che trascende il singolo soggetto— anche del credente che ha ricevuto la grazia— , è giustificato il postulato di un autosuperamento e abnegazione del singolo nella sensibilità della chiesa. Essa è canone non solo nelle questioni e nelle prescrizioni esteriori, ma anche nelle operazioni interiori. Bisogna tuttavia notare che questa identità dell’oggettivo e del soggettivo nella chiesa deve essere ricercata là dove è real­ mente presente. Quindi non può essere ricercata nella convin­ zione media della massa peccatrice che popola la chiesa, ma lad­ dove, secondo la preghiera della chiesa, la forma di Cristo si è meglio affermata ed espressa nella forma della chiesa: in Maria, nei santi, in tutti coloro che hanno coscientemente dato dentro di sé il primo posto alla forma della chiesa, al di sopra della loro forma propria: ut per haec sacrosancta mysteria in Illius inve15 Sulla personalità della chiesa, cfr «Wer ist die Kirche», in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, pp 148/202 (tr. it Sponsa Verbi, Brescia 1969). 2V->

Esperienza e mediazione niamur forma, in quo tecum est nostra substantia (orazione sulle offerte della prima messa di Natale). L ’essere-in-Dio della nostra sostanza avviene nella forma di Cristo e la realizzazione di questa immanenza reciproca è la santità come chiesa realizzata, è la tra­ sformazione delle singole anime pie in una anima ecclesiastica. Questo significa però espropriazione progressiva fino a pervenire a ciò che vi è di più personale; fino al punto cioè in cui il singolo lascia che quanto ha di più personale (il suo carisma) sia misurato da un più-che-personale (nella analogia fidei di Rm 12,6), che proprio il suo rapporto di amore più intimo venga fatto saltare nella parte­ cipazione all’unico rapporto di amore canonico tra Dio e il mondo: al mistero di nozze tra « l’Agnello sgozzato» e la «sposa dell’Agnello» (Ap 13,8; 19,7). Per quanto fortemente ed immediatamente il singolo amante si senta interpellato, eletto e ricolmato di grazia da Dio, uno dei criteri principali per l’autenticità del suo sentire resterà la sua espropriazione dentro la totalità della chiesa e, attra­ verso questa, del mondo, proprio anche dentro l’arcano dell’eros divino. Come quindi per Cristo stesso (Mt 25,40) e per i suoi discepoli (1 Cor 13; 1 Gv 3,17; 4,20s) l’amore del prossimo è il criterio in quanto tale dell’amore di Dio, così l’amore del pros­ simo deve trovare il suo modello nell’amore ecclesiale delle mem­ bra di Cristo e nel primato accordato al punto di vista d’insieme nei confronti del proprio individuale. Questo criterio deve essere garantito fin nel ritiro del chiostro contemplativo dove il credente si tiene talmente in un atteggiamento sponsale esclusivo verso lo sposo divino, da lasciarsi derubare di tutti i privilegi dell’intimità personale a favore della chiesa e del mondo, nel senso del carmelo, della grande e della piccola Teresa che dall’amore è collocata «nel cuore della chiesa, mia madre».

4. Per la storia e la critica dell’esperienza cristiana La realtà dell’esperienza di fede ha determinato in forme sempre nuove la storia della spiritualità cristiana, ma spesso l’ha anche spinta verso forme di estremismo da cui il magistero ha dovuto prendere le distanze. Questa critica delle forme estreme non è il ripudio dell’esigenza in quanto tale, ma, per così dire, la parte divenuta sonora della continua silenziosa autocritica del 2Ì7

L ’esperienza della fede concetto di esperienza cristiana, data già con la sua dialettica in­ terna. Qui non si tratta d ’altro infatti che dell’esperienza di fede, della sperimentazione quindi di qualcosa che resta essenzialmente nascosto, presente solo in modo mediato. E questo vale non solo della esperienza «iniziale» o «media», ma di ogni esperienza di fede, anche di quella mistica. Esperienza di fede significa che l’oggetto di fede si offre proprio e soltanto nella misura in cui l’uomo, rinunciando alla propria presa ed al proprio comprendere, si consegna a ciò che deve essere creduto. Questa consegna non può quindi essere psico­ logicamente registrata in quanto tale senza contraddizioni, nem­ meno nel caso unico in cui l’«oggetto», Dio stesso nel dono della sua rivelazione, vuole inabitare nell’uomo che si consegna e nel suo atto di fede. E se la rivelazione di Dio è inoltre mediata dalla incarnazione del Figlio e dalla sua presenza di grazia nella chiesa, allora il credente non può a sua volta vivere, sentire, sperimentare la soggettività della chiesa e quella del Figlio come se fossero la propria. Egli ha consegnato infatti la propria soggettività alla chiesa e al Figlio, non per ritrovarsi qui ingrandito, ma per stare a di­ sposizione, con tutto il suo intendere, volere e sperimentare, di ciò che è più grande e che egli non è. E se qui vale a sua volta che la chiesa e Cristo non sono semplicemente l’altro, ciò che sta di fronte, bensì ciò che abbraccia e dentro cui il singolo si inse­ risce, allora, senza alcun riferimento alla croce e alla morte, il singolo non può sollevare la pretesa o nutrire l’attesa che l’espe­ rienza del tutto e di ciò che abbraccia possa venire a coincidere con l’esperienza di sé, di una parte. Si noti però che, nel caso unico della rivelazione in Cristo nella chiesa, nessun paragone regge veramente: nemmeno quello della parte e del tutto (op­ pure delle membra e del corpo). Ed è senza paragone l’analogia tra la persona divina (che include e comporta la vita divina tri­ personale) e della persona consegnata ad essa nell’amore e nella fede. E giacché nell’atto di fede e nella donazione in esse conte­ nuta, biblicamente ed autenticamente, è implicito un atto di amore che si consegna a Dio, allora per non sbagliare occorre dire che l’amante, il quale rinunciando a ciò che ha di proprio vuol fare spazio completo in sé all’amato, mentre accetta come sua espe­ rienza quella che l’amato fa ed ha, non vuol fare in se stesso, ma unicamente nell’amato, quella che colui che non ama chiama «espe­ rienza sua». E sempre senza sbagliare, occorre cristianamente dire 238

Esperienza e mediazione che il credente può fare in Cristo e nella chiesa esperienze «og­ gettive» che non han bisogno di essere consapevolmente afferrate, in senso psicologico-soggettivo, e le quali sono «depositate» in Cristo e nella chiesa in maniera analoga a quella in cui la forma propria e appartenente al Figlio, durante il suo pellegrinare nella forma di servo, era «depositata» presso il Padre. Questo oggetti­ vismo dell’amore come rinuncia al gusto proprio è il contrario di un oggettivismo per mancanza di amore o per carente disponibilità di fede. Esso è il risultato di un deciso atteggiamento di fede che viene preso sul serio da Dio e che viene sbarazzato delle sue garanzie nel soggetto. Se ciò è vero, allora un siffatto oggettivismo della fede non è affare del principiante o di colui che esita ed è insicuro, ma di colui che è esercitato e sperimentato nella fede e nella rinuncia dell’amore. È a questo grado di esperienza che esso ap­ partiene ed è da essa che viene in qualche modo sostenuto e compreso. Quest’oggettivismo è, a differenza delle consolazioni dei principianti nella fede e nell’amore, il «nutrimento solido» di co­ loro che sono cresciuti. Si mostra qui, ancora una volta e in una nuova dialettica, la struttura dell’esperienza biblica di Dio dalla quale bisogna partire se, nelle pagine seguenti, vogliamo per­ venire ad una visione d’insieme della dialettica storica dell’espe­ rienza di fede.

a) Nella Scrittura Per l’uomo veterotestamentario non si dà alcun incontro con Dio che non prenda tutto l’uomo. Il giudeo non distingue tra spirito e sensibilità, anima e corpo. Egli è incontrato e interpel­ lato nella totalità della sua esistenza da Dio ed è in questa tota­ lità che deve dare la sua risposta. In questa risposta positiva o negativa, riuscita o mancata, egli sperimenta Dio, la sua grazia e la sua collera. Certo, Dio che vuole l’alleanza e l’unione con l’uomo, ricerca solo la risposta positiva. «Conoscere D io» è qualcosa che possiede quindi l’urgenza e l’intimità spirituale-corporale del rap­ porto tra uomo e donna. È una conoscenza della vita, della pre­ senza e dello scambio, e non già della ricerca speculativa sull’es­ senza di Dio e sul contenuto dei suoi decreti. Giacché il patto con Dio è però ineluttabile, nell’alleanza l’uomo ha solo la scelta 2 V)

L ’esperienza della fede tra esperienza positiva o negativa. Se egli non vuole sperimentare la grazia di Dio, allora imparerà a conoscere la sua collera nella forma di una maledizione che produrrà i suoi effetti nel modo più terribile in tutta la sua esistenza (Lv 26,14/40; Dt 28,15/68), in maniera altrettanto sensibile e sperimentabile delle benedizioni di promessa. Promesse buone o cattive finiscono nello stesso ritor­ nello: «allora conoscerete che io sono Jahwe» (Is 60,16; Ez 6,7; 13,14; 16,23; cfr Sai 59,14 e tutto il salmo 107). Sono segni di salvezza o di condanna quelli che faranno conoscere con certezza la potenza e l’intervento di Dio all’uomo che sperimenterà sensi­ bilmente questi segni. Ciò che in un primo tempo era esperienza del popolo tutto (e dove i singoli, come Korah e i suoi, non hanno che un valore tipico), nel corso del tempo viene individualizzato. Le sofferenze di un Geremia sono i segni più evidenti e sensibili della sua elezione e della sua missione; le sofferenze di Giobbe sono comprensibili solo alla luce di un intervento salvifico parti­ colare di Dio in lui e non già, come pensano i suoi amici, alla luce della comune saggezza del mondo per la quale ognuno deve scontare i suoi peccati. Sarebbe troppo semplice eliminare tutto l’aspetto sensibile che contrassegna il rapporto con Dio nell’Antico Testamento come puro «stadio infantile» della religione e consi­ derarlo superato dalla spiritualizzazione del nuovo patto. La parte migliore di quel rapporto non è suscettibile di superamento: la se­ rietà e la gioia dell’incontro umano globale con Dio, il vedere, l’ascoltare e il toccare Dio, come ad esempio nei Salmi dove il pio credente incontra Dio nel tempio di Sion e, lungo tutto il suo pellegrinaggio e la sua ascesa al santuario, si rallegra al pensiero di questo incontro concretissimo e lo brama continuamente. Inframmettiamo qui una notazione molto importante per quanto segue. Ci sono nella bibbia dell’Antico e del Nuovo Testa­ mento innumerevoli incontri con il Dio della rivelazione che noi considereremo nel prossimo capitolo e che definiremo esemplari: teofanie nelle quali Dio è sperimentabile sensibilmente in maniera puramente umana, nei fenomeni della natura, nei sogni e nelle visioni profetiche o apocalittiche, nelle apparizioni angeliche, nei miracoli di qualsiasi tipo. Queste sono forme del «vedere-Dio» alle quali Gesù contrappone, nel suo rimprovero a Tommaso, l’espe­ rienza di Dio della fede: «Beati coloro che non vedranno e tut­ tavia crederanno». Questi incontri con Dio esemplari non vengono qui presi in considerazione, o lo vengono presi solo nella misura 240

Esperienza e mediazione in cui si lasciano catalogare tra le altre forme di incontro. Pos­ siamo tuttavia dire in anticipo che i «testimoni oculari» hanno inteso la loro esperienza di Dio in modo tale da non sentirsi se­ parati per sua causa dalla comunione della fede, benché più pro­ fondamente inseriti in essa. Essi intendevano quanto avevano rice­ vuto di particolare come un compito per fondare e nutrire l’espe­ rienza generale di Dio e per elevare la sua «plasticità», della quale tuttavia questa esperienza non è semplicemente priva. Sotto que­ sto riguardo le esperienze teofaniche possono essere considerate come parte integrante della religione biblica. I limiti sono fluidi ed è assolutamente possibile e sarebbe normale che esperienze di fede nel popolo abbiano avuto una tale concretezza irrefutabile, che la loro espressione letteraria più tarda le abbia rese, sulla base delle narrazioni tramandate, come teofanie sensibili. Nel Nuovo Testamento le cose stanno un po’ diversamente per due motivi. Ormai Dio è apparso in un uomo e giac­ ché appartiene alla percezione di un uomo che lo si veda, lo si senta e lo si tocchi, coloro che hanno avuto familiarità con lui hanno visto, udito e toccato la parola della vita. Questo aspetto viene abitualmente confinato nel dominio dei testimoni oculari, come privilegio che non può più essere goduto. Gesù Cristo ri­ mane però, come Dio incarnato, la via al Padre e perciò questo vedere, sentire e toccare deve necessariamente entrare nel normale rapporto della fede in lui. Il modo in cui la prima Lettera di Giovanni, attraverso la sua «testimonianza oculare», invita la ge­ nerazione seguente alla comunione della fede, non pone alcuna distanza tra questa generazione e il testimone oculare, ma la in­ troduce alla stessa esperienza di fede. Il secondo tratto caratteristico è dato dall’assimilazione del­ l’esperienza di fede all’esperienza fondamentale del Verbo incar­ nato, la quale fu un’esperienza di rinuncia, obbedienza e sofferenza, un «assaggio della morte» (Eb 2,9) sostitutivo. Così la conforma­ zione intima dei suoi fratelli (2,11.12.17) e figli (2,13.14) alla sua esperienza, sarà una conformazione attraverso la sofferenza. Ed è questo il senso fondamentale del concetto biblico di esperienza impiegato proprio qui: usipà^siv significa «tentare» nel duplice significato di «fare il tentativo» (e quindi di provare, riprovare, esaminare) e di «indurre nella tentazione» (nella situazione della prova). Così colui che è stato tentato è un provato e giacché Gesù

L ’esperienza della fede stesso «ha sofferto ed è stato tentato (e quindi provato), può es­ sere di aiuto a coloro che vengono tentati (provati)» (Eb 2,18; cfr 4,15). Il credente quindi sarà principalmente afferrato, nella se­ quela del Cristo, dentro l’esperimento (nsipa, Eb 11,36) della sof­ ferenza. Tuttavia questo carattere distintivo dell’esperienza cristia­ na e, più a monte, dell’esperienza biblica come tale, non deve far dimenticare che ogni esperienza religiosa dell’umanità unisce in sé i due momenti, quello umano e quello sovraumano, e che espres­ samente si fa riferimento a questo duplice momento nel concetto biblico di esperienza. Da una parte in questo concetto è presente la dimensione umana: l ’esperienza è in questo senso risultato di un lungo ed intenso periodo di vita o di sofferenza. Sa solo colui che per lungo tempo ha provato qualcosa, che ha quindi imparato cos’è la realtà. Da Eschilo in poi, nella letteratura greca, assistiamo al giuoco di parole che scambia [liQoc, con tzóSoq 16. Questo fatto rimanda soprattutto alla necessità della sofferenza per l’educazione dell’uomo: ha una vera conoscenza solo colui che ha fatto espe­ rienza a proprie spese. In questo senso principale si inserisce un secondo senso, religioso e mistico, contenuto già nel famoso detto di Aristotele sulla iniziazione ai misteri: to'!)? TsXsfiivou? oò ;xaOsLv Ss1, àXXà 7 t a 0 s T v 17 e che riappare nel O ó l'a rcatìsiv ls, ripreso più tar­ di da Dionigi; Filone, che ha influenzato sotto diversi punti di vista la Lettera agli Ebrei, conosce ambedue i significati: l’espe­ rienza conoscitiva naturale e quella mistica, per la quale resta indi­ cativo il passo seguente: «D io dona dall’alto la sapienza celeste agli spiriti ben ordinati e bramosi di contemplazione. E mentre essi vedono, gustano e sentono intensamente, acquisiscono la conoscenza di ciò che sperimentano (è'[xa0ov jxèv ó smx0ov),ma non sanno da dove ha origine» 19. Non bisogna dimenticare qui, in quale misura l ’esperienza veterotestamentaria di Dio sia presente nel sottofondo di queste formule di Filone. Ma sia all’esterno della rivelazione biblica, sia nell’Antico Testamento che in Filone, i due aspetti del­

16 Jean Coste, «Notion gtecque et notion biblique de la “ Souffrance educatrice” à propos d ’Hébreux v, 8», in rsr 43 (1955), pp 481/523. 17 Frammento riportato nel Dione di Sinesio di Cirene (ed Terzaghi 1944), p 254. 18 Div Nom 2,9; p g 3,648 B. v) De fuga 138.

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Esperienza e mediazione l’esperienza umana— quello pedagogico-intramondano e quello reli­ gioso credente o mistico— non sono slegati e senza alcun rapporto. Il detto del Siracide 34,10: o? oòx èmipcS'/] óÀr/a oiSst, «colui che non è stato tentato, conosce poco», abbraccia, qualora si pensi a Giobbe, ambedue gli aspetti. Tanto più merita riflessione quindi il fatto che questo detto possa essere stato applicato a Cristo, colui che fu tentato nella sofferenza (Eb 5,8). Il senso non può essere che Cristo, il quale viene rappresentato come lo splendore della gloria del Padre e al di sopra di tutti gli angeli, dovesse pervenire alla perfezione attraverso una sofferenza pedagogica o che dovesse diventare parte­ cipe di una iniziazione mistica (si parla di TsXettùtri?, 2,10; 5,9). Tuttavia «spetta a lui» (snpsTzsv ocÒTto) di non essere consacrato a redentore che mediante l’esperienza della sofferenza, per presentare i fratelli al Padre e ricondurli alla gloria partendo dalla comunione dell’esperienza umana. È l’esperienza piena dell’essere umano, fino allo stare «sotto il dominio dell’angoscia di morte», quella che dovette fare il Figlio di Dio. Come Dio egli deve provare e impa­ rare ciò che costituisce l’essere dell’uomo, affinché l’uomo assieme a lui e sotto la sua guida ( àpxrl ' Y 2,10) possa sperimentare Dio attraverso la sua sofferenza. Ma se da qui la direzione dell’espe­ rienza sembra invertirsi, essa resta tuttavia comune ad un livello di maggiore profondità, giacché il Figlio di Dio con questo «dovere di sperimentare» si pone proprio sotto la legge dell’uomo e sotto la comune sorte della «carne e del sangue» (2,13). A questo punto la struttura dell’esperienza cristiana di­ viene trasparente e si lascia rappresentare mediante due sillogismi. 1. L ’uomo raggiunge la vera conoscenza di Dio e di se stesso solo attraverso l’esperienza della sofferenza. Ora Cristo è vero uomo. Quindi egli raggiunge la conoscenza di Dio e dell’uomo attraverso l’esperienza della sofferenza. 2. Cristo è uomo esemplare (àpj;rpfóq) anche nella sua espe­ rienza. Per chi lo segue diventa legge l’esperienza esemplare di Cristo. Colui che si pone alla sequela di Cristo sperimenta quindi qualcosa dell’esperienza di Cristo nella misura in cui, attraverso l’esperienza della sofferenza, impara a conoscere Dio e se stesso. La dialettica tra esperienza capovolta (perché Dio in Cristo impara l’uomo, l’uomo impara il divino) ed esperienza a direzione omogenea (perché solo una creatura può imparare ciò che non sa ancora) attraverserà tutta la storia dell’esperienza cristiana, ma in 24^

L ’esperienza della fede questa storia si dimostrerà sempre di nuovo che anche l’esperienza cristiana più profonda e vitale non può essere compresa semplicemente mediante le categorie della psicologia, giacché il soggetto primario è Cristo e l’uomo partecipa dell’esperienza archetipa di Cristo solo al di là di se stesso, nella partecipazione della grazia e della fede e nel rivolgimento di se stesso.

b) Nei Padri L ’esperienza si trova al centro della teologia di sant’lreneo. Si tratta in primo luogo della esperienza veterotestamentaria estesa a tutta l’economia salvifica. Non solo l’esperienza dice all’uomo cosa è e cosa comporta essere vicini a Dio o lontani da lui e che quindi è infinitamente meglio essere presso di lui. Ma emerge soprattutto un altro aspetto, nel quale si rivela il pensiero peda­ gogico dei greci, e cioè che la grande grazia dell’economia salvifica consiste nel consolidare l’uomo, attraverso l’esperienza della lonta­ nanza di Dio, nella nuova esperienza della vicinanza di Dio. Si noti come l’esperienza che l’uomo fa nel proprio corpo è quella del bene e del male e che l’esperienza di Dio per Ireneo viene mediata proprio da questa esperienza di sé. « L ’uomo ha quindi raggiunto l’esperienza del bene e del male. Ora il bene è: obbedire a Dio, credere a lui, osservare il suo comandamento e questa è la vita dell’uomo. Inversamente il male è: non obbedire a Dio e questa è la morte dell’uomo. Attraverso la magnanimità mostratagli da Dio, l ’uomo ha quindi imparato a conoscere lu n a e l’altra cosa: il bene dell’obbedienza e il male della disobbedienza, affinché l’occhio dello spirito, nella esperienza propria di tutti e due gli aspetti, compia nella chiarezza la scelta di ciò che è meglio, non sia ormai pigro e negligente di fronte al comandamento di Dio e, sperimentando nel proprio corpo come sia il male, non tenti più di provare ciò che gli toglie la vita... Per questo gli è stato dato un doppio senso che gli comunica l’espe­ rienza dei due, perché egli compia con chiarezza la scelta di ciò che è meglio. Ma come potrebbe raggiungere l’intelligenza del bene senza la conoscenza del contrario? Infatti la percezione delle cose è più sicura e scevra da dubbi che un assenso fondato su conget­ ture. Cioè, come la lingua acquista attraverso il gusto l’espe­ rienza del dolce e dell’amaro, come l’occhio impara a distinguere 244

Esperienza e mediazione il nero dal bianco attraverso il vedere e come l’orecchio impara a distinguere il suono attraverso l’udito, così anche lo spirito, quando riceve attraverso l’esperienza contraria l’intelligenza del bene, diventa più stabile nell’osservarlo e nell’obbedire a Dio... Ma se uno si volesse sottrarre a questa conoscenza del contrario e al­ l’esperienza di questo doppio senso, segretamente avrebbe ucciso l’uomo dentro di sé» (C Haer iv, 39,1). Questo pensiero fondamentale viene sviluppato in tutte le direzioni. La natura dell’uomo consiste nel passare attraverso la esperienza, cioè (in opposizione alla perfezione degli gnostici, na­ turalmente data fin dall’inizio) essere uno che diviene nel tempo, uno che ha bisogno di Dio, che riceve e quindi crede (iv, 20,6; iv, 11,2; iv, 38,1): «Così l’uomo avanza adagio e dolcemente e si eleva fino al perfetto, cioè fino alla vicinanza immediata con l’immutabile» (iv, 38,8), «formato a immagine e somiglianza, dopo aver raggiunto l’esperienza del bene e del male» (iv, 38,5). L ’ul­ tima esperienza che l’uomo deve fare è quella della morte e della fine, perché raggiungendo «la risurrezione dei morti, sperimenti nel proprio corpo ciò da cui viene liberato e resti sempre grato a Dio per il dono della incorruttibilità..., perché riconosca se stesso nella propria impotenza e mortalità... e istruito sperimenti come Dio è grande. Infatti la gloria dell’uomo è D io» (n i, 20,2). L ’espe­ rienza della grazia ci viene comunicata per il fatto che Cristo «tutto ha sopportato per causa nostra, perché noi educati da tutto, operassimo nel futuro con ogni prudenza» (iv, 37,7). Senza l’esperienza del peccato e della morte che Cristo ha fatto, noi non saremmo pervenuti mai all’esperienza della vita in Dio (in , 18,7; in , 19,1). «Egli è divenuto figlio dell’uomo per abituare l’uomo a ricevere Dio e per abituare Dio ad abitare nell’uomo» (in , 20,2). L ’arditezza propria di Ireneo, che dalla esperienza biblica di Dio conduce alla problematica susseguente della teologia spiri­ tuale, consiste nell’interpretazione «sistematica» della duplice pro­ messa escatologica della bibbia come una duplice esperienza da fare successivamente nel tempo e questo sia a partire dal motivo biblico che da quello greco secondo cui solo ciò che si è speri­ mentato viene realmente posseduto dall’uomo. Laddove l’espe­ rienza sta a significare a sua volta l’una e l’altra cosa: appropria­ zione lenta e faticosa attraverso il tempo, e quindi sperimentazione, di ciò che Dio è in verità (per l’uomo). Qui può bastare un accenno alle due strade che, a partire 245

L ’esperienza della fede da Ireneo, vengono battute nell’epoca patristica. Ambedue le strade sono, filosoficamente considerate, varianti dell’unica grande metafi­ sica che fu determinante nella patristica e particolarmente nell’Alessandria di Origene: il platonismo. È Origene che ha indicato la prima strada. Egli nel Veri Archon dà un fondamento neoplatonico all’esperienza dell’esistenza lontana da Dio, facendola derivare da un «tedio» originario del mondo, tedio da cui era affetta l’anima che viveva in Dio nell’unità con il Logos divino (xópoc, (ieiy.c àyà~7]c xaì 0scopiao, 4 0 , 1 2 7 1 /1 2 7 6 .

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L ’esperienza della fede un posto preminente la dottrina del discernimento degli spiriti a partire dalle esperienze e dai sentimenti. Sono due classici della teologia dell’esperienza che determinano questa direzione: l ’autore delle Omelie di Macario (nel quale Dòrries, sulla base di indizi senz’altro insufficienti, vuole riconoscere Simeone di Mesopotam ia24) e Diadoco di Foticea. Il primo, figura di primo piano nella storia della spiritualità, ci tratterrà un po’ più a lungo. Non si tratta qui di voler dare una soluzione chiarificatrice sul complesso problema letterario. Ma non è nemmeno impossibile, già prima dell’edizione critica del corpus completo (sul quale Dorries ha già offerto una visione d ’insieme), formulare un giudizio teologico si­ curo sull’immagine del mondo propria di questo grande sconosciuto, soprattutto dopo che Werner Jaeger ha mostrato le linee che con­ ducono da Gregorio di Nissa a lu i25. Lo Pseudo-Macario si stacca dallo sfondo di un movi­ mento spiritualista entusiastico, tendente all’eresia e condannato da un sinodo ecclesiastico (quello di Side attorno al 390) in alcune proposizioni e frammenti sommari e staccati dal contesto, esatta­ mente allo stesso modo in cui un Bonaventura si stacca dagli Spi­ rituali francescani, un Eckhart da un panteismo occulto, un Fénelon dal quietismo di Molinos. Nella sua dottrina molto sottile e personale non c’è niente che non possa essere interpretato in ma­ niera ortodossa, ma c’è qualcosa che poteva essere equivocato nelle banalizzazioni dell’ambiente circostante (contro il quale egli prende posizione). Il movimento condannato a Side meritò effettivamente la condanna. Ma non la meritavano, lette e interpretate nel loro contesto, le proposizioni di Macario che, sfigurate e banalizzate, fu­ rono presentate a tale scopo. Due costatazioni possono essere fatte per descrivere la situazione: 1. Il messalianismo «grossolano» ha un sottofondo gnostico­ manicheo per il quale si danno due potenze (positive), Dio-luce e Satana-tenebre, che dominano nell’anima e combattono in essa. Chi possiede lo Spirito Santo (mediante il battesimo, la rinuncia al mon24 Hermann Dorries, Symeon von Mesopotamien. Die Vherlieferung der messalianischen « Makarios» - Schriften. t u 55, 1 (1941). Qui sarà c it a to c o n d , m e n tr e le 50 o m e lie ( p g 34, 449/821) s a r a n n o c ita te s o lo c o n il n u m e r o . 25 Gregorii Nysseni Op asc, Leida 1952; Idem, Two Rediscovered Works of Ancient Christian Litterature, Gregory of Nyssa and Macarius, Leida 1953. 248

Esperienza e mediazione do e la preghiera continuata) appartiene al regno della luce. Ma­ cario ha invece una visione globale genuinamente platonico-alessandrina: l’anima, allontanatasi da Dio con il peccato e caduta nello stato di tenebra, viene riportata nella gloria della luce dal Figlio di Dio disceso dal cielo: adesso interiormente e spiritualmente, nelYeschaton anche corporalmente. 2. Il messalianismo «grossolano» tende ad una esperienza dello Spirito di tipo fisico-statico. Macario lo combatte continuamente in tutti i suoi scritti a partire da un’esperienza mistica chia­ ramente autentica e molto differenziata che, a) conosce la ricaduta possibile e frequente di uno spirituale che ha fatto la «esperienza» dello Spirito, b) non lascia quindi valere le esperienze spirituali iso­ late come criterio di una conferma nel bene, ma esige la lotta con­ tinua attraverso la preghiera e la mortificazione per aiutare a poco a poco la vittoria del bene in noi, c) fa valere come reali le espe­ rienze interiori (mistiche) della preghiera che portano ad una par­ tecipazione della sfera della salvezza piena, seguite da ricadute nella sfera della concupiscenza, d) ritiene possibile la vittoria (lo sradicamento completo della concupiscenza) già in questo mondo e in casi rari, ma ascrive questa vittoria, come ogni vittoria parziale, unicamente alla grazia di Dio che sola può coronare col successo la lotta incessante dell’uomo. Il presupposto dogmatico di questa spiritualità è l’adagio origeniano ed evagrico, condensato da Gregorio di Nazianzo in una formula, commentata poi da Massimo il Confessore: ó Xóyo? 7ua/uvsTai, «il Logos divino», che è in sé pura luce immateriale, «si condensa», si materializza, assume il peso mondano, la opacità, la corporeità e la sensibilità26. Ma mentre per gli origenisti radicali questa «condensazione» (incarnazione) del Verbo era solo il pre­ testo per rifare assieme a lui il cammino della spiritualizzazione, per Macario questo diventar sensibile di Dio in Cristo è un’espres­ sione positiva del suo amore: noi dobbiamo riconoscere l’amore spirituale di Dio attraverso il sensibile. «Nella sua bontà il Dio infinito ed ineffabile si è rimpicciolito (scmxpuvev), si è rivestito con le membra di questo corpo e si è raccolto lontano dalla sua glo­ ria inaccessibile. Nella sua dolcezza e nella sua amicizia per l’uomo 26 Per la documentazione cfr le mie Gnostische Centurien des Maximas Confessor, Friburgo in Br 1941, pp 33s; Il ed in Kosmìscbe Liturgie, l'.insicdi'ln 1961.

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L ’esperienza della fede si è trasformato (tj.sTa;xop9 0 ’j[J.svoc) si è incarnato; si mescola27 con le anime credenti, sante e a lui gradite e, secondo l’espressione dell’apostolo Paolo, diventa «un solo Spirito» con esse (1 Cor 6, 17). L ’anima diventa per così dire anima, l’essenza diventa essenza, perché l’anima possa camminare nella vita nuova e sentire (cf.laOscOat. ) 28 la vita immortale». Se il Verbo è stato capace di creare dal nulla, quanto più facile deve essere per lui trasformarsi, ab­ bassandosi, in tutto ciò che egli vuole, «facendosi corporeo per le anime sante, nella misura in cui esse possano afferrarlo, perché l’in­ visibile sia visto da esse, ciò che è impalpabile possa essere palpato in misura proporzionata alla natura delicata dell’anima; esse do­ vevano gustare la sua dolcezza e bearsi attraverso la propria espe­ rienza (aÙTT) TOipcf ) nella corporeità della inesprimibile delizia della sua luce. Se lo vuole, egli diventa fuoco che consuma ogni cattiva passione che dall’esterno si introduce nell’anima. Infatti è detto: il nostro Dio è fuoco che consuma (Eb 12,29). Se lo vuole, egli diventa quiete ineffabile e indicibile, perché l’anima si possa risto­ rare nella quiete divina; se lo vuole, egli diventa gioia e pace che sostentano e proteggono l’anima» (h 4,10/11). Egli stesso è anzi «la città celeste di luce, Gerusalemme». Il regno di Dio e la chiesa, per Macario, consistono unicamente nelle grazie dell’unità di Cri­ sto. Tutto ciò può suonare come pre-monofisitico, ma è soltanto alessandrino e riceve in Macario la nota nuova della «esperienza e percezione autentica» (4,12), in quanto egli ama contrassegnare il cristianesimo come «vero nutrimento e vera bevanda» (4,12; 12, 14/17; 14,3/4; 17,13). Questa «esperienza» di Cristo diventa qui, come da nes27 II motivo è altrettanto frequente in Macario che in Gregorio di Nissa. Dorries rimanda ai passi che tradiscono una cristologia «alessandrina». ’ E k S uo

L ’esperienza della fede parlare di Origene, lo ha affermato a proposito dell’eucaristia. Lo stesso dicasi della preghiera privata: con quale libertà il Signore viene e se ne va! Ed in che misura tutta l’educazione divina alla preghiera tende proprio a questa importantissima esperienza e consapevolezza dell’orante: che nessuna prestazione, nessun eser­ cizio, nessun atteggiamento può costringere Dio a venire! An­ che qui questa libertà non sta affatto in contraddizione con la garanzia della sua grazia. Giacché questa grazia è stata promessa e garantita, l’orante può aver fiducia anche nell’aridità e nella non esperienza e deve imparare a distinguere in maniera sempre più pura, la sua fede dalla provvisorietà soggettiva dei propri stati d’ani­ mo. E tuttavia e sulla stessa linea, è proprio la purificazione dei propri stati d’animo soggettivi la strada sulla quale dobbiamo in­ contrare in maniera più sicura e globalmente umana il Signore e Dio reale. Laddove viene lasciata a Dio la sua libertà, Dio può introdursi. Tutta l’evidenza soggettiva deve restare quindi assolutamente aperta a questa libertà dell’evidenza oggettiva della rivela­ zione. Essa dovrà sempre più diventare un’offerta di spazio, in cui si rinuncia a se stesssi, perché Dio, incarnandosi, possa rappresen­ tarsi come vuole. Solo così la sfera dei sensi spirituali sarà collo­ cata al suo giusto posto e diverrà per ciò stesso possibile l’inte­ grazione tra esperienza archetipa biblica e comune esperienza di fede. Già le esperienze archetipe ci appaiono molteplici. Quelle del vecchio patto erano diverse da quelle del nuovo, e nel vec­ chio si dà a sua volta tutta una scala di presentazioni sensibili di Dio. Nel nuovo si distinguono, se vogliamo operare una semplifi­ cazione, quattro tipi fondamentali che, singolarmente o fondendosi vicendevolmente, si riversano nel tesoro della chiesa. E lo Spirito Santo è ancora libero di suscitare, dal materiale di queste espe­ rienze esistenti, qualcosa di sempre nuovo ed inaudito per ogni singolo credente. Per questo motivo qui si può parlare soltanto mediante indicazioni che lasciano intatta la libertà di Dio. Ci limiteremo, in questo spirito, ad enumerare quattro punti di vista. 1. Se Cristo è l’epifania di Dio in questo mondo, allora è stato essenzialmente provvisto al fatto che questa manifestazione della gloria divina non avvenga soltanto di fronte ad alcuni eletti (mentre tutti gli altri resterebbero immersi nell’oscurità di una «nu­ 5H6

I sensi spirituali da fede»), ma proprio e realmente di fronte al mondo. E questo in tal misura che i discepoli che sono stati mandati al mondo, sono quasi soltanto come i raggi inviati dal sole. Essi sono cioè raggi dello splendore del sole, per cui nell’irraggiare diventa visibile non il raggio, ma colui che irraggia. Se il Cristo è l’immagine di tutte le immagini è impossibile che egli non si imprima nelle im­ magini del mondo e non le ordini attorno a sé. Non si dà imma­ gine isolata; ogni immagine si delinea sullo sfondo di altre, si im­ prime e si esprime in un mondo, nella sua forma interna rivela la sua con-formità e la sua potenza creativa capace di formare un mondo attorno a sé. È con Goethe che esplode l’intera epoca dell’imma­ gine, in un influsso vicendevole per cui l’immagine opera in que­ st’epoca e questa a sua volta influisce sull’immagine. In Cristo invece primariamente non era stato l’ambiente storico dell’imma­ gine a rivelarsi, ma il mondo della creazione e la storia della sal­ vezza. Attraverso la forma del Cristo le cose ricevono nel mondo la giusta distanza (da lui e tra di loro) e la giusta vicinanza (a lui e tra di loro). Tutto questo il credente non lo crede, ma lo vede. Egli ottiene di vederlo quando crede, e lo vede in maniera deter­ minata, oscura e contorta, anche quando si sottrae all’evidenza del­ la fede. Infatti il mondo sensibile che lo circonda, nel quale egli vive e in cui apparentemente si trova a casa sua, è completamente determinato da quell’immagine e da quelPavvenimento centrale; le sue esperienze sensibili, totalmente corporee e reali, lo portano, quin­ di, attraverso mille strade aperte e nascoste, in contatto con quel punto centrale. Già qui, dove egli sta nello stesso spazio e nello stesso tempo della creazione in cui stanno i profeti e gli apostoli, diventa quasi indifferente che egli possegga la contemporaneità sen­ sibile del testimone oculare. Egli sta infatti nel mondo che è de­ terminato dalla manifestazione di Dio, diretto da essa e indirizzato ad essa. La realtà della creazione è divenuta tutta un ostensorio della presenza reale di Dio. Il credente potrà soffrire per l’oscu­ rità della fede, potrà inquietarsi persino per l’oscurità dell’imma­ gine della rivelazione, così velata e poco appariscente. E tuttavia nella fede potrà afferrarsi a quello che ha ottenuto di vedere: lo spostamento e l’orientamento magnetico delle immagini del mondo verso il loro centro, ad opera dell’immagine di Dio. Qui potrà darsi sempre nuovamente un’evidenza afferrabile e visibile. In questo modo rimane anche però, al Signore delle immagini del mondo, la libertà di nascondersi dietro ad esse, come se egli fosse un’imma 1H7

L ’esperienza della fede gine mondana tra le altre, ed esigere per sé la pura fede, e la li­ bertà di riemergere nuovamente e di eclissare tutte le altre imma­ gini del mondo. E anche questo sarà colto a partire dalla fede, ma da una fede che comprende, sperimenta e quindi vede già. 2. Cristo non può tuttavia essere distinto come un puro ab­ bozzo dai restanti abbozzi del mondo. Egli appare al singolo nel­ l ’immagine globale della chiesa, della comunità della fede ogni volta vivente e storicamente vissuta. La chiesa è lo spazio più ristretto dell’irraggiamento della sua forma, sul quale non si posa soltanto il suo raggio come sulle immagini del mondo, ma che è penetrata da esso e lo può quindi irraggiare a sua volta attiva­ mente. Di questo parleremo nella seconda parte della nostra ricerca. Qui si tratta soltanto dell’integrazione soggettiva di questo aspetto e occorre chiarire quindi il modo in cui la chiesa, in quanto realtà spirituale-sensibile, media realmente tra i due sensi spirituali del credente e la forma di Cristo. Essa fa questo in quanto comunità una, ininterrottamente credente, di uomini reali e, come tale, essa sostiene già il singolo. Essa lo fa ancora come comunità apostolica, nella quale sono state piantate, come «fondamento» (Ef 2,20), le esperienze archetipe degli apostoli e dei profeti. È un vero legame vitale quello che unisce l’esperienza di fede di oggi a quella archetipa, nello spazio della storia. Paolo e i mistici della chiesa che vengono dopo, nella misura in cui sono ecclesialmente riconosciuti, formano una catena ancora più stretta che avvolge la prima che è anche l’essenziale. Ma al di sotto di questa comunità empirica re­ gna un’altra continuità, più misteriosa e non meno evidente tuttavia al credente cattolico: la continuità tra l’esperienza corporea e spi­ rituale di Maria e l’esperienza materna della chiesa. Come una madre spiega il mondo al figlio, gli mostra quello che c’è da ve­ dere e come deve essere visto, gli insegna non solo le parole della lingua, ma anche la realtà corrispondente perché la parola sorga dall’immagine e ritorni ad essa, così la chiesa, ultimamente a par­ tire dall’esperienza della madre corporea del Signore che fu la cre­ dente in quanto tale, può insegnare ai suoi figli la Parola di Dio e comunicare ad essi non solo il suo senso, ma anche il suo gusto e il suo profumo, la concretezza incarnatoria che essa sperimenta per­ ché madre e sposa. Le devastazioni orrende apportate nel nostro tempo dal «metodo storico-critico» al mondo della fede, sono pos­ sibili solo in uno spazio dal quale è stata eliminata la dimensione 388

I sensi spirituali mariana della chiesa, rinunciando al tempo stesso a tutti i sensi spirituali e alla loro tradizione ecclesiale. Queste devastazioni non si hanno solo all’interno dello spazio teologico, esse penetrano an­ che in quello filosofico. Qui il mondo è diventato senza immagini e senza valori, cumulo di «fatti» che non dicono più nulla e nei quali un’esistenza anch’essa senza immagini e forme soffre il gelo e l’angoscia. La filosofia e la teologia dell’immagine stanno e ca­ dono assieme, e laddove l'immagine della donna scompare dalla realtà teologica, là prende il sopravvento una concettualità e una tecnica del pensare esclusivamente mascolina e ignara dell’immagine. La fede si vede allora spinta fuori dal mondo, nel paradosso e nell’assurdo. Noi non intendiamo qui riferirci ad una mediazione sentimentale del culto della Madonna, ma alla necessità di pene­ trare molto più profondamente nella realtà unica della sposa di Cristo, come popolo di Dio nel mondo, e nel significato archetipo, realmente efficace, che Maria riveste— tra Sion e la chiesa— per la risposta adeguata al Dio che si dona. Io come singolo posso rispondere solo all’interno di questa risposta globale unitaria. E questa risposta globale è avvolgente e femminile e, per questo, particolarmente adeguata alla sfera sensibile. Colei che fu procla­ mata beata per la sua fede, fa l’esperienza inseparabilmente unitaria della maternità sponsale, nella fede e attraverso la fede. 3. Nello spazio della chiesa-madre i gesti del Cristo per­ vengono a tutte le generazioni credenti, come gesti sensibili della liturgia la quale comprende la parola e il sacramento. Parola che si manifesta sempre nuovamente efficace, come ciò che è (1 Ts 2,13), non come Parola di Dio soltanto, ma come Parola del Dio incarnato, Parola coperta dalla carne e dal sangue di Cristo. Con la parola di Cristo deve apparire necessariamente anche la sua esi­ stenza sensibile: sacramento che è più che un rito veterotesta­ mentario, anche se rimane simbolico. Esso è infatti la cosa stessa sotto un velamento che la svela. La forma corporea del sacra­ mento, inauditamente dura ed esigente, che deve semplicemente essere compiuta, non richiama solo la fede nuda, ma anche quella dura verità storica alla quale essi devono la loro origine. Colui che realizza ciò non corre il pericolo di confondere santità e opera esterna del sacramento, ma viene posto attraverso la sensibilità dell’avvenimento, hic et nunc, davanti all’avvenimento chc si ren­ de presente. L’immagine lo costringe all’atto, svelandogli l’atto W)

L ’esperienza della fede che istituisce l’immagine ed è al tempo stessso racchiuso in essa. È qui tutto il peso del sacramento e non, come oggi in maniera estetizzante si pensa, nell’incontro tra i simboli sacramentali e «i grandi archetipi della psiche» 125, per quanto possa essere vero che le immagini sacramentali in quanto tali non sono arbitrarie, «ornamento esterno del mistero, espediente pedagogico provvisorio». Anche se queste immagini traggono il loro linguaggio sim­ bolico umano dalla creazione, nella quale Dio istruisce l’uomo attra­ verso delle immagini essenziali, tuttavia la corrispondenza tra acqua e redenzione, tra olio e Spirito Santo, tra imposizione delle mani e consegna dello Spirito, è in quanto tale totalmente dall’alto, fondata sull’amore di Cristo, come del resto mostra già la scelta delle immagini. La chiesa può completare, maternamente, questa corrispondenza, può aggiungere la fiamma e la cera, il profumo del­ l’incenso e il piegare del ginocchio, il colore per i suoi paramenti come disposizione sensibile spirituale, il suono per l’armonia della confessione di fede che tutto penetra e conformare così il mondo sensibile al mondo spirituale della realtà di fede. Questi compietamenti sono mutevoli, non posseggono la pretesa che deriva dalla istituzione divina e attendono, in mezzo alle immagini istituite da Dio, l’elevazione della nostra esperienza sensibile allo spazio dell’esperienza di fede. Qui occorre evitare le confusioni. E tuttavia il Signore della chiesa, che rivelandosi si rende presente, rimane libero di mostrarsi e di rendersi più vicino anche attraverso i simboli estetici e le immagini indicative del mondo. 4. Una immagine sta tuttavia a sé, come nessun’altra tra quel­ le istituite dal Figlio dell’uomo, il quale sulla croce ha portato ed espiato la colpa di tutti gli uomini: l’immagine dell’incontro del­ l’uomo. L ’uomo che ci si fa incontro nella sua necessità e nella sua colpa è ogni volta il prossimo e questo prossimo dell’uomo è Cri­ sto. Nel prossimo l’uomo incontra con tutti i suoi sensi corporei il redentore, in modo altrettanto concreto, irrepetibile e archetipo di quello con cui gli apostoli «hanno trovato il Messia» (Gv 1,41). Qui tutti i fili della fede si intrecciano per formare il tessuto perfetto. Nella fede io so infatti di essere stato salvato dal sangue di Cristo, so quindi che tu lo sei altrettanto. La fede mi costringe quindi a vedere, a tenere presente e a presupporre nell’azione, l’immagine 125

N o s sens et D ic a ( E t u d c s C a r m é l i t a i n c s ) , B r u g e s

1954,

p

167.

I sensi spirituali realissima che il Dio trinitario ha di te. Nell’incontro con il pros­ simo, la fede viene ogni istante sensibilmente provata e conservata. Se essa si conferma come fede, riceve anche la sua conferma sensi­ bile. Secondo Giovanni infatti l’amore compiuto possiede in sé di dimostrarsi come la verità. Esso tuttavia porta in sé la propria di­ mostrazione, solo se intende se stesso nell’obbedienza a Dio, che ha dato la sua vita per noi. È questo amore che porta sensibilmente in sé il contenuto essenziale della dogmatica, se esso è veramente amore e non egoismo nascosto sotto qualche forma. Nell’amore al prossimo il cristiano riceve definitivamente i suoi sensi cristiani, i quali non sono diversi dai suoi sensi corporei, ma sono questi stessi nella misura in cui sono informati dalla forma di Cristo. Non ha im­ portanza che qui si esprima o meno la forma storica di Cristo. L ’amore infatti ha la forma in sé e la comunica. L ’amore, cristiana­ mente inteso, non è un «agire senza immagine», esso è al con­ trario ciò che dà forma e immagine in quanto tale. Esso è la po­ tenza creativa di Dio, infuso nell’uomo mediante la sua incarna­ zione. Per questo esso è capace di leggere autenticamente, alla luce delle idee divine, anche il mondo delle forme create e soprat­ tutto l’uomo. Egli rimane, al di fuori di questa luce, geroglifo in­ comprensibile e contraddittorio. Croce e risurrezione, come amore e gloria del Dio insanguinato e abbandonato, possono decifrare l’uomo. 5. Dopo tutto quanto abbiamo detto, l’incontro del Signore nella preghiera e nella contemplazione non può costituire più una domanda inquietante. Alla presenza affermata nella fede corrispon­ de, in maniera ovvia e consequenziaria, il suo rendersi presente con­ creto. Anche qui rimane aperto lo spazio della sua libertà. Nessuna «applicazione dei sensi» può costringerlo, ma nessuna deve anche fermarsi al dato sensibile e compiacersi in esso. Quel poco che qui accade consapevolmente è, in modo significativo, al puro servizio dell’amore. E l’amore non vuole «immaginarsi» nulla, né usare sor­ tilegi. Esso obbedisce soltanto alla realtà dell’amore del Signore. È ciò che ha sottolineato Maréchal quando si sforzò di far convergere verso un centro i due aspetti della applicatio sensuum (fantasia co­ mune umana e toccare mistico immediato da parte di Dio) m. Nella stessa direzione procede Hugo Rahner 127. Non è possibile determi12(1

H lm ìcs su r hi psycbologìc d cs n/yslii/tirs, l i , 1‘>3 7 , p

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L ’esperienza della fede

nare a quale livello psicologico, nella preghiera, si realizza il ca­ rattere di immagine della rivelazione. Dalla concretezza più alta fino alla trasparenza più sottile tutto è possibile, sia da parte del Si­ gnore della preghiera che dell’orante. Possono sorgere delle im­ magini solo per essere superate e cancellate. Possono darsi modi di esperienza sensibile solo per essere rifiutati o per essere utilizzati come indicazione insufficiente del sovrasensibile. Con Cristo infatti i sensi devono morire, assieme alle immagini e ai concetti, e di­ scendere agli inferi, per risorgere al Padre in modo indicibilmente sensibile-sovrasensibile. «Allora sentii senza ascoltare suoni, allora vidi senza che ci fosse luce, allora odorai dove non aleggiava odore, allora gustai ciò che non c’era, allora sentii ciò che non poteva essere afferrato», dice la sposa del Cantico dei Cantici in Eckhart128. Quésti non sono paradossi che superano se stessi. Si tratta piuttosto della partecipazione attiva ad una storia che ha come contenuto la kenosi di Dio per il mondo e quella del mondo per Iddio. E tuttavia sono i nostri sensi, e con essi il nostro spirito e la nostra umanità intera che, morendo in Cristo, risorgono al Padre: et in carne mea videbo Deum meum, quem visurus sum ego ipse, et oculi mei conspecturi sunt, et non alius 129.

«Die Anwendung der Sinne...», in ZKTh (1957) p 452. Ed F Pfeifer (1857) il, p 597. Gb 19,26/27 (soc i i.xx).

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III. L’ EVIDENZA OGGETTIVA

NECESSITA’ DI UNA FORMA OGGETTIVA DELLA RIVELAZIONE

Tutto ciò che è stato detto fino adesso è stato detto in funzione di ciò che segue. E quando a volte abbiamo anticipato quello che doveva venire, non lo abbiamo fatto senza pericolo. La capacità soggettiva esperienziale trova infatti la propria ragion d’es­ sere e la giustificazione della propria esistenza in un oggetto spe­ rimentabile. Essa non può essere quindi, nella sua completezza, compresa e illuminata senza questo oggetto. Per questo motivo precedentemente abbiamo spesso anticipato la considerazione del­ l’oggetto. Ma questo può esser compreso a sua volta solo se viene considerato per se stesso. Anche le considerazioni antropologiche non avevano in se stesse il loro senso, come ad esempio sarebbe il caso se l’oggetto religioso si limitasse a «Dio in se stesso». Considerando l’oggetto in questa maniera, forse, nella comprensione dell’oggetto occorre­ rebbe far parlare il concetto e la sensibilità umana, presumibilmen­ te in maniera solo negativa, mostrando la loro inadeguatezza e pra­ ticamente la necessità di eliminarli. Adeguato potrebbe essere forse, in questa prospettiva, un estremo o profondissimo «vertice del­ l’anima» che, in qualche modo estatico, corrisponderebbe all’assen­ za di forma, propria dell’abisso divino. Questa corrispondenza si avrebbe nel modo migliore in un sistema dell’identità, dove Braham e Atman si incontrano vicendevolmente nella loro identità. E a par­ tire da questo punto di identità potrebbe essere riguadagnata una certa funzione positiva per il concetto e il senso, giacché anche il mondo molteplice, la regio dissimilitudinis, potrebbe essere comV)7

L ’evidenza oggettiva preso solo come una manifestazione soggettivo-oggettiva dell’uno e dell’identico. Ma siccome Dio è l 'infinitamente libero che ha inventato e creato un mondo nella libertà ed è inoltre il Dio uno e trino che in Gesù Cristo si è fatto uomo, allora si danno tre motivi vicendevolmente connessi, per cui la rivelazione di Dio deve avere una forma oggettiva: 1. Se Dio è l’infinitamente libero, se quindi è soggettività in­ finita che non può in alcun modo essere identica con il soggetto religioso umano, allora, per quanto intimamente possa avvenire nel soggetto una rivelazione di Dio, Dio rimane tuttavia interior intimo meo, trascendente anche nella sua manifestazione, un Dio «visto», ma, nella visione e nell’esperienza intima, sempre e soltanto un Dio creduto, un Dio al quale ci si deve consegnare in modo più incon­ dizionato di quello con cui l’io si consegna al tu umano, con il quale l’io comunica almeno nella natura e nell’essere personale e che perciò conosce in qualche modo come interiore a se stesso. Una siffatta comunione nella natura e nella personalità, tra Dio e la creatura, non si dà. Per questo anche la più intima automanifesta­ zione di Dio all’anima possiede una «form a», anche se spirituale: in esperienze, sentimenti, illuminazioni che, in quanto tali, non sono il Dio che si manifesta. Questa prima considerazione resta tuttavia astratta perché noi, concretamente, perveniamo a Dio venendo sempre e soltanto da una creazione materiale e terrena, e non conosciamo una pura comunicazione tra due interiorità. 2. Se il Dio libero in primo luogo si è rivelato come creatore e se questa creazione è necessariamente (e per ciò stesso oggetti­ vamente continua ed inalienabile) manifestazione di Dio, allora que­ sta manifestazione ha la sua forma nella forma stessa del mondo. È l’essere delle cose, e non qualcosa accanto o al di là di esse, la rivelazione dell’eterno e potente essere divino. Paolo afferma que­ sto con precisione insuperabile: « Ciò che si può conoscere di Dio è per essi manifesto; Dio in effetti lo ha manifestato loro. Ciò che egli ha di invisibile infatti, a partire dalla creazione del mondo, è visibile all’intelligenza attraverso le sue opere, la sua eterna potenza e la sua divinità» (Rm 1,19/20). «Ciò che è conoscibile di D io» ( t o yvcooròv t o u 0£oD) e ancor meno «ciò che egli ha di invisibile» ( r i txópxvx aùrou ) non possono essere compresi come una «parte» o un aspetto parziale oggettivo e separato di Dio, così come 398

Necessità di una forma oggettiva della rivelazione non possono essere compresi come una parte «ciò che è buono di Dio» ( r ò y p '/ j a T o v t o G O s o u , Rm 2,4), «ciò che è stolto di Dio» ( t o [i.M p ò v t o u tìóou, 1 Cor 1,25), «ciò che è potente di D io» (tò S u v o c t o v o c u t o u , Rm 9,22). Si tratta sempre di tutto Dio sotto un particolare punto di vista. Paolo non afferma quindi che di Dio si può conoscere fondamentalmente solo una «parte» o che qual­ cosa in lui è «invisibile». Invece la «visione» dell’invisibile Dio, mediata dalle creature, perviene ad un «conoscere» il suo essere divino distinto da tutte le creature e la sua eterna potenza che si rivela nell’atto della creazione *. Questa divinità dell’invisibile che si irraggia nella visibilità dell’essere del mondo viene, subito dopo, chiamata «gloria» o «sublimità» (Schlier), «Só^oc del Dio incorrut­ tibile». Si tratta della gloria di Dio e non del mondo. Infatti pro­ prio questo scambio porta subito alla caduta terribile, alla sosti­ tuzione di Dio con r«immagine» ( ó i j . o L c o ^ a ) della «forma» ( e l x c ù v ) «dell’uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi e dei rettili». Di che genere sia l’analogia tra l’uomo o la bestia e la loro forma da una parte, tra il cosmo e la divinità creatrice dall’altra parte non viene spiegato, ma il testo lo dice implicitamente sottolinean­ do al tempo stesso, con tutto ciò che afferma di Dio (divinità, eterna potenza e gloria, potenza creativa), la differenza sempre più grande. Questo non impedisce che la doxa di Dio irraggi sulla e attraverso la forma del mondo e venga così «vista», xaOopaTOU. La rivelazione del Dio uno e trino in Gesù Cristo non è certo il semplice prolungamento e l’intensificazione della rivela­ zione attraverso la creazione, ma essa contraddice tanto poco la sua essenza che, nel disegno ultimo di Dio, la rivelazione attraverso la creazione è avvenuta in funzione della rivelazione in Cristo per prepararla e renderla possibile. La rivelazione di Cristo doveva pe­ rò, al di là di ogni attesa e speranza delle creature, ricapitolare tutto il cielo e la terra in un capo divino-umano e dare quindi loro un coronamento di grazia il cui splendore di gloria, appartenente al Signore del mondo, doveva irraggiare su tutta la creazione. Così la stessa forma del mondo che, era già in quanto tale rivelazione della S6E,x divina, diventa in Cristo e nello Spirito Santo effuso da lui, un tempio che in sé e al di sopra di sé contiene il kabód di Dio, 1 Anche se si assume t o ù ; 7roiyj|xaai. come dativo, per i soggetti cono­ scenti, la y.iLmz xÓCTjxou verrebbe allora ad essere il mezzo oggettivo e il senso sarebbe quindi lo slesso.

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L ’evidenza oggettiva come il tabernacolo e l’edificio di Salomone. 3. Tuttavia la forma della rivelazione in Cristo viene così ad essere caratterizzata solo indirettamente nella sua forma, come com­ pimento della forma del mondo. Essa viene ad esserlo direttamente solo quando, nella fede, viene vista come la manifestazione del Dio uno e trino. Solo nella divinità di Cristo, cioè nel rapporto che in lui c’è tra le due nature e, in esso, nel suo rapporto al Padre nello Spirito Santo, si manifesta la forma propria ed intima della rive­ lazione cristiana. Nella misura in cui ciò che si manifesta non si dà come il phainomenon dell’Uno semplice, ma come il farsi visibile e sperimentabile di Dio stesso in sé, uno e trino, la forma della rivelazione non è manifestazione come limite (-épac ) di una non forma infinita (àvsipov), ma quella di una sovra-forma infinitamente determinata. Ed ancora più importante è il fatto che la forma della rivelazione non si dà come un’immagine di Dio, a sé stante e con­ trapposta al raffigurato, ma come unione ipostatica ed unica tra l’archetipo e l’immagine. Ciò che in essa fa parte dell’immagine, non interessa separatamente e in sé (l’uomo Gesù), ma solo nella misura in cui in essa (in quanto Cristo) si rappresenta Dio stesso, anzi solo nella misura in cui quest’uomo è Dio stesso. Anche qui vale, ma in misura qualitativamente accresciuta, che «ciò che è invisibile di Dio diventa visibile all’intelligenza» (Rm 1,20). E si manifesta in un accrescimento così inaudito che coloro i quali guar­ dano e non vedono sono «inescusabili» (Rm 1,20 = Gv 15,22). La lettura di questa forma è qualcosa di unico come lo è essa. E tut­ tavia se essa ricapitola realmente, incoronando tutto ciò che è in cielo e in terra, allora essa è anche la forma di tutte le forme e la misura di tutte le misure, così come è anche la gloria di tutte le glorie della creazione. Come tutte le parole che vengono applicate a Cristo e alla sua rivelazione, anche il termine «forma» deve essere usato con quella prudenza che, a motivo della irrepetibilità della sua applicazione, tiene in sospeso il contenuto astratto e universale del concetto. Non è una questione di termini, ma della cosa stessa che noi vogliamo illustrare: una cosa che si dà come defini­ tiva, anche se appare in forme diverse— come uomo che opera, soffre, muore e risorge col corpo nella gloria— o viene afferrata dall’uomo in stati diversi— qui nella fede, dopo nella visione. Invece di forma della rivelazione si potrebbe parlare an­ che— con la stessa prudenza— di corpo della rivelazione, se si ticn 400

Necessità di una forma oggettiva della rivelazione conto del fatto che da una parte «tutta la pienezza della divinità abita corporalmente in Cristo» (acofi.aTi.xc0?, Col 2,9), nel modo cioè in cui uno spirito abita in un corpo o lo Spirito della gloria di Dio abitava nel vecchio tempio (Gesù parla del «tempio del suo corpo»: G v 2,21), e che dall’altra parte la chiesa (E f 1,23; Col 1, 18.24), anzi l ’universo (E f 4,16), vengono detti corpo di Cristo in quanto la sua pienezza riempie se stessa in essi. Tutto ciò non può essere inteso in modo puramente figurato, giacché il corpo materiale del Cristo è e resta il punto di riunione (E f 2,16) ed ogni altra religione di fronte a questo corpo rimane, nel migliore dei casi, «ombra» (Col 2,17).

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LA FORMA DELLA RIVELAZIONE

IL FATTO

L ’unità soggettiva di fede e visione nell’atteggiamento cri­ stiano sarebbe incomprensibile fuori di una unità della rivelazione oggettiva, da cui essere esigita e condizionata. Questa unità ogget­ tiva è essenzialmente unica e tale essa deve restare necessariamen­ te, perché l’unico Dio si può esprimere solo in maniera unica nella sua totalità e profondità ultime. La rivelazione del vecchio patto e, dietro ad essa, quella di diverso genere della creazione, pote­ rono avvenire «molte volte» e in «molti modi», perché erano in cammino verso la «Parola» totale, che «Dio ci ha detto alla fine dei giorni nel Figlio suo». Per questo egli fu costituito «erede universale»; egli infatti non ha soltanto, come le rivelazioni vetero­ testamentarie, una fattualità storica, ma è al tempo stesso la «Parola potente» mediante cui Dio «sostiene la creazione». Il Figlio ere­ dita così, oltre la storia, anche le «parole» reali delle creature, le quali sono parola solo grazie al suo essere-Parola, e sono gloria irraggiante di Dio solo perché il Figlio è l’irraggiamento della sua gloria» (àTuauyao-fxa tt)? SóE,rt■>

Cristo, centro della forma della rivelazione di estraneo, ma come qualcosa che «accade in essa» {fiat mihi: Le 1,37). Anche in essa accade un giudizio che la condurrà fino alla croce: disposizioni e conclusioni della forma unica. Il lasciar acca­ dere in me della parola non è azione, prestazione o opera; è piutto­ sto obbedienza contemplativa che, per se stessa (secondo la legge dell’immagine che imprime), passa nella passione. A questo punto occorrerebbe parlare della conferma della forma di Cristo nel suo autodispiegarsi dentro l’esistenza obbe­ diente. Conferma significa che in nessun momento della contem­ plazione viene percepita una carenza nella costruzione e nelle pro­ porzioni dell’immagine, oppure che, quando se ne presume una, que­ sta viene subito colta come una carenza della propria visione. Si potrebbe essere inclini ad attribuire questo accordo contemplativo all’entusiasmo ingenuo del credente che contempla, al quale appare a priori straordinario tutto ciò che ha a che fare con Cristo. Ma chi ha familiarità con la contemplazione dei santi o dei padri della chiesa, vedrà le cose in modo diverso. Certo si danno delle armo­ nizzazioni che ci sanno di ingenuità, ad esempio quando delle diffi­ coltà esegetiche vengono risolte mediante l’allegoria, oppure si pro­ ietta frettolosamente l’immagine di Cristo nel contesto veterotesta­ mentario. Si dà quindi una meraviglia a buon mercato, frutto di uno sguardo insufficiente. Ma l’esegeta e teologo credente, malgrado la consegna del metodo storico critico di non lasciarsi fuorviare in nulla dall’entusiasmo, non potrà impedirsi di porre attenzione all’autoconferma della forma di Cristo in ogni dimensione. La con­ catenazione dei vari aspetti è tale che, se ognuno di essi, singolar­ mente preso, può suscitare degli interrogativi, l’equilibrio dell’in­ sieme non permette tuttavia una loro eliminazione definitiva. Quan­ do si eliminano le parti essenziali, quello che resta è una costruzione così meschina (come il Gesù storico di un Renan, di un Harnack o anche di Bultmann) che in essa si può scorgere anche da lontano l’in­ venzione professorale ed, in ogni caso, non si può spiegare come un nucleo così gracile sia potuto divenire una forma così piena, forte e compatta qual è il Cristo dei vangeli. Anche quando si fossero stabiliti in questa forma finale una serie di discordanze spiegabili psicologica­ mente, tramite la distinzione delle fonti, delle stratificazioni, dello sta­ to dei documenti ecc, non si è ancora riusciti a spiegare quella forma globale, carica di tensioni e di coerenza interna, che risulta da questi aspetti discordanti; essa non viene vista o non viene riconosciuta. 4*56

Qualità La complessità degli aspetti costituisce la lectio difficilior, che tiene, proprio perché i tentativi di semplificazione si escludono tutti vicendevolmente. Né pura «attesa imminente», né pura «esca­ tologia realizzata», né puro ritualismo giudaico, né pura sacramentalizzazione ellenistica posteriore, né messianismo puramente etico­ spirituale o puramente politico, né fede come autofiducia suscitata da Gesù nello sguardo rivolto a Dio e nella preghiera, né fede come pura accettazione della sua sostituzione... e la lista potrebbe continuare. Questi singoli aspetti potranno apparire contraddittori alla «ragione storico-critica», ma agli occhi della fede, come «sensi affi­ nati», appare evidente il loro mutuo condizionarsi. Di questo sguar­ do globale vive l’orazione contemplativa, vive anche la teologia e persino l’esegesi storico-critica che, affascinata— perché poi?— dal­ l’oggetto duramente conteso, non riesce ad abbandonarlo. La complessità, come espressione di una unità mai domina­ bile ma che può essere incontrata solo nel suo autoesprimersi, è riconoscibile anche nel fatto che il cristiano che contempla può ogni volta fermarsi in un aspetto— ad esempio in una lunga e lenta contemplazione della passione— senza perdere per questo la visione dell’insieme. Nella passione egli trova tutta la predicazione di Gesù come nel suo nucleo di energia, qui egli ha il Padre che si rivela, qui ha lo Spirito, qui i sacramenti (come li vede Giovanni), qui l’origine della chiesa spiritualmente invisibile e visibile in immagini di eloquente somiglianza: la sostituzione con Barabba, la crocifissio­ ne tra i due ladroni così diversi e così uniti, il concorso di pagani, giudei e cristiani nella maniera più caratteristica, l’equilibrio della giustizia e dell’ingiustizia suprema, del velamento più profondo e dello svelamento più alto di Dio... C ’è tutto? Pensato raffina­ tamente? Ma la contemplazione dei secoli trova un’unità sempre maggiore, una pienezza sempre più connessa. E come è possibile che tutto questo sia stato escogitato da un paio di uomini? Anche qui ci può aiutare ulteriormente l’analogia estetica. L ’ispirazione di un grande artista è inafferrabile e si mantiene indissolvibilmente nell’opera che ne è nata. Essa resiste a tutte le analisi, giacché queste potranno sì mostrare la proporzione e l’ar­ monia delle parti, ma non saranno mai e poi mai in grado di operare la sintesi a partire dai vari elementi. Ora è proprio il tutto sintetico che rimane inafferrabile nel­ 457

Cristo, centro della forma della rivelazione la evidenza della sua bellezza. E come lo sguardo rivolto al bello, risalendo all’indietro, si perde nelle profondità del soggetto ge­ niale, al di là della pura psicologia, in quel luogo in cui a lui e al suo occhio particolare si è rivelata la realtà nel suo mistero, così la particolare natura dell’unità di Cristo richiede uno sguardo che risalga all’indietro fino al mistero di Dio che, in questa «genia­ lità cristologica», manifesta se stesso nel proprio «mistero sovraluminoso»: egli stesso e tuttavia un altro, trinitariamente e ipostaticamente. Mistero questo della libertà divina che, come nel­ l’opera d ’arte, coincide con la necessità suprema. La necessaria libertà della forma di Cristo può essere de­ scritta anche come l’assenza di fatica in essa e nella sua autorap­ presentazione. Qui c’è uno che può, che non ha «imparato», che non possiede e tramanda alcuna «tecnica», ma che nemmeno dimo­ stra la sua superiorità come il professionista la dimostra sul pastic­ cione. La sua arte infatti è umiltà e abbassamento e tutto ciò che è proclamato nei macarismi. E questa umiltà non è a sua volta (come sospettava Nietzsche) un trucco per la gente da poco, per­ ché proviene da un animo ricchissimo in magnanimità, arditezza e valore, che obbedisce non per istinti, ma per amore al Padre e che, in quanto uomo, ha appreso questa obbedienza, a causa nostra (Eb 5,8). L ’unità che egli rappresenta è il contrario della sintesi di ciò che gli uomini immaginano essere il meglio di un uomo e di un Dio. Non è il risultato di una somma o di un accatastamento, ma l’unità concettualmente irraggiungibile della più schietta uma­ nità e dell’unica figliolanza di Dio (che fa sempre «ciò che piace al Padre»), una «semplicità» (Mt 6,22) che Paolo contrappone alla «sapienza della carne» (2 Cor 1,12) e che considera proprio come frutto della «povertà» (2 Cor 8,2), come il dono che non riflette e non è consapevole nemmeno a se stesso (2 Cor 9,11.13), come l’ob­ bedienza dimentica di sé (Ef 6,5), come l’amore sponsale infine, che non bada a se stesso, ma guarda solo all’amato (2 Cor 11,3). In questa semplicità del Figlio dell’uomo sono superate e appianate tutte le presunte contraddizioni della sua immagine; e ciò che ai filologi storico-critici appare come un cumulo di elementi tenuti assieme (perché non sono in grado di vedere il punto di unità) può essere visto solo come il dispiegarsi intensissimo di un centro, in se stesso immobile e inaccessibile che, nella sua sempli­ cità, appare come ciò che c’è di più imitabile e inimitabile al tempo stesso7. Si tratta di quel semplice dal quale noi tutti, gente com458

Qualità plicata e riflessiva, dovremmo cominciare; che sarebbe di una faci­ lità infantile, se noi fossimo veramente dei bambini; a cui tendono tutte le tecniche religiose dell’Asia e che tuttavia, proprio perché sono tecniche o tendono a Dio saltando l’uomo, non riescono a cogliere; quel semplice che può essere vissuto e fatto solo a par­ tire dalla semplicità di Dio alla quale quest’unico partecipa. Come uno siffatto non potrebbe e non dovrebbe, nella infinita libertà della sua semplicità, dire e fare nell’umiltà le parole e i gesti più sublimi, anche e proprio quando viene condotto così negli abissi più pro­ fondi della vergogna e dell’umiliazione? Questa semplicità può es­ sere chiamata amore, a patto che non si restringa il concetto alla sfera nostra, di soggetti finiti che sentono simpatia vicendevole e si scambiano i segni e i gesti dell’amore. Tutto questo infatti è an­ cora duplicità. Quella semplicità vive invece in un centro che, nella sua umiltà e nella sua venerazione, ha congiunto la duplicità tra Dio e l’uomo, in quella trasparenza in cui è impossibile distin­ guere la Parola-Dio e l’uomo-espressione-di-Dio. Se tale è il logos che viene a noi da Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati, allora la sua contemplazione in noi non può essere che infinita. E giacché è sempre questa unità che avviene in ogni apertura del pensiero e in ogni «spezzare il pane» del logos (Origene), e mai un’unità puramente divina o puramente umana, ma sempre unità divino-umana, allora la contemplazione cristiana sarà sempre una vita più profonda e più ricca da Cristo e in Cristo, nell’inserimento progressivo del Dio vivo, uno e trino, e della crea­ zione totale ricapitolata in Cristo, ma non nello spazio rarefatto di una pura visione di contenuti ideali, bensì nella impressione del­ l’immagine di Cristo nel soggetto contemplante. La forza d ’immaginazione teologica infatti giace in Cristo che è al tempo stesso immagine e forza di Dio.

2. La forza propria della forma Occorre che parliamo adesso di questa unità di immagine e di forza. L ’immagine da sola resta bidimensionale. La forza, che 7 Cfr «Nachfolge und Amt», in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1961, pp 80/147 (tr it Sponsa Verbi, Brescia 1969). 459

Cristo, centro della forma della rivelazione il Nuovo Testamento descrive come dynamis e Spirito, conferisce invece all’immagine la profondità plastica in se stessa e la potenza vitale che si afferma all’esterno, effondendosi nella vita dei credenti. Le due sono una cosa sola: la plasticità della forma del «Gesù storico» e la sua forza di imprimersi nella forma del «Cristo della fede». Se si volesse mantenere solo il secondo ed eliminare il primo, allora la Parola e lo Spirito non sarebbero più lo stesso Dio e Dio non sarebbe quindi nessuno dei due. La prima sarebbe pura «genialità religiosa», il secondo, nel migliore dei casi, «entusia­ smo». Giovanni ha quindi riflettuto in modo conforme alla realtà quando, in un primo tempo raccoglie nel logos la pienezza dello Spirito (1,32 s; 3,34), ma a partire dalla risurrezione lo lascia ef­ fondere da lui (20,22) e per di più essenzialmente come dimo­ strazione per la divinità dell’immagine del logos e della sua riunione con il Padre che lo ha mandato (14,16.20.25.26; 16,7.13/15). Lo Spirito testimonia praticamente, cioè agendo, l’esattezza della «ese­ gesi» di Dio ad opera del Figlio (1,18). La dimensione che lega il Gesù della storia con il Cristo del kerygma e della fede e del van­ gelo scritto, è quella dell’oggettivazione ad opera della testimo­ nianza dello Spirito. Essa è percorsa tuttavia al tempo stesso dal testimone oculare che scrive: «Chi ha visto questo lo testimonia e la sua testimonianza è vera, egli sa che dice il vero» (19,35). Ma egli sa ancora di più, che la forma oggettivata cioè può rappresen­ tare materialmente solo una scelta tra gli avvenimenti storici (20, 30), che riportando parola con parola si cadrebbe in una falsa infi­ nità della lettera («il mondo non potrebbe contenere i libri che potrebbero essere scritti»: 21,25), che la forma-scelta, operata dallo Spirito, è tuttavia adeguata non soltanto per suscitare la fede «che Gesù il messia, è il Figlio di D io», ma anche per comunicare «la vita nel suo nome» (20,31). La prima Lettera di Giovanni illustra questa vita come partecipazione originaria e iniziazione completa. L ’unzione dello Spirito ci «istruisce su tutto» (1 G v 2,20.27). L ’universalità della fede comunicata dallo Spirito trova la sua corrispondenza. Essa non rimane disperatamente indietro; non apre solo alcuni aspetti; essa crea invece l’accordo tra la «semplicità» di Cristo e la «sem­ plicità della fede», nella quale è ugualmente depositato ciò che è in Cristo come unità del tutto. Per Paolo la dynamis riempie già totalmente il Gesù sto­ rico. Non solo la «forza della sua risurrezione» (Fil 3,10), ma già 460

Qualità quella della croce (1 Cor 1,18.24) agisce nei cristiani e partico­ larmente in Paolo (2 Cor 4,7.10; 12,9). Questo dinamismo del Cristo che si effonde è lo «Spirito-Dio» che procede da lui e riem­ pie assolutamente tutto nella chiesa e contesta tutto, che conferisce alla «form a» (fxóp