Globalizzazione scientificamente infondata. Una nuova teoria per il popolo di Seattle 8835953820, 9788835953821

"Globalizzazione scientificamente infondata" è il risultato di un continuo affinamento durato tre anni a parti

179 82 7MB

Italian Pages 174 [180] Year 2003

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Globalizzazione scientificamente infondata. Una nuova teoria per il popolo di Seattle
 8835953820, 9788835953821

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Vittorangelo Orati

GLOBALIZZAZIONE SCIENTIFICAMENTE INFONDATA UNA NUOVA TEORIA PER IL POPOLO DI SEATTLE

Editori Riuniti

Saggi/economia

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/globalizzaziones0000o0rat

Vittorangelo Orati

Globalizzazione scientificamente infondata Una nuova teoria per il popolo di Seattle Presentazione di K. Puttaswamaiah

Editori Riuniti

I edizione: maggio 2003 © Copyright Editori Riuniti via e

II, 33 - 00193 Roma

www.editoririuniti.it fax verde: 800 677822 ISBN 88-359-5382-0

Edizione in lingua inglese: Globalization i Unfounded, Bangalore, International Journal of Applied Economics and Econometrics, 2003

Indice

Presentazione di K. Puttaswamaiah Globalizzazione scientificamente infondata

Prefazione 1. Tecnologia e sviluppo ineguale: la proposta di un nuovo approccio alla teoria del commercio internazionale 2. Gli insormontabili limiti statici dell’ortodossia ricardiana e Heckscher-Ohlin («H-O»)

34

3. Dai falsi assiomi ai dogmi dell’economia internazionale «ufficiale» 4. Una illustrazione sintetica dei limiti della teoria standard del commercio internazionale 5. Le radici scientifiche del fatale carattere statico-stazionario del «capitolo» dell'economia internazionale entro il «corpus» della scienza economica 6. La necessità analitica di spiegare dinamicamente il collegamento sviluppo/sottosviluppo 7.La necessità analitica di spiegare gli inizi di una economia capitalistica aperta 8. La trappola dei costi comparati: la necessità analitica di considerare l’identità economica iniziale dei paesi che commerciano internazionalmente 9. La debolezza teorica dei tentativi eretici di superare la teoria standard del commercio internazionale 9.1. Lo «scambio ineguale», p. 34 - 9.1.1. Lo «scambio ineguale» ex definitione, p. 35 - 9.1.2. Lo «scambio ineguale» ed il su-

peramento della teoria dei costi comparati, p. 40 - 9.1.3. La versione sraffiana 0 neoricardiana dello «scambio ineguale», p. 57 62

66

10. Il deterioramento dei «terms of trade» internazionali: un’altra anomalia della teoria ufficiale del commercio internazionale? 11. Le «nuove teorie» del commercio internazionale

sono migliori del paradigma tradizionale? 11.1. Costi comparati generati endogenamente e la teoria della crescita endogena, p. 69 - 11.2. La teoria del «vent for surplus», p. 70 - 11.3. La teoria del gap tecnologico, p. 74 - 11.4. La teoria del ciclo del prodotto, p. 77 81 92

12. Una teoria alternativa del commercio internazionale 13. La teoria «mainstream» del commercio internazio-

nale e la teoria alternativa proposta: una comparazione e una stima analitica 13.1. Una teoria contro l’«ideologia» del libero commercio e per lo sviluppo di un protezionismo «illuminato», p. 93 - 13.2. La teoria del commercio internazionale di fronte ad altri «paradossi». O: le altre prove empiriche a favore della nuova proposta alternativa, p. 97 102

14. Guardando dentro al «buco nero» della teoria del commercio internazionale 14.1. Note ulteriori sulla teoria dei costi comparati di Ricardo, p. 102 - 14.2. Economia aperta e chiusa: il nocciolo analitico della medesima impasse, p. 108 - 14.3. Ulteriori note sulla versione neoclassica dei costi comparati, p. 112 - 14.4. Basi errate

ed intuizione giusta: la riabilitazione di Keynes della «paura delle merci» mercantilista, p. 115 - 14.5. Sottoconsumo e sbocchi, p. 123 - 14.6. Esiste un modello schumpeteriano aperto?, p. 127 - 14.7. Lo sviluppo bloccato dell’economia aperta di Schumpeter, p. 135 - 14.8. Alle radici della proposta positiva di Schumpeter di creare le basi della ancora inesistente teoria del processo dinamico capitalistico, p. 139 143

Appendice. Il premio NobelJ. Stiglitz è un vero oppositore della globalizzazione?

147

Note

1157

Indice analitico

Presentazione

Globalizzazione scientificamente infondata è il risultato di un continuo affinamento durato tre anni a partire da un iniziale contributo presentato in tre conferenze internazionali. In qualità di Editor in Chief dell’International Journal of Applied Economics and Econometrics ho incluso il suo saggio Krezslauf and Great Aggregates: The Missing Link in the Work of Prof. Samuelson nel primo dei quattro numeri speciali pubblicati dalla rivista in onore del professor P.A. Samuelson, il primo americano premiato con il Nobel per l'economia (vol. 9, n. 1, 2001). Gli altri saggi che introducevano questa iniziativa celebrativa sono stati scritti dai professori L.R. Klein e R.M. Solow, entrambi insigniti del premio Nobel per l’economia. Seguo i lavori di Vittorangelo Orati da alcuni anni e questo libro rappresenta l’approdo di una lunga, coerente ricerca tesa a riesaminare criticamente le basi su cui si fonda l’intero edificio dell'economia internazionale. La teoria economica è stata sfidata negli anni in molti modi e ne è sempre venuta fuori arricchita, ma immodificata nei suoi principi di fondo. Ci sono alcune fondate ragioni per prestare attenzione al libro di cui sto parlando. Innanzitutto esso è condotto nello spirito e con gli strumenti della scienza economica. Il nostro autore non si poVII

ne fuori dalla professione degli economisti ma vuole piuttosto richiamare l’attenzione di tutti sui seri problemi che ancora inquinano la teoria economica. In secondo luogo il lavoro scientifico di Orati si sviluppa in chiave teorematica. Il che significa che egli è pienamente in linea con il metodo «formale» della scienza economica. A ciò egli aggiunge in modo originale gli strumenti di analisi marxiani. Il risultato è una scienza economica realmente arricchita che dovrebbe condurci tutti a ripensare lo stato della teoria esistente. In ogni caso la dimostrazione di Orati rappresenta una sfida in sé. La logica del ragionamento può portare a risultati non graditi a più d’uno. Ma costoro dovrebbero rispondere alla sfida con argomenti altrettanto cogenti e convincenti di quelli proposti da questo libro. Spero proprio che si possa dar vita a un dibattito internazionale, cosî necessario per la nostra disciplina nell’attuale congiuntura. La teoria economica si è per troppo tempo adagiata al riparo di concetti fondamentali che non sono stati posti in discussione: Globalizzazione scientificamente infondata ha aperto il vaso di Pandora su cui riposano i teoremi base dell'economia internazionale dovuti a Ricardo, Heckscher,

Ohlin, Samuelson. L'analisi teorica di questo aspetto fondamentale della scienza economica è ormai obsoleta. Per la comunità accademica degli economisti è giunta l’ora di ripensare questo campo di studi. Il lavoro di Orati — che sia condiviso o meno — può contribuire ad avviare la discussione e questo è già un merito notevole.

Globalizzazione scientificamente infondata si incentra, tra l’altro, su due questioni. Da un lato cerca di sfidare il nocciolo dell’economia internazionale che si deve ai quattro autori citati sopra, evidenziandone l’inevitabile carat-

tere statico e da cui discendono le difficoltà di spiegare il carattere ineguale della dinamica capitalistica su scala internazionale. In particolare si attacca l’incapacità della teoVII

ria di spiegare la divisione internazionale del lavoro nel tempo insieme a ciò che viene chiamata «la fallacia aggregativa dell’approccio dei costi comparati». In altri termini l'attacco è rivolto alle spiegazioni correnti dell’accumulazione del capitale a livello internazionale insieme all’intrinseco ottimismo del principio dei vantaggi comparati.

In secondo luogo il nostro autore mette in evidenza che questo approccio è falsificato dalla realtà empirica, a partire dal paradosso di Leontief. Inoltre, in modo molto intrigante, il libro muove anche all’attacco della letteratura eterodossa, da Emmanuel ad Amin, che a loro volta ricorrono al criterio dei costi com-

parati per spiegare il mondo ineguale nel quale viviamo. Cosi viene proposta una nuova teoria che sfida il dogma del libero scambio appellandosi ad un «protezionismo illuminato». Insomma c’è sufficiente materiale nel libro per tenerci occupati per anni, sia che ci consideriamo economisti ortodossi, eterodossi o marxisti.

L'insieme del libro conduce a una posizione critica che è diversa da quella corrente, persino da quella stessa del premio Nobel Stiglitz (a sua volta criticato nel volume). Spero fortemente che le risposte agli argomenti del professor Orati si producano in maniera tale da porsi sul medesimo piano di autentica originalità. Sono certo che il libro stimolerà ulteriori, approfondite ricerche e sarà letto con interesse non solo dagli economisti ma anche da tutti coloro che sono coinvolti a vario titolo nel tema sempre più centrale della globalizzazione. La scientificità e l'interesse del contributo di Orati ha indotto l’International Journal of Applied Economics and Econometrics, per la prima volta nella sua storia, a patrocinarne la pubblicazione dell’edizione in lingua inglese. K. Puttaswamaiah Bangalore, aprile 2003 IX

At re ila ui sala? 213

b

a

î

MENTI

TIA

: pn sai gue

id

rudi

I Aia

ID

:empedt:

i

$

DE: pae

arpa

Lair

e

ETA

Pai

NET

ria »

Da

E

Ro e

e.

dei

AI

=

ù

Vas

mr,

Pg E

OE

|

he:

ted" Vice

a

Div

uit

vd

Sha

»

i

LL

i

149

la

4 ,

rash

Mortali I

)

citò

i Ve

ari

Ì

te

Mama deal

OI

=

“i

ruga:

006

lella

(Ri

è

è cup!

Te

Die,

di di

BEI

i

un

4

SUVA

da o

Penta) | =

Are

a

e

Ge P gi tyna lo

au

de

pra

ve SEI byci

PT È

a

DE

|

rd AMI: REL

nat RES:

Globalizzazione scientificamente infondata

«L'esito di ogni ragionamento costitiusce necessariamente un insulto. O la verità offende i sui oppositori, o un compromesso offende la verità» (David Kipp, Aphorzs75).

«Non è vero che lo scienziato insegue la verità. E la verità che insegue lo scienziato» (Robert Musil, L'uomo senza qualità).

sere dai

di

mu

tal t, ret

=.

siè

:

LUISS

Prefazione

Anche se la parola «globalizzazione» appare raramente nelle pagine che seguono, queste ultime riguardano i prerequisiti scientifici necessari per costruire un serio di-

battito su un tanto controverso fenomeno. In caso contrario continueremmo ad assistere alla non edificante situazione contemporanea, nella quale i sostenitori della globalizzazione ed i loro avversari rimangono sordi l’uno all’altro. Infatti i primi, favoriti dallo spirito dell’era moderna, la rodernizzazione, ed ispirati dai canoni della scienza (economica) sembrano rappresentare «il progresso». Gli altri invece, anche se eticamente giustificati, fini-

scono per apparire come i nemici del fatale cammino della «civilizzazione». Pur tenendo in considerazione le debite proporzioni e le diverse circostanze storiche, il campo di battaglia assomiglia a quello del primo impatto della rivoluzione industriale, con i sostenitori e oppositori della «meccanizzazione» che diede luogo alla risposta luddista, alla nascita della «questione sociale» e alla povertà di massa. Quello che intendo suggerire ai due contendenti con questo mio saggio è che guardando in profondità ai termini del problema si evince che la «scienza» alla quale si appoggiano i primi non solo è stravagante, ma si limita ad 3

essere un paradigma sostanzialmente statico-stazionario senza alcun progresso da più di due secoli: il teorema ricardiano dei costi comparati sul quale si basa la dottrina della globalizzazione. Come può un paradigma cosî debole sostenere le ottimistiche e dirnazziche implicazioni alle quali allude la globalizzazione, cosî costituendo un articolo di fede?

Per quanto riguarda invece «il popolo di Seattle», come può la semplice arma della realtà senza alcuna base scientifica opporsi allo spirito della modernizzazione senza essere sospettata di «utopia»? Se il riesame delle teorie del commercio internazionale qui proposto è giusto, ne discende, con la forza della ragione scientifica, la necessità della cooperazione internazionale come «first best» per un diverso ordine della divisione internazionale del lavoro, e come «second best» un

protezionismo «illuminato». Quest'ultimo è stato fino ad ora privo delle necessarie fondamenta scientifiche comportanti il ricorso all'accordo tra partner internazionali per uno «scambio eguale». L'esigenza di mettere le due le parti sullo stesso livello logico del discorso va sottolineata; esigenza senza la quale entrambi rimarrebbero come monadi che non si incontrano. In assenza di ciò, ovvero, la permanenza di un tale ia-

to rischia di far degenerare lo stato delle cose, trasformando l’arma della critica in critica delle armi, che è cieca, co-

me ci hanno mostrato tragicamente gli eventi del settembre del 2001 e quelli successivi. Né va dimenticato il fatto che la bandiera del libero commercio è risultata sempre la maschera del neomercantilismo dei più forti.

Riconoscimenti. La maggior parte del materiale del presente lavoro è stato proposto e discusso alla fine dell’inverno del 2000 e nella

primavera del 2001 sotto forma di /ectures durante la doppia ses4

sione di un convegno internazionale tenuto in Italia (IMAESS), in

Danimarca (Roskilde University) e in Portogallo all’Instituto Superior de Economia e Gestao (ISEG), Departimento de Economia, Universidade Tecnica de Lisboa. Nel ricordare l’ospitalità ricevuta vorrei ringraziare i professori Bent Greve, José Lufs Cardoso, Joaquim Ramos Silva e gli altri studiosi che hanno discusso il mio paper. Uno speciale ringraziamento va al mio amico dott. K. Puttaswamaiah, Honorary Chairman dell’International Institute of Advanced Economic and Social Studies e fondatore con il primo laureato con il Nobel per l'economia Tinbergen dell’Indiar Journal of Applied Economics, adesso International Journal of Applied Economics and Econometrics, che mi ha incoraggiato a sviluppare il mio originale contributo. Ringrazio anche la dott.ssa E. Sanfilippo, il dott. A. Micocci, la dott.ssa M.L. Scipio, nella loro qualità di miei collaboratori nella mia dura ed amara attività universitaria in madre patria, sempre più difficile da portare avanti secondo i canoni del libero ed originale spirito scientifico dell’insegnamento e della ricerca. Un particolare ringraziamento al dott. Paoloroberto Imperiali per il suo sostegno. Andrea Micocci ha rivisto le mie bozze e la signora Nella Carlucci, come sempre, ha tradotto

i miei «geroglifici» con abilità e gentilezza.

sea

e

ea

i CO

”*

Pi

APE pù AO

na

hi

Pa

e

=

zx



nur ‘€

ES

=

ù

Pa

We

=.

Mu

Dt

tn Ca ‘

de

nat

i ade

‘Aia

RIA» cas

ai

UNI CS a Re

fron

ni

1. Tecnologia e sviluppo ineguale: la proposta di un nuovo approccio alla teoria del commercio internazionale

Le intenzioni di questo saggio sono le seguenti (l’ordine non è quello con il quale saranno discusse): e Fare una succinta descrizione dei limiti analitici della «teoria ricevuta» riguardante il campo del commercio internazionale considerando: a) l’inevitabilità del suo carattere statico-stazionario;

b) la sua incapacità di spiegare il carattere ineguale della dinamica capitalistica nel dispiegarsi dello sviluppo a livello internazionale; c) il suo fallimento «ante litteram» a causa della «fallacia aggregativa»;

d) la sua credenza nell’equilibrio di pieno impiego in ciascun paese prima e dopo gli scambi; e) la mancanza di coerenza scientifica con gli studi empirici (si ricordi il paradosso di Leontief); f) la sua incapacità di spiegare sia il ruolo dei cambiamenti tecnologici come propulsore di qualsiasi forma di accumulazione dinamica del capitale a livello internazionale, sia il processo di accumulazione in una economia chiusa. e Fare un piccolo riassunto dello «stato dell’arte» circa

gli sforzi eterodossi nella ricerca di un’alternativa teori7

ca all'economia internazionale ortodossa: nel senso di un approccio scientifico più vicino alla realtà. Lo stato presente «dell’arte» eterodossa è tanto insoddisfacente quanto quello ortodosso, sebbene in senso inverso: nel primo caso abbiamo una teoria coerente non suffragata dalla realtà, nel secondo caso invece abbiamo un quadro più realistico, ma è assente una coerente teoria di base. Nello stesso tempo osservando le posizioni eterodosse sulla teoria economica internazionale illustreremo il ruolo centrale della mancanza di una rigorosa ed efficace teoria dinamica del processo di accumulazione che riesca a spiegare soddisfacentemente l’ineguaglianza legata a questo processo. Dare un contributo per arrivare ad un approccio capa-

ce di spiegare, unendole, coerenza teorica e plausibilità, in modo da avere una realistica struttura scientifica e in particolare per chiarire in modo convincente gli effetti polarizzanti dell’accumulazione del capitale nel tempo a livello mondiale. Far vedere come le conclusioni derivanti da questo approccio servono per liberarsi dai dogmi della teoria ufficiale, che le posizioni eterodosse non

percepiscono come ostacoli della teoria del commercio, ricordando l’obbligo di ricostruire la teoria economica e la sua applicazione a economie aperte dinamiche e interconnesse.

2. Gli insormontabili limiti statici dell’ortodossia ricardiana e Heckscher-Ohlin («H-O»)

La mancanza di aspetti dinamici nel lavoro di Ricardo può essere riscontrata nel capitolo sette dei Principles of Political Economy and Taxation, dove si tratta l'argomento del commercio internazionale: «La stessa norma che regola il valore relativo delle merci all’interno di un paese non si applica al valore relativo delle merci scambiate tra due o più paesi. «In un sistema di perfetta libertà di commercio, ogni paese rivolge naturalmente il capitale e il lavoro agli impieghi che gli sono maggiormente vantaggiosi» (D. Ricardo, Sui principi dell'economia politica etc., Isedi, 1976,

DR921 «[...] Nessun ampliamento del commercio esterno riu-

scirà mai a determinare un aumento immediato della massa di valore esistente in un dato paese, per quanto efficacemente contribuisca ad aumentare la massa delle merci e quindi la somma dei godimenti. Poiché il valore di tutte le merci estere è misurato dalla quantità del prodotto della nostra terra e del nostro lavoro che viene dato in cambio di esse, noi non verremmo a possedere un valore maggio-

re se, per la scoperta di nuovi mercati, venissimo a ottenere il doppio di merci estere in cambio di una data quantità delle nostre»! (ivi, p. 88).

Qui, nel mostrare obiettivamente che i terms of trade internazionali devono necessariamente essere diversi dal rapporto dei puri valori-lavoro interni ai paesi che commerciano (con conseguenze distruttive per la teoria del valore-lavoro), Ricardo asserisce chiaramente che prima e dopo la nascita della divisione internazionale del lavoro e del commercio internazionale il valore (valore-lavoro) dei beni scambiati non cambia. Quello che cambia sono i loro prezzi relativi, dato il valore del reddito ed il pieno impiego in ciascuno dei paesi che commerciano. Quindi gli scambi internazionali non influenzano il livello di performance in termini di reddito dei paesi che attraversano la frontiera tra autarchia e libero commercio. Con l’eccezione dell’immobilità dei fattori di produzione, il caso ricardiano di divisione internazionale del lavoro riproduce la equivalente logica applicata alla divisione del lavoro entro un paese dato. È opportuno ricordare che è ben noto che nell’analisi di questo economista classico non è dato alcun ruolo alla tecnologia. L’appendice «H-O» alle fondazioni ricardiane della teoria del commercio internazionale?, se da un lato pretende di chiarire le origini delle differenze di produttività internazionali che non si riescono a rinvenire in Ricardo,

dall'altro non migliora l’analisi del ruolo della tecnologia. Al contrario, nell’«H-O» le funzioni di produzione delle stesse merci prodotte da chi commercia — che definiscono il quadro dello scambio — sono esplicitamente supposte come eguali. È risaputo che è la differente dotazione dei fattori di produzione che spiega la specializzazione di ciascun paese: il paese che è relativamente più ricco del suo partner commerciale in termini di capitale rispetto al lavoro esporterà conseguentemente merci che richiedono

relativamente più capitale che lavoro, ed importerà merci 10

che richiedono relativamente più lavoro che capitale, e viceversa. La struttura ricardiana degli scambi internazionali non viene toccata per quanto concerne i costi comparati; e poi-

ché gli scambi di beni sussumono gli scambi di fattori produttivi, il commercio internazionale continuerà fino a

quando non si sarà realizzata l’uguaglianza di questi fattori. In questo modo il quadro statico-stazionario di Ricardo è rimpiazzato con una costruzione statico-comparativa, invece di uno schema effettivamente dinamico. Le principali conseguenze di questa deficienza sono

che i fondamenti dell’economia internazionale sono strutturalmente incapaci di spiegare lo sviluppo ineguale tra paesi che commerciano: questo è specificamente dovuto alla logica del commercio stesso. In altre parole, questi fondamenti sono la causa delle implicazioni armoniche del modello da esse prodotto. Se il reddito (ed il reddito pro capite) di ciascun paese rimane fuori dell’analisi del modello, ed i frutti del commercio internazionale non so-

no in termini del valore di ciascuna performance produttiva ma solo in termini di potere di acquisto riferito ad un dato reddito in ciascun paese, allora siamo costretti a concludere — si tratta addirittura di un assioma, a guardar bene — la mutua convenienza degli scambi sulla scena internazionale. Cosi, ex definitione, non vi è possibilità logica che il commercio internazionale possa dare luogo allo sviluppo di un paese ed al sottosviluppo del suo partner commerciale. Il modello non può muoversi in nessuna di queste direzioni.

11

3. Dai falsi assiomi ai dogmi dell'economia internazionale «ufficiale»

La mancanza di un’esauriente e radicale critica delle radici ricardiane e dei frutti neoclassici (la teoria «H-O») dell'economia internazionale, ha trasformato la tesi di ba-

se di queste teorie e molte delle ipotesi ad essa collegate in una sorta di (falsi) assiomi. Anche i tentativi più audaci di fornire alternative alle conclusioni armoniche della sempreverde ortodossia 72421stream dati da autori eterodossi non sono stati sufficienti, nel senso della profondità analitica, a spodestare tali assiomi. Come vedremo, i tentativi deboli o forti di confutare le

previsioni ottimistiche fornite dalla sintesi classico-neoclassica della teoria del commercio internazionale hanno avuto il difetto di credere che dai presupposti teorici ricardiani ed «H-O» non discenda necessariamente un panorama dello sviluppo che si espande ovunque. All’interno del quadro tradizionale si è pensato che sarebbe stato possibile trovare il passaggio analitico per inserire il meccanismo del doppio fenomeno che appare come i due vol-

ti di Giano: lo sviluppo ed il sottosviluppo su scala internazionale. Questa congettura si rivelerà, come vedremo, sbagliata. 12

Il nocciolo della teoria ufficiale che è divenuto un dogma riguarda essenzialmente le seguenti questioni: i) la rilevanza esclusiva dei vantaggi o costi comparati (prezzi) e dei prezzi relativi per determinare la mutua convenienza per attivare il flusso di importazioni ed esportazioni tra i partner internazionali. Dunque i prezzi assoluti non hanno importanza; ii) dalla convenienza mutua dei partner commerciali la razionalità degli agenti economici bandisce come un nonsenso la possibilità che un paese possa esportare senza importare. Sarebbe infatti un puro dono al partner straniero esportare verso di esso senza compensare le esportazioni con le importazioni. Questo è evi-

dentemente vero anche per gli accidentali surplus della bilancia commerciale. Quando si abbia questa ultima possibilità, il movimento dei prezzi (vale a dire l’aumento dei prezzi nel paese con il surplus e la caduta dei prezzi nel paese con il rispettivo deficit) ristabilirà l'equilibrio nella bilancia commerciale di entrambi i paesi. Qui troviamo che il principio che rispondeva ai desideri mercantilistici di ottenere un surplus costante della bilancia commerciale con gli altri paesi sarebbe completamente insensato da un punto di vista scientifico. iii) Dai punti precedenti, ed in particolare dalla centralità del meccanismo dei prezzi per ristabilire la bilancia commerciale, emerge un altro dogma: l'ipotesi del pieno impiego in ogni paese che apra il proprio mercato ai

competitori stranieri. Del resto tutti questi articoli di fede si supportano l’uno con l’altro. Cosî, il fatto che il pieno impiego sia parte del quadro del modello liturgico che stiamo qui discutendo è la conseguenza del suo carattere statico-stazionario. È infatti impossibile concepire una economia statico-stazionaria fuori dal livello di equilibrio di pieno impiego. 13

iv) Anche l’irrilevanza del progresso tecnologico è una conseguenza del carattere statico-stazionario del quadro di riferimento. Nel quadro ricardiano la tecnologia è un ospite assente, o almeno il suo ruolo è in qualche modo giocato di contrabbando, in quanto essa determina le differenze nei costi comparati dalle regole della libera concorrenza, visto che le diverse produttività comparate sono date una volta per tutte. Nell’approccio «H-O» l’irrilevanza della tecnologia è vera 4 fortiori, poiché le eguaglianze delle funzioni di produzione sono assunte come identiche per ciascuna merce in ciascun paese.

Considerando i punti precedenti, è chiaro che la teoria canonica del commercio internazionale non può fornire alcuna base per spiegare la maniera ineguale con la quale il processo di accumulazione internazionale determina il fenomeno del sottosviluppo su scala mondiale. Se non è possibile spiegare lo sviluppo internazionale per il carattere statico-stazionario della teoria del commercio e l’assenza all’interno di essa del progresso tecnico che è l’origine di tale sviluppo e l’accumulazione nel tempo del surplus con il suo carattere ciclico, è evidentemente impossibile spiegare le connessioni tra i processi di sviluppo e quelli di sottosviluppo nel tempo in una dimensione cosmopolita. vi) Una prima prova della subordinazione dell’apertura del mercato internazionale di una economia chiusa ad una sorta di logica aggregativa o olistica — la logica degli algoritmi macroeconomici della teoria ricardiana ed Heckscher-Ohlin («R-H-O») che emergerà più tardi — può essere messa in evidenza. Infatti, paradossalmente, il criterio dei costi comparati per ciascun paese e ciascun bene, che sembra alludere a fondazioni microeconomiche del commercio internazionale, è solo una con-

dizione necessaria ma non sufficiente per aprire una economia chiusa allo scambio esterno. A questo scopo 14

c’è bisogno delle serie dei costi comparati, con il loro profilo aggregato. In altre parole, per l’attività internazionale non è la performance dell’industria singola che è importante: l'aspetto microeconomico dell’efficienza ricade sotto la rilevanza dell’intero. È il sistema economico, il suo significato aggregato, che decreta l’ammissibilità per le performance microeconomiche di avere un ruolo sul mercato internazionale. Questa è un’altra

maniera attraverso la quale la teoria «R-H-O» nega la rilevanza dei miglioramenti tecnici microeconomici e il corollario conseguente: esportare senza importare e poi,

vedremo, la possibile strada per spiegare l'apertura di un dislivello di sviluppo tra due paesi che commetrciano reciprocamente basata sui prezzi assoluti invece di quelli comparati. E questo rifiuto di qualsiasi ruolo per i prezzi assoluti ha a che fare con la necessaria complicità dell’ipotesi di pieno impiego delle risorse in entrambi i paesi.

15

4. Una illustrazione sintetica dei limiti della teoria standard del commercio internazionale

È possibile concepire un semplice grafico che offre una visione dei limiti sopra detti del modello ufficiale della teoria del commercio internazionale, e le loro connessioni.

Oltre all’utilità percettiva di una tale figura, più avanti, quando considereremo un modello alternativo di interpretazione dinamica del commercio internazionale, sarà chia-

ra anche una sua ulteriore utilità peculiare nella spiegazione delle strettissime connessioni tra sviluppo e sottosviluppo su scala mondiale. Prima di tutto daremo un punto di partenza allo scambio capitalistico, andando oltre l’inammissibile implicazione dei modelli ricardiano ed «H-O» per i quali lo scambio di merci omogenee sul mercato internazionale ha avuto luogo da sempre. Questa ipotesi infatti implica la fallacia del regressus ad infinitum, ed evidenzia come altro lato del-

la medaglia la incapacità della teoria y2ainstream del commercio internazionale di spiegare il passaggio dall’autarchia al libero scambio (free trade), con l’ipostatizzazione di quest’ultimo. È possibile dimostrare che la mutua convenienza al commercio internazionale non è dimostrata ma è in realtà

ipotizzata. Cioè è impossibile concepire logicamente e cronologicamente il passaggio dall’autarchia allo scambio in16

ternazionale, ed in particolare la convenienza di quest’ultimo viene ad assumere un carattere prir/t1v0.

La «generalità» dell'ipotesi degli approcci ricardiano e «H-O» al riguardo della differenza iniziale — in termini di costi comparati tra chi commercia — è una trappola analitica statica che deriva dalla ipostatizzazione sopra detta. Infatti essa costringe entrambi i modelli a escludere la possibilità stessa di effetti polarizzatori del commercio internazionale. Di più, esse escludono la vera esigenza della necessità teorica di rappresentare i difterenti gradi di sviluppo entro i quali lo sviluppo/sottosviluppo rappresenta un caso notevole. In altre parole la falsità della apparente generalità della teoria ufficiale che stiamo discutendo viene dal suo limite analitico che consiste nella incapacità di rendere conto del caso generale e del caso limite del sottosviluppo indotto dagli scambi capitalistici internazionali. Consideriamo nella figura 1 due paesi A e B che producono due merci identiche X ed Y, rispettivamente un bene di investimento ed uno di consumo, ove il settore del

bene di investimento abbia un rapporto capitale/lavoro più alto dell’altro settore. A e B sarebbero identici per tutti gli aspetti che sono rilevanti in termini di analisi economica (à la Meade). Per semplificare l’esposizione possiamo supporre che all’inizio i costi comparati in A e in B sono i seguenti in termini di una unità tempo di lavoro per ciascun prodotto

dove y;, x; rappresentano la quantità del bene di consumo e del bene di investimento, rispettivamente, prodotti nel paese «i». Se rimangono date tutte le ipotesi della teoria standard «R-H-O» gli scambi tra A e B diventano impossibili. 17

api!

Figura 1

È anche vero che se avvenisse un mutamento (I,,,) delle tecniche in A, che facesse raddoppiare la produzione del bene X in A (x', = 2x i costi comparati non permettono

l’apertura dello scambio, perché i prezzi in A non sono in equilibrio. Infatti la transizione dall’autarchia alla nuova situazione in A ha un effetto squilibrante sui due settori di produzione del paese innovatore che si trovano, evidentemente, in reciproco equilibrio prima del mutamento tecnico. Se l’innovazione, come ammesso generalmente, è /abour saving, cioè comporta risparmio di lavoro, allora l’aumento di X in A, ottenuto con minore occupazione rispetto a quella di prima, determina la sovraproduzione dei beni di consumo (y,) nell’altro settore; con la crescita del numero di lavoratori disoccupati. Il quadro ricardiano richiede che il mutamento tecnico in A sia registrato ex post se i costi comparati di A e B sono chiamati in causa, visto che i costi relativi devono dare origine all’equilibrio internazionale dei terzs of trade nel 18

panorama del pieno impiego in tutti e due i paesi. Quando l’approccio ricardiano viene sottoposto a una sollecitazione dinamica crolla. Per di più esso non è in grado di spiegare la transizione dall’autarchia al libero scambio, che sono entrambi deter-

minati dallo stato della tecnologia. Ciò significherebbe che l'umanità avrebbe svolto commerci basandosi sulla divisione internazionale del lavoro dall’inizio della storia, e

questa è un’inammissibile ipostatizzazione che attribuisce «il libero scambio» alle categorie della «philosophia perennis» o a quelle dello «Spirito». Alla luce di quanto sopra, prima del mutamento tecnico in A (autarchia) gli scambi sono assenti ex definitione e dopo tali cambiamenti non possiamo operare senza sapere che succede nel senso dell’equilibrio dei relativi costi interni in A. Secondo «R-H-O» possiamo applicare i principi conseguenti soltanto in presenza di prezzi di equilibrio in ciascun paese che commercia e/o nell’ipotesi del pieno impiego.

Paradossalmente il teorema dei costi comparati, ammettendo per via del suo carattere statico-stazionario solo i frutti benefici del commercio tra nazioni, non ha nulla da

dire sulle conseguenze dinamiche ineguali del commercio internazionale. Non può ammettere che all’inizio le nazioni che potenzialmente possono commerciare abbiano la stessa performance produttiva e che solo a seguito del mutamento delle tecniche produttive inizino a scambiare, realizzando cosi quelle differenze che sono condizione necessaria per spiegare la divisione internazionale del lavoro. D’altro canto dobbiamo considerare che il quadro ricardiano ha come riferimento beni omogenei e gli scambi di beni eterogenei prodotti in esclusiva dai due paesi è estraneo all’analisi ricardiana della divisione internazionale del lavoro. Come vedremo più avanti, dalla rottura dell’equilibrio in A è scorretto inferire che il ristabilimento dell’equili19

brio previsto da Ricardo e dal teorema «H-O» determinerà la divisione internazionale del lavoro. Al contrario se si considera la transizione dall’autarchia alla situazione aperta dal mutamento tecnologico in A, emergerà che sarà il settore dei beni di consumo che esporterà verso B, piuttosto che il settore innovatore dei beni di investimento di A! Questo è vero 4 fortiori se l’innovazione riguarda ambo i settori di A (0, alternativamente, B) nel caso più generale

di una innovazione che influenza in maniera differente i prezzi assoluti del sistema economico. Tutto questo secondo le effettive implicazioni del paradosso di Leontief che cosî si rivela come un falso paradosso e inoltre come prova empirica della falsità ed inadeguatezza della teoria «R-H-O» del commercio internazionale! . Infatti il teorema «H-O» non può essere applicato al caso della transizione dall’autarchia al libero commercio sopra illustrato: ex definizione le differenti funzioni di produzione del bene di investimento in A rispetto allo stato della tecnologia nello stesso settore di B è al di fuori del quadro di riferimento della teoria economica internazionale 72477Sireama.

Di fronte alla nostra ipotesi di un mutamento tecnologico in A l’ortodossia ufficiale avrebbe diagnosticato che prima di questa variazione questo non sarebbe stato possibile, qualsiasi fossero gli scambi tra A e B (teoria «R-H-O»). Do-

po questo mutamento l’approccio ricardiano avrebbe applicato le proprie regole, e quello «H-O» avrebbe dichiarato l'impossibilità di questo fatto. La produttività più alta di A nel settore di beni investimento sarebbe stata spiegata ex post con la sua più ricca dotazione di capitale in rapporto alla dotazione di fattori di produzione di B: se il settore dei beni d’investimento richiede più capitale che lavoro rispetto agli altri settori dei beni di consumo. La imbarazzante difficoltà dell'apparato neoclassico «H-O» in questo caso è evidente. Secondo le regole da es20

so dettate la causa della transizione dall’autarchia agli scambi tra A e B per mezzo del mutamento tecnico va semplicemente esclusa. Questa difficoltà è la stessa che costringe l’approccio «H-O» ad assumere funzioni di produzioni identiche in entrambi i paesi. È sufficiente a questo riguardo alludere ai motivi che hanno permesso a Tibor Scitovsky di respingere il criterio compensativo di Kaldor nel suo famoso tentativo di proporre la «New Welfare Economics» (T. Scitovsky, A Note of Welfare Propositions in Economics, in The Review of Economic Studies, IX, 1941)?. Poiché la

transizione dall’autarchia agli scambi internazionali tra A e B concerne ex definitione i prezzi relativi, sarebbe impossibile dimostrare la convenienza della divisione internazionale del lavoro nei confronti del precedente regime di autarchia. Sarebbe infatti impossibile dimostrare che in tale maniera il «benessere» in A e B aumenterebbe vista l’impraticabilità di comparare per ogni paese le curve di indifferenza durante l’autarchia con le curve di indifferenza successive al manifestarsi del commercio internazionale: i vettori dei prezzi relativi sono cambiati e dunque sarebbe impossibile comparare le due condizioni di efficienza paretiana. È ben noto che il riferimento reale qui discusso è quello del passaggio dal protezionismo granario inglese e le conseguenze in termini di benessere aggregato delle «anti-corn laws». In quel caso dal punto di vista del paradigma neoclassico non si riesce a dimostrare la convenienza del passaggio dal protezionismo al libero scambio internazionale. Nel nostro caso è sufficiente sussumere questo passaggio a quello che concerne la transizione dall’autarchia al commercio internazionale di due paesi prima identici in termini di parametri economici e poi diversi perché uno di loro ha innovato. In entrambi i casi e per strade differenti gli approcci ricardiano e «H-O» hanno rimosso (represso) lo stimolo diZA

namico — e il mutamento tecnologico — che altrimenti provocherebbe degli shock fatali al loro apparato scientifico. Dal semplice modello illustrato in figura 1 è chiaro come la teoria mainstream del commercio internazionale connetta strettamente tutti i suoi dogmi. Se uno di questi vie-

ne rimpiazzato con una ipotesi dinamica più verosimile, e specialmente la più ingenua cioè il mutamento tecnologico, l’intera costruzione crolla come un castello di carta. Cosi abbiamo visto come per via di una innovazione in A

la crescita del reddito di questo paese che si doveva manifestare non può essere colta dai modelli standard di cui stiamo discutendo. Inoltre e di conseguenza senza sviluppo di A, l’arretratezza rispetto ad A di B non può essere inferita. Bisogna sottolineare che è l’ipotesi di pieno impiego, in entrambi A e B, che non ammette la possibilità di crescita in A (e in B). Ed è l’incapacità di superare la logica dei grandi aggregati — a causa della «macroeconomic fallacy» con il suo punto di vista ex post nei confronti della transizione dall’autarchia al libero scambio — che costringe l’approccio «R-H-O» a rimanere nell’asfissiante ambito di una analisi statica o statico-comparativa. L'ultima cosa che ci resta da chiarire è il dogma della necessità dell’equilibrio nell’export-import dei paesi scambisti a livello internazionale. È evidente che passare in chiave statico-comparativa dall’autarchia alla possibilità di libero scambio tra A e B, senza considerare gli effetti destabilizzanti del mutamento tecnologico in A sui suoi due settori bilanciando cosi gli scambi entro il suo sistema economico, i costi comparati

in A e B ammettono due alternative entrambe determinate dal criterio dei costi comparati: a) ex definitione del commercio internazionale, in autarchia, esiste l'equilibrio nella bilancia commerciale in entrambi i paesi; 22,

b) ex post per via dei costi comparati, poiché il settore dei beni di investimento ha raddoppiato la propria produttività in A, si determineranno i terrzs of trade, con la

collegata mutua convenienza allo scambio per A e B, finché ciascun paese pareggerà le proprie esportazioni con le importazioni. Al contrario, se cerchiamo di superare la «fallacia macroeconomica» andando oltre il limite statico o della logica statico-comparativa seguendo un percorso dinamico

con le conseguenze del miglioramento (le innovazioni) nella produzione dei beni di investimento in A, la necessità del perfetto equilibrio dell’import-export tra A e B non è più un articolo di fede, grazie all'emergere del ruolo dei prezzi assoluti. Abbiamo infatti visto che la sovraproduzione dei beni di consumo in A (e questo è un paradosso solo apparente) indotta dal mutamento tecnologico labour saving, cioè che risparmi lavoro nel settore appunto dei beni di investimento, produce una deflazione ed apre la possibilità ed addirittura la necessità che A esporti verso B la sua sovraproduzione dei beni di consumo. Tale esportazione avviene in termini di prezzi (assoluti) più bassi rispetto ai beni di consumo di B. Questo senza la necessità di importare nulla da B: poiché la deflazione e la disoccupazione in A non alimentano alcuna inflazione come controparte monetaria delle esportazioni di A verso B. Ciò avverrebbe anche se accettassimo — diversamente da ciò che professiamo - la teoria quantitativa della moneta. Torneremo comunque su questo tema con maggiore profondità più innanzi, quando avremo delineato la transizione dall’autarchia al libero scambio nell'economia di A (e/o di B) che si trovi (si trovino) già all’inizio dello sviluppo di una accumulazione capitalistica, piuttosto che trovarsi in uno stato statico-stazionario o meramente ripro-

duttivo. 23

5. Le radici scientifiche del fatale carattere

statico-stazionario del «capitolo» dell'economia internazionale entro il «corpus» della scienza economica

Tutti i migliori libri di teoria economica contengono un «capitolo» dedicato ai principi dell'economia internazionale, sebbene questo capitolo abbia raggiunto, come ogni altro capitolo di tali libri, una propria specifica autonomia accademica. Tra tali capitoli si trova anche quello che tratta il tema dello «sviluppo» o «crescita» (secondo le diverse accezioni), e se ne trova anche uno dedicato al problema del sot tosviluppo. Sebbene questa non sia il momento per sviluppare tali pur centrali temi, è essenziale sintetizzare i risultati del nostro lavoro sulle questioni epistemologiche dell'economia politica, o economia tout court, specialmente riguardo all’oggetto di questa disciplina!. Non è infatti un caso che le origini della scienza economica si possono trovare in termini di storia economica nel

periodo della transizione dai modi di produzione precapitalistici a quello capitalistico, cioè da economie statico-stazionarie ad una economia dinamica. Tra le altre cause della nascita della scienza economica il fenomeno dell’accumulazione del capitale nel tempo è proprio quello, pensiamo, che ha consentito alla dimensione economica di uscire dal regno dei fenomeni naturali

per entrare nel dominio della scienza. 24

Il modo di produzione capitalistico, con l'eccezione delle economie pianificate, ha la sua essenza peculiare nella sua dinamica instabilità. Il fenomeno dello sviluppo e della sua interruzione patologica sono l’inequivocabile oggetto della scienza economica. E lo sviluppo è stato fino ad ora un «capitolo» dell’ecororzics, un campo di studio particolare diviso dal corpus della scienza economica. Ciò rivela palesemente i problemi irrisolti di questa disciplina, nonché il fatto che la scienza economica sia priva del suo proprio oggetto di studio. Infatti, quando diciamo che il capitalismo ha un carattere dinamico intendiamo che il capitalismo ha come motore e fine quello di produrre accumulazione di surplus nel tempo. Ma il surplus stesso, la sua origine, ciò in cui esso consiste, il suo essere la sola eccezione alla «legge di Lavoisier», non è mai stato spiegato da alcuno dei capitoli in cui la scienza economica è divisa. Il suo capitolo specifico (quello dello sviluppo) assume che esso sia un concetto primitivo, inspiegato, supponendolo come ipotesi. Questa è una inusitata eccezione alla legge secondo la quale «nulla si crea e nulla si distrugge». Questa è la ragione profonda per la quale il capitolo, il campo specializzato dell'economia internazionale non può dotarsi di una teoria dinamica del commercio internazionale. Dal fatto che è impossibile avere una teoria coerente di una economia dinamica chiusa segue che è impossibile avere una teoria dinamica di una economia aperta.

Un'altra e consequenziale prova dell’asserzione appena fatta si può trovare nel fatto incontrovertibile che la scienza economica non ha una teoria rigorosa della crisi. Se non si ha una teoria della corsa, non si può avere una teoria della caduta! E senza una teoria della crisi la scienza economica si ritrova priva anche di una teoria della maggior parte delle manifestazioni patologiche dell'economia. Cosî con l’economzics abbiamo una falsa scienza, incapace di comprendere il proprio oggetto in senso epistemologico?. 25

6. La necessità analitica di spiegare dinamicamente ilcollegamento sviluppo/sottosviluppo

Cosî come è impossibile spiegare le cicliche crisi di sovraproduzione del capitalismo senza un approccio dinamico — il solo quadro che possa permetterci di superare il falso scopo di distruggere la legge di Say come precondizione ad una teoria della crisi — è impossibile comprendere lo sviluppo in un contesto internazionale senza una teoria della crescita. Questo è semplicemente vero considerando che il sottosviluppo è un processo, e non un fenomeno che si possa registrare in maniera puntuale lungo il passaggio del tempo, una volta per sempre. Rimanendo nella cornice di riferimento della figura 1, ove abbiamo spiegato la possibilità della recessione dell’economia del paese B come conseguenza dell’innovazione in A — la sovraproduzione dei beni di consumo in A può essere venduta, grazie ai suoi prezzi che stanno scenden-

do, ad entrambi i settori di B — decretando cosî una crisi in B, e contemporaneamente evitando una crisi in A.

Nel caso che A abbia sperimentato uno stimolo dinamico e che B entri in recessione, siamo dinanzi ad un tipo di incidente che può essere concepito invertendo i ruoli tra A e B. In poche parole siamo dinanzi a un processo che nel tempo assume effetti economici polarizzanti. Per completare il modello dello sviluppo/sottosviluppo dobbiamo ave26

re una teoria più completa, capace di tenere in conto que-

sto effetto di polarizzazione compreso il caso limite di A e B che crescano ad un tasso differente, come conseguenza dell’interazione strutturale di entrambi sul mercato internazionale. Per usare un’utile metafora, una teoria soddisfacente e

congruente del legame tra sviluppo e sottosviluppo in termini di una ripensata teoria del commercio internazionale necessita di un film e non di una fotografia. Queste considerazioni vengono dall’esigenza logicometodologica (circa la quale tenteremo più in là di sviluppare una proposta analitica) di avere come ipotesi la completa identità di partenza di due paesi che commerciano. Cosi possiamo introdurre il prossimo argomento. L'ineguaglianza tra paesi operanti sul mercato internazionale non può essere il punto di partenza della sfida teorica rappresentata dal meccanismo attraverso il quale lo sviluppo di un paese induce il sottosviluppo di un altro. Evidentemente, come vedremo, ciò non significa che la loro

identità possa venire verificata in realtà, ma le conseguenze della reale diversità tra paesi sono da considerarsi come un aggravante della base logica del meccanismo economico dell’interazione commerciale dinamica polarizzante tra nazioni. In altre parole gli effetti delle diverse strutture economiche, degli aspetti geografici e delle differenze culturali nel panorama internazionale capitalistico possono essere utili per spiegare il grado di gravità della malattia economica del «ritardo», ma non possono spiegare le cause di tale ritardo. Questa osservazione traghetta la nostra analisi lontano dalla letteratura standard sul tema del ritardo economico,

che ignora i meccanismi che stiamo discutendo qui. Tale letteratura conduce alla errata considerazione secondo la quale il ritardo economico consisterebbe nella mancanza dei prerequisiti alla crescita, o (che è la stessa cosa) considerando l’ineguaglianza come causa dell’ineguaglianza esistente. Sul piano logico, metodologico ed analitico questo 27

approccio è errato, perché consisterebbe nella dimostrazione della ipotesi! D'altro canto, iniziare da una condizione di perfetta identità tra partner commerciali in senso dinamico o capitalistico, può dare conto dell'intera gerarchia del grado di sviluppo tra partner commerciali internazionali. Infatti la differenza tra paesi sviluppati e sottosviluppati in termini di gradi di sviluppo e sottosviluppo non è primitiva, ma può essere considerata una conseguenza dell’eccellenza capitalistica o della mancanza di eccellenza capitalistica che ha luogo sul non neutrale scenario del mercato internazionale. Su queste basi sarà anche possibile concepire che vi è un permanente pericolo per i paesi sviluppati di cadere dalla parte opposta della classificazione, nonché la possibilità per un paese sottosviluppato di unirsi ai ranghi di quelli sviluppati (come è recentemente successo). In questi casi, parte dell’eccellenza in termini capitalistici è raggiunta per mezzo della trasmissione dello stimolo al sottosviluppo verso i partner per mezzo del commercio internazionale. Questo approccio appare in linea di principio adeguato non solo a comprendere il fenomeno del sottosviluppo, ma anche a porlo entro una teoria del mercato internazionale completamente riformulata. Questo è reso necessario a sua volta dalla presenza della globalizzazione, e dai pericoli che essa comporta di cambiare il rango delle nazioni sullo scenario mondiale. L'altro approccio risulta anche utile, ma solo in una seconda approssimazione, in consi-

derazione dei diversi livelli iniziali di sviluppo tra gli attori del commercio internazionale. Tale diversità va spiegata prima di essere usata come complicazione strutturale della permanenza nel ritardo economico e nella fuga da questo stato di crisi permanente. Alternativamente, dal punto di vista di un metodo scien-

tifico corretto, il rischio che si corre è quello di confondere l'origine e la nature della malattia con i sintomi. Tale rischio conduce a curare i sintomi piuttosto che la malattia. 28

7. La necessità analitica di spiegare gli inizi di una economia capitalistica aperta

La nostra visione generale della questione del commercio internazionale richiede un’altra specificazione che riguarda il problema di considerare gli scambi internazionali all’inizio, quando tali scambi cominciano nel loro procedere capitalistico o dinamico. Questa esigenza proviene dalla necessità di distinguere tra la logica degli scambi internazionali in modi di produzione precapitalistici e la logica assunta dalla logica dell’accumulazione capitalista. Nella prima gli scambi internazionali riguardano scambi tra merci eterogenee. Alcune merci sono producibili da alcuni partner e non da altri, e la logica del baratto domina per beni eterogenei che per motivi culturali o naturali sono prodotti solo all’estero (merci esotiche scambiate fuori dalle regole della concorrenza economica). Mentre nel caso del baratto non si tratta nemmeno di realizzazione in termini monetari del surplus per ottenere il massimo profitto, bensi di scambio di un dato surplus destinato al consumo in termini di altro valore d’uso di un altro dato surplus, nel mercato internazionale capitalistico il fine è la massimizzazione del valore di scambio di merci

omogenee in termini di denaro. 29

Dunque se nel baratto la parità della bilancia commerciale è assicurata ex definitione, nell'altro caso la vendita è separata nel tempo e nello spazio dall’acquisto. E non abbiamo, eccetto che per puri motivi contabili, l'equilibrio delle esportazioni con le importazioni. Si può e si deve dunque evitare di mischiare le due diverse logiche economiche, ed allo stesso tempo evitare la necessità di avere a che fare con una propensità ed attitudine agli scambi eterna, cioè con un oggetto metafisico. Possiamo dunque spiegare la transizione dall’autarchia capitalistica, cioè da una economia capitalistica chiusa, ad

una aperta. Lo scambio di valori d’uso eterogenei, pur se può accompagnare la logica capitalistica del commercio internazionale, è al di fuori del quadro di regole che definiscono il modo di produzione capitalistico, e quindi ovviamente dalle regole della sua rappresentazione scientifica. In presenza di commercio internazionale esclusivamente tra beni eterogenei o esotici, siamo nei confini di una situazione

di duopolio, o nel campo della domanda reciproca di beni di lusso. Questo genere di beni, come è universalmente ri-

conosciuto, non risponde ad alcuna regola richiesta dall’equilibrio di un mercato libero concorrenziale (applicando le restrizioni usuali su scala internazionale). Questo completa, come suo vincolo complementare, il

terreno analitico per ipotizzare l'identità iniziale dei paesi capitalistici che commerciano a livello internazionale. Cosî come complementare appare, a sua volta, l'esigenza di uscire dal quadro del «R-H-O», nel quale lo scopo della divisione internazionale del lavoro è la massimizzazione dell’utilità di un dato livello del reddito, e dove la moneta

gioca solo un ruolo di mezzo di scambio piuttosto che di riserva di valore e mezzo per ottenere e «certificare» la produzione e la capacità di creazione di surplus del processo di accumulazione del capitale. 30

8. La trappola dei costi comparati: la necessità analitica di considerare

l'identità economica iniziale dei paesi che commerciano internazionalmente

La rilevanza del dogma dei costi comparati richiede che torniamo a discutere ed a sottolineare il tema delle differenze iniziali tra i paesi che commerciano internazionalmente. La base ricardiana del corpus dell'economia internazionale riposa sull’ipotesi di diversi costi comparati dei contraenti, ed il suo complemento «H-O» dà conto di questa base con la spiegazione dei costi comparati per mezzo dell’ipotesi di differenti dotazioni dei fattori di produzione. Possiamo dire che i costi comparati rimangono il principio intoccabile o dogmatico della fondazione teorica della visione zzainstream dell'economia internazionale. È fondamentale spiegare la natura di questa trappola analitica nella quale consiste il dogma dei costi comparati. Una analisi più profonda mostra che se i costi comparati sono la base della costruzione teorica del commercio internazionale, dallo stesso principio segue che si debba escludere, rz0re geometrico, la stessa possibilità che il sottosviluppo possa seguire al commercio internazionale. Questo è vero perché il principio dei costi comparati implica la mutua convenienza dei partner internazionali a commerciare l’uno con l’altro. 31

D'altra parte senza questa mutua convenienza sarebbe possibile — per esempio a causa di altre differenze strutturali tra i paesi che commerciano internazionalmente — fare ricorso a dottrine protezionistiche da parte del paese con la struttura economica più debole. Ma questa dottrina ha sinora paradossalmente la stessa base teorica da opporre alla dottrina del libero scambio. Questo è il caso dell’ipotesi dell’«infant industry» con la quale F. List argomentò la debolezza economica della Germania nei rispetti della forza economica della Gran Bretagna nel secolo XIX. Il difetto della posizione di List è stato di accettare il principio dei costi comparati senza essere capace di vede-

re che all’interno di quel principio non c’è alcun posto per le eccezioni al libero scambio e quindi alla mutua convenienza del commercio tra nazioni. List sbagliò solo perché non prestò sufficiente attenzione alla teoria che doveva essere sviluppata per sorreggere la sua intuizione. Di conse-

guenza si contraddisse, ammettendo e contemporaneamente confutando il principio (la trappola) dei costi comparati: dati questi costi la mutua convenienza di commerciare sul mercato internazionale segue logicamente! La mutua convenienza di scambiare sulla base del principio dei vantaggi comparati infatti può e deve essere indipendente dalla performance economica domestica dei vari paesi.

La performance economica interna di ogni paese è infatti una questione che concerne la teoria delle economie chiuse, i costi comparati essendo un principio che in se stesso e con il suo corollario di mutua convenienza per i partner del commercio internazionale è solo capace di aumentare il «godimento» (Ricardo) di un dato potere di acquisto per ciascuna delle nazioni che partecipano agli scambi internazionali. Come abbiamo già scritto questo è la conseguenza della natura statica della teoria del commercio internazionale. 32

Ora sono chiari i motivi dell’assoluta necessità (per motivi scientifici) di una teoria dinamica del commercio internazionale con la quale si possano individuare le radici del

sottosviluppo a livello internazionale. Rimanendo dell’ambito dei costi comparati discutere sulla nascita, l’innescarsi del sottosviluppo nel contesto internazionale vuol dire cadere nella trappola analitica che non permette di spiegare il meccanismo «dell’arretratezza economica» attraverso il mercato mondiale. Se si ammette il principio dei costi comparati allora la via per la definizione della base di tale «ritardo» nell’ambito del mercato internazionale si sbarra. Questo è il caso

della debolezza degli avversari, eretici e sprovvisti di adeguata teoria, del formidabile e risuscitato dogma del /azssez-faire nella dimensione internazionale ed ora «globale».

35

9. La debolezza teorica dei tentativi eretici

di superare la teoria standard del commercio

internazionale

Il crescente abisso tra le sostanzialmente immobili fondazioni teoriche ricardiane del commercio internazionale,

con la loro appendice e «sintesi» neoclassica del contributo «H-O» da un lato, e la realtà dell’ineguale profilo dinamico dei paesi nello scenario internazionale dall’altro, è una delle principali cause del crescente numero di tentativi di interpretare questo gap da parte di una letteratura ereticamente ispirata. Ma come abbiamo già anticipato

questi tentativi che partono dalla realtà non trovano conferma in teoria in termini di un solido apparato scientifico comparabile allo «stato dell’arte» ufficiale. Nella letteratura eretica è possibile individuare alcune correnti classificandole secondo criteri che ispirano la loro natura eterodossa. Comunque, bisogna sottolineare che certe volte alcuni principi sono comuni, e si intersecano tra le varie posizioni. Esamineremo gli aspetti più significativi di queste posizioni eretiche stilizzate, mostrandone i punti deboli dal punto di vista teorico.

9.1. Lo «scambio ineguale» Ripetendo che il nostro modo di classificare le scuole di pensiero dipende dalla relativa rilevanza dei loro argo34

menti contro il 772421strea77, è il caso di iniziare con la cor-

rente che potremo definire come la scuola dello «scambio ineguale», per l'ampiezza del dibattito che ha generato e l’attenzione prestatagli dalla professione e dall’accademia.

9.1.1. Lo «scambio ineguale» ex definitione Iniziamo la nostra esposizione dalla tesi di Samir Amin secondo la quale nel quadro ricardiano dei costi comparati ci sarebbe una base dalla quale deriva l’ineguaglianza degli scambi: ex definitione!. La posizione di Amin è un chiaro esempio della trappola rappresentata dal dogma dei costi comparati: i tentativi (incorretti) di Amin consistono nel tentativo di liberarsi da questa trappola dopo esservi caduti. Amin comincia riproponendo il quadro ricardiano nel modo seguente Inghilterra

Portogallo

Vantaggio relativo della Inghilterra sul Portogallo 1,50 ili

Vestiario

80 ore

120 ore

Grano

90 ore

100 ore

Dove il tempo di lavoro si riferisce, in tutte e due i paesi, ad una unità dei due beni. Amin imposta il tutto correttamente sullo sfondo della reciproca convenienza dei costi comparati, dopo di che tenta di uscire da questo quadro. Supponendo 1.000 ore lavorative disponibili in Portogallo egli cosî suddivide la manodopera: 500 ore necessarie per il grano solo per usi domestici (5 unità) ed il resto per ottenere 5 unità di vestiario dall’Inghilterra. Dedicando 500 ore alla produzione di vestiario prima dello scambio il Portogallo avrebbe ottenuto soltanto 4,2 35

unità di vestiario (500/120) perciò dopo lo scambio esso guadagna 0,8 unità di vestiario. Ma agendo in questo modo il Portogallo scambia, secondo Samir Amin, le sue 500 ore contro 400 ore di lavoro dell’Inghilterra. Queste 100 ore rappresenterebbero ex definitione lo «scambio ineguale» tra il paese più concorrenziale e quello meno concorrenziale. Amin non adotta apertamente le parole ex defiritione ma questa espressione vige 27 re ipsa nel suo ragionamen-

to, che egli finisce con questa affermazione: «l’ineguaglianza degli scambi riflette la bassa produttività della manodopera in Portogallo». Ma la minor produttività del Portogallo rispetto all'Inghilterra è data ex bypotbesis e perciò questa non può considerarsi una dimostrazione! Effettivamente Amin declina solo una mezza verità del teorema dei costi comparati. Egli ferma il teorema solo sulla parte della convenienza per l'Inghilterra a scambiare, e tra l’altro lo fa nel senso completamente sbagliato. Infatti la convenienza per l’Inghilterra di cui siamo parlando risiede più correttamente nel risparmiare 10 ore lavorative che prima dello scambio aveva usato per ottenere 1 unità di grano (80/90). Questo per quanto riguarda la convenienza inglese. Invece la convenienza allo scambio per il Portogallo vuol dire risparmiare 20 ore di lavoro commerciando con il suo partner: infatti prima dello scambio il Portogallo spendeva 120 ore di lavoro per ottenere 1 unità di vestiario (120/100). Veramente il Portogallo risparmia più dell'Inghilterra: in quanto il primo risparmia il 20% del tempo lavorativo per ciascuna unità di vestiario e la seconda invece risparmia 11,11% per ciascuna unità di grano ot-

tenuto. Il nucleo dell’errore della procedura di Amin sta nello stabilire il corretto quadro di riferimento del teorema dei costi comparati senza però la sua completa applicazione, 36

in quanto la convenienza dei paesi scambisti è stata dimostrata consistere soltanto nel rapporto di 80 ore lavorative inglesi contenute in una unità di grano della produzione portoghese. Peraltro, le diverse ore di lavoro si riferiscono a diverse produttività di ciascun paese per due diversi prodotti. In questo modo Amin doppiamente commette un classico errore, mettendo in relazione solo una, sbagliata, coppia di merci eterogenee, tradendo due volte la logica del teorema di Ricardo nel quale comunque egli situa il suo scopo di dimostrare lo «scambio ineguale». Affermare la convenienza della specializzazione nella produzione del grano e nella produzione di vestiario rispettivamente in Portogallo ed in Inghilterra e derivare lo «scambio ineguale» da questa specializzazione tra due paesi rappresenta un evidente qui pro quo. Questa procedura equivale ad affermare contemporaneamente la convenienza e la non convenienza della divisione internazionale del lavoro. Una volta per sempre stabilito che il criterio dei costi comparati riguarda la reciproca convenienza dei paesi scambisti soltanto in termini della quantità dei beni disponibili, fermo restando il livello della performance del reddito interno in ciascun paese, allora lo «scambio ineguale» è impossibile da dimostrare. Ed è anche vero che uno dei due paesi ottiene maggior vantaggio («godimento») rispetto all’altro paese ogni volta che i ferrzs of trade internazionali si avvicinano ai costi

comparati domestici del partner, piuttosto che ai costi comparati interni del primo. Ma anche in questo caso si può speculare ipotizzando la possibilità di utilizzare questo relativo vantaggio più produttivamente da parte del paese con la performance più efficiente. È necessario supporre però che prima dello scambio internazionale vi sia una gerarchia economica tra 5%)

i due paesi. Come abbiamo visto sopra questa supposizione è metodologicamente scorretta se l’identità sul piano economico (è la James E. Meade) ? dei paesi scambisti deve essere ipotizzata. E se questo è vero dobbiamo supporre che sia sul lato della domanda sia su quello dell’offerta, non esista alcuna asimmetria o grado di monopolio tra paesi che determinino i ferrzs of trade internazionali di equilibrio, cosî che i vantaggi degli scambi internazionali sarebbero equamente distribuiti. Questo è specialmente il caso in termini dell’elasticità di domanda e offerta (concorrenza perfetta) rispetto ai prezzi.

A parte l’esigenza metodologicamente motivata dell’identità tra i due paesi che commerciano, ci sono altre considerazioni circa l’effetto di polarizzazione che Amin deriva dalla possibilità che uno dei due paesi possa beneficiare relativamente di più del paese partner in termini di ferrzs of trade internazionali a causa del suo essere più vicino ai terms of trade interni del primo. — Prima di tutto il beneficio è rappresentato dalla quantità materiale di un bene; la sua utilizzazione come ca-

pitale implica la sua sottrazione alla sfera del consumo. Ma questo è possibile solo ove si rimuova l’ipotesi della perfetta concorrenza (nel caso, il trasferimento della rendita del consumatore alla rendita del monopolista). — In secondo luogo, ammettendo la sottrazione di cui sopra, i beni devono necessariamente agire come capitale per combinarsi con lavoratori «liberi», ma ciò contraddice l’ipotesi del pieno impiego in entrambi i paesi. — L'ultima osservazione richiama il vincolo che il quadro analitico ricardiano è puramente statico-stazionario, e

che entro questo quadro ogni miglioramento dei ferzzs of trade internazionali — con il risultante beneficio in termini di beni — debba essere tradotto solo in termini di aumento di potere di acquisto. Quando la tecnolo38

gia è data, come avviene in presenza di libera e perfetta concorrenza come nella logica di baratto, allora siamo in un «flusso circolare» nel senso di Schumpeter (Kreislauf) dove non si ha profitto e possibilità di accumulare capitale. In altre parole se la logica del processo di produzione è orientata al consumo l’accumulazione di capitale deve essere esclusa. Dunque credere di rendere il quadro ricardiano dei costi comparati dinamico affermando che se anche il Portogallo (nell'esempio precedente) raggiungesse la stessa efficienza dell’Inghilterra nel campo della produzione di grano esso rimarrebbe indietro in quanto l’agricoltura è meno innovativa dell’industria tessile, non ha fondamento,

almeno per le considerazioni che seguono. Soprattutto, comparare traiettorie tecnologiche diverse lungo il tempo tra due paesi — mantenendo costanti tutti gli altri dati — dà vita ad un’analisi statico-comparativa e non dinamica. Oltre tutto, come risaputo, poiché la concorrenza perfetta domina il mercato internazionale, allora sarà il paese meno innovativo che guadagnerà relativamente di più del suo partner in quanto quest’ultimo è più innovativo nel tempo del primo. Cosî, se lo «scambio ineguale» fosse ammissibile come concetto nel senso statico-comparativo datogli da Amin, allora esso opererebbe in direzione opposta a quella pensata da Amin. In più, ma non è meno importante, c’è la questione del rendere dinamico un quadro statico, che è tuttora irrisolta nella teoria economica. Infine, se è ammissibile (ma questo non è il caso) che il paese che registra un miglioramento costante della propria tecnologia in rapporto al suo partner meno innovati-

vo realizzi livelli incrementali di Krezs/auf, aprendo un sentiero ineguale di sviluppo in confronto all’altro paese, questo non rappresenterebbe un effetto dello «scambio ineguale» in termini di scambio internazionale. Infatti ciò im39

plicherebbe due fenomeni dissociati di sviluppo, ove il commercio per ogni episodio di scambio tra i due contraenti è conveniente per entrambi, entro un quadro costante di costi comparati: la migliore performance tecnologica di ciascun partner rimarrebbe entro i confini storico-economici del paese stesso. Ne consegue che non vi è luogo concettuale ove si trovi la spiegazione del sottosviluppo di un partner, con sviluppo dell’altro, per mezzo del commercio internazionale.

9.1.2. Lo «scambio ineguale» ed il superamento della teoria dei costi comparati Il più famoso teorico dello «scambio ineguale» è A. Emmanuel, il cui The Unequal Exchange ha sollevato un ampio dibattito internazionale*. Ci concentreremo solo sugli aspetti principali di questo lavoro, che è teoricamente molto ricco e complesso. Il punto di partenza del disegno teorico di Emmanuel consiste nel rigetto della teoria dei costi comparati. Tale rigetto è basato sull’incapacità della teoria del commercio internazionale, della quale i costi comparati rappresentano la inevitabile base, di spiegare lo sviluppo ineguale su scala mondiale ed il fenomeno del sottosviluppo. Il trend dei terms of trade internazionali tra i paesi sviluppati e quelli sottosviluppati infatti confuterebbe facilmente quello che il teorema dei costi comparati predice su questo tema. A sua volta il deterioramento dei terzzs of trade internazionali, rappresentando il punto di realizzazione dello «scambio ineguale», porterebbe in evidenza la causa più importante della sindrome del sottosviluppo. Il contributo di Emmanuel è anche orientato verso la necessità di dare conto della realtà come criterio di coerenza scientifica. In questa luce il primo aspetto dell’approccio «R-H-O» che si dovrebbe eliminare secondo Em40

manuel riguarda l’assoluta irrealtà dell'ipotesi che si riferisce alla mancanza di mobilità dei fattori di produzione, lavoro e capitale. Scartando: a) la mobilità di questi fattori, perché questo quadro non differenzierebbe il commercio internazionale dal criterio di specializzazione interno, di conseguenza mostrando l’irrilevanza della teoria del commercio internazionale; b) il caso dell’immobilità del capitale e della mobilità del lavoro perché questa porterebbe allo stesso quadro della teoria tradizionale degli scambi internazionali (ove il tasso di profitto è ineguale); c) il caso dell’immobilità di entrambi, per le stesse ragioni di prima; rimane solo la possibilità di considerare l’immobilità del lavoro e la mobilità del capitale. Quest'ultima possibilità implica lo stesso tasso di profitto tra i partner commerciali, e quindi può e deve implicare tassi differenti di salario nei paesi coinvolti?. Questa differenza, in termini di tasso del salario, sareb-

be non solo più realistica insieme a quella della mobilità del capitale, ma troverebbe la sua base in Marx, che ammette in opposizione a Ricardo che il livello di riproduzione della forza-lavoro deve essere compreso nel suo significato storico e non semplicemente biologico. Emmanuel sceglie evidentemente quest’ultimo caso, per attaccare la teoria dei costi comparati con i seguenti argomenti’. Supponiamo che il Portogallo e l'Inghilterra producano entrambi 1 unità di vino ed 1 unità di tela rispettivamente con i prezzi di 80 e 90 per il primo e 100 e 120 per la seconda. Supponiamo ancora che per produrre tela si richieda 4 volte più capitale di quello richiesto per produrre vino in entrambi i paesi. Non tenendo in conto, secondo Emmanuel, il consumo del capitale costante (ma vedremo che non è il caso), ed applicando (solo formalmente, ma in sostanza in maniera sraffiana) la trasforma-

zione dei «valori» (ma non i valori-lavoro) in prezzi (come 4l

unità di misura si usa il tempo, misurato in ore di lavoro)”, otterremo la tabella 18. Tabella 1. Salario uguale, tasso del plusvalore 100% Portogallo

Inghilterra

k

v

Ri

Velo

p

L: 80

Vino

100

63

6IMMI26

177

17

Vestiario

400

29)

29)

17

68

90

500

85

SORIZO

%

85.

170

100. 400 200%

98 12 “B1O=

Vino Vestiario

44

SI 22 2220) I 267 247022 88° 100 “L10220 ALI RE220

k = capitale totale investito; v = capitale variabile; 72 = plusvalore; V= v+7 = valore; T= Yy7/Xk (%) = tasso del profitto; p = Tk = profitto; L = v+p = prezzo di produzione.

Dalla tabella 1 risulta chiaro che il Portogallo si specializzerà nella produzione di vino e l'Inghilterra in quella della tela (80/90 < 120/100). Se infatti prima della specializzazione abbiamo, in termini di ore di lavoro:

Portogallo Inghilterra

Vino

Vestiario

Totale

126 196

44 24

170 220 390

cosî che per 1000 k Portogallo ed Inghilterra insieme spendono 390 ore di lavoro vivo. Dopo la specializzazione abbiamo:

Portogallo Inghilterra

Vino

Vestiario

Totale

2x126 /

Hi 2x24

252 48 300

42

Ed insieme Portogallo e Inghilterra guadagnerebbero 90 ore di lavoro, secondo Emmanuel. Ma questo risultato non è corretto: non rispetta una

delle ipotesi del teorema dei costi comparati. E questo è vero per il resto del ragionamento di Emmanuel, come vedremo. Tornando allo scenario precedente, senza specia-

lizzazione ed assumendo un aumento dei salari in Portogallo di 1/3, Emmanuel ottiene lo scenario di tabella 2,

nella quale il significato dei simboli è uguale a quello di tabella 1. Tabella 2. Salari ineguali, tasso del plusvalore: 50% e 100% rispettivamente in Portogallo e in Inghilterra k Portogallo

Inghilterra

Vino

100

Vestiario 400

v

n

Mi

F%

84

42

12

65

29/5

142/544

500001133366

1/0

Vino

100

98

98

Vestiario

400

12

12

500

110

110

111/3

p

451/,

È

74%

/

562/3170

196

‘22

2288120

24

22

88

100

DA)

sl

110

220

Rispetto alla tabella 1 la tabella 2 stabilisce l’inversione della precedente specializzazione. Siccome 74/3 e 951/3 < 100/120, il Portogallo si specializza nella produzione di vestiario e l'Inghilterra in quella del vino. Ma come sappiamo prima della specializzazione i due paesi hanno speso 390 ore di lavoro e dopo la specializzazione risulterà la seguente situazione:

Portogallo Inghilterra

Vino

Vestiario

% 2x196

2x44 si

Totale

88 5,92 480

43

Con 1000 È a livello globale Portogallo-Inghilterra spenderebbero 480 ore di lavoro vivo invece delle 390 spese prima della specializzazione, con la perdita di 90 ore di lavoro vivo. Quest'ultimo «esercizio» dimostrerebbe che al teore-

ma dei costi comparati manca la generalità, cioè l’applicabilità. Infatti, secondo Emmanuel, esso sarebbe applicabile solo ad un caso speciale o particolare: quando abbiamo la stessa composizione organica del capitale (intensità del capitale) nella produzione di ciascun bene in entrambi i paesi che scambiano. Soltanto il caso dell’aumento di salario ha effetti neutrali sul vettore dei prezzi relativi, mantenendo la stessa proporzione nel cambiamento dei prezzi assoluti. Ma abbiamo già anticipato che tutti due i risultati riguardanti le tabelle 1 e 2 nel contesto del commercio internazionale sono sbagliati, particolarmente nell’ultimo caso. Lo sbaglio riguarda il mancato rispetto del vincolo del pieno impiego dentro l’ipotesi del teorema dei costi comparati.

Dove i costi comparati sono applicabili (tabella 1) avremo guadagnato 90 ore del lavoro vivo, ed è evidente che questo porterebbe alla disoccupazione in Inghilterra e sopra il limite del pieno impiego in Portogallo. Infatti il pieno impiego in Portogallo corrisponde a 170 ore del lavoro vivo e a 220 in Inghilterra. Nel primo caso avremmo 82 ore in più del tempo di lavoro disponibile (252-170), ed in Inghilterra avremmo una perdita di occupazione corrispondente a 174 ore di lavoro vivo (220— 48). Questo significa che Emmanuel non si rende conto di stare trattando un caso nel quale la teoria dei costi comparati stabilisce la parziale specializzazione di entrambi i paesi, invece di stabilire che il criterio dei costi comparati non è generalmente valido. 44

A causa della sua rilevanza teorica è bene rimanere per un poco su quest’ultimo caso trascurando il precedente. Dopo l'aumento dei salari in Portogallo i terms of trade internazionali saranno compresi tra 0,78 (742/ 9514) e 0,83 (100/120) — questo intervallo è in pratica molto piccolo — ed è chiaro che il Portogallo è relativamente più produttivo nella fabbricazione di tela dell'Inghilterra — e questo è complessivamente vero, viceversa, per la produzione del vino — come è anche chiaro che la piena specializzazione è impossibile. Per offrire almeno 2 unità di tela e 2 unità di vino l'Inghilterra, da parte sua, non può produrre più di 1,12 unità di vino. Per dividere i limiti alla convenienza della divisione del lavoro tra i due paesi sarebbe necessario che il Portogallo producesse 1.75 unità di tela spendendo 77 ore di lavoro vivo e 0,73 unità di vino con le rimanenti 93 ore di lavoro

(93/126/=0573): Invece l'Inghilterra produrrebbe 0,25 unità di tela spendendo 6 ore di lavoro vivo e producendo 1,33 unità di vino con le rimanenti 214 unità di lavoro. Cosî globalmente avremmo Vestiario

Vino

Portogallo

1,75

Inghilterra

0,25

0,73 133

Totale

2,00

2,06

I vantaggi derivanti dalla parziale divisione del lavoro tra Portogallo e Inghilterra è solo di 0,6 unità di vino. Scambiando 0,595 di vino contro 0,75 unità di tela secondo i terms of trade internazionali 0,595/0,75=0,79

(0,78