Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù. Una monografia 8810407946, 9788810407943

I circa 900 manoscritti originali trovati nelle grotte di Qumran, nei pressi del mar Morto, tra il 1947 e il 1956 hanno

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Italian Pages 420 [417] Year 1997

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Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù. Una monografia
 8810407946, 9788810407943

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Nell'angolo di nord-ovest del Mar Morto, a 12 km a sud di Gerico e a 32 km a nord del­ l'oasi di Ein Gedi si incontrano, completa­ mente isolate, delle rovine che i beduini chiamano da sempre Khirbet Qumran. l cir­ ca 900 manoscritti originali trovati nelle grot­ te di Qumran fra il1947 e il1956 hanno pro­ fondamente mutato il quadro dell'antico giu­ daismo finora delineato dagli studiosi. Che cosa si nasconde veramente dietro il mistero di Qumran? Partendo dalle più re­ centi acquisizioni scientifiche e alla luce di tutti i testi di Qumran- anche quelli non an­ cora pubblicati - Hartmut Stegemann pre­ senta, in un modo a tutti comprensibile e estremamente awincente, i fatti e situa chia­ ramente i testi sul terreno della realtà stori­ ca. Qual era lo scopo effettivo dell'insedia­ mento di Qumran? Come vi si è svolta effetti­ vamente la vita di tutti i giorni? Che cosa speravano gli esseni? Come era organizzata quest'élite giudaica di studiosi della legge? In che cosa consisteva il loro sapere segre­ to? Che cosa erano i loro riti? Giovanni Batti­ sta era in origine un esseno? E perché ha battezzato nel fiume Giordano e non nei ba­ gni rituali degli esseni? Perché per gli esseni Gesù venne troppo presto? In che cosa con­ siste la specificità della sua venuta e del suo insediamento? Il battesimo e la cena sono stati praticati già a Qumran, quindi molto pri­ ma che esistessero i cristiani? Grazie ai documenti ritrovati a Qumran, ora per la prima volta è possibile rispondere in modo fondato a simili domande.

HARTMUT STEGEMANN, nato nel 1933, dottore in teologia per l'Antico Testamento, dottore in filo­ sofia per la semitistica e la storia della religio­ ne, con abilitazione per il Nuovo Testamento, è ordinario di Scienze del Nuovo Testamento alla Facoltà teologica dell'Università Georg-August di Gòttingen, direttore dell'Istituto per il Giudai­ smo antico e direttore del locale Centro di ri­ cerca sui documenti di Qumran. Dal 1954 Ste­ gemann è direttamente impegnato nella ricer­ ca sui documenti di Qumran e da trent'anni fa parte della ristretta cerchia di ricercatori che hanno avuto un permanente libero accesso a tutti i manoscritti originali di Qumran raccolti a Gerusalemme. È autore di oltre quaranta pub­ blicazioni scientifiche su Gesù e su Qumran.

COLLANA DI STUDI RELIGIOSI

Barr J., Semantica del linguaggio biblico Barth K., Dogmatica ecclesiale Beatrice P.F. (a cura di), L'Intolleranza cristiana nei confronti dei pagani Bulgàkov S.N., Il Paraclito Bulg�kov S.N., La sposa dell'Agnello Butler C., Il mlstlcismo occidentale Cochrane C.N., Cristianesimo e cultura classica Cullmann O . . Crlsto e il tempo Cullmann 0., Cristologia del Nuovo Testamento Cullmann 0., Il mistero della Redenzione nella storia Daniélou J., Messaggio evangelico e cultura ellenistica Daniélou J., Le origini del cristianesimo latino Daniélou J., La teologia del giudeo-cristianesimo Ellis J., La Chiesa ortodossa russa Ende W. - Steinbach U. (a cura di), L'islam oggi Evdokimov P., L'Ortodossia Evdokimov P., Le età della vita spirituale Kelly J.N.D., Il pensiero cristiano delle origini Knox R.A., Illuminati e carismatici Kraus H.-J., L'Antico Testamento nella ricerca storico-critica dalla Riforma ad oggi KOmmel W.G., Il Nuovo Testamento. Storia del­ l'indagine scientifica sul problema. neotesta­ mentarlo Lossky V., La teologia mistica della Chiesa d'Oriente. La visione di Dio Maier J., La Cabbala. Introduzione, Testi classi­ ci, Spiegazione Neusner J., Il giudaismo nella testimonianza della Mishnah Newman J.H., Lo sviluppo della dottrina cristiana Nygren A., Eros e agape Paul A., Il giudaismo antico e la Bibbia Pieraccini P., Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose nella politica internazionale Prestige G.L., Dio nel pensiero del Padri Rahner H., Miti greci nell'interpretazione cri­ stiana Rouse R. - Neill S.C. - Fey H.E., Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1968 (4 voli.) Schlier H., Il tempo della Chiesa Schnackenburg R., Signoria e Regno di Dio Scholem G.G., Le origini della Kabbalà Smalley B., Lo studio della Bibbia nel Medioevo Spiteris Y., La teologia ortodossa neo-greca Stegemann H., Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù Stemberger G., Il Midrash. Uso rabbinico della Bibbia. Introduzione, testi, commenti Stemberger G., Il Talmud. Introduzione, testi, commenti Wach J., Sociologia della religione Widengren G., Fenomenologia della religione .

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Collana di studi religiosi diretta da: Franco Bolgiani, Nynfa Bosco, Gian Enrico Rusconi

Hartmut Stegemann

Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù Una monografia



EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA

Titolo originale: Die Essener, Qumran, Johannes der Tiiufer und Jesus. Ein Sachbuch.

Traduzione dal tedesco: Romeo Fabbri

Revisione: Roberto Mela Prima edizione: ottobre 1996 Ristampa: settembre 1997

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1993 Verlag Herder, Freiburg im Breisgau

> da Dio stesso, per cui l'interpretazione della figliolanza divina e della nascita verginale di Gesù proposta dalla chiesa altro non sarebbe che la ripresa di vecchi stereotipi al servizio di prevedibili interessi? Giovanni Battista era in origine un es­ seno? Il battesimo e la cena sono stati praticati già a Qumran, molto prima che esistessero i cristiani? Gli esseni che allora vivevano a Qumran erano per così dire dei «cristiani prima di Gesù»? Ma nell'arco di un decennio tutta quella grande eccita­ zione si esaurì. Praticamente tutti i testi di Qumran che pote­ vano rispondere a quelle domande erano già allora di pubblico dominio, assieme a molti altri frammenti scoperti nelle diverse grotte, soprattutto quelli in grado di offrire un contributo per il chiarimento di temi in discussione. Tutte le analisi serie del materiale disponibile giungevano allora all'unanime conclu­ sione che Gesù e il cristianesimo primitivo erano profonda­ mente diversi dalle formazioni del giudaismo antico che si po­ tevano ricavare dai testi recentemente scoperti.

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Ma dopo la fase iniziale della ricerca su Qumran non si re­ stò nella situazione di salutare disincanto riguardo ad attese certamente esagerate, ma si cominciò a ritenere le scoperte di Qumran una faccenda tutto sommato priva di interesse. Basta gettare uno sguardo sulla letteratura specialistica degli ultimi trent'anni per rendersene conto. Quando gli autori fanno rife­ rimento alle fonti dell'antico giudaismo continuano a citare es­ senzialmente, come prima, le tarde opere rabbiniche. Nel mi­ gliore dei casi, nell'indice delle materie della maggior parte dei libri scientifici scritti da studiosi dell'Antico e del Nuovo Te­ stamento si trovano un paio di semplici riferimenti ai docu­ menti di Qumran, sparsi qua e là nel testo. Si aveva quasi l'im­ pressione che il copioso ritrovamento dei rotoli del Mar Morto non fosse mai avvenuto. Si lasciava tranquillamente la loro analisi a pochi specialisti e le esaustive edizioni dei testi da essi prodotte dormivano nelle biblioteche scientifiche il sonno della Bella addormentata nel bosco. Esattamente come l'opi­ nione pubblica anche il mondo degli studiosi non mostrava più alcun interesse alla cosa.

IL VOLUME «Verschluj3sache Jesus» Questa situazione mutò di colpo nell'estate del 1991 . In quell'anno apparve in libreria in Germania la traduzione di un'opera scritta da Michael Baigent e Richard Leigh con il ti­ tolo Verschluflsache Jesus. Die Qumranrollen und die Wahr­ heit iiber das friihe Christentum. 1 Per oltre due anni Der Spie­ gel riportò il volume nella lista settimanale dei best seller ( se­ zione saggi ) e quasi per un anno - a partire dal dicembre del 1991 - nei primi posti della lista. In quei due anni se ne ven-

1 M. BAIGENT-R. LEIGH, The Dead Sea Scrolls Deception, London 1991; tr. ted. VerschlujJsache Jesus. Die Qumranrollen und die Wahrheit iiber das friihe Christentum, Miinchen 1991; tr. fr. La Bible confisquée. Enqflete sur le détournement des manuscrits de la Mer Morte, Paris 1991. La traduzione dei passi citati è condotta sull'edizione tedesca, cui si riferiscono anche i numeri di pagina indicati fra parentesi.

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dettero oltre 300.000 copie. I grandi mezzi di informazione vi a pesce. Ovunque si organizzavano conferenze let­ teralmente prese d'assalto dalla gente che voleva sapere che cosa si dovesse pensare delle affermazioni di quel best seller. Il titolo originale inglese era più semplicemente The Dead Sea Scrolls Deception. All'estero l'accoglienza riservata al vo­ lume è stata molto più modesta. Il sensazionale successo di vendite registrato in Germania è dovuto senz'altro anche al fatto di aver tradotto il deception (inganno) del titolo con Ver­ schlufJsache e di aver sostituito quel Dead Sea Scrolls (rotoli del Mar Morto), che non interessa praticamente a nessuno, con il nome molto più accattivante di Gesù, anche se il conte ... nuto del volume non ha praticamente nulla a che vedere con Gesù. Il titolo originale inglese era molto più pertinente. Ma la sensazionale influenza esercitata dal volume in Ger­ mania è dovuta soprattutto a tre affermazioni, certamente false, ma che riunite insieme permettono di comprendere il successo di vendite del volume al di là del suo titolo pur molto accattivante. Anzitutto, i due autori affermano che finora [1991) è stato pubblicato «meno del 25% di tutto il materiale» ritrovato a Qumran (p. 62). A più di quarant'anni dalla scoperta di questi manoscritti la cosa è molto sorprendente e richiede urgente­ mente una spiegazione. In secondo luogo, essi ritengono di aver scoperto che que­ sto sorprendente ritardo nel processo di pubblicazione dei te­ sti è da addebitare a macchinazioni del Vaticano, il quale ha fatto di tutto fin dall'inizio perché non venissero possibilmente mai divulgati questi testi pericolosi per la dottrina cristiana della fede. Chiunque critichi con tanta veemenza il Vaticano può sempre contare su un particolare interessamento alle sue critiche da parte dell'opinione pubblica. In terzo luogo, i due autori ritengono di essere riusciti ad­ dirittura a fiutare dove si trova la vera forza dirompente dei te­ sti di Qumran tenuti ancora gelosamente nascosti. Già nel 1983 lo studioso americano Robert Eisenman aveva infatti af­ fermato che il materiale trovato a Qumran dimostrava chiara­ mente che i primi cristiani della Palestina - soprattutto la cosi tuffarono

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munità primitiva di Gerusalemme - si erano opposti con una lotta sotterranea armata, assieme ad altri gruppi giudaici del tempo, alle forze di occupazione romane. Anche Gesù non era stato affatto il salvatore pacifico descritto dal Nuovo Testa­ mento, ma un ribelle direttamente impegnato negli scontri po­ litici del suo tempo. Tutto questo dimostrano ormai i testi di Qumran secondo la presentazione che ne viene fatta - grazie a Robert Eisen­ man - in Verschluj3sache Jesus. Per questo il Vaticano tiene sotto chiave quanti più testi possibile ed è questa la ragione per cui finora ne è stata pubblicata solo una minima parte, na­ turalmente quella relativamente più innocua. Qui si suggerisce in modo del tutto infondato che la divulgazione di ogni ulte­ riore frammento debba produrre necessariamente l'effetto di un fiammifero acceso gettato nella polveriera della dottrina della fede propugnata dalla chiesa. I best seller Michael Baigent e Richard Leigh avevano fatto insieme il loro primo importante scoop già nel 1982 con un libro tradotto in Germania nel 1984 con il titolo Der Heilige Gral und seine Erben. Ursprung und Gegenwart eines gehei­ men Ordens. Sein Wissen und seine Macht. Nel volume veni­

vano svelati soprattutto dei grandi segreti, cioè che Gesù era sposato con Maria Maddalena, che da quell'unione era nata una figlia, che Gesù era sopravvissuto alla crocifissione senza riportame danni permanenti, ma che dopo quella brutta espe­ rienza aveva prudentemente portato al sicuro la propria fami­ gliola nel sud della Francia. Così si giunse lì alla Tavola ro­ tonda di re Artù e alla Luce del Graal. Ognuno può giudicare a piacimento di un'opera così discu­ tibile. In ogni caso si è venduta molto bene, visto che nel 1990 è apparsa in Germania la terza edizione. Il mercato librario ba potuto sopportare persino un volume dedicato alla continua­ zione della storia,2 pubblicato nel 1986 e in Germania nel 1987 con il titolo Das Vermiichtnis des Messias. Auftrag und gehei­ mes Wirken der Bruderschaft von Heiligen Gral. Qui si esplo2

M. BAIGENT-R. LEIGH-H. LINCOLN, The messianic lagacy, London 1986.

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rano gli influssi successivi del matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, fino alla cerchia di oppositori di Kreisau nel Terzo Reich, la mafia e il Vaticano in Italia, le alleanze nobiliari e l'a­ zione di Charles de Gaulle in Francia. Dopo tali lusinghieri successi in campo editoriale i due au­ tori cercavano un nuovo soggetto nel rodato e certamente lu­ croso ambiente di Gesù. Nel corso della ricerca si sono imbat­ tuti in un volume pubblicato nel 1983 da Robert Eisenman, professore di Orientalistica a Long Beach, Califomia. 3 Nel vo­ lume si presenta l'insediamento di Qumran come una fonda­ zione di tipo monastico a opera di settori del sacerdozio gero­ solimitano del tempo di Gesù. L'elemento più importante di quella fondazione era un'imponente biblioteca. La scoperta del volume di Robert Eisenman fece scattare il nuovo progetto editoriale dei due autori. Il best seller più fa­ moso del momento era infatti Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato nel 1980.4 Tutti sanno che cosa è riuscito a fare il suo autore sfruttando il motivo di una biblioteca monastica medievale avvolta nel mistero. Si trattava di emulare quel mo­ dello nella speranza di un identico successo. I due autori si sono lanciati in una ricerca che è durata degli anni. La loro sfortuna sta nel fatto che avevano a che fare con una biblioteca reale, per cui tutti gli errori che si sono permessi sono facil­ mente individuabili, mentre la biblioteca monastica di Um­ berto Eco - nonostante tutti gli elementi realistici del quadro di insieme - resta in definitiva una realtà fittizia suscettibile di essere presentata dall'autore in modo romanzato, a piaci­ mento. I due passi in cui si accenna al best seller di Umberto Eco mostrano quanto profondamente il suo esempio abbia influen­ zato la concezione fondamentale del Verschluflsache Jesus. Se­ condo la concezione degli autori del Verschluflsache Jesus, il monastero ideale con la sua biblioteca rappresenta «il mono-

3 R. ErsENMAN, Maccabees, Zadokites, Christians and Qumran. A New Hypothesis of Qumran Origins, Leiden 1983. 4 U. Eco, Il nome della rosa, Milano 1980.

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polio della chiesa medievale nel campo dello studio e costitui­ sce di conseguenza una specie di enclave, un cerchio esclusivo di conoscenze scientifiche dal quale tutti sono esclusi, tranne pochi eletti. Sono questi pochi eletti a fissare !"'ideologia del partito"» (p. 19). Con riferimento al complesso di Qumran, questa enclave ecclesiastica medievale di tipo monastico si tra­ sforma in un gruppo editoriale esclusivo del XX secolo, con sede nel Convento domenicano di Gerusalemme e con la pro­ pria École Biblique, il quale impedisce agli estranei di gettare il benché minimo sguardo sui segreti rigidamente protetti dei rotoli di Qumran. Da filiale di quest'impenetrabile sede monastica funge in Verschluj3sache Jesus il Museo Rockefeller di Gerusalemme, dove erano stati portati inizialmente e venivano preparati per la pubblicazione i numerosi frammenti trovati nelle grotte di Qumran: «Anche la sala dei rotoli, dove lavoravano gli stu­ diosi, è avvolta da un'atmosfera monastica, cosicché ancora una volta si impone spontaneamente l'immagine dei monaci intenti allo studio descritta ne Il nome della rosa di Eco. Solo agli "esperti" è stato concesso l'accesso alla sala dei rotoli ed essi hanno potuto ben presto accumulare tanto potere e tanta considerazione da costringere i non addetti ai lavori a ritenere giustificato il loro atteggiamento» (pp. 55-56). Che cosa si intenda qui con «atteggiamento» viene chiarito infine con il rinvio a una conversazione avuta con uno studioso che non appartiene alla ristretta cerchia degli «esperti» di Qumran: «La scoperta di antichi scritti risveglia gli istinti più bassi di studiosi peraltro normali» (p. 56). Questi «bassi istinti dei monaci» sono, come è noto, anche il motivo principale del libro di Umberto Eco. Riferiti ai rapporti allora prevalenti nella sala dei rotoli del Museo Rockefeller {foto 18-26 in Ver­ schluj3sache Jesus) essi trasmettono comunque un'impressione più che penosa e illustrano più la mentalità dei due autori che non i rapporti che essi intendono descrivere. Degno di nota è il modo in cui Verschluj3sache Jesus usa il motivo della biblioteca di Umberto Eco. Si suggeriscono rap­ porti analoghi nel caso dell'antico insediamento di Qumran, con la sua biblioteca centrale, del Convento domenicano di

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Gerusalemme, pure provvisto di una ricca biblioteca e del Mu­ seo Rockefeller, sempre a Gerusalemme, la cui sala dei rotoli assume quasi la funzione di una biblioteca. Ovunque regna so­ vrana la stessa impenetrabilità, religiosamente custodita. Gli elementi di contorno, considerati comparabili, delle tre «bi­ blioteche monastiche» si interpretano per così dire a vicenda; ciò che può valere in un caso si rispecchia anche negli altri due. Tutto ciò è simile a quanto avviene in Ahasver di Stefan Heym con la sua corrispondenza di tre livelli temporali. In Verschluf3sache Jesus, Robert Eisenman nota il ruolo, vinco­ lante per tutti e tre i luoghi, di Lucifero, il diabolico soccorre­ vale portatore della luce. Con una simile presentazione delle cose un romanzo può riuscire a far affiorare diversi profondi sottintesi. Con un tale modo di procedere un saggio rende al contrario ben poca giustizia a ognuno dei tre diversi luoghi dell'azione e finisce per impedire pregiudizialmente a se stesso e ai propri lettori la visione delle differenze. Ma sulla scia di Il nome della rosa i lettori sono affascinati dal balenio delle coin­ cidenze e ritengono plausibile tutto ciò che concorda dal punto di vista della disposizione con il romanzo di Umberto Eco. Il rappresentato viene ritenuto moneta sonante. Interessante è, infine, il modo in cui si è gradualmente svi­ luppata nel corso delle ricerche preparatorie la concezione della presentazione di Verschluf3sache Jesus. Nello stadio ini­ ziale i due autori non erano pervenuti al motivo, così caratteri­ stico de Il nome della rosa di Eco, di una cerchia esclusiva, con una rigida osservanza del segreto, come possibile analogia con il gruppo di studiosi dei documenti di Qumran a Gerusa­ lemme. Anche nel volume di Robert Eisenman del 1983 manca ancora l'esperienza, fatta successivamente, dei suoi in­ fruttuosi tentativi di accedere ai manoscritti originali deposi­ tati a Gerusalemme. In un primo momento il motivo della cer­ chia esclusiva rimase estraneo ai due autori. Quell'elemento chiave, centrale nella loro opera, balenò nella loro mente solo quando vennero a conoscenza della campagna di stampa av­ viata negli Stati Uniti e ruotante attorno alla richiesta di ren­ dere accessibili i manoscritti di Qumran apparentemente te­ nuti sotto chiave (pp. 18-19; cf. pp. 102-105 e 119-122). Nel li-

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bro quale è stato pubblicato l'idea di una cerchia di persone che si è impegnata a mantenere il segreto - con il cardinal Ratzinger nel centro della tela di ragno - è diventata il leit­ motiv e al tempo stesso il filo di Arianna che permette di orientarsi nel labirinto delle scoperte di Qumran e delle loro conseguenze. Il nuovo libro della provetta coppia di autori di best seller, Michael Baigent e Richard Leigh, intende presentarsi con le carte in regola. Tutto viene descritto nello stile di una solida esposizione dei fatti, abbondantemente corredata da docu­ menti, prove, fotografie e indici delle materie. Questo risveglia la fiducia, anche se ben pochi lettori sono in grado di verificare che cosa in tutto questo corrisponda alla realtà e che cosa no, in particolare che cosa venga semplicemente attribuito o addi­ rittura taciuto. Quando un libro del genere viene presentato sui grandi mezzi di comunicazione sociale, ciò che cattura l'attenzione e influenza è anzitutto quello che si trova scritto sulla sovraco­ perta. Nella parte esterna si chiede: «Perché la maggior parte dei cosiddetti rotoli di Qumran non è stata finora pubblicata e non è accessibile neppure agli studiosi al di fuori di un certo gruppo?». Nella parte interna si promette che il Verschluj3sa­ che Jesus è in grado finalmente di svelare «per quali motivi viene tenuto nascosto all'opinione pubblica il 75% dei circa 800 manoscritti composti in ebraico antico e in aramaico». Alla base di queste formulazioni vi è l'affermazione degli au­ tori, evidenziata mediante il corsivo, secondo cui a quaran­ t'anni dall'inizio delle pubblicazioni è stato pubblicato solo «meno del 25% dell'intero materiale» proveniente da Qumran (p. 62). Ora già allora (1991) era vero esattamente il contrario. Di tutto il materiale rinvenuto perlomeno 1'80% era già disponi­ bile in pubblicazioni ufficiali. Ma come sono giunti i due autori a questa falsa informazione pubblicitaria che hanno posto a fondamento di tutti i sospetti nei confronti della Chiesa catto­ lica? Lo dicono loro stessi a p. 62 e lo dimostrano con la nota 17 di p. 189. Essi ritennero infatti di aver scoperto, nel corso delle loro ricerche, che per la pubblicazione di tutti i testi di

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Qumran erano stati previsti 24 volumi nella serie Discoveries in the Judaean Desert (of Jordan) [DJD (J)]. Ora nella serie

erano apparsi solo 8 volumi, due dei quali consacrati d'al­ tronde ai manoscritti trovati nel wadi Murabba'at e nel Nahal Hever. Vi erano quindi solo 6 volumi di documenti di Qumran sui 24 preventivati. Il che sarebbe comunque sempre un quarto. Ma uno di questi volumi DJDJ IV con il mano­ scritto dei salmi proveniente dalla grotta llQ - contiene un solo rotolo. Essi sono quindi giunti alla conclusione che fino ad allora era stato pubblicato «meno del 25% di tutto il materiale ritrovato» o, secondo il testo stampato nella sovracoperta del libro, era stato nascosto all'opinione pubblica il «75% dei circa 800 manoscritti composti in ebraico antico e aramaico». Ai due autori è semplicemente sfuggito, nel corso dei loro strani conteggi, che quasi tutti i manoscritti di Qumran di una certa ampiezza sono stati pubblicati al di fuori della serie DJD (J). Non è mai stato previsto di pubblicare in questa serie i ro­ toli in possesso degli israeliani e pubblicati già da molto tempo, ma solo i frammenti «giordani>» che si trovano nel Mu­ seo Rockefeller. E anche di questi molto è già stato da tempo pubblicato al di fuori di questa serie, in molte edizioni speciali di grande formato, in contributi per riviste scientifiche, in atti congressuali, in scritti ad honorem o in cataloghi di mostre, nell'insieme appunto perlomeno 1'80% del materiale prove­ niente da Qumran. Gli autori di Verschluj3sache Jesus non hanno tenuto conto di tutte queste altre edizioni - dal punto di vista quantitativo molto più di ciò che è comparso finora nelle Discoveries - sebbene diversi di questi rotoli «dimenti­ cati» siano presentati in dettaglio alle pp. 179-191 del loro vo­ lume. Nessuno dei grandi rotoli che lì vengono presentati en­ tra nel loro calcolo dell'«intero materiale» già pubblicato ! Come è possibile fare ricerche così miserabili quando si tratta di appurare un dato così importante come l'attuale stato di pubblicazione dei manoscritti di Qumran? Qualsiasi stu­ dioso avrebbe potuto dare con estrema facilità informazioni al riguardo. Ma certamente i due autori non hanno posto a nes­ suno una simile domanda. Naturalmente, se avessero cono­ sciuto il vero stato delle cose tutta la loro Verschluj3sache Jesus -

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si sarebbe risolta in una bolla di sapone. Il loro principale mo­ tivetto di successo sarebbe scoppiato loro fra le mani come un pallone troppo gonfiato. Ma il pubblico dei lettori è esposto senza alcuna possibilità di difesa a simili dilettanti. Come poter sapere che la verità è esattamente il contrario di ciò che lì si so­ stiene? Probabilmente i due autori non lo hanno saputo essi stessi, coscientemente non volevano ingannare nessuno, ma sono rimasti vittime della loro stessa incompetenza, che natu­ ralmente nulla può scusare. Resta comunque il fatto che que­ st'opera malfatta è oggettivamente un grossolano inganno. Che cosa ha a che fare con tutto questo la Chiesa cattolica, il Vaticano in generale e il cardinal Ratzinger in particolare? Un punto fondamentale di tutto ciò che i due autori hanno tro­ vato nella loro ricerca durata diversi anni e che suffragano con ogni sorta di altri materiali di conferma è soltanto un'ipotesi avanzata con una notevole forza di persuasione. Secondo que­ st'ipotesi la pubblicazione di tutti i manoscritti di Qumran è stata affidata fin dall'inizio a un gruppo ecclesiasticamente controllato di sette studiosi cattolici, i quali fino a oggi hanno pubblicato solo i testi che non potevano arrecare pregiudizio alla dottrina cattolica. Questo gruppetto di congiurati in lotta contro la verità riesce a impedire che si getti anche solo uno sguardo sul materiale che non è stato ancora pubblicato. I membri del gruppo originario nel frattempo defunti sono stati sostituiti da altri, anch'essi fedeli alla consegna del silenzio. Se non vi fossero state persone coraggiose a denunciare pubblica­ mente un tale scandalo, come ad esempio Robert Eisenman, le macchinazioni di Roma non sarebbero mai state scoperte. Questo afferma Verschluflsache Jesus. In realtà, il gruppo originario di sette studiosi era respon­ sabile solo dei manoscritti di Qumran che erano finiti nel Mu­ seo Rockefeller, situato nella parte orientale giordana di Ge­ rusalemme, in particolare quindi dell'enorme quantità di fram­ menti provenienti da tutte le grotte di Qumran. Quasi tutti i rotoli di una certa mole non sono mai stati nel Museo Roc­ kefeller. Essi sono in possesso dello Stato di Israele, si trovano nel Santuario del libro del Museo di Israele nella parte occi­ dentale di Gerusalemme e sono stati interamente pubblicati

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già da molti anni, in parte da studiosi israeliani e in parte da studiosi americani. Dal punto di vista dell'ampiezza questi ro­ toli israeliani costituiscono da soli quasi la metà di tutto il ma­ teriale rinvenuto. Nulla di tutto questo è stato mai «tenuto na­ scosto», tutto è stato sempre pubblicato con la massima cele­ rità possibile. Anche i materiali, molto frammentari, provenienti dalle grotte di Qumran e riuniti nel Museo Rockefeller non sono mai stati selezionati in base al criterio di pubblicare certi testi e nasconderne altri. Il principio più importante che ha guidato la loro classificazione è stato sempre unicamente quello relativo all'origine dei manoscritti dalle diverse grotte; infatti solo così era possibile distinguere i frammenti in base al contenuto. Già nel 1962 i membri del gruppo editoriale avevano pub­ blicato, indipendentemente dal contenuto, tutto ciò che era stato trovato nelle grotte 1Q-3Q e 5Q-10Q. Lo stesso fecero l'Accademia olandese delle scienze e gli Istituti americani con i materiali trovati nella grotta llQ, che avevano acquistato fin dal 1960. Questi manoscritti si trovano certamente anche nel Museo Rockefeller, ma non sono stati pubblicati dal gruppo dei «sette eletti», bensì da altri studiosi, olandesi e americani. Qualora gli interessi ecclesiastici avessero giocato un qual­ siasi ruolo, si sarebbe certamente nascosta una parte dei docu­ menti provenienti da tutte le grotte di Qumran. Ma questo non è mai avvenuto. Per rendere plausibile la loro ipotesi, di autori di Ver­ schluj3sache Jesus ricorrono a dei trucchi. Essi sostengono an­ zitutto che tutti i membri del gruppo editoriale «erano sacer­ doti cattolici, che risiedevano all'École Biblique» (p. 134 ). Sia nel Convento dei domenicani che al loro posto di lavoro, la sala dei rotoli del Museo Rockefeller, essi erano sotto il conti­ nuo controllo del direttore dell'École Biblique, il padre Ro­ land de Vaux, presentato come colui che faceva gli interessi di Roma sul posto. L'unico membro del gruppo a ribellarsi con­ tro questa supervisione clericale fu l'inglese John Mare Alle­ gro, il quale venne perciò subito silurato dal Vaticano. In realtà, solo tre dei sette membri del gruppo iniziale men­ zionati in Verschluj3sache Jesus erano cattolici: il polacco abbé

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Jozef T. Milik, il francese abbé Jean Starcky e l'americano mons. Patrick W. Skehan. Solo i primi due, quando erano a Gerusalemme, risiedevano nel Convento domenicano dell'É­ cole Biblique, mentre mons. Skehan dirigeva l'americano Isti­ tuto Albright, situato un po' più lontano nella parte orientale di Gerusalemme. Lì risiedevano anche tutti i membri non cat­ tolici del gruppo, cioè Frank M. Cross, presbiteriano, e John Strugnell, allora anglicano, divenuti poi professori a Harvard, il luterano Claus-Hunno Hunzinger, andato nel frattempo in pensione come professore di Nuovo Testamento ad Amburgo e l'inglese John Mare Allegro, discendente da padre ebreo e da madre anglicana, che si autodefiniva agnostico. I residenti nell'Istituto Albright non avevano nulla a che vedere con l'É­ cole Biblique e il padre domenicano Roland de Vaux frequen­ tava l'Istituto solo occasionalmente. Nel furore della battaglia gli autori di VerschlufJsache Jesus hanno completamente dimenticato il padre domenicano Do­ minique Barthélemy di Friburgo (Svizzera) che viveva natu­ ralmente nel Convento domenicano e che ha pubblicato i testi biblici provenienti dalla grotta lQ nel primo volume della se­ rie Discoveries in the Judaean Desert. Con lui almeno la metà dell'originario gruppo di otto persone era costituito da sacer­ doti cattolici. Il luogo di lavoro comune di tutti questi studiosi, il loro unico abituale punto di incontro, era la sala dei rotoli del Mu­ seo Rockefeller. In linea con la sua destinazione essa era senza dubbio arredata sobriamente, ma non aveva l'aria di un con­ vento. Lo posso testimoniare avendo ripetutamente lavorato in quella sala a partire dal 1964 fino a quando in seguito non venne soppressa e i frammenti di Qumran furono trasferiti nel piano sotterraneo, dove si trovano tuttora. Del resto, la presentazione che si fa in Verschluf3sache Je­ sus del padre Roland de Vaux, deceduto nel 1971, come di un ottuso rigido guardiano della fede al servizio di Roma costitui­ sce un vero e proprio insulto nei riguardi di tutto ciò che ha

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sempre caratterizzato la sua persona e tutta l'École Biblique. 5 Il modo in cui Verschluf3sache Jesus cerca di dimostrare le sue insinuazioni circa il ruolo del padre de Vaux in relazione con l'edizione dei documenti di Qumran è inventato di sana pianta e menzognero. Mostriamo quale sia il modo abituale di proce­ dere richiamando almeno un esempio caratteristico. Se ne po­ trebbero citare moltissimi. Fin dalla sua fondazione nel 1892 l'École Biblique, di cui il padre de Vaux è stato direttore dal 1945 al 1965, pubblica la ri­ vista scientifica Revue Biblique. Gli autori di Verschluf3sache Jesus ritengono che si tratti di un organo manipolato in linea di principio da Roma, il che mostra chiaramente che essi non hanno mai esaminato il vero contenuto di questa rivista scien­ tifica. Quando durante gli anni '50 la marea di contributi sui manoscritti di Qumran crebbe a dismisura, Roma - secondo l'opinione dei signori Baigent e Leigh - non riuscì più ad argi­ narla nel modo auspicato solo attraverso la Revue Biblique. Che fare? «Nel 1958 l'École Biblique lanciò allora un'altra ri­ vista, la Revue de Qumran, la quale si occupò esclusivamente dei rotoli del Mar Morto e di ambiti tematici similari. Grazie a questi due strumenti l'École Biblique ebbe saldamente in mano, in un modo del tutto ufficiale, due tribune molto note e rinomate per la discussione su Qumran. Gli editori poterono a loro piacimento accogliere o rifiutare articoli e acquisirono così fin dall'inizio un'influenza decisiva sull'andamento della ricerca relativa a Qumran>> (pp. 134-135). In realtà, la Revue de Qumran non ha nulla a che vedere con l'École Biblique. Essa è stata fondata nel 1958 a Parigi dal padre Carmignac e pubblicata esclusivamente da lui fino alla sua morte nel 1986. Resta assolutamente inconcepibile in che modo gli autori di Verschluf3sache Jesus siano giunti ad asso­ ciarlo «al gruppo attorno a de Vaux», a presentarlo addirittura 5 Chi vuoi sapere che cosa pensasse il padre de Vaux e che cosa lo inte­ ressasse veramente può facilmente trovarlo nel suo capovaloro scientifico inti­ tolato Le istituzioni dell'Antico Testamento, Torino 31977. Si tratta di un'opera modello nel campo della ricerca storico-critica, esente da ogni posizione dog­ matica o da ogni forma di indegna «Sottomissione al Vaticano».

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come «membro di quel gruppo» (p. 99). L'abbé Carmignac è sempre vissuto a Parigi, in condizioni molto modeste. Come studioso egli non ebbe alcun incoraggiamento da parte della sua chiesa e non si sarebbe neppure lasciato influenzare da essa.6 Egli non è stato comunque in alcun modo in stretto con­ tatto con la Revue Biblique e i suoi editori. Dopo la morte di Jean Carmignac (1986) la Revue de Qumran continuò a essere edita dal francese Émile Puech, stu­ dioso di Qumran. Da molti anni egli è di casa all'École Bibli­ que. È lì che Michael Baigent lo ha incontrato in occasione del suo soggiorno a Gerusalemme nel novembre del 1989 (pp. 9495) ed è certamente questa la ragione che lo ho indotto a con­ cludere frettolosamente che la Revue de Qumran era un'im­ presa sorella della Revue Biblique e a porre anche quella, in base al proprio pregiudizio, sotto la tutela di Roma. Chi tira le fila dietro le quinte non è il cardinal Ratizinger, quanto piutto­ sto evidentissimamente uno dei due autori di Verschluf3sache Jesus che ha posto un apparente risultato della sua miserabile ricerca a fondamento di supposizioni prive di un qualsiasi con­ tenuto di verità. L'unico legame concreto che sia mai esistito fra i docu­ menti di Qumran e il Vaticano - in Verschluf3sache Jesus esso viene naturalmente molto enfatizzato - è il fatto che nell'ot­ tobre del 1955 «è stato acquistato con finanziamento del Vati­ cano del materiale proveniente dalla grotta 40 per un valore di 3000 sterline» (pp. 64 e 155). I due autori sono giunti a que­ st'informazione, a loro avviso sensazionale, rovistando «nei cassetti della corrispondenza privata di John Allegro» (nota 26, p. 398). Come tutti sanno, nulla tradisce i veri interessi di un'impresa - sia essa un'impresa industriale o il Vaticano ­ più dei suoi tentativi di esercitare un'influenza mediante un mirato investimento di capitali. Dobbiamo confessare che qui il Vaticano è stato colto sul fatto mentre cercava per vie tra­ verse di procurarsi il modo di esercitare un'influenza?

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Si veda, al riguardo, ciò che dice lui stesso in Revue de Qumran, voi 1.,

1 958-1959'

3-6.

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L'impegno finanziario del Vaticano, oggettivamente giustifi­ cato e certamente da sempre a tutti noto, richiede senza dubbio una spiegazione per i non specialisti. Anche lo stato di fatto può servire a presentare con maggior precisione i problemi un tempo legati all'acquisto dei manoscritti di Qumran. Infatti, da­ gli acquisti iniziali dei manoscritti sono scaturiti vincoli giuridici di proprietà che hanno contribuito a produrre i ritardi, tuttora sensibili, nel processo di edizione dei testi di Qumran. Vale inoltre la pena sapere che cosa è avvenuto allora.

Acquisti di manoscritti e diritto internazionale La grotta 4Q, da cui provengono - per quanto riguarda la circa i due terzi di tutti i manoscritti di Qumran è stata scoperta e in gran parte depredata dai beduini nel 1952. Gli studiosi hanno potuto trovare solo gli ultimi resti del suo contenuto originario. Ma all'inizio i beduini e i loro mediatori non vollero far conoscere il loro prezioso bottino. Per questo avevano i loro buoni motivi. Nel 1949 l'allora metropolita siro-ortodosso di Gerusa­ lemme, Mar Athanasius Samuel, aveva comprato da Kandu quattro rotoli del Mar Morto, praticamente integralmente conservati, per una somma di 97,30 dollari. A quel tempo nes­ suno conosceva il reale valore di questi documenti. Solo nell'e­ state del 1952 le perizie scientifiche permisero di farsene un'idea. Ma ai beduini e ai loro mediatori mancavano esempi di concrete transazioni commerciali come parametri orienta­ tivi per fare le loro offerte. D'altra parte, non potevano sag­ giare liberamente il mercato, po_iché il possesso di quei mano­ scritti era considerato illegale dallo stato. La vendita di altri pezzi provenienti dalla grotta 10 e dalla grotta 20, scoperta nel febbraio del 1952, non aveva dato risultati soddisfacenti. Così si tenne prudentemente nascosta la maggior parte del materiale proveniente dalle altre scoperte. 11 13 febbraio 1955 il primo ministro di Israele, David Ben Gurion, comunicò nel corso di una conferenza stampa a Ge­ rusalemme, che già nel luglio del 1954 era stato possibile ac­ quistare negli Stati Uniti e assicurare all'Università ebraica di

quantità

-

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Gerusalemme per la somma di 250.000 dollari i quattro rotoli posti in vendita dal metropolita Mar Athanasius Samuel. La somma - a prescindere dal notevole margine di guadagno era in grado di assicurare al metropolita un considerevole be­ nessere per tutto il resto della sua vita. Giuridicamente par­ lando, il ricavo della vendita sarebbe dovuto andare alla sua chiesa. Ma al suo posto a Gerusalemme venne eletto un altro, il che fa supporre che Mar Athanasius sia rimasto da allora negli Stati Uniti come un benestante privato cittadino. Tre dei rotoli in possesso del metropolita erano stati pub­ blicati integralmente e con l'indicazione delle loro esatte mi­ sure già nel 1950 e 1951. Uno dei rotoli era il manoscritto di Isaia, di 734 cm di lunghezza e 26,2 cm di altezza. La pubblica­ zione permise a tutti di conoscere questi dati. Ora dividendo il prezzo ufficiale di acquisto dei rotoli per quattro si otteneva la cifra di 62.500 dollari per rotolo, quindi 3,25 dollari per ognuno dei 19.230 cm2 del manoscritto di Isaia, secondo la ta­ vola di conversione allora in vigore a Gerusalemme circa l sterlina britannica o 14 marchi per cm2• Grazie alla notizia data dal primo ministro israeliano ora i beduini e i loro mediatori conoscevano il prezzo di mercato uf­ ficiale dei rotoli del Mar Morto e dei loro frammenti. I mate­ riali tenuti nascosti potevano finalmente essere immessi sul mercato, naturalmente sempre in piccole dosi per evitare i ri­ schi di sequestro da parte delle autorità, trattandosi di cose de­ tenute illegalmente. Per i pezzi continui più grandi venne pa­ gato un sovraprezzo, per evitare che i beduini o i loro media­ tori fossero tentati di smembrare i manoscritti in vista di un maggior realizzo. Nel 1964 diversi mediatori allora coinvolti in queste tran­ sazioni mi confermarono, indipendentemente gli uni dagli al­ tri, che le cose andarono effettivamente così e in particolare che si erano riferiti per il calcolo dei prezzi al rotolo di Isaia. Essi mi mostrarono l'edizione di quel rotolo e mi dissero che si consideravano molto onorati di aver scelto come base dei loro calcoli proprio il maggiore dei tre rotoli giù pubblicati; infatti, se si fossero basati su uno dei rotoli più piccoli, il prezzo per ogni cm2 sarebbe stato notevolmente più alto. Allora non pen-

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sarono che i testi fino ad allora sconosciuti avrebbero potuto spuntare prezzi ancora maggiori in base al loro contenuto; del resto non conoscevano a fondo né l'ebraico né l'aramaico, per cui non erano in grado di calcolare il valore dei materiali in loro possesso caso per caso. Per i venditori ufficiali di tutti i ro­ toli e frammenti ancora in mano ai beduini un cm2 di «Qum­ ran» costava quindi il suo prezzo base, a prescindere da sovra­ prezzi relativamente contenuti per pezzi di lusso. A volte gli offerenti hanno persino incollato insieme dei frammenti con cerotti o nastro adesivo per strappare il sovraprezzo previsto per i pezzi continui più grandi. Nel settembre del 1952 i beduini ripulirono anche la grotta 6Q, contenente i frammenti di altri rotoli, e infine, nel febbraio del 1956, trovarono l'ultima grotta 110 finora scoperta e in essa alcuni rotoli ancora in buono stato che forse sono tuttora in parte tenuti nascosti dai loro possessori. La maggior parte di coloro che negli anni 1955-1958 en­ trarono in qualche modo in possesso dei documenti di Qum­ ran vollero arricchirsi in fretta. Così, a partire dal 13 febbraio 1955 per circa tre anni si instaurò a Gerusalemme un intenso commercio di questi preziosi manoscritti. Diversi pezzi fu­ rono venduti anche a turisti, i quali normalmente non cono­ scevano il prezzo ufficiale di mercato e pagavano quindi prezzi maggiori rispetto a quelli dei compratori professionisti. Solo pochi di questi frammenti acquistati da privati sono stati resi finora accessibili agli studiosi. Molti altri frammenti man­ cano sul più bello quando con i resti di un rotolo corrotto si cerca di riprodurre il suo stato ancora materialmente n­ costruibile. Ma la maggior parte del nuovo materiale di Qum­ ran è stata comunque acquistata con capitali provenienti da tutto il mondo e messa a disposizione degli studiosi nel Mu­ seo Rockefeller, dove è andata a accrescere considerevol­ mente i pezzi provenienti dalle diverse grotte che già vi si tro­ vavano. La maggior parte dei fondi necessari per l'acquisto di que­ sta massa di frammenti è venuta da Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Olanda. Nel 1955 anche il Baden-Wtirttemberg ha contribuito con una somma di 50.000 marchi, con la quale sono

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stati acquistati frammenti provenienti dalla grotta 40 per circa 3.570 cm2 di materiale manoscritto, fra cui i resti di circa 500 cm2 di un commento al libro del profeta Naum. Tanto per far­ sene un'idea, un foglio di carta in formato A4 comprende 624 cm2• I «finanziamenti» del Vaticano sono bastati ad acquistare appena 3.000 cm2, una parte relativamente piccola dell'intero materiale, quando si pensa che il solo rotolo di Isaia misura 19.230 cm2• Un altro grosso acquisto di frammenti provenienti dalla grotta 40, circa 40.000 cm2 di materiale, ha richiesto al­ lora la somma di circa 130.000 dollari. Queste cifre e parametri comparativi sono necessari per capire che il danaro del Vaticano è stato certamente più di una semplice goccia su una pietra infuocata, ma che è stato, para­ gonato all'impegno finanziario globale, talmente piccolo da non poter certamente produrre una reale influenza sull'intero progetto dell'edizione di tutti i testi di Qumran approdati nel Museo Rockefeller, anche nel caso in cui i sottoscrittori lo avessero effettivamente voluto. Ma certamente così non è stato. Il Vaticano ha dato il suo contributo al pari di molte al­ tre istituzioni che sono intervenute con somme molto mag­ giori. Ma più importante per la comprensione della cosa è un al­ tro fatto al quale in genere non si presta attenzione. Coloro che hanno partecipato all'acquisto dei manoscritti trovati dai beduini hanno acquistato con il loro contributo finanziario solo la metà dei diritti di proprietà, mentre i diritti di pubblica­ zione erano detenuti dagli studiosi inviati a Gerusalemme dai paesi che avevano date le somme. A ciò va aggiunta la partico­ lare posizione giuridica del Museo Rockefeller e dell' École Bi­ blique che hanno acquistato anche con propri fondi diversi frammenti di Qumran. Il Museo Rockefeller venne aperto nel 1938 come fonda­ zione privata con il titolo ufficiale di The Palestine Archaeolo­ gical Museum (P.A.M.) ed è stato amministrato fino al novem­ bre del 1966 dal giordano Department of Antiquities, il Mini­ stero per le Antichità ad Amman. Tutti i manoscritti trovati nelle grotte di Qumran sono stati considerati «antichità» e quindi automaticamente proprietà dello Stato di Giordania. In

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realtà essi sarebbero quindi dovuti appartenere al Museo sta­ tale della capitale Amman, anche se i beduini della tribù dei Ta'amireh, in base alla loro tradizione, erano soliti considerare questi diritti di proprietà in modo del tutto diverso. Ma la Giordania aveva partecipato all'allestimento del Museo Roc­ kefeller e continuava a partecipare al suo mantenimento per cui trasferì a esso anche il diritto di custodia dei manoscritti giordani fino alla loro pubblicazione. Di conseguenza, la serie editoriale ufficiale dei frammenti di Qmnran custoditi nel Mu­ seo Rockefeller si intitolò fino al 1968 Discoveries in the Ju­ daean Desert of Jordan. Solo a partire dal volume VI, apparso nel 1977, si è tornati a rinunciare all'aggiunta of Jordan. Questa situazione venne ulteriormente complicata dal fatto che i beduini furono disposti a consegnare ciò che di fatto apparteneva allo stato e di cui si erano appropriati illegal­ mente solo dietro pagamento di notevoli somme di danaro. A quel tempo lo stato di Giordania non volle sborsare le somme necessarie, che secondo il diritto internazionale possono es­ sere considerate come una sorta di ricompensa dovuta a chi consegna cose trovate. Così il Museo Rockefeller e l' École Bi­ blique intervennero con propri finanziamenti. Ma vennero so­ prattutto coinvolti sottoscrittori esteri, come ad esempio il Ba­ den-Wtirttemberg. In tal caso, secondo ciò che avviene abi­ tualmente nel mondo intero, il contratto prevede che le anti­ chità acquistate con danaro proveniente dall'estero apparten­ gano per metà al paese di origine e per metà ai paesi sottoscrit­ tori. Così, nel caso dei 50.000 marchi impegnati dalla Germa­ nia, si è stabilito quali manoscritti acquistati sarebbero rimasti alla Giordania e sarebbero finiti per sempre, dopo la loro pub­ blicazione, ad Amman e quali sarebbero invece finiti nel Ba­ den Wtirttemberg e precisamente, in base al contratto, nella Biblioteca universitaria di Heidelberg, che ne sarebbe diven­ tata la legittima proprietaria. Come il sistema allora funzionasse, lo si può facilmente co­ statare in un caso concreto. Nel 1955, dopo l'integrale edizione di tutti i 72 manoscritti frammentari provenienti dalla grotta 1Q, 23 rimasero nel Museo Rockefeller, 10 furono trasferiti nel Museo di Amman, dove si trovano tuttora, mentre i re-

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stanti 39, acquistati inizialmente dall'École Biblique e succes­ sivamente dalla Bibliothèque Nationale di Parigi, approda­ rono definitivamente in quella biblioteca (DJD I, 1955, p. XI ) . In modo analogo furono suddivisi i frammenti di tutti i 130 manoscritti provenienti dalle grotte 2Q, 3Q e 5Q-10Q, dopo essere stati pubblicati ufficialmente nel 1962. Così ad esempio da allora chi vuole vedere le parti del rotolo di rame della grotta 3Q deve recarsi nel Museo di Amman. Nell'acquisto di questi diritti di proprietà si dovette natural­ mente impedire che ogni sottoscrittore estero si portasse via im­ mediatamente la metà di proprietà appena acquisita. Infatti, ciò che nel corso degli anni era approdato nel Museo Rockefeller erano migliaia di frammenti più o meno grandi, per cui le singole parti di un manoscritto appartenevano spesso ad acquirenti ca­ suali molto diversi. Per poter lavorare in modo scientifico su questi innumerevoli frammenti era anzitutto necessario che essi restassero tutti insieme nel Museo Rockefeller. Gli inevitabili problemi furono risolti già negli anni '50 nel senso di un gentlemen 's agreement, in modo che tutti i diritti di pubblicazione - anche quelli per i manoscritti giordani - fu­ rono obbligatoriamente attribuiti ai membri dell'équipe inter­ nazionale di studiosi che doveva poi svolgere concretamente il lavoro. Solo quando i singoli manoscritti più grandi o un ulte­ riore volume di raccolta di gruppi di frammenti più piccoli fos­ sero stati ufficialmente pubblicati, i proprietari ne avrebbero potuto disporre. Così ad esempio, nel 1968 i tedeschi porta­ rono a Heidelberg il «loro» commento a Naum, dopo che J.M. Allegro lo ebbe pubblicato. Nella misura in cui si poteva stabi­ lire, durante il processo di lavorazione, che i proprietari di un manoscritto erano diversi, il manoscritto doveva appartenere a chi ne possedeva già la maggior parte; egli doveva indenniz­ zare equamente gli altri cointeressati, cedendo loro altri fram­ menti del suo precedente acquisto. Per contratto, i difficili compiti di coordinamento furono affidati per la parte scienti­ fica al padre Roland de Vaux e per la parte giuridica al Mini­ stero delle Antichità di Amman. Solo chi conosce questi retroscena può capire come la la­ vorazione scientifica dei manoscritti di Qumran presenti nel

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Museo Rockefeller non obbedisse a interessi personali di sorta, ma fosse condizionata unicamente da complessi con­ tratti giuridici. Questa situazione dovette essere debitamente regolata allorché nel 1971 padre de Vaux morì e subentrò al suo posto padre Pierre Benoit e poi, dopo la sua morte nel 1987, il professar John Strugnell dell'università di Harvard. Dal novembre del 1990, quando egli si ritirò per motivi di sa­ lute, i rapporti giuridici sono piuttosto confusi, poiché i diritti detenuti un tempo dal padre Roland de Vaux non sono stati fi­ nora passati nella forma dovuta ad altre istanze. Attualmente, essi vengono rivendicati ed esercitati in modo fiduciario - in continuo contatto con Amman - dall' Israel Antiquities Au­ thority (I.A.A.), ma sul piano internazionale questa soluzione non è accettata da tutti. D'altra parte, ai singoli studiosi dell'équipe editoriale i di­ ritti di pubblicazione erano stati accordati per contratto per ben precisi gruppi di manoscritti - per esempio, tutti i testi provenienti da una determinata grotta o specificamente per i manoscritti biblici provenienti da un'altra grotta - indipen­ dentemente dai rispettivi diritti di proprietà. Così in definitiva l'inglese John Mare Allegro ottenne personalmente il diritto di pubblicare tutti i commenti biblici provenienti dalla grotta 40, fra cui anche il commento a Naum, appartenente dal punto di vista del diritto di proprietà alla Germania. Non era possibile organizzare diversamente un'ordinata attività editoriale ed escludere completamente ogni sorta di azioni arbitrarie. Altri­ menti ogni addetto ai lavori avrebbe preferito pubblicare solo i materiali più interessanti relativi a tutti questi testi invece di dedicare tempo ed energie a studiare anche materiali più diffi­ cili e meno redditizi. Oppure i sottoscrittori esteri avrebbero potuto desiderare di esporre anzitutto nel loro paese i mano­ scritti non ancora pubblicati in modo ufficiale allo scopo di far comprendere all'opinione pubblica l'opportunità di spendere somme così elevate per il loro acquisto, con il risultato che questi testi sarebbero stati «pubblicati» in un modo del tutto insufficiente. Il rovescio della medaglia di questi contratti a protezione di un accurato lavoro scientifico era naturalmente il fatto che

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ogni cambiamento nella composizione dell'équipe editoriale o nella competenza per la pubblicazione di determinati mano­ scritti richiedeva il relativo cambiamento dei contratti con il consenso e la partecipazione di tutti i partner giuridici. Nessun membro dell'équipe poteva di sua iniziativa passare ad altri i diritti di pubblicazione, cosi come non era possibile associare all'équipe nessun altro studioso. Se un membro dell'équipe moriva o si ritirava volontariamente, si doveva nominare un successore nel rispetto di tutte le regole. In ogni caso si doveva coinvolgere il Ministero delle Antichità di Amman e anche ogni altro proprietario dei manoscritti nella misura in cui la cosa lo riguardava. Ciò spiega la relativa rigidità del sistema. Quando ci si rese conto che certamente nessun membro dell'é­ quipe originaria sarebbe riuscito a pubblicare nel corso della sua vita tutti i testi che gli erano stati affidati, si è cominciato da parte israeliana a distribuire più ampiamente i compiti ri­ masti, per quanto possibile in accordo con il responsabile fino a quel momento di una determinata edizione e con le altre istanze. Ma al riguardo permangono fino a oggi diverse diffi­ coltà, non da ultimo quelle di natura giuridica. Nel maggio del 1961 la Giordania ha nazionalizzato tutti i manoscritti di Qumran depositati nel Museo Rockefeller, espropriando così di fatto i loro proprietari, ma offrendosi al tempo stesso di indennizzarli in modo adeguato. Alcuni di loro, per esempio certe istituzioni statunitensi, hanno accet­ tato quest'offerta, altri no. Nel novembre del 1966 la Giorda­ nia ha nazionalizzato anche il Museo. Questa situazione giuri­ dica non fu modificata quando Israele nel giugno del 1967 con­ quistò la parte orientale di Gerusalemme e assunse l'ammini­ strazione del Museo Rockefeller. L'edificio e le antichità in esso contenute, fra cui i manoscritti di Qumran, continuano ad appartenere, secondo il diritto dei popoli, allo stato giordano. Data la particolare situazione giudirica della parte orientale di Gerusalemme, che Israele non pone fra i «territori occupati» ma considera parte integrante della propria capitale, ci si guarda bene dal toccare i perduranti diritti giordani. Lo Stato di Israele non ha ancora preso in considerazione la possibilità di confiscare i manoscritti di Qumran che si tro-

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vano nel Museo Rockefeller forse non da ultimo per il fatto di non essere certo che gli originari paesi proprietari di una parte di questi manoscritti - come Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Olanda, Germania o Vaticano - non facciano nuovamente valere i loro antichi diritti e una notevole parte dei manoscritti finisca per disperdersi definitivamente nel mondo intero, in­ vece di continuare a restare ben custodita a Gerusalemme. In caso di dubbio, il diritto di proprietà di fatto è sempre preferì­ bile a diritti di proprietà discutibili. Questo sembra essere co­ munque il parere delle autorità israeliane attualmente competenti. Forse questi chiarimenti sulla complicata situazione giuri­ dica hanno permesso di rendersi conto di diverse cose che al­ trimenti resterebbero incomprensibili. È evidente che gli au­ tori di VerschlujJsache Jesus non si sono particolarmente preoccupati di conoscere questa situazione giuridica. Quando si sono imbattuti in qualcosa che non riuscivano a compren­ dere si sono abbandonati ai loro sospetti più che tener conto dei fatti, che essi speravano comunque di scovare seguendo il loro fiuto di detective. Nel 1955 il Vaticano ha acquistato, con il suo contributo fi­ nanziario, i diritti di proprietà tutt'al più su 1 .500 cm2 di fram­ menti provenienti da Qumran, che forse un giorno potranno essere esposti a Roma nella Biblioteca Vaticana, comunque già ben fornita di antichi manoscritti, nel caso in cui non abbia già accettato da tempo l'offerta di indennizzo proposta dalla Giordania nel 1961. Il Vaticano non si è mai particolarmente interessato al reale conten.uto di questi frammenti. Essendo stato possibile esaminare il materiale acquistato «Unicamente nel corso di un pomeriggio» (p. 64), dovrebbe essersi trattato essenzialmente di frammenti di manoscritti biblici, che sono sempre i più facili da identificare. Padre Roland de Vaux non ha mai preteso per sé i diritti editoriali per i manoscritti di Qumran. Egli era incaricato solo dell'archeologia e del coordinamento delle attività editoriali. I diritti editoriali si trovano fin dall'inizio per metà in mano a non cattolici. Padre Roland de Vaux non è in alcun modo re­ sponsabile dei ritardi che si sono avuti nel frattempo nella ·

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pubblicazione dei testi di Qumran. Al contrario, egli ha cer­ cato con tutte le forze di accelerare il più possibile il processo editoriale. Un volume nel quale egli presentava le scoperte archeologiche e che aveva curato insieme a Jozef T. Milik e altri già nel 1960 (DJD VI ) è uscito solo nel 1977, sei anni dopo la sua morte. I motivi di questo ritardo sono chiara­ mente indicati nella Prefazione a quel volume (pp. V-VI ) ; essi non hanno in ogni caso nulla a che vedere con macchina­ zioni del Vaticano, come amano in genere supporre gli autori di VerschlujJsache Jesus. Del resto, i curatori delle pubblicazioni dell'équipe ini­ ziale hanno progressivamente cercato di coinvolgere altri studiosi nel loro lavoro, essendosi trovati oberati dalle diffi­ coltà di un 'accurata lavorazione del materiale manoscritto loro affidato. John Strugnell, il più duramente criticato in VerschlujJsache Jesus, già alla fine del 1990, quando anda­ vano crescendo i suoi problemi di salute, aveva passato ad altri, soprattutto studiosi israeliani e americani, la maggior parte dei suoi testi. Molto di quel materiale è già apparso in ottime edizioni. Frank M. Cross ha conservato per sé come suo contributo all'edizione definitiva solo 8 dei suoi origi­ nari 127 manoscritti biblici provenienti da Qumran, cedendo già da molto tempo tutti gli altri - compresi i suoi lavori preliminari; anche molto di questo materiale è già stato pub­ blicato. Queste brevi indicazioni e spiegazioni possono bastare per riportare le cose alla loro effettiva realtà. Le mistificazioni del tipo di quelle di VerschlujJsache Jesus vivono comunque di vita propria. Avendo ben poco a che vedere con la realtà, c'è ben poco da obiettare a loro riguardo. Il loro modo di agire è a volte curioso. Così, per esempio, è corsa voce che lo Stato di Israele, che ora controlla tutto il materiale manoscritto non ancora pubblicato, avrebbe assicurato il Vaticano di conti­ nuare a tenere sotto chiave il resto del materiale manoscritto per avere in cambio il riconoscimento diplomatico da parte di Roma, riconoscimento atteso dal 1948 e avvenuto solo il 30.12.1993. Sono questi i fiori che germogliano sul terreno di VerschlujJsache Jesus.

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IL BEST SELLER Jesus von Qumran Il sensazionale successo di vendite della coppia di autori Baigent e Leigh è stato condiviso nel frattempo dalla ricerca­ trice australiana su Qumran Barbara Thiering. Essa aveva al suo attivo già tre libri,7 nei quali aveva cercato di dimostrare che il maestro di giustizia ripetutamente ricordato nei testi di Qumran era Giovanni Battista e uno dei suoi oppositori sto­ rici, l' «uomo mendace», lo stesso Gesù. Il principale garante di Verschluj3sache Jesus, Robert Eisenman, identifica queste due figure con Giacomo il Giusto, uno dei fratelli di Gesù, respon­ sabile della comunità primitiva di Gerusalemme dopo la sua crocifissione, e con il suo antagonista Paolo, che egli ritiene un agente segreto convertito dalla forza di occupazione romana in Palestina. Naturalmente tutte queste identificazioni diventano possi­ bili - e rimangono anche così assurde - solo se si datano 100150 anni dopo di quanto consentono paleografia e test del car­ bonio 14 quei manoscritti di Qumran che ricordano il maestro di giustizia e l'uomo mendace. Ma questo non turba Barbara Thiering così come non turba Robert Eisenman. Dopo che i suoi primi tre libri su Qumran avevano interes­ sato ben pochi lettori, finalmente Barbara Thiering riuscì a trovare il bandolo che le consentì di essere annoverata fra gli autori di best seller. Il suo nuovo libro8 uscì nel 1992. Con il se­ ducente titolo di Jesus von Qumran. Sein Leben - neu geschrie­ ben è approdato nel 1993 anche nelle librerie tedesche, giusto in tempo per i regali di Natale. Anche qui Gesù è sposato con Maria Maddalena, come lo avevano presentato già fatto i si­ gnori Baigent e Leigh nel loro primo best seller Der Heilige Gral und seine Erben. Anche qui, esattamente come là, da questo matrimonio nasce una bambina e Gesù sopravvive alla

7 B. THIERING, Redating the teacher of righteousness, Sydney 1979; The Gospels and Qumran. A new hypothesis, Sydney 1981 ; The Qumran Origins of the Christian Church, Sydney 1983. 8 B. THIERING, Jesus and the Riddle of the Dead Sea Scrolls: Unlocking the secrets of His Life Story.

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sua crocifissione. Ma poi le strade dei due best seller si divi­ dono. Dopo essere sopravvissuto alla crocifissione Gesù non imbarca moglie e figlia per approdare nel sud della Francia. Barbara Thiering lascia la famiglia di Gesù in Palestina, dove Maria Maddalena gli dà altri due figli. Ma alla fine ella si se­ para da Gesù, il quale sposa la mercante di porpora Lidia, nota dagli Atti degli apostoli (At 16,14-15 e 16,40), abitante a Tia­ tira, cittadina dell'Asia minore. Dopo la sua crocifissione, Gesù è vissuto ancora almeno trent'anni, per poi morire a Roma di morte naturale. La signora Thiering afferma inoltre che Gesù non si è mai presentato come il «figlio di Dio», che la sua nascita verginale è solo un mito e che è stato partorito in un luogo chiamato Be­ tlemme, ma che non ha nulla a che vedere con l'omonimo luogo dove è nato Davide, situato ad alcuni km a sud di Geru­ salemme. Una foto ritrae il punto sulla terrrazza marnosa, po­ chi metri a sud della sala di riunioni dell'insediamento di Qumran, dove Gesù sarebbe stato crocifisso. La vicina grotta 7Q è indicata come il luogo dove egli si rimise dalle conse­ guenze di quel maltrattamento. Ora è possibile, secondo la Thiering, documentare tutto questo confrontando i dati neo-testamentari con i dati offerti dai testi di Qumran e dalle scoperte archeologiche. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere neppure con una parvenza scien­ tifica, come hanno dimostrato chiaramente e puntualmente Otto Betz e Rainer Riesner in Jesus, Qumran und der Vatikan uscito nel 1993 (pp. 121-138).

IL BEST SELLER Jesus und die Urchristen Parzialmente più serio rispetto alla fervida immaginazione di Barbara Thiering è il best seller Jesus und die Urchristen. Die Qumran-Rollen entschliisselt, curato da Robert Eisenman e Michael Wise e pubblicato nel 1993. Il titolo dell'edizione originale The Dead Sea Scrolls Uncovered 9 (1992) è diventato 9

R. EISENMAN-M. WISE, Jesus und die Urchristen, Gtiterloh 1993. Titolo

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qui il sottotitolo. Ciò spiega in gran parte il successo delle ven­ dite del volume. Per quanto riguarda il contenuto di Gesù e dei primi cristiani si parla solo marginalmente. La riprodu­ zione dei 50 testi ebraici e aramaici provenienti dalla grotta 4Q - tutti molto frammentari - con la loro traduzione è stata cu­ rata da Michael Wise. Per 22 di questi testi sono riprodotte in formato ridotto le foto dei rispettivi frammenti. l testi sono stati ripartiti in otto capitoli. Ogni capitolo e ogni testo è provvisto di un'introduzione scritta da Robert Eisenman. In queste introduzioni egli avanza le stesse posizioni già riprese da Verschluflsache Jesus, sempli­ cemente arricchite per associazione con altri dati ricavati dai testi presentati. Il libro pretende di aver reso accessibili all'opinione pub­ blica i più importanti testi non ancora pubblicati della grotta 4Q - che i signori Baigent e Leigh presentano in un'afferma­ zione riprodotta sulla parte posteriore della sovracoperta del loro volume come i testi che «sono stati tenuti a lungo sotto chiave» dal Vaticano. Naturalmente ciò risponde al vero nel migliore dei casi per 18 dei 50 testi riprodotti. Alla fine di ogni capitolo si trovano delle «note» che rinviano a «precedenti re­ censioni» di questi testi. In realtà si tratta di loro precedenti pubblicazioni, le prime delle quali risalgono al 1956! Anche se si deve ammettere che in alcuni casi viene offerto un testo del manoscritto più ampio rispetto a quello che si tro­ vava nelle precedenti pubblicazioni parziali, resta pur vero che a tale scopo si sono utilizzate in parte edizioni del testo distri­ buite a suo tempo dagli editori veri e propri in occasione di congressi, senza peraltro fare alcun accenno a quest'utilizza­ zione del lavoro atrui. Anche l'utilizzazione, evidente in più punti, di altre edizioni correnti del testo non viene normal­ mente dichiarata: Al contrario, si afferma che in questo libro

originale inglese: The Dead Sea Scrolls Uncovered. The first Complete Transla­ tion and Interpretation of 50 Key Documents Withheld for over 35 Years, Rockpost, Brisbane 1992 (tr. it.: I manoscritti segreti del Mar Morto, Casale Monferrato 1994). Le citazioni testuali e i rinvi alle pagine si riferiscono alla traduzione italiana del volume.

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tutti i «nuovi» testi sono stati decifrati in modo completamente autonomo con l'ausilio di fotografie. Ora in molti casi si può dimostrare che la cosa è falsa. Del resto, i 18 testi che qui ven­ gono portati per la prima volta a conoscenza di un pubblico più vasto, ma che erano naturalmente noti già da molto tempo agli addetti ai lavori, sono i frammenti più piccoli e insignifi­ canti di tutto il volume. Michael Wise e i suoi collaboratori si sono dati certamente molto da fare. Servendosi di fotografie dei frammenti essi sono riusciti spesso a migliorare le precedenti letture del testo, ma a volte le hanno anche peggiorate. Purtroppo non si è tenuto al­ cun conto dei manoscritti originali esistenti a Gerusalemme. Le traduzioni, che sono il solo testo abbordabile al non ad­ detto ai lavori per farsi un'idea scientifica del contenuto, erano in parte già nell'edizione originale inglese pessime, spesso pro­ prio in punti contenutisticamente decisivi; l'edizione tedesca è purtroppo soltanto uno specchio fedele di tali errori. Le tradu­ zioni offerte da questo volume possono essere usate quindi solo con la massima diffidenza. Persino agli addetti ai lavori manca nell'oltre metà dei casi una fotografia sulla quale poter controllare la lettura del testo e le proposte di inserimento per parole in parte distrutte nell'originale, per non parlare della pessima qualità delle fotografie dei manoscritti in formato ri­ dotto. I testi 35 e 36, «Prima» e «Seconda lettera sulle opere rico­ nosciute giuste>> (pp. 182-200) - in realtà, i due testi sono parte della stessa «lettera» - riproducono praticamente alla lettera una versione del testo, distribuita dal professor Elisha Qirnron di Be'er Sheva' ai partecipanti in occasione di con­ gressi sulla materia. Nel volume si ricordano solo due pubbli­ cazioni, fatte congiuntamente da Elisha Qimron e John Stru­ gnell, nelle quali nel 1985 avevano riprodotto alcune frasi di questa lettera, ma non la riproduzione del testo completo ef­ fettivamente usata da Michael Wise così come era stata elabo­ rata con molta cura e fatica da Strugnell e Qimron. Il testo 50, «Peana per il re Jonathan» è stato pubblicato nella primavera del l992 dai coniugi Esther e Hanan Eshel, ri­ cercatori di Gerusalemme, assieme a Ada Yardeni, nella rivi-

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sta israeliana specializzata Tarbiz. Michael Wise deve a questo contributo i fondamenti della sua traduzione del testo. E tutta­ via in questo libro non vi si fa alcun cenno. Ma la cosa peggiore sono le traduzioni. Traducendo per esempio in modo filologicamente corretto, l'inizio del primo frammento (pp. 19-23), si ottiene: «I ... [ciel]i e la terra obbedi­ ranno ai suoi unti, [e tutto quanto è] in essi non deve mai al­ lontanarsi dai comandamenti dei santi: Voi che cercate il Si­ gnore mantenetevi saldi al suo servizio». Gli «Unti» di Dio sono in questo contesto - come ripetutamente anche altrove nei testi di Qumran (cf. sotto, p. 296) - i profeti biblici (Isaia, Geremia, ecc.), di cui si devono seguire le istruzioni. I «coman­ damenti dei santi» altro non sono se non i comandamenti dei cinque libri di Mosè, della Torah, che Dio aveva rivelato a Mosè «attraverso [i suoi santi] angeli» (cf. libro dei Giubilei I,27-29; 2,1; Gal 3,19). In una doppia affermazione - con espressione tecnica questo stile corrente nella Bibbia è detto un «sintetico parallelismus membro rum» - vengono ricordate qui le due parti dell'allora canone biblico, la Torah e i Libri dei profeti, come fondamenti che devono orientare l'obbedienza nei riguardi di Dio. I fedeli devono orientare tutte le loro forze al compimento di ciò che viene richiesto nella Torah e negli Scritti dei profeti. Nel giudaismo questo corrisponde alle mas­ sime generali, tenute in grande considerazione fino ai nostri giorni, che sono state d'altronde molto ben formulate nell'e­ spressione che ricorre in questo testo di Qumran. Ma come si presenta questo nella traduzione di Michael Wise? «[ ... i ciel]i e la terra obbediranno al suo Messia [ ... e tutto quan]to è in essi. Egli non si allontanerà dai comanda­ menti dei santi. Voi che cercate il Signore, mantenetevi saldi al suo servizio» (p. 23). In un modo filologicamente ingiustifica­ bile qui non si tiene conto del parallelismus membro rum e così si finisce per vedere in un testo che non lo contiene affatto «il Messia». Al plurale «i santi» corrisponde nella prima parte dell'espressione il plurale «i suoi [di Dio] unti», non «il suo [di Dio] Messia» al singolare. L'errata introduzione di una forma singolare conduce alla curiosa affermazione testuale secondo cui il cielo e la terra, quindi il mondo intero, compreso il sole,

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la luna e le stelle unitamente a tutti gli angeli, debbono «obbe­ dire» a questo Messia. Si tratta di espressioni assolutamente estranee all'antico giudaismo, sia nei testi di Qumran, sia nella restante tradizione. Le potenze del cielo in particolare non «obbediscono» mai al Messia, ma sempre e solo a Dio. Lo stravolgimento del testo viene così coronato dal titolo «Il Messia del cielo e della terra» posto in capo all'intera tra­ duzione del testo (p. 19). Non vi è nulla di corretto in tutto questo. Ma come possono i lettori del volume, che non cono­ scono l'ebraico, subodorare che qui si sta dando loro da inten­ dere qualcosa che non esiste, specialmente in questo caso spe­ cifico in cui l'impressione sull'esattezza della traduzione è raf­ forzata dalla riproduzione a fronte del testo originale ebraico e persino da una fotografia del frammento del manoscritto? Questo testo viene preposto a ragion veduta come partico­ larmente importante a tutto l'ulteriore materiale offerto dal li­ bro. Si tratta infatti di mostrare chiaramente, per la prima volta, la peculiare dottrina messianica dei testi di Qumran. Solo che in questa forma essa non è mai esistita. Un altro esempio di traduzione fuorviante è offerto dal te­ sto 49 di questo libro (pp. 269-273). L'unica frase integral­ mente conservata di questo piccolo frammento dice: «e inoltre [lo, cioè il delinquente, si è ammonito] poiché era solito bere la propria orina». Nell'esercizio della medicina popolare si usava prescriverlo e ai nostri giorni lo si può ancora osservare so­ prattutto in India, presso gli indù. Ma gli esseni, famosi per le loro abilità terapeutiche, hanno evidentemente rifiutato que­ sta forma di medicina. Ora il passo viene tradotto in modo incomprensibile: «Inoltre, amò le sue emissioni corporali» e, se non bastasse, si fa di questo dato, unico nel suo genere, il titolo a senzazione dell'intero capitolo. Con formulazioni del genere si pensa spontaneamente a perversioni sessuali. E anche Robert Eisen­ man conduce effettivamente il lettore in questa direzione quando ricorda, nell'introduzione, i «comportamenti sessuali» come l'occasione che ha determinato questa ammonizione (p. 276). Ora pratiche del genere avrebbero condotto presso gli esseni a vere e proprie punizioni, non - come in questo testo

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- a una semplice ammonizione senza sanzioni. Che cosa pos­ sono suggerire al lettore inesperto della materia traduzioni così strane? ( Cf. sotto, p. 195). Questi esempi possono bastare per mostrare che cosa manca soprattutto al best seller Jesus und die Urchristen im­ messo frettolosamente sul mercato librario. I limiti comin­ ciano dalla disordinata scelta di fotografie in formato ridotto, spesso appena leggibili, di neppure la metà dei 50 frammenti e diventano più gravi a livello della riproduzione dei testi e delle loro traduzioni. Ma soprattutto manca un sufficiente aiuto in­ terpretativo. Ciò che Robert Eisenman ha fornito da questo punto di vista è più un insieme di associazioni e un tirare a in­ dovinare - spesso inutile - che non vere e proprie informa­ zioni utili alla comprensione dei contenuti. È un vero peccato. Infatti, per molti lettori questo libro costituirà l'unica occa­ sione della loro vita per entrare a contatto non solo con una qualche ipotesi sui contenuti dei testi di Qumran ma con con­ crete riproduzioni di testi. Non si sarebbe dovuto piantarli in asso in questo modo solo per il gusto di immettere sul mercato il più rapidamente possibile un altro libro-sensazione. La fretta con cui è nato questo libro si spiega con il deside­ rio di sfruttare il più rapidamente possibile l'interesse suscitato nell'opinione pubblica da VerschlufJsache Jesus. Lo stesso di­ casi di altri libri che sono stati già in gran parte confutati da Otto Betz e Rainer Riesner nelle loro Klarstellungen, 10 per cui qui si può passarli sotto silenzio. In occasione del primo boom esploso attorno a Qumran negli anni '50, in molti ambienti andava per la maggiore e era considerato assolutamente affidabile un certo autore, per il semplice fatto di non essere né cristiano né ebreo, ma ateo di­ chiarato e quindi «al di sopra dei partiti». Qualunque cosa egli affermasse doveva essere necessariamente esatta, a priori. Oggi l'incompetenza tecnica ha altri marchi di garanzia.

10 O. BETZ-R. RIESNER, Jesus, Qumran und der Vatikan. Klarstellungen, Basel-Freiburg-Wien 1993 (tr. it.: Gesù, Qumran e il Vaticano. Chiarimenti, Città del Vaticano 1995).

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Il più voluminoso best seller di quegli anni era il volume, comparso con lo pseudonimo di Walter Brant, intitolato Wer war Jesus Christus? e recante un sottotitolo sempre attuale Weriindern die Schriftrollenfunde vom Toten Meer unser Chri­ stusbild?11 Oggi praticamente più nessuno conosce quel libro.

Fra tutti gli innumerevoli esempi di mancanza di conoscenze specifiche da parte del suo autore il più esilarante era certa­ mente quello relativo alla didascalia di un'illustrazione di un frammento di Qumran nella quale compariva la parola El, Dio, in scrittura paleo-ebraica ( cf. sotto, p. 131). Nella didasca­ lia egli spiegava che quello era «il nome santo Al Or El». L'in­ formazione gli derivava evidentemente da un'opera scritta in inglese, la quale cercava di far percepire ai propri lettori l' e­ satta pronuncia di questo nome di Dio come Al o EL Chi po­ trebbe immaginare che un Dio di nome Al Or El non è mai esistito? Ma la critica dei best seller raggiunge sempre soltanto una piccola parte del pubblico dei loro lettori.

11 W. BRANT, Wer war Jesus Christus? Veriindern die Schriftrollefunde vom Toten Meer unser Christusbild?, Stuttgart 1957, pp. 314, con 26 tavole fo­ tografiche e 2 cartine.

Capitolo 4

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KHIRBET QUMRAN Quando nel 1952 padre Roland de Vaux e i suoi collaboratori iniziarono finalmente a occuparsi in modo approfondito degli scavi a Khirbet Qumran, si imbatterono in uno spesso strato di cenere e trovarono in esso moltiSsime punte di frecce romane. Gli ultimi abitanti di quell'insediamento non erano quindi scap­ pati davanti all'assalto delle truppe romane, ma si erano trince­ rati nei loro edifici. Ma la superiore potenza romana non lasciò loro alcuna possibilità. Fatale fu in particolare il fatto che i tetti degli edifici in quella regione povera di materiali da costruzione erano stati coperti con foglie di palme e canne, un'autentica esca per le frecce incendiarie degli assalitori. Nelle rovine non furono rinvenuti scheletri. Dobbiamo perciò pensare che gli abitanti abbiano lasciato in tempo il loro insediamento in fiamme e si siano riversati all'esterno, dove furono certamente uccisi o fatti prigionieri. La vita un tempo ben regolata di quest'insediamento finì quindi, e per sempre, in un disastro. Successivamente i romani ricostruirono alcuni degli edifici distrutti e vi insediarono una postazione militare. Da Qumran la vista spazia lontano. Di qui si può controllare anche l'in­ gresso nel Deserto di Giuda attraverso il corso superiore del wadi Qumran. La cosa era strategicamente importante. Nel 132-135 d.C., al tempo della Seconda rivolta ebraica, qui si nascose un commando del capo degli insorti Bar Kokhba. Anche le monete trovate a Qumran attestano sia il lungo stazionamento della postazione militare romana sia la successiva presenza degli insorti.

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I giudei chiamavano questo luogo me�ad chasidin, che si­ gnifica «fortezza dei devoti» o «fortezza degli esseni». Una let­ tera della corrispondenza fra i gruppi combattenti di Bar Kokhba, trovata nel wadi Murabba'at, contiene questa antica denominazione del luogo. 1 Il termine «esseni» non è nient'al­ tro che l'italianizzazione dell'allora traduzione greca del ter­ mine aramaico essen, il quale - come il suo corrispondente ebraico chasidim - significa «i devoth>. L'insediamento di Qumran era quindi appartenuto in passato a questo grande partito religioso ebraico, che veniva chiamato al suo tempo «esseni», «devoti», circostanza questa ancora ben nota agli in­ sorti dell'episodio di Bar Kokhba. I romani e gli insorti del tempo di Bar Kokhba hanno riuti­ lizzato, o ricostruito secondo le loro necessità, solo pochi pic­ coli edifici ai piedi della torre di difesa. In seguito anche queste costruzioni sono crollate. Nessuno ha più abitato in quel luogo. Tutto è rimasto così com'era fino all'epoca moderna e tali sono rimaste anche le parti più grandi dell'insediamento sopravvissute indisturbate a due millenni sotto la coltre di ce­ nere dell'anno 68 d.C. Quando, a partire dal 1952, si cominciò a scavare ciò che era rimasto sepolto sotto gli edifici romani crollati e la coltre di cenere ricoperta di bianca sabbia, furono riportati alla luce muri di fondazione e resti di edifici di un insediamento certa­ mente non grande quanto a estensione, ma piuttosto notevole se si tiene conto delle condizioni del luogo. Entrando oggi in questo complesso di costruzioni dall'ingresso settentrionale ci si trova davanti a un complesso largo circa 75 m che si estende in direzione sud - restringendosi leggermente - per circa 50 metri. A questo complesso vanno aggiunte altre costruzioni nell'area dell'ingresso e una grande cisterna - una riserva idrica - nell'angolo di sud-est. L'intero insediamento si compone di tre sotto-complessi principali. Visto dall'ingresso settentrionale, esso presenta

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D J D II, 1961, 163-164.

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sulla sinistra il quartiere abitativo vero e proprio, in parte co­ struito anticamente su due piani, sulla destra un complesso di edifici aziendali e commerciali e davanti - come chiusura tra­ sversale - sul lato sud la sala delle riunioni che serviva anche da refettorio. Nelle condizioni proprie dell'antichità la vita e l'agricol­ tura, in questo luogo sperduto nel deserto e con temperature quasi insopportabili per la maggior parte dell'anno, erano pos­ sibili solo perché da una parte si erano presi provvedimenti e, dall'altra, si erano erette strutture che garantivano un'esistenza semi -autarchica. Per l'approvigionamento idrico venne creato in alto sulla montagna, nel corso superiore del wadi Qumran, un grande bacino in grado di raccogliere e conservare notevoli quantità d'acqua durante il periodo delle piogge invernali. Di lì una conduttura idrica, che si è in gran parte conservata fino a oggi, passando in certi punti attraverso gallerie scavate artificial­ mente nella roccia, portava l'acqua fin nell'insediamento. Al suo ingresso essa si divideva in due e alimentava un gran nu­ mero di cisterne e bacini, che servivano per le diverse installa­ zioni industriali, per i bagni rituali e per il reparto cucine.

EIN FESHKHA Le altre necessità economiche erano soddisfatte soprat­ tutto da una grande succursale di edifici commerciali e terreni agricoli che si trovava a due-tre km più a sud. Lì la montagna del Deserto di Giuda giunge praticamente fino al Mar Morto, lasciando giusto il posto per una strada. Ma là dove essa non si protende ancora cosl in avanti lascia il posto a una sottile stri­ scia costiera provvista di un stagno di acqua dolce chiamato Ein Feshkha. Ein è il termine ebraico-arabo che sta per «sor­ gente»; Feshkha è il nome proprio del luogo. Anche coloro che si sono insediati in questo luogo si sono procurati un sup­ plemento d'acqua attraverso diverse condutture scavate lungo il fianco della montagna.

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L'utilizzo di quest'acqua ha permesso di produrre in un'am­ pia zona attorno a Ein Feshkha, in direzione nord fino a più di metà strada dall'insediamento di Qumran, palme da datteri, le­ gumi e ortaggi. I noccioli del raccolto delle piantagioni di datteri sono stati trovati in grande quantità in tutta l'area attorno a Ein Feshkha, nell'insediamento di Qumran e nelle grotte dei din­ torni. La coltivazione dei cereali e di altra frutta era invece im­ possibile a causa della forte concentrazione di sale nel terreno. Con le canne, che crescono tuttora abbondantemente at­ torno a Ein Feshkha, si facevano allora stuoie, usate come tap­ peti o per la copertura dei tetti, canestri e sporte da viaggio per il trasporto dei prodotti e di altre cose. Con le palme e le loro radici si facevano bastoni, cucchiai, pettini e ogni sorta di sto­ viglie - trovate in abbondanza a Qumran e nelle grotte dei dintorni - ma si usavano soprattutto come legna da ardere per la cottura degli alimenti e per far funzionare i laboratori. La zona agricola, che è lunga circa 2 km e giunge fino a Ein Feshkha, è protetta dalle inondazioni e dagli smottamenti della montagna sovrastante da un muro di protezione in pietra di un metro di larghezza e un metro di altezza. La sua metà settentrionale risale all'epoca della monarchia israelitica pre­ esilica, cosi come un piccolo edificio a nord, nel punto dove inizia il muro. Più tardi il gruppo che si è insediato a Qumran ha riparato il vecchio muro e lo ha allungato verso sud fino a Ein Feshkha, costruendo circa a metà del suo percorso un nuovo grande edificio quadrato (12x12 m) ripartito all'interno in tre locali, che dovrebbero essere serviti per la conservazione degli attrezzi agricoli e per il deposito provvisorio dei raccolti. A circa 100 m a nord dello stagno-sorgente di Ein Feshkha, che presenta una forma circolare, si trova un più vasto com­ plesso di costruzioni e installazioni. Nella parte più lontana dal Mar Morto si trovano, disposte l'una accanto all'altra, due grandi cisterne in muratura - una con due bacini secondari - rifornite d'acqua da una cisterna più piccola situata a monte. L'acqua vi veniva convogliata me­ diante una conduttura di grande portata dai terreni posti più in alto verso occidente sul pendio della montagna. Sistemi di chi usura nel passaggio di questa conduttura idrica attraverso

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un muro di recinzione facevano in modo che l'acqua in ecce­ denza - come anche il drenaggio del bacino - potesse scor­ rere nel Mar Morto. Questo sofisticato impianto serviva per la lavorazione del cuoio grezzo. I diversi bacini erano richiesti dai diversi stadi del processo di lavorazione. Partendo dal fondo del bacino si accatastavano le pelli degli animali ponendo fra l'una e l'altra uno strato di tannino. Poi si pressava la catasta con grosse pie­ tre, diverse delle quali sono state trovate nel corso degli scavi. Per la preparazione del cuoio era necessaria un'enorme quan­ tità d'acqua che era fornita dalla conduttura che scendeva lungo il fianco della montagna. A pochi passi a sud-ovest di questa conceria si trovava un ( edificio di 24 m di lunghezza e 18 m di larghezza, originaria­ mente a due piani. Il pianterreno era costruito con solide pie­ tre, mentre il piano superiore era fatto di travi e assi. L'in­ gresso posto sul lato stretto orientale - abbastanza largo per permettere il passaggio di animali da soma - immetteva nel cortile interno attorno al quale erano disposti i magazzini. Qui si conservavano sia i prodotti finiti della conceria sia le stuoie, i canestri e le sporte che erano state preparate nel più ampio cortile esterno con le canne dei dintorni di Ein Feshkha. Un altro ingresso - immediatamente a sinistra dell'in­ gresso al cortile interno - immetteva in un ufficio. Dietro vi era un locale in cui, durante gli scavi, sono state trovate delle monete; serviva da cassaforte o archivio. A sinistra nel cortile interno vi era la scala che permetteva di accedere al piano su­ periore nel quale si trovavano diverse stanze adibite ad abita­ zione. Da una di queste stanze del piano superiore proviene uno splendido vaso di pietra calcarea, alto 70 cm e decorato con un'iscrizione, il quale quando l'edificio fu distrutto dal fuoco trapassò il pavimento in legno del piano superiore e ca­ dendo si frantumò sul pavimento di pietra del magazzino sot­ tostante. Vicinissimo all'angolo di sud-ovest di quest'edificio princi­ pale inizia un edificio lungo 34 m e largo solo 5 m. La sua pa­ rete posteriore - verso nord - è interamente in muratura; la parte anteriore aveva originariamente undici grandi aperture

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di ingresso. Gli scomparti interni di quest'edificio erano stalle per gli asini, i quali come animali da soma servivano per il tra­ sporto di materiali e derrate alimentari; il commercio con l'e­ sterno era, a quanto pare, molto intenso. Per quanto è possibile stabilire, gli edifici aziendali e com­ merciali e le altre installazioni di Ein Feshkha servivano esclu­ sivamente alla preparazione di cuoio grezzo e prodotti deri­ vanti dalle canne. Le monete, i cocci e il vaso di pietra trovati in questo luogo risalgono alla stesso periodo dell'occupazione di Qumran, dal 100 a.C circa fino alla sua distruzione nel 68 d.C. Ma le monete e una pietra che serviva per pesare mostrano che qui non si confezionavano solo oggetti ma si praticava an­ che il commercio. Esso poteva riguardare sia la vendita della propria produzione che l'acquisto di ciò di cui si aveva biso­ gno. Un importante prodotto commerciale erano, infine, i blocchi di asfalto che a volte si staccavano dal fondo del Mar Morto e venivano a galla; erano una merce molto ricercata e ben pagata. Nelle rovine di Qumran ne sono stati trovati an­ cora dei resti.

EDIFICI E INSTALLAZIONI DELL'INSEDIAMENTO DI QUMRAN L 'edificio principale Il cuore dell'insediamento di Qumran era costituito da un edificio quadrato di due piani, lungo e largo all'esterno circa 15 m. Come nel caso dell'edificio a due piani di Ein Feshkha, anche in questo caso il pianterreno era costituito da solide pa­ reti in muratura, mentre il piano superiore era costruito con travi di legno e assi. Se si entra nell'insediamento dall'ingresso principale si­ tuato a nord, come fanno abitualmente ancor oggi i turisti, l'e­ dificio rimane sulla sinistra, immediatamente dietro l'antica torre di difesa. Oltrepassata la porta di ingresso nell'angolo di nord-ovest si entra in una sala disposta su tutta la lunghezza.

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Dentro la sala sulla destra una scala saliva al piano superiore. Di lì un ponte permetteva di accedere al piano superiore della torre di difesa, che si poteva raggiungere solo in questo modo. Il pianterreno della torre era formato da un alto muro senza aperture e conteneva magazzini e dispense ben protette per i casi di emergenza, per esempio un attacco da parte di razzia­ tori. Qui c'era certamente anche un arsenale di armi per re­ spingere questi attacchi, i quali richiedevano che si stesse sem­ pre in guardia e si avesse un posto di osservazione perma­ nente. Nel piano superiore dell'edificio a due piani, rivolto verso oriente, si trovava un grande luminoso scriptorium di circa 14 m di lunghezza e 4,5 m di larghezza, dove si potevano scrivere i rotoli di cuoio e di papiro. Coloro che hanno proceduto agli scavi hanno trovato i banchi, le scrivanie e i calamai, tutti di ar­ gilla. Durante l'incendio erano caduti nel sottostante locale in muratura. Gli altri locali del piano superiore dovevano servire da abi­ tazione. Naturalmente non è più possibile rilevare, sul piano archeologico, la loro natura, poiché il piano superiore era co­ struito in legno ed è andato interamente distrutto nell'incen­ dio. Certamente anche qui vi era, come a pianterreno, un am­ pio vestibolo che conduceva dall'uscita della scala allo scrip­ torium. Lo spazio restante misurava all'interno circa 10,5 m di lunghezza - visto dal vestibolo - e 8,5 m di larghezza. Que­ sto spazio non è sufficiente per far posto a stanze indipendenti disposte attorno a un cortile interno. È possibile invece sup­ porre l'esistenza di due dormitori, separati da un muro, nei quali si entrava dal vestibolo e dove potevano essere stati rita­ gliati, a destra e a sinistra di un corridoio centrale, circa 10-12 giacigli per parte con la testa rivolta verso la parete. Se gli «ar­ madi» per i vestiti e per gli effetti personali non si trovavano nel vestibolo, ma nei dormitori, vi era spazio per un minor nu­ mero di giacigli; in ogni caso in questi locali potevano dormire una quarantina di uomini. A pianterreno, il vestibolo immette direttamente in un am­ pio locale trasversale, la cui destinazione è discussa. Durante gli scavi, qui sono stati trovati resti caduti dallo scriptorium so-

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vrastante. Molto probabilmente questo lungo locale trasver­ sale era un laboratorio, nel quale su tavoli di legno si taglia­ vano e cucivano i fogli di cuoio, facendone dei lunghi rotoli, vi si introducevano le linee di scrittura e i limiti delle colonne, si montavano all'inizio dei manoscritti i fermagli in cuoio e le cordicelle, si tagliavano i bordi superiori e inferiori dei rotoli, spesso lunghi più metri, in modo da formare dall'inizio alla fine una linea assolutamente diritta. Processi analoghi compie oggi un rilegatore di libri quando pressa il blocco di fogli che compongono un libro e li taglia in modo perfettamente uni­ forme con la sua taglierina. La lunghezza interna del locale è di circa 13 m e si addice magnificamente alla preparazione dei rotoli. In questo vestibolo del pianterreno vi è sulla destra la porta di ingresso alla biblioteca. Qui vi sono tre locali comple­ tamente chiusi verso l'esterno. Il primo locale munito di bassi sedili in muratura lungo le pareti era la sala di lettura. Non ri­ ceveva luce dall'esterno, cosa questa molto utile per i bianchi rotoli che anche oggi diventano rapidamente scuri se vengono esposti per molto tempo alla luce intensa. Per leggere i rotoli ci si serviva soprattutto di lampade a olio, collocate su candelieri o su supporti fissati alle pareti. Del resto, i membri della comu­ nità dovevano passare un terzo di tutte le notti dell'anno - o un terzo di ogni singola notte - «a leggere nel libro» - cioè nella Torah, i cinque libri di Mosè - a cercare ciò che è giusto e a lodare insieme Dio» (lQ S VI, 7-8). Ora tutto ciò non era possibile se non alla luce delle lampade. In questo locale riservato alla lettura si trova, disposto dia­ gonalmente a destra di fronte alla porta di entrata, l'ingresso alla biblioteca vera e propria, dove erano originariamente con­ servati)n scaffali e giare di terracotta i circa 1000 rotoli e docu­ menti trasferiti poi nelle grotte. A sinistra si trova la sala prin­ cipale della biblioteca, a destra una stanza in cui si conserva­ vano i rotoli meno richiesti, rovinati e scartati, materiali di ar­ chivio e tutto ciò che si accumula nel corso del tempo in una biblioteça del genere. Nella opere che trattano delle scoperte di Qumran questa sala di lettura viene abitualmente ritenuta la sala di riunione

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del Consiglio della comunità, composto di quindici membri. Ma in questo caso quale sarebbe stata la funzione dei due lo­ cali che si trovano dietro a essa? Per affermare che questa stanza era effettivamente la sala di lettura esistono due validi indizi che nelle relazioni sugli scavi non vengono purtroppo menzionati e che dobbiamo quindi descrivere esattamente. Nella parete, a sinistra dell'ingresso nella sala di lettura, si trova un'apertura grande come il pertugio di una tana di topo. Chi voleva essere ammesso nei locali della biblioteca vi do­ veva gettare una pietra a forma di polpastrello sulla quale era inciso il suo nome. Durante gli scavi di Qumran è stata effetti­ vamente trovata una pietra del genere recante il nome di un certo Giuseppe. All'interno della sala di lettura la pietra ca­ deva in una buca a forma di ciotola incavata nella parete. I cu­ stodi della biblioteca decidevano allora se concedere o meno l'autorizz azione all'accesso al richiedente. Vi sono buoni motivi per suffragare questo tipo di con­ trollo dell'accesso alla sala di lettura. Da una parte, l'accesso era vietato ai membri dell'insediamento che, a causa di qual­ che mancanza, erano temporaneamente esclusi da tutte le ' realtà comunitarie e anche a eventuali ospiti che non avevano ancora ottenuto la relativa autorizzazione, dall'altra, era allora costume che praticamente tutti coloro che leggevano qualcosa lo facessero ad alta voce. Di qui deriva del resto il modo di dire secondo cui in un certo posto ci si comporta «come in una scuola ebraica». A Qumran le cose non stavano altrimenti. Si richiedevano quindi particolari orari di apertura della biblioteca per i diversi livelli dei membri della comunità. Chi aveva deciso di diven­ tare esseno doveva studiare fin dall'inizio la Torah, e ben pre­ sto anche opere come il libro di Isaia e il Salterio. Altre opere - fra i libri biblici ad esempio i profeti Ezechiele o Daniele, fra le opere extra-bibliche ad esempio le regole della comunità o gli scritti esegetici - erano riservati ai proficienti e i testi esoterici, come la Liturgia angelica ai membri a pieno titolo. Nessuno quindi doveva entrare nella sala di lettura se non era autorizzato ad ascoltare ciò che un altro stava leggendo. Per i principianti i tempi di lettura erano limitati; per il resto della

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giornata dovevano mandare a memoria ciò che di nuovo ave­ vano imparato e fare un passo avanti a ogni successiva possibi­ lità di lettura. Il rigido controllo dell'ingresso alla sala di let­ tura era al servizio di questo ordinato sistema di ammissione. Naturalmente il dispositivo tecnico per il controllo degli ingressi varrebbe anche nel caso in cui si fosse trattato di una sala di riunione riservata ai soli membri del gruppo direttivo dell'insediamento, i quali dovessero essere identificati prima di essere fatti entrare. Anche se piuttosto strana una tale ipo­ tesi non sarebbe tale da doversi escludere. Particolarmente im­ portante è quindi il secondo indizio, che è inequivocabilmente specifico di una biblioteca. Entrando dall'esterno nella sala di lettura si può osservare sulla sinistra, nella parete di fronte, una specie di finestra. Essa serviva un tempo come apertura attraverso la quale passare i rotoli. Sulla parte posteriore dell'apertura vi è - un po' abbas­ sata - una piattaforma in muratura, larga circa mezzo metro e lunga quasi tre metri, con una superficie liscia, perfettamente piana e un tempo molto levigata a causa di una lunga utilizza­ zione. L'unica plausibile funzione di questa sorprendente instal­ lazione deriva dalle imprescindibili esigenze di una biblioteca composta di rotoli. Quando un lettore richiedeva una determi­ nata opera, il bibliotecario la estraeva dallo scaffale e gliela porgeva nella sala di lettura attraverso questa finestra. Diversi di questi rotoli avevano una lunghezza da un metro e mezzo a tre metri, ma molti erano lunghi fino a dieci metri; un mano­ scritto completo della Torah - i frammenti di almeno una co­ pia del genere sono stati trovati nella grotta 40 - misurava circa venticinque metri. L'interessato riceveva chiuso un rotolo così lungo, sempre scritto da destra a sinistra, solo quando voleva iniziare a leg­ gerlo dal principio. Negli altri casi il bibliotecario glielo svol­ geva sulla sua piattaforma fino alla parte del testo che doveva essere letta. La parte svolta all'esterno veniva contemporanea­ mente arrotolata con la mano destra. Se per esempio il lettore voleva leggere il c. 40 di Isaia riceveva praticamente una specie di doppio rotolo, le cui due parti erano legate dal foglio di

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cuoio sul quale si trovava Is 40. Se il lettore avesse eseguito quest'azione nella sala di lettura in posizione accovacciata, il prezioso rotolo avrebbe molto facilmente riportato dei danni. Sulla sua speciale piattaforma il bibliotecario procedeva anche a riarrotolare il manoscritto una volta letto. Infatti i lun­ ghi rotoli dovevano essere arrotolati in modo uniforme e molto stretto se si voleva che durassero. A mano libera e sulle proprie ginocchia la cosa non era tecnicamente possibile. Nell'antichità i rotoli non avevano all'inizio e alla fine - cosa oggi abituale per i rotoli conservati nelle sinagoghe - quel bastone con im­ pugnatura che facilita lo srotolamento e il riarrotolamento. I rotoli erano cavi all'interno e avevano all'inizio e alla fine sol­ tanto dei fogli di protezione non scritti. Così all'inizio e alla fine della lettura si poteva tenere saldamente il manoscritto e arro­ tolarlo senza danneggiare il testo che vi si trovava. Una volta studiato e accuratamente riavvolto, il mano­ scritto veniva ricollocato al suo posto di origine nell'armadio. Alcune opere recavano il titolo scritto all'esterno sul mano­ scritto. Finora si è potuto documentare questo utile accorgi­ mento - si poteva conoscere il contenuto del manoscritto senza aprirlo - solo per tre manoscritti particolarmente anti­ chi. Negli altri casi bisognava aprire i manoscritti fino all'inizio del testo per sapere che cosa contenevano. Ma un buon biblio­ tecario conosce bene i suoi tesori; nella maggior parte dei casi egli sa, anche senza titolo esterno e senza bisogno di aprirlo, che cosa contiene un determinato manoscritto.

Altre costruzioni del complesso principale Oltre all'edificio a due piani con la biblioteca, il laborato­ rio per la preparazione dei rotoli, lo scriptorium e i dormitori, nella sezione del complesso adibita ad abitazione vi erano sulla sinistra altre installazioni necessarie per la vita di tutti i giorni. Così in questa zona gli scavi hanno riportato alla luce la cucina e la panetteria con annesse le relative dispense e di­ verse macine per i cereali. Vicino al lato orientale dell'edificio a due piani vi era un bagno che serviva per ripulire il corpo dal sudore e dalla spor-

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cizia. I bagni di immersione erano riservati esclusivamente alla purificazione rituale, la quale presupponeva un'assoluta puli­ zia del corpo. Inoltre, nei bagni rituali l'acqua doveva conti­ nuamente entrare e uscire per esprimere il potere simbolico del rito di immersione. Ora «acqua corrente» si dice in ebraico «acqua viva», il che significa anche «acqua della vita». Così si esprime il simbolismo della «Vita eterna», con cui anticamente il rito dell'immersione era in relazione. Per la pulizia del corpo serviva spesso anche l'acqua calda, che non si doveva lasciar scorrere via inutilizzata non appena era stata versata nella va­ sca da bagno. Anche per questo il bagno per la pulizia del corpo e il bagno rituale erano due installazioni completamente diverse. A Qumran non esistevano invece assolutamente i gabi­ netti. Per fare i propri bisogni si doveva lasciare l'insedia­ mento e portarsi a una certa distanza all'aperto, scavare una buca, accovacciarsi senza svestirsi e infine ricoprire la buca di terra. Una zappa di legno usata a tale scopo è stata trovata an­ cora in buono stato in una delle grotte di Qumran. A sud, collegato con il complesso abitativo, vi è il locale adibito alla produzione di oggetti di terracotta con i suoi due forni. Qui si producevano giare per la conservazione delle der­ rate alimentari, giare per la conservazione dei rotoli, coperchi delle giare, scodelle, ciotole, pentole, boccali, tazze per bere, lampade a olio e calamai. Vicino ai forni è stata ritrovata la piattaforma girevole per la lavorazione dell'argilla e a distanza di qualche metro il luogo dove si preparava l'argilla a partire dai materiali grezzi. L'acqua per impastare l'argilla proveniva dalla grande cisterna che si trova sul posto e costituisce la fine dell'intero sistema idrico di raccolta dell'acqua.

Gli edifici dell:azienda artigianale-commerciale Nel complesso degli edifici destinati alle attività artigianali e commerciali c'erano ampie stalle in grado di contenere molti asini da soma. Essi erano utilizzati per trasportare da Ein Feshkha pesanti carichi di stuoie di canne, rotoli di cuoio grezzo, raccolti dei vari prodotti o legna da ardere. Ma gli asini

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era usati soprattutto per procurarsi cose che non potevano es­ sere prodotte né a Qumran né a Ein Feshkha. Si trattava, in particolare, di cereali, vino, olio per le lampade, stoffe di lino per i vestiti, olive, meloni, ortaggi, frutta e profumi o di oggetti di metallo come coltelli e armi di difesa. Tutto ciò era acqui­ stato normalmente al mercato di Gerico, distante 12 km, e pa­ gato o in contanti o con merci di propria produzione. Le stalle degli asini erano per così dire il garage del tempo. Qumran ha commerciato anche con la gente di fuori. A tale scopo vi era anzi una struttura particolare, dato che nes­ sun estraneo poteva entrare nel recinto interno dell'insedia­ mento. Proprio ai contatti commerciali con gli estranei servi­ vano le due aperture a forma di feritoia nel muro esterno di uno degli edifici del settore agricolo-commerciale. Il locale in cui si trovano è situato in un punto del muro occidentale del­ l'insediamento, dove dall'esterno si poteva arrivare solo a piedi, prima che il muro raggiungesse il limite della terrazza marnosa e impedisse quindi di procedere oltre. In seguito que­ sto passaggio all'esterno venne murato (cf. sotto, p. 84). Sepolte nel pavimento non intonacato della parte poste­ riore di questo doppio locale sono state trovate tre giare con 561 monete; il pavimento serviva a quel tempo per così dire da cassaforte - esattamente come da noi in passato la gente era solita nascondere le cose preziose sotto le assi del pavimento delle stanze. Il commercio con gli estranei si svolgeva in questo modo: dopo essersi accordati sullo scambio e sul prezzo, colui che era all'interno teneva il proprio danaro o il proprio og­ getto in un'apertura e colui che era all'esterno teneva il pro­ prio danaro o il proprio oggetto nell'altra apertura; in tal modo il danaro o la merce passava di mano contemporanea­ mente. Se colui che era all'esterno avesse semplicemente al­ lungato la propria merce o il proprio danaro avrebbe potuto temere di non ricevere in cambio il danaro o altra merce; in caso contrario, se gli fosse stata pagata la merce senza averla saldamente in mano, se ne sarebbe potuto andare con il da­ naro e la merce. Lo stesso sistema di doppia apertura per questi piccoli commerci si trova, in epoca posteriore, anche nel muro

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esterno dei conventi cristiani del Deserto di Giuda; evidente­ mente anche i monaci non hanno ammesso gli estranei all'in­ terno del recinto. Sorprende il costatare come nelle pubblica­ zioni su Qumran non si parli affatto di queste aperture nel muro destinate al commercio con l'esterno e come si conside­ rino per lo più semplici nascondigli di tesori dimenticati i de­ positi di cassa custoditi nel pavimento, il che è assurdo.

Il laboratorio per la concia delle pelli Nel settore degli edifici destinati a uso agricolo e commer­ ciale, più a sud di questo doppio locale con annessi magazzini riservato al commercio con l'esterno, si trova un complesso, la cui funzione originaria è apparsa in un primo momento agli scavatori un vero e proprio enigma. Nella sua relazione prov­ visoria sugli scavi - quella definitiva non è stata ancora com­ pletata - padre de Vaux si è limitato a costatare che qui de­ vono essere state utilizzate enormi quantità d'acqua; sul posto esisteva, inoltre, un grande forno. Ma a che cosa poteva servire questa giustapposizione di fuoco e acqua? È possibile intravvedere una soluzione dell'enigma se si consideranp attentamente le peculiari installazioni di questi locali. Vi sono due grandi cisterne, entrambe costruite in so­ lida muratura e impermeabilizzate con un rivestimento di ar­ gilla. Una cisterna è lunga e piatta, incavata nel terreno, con una conduttura d'acqua in entrata. L'altra cisterna è soprae­ levata dal terreno ed è pressappoco all'altezza delle ginoc­ chia, per cui l'acqua vi doveva essere attinta e versata con dei secchi. Non può essersi trattato di una lavanderia, trattandosi di una struttura troppo dispendiosa per un tale scopo. Del resto, si è potuto stabilire senza ombra di dubbio che la lavanderia dell'insediamento di Qumran si trovava in un'altra sezione de­ gli edifici adibiti al commercio. Le strutture riunite in questi locali sono esattamente quelle che sono necessarie per una conceria delle pelli che servono per i manoscritti. La cisterna incavata nel terreno serviva per la macerazione delle pelli grezze e per il loro ulteriore trattamento con i pro-

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dotti necessari. La cisterna sollevata serviva poi per levigare con pietra pomice la parte della pelle destinata alla scrittura e per strofinare l'altra parte fino a conferirle l'aspetto deside­ rato, quello di un foglio spesso sottilissimo. A tale scopo si usa­ vano altri prodotti che non dovevano scorrere via prima di aver esaurito la loro funzione, per cui si era provveduto a co­ struire un parapetto in muratura sufficientemente alto attorno alla cisterna. Ma per questi processi tesi a rendere malleabile la pelle si richiedeva anche acqua calda. A questo serviva una grande caldaia metallica sospesa sopra la fornace. Se per la preparazione del cuoio grezzo bastava accata­ stare e pressare le pelli degli animali, qui ogni singola pelle do­ veva essere lavorata separatamente. Inoltre, i rotoli trovati nelle grotte di Qumran ci permettono di concludere che qui venivano a volte lavorate anche altre pelli, per esempio pelli di antilopi, diverse quindi da quelle provenienti dai propri alleva­ menti di pecore e di capre, che ricevevano un primo tratta­ mento nella conceria di Ein Feshkha. Ma questa conceria era soprattutto l'indispensabile stazione intermedia fra la prima lavorazione del cuoio grezzo e il laboratorio per la prepara­ zione dei rotoli, situato a pianterreno dell'edificio principale a due piani, il quale provvedeva a tutto il resto.

Altre costruzioni a uso artigianale-commerciale È difficile dire quali altre installazioni vi fossero nei re­ stanti edifici artigianali-commerciali e questo perché le rela­ tive attrezzature sono andate completamente distrutte durante l'incendio dell'insediamento di Qumran. Probabilmente c'era anche un laboratorio per lavorare la lana, del quale si occupavano soprattutto le donne, nonché un laboratorio di tornitore per la lavorazione di manici per le sto­ viglie domestiche, di lance, di aste di lance, zappe, nonché ogni sorta di lavori di intaglio, cucchiai e ramaioli, pettini, penne da scrivere, cassepanche e cassetti per ogni tipo di utensili, in breve, tutto ciò che allora si usava ricavare dal legno. Indispensabile era anche una calzoleria per la produzione ad esempio di sandali e cinture, sottili strisce di cuoio e ferma-

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gli per i rotoli o scatolette per la preghiera e per gli stipiti delle porte. Un altro locale degli edifici a uso artigianale-commerciale induce a pensare che vi abbia lavorato un fabbro, fabbricando candelabri e sostegni appesi alle pareti per le lampade a olio, graticole, molle per attizzare il fuoco, recipienti di rame, car­ dini delle porte, catenacci, serrature e chiavi, punte di frecce, coltelli e altri piccoli oggetti di uso corrente. Tutto ciò che era necessario per lo svolgimento della vita quotidiana è stato realizzato per quanto possibile autonoma­ mente all'interno dell'insediamento di Qumran al fine di con­ tenere le spese degli acquisti all'esterno. Ma oggi è difficile sta­ bilire con esattezza che cosa la comunità di Qumran abbia pro­ dotto in proprio e che cosa abbia comprato in più delle mate­ rie prime.

La sala delle riunioni Accanto alla biblioteca come luogo centrale dello studio e allo scriptorium, la struttura più importante della vita quoti­ diana dell'insediamento era senz'altro la sala delle riunioni che chiude a sud l'intero complesso delle costruzioni. Qui si riunivano tre volte al giorno - per la preghiera del mattino, per il pasto del mezzogiorno e per la cena - tutti i membri a pieno titolo della comunità essena di Qumran. Presso gli esseni, membri a pieno titolo si diventava non prima di aver compiuto un periodo triennale di tirocinio. Al ter­ mine di ogni anno il candidato era sottoposto a un esame fina­ lizzato a stabilire se il livello di conoscenze attinto nel corso del­ l'anno era sufficiente e se il concreto stile di vita del candidato era stato durante l'anno conforme alla vera pietà richiesta dalla Torah. Solo chi superava questo esame saliva di un grado nella sua appartenenza alla comunità e solo il superamento del terzo esame lo rendeva membro della comunità a pieno titolo. Chi non aveva ancora raggiunto lo stadio della piena ap­ partenenza doveva recitare le preghiere da solo e prendere i pasti a parte. Ai membri a pieno titolo era invece prescritto di pregare e mangiare sempre insieme.

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I pasti comuni nella sala delle riunioni erano sempre pre­ ceduti da un rito religioso. Era soprattutto questo il motivo per cui i pasti costituivano un atto cultuale richiedente la purità ri­ tuale. All'entrata della sala delle riunioni si trova una grande cisterna, nella quale ognuno doveva scendere prima di entrare nella sala. Un canaletto trasversale del canale che porta l'ac­ qua a questa cisterna penetra, sul .lato frontale occidentale, di­ rettamente nella sala, la quale presenta un'evidente pendenza verso l'estremità opposta. Quest'acqua serviva a ripulire accu­ ratamente dai resti di cibo e da ogni altra sporcizia il pavi­ mento della sala dopo i pasti. Ciò era necessario anche per il fatto che a Qumran non si prendevano i pasti a tavola, ma seduti sul pavimento nella «po­ sizione del sarto»; la scodella con il cibo e la ciotola per bere venivano poste a fianco. E tuttavia la riunione per i pasti è stata presentata come «Un riunirsi a tavola» e la sua prepara­ zione come un «preparare la tavola>> e questo perché nella case private di Gerusalemme e della Giudea si era diffusa l'a­ bitudine di disporsi per i pasti attorno a basse tavole. Quest'u­ sanza finì per influenzare anche la terminologia. Ma gli esseni prendevano di fatto i loro pasti sul nudo pavimento, come del resto facevano anche i pellegrini nell'area del tempio di Geru­ salemme. Se nella sala delle riunioni vi fossero stati dei tavoli non sarebbe stato possibile svolgervi il rito della preghiera se­ condo il costume esseno. Il culto comunitario in apertura dei pasti si svolgeva infatti secondo le stesse modalità del rito in uso nel tempio di Geru­ salemme. Nelle sinagoghe ebraiche si prega stando in piedi ­ non solo oggi, ma già al tempo di Gesù (cf., per esempio, Mt 6,5; Le 18,11.13). Nel culto del tempio invece ci si inginoc­ chiava per la preghiera e ci si piegava profondamente in avanti, con le braccia distese, finché la fronte toccava il pavi­ mento. Così fanno ancor oggi i musulmani nelle loro moschee, anche se non allargano le braccia, ma aprono semplicemente le palme delle mani vicino al capo sul pavimento. Nell'anti­ chità, questa posizione della preghiera era detta prostrazione o proschinesi; essa esprime in modo particolare il rispetto da­ vanti a Dio, Signore di tutto ciò che esiste nel mondo. Nell'an-

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tico Oriente, ci si prostrava in questo modo anche davanti ai sovrani; le braccia aperte mostravano chiaramente che non si aveva in mano nessuna arma letale. Nei riguardi di Dio questo gesto significava la completa sottomissione a lui. La sala delle riunioni di Qumran misura all'interno 22 m di lunghezza e 4,5 m di larghezza, quindi circa 100 m2• Stando in piedi qui potevano pregare . comodamente 200 uomini; acco­ vacciati potevano prendervi i loro pasti più di 100 uomini. Ma tenendo conto del fatto che, durante il rito di preghiera con­ forme a quello in uso nel tempio, non potevano pregare affian­ cati più di 6 uomini in ogni riga, che ogni riga richiedeva uno spazio profondo almeno 1,75 metri e che nella parte frontale della sala doveva restare un sufficiente spazio libero per colui che presiedeva la preghiera, si giunge alla conclusione che il locale era stato progettato per la preghiera e i pasti comunitari al massimo di 6 x 10, cioè 60 uomini. Il numero di 60 è quindi il numero massimo dei membri a pieno titolo della comunità essena dell'insediamento di Qum­ ran. Ma poiché il numero di 60 è il numero più alto che aveva in mente il costruttore di questa sala al momento della sua rea­ lizzazione, si deve contare addirittura su un numero un po' in­ feriore di presenze regolari. Bisogna quindi riconoscere che normalmente a Qumran vi era solo una cinquantina di esseni; certamente non un numero di molto superiore ma anche non di molto inferiore.

I cimiteri : Il valore statistico che si ricava dalla superficie utile della sala delle riunioni corrisponde grosso modo a quello che si ri­ cava dalla presenza di tombe nei cimiteri di Qumran. Si conoscono certamente nell'antichità trasferimenti di de­ funti anche in luoghi di sepoltura spesso molto lontani, nel caso in cui tale fosse stato il desiderio del defunto o dei pa­ renti. I giudei desideravano soprattutto essere sepolti nella città santa di Gerusalemme o nei cimiteri che la circondavano. Generalmente ci si trasferiva già da vivi nel luogo che in cui si

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desiderava essere sepolti, perché solo in questo modo si aveva la certezza che le ultime volontà sarebbero state rispettate e anche perché le condizioni climatiche non erano assoluta­ mente favorevoli al trasporto delle salme. Ancor oggi persino nell'elevata Gerusalemme - per lo meno in estate - per quanto è possibile si seppelliscono i morti il giorno stesso della morte. Dato il clima del Mar Morto, si può ritenere a maggior ragione che tutti coloro che lì sono deceduti vi siano stati an­ che effettivamente sepolti e certamente che nessuno vi sia stato trasportato da altrove, eccetto che, in bare di legno di cui sono stati trovati alcuni esemplari, da Ein Feskhka distante solo 3 km. A Qumran esiste un cimitero principale con circa 1000 tombe individuali. Questo cimitero inizia a circa 50 m a est del­ l'insediamento e ricopre l'intera superficie fin dove la terrazza mamosa scende bruscamente verso il Mar Morto. Un cimitero più piccolo si trova un po' più in basso su una protuberanza della terrazza mamosa e un altro a valle, dove il wadi Qumran lasciando la terrazza mamosa giunge nella striscia costiera. Globalmente in questi due cimiteri più piccoli sono state se­ polte circa 200 persone. Nel quadro degli scavi di Qumran sono state aperte nel corso del tempo 54 tombe. Nel cimitero principale questi son­ daggi hanno portato alla luce una sola tomba di donna; in tutte le altre tombe sono stati trovati sempre e solo uomini. Negli al­ tri cimiteri si sono trovate diverse tombe di donne e di bam­ bini, ma anche tombe di uomini. Probabilmente nel cimitero principale, soprattutto a Qumran, sono stati sepolti solo mem­ bri esseni a pieno titolo, mentre negli altri cimiteri sono stati sepolti coloro che non avevano ancora raggiunto lo stadio del­ l'appartenenza a pieno titolo, oltre alle donne, ai bambini e ai forestieri morti nella regione. Fondato verso il 100 a.C. e distrutto nel 68 d.C., l'insedia­ mento di Qumran è esistito per circa 170 anni. Se si ritiene che il numero di circa 1000 tombe del cimitero principale corri­ sponda grosso modo al numero dei membri a pieno titolo morti nel corso di questo periodo di tempo, si avrebbero in media sei morti all'anno. Si poteva diventare membri a pieno

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titolo al più presto con il compimento del ventesimo anno di età. Diverse persone dovevano essere già più anziane al mo­ mento della loro definitiva ammissione. Un'età media di am­ missione di 22 anni è quindi tutto sommato realistica. D'altra parte, le ricerche condotte sugli scheletri hanno dimostrato che coloro che sono stati qui sepolti avevano un'età compresa fra i 25 e i 35 anni, dunque mediamente un'età di 30 anni. Da simili costatazioni e calcoli si ricava una durata del sog­ giorno a Qumran dei membri esseni a pieno titolo fino alla loro morte di circa otto anni. Al riguardo è ininfluente - dal punto di vista statistico - l'oscillazione del numero delle pre­ senze durante questi 170 anni, il numero di coloro che vi sono rimasti solo per breve tempo o vi hanno passato per un tempo più lungo il resto della loro vita, il numero di coloro che vi hanno trovato rapidamente una morte inattesa o di coloro che sono ritornati sani e salvi nei loro luoghi di origine. Per la me­ dia statistica tutto questo è del tutto indifferente. Rapportato a sei casi di morte all'anno, un soggiorno me­ dio di otto anni fino alla morte significa che qui hanno vissuto normalmente circa 48 membri esseni a pieno titolo, pratica­ mente lo stesso numero già emerso dalle considerazioni rela­ tive alla capienza della sala delle riunioni. Infine, c'è da ritenere che le circa 200 tombe degli altri ci­ miteri siano per metà tombe di uomini non ancora membri a pieno titolo della comunità e per metà tombe di donne, bam­ bini e forestieri. In tal caso nell'insediamento di Qumran sono vissuti mediamente circa cinque aspiranti e quattro-cinque donne. Le donne che vi vivevano dovevano essere sposate, non sappiamo se con i membri a pieno titolo o con gli aspi­ ranti. In ogni caso, circa il 90% degli uomini risiedeva qui senza le rispettive mogli. Trattandosi per lo più di uomini gio­ vani, in età compresa fra i 25 e i 35 anni, non è logico pensare che si fossero tutti separati dalle loro mogli o che esse fossero già morte. Ciò valeva certamente solo per una parte degli abi­ tanti di Qumran. Questo dato mostra, inoltre, che gli esseni che vivevano a Qumran non erano affatto contrari al matrimonio, ma anche, al tempo stesso, che per la maggior parte di loro la perma-

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nenza a Qumran comportava una separazione di fatto, anche se temporanea, dalla loro famiglia.

Locali adibiti ad abitazione e dormitorio Subito dopo la scoperta della grotta 20, all'inizio del 1952, furono sistematicamente esplorate da padre de Vaux, dalla sua équipe archeologica e dai beduini in qualità di collaboratori volontari ben 270 grotte naturali sul versante occidentale della montagna, da circa 4 km a nord fino a 4 km a sud di Qumran. In 230 grotte non furono evidenziate tracce di attività umana, mentre 40 grotte erano state temporaneamente usate dal IV sec. a.C. fino i nostri giorni, anche se poche come vere e pro­ prie abitazioni. Normalmente queste grotte servivano da rifu­ gio contro le intemperie o per conservarvi le cose più diverse di persone che si trattenevano per un certo tempo nei paraggi, per lo più al seguito dei loro greggi durante il periodo delle piogge invernali. In 26 di queste 40 grotte usate nel corso dei millenni sono stati trovati anche frammenti di stoviglie e uten­ sili di argilla fabbricati a Qumran. Teoricamente qui potrebbe essere quindi vissuta una parte dell'allora popolazione di Qumran. Ma la cosa era concretamente possibile? Le effettive possibilità di abitazione per gli esseni che vive­ vano a Qumran erano molto limitate. Anche in giorno di sa­ bato essi dovevano recarsi regolarmente nella sala delle riu­ nioni per la preghiera del mattino, il pasto del mezzogiorno e quello della sera. Ora una prescrizione relativa al sabato e che essi dovevano rigidamente osservare prevede che nessuno può percorrere in quel giorno un tratto più lungo di 1000 cubiti - 500 metri scarsi - fuori dalla «sua città» (CD X,21). La norma si riferisce certamente alla distanza e non alla somma dei passi che si fanno effettivamente per coprirla. Applicato alla situazione di Qumran, «la città» di coloro che qui vivevano si identificava con il perimetro degli edifici dell'insediamento vero e proprio chiaramente delimitato verso l'esterno dalla cinta in muratura. Le possibilità abitative nei suoi dintorni non potevano essere considerate componenti integrative di questa «città». Il che significa che nessun esseno abitante a Qurnran

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poteva risiedere a più di 500 metri scarsi dall'insediamento; al­ trimenti avrebbe necessariamente trasgredito la norma rela­ tiva al sabato, trasgressione che comportava una pesante puni­ zione. Viene quindi meno la possibilità abitativa della maggior parte delle 26 grotte che sono state usate come abitazioni dagli abitanti di Qumran nel corso del tempo, poiché si trovano sul pendio della montagna a una distanza di almeno a 200 m. Gli esseni avrebbero potuto abitare soltanto in grotte del pendio della montagna situate a circa 300 m di distanza dal wadi Qumran in direzione nord e sud. Ma le grotte 1Q, 2Q, 3Q e l lQ, in cui sono stati trovati rotoli, si trovano addirittura tra 1,1 e 2,3 km da Qumran. Le grotte che si trovano oltre il raggio di 500 m scarsi e ri­ guardo alle quali si è potuto dimostrare senza ombra di dubbio che sono state usate per i più diversi scopi dovrebbero essere essenzialmente ricondotte - a prescindere dall'utilizzazione per nascondere i rotoli - all'occasionale utilizzazione da parte dei pastori di bestiame di piccola taglia degli esseni, i quali pa­ scolavano le loro greggi lungo il pendio della montagna che per primo si ricopriva di erba. La cosa era possibile al sabato persino a una distanza doppia, quindi in un raggio di quasi 1000 m di distanza dalla «Città» (CD XI, 5-6). In singoli casi possono aver dimorato temporaneamente nelle grotte del pendio della montagna distanti più di 500 m da Qumran anche quegli esseni che a causa di colpe commesse erano esclusi per un certo tempo dall'intera vita della comu­ nità. Ma queste grotte non sono mai state abitazioni vere e proprie dei membri di Qumran. Ciò è stato confermato da nuovi sopralluoghi. Nessuna di queste 26 grotte è stata attrez­ zata per una regolare residenza abitativa durante il tempo del­ l'insediamento di Qumran; sono state lasciate tutte allo stato naturale e utilizzate solo saltuariamente. Non resta quindi altra possibilità che ammettere che molti più esseni di quanto normalmente si pensi abbiano abitato di fatto all'interno dell'insediamento di Qumran o nell'area im­ mediatamente circostante della terrazza marnosa. Si continua a dare per scontato che vi siano stati a Qumran 150-300 esseni,

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i quali sarebbero vissuti principalmente da Ein Feshkha al sud fino alla grotta 3Q a nord in grotte scavate nella roccia lungo il pendio della montagna o in capanne vicino a queste grotte. Ma il ridimensionamento di questa cifra esageratamente alta mediante la prova delle effettive possibilità di utilizzazione della sala delle riunioni e la valutazione statistica della consi­ stenza dei cimiteri - in quella di circa 55 membri a pieno ti­ tolo e aspiranti esseni dimoranti a Qumran apre nuove pro­ spettive anche per la questione del problema abitativo. Della presenza nel piano superiore dell'edificio principale a due piani dell'insediamento di Qumran di due dormitori per circa 40 uomini abbiamo già parlato. Gli scavi hanno inoltre ri­ portato alla luce, al limite meridionale della sporgenza della terrazza mamosa su cui si trova l'insediamento, quattro locali adibiti ad abitazione e a luogo di lavoro di studiosi della legge. Questi locali erano raggiungibili solo mediante il sentiero che attraversava l'insediamento e facevano naturalmente parte del quartiere abitativo più vicino. In uno di questi locali, la grotta 8Q, sono stati trovati persino la scatoletta per lo stipite della porta e la scatoletta per la preghiera dell'ultimo occupante, il che sta a indicare che questa «grotta» era allora un'abitazione vera e propria. Al di fuori dell'insediamento ma nelle sue immediate vici­ nanze si trovano le grotte 4Q e 5Q, originariamente vere e proprie grotte adibite ad abitazione. La grotta 4Q, particolar­ mente grande e suddivisa all'interno in vari scomparti, poteva ospitare addirittura due-quattro persone, che potevano vivervi simultaneamente senza disturbarsi a vicenda. La grotta lOQ, più piccola, nella stessa sporgenza della terrazza mamosa, non era altro che un locale di abitazione per una singola persona. Esistono ancora molte altre grotte adibite ad abitazione nelle sporgenze della terrazza mamosa; esse non vengono pratica­ mente mai ricordate nella letteratura su Qumran solo per il fatto che non vi sono stati trovati rotoli né resti degni di nota dei loro antichi abitatori. In totale nelle grotte della terrazza mamosa - compresi i quattro locali adibiti ad abitazione e luogo di lavoro degli stu­ diosi della legge - dovrebbero aver abitato perlomeno 10-15

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uomini, in parte con le loro famiglie se si tengono in dovut9 conto la relativa mancanza di pretese dell'epoca per quanto ri­ guarda il problema abitativo e le situazioni particolari di Qum­ ran. Altri locali adibiti ad abitazione si trovavano nel piano su­ periore dell'edificio a due piani di Ein Feshkha. Lì abitava cer­ tamente l'economo dell'azienda agricola con il suo contabile e l'amministratore delle piantagioni a nord di Ein Feshkha; in­ fatti la costruzione che vi si trovava non aveva alcun locale de­ stinato ad abitazione. Gli altri alloggi al piano superiore dell'e­ dificio principale di Ein Feshkha erano riservati ai conciatori e ai pastori delle greggi di animali di piccola taglia. I pastori delle greggi di pecore e capre erano comunque abitualmente in giro dietro alle loro bestie, in estate fino molto in alto sulla montagna, poiché in quella stagione sul Mar Morto non vi era più foraggio a sufficienza. Essi passavano la notte dove capitava e ovunque potessero trovare un riparo per le loro greggi. Nel frattempo le loro famiglie potevano vivere, assieme a quelle dei conciatori, nell'edificio principale di Ein Feshkha. La fabbricazione di stuoie, canestri e sporte con l'uso delle canne era in ogni caso un lavoro femminile così come la lavorazione della lana. I membri della famiglia erano pratica­ mente indispensabili per l'azienda agricola. Del resto, a Ein Feshkha non esiste alcun cimitero. Ciò si­ gnifica che chi vi moriva veniva sepolto in uno dei cimiteri di Qumran, in caso di membri a pieno titolo nel cimitero princi­ pale vicino all'insediamento, negli altri casi soprattutto nel ci­ mitero secondario che si trovava presso la foce del wadi Qum­ ran nella zona costiera del Mar Morto. Così si spiega senza difficoltà il numero relativamente alto di tombe di donne trovate in questo cimitero, in parte con bambini, poiché le donne sposate che vivevano in questa re­ gione dovevano essere occupate prevalentemente nel quadro delle aziende produttive di Ein Feshkha e nelle piantagioni agricole. Inoltre, gli scavi nei dintorni di Ein Feshkha non hanno portato alla luce alcuna cisterna per i bagni rituali. Ciò signi­ fica che tutti i membri a pieno titolo che vi risiedevano erano

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effettivamente obbligati a recarsi per la preghiera del mattino, il pranzo e la cena nella sala delle riunioni dell'insediamento di Qumran. Probabilmente essi venivano temporaneamente di­ spensati da quest'obbligo, per cui vi si recavano di fatto solo al sabato, nei giorni di festa o in particolari occasioni e allora pas­ savano la notte a Qumran. Diversi locali più piccoli nell'area dell'ingresso nell'insediamento dovevano servire proprio per alloggiare questi membri e altri «Ospiti» in caso di necessità. Negli edifici dell'insediamento e nelle grotte adibite ad abitazione della terrazza marnosa circostante vi era abba­ stanza posto perché tutti i residenti potessero abitarvi e dor­ mire. L'ipotesi corrente, non suffragata peraltro da alcuna prova archeologica, secondo cui gli abitanti di Qumran sareb­ bero vissuti essenzialmente in tende e capanne sparse su un ampio raggio, in particolare nell'area più vicina alle grotte in cui sono stati trovati i rotoli, è quindi del tutto superflua e og­ gettivamente inesatta. Recentemente fotografie scattate dall'alto hanno mostrato che nell'antichità non esisteva alcun sentiero che conducesse dalle grotte in cui sono stati ritrovati i manoscritti sul versante della montagna all'insediamento di Qumran. Questo dato ne­ gativo sta a dimostrare che fra gli abitanti delle grotte sul ver­ sante della montagna e l'insediamento di Qumran non vi era alcuna connessione e che i due ambiti dovevano essere consi­ derati assolutamente indipendenti fra di loro. Esatto al ri­ guardo è solo il fatto che le grotte del versante della montagna in cui sono stati trovati i manoscritti e il loro ambiente circo­ stante non sono mai serviti di abitazione agli abitanti di Qum­ ran. Chi lavorava a Qumran vi ha anche abitato e dormito. Del perché e del come i rotoli sono finiti nelle grotte parleremo al­ trove.

LA FINALITÀ DELL'INSEDIAMENTO DI QUMRAN E DI EIN FESHKHA In base ai risultati degli scavi non vi è alcun dubbio che l'insediamento di Qumran e gli edifici a uso agricolo di Ein

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Feshkha sono sorti contemporaneamente attorno al 100 a.C. e sono rimasti essenzialmente immutati fino alla loro distru­ zione nel 68 d.C. Il fatto è confermato dai ritrovamenti di mo­ nete e di ceramiche nei due luoghi e, in particolare, dallo stile architettonico dei due edifici principali di Qumran e Ein Feshkha, con il loro massiccio pianterreno in muratura e il piano superiore in legno, nonché da altri molteplici dettagli ar­ chitettonici. D'altra parte, gli scavi hanno anche dimostrato che l'inse­ diamento di Qurnran quale è stato qui descritto deve essere stato immediatamente preceduto da un'altra fase costruttiva di breve durata. Perciò si suppone abitualmente che l'insedia­ mento di Qumran sia stato inizialmente di dimensioni piutto­ sto modeste e che dopo un certo tempo si sia proceduto a più ampie costruzioni. In realtà, la fase iniziale dell'insediamento non era che un cantiere edile recintato. Qui vennero raccolti tutti i materiali necessari per la realizzazione delle costruzioni. Soprattutto le travi e le assi dovettero esservi trasportate da lontano. Le pie­ tre da costruzione provenivano dal vicino versante della mon­ tagna. Ma gli scalpellini, i muratori, i falegnami e gli altri ope­ rai edili dovevano abitare anche altrove. Essi riattivarono an­ zitutto la vecchia cisterna risalente a epoca pre-esilica, alimen­ tandola con una conduttura d'acqua che prolungarono in dire­ zione del versante della montagna. Vicino a questa cisterna co­ struirono un paio di piccoli locali di abitazione e altri dall'altra parte dell'area scelta per la costruzione dell'edificio principale a due piani. Ben presto furono costruiti e attivati anche i forni per poter disporre fin dall'inizio di argilla cotta per i più di­ versi scopi. Si può ben pensare che i notevoli lavori di costruzione, so­ prattutto a Qumran ma contemporaneamente anche a Ein Feshkha, siano durati diversi anni, prima che tutto fosse pronto per gli scopi che ci si proponeva. Durante la fase di co­ struzione si realizzarono anche la cisterna di decantazione lassù in alto nel wadi Qumran, la canalizzazione dell'acqua at­ traverso gallerie scavate nella roccia fino all'insediamento di Qumran, come pure le canalizzazioni dell'acqua per la conce-

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ria di Ein Feshkha e per le aree adibite a colture agricole a nord di essa. Forse già a quel tempo vennero costruiti anche il chilometrico muro di protezione e l'edificio a uso agricolo nel­ l'area di Ein Feshkha, avviate le piantagioni di palme da dat­ teri e realizzate l'una dopo l'altra tutte le installazioni necessa­ rie per la prevista utilizzazione di tutte le costruzioni, fino alle stoviglie della dispensa nell'edificio delle riunioni o ai leggii e alle panche dello scriptorium dell'edificio principale. L'insediamento di Qumran e le strutture agricole-aziendali di Ein Feshkha non si sono certamente sviluppate lentamente partendo da modesti inizi. Si è seguito fin dall'inizio un vasto piano di costruzioni per l'intero insediamento, un piano che è stato sistematicamente realizzato prima che i futuri abitanti vi si trasferissero. Il progetto edilizio evidenzia una finalità ben precisa, quella di preparare dei rotoli, assicurando al tempo stesso tutti i necessari stadi preparatori, dalla disponibilità delle pelli alla loro lavorazione. Lo studio dei rotoli nel contesto della vita re­ ligiosa dei partecipanti veniva solo al secondo posto. Ma a Qumran anche lo studio serviva non da ultimo a familiarizzare i copisti dei rotoli con i testi che dovevano professionalmente tramandare. L'approccio decisivo per comprendere l'ampia pianifica­ zione e realizzazione dell'insediamento di Qumran e di Ein Feshkha è unicamente quello della preparazione del cuoio e dei rotoli. Infatti, analoghe possibilità di studio si sarebbero potute realizzare in un modo essenzialmente più facile altrove, nelle città e nei villaggi della Giudea. L'acquisizione e la lavorazione del cuoio era nella Pale­ stina del tempo un duro lavoro. Per la concia occorreva soprat­ t�tto il tannino, ricavato dalla corteccia di alcune specie di piante, e inoltre lo sterco di cani o colombi e altri ingredienti non facili da procurarsi. A causa del loro penetrante fetore, le concerie dovevano essere situate assolutamente al di fuori dei quartieri abitativi delle città e dei villaggi. In epoca successiva, solo in pochi casi i rabbi hanno ricono­ sciuto alle donne il diritto di ottenere, su loro richiesta, la se­ parazione dal marito. Uno di questi casi era quello della mo-

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glie di un conciatore la quale poteva chiedere la separazione dal marito persino quando nel contratto matrimoniale aveva espressamente ammesso di sposare il proprio uomo pur es­ sendo a piena conoscenza della sua professione (Mishnah, Ke­ tubot 7 ,lO). Persino i rabbi si rendevano conto che, nonostante i migliori propositi, era praticamente impossibile vivere a lungo nelle vicinanze di una conceria. Ma evidentemente gli esseni erano riusciti a sviluppare, al posto della procedura tradizionale per la fabbricazione del cuoio, una tecnica che permetteva di raggiungere gli stessi, o migliori risultati, con l'uso di minerali che potevano ricavare dal Mar Morto, per esempio la potassa. In ogni caso le analisi chimiche del sedimento nelle cisterne della conceria di Ein Feshkha non hanno rilevato alcuna traccia di tannino, una so­ stanza altrimenti indispensabile nella preparazione del cuoio, ma essenzialmente carbonato di calcio. La tecnica per la con­ cia usata a Ein Feshkha era apparentemente di tutt'altra na­ tura rispetto a quella abitualmente in uso. Probabilmente si potevano ottenere in questo modo anche migliori qualità di cuoio per manoscritti rispetto a quelle che si potevano otte­ nere con le procedure tradizionali. Certamente la nuova tec­ nica non produceva quel fetore penetrante che emanavano le altre concerie. In caso contrario, l'edificio a due piani dei la­ boratori e dell'abitazione di Ein Feshkha non sarebbe stato certamente costruito a soli dieci metri dalle cisterne della conceria. Le possibilità di un utilizzo massiccio di questa nuova tec­ nica presupponevano evidentemente che venisse praticata sul posto, nelle immediate vicinanze del Mar Morto. Probabil­ mente allora non era possibile preparare i prodotti chimici del Mar Morto - richiesti in grande quantità - in modo tale da poterli trasportare nell'interno del paese. Dovrebbe essere stato questo il motivo che ha spinto gli esseni a spostare la pro­ duzione e lavorazione del cuoio per manoscritti proprio nella regione desertica del Mar Morto. La preparazione del cuoio grezzo, che richiedeva una grande quantità di acqua e materie prime provenienti dal Mar Morto per sciacquare ma anche molta acqua dolce, finì a Ein Feshkha, in quella che era allora

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praticamente la sponda del Mar Morto, mentre l'ulteriore la­ vorazione, che richiedeva in proporzione meno materia prima ma un maggior utilizzo di personale, a Qumran che, essendo situato sull'elevata terrazza marnosa a una certa distanza dal Mar Morto, era anche dal punto di vista climatico in una posi­ zione molto più favorevole. Il rifornimento delle pelli per la fabbricazione dei mano­ scritti a Ein Feshkha e Qumran era assicurato da considerevoli greggi di pecore e capre. Essi offrivano soprattutto le pelli per la conceria del cuoio grezzo. La carne, la lana e il latte erano solo piacevoli prodotti secondari di questi allevamenti di ani­ mali. Nell'insediamento di Qumran, non meno di quattro di­ verse costruzioni servivano alla preparazione dei rotoli: la con­ ceria nell'area commerciale; il locale per la preparazione dei rotoli al pianterreno dell'edificio principale; la biblioteca con i suoi campioni di scrittura; il grande scriptorium al piano supe­ riore. A parte la cucina, la sala delle riunioni, usata anche come refettorio, i dormitori, il bagno rituale e il bagno per la pulizia del corpo, i magazzini e le stalle, era praticamente tutto ciò che esisteva nell'insediamento. Persino l'impegnativa conduzione dell'acqua dalla monta­ gna deve essere stata realizzata anzitutto e soprattutto per il funzionamento della conceria. Infatti, solo per l'acqua pota­ bile, la cucina, la lavanderia, la fabbricazione di stoviglie, i ba­ gni per la pulizia del corpo e i bagni rituali sarebbe bastata una quantità molto minore di acqua che si sarebbe potuta ottenere senza problemi dagli immediati dintorni, come avevano fatto del resto per molto tempo gli abitanti dell'antico periodo israelitico e coloro che avevano lavorato alla costruzione del­ l'insediamento di Qumran. Solo per l'alto consumo d'acqua per la conceria in tutti i periodi dell'anno si rendeva necessaria la costruzione supplementare della grande cisterna di decanta­ zione sul versante della montagna. Quest'enorme impegno di forze e di mezzi per la prepara­ zione di manoscritti di cuoio - la maggior parte dei rotoli rin­ venuti a Qumran sono fatti con pelle di pecora e di capra, sol­ tanto pochi con pelli di altri animali o con papiro - sarebbe

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assolutamente incomprensibile se venisse inteso come finaliz­ zato unicamente a provvedere ai residenti a Qumran, per le loro esigenze di studio, un maggior numero di copie di singole opere e copie sostitutive di rotoli usurati. Questo si sarebbe potuto assicurare molto più facilmente in altro modo, senza in­ vestire tante energie e tanti mezzi. I reperti archeologici di Qumran e Ein Feshkha mostrano che la dispendiosa struttura per la fabbricazione di rotoli che vi era stata installata serviva solo in minima parte ai bisogni lo­ cali. Essa era stata chiaramente concepita fin dall'inizio per provvedere i manoscritti necessari alle numerose comunità lo­ cali essene disperse in tutto il paese per lo studio, la pratica re­ ligiosa e la pia edificazione. Con il ricavato della vendita dei rotoli gli abitanti di Qum­ ran potevano procurarsi anche quelle cose che essi non pote­ vano produrre in proprio, soprattutto cereali, vino, olio per le lampade e metalli. Il ricavato della vendita di altri loro pro­ dotti, come il cuoio grezzo, la lana di pecora o gli oggetti di ce­ ramica, non sarebbe mai potuto bastare da solo a procurarsi ciò che serviva per vivere a Qumran. I manoscritti dei libri della Bibbia e quelli della letteratura edificante si potevano vendere senza problemi anche agli altri ebrei. Nella versione tarda del Manuale di disciplina, scritto at­ torno al lOO a.C., vi è un brano che la ricerca scientifica ha po­ sto da sempre in relazione con la fondazione dell'insedia­ mento di Qumran. È il suggerimento di «andare nel deserto per spianare lì la sua ( di Dio) via, così come sta scritto: "N el deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa una larga strada per il nostro Dio" (Is 40,3). Questo è lo studio della Torah ... e di ciò che i profeti hanno rivelato attraverso il suo santo Spirito» (lQ S VIII,13-16). Ciò che deve succedere «lì nel deserto» è evidentemente il fatto di rendere possibile lo studio delle due parti della Bibbia, Torah e Scritti dei profeti, in un modo che non sarebbe possi­ bile altrove. Abitualmente, il suggerimento viene inteso come riferentesi unicamente allo studio della Bibbia da parte dei re­ sidenti a Qumran. Ma così facendo non si chiarisce perché ciò dovesse avvenire proprio nel «deserto» o «solitudine» del Mar =

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Morto. Gli esseni potevano considerare «deserto» anche gli

immediati dintorni della città di Gerusalemme (10 M 1,3). Questo dato di fatto risulterebbe in ogni caso molto più plausibile se con il «preparare la strada nel deserto» si pen­ sasse concretamente a strutture per la preparazione di mano­ scritti - soprattutto dei libri biblici - diventata tecnicamente possibile in grande stile per la prima volta nel deserto del Mar Morto. La preparazione della strada per il «Signore, nostro Dio» sarebbe consistita, in particolare, in una nutrita prepara­ zione di rotoli, quindi nella creazione degli indispensabili pre­ supposti per rendere possibile uno studio intensivo della sacra Scrittura nelle numerose comunità essene sparse in tutto il paese. Trasposta nella nostra situazione attuale, la fondazione dell'insediamento di Qumran, unitamente a quello di Ein Feshkha, non era nient'altro che la costituzione di una casa editrice - come la Società biblica tedesca o l'Opera cattolica della Bibbia di Stoccarda - con una propria produzione della carta, una propria stamperia, una propria rilegatoria e un pro­ prio ufficio spedizioni. L'ordine di fondare una tale «casa edi­ trice» era stato dato un tempo da Dio stesso attraverso il pro­ feta Isaia. Gli esseni lo realizzarono un mezzo secolo circa dopo la loro data di fondazione. Con i metodi tradizionali della preparazione del cuoio per manoscritti non era possibile rispondere a lungo andare alle grandi necessità di rotoli di mi­ gliaia di loro membri. Era quindi necessario trovare nuove strade. Nulla impedisce di spiegare concretamente così il passo di 10 S VIII, 13-16, anche se non si è costretti a farlo. Resta co­ munque il fatto che i risultati delle ricerche archeologiche a Qumran e a Ein Feshkha, nonché la data di realizzazione di questo manoscritto della Regola della comunità degli esseni concordano senza difficoltà con questa spiegazione molto con­ creta. Il vistoso «lì» nell'introduzione della citazione di Isaia (10 S VIII, 13) ha fatto pensare da sempre che si trattasse di un luogo ben preciso e quel luogo dovesse essere proprio l'in­ sediamento di Qumran. Solo che a questo riguardo si è pen­ sato per lo più a una fondazione degli esseni come comunità

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indipendente a Qumran, dimenticando che la fondazione degli esseni era avvenuta mezzo secolo prima dell'inizio dell'inse­ diamento di Qumran, quindi in modo del tutto indipendente da esso. Il vistoso «lì» indica quindi un diverso oggetto. La «fondazione della casa editrice» resta la migliore spiegazione.

DESTINO DELL'INSEDIAMENTO DI QUMRAN Quando oggi si osservano gli scavi di Qumran si può avere l'impressione che tutto ciò che è ancora riconoscibile sia esi­ stito e sia stato utilizzato allo stesso modo in cui è stato de­ scritto anche nelle pagine precedenti dalla fondazione dell'in­ sediamento verso il 100 a.C. fino alla sua distruzione nel 68 d.C. Ciò è certamente vero nelle grandi linee ma con una pre­ cisa limitazione. Nell'anno 31 a.C., ci fu un grande terremoto, della cui azione catastrofica parla lo storico ebreo Giuseppe Flavio (Bellum l, 370-379), che interessò anche la regione del Mar Morto. Quel terremoto distrusse una parte degli edifici allora esistenti e fece sprofondare di due-tre spanne la parte orien­ tale della terrazza marnosa. La frattura prodotta nell'area delle costruzioni è ben visibile ancor oggi; essa ha attraversato nel senso della lunghezza una delle cisterne per i bagni rituali, rendendola permeabile e quindi inservibile. Il terremoto ha provocato anche l'incendio di parti dell'insediamento, inter­ rompendo le abituali occupazioni. Diversi edifici e installazioni furono in seguito riparati o ri­ fatti - in parte consolidando l'opera muraria - esattamente come erano prima. Altri - come la cisterna danneggiata dalla frattura o la stanza in cui si conservavano le stoviglie del refetto­ rio, che era caduta -, furono semplicemente riempiti di terra. In diversi punti si costruì in modo nuovo e diverso su ciò che era stato rovinato: nella sala di lettura della biblioteca un prece­ dente ingresso è stato murato e trasformato in archivio e il sedile che vi si trovava è stato allungato. L'ingresso esterno alle aper­ ture nel muro del locale delle transazioni commerciali è stato chiuso. Ma le principali costruzioni sono rimaste immutate.

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I danni provocati dal terremoto furono così gravi che la preparazione di cuoio grezzo di Ein Feshkha e tutte le strut­ ture collegate con la fabbricazione di rotoli a Qumran subi­ rono una lunga battuta d'arresto. Né in Qumran né a Ein Feshkha sono state trovate monete che provengano sicura­ mente dal restante periodo di regno del re Erode (fino al 4 a.C.), mentre per quanto riguarda gli anni iniziali del suo re­ gno (a partire dal 40 a.C. fino all'anno 31 a.C.) sono state tro­ vate nelle due località almeno undici monete. Si ritiene quindi comunemente che l'intero insediamento sia rimasto inattivo per circa 30 anni. Numerosi rotoli delle grotte di Qumran mostrano tuttavia in modo inequivocabile di essere stati confezionati proprio du­ rante il restante periodo di regno del re Erode e difficilmente in altri posti. Il ritrovamento di questi manoscritti fa addirit­ tura pensare che il tempo intermedio sia stato sfruttato come una pausa creativa per la preparazione di nuovi modelli di scrittura, la sostituzione di copie usurate con nuove copie e per accrescere il contenuto della biblioteca con nuovi rotoli che fino a quel momento non ne avevano fatto parte. Per le limi­ tate necessità della comunità bastarono ancora per molto tempo dopo il terremoto le scorte di cuoio da manoscritti pen­ sate originariamente per la prosecuzione della produzione su vasta scala. Dobbiamo quindi pensare che un numero ristretto di es­ seni abbia continuato a Qumran una parte delle normali atti­ vità, abbia riparato le costruzioni necessarie a tale scopo, pur mantenendo solo pochi contatti con il mondo circostante. In particolare, allora era venuto meno il commercio locale con i forestieri, ragion per cui non si trovano monete relative a que­ sto periodo. L'ipotesi secondo cui, nel 31 a.C., tutti gli esseni avrebbero lasciato Qumran e si sarebbero trasferiti con la loro vasta biblioteca in un altro posto - si pensa abitualmente a Gerusalemme - e che sarebbero ritornati nuovamente a Qumran, con tutta la loro biblioteca, solo alcuni decenni dopo è certamente molto amata dai suoi sostenitori, ma difficil­ mente plausibile (cf. sotto, pp. 231-234).

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In ogni caso, dopo una lunga interruzione, i rotoli usati quotidianamente dagli esseni delle città e dei villaggi della Giudea devono essersi deteriorati. Altrove non era possibile preparare sufficienti copie per sostituirli. Per cui, dopo un certo tempo, si decise di non badare a spese e di riportare a Qumran e a Ein Feshkha ogni cosa allo stato in cui si trovava prima. Al più tardi verso la fine del secolo, ma forse anche solo alcuni anni dopo il catastrofico terremoto, dovrebbe essere ri­ presa a pieno ritmo, a giudicare dai reperti archeologici, la preparazione dei rotoli fino a quando i romani, nel 68 d.C., non distrussero definitivamente l'intero insediamento. Ciò che di tutte quelle costose costruzioni sopravvisse an­ cora per un certo tempo o venne riattivato fu solo una parte delle strutture agricole di Ein Feshkha. È quanto si ricava in ogni caso dalla relazione di un posteriore· cronista cristiano ri­ portata da padre de Vaux.2 Questa relazione è così bella che non possiamo non ricordarla anche qui. Secondo quel tardo cronista, secoli dopo la distruzione di Qurnran vi è stato un gruppo di eremiti cristiani che vivevano vicino a Khirbet Mird e possedevano degli orti sul Mar Morto, la cui coltivazione era affidata a un loro ortolano. Quando gli eremiti avevano bisogno di legumi vi spedivano tutto solo il loro asino con dei sacchi sulla schiena. L'asino picchiava con la testa contro la porta dell'ortolano, si lasciava caricare di prov­ viste e ritornava immediatamente dai suoi padroni. Khirbet Mird si trova in alto sulle montagne, a 9 km a occi­ dente di Ein Feshkha. Un antico sentiero collega i due luoghi. Per cui non può esservi alcun dubbio sul fatto che le strutture agricole di Qumran abbiano continuato a offrire anche in se­ guito i loro buoni servigi fino a quando nessuno se ne occupò più. Se l'ubbidiente animale non avesse suscitato la meraviglia e la gioia del cronista, noi non sapremmo nulla della continua­ zione delle strutture agricole di quel tempo. Il ricordo di quel­ l'asino servizievole è l'ultimo collegamento che possediamo fra il passato e il presente di Qumran. 2 R. DE VAux,

Archaeo/ogy and the Dead Sea Scrol/s, London 1973, 75.

Capitolo 5

Le grotte dei rotoli

Nell'anno 79 d.C., durante l'eruzione del Vesuvio, morì Plinio il Vecchio, un uomo che aveva molto viaggiato e si era interessato a molte cose. Nella primavera del 70 d.C., nella sua qualità di alto ufficiale romano al comando di quello che sa­ rebbe poi diventato l'imperatore Tito, aveva partecipato al­ l'assedio di Gerusalemme e si era interessato da vicino al paese e alla sua · gente,. riproducendo poi i risultati di queste sue esperienze nel suo ·grande capolavoro, la Storia naturale, terminata nel 77 d.C. Nel c. 15 del V libro Plinio descrive dopo la sponda orien­ tale del Mar Morto anche la sua sponda occidentale, proce­ dendo da nord ver5o sud. Prima di ricordare la cittadina di Ein Gedi, distrutta dalle truppe romane nell'estate del 68 d.C., e più a sud Masada, nella sezione 4 menziona come unica realtà a nord di Ein Gedi «gli esseni». Ecco come li descrive: «Gli es­ seni si sono allontanati dalla riva, oltre il luogo inquinante del lago bituminoso: razza solitaria e ammirevole più di quelle del mondo intero, senza donne, avendo rinunciato all'amore, senza danaro, vivente in società con le palme. Di giorno in giorno questa numerosa comunità si riproduce, essendo spesso visitata da coloro che, stanchi della vita, si rivolgono ai loro co­ stumi a causa del cambiamento della fortuna. Così, per mi­ gliaia di secoli - cosa incredibile - esiste una razza eterna presso la quale nessuno nasce, tanto è fecondo per essa il fatto che altri si pentano della loro vita». Qui Plinio non può riferirsi che all'insediamento di Qum­ ran distante allora circa l km dalla sponda del Mar Morto. Gli scavi hanno dimostrato senza ombra di dubbio che qui gli uo­ mini non vivevano affatto senza donne e senza danaro; e i ro-

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toli permettono certamente di affermare che gli esseni spera­ vano di esistere in futuro ancora per «migliaia di secoli», ma non credevano di essere più antichi del mondo, il quale nel 70 d.C., secondo il computo biblico-giudaico, esisteva da 3830 anni. Non vi è tuttavia alcun dubbio sul fatto che Plinio in­ tenda parlare di Qumran. Anche se comunque la sua descri­ zione contiene notizie molto fantasiose, del genere di quelle che i turisti potrebbero ottenere dalla popolazione locale e, avendole comprese solo a metà, riprodurle poi una volta ritor­ nati a casa con molti fronzoli al fine di meravigliare i loro ascoltatori o lettori con il racconto delle stranezze di paesi lon­ tani. Se Plinio avesse allora visitato Qumran, si sarebbe reso conto che questo insediamento - così come Ein Gedi - era stato distrutto già da quasi due anni e che lì non viveva più al­ cun esseno. Ciononostante, le informazioni offerte da Plinio rimangono un'importante testimonianza di un contemporaneo sul fatto che gli abitanti di Qumran di quel tempo erano effet­ tivamente esseni.

LA DATA DELLA DISTRUZIONE DI QUMRAN È possibile stabilire con sufficiente precisione la data della distruzione di Qumran combinando insieme tre dati di diversa natura: non solo monete e tradizione storica, come ha già fatto in modo convincente padre Roland de Vaux / ma anche lo stato in cui sono stati trovati i rotoli nelle diverse grotte.

Monete La rivolta degli ebrei contro il potere romano in Palestina cominciò nel 66 d.C. Da allora gli ebrei coniarono ogni anno nuove monete, recanti le date degli anni a partire dall'inizio della rivolta. Fra le numerose monete trovate durante gli scavi a Qumran, 83 risalgono al secondo anno della rivolta, mentre

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R. DE VAUX, Archaeology and the Dead Sea Scrolls, London 1973, 36-41.

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al terzo anno - iniziato in marzo-aprile del 68 d.C. - solo cin­ que. Per il periodo seguente non sono state trovate a Qumran monete relative alla rivolta, mentre sono state trovate monete romane, provenienti certamente tutte dalle rovine dell'inse­ diamento situate sopra lo strato prodotto dall'incendio che di­ strusse Qumran. Questo dato induce a pensare che l'insedia­ mento di Qumran sia stato effettivamente distrutto molto a ri­ dosso del marzo-aprile 68 d.C. e, dato il numero relativamente ridotto di monete del terzo anno della rivolta, al più tardi due­ tre mesi dopo l'inizio [in primavera] di quell'anno.

Tradizione storica Lo storico ebreo Giuseppe Flhvio, personalmente impe­ gnato nella rivolta come comandante militare in Galilea, ha fatto una relazione dettagliata e precisa della «Guerra giu­ daica». Dalla sua opera omonima risulta che la X Legione ro­ mana Fretense il 21 giugno 68 d.C. prese la città di Gerico, po­ nendovi un solido accampamento (BJ 4,450). Prima di allora non vi erano mai state truppe romane in questa regione. Nel 70 d.C., la X Legione - circa 5000 soldati - partì all'assalto di Gerusalemme. Al momento della presa di Gerico si ebbe per alcuni giorni anche la presenza di Vespasiano, il quale l'anno dopo sarebbe diventato imperatore dei romani. Giuseppe Flavio racconta anzi come proprio in quell'occa­ sione Vespasiano si divertì a far gettare nel Mar Morto per­ sone legate, e che del resto non sapevano nuotare, per vedere se veramente non sarebbero annegate. Egli poté così personal­ mente costatare che l'acqua dei Mar Morto aveva effettiva­ mente la forza portante di cui gli si era parlato. Le persone get­ tate in acqua a testa in giù dalle barche risalivano diritte come fusi e galleggiavano poi tranquillamente sulla superficie (BJ 4,477). In base al racconto di Giuseppe Flavio, durante la presa di Gerico i romani avevano ucciso i pochi abitanti che non erano riusciti a scappare in tempo (BJ 4,451-452). Da dove venivano quindi quegli involontari non nuotatori? Qumran era appena a 5 km di distanza dal punto dove giungeva al Mar Morto chi

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proveniva da Gerico. Vespasiano avrebbe cavalcato fino al Mar Morto solo per quel test natatorio? È molto più plausibile pensare che Vespasiano, subito dopo la presa di Gerico, abbia proseguito con un contingente della X Legione verso sud per rendersi conto di persona dell'eventuale esistenza di villaggi nemici in quella direzione. In quell'occasione il contingente militare trovò il piccolo insediamento di Qumran, lo distrusse con un colpo di mano e verificò con un paio di esseni fatti pri­ gionieri la forza portante del Mar Morto. Naturalmente non è possibile dimostrare che così siano an­ date effettivamente le cose e che per l'esperimento siano stati realmente usati dei residenti di Qumran. E tuttavia i romani erano soliti pacificare il più rapidamente possibile nel loro senso del termine, cioè ripulire da potenziali sacche di resi­ stenza prima che potessero mettere in atto una qualsiasi con­ tro-offensiva, i dintorni di ogni loro nuovo accampamento mili­ tare permanente. Era questa un'azione strategicamente neces­ saria per la sicurezza del nuovo accampamento militare. Se­ condo i criteri romani, luoghi come Qumran si trovavano certa­ mente all'interno della zona di sicurezza che si doveva creare attorno all'accampamento stabile di Gerico. A sud, presso Ein Feshkha, la catena delle montagne chiudeva a catenaccio sul Mar Morto ed era certamente quello il limite della zona di sicu­ rezza creata dalla cavalleria romana attorno a Gerico. Gli abitanti di Qumran, grazie ai loro continui contatti commerciali con Gerico, si sono naturalmente resi subito conto di ciò che vi era avvenuto quel 21 giugno e del fatto che i romani non sarebbero soltanto transitati ma vi avrebbero co­ struito un accampamento stabile. Era quindi chiaro ciò che sa­ rebbe successo di n a poco. Non tanto che si pensasse al rischio di una distruzione di Qumran, ma c'era sempre da aspettarsi un saccheggio. Ora le cose più importanti che possedevano gli abitanti di Qumran erano i rotoli. Essi dovevano quindi essere messi al sicuro il più presto possibile. I rinvenimenti nelle grotte permettono ancora di rendersi conto della fretta con cui tutto questo avvenne e del modo in cui si procedette nei sin­ goli casi quando si intraprese l'azione di salvataggio dei mano­ scritti.

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Lo stato dei rotoli nelle grotte Si cominciò anzitutto a ricercare in biblioteca i rotoli più importanti e meglio conservati, soprattutto quelli che servi­ vano da modelli per altre copie. In caso di dubbio se un mano­ scritto fosse veramente ancora integro e in buono stato lo si esaminò dall'inizio alla fine. I rotoli che risultarono deteriorati furono messi inizialmente da parte. Nella fretta non ci si preoccupò di riarrotolare interamente i rotoli trovati in buono stato. Nel caso di altri rotoli si sapeva, senza bisogno di ispe­ zionarli, che erano in prdine. I due tipi di manoscritti - quelli riarrotolati in qualche modo e quelli debitamente arrotolati furono subito avvolti in stoffe di lino, stipati in giare di argilla e trasportati in quella grotta, distante 1 ,3 km dall'insediamento, che venne scoperta per prima dai beduini nel 1947 e che è stata contrassegnata di conseguenza come grotta l Q. I rotoli trattati in questo modo fÙrono meno di cento. Alla fine l'ingresso della grotta fu accuratamente sigillato con pietre per evitare che fosse riconosciuto dall'esterno ed esso era ancora ben chiuso quando, nel 1947, Muhammad ed-Dib penetrò nella grotta attraverso un lucernario. Per i rotoli della seconda scelta non si procedette anzitutto all'esame del loro stato di conservazione. Furono sistemati ­ senza essere avvolti in stoffe di lino - in altre giare che furono portate nella grotta 3Q, situata ancora l km più a nord. In que­ sto caso si trasportarono sia giare vuote e fasci di manoscritti sia giare con già dentro i manoscritti. Per quanto è ancora pos­ sibile stabilire, nella grotta 3Q furono portati solo manoscritti in genere ancora ben conservati, nessun manoscritto esterior­ mente danneggiato, nessun manoscritto risultato a un somma­ rio esame in cattivo stato e già messo da parte e neppure mate­ riale di archivio. Probabilmente a Qumran si era deciso di trasportare nella grotta 3Q, con ulteriori viaggi, tutti i rotoli ancora utilizzabili della biblioteca. È vero che la grotta si trova a più di 2 km in li­ nea d'aria dall'insediamento e che ogni viaggio richiedeva quasi un'ora, ma era un nascondiglio particolarmente sicuro. La grotta 30 si trova infatti in alto su un ripido pendio. Con

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dei carichi vi si poteva arrivare solo mediante uno sconnesso sentiero che segue il pendio e solo a circa 250 m verso sud vicino alla grotta 1 1 Q - sbuca su un terreno più facilmente percorribile. Gli abitanti di Qumran potevano essere certi che i romani non avrebbero scoperto quel nascondiglio, quando fossero transitati ai piedi del pendio - o addirittura lungo la sponda del Mar Morto - per venire a saccheggiare il loro in­ sediamento. Dalla grotta 3Q si aveva inoltre una perfetta vista su tutta la regione attorno a Gerico. Perciò in quei giorni critici gli abi­ tanti di Gerico devono aver certamente assicurato qui una po­ stazione di osservazione permanente in grado di dare imme­ diatamente l'allarme nel caso in cui le truppe romane si fos­ sero mosse verso sud. Ma quando venne dato l'allarme solo poco più di 35 giare e nel migliore dei casi 140 rotoli avevano raggiunto questo nascondiglio. Mentre i romani di stanza a Gerico si avvicinavano, l'in­ gresso della grotta venne chiuso frettolosamente e alla bell'e meglio con pietre. I movimenti delle persone attorno alla grotta potevano essere infatti facilmente scorti dalla pianura costiera, soprattutto nella luce chiara del mattino quando i ro­ mani cominciarono a spostarsi verso sud. Bisognava quindi fare in fretta. Alcuni carichi di manoscritti arrivarono troppo tardi. Più di 20 rotoli per i quali mancavano le giare o le cui giare vuote non erano giunte in tempo alla grotta 3Q ormai chiusa furono depositati senza alcuna protezione sul pavimento della grotta llQ che si trova all'inizio del sentiero. Per chi proveniva da Gerico il suo ingresso non era visibile. Fu quindi possibile chiudere con pietre questo ingresso con tanta accuratezza che esso sfuggì persino agli esploratori, in occasione della loro ri­ cerca del 1952, e venne individuato solo nel 1956 grazie all'a­ cuta vista dei beduini. Un altro carico con quattro giare piene di manoscritti venne bloccato per strada e dirottato alla grotta 2Q, che si trova a 200 m a sud della 1Q; anche in questo caso, essendo facilmente visibile dalla pianura, l'ingresso venne chiuso solo sommariamente.

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Nell'insediamento di Qumran la notizia dell'arrivo dei ro­ mani produsse il panico. Si interruppero i trasporti verso la grotta 3Q, mentre si prese in gran fretta e senza alcuna previa ispezione tutto quanto di scritto si trovava ancora nella biblio­ teca e lo si trasportò nella grotta 40, che a piedi dista solo 250 m dall'insediamento. Così lì finirono anche quei rotoli che erano stati inizialmente messi da parte nella biblioteca, dopo aver costatato srotolandoli che erano danneggiati. In ogni caso, solo nelle grotte l Q e 40 sono stati trovati rotoli che hanno presentato, al momento dell'apertura, la fine del testo all'esterno (per esempio, lQ 22, lQ 27, lQ H, lQ M, lQ S, 402, 40 174, 40 401) e non all'interno, come avviene nel caso di un rotolo convenientemente riarrotolato e ricollocato al suo posto in bibliote�a. La grotta 4Q era la grotta più grande, rag­ giungibile solo dall'alto attraverso scale scavate nella pietra, si­ tuata nella sporgenza più vicina della terrazza marnosa a ovest del complesso dell'edificio principale dell'insediamento. Si era appena finito di nascondere gli ultimi resti del mate­ riale della biblioteca e di trasportare il materiale della vicina grotta 50, adibita ad abitazione, nell'ampia grotta 40, quando i romani erano già chiaramente in vista. L'ultima cosa che si poteva ancora fare era chiudere l'ingresso della grotta 40 con blocchi marnosi e distruggere e occultare per quanto possibile la scala di accesso. Un carico di rotoli, che era ancora in viaggio verso la grotta 3Q ma che era stato poi riportato indietro, arrivò troppo tardi. Venne quindi deposto, senza alcuna protezione, in un angolo della grotta ormai vuota 50, dove fu trovato nel 1952 dagli scavatori, completamente putrefatto ma certamente non toccato da nessuno. Un altro carico di rotoli fu deposto provvisoriamente sul pavimento della grotta 6Q, che si trova all'ingresso del De­ serto di Giuda. Una giara vuota ma in buono stato era ancora lì accanto quando, nel 1952, i beduini scoprirono quella grotta. I rotoli erano stati certamente depositati vicino al sentiero, con l'intento di poterli prendere e portare via con facilità in caso di fuga verso le montagne. Tuttavia chi li depose provvisoria-

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mente in quel luogo non scappò, ma ritornò come tutti gli altri all'insediamento di Qumran per difenderlo per quanto possi­ bile dall'attacco dei romani che stavano avanzando. È mancato il tempo per mettere al sicuro anche una note­ vole quantità di altri rotoli che si trovavano fuori dalla biblio­ teca. Al limite meridionale di quella sporgenza della terrazza marnosa su cui si trova l'insediamento di Qumran - e rag­ giungibile solo mediante il sentiero che lo attraversa - si tro­ vavano quattro grotte adibite ad abitazione e al tempo stesso a luogo di lavoro degli studiosi della legge che vi abitavano. Quando nel 1955 gli scavatori di Qumran scoprirono questi lo­ cali adibiti ad abitazione, uno di essi era già così mal ridotto che si poté trovare solo lo spigolo posteriore della stanza rica­ vato a colpi di scalpello nella soffice pietra marnosa. Negli altri tre locali (7Q, 8Q, 9Q) vi erano ancora cocci di giare e resti di rotoli.

Conclusioni I ritrovamenti di monete a Qumran, il racconto di Giu­ seppe Flavio e la grande fretta con cui si è cercato di porre in salvo tutti i rotoli dimostrano quindi che Qumran deve essere stata distrutta subito dopo quel 21 giugno 68 d.C. Ciò avvenne certamente ancor prima della fine del mese, poiché altrimenti si sarebbe potuto fare di più. Purtroppo non sappiamo quando gli abitanti di Qumran hanno deciso di mettere in salvo i loro rotoli. Per i trasporti alla grotta 1 Q e la sua chiusura hanno certamente impiegato un'intera giornata; per i trasporti che sono riusciti a raggiungere in tempo la grotta 3Q un'altra gior­ nata. Tutto il resto potrebbe essere avvenuto nella mattinata del terzo giorno, al più presto quindi il 24 giugno 68 d.C. Ma se la decisione di porre in salvo i manoscritti è stata presa solo dopo qualche tentennamento, tutto è avvenuto nel giro dei tre giorni successivi. La nostra ricostruzione ha mostrato che le grotte in cui sono stati trovati manoscritti stanno in una relazione molto di­ versa con l'insediamento di Qumran e con il suo destino nel 68 d.C. Il fatto che nella scelta dei nascondigli dei rotoli si sia se-

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guito con ogni probabilità, quasi lo stesso ordine in cui sono stati scoperti - dalla grotta 10 nel 1947 fino alla grotta 110 nel 1956 - altro non è che una curiosa casualità. Assaliti dai romani, gli abitanti dell'insediamento di Qum­ ran si salvarono dagli edifici in fiamme e, nella misura in cui non morirono in quell'occasione, furono fatti prigionieri. Nes­ suno di quelli che conoscevano i nascondigli dei rotoli ritornò. D'altronde, il presidio militare stabilito dai romani a Qumran dovrebbe aver contribuito a suo modo a scoraggiare qualun­ que esseno dal farsi vedere in questa regione.

ALTRE TEORIE SU QUMRAN Già padre Roland de Vaux, nelle sue relazioni sugli scavi di Khirbet Oumran e sulle ricerche condotte sulle singole grotte contenenti rotoli, ha avanzato l'idea che tutto ciò che è stato trovato in quelle grotte provenisse in definitiva da una bibioteca centrale situata all'interno dell'insediamento. Ma in nessuna delle costruzioni di quest'insediamento si era trovato il benché minimo resto di rotoli, per cui egli ha lasciato aperto il problema relativo alla esatta ubicazione di tale biblioteca. D'altra parte, padre de Vaux non pensò mai di considerare i locali adibiti ad abitazione e studio delle grotte 70, 80 e 90, all'estremità meridionale della terrazza marnosa, componenti integranti dell'intero complesso e in esso strettamente inte­ grate. Egli le ritenne semplicemente un paio di altre grotte adi­ bite ad abitazione, come del resto tutte le altre nei dintorni dell'insediamento. Nessuna meraviglia quindi che nel corso del tempo siano state elaborate anche altre teorie del tutto diverse. Ne pren­ deremo in considerazione tre, sia perché sono in netto con­ trasto con ciò che qui siamo venuti esponendo, sia perché at­ tualmente esercitano un'influenza anche sull'opinione pub­ blica e oltrepassano quindi la semplice cerchia degli addetti ai lavori.

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Professor Norman Golb Una prima teoria è quella sostenuta fin dal 1980 dal pro­ fessore americano Norman Golb. Egli ritiene che Qumran non sia mai stato abitato da esseni, ma sia stato sempre un presidio militare, fino al giorno della sua distruzione da parte dei ro­ mani, sotto il comando supremo delle autorità ebraiche al po­ tere a Gerusalemme. I rotoli non avrebbero nulla a che vedere con questo presidio militare. Essi proverrebbero dalle biblio­ teche del tempio e di ricchi privati cittadini ebrei di Gerusa­ lemme e sarebbero stati portati al sicuro nelle remote grotte del Deserto di Giuda durante la rivolta contro i romani ini­ ziata nel 66 d.C. Contro questa teoria, già sostenuta nel 1960 dal professar Karl Heinrich Rengstorf di Mtinster - egli affermò che i ro­ toli di Qumran erano parti della biblioteca del tempio di Geru­ salemme - era sceso giustamente in campo già padre de Vaux, il quale aveva fatto notare che in tal caso non si spieghe­ rebbe come mai i rotoli trovati nelle grotte fossero conservati in giare identiche a quelle che erano fabbricate a Qumran. Inoltre, la teoria del professar Golb spiega difficilmente il fatto che i rotoli non siano stati trovati da qualche altra parte nelle grotte del Deserto di Giuda, bensì abbastanza vicini al­ l'insediamento di Qumran, la maggior parte solo a pochi metri di distanza. Né si comprende come mai si siano trovati fra di essi così tanti scritti di origine certamente essena e non, ad esempio, opere dei farisei. Ma soprattutto i rotoli trovati nelle grotte 4Q, SQ, 6Q e llQ, non impacchettati e deposti sempli­ cemente sul pavimento, sono la prova evidente che non pos­ sono essere stati trasportati da lontano; essi sono stati deposti lì in modo del tutto provvisorio, senza alcuna protezione e senza la presenza di alcun contenitore per il trasporto. Inoltre, le grotte SQ e 6Q erano completamente aperte, così come i lo­ cali 70, 8Q e 9Q. Chi avrebbe trattato in questo modo cose preziose faticosamente trasportate da lontano? La teoria di Golb contrasta su troppi punti con dati che si possono facil­ mente dimostrare.

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La teoria delle grotte cultuali Un'altra concezione attualmente molto amata costituisce di fatto un ritorno agli inizi della ricerca su Qumran. Già nel 1948, quando si seppe che i rotoli apparsi sul mercato di Geru­ salemme provenivano da una grotta all'estremità nord-ovest del Mar Morto, il professor Eliezer Lipa Sukenik avanzò l'idea che essi potessero provenire da quegli esseni di cui aveva par­ lato Plinio il Vecchio. A quel tempo nessuno si occupava delle rovine di Qumran. Ma le grotte in cui erano stati trovati i ma­ noscritti non erano mai servite da abitazioni. Si ritenne quindi che gli esseni descritti da Plinio avessero abitato in capanne o in tende nelle vicinanze della grotta 1Q e che nel frattempo se ne fossero perdute le tracce. Quando si scoprirono le grotte 2Q e 3Q si immaginò che a queste grotte fossero collegati altri gruppuscoli di esseni, i quali dovevano essere stati in qualche modo in concorrenza con il gruppo prin­ cipale della grotta 1Q. Quando poi, nel 1952, venne scoperta la grotta 4Q, con il suo gran numero di rotoli, si ipotizzò che la maggior parte degli esseni fossero vissuti nel vicino insedia­ mento di Qumran e tutta una serie di gruppuscoli secondari da essi derivati in un più vasto raggio, in particolare · presso le grotte 1Q, 2Q, 3Q e 11Q. Dato che in queste grotte erano stati rinvenuti manoscritti, oltre a giare, e qua e là anche lampade a olio e persino una sca­ toletta per lo stipite della porta, si ipotizzò che esse potessero essere state i centri cultuali dei diversi gruppuscoli e quindi che la grotta 4Q fosse il luogo di culto principale degli abitanti dell'insediamento di Qumran. Sempre secondo questa teoria, il ritrovamento nelle diverse grotte di gruppi di testi caratteri­ stici di ogni grotta e diversi da quelli delle altre permetteva an­ cora di stabilire quali fossero gli orientamenti dottrinali prefe­ riti dai singoli gruppi e in che modo essi si fossero distinti dagli altri gruppi. Gli esseni che gravitavano attorno alle grotte 1Q, 2Q, 3Q e 11Q dovevano essere ritenuti quindi una conventi­ cola che si era separata dal gruppo principale di Qumran. Contro questa teoria si può anzitutto obiettare che nes­ suna delle grotte mostra tracce inequivocabili di una destina-

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zione cultuale. Mai al di fuori dell'insediamento di Qumran ­ e quindi, ad esempio, nei dintorni di queste grotte - si trova una sola cisterna per i bagni rituali o una cucina. La teoria non riesce a spiegare come mai coloro che gravitavano attorno alla grotta llQ non abbiano protetto i loro preziosi rotoli nem­ meno con giare, ma li abbiano deposti semplicemente sul pavi­ mento, così come non riesce a spiegare come mai molti dei ro­ toli ben conservati trovati nella grotta 1Q presentassero all'a­ pertura - come gli altri rotoli provenienti dalla stessa grotta - non l'inizio ma la fine del testo. Ma soprattutto questa teoria da una parte non può spie­ gare la presenza nelle grotte 5Q e 6Q di ciò che vi è stato tro­ vato - perché vi si trovavano dei rotoli? - e, dall'altra, non tiene conto del fatto che molto spesso i manoscritti di grotte del tutto diverse siano dovuti alla mano di uno stesso copista. Sono dati di fatto che non è possibile trascurare. La vecchia teoria di padre de Vaux, secondo cui un tempo tutti i rotoli ri­ trovati erano riuniti nella biblioteca centrale dell'in�edia­ mento, permette di chiarire senza difficoltà questi dati di"fatto e resta, ora come allora, l'unica che non solo si è confermata, ma è anche in linea con tutti gli altri nuovi indizi emersi dai tempi di padre de Vaux.

I Donceels Prima della sua morte nel 1971, padre Roland de Vaux non era riuscito a preparare una relazione conclusiva esaustiva sui suoi scavi a Qumran e a Ein Feshkha. Attraverso molti contri­ buti egli aveva divulgato solo i risultati più importanti delle singole campagne di scavi, riprendendoli poi più sistematica­ mente, nel 1959, in una serie di conferenze all'Accademia bri­ tannica delle scienze. Quelle conferenze sono state pubblicate nel 1961 in francese e, nel 1973, in una versione inglese ulte­ riormente rielaborata. Essa resta a tutt'oggi la fonte principale per tutti i più rilevanti reperti archeologici. 2

2

DE V AUX,

Archaeology and the Dead Sea Scrolls.

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Ora alcuni anni fa l' École Biblique di Gerusalemme ha af­ fidato alla giovane coppia di sposi e ricercatori belgi Pauline Donceel-Voutré e Robert Donceel il compito di preparare una relazione conclusiva esaustiva sugli scavi a Qumran e a Ein Feshkha. Questi due archeologi sostengono da allora che l'insediamento di Qurnran, fino alla sua distruzione a opera dei romani, non sarebbe stato né un presidio militare né un complesso di costruzioni degli esseni, ma una villa privata. Così, ad esempio, il grande locale al piano superiore dell'edifi­ cio principale a due piani, con i suoi tavoli e le sue panche, non sarebbe affatto servito - come si ritiene abitualmente - da scriptorium per la preparazione dei rotoli, ma sarebbe stato la sala dei banchetti della villa. I rotoli trovati nelle grotte non avrebbero nulla a che vedere con questo complesso, ma sareb­ bero stati portati nei dintorni di Qumran da altrove. La maggior parte di ciò che gli scavi hanno già riportato alla luce non è però assolutamente compatibile con l'idea di una villa privata. Soprattutto, l'ipotesi della villa ignora com­ pletamente i locali centrali della biblioteca e la relazione fra il ritrovamento dei rotoli e l'insediamento di Qumran e rigetta troppo frettolosamente le basilari indicazioni di padre de Vaux, senza proporre spiegazioni migliori. Chi poteva permet­ tersi una villa in questa regione la costruiva certamente nelle oasi di Gerico e di Ein Gedi, ma non lontano da ogni forma di cultura, nella solitudine e nel deserto di Qumran. O dobbiamo pensare che le 1200 tombe siano l'indizio di un'isolata villa de­ gli orrori? D'altronde, contro l'ipotesi di una villa si può far valere praticamente tutto ciò che si è già detto riguardo alla teoria di Golb. Per fortuna ultimamente padre Jean-Baptiste Humbert, archeologo dell' École Biblique, ha preso personalmente in mano la relazione conclusiva. Cosi il fantasma della villa do­ vrebbe aver fatto la fine che meritava.

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GROTIE IN CUI SONO STATI TROVATI MANOSCRITTI: 1Q-1 1Q

LE

Finora abbiamo trattato del modo in cui si potrebbe imma­ ginare il decorso degli avvenimenti, sfociato nella sistemazione dei manoscritti nelle diverse grotte nei dintorni di Qumran e abbiamo mostrato quali sono i punti deboli delle altre teorie interpretative. Ma vale la pena di prendere in considerazione un po' più da vicino le singole grotte, dato che esse presentano alcune sorprese.

Grotta J Q Quando all'inizio del 1947 i beduini scoprirono l a grotta 1Q devono avervi trovato ogni cosa cosl come era stata la­ sciata dagli abitanti di Qumran nel 68 d.C. Solo che nel corso del tempo oltre la metà dei rotoli che vi erano stati nascosti si era in gran parte decomposta, essendovi penetrata dal lucerna­ rio della volta - dal quale Muhammad ed-Dib �i era calato al­ l'interno - molta umidità che le giare di terracotta avida­ mente assorbivano. Esse tornavano ben presto ad asciugarsi, ma i rotoli al loro interno ne restavano sempre più o meno profondamente intaccati e marcivano. L'eccezione della giara contenente il manoscritto ben conservato di Isaia si spiega cer­ tamente con il fatto di essersi trovata in un posto particolar­ mente protetto. Tutti gli altri danni ai manoscritti non imputa­ bili all'umidità sono da attribuire in ogni caso ai moderni sco­ pritori. Nella grotta 1Q si trovavano perlomeno 56, forse anche più, giare ben conservate, che potevano contenere ognuna un rotolo grande o due rotoli di media grandezza. Nella grotta non è stato certamente mai collocato un numero di rotoli di molto superiore rispetto ai circa 80 rotoli o loro resti che si è potuto dimostrare provenire da 1Q; tutt'al più ve n'erano 8590. Si trattava gi quella parte della biblioteca che gli abitanti di Qumran ritennero doversi salvare con assoluta priorità. È quindi particolarmente doloroso il fatto che, nonostante tutte le protezioni - solo i manoscritti di questa grotta erano anche

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avvolti in stoffe di lino -, così tanta parte di questi rotoli sia andata perduta.

Grotta 2Q Quando nel 1952 i beduini trovarono la grotta 2Q essa era già aperta. Sul pavimento giacevano i cocci di 4 giare di terra­ cotta e i resti di circa 40 rotoli. In un qualche momento dell'an­ ti�hità qualcuno aveva scoperto la grotta, spaccato le giare, aperto per vedere di che cosa si trattasse alcuni rotoli che poi aveva strappato. Quello scopritore non sapeva evidentemente che farsene, per cui lasciò tutto sparso per terra, incustodito e senza alcuna protezione. Questo scempio non può essere avvenuto in tempi recenti. I brandelli e i rotoli sparsi per terra hanno continuato infatti a marcire ancora per secoli, finché alla fine, nel 1952, non ven­ nero raccolti dai beduini. Originariamente in questa grotta erano stati depositati almeno 40 rotoli.

Grotta 3Q La grotta 3Q era un tempo un'enorme grotta, adibita ad abitazione, che penetrava profondamente nella montagna. Essa era stata abitata già nel IV millennio e durante l'epoca della monarchia israelitica. Ma in seguito un forte terremoto - probabilmente quello dell'anno 31 a.C., che danneggiò gra­ vemente anche l'insediamento di Qumran - aveva fatto ca­ dere delle pietre dal soffitto che avevano ostruito completa­ mente le parti più profonde della grotta e cosparso di grossi massi anche la parte anteriore. La volta dell'antico ingresso giace ora in frantumi sul pavimento. Ma la grotta doveva pre­ sentarsi in questo modo già al tempo in cui vi vennero nascosti i rotoli nel 68 d.C. Quando nel 1952 i ricercatori scoprirono la grotta, l'in­ gresso era già stato aperto da molto tempo. All'interno trova­ rono sì cocci di circa 35 giare di terracotta, ma nessuna giara intatta; dei circa 70-140 rotoli, piccoli o di media grandezza, che si potevano aspettare in presenza di circa 35 giare di quelle

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dimensioni, non vi era praticamente più nulla. Di 24 rotoli esi­ ste solo un piccolo frammento di ognuno; di cinque rotoli vi sono due frammenti di ognuno; di altri cinque rotoli tre-sette piccoli frammenti di ognuno; del resto più nulla; si è trovata inoltre una grande quantità di pezzetti non scritti provenienti dai fogli di protezione. I frammenti conservati provengono spesso dal margine superiore o inferiore del rotolo, dal suo ini­ zio o dalle zone delle cuciture. Questi frammenti sono del tutto simili ai frammenti che cadono in terra, e non vengono notati in una grotta oscura, quando si aprono antichi rotoli. Le riproduzioni fedeli all'originale dei frammenti scritti di 34 ma­ noscritti originariamente molto più ampi riempiono appena due intere pagine del volume dell'edizione ufficiale. 3 Che cosa è avvenuto in questo caso? È impossibile che i rotoli siano stati presi dai beduini in epoca recente, poiché i detriti nei quali sono stati trovati i piccoli frammenti non erano stati toccati da secoli. D'altra parte, i rotoli non sono certamente marciti sul posto, poiché anche nel caso in cui si fossero conservati diversi frammenti dello stesso manoscritto questi ultimi non provengono da passi contigui, ma da parti completamente diverse dei rotoli originari. Per spiegare que­ sto strano dato relativo alla grotta 30 non vi è quindi altra possibilità se non ammettere che già secoli addietro qualcuno sia entrato nella grotta e abbia asportato i rotoli. Altrimenti dovrebbero essersi trovati già secoli prima in questa grotta re­ lativamente asciutta perché potessero prodursi in essi quelle caratteristiche tracce di marciume che contraddistinguono i frammenti trovati. Esiste una spiegazione?

I caraiti Verso 1'800 d.C. il patriarca nestoriano Timoteo I di Seleu­ cia, l'attuale Baghdad, scriveva al suo collega Sergio, metropo­ lita di Elam, di aver ricevuto da persone degne di fiducia la no­ tizia secondo cui una decina di anni prima in una grotta nelle

3 DJDJ III,

Oxford

1962,

fotografie

XVIII-XIX.

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vicinanze di Gerico erano stati scoperti dei «libri». Il cane di un cacciatore arabo era entrato in una grotta e, poiché non usciva, il suo padrone era andato a cercarlo e aveva scoperto i «libri». Poi aveva informato gli ebrei di Gerusalemme i quali si erano recati in massa sul posto. Lì avevano trovato libri del­ l'Antico Testamento e altre opere scritte in ebraico e li ave­ vano portati via.4 La relazione su questo ritrovamento concorda perfetta­ mente con i dati della grotta 30. Fino al 1956 la grande grotta 110 era chiusa. I numerosi rotoli della grotta 40, anch'essa molto grande e difficilmente raggiungibile, vi sono rimasti fino ai nostri giorni. Nessuna delle altre grotte in cui sono stati tro­ vati manoscritti è abbastanza grande perché un cane possa fer­ marvisi a rovistare per molto tempo, senza che il suo padrone lo veda dall'ingresso o chiamarlo da breve distanza, e sia co­ stretto a entrare per cercarlo. Infine, e soprattutto, non esiste «nelle vicinanze di Gerico>> nessun'altra grotta in cui siano stati trovati manoscritti, se non quelle in relazione con l'inse­ diamento di Qumran. Qui tutti gli elementi si incastrano nel migliore dei modi e la cosa appare ancor più fondata quando ci si chiede che cosa sia avvenuto dei «libri» presi allora dai giu­ dei. Poco meno di mezzo secolo prima del tempo in cui visse il patriarca Timoteo I un discendente di Davide di nome Anano aveva fondato in Mesopotamia un nuovo movimento, tutt'ora esistente, del giudaismo. I membri di quel movimento erano chiamati originariamente, "dal nome del loro fondatore, ana­ . niti, ma ben presto vennero conosciuti con il nome di caraiti, poiché rifiutavano tutta la tradizione rabbinica - Mishnah e Talmud - e riconoscevano autorità normativa solo agli scritti dell'Antico Testamento. Ora gli ebrei indicano lo studio del­ l'Antico Testamento con il termine qara'. Questi caraiti sono quindi un movimento riformistico ebraico, simile a quello dei protestanti del XVI secolo nel cristianesimo, i quali non rite­ nevano plù normativi gli insegnamenti dei padri della chiesa e 4

Secondo P.

KAHLE, Die Kairoer Genisa,

Berlin

1963, 16-17.

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della scolastica, ma riconoscevano come fondamento della fede «la sola Bibbia>>, in questo caso la Bibbia cristiana. Nel giudaismo della Mesopotamia, della Palestina e dell'E­ gitto i caraiti conquistarono ben presto molti adepti. In parti­ colare, Gerusalemme e il Cairo divennero ben presto centri di insegnamento caraitico. È possibile dimostrare come i rotoli provenienti dalla grotta nelle vicinanze di Gerico li abbiano profondamente influenzati. Essi risalgono tutti infatti al giu­ daismo pre-rabbinico palestinese, la cui autorità era stata «la sola Bibbia» nella forma della Torah e dei libri biblici dei pro­ feti. In tal modo, i caraiti vedevano confermato dagli antichi scritti ebraici degli «abitanti delle grotte», come essi chiama­ vano gli antichi abitatori di Qumran - in base ai dati relativi alla scoperta dei loro rotoli - il loro fondamentale atteggia­ mento anti-rabbinico, che anzi hanno forse ripreso nella sua forma estrema proprio da loro. Infatti, questi antichi rotoli cri­ ticavano con particolare asprezza proprio quei farisei ai quali si sarebbe poi richiamata la tradizione rabbinica. Questa cri­ tica corrispondeva alle tendenze proprie dei caraiti, i quali stu­ diarono con grande zelo gli antichi rotoli - molti insegna­ menti dei caraiti e il loro sistema del calendario sono derivati direttamente da essi - e li ricopiarono anche, per poter di­ sporre di un maggior numero di copie o per sostituire i rotoli usurati. Uno degli scritti principali dei giudei che un tempo ave­ vano abitato a Qumran era un'opera molto vasta composta verso il 100 a.C. e indicata oggi per lo più come Documento di Damasco. Sono stati trovati frammenti di dieci copie in diverse grotte di Qumran. Gli studiosi moderni conoscono circa la metà del testo originario di quest'opera fin dal 1910, quando Solomon Schechter pubblicò parti di antichi libri scoperti alla fine del XIX secolo al Cairo nella genizah di una sinagoga ca­ raita della città. Le copie del Documento di Damasco che vi furono rinvenute risalgono al X e XII secolo. I testi paralleli ora ritrovati confermano che i caraiti le hanno fatte a quel tempo - attenendosi con grande fedeltà al testo - sulle edi­ zioni precedenti trovate nella grotta nelle vicinanze di Gerico. Le copie medievali vengono generalmente chiamate, in base al

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luogo in cui sono state rinvenute, Cairo Damascus Document, abbreviato in CD. Ricordiamo anche un altro esempio. Il testo originario ebraico del libro della Sapienza di Gesù ben Sira, composto verso il 190 a.C., era noto fin dall'inizio del nostro secolo in gran parte grazie alle copie medievali provenienti dalla sina­ goga caraita del Cairo. Ma in questi manoscritti caraiti vi erano diverse variazioni rispetto al testo del libro proposto dalla Septuaginta e dalla Vulgata e finora non si sapeva se que­ ste differenze fossero da ascrivere a libertà che si era preso il traduttore greco - un nipote dell'autore - o a errori com­ messi da una lunga catena di copisti. Alcuni studiosi ritene­ vano addirittura che i manoscritti medievali fossero tarde re­ troversioni del testo di ben Sirach dal greco in ebraico. Nella grotta 20 sono stati trovati due piccoli frammenti di un rotolo con il testo ebraico di ben Sira. La loro disposizione del testo corrisponde esattamente a quello che è stato rilevato nelle copie medievali dei caraiti. I rabbi non hanno traman­ dato affatto il testo ebraico di ben Sira. Vi sono quindi buoni motivi per pensare che i caraiti del Cairo abbiano ripreso il loro testo di ben Sira direttamente dagli «abitanti delle grotte», dunque, come nel caso del Documento di Damasco, dai ritrovamenti della grotta 30. Un manoscritto di ben Sira, anch'esso frammentario ma conservato più ampiamente, pro­ veniente dalla fortezza di Masada, distrutta nel 74 d.C., e rea­ lizzato in un qualche momento fra il 100 e il 50 a.C., conferma l'antichità di questa versione del testo.5 Il testo delle copie me­ dievali di ben Sira non si discosta praticamente dal testo ritro­ vato a Oumran, cosa che naturalmente senza quest'ultimo ri­ trovamento non si sarebbe mai potuta sapere. Non c'è che attendere per sapere quali altri «rotoli del Mar Morto» potranno ancora emergere dagli enormi materiali, fi­ nora solo in parte studiati, ritrovati nell'antica sinagoga caraita del Cairo, se i manoscritti biblici caraiti offriranno versioni te­ stuali caratteristiche del materiale ritrovato a Oumran e in che 5

Il testo

è

stato pubblicato da Yigael Yadin.

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misura le tradizioni caraite potranno aiutarci a comprendere meglio passi difficili dei testi di Qumran. Ma già ora impor­ tante è soprattutto il fatto che le copie medievali del Docu­ mento di Damasco mostrano senza ombra di dubbio che de­ vono essere fatte risalire alla scoperta di manoscritti alla fine dell'VIII secolo in una grotta nelle vicinanze di Gerico e con ogni probabilità a nessun'altra grotta se non l'attuale grotta 3Q. È difficile dire quanti rotoli abbiano trovato nella grotta 3Q, alla fine dell'VIII secolo, i caraiti e altri ebrei di Gerusa­ lemme. Prima di loro certamente nessuno era stato in questa grotta, per cui trovarono tutto così come era stato lasciato da­ gli abitanti di Qumran. Di 34 rotoli sono stati trovati anche frammenti .scritti, ma dovevano essere molti di più. I cocci di 35 giare corrispondono a un ordine di grandezza di circa 70140 rotoli. Naturalmente è anche possibile che alcune di que­ ste giare fossero vuote e dovessero essere riempite con i rotoli che sono stati poi trovati nelle grotte 5Q e llQ, non essendo arrivati alla grotta 3Q prima della sua chiusura. D'altra parte, non si può naturalmente neppure escludere che siano giunti in tempo alla grotta ancora molti altri manoscritti e che siano stati semplicemente ammucchiati sul pavimento, non essendo ormai più possibile avere altre giare o mancando il tempo per trasportarle alla grotta 3Q. Al riguardo resta quindi aperta tutta una serie di domande alle quali certamente nessuno è più in grado di rispondere.

Il rotolo di rame Infine, alla grotta 3Q è collegato anche un altro importante ritrovamento, cioè quel rotolo di rame che abbiamo già ricor­ dato nel primo capitolo, con la sua lista di 64 nascondigli di te­ sori. Si trovava a sinistra dell'entrata alla grotta nascosto sotto delle pietre e fu scoperto dai ricercatori solo nel 1952 e non nel medioevo. Già semplicemente il modo del tutto diverso in cui è stato nascosto induce legittimamente a pensare che i due re­ perti - i rotoli all'interno della grotta e il rotolo di rame al suo ingresso - sono di provenienza diversa.

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grotte dei rotoli

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Il contenuto del testo del rotolo di rame rende ancor più evidente questa diversità. Esso mostra che è stato fatto e na­ scosto all'entrata della grotta 30 solo nell'anno 70 d.C. L'in­ gresso deve essere stato già allora così ben chiuso che nessuno ha potuto sospettare che dietro la parete di pietre si nascon­ desse una grotta contenente dei manoscritti. In seguito - a causa di un terremoto o dell'azione dei topi - quel muro di pietra innalzato relativ�ente in fretta si è sconnesso al punto che il cane del cacciatore arabo ha potuto penetrare all'in­ temo. Lui stesso o gli ebrei da lui attirati sul posto hanno poi demolito il resto del muro di protezione per penetrare nella grotta. Così nel 1952 i ricercatori trovarono l'ingresso già aperto. Al tempo in cui vi fu deposto il rotolo di rame la grotta era ancora ben sigillata. La sua posizione piuttosto nascosta e fuori mano ha impedito di essere localizzata da parte di quanti erano interessati già nel medioevo all'esplorazione degli in­ temi delle grotte. Pur essendo i due nascondigli cosi vicini, i loro contenuti non sono in alcuna relazione fra di loro. Il rotolo di rame elenca quei 64 nascondigli - situati so­ prattutto a Gerusalemme, nel Deserto di Giuda e nel territorio a oriente del Giordano - nei quali durante gli scontri politici degli anni 66-70 d.C. vennero posti al sicuro dagli ebrei insorti e dai nemìèì romani i tesori del tempio di Gerusalemme. Gra­ zie ai molteplici privilegi di cui godeva il tempio di Gerusa­ lemme era considerato la banca più sicura di tutto il Medio Oriente e beneficiava nelle transazioni di capitali di una consi­ derazione simile a quella di cui gode, oggi a livello mondiale, la Svizzera o, a livello regionale, il Lussemburgo. Anche molti stranieri, mercanti e politici, vi avevano i loro depositi, la qual cosa rappresentava per la banca del tempio un mercato molto lucroso a causa delle imposte sui depositi. Oltre a diversi og­ getti di valore che sono indicati nel Rotolo del tempio, nei 64 nascondigli vennero portate più di 100 tonnellate di oro e di argento, sotto forma di monete e lingotti, .un capitale enorme proveniente sia dalla banca del tempio ch.e dal suo tesoro vero e proprio. I nascondigli che si è riusciti a identificare fra quelli indi­ cati nel rotolo di rame sono stati trovati vuoti. Che essi potes-

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sero essere trovati anche senza l'ausilio del rotolo di rame è chiaramente detto alla fine dello stesso testo: «Nella parete rocciosa a nord di Kochlith, dove una grotta con diverse tombe si apre nell'area del suo ingresso verso nord, si trova un'altra copia di questa lista, con indicazioni ancora più precise su que­ sti nascondigli, cioè con tutti i dettagli relativi alla loro esatta posizione e ai tesori che in essi si trovano».6 I proprietari di tutti questi tesori che sono sopravvissuti alla guerra e alla di­ struzione del tempio del 70 d.C. devono aver conosciuto que­ sto testo principale molto più circostanziato della lista dei te­ sori e devono averlo usato per ritrovare i vari nascondigli. Per cui in fin dei conti non si sentì alcun bisogno di ricorrere a que­ sta versione breve della lista, eseguita in resistente rame solo per ragioni di sicurezza in caso di necessità e nascosta all'in­ gresso della grotta 3Q. Non ci si curò quindi neppure di sapere dove fosse stata nascosta. Quando nell'estate del 70 d.C., i romani conquistarono Gerusalemme, misero le mani - secondo il racconto di Giu­ seppe Flavio - su una tale quantità di tesori che subito dopo il prezzo dell'oro in Siria scese al 50% del suo corso abituale (BJ 6,317). Essi poterono scoprire anche alcuni nascondigli di te­ sori che si trovavano nell'area del tempio. Giuseppe Flavio ri­ corda come costrinsero un sacerdote di nome Gesù ben The­ buti, incaricato dell'amministrazione dei tesori, a indicare loro uno di quei nascondigli, nel quale trovarono suppellettili d'oro usate per il culto (BJ 6,387-389). Tuttavia non si dovrebbe ritenere che il rotolo di rame ri­ portasse tutto ciò che allora apparteneva al tesoro del tempio. Si trattava certamente solo delle cose che si potevano porre al sicuro in modo duraturo. Probabilmente la lista integrale venne stilata solo dopo la distruzione del tempio. Infatti, tutti i pezzi provenienti dal tempio di Gerusalemme fatti sfilare a Roma nel 71 d.C. durante il corteo trionfale (BJ 7,148-150) ­ la cui riproduzione si può ammirare ancor oggi sull'arco di

6

Discoveries in the Judaean Desert of Jordan III, Citazione da pp. 215 e 298.

284-299.

Oxford 1962, 212-215 e

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Tito - e provenienti in parte dai nascondigli di tesori che erano stati scoperti nell'agosto dell'anno precedente (BJ 6,387-391) mancano nella lista-inventario del rotolo di rame! Ora che il tempio era stato distrutto, occorreva sapere esattamente dove si trovavano i capitali bancari posti in salvo e gli altri oggetti di valore. Ma poiché i soldati romani control­ lavano l'intero paese, era impossibile riunire nuovamente tutti questi tesori in un unico luogo. Il rotolo di rame può quindi es­ sere considerato anche come un registro della banca del tem­ pio, la quale continuava segretamente la propria attività anche dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme e indicava in esso i propri depositi o le proprie «filiali» in un modo che agli addetti ai lavori diceva tutto e ai profani non diceva assoluta­ mente nulla. La ragione per cui si può essere certi che il rotolo di rame riporta solo parti del tesoro del tempio si trova in alcune indi­ cazioni di nomi. La lista dei tesori è redatta in ebraico. Le 64 singole posizioni sono state separate fra loro andando a capo a ogni nuova posizione. Alla fine di sette di queste rubriche si trovano scritte in greco le iniziali di nomi propri. Sono i nomi di coloro ai quali app artenevano i depositi nella banca del tempio indicati in quella rubrica. Sono proprio questi depositi personali (cf. BJ 6, 282) che erano stati posti frettolosamente al sicuro dalla tesoreria, per proteggersi da eventuali ricorsi in caso di danni. I primi due di questi nomi - nelle posizioni l e 4 - sono particolarmente interessanti. Si tratta, infatti, di due membri della casa reale di Adiabene - oggi il territorio curdo da Kir­ kuk fino alla Turchia, nella parte nord-orientale dell'lrak - di nome Kenedaios e Chageiras, noti anche dai racconti di Giu­ seppe Flavio. Il re Izate di Adiabene, sua moglie Elena e suo fratello Monobazos si erano convertiti qualche tempo prima al giudaismo. Izate aveva fatto educare sette dei suoi figli a Ge­ rusalemme. La casa reale di Adiabene vi possedeva tre pa­ lazzi. Molti membri della famiglia reale parteciparono al fianco degli ebrei alla rivolta contro i romani, sopravvivendo alla stessa. Grazie alle pe�;spicaci misure di prudenza, seguite anche da coloro che prepararono il rotolo di rame, essi - o i

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loro eredi - avrebbero potuto disporre nuovamente un giorno, dopo la disfatta politica, di mezzi finanziari sufficienti per il loro abituale stile di vita. Anche gli altri cinque nomi propri di questo registro alle posizioni 6, 7, 10, 14 e 17 - sono interessanti da un punto di vista politico-religioso. Ma l'esempio citato dovrebbe ba­ stare per mostrare a quali scopi servisse effettivamente la rea­ lizzazione del rotolo di rame. In ogni caso è evidente che esso non ha nulla a che vedere con i rotoli di Qumran. Le ipotesi se­ condo cui si tratterebbe di una lista dei tesori degli esseni o che la tesoreria del tempio di Gerusalemme avrebbe affidato agli abitanti di Qumran questa lista perché la custodissero sono del tutto assurde. La grotta 3Q, non visibile da Qumran, ha atti­ rato per caso, essendo considerata un nascondiglio particolar­ mente sicuro, due diversi gruppi di persone che non hanno al­ trimenti nulla a che vedere fra di . loro. Quando il rotolo di rame vi fu collocato da oltre due anni non esisteva più alcun esseno in tutta la regione.

Grotta 4Q Nella grotta 4Q è stato depositato tutto ciò che si trovava ancora nella biblioteca di Qumran quando fu interrotta l'a­ zione di occultamento dei rotoli nelle grotte del versante della montagna. Qui sono quindi finiti, oltre ad altri rotoli, anche ri­ cevute, campioni di scrittura e addirittura persino materiale non ancora scritto; secondo il computo attuale, in tutto 566 manoscritti o - più esattamente - posizioni di diversa na­ tura. In nessuna delle altre grotte si sono trovati così tanti ma­ teriali della biblioteca ma sempre solo rotoli interi o i loro frammenti. La massa dei manoscritti della grotta 4Q indica che deve trattarsi della parte principale del contenuto dell'al­ lora biblioteca, anche se solo quantitativamente e non quali­ tativamente. Infatti, anzitutto si è provveduto a mettere in salvo i rotoli più importanti nella grotta 1Q, poi quelli di se­ conda scelta nella grotta 3Q e, infine, nell'ordine nelle grotte 2Q, SQ, 6Q e llQ.

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I cocci di alcune giare di terracotta e altri oggetti della grotta 4Q non hanno praticamente nulla a che vedere con i manoscritti che sono stati qui depositati, ma appartenevano al­ l'arredamento di coloro che l'avevano abitata fino ad allora e all'arredamento trasportato qui dalla vicina grotta adibita ad abitazione SQ. I manoscritti vennero ammucchiati per terra senza alcuna protezione. Le aperture della grotta 4Q erano state senza dubbio fret­ tolosamente chiuse con . �el materiale marnoso, ma essa venne a un certo punto scoperta. Anzitutto, i rotoli devono esservi ri­ masti indisturbati per secoli, iniziando in parte a marcire. Poi - come nel caso della grotta 2Q - è arrivato qualcuno che ha rovistato a fondo, ha aperto molti rotoli, strappandone alcuni ma lasciando poi tutto sul posto dal momento che non sapeva che farsene. Probabilmente la friabile pietra marnosa con cui era stato murato l'ingresso nel corso dei secoli si era in parte disgregata, lasciando un'apertura che aveva attirato un curioso che sperava di trovarvi dei tesori, ma che alla fine se ne era an­ dato deluso. Oggi non è più possibile stabilire se abbia preso qualcosa come ricordo. I beduini che nel 1952 hanno trovato la grotta 4Q non pos­ sono essere stati 1n ogni caso i suoi primi scopritori. Essi allora già conoscevano il valore di quegli antichi rotoli e con le loro copiose scoperte della grotta l Q si erano comportati in defini­ tiva molto diversamente da quel primo scopritore della grotta 4Q. Essi hanno certamente asportato dalla grotta 4Q tutto ciò che hanno potuto trovare, prima che i ricercatori li cogliessero sul fatto e mettessero al sicuro il resto del materiale rimasto. Si trattava di brandelli di rotoli e di cocci di giare che erano rima­ sti per secoli lì dove i ricercatori li trovarono, in parte ricoperti dai detriti o volutamente incastrati nelle fessure della roccia. Molti frammenti provenienti dalla grotta 4Q mostrano tracce di un lungo processo di imputridimento che può essere iniziato solo dopo che i rotoli sono stati aperti e parti di essi sono state sparse sul pavimento. Ciò avvenne in un qualche momento del passato distante già molti secoli da noi. Così dei numerosi manoscritti della grotta 4Q, tenuto conto del materiale ché vi era stato originariamente deposi-

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tato, è rimasto ben poco; per lo più miseri frammenti di rotoli un tempo molto ampi e solo di pochissimi una parte un po' più consistente del testo originario.

Grotta 5Q Nella grotta 50, adibita ad abitazione e del resto comple­ tamente svuotata già nel 68 d.C., gli scavatori hanno trovato, nel 1952, i frammenti di circa 30 rotoli. Vi giacevano senza al­ cuna protezione ricoperti dalla sabbia e dal fango che vi era stato ammassato nel corso del tempo. Non erano mai stati toc­ cati, ma erano molto rovinati. Nella grotta 50 non sono state trovate giare di terracotta.

Grotta 6Q Analoga sorte è toccata ai circa 35 rotoli che erano stati depositati senza alcuna protezione nella piccola grotta 60 e che sono stati scoperti nel 1952 dai beduini. Anch'essi non erano stati toccati, ma, come quelli della grotta 50, erano molto rovinati. Accanto a essi è stata trovata una giara di ter­ racotta in buono stato ma rimasta inutilizzata.

Grotte 7Q, BQ e 9Q I locali adibiti ad abitazione e lavoro abitualmente indicati come grotte 70, 80 e 90 sono stati scoperti dagli scavatori solo nel 1955. Qui giacevano sparsi sul pavimento solo sem­ plici frammenti del genere di quelli che cadono quando si aprono antichi rotoli. Nella grotta 70, di 17 rotoli è stato trovato unicamente un solo frammento di ognuno o l'impronta del suo testo su un coccio di giara; di altri 3 rotoli due frammenti di ognuno, di nessuno più di questo. Nell'edizione ufficiale la fotografia di questi miseri resti occupa una sola pagina.7 Ancor meno, dal

7

xxx .

Discoveries in the Jwroean Desert ofJordan III,

Oxford 1 962, fotografia

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punto di vista dell'estensione, nel caso dei tre rotoli prove­ nienti dalla grotta 8Q, se non si tiene conto delle riproduzioni ingrandite di una minuscola scatoletta per la preghiera e di una minuscola scatoletta per gli stipiti delle porte inserite nel testo originale. 8 Nella grotta 9Q è sopravvissuto un solo fram­ mento di rotolo, così piccolo che non è stato ancora possibile stabilire se appartenga a un testo scritto in ebraico o in ara­ maico. 9 Ognuna delle quattro giare di terraccotta, i cui cocci erano sparsi nelle grotte 7Q e 8Q, era servita un tempo da conteni­ tore in cui riporre i rotoli dopo la lettura. Ma in questo caso i manoscritti non sono marciti sul posto, come nella maggior parte delle altre grotte, ma sono stati asportati già da molto tempo, lasciandosi dietro solo minuscoli frammenti. Lo stato di tutte e tre le grotte corrisponde in linea di principio con quanto i ricercatori hanno trovato nella grotta 3Q (cf. sopra, pp. 81-82). I rotoli non possono essere stati asportati già nel 68 d.C., quindi in occasione della grande azione di salvataggio; allora infatti essi non erano certamente così fragili da lasciar cadere frammenti analoghi a quelli trovati nelle grotte 7Q, 8Q e 9Q. Talvolta vi sono anche impronte di testo manoscritto sui cocci di terracotta. Ciò significa che in questo caso le giare di terra­ cotta con il loro contenuto in rotoli si sono rotte e le masse dei frammenti hanno interagito le une sulle altre per molto tempo. Ma per quanto tempo i rotoli sono rimasti nelle grotte e per­ ché, nel 1955, erano scomparsi già da un pezzo?

L 'Esapla di Origene Nel periodo fra il 228 e i1 254 d.C. Origene ha composto la sua famosa Esapla, una trascrizione di tutto l'Antico Testa­ mento nelle sei versioni allora conosciute. Ora per il salterio greco egli disponeva di un'ulteriore versione, «che era stata

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lbid. , lbid. ,

fotografie fotografia

XXXI -XXXV . XXXV .

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trovata al tempo di Antonino, figlio di Severo, in una giara di terracotta nelle vicinanze di Gerico». 10 Al riguardo, nella sua opera Delle misure e dei pesi composta nel 392 d.C., Epifanio di Salamina scrive: «Nell'anno settimo di Antonino, figlio di Severo, vennero trovati dentro delle giare nei pressi Gerico dei manoscritti della Septuaginta insieme ad altri scritti ebraici e greci». 1 1 L'«anno settimo di Antonino» può essere solo l'ul­ timo dei suoi anni di regno veri e propri (21 1-217), quindi più di dieci anni prima che Origene cominciasse a lavorare alla sua Esapla. In Palestina giare di terracotta con dentro manoscritti sono state trovate sempre e solo «nelle vicinanze di Gerico», cioè in relazione con l'insediamento di Oumran. Ma la presenza di ro­ toli greci o loro frammenti è documentabile solo in due dei luoghi di Oumran in cui sono stati trovati dei manoscritti. Fra i numerosi manoscritti provenienti dalla grotta 40 vi sono quattro copie della versione greca dei libri del Penta­ teuco, oltre a frammenti di altri quattro testi scritti in greco. Ma dalla grotta 40 non furono mai prelevati. manoscritti prima che lo facessero i beduini nel l952, per cui il manoscritto del salterio di Origene non può venire di lì. Al contrario, nel locale adibito ad abitazione e lavoro della grotta 70, i ricercatori che l'hanno scoperta hanno trovato i miseri resti di circa 20 rotoli scritti in greco e misteriosamente scomparsi. Anche nelle vicine stanze adibite ad abitazione e lavoro delle grotte 80 e 90 sono stati trovati miseri resti di ro­ toli scritti in ebraico, i quali pure devono essere stati asportati molto tempo prima. Infine, colpisce il fatto che nelle informa­ zioni relative al ritrovamento di manoscritti nel periodo imme­ diatamente prima di Origene si parli solo di giare di terracotta, nelle quali si trovava fra l'altro il rotolo del salterio, e non al contrario - come nella notizia medievale data da Timoteo I - di una grotta, nella quale erano stati trovati i manoscritti. 70, 80 e 90 sono, in realtà, locali abbastanza aperti e non hanno l'aspetto di vere e proprie «grotte». 10 11

EusEBIO, Storia ecclesiastica VI, 16. J.P. MIGNE, Patrologia Graeca 43, 265-268.

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Questa descrizione delle circostanze dei ritrovamenti si ad­ dice perfettamente ai ritrovamenti dei locali 7Q, 8Q e 9Q del­ l'insediamento di Qumran, con i loro rotoli greci ed ebraici e non si addice, al contrario, a nessun altro luogo in cui sono stati ritrovati dei manoscritti. Senza dubbio, anche in altre grotte del Deserto di Giuda sono stati trovati manoscritti della Bibbia scritti in greco e risalenti a epoca precristiana, per esempio un rotolo del libro dei Dodici profeti, da Osea a Ma­ lachia, in una grotta del Nahal Hever / 2 ma mai in giare di ter­ racotta. È quindi praticamente certo che la colonna supple­ mentare del salterio della Esapla di Origene ha riprodotto il testo di un rotolo di cui si erano occupati da ultimo, nell'anno 68 d.C., coloro che occupavano il locale 7Q. Che cosa possa es­ sere avvenuto degli altri rotoli dei locali 7Q, 8Q e 9Q resta an­ cora un mistero.

Grotta JOQ La grotta lOQ, con le sue due lettere dell'alfabeto su un coccio di giara, potrebbe essere passata qui tranquillamente sotto silenzio. In questo locale adibito ad abitazione non è stato trovato alcun frammento di rotoli. Ma proprio per questo è importante costatare come la grotta 10Q non appartenga a quelle quattro stanze adibite ad abitazione e lavoro che, viste dal Mar Morto, si trovano nella prima sporgenza della terrazza marnosa (7Q, 8Q e 9Q e un locale quasi completamente eroso). Essa viene spesso menzionata, e anche disegnata nelle cartine, come facente un tutt'uno con quelle. In realtà, la grotta 10Q si trova nella parte occidentale della seconda spor­ genza della terrazza marnosa, quella in cui si trovano anche le grotte 4Q e 5Q. lOQ era quindi un semplice locale adibito ad abitazione e non anche luogo di lavoro di uno studioso della legge. Qui si sarebbero potuti trovare dei manoscritti solo se vi

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1 990.

Pubblicato da E. Tov, Discoveries in the Judaean Desert VIII, Oxford

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fossero stati trasportati nel quadro dell'azione di salvataggio. Ma non lo si è fatto.

Grotta l l Q L'ultima grotta, 1 1Q, è stata scoperta dai beduini nel 1956 ed era ancora ben chiusa. La sua esistenza venne rivelata in una tiepida sera di febbraio dai pipistrelli. Finora si conoscono 23 rotoli - o loro frammenti - provenienti da questa grotta. È difficile pensare che in origine ve ne fossero stati collocati molti di più. Ma non si sa quanto materiale manoscritto prove­ niente da questa grotta manchi ancora all'appello. Si sente ri­ petutamente parlare di rotoli relativamente ben conservati che si troverebbero ancora in mano di privati. Se essi esistono ve­ ramente, possono provenire quasi certamente da questa grotta, come probabilmente già quella copia del Rotolo del tempio sequestrata nel 1967 a Betlemme presso Kandu. Il cuoio di alcuni manoscritti della grotta 11 Q era partico­ larmente fine, quello di altri piuttosto rozzo. Nella grotta era ancora disponibile una sola giara di terracotta. Ciò che non è stato possibile introdurvi è stato depositato sulla nuda terra ed è stato quindi esposto all'umidità e all'acqua che, in occasione di forti acquazzoni, poteva facilmente penetrare nella grotta attraverso le crepe della roccia. Un rotolo della grotta 110 con il testo del libro biblico del profeta Ezechiele si è talmente im­ pastato che non è più possibile aprirlo; tutto il resto del mate­ riale finora noto proveniente da questa grotta è a dir poco gra­ vemente danneggiato.

CoNCLUSIONI La descrizione dello stato delle grotte in cui sono stati tro­ vati dei manoscritti ha mostrato che nella biblioteca di Qum­ ran dovevano esservi molti più rotoli di quelli che sono effetti­ vamente giunti fino a noi. Già Origene e i suoi contemporanei hanno sfruttato materiali provenienti dai locali adibiti ad abi­ tazione 7Q, 8Q e 9Q. I caraiti, fondati nell'VIII sec. d.C.,

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hanno ricevuto impulsi decisivi dai rotoli degli «abitanti delle grotte» scoperti a quel tempo nella grotta 30. Solo pochi fram­ menti e solo di alcuni di questi rotoli, un tempo numerosi, sono rimasti fino ai nostri giorni nei luoghi nei quali erano stati un tempo usati e nascosti. Tuttavia la grande massa di tutto ciò che si trovava un tempo nella biblioteca di Qumran ci è diventata accessibile solo oggi. La ricerca a tappeto fatta soprattutto dai beduini, ma anche un pizzico di fortuna da parte dei ricercatori, do­ vrebbe alla fine averci assicurato la maggior parte di ciò che poteva ancora esistere dopo i ritrovamenti del III e dell'VIII secolo, in particolare il grosso del contenuto della biblioteca centrale del tempo, scoperto nella grotta 40, ma gravemente danneggiato e in gran parte distrutto. Qui manca solo ciò che era già stato trasportato in altre grotte o che rimase nei locali adibiti ad abitazione 7Q, 8Q e 9Q (cf. anche sotto, p. 121 ) . Di molti rotoli è sopravvissuto solo qualcosa o non è soprav­ vissuto nulla; ma nell'insieme il quadro che se ne ricava è sod­ disfacente. Secondo le stime correnti ci sono pervenuti in tutto circa 800 rotoli e documenti, per intero, in parte o in piccoli fram­ menti. Le edizioni del materiale manoscritto proveniente dalle singole grotte riportano in genere alla fine delle annotazioni, nelle quali sotto uno o più numeri vengono elencati molti altri rotoli di cui non è stato ancora possibile stabilire esattamente il contenuto (per esempio, 1Q 69-70; 2Q 33; 3Q 14; 40 517520; 50 25; 6Q 31 ) . Qui, e anche nella parte residua di fram­ menti provenienti dalla grotta 4Q di cui non è stato possibile stabilire il contenuto, si nasconde un ulteriore potenziale di al­ meno altri 70 rotoli. Circa 120 rotoli dovrebbero essere stati asportati in tempi ormai lontani, senza lasciare alcun frammento riconoscibile, dalla grotta 3Q e dai locali adibiti ad abitazione e lavoro di 70, 8Q e 9Q, nonché dal locale, quasi completamente eroso, si­ tuato all'estremità meridionale della terrazza mamosa. Senza dubbio, una parte del materiale è interamente marcita, è stata distrutta dai topi o è scomparsa in altri modi senza lasciare tracce.

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Tenendo conto di tutto questo si ha un ordine di grandezza di circa 1000 rotoli e documenti. È questo il materiale che do­ veva esistere alla fine di giugno del 68 d.C. nella biblioteca centrale dell'insediamento di Qumran e nei locali adibiti ad abitazione e lavoro integrati nell'insediamento e situati all'e­ stremità meridionale della terrazza marnosa. Di circa 900 esi­ ste ancora qualcosa. Di circa 660 si è potuto finora stabilire il contenuto. Solo in dieci casi si conserva di questi manoscritti più della metà del loro testo originario (cf. sopra, p. 14); solo nel caso di un rotolo di Isaia proveniente dalla grotta 1Q si conserva praticamente tutto.

Capitolo 6

Il contenuto della biblioteca di Qumran

È possibile trattare del contenuto dei rotoli dell'antica bi­ blioteca di Qumran in diversi modi. A noi oggi interessa so­ prattutto sapere quali nuove conoscenze essi ci trasmettano ol­ tre a quelle che già possedevamo indipendentemente da essi. È questo interesse a guidare la presentazione dei reperti che facciamo in questo capitolo. Naturalmente, coloro che allora hanno fondato, usato e fatto di tutto per salvare la biblioteca la consideravano in tutt'altro modo. Ma già il loro interesse per­ mette di comprendere ciò che è stato raccolto in questa biblio­ teca nel corso di circa 170 anni ed è diventato oggi accessibile anche a noi in gran parte grazie ai ritrovamenti di Qumran.

LE FUNZIONI ORIGINARIE DELLA BIBLIOTECA DI QUMRAN Combinando i dati rilevati nelle diverse grotte - cioè la diversità dei materiali in esse rinvenuti e il modo in cui vi sono stati nascosti - con l'idea della loro provenienza dalla biblio­ teca centrale situata all'interno dell'insediamento, si ottiene, dal punto di vista degli interessi dei suoi fruitori, una suddivi­ sione dell'intero materiale custodito nella biblioteca in quattro diverse sezioni. La prima sezione della biblioteca comprendeva mano­ scritti contenenti campioni di scrittura che servivano soprat­ tutto da modelli per la preparazione di altre copie. Esempi del genere sono il rotolo di Isaia, integralmente conservato, o i grandi rotoli contenenti la regola della comunità, scritti en­ trambi verso il 100 a.C., nonché i rotoli contenenti la grande raccolta di inni o la descrizione della battaglia finale fra la luce e le tenebre, che risalgono all'ultimo quarto del I sec. a.C.

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Nell'anno 68 d.C., questi e altri rotoli trovati nella grotta lQ avevano già un'età compresa fra 80 e 170 anni. Tuttavia essi non presentano se non scarse tracce di utilizzazione, per esempio marcate impronte delle dita sulla parte esterna, nono­ stante che le opere in essi contenute fossero fra quelle più lette nell'insediamento di Qumran. Ciò sta a indicare l'esistenza di un numero relativamente alto di loro copie nella biblioteca. Quasi certamente questi manoscritti-campione venivano usati solo nello scriptorium e per il resto risparmiati il più possibile. Rotoli del genere costituiscono una parte importante del con­ tenuto della grotta lQ, dove sono stati nascosti dopo essere stati accuratamente avvolti in stoffe di lino e impacchettati dentro giare di terracotta. I manoscritti-campione maggior­ mente danneggiati sono finiti esclusivamente nella grotta 4Q ( cf. sopra, p. 93). Una seconda sezione della biblioteca comprendeva rotoli di uso abituale, soprattutto per lo studio. A questo gruppo ap­ partiene, in particolare, la maggior parte dei 33 esemplari del salterio, dei 27 esemplari del libro del Deuteronomio, dei 20 esemplari del libro di Isaia e dei 16 esemplari del libro dei Giu­ bilei, nonché esemplari di altri libri della Bibbia presenti in un maggior numero di copie, di scritti tradizionali e di opere pro­ prie degli esseni. Per lo studio comunitario delle sacre Scritture e delle re­ gole della comunità, obbligatorio per gli esseni, occorrevano contemporaneamente e continuamente più copie di questi te­ sti. Il numero di copie di una determinata opera nella biblio­ teca di Qumran può quindi dare un'idea del numero di per­ sone che partecipavano allo studio comunitario di questi scritti, maggiore in certi casi, minore in altri. I rotoli di questa seconda sezione sono stati trovati in tutte le grotte, da l Q a 6Q, nonché nella grotta llQ, quindi in tutte le grotte usate come veri e propri nascondigli. Una terza sezione della biblioteca comprendeva opere per più specifici interessi di studio e questioni di attualità. Così, ad esempio, tracce dei rotoli greci sono state trovate, oltre che fra il contenuto residuo della biblioteca nacosto alla fine nella grotta 4Q, solo nel locale di abitazione e lavoro 7Q. Del Ro-

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tolo del tempio esistono solo due esemplari, provenienti en­ trambi dalla grotta 110. Uno di questi due esemplari è stato scritto solo verso la fine del I sec. a.C., ma in seguito è stato utilizzato con tale assiduità che si è dovuto ben presto proce­ dere a sostanziose riparazioni. Evidentemente ogni tanto co­ loro che usavano della biblioteca sentivano la necessità di per­ seguire un qualche interesse particolare. Verso la metà del I sec. a.C. vennero preparate molte nuove copie del libro di Da­ niele, il che significa che quell'antico libro profetico era ridi­ ventato attuale. Nonostante l'assoluta chiarezza di questi dati in un certo numero di casi, è per noi difficile poter escludere in modo defi­ nitivo per la maggior parte dei manoscritti di questa terza se­ zione che ci sono pervenuti che possano provenire da una delle altre tre sezioni della biblioteca. In realtà, vi sono moltis­ sime opere delle quali non esisteva nella biblioteca di Qumran che una sola copia o tutt'al più due o tre copie. In diversi casi si può pensare che queste opere rispondessero agli interessi di poche persone. Ma la presenza di opere in un numero così ri­ dotto di copie può essere spiegata anche in molti altri modi, per esempio ritenendo che si trattasse di opere antiche per le quali sussisteva un interesse limitato o di modelli a uso dei co­ pisti per scritti che altrove erano molto più richiesti di quanto non lo fossero da parte di coloro che usavano la biblioteca di Qumran. La maggior parte dei manoscritti di questo tipo proven­ gono dalla grotta 40 e solo poche altre copie dalle altre grotte. Esempi di testi altrimenti più richiesti potrebbero essere sin­ gole copie come il bel manoscritto del commento ad Abacuc o la libera rielaborazione popolare di parti del libro della Genesi in aramaico, entrambi provenienti dalla grotta lQ. Ma più di 100 rotoli della biblioteca di Qumran sono definitivamente scomparsi; di più di 200 si conservano frammenti talmente pic­ coli da non essere ancora riusciti a stabilime il contenuto. Quindi non conosciamo il contenuto di circa un terzo del ma­ teriale che esisteva nella biblioteca di Qumran. In gran parte dovrebbe trattarsi di più copie di opere che ci sono effettiva­ mente pervenute, ma di quali?

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La quarta sezione della biblioteca comprendeva soprat­ tutto manoscritti usurati. In seguito si diffuse nel giudaismo l'a­ bitudine di riunire queste copie usurate in un locale attiguo alla sinagoga - comparabile grosso modo alle sagrestie delle chiese cristiane - come è avvenuto ad esempio in quella sina­ goga caraita del Cairo da cui provengono le copie medievali del Documento di Damasco e del libro di Gesù ben Sira (cf. so­ pra, pp. 104-105). A volte si usava anche porre nella tomba di un uomo particolarmente pio tutti gli scritti religiosi usurati che si erano accumulati fino alla sua morte. Ma nei sondaggi fatti sulle tombe dei cimiteri di Qumran non si è trovata trac­ cia di manoscritti. Certamente anche le altre tombe non con­ tengono manoscritti sepolti insieme ai defunti. Infatti, a Qum­ ran i materiali scritti non più utilizzabili venivano conservati in un locale adiacente alla biblioteca. Questa quarta sezione, oltre ai rotoli usurati, comprendeva anche mezuzot e tefillin appartenuti ai defunti, che contene­ vano testi biblici, documenti, fatture e altro materiale conta­ bile, parti di antichi manoscritti che si potevano riutilizzare per esercizi di scrittura o altri scopi. Come esempio basti citare qui il manoscritto del Libro astronomico di Enoch, scritto verso il 200 a.C., andato in pezzi già da molto tempo e riutilizzato in parte per esercizi di scrittura. Di tutti questi materiali manoscritti scartati nulla sarebbe certamente sopravvissuto all'incendio dell'insediamento di Qumran del 68 d.C. se tutto ciò che si trovava ancora nella bi­ blioteca non fosse stato trasportato all'ultimo minuto e senza fare alcuna cernita, quindi per cosl dire in blocco, nella grotta 40. In ogni caso solo in questa grotta sono stati trovati di que­ sti materiali. Anche se non tutto ciò che si trovava nelle grotte 1Q-1 1Q è giunto fino a noi, il quadro delle principali sezioni della bi­ blioteca centrale da noi qui tratteggiato dovrebbe corrispon­ dere nelle sue grandi linee alla realtà. Che cosa si può ancora costatare? Alcuni dei manoscritti provenienti dalla biblioteca di Qumran sono notevolmente più antichi dell'insediamento es­ seno in quel luogo, iniziato verso il 100 a.C. Essi non sono

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quindi stati composti a Qumran, ma vi sono stati portati da al­ trove. Diversi manoscritti-campione risalgono proprio al mo­ mento dell'insediamento a Qumran. Non è possibile stabilire se essi siano stati composti sul posto o altrove. Infatti, anche potendo dimostrare che lo stesso copista ha continuato a lavo­ rare a Qumran, non si può escludere che egli abbia copiato al­ trove i suoi manoscritti-campione e che li abbia portati con sé quando si trasferì a Qumran. È proprio all'inizio che si richie­ devano persone esperte del mestiere e ben allenate, prima che potessero subentrare coloro che venivano preparati diretta­ mente a Qumran. In ogni caso, già la semplice esistenza di alcuni manoscritti­ campione particolarmente antichi dimostra che la costituzione della biblioteca di Qumran doveva servire per principio anche al funzionamento dello scriptorium, dove si è lavorato soprat­ tutto per committenti esterni, cioè per le comunità essene delle città e dei villaggi della Giudea. D'altra parte, non si possono dimenticare la seconda e terza sezione della biblioteca. Le parti di manoscritti apparte­ nenti a queste sezioni dimostrano che la biblioteca di Qumran serviva anche al tempo stesso a finalità di studio di diversa na­ tura. A Qumran vivevano anche uomini che avevano poco o nulla a che vedere con la preparazione dei manoscritti. Essi erano interamente occupati nelle attività amministrative, com­ merciali, agricole e culinarie dell'insediamento, oltre a essere tenuti a prendere parte la sera e fino a tarda notte - come tutti gli esseni - allo studio comunitario della Torah, degli scritti dei profeti e delle regole della comunità. A tale scopo dovevano esservi nella biblioteca le copie necessarie di deter­ minati manoscritti. A Qumran risiedevano, inoltre, dei sacerdoti cui spettava la direzione spirituale. Essi sovraintendevano alla biblioteca e alla preparazione dei manoscritti, presiedevano la preghiera durante i quotidiani servizi di culto e anche i pasti comunitari, oltre a essere responsabili, insieme ad altri, delle scelte giuridi­ che relative al patrimonio e al diritto privato. Ma questi sacer­ doti trascorrevano la maggior parte del loro tempo nello stu-

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dio della legge, svolgendo anche un ampio ventaglio di studi particolari, per i quali doveva esistere nella biblioteca un'ade­ guata documentazione. Probabilmente erano proprio questi sacerdoti responsabili della direzione ad alloggiare nei quattro locali adibiti ad abita­ zione e lavoro dell'estremità meridionale di quella sporgenza della terrazza marnosa su cui si trova l'insediamento di Qum­ ran. Essi dovrebbero essere stati anche gli unici cui era per­ messo prendere a prestito rotoli dalla biblioteca e studiarli pri­ vatamente. Chi abitava nelle grotte della terrazza marnosa al di fuori dell'insediamento doveva, come tutti gli altri, frequen­ tare la sala di lettura della biblioteca quando voleva studiare o consultare i rotoli. Vista con gli occhi dei residenti di Qumran, la biblioteca era, da un lato, il principale fondamento della loro esistenza economica e, dall'altro, il luogo più importante delle loro pos­ sibilità di formazione e di ulteriori studi. Ciò spiega il motivo per cui fecero di tutto per salvare il materiale che vi si trovava quando il pericolo costituito dai romani si acutizzò. Non sono necessarie altre teorie per spiegare plausibil­ mente la natura dei circa 1000 rotoli che sono stati riuniti in questa biblioteca nel corso di circa 170 anni, il perché di certe opere esistessero molte copie, di altre soltanto poche copie e il perché fosse una biblioteca esclusivamente essena, nella quale non si trovavano in alcun modo opere sadducee, farisee o di autori pagani, come Omero o i filosòfi greci. Senza dubbio, abitualmente si usava solo una parte piutto­ sto ridotta di tutto questo materiale, come avviene del resto ancora oggi in qualsiasi biblioteca che abbia scopi similari. Du­ rante gli ultimi decenni di esistenza di questa biblioteca molte cose non erano più utilizzate già da molto tempo e diverse al­ tre lo erano solo occasionalmente. Ma l'insieme mostra quali siano stati gli interessi che si sono conservati nel corso del tempo e che noi oggi possiamo conoscere proprio grazie alle scoperte di Qumran. Un dato particolarmente istruttivo è, infine, il fatto che la parte numericamente più consistente di tutti i manoscritti provenienti da Qumran di cui possiamo ancora valutare il

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contenuto - più di 500 su un totale di circa 660 - provenga dalla sola grotta 4Q. Si tratta in gran parte di manoscritti di opere di cui non si è trovato alcun esemplare nelle altre grotte. Naturalmente bisogna tener conto del fatto che un gran numero di altri esemplari è scomparso dalle grotte 3Q, 7Q, 8Q e 9Q senza lasciare tracce già in epoca antica e, inol­ tre, che in circa 150 casi i frammenti dei rotoli delle grotte l Q-3Q e 50-1 1 Q sono così piccoli che non è stato ancora possibile pronunciarsi sul loro contenuto. Certamente anche in queste altre grotte esistevano molti esemplari in più copie di opere la cui presenza nella biblioteca di Qumran può es­ sere dimostrata finora solo a partire dal materiale prove­ niente dalla grotta 4Q. Tuttavia colpisce il fatto che non si possa dimostrare l'esi­ stenza di certe opere nelle altre grotte, ma solo nella grotta 4Q, e anche qui solo in uno o due esemplari. Relativamente ai libri della Bibbia ebraica si tratta di Giosuè, Proverbi, Qohe­ let, l e 2 Cronache, nonché Esdra-Neemia. Si tratta quindi di un certo numero di opere che sono state composte forse già in epoca pre-essena - dal V alla metà del II sec. d.C. - ma an­ che di varie opere risalenti al primo periodo esseno, come i mi­ drashim tematici (ricerche degli studiosi della legge) p esharim (commenti ai profeti biblici) o materiale liturgico. In casi del genere si può pensare che negli ultimi decenni di esistenza dell'insediamento di Qumran non vi sia stato più nessun particolare interesse per queste opere. Ma questo giu­ dizio richiede di essere più esaustivamente motivato caso per caso, con riferimento, ad esempio, alla data di produzione del manoscritto più recente che si è conservato o a un accurato esame delle peculiarità contenutistiche. In genere vale comunque quest'ipotesi: le opere la cui esi­ stenza nella biblioteca di Qumran è provata esclusivamente dai ritrovamenti provenienti dalla grotta 4Q - e anche in que­ sto caso solo da uno o due manoscritti risalenti a un'epoca più antica - possono essere considerate più di altre come opere risalenti già alla tradizione pre-essena, oppure - nel caso in cui siano state composte senza ombra di dubbio dagli esseni ,

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come opere relativamente antiche e finite poi ai margini degli interessi della comunità. La grotta 4Q offre solo quantitativa­ mente il contenuto principale della biblioteca del tempo, ma non è rappresentativa dal punto di vista qualitativo: i migliori contenuti qui mancano, perché erano stati posti in salvo al­ trove (grotte 1Q, 2Q, 3Q, SQ, 6Q, llQ).

LE NUOVE CONOSCENZE OFFERTE DAI RITROV AMENTI DI QUMRAN Considerati dal punto di vista scientifico, i ritrovamenti di Qumran degli anni 1947-1956 sono un fatto sensazionale. Prima di allora non esisteva - se si prescinde da documenti e lettere - assolutamente alcun manoscritto aramaico e un solo manoscritto ebraico - il papiro Nash ritrovato in Egitto - ri­ salente al giudaismo anteriore all'epoca medievale. Quel pic­ colo foglio, scritto nel II o I sec. a.C., reca il testo dei Dieci co­ mandamenti e dello Shema' Israel (Dt 6,4-9). Fin ad allora era tutto ciò che si possedeva. Ora gli studiosi dispongono abbondantemente di mano­ scritti originali del giudaismo palestinese, composti tutti in un periodo che va dal III sec. a.C fino, al più tardi, al 68 d.C. Anche quando in un prossimo futuro saranno stati pubbli­ cati gli ultimi frammenti di questa sensazionale scoperta, ac­ correranno ancora diversi decenni di intenso lavoro per far produrre alla copiosa messe di nuove conoscenze derivanti da tutti questi testi tutti i suoi frutti nei diversi campi della giudai­ stica, della ricerca sull'Antico e Nuovo Testamento, della sto­ ria della lingua ebraica e aramaica, nonché nel più vasto am­ bito delle semitistica e delle scienze della religione. Ma dopo quarant'anni di ricerca su Qumran e in considerazione del fatto che tutto il materiale fondamentale della ricerca generale è interamente accessibile fino agli ultimi frammenti, è possi­ bile già ora tracciare un quadro delle nuove più importanti co­ noscenze.

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Naturalmente, qui potremo trattare più dettagliatamente solo di alcuni dei più importanti manoscritti provenienti dalle scoperte di Qumran. 1

MANOSCRITII BIBLICI Tutte le moderne edizioni a stampa della Bibbia ebraica si basano su manoscritti ebraici composti nel medioevo. Restava perciò sempre qualche dubbio sul grado di accuratezza del te­ sto dell'Antico Testamento da essi normalmente riprodotto. Un processo di trascrizione durato più di 1000 anni poteva na­ scondere diversi rischi; ogni nuovo copista poteva incorrere in nuovi errori. I manoscritti biblici più antichi provenienti da Qumran ri­ salgono già al III sec. a.C. e la versione praticamente intera­ mente conservata del libro di Isaia a un periodo attorno al 100 a.C. Globalmente le scoperte di Qumran ci hanno regalato circa 200 manoscritti biblici, scritti tutti necessariamente prima dell'estate del 68 d.C. Ognuno di questi manoscritti precede di più di 800 anni i diversi manoscritti medievali che sono alla base del testo a stampa dell'attuale Biblia Hebraica. Essi rendono ora alla professionalità dei copisti ebrei del periodo intermedio una testimonianza che non potrebbe essere migliore. Si pos­ sono rilevare divergenze o anche errori solo riguardo a minuzie praticamente senza importanza. Il testo biblico che noi cono­ sciamo dal medioevo è lo stesso esistito già mille anni prima. Nelle grotte di Qumran sono stati trovati frammenti perlo­ meno di una copia di tutti i libri della Bibbia ebraica, eccetto che del libro di Ester. E non a caso. Infatti, come dimostrano le corrispondenti scoperte della grotta 40, gli esseni tenevano in grande t:onsiderazione le versioni più antiche, scritte in ara­ maico, del materiale di Ester, ma rifiutavano la rielaborazione

1 Sull'esempio di Stegemann che rinvia il proprio lettore ad alcune edi­ zioni tedesche in cui sono stati pubblicati i testi di Qumran, rinviamo anche noi il lettore italiano soprattutto a L. MoRALDI, a cura di, I manoscritti di Qum ­ riin, Torin9 21 986 (NdT).

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ebraica - quale si trova nella Bibbia ebraica - che altri ebrei avevano compiuto del materiale di Ester nel II sec. a.C, e che era servita fin dall'inizio all'istituzione della festa di Purim, ce­ lebrata dagli ebrei anche ai nostri giorni. Una tale opera, con­ siderata «estranea», non trovava posto nella biblioteca di Qumran, come non trovava posto nel loro calendario delle fe­ ste la festa di Purim. Era qualcosa che aveva a che fare con i sovrani asmonei, ritenuti infedeli, e con i farisei, loro simpatiz­ zanti. Gli esseni, osservanti convinti della tradizione, non vole­ vano saperne di una tale innovazione. Il caso particolare del libro di Ester sta anche a indicare che tutti gli altri libri dell'Antico Testamento ebraico erano stati fissati nelle versioni presenti nella biblioteca di Qumran forse già prima della metà del II sec. a.C. Per gli esseni essi erano già letteratura tradizionale tramandata, accettata, im­ modificabile quanto a est�nsione ed espressione testuale, avente in parte - soprattutto nel caso della Torah e degli scritti dei profeti - un'autorità vincolante. In ogni caso, non è stato possibile documentare la presenza nella biblioteca di Qumran di copie di altri libri dell'Antico Testamento, compo­ sti dopo la metà del II sec. a.C. ed entrati a far parte delle no­ stre Bibbie solo attraverso la Septuaginta e la Vulgata, quindi attraverso le traduzioni greche e latine dell'Antico Testa­ mento, cioè Giuditta, i due libri dei Maccabei e la Sapienza di Salomone. Per mostrare la grande importanza che hanno i ritrova­ menti di Qumran per la ricerca sull'Antico Testamento, oltre a quanto siamo venuti finora dicendo, facciamo qualche altro esempio. Finora si affermava a volte che alcune opere della Bibbia ebraica - cioè alcuni libri profetici e soprattutto il salterio fossero state composte solo nel II o addirittura nel I sec. a.C. Ora per la prima volta disponiamo di manoscritti, recanti lo stesso testo che si trova nella Biblia Hebraica, che sono inequi­ vocabilmente precedenti rispetto a questa datazione tardiva. Essi richiedono che si ripensi tutta la ricerca introduttiva al­ l'Antico Testamento, la quale si occupa del processo di forma-

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zione degli scritti biblici, un processo che va ben oltre gli esempi qui accennati. La versione greca della Bibbia ebraica, la Septuaginta, ese­ guita ad Alessandria a partire dalla metà del III sec. a.C., pre­ senta molte varianti riguardo alla comprensione dei termini e alla redazione del testo, finora attribuite per lo più al capriccio redazionale o alla libertà che si erano presa i traduttori. Ora i manoscritti biblici provenienti dai ritrovamenti di Qumran mostrano come, accanto al testo della Biblia Hebraica a noi fa­ miliare, si fossero sviluppate nel giudaismo pre-rabbinico pale­ stinese anche altre redazioni del testo dei libri della Bibbia ebraica, redazioni seguite alla lettera dalla Septuaginta. Le dif­ ferenze della Septuaginta rispetto al testo della Biblia He­ braica dipendono essenzialmente da differenze redazionali in­ tra-palestinesi - ed errori di copisti in ebraico - che erano completamente sconosciute prima delle scoperte di Qumran. Del testo della Torah (i cinque libri di Mosè) esiste, ac­ canto al testo masoretico della Biblia Hebraica e a quello del­ l'antica versione della Septuaginta, anche una terza versione. Finora essa era nota solo attraverso la tradizione testuale del Pentateuco Samaritano, sorto fra il V e il II sec. a.C. Di conse­ guenza, tutte le differenze rispetto al testo tramandato nella Biblia Hebraica venivano normalmente addebitate ai samari­ tani, oggi ridotti a circa 300 membri, in grado tuttavia di pub­ blicare persino un loro giornale, ma che nel periodo fra il V sec. a. C e il I sec. d.C. erano molto più numerosi e occupavano il territorio attorno a Sichem e alla sua montagna sacra, il Ga­ rizim, fra la Giudea al sud e la Galilea al nord. Grazie ai ritrovamenti di Qumran ora si conosce anche la versione «samaritana>> del testo, una versione molto diffusa nel giudaismo palestinese del tempo e soprattutto utilizzata spesso e volentieri dagli esseni. Quella che finora era stata considerata la nuova versione del Pentateuco realizzata dai sa­ maritani si dimostra ora una versione del testo che deve essere sorta già prima del cosiddetto scisma «samaritano», probabil­ mente già nel V e IV sec. a.C. Vi sono soltanto un paio di ter­ mini del Pentateuco samaritano che bisogna continuare a con­ siderare dei cambiamenti da essi volutamente apportati, in

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particolare l'occasionate inserimento del monte Garizim in passi dove ci si riferiva tradizionalmente solo a un non meglio precisato «luogo del santuario)). Infine, anteriormente ai ritrovamenti di Qumran si rite­ neva generalmente che in epoca pre-rabbinica la traduzione del testo biblico ebraico in lingua popolare aramaica, soprat­ tutto in occasione delle prescritte letture della Scrittura nelle sinagoghe, avvenisse sempre e solo oralmente. Ora, grazie ai ritrovamenti di Qumran, possediamo in versione scritta queste traduzioni aramaiche del testo, dette targumim, per i libri del Levitico e di Giobbe e sappiamo che il manoscritto del targum al Levitico è stato composto già nel II sec. a.C. Questi targumim dimostrano - cosa sempre supposta an­ che indipendentemente da essi - che la popolazione della Pa­ lestina al tempo del secondo tempio (VI sec. a.C.-70 d.C.) non conosceva più a sufficienza l'ebraico, per cui si era sentito il desiderio di avere versioni aramaiche riconosciute dei testi bi­ blici. Il fatto che la maggior parte dei manoscritti di Qumran siano in ebraico è perfettamente in linea con le esigenze di que ll'élite di persone ben formate e orientate alla tradizione che erano incontestabilmente gli esseni. Nel medioevo cristiano l'élite ecclesiastica corrispondente parlava e scriveva in latino. Nell'antico giudaismo il fatto di fissare per iscritto le tradu­ zioni aramaiche di libri biblici composti in ebraico era eviden­ temente una soluzione dettata dalla necessità. In seguito, i rabbi hanno fatto il possibile per scoraggiarla. Gli esseni l'hanno ritenuta essenzialmente giustificabile, anche se l'hanno praticata, a quanto sembra, solo in misura molto limi­ tata. I ritrovamenti di Qumran mettono a disposizione degli stu­ diosi della Bibbia anche molti altri materiali del massimo inte­ resse. I manoscritti biblici, i commenti e le citazioni bibliche ' aprono lorò molteplici vie di accesso alla storia del testo. La li­ bera traduzione di materiali biblici, le cosiddette parafrasi, in­ dicano spesso nuovi modi di comprendere la tradizione bi­ blica, a volte rilevanti anche per Gesù e per il Nuovo Testa­ mento. I modi diversi di esprimere le prescrizioni del Penta­ teuco, presenti nel Rotolo del tempio e in tutta una serie di al-

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tre opere pre-essene, permettono di gettare uno sguardo sul modo in cui il sacerdozio gerosolimitano si rapportava ai ma­ teriali centrali della sacra tradizione. Tutte le opere del ge­ nere, rese accessibili per la prima volta grazie ai ritrovamenti di Qumran, sono state composte già in epoca persiana e proto­ ellenistica, quindi fra il VI sec. e il 175 circa a.C.

FILATIERI Nel Pentateuco esistono quattro passi in cui si sottolinea in modo particolare la necessità di «avere a cuore» continua­ mente i precetti di Dio e dì «agire» dì conseguenza. Due di questi passi richiedono, inoltre, di osservare questi precetti «in casa e per strada» e quindi di «fissarli per iscritto» alle porte di casa e delle stanze, come pure a quelle della città. Fino ai nostri giorni i pii ebrei osservano questi precetti scrivendo i relativi passi della Torah su piccoli pezzi di cuoio o di pergamena, arrotolandoli strettamente e riponendoli in sca­ tolette. Essendo così «nascosti», essi vengono chiamati nel lin­ guaggio scientifico - con termine greco - «filatteri». Ciò esprime anche il significato «apotropaico» che essi possede­ vano anticamente, il fatto cioè di tener lontani gli «spiriti cat­ tivi». Oggi comunque praticamente nessuno pensa più a un tale significato. Esistono due diversi tipi di filatteri. Un modo di servirsene è quello di riporre in scatolette - oggi per lo più di metallo -, che vengono poi fissate sullo stipite esterno destro della porta di casa e delle stanze, una striscia di cuoio o di pergamena ar­ rotolata con scritti i passi di Dt 6,4-9 e 11,13-21 . Sulla parte esterna di questi rotolini si scrive il nome originario di Dio Shaddai, la cui lettera iniziale viene resa visibile mediante un forellino praticato nella scatoletta. Gli ebrei particolarmente pii toccano questa scatolette con un dito che poi baciano ogni volta che passano. Quelli piissimi baciano la stessa scatoletta e la fissano a volte praticamente all'altezza del pavimento per dimostrare con il necessario profondo inchino la loro umiltà davanti a Dio. Questo tipo di scatoletta si chiama mezuzah, « [appartenente allo] stipite della porta».

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L'altro tipo di scatolette, pensate per l'«avere a cuore» e per l'«agire», si chiamano tefillin («[guarnizioni della) pre­ ghiera>>). Sono fatte fino a oggi di cuoio e durante la preghiera rituale vengono fissate con cordoncini alla fronte e alla mano sinistra, quella più vicina al cuore. Nella scatoletta per la mano si trova un pezzo di cuoio con i passi di Dt 6,4-9 e 1 1 ,13-21, nonché Es 13,1-10 e 13,1 1-16. Le scatolette per la fronte con­ tengono gli stessi passi biblici, ma scritti su quattro diversi ro­ tolini di cuoio e posti in scomparti fra loro separati. Già nella Bibbia l' «avere a cuore» è qualcosa che riguarda la testa, men­ tre la mano simboleggia tutti i modi di agire. Le testimonianze più antiche di queste pie usanze erano fi­ nora la lettera di Aristea (157-160), composta alla fine del II sec. a.C., e Giuseppe Flavio (AJ 4,213). Le scoperte di Qum­ ran mostrano ora che esse erano familiari agli esseni come usanze tradizionali. In ogni caso, nelle scatolette degli stipiti e della preghiera i due passi del Deuteronomio sono riprodotti a Qumran più ampiamente di quanto si faccia in seguito, cioè Dt 5,1-6,9, con l'aggiunta dei dieci comandamenti e Dt 10,1211,21, con l'aggiunta della «circoncisione del cuore», del te­ nersi lontani dall'agire sconsiderato. Ma presso gli esseni era già comune anche la distinzione fra la scatoletta per la mano, con un solo scomparto all'interno e la scatoletta per la fronte con quattro distinti scomparti. Nel locale 8Q gli scavatori hanno trovato ancora la scato­ letta della porta e quella della mano dell'ultimo occupante con all'interno i rispettivi testi. Data la loro piccolezza essi sono certamente sfuggiti a chi ha scoperto per primo i rotoli nel III sec. d.C. Una scatoletta per la fronte è stata trovata nella grotta 5Q, una scatoletta per la fronte o per la mano nella grotta 1Q. Tutti gli altri pezzi di questo tipo, cioè 25 scatolette per la preghiera e 7 scatolette per gli stipiti delle porte, provengono dali� grotta 4Q. In questa grotta non hanno mai abitato così tante persone e per l'ingresso sarebbe bastata una sola scato­ letta per gli stipiti. È questa un'indiscutibile prova del fatto che la biblioteca di Qumran è stata anche il luogo di raccolta e di conservazione di tutto il materiale scritto considerato «usu-

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rato». Le grotte sul versante della montagna; usate come na­ scondigli dei rotoli, non sono mai state intese come ricettacoli degli scritti «usurati», ma come veri e propri depositi dei rotoli più importanti e meglio conservati.

APROCRIFI Con il nome di apocrifi si indicano quei libri dell'Antico Testamento che mancano nella Biblia Hebraica e sono entrati nelle nostre Bibbie solo attraverso la Septuaginta e la Vulgata. Le Bibbie cattoliche li riportano fino a oggi [col nome di «deu­ terocanonici», NdR], mentre le Bibbie protestanti per lo più non li riportano, poiché Martin Lutero li ha relegati in un'ap­ pendice all'Antico Testamento, considerandoli «libri non rite­ nuti uguali alla sacra Scrittura e tuttavia utili e buoni da leg­ gere». Solo due di questi aprocrifi sono stati composti prima della metà del II sec. a.C. Di conseguenza, solo di questi esistono manoscritti nel materiale ritrovato a Qumran.

I libri di Tobia e di Gesù ben Sira Il testo più antico del libro di Tobia era finora la sua ver­ sione in greco. Ora esistono quattro rotoli - purtroppo molto frammentari - con il testo originario aramaico, e un altro ro­ tolo con una versione ebraica posteriore. La lingua originaria mostra che quest'opera molto popolare in epoca neo-testa­ mentaria deve essere stata scritta al più tardi nel III sec. a.C. e che la versione greca è una traduzione generalmente molto letterale del testo originario, cosa che veniva spesso messa in dubbio prima delle scoperte di Qumran. L'altra opera è il libro sapienziale di Gesù ben Sira, com­ posto verso il 190 a.C. in ebraico. Ne abbiamo trattato già pre­ sentando i materiali trovati nella grotta 3Q, poiché i caraiti hanno conosciuto e più volte ricopiato già nel medioevo la co­ pia che vi era stata nascosta ( sopra, p. 106) .

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PsEUDO-EPIGRAFI Vengono chiamati pseudo-epigrafi quei libri dell'antico giudaismo che né sono entrati nella Biblia Hebraica né appar­ tengono agli apocrifi dell'Antico Testamento o sono giunti fino a noi nel quadro della tradizione rabbinica [nel linguaggio cattolico vengono denominati «apocrifi», NdR]. Questi libri vengono indicati globalmente con il termine greco di pseudo­ epigrafi («ascritti [a qualcuno] erroneamente»), poiché molti di essi sono comparsi sotto il nome di persone che - dal punto di vista storico - non possono averli scritti. Nel giudaismo antico i saggi della preistoria, come Enoch, Noè, Giobbe e Daniele, o i personaggi famosi della tradizione, come Abramo, Mosè, Giosuè, Davide, Salomone e Esdra, erano considerati esperti in diversi campi della scienza. Questi campi erano allora l'astronomia, la geografia, la visione del fu­ turo, la legislazione, l'arte poetica e molti altri. Le nuove opere specializzate in questi campi della scienza del tempo, dell'in­ terpretazione del futuro o dell'arte poetica venivano posti vo­ lentieri sotto l'autorità riconosciuta di personaggi del passato, servendosi dei loro nomi come di un marchio di qualità. La maggior parte degli pseudo-epigrafi del giudaismo an­ tico sono stati composti da non esseni solo dopo la metà del II sec. a.C. e non sono quindi mai approdati nella biblioteca di Qumran. Gli pseudo-epigrafi più antichi che vi si trovavano, come Giobbe, i Proverbi, Qohelet e il Cantico dei cantici di Salomone o le interpretazioni del futuro di Daniele, erano considerati già dagli esseni sicure parti componenti della Bib­ bia. Qui si tratta quindi solo di quelli pseudo-epigrafi non bi­ blici, già noti prima delle s�>operte di Qumran ma trovati anche nelle grotte . di Qumran. Finora, nel quadro delle scoperte di Qurnran, sono stati identificati con certezza trenta manoscritti di questi pseudo­ epigrafi, cioè sedici esemplari del libro dei Giubilei e 14 mano­ scritti con opere appartenenti alla letteratura enochica. Essi modificano radicalmente le concezioni generalmente accettate in campo scientifico. In particolare, costringono a ripensare in modo radicale l'intero settore dell'apocalittica. Finora si era

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generalmente ritenuto che il libro biblico di Daniele, compo­ sto nel 164 a.C., fosse la più antica apocalisse ebraica e si era fatto di quest'opera la misura di tutta l'«apocalittica». In base alle scoperte di Qumran bisogna ora cambiare radicalmente il tradizionale modo di vedere e trovare criteri del tutto nuovi sia per la presentazione dell'apocalittica ebraica che per il suo ordinamento storico.

Il libro dei Giubilei Un'apocalisse del genere è il libro dei Giubilei. Esso è stato fin dall'inizio fra gli scritti tradizionali preferiti dagli esseni. Già Il Documento di Damasco, composto verso il lOO a.C., vi si richiama per problemi relativi al calendario (CD XVI,2-4). Esso è l'unica apocalisse del giudaismo antico scritta intera­ mente in ebraico, dunque volutamente nella lingua della To­ rah. È posto sotto l'autorità legislativa di Mosè, al quale Dio attraverso questo libro ha rivelato, in modo definitivamente vincolante dopo precedenti rivelazioni fatte a Enoch, tutto ciò che riguarda il vero ordinamento del calendario. Gli esseni sono stati praticamente gli unici ebrei del loro tempo a seguire fedelmente il calendario solare di 364 giorni dell'antica tradi­ zione sacerdotale. I rotoli provenienti dalle grotte di Qumran - tutti pur­ troppo molto frammentari - hanno conservato questo libro dei Giubilei nella sua lingua originaria ebraica. Prima delle scoperte di Qumran il libro era noto quasi unicamente attra­ verso manoscritti medievali della chiesa etiopica, rimasta fe­ dele fino a oggi al calendario del libro dei Giubilei. Grazie alle scoperte di Qumran noi oggi sappiamo che la versione etiopica corrisponde, praticamente alla lettera, all'originale ebraico e questo mediante manoscritti che sono di 1500 anni più antichi delle tarde versioni etiopiche del testo. Dei sedici rotoli del libro dei Giubilei, dieci provengono certamente dalla grotta 4Q, ma due dalla grotta l Q, due dalla grotta 2Q, uno dalla grotta 3Q e uno dalla grotta 1 1Q. Il dato mostra inequivocabilmente che gli abitanti di Qumran hanno considerato fino all'ultimo il libro dei Giubilei una delle opere più importanti della loro letteratura tradizionale.

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La datazione del libro dei Giubilei è questione discussa e ancora irrisolta. Si pensa generalmente a una data fra gli anni '30 e '60 del II sec. a.C. Ma è certamente una datazione troppo tarda se si pensa che il libro dei Giubilei è stato fin dall'inizio una delle principali autorità tradizionali per gli esseni, fondati verso il 150 a.C. In base alle scoperte di Qumran la data di composizione di questo libro deve essere fatta risalire perlo­ meno al III sec. a.C.

I libri di Enoch Come il libro dei Giubilei, anche i libri di Enoch erano noti finora quasi esclusivamente attraverso il canone biblico della chiesa etiopica. Questo Enoch etiopico è un'opera compilato­ ria. Contiene cinque libri-apocalissi, un tempo indipendenti: a) libro angelologico (cc. 1-36); b) lib ro delle parabole (cc. 3771); c) libro astronomico (cc. 72-82); d) libro delle visioni in so­ gno (cc. 83-90); e) libro parenetico, contenente ogni sorta di ammonimenti, frutto anche di una rielaborazione di lettera­ tura noachica più antica (cc. 91-108). Nei ritrovamenti di Qumran, il libro astronomico di Enoch è rappresentato da quattro manoscritti, nessuno dei quali con­ tenente altri libri di Enoch. Essi mostrano chiaramente che l'Enoch etiopico contiene solo una versione breve posteriore di quest'opera originariamente molto vasta. Nella versione originale, ora accessibile per la prima volta, si stabilisce per ogni singolo giorno del ciclo di tre anni complessivi attraverso quale delle sei «porte dell'oriente» il sole sorge in ognuno di quei giorni e in. quale delle sei «porte dell'occidente» esso tra­ monta in ognuno di essi. Si registra, inoltre, in quale giorno cade la luna piena, in quale la luna nuova e quanta parte del disco della �una è visibile in ogni giorno. I nostri calendari ta­ scabili · contengono in parte ancor oggi questi dati, normal­ mente solo la luna piena e la luna nuova, a volte anche le ore e i minuti del sorgere e del tramonto del sole e della luna. Ora per la prima volta i manoscritti di Qumran ci permet­ tono di accedere al testo originario di questa apocalisse che era scritta in aramaico. Essi mostrano che la versione etiopica

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del testo riproduce, in modo molto fedele all'originale, i capi­ toli di inquadramento dell'opera, ma che ha sostituito le detta­ gliate tabelle relative al calendario con versioni abbreviate. La cosa più importante è comunque il fatto che il rotolo più antico con il testo del libro astronomico di Enoch risale a un periodo che si situa attorno al 200 a.C. Esso è quindi note­ volmente più antico del libro biblico di Daniele che è stato composto solo nel 164 a.C. Comunque si debba datare il libro dei Giubilei, le origini dell'apocalittica giudaica, a causa del manoscritto più antico del libro astronomico di Enoch prove­ niente dai ritrovamenti di Qumran, vanno ora in ogni caso spostate molto più indietro rispetto alla data di inizio proposta fino a questo momento, cioè la composizione del libro di Da­ niele. Anche del libro angelologico di Enoch è stato trovato a Qumran un manoscritto - di cinque in tutto - che è stato composto già nella prima metà del II sec. a.C. Anche quest'o­ pera è stata quindi certamente composta prima dell'apocalisse biblica di Daniele. Ma se le tabelle del calendario nello stile del libro astronomico di Enoch e le considerazioni sulla rela­ zione fra gli angeli «decaduti» e gli angeli che continuano a go­ dere dell'approvazione divina, nonché le svariate digressioni cosmologiche nello stile del libro angelologico di Enoch e, inoltre, un'opera come il libro dei Giubilei caratterizzano le origini dell'apocalittica giudaica, allora le speculazioni stori­ che escatologicamente orientate del libro biblico di Daniele quindi ciò che si usa comunemente chiamare «escatologia» non possono più essere la misura di tutte le cose, quando si tratta di precisare ciò che è stata anticamente l'apocalittica giu­ daica. L'escatologia è quasi del tutto assente in quelle che ora sono le più antiche apocalissi giudaiche. Al riguardo, le sco­ perte di Qumran hanno introdotto parametri del tutto nuovi e hanno aperto alla ricerca scientifica più vasti orizzonti. La versione originaria del libro astronomico di Enoch è molto ampia. Si è quindi sempre utilizzato per ogni nuova tra­ scrizione un rotolo a sé. Gli altri libri di Enoch invece sono stati riuniti sotto forma di raccolta di scritti già nei rotoli di Qumran. Essi si susseguono nello stesso ordine che si trova

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nell'Enoch etiopico. Manca solo il libro delle parabole. Non se ne è trovata traccia nei materiali di Qumran. Si deve quindi ri­ tenere che esso sia stato composto da non esseni solo dopo la metà del II sec. a.C. Per questo motivo ora si ritiene normalmente che il libro delle parabole sia stato composto nel I sec. d.C., o prima dell'i­ nizio del cristianesimo o subito dopo il suo inizio. È una que­ stione aspramente dibattuta, poiché le parabole rendono testi­ monianza per la prima volta al «figlio dell'uomo» come una fi­ gura individuale che ha ricevuto da Dio pieni poteri nei ri­ guardi del giudaismo antico. Le parole di Gesù sul «figlio del­ l'uomo» sono da ricollegare a quest'opera storico-religiosa o sono qualcosa di originariamente cristiano che ha influenzato il posteriore libro delle parabole? Le opinioni degli studiosi al riguardo sono ancora molto discordi. Solo le scoperte di Qum­ ran hanno fatto prendere pienamente coscienza della forza esplosiva di questa questione.

Il libro dei Giganti Almeno in uno dei tre manoscritti di Qumran che riuni­ scono diversi scritti enochici, il libro angelologico di Enoch è seguito da un'altra apocalisse di Enoch, il libro dei Giganti. Di questo libro esistono sei copie. Ma non è stato ancora possibile appurare se anche le altre cinque copie provengano da questi manoscritti compositi o fossero - almeno in parte - indipen­ denti. In ogni caso, anche indipendentemente dalla soluzione di questa questione, è evidente che il libro dei Giganti costitui­ sce dal punto di vista letterario un'opera del tutto autonoma. Prima dei ritrovamenti di Qumran il libro dei Giganti era noto soprattutto per essere stato accolto, nel III sec. d.C., nel suo canone degli scritti sacri da Mani, il fondatore di una reli­ gione i cui insegnamenti avevano fortemente influenzato, du­ rante la giovinezza, il padre della chiesa Agostino. I manichei lo hanno diffuso in tutto il mondo fino in Cina, per cui esso si è conservato in parte ad esempio in lingue turche quali l'ugari­ tico. Finora si era ritenuto che il libro dei Giganti fosse un'o­ pera di Mani e che illustrasse la sua visione dottrinale. Ora scopriamo che esso era noto già agli esseni.

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Il libro dei Giganti tratta di quei «giganti» generati, se­ condo Gen 6,1-4, quando, prima del diluvio, gli angeli si uni­ rono con le donne della terra. In quanto uomini, questi esseri non vivono percio in cielo, ma sulla terra. E tuttavia essi sono, come i loro celesti generatori, giganteschi, «come i cedri del Libano» (alti fino a 30 metri), hanno ali che permettono loro di passare da un posto all'altro con la velocità del vento, sono - come gli angeli - invisibili e restano immortali fino alla fine della creazione, cosicché neppure il diluvio è riuscito a estirparli. Questi nefasti giganti sono la principale forza dei demoni, i quali sono continuamente in agguato per indurre gli uomini al peccato. Come i loro antichi generatori essi prendono di mira soprattutto le donne, le quali devono quindi essere protette in modo del tutto particolare dalle loro attenzioni. Il libro dei Gi­ ganti ricorda i nomi dei loro capi, descrive il modo di proce­ dere e il modo in cui saranno distrutti al momento del giudizio finale, quando il calore del sole brucerà loro le ali ed essi sa­ ranno consegnati incatenati al fuoco. Ma al presente essi conti­ nuano a imperversare e a compiere le loro scelleratezze, per cui è importante conoscerli il più esattamente possibile. Giuseppe Flavio racconta fra l'altro che quanti venivano ammessi fra gli esseni giuravano, al momento del loro in­ gresso, di tenere segreti i nomi degli angeli, sia di quelli buoni che di quelli cattivi (BJ 2,142). Chi ne conosceva i nomi aveva per ciò stesso potere su di loro. Molti testi di esorcismo prove­ nienti da Qumran mostrano le procedure che si seguivano per allontanare l'azione degli angeli cattivi. La celebre arte medica degli esseni consisteva soprattutto, come mostrano i testi di esorcismo, nell'esorcizzazione dei demoni che provocavano le malatti�. Questi ultimi erano sotto il potere degli angeli cattivi descritti nel libro dei Giganti. L'esorcismo li costringeva a riti­ rare i loro malefici assistenti, cosicché i malati guarivano. Il libro dei Giganti è particolarmente importante, come sfondo storico-religioso, per comprendere le espulsioni di de­ moni da parte di Gesù e il giudizio negativo portato sugli an­ geli dal Nuovo Testamento (per esempio, 1Cor 6,3; 11 ,10). Grazie alle scoperte di Qumran oggi per la prima volta sap-

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piamo che il libro dei Giganti è un'opera giudaica, nota nel giudaismo palestinese già prima di Gesù.

NUOVE OPERE PRE-ESSENE Circa 400 dei 660 manoscritti ancora identificabili prove­ nienti da Qumran contengono opere prima di allora scono­ sciute, quindi per noi assolutamente nuove. Spesso ne esistono più copie, a volte 5-10, in un caso addirittura 13. Globalmente questi 400 manoscritti rappresentano non più di circa 120 opere diverse. Solo una parte di queste opere è stata composta dagli es­ seni. Tutto il resto proviene dalla letteratura tradizionale, la cui cura stava particolarmente a cuore agli esseni. Tutte le opere semplicemente riprese e ulteriormente tramandate dagli esseni risalgono a un'epoca precedente la metà del II sec. a.C. Sull'esatta datazione di questi scritti in particolare, nonché sulla questione di quali scritti trovati a Qumran risalgano a un'epoca più antica e di quali siano stati effettivamente com­ posti dagli esseni si continua a discutere. Qui ci limiteremo a ricordare solo alcune delle opere più importanti, risalenti con ogni probabilità a epoca pre-essena, nonché alcuni generi let­ terari le cui opere dovrebbero essere essenzialmente pre-es­ sene.

Il rotolo del Tempio Probabilmente l'opera indicata abitualmente come Rotolo del Tempio è stata composta già attorno al 400 a.C. Il tempio

di Gerusalemme, al centro delle concezioni e della pietà di Israele, offre tutto ciò che contenevano e richiedevano le rive­ lazioni divine fatte fino ad allora a Davide, a Salomone e al profeta Ezechiele come ampliamenti delle più antiche prescri­ zioni contenute nella Torah (coli. 3-47). Anche la nuova ver­ sione del libro giuridico del Deuteronomio, cc. 12-26 (coli. 5166) corrispondeva alle esigenze del tempo. Probabilmente il rotolo del Tempio - o perlomeno la descrizione del tempio in

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esso contenuta - è quella più antica opera della tradizione già descritta in 1Cr 28,11-19 come il piano della costruzione del tempio di Gerusalemme progettato da Dio stesso e trasmesso poi da Davide a Salomone. Il testo del rotolo del Tempio è stato concepito dal suo au­ tore come sesto libro della Torah. L'opera doveva essere ag­ giunta ai cinque libri di Mosè e posta sullo stesso piano. Ana­ logamente era già stata ampliata in passato l'opera fondamen­ tale della Torah, consistente originariamente di soli quattro li­ bri (Genesi-Numeri), con l'aggiunta del Deuteronomio come quinto libro. In particolare, l'espressione di molti comanda­ menti divini con il ricorso alla prima persona dovrebbe signifi­ care che questo libro aveva la stessa autorità degli altri libri della Torah. Poiché verso il 400 a.C. i cinque libri di Mosè erano già stati riconosciuti dalla suprema autorità persiana come unica legge dello stato per gli ebrei che vivevano a Gerusalemme e in Giudea, fu impossibile introdurre successivamente nel qua­ dro di ciò che era generalmente riconosciuto quest'opera com­ posta subito dopo. Così il rotolo del Tempio non divenne mai parte ufficiale del canone delle Scritture bibliche, ma fu unica­ mente tramandato da sacerdoti, come quelli degli esseni, molto legati alla tradizione. Dalla grotta 1 1 0 provengono due copie di quest'opera, una copia in gran parte conservata, com­ posta all'inizio del I sec. d.C. e una copia molto rovinata risa­ lente a due-tre decenni prima. 2

OPERE DI MOSÈ Nelle grotte di Oumran sono state trovate diverse opere di Mosè che, analogamente al rotolo del Tempio, riprendono e sviluppano le prescrizioni della Torah. Una di queste opere, presente in tre copie frammentarie (10 29, 40 375, 376), tratta fra l'altro del modo in cui si pos2 MAIER, Die Tempelrolle vom Toten Meer, Miinchen-Basel 1978, 21992. Questa traduzione con commento riproduce in modo eccellente conte­ nuto e significato di quest'antica opera.

Cf. J.

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sono distinguere i veri profeti dai falsi profeti. In caso di dub­ bio la decisione viene affidata a un rito sacrificate di espia­ zione compiuto dal sommo sacerdote nel tempio. Quando, nel corso di questo rito, la grande pietra preziosa sulla spallina si­ nistra dell'abito del sommo sacerdote - la sinistra indica, come nel caso delle scatolette per la preghiera, la parte del cuore - manda visibilmente i suoi raggi luminosi a tutti i pre­ senti, si deve leggere in questo giudizio di Dio la giustifica­ zione delle pretese del profeta di essere un vero profeta. Ana­ logamente, l'improvviso splendore delle dodici pietre preziose poste sulla tasca pettorale del sommo sacerdote indica al co­ mandante militare che l'intervento delle sue truppe in una guerra difensiva avrà esito favorevole. Se egli possa intrapren­ dere una guerra offensiva è deciso dalle pietre dell'oracolo Urim e Tummim che si trovano in quella stessa tasca pettorale. La descrizione degli abiti sacerdotali del sommo sacerdote si trova nella Torah (Es 28). La funzione delle diverse pietre preziose quali strumenti dell'oracolo divino è illustrata da Giuseppe Flavio, figlio di un sacerdote (AJ 3,214-218), esatta­ mente allo stesso modo in cui lo fa questo testo di Mosè tro­ vato a Qumran. Solo che Giuseppe ha erroneamente attribuito alla pietra che si trova . sulla spallina destra la funzione che spetta invece alla sua controparte sinistra. Giuseppe Flavio nota espressamente che «circa 200 anni» prima della composizione della sua descrizione - probabil­ mente ci si riferisce alla profanazione del tempio del dicembre 167 a.C. - le pietre preziose hanno cessato di risplendere, po­ nendo conseguentemente fine a questo genere di oracolo. Ma per il testo di Mosè ritrovato a Qumran la funzione divinatoria delle pietre preziose è data per scontata. Per questo - e per molti altri motivi - l'opera è stata composta certamente in epoca pre-essena.

Ordinanze Di diverso stile rispetto a quest'opera di Mosè è un libro giuridico indicato normalmente con il nome di Ordinanze; di questo libro sono state trovane due o tre copie nella grotta 4Q.

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Nei frammenti conservati si reagisce contro l'aumento d.e lla tassa del tempio al tempo di Esdra (Ne 10,33-34) e si ordina di continuare a pagare una volta in vita, in linea con la Torah, la tassa di mezzo siclo prescritta da Es 30,11-16 e 38,26. Non si sa bene quali situazioni concrete riflettano le altre ordinanze di quest'opera. Il contenuto pressuppone comunque situazioni pre-essene. Ma lo stile e le peculiarità terminologiche fanno pensare a un'epoca non molto lontana dagli inizi degli esseni. I frammenti di altre parafrasi in ebraico di materiali prove­ nienti dal Pentateuco, dei cosiddetti testi pseudo-mosaici e dei libri giuridici provenienti dai materiali trovati soprattutto nella grotta 4Q, a causa del loro misero stato di conservazione, non sono stati ancora sufficientemente studiati. Ma è difficile pen­ sare che qualcosa di questo materiale sia di origine essena. La maggior parte o tutto dovrebbe risalire a epoche anteriori.

L 'apocrifo della Genesi Ciò vale anche per un apocrifo della Genesi in lingua ara­ maica, che rielabora in stile popolare-sapienziale i contenuti del libro biblico della Genesi, abbellendo soprattutto la storia dei patriarchi, per esempio con una descrizione dell'incompa­ rabile bellezza di Sara, la moglie di Abramo. Grosso modo la prima metà di quest'opera è contenuta in modo frammentario in un rotolo proveniente dalla grotta 4Q, scritto alla fine del I sec. a.C. Purtroppo l'inchiostro ricco di ferro ha in genere cor­ roso il cuoio a tal punto che anche il testo conservato può es­ sere decifrato solo in parte. Originariamente, l'apocrifo della Genesi doveva giungere almeno fino alla fine della storia di Abramo (Gen 25) e forse anche oltre. Manoscritti molto frammentari, provenienti dalla grotta 4Q, anch'essi composti in aramaico e contenenti nello stesso stile materiale relativo a Giacobbe, non sono in gran parte ancora pubblicati. Ma non vi è assolutamente nulla che faccia pensare a una composizione da parte degli esseni. Solo p.erché l'autore dell'apocrifo della Genesi conosce il libro dei Giubilei e si suole abitualmente datare quell'opera fra gli anni '30 e '60 del II sec. a.C., si è giunti alla conclusione che l'apo-

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crifo della Genesi sia stato composto solo in epoca essena. Esso risale invece con ogni probabilità al III sec. a.C. e ha libe­ ramente utilizzato, nella sua rielaborazione popolare in ara­ maico del materiale sempre molto amato della Genesi, sia il li­ bro dei Giubilei, allora già esistente, sia la Genesi scritta in ebraico. Dovrebbe essersi trattato in ogni caso di un libro edi­ ficante che non fu studiato a Qumran, ma tenuto a disposi­ zione nella biblioteca soltanto come manoscritto-campione per la preparazione delle copie.

La nuova Gerusalemme Composta sempre in aramaico è anche un'ampia descri­ zione della nuova Gerusalemme che Dio tiene pronta in cielo. Alla base della descrizione vi sono i cc. 40-48 del libro del pro­ feta Ezechiele. La descrizione di questa nuova Gerusalemme come una città tenuta pronta in cielo corrisponde a quella neo­ testamentaria dell'Apocalisse di Giovanni (Ap 21). Ma il suo autore, il veggente cristiano Giovanni (Ap 1,1-2), non ha cer­ tamente né conosciuto né usato l'opera che ora noi cono­ sciamo grazie alle scoperte di Qumran. Egli infatti dice espres­ samente di «non aver visto un tempio» in quella nuova Geru­ salemme (Ap 21 ,22). Nella descrizione della nuova Gerusa­ lemme offerta dai manoscritti di Qumran - come nel caso di Ezechiele - la descrizione del tempio è invece la parte cen­ trale dell'opera. L'importanza per gli esseni di questa descrizione della nuova Gerusalemme risulta evidente dal fatto che dei suoi al­ meno sei esemplari solo due provengono dalla grotta 40, men­ tre uno proviene da ognuna delle grotte 10, 20, 50 e l lQ. I due manoscritti più antichi sono stati composti in un momento fra il 100 e il 50 a.C. Ma nella lingua e nel contenuto di quest'o­ pera non vi è nulla che faccia pensare a un autore esseno. Pro­ babilmente si tratta di una di quelle apocalissi aramaiche che sono sorte - come il libro astronomico e angelologico di Enoch - nel IV o III sec. a.C.

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La liturgia angelica Le realtà del mondo celeste sono descritte anche da un'al­ tra opera in ebraico che gli esseni hanno tenuto in particolare considerazione. Essa è detta Liturgia angelica o Libro dei canti dell'olocausto del sabato. Per tredici sabati consecutivi - la quarta parte dell'anno - viene descritto in dettaglio quale classe di angeli cura il culto celeste in quel determinato sabato, quali inni, preghiere e benedizioni sono prescritte per quel de­ terminato giorno, quali abiti cultuali gli angeli indossano e come si struttura il loro culto divino nella gloria celeste. La composizione di quest'opera si è ispirata soprattutto a cc. l e 10 del libro del profeta Ezechiele. La presentazione dei conte­ nuti è sottesa da un approfondito lavoro teologico in filigrana, artisticamente disposto attorno al numero sacro sette, che rap­ presenta anche il concetto più ricorrente. L'apice della presen­ tazione dei contenuti è costituito dal settimo sabato, quello centrale. Otto manoscritti di quest'opera provengono dalla grotta 40 e un altro dalla grotta l lQ. Una copia dell'opera è stata rinvenuta anche nelle rovine della fortezza di Masada, di­ strutta nel 74 d.C. Il più antico di questi manoscritti è stato re­ datto in un momento fra il 75 e il 50 a.C., gli ultimi due, fra cui quello di Masada, nel 20-50 d.C. È difficile che esso provenga, come abitualmente si sostiene, dal materiale della biblioteca di Qumran; si tratta piuttosto di una delle copie preparate a Qumran per gli esseni abitanti nelle città e nei villaggi della Giudea. La sua presenza a Masada dimostra che vi si erano ri­ fugiati anche degli esseni, anche se non necessariamente abi­ tanti di Qumran. Nella strutturazione del loro culto del giorno di sabato gli esseni si sono lasciati certamente influenzare anche da ciò che essi, grazie alla Liturgia angelica, sapevano avvenire contem­ poraneamente in cielo. Essi immaginarono persino che gli an­ geli del cielo partecipassero invisibilmente alle loro celebra­ zioni cultuali. Ma la Liturgia angelica fu composta a Gerusa­ lemme dal sacerdozio del tempio già nel IV o III sec. a.C. La lingua e lo stile dell'opera rinviano molto chiaramente a quel­ l'epoca antica in cui il culto era strutturato in modo sapienziale

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e si serviva di quei mezzi espressivi poetici di cui risentono an­ cora alcuni dei salmi biblici. 3 Gli esseni hanno tenuto in consi­ derazione in modo particolare quest'opera tradizionale.

Testi sapienziali L'ambiente linguistico e storico-cultur �le della Liturgia angelica risulterà ancor più chiaro quando saranno stati intera­

mente pubblicati i numerosi testi sapienziali, in parte conser­ vati anche in frammenti di maggiori dimensioni, provenienti dalla grotta 4Q. Di uno di questi libri sapienziali sono state trovate nella grotta 4Q almeno quattro copie, tutte abbastanza antiche, realizzate precisamente tre nel periodo 125-50 a.C. e la quarta immediatamente dopo. I nuovi manoscritti sapienziali provenienti da Qumran di­ mostrano un forte impegno pedagogico. Ma questo dato da solo non basta per ritenere che si sia trattato in particolare di influenze della pedagogia greca o ellenistica, divenute sempre più forti ed effettive in Palestina a partire dal II sec. a.C. Un tale impulso pedagogico è già un dato caratteristico di tutta la letteratura sapienziale dell'antico Oriente; esso è variamente documentabile, nel caso dell'Egitto, a partire dall'inizio del II millennio a.C. e, nel caso della Mesopotamia, a partire dalla metà del II millennio a.C. Anche nel giudaismo l'educazione a uno stile di vita più sereno e riuscito era da sempre lo scopo fondamentale dell'insegnamento sapienziale e in seguito lo di­ venne sempre più anche l'esercizio della pietà nella forma ca­ ratteristica dei nuovi testi sapienziali. Nessun dato contenuti­ stico richiede che queste opere per noi nuove siano state com­ poste dopo il IV o III sec. a.C. Gli esseni hanno tenuto in grande considerazione questi antichi libri sapienziali, ma non li hanno composti, a parte forse uno o due casi.

3 La provenienza dell'opera dal culto del tempio gerosolimitano in epoca pre-essena è stata brillantemente dimostrata in molte pubblicazioni scientifi­ che soprattutto da Johann Maier, studioso di giudaistica di Koln.

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Altre opere nuove Con ogni probabilità è stata composta già in epoca pre­ essena un'opera di Giosuè di cui esistono almeno due mano­ scritti; un passo di quest'opera si trova come antica citazione tradizionale in una raccolta essena di citazioni composta at­ torno al 100 a.C (4Q 175 Testimonia 21-30). Pre-essene do­ vrebbero essere anche diverse opere pseudo-Geremia e pseudo-Ezechiele, i cui manoscritti provengono esclusiva­ mente dalla grotta 4Q. Più difficile si presenta il problema in caso di opere che trattano problemi relativi alla purezza cultuale. Alcune di que­ ste opere possono essere abbastanza antiche, altre composte invece dagli esseni. Al riguardo, è utile anche verificare se i passi della Torah sono introdotti con formule di citazione. Questi elementi dovrebbero essere a favore di una composi­ zione essena dell'opera in questione. Altre opere pre-essene, per noi nuove e provenienti dalle scoperte di Qumran, sono costituite da inni, preghiere e litur­ gie derivanti dal culto del tempio di Gerusalemme, opere te­ stamentarie, scritti di rivelazione, pre-stadi del libro di Daniele e altre opere bibliche, nonché opere sul diluvio, su Noè, su Giuseppe e su altri avvenimenti e personaggi, soprattutto del Pentateuco. Occorre ancora molto lavoro da parte degli stu­ diosi per poter incastonare significativamente nella storia let­ teraria e cultuale del giudaismo antico questi testi in gran parte molto frammentari. La maggior parte di questi materiali proviene dalla grotta 4Q, ma alcuni anche dalle altre grotte. Facciamo ancora un breve accenno solo ad altri due tipi di . testi più ·antichi, che gli esseni hanno continuato a considerare importanti: certe opere relative al calendario e le diverse ver­ sioni della cosiddetta Regola della guerra.

Opere relative al calendario Di origine certamente pre-essena sono le tabelle del calen­ dario per le settimane di servizio delle 24 famiglie sacerdotali al tempio, secondo il tradizionale calendario solare di 364

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giorni. La presenza di almeno nove diversi manoscritti, com­ posti in parte solo in epoca erodiana (40 a.C.- 68 d.C.), mo­ stra chiaramente il permanente interesse degli esseni per que­ ste antiche pianificazioni del servizio. Essi erano chiaramente disposti a partecipare al culto sacrificale del tempio di Geru­ salemme, ma a condizione che anzitutto si rimettesse in vi­ gore al tempio l'antico calendario solare di 364 giorni, cosa che non è mai avvenuta fino alla distruzione del tempio nel 70 d.C. In ogni caso gli esseni hanno conservato immutato l'antico ordinamento delle 24 famiglie sacerdotali, testimoniato già in 1Cr 24,7-18. Ognuna di queste famiglie doveva compiere il ser­ vizio cultuale nel tempio per un'intera settimana e veniva rim­ piazzata dalla successiva al termine del sabato, che costituiva il vertice della settimana di servizio. Secondo l'antico calendario solare ogni anno aveva esattamente 52 settimane. Già dopo 48 settimane il secondo ciclo di servizio annuale era completato. Così il successivo ciclo di servizio cominciava ogni anno quat­ tro settimane prima rispetto all'anno precedente, finché dopo sei anni si era raggiunto ancora una volta lo stadio di partenza. Il sistema assicurava che il servizio al tempio, soprattutto in occasione della grandi feste di pellegrinaggio quando gli in­ troiti dei sacerdoti erano particolarmente alti, non fosse pre­ stato ogni anno dalla stessa famiglia sacerdotale, ma ruotasse in modo che gli introiti venissero equamente distribuiti fra le diverse famiglie. Quest'ingegnoso sistema, che consentiva un'equa distri­ buizione fra le diverse classi sacerdotali degli introiti derivanti dal culto al tempio di Gerusalemme, non era stato escogitato certamente dagli esseni. Esso risale agli inizi del secondo tem­ pio, consacrato nel 515 a.C., ed è stato laboriosamente patteg­ giato a quel tempo fra le famiglie sacerdotali sempre in rivalità fra di loro. Le antiche liste delle famiglie sacerdotali della rive­ lazione biblica mostrano ancora come molte famiglie origina­ riamente interessate abbiano dovuto farsi da parte e come al­ tre siano subentrate al loro posto. Quando nel IV sec. a.C. fu composto il primo libro delle Cronache con le famiglie che lì

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sono nominate, il sistema era già ben rodato e precisamente proprio in base a quel concetto di equa distribuzione alla quale gli esseni restarono pienamente fedeli. Non ci sono indizi per pensare che queste liste del servizio sacerdotale abbiano avuto una qualche funzione nella prassi cultuale degli esseni, nel senso ad esempio che i membri esseni di una determinata famiglia sacerdotale abbiano assolto a par­ ticolari compiti nella «loro» settimana di servizio. Al riguardo, gli esseni si sono curati solo di conservare la tradizione, atten­ dendo il ritorno al tempio di Gerusalemme dell'antico calen­ dario solare.

La regola della guerra Finora solo a proposito di un'opera composta già in epoca pre-essena si può inequivocabilmente dimostrare che gli esseni l'hanno non solo tramandata, ma anche rielaborata e trasfor­ mata. Si tratta di un ordinamento per la futura battaglia finale fra le forze della luce e quelle delle tenebre, fra il bene e il male, sia in cielo che sulla terra. Essa viene perciò indicata con il titolo di Regola della guerra. Delle diverse versioni di quest'opera, sconosciuta prima delle scoperte di Qumran, esistono perlomeno dieci mano­ scritti. Un rotolo composto verso la fine del I sec. a.C., con due versioni di quest'opera ( 10 M ) si è in gran parte conservato. Ma il testo originario della Regola della guerra risale al tempo della durissima oppressione religiosa degli anni successivi al 170 a.C.; esso è quindi cronologicamente vicino al libro biblico di Daniele, composto nel 164 a.C., ma proviene da un diverso aJllbiente. Il libro di Daniele si situa nella tradizione sapienziale, senza particolari interessi cultuali-sacerdotali. Anche la Re­ gola della guerra è influenzata dal materiale biblico, soprat­ tutto dalla descrizione di Israele durante i suoi quarant'anni di peregrinazione nel deserto, così come si trova nel Pentateuco, e inoltre da riflessioni sulla guerra santa descritta nel libro di Giosuè e nel libro dei Giudici. Ma in quest'opera la futura bat-

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taglia finale viene preparata e diretta da sacerdoti, nello stile della presa di Gerico, descritta in Gs 6. I sacerdoti guidano tutti gli eventi della battaglia con segnali di tromba, assistiti in questo dai !eviti con i loro segnali di corno. In questo senso, a partire dalle sue concezioni di fondo, la Regola della guerra descrive più un evento cultuale che non una guerra vera e propria. Le linee nemiche si sfaldano come un tempo le mure di Gerico - non tanto a causa della forza delle armi, quanto piuttosto essenzialmente a causa dei potenti suoni di tromba dei sacerdoti riuniti. Ma si richiede la direzione strategica dei singoli reparti dell'esercito e delle sue sotto-sezioni di ufficiali non sacerdotali di ogni grado di servi­ zio. Il loro presidente supremo è «il capo dell'intera comunità del popolo», che solo è responsabile della sicura conduzione dei commandos sacerdotali. Al di sopra di tutti gli eventi bel­ lici vi è Dio, i cui quattro arcangeli più potenti intervengono a favore di Israele. Nel testo originario pre-esseno della Regola della guerra «il capo dell'intera comunità del popolo» era solo il coman­ dante supremo dell'esercito. Egli non aveva altra funzione se non la presidenza formale della compagine dell'esercito. Di quel capo non veniva ricordata alcun'altra attività specifica. Solo in una successiva versione essena della Regola della guerra, attestata dal manoscritto 4Q 285, «il capo dell'intera comunità del popolo» viene rappresentato anche come messia davidico, con espresso riferimento a Is 10,34-1 1,1. Egli conti­ nua a sottostare alla direzione dei sacerdoti, ma ora partecipa personalmente anche ad azioni militari ed è corresponsabile della giustizia. In questa veste egli decreta anche - secondo l'antico diritto regale - le sentenze capitali. In un frammento isolato di questo manoscritto si prende in considerazione una fase del futuro dramma finale, quella nella quale si tratta di uccidere un essere particolarmente potente. Un altro frammento indica che ciò non avverrà in battaglia, ma nel contesto di una sentenza capitale emessa da un consi­ glio con la partecipazione del messianico «Capo dell'intera co­ munità del popolo». Dopo l'emanazione della sentenza il

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sommo sacerdote ritornerà all'azione e farà continuare la bat­ taglia, il cui corso vittorioso era stato chiaramente e potente­ mente impedito fino a quel momento dal giustiziato. Quello che in futuro deve essere giustiziato qui non è il messia, ma una potente parte avversa del popolo di Israele. A causa della perdita del testo non è più possibile stabilire con certezza le modalità dell'esecuzione, ma essa sarà dolorosa. In ogni caso non si prevede una crocifissione. La terminologia usata nella descrizione dell'esecuzione non è quella abituale e specifica della «crocifissione», ma quella generale del «Con­ durre alla morte». Attualmente, il frammento viene mostrato alla televisione e agitato come un fantasma sulla stampa. Esso dovrebbe dimo­ strare che nei testi di Qumran si parla di un «messia croci­ fisso». Il contesto di scontri bellici in cui qui compare «Gesù» dovrebbe dimostrare che egli faceva parte dei ribelli zeloti e non era assolutamente quel personaggio amante della pace che viene descritto dal Nuovo Testamento. Nel frattempo il frammento è diventato a tal punto una prova maestra del fatto che le scoperte di Qumran mettono radicalmente in discus­ sione l'immagine di Gesù proposta dalla chiesa che il Vaticano è stato costretto a intervenire per impedire per quanto possi­ bile la sua pubblicazione. Tutto questo è un grossolano abuso. Si sconvolge il testo, non si tiene conto dell'immediato contesto e si pretende che parli di Gesù un manoscritto che risale inequivocabilmente a epoca pre-cristiana. Inoltre, in tutte le versioni esistenti della Regola della guerra, provenienti dalle scoperte di Qumran, si garantisce sempre a priori che Israele e le sue guide, sia sa­ cerdotali che «civili», trionferanno in definitiva su tutti i ne­ mici. Né qui né altrove in tutto il giudaismo pre-rabbinico si prende in considerazione un'eventuale uccisione del futuro messia. La peculiarità della versione essena della Regola della guerra sta solo nel fatto di aver trasformato in messia regale il futuro «capo dell'intera comunità del popolo». Ma essa non ha mai previsto la sua uccisione nella futura batta­ glia finale.

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ESSENI

Al massimo una quarantina di opere provenienti dalle scoperte di Qumran sono state composte dagli stessi esseni. Ma in molti casi i frammenti che ci sono pervenuti sono così piccoli che se ne può ricavare ben poco. Qui ci limitiamo quindi a ricordare solo le principali opere sulla cui origine es­ sena non vi sono dubbi. Esse evidenziano lo specifico inte­ resse che guidava gli esseni nel loro studio della Torah, dei li­ bri biblici dei profeti e di altri scritti tradizionali. Inoltre, ci permettono di gettare un primo sguardo sulla storia degli es­ seni, sulla loro pietà, sulle loro realtà organizzative e sulle loro discussioni con altri gruppi del giudaismo del tempo. Questi scritti sono composti tutti in ebraico e in nessun caso in aramaico o in greco. In questo si riflette la pretesa formativa elitaria degli esseni, il cui interesse per le sacre tradizioni di Israele non scendeva mai, con intenti missionari, sui basso­ piani della lingua corrente aramaica.

L 'istruzione del maestro a Gionata Alla fase della fondazione degli esseni, verso il 150 a.C, ri­ sale una lettera fatta pervenire dal maestro di giustizia al capo politico della Giudea, il maccabeo Gionata. Scopo della lettera era, da una parte, quello di conquistare Gionata e i suoi sol­ dati, nell'ordine di decina di migliaia, a quell'Unione di tutto Israele che il maestro aveva allora fondato e che si autodefinì da allora in poi gli «esseni», cioè «i pii», e, dall'altra, di convin­ cere Gionata a rinunciare a quell'ufficio di sommo sacerdote del tempio di Gerusalemme di cui si era impadronito con la forza qualche tempo prima e di limitarsi in seguito ad assol­ vere i propri compiti politici. Sull'esito avuto dalla lettera ci informa un commento ai salmi biblici del I sec. a.C., dove, nel contesto del progressivo commento versetto per versetto del salmo 37,32-33, si annota: «L'empio spia il giusto e cerca di ucciderlo. Ma Dio non lo (il giusto ) abbandona in suo potere e non lo lascia soccombere sotto il giudizio ( di un tribunale ) quando gli viene fatto il pro-

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cesso». La spiegazione di questo passo del salmo comincia con le parole: «Con questo si intende [il sacerdo]te empio, che [ha spia]to [il maest]ro di giusti[zia, per [uccider[lo] [e precisa­ mente] a causa della ricchez[za] e [a causa] dell'istruzione che questi gli ha inviato» (4Q pPsa 1-10, IV, 7-9). Con «ricchezza» si intende il tesoro del tempio, di cui Gio­ nata, nella sua qualità di sommo sacerdote - «Sacerdote em­ pio» è una storpiatura di questo titolo - poteva disporre. Quanta ricchezza possedesse il tempio lo lascia intravvedere il rotolo di rame. Probabilmente Gionata aveva sequestrato nella banca del tempio depositi dei pagani e crediti di somme ottenute illegalmente (1Q pHab VIII, 10-13), usandoli poi per il finanziamento delle sue imprese militari (cf. 1Mac 10,21 !). La possibilità di accedere a questa fonte di danaro dovrebbe essere stato per Gionata il motivo principale per occupare l'uf­ ficio di sommo sacerdote. Dal punto di vista storico, l' «istru­ zione» scritta, ricordata nel commento ai salmi quale seconda occasione per l'attentato - non riuscito - di Gionata contro il maestro di giustizia altro non era che questa lettera. Della lettera sono state trovate a Qumran sei copie fram­ mentarie. Nella letteratura scientifica la lettera viene indicata con 4QMMT'-f, dal momento che le sei copie (a-f) provengono tutte dalla grotta 4Q e in una parte della lettera i comanda­ menti della Torah sono riassuntivamente indicati come Miksat Ma·a8e ha- Torah («alcune [delle] pratiche [prescritte in modo vincolante] nella Torah»). Nel volume I manoscritti segreti di Qumran di Eisenman e Wise, i frammenti di questa lettera vengono diverse volte riuniti in modo errato. Inoltre, il corpo della kttera viene arbitrariamente distinto in due parti, indi­ cate in modo fuorviante come «Lettere sulle opere ricono­ sciute giuste» (p. 182). Restano del tutto in ombra il vero signi­ ficato e la finalità assolutamente concreta della composizione di questa lettera. Del terzo iniziale di questa lettera, originariamente piutto­ sto ampia, non resta purtroppo più nulla nelle sei copie fram­ mentarie. All'inizio dovevano essere indicati certamente il mittente e il destinatario, ora deducibili solo dal commento al Sal 37,32-33. Questo cosiddetto pre-scritto era senza dubbio

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seguito, secondo lo stile epistolario del tempo, da un proemio con le abituali attestazioni di gentilezza e di buon augurio per il destinatario. Il primo dato oggettivo della lettera è l'esposizione del ca­ lendario solare sacerdotale antico di 364 giorni, con le date esatte di tutti i sabati e giorni festivi, e certamente la richiesta della soppressione del calendario lunare di 354 giorni, intro­ dotto nel tempio di Gerusalemme dal sommo sacerdote Gio­ nata e rimasto in vigore nel giudaismo fino ai nostri giorni. Il testo della lettera che ci è pervenuto comincia con le frasi con­ clusive relative alla parte della lettera consacrata al calendario. Segue l'elenco di più di venti prescrizioni della Torah che erano contraddette dalla prassi seguita allora nel tempio e sup­ portata dal sommo sacerdote Gionata. Poi la lettera pone da­ vanti agli occhi del destinatario la benedizione e la maledi­ zione dell'antico periodo della monarchia di Israele, con l'am­ monimento a riferirsi, quale capo politico del popolo, soprat­ tutto all'esempio dei re Davide e Salomone. Mediante questo riferimento il destinatario viene espressamente sollecitato a ri­ nunciare al suo ufficio di sommo sacerdote, poiché né Davide né i suoi successori lo avevano mai preteso per se stessi, ma si erano limitati all'esercizio delle funzioni regali. Davide - così veniva intesa la tradizione biblica nel II sec. a.C. - anzitutto aveva posto Zadok, figlio di Achitub, quale sommo sacerdote per il servizio dell'arca dell'alleanza, e il figlio e successore di Davide, Salomone, lo aveva fatto sommo sacerdote del tempio che era stato costruito a Gerusalemme (2Sam 8,17; 15,24-29; 1Re 2,35). Il maestro di giustizia discendeva dalla stirpe di quel Zadok che, in epoca post-esilica, soleva fornire i sommi sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Il maccabeo Gionata discendeva invece semplicemente dalla famiglia sacerdotale di Ioarib (1Cr 24,7), i cui membri tradizionalmente non avevano alcun diritto all'esercizio dell'ufficio di sommo sacerdote. La parte conclusiva della lettera annette anzitutto impor­ tanza al fatto che tutto ciò che in essa viene detto - soprat­ tutto la critica alle pretese di Gionata alla carica di sommo sa­ cerdote e alla sua concreta gestione dell'ufficio - è in piena sintonia con le richieste della Torah e dei libri biblici dei pro-

Il

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feti, compreso il salterio composto dallo stesso re Davide, e quindi con tutta la sacra tradizione, considerata vincolante da entrambe le parti. Seguono, infine, delle ammonizioni al desti­ natario e la richiesta, per amore suo e di Israele, di seguire senza restrizioni le istruzioni della lettera. La reazione del destinatario alla lettera è stata il fallito at­ tentato portato contro il suo mittente (4Q pPsa 1-10, IV, 8; 1Q pHab Xl, 2-8), la forma di rifiuto più grossolana che si possa immaginare di tutte le richieste avanzate nella lettera. In parti­ colare, finché esistette, nel tempio di Gerusalemme, rimase in vigore il calendario lunare di 354 giorni. Così la rottura fra gli esseni e il culto sacrificale del tempio, compiuto secondo le date del calendario lunare, divenne definitiva e irreparabile. L'ultimo tentativo, andato a vuoto, di sanare una tale frattura fu questa Istruzione del maestro a Gionata, che ora cono­ sciamo per la prima volta grazie alle scoperte di Qumran. Essa è il documento più importante sulla storia dell'origine degli es­ seni; senza di essa avremmo difficilmente potuto intravvedere ciò che è concretamente successo allora.

La raccolta innica Hodayyot Fra il materiale ritrovato a Qumran vi sono molti rotoli con raccolte di inni. La più importante di queste raccolte è un manoscritto campione della grotta 1Q, il quale conteneva ori­ ginariamente circa 35 inni e venne redatto verso la fine del I sec. a.C. (1Q H). Il rotolo comprendeva 28 colonne di testo, ognuna delle quali aveva 41-42 righe lunghe. Le parti iniziale e finale del rotolo sono molto danneggiate, ma possono essere parzialmente ricostruite con i frammenti di sei manoscritti pa­ ralleli provenienti dalla grotta 4Q. Questa raccolta di inni viene detta abitualmente Hodayyot (canti di lode), poiché molti inni cominciano con ·odkha Adonai («Ti lodo, o Si­ gnore»). In realtà, in questo grande manoscritto sono state riu­ nite divèrse singole raccolte più piccole di inni, esistite anche in modo autonomo. I 17 inni della parte centrale di questo manoscritto - se­ condo l'indicazione dei ·curatori della sua pubblicazione, le co-

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lonne II-XI - sono stati composti per lo più dallo stesso mae­ stro di giustizia. Essi riflettono il suo destino personale, le sue pretese di essere il solo sommo sacerdote legittimo e lodano Dio per la sua bontà e fedeltà in tutte le avversità. Gli altri inni della raccolta sono stati composti da esseni, i quali ringraziano Dio per le sue attestazioni di grazia nei con­ fronti della loro comunità, lodano la sua misericordia e cele­ brano la conoscenza che essi devono al dono dello Spirito Santo. Tutti questi inni sono stati composti già nella seconda metà del II sec. a.C., come mostrano, oltre ai dati contenuti­ stici, i corrispondenti manoscritti più antichi delle raccolte par­ ziali. Essi sono il principale documento della spiritualità degli esseni, della loro concezione dell'uomo e di Dio, nonché della loro quotidiana battaglia per giungere a una più profonda co­ noscenza dell'insondabile piano di salvezza di Dio per il mondo intero.

Regole della comunità Un manoscritto campione, realizzato verso il 100 a.C. e proveniente dalla grotta 1Q, contiene quattro diverse regole della comunità. Alla prima è stata aggiunta la dottrina dei due spiriti, un testo letterariamente indipendente. Per le prime due regole della comunità esistono, inoltre, diversi manoscritti pa­ ralleli provenienti da altre grotte, mentre per le ultime due non esiste alcun manoscritto parallelo. Questo grande manoscritto aveva originariamente almeno 20 colonne di testo, con 26-29 righe lunghe. Le prime 13 co­ lonne si sono conservate quasi per intero, altre 5 in modo molto frammentario, mentre la parte finale è andata irrimedia­ bilmente e interamente perduta. Del titolo, scritto sul retro del rotolo, si conserva solo l'inizio con le parole La regola della co­ munità e [altre cose] di {...]; non sappiamo quindi come gli stessi esseni hanno chiamato le altre parti che componevano questa raccolta di testi. Tutti i cinque testi individuali di questo rotolo sono stati composti già nella seconda metà del II sec. a.C., quindi ante­ riormente alla fondazione dell'insediamento di Qumran. Essi

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si riferiscono sempre agli esseni in generale, mai a una qual­ siasi peculiarità di Qumran, come si afferma invece per lo più fino ai nostri giorni nella letteratura scientifica, unicamente in base al fatto che il manoscritto, pubblicato già nel 1951 e 1955, proveniva dall'allora biblioteca di Qumran. Per 1Q S V-IX si è scoperto nel frattempo anche un manoscritto parallelo risa­ lente a venti-trent'anni prima (4Q se).

La regola della comunità (lQ

S

I,l-111,12)

La prima opera di questo rotolo si chiama, secondo l'indi­ cazione del titolo posto sul retro del rotolo e una formulazione nella seconda proposizione del testo, La regola della comunità. Il suo testo comprende le colonne 1,1-111,12. Si tratta essen­ zialmente dell'agenda dell'annuale festa del rinnovamento dell'alleanza, finalizzata in particolare ad ammettere nella co­ munità i nuovi membri e a fissare la nuova posizione di ogni singolo membro nel quadro delle tre classi di sacerdoti, leviti e semplici israeliti. Questa festa annuale cadeva sempre «nel terzo mese» (cf. 4Q oa 18, V, 17-18), probabilmente nella co­ siddetta festa delle Settimane, la nostra attuale festa di Pente­ coste, che era celebrata il giorno 15 del terzo mese. La parte introduttiva dell'agenda formula ciò che viene fondamentalmente richiesto ai membri della c'omunità essena e ciò a cui quanti stanno per 'essere accolti nella comunità de­ vono prestare particolare attenzione. La parte dell'agenda in senso stretto ricorda anzitutto le lodi di Dio e delle sue azioni salvifiche che i sacerdoti e i !eviti devono recitare nella liturgia introduttiva e presenta poi il testo di una confessione dei pec­ cati da parte delle persone riunite, della benedizione del sacer­ dote, della maledizione dei !eviti e di un'auto-maledizione pro­ filattica da parte dei partecipanti alla festa nel caso in cui ca­ dano nell'apostasia. Alle singole parti di queste formule litur­ giche l'assemblea risponde con «Amen, Amen», sottoscri­ vendo in tal modo ciò che è stato proclamato. La parte finale tratta della fissazione della posizione dei singoli membri, non­ ché della natura degli uomini che disprezzano l'ingresso nella comunità degli esseni e di quella di coloro che si dimostrano pronti a entrarvi.

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La dottrina dei due spiriti (10

S

III,13-IV,26)

All'agenda è aggiunto uno testo dottrinale, la cosiddetta

Dottrina dei due spiriti. Il testo è certamente di origine pre­

essena ed è influenzato dal giudaismo babilonese. La dottrina dei due spiriti si trova alle colonne 111,13-IV,26 del rotolo, ma manca dopo la regola della comunità nelle copie provenienti dalle altre grotte. Solo un altro manoscritto proveniente dalla grotta 4Q (4Q se) la contiene. Questo testo dottrinale afferma che Dio avrebbe creato fin dall'inizio l'universo con uguali parti di luce e di tenebre. L'i­ dea viene spontanea quando si osserva la natura. In estate le giornate sono lunghe, in inverno brevi. Ma mediamente nel­ l'anno luce e tenebre sono presenti in uguale misura. La dot­ trina dei due spiriti ha esteso a tutto l'ordinamento del mondo questo fenomeno naturale, soprattutto alle forze che gover­ nano la creazione e agli uomini, esposti alla loro azione. Qui tutto si compone sia di luce che di tenebre, in base al principio fondamentale, in parti uguali come nel caso dell'anno solare, ma nei singoli casi con diverso peso, come dimostra chiara­ mente l'esistenza di giornate più lunghe e giornate più corte. Un altro testo di Qumran, il cosiddetto Oroscopo, prove­ niente dalla grotta 4Q (4Q 186), illustra, nonostante qualche differenza di dettaglio, come gli esseni si sono concretamente immaginato questo ordinamento della creazione anche a li­ vello della natura umana. Ogni uomo ha qualitativamente nove parti. L'uomo più giusto ha otto parti di luce e una sola parte di tenebre. Nella classe che segue il rapporto è di 7-2, poi di 6-3 e ancora di 5-4. Con 4-5 cominciano gli uomini prevalen­ temente cattivi. Ma anche il peggior peccatore, con il suo rap­ porto di 1-8, possiede ancora - anche se molto ridotta - una parte di luce. Questa divisione fondamentale del mondo in luce e tene­ bre, bene e male, giustizia e peccato, è stata stabilita da Dio se­ condo il suo disegno prima dell'inizio di tutta la creazione e ha fissato fin dall'inizio a ogni singolo uomo, in qualunque tempo egli viva, il suo particolare destino. Per quanto si sforzi, nes­ suno può diventare migliore o peggiore di quello che corri-

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sponde, secondo il disegno della creazione, al suo immutabile stato. Alla fine dei tempi, quando Dio comparirà per il giudizio finale, si scatterà una fotografia istantanea di tutto ciò che sarà avvenuto fino a quel momento. Dio costaterà che i due prin­ Cipi .fondamentali hanno operato fino a quel momento in un modo assolutamente uguale e che il suo piano della creazione è quindi giunto al traguardo senza alcun errore. Allora Dio di­ struggerà tutto ciò che è stato dominato principalmente dal prineipio delle tenebre. Fra gli uomini prevalentemente buoni Dio opererà una scelta e, mediante l'azione del suo Santo Spi­ rito, trasformerà questi giusti in modo tale che vi saranno per la prima volta uomini buoni al lOO% , con un rapporto per così dire di 9-0. Essi saranno così giusti che non potranno più pec­ care, per cui non potrà più succedere una sventura quale il peccato originale nel paradiso terrestre (Gen 3) che ha conti­ nuato a gravare fino ad allora su tutti gli uomini. Lo scopo es­ senziale della Dottrina dei due spiriti è quello di affermare questa futura nuova creazione. La designazione di questo testo dottrinale come Dottrina dei due spiriti è dovuta al fatto che esso non si limita a descri­ vere la divisione del mondo in genere e degli uomini in parti­ colare in luce e tenebre, ma sottopone al tempo stesso i due ambiti all'azione degli angeli buoni e cattivi. I loro compiti si limitano naturalmente a conservare stabile nel corso del tempo la doppia struttura, stabilita da Dio, di tutto ciò che esi­ ste. Dal punto di vista della storia delle religioni sullo sfondo di questa dottrina dei due spiriti stanno le oltre 3000 divinità buone e cattive del pantheon assiro e babilonese, trasformate dagli ebrei esiliati in Mesopotamia in gerarchie angeliche e in­ tegrate nella concezione biblica della creazione. Il principio di un mondo rigidamente dualistico risale all'influenza dell'an­ tico Iran. Il rigido dualismo e la terminologia luce-tenebre della dot­ trina dei due spiriti corrispondono a dati analoghi presenti nella Regola della guerra di origine pre-essena, ma non tro­ vano alcun parallelismo nei testi composti sicuramente dagli esseni. Si deve quindi ritenere che gli esseni abbiano ricevuto

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questo testo dottrinale da una tradizione più antica e lo ab­ biano conservato senza apportarvi delle modifiche. Alcuni inni comunitari della raccolta Hodayyot sono influenzati con­ tenutisticamente e terminologicamente dalla dottrina dei due spiriti, ma non quelli composti dal maestro di giustizia. Nel corpus degli scritti qumranici la dottrina dei due spiriti ha tro­ vato una buona collocazione in appendice alla regola della co­ munità, poiché rende plausibile la sua parte conclusiva: il fatto che solo una parte degli uomini sia disposta a entrare nella co­ munità essena, mentre altri non vi riusciranno mai, nonostante le loro migliori intenzioni personali, corrisponde alla volontà creatrice di Dio.

Il Manuale di disciplina (lQ S V,l-XI,22) La parte seguente di questo rotolo, colonne V,1-XI,22, è una raccolta di norme relative all'organizzazione della comu­ nità degli esseni che si sono venute gradualmente sviluppando nei primi decenni della loro esistenza. Al riguardo, si è prolun­ gata, senza alcuna modifica, la validità di precedenti ordina­ menti legislativi di comunità pre-essene (1Q S IX, 10s). Si trat­ tava, ad esempio, di ordinamenti relativi all'osservanza del sa­ bato e al calendario delle feste, a questioni di purezza cultuale, di diritto matrimoniale e patrimoniale, di possesso della terra e offerte delle decime e a molti altri ambiti giuridici. Tutto que­ sto era stato regolato in modo soddisfacente già nelle comu­ nità pre-essene e non richiedeva da parte degli esseni, molto sensibili in fatto di rispetto della tradizione, alcuna modifica. Tutti questi temi non si trovano quindi nell'ordinamento spe­ cificamente esseno di 1Q S V,1-XI,22, il quale si limita essen­ zialmente alla trattazione delle nuove situazioni di natura or­ ganizzativa e disciplinare. D'altra parte, la versione del Manuale di disciplina conte­ nuta in 1Q S V,1-XI,22 rappresenta il suo stadio di sviluppo più recente. Già l'inizio del testo in 1Q V,1 si presenta modifi­ cato rispetto alla versione originaria per adattarlo al nuovo contesto (10 S I-IV + 1Q Sa + 10 Sb). Diverse pene sono state raddoppiate nell'ultimo intervento; sono passate, ad

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esempio, da un'esclusione di sei mesi dalla vita comunitaria a un'esclusione di un intero anno. L'originaria parte finale, con le norme per il servizio settimanale delle famiglie sacerdotali al tempio di Gerusalemme quale viene presentato da un ma­ noscritto precedente proveniente dalla grotta 4Q (4Q se), è stata sostituita da un ordinamento per i tempi giornalieri della preghiera e da un inno proposto come esempio per il servizio cultuale della preghiera (1Q S IX,26-XI,22). Questo testo cor­ retto si trova anche in altre copie del Manuale di disciplina, ri­ costruite in parte grazie al manoscritto campione che ci è per­ venuto. Per quanto riguarda il contenuto il Manuale di disciplinà comincia in modo analogo all'Agenda in 1Q S l,l-111,12. All'i­ nizio si trovano, a mo' di preambolo, i principi fondamentali (V,1-7). Poi si passa a trattare del giuramento di ammissione e del divieto di ogni contatto in materia religiosa con i non­ esseni (V,7-20), della fissazione annuale del nuovo ordine in­ terno (V, 20-25) e del dovere della reciproca ammonizione in caso di comportamenti errati (V,25-VI,1). Seguono poi norme relative alle riunioni locali ovunque nel paese per il servizio cultuale della preghiera, i pasti e le assemblee consiliari (VI,1-8). Come avviene ancor oggi presso gli ebrei, già presso gli esseni il culto richiedeva la presenza di un gruppo di al­ �eno dieci uomini religiosamente adulti - oggi si dice un minjan (cf. Es 18,21.25). Presso di loro la presidenza doveva essere assicurata sempre da un sacerdote, cosa questa conside­ rata non più necessaria dai farisei e dal successivo giudaismo rabbinico. Inoltre, il Manuale di disciplina contiene norme relative alla procedura da seguire nelle riunioni del consiglio e nell'am­ missione, dopo almeno tre anni di tirocinio, dei nuovi membri (VI,8-23) e infine (VI,24-VII,27) un nutrito codice penale, nel quale le specie di comportamenti errati - apparentemente frequenti - sono elencate con l'indicazione delle relative pu­ nizioni. Queste ultime spaziano dalla pena di morte in caso di bestemmia contro Dio alla pena minima di un'esclusione di dieci giorni da tutta la vita comunitaria, per esempio nel caso in cui si interrompa chi parla durante una seduta (VII,9-10).

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Oltre alla temporanea esclusione dalla vita comunitaria, il repertorio delle sanzioni prevede anche la riduzione della ra­ zione alimentare giornaliera. Se si scopre che qualcuno, al mo­ mento della sua ammissione nella comunità, non ha sciente­ mente consegnato tutto il proprio patrimonio personale, lo si punisce con un'esclusione per un intero anno dai bagni rituali e con la riduzione di un quarto, durante lo stesso periodo, delle razioni alimentari. La sentenza, in caso di punizione, è emessa da un tribunale, del quale devono fare necessaria­ mente parte tre sacerdoti e dodici laici (VII,27-VIII,4). A questo corpus originario del Manuale di disciplina sono stati successivamente aggiunti diversi materiali. Anzitutto, due sezioni nelle quali gli esseni si presentano come il vero tempio di Dio in terra, con i sacerdoti come suo Santo dei santi: solo nella comunità essena, e non più nel tempio di Gerusalemme sconsacrato a causa di un errato ordinamento del calendario, si attua per l'intero Israele quell'espiazione che, secondo la To­ rah, deve verificarsi soprattutto nel giorno dell'espiazione (VIII,4-10; cf. Lv 16). Segue un'aggiunta nella quale si pre­ scrive di rendere accessibili senza eccezioni ai nuovi candidati, già nel terzo anno della procedura di ammissione, al di là degli scritti biblici, anche gli ordinamenti giuridici e dottrinali degli esseni (VIII,10-12). Il passo successivo che qui è stato aggiunto è quello con la citazione di Is 40,3, che conteneva probabil­ mente anche un'allusione alla fondazione dell'insediamento di Qumran (VIII,12-15; cf. sopra, pp. 82-84). Le successive aggiunte mancano ancora nella copia più an­ tica del Manuale di disciplina (4Q se). Si tratta di norme rela­ tive a un'esclusione, temporalmente limitata, in caso di tra­ sgressione deliberata o involontaria non delle regole essene ma della Torah, del globale riconoscimento dei servizi di pre­ ghiera esseni e del devoto comportamento di tutti i membri quale valido sostituto dell'offerta dei sacrifici nel tempio di Gerusalemme, nonché dell'autorità esclusiva dei sacerdoti nel campo della legislazione, delle questioni relative alla proprietà e dell'ammissione di nuovi membri, ivi compresi i problemi giuridici attinenti al loro patrimonio. La situazione che veniva a crearsi quando in una famiglia uno dei membri entrava nella

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comunità essena, mentre il padre, i fratelli o altre persone cointeressate al patrimonio familiare ne restavano fuori era particolarmente difficile. In qu_esto caso si doveva procedere a una chiara separazione dei beni, poiché la proprietà degli es­ seni non poteva mai essere «mescolata» con la proprietà di non-esseni. Come si dice chiaramente alla fine, tutte queste ul­ teriori norme particolari dovono restare immutate, finché un nuovo legislatore profetico, con competenza pari a quella di Mosè, nonché il sommo sacerdote e il messia regale del futuro tempo salvifico, con le loro particolari facoltà e poteri, non ap� portino dei cambiamenti a ciò che è valido fino ad allora (VIII,15-IX,l l ). Queste regole aggiuntive, introdotte in epoca particolar� mente tarda, sono seguite da altre due sezioni che contengono norme relative alle richieste di qualificazione e alle concrete attribuzioni di compiti nelle funzioni direttive, che erano già presenti, sotto forma di aggiunte indipendenti, nella versione precedente del Manuale di disciplina (40 se), mentre vi man­ cava ancora il nutrito regolamento conclusivo dei tempi della preghiera comunitaria con l'inno proposto come esempio (10 S IX,26-XI,22 ) o si trovava al suo posto un regolamento per il servizio settimanale delle famiglie sacerdotali nel tempio di Gerusalemme. Nel quadro della versione finale del Manuale di disciplina, esso si rivelò comunque superfluo, visto che già in precedenza nelle ultime aggiunte erano stati fissati in debita forma i servizi cultuali della preghiera e il devoto comporta� mento di tutti i membri come sostituti pienamente validi del servizio cultuale del tempio. Così il Manuale di disciplina, con la sua regolazione dei problemi organizzativi e con la chiara genesi della sua forma� zione letteraria, permette di gettare concretamente uno sguardo sulla prima vita comunitaria degli esseni, antecedente all'esistenza dell'insediamento di Qumran. Naturalmente, quest'opera non è mai diventata una vera e propria «regola della comunità>>, per quanto le successive aggiunte all'origina� rio Manuale di disciplina mostrino la tendenza a strutturarla in quella direzione.

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La più antica regola della comunità degli esseni (l Q Sa) La più antica vera regola della comunità degli esseni è molto breve. Si trovava nelle colonne XII e XIII del rotolo l Q S e vi comprendeva solo 51 righe. In seguito, essa non è stata più utilizzata; in ogni caso, non se ne è trovata alcun'altra co­ pia nel materiale scoperto a Qumran. Ciò è dovuto con ogni probabilità al fatto di . essere stata rimpiazzata, e quindi resa superflua, dal cosiddetto Documento di Damasco, molto più ampio, composto verso il lOO a.C. Per noi essa è comunque di inestimabile valore poiché vi vengono espresse sinteticamente per la prima volta le idee che hanno guidato il maestro di giu­ stizia nella sua fondazione degli esseni, ciò che egli ha ritenuto essenziale dal punto di vista organizzativo e le aspettative per il futuro che egli nutriva al di là di quelle espresse negli inni da lui stessi composti della raccolta ionica Hodayyot. Gli studiosi di Qumran non riconoscono spesso la grande importanza di questa regola della comunità. Ciò è dovuto so­ prattutto al fatto che essa comincia con le parole: «Ecco ora l'ordinamento per l'intera comunità di Israele durante il tempo della fine». L'espressione «tempo della fine» - o, lette­ ralmente, «la fine dei giorni» - viene spesso erroneamente ri­ ferita al futuro inizio del tempo salvifico, quando finalmente sarà venuto quel messia che la parte finale di questa regola della comunità vede già partecipare alla vita comunitaria es­ sena. Di conseguenza, quest'opera viene ritenuta l'abbozzo di una regola della comunità per il futuro tempo della salvezza messianica. In realtà, gli esseni hanno ritenuto fin dall'inizio di vivere nell'ultimo periodo della storia, prima del giudizio finale e del tempo della salvezza, e hanno designato tutto questo periodo - durasse pure un intero secolo o anche più - come «il tempo della fine». Anche il contenuto di questo testo contrad­ dice completamente l'immagine di una futura comunità del tempo della fine, poiché vi sono ancora figure problematiche, come «gli stolti» ai quali non deve essere affidata alcuna ca­ rica, o gli immondi e le persone con difetti fisici, che devono essere esclusi dalle riunioni di preghiera e dalle sedute del con­ siglio. Ma gli esseni ritenevano che nel tempo della salvezza

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non vi sarebbero più state simili persone imperfette e quindi neppure le necessità di norme del genere di quelle che qu,i ven­ gono esposte. Questo testo è stato quindi certamente concepito come una regola della comunità vincolante per il tempo del suo au­ tore. Quel tempo avanzava naturalmente esigenze particolar­ mente alte in termini di purezza della vita cultuale della comu­ nità, poiché come «tempo della fine» esso era anche l'ultima epoca della storia, prima del giudizio finale di Dio, nella quale il male imperversava nel mondo più di quanto fosse mai av­ venuto prima. Uno degli scopi specifici della composizione di questa regola era proprio quello di equipaggiare sufficiente­ mente la comunità cultuale di Israele contro gli influssi del male. La frase iniziale di questa regola comunitaria è più ampia del frammento citato sopra. Nella sua interezza dice: «Ecco ora l'ordin(!.mento per l'intera comunità di Israele durante il tempo della fine, in occasione delle sue assemblee [comunita­ rie]». Dopo un brano intermedio, che fissa il ruolo guida dei sacerdoti discendenti dalla stirpe di Zadok per tutte le que­ stioni, il testo continua: «me discen­ dente di Davide, il messia proviene come lui unicamente dalla tribù di Giuda e non dalla tribù sacerdotale di grado superiore quale quella di Levi. La possibilità di fraintendere completamente la parte fi­ nale di questa regola della comunità è spesso accresciuta dal fatto che due lacune del testo vengono colmate in un modo sommamente problematico con l'introduzione di un «sommo sacerdote messianico». Ma simili ardite possibilità di comple­ tamento sono contraddette dalla proposizione conclusiva dell'insieme. Lì, in diretto collegamento con la descrizione dello svolgimento del banchetto, si dice: «e corrispondente­ mente a questa misura ( fondamentale precedenza del sacer­ dote sul messia) ci si deve comporta[re] in tutte le riu[nioni], [quando si] ritrovano insieme perlomeno dieci uom[ini])). Qui non si descrive quindi un unico «banchetto messianico)), ma si fissa in modo generale il rango cultuale del messia regale fin nelle più piccole comunità locali. Quanto al rango, il sommo sacerdote sarebbe comunque sempre anteposto al messia. Il problema di cui qui si tratta poteva verificarsi solo nel caso dei molti sacerdoti semplici sparsi in tutto il paese. Proprio a loro doveva essere espressamente posposto il messia in modo che la radicale precedenza di tutti i sacerdoti rimanesse salvaguar­ data anche in futuro. =

La regola della benedizione (10 Sb) Riguardo alll'origine e alle motivazioni di fondo, la regola della benedizione è gemella dell'antica regola comunitaria es­ sena l Q Sa e in diretto collegamento con essa per quanto con­ cerne la strutturazione liturgica delle riunioni cultuali di pre­ ghiera. Questa regola occupava un tempo le colonne XIV-XX del rotolo l Q S, ma a differenza del resto si è conservata solo in modo frammentario. Come nel caso della regola comunita­ ria lQ Sa, non se ne è trovata alcun'altra copia a Qumran. La regola della benedizione contiene il testo integrale di quattro formule di benedizione. Vi è anzitutto una benedi-

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zione su tutti i devoti di Israele, che occupa diciotto righe. Se­ gue una benedizione sul sommo sacerdote quale sommo rap­ presentante di Israele, che occupa 53 righe, seguita immediata­ mente per altre 50 righe da una benedizione sui sacerdoti za­ dokiti. La serie è chiusa da una benedizione sul futuro messia. Di questa formula di benedizione si sono conservate solo le prime dieci righe, ma originariamente anch'essa doveva occu­ pare circa 50 righe. Le formule di benedizione per i devoti, il sommo sacerdote e i sacerdoti zadokiti sono versioni ampia­ mente rielaborate della benedizione aronitica di Nm 6,24-26, che si trovano pure - anche se meno rielaborate - come for­ mule di benedizione e di maledizione nell'agenda per la festa annuale ( lQ S 11,2-9). Gli studiosi di Qumran considerano normalmente l'intera regola delle benedizioni, a causa della benedizione sul messia, come un previo fittizio abbozzo per il tempo della salvezza messianica. Ma, come nel caso della regola della comunità, an­ che qui i dati contenutistici non suffragano questa posizione. Si tratta certamente di una regola delle benedizioni praticata già nel tempo presente, la quale mediante il coinvolgimento ri­ tuale del futuro messia ne impetrava praticamente l'azione ef­ ficace. Mediante la benedizione su di lui, egli era già presente nel servizio cultuale della preghiera, anche se non era ancora realmente venuto. Particolarmente importante è anche il fatto che questa re­ gola delle benedizioni è stata certamente elaborata già du­ rante la vita del maestro di giustizia. Infatti, colui cui si riferiva la benedizione sul sommo sacerdote altri non era che lui stesso. Proprio nella stesura di questa formula di benedizione il mae­ stro di giustizia dovrebbe aver accordato la massima atten­ zione anche ai minimi dettagli. In questa formula di benedi­ zione quindi, al di là degli attributi più generali dell'ufficio del sommo sacerdote, si rispecchia anche la sua personalissima concezione di quell'ufficio. Comunque vadano considerati i retroscena politici e per­ sonali di questa regola delle benedizioni, essa costituisce in ogni caso un documento particolarmente importante per la comprensione proto-essena degli uffici di cui tratta.

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Il Documento di Damasco L'ultima di tutte le regole che si sono date gli esseni è il co­ siddetto Documento di Damasco. Il nome deriva dal fatto che nel testo si ricorda a più riprese una . Poi, introdotta dall'espressione «le benedi­ zioni di Giacobbe», inizia la lista commentata dei dodici figli di Giacobbe, secondo Gen 49,3-27. Al riguardo, si riprendono espressioni con cui i loro padri avevano lodato o criticato se stessi - e, di conseguenza, le dodici tribù di Israele. A Giuda =

4 Sono queste le conclusioni cui è giunta la dissertazione di Annette Steu­ del, terminata nel 1991 e pubblicata nel 1994.

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- commentando Gen 49,10 - viene collegata la promessa del futuro messia dalla casa di Davide. È tutto ciò che si è conser­ vato. Gli studiosi si riferiscono a quest'opera come Patriarchal Blessings, poiché J.M. Allegro, che l'ha pubblicata nel 1956, così l'aveva chiamata semplicemente a causa del testo della terza colonna. Il testo completo dell'opera si trova nel volume Manoscritti segreti di Qumran di Robert Eisenman e Michael Wise, nel contesto di quello che essi chiamano «Florilegio della Genesi» (pp. 83-96). Ma c'è da chiedersi se ciò esprima adeguatamente i reali contenuti di quest'opera. Solo le parti terminali delle righe 1-7 della loro «colonna 3» e l'altro testo delle «colonne 4-6» appartengono a questo midrash della Ge­ nesi. Tutto ciò che precede potrebbe essere testo proveniente da un altro manoscritto. Esso è stato forse scritto da un'altra persona ed è in ogni caso sia formalmente che contenutistica­ mente del tutto diverso dal midrash. Non cita dati della Ge­ nesi, ma è una libera riproduzione del suo testo continuo con un particolare interesse, relativamente a ciò che viene raccon­ tato, per le date del calendario, analogamente al libro dei Giu­ bilei, e sempre fedele come quest'ultimo al calendario solare di 364 giorni dell'antica tradizione sacerdotale. Come il libro dei Giubilei, anche quest'opera è probabilmente di origine pre-essena. Probabilmente, essa non ha nulla a che vedere con il midrash a Genesi, che ha un orientamento tematico.

I commenti dei profeti Quando verso il 150 a.C. il maestro di giustizia fondò l'U­ nione essena di tutto Israele, lui stesso e i suoi seguaci erano profondamente convinti di vivere nell'ultima fase della storia del mondo, a ridosso del giudizio finale di Dio e all'inizio del tempo della salvezza. Essi credevano addirittura che quella svolta in senso salvifico fosse così vicina che, nella loro prima regola della comunità (1Q Sa) e nella regola liturgica delle be­ nedizioni (1Q Sb), ritennero imminente - praticamente già presente - la futura comparsa del messia della casa di Davide. Il maestro di giustizia riteneva che tutto ciò che Dio aveva fatto scrivere un tempo ai profeti biblici non si fosse mai rife-

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rito alla loro propria situazione storica. A suo avviso si trattava piuttosto di previsioni divine per l'ultima fase della storia, per il tempo appunto che egli stava vivendo. Conseguentemente, negli inni della raccolta Hodayyot da lui composti il maestro di giustizia ha riferito al suo proprio destino e a quello dei suoi seguaci molte affermazioni profetiche. La stessa idea è espressa già nella sua Istruzione a Gionata (pap. 4Q MMT" 2,I,7.9; 2,11,6). Se si leggevano i libri profetici della Bibbia vi si trovavano direttamente espressi gli avvenimenti del proprio presente.

Questa comprensione dei profeti, espressamente presen­ tata dal commento ad Abacuc trovato a Qumran come iniziata dal maestro di giustizia (lQ pHab II,7-10 e VII,4-5), ebbe enormi conseguenze. Essa ha caratterizzato gli esseni finché sono esistiti. È stata poi ripresa da Giovanni Battista, da Gesù e dal cristianesimo primitivo, i quali hanno però considerato il loro proprio tempo come la fase della storia cui si riferivano le antiche profezie dei profeti biblici. Gli scritti del Nuovo Testa­ mento offrono al riguardo moltissimi esempi. Prima del maestro di giustizia nessuno aveva mai com­ preso i libri dei profeti biblici in questo senso attualizzante. Le loro affermazioni erano sempre state riferite a un lontano fu­ turo. Si attendevano condizioni espressamente annunciate dai profeti come condizioni che si sarebbero realizzate solo in fu­ turo. Ora la lettura, ricca di conseguenze, fatta dal maestro di giustizia era che si viveva in un tempo che era descritto dai profeti come riguardante il loro presente, ma che era rispetto ad esso futuro. Quando verso il llO a.C. il maestro di giustizia morì di una morte naturale dovuta all'età, non si era ancora realizzata la sua attesa prossima del giudizio finale e del tempo della sal­ vezza e della venuta del messia. I suoi discepoli iniziarono al­ lora un processo di riflessione che condusse a un nuovo orien­ tamento. Se i profeti biblici, prevedendo il futuro, avevano de­ scritto in dettaglio l'intera fase finale della storia del mondo, allora nei loro libri si dovevano trovare anche i riferimenti cro­ nologici da cui ricavare l'effettiva durata di quest'ultima fase e la data esatta del giudizio finale.

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La data del giudizio finale Il Documento di Damasco (CD 1,5-8), composto verso il 100 a.C., e altre opere essene contengono i risultati cui essi giunsero in quel tempo. Essi interpretarono i 390 anni di Ez 4,5, durante i quali la casa di Israele avrebbe dovuto portare un gravoso carico di iniquità, come il lasso di tempo fra gli inizi dell'esilio (587/6 a.C.) e l'uccisione del sommo sacerdote Onia III (170 a.C.). Il fatto che al riguardo gli esseni si siano sba­ gliati per difetto di circa 27 anni non è rilevante. Essi condivi­ devano questo errore con uno dei migliori scrittori ebrei di storia del tempo, Demetrio (fine del III sec. a.C.), che pure aveva calcolato più breve di 27, rispetto a ciò che oggi noi rite­ niamo corretto, il lasso di tempo fra l'inizio dell'esilio e il suo proprio tempo. Secondo le conoscenze scientifiche del tempo, la data dei 390 anni dava esattamente il 170 a.C. Solo la succes­ siva scienza storica l'ha corretta. Con il numero 390 di Ez 4,5 gli esseni combinarono poi le 70 settimane di anni, cioè 490 anni, di Dn 9, stabilendo la data ormai definitiva del futuro giudizio finale nell'anno 70 a.C. Grazie ai profeti, essi potevano essere finalmente certi del per­ ché Dio non avesse iniziato il giudizio finale già nel l70 a.C. e non avesse già da un pezzo estirpato tutto il male dal mondo. Un altro risultato di questi dotti calcoli fu che essi riferi­ rono i 38 anni di ulteriore peregrinazione nel deserto del po­ polo di Israele, dall'uscita dall'Egitto alla morte di tutti «gli uomini atti alla guerra» secondo Dt 2,14, ai «circa 40 anni» che dovevano passare dalla data della morte del maestro di giusti­ zia fino all'anno 70 a.C. (CD XX,13-17; cf. XIX,33-XX,l). In tal modo, l'intera ulteriore esistenza degli esseni fino al futuro giudizio finale e all'inizio della salvezza corrispondeva ai 40 anni della peregrinazione di Israele nel deserto, dall'uscita dal­ l'Egitto all'ingresso nella Terra promessa. Anche i precedenti destini della generazione del deserto dovevano ora riflettersi nei loro ulteriori destini fino al giudizio finale. Quando gli esseni calcolavano in questo modo la data del futuro giudizio finale, esso distava ancora più di 30 anni. Ma questa nuova conoscenza mise ben presto in moto iniziative cui fino ad allora nessuno aveva pensato.

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Da una parte, allora si progettò e realizzò l'insediamento di Qumran, per intensificare mediante la preparazione di ro­ toli - molto concretamente «nel deserto» - lo studio della Torah e dei profeti. Per quanto possibile ogni esseno - l'U­ nione contava allora molte migliaia di membri - doveva avere una sufficiente possibilità di conoscere esattamente la volontà di Dio rivelata nella Torah e nei profeti e di ordinare di conseguenza giorno dopo giorno la propria vita per non in­ ciampare nell'imminente giudizo finale. Tutto Israele doveva avere la possibilità di fare come gli esseni. Dall'altra, allora sorse un nuovo genere letterario che non era esistito prima e il cui concetto fondamentale era quello di applicare le affermazioni dei profeti biblici agli avvenimenti dell'ultima fase della storia del mondo e di leggere in questi sa­ cri scritti della tradizione gli esatti destini di tutti coloro che erano coinvolti in questa fase finale, nel giudizio finale e nel tempo della salvezza. Le opere composte in questo nuovo genere letterario ri­ producono alla lettera il testo di ogni libro profetico della Bib­ bia in singole sezioni o versetto per versetto e vi aggiungono delle interpretazioni. Queste opere vengono quindi chiamate «Commenti». I brani interpretativi cominciano per lo più con la parola ebraica pesher ( interpretazione, spiegazione ) . Queste opere sono perciò chiamate anche pesharim, libri di interpre­ tazione, e il loro modo di spiegazione della Scrittura è detto metodo pesher.

Gli esseni hanno composto otto commenti profetici di que­ sto tipo. A volte esistono due-tre manoscritti della stessa opera. Ma i rotoli sono talmente frammentari che in nessun caso si è conservato in doppia copia anche solo un piccolo brano di testo. Per lo più ciò dipende anche dal fatto che come nel caso del secondo commento di Isaia o del commento ai Salmi - di tre rotoli con lo stesso contenuto testuale si sono conservati a volte frammenti solo delle parti iniziali, a volte solo delle parti mediane e altre volte solo della parte finale di un rotolo. In ogni caso, fra gli studiosi di Qumran è ancor oggi diffusa l'idea che i 16 manoscritti recanti questi commenti ai profeti

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provengano da 16 opere diverse, che essi siano tutti autografi, cioè che le opere in essi contenute siano state composte da chi ha proceduto a scrivere il relativo manoscritto, e quindi che le loro date paleografiche siano anche le date di composizione delle relative opere. Non è però difficile dimostrare come quest'idea sia errata. Molti dei manoscritti dei commenti ai profeti contengono cor­ rezioni, intese a inserire ciò che il copista aveva inizialmente saltato, o omissioni di testo prodottesi quando il copista per svista è saltato da una parola del testo a una parola uguale ri­ corrente più avanti. Sono tipici errori di copisti commessi an­ cor oggi praticamente da tutti noi quando ricopiamo un testo. Inoltre, vi sono molteplici dati di natura formale, come ad esempio malintese annotazioni marginali del testo da cui si co­ pia, i quali mostrano inequivocabilmente che il manoscritto giunto fino a noi è una copia e non l'originale. Infine, anche le peculiarità contenutistiche mostrano che le diverse copie di­ sponibili di commenti a un determinato libro profetico pro­ vengono sempre dalla stessa opera. Esiste una sola eccezione, il libro di Isaia, per il quale sono stati effettivamente composti due diversi commenti. Uno dei due manoscritti del commento più antico a Isaia risale all'inizio del I sec. a.C. Tutti gli altri manoscritti con commenti ai profeti sono stati realizzati nel periodo fra 1'80 e il 30 a.C. Non è quindi serio il modo di procedere di autori, quali soprattutto Barbara Thiering o Robert Eisenman, i quali uti­ lizzano così malamente questi antichi commenti da ricavame avvenimenti relativi al tempo di Giovanni Battista, di Gesù o del cristianesimo primitivo. Tutto ciò che di contemporaneo questi commenti hanno da offrire si riferisce al secolo com­ preso fra il 170 e il 70 a.C. Solo i commenti ai libri profetici di Osea, Naum e Abacuc comprendono anche avvenimenti ulte­ riori fin verso il 50 a.C.

Il primo commento di Isaia Il commento profetico più antico degli esseni riguarda il li­ bro di Isaia. È stato composto verso il 100 a.C. Nelle sezioni

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del commento vengono spesso riprese anche citazioni dagli al­ tri scritti profetici biblici con l'indicazione del nome del rela­ tivo profeta. Ciò mostra che il metodo di spiegazione dei pe­ sharim si è sviluppato su quello dei midrashim, dove questo procedimento è abituale. In nessuno dei commenti successivi sono più riscontrabili questi rimandi trasversali all'interno della letteratura profetica. I due manoscritti nei quali ci sono giunti frammenti di quest'opera sono 4Q Pesher lsc e 4Q Pe­ sher Ise. Per quanto riguarda il contenuto questo commento a Isaia si occupa di un problema particolare. L'Unione degli esseni era stata fondata dal maestro di giustizia verso il 150 a.C. come unica rappresentanza legittima di tutto Israele ed essa non aveva mai rinunciato a questa pretesa di assolutezza. Dopo mezzo secolo di esistenza gli esseni dovettero costatare che sul piano organizzativo avevano potuto coinvolgere solo una pic­ cola parte del giudaismo del tempo e che anche nei 30 anni che mancavano al giudizio finale le cose non sarebbero cambiate di molto. L'85% degli ebrei viveva come prima in Mesopota­ mia, in Siria, in Egitto e in altre parti del mondo. Essi non mo­ stravano alcun interesse a ritornare in patria e ad associarsi agli esseni. Persino nella nevralgica Giudea i farisei, i sadducei, i detentori del potere politico e parti importanti della popola­ zione non sembravano disposti a diventare membri dell'U­ nione essena. Quindi, anche già semplicemente da un punto di vista me­ ramente quantitativo, veniva posta in discussione la pretesa degli esseni di rappresentare tutto Israele. E tuttavia il libro di Isaia affermava chiaramente che Dio non aveva previsto di cambiare una tale situazione per l'ultima fase della storia del mondo e che gli esseni continuavano a essere sulla strada giu­ sta. In questo commento vengono riprese, sezione dopo se­ zione, parti importanti del libro di Isaia. Il commento dimostra che tutte le parti del giudaismo presenti nel mondo verso il 100 a.C. vi sono ricordate, sia gli esseni quali unici veri rappresen­ tanti di Israele anche per il futuro, sia tutti coloro che si op­ pongono alla volontà di Dio: farisei, sadducei, detentori del

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potere e tutti i diversi gruppi degli ebrei residenti all'estero. Essi avevano adattato il loro stile di vita agli usi e costumi pa­ gani e nel giudizio finale dovevano perciò essere dannati come tutti gli altri incalliti peccatori della nevralgica Giudea. Questo commento a Isaia è essenzialmente un'opera apo­ logetica. Esso si serve di quello che era allora il più importante e il più esteso di tutti i libri profetici biblici per giustificare an­ che per l'avvenire, mediante il suo testo, la pretesa, da parte degli esseni, di essere gli unici legittimi rappresentanti dell'in­ tero Israele e per esorcizzare, di fronte a esso, i loro propri dubbi a causa dell'atteggiamento di rifiuto della maggior parte degli ebrei del loro tempo. Gli esseni non hanno mai fatto opera missionaria. Ma si erano aspettati che Dio avrebbe asso­ ciato a loro almeno la maggior parte di Israele prima dell'av­ vento del giudizio finale. Ora ciò che Dio aveva rivelato, attra­ verso il profeta Isaia, per la fase finale della storia mostrava chiaramente che i suoi piani erano stati diversi. Non solo i pa­ gani, ma anche la maggioranza di Israele era irrevocabilmente caduta sotto la collera punitrice di Dio, era cioè destinata al­ l'annientamento nel futuro giudizio finale.

Il secondo commento a Isaia Un altro commento a Isaia è stato composto poco prima del 70 d.C. Esso è contenuto in modo frammentario nei mano­ scritti 40 Pesher Isabd . Gli interessi che sottendono questo commento sono del tutto diversi rispetto a quelli del prece­ dente commento a Isaia. Ora la fine dell'ultima fase della sto­ ria del mondo era imminente. Seguendo lo svolgimento del te­ sto biblico, l'opera tratta di quelle sezioni del libro di Isaia che permettono di riconoscere soprattutto l'immediata situazione del presente e gli avvenimenti che stanno per compiersi. I frammenti conservati si riferiscono in particolare all'im­ minente battaglia finale con i nemici di Israele e al messia in­ fine vittorioso. La presentazione è strettamente imparentata con quella che si trova nella versione, rielaborata dal punto di vista esseno e influenzata dal punto di vista messianico, della Regola della guerra (cf. sopra, pp. 149-151). Altri passaggi si

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riferiscono al futuro giudizio finale e ai farisei. Questi ultimi vengono presentati per due volte come coloro che a Geru­ salmme fanno il bello e il brutto tempo. Ciò è avvenuto stori­ camente per la prima volta durante il regno della regina Ales­ sandra Salome (76-67 a.C. ) e precisamente fin dall'inizio del suo regno. L'opera è stata quindi certamente composta nel pe­ riodo fra il 76 e il 70 a.C. Alcune sue parti lodano infine gli es­ seni come l'unico vero centro cultuale ancora esistente del po­ polo delle dodici tribù di israele, il cui trionfale riconoscimento da parte del mondo intero è imminente.

I commenti a Michea e Sofonia Dei commenti ai libri profetici di Michea e Sofonia esi­ stono due rotoli ognuno, provenienti rispettivamente dalle grotte lQ e 4Q. Ma i frammenti dei quattro manoscritti sono piccolissimi. E tuttavia si può ancora rilevare che in questi due commenti profetici il testo biblico non è stato citato e com­ mentato versetto per versetto, ma in blocchi di testo più ampi, secondo una procedura che altrimenti si riscontra solo nei due commenti a Isaia realizzati prima del 70 a.C. Come là anche qui le sezioni del commento sono per lo più relativamente brevi. Dal punto di vista contenutistico gli scarsi frammenti per­ mettono ancora di rilevare che il commento a Michea ha rife­ rito le affermazioni del profeta in parte al maestro di giustizia e ai suoi nemici personali del passato e in parte agli esseni e al futuro giudizio finale. Il commento a Sofonia sembra essersi occupato soprattutto del giudizio punitivo di Dio nei confronti degli abitanti della Giudea che si sono tenuti a distanza dagli esseni.

Il commento ai Salmi I due commenti a Isaia non hanno citato e commentato l'intero testo di questo ampio libro biblico, ma hanno scelto ­ seguendo il testo canonico - i passi che corrispondevano ai loro particolari interessi. Il resto è stato omesso.

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Analogamente si è comportato l'autore del commento ai Salmi, della cui opera esistono ancora tre copie: 1 Q Pesher Salmi e 4Q Pesher Salmiab. I frammenti conservati mostrano che l'autore ha cominciato con il salmo 37 e ha trattato imme­ diatamente dopo il salmo 45. Seguivano i salmi 60, 68 e 129, in­ frammezzati e seguiti forse da altri. Anche quest'opera è stata certamente composta prima del 70 a.C., probabilmente ancora durante il regno del re Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), ne­ mico dei farisei. Dal punto di vista contenutistico le interpretazioni di que­ sto commento ai salmi si muovono su tre livelli cronologici. Si riferiscono al passato le descrizioni del maestro di giustizia e dei suoi due principali avversari: Gionata, il sacerdote empio, e l'«uomo mendace». Si riferiscono per lo più al presente le de­ scrizioni dei farisei, dei sadducei e dei detentori del potere po­ litico. Si riferisce al futuro il giudizio finale nel quale si trova la giusta punizione di tutti questi operatori di iniquità. Un altro interesse principale riguarda gli stessi esseni. Essi vengono de­ scritti nella loro attuale fedeltà a Dio e viene ampiamente de­ scritto, soprattutto nella spiegazione del salmo salvifico 37, il loro premio nel futuro tempo della salvezza. Quest'opera ci informa che i membri che costituirono l'U­ nione essena verso il 150 a.C. appartenevano a sette gruppi ri­ tornati in Terra Santa da vicini territori pagani (4Q pPsa 1-10, IV,23-24); essa ci dice anche che l'Istruzione un tempo com­ posta dal maestro di giustizia era effettivamente rivolta al sommo sacerdote Gionata, il quale, risentito, aveva attentato alla vita del suo mittente (4Q pPsa 1-10, IV,8-9). Di questo at­ tentato parla poi più dettagliatamente il commento ad Aba­ cuc (1Q pHab XI,4-8). La fine del periodo di 40 anni fra la morte del maestro di giustizia e il giudizio finale nel 70 a.C. si trova ancora a una certa distanza; infatti, prima deve essere completamente estirpata dalla Terra Santa «l'empietà», cioè tutto l'orrore dovuto agli influssi pagani (4Q pPsa 1-10, 11,6-8). Nel futuro giudizio finale gli esseni non sono più giu­ dicati, ma siederanno in giudizio, insieme a Dio, contro il re­ sto del mondo (4Q pPsa 1-10, IV,ll-12), analogamente a

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quanto si aspetterà in seguito l'apostolo Paolo per i cristiani (1Cor 6,1-3; cf. sotto, p. 299).

Il ritardo del giudizio finale Anche il 70 d.C. passò senza che fosse stato possibile rico­ noscere in alcun modo l'inizio dell'atteso giudizio finale. Ales­ sandra Salome continuava a regnare imperturbata e ai farisei tutto andava nel migliore dei modi. Gli esseni non sapevano che cosa pensare. La loro spiegazione dei libri profetici e la data che ne avevano calcolato per il giudizio finale dovevano essere esatte. O forse avevano commesso un qualche errore? Poteva essere che Dio avesse cambiato i suoi piani? Il commento ad Abacuc, composto verso il 50 a.C., tratta di questo palese e sommamente irritante dato di fatto, costa­ tando che «l'ultima fase del tempo va per le lunghe e precisa­ mente al di là di tutto ciò che i profeti hanno comunicato» (l Q pHab VII, 7-8). Al riguardo vengono addotte due ragioni che potrebbero essere la soluzione dell'enigma. Da una parte, «i misteri di Dio sono sempre portentosi» (VII,8); si doveva quindi tener conto dei modi di agire di Dio, che potevano non essere accessibili alle facoltà conoscitive dell'uomo. D'altra, da Ab 2,4a si poteva ricavare il fatto che Dio intendeva «raddop­ piare» il carico di iniquità dei malvagi per rendere incontesta­ bile il suo giudizio di condanna nell'imminente giudizio finale (VII,15-16); ciò richiedeva naturalmente un congruo tempo supplementare per consentire un sufficiente accumulo di pec­ cati (cf. Rm 6,1-2). Anche se «la durata dell'ultimo tempo si estende oltre il dovuto» (VII,7.12; cf. Mt 24,45-5 1; Le 12,42-46) è comunque necessario che «tutte le scadenze temporali fis­ sate un tempo da Dio si realizzino, secondo il suo piano, con quella esattezza con cui Dio, nella sua misteriosa sapienza, le ha immutabilmente fissate» (VII,12-14). Queste considerazioni hanno spinto gli esseni a intensifi­ care, dopo la cancellazione della data calcolata per il giudizio finale, la loro ricerca sui profeti, per scoprire i motivi del ri­ tardo e confermare la giustezza della loro interpretazione. Questi sforzi hanno prodotto, per quanto possiamo ancora sa-

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pere, altri tre commenti ai profeti. Rispetto alle opere analoghe composte fino ad allora essi si distinguono da un triplice punto di vista. Anzitutto, gli scritti profetici considerati vengono sempre citati d'ora in poi versetto per versetto e provvisti di spiegazioni a volte molto dettagliate, cosa che prima di allora era avvenuta solo nel caso del commento ai Salmi. In secondo luogo, ora gli scritti profetici vengono esposti integralmente e non più sotto forma di scelta di passi. L'esatta dimostrazione del fatto che le previsioni di un determinato li­ bro profetico per l'ultima fase della storia del mondo si erano effettivamente realizzate versetto per versetto valeva anche come indicazione del fatto che il giudizio finale e l'inizio del tempo della salvezza ormai non dovevano essere più lontani. In terzo luogo, questi scritti profetici vengono ora per la prima volta passati al setaccio per vedere se contengono allu­ sioni ad avvenimenti che sono effettivamente avvenuti dopo il 70 a.C. Questi avvenimenti sono commentati aggiungendo che essi sono avvenuti «nell'ultimissimo tempo», per cui ciò che è stato concretamente detto da un determinato profeta non aveva certamente potuto verificarsi in un momento prece­ dente.

Il commento a Osea I minuscoli frammenti di due manoscritti di un commento al libro di Osea, 4Q Pesher Hoseaab, ci consentono ancora di poter dire che i contenuti di questo scritto profetico sono stati applicati ai sadducei, all'errata prassi cultuale del tempio di Gerusalemme e ai governanti asmonei responsabili della cosa. Sullo sfondo vi sono anche i farisei, i quali si sono lasciati in­ durre ad appoggiare un tale errore. Ma l'influenza politica che erano riusciti a conquistare durante il regno della regina Ales­ sandra Salome (76-67 a.C.) è ormai un ricordo. In questo commento la parte di versetto di Os 5,14a - «lo sono infatti per Efraim come un possente leoncello>> - viene interpretata nel senso che il sommo sacerdote attualmente in carica «ha assestato un duro colpo>> (4Q pHosb 2,2-4) al malva-

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gio «Efraim>>, che nei testi di Qumran indica i farisei. Qui può trattarsi solo del sommo sacerdote Aristobulo II (67-63 a.C.), il quale aveva scacciato, e quindi privato della loro influenza politica, i farisei dal sinedrio, il collegio politico centrale della Giudea. Poiché Aristobulo II è stato deposto dai romani e condotto prigioniero a Roma nel 63 a.C., mentre il commento a Osea lo pressuppone in carica e l'estromissione politica dei farisei vi è descritta come avvenuta «nell'ultimissimo tempo», quest'opera è stata certamente composta quando il sommo sa­ cerdote Aristobulo II era ancora in carica.

Il commento a Naum Dalla grotta 40 proviene un rotolo conservato quasi per metà con un commento al libro del profeta N aum. È l'unico commento nelle cui parti conservate si trovano nomi di per­ sone. Così apprendiamo che la Giudea è stata risparmiata dal­ l'occupazione da parte delle forze nemiche nel periodo inter­ corso fra il re seleucida Antioco IV Epifane (175-164 a.C.) e la prima conquista di Gerusalemme da parte dei romani (63 a.C.). L'unico rischio venne corso in quel lasso di tempo quando, verso il 90 a.C., gli avversari politici interni del re asmoneo Alessandro Ianneo (103-76 a.C.) invitarono nel paese il re se­ leucida Demetrio III Eucario (95 ca.-87 a.C.) per scacciare con il suo esercito l'odiato re. Alessandro Ianneo venne pesante­ mente sconfitto. Ma quando poi Demetrio III volle approfit­ tare dell'occasione favorevole per impadronirsi anche della città di Gerusalemme gli avversari politici interni di Alessan­ dro Ianneo cambiarono bandiera e le forze unite degli ebrei della Palestina riuscirono a scacciare dal paese il re seleucida. La vendetta contro coloro che avevano inizialmente proget­ tato di rovesciare il loro sovrano non si fece comunque atten­ dere. In occasione delle celebrazioni della vittoria in una Ge­ rusalemme scampata al pericolo Alessandro lanneo fece arre­ stare e crocifiggere vivi ben 800 suoi avversari politici. Tutto questo viene raccontato dettagliatamente da Giu­ seppe Flavio (BJ 1 ,88-98 e AJ 13,372-383). Grazie al com-

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mento a Naum veniamo a sapere per la prima volta che gli av­ versari politici interni di Alessandro Ianneo - e anche coloro che erano stati crocifissi - erano soprattutto dei farisei (40 pNah 3-4, 1,2-8), cosa che il fariseo Giuseppe aveva pudica­ mente taciuto ai suoi lettori. A parte questo, il commento a Naum contiene soprattutto critiche ai detentori del potere politico del giudaismo del tempo, nonché ai sadducei e ai farisei. Si parla anche della loro estromissione da parte di Aristobulo II (4Q pNah 3-4, 111,6-8). Nuovo è il fatto che i nemici di Israele indicati come «chittei» non sono più, come nella Regola della guerra e in tutte le opere precedentemente composte dagli esseni fino al secondo commento a Isaia, i seleucidi e i tolomei, ma per la prima volta i romani. Nel commento a Naum viene presentato come un av­ venimento dell'«ultimissimo tempo» il fatto che ormai l'at­ tuale monarchia in Israele è finita (40 pNah 3-4, IV,3). Questo si riferisce inequivocabilmente all'arresto e alla deportazione, nel 63 a.C., di Aristobulo Il, il quale era re e sommo sacerdote al tempo stesso. Il suo successore nella carica di sommo sacer­ dote fu Ircano II (63-30 a.C.). Ma ormai non esisteva più un re dei giudei. Il commento a Naum è stato quindi composto su­ bito dopo l'anno 63 a.C.

Il commento ad Abacuc L'ultimo di tutti i commenti profetici composti dagli esseni è stato quello al libro di Abacuc. In esso, l'autore costata espressamente l'inatteso lungo lasso di tempo intercorso fra la data calcolata per il giudizio finale (70 d.C.) e il suo tempo pre­ sente (10 pHab VI,12-VII,17). Ma mostra anche come l'inte­ grale compimento di tutte le previsioni di Dio fatte attraverso il profeta Abacuc avesse richiesto quell'attesa. La parte di ver­ setto Ab 2,8a - «Tu hai spogliato molte genti, per cui ora gli altri popoli spoglieranno te» - viene interpretata come rife­ rita alla spoliazione del tempio di Gerusalemme da parte dei romani avvenuta nel 54 a.C., quindi «nell'ultimissimo tempo» (10 pHab IX,2-7; cf. BJ 1,179; AJ 14,105-109). Il rotolo di

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rame ritrovato a Oumran permette di valutare, 124 anni dopo, quali ricchezze nascondesse normalmente il tempio di Gerusa­ lemme (cf. sopra, pp. 106-110) . Il commento ad Abacuc è stato composto poco dopo que­ sto avvenimento del 54 a.C. L'unico rotolo ancora esistente ­ ma conservato quasi per intero - con il testo di quest'opera, 10 pHab - una copia perlomeno di terzo grado - risale già al periodo attorno al 50 a.C. Al tempo della composizione di quest'opera i romani erano nel paese già da quasi un decennio. Il commento contiene molte informazioni su di loro e li pre­ senta in modo molto dettagliato, molto più esattamente di quanto fosse avvenuto prima nel commento a Naum. Essi ven­ gono considerati lo strumento di cui Dio si serve per punire i malvagi in Israele. Il commento di Abacuc non li considera in modo ostile, ma esprime una grande ammirazione nei riguardi della loro potenza. Gli esseni allora non consideravano in al­ cun modo i romani come dei nemici da combattere. Il commento ad Abacuc, integralmente pubblicato già nel 1950, resta tuttora una delle nostre fonti principali circa il mae­ stro di giustizia e le circostanze più immediate che lo hanno spinto a fondare l'Unione essena verso il 150 a.C. Ma nel com­ mento, oltre alla presentazione dei romani, si trovano anche riferimenti al tempo dell'autore. A questo riguardo il dato più interessante è certamente il fatto che qui vengono citati come principali gruppi del giudai­ smo palestinese, accanto agli esseni - e da essi «rinnegath> - i farisei, la Nuova alleanza e i sadducei ( 10 pHab I,16-II,10) . L'ordine in cui vengono el-encati corrisponde probabilmente alla consistenza numerica dei membri di questi gruppi in lotta fra di loro al tempo della composizione del commento ad Aba­ cuc. In ogni caso, da ultimi vengono ricordati i sadducei, certa­ mente influenti dal punto di vista politico, ma notoriamente non numerosi. Uno dei principali rimproveri che il commento ad Abacuc rivolge loro è il fatto che essi riconoscono come au­ torità della rivelazione divina la sola Torah (cf. AJ 18,16 ) , ma non gli scritti dei profeti, sebbene «Dio abbia espresso in essi ( anticipatamente ) tutto ciò che (nell'ultima fase della storia ) avviene sul suo popolo Is [raele ] » ( 10 pHab Il,9-10) . Così

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aveva un tempo stabilito, grazie all'ispirazione divina, il mae­ stro di giustizia (11,6-9) e questa particolare autorità dei libri biblici dei profeti era stata poi anche il fondamento di tutti i commenti esseni ai profeti fino al Pesher Abacuc.

I romani I commenti ai profeti composti dopo il 70 a.C. permet­ tono di rendersi chiaramente conto del perché gli esseni, dopo il commento ad Abacuc, non abbiano composto più al­ cun'altra opera del genere. Il motivo sta in un secondo cam­ biamento di idea riguardo alla data del giudizio finale; il primo era avvenuto già dopo la morte del maestro di giustizia verso il 110 a.C. e aveva modificato i termini, fino ad allora considerati validi, dell'attesa prossima del giudizio finale (cf. sopra, pp. 178-181 ) . Il commento a Osea composto fra i1 67 e il 63 a.C. si era an­ cora accontentato di presentare gli avvenimenti accaduti dopo il 70 a.C. come assolutamente indispensabili per il pieno com­ pimento delle previsioni di un determinato profeta. Lo stesso avevano fatto anche gli autori del commento a Naum e di quello ad Abacuc. Come dato fondamentale valeva per loro il fatto che i romani, giunti nel paese nel 63 a.C., erano stati ne­ cessari, attraverso alcune delle loro azioni, quali la deposi­ zione del re Aristobulo II o la spoliazione del tempio di Geru­ salemme, al pieno compimento delle affermazioni di quei pro­ feti. Ma, a prescindere da questo, era chiaro che i profeti Osea, Naum e Abacuc avevano preannunciato in modo più generale i romani come l'ultimo strumento di cui Dio si serviva per pu­ nire Israele prima del giudizio finale. Fino a quel momento gli esseni erano sempre partiti dal­ l'antica visione del libro biblico del profeta Daniele, compo­ sto nel 164 a.C., secondo cui il quarto e ultimo regno stra­ niero prima del giudizio finale e l'inizio del tempo della sal­ vezza sarebbe stato il regno dei seleucidi in Mesopotamia e in Siria e quello dei tolomei in Egitto. Ora appariva chiara­ mente che l'interpretazione fino ad allora corrente del libro

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di Daniele doveva essere stata errata. Gli autori del com­ mento a N aum e ad Abacuc non avevano ancora percepito come un problema fondamentale un'altra dominazione stra­ niera sopra Israele, dopo il regno dei seleucidi e dei tolomei, ma avevano considerato piuttosto pragmaticamente l'avvento dei romani come necessario per il pieno compimento delle af­ fermazioni di questi due profeti. Ora invece appariva chiara­ mente che la dominazione dei romani sulla Palestina non era un episodio di breve durata ma qualcosa che sarebbe certa­ mente durato a lungo. Così gli esseni pervennero a una nuova comprensione del libro di Daniele. Ora essi intepretarono il quarto e ultimo re­ gno come riferito all'lmperium Romanzim, di cui forse non era ancora possibile fissare la durata. La preparazione a Qumran di nuovi manoscritti di Daniele verso la metà del I sec. a.C. è una chiara indicazione che gli esseni, al più tardi in quel tempo, condividevano un'esegesi di Daniele ampia­ mente diffusa che datava la fine dell'Imperium Romanum ­ e ·quindi anche la data del giudizio finale e dell'inizio del tempo della salvezza di Israele - al 70 d.C. 5 Ma non ci è per­ venuto alcun altro testo di Qumran in grado di mostrare come si è concretamente prodotto il nuovo orientamento de­ gli esseni dopo la composizione del commento ad Abacuc. Solo negativamente è possibile rilevare che non ci sono per­ venuti altri commenti ai profeti composti dagli esseni d'allora in poi. Sorprendente è anche il fatto che tutti i manoscritti con commenti ai profeti ritrovati a Qumran risalgono a un periodo che giunge al più tardi fino al 50 a.C., per cui sembra che in seguito l'interesse per queste opere sia stato relativa­ mente modesto.

5 Cf. R. MEYER, 1970, 52-55.

Der Prophet aus Galiliia , Leipzig 1940, rist. Darmstadt

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Una congratulazione per il re Alessandro Ianneo Un autentico autografo proveniente dal materiale ritro­ vato a Qumran è un piccolo foglio di cuoio quadrato di circa 18 cm di lato. Solo la metà iniziale destra si è conservata. Que­ sto manoscritto, 4Q 448, è stato pubblicato nella primavera del 1992.6 Sulla parte superiore di questo foglio di cuoio qualcuno ha scritto, verso il 90 a.C., un breve salmo di lode risalente a epoca pre-essena. Un'altra mano dello stesso periodo ha ag­ giunto sulla parte inferiore un testo che, nello stile dei com­ menti ai profeti, applica le affermazioni del salmo di lode scritto nella parte superiore al re Alessandro Ianneo e si con­ gratula enfaticamente con lui per la sua vittoria sul re seleu­ cida Demetrio III Eucario. Si tratta dello stesso evento storico ricordato in seguito an­ che nel commento a Naum (cf. sopra, pp. 187-188). Un esseno che viveva a Qumran voleva evidentemente esprimere me­ diante questa dedica del salmo la sua gioia per il fatto che il re Alessandro Ianneo aveva preservato la città di Gerusalemme e il suo tempio dalle mani dei pagani. Anche la sconfitta poli­ tica degli odiati farisei può essere stata per l'autore di questo scritto di felicitazione un felice evento. La critica essena ai sovrani asmonei si era sempre limitata, come dimostra già l'Istruzione del maestro di giustizia a Gio­ nata, al loro esercizio dell'ufficio di sommi sacerdoti. Come so­ vrani politici li si criticava unicamente nel caso in cui avessero agito, nell'esercizio di queste loro funzioni regali, contro la To­ rah. Ma un glorioso trionfo sui nemici di Israele rallegrava in­ condizionatamente anche gli esseni. Persino le illustrazioni di questo scritto di congratulazione permettono ancora di riconoscere che esso ero stato preparato per essere spedito con un fermaglio per il cordoncino di chiu-

6 Pubblicato da Esther e Hanan Eshel, insieme con Ada Yardani. Il testo è riportato parzialmente anche in EISENMAN-WISE, I manoscritti segreti di Qumran, 273-28 1 , testo 50, con foto.

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sura del piccolo rotolo di cuoio. Ma naturalmente un singolo esseno non poteva rivolgersi direttamente al re in questo modo. Aveva bisogno del consenso del locale consiglio e delle istanze superiori. Ma. nel consiglio di Qumran prevalsero evidentemente co­ loro che avanzavano dubbi e riserve. Probabilmente le riserve riguardavano soprattutto il fatto che Alessandro Ianneo, in oc­ casione della celebrazione della sua vittoria, aveva fatto croci­ figgere vivi degli uomini. La Torah ammette la crocifissione ma solo come ignominiosa punizione accessoria per malfattori che sono già stati giustiziati (Dt 21,22-23). Senza dubbio, in caso di tradimento della patria, come era qui avvenuto, si po­ teva ammettere eccezionalmente anche un'uccisione mediante crocifissione (1 10, Rotolo del tempio LXIV, 6-9), ma è possi­ bile che le opinioni degli esseni che allora vivevano a Qumran fossero divise sull'accettabilità o meno dell'opinione sostenuta dal Rotolo del tempio o sul fatto di poter considerare o meno come traditori della patria in senso stretto tutti gli 800 croci­ fissi vivi. In ogni caso, lo scritto di congratulazione non venne inoltrato neppure al consiglio direttivo pan-esseno, ma finì, come documento originale, negli atti conservati nell'archivio di Qumran e trasferiti poi, nel 68 d.C., nella grotta 4Q.

Un calendario con i giorni commemorativi La maggior parte delle opere relative al calendario prove­ nienti da Qumran risalgono a epoca pre-essena e sono state solo tramandate dagli esseni. In questo patrimonio comune è stato possibile notare finora una sola inequivocabile eccezione. Si tratta di un testo di cui esistono frammenti provenienti da due manoscritti, 40 323 e 40 324.7 Questo testo registra nel modo abituale le date settimanali dell'entrata in servizio delle 24 famiglie sacerdotali autorizzate 7 I due frammenti sono stati parzialmente riprodotti in EISENMAN-WisE, I manoscritti segreti di Qumran, 125-133, testo 24, con fotografie di alcuni fram­ menti.

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a presiedere il culto. Al riguardo, vengono citate, come si fa abitualmente, anche le feste tradizionali che hanno luogo du­ rante le singole settimane di servizio. Ma la novità è rappre­ sentata qui da una serie di giorni commemorativi supplemen­ tari; l'evento commemorato è ricostruibile solo sporadica­ mente, a causa del contesto estremamente frammentario di tutti i passi in cui ricorrono. Anche l'attuale calendario ebraico conosce questi giorni commemorativi supplementari, celebrati a partire dal II sec. a.C., per esempio le feste di Purim o di Channukah. Ma gli es­ seni hanno rigettato queste feste introdotte dagli asmonei, come dimostra la loro assenza nei calendari esseni e l'assenza nella biblioteca di Qumran del libro di Ester, che costituisce il fondamento della festa di Purim. I nuovi giorni commemorativi esseni si riferiscono - per quanto è ancora possibile trovare punti di appoggio nei fram­ menti conservati - ad avvenimenti che sono in relazione con il regno della regina Alessandra Salome (76-67 a.C. ) , il sommo sacerdote !reano II (76-67 e 63-30 a.C. ) e il primo legato ro­ mano di Siria e Palestina, Emilio Scauro (63-62 a.C. ) . I loro nomi sono citati senza ombra di dubbio nel testo che si è con­ servato. Ma non è più possibile dire se i due massacri avvenuti durante la permanenza in carica di Emilio Scauro ( cf. AJ 14,54-79) o la «visita» della regina Alessandra a una località essena che non è più possibile identificare siano stati motivo di perenne gioia o di permanente lutto. Entrambe le cose sono possibili. Certo è solo il fatto che questo calendario presuppone per­ lomeno il tempo in cui il legato Emilio Scauro è stato in carica, per cui è stato fissato per iscritto solo dopo il 62 a.C. D'altra parte, la più antica delle due copie giunte fino a noi risale già al tempo fra il 50 e il 30 a.C., quando era ancora in carica !reano Il. Questo calendario non ha quindi certamente nulla a che ve­ dere con il tempo di Gesù.

Il

contenuto della biblioteca di Qumran

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Una lista di ammonizioni ufficiali In I manoscritti segreti di Qumran, 8 Eisenman e Wise hanno pubblicato per la prima volta i frammenti - purtroppo molto poveri - del manoscritto 4Q 477. Questo manoscritto risale all'ultimo terzo del I sec. a.C. Si tratta di una lista di es­ seni citati per nome che sono stati ammoniti a causa di diverse specie di comportamenti riprovevoli (cf. sopra, pp. 50-51). Caso per caso viene fissato il tipo di mancanza. Ma man­ cano i dati su una qualsiasi forma di punizione, come ad esem­ pio un'esclusione temporanea o permanente. Non si tratta quindi certamente di un protocollo di sentenze giudiziarie. Anche dal punto di vista terminologico non si parla mai di «punizione», ma sempre di avvenuta «ammonizione» da parte delle istanze essene a ciò deputate. Si tratta certamente di quel genere di correzione fraterna che troviamo in seguito anche nelle comunità cristiane (Mt 18,15-18). Le mancanze, inizial­ mente ancora prive di sanzione, venivano fatte in modo uffi­ ciale e registrate in modo da poter punire, in caso di recidiva, chi era stato nominativamente registrato. Forse in questa lista sono stati inclusi in modo particolare gli esseni di Qumran.

CONCLUSIONI Il viaggio nei materiali giunti fino a noi e ancora contenuti­ sticamente decifrabili dell'antica biblioteca di Qumran ci offre un chiaro quadro d'insieme. La maggior parte dei manoscritti contiene il testo di scritti biblici o di altre opere della tradi­ zione pre-essena. Solo un numero comparativamente ristretto di scritti è senza dubbio di origine essena. Questo quadro somiglia a quello offerto dal cristianesimo primitivo. Contenutisticamente la Bibbia cristiana consiste in massima parte di scritti dell'Antico Testamento, già copiati

8

Cf.

EISENMAN-WisE,

con fotografia.

I manoscritti segreti di Qumran, 269-273, testo 49,

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con solerzia e resi un continuo punto di riferimento dai primi cristiani. Anche includendo negli scritti del Nuovo Testa­ mento tutto il materiale extra-canonico, prodotto durante i primi cent'anni del cristianesimo - quindi fin verso il 130 d.C. - i nuovi scritti cristiani restano, per numero e ampiezza, ben al di sotto di ciò che i primi cristiani hanno ripreso e onorato come il loro Antico Testamento, con l'aggiunta di alcuni altri scritti della tradizione ebraica, come ad esempio i libri di Enoch. Il dato è tanto più degno di nota se si pensa che i cristiani si sono diffusi abbastanza rapidamente in tutto il mondo antico e hanno sviluppato perciò interessi molto diversificati, come do­ cumenta, ad esempio, la quadruplice forma del Vangelo nel Nuovo Testamento. Nonostante i comuni interessi di fondo, esistevano differenziazioni regionali in grado di dar luogo a di­ verse opere dello stesso genere e quindi a un accresciuto nu­ mero totale di nuovi scritti. Gli esseni, al contrario, rimasero confinati alla Giudea, furono molto più omogenei dei cristiani e non ebbero neppure quello slancio missionario che ha con­ tribuito a produrre le lettere di Paolo. Gli esseni si interessa­ rono soprattutto alla Torah e agli scritti biblici dei profeti. Guardando le cose da questo punto di vista è piuttosto sor­ prendente costatare quante opere diverse essi abbiano compo­ sto nel primo secolo della loro esistenza in aggiunta a quelle ri­ cevute dalla tradizione. Nell'insieme dei manoscritti scoperti a Qumran la parte degli scritti specificamente esseni sembrerà senza dubbio mo­ desta solo a coloro che si sono abituati a ritenere che tutto quanto di nuovo ci è pervenuto da Qumran sia stato composto dagli esseni e forse addirittura unicamente da quei pochi che vi risiedevano. È questa un'idea molto diffusa fra gli studiosi di Qumran fin dagli inizi e addirittura quella ancora dominante fino ai nostri giorni. I sostenitori di questa visione delle cose ritengono pre­ esseni solo gli scritti della Bibbia, nonché quei testi apocrifi e pseudo-epigrafi [con terminologia cattolica «deuterocanonici» e «apocrifi», NdR] veterotestamentari già noti prima delle sco­ perte di Qumran. A loro avviso, tutte le altre opere ritrovate a

Il

contenuto della biblioteca di Qumran

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Qmnran sono state composte unicamente a partire dalla metà del II sec. a.C. Solo nei pochi casi in cui l'antichità di un mano­ scritto che ci è pervenuto o - come nel caso di alcune opere­ proto-Daniele - la critica letteraria li costringe a risalire a epoca pre-essena, si rassegnano con riluttanza all'inevitabile. Se ci si chiede, al contrario, a proposito di quali scritti, oggi per noi nuovi, provenienti da Qumran si possa effettivamente dimostrare che sono stati composti solo dagli esseni, il quadro si presenta in modo del tutto diverso. In questo caso, come inequivocabilmente composte dagli esseni restano solo le opere relativamente ridotte di numero di cui abbiamo in gran parte parlato finora in questo libro. Qualunque concezione di fondo si sostenga, resta comun­ que sorprendente il fatto che, nel quadro di tutti i copiosi ritro­ vamenti di Qumran, non sembra esistere alcuna opera essena a proposito della quale si possa dimostrare che è stata composta solo dopo la metà del I sec. a. C. Naturalmente, per i due documenti che abbiamo citato per ultimi, il calendario con i giorni commemorativi supplementari e la lista delle ammonizioni ufficiali di singole persone, non è possibile escludere che siano sorti solo dopo questa data, an­ che se certamente non molto dopo. Il materiale di archivio an­ cora inedito proveniente dalla biblioteca di Qurnran, i con­ tratti, la contabilità relativa a transazioni commerciali e le liste di persone, risalgono certamente al più presto al I sec. d. C. Né è possibile escludere che alcuni frammenti non ancora analiz­ zati provengano da opere che sono state composte dopo la metà del I sec. a.C. Ma in ogni caso non si tratta certamente di molto materiale. Per quanto è possibile stabilire finora, il commento ad Abacuc, composto poco dopo la spoliazione del tempio nel 54 a.C., è stata l'ultima opera letteraria composta dagli esseni. Da quel momento in poi essi si sono concentrati essenzialmente, forse addirittura interamente, sugli scritti biblici, su altre opere della tradizione pre-essena e sui loro scritti composti fino ad allora. È questo il materiale che hanno continuato a studiare e a copiare, senza tuttavia rielaborarlo nei contenuti, ampliarlo o accorciarlo.

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Il n umero delle copie di queste opere della biblioteca di Qumran realizzate in epoca erodiana e anche in seguito offre certamente un'indicazione sulle opere che gli esseni hanno in­ tensamente usato e studiato in seguito. Ma anche questo dato permette di trarre delle conclusioni solo sugli interessi partico­ lari dei pochi esseni residenti a Qumran. Infatti, allo stato delle cose non conosciamo di quali scritti e in che numero siano state realizzate anche copie per la grande massa degli es­ seni dispersa in tutto il paese. Ora questi ultimi possono aver avuto_ alnieno in parte anche interessi notevolmente diversi ri­ spetto a quelli dei residenti a Qumran. Infine, per una valutazione globale del materiale mano­ scritto proveniente da Qumran è particolarmente importante ancora un aspetto. Esso scaturisce dalla concezione secondo cui Qumran non è stato affatto il «quartier generale» degli es­ seni, ma soltanto il luogo principale della loro produzione di manoscritti a partire dal 100 a.C. circa. A prescindere da manoscritti per particolari interessi di studio di singoli residenti a Qumran, in quella biblioteca sono finite naturalmente solo quelle opere letterarie e quei testi che dovevano essere moltiplicati per l'uso comunitario degli esseni residenti nelle città e nei villaggi della Giudea. Qui mancano quindi necessariamente tutti gli scritti che gli esseni possono aver prodotto in altro modo e altrove. Al riguardo, si può pensare ad esempio ai ricorsi delle co­ munità locali essene a quella centrale, che si trovava probabil­ mente a Gerusalemme, alle relative risposte da parte di que­ st'ultima, agli atti dei tribunali locali come pure a quelli del tri­ bunale supremo dell'Unione, ai documenti dei membri che do­ vevano essere rifatti ogni anno in base al rango che ogni sin­ gola persona occupava in quell'anno, ai registri patrimoniali dell'ufficio catastale esseno, alla tenuta dei libri contabili su entrate e uscite delle numerose comunità, in breve a tutto ciò che una burocrazia amministrativa ben organizzata è solita produrre. Tutte le informazioni del genere non sono certa­ mente mai state spedite a Qumran in vista di una loro moltipli­ cazione per cui mancano nel contesto dei ritrovamenti di

Il

contenuto della biblioteca di Qumran

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Qumran, così come mancano le opere letterarie di singoli es­ seni di cui non si ritenne necessaria una più ampia diffusione. Nonostante l'abbondanza del materiale ritrovato a Qum­ ran, la parte della produzione scritta - o anche letteraria degli esseni che ci può essere resa accessibile in questo conte­ sto resta limitata. D'altro canto, anche l'assenza di tutto il ma­ teriale scritto di questo tipo è naturalmente un potente, in de­ finitiva non scalzabile, indizio del fatto che Qumran non è mai stato il «quartier generale» degli esseni.

Capitolo 7

Gli esseni

ANTICHE RELAZIONI SUGLI ESSENI Secondo la descrizione fatta dallo storico ebreo Giuseppe Flavio verso la metà del I sec. d.C. vi erano nel giudaismo della Palestina quattro raggruppamenti significativi. Gli esseni ave­ vano più di 4000 membri, i farisei più di 6000. I sadducei e gli zeloti - sorti all'inizio del I sec. d.C per distacco dai farisei ­ riunivano rispettivamente solo poche centinaia di membri. Gli esseni e i sadducei vivevano per lo più a Gerusalemme e in Giudea, mentre i farisei per metà e gli zeloti in misura prepon­ derante in Galilea. Questi gruppi del giudaismo palestinese non erano, come spesso si legge, semplici «movimenti» o «correnti», ma orga­ nizzazioni ben strutturate, con precise procedure di ammis­ sione per i nuovi membri. Oggi li designeremmo come dei par­ titi religiosi. A quel tempo non esistevano i nostri attuali par­ titi politici. Secondo i calcoli dell'israeliano Arye Ben-David,' esperto di economia politica, vi erano allora nel mondo circa 6,5-7 mi­ lioni di ebrei. Di questi circa 1-1,25 milioni vivevano in Pale­ stina. Globalmente i membri dei quattro partiti religiosi più si­ gnificativi - al massimo 12.000 membri - costituivano quindi soltanto circa 1% dell'intera popolazione della Palestina. D'al­ tronde, si trattava esclusivamente di uomini adulti, ai quali bi­ sogna aggiungere statisticamente una moglie e tre-cinque figli.

1

4148.

A. BEN-DAVID, Talmudische Oekonomie, Hildesheim-New Jork 1974,

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Ma anche una percentuale di adesione a questi gruppi del 6% sembra a prima vista relativamente insignificante. Noi im­ maginiamo infatti la situazione del giudaismo del tempo ana­ loga alla situazione dell'odierna Germania nella quale la mag­ gior parte dei cittadini appartiene all'una o all'altra chiesa cri­ stiana. Ma ebrei si è già per nascita da una madre ebrea e non in forza dell'ingresso in una particolare organizzazione reli­ giosa. Le organizzazioni religiose del giudaismo palestinese del tempo erano - diversamente dalle odierne chiese cristiane gruppi elitari. Da noi è organizzata in modo analogo in seno ai partiti la élite politica. Tutti i partiti della Repubblica federale tedesca hanno globalmente circa 2,4 milioni di membri. Te­ nuto conto che ai nostri partiti partecipano anche le donne, si tratta del 3% di una popolazione di 80 milioni. Un numero di membri dell'l% della popolazione ebraica della Palestina nei quattro principali partiti religiosi, costituiti per giunta di soli uomini, non è dunque comparativamente poca cosa. Le diverse simpatie della popolazione per i diversi partiti appaiono da noi soprattutto in occasione delle elezioni. Nel giudaismo antico non esisteva un analogo termometro in grado di misurare la simpatia. Il diverso aspetto dei quattro gruppi religiosi veniva colto dalla popolazione in generale chiamata in seguito 'am ha-are� (popolo della terra) Ò popola­ zione semplice - soprattutto nelle procedure di ammissione dei nuovi membri e, inoltre, nel modo in cui si parlava di que­ sti gruppi elitari. Del massimo interesse è al riguardo il modo in cui Giu­ seppe Flavio presenta i tre raggruppamenti principali nel se­ condo libro del suo Bellum iudaicum. Anzitutto, egli descrive negli ampi paragrafi 119-161 unicamente gli esseni e li loda come i più esemplari di tutti gli ebrei. Solo i brevi paragrafi 162-166 sono poi consacrati ai farisei e ai sadducei; questi ul­ timi sono trattati in un modo abbastanza sprezzante e critico. Tenuto conto del fatto che lo stesso Giuseppe Flavio era fari­ seo, il suo modo di presentare i sadducei è comprensibile, ma la sua preferenza per gli esseni è doppiamente sorprendente. Comunque anche il filosofo della religione Filone di Alessan..:

Gli

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dria, contemporaneo di Gesù, ha ripetutamente presentato nelle sue opere gli «ltre 4000» esseni come i migliori di tutti gli ebrei e li ha additati ai suoi lettori come modelli di vera pietà. Infine, anche il fatto che la popolazione ebraica della Palestina abbia designato questo gruppo come «esseni», nel senso di «i veri devoti», mostra di quale grande stima essi ab­ biano allora goduto.

LE ODIERNE VALUTAZIONI SUGLI ESSENI L'immagine che oggi i cristiani hanno degli esseni contra­ sta radicalmente con la particolare stima che ne avevano i loro contemporanei ebrei, i quali li consideravano i rappresentanti più encomiabili della pietà ebraica. La poca considerazione da parte dei cristiani si spiega soprattutto con il fatto che i farisei e i sadducei vengono ripetutamente menzionati nel Nuovo Te­ stamento e si parla anche di un discepolo di Gesù che era stato fino ad allora zelota (Le 6,15; At 1,13), mentre non si parla mai degli «esseni». Per i cristiani gli esseni sono quindi una realtà molto nebulosa; la loro importanza al tempo di Gesù doveva essere piuttosto insignificante ed essi dovevano certamente condurre un'esistenza ai margini della società. Finora le scoperte di Qumr3;ri , lungi dal mutare questo quadro, l'hanno piuttosto rafforzato. Se è vero che vi sono stati fin dall'inizio degli studiosi che hanno attribuito agli es­ seni i rotoli ritrovati nelle grotte di Qumran, è anche vero che essi hanno considerato Qumran come il luogo di origine degli esseni e il loro centro. In particolare, il racconto di Plinio, se­ condo il quale «gli esseni» vivevano a ridosso del Mar Morto (cf. sopra, p: 87) ha continuato a esercitare la propria influenza e a far p�rdurare l'idea che Qumran fosse il centro degli es­ seni. Ora, anche a voler essere generosi nell'interpretazione dei dati archeologici, a Qumran e nelle immediate vicinanze potevano essere vissuti al massimo 150-200 uomini. Si credeva quindi che questo fosse il nucleo primitivo degli esseni. Solo in seguito si sarebbero trovati alcuni pochi esseni anche nelle città e nei villaggi della Giudea. Il numero di più di 4000 esseni

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di cui parlano Filone e Giuseppe Flavio veniva ritenuto enor­ memente esagerato. Fino a oggi per molti studiosi i dati ar­ cheologici di Qumran sono l'unico realistico criterio per deter­ minare la reale consistenza degli esseni al tempo di Gesù. Cosi i ritrovamenti di Qumran hanno avuto - sia in campo scientifico che nella più vasta opinione pubblica - lo strano effetto di ridurre il grande partito religioso degli esseni a un minuscolo gruppetto di persone originali in campo reli­ gioso e di confinarlo per giunta nello sperduto deserto del Mar Morto. Un simile modo di vedere renderebbe certamente plausibile il silenzio del Nuovo Testamento nei riguardi di un così striminzito gruppo marginale del giudaismo del tempo. Ma non spiega assolutamente ciò che Filone e Giuseppe hanno riferito sugli esseni. Entrambi questi autori hanno rite­ nuto che lo sperduto insediamento esseno di Qumran non fosse in alcun modo degno di una particolare menzione. Di consequenza, alcuni studiosi fanno coerentemente un passo avanti e negano che esista una qualsiasi relazione fra le scoperte di Qumran e gli esseni. A Qumran sarebbe esistita una piccola sètta ebraica, del resto del tutto sconosciuta, dalla quale dovrebbero provenire i rotoli che vi sono stati scoperti. Sugli esseni non esisterebbero se non i racconti molto esage­ rati di autori antichi quali Filone e Giuseppe Flavio. Del resto essi non avrebbero lasciato alcuna traccia della loro passata esistenza. I modi di vedere qui descritti sono purtroppo ancor oggi quelli dominanti. Anche il riconoscimento che l'insediamento di Qumran è stato fondato solo verso il 100 a.C. e non mezzo secolo prima, e che non può quindi avere nulla a che vedere con la fondazione degli esseni, riesce a farsi strada solo molto lentamente. Al tempo stesso torna a farsi strada l'idea secondo cui il maestro di giustizia avrebbe fondato gli esseni a Qumran verso il 100 a.C. Il fatto che i manoscritti di opere specifica­ mente essene, come il Manuale di disciplina (4Q se), siano an­ teriori a quella data e che molti dati contenutistici dei testi di Qumran richiedano una data di fondazione degli esseni note­ volmente più antica viene semplicemente ignorato o capriccio­ samente distorto. In particolare, anche le espressioni dei pe-

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sharim sui «sacerdote empio» come un nemico personale del

maestro di giustizia non si addicono affatto al re asmoneo Alessandro lanneo che ha regnato verso i1 100 a.C., ma esclusi­ vamente al comandante maccabeo Gionata (152-143 a.C.). L'idea che l'insediamento di Qumran sia sorto solo dopo la morte del maestro di giustizia e che quindi quest'ultimo non vi abbia mai soggiornato continua a essere ancora piuttosto estranea alla stragrande maggioranza degli studiosi. Finora solo pochissimi studiosi tirano la conseguenza ricca di implica­ zioni secondo cui le prime opere essene - in particolare tutte le Regole della comunità - non sono state composte in modo speciale per i residenti a Qumran, ma giù prima del loro tempo per tutti gli esseni sparsi nel paese. Nel contesto della nostra presentazione questi brevi ac­ cenni alle discrepanze esistenti in particolare fra i racconti su­ gli esseni di Filone di Alessandria e Giuseppe Flavio e le va­ lutazioni delle scoperte di Qumran tuttora avanzate dagli stu­ diosi servono soltanto a rendere comprensibile la molteplicità delle concezioni ancora in circolazione circa la valutazione dei ritrovamenti di Qumran e l'importanza degli esseni di quel tempo. Fra gli stessi studiosi di Qumran non esiste an­ cora un modello di comprensione generalmente accettato e neppure da parte di coloro che ritengono che Qumran fosse un insediamento esseno. Questa situazione spiega in gran parte la diffusa perplessità con cui si affrontano le questioni relative alla valutazione dei ritrovamenti di Qumran e al loro significato per la comprensione di Gesù e del cristianesimo primitivo. Senza pregiudicare l'ampio spettro di concezioni esistenti ancor oggi fra gli studiosi, cerchiamo di descrivere qui il qua­ dro che ci si presenta degli esseni quando a) si considerano le scoperte di Qumran come essene, b) si ritengono sostanzial­ mente oggettivi i racconti di Filone e Giuseppe Flavio, c) si collocano tutte queste informazioni nel quadro dell'antico giu­ daismo offerto dalle altre fonti. Ciò che risulta da tutto questo produce effettivamente un quadro d'insieme convincente e plausibile in sé.

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L'ORIGINE DEGLI ESSENI Fino agli inizi del II sec. a.C. il giudaismo della Palestina era una realtà piuttosto omogenea. Il suo centro era il tempio di Gerusalemme. Il culto nel tempio era disimpegnato dai sa­ cerdoti e dai loro aiutanti, i leviti. Al vertice dell'insieme vi era il sommo sacerdote, il quale doveva discendere possibilmente dall'antichissima stirpe sacerdotale di Zadok. Egli era anche responsabile dell'amministrazione di questo piccolo stato giu­ daico, qualunque fosse la potenza straniera che esercitava la supremazia politica. I babilonesi erano stati seguiti dai per­ siani, poi dai tolomei e infine, a partire dall'inizio del II sec. a.C., dai seleucidi. Tutti lasciarono ai giudei la loro prassi tra­ dizionale nell'esercizio della religione e si immischiarono rara­ mente nelle faccende interne della Giudea. Un chiaro quadro del giudaismo palestinese del tempo si può ricavare dall'opera storico-cronachistica, composta nel IV sec. a.C., cioè dal primo e secondo libro delle Cronache e da Esdra e Neemia. L'ultima testimonianza biblica di quest'epoca è il libro della Sapienza di Gesù ben Sira, composto verso il 190 a.C. Esso trova il suo apice nella descrizione del sommo sacerdote Simone, della sua saggia reggenza e della sua esem­ plare pratica cultuale (Sir 50). Tutte queste opere mostrano il quadro di un mondo gerarchicamente ben ordinato, fedele alle tradizioni israelitico-giudaiche. Gli esseni hanno ripreso proprio queste concezioni tradi­ zionali di un Israele gerarchicamente ben ordinato nella Terra Santa e le hanno portate avanti nonostante tutti gli ostacoli. Non si sono considerati degli innovatori, ma dei conservatori di ciò che era stato tramandato fin dall'antichità. Verso la metà del II sec. a.C. ciò che era veramente cambiato erano solo le più generali situazioni temporali. La ragione principale ne era stata l'ellenizzazione della Palestina. Un primo testimone degli influssi ellenistici sul giudaismo palestinese è il libro biblico sapienziale Qohelet, scritto proba­ bilmente nel III sec. a.C. In esso i conflitti si situano ancora sul piano elevato della formazione filosofica. Ma, a partire dal 175 a.C., l'ellenizzazione condusse in drammatiche sequenze al

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peggiore disastro religioso verificatosi nel giudaismo della Pa­ lestina fra l'esilio del VI sec. a.C. e la distruzione del tempio nel 70 d.C. Esso raggiunse il suo apice nel 167 a.C. Qui possiamo accennare soltanto a pochi dati che chiari­ scono quanto avvenne in quel tempo e permettono di rendersi più facilmente conto dell'origine degli esseni. Per il resto, l'im­ pressione più duratura delle condizioni del tempo è offerta dal libro biblico di Daniele, composto nel 164 a.C. Una descri­ zione degli avvenimenti di quel tempo fino al 160 a.C. si trova nel secondo libro dei Maccabei e parallelamente, ma fino al­ l'anno 134 a·. c., nel primo libro dei Maccabei.2 L'ellenizzazione della Palestina, iniziata dopo la campagna di Alessandro degli anni 336-323 a.C., si tradusse inizialmente in un generale influsso culturale, comparabile da molti punti di vista alla massiccia americanizzazione del nostro stile di vita a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. I greci, la loro formazione filosofica, la loro struttura educativa e il loro stile di vita passavano per ciò che era esemplarmente mo­ derno, facendo apparire ciò cui si era stati abitutati fino ad al­ lora come provinciale e superato. In particolare, il giudaismo delle città, soprattutto quello gerosolimitano, inclinava sempre più verso l'ellenismo. I doveri centrali della religione dei padri, quali la circoncisione, l'osservanza delle regole di purezza ri­ tuale cultuale e dei divieti alimentari, la presentazione delle offerte o l'osservanza del sabato, apparivano sempre più cose senza importanza. Al loro posto subentravano valori quali la formazione filosofica, l'acquisizione delle virtù maschili gre-

2 Fondamentale per la valutazione storica di queste fonti resta lo studio Der Gott der Makkabiier dello studioso ebreo Elias Bickermann, Berlino

1937. I dati decisivi, dall'inizio dell'ellenizz azione in poi, sono ampiamente presentati in M. HENGEL, Judentum und Hellenismus, Tilbingen 1%9. 31988. [In attesa dell'annunciata traduzione italiana di quest'opera è utile la consul­ tazione di M. HENGEL, L '«ellenizzazione» della Giudea nel l secolo d.C. (Studi biblici 104), Brescia 1991 (or. Tilbingen 1991) e Io., Ebrei, Greci e Barbari. Aspetti dell'ellenizzazione del giudaismo in epoca precristiana (Studi biblici 56), Brescia 1981 (or. Stuttgart 1976) (NdR)]. Un'approfondita illustrazione di specifici terni si trova in K. BRINGMANN, Hellenistische Reform und Religion­ sverfolgung in Judiia , Gottingen 1983.

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che, le vittorie sportive in occasione delle gare internazionali. L'impellente obiettivo di quanti erano consci del progresso di­ venne quello di una riforma della società in grado di porre fine agli ostacoli del presente e consentire un moderno stile di vita. L'ascesa al trono ad Antiochìa di Siria nel 175 a.C. del re Antioco IV Epifane, il sovrano seleucida della Giudea, diede ai giudei già ellenizzati il segnale di partenza. Essi si aspetta­ vano dal giovane sovrano un appoggio per i loro piani di ri­ forma e lo ebbero. Il sommo sacerdote Onia III, nemico delle riforme, fu deposto. Gli subentrò il fratello Gesù, il cui nome venne grecizzato in Giasone. Come omaggio verso il nuovo so­ vrano ed espressione del nuovo stile di vita un quartiere della città di Gerusalemme fu ribattezzato Antiochia. Una delle prime azioni ufficiali del nuovo sommo sacerdote Giasone fu la creazione nella valle del Cedron, a sud del tempio, di un gin­ nasio, una palestra nell� quale i ragazzi e gli uomini gareggia­ vano abitualmente nudi. Non è difficile immaginare l'effetto che potevano aver prodotto, negli animi di persone formate dalla tradizione, simili strutture erette nella città santa e fre­ quentate per giunta spesso di sabato. Persino i sacerdoti tra­ scuravano il loro servizio cultuale nel tempio per partecipare o assistere alle gare ( 1Mac 1,1 1-15; 2Mac 4,7 -17). Il nuovo sommo sacerdote Giasone era ancora discen­ dente dalla stirpe di Zadok. Ma nel 172 a.C., un semplice sa­ cerdote della famiglia di Bilga acquistò per danaro l'ufficio di sommo sacerdote. Il suo nome ebreo non è noto; egli si fece chiamare semplicemente, in buon greco, Menelao. Uno dei suoi primi atti ufficiali fu l'uccisione, nel 170 a.C., di Onia III nel santuario di asilo siriano di Dafne. Non si era mai sentito dire, infatti, che un sommo sacerdote, pervenuto in modo le­ gittimo a quell'ufficio e a quella dignità, potesse essere depo­ sto. Chi era diventato sommo sacerdote lo rimaneva fino alla morte. Onia III era quindi un permanente concorrente di Me­ nelao e continuava a essere considerato dai pii giudei come l'unico legittimo sommo sacerdote di Israele. L'assassinio ri­ solse il problema. In seguito, gli esseni fecero della data di quest'omicidio l'inizio dell'ultima fase centenaria della storia

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del mondo, fino al giudizio finale di Dio (cf. sopra, p. 178 e an­ che Dn 9,25-26; 1 1,22; 2Mac 4,30-38). Nel 169 a.C. Menelao permise al re Antioco IV, che si tro­ vava in continue difficoltà finanziarie, la totale spoliazione del tempio di Gerusalemme. Furono smontate persino le guarni­ zioni in oro delle porte di ingresso. Quest'importante contri­ buto di Menelao al finanziamento dello stato gli valse l'incon­ dizionato sostegno del re (1Mac 1,20-28; 2Mac 5,11-21). Nel 168 a.C. Menelao adottò una legislazione religiosa che prevedeva la pena di morte per chi praticava il culto sacrificale in conformità alla Torah, deteneva rotoli della Torah, faceva circoncidere i ragazzi e osservava il sabato (1Mac 1,41-53; cf. 2Mac 6,1 .5-6). Era come se il papa a Roma decretasse che de­ vono essere giustiziati tutti i cattolici che continuano a parteci­ pare alla messa, possiedono una Bibbia, fanno battezzare i figli e si rifiutano di lavorare in giorno di domenica. Sarebbe la fine della chiesa cattolica. Ora è proprio ciò che Menelao, in quanto sommo sacerdote dei giudei, decretò e compì. La modernizzazione ellenistica di Menelao raggiunse il suo apice nel 167 a.C. Il culto del Dio degli ebrei fino ad allora ce­ lebrato nel tempio di Gerusalemme fu abolito e sostituito con il culto del dio greco Zeus Olimpio. Al posto del calendario so­ lare sacerdotale di 364 giorni subentrò il calendario lunare pa­ gano di 354 giorni di origine babilonese, calendario che gli ebrei seguono fino ai nostri giorni. D'altronde questo calenda­ rio - secondo le concezioni riformistiche del sommo sacer­ dote Menelao - non conteneva allora nessuna delle feste ebraiche prescritte nella Torah. In questo nuovo calendario la principale festa era il giorno anniversario della nascita del re Antioco IV, il cui soprannome Epifane significa «il dio ap­ parso sulla terra». Questo nuovo regolamento cultuale entrò in vigore nel dicembre del 167 a.C., giorno anniversario della nascita del pagano Epifane. Negli anni che seguirono si impose a tutto il paese di riconoscerlo. Delegazioni di sacerdoti si spo­ stavano con altari portatili di luogo in luogo, costringendo la popolazione a partecipare al nuovo culto e controllando a in­ tervalli regolari l'osservanza delle nuove prescrizioni (1Mac 1,54-64; 2Mac 6,2-4.7-11).

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Nessuna meraviglia che di fronte a una situazione del ge­ nere i pii giudei della Palestina abbiano lasciato in massa il paese. Se non prima, certamente la legislazione religiosa del 168 a.C. rese impossibile nel paese uno stile di vita conforme alla Torah. La profanazione del tempio con il culto di una divi­ nità pagana e l'abolizione delle feste ebraiche misero fine a ogni rapporto con il santuario. Ciò che si poteva ancora fare era di sfuggire alle sgrinfie di Menelao e dei suoi sgherri, effi­ cacemente sostenuti dalla forza di occupazione seleucida. Diversi pii giudei entrarono in clandestinità. Molti si reca­ rono in remote regioni montagnose o nel deserto di Giuda. Decine di migliaia si rifugiarono con le loro famiglie nei paesi limitrofi, dove si stabilirono e fondarono associazioni con l'in­ tento di assicurare fra gli emigrati il necessario contesto so­ ciale e rendere così possibile in terra pagàna un pio stile di vita conforme alla Torah. Furono questi gli inizi della formazione di gruppi organiz­ zati in quelle parti del giudaismo che erano vissute fino ad al­ lora in Palestina ma che ora erano dovute emigrare. Fra coloro che erano fuggiti nei territori a oriente del Giordano, a Ga­ laad, in Perea e in Nabatea, l'organizzazione più ricca di mem­ bri che venne a costituirsi fu quella dei chasidim (i devoti). Non è più possibile stabilire con certezza quante nuove orga­ nizzazioni ebraiche siano allora sorte nei territori attorno alla Palestina. Esse sono state comunque perlomeno sette (cf. 40 pPsa 1-10, IV,23-24; inoltre, 111,1-2; CD IV,2-3; XX,22-25). L'ulteriore sviluppo è descritto dai libri dei Maccabei. L'a­ zione di Menelao, tesa a imporre con la forza nel paese il rico­ noscimento del nuovo culto, produsse non solo emigrazione ma anche resistenza interna. Nella piccola località di Modin il sacerdote Mattatia e i suoi figli, designati poi con il nome di maccabei, si rifiutarono di fare l'offerta del sacrificio pagano. Mattatia uccise con le proprie mani il primo abitante del luogo che si era dichiarato disposto a offrire il sacrificio. Allora egli scappò con i suoi figli sulle montagne e fondò un gruppo di re­ sistenza armata (1Mac 2,1-28; cf. 2Mac 5,27; 8,1-7). A questa resistenza dei maccabei si associarono centinaia e ben presto migliaia di volontari. Molto eloquente per l'atteg-

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giamento dei devoti rimasti nel paese è il loro rifiuto di com­ battere in giorno di sabato. La forza di occupazione seleucida se ne rese ben presto conto e cominciò a trucidare proprio in quel giorno della settimana in cui i suoi oppositori non oppo­ nevano resistenza (1Mac 2,29-38). Per analoghi motivi l'Egitto e la Siria cominciarono il loro attacco a sorpresa allo stato di Israele, ancora nell'ottobre del 1973, proprio nel giorno di Jom Kippur, in quanto pensavano di poter facilmente aver la me­ glio su avversari in gran parte disarmati in quella solennissima festività ebraica. I devoti, legati nel paese ai maccabei, rima­ sero divisi su questo particolare problema. Una parte decise che se non si dovevano certamente attaccare i nemici in giorno di sabato si poteva comunque opporsi con la forza in caso di attacco da parte loro. Altri anteposero decisamente il valore deUa pietà a quello della propria vita per cui continuarono a lasciarsi uccidere in giorno di sabato senza opporre resistenza. I maccabei e le loro truppe combatterono anche in giorno di sabato. Essi costrinsero la forza di occupazione seleucida sempre più sulle difensive e si assicurarono delle basi in diversi luoghi del paese. Alla fine del 164 a.C. riuscirono a penetrare nella città di Gerusalemme, ponendo fine al culto di Zeus Olimpio e ripristinando il culto del Dio di Israele. Ma per il re­ sto non cambiò granché. Menelao rimase sommo sacerdote. I maccabei si preoccuparono di infliggere nuove sconfitte in tutto il paese alla forza di occupazione seleucida. Il re Antioco era morto in Mesopotamia mentre cercava di saccheggiare un tempio. Suo figlio Antioco V Eupatore (164-162 a.C.) ridiede agli ebrei della Palestina la libertà di praticare la loro religione nel modo tradizionale. Ma le possibilità della pratica religiosa rimasero limitate. Nel 162 a.C., Menelao morì. Come suo successore nell'uffi­ cio di sommo sacerdote il governo seleucida pose un semplic� sacerdote di nome Eliaki, grecizzato in Alcimo. I chasidim, che si erano organizzati a oriente del Giordano, gli inviarono una delegazione di loro rappresentanti per trattare il problema di un nuovo ordinamento del culto a Gerusalemme. Alcimo fece uccidere tutti i membri della delegazione che riuscì ad acciuf­ fare, 60 in tutto (1Mac 7,13-18; cf. 2Mac 14), ciò rafforzò ulte- ·

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riormente la distanza che già esisteva fra i gruppi degli esiliati e il tempio di Gerusalemme.

La carica di sommo sacerdote del maestro di giustizia Nel 159 a.C. Alcimo morì. Non è possibile ricavare dalle fonti del tempo ciò che poi avvenne dell'ufficio del sommo sa­ cerdote. Il secondo libro dei Maccabei termina con il 160 a.C. Il primo libro dei Maccabei, favorevole agli asmonei, non ri­ corda, prima del maccabeo Gionata, diventato sommo sacer­ dote nel 152 a.C., nessun suo predecessore nell'ufficio, né Onia III, né Giasone, né Menelao. Si parla solo di Alcimo. Come fonte per questo periodo lo storico Giuseppe Flavio aveva solo il primo libro dei Maccabei. Egli fece quindi di ne­ cessità virtù e costatò, secondo le sue fonti, che per sette anni non vi era stato a Gerusalemme alcun sommo sacerdote (AJ 20,237; cf. 13,46). Ma dal punto di vista della realtà del tempo ciò è assoluta­ mente impossibile. Nel 164 a.C., i maccabei avevano reintro­ dotto nel tempio, con il culto traçlizionale, anche la celebra­ zione annuale delle feste ebraiche. La più importante di queste feste è il giorno dell'espiazione che, secondo la Torah, non può essere celebrato finché esisterà il tempio senza la presenza di un sommo sacerdote (Lv 16). Nel 157 a.C., gli insorti maccabei avevano anche stipulato la pace con i seleucidi per cui da quel momento in poi nel paese regnava la pace e non vi era alcun motivo di rinunciare alla celebrazione annuale del giorno del­ l'espiazione e al sommo sacerdote che era assolutamente ne­ cessario per quella celebrazione. Solo le scoperte di Qumran hanno permesso di colmare questa lacuna informativa nella tradizione storica finora nota. Esse mostrano che il maestro di giustizia, prima di fondare l'Unione essena, deve essere stato sommo sacerdote al tempio di Gerusalemme e aver preceduto direttamente in quella ca­ rica il maccabeo Gionata, il quale se ne impadronì con la forza nel 152 a.C. D'altra parte, finora non sappiamo se il maestro di

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giustizia sia succeduto nella carica di sommo sacerdote diretta­ mente al sommo sacerdote Alcimo, morto nel 159 a.C., o sia diventato sommo sacerdote solo in un momento successivo durante quei sette anni. Le prove più importanti del fatto che il maestro di giustizia è stato un sommo sacerdote in carica al tempio di Gerusa­ lemme sono i suoi titoli. La sua designazione ebraica di moreh ha-�edeq, resa normalmente con «maestro di giustizia», signi­ fica in realtà «il [solo] che insegna il [vero] diritto [secondo la Torah]». Si tratta di un titolo tradizionale dell'ufficio del sommo sacerdote che lo contraddistingue come massima auto­ rità magisteriale in Israele. Lo stesso vale delle altre designa­ zioni di questa figura: moreh ha-jachid (l'unico maestro) e do­ resh ha-torah (l'interprete [di sommo rango] della Torah). Come il sommo sacerdote Simone nella Sapienza di Gesù ben Sira (Sir 50,1), anch'egli viene titolato in forma assoluta ha­ kohen (il sacerdote per eccellenza), titolo che lo indica al ver­ tice del culto al tempio di Gerusalemme. Inoltre, tutta una serie di dati dei testi di Qumran mostra che il maestro di giustizia non ha preteso per sé il rango di sommo sacerdote senza aver mai svolto quest'ufficio, ma che è stato il vero detentore dell'ufficio a Gerusalemme prima che Gionata lo scacciasse. Egli ha avuto quindi lo stesso destino del sommo saeerdote Onia III, deposto nel 175 a.C., il quale si rifugiò in Siria, o di suo figlio Onia IV, il quale, dopo l'assassi­ nio di suo padre (170 a.C.), tenne per breve tempo la carica di sommo sacerdote a Gerusalemme prima di esserne scacciato da Menelao. Egli si rifugiò allora in Egitto, dove eresse quel tempio ebraico di Leontopoli che fu chiuso dai romani nel 73 d.C. Senza essere stato effettivamente in carica a Gerusa­ lemme e solo in base a un diritto di successione ereditaria Onia IV non avrebbe mai potuto fondare quel tempio. Egli lo aggiunse come ulteriore esercizio del suo ufficio al sommo sa­ cerdozio esercitato già prima. Il maestro di giustizia, scacciato dalla carica, tenne un diverso comportamento. Non fondò un suo proprio tempio al sicuro in terra straniera, ma fondò l 'U­ nione essena.

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La fondazione dell'Unione essena Nel 157 a.C. fu stipulata la pace fra i seleucidi e il coman­ dante dell'esercito ebraico, il maccabeo Gionata. Questi pose il suo quartier generale a Micmas, 12 km a nord di Gerusa­ lemme. La capitale rimase sotto il controllo seleucida. 3 Le cose mutarono per Gionata quando, nel 153 a.C., Ales­ sandro Balas rivendicò il trono dei seleucidi e sbarcò a Akko con un forte esercito. Il re seleucide in carica, Demetrio I So­ tere (162-150 a.C.), si rivolse allora al maccabeo Gionata pre­ gandolo di assicurargli il proprio appoggio militare. Gionata acconsentì ed ebbe in cambio il diritto di poter risiedere a Ge­ rusalemme. Quando egli entrò in città, una parte non trascura­ bile della popolazione fuggì davanti a questo temuto sovrano. Ma non appena Gionata ebbe ridotto in suo potere la città di Gerusalemme cambiò bandiera e offrì il proprio sostegno a Alessandro Balas, ottenendone in cambio la nomina a sommo sacerdote. Così il maccabeo Gionata poté riunire nelle sue mani tutto il potere. Come dittatore militare a capo di un forte esercito e amico del suo protettore Alessandro, che era riu­ scito finalmente a spuntarla nella contesa per la successione al trono (re seleucida dal 150 al 145 a.C.), egli era ora l'incontra­ stato sovrano politico della Giudea e dei territori limitrofi. Come sommo sacerdote era anche la massima autorità reli­ giosa del giudaismo, perlomeno secondo le sue pretese. Ma la cosa fu contestata. Quando nell'autunno del 152 a.C. Gionata si impadronì con la forza della carica di sommo sacerdote, l'allora detentore dell'ufficio, il maestro di giustizia, riuscì a fuggire da Gerusa­ lemme. Riparò in Siria e precisamente presso la Nuova al-

3 È interessante notare che Gionata riportò la sua vittoria decisiva sul ge­ nerale seleucida Bacchide vicino a Betlemme nel 157 a.C. grazie all'appoggio di due tribù beduine del Deserto di Giuda ( 1Mac 9,66 ) . Una di queste tribù era quella degli odomera, quei ta'amireh che continuano a vivere fino a oggi sul loro territorio tradizionale e che hanno scoperto negli anni 1947-1956 le più importanti grotte contenenti manoscritti di Qumran.

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leanza nel territorio di Damasco (CD VII,18-20). Là si sentì al sicuro da Gionata. Comme sommo sacerdote a Gerusalemme, il maestro di giustizia era il rappresentante supremo di quell'alleanza di ele­ zione che Dio aveva stipulato un tempo con il suo popolo al Si­ nai. Secondo la concezione tradizionale del suo ufficio, egli lo rimaneva per tutta la sua vita. Per lui l'usurpatore Gionata non aveva alcun diritto di essere sommo sacerdote. Secondo il suo pensiero, l'alleanza di Dio con Israele era legata al maestro di giustizia quale suo rappresentante proveniente da Gerusa­ lemme e continuava da quel momento in poi in esilio. Essa comprendeva ancora quegli ebrei che si mantenevano fedeli al sommo sacerdote scacciato dal suo ufficio o che si sarebbero rivolti a lui in futuro. Questo mostrano in modo inequivocabile certe espressioni del maestro di giustizia (1Q H 11,21-22.28; IV,23-25; V,S-9.23; VII,6-10.18-25). Per tutto ciò che sarebbe avvenuto in seguito decisivo fu il fatto che il maestro di giustizia non aspettò di vedere quale sa­ rebbe stato il corso delle cose o chi si sarebbe associato in se­ guito con lui quale rappresentante permanente di tutto Israele. Subito dopo essere stato .costretto all'esilio egli prese l'inizia­ tiva. Contattò tutti gli altri gruppi e organizzazioni del giudai­ smo che si erano formati durante la persecuzione nei dintorni della Palestina. Secondo la sua concezione, Dio doveva riunire in Terra Santa le parti di Israele disperse prima che potesse aver luogo l'atteso giudizio finale e iniziare il tempo della sal­ vezza. Il maestro di giustizia era profondamente convinto che questi eventi si sarebbero ben presto verificati e che Dio aveva scelto proprio lui, l'unico legittimo sommo sacerdote di tutto Israele, quale decisivo strumento e responsabile rappresen­ tante di una tale impresa. I tempi stringevano ed enorme era ciò che si doveva realizzare in pochi anni fino al giudizio finale. I testi di Qumran contengono una serie di particolareg­ giate indicazioni su molti punti di ciò che avvenne in seguito, addirittura sulle persone che vi furono coinvolte. Numerosi sa­ cerdoti, fra cui quelli discendenti dalla nobile stirpe di Zadok, e alti funzionari dell'amministrazione del tempio, che erano fuggiti insieme al maestro di giustizia, costituirono il nucleo

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più stretto dei suoi collaboratori. D'altra parte, si ebbero di­ scussioni e scontri di ogni sorta. Una parte dei membri della Nuova alleanza si rifiutò di ritornare in Terra Santa, poiché, a loro avviso, Dio aveva· definitivamente votato alla distruzione il tempio e il paese, per cui ormai ci si doveva aspettare la sal­ vezza di Israele in terra pagana. Una parte dei chasidim, che erano precedentemente emigrati nel territori a oriente del Giordano ma che nel frattempo erano in parte ritornati, re­ spinsero la pretesa di autorità del maestro di giustizia quale detentore a vita del sommo sacerdozio. Essi ritenevano che i sacrifici nel tempio di Gerusalemme prescritti dalla Torah do­ vessero aver luogo anche nelle condizioni esistenti, senza aspettare che il maestro di giustizia fosse rientrato in carica e avesse ripristinato nel culto del tempio il calendario solare di 364 giorni. Erano questi i due maggiori problemi nell'ambito dei gruppi che allora si trovavano in esilio. Ma fu nella stessa Terra Santa che si ebbe per il maestro di giustizia il problema principale. Dopo essere riuscito a porre sotto la sua autorità notevoli parti dei diversi gruppi di esiliati e a prepararli al ritorno in patria, egli spedì a Gionata, nella sua qualità di sommo sacerdote ora in gran parte nuovamente riconosciuta, quell'istruzione con cui gli intimava, per il bene di tutto Israele, a rinunciare al sommo sacerdozio e ad accon­ tentarsi in avvenire del governo politico del paese (4Q MMT). Ma Gionata rifiutò una tale pretesa e reagì con il fallito tenta­ tivo di sbarazzarsi del seccante rivale mediante assassinio (40 pPsa 1-10, IV,7-9; 1Q pHab XI,2-8). Ma nonostante tutti questi problemi e difficoltà il maestro di giustizia riuscì comunque a convincere sette gruppi di esi­ liati (40 pPsa 1-10, IV,23-24) a rientrare interamente o in gran parte in Terra Santa e a raggrupparsi dal punto di vista orga­ nizzativo in un'Unione che voleva riunire, almeno come pre­ tesa, l'intero Israele. All'Unione aderirono anche molti di co­ loro che erano rimasti in patria. Così ebbe inizio la maggiore organizzazione religiosa del giudaismo palestinese del tempo. A parte insignificanti gruppi marginali, vi erano altri tre gruppi, ciascuno molto più piccolo dell'Unione essena. Si trat­ tava, anzittutto, dei :rhembri della Nuova alleanza in territorio

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di Damasco che non erano voluti rientrare; in secondo luogo, di parte dei chasidim d'allora in poi designati come «farisei>>, «Scismatici»; in terzo luogo, del sacerdozio del tempio di Geru­ salemme rimasto legato a Gionata. Qualche tempo dopo an­ che la loro élite si costituì in modo autonomo dal punto di vista organizzativo. Furono indicati con l'appellativo di «sadducei», poiché anche nelle loro file coloro che davano il tono erano membri della nobile stirpe di Zadok. Cosl quale risultato finale dell'azione di riunificazione in­ trapresa dal maestro di giustizia e in gran parte riuscita si eb­ bero d'allora in poi in Giudea i tre partiti religiosi degli esseni, dei farisei e dei sadducei. Una quarta realtà era rappresentata nel paese dall'esercito di Gionata alle sue dirette dipendenze in quanto loro supremo comandante militare. Riguardo alla politica religiosa esso era certamente neutrale. Ma, in quanto strumento nel paese del poter� politico di un sovrano che era al tempo stesso, a Geru­ salemme, il sommo sacerdote riconosciuto dal re seleucida, esso si frapponeva come insuperabile ostacolo a qualsiasi eventuale tentativo del maestro di giustizia di riprendere in mano la direzione del culto al tempio. Il compimento dell'o­ pera di riunificazione del maestro di giustizia fallì quindi in ul­ tima analisi non per divergenze intra-giudaiche sul piano dot­ trinale, quanto piuttosto per una situazione del potere politico che non era possibile cambiare con le forze politiche, compa­ rativamente modeste, del maestro. Gli esseni non sono mai esistiti fin dall'inizio al di fuori della Giudea. Le iniziative che portarono alla loro fondazione furono avviate dal maestro di giustizia dal suo luogo di esilio in Siria. Fu lì che egli ricevette le delegazioni dei diversi gruppi di esiliati. Fu di lì che egli si recò presso i gruppi che ponevano dei problemi, come ad esempio presso i chasidim (10 pHab V,S-12; cf. 11,1-3). Il maestro si trovava all'estero anche quando Gionata fece il suo attentato (10 pHab Xl,2-8), dopo aver ricevuto l'intimazione a rinunciare all'ufficio di sommo sacerdote. Ma la fondazione dell'Unione essena non avvenne nell'ambito degli esiliati, bensì volutamente nel paese nevral­ gico, in Giudea (cf. 40 plsd 1,1-8). Infatti, il pensiero basilare

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del maestro di giustizia riguardo alla fondazione dell'Unione essena era che, sotto la sua egida di sommo sacerdote, tutto Israele si ritrovasse in Terra Santa e che proprio lì dovesse af­ frontare unito l'imminente giudizio finale di Dio sul mondo. Finora i testi di Qumran non ci hanno permesso di sapere se, nel quadro delle sue iniziative preparatorie, il maestro di giustizia abbia preso contatto anche con gli ebrei residenti in luoghi più lontani, soprattutto con quelli della Mesopotamia e dell'Egitto. Idealmente essi erano certamente compresi nella sua concezione globale, come risulta in seguito dal primo dei due commenti a Isaia (cf. sopra, pp. 181-182). Un dato decisivo per il maestro di giustizia era comunque il fatto che Israele po­ teva esistere in ultima analisi solo entro i confini di quel paese che era la proprietà particolare di Dio e nel quale un tempo Giosuè aveva introdotto, dopo la morte di Mosè, il popolo di Israele. La fondazione dell'Unione essena in Giudea da parte del maestro di giustizia avvenne a vent'anni di distanza dall'ucci­ sione del sommo sacerdote Onia III (CD 1,9-1 1 ), quindi verso i1 150 a.C. Non sappiamo dove essa sia avvenuta. Non si è co­ munque certamente trattato di Qumran. Quell'insediamento è sorto solo mezzo secolo più tardi. Più importanti, e ancora esattamente ricostruibili, sono i dati organizzativi relativi alla fondazione dell'Unione essena. I membri dei diversi gruppi di esiliati che ritornarono in Pale­ stina rientrarono normalmente nei loro luoghi di origine, dove possedevano terreni, case o membri rimasti in patria delle loro rispettive famiglie allargate. In tal modo nei diversi luoghi si mescolarono membri di diversi gruppi di esiliati. All'Unione potevano aderire anche coloro che erano rimasti in patria. Vincolante era unicamente il fatto che in ogni località potes­ sero ritrovarsi almeno dieci uomini adulti, fra cui almeno un sacerdote, per poter formare una cellula locale dell'organizza­ zione. Da una parte, l'unione organizzativa di livello superiore era di natura formale. Tutti i gruppi locali erano considerati come corporazioni particolari dell'Unione. Essi erano sotto la diretta autorità del maestro di giustizia e dipendevano dalle

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sue sole direttive. Un organo direttivo centrale a lui associato e nel quale avevano voce in capitolo i sacerdoti della stirpe di Zadok coordinava e amministrava l'intera Unione. Gli esseni non professavano dottrine particolari a parte il fatto che il maestro di giustizia riferiva le affermazioni dei libri profetici biblici alla situazione del proprio tempo. L'autorità principale degli esseni era la Torah, il cui inter­ prete autorevole nei casi dubbi era solo e unicamente il mae­ stro di giustizia. Egli aveva anche disposto che, in seno all'U­ nione essena, restassero in vigore i diversi corpus giuridici sorti nei vari gruppi di esiliati, naturalmente dopo essere stati criti­ camente esaminati, rivisti e su certi punti ampliati. Così, ad esempio, dalla Nuova alleanza nel territorio di Damasco gli es­ seni ripresero le leggi relative all'agricoltura e all'ordinamento del sabato. Solo nel corso del tempo gli esseni si diedero anche altri più estesi codici giuridici. Verso il 100 a.C., l'autore del Doc11mento di Damasco raccolse in un solo testo, per la prima volta e in modo definitivo, tutto ciò che, al di là degli scritti bi­ blici, doveva continuare ad avere per gli esseni una perma­ nente validità giudirica. D'altra parte, il maestro di giustizia non si accontentò di un'unione puramente formale, sotto la sua autorità, delle parti di Israele fino ad allora disperse. Egli pretese fin dall'inizio che ognuno dovesse aderire anche personalmente, diventandone membro, a quest'Unione di tutto Israele. Perciò, dopo l'atto formale di fondazione, si ebbe anzitutto un periodo durante il quale ogni futuro membro a pieno titolo doveva dimostrare di essere un ebreo veramente pio mediante lo studio della Torah e dei libri biblici dei profeti, un consono stile di vita e il supera­ mento di un esame di ammissione. Infine da questo particolare tirocinio di tutti i membri sca­ turì la triennale procedura di ammissione nella comunità degli esseni. All'inizio, queste misure permisero all'Unione essena di qualificarsi già a pochi anni di distanza dall'atto formale di fondazione. In seguito, la rigida procedura di ammissione fece sl che il numero degli esseni rimase sempre piuttosto basso ri­ spetto alle simpatie di cui godevano in mezzo alla popolazione. Ma alla fine fu proprio questa esigente procedura di ammis-

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sione a fare degli esseni in Giudea un'élite di studiosi della Scrittura in numero superiore a quanto si fosse mai verificato prima di allora (cf. anche sotto, pp. 284-288 ) .

L'ULTERIORE STORIA DEGLI ESSENI L'Unione degli esseni fu certamente, a partire dalla sua fondazione, il gruppo religioso più numeroso del territorio ne­ vralgico di Israele. Ma, grazie ai seleucidi, la carica di sommo sacerdote restò al maccabeo Gionata e il tempio di Gerusa­ lemme in sua balìa. I sadducei erano integrati in questa com­ pagine. I farisei avevano fatto buon viso a cattiva sorte. La grande massa della popolazione era tutto sommato felice che i tempi dell'oppressione religiosa e degli scontri armati nel paese fossero ormai un ricordo del passato. In genere si ac­ cettò la situazione di fatto, si tributò agli esseni l'alta conside­ razione che meritavano, ma la stragrande maggioranza ignorò la pretesa del maestro di giustizia di essere l'unico rappresen­ tante dell'intero Israele e continuò a partecipare al culto del tempio presieduto dalle istanze governative e quindi ufficiale. Il fatto decisivo per l'ulteriore sviluppo della situazione si ebbe nel settembre del 140 a.C. Tre anni prima Gionata era caduto nelle mani del comandante militare seleucida Trifone ed era stato da questi deportato e ucciso. Gli era succeduto il fratello Simeone. Egli aveva costretto alla resa l'ultimo ba­ stione seleucida della Palestina, una fortezza situata nella città di Gerusalemme, liberando cosl definitivamente il territorio da ogni dominazione straniera e raggiungendo lo scopo per il quale il popolo aveva cosl a lungo lottato e per il quale molti avevano sacrificato la vita. Simeone sfruttò questo trionfo del­ l'impegno maccabaico per gli interessi nazionali della Giudea - un impegno che si era protratto per un quarto di secolo per un patto politico interno. Egli fece approvare dal sacerdozio del tempio, dalla rap­ presentanza ufficiale del popolo, dai rappresentanti delle fami­ glie nobili del paese, dalla nobiltà giudaica e dai rappresen­ tanti, designati come «anziani», delle singole località una di-

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sposizione che venne accettata in un'assemblea popolare uffi­ ciale a Gerusalemme e il cui testo fu inciso su tavole di bronzo, poste a perenne memoria nel cortile esterno del tempio. La di­ sposizione prevedeva, in particolare, che a causa dei meriti na­ zionali e politico-religiosi del maccabeo Simone, egli venisse confermato «in perpetuo» - quindi compresi i suoi successori dinastici - nel suo duplice ufficio di capo politico e sommo sa­ cerdote, «finché non sorgesse un vero profeta» (1Mac 14,41). Di conseguenza, solo uno che possedesse l'autorità di Mosè e fosse in grado di aggiungere alla Torah altre leggi dello stesso valore, che riservasse per esempio la carica di sommo sacer­ dote ai successori di Zadok non menzionati nella Torah, avrebbe potuto ancora cambiare questo editto riguardo al po­ tere degli asmonei. Il maestro di giustizia, le cui competenze si limitavano, an­ che per propria ammissione, all'interpretazione della Torah già esistente, veniva in tal modo privato di qualsiasi possibilità di intervento nel campo della politica interna e la sua influenza veniva definitivamente limitata agli esseni e ai circoli dei loro più diretti simpatizzanti fra la popolazione. Sul piano della po­ litica religiosa era questa la peggiore sconfitta che egli avesse dovuto incassare dal tempo della sua espulsione dall'ufficio per mano di Gionata dodici anni prima. D'altra parte, quel sommo sacerdozio di cui Gionata si era impadronito con la forza veniva ora attribuito in modo così deciso e giuridico ai maccabei che le pretese concorrenziali del maestro di giustizia, considerate dal punto di vista politico, erano praticamente po­ ste fuori gioco. Naturalmente, né lui né gli esseni accettarono mai questa situazione. Ma dal pq.nto di vista di Simeone il peri­ colo di pretese concorrenziali era sufficientemente scongiu­ rato e la propria pretesa di comando sufficientemente assicu­ rata. Ma quanto sia stato difficile inizialmente far accettare su larga scala la pretesa dei sovrani asmonei al sommo sacerdozio decretata da Simeone è dimostrato dal fatto che ancora il suo figlio e successore Giovanni Ircano I (134-104 a.C.) fu co­ stretto dai farisei a rinunciare alla carica di sommo sacerdote e ad accontentarsi del potere politico; solo Ircano I riuscì del re-

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sto a farsi accettare dai sadducei come membro della loro or­ ganizzazione sacerdotale elitaria (AJ 13,288-296). Ma ciò fu ancora impedito a suo padre Simeone e a suo fratello Gionata, entrambi già capi in quanto sommi sacerdoti dei sacerdoti sad­ ducei. Gli esseni si mantennero neutrali nelle questioni di real­ politik. Sebbene il maestro di giustizia sia morto solo nel 110 a.C., nei testi di Qumran non si trova nessuna traccia di una particolare polemica contro Simeone o Giovanni Ircano I come sommi sacerdoti. Per comprendere l'atteggiamento degli esseni - certa­ mente molto distaccato ma al tempo stesso conciliante in ma­ teria di realpolitik - nei riguardi dei sovrani asmonei è sinto­ matico il contesto nel quale compare il primo esseno a noi noto dalla comune tradizione storica. Si chiamava Giuda e istruiva ogni giorno, nei cortili del tempio di Gerusalemme, una grande folla di esseni desiderosi di imparare. Un giorno del 103 a.C. passò un brutto quarto d'ora. In mattinata aveva profetizzato che quello stesso giorno Antigono, un fratello- del sommo sacerdote e re Aristobulo I (104-103 a.C.) allora in ca­ rica, sarebbe stato ucciso «nella torre di Stratone)). Torre di Stratone era il nome con cui si indicava la lontana città di Ce­ sarea, sulla costa mediterranea della Palestina. Quando dopo aver così profetizzato, Giuda si vide comparire davanti vivo e vegeto nell'area del tempio Antigono in persona fu colto da un terribile spavento. Era infatti impossibile che potesse morire ancora in quel giorno a Cesarea. Non è certamente difficile im­ maginare quale sollievo sia stato per quell'esseno e per i suoi discepoli la notizia, ben presto sparsasi in tutta Gerusalemme, che Antigono era stato assassinato e precisamente in un buio passaggio della città di Gerusalemme chiamato anch'esso «torre di Stratone)). Giuseppe Flavio racconta il fatto per celebrare il partico­ lare dono profetico degli esseni (BJ I,78-80). Ma il suo rac­ conto indica anche che gli esseni si muovevano già allora e ad­ dirittura nel cuore stesso di Gerusalemme come una realtà ac­ cettata dal punto di vista politico-religioso. L'indirizzo augu­ rale - comunque mai spedito - di un esseno di Qumran al re Alessandro Ianneo, dopo il suo trionfo del 90 a.C. (cf. sopra,

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pp. 192-193) sta ad indicare lo stesso grado di accettazione delle situazioni di fatto. Molto più dolorosa delle relazioni con il potere politico fu per gli esseni la crescita numerica e la crescente influenza nel paese dei farisei. Essi avevano abolito in seno alla loro orga­ nizzazione la tradizionale precedenza dei sacerdoti, ricono­ scevano come dottori della legge anche i laici - un duro af­ fronto alla competenza esclusiva dei sacerdoti in campo giuri­ dico - e diffondevano una spiegazione della Torah che si ac­ contentava del suo senso letterale minimale. In tal modo essa poteva essere accettata dalla comune popolazione della Giu­ dea molto più facilmente che non la rigida interpretazione della Torah degli esseni. Gli esseni attaccavano i farisei a causa della loro edulcorazione della sequela della Torah e li chiamavano dorshe ha-chalakot (i cercatori di adulazioni); è così che essi sferzavano la loro propensione a una pratica reli­ giosa troppo tassista. Ecco un esempio per chiarire ciò che qui si intende dire. I farisei - come più tardi i rabbini - ritenevano che fosse per­ messo a uno zio sposare una sua nipote per il semplice fatto che la Torah non lo proibiva espressamente. Gli esseni, al con­ trario, facevano notare che la Torah proibiva a una zia di spo­ sare un nipote (Lv 18,13), cosa questa che, a loro avviso, do­ veva essere estesa a tutte le relazioni di parentela struttural­ mente analoghe. Essi tacciavano quindi i farisei di «meretri­ cio» e di «profanazione del santuario» (CD V,7-10). Una pole­ mica analoga esiste anche da noi, quando per esempio coloro che sono favorevoli all'interruzione della gravidanza vengono definiti «assassinh> senza che, in realtà, abbiano mai commesso un omicidio. Alla base di accuse del genere vi sono solo di­ verse concezioni giuridiche. Il vocabolario polemico proviene per lo più dai rigoristi. Divergenti interpretazioni della Torah avevano causato, già all'inizio, l'opposizione di una parte dei chasidim ai tenta­ tivi di unificazione di tutto Israele fatti dal maestro di giustizia (1Q pHab V,9-12) e la costituzione di una loro organizzazione indipendente con il nome di «farisei». I testi di Qumran mo­ strano che queste divergenze in campo giuridico sono conti-

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nuate e su certi punti si sono ulteriormente sviluppate. Ri­ guardo all'interpretazione della Torah la posizione giuridica degli esseni era molto più vicina a quella dei sadducei. La se­ parazione fra questi due gruppi era dovuta essenzialmente a motivi politici. I farisei invece si svilupparono sempre più come concorrenti religiosi e come contraltare degli esseni nel giudaismo della Palestina. Il fossato fra i due gruppi divenne sempre più profondo. Siccome i farisei non erano toccati dalla concorrenza esistente fra il maccabeo Gionata e il maestro di giustizia in materia di sommo sacerdozio e partecipavano senza particolari problemi al culto sacrificale del tempio di Gerusalemme, nonostante il calendario lunare di 354 giorni in­ trodotto da Gionata, erano in posizione migliore per interve­ nire sul piano politico e acquistare influenza. Sembra che la cosa sia loro riuscita in notevole misura per la prima volta durante la fase iniziale del regno di Alessandro Ianneo (103-76 a.C.). Ma il loro tentativo di rovesciarlo verso il 90 a.C. fallì e finì con la crocifissione di molti dei loro rappre­ sentanti. Durante il regno della regina Alessandra Salome (76-67 a.C.) i farisei riuscirono nuovamente ad avere influenza politica. In particolare, essi divennero allora una forza deter­ minante nel sinedrio. Ma il re e sommo sacerdote Aristobulo II (67-63 a.C.) li privò nuovamente di ogni potere. Perciò, con­ siderati dal punto di vista politico-religioso, i farisei non erano più sulla cresta dell'onda in Giudea, quando nel 63 a.C. il po­ tere politico nel paese venne preso dai romani. È difficile dire in che modo si siano comportati gli esseni durante tutto questo periodo. Due cose si possono comunque affermare con certezza: che la loro principale attività era di na­ tura puramente religiosa e che verso il lOO a.C. essi fondarono l'insediamento di Qumran per la preparazione di rotoli in grande stile. Le opere proprie degli esseni di questo tempo li presentano come una organizzazione unita, ben compaginata, che si teneva a distanza dai farisei e dai sadducei. In esse i sad­ ducei vengono considerati anche come il fattore ufficiale e permanente del potere politico nel paese. Sorprende il fatto che nelle opere contemporanee degli es­ seni si critichi aspramente il primo sovrano asmoneo, il macca-

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beo Gionata, ma non si faccia altrettanto per nessuno dei suoi successori. Per quanto è possibile stabilire, gli scritti esseni menzionano solo quattro successori asmonei di Gionata. Il primo è Alessandro lanneo (103-76 a.C.), il cui titolo di «leone in collera» riguarda unilateralmente solo la parte politica del suo doppio ufficio, quella relativa al suo potere regale. Si sot­ tolinea il fatto che egli ha salvato il paese dalla dominazione pagana e ha crocifisso i responsabili della rivolta - soprat­ tutto farisei -, due cose molto meritevoli dal punto di vista degli esseni. L'altro aspetto del suo duplice ufficio, il fatto cioè che fosse anche sommo sacerdote, non viene ricordato e quindi neppure criticato. Della regina Alessandra Salome (76-67 a.C.) e di suo figlio !reano II, che rivestiva anche l'uffi­ cio di sommo sacerdote, veniamo a sapere soltanto che alcune delle loro azioni indussero gli esseni a introdurre corrispon­ denti giorni commemorativi nel loro calendario annuale (4Q 323 e 4Q 324). Essendo andato perduto il contesto di questi passi non è più possibile sapere se questi giorni siano stati per gli esseni motivo di gioia o di lutto. Il re Aristobulo II (67-63 a.c:) viene ricordato con il suo titolo ufficiale di sommo sacer­ dote (4Q pHosb 2,3), poiché è a questo titolo che egli presie­ deva quel sinedrio dal quale estromise i farisei. Viene sempli­ cemente costatato il fatto in sé, che faceva naturalmente molto piacere agli esseni. Anche in questo caso non si solleva alcuna critica nei riguardi del detentore dell'ufficio di sommo sacer­ dote. Persino nel caso di Gionata la critica degli esseni si è limi­ tata alla- sua occupazione violenta dell'ufficio di sommo sacer­ dote. Ancora cento anni dopo questi avvenimenti il commento a Abacuc afferma che egli «all'inizio della sua comparsa» ­ precisamente come capo politico dell'insurrezione maccabaica a partire dalla morte di suo fratello Giuda, nel 160 a.C., fino al suo ingresso in Gerusalemme, nel 152 a.C. - si è meritato «la massima fama» (lQ pHab VIII,8-9). L'Istruzione del maestro di giustizia lo giudica positivamente come capo di Israele se­ condo l'esempio di re quali Davide e Salomone. Nei testi di Qumran Gionata viene criticato esclusivamente come «il sa­ cerdote empio» che si è appropriato illegalmente della carica

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di sommo sacerdote e che, nonostante l'Istruzione, non solo non l'ha restituita al maestro di giustizia, ma ha addirittura cercato di ucciderlo, confiscando poi le proprietà degli esseni nel paese (4Q pPsa 1-10, IV,7-10; 1Q pHab VIII,9-13; IX,S-12; XI,16-XII,6.9-10 ) . A nessuno dei suoi successori viene rimpro­ verata una cosa del genere in nessuna delle opere essene. Questo dato permette di trarre due conclusioni che possie­ dono entrambe un notevole grado di certezza. Da una parte, dopo la morte di Gionata, gli esseni non sono stati molestati dal potere politico. Dall'altra, anche gli esseni non hanno fatto nulla per cambiare con la forza o in modo sovversivo la situa­ zione politica del paese. Vigeva una sorta di tregua politica fra i cittadini. Ciò vale non solo per il tempo seguito alla morte del maestro di giustizia, avvenuta verso il 1 10 a.C., ma già per i trent'anni precedenti, quando a Gerusalemme Simeone e Gio­ vani Ircano I erano sommi sacerdoti e capi politici. Per quanto è ancora possibile stabilire, già il maestro di giustizia aveva sospeso nel corso del tempo la sua polemica contro i sovrani asmonei e si era limitato alla fine ad attendere l'inizio dell'imminente tempo della salvezza quando Dio avrebbe posto fine al dominio degli asmonei e avrebbe fatto sorgere al suo posto un nuovo sovrano dalla discendenza di Davide, il «messia di Israele» regale. Come il re Davide, egli doveva naturalmente appartenere alla tribù di Giuda e non come i sovrani asmonei in quanto sacerdoti aronitici - alla tribù di Levi. Il maestro di giustizia come sommo sacerdote continuava a incarnare nella sua persona l'autonoma supe­ riore pretesa di comando propria della tribù sacerdotale di Levi. Quando egli morì senza che vi fosse un legittimo succes­ sore nel suo ufficio, gli esseni cominciarono a attendere che Dio, all'inizio del tempo della salvezza, avrebbe stabilito, oltre al «messia di Israele», anche un «messia di Aronne», cioè un sommo sacerdote che doveva provenire ancora possibilmente, secondo la loro idea, dalla stirpe sacerdotale di Zadok. Come per tutti gli ebrei del tempo anche per gli esseni va­ leva il principio secondo cui solo la discendenza per via pa­ terna era decisiva per l'appartenenza a una delle dodici tribù di Israele. Così nessuno poteva discendere contemporaneamente

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da Levi e da Giuda. I futuri uffici del sommo sacerdote da Levi e del re da Giuda dovevano essere quindi necessariamente as­ solti da due persone diverse. Ma i sovrani asmonei non rispon­ devano in alcun modo a queste richieste. Essi non discende­ vano né da Zadok né da Davide e, inoltre, riunivano i due uf­ fici in una stessa persona. Ma non sembra che questa situazione abbia determinato una polemica continua da parte essena. Il motivo è che la loro attenzione era frssa sull'inizio del futuro tempo della salvezza.

Solo quel tempo poteva ripristinare le condizioni di governo corrispondenti alla volontà di Dio. Fino a quel momento non poteva più esservi alcun legittimo sommo sacerdote o re in Israele, ma solo l'Unione essena aperta a tutti gli ebrei. Il suo «governo» era costituito da autorità del passato, cioè dai libri della Torah e dei profeti biblici, compresa la loro interpreta­ zione autorizzata in passato dal maestro di giustizia. I sacer­ doti e i veggenti che guidavano l'Unione nel tempo presente amministravano quest'eredità e curavano che fosse preservata in linea con la tradizione, ma non avevano alcuna autorizza­ zione a essere sommi sacerdoti e re in Israele o a riconoscere come legittimi sommi sacerdoti e re. In base alla loro conce­ zione del messia, era necessariamente riservato al futuro il fatto che vi potessero essere nuovamente in Israele dei sommi sacerdoti e dei re. E questo futuro poteva iniziare solo con il futuro giudizio finale di Dio. Normalmente,, le attese messianiche degli esseni vengono considerate solo in relazione al fatto che esse criticavano im­ plicitamente l'esistente e speravano dal futuro ciò che nel pre­ sente purtroppo non esisteva. Ma così facendo non si tiene conto delle influenze sul vivere quotidiano di una tale conce­ zione del futuro. Queste influenze risultano già semplicemente dal fatto che solo il futuro tempo della salvezza avrebbe potuto portare nuovamente con sé un legittimo sommo sacerdote e un legittimo sovrano della casa reale di Davide. L'influenza di questa concezione del futuro risulta rafforzata dal fatto che al­ l'inizio del futuro tempo di salvezza si trova il giudizio finale di Dio; prima del suo avvento queste figure salvifiche non sono possibili. L'ultima sottolineatura sta nel fatto che il giudizio fi-

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nale non può avvenire dall'oggi al domani, ma solo in una data

futura fissata già da molto tempo da Dio stesso.

Questa data è stata rivelata da Dio in modo tassativo attra­ verso i profeti biblici. Inizialmente gli esseni avevano calcolato che si trattasse del 70 a.C.; poi avevano riconosciuto il loro er­ rore e, sulla base di una rinnovata esegesi del libro di Daniele, avevano stabilito che il giudizio finale sarebbe avvenuto solo nel 70 d.C. (cf. sopra, pp. 178-181. 185-186.191). Da questa precisa concezione del futuro derivava necessa­ riamente il fatto che fino all'anno 70 d.C. non sarebbe potuto esservi alcun legittimo sommo sacerdote o re ebreo. I sovrani asmonei, il re Erode, i sommi sacerdoti come Caifa o chiunque altro esercitasse il potere cultuale o politico a Gerusalemme non aveva in fin dei conti alcuna importanza. Gli esseni hanno guardato impassibili a tutte queste figure di dominatori, così come impassibili hanno guardato alla dominazione straniera da parte dei romani. Se i governanti facevano l'interesse del paese c'era da rallegrarsi, se agivano contro l'interesse del paese c'era da rattistrarsi. Nel dubbio, essi erano da conside­ rare strumenti di cui Dio si serviva per punire i peccati del suo popolo. Ma tutte queste figure non potevano assolutamente possedere le qualità necessarie per la futura salvezza di Israele. Questa precisa concezione del futuro doveva avere come conseguenza presso gli esseni anche quella di considerare come un fatto privo di importanza la comparsa di Giovanni Battista e di Gesù nel 30 d.C. L'annuncio del Battista secondo cui il giudizio finale e il tempo della salvezza erano alle porte non era in linea con la data del 70 d.C. calcolata dagli esseni. Era impossibile che Gesù potesse essere l'atteso messia. A prescindere dalla sua crocifissione da parte dei romani, era ve­ nuto semplicemente quarant'anni prima. Gli esseni sapevano bene come stavano le cose. I rotoli della biblioteca di Qumran mostrano un crescente interesse per il libro biblico di Daniele con l'approssimarsi del 70 d.C. Questo libro era il principale fondamento su cui gli es­ seni basavano i loro calcoli per fissare la data del giudizio fi­ nale e l'inizio del futuro tempo della salvezza. Esso venne

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quindi copiato e studiato più intensamente di quanto fosse mai avvenuto prima di allora. L'ultimo esseno di quel tempo di cui conosciamo il nome si chiamava Giovanni. Nel 66 d.C., ebbe inizio la rivolta del giu­ daismo palestinese contro la dominazione romana in Terra Santa. Secondo i calcoli, mancavano certamente ancora quat­ tro anni alla data finale, ma essendo così prossimi all'attesa fine della dominazione romana poteva essere utile un'attiva preparazione all'imminente svolta. Circa la questione se si dovesse attendere pazientemente l'azione di Dio o si dovesse prendere attivamente parte alla sua preparazione gli esseni erano chiaramente divisi. Giuseppe Flavio racconta che durante la rivolta erano soprattutto gli es­ seni ad accettare in modo ammirevole, senza rinunciare alla loro fede, ma anche senza opporre resistenza, le torture e la morte loro inflitte dai romani (BJ 2,152-158). Quest'atteggia­ mento era analogo a quello di quei devoti che avevano prefe­ rito lasciarsi trucidare senza opporre resistenza dai soldati se­ leucidi piuttosto che profanare, difendendosi, il giorno di sa­ bato. Altri membri dello stesso gruppo avevano posto allora il valore della loro vita e della vita dei loro cari al di sopra del va­ lore dell'osservanza del sabato e avevano preso le armi, quando si era reso necessario, anche in giorno di sabato (cf. so­ pra, p. 21 1 ). Anche in questa occasione vi furono degli esseni che parte­ ciparono attivamente alla rivolta contro i romani. Alcuni fini­ rono poi per perpere la vita nella fortezza di Masada, quando la loro resistenza contro i romani fu piegata nel 74 d.C. Giu­ seppe Flavio racconta che l'esseno Giovanni avrebbe assunto il comando supremo degli insorti nella toparchia di Tamna, in­ sieme alle città di Lod, Giaffa ed Emmaus, nella pianura co­ stiera della Giudea, per cui egli fu per così dire uno dei colle­ ghi del fariseo Giuseppe divenuto comandante in capo degli insorti in Galilea (BJ 2,562-568). L'esseno Giovanni cadde in quello stesso anno, 66 d.C., in occasione di un assalto alla città di Ascalon (BJ 3,9-21 ). Nulla depone a favore dell'amata ipotesi secondo cui que­ sto Giovanni, in quanto uno dei comandanti in capo degli in-

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sorti, non avrebbe più fatto parte degli esseni. Già il fatto di essere chiamato «l'esseno» contraddice una tale ipotesi. Lo stesso indirizzo di felicitazione al re Alessandro Ianneo indi­ cava il coinvolgimento emotivo di un esseno nelle vicende na­ zionali di Israele, soprattutto quando si trattava di proteggere Gerusalemme e la Giudea da dominazioni straniere pagane. L'unica cosa sorprendente nel caso dell'esseno Giovanni è il fatto che egli non se ne sia rimasto passivo, come la maggior parte degli esseni, ma abbia preso parte attiva alla rivolta. La prossimità della data finale secondo il calcolo degli esseni po­ trebbe essere stata decisiva al riguardo. È possibile ricostruire solo in modo molto frammentario il corso della storia degli esseni durante i circa 120 anni che vanno dalla composizione della loro ultima opera letteraria pervenutaci, il commento ad Abacuc, subito dopo la spolia­ zione del tempio nel 54 a.C., all'insurrezione contro i romani del 66 d.C. Su questo lungo periodo non possediamo opere proprie degli esseni. Le relazioni di Filone Alessandrino e di Giuseppe Flavio li presentano comunque come una realtà ricca di membri e sempre presente in Giudea durante tutto questo tempo. A parte questo abbiamo notizie solo di altri due esseni ricordati da Giuseppe - analogamente all'esseno Giuda che insegnava nel 103 a.C. nel tempio - a causa del loro dono di chiaroveggenza profetica, entrambi in relazione con i sovrani, e solo per uno di essi in modo da rendere possi­ bili ulteriori conclusioni. Dopo la morte del re Erode, il figlio Archelao divenne et­ narca della Giudea e della Samaria (4 a.C. 6 d.C.). Poco prima che gli giungesse l'ordine di recars.i a Roma a rispondere davanti all'imperatore Augusto, a venir cioè deposto, egli fece un sogno che nessuno riusciva a interpretare correttamente. Solo un esseno di nome Simone, portato con un salvacondotto alla sua presenza, trovò la soluzione dell'enigma. Le dieci spi­ ghe mangiate dalle mucche significavano la fine imminente dell'ormai decennale regno di Archelao. Cinque giorni dopo l'interpretazione del sogno si presentò il messaggero di Augu­ sto (AJ 17,345-348). Così ancora una volta un esseno venne alla luce della storia. -

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Giuseppe Flavio racconta che il re Erode (3 7 -4 a.C. ) te­ neva gli esseni in grandissima considerazione e li aveva per­ sino dispensati da quel giuramento di fedeltà nei suoi con­ fronti che richiedeva puntualmente a tutti i suoi sudditi, pur non avendolo mai imposto con la forza nel caso dei farisei. Per giustificare questo sorprendente trattamento di favore nei confronti degli esseni Giuseppe Flavio racconta una storia della cui veracità ha dubitato lui stesso ma della quale, in man­ canza di altre informazioni che avrebbe potuto ottenere sui motivi di un tale favore, non ha voluto privare i propri lettori. Si raccontava che un giorno un esseno di nome Mena­ chem aveva incontrato Erode ancora ragazzo mentre si re­ cava a scuola, lo aveva salutato, con grande sorpresa di que­ st'ultimo, come «re dei giudei» e gli aveva profetizzato un re­ gno felice. Quando in seguito Erode era diventato effettiva­ mente re, aveva fatto venire questo Menachem, che era in grado . di prevedere il futuro, e gli aveva chiesto quanto sa­ rebbe durato il suo regno. Dopo qualche esitazione, Mena­ chèm gli aveva risposto che sarebbe durato «perlomeno 20-30 anni». Allora Erode lo aveva congedato con una calorosa stretta di mano e da allora aveva concesso dei privilegi agli esseni (AJ 15,368-379). ' La posizione privilegiata degli esseni al tempo del re Erode, storicamente degna di fede anche se difficile da chia­ rire per quanto riguarda le ragioni che l'hanno determinata, viene posta spesso e volentieri dagli studiosi in relazione con altri tre dati. Il punto di partenza è la dubbia opinione di Plinio il Vecchio secondo cui «gli esseni>� sarebbero vissuti essenzial­ mente sul Mar Morto, dunque a Qumran. Inoltre, Giuseppe Flavio, nel contesto della sua descrizione della guerra giu­ daica, fa una descrizione molto dettagliata della città di Geru­ salemme al tempo del suo assedio da parte dei romani e ri­ corda, nella parte sud-ovest delle mura della città, una «porta degli esseni» (BJ 5,145). Ciò permette di concludere che a Ge­ rusalemme esisteva un quartiere in cui vivevano prevalente­ mente degli esseni. Ora è possibile combinare questi due dati apparentemente contraddittori - «gli esseni>> vivevano sul Mar Morto o a Ge-

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rusalemme? - mediante il racconto di Giuseppe Flavio sulle catastrofiche conseguenze del terremoto del 31 a.C (BJ 1,370379), il quale, secondo i rilevamenti archeologici, ha grave­ mente colpito anche l'insediamento di Qumran (cf. sopra, p. 84 ). Dalla combinazione di questi dati si deduce che «gli es­ seni», dopo quel terribile terremoto, avrebbero lasciato Qum­ ran e si sarebbero trasferiti a Gerusalemme dove il re Erode avrebbe messo a loro disposizione delle abitazioni vicine a quella che da quel momento in poi venne chiamata la porta degli esseni. Alla morte del loro protettore Erode, la maggior parte degli esseni sarebbe ritornata a Qumran, avrebbe rico­ struito l'insediamento e vi sarebbe vissuta fino alla sua distru­ zione nel 68 d.C. Così la fine dell'insediamento di Qumran sa­ rebbe stata anche la fine dell'esistenza degli esseni. Questa ricostruzione, attualmente molto in voga, è estre­ mamente problematica in ogni sua parte. Degli oltre 4000 es­ seni esistenti fino al tempo di Giuseppe Flavio solo una piccola parte può essere vissuta a Qumran, come anche a Gerusa­ lemme. Il muro della città di Gerusalemme dove si trova la porta degli esseni esisteva già quando venne fondata, verso la metà del II sec. a.C., l'Unione degli esseni. Nulla vieta di pen­ sare che già allora gli esseni che vivevano a Gerusalemme - ai quali appartenevano ad esempio l'esseno Giuda, che inse­ gnava nel tempio di Gerusalemme nel 103 a.C., e i suoi disce­ poli - si fossero concentrati in un quartiere proprio in quella parte della città. La cosa è pienamente plausibile date le loro regole di purezza rituale particolarmente rigide. Noi non conosciamo il motivo per cui l'insediamento di Qumran sia stato rimesso in funzione al punto da rendere nuo­ vamente possibile una produzione di rotoli in grande stile solo qualche tempo dopo il terremoto (cf. sopra, p. 85). La biblio­ teca con i suoi manoscritti campione è rimasta in ogni caso a Qumran anche dopo il terremoto. Nel frattempo vi sono stati realizzati molti nuovi rotoli e non sono state certamente ab­ bandonate del tutto neppure le installazioni agricole fra Qum­ ran e Ein Feshkha. Non è possibile né dimostrare né proporre ragionevolmente in via ipotetica un trasferimento di tutti gli

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esseni di Qurnran a Gerusalemmo dopo il terremoto e il loro ritorno a Qumran dopo la morte del loro protettore Erode. Resta tuttavia il problema di sapere in che modo possa es­ sersi concretizzata, durante il lungo periodo del suo regno, la posizione di favore concessa agli esseni dal re Erode e atte­ stata da Giuseppe Flavio. Al riguardo si possono prendere in considerazione due diversi ambiti. Da una parte, si potrebbe pensare a un fattivo coinvolgi­ mento degli esseni nel sinedrio. Esso si riuniva sotto la presi­ denza del sommo sacerdote o di un suo rappresentante. Inol­ tre, era costituito dai tre gruppi dei sacerdoti, dei nobili e dei dottori della legge, ognuno dei quali aveva 23 seggi. Persone che appartenevano a questi tre gruppi sociali esistevano anche fra gli esseni. Sarebbe quindi teoricamente pensabile che, al tempo di Erode, essi fossero rappresentati nei tre gruppi del si­ nedrio, con un peso analogo a quello avuto dai farisei al tempo della regina Alessandra Salome (76-67 a.C.). Le loro riserve di fondo nei riguardi della legittimità del sommo sacerdote in ca­ ricà e nei riguardi del regno non davidico di Erode non dove­ vano certamente produrre un'esclusione generalizzata su que­ sto piano della collaborazione politico-religiosa, analogamente a quanto avviene oggi quando gruppi parlamentari possono riunirsi sotto la presidenza di persone la cui militanza partitica può essere in concorrenza con quella di altri membri del parla­ mento. L'idea suggerita dalla posteriore letteratura rabbinica, secondo cui il sinedrio fino alla distruzione del tempio sarebbe stato sempre dominato dai farisei, è certamente inesatta dal punto di vista storico. Ma, d'altra parte, non abbiamo abba­ stanza elementi per affermare qualcosa che vada oltre la sem­ plice possibilità teorica di una preponderanza essena nel sine­ drio. Essa dovrebbe comunque essere tenuta presente nella di­ scussione come una possibilità correttiva nei confronti di con­ cezioni troppo unilaterali di altra natura. D'altra parte, si potrebbe pensare a un'efficace collabora­ zione da parte degli esseni alla restaurazione e alla nuova co­ struzione del tempio di Gerusalemme iniziata dal re Erode nel 20 a.C. Vanno in questa direzione soprattutto l'intensa utiliz­ zazione di uno dei due esemplari del Rotolo del tempio, realiz-

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zati in epoca erodiana e presenti nella biblitoteca di Qumran, e diversi particolari della costruzione, terminata nel 62 d.C., che corrispondono alle misure indicate in quel rotolo. Plausibile è anche l'idea che gli esseni potevano essere interessati a prepa­ rare una costruzione adatta per l'espletamento delle sue fun­ zioni a quel sommo sacerdote, il messia di Aronne, che sa­ rebbe tornato a essere nuovamente legittimo all'inizio del tempo della salvezza, cioè, secondo i loro calcoli, nell'anno 70 d.C. Non è necessario spingersi così avanti da ritenere che gli esseni avrebbero convinto, già 90 anni prima di quella data, il loro protettore Erode a mettere mano a una simile possente opera edilizia; il re dovrebbe averlo fatto di sua propria inizia­ tiva. Gli esseni hanno comunque certamente visto di buon oc­ chio una tale impresa ed è possibile che abbiano anche attiva­ mente collaborato alla sua realizzazione. È impossibile dire molto di più sulla storia degli esseni nel periodo che va fino alla distruzione del tempio. Delle ulteriori influenze di questo forte partito religioso tratteremo breve­ mente più avanti ( cf. sotto, pp. 380-381). Non ci resta quindi che affrontare il problema delle concezioni e dei valori che hanno caratterizzato gli esseni dall'interno e hanno costituito la loro sostanziale peculiarità nel giudaismo del tempo.

LE PECULIARITÀ DEGLI ESSENI I testi ritrovati a Qumran e sicuramente composti dagli es­ seni mostrano al di là di ogni possibile dubbio che essi si sono mossi chiaramente, coscientemente e massicciamente sul ter­ reno della precedente tradizione biblica, più di qualsiasi altra parte del giudaismo del loro tempo. Al centro dell'orientamento dottrinale degli esseni vi era l'alleanza stipulata un tempo da Dio con il popolo di Israele al Sinai. La concretizzazione dell'alleanza di Dio al Sinai, norma­ tiva per tutto il resto, era per gli esseni - come per tutti gli ebrei fino ad oggi - la Torah rivelata a Mosè, cioè il Penta­ teuco nella forma dei cinque libri di Mosè. Questa Torah era il dono vero e proprio della salvezza di Dio a Israele, il fonda-

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mento di ogni insegnamento, soprattutto dell'etica, di ciò che i rabbi avrebbero poi indicato con il nome di halakah. Più forte­ mente e più chiaramente di tutte le altre parti del giudaismo del tempo gli esseni hanno in ogni caso ritenuto - secondo la tradizione biblica! - che la realizzazione della salvezza di Israele rivelata nella Torah fosse legata alla sua esistenza in Terra Santa quale particolare territorio di Dio in terra, quale sua esclusiva proprietà. In base alle norme della Torah e dell'ulteriore rivelazione biblica, la struttura più importante della Terra Santa era per gli esseni il tempio di Dio a Gerusalemme, con il suo sacerdo­ zio, le sue offerte dei sacrifici prescritti da Dio e tutte le altre norme cultuali. Secondo le prescrizioni della Torah, il popolo di Israele riunito attorno al tempio di Gerusalemme era rigida­ mente suddiviso in sacerdoti, leviti, semplici israeliti e prose­ liti, cioè pagani di nascita convertiti al giudaismo. Al vertice del loro sistema cultuale gerarchico vi era - sempre secondo la Torah - il sommo sacerdote. Secondo la comune tradizione biblica, egli doveva discendere dalla stirpe sacerdotale di Za­ dok e restare in carica fino al termine della sua vita o fino a quando era fisicamente in grado di assolvere il proprio com­ pito. Gli esseJ,li pensavano che, senza la rigida osservanza di questo regolamento cultuale gerarchico e al di fuori della Terra Santa non fosse possibile per Israele un'esistenza con­ forme alla Torah. Solo la Torah costituiva il fondamento di tutte le norme iuridiche degli esseni. Dalla Torah essi derivavano le norme g per la purezza rituale, la santità, le decime, la vita sociale e tutti gli altri ambiti dell'etica. Ma su certi punti gli esseni erano più rigidi dei loro contemporanei ebrei. Essi non ammettevano addomesticamenti della tradizione, adattamenti tendenziosi alle mutate situazioni ambientali o addirittura influenze pa­ gane e neppure norme indipendenti dalla Torah tramandata per iscritto come quelle che la successiva tradizione rabbinica ha in parte introdotto come Torah orale. I momenti della preghiera degli esseni seguivano il rito del tempio, i loro pasti comunitari le prescrizioni della Torah rela­ tive alle feste di pellegrinaggio al tempio. Nel loro tempo gli

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esseni furono più di qualsiasi altro rigidi preservatori dell'eredità religiosa dei padri, conservatori fino all'osso, nemici di ogni in­ fluenza straniera e avversari di ogni genere di novità. Il loro prin­ cipale interesse era esclusivamente polarizzato sulla pratica coe­ rente della Torah in tutte le sue parti e sulla fedele applicazione delle sue prescrizioni anche nelle situazioni più sfavorevoli. L'unica dottrina essena nuova rispetto alla tradizione era la convinzione del maestro di giustizia secondo cui i libri pro­ fetici della Bibbia si riferivano per il loro contenuto al proprio presente come ultima epoca della storia, prima del giudizio fi­ nale e dell'inizio del tempo della salvezza, per cui anche le ri­ chieste di Dio contenute nei libri profetici dovevano avere una rilevanza diretta sul presente. E tuttavia né il maestro di giusti­ zia né gli esseni hànno considerato i libri profetici in concor­ renza con la Torah, ma a essa ordinati e, in caso di diverse pos­ sibilità di comprensione, a essa sempre subordinati. Gli esseni non hanno mai riconosciuto autorità autonome e poste sullo stesso piano accanto alla Torah. Di conseguenza, non esiste una sola apocalisse - cioè uno scritto di rivelazione costituente una nuova autorità - che sarebbe stata composta dagli esseni. Tutto ciò che di «scienza segreta» era pervenuto agli esseni dalla tradizione - apocalissi, liturgia angelica, dot­ trina dei due spiriti, introduzione all'esorcismo o scritti sapien­ ziali - è stato da loro considerato come un aiuto per pene­ trare più in profondità nei misteri rivelati attraverso la Torah e i profeti, mai come il nucleo di una rivelazione divina dello stesso valore o addirittura in concorrenza con la Torah e i pro­ feti. Essi usarono queste opere solo nella misura in cui le riten­ nero conformi alla Torah. In base alla sua costituzione l'Unione degli esseni altro non era che il tentativo di ricondurre e riunire nella Terra Santa tutto ciò che ancora esisteva del tradizionale popolo delle dodici tribù di Israele. La rigorosa procedura di ammis­ sione nella comunità degli esseni serviva solo a far prendere coscienza a tutti dell'importanza della tradizione nella forma della Torah e dei libri profetici. Chiunque intendesse essere un vero ebreo doveva imparare il più pienamente possibile que­ sto nocciolo della tradizione e doveva tenerlo in alta conside­ razione nel suo concreto stile di vita.

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Gli esseni popolo di Dio di Israele Gli esseni si sono sempre considerati fin dall'inizio gli unici legittimi rappresentanti nel loro tempo dell'intero po­ polo delle dodici tribù di Israele. La loro Unione era 'am 'El (il popolo di Dio) e 'adat JiSrael (l' [intera] comunità di Israele). La loro principale assemblea annuale, in occasione della festa delle Settimane corrispondente alla nostra Pente­ coste, era intesa quale concreta manifestazione del qehal Jis­ rael (asse mblea popolare di [tutto] Israele); anche ogni loro assemblea cultuale giornaliera per la preghiera e il pasto co­ munitario era intesa come comunitario «riunirsi del popolo». Quali segni di questo essere insieme, le assemblee cultuali av­ venivano sempre, ovunque vi erano degli esseni, nelle stesse ore della giornata. Ogni gruppo locale esseno era anche parte componente dell'ideale tempio di Dio «costituito di uomini» sulla terra con i sacerdoti come Santo dei santi e il resto di Israele come l'ulteriore costruzione del tempio - il quale doveva assicurare per tutta la Terra Santa l'espiazione prescritta, fino a quando al tempio di Gerusalemme si fosse continuato a praticare il falso ordinamento del culto. E poiché idealiter nel Santo dei santi del tempio di Gerusalemme si trovava l'arca dell'al­ leanza, con la Torah che era stata un tempo rivelata al Sinai, gli esseni si auto-definivano anche «casa della Torah», cioè il tempio il cui nucleo era il Pentateuco, affidato alla speciale cu­ stodia dei sacerdoti (cf. Nm 1,50.53). Infine, i sacerdoti esseni, con i sadokiti in testa, come berit 'El (alleanza di Dio), insieme alla Torah loro affidata in vista della sua oggettiva spiega­ zione, incarnavano la rappresentanza terrena dell'antico ordi­ namento dato da Dio al Sinai. La struttura organizzativa interna degli esseni corrispon­ deva a quella dell'intero Israele nel Pentateuco. Secondo l'or­ dinamento dell'accampamento per le tribù di Israele (Nm 1-2), gli esseni si erano distribuiti per «accampamento», avevano fissato l'età minima per la capacità cultuale degli uomini al

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compimento del ventesimo anno e avevano regolato la parti­ colare posizione dei sacerdoti. Nel quadro di quest'ordina­ mento dell'accampamento avevano formato, secondo Es 18,21-22, delle sotto-unità organizzative di 1000 , 100, 50 e 10 uomini cultualmente abili, il cui presidente fungeva anche da giudice. L'esposizione in dettaglio dell'intera struttura organizza­ tiva e amministrativa degli esseni ci condurrebbe troppo lon­ tano. Importante è soprattutto il fatto che essa si basava sulle prescrizioni della Torah ed era orientata all'intero Israele, per cui non aveva nulla a che vedere con un'associazione partico­ lare. In base alla concezione che avevano di se stessi, gli esseni non erano un 'associazione particolare nel contesto di Israele, ma rappresentavano puramente e semplicemente l'intero Israele.

Nuova rigu�rdo alla tradizione biblica era solo la designa­ zione del pop o lo di Dio di Israele come jachad nel senso di «assemblea» o «unione». Questa designazione di Israele che non si trova nel linguaggio biblico si spiega con il fatto che, al momento della fondazione degli esseni, il popolo di Israele era in gran parte sparso in tutto il mondo e viveva solo in minima parte in Terra Santa. Ora per la prima volta la riunione di tutte le parti disperse di Israele come unione dell'intero popolo di Dio in Terra Santa diventava quindi un essenziale aspetto co­ stitutivo di Israele. La dispersione di Israele in ambienti che si trovavano al di fuori della Terra Santa era iniziata già con la scomparsa del re­ gno del nord (Israele) nel 722 a.C., quando la sua popolazione era finita in gran parte in Mesopotamia. La dispersione si era rafforzata con la deportazione e la fuga degli abitanti del re­ gno del sud (Giuda) negli anni 597, 587 e 582 a.C. ed era diven­ tata praticamente la condizione generale di Israele in seguito alla massiccia emigrazione dei pii durante la persecuzione reli­ giosa a partire dal 170 a.C. Così l'Unione degli esseni era, da un lato, una ricostituzione delle condizioni precedenti al 722 a.C. e, dall'altro, qualcosa di completamente nuovo dopo più di un mezzo millennio di prevalente esistenza in diaspora di Israele.

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Decisivo è il fatto che l'Unione degli esseni non era né un'associazione finalizzata alle parti di Israele che si vivevano nella diaspora né un'associazione con un qualche obiettivo particolare nel contesto di Israele, ma l'Unione di tutto Israele in Terra Santa. Chi si sottraeva permanentemente a quest'U­ nione si auto-escludeva definitivamente per ciò stesso da Israele come il popolo della salvezza di Dio, disprezzava l'al­ leanza di Dio al Sinai e abbandonava il terreno della Torah che aveva legato indissolubilmente la salvezza per Israele alla sua esistenza nella Terra Santa di Dio.

Il calendario Nell'antico Oriente esistevano diversi sistemi per fissare il calendario. I tre sistemi più diffusi continuano a scandire il ritmo della vita quotidiana fino ai nostri giorni. Sono gli stessi che hanno scandito la vita anche nel giudaismo a partire dall'e­ silio del VI sec. a.C.: il calendario solare dell'antico Egitto; il calendario lunare babilonese e la settimana di sette giorni israe­ litica, con il sabato quale sua conclusione e punto di arrivo.

Il calendario solare Dobbiamo ai romani il nostro attuale calendario, come si può costatare già dai nomi latini dei mesi. Settembre, ottobre, novembre e dicembre erano un tempo il 7°, 1'8°, il 9° e il 10° mese dell'anno, che cominciava con marzo. Questo mese pri­ maverile deriva il proprio nome da Marte, dio della guerra, sotto la cui protezione le legioni romane ripartivano per nuove imprese dopo la pausa invernale. I mesi che seguono devono i loro nomi alle divinità romane di Aprilis, Maia e Giunone. Lu­ glio è consacrato a Caio Giulio Cesare, agosto al suo succes­ sore, Gaio Ottaviano Augusto. È stato proprio Cesare a riformare l'antico calendario ro­ mano, fissando come inizio dell'anno il solstizio d'inverno e aggiungendo ogni quattro anni un giorno bisestile a febbraio,

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che era allora l'ultimo mese dell'anno, per far coincidere l'anno con l'anno solare naturale. Una più esatta coincidenza con l'anno solare di 365,2422 giorni fu stabilita nel 1582 dal papa Gregorio XIII, il quale dispose che da allora in poi nel­ l'arco di 400 anni si rinunciasse tre volte all'aggiunta del giorno bisestile. Allora si tolsero anche i dieci giorni bisestili che si erano accumulati dal tempo di Cesare, facendo seguire al 4 ottobre 1582 il giorno 15 ottobre. Così dal calendario giu­ liano si passò al nostro calendario gregoriano. Cesare prese dagli egiziani i fondamenti della riforma del calendario lunare dell'antica Roma. Essi possedevano da tempo immemorabile un calendario solare di 365 giorni, divisi in dodici mesi di 30 giorni ciascuno con cinque giorni festivi supplementari alla fine dell'anno. L'inizio dell'anno era origi­ nariamente l'alta marea del Nilo a metà luglio. Ma poiché tale anno - come si calcolava allora - era più corto di 0,25 giorni, il suo inizio ufficiale si spostava lentamente attraverso le varie stagioni finché si considerava nuovamente raggiunto, dopo un cosiddetto «periodo sothis» di 1461 anni un po' più corti, il punto di partenza. Solo nel III sec. a.C. gli egiziani ipotizza­ rono il giorno bisestile aggiuntivo ogni quattro anni, giorno che fu poi effettivamente introdotto per la prima volta da Ce­ sare. Perlomeno a partire dal 2772 a.C. gli egiziani seguirono questo calendario solare di 365 giorni. Quando nel 587 a.C. il re babilonese Nabucodonosor fece distruggere il tempio di Gerusalemme e nel 582 a.C. scoppiò una rivolta contro il suo governatore Godolia, molti ebrei, fra cui anche il profeta Geremia, si rifugiarono in Egitto. Fino ad allora gli israeliti non avevano avuto un proprio sistema glo­ bale per quanto riguarda il calendario, ma avevano praticato soprattutto la settimana di sette giorni e legato empiricamente l'inizio dell'anno all'osservazione del primo novilunio di pri­ mavera. A quel tempo essi ripresero il calendario dell'antico Egitto, un calendario profano e quindi privo di valenze reli­ giose, ma lo modificarono in un modo tale da fargli implicita­ mente attribuire un'importanza normativa all'israelitica setti­ mana di sette giorni.

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Allora dal calendario egiziano gli ebrei ripresero la divi­ sione dell'anno in 12 mesi di 30 giorni ciascuno. Dei cinque giorni aggiuntivi alla fine dell'anno ne conservarono solo quat­ tro e li aggiunsero ai mesi 3, 6, 9 e 12. Così ogni anno, con i suoi 364 giorni, era composto esattamente di 52 settimane e ogni quarta parte dell'anno con i suoi 91 giorni esattamente di 13 settimane. In questo nuovo calendario israelitico il primo giorno dell'anno era sempre un mercoledì, il quarto giorno della settimana, poiché Dio solo al quarto giorno della sua creazione del mondo aveva provveduto a creare il sole� la luna e le stelle come punti di partenza e fattori determinanti di ogni computo del tempo (Gen 1,14-19). Poiché naturalmente Dio aveva creato la luna come luna piena e non come luna nuova, il primo anno della creazione doveva essere iniziato con la luna piena. Inoltre, come inizio dell'anno naturale doveva es­ sere posta l'uguale durata del giorno e della notte di prima­ vera, poiché a partire da quel momento il sole dominava sem­ pre più la maggior parte del giorno. Questo calendario era in sé perfetto. Il suo fondamento era l'anno solare che dominava nella natura. Ogni quarto anno cominciava con una luna piena se all'ultima fase della luna nel mese precedente si aggiungeva un giorno supplementare. Nel primo anno di questo ordinamento del calendario il servizio settimanale delle 24 famiglie sacerdotali terminava per la se­ conda volta 4 settimane prima della conclusione dell'anno, co­ sicché poi cominciava subito il successivo ciclo di servizio. Alla fine di sei anni, nei quali l'inizio del ciclo delle 24 settimane co­ minciava sempre quattro settimane prima dell'anno prece­ dente, si otteneva un dato importante e cioè che ogni settimo anno si ricominciava con una settimana nella quale prendeva servizio la stessa famiglia che era stata di turno all'inizio del primo anno. Nel corso di questi sei anni ogni famiglia sacerdo­ tale aveva assolto il proprio servizio per due volte durante le grandi feste prescritte dalla Torah, nelle quali le entrate dei sa­ cerdoti erano tradizionalmente molto abbondanti. Così questo calendario, caratterizzato in senso sacerdotale, assicurava una pari opportunità dal punto di vista materiale e quindi la giusti­ zia. Esattamente dopo 49 cicli di sei anni si raggiungeva final-

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mente di nuovo il punto di partenza, nel quale l'inizio del­ l'anno naturale e l'inizio dell'anno di 364 giorni di sovrappone­ vano. Infatti, a causa della differenza di 1,2422 giorni, 294 anni di questo calendario corrispondevano con una notevole preci­ sione a 293 anni naturali. L'inevitabile differenza fra l'anno del calendario e l'anno naturale venne evidentemente, anche se a malincuore, accet­ tata e spiegata nel senso che la forza del male nel mondo, sem­ pre in lotta contro Dio, impediva al sole di poter compiere puntualmente il suo corso annuale all'interno dei 364 giorni, secondo il piano fissato da Dio nella creazione. Non si è mai cercato di far coincidere questo calendario con l'anno naturale attraverso l'aggiunta di giorni, settimane o mesi bisestili. Al contrario, i relativi testi costatano sempre che ogni anno ha esattamente 364 giorni, né uno in più né uno in meno. La con­ gruenza interna di questo calendario, il suo principio implicito dei sette giorni o del sabato, indicavano così chiaramente che si trattava dell'ordinamento originario del cosmo voluto da Dio (cf. Gen 2,1-3) che ogni altra considerazione al riguardo doveva necessariamente ritirarsi in buon ordine. Con ogni probabilità è questo il sistema di calendario che gli eb;rei che rientrarono dall'Egitto portarono a Gerusa­ lemme, quando l'editto di Ciro, re dei persiani, ne permise il ritorno nel 538 a.C., e che regolò il culto del tempio ricostruito di Gerusalemme dal giorno della sua consacrazione nel 515 a.C. A favore di questa tesi vi è soprattutto il fatto che già la fonte più tarda del Pentateuco, la cosiddetta tradizione sacer­ dotale, redatta solo dopo l'inizio dell'esilio - e probabilmente in Palestina - presuppone e considera come normativo que­ sto calendario egiziano-ebraico. Nella forma finale del Pentateuco influenzata dalla tradi­ zione sacerdotale questo dato risulta chiaramente non solo dall'indicazione di 365 anni per la durata della vita del saggio della preistoria Enoch considerato esperto di astronomia ( Gen 5,23) - l'Egitto era il «padre» di questo calendario - o dalla durata del diluvio che è stata esattamente di un anno solare (Gen 7,11 e 8,14), ma anche dalle conclusioni cui è giunta già

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nel 1953 A. Jaubert. 4 Infine, nel racconto della creazione della tradizione sacerdotale ogni giorno viene espressamente pre­ sentato come consistente anzitutto della metà del suo giorno e poi della metà della sua notte (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Ciò pre­ suppone l'inizio del giorno con il sorgere del sole al mattino, come era tradizione in Egitto, non con la sera, come avrebbe richiesto il sistema del calendario babilonese orientato in senso lunare (cf. sotto, p. 244). Inoltre, anche i precedenti calcoli delle date del mondo mostrano che - considerato dal punto di vista della Torah solo questo calendario solare di 364 giorni corrispondeva al piano di salvezza di Dio. Calcolando infatti, come ha fatto nel III sec. a.C. l'autore del libro dei Giubilei, la parte della storia del mondo descritta nella Torah in unità di 49 anni solari, si ot­ tiene questo risultato: dalla creazione di Adamo fino all'in­ gresso di Israele nella Terra Santa, sotto la guida di Giosuè, sono passati esattamente 50 periodi di 49 anni, cioè 2450 anni (Giubilei 50,4). Essi erano al tempo stesso quei cinque cicli di 490 anni ciascuno da cui l'autore dell'apocalisse delle dieci set­ timane del libro di Enoch ha tratto la sua conclusione che l'in­ gresso di Israele in Terra Santa era avvenuto esattamente a metà di una storia del mondo di complessivi 4.900 anni (Enoch etiopico, 93 e 91,12-17) . Nel nostro contesto possono bastare questi esempi per mo­ strare soprattutto come questo calendario solare di 364 giorni egiziano-ebraico sia servito in modo generalizzato e del tutto naturale da orientamento di fondo religioso-cultuale al giudai­ smo palestinese fin dal tempo dell'esilio, nel VI sec. a.C. Pro­ babilmente, al tempo di Gerusalemme esso ha continuato a es­ sere il calendario ufficiale e normativa fino al 167 a.C. Ciò non esclude che l'elaborazione della sua perfetta forma finale possa essere avvenuta solo dopo vari compromessi iniziali. Ma

4 A. Jaubert, la principale esperta di questo calendario, ha dimostrato che - presupponendo questo calendario solare - nel Pentateuco si è sempre fatto in modo che i patriarchi non venissero mai descritti in viaggio in giorno di sabato.

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al più tardi a partire dal IV sec. a.C. furono accettate le inevi­ tabili discrepanze rispetto all'anno naturale, così come nell'an­ tico Egitto erano stati accettati i periodi sothis o come nell'i­ slam si è accettato che l'inizio dell'anno di 354 giorni ruoti con­ tinuamente attraverso tutto l'anno naturale. Gli esseni sapevano che l'Israele del tempo della monar­ chia non aveva conosciuto questo calendario solare di 364 giorni. Dio lo aveva rivelato solo a coloro che erano soprav­ vissuti alla distruzione del regno di Giuda, all'inizio del VI sec. a.C. Esso non era quindi un semplice ulteriore sviluppo delle tradizioni vetero-israelitiche, ma qualcosa di nuovo e di auto­ nomo rispetto a esse. Ma soltanto chi rimaneva fedele a questo ordinamento del calendario e del culto rivelato all'Israele del­ l'esilio continuava ad aver parte alla vita. Chi lo disprezzava e seguiva un diverso ordinamento del calendario era per ciò stesso escluso da ogni forza vitale di Israele (CD 111,12-17).

Il calendario lunare L'altro sistema di calendario dell'antico Oriente, che conti­ nua a determinare in parte in una forma modificata anche il nostro attuale calendario, è il calendario lunare babilonese. Così noi continuiamo, ad esempio, a fissare la data della Pa­ squa in base alle fasi lunari, facendone poi dipendere, da un lato, il periodo di carnevale e, dall'altro, le date dell' Ascen­ sione, della Pentecoste e del Corpus Domini. In base a questo calendario, la Pasqua del 1991 è caduta i1 31 marzo, quella del 1992 i1 19 aprile, quella del 1993 1'11 aprile, quella del 1994 il 3 aprile, quella del 1995 il 16 aprile, quella del 1996 il 7 aprile. Anche il mondo industriale, politico, economico e scolastico devono convivere con queste date mobili, nonché con il fatto che nessun anno può cominciare con lo stesso giorno della set­ timana dell'anno precedente, poiché la divisione del tempo ve­ tero-israelitica in rigide settimane di sette giorni, che pure ab­ biamo ripreso, si inserisce non senza problemi nei nostri anni di 365 o 366 giorni. Ogni ciclo lunare, da luna piena a luna piena o da luna nuova a luna nuova, dura 29,5306 giorni. I babilonesi, ancorati

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dal punto di vista del calendario alla divinità lunare Shin, fe­ cero iniziare ogni giorno con la sua metà notturna e divisero l'anno in 12 mesi di alternativamente 30 e 29 giorni, per un to­ tale di 354 giorni. Per pareggiare il corso dell'anno naturale essi aggiungevano, ogni secondo o terzo anno, un mese supple­ mentare, sette volte durante un ciclo di 19 anni, e, inoltre, altri giorni supplementari alla fine dei mesi, quando il naturale ri­ tardo della data della luna nuova lo rendeva necessario. I mesi e gli anni cominciavano sempre con il novilunio e non parti­ vano, come nel sistema del calendario solare, dalla luna piena. I nomi dei mesi babilonesi nisan, ijjar, sivan, tammuz, ecc. dell'attuale calendario ebraico, come pure il suo ordinamento che corrisponde pienamente nella sua concezione fondamen­ tale al calendario babilonese, ne indicano chiaramente l'ori­ gine. Problematico può essere solo il tempo in cui gli ebrei lo hanno ripreso, nonché il quando - e il perché - esso è diven­ tato il calendario ufficiale del giudaismo. I cristiani lo hanno in seguito ripreso dagli ebrei, anche se in forma modificata. In genere, si afferma che Israele avrebbe seguito il calen­ dario lunare babilonese di 354 giorni già nell'ultima fase del regno di Giuda e che lo stesso avrebbero fatto i deportati in esilio in Mesopotamia e quanti dopo l'editto di Ciro del 538 a.C. ritornarono di là a Gerusalemme. Così questo calendario avrebbe scandito senza alcun problema anche il culto al tem­ pio di Gerusalemme dopo la sua ricostruzione e riconsacra­ zione nel 515 a.C. Ma, in realtà, non esiste alcuna prova in grado di suffragare l'esattezza di un tale comune modo di ve­ dere. Quando verso la fine del VII sec. a.C. i babilonesi diven­ nero la principale potenza politica del Medio Oriente il loro calendario lunare era non solo quello fondamentale per tutta l'amministrazione del regno, ma già allora il solo esistente nella regione in base al quale poter determinare gli anni a più lunga scadenza, datare i documenti e fissare in modo chiaro, a livello sovra-regionale, gli avvenimenti importanti. Quando Ciro, re dei persiani, salì al trono (538 a.C.) e, dopo di lui, suo figlio Cambise (521-486 a.C.) organizzò su un'unica base il nuovo grande impero, questo calendario era internazional-

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mente riconosciuto fin nelle regioni più meridionali dell'im­ pero persiano, fin nell'Alto Egitto. Così nel 419 a.C. Dario II (423-404 a.C.) ha potuto ordinare persino agli abitanti della colonia militare ebraica di Assuan di celebrare la festa di Pa­ squa e dei pani azzimi a partire dal quattordicesimo giorno del mese di nisan; fino ad allora essi conoscevano evidentemente solo il calendario dell'impero, ma non ancora questa festa ebraica. D'altronde, è questa l'unica prova risalente a epoca pre-maccabaica del fatto che gli ebrei nella loro prassi cultuale potrebbero aver seguito il calendario lunare babilonese. Ma questo dato non dice assolutamente nulla su ciò che avveniva allora al tempio di Gerusalemme. Come esempio comparativo per la situazione allora esi­ stente in Giudea può servire quanto avviene attualmente nello stato di Israele. I giornali, le lettere commerciali e personali, spesso persino i documenti vengono datati secondo i giorni, mesi e anni del calendario che era un tempo proprio dei soli cristiani e che oggi è seguito in tutto il mondo. Spesso nella vita quotidiana si usa l'anno 1996 invece dell'anno 5756 dalla creazione del mondo. Ma contemporaneamente nello stato di Israele, per tutte le faccende religiose, per esempio per le date dei giorni festivi, si usa esclusivamente il tradizionale calenda­ rio lunare ebraico. Analogamente, in epoca babilonese, persiana e seleucida, non solo a livello mondiale ma anche in Palestina e a Gerusa­ lemme, gli ebrei hanno usato nei settori internazionalmente collegati dell'amministrazione, del commercio, della corri­ spondenza, ecc. le date del calendario lunare babilonese, il che non significa in alcun modo che quello fosse anche il calenda­ rio ufficiale del tempio di Gerusalemme e quindi la base del­ l'ordinamento del culto. Per quanto è possibile dimostrare è stato il sommo sacer­ dote Menelao a introdurre per la prima volta nel 167 a.C. que­ sto calendario lunare babilonese nel tempio di Gerusalemme e, d'altronde, come calendario puramente pagano, senza il sa­ bato e senza una sola delle tradizionali feste ebraiche. La setti­ mana di sette giorni e le feste ebraiche vi furono integrate solo quando il maccabeo Gionata, in occasione della sua entrata in

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carica come sommo sacerdote nel 152 a.C., rimise in vigore causa dei suoi interessi politici a livello internazionale questo calendario al tempio di Gerusalemme. Quanto poco ebraico sia questo calendario lunare di 354 giorni dal punto di vista della sua origine lo dimostrano soprat­ tutto i problemi che esso ha creato ai rabbi, in quanto contrad­ diceva altri dati della loro tradizione o persino della stessa To­ rah. In questo calendario lunare né gli inizi dei mesi né quelli degli anni si adattano alla settimana di sette giorni vetero­ israelitica. Le date delle feste cadono continuamente in giorni di sabato, cosicché si deve decidere di volta in volta se ad avere la precedenza debba essere la festa o il sabato. Nonostante che in giorno di sabato sia proibito qualsiasi lavoro e i rabbi faces­ sero la massima attenzione a non consentire in quel giorno neppure la più piccola attività che avesse parvenza di lavoro, a volte le azioni preparatorie, pure prescritte, di una festa che cadeva il giorno seguente costringevano a infrangere il coman­ damento del sabato. Esaminando i libri e i dotti trattati consacrati fin dall'epoca rabbinica alle particolarità di questo calendario lunare ebraico ancora in uso ai nostri giorni, ci si rende facilmente conto del perché gli esseni lo abbiano rigettato e siano rimasti scrupolo­ samente fedeli - nonostante tutti i problemi della sua concor­ danza con l'anno naturale - al calendario solare di 364 giorni della tradizione ebraico-palestinese. Solo questo calendario era più di ogni altro ebraico, se l'implicita misura fondamen­ tale di tutte le cose doveva essere la settimana di sette giorni, con il sabato come suo coronamento. L'interna congruenza di questo calendario solare con le fasi della luna in ogni ciclo di tre anni era, al riguardo, solo un'ulteriore conferma della giu­ stezza di questo orientamento di fondo. A parte questo, la luna non aveva alcuna funzione nel sist�ma del calendario so­ lare di 364 giorni, né per fare iniziare ogni volta l'anno con la luna piena o la luna nuova né per la data di una qualsiasi festa. Se, al contrario, ci si fosse basati sulle fasi lunari, l'intero ordi­ namento del mondo voluto da Dio ne sarebbe rimasto scom­ paginato (Giubilei 6,28-38; soprattutto 6,36; cf. anche le nostre date della festa di Pasqua! ). -

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Già il libro dei Giubilei, certamente pre-esseno, aveva co­ statato che solo il sole doveva fornire la base fondamentale di tutti gli ordinamenti del calendario (Giubilei 2,9-10). Lì si in­ dica al riguardo anche una motivazione che va oltre tutti i sin­ goli problemi relativi al calendario. Si dice che solo il sole può distinguere in modo giusto fra la luce e le tenebre. Nella dottrina dei due spiriti dei documenti di Qumran (10 S 111,13-IV,26) si sviluppa ulteriormente questa divisione fondamentale del mondo dal punto di vista della teologia della creazione. Quando Dio creò il mondo, predispose in esso parti uguali di luce e tenebre, bene e male, verità e menzogna, giu­ stizia e malvagità, anche se in seno alle singole opere della creazione ad avere il sopravvento è ora l'una ora l'altra parte. Ma nell'anno vi è tanta luce del giorno quanta tenebra della notte. Ora a un tale orientamento fondamentale della crea­ zione può rendere giustizia solo l'orientamento alla durata di un anno solare. Gli anni lunari, con i loro a volte 354 giorni, a volte 383 o più giorni, non consentono mai parti uguali di luce e di tenebre e ripugnano già solo per questo all'ordine posto da Dio nella creazione.

La rivalità dei due calendari A partire dal 152 a.C. solo gli esseni continuarono a se­ guire il calendario solare di 364 giorni di quella tradizione di Israele che aveva le proprie radici nell'esilio. Anche i sadducei lo ritenevano l'unico giusto, ma per motivi politici seguivano nel tempio, come i farisei, il calendario lunare che era diven­ tato ormai quello ufficiale. Nei loro scritti gli esseni hanno continuamente e amara­ mente lamentato il fatto che così estese parti di Israele aves­ sero abbandato l'ordinamento del calendario conforme alla creazione e hanno visto in questo uno dei motivi fondamentali dei castighi che Dio aveva permesso si abbattessero sul suo po­ polo. Ma poiché gli esseni non avevano la forza politica per raddrizzare simili storture, solo il futuro giudizio finale avrebbe potuto aprire la strada al ritorno dell'antico ordina­ mento del calendario. Fino ad allora il giudaismo palestinese

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avrebbe seguito due calendari fra loro incompatibili, per cui era giocoforza che nelle città e nei villaggi della Palestina gli esseni si mantenessero rigidamente separati dagli altri ebrei. Anche nel cristianesimo esistono rivalità analoghe. Così, ad esempio, la chiesa cattolica celebra Natale il 25 dicembre, mentre la chiesa ortodossa russa - considerando la cosa dal punto di vista delle date dell'attuale calendario gregoriano ­ celebra ogni anno la nascita del Signore il 7 gennaio. Là dove nelle località russe o ucraine sono presenti entrambe le chiese, i cristiani celebrano sempre le loro feste principali in date di­ verse. In questi casi si tratta di una profonda spaccatura in una vita che viene vissuta per il resto in modo comunitario. Lo stesso accadeva con gli esseni nel quadro del giudaismo pale­ stinese. Forse questa disputa ebraico-palestinese sul calendario esisteva già nel giudaismo pre-esseno. Nel libro dei Giubilei, come pure nel libro astronomico di Enoch, composto al più tardi nel III sec. a.C., si sottolinea ripetutamente che solo un anno solare, con i suoi 364 giorni, corrisponde alla volontà creatrice di Dio. Un'apologetica del genere può essere rivolta solo contro altri ebrei che già allora seguivano il calendario lu­ nare non solo nelle loro faccende commerciali, ma anche nella loro pratica religiosa. Probabilmente si trattava di quella grande diaspora ebraica della Mesopotamia, che era iniziata nel 722, era notevolmente cresciuta a partire dal 587 a.C. e di cui solo una piccola parte era ritornata in Palestina, in seguito all'editto di Ciro (538 a.C.). Probabilmente essa aveva ripreso molto presto il calendario babilonese, integrandovi sia la setti­ mana di sette giorni che le date delle feste israelitiche. Così già dal VI sec. a.C. esistevano nel giudaismo due fa­ zioni aventi un diverso orientamento in fatto di calendario. L'influsso del giudaismo babilonese sulla madre patria do­ vrebbe aver determinato delle discussioni sul corretto ordina­ mento del calendario al tempio di Gerusalemme già a partire dal 538 a.C., ma soprattutto al tempo di Esdra (metà o fine del V sec. a.C.). Ma allo stato attuale non esiste alcuna prova per ritenere che il calendario lunare babilonese sia diventato, an-

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che solo temporaneamente, il calendario ufficiale del culto a Gerusalemme già in epoca pre-maccabaica. Perciò le opere ebraico-palestinesi, come il libro dei Giubi­ lei o il libro astronomico di Enoch, devono essere considerate prato-testimonianze tese ad assicurare la validità e il riuscito rifiuto dei tentativi di cambiamenti dell'ordinamento del ca­ lendario al tempio di Gerusalemme intrapresi in quel tempo. D'altra parte, su questo sfondo si può comprendere anche per­ ché l'introduzione del calendario lunare da parte del sommo sacerdote Gionata, nel 152 a.C., non abbia prodotto una gene­ rale resistenza. Egli non ha inventato un nuovo calendario ma · ha esteso anche al tempio di Gerusalemme un calendario ebraico già regionalmente in uso nel giudaismo del tempo. La particolarità degli esseni consistette nel fatto di rifiutare que­ sto cambiamento e di restare irremovibilmente fedeli alla tra­ dizione cultuale del tempio di Gerusalemme.

I sacrifici nel tempio di Gerusalemme La realtà centrale del culto nel tempio di Gerusalemme era costituita da quei sacrifici di animali, cibi e bevande che si dovevano offrire sull'altare dell'olocausto il sabato e nei giorni delle feste religiose. Queste offerte di sacrifici erano legate a scadenze le cui date erano fissate dal calendario cultuale. La validità dei sacrifici, la loro accettazione da parte di Dio, dipendeva quindi non da ultimo anche dal fatto che venis­ sero offerti nelle giuste date. Le relative prescrizioni della To­ rah si trovano soprattutto in Lv 23 e Nm 28-29. Al riguardo Lv 23,37-38 richiede anche una fondamentale distinzione fra il rito sacrificale dei giorni di sabato e quello dei giorni di festa. Secondo la Torah, si doveva evitare che i due riti fossero cele­ brati nello stesso giorno. Nella Torah le prescrizioni relative ai sacrifici costitui­ scono un sistema ben definito. Poteva essere ampliato ma non poteva essere cambiato nei suoi fondamenti. Seguendo un or­ dinamento del calendario che permetteva a una festa pre­ scritta dalla Torah di cadere in giorno di Sabato· si profanava non solo l'uno o l'altro sabato, ma tutto il sistema e quindi, più

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in generale, la realtà sacrificate del tempio. Tutti i sacrifici o�­ ferti nel quadro di un simile errato ordinamento cultuale non erano offerti secondo le prescrizioni e la loro efficacia risul­ tava azzerata, proprio come se non fossero mai stati offerti. Gli esseni non hanno mai criticato, o addirittura rifiutato, il culto sacrificale prescritto dalla Torah. Ma, secondo loro, il calendario lunare introdotto da Gionata nel tempio impediva che i sacrifici fossero fatti in modo conforme alle richieste della Torah. Se ciononostante gli esseni avessero continuato a partecipare al culto sacrificale del tempio di Gerusalemme, an­ che i loro stessi sacrifici sarebbero stati nulli. D'altra parte, la Torah richiedeva tassativamente di offrire i sacrifici in essa prescritti. Agli esseni non restava quindi altra scelta che offrire i sacrifici indipendentemente dal culto del tempio di Gerusa­ lemme e di boicottarlo per tutto il tempo nel quale fosse stato praticato sulla base di un errato ordinamento del calendario. Boicottando l'errato culto sacrificale del tempio di Geru­ salemme gli esseni si conformavano anche a un ordine dato da Dio per mezzo del profeta Malachia per l'ultima epoca della storia del mondo prima del giudizio finale, un'epoca partico­ larmente esposta alle forze del male. Tutti coloro che volevano continuare a essere fedeli all'alleanza di Dio stipulata al Sinai dovevano «non più entrare nel santuario (allo scopo di) accen­ dere inutilmente il fuoco ( offrire sacrifici) sul suo altare; (in­ vece) devono essere coloro che "tengono chiuse le porte" ( si te ngono lontani dal culto errato), porte riguardo alle quali Dio stesso aveva detto: "Oh, ci fosse fra di voi chi chiude le porte (del tempio), perché non arda più invano il mio altare" (Ml 1,10)» (CD VI,l l-13). Il maestro di giustizia si rifiutò di seguire l'esempio del sommo sacerdote Onia IV, lui pure scacciato dall'ufficio, il quale alcuni anni prima aveva eretto a Leontopoli in Egitto un autonomo tempio ebraico con relativa pratica dei sacrifici, e si rifiutò certamente, fra l'altro, poiché riteneva imminente il giudizio finale di Dio, cosa che avrebbe comunque posto fine all'errato ordinamento cultuale del tempio di Gerusalemme. Egli si preoccupò quindi solo di soluzioni-tampone per il breve =

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tempo del passaggio. Nessuno pensava allora che il prov­ visorio sarebbe potuto durare per secoli. Nella situazione di fatto gli esseni si attennero alle indica­ zioni di Dio come, ad esempio, la sua parola detta per mezzo di Salomone: «Il sacrificio degli empi è in abominio (al Si­ gnore), la preghiera degli uomini retti è per lui una gradita of­ ferta» (Pr 15,8) (CD Xl, 20-21). «Invece della carne degli olo­ causti e del grasso delle vittime» si onora «come offerta sacrifi­ cate volontaria, gradita [a Dio] l'offerta delle labbra ( il culto della preghiera correttamente eseguito dal punto di vista litur­ gico) fatta nel modo prescritto come profumo sacrificale più adeguato e cambiamento più pieno ( stile di vita conforme alla Torah)», i quali «espiano tutte le colpe commesse me­ diante la trasgressione (dei comandamenti di Dio) e (altre) azioni peccaminose (di Israele) e (procurano) la prosperità alla terra (santa) (di Dio) (10 S IX,4-5; analogamente VIII,67.9-10). Il luogo adatto per queste offerte alternative era l'Unione essena di tutto Israele quale tempio di Dio in Terra Santa. Le quotidiane celebrazioni cultuali locali degli esseni, liturgica­ mente corrette e corrispondenti al modello del rituale del tem­ pio, e il loro stile di vita rigidamente conforme alla Torah erano considerati il sufficiente equivalente di tutti i sacrifici prescritti nella Torah. Gli esseni tuttavia non hanno mai pre­ sentato singoli elementi della loro liturgia o particolari ambiti del loro stile di vita quali esatti equivalenti di determinati sa­ crifici. Era la loro globale pratica liturgica ed etica a prendere il posto dei sacrifici offerti sull'altare del tempio. Perciò essi do­ vevano osservare anche tutte le particolari norme di purità e di santità che erano prescritte nella Torah per il culto nel tempio, più rigide per i sacerdoti e i leviti che non per i semplici israe­ liti,. Solo in questo modo si assicurava l'accettazione da parte di Dio di queste offerte sacrificati sostitutive. I testi di Qumran mostrano senza ombra di dubbio che gli esseni non hanno partecipato alle offerte sacrificati sull'altare del tempio di Gerusalemme né hanno continuato a offrire in natura le prescritte offerte di animali, cibi e bevande. Il dato corrisponde esattamente anche a ciò che dicono degli esseni =

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Filone di Alessandria e Giuseppe Flavio. D'altra parte, è pro­ babile che essi abbiano continuato a offrire al tempio di Geru­ salemme offerte che non erano legate come scadenza al calen­ dario cultuale, quali ad esempio l'offerta per la nascita di un bambino, per lo scioglimento di un voto o per altre ricorrenze personali. Del resto, il boicottaggio del sacrificio del sabato e delle fe­ ste da parte degli esseni non comportava alcun generalizzato distanziamento dal tempio di Gerusalemme. Per loro il tempio continuava a essere la dimora centrale di Dio sulla terra in mezzo a Israele. Gli esseni insegnavano nel tempio e facevano offerte per la manutenzione dell'edificio e di tutte le sue ma­ gnifiche suppellettili. Pagavano, come tutti i giudei, la tassa del tempio, solo che non lo facevano annualmente, ma davano una sola volta in vita il mezzo siclo previsto da Es 30,1 1-16. Come tutti i giudei, anche gli esseni pregavano sempre rivolti verso il tempio di Gerusalemme. Di conseguenza, anche l'asse longitudinale della sala delle riunioni di Qmnran è rivolto verso il tempio e persino l'inclinazione, sorprendentemente accentuata, del suo pavimento è tale che il suo prolungamento finirebbe esattamente nel Santo dei santi del tempio di Geru­ salemme, posto 1080 m più in alto e distante in linea d'aria solo 26 km. Gli esseni si rifiutavano di compiere al tempio - li praticavano in un altro modo - solo quei sacrifici la cui of­ ferta era regolata nei sabati e nei giorni di festa da un ordina­ mento cultuale errato dal punto di vista del calendario. A parte la macellazione annuale degli agnelli di Pasqua, il 14 del primo mese, gli esseni hanno praticato, come altra ma­ cellazione cultuale-rituale, l'uccisione e l'olocausto della vacca rossa in base a Nm 19,1·- 10. Le ceneri di questa vacca servivano per la preparazione dell'acqua della purificazione necessaria a chiunque fosse venuto in contatto con i morti. Questo rito non era legato né a una data particolare, né all'intervento del sommo sacerdote, né all'altare degli olocausti del tempio. Non era neppure un sacrificio in senso stretto, per cui poteva essere praticato dagli esseni senza alcun problema, nonostante il loro boicottaggio del culto del tempio.

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La comunione dei beni Chiunque entrasse a far parte degli esseni portava nell'U­ nione di tutto Israele non solo la sua persona ma anche tutti i suoi averi. Di qui nasceva quel particolare tipo di comunione dei beni che era caratteristico degli esseni. Solo le scoperte di Qumran ci hanno permesso di conoscere come fosse concepito e funzionasse, poiché prima di allora non ci erano noti i loro concreti regolamenti in materia né la terminologia che gli stessi esseni usavano al riguardo. I testi di Qumran . indicano per lo più globalmente con il termine hon ciò che la persona portava al momento del suo in­ grèsso e che diventava quindi proprietà dell'Unione. Per speci­ ficare ulteriormente si usano anche i termini koach e da'at (così 10 S 1,11 -12), termini che sono comunque già compresi nel termine hon. Il termine hon designa infatti globalmente l'intero poten­ ziale patrimoniale di un uomo, i suoi beni materiali, nonché il suo potenziale di forze fisiche e spirituali, ivi compresa la loro utilizzazione, cioè i frutti che ne derivano. Solo come sottoli­ neatura principale e più immediata hon significa ciò che si pos­ siede sul piano materiale, come appezzamenti di terreno, case, campi, vigne, piantagioni, orti, laboratori, negozi, schiavi, ani­ mali, danaro o altri oggetti di valore, compresi i loro eventuali diritti di eredità, in breve l'intero possesso di un uomo in beni mobili e immobili. Componente essenziale di questa proprietà materiale sono i suoi frutti, quindi tutto ciò che si può aggiun­ gere ai vari tipi di possesso mediante l'uso personale, l'affitto, l'appalto o la vendita. Intesa in senso economico, koach è la propria forza lavo­ rativa fisica, compresi i frutti che ne derivano, per esempio attraverso il lavoro salariato o altri servizi, mentre da 'at è il bagaglio intellettivo e conoscitivo come base essenziale del profitto materiale di artigiani, commercianti, contabili, seri­ vani, maestri, medici o altre attività, il cui capitale è appunto · la conoscenza specifica. Gli esseni hanno quindi considera to la forza lavorativa e la conoscenza specifica, in quanto componenti del potenziale della proprietà personale, come

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beni materiali e questo dal punto di vista dei frutti che ne deri­ vano. Chiunque voleva entrare fra gli esseni doveva cedere loro il proprio patrimonio e il diritto ai frutti che ne derivavano solo dopo che era trascorso l'anno di prova ed era stato supe­ rato l'esame di ammissione. Il patrimonio portato dal nuovo membro veniva anzitutto iscritto in un conto particolare e am­ ministrato a parte per il caso in cui - a causa di morte, non idoneità o recesso di chi desiderava essere ammesso - non fosse scattato alla fine, dopo almeno tre anni di preparazione, la concessione dello status di membro a pieno titolo. Solo quando si era raggiunto lo status di membri a pieno titolo l'U­ nione essen a diventava proprietaria incondizionata di ciò che il nuovo membro aveva portato con sé (lO S VI,13-23) e tale ri­ maneva per sempre, anche nel caso in cui dopo quel momento colui che era stato accettato con tutti i suoi beni avesse lasciato la comunità, ne fosse stato estromesso o fosse morto senza prole. Ciò valeva naturalmente soltanto per i diritti di pro­ prietà nel quadro del patrimonio portato nell'Unione. Ciò non dice ancora nulla sul modo in cui ci si comportava in materia di diritti di possesso e diritti di uso; essi appartengono a una cate­ goria giuridica del tutto diversa. È possibile rendersi chiaramente conto del modo in cui ve­ niva intesa la comunione dei beni degli esseni e dei presuppo­ sti materiali e religiosi su cui essa si basava solo se si prendono in considerazione i suoi fondamenti biblici. Infatti, anche in questo gli esseni intendevano unicamente restare fedeli alla tradizione biblica e continuare a seguime accuratamente le prescrizioni. Per comprendere i particolari regolamenti degli esseni bisogna quindi conoscere la normativa in materia di di­ ritti di proprietà che si trova soprattutto nella Torah. Seconpo ·la descrizione biblica la Terra Santa non è mai stata o diventata proprietà del popolo di Israele. Essa, insieme con tutti i suoi abitanti, è sempre stata fin dall'inizio e sarà per sempre proprietà del suo Dio JHWH (per esempio, Lv 25, so­ prattutto 25,23.55). Questo Dio si era scelto il popolo di Israele, che languiva nella schiavitù dell'Egitto, lo aveva libe­ rato dalla sua condizione di schiavitù e lo aveva introdotto

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nella sua propria terra, prima d'allora sconosciuta a Israele (Nm 13). In questa ricca e prospera terra di Dio, «nella quale scorrono latte e miele», egli aveva assegnato alle dodici tribù di Israele, ai loro clan e alle singole famiglie, porzioni ben pre­ cise di territorio che essi dovevano abitare e coltivare, dei cui abbondanti frutti dovevano vivere, potendo così diventare un popolo grande e forte (Nm 32-36). Dal punto di vista giuridico Dio aveva assegnato agli israe­ liti le loro porzioni di Terra Santa sempre e solo come nacha­ lah, cioè per cosi dire in enfiteusi o in usufrutto, come pos­ sesso, non come proprietà. I diritti di possesso corrispondenti alla tribù, ai clan e alle famiglie li dovevano lasciare in eredità ai loro figli e alla loro discendenza. Ma il proprietario di tutta la terra rimaneva sempre Dio e il suo irrinunciabile titolo di proprietà comprendeva due richieste fondamentali di cui Israele doveva sempre tener conto e che gli esseni, stanti i con­ creti rapporti giuridici nell'ambiente della loro fondazione, vo­ levano adempiere con la loro comunione dei beni. Da un lato, nella sua stipulazione dell'alleanza al Sinai, dunque concretamente nella Torah quale documento origina­ rio di quell'alleanza con Israele, Dio aveva legato l'esistenza e la permanenza del popolo eletto nella Terra Santa al fatto di seguire integralmente le prescrizioni della Torah. La Torah, da parte sua, legava ogni salvezza di Israele alla sua esistenza nella Terra Santa. La Torah minacciava ogni israelita che non si fosse attenuto a questo con castighi fino alla pena di morte, addirittura, in caso di infedeltà, l'intero popolo di Israele con l'espulsione dalla terra di Dio, il che equivaleva a privarlo del fondamento materiale della propria esistenza; in esilio non esi­ steva infatti alcuna terra di Dio. Una delle richieste di Dio come proprietario della Terra Santa fatta a Israele come suo possessore era quindi l'imprescindibile dovere dell'obbedienza nei confronti del proprietario terriero; il suo principale stru­ mento di governo era la Torah, con le sue prescrizioni vinco­ lanti ai fini della benedizione o della maledizione. Dall'altro, Dio in quanto proprietario della Terra Santa aveva diritto di partecipare ai suoi frutti. In sé e per sé gli ap­ partenevano per intero i frutti della terra, ma nella Torah egli

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aveva disposto che i frutti andassero quasi interamente a fa­ vore di coloro che li producevano. Solo minime parti di questi frutti, naturalmente sempre le migliori, dovevano essere of­ ferte al proprietario della terra, non per il suo proprio sosten­ tamento - Dio infatti non ha bisogno di nulla - ma come espressione rituale del riconoscimento dei vigenti rapporti di proprietà. Materialmente, le parti dei frutti della Terra Santa offerte a Dio, i sacrifici e le altre offerte cultuali, dovevano an­ dare ancora una volta in massima parte a vantaggio degli stessi israeliti. In tal modo si teneva opportunamente conto, da una parte, del personale addetto al culto, dall'altra, dei membri della popolazione di Israele sprovvisti di reddito, di coloro che avevano bisogno di aiuto da parte della comunità e dei fore­ stieri che vivevano insieme a loro in Terra Santa. La partecipazione di Dio ai frutti della Terra Santa era co­ stituita nei primi tempi dell'esistenza di Israele in Terra Santa, caratterizzati dall'agricoltura, soprattutto dall'offerta delle pri­ mizie di tutto ciò che si produceva nel paese. Già molto presto la nascita del primo figlio maschio venne compensata con il sa­ crificio di un animale, come risulta dalla descrizione del sacrifi­ cio di !sacco da parte di suo padre Abramo ( Gen 22) e, succes­ sivamente, con offerte in danaro. Si conservò in natura il di­ ritto di Dio al primogenito maschio di mucche, pecore e capre, nonché all'annuale offerta delle primizie delle colture di ce­ reali, vigneti e oliveti, successivamente anche di palme da dat­ tero, fichi e altri alberi da frutta, oltre che dei prodotti orticoli. L'offerta di queste primizie avveniva cumulativamente in occasione delle tre feste di pellegrinaggio le cui date seguivano la maturazione dei frutti e in occasione delle quali tutti gli uo­ mini di Israele abilitati al culto dovevano riunirsi nel tempio di Gerusalemme. Si trattava della festa degli Azzimi in prima­ vera, collegata alla maturazione dell'orzo e combinata con la Pasqua, della festa delle Primizie del grano, sette settimane più tardi, e della festa delle Capanne in autunno, per le primi­ zie dei prodotti della terra che maturavano più tardi. Parti delle offerte venivano poste e bruciate sull'altare dell'olocau­ sto. Altre parti erano distribuite ai sacerdoti e ai leviti, i quali come personale addetto al culto non possedevano una propria

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porzione di Terra Santa e dovevano quindi partecipare indi­ rettamente ai suoi frutti. Ma la maggior parte delle offerte por­ tate al tempio erano consumate, dopo la loro offerta rituale, dagli stessi pellegrini partecipanti alla festa sulla grande spia­ nata del tempio. Per la festa degli Azzimi, il banchetto sacrifi­ cale durava sette giorni, per la festa delle Capanne otto giorni, per le altre feste sacrificali per lo più un solo giorno. La struttura fondamentale della realtà sacrificale qui de­ scritta corrisponde essenzialmente alla situazione esistente alla fine dell'epoca della monarchia, quindi alla fine del VII sec. a.C. La sua preistoria, che era strutturata molto diversa­ mente nel regno del nord (Israele) rispetto al regno del sud (Giuda), con il suo tempio a Gerusalemme, appare ancora parzialmente nelle diverse parti che compongono tradizional­ mente la Torah e in altri scritti biblici. Non è possibile ricavare un quadro realmente unitario né da questi scritti, né dagli ulte­ riori sviluppi del sistema nell'opera storica cronachistica o nel testo del Rotolo del tempio ritrovato a Qumran, i quali rispec­ chiano la situazione esistente attorno al 400 a.C. Al riguardo interferivano continuamente molteplici interessi che introdu­ cevano nel sistema nuove feste, accrescevano le parti riservate ai sacerdoti e ai leviti, coinvolgevano altri settori della produ­ zione, assicuravano il monopolio del tempio di Gerusalemme o prescrivevano che parti delle offerte cultuali venissero utiliz­ zate nei rispettivi luoghi di provenienza in ogni parte del paese. Le fonti di cui disponiamo ci consentono solo di cono­ scere singoli aspetti di queste battaglie durate per secoli, ma non la situazione globale di fatto in un determinato momento storico. Tanto più importante è quindi il fatto di rendersi conto della tendenza, iniziata già all'epoca della monarchia, a riunire la molteplicità delle offerte nell'offerta delle decime, indipen­ dentemente dalle date delle feste di pellegrinaggio. Già nella Torah si trovano diversi esempi del genere accanto alle offerte legate a una data fissa. Le decime sono effettivamente un si­ stema che si pone in concorrenza con le feste di pellegrinaggio, la cui introduzione era stata dettata originariamente da ragioni di politica cultuale e sociale, ma la cui importanza era cresciuta

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quando, alla fine del tempo dell'esilio, si era scelto il calenda­ rio solare di 364 giorni per l'ordinamento del culto nel tempio di Gerusalemme. Fino alla caduta del regno del nord (Israele) nel 722 a.C. erano esistiti i tre grandi santuari statali, cioè fondati e mante­ nuti dai re, di Gerusalemme, Betel e Dan e, accanto a essi, nu­ merosi santuari delle alture e strutture cultuali private di israe­ liti ricchi sparsi in tutto il paese. La molteplicità di questi luo­ ghi di culto offriva sufficienti possibilità di introiti per un gran numero di sacerdoti e leviti. La fine del regno del nord, quello più esteso dal punto di vista territoriale, ridusse praticamente alla fame quella parte di sacerdoti e leviti che non era stata de­ portata. La riforma del re di Giuda Ezechia (716-687 a.C.) e la riforma di Giosia del 622 concentrarono tutto il restante culto di Israele nel tempio di Gerusalemme e soppressero tutti i luo­ ghi di culto ancora esistenti. Ora a Gerusalemme le famiglie sacerdotali ad avere voce in capitolo e tutti i privilegi sul piano degli introiti erano unicamente quelle che vi risiedevano da antica data, soprattutto quelle discendenti dalla stirpe di Za­ dok. Le folle affamate di sacerdoti e leviti provenienti dagli al­ tri luoghi di culto furono integrate solo in parte nel servizio del culto nel santuario centrale e rimasero, inoltre, discriminate sul piano dei privilegi. Dovrebbe essere stata introdotta proprio in questo pe­ riodo la cosiddetta decima dei /eviti, che, secondo Nm 18,20-32, doveva essere riscossa ogni anno o, secondo Dt 14,28-29 e 26,12-15, solo ogni tre anni e dalla quale i leviti dovevano pre­ levare a loro volta il dieci per cento a favore dei sacerdoti. I te­ sti citati mostrano chiaramente che si trattò fin dall'inizio di offerte sociali. La loro offerta annuale dovrebbe essere entrata in vigore con l'inizio del Secondo tempio. Al più tardi a quel tempo fu introdotta anche la relativa decima dei sacerdoti (Dt 14,22-27; 26,1-11 e Nm 18,8-19), nella quale furono riunite tutte le offerte fino ad allora vigenti pro­ venienti dai frutti agricoli della Terra Santa. Le tradizionali fe­ ste di pellegrinaggio conservarono certamente la loro impor­ tanza come vertici cultuali, ma da allora in poi, come mostra il Rotolo del tempio (110 T XIII-XXIX), in tutte le feste legate

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al calendario il primo posto venne preso nel tempio dai sacri­ fici di animali non dipendenti da un particolare tempo dell'anno. Le offerte agrarie si potevano invece versare essen­ zialmente sotto forma di decime, indipendenti dalle date del­ l'anno cultuale e anche da quelle del ciclo produttivo naturale. Cosl dall'orientamento orginariamente agrario della pre­

sentazione delle offerte, in occasione delle tre principali feste di pellegrinaggio (cf., ad esempio, Dt 26), si passò alla fine a un sistema nel quale l'elemento principale di tutte le feste diven­ nero i sacrifici di animali nel tempio. Inoltre, da allora in poi, in ogni festa - e anche nell'offerta quotidiana, il tamid � al posto delle primizie del raccolto dell'orzo, del frumento, del­ l'uva o delle olive, disponibili solo in determinate stagioni del­ l'anno si offrirono il fior di farina, il vino e l'olio di oliva dispo­ nibili allo stesso modo durante tutto l'anno, naturalmente solo in quantità simboliche rispetto all' ammontare delle decime. Le offerte dei frutti della terra non vennero neppure più destinate in modo speciale alle famiglie sacerdotali che assicu­ ravano il servizio nel tempio al momento della loro presenta­ zione, ma vennero destinate, in base a regole distributive con­ tinuamente corrette, alle famiglie sacerdotali autorizzate a ri­ ceverle. Non è più possibile stabilire con certezza se le parti di animali sacrificati, delle macellazioni domestiche e della cot­ tura del pane che spettavano ai sacerdoti fossero calcolate con le decime o se venissero versate in aggiunta. Esse erano co­ munque una stabile fonte di introiti per i sacerdoti e le loro fa­ miglie. In ogni caso, il passaggio alle decime come sistema princi­ pale indipendente dalle stagioni permette di comprendere come mai si potesse seguire nel culto del tempio il calendario solare di 364 giorni, che si discostava dal corso dell'anno natu­ rale, senza grandi problemi e senza che si rendesse necessario inserire all'occasione settimane o mesi aggiuntivi per ristabi­ lire la sua concordanza con l'anno naturale. Le feste dell'anno cultuale avevano ormai un significato soprattutto rituale. La maggior parte delle offerte era stata di fatto sganciata dal­ l'anno cultuale mediante le prescrizioni relative alle decime.

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La base indiscussa della riscossione di tutte le offerte cui· tuali e della partecipazione a questi frutti rimase natural· mente anche in epoca post·esilica il fatto di abitare nella Terra Santa e di servirsene dal punto di vista economico. Al· lora il giudaismo non era ancora una religione del libro tale da coinvolgere allo stesso modo a livello mondiale tutti co· loro che erano israeliti di origine e che orientavano il loro stile di vita alla Torah, ma una religione del tempio, ispirata dall'alleanza di Dio con Israele ancorata saldamente al tem­ pio di Gerusalemme e esistente esclusivamente entro i con­ fini della Terra Santa (così, ad esempio 110 T LIX,1-13). Solo i suoi frutti erano cultualmente vincolati. Problematico poteva essere in ogni caso il che cosa doveva essere conside­ rato concretamente «frutto della terra» e il fondamento giuri­ dico di proprietà su cui si fondavano i doveri, in particolare quello del pagamento delle decime. Punto di partenza di tutte le ulteriori costatazioni è il fatto indiscusso che, secondo la testimonianza biblica, il tem­ pio di Gerusalemme non ha mai giocato il ruolo di rappresen· tante nei diritti di proprietà di JHWH sulla Terrra Santa. Esso non aveva alcun possedimento terriero che oltrepas­ sasse le mura esterne dell'area del tempio. Già nel periodo della monarchia parti della terra erano diventate proprietà dei re. La città di Gerusalemme, come «città di Davide», era comunque indipendente nei confronti dei territori delle tribù di Israele. A partire dal 722 a.C., l'antico regno del nord ap­ partenne quasi completamente ai pagani. In epoca post-esi­ lica, i sovrani pagani considerarono loro proprietà anche l'an­ tico possesso reale in Giudea, da essi concesso in affitto a vantaggio delle casse dello stato, come pure altre terre da essi espropriate o sottomesse con la forza. Quel poco di Terra Santa che era ancora rimasto agli ebrei era considerato, dal punto di vista giuridico, come loro proprietà privata. Di con­ seguenza, tutto sommato la Terra Santa come realtà che po­ teva essere chiamata in causa per le offerte cultuali in base al diritto di proprietà era scomparsa. In questa situazione, verso la metà del II sec. a.C., gli es· seni si sono mossi nel senso della tradizione biblica. Come la

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loro Unione riuniva sul piano personale il più ampiamente possibile le parti disperse di Israele in Terra Santa, così anche la Terra Santa, frantumata e divisa fra proprietari privati di ogni sorta, doveva essere nuovamente restituita sul piano giu­ ridico a Dio quale suo vero proprietario. Ma non era possibile attribuire nuovamente i diritti di pro­ prietà a Dio in forma globale, per esempio dichiarando sic et simpliciter proprietà di Dio l'intera Terra Santa. Così facendo infatti anche i pagani e gli ebrei che vivevano in modo dif­ forme alla Torah sarebbero stati automaticamente coinvolti, in quanto proprietari di parti della terra, nel sistema delle offerte cultuali. Ora, a causa delle prescrizioni di purezza e di santità di tutte le offerte cultuali, una cosa del genere era assoluta­ mente impraticabile. Rimaneva quindi una sola strada: esami­ nare, con una procedura esigente e dispendiosa, la capacità cultuale di tutti gli israeliti esistenti entro i confini della Terra Santa e restituire a Dio come vero proprietario della terra solo la proprietà privata di quanti fossero stati trovati, dal punto di vista religioso, assolutamente ineccepibili. Tendenzialmente per questa via, nel corso del tempo, sa­ rebbe potuta ridiventare proprietà di Dio tutta la terra di Israele assieme con tutti i suoi abitanti, specialmente se si fos­ sero comprati appezzamenti di terreno e grandi proprietà ter­ riere dai pagani e dagli ebrei dimentichi di Dio o si fossero espropriati a favore di Dio i beni posseduti illegalmente. Al ri­ guardo, ciò che più contava non era tanto l'aspetto della tota­ lità quantitativa, che forse non si sarebbe mai raggiunta, quanto piuttosto l'aspetto qualitativo della cosa, il fatto che in Palestina vi fosse nuovamente Terra Santa e che essa venisse riunita, dal punto di vista giuridico, come esclusiva proprietà di Dio. Sommamente importante è il fatto che gli esseni non hanno mai programmato di impadronirsi per se stessi della Terra Santa. Essi agivano solo fiduciariamente per Dio. Dal punto di vista terminologico ciò appare chiaramente, per esempio, nel fatto che l'Unione essena si firmi espressamente, in quanto ricettrice del patrimonio dei nuovi membri, come ja­ chad 'El ( unione di Dio) (lQ 1,12), per cui era Dio stesso a di-

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ventare proprietario del patrimonio che i membri apporta­ vano. Il consiglio di presidenza, responsabile a livello di tutta la Terra Santa dell'amministrazione dei beni immobili e dei patrimoni dell'Unione essena, si chiamava 'a�at chibbur Jis­ ra 'el (consiglio dell'unione israelitica) (CD XII,8). Ne cono­ sciamo l'esistenza solo perché era l'unico ad avere il diritto di confiscare proprietà pagane in Terra Santa. Inoltre, è molto eloquente il fatto che questo collegio non si identificasse con l'amministrazione del tempio, ma fosse un organo autonomo; il tempio non fungeva quindi da esecutore fiduciario nelle fac­ cende relative alla proprietà materiale, ma solo da ricevente dei frutti provenienti dalla proprietà. Il titolo di «consiglio dell'unione israelitica» indica inoltre - come risulta anche da molti altri dati presenti nei testi di Qumran - che la comunione dei beni dell'Unione essena era fondamentalmente intesa come una faccenda che riguardava tutto Israele. Se la comunione dei beni rimase di fatto limitata alla organizzazione degli esseni fu solo perché parti di Israele presenti in Terra Santa, fra cui in particolare il potere politico, si rifiutarono di entrare a far parte di quest'Unione di tutto Israele. Ma dal punto di vista della sua concezione essa non mirava a un gruppo esclusivo all'interno del giudaismo palesti­ nese, bensì a tutto il popolo di Dio in Terra Santa. Le parti del giudaismo palestinese che, a partire dal 150 a.C., restarono fuori dall'Unione essena non perseguirono mai una analoga comunione dei beni, ma si comportarono anche in seguito in vario modo in base al diritto privato. Già nel II sec. a.C. i sovrani asmonei iniziarono a riconqui­ stare quasi tutto il territorio dell'antica terra delle dodici tribù di Israele e ad annettere al loro regno anche i territori pagani confinanti, come la parte settentrionale dell'ldumea, l'antico Edom, e il territorio a oriente del Giordano. A tutti i pagani da essi incontrati in queste loro campagne espansionistiche fu concessa la scelta fra la giudaizzazione forzata o l'annienta­ mento. In tal modo gli asmonei assicurarono al tempio di Ge­ rusalemme da loro stessi diretto un ricco potenziale di offerte, senza porsi molti problemi nel chiedersi se le persone coin­ volte conducessero o meno una vita pura e santa, se i singoli si

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erano procurati correttamente o meno la loro proprietà, se le avessero fatto produrre frutti nel debito modo. Ciò che impor­ tava era che tutti gli ebrei residenti nel loro regno facessero nel modo stabilito le loro offerte cultuali, offerte che, in parte, venivano trasmesse al tempio di Gerusalemme e al personale addetto al culto che vi prestava servizio e, in parte, - soprat­ tutto sotto forma dell'antica decima dei leviti - finivano nelle casse dello stato, il quale si prendeva cura anche dell'assi­ stenza sociale pubblica. Prospettive molto ampie furono aperte, in particolare, dal calendario lunare, con integrazione in esso delle feste ebrai­ che, introdotto al tempio da Gionata nel 152 a.C. Sulla base di questo calendario internazionale fu possibile integrare nel si­ stema delle donazioni cultuali anche la diaspora ebraica al di fuori della Palestina. Il miglior aggancio fu offerto al riguardo dalla tassa del tempio, che, secondo Es 30,11-16, doveva essere versata da ogni israelita dopo il compimento del suo vente­ simo anno. A tale dovere furono allora sottoposti anche gli israeliti che non vivevano in Terra Santa. Infatti, il collega­ mento della donazione con l'esistenza in Terra Santa si ricava tutt'al più dal contesto del Pentateuco, ma non dal dato isolato del testo, l'unico decisivo secondo il metodo esegetico fari­ saico del tempo. Così, già all'inizio del I sec. d.C., Filone di Alessandria at­ testa come uso in vigore già da molto tempo il fatto di racco­ gliere la tassa del tempio anche fra gli ebrei residenti in Egitto e di farla pervenire a Gerusalemme annualmente in una pre­ cisa data attraverso una delegazione. Se a questo si aggiun­ gono le relative informazioni di Giuseppe Flavio e della tradi­ zione rabbinica si ricava che, a partire dall'epoca asmonea, gli ebrei della diaspora erano stati coinvolti a livello mondiale, da Roma alla Mesopotamia, nel dovere del pagamento della tassa del tempio. Essi la portavano soprattutto in occasione delle tre feste di pellegrinaggio - gli ebrei residenti in Mesopotamia, ad esempio, in occasione della festa delle Capanne - e invia­ vano a Gerusalemme in quelle occasioni anche le altre offerte prescritte dalla Torah o corrispondenti somme di danaro. Qui il collegamento delle offerte cultuali con l'esistenza di Israele

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in Terra Santa, quindi con il principio di fondo, viene comple­ tamente abbandonato; anzi si rinuncia, in ultima analisi, a qualsiasi collegamento delle offerte con il principio giuridico di proprietà. Al posto di tutto questo subentra come elemento decisivo l'appartenenza personale a Israele come popolo di Dio ora sparso su tutta la terra, il collegamento con la Torah al posto del collegamento con l'esistenza nella terra di Dio. In modo analogo si comportarono i farisei. Essi richiede­ vano, in particolare, l'esatta osservanza delle prescrizioni della Torah relative alla purità e alle decime, estendevano il dovere della decima anche ai più piccoli ortaggi (Mt 23,23; Le 11 ,42) e tenevano la loro proprietà personale distinta da quella degli altri ebrei, soprattutto per non dover pagare successivamente la decima dei frutti agricoli nel caso in cui l'agricoltore non l'a­ vesse pagata o nel caso in cui fosse incerto se lo avesse fatto o no. Ma presso i farisei il possesso comunitario esisteva solo nella stessa identica forma in cui esisteva in tutte le comunità sinagogali, e cioè essenzialmente sotto forma dei locali edifici destinati alla preghiera e alla scuola. La tradizione di un Israele riunito in Terra Santa come unica realtà di riferimento per tutta la salvezza offerta dalla Torah è stata pienamente conservata o ristabilita solo dagli es­ seni. A questo scopo serviva la riunione di tutti i diritti di pro­ prietà nella loro comunione dei beni. Naturalmente, anche in seguito i singoli esseni restavano, con tutti i diritti tradizionali, i possessori personali di tutto ciò che avevano trasferito dal punto di vista del diritto di proprietà all'«Unione di Dio». L'a­ gricoltore esseno continuava a coltivare i propri campi, le pro­ prie vigne o i propri frutteti e viveva con la sua famiglia dei loro frutti. Lo stesso facevano i salariati esseni, coloro che pre­ stavano servizi, gli artigiani, i commercianti e altri professioni­ sti, il cui capitale era costituito dal sapere specialistico. A que­ sti appartenevano, in particolare, anche i sacerdoti e i leviti es­ seni con le loro famiglie. Nella misura in cui esercitavano delle professioni erano obbligati a pagare le decime anche dei loro frutti. D'altra parte, potevano vivere bene, insieme alle loro famiglie, di ciò che loro spettava come parte specifica delle of-

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ferte e delle decime degli altri israeliti che vivevano in Terra Santa. Poiché le decime erano state pensate in definitiva per il culto del tempio e gli esseni boicottavano per principio il culto sacrificate nel tempio di Gerusalemme, a causa del suo errato ordinamento per ragioni attinenti al calendario, l'uso delle de­ cime doveva essere naturalmente destinato ad altri scopi nel tempo che sarebbe intercorso fino al ristabilimento di un cor­ retto culto sacrificale. Le parti tradizionalmente riservate al personale del culto continuavano naturalmente a essere tra­ smesse ai sacerdoti e leviti che erano entrati a far parte dell'U­ nione e�sena. Le offerte eccedenti provenienti dall'alleva­ mento del bestiame e dai frutti della terra, quindi dalla tradi­ zionale decima sacerdotale, venivano essenzialmente usate da­ gli esseni per i loro pasti comunitari e le offerte provenienti da introiti dovuti alla professione nel senso della tradizionale de­ cima levitica venivano usate soprattutto per scopi sociali. Questo era naturalmente solo l'ordinamento di fondo. Ac­ canto a questo si potevano trarre anche finalità particolari da molte altre prescrizioni della Torah relative ai sacrifici e alle offerte. Per esempio, coloro che presso gli esseni si occupa­ vano dell'amministrazione erano senza dubbio talmente obe­ rati di lavoro da non poter esercitare alcun'altra professione in grado di fornire loro il necessario per vivere. Ma finora non sappiamo se per gli uffici direttivi si scegliessero solo persone i cui proventi patrimoniali bastavano per il loro sostentamento o se e in che misura essi .venissero indennizzati con i fondi della cassa comune. Da qualche parte devono essere venute anche le enormi somme che erano state necessarie per la fon­ dazione e il funzionamento dell'insediamento di Qumran e per le realizzazioni edili di Ein Feshkha. Tutto questo proveniva da donazioni di membri benestanti o si ricorse alle eccedenze delle casse delle diverse comunità? I testi di Qumran, compo­ sti per comunicarci ben altre notizie, non offrono purtroppo alcuna informazione al riguardo. È certo comunque che questo genere di comunione dei beni poneva gli esseni in una posizione migliore rispetto a quella che si può presupporre per il resto della popolazione

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ebraica della Palestina. Materialmente, gli esseni non erano

poveri, ma relativamente ricchi! La causa di questa relativa ric­ chezza era il principio dell'economia interna che il genere di

comunione dei beni degli esseni portava necessariamente con sé; infatti, le esigenze della purità e santità rituale limitavano notevolmente le importazioni. Così, per esempio, l'artigiano esseno acquistava il proprio pane da una panetteria essena, poiché solo in questo caso poteva essere certo che la farina proveniva dal raccolto di un agricoltore esseno, il quale da parte sua aveva già pagato la decima prescritta del suo rac­ colto. Esattamente come i farisei, anche gli esseni facevano di tutto per evitare il pagamento di un'eventuale ulteriore de­ cima. Inoltre, anche tutti gli introiti delle decime restavano nel loro ambito. Ciò che i farisei e gli altri ebrei versavano a titolo di decima per i sacerdoti al tempio di Gerusalemme, in gran parte quindi a personale cultuale esterno, agli esseni serviva per il proprio sostentamento, facendo loro risparmiare i mezzi altrimenti necessari a tale scopo. Ciò che, d'altro canto, sa­ rebbe finito in parte, a titolo di decima per i leviti, al personale del culto al tempio di Gerusalemme, e, in parte nell'assistenza sociale pubblica e nelle casse dello stato, restava interamente a disposizione dell'Unione essena per le proprie finalità sociali. In ultima analisi anche il rigorismo etico degli esseni affi­ nava la coscienza del dovere dei loro membri non solo ri­ guardo all'onestà nel pagamento delle loro decime - già le fonti bibliche si lamentano dell'insufficiente fedeltà nelle of­ ferte - ma anche riguardo all'uso economico delle loro perso­ nali risorse, sia del possesso materiale che delle capacità pro­ fessionali. Dal momento alle un devoto consapevole del pro­ prio dovere considera tutto questo come dono di Dio, si impe­ gna con tutte le sue forze a incrementarne i frutti (cf. Mt 25,14-30; Le 19,12-27). Per gli esseni la cessione della loro pro­ prietà privata all'«Unione di Dio» altro non era che un modo per rientrarne in possesso come dono di Dio. I profitti che gli esseni producevano, grazie al loro genere di comunione dei beni, erano comunque così notevoli che essi potevano permettersi di essere l'unica organizzazione del loro tempo a coinvolgere nel loro sistema caritativo anche i non

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membri ( Guerra 2,134 ). Vogliamo sottolinear!o soprattutto perché la letteratura su Oumran veicola spesso l'idea che la ri­ nuncia alla proprietà da parte degli esseni li abbia posti in una situazione di povertà personale, di ascesi, se non addirittura di morte per fame. Vero è esattamente l'opposto. Proprio grazie al loro genere di comunione dei beni non vi era nell'antico giu­ daismo alcun altro gruppo organizzato così benestante come quello degli esseni. È certamente vero che gli esseni si autodefinivano «la co­ munità dei poveri>> (40 pPsa 1-10, 11,10, 111,10). Ma con questo essi indicavano unicamente la loro povertà di fronte a Dio, nel senso della pietà biblica degli 'anawim, quale era stata presen­ tata ad esempio nel salterio. Ma il dato economico emerge in primo piano quando si rimprovera al «sacerdote empio» Gio­ nata di «aver rapinato» illegalmente «la ricchezza dei poveri», cioè i terreni degli esseni (10 pHab Xll,9-10). Si tratta di provvedimenti governativi relativi al diritto di proprietà a danno degli esseni, di provvedimenti che danneggiavano il loro patrimonio, per esempio, la confisca delle proprietà ter­ riere da essi reclamate a favore dello stato, ma non della spo­ liazione da parte dei ricchi di persone socialmente povere. Co­ lui che in questo caso veniva soprattutto rapinato dal sacer­ dote empio era Dio; altrimenti la cosa non sarebbe stata ricor­ data in un testo religioso quale è il commento ad Abacuc. Già Filone, Giuseppe e Plini� il Vecchio hanno erronea­ mente ritenuto che la comunione dei beni degli esseni fosse una comunione di possesso che escludesse ogni forma di pro­ prietà pri';'ata. Così essi hanno presentato un quadro del tutto fuorviante della situazione di fatto. Di conseguenza, nella let­ teratura specialistica gli esseni sono spesso considerati alla stregua dei successivi ordini monastici cristiani, nei quali non esiste proprietà privata . . Ma, in realtà, la comunione dei beni degli esseni si limitava espressamente ai diritti di proprietà dei membri come fondamento per richiedere le dovute offerte re­ ligiose. Con ciò che possedevano gli esseni potevano persino fare commercio, potevano per esempio vendere ad altri ebrei le eccedenze del loro raccolto di cereali e ai pagani i prodotti

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dei loro laboratori. La loro proprietà era al contrario radical­ mente inalienabile. Chi danneggiava per negligenza la proprietà della comu­ nità doveva procurare un uguale valore prendendo dai propri introiti personali o veniva escluso per due mesi dalle preghiere e dai pasti comunitari (lQ S VII,6-8). Normalmente, si trat­ tava in questo caso di proprietà mobili, per esempio un asino prestato che era scomparso per sempre o beni appartenenti alla comunità, come le decime il cui trasporto era stato affi­ dato a cuor leggero a estranei. Poiché era facile in casi del ge­ nere, al fine di sottrarsi alla punizione, affermare che si era trattato di un furto premeditato della controparte, si doveva giurare che si era trattato realmente di un furto. Nel caso in cui il giuramento si fosse dimostrato falso, sia la persona in causa che tutti coloro che erano a conoscenza della cosa e non ave­ vano detto come erano andate veramente le cose erano puniti con le sanzioni ancora più dure previste per gli spergiuri (CD IX,l0-12). Dal punto di vista giuridico è eloquente al riguardo il fatto che la persona in causa viene presentata unicamente come bdal (possessore, detentore) di ciò che si è perduto, ma non come il suo proprietario; in ebraico si sarebbe dovuto usare per questo una costruzione con hajah lo (era sua pro­ prietà). Ma il proprietario giuridico in tutti i casi del genere era l'Unione essena. I begli esempi che Filone e Giuseppe Flavio adducono per descrivere la realtà della comunione dei beni degli esseni sono veramente di tutt'altra natura. Secondo i loro racconti, ogni esseno che si trovava in viaggio poteva alloggiare gratuita­ mente presso qualsiasi altro esseno, cioè mangiare e passarvi la notte, e alla sua partenza riceveva addirittura nuovi vestiti e sandali quandq il suo stato lo consigliava. Ciò non era nient'al­ tro che la prosecuzione di quella ospitalità che già la Torah raccomandava nei confronti di qualsiasi altro israelita. Simili usi e costumi non hanno nulla a che vedere con la comunione dei beni degli esseni. La meraviglia di fronte al fatto che gli es­ seni praticavano con la massima naturalezza quest'ospitalità - anche se limitata ai loro propri membri - mostra solo fino a che punto le tradizionali norme del diritto vetero-israelitico

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all'ospitalità erano cadute in disuso nel resto del giudaismo. Molte comunità sinagogali facevano._ certamente lo stesso. Ma gli esseni assursero nel loro tempo a luminoso modello di quel genere di giudaismo che seppe preservare con grande genero­ sità la tradizionale ospitalità fra correligionari. La corrispondente legislazione sociale degli esseni non era nient'altro che la realizzazione di ciò che si era sviluppato in epoca post-esilica a partire dall'antica decima dei leviti. I !eviti in quanto tali non giocarono in questo più alcun ruolo. Essi erano stati già da molto tempo sufficientemente tutelati dal punto di vista sociale nel quadro delle offerte per il personale del culto del tempio di Gerusalemme, dei discendenti di Levi, ivi compresi tutti i sacerdoti. Le vere beneficiarie della decima dei leviti erano perciò diventate, già in epoca pre-esilica, quelle fasce socialmente deboli del giudaismo che, nel quadro delle formulazioni bibliche relative alla decima !evitica, erano state solo tenute presenti, senza essere state considerate le sue esclusive beneficiarie. Come si presentasse concretamente la decima dei leviti verso la metà del II sec.-a.C. e come sia stata incastonata nella concezione della comunione dei beni di tutto Israele dell'U­ nione essena lo dimostra con l'auspicata chiarezza la rispettiva legislazione. Al riguardo, la principale testimonianza è la se­ zione del Documento di Damasco XIV,12-17. Essa afferma che i contributi sociali venivano incassati e amministrati dagli amministratori esseni dei patrimoni, ma venivano trasmessi o pagati ai bisognosi non da lor(\ stessi ma da autonomi organi giuridici. Le somme versate nella cassa sociale provenivano dalle de­

trazioni obbligatorie sugli introiti derivanti da tutte le presta­ zioni di servizi e attività professionali finanziariamente redditi­ zie nella misura di «due giorni (di lavoro) abbondanti al mese>>, dunque in linea di massima il dieci per cento, da ver­ sarsi non più una volta all'anno ma mensilmente. L'indica­ zione percentuale approssimativa deriva dal fatto che, secondo il calendario solare di 364 giorni, per esempio il primo mese dell'anno aveva sempre solo 8 giorni lavorativi, il secondo 25, il terzo e il quarto rispettivamente 26, ecc. Nell'anno vi erano

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52 sabati e altri 32 giorni non lavorativi. I restanti 280 giorni la­ vorativi dell'anno davano, divisi per i mesi, mediamente 23,33 giorni, un decimo dei quali era 2,333 giorni. Di qui quel nu­ mero approssimativo di «due giorni abbondanti di lavoro al mese». Agli aiuti provenienti dalla cassa sociale avevano diritto tutti gli esseni che dal punto di vista sociale potevano essere considerati «danneggiati», che avevano bisogno cioè, in quanto sociahnente deboli, dell'assistenza sociale o, in quanto scarsamente provvisti di un proprio patrimonio, di un soste­ gno. In totale vengono ricordati nove diversi tipi di questi biso­ gnosi di assistenza. I primi sei appartenevano già al tempo del­ l'Israele pre-esilico ai classici beneficiari dell'assistenza so­ ciale; gli altri sono stati presi in considerazione solo in epoca post-esilica. In dettaglio questi tipi sono: a) coloro che man­ cano in genere di terra o di patrimonio, oppure b) i bisognosi di assistenza per essere caduti in povertà; c) coloro che sono impediti a causa dell'età, oppure d) incapaci di assicurarsi suf­ ficienti introiti, a causa di menomazioni fisiche; e) gli israeliti finiti prigionieri dei pagani o caduti in schiavitù, che potevano essere riscattati; f) le fidanzate, il cui obbligatorio corredo fi­ nanziario non poteva essere sostenuto dalle loro proprie fami­ glie. Sorprende la mancanza in questa lista delle vedove e degli orfani; evidentemente nel frattempo essi erano già stati suffi­ cientemente tutelati sul piano giuridico familiare e non erano più, come un tempo, i principali beneficiari delle casse sociali. Nuovi, rispetto alla tradizione vetero-israelitica, sono anzi­ tutto g) i «giovani per i quali non vi è alcuna richiesta (da parte dell'economia)». In questo caso, si tratta probabilmente di aiuti per il finanziamento di una formazione professionale, per mettere gli assistiti in grado di esercitare una professione, spo­ sarsi e poi provvedere a se stessi e alla propria famiglia con gli introiti da essa . derivanti. Una tale esigenza formativa presup­ pone un ventaglio di professioni che non esisteva ancora nel­ l'antico Israele, orientato quasi esclusivamente alla coltiva­ zione della terra. La categoria successiva riguarda h) le sovvenzioni intese a permettere a professionisti e artigiani, per esempio, di affittare

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esercizi, acquistare o attrezzare negozi, laboratori, imprese di trasporti, ecc. Non sappiamo se queste sovvenzioni fossero date a fondo perduto o come crediti senza interessi che dove­ vano poi essere restituiti. Nell'ultimo caso si afferma: i) «e nessuna casa di un mem­ bro deve essere sottratta al suo potere di disporne». Qui non può trattarsi del riscatto di debiti a favore di terzi gravanti sul possesso della casa di membri, poiché in questo caso compe­ tente sarebbe stata non la tassa sociale ma l'amministrazione del patrimonio. Nel contesto della normativa sociale «la sua casa» può intendere solo un membro degli esseni, insieme con gli appartenenti alla sua famiglia. Si tratta quindi certamente del riscatto da diritti avanzati da terzi sulla sua forza lavorativa, quindi della liberazione dalla cosiddetta schiavitù per debiti. Essa era all'ordine del giorno nel giudaismo del tempo. Si produceva per esempio quando un agricoltore, dopo un cattivo raccolto, aveva biso­ gno di aiuti per sfamare la propria famiglia o per comprare ce­ reali dallo stato. Ma la cancellazione dei debiti era possibile solo mediante il lavoro dei membri della famiglia presso altri. Chi come ebreo entrava a far parte degli esseni aveva, secondo questa norma, diritto a sovvenzioni della cassa sociale per libe­ rarsi dai propri problemi. Perciò presso gli esseni non esiste­ vano «schiavi», ma solo «liberi», cosa che Filone e Giuseppe Flavio lodano in modo particolare {Filone, Quod omnis pro­ bus liber sit 79; Giuseppe, Antichità 18,21). Al contrario, il pos­ sesso di schiavi e schiave d� origine non ebrea non costituiva al­ cun problema neppure per gli esseni (CD XI,12; XII,l0-11; cf., per esempio, Es 20,10.17; Dt 5,14.21). Per il resto era vietato agli esseni costituire società produt­ tive insieme a forestieri o a membri esclusi o intrattenere, in­ sieme a queste persone, rapporti commerciali con terze per­ sone. Gli esseni consideravano queste cooperazioni commer­ ciali come una fondamentale inammissibile «mescolanza della proprietà)), Permessi, ma comunque necessitanti caso per caso di un 'autorizzazione, erano invece i commerci dei singoli membri con forestieri, persino con pagani. Naturalmente, ai

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pagani non si poteva vendere nessun genere di prodotti agri­ coli che erano soggetti alle decime e che erano considerati per­ ciò come «santificati», e così pure nessun animale utile o uc­ cello «puro», poiché non si poteva escludere che il suo acqui­ rente potesse offrirli agli dèi pagani. I commerci con i forestieri potevano essere fatti solo «da mano a mano»; cosi, ad esempio, nessuna delle due parti po­ teva concludere accordi di consegna di merci vincolanti per un certo tempo. Ciò che l'altro dava in cambio erano normal­ mente somme di danaro o cose che non si producevano in Pa­ lestina, come ad esempio rotoli di papiro egiziani, metalli, spe­ zie e profumi provenienti dall'Arabia, legname da costruzione e biancheria della Siria o, in caso di cattivi raccolti, cereali pro­ venienti dall'Asia minore o dall'Egitto, ecc. Non sottostava invece ad alcuna limitazione il commercio interno nel contesto dell'Unione essena. Le rappresentazioni diffuse della comunità patrimoniale degli esseni come comu­ nità di possesso e della concentrazione di tutto ciò che è esseno nel piccolo insediamento di Qumran hanno ·purtroppo fatto sl che non si sia ancora dedicata la necessaria attenzione a que­ sto aspetto. Ma dal punto di vista del possesso i singoli esseni e le im­ prese da essi dirette erano in gran parte autarchiche. Con gli introiti personali si pagava tutto ciò che era necessario per il sostentamento, compresi affitti, locazioni, costi delle imprese, installazioni e salari. Il fatto che ogni esseno comprasse per quanto possibile il pane da un panettiere esseno, il vino da un vignaiolo esseno e l'abbigliamento da un rivenditore di stoffe, un sarto o un calzolaio esseno, aiutava le diverse imprese ad avere sempre lavoro e scambi garantiti. Tutte le stoffe offerte dagli esseni rispettavano le leggi di purità della Torah; la carne del macellaio esseno era stata macellata conformemente alle prescrizioni e in nessun sandalo di un calzolaio esseno era en­ trato anche cuoio di maiale. Proibita nel commercio interno degli esseni era solo l'usura; probabilmente anche i prezzi fissi hanno parzialmente favorito lo scambio di merci con somme di danaro.

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Bagni rituali, momenti di preghiera e pasti cultuali Al sorgere del sole, al suo punto più alto a mezzogiorno e al suo tramonto tutti i membri a pieno titolo dei gruppi locali esseni si riunivano per i momenti comunitari di preghiera. Il ri­ tuale di questi atti seguiva la liturgia del tempio. All'inizio, i sacerdoti suonavano le trombe del culto. Il rito della preghiera richiedeva ripetutamente la prosternazione davanti a Dio. Come per tutti i giudei del tempo, la direzione della preghiera degli esseni era il Santo dei santi del tempio di Gerusalemme (cf. sopra, p. 253). La recita degli inni era riservata per lo più ai più elaborati momenti di preghiera del sabato e delle feste. Nel contesto dei momenti di preghiera esseni non vi è mai stata la lettura della Scrittura nella forma in cui veniva abitual­ mente praticata nelle riunioni sinagogali. Non si parla di una colazione comunitaria. A mezzogiorno e a sera il momento di preghiera era seguito da un pasto cul­ tuale comunitario di tutti i partecipanti nella sala delle riu­ nioni. Erano pasti a ba�e di piatti caldi e come bevanda succhi di frutta, nelle feste anche vino. In questi pasti comunitari l'or­ dine dei posti seguiva rigidamente la gerarchia interna che ve­ niva rinnovata ogni anno in occasione della festa dell'alleanza; questo ordine comportava, inoltre, la suddivisione fondamen­ tale in sacerdoti, leviti, altri israeliti e proseliti. Era indispensa­ bile la presenza di un sacerdote, il quale assumeva la presi­ denza e recitava, all'inizio del pasto, la benedizione sul cibo e sulle bevande. Per il resto regnava il silenzio. I pasti non erano accompagnati né da letture né da atti liturgici. Alla fine il sa­ cerdote che presiedeva recitava una preghiera, perlomeno se­ condo quanto dice Giuseppe Flavio (Guerra 2,131 ); nei testi di Qumran non se ne parla, ma molto probabilmente perché la cosa era ovvia. Il cibo e le bevande di questi pasti comunitari provenivano dalle offerte in natura della decima sacerdotale, nonché da ac­ quisti con il danaro che rimaneva dopo aver tolto dalla decima dei sacerdoti ciò che spettava personalmente ai sacerdoti, ai le­ viti e alle loro famiglie. Ma poiché, secondo le norme fissate dalla Torah per le feste di pellegrinaggio, i sacerdoti e i leviti

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partecipavano al banchetto sacrificale dei pellegrini sullo spiazzo del tempio dopo il compimento dei riti sacrificali, gli esseni ritennero necessaria - al di là delle necessità liturgiche - la presenza e la partecipazione al pasto comunitario di al­ meno un sacerdote. La presidenza del sacerdote derivava dalla sua precedenza gerarchica. Poiché in pratica ciò che si prele­ vava dalle decime sacerdotali non era più legato all'anno cul­ tuale e alle tradizionali feste di versamento delle decime, ma era distribuito sull'intero anno secondo il corso della natura, i pasti comunitari giornalieri presero il posto dei pasti delle fe­ ste legate a date fisse. Durante le stagioni prive di raccolti ciò che era necessario per i pasti cultuali derivava dalle provviste in natura accantonate e dal danaro contante che affluiva rego­ larmente anche nel contesto delle decime dei sacerdoti. La Torah prevedeva che ai pasti cultuali nel tempio, in oc­ casione delle feste di pellegrinaggio, potessero partecipare solo uomini israeliti, cultualmente abilitati, di età non inferiore ai vent'anni compiuti e, anche in questo caso, solo se privi di menomazioni fisiche e in stato di purità cultuale. Di conse­ guenza, anche ai pasti comunitari esseni erano ammessi solo membri a pieno titolo privi di menomazioni fisiche. Ne erano quindi tassativamente esclusi donne e minorenni. Ma erano esclusi anche i membri a pieno titolo che si trovavano tempo­ raneamente in stato di mancanza di purità rituale - per esem­ pio, in seguito al compimento dell'atto coniugale o alla morte di un membro della famiglia - o coloro che, a causa di cattivi comportamenti, erano puniti con l'astensione dalla partecipa­ zione alla comunità cultuale per giorni, settimane, mesi o addi­ rittura anni. Fino a quando non fossero stati riammessi, dove­ vano recitare privatamente le preghiere quotidiane e prendere i pasti in famiglia; perdevano quindi temporaneamente i van­ taggi connessi con la partecipazione alla vita comunitaria. Particolarmente importante è il fatto che i momenti di pre­ ghiera comunitari, seguiti dai pasti presi insieme, erano consi­ derati dagli esseni atti cultuali equivalenti al e sostitutivi del culto del tempio. Per prendervi parte non bastava quindi essere in regola con i riti di purificazione, della durata di più giorni, prescritti dalla Torah in caso di contatti sessuali o contatti con

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i defunti. Immediatamente prima di accedere alla sala della preghiera e dei pasti comunitari, ogni partecipante doveva sot­ toporsi a un bagno di immersione. Nel tempio esso era previsto solo per l'entrata in servizio dei sacerdoti, ma gli esseni lo ave­ vano reso obbligatorio per tutti i membri, anche per i momenti di preghiera al sorgere del sole. Le relative installazioni dei bagni rituali potevano essere integrate, come nel caso del tempio, negli edifici che servivano per le riunioni, ma anche poste, come nel caso di Qumran, im­ mediatamente fuori di essi. Al riguardo troviamo ancor oggi delle analogie presso i musulmani. In Oriente, davanti alle mo­ schee, si trovano dei canaletti scavati nel terreno con panche per sedersi, rubinetti dell'acqua, condutture di immissione e di emissione dell'acqua, dove il musulmano, che ha preso un ba­ gno a casa propria ed è quindi assolutamente pulito, compie i riti di purificazione prescritti dal Corano, prima di entrare nella moschea. Lo stesso avveniva nell'antico giudaismo. Con la diffe­ renza che gli esseni pretendevano questi riti di purificazione prima di ogni loro riunione cultuale e richiedevano, in luogo della semplice purifiCazione delle mani, dei piedi e della fronte, una vera e propria immersione di tutto il corpo. Anche gli esseni richiedevano ovviamente che chi prendeva il bagno rituale fosse assolutamente pulito. Il bagno di immersione era un atto rituale; non era finalizzato alla pulizia del corpo e non aveva nulla a che vedere neanche con il perdono dei peccati. L'introduzione di luoghi di riunione separati era per gli es­ seni unicamente una soluzione di necessità e una soluzione in­ terlocutoria in attesa del giorno in cui nel tempio di Gerusa­ lemme fosse stato ristabilito un culto conforme alla Torah. In via sostitutiva tutte le cerimonie liturgiche ,Aradizionalmente prescritte per il culto del tempio, le preghiere che accompa­ gnavano il culto sacrificate e i pasti comunitari dei partecipanti al culto venivano tenute in opportuni locali nelle case private degli esseni o in edifici costruiti espressamente a tale scopo. Questi locali vennero naturalmente usati dagli esseni an­ che come sedi di riunione dei loro consigli, come tribunali, come luoghi adibiti alla lettura comunitaria della Scrittura e

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all'insegnamento, quindi anche come scuole e centri comuni­ tari. Ma tutti questi usi accessori non erano legati alle «Case della preghiera» (CD XI,22), per cui potevano svolgersi tran­ quillamente anche in altre case private o in parte anche nella stessa area del tempio, come dimostra l'esempio dell'esseno Giuda, il quale nel 103 a.C. ammaestrava i suoi discepoli nel tempio di Gerusalemme. La costituzione delle case di preghiera da parte degli es­ seni non aveva nulla a che vedere con la lontananza dal tempio di Gerusalemme, cosa. questa che era stata invece uno dei mo­ tivi della fondazione di sinagoghe in Galilea o nella diaspora. Lo scopo della loro costituzione era unicamente quello di con­ sentire il culto del tempio anche in quelle condizioni avverse di cui si era reso responsabile il sommo sacerdote maccabeo Gio­ nata nel 152 a.C., soprattutto mediante l'introduzione del ca­ lendario lunare quale ordinamento cultuale ufficiale del tem­ pio di Gerusalemme. Gli esseni rinunciarono unicamente agli altari sacrificati e all'offerta in natura sull'altare del sacrificio, soprattutto in considerazione del fatto che la Torah aveva li­ mitato espressamente al luogo di culto centrale, cioè al tempio di Gerusalemme, la celebrazione del culto sacrificate vero e proprio (Dt 12).

Matrimonio, famiglia ed educazione Spesso si presentano gli esseni come uomini che conduce­ vano un'esistenza rigidamente celibataria. Ma i testi di Qum­ ran non contengono il benché minimo accenno al celibato. A chiunque leggesse questi testi senza preconcetti non verrebbe mai in mente che gli esseni avessero delle riserve nei riguardi del matrimonio o • addirittura che lo rifiutassero. Come spie­ gare una tale contraddizione? Nell'antico giudaismo la deliberata rinuncia al matrimonio era considerata una grave mancanza contro la Torah. Infatti, il primissimo comandamento di Dio a tutti gli uomini nel sesto giorno della creazione è: «Crescete e moltiplicatevi» (Gen 1 ,28). Nel giudaislJlO questo comandamento è stato sempre compreso come il fondamento del dovere di sposarsi per tutti

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gli uomini. Tutta la letteratura ebraica tradizionale conosce un

solo rabbi che non si fosse sposato, ritenendo che lo studio della Torah fosse più importante della fondazione di una pro­ pria famiglia. Quest'errato comportamento venne aspramente criticato come una grave mancanza contro il comando dato da Dio al momento della creazione (Talmud babilonese, Jebamot 63b ). Nello stesso senso va intesa l'espressione di Gesù rela­ tiva agli «eunuchi per il regno di Dio» (Mt 19,12), mediante la quale egli può aver motivato in particolare la propria rinuncia al matrimonio. Nel quadro del giudaismo antico si tratta in en­ trambi i casi di rare eccezioni. Nulla di tutto questo è possibile affermare a proposito degli esseni. Tuttavia essi hanno offerto molti motivi per essere ritenuti persone non sposate. Esistevano al riguardo fondamental­ mente tre diverse ragioni, nessuna delle quali ha a che vedere con intenzioni celibatarie. Ogni sabato i pii ebrei vanno alla sinagoga insieme alle loro rispettive famiglie. Un osservatore esterno non percepisce ciò che avviene all'interno della sinagoga, dove le donne si riti­ rano nelle navate laterali o in alto nelle gallerie e solo gli uo­ mini partecipano attivamente al servizio cultuale. Gli esseni si recavano nei loro locali di riunione ben tre volte al giorno. Ma non si vedeva una sola donna, neppure una cuoca, entrare in­ sieme a loro in quei locali. Così esteriormente gli esseni appa­ rivano agli occhi degli altri ebrei della Palestina come un'asso­ ciazione di soli uomini. Già nel giudaismo antico i ragazzi venivano normalmente considerati religiosamente maggiorenni, e quindi in grado di contrarre matrimonio, al compimento del loro tredicesimo anno di età. Poiché la fondazione di una famiglia richiedeva l'indipendenza economica e spesso anche professionale, essi si sposavano comunque in genere verso l'età di 16-17 anni. Ma la maggiore età religiosa, e quindi la possibilità di contrarre ma­ trimonio, era tassativamente fissata dagli esseni a partire dal compimento del ventesimo anno. La loro vita celibataria era quindi notevolmente più lunga rispetto a quella degli altri gio­ vani ebrei. La cosa non poteva passare inosservata ed era di

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fatto considerata dagli altri ebrei come una forma di generale reticenza nei riguardi del matrimonio. La terza ragione era la più importante e per sua natura an­ che quella più influente. Gli esseni pretendevano da tutti gli uomini il matrimonio unico invece del matrimonio monoga­ mico, che era inve.ce la regola nell'antico giudaismo, nel quale era addirittura permesso in linea di principio il matrimonio po­ ligamico.

Già attorno al 400 a.C., i sacerdoti di Gerusalemme ave­ vano introdotto una legislazione più rigida. Si era vietato allo stesso re di avere più di una moglie; solo dopo la morte della prima egll. poteva sposare un'altra donna (llQ T LVII,15-19). L'interpretazione che gli esseni davano della Torah era ancor più rigida. In corrispondenza al diritto testimoniale al­ lora vigente nei tribunali per le circostanze aggravanti, essi adducevano addirittura tre passi della Torah quali prove della necessità del matrimonio unico a vita di tutti gli uomini (CD IV,20-V,2). Considerato a sé stante, Gen 1,27 potrebbe essere inteso nel senso che Dio ha creato fin dall'inizio un'umanità bises­ suata, «in parte maschile, in parte fe rmhinile». Ma in collega­ mento con Gen 2, secondo il quale, all'inizio dell'umanità, Adamo ed Eva erano stati creati da Dio come due persone in­ dividuali, Gen 1,27 venne generalmente inteso nel senso di «Un uomo e una donna». Gli esseni compresero questa dupli­ cità iniziale in modo ancora più rigido, nel senso di «essenzial­ mente a coppia». Per loro - in linea con l'ordine divino della creazione - ogni singolo uomo e una determinata singola donna si appartenevano per tutta la vita. La seconda testimonianza in questo senso era per gli esseni il racconto del diluvio, secondo il quale Noè - come Giusto esemplare - e i suoi figli erano entrati e usciti dall'arca ognuno con un 'unica moglie, dunque rigidamente a coppie (Gen 6,18; 7,7.13 ( ! ); 8,16.18; 9,1 corrispondente a 1,28). Con questo si poneva alla successiva umanità, tutta derivante, se­ condo la descrizione biblica, da Noè, una norma vincolante, cioè l'essenziale esistenza in coppia degli uomini in un unico matrimonio.

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La terza prova è tratta da Dt 17,17, dove di per sé si dice solo che il re non deve «sposare un numero eccessivo di donne», che non deve quindi soprattutto prendere come esem­ pio il re Salomone con le sue 700 mogli e 300 concubine (lRe 1 1 ,3). Ma gli esseni intendevano la relativa espressione ebraica di Dt 17,17 nel senso di «nessuna pluralità di donne»; secondo loro, anche il re doveva avere per tutta la sua vita un'unica mo­ glie. Ora il matrimonio unico a vita degli esseni, fondato come il solo matrimonio ammissibile .attraverso la triplice testimo­ nianza della Torah, ma valevole anche, a partire dall'ordine della creazione, quale irrinunciabile esigenza per ogni uomo, comportava notevoli conseguenze nella vita pratica. Ogni uomo doveva sposarsi quanto prima possibile dopo il compi­ mento del suo ventesimo anno. La sposa, che normalmente ve­ niva scelta dal padre - dopo le relative trattative preliminari con la famiglia della sposa - aveva già compiuto, secondo il costume del tempo, il suo dodicesimo anno di età o aveva un'età leggermente superiore. Ora ella doveva partorire, anno dopo anno, molti figli possibilmente maschi, accudire ai lavori domestici, aiutare nel lavoro dei campi e, nel «tempo libero», fare canestri, stuoie, lavorare la lana e preparare stoffe, tutto quello insomma che ci si attendeva dalle donne sposate nel­ l'ambito delle «attività domestiche». In presenza di simili logoranti condizioni di vita, non stupi­ sce che solo poche donne, le quali in genere non avevano nep­ pure raggiunto la resistenza fisica propria delle persone adulte riuscissero a vivere oltre la soglia· dei 25 anni. Molte morivano prematuramente di febbre puerperale o - anche a causa della loro costituzione indebolita - di altre malattie, languivano nella malattia o diventavano sterili, ciò che poteva dar luogo alla separazione, cioè al ritorno della donna non più utile nella sua famiglia di origine. Al contrario, il caso di uomini che ràg� giungevano un'età superiore ai sessant'anni era così frequente che gli esseni dovettero adottare una norma secondo cui chi aveva raggiunto quell'età non doveva più ricoprire cariche pubbliche, poiché allora «il suo spirito si era allontanato da lui» (CD X,7-10; cf. XIV,6-8).

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Anche nel caso in cui la moglie fosse morta prematura­ mente o il matrimonio non avesse dato figli, nessun esseno po­ teva sposarsi una seconda volta, e avere così un'altra moglie, o prendere una concubina. Data la breve durata della vita delle donne, normalmente un esseno non passava nel matrimonio più di dieci anni. La maggior parte degli esseni viveva quindi effettivamente nella condizione di persone non sposate, ma non per una scelta celibataria a vita, bensì sia perché non ave­ vano ancora raggiunto l'età del matrimonio, sia perché erano vedovi o separati. Prima e dopo il periodo della loro vita ma­ trimoniale essi vivevano certamente nelle loro famiglie, ma da single.

Naturalmente, le condizioni di vita dei gruppi esseni che vivevano nelle città e nei villaggi della Palestina non erano così estreme come quelle che si registravano nell'insediamento es­ seno di Qumran. Come dimostrano i resti trovati nei cimiteri, a Qumran gli uomini morivano mediamente attorno ai tren­ t'anni, il che dipendeva certamente in gran parte sia dalle dure condizioni di lavoro che dal clima particolarmente sfibrante. Soltanto il 10% circa dei residenti a Qumran vi viveva con la famiglia (cf. sopra, p. 72) . Molti non devono aver osato portare le loro famiglie a Qumran o Ein Feshkha, ma devono averle lasciate nei loro luoghi di origine e visitate di quando in quando. Le condizioni estreme di Qumran non devono essere quindi considerate come rappresentative delle condizioni di vita degli esseni in generale. In relazione al fatto che ovunque gli esseni si riunivano più volte al giorno nei loro locali comunitari per la preghiera e per i pasti e che in tali occasioni si ritrovavano sempre e solo uo­ mini, l'età piuttosto tarda del matrimonio e il matrimonio unico, con le sue alte percentuali di persone che finivano per rimanere single, hanno favorito la diffusa convinzione che gli esseni vivessero in un modo essenzialmente celibatario. Così li ha descritti già Giuseppe Flavio, il grande conoscitore della Palestina. Ma, secondo la sua descrizi ç ne, gli esseni non rifiu­ tavano per principio il matrimonio ( Gùerra 2, 120-121 ) , ma di fatto vivevano solo in parte con le mogli (2,160-161), alle quali

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non consentivano di partecipare alle loro riunioni cultuali (Antichità 18,21). Questo quadro realistico della loro situazione è stato ele­ vato da altri autori ebrei, come Filone di Alessandria, all'i­ deale di una generalizzata vita celibataria degli esseni. Essi volevano attirare l'attenzione dei loro lettori pagani sul fatto che il tanto disprezzato giudaismo poteva presentare, nel caso di una «scuola di filosofi» così importante come quella degli esseni, una comunità consacrata all'ideale del celibato che poteva benissimo accettare la sfida dei pitagorici, considerati dai greci da questo punto di vista un luminoso esempio. Ana­ logamente descriveva lo stile di vita a Qumran Plinio il Vec­ chio in base a informazioni a lui trasmesse dagli ebrei (cf. so­ pra, p. 87). Oggi le scoperte di Qumran ci consentono di renderei chia­ ramente conto a partire da quali concreti presupposti si sia giunti a una simile presentazione · idealizzata. Essi mostrano anche che, in realtà, tutti gli esseni dovevano sposarsi, in fedele osservanza dell'ordinamento divino della creazione. Ma le antiche relazioni sulla condizione celibataria degli esseni, dettata da ragioni di principio, continuano a fare opi­ nione fino a oggi. All'inizio delle ricerche su Qumran si è spesso ipotizzato che gli esseni che vivevano a Qumran fossero effettivamente celibi, mentre quelli che abitavano altrove nel paese fossero per lo più sposati. Dopo che si sono scoperte tombe di donne nei cimiteri di Qumran l'immagine di una vita celibataria per ragioni di principio si è spostata sulla «cerchia interna». Quale motivazione si adducono essenzialmente le norme relative alla purità e santità sacerdotale, norme partico­ larmente esigenti nei testi di Qumran, le quali dovevano ne­ cessariamente escludere la vita matrimoniale per tutti coloro che intendevano realmente osservarle. Il punto di partenza di queste concezioni è il fatto che gli esseni si consideravano in una situazione transitoria, cioè fin­ ché non fosse stato ripristinato a Gerusalemme l'ordinamento tradizionale del calendario e del culto, il tempio di Dio sulla terra.

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Le loro riunioni quotidiane e tutto il loro stile di vita dove­ vano quindi sempre corrispondere alle esigenti norme di pu­ rità e santità valevoli tradizionalmente per i sacerdoti, i !eviti e gli altri israeliti durante la loro partecipazione al culto del tem­ pio. Ora se tutti gli esseni erano continuamente per così dire nell'esercizio del servizio cultuale non era forse giocoforza che rinunciassero completamente al matrimonio, il quale serviva soprattutto alla generazione dei figli, ma che era anche neces­ sariamente legato ai rapporti coniugali che rendevano impuri? Questa concezione è del tutto superata e ques,to special­ mente per quattro motivi. Anzitutto, nella Torah la procrea­ zione, quale comandamento legato alla creazione, ha la prece­ denza su tutti i comandamenti relativi al culto. In secondo luogo, secondo Lv 15,18, i rapporti sessuali rendono impuri un sol giorno e non in modo permanente. In terzo luogo, gli esseni avevano ordinato la loro vita matrimoniale in modo tale che i rapporti sessuali si limitavano alla fase fertile della vita della donna e, anche durante questo periodo, venivano praticati ra­ ramente, cosicché essi praticamente non ostacolavano il culto. In quarto luogo, infine, non è assolutamente dimostrabile che gli esseni praticass ero al loro interno norme diverse per quanto riguarda la purità e la santità; tutte queste norme valevano as­ solutamente allo stesso modo per tutti i membri a pieno titolo. Come si presentavano in pratica i matrimoni degli esseni? I giovani potevano sposare la loro fidanzata, che era pratica­ mente ancora una bambina, solo quando se ne erano costatate per tre volte consecutive le mestruazioni con intervalli regolari e senza alcun particolare fenomeno concomitante. Inoltre, gli esseni avevano raddoppiato il periodo di sette giorni dall'ini­ zio delle mestruazioni, cioè il periodo durante il quale, se­ condo Lv 15,19, la donna era considerata impura, per cui l'atto procreativo avveniva proprio quando la fertilità della donna era al massimo. Se la donna restava incinta era vietato ogni al­ tro rapporto sessuale, e precisamente, secondo Lv 12,4-5, al­ meno fino al trentatreesimo giqrno dopo la nascita di un figlio o dopo sessantasei giorni dopo la nascita di una figlia. Ma an­ che allora si doveva aspettare in ogni caso la ripresa delle me-

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struazioni. Se esse non avvenivano non c'era più alcuna possi­ bilità di rapporti sessuali. Per avere rapporti sessuali con la propria moglie, gli esseni che vivevano a Gerusalemme dovevano lasciare il territorio della città e cercarsi un posto fuori di essa (CD XII,1-2). Indi­ rettamente una tale disposizione mostra quanto dovessero es­ sere rare queste escursioni fuori porta e come esse dovessero essere poste esclusivamente al servizio della procreazione. Per amore della superiore finalità si tollerava senza dubbio co­ scientemente l'impurità cultuale personale dei partecipanti, ma la Città Santa ne doveva restare fuori. Date comunque le rigide prescrizioni della Torah, inter­ pretate per giunta in modo estensivo, durante la sua vita matri­ moniale, che durava in media al massimo una decina d'anni, un esseno aveva nel migliore dei casi una ventina di rapporti sessuali. Di conseguenza, era piuttosto ridotto il numero dei giorni in cui egli era nel peggiore dei casi cultualmente impuro per questo particolare motivo. In pratica, l'impurità cultuale doveva essere causata molto più spesso dall'involontaria pol­ luzione notturna, la quale, secondo Lv 15,16, produceva uno stato di impurità di durata pari a quella prodotta dal coito. Solo dei castrati avrebbero potuto essere in regola con le parti­ colari norme di purità e santità che si postulano ipotetica­ mente per la «cerchia interna» o per l' «élite direttiva» degli es­ seni; ma la castrazione escludeva a vita il soggetto dal servizio cultuale (Lv 21 ,20; Dt 23,2). Così mancano di ogni plausibilità le ipotesi spesso vivacemente sostenute circa un celibato per­ lomeno parziale degli esseni. Del resto non si dovrebbe dimen­ ticare che anche il sommo sacerdote, quale massimo espo­ nente dell'ufficio cultuale, doveva essere sposato se voleva compiere il suo ufficio e aveva bisogno perlomeno di un di­ scendente maschio per poterglielo lasciare in eredità. Se la moglie di un esseno moriva nei primi anni di vita ma­ trimoniale, esistevano tradizionalmente balie e aiutanti, sia maschili che femminili, per accudire i lavori domestici e alle­ vare i figli. Con il compimento del decimo anno si iniziava a istruire il ragazzo in tutto ciò che i postulanti adulti dovevano imparare nel corso della procedura di ammissione, di durata

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almeno triennale, fra gli esseni. Al compimento del suo vente­ simo anno «l'esseno di nascita» poteva essere membro a pieno titolo e sposarsi (10 Sa 1,6-11).

Ammissione, posizione giuridica ed esclusione La procedura di ammissione fra gli esseni, della durata di almeno tre anni prima del raggiungimento della condizione di membri a pieno titolo, è attestata chiaramente sia dai testi di Qumran che dai racconti di antichi autori ed è la prova più certa del fatto che anche coloro che allora risiedevano a Qum­ ran erano esseni. Infatti, nessun altro gruppo dell'antico giu­ daismo aveva una procedura di ammissione così complessa ed esigente. Anche le mogli erano membri degli esseni sia pure con mi­ nori diritti e una ridotta capacità cultuale. Per motivi religiosi ed economici gli uomini esseni sposavano comunque, per quanto possibile, solo ragazze di famiglie essene. La loro intro­ duzione alla conoscenza della Torah cominciava probabil­ mente, come nel caso dei ragazzi, già al compimento del de­ cimo anno di vita, ma terminava con il matrimonio poco dopo il compimento del dodicesimo anno di età. L'istruzione reli­ giosa si concludeva con l'ammissione al bagno rituale, che le donne sposate dovevano frequentare soprattutto dopo le me­ struazioni e i parti come condizione per poter riprendere i rap­ porti sessuali con i loro mariti. Nel caso dell'ammissione fra gli esseni di persone prove­ nienti dal di fuori, con il primo accesso al bagno rituale, dopo l'iniziale anno di prova, era legata la trasmissione di tutto il pa­ trimonio personale all'Unione essena; fino al raggiungimento della condizione di membro a pieno titolo esso veniva ammini­ strato su un conto a parte (cf. Sopra, pp. 254-255). Forse ci si comportava allo stesso modo anche con le donne sposate. Ma poiché esse non potevano mai diventare membri a pieno ti­ tolo, la dote e tutto ciò che avevano apportato sotto forma di patrimonio e diritti di eredità venivano conservati a parte per tutta la vita. In caso di separazione o di morte del marito que­ sto patrimonio serviva per il loro ulteriore sostentamento. Ciò

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era importante anche perché il principio del matrimonio unico escludeva ovviamente anche per le vedove e per le donne se­ parate un nuovo matrimonio e quindi la loro presa a carico da parte di un altro marito (cf. anche 1Cor 7,10-1 1). Al tempo stesso questa procedura in materia di possesso giuridico spiega il perché le vedove non siano comprese nella lista essena dei normali casi bisognosi di assistenza sociale (CD XIV,12-17). Per ogni sorta di problemi giuridici gli esseni possedevano autonome strutture giudiziarie interne con diverse istanze. Esse corrispondevano ampiamente alle strutture che si pos­ sono osservare in seguito anche nelle comunità giudeo-cri­ stiane (Mt 18,15-17; cf. 5,23-24). La forma più benigna di punizione delle colpe era l'ammo­ nimento personale da parte di un altro esseno. Essa valeva solo per mancanze involontarie di poca importanza. L'ammo­ nizione della persona che si era mal comportata doveva av­ venire nello stesso giorno in cui era stata osservata la man­ canza prima del tramonto del sole e aveva lo scopo di evitare una futura ricaduta. Per casi del genere non erano previste pu­ nizioni. Ma se il comportamento sbagliato era di natura più grave o se l'interessato si dimostrava non disposto a emendarsi, l'am­ monizione doveva avvenire alla presenza di testimoni ed es­ sere autenticata da un tribunale per renderla giuridicamente perseguibile in caso di ricaduta. Tutti i casi di mancanze volon­ tarie contro la Torah o contro le norme essene da essa derivate erano comunque per principio di competenza dei tribunali. A seconda della gravità della mancanza o del numero dei testi­ moni i tribunali locali potevano consentire nuovamente a un'ammonizione senza punizione, che in questo caso veniva annotata negli atti (cf. sopra, p. 195) oppure infliggere una pu­ nizione. Se il motivo o l'entità della punizione non erano ac­ cettati dalla persona incriminata il caso veniva trasmesso alla decisione dell'istanza superiore costituita dal tribunale cen­ trale degli esseni; contro il suo giudizio non era possibile inter­ porre appello. I tribunali locali degli esseni erano composti da quattro sa­ cerdoti o leviti e sei semplici israeliti, ma all'occorrenza pote-

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vano emettere una sentenza anche con un numero minore di giudicanti (CD X,4-10). Il tribunale supremo aveva sempre il doppio di membri, cioè dodici semplici israeliti oltre a tre sa­ cerdoti (1Q S VII,27-VIII,4). Ma vi erano anche casi nei quali la decisione richiedeva un'«assemblea plenaria» di almeno 100 membri; erano i casi nei quali agli inizi il maestro di giustizia, nella sua qualità di sommo sacerdote, si era riservato un'esclu­ siva competenza decisionale o nei quali erano stati attribuiti ai sacerdoti zadokiti particolari pieni poteri. Le punizioni inflitte da questi tribunali erano anzitutto quelle prescritte nella Torah per le singole mancanze. Oltre a queste, a volte anche in modo alternativo, esistevano elenchi già stabiliti di sanzioni che spaziavano dalla temporanea ridu­ zione della razione di cibo durante i pasti comunitari all'esclu­ sione temporanea da tutte le celebrazioni cultuali comunitarie, nonché dall'esclusione dagli organi decisionali all'esclusione a vita dalla comunità essena. Presso gli esseni l'esclusione totale sembra aver preso in particolare il posto - interamente o parzialmente - della pena di morte e della sua esecuzione. L'esclusione dall'orga­ nizzazione era per loro peggiore della morte; significava l'irre­ vocabile esclusione dell'interessato, assieme alla sua famiglia, da qualsiasi possibilità di salvezza eterna (cf. anche Eb 6,1-8; 10,26-31; 12,15-17). Agli esseni era rigidamente vietato ogni contatto con coloro che erano stati estromessi. In casi gravi come ad esempio la conclusione di una transazione commer­ ciale con un estromesso - anche colui che era ancora esseno veniva estromesso e costretto a rinunciare senza alcun com­ penso a tutti i beni patrimoniali che aveva portato con sé al momento della sua ammissione nell'Unione essena. Il fondamento per stabilire il diritto era per gli esseni in primo luogo la Torah, integrata dal corpus delle norme ricono­ sciute - riprese poi in modo .definitivo nel Documento di Da­ masco - sotto forma di versioni più antiche con la regola co­ munitaria 1Q Sa e 1Q S V-IX. Queste norme erano conside­ rate dedotte dalla Torah e in perfetta armonia con essa, analo­ gamente alla valutazione della Mishnah e del Talmud nel suc­ cessivo giudaismo rabbinico. Le fonti giuridiche più antiche

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del periodo p:r:e-esseno, come ad esempio il Rotolo del tempio o il libro dei Giubilei sono state certamente utilizzate dagli es­ seni per la formulazione delle loro norme giuridiche, ma non avevano una propria dignità «Canonica», non potevano quindi essere fatte valere come validi e riconosciuti fondamenti per l'emissione della sentenza da parte del tribunale. La maggior parte delle norme giuridiche essene relative al culto, al commercio, al diritto civile o all'organizzazione, tutte le prescrizioni contenute nell'Istruzione del maestro di giusti­ zia a Gionata (40 MMT) e praticamente tutte le norme del ge­ nere di quelle che sono state raccolte in seguito dai rabbi sotto il nome di halakah e che noi oggi ascriviamo al campo dell'e­ tica non sono state naturalmente «inventate» di sana pianta dagli esseni. Quasi tutte le loro norme giuridiche ed etiche ri­ prendono e tramandano ciò che era già stato sviluppato come concreta applicazione della Torah e sotto forma di singole sue determinazioni nel giudaismo post-esilico della Palestina in epoca pre-essena, soprattutto dai sacerdoti del tempio di Ge­ rusalemme. Avendo noi conosciuto molte di queste norme grazie alle scoperte di Qumran, viene spontaneo considerarle come specificamente essene. Ma, in realtà, esse erano già pa­ trimonio comune del giudaismo palestinese o erano perlo­ meno opinioni dottrinali dominanti nel sacerdozio gerosolimi­ tano e di conseguenza retaggio tradizionale comune di tutti i raggruppamenti che incominciarono un loro proprio cammino a partire dalla metà del II sec. a.C. Su singoli punti si richiedono ancora approfondite ricerche per illustrare più precisamente i tratti tradizionali della legisla­ zione essena. Ma sintomatici della situazione generale sono due risultati del tutto diversi, più globali della ricerca. Nel 1922 è uscito a New York un volume dello studioso ebreo del Talmud Louis Ginzberg intitolato Una sètta giudaica sconosciuta. 5 Si tratta di una ricerca molto dettagliata su tutto

5 Il volume inizialmente pubblicato per conto proprio dall'autore è stato da allora ripetutamente ristampato ed è apparso nel1976 anche in versione in­ glese presso una casa editrice di New Jork.

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ciò che allora si conosceva del Documento di Damasco in rela­ zione con la tradizione rabbinica. L'autore giungeva alla con­ clusione che la «sètta» da lui studiata - le scoperte di Qumran dimostrano che si trattava degli esseni - presentava una fisio­ nomia essenzialmente farisaica. D'altra parte, le più recenti ricerche sulle scoperte di Qum­ ran, condotte ancora una volta soprattutto da studiosi ebrei, mostrano che molte norme giuridiche degli esseni concordano con materiali che in seguito sono stati considerati dai rabbi come specificamente sadducei. In realtà, questo patrimonio tradizionale - considerato ancor oggi come di origine «setta­ ria» - era già in gran parte a disposizione comunitariamente degli esseni, dei sadducei e dei farisei. Gli esseni si attennero soltanto più rigidamente alla venerata tradizione. 00TIRINE DEGLI ESSENI

Secondo la concezione ebraica la dottrina religiosa ha es­ senzialmente a che fare con quelle realtà organizzative, giuri­ diche ed etiche di cui abbiamo appena parlato. Ciò che i cri­ stiani chiamano teologia appartiene in gran parte per gli ebrei all'ambito della speculazione filosofica privata e non presenta alcun carattere religioso. Ciò che conta non è la dogmatica, ma la prassi religiosa. Di conseguenza, tutto ciò di cui dobbiamo ancora parlare nei paragrafi che seguono non ha costituito in senso vero e proprio la dottrina degli esseni, ma solo una serie di concezioni di contorno che erano per loro più o meno scontate, sulle quali si potevano avere anche opinioni diverse, senza che si attri­ buisse normalmente a simili differenze un'importanza essen­ ziale. La dottrina fondamentale degli esseni era la pietà ispirata dalla Torah. Essa implicava, come per tutti gli ebrei, la fede nel Dio unico, che rton ha accanto a sé altri dèi, che ha creato il cielo e la terra, ha scelto Israele, lo ha liberato dalla schiavitù dell'Egitto, ha stipulato con lui la sua alleanza al Sinai e lo ha introdotto infine nella Terra Santa. Gli esseni si distinguevano ·

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da molti dei loro contemporanei ebrei solo per il fatto di colle­ gare strettamente tutta la salvezza di Israele alla sua concreta esistenza nella Terra Santa. Gli esseni consideravano tutta la diaspora ebraica sparsa nel mondo rigettata da Dio nella mi­ sura in cui, prima del giudizio finale, non fosse rientrata nella Terra Santa. Ritenevano, inoltre, che nel giudizio finale sareb­ bero caduti sotto la punizione di Dio tutti gli ebrei che, pur trovandosi in Terra Santa, non seguivano con la loro tipica chiarezza e serietà la volontà di Dio rivelata nella Torah. A loro avviso, al di fuori dell'Unione essena di tutto Israele in Terra Santa non poteva esservi in ultima analisi alcuna sal­ vezza, né per gli ebrei né per i pagani. La particolare posizione degli esseni in seno al giudaismo del loro tempo è caratterizzata da questo loro tipico rigetto non solo di tutto ciò che era pagano, ma anche di tutto ciò che non era compatibile con la Torah. Si trattava di una posizione che non era né settaria né dissidente, ma che rappresentava la coerente preservazione della corrente principale della tradi­ zione ebraica quale si era venuta sviluppando in Palestina du­ rante i primi quattro secoli dopo l'esilio. In questo senso l'u­ nica dottrina degli esseni era la pietà ispirata dalla Torah se­ condo la tradizione. Anche il titolo di «maestro di giustizia» dice essenzialmente che il suo compito era quello di preser­ vare e osservare la tradizionale pietà della Torah, compresi i suoi risvolti cultuali. Durante i primi quattro secoli dall'esilio il giudaismo pa­ lestinese aveva naturalmente assorbito ogni sorta di influenze \n campo culturale e storico-religioso, influenze sconosciute all'Israele pre-esilico ma costituenti per gli esseni già un dato consolidato della tradizione giunta fino a loro. Queste novità dovevano essere state apportate per lo più da coloro che erano rientrati dalla diaspora. La diaspora ebraico-egiziana, ad esempio, introdusse il nuovo ordinamento del culto in base al calendario solare di 364 giorni, introdotto al tempio di Gerusalemme già nel VI sec. a.C., la rielaborazione degli scritti di Geremia e Baruch o l'introduzione nel salterio biblico (Sal 104) di una versione dell'inno al sole di Ech­ naton (Amenofis IV, 1372-1355 a.C.), rielaborata in senso sa-

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cerdotale ed ebraico La diaspora ebraico-babilonese fece co­ noscere soprattutto le scienze della cosmologia e dell'astrono­ mia e a esse collegate l'apocalittica, il dualismo dell'antico Iran e un determinismo che considerava già immutabilmente fis­ sata fin dall'inizio l'intera storia del mondo e dell'umanità fino al destino personale di ogni singolo uomo.

Angeli e demoni Le scoperte di Qumran mostrano le influenze del mondo circostante sul giudaismo palestinese sia sotto forma di scritti pre-esseni sia sotto forma di un loro ulteriore sviluppo da parte degli esseni. Portatore e mediatore delle relative cono­ scenze era essenzialmente il maikil, lo «studioso», detentore di un nuovo ufficio nel quadro del personale cultuale post-esilico. Il suo compito principale non era il servizio cultuale all'altare del sacrificio, ma l'insegnamento sapienziale. Esso consisteva non solo nella trasmissione del sapere a una cerchia di disce­ poli, ma anche nell'applicazione professionale di un tale sa­ pere, per esempio nell'esorcismo, la forma di guarigione dei malati allora più diffusa. L'esorcismo non era compito dei sa­ cerdoti, ma soprattutto dei /eviti. In termini moderni l'ambito specifico di un simile studioso ebreo era in senso lato l'angelologia, la dottrina degli angeli. Nell'Israele pre-esilico gli angeli compaiono solo sporadica­ mente, per esempio quando Dio stesso fa visita ad Abramo ac­ compagnato da due uomini (Gen 18), quando due uomini fo­ restieri sono ospiti presso suo fratello Lot (Gen 19) o quando Giacobbe lotta con un angelo che è come Dio stesso (Gen 32,23-31). In epoca post-esilica invece si riteneva che tutta l'o­ pera di Dio in cielo e sulla terra, fino al momento del suo fu­ turo intervento in occasione del giudizio finale, passasse essen­ zialmente attraverso degli intermediari. Le forze intermediarie fra Dio e gli uomini erano, nel bene e nel male, gli angeli. Dal punto di vista storico-religioso l'angelologia ebraica ha accolto anzitutto le migliaia di dèi principali e secondari dei culti cananaici e poi soprattutto assiro-babilonesi, riunendoli in gruppi gerarchicamente strutturati con diversi ambiti di

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competenza e sottoponendoli a Dio come suoi servitori o stru­ menti. Al riguardo, in base al dualismo vetero-iraniano, veni­ vano considerate in linea di principio come ugualmente forti dal punto di vista numerico e praticamente equivalenti dal punto di vista della loro forza globale le due gerarchie angeli­ che fondamentali: quella buona con il «principe della luce» al proprio vertice e quella cattiva guidata dall' «angelo delle tene­ bre» (1Q S 111,17-IV,1; cf. IV,15-26). Per renderei più facilmente conto dei contenuti di una si­ mile angelologia, facciamo qui alcune brevi considerazioni su tre categorie di angeli: gli arcangeli, gli angeli del culto e i demoni. La tradizione metteva a disposizione degli esseni una mol­ teplicità di arcangeli, chiamati anche «angeli della faccia», poi­ ché erano le uniche creature che nel più alto dei cieli potevano presentarsi al cospetto di Dio stesso e ricevere i loro compiti direttamente da lui. Gli arcangeli principali erano quattro. Al primo posto vi era Michele (Chi è (altrimenti) come Dio?). Come angelo custode e combattente al fianco di Israele, egli scendeva in campo in particolare contro i suoi nemici e gio­ cava un ruolo anche nel giudizio finale. Al secondo posto vi era Gabriele (Forza di Dio), il quale era responsabile di tutte le manifestazioni di Dio, nonché della loro spiegazione in caso di visioni in sogno. Nel Nuovo Testamento egli rivela al sacer­ dote Zaccaria la nascita del Battista (Le 1,19), alla Vergine Maria la nascita di Gesù (Le 1 ,26); nel Corano rivela a Mu­ hammad le disposizioni di Allah. Al terzo posto vi era Uriel (Luce di Dio), il quale si occupava delle schiere dei luminari celesti per cui' era chiamato anche Sariel (Comandante in capo di Dio). Con le miriadi di angeli che erano alle sue dipendenze egli doveva curare che tutte le stelle del cielo seguissero rego­ larmente le loro traiettorie e che il sole e la luna avessero al momento del loro sorgere giornaliero la giusta quantità di fuoco. Uriel era quindi responsabile anche dei segni dello zo­ diaco e dell'oroscopo. Al quarto posto veniva Raffaele (Dio guarisce), signore del regno dei morti e della risurrezione dei morti, responsabile anche di tutte le guarigioni dei malati me­ diante la preghiera e l'esorcismo. Attraverso queste quattro

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forze principali Dio dirigeva, secondo la sua volontà creatrice, tutto ciò che avveniva nel mondo. Gli angeli del culto, simboleggiati nell'antico Israele dai cherubini posti sull'arca dell'alleanza nel Santo dei santi (Es 25,17-22; cf. 1Re 6,23-28), rappresentavano Dio nel culto del tempio, portavano a Dio le offerte, gli inni e le preghiere della comunità cultuale e assicuravano di ritorno la benedizione di Dio su Israele. La scala celeste nel sogno di Giacobbe a Betel (Gen 28,10-22) illustra magnificamente la funzione di questi angeli nell'evento cultuale. I dotti legati al culto del tempio di Gerusalemme hanno prodotto in epoca pre-essena la cosid­ detta Liturgia angelica, la quale si basa dal punto di vista con­ tenutistico sulla corrispondenza del terreno con il divino assi­ curata mediante la presenza degli angeli nel culto terreno. Gli esseni hanno ripreso e tramandato queste concezioni presenti nella tradizione. Gli atti di preghiera dovevano possedere pu­ rità e santità cultuale, tenere a distanza le donne e qualsiasi al­ tra impurità non da ultimo per il fatto che solo in questo modo si poteva assicurare la presenza degli angeli nel culto. In un te­ sto ancora inedito di Qumran si dice che Dio ha i suoi angeli e può mandarli ovunque, mentre noi non abbiamo nessuno da poter mandare a Dio in cielo; ma la presenza degli angeli nelle nostre assemblee cultuali garantisce la presentazione delle no­ stre azioni, preghiere e inni al cospetto di Dio e la ricezione della sua benedizione. I demoni erano gli angeli cattivi. Anch'essi furono creati da Dio (1Q S III,15-IV,1), ma se ne andarono poi per la loro strada (Gen 6,1-4) e divennero già prima del diluvio la mag­ giore potenza antidivina nel mondo. Si pensava che anch'essi avessero il loro quartier generale in cielo, come dimostra an­ che la parola di Gesù: «Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore» (Le 10,18; cf. Gv 12,31 e Ap 12,7-12); la caduta del­ l'angelo delle tenebre dal cielo sta a indicare la prossima fine del potere del male nel mondo. Per gli esseni, che normalmente lo chiamavano Belial, e per la tradizione anteriore a essi, Satana era, insieme alle sue schiere, una forza che concorreva a determinare tutto ciò che avveniva in cielo e sulla terra. La sua forza cosmica appariva

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soprattutto nel fatto di riuscire a rallentare, anno dopo anno, di l ,25 giorni la traiettoria del sole rispetto al calendario di 364 giorni fedele alla creazione, e a volte addirittura a oscurare il sole e la luna o a precipitare dal firmamento gli astri sotto forma di stelle cadenti. Sulla terra gli angeli cattivi operavano ogni sorta di distorsione nell'ordine della creazione: inonda­ zioni, siccità, uragani, grandine, cattivi raccolti, guerre, peccati, disfunzioni fisiche, malattia, sofferenza, privazioni, morte. Gli uomini non potevano fare granché contro questa forza del male. Il loro principale aiuto era la forza di Dio che egli esercitava attraverso gli angeli buoni. Ma anche gli uomini po­ tevano intervenire, anche se in misura limitata. Soprattutto grazie alle apocalissi enochiche pre-essene si conoscevano i principali gruppi anche degli �ngeli cattivi e i nomi dei loro capi, per cui si sapeva chi era specificamente responsabile di determinate malattie, di certe forme di maltempo, ecc. Se si poteva assegnare un nome al male, lo si teneva in pugno e lo si poteva guarire, cioè rendere possibile il suo trattamento, fa­ cendo intervenire una forza di grado superiore della parte op­ posta, per esempio un arcangelo con tutta la schiera dei suoi dipendenti. In tal modo si poteva guarire il malato, scongiu­ rare la minaccia del maltempo o far cadere la pioggia sul ter­ reno riarso. Gli ebrei della diaspora mesopotamica ed egiziana ave­ vano imparato e diffuso in Palestina già in epoca persiana (VI-IV sec. a.C.) la scienza dell'esorcismo che era ancora rigo­ rosamente vietata nell'antico Israele. Gli esseni hanno ripreso tutto lo strumentario scientifico creato prima di loro, svilup­ pandolo ulteriormente e usandolo nella pratica. Essi erano quindi considerati come importanti naturalisti e medici e a loro si rivolgeva il popolo per far fronte alle sue molteplici ne­ cessità. Il nostro mondo illuminista non ha più alcuna considera­ zione per gli stregoni della pioggia e per la guarigione delle malattie mediante la preghiera di esorcismo. Ma naturalmente nel mondo degli esseni valevano ben altre concezioni e valuta­ zioni. La pietà doveva mostrare chiaramente la propria effica­ cia anche sul piano pratico. Nessuno avrebbe prestato atten-

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zione alle parole di Gesù sul «regno dei cieli» o sulla signoria di Dio in terra se esse non fossero state poste in relazione con un modo concreto di esercizio della potenza di Dio in quel mo­ mento, così come lo presentano i Vangeli (cf., ad esempio, Mt 12,28; Le 1 1 ,20). Gli esseni consideravano le dottrine angeliche ricevute dalla tradizione come una conoscenza segreta particolarmente importante e non rivelabile. Solo il membro a pieno titolo po­ teva esservi iniziato. La trasmissione dei nomi degli angeli a coloro che non facevano parte della comunità era considerata un'infrazione particolarmente grave (Guerra 2,142), la cui p'u­ nizione era espressamente contenuta nell'auto-maledizione mediante il giuramento di entrata (1Q S 11,1 1-18) e che cau­ sava, se scoperta, l'esclusione a vita dalla comunità.

Tempo della fine, giudizio finale, messia e tempo della salvezza Già prima dell'esistenza degli esseni, ampi circoli del giu­ daismo palestinese erano fermamente convinti che la fine del tempo fosse vicina. Lo dimostrano, per esempio, il libro bi­ blico di 'Daniele, composto nel 164 a.C., e la Regola della guerra ritrovata a Qumran e a esso contemporanea. Nuovo era solo il fatto che il maestro di giustizia collegava le affermazioni dei libri biblici dei profeti agli avvenimenti della contempora­ nea fase finale della storia del mondo. Egli era convinto di po� ter sperimentare già durante la propria vita il giudizio finale di Dio e l'inizio del tempo della salvezza di Israele. Ma dopo la sua morte nel 1 10 a.C., gli esseni attesero anzitutto l'inizio di questi eventi per il 70 a.C. e poi, a partire dalla metà del I sec. a.C., per il 70 d.C. (cf. sopra, pp. 177-178). Così gli esseni vis­ sero certamente in continua attesa della fine della situazione esistente, ma solo in certe fasi della loro storia in una vera im­ minente attesa degli auspicati mutamenti. Per lo più l'orienta­ mento verso date da loro stessi calcolate in modo certo faceva slittare il giudizio finale e il tempo della salvezza a una mag­ giore distanza, persino oltre la speranza di vita di tutti coloro che vivevano in un determinato momento.

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Una particolare configurazione assunse, nel quadro dell'o­ rientamento al futuro degli esseni, l'attesa del messia. Nel tempo pre-esseno essa non era mai esistita nella forma cor­ rente al tempo di Gesù, cioè come attesa per il futuro di una singola figura, possibilmente di un discendente del re Davide, che avrebbe governato Israele con giustizia e ne avrebbe di­ strutto i nemici. L'attesa si affermò forse durante la vita del maestro di giustizia; egli l'ha in ogni caso conosciuta e resa vin­ co�nte per gli esseni. Messia significa «l'unto». Nell'antico Israele venivano unti soprattutto i sacerdoti in capo dei santuari e i re al momento della loro ascesa al trono; in epoca postesilica venivano unti i sommi sacerdoti. Alla fine del VI sec. a.C. il profeta Zaccaria presentava Giosuè, il sommo sacerdote in carica, e Zoroba­ bele, il governatore persiano, come «i due unti» di Dio (Zc 4,14). Qui non si aspettava un messia sacerdotale e un messia regale per il futuro, ma si attribuiva la particolare qualità di es­ sere stati unti da Dio stesso a persone assolutamente concrete e indicabili per nome del presente. Naturalmente il sommo sa­ cerdote Giosuè era stato unto nelle debite forme già al mo­ mento in cui aveva assunto la carica, mentre il governatore persiano Zorobabele no. Ma in questo caso l'atto rituale del­ l'unzione non doveva essere ripetuto; Zorobabele veniva con­ siderato unto dallo Spirito Santo di Dio. Analogamente anche il re persiano Ciro venne chiamato meshicho (suo ( = di Dio) unto) o «il messia» (Is 45,1 ); infatti, era stato certamente lo Spirito di Dio a ispirare Ciro a ema­ nare l'editto del 538 a.C., un editto particolarmente favorevole a Israele. «Unti di Spirito» furono considerati in seguito anche i profeti biblici, la cui chiamata da parte di Dio fu poi vista come la loro introduzione nell'ufficio. Perciò anche nei testi di Qumran i profeti biblici vengono ripetutamente presentati come meshichaw (suoi ( = di Dio) unti) (1Q Milhamah XI,7-8; CD 11,12-13; VI,1; 4Q 521 2,11,1; 8,9). Le predizioni messianiche rivolte al futuro degli scritti bi­ blici non vennero interpretate nel giudaismo pre-esseno del II sec. a.C. nel senso di singole figure, ma furono applicate collet­ tivamente al popolo di Israele quale futura realtà di salvezza.

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Così quell'«uno simile a un figlio d'uomo» che sarà posto in fu­ turo da Dio come dominatore del mondo è Israele quale «po­ polo dei santi dell'Altissimo» (Dn 7,13-14 e 7,27). Tutto il po­ polo di Israele collettivamente considerato è la realtà cui si ri­ ferisce la predizione relativa alla «stella in Giacobbe» e allo «scettro da Israele» (Nm 24,17-19) in 1Q Milhamah Xl, 6-7 (contesto!). Israele celebra addirittura in prima persona la propria elevazione nella cerchia degli angeli in 4Q Milhamah" 1 1 ,1,11-18. Qui vengono riproposte concezioni e formulazioni che si ritrovano nella Bibbia, soprattutto nei canti del servo di JHWH del Deutero-Isaia (ls 42,1-9; 49,1-6; 50,4-1 1; 52,1353,12). Tutti questi dati collettivi non hanno nulla a che ved�re con l'attesa di una futura singola figura messianica; per il tempo nel quale sono stati formulati essi la escludono addirit­ tura, poiché non contengono nessuna polemica contro una messianologia individuale. Le due testimonianze più antiche dell'antico giudaismo re­ lative all'attesa di un futuro messia regale come singola figura sono la sua introduzione nell'ordinamento gerarchico in occa­ sione degli atti comunitari di 1Q Sa 11,11-22 e la benedi�ione su di lui- conservata solo in parte- di 1Q Sb V,18-27. Quando verso il 150 a.C. il maestro di giustizia tentò con la sua Istruzione a Gionata (4Q MMT) di guadagnare quest'ul­ timo all'Unione di tutto Israele, gli riconobbe espressamente la possibilità di conservare il potere politico in Israele; ciò escludeva praticamente la contemporanea attesa di un messia regale quale legittimo sovrano in Israele. Forse è stato proprio il risentito rifiuto di una tale istruzione da parte di Gionata a spingere il maestro di giustizia a condannare da allora in poi anche il lato politico del doppio ufficio di questo usurpatore e a riporre ogni speranza in un futuro messia regale. In quanto discendenti di Levi, sacerdoti come Gionata non avrebbero co­ munque mai potuto soddisfare la particolare richiesta della tradizione (cf. anche Eb 7,1 1-14) di discendere come sovrani politici in Israele dal re Davide, di appartenere quindi come lui alla tribù di Giuda e alla famiglia di lesse che si era stabilita a Betlemme di Giuda (cf. 2Sam 7,8-16; Is 11,1-5; Mi 5,1-3; inoltre Mt 2,6).

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D'altra parte, come sacerdote anche il maestro di giustizia discendeva da Levi. Senza dubbio in epoca postesilica i sommi sacerdoti della stirpe sacerdotale di Zadok - considerata come «levitica» - avevano amministrato anche politicamente Gerusalemme e la Giudea, ma non avevano mai preteso per se stessi l'ufficio regale. Se un giorno avesse dovuto esservi an­ cora un re legittimo in Israele, avrebbe potuto essere un non sacerdote, ma avrebbe dovuto essere necessariamente un di­ scendente non «levitico» di Davide. Il maestro poteva al mas­ simo tollerare accanto a sé un sovrano politico - in caso di ne­ cessità anche sacerdotale - nella misura in cui quest'ultimo non avesse preteso per sé l'ufficio regale. Oppure doveva es­ sere un discendente di Davide, quindi non un sacerdote. Il maestro di giustizia non poteva attendere dal futuro un nuovo sommo sacerdote, un «messia da Aronne». Nonostante fosse stato arbitrariamente cacciato dal suo ufficio da parte dell'usurpatore Gionata, egli stesso restava anche in seguito l'unico legittimo sommo sacerdote di tutto Israele eletto a vita. Ma quando nel l lO a.C. il maestro di giustizia mori e i cal­ coli relativi alla data del giudizio finale mostrarono che si do­ veva attendere la fine ancora per «circa quarant'anni» (CD XX,15), gli esseni rinunciarono a eleggere un successore al po­ sto del defunto e cominciarono ad attendere che il futuro por­ tasse, oltre al messia regale, anche un messia sacerdotale. Ciò significava che all'inizio del tempo della salvezza sarebbe stato nuovamente un sommo sacerdote legittimo in quanto «messia da Aronne» a presiedere il culto al tempio di Gerusalemme e che egli avrebbe avuto al suo fianco, come «messia da Israele», un re proveniente dalla discendenza di Davide. Al di sopra di entrambi vi sarebbe stato un «profeta come Mosè», attraverso il quale Dio avrebbe potuto emanare leggi di complemento della Torah (1Q S IX,ll; 4Q 175 Testimonia 1-20). Fino ad al­ lora la legislazione essena doveva essere mantenuta immutata nello stadio di sviluppo che aveva raggiunto verso il 100 a.C. e che aveva trovato la sua sedimentazione nel Documento di Damasco. Corrispondentemente a questo stato di cose, nelle rubriche conclusive dei vari complessi legislativi dei testi esseni si tro-

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vano diverse menzioni di figure messianiche; vi si afferma che le precrizioni elencate in precedenza sarebbero dovute restare immutate fino all'assunzione dell'ufficio da parte delle rispet­ tive figure messianiche ivi citate (1Q S IX,10-1 1; CD XII,23.XII1,1; XIV,18-19; XIX,33-XX,1 ; cf. XIX,l0-11). Que­ ste menzioni non sono mai accompagnate da rappresentazioni di un tempo di salvezza messianico o da descrizioni dell'atti­ vità delle future figure salvifiche. Solo in un numero relativamente ridotto di testi esseni si riflette più in dettaglio sul messia regale come futuro rappre­ sentante del regno davidico in Israele, secondo la predizione di Natan di 2Sam 7,8-16, «la stella» o «lo scettro», secondo Nm 24,17, nonché il trionfatore nella futura battaglia finale di Israele contro i suoi oppressori pagani (1Q Sa 11,11-21; 10 Sb V,18-27; CD Vll,19-21; 4Q pisa 2-6, 11,10-29; 4Q 174 Florilegio 1,10-13; 4Q 252 Benedizioni Patriarcali 111,1-5; 4Q 285 Regola della guerra 6,1-10; 7,1-5). Questo quadro corrisponde in tutti i tratti essenziali a quello che si trova nei Salmi di Salomone 17, un testo ritenuto abitualmente farisaico e composto negli anni fra il 50 e il 30 a.C. I testi di Qumran mostrano che questo qua­ dro del messia regale è stato sviluppato soprattutto nel conte­ sto di una rielaborazione essena della cosiddetta Regola della guerra, per cui si pone il problema di sapere come in concreto gli esseni abbiano concepito il giudizio finale e il passaggio nel tempo della salvezza. Riguardo al giudizio finale si trovano giustapposte nei testi di Qumran concezioni diverse. Un inno presenta la fine come il momento in cui tutta la terra si dissolve come in un fuoco di lava vulcanica, mentre i giusti sfuggono miracolosamente a una tale catastrofe cosmica (1Q H 111,19-36). La vita di singole persone, come quella del sacerdote empio Gionata, finirà nel fuoco di zolfo (1Q pHab X,5) o in luoghi di eterna tenebra. Il giudizio finale viene rappresentato anche come un processo di fusione dal quale i giusti escono purificati come oro o argento, mentre tutti gli altri periscono completamente. Analogamente a Mt 25,31-46 si pensa anche a un giudizio discriminante nel quale tutti gli uomini che sono vissuti sulla terra compaiono davanti al tribunale di Dio e vanno in parte alla vita eterna e in

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parte alla perdizione eterna. Infine, c'è anche la concezione se­ condo cui nel giudizio finale tutto Israele - o gli esseni come suoi rappresentanti - siedono accanto a Dio, ossia siedono in giudizio sopra tutti gli altri, senza essere essi stessi giudicati (4Q pPsa 1-10, IV,l0-12; cf. Dn 7,13-14.26-27; Enoch 62,12; 1Cor 6,2). Nel midrash di Melchisedek di llQ il «giorno» del giudizio finale dura sette anni. In base alla concezione della Regola della guerra, il dramma finale avrà una durata di quarant'anni, nel corso dei quali Israele trionferà sul resto del mondo e com­ pirà così il passaggio al tempo della salvezza. Qualunque con­ cezione si scelga una cosa è certa: gli esseni hanno immaginato il passaggio dallo stadio presente di non salvezza al tempo della salvezza non come un evento che produce da un giorno all'altro condizioni di vita completamente nuove, bensì come un processo più o meno lungo che solo alla fine poteva instau­ rare il tempo della salvezza eterna non più ostacolato da al­ cuna forma di male. Il futuro luogo centrale della salvezza era per gli esseni la Gerusalemme terrestre, circondata dalla Terra Santa di Qio abitata da una popolazione esclusivamente ebraica. Anche ciò che dopo il giudizio finale rimaneva tutt'attorno doveva ser­ vire al Creatore del cielo e della terra nel culto del tempio di Gerusalemme. Allora più splendente e più grande di tutto ciò che era mai stato fatto da mano d'uomo sarebbe stata fatta scendere dal cielo la Gerusalemme preparata lassù già da molto tempo da Dio stesso, con al centro il tempio, nél quale avrebbero prestato servizio i sacerdoti e i loro discendenti ri­ masti fedeli a Dio in mezzo alle traversie e ai disordini della storia. Allora sarebbe stata finalmente ristabilita secondo la Torah l'intera realtà cultuale con le sue offerte di sacrifici e fe­ ste di pellegrinaggio e anche l'anno naturale sarebbe perfetta­ mente coinciso con il calendario solare di 364 giorni conforme alla creazione, mentre la forza del male nel mondo che rallen­ tava il corso del sole sarebbe stata definitivamente annientata. Accanto a queste concezioni relative al ristabilimento di ciò che era stato un tempo, soprattutto di ciò che era conforme alla creazione, esisteva presso gli esseni anche la concezione

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del tempo della salvezza come un nuovo inizio mediante un nuovo atto creatore da parte di Dio. Secondo una tale conce­ zione Dio avrebbe ricreato una parte degli uomini giudicati positivamente in occasione del giudizio finale, facendone una nuova umanità modellata solo dallo Spirito Santo e quindi non più in grado di peccare (10 S IV,20-23) o avrebbe fatto pas­ sare con un nuovo atto creatore tutto il mondo esistente in una modalità di vita da allora in poi eterna (10 H XIII,l l-12). Ne­ gli scritti esseni queste concezioni si trovano giustapposte alle altre, senza che sia possibile individuare diversi stadi di svi­ luppo o gruppi di sostenitori. Presso gli esseni c'era certa­ mente «unità di dottrina» in campo organizzativo, giuridico e etico, ma non nel campo di queste concezioni di contorno.

La risurrezione dei morti Come indicano già le tombe dell'inse!fiamento di Qumran, gli esseni hanno certamente creduto nella risurrezione dei morti. Nel contesto della loro tradizione questa fede è atte­ stata senza ombra di dubbio da Dn 12,2. Precedentemente essa si trova già negli scritti di Enoch e nel libro dei Giubilei. In 40 521,11,12 Dio viene celebrato come colui che «rende (nuovamente) vivi i defunti» e nella stessa opera (7,6), come colui che in futuro «renderà (nuovamente) la vita ai defunti del suo popolo (Israele)». Ma la migliore prova che gli esseni hanno effettivamente condiviso le concezioni di queste opere, che forse erano del tutto precedenti a loro, resta sempre il modo in cui seppellivano i loro morti. Essi non hanno più, come nell'antico Israele, «riunito ai padri» i loro defunti, se­ polti cioè nella tomba di famiglia con la sua caratteristica fossa comune in cui deporre le ossa di tutti coloro che vi venivano sepolti, ma li hanno composti in profonde tombe individuali, dove aspettavano indisturbati la risurrezione. Gli esseni aspettavano la risurrezione di tutti gli israeliti defunti all'inizio del futuro giudizio finale, così come Paolo aspettava la risurrezione di tutti i cristiani che si erano addor­ mentati al momento della parusia del Signore (1Ts 4,16). Ma la concezione attestata dal Nuovo Testamento, secondo la

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quale soprattutto i giusti come Abramo, Mosè o Elia erano già da molto tempo in cielo presso il Signore (Mt 8,1 1 ; Mc 9,4; Le 16,23; cf. 23,43), era completamente estranea agli esseni. Ciò dipendeva non solo dal fatto che essi ritenevano la risurre­ zione dei morti e la vita eterna un destino che tutti i devoti di Israele dovevano vivere unicamente insieme, ma soprattutto dal fatto che era rimasta loro sempre estranea la concezione di un cielo quale possibile ambito di salvezza per gli uomini. Già in epoca neo-testamentaria esistevano dei cristiani che potevano immaginarsi la vita eterna solo in un al di là spaziale rispetto all'ambito terreno, cioè in una comunione con Dio in cielo (Gv 14,1-3; cf. Le 16,19-31; 23,43). Per gli esseni invece il luogo dei beati, dopo la risurrezione, era il paradiso terrestre, il giardino dell'Eden descritto in Gen 2-3, qui sulla terra. L'a­ postolo Paolo pensava il paradiso nel terzo stadio di un cielo a sette piani (2Cor 12,2-4). Per gli esseni esso si trovava nelle re­ gioni piacevolmente fresche situate a nord della Palestina che era invece generalmente calda, e precisamente nelle regioni della Turchia orientale dove erano le sorgenti dell'Eufrate e del Tigri e il monte Ararat. In quella direzione guardavano co­ loro che erano stati sepolti a Qumran e lì gli esseni pensavano di poter godere in futuro di quel refrigerio che Dio aveva pro­ messo già ad Adamo (1Q H XVII,15; 1Q S IV,23; CDIII,20; 4Q pPsa 11,9-12; 11,26-- 1 11,2), ma che egli aveva perso per se stesso e per la sua discendenza a causa del peccato originale. Per entrare in questo ambito di salvezza non era necessaria una figura di salvatore messianico. Gli esseni credevano che il Dio di Israele avrebbe risuscitato dai morti per così dire «di propria mano» coloro che erano deceduti nel suo fedele servi­ zio (4Q 521 2,11,3).

Capitolo 8

Giovanni Battista

Giovanni Battista ha avuto delle relazioni con gli esseni? È stato loro vicino o ne ha addirittura fatto parte? Il suo batte­ simo ha ripreso e tramandato riti esseni? Sono domande che la ricerca scientifica si è posta da secoli, ma alle quali è possibile rispondere fondatamente solo grazie alle scoperte di Qumran. Giuseppe Flavio ha senza dubbio attirato ripetutamente l'attenzione sulla grande importanza dei bagni rituali degli es­ seni (Guerra 2,129.137-138.149-150. 161), ma non ha mai posto gli esseni in relazione con un deserto. Ora nella tradizione neo­ testamentaria il deserto è il luogo caratteristico dell'entrata in scena di Giovanni Battista (Mc 1,2-6; Mt 3,1-4; Le 3,2-6; Gv 1,23). In realtà, già Plinio il Vecchio aveva parlato degli esseni del Mar Morto (cf. sopra, p. 87}, ma non si sapeva dove essi avessero potuto vivere fra Gerico e Engaddi e l'accenno alle palme quale loro unica compagnia faceva pensare più a un'i­ dilliaca oasi che non a un luogo nel deserto. Perciò dal momento della sua scoperta una quarantina di anni fa molti considerano l'insediamento di Qumran con le sue installazioni per i bagni l'anello di congiunzione finora man­ cante fra le diverse tradizioni. Al tempo dell'attività del Batti­ sta questo luogo era realmente abitato da esseni, si trovava senza ombra di dubbio nel deserto ed era a soli 16 km in linea d'aria dal luogo dove allora Giovanni battezzava sul corso in­ feriore del Giordano. Era spontaneo stabilire dei collega­ menti. Lo strano abbigliamento e la strana alimentazione del Battista (Mc 1 ,6; Mt 3,4) potevano far pensare a un esseno cac­ ciato dalla comunità. Giuseppe racconta infatti che gli esseni cacciati non dovevano nutrirsi con cibi preparati da altre per­ sone (Guerra 2,143). E poiché Giuseppe riferisce inoltre che

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gli esseni erano soliti allevare i figli altrui (Guerra 2,120) sem­ brava finalmente risolto anche il rebus dell'indicazione di Le 1 ,80, secondo cui Giovanni era vissuto, dall'infanzia fino all'i­ nizio della sua vita pubblica, nel deserto. Ora l'insediamento di Qumran veniva a pennello quale luogo della formazione del Battista. Altre possibilità di collegare Giovanni Battista con gli es­ seni sono suggerite dai contenuti dei testi di Qumran. In questo senso si sottolineano spesso la richiesta, presente da entrambe le parti, di Is 40,3 relativa al «preparare la strada nel deserto» (10 S VIII,12-16; Mc 1 ,2-3; Mt 3,3; Le 1,76; 3,4-6; Gv 1,23), l'attesa imminente - ritenuta presente da entrambe le parti - del giudizio finale, la richiesta, presente da entrambe le parti, della «conversione» o la distanza, pure presente da en­ trambe le parti, nei riguardi del culto sacrificate del tempio di Gerusalemme. Già la sola molteplicità di questi parallelismi o relazioni ri­ tenute come possibili viene variamente considerata un chiaro indizio di una connessione storica fra Giovanni Battista e Qumran, comunque poi venga concretamente presentata una tale connessione. La fantasiosa descrizione di una possibile connessione sta­ bilita da Barbara Thiering, la quale identifica Giovanni Batti­ sta con il maestro. di giustizia e ne fa per così dire l'abate del monastero di Qumran (cf. sopra, p. 45), è stata già molto op­ portunamente confutata quale speculazione priva di qualsiasi fondamento da Otto Betz e Rainer Riesner. 1 Ma alle altre posizioni ipotizzanti delle relazioni e merite­ voli di discussione si può rispondere in modo soddisfacente solo se prima si cerca di ricostruire, a partire dalle fonti a noi ancora accessibili, cioè una breve relazione di Giuseppe Flavio e i Vangeli, un quadro globale del Battista e della sua opera, ponendolo poi alla fine in relazione con le scoperte di Qumran e con le diverse tradizioni relative agli esseni.

1 O. BETZ-R. RIESNER, Jesus, Qumran und der Vatican, Basel-Freiburg­ Wien 1993, 121-138 (ed. it. Roma 1955).

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AZIONE E FIGURA DEL BATIISTA

Secondo il racconto di Giuseppe Flavio (Antichità 18,1161 19; cf. Mc 6,17-29; Mt 14,3-12; Le 3,19-20), il tetrarca ebreo Erode Antipa, che dal 4 a.C. al suo esilio a Lione nel 39 d.C. governò sulla Galilea e la Perea quali parti del regno di suo pa­ dre Erode il Grande, fece giustiziare Giovanni Battista nella sua fortezza di Macheronte situata in alto sulle montagne a oriente del Mar Morto. La fortezza era situata all'estremità meridionale della Perea, una lunga striscia di terra situata inte­ ramente sulla sponda orientale del Giordano. Circa a metà della Perea, di fronte a Gerico si trovava il luogo nel deserto dove Giovanni era solito battezzare «al di là del Giordano» (Gv 1,28; 10,40). Il nome della località che si trova in Gv 1,28 (Betania, casa delle barche) era dovuto all'intenso traffico di barche che tra­ ghettavano persone e merci da una sponda all'altra del Gior­ dano. Ritenendo che quel nome fosse un errato uso del nome di località Betania (casa dei malati) che nel Nuovo Testa­ mento viene sempre usato per indicare un villaggio sito sul Monte degli Ulivi vicino a Gerusalemme (Mc 11,1.11; 14,3; Mt 21,17; 26,6; Le 19,29; 24,50; Gv 11,1 .18; 12,1), certi testi poste­ riori lo hanno sostituito con il nome di una località (Bet­ Abara, luogo della trayersata) situata 7 km più a sud della «casa delle barche», che altri hanno poi a loro volta sostituito con il nome di una località (Bet-Araba, casa del deserto, Gs 15,6.61) sul confine giudaico-beniaminita, situata a 5 km a oc­ cidente del luogo del battesimo in direzione di Gerico. En­ trambe queste località sono oggettivamente inadatte. Il territorio sulla sponda orientale del luogo di attraversa­ mento è stato chiamato, a causa della ricchezza delle sue sor­ genti, anche Enon (territorio dalle molte sorgenti). Poiché quest'indicazione di località faceva chiaramente concorrenza a Betania (Gv 1,28), già il Vangelo di Giovanni ha erronea­ mente considerato come ulteriore luogo di battesimo di Gio­ vanni un altro luogo dello stesso nome presso Salim, nel terri­ torio della Decapoli a occidente del Giordano, corrispondente alla provincia di Samaria (Gv 3,23.26).

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Infine, per le folle di pellegrini che cominciarono a visitare nel IV sec. d.C. il luogo dove Giovanni battezzava divenne sempre più difficile, anzi addirittura pericoloso a causa dei raid beduini, raggiungere questa regione sulla sponda orientale del Giordano. I luoghi di culto cristiani della venerazione del Bat­ tista vennero quindi spostati da allora in poi sulla sponda occi­ dentale opposta del Giordano. È lì che sono indicati già sulla più antica carta geografica della Palestina, il pavimento mu­ sivo di una chiesa di Madaba a oriente del Giordano realizzato verso il 565 d.C. Ma, in realtà, Giovanni Battista non ha mai operato a occidente del Giordano. Del resto, anche l'Enon ricco di sorgenti presso Betania apparteneva già al deserto. Infatti il termine ebraico midbar, reso abitualmente con «deserto», non indica una regione sab­ biosa e sassosa priva di piante, ma unicamente quelle parti del territorio che sono poco adatte alla coltivazione e che vengono di conseguenza usate normalmente come pascoli. In ogni caso, se Erode Antipa ha potuto far arrestare e giu­ stiziare il Battista che si era posto contro di lui senza incon­ trare alcuna opposizione da altre parti era solo perché il luogo dove Giovanni battezzava si trovava sulla sponda orientale del Giordano in Perea, quindi nel territorio della sua giurisdi­ zione. Su questo dato geografico non possono sussistere dubbi. Esso è anche il punto di partenza più importante per compren­ dere tutta l'opera di Giovanni Battista. Nel luogo dove Giovanni battezzava il fiume era attraver­ sato da un'antica strada commerciale che raggiungeva da Ge­ rusalemme i territori a oriente del Giordano passando per Ge­ rico. Con l'acqua bassa a guado, altrimenti su barche, qui si svolgeva ogni giorno un intenso traffico di persone e merci, analogo a quello che si ha oggi fra la Giordania e la sponda oc­ cidentale del Giordano sul ponte Allenby, situato nelle imme­ diate vicinanze verso nord. Qui Giovanni poteva inveire con forza contro gli ebrei che sorprendeva impegnati in giorno di sabato nei loro viaggi commerciali, contro i doganieri che pre­ tendevano al passaggio del confine più di quanto era loro do­ vuto o contro i soldati avidi di accrescere le loro fortune perso­ nali con azioni militari nel territorio del vicino (cf. Le 3,10-14).

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Nella sua critica Giovanni non risparmiò neppure il pro­ prio sovrano, Erode Antipa, attaccando apertamente il suo matrimonio con una parente in violazione delle disposizioni della Torah e sottoscrivendo così indirettamente la propria condanna a morte (Mc 6,17-29; Mt 14,3-12; Le 3,19-20). La critica di Giovanni ai suoi contemporanei ebrei religio­ samente impuri raggiunse il suo acme nell'espressione «razza di vipere>> da lui usata in modo generalizzato nei loro con­ fronti: Dio avrebbe reso «figli di Abramo>> le pietre dissemi­ nate nella regione piuttosto che permettere che simili «figli del diavolo>> profittassero nell'imminente giudizio finale del ricco tesoro di benedizione del patriarca Abramo (Mt 3,7-9; Le 3,7-8). Se non si fossero «convertiti» in tempo sarebbero an­ dati incontro a un'imminente eterna dannazione. La scelta del luogo da cui lanciare il proprio appello alla «conversione» non fu dettata naturalmente in primo luogo dalla possibilità di incontrarvi molta gente su cui esercitare il proprio influsso. Se si fosse trattato solo di questo, Giovanni avrebbe potuto scegliere anche la sponda occidentale di quel passaggio del fiume, dove sarebbe stato anche più protetto nei confronti dell'azione degli sgherri di Erode Antipa che egli andava criticando. Avrebbe potuto raggiungere un mag­ gior numero di ascoltatori ebrei meritevoli a suo avviso delle sue critiche nei cortili del tempio di Gerusalemme e anche a ogni angolo di strada di Gerusalemme o di altre città palesti­ nesi, spostandosi di luogo in luogo, o lungo le strade commer­ ciali che giungevano al Mediterraneo e attraversavano tutto il paese. Se il problema fosse stato semplicemente quello di di­ sporre di acqua sufficiente per i propri battesimi, Giovanni avrebbe avuto innumerevoli possibilità sul Lago di Tiberiade, nei territori alle fonti del Giordano e nei molti corsi d'acqua presenti su tutto il territorio e forniti di acqua durante tutto l'anno. Infine, anche a Gerusalemme e nella ricca città di Ge­ rico vi erano sufficienti bagni privati e pubblici nei quali avrebbe potuto battezzare in condizioni certamente meno sfi­ branti di quelle della torrida calura estiva del Giordano. Per­ ché dunque Giovanni battezzava proprio «nel fiume Gior-

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dano» (Mc 1 ,5-9; Mt 3,6; cf. Le 3,3;,1; Gv 1 ,28; 10,40)? Perché battezzava non in una popolosa città, ma «nel deserto»? Il vero motivo di fondo per la scelta di quel particolare luogo da parte di Giovanni è indicato unicamente dalla tradi­ zione biblica. Infatti, come luogo della sua entrata in scena uf­ ficiale Giovanni scelse proprio quel luogo di fronte a Gerico dove un giorno Giosuè aveva introdotto il popolo di Israele nella Terra Santa attraverso il Giordano (Gs 4,13.19). La scelta della sponda orientale del Giordano come luogo della sua azione corrispondeva quindi all'antica condizione di Israele prima del passaggio del fiume. L'entrata in scena del Battista era perciò analoga all'esistenza di Israele nel deserto, dopo l'uscita dall'Egitto e prima dell'ingresso nella Terra Santa, dove solo successivamente si sarebbe realizzato ciò che già al Sinai Dio aveva promesso al suo popolo eletto attra­ verso Mosè. In una sorta di azione profetica simbolica Giovanni po­ neva così il popolo di Israele davanti al passaggio nel futuro tempo della salvezza in corrispondenza con quella generazione del deserto di Israele cui era senza dubbio già stata promessa la salvezza, ma i cui membri sarebbero dovuti morire prima che i loro figli potessero raggiungere la meta della salvezza. La sem­ plice appartenenza alla discendenza di Abramo, Isacco e Gia­ cobbe, dunque al popolo eletto, non aveva assolutamente assi­ curato loro la partecipazione personale alla salvezza (cf. anche 1Cor 10,1-13; Eb 3,1-4.13; Gv 6,30-35.47-51). A ciò corri­ sponde il titolo di «figli del diavolo» eternamente dannati dato da Giovanni a tutti gli ebrei impuri del suo tempo. Il Battista pretendeva da ciascuno un'immediata «conver­ sione» alla volontà di Dio un tempo rivelata al Sinai, la radi­ cale rinuncia allo stile di vita praticato fino ad allora. Ciò che poteva salvare il singolo dalla distruzione imminente non era la disponibilità all'assoluta osservanza da quel momento in poi di tutte le norme della Torah, ma un corrispondente stile di vita, ivi compresi le preghiere, i digiuni e le opere di carità nei riguardi del prossimo bisognoso che erano prescritti dalla Legge (cf. Mc 2,18; Mt 9,14; Le 3,1 1; 5,33; 1 1,1; anche il di­ scorso della montagna di Gesù in Mt 6,1-18).

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L'elemento peculiare della concezione del Battista consi­ steva nel fatto che mentre per la generazione del deserto di Israele nessuno dei suoi membri originari era potuto entrare nella Terra Santa a eccezione di Giosuè e Caleb, per l'Israele del tempo di Giovanni, ugualmente carico di peccati e pecca­ tore, vi doveva essere ancora una possibilità di salvezza. Dal punto di vista della storia della religione questa possibilità di salvezza ha trovato un posto fondamentale anche presso i cri­ stiani, i mandei e i musulmani. Per·Giovanni si trattava anzi­ tutto del compito profetico affidatogli da Dio, il quale lo aveva chiamato nel deserto a oriente del Giordano e lo aveva fatto comparire sulla scena come ultima occasione favorevole per tutto Israele prima della distruzione incombente nel futuro giudizio finale. Giovanni Battista simboleggiava l'analogia fra il presente di Israele e la situazione dell'antica generazione del deserto già con il suo aspetto personale. Quale tipico abitante del de­ serto egli portava, secondo lo stile dei beduini, un mantello di peli di cammello con una cintura di cuoio ai fianchi e si nutriva di cavallette e miele selvatico (Mc 1,6; Mt 3,4). Questo stile di vita non aveva naturalmente nulla a che vedere con un com­ portamento ascetico in grado di contrapporlo ai gaudenti «mangioni e beoni» del tempo di Gesù e distinguerlo da essi (Mt 1 1 ,18-19; Le 7,33-34). Le cavallette fritte nell'olio di oliva avevano un sapore simile a quello delle patatine fritte. Come anche il miele selvatico, esse sono un'autentica leccornia. Solo gli abitanti del deserto potevano permetterseli con tanta ab­ bondanza, così come altri potevano permettersi il pane quoti­ diano, l'alimento fondamentale degli agricoltori e dei cittadini fatto con i cereali dei loro campi coltivati. Mentre gli abitanti dei villaggi e delle città portavano normalmente abiti fatti con lino o lana, Giovanni simboleggiava la condizione della pere­ grinazione di Israele nel deserto grazie al suo non meno fine mantello di peli di cammello, la cui cintura di cuoio non aveva nulla da invidiare alle sciarpe di stoffa degli altri. Giovanni non intendeva comunque criticare la cultura e diffondere lo stile di vita dei beduini quale generale alterna­ tiva al posto del normale stile di vita - non ha mai raccoman-

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dato nulla del genere ai suoi discepoli - ma voleva semplice­ mente porre in modo assolutamente personale, sotto forma di un'azione profetica simbolica, il presente di Israele nella luce crepuscolare della passata generazione del deserto. Al tempo stesso egli voleva ricordare con il suo abbigliamento quello del profeta Elia (2Re 1 ,8; cf. Zc 13,4). L'aspetto esteriore del pro­ feta Giovanni mostrava chiaramente quali fossero i tratti tra­ dizionali che confluivano nella sua entrata in scena. Gesù stesso ha chiesto ai suoi contemporanei ebrei se fos­ sero andati da Giovanni «nel deserto» semplicemente per am­ mirare una canna agitata dal vento o qualcuno vestito come i cortigiani che vivono nei palazzi dei re. Il riferimento antite­ tico delle due immagini allo stile di vita e all'aspetto del Batti­ sta sarebbe risultato ancor più evidente se si fossero citati come elementi di contrapposizione i «campi di messi ondeg­ gianti» o il normale «abbigliamento degli abitanti delle città e dei villaggi» del luogo. Non v'è comunque alcun dubbio che le due domande retoriche richiedono una risposta negativa e ser­ vono in definitiva a preparare la terza domanda, che richiede invece una risposta positiva: «E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì (certamente un profeta, ma), vi dico, anche più di un profeta» (Mt 1 1 ,7-9; Le 7,24-26). A quel tempo veniva considerato profeta chi preannun­ ciava qualcosa che sarebbe accaduto in futuro. Egli si dimo­ strava vero profeta se ciò che aveva preannunciato accadeva realmente. La particolare previsione del futuro del profeta Giovanni consisteva nel fatto di preannunciare come immi­ nente il giudizio finale di Dio e l'inizio del tempo della sal­ vezza per Israele. Nel linguaggio ricco di immagini del Battista la vicinanza di questi avvenimenti era comparabile alla situa­ zione che viene a crearsi quando qualcuno è già pronto con la scure in mano per abbattere un albero o con il ventilabro in mano per separare il grano dalla pula di un mucchio di cereali che stanno lì davanti a lui (Mt 3,10.12; Le 3,9.17). Il più po­ tente di lui, al quale egli non era degno di rendere neppure l'infimo dei servizi resi dallo schiavo e che fra breve avrebbe battezzato «in Spirito Santo e fuoco» (Mt 3,11 ; Le 3,16; cf. Mc 1,7-8; Gv 1 ,26-27.33), non era per il Battista storico né Gesù né

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alcun'altra figura messianica, m a Dio stesso, di cui egli s i con­ siderava l'annunciatore e colui che preparava la strada. Si ritiene spesso che siano stati i cristiani ad attribuire per primi a Giovanni questa funzione di annunciatore e prepara­ tore della strada, poiché nei Vangeli essa serve esclusivamente a degradare il Battista nei confronti di Gesù. Come principale strumento di quest'interpretazione cristiana della figura del Battista sarebbe servita la citazione di Is 40,3, riferita espressa­ mente alla preparazione della strada per Gesù, la quale com­ pare sulle labbra del Battista solo nel più tardivo dei Vangeli (Gv 1,23) e prima di allora solo come affermazione su di lui (Mc 1,2-3; Mt 3, 3; Le 3,4-6). Ma al riguardo non si tiene nor­ malmente conto del fatto che lo stesso riferimento scritturi­ stico si trova anche nel Benedictus di Zaccaria, un inno compo­ sto dai seguaci del Battista in sua lode e forse del tutto im­ mune dall'interpretazione cristiana (Le 1,76). Ma per com­ prendere il Battista storico ancor più importante è il rinvio a Is 40,3 presente in Ml 3,1, a. proposito del quale è assolutamente escluso un qualsiasi sospetto di rielaborazione del testo da parte dei cristiani. Né Giuseppe Flavio né il Nuovo Testamento tramandano un racconto di vocazione a proposito di Giovanni, come av­ viene invece normalmente per i profeti dell'Antico Testa­ mento (Is 6; Ger l ; Ez 1-3, ecc.). Resosi conto di questa lacuna, l'evangelista Luca ha cercato successivamente, a partire dal materiale tradizionale a sua disposizione (Mc 1,2-4 e Le 1,525.59-79), di costruire un racconto di vocazione di Giovanni (Le 3,2-6). Ma a parte questa presentazione lucana di chiara matrice letteraria non si trova nella tradizione del Battista un tale racconto. Se tuttavia si legge l'ultimo capitolo dell'ultimo libro della raccolta biblica dei profeti ci si accorge facilmente che esso contiene da un capo all'altro quasi tutti i motivi che hanno ca­ ratterizzato e motivato l'entrata in scena e la predicazione del Battista. Dalla prospettiva temporale di Giovanni è possibile leggere questo capitolo come la storia della propria vocazione. Già qui si trovano i motivi del giudizio attraverso il fuoco e della conversione (Ml 3,2-3.7.19), addirittura i motivi fonda-

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mentali delle sue immagini della scure posta alla radice dell'al­ bero e del ventilabro per la vagliatura del grano (MI 3.19a.b ). Anche la presa di distanza del Battista nei confronti del culto sacrificate del tempio di Gerusalemme trova qui la sua chiara corrispondenza (Ml 3,3-4.8-10; cf. ivi cc. 1-2). Infine, non sono stati i cristiani a fare di Giovanni il «messaggero dell'alleanza», ma già il suo chiaro «testo di vocazione» (MI 3,1), il quale gli ha imposto al tempo stesso il ruolo di Elia quale ultimo solleci­ tatore immediatamente prima del grande e terribile giorno del giudizio finale che sarà presieduto da Dio stesso (MI 3,23-24; cf. Mc 6,14-15; 8,28; 9,1 1-13; Mt 1 1,14; 16,14; 17,9-13; Le 1,17; 9,19; Gv 1,21.25). Questo riferimento a Elia nel suo «testo di vocazione» aveva per Giovanni anche un altro autorevole significato. In­ fatti, secondo 2Re 2,1-18, il profeta Elia, partendo da Gerico, aveva attraversato a piedi asciutti il Giordano proprio in quel luogo dove un tempo il popolo di Israele sotto la guida di Gio­ suè era entrato in direzione opposta nella Terra Santa. Solo sulla sponda orientale del Giordano era comparso «Un carro di fuoco e cavalli di fuoco» sul quale Elia era salito e sul quale senza essere morto - «era salito nel turbine verso il cielo» (2Re 2,1 1). MI 3,23 non nomina un luogo determinato nel quale Elia sarebbe ritornato ma è plausibile attendere il suo ritorno nel luogo della sua ascesa al cielo. Così si spiega in ogni caso senza difficoltà il motivo per cui Giovanni, con il suo modo di vestire e di nutrirsi, evidenziava, oltre al simbolismo del deserto, an­ che particolarità tipiche di Elia. La sua entrata in scena era an­ che il promesso ritorno di Elia. Naturalmente, se Giovanni avesse voluto presentarsi sol­ tanto come Elia che ritornava sarebbe bastato che si fosse pre­ sentato sul luogo dell'ascesa al cielo di Elia all'inizio della sua entrata in scena, per poi percorrere la Terrra Santa e attendere alla conversione di Israele. Né la sua permanenza in quel luogo né il fatto di battezzare nel Giordano sono spiegabili a partire dal suo ruolo di nuovo Elia. Tuttavia il suo «testo di vo­ cazione» glielo aveva imposto ed esso ha concorso profonda­ mente a determinare la funzione di Giovanni come colui che

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porta a compimento la salvezza per Israele (Mc 9,9-13; Mt 17,9-13) e gli ha anche forse permesso di essere per Gesù da questo punto di vista «più che un profeta» (Mt 11,9; Le 7,26). Infine, decisivo era comunque per Giovanni il suo effettivo collegamento con il luogo in cui Israele si era un giorno tro­ vato prima del suo ingresso nella Terra Santa. Se si considera il libro di Malachia, soprattutto il suo capi­ tolo terzo, come testo di vocazione del profeta Giovanni - o in un modo del tutto neutro, come fondamento orientativo normativa per la sua entrata in scena - allora qui manca il motivo per lui così caratteristico del deserto. Ma esso dovrebbe essere stato presente fin dall'inizio, mediante la pretesa ben at­ testata per Giovanni di Is 40,3, quale fondamento decisivo per la comprensione di Ml 3,1 (cf. anche 3,22). Diversamente stanno le cose solo per quanto riguarda il battesimo caratteristico. di Giovanni. Non è possibile derivarlo né da Malachia né da alcun altro testo biblico. Naturalmente ci si potrebbe riferire al riguardo, come fa Paolo, alla nube e al passaggio attraverso il mare al momento dell'uscita di Israele dall'Egitto (1Cor 10,1 -2), ma anche in questo caso si tratte­ rebbe di un battesimo amministrato direttamente da Dio e non attraverso la figura di un battezzatore umano. Né serve l'amato riferimento alla guarigione del generale siriano Naa­ man grazie al suo bagno nel Giordano (2Re 5,1-19). A man­ darvelo non era stato il profeta Elia ma il suo discepolo e suc­ cessore Eliseo, il quale rimase comunque a casa propria e non svolse il ruolo di battezzatore di Naaman; del resto, anche la sua settuplice immersione non presentava in alcun modo un ca­ rattere di modello per il rito battesimale di Giovanni. In realtà, fino al momento dell'entrata in scena di Gio­ vanni non era mai accaduto né nel giudaismo né nel mondo circostante che qualcuno avesse battezzato altre persone. Esi­ steva certamente una grande quantità di riti di purificazione fino all'immersione di tutto il corpo, ma ognuno compiva que­ sti riti autonomamente, senza il coinvolgimento di un battezza­ tore. Giovanni fu il primo a comportarsi in questo modo. Alla fine forse Gesù stesso, e non solo la cerchia dei suoi discepoli, ha ripreso e praticato autonomamente questo rito

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battesimale (Gv 3,25-26; 4,1-3). Sarebbe comunque questo il modo più semplice per spiegare la nascita del battesimo nelle comunità cristiane (cf. Mt 28,19). Esso non venne infatti prati­ cato fin dall'inizio come un bagno di purificazione rituale au­ tonomamente compiuto ma come un essere battezzati (1Cor 6,1 1 ; Rm 6,3, ecc.) da parte di altri cristiani (1Cor 1,14-16; At 8,38; 10,48, ecc.), come si usa fare fino ai nostri giorni nelle chiese cristiane, senza che nessuno degli autori neotestamen­ tari si sia sentito in dovere di spiegare questo sorprendente dato di fatto del rito battesimale. La sua riconduzione a Gio­ vanni Battista è quindi la possibilità di derivazione più ovvia, anzi addirittura inevitabile data l'assenza di altri riferimenti relativi all'introduzione di questo rito. Ma in tal modo si è ancora ben lungi dall'aver chiarito quale senso avesse per lo stesso Giovanni il fatto di battezzare altre persone. Per lui il battesimo era certamente da porre in relazione con il perdono dei peccati. Giovanni ha considerato infatti l'imminente giudizio finale come un cataclisma di fuoco che avrebbe annientato tutti coloro che non avessero preventi­ vamente accolto il suo appello alla conversione e non si fos­ sero lasciati battezzare da lui. Ma la semplice conversione e il successivo stile di vita esente da peccati non bastavano. Re­ stava il problema del peso dei peccati ammassati fino a quel momento, spesso per decine di anni. Ora, secondo la testimo­ nianza veterotestamentaria, nessuno uomo può assicurare il perdono dei peccati, né un sacerdote né un profeta, né il mes­ sia né il più giusto e più santo di tutti i devoti, ma solo e sem­ pre Dio (cf. Mc 2,7). Di conseguenza, anche Giovanni Battista non ha perdo­ nato a nessuno i suoi peccati, cosa che Giuseppe Flavio sottoli­ nea espressamente nella valutazione positiva della sua attività (Antichità 18,1 17). E tuttavia il perdono dei peccati era stret­ tamente collegato con il suo battesimo, come attestano i rac­ conti evangelici a suo riguardo (Mc 1,4-5; Mt 3,6; Le 1,77; 3,3). Del resto sarebbe difficile pensare altrimenti, dato che il signi­ ficato del battesimo comunitario cristiano fu essenzialmente collegato fin dall'inizio al perdono dei peccati (1Cor 6,1 1; Rm 3,25; 6,1-23, ecc.). Tuttavia, mentre il battesimo cristiano opera

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nello stesso atto sacramentale la cancellazione di tutti i peccati precedentemente commessi, il battesimo di Giovanni avveniva unicamente per la remissione dei peccati. Esso era la garanzia - pure sacramentale - del fatto che Dio stesso non avrebbe tenuto conto nel futuro giudizio finale dei peccati commessi dal battezzato fino al suo battesimo. Questa garanzia gli assi­ curava il libero ingresso nel futuro ambito della salvezza me­ diante la sua preservazione dalla distruzione nel giudizio di fuoco, nonostante tutti i peccati non ancora perdonati del pas­ sato. A causa di questo significato del suo battesimo gli ebrei del suo tempo hanno chiamato sarcasticamente Giovanni e i suoi seguaci «i preservatori», in aramaico nazren o, con l'articolo, nazrayya, in traduzione greca nazarenoi o nazoraioi. Per di­ stinguerlo meglio dalle molte persone che portavano lo stesso nome Gesù fu perciò detto il nazareno (Mc 1,24; 10,47; 14,67; 16,6; Le 4,34; 24,19) o il nazoreo (Mt 2,23; 26,71 ; Le 18,37; Gv 18,5.7; At 2,22; 3,6; 4,10; 6,14; 22,8; 24,5; 26,9), il che originaria­ mente non indicava affatto la sua provenienza da Nazaret (così molte traduzioni della Bibbia interpretano l'espressione che ricorre nei passi citati), ma la sua provenienza dalla cer­ chia dei battezzatori o la sua appartenenza a tale cerchia. La «preservazione» dalla distruzione nel futuro giudizio finale era il segno salvifico distintivo di Giovanni e il rito del battesimo ne era il suo aspetto visibile. Per distinguerlo meglio da molti altri dello stesso nome questo Giovanni venne quindi chia­ mato il Battista. Prima di allora mai nessuno aveva compiuto un rito battesimale. Come nel battesimo delle prime comunità cristiane, già in Giovanni la completa immersione del battezzando simboleg­ giava la morte e il suo riemergere dall'acqua la condizione della salvezza raggiunta. Il battezzante agiva come rappresen­ tante di Dio, come fanno abitualmente i sacerdoti nel culto, per esempio quando impartiscono la benedizione durante le celebrazioni liturgiche. Ma nel giudaismo non si può diventare sacerdoti, per esem­ pio mediante l'acquisizione delle conoscenze relative alla pro­ fessione, ma si è sacerdoti per nascita, precisamente in quanto

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figli di un padre della tribù di Levi o in quanto discendenti del fratello di Mosè, Aronne. Gli ebrei i cui cognomi oggi suo­ nano Kohn, Kuhn, Cohen ( ebraico kohen, sacerdote), Katz ( abbreviazione medievale di kahen tzedek, vero sacerdote) o Levy discendono ancora normalmente dalle famiglie sacer­ dotali dell'antico Israele, che contavano al tempo di Gesù più di diecimila membri maschi. Soprattutto nel caso di Giovanni Battista non vi è alcun dubbio dal punto di vista storico che egli discendesse da una famiglia sacerdotale, come risulta dalle descrizioni di suo pa­ dre Zaccaria e di sua madre Elisabetta fatte in Le 1 ,5-25 e 1,3979. Questa qualità sacerdotale di mediatore, derivante dalla sua nascita, era certamente in Giovanni la componente deci­ siva per il suo ruolo attivo nel battesimo, quella che lo ha reso battista come rappresentante rituale di Dio e che ha fatto del battesimo da lui amministrato un sacramento efficace. Nel­ l'atto del battesimo Dio, attraverso il suo rappresentante sa­ cerdotale, garantiva che avrebbe rinunciato a punire, in occa­ sione del futuro giudizio finale, i peccati commessi fino a quel momento. Questi dati previ permettono di comprendere anche quale profondo contenuto simbolico avesse per Giovanni il batte­ simo amministrato proprio nel Giordano (Mc 1,5.9; Mt 3,6.16). Giovanni non guidava il popolo di Israele, come aveva fatto un tempo Giosuè, attraverso il Giordano nella Terra Santa ( Gs 3-4), ma esattamente fino al limite di quel passaggio. Simboli­ camente considerato, il futuro ambito di salvezza si trovava al di là di quel punto, sull'altra sponda. Il Giordano simboleg­ giava per Giovanni la barriera dell'imminente giudizio finale che era altrimenti non oltrepassabile e che poteva essere attra­ versata solo in futuro (cf. la cosiddetta riserva escatologica nella concezione del battesimo di Paolo, Rm 6,4 ). E tuttavia il battesimo «nel Giordano», come anticipazione simbolica della situazione del giudizio finale, era per i battezzati al tempo stesso anche il suo superamento e colui che battezzava si ren­ deva garante del futuro passaggio. La concreta mediazione sacerdotale-sacramentale del pas­ saggio da un destino di morte altrimenti inevitabile per Israele =

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all'ambito della futura salvezza costituiva il centro dell'azione del Battista e la sua profetica interpretazione del presente e predizione del futuro ciò che le conferiva significato. Come ha detto lo stesso Gesù, nel caso di Giovanni si trattava di qual­ cosa di più della semplice profezia; si trattava sostanzialmente di un'efficace mediazione della salvezza. Il suo unico garante era per tutto l'Israele del tempo Giovanni Battista. Spesso il Battista viene presentato come semplice profeta del giudizio, nel suo battesimo si vede unicamente il suo sim­ bolismo di morte e il Giordano viene considerato semplice­ mente come un luogo naturalmente adatto per amministrare il battesimo. In realtà, per Giovanni il Giordano simboleggiava la situazione di passaggio, nell'evento battesimale dominava l'aspetto della vita e il Battista aveva ben presente non solo il giudizio finale ma anche il tempo della salvezza di Israele. La doppia affermazione del Battista che presenta Dio al tempo stesso come colui che battezza nello Spirito e nel fuoco (Mt 3,11; Le 3,16) conferisce un'uguale importanza ai due aspetti; anzi nella valutazione positiva che Giuseppe Flavio fa di Gio­ vanni domina addirittura l'aspetto del portatore della salvezza. Il fatto che nel Nuovo Testamento si sia tramandato quasi esclusivamente l'aspetto del giudizio nell'annuncio del Batti­ sta si spiega se si pensa che in esso l'aspetto della salvezza viene posto essenzialmente in relazione con Gesù. In questo senso Gesù, in quanto colui che porta a compimento la condi­ zione di salvezza annunciata da Giovanni, è stato volutamente contrapposto al Battista (Mt 1 1 ,2-6; Le 7,18-23), ma, secondo la presentazione evangelica, il tempo della salvezza comincia nel momento in cui Gesù viene battezzato da Giovanni (Mc 1,9-1 1 ; Mt 3,13-17; Le 3,21-22; cf. Gv 1 ,29-34), se non già nel momento della nascita del Salvatore (Mt 1-2; Le 1-2). A causa di questi interessi cristiani riguardo alla fede e alla sua presentazione, le nostre principali fonti neotestamentarie ci rinviano un'immagine piuttosto unilaterale di Giovanni Bat­ tista. Ma l'immagine contiene ancora sufficienti elementi per permetterei di riconoscere perlomeno nei suoi tratti principali il quadro globale del tempo. In base a questo quadro il batte­ simo sacramentale nel Giordano era il segno distintivo più im-

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portante di Giovanni, la duplicità del suo annuncio profetico del giudizio e della salvezza ciò che gli conferiva significato e la totalità dell'Israele del tempo la comunità di non salvezza alla quale egli si rivolgeva e alla quale il suo battesimo offriva l'unica porta di ingresso nella salvezza che ancora restasse. RELAZIONI CON GLI ESSENI?

Nelle pubblicazioni e sui mass media si continua instanca­ bilmente ad affermare quale risultato fondamentale delle sco­ perte di Qumran il fatto che esse mostrerebbero non solo ge­ nericamente che gli esseni sarebbero stati «cristiani già prima di Gesù», ma più particolarmente che «già a Qumran sarebbe esistito il battesimo». I sostenitori di questa posizione vedono per lo più in Giovanni Battista il ponte che permette di stabi­ lire un collegamento fra i - pretesi - dati offerti da Qumran e il battesimo cristiano. Ora ci chiediamo: il suo battesimo viene da Qumran? In realtà, esistono praticamente quasi solo differenze fra il battesimo di Giovanni e i dati offerti dalle scoperte di Qum­ ran. l) Per Giovanni il rito di battezzare altre persone aveva un'importanza fondamentale. È stato questo rito a costituire la figura del Battista e a trasformare i bagni di purificazione in battesimo. A Qumran, come in tutto il giudaismo, esistevano invece solo bagni rituali che ognuno compiva da solo, mai un rito comparabile al battesimo e mai la figura di un battezza­ tore. 2) Per Giovanni il compimento del battesimo aveva un si­ gnificato sacramentale; esso preservava dalla distruzione nel­ l'imminente giudizio finale e apriva la strada al futuro tempo della salvezza. I bagni rituali di Qumran - così come del resto quelli di tutto il giudaismo del tempo - non avevano alcun ca­ rattere sacramentale, ma servivano solo ritualmente a produrre la purità cultuale. 3) Giovanni battezzava in un luogo ben de­ terminato sulla sponda orientale del Giordano. Gli esseni in­ vece compivano le loro purificazioni a Qumran e ovunque essi abitassero in centinaia di installazioni costruite a tale scopo.

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Né il Giordano in generale né il luogo del battesimo di Gio­ vanni in particolare avevano per i bagni rituali degli esseni una qualche importanza reale o simbolica. 4) Nel caso del batte­ simo di Giovanni si trattava di un atto unico che valeva per tutta la vita del battezzato. Gli esseni, al contrario, compivano i loro bagni di purificazione più volte al giorno. 5) Il battesimo di Giovanni assicurava il perdono dei peccati nel futuro giudi­ zio finale. Ai bagni di purificazione degli esseni non era invece mai associato in alcun modo il pensiero del giudizio finale o la mediazione del perdono dei peccati. 6) Per Giovanni il batte­ simo sigillava il compimento della conversione. Anche per gli esseni la conversione significava una rigida osservanza della Torah, ma l'accento veniva posto concretamente sul ritorno dalla diaspora e sull'ingresso nella loro Unione. Il motivo della conversione non veniva mai collegato ai loro bagni rituali. 7) Gli esseni facevano partecipare ai loro bagni rituali coloro che volevano entrare nella loro comunità solo dopo un anno di at­ tesa. Per Giovanni non esisteva alcun tempo di attesa obbliga­ torio. 8) Gli esseni ammettevano ai loro bagni rituali solo i membri iscritti alla loro Unione e gli aspiranti giunti a uno sta­ dio avanzato. Giovanni, al contrario, battezzava tutti coloro che si recavano da lui, senza alcuna considerazione per l'orga­ nizzazione di cui potevano essere stati membri fino a quel mo­ mento e anche senza introdurli da parte sua in una qualche or­ ganizzazione. L'unico punto in comune fra il battesimo di Govanni e i ba­ gni rituali degli esseni era l'uso rituale da entrambe le parti dell'acqua per l'immersione. Ma questo era un rito comune nel giudaismo del tempo, un rito che gli esseni praticavano solo più spesso rispetto agli altri ebrei. Proprio da questo punto di vista l'unicità del battesimo amministrato da Giovanni era l'e­ satto contrario della prassi essena. In realtà, Giovanni Battista e gli esseni erano addirittura degli strenui concorrenti. Ognuna delle due parti pretendeva infatti di essere la sola in grado di preservare Israele dalla di­ struzione nel futuro giudizio finale di Dio, gli esseni mediante l'ingresso nella loro Unione, Giovanni mediante il suo batte­ simo. Le due vie di salvezza si escludevano a vicenda. Ma nel

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loro approccio non avevano nulla in comune, a parte l'orienta­ mento alla totalità di Israele. A un'attenta considerazione le cose non stanno diversa­ mente neppure riguardo a tutti gli altri supposti punti in co­ mune o collegamenti fra Giovanni Battista e gli esseni o Qum­ ran. La preparazione della strada per Dio nel deserto, secondo fs 40,3, condusse Giovanni nella regione dell'antica peregrina­ zione di Israele nel deserto, a oriente del Giordano, mentre condusse gli esseni probabilmente alla fondazione dell'inse­ diamento di Qumran nel deserto di Giuda a occidente del Giordano, in ultima analisi in ogni caso allo studio della Torah e dei libri biblici dei profeti in tutti i luoghi dove essi abitavano (1Q S VIII,12-16; cf. IX,17-21 ). Ambo le parti hanno aspettato dal futuro il giudizio finale di Dio e l'inizio del tempo della salvezza di Israele. Nel caso del Battista non vi è alcun dubbio che egli si aspettasse tutto questo per un futuro molto prossimo, al più tardi nel giro di pochi anni. Per gli esseni invece quando apparve Giovanni Battista era già da tempo fissata quale data finale, in base ai loro calcoli condotti sul libro di Daniele, l'anno 70 d.C. (cf. so­ pra, p. 191 ). A prescindere dalle rispettive diverse determina­ zioni delle date, non si può certamente considerare attesa pros­ sima, comparabile con l'annuncio del Battista, l'orientamento verso una data che si trova ancora a trenta-quarant'anni di di­ stanza. Sia Giovanni che gli esseni si tennero a distanza dal culto sacrifica/e del tempio di Gerusalemme. Per gli esseni il motivo principale del loro rifiuto era l'orientamento dell'ordinamento cultuale del tempio di Gerusalemme al calendario lunare di 354 giorni. Nel caso di Giovanni Battista, al contrario, non è dato sapere se egli abbia criticato aspetti relativi al calendario. Suo padre Zaccaria deve aver accettato l'ordinamento cul­ tuale del tempio di Gerusalemme dal momento che ricevette l'annuncio della nascita del figlio da parte dall'arcangelo Ga­ briele proprio mentre offriva l'incenso nel tempio (Le 1,8-22). La trasmissione di questo materiale da parte dei seguaci del Battista mostra_ addirittura indirettamente che il loro maestro

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non ha mai polemizzato contro il culto sacrificate del tempio di Gerusalemme nel modo in cui fecero gli esseni. La critica delle deficienze cultuali di Ml 3,3-4.8-10 può aver spinto il Battista a prendere posizione contro la trascuratezza nel compimento del culto e nel pagamento delle decime e a richiedere dagli in­ teressati un comportamento conforme alla Torah anche da questo punto di vista, ma non esiste al riguardo alcuna tradi­ zione. Nel caso del Battista la distanza dal culto del tempio ap­ pare chiaramente solo dall'aver fatto dipendere la salvezza fu­ tura per tutti gli ebrei in modo radicale ed esclusivo dal suo battesimo nel Giordano e di aver completamente trascurato quale istituzione per il perdono dei peccati di tutto Israele l'annuale giorno dell'espiazione del culto del tempio - nono­ stante che la Torah lo richiedesse (Lv 16) e Giovanni stesso fosse un sacerdote. L'abbigliamento e l'alimentazione del Battista erano una voluta azione profetica simbolica, mediante la quale egli si presentava quale tipica figura del deserto e al tempo stesso an­ che come personaggio corrispondente a Elia. Lo sfondo ogget­ tivo di tutto questo era sia l'orientamento tipologico all'allora generazione del deserto di Israele sia la preparazione della strada nel deserto per il Signore, secondo Ml 3,1 e Is 40,3 (cf. anche Mc 1,2-3 e Mt 1 1 ,10; Le 7,27). Il suo modo di vestire e di nutrirsi non aveva assolutamente nulla a che vedere con gli espedienti cui ricorrevano per sopravvivere gli esseni cacciati dalla comunità. È certamente vero che si può coprire in appena cinque ore di marcia la distanza fra Qumran e il luogo del Giordano dove Giovanni battezzava, ma questa relativa vicinanza geografica non ha assolutamente alcuna importanza, dal momento che questi due luoghi si trovavano in mondi completamente di­ versi. Qumran apparteneva con tutto il Deserto di Giuda a quella Terra Santa al di fuori dei cui confini, secondo l'opi­ nione degli esseni, non poteva esservi alcun servizio accetto al Dio di Israele. Giovanni Battista aveva invece volontaria­ mente scelto quale luogo della sua entrata in scena il deserto posto al di fuori, alle porte della Terra Santa, per preparare al di là del Giordano il popolo di Israele al futuro ingresso nella

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Terra Santa, cioè al tempo della salvezza di Israele dopo il giu­ dizio finale. Il luogo in cui egli battezzava non era una filiale di Qumran, un luogo dove sarebbe potuto avvenire esattamente ciò che lì avveniva, ma il luogo di un'impresa assolutamente autonoma di natura non paragonabile ad altre. Così quale ultima possibilità di collegamento fra Giovanni Battista e Qumran resta la notizia di Le 1,80 secondo cui il fan­ ciullo Giovanni crebbe «nel deserto». Essa non possiede alcun contenuto informativo autonomo, ma è stata prodotta a par­ tire dal materiale cui potevano attingere gli evangelisti al fine di collegare realtà che si presentavano scollegate. Il procedi­ mento seguito da Luca nella presentazione del Battista è stato da lui ripreso anche nella presentazione di Gesù, dal momento che lo stato delle fonti presentava nei due casi problemi analo­ ghi. Le fonti di cui Luca disponeva per la sua presentazione di Gesù terminavano, per quanto riguardava la sua fanciullezza, con la predizione di Anna (Le 2,36-38). Gesù aveva allora solo pochi giorni (Le 2,21-24). ll Vangelo di Marco, che Luca aveva a disposizione come fonte di riferimento, portava come dato successivo nella vita di Gesù il suo battesimo da parte di Gio­ vanni (Mc 1,9-1 1). Allora, secondo i calcoli di Luca, Gesù aveva «circa trent'anni» (Le 3,23). Si trattava di un vuoto in­ formativo nella vita del suo personaggio principale difficile da accettare da parte di un biografo. Fortunatamente Luca dispo­ neva ancora, come tradizione particolare, del racconto di Gesù dodicenne nel tempio di Gerusalemme (Le 2,41-50). Mediante l'inserzione di quel racconto egli poté in qualche modo gettare un ponte su quel tempo intermedio. Con l'introduzione reda­ zionale di informazioni intermedie (Le 2,39-40 e 2,51-52), i cui elementi prese dai materiali del contesto, arricchendoli con i comuni tratti della pietà ebraica, l'evangelista riuscì a creare, mettendo a frutto tutte le sue migliori qualità di scrittore, altri elementi di collegamento. Non diversamente si comportò Luca nella biografia di Giovanni. In questo caso le sue fonti terminavano con il Bene­ dictus di Zaccaria (Le 1 ,67-79) all'ottavo giorno della giovane vita del Battista (Le 1 ,59-66). Ma né il Vangelo di Marco né al-

Giovanni Battista

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cun'altra fonte a disposizione di Luca offriva alcunché per i «circa trent'anni» che anche in questo caso dovevano essere trascorsi fino al momento dell'entrata in scena del Battista (Le 3,1-18) e al battesimo di Gesù, praticamente suo coetaneo (Le 1,36.39-58). Così l'evangelista poté soddisfare il suo interesse per la presentazione biografica del Battista solo mediante la crea­ zione della notizia redazionale intermedia di Le 1,80. È evi­ dente che Luca ha compreso il dato testuale di Mc 1,2-4 nel senso che Giovanni, «quando ricevette l'ordine di manifestarsi a Israele» (Le 1,80) si trovava «nel deserto (Le 3,2). Prima di allora Giovanni era stato presentato solo come un «bambino» di otto giorni (Le 1,59-66). Luca non conosceva una convi­ venza intermedia di questo bambino con i suoi genitori, così come era stata tramandata nel caso di Gesù (Le 2,41-50). Così egli fece crescere senz'altro il «bambino» in quel «deserto» nel quale si trovava all'inizio della presentazione del Battista (Le 3.1-:-3). Tutti gli altri elementi contenuti in Le 1 ,80 derivano dal modo usuale di presentare persone pie (cf. Le 2,40.52). Luca non dice in ogni caso dove debba essere cercato quel deserto nel quale sarebbe cresciuto Giovanni. Esso non si tro­ vava comunque per lui nella regione del Giordano, dove Gio­ vanni si recò solo dopo la sua chiamata (Le 3,3}. Chi ritiene che Le 1,80 contenga un dato storico dovrebbe a rigor di ter­ mini escludere Qumran come possibile luogo di educazione di Giovanni. In realtà, si tratta in entrambi i casi di costruzioni proprie di Luca senza alcun valore storico. Giovanni Battista non è stato né un esseno né un discepolo spirituale degli esseni. Se un giorno si fosse preso la briga di andare fino a Qumran come non esseno non sarebbe neppure stato lasciato entrare nell'insediamento, ma avrebbe ricevuto nel migliore dei casi una razione di cibo sufficiente per affron­ tare il viaggio di ritorno. Un vero profeta resta comunque là dove Dio lo ha posto. Ora nel caso di Giovanni, il suo posto era sulla sponda orien­ tale del Giordano di fronte a Gerico, fino a quando Erode An­ tipa non lo fece arrestare e giustiziare nella fortezza di Mache-

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Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù

ronte. Per il Battista Qumran rimase sempre sia geografica­ mente che spiritualmente in un mondo del tutto diverso. L'IMPORTANZA DELLE SCOPERTE DI QUMRAN

Senza le scoperte di Qumran non sarebbe stato possibile presentare Giovanni Battista e la sua opera nel modo in cui abbiamo fatto e rendersi adeguatamente conto della sua diver­ sità rispetto agli esseni. Le fonti di cui disponevamo prima delle scoperte di Qumran non sarebbero bastate per farlo. Nell'analisi finora condotta sui documenti di Qumran vi era naturalmente in primo piano il problema di sapere se Gio­ vanni Battista potesse essere stato un esseno o se potesse aver ricevuto dagli esseni impulsi fondamentali per la sua azione. Da questo punto di vista la conclusione è inequivocabilmente negativa. Resta ancora aperto il problema, del tutto diverso, delle nuove conoscenze arrecate dalle scoperte di Qumran e dalla loro analisi per il giud aismo palestinese del tempo di Giovanni in generale, conoscenze che sono importanti per la nostra comprensione del Battista e della sua azione e che po­ trebbero essere state addirittura parzialmente rilevanti per lui stesso quale sfondo delle sue concezioni. Le scoperte di Qumran ci mostrano per la prima volta quanto sia stata importante per gli esseni fin dal loro inizio la concentrazione sulla Terra Santa con i suoi confini biblici. Fi­ nora non conoscevamo un tale profondo ed esteso orienta­ mento verso i confini della Terra Santa nel giudaismo postesi­ lico. Ora la forza simbolica del luogo scelto da Giovanni per il suo battesimo presuppone proprio una chiara coscienza di questo tipo. Il maestro di giustizia aveva subordinato per l'intero Israele l'ingresso nella salvezza all'ingresso nella sua Unione essena. Dopo di lui Giovanni Battista è stato il primo a vedere nuova­ mente per tutto Israele una sola possibilità di salvezza, il pas­ saggio attraverso il suo battesimo. Gli esseni non hanno certamente vissuto continuamente nell ' attesa imminente del giudizio finale, ma hanno fatto pren­ dere coscienza della sua vicinanza e si sono orientati a essa

Giovanni Battista

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più di qualsiasi altro gruppo del giudaismo palestinese. Senza quest'azione preliminare degli esseni in mezzo alla popola­ zione sarebbe difficilmente comprensibile la spontanea in­ fluenza esercitata sulle masse dall'annuncio del giudizio da parte del Battista. Le varie concezioni del giudizio finale che si trovano nei testi di Qumran (cf. sopra, pp. 299-300), soprattutto quelle re­ lative al giudizio mediante il fuoco di lQ H 111,29-34, sono un importante elemento di fondo per la comprensione delle im­ magini del giudizio finale usate dal Battista. Il collegamento caratteristico in Giovanni fra il giudizio fi­ nale e l'inizio del tempo della salvezza è già variamente pre­ sente anche nella Bibbia, ma solo grazie ai testi di Qumran soprattutto lQ S IV,18-23, nonché le indicazioni offerte dai midrashim e dai commenti dei libri biblici dei profeti - è pos­ sibile rendersi conto del modo specifico in cui esso era inteso in quel tempo. La concezione, inaugurata dal maestro di giustizia e diffusa in numerosi testi di Qumran, secondo cui gli scritti dei profeti biblici si riferirebbero non al loro passato ma al proprio pre­ sente come epoca che precede il giudizio finale, viene valoriz­ zata in modo particolare da Giovanni Battista nella pretesa di vedere in Ml 3 il proprio testo di vocazione, unitamente all'im­ plicito riferimento a Is 40,3. L'obbedienza alla Torah, rigidamente richiesta dagli esseni al loro tempo, costituiva anche il fondamento della richiesta di conversione da parte di Giovanni, fino a quella critica della si­ tuazione matrimoniale del suo sovrano che lo avrebbe portato alla morte. Il basilare collegamento del perdono dei peccati per Israele con un'istituzione distante dal culto sacrificate del tempio di Gerusalemme - per gli esseni, con la loro Unione quale rap­ presentanza al posto del tempio, per Giovanni, con il suo bat­ tesimo nel Giordano - non presenta analogie nel resto del giudaismo. Solo grazie ai testi di Qumran è stato possibile rendersi conto di tutti questi retroscena e avere quindi una migliore comprensione del quadro di insieme. Ma negli elementi co-

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Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù

munì appaiono anche caratteristiche differenze. In quanto sa­ cerdote - come in seguito il sacerdote gerosolimitano Giu­ seppe Flavio o anche meglio di quest'ultimo - Giovanni Bat­ tista avrebbe potuto rendersi conto, anche senza farne parte, di diverse cose insegnate dagli esseni. Ma molto più impor­ tante è il fatto che la maggior parte di ciò che contengono i te­ sti di Qumran era caratteristico di tutto il giudaismo palesti­ nese del tempo e che siamo solo noi che abbiamo potuto ren­ dercene conto grazie alle scoperte di Qumran. Non vi sono dubbi sul fatto che gli esseni abbiano comple­ tamente rigettato Giovanni Battista e non lo abbiano nomi­ nato in nessuna delle loro opere. E tuttavia sono proprio i testi esseni di Qumran a permetterei oggi di comprendere in modo nuovo e da diversi punti di vista l'opera e la figura del Battista.

Capitolo 9

Gesù

Il primo studioso moderno a stabilire un collegamento fra Gesù e gli esseni, affermando ad esempio che egli avrebbe do­ vuto alla loro formazione la capacità di compiere i suoi mira­ coli, è stato Johann Georg Wachter. 1 Da allora ogni secolo ha prodotto una miriade di opere ugualmente fantasiose, talvolta in più volumi, sul tema evidentemente allettante del «Gesù es­ seno», fino alla pubblicazione di testi esseni apparentemente da tempo scomparsi, formulati in parte dallo stesso Gesù, testi che sono comunque chiaramente prodotti del XX secolo. Nel frattempo, le speculazioni su Qumran, che germo­ gliano abbondantemente sul terreno di coltura dei frammenti dei rotoli esseni, sono diventate l'alimento preferito di quelle pecore che pascolano avidamente in questo prato rigoglioso. Il mercato librario tedesco registra immancabilmente una cre­ scita di interesse sul tema degli esseni ogni volta che nel titolo della pubblicazione appare il nome di Gesù, anche se poi nel testo non gioca praticamente alcun ruolo. 2 Pochi scampoli di frasi e singole parole, estrapolate dal loro contesto, molto spesso interpretate anche pedestremente, suggeriscono in que­ ste opere da strapazzo collegamenti che storicamente non sono mai esistiti. Apparenti somiglianze vengono trasformate in evidenti concordanze. Il «Gesù» di queste pubblicazioni è una figura artificiale costruita mediante il congiungimento di tessere di mosaico scelte a caso, esattamente come il loro tap1

G.J. WACHTER, De primordiis Christianae religionis, 2

2 È

il

caso

di M. BAIGENT-R. LEIGH, London 1991 e di R. EISENMAN-M. Wis E, I Casale Monferrato 1994.

voli.,

1713.

The Dead Sea Scrolls Deception, manoscritti segreti del Mar Morto,

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Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù

peto - forzatamente cucito a colpi d'ago - di apparenti ve­ rità su «Qumran>> o sugli «essenh>. Tutto ciò non ha assoluta­ mente nulla a che vedere con le realtà del tempo. Purtroppo tutti gli sforzi per far conoscere ciò che è ancora attendibile su Gesù si scontrano con problemi di varia natura. Solo a decenni di distanza dalla sua esistenza terrena, quattro evangelisti, servendosi del materiale documentario di cui pote­ vano ancora disporre e impegnando il meglio delle loro forze, hanno prodotto, nella lontana Siria, Asia Minore o Roma, delle descrizioni della vita terrena di Gesù che sono state ac­ colte dalla chiesa nel proprio canone. Sono le uniche fonti da cui si possa ricavare ancora qualcosa di attendibile su Gesù. La chiesa ha sempre pensato che Gesù può essere colto solo attra­ verso la quadruplice variegata immagine del Vangelo. La presentazione degli evangelisti nell'arte figurativa della chiesa attesta fino ai nostri giorni il modo in cui è stata varia­ mente caratterizzata, verso il 400 d.C., dal padre della chiesa Girolamo mediante l'introduzione di simboli biblici (Ez 1,10; Ap 4,7) suggeriti dai diversi testi di apertura delle loro opere. Matteo è rappresentato con il simbolo dell'«uomo>>, a causa dell'albero genealogico di Gesù posto all'inizio del suo Van­ gelo, Marco con il simbolo del «leone>>, poiché apre il suo Van­ gelo con il Battista che grida nel deserto, Luca con il simbolo del «toro», a causa di Zaccaria che viene mostrato nella scena iniziale nell'atto di offrire l'incenso, e Giovanni con il simbolo dell'«aquila», a causa del volo alto della sua teologia - «In principio era il Verbo» -. Lo stesso vale per le parti terminali e per gli altri contenuti dei Vangeli. Non è possibile ricondurli a un quadro di insieme pienamente unitario. Da secoli le diverse descrizioni di Gesù fatte dai Vangeli sono state comparate fra loro per cercare di trovare il nucleo che poteva risalire a Gesù stesso e ciò che si doveva invece at­ tribuire a rielaborazioni posteriori. Nonostante tutti gli sforzi solo su pochi punti esiste un vero consenso fra gli studiosi. In realtà, oggi esistono sul «vero» Gesù praticamente tante con­ cezioni quanti sono coloro che partecipano alla ricerca su di lui. Dall'abbondante offerta di questo supermercato di opi-

.Gesù

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nioni su Gesù ogni dilettante si serve secondo i propri gusti. Riguardo a tutti i paragoni semplicemente possibili con Qum­ ran e con gli esseni vi è nei Vangeli qualcosa di apparente­ mente adatto che ognuno dei numerosi studiosi ha applicato al suo «vero» Gesù, questo naturalmente nel caso in cui si richie­ dano opinioni fondate e non ci si limiti a servirsi da soli in un modo del tutto acritico nel contesto dei Vangeli. Ma con simili procedimenti selettivi non è possibile dimostrare alcunché. Perciò nessuno che voglia pronunciarsi sul significato delle scoperte di Qumran per la comprensione di Gesù può esimersi dallo spiegare anzitutto come si sia rappresentato Gesù in base alla sua propria analisi delle fonti, perlomeno nella misura in cui questo ha una qualche importanza per il problema dei col­ legamenti con Qumran e con gli esseni. Non si possono sempli­ cemente cercare elementi di comparazione nella tradizione dei Vangeli a partire dalle scoperte di Qumran e pretendere sic et simpliciter che ciò valga per Gesù, ma ci si deve chiedere al contrario se ciò che si pretende inequivocabilmente per Gesù permette di riconoscere da parte sua dei collegamenti con le scoperte di Qumran. Data la molteplicità delle tradizioni dei Vangeli molti stu­ diosi del Nuovo Testamento sono oggi naturalmente scettici sul fatto che sia ancora possibile affermare con certezza qual­ cosa di inequivocabilmente riferibile a Gesù. E tuttavia la cosa è possibile se non si parte da elementi sporadici della tradi­ zione di Gesù, bensì dal nucleo di ciò che i Vangeli hanno tra­ mandato quali principali dati della sua esistenza terrena e hanno posto in relazione a essa sotto forma di sue afferma­ zioni. Se lo si fa in modo approfondito si ha anche la possibilità di rendersi chiaramente conto se vi siano stati dei collegamenti fra Gesù e gli esseni. IL REGNO DI DIO

A prescindere dalla sua crocifissione da parte dei romani il dato maggiormente documentato di tutta la vita terrena di Gesù, e quindi anche il miglior punto di partenza di tutte le al-

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tre domande su di lui, è certamente il suo battesimo da parte di Giovanni. Solo in quanto battezzato da Giovanni Gesù ha ini­ ziato la sua opera pubblica descritta nei Vangeli. Gesù non ha mai preso le distanze dal Battista, ma ne ha inequivocabil­ mente sottolineato al contrario la permanente importanza per tutti i tempi (Mc 9,9-13; Mt 17,9-13; 1 1 ,7-l la; Le 7,24-28a). In base a questo dato iniziale anche tutti i Vangeli hanno coinvolto profondamente e positivamente Giovanni Battista nelle loro presentazioni di Gesù e non solo la sua persona, ma anche parti centrali del suo messaggio. Bisogna quindi conti­ nuare a partire dal fatto che anche Gesù ha approvato senza riserve la concezione che il Battista aveva di se stesso e del fu­ turo e che anche lui ha atteso come qualcosa di imminente allo stesso modo di altri battezzati da Giovanni - sia il giudi­ zio finale che il tempo della salvezza. In particolare, la vici­ nanza della fine delle condizioni esistenti dovrebbe aver escluso per ciascuno di coloro che erano stati battezzati da Giovanni dei fondamentali cambiamenti di posizione. Tanto più sorprendente è quindi il fatto che al centro della tradizione di Gesù compaia un concetto che era del tutto as­ sente nella predicazione del Battista, il concetto del regno di Dio o - secondo l'espressione del Vangelo di Matteo - del regno dei cieli. Solo successivamente il suo annuncio è stato posto anche in bocca a Giovanni, al fine di indicare una basi­ lare consonanza fra il messaggio del Battista e quello di Gesù {Mt 3,2; cf. 4,17 e Mc 1,15). Ma il Battista non ha mai usato il concetto di regno di Dio. Anche i contesti oggettivi nei quali la tradizione di Gesù lo presenta di preferenza, cioè l'espulsione dei demoni e una serie di parabole (per esempio, Mc 4; Mt 13; Le 13,18-21 ) non trovano alcuna corrispondenza nella tradi­ zione del Battista. Rispetto alla situazione in cui si era trovato il Battista deve essere quindi avvenuto qualcosa di assolutamente nuovo, qualcosa che agli occhi di Gesù si configurò come il regno di Dio. Solo questo nuovo ha prodotto quella relativa autonomia di Gesù rispetto a Giovanni che è attestata nei Vangeli. Que­ sto è anche il motivo per cui il cristianesimo è diventato una re­ ligione autonoma e non si è configurato né come una pura con-

Gesù

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tinuazione dell'opera del Battista né semplicemente come un'ulteriore rielaborazione di altri approcci religiosi già pre­ senti nel giudaismo del tempo. Naturalmente Gesù era un ebreo e il cristianesimo era nel suo approccio una faccenda intra-ebraica. Non abbiamo asso­ lutamente l'intenzione di rendere indirettamente discutibili queste indubbie condizioni. È comunque innegabile che il cri­ stianesimo si è sviluppato a partire da presupposti che oltre­ passano ciò che già si trovava nel giudaismo del tempo di Gesù. Ma non è stato Paolo a introdurre al riguardo qualcosa di decisamente nuovo e a essere responsabile - come spesso gli viene rimproverato - dell'estraniazione del cristianesimo dal giudaismo, bensì Gesù con quello che egli ha chiamato il regno di Dio. È strano che oggi non ci si chieda praticamente più che cosa possa aver spinto Gesù a proporre il suo autonomo di­ scorso del regno di Dio rispetto al Battista, discorso che ha contribuito in modo essenziale a fare del cristianesimo una nuova religione. Per lo più ci si accontenta di descrivere, nel contesto globale della tradizione dei Vangeli, i vari modi in cui Gesù ha parlato del regno di Dio, di illustrare i possibili signifi­ cati delle sue parabole o di approfondire, dal punto di vista dei suoi possibili contenuti, la pretesa di Gesù presente in tutti i Vangeli di essere il Signore nel regno di Dio (cf. sotto, p. 356). Al riguardo, continuano ad agire inconsciamente antiquati modelli esplicativi psicologici, secondo i quali ad esempio Gesù sarebbe pervenuto nel corso del tempo, attraverso la scoperta delle forze soprannaturali presenti in lui o sotto l'im­ pressione dell'effetto prodotto dalla sua predicazione sulle masse, alla convinzione di essere il messia, il Figlio di Dio o il «Figlio dell'uomo». Egli avrebbe quindi considerato il regno di Dio - già presente o solo futuro - come l'ambito di signoria messianica a lui conforme (cf. Salmi di Salomone 17), se non addirittura reso già operante a livello di predicazione me­ diante l'espressione verbale dei suoi discorsi in parabole. Si­ mili costruzioni e considerazioni accantonano stranamente del tutto l'importanza di Giovanni Battista per la sua opera glo­ bale, importanza sottolineata con forza dallo stesso Gesù, e,

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nel migliore dei casi, si servono talvolta dell'annuncio del giu­ dizio da parte del Battista come elemento in negativo rispetto all'annuncio di salvezza da parte di Gesù. Dal punto di vista storico vi sono solo tre possibilità di spiegare l'origine del particolare discorso di Gesù sul regno di Dio dopo il suo battesimo da parte di Giovanni: l) Gesù ha avuto una propria autonoma esperienza di vocazione che lo ha abilitato a essere il profeta del regno di Dio; 2) il linguag­ gio del suo ambiente religioso era talmente pregno del di­ scorso sul regno di Dio che Gesù ha ritenuto di farsi com­ prendere al meglio utilizzan do questo concetto; 3) si verifica­ rono eventi che andavano ben oltre ciò che era stato detto dal Battista e che Gesù interpretò come eventi relativi al regno di Dio. Naturalmente solo la tradizione dei Vangeli e le fonti dell'ambiente religioso di Gesù - notevolmente accresciute grazie alle scoperte di Qumran - possono ancora permet­ terei di decidere quale di queste possibilità esplicative è og­ gettivamente valida. l) Già il più antico dei quattro Vangeli descrive un'auto­ noma esperienza di vocazione di Gesù e precisamente nel mo­ mento in cui, dopo essere stato battezzato da Giovanni, esce dall'acqua (Mc 1,10-1 1). Ma qui non si dice nulla di quel regno di Dio di cui Gesù sarebbe dovuto essere il profeta d'allora in poi. Qui si fonda invece la figliolanza divina di Gesù quale realtà operata dallo Spirito e voluta da Dio e si valorizza il contesto del battesimo come il momento in cui essa entra effi­ cacemente in azione, come dimostra subito dopo la tentazione di Gesù nel deserto, considerata la prima prova in cui Gesù è chiamato a dimostrare la reale tenuta della sua figliolanza di­ vina (Mc 1 ,12-13). Gli altri evangelisti hanno preferito presentare la figlio­ lanza divina di Gesù già presente fin da quando egli era ancora nel seno di sua madre (Mt 1 ,18-25; Le 1,26-38) o addirittura fin dalla creazione del mondo (Gv 1,1-3.18), cosicché nel loro caso gli avvenimenti accaduti nel contesto del battesimo hanno perso il carattere di una visione di vocazione. Questi cambia­ menti sono stati resi possibili non da ultimo dal fatto che la vo­ cazione descritta da Marco come evento personale di Gesù

Gesù

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non era un racconto fatto da Gesù in prima persona, bensì un racconto di altri al servizio di interessi teologici e d'altronde senza menzione di testimoni. Considerata dal punto di vista storico la descrizione di Marco presenta insormontabili difficoltà. Se Gesù avesse avuto una propria esperienza di vocazione profetica già al mo­ mento del suo battesimo da parte di Giovanni sarebbe diven­ tato praticamente nello stesso momento sia un discepolo del Battista che un profeta autonomo nei suoi confronti, per cui sarebbero del tutto incomprensibili le affermazioni personali di Gesù sulla particolare importanza di Giovanni - perché egli dovrebbe allora essere considerato «il più grande di tutti gli uomini» (Mt l l ,lla; Le 7,28a)? - e anche tutti gli sforzi de­ gli evangelisti di degradarlo a semplice precursore e prepara­ tore della strada a Gesù, a prescindere dai molteplici accenni a un'appartenenza di Gesù alla cerchia dei discepoli del Battista (per esempio, la sua designazione di nazareno o nazoreo) o an­ che al suo essere stato battezzato da Giovanni. D'altra parte, non può esservi stata neppure una susse­ guente esperienza di vocazione di Gesù in un qualche mo­ mento dopo il suo battesimo. La relativa scarsezza della tradi­ zione del Battista giunta fino a noi e la tendenza del cristiane­ simo primitivo ad abbassare il suo autore nei confronti di Gesù permettono di comprendere per quale motivo non si sia con­ servato alcun racconto di vocazione nel caso del profeta Gio­ vanni. Vista l'ampiezza della tradizione di Gesù nei Vangeli si sarebbe dovuta conservare almeno una traccia di un'espe­ rienza così significativa, specialmente perché non avrebbe ri­ pugnato a nessun cristiano il fatto di accettare e tramandare un racconto di vocazione di Gesù a banditore del suo regno da parte di Dio stesso. Non esiste quindi alcuna possibilità di ritenere che sia mai esistita una particolare esperienza di vocazione di Gesù alla quale poter ricondurre il suo autonomo discorso sul regno di Dio. 2) Riguardo all'am biente religioso di Gesù ora, grazie alle scoperte di Qumran, è finalmente possibile dimostrare che Gesù non può aver rilevato neppure dagli esseni ciò che ha

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detto sul regno di Dio. Anche in questo caso supposizioni at­ tualmente ancora molto in voga, come quella secondo cui Gesù avrebbe certamente passato molti anni della sua vita a Qumran poiché diverse affermazioni del discorso della monta­ gna somiglierebbero ad affermazioni trovate nei testi di Qum­ ran, non servono granché. Nei testi di Qumran il regno di Dio - o la signoria regale di Dio - compare raramente come in tutto l'Antico Testamento e nella diversa letteratura ebraica pre-cristiana. Inoltre, in questi casi si tratta quasi esclusiva­ mente della signoria celeste di Dio che si esercita continua­ mente su tutto il mondo fin dalla sua creazione e per tutta l'e­ ternità, senza alcun particolare riferimento a ciò che accadeva nel presente in cielo o sulla terra. Solo raramente si trova nel giudaismo pre-cristiano anche semplicemente l'attesa che il regno di Dio si sarebbe stabilito in futuro su tutta la terra. Ma in questo caso si tratta - come nel libro biblico di Daniele (Dn 2,31-45) o nella Regola della guerra delle scoperte di Qumran a esso contemporanea delle forze politiche come i regni soggioganti Israele quali quelle dei babilonesi, dei persiani, dei seleucidi o dei romani, la cui potenza in futuro sarà spezzata, lasciando il posto al re­ gno di Dio. I due aspetti caratteristici della tradizione di Gesù, secondo cui il regno di Dio spezza il potere di Satana nel mondo e opera efficacemente in germe già nel presente, non si trovano né nei testi di Qumran né nella diversa letteratura ebraica, nella misura in cui essa risalga incontestabilmente a epoca pre-cristiana. Su questo punto bisogna scavare un po' più in profondità allo scopo di rispondere adeguatamente all'obiezione di chi pensa che si sia troppo legati a un determinato concetto, per­ dendo così di vista più ampie possibilità esplicative. Bisogna quindi interrogarsi sull'intervento di Dio negli avvenimenti del mondo. Infatti, i cristiani immaginano volentieri che Dio debba intervenire continuamente negli avvenimenti del mondo non appena qualcosa da qualche parte contrasti la sua volontà. Ma le concezioni prevalenti nel giudaismo del tempo di Gesù erano diverse. A quel tempo si partiva generalmente - compresi gli es-

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seni - dal fatto che l'intervento attivo di Dio sia in cielo che in terra si limitava al passato e al futuro. Nel passato Dio aveva creato il mondo, fatto uscire con braccio disteso il popolo di Israele dall'Egitto, trasmesso la Torah a Mosé sul monte Sinai e, infine, comunicato tramite il suo Spirito ai profeti che erano sulla terra ciò che essi avevano poi scritto nei loro libri, com­ presa la minaccia di scacciare Israele dalla Terrra Santa se non fosse rimasto fedele all'alleanza del Sinai. Così avvenne da ul­ timo alla fine del VI sec. a.C. con il profeta Malachia, al quale Dio affidò anche le ultime previsioni riguardo al futuro. Solo in questo futuro da lui stesso profetizzato Dio sarebbe nuova­ mente intervenuto in modo attivo negli avvenimenti del mondo, avrebbe tenuto il giudizio finale, distrutto nel mondo tutto ciò che era contro Dio e stabilito, senza più alcuna con­ correnza, il proprio dominio. Nel tempo intermedio Dio non interveniva direttamente negli avvenimenti del mondo, ma li dirigeva solo indirettamente attraverso gli angeli, le passate ri­ velazioni della sua volontà e di ogni avvenimento futuro rac­ colte nei libri di Mosè e dei profeti esistenti sulla terra, nonché attraverso la costituzione di potenze dominatrici, come i regni stranieri, che si avvicendavano su Israele quale continua puni­ zione di un popolo di Dio che non cessava di peccare. Anche in alcuni passi dei testi di Qumran, che vengono spesso interpretati in modo diverso, si tratta unicamente del­ l'azione indiretta di Dio sulla terra nel tempo che intercorre fra gli ultimi profeti biblici del passato e il futuro giudizio finale. Cosi gli inni composti dal maestro di giustizia celebrano il modo in cui Dio ha preservato il loro autore dai suoi nemici e lo ha confermato rappresentante dell'alleanza di Dio, permet­ tendo di conseguenza la sopravvivenza del popolo di Dio (10 H 11-IX). Degli stessi contenuti si tratta là dove un successivo testo di Qumran afferma che Dio stesso ha scelto il maestro di giustizia e lo ha posto per stabilire in modo permanente la santa comunità del popolo di Dio nuovamente riunito e gui­ darla rettamente (4Q pPs8 1-10, 111,15-17). Si tratta di una dire­ zione indiretta degli avvenimenti terreni e di una preservazione da parte di Dio, quale è variamente descritta per esempio an­ che nei libri dei Maccabei, ma non dell'attuale instaurazione

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del potere di Dio sulla terra come unica entità determinante da allora in poi. Solo in relazione con il futuro giudizio finale anche gli es­ seni, come tutti gli ebrei, aspettavano una nuova azione crea­ trice di Dio sulla terra mediante l'azione efficace del suo Santo Spirito (1Q S IV,18-23). Senza dubbio fra il materiale ritrovato a Qumran gli inni della comunità in particolare celebrano Dio per aver concesso agli uomini già nel presente, mediante il dono del suo Santo Spirito, delle visioni che restano precluse alle capacità naturali dell'uomo (1Q H I.XII-XVIII), ma qui non si tratta né di un'anticipazione del futuro dono dello Spi­ rito in occasione del giudizio finale (Gl 3,1-5; cf. At 2,17-21), né di un diretto intervento di Dio nella vita interiore del­ l'uomo terreno, bensì dell'esperienza dell'illuminazione celeste mediante la presenza di angeli nella comunità cultualmente riunita e mediante lo studio degli scritti biblici rivelati, la To­ rah e i libri dei profeti, il cui contenuto rivelato racchiude in sé il dono dello Spirito Santo (cf. Sal 119,18). Come unti un tempo dallo Spirito di Dio, i profeti dell'Antico Testamento sono, attraverso i loro scritti, i veri «messia» del presente fino al futuro giudizio finale (cf. sopra, p. 296). Né le concezioni essene dell'azione di Dio né altri dati ve­ terotestamentari o altrimenti costatabili nel giudaismo del tempo possono aver prodotto il modo in cui Gesù ha parlato del regno di Dio. Vi deve essere dietro ben più di un semplice modo di esprimersi che andava oltre il messaggio del Battista, qualcosa la cui dinamica propria ha prodotto al tempo stesso l'autonomia di Gesù nei confronti del Battista. Ciò non è stato offerto a Gesù dal mondo religioso circostante. 3) L'unica fondata possibilità per spiegare il discorso di Gesù sul regno di Dio resta quindi il fatto che qualche tempo dopo il suo battesimo da parte di Giovanni siano accaduti de­ gli avvenimenti di cui Gesù è stato testimone, che sono stati da lui considerati e attestati quali attuali interventi di Dio e che egli ha interpretato autonomamente come «il regno di Dio». L'espressione malkuta' d'elaha, usata da Gesù nella sua lin­ gua materna aramaica, può essere resa, secondo il contesto, con regno di Dio (a differenza degli altri regni esistenti), signo-

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ria di Dio (nel senso della sua effettiva affermazione contro al­ tri poteri) o ambito di governo di Dio (nel senso di ambiti già conquistati da Dio nei cieli, sulla terra e negli inferi). È quindi difficile trovare un modo univoco di rendere quest'espres­ sione. La cosa più semplice è quella di conservare l'espressione regno di Dio, avendo ben presente che con questa formula Gesù intendeva per lo più l'attuale instaurazione della signoria di Dio, a volte anche l'ambito di signoria di Dio già realizzato attraverso di essa, piuttosto raramente un regno opposto agli altri regni esistenti - e in questo caso non un regno politico opposto all'impero romano, bensì un regno opposto al regno durato fino a quel momento della signoria di Satana. Quando al posto dell'espressione regno di Dio si usa l'espressione re­ gno dei cieli, nel contesto delle parole di Gesù si deve pensare normalmente agli stessi contenuti, non a un ambito al di là di questo mondo, bensì all'affermazione della signoria dei cieli ( Dio) in particolare anche nell'ambito terreno. Lo sfondo concettuale del discorso di Gesù sul regno di Dio è efficacemente illustrato dalla sua costatazione: «Io ve­ devo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Le 10,18; cf. Gv 12,3 1 ; Ap 12,7-12). Dio ha quindi precipitato Satana da quel centro di potere che aveva conservato fino ad allora in cielo e ha già cominciato a instaurare in tutto il mondo la sua unica signoria. La forza del male dominante fin dal tempo del peccato originale (Gen 3) deve d'ora in poi cedere il passo alla superiore forza di Dio (cf. Mc 3,23-27; Mt 12,25-29; Le 1 1 ,17-22). Come l'instaurazione del potere di Dio iniziato in cielo continuasse anche sulla terra lo dimostrano i racconti evange­ lici di miracoli. Tutte queste azioni miracolose sono presentate come compiute da Gesù. Ma si notano evidenti differenze. A volte Gesù è presentato come un operatore di prodigi pieno di forza divina, per esempio quando guarisce la donna che aveva perdite di sangue (Mc 5,25-34), quando cammina sul Lago di Tiberiade (Mc 6,45-52) o quando trasforma l'acqua in vino (Gv 2,1-10). Ma molto più spesso Gesù appare solo come un semplice mediatore della forza divina, anche se i racconti =

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tramandati permettono per lo più di ricavare questo dato in modo secondario o indiretto. Già dopo ìl primo miracolo di Gesù raccontato da Marco, i presenti non chiedono: «Che strano uomo è costui che pos­ siede una tale capacità di operare prodigi?» (cf. Mc 4,41), bensì: «Che cosa significa questo?» (Mc 1 ,27), quasi che non si trattasse dell'operatore di miracoli, ma di un evento prodi­ gioso autonomamente accaduto davanti a lui. Alla maniera dell'uomo di Dio Eliseo (2Re 4,42-44), Gesù sfamò migliaia di persone con pochi pani e pesci (Mc 6,30-44; 8,1-9; Gv 6,5-13). Ma ciò avvenne non placando miracolosa­ mente gli stimoli della fame dei presenti con piccolissime quantità di cibo. Alla fine del pasto resta molto più cibo di quanto non fosse presente all'inizio, senza che Gesù, prima di iniziare la distribuzione, avesse moltiplicato in modo suffi­ ciente le piccole quantità di cibo disponibili. Si tratta di un evento miracoloso celeste prodottosi sulla terra in relazione con Gesù e non di un'azione prodigiosa operata da forze pre­ senti in Gesù. Ancor più chiaramente appare l'azione di Dio nei miracoli di guarigione dei malati, quando, per esempio, Gesù guarisce uno storpio e i presenti lodano non lui ma Dio (Mc 2,12). Co­ lui che è stato liberato da un'intera legione di demoni non deve essere riconoscente a Gesù, ma deve andare a raccontare ai suoi familiari ciò che Dio come «l'(unico) Signore ha fatto per te e come ti ha usato misericordia» (Mc 5,19). Così pure Gesù guarisce spesso i malati con un semplice gesto (Mc 1 ,31) o con una richiesta aggiuntiva (per esempio, Mc 1 ,41-42; 5,4142). In tutti questi racconti Gesù non si comporta come i guari­ tori ebrei del tempo, i quali operavano le guarigioni con medi­ cine miracolose, unzioni con l'olio, imposizione delle mani o preghiere (cf. anche Gc 5,13-18), ma media semplicemente la forza di Dio che è il vero operatore dei miracoli. A coloro che furono inviati dal Battista a chiedere a Gesù se egli fosse colui che era stato annunciato come colui che do­ veva venire, Gesù additò «ciò che voi udite e vedete: i ciechi ri­ cuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è

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predicata la buona novella» (Mt 1 1,4-5; cf. Le 7,22). Il contesto mostra che questi rinvii sono intesi a confermare Gesù come colui che è annunciato dal Battista. E tuttavia egli lo fa quasi come uno che non prende personalmente parte a ciò che av­ viene al presente, che sembra avere il suo autore nascosto in Dio stesso. Luca si è reso conto del problema ed è corso ai ri­ pari, facendo fare in tutta fretta a Gesù alcuni miracoli mentre gli inviati di Giovanni erano ancora presenti (Le 7,21). Ma per quale motivo il materiale tradizionale recepito da Matteo e da Luca non aveva presentato inequivocabilmente quest'evento prodigioso come un'azione personale di Gesù? L'azione di Dio nei fatti miracolosi che avvengono attorno a Gesù è chiarissima nel caso delle espulsioni di demoni. Uno spirito immondo obbedisce al semplice comando di Gesù di uscire dalla persona posseduta (Mc 1,23-27); lo stesso fa un'in­ tera legione di demoni dopo che è stata offerta loro un'altra sede in cui rifugiarsi (Mc 5,1-20); anche un demonio di quella specie più cocciuta che causa l'epilessia lascia libero un ra­ gazzo su un semplice ordine di Gesù (Mc 9,14-27). In questi casi si parla per lo più di esorcismi di Gesù e si considera que­ st'ultimo alla stregua di uno dei tanti esorcisti del tempo. Ma il modo di operare di questi ultimi era del tutto diverso. Giuseppe Flavio descrive molto chiaramente un caso di cui è stato lui stesso testimone. Egli era personalmente presente quando nel 67 o 68 d.C. l'esorcista ebreo Eleazaro operò in Pa­ lestina davanti al futuro imperatore Vespasiano e al suo se­ guito un'espulsione di demoni secondo la prassi abituale. «Tenne sotto il naso del posseduto un anello nel quale era stata incastonata Ùna di quelle radici che (il re) Salomone aveva indicato (come molto efficaci nelle sue istruzioni per l'esorcismo), lo fece annusare al malato ed estrasse così attra­ verso il naso lo spirito cattivo (che aveva addentato con vo­ luttà l'anello magico). Il posseduto cadde subito a terra. Elea­ zaro ordinò allora al demonio - recitando il nome di Salo­ mone e le formule (magiche) composte da quest'ultimo - di non ritornare mai più in quell'uomo». Infine Eleazaro dimo­ strò agli astanti che il demonio aveva realmente lasciato il pos-

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seduto, facendogli rovesciare un recipiente di acqua tenuto a disposizione nelle vicinanze (Antichità 8,46-48). Esorcismi del genere hanno sempre fatto parte delle prati­ che di guarigione degli esseni. Fra i documenti di Qumran è stato trovato uno rotolo con quattro salmi che sarebbero stati composti dal re Davide quale efficace strumento per l'espul­ sione degli spiriti cattivi (110 Salmi apocrifi"), nonché un'am­ pia raccolta di inni di esorcismo per lo stesso scopo (4Q 5 10 e 511). Nel giudaismo del tempo si usavano abitualmente anche ciotole magiche, le cui scritte e i cui simboli cambiavano l'acqua che vi veniva versata in una medicina efficace per l'espulsione dei demoni, nonché formulari di esorcismo pieni di nomi di dèi e di angeli e di riferimenti mitologici alla cui forza magica, in caso di corretto utilizzo, i demoni non potevano resistere. Ma Gesù non si comportò mai come gli esorcisti. Egli non usava né i nomi di Dio né quelli degli angeli, né preghiere ma­ giche né riti magici, né testi di esorcismo davidici né testi di esorcismo salomonici e non aveva neppure bisogno di un qual­ siasi strumento, quali ciotole magiche o anelli magici. I rac­ conti evangelici di miracoli lo dimostrato con assoluta chia­ rezza. E non è neppure un caso che molti dei miracoli di Gesù le moltiplicazioni di alimenti, l'espulsione di un'intera legione di demoni, la ritirata dell'epilessia o addirittura la risurrezione di persone inequivocabilmente morte (soprattutto Gv 11,1-44} - non facessero assolutamente parte del repertorio abituale dei guaritori o esorcisti del tempo. Essi andavano ben oltre le loro capacità professionali. Quelli che in questi racconti sono presentati come operati da Gesù sono autentici miracoli di Dio. Per questo genere di miracoli non esisteva assolutamente alcuna tecnica che Gesù avrebbe potuto apprendere dagli es­ seni o da altri suoi contemporanei. Davanti a eventi prodigiosi che oltrepassavano di gran lunga tutto ciò che era allora abituale i suoi contemporanei obiettavano a Gesù che doveva essere la grande forza di Sa­ tana in persona a operare l'espulsione anche dei peggiori de­ moni senza l'utilizzo di alcun mezzo riconoscibile come tale. Gesù ribatteva che era assurdo p_ensare che Satana distrug-

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gesse il proprio potere con le sue stesse mani. D'altronde esi­ stevano anche in mezzo a loro delle persone che scacciavano i demoni con il ricorso a forze superiori che non erano assoluta­ mente quelle di Satana. Naturalmente esse operavano qual­ cosa di molto inferiore in paragone. «Se io al contrario scaccio i demoni con il dito di Dio, allora (in questo appare che) il re­ gno di Dio è già giunto a voi» (Le 1 1,15-20; cf. Mt 12,24-28; Mc 3,22-26). In Mt 12,28 si ha, al posto di «dito di Dio», «spirito di Dio». Dal punto di vista oggettivo non si tratta di una differenza es­ senziale. Anche lo spirito di Dio è qui inteso come l'attiva forza di Dio stesso già operante sulla terra, esattamente come il «dito di Dio» nei prodigi operati da Mosè in Egitto (Es 8,15). L'espressione «dito di Dio» è il modo più rispettoso possibile per formulare, in un modo corrispondente alla concezione umana, l'intervento proprio di Dio negli avvenimenti terreni. Con maggior forza ciò veniva espresso un tempo con l'imma­ gine di un Dio che aveva condotto fuori dall'Egitto il popolo di Israele «con mano forte e- braccio disteso» (per esempio, Dt 4,34; 5,15; 7,19). Per Gesù gli eventi dell'espulsione dei demoni senza l'im­ piego di alcuna forma di esorcismo erano segni inequivocabili che Dio stesso tornava a operare sulla terra. L'affermazione della signoria di Dio nel mondo, che ci si aspettava dal futuro, iniziava; l'evento preannunciato dal Battista si stava effettiva­ mente realizzando. L'annuncio del profeta Giovanni non avrebbero potuto realizzarsi in un modo migliore e più rapido. Il regno di Dio iniziava visibilmente il suo corso sotto gli occhi di tutti. I racconti evangelici di miracoli mostrano quindi in molti modi e con sufficiente chiarezza che sono stati gli eventi del proprio ambito -di esperienza a provocare il discorso di Gesù sul regno di Dio e non un'esperienza di vocazione o la pre­ senza di espressioni e immagini del suo ambiente. A questo ri­ guardo gli esseni non ebbero alcuna riconoscibile importanza. Solo la connessione di Gesù con Giovanni Battista continuò a operare anche in seguito e questo sia come fondamento che come conseguenze pratiche.

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Giovanni battezzava al di là del Giordano con lo sguardo rivolto verso la Terra Santa quale futuro ambito della salvezza. Tutte le «espulsioni di demoni» da parte di Gesù, a proposito delle quali sono indicati nei Vangeli i luoghi, sono avvenute entro i confini della Terra Santa descritta nell'Antico Testa­ mento, quella terra che Dio ora tornava a considerare sua in­ contestabile proprietà. Come indicano la sua espressione rela­ tiva al «dito di Dio» e i racconti di miracoli dei Vangeli, Gesù partì certamente dall'idea di essere personalmente coinvolto in quest'azione di Dio, ma non la considerò come prodotta da lui stesso o come fondamentalmente legata alla sua persona. Egli era piuttosto convinto che lo stessb avvenisse in ogni luogo della Terra Santa, cioè che i demoni venivano cacciati senza l'uso di pratiche esorcistiche. In questo senso egli mandò persone in ogni luogo per os­ servare anche altrove simili avvenimenti. Nel caso in cui si fosse chiesto loro come spiegare tali eventi portentosi essi do­ vevano dire agli abitanti del luogo che il regno di Dio era arri­ vato. Nella descrizione dei Vangeli tutto questo si è trasfor­ mato in vere e proprie missioni dei discepoli con il mandato di Gesù di cacciare i demoni (Mc 6,6b-13; Mt 9,36- 1 1 ,1 ; Le 9,1-6; 10,1-12; cf. soprattutto Mc 3,15; Mt 10,7-8; Le 9,2; 10,11), ma queste missioni sono variamente influenzate dalle concezioni ed esperienze missionarie del cristianesimo primitivo. Ma con­ siderate in senso opposto ai successivi interessi descrittivi, que­ ste missioni di discepoli indicano soprattutto che per Gesù l'e­ vento del regno di Dio nel suo tempo oltrepassava di gran lunga le sue personali possibilità di esperienza. Egli stesso ne era testimone, evidentemente il primo. La vicinanza dell'attiva azione di Dio sulla terra, di cui Gesù era cosciente dal mo­ mento del suo battesimo da parte di Giovanni, dovrebbe aver decisamente aguzzato la sua vista a riconosceme i primissimi sintomi. Ma Gesù fu anche fin dall'inizio il decisivo interprete di tali avvenimenti quali azioni di Dio, nelle quali il regno di Dio cominciava a instaurarsi sulla terra. Quest'interpretazione da parte di Gesù di avvenimenti che tutti potevano costatare venne ritenuta dai suoi contempora­ nei come estremamente problematica. Non era possibile con-

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eludere a partire dall'espulsione di alcuni demoni che lì si ma­ nifestava già il regno di Dio. Tutti sapevano che il regno era molto più potente e doveva scuotere alla sua venuta tutta la terra fin nelle sue fondamenta. Gesù ribatteva che riguardo al regno di Dio tutto avveniva come in un minuscolo grano di se­ nape nel quale si nascondeva già il suo potente arbusto o come in una piccola porzione di lievito che aveva in sé la forza per far lievitare un'enorme quantità di farina (Mc 4,30-32; Mt 13,31-33; Le 13,18-21). Ora nei Vangeli queste parabole illustrano allegorica­ mente la crescita della chiesa dai suoi più piccoli inizi fino al coinvolgimento del grande mondo pagano. Per Gesù non si trattava di questo, bensì del contrasto fra la forza invisibile ma potente del regno di Dio e i sintomi comparabilmente minu­ scoli ma già visibili e caratteristici del suo divenire efficace sulla terra. Oggi per illustrare un tale contrasto si scegliereb­ bero probabilmente altre immagini, per esempio un virus del­ l'aids visibile solo al microscopio ma che fa della persona che ne è infetta una persona già morta o una cifra su un conto ban­ cario invisibile a occhio nudo ma che fa del suo possessore un miliardario. Il contràsto mostra chiaramente che si tratta della qualità dei sintomi costatabili non di una prova quantitativa. Già l'espulsione di un solo demonio mostra che Dio instaura la sua signoria, quando è evidente che nessun altro - per esem­ pio, un esorcista - lo ha fatto con altri mezzi. La cosa importante per Gesù era il fatto che non si richiede­ vano attività umane in relazione al regno di Dio. Accadeva del regno di Dio ciò che accadeva di un campo già seminato, il quale alla fine si offriva da solo come un campo di messi mature, senza che nel frattempo qualcuno se ne fosse preso cura (Mc 4,26-28). Il modo in cui Dio promuoveva la sua signoria, il punto da dove cominciava e ciò che avrebbe fatto come passo successivo do­ veva restare una faccenda tutta sua, sottratta a qualsiasi in­ fluenza umana. Il processo una volta avviato era inarrestabile e irreversibile. Nessuno e nulla poteva essere più forte di Dio, il quale ora cominciava a instaurare sulla terra il suo potere re­ gale. Gesù non ha mai inteso produrre il regno di Dio; esso co­ minciò soltanto a realizzarsi in particolare attraverso di lui.

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IL GIUDIZIO FINALE

Molti studiosi di Gesù ritengono che il suo discorso sul re­ gno di Dio si è riferito essenzialmente al futuro, sia pure vi­ cino, poiché prima dell'avvento del regno di Dio sarebbe do­ vuto avvenire il giudizio finale. Altri pensano che il giudizio fi­ nale annunciato dal Battista abbia avuto per Gesù poca o punto importanza; al suo posto egli avrebbe annunciato il re­ gno di Dio o ne avrebbe fatto il punto focale della sua dottrina. Le due concezioni hanno in comune il fatto di considerare il regno di Dio come una realtà essenzialmente positiva, che deve essere chiaramente distinta dal giudizio finale quale lato negativo della futura azione di Dio. Per il chiarimento di questi problemi relativi alla tradi­ zione di Gesù i testi di Qumran offrono finalmente un aiuto decisivo. Anzitutto, essi hanno accresciuto in modo consi­ stente il materiale relativo alla concezione da sempre nota se­ condo cui il giudizio finale riguarda tutti gli uomini e che solo a quel momento avviene la definitiva separazione fra buoni e cattivi. Ma ancor più importante è un dato che si sarebbe po­ tuto ricavare già dal libro dei Giubilei o dagli scritti di Enoch, se non addirittura dagli stessi profeti biblici, ma che solo le scoperte di Qumran hanno permesso di vedere con sufficiente chiarezza, cioè la durata del giudizio finale e la sua relazione con il tempo della salvezza. Nel midrash di Melchisedek ritrovato a Qumran il giudizio finale dura sette anni. La Regola della guerra descrive il futuro scontro fra la luce e le tenebre come un evento della durata di quarant'anni, nel corso dei quali viene annientato colpo su colpo tutto il male che c'è nel mondo e il bene conquista con­ seguentemente terreno. Questo processo vale anche come compimento del giudizio finale da parte di Dio. Anche nei te­ sti di Qumran che vedono unilateralmente il giudizio finale come punizione dei malvagi i giusti non vi sono sottoposti o collaborano addirittura al giudizio al fianco di Dio - si tratta sempre di un processo che si estende nel tempo e nel corso del quale il bene si impone sempre più. -

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Soprattutto il fatto che, sulla scia del linguaggio biblico, il giudizio finale venga chiamato anche il giorno di Dio ha con­ tribuito a considerarlo una cessazione istantanea delle situa­ zioni esistenti nel mondo fino a quel momento, con il succes­ sivo inizio, da un giorno all'altro, del tempo della salvezza. Ma, in realtà, in queste concezioni - caratteristiche del giudaismo palestinese del tempo di Gesù - il tempo della salvezza e il giudizio finale cominciano contemporaneamente. Si richiede un lungo processo di successiva affermazione del regno di Dio prima che riesca finalmente a trionfare in modo definitivo. E tuttavia fino a quel momento esso continua a espandersi, com­ primendo e annientando passo a passo il male nel mondo, e a introdurre nella sua avanzata sempre nuove persone nell'am­ bito in espansione della salvezza, finché alla fine il processo sarà compiuto e non esisterà più alcun male. Anche Gesù è stato certamente influenzato da questo modo di considerare le cose. Per lui il regno di Dio non era una realtà statica che o è già interamente presente o verrà come un tutto in futuro, ma una realtà dinamica, la cui azione inizia in un determinato punto e raggiunge il suo compimento solo in un tempo più lontano. Così egli ha fatto questa pro­ messa agli uomini che vivevano insieme a lui gli inizi del regno di Dio: «