Gianni Amelio 8880332759, 9788880332756

Nato a S. Pietro Magisano, Catanzaro, nel 1945. Si forma negli anni Sessanta come aiuto regista ed esordisce alla regia

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Italian Pages 190 [196] Year 2003

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Gianni Amelio
 8880332759, 9788880332756

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Emanuela Martini, critico cinematografico, è esperta di cinema anglo-americano, con qualche passione italiana. Ha scritto, tra gli altri. Storia del cinema inglese, 1930-1990, Il lungo addio. L'America di Robert Altman, Powell e Pressburger, e curato numerose monografie. È direttore del settimanale «Film Tv», condirettore di Bergamo Film Meeting, collaboratore di «Cineforum» e del¬ l'inserto domenicale di «il Sole 24 Ore», conduttore della rubrica radiofonica (Rai Radiotre) Hollywood Party.

Ad Audina, perché ami il cinema quanto il nonno.

gennaio - febbraio - marzo 2005 Il Castoro Cinema

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Direttore responsabile: Renata Corgani Redazione: viale Abruzzi 72, 20131 Milano i nfo@ca storo-on-l i ne.it www.castoro-on-line.it Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 373 del 30/6/97 Abbonamento annuale (4 numeri) € 36,50 da versare sul c/c postale n. 36028207 intestato a Editrice II Castoro srl, Milano

Progetto grafico: Studio Tapiro, Venezia In copertina: Così ridevano

© 2006 Editrice II Castoro srl

Emanuela Martini

Gianni Amelio

il castoro cinema

Abbracci La prima cosa che mi viene in mente è il sorrisetto di sfottò di Tonino Nardi, che mi chiamava “l’uomo daH’abbraccio d’oro”. Era stato il mio operatore in sei film, per cui sapeva che, prima o poi, sarebbe arrivata la scena canonica in cui due si abbracciano. Credo che l’abbraccio sia il punto massimo a cui riesco ad arrivare se mi impelago in una scena d’amore. Perché so di essere negato alla rappresentazione del sesso, a meno che non lo racconti fino in fondo. Se volessi, potrei essere un ottimo regista di porno, che considero un genere molto sano e godibile; ma sono incapace di fare le cose a metà; e tutte le scene d’amore con baci e nudità mi sembrano ridicole, goffe, non veritiere, dove i due interpreti, invece di preoccuparsi di quello che stanno facendo, in realtà stanno pensando a che cosa scoprono rispetto alla macchina da presa o se la coscia di lui riesce a nascondere la smagliatura di lei. Ma c’è anche un altro fatto: io, che non penso di essere particolarmente puritano, lo divento quando ho una macchina da presa a disposizione; sarei incapace di dirigere due attori in una scena d’amore, di dirgli che cosa devono fare, perché ognuno, in quei casi, fa come gli pare. Mi sembrerebbe di deturpare qualcosa di molto bello rendendolo fasullo. Se facessi il regista porno, lo vorrei fare con attori non professionisti; cioè farei fare, con grande coscienza, l’amore a delle persone che, come Lamberto Maggiorani, si trovano per la prima volta davanti a una macchina da presa. Il porno fatto, mettiamo, da Cary Grant mi sembrerebbe più artefatto. Perciò mi fermo all’abbraccio, che mi sembra contenga anche tutte le fasi successive. L’abbraccio può preludere a qualunque cosa, persino al fatto che i due si stacchino, si salutino e non si vedano più per tutta la vita. Ma questa ossessione dell’abbraccio spesso copre un amore, magari non rap¬ presentabile con la leggerezza che si vorrebbe dargli; contiene una pulsione erotica, senza però che questa sia l’unica forza. Invece l’atto sessuale, anche se mimato, in qualche modo è meno misterioso, lascia meno all’immaginazione.

Attori Bisognerebbe partire dalla distinzione di Renoir tra attori e interpreti: uno prefe¬ risce gli attori o gli interpreti? Attore, secondo Renoir, può essere Rin Tin Tin, mentre interpreti erano Chaplin, o Gérard Philipe, o Anna Magnani, per citare quelli che normalmente venivano considerati più attori che interpreti: quando si nomina la Magnani si parla sempre di un fenomeno della natura, non imbriglia5

bile, come se a lei mancasse quello che si chiama il “mestiere” per fare tutte le parti e fosse relegata alla rappresentazione eterna di se stessa. Comunque, per quanto riguarda il cinema, guai se non avessi “attori”, con gli interpreti non riu¬ scirei a fare nulla. In teatro, hai bisogno di qualcuno che parli il tuo stesso lin¬ guaggio, che ti dia un apporto tecnico la cui mancanza farebbe crollare tutto l’insieme. Il cinema invece amerebbe soprattutto gli attori, gli attori di una sola volta; qualcosa che vorrebbe anche il regista sotto sotto, perché nasce un senso di gelosia quando una presenza in un tuo film è già stata la presenza sullo schermo di qualcun altro. Perché poi i bambini attori, necessariamente non professioni¬ sti? Perché grazie a dio i bambini crescono e non saranno mai più come nel film che hanno fatto con te. La loro immagine impressa nel tuo film non si ripeterà mai più, e questo è il valore aggiunto del film stesso: il fatto che quella faccia, quel corpo, li trovi solo là e non altrove. Detto questo e avendo avuto esperienze anche con interpreti di grande peso, non è vero che l’interprete non sia anche attore, che non ti regali delle sorprese. Naturalmente, c’è interprete e interprete. Io ho incontrato un solo interprete con il quale ho avuto un rapporto negativo: Georges Géret, che è in / ragazzi di via Panisperna. Quando gli ho chiesto in un primo piano di dire «arrivederci» mi ha risposto: «Io sono pagato per dire au revoir». Gapita per esempio di avere degli incontri arricchenti, nonostante la dia¬ lettica serrata, e anche giusta, che si stabilisce con il regista, come nel caso di Volonté; oppure quando si instaura una dialettica diversa, tutta sul piano dell’in¬ tesa caratteriale, fuori campo, nella vita quindi e non soltanto nella rappresenta¬ zione, come nel caso di Trintignant o di Gastellitto. Gastellitto, come presenza umana sul set, è molto simile a Trintignant, uno di quegli attori che stanno con leggerezza in mezzo agli altri e che soprattutto si danno con leggerezza; e se tu non hai un certo fiuto e un certo acume potresti liquidarli come una “presenzaassenza”, che è poi la loro maniera di non farti pesare la presenza. Creano il per¬ sonaggio modellandolo su certe loro caratteristiche e scambiandole con il perso¬ naggio. Quante cose, e di quale sottigliezza, ho scoperto di Gastellitto solo al momento in cui ho cominciato a montare il film, cose che lui non ha imposto in modo visibile, pesante. Come accadeva invece con un attore come Volonté. Un altro bravissimo attore è Giulio Brogi, di grandissima scuola teatrale ma anche di grandissima leggerezza cinematografica. Davanti a una macchina da presa, Brogi respira, non si arrovella dietro chissà quali tecniche. Un’esperienza ancora diversa ma ugualmente curiosa e arricchente è stata quella con Kim Rossi Stuart, che è un attore ma anche un interprete, uno che si prepara molto ma che per tante ragioni ha anche bisogno, contemporaneamente, di mettersi in gioco. 6

Poi, c’è il caso particolare di Enrico Lo Verso, che non aveva fatto molto prima di II ladro di bambini e che ha cominciato con me in una parte quasi da attore preso dalla strada, che poi ho visto crescere e che al terzo film che abbiamo fatto insieme. Così ridevano, ha dato in assoluto il meglio di se stesso. In quel caso, era davvero contemporaneamente l’interprete e l’attore... Io lo vedevo ancora come cinque anni prima, e mi sorprendeva il suo suggerirmi soluzioni diverse da quel¬ le che io gli proponevo. L’effetto era abbastanza curioso, perché io l’ho sempre considerato il quarto bambino (me compreso) del Ladro, e invece in Così rideva¬ no era quasi più vecchio di me. Continuo a pensare che sia un attore molto ricco di risorse, purtroppo sottovalutato. Attori naturalmente significa anche attrici. Nelle mie prime esperienze le attrici avevano una certa marginalità, a parte la Betti di II piccolo Archimede. Dà l’impressione di fare tutto lei perché la sua pre¬ senza è “invasiva”. E la stessa cosa che dicevo di Volonté: Volonté non devo diri¬ gerlo contro Volonté, se no non prendo Volonté. Io alla Betti addirittura ho lasciato fare più di quanto lei volesse, giustificando certi suoi tic personali col fatto che il suo personaggio era quello di un’attrice, per di più di quell’epoca: il massimo della posatrice, con un finale straordinario dov’è interprete, attrice, fenomeno della natura. Laura Morante è soprattutto una donna; in lei ti colpi¬ scono la forza, la fragilità, la sua grandissima intelligenza. E la competitività che ha con se stessa e con gli altri, che è molto proficua mentre si lavora perché non è fatta “da attrice” ma “da attore”; Laura non sta a guardare se la sua parte abbia più o meno peso rispetto a quella di un’altra attrice, non si pone come si pone¬ vano le seconde donne classiche verso le prime donne, o viceversa. E competitiva in senso generale, col regista come con l’attore protagonista, ma in modo intelli¬ gente. In Colpire al cuore mi rimproverava di venire al terzo posto; non nel manifesto, ma nell’interesse che io avevo per lei all’interno del mio racconto: nei miei pensieri il suo personaggio, Giulia, era la terza pedina del gioco. Quando abbiamo poi fatto insieme / ragazzi di via Panisperna, lei mi ha silurato con una frase: «Va bene, ho capito che devo fare Laura. Sei tu che non hai capito che io potevo fare benissimo Majorana». Ogni volta che ho lavorato con un’attrice, ho sempre lavorato con qualcuna che amavo già da prima, per le parti che le avevo visto fare. Poi ho sempre trovato anche un essere umano che ho amato durante il lavoro. Come Olga Karlatos, che io avevo adorato vedendola in televisione e con la quale ho realizzato Ejfetti speciali. Oppure Charlotte Rampling, che veneravo dai tempi di La caduta degli dei, ed era anche un mito per il suo comportamento trasgressivo. Generalmente, è la bellezza che muove l’interesse degli spettatori e del regista verso gli attori. Gli attori devono essere belli, anche i maschi. Per bel7

lezza non intendo quella patinata da giornale di moda: Charles Laughton era bellissimo. La bellezza è la cosa che mi ha fatto sempre scegliere un attore o un’attrice, e la bellezza di Charlotte Rampling è stata e continua a essere abba¬ stanza rara. Il caso di Tai Ling è ancora un’altra storia: era a metà strada tra Valentina Scalici, che è stata in assoluto la persona alla quale ho voluto più bene facendo un film, e Charlotte, che ha la mia età. Con l’enorme distanza di anni che c’è tra me e Tai, è scattato un sentimento molto complicato, un misto di attrazione, protezione, senso paterno, o materno, tutto. E poi questo mistero che porta con sé, perché parla un’altra lingua, ha un’altra cultura, il suo italiano è buffo... siamo talmente lontani che il mistero resterà per sempre.

Barzellette Se c’è una cosa nella quale sono negato è raccontare barzellette... E se c’è una cosa che odio è che qualcuno mi racconti una barzelletta. Credo di aver fatto anche delle gaffe qualche volta, come quando non ridi, e così la persona si offende, oppure parli mentre sta raccontando, e così interrompi l’atmosfera che sta creando. Mi pare che raccontare una barzelletta sia una delle cose più pericolose del mondo, perché se non fai ridere sei perduto. Allora, perché nei miei film faccio raccontare delle barzellette?, Perché è una sfida che mi va di cogliere. Ogni volta che faccio raccontare Cina barzelletta a un personaggio trattengo il fiato; e questo trattenere il fiato è una delle cose del cinema che mi piacciono. Trattieni il fiato, per esempio, anche quando sai che non c’è più molta pellicola in macchina e non sai se ti basta per la scena che stai giran¬ do... Raccontare una barzelletta e saperla raccontare fa parte di un rito che mi sembra inerente con lo spettacolo. E come se all’interno della rappresentazione del film si aprisse una parentesi e il personaggio recitasse. L’apertura di Colpire al cuore è forse quella che ci si aspetta di meno, che un film drammatico, con quel tipo di conflitto e di umori, cominci con una barzelletta. Trintignant la raccontava molto bene in francese, però non sapeva dire in francese “cialtrone¬ sco” e lo cambiò in chaplinesqué\ che è tutta un’altra cosa. Quando dop¬ piammo il film. Luigi La Monica, il doppiatore, mi disse: «Stiamo distruggen¬ do un attore, stiamo distruggendo una scena». Aveva ragione, perché una bar¬ zelletta è fatta di tempi di racconto, e il doppiaggio deve per forza adeguarsi ai tempi dell’attore che sta recitando in un’altra lingua, dove le pause, gli accenti, le cesure, il fiato, tutto è diverso. Raccontare una barzelletta dentro i tempi di un altro è una cosa abbastanza impervia. Perciò, era freddo il tono che il dop8

piatore era costretto a usare, fingendo un’euforia tutta di testa. Poi c’è stato II ladro di bambini., dove la barzelletta voleva avere anche un altro ruolo: il mec¬ canismo rovesciato. Ho voluto che fosse un carabiniere a raccontare le prover¬ biali barzellette sui carabinieri. Quello che differenzia la barzelletta di Così ridevano dalle prime due è il fatto che sia usata in funzione drammaturgica: in due tempi, è parte della storia, ed entrambe le volte è raccontata senza finale. Ho usato la barzelletta come “botta”. Tra l’altro, è un finale che è venuto sul momento, mentre giravo l’ultima scena.

Cibo Per me il cibo rappresenta molto banalmente il bisogno di mangiare, l’appeti¬ to da una parte e la fame dall’altra. Io faccio grande distinzione tra appetito e fame. E quando qualcuno ci offre qualcosa, noi oggi dovremmo dire «non ho appetito», non «non ho fame». Noi non sappiamo cosa sia la fame; forse io l’ho saputo in un tempo che si perde nella notte dei tempi. So che il cibo è una cosa che arricchisce. Se potessi mangiare tutto quello che ho davanti e tutto quello che immagino potrei avere davanti, sarei l’uomo più felice del mondo. Per me il cibo è la cosa più appagante di tutto ciò che si può godere col corpo, più del sesso, più del sonno, più di qualunque cosa. Potrebbero sot¬ topormi alla tortura di Campanella, quella in cui appena ti addormenti ti sve¬ gliano, appena ti addormenti ti svegliano, appena ti addormenti ti svegliano... Ma andare a letto senza mangiare è brutto, è molto meglio non dormire dopo aver mangiato. Oltre, naturalmente, alla sensualità del cibo....

Cimiteri Questo è un qualcosa che probabilmente avrebbe bisogno di spiegazioni psica¬ nalitiche. Il mio paese è dominato da un cimitero, da qualunque punto tu guardi verso nord vedi il cimitero e quindi ricordi le persone che ti stanno vicino e che sono lì. Credo non sia un fatto casuale che il cimitero sia stato messo là; infatti, ci sono dei paesi, come per esempio l’Albania, dove il cimite¬ ro sta addirittura dentro il paese. Nelle piazze dei paesi ci sono dei piccoli recinti, con dentro un giardino e le tombe. Come nel Nord Europa, in Danimarca. In Albania è molto bello perché è al centro: una non separazione dei morti dalla vita dei vivi. La visibilità del cimitero nel mio paese era, credo, un modo giusto perché i morti non venissero dimenticati. Quando ho fatto il 9

primo film, per caso, ho visto dal treno che c’era un cimitero e ho voluto fil¬ marlo come visto dagli occhi del ragazzo. La mia vita è stata segnata da alcune morti molto feroci, non naturali, com’è la morte quando colpisce i bambini o le persone che in quel momento secondo te non dovrebbero morire. Mia madre è morta a trentotto anni, la mia sorellina a due. L’idea di far vedere un cimitero è anche un modo per dire sono con voi, vi penso. Anche in La stella che non c’è vediamo Tai Ling che guarda un cimitero, e non a caso lo guarda nel momento in cui si è lasciata alle spalle un figlio piccolo, che sicuramente non ha una vita riconosciuta ufficialmente, perché è un bambino non registra¬ to; il fatto di guardare un cimitero forse le dà una specie di brivido, come se lo avesse abbandonato e come se gli avesse tolto qualcosa, un pezzo di vita.

Donne Penso che dovremmo distinguere. La parola donne non andrebbe confusa con la parola attrice. Quando sento dire che Cukor è il regista delle donne, vorrei replicare: per favore, dite che è il regista delle attrici. E curioso che tutti quelli che vengono definiti “registi di donne” siano omosessuali (come Cukor, o Almodóvar). Diciamo piuttosto che sono registi di attrici. Io vorrei essere un regista di attrici. Non credo di esserlo mai stato né penso di poterlo diventare in vecchiaia. Ma adesso comincio a capire ohe cosa mi sono perso. Nel senso che, dirigendo le attrici, io provo un sentimento, delle sensazioni, delle emo¬ zioni particolari, molto ma molto più gratificanti che non dirigendo gli attori. C’è tra me e le attrici forse quello che c’era tra Cukor e le attrici: una strana complicità o comunque una volontà di protezione che, o con gli attori non ti scatta, o che gli attori non ti permettono di avere, o che non vogliono si veda. Credo che tutti gli attori vogliano essere protetti, ma gli attori maschi non te lo dicono, prendono delle distanze finte che a volte ti fanno anche male, pro¬ vocano delle gelosie. Le attrici invece te lo dimostrano in tutti i modi possibili, a volte anche eccessivi...

Famìglie Possiamo partire anche da La stella che non c’è, dove si forma una specie di famiglia non ufficiale, putativa, che si rifa un po’ alla famiglia di II ladro di bambini. Qui c’è qualcuno che sceglie, che accetta, e che quindi una famiglia la crea davvero; mentre nell’altro film era lo spettatore ad avere la sensazione 10

che si creasse una famiglia, ma in realtà i personaggi non ne avevano né coscienza né intenzione. Nemmeno il regista avrebbe potuto ventilare una famiglia con quei presupposti. A parte questa famiglia che è di “tua” scelta, che si compone quasi casualmente, strada facendo, per me tutto il resto è finferno; la famiglia ricevuta, la famiglia obbligata e obbligatoria, dove si è costretti a volersi bene perché si ha il cosiddetto stesso sangue, lo stesso cognome, perché si è nati sotto lo stesso tetto e quindi si è avuta una specie di “investitura”. Su questo tipo di famiglia ho da dire tante cose, e quando posso le dico. Se facciamo una lista, dal primo alfultimo fdm: soprattutto le famiglie che non racconto e non vedo sono inguardabili, come quella di Leonardo in La fine del gioco, o quella di / Velieri, in cui vedi solo una madre distrutta dal fatto di essere madre e moglie. Lasciamo perdere il padre di Rosetta in II ladro di bambini, che forse è in carcere, e la madre, l’essere tragi¬ co che prostituisce la figlia e conta i soldi del cliente. O la famiglia di Porte aperte o, in / ragazzi di via Panisperna, la madre di Majorana, che lo costringe a scrivere il proprio diario. La famiglia che sta alle spalle dei due fratelli di Così ridevano, poi, non esiste, e quindi loro sono obbligati a essere l’uno per l’altro padri, madri, figli, fratelli, a riassumere in due tutti i possibili ruoli; tant’è vero che Giovanni nei confronti di Pietro è anche mamma, si preoccu¬ pa che si metta la maglia di lana, gli porta i libri che ha dimenticato, gli pre¬ para il latte coi biscotti la mattina. Credo sia il concetto di famiglia che va rivisto: in genere passa per essere il cardine della comunità, mentre io credo sia lo scardinamenro della comunità; dentro la famiglia cominciano i veri drammi degli individui, che trovano il terreno di cultura adatto perché le nevrosi e le tragedie prendano corpo e si rivelino anche quando tu non riesci a capirli, si rivelino in gesti magari inconsulti che dai giornali vengono cata¬ logati come follia. Si esce pazzi, nelle famiglie. Cos’è la famiglia finale di Così ridevano, con Giovanni diventato padroncino che sposa la torinese che lo rimprovera di parlare dialetto col bambino? Spesso le famiglie le metto a tavola, perché quello è il momento in cui si è obbligati a guardarsi negli occhi, a stare fermi e dirsi qualcosa, a fare i conti. Credo accada a tutti di sen¬ tire il momento della cena o del pranzo come una costrizione, dove tu mandi di traverso quello che stai mangiando perché c’è qualcosa che ti stanno per domandare, o qualcosa che non riesci a dire, o che vorresti dire ma non sai come. Il momento della tavola è quando chiedi dei soldi, o hai paura che qualcuno abbia sapputo di te qualcosa e stia per rimproverartela. In Porte aperte si aggiungono anche le differenze tra i componenti familiari: là c’è n

molto della mia esperienza, perché io sono stato il primo della mia famiglia che ha studiato, colui che quando si sedeva a tavola in qualche modo metteva il padre in imbarazzo, perché la sua autorità paterna si scontrava col fatto che lui aveva la terza elementare e io invece il terzo anno di università. In Porte aperte questo è molto evidente: le critiche del bambino alla zia, per esempio, perché chi va a scuola sviluppa un’aggressività naturale nei confronti di chi a scuola non c’è andato e non ci andrà mai più. Il bambino e la bambina di Porte aperte si permettono di usare quel tono perché si rivolgono a una zia, una donna, casalinga, che non lavora e non è istruita. Perciò, deve essere anche goffa, una che non sa scegliere gli orecchini. Loro vanno a scuola e sono già in grado di fare i saputelli. È un percorso molto rappresentativo del Sud di quegli anni, soprattutto per le donne, ma non solo. Le prime donne che hanno raggiunto un titolo di studio e la possibilità di uscire dal ruolo di casalinga hanno sviluppato una certa arroganza nei confronti delle altre donne.

Figli Io ho raccontato di figli che non erano figli ma era come se lo fossero, o di figli che erano figli, ma qualcuno non li riconosceva. In La fine del gioco un adulto e un ragazzino si parlano, non sono 'padre e figlio ma figurativamente hanno l’età per entrare in quei ruoli. Poi La città del sole, dove vedi le cose a specchio: un monaco incontra un pastorello e gli trasmette un certo sapere e una certa coscienza. Poi si vede il suo vero padre, che disconosce il figlio. Quindi, nello stesso racconto qualcuno che non era padre naturale dava delle cose e qualcun altro che invece l’aveva messo al mondo le toglieva. Questo dare e questo togliere è un filo rosso che lega tutte le paternità e le figliolanze dei miei film e certamente nasce dalla mia vita. Adesso ho un figlio adottivo, che ho voluto, e ho realizzato la famiglia ventilata in II ladro di bambini, l’ho realizzata senza pentimenti e addirittura con un arricchimento della mia per¬ sona. Bisognerebbe naturalmente chiedere a mio figlio se lui si è sentito arric¬ chito o defraudato di qualcosa; ma se lo chiedo a me stesso devo rispondere che mio figlio mi ha arricchito. La famiglia “giusta” è quella inventata, trovata strada facendo, i cui componenti si sono scelti, e allargata a nipoti e parenti vari che non sono considerati per i loro ruoli. Nella mia famiglia io non posso dare delle etichette alle persone: che cos’è per me il fratello di mio figlio, che non è mio figlio? Nei miei film, i padri reali sono padri che a volte ti abbando12

nano, anche quando sono presenti, come Dario che abbandona Emilio in Colpire al cuore trattandolo troppo da bambino. Non vuole gli faccia delle domande, non lo considera abbastanza grande per capire certe cose.

Finali Se devo teorizzare, dico che il finale è anche l’inizio, non l’inizio narrativo del film, bensì l’inizio di quello che si vuol dire con tale film. Nel finale ci sono il “messaggio”, la radice, la ragione, la necessità di quello che si è raccontato. Ed è qualcosa che si ha in mente nel momento in cui si scrivono le tre pagine per fissare il germe del discorso. Poi si scrive il trattamento, la sceneggiatura, e di finali se ne possono trovare quanti se ne vogliono strada facendo, qualcuno ne può suggerire altri, ma credo che il regista finisca sempre per tornare a quello che chiude il cerchio del senso primo del film. Perciò, i finali li ho sempre considerati non importanti a livello di scrittura, anche quando gli altri li prendevano molto sul serio. Per esempio, con II ladro dì bambini, dice¬ vo: passerà tanta di quell’acqua sotto i ponti, alla fine avrò cambiato tante cose che non so quale sarà il finale narrativo, il finale che sento di avere den¬ tro non c’è, non esiste, la storia non può essere chiusa. Tant’è vero che anche quando era previsto il finale drammatico, con il bambino che uccide il cara¬ biniere, c’erano altre quattro o cinque pagine che raccontavano quello che succedeva dopo, lo strazio di Rosetta, che voleva bene a modo suo ad Antonio, e la sua disperazione perché si accorgeva che il suo fratellino aveva fatto qualcosa di abnorme e perché sentiva che veramente la loro vita era fini¬ ta. Quando poi ho trovato il finale definitivo del film, credo di aver reso ugualmente questo faccia a faccia tra fratello e sorella, anche senza passare attraverso un colpo di pistola. E sono arrivato a dire le stesse cose, cioè che cosa accade quando Antonio si fa da parte; finché c’è Antonio, lui funziona come sponda tra Rosetta e Luciano, ma che cosa succede quando i due resta¬ no soli? Non c’era bisogno di uccidere Antonio per allontanarlo da loro, bastava che si addormentasse o fingesse di addormentarsi. Ogni finale dei miei film ha una storia più o meno simile a quello del Ladro: soprattutto quello di La stella che non c’è, l’abbiamo trovato facendo il film, ed è stato voluto dai personaggi stessi. Credo, senza retorica, che i personaggi ti portino sempre da qualche parte, ti chiedano di fare qualcosa: i due personaggi di La stella chiedevano di poter stare insieme. E mi sembrava giusto accontentarli. Alcuni, come quello di Colpire al cuore, sono finali molto chiusi, ma con den13

tro in filigrana un non detto che potrebbe anche, non dico ribaltarli, ma farli vedere sotto un’altra luce. Quando ancora si racconta la storia di Colpire al cuore, si dice: poi Emilio denuncia il padre alla polizia, che lo arresta insieme alla presunta terrorista. Ebbene, nel film questa denuncia alla polizia non c’è; c’è, nella prima parte, il ragazzo che va alla polizia per dire che conoscevano il terrorista, che lui gli ha regalato una maglietta, ecc. ecc. E, secondo la regola hitchcockiana, se si vede una pistola sul tavolo prima o poi quella pistola spa¬ rerà. Allora, è probabile che questo meccanismo faccia intuire che Emilio denuncia suo padre. Lui è presente, mentre la polizia porta via il padre. Ma io non ho mai scritto che lo ha denunciato. Certo, se tu spettatore immagini che sia stato il figlio a denunciare il padre non commetti un errore, così come non commetti un errore se dici che il figlio ha denunciato la presunta terrori¬ sta, e il padre si è trovato in quel posto casualmente. Ma non è detto che Emilio lo sappia; tra l’altro, è un ragazzino che si muove a piedi o in tram, mentre il padre si muove in macchina. Comunque, è giusto che ognuno trovi cose che sullo schermo ci sono o non ci sono, secondo la propria sensibilità e la propria lettura. Un caso ancora diverso è stato Le chiavi di casa, dove il finale è stato completamente inventato, ricreando il film rispetto alla sceneg¬ giatura; perché nella sceneggiatura era un finale che aperto è dire poco, era addirittura “spalancato”: padre e figlio stavàno davanti alla scuola della ragaz¬ zina norvegese aspettando che uscisse. Il padre guardava il bambino che aveva una faccia un po’ sognante, ed era un padre che guardava un figlio che guar¬ dava una bambina. Le chiavi di casa è nato con questo sentimento: un padre non ce la fa a reggere un rapporto anche fisicamente tanto impegnativo con un figlio disabile, quindi volevo che quel “progetto”, quella specie di serena spensieratezza che forse trapela nella prima parte sulla faccia di Kim Rossi Stuart, arrivasse poi a un redde rationem. Non c’era nel testo ma era il presup¬ posto dal quale sono partito quando ho deciso di fare il film. Era qualcosa che trapelava anche dalla serenità che c’è nel libro di Pontiggia, nel quale si percepiscono il disagio, la fatica, tutto quello che forse era costato a Pontiggia nel corso di trent’anni. Non a caso, mi dicevo, Pontiggia ci racconta questa storia adesso che il figlio è grande, ha acquistato una sua autonomia, lavora e quindi certe sue paure di padre sono state superate. Nel momento in cui ho costruito il suo personaggio, Gianni ancora non sapeva che cosa lo aspettava, e cerco di farglielo capire attraverso quell’atto di debolezza nel finale, quando piange. I finali sono il senso del tuo desiderio, della tua spinta a fare quel film, a raccontare quella storia. 14

Hatarì! In una persona come me che si sforza di essere razionale, l’unica trasgressione sul versante “magico” o superstizioso è HatarU. Sono convinto che Hatari! sia, oltre che un film, anche un portafortuna. Tutte le volte che io ho visto quel film e una volta che ne ho scritto, mi è successa una cosa bella. Quindi per me, oltre che un film, è un talismano: ho a casa il film, ovviamente, e il mani¬ festo, locandine varie, e se potessi mi farei un ciondolo con la grafica del manifesto. L’ultima volta è la più incredibile: scrivo un pezzo per «FilmTv» su Hatariì, sono a Reggio Emilia, esco dall’albergo, vado in edicola, compro il giornale e per strada mi rileggo HatarU. E, mentre sto leggendo, praticamente sbatto contro qualcuno, questo si volta e mi dice «Regissore!», ed era, cresciu¬ to, il ragazzino che sta dietro Spiro nella nave di Lamerica, che avevo perduto di vista insieme a suo padre, alla fine delle riprese, nonostante dovessimo vederci per salutarci. A Reggio Emilia! Dove ero andato per caso, per un gior¬ no solo. Poi, se vogliamo parlare di Hatari! in modo serio, diciamo che il cine¬ ma che io non so fare e che mi piacerebbe saper fare è un cinema che non sembri scritto. Questa è la mia lotta costante: non è che io non ami le sceneg¬ giature, anzi, guai se non hai la sceneggiatura, ti serve, non puoi andare la mattina sul set senza niente. Ma il film che dovresti fare è quello che sembra averne fatto a meno. Allora, io non rinnego Hawks quando fa film molto scritti come Susanna! o II magnifico scherzo, non rinnego Wilder, non rinnego niente, dico che sono la prova provata della grandezza di un certo tipo di regia. La regia hawksiana è una regia che fa sì che l’orologio che spacca perfet¬ tamente il secondo non si senta più come meccanismo, ma si senta come la cosa che t’informa di che ora è. Come il tuo orologio, dove vedi le lancette, non l’interno. Invece i film dove si sente la sceneggiatura sono quelli in cui si vede il meccanismo. Ci sono film che ogni secondo sono trasparenti e ti fanno vedere perché le lancette si muovono: io voglio vedere le lancette, non il movi¬ mento interno dell’orologio. Credo che la regia hawksiana sia proprio questa regia, assolutamente libera, che respira da sola, non ha bisogno di bombole, che 4 fare una specie di “levitazione” al testo scritto. Ti sembra che non sia mai stato scritto, che gli attori stiano vivendo quello che appare sullo schermo. Come diceva mia nonna: gli attori fanno tutto loro, il regista non c’è. Hatari! è tutto questo anche in senso negativo. Sono convinto che almeno un terzo dei film di Hawks sia meglio di HatarU; ma Hatari! è quello che ti fa vedere di più questa sua “leggerezza” di regia perche ha piu difetti, ci sono anche attori 15

che recitano male, i tempi sono un po’ rilassati. È un film che, a furia di non far vedere l’ordine sovrano che regna nella sceneggiatura, diventa disordinato, sgangherato. Ma questa “sgangheratezza”, a me che faccio questo mestiere, mi illumina sulla possibilità giusta del disordine. Credo che Hatari! sia un film che piace molto più a chi fa del cinema che a chi lo vede. In questo senso, mi sembra un testo sacro per un regista, perché fa capire anche gli sbagli che si possono fare in un film.

Incassi Se fossi messo alle strette, scegliere tra un successo di critica o un successo di pubblico, preferirei un successo di pubblico. Non c’è paragone. Ho stima di alcuni critici e non di altri e posso confessare che un elogio sperticato da un critico che non stimo non mi emoziona. La critica è importante, per il proprio ego per esempio, o per quello che può suggerire, e perché ti aiuta a continuare a lavorare, com’è successo a me con tutti i miei primi film, dopo i quali trova¬ vo lavoro perché avevo avuto delle buone recensioni e non dei buoni incassi. Poi, un giorno, è arrivato anche l’ottimo incasso e mi sono detto: «che bello avere una sala piena». Ma non perché si possono chiedere più soldi per il film successivo o perché l’incasso dà la libertà cfi osare qualcosa di più. No, soprat¬ tutto perché si ha la sensazione di non aver parlato al vento. Il pubblico gros¬ so, tu lo senti, perché arriva a te, sotto forma di domande, sotto forma di let¬ tere, anche sotto forma di indiretti riferimenti sulla stampa. C’è stato un momento in cui bastava che una signora si allontanasse di casa con la sua prole e diventava “Ladra di bambini a Corviale!”. Oppure “colpire al cuore”, che è diventato qualcosa di diverso rispetto al senso che si dava allora alla frase “colpire al cuore dello Stato”: è diventato qualunque cosa che tocchi i senti¬ menti. L’incasso non va considerato solo come il coronamento del film “com¬ merciale” in accezione limitativa, come prodotto cinicamente costruito, che in qualche modo dovrebbe gabbare il pubblico. Quello è legittimamente un lavo¬ ro di produttori e registi, difficilissimo da centrare, che ha una propria ragione di essere. Io parlo soprattutto della necessità che il cosiddetto film d’autore abbia pubblico e quindi degli incassi. Credo che registi come Fellini, De Sica, Visconti abbiano voluto bene al loro lavoro nel momento in cui questo è arri¬ vato alla gente. Per esempio Visconti, tra La terra trema e Rocco e i suoi fratelli preferiva quesf ultimo. Tra i miei film, ce ne sono due che hanno incassato ovunque. Il ladro di bambini e Le chiavi di casa, e ce ne sono invece altri che 16

bisogna valutare Paese per Paese. Lamerica in Italia è andato peggio che nel resto del mondo, dove invece è stato un buon successo. L’unico insuccesso completo, tra i miei film, che mi dà un dolore vero, un insuccesso che io ritengo ingiusto, è Così ridevano-, il mio solo film del quale si può dire che commercialmente è andato male, in tutti i Paesi. Ancora m’interrogo sul per¬ ché: in Italia la giustificazione può essere che è parlato in dialetto, ma negli altri Paesi? dove i sottotitoli sono la regola? Forse c’è qualcosa, nel film, che io non ho percepito. Potrebbe essere linguisticamente troppo avanti, ma narrati¬ vamente troppo indietro. Forse è un film che azzarda la combinazione di due elementi che fanno a cazzotti: il melodramma da una parte e il procedere per ellissi e sospensioni e rimandi e segreti dall’altra. In genere, il melodramma è aperto, procede per ampie scene madri lineari, è strutturato in modo che la narrazione non turbi la mente di uno spettatore che sta seguendo la storia, non pone domande ma cerca sempre di dare delle risposte. Così ridevano inve¬ ce tronca ferocemente ogni sequenza, è strutturato in capitoli e ogni capitolo ha il suo acuto, ma ogni acuto è tagliato a metà.

Libri I libri sono una spina nel fianco e una possibile metafora, sono un rimorso, sono tutto quello che io rimpiango di non aver frequentato abbastanza, la cosa che più mi mancava quando ero ragazzo, la cosa che mi sarebbe piaciuto avere e non avevo, e la cosa che ho tanto desiderato e mi ha lasciato con l’amaro in bocca. Ci sono cose che, o si prendono al volo quand’è il momento oppure, passato il tempo, è difficile che si riesca a riacchiapparle. C’è un’età per tutto. Non credo ci sia un’età per leggere Proust, ma so che c’è un’età per leggere Le avventure di Tom Sawyer. I libri li ho sempre visti come cose fondamentali, importanti, belle, piacevoli, che non ho avuto, che non potevo avere. I libri erano per me il vocabolario che non avevo, quel romanzo che non mi potevo comprare. Ricordo cos’ho dovuto fare per avere, all’età di quindici anni, il volume La dolce vita della collana Dal soggetto alfdm. Costava 1800 lire... col¬ lette tra compagni di scuola, prestiti, rinunce. Il libro non letto è di difficile recupero con gli anni che passano. Quando poi li ho letti, li ho letti male e li ho letti in fretta. Quando facevo l’aiuto regista, non avevo nemmeno il tempo di sfogliarne uno. E il libro è diventato un feticcio nei miei film, ho sempre voluto che il libro fosse un dono, davvero più importante di un gioiello. Come in Così ridevano. Soprattutto quando i libri sono nelle mani dell’analfa17

beta sono il coronamento di tutto, come evidenzia la Morante storia: «All’analfabeta per il quale io scrivo». E esattamente il ridevano, soprattutto nel momento in cui Lo Verso ha i libri stretti al petto. Quella è la sintesi di tutti gli altri libri di tutti gli l’emozione che io provo nei confronti dei libri.

che dedica La senso di Così tra le braccia, altri film, del¬

Mestieri I mestieri sono arti, e a casa mia quando si parlava di “mestiere” si usava la parola “arte”; se tu non studi, guarda che vai a imparare un’arte. L’arte del cia¬ battino, l’arte del muratore... quelli che noi chiamiamo mestieri. Mentre non era un’arte quello che imparavi a scuola, perché poi diventavi professionista, dottore... L’arte la si imparava in una bottega. Non voglio essere ipocrita e dire che faccio questo lavoro come un mestiere, con la civetteria di non consi¬ derarmi artista, ma alla stregua dei falegnami che costruiscono pezzo per pezzo... No, non ho mai pensato che fare il regista fosse un mestiere; appena ti accorgi di quanto sia precario il sistema sul quale poggia questo lavoro, ti accorgi che da nessun punto di vista puoi considerarlo un mestiere, con la sicurezza di avere in mano qualcosa che sai fare e che quindi potrai sempre fare. Ogni giorno cambia qualcosa, e chi si credeva in possesso di tutti gli stru¬ menti per lavorare nell’audiovisivo viene scavalcato ogni giorno da qualcuno che ha in mano strumenti nuovi. Sento di appartenere al passato remoto rispetto al cinema fatto coi telefonini o di quello che si fa direttamente per il Dvd da edicola. Poi, c’è l’altra retorica: «tutti facciamo il mestiere del cinema, anche Pellini, anche Bergman». Non è vero, credo ci sia grande differenza, per restare alla B, tra Bergman e Bava. Non è detto che Bergman sia in assoluto qualcuno da scegliere in contrapposizione a Bava. La cosa bella del cinema è che possono convivere meravigliosamente Bava e Bergman, e che invece gli pseudobergman o gli pseudobava possono essere cancellati. Credo che parlare di “mestiere” sia anche un alibi, come se fosse a portata di mano qualcosa che tu impari una volta per tutte, poi la applichi e non devi sforzarti più di tanto o inventarti qualcosa di nuovo.

Musica La musica è la cosa più vicina al cinema che possa esistere. Non il teatro, il romanzo... la musica. Per quanto riguarda la musica nei miei film, quello di 18

cui sono più soddisfatto è La fine del gioco', perché la musica non c’è. Non è che io sia contento perché non c’è la musica; sono contento perché il film la musica non la voleva, non ne aveva bisogno. C’è una scuola di musica per film in Toscana, i docenti sono Sergio Miceli ed Ennio Morricone. Dovendo fare il saggio di diploma e cercando un film che non avesse musica perché erano gli allievi che dovevano comporla, hanno scelto La fine del gioco. Poi, l’allievo che si è classificato primo mi ha mandato il suo pezzo registrato su un Vhs, con tre sequenze del film in ordine, musicate. E questa musica era la cosa più pleona¬ stica, respingente e triste che si possa immaginare. Come fosse obbligatorio che le immagini dovessero essere sottolineate dalla musica. Allora ho avuto la prova che La fine del gioco non voleva musica. Non so se questo fatto porti alla con¬ clusione che il film più cinematografico è quello senza musica. Non credo, credo che questo sia un caso. E chiaro che io sarei per lo più a favore di quella che chiamano la musica diegetica. Sono arrivato al punto che in Lamerica, quando la macchina di Gino e Fiore sta andando verso Tirana, incrocia un’altra auto e si sente un pezzo di musica da un’autoradio. Per quanto riguarda il cosiddetto commento musicale, invece, bisogna stare attenti a non usarlo come si usano le risate finte nelle sitcom. Come un cartello: applausi, risate, com¬ muoversi, trattenete il respiro, ridere. Un bambino piccolo, Matteo Cerami, mi ha detto una volta: «Gianni ma perché c’è la musica del finale se il film ancora non finisce?». Mi pare che siamo ancora a un livello piuttosto arretrato nel rap¬ porto tra il film e il cosiddetto commento musicale. La stessa parola “commen¬ to” forse è sbagliata, non ne abbiamo trovato un’altra; allora forse dobbiamo pensare non che non esista la parola giusta, ma che non esista la “cosa”. Per questo non riusciamo a definirla. Come spettatore, questo “commento” non solo lo perdono, ma lo voglio. Mi piace molto sentire musica in un film. Franco Piersanti mi dice che tutto ciò che si sente di più bello e innovativo in La Stella che non c’è deriva dall’esecuzione: il film è stato quasi tutto musicato improvvisando, come fece Miles Davis in Ascensore per il patibolo. Avevamo uno strumento solo, poi altre cose sono state fatte alla testiera separatamente, ma in sala c’era solo una musicista con un violino. Così sembra che la musica nasca un po’ più naturalmente insieme alle immagini, insieme all’atmosfera.

Padri Nel cinema succede esattamente quello che succede nella vita, perché non è detto che si impari da quelli che si sono conosciuti direttamente o dei quali si 19

è stati assistenti o che dovrebbero avere una cultura vicina alla propria... Non è che io per forza debba aver imparato da De Seta, Puccini, Gregoretti, ecc. Forse, se devo riconoscere un padre nel cinema italiano è l’insospettato Olmi, perché II posto ha influito molto su di me. Quando ho visto II posto ho provato qualcosa che forse i giovani degli anni Settanta hanno provato con il “morettismo”, quando si sono detti «anch’io posso fare cinema», o quelli degli anni Sessanta davanti alla Nouvelle Vague, quando hanno pensato «allora la camera stylo esiste». In qualche modo, sono stato catturato dai sentimenti che tra¬ smetteva lo schermo, dalle tante cose, per me fondamentali, che II posto rac¬ contava. Nello stesso tempo mi sembrava che fosse un modo di raccontare che si poteva imparare, non distante anni luce; mentre Fellini o Visconti davano una sensazione di irraggiungibilità. Nel corso del tempo poi ho scoperto che mi ha influenzato anche II ladro di Bagdad di Arthur Lubin, che mi è rimasto attaccato per tutta l’infanzia. Non ho mai potuto dire di un mio film: questo è hitchcockiano. Ma credo che in tantissimi siamo figli suoi, che chiunque prenda in mano una macchina da presa debba aver capito qualcosa da Hitchcock, il meccanismo che non si vede, per esempio, quello che non devi mostrare. Hitchcock lo si ritrova nei film più. impensati, come Shakespeare nei western. Chiaro che uno può essere figlio di tanti padri. Io sono perplesso quando sento dire che un mio film ricorda De Sica o Rossellini. Se mai, sono più debitore nei confronti di Antonioni, anche per un fatto generazionale: De Sica aveva fatto i suoi film migliori quando io avevo sei mesi. I film di De Sica e Rossellini li ho scoperti dopo i vent’anni, mentre quelli di Antonioni li ho visti nel momento in cui sono usciti. Ho visto II grido a dodici anni, e l’ho amato subito, anche se ovviamente non l’ho capito tutto. In II ladro di bam¬ bini, c’è L’avventura a piene mani, non solo perché sono andato a Noto, ma soprattutto per il concetto della donna che ti deve lenire il dolore, deve tener¬ si dentro un po’ del suo e consolare te, perché tu maschio sei più debole, mentre lei è più consapevole. Rosetta si porta addosso una croce, come spesso i personaggi femminili di Antonioni.

Produttori Chi è estraneo al cinema crede in un luogo comune, il più radicato di tutti: il produttore è colui che tira fuori i soldi per fare un film. In realtà è esattamente il contrario: è il produttore che prende i soldi per fare un film facendosi finan¬ ziare da qualcun altro, un distributore, una banca, lo Stato, e che ovviamente 20

può saper fare o non saper fare il suo mestiere. Qualche volta ho incontrato produttori anomali: per esempio, tra quelli che ho conosciuto, il più produtto¬ re di tutti (ma il suo nome non c’era nei titoli di testa, dove si legge solo Rai) è stato Paolo Valmarana. Era quello più vicino all’idea di produttore che si dovrebbe avere, un produttore un po’ alla Cristaldi, che con la sua Vides faceva film più o meno bilanciati verso l’industria ma che comunque partivano sem¬ pre da un’idea nuova, da qualcosa da comunicare, non dal già visto. Valmarana era come Cristaldi. Aveva il suo budget annuale, abbastanza limitato, che avrebbe potuto ripartire sulla base delle garanzie che gli venivano date, sulla base del nome e dei precedenti degli autori, accontentandosi del quieto vivere. Invece Valmarana riuscì a barcamenarsi in modo molto intelligente, fece film che tranquillizzavano quelli che stavano sopra lui, ma si prese anche molti rischi. Ha prodotto Olmi, Fellini, ma anche Sogni d’oro e Colpire al cuore. Paradossalmente, s’impegnava anche costantemente accanto all’autore. Con lui ho avuto vicino per la prima volta qualcuno che partecipava alla nascita del film in modo diretto, vero, non censorio. Colpire al cuore è un film che deve molto a chi l’ha prodotto, nel bene come nel male. Per esempio, nel finale quando la Morante dice a Trintignant: «Cosa gli dirò quando sarà grande? Che suo padre ha ucciso?». Questa frase ho dovuto scriverla sotto dettatura, di Valmarana. E ha anche patteggiato con me il numero dei poliziotti e dei terro¬ risti morti nell’attentato. Il produttore forte è indispensabile, anche quando sbaglia. Lui, con il mio film, ha sbagliato pochissimo, solo piccoli peccati molto veniali, e mi ha sostenuto dai punto di vista psicologico; io avevo dei cedimenti su me stesso e sul mio lavoro, era il mio primo film “vero”, senza l’a¬ libi del piccolo schermo, il primo sul quale mi sentivo davvero responsabilizza¬ to. Poi, ho avuto la ventura di lavorare con Angelo Rizzoli, che ti mette in croce in fase di scrittura, perché è fondamentalmente un intellettuale, nipote di un grande editore ed editore lui stesso, e pensa che la sceneggiatura sia tutto. Una volta che ha licenziato la sceneggiatura, scappa da una cosa che credo non ami, il set di un film, i rapporti problematici che si instaurano durante una lavorazione. Rizzoli è estraneo al set, e forse era così il nonno. Detto questo, devo ad Angelo Rizzoli lo sdoganamento dalla Tv, dalla necessità di andare a discutere la sceneggiatura in via Mazzini. Quello che mi è mancato di lui sono il peso delle sue fragilità e la necessità da parte mia di tirar fuori una grinta che forse prima pensavo di non avere. È stato lui che, mettendomi alla prova non volontariamente, mi ha fatto tirar fuori questa grinta; e non a caso ho fatto con lui due film che erano anche una sterzata rispetto a quelli che mi accontentavo 21

di fare prima di allora. Dopo Colpire al cuore avevo avuto la mia unica, vera crisi personale. Il film era uscito con molto ritardo, otto mesi dopo la presenta¬ zione a Venezia. Ci ho messo un po’ a riavermi e / ragazzi di via Panisperna, un ibrido tra cinema e televisione, è stato un lavoro interlocutorio. Probabilmente, se non fosse arrivato Rizzoli con Porte aperte, con tutti i suoi problemi, non avrei acquisito la sicurezza che mi ha portato poi a fare II ladro di bambini in maniera rapida, svelta, sveglia. Il ladro era un film fatto di spostamenti conti¬ nui, e che io ho portato a compimento in meno di nove settimane e per il quale ho lottato da solo. Poi c’è stato l’incontro con Mario Cecchi Cori, per me felicissimo, non solo per la libertà che mi ha dato, che mi era dovuta dopo il successo del Ladro. Quando gli ho sottoposto il progetto di Lamerica, mi ha detto: «Vuoi fare questo film? A tuo rischio e pericolo», e non intendeva di un successo o un insuccesso, ma a mio rischio e pericolo di vita: vai in un Paese pericoloso, a girare un film pericoloso, spero tu lo finisca. Se non lo finisci non sarà per colpa tua, ma di tutto quello che avrai intorno. Quello che mi fa dire che è stato un produttore di grande spessore sono tutte le lettere che mi ha mandato dall’Itdia via via che vedeva il materiale: le correzioni di rotta, i com¬ menti positivi e le critiche, tutti estremamente puntuali. Poi ho avuto un rap¬ porto altrettanto buono, per Così ridevano, per il quale ho avuto libertà totale, da parte di chi lo seguiva: Rita Rusic come produttrice e Mario Cotone, il pro¬ duttore esecutivo, che punta sempre a darti di più, di più, di più. Per lui è un punto d’onore dare al regista quello che il regista vuole e anche qualcosa in più. Io chiedevo, osavo chiedere, venti comparse. Lui diceva: «tu sei matto: duecento». Dal punto di vista strettamente professionale. Così ridevano è stata la mia esperienza più felice, insieme a La stella che non c’è. Ho lavorato spessis¬ simo con Enzo Porcelli, che è soprattutto un gran signore, la persona meno volgare che esista al mondo, che non alza la voce forse nemmeno quando dovrebbe, col quale ho avuto grandi conflitti ma per il quale continuo anche ad avere un grande affetto. Ho fatto con lui Le chiavi di casa, che in assoluto è stato il mio film più complesso e costoso. Più costoso di Lamerica con tutti i suoi intoppi, più costoso di Così ridevano che è in costume e più costoso di un film tutto girato in Cina. Perché Le chiavi di casa si poteva girare solo in deter¬ minate condizioni e seguendo gli umori del giovane protagonista. Complessivamente, credo di dovermi considerare fortunato, a parte l’incontro con Vittorio Cecchi Cori, che è stato totalmente negativo. Oggi, una persona come Riccardo Tozzi racchiude un po’ tutte le qualità dei migliori produttori. Diciamo che è un altro Cristaldi, che crede in quello che fa, combatte per que22

sto, e segue in modo capillare i film che produce, amandoli. È raro il produtto¬ re che si prenda la responsabilità degli insuccessi. Cristaldi lo faceva, se un film non era andato bene diceva: «Forse abbiamo sbagliato qualcosa». Non lo senti dire da nessuno oggi, tranne che da Tozzi. Rosamunda Rosamunda è mio padre, quello vero, perché questa è una delle due canzoni che mi ricordano la sua presenza fìsica senza che io mi ricordi di lui in modo cosciente. Mio padre è andato via di casa che avevo un anno e pochi mesi, quindi non posso ricordarmelo; però, chissà perché, forse per la capacità che hanno le canzonette di riportarti alla memoria delle cose a pelle, ci sono due canzoni che me lo ricordano: una è Rosamunda e l’altra Cavallino corri e va. Questa l’ho messa in / ragazzi di via Panisperna, nel momento in cui Enrico va a trovare Ettore in Sicilia, esce da un disco che suonano in casa. Ov¬ viamente era quasi giocoforza mettere Rosamunda in bocca al nonno, al padre di Lamerica, che in realtà era mio padre perché prendeva la nave, come aveva fatto lui. La cosa bizzarra è stata che, essendo per me una canzone familiare, non lo era affatto per Carmelo Di Mazzarelli (l’attore che interpreta Spiro, N.d.R.), che pure dal punto di vista generazionale avrebbe dovuto conoscerla meglio di me. Per cui, quando abbiamo girato, ho fatto una fatica maledetta per fargliela cantare. Esiste poi un finale alternativo di Lamerica, nel quale Rosamunda diventa il coro di tutta la nave. L’abbiamo girato: tre albanesi che cominciavano a cantare, in uno, in due in tre, ma non ci siamo riusciti perché, a parte quei tre, non c’era nessun altro che cantava. Allora l’ho incisa in un teatro di Tirana con un coro, ma quando l’ho applicata al film si sentiva che veniva da fuori, che era “appiccicata”. Ho preferito perciò suggerire a Piersanti di evocarla in qualche altro modo. Comunque, le canzonette sono parte del discorso sulla musica e le immagini: la musica che nasce da una situazione, canticchiata, da un disco, mi sembra più legittimata a stare in un film di qual¬ cosa che arriva da fuori. Treni Sono tutto e niente. Io da bambino non sapevo che cosa fosse un treno; avevo una macchinetta dei pompieri con la scala e, dato che era lunga, la chiamavo treno e nessuno mi diceva invece che era la macchina dei pompieri. Un giorno è 23

venuto un ragazzo di Catanzaro, di città, e io gli ho detto: perche non vieni a giocare che ho un trenino. Lui è venuto e mi ha rivelato che quella era la macchi¬ na dei pompieri e non un treno. Il treno è il senso del movimento, tra situazioni e stati d’animo diversi, non tanto tra paesi e città, che aiuta la narrazione e i rap¬ porti tra i personaggi a modificarsi ed evolversi. Il treno, 1 auto, la strada, sono luoghi di scontro ancora prima che d’incontro. E tra questi, il treno, ti offre una possibilità in più: puoi isolarti, o vedere delle altre persone, ma non puoi fermarti e scendere quando vuoi. Quando Gianni (in Le chiavi di casa) sale sul treno per Berlino, è costretto a prendersi cura di suo figlio; anche Vincenzo, quando perde quel trenino, in Cina, alla fine di La stella che non c’è, forse fa una scelta.

Viaggi Uno degli aspetti più piacevoli di questo mestiere è la possibilità di allontanar¬ si qualche volta dal proprio quartiere e quindi di avere esperienze diverse, sco¬ prire cose diverse... I viaggi costano e, tra l’altro, non dicono molto sul Paese visitato e sulla gente incontrata, proprio perché si rimane sempre un po’ sulla difensiva. Se invece si ha un rapporto di lavoro, si entra dentro un altro mondo, lo si conosce meglio. E chiaro che non arrivo in Amazzonia, sulla montagna dove va Herzog. Non ho il coraggio di Herzog, ma vado comunque in posti non sempre agevoli. Come la Cina per esempio, dove abbiamo girato con umidità al 100% e 45 gradi di temperatura, abbiamo avuto febbri e malesseri vari. Ma alla mia età non fa tanto bene lavorare comodi. Con l’idea di conoscere le cose che ci cir¬ condano, di avere familiarità, che so, con Roma perché ci si vive o con la Calabria perché ci si è nati, probabilmente si danno per scontate tante cose che invece scontate non sono. Invece, se si va a scoprire qualcosa di nuovo, forse questa scoperta passa attraverso il lavoro fatto e arriva alle altre persone in modo più forte, più diretto. Ma allontanarsi significa anche focalizzare il discorso senza che il contesto geografico sia prevaricante. Questo vale soprat¬ tutto per gli ultimi due film, che sembra partano da un tema molto predeter¬ minato e che in realtà tendono a liberarsi di questo punto di partenza, per aprirsi verso direzioni delle quali forse nemmeno io come autore ero consape¬ vole quando ho cominciato. Nel mondo che conosciamo, vediamo meno e comunque troviamo sempre una possibilità di non vedere; si hanno delle protezioni quando si è nel pro¬ prio ambiente, e i momenti di difficoltà non arrivano mai a un punto irrever24

sibile; c’è sempre un amico al quale telefonare, un appoggio fornito dalla vita quotidiana e dall’esperienza accumulata fino a quel momento. Questa è la definizione colta e raffinata, da regista. Ma ne ho un’altra, che forse è quella che conta. C’è un fatto terra terra, che corrisponde all’età: quan¬ do si superano i sessantanni ci si rende conto che certe cose si sono perdute, che forse non si acchiapperanno mai piti. E allora, perché non tentare questa nuova terapia attraverso il proprio lavoro, che è poi la terapia della conoscenza di un altro mondo, un’altra cosa, un altro incontro? Dal momento che si sta sempre più restringendo il cammino, allora perché non fare un salto, adesso che è ancora possibile, e forse è l’ultimo possibile salto? Il fatto di andar fuori, allora, è un tentativo di correre. Comunque l’impressione che ne ricavi è che — ed è il bello di questo mestiere - dovunque tu lo faccia, è sempre cinema. E il tuo film, il tuo racconto, sono i tuoi personaggi, il tuo lavoro, i tuoi rapporti, e quindi, che tu sia in Cina o a Civitavecchia, è la stessa cosa. Ormai, sono quello che non fa sopralluoghi. Io vado a fare il percorso, semplicemente, per scoprire quale dovrà essere il percorso del personaggio o dei personaggi per arrivare a fare quello che io ho pensato insieme a loro. Comunque, il cinema, mentre lo fai, ti dà le stesse sensazioni anche se sei dentro uno stabilimento di Cinecittà. Solo che, se io vado a girare in studio, mi perdo la Cina. E domani forse in Cina non ci posso andare più. Allora il film è un pretesto, una scusa per poter vivere, soprattutto per avere dei contatti umani. Una storia che per me è cominciata molto da lontano: anche quando sono andato a fare Colpire al cuore a Milano, stavo facendo un viaggio lungo lungo. L’unico film dove non viaggiavo, anche se paradossalmente è un film che si svolge tutto sopra un treno, è La fine del gioco. Perché, gira che ti gira, è un treno che dovrebbe muoversi all’interno della Calabria: il bambino è calabrese, s’intuisce che il riformatorio è in una delle due o tre città capoluogo di provincia. Ma là avevo il bisogno di raccontare la mia storia calabrese, di farlo parlare in calabrese, di farlo partire.

Dichiarazioni raccolte da Emanuela Martini nel giugno 2006. 25

Gianni Ameiro

Che ci faccio qui? La casa nella fotografia è piuttosto strana, è un edificio a tre piani con tetto e tegole spioventi e torrette rotonde su due angoli, ciascuna coperta da un tetto appuntito di tegole. «Ilpassato è un paese straniero», recitano le famose parole d’apertura dell’uà, incerta di L.P. Hartley, «nel quale le cose si svolgono diversamente». Ma la foto mi suggerisce di capovolgere quest’idea, ricordandomi che è il presente che mi è estraneo e che la mia casa appartiene al passato, una casa perduta, in una città perduta nelle nebbie del tempo perduto. (Salman Rushdie, Patrie immaginarie, 1982)

Questa è la storia di un viaggio. Di un regista che viaggia anche quando sta chiuso in una stanza ad ascoltare musica con un ragazzino di campagna e un signore di città, o immobile davanti a una finestra a fotografare ombre di un impossibile idillio borghese, o seduto in un’aula torinese a sognare di essere altrove. Non è un caso che questo libro cominci su un treno e finisca (per ora) in una stazione minuscola sperduta nel nulla, dalla quale è appena transitato un treno che pare uscito dalla stampa popolare di un altro secolo. Perché, dopo più di trentanni, il cinema di Amelio continua a essere in ostinato, incorreggibile, talvolta lacerante movimento. Movimento nello spazio, nel tempo, nel sé e nei cortocircuiti dell’anima dei suoi personaggi, la cui traietto¬ ria esplicita nasconde spesso un percorso profondo molto più inquietante {Lamerica [1994], per esempio, non è tanto un viaggio nel caos tragico dell’Albania anni Novanta quanto nella disperazione quieta dell’Italia anni Quaranta, come Così ridevano [1998] finisce per raccontarci più la raccapric¬ ciante aridità morale del presente che la rassegnata sconfitta sociale del passa¬ to); movimento tra un’ideale “onestà” realistica e un’indomabile ossessione “romanzesca”; movimento perciò tra un rigoroso autocontrollo linguistico e la voglia, ogni tanto, di liberare Io sguardo e il cuore, di impennare la macchina da presa verso la luce di speranze impossibili (la nuova “famiglia” di II ladro di bambini [1992], che il carrello accompagna nel sole e nel mare) o verso il buio di tormenti insanabili (il carrello all’indietro, che ci allontana dalla solitudine tragica di Emilio alla fine di Colpire al cuore [1982]). Per poi trovare magari l’equilibrio ideale in primi piani che sono veri e propri “pezzi di resistenza” psicologica, soprattutto se nell’impietoso formato anamorfìco, in campi lun¬ ghi e lunghissimi che concedono ai personaggi l’intimità di attimi di grande amore o di grande orrore (l’ultima inquadratura di Le chiavi di casa [2004], il finale di II ladro di bambini, il terzo omicidio di Porte aperte [1990]), in campi 27

e controcampi di classicissima sobrietà che, nonostante ciò, racchiudono misteriosi tocchi spiazzanti (nel cinema di Amelio, c’è spesso qualcosa che resta “fuori” dal visibile e dall’udibile, oltre il bordo dell’inquadratura, come la fonte di un rumore sordo e nervoso in un dialogo tra i fratelli di Così ridevano - è la bottiglietta vuota di gassosa che Pietro continua a spostare sul tavolo; oppure oltre i limiti della nostra comprensione, come la domanda che una ragazza cinese rivolge, nella propria lingua, a un uomo italiano che, chissà come, le risponde a tono, alla fine di La stella che non ce [2006]; oppure, quasi sempre, un sottotesto non raccontato, un amore, un desiderio, un rifiuto, un trauma che tuttavia guida i passi dei personaggi e la nostra consapevolezza). Macchina fissa/Movimento. Amelio non gioca in casa neppure con la lingua del cinema, ma si confronta costantemente con i suoi amori e con i suoi rigo¬ ri: ripone nella prima la fiducia della pulizia, ma sa quanto anch’essa possa essere “immorale”; sospetta del secondo come deriva narcisistica, ma non lo nega all’escursione emotiva del racconto. L’importante è che né l’una né l’altro (né l’insistenza inquisitiva su un volto, né il fluido scorrere su un sentimento) sia un “falso movimento”, un abuso strumentale, uno spettacolo gratuito, un alibi per continuare a girare esclusivamente intorno al proprio io e al proprio “totem” (la divorante macchina da presa, e il potere esaltante che essa sembra conferire a chi la “possiede”, la ripresa della “morte al lavoro” e, contempora¬ neamente, la sensazione di poter sconfìggere la morte attraverso l’Arte, la Poesia, la Verità). Troppo onesto con se stesso per non sapere che ogni regista (o scrittore, o altro) racconta sempre la stessa storia, cioè la propria, e che Hitchcock, Truffaut, Antonioni hanno fatto sempre lo stesso film, Amelio non si è mai sottratto alla “autobiografìa”, anzi ne ha fatto sempre il cardine dei suoi viaggi successivi, con spunti talvolta talmente evidenti da generare poi sommarie “etichette” e sbrigative semplificazioni: meridionalismo, pauperismo, emigra¬ zione, disadattamento giovanile, conflitto edipico, tutti caratteri “onorevoli”, tutti elementi importanti del suo percorso umano e artistico, com’è giusto che sia (tant’è che, ogni tanto, ci casca anche questo libro, nella facile trappola interpretativa). Ma l’autobiografia non sfocia mai nell’autoreferenzialità: men¬ tre compone i tasselli successivi della propria storia, Amelio racconta anche un pezzetto della nostra, individuale e collettiva; mentre esamina il proprio sradi¬ camento “necessario”, fotografa anche le conseguenze devastanti della nostra perdita di identità culturale; mentre cerca una ragione, per se stesso, per stare al mondo, ci avverte anche dei pericoli della perdita di senso della società 28

attuale. Sempre sul presente anche quando parla del passato; sempre qui anche quando rivolge lo sguardo altrove. Sempre “compagno di strada” dei suoi per¬ sonaggi, mai manipolatore, anche quando li guida verso abissi emotivi insoste¬ nibili. Antitesi del cronachismo piccolo borghese (di famiglia, salotto, gruppo ristretto) che ha afflitto il cinema italiano degli anni Ottanta e parte dei No¬ vanta, ma anche della metafora imponente e impotente, del “comizio”, il suo cinema è “concreto”: i suoi personaggi esistono, sono di carne, anche nel disa¬ stro della loro identità, anche nella loro afasia affettiva, anche nelle percezioni confuse e irrisolte della loro giovinezza e nei preconcetti rigidi della loro matu¬ rità, parlano la lingua della gente comune, si muovono in ambienti a tre dimensioni, “stanze” riconoscibili di una geografìa umana e sociale che troppo spesso il cinema italiano ha forzato in una direzione “metafìsica” e la fiction televisiva quotidianamente appiattito. Affabulatore per vocazione, non si lascia sedurre dalla “favola”, ma la piega al rispetto morale delle persone “vere” delle quali ci sta narrando la faticosa avventura. Osservatore instancabile della vita che gli si snoda sotto gli occhi, non si illude mai che il cinema possa automaticamente tradursi in “realtà”, né lusinga mai gli equivoci facili della nostra falsa coscienza di spettatori. Da un film di Amelio non si esce mai pacificati o soddisfatti di sé, ma piuttosto pres¬ sati dalle domande che i suoi personaggi ci pongono, dai problemi irrisolti che lasciano, dalle strade etiche che ci costringono a imboccare. Costruttore meti¬ coloso di plot (per lo piti “forti”, dallo spunto narrativo immediato, si tratti dell’odissea del popolo albanese o del primo incontro tra un padre assente e un adolescente disabile, di uno scontro edipico negli anni del terrorismo o della deriva esistenziale di un operaio che ha perso il lavoro a cinquantanni) ed evocatore di solide basi suggestive (dal neorealismo al mèlo americano anni Cinquanta, dal dramma familiare alla Kazan all’epopea spettacolare, dall’inti¬ mismo problematico di Rossellini al “sentimento” umano di De Sica), tuttavia non lascia mai che il “meccanismo” gli prenda la mano, ma lo costringe sem¬ pre aH’interno di un preciso percorso interpretativo, morale, storico, esisten¬ ziale. Che poi il percorso spesso non sia impresso a caratteri cubitali sulla pelli¬ cola, ma stia scritto tra le righe dell’apparente linearità narrativa, questa è l’a¬ nima del cinema, la lezione dei classici, se vogliamo l’umiltà dei maestri. “Mi chiamo Gianni Amelio, e faccio film sui bambini”, si potrebbe parafrasare, tanto per dar credito a uno dei luoghi comuni sul suo cinema che più lo manda in bestia. Oppure, peggio ancora, “film sul sociale”, “film impegnati”. John Ford, con i cavalleggeri e i fortini, gli indiani e i cowboy erranti, raccon29

tava TAmerica del Novecento sospesa sul crinale dell’oblio della propria cultu¬ ra whitmaniana. Alfred Hitchcock, con i suoi eroi in fuga, i suoi puzzle omici¬ di, le sue bionde inermi e castratrici, descriveva l’eterna attrazione per il dolore dell’uomo moderno. Roberto Rossellini, con la sua Bergman sempre sospesa tra pazzia e santità, le sue “fughe” altrove, i suoi contrasti stridenti e sensuali, ci indicava la strada per ritrovare la nostra umanità. Gianni Amelio, con i suoi bambini eternamente “impacchettati” e usati, i suoi maestri inconsapevoli sopraffattori, i suoi umili disorientati, le sue donne dolenti, ci ricorda il prez¬ zo, di memoria, cultura, rispetto di noi stessi e degli altri, che abbiamo pagato per entrare nella modernità. Narratore impeccabile, lacera le sue storie per costringerci a riflettere, a infilarci con la nostra esperienza personale, di dolore, amore, ingiustizia, passione, violenza, nei “buchi” che dissemina appositamen¬ te: sospensioni, vuoti, ellissi, che si inseguono (e “segnano” il suo stile nel nome della modernità) da La fine del gioco (1970) a La stella che non c’è, con il culmine di Così ridevano, sei segmenti e in mezzo il vuoto, da riempire con idee, ipotesi, sentimenti, con parole che non escono ma sono nell’aria, con la complicità di una comune memoria, storica e cinematografica. Regista in bili¬ co, come generazione, ceto, “geografia” familiare e affettiva, passioni cinema¬ tografiche, addirittura carattere (ama citare spesso la frase rivoltagli da Monicelli: «Delle due cose una: o tu non sei tu o i tuoi film non sono tuoi» o, per dirla con Tullio Masoni e Paolo Vecchi, suoi estimatori da sempre, «il suo cinema è la sintesi alta e ardua della schizofrenia tra puntuto rigore dell’artista e irresistibile affabilità dell’uomo»), ha trasformato queste contraddizioni in uno specchio attraverso il quale interpretare il mondo e in uno “stile” attraver¬ so il quale narrarcelo. E il suo viaggio umano e professionale, la sua scontrosa e sommersa ricognizione personale e la sua disponibilità affettuosa verso i per¬ sonaggi che incontra e che lo trascinano sui loro passi, si sono trasformati, con naturalezza, anche in un rendiconto, spesso scorato, mai indulgente, della Storia che abbiamo “costruito” negli ultimi cinquanf anni. Gianni Amelio (Giovanni solo per l’anagrafe, nessuno l’ha mai chiamato così) è nato il 20 gennaio del 1945 a San Pietro Magisano, un paese di quattrocento abitanti in provincia di Catanzaro. Suo padre ha diciassette anni, sua madre ne ha quindici. L’Italia esce dalla guerra devastata ma, mentre al Nord le imprese incrementano gli investimenti per consentire la ripresa economica, non c’è alcun interesse a investire al Sud. L’emigrazione (verso l’estero e più tardi, poco alla volta, verso i poli industriali del Nord-Italia, Torino, Milano, Genova) è l’u¬ nica risorsa di un popolo di contadini (non solo meridionali, anche delle cam30

pagne centro-settentrionali) che ha perso la terra o a cui la terra rende sempre meno. Il padre di Amelio parte per l’Argentina che non ha ancora ventun anni; lascia la moglie, il figlio e una sorellina (che morirà a 2 anni e mezzo); va in cerca del proprio padre che, “inghiottito” dal Paese sudamericano quindici anni prima, non ha mai più dato notizie di sé. Anche lui diventerà un “fantasma”: torna quindici anni dopo, quando Gianni è un adolescente cresciuto nella man¬ canza della figura paterna che, una volta presente, si rivela estranea ai bisogni “eccentrici” del figlio, la cultura, i film, le letture. Alevato da donne (la nonna paterna, dolce, quella materna, un’infermiera, energica figura di capofamiglia, la madre, tanto giovane da parere una sorella), Amelio è povero tra i poveri: «Ero affratellato a tutti coloro che avevano dei bisogni elementari e non riusci¬ vano se non con molta fatica a soddisfarli, e mi sentivo parte di una comunità che ha dei bisogni duri, forti, primordiali: il pane, le scarpe, il vestito. Se questa persona è calabrese, che mi stia accanto e combatta insieme a me oppure non combatta, è comunque mio fratello e mio compagno. Alo stesso modo sento mio fratello e mio compagno qualcuno che ha gli stessi problemi a Sesto San Giovanni» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, Donzelli Editore, Roma, 1994, pag. 43). I libri sono un lusso, in casa non ce ne sono, solo qualche estraneo gli regala a Natale qualche classico per l’infanzia illustrato, Robinson Crusoe, I viaggi di Gulliver, Alice nel paese delle meraviglie. Ma, in un Paese che nel 1951 ha ancora un tasso di analfabetismo del 12% (battuto, nell’Europa occidentale, solo dal 16% della Spagna), concen¬ trato per oltre il 60% nelle regioni meridionali, Amelio è un povero anomalo, un povero che studia: è la nonna infermiera che, dopo le elementari a San Pietro Magisano e le medie in un paese a sei chilometri di distanza, insiste per farlo studiare. Gli dà i soldi e gli intima di andare a iscriversi alle magistrali; lui invece si iscrive al liceo classico, e ha il coraggio di dirglielo soltanto molti mesi dopo, quando già vive con lei a Catanzaro, sede del liceo. Nella sua classe, tutti i figli dei cittadini più importanti, il giudice, il sindaco, il primario. Quando gli chiedono che cosa fa suo padre, risponde: l’impiegato. «Ero l’unico figlio di impiegato. Guai se avessi detto che non avevo idea di quello che faceva, che magari stava a chiedere l’elemosina in qualche angiporto di Buenos Ares. Non lo sapevo nemmeno io, quello che faceva. Ogni tanto chiedevo a mia madre: che fa papà? E lei, vaga, rispondeva: fa l’elettricista, fa il meccanico, guida la macchina. Infatti, quando è tornato qui, guidava la macchina.» Cresce in questi anni, al Politeama di Catanzaro, la passione per il cinema, indotta già da tempo dalla nonna, che lo porta al cinema una settimana sì e 31

una settimana no, a seconda se all’ospedale ha il turno di mattina o di pome¬ riggio, che vede almeno due spettacoli di fila per far “rendere le 250 lire del prezzo del biglietto, che ama il cinema popolare italiano e straniero, i film d’a¬ more, d’avventura, storici. Ma Amelio ha già cominciato a scegliere e ad anda¬ re al cinema da solo, ha incontrato Fellini, Antonioni, Visconti, ha comprato il suo primo numero di «Cinema Nuovo» e ha cominciato a sentirsi in colpa per i suoi amori “trasgressivi”: «Per non vergognarmi di amare, che so, Delmer Daves, ho dovuto impiegare quattro o cinque lustri. Mi sono arrabbiato con me stesso perché mi piaceva Scandalo al sole e, quando ho fatto il referendum al liceo per il miglior film dell’anno, ho imbrogliato le carte e l’ho fatto arriva¬ re secondo o terzo». Lungo tutti gli anni Cinquanta, nella cultura cinemato¬ grafica italiana impera ancora il dibattito sul realismo e sull’eredità neorealista come momento centrale di un’autentica elaborazione artistica. La rivista «Cinema Nuovo», fondata nel 1952 da Guido Aristarco e da altri critici stac¬ catisi da «Cinema», ha un taglio esplicitamente partigiano («non saremo obiet¬ tivi», metteva in guardia Aristarco nell’editoriale del primo numero) e rappre¬ senta certamente uno dei capisaldi del dibattito teorico e critico; ma, dopo lo scossone del ’56 (anno del XX Congresso del Pcus, che avvia il processo di disgelo tra Urss e Usa, ma anche dell’invasione sovietica dell’Ungheria e della repressione di Budapest), come gran parte 'della cultura marxista italiana, non riesce a elaborare nuove ipotesi interpretative e, immersa nel provincialismo, si avvia a rasentare l’ottusità ideologica. Ma, alla fine degli anni Cinquanta, alla lettura di «Cinema Nuovo» Amelio ha aggiunto quella di «Schermi», rivista di tutt’altre passioni, con un gusto aperto al “popolare”, fondata da Morando Morandini nel 1958 (e chiusa nel 1961). Schermi» gli apre altre prospettive, affievolisce i sensi di colpa, spiega con più leggerezza che gli amori “dovuti” possono convivere con quelli “amati”. Più tardi, la scoperta del lavoro sulla “politique des auteurs” dei «Cahiers du cinéma» confermerà Aanelio nelle sue scelte “onnivore”. Nel frattempo, suo padre è tornato ed è nato un fratello, di diciassette anni più giovane di lui. Amelio si iscrive a Filosofìa all’Università di Messina e si mantiene facendo supplenze e lezioni private. Comincia anche a scrivere di cinema e a lavorare nella redazione di «Giovane Critica», la rivista del Cuc di Catania, che tenta di spingere consapevolmente verso il cinema; «Inge¬ nuamente, era per me il trampolino verso il cinema, perché sapevo che la Nouvelle Vague era nata dalle riviste, poi dalla critica. E non avendo io nes¬ sun’altra possibilità, perché avevo scartato, avevo dovuto scartare, il Centro 32

Sperimentale, pensavo: resto qua, scrivendo, e un giorno poi, chissà...». L’occasione arriva per caso. Durante le vacanze di Pasqua del 1965, un suo ex compagno di liceo che studia all’università a Roma lo ospita nella camera della sua pensione. Amelio dice ai suoi che va a Cosenza e parte. Una volta a Roma, scopre da «l’Unità» che Vittorio De Seta sta per cominciare la lavorazione di un nuovo fdm; con la scusa di un’intervista, gli telefona, gli strappa un appun¬ tamento e, quand’è nel suo ufficio, gli chiede se può fare l’assistente volontario nel suo film, gratis. De Seta accetta e Amelio comincia a osservare il lavoro preparatorio degli altri, finché non gli viene offerto un lavoro “vero”, come segretario di edizione. Parte così per la lavorazione di Un uomo a metà-. 15.000 lire alla settimana di stipendio, 6.000 lire al giorno di diaria. Vittorio De Seta è con Ermanno Olmi (cui lo accomuna un’origine di docu¬ mentarista) uno degli autori più atipici del “nuovo cinema italiano” dei primi anni Sessanta, non una vera e propria Nouvelle Vague, sostenuta come quella francese e di altri Paesi europei da uno slancio comune e da una pratica critica condivisa, ma piuttosto creata da una “politica degli esordi” che avvicinò alcu¬ ni produttori illuminati (come Goffredo Lombardo con la Titanus) a una generazione di nuovi registi insolitamente promettenti. Esordiscono nel I960 Ermanno Olmi [Il tempo si e fermato), Florestano Vancini {La lunga notte del ’43), Damiano Damiani {Il rossetto) e si rivelano con il secondo e il terzo film Gillo Pontecorvo {Kapò) e Marco Ferreri {El cochecitó)-, nel 1961, Pier Paolo Pasolini {Accattone), Vittorio De Seta {Banditi a Orgosolo), Elio Petti {L’assassino), Giuliano Montaldo {Tiro al piccione), Ugo Gregoretti (/ nuovi angeli), Vittorio Caprioli {Leoni al sole)-, nel 1962, Bernardo Bertolucci {La commare secca). Tinto Brass {Chi lavora e perduto). Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini {Un uomo da bruciare)-, nel 1963, ’64, ’65, quando la “nuova onda” si sta ormai esaurendo, Gianfranco De Bosio {Il terrorista), Giuseppe Fina {Pelle viva) e Lina Wertmùller (/ basilischi), Ettore Scola {Se permettete parliamo di donne). Marco Bellocchio {Lpugni in tasca). Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del ’6l con grande successo critico e vincitore del Premio opera prima. Banditi a Orgosolo di De Seta, squarcio durissimo, quasi “contemplativo” del banditismo sardo e della “incomprensibilità” profonda della questione meridionale, segnato dallo sguardo rigoroso e “rispettoso” del¬ l’autore, incassa 140 milioni, una cifra discreta a quell’epoca per un film senza attori professionisti, in bianco e nero, ambientato in Barbagia. Ciononostante, e nonostante un minimo garantito messo a disposizione dal produttore Aurelio De Laurentiis, passano cinque anni prima che De Seta completi il suo 33

secondo lungometraggio, appunto Un uomo a metà (1966), sofferta ricogni¬ zione della crisi esistenziale e psichica di un giornalista (basata sull’analisi jun¬ ghiana compiuta dallo stesso autore) e di un’altrettanto sofferta lavorazione. Dopo la stesura di una sceneggiatura dettagliatissima che poi viene abbando¬ nata, De Seta, che è anche sceneggiatore e produttore, gira in sequenza, indi¬ pendentemente da dove l’azione lo porta, non si preoccupa minimamente di “economizzare” il set, si prende il suo tempo (le riprese durano più di trenta settimane), inventa soluzioni visive inaudite. Ha una libertà assoluta e, come dice Amelio, «mentre i tecnici, quelli del mestiere, dicevano che quello non era il cinema, che non dovevo prendere esempio da lui, tutti gli altri, me incluso, erano dei giovani che volevano assolutamente fare questo mestiere e quindi non si ponevano problemi di orari, di paghe, di rapporto lavorativo sindacale. De Seta aveva un modo di lavorare tutto particolare, nato anche dalla sua esperienza di documentarista. Questo era un film diverso da tutti i suoi precedenti, anche da Banditi a Orgosolo-. era il primo in cui affrontava una storia e, ciononostante, lavorava seguendo prima di tutto la sua pura creati¬ vità. Per esempio, c’erano due sequenze ambientate a Caserta, in due momenti diversi della storia. Bene, siamo andati a Caserta due volte, una cosa che nel cinema non si fa mai, non si deve fare. Da lui ho imparato prima di tutto che nel fare un film si soffre. Poi che molto, 4urante le riprese, può cambiare, a seconda di quello che ti si offre davanti. Me lo ricordo come il periodo più straordinario della mia vita, non mi stancavo mai, l’idea di essere entrato nel cinema dalla porta principale mi dava un’energia enorme». Dopo l’esperienza con l’autore “totale”, non è difficile per Amelio trovare altri lavori di aiuto regista, di Gianni Puccini per esempio, con il quale collabora in tre film {Dove si spara di più [1969], Ballata da un miliardo [1967], I sette fra¬ telli Cervi [1967]), o nei western all’italiana, la cui moda sta dilagando. Fa anche il “negro”, scrive soggetti e sceneggiature sotto falso nome, come conti¬ nuerà a fare per sbarcare il lunario in anni successivi quando, dopo aver esor¬ dito nella regia, non tornerà più al ruolo di aiuto regista, e dirige spot pubbli¬ citari. Uno degli ultimi (e comunque dei rari) autori italiani che si sono for¬ mati nel “mestiere”, nella gavetta del set, Amelio ne impara i trucchi e le rego¬ le e, a differenza di De Seta, le necessarie “economie”. Appena più giovane dei due principali esponenti della “nouvelle vague” italiana (Bellocchio e Bertolucci, nati rispettivamente nel 1939 e nel 1941), ne respira gli umori autoriali e generazionali, ma arriva alla regia quando l’entusiasmo per il nuovo cinema si è affievolito, sostituito dalla forte affermazione della politica, della 34

militanza, della ricerca brechtiana sul linguaggio. L’occasione per esordire arri¬ va quasi per caso, nel 1970. Amelio fa l’aiuto già da cinque anni e sta pensan¬ do di orientarsi verso il cinema di genere, quando un ispettore di produzione gli racconta che Raidue ha intenzione di produrre una serie di piccoli film a basso costo, brevi, su temi sociali, da affidare a esordienti. Si mette al lavoro e sommerge Italo Moscati, curatore della serie, con una decina di soggetti. Dopo alcuni mesi, una notte, mentre sta girando uno spot per l’Alitalia, un produttore gli telefona e gli dice di aver avuto l’incarico dalla Rai di realizzare uno dei suoi tanti soggetti. Titolo provvisorio: Fuori programma. Definitivo: La fine del gioco.

Un giorno, un treno Bambini per strada, a due a due in fila indiana, alcuni abbracciati, altri con le mani dietro la schiena, in marcia, ripresi di spalle (fot. 1). Un’auto bianca li segue a passo d’uomo. Oltre la transenna sulla piazza, altri bambini giocano; al suono lontano delle loro voci fa eco, di qua, solo lo scalpiccio sordo dei passi. Una finestra si apre in fondo a un corridoio, la macchina da presa carrella all’indietro, mentre un vento innaturale sconvolge un modesto ficus da appartamento. Voce fuori campo di un ragazzo: «Quelli più grandi li fanno uscire anche da soli, a noi ci accompagna l’assistente con la macchina». I bambini continuano a camminare in fila lungo un muro. Il carrello continua la sua corsa, dentro la camerata e il refettorio, mentre la voce del ragazzo racconta i film che gli fanno vedere, quello di «avventure nell’Africa», con «i cacciatori che acchiap¬ pavano gli animali feroci per portarli al giardino zoologi¬ co, dentro le gabbie», e quello «per il precetto pasquale, che piangevano tutti perché i leoni mangiavano i cristia¬ ni». I bambini camminano nella piazza, ripresi dall’alto, poi ancora lungo il muro, quindi girano un angolo e via via scompaiono. Dalla tromba delle scale ripresa dal basso (fot. 2), si intravedono le teste e le mani appoggiate al corrimano dei bambini che salgono. «Non è la prima volta che viene qualcuno da fuori e ci fa le domande. L’altro mese è venuta una signora vecchia, con uno che ci 35

voleva fare le fotografìe per metterle sul giornale. Però ha litigato col direttore — l’ho vista io - perché ci ha fotografato la faccia, e il direttore non voleva. Diceva che c’era bisogno del permesso speciale. Se no noi ci possono pigliare solo alle spalle». Nero. Un regista televisivo, che sta filmando un'inchiesta sulle carceri minorili, prende come soggetto del suo programma, Leonardo, un ragazzo calabrese di dodici anni,'rinchiuso da tempo in un riformatorio del Sud. Dopo le riprese e le interviste dentro l'istituto, i due partono insieme per completare il "servizio" nel paese di origine del ragazzo. Durante il viaggio in treno, fuori dai con¬ dizionamenti della telecamera, Leonardo si apre un po' verso il regista, testimoniando una realtà ben più dura e inconfessata. Ma trova nell'altro soltanto un'attenzione freddamente "professio¬ nale". Così, alla prima occasione, Leonardo scende dal treno e si dilegua.

Comincia con una sequenza che all’epoca fu definita «dal clima allucinato — undici minuti di vertigini formali che uno sguardo superficiale penserebbe destinati al solo uso di un cinéphile» (Maurizio Ponzi, Il ragazzo dai capelli neri «Cinema & Film», 1970), il cinema di Gianni Amelio. Comincia con la storia, appena abbozzata, borbottata con accento calabrese, di un dodicenne “diffìcile”, Leonardo, che un regista televisivo va a scovare in un istituto per realizzare un servizio di attualità. Lo sceglie, lo riprende, lo registra, poi parte con lui, in treno, diretto al suo paese d’origine e alla sua famiglia, dove com¬ pleterà il servizio. Il giornalista-regista è Ugo Gregoretti (famoso per le sue eccentriche inchieste televisive e per uno sceneggiato anticonformista dal Circolo Pickwick di Dickens), che non lega con il giovane protagonista Luigi Valentino (e si vede), accentuando così la petulanza infastidita del proprio personaggio. Il film è La fine del gioco, 58 minuti per la serie Autori nuovi dei Programmi Sperimentali Rai, in onda per la prima volta sul secondo canale il 7 settembre 1970, alle 21.15, dopo il telegiornale e in concorrenza con II ragazzo dai capel¬ li verdi di Joseph Losey (1948), trasmesso dal primo canale (fantascienza sociologica e sofferta su un orfano che una mattina si sveglia “diverso” — appunto, con i capelli verdi - e, dopo essere stato deriso ed evitato, decide di convivere con la propria anomalia; vogliamo credere ai segni del destino?). Costa quattro milioni di lire. «Me lo sono scritto in modo che non costasse più di 4 milioni di lire»; 100.000 lire a Gregoretti (del quale Amelio è stato aiuto, per alcuni Caroselli), 60.000 lire a Luigi Valentino, il giovane protago¬ nista; il treno si ottiene al prezzo di un abbonamento comitive per due carroz36

ze (dietro consiglio di un ferroviere conosciuto durante un Carosello sulle Ferrovie); i bambini sono quelli di un oratorio di Catanzaro, che il parroco porta in gita a Catanzaro Lido; gli interni li procura un cugino di Catanzaro. In cinque anni come aiuto, Amelio ha imparato a reinventare quello che si offre momento per momento davanti alla macchina da presa (da De Seta), ma anche (da Gregoretti) a fare i conti con il tempo e con i soldi, sempre pochi. Ci vogliono cinque giorni per girare La fine del gioco, in 16mm., bianco e nero e presa diretta, tra Catanzaro e, perlopiù, il treno che porta il regista e Leo¬ nardo al paese. La testa di Leonardo fuori dal finestrino del treno in corsa (fot. 3), il sorriso da un orecchio all’altro, fuori e dentro dalle gallerie, il piacere della libertà stam¬ pato negli occhi, apre la seconda parte, la più lunga, del film. Il treno è vuoto. Il treno è movimento, cambiamento, opportunità (di conoscenza reciproca dei personaggi o di rifiuto, di autoconsapevolezza o di indif¬ ferenza, ancora non lo sappiamo), fuga, viaggio. La fac¬ cia di Leonardo che si sporge dal finestrino, che pare riempirsi di aria e di gioia (e che dopo, nel corso del viaggio, sarà quasi sempre pensosa, interrogativa, sospet¬ tosa, meditabonda), è il segno che libera dalle sovrastrut¬ ture il personaggio e il regista. Come Leonardo è portato dalla nuova condizione “mobile” e insolita a “mollarsi”, a raccontare al giornalista, divenuto compagno di viaggio, pezzi aspri e dolorosi della vita in istituto che prima gli aveva taciuto, così Amelio abbandona la ricercatezza di uno stile molto consa¬ pevole per avvicinarsi alla semplicità “etica” che diventerà la cifra dominante del suo cinema. Fatti i dovuti omaggi (quelli verbali a Quo vadis e a Hataril, che è il suo film portafortuna, e quelli visivi a Zero in condotta di Vigo, a / 400 colpi di Truffaut, alla coscienza del linguaggio che guidava in quegli anni auto¬ ri come Straub), Amelio si concede la simpatia, la comprensione e soprattutto il rispetto per il suo protagonista. Lo ha raccontato lui stesso: «Sul linguaggio c’era allora un gran dibattito. Straub era uno dei nostri fari. L’attenzione al linguaggio lavora nel film per lo più come elemento positivo e qualche volta come impedimento, come freno. Era una coscienza esasperata del linguaggio più che della forma: la durata del¬ l’inquadratura, i silenzi, il rumore della presa diretta, il non servirsi della musi¬ ca di commento. C’era anche un riferimento presuntuoso, ma che ha lasciato qualche traccia, a Bresson. Bressoniana è forse la parte finale, mentre il resto si 37

muove in direzioni mezzo americaneggianti e mezzo cinefile: certo formali¬ smo, certe inquadrature dal basso, il modo di illuminare e di riprendere la scala, il giornalista annunciato dai passi fuori campo» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, Scriptorium, Torino, 1995, pag. 90). Se ne accorse imme¬ diatamente quel critico che aveva sottolineato il «clima allucinato» dei primi undici minuti, Maurizio Ponzi, che nello stesso articolo scriveva: «Leonardo fra l’intervistatore e Amelio sceglie Amelio (...). Perché sceglie Amelio? La risposta è tanto semplice eppure è misteriosa come un segreto (solo i vecchi e i bambini lo condividono con noi, apposta bisogna fare i film con loro). Leonardo sceglie il regista perché questi lo rispetta e lo lascia libero. Non per¬ ché alla fine del film lo lascia fuggire - ché l’atto è tutto di Leonardo -, ma perché aspetta che il treno si fermi senza muovere la camera, senza sentire l’o¬ sceno bisogno di inquadrarlo in faccia, nel più onesto piano sequenza di que¬ sti mesi. E poi perché la struttura che ha inventato per ospitarlo è logica e senza scopi reconditi. Leonardo ha visto e sentito le rinunce di Amelio, è come se avesse assistito al sacrifìcio dei primi undici minuti del film (...). Così, in definitiva. La fine del gioco è soltanto un film che racconta la fatica di fare un film bello, che ci mostra ciò che bisogna distruggere per raggiungere lo scopo» (Maurizio Ponzi, Il ragazzo dai capelli neri, cit.). La forma narrativa del viaggio («viaggio'^per costrizione» lo ha chiamato Amelio, quello in cui il treno, l’auto, la strada sono luoghi di scontro prima ancora che d’incontro, e nel quale la dinamica della conoscenza lavora più tra i personaggi, o all’interno dei personaggi, che non verso un’altra realtà) attiva immediatamente la propria forza drammatica. Induce, appunto, a delle scelte. Innanzitutto, “sbilanciando” il film verso la seconda parte, quella in movimen¬ to, sul treno, Amelio ridimensiona immediatamente il tema dell’indagine, o pamphlet, sulle istituzioni di recupero minorile. Erano anni di cinema sociale e politico, e addirittura militante, gli anni in cui tutti i registi italiani si avvici¬ navano a temi socialmente scottanti, fino a originare uno dei “generi” più popolari del periodo (appunto, il “cinema politico”); in cui Bernardo Bertolucci girava per l’Arci Ipoveri muoiono prima: la salute è malata (1971) e Ugo Gregoretti Apollon, una fabbrica occupata ( 1969), Cesare Zavattini coor¬ dinava i Cinegiornali liberi e Pasolini e Ponzi partecipavano al film collettivo Dodici dicembre (1972). Di lì a poco. Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli avrebbero completato quello straordinario documento sugli istituti psichiatrici che è Nessuno o tutti - Matti da slegare (1975). Gli Sperimentali Rai, nelle intenzioni dei promotori, si sarebbero 38

dovuti indirizzare in questo senso. Ha raccontato Italo Moscati, che ne fu il coordinatore: «L intenzione iniziale era quella di canalizzare in un progetto innovatore tutta una riserva di energia che si stava formando nel teatro e nel cinema d avanguardia, cercando di esorcizzare la mitologia dominante del cinema d’autore fine a se stesso, privilegiando tematiche tratte dall’attualità sociale e non da consunti recinti letterari (...). Ma i giovani autori cinemato¬ grafici sostanzialmente coltivavano il mito del cinema d’autore, specie quelli che si raccoglievano attorno a “Cinema & Film”. A volte mi trovai di fronte a resistenze durissime. Pochi pensavano a storie che legassero l’esperienza quoti¬ diana della gente ai linguaggi dello spettacolo. Quasi tutti restavano prigionie¬ ri dei modelli idealizzati da Godard, Straub e Ferreri. Ma qualche volta i risul¬ tati arrivarono» (Italo Moscati, “Programmi sperimentali per la Tv”, in AA. W., La televisione presenta..., Marsilio, Venezia 1988, pagg. 75-76). E Moscati cita Bella presenza... cercasi di Gian Luigi Galderone, Stefano junior di Maurizio Ponzi e La fine del gioco di Amelio. Anche Amelio, in realtà, va in parte “fuori tema”: infatti, se da un lato, avendo ben presente la lezione di Rossellini, tiene sotto controllo le tendenze più esplicitamente formalistiche del linguaggio, dall’altro decide di scostarsi dal progetto iniziale e di non ambientare tutto il film, come previsto, nella casa di correzione minorile di Catanzaro, ma quasi tutto, invece, sul treno. Così, La fine del gioco, oltre e più che uno squarcio su un’istituzione e su una situazione di oggettivo disagio (quella di un ragazzo meridionale povero, senza padre, con una famiglia smembrata dall’emigrazione, e quelle, ancora peggiori, di alcuni dei suoi com¬ pagni, intraviste nei racconti di Leonardo), diventa il racconto accorato del¬ l’incontro/scontro di due caratteri e l’analisi spietata dell’incapacità della tele¬ visione (e forse del cinema e della cultura nel suo complesso) di mettersi di fronte alla realtà senza scopi strumentali. I due caratteri sono quelli che, con innumerevoli variazio¬ ni-derive-aggiustamenti-aperture-chiusure, diventeranno proverbiali, durante gli anni, nel cinema di Amelio: un uomo adulto e un ragazzo, un uomo di cultura, quasi un educatore, comunque una figura in qualche maniera paterna, e un giovane che rivendica il proprio diritto al rispetto. Il viaggio contribuisce ad allentare la guardia, rende forzato ed esclusivo il rapporto, inevitabile l’accenno alla confidenza. Il personaggio di Gregoretti (fot. 4) è populistico e sostanzialmente disinteressato, il suo linguag39

gio è inefficace perché artefatto. Non piace né ad Amelio, né a Leonardo, né a noi, come non ci piacciono (almeno oggi) i suoi giornali impegnati che esibisco¬ no titoli come «Noi siamo soprattutto perché vediamo», la rapidità con cui mette in funzione il registratore non appena Leonardo si abbandona a un accenno di confidenza, la sua aria da “benefattore”. «Fino a che punto riusciamo a essere onesti volendo essere Rossellini?», ha riflettuto Amelio anni dopo. «In quel preci¬ so momento era, almeno per me - per un giovane regista che cominciava ad avere una “camera” in mano — una riflessione comunque onesta e forse produtti¬ va. Mi dicevo; vediamo un po’, prima di far agire questa “camera”, interroghia¬ moci sul senso di questa azione, sul perché, sul come e sui modi. Allora il regista interpretato da Gregoretti era per me il prototipo del regista sia cinematografico sia televisivo, cioè di chi voleva in qualche modo essere engagé, ma non riusciva mai a liberarsi del proprio estetismo, del “miserabilismo”» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., pagg. 45-46). Il film fu letto all’epoca anche come una critica al programma d’attualità e inchie¬ ste TVZ; certamente metteva in guardia contro le potenzialità immorali della televisione (e del cinema). E rifletteva sul sottile, forse inevitabile meccanismo di prevaricazione che si innesca nella dinamica “educativa”, tra adulti e ragazzi, maestri e allievi, padri e figli. E sul diritto dei “figli” aH’autonomia di giudizio, alla ritrosia, alla fuga. Un meccanismo fatto, anche di richieste non corrisposte, ruoli non rispettati, superficialità, malintesi e inganni, e nel quale le parti asse¬ gnate non sono necessariamente quelle dettate dall’anagrafe. Leonardo non sta al gioco e, con la dignità composta di un piccolo emigrante scalzo, scappa. Come ha scritto Lorenzo Pellizzari: «I personaggi anagraficamente “bambini” (anche nell’accezione di adolescenti) del cinema di Gianni Amelio sono in realtà dei precoci adulti che pongono in discussione il mondo degli adulti medesimi: hanno rinunciato anzitempo al “gioco” e si rendono conto che sono proprio gli adulti a “giocare”, tra di loro e con gli altri. È il caso - sin da La fine del gioco, dall’esordio del regista - di Leonardo, il dodicenne ospite di un riformatorio che viene scelto da un regista televisivo (nella realistica finzione, l’altrimenti giocherellone Ugo Gregoretti) come protagonista di un program¬ ma sulle carceri minorili, e che non tarda a ribellarsi al suo antagonista, ne mette in discussione ruolo sociale e professionale, in un certo senso la lucidità del fare inchieste pseudosociologiche». E, dopo avere rilevato una dinamica analoga in II piccolo Archimede (1979), Colpire al cuore, I velieri (1983) e / ragazzi di via Panisperna (1988), arriva al film che, ventidue anni dopo, è stato “generato” da La fine del gioco: «E il caso, infine, con II ladro di bambini, di 40

Antonio, che persegue un suo “gioco” (vagare con sprezzo del pericolo in una libertà” che potremmo chiamare “condizionata”), che rivela la propria imma¬ turità sia nei confronti degli eventi sia nei confronti dei sentimenti, che si diverte e si appassiona alle cose semplici proprio come un bambino, ma che si trova anche a dover rendere conto dei propri comportamenti a un bambino vero e a un’adolescente ancora più “vera”, precocemente cresciuti alla dolorosa, amara e sporca scuola della vita». Per concludere che «il più intenso, il più riu¬ scito, il più persuasivo personaggio di bambino nel cinema di Gianni Amelio è quello del carabiniere Ciriaco Antonio» (Lorenzo Pellizzari, “Guardie, ladri e bambini”, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli, La fine del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, Comune di Ancona, Ancona 1993, pp. 29-30). E indubbio che nel cinema di Amelio siano i bambini e gli adolescenti ad assumersi il peso di una maturità rigorosa alla quale gli adulti (magari incon¬ sciamente, come il Trintignant di Colpire al cuore, o colpevolmente, come il Lo Verso di Così ridevano) si sottraggono; e lo dimostra, in una dinamica che si è fatta via via più limpida negli anni, il giovane Paolo di Le chiavi di casa, un quindicenne minato nel fìsico che ha tutta la lucidità morale che al padre manca e che costringe il padre (Kim Rossi Stuart, invecchiato per il ruolo, e ciononostante somaticamente “eterno giovanotto”, come Enrico Lo Verso in Così ridevano, John Steiner in II piccolo Archimede e persino l’allora cinquanta¬ duenne Jean-Louis Trintignant in Colpire al cuore, perché giovane, giocoso e ribelle nell’intelligenza e nello spirito) a prendere coscienza delle proprie “colpe” e della propria “amoralità” nella gestione dei rapporti affettivi. Non è solo una questione di fragilità dell’adulto (o, altrove, di mancanza di scrupoli, superfìcialità, distrazione, opportunismo, strumentalità); no, è che «Non si fa così», come dice alla fine di Le chiavi di casa il giovane Paolo al padre Gianni, incapace di controllare il proprio istintivo fastidio davanti all’esuberanza “estranea” del figlio e poi il proprio pianto. Com’è indubbio che, nella descrizione di questi rapporti, Amelio quasi sempre (“quasi” perché Colpire al cuore è un caso a sé stante, l’unico film nel quale l’autore ha un’aperta, anche se conflittuale, simpatia per la figura del padre, e perché Le chiavi di casa segna il punto, se non di un’inversione di ruoli, comunque di una “dissolvenza incrociata” tra i due protagonisti) sia non tanto dalla parte dei bambini, quanto, lui stesso, il bambino, il ragazzo. In pratica l’autore, pur assumendosi (proprio in quanto “autore” e in quanto adulto) il carico delle responsabilità che ha il protagonista maturo nei confronti di quelli 41

più giovani e dei “disastri” che provoca o ha provocato, non lo accetta come naturale alter ego. Non è e non vuole essere il “padre”, non ne riconosce le ragioni o, se le riconosce, non le condivide. Di carattere autoritario, Amelio non vede autorità nell’età (e tanto meno nel potere, nel successo, o persino nella cultura, spesso mal usata), ma solo nell’etica, nella coerenza, nel rispetto di sé e degli altri. E sono i ragazzi e gli adolescenti a possedere il rigore intran¬ sigente della purezza, a non aver ancora maturato la nozione di “compromes¬ so”, anche quando siano già stati resi “impuri” dalla vita e dal mondo. I ragaz¬ zi che sono capaci di uscire dall’inquadratura di spalle, senza voltarsi indietro, senza esitare, come Leonardo (e gli adulti cominciano a piacergli davvero solo quando diventano vecchi, cioè tornano bambini). Con il lungo piano sequenza nel quale Leonardo attende davanti allo sportello che il treno si fermi in stazione, poi (mentre la macchina da presa rimane immobile) scende e si allontana attraversando i binari e sparisce daH’immagine (fot. 5) - quindi lo sportello si richiude e il treno riparte —, comincia il viaggio di Amelio attraverso i fantasmi della sua autobiografia. Dotato di sensibilità finissima e di un istintivo piacere della narrazione, si tratta di un’autobiografìa sotterranea e inevitabilmente intrecciata con la storia circostante. Leonardo non assomiglia ad Amelio, se non nell’origine calabrese e, probabilmente, ip un certo piglio meditabondo: Leonardo è un ragazzo “diffìcile”, mentre il regista rac¬ conta di essere sempre stato un bambino buonissimo, ubbidiente, educato, “secchione” e rispettoso dell’auto¬ rità. Leonardo è, come l’ha definito il regista, il ribelle, l’Antoine Doinel che lui avrebbe voluto essere. L’unico tratto che li accomuna è l’abbandono; anche Amelio se n’è andato, da grande, a vent’anni, “perdendosi” non tra i binari di una stazione calabrese, ma in città. Eppure Leonardo rimarrà a lungo l’alter ego sociologicamente più vicino all’esperienza dell’autore, che nei successivi vent’anni (indotto spesso da ragioni di committenza, ma talvolta anche dal pudore innato e dall’urgenza di scandagliare una realtà problematica) rintraccerà i pro¬ pri conflitti ed elaborerà le proprie tensioni autobiogra¬ fiche in interni borghesi e colti, tra ragazzi silenziosi e compassati e adulti affabulanti, capaci di trasmettere cultura, ma non di applicarla moralmente alla loro vita. 42

Con la fuga di Leonardo comincia anche il lungo ritorno verso casa di Gianni Amelio. Dai finestrini del treno in corsa abbiamo visto scorrere un paesaggio fatto anche di fondamenta e di case abbozzate ma mai finite, tetti inesistenti, lavori in corso per sempre, nello scempio edilizio di una regione (la Calabria) che corrisponde a quello (anche morale) di tutto il Paese. Immagini che ritornano nel 1992, più circostanziate ed emblematiche, con II ladro di bambini, il film “arioso” che prelude a un cambiamento complessi¬ vo, a un clima di “pulizia”, e che ci spera davvero; il film, non a caso, nel quale non esiste una vera figura paterna, ma piuttosto un gruppo di “coeta¬ nei” che si assumono, più o meno responsabilmente, ruoli diversi. E poi, nel 1998, il film che fa quadrare il cerchio del viaggio all’indietro di Amelio, Così ridevano, il più esplicitamente autobiografico, catartico fino all’autole¬ sionismo, una “elaborazione del lutto” tanto dolorosa (per lo spettatore e perciò, inevitabilmente, per l’autore) da essere stata fraintesa e sfuggita anche dai critici più sensibili. Per il momento, nel 1970, Amelio lascia libero Leonardo di sottrarsi allo sguardo “malato” della macchina da presa, concedendogli (e concedendosi) di avviarsi, solo, in un territorio aspro e sconosciuto.

La canzone del domani Su una spiaggia assolata sta seduto un ragazzo, un pastorello (fot. 6), che nel corso del film ha cercato di capire la storia e la “fabula” della Città del sole di Tommaso Campanella. In campo lunghissimo, un’altra figura si avvicina lungo la battigia. Un altro ragazzino, più giovane; il pastorello lo invita a sedersi perché deve narrargli una storia. E, in campo lungo (fot. 7), gli raccon¬ ta la favola della figlia del re che un giorno lasciò il suo castello incantato e, camminando sulla spiaggia, incontrò un vecchio saggio che aveva il viso coperto da un cappuccio e suonava il flauto senza stancarsi. «Chi siete?», gli chiese la figlia del re. E il vecchio rispose: «Questo è il flauto che l’uomo può sentire, e ha potere sul tempo. E questa è la canzo¬ ne del domani». E la figlia del re si sedette accanto al vecchio e rimasero là sulla riva del mare e, ogni volta che cadeva l’autunno, gli domandava di suonarle la can¬ zone del domani. Ed era come se il tempo non passasse. Dopo sette anni, la figlia del re si alzò come una che 43

ricorda e vide che il suo castello e tutto ciò che possede¬ va era sparito. Si rivolse al vecchio e gli disse: «E arrivato il momento: mostratemi il vostro potere sul domani». Ma proprio allora, il vento soffiò via il cappuccio, ed ecco che non c’era un uomo, ma solo una veste e un flauto. La figlia del re scoppiò a piangere e restò sulla riva, per molti anni, finché non diventò vecchia e stan¬ ca. E un giorno, arrivato l’autunno, alzò gli occhi e vide qualcuno che camminava sulla riva. Era la flglia di un re che aveva i capelli come l’oro e gli occhi come acqua di un fiume; e non aveva paura del domani e non aveva potere sul tempo, alla maniera degli uomini semplici. Ancora campo lunghissimo assolato, dissol¬ venza al nero. Calabria, primi del 1600. Con l’accusa di aver fomentato con le loro prediche i tentativi di rivolta di contadini e briganti, alcuni frati domenicani vengono imprigionati dalle autorità spagnole che dominano il Sud. Uno di loro è Tommaso Campanella, sottoposto anche al giudizio dell'In¬ quisizione cattolica per eresia e presunte pratiche stregonesche. Prendendo liberamente spunto dai dati biografici e dalla sua opera filosofica, il film propone in una sorta di "saggio fantastico", una riflessione sul ruolo dell'intellettuale in rapporto al potere, attraverso la duplice storia di Campanella torturato in carcere per oltre vent'anni e di un monaco che vaga misteriosamente tra i luoghi della rivolta fallita.

Dopo le meravigliose utopie narrate da un monaco al pastorello sulla stessa spiaggia, è un racconto di Robert Louis Stevenson {La canzone del domani) che chiude La città del sole, il secondo film di Amelio, all’apparenza (almeno stilisticamente) il più anomalo, realizzato nel 1973 ancora per la Rai. E lo stes¬ so Amelio a raccontarne la genesi: «Avevo fatto un filmetto di un’ora che aveva ottenuto recensioni positive e aveva avuto un certo riscontro tra gli addetti ai lavori. Non era perciò azzardato proporre alla stessa struttura Rai un altro pro¬ getto. Usando lo stesso metodo della prima volta, non portai un trattamento di poche righe, un progettino vago, ma una vera e propria sceneggiatura, aven¬ do quasi la certezza che me l’avrebbero prodotta. In quel 1972 si parlava un giorno sì e uno no di utopia, Marcuse era pane quotidiano. Perché non fare un film sull’utopia in senso storico, su Tommaso Campanella? Tanto più che c’era di mezzo anche il Meridione, e io ero calabrese... Potevo anche vantare una certa conoscenza di Campanella, che risaliva a epoche universitarie. Scrissi 44

la sceneggiatura in un’estate che ero solissimo a Roma. Avevo pochissimi lega¬ mi personali, privati. Per cui mi sono chiuso dalla mattina alla sera alla biblio¬ teca universitaria, scartabellando tutto il materiale possibile. Ho consultato i verbali dei processi, sia quelli fatti dai laici sia quelli dell’Inquisizione. Ne uscii con un materiale enorme e con una prima sceneggiatura assai attenta al dato storico. Molto rosselliniana. Volevo applicare a Campanella il metodo di Rossellini di un cinema didattico, soprattutto quello di La presa del potere di Luigi XIV. Tenendo nello stesso tempo d’occhio Bresson, Il processo di Giovanna d’Arco» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit.). La presa di potere di Luigi XIV era stato realizzato da Rossellini nel 1966 per la Ortf (la televisione pubblica francese) e rappresenta un modello quasi inegua¬ gliato di narrazione della Storia, dove la cronaca puntigliosa serve a illuminare le dinamiche del potere. Con mezzi enormemente inferiori (il film costò 36 milioni di lire e le riprese durarono due settimane e mezzo), Amelio mette in scena la “predicazione” e il processo per eresia del monaco domenicano Tommaso Campanella, perseguitato dai dominatori spagnoli e dall’In¬ quisizione per aver spinto i contadini meridionali alla rivolta, alternando brani degli atti del processo con i vagabondaggi di un monaco (che potrebbe essere o non essere Campanella) e con il suo incontro con il giovane pastore-discepo¬ lo. La scenografìa è rigorosa ed essenziale: un paesaggio arido, un paese impo¬ verito, un nero pozzo circolare dove vengono condotti i monaci arrestati, un salone austero dove Campanella viene interrogato e torturato. L’intento pitto¬ rico, soprattutto negli interni, è evidente. Altrettanto controllati sono i dialo¬ ghi, basati sui documenti storici e sugli scritti del filosofo; incisivi e prolungati i silenzi. La città del sole deve probabilmente di più a Jean-Marie Straub e alla concezione imperante in quegli anni di cinema poetico-politico che a Rossellini (e infatti se ne possono rintracciare echi, o somiglianze, nei film, molto posteriori, come II bacio di Giuda [1988] di Paolo Benvenuti, che di Straub è stato assistente e allievo, e in una certa recente solennità olmiana, per esempio — in quelle ombre di cavalieri che si stagliano sui muri - in II mestiere delle armi [2001]). In complesso - e a differenza di tutti i lavori successivi, documentari compresi — è l’unico film di Amelio nel quale si percepisce un preciso intento di estra¬ niazione, non dell’autore nei confronti della sua materia, ma del pubblico rispetto all’oggetto film, che deve restare “distante” per consentire una fruizio¬ ne consapevole, più razionale e linguistica che emotiva. Come dice Amelio, Marcuse (e Horkheimer e Adorno e tutta la Scuola di Francoforte), l’Utopia, 45

la Rivoluzione (anche della lingua), Straub e il Godard che rinnegava la pro¬ pria stordente bravura e la propria divorante passione per farsi didascalico, erano il pane quotidiano. Il cinema italiano - soprattutto gli esordienti, sotto l’egida della cinematografia di Stato - tentava strade impervie: escono in que¬ gli anni Sotto il segno dello scorpione (1969) e San Michele aveva un gallo (1973) di Paolo e Vittorio Taviani, Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972) di Florestano Vancini, La strategia del ragno (1970) di Bernardo Bertolucci, La villeggiatura (1973) di Marco Leto, Sulle vie di Damasco (1975) di Gianni Toti, Quanto è bello lu murire acciso (1975) di Ennio Lorenzini. Tutti in qualche maniera (e non solo per la ricor¬ rente presenza di Giulio Brogi, il protagonista del film di Amelio, che l’ha definito «un’istituzione... l’attore cui si chiedevano certi ruoli, sicuri che li avrebbe incarnati con una naturalezza totale») “apparentati” con La città del sole. Tutti tesi a dimostrare che un film può essere un atto poetico e politico e che esiste una dimensione “etica” del linguaggio. E quasi tutti abbastanza inge¬ nui ed entusiasti da sfiorare il velleitarismo. Un velleitarismo che spesso, a una visione successiva, pesa soprattutto a livello linguistico; ma il Linguaggio, allora, era uno degli elementi forti, più dibattuti e spesso più malintesi, dell’Utopia. Oggi Amelio rabbrividisce: «Il film era costruito in modo intelligente, sensato, ma purtroppo è intervenuto il demone del cinema. Avevo già fatto un piccolo film, ero già diventato un regista, l’om¬ bra di Bertolucci incombeva, io avevo la Calabria, un filosofo, un pastorello, e ho fatto dei dolly! Ecco, lo sventurato fece un dolly! Quel dolly mi ha perdu¬ to, mi ha perduto per molti anni. Ancora ho camminato, ho danzato, come diceva il grande Orson Welles del grande Fellini in La ricotta, ho fatto dei pic¬ coli balletti sul dolly. E ho continuato a danzare fino al Piccolo Archimede, e ogni volta che c’era da affrontare un personaggio io mi nascondevo, sempre col mio dolly, dietro un cespuglio per danzare» (Gianni Amelio, Amelio secon¬ do il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., pag. 54). Proprio un apprezzamento di Bertolucci viene citato in un articolo del 1975 di Jean Delmas: «Quello che mi commuove di più, in La città del sole, è che la realtà rappresentata non è davanti, ma dentro la macchina da presa». Spiega Delmas: «In altre parole: La fine del gioco e La città del sole corrispondono a un punto di vista espressionista, secondo la definizione originaria dell’espressioni¬ smo in opposizione all’impressionismo: una realtà proiettata in opposizione a una realtà riflessa, dove la macchina da presa gioca come filtro, perfettamente controllato, nel caso di Amelio, dal cineasta (...). Con La città del sole, ci si 46

trova di fronte a un film nel quale costantemente “si sente la macchina da presa”. La si sente nel suo avvicinamento lento al monaco, la si sente nei car¬ relli del primo incontro sulla spiaggia, e il suo movimento si identifica con quello del ragazzo che gira intorno al monaco per carpire il suo segreto. Sentire la macchina da presa è uno degli elementi del “cinema di poesia” espresso da Pasolini. La definizione del cinema di poesia è la soggettiva libera indiretta attraverso la quale lo sguardo della macchina da presa si identifica con quello di un personaggio: in questo caso, l’adolescente in cerca di Campanella» (Jean Delmas, Gianni Amelio, l’adolescence, l’histoire, le cinéma, «Jeune Cinéma» n. 84, febbraio 1975, pagg. 2-3). Infatti, è sul giovane “discepolo” del monaco che si concentra la sotterranea ma decisa identificazione dell’autore, come se questi fosse l’unico capace, una volta interiorizzato il complesso apparato filosofico - inevitabilmente dubitati¬ vo e perciò “immobile” - di Campanella, di trasformarlo in mito, favola, metafora vitale. Di passare dalla rivolta alla rivoluzione; forse, in qualche altra vita o in qualche altro film. E comunque di dare corpo all’utopia. «Dobbiamo partire dall’utopia per creare la realtà, la Storia - e non il contrario. L’errore di Campanella forse è stato di aver sempre pensato alla Città del sole come a qualcosa che non si potrà mai realizzare, perché l’utopia sarebbe separata dalla realtà. Nel piano finale del film, il ragazzo capisce che è esattamente il contra¬ rio, se si ha la forza di essere uomini: l’utopia è, per lui, per noi, il punto di partenza» (Jean Delmas, Intervista con Amelio, «Jeune Cinéma», cit., pag. 8). Ecco che, in quello che è probabilmente il suo unico film “sul ’68” (l’unico cioè visibilmente influenzato dall’aria del tempo, dai dibattiti formali e filoso¬ fici in corso - perché Colpire al cuore è un’altra storia, dove il ’68 ha già divo¬ rato tragicamente se stesso, almeno sul piano politico), Amelio comincia a insinuare, in chiave poetica, uno dei dubbi che permeeranno tutto il suo cine¬ ma: che senso ha la trasmissione del sapere, della cultura, della scienza, se non è sorretta da un “cuore” (una moralità) abbastanza forte da applicare questi principi innanzitutto alla propria vita, ai propri rapporti, se resta un’astratta visione del mondo e non viene quotidianamente concretizzata? Il ruolo dell’e¬ ducatore (sia esso padre, maestro, giudice, umanista o scienziato) è in questo caso ben più netto di quello del regista Gregoretti in La fine del gioco, tutto sommato un opportunista che mette in pratica slogan alla moda con cinismo più o meno consapevole. Tommaso Campanella (e con lui il monaco) non è ancora un “cattivo maestro”, non è qualcuno che è sfuggito alle proprie responsabilità, che si è servito con leggerezza del giovane allievo o dei contadi47

ni che si sono ribellati. È piuttosto qualcuno che si ritrae, che non fa fino in fondo il proprio “lavoro”, un intellettuale appeso ai propri dubbi, e perciò destinato a scomparire dalla scena. In questo senso, nel Giulio Brogi di La città del sole c’è già molto del Trintignant di Colpire al cuore, un’onestà di fondo che si ribalta in tra¬ gedia, una “fede” astratta che non tiene conto del mondo, un inevitabile relativismo del pensiero che esi¬ terà sempre nei gesti utopici quotidiani. Amelio (che è un concreto utopista) prende così le distanze dalla gran¬ de Utopia del ’68, affidandola al mito, al sogno di un pastorello e di un giova¬ ne pescatore, e facendo uscire di scena l’intellettuale. A quest’ultimo riserva, forse come unico ruolo attivo, positivo e tragico, quel¬ lo dell’eretico. L’eretico è un solitario (fot. 8) che paga in prima persona: il filosofo Tommaso Campanella paga con la tortura e ventanni di carcere, paga il fisico Ettore Majorana con la scomparsa volontaria, paga il giudice Di Francesco con l’esilio in una procura sperduta, paga (ma solo all’apparenza) l’operaio specializzato Vincenzo Buonavolontà con un'^vagabondaggio indotto da un per¬ fezionismo che la cultura attuale ridicolizza. Gianni Amelio è un esule, dalla Calabria, da una professione tra¬ dizionale (probabilmente sarebbe diventato professore), da una vita piccolo-borghese di provincia. Fa un mestiere eccentrico e scombi¬ nato. Alla sua maniera, in quegli anni e al suo paese, è un “eretico”; e, in una delle scene più belle e controllate del film, rivendica tacitamente il diritto all’e¬ resia. E la scena in cui Tommaso Campanella, in cella, riceve la visita del padre (fot. 9), un vecchio ciabattino analfabeta che gli parla, lo interroga, dandogli del voi, non capisce quello che lui è diventato, «e adesso mi dicono che siete un anticristo». Campanella non gli risponde, non lo guarda in faccia (fot. 10), in un gioco minimale di primi piani in campocontrocampo. Poi, la macchina da presa allarga e scopre una terza persona nella cella, uno degli inquisitori, che dice al padre: non parla a voi che siete suo padre, non parla nemmeno a noi che siamo la Chiesa. E il padre, obbediente alla legge, chiede all’inquisitore, se ha dawe48

ro fatto del male, se è davvero un anticristo, di castigare il figlio. Se questo padre ignorante e impotente anticipa in qualche maniera le figure analoghe del padre contadino di II piccolo Archimede e del vecchio Spiro di Lamerica, non c’è dubbio che la sua sottomissione al potere temporale e spirituale ne fac¬ cia un personaggio piu ostile di questi due. E se è palese una “commozione”, storica e sociologica, dell’autore davanti al personaggio (una sorta di rispetto per 1 ignoranza incolpevole), la vera nota dolorosa della scena è nel silenzio corrucciato, in qualche maniera disarmato, di Campanella. L’utopista perde l’incanto della parola; resta la tragedia dell’eretico, che non vuole convincere né giustificarsi. E resta quel pozzo nero e soffocante nel quale sono stati imprigionati i mona¬ ci, sprofondati giù lungo una scala inquadrata in una prospettiva opposta (fot. 11), ma di identico effetto, della scala del riformatorio lungo la quale salivano i ragazzini di La fine del gioco. Il più “dramma¬ tico” degli elementi scenografici di La città del sole che contraddicono concretamente il regno immaginato da Campanella: «un brullo paesaggio di pietra, simile a una città dei morti scavata tra rocce e sterpi», ha scritto Paola Malanga. «Questo desolato paesaggio calabrese, cosi concreto e già così metafisico, è solo il primo di una lunga serie di scenari da day after che nel cinema di Gianni Amelio d’ora in poi faranno sempre da habitat all’utopia (...): una serie di città dolenti di dantesca memoria, dove il collasso dell’utopia si manifesta nell’immediatezza fisica delle immagini, nella corporeità palpabile di luci, architetture, colori, figure umane, nel taglio esatto delle inquadrature, isolanti o straripanti che siano. La Milano plumbea e quasi deserta di Colpire al cuore, la Tirana infernale e sovraffollata di Lamerica, la costellazione di paesaggi urbani desolanti in cui si svolge il drammatico viaggio in Italia del Ladro di bambini, la Torino di Così ridevano, oscurata da un buio apocalittico che prelude alla “nascita di una nazione”, non sulle fondamenta della Città del sole bensì su quelle della città di Caino» (Paola Malanga, “Il lato oscuro dell’utopia”, in Emanuela Martini [a cura dii, Gianni Amelio: le regole e il gioco, Lindau, Torino, 1999, pagg. 32-34). Certo, qui c’è ancora la spiaggia assolata, e il mare aperto che conduce ad altre spiagge (ma, scopriremo trend anni dopo in un andirivieni che ha l’ossessiva impotenza del circolo vizioso, oltre quel mare c’è un inferno ancora peggiore, dal quale arriveranno navi cariche di “dannati”); ci sono 49

ancora i due ragazzi pronti a diffondere la favola della figlia del re. Ma l’ereti¬ co ha forse presagito il corso inevitabile della Storia, e ha intrapreso il suo viaggio in solitudine.

Follow thè Music Prodotto dalla Rai, ma concepito e riconosciuto à tutti gli effetti come un film. La città del sole viene presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, dove attira l’interesse della critica. Ciononostante, Amelio non riesce ancora a considerarsi un vero “regista”. Estraneo agli ambienti cinematografici (tranne quelli legati al genere, che però Amelio non sente nelle proprie corde di cineasta), continua a proporre progetti alla Rai; scatta, come dice lui, “il complesso del televisivo”, che gli impedisce anche di rivolgersi aH’Italnoleggio (in quegli anni, insieme alla Rai, la maggior fucina produttiva per il cinema d’autore, soprattutto giovane). Tra il 1973 e il 1976, scrive Politeama, la storia di una città vista dall’interno di una sala cinematografica, LOrsa Maggiore, un trentennio di storia italiana raccontato attraverso i vagabondaggi di una com¬ pagnia di giro, ispirata a quella dei Sarzi, che Amelio aveva conosciuto durante la lavorazione di / sette fratelli Cervi di Puccini, la sceneggiatura del Ladro di bambini, non quello che conosciamo ma pn film pensato per Jerry Lewis, scritta con Mimmo Rafele ed Enzo Ungati e, con il solo Enzo Ungati, quelle di II diavolo sulle colline, dal romanzo di Pavese, e di Anonimo compagno, un melodramma che sarebbe piaciuto a Fassbinder. Più tardi, nel 1976, dopo aver presentato a Rotterdam Bertolucci secondo il cinema, scrive a sei mani con Mark Pepine (lo sceneggiatore di Professione reporter [1975] di Antonioni e, da L’ultimo imperatore [1987] in avanti, collaboratore abituale di Bertolucci) e Jon Halliday (l’autore di Sirk on Sirk, il libro intervista sul maestro del melo americano), una sceneggiatura ispirata a Reparto numero 6 di Cecov, attualiz¬ zato e ambientato nell’ospedale di Catanzaro. Anni dopo, quando Amelio ha cominciato a girare film regolarmente. Ungati ha definito le sceneggiature scritte insieme “perverse”, aggiungendo: «Guardando i film che Gianni ha fatto in seguito, ho apprezzato la loro forza: il fatto che questi argomenti sono visti con occhi estremamente puri, che cercano di nascondere, con incredibile cura e prudenza, la natura perversa dei temi narrati. Il cinema di Amelio è così psicanalitico che nasconde completamente (come fa un omicida con le tracce del crimine) la psicanalisi, e pretende di offrire una lettura primitiva mentre narra il vortice dell’interpretazione. I due cinema di Gianni Amelio (i film che 50

abbiamo scritto insieme e quelli che ha realizzato) hanno in comune il fatto che sono avviluppati, talvolta persino oscurati, daH’ombra del Padre» (Enzo Ungari, “Enzo Ungari on Gianni Amelio”, in Don Ranvaud e Ben Gibson [a cura di], The Films of Gianni Amelio, The Other Cinema, Edimburgo, 1983). Padri che possono anche non essere quelli carnali, ma cinematografici, o addi¬ rittura “fratelli maggiori”, ammirati, invidiati, pedinati. Infatti, visto che nes¬ suno dei progetti presentati in Rai va in porto, convinto di non poter più fare il regista, Amelio, per sopravvivere, decide a malincuore di tornare al mestiere di aiuto. Non più, però, nel cinema di genere, bensì con Bernardo Bertolucci, che sta per cominciare a girare Novecento (1976). Bertolucci accetta, ma poco dopo Amelio, pentito di quella che chiama la sua “vigliaccheria”, rinuncia e gli propone invece uno special sulla realizzazione del film. Gon l’assenso dell’au¬ tore, Amelio va in Rai e chiude immediatamente il progetto di un documenta¬ rio di un’ora, in 16mm. "Appunti" sulle riprese di Novecento. Tra prove filmate, la cronaca di un'intera giornata di lavoro che fa da filo conduttore, osservazioni dietro le quinte, affiorano momenti più intimi, come l'au¬ toritratto di Sterling Hayden lungo il fiume Ogiio e brani di conversazione sul cinema con Bernardo Bertolucci.

«.Bertolucci secondo il cinema-», afferma l’autore, «è l’invidia tradotta in I6mm. L’invidia del 35mm, l’invidia del set di Bernardo. Ero l’affamato che guarda un pranzo luculliano attraverso una vetrata. Allora che feci? Cercai di sfidare Bertolucci in un’impresa insensata: quella di riprendere da angolazioni diffe¬ renti ciò che lui metteva di volta in volta in scena. E un’esperienza che, se andassi dall’analista, potrei forse studiare meglio che non in sede critica» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 99). Appunto, “fratello maggiore” (anche se di poco), privilegiato dalle origini solide, coltissime e bor¬ ghesi, Bernardo Bertolucci è il primo “pegno” esplicito che Amelio paga alla propria cinefdia e alla propria eterogenea formazione cinematografica. Esordiente a vent’anni con un film scabro come La commare secca (1962), dopo Prima della rivoluzione (1964), altrettanto “giapponese”, Bertolucci “decolla” nel 1970 verso una visione che mescola tradizione italiana e Hollywood, rigore d’autore e popolarità: il film è II conformista, che trent’anni dopo, durante un lungo seminario, un Amelio in vena esclamativa, ha definito «il solo abbraccio non mortale tra Hollywood e Cinecittà. Un film in cui si legano per magia lo sguardo di Rossellini e la sensibilità di Vincente 51

Minnelli... e le luci del neorealismo si accendono sugli splendori di Max Ophuls» (Alessandro Rais [a cura di], Gianni Amelio. Conversazioni in Sicilia, Regione Siciliana, Palermo 1999, pag. 79). Novecento è, in qualche maniera, “l’espansione” di II conformista, è Senso vent’anni dopo, la storia popolare non attraverso la cultura aristocratica di Visconti, ma attraverso l’immaginario colto di un postmoderno, di un autore che è cresciuto, come Amelio, con “il vizio del cinema”. Amelio e Bertolucci si conoscono personalmente; tra i due cineasti (il giovane “maestro” e il testardo “eterno esordiente”), oltre che differenze, ci sono affi¬ nità, somiglianze, addirittura complicità. Chiacchierano di cinema sapendo che l’altro capirà al volo, frasi, rimandi, suggestioni; “amano” con la stessa intensità volti segnati e “mitici” come quelli di Sterling Hayden e Burt Lancaster, o lisci e duttili come quelli di De Niro, Sanda, Depardieu; inseguo¬ no (uno apertamente, l’altro con la coda dell’occhio) i movimenti delle rispet¬ tive macchine da presa. Una sontuosa 35mm montata su un dolly e una pic¬ cola I6mm tenuta a mano: «Io guardavo Bertolucci che piazzava la macchina su un gruppo di contadini sotto un pioppeto del Po, e dicevo: no! Adesso fac¬ cio un’altra cosa! Anche se lui i contadini li ha piazzati così, adesso io li inqua¬ dro da un’altra parte. E devo dire che un momento di trionfo mio, grosso, è stato quando Bertolucci, che stava girando k sequenza del funerale, ha indica¬ to alla sua terza o quarta macchina da presa la mia postazione su un balcone, dicendo a un operatore: vai là pure tu, fai anche tu quell’inquadratura. Vedendo il film, l’ho riconosciuta» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., pag. 39). La più bella definizione di Bertolucci secondo il cinema l’ha data Alberto Farassino: «uno splendido film di rapina», nel quale un cinéphile appassionato ruba gli attori, le scene, le luci, le scenografie, le comparse al suo amico, per realizzare il suo kolossal in I6mm. Tre scene: la festa dei contadini sulle rive dell’Oglio, il funerale sul corso e nella piazza del paese, la spartizione del grano nell’aia. Amelio le riprende, le frantuma, le interrompe con ritratti, autoritratti, divagazioni, estenuanti sedute di trucco (come quella che invecchia De Niro di trend an¬ ni), minuziosi rendiconti della preparazione delle sequenze (soprattutto quella del funerale, fot. 12, dove appaiono più evidenti i “furti” di Amelio e, contempo¬ raneamente, la sua fluidità nel cogliere facce, umori, ma 52

anche la “macchina” del cinema), dichiarazioni di Bertolucci. Si parla di cinema e di inconscio (una matti¬ na, Bertolucci che indossa una bandana, fot. 13, ad Amelio che gli chiede perché la porti, prima risponde «Per assomigliare a Kociss», poi racconta di aver sbattuto contro una porta a vetri: «L’inconscio si ribella: è la fine del film»), di Renoir e della realtà che irrompe improvvi¬ samente in un film dalla porta che il regista ha lasciato aperta, di Fuller e di pura emozione, di Cocteau e di morte al lavoro. «Il cinema è la morte al lavoro sugli _ attori», ricorda verso la fine Bertolucci. Ma Amelio l’ha anticipato, senza paro¬ le, all’inizio, quando la sua I6mm è caduta innamorata di un vecchio contadi¬ no rugoso che fuma una sigaretta sulle rive dell’Oglio (fot. 14), e nella colon¬ na sonora sono entrati gli accordi inconfondibili di Johnny Guitar (di Nicholas Ray, 1954): Sterling Hayden, la prima persona che Amelio ha incontrato arrivando nella campagna emiliana e al quale, scambiandolo per un contadino del luogo, ha chiesto dove fosse il set. E quan¬ do Hayden non lo capisce, lo riconosce tutto a un tratto e gli rifa la domanda in inglese. «Follow thè music», risponde Hayden, “segno” indelebile di una memoria cinematografica gloriosa e di un cinema che non si potrà più fare e di cui Novecento è forse una delle ultime, magnifiche esplosioni. La “musica” del cinema, precede e accompagna anche i due lavori che Amelio gira, non con la cinepresa ma in studio con la telecamera, nel 1978. Alla ricerca di lavoro, sempre intento a progetti troppo ambiziosi che la Rai a quell’epoca non avrebbe finanziato a un giovane regista sconosciuto, Amelio decide di seguire il consiglio che gli danno in televisione: perché non ti “abiliti” con le telecamere? «Abilitarsi con le telecamere», racconta, «signi¬ ficava girare qualcosa che non era già più lo sceneggiato classico, ma più pic¬ colo, a livello di costi e di strutture». Un telefilm, in realtà, “materiale” anco¬ ra poco diffuso nella televisione italiana. Nasce così L’ultima scena, una serie ideata con un funzionario della Rete due, Gaetano Stucchi, composta di cin¬ que telefilm di un’ora ciascuno, due dei quali, La morte al lavoro ed Effetti speciali, affidati ad Amelio. Sottotitolo della serie: Storie fantastiche sul mondo dello spettacolo. Le intenzioni: giocare con i generi, tenendo anche 53

agganciati i telespettatori con elementi di horror e thriller, e consentire nello stesso tempo a un giovane regista di esercitarsi con le telecamere, ma anche con le proprie ambizioni di linguaggio e con i propri amori cinematografici. «Un ripiego» o «prove di sopravvivenza», definisce Amelio i due telefilm; e aggiunge che «avendo ovviamente orrore del cosiddetto ritmo televisivo, concepito come scatto dalla uno alla due alla tre, per prima cosa ho deciso di usare una telecamera sola. E l’esasperazione del piano sequenza che vedi nei due sgangherati omaggi al cinema che muore deriva dal fatto di non voler usare le tre telecamere e di non voler fare il montaggio televisivo tipico e ormai spompato, ma di ambire al piano sequenza alla Hitchcock di Nodo alla gola». Peccato che, racconta, a quell’epoca non avesse il senso dei tempi del piano sequenza e che il primo dei due film. La morte al lavoro, finisse per durare almeno venti minuti di troppo, un terzo in più, un’enormità per un film di un’ora. Si decide di eliminare due o tre piani non essenziali per la storia e, mentre Amelio sta visionando il materiale definitivo su un monitor, passa nella sede della Rai un selezionatore del Festival di Locamo, che è attratto dalla colonna sonora di Bernard Herrmann e poi affascinato dalle immagini. Se fosse un film e un lungometraggio, lo inviterebbe al Festival. Immediatamente, vengono ripristinati i piani tagliati e la lunghezza origina¬ ria di 83 minuti, e si decide di trasferire l’àmpex sulla pellicola 35mm con il vidigrafo. E curiosamente al Festival di Ffyères, dove il film ottiene numero¬ si riconoscimenti, è anche quel lavoro sulla fotografia che colpisce, per l’e¬ sattezza con cui un film che parla del cinema classico degli anni Trenta e Quaranta riesce a impastarsi della patina di una consunta pellicola scaduta. «Quella patina era invece dovuta alla trascrizione del nastro magnetico su pellicola; la fotografia sul nastro originale, al contrario, era densa, nitida. Insomma, La morte al lavoro era un finto film che parlava di cinema» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 104). Appena arrivato neirappartamento lasciato libero da un giovane attore morto suicida, Alex si trova sempre più coinvolto nell'atmosfera fantasmatica del luogo. L'ambiente è ancora zeppo di ricordi del precedente inquilino - oggetti teatrali, manifesti di film e divi del passato - e il giova¬ ne riceve strane telefonate notturne. Poco alla volta esclude dalla sua vita la fidanzata per instaurare un rapporto muto, a distanza, con una ragazza che abita neH'appartamento al di là della strada. Trovati in un armadio a muro degli abiti e una pistola appartenuti all'attore, Alex giunge all'ultimo atto: indossa i vestiti dell'altro e finisce con l'uccidersi con l'arma da fuoco, non si sa fino a che punto consapevolmente. 54

Un giovane sceneggiatore che coltiva qualche ambizione, arriva in piena notte nella villa sul lago di Boris Délvaux, celebrato regista di film dell'orrore, da tempo emarginato. Vorrebbe proporgli un suo copione, ma è subito conquistato dall'ambiente suggestivo e dall'intrigante personalità dell'anfitrione, fino a farsi coinvolgere in un gioco in cui, con la complicità di altri ospiti, si rico¬ struiscono celebri omicidi di pellicole horror. Il gioco diventa sempre più pericoloso, al punto che Délvaux, la cui vita è andata sempre più intrecciandosi col senso di morte incombente nei suoi film, rimane ucciso da una delle sue "creature".

In realtà, La morte al lavoro ed Effetti speciali oggi paiono più il debito pagato da Amelio alla sua “malattia” per il cinema («il cinema vissuto come intera realtà, anzi come l’unica realtà», afferma) che alla maldigerita “abilitazione” con le telecamere. Più raffinato, ambizioso e alla fine “datato” il primo, più apertamente di genere il secondo, con tocchi espliciti di horror serie B (dalla scenografìa “nota” di tanti Castel Dracula alla fotografìa a colori — ancora rudimentale per la nostra televisione che trasmette in bianco e nero - che rimanda a certi cro¬ matismi della Hammer), i due telefilm servono anche, probabilmente, a far piazza pulita, non dell’ossessione del cinefilo (della quale l’uomo non si è mai liberato), ma delle velleità “metalinguistiche” del giovane autore (dalle quali il regista è stato sempre esente). Omaggio a Hitchcock, La morte al lavoro, non solo nel tentativo di usare il piano sequenza con il virtuosismo di Nodo alla gola (1948), ma soprattutto a partire dalla musica; nasce infatti, ptima che dal racconto II ragno di Hanns H. Ewers, dalle suggestioni delle partiture musicali di Bernard Herrmann per Hitchcock, a partire da Que sera sera interpretato da Doris Day in L’uomo che sapeva troppo (1956), che echeggia nei titoli di testa. Poi, si rincorrono vorticosi Chaplin, Fred Astaire, Nosferatu, Fritz Lang, Louise Brooks, James Dean (fot. 15), lo stesso Cocteau, rievocato nel titolo e citato letteralmente in alcune inquadrature, tutti i maestri, i volti, le storie di cui si è nutrito Amelio e dai quali, lo sa, corre il rischio di rimanere intrappo¬ lato, come il suo protagonista. Fino al suicidio, più o meno metaforico, più o meno plausibile, più o meno concreto. In Effetti speciali, le citazioni (tranne una), si fanno più lievi, più che “omag¬ gi”, denunciano una voglia di raccontare, anche “sporcandosi le mani” con il genere, negli spazi e nei modi ristretti concessi da uno studio televisivo. Allora, Hammer e Bava, certe “casalinghe” soluzioni cormaniane e l’ovale inquietante 55

di Barbara Steele (riprodotto in quello, altrettanto altero, di Olga Karlatos), il Preda di / vampiri (1957) e di L’orribile segreto del dottor Hichcock (1962), ma anche, nell’ingegnoso, micidiale teatrino animato allestito nel salotto, il fasci¬ no hoffmaniano degli “automat” intrecciato con i “saladini” di tanti film in costume italiani degli anni Cinquanta. Amelio “espelle” amori, miti, intrecci, ricordi. E, se nel primo la “scopofilia” («il bisogno morboso di contemplare», ha spiegato Michael Powell, uno che se ne intendeva) è una malattia talmente patologica da non esigere nemmeno più la presenza concreta dei suoi “oggetti del desiderio” (i film, citati solo nei “fantasmi” della sua professione lasciati dietro di sé dal giovane attore suicida che occupava prima l’appartamento e dalle “recite” che il nuovo inquilino, un impiegato, mette in scena per la misteriosa dirimpettaia che ogni notte gli appare dalla finestra di fronte), nel secondo esplode nella citazione più esplicita, “classica” e mortale: tutto il finale di L’occhio che uccide di Michael Powell, cinque o sei minuti ininterrotti, che il vecchio regista di horror proietta nel proprio salotto all’arrivo del giovane cinea¬ sta suo ammiratore (fot. 16). La passione del cinema (del fare e contemplare il cinema) uccide, raccontava Powell travestendo la propria disarmante confessione (come solo i grandi glassici seppero fare) da thriller sensazionalistico; lo sguardo che, attraverso la macchina da presa, non arretra di fronte a nulla, che sprofonda nei volti e nei sogni, finisce per distruggere e autodistrug¬ gersi. «Avrei potuto fare un “piano d’ascolto” dei miei personaggi», ha detto Amelio anni dopo. «Ma invece non l’ho fatto, per lasciare tutta intera la sequenza di Powell: mi sembrava un delitto interrompere la costruzione del suo finale». La riproduzione fedele del gioco di specchi tra finzione e realtà, “genere” e “autore”, passato e presente, memoria e allucinazione messo in scena da Powell nel suo film (sul quale aleggia la presenza sconcertante di un padre “distruttore”, interpretato dallo stesso regista nel film nel film) è con¬ temporaneamente l’ammissione e il riscatto della propria “malattia”, fuori di metafora. È un atto di crescita, piccolo, televisivo, di genere, che lascia Amelio libero di guardarsi intorno e indietro. «Avanti Mark, non fare lo sciocco; non c’è niente di cui aver paura», dice la voce registrata del padre scienziato al protagonista bambino sulle inquadrature finali di L’occhio che uccide. E la voce del bambino risponde: «Buona notte, papà; tienimi la mano». 56

Il genio nella bottìglia In un bel salotto borghese, un uomo e un bambino sono al pianoforte (fot. 17). L’uomo è giovane, snello, elegante; il bambino, con i panni ruvidi di un contadino, ha la faccia completamente illuminata dalla musica che gli scaturi¬ sce, sconosciuta, dalle dita. La macchina da presa parte dall’isolamento estasia¬ to di entrambi e si muove lenta, fuori dalla vetrata, sulla terrazza prospiciente una campagna assolata e dolce, fino a un altro bambino, più o meno coetaneo del primo, che da solo, in fondo alla terrazza, butta delle pietre in una vasca. Poco prima, in una sequenza analoga, il bambino solitario giocava nel giardino e alzava gli occhi verso la vetrata spalancata dalla quale usciva la musica di un grammofono; la macchina da presa accompagnava il suo sguardo e, all’interno, gli altri due ascoltavano rapiti un concerto di Mozart. I due bambini (fot. 18), quello bruno affascinato dalla musica e quello biondo più mingherlino, sono Guido e Robin, rispettivamente “Il piccolo Archimede” e il figlio del critico d’arte inglese che, in vacanza in Toscana con la famiglia, scopre le incredibili doti musicali e matematiche del figlio di un contadino locale. La musica che da una terrazza va a inondare un giardino, collegando tra loro i personaggi e sottolineando le barriere e i silenzi che li separano, tor¬ nerà di lì a poco, in un piano sequenza di intenso signifi¬ cato emotivo e di millimetrica esecuzione, in Colpire al cuore. E la musica in funzione psicologica e narrativa, brani classici e canzonet¬ te, Gianna Nannini e Vasco Rossi, Mozart e Gabriel Fauré, da questo momen¬ to in avanti rappresenterà una delle “chiavi” offerte con discrezione da Amelio per entrare nelle dinamiche interiori che muovono i suoi personaggi, per rive¬ lare ciò che i silenzi occultano (l’imbarazzo di Rosetta verso Antonio in II ladro di bambini, l’estraneità di Majorana rispetto ai suoi compagni in / ragazzi di via Panisperna, l’amore di Pietro per Giovanni in Così ride¬ vano), catalizzatrice della piena affettiva che scorre sotto le immagini {Quanti anni hai di Vasco Rossi che apre, dall’autoradio, l’ultima sequenza di Le chiavi di casa), o persino dell’orrore che ci circonda (la techno che accom¬ pagna il ballo della bambina bionda in Lamerica, la Cucaracha cha cha di Perez Prado in Così ridevano). 57

Per il momento, nel 1979, la musica è la causa scatenante di una “favola nera” concepita da Aldous Huxley negli anni Trenta, in uno di quei suoi (auto)ritrat¬ ti affilati e sconfortati che elaboravano negli stessi anni le gelide, tremende linee del suo Mondo nuovo. Ad Amelio il progetto arriva come “commissione” da parte della Rai. «Accolsi volentieri la proposta della Rai di girare una novella di un autore straniero ambientata in Italia», racconta l’autore. «Si trattava di un’occasione per tornare a usare la macchina da presa, dopo due lavori con le telecamere. La serie Tv si chiamava Novelle dall’Italia. Allora la Tv puntava o sul Grande Autore consacrato o sulla serie tematica al cui interno potevano cimentarsi i giovani autori. Mi diedero da leggere un librone di racconti tra cui scelsi Monteriano di Forster. L’idea piacque ma, qualche settimana dopo, un funzionario mi spiegò che non si poteva fare, perché non era un racconto ma un romanzo, implicava degli esterni in Inghilterra e quindi dei costi eccessivi per il budget della serie. Allora, come seconda scelta, proposi II piccolo Archimede di Aldous Huxley, più adatto ai costi (un solo ambiente) e ai tempi (tre settimane) di lavorazione. E in effetti ho girato in tre settimane e un gior¬ no un film di 80 minuti, in presa diretta, con due bambini» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 107). Firenze, anni Trenta. Alfred Heines, uno studioso inglese dell'arte italiana, soggiorna con la moglie Elisabeth e il figlioletto Robin in una villa sulle colline, di cui è proprietaria la signora Rondi, un'ex attrice sposata a un anziano "gentiluomo a riposo" e senza figli. Durante l'estate Alfred dovrebbe portare a termine una monografia su Giotto, ma la sua attenzione è attratta da Guido, un bambino di sette anni, figlio di contadini, occasionale compagno di giochi del piccolo Robin. Guido mostra un'intelligenza fuori del comune, una miracolosa disposizione per la musica e la matematica che lo porta a comporre al pianoforte e a scoprire nuove dimostrazioni di teore¬ mi di geometria. Un "genio" naturale, uno dei tanti che nascono - pensa Alfred - in una terra for¬ tunata. Tra l'adulto e il bambino s'instaura un legame forte ed esclusivo, che però le circostanze interrompono improvvisamente. Alfred e la sua famiglia sono costretti a partire per la Svizzera a causa di un malessere del piccolo Robin. Durante la loro assenza. Guido è "venduto" dal padre alla signora Rondi, che lo adotta e lo porta nella sua ricca dimora fiorentina, felice di esibirlo come genio precoce. Qualche mese dopo Alfred riceve una lettera di Guido, arrivata in ritardo per via dell'indirizzo impreciso. Guido gli chiede aiuto. Ma quando Alfred torna a Firenze è troppo tardi. Il bambino è morto, caduto giù da una finestra della casa della "padrona". È stato un inci¬ dente, dicono. Ma forse Guido, sentendosi tradito, ha scelto di morire.

Attraverso questo film su commissione, si materializza in tutta la sua dramma58

ticità quello che diventerà uno dei fili conduttori “forti” del cinema di Amelio: i ragazzi, amati ma strumentalizzati, incompresi, sballottati, proiezioni forzate di un’età adulta che spesso non ha il coraggio dei sentimenti ma solo l’incon¬ scia violenza dell’autorità. Quello che era già intuibile nel rapporto tra Leonardo e il regista Gregoretti, ma in qualche maniera “schivato” dalla matu¬ rità dolorosa di Leonardo, che con la fuga diventava istantaneamente adulto, qui si manifesta in pieno nei rapporti irresponsabili che Alfred, tanto colto e sensibile da commuoversi davanti all’arte e alla natura, intrattiene con il pro¬ prio figlio Robin e con il contadino Guido: distratto e talvolta infastidito con il primo (che è un bambino normale e maledettamente solo), affascinato fino alla voracità (ma non fino all’amore) dal secondo. Ancora una volta l’autore si sottrae all’identificazione con l’adulto: se osserva Alfred con il sotterraneo timore che sia «quello che io avrei potuto, anzi che avevo rischiato di essere», tuttavia gli conferisce i tratti di una compiaciuta vacuità, di una sottile rapa¬ cità, che lo trasformano in un ambiguo, contraddittorio eroe negativo. Contraddittorio perché in certi momenti si prova pena per lui, nella prima sequenza dove, tra le arcate di Ponte Vecchio, soffre e metabolizza la colpa per la scomparsa di Guido (fot. 19), e in quella in cui, lavorando, rovescia l’inchiostro sulla pagina con il disegno di Giotto, denun¬ ciando tutta la frustrazione, il senso di inadeguatezza, di un uomo che ha capito di non essere un artista e si rasse¬ gna a essere un critico. E ambiguo per quel tanto di ado¬ lescenza che resta in certi adulti di Amelio (soprattutto in Dario di Colpire al cuore e in Gianni di Le chiavi di casa e, rispettivamente nella prima e nella seconda parte dei film, nei perso¬ naggi di Lo Verso in Così ridevano e Lamerica), che li fa entusiasmare e “gioca¬ re”, più dei ragazzi ombrosi e terragni che li fronteggiano, ma che quasi sem¬ pre li induce anche a ritrarsi dalla concretezza delle responsabilità. Se il monaco che viaggiava per le campagne della Calabria delirando di un’i¬ deale città del sole aveva ancora tutta la dignità dell’eretico che non saprà cam¬ biare il mondo, ma paga in prima persona il prezzo della sua diversità, Alfred l’intellettuale non è “diverso” ma solo arido, incapace di emozionarsi per i pro¬ pri “doni” (suo figlio per esempio) e costretto a succhiare passione, talento e cuore dall’esterno, da un paesaggio mediterraneo, da un dipinto trecentesco, da un ragazzino di insospettato genio. Qualche anno fa, spinta dalla tragica visione di Così ridevano, scrissi che certe costanti dei film di Gianni Amelio mi 59

facevano venire in mente la storia del Pifferaio di Hamelin (ripresa dai Grimm, da Goethe e da Robert Browning), che non fu pagato dagli abitanti della città per averli liberati da un’invasione di topi e si vendicò trascinando sulle proprie note tutti i loro bambini fino al ventre della montagna, e quella di II dolce domani, un romanzo di Russell Banks del 1991 e un film di Atom Egoyan del 1997, dove si ricostruisce l’incidente nel quale morirono tutti i bambini di un paese del Ganada, sullo scuolabus precipitato in un lago gelato. I film di Amelio sono favole, storie che vivono del senso di colpa per come è ridotto il mondo, sprofondate nell’orrido dove le fate vanno a braccetto con le streghe, dove le migliori intenzioni annientano le vite altrui, dove la presunta guida finisce, spesso, per trascinare i passi degli altri verso il baratro, tessute sulle immagini e sulla scansione del nostro tempo, anche quando siano in qualche maniera “appannate” dai colori educati di una ricostruzione in costume come quella anni Trenta di II piccolo Archimede. Prima dei tragici affreschi di Colpire al cuore, I ragazzi di via Panisperna, Il ladro di bambini, Lamerica, Così rideva¬ no, è nel film del ’79 che possiamo rintracciare gli espliciti sintomi di un “mondo terminale”, un mondo senza futuro (senza bambini), perché il futuro, come orchi, ce lo siamo mangiato, magari per troppo malinteso amore, per troppo illuminata permissività, per eccesso di ingenuità o di raffinatezza, cer¬ tamente quasi sempre per una cieca rincorsa verso i simboli vistosi e i valori fragili di un’indolore medierà, morale media,‘ cultura media, passione media. Il personaggio di John Steiner in II piccolo Archimede è un mediocre che, nella sua sovreccitata indolenza, nella sua incosciente e superficiale esaltazione arti¬ stica, trascina alla rovina tutti gli altri, compresa la “Strega” del racconto, la signora Bondi. Laura Betti incede, ampio cappello con la veletta e mantello su un abito son¬ tuoso e raffinato e un fiore di seta che glielo chiude intorno al collo (fot. 20). Entra dalla vetrata spalancata sulla terrazza, dietro a Guido che, seduto su una poltroncina, ascolta rapito la musica del grammofono. Lo “prende alle spalle”, alla sprovvista (ma non con la tenerezza infinita che metterà in un gesto analogo, abbracciando il proprio bambino di spalle, Liu Hua molti anni dopo in La stella che non ce, fot. 21), e posa su di lui il suo sguardo e la sua mano. L’ingresso della signora Bondi (che abbiamo già visto all’inizio del film, a colloquio con Alfred) è uno dei più “scenografici” di tutto il cinema di Amelio, che qui non 60

gioca, come d’abitudine, sulla sottrazione, ma sull’enfatizzazione della teatralità melodrammatica del personaggio. La signora Bondi è una diva che si è ritirata, una madre frustrata, una gran dama mediterranea; vuole un figlio e soprattutto vuole un piccolo genio da esibire. La signora Bondi porta doni, cultura, ricchezza, studio, ma sono i doni distruttivi della quarta fata che, non invitata, si affacciò alla culla della Bella Ad¬ dormentata. La fata cattiva. «La signora Bondi mi fa pena», ha detto Amelio. «Capisco più le sue ragioni. Ha il problema della maternità, che è diversa dalla paternità. Sono più con lei che con lui, anche se è chiaramente la fata malva¬ gia. Ma guai a essere la fata buona. Guai se il dono della cultura non lo dai perché senti l’altro come entità autonoma, se fai il dono non per lui ma per te. Il ruolo dell’intellettuale inglese è quello di un perfetto, assoluto egoista, che addirittura inventa la favola del genio e ce la vuole dare a bere. Non a caso, questo è il mio unico film raccontato dal protagonista, in voce fuori campo, una cosa che in genere io non amo molto. Ma qua l’ho usata, perché volevo che fosse tutto in soggettiva». La signora Bondi è la prima figura femminile dirompente che si affaccia nel cinema di Amelio, non solo per il suo ruolo determinante nella narrazione, ma per il “peso” che, fin dalla scelta dell’attrice, l’autore assegna al personaggio. Fino ad anni e a film recenti (con l’eccezione delle due donne di Colpire al cuore, la formidabile nonna e la protagonista Laura Morante, e di Rosetta in II ladro di bambini, che però è appena un’adolescente), sono rare le donne nei film di Amelio, e spesso ai margini e in sottofondo, madri ritrose o nervose, compa¬ gne rassegnate o accomodanti, donne talvolta afasiche o sfuggenti, o, al contrario, figure autoritarie, di compressa violenza. Com’è la signora Bondi, contraltare esplicito dell’altra madre che appare in II piccolo Archimede, la mamma di Robin (fot. 22), taciturna, condiscendente alla passione del marito per il giovane Guido a scapito del proprio figlio, un’anticipazione dell’inquietante, frustrante figura materna di Colpire al cuore (fot. 23). La mamma di Robin ha una grazia sommessa e giovanile, è tessuta di occhiate furtive e gesti interrotti; certamente anche lei fa 61

pena al regista. Il suo dolore segreto e ine¬ spresso assomiglia a quello della madre di Jean in I velieri (fot. 24), che però lo sfoga in insonnia, crisi isteriche e iperprotezione. Anche lei, come la mamma di Robin, ha un alter ego più aggressivo e volitivo, l’istitutrice tedesca che tiene d’occhio Jean, gli impedisce di allontanarsi dalla villa-fortezza, gli dà ordi¬ ni. E anche in questo caso, è come se ci tro¬ vassimo di fronte a un’immagine della fem¬ minilità e della “maternità” in qualche maniera incompiuta, come scissa tra una fragilità e una tenerezza che sconfina nell’evanescenza e un’autorità e una durez¬ za che può tradursi in violenza. Appunto, la fata malvagia: la signora Bondi o quella ancora più pericolosa e quasi invisibile di II ladro di bambini, la madre di Rosetta e Luciano che prostituisce la figlia. Le madri dei film di Amelio (perché le sue donne sono quasi tutte madri, come i suoi protagonisti sono quasi tutti padri o fratelli maggiori), con le loro apparizio¬ ni ai margini, tratteggiano un universo femminile com¬ plesso e magmatico, perché affrontato trasversalmente e non di petto, perché più ignoto e fluido, appunto, “materno”. Lino aH’ultimo film. La stella che non c’è, e con le eccezioni, distanti negli anni, di Laura Morante in Colpire al cuore (fot. 25) che, per quanto giovanissima, ha una spina dorsale intessuta d’acciaio e una femminilità completa, e di Charlotte Rampling in Le chiavi di casa, mater dolorosa che non occulta la sua ribellione e la sua forza, le madri di Amelio sono più inafferrabili dei padri. E se il viaggio più “emerso” dell’autore è chiaramente quello intorno alla sua autobiografia paterna, fatta di emigrazio¬ ne e assenza, di colpe rinfacciate e di sensi di colpa, di uccisioni e perdoni rituali, forse il viaggio più faticoso e intrigante è quello “sommerso”, nelle irrisolte acque materne, in un’infanzia dominata da figure femminili non complementari, in un sé che va oltre la memoria razionale, agli abbracci, ai sacrifici, ai piaceri e alle frustrazioni dell’infanzia. 62

Un infanzia che Gianni Amelio in qualche occasione ha raccontato, trasversal¬ mente, parlando di libri e di film: «Ricordo come una delle cose più strazianti e tenere della mia vita quando un giorno, camminando per il mio paese (avrò avuto cinque-sei anni) con mia nonna paterna, una contadina che aveva stu¬ diato fino alla seconda elementare, vidi su un muro delle scritte sbiadite che dicevano: vota tal dei tali. Io chiesi a mia nonna che cosa volessero dire, e lei non seppe rispondere: lei votava, ma non sapeva cosa significasse vota tal dei tali. Ci rimasi molto male: volevo sapere tante cose e non c’era possibilità di saperle, se non “uccidendo” in qualche modo le persone che amavo. Io sono dovuto andare via da casa per poter avere la libertà di leggere un libro, leggere un libro a casa mia era un peccato. Allora guadagnavo qualcosa dando lezioni private, e i soldi li potevo conservare in un cassetto, oppure potevo comprarmi da mangiare o anche un vestito buono, ma se li spendevo per leggere era un peccato. Ho dovuto anche emanciparmi da questo, ho dovuto lottare contro questo» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Gojfredo Fofi, cit., pagg. 20-21). E ancora, a proposito del cinema “per famiglie” degli anni Cinquanta, quello storico: «La mia famiglia era un’entità talmente sgan¬ gherata che l’andare al cinema non era un fatto organizzato. Non si dovevano salvare i valori della famiglia, perché questa famiglia non c’era, era costituita da una signora, mia nonna, con un bambino per mano. C’erano comunque dei principi, che erano la fede cristiana, il sacrificio di nostro signore, quindi tutto ciò che veniva raccontato dal cinema cosiddetto storico. Quello era il cinema doveroso; le 250 lire per quei film erano l’equivalente della spesa per un libro di scuola, perché là imparavi. Io sono stato letteralmente obbligato a vedere Ulisse di Camerini. Mia nonna faceva l’infermiera e aveva il turno alla mattina o al pomeriggio, a seconda delle settimane, per cui si andava al cine¬ ma una settimana sì e una no. Ma in occasione di Ulisse, pur avendo il turno di pomeriggio, mi accompagnò davanti alla porta e mi disse: “come il cinema spalanca le porte tu entri, vai a sederti dove sai e alle dieci di sera, quando esco dall’ospedale, ti raggiungo dentro”. Quando lei arrivò, io l’avevo già visto tre volte, e lo rividi per la quarta volta con lei». O di La valle dell’Eden: «Era la sequenza col padre quella con la quale io potevo identificarmi. Cosa intuivo? Mio padre non c’è, mio padre non torna, quindi mio padre non mi ama, per¬ ché se mi amasse tornerebbe. Invece, non avevo problemi con mia madre, che non era una puttana come quella di James Dean, ma solo una povera vedova bianca che subiva, come moglie, la stessa offesa che subivo io come ragazzo. E mia madre era quasi una bambina, aveva sedici anni quando sono nato io. 63

Mentre la madre dì James Dean è la nonna di James Dean; era persino più vecchia di mia nonna, che anagraficamente avrebbe potuto essere mia madre. Infatti, ho vissuto così il mio rapporto con lei, mentre con mia madre avevo un rapporto di fratello e sorella e siamo diventati madre e figlio quando erava¬ mo entrambi già adulti». Una nonna energica, una madre bambina, una sorel¬ lina morta a poco più di due anni: sono questi “fantasmi” (ma la nonna materna dell’autore è ancora viva e vegeta) che trapelano sfumati e si proietta¬ no in costante mutamento nelle figure femminili dei film di Amelio. Jean, un bambino di dodici anni, vive nel grande, lussuoso castello di famiglia come in una gab¬ bia dorata. Una madre malata di nervi, una governante autoritaria e un padre ricchissimo ma assente, fanno sentire il loro peso sulla vita del ragazzo; tanto che Jean vive il ricordo del suo rapimento, avvenuto quando era molto piccolo, come una sorta di avventura. Dell'esperienza vis¬ suta allora, Jean conserva soprattutto la memoria di un modellino di veliero in bottiglia. Quando l'atmosfera domestica si fa soffocante, il ragazzo architetta un piano per esasperare la madre e spingerla al ricovero in clinica. Così Jean può fuggire e raggiungere, tramite una fotografia ritro¬ vata in un giornale, il luogo della sua detenzione: un faro abbandonato. Là il ragazzo incontra un vecchio marinaio, dal quale apprende che suo padre si era rifiutato di pagare il riscatto e che se è ancora vivo, lo deve alla pietà di uno dei suoi carcerieri. f

Realizzato nel 1982, dopo Colpire al cuore, I velieri ha molte connessioni pro¬ duttive e stilistiche con II piccolo Archimede. Ancora una volta è la Rai che pro¬ pone ad Amelio la trasposizione di un racconto italiano del Novecento, da girare in poche settimane (due e mezzo), in I6mm e della durata di un’ora. Amelio sceglie un racconto di Anna Banti: «Di cui conosco l’intera opera. E stato uno scrittore che ho incontrato per caso e di cui ho poi letto tutto il leg¬ gibile (...) Mi piacciono le cose che racconta. Di più: mi sembra uno scrittore più che una scrittrice. Ha una scrittura virile, un lin¬ guaggio tutto fatti, tutto cose, tutto concretezza. Non scriveva per il cinema, ma era una scrittrice che il cine¬ ma lo conosceva» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pagg. 121-122). E i fatti, le cose, la concretezza si dipanano davanti alla cinepresa: il lusso di una villa borghese dove vive segre¬ gato il dodicenne Jean (fot. 26), che da piccolo fu ogget¬ to di un rapimento ma non lo ricorda, i percorsi al suo interno, i tappeti, gli arredi, i giocattoli, si saldano senza 64

soluzione di continuità con le “visioni”, i sogni di Jean, fatti di velieri (fot. 27) e di fari, di una libertà che gli appare a sprazzi e che rimpiange. Il carrello di Amelio scorre su realtà e fantasmi immaginari, lasciandoci per¬ cepire, tra le righe, tutti i disagi e le tensioni che regna¬ no in quel “castello”. Quasi azzerata l’identificazione (anche quella con il bambino se non, forse, sul piano della pura immaginazione avventurosa), assente — colpe¬ volmente — la figura del padre (che è solo una voce al telefono, di tanto in tanto), non rimpiazzata dalla fuga¬ ce apparizione del medico, il film (al quale l’autore rimprovera un certo acca¬ demismo) ha una svolta improvvisa nel finale, quando Jean scappa e va a cer¬ care la libertà perduta. In un faro abbandonato, incontra un vecchio malcon¬ cio che costruisce velieri in bottiglia; e noi, di colpo, siamo in un altro film, in un angolo cittadino corroso e periferico di II ladro di bambini, tra i relitti umani di Lamerica, tra un accatastarsi di casupole cinesi in La stella che non c’è. Siamo nella realtà, che è poi il sogno, anche se più prosaica, nel terreno vero dell’avventura, che significa semplicemente vivere e incontrare persone che ci trasmettano il senso della vita. Jean incontra il suo “ladro di bambini”, in un’anticipazione, appena abbozzata, del ben più solido rapporto di fascinazio¬ ne che si stabilirà tra Luciano e il carabiniere nel film omonimo. «C’è un libro “diverso” e memorabile, di due pedagogisti “diversi”», ha scritto Antonio Faeti a proposito del cinema di Amelio. «E Co-ire. Album sistematico dell’infanzia, di Schérer e Flocquenghem. Nel libro è assegnata singolare, affa¬ scinante importanza alla figura del “ladro di bambini”. E detto così l’autore di un “ratto” perché porta via i bambini per se stessi, in netto contrasto con chi compie un sequestro, che invece guarda al denaro. In questa poco conosciuta genealogia compaiono anche personaggi che propriamente “non rapiscono”: è questo il caso di Long John Silver, detto Porco Arrostito, che cattura, sì, Jim, e lo usa come oggetto di scambio, ma soprattutto lo “rapisce” in quanto lo affa¬ scina, lo fa partecipe del suo mondo, “altro” rispetto a quello in cui vivono il Dottore, il Conte, il Capitano. Jim non lo dimenticherà mai quel pirata fasci¬ noso, astuto, pieno di terrifiche memorie, però sicuramente appartenente all’autentica schiera dei “gentiluomini di ventura”. Ecco: in tante infanzie tor¬ turate, rese infelici, ottenebrate dalla sofferenza, può avvenire un salvifico rapi¬ mento» (Antonio Faeti, “Bambini estranei, bambini rubati, bambini”, in Fabiola Brugiamolini, Lorenzo Capulli, Stefano Gambelli [a cura di]. La fine 65

del gioco. La rappresentazione dell’infanzia nel cinema di Gianni Amelio, cit., pag. 17). Per Jean, ragazzino dal portamento lievemente “inacidito”, fratello appena minore dell’Emilio di Colpire al cuore, quel sequestratore e Long John Silver, con i suoi fantasmatici velieri, la fuga immaginaria da una nevrotica freddezza adulta, da una voce paterna lontana, da un mondo chiuso nell’immobilità. Se i due ladri di II piccolo Archimede hanno “rapito” Guido con la musica e la matematica solo per compiacere se stessi, questo poveraccio che anticipa il vecchio Spiro di Lamerica ha invece aperto a Jean il mondo della fantasia avventurosa.

Cuore dì tenebra «Non riesco a non associare all’adolescenza una parola di significato negativo. Rabbrividisco di fronte all’adolescenza intesa come Eden, o come oggetto di nostalgia, o come felicità perduta, perché per me è stato il periodo più duro, anche se - come per tutti — il più importante. Mi ha segnato l’allontanamento di mio padre quando avevo poco più di un anno. Nel ’47 emigrò in Sudamerica per seguire le orme di suo padre del quale si erano perse le tracce. Mio padre aveva una ventina d’anni allora, mia madre diciassette. Ritornò dopo quindici anni, dopo aver scoperto che suo 'padre si era ricostruito là un’altra famiglia. Vivere senza un padre è qualcosa che mi ha fatto male: non l’ho capi¬ to in età avanzata, lo capivo già allora, quanto mi mancava. Vivere senza un padre era molto più pesante che essere povero. Essere povero in un paese cala¬ brese di 400 abitanti dove lo sono tutti non significa poi tanto; era molto più duro per me essere obbligato a dare il buon esempio, a fare sei chilometri a piedi ogni mattina per arrivare a scuola. Tutta la mia infanzia e la mia adole¬ scenza sono state schiacciate dal peso di questo bisogno di sopravvivere impo¬ sto come dovere. In quel tipo di società la miseria era inevitabile come l’ingiu¬ stizia, l’emigrazione era destino quanto lo era il rispetto per il padre, chiunque lui fosse. Anche i miei personaggi non si ribellano mai, a differenza degli ado¬ lescenti nei film degli anni Sessanta e Settanta. Non ho mai desiderato punire nessuno. L’unica cosa da fare era quella di trovare una strada diversa per conto mio. Non penso che per me il cinema sarebbe diventato importante se non fossi vissuto in questo mondo, se il grande schermo non fosse stato l’unico sprazzo in un’età che ancora oggi mi appare buia» (“Regia di Gianni Amelio”, in Domenico Scalzo [a cura di], Gianni Amelio. Un posto al cinema, Lindau, Torino, 2000, pag. 35). 66

Leonardo, Guido e Robin, Jean (e più tardi, Luciano e Rosetta, Pietro e persi¬ no Paolo con la sua estemporanea solarità) sono figli di questo sentimento, di questa ricerca di pacificazione con il proprio passato che Amelio intraprende, più o meno esplicitamente, film dopo film, maestro dopo maestro, allievo dopo allievo. E lo è naturalmente Emilio, l’adolescente schivo, e troppo serio e troppo bravo, “attore” del primo gesto obbligato di questa ricerca: l’uccisione del padre che, dopo Colpire al cuore., non si verificherà mai più. Dario è un professore universitario cinquantenne. Suo figlio Emilio, di quindici anni, studia al liceo classico. Una domenica, nella loro casa di campagna, a Bergamo, ricevono la visita inaspettata di Sandro e di Giulia, con il loro bambino di pochi mesi. Sandro è un ex allievo di Dario, col quale il professore mantiene una sorta di complicità, che Emilio rileva con una certa antipatia. Al contrario di Giulia, riservata e sensibile, Sandro gli appare troppo sicuro di sé, un po' sentenzioso e scostan¬ te. Una sera, mentre torna a casa in tram, Emilio si ferma sul luogo di uno scontro a fuoco nel cen¬ tro di Milano. Oltre a due carabinieri morti, sull'asfalto è riverso il cadavere di Sandro. Sandro era un terrorista. Emilio è spaventato, teme che qualcuno possa implicare la sua famiglia in quella sto¬ ria. Vorrebbe parlarne al padre ma Dario proprio quella sera non è a Milano; perciò Emilio decide di presentarsi spontaneamente alla polizia e dire tutto quello che sa del giovane ucciso, per chiari¬ re le cose. Il mattino dopo Dario viene convocato e interrogato. Quando padre e figlio tornano a casa, qualcosa si incrina tra di loro. Dario vorrebbe che tornasse il silenzio sull'intera faccenda. Emilio, invece, è inquieto e sospettoso. Un giorno, all'uscita di scuola, incontra casualmente Giulia per strada: cammina in mezzo alla gente, mentre la polizia la cerca, come testimone o complice del suo compagno. Emilio la segue e scopre dove abita. Ne parla al padre. Ma Dario è ancora una volta evasivo, dice di non averla più vista ma di averle consigliato, a suo tempo, di costituirsi. Lo spinge a dimenticare, è una vicenda che non li riguarda più. Emilio però non sa darsi pace. Nella sua solitudine popolata di ossessioni, continua a pedinare Giulia e un giorno la sorprende con Dario all'università. Di nascosto li fotografa e lascia la foto tra le carte del padre. Poi se ne va di casa. Quando Dario lo ritrova, la crisi precipita. Dario rivendica una paternità ormai priva di cer¬ tezze morali. Emilio la pretende. Dopo una notte di litigi e riconciliazioni col figlio, Dario va a tro¬ vare Giulia per consegnarle il biglietto del treno e aiutarla a partire. Emilio, che lo ha seguito e forse denunciato alla polizia, assiste di nascosto all'arresto di entrambi, poi, solo, si allontana.

Un ragazzo avanza in bici su un sentiero di campagna. Dietro di lui, un uomo in tuta e maglione bianco corre. La macchina da presa, davanti a loro, carrella all’indietro accompagnandone il movimento senza stacchi. L’uomo raggiunge il ragazzo, gli mette una mano sulla spalla e comincia a raccontare una barzelletta (fot. 28); con un accordo di pianoforte, inizia la musica di 67

sottofondo. La barzelletta è quella dei pazzi che, in un istituto di antipsichiatria, hanno organizzato un’orchestra e danno un con¬ certo e, dopo aver eseguito perfettamente la Cucaracha, alla richiesta di un altro brano {Casta Diva), tutti contenti lo suonano esat¬ tamente come là canzonetta («La casta diva... La casta diva....»). Trintignant ride; il ragazzo (Fausto Rossi) è serio: «Cosa vuol dire poi fare dello spirito sulla psichiatria democratica?». E Trintignant, sempre sorridente: «E forza ridi... e avanti ridi... e fatti una risata!», e contemporaneamente lo spinge in avanti sulla bici. Il carrello accelera allontanandosi da loro, la musica cresce, Emilio pren¬ de velocità (fot. 29). È la magnifica sequenza sulla quale scorrono i titoli di testa di Colpire al cuore-, un fluido movimento di macchina che ci introduce istantaneamente nel rapporto tra i due pro¬ tagonisti, nelle loro reciproche ritrosie, e che contemporaneamente li avvicina e li separa tra loro. Forse il piti bell’incipit di tutto il cinema di Amelio, un momento di intimità sospesa, quasi “rubata”, che non si ripeterà più nel film se non in termini conflittuali. Speculare, il carrello analogo che conclude il film: la tragedia si è consumata, Emilio ha forse denunciato il padre alla polizia, che lo ha appena arrestato insieme alla giovane compagna del terrorista ucciso. Ee auto, le moto, il cellulare della polizia sono appena ripartiti, i curiosi si sono allontanati. L’andtone dello squallido casermone della perife¬ ria di Milano è vuoto. Emilio scende da una scala esterna, si ferma un momento in primo piano e poi si avvia nell’androne; la macchi¬ na da presa non lo abbandona, il carrello si muove con lui e, mentre il ragazzo si allon¬ tana di spalle verso il fondo, comincia ad arretrare (fot. 30). Emilio gira oltre l’angolo e sparisce. Buio. 68

Colpire al cuore è il primo lungometraggio per il cinema di Gianni Amelio; esce dodici anni dopo La fine del gioco, nel 1982; i film realizzati in quell’intervallo sono tutti di destinazione televisiva. Nasce quasi per caso, da una pro¬ posta di Paolo Valmarana, capostruttura Rai con incarichi di acquisto, produ¬ zione e programmazione cinematografica. Un funzionario anomalo, un intel¬ lettuale che amava il cinema, che rischiava sull’innovazione, convinto del compito istituzionale e culturale della Rai. «La Rai gestisce un servizio per conto della comunità», diceva. «E questo servizio non può non comportare la difesa dei livelli culturali». E ancora; «La risposta più forte ed efficace della Rai all’assalto delle televisioni private dovrà realizzarsi sul terreno della diver¬ sità e non dell’assimilazione». Morì nel 1984, quando il processo esattamente inverso a quello che auspicava non era ancora iniziato, almeno non plateal¬ mente. Negli anni successivi al 1976 (quando una sentenza della Corte Costituzionale aveva decretato la liberalizzazione delle televisioni private e sancito così la programmazione cinematografica selvaggia sul piccolo scher¬ mo), nel pieno della crisi del cinema italiano, Valmarana iniziò la Rai alla pro¬ duzione cinematografica “alta” (Ilgabbiano, 1977, di Bellocchio, L’albero degli zoccoli, 1978, e Camminacammina, 1983, di Olmi, Prova d’orchestra, 1979, di Fellini, Sogni d’oro, 1981, di Moretti, La notte di San Lorenzo, 1982, dei Taviani) e contemporaneamente modernizzò lo sceneggiato, avviando con decisione l’idea di serialità e passando dalla telecamera in studio alla macchina da presa anche in esterni. Valmarana ha il copione di uno sceneggiato “moderno” sul terrorismo e a diri¬ gerlo chiama Amelio, di cui ha molto amato Li piccolo Archimede. Al regista la sceneggiatura non piace e rifiuta, dicendo che non ha le idee abbastanza chiare sull’argomento. E aggiunge una battuta: «...e poi, avendo sempre fatto film su dei bambini, al più potrei fare un film su un ragazzo che pensa che il padre sia un terrorista». Valmarana non si lascia scappare l’idea e gli fa firmare un impe¬ gno. Amelio sta scrivendo una storia (Fratelli, mai realizzato) con Vincenzo Cerami; gliene parla, ma Cerami è tutf altro che entusiasta. Un po’ per ripicca, Amelio comincia a pensarci da solo: un quindicenne cresciuto sotto la cappa (anche mediatica) degli anni di piombo, un padre professore universitario democratico, tra i cui studenti più affezionati c’è anche un terrorista. Il proget¬ to comincia a interessare anche Cerami; nasce, prima della sceneggiatura, un soggetto scritto sotto forma di diario del protagonista quindicenne. Il diario di Emilio. È l’inverno del 1980: Valmarana si appassiona e fa partire il piano di produzione, si girerà nella primavera del 1981, a Torino e ad Alba. Ma il 69

Consiglio d’amministrazione della Rai salta e il progetto si ferma. Viene ripre¬ so un anno dopo: profondamente modificato nel senso e neirequilibrio narra¬ tivo, Colpire ai cuore viene girato a Milano e a Bergamo nella primavera del 1982 e partecipa in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre dello stesso anno. Non vince nulla (il Leone d’oro per l’opera prima — al quale il film concorre perché Amelio ha realizzato finora soltanto opere per la televi¬ sione — va a Scioperi di Luciano Odorisio, ex aequo con II sapore dell’acqua del¬ l’olandese Orlow Seunke), e in più scatena polemiche e interpretazioni con¬ traddittorie (che si ripercuoteranno anche sulla “vita” del film, che esce nelle sale con più di sei mesi di ritardo e passa in televisione, nonostante sia prodot¬ to dalla Rai, cinque anni dopo, nel 1987, in seconda serata). L’anno prima, nel 1981, il Leone d’oro veneziano è andato ad Anni di piombo, il film di Margarethe von Trotta ispirato alla storia delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin, giornalista la prima, terrorista la seconda, “suicida” per impiccagione nel 1977 nel carcere di Stammheim. Non c’è da stupirsi che l’attesa per il film di Amelio sia grande: in Italia, solo Caro Papà (1979) di Dino Risi, Maledetti, vi amerò (1980) di Marco Tullio Giordana e, trasversalmente, La tragedia di un uomo ridicolo (1981) di Bernardo Bertolucci hanno osato affrontare il groviglio oscuro che ha avvolto, oppresso e spento il Paese per oltre un decennio, e pochissimi altri lo faranno nei ventanni successivi, se si eccettuano Segreti segreti (1984) di Giuseppe Bertolucci e i recenti La meglio gioventù (2003), ancora di Giordana, e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio. A partire dalla strage di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, tutti gli anni Settanta si sono sviluppati all’insegna della strategia della tensione: stragi e attentati di matrice nera (le bombe sul treno Italicus, il 4 agosto del 1974, nella sala d’attesa della stazione di Bologna, il 2 agosto del 1980, l’omicidio del giudice Occorsio, a Roma il 10 luglio 1976) e, dalla metà del decennio, r“assalto al cuore dello stato” da parte del partito armato, le Brigate Rosse (fondate nel 1971), culminato nel 1978 con il rapimento di Aldo Moro e con il ritrovamento del suo cadavere il 9 maggio, dopo due mesi di contatti ambi¬ gui, piste tralasciate, trattative segrete. Muoiono assassinati il procuratore della Repubblica di Genova Francesco Coco (8 giugno 1976), il vicedirettore di «La Stampa» Carlo Casalegno (16 novembre 1977), l’operaio dell’Italsider Guido Rossa (24 gennaio 1979), il giornalista Walter Tobagi (28 maggio 1980), il direttore del Petrolchimico di Porto Marghera Giuseppe Taliercio (20 maggio 1981). Da entrambe le parti, rossa e nera, più di 10.000 attentati e molte cen¬ tinaia di vittime, in un intricato gioco politico di contrapposizioni, conniven¬ ze

ze, misteri, misfatti, idealismi degenerati, strumentalizzazioni, che dopo trentanni non è stato ancora chiarito. Il 7 aprile 1979, trenta esponenti di Autonomia Operaia vengono arrestati con l’accusa di insurrezione armata e coinvolgimento nel rapimento e omicidio Moro. Tra questi, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari Bravo e il filosofo Toni Negri, professore di Teoria dello Stato all’Università di Padova e di Parigi, che ripara in Francia. Il tema dei “cattivi maestri”, che dal ’68 in avanti con il loro insegnamento corrompono e corro¬ dono i principi dello stato democratico nelle università e nei licei, che invitano alla rivoluzione e offrono così la base teorica all’agire dei terroristi, diventa un cavallo di battaglia della politica e dei media. Il 20 febbraio 1980, viene arre¬ stato il brigatista Patrizio Peci, che in carcere decide di collaborare con la giu¬ stizia e di rivelare nomi, fatti, ubicazione dei “covi”. Comincia così lo smantel¬ lamento delle colonne delle Br, che porta all’arresto di tutti i capi (Mario Moretti, Barbara Balzarani, Valerio Morucci, Adriana Faranda - Renato Curcio è in carcere già dal 1976). Non è la fine del terrorismo, come consta¬ tiamo a ventisei anni di distanza, ma l’inizio dell’allentarsi della tensione, almeno su quel fronte, che attanagliava le città italiane. Così si apriva la recensione di Colpire al cuore di Tullio Masoni, nel 1983: «“È Patrizio Peci da piccolo!”, l’abbiamo sentita in un tranquillo pomeriggio feriale mentre passavano le ultime scene di Colpire al cuore. Pazienza. Si vede che i malati di zelo non sono solo quelli che brontolavano sulla “doppiezza” di Anni di piombo. Per fortuna il film di Amelio si tiene lontano dai moralismi fasti¬ diosi (e contrapposti), anzi mostra la più convincente felicità di intenzioni e di risultati proprio dove riesce a calarsi con delicatezza nei fatti, preservando luci¬ dità sia nel caos che nel dolore. In questo evita le pressioni della denuncia e della tesi politica, preferisce dare un senso a quello che si usa definire “clima sociale”, muove dal privato con l’intenzione di spiegare daH’interno, di preci¬ sare. Colpire al cuore non è un film sul terrorismo, piuttosto lo subisce, lo filtra in un quotidiano che ci riguarda tutti, tenta di indagare con discrezione, pur incidendo con durezza la facilità dei giudizi e dei luoghi comuni. Emilio tradi¬ sce il padre per gelosia. La gelosia violenta che cresce dalle risposte che non possono arrivare, da una negazione forzata che segna comunque, anche nei rapporti più riusciti e intelligenti, una certa fase dell’esistenza. Emilio avverte un’improvvisa distanza dal padre, una sfasatura che intorbida certezze e umori. Nell’ansia adolescente che intravede i salti brutali della maturità, Emilio osser¬ va un padre diverso, sfuggente. Proprio quando le certezze non bastano e altro si affaccia con la prepotenza della complessità, il figlio non trova il sostegno 71

del padre: capisce anche che questo non può venirgli, tuttavia il vuoto si esten¬ de, vanifica come una beffa l’occasione di sapere e di crescere» (Tullio Masoni, Colpire al cuore, «Cineforum», n. 224, maggio 1983, pagg. 49-50). Masoni fu uno dei rari critici (con Olivier Assayas, Lino Miccichè, Claudio Carabba e pochi altri) che colsero istintivamente nel segno, superando le aspettative astratte generate dal tema “terrorismo” e gli schieramenti indotti dalle simpatie politiche immediate. Chi cercava tesi da difendere, o un mani¬ festo da esibire, non li trovò; chi cercava una conclusione politica non la trovò; trovò invece un film estremamente privato e schivo che invita a osservare la Storia a partire dalla propria storia. Rivedendolo a distanza, ci si accorge che Colpire al cuore non ci chiede di valutare le origini e le conseguenze del terrori¬ smo, ma solo di sentirne il peso e il vuoto. Che il terrorismo è solo il contesto, mentre il testo narra l’amore e il rifiuto tra un padre e un figlio (esattamente come sedici anni dopo, in Così ridevano, l’emigrazione interna italiana sarà soltanto il contesto nel quale si sviluppa la storia di possesso, insofferenza e sopraffazione tra due fratelli). Che Amelio ha già maturata quell’abilità tutta particolare (e rara nel cinema italiano degli ultimi decenni) di fdtrare il mondo che ci scorre intorno, le nostre origini e le nostre prevedibili derive, attraverso la fotografia sottile e mai sensazionalistica dei rapporti privati. Nei film di Amelio, la strada per la verità (posto* che ci sia) ognuno deve trovarsela da solo. E talvolta, come in questo caso, la verità non c’è; ci sono solo lo scon¬ certo, il dolore, la solitudine, l’ambiguità dei rapporti umani. Durante l’anno di “sospensione” della lavorazione, il film era cambiato. Se durante la stesura della sceneggiatura, ha raccontato Amelio, era stato in¬ fluenzato dal clima del 7 aprile, dall’idea di una “caccia alle streghe” in atto, dal dibattito sui “cattivi maestri”, poi Colpire al cuore assume connotazioni più intime, più personali. «Se prima il film era dalla parte del padre», ha detto «ora sentiva anche, se non soprattutto, le ragioni del figlio. Cambia senso, cambia umore» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 115). Si concentra sul rapporto essenziale, perdendo per strada personaggi molto presenti nel Diario di Emilio (come la sua amica Marcella) e, se non riesce a rinunciare all’istintiva simpatia verso il padre, smussa radicalmente gli angoli che facevano del figlio un ragazzino pignolo, confuso e intransigente, che si finge sicuro di sé e afferma: «Non mi piacciono le cose incompiute, detesto gli spiriti burocratici, odio il pressapochismo». L’Emilio del Diario è più antipatico di quello del film; in lui si percepisce di più la sfida che non il bisogno d’amore. 72

«Ho fatto tutto il film dalla parte del padre», ha raccontato Amelio anni dopo. «Ma, e non per doppiezza, ho cercato di stare affettivamente anche dalla parte del figlio; perché questo è un mio dovere. Io credo di prendere posizione, la posizione di tutti e due. È un film dolorosissimo per l’impossibilità che i due personaggi, tutti e due amati da me, riescano ad amarsi tra di loro. Questo è il teorema. Io sono sempre presente davanti a loro e mi chiedo perché non si abbracciano, perché non si dicono che si vogliono bene, perché non riescono a superare cose come il terrorismo, che stanno vivendo, ma che passerà. Ci sono cose più solide che posseggono, sulle quali potrebbero far leva. C’è una grande pietà per il padre. Quand’è che lui sbaglia? Quando cerca di proteggerlo troppo. Come se il solo fatto di avere quindici anni dovesse per forza tenerlo al riparo dal male. Ma mi sembra un fatto di grande umanità. Vivi come vive un professore di cinquant’anni in quel momento, con alcuni tra i tuoi migliori alunni che sparano. Avendo un figlio, avremmo fatto lo stesso, perché gli devi spiegare troppe cose che sono difficili persino per te, che non capisci nemmeno tu. Invece Emilio, che ha quindici anni, presume che il padre gliele possa spiegare. E, quando alla fine si dicono che non c’è la perfezione né nei padri né nei figli, sono sconfitti tutti e due». Non si tratta perciò di stare dalla parte di uno dei due protagonisti (che fu il “dilemma” esploso alla visione veneziana del film), ma piuttosto di entrare in un rapporto affettivo spinoso e continuamente frainteso, in un percorso d’a¬ more comunque doloroso, anagraficamente irresolubile, se non con un gesto simbolico radicale (appunto “l’uccisione” del padre), che qui diventa enorme e “scandaloso” proprio perché esce dall’astrazione simbolica e si fa concreto: Emilio probabilmente denuncia Dario come terrorista. Il grande coraggio di Amelio sta nel collocare una storia privata in un contesto fortemente proble¬ matico e attuale; la sua abilità nel non consentire all’attualità di “mangiarsi” il soggetto principale del film, intimo ed eterno. Accadrà lo stesso, di nuovo, con II ladro di bambini, Lamerica, Così ridevano, dove gli abusi dell’Italia anni Ottanta, il flusso migratorio clandestino verso le nostre coste degli anni Novanta e l’emigrazione interna, da Sud a Nord, alla fine degli anni Cin¬ quanta sono lo sfondo e il catalizzatore di una condizione umana, affettiva e storica di profondo disagio: a differenza della maggior parte dei registi italia¬ ni, Amelio rifugge sia dalla metafora dichiarata sia dalla cronaca; attaccato ai suoi personaggi più, credo, di qualsiasi altro autore italiano, li fa parte di sé, li ama, valuta sulla loro pelle il disagio della Storia (anche contemporanea; nes¬ sun film di Amelio è slegato dal presente). 73

«Del terrorismo io non conosco né le ragioni né le radici, ma solo le sue mani¬ festazioni», affermò l’autore in un’intervista al momento della presentazione del film. «Si cerca di conoscerlo per combatterlo meglio, ma sappiamo solo che ha avvelenato i nostri rapporti privati. Questo è il tema del film. Io parlo solo di quello che conosco, perciò parlo di me, che non sono un terrorista ma ne sono toccato violentemente; dunque, un film su quello che il terrorismo ci ha fatto, individualmente, e sulle trasformazioni quasi biologiche che ha operato nella nostra vita civile. Noi, gli adulti, abbiamo una forza razionale e una forza storica che ci permettono di affrontarlo, di difenderci mantenendo intatte le nostre convinzioni. Il ragazzo ha quindici anni, ne aveva cinque quando il ter¬ rorismo è nato. E vissuto con queste cose, che sono cresciute con lui senza che ne fosse consapevole e sono diventate la sua seconda pelle. Il suo comporta¬ mento è terribile, ma non è colpevole. Lui spia, si nasconde, pedina la ragazza, fruga tra i panni sporchi, e il padre gli ricorda che non è là che troverà la verità; lui immagina assassini dappertutto; eppure è un bravo ragazzo, uno scolaro modello, non un ragazzo cresciuto nei sobborghi» (Bernard Nave e Andrée Tournès, Entretien avec Gianni Amelio, «Jeune Cinéma», n. 146, novembre 1982, pagg. 20-21). Su questa “aria del tempo”, su questa paura e chiusura che nel giro di pochi anni avevano cambiato radicalmente le vite e le abitudini degli italiani, usando sullo sfondo, quasi in fuori campo, immagini ed elementi sonori divenuti consueti (il telegiornale che‘dà la notizia della strage in cui è morto Sandro, la manifestazione per il Salvador che si svolge in sottofondo mentre Emilio pedina il padre e Giulia nel cortile dell’Accademia di Brera, la rassegnazione dei passanti e delle persone sul tram alla vista di nuovi cadaveri sull’asfalto), Amelio costruisce un moderno melodramma familiare nel quale il solo “slittamento” rispetto al cinema classico è il “ritegno” psicologico e, natu¬ ralmente, stilistico (in questo senso, gli unici film coi quali andrebbe confron¬ tato Colpire al cuore sono quelli di Rainer Werner Fassbinder, che negli anni Settanta, partendo da suggestioni cinematografiche analoghe e adattandole al proprio tempo e alla propria esperienza, aveva riportato il melodramma a una cocente modernità). Psicologicamente, non esistono più prototipi fissi con i quali misurarsi, eroi e antagonisti, cause giuste e coraggiose per le quali battersi. Dario, il padre, è antiautoritario per cultura e per scelta; non ha la verità, né crede si possa aver¬ la (anche per questo il suo concreto coinvolgimento con il terrorismo resta alquanto dubbio). Nell’amaro confronto del prefinale, chiede al figlio: «Che cosa ti ho fatto? Che cosa ti aspetti da me? Vorresti un padre che ti dica dovè 74

il bene e dov’è il male? Padri perfetti così non ce ne sono più!». Dall’aria del tempo, anche dei tempi passati (da ragazzo era stato coi partigiani), ha assorbito un’istintiva dif¬ fidenza per la polizia, per la delazione, per l’autoritarismo in sé e per sé. Ha la “legge¬ rezza” dell’ironia e del relativismo; ne ha anche le malinconie e i buchi neri. L’im¬ magine di Trintignant in pigiama (fot. 31), seduto sul divano di prima mattina abbrac¬ ciato al suo cane, sigaretta accesa e occhi persi nel nulla, riassume in un momento tutto il mondo interiore di Dario. Emilio, il figlio, cresciuto bene, con buone letture, e visibilmente stimolato dal padre, vorrebbe le risposte che l’adolescenza esige e che il colto relativismo del padre gli nega. Alle domande affannose del padre risponde: «Figli perfetti meno ancora». Intransigente, cerca sicurezza e integrità morale. Trova solo spaesamento: si tormenta in continuazione le mani, dice battute sgraziate, è incuriosito e innervosito da Sandro (che è più grande, ha l’esibizioni¬ smo invadente di “quella” generazione e un rapporto quasi da pari con Dario), è attratto e imbarazzato da Giulia (che è bellissima e ha una confidenza ancora più pal¬ pabile, intima, con suo padre). Emilio ha paura, sta in silenzio, si isola; cerca di capire il mondo standone a distanza, spiandolo e fotografandolo (fot. 32). La madre (la più tragica delle tragiche madri di Amelio) vive letteralmente immersa nel silenzio: tranne che nel mo¬ mento della scomparsa di Emilio, quando telefona agli amici per sapere se il figlio è da loro, la vediamo sempre isolata dalla cuffia del magnetofono (fa la traduttrice), seduta al tavolo mentre batte a macchina, quieta, aerea. Sottilmente straziante la scena nella quale Emilio sta in piedi alle sue spalle (fot. 33), la sfiora, l’accarezza e, senza che lei senta nulla, comincia a insultarla, “stupida”. 75

“scema”, con un tono leggero e incolore: ugualmente introversi, identici (il giovane Fausto Rossi è figlio di Sonia Gessner, l’attrice che interpreta la madre), timidezza da non protagonisti, Emilio e sua madre hanno concluso da tempo il loro cammino in comune; non solo lei non può aiutarlo, ma è ormai insuperabile il silenzio che hanno intessuto tra di loro. Poi c’è Giulia, la compagna del terrorista ucciso, mamma di un bambino di pochi mesi, forse l’amante di Dario, la femminilità materna della storia, tor¬ mentata e condannata anche lei dall’aria del tempo. «In Colpire al cuore», ha detto Amelio, «dobbiamo fare i conti con il presente. E lo facciamo sapendo che tutti e due, io figlio e tu padre o io padre e tu figlio, non possiamo vivere del nostro amore, o del nostro non amore. Ma questo nostro amore o non amore fa i conti con gli altri, con il presente, con la vita. Per cui, io padre fac¬ cio i conti anche con l’altro mio amore, che può anche essere l’amore per una ragazza terrorista. Perché Dario può anche essere innamorato di lei. Colpire al cuore è così: è una bomba che sta sempre per esplo¬ dere e non esplode mai. Perché? Perché tu non sai com’è stata costruita questa bomba, quando deve scoppiare, chi l’ha fatta, dove l’hanno messa. Le ellissi del film non sono reticenze. ‘E non è neppure per incapacità narrativa che nel film non dico certe cose, come mi ha rimproverato qualcuno, riferen¬ dosi alla parte finale, l’incontro tra Dario e Giulia (fot. 34). Io trovo quell’in¬ contro straziante, soprattutto per il non detto. Anzi, è brutto il detto, che mi hanno imposto: “Cosa dico a mio figlio quando è grande? che suo padre ha ucciso?”. Questo l’ho dovuto scrivere sotto dettatura. Invece, mi è stata rim¬ proverata questa possibilità di amore tra il professore e la ragazza, perché face¬ va crollare tutto il castello del rapporto padre-figlio col riferimento esclusivo al terrorismo». Solare e misteriosa, Giulia attraversa le inquadrature con postura da ballerina classica e con la sicurezza di una giovane maturità. E il concreto “non detto” del film; ed è anche l’unico tramite che Emilio ha per riafferrare il padre. Vuole entrare nel loro mistero, nella loro palpabile complicità. La osser¬ va fin dall’inizio (quando la vede, senza conoscerla, al bar della funivia di Bergamo); e quando il suo compagno viene ucciso, comincia razionalmente a pedinarla e fotografarla. La segue per vedere dove abita, dove si nasconde; la fotografa insieme a suo padre nel loggiato di Brera, attento, da “poliziotto” in 76

erba, a cogliere con l’obiettivo la pagina ben aperta del «Corriere della sera», che denuncia il giorno esatto in cui un professore universitario ha incontrato una latitante. Sarà questa puntigliosa precisione a far esplodere il dramma, irritando Dario che non riconosce il figlio che ha allevato: «Io mi incontro con una latitante proprio mentre la polizia la sta cercando. È questo che volevi dimostrare?», rimprovera al figlio davanti alle foto. Ma ha ragione Alberto Crespi quando puntualizza: «Non gli può nemmeno passare per la testa che Emilio gli sta invece gridando “non amare lei, ama me!”; né Emilio è in grado di spiegarglielo con parole così dirette» (Alberto Crespi, “Di chi sono queste?”, in Emanuela Martini [a cura di], Gianni Amelio: le regole e il gioco, cit., p. 47). E lo stile del film lavora “indirettamente”, attraverso i silenzi e le frasi banali o consuetudinarie, comunicandoci per via trasversale la non comunicazione degli affetti, disseminando indizi appena percettibili che riempiono lo spessore della storia, mantenendo la parola data da Amelio nel suo primo film, che certe cose, certi volti, certi eventi della vita si possono fotografare solo di spalle (o mantenerli del tutto fuori campo). Palesemente, fin da Colpire al cuore, l’uso della macchina da presa diventa una faccenda di moralità. Un carrello è una questione di morale, ha detto Jean-Luc Godard; dieci carrelli sono immo¬ rali. Amelio l’ha chiamata “necessità”: «Nessuno mi dice mai: che emozione mi ha dato quel primo piano della bambina che guarda il mare. Mi dicono: che bello quel carrello. Quando si dice questo, si guarda la macchina che si muove. E io dico, perché non lo dite guardando la macchina che sta ferma? Per me, un movimento di macchina ha un significato semantico molto preci¬ so; ma lo stesso valore ce l’ha un’inquadratura fissa. Non gli do differenza. Non voglio che i movimenti di macchina siano visti come una specie di cosa a se stante rispetto ai momenti in cui la macchina sta ferma. Come se fossero due categorie separate e il regista fosse tanto piti bravo quanto più sa governa¬ re la categoria del movimento. Il racconto acquista emozione e valore solo se e quando movimento e fisso sono necessari nel momento in cui avvengono. Quindi, il concetto che deve governare la messa in scena è il concetto di neces¬ sità. In rapporto a cosa? In rapporto all’emozione, in rapporto al giusto, in rapporto al vero». In Colpire al cuore, dove il vero è imprendibile e il giusto va scavato fuori dal fondo dei cuori, la macchina da presa si mette al servizio delle emozioni ine¬ spresse e confuse di Emilio, accompagnando un tracciato di linee e di sguardi indiretti (Emilio che osserva il padre mentre fa lezione all’università, Emilio che intravede Giulia e comincia a seguirla fuori dalla metropolitana, Emilio 77

che spia Giulia e Dario a Brera, Dario che rintraccia Emilio a Bergamo e poi lo segue con l’auto, Dario e Giulia a casa di lei, che cercano disperatamente di non sfiorarsi, di non incrociare nemmeno gli sguardi, all’interno dell’inquadratura). Non si tratta di spiare dal buco della serratura, ma di dire soltanto quello che il racconto per immagi¬ ni può e deve dire, lasciando che le emozio¬ ni crescano negli spettatori come nei perso¬ naggi, non predigerite, imposte, conclamate. La chiave emotiva del film è poco dopo l’inizio, in una scena di dispiegata sintesi immaginaria e melodrammatica. Una scena di apparente distensione, ma interrotta da Emilio con un gesto “plateale”, che denuncia il suo disagio profondo e annuncia lo sviluppo drammatico della storia. E la scena nel giardino della nonna, con Emilio al primo piano, in quella che è stata la stanza dei giochi di Dario, e gli altri giù, all’aperto. La nonna canta e insegna a Sandro a ballare il tango, Dario e Giulia li guardano. Finché la nonna invita Dario a cantare e lui accenna Rondine al nido. Emilio, dalla finestra, li osserva e comincia a scatta¬ re fotografie. Il gruppo si scioglie, la non'pa esce di scena, Dario e Sandro chiacchierano, Giulia si scioglie i capelli (fot. 35). Emilio posa la macchina fotografica, si avvicina al vecchio grammofono (fot. 36) nella stanza, lo cari¬ ca, mette un disco di Beniamino Gigli che canta Rondine al nido, lo gira verso la finestra e si affaccia a guardarli. In giardino, nel controcampo, un carrello accompagna Giulia che cammina, si ferma e si rivolge verso Emilio alla finestra; il carrello prosegue fino a trovare Dario e Sandro, che a loro volta si fermano e si girano, dandoci le spalle (fot. 37). La macchina da presa inquadra il piano d’insieme e per un attimo ecco la sintesi del dramma; una figurina di ragazzo esile e irrigidito nella sua sfida da una parte, gli altri, raggruppati e un po’ stupiti, dall’altra; un giardino un po’ fané, il silenzio e la distanza che impediscono al romanticismo d’altri tempi di Beniamino Gigli di espandersi. Emilio sta parlando, in quel momento, ma nessuno capisce che cosa stia dicendo. 78

Ecco dunque, asciugati toni e accenti, messa in sordina l’espressività daH’aria dei tempi e dal pudore, sfumati i conflitti tra generazioni nella schermaglia culturale (Ortega y Gasset, De Nerval, Leopardi, barzellette, anagram¬ mi), scelto un punto di vista privilegiato attraverso il quale guidarci nell’azione e nei sentimenti, un mèlo familiare che ha filtrato lo stile degli ascendenti più cari ad Amelio attraverso decenni di rarefazione e purifica¬ zione dell’immagine, come se i film anni Cinquanta di Elia Kazan, Douglas Sirie e Nicholas Ray si fossero spogliati del loro “esotismo” immergendosi nella moralità lancinante dei film di Rossellini con la Bergman, nel silenzio disperato dei piano sequenza di Antonioni. Colpire al cuore nasce dall’incrocio tra La valle dell’Eden (1955), Europa ’51 (1952) e La notte (1960), l’incrocio tra il non detto e l’ammissione straziata degli affetti, disperatamente composto e altret¬ tanto disperatamente bisognoso di esplodere. E, come tutto il melodramma cinematografico, è un’esemplare cartina di tornasole del suo tempo, rivela stili, atmosfere, umori. Immerso, per la prima volta da La fine del gioco, nella realtà contemporanea, Amelio mostra immediatamente la disponibilità a “lasciarsi scegliere” dai set e dai luoghi piuttosto che andare alla ricerca di immagini pre¬ costituite in sede di sceneggiatura. La villa della nonna a Bergamo, con quella sua aria di vecchia borghesia appannata e distratta, viene scoperta per caso il giorno prima delle riprese; Milano è a tratti riconoscibile, ma è soprattutto un’atmosfera e una luce; il casermone nel quale si rifugia Giulia e nel quale si svolge l’ultimo atto del dramma, con le sue linee opprimenti e anonime, con i vetri rotti e le pareti scrostate, è solo la prima delle architetture “dannate” che si inseguiranno nei film successivi, e offre un immediato “polso” di quegli anni: città, anime, cuori confusi, svuotati, sotto assedio. Perciò, se è vero che Colpire al cuore, nella sua essenza, avrebbe potuto essere ambientato in qualsiasi altro momento degli ultimi cinquant’anni, è anche vero che non sfugge al proprio tempo, ma lo soppesa e lo valuta con triste disincanto, e, con una fuga in avanti che soltanto nei decenni successivi si è potuta comprendere in tutta la sua drammaticità, anticipa la deriva psicologica verso la quale un’intera società, la nostra, si stava muovendo. C’è il vuoto là fuori; l’utopia è affogata tra compro¬ messi e faccende quotidiane; la moralità è diventata oggetto di compravendita; la paura si è mangiata l’anima di intere generazioni. 79

We'll Meet Again L’accoglienza tiepida riservata dalla maggioranza dei critici a Colpire al cuore, il ritardo della sua uscita nelle sale, le reazioni smodate di alcuni dirigenti della Rai che l’aveva prodotto (uno dei superiori di Paolo Valmarana rifiutò persino di accompagnare il film a Venezia, definendolo non un “cattivo film” ma una “cattiva azione”) confinano Amelio in una situazione di stallo. «Quando un primo film ha richiesto tanto impegno senza ottenere adeguati riscontri», ha detto il regista «non sono molto forti le spinte a proporre un secondo film. Con il carattere che mi ritrovo, ero anzi scoraggiatissimo. Più che cercare di fare un film, ho cercato di non farlo» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 121). Gli arriva comunque da Rai tre la proposta di una trasposizione tele¬ visiva da un autore italiano per la serie Dieci racconti italiani, dieci registi italia¬ ni, e Amelio adatta nel 1983 / velieri da Anna Band. Sarà la sua ultima regia per cinque anni, a parte sei cortometraggi di dieci minuti ciascuno realizzati tra il 1984 e il 1985 per la rubrica di Raitre 3 Sette, andati in onda nel 1985 con il titolo La cinepresa di Gianni Amelio. Lavora ad alcuni progetti mai realizzati, continua a fare il “negro”, ma la sua attività principale in questi cinque anni è il corso di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. «Quando ero ragazzo», ha raccontato nel'Jl 994, «non dicevo a me stesso: da grande farò il regista. Dicevo: un giorno farò la scuola di regia del Centro Sperimentale. Dunque, qualche fascino il CSC doveva esercitarlo. In un’epoca in cui non esisteva nemmeno una facoltà universitaria che avvicinasse scientifi¬ camente il cinema, l’idea che ci fosse una scuola dove, invece di imparare la geografia e i logaritmi, ci si occupava di Rossellini e di Dreyer era il massimo (...). Poi, al Centro Sperimentale io ho insegnato. Potrebbe essere una vera scuola e non lo è del tutto. Per esserlo, dovrebbe perdere la sua logica e la sua struttura parastatale, non essere il prodotto di un certo modo politico di per¬ mettere l’accesso al mondo del cinema. Quello che la scuola ha di aristocratico e di fuori dal tempo è l’idea che la cultura cinematografica si trasmetta ideali¬ sticamente con la conoscenza sistematica e diretta dei classici, oppure con le grandi spiegazioni e le grandi organizzazioni dei sistemi narrativi del cinema. Io cercavo di dire ai ragazzi: sappiate che esiste il master, il campo medio, il campo, il controcampo; poi dimenticatelo e andate a fare quello che volete voi. E una specie di contraddizione che la scuola insegni le regole e poi sugge¬ risca di dissolverle» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Gojfredo Fofi, cit., pagg. 67-68). Gon lui imparano il mestiere Giuseppe 80

Caudino, Francesca Archibugi, Ning Ying, Alberto Taraglio, Isabella Sandri, Sigfrid Monleon. Amelio ama insegnare e, come ha sempre detto, non ha mai avuto bisogno di molti soldi per vivere. Ma accetta immediatamente la propo¬ sta che gli arriva da Sergio Silva (il produttore di La piovra), di scrivere una storia per un tv movie per Raiuno. Su suggerimento di Vincenzo Cerami, Amelio abbozza il soggetto di / ragazzi di via Panisperna, sui giovani fisici che, alla fine degli anni Trenta, fanno le ricerche sull’atomo nei laboratori di via Panisperna, sul rapporto tra il più maturo Enrico Fermi e il giovane genio Ettore Majorana, la cui misteriosa scomparsa era stata raccontata anche da Leonardo Sciascia in La scomparsa di Majorana. Quella che Amelio ha definito la sua «riconciliazione con il cinema e con il mestiere di regista» nasce perciò come prodotto televisivo. Morando Morandini ha definito gli anni Ottanta «desolanti, il decennio più stupido della storia italiana del Novecento. E il cinema ne è stato uno degli specchi». Il decennio si è connotato all’insegna del “secondo miracolo economi¬ co italiano” (legato al controllo dell’inflazione, aH’aumento del prodotto inter¬ no lordo e all’euforia borsistica di massa, a una nuova corsa ai consumi vistosi, agli status Symbol) e del dilagare dei messaggi pubblicitari e dei modelli cultu¬ rali proposti dalle televisioni private, dopo che Telemilano di Silvio Berlusconi è diventata, nel 1980, Canale 5 e che, con la metà del decennio, si è delineato il sistema Fininvest, con l’acquisizione delle concorrenti Retequattro e Italia 1. Sono gli anni del governo Craxi (con la formula del pentapartito. De, Psi, Psdi, Liberali, Repubblicani, già varata nel 1981 dal repubblicano Giovanni Spadolini), dell’orribile slogan “Milano da bere”. Come scrive Guido Crainz, la strategia craxiana verso il potere «è una via perseguita in rappresentanza di una “società civile” intesa come luogo dell’affermazione individuale, della scalata sociale senza norme, degli arricchimenti illeciti o - se proprio necessario - leci¬ ti, purché consistenti e molteplici. E perseguita, inoltre, all’insegna di un “prag¬ matismo” povero di contenuti e sempre più commisto a prassi degenerative. Esso si apre la strada a sciabolate aH’ombra della conclamata “fine delle ideolo¬ gie”, si ammanta di una “modernità” i cui principi e regole si scolorano, e ha come “fisiologico” risvolto l’affermazione di un’ambizione disgiunta dai meriti. A questo non nobile frutto della storia patria (per il quale è coniato allora il ter¬ mine di “rampantismo”) il craxismo dà dignità e legittimazione: la sua fortuna risiede proprio nella capacità di rappresentare la vitalità e la voracità del corpo sociale e dei suoi singoli membri» (Guido Crainz, Il paese mancato. Donzelli Editore, Roma 2003, pagg. 594-595). 81

Con contraddizione solo apparente, il cinema non si avvantaggia minimamen¬ te dell’euforia e della pretesa modernità circostanti. Letteralmente messo in ginocchio dalla programmazione cinematografica selvaggia delle televisioni private (che fa precipitare la media annuale dei biglietti venduti dai 356 milio¬ ni del 1976 ai 90 milioni del 1990 e dimezza, o peggio, il numero dei film prodotti), il nostro sistema produttivo crolla. Mentre il cinema medio non ce la fa a reggere la concorrenza della televisione e del cinema americano che rastrella il favore del pubblico, il cinema d’autore resta appannaggio di un pic¬ colo gruppo di “padri” (Bertolucci-Bellocchio-Taviani). Molti dei cineasti che avevano esordito negli anni Settanta scompaiono, altri (Ponzi, Samperi) devia¬ no verso il cinema commerciale o (Agosti, Brenta) scelgono una marginalità rigorosa. Restano, insieme ad Amelio e a Nanni Moretti (che ha esordito nel 1976 con Io sono un autarchico). Pupi Avati, Roberto Faenza, Liliana Cavani, Peter Del Monte, Giuseppe Bertolucci. Quanto ai nuovi autori anni Ottanta, a vent’anni di distanza possiamo constatarne la falcidia, se si eccettuano Ga¬ briele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Francesca e Gristina Comencini e quelli che allora venivano accomunati dalla generica, e spesso imprecisa, definizione “nuovi comici” (oltre a Moretti, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Maurizio Nichetti). Durante questo decennio, il cinema italiano perde il “contatto” con il proprio pubblico», (quello che, molto faticosamente sta tentando di riallacciare dagli anni Novanta). Immerso nell’oggettiva afasia della nostra cultura (in parte annichilita dal franare rovinoso degli ideali del decennio precedente e in parte travolta dai “moderni” luccichii televisivo-pubblicitari), non riesce né a elaborare una nuova logica dei generi né un modello interpretativo della realtà circostante, in mutazione. In un eccesso di “cronaca familiare” e di “autoanalisi” segnate spesso da una misura troppo aggraziata e laccata, si annulla progressivamente il terreno immaginario comune tra cine¬ ma e pubblico, la memoria svanisce, come la capacità di interrogarsi sulla Storia e di interpretare il mondo. Guriosamente, è proprio grazie alla televisione che alcuni dei talenti cinemato¬ grafici del decennio si affermano (è attraverso il successo raggiunto sul piccolo schermo che Verdone, Troisi, Benigni fanno il salto al grande schermo), che, seppure faticosamente, il cinema d’autore continua a esistere (infatti la Rai si impone come importante polo produttivo cinematografico, cui si contrappone, dalla metà degli anni Ottanta, l’altro polo, la Fininvest) ed è dal piccolo scher¬ mo che talvolta altri autori come Amelio continuano a fare “cinema” (per esempio, nel 1981 Pupi Avati dirige Aiutami a sognare — in una doppia versio82

ne, 185 e 112 minuti, per il piccolo e il grande schermo —, nell’Sd Luigi Comencini Cuore — 360 e 115 minuti — e Maurizio Scaparro Don Chisciotte — 140 e 107 minuti —, nell’SO Luigi Comencini La storia — 270 e 150 minuti). «Quando il cinema era il cinema» ha affermato Amelio, «la televisione era telegiornale, sceneggiato da studio, concerto, ripresa teatrale, ed esisteva uno speci¬ fico televisivo. L’imbastardimento è cominciato quando è nato il telefilm, che ha confuso le carte del cinema e della televisione. E la mia generazione è vitti¬ ma di questa confusione. Tutti quelli della mia età hanno dovuto liberarsi di questo problema che li ha assorbiti subito, sia come fatto tecnico, nel senso che vi abbiamo trovato possibilità di lavoro, sia come confusione mentale, nel senso che non sapevamo più raccontare scavando (che è il fare storia), come forse sarebbe necessario per il cinema, ma ci siamo limitati alle superfici. Questo ha prodotto anche dell’autoindulgenza, proprio perché da una parte la televisione era qualcosa di meno impegnativo e meno profondo, e dall’altra gli stessi com¬ mittenti ci spingevano a uno sguardo più conciliante» (Gianni vàrnelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Lofi, cit., pag. 80). Nel corso degli anni Trenta, a Roma, prima studenti, poi scienziati, i "ragazzi di via Panisperna" sono destinati a cambiare il corso della ricerca scientifica, seguendo poi ciascuno la propria avventura umana. Nella Facoltà di Fisica della celebre via, si incontrano ancora giovanissimi. Franco, Ettore, Emilio, Edoardo e infine Bruno. Tutti studiano sotto la guida di Enrico, professore giovane anche lui e già accademico d'Italia. Tra scherzi goliardici alquanto elaborati - memorabi¬ le è una burla radiofonica a spese di Guglielmo Marconi, considerato il simbolo della "vecchia" fisica ufficiale - e traguardi raggiunti con grande ostinazione, il gruppo riesce a imporre nel tempo esperimenti sull'atomo di portata rivoluzionaria. Tra gli altri emergono, in un costante rap¬ porto di reciproca ammirazione e sospetto, di slanci e rancori, Enrico ed Ettore: un’amicizia che si svela e s'infrange di continuo nella differenza dei loto metodi scientifici. Enrico infatti è lo scien¬ ziato sperimentatore ed Ettore quello per così dire "puro", sempre stimolato da un intuito miste¬ rioso e geniale. Diversi anche come personalità e carattere (pragmatico e più disinvolto il profes¬ sore, introverso e inquieto Ettore, che forse già si pone angosciosi interrogativi sulle responsabi¬ lità della scienza), l'incontro/scontro tra i due è inevitabile. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Enrico, insignito del Premio Nobel, ripara negli Stati Uniti con la moglie Laura, che è di religione ebraica. Mentre il resto del gruppo si disgrega, Ettore appare sempre più stanco e smarrito. Non ancora trentenne si rifugia per qualche tempo nella grande casa di famiglia in Sicilia, vivendo tra i contadini. Poi torna, ma per breve tempo, a insegnare all'università di Napoli. Lo vedono per l'ultima volta sul traghetto che attraversa di notte il mar Tirreno. Poi le sue tracce si perdono per sempre. 83

Lo spirito che presiede alla scrittura e alla realizzazione di / ragazzi di via Panisperna (180 minuti, ridotti a 120 per la versione cinematografica) appare effettivamente più “conciliante” rispetto all’asprezza essenziale di Colpire al cuore, come se Amelio, consapevole del mezzo diverso che sta usando, dell’at¬ tenzione più incostante che può chiedere al suo pubblico, si abbandonasse qualche volta alla propria “bravura”, al proprio piacere del cinema, finendo per realizzare, paradossalmente, quello che ha definito il suo film più “hol¬ lywoodiano” («Uno studio ti dice: sei un regista, hai un contratto con me, prendi questa storia, raccontala, e poi, se puoi, dentro ci metti anche qualcosa di tuo»). La lunga sequenza introduttiva, per esempio, è un modello di classi¬ cismo per il ritmo e per i tempi, e ci introduce immediatamente, oltre che nell’atmosfera dell’epoca, del luogo e del “gruppo”, nelle intenzioni dell’auto¬ re: / ragazzi di via Panisperna, che non è nemmeno “liberamente ispirato” al libro di Sciascia (ma nel quale Sciascia, con soddisfazione, riconobbe sugge¬ stioni e umori analoghi ai propri), non è la biografia dei giovani scienziati che negli anni Trenta, all’Istituto di Fisica dell’Università di Roma, in netto con¬ trasto con la scienza ufficiale rappresentata da Guglielmo Marconi, riuscirono a portare a termine la scissione dell’atomo; non è una ricostruzione storica né una disamina sugli albori dell’era nucleare. Questo è cinema; una finzione che magari, attraverso i rapporti, i dubbi, le complicità e le differenze dei suoi protagonisti, riuscirà anche a raccontarci qualcosa su quel periodo e su quel problema. E “cinema” al punto da aprirsi con un episodio inventato che rac¬ conta una beffa. Dopo che sui titoli di testa la musica della radio si è mescolata a una voce che legge il testo di un proclama del regime, sul cornicione di un edificio che sovrasta Roma, un ragazzo aggancia un cavo alla mano di una statua: un pic¬ colo pallone antenna sale in cielo (fot. 38). Dall’Istituto di via Panisperna Emilio, Edoardo e la sua fidanzata stanno prepa¬ rando la beffa: un’interferenza nella trasmissione radiofonica del discorso di Guglielmo Marconi. Ma si accorgono che i calcoli sono sbagliati e cor¬ rono a farseli correggere da Ettore che, in un’aula, sta mettendo in imbarazzo il professore di matema¬ tica («Se qualcuno trattasse lei come lei tratta la . matematica finirebbe dritto in galera»). Intanto, c’è eccitazione nello studio della Eiar: dopo l’annun¬ ciatrice, un disco, e le autorità si affollano nella 84

sala. Manca solo il “giovane genio della fisica italia¬ na”, Enrico, e il ministro Corbino, al telefono, lo fa cercare da un bidello. Enrico, chiuso nel suo studio, non risponde e nota, dalla finestra, il pallone (fot. 39) . Ettore, a casa con la madre, le dice di spegnere la radio. La cerimonia prosegue, entra Marconi, accompagnato da un carrello che ne inquadra solo il busto, non la testa, e che in campo lunghissimo comincia il suo discorso («Italiani, amici...»), su cui si inserisce stridula l’interferenza. In via Panisperna, con un sottofondo di musica solenne, la ragazza di Edoardo comincia a legge¬ re, imitando le pause deU’annunciatrice: «Guglielmo Marconi è morto, davan¬ ti al microfono di quella radio che lui stesso aveva inventato...», «Con lui muore la fisica italiana...». Ettore, a casa, ride (fot. 40) . Caos nello studio, la trasmissione “pirata” non si può bloccare, proviene dal rione Monti, da via Nazionale. «Da via Panisperna», borbotta Corbino, che è anche rettore e preside della Eacoltà di Fisica e Ingegneria. Il palloncino-antenna ondeggia legato alla statua. Costruito e montato con una scioltezza narrativa che ricorda davvero il cinema americano di genere e che fa scattare nello spettatore la comprensione immediata dei caratteri e dei loro successivi rapporti (l’entusiasmo dei “ragaz¬ zi”, il ruolo isolato, di “leader” riconosciuto, di Ettore, la silenziosa compli¬ cità con cui li osserva il professore “genio”, appena più vecchio di loro), l’epi¬ sodio (assolutamente falso) richiama inevitabilmente un’altra celebre “beffa” radiofonica degli anni Trenta. Qui, corre l’anno 1934. Pochi anni dopo, nel 1938 (lo stesso anno in cui l’avventura dei “ragazzi” si conclude, con la scom¬ parsa di Majorana dall’Università di Napoli, dove insegna fisica teoretica, e con la partenza di Fermi, con la moglie ebrea e i figli, per l’America, da Stoccolma, dove ha ritirato il premio Nobel), un altro “giovane genio” (dello spettacolo, questa volta) produce il “falso” più famoso della storia della radio: Orson Welles che, non ancora regista cinematografico, la notte di Halloween getta nel caos mezza America, trasmettendo dagli studi della Cbs La guerra dei mondi di H.G. Wells, da lui adattata come radiocronaca in diretta dell’in¬ vasione marziana degli States. Amelio ce l’ha in mente e, parlando del primo 85

livello di lettura di I ragazzi di via Panisperna, il livello della “storia ufficiale”, confessa: «Forse il primo livello è quello più sacrificato, l’ho un po’ liquidato con il primo episodio proprio perché non sapevo come affrontarlo, o forse perché non m’interessava affrontare la vicenda da quell’aspetto pubblico. L’episodio iniziale è quello più inventato, è quello che più richiama il cinema, nel senso che c’è una clamorosissima citazione, voluta. Mi ricordo che, cer¬ cando una strada per dare un po’ il quadro dell’epoca, l’atmosfera in cui si inseriva l’attività dei ragazzi, io e lo sceneggiatore pensavamo essenzialmente a qualcosa di molto sopra le righe. Nel momento in cui ci venne l’idea della beffa alla Orson Welles, di far dire alla radio “Marconi è morto”, ci fu la qua¬ dratura del cerchio. Penso che sia inutile che noi ricostruiamo un episodio storico quando poi il film rifiuta questo taglio. E allora cerchiamo di essere il più clamorosamente citanti, e i personaggi a quel punto diventano dei piccoli Welles, che fanno all’ufficialità del tempo uno scherzo, una provocazione analoga alla sua» (Paolo Vernaglione, Fabio Bo, Conversazione con Gianni Amelio, «Filmcritica», n. 394, aprile 1989, pag. 244). Negli annali della Fisica si chiamano Fermi, Majorana, Arnaldi, Rasetti, Segré. Nel film di Amelio sono solo Enrico, Ettore, Edoardo, Franco, Emilio. E questo familiare “anonimato”, perseguito dall’autore con ostinata capar¬ bietà (e strenuamente avversato dai funzioriari Rai, che proprio nella ricono¬ scibilità dei personaggi storici e del Tema vedono l’esca più efficace per il pubblico televisivo), è il “segno” più vistoso di quanto Amelio sia disinteres¬ sato alla biografia, alla cronaca storica, al dibattito sui rapporti tra scienza e potere. Di quanto, da una parte, stia “giocando” con una macchina produtti¬ va per lui insolita e insolitamente (contraddittoriamente) “libera” (perché in fondo non è cinema, è televisione, e perciò può divertirsi ad applicare le rego¬ le a orologeria della narrazione classica senza mettere in discussione la propria etica d’autore), e daH’altra di come, senza tradire le richieste del “committen¬ te”, riesca a tessere comunque il racconto di qualcosa che gli sta a cuore e che si salda armonicamente con il resto del suo lavoro. E non si tratta neppure (o non del tutto) del tema della responsabilità della scienza e, soprattutto, dell’i¬ nevitabile scontro tra scienza ed etica (proseguire o meno nella propria ricer¬ ca, anche quando ci si rende conto delle spaventose potenzialità dei suoi risultati), un dilemma tormentoso che, secondo le tesi ufficiali, indusse il gio¬ vane Majorana al suicidio (per altro messo in dubbio anche negli ambienti scientifici). I ragazzi di via Panisperna è, ancora una volta, la storia del rap¬ porto complesso tra un “maestro” (in questo caso, più che “padre” “fratello 86

maggiore”) che, come Dario in Colpire al cuore, non riesce a trasmettere la propria “adattabilità” al mondo (seppure a una fetta più o meno eccentrica di mondo) a un “allievo/fratello minore” troppo sensibile ed esigente nei confronti della propria e altrui moralità. E il rapporto tra Enrico ed Ettore che tesse lo sviluppo narrativo, dal loro primo incontro (anche questo scandito con sicuro piglio “hollywoodiano”, nell’aula vuota, senza identificar¬ si, professore e allievo si sfidano su un problema matematico, fot. 41) al loro “fantasmatico” addio a distanza, ognuno appog¬ giato al parapetto di una nave diversa (la prima, quella di Enrico, diretta in America, la seconda, di Ettore, chissà dove, fot. 42), immerso in una notte diversa, mescolati e messi ancora una volta in contatto da una dissolvenza incrociata. Un rapporto fatto di attrazione e competizione, di confronto incessante tra meccanismi intellettivi e psicologici distanti, di sfide, incom¬ prensioni, rimpianti, di un bilancio continuo cui si costringono a vicenda. Perché, se Ettore, con l’intransigenza sdegnosa della giovinezza e con la pro¬ pria genialità “pura”, mette Enrico di fronte ai com¬ promessi cui ha sottomesso il suo cervello e, in generale, la sua “arte” (la matematica), Enrico comunque, vivendo, mette Ettore di fronte alla sua incapacità di vivere “come gli altri”. Così Ettore, il genio, si inserisce a pieno diritto nella galleria dei “giovani bruciati” alla Nicholas Ray (citato qui let¬ teralmente, nella scena in cui i due osservano la volta celeste, di notte, al telescopio, fot. 43, omag¬ gio ai giovani James Dean e Sai Mineo immersi nella terrificante magia del Planetario) che Amelio sta componendo, non tanto diverso da Leonardo, Emilio, Rosetta, Pietro, costretti da se stessi o dalle circostanze a non diventare “come gli altri”. «Nei Ragazzi di via Panisperna», ha affermato Ame¬ lio, «c’è questo senso di disillusione e di malinconia nell’adulto, di vitalità che poi diventa morte. Nella mente di Fermi Majorana muore o si suicida, perché Majorana è un genio e Fermi è una persona norma87

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le. E là c’è la domanda che mi sta a cuore: che cosa bisogna fare, che cosa serve, per essere geni? Sostituisci alla parola “genio” la parola “diverso”. Qual è il prezzo di essere diversi, qual è l’orgoglio di essere diversi, qual’è la gioia di essere diversi, qual è il dolore di essere diversi? Vale la pena di essere diversi? Soffrendos perché hai un momento : che ti ripaga di tutta la sofferenza? Vale la pena di :X ; ■ 7~ ' essere diversi per non essere “come gli altri”? È il FOT. 43 tema di tutti questi film, anche del Piccolo Archimede, della Città del Sole, di Colpire al cuore». "Xv



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Memorie dal sottosuolo Dopo il successo televisivo di / ragazzi di via Panisperna (quasi sei milioni di spettatori), ancora una volta un “nuovo inizio” nel cinema. «Da Porte aperte in poi, non sono più andato in viale Mazzini, alla Rai, che sino ad allora era stata la mia unica committenza. Davvero, ho cominciato a fare del cinema con Porte aperte» (Gianni Volpi [a cura di], Gianni Amelio, cit., pag. 131). L’occasione arriva nella maniera più classica* e, ormai, insolita nel cinema ita¬ liano. Un produttore di vecchia scuola. Angelo Rizzoli, “scopre” Porte aperte, un romanzo breve di Leonardo Sciascia ispirato a un famoso processo degli anni Trenta: un impiegato palermitano della Confederazione Professioni e Artisti, licenziato per frode, nel marzo del 1937 uccide tre persone, il dirigente che l’ha licenziato, un collega che ha preso il suo posto e la propria moglie che l’ha tradito; il regime fascista decide di allestire un processo esemplare, Alessandro Pavolini, il gerarca presidente della Confederazione, si costituisce parte civile, viene chiesta a gran voce la pena di morte. Un giudice a latere rie¬ sce però, solo nel giudizio di primo grado, a far modificare la pena in ergasto¬ lo. Rizzoli acquista i diritti del libro e lo mette nelle mani di uno sceneggiatore famoso. Furio Scarpelli, che comincia a elaborare un trattamento e, a un certo punto, chiede di poter lavorare con il regista che dirigerà il film. La scelta di Rizzoli cade su Amelio, che accetta e comincia a scrivere con Scarpelli; quando le loro idee divergono, lo sceneggiatore decide di ritirarsi dal film. La palla passa a Vincenzo Cerami, che ha già collaborato con l’autore per Colpire al cuore e / ragazzi di via Panisperna. La sceneggiatura corre veloce, come la rea¬ lizzazione del film, che ha un buon successo di pubblico in Italia e all’estero. 88

vince numerosi premi italiani e il Felix europeo ed entra nella cinquina degli Oscar, candidato come miglior film straniero (vincerà Reise der hojfnung dello svizzero Xavier Coller). Palermo 1937. Tommaso Scalia uccide nel giro di poche ore l'avvocato Spadafora, dirigente della Confederazione Fascista Professionisti e Artisti (da cui Scalia era stato allontanato per brogli finanziari), un impiegato dello stesso ufficio che aveva preso il suo posto e la moglie infedele. Dopodiché torna a casa e aspetta di essere arrestato. Al processo confessa tutto, senza pentirsi. Pressioni dall'alto e la pubblica opinione vorrebbero dal tribunale una punizione esemplare; la condanna a morte. Solo un magistrato, il giudice a latere Vito Di Francesco, che ha molti dubbi sulla pena capitale, si batte contro questa decisione scontata. Avvalendosi degli strumenti della legge, tenta di ricondurre il triplice omicidio a un unico movente, e, durante il dibattimento, svela l'intreccio di legami che esisteva tra l'imputato, la moglie e le altre due vittime. Di fronte alle dif¬ ficoltà, il giudice è sul punto di arrendersi ma trova inaspettatamente schierato dalla propria parte uno dei giurati popolari. Consolo, un semplice agricoltore, che in Camera di Consiglio si batte quanto e più di lui. Così, al giudizio di primo grado. Scalia viene condannato all'ergastolo. Dopo la sentenza, il giudice e il giurato s'incontrano in campagna, una domenica di festa. Qui con sorpresa Di Francesco apprende che quel contadino ha letto tanti libri, conosce Dostoevskij, ma oppone alla fiducia dell'altro un malinconico pessimismo sull'esito di quel caso giudiziario. Dopo il processo d'appello infatti la condanna a morte di Scalia sarà eseguita. E Vito Di Francesco verrà esiliato in una sperduta procura di provincia.

Definito dal Morandini «il miglior dramma giudiziario italiano con Processo alla città (1952) di Zampa» e comunque spesso accomunato nelle recensioni dell’epoca ai film processuali che Hollywood stava rilanciando, in realtà Porte aperte ha poco a che vedere sia con il filone giudiziario (sono solo quattro le scene di dibattimento in aula e due le riunioni dei giurati, che si sviluppano non attraverso un contraddittorio serrato, ma su un sottile accumulo di sguar¬ di, silenzi, suggestioni) sia, più in generale, con il “cinema politico” che, in completo declino negli anni Ottanta, nel passato ha spesso preso spunto dalle opere di Sciascia. A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, Cadaveri eccellenti (1975) di Francesco Rosi, Todo modo (1976) di Elio Petri (solo i più importanti dei film tratti da Sciascia) sono tra i titoli fondanti il “genere” politico, ne hanno stabilito ed elaborato le regole narrative, asciugandosi negli anni in un linguaggio sempre più cupamente metaforico, raffreddando la rabbia civile e politica in una ten¬ sione sempre più sotterranea e avvolgente. Il film di Amelio (il cui protagoni89

sta è il volto del cinema politico classico, Gian Maria Volonté, maschera sem¬ pre più scarnita e dolente) sfugge alla catalogazione, cancella gli stereotipi, ral¬ lenta i ritmi e abbassa gli acuti, materializza una concretezza quotidiana di solito extrafilmica e tesse contemporaneamente l’immagine di un mondo rare¬ fatto nella propria endemica cultura della violenza. Violenza esibita, sfrontata, dell’assassino e del regime che ne vuole la morte, ma anche violenza dei proce¬ dimenti e delle logiche giudiziarie applicate astrattamente e soprattutto, anco¬ ra una volta, delle unità “elementari” che presiedono alla trasmissione di que¬ sta cultura, la famiglia, la scuola, la comunità. Nel suo unico, “letterale” film sul Potere, Amelio va con decisione alle radici più ataviche del suo perpetuarsi, si serve della propria esperienza autobiografica e della conoscenza del Meridione per interrogarsi (e interrogarci) non solo sulla moralità della nostra Storia, ma anche su quella del nostro presente. Perciò, Porte aperte è sì un film sulla pena di morte e sul tema dostoevskiano del delitto e del castigo (d’altron¬ de, esplicitamente introdotto dall’autore con il libro di Dostoevskij, L’idiota, che circola nel film come dono e invito alla ragione), ma è anche un film sulla mafia, intesa come retaggio culturale e psicologico, addestramento “etico” col¬ lettivo, dipendenza complice da un sistema di padri e padrini, non solo e non necessariamente meridionale. E sì un film sul fascismo come mostruosa e con¬ traddittoria esibizione di violenza superomùiica (l’assassino come gli scalma¬ nati che ne chiedono l’esecuzione) e del cohseguente, impellente bisogno di silenzio, ma anche sull’oggi come figlio naturale di ieri, stessi valori, stessi cla¬ mori, stessa cecità esultante e complice. Porte aperte viene realizzato nel 1989: da appena una decina d’anni Cosa Nostra ha riaffermato la propria sconvolgente potenza criminale e le proprie ramificazioni internazionali e politiche. Nonostante il susseguirsi di delitti (anche “eccellenti”, come quelli del giornalista di «L’Ora» Mauro De Mauro, nel ’70, o del procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, nel ’71), per decenni la mafia era stata considerata dall’opinione pubblica poco più che un affare di famiglia esclusivamente siciliano, intenta a regolamenti di conti locali che la stavano portando sull’orlo dell’estinzione. Folklore e non invece un complesso intreccio di interessi economici, alleanze politiche e connessioni internazionali che, verso la fine degli anni Settanta, avevano condotto la Sicilia al centro del traffico mondiale di eroina. È in questo periodo che la mafia decide di uscire allo scoperto e (in una lotta tra “cupole” mostruosamente san¬ guinosa, ma anche nel rigetto delle norme “d’onore” dei clan tradizionali, che fino a quel momento avevano vietato di alzare le armi contro donne, bambini. 90

giudici, poliziotti, politici) di liberarsi di chiunque si frapponga ai suoi interes¬ si: vengono uccisi Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo e il giudice Cesare Terranova della commissione antimafia (1979), Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia (1980), Pio La Torre, segretario del Partito comunista siciliano e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo da quattro mesi (1982), il giudice Rocco Chinnici, capo delPufficio istruzione di Palermo (1983), Ninni Cassarà, diri¬ gente della squadra mobile di Palermo (1985). Ma, attraverso l’azione dei giu¬ dici del nascente pool antimafia, lo Stato risponde per la prima volta con durezza ed efficacia: il 10 febbraio del 1986 inizia il maxi processo a Cosa Nostra, nel quale vengono portati alla sbarra cinquecento imputati per mafia. Il processo si conclude il 16 dicembre del 1987, con diciannove ergastoli e molte altre pene pesantissime. Ma la guerra non finisce e si inasprisce. Negli anni Novanta si susseguono altri delitti: il giudice Rosario Livatino (1990), Libero Grassi, l’imprenditore palermitano che aveva denunciato le cosche (1991), il giudice Giovanni Falcone e il giudice Paolo Borsellino, nel 1992, a distanza di due mesi l’uno dall’altro, in due stragi di ferocia inaudita, don Pino Puglisi, parroco di un quartiere di Palermo impegnato sul fronte antima¬ fia (1993). Altri arresti, processi, accuse di “contaminazioni” tra mafia e Stato. Tutto questo in Porte aperte non c’è; la parola “mafia” non viene nemmeno pronunciata, l’omicida è un disgraziato esaltato figlio del suo tempo; i giudici non sono “collusi”, ma funzionari più o meno rassegnati o più o meno com¬ plici dello status quo fascista; il giudice Di Francesco non è un eroe ma sem¬ plicemente un uomo di cultura e moralità rigorose che cerca di esserne all’al¬ tezza; Consolo, il giurato popolare che con il suo intervento induce a modifi¬ care la pena di morte in ergastolo, non è un intellettuale impegnato e schiera¬ to ma soltanto un brav’uomo che si pone dei dubbi di coscienza. Eppure, in Porte aperte si respira l’aria di quegli anni e di quei processi: nella recitazione contratta e autolesionista di Ennio Fan tastichini (l’assassino), nei suoi sguardi e nelle sue grida di sfida, ai giudici, alla legge, al mondo, nella sua figura strafottente tra le sbarre della gabbia in aula, che rimanda inevitabilmente alle immagini dei mafiosi nei processi contemporanei; nella rete protettiva che sembra tendersi automaticamente intorno ai segreti delle famiglie “rispettabi¬ li”, e nell’identica percezione di complicità malata e ineludibile che pare cementare la famiglia borghese del giudice; nella sensazione di minaccia incombente che, ovunque, si respira e che può far fraintendere il significato di una frase lasciata a metà, di un libro regalato per stima o di un interessamento 91

in buona fede. Il Potere (fascismo o mafia) intreccia i nostri passi quotidiani, e questa consapevolezza può causare un colpo al cuore se, dopo essersi assopiti, al risveglio non si vede immediatamente la propria bambina al proprio fianco. Ecco dunque che, testo anornalo (non vi si individua, per esempio, quell’alter ego dell’autore che, magari all’apparenza diviso in due, compare in tutti gli altri film). Porte aperte viene ricondotto da Amelio all’interno del suo lavoro di progressivo approfondimento sullo stato di decadenza della nostra società e sulle nostre responsabilità morali. Forse, con il suo sguardo all’indietro e la sua ricomposizione minuziosa di un quadro sociale “noto”, fatto di classi, mestieri, famiglie, riti, sessi, endemiche infezioni, ataviche sopraffazioni, è il punto di partenza indispensabile per dispiegare il percorso analitico successivo dell’au¬ tore, quel “viaggio in Italia”, nel Paese senza memoria e senza dignità, che intraprenderà dal film successivo. «Ho la presunzione di credere che Sciascia avrebbe molto amato Porte aperte», ha detto Amelio. «E penso che l’avrebbe amato proprio perché, insieme a Cadaveri eccellenti di Rosi, è il film che più non si accontenta di Sciascia; è il film che, più degli altri, mette in discussione quello che Sciascia ha scritto. Qui credo veramente di aver riportato il discorso di Sciascia alle sue radici più lontane, nel senso che credo di aver fatto ancora meno concessioni di Sciascia. Penso che sia un film più duro e più concentrato sul tema di quanto non sia invece la cronaca di Sciascia, che qualche concessione al colore letterario spes¬ so la fa» (Gianni Amelio, Amelio secondo il cinema. Conversazione con Goffredo Fofi, cit., pagg. 49-50). Amelio modifica il testo di Sciascia (anche se non così radicalmente come accadrà nei suoi ultimi due film, solo “liberamente ispira¬ ti” ai libri di Pontiggia e Rea), introduce elementi assenti dal romanzo (per esempio, i figli piccoli che accomunano i due protagonisti), modifica psicolo¬ gie e caratteri (il giurato contadino, che nel libro è un borghese agricolo intel¬ lettuale e nel film diventa il figlio di un mezzadro che ha ereditato dal padre il palazzo acquistato dal padrone, con la magnifica biblioteca di settemila volu¬ mi), altera l’equilibrio narrativo, sbalzando in primo piano la figura dell’assas¬ sino, che nel libro è poco più di un pretesto per sviluppare il dibattito sulla pena di morte. «L’imputato, Sciascia lo lascia lì, nella sua cella». Amelio invece lo trasforma in uno dei due “deuteragonisti” di un noir («Non saranno forse l’uno lo specchio rovesciato dell’altro? L’uno lo specchio oscuro dell’altro? L’uno il nero, l’altro il bianco, un nero che non sia tutto nero e un bianco che non sia solo bianco?»), un genere per il quale il ‘'Finéphile' Amelio ha sempre nutrito una grande passione. Comprensibile: il noir è un genere “sporco” per 92

eccellenza, i cui significati palesi sono sempre stati inquinati da inquietanti let¬ ture sotterranee, un genere di transizione, dalla A alla B, dal cinema classico a quello contemporaneo, dalla pace sociale al caos interiore. Il noir spesso chiu¬ de al nero, “di spalle”, oltre una porta chiusa, come piace ad Amelio, che nel¬ l’incipit di Porte aperte rende omaggio a un film americano che ama molto. 1958, Usa. Un giovanotto atletico in una minuscola stanza d’albergo si veste di tutto punto ed esce. Suona il campanello di un beU’appartamento, gli apre un uomo più anziano, al quale offre i propri servigi. Il giovanotto, Claude, vuole arricchire in fretta, l’uomo, Mr. Moon, divaga, dice che lo chiamerà. «Può essere tra un giorno o tra un mese, ma telefonerò una volta sola». Nella sua stanza, il giovanotto aspetta, fa ginnastica, legge un libro, rispetta orari spartani. Il telefono suona, secondo colloquio, il “contratto” è fatto. L’insegna di un barbiere, dall’interno, nel retrobottega vediamo per un attimo il barbiere e i commessi legati e imbavagliati. Un cliente si siede sulla poltrona e si appi¬ sola, dietro di lui Claude, con il camice bianco, gli sistema l’asciugamano intorno al collo, prende prima pettine e forbici e poi un rasoio a mano libera e, in primissimo piano, lo arrota sulla cinghia. Dissolvenza. Il suo conto in banca si arricchisce di 500 dollari. Claude, in camice, scende dall’auto ed entra in un ospedale. Un uomo in un letto con la maschera a ossigeno: una mano la stacca. Ancora 500 dollari sul conto. Claude suona il campanello di Mr. Moon, che gli chiede cosa faccia lì. Entrano, Mr. Moon esce di campo in primo piano, Claude, dietro di lui, con un coltello in mano, avanza verso la macchina da presa, che chiude al nero sul suo giubbotto e la sua mano armata. 1937, Italia. In primissimo piano viene arrotata la lama di una baionetta, la macchina da presa allarga e sulla sinistra un uomo, Tommaso Scalia, attende che il lavoro sia finito (fot. 44). Dopo è per strada ed entra in un palazzo pub¬ blico, ne percorre i corridoi, qualcuno lo saluta, qualcun altro gli chiede cosa ci faccia lì. Mentre attraversa un salone, la macchina inquadra in primissimo piano un busto di Benito Mussolini. Entra in un grande ufficio in ombra, dove un funzionario è appisolato dietro un’imponente scri¬ vania. E l’avvocato Spadafora, presidente della Con¬ federazione Professionisti e Artisti. Si sveglia e, infasti¬ dito dalla sua presenza, gli ordina di aprire la finestra; l’aria disperde le carte distese su un tavolo. Scalia rac¬ coglie da terra i pezzi di una carta geografica della Sicilia che Spadafora, seduto ora al tavolo, ricompone. 93

Scalia è umile e lamentoso, si sente capro espiatorio. «Tu hai rubato troppo e hai rubato male», lo liquida Spadafora e gli dice di andarsene. Scalia obbedisce, gira intorno al tavolo e viene verso la macchina da presa fino al primo piano, pare ripensarci, estrae la baionetta, si gira e colpisce Spadafora seduto, coprendo il gesto con la propria schiena. Pulisce la lama su un pezzo della carta geografica, dal quale la macchina da presa allarga per inquadrare il corpo riverso sulla scri¬ vania. Di nuovo nel corridoio. Scalia entra in quello che era il suo ufficio, occu¬ pato da un collega, che quasi si scusa, mellifluo, imbarazzato. Girano piano intorno alla scrivania ricolma di carte e Scalia si offre di aiutarlo a fare ordine. Meglio chiudere la porta: Scalia arriva al primo piano e chiude, la macchina da presa resta dietro il vetro opaco, un accordo musicale cresce, un tonfo. Scalia esce, raggiunge la moglie che lo sta aspettando di fianco aH’automobile, seccata dell’attesa. L’auto percorre una strada di campagna, la moglie è sostenuta, lui aggressivo, la tocca tra le gambe, sul seno, poi ferma la macchina tra gli alberi. La moglie scappa. Scalia la blocca, la butta a terra e, in campo lunghissimo, la violenta. Poi si alza, si gira e viene verso la macchina da presa, con le mani nei pantaloni e la faccia alterata. In controcampo, la moglie si rialza e, disfatta, aggiu¬ rt f . standosi i vestiti, avanza verso un tabernacolo. Scalia si gira e va verso di lei (fot. 45): ancora una volta di spal¬ le, ancora una volta un campo lunghissimo ma, questa volta, uno sparo. La prima sequenza descritta (in tutto, dieci minuti folgoranti) è l’inizio di un piccolo classico della serie B americana, realizzato negli anni (fine Cinquanta) in cui la B languiva come tutta Hollywood e forse per questo semisconosciuto in Italia. Il film si òìi'A.ms. Assassinio per contratto (diretto nel 1958 da Irving Lerner, collaboratore di Flaherty e Lang e autore di almeno un altro thriller notevole. La città nella paura, 1959), ed è molto amato anche da Martin Scorsese, che lo considera uno dei film che lo hanno maggiormente influenza¬ to e che ha dedicato New York New York proprio a Lerner, che aveva collabora¬ to al montaggio. Amelio scoprì Assassinio per contratto durante la sua onnivora adolescenza cinefila.