Fra cent'anni. Gli scienziati raccontano il futuro della Terra 8820013487


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Fra cent'anni. Gli scienziati raccontano il futuro della Terra
 8820013487

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JONATHAN WEINER

Fra

cent'anni

(Gli scienziati raccontano il futuro della Terra

SPERLING & KUPFER

Gli argomenti ci sono fin troppo familiari: l’effetto serra, le piogge acide, il riscaldamento globale, il buco nello strato d’ozono, la distruzione delle foreste tro-

picali, l'estinzione delle specie. A lungo ci siamo domandati se valeva la pena di prendere sul serio questi segnali d’allarme sulla salute del pianeta. Ora lo sappiamo. Grazie al lavoro degli scienziati, l'evidenza è ormai alla portata di tutti. Fra cent’anni descrive questa evidenza attraverso il lavoro degli scienziati che hanno

contribuito

ad accumularla,

ri-

percorrendo spesso il lavoro compiuto nell’Ottocento dai grandi precursori delle attuali ricerche sull’atmosfera. Ricco di chiare spiegazioni e di vivaci, straordinarie interviste con gli scienziati più impegnati in questo settore, costituisce un’accessibile analisi dello stato del nostro pianeta e della sua possibile evolu-

zione nei prossimi decenni. Divulgazione scientifica al massimo livello, Fra cent’anni descrive i multipli assalti alla Terra portati dai suoi stessi abitanti e riesce a collegare in un’unica trama la rapida crescita della popolazione mondiale e l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera, l’effetto serra

e i clorofluorocarburi usati nelle bombolette spray — ma, soprattutto, nell’indu-

stria elettronica —, il taglio delle foreste tropicali e le necessità di sopravvivenza delle popolazioni del Terzo Mondo, l’asfalto delle megalopoli e il riscaldamento globale. Gli effetti nocivi di tutte queste pratiche sono ormai documentati e documentabili con sempre maggior precisione grazie a raffinate tecniche di misura. Il «carotaggio » delle calotte polari Segue nell'altro risvolto

BUENT/ MASINI ANNI

JONATHAN WEINER

FRA CENT'ANNI

SPERLING & KUPFER EDITORI MILANO

The Next One Hundred Years Copyright © Jonathan Weiner, 1990 © 1992 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. ISBN 88-200-1348-7 33-I-92

Indice

. Il problema . Minuti particolari . La curva di Keeling . Atropo . Un Eureka lento ad arrivare . La prima estate del Terzo millennio . Le sette sfere . Buchi nell’ozono DO LUNANLUNUN1KLWINIT 9. Le isole di Lovejoy 10. L’oracolo di Gaia 11. Il nuovo problema Note e fonti Ringraziamenti

124 148 208 230 264 271

Ad Aaron e Benjamin

Poiché la questione da affrontare non è di semplice felicità speculativa, ma riguarda i problemi reali e le sorti della razza umana... FRANCESCO BACONE, Novum Organon

Il problema E Dio li benedì e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e abbiate poteri sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra.” Genesi, 1, 28.

La Engineering and Research Associates ha sede a Tucson, in Arizona. La ospita un insignificante edificio a un piano nel North Tucson Boulevard, accanto a un’area non costruita, delimitata da paletti e catenelle. Nei locali sul davanti, vi sono tecnici che lavorano alla linea di articoli

d’uso ospedaliero prodotti dalla società: un mescolatore di sangue, una sacca per la raccolta del sangue, un monitor per la misurazione della densità del sangue, un cappuccio per siringa di sicurezza autobloccante, e altri strumenti della moderna flebotomia, cioè dell’arte di cavare il sangue. Nei locali sul retro una coppia, marito e moglie, lavora a un prodotto “dell’altro mondo”. In quelle stanze, Daniel e Michel Harmony fabbricano sfere di cristallo.

Gli Harmony incominciano con un globo di vetro della grandezza di una sfera di indovino o di una palla da cannone del primo Ottocento, con un forellino in cima. Dentro questo, versano qualche tazza d’acqua salata. Con una pipetta, fanno cadere entro il globo dei gamberetti rossi, piccolissimi, ciascuno con le sue dieci zampe e le lunghe antenne tattili, e con la tendenza a sbiancare se spaventato. Servendosi di pinzette, inseriscono una fronda di alga verde. Un passaggio con una fiamma di quelle che si usano nell’industria vetraria e l’imboccatura del globo è sigillata. I gamberetti si mettono a pascolare fra i ramoscelli di alga come se avessero sempre vissuto in una sfera di cristallo. Nuotano fino al Polo Nord e guardano in su, scendono al Polo Sud e guardano in giù; si comportano sotto ogni aspetto da padroni di un minuscolo pianeta. Se avvertono la presenza degli Harmony, non danno segno di esserne allarmati, benché i visi umani debbano essere distorti dalle pareti del globo e ingigantiti fino a sembrare quelli dei Quattro Cavalieri dell’ Apocalisse.

Solo quando le dita degli imballatori passano attraverso il loro cielo di vetro, gli animaletti assumono un colore più pallido. Dopodiché ogni sfera viene immersa nell’oscurità totale. Gli Harmony sfornano le loro sfere di cristallo a partite di cinquanta o cento pezzi per volta. Imballate a una a una in scatole di cartone ben isolate termicamente, vengono poi spedite a clienti sparsi in tutto il Paese, nella “sfera” più grande. Per lo più finiscono su tavolini da salotto o su scrivanie di alti dirigenti. Si vendono per 250 dollari l’una, con il nome brevettato di EcoSfere. Questi globi di cristallo sono una “ricaduta” tecnica dei programmi spaziali. Il fondatore della Engineering and Research Associates, Inc., ne acquistò la “ricetta” dalla U.S. National Aeronautics and Space Administration, la NASA. Lo scopo di questa era la progettazione di colonie spaziali. Se gli astronauti si avventureranno mai a grande distanza dalla Terra, dovranno farlo all’interno di ambienti sigillati altrettanto ermeticamente delle EcoSfere. La loro vita dipenderà da quella che equivarrà a una bolla nello spazio, una bolla al cui interno, diversamente che in uno sgabuzzino o in

una cabina di ascensore, l’aria rimarrà sana e respirabile giorno dopo giorno, mese dopo mese, con garanzia assoluta, per tutto il tragitto fino a Marte e ritorno, nonostante che gli uomini e le donne a bordo respirino, mangino, lavorino, giochino, dormano, defechino e forse anche si riproducano (o al-

meno facciano le operazioni connesse a quest’atto). L’EcoSfera è un piccolo passo, fatto da un tecnico della NASA, in direzione delle stelle. I gamberetti rossi rappresentano gli astronauti; le alghe rappresentano un sistema di sostanze viventi in grado di rinnovare l’aria e di nutrire gli astronauti. L’EcoSfera è anche un modello funzionante della vita sul nostro pianeta, un mondo in miniatura. A differenza di una vaschetta di pesci rossi o di un acquario, è chiusa ermeticamente e quindi del tutto autonoma e autosufficiente, tranne che per il fabbisogno di luce solare. Non si può spruzzarvi dentro mangime per i pesci. Non si può addizionare l’acqua di ossigeno facendovene passare il quantitativo necessario sotto forma gassosa: il gas non attraversa il vetro. Non si può mai cambiare la ghiaiuzza, pulire l'interno delle pareti, rinnovare l’aria o sostituire qualche individuo che morisse. Si può solo mettere la sfera in un posto abbastanza caldo, con la giusta quantità di luce. A parte questo, gli animali e le piante che sono al suo interno restano abbandonati a se stessi. La nostra grande sfera è contenuta in se stessa e autonoma allo stesso modo. Allorché gli astronauti e i cosmonauti che sono in orbita guardano verso

sl

casa, vedono sette mari, sette continenti e due chiazze di ghiaccio, il tutto racchiuso in una palla di gas dall’aspetto vitreo. Le fotografie prese dal cielo ci dicono: “Ecco tutto quello che c'è”. Ecco la somma di tutta l’acqua, l’aria, la roccia che possediamo. Questo è quanto abbiamo per viverci sopra, o più esattamente dentro, visto che l’azzurra cupola di gas sta al di sopra delle nostre teste. Dal punto di vista dell'ingegnere spaziale, una EcoSfera è formata da cinque ele-

menti funzionali: 1°. La terra: vi è l’equivalente di un ditale di sabbia e ghiaiuzza in fondo alla sfera. 2°. L’acqua. La sfera ne contiene per due terzi del suo volume. 3°. L’aria, che ne riempie lo spazio rimanente.

4°. Il fuoco. La luce del Sole la inonda ogni giorno. Senza quest’apporto di energia non potrebbe esservi la vita. 5°. La vita. Cioè le alghe, i gamberetti e i microbi sospesi nell’acqua.

Naturalmente, vi è anche la stessa sfera cava di vetro. Per non allungare l’elenco possiamo includere la sfera nel numero 1°, La terra, visto che il vetro, fatto con silicati, è ottenuto fondendo della sabbia. La sfera tiene in-

sieme il sistema, per cui sembra esserne la parte più importante, ma in realtà (come in ogni cosa ben costruita) tutte le parti sono ugualmente importanti. Dan e Michel Harmony hanno costatato che i gamberetti non possono sopravvivere in un’EcoSfera se una qualsiasi delle cinque parti è assente: perfino la ghiaiuzza sul fondo. Anche il pianeta Terra è un sistema costituito da pochi meccanismi fondamentali. Ve ne sono sette, e possono essere paragonati (non solo metaforicamente ma, in misura che può sorprendere, nella realtà) a sette sfere. 1°. La terra. Una massa rotonda di minerali e rocce, rotante intorno al proprio asse, più o meno solida. Comprende la massa maggiore del pianeta. I suoi strati più esterni sono tavolta chiamati “litosfera”, dal greco lìîthos per “pietra” e sphaira per “palla”, perché formano un grande involucro che avvolge il nucleo, a mo’ di una buccia d’arancia. Ha più di 4 miliardi di anni. 2°. L’acqua. Da un punto di vista cosmico, anche la provvista d’acqua del pianeta forma un grande involucro rotondo, una sfera sotto la quale si trova gran parte della litosfera. Talvolta è detta “idrosfera” e copre oltre due terzi dell’intera superficie della Terra. Viviamo su un pianeta azzurro. La maggior parte dell’acqua del pianeta eruppe sotto forma di vapore dai vulcani della litosfera durante i primi anni di vita del pianeta. Si condensò in bacini, fiumi e mari allorché la crosta si fu abbastanza raffreddata perché potesse cadere la pioggia. Questo raffreddamento richiese centinaia di milioni di anni.

3°. L’aria. È una terza sfera, cava. È l’unica delle parti funzionali della Terra cui riconosciamo il carattere di sfera anche nel linguaggio familiare: atmosfera. Come l’idrosfera, l'atmosfera fuoriuscì dai vulcani in eruzione sotto forma di gas caldissimi dopo la formazione della crosta. Da allora in poi, il pianeta è stato avvolto da un involucro sottile e disperso di gas, anche se il rapporto quantitativo fra questi gas è grandemente cambiato col passare del tempo. 4°. Il fuoco. Tutti ipianeti ricevono la luce dalla stella attorno alla quale orbitano. Il nostro Sole si formò nello spazio oltre 4,5 miliardi di anni fa, e la Terra è uno dei

nove pianeti che si formarono e si radunarono alla sua periferia, formando il sistema solare. Il Sole, grande sfera di fuoco, riscalda l'atmosfera e l’idrosfera suscitando in

entrambe poderose correnti le quali sono deviate e distorte dalla rotazione della litosfera provocando moti vorticosi e determinando il clima. 5°. La vita. Per chi, come tutti noi, si trova immerso nella vita, occorre uno sforzo

d’immaginazione per comprendere che, per forma, l’insieme della vita è molto simile alla litosfera, all’idrosfera e all’atmosfera: uno dei gusci, dei cerchi concentrici che

avvolgono quel centro che è costituito dal nucleo del pianeta. La sfera della vita è uno strato, una pellicola sottolissima, qualcosa come la patina verdastra che ricopre le

vecchie palle di cannone, di quelle che si vedono in qualche antico monumento all’aperto. Uno dei primi scienziati che pensarono alla vita come a una sfera fu il geologo austriaco Eduard Suess, il quale coniò la parola “biosfera” nel XIX secolo, verso la

conclusione di una sua monografia sulle Alpi. L’audace geochimico russo Vladimir Vernadsky ripescò e fissò nell’uso il termine negli anni Venti. La biosfera non potrebbe esistere senza la litosfera, l’idrosfera, l’atmosfera e la

sfera del fuoco. Quindi è necessariamente più giovane delle altre sfere. Ma non di molto: sembra che sia nata poco dopo la loro fissazione. La biosfera avrebbe un’età di oltre 3,5 miliardi di anni.

Nell’EcoSfera la vita, l’acqua e l’aria sono dentro il globo di cristallo. Ma nel pianeta vita, acqua e aria sono avvolte attorno al globo in tre gusci concentrici e molto sottili. Oltre a terra, acqua, aria, fuoco e vita, il nostro mondo ha almeno altri

due fattori costitutivi che non possono esser messi in un’EcoSfera fatta per ornare una scrivania: 6°. Il ghiaccio. Attualmente il nostro pianeta ha due vaste calotte di ghiaccio, una a ciascun polo. Alcune delle montagne più alte sono anch'esse coperte di ghiacci perenni, i quali vengono a formare un altro guscio concentrico, la criosfera (dal greco kryos, “freddo, gelo”). Ovviamente, la maggior parte del globo è troppo calda per essere coperta di ghiaccio, ma tutte le aree glaciali sparse sulla superficie della Terra sono disposte secondo una forma sferica. Questa sfera è molto più recente delle altre cinque; la Terra primordiale aveva una

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temperatura di gran lunga troppo elevata per consentire la formazione di quantità di ghiaccio degne di nota. In realtà le prime tracce di una vasta copertura glaciale appaiono nella storia geologica sul finire dell’Era Precambriana, oltre 2 miliardi di anni fa. Da un punto di vista chimico, il ghiaccio è acqua in forma solida: è uno “stato”

dell’acqua. In questo senso, potrebbe essere fatto rientrare sotto la voce “idrosfera”.

Ma il comportamento della criosfera è talmente particolare e la sua influenza è così specifica, come è stato nelle epoche glaciali, che gli scienziati impegnati nel tentativo di capire come funzioni il sistema Terra trovano utile considerarla un elemento a se stante del meccanismo, una sesta sfera.

7°. La mente. Di gran lunga l’elemento più recente del nostro elenco. Il suo punto d’origine viene identificato in qualche piccola tribù di cacciatori-raccoglitori della savana africana, appartenente alla specie definita Homo habilis, le cui tracce fossili ri-

salgono a circa 2 milioni di anni fa. Era una specie di transizione, come osservano i biologi evoluzionisti E.O. Wilson e Charles J. Lumsden: « Potremmo descrivere l’Homo habilis, senza eccessive forzature, come una testa di scimmia intelligente posta sul corpo di un uomo ». Il cervello dell’Homo habilis, “valido, abile, capace”,

era notevolmente più grande di quello degli altri primati, e con l’evolversi della specie crebbe in volume a un ritmo costante, fino a che di passaggio in passaggio non si giunse, circa 50.000 anni fa, alla comparsa della nostra specie, l’Homo sapiens sapiens. Fisicamente, questa nostra specie non ha niente di eccezionale. Non è forte quanto il gorilla, non è veloce come l’antilope o uno qualsiasi dei grossi felini. Ma grazie ai poteri della mente, in particolare alla capacità di comunicare fra mente e mente, di condividere la conoscenza con gli altri individui e di trasmetterla attraverso le generazioni, l’Homo sapiens è diventato assai più potente degli animali con cui un tempo era in competizione nella savana... talmente potente che sta conducendo molti di essi all’estinzione. Anzi, grazie al potere della mente, ai contatti fra le menti, e ad azioni governate dalla mente, siamo oggi così forti da esercitare una netta influenza sulle sfere dell’acqua, dell’aria e della vita. Poiché questa settima sfera del sistema Terra, questa essenza invisibile che chia-

miamo mente, ha tanto potere sul pianeta, Vernadsky, il coniatore moderno, si può dire, del termine “biosfera”, ha introdotto anche il termine “noosfera”, cioè la sfera della mente, dell’intelletto. A differenza delle altre, si tratta di una sfera solo in senso

figurato. Strettamente parlando non è nemmeno qualcosa di fisico, pur avendo la capacità di modificare la stessa faccia della Terra. « La noosfera è un nuovo fenomeno geologico sul nostro pianeta » scriveva Vernadsky nel 1943, poco prima della morte. «In essa, per la prima volta l’uomo diventa una forza geologica di prima grandezza. » Comunque si voglia chiamarla - noosfera, antroposfera, tecnosfera, sfera umana ci troviamo di fronte a qualcosa che fa parte della biosfera e tuttavia ne è distinta, più o meno come il ghiaccio, che fa parte dell’idrosfera e ne è separato. La nostra specie è strettamente imparentata con lo scimpanzé, anzi, condividiamo la doppia elica del

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DNA con ogni altra specie vivente nella biosfera. Ma, con l’emergere della mente, le lente forze dell’evoluzione hanno condotto — usando sempre lo stesso materiale molecolare — a una nuova fase della vita sulla Terra. « Questo concetto può essere meglio chiarito con una metafora geologica », scrivono Wilson e Lumsden. « L’origine della mente è stata come la trasformazione radicale della vetta più alta di una catena montuosa tropicale. Per storia geologica e composizione, questo rilievo non differisce, fondamentalmente, dalle altre vette o dai rilievi

più bassi che lo circondano. Ma poiché era collocato esattamente nella posizione in cui le forze di sollevamento della crosta hanno spinto un po’ più verso l’alto che altrove, su esso si formarono neve e ghiaccio e tutte le particolari forme di vita che sono tipiche dell’alta montagna. C’era una soglia da superare: un esiguo cambiamento quantitativo (della spinta orogenetica) ha portato all’improvvisa creazione di un nuovo mondo. »

Sarebbe facile aggiungere a questo elenco altri elementi, ma per le necessità degli scienziati che studiano la Terra come sistema le sette sfere sono di solito sufficienti, e a volte anche troppe. Questo perché le varie parti sono tutte in moto e legate a vicenda in strani modi, con forza stupefacente, così che ogni cambiamento che avviene in una sfera può riflettersi su molte delle altre. Talvolta un avvenimento apparentemente insignificante può riverberarsi sulle varie sfere in modi del tutto inattesi e addirittura sbalorditivi: nel gergo scientifico, in modi “controintuitivi”. La maggior parte di coloro che coltivano le scienze della Terra credono che a causa dell’influenza della settima sfera, quella della mente, quattro delle altre, e cioè l’idrosfera, l’atmosfera, la criosfera e la biosfera, attual-

mente sono sull’orlo di drastici mutamenti. Potremmo assistere noi stessi a questi mutamenti, o potrebbero farlo i nostri figli. Forse già ne stiamo vedendo l’inizio. È vero che il sistema ha resistito a forti pressioni in passato, e che alcuni dei sottili cambiamenti di cui oggi ci preoccupiamo appaiono enormi solo perché gli strumenti si sono fatti ipersensibili. E tuttavia, secondo questa prospettiva, dovremmo aspettarci notevoli sconvolgimenti nel corso dei prossimi cent'anni. Dovremmo prepararci a un crescendo di allarmi ed emergenze ambientali. Le peggiori tempeste che dovremo affrontare nel prossimo secolo sono opera nostra, e occorrerà una buona dose di fortuna per affrontarle e superarle. Secondo la prospettiva più nera, siamo sull’orlo di una crisi nella storia non solo della nostra specie, ma dell’insieme della biosfera. I prossimi cent’anni, dicono i pessimisti, potranno essere uno dei periodi più pericolosi dalle origini della vita a questa parte. Nei tardi anni Cinquanta, gli scienziati incominciarono a mettere insieme

una nuova immagine del nostro pianeta. La litosfera è come un guscio d’uovo screpolato, e le sue varie parti si spostano l’una rispetto all’altra, gemono piano piano o con voce reboante. L’idrosfera è agitata da tempeste che la scuotono dalla superficie giù giù fino al fondo. L’atmosfera (osservata dall’esterno per la prima volta al principio degli anni Sessanta) è piena di gorghi e mulinelli simili alle mobili iridescenze che scorgiamo sulla superficie di una bolla di sapone. In ciascuna delle sette sfere fu scoperto un tale grado di turbolenza che quel periodo è stato spesso definito, dagli scienziati, una nuova rivoluzione scientifica. Nel giro di pochi decenni, gli studiosi della Terra sostituirono al nostro vecchio globo - un globo statico, polveroso e piuttosto insignificante — un mondo pieno di inesauribili cambiamenti. Coloro che sono nati nella seconda metà del XX secolo danno per ovvia e scontata questa visione del pianeta, ma molti dei rivoluzionari, dei pionieri che scoprirono la perenne turbolenza di cui parliamo non hanno ancora raggiunto l’età della pensione. Per loro e quelli come loro il Nuovo Mondo è così diverso dal vecchio che talvolta ci si sentono come stranieri in una terra lontanissima. È come se avessero puntato i loro telescopi nella direzione opposta alla solita, e avessero scoperto un altro pianeta. Oggigiorno, molti scienziati pensano che lo studio di questo nuovo pianeta sia alla vigilia di una seconda rivoluzione. La prima è stata caratterizzata dalla scoperta della turbolenza, la prossima sarà contrassegnata dalla scoperta delle connessioni fra le sfere. Essi vanno scoprendo connessioni e legami sempre più intricati tra le sette sfere. I loro studi stanno mettendo in luce quanto strettamente ciascuna sfera sia collegata a tutte le altre. E questa nuova: visione del mondo suscita interrogativi appassionanti e conturbanti insieme. Se la roccia sotto i nostri piedi, il mare intorno a noi, l’aria sopra le nostre teste e lo stesso disco solare sono tutti in perenne movimento, in quale modo il movimento dell’uno agisce sugli altri? In qual modo le connessioni tra le varie sfere agiscono su di noi? E, cosa di urgente interesse: se la potenza e le capacità di operare della nostra specie si accrescono, come sta avvenendo, di giorno in giorno, se il nostro respiro contamina l’atmosfera, se la popolazione del globo sta rapidamente aumentando da 5 a 10 miliardi, in quale modo la nostra vita e le nostre azioni agiscono sulla roccia, il mare, l’aria, il ghiaccio, il fuoco, la vita del pianeta? In che rapporto stanno tutte queste cose? Quello che abbiamo sotto gli occhi è un caos planetario? o un meccanismo funzionante con alta precisione, come un orologio? o una specie di essere vivente di tale grandezza da sfidare l’immaginazione?

«È curioso » ha detto non molto tempo fa l’oceanografo Arnold Gordon. « Noi guardiamo al mondo come a una serie di sfere separate: terra, aria, fuoco, acqua, vita... Ma la cosa più interessante da conoscere del nostro

pianeta sono le connessioni che legano fra loro queste sfere. » Stabilire quali siano queste connessioni è difficile perché richiede il lavoro in comune di studiosi appartenenti a un gran numero di campi diversi. Ciascuna delle sette sfere ha i suoi specialisti e superspecialisti, nonché specialisti nelle varie superspecialità. I differenti gruppi di studiosi hanno ciascuno i propri giornali, il proprio gergo, ciò che scoraggia l’instaurarsi di un discorso comune. E tuttavia in alcuni grandi programmi gli scienziati hanno incominciato a collaborare nella ricerca di collegamenti fra la vita e tutte le altre sfere. Stanno tentando di mettersi insieme per osservare contemporaneamente tutte le sfere da ogni possibile punto di vista al fine di capire come il grande meccanismo funzioni e in quale modo siano collegate e interdipendenti tutte le sue parti. Domandarsi come l’insieme funzioni significa anche domandarsi dove stia andando. Gli studiosi di scienze della Terra mirano, in definitiva, a una previsione globale. Sperano di apprendere quanto basta per essere in grado di fare delle proiezioni delle tendenze di cambiamento globale riconoscibili, proiezioni che si spingano il più possibile in là nei prossimi cent’anni. Si sa che tutte le previsioni sono arrischiate. Pur tuttavia, su cinque punti di partenza la maggioranza degli esperti sarebbe disposta a concordare. Primo: gli elementi che formano la Terra stanno cambiando assai più rapidamente di quanto non abbiano fatto negli ultimi diecimila anni, cioè dalla fine dell’ultima glaciazione a oggi. I bambini che nascono oggi potrebbero, nel corso della loro vita, assistere a un cambiamento più radicale di tutti

quelli che il pianeta ha subito da quando è nata la civiltà. Secondo: gli elementi che sembrano in procinto di cambiare più rapidamente sono quelli che ci interessano più da vicino e con maggiore urgenza: la biosfera e l’atmosfera, la quale, attraverso il tempo atmosferico e il cli-

ma, influisce su ogni essere vivente nella prima. Terzo: la nostra specie non conosce i limiti della propria forza. Noi stiamo imprimendo, metaforicamente, una spinta che accelera il moto del no-

stro pianeta. Alcuni degli effetti ci sono familiari e visibili a occhio nudo: sempre più città, più foreste date alle fiamme, più campi arati, perfino montagne artificiali come-la grande discarica di rifiuti di Fresh Kills a Staten Island, New York (che quando sarà completata, nel 2005, diventerà la cima

più alta sulla costa orientale degli Stati Uniti tra la Florida e il Maine). Altri effetti, benché abbastanza diffusi da avere conseguenze sull’aria, sul terre-

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no, sull’acqua e sulla stessa biosfera, sono però cosìs “subdoli” che solo oggi gli scienziati incominciano a individuarli. Quarto: spesso è arduo determinare se una particolare modificazione a carattere planetario sia naturale o provocata dall’uomo perché, come la prima rivoluzione nelle scienze della Terra ha dimostrato, la Terra è per sua natura soggetta a un’incessante turbolenza. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, nessuno è in grado di dire come cambierebbe il mondo, in questo stesso momento, se non esistesse la nostra specie. Quinto e ultimo: il cambiamento globale sta procedendo molto più rapidamente di quanto non proceda la nostra comprensione di esso. Lg WE

Con ogni loro sfera di cristallo gli Harmony offrono una polizza di assicurazione sulla vita della stessa, assumendosi il seguente impegno: « ...0Ve per ‘anno’ si intende un periodo di dodici (12) mesi dalla data di emissione della polizza. « La nostra Società si impegna a provvedere alla sostituzione dell’EcoSfera senza alcun onere per l’Acquirente in qualsiasi momento del periodo di un (1) anno di validità della polizza, nel caso che restino in vita meno di tre (3) gamberetti. »

La polizza rassicura gli acquirenti, poiché nessuno può veramente garantire la sopravvivenza di una qualsiasi sfera. Non esiste un contratto di assicurazione sulla vita del pianeta Terra. Il destino del globo su cui viviamo ci causa tanto stupore e tanta ansia che non ci pensiamo molto, per evitarci una grossa pena. Il problema tuttavia seguita a incombere su di noi. Sono ormai passati vari decenni da quando le masse hanno incominciato a preoccuparsi dell’inquinamento dell’aria e delle acque, dello smaltimento dei rifiuti, dei pesticidi, della sovrappopolazione,

dell’erosione del suolo. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza di Ronald Reagan, l’attenzione dell’opinione pubblica fu distolta da questi problemi. Non così è avvenuto in quella parte della Germania che costituiva la Repubblica Federale di Germania o Germania Ovest, né in Svizzera o in Messico e in altri Paesi, dove l’allarme non ha fatto altro che acutizzarsi. Anche negli Stati Uniti, nonostante la disattenzione, il problema permaneva, pur se con

lo scarso risalto che ha nel cielo una Luna non ancora tramontata a giorno pieno. Poi l’anno 1988 portò con sé una siccità record, alluvioni record, un as-

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surdo inquinamento delle acque di fronte alle coste orientali degli Stati Uniti. E allora il cambiamento globale divenne un argomento del dibattito politico per le elezioni presidenziali. La gente, in mezzo mondo, si domandò se la Terra non stesse reagendo, prendendosi la rivicinta su di noi.

Come è naturale, crisi di inquinamento locale ci sono sempre state. L’aria di Londra o di Pittsburgh era assai più sporca qualche decennio fa di quanto non lo sia oggi. Anzi, nelle aree più fittamente popolate dell’emisfero boreale l’aria ai tempi in cui si bruciava legna e carbone era peggiore di oggi. Negli Stati Uniti la raffica di provvedimenti varati dopo il 1970 ha determinato grossi miglioramenti, sul piano locale. Ma oggigiorno i problemi che abbiamo di fronte sono a carattere globale e i danni potenzialmente irreversibi. Si tratta dell’accumulo di gas responsabili dell’effetto serra, dell’assottigliamento dello strato dell’ozono sopra il Polo Sud (di cui si ebbe notizia per la prima volta nel 1985), della distruzione delle foreste tropicali, dell’accelerazione del processo di estinzione di al-

tre specie viventi nella biosfera. Questi cambiamenti appaiono difficili — e alcuni direbbero impossibili - da arrestare. Sono conseguenza e fanno parte integrante della stessa economia mondiale. Essendo così durevoli e minacciosi e di così grave peso, tali cambiamenti globali costringono sempre più spesso gli scienziati a cercare di formulare predizioni valevoli per un secolo, e gli eventi che si produono fanno sì che sempre più spesso quelle predizioni finiscano sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Tutte queste preoccupazioni vecchie e nuove assumono la forma di un grande punto interrogativo che oggi sembra elevarsi sopra ogni paesaggio che osserviamo. Viviamo con quell’angoscioso punto interrogativo che fluttua sopra il mondo, incongruo. E talvolta ci sorprendiamo a guardare un albero o una collina o un tramonto come se fosse un essere amato in pericolo mortale, e la nostra ammirazione per una foglia si tramuta in qualcosa che è simile a una preghiera. Il punto interrogativo assilla anche quelli che vogliono ignorare i titoloni dei giornali e preoccuparsi solo del box che sembra cedere, o di eventuali infiltrazioni d’acqua dal tetto, o della prossima scadenza della rata del mutuo sulla casa. Sia che alziamo, sia che non alziamo gli occhi al cielo, quel punto interrogativo incombe sempre sui luoghi dove abitiamo e irride alle nostre speranze. Se la vostra Terra se ne va a pezzi, dove vanno a finire i

vostri progetti per le ‘vacanze estive? Thoreau si domandava: « Che cos’è una casa, se non è una saedes », se non è un luogo stabile e sicuro? E, aggiungiamo, se non abbiamo un pianeta decente su cui edificarla? Qualche anno fa, mentre stavo spegnendo la luce nella mia camera in un 10

appartamento di Manhattan, vidi un gran lampo di luce arancione levarsi dalle parti dell’East River. Mi alzai di scatto a sedere. Una colonna di fuoco illuminava il cielo sopra Staten Island. Senza pensare a nulla, aspettai per vedere se a quella colonna non se ne sarebbe aggiunta un’altra, e un’altra ancora: se ciò che vedevo non era il primo bagliore dell’olocausto nucleare. Di lì a pochi minuti gli annunciatori delle stazioni radio spiegavano che la colonna di fuoco era stata provocata da un’esplosione in uno stabilimento chimico nel New Jersey. Era stata una grande esplosione, ma non la fine del mondo. In seguito, fui disturbato dalla mia reazione più di quanto non fossi stato spaventato dall’incendio. Benché il pensiero della catastrofe di rado sia alla superficie della nostra mente, di rado è molto al di sotto. Tutti viviamo, più o meno, nell’aspettativa e nel terrore della gran nuvola a forma di fungo dell’esplosione nucleare o di qualcosa di analogo. Altrettanto avviene per il timore dell’apocalisse ambientale, anche se a questo proposito le nostre anticipazioni sono più confuse. La maggior parte di noi non sa quale sia la minaccia contro cui prepararsi; non abbiamo paura di un fungo atomico, ma piuttosto del convergere e del coaderire di un migliaio di minacce. A ogni titolo che leggiamo e che ci parla di una febbre planetaria, di mari inquinati, di aria avvelenata, di terreni radioattivi, di

suolo fertile che scompare, di petrolio versato in mare, del buco nell’ozono sul Polo Sud, non di rado ci accade di domandarci: « Siamo dunque alla fine? ». Gli. Harmony sanno bene quanto sia difficile tenere sotto controllo i meccanismi della natura, anche su scala infinitesimale. Hanno guardato nella sfera di cristallo, e hanno visto quante cose negative possano avvenirvi. Nella piccola fabbrica di Tucson, ogni giorno, decine e decine di nuove. EcoSfere si allineano sugli scaffali in attesa della spedizione. Alcune sopravviveranno per anni. Alcune cederanno entro gli scatolini di cartone in cui vengono trasportate dai camion dei corrieri che provvedono alla rapida distribuzione. A volte un’intera partita “va a male”. Gli Harmony sanno che non sono in grado di predire la sorte delle EcoSfere da loro fabbricate, e ormai hanno smesso anche di provarcisi. Una volta, un produttore televisivo che voleva girare un documentario scientifico avente ad argomento l’ecologia globale portò nella fabbrica una sua troupe di operatori. Gli uomini della TV piazzarono camere e luci e si misero a sfasciare una sfera di cristallo dopo l’altra nel tentativo di evidenziare drammaticamente la fragilità della biosfera. Dan Harmony non ama ricordare quante sfere dovettero essere sacrificate prima che la troupe riu-

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scisse a girare una sequenza come la voleva. « È stata una cosa piuttosto insolita per noi », si limita a dire.

Un altro consistente gruppo di EcoSfere morì negli uffici del Centro per l'Educazione Ambientale di Washington. Il direttore del Centro si era messo un’EcoSfera sulla scrivania e ne aveva data una a ciascuno dei suoi collaboratori. Le luci del suo ufficio restavano però accese dalle venti alle ventiquattr’ore al giorno, mentre lui e i suoi stendevano rapporti e si davano da fare a Capitol Hill (dove ha sede il Congresso) per cercare di dar forma a una seria politica ecologica internazionale. Le EcoSfere, si sa, richiedono dodici ore di oscurità al giorno. Così la sfera del Direttore “si esaurì”, e poco dopo subirono la stessa sorte quelle dei collaboratori, e poco dopo si esaurì anche lui. Rinunciò all’attivismo ambientalistico, e adesso fa il Diret-

tore dell'Ufficio Congressi e Turismo della Camera di Commercio di Washington. Spesso muoiono i gamberetti, ma sopravvivono le alghe. A volte muoiono anche le alghe, e allora l’acqua delle sfere acquista la chiarezza cristallina di un lago morto. D'altra parte, succedono anche altre cose. Una volta Dan Harmony si sentì chiamare al telefono da Suor Leone, della St. Elisa-

beth’s Clinic di Houston. Costei gli disse che una sua consorella anziana, Suor Louise,

stava spolverando

in un angolo della loro stanza comune

quando all’improvviso aveva esclamato: « Uno dei gamberetti sta diventando nero! ». Quello stesso giorno, Suor Leone consultò un’enciclopedia e imparò qualcosa sui gamberi. Imparò che i gamberetti portano le uova all’esterno del corpo, mantenendovele aderenti con i tentacoli mentre si spostano nel loro elemento. « Abbiamo preso una lente d’ingrandimento e abbiamo tenuto il gamberetto sotto osservazione » disse ad Harmony Suor Lone. « Un giorno notammo che le uova erano sparite. ‘Che cosa sta succedendo?’ ci siamo dette. La mattina dopo abbiamo guardato ancora e abbiamo visto un gamberetto piccolo piccolo. Abbiamo un neonato! » « Veramente noi non ne abbiamo mai avuto nessuno che si sia riprodotto » disse Harmony, al telefono. « Saranno batteri o alghe o qualcos’altro. Potrebbe controllare che il vetro non abbia incrinature? » «Dan! Lei dimentica che sono infermiera diplomata. Saprò pur riconoscere un bambino se ne vedo uno. » E così Suor Leone prese la sfera di cristallo, la portò senza indugio alla sede della società in North Tucson Boulevard e si mise a sedere con Harmony. « La mia adesso ha più gamberetti di quanti ne aveva in principio » disse Suor Leone. 12

« Impossibile. » Harmony sollevò la sfera che la suora gli aveva portato per metterla controluce e la esaminò inclinando la testa da una parte. E eccoli: sei, dodici, sedici, venti minigamberetti che nuotavano dentro l’Eco-

Sfera insieme con i genitori. « Ma è proprio vero!» esclamò. Adesso l’aveva lui, il tono eccitato. « Questa è la prima volta! È una prima assoluta, storica! »

« Be’, io non capisco perché prima era così sorpreso » disse Suor Leone che stava aggirandosi curiosa attorno alla Rastrelliera Evolutiva. « Guardi questo. E quello. E anche quell’altro... » In altre tre sfere vi erano stati dei lieti eventi. Harmony condusse in tutta fretta Suor Leone lungo il corridoio per portarla a mostrare la sfera di cristallo al suo capo, Loren Acker. Seduto sul piano della scrivania, Acker osservò l’EcoSfera. Guarda guarda! I gamberetti che c’erano stati messi dentro si erano moltiplicati, non v’era dubbio. Quel giorno, recandosi alla Valley National Bank di Tucson, esaminò l’E-

coSfera che stava sulla scrivania del suo banchiere. Anche in quella si vedevano le prove del boom demografico.

La mia personale EcoSfera mi fu recapitata vari anni fa. Allora abitavo a Brooklyn. Poco tempo dopo mi trasferii in una zona collinare della Pennsylvania. Mi ci trovavo da poco tempo quando alcuni punti color marrone incominciarono a comparire sulle pareti interne della sfera. I punti divennero chiazze. Poi i gamberetti incominciarono a morire l’uno dopo l’altro, cadendo sulla ghiaietta del fondo. Chiamai al telefono Dan Harmony, gli dissi com'era la sfera e gli domandai di che cosa potesse trattarsi. Lui mi rispose che probabilmente, stando alla mia descrizione, le macchie erano provocate da funghi, e che non era possibile rimediare in alcun modo. Troppi cambiamenti, mi spiegò, sono pericolosi per le EcoSfere. È sufficiente a volte spostare la sfera da un lato all’altro di uno scaffale per scatenare una crisi. Sembra che la comunità che vive nel globo di cristallo debba cercare un nuovo equilibrio ogni volta che la si muove. Se si sconvolge l’equilibrio che ha appena trovato, sarà costretta a cercarne un altro. Un terzo spostamento può causare il collasso. Come ognuno di noi, anche la sfera ha una soglia di stress che non può essere superata. La mia EcoSfera di soglie ne aveva superate parecchie, a cominciare dal momento della consegna. Ricordo di aver notato il passo non certo felpato del fattorino mentre saliva sgraziatamente la scala a chiocciola della mia casa di Brooklyn. Giunto sul pianerottolo, si mise a scuotere la scatola qua e

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là, senza alcun riguardo, per staccarne l’etichetta.

« Questo pacco è stato trattato come si deve? » gli domandai. « Non so. » Guardò sul coperchio, su cui era stampigliato: « Urgente. Deperibile. URGENTE. CONTIENE ANIMALI VIVI. APRIRE IMMEDIATAMENTE ALLA CONSEGNA. Tenere lontano dal caldo e dal freddo. » « Non c’è scritto fragile » disse. « Gli feci notare la scritta “FRAGILE” che era sul fianco della scatola. « Allora è fragile » concesse. Più avanti, io stesso la prestai a una seconda elementare per una giornata. (Traversando l’atrio con la “cosa” che gorgogliava udibilmente nella sua scatola di cartone, mi sentivo come quel tale cui è affidata la cura di ET,

l’extraterrestre del film.) Poi la sballottai nel viaggio per il trasloco dalla città alla campagna. Poi le cambiai posizione più volte nel mio nuovo studio, dal ripiano di uno scaffale alla scrivania e viceversa. Inoltre seguitavo a modificare la regolazione del termostato. Il mio studio è staccato dal resto della casa e ogni sera mi premuravo di abbassare di qualche grado la temperatura ambiente, per evitare che aumentassero sia il livello dell’anidride carbonica, sia il mio conto del combustibile.

Adesso l’EcoSfera, tutta chiazzata sta sul piano della mia scrivania come una sorta di memento mori, come il teschio che santi eremiti e sapienti del Medioevo tenevano sul tavolo “Ahimè, povero Yorick!...”, mi viene in

mente l’Am/eto. L’ultimo gamberetto è scomparso. La fronda sta diventando marrone scuro, il verde tipico di quell’alga è sparito. Lì dentro seguitano a sopravvivere batteri e funghi, ma non danno gran conforto spirituale a un uomo. Se il globo dovesse mai precipitare dal bordo della scrivania, emanerebbe un fetore apocalittico. La mia sfera di cristallo è morta. Esitai a chiederne un’altra ad Harmony. Il mio studio si raffredda ancora, di notte, mentre si riscalda durante il primo pomeriggio, quando il sole lo inonda filtrando attraverso le chiome degli alberi che si alzano davanti all’ampia finestra panoramica. Chi poteva dire se una nuova EcoSfera se la sarebbe cavata? Mentre ero ancora incerto sul da farsi, venne a scadere il

termine della garanzia (l’assicurazione sulla vita) e poi spirò anche ogni ragionevole proroga che gli Harmony mi avrebbero forse concesso. Evidentemente, il destino di quella sfera è stato colpa mia. Ogni essere vivente ha delle soglie, dei limiti che non può superare, e io ho trascurato questa realtà. Ma devo dire che superare quelle soglie è stato anche troppo facile.

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Minuti particolari Chi vuol far bene agli altri deve farlo nei minuti particolari... Poiché arte e scienza non possono esistere se non in particolari minutamente organizzati. WILLIAM BLAKE, Jerusalem

La mia sfera di cristallo contiene circa mezza tazza di aria e due tazze di acqua. In questa atmosfera e in quest’oceano in miniatura v’è un piccolo quantitativo di anidride carbonica gassosa. Questa anidride carbonica, se pure in tracce e misurabile in poche parti per milione, ha importanza essenziale per la sopravvivenza delle ultime, poche piante verdi (quali esse sono) che fluttuano nell’acqua. Ogni mattina, quando la luce del Sole raggiunge l’EcoSfera, le piante incominciano a inalare, fra altro, l’anidride carbonica presente nell’aria e nell’acqua. Molecola dopo molecola, le piante scindono l’anidride carbonica, assorbendo il carbonio ma non l’ossigeno. Ne risulta che la quantità di anidride carbonica presente nell’acqua e nell’aria diminuisce, mentre aumenta

la quantità di ossigeno. Al tramonto, o ogniqualvolta spengo le luci nel mio studio, le piante contenute nell’EcoSfera smettono di inalare anidride carbonica. A poco a poco, gli organismi viventi che stanno in quel globo restituiscono il carbonio che avevano assorbito. In una lunga, lenta esalazione le piante cedono questo carbonio all’aria e all’acqua. Per tutta la notte, nell’oscurità, sale il conte-

nuto di anidride carbonica nella sfera, mentre diminuisce quello di ossigeno. Aria e acqua sono protagoniste di molti cicli invisibili simili a questo. Oltre al carbonio e all’ossigeno, gli elementi più importanti per la vita sulla Terra sono l’idrogeno, l’azoto, il fosforo e lo zolfo. Ciascuno di essi circola

incessantemente all’interno della sfera di cristallo. Ogni ciclo è legato agli altri, come il carbonio è legato all’ossigeno. Questi cicli si svolgono non solo entro le pareti dell’EcoSfera, ma tutto attorno a noi, giorno e notte. Es-

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sendoci invisibili ci sembrano cose remote, mentre hanno con noi la stessa intimità (e la stessa importanza) del nostro respiro.

Lo studio di tali cicli invisibili è chiamato geochimica. I geochimici studiano tutte e sette le sfere — terra, acqua, aria, fuoco, vita, ghiaccio, mente

— e tutta la materia e l’energia che passano in ogni istante dall’una all’altra. Studiano la lava, il fango, il fuoco, la luce delle stelle; le foglie in decomposizione, le deiezioni delle vacche, gli zaffiri, i processi respiratori delle ter-

miti. Studiano anche il modo in cui tutte queste sostanze interagiscono a vicenda con le altre. Hanno la visione di una intricata, invisibile ragnatela chimica che lega fra loro tutte le cose, di sostanze chimiche che scaturiscono da ogni sfera in ogni direzione, trasportando vapori e spingendo correnti dalla terra al mare al cielo, ciascuna delle quali si mescola con ciascuna delle altre. Hanno la sensazione, e le prove, dell’esistenza di società segrete di elementi, di vasti sistemi che si incastrano l’uno nell’altro, di una fisiologia ‘planetaria. I geochimici, inoltre, si pongono ardui interrogativi riguardanti la salute del pianeta. La vita sulla Terra è prossima a un punto di stress critico? In che modo le sette sfere interagiscono nel renderla abitabile? Quali le prospettive dell’umanità per i prossimi cento anni? Se gli interrogativi cui accenniamo sono oggi importanti e urgenti, lo si deve in parte alla tenacia di Charles David Keeling. Keeling iniziò l’opera della sua vita da giovanotto, come un semplice studio dell’aria che imprigionava in sfere di vetro cave. In quello studio, fin dalla prima occhiata giunse a una concezione scientifica che ha cambiato il mondo. Da allora, ha passato il resto della sua carriera ripetendo le stesse misurazioni con lo stesso metodo e usando gli stessi strumenti. Oggi la curva che esprime quelle misurazioni, detta curva di Keeling, ci offre una specie di film ai raggi X a passo uno, cioè a fotogrammi intervallati, del funzionamento delle sfere,

una sorprendente immagine dall’interno del metabolismo del nostro pianeta.

Nel 1954, Keeling si laureò in chimica alla Northwestern University di Evanston, alla periferia di Chicago. Aveva 26 anni. Nove su dieci dei suoi compagni erano già destinati a impiegarsi nell’industria chimica, dove sarebbero stati pagati, secondo le parole di Keeling, « per rendere più croccanti i cereali destinati alla prima colazione, più potente la benzina per le automobili, meno care le materie plastiche e più cari gli antibiotici ». Ai tempi del college, Keeling aveva scoperto il piacere del campeggio e delle camminate a zaino in spalla. E aveva deciso di lavorare all’aperto, do-

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ve l’orizzonte è più vasto del menisco che si forma nel liquido di una provetta. Pur avendo una laurea in chimica, con una certa dose di faccia tosta scrisse proponendo la propria collaborazione ai presidi di molte facoltà di geologia (« Tutte a ovest del Grande Spartiacque Continentale » racconta « per via della bellezza dei panorami »). Per un colpo di fortuna, il dipartimento di geologia del California Institute of Technology, con sede a Pasadena, aveva appena messo in piedi un programma di ricerca geochimica. Era qualcosa di assolutamente nuovo; la chimica della Terra non era di norma trattata come una disciplina a se stante. Keeling fu assunto dal direttore del nuovo gruppo di ricerca, Harrison Brown. Poco dopo il suo arrivo al “Caltech”, Keeling udì dalle labbra di Brown un’osservazione estemporanea. Il direttore stava parlando con un piccolo gruppo dei suoi geochimici. A proposito della naturale acidità dei laghi e dei fiumi, stava abbozzando una teoria circa il bicarbonato presente nell’acqua: la sua ipotesi di lavoro si fondava sull’assunto che l’anidride carbonica gassosa disciolta nell’acqua sia sempre in equilibrio con l’anidride carbonica presente nell’aria sovrastante. Keeling espresse le proprie obiezioni contro questa ipotesi. Disse a Brown che secondo lui le quantità di gas nell’acqua e nell’aria possono non essere in stato di equilibrio. In realtà Keeling non aveva mai dedicato molte riflessioni al problema (ha detto poi), ma se non altro esso aveva il merito di

non poter essere indagato in laboratorio. « Perciò dissi a Harrison Brown che mi sarebbe piaciuto fare un esperimento per verificare se aveva ragione ono».

Con il beneplacito del capo, Keeling si mise al lavoro. Progettò un esperimento assai semplice. Avrebbe misurato le quantità di anidride carbonica contenute nell’acqua di un piccolo corso d’acqua e nell’aria sopra di esso, e avrebbe verificato se la pressione del gas fosse uguale nei due casi. Per realizzare tale studio avrebbe avuto bisogno di uno strumento atto a misurare l’anidride carbonica nell’aria o nell’acqua, in piccole quantità di poche parti per milione. Non esisteva sul mercato uno strumento del genere, e Keeling non riuscì a trovare nella letteratura scientifica alcun lavoro che potesse suggerirgli come costruirlo. Dopo lunghe ricerche scovò tuttavia un vecchio articolo (pubblicato verso il 1916) che conteneva la descrizione di un manometro — lo strumento usato per misurare la pressione dei fluidi — che forse, con un po’ di lavoro e di modifiche, sarebbe stato adatto ai suoi

scopi. Il primo a effettuare una misurazione dell’anidride carbonica fu anche il 17

primo a scoprire che l’aria che respiriamo non è formata da una sola sostanza, ma da un miscuglio di sostanze. Fu un alchimista e medico fiammingo

che si chiamava Johann Baptista van Helmont. In un manoscritto pubblicato nel 1644, dopo la sua morte, van Helmont sosteneva con elementi di prova diretti e indiretti che uno “spirito” invisibile si sprigionava da tutte le ampolle ribollenti e da tutti i carboni che bruciavano nei forni del suo laboratorio di alchimista. « Io chiamo questo Spirito, fin qui ignoto, col nuovo nome di Gas », scrisse, coniando il termine sulla pronuncia fiamminga del greco

chaos. Van Helmont si interessò in modo particolare dell’anidride carbonica. La chiamò gas sylvestris, spirito del bosco, perché proveniva dai tronchi d’albero e dal carbone di legna in combustione. Pur essendo alchimista e coltivando antiche pratiche medievali di carattere magico, era già abbastanza postmedievale da capire e apprezzare l’importanza delle misurazioni accurate. Fra altro, egli cercò di misurare quanto gas aggiungeva all’aria bruciando carbone in un forno. Bruciò « sessantadue libbre di carbone di legno di quercia » e pesò ciò che era rimasto dopo la combustione. Solo una libbra di cenere. « Pertanto, le rimanenti sessantuno libbre » scrisse « sono /o spi-

rito selvatico. » Un secolo dopo, uno studente di medicina voleva cercare una cura per i

calcoli renali e vescicali. Il più comune preparato contro il “mal di pietra” comprendeva fra altri ingredienti la calce, che si ottiene facendo cuocere gesso, calcare o anche gusci d’uovo. Disciolta nell’acqua, questa sostanza bianchiccia dà una bevanda chiara e leggera. Joseph Black - tale era il nome dello studente — sperimentò la sua acqua di calce e alcune altre sostanze e il 1° gennaio 1754, quando aveva ventisei anni, scrisse una lettera tutta

eccitata al suo professore all’Università di Edimburgo. La lettera incominciava con una scusa affrettata: « Ero seriamente intenzionato a scriverle con l’ultima posta, ma quando era il momento di farlo mi trovavo intensamente occupato in un’altra cosa, e me ne dimenticai. Si trattava, in realtà, di un esperimento che stavo tentando e che mi divertiva moltissimo... » :

La sera prima, scriveva Black, aveva messo un po’ di gesso entro un bicchiere alto e sottile e viaveva versato sopra dell’acido. Il gesso si era messo a sfrigolare violentemente; poi la candela che ardeva accanto al bicchiere si era spenta, come se lo stoppino fosse stato premuto fra le dita di un fanta-

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Black, che aveva letto gli scritti di van Helmont, si era chiesto se a spe-

gnere la candela non fosse stato un gas sprigionatosi dal gesso in effervescenza sotto l’azione dell’acido. Aveva preso allora un pezzo di carta, gli aveva dato fuoco a un’estremità e l’aveva calato con cautela entro la bocca del bicchiere. La fiamma si era spenta « con la stessa rapidità che se fosse stata immersa nell’acqua ». Black, dunque, aveva riscoperto l’anidride carbonica. Presto accertò che l’acqua di calce è un buon rivelatore dell’anidride carbonica (anche se non cura i calcoli). Quando esponeva un bicchiere di quella sostanza a una robusta sorgente di anidride carbonica gassosa, come del gesso in effervescenza o pezzi di legna accesi nel camino, la calce che era disciolta nell’acqua incominciava a depositarsi sul fondo del bicchiere formando uno strato simile a neve. Più grande era la quantità di gas, più alto era lo strato di neve. Usando il suo rivelatore, Black scoprì anidride carbonica gassosa quasi ovunque. Emerge sotto forma di bollicine dalle acque minerali, si versa dai recipienti che contengono lieviti in fermentazione, filtra dalle pareti delle gallerie delle miniere. Emana in abbondanza praticamente da ogni cosa che brucia, non solo legna ma anche carta, carbone, olio, perfino dai cadaveri

quando vengono cremati. Un giorno Black immerse una cannuccia di paglia in un recipiente con dell’acqua di calce e vi soffiò dentro. Poi si sedette a osservare la tempesta di bollicine che vi aveva prodotto. Il nostro respiro, infatti, è saturo di ani-

dride carbonica. Questo composto divenne di moda, e oggetto di un vivace dibattito scientifico, specialmente dopo che Priestley, Lavoisier e altri ebbero dimostrato che viene esalato da tutti gli animali e inalato da tutte le piante verdi. Sembrava che le fonti da cui scaturisce fossero praticamente infinite, e tuttavia

nell’atmosfera se ne trovavano soltanto tracce. Fra coloro che tentarono di misurarlo vi furono il naturalista ed esploratore tedesco Alexander von Humboldt, il chimico francese Joseph-Louis Gay-Lussac e i geologi, padre e figlio, Horace e Théodore de Saussure. Gay-Lussac portò un’ampolla di acqua di calce in una delle prime ascensioni ad alta quota con un aerostato gonfiato ad aria calda. De Saussure (il Vecchio), che fu anche un pioniere dell’alpinismo, portò con sé un’ampolla di acqua di calce durante la sua prima ascensione sul Monte Bianco. Si rivelò difficile misurare l’esatta quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera. Non solo era troppo piccola, ma variava da un luogo all’altro. La media in un qualsiasi volume era di circa 3/100 dell’1 per cento. Verso la fine del secolo XIX, Jean Reiset fu uno dei molti studiosi che si

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appassionarono allo studio dell’anidride carbonica. Egli caricò una botte piena d’acqua su un carro trainato da cavalli e con esso girò di giorno e di notte, d’estate e d’inverno, le strade di Parigi e i sentieri di campagna intorno a Ecorcheboeuf, sulla costa nord-occidentale francese. Per prelevare un campione di aria fermava i cavalli e toglieva la spina alla botte. In tal modo oltre duemila litri d’acqua furono tolti dalla botte e sostituiti da altrettanti litri di aria. Successivamente, nel suo tragitto entro l’apparato di rilevamento, l’aria era aspirata attraverso un numero di camere superiore al numero di stomachi di un bue, e in ognuna di esse si depositavano diverse quantità di precipitato. Reiset scoprì che c’era molta più anidride carbonica a Parigi che in campagna, cosa che (a ragione) attribuì al fumo che saliva dai camini delle abitazioni cittadine e dalle ciminiere delle fabbriche. (« Le ciminiere » scrisse « emettono torrenti di anidride carbonica, giorno e notte. ») Le cifre rilevate

sul finire dell’Ottocento presentavano un’ampia variabilità, ma anch’esse mediamente indicavano un valore di circa 3/100 dell’1 per cento, ossia 300

parti per milione. Vent’anni dopo Reiset, misurare l’anidride carbonica passò di moda. Du-

rante la prima metà del XX secolo, uno dei pochi che se ne occuparono fu lo svedese Kurt Buch, il quale riferì che la quantità di gas presente nell’aria varia da luogo a luogo, da latitudine a latitudine, e perfino da un soffio d’aria all’altro. Riscontrò un valore minimo di 150 parti per milione (ppm) e uno massimo di 350 ppm. La media, comunque, era sempre di 300 parti per milione.

Keeling era arrivato al Caltech nell’autunno del 1953. Dedicò tutto l’inverno e la primavera successiva a ridisegnare il manometro e a studiare metodi per estrarre l’anidride carbonica dall’aria e dall'acqua, così da poter introdurre nel manometro campioni adatti. Doveva far tutto da sé. Brown, co-

me Keeling ricorda, fu assente per quasi tutto quel periodo: si trovava in Giamaica a scrivere un libro, The Challenge of Man's Future. D'altronde, al direttore piaceva lasciare alla gente piena libertà d’iniziativa. In sua assenza, uno degli anziani del gruppo dei geochimici consigliò a Keeling di fare i suoi esperimenti con gli strumenti che già c’erano in laboratorio: non c’era affatto bisogno che costruisse un nuovo manometro. Ma Keeling ha una vena di testardaggine a una concentrazione ben maggiore di poche parti per milione. « Senza nessuna ragione particolare » dice « avevo deciso di fare la cosa più accurata possibile. » Anzi, racconta, allestì un manometro

« almeno dieci volte più preciso di quanto avesse senso farlo ». Stava ancora

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armeggiandoci intorno quando Brown entrò nel suo laboratorio e gli offrì una copia fresca di stampa di The Challenge of Man’s Future. Una copia che Keeling ancora conserva nel proprio studio. Non molto tempo fa, su mia richiesta, la prese dallo scaffale della libreria, indossò gli occhiali con

la montatura d’argento e la aprì. Sul frontespizio si legge:

“A Dave Keeling (che sa quello che si fa). Con ogni buon augurio per l’avvenire.” Cordialmente, Harrison Brown Aprile 1954. «Dunque...» disse Keeling « aprile 1954. Be’, era prima che sapessi quello che stavo facendo! Ciò che Brown voleva dire era che avevo troppa testardaggine per accettare i suggerimenti altrui. » Gettò indietro la testa e rise di gusto. Brown ripartì e Keeling si rimise a “cincischiare”. Ma i suoi superiori, che facevano le veci di Brown, incominciavano a innervosirsi. Il contratto di Keeling aveva la durata di un anno, pur essendo rinnovabile fino a un

massimo di tre anni. « Volevano avere le prove che stavo combinando qualcosa di utile » disse « e avevo proprio troppo poco da mostrare nel settembre del 1954, quando venne a scadenza il mio incarico. » Nel frattempo, però, Keeling si era sposato. L’anno dunque era stato produttivo almeno sotto questo riguardo. I luogotenenti di Brown si consultarono e decisero: « No, non possiamo sbatter fuori questo giovanotto. Ha la moglie incinta, e non ha un altro posto di lavoro ». Per la primavera del 1955, lavorando questa volta con ritmo febbrile, il giovanotto finì la costruzione del suo manometro, dopo aver ormai trascorso dodici mesi nel lavoro preparatorio. Con i superiori che tamburellavano nervosamente con le dita sul tavolo e un figlio in arrivo di lì a due mesi, ci si sarebbe potuti aspettare che montasse in macchina, si precipitasse nel più vicino campo traversato da un corso d’acqua e si gettasse a capofitto nel lavoro. Ma ancora una volta Keeling volle strafare. Una bella mattina di marzo il giovanotto uscì dal suo laboratorio, che si trovava sull’attico, e salì sul tetto a terrazza reggendo una sfera di vetro cava del diametro di una trentina di centimetri. Ne aveva estratto l’aria in laboratorio. Aprì il rubinetto a valvola dell’ampolla, trattenendo il respiro e tirandosi indietro in modo che l’aria che vi veniva risucchiata non fosse in-

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quinata dall’anidride carbonica emessa da lui stesso. Quindi balzò in avanti, richiuse il rubinetto e ridiscese in laboratorio con l’ampolla. Che, ovvia-

mente, sembrava vuota come prima. Keeling isolò l'anidride carbonica presente nell’ampolla usando dell’azoto liquido. Poi la trasferì in una delle camere del suo nuovo manometro e la compresse mediante un’alta, rilucente colonna di mercurio. L’aria dell’ampolla conteneva 310 parti per milione di anidride carbonica. Qualcosa spinse Keeling a ripetere l'esperimento, non una volta sola, ma ogni quattro ore per ventiquattr'ore consecutive, salendo sul tetto a terrazza regolarmente per un giorno e una notte di fila, un po’ dormendo su una brandina in laboratorio, un po’ andando a casa, per tornare però subito al lavoro. Registrava i risultati delle sue misurazioni in un piccolo taccuino verde. Di lì a poco riprese l’esperimento delle ventiquattr'ore di registrazione. Così più volte. Era nel bel mezzo di un’altra prova del genere quando sua moglie fu colta dalle doglie del parto. Lui la portò all'ospedale di Altadena (Los Angeles), camminò su e giù per la sala d’aspetto come ogni uomo in procinto di diventare padre, ma consultando l’orologio. Ogni quattro ore tornava di furia sul tetto del laboratorio. (« Dopo tutto » disse, un pochino sulla difensiva « non c’è assolutamente nulla che un marito possa fare in quelle circostanze. ») Quando venne alla luce suo figlio Drew, lui era nel laboratorio. (« A pensarci, come Millikan » soggiunse Keeling sempre col tono di chi vuol giustificarsi. « Non per paragonarmi minimamente a Robert Millikan in qualsiasi altra cosa, intendiamoci. Ma Millikan arrivò in ritardo al suo

matrimonio, perché era impegnato nella sua famosa esperienza della goccia d’olio. Stava cercando di stabilire la carica dell’elettrone, ed era così assorto che dovettero andare a prenderlo di forza, portarlo a casa e vestirlo a modo per le nozze. ») Per settimane e settimane, mentre Louise accudiva al bambino, Keeling si

alzava nel cuore della notte per prelevare i suoi campioni d’aria, mentre sua moglie si alzava per Drew. Poi i due caricarono la creatura e uno scatolone di ampolle di vetro e se ne andarono in campeggio. Dal 18 al 19 maggio 1955 si accamparono sulle sponde del Big Sur River, circondati dalle sequoie costiere, e riempirono d’aria nove ampolle. Dal 2 al 3 giugno, riempirono altre ampolle nel Parco Nazionale Yosemite. In luglio andarono sui Monti Inyo, in agosto sui Monti Cascade, e in settembre in un altro parco nazionale, l’Olympic.

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Nello Yosemite, per allontanarsi dai fuochi degli altri campeggiatori, Keeling chiese al Servizio Forestale il permesso di andare ad accamparsi sotto il Passo Tioga prima che venisse aperto al pubblico. Lì, Louise e lui lavarono alcuni panni e li stesero al sole sui cespugli. La neve non si era sciolta, sul passo, e i cervi lassù erano mezzo affamati e sempre alla ricerca

di erba, fiori, germogli, e traffico turistico... Un grosso cervo maschio si avvicinò alla chetichella e si portò via parte dei panni che erano stati messi sui cespugli. Quella sera, quando Louise dava la poppata a Drew, la bocca del bambino era gelida. Keeling arrancò fuori fra una bufera di neve e l’altra, alle 8 di sera per riempire una delle sue ampolle, e poi ancora a mezzanotte, per poi accartocciarsi a dormicchiare nel sacco a pelo fino al prossimo prelievo o al prossimo pasto del piccolo, a seconda di quello che era in programma. A un’ora imprecisata, udì un fruscio. « Cercai in giro tentoni, afferrai la torcia elettrica, la puntai qua e là, proprio come un poliziotto che cerchi di localizzare un sospetto. Eccoli: due grossi occhi, che guardavano proprio me! Era quel maledetto cervo (o un altro che gli somigliava come un gemello) e teneva tra i denti il taccuino su cui avevo annotato i risultati delle mie misurazioni. Non appena gli puntai contro la pila, spaventandolo, si diede a precipitosa fuga in mezzo al bosco... con il mio taccuino, con tutti i dati! » Keeling era stato derubato di tutte le sue misurazioni dell’anidride carbonica, fin dalla prima, quella che aveva fatto. sul tetto della Mudd Hall, do-

v’era il laboratorio. Incespicando, si avviò dietro il cervo, saettando qua e là la lùce della torcia elettrica sul terreno. Incontrò anche un orso bruno quella notte, ma ne sapeva troppo poco, di orsi, per spaventarsi. Finalmente trovò quanto era rimasto del suo taccuino; le pagine recavano profonda l'impronta di una robusta dentatura. Per fortuna il cervo aveva strappato via la rilegatura, ma non si era mangiato i dati. *

*

*

Tornato al suo laboratorio nell’attico di Mudd Hall, Keeling misurò i valori dell’anidride carbonica nei campioni prelevati durante il campeggio e li unì a quelli contenuti nel famoso taccuino, ormai accuratamente registrati,

ragionandovi con la massima attenzione. Costatò che vi era in essi uno schema preciso. La concentrazione dell’anidride carbonica in tutti icampioni subiva un calo al sorgere del sole, mentre aumentava di sera. Restava alta per tutta la notte. Declinava nel pomeriggio, e iniziava a risalire dopo il tramonto. Keeling trasferì i dati su carta millimetrata, ricavandone dei grafici.

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L’andamento riscontrato al Parco Yosemite aveva grosso modo quest’aspetto:

Questa curva è paragonabile a un grafico aziendale, con la differenza che illustra un giorno nella vita della biosfera. Ogni giorno, man mano che il sole si alza nel cielo, ogni pianta verde, dalle sequoie al fetido Lysichitum americanum o a quella pianta erbacea simile al muschio che si chiama Licopodio, incomincia a inalare anidride carbonica da utilizzare nel processo di

fotosintesi, e la quantità di questo gas nell’aria incomincia a diminuire. “Fotosintesi” significa, letteralmente, “sintetizzare, costruire, mettere insieme con la luce”, e questo processo di costruzione è fondamentalmente

identico in una foresta come dentro le pareti sferiche di un’EcoSfera. Avviene all’interno delle cellule vegetali, in organelli detti cloroplasti che, osservati al microscopio, sembrano proprio EcoSfere color verde smeraldo. All’interno di ogni cloroplasto, le piante scindono le molecole di anidride carbonica in carbonio e ossigeno. Allo stesso modo, demoliscono le mole-

cole d’acqua separando l’idrogeno dall’ossigeno. Quindi ricompongono la maggior parte di questi atomi secondo nuove combinazioni per costruire zuccheri semplici come il fruttosio (espellendo parte dell’ossigeno come rifiuto). Questo lavoro richiede l’apporto energetico costante della luce solare, e regolari rifornimenti di anidride carbonica e acqua in funzione di materie prime. i La fotosintesi, in una foresta, non potrebbe avvenire senza l’anidride car-

bonica contenuta nell’aria. Tutti gli zuccheri, e anzi ogni molecola della biosfera, ivi compresa la scala a spirale del DNA, sono tenuti insieme dal

carbonio. siasi altro perni che Ci si può

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Gli atomi di carbonio si uniscono in lunghe catene e anelli a qualelemento con cui possono combinarsi. Sono come quei piccoli si incastrano nei fori corrispondenti nei giochi del tipo del Lego. costruire quasi tutto, anche una scala a spirale, e senza di essi la

scala a spirale si sfascerebbe immediatamente. Entro il primo pomeriggio, le piante hanno assorbito dalla circolazione atmosferica una grossa quantità di anidride carbonica. Contemporaneamente, però, sono molto occupate ad alimentarsi con gli zuccheri che si sono elaborati È il processo metabolico della respirazione, termine derivato da “respirare”, che a sua volta deriva dal prefisso ripetitivo “re” e da “spirare”, cioè soffiare, espirare, ed è una forma di combustione, sia pure molto lenta, nella quale viene consumato ossigeno ed espulsa anidride carbonica, allo stesso modo dei pezzi di legna che ardono nel camino. Fotosintesi e respirazione sono due dei processi vitali fondamentali,

e

vanno, per così dire, in direzioni opposte. La fotosintesi assorbe anidride carbonica e produce ossigeno, la respirazione consiste nell’assorbire ossigeno emettendo anidride carbonica. I due processi, inoltre, seguono orari diversi, circostanza che apre ai geochimici un vastissimo campo di osservazione. La fotosintesi fa l’orario diurno, perché abbisogna della luce solare, e la

maggior parte delle piante assorbe anidride carbonica solo in presenza della luce solare. Il gas viene assorbito attraverso una miriade di pori microscopici, gli stomi, che si trovano sul lato (pagina) inferiore di tutte le foglie verdi. Queste porte si aprono all’aurora e si chiudono al tramonto. La respirazione fa un turno di giorno e un turno di notte. Alle quattro del mattino, quando gli stomi sono chiusi, le foglie verdi non assorbono praticamente anidride carbonica, ma respirano: sono nella fase di espirazione, ed emettono nell’aria la stessa anidride carbonica. Solo quando finisce la notte il bilancio di aspirazione ed espirazione è più o meno in pareggio. Ossia, dopo ogni ciclo di ventiquattro ore le piante, nella quasi totalità, hanno prelevato dall’atmosfera e le hanno restituito pressappoco la stessa quantità di anidride carbonica. Mentre Keeling camminava per i boschi con le sue cassette di ampolle di vetro, ansimando spesso per la fatica una o due volte al secondo, anche le piante respiravano, ma al ritmo di un solo lento respiro al giorno. Gli animali non contano gran che in questo ciclo quotidiano. Non posseggono cloroplasti, gli agenti verdi della fotosintesi. Finché un ingegnere genetico non avrà progettato una mucca verde o un ragazzo dai capelli verdi, gli animali seguiteranno a procurarsi tutta l’energia e il materiale da costruzione di cui hanno bisogno mangiando vegetali, o altri animali che si nutrono di vegetali, e inalando ossigeno prodotto dai vegetali. Il ruolo degli animali nel grande schema della vita è dunque marginale. Per i geochimici, il meccanismo che abbiamo descritto rappresenta una

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finestra aperta sulla biosfera. Se fotosintesi e respirazione seguissero gli stessi orari, il livello dei gas in una foresta o in una sfera di cristallo sarebbe

sempre uguale, piatto; il suo andamento sarebbe rappresentato da una linea retta: non se ne ricaverebbero certo molte informazioni. Ma poiché i due processi non sono in sincronia, e la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre aumenta e diminuisce, l'atmosfera è sempre ricca di informazioni riguardanti la biosfera. La veduta del pianeta da grande altezza è di tipo “olimpico”. Lassù, la visione di un cervo e di un uomo che lo insegue, o di un fuoco da campo e di una madre e figlio addormentati scompare. Scompaiono gli alberi. Scompaiono fiumi e ruscelli. La cacofonia prodotta da due processi contraddittori, fotosintesi e respirazione, si annulla risolvendosi in una sola linea ondulante, raffigurante la media o la somma

di tutto ciò che cresce, respira,

muore nella foresta. Da questo punto di vista cosmico ciò che conta non è l’individuo, ma la biosfera nel suo insieme.

Ciò che destava la maggiore perplessità in Keeling era il valore dell’anidride carbonica che rilevava nell’aria del pomeriggio. Esso scendeva sempre a 315 parti per milione. Sia al Parco Yosemite, sia al Bif Sur, sia sui Monti Cascade, la concentrazione dell’anidride carbonica scendeva sempre a quella cifra entro le 2 o 3 del pomeriggio. Stando alla letteratura scientifica, si riteneva che l’anidride carbonica variasse in concentrazione tra luogo e luogo, e perfino tra una brezza e l’altra, da valori molto superiori a 315 a valori molto inferiori. Ma le misurazioni di Keeling effettuate a metà pomeriggio, quando si ha il valore minimo giornaliero, davano sempre, con piccolissimi scarti, il valore di 315 parti per milione. Nessuno l’aveva mai notato prima. Perché l’anidride carbonica di una foresta dovrebbe sempre scendere a 315 ppm? Durante quell’inverno, spinto da una vaga intuizione, Keeling caricò una grossa cassa di ampolle di vetro e tornò in auto sui Monti Inyo, nella California orientale. Si accampò in un’isolata stazione per la ricerca sul campo ad alta quota, a 3600 metri di altitudine, di fronte al Monte Whitney. Infuriava un vento di burrasca. Regolarmente ogni quattro ore, di giorno e di notte, il ricercatore si spinse nella bufera, barcollando sotto l’impeto del vento e movendo pochi passi per volta sulla neve gelata e scricchiolante, per riempire una delle ampolle. Il vento ululò per cinque giorni, e Keeling riempì trenta ampolle di Essenza di Bufera sulla Catena del Pacifico. Quindi fece ritorno a casa e al suo manometro.

« Ed ecco che la concentrazione di anidride carbonica... » racconta ades26

so, ancora eccitato, seduto su una vecchia sedia girevole e curvandosi sulla scrivania « ...non solo era costante, ma si inseriva esattamente al centro del-

la fascia dei valori inferiori fin allora registrati. Era di 315 parti per milione. » Allora Keeling capì il significato di quel numero. L’aria di burrasca da lui raccolta aveva spazzato la superficie del Pacifico per migliaia di miglia prima di incontrare i Monti Inyo. Era un’aria non soggetta a influenze locali. Era un vento che aveva viaggiato, un vento così cosmopolita che poteva forse rappresentare i valori medi di tutta l’aria della Terra. I suoi predecessori avevano cercato nei posti sbagliati. Avevano provato nelle strade di Parigi, nei frutteti, nei boschi. E se invece la cosa giusta da fare fosse stata proprio l’andare in uno dei posti più remoti della Terra, un posto dimenticato da Dio, privo di vita, una montagna brulla, a passarvi una notte nella bufera invernale? L’andare dove l’aria fosse pura e tutta la confusione della fotosintesi e della respirazione, dei fuochi da campo e delle ciminiere, fosse messa insieme, armonizzata, stemperata? E se il vento di

burrasca avesse portato con sé un qualcosa che era proprio la media di tutta l’anidride carbonica presente sul pianeta? Se cioè la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera della Terra considerata nel suo insieme fosse stata di circa 315 parti per milione? Questo avrebbe spiegato perché i suoi valori a metà del pomeriggio si avvicinavano sempre a quel 315. Una foresta è un intrico di fattori e influssi locali. Ma a mezzogiorno il Sole, avendo riscaldato il terreno, fa sollevare

l’aria, come in un camino dal tiraggio ben funzionante. Quando l’aria calda sale, aria più fresca scende dall’alto a prenderne il posto. Masse d’aria ruotano continuamente su tutta la superficie del globo. Il mestolo del mezzogiorno gira così bene che anche in mezzo a una fitta foresta, in un giorno senza vento, l’aria conserva pressappoco un ricordo, per così dire, del livello di anidride carbonica dell’atmosfera dell’intero pianeta. « Perciò!... » dice Keeling. Apre un cassetto ove conserva le pratiche, ne tira fuori il primo lavoro che ha pubblicato sull’argomento, inforca di nuovo gli occhiali da lettura e addita il numero magico, 315. « Del tutto in con-

trasto con quello che a quell’epoca era considerato Vangelo, capito? » dice. «E basato su una manciata di rilevamenti, oltre che sulla stramba voglia di

avere un manometro preciso. Nessun tentativo di copiare i metodi seguiti da Buch in Scandinavia. Non davo retta a niente e a nessuno, giusto? »

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3 La curva di Keeling E così spesso avviene che le cose umili e piccole svelino le grandi, più di quanto le grandi possano svelarci le piccole:ve quindi bene afferma Aristotele che “la natura di ogni cosa è meglio osservabile nelle sue porzioni più piccole”. FRANCESCO BACONE, Novum Organon

Allora, a metà degli anni Cinquanta, quasi nessuno si preoccupava dell’effetto serra. Ma i geochimici ne conoscevano l’esistenza, e da un bel po” di tempo. La teoria dell’effetto serra, nelle sue linee generali, fu enunciata

per la prima volta da un matematico e fisico francese che era al seguito di Napoleone durante la spedizione in Egitto: Jean-Baptiste-Joseph Fourier. Fourier si distinse in Egitto, al punto che qualche anno dopo, quando fece la sua più importante scoperta scientifica, la teoria della propagazione del calore, Napoleone lo nobilitò conferendogli il titolo di barone. Fourier fu il primo a capire che è l'atmosfera a darci calore. Lo spazio interplanetario è un posto molto, molto freddo, e se non fosse per gli strati di gas che circondano il nostro pianeta, tutti noi finiremmo congelati. Senza l’aria, la Terra non sarebbe “il pianeta azzurro”: sarebbe bianca; dalla Luna l’intero globo terracqueo apparirebbe come appare a bassa quota il Polo Sud. Nel 1827, Fourier paragonò la benefica influenza della atmosfera terrestre a quella di una serra. Disse infatti che i gas che fasciano il globo hanno la stessa funzione delle vetrate che coprono una serra. Insomma, aveva individuato l’effetto serra. Qualche decennio dopo la morte di Fourier un fisico inglese, John Tyndall, analizzò a uno a uno i gas presenti nell’atmosfera, per accertare quale

fra essi causasse il più forte effetto serra. Sul finire degli anni 1850, scoprì che azoto e ossigeno non hanno i requisiti necessari a questo scopo, e che quindi il 90 per cento circa dell’atmosfera non produce praticamente alcun effetto serra. Tre gas presentano invece tali requisiti: sono il vapor acqueo, l’anidride carbonica e l’ozono. 28

Qualcuno può sorprendersi venendo a sapere che il vapor acqueo va considerato uno dei gas dell’atmosfera. Forse la sorpresa deriva dal fatto che il vapor acqueo “domestico”, allo stesso modo dell’acqua, fa parte integrante della nostra vita quotidiana, sia come umidità atmosferica, sia come vapore che si leva dalle pentole che bollono o dagli essiccatori in genere. Gli altri gas ci sembrano più lontani da noi, più misteriosi, anche se sappiamo che siamo immersi nel loro insieme e che li aspiriamo ed espiriamo in continuazione. L’acqua, evaporando, forma un gas invisibile, come fa la legna quando brucia. E di acqua ve n’è in abbondanza sulla superficie della Terra; perciò vi è abbondanza di vapor acqueo nell’atmosfera. L’acqua, in realtà, è sotto forma di gas il più comune agente dell’effetto serra per il nostro pianeta. È molto più diffusa dell’anidride carbonica, che a sua volta è molto più diffusa dell’ozono. Questi tre gas hanno una caratteristica che non hanno né l’azoto né l’ossigeno. Le loro molecole sono formate da tre atomi. L’azoto è N-N, e l’ossigeno è O-O: sono coppie. I tre più comuni gas da effetto serra sono triplette: l’acqua si presenta come H-H-O (H,O) e l’ozono è 0-0-0 (0,), cioè una forma di ossigeno aberrante e instabile, una sorta di ménage à trois. L’ani-

dride carbonica è: O-C-O (CO,). La loro struttura suggerisce l’idea di un corpo centrale affiancato da due ali. Avendo

molecole a tre atomi anziché due (“piccole triadi”, le chiamò

Tyndall), questi gas posseggono una proprietà particolare. Così come l’azoto e l’ossigeno, essi sono quasi perfettamente trasparenti alla luce che piove dal nostro astro sulla Terra. A differenza di questi gas, tuttavia, sono parzialmente opachi alla radiazione termica che è emanata dal suolo surriscaldato dal Sole. Questa radiazione termica è nel campo dell’infrarosso (al di sotto del rosso, letteralmente); è al di sotto del rosso nello spettro elettroma-

gnetico, e ciò la pone al di sotto della gamma di colori che l’occhio umano è in grado di percepire. Alcuni animali, come le zecche e i serpenti a sonagli, localizzano le loro prede nel campo dell’infrarosso; e noi stessi possiamo avvertire i raggi infrarossi quando siamo vicini a una stufa arroventata o a un’altra fonte di calore. La radiazione della Terra è infrarossa: il pianeta emana, notte e giorno, una tenue radiazione di questo tipo. Quando colpisce molecole triatomiche, la radiazione infrarossa le fa vi-

brare e tremare. Le molecole di anidride carbonica muovono i loro legami come uccelli che battono le ali e, in questo agitarsi fremente, emanano ener-

gia sotto forma di altri raggi invisibili, altri raggi infrarossi. Ogni molecola di anidride carbonica dell’atmosfera è come un “compagno oscuro”, una

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stella invisibile di un sistema binario, che irradia in tutte le direzioni, in alto, in basso, lateralmente.

In tal modo, invisibili raggi energetici passano avanti e indietro molte volte fra l’atmosfera e le sfere sottostanti — litosfera, biosfera, idrosfera e

criosfera — prima che l’energia migri infine raggiungendo lo strato più esterno dell’atmosfera e poi ne sfugga verso il vuoto e la calma relativa dello spazio esterno, dove vi sono pochi uccelli che battono le ali. Questo, in sostanza, è l’effetto serra. I raggi invisibili rimbalzano molte volte qua e là all’interno dell’atmosfera prima di riuscire a sfuggire nello spazio. Vapore acqueo, anidride carbonica e ozono, per quanto rari, fanno dell’aria del nostro mondo una gigantesca trappola per il calore. E da miliardi di anni, la vita sulla Terra dipende dalla particolare caratteristica appena accennata di questi tre gas (e di pochi altri ancora più rari) che mantengono vivibile il pianeta. Il fisico John Tyndall fu pronto a capire l’enome influenza che l’anidride carbonica, soprattutto, può esercitare per il fatto di essere a un tempo attiva

e rara. Si rese conto che le piante aspirano ed espirano continuamente anidride carbonica, e che la quantità di questo gas subisce naturali fluttuazioni anche per molte altre cause. Se la quantità di esso presente nell’aria scendesse al di sotto di un certo livello, il fenomeno potrebbe provocare un raffreddamento del pianeta. Tyndall giunse fino ad avanzare l’ipotesi che questo potesse spiegare le glaciazioni. Curiosamente, egli non tenne in gran conto l’altra faccia della medaglia, così ovvia col senno del poi. Non difettava certo di agilità mentale. Era un “polimatematico” molto versatile che fece importanti scoperte in vari campi: chimica, fisica, batteriologia; enunciò una sua teoria sulle origini della vita. Riuscì perfino a spiegare perché il cielo è azzurro. Inoltre era un grande alpinista e un sottile argomentatore, e non si sarebbe ritratto di fronte alle implicazioni relative ai lati negativi dell’effetto serra.* Forse ci sarebbe arrivato, col tempo. Ma era appena entrato nella cinquantina allorché, ammalatosi, si ritirò in una villa in brughiera a scrivere la propria biografia. Lo accudiva la giovane moglie Louise, che ogni mattina gli somministrava una forte di dose di magnesia contro la dispepsia, e la sera una piccola dose di cloralio contro l’insonnia. Una mattina d’inverno, nel 1893, scambiò per errore le due bottigliette e gli diede una fortissima dose di cloralio. Tyndall lo trangugiò, osservando poi che aveva un sapore

* “E vile e dannoso ignorare i fatti perché non concordano con i nostri gusti”, scriveva Tyndall în Science and Man.

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dolciastro. «John, per sbaglio ti ho dato il cloralio! » « Sì, mia povera cara » disse lui. « E hai ucciso il tuo John. » Morì prima di sera. Tre anni dopo la scomparsa di Tyndall un chimico svedese, Svante Arrhenius, finalmente scoprì l’altra faccia della medaglia. Arrhenius, che vinse uno dei primi premi Nobel per la fisica, mise insieme alcuni semplici fatti: ogni anno la gente bruciava molto carbone, petrolio, legna da ardere, e ogni anno in quantità maggiore rispetto al precedente. Il consumo di questi combustibili immette milioni di tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera. Quindi l’anidride carbonica è un gas da effetto serra. Arrhenius lo spiegò nel London, Edinburgh, and Dublin Philosophical Magazine dell’aprile 1896. Scriveva il chimico: « Stiamo facendo evaporare le nostre miniere di carbone ». Aggiungere all’aria tanta anidride carbonica non può non causare « una modificazione della trasparenza dell’atmosfera ». Con ogni anno che passa, l’aria non può non imprigionare una quantità sempre maggiore di radiazione oscura, una quantità sempre maggiore cioè della luce invisibile emessa dalla Terra. Alla fine, questo cambiamento potrebbe benissimo riscaldare il pianeta fino a livelli che stanno al di fuori dell’esperienza umana. Le pagine della copia del London, Edinburgh, and Dublin Philosophical Magazine che ho consultato sono così vecchie e danneggiate dall’acidità che si sbriciolano a sfogliarle, come certi messaggi dei film di spionaggio che bruciano non appena sono stati letti: « Missione impossibile. Questo messaggio si autodistruggerà ». Ma la situazione è diversa: il giornale di cui parlo fu pubblicato ai tempi della regina Vittoria. Nella prima metà del XX secolo l’idea del riscaldamento globale fu trascurata. Gli studiosi di scienze della Terra non dubitavano del fatto che l’anidride carbonica ha un effetto serra. Ma ponevano in dubbio, fra altro, che

il gas stesse accumulandosi nell’atmosfera. Vi erano ragioni per pensare che, se mai stava aumentando,

il fenomeno avveniva molto, molto lenta-

mente. L’inquinamento da carbonio causato dalla combustione petrolio probabilmente scompariva dall’atmosfera con la stessa cui comignoli e ciminiere lo provocavano. Il gas, per esempio, re assorbito dall’oceano. In un certo senso, questo è come un

di carbone e rapidità con poteva venigrosso reci-

piente colmo di acqua di calce, contenendo miliardi di tonnellate di calce di-

sciolta nelle sue acque sotto forma di carbonato di calcio. I geochimici davano per scontato che, man mano che gli esseri umani emettevano anidride carbonica nell’atmosfera, il gas in eccedenza avrebbe reagito con la calce e

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sarebbe andato a depositarsi, in una nevicata di candidi fiocchi, sul fondo

dei mari. Più alta la quantità di anidride carbonica, più copiosa la nevicata. Più copiosa la nevicata, minore la quantità di gas nell’atmosfera. Il clima del mondo era dunque stabile e sicuro. Durante un serie di stagioni insolitamente calde per l'Europa registrate negli anni Trenta, l’ingegnere minerario inglese George Callendar si prese la briga di compilare l’elenco dei valori di anidride carbonica rilevati nei cento anni precedenti e di sottoporli ad attento esame. Espungendo quelli che gli sembravano i valori più inattendibili, e accettando i valori a suo avviso più precisi, Callendar riscontrò indizi di un graduale accumulo di anidride carbonica gassosa. Anche il risultato di questa ricerca fu ignorato. Nemmeno Keeling, agli inizi della sua indagine sistematica, si rendeva conto che il tasso di anidride carbonica nell'atmosfera sarebbe diventato 0ggetto di un attento e perfino morboso interesse planetario. L’intenzione di Keeling era solo quella di effettuare le misurazioni. Misurare per misurare, l’arte per l’arte. Non era affatto preoccupato dell’anidride carbonica. C’è un detto polinesiano secondo cui c’è chi, « seduto su una balena, si dà alla pesca dei pesciolini ». Frattanto, però, un oceanografo a nome Roger Revelle scoprì che l’oceano non agisce come un vasca piena di acqua di calce. Il chimismo dell’ac| qua marina fa sì che essa si opponga con forza all’assorbimento di altra anidride carbonica in aggiunta a quella che già contiene. A quell’epoca Revelle dirigeva La Scripps Institution of Oceanography, a La Jolla in California. Già allora, come sempre fino alla sua scomparsa nel 1991, era una delle vo-

ci più rispettate nel campo della sceva il dono di saper assimilare rità più semplici. La spiegazione l’acqua marina all’assorbimento

politica della scienza, e ognuno gli riconoi quadri più complicati enucleandone le veche egli diede della resistenza opposta daldi anidride carbonica è oggi nota con il no-

me di Effetto Revelle. Egli lo enunciò nel 1957, in un lavoro scritto in col-

laborazione con Hans Suess. I due autori riassumevano la nuova situazione del pianeta con parole che sono state citate molte volte, da allora: « Così, gli uomini stanno compiendo un esperimento di geofisica su larga scala, di un tipo quale non avrebbe mai potuto effettuarsi in passato, né potrebbe essere ripetuto in avvenire ». Quando Keeling scese dalla montagna con il magico numero 315, le cose cominciarono a muoversi in fretta. Uno scienziato che lavorava al Caltech e aveva seguito i progressi di Keeling gli diede un numero telefonico da chiamare a Washington. Ricercatori d’ogni parte del mondo si accingevano a un ambizioso studio del nostro pianeta: diciotto mesi di osservazioni a tappeto

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delle varie sfere — terra, aria, acqua, fuoco e ghiaccio — cui avrebbero partecipato scienziati di settanta Paesi diversi, specializzati in tutte le discipline attinenti alle scienze della Terra. Questo Anno Geofisico Internazionale (sigla I.G.Y., International Geophysical Year) aveva richiesto anni di preparazione, e adesso stava per avere inizio. Keeling, tipo piuttosto ritirato in ogni senso, non ne aveva quasi sentito parlare. Ma Roger Revelle era stato uno dei pianificatori dell’I.G.Y. Avendo dimostrato che il tasso di anidride carbonica poteva essere in fase di ascesa, voleva accertare se lo era veramente. A due settimane dal rientro in sede dopo aver affrontato la bufera in montagna, Keeling era a bordo di un aereo per Washington. Qui, fu condotto al Centro per la pianificazione delle ricerche meteorologiche da svolgere nell’ Anno Geofisico Internazionale. I suoi colloqui incominciarono presto, alle 8 del mattino, e andarono avanti a spron battuto. Il capo del Weather Bureau’s Office of Meteorological Research, Harry Wexler, interrogò Keeling circa quel suo famoso 315. Come si sarebbe comportato nel caso che avesse avuto in progetto di misurare i valori dell’anidride carbonica nel quadro dell’I.G.Y.? Keeling rispose che avrebbe cercato di monitorizzare il gas in tutto il mondo. Inoltre, avrebbe trovato modo di rendere le rivelazioni non casuali

e saltuarie, prelevando qualche campione d’aria qua e là ogni giorno, ma continuative. Wexler non batté ciglio. Se quell’uomo era in grado di misurare il livello di anidride carbonica nell’atmosfera dell’intero pianeta, allora lui lo voleva

per l'Anno Geofisico Internazionale. Sapeva di stazioni di controllo e rilevamento meteorologico a distanza dalle quali sarebbe stato possibile monitorizzare l’anidride carbonica. In particolare, disse, c’era una stazione di ri-

levamento che l’U.S. Weather Service aveva appena costruito sul Mauna Loa, un vulcano nelle Hawaii. Lassù c’era una piccola costruzione, in ce-

mento armato dove il personale avrebbe potuto mangiare, dormire e badare alla strumentazione. Sì, pensava che il Mauna Loa sarebbe andato bene.

E così Roger Revelle invitò Keeling alla Scripps Institution of Oceanography, dove Keeling si diede da fare per portarlo sull’orlo della follia. A quell’epoca, Revelle non era soltanto direttore di quell’istituto e aveva lavorato alla progettazione dell’I.G.Y., ma era anche stato oceanografo ufficiale della Marina USA, e per anni aveva diretto scienziati di primo piano, squadre di scienziati, nonché le maggiori spedizioni oceanografiche. Però non si era mai imbattuto in un tipo come Keeling. «La sua principale caratteristica » raccontava Revelle « è che ha un desiderio ossessivo di misurare anidride carbonica. Se la misurerebbe anche

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nella pancia, credo. Vuole misurarla in tutte le sue manifestazioni, atmosferiche e oceaniche. E ha fatto solo quello, tutta la vita! » Revelle sembrava

quasi incredulo. « Estremamente deciso, e, suppongo di vedute molto limitate, preso com’è da quell’unico problema. Questa sua dedizione quasi maniacale ne fa un individuo con cui è piuttosto difficile trattare, come può ben capire. » « Ma un simile grado di ossessione è molto insolito negli scienziati? » « Be’, non saprei. So soltanto che Keeling è la persona più testarda che abbia mai conosciuto. » « E certo avrà conosciuto un bel po’ di scienziati! » « Direi proprio di sì. » Quando Keeling arrivò alla Scripps, disse a Revelle che voleva sperimentare un nuovo tipo di analizzatore dei gas. Il suo funzionamento si basava sul lancio di un fascio di raggi infrarossi attraverso il campione di aria da esaminare, e nel misurare poi quanta parte di esso fosse riuscita a filtrare. Più anidride carbonica fosse stata presente nel campione, più efficacemente sarebbe riuscita a bloccare il passaggio del fascio di raggi. Ciascuno di questi analizzatori sarebbe costato 10.000 dollari, e ogni stazione della rete globale per il prelievo dei campioni di aria coordinata da Keeling avrebbe dovuto esserne dotata. Poi, quando ormai era imminente l’apertura dell’ Anno Geosifico Internazionale, Keeling informò Revelle che intendeva costruire un manometro nuovo e migliore, con un maggior numero di camere. Voleva aumentare la precisione dello strumento di ben dieci volte. Invece di arrivare a misurare il gas fino a circa mezza parte per milione, disse a Revelle, voleva tentare di mettersi in grado di poter scendere fino a 5 centesimi di parte per milione. Per qualche tempo Revelle ebbe l’impressione che 1’Anno Geofisico Internazionale sarebbe finito prima che Keeling riuscisse a realizzare l’uno o l’altro dei suoi nuovi strumenti. Seguitava ad andare a trovarlo per verificare a che punto stesse, e gli pareva che non succedesse gran che, salvo per il fatto che i piani di Keeling per il nuovo manometro stavano diventando sempre più complessi. D’altra parte, il primo analizzatore del nuovo tipo sarebbe dovuto partire per Little America, la stazione antartica americana che prende nome da una banchisa glaciale esplorata per la prima volta dall’ammiraglio Byrd. .L’ultima nave diretta in Antartide doveva salpare il giorno di Santo Stefano del 1956. Keeling incominciò a imballare l’apparecchio la vigilia di Natale. « Ragion per cui il mio matrimonio allora fu notevolmente travagliato » racconta Keeling. « Mia moglie aspettava il nostro secondo figlio il 2 gen34

naio, e io dovetti passare la vigilia di Natale a completare il carico della nave... Avevo con me alla Scripps un giovane laureato, che mi aiutò a inchiodare e avvitare scatoloni e casse, proprio la vigilia di Natale! All’istituto facevano una festicciola, e noi dovemmo lasciare la compagnia per andare a caricare e trasportare quel dannato apparecchio al porto di San Diego, in due soli... » In seguito, quando incominciarono ad arrivare le cifre fornite dall’analizzatore di Little America, Keeling le esaminò. Non avevano senso. Le pompe dell’analizzatore erano difettose. Keeling montò le parti di un secondo analizzatore da spedire, questo, al Mauna Loa. Ormai il nuovo manometro, ancora in fase di costruzione, ave-

va riempito il suo laboratorio fin quasi a traboccarne. Gli toccò completare l’analizzatore per il Mauna Loa nel corridoio antistante. I colleghi, passando, dovevano girargli attorno con cautela.

Keeling riteneva di sapere che cosa il nuovo analizzatore, se avesse funzionato, gli avrebbe detto. L’aria sul Mauna Loa, sull’isola di Hawaii, sper-

duta nel bel mezzo del Pacifico, era quanto di più puro si potesse desiderare. Le Hawaii sono l’arcipelago più isolato che esista sulla Terra. Gli alisei che vi soffiano avrebbero dovuto portare qualcosa di molto vicino alla media dell’aria di tutto il pianeta (o almeno dell’emisfero boreale, visto che le

correnti d’aria non si mescolano facilmente nella fascia equatoriale). L’aria del Pacifico che saliva sui fianchi del vulcano sarebbe stata la stessa aria che Keeling aveva prelevato durante la burrasca sui Monti Inyo, con il vantaggio di contenere ancora meno corpuscoli perturbatori provenienti dalla terraferma. Di conseguenza, Keeling prevedeva che, se l’analizzatore avesse funzionato a dovere, la concentrazione di anidride carbonica sarebbe risul-

tata pari a 315 parti per milione. Un uomo del Weather Bureau installò l’analizzatore di gas sulle pendici del vulcano nel marzo del 1958. Il primo giorno che lo mise in funzione, esaminò il grafico che la macchina andava tracciando. Dava un valore di 314. E stava misurando la quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera dell’emisfero boreale.

I dati per il secondo mese forniti dall’analizzatore installato sul vulcano non concordavano con quelli del primo. L'anidride carbonica, infatti, era

aumentata di una parte per milione. Il mese successivo, aumentò ancora. Quindi il generatore elettrico dell’osservatorio si guastò, e l’analizzatore restò spento per alcune settimane. Allorché l’osservatorio riprese a funzionare, in luglio, la concentrazione

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del gas era scesa a valori inferiori a quelli registrati in marzo. « Ebbi il timore che i dati sulla concentrazione sarebbero stati molti dubbi e irrimediabilmente erratici » ricorda Keeling « specie quando la concentrazione calcolata scese ancora sul finire di agosto. » Poi vi furono altre sospensioni dell’energia elettrica. Le misurazioni di Keeling erano dunque altrettanto inattendibili di quelle di Buch? Oppure non esisteva alcuna ragione che potesse spiegare gli alti e i bassi dell’anidride carbonica? Addetti alle previsioni meteorologiche e tecnici che lavoravano sul vulcano ricordano

lunghe,

concitate

conversazioni

telefoniche

con

La Jolla.

« Eravamo impegnati in un tipo di programma del tutto speciale, in cui Keeling aveva uno spasmodico interesse personale non meno che scientifico » racconta un meteorologo. « E tuttavia Keeling non era sul posto, non poteva averne un’esperienza diretta. Tutto quello che veniva a sapere accadeva a migliaia di chilometri di distanza e a un’altezza di migliaia di metri rispetto al luogo dove si trovava lui. » Nel tardo autunno, la concentrazione di anidride carbonica riprese a salire. Harry Wexler, dello U.S. Weather Service, trovò in qualche modo i

fondi necessari per acquistare nuovi generatori elettrici per l’osservatorio. Non vi furono più interruzioni di corrente. Keeling poté osservare la concentrazione salire per tutto l’inverno, fino a un massimo di 318 ppm, quindi la vide ridiscendere la primavera successiva. I dati relativi al primo anno, da marzo a marzo, registrati sul Mauna Loa, descrivevano una linea oscil-

lante, come questa:

A quell’epoca Keeling giunse a immaginare quello che forse stava accadendo. Aveva scoperto un altro ciclo invisibile, questa volta riguardante l’intero pianeta. Per capirlo, dovette ripensare profondamente al grande e mutevole scena-

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rio delle stagioni, al passaggio annuale delle foglie dal color verde al rosso e al giallo, e poi al marrone, o al nero, considerandolo sotto l’aspetto degli effetti invisibili. Le piante assorbono anidride carbonica specialmente in primavera e in estate, la loro stagione verde e attiva. Poi le foglie appassiscono, cadono e si decompongono, e restituiscono all’aria il carbonio che avevano assorbito nei mesi precedenti. Ancora una volta, si osservava che fotosintesi e respirazione delle piante marciano a ritmi diversi. La fotosintesi è soprattutto un processo primaverile ed estivo; incomincia in marzo-aprile, raggiunge il massimo in giugno, scende a valori prossimi allo zero in ottobre-novembre, quando la luce solare diventa troppo scarsa. In altri termini, lavora a tutto spiano durante la parte luminosa dell’anno, passando a una inattività pressoché totale nella parte di minore luminosità, nel periodo “buio”. Anche la respirazione, intesa come espirazione, tocca il massimo in giugno, ma, diversamente dalla fotosintesi, non si ferma mai del tutto (tranne

nei luoghi dove il terreno gela). Seguita per tutto l’inverno, per tutto l’anno. Le forme di vita che decompongono le foglie cadute comprendono un gran numero di funghi, batteri, vermi, termiti, lumache, muffe delle foglie come il Penicillium, microbi presenti nel terreno, l’oscuro ventre della biosfera.

Tutti competono nell’impresa di mangiare le foglie morte, di far marcire i rami caduti, e tutti insieme restituiscono all’atmosfera la maggior parte del carbonio preso a prestito dalla vita. Ogni anno, quando gli organismi verdi inalano carbonio per mettere boccioli, foglie, steli, germogli, la biosfera inala, aspira. Quando le foglie cadono e marciscono al suolo, l’atmosfera esala, espira. Keeling, con questa visione, aveva scoperto uno dei cicli naturali più belli, regolari, a carattere universale. Un anno o due prima, aveva visto il respiro della foresta; ora

vedeva il respiro del pianeta. La foresta ha un solo atto respiratorio al giorno. Il pianeta ne ha uno all’anno. Cosa anche più importante, la biosfera respira in modo così tranquillo e regolare che anche il più piccolo cambiamento si nota. Nella seconda primavera della ricerca Keeling, leggendo i dati raccolti sul Mauna Loa, osser-

vò che vi era stato un lieve aumento dell’anidride carbonica rispetto alla primavera precedente. Il gas era aumentato di circa una parte per milione. Eccoci, dunque. Appena un anno dopo l’I.G.Y. L’anidride carbonica era in ascesa. Non c’era dubbio, era proprio quello che stava accadendo. Anni dopo, scherzando solo a metà, disse che in quel momento aveva avuto la sensazione di essere personalmente responsabile dell'aumento dell’anidride carbonica. 3%

Dopo un tale raggiungimento, molti uomini si sarebbero guardati attorno, alla ricerca di nuove vette da conquistare. Ma Keeling seguitò imperterrito a lavorare, anno dopo anno, nel suo laboratorio all’Istituto Scripps. Mantenne sempre in funzione i suoi analizzatori originali — che ormai sembravano pezzi d’antiquariato — e il manometro che aveva costruito durante 1’ Anno Geofisico Internazionale. Per tutto un decennio, studiò l'anidride carbonica, e la vide aumentare, in tutto il mondo, di circa 1 parte per milione ogni anno. Poi la concentrazione incominciò a salire anche più rapidamente, con un incremento annuo di 1,5 ppm. Continua la sua opera di osservazione dalle pendici del Mauna Loa, da un osservatorio presso il Polo Sud, e da quel tanto di rete mondiale che riesce a tenere insieme. Il corridoio fra il suo ufficio e i laboratori (ora più di uno)

sono quasi sempre ingombri di cassette di legno accatastate piene di ampolle di vetro:

campioni di aria prelevati in Alaska,

alle Samoa,

nell’Isola

Christmas, in Nuova Zelanda. Decine di stazioni di monitoraggio disseminate attraverso il pianeta, poi, sono mantenute in funzione dalla U.S. National Oceanic and Atmospheric Administration, e da vari Paesi membri del-

l'Organizzazione Meteorologica Mondiale. Riempiono e analizzano circa 6000 ampolle ogni anno. « È diventata una specie di artigianato » spiegava Revelle. Poiché i numeri esprimenti i valori si sono venuti susseguendo per decenni, questo ormai famoso tracciato è diventato un grafico che sembra raffigurare l'andamento economico di una fiorente piccola impresa con attività a carattere stagionale. Ad ogni autunno, il grafico segna un massimo. Ad ogni estate, la linea scende verso il basso, per cui presenta un aspetto sinuoso, serpentiforme. Tuttavia ad ogni inverno il massimo è più alto che nell’inverno precedente. In matematica, ogni linea non retta, una spirale, il disegno di una rampa di scale, si chiama curva. Questa è la curva di Keeling:

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A un trentennio dall’ Anno Geofisico Internazionale, nel 1988, la quantità

di anidride carbonica nell’atmosfera si avvicinava alle 350 parti per milione. La curva di Keeling era diventata una sorta di icona, un’immagine sacra

per gli studiosi di scienze della Terra: il ritratto e lo specchio dell’effetto serra, il simbolo chiave del cambiamento globale. Quando Keeling diede il via alle registrazioni, l’idea di mettere sotto continuo monitoraggio il pianeta sembrava ai più peregrina, se non un po” stramba. Oggi, questa stretta sorveglianza è una prassi universalmente accettata e giudicata necessaria per garantirci la sopravvivenza nei prossimi cent'anni. Cambiamenti sempre più significativi emergono ogni anno. Di recente, un’analisi della curva di Keeling portò a un’altra rivelazione. Il “respiro” della vita sta cambiando. Dalla metà degli anni Settanta, il respiro della biosfera non è più del tutto uguale a prima. Le inspirazioni e le espirazioni della Terra sembrano diventare sempre più ampie.

I geochimici stanno cercando di capire che cosa significi questo fenomeno. In primo luogo, che cos'è che fa respirare il mondo? La foresta non ha polmoni, ma solo foglie verdi, in qualche caso acquitrini e paludi, laghi e laghetti, pozze d’acqua permanenti. E nemmeno la biosfera ha polmoni, ma solo i continenti ammantati di verde con le loro foreste, pianure, steppe,

tundre, terreni coltivati, oltre al mare produttore di plancton. Se il respiro della biosfera cambia, non può significare la stessa cosa del cambiamento nella respirazione di un bosco, o di una felce, o di un cane, 0 di un essere

umano. La temperatura, le precipitazioni, i livelli di anidride carbonica: questo è il genere di fattori che può influire sul respiro del mondo. Una volta un ecologo raccolse un copepode con un contagocce, lo collocò sotto un diavoletto di Cartesio e ne misurò il ritmo respiratorio. Un copepode è un crostaceo, un lontano cugino dei gamberetti rossi contenuti in una EcoSfera. Questo particolare copepode aveva il suo habitat naturale negli

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spazi esistenti fra i granelli di sabbia sulle rive dei corsi d’acqua che traversano le foreste. In quei microscopici anfratti contribuiva anch’esso, nei suoi modestissimi limiti, al fenomeno della respirazione planetaria. (Come dicono gli aborigeni australiani: « Nessuna cosa è nulla ».) Nella piccolissima campana subacquea, il copepode si trovò per la prima volta da quando era nato senza la sabbia che costituiva il suo ambiente. L’esserino incominciò ad agitare nell’acqua le piccole appendici setolose, e il suo ritmo respiratorio divenne sempre più frequente. A titolo sperimentale, il ricercatore pose sotto la campana alcuni granelli di sabbia prelevati dall’ambiente naturale dell’animaletto, sulla riva di un

fiume. Il copepode afferrò un granello e vi si avvinghiò attorno con tutto il corpo. Gradualmente, la sua frequenza respiratoria tornò alla normalità. L’ecologo ritentò l’esperimento con altri esemplari, ottenendo lo stesso risultato: tutti i copepodi reagirono aumentando il ritmo respiratorio; afferrando il granello di sabbia, tornarono a una respirazione normale. Quando si tratta del respiro della biosfera, le cause e la natura del cambiamento, nonché le sue implicazioni per quanto riguarda il futuro, non sono spiegabili con un esperimento semplice e ripetibile come quello descritto. Noi sappiamo che il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera sta aumentando. Forse sta aumentando anche la temperatura del pianeta. Si suppone che questi due mutamenti avvenuti nell’atmosfera abbiano innescato il mutamento nella respirazione della vita; e questo benché la biosfera abbia superato migliaia di altre aggressioni in questi stessi anni, ivi compresi repentini aumenti delle piogge e delle nevi acide, l’espansione dei deserti, l’andata in fiamme delle forete tropicali. Interi ecosistemi sono stati distrutti o modificati in modo irreparabile da fenomeni come il forte impoverimento delle acque del lago di Aral nell’Unione Sovietica o la vistosa diminuzione dell’artemisia nella vegetazione dell’Ovest degli Stati Uniti. Si sono perturbati non solo i cicli globali del carbonio e dell’ossigeno, ma anche quelli dell’azoto, del fosforo, dello zolfo e di elementi in tracce come il piombo e

lo zinco, in certi casi in modo più grave di quanto sia avvenuto per i cicli del carbonio e dell’ossigeno. È abbastanza logico che questi mutamenti si facciano sentire in primo luogo nel respiro del mondo, che rappresenta l’insieme delle azioni esercitate dalla vita sulla Terra. È logico aspettarsi che i cambiamenti globali si rendano evidenti prima a scala globale che nel cortile dietro casa. Come ha osservato l’ecologo Richard Houghton: « Gli effetti cumulativi di molte modificazioni ambientali possono effettivamente rendersi più prontamente osservabili per l’insieme della Terra che per i singoli ecosistemi ».

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Ogni anno i geochimici scoprono nuove e importanti modifiche nel funzionamento delle sette sfere, e se ne domandano il significato. Se non rie-

scono a dipanare le cause dagli effetti, non possono concordare sul fatto che queste modificazioni siano allarmanti. Riguardo al respiro del mondo, ecco alcune delle possibilità di spiegazione: CRESCITA. Le piante verdi della biosfera in realtà gradiscono l’aumento dell’anidride carbonica che emettiamo nell’atmosfera. Essa fornisce loro una maggior quantità di materia prima per la fotosintesi. Ogni anno la biosfera si accresce. E accrescendosi assorbe una maggiore quantità di anidride carbonica. In altre parole, aspira sempre più profondamente. DEGRADO. La biosfera sta degradandosi più rapidamente che in passato. Ogni inverno l’espirazione planetaria è più ampia che nell’inverno precedente. Il pianeta esala un po’ di più con ogni anno che passa. E una quantità sempre maggiore della materia che costituisce e rende possibile la vita si disgrega e ritorna nell’atmosfera. CRESCITA E DEGRADO. Potrebbero essere entrambi in fasi di accelerazione. È logico supporre che una biosfera più grande aspiri ed espiri più profondamente. Ogni estate ci sono più piante a inalare più anidride carbonica; ogni inverno è possibile che più piante e più animali divorino e decompongano i prodotti benefici dell’estate. IRREGOLARITÀ TEMPORALE. Alcuni sostengono che né l’ipotesi della crescita né quella del degrado possono spiegare il cambiamento globale. Il ritmo della respirazione del mondo sta cambiando troppo rapidamente per poter essere imputato all’una o all’altra di queste cause. Sta avvenendo qualcos’altro. Houghton ipotizza che l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera stia alterando il ritmo temporale della fotosintesi o della respirazione, o di entrambe. Modificare i rispettivi tempi e stagioni di lavoro comporterebbe anche una modificazione del respiro del mondo. : Questo cambiamento può essere paragonato a una macchia di Rorschach trasferita su scala globale. Gli ottimisti tecnologici tendono a credere che la Terra respiri di più e meglio. Alla biosfera giova l'aumento della quantità di anidride carbonica. La vita sulla Terra fiorisce più che mai. I pessimisti tecnologici sono inclini a pensare che il respiro della vita sia più faticoso, che ogni anno diventi più stentato e laborioso. Alla biosfera sta mancando il fiato. La Terra boccheggia. È ovvio che per gli occupanti di un’EcoSfera ogni mutamento di tale portata debba essere fonte di preoccupazione. Senza contare che questo non è il mutamento maggiore che ci si possa attendere a causa dell’accumulo di anidride carbonica. È solo uno dei primi.

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4 Atropo Abbiamo costruito un fato, un Atropo, che mai deflette dal suo cammino. (Sia quello il nome

della vostra locomotiva.)

| HENRY DAVID THOREAU, Walden ovvero la vita nei boschi.

Stando presso la cima del Mauna Loa, possiamo vedere l’anidride carbonica che viene emessa nell’atmosfera in un lungo, titanico respiro. Ma non possiamo vedere da dove provenga esattamente quel gas. Quale delle sette sfere lo sta esalando? Certo non il Sole. Non il ghiaccio. Allora il gas proviene dalla litosfera, la sfera della pietra? O dall’idrosfera, la sfera dell’acqua? O dalla biosfera, la sfera della vita? O dalla sfera delle attività umane?

Dopo aver visto la curva che da lui ha preso nome salire per circa dieci anni di seguito, Keeling fece la cosa più logica da fare. Andò in biblioteca e si mise a consultare i rapporti dell’Ufficio di Statistica delle Nazioni Unite, che contengono fra l’altro i dati relativi allo sviluppo delle economie di tutti i Paesi membri. Da essi Keeling trasse un gran quantità di notizie sulla produzione di petrolio greggio, metano, carbon fossile, lignite, legname e torba, compilate annualmente per tutti i Paesi del mondo, dall’ Afghanistan a Zanzibar, dal 1964 unitasi al Tanganica nella Repubblica di Tanzania. Anche Roger Revelle, e altri, avevano studiato i rapporti dell’Ufficio di Statistica dell'ONU, ma nessuno aveva dedicato tanto tempo e profuso tante energie in quello che Keeling chiama un “intristirsi sui dati”. Il geochimico calcolò quanto carbonio per tonnellata è contenuto nei diversi combustibili. (Il carbone contiene carbonio per il 70% del suo peso, mentre il metano o gas naturale ne ha meno del 50%). Keeling calcolò quanto di questo carbonio finisca nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica quando viene bruciato. Stabilì quale parte dei combustibili estratti è bruciata nello stesso anno di estrazione (ed è la maggior parte), e quale invece è utilizzata come asfalto o lubrificanti non destinati alla combustione, per farne cere, solventi per vernici, o liquidi per la lavatura a secco, che solo di rado finiscono bru-

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ciati. Incluse nel conto le tonnellate di anidride carbonica emesse dalle automobili che corrono per le strade e dagli aerei che solcano i cieli, nonché quelle liberate dai calcari quando vengono cotti per produrre cemento. Inoltre Keeling, in primo luogo, controllò e ricontrollò l’esattezza delle cifre che erano state fornite alle Nazioni Unite, venendo a scoprire che alcuni Paesi e governi si erano dimostrati più veritieri di altri. Quanto alla Repubblica Popolare Cinese, per esempio, i dati dal 1958 al 1960 e quelli dal 1967 al 1970 erano inattendibili, i primi coincidono con il Grande Balzo in Avanti, i secondi con la Rivoluzione Culturale. Keeling notò che le autorità al potere durante il Grande Balzo in Avanti erano così smaniose di balzare che avevano informato l’ONU dell’estrazione di intere montagne di carbone che quasi certamente non esistevano. Sceverato in tal modo il vero dal falso, il credibile dall’assurdo, Keeling

aggiunse le proprie cifre peril 1958, anno in cui aveva incominciato a rilevare gli aumenti dell’anidride carbonica. Solamente in quell’anno, calcolò,

i diversi Paesi del mondo

avevano

scaricato nell’atmosfera

all’incirca

2.294.000.000 tonnellate di carbonio. L’anno successivo, ne avevano scari-

cate una piccola frazione in più, e quello dopo ancora di più, e via di seguito. Insomma, per tutto il periodo dal 1959 alla fine del 1972, secondo il rapporto Keeling, il mondo aveva seguitato ad accrescere ogni anno le emissioni di carbonio nella bella misura del 4 per cento l’anno. (Questo straordinario ritmo di incremento subì una battuta d’arresto durante la crisi petrolifera degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta; ma alla fine di questo decennio il consumo mondiale di combustibili fossili ha ripreso a salire, e attualmente l’umanità emette nell’atmosfera oltre 5 miliardi di tonnellate di carbonio ogni anno.) Keeling prese in considerazione anche i dati ipotizzabili per il decennio 1850-60, cioè per i tempi dei suoi bisavoli. Si tratta del decennio che vide la nascita del primo motore a combustione interna di uso pratico, del primo frigorifero a motore, del primo forno Martin-Siemens per la produzione dell’acciaio da ghisa e rottami di ferro. Furono anche gli anni della prima mitragliatrice Gatling, della posa del primo cavo transatlantico, della pastorizzazione, dei primi oleodotti, della dinamite, dei siluri, della celluloide, delle prime corse ciclistiche, della nascita della Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, del Massachusetts Institute of Technology. Nel 1863 nasceva Henry Ford. I dati economici per gli anni Sessanta del secolo scorso non sono così vari e completi come quelli relativi al nostro tempo; d’altra parte l’industria era assai meno sviluppata, ed è quindi più facile seguirne l'evoluzione e le vicende. Nel 1860, stando ai dati disponibili, la Rivoluzio-

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ne Industriale causò l'emissione di circa 93 milioni di tonnellate di carbonio. Fra il 1860 e il 1958, l’industria mondiale ha bruciato combustibili fos-

sili in quantità che si sono raddoppiate, grosso modo, a ogni decennio, liberando nell’aria oltre 76 miliardi di tonnellate di carbonio. Per visualizzare tutto questo, Keeling disegnò su un lungo rotolo di carta un grafico che mostra il tasso di incremento delle emissioni di anidride carbonica dal 1850 ai nostri giorni. Questa sorta di mura! è ora appeso nel corridoio fuori del suo studio (lo stesso corridoio dove montò l’analizzatore di gas destinato al Mauna Loa). È una specie di panorama grafico della marcia del progresso come lo evidenzia il più fondamentale sottoprodotto del progresso: quel gas che si chiama anidride carbonica. La registrazione ci mostra una curva a crescita esponenziale, il cui andamento è strettamente in

parallelo con quello dell’incremento demografico. In cento anni si erano registrate solo tre “esitazioni” nel tracciato ascendente dell’una e dell’altra. Queste “esitazioni” avvennero intorno agli anni 1915, 1930 e 1940: prima guerra mondiale, grande crisi economica, seconda guerra mondiale. Durante la Grande Crisi iniziatasi nel ’29, milioni di persone rimasero senza lavoro; durante le due guerre, milioni di persone morirono. Ma la “spinta”

ascensionale delle curve è così forte che i tre grandi eventi vi hanno inciso solo in minima misura, segnandovi due piccole depressioni. Questa è la storia: una storia senza capi carismatici né i loro seguaci, senza santi né assassini; un panorama del XX secolo privo di sentimentalismi. In questo quadro, la nostra specie è soltanto una sfera planetaria che ne influenza un’altra, in una progressione che sarebbe visibile per astronomi che da Marte osservassero la Terra. Tutto ciò equivale a uno straordinario evento geologico. Parliamo ancora tanto di Rivoluzione Industriale; ma la nostra è una Eruzione Industriale. La più grande eruzione dalla litosfera in tempi moderni fu quella del Monte Tambora,

nel Mar di Giava, verificatasi nel 1815. Un buon terzo di una

montagna alta quasi 4000 metri saltò in aria; vi fu una “fitta pioggia di pietre” a Saugar, un centro abitato distante circa 40 chilometri; 100.000 perso-

ne persero la vita, e tutto il mondo fu coperto da un così spesso manto di particelle sature di sostanze solforose che i contadini americani, dall’altra parte del globo, lamentarono “un anno senza estate”. Il vulcanologo Haraldur Sigurdsson calcola che la catastrofica eruzione del Monte Tambora abbia liberato nell’atmosfera una quantità di carbonio pari a poco meno di 100 milioni di tonnellate. Ora ogni anno la sfera umana, bruciando combustibili fossili, libera una quantità di carbonio che è pari a cento Tambora. Anzi, stiamo riversando annualmente nell’atmosfera cen-

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to volte più anidride carbonica di tutti i vulcani, terrestri o sottomarini,

messi insieme. Ecco le somme per quanto riguarda i combustibili fossili. Quasi 80 miliardi di tonnellate di carbonio furono emessi nell’atmosfera fra il 1860 e il 1960. Dal 1960 in qua, altri 80 miliardi, e si va avanti così. È un altro degli strani fatti che emergono dai preoccupanti tabulati messi insieme da Keeling. Sono occorsi cent'anni per liberare la prima metà di tutto il carbonio fossile presente nell’atmosfera.* Ne sono occorsi meno di trenta per liberarne altrettanto. Tale è la potenza di un ritmo di crescita esponenziale, per cui le quantità raddoppiano sempre più rapidamente. Pur avendo intrapreso le sue osservazioni alla cima del Mauna Loa solo nel 1959, circa due secoli

dopo l’inizio della Rivoluzione Industriale, Keeling ha visto salire nell’atmosfera il gas prodotto dalla combustione di oltre la metà rispetto al gas prodotto da tutti i combustibili fossili bruciati nel corso della storia umana. O, in altri termini, chiunque sia nato negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale — l’epoca del baby boom — è stato testimone di oltre la metà della Eruzione Industriale. In un certo senso, tutto incominciò nel 1754, con lo studente in medicina

Joseph Black. La riscoperta dell’anidride carbonica diede all’inglese Black la celebrità, il titolo di professore, una cattedra, degli assistenti. Uno dei

primi fra questi era un giovanotto di Greenock di nome James Watt, che, assimilate le idee del maestro sui gas e sul calore, riuscì a diventare un mae-

stro ingegnere (termine che in Inghilterra indicava il progettista di macchine) e prese a costruire macchine atte a bruciare carbone per far bollire acqua e generare vapore al fine di compiere un lavoro. Non furono le prime macchine a vapore del mondo (la primissima di cui si abbia notizia fu l’eolipila del greco Erone di Alessandria, poco più di un giocattolo), ma James Watt brevettò la prima macchina a vapore in grado di riciclare il vapore; poi una macchina a doppio effetto, poi una dotata di condensatore e di regolatore a forza centrifuga (capace di autoregolazione) e, finalmente, la prima locomotiva a vapore di uso pratico. * In realtà l’uso dei primi combustibili fossili incominciò molto tempo prima. I Cinesi estraevano e bruciavano carbone già 2000 anni fa. I Birmani avevano pozzi petroliferi un migliaio di anni fa. Cinque secoli fa, in Scozia, i poveri mendicavano davanti alle porte delle chiese un po” di carbone da mettere nella stufa. (D’altronde, l’uomo ha bruciato legna nelle caverne e nei fuochi di bivacco per oltre un milione di anni. Come dice Eiseley, « l’uomo stesso è una fiamma ».) Tuttavia il ritmo con cui si bruciavano combustibili fossili restò insignificante, secondo i criteri moderni, fino al 1860 circa, quando diventò una forza tale da agire sull’ambiente globale modificandolo.

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Le macchine di Watt furono i geni (nel senso di spiriti) animatori della

Rivoluzione Industriale. Furono essi a far partire in quarta, per così dire, l’umanità. La gente incominciò a bruciare carbon fossile e carbone di legna per alimentare le macchine e i forni in cui si produceva l’acciaio con cui si producevano nuove macchine. Fece cuocere calce e piccole conchiglie per fabbricare cemento con cui costruire sempre più fabbriche, città, strade per collegare fra loro le città. Gli uomini realizzarono macchine migliori che facevano una maggior quantità di lavoro e le alimentarono con maggiori quantità di carbone, petrolio e gas naturale, il tutto in un crescendo di anidride carbonica che continua tuttora. In effetti, ogni abitante del pianeta attualmente scarica nell’aria una ton-

nellata di carbonio all’anno. Gli Statunitensi fanno più della loro parte: ognuno di loro ne scarica circa cinque, ossia cinque volte la media mondiale. Gli Svizzeri ne bruciano la quarta parte: ma il confronto non è del tutto valido, perché nella media nazionale degli Stati Uniti c’è anche il carbone

bruciato per scopi diversi dal riscaldamento domestico; per l’industria pesante, per esempio, mentre quella svizzera è un’industria prevalentemente leggera, concentrata soprattutto nella produzione di medicinali, orologi e così via. Comunque, molti Americani che vivono in Europa scoprono in breve tempo che si può cavarsela benissimo con un quarto del combustibile che consumano negli Stati Uniti. Quando Keeling soggiornò a Stoccolma nel 1961 per lavorare con gli operatori di una rete scandinava di rilevamento dell’anidride carbonica, richiese che nel suo ufficio fosse portato un ter-

moconvettore. Il giorno dopo gli Scandinavi, passando davanti alla porta, ridevano osservandolo al lavoro, in maniche di camicia e con la giacca appesa allo schienale di una sedia, e con il termoconvettore in funzione. « Guardate quello Yankee! » dicevano. Differenze anche più marcate e sorprendenti si osservano fra l’emisfero boreale e quello australe. Circa il 90 per cento di tutti i combustibili fossili viene sfruttato nel Nord del mondo. Dato che occorre un anno, più o meno,

perché avvenga lo scambio delle masse d’aria dei due emisferi attraverso l’equatore, l'emisfero boreale è sempre coperto da uno strato di anidride carbonica più denso di quello dell’emisfero australe. L’aria sovrastante il Polo Nord ne contiene sempre qualche parte per milione in più rispetto al Polo Sud. Le cifre rilevate dalle. Nazioni Unite combaciano perfettamente con i valori provenienti dal Mauna Loa. La sfera umana produce anidride carbonica in quantità sufficiente a spiegare il mutamento della nostra atmosfera. L’economia mondiale si compenetra con l’ecologia del globo in modo così inti-

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mo che possiamo calcolare la produzione industriale del pianeta altrettanto bene nella biblioteca delle Nazioni Unite, nel cuore di Manhattan, o in un

osservatorio in cima a un vulcano in mezzo al Pacifico. Senza l’apporto della sfera umana, il tracciato del grafico di Keeling sarebbe, mediamente, uniforme. Il respiro della Terra, il polso del pianeta, traccerebbe una linea a zigzag piuttosto simile a quella di un elettrocardiogramma, oscillante sopra e sotto una linea di base orizzontale che rappresenterebbe lo zero.

Ma noi seguitiamo a introdurre nel sistema altra anidride carbonica. Per cui ci si presenta, sovrapposta alla linea a zigzag, una lunga linea che ascende lentamente e che spinge quella a zigzag sempre più in alto, come appare nei grafici del Mauna Loa.

Non molto tempo fa, alla Fiera del Libro di Torino, un poeta rivolse un’allocuzione agli editori che vi esponevano la loro produzione. Ogni anno nel mondo si pubblicano oltre 50.000 titoli. Il poeta, che era Joseph Brodsky, vincitore del Premio Nobel 1987 per la letteratura, indicò con ampi e stanchi gesti gli stand, i cui scaffali erano tappezzati di lunghe file di libri.

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« Poiché siamo tutti moribondi » disse « e poiché leggere libri è un’occupazione che esige molto tempo, dobbiamo escogitare un sistema che ci consenta una parvenza di economia. » Parlò anche della generale necessità di « concisione, condensazione, fusione... opere che mettano il più possibile a fuoco la condizione umana, in tutta la sua complessità e diversità: in altre

parole, la necessità di una scorciatoia ». Come scorciatoia, il poeta raccomandava la lettura di poesie. * Il grafico del Mauna Loa è una scorciatoia per grandezze cosmiche. La prima linea mostra la nostra specie nell’atto di squilibrare la natura. Mostra anche quella che, fino a qualche tempo fa senza ironia, era chiamata la marcia del progresso. Qui sta la somma della vita sulla Terra, lì sta la somma del nostro impatto su quella stessa vita. Le due linee mettono a fuoco nel miglior modo possibile la condizione umana in tutta la sua complessità e diversità. Ma il quadro peggiora. Negli anni Settanta, mentre i climatologi si preoccupavano soprattutto dell’anidride carbonica, alcuni ricercatori incominciarono a indagare con cura altri gas presenti nell’atmosfera. E costatarono che altri gas, anche più rari dell’anidride carbonica, misurati in certi casi in parti per trilione, possono esercitare un effetto serra di grande potenza. Oggigiorno anche questi gas sono tenuti sotto monitoraggio dalla rete di stazioni di rilevamento dell’anidride carbonica. Il loro aumento è seguito con molta attenzione dall’estremo Nord all’estremo Sud: da Point Barrow in Alaska, al Mauna Loa nel bel mezzo del Pacifico, al Polo Sud.

I più tristemente noti di questi gas in tracce sono i clorofluorocarburi (CFC). A differenza dell’anidride carbonica, i CFC sono composti artificia-

li, prodotti dai chimici legando insieme atomi di cloro e di fluoro con atomi di carbonio. I nomi stessi di questi composti fanno pensare a notevoli manipolazioni di laboratorio. I clorofluorocarburi più importanti sono il CFC-11 (triclorofluorometano) e il CFC-12 (diclorofluorometano). Uno dei massi-

mi produttori di queste sostanze, la E.I. Du Pont de Nemours & Company, li vende con il nome commerciale di Freon. I freon sono ottimi come refrigeranti, come propellenti per bombolette spray, come agenti schiumogeni. Hanno però un difetto, ed è piuttosto grosso; permangono nell’aria per molto tempo: 75 e 110 anni, rispettivamente.

* Anche questa tendenza si manifesta da molto tempo. « Poiché gli scrittori diventano più numerosi, è naturale che i lettori diventino più indolenti ». A notarlo era un altro poeta, Oliver Gold-

smith... nel 1759.

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Il CFC-11 e il CFC-12 furono realizzati nel 1930 da Thomas Midgley Jr., dei Laboratori di Ricerca della General Motors. Midgley è stato uno dei più fertili inventori del XX secolo in campo chimico. Era figlio di un inventore anche più prolifico (che aveva al suo attivo molti brevetti riguardanti i pneumatici per auto), e nipote di James Emerson, inventore di una speciale sega a denti riportati. A 33 anni Midgley (un ometto dal temperamento vulcanico che gli amici chiamavano scherzosamente

“Midge”,

“moscerino”)

creò l’antidetonante piombo tetraetile, che migliorò vistosamente le prestazioni dei motori a benzina. Questa invenzione ne fece il “golden boy” della General Motors, e l’ingegnere che dirigeva la Divisione Frigoriferi gli chiese di trovargli un nuovo refrigerante, che fosse atossico e ininfiammabile. Nei “Frigidaire” della G.M. allora si usava l’anidride solforosa, che è pericolosa. La concorrenza si serviva dell’ammoniaca, ma una perdita di questo composto aveva pochi giorni prima causato la morte di alcune persone in un ospedale di Cleveland. Midgley si immerse — come scrisse in seguito — in « regoli calcolatori e carta logaritmica, un mare di briciole di gomma per cancellare e trucioli di lapis, e tutto il resto dell’armamentario che presso il chiaroveggente scientifico ha preso il posto delle foglie di tè e della sfera di cristallo di una volta». Di lì a non molto si presentava su un piccolo palco, « davanti a un attento e sceltissimo pubblico » con una campana di vetro piena di gas di sua creazione e con una candela accesa. Riempitosi i polmoni di gas, soffiò e spense la candela, dimostrando così al mondo, con un solo respiro, l’assoluta sicurezza dei freon. I composti inventati da Midgley si rivelarono subito di tale utilità che il volume d’affari delle società che si occupavano di condizionatori d’aria si moltiplicò di sedici volte in 5 anni, fra il 1930 e il 1935. L’industria dei clorofluorocarburi non smise di crescere. Negli anni Sessanta la produzione di questi gas ancora cresceva a un ritmo del 20 per cento l’anno. Alcuni chimici incominciarono a nutrire qualche timore a proposito dei CFC al principio degli anni Settanta. Queste sostanze non sono né tossiche né infiammabili perché sono estremamente stabili, molto riluttanti a reagire con qualsiasi elemento o composto esistente in natura, e proprio in questo, paradossalmente, sta la loro pericolosità. Restano nell’aria. Praticamente nulla le decompone tranne la radiazione ultravioletta, e di questa, ai livelli più bassi dell'atmosfera, non ve n’è molta, perché viene bloccata dalla stratosfera (fortunatamente per la biosfera, i cui composti sono anch’essi demo-

liti dai raggi ultravioletti). Attraverso i decenni, questi gas pressoché immortali si elevano dalla tro49

posfera e vanno ad accumularsi nella stratosfera. È qui che gli ultravioletti solari li colpiscono e li scompongono in diversi frammenti. Intatte, le molecole dei CFC sono inerti, ma quando sono scisse diventano altamente reatti-

ve. Attraverso una serie di reazioni chimiche, i prodotti della loro scomposizione attaccano e impoveriscono lo strato di ozono presente nella stratosfera. E con l’assottigliarsi dello strato dell’ozono una quantità sempre maggiore di radiazione ultravioletta raggiunge il suolo. Nonostante gli avvertimenti lanciati da alcuni chimici, la produzione di CFC seguitò ad aumentare; alla fine degli anni Ottanta, si costatò che quelle messe in guardia erano ampiamente giustificate, e che anzi i profeti di sventura avevano sottovalutato le capacità dei frammenti di molecole dei CFC di divorare l’ozono. Nella stratosfera, al di sopra del Polo Sud, fu osservato un buco nell’ozono grande quanto un continente. E in tutto il globo lo spessore della fascia protettiva si era ridotto, sia pure in lieve misura. Le famigerate crisi ambientali e i disastri ecologici, di cui si legge sui giornali come fatti distinti, in realtà sono collegati fra loro così strettamente come le sette sfere. Il buco nell’ozono e l’effetto serra sono due facce della stessa crisi, in quanto i clorofluorocarburi

sono non soltanto gas che di-

struggono l’ozono, ma gas da effetto serra. Anche a concentrazioni inferiori a 1 parte per milione, trattengono una notevole quantità di calore. Per un bizzarria della natura, i clorofluorocarburi sono straordinariamente potenti come gas da effetto serra. Il primo chimico dell’atmosfera che si rese conto di questo fatto fu Veerabhadran Ramanathan, dell’Università-di

Chicago. I raggi infrarossi che salgono dal terreno surriscaldato appartengono a una determinata fascia di lunghezze d’onda, e le molecole di anidride carbonica assorbono la maggior parte di queste lunghezze d’onda, ma non tutte. C’è una piccola finestra, come l’ha chiamata Ramanathan, attraverso la quale gli infrarossi possono ancora sfuggire. Nello stato attuale dell’atmosfera, certamente disturbato, questa finestrel-

la ha assunto la stessa importanza che ha per un carcerato che vuole evadere l’ultima crepa rimasta nel muro della sua cella. Poiché, purtroppo, capita che i CFC assorbano proprio le radiazioni in quelle lunghezze d’onda, e che stiano a poco a poco chiudendo la famosa finestra di Ramanathan. À Le due invenzioni di Midgley, il CFC-11 e il CFC-12, nel 1985 erano presenti nell'atmosfera rispettivamente con valori di solo 220 e 380 parti per milione. Ma a causa.della loro spaventosa capacità di chiudere la finestra di cui si è detto, oggi l’aggiunta all’atmosfera di una sola molecola di CFC-11 basta a trattenere 17.500 volte più calore dell’aggiunta di una molecola di anidride carbonica. E una molecola di CFC-12 cattura addirittura

50

20.000 volte più calore di una molecola di anidride carbonica. Nel settembre del 1987, a uno storico congresso internazionale svoltosi a Montreal, i rappresentanti di quasi tutte le maggiori potenze industriali del mondo firmarono un trattato con cui si impegnavano a rallentare e quindi a smettere la produzione mondiale di clorofluorocarburi. Un anno dopo la firma del trattato, il CFC-11 e il CFC-12 seguitavano ad accumularsi nell’atmosfera a un tasso di aumento annuo del 5% circa. Il CFC-13, che è il mi-

glior solvente per pulire i microcircuiti integrati degli elaboratori elettronici, era salito di un altro 11%. Erano dunque i gas da effetto serra a più rapido tasso di incremento (l’anidride carbonica sta aumentando di qualcosa meno del 5% annuo). Per giunta, non si può fare assolutamente nulla per eliminare i milioni di tonnellate già immessi nell’atmosfera dal 1930 in poi, ivi compreso il soffio di freon mediante il quale Midgley spense con aria di trionfo la candela davanti a uno sceltissimo pubblico. Queste sostanze chimiche seguiteranno ad andare alla deriva nella stratosfera. E seguiteranno a inghiottire l’ozono e a potenziare l’effetto serra per oltre un secolo. Nel 1989, anno in cui cadeva il centenario della nascita di Midgley, la sua

invenzione aveva già portato alla emissione di oltre 16 milioni di tonnellate di CFC

nell’atmosfera.

L'altra sua grande creatura,

il piombo tetraetile

(l’antidetonante), aveva fatto talmente aumentare il tasso di piombo nell’atmosfera che se ne riscontrarono valori più di cento volte superiori al normale nelle zone centrali dei ghiacci dell’ Antartide e della Groenlandia. Ma a Midgley, buon per lui, fu risparmiata la rivelazione della vera natura del re-

taggio che il suo ingegno aveva lasciato all’umanità. Poco più che trentenne, fu colpito dalla poliomielite. Restò con le gambe paralizzate, ma realizzÒò un ingegnoso apparecchio munito di pulegge grazie al quale riusciva ad alzarsi dal letto da solo ogni mattina. Al principio di novembre del 1944 restò aggrovigliato nelle funi del suo apparecchio e morì strangolato. Da quella sua ultima, benefica invenzione. AI funerale, il sacerdote lesse dal Nuovo Testamento: “Nulla portammo nel mondo e nulla, senza dubbio, possiamo portar via” (Paolo, I Tim., VI,

7). Nel viaggio di ritorno dal cimitero, il padrone e mentore di Midgley, Charles Kettering, osservò: « Nel caso di Midge, mi è venuto in mente che sarebbe stato appropriato se il pastore avesse aggiunto: “Ma possiamo lax” sciare molto dietro di noi per il bene dell’umanità”. » Anche il metano è un gas da effetto serra, e anch'esso contribuisce a

sporcare la vitale finestra. Aggiungere una molecola di metano all’atmosfera equivale ad aumentare l’effetto serra nella stessa misura che se vi si imDI

mettessero venti molecole di anidride carbonica. Se l’aria contenesse una quantità di metano pari al suo attuale contenuto di anidride carbonica, il nostro pianeta sarebbe inabitabile. Questo gas era chiamato gas di palude, perché è un prodotto della decomposizione di materia organica. È anche chiamato gas naturale, in quanto può filtrare da fessure nelle pareti delle gallerie delle miniere di carbone, ed è pure estratto da grandi giacimenti e sfruttato come un combustibile fossile a se stante, distinto dagli altri. Il metano nell’atmosfera attualmente sta crescendo di circa 1°1 per cento all’anno: un ritmo due volte più rapido di quello dell’anidride carbonica. La sua concentrazione si aggira attorno a 1,7 parti per milione, cioè è già più che doppia rispetto al livello anteriore alla Rivoluzione Industriale. Salendo nell’atmosfera, la molecola del metano si scinde in atomi di car-

bonio e di idrogeno. I primi si legano con l’ossigeno formando anidride carbonica. I secondi, unendosi anch’essi con l’ossigeno, danno luogo a vapore acqueo, che di norma è scarsissimo nella stratosfera. Così abbiamo altri due

gas che causano l’effetto serra. Il peggio è che nelle zone più fredde della stratosfera il vapore acqueo tende a condensarsi in minutissimi cristalli di ghiaccio. Questi cristalli di ghiaccio, vagando per la stratosfera, raccolgono atomi di cloro liberati dalla scissione dei clorofluorocarburi. Molte reazioni chimiche sono fortemente facilitate dalla presenza di superfici solide, e un atomo di cloro fissato sulla superficie di un cristallo di ghiaccio è un grado di distruggere migliaia di volte più ozono di un atomo di cloro che vaghi liberamente. Il metano sale nell’atmosfera a un ritmo annuo di 500 milioni di tonnellate; e fino a tempi vicini a noi veniva distrutto dall’atmosfera allo stesso rit-

mo con cui vi entrava, così che il quantitativo totale rimaneva invariato. Nessuno sa perché oggi stia salendo con tanta rapidità. Sembra che sia emesso copiosamente proprio dal vertice e dalla base di quella scala cui può essere paragonata la catena alimentare. È prodotto dagli esseri umani, a un estremo, e dai batteri anaerobi, all’altro estremo.

Noi lo produciamo so-

prattutto coltivando i giacimenti di gas naturale e bruciando petrolio; i batteri, invece, attraverso la decomposizione delle foglie morte e di altri detriti organici presenti in paludi, acquitrini, risaie. Questi batteri hanno bisogno assoluto di acqua come scudo contro l’ossigeno atmosferico, che per essi è un veleno letale. Ralph Cicerone, rettore del Dipartimento di Geòscienze dell’Università di California, a Irvine, ha condotto uno studio speciale sulle risaie, che vanno estendendosi di pari

passo con l’accrescimento della popolazione mondiale. Cicerone dice che una piantina di riso è sostanzialmente un tubo vuoto che spunta da un terre-

Sp)

no saturo d’acqua, simile a un camino da cui escono invisibili sbuffi di me-

tano che salgono nell’aria. I batteri anaerobi si difendono dall’ossigeno all’interno degli organismi animali. Ve ne sono intere popolazioni nel rumine di buoi, pecore e capre, e nell’intestino delle termiti, dove digeriscono la cellulosa — cosa che gli ani-

mali non sono in grado di fare — ed espellono metano. Le mucche ruttano circa due volte al minuto, liberando nell’aria qualche

chilo di metano ogni settimana. Perciò, abbattere una foresta pluviale per farne terra da pascolo accresce l’emissione di metano due volte, la prima

per il gas derivante dall’esplosione demografica delle termiti, divoratrici del legno; la seconda per quello prodotto da mandrie e greggi che si nutrono dell’erba che cresce al posto degli alberi abbattuti. Fino a qualche tempo fa questa sistemazione vitale di bovini e batteri, esempio tipico di simbiosi, sembrava del tutto innocua. Ora però, con ogni anno che passa e con il relativo aumento della popolazione del pianeta, aumenta anche in modo impressionante il numero degli allevamenti di animali domestici e con esso la quantità di metano. L’aumento del metano, tuttavia, è così inesplicabilmente rapido (circa 50

milioni di tonnellate in più all’anno) che potrebbero esservi altre fonti di emissione ancora ignote. In parte il problema potrebbe anche nascere dal fatto che non solo stiamo aumentando il numero e l’importanza delle fonti di questo gas, ma stiamo anche eliminando gli scarichi, i luoghi in cui viene distrutto. Data l’ingente quantità di metano prodotta ogni anno, basta diminuire di un’inezia il ritmo della sua eliminazione dall’atmosfera per causarne un vistoso aumento. È possibilissimo che qualche invisibile freno, qualche meccanismo equilibratore fra le sette sfere sia oggi sregolato o carente. Ancora, in parte il problema potrebbe aver origine nel monossido di carbonio. Anche questo gas si è raddoppiato rispetto all’epoca preindustriale, e sta aumentando di circa 1°] per cento l’anno. Più della metà del monossido di carbonio che è nell’aria è prodotta da noi: dai tubi di scappamento delle auto o dagli scarichi dei bruciatori nell’emisfero borale, e dai fumosi incen-

di che scoppiano nelle foreste pluviali in quello australe. A concentrazione elevate, il monossido di carbonio è pericoloso; nel no-

stro secolo è diventato di uso piuttosto comune fra gli aspiranti suicidi: si sa che dai tubi di scappamento delle auto ne fuoriesce in abbondanza. Un recente studio commissionato dalla municipalità di New York ha accertato che per coloro che lavorano sotto il fiume Hudson, nello Holland Tunnel, per un periodo di dieci anni o più, le probabilità di morire per malattie car-

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diache sono superiori del 90 per cento rispetto alla media, e questo presumibilmente a causa della continua esposizione al monossido di carbonio. Il metabolismo del pianeta potrebbe essere più sensibile a questo gas del metabolismo umano. Il monossido di carbonio impedisce all’aria di ripulirsi, e così facendo forse blocca qualche sfogo di vitale importanza per la stabilità della attività chimica dell’atmosfera. Non tutta la radiazione solare ultravioletta viene bloccata dallo strato dell’ozono. Parte di essa filtra attraverso la stratosfera, entrando in collisione

con molecole di.vapor acqueo e di metano e provocandone la rottura. Uno dei frammenti che ne risultano è una combinazione di atomi fortemente reattiva che è chiamata gruppo ossidrile, o idrossile, ed è formata da un atomo di idrogeno e uno di ossigeno. L’ossidrile è per l'atmosfera ciò che gli anticorpi sono per il nostro sistema immunitario. Non attacca i componenti principali, e più stabili, dell'atmosfera quali l’azoto, l’ossigeno e l’anidride carbonica. Ma attacca il metano e il monossido di carbonio. L’ossidrile agisce demolendo questi gas in tracce e trasformandoli in composti stabili, cioè anidride carbonica e acqua. Senza il gruppo ossidrile, che ripulisce l’aria, l’atmosfera diventerebbe velenosa per l'accumulo di metano e di monossido di carbonio che si formerebbe nel giro di pochi millenni. Immettendo sempre più monossido di carbonio nell’aria, stiamo mettendo fuori combattimento il sistema immunitario dell’atmosfera, stiamo esauren-

done gli anticorpi. Una quantità sempre maggiore di ossidrili viene usata per aggredire e smantellare il monossido di carbonio. Poiché la quantità di ossidrili a disposizione è limitata, il metano è libero di aumentare. E più metano c’è nell’aria, meno sono gli ossidrili; per cui anche il monossido di

carbonio può aumentare più in fretta. Tutto questo era stato elaborato e messo in nero su bianco dai chimici dell’atmosfera oltre dieci anni fa, ma l’allarme, come riferisce Cicerone, fu ignorato, considerato una tigre di carta. « Una volta nessuno sapeva che il metano era in aumento, e non ci si

sognava neppure che potesse aumentare con la rapidità con cui sta aumentando adesso. » Ancora una volta, la vita di ogni gas dell’atmosfera si intreccia con quella di altri gas. Il monossido di carbonio non esercita direttamente un effetto serra (la sua molecola è costituita da due soli atomi, e per l’effetto serra è necessaria una molecola di almeno tre atomi). Nel suo caso, tale effetto è un fenomeno collaterale. © Il protossido d’azoto, comunemente noto anche col nome di gas esilarante, è uno dei tanti gas che si vanno accumulando nell’atmosfera. La sua concentrazione ha ormai superato la soglia delle 300 parti per miliardo, e cre-

s4

sce del 2 per cento ogni dieci anni. « È un valore che può sembrare basso » dice Cicerone « ma in realtà mette in luce una forte perturbazione globale, una perturbazione costante che sta aggravandosi dai primi anni Sessanta, almeno. » Quel valore significa l'emissione di 5 milioni di tonnellate di ossidi di azoto in più ogni anno, vale a dire circa un quarto di quello che è prodotto naturalmente dalla biosfera. Si sa che le molecole di azoto formano la maggior parte dell’aria che respiriamo, e che sono molto stabili. Occorre una grande quantità di energia per decomporle e utilizzarle nelle molecole di organismi viventi: è una cosa che i nostri polmoni non riescono a fare. Per questa ragione piante e animali soffrono spesso di denutrizione e i loro processi di accrescimento sono ostacolati dalla mancanza di azoto; è il caso di dire: « C’è tanta acqua dappertutto, ma nemmeno una goccia da bere ». Solo alcuni batteri che vivono nel terreno, specializzati allo scopo, sono capaci di estrarre l’azoto dall’aria, e tutte le piante lo ricevono da queste specie di batteri simbiotici, mentre tutti gli animali, compreso l’animale umano, lo ricevono dalle piante. Alla fine altre specie ancora di batteri, quelle specializzate in demolizioni, restituiscono all’aria l’azoto che ne è stato prelevato. È molto infrequente che un rapporto fra diverse sfere sia così minuto e specifico. In questo caso abbiamo un elemento che riempie gran parte dell’atmosfera e del quale l’intera biosfera ha assoluta necessità, e praticamen-

te l’unico collegamento fra le due sfere è costituito da un essere microscopico, un batterio.

Gli uomini hanno preso a migliorare il ciclo dell’azoto con una pennellessa piuttosto che con un pennellino, apportandovi modificazioni non meno massicce di quelle provocate nel ciclo del carbonio. Nei primi anni Cinquanta, per esempio, si producevano annualmente 3 milioni di tonnellate di concimi azotati artificiali che venivano sparsi sui terreni coltivati. Oggigiorno la produzione annua supera i 50 milioni di tonnellate. Questi e altri ful-

minei progressi in campo agricolo stanno modificando il ciclo dell’azoto in modi che nessuno può ancora capire. Per giunta, bruciando combustibili fossili si producono non solo anidride carbonica (biossido di carbonio) e monossido di carbonio, ma anche composti dell’azoto e dell’ossigeno. L’ossido di azoto (NO) ha un atomo di azoto e uno di ossigeno; il protossido di azoto (N,0) ha due atomi di azoto e uno di ossigeno. L’ossido di azoto ha la sua parte in tutta una serie di problemi ambientali, ivi incluso lo smog, le piogge acide e l'inquinamento delle acque. Il protossido di azoto (formato da tre atomi) ha effetto serra. Una molecola di questo

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gas equivale a circa 250 molecole di anidride carbonica; e inoltre esso dura quasi a non finire: una sua molecola permane nell’atmosfera mediamente per 125 anni. È sorprendente che sostanze chimiche misurate in parti per milione, per miliardo e addirittura per trilione abbiano una qualche importanza per un pianeta. Eppure, unitamente all’anidride carbonica, questi gas in tracce determineranno la vita del nostro globo per i prossimi cent'anni e oltre. Stiamo spostando la manopola del termostato planetario ogni anno un po’ più in su, e così obblighiamo la Terra a sopportare una temperatura sempre più alta. Anche quest'anno, quasi metà del giro che facciamo fare alla manopola sarà provocata da gas diversi dell’anidride carbonica.

C'è di peggio. I nostri apporti all’effetto serra si accumulano sopra un apporto precedente altrettanto massiccio e spettacolare. «Far castelli in aria...» È come se stessimo erigendo una nuova città sulle rovine di un’altra più antica della cui esistenza ci siamo dimenticati. Grazie ai progressi della medicina, allo sviluppo industriale, all’introduzione di un’agricoltura intensiva e basata su sistemi scientifici, al miglioramento delle condizioni igieniche e alla fine delle grandi epidemie, la popolazione dell’Europa raddoppiò nel giro di un secolo, fra il 1750 e il 1850. Durante la prima metà del XIX secolo, l’incremento demografico era già stato tale da produrre enormi tensioni, sia sociali sia economiche. Gli stori-

ci discutono circa le varie spinte e controspinte espansive delle potenze europee, ma da un punto di vista “globale” si può dire che la popolazione europea esplose, puramente e semplicemente, dilagando su tutta la faccia della Terra. Durante i primi tre quarti del secolo, le potenze coloniali estesero la loro sovranità su nuove terre a una media di oltre 200.000 chilometri quadrati l’anno. Negli ultimi vent'anni del secolo XIX e nei primi venti del XX, si impadronirono di circa 640.000 km? di territorio ogni anno. Entro il 1914, secondo l’Enciclopedia Britannica, « le potenze coloniali, le loro co-

lonie ed ex colonie si estendevano approssimativamente sull’85 per cento dell’intera superficie terrestre ». Decine di milioni di persone sciamarono dall'Europa: contadini e imbianchini, ceramisti e carcerati inglesi, lattonieri gallesi, minatori scozzesi, cavapietre e braccianti italiani, manovali irlandesi, tessitori bavaresi, vetrai

prussiani, sarti ebrei russi. Interi villaggi si trasferirono oltreoceano, balzando nel corso di poche generazioni dalle Highlands scozzesi all’alto Canada, dalla Renania al Wisconsin, dalla Calabria o dall’ Abruzzo alla California o a San Paolo del Brasile, da Cristiania al Montana.

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Si trapiantarono non solo nell’ America settentrionale e meridionale, ma

anche in Australia, Nuova Zelanda, in Siberia e nella Mongolia Interna, nel

Manciukuò o (gli Inglesi) nella Valle dell’Indo. Fra il 1821 e il 1924 negli Stati Uniti ne arrivarono ben trentatré milioni. Per la sua maggior parte, gli immigranti erano giovani, e non solo misero su famiglia, ma i più preparati portarono con sé tutti quei progressi della medicina e dell’igiene, in campo industriale o in quello dell’agricoltura intensiva, che avevano determinato le esplosioni demografiche europee. E quindi innescarono altri processi esplosivi dovunque andassero, processi che sono tuttora in corso altrove, mentre il tasso di incremento demografico si è nel frattempo stabilizzato in Europa. La popolazione del mondo si è triplicata dal 1850 a oggi, notava Revelle che, studiando l’aumento dell’anidride carbonica, era diventato un esperto anche di incremento demografico, « fenomeno che “fu con ogni probabilità accompagnato da un incremento pressappoco equivalente dei terreni agricoli, in parte a spese della copertura boschiva” ». Vale a dire che l’esplosione demografica europea spianò foreste in tutto il mondo. Già nel 1820 oltre 1000 navi erano adibite esclusivamente al trasporto di legname dal Nordamerica alla Gran Bretagna. Nel 1840 erano diventate oltre 2000. (Gli armatori contribuirono anch'essi per la loro parte a favorire l’ondata migratoria in quanto volevano imbarcare un carico utile per riempire le stive vuote nel viaggio di ritorno. E il carico umano le riempiva comodamente.) L'Europa necessitava di legname per alimentare il fuoco nei camini, per farne carbonella e puntelli da usare nelle armature delle

gallerie di miniera; per fabbricare alberi, pennoni e bagli per la costruzione di altre navi. I boscaioli si spostarono verso ovest da New York nel 1850, giungendo fino al Michigan nel 1870, al Wisconsin nel 1880, e al Minnesota nel 1890. Spesso abbattevano fino al 90 per cento degli alberi di una foresta: pini, betulle, abeti canadesi, aceri, querce. Nei terreni brulli e ingombri di rami secchi spesso divampavano grandi incendi, che crearono le lande desolate e sterili del Michigan e del Wisconsin. Tagliavano gli alberi per farne traversine per le strade ferrate su cui correvano le locomotive a vapore, e per costruire case ove alloggiare le famiglie di contadini che, ormai, traversavano i continenti in treno. Nel 1845,

Henry David Thoreau dubitava che esistesse un solo punto nel Massachusetts dove si potesse non sentire il fischio della locomotiva. Comprò le assi per costruire la sua casupola da un ferroviere irlandese che lavorava sulla linea di Fitchburg. I treni per Fitchburg passavano accanto al lago di Walden a non più di 100 pertiche, 500 metri, dalla sua baracca.

DI

Le ferrovie trasportavano ondate su ondate di immigranti verso il West, e si facevano una gran réclame per trasportarne ancora di più. Lo storico Maldwyn Allen Jones riferisce che nell’epoca di maggiore sviluppo delle ferrovie, fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, le società Nor-

thern Pacific, Burlington and Missouri, Santa Fe, e Southern Pacific avevano ciascuna un proprio servizio che si occupava degli immigrati e della vendita di terreni. Alcune società offrivano addirittura ai coloni di insegnar loro i metodi migliori per la coltivazione delle grandi pianure. Altre offrivano biglietti gratuiti a chi voleva “esplorare i territori”. Altre ancora assicuravano la costruzione gratuita di chiese e scuole per le nuove comunità. Nel 1872 gli Stati Uniti possedevano già oltre 98.000 chilometri di linee ferroviarie, e in quell’anno soltanto furono abbattuti circa 7500 ettari di bosco di prima qualità per farne traversine. «Ecco, qui passa il legname dei boschi del Maine » scriveva Thoreau « ...pino, abete, cedro di prima, di seconda, terza e quarta qualità, legname

che, recentemente, era ancora di una sola qualità e ondeggiava al vento sopra l’orso, l’alce e il caribù. » Se ne andava per trasformarsi in case, stecca-

ti, fienili e stalle. In The Earth as Modified by Human Action, del 1874. Il primo conservazionista

americano,

George Marsh,

denunciava

100.000 giovani piante sempreverdi erano state vendute

che oltre

a New York City

per le feste di Natale del 1869, « oltre a ventimila iarde di ramoscelli intrec-

ciati in festoni ». Vasti tratti di pinete, « per un’estensione di centinaia e forse migliaia di acri » erano stati rasi al suolo per fornire legno chiaro e senza nodi adatto alla fabbricazione degli zolfanelli (“lucifers”, li chiamavano a

quel tempo gli anglosassoni). « Se aggiungiamo a tutto questo il fabbisogno di legname per i pali del telegrafo, per i marciapiedi in legno, per la carta da parati di pasta di legno, per le sagome usate per tenere in forma le scarpe, e persino per i chiodi di legno che da qualche tempo sono diventati di moda - non citiamo le altre numerose applicazioni di questo materiale che l’ingegno degli Americani ha escogitato -, abbiamo un consumo tale, in impieghi del tutto nuovi, che è invero terrificante. »

Già a quell’epoca gli Americani superavano nei consumi di combustibile gli Europei. « Per esempio, nella rurale Svizzera, per quanto il clima invernale sia assai freddo,

l’intero fabbisogno di legname per stufe e camini domestici, caseifici, birrifici, distillerie, fornaci per calce e mattoni, staccionate, mobilio, arnesi, e perfino per gli chalets e le piccole officine di fabbro ferraio... non supera duecentotrenta piedi cubici

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(circa 6,5 m) l’anno per famiglia... « La relazione dei Commissari alle Foreste del Wisconsin, nel 1867, ha stimato un

consumo di tre pertiche cubiche (ca. 10,4 mÈ) di legna per persona per le sole necessità domestiche. Calcolando che una famiglia sia costituita mediamente da cinque persone, abbiamo un consumo pari a otto volte quello dello stesso numero di persone in Svizzera per questo e per tutti gli altri impieghi nei quali si ricorre normalmente al legno. E non credo che il consumo negli Stati nel Nord-Est sia in alcun modo inferiore a quello stimato per il Wisconsin. »

La vastità di questo fenomeno di combustione ha cambiato la faccia alla biosfera. Secondo il botanico John T. Curtis, i pionieri americani del secolo

scorso penetrarono entro vaste estensioni « a copertura forestale sostanzialmente continua », con sparsi tratti di prateria e le trasformarono in una prateria sostanzialmente continua, con qualche chiazza di vegetazione arborea

qua e là. Il che significò la fine per molte creature indigene, dalle tribù indiane a numerose specie vegetali e animali. Il diboscamento non recò certo beneficio al suolo rimasto esposto, che diventò « instabile e spesso privo di copertura vegetale in seguito alle regolari arature » (nel secolo scorso), o in seguito all’asfaltatura delle strade cittadine e dei parcheggi per automobili (in questo secolo). La combustione ha cambiato anche l’atmosfera, poiché in ogni ecosistema gli alberi “rappresentano” il carbonio che la biosfera ha estratto dall’atmosfera e al quale si tiene aggrappata: una vecchia quercia sopravvive per oltre cent'anni soprattutto grazie al carbonio che contiene. Ogni volta che l’uomo riduce l’atmosfera, sostituendo un ecosistema ricco di carbonio con un altro più povero, causa quella che si potrebbe chiamare una chiazza di calvizie nell’atmosfera stessa e vi immette anidride carbonica. In una zona boschiva senza soluzione di continuità, le piante trattengono,

mediamente, in ogni punto della sua superficie da 4 a 25 chilogrammi di carbonio per metro quadrato (l’area di un tavolinetto da tè). In una zona boschiva non compatta, nella quale si siano infiltrate strade e case, le piante trattengono da 3 a 6 chilogrammi di carbonio. In zone coltivate, residenziali

o commerciali, ne trattengono anche meno: una foresta contiene da dieci a venti volte più carbonio per metro quadrato di un campo di grano. Anche il pavimento della foresta contiene grandi quantità di carbonio nel letto di foglie o di aghi di pino che lo copre, in quell’« accumulo di saggezza che è l’humus », come lo definiva l’ecologo Aldo Leopold. Gran parte del carbonio della foresta si disperde nell’aria quando essa è abbattuta o il suo equilibrio disturbato. Quando un albero del bosco cade, può fare o non fare rumore, ma certo

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contribuisce per una piccola quota all’effetto serra, anno dopo anno, in perpetuo, in quanto non assorbe più altra anidride carbonica, a ogni primavera ed estate, partecipando al respiro del mondo. Così, il grande pellegrinaggio pionieristico del XIX secolo esercitò un effetto serra. Alex T. Wilson, un geochimico neozelandese,

chiama questo

episodio della vita del pianeta “1’Esplosione Pionieristica”, poiché il fenomeno fu “quasi sincrono in tutto il mondo” e portò all’immissione nell’atmosfera di immense quantità di anidride carbonica. Wilson e i suoi colleghi possono osservare indirettamente tutta quest’anidride carbonica negli anelli di accrescimento degli alberi vecchi di cento e duecento anni. L'anidride carbonica in più emessa in tutto il mondo provocò dei cambiamenti misurabili del tasso di isotopi del carbonio nella atmosfera del XIX secolo. Questi cambiamenti dell’aria hanno lasciato progressivamente la “firma” dell’Esplosione Pionieristica negli isotopi che si trovano nei vecchi anelli di accrescimento degli alberi. Wilson ha definito l’Esplosione Pionieristica « il primo e forse il più significativo attacco sferrato dall’umanità contro l’ambiente a livello globale ». Prima del 1850, probabilmente aveva già portato all’accumulo di circa mezzo miliardo di tonnellate annue di carbonio nell’atmosfera. Nell’insieme, può aver prodotto più carbonio di tutto quello prodotto dal consumo di combustibili fossili. La troposfera è il livello più basso dell’atmosfera, quello che è a contatto del suolo; è lo strato dell’aria che respiriamo. Il nome deriva dal greco tropos, che significa “rivolgimento, trasformazione”. E, in carattere col suo nome, la troposfera ha un milione di rivolgimenti e trasformazioni. Tutto il carbonio che vi era immesso aveva incominciato a imprimerle un forte rivolgimento già qualche decennio prima che ad Arrhenius balenasse l’idea dell’effetto serra. Già allora ci trovavamo in rotta di collisione con il clima e la temperatura del mondo. Oggigiorno la Esplosione Pionieristica è entrata nella seconda fase. Si registrano esplosioni demografiche nelle ultime zone del mondo coperte da foreste, quelle calde foreste pluviali che fino a oggi presentavano condizioni troppo proibitive per consentire uno sviluppo apprezzabile. E a subire il diboscamento più massiccio sono certi Paesi tropicali: Brasile, Indonesia, Colombia, Costa d'Avorio, Thailandia, Laos, Nigeria, Filippine, Birmania, Malaysia, Perù, Vietnam. In Brasile si va ripetendo, fino all’ultimo particolare, la stessa storia dei giorni del pionierismo nordamericano, con tanto di lotte impari contro le tribù amerindie, grandi corse all’oro, omicidi facili, rovinose acquisizioni di terre alle colture che portano all’erosione e alla for-

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mazione di calanchi dovuti al dilavamento del terreno, e all’incombente for-

mazione di altri Catini di Polvere. Gli abitanti di San Paolo leggono i BangBang, imitazioni di polpettoni western aventi a protagonisti i pionieri da una parte e gli Indios amazzonici dall’altra. Ancora una volta, capitribù indiani si recano nelle grandi città, a San Paolo come un tempo andavano a

Washington o a New York, accompagnati da esploratori che se ne fanno paladini, a chiedere la restituzione o il mantenimento del possesso delle loro

terre. E ancora le grandi potenze economiche del momento importano attivamente legname da questi Paesi. Il più grande importatore mondiale attualmente è il Giappone, i cui operatori economici hanno avviato trattative con uomini politici brasiliani per ottenere un altro sperduto angolo del bacino amazzonico in concessione. Analogamente alla prima Esplosione Pionieristica, questa si situa a cavallo fra due secoli: negli ultimi decenni del ventesimo e nei primi del ventunesimo. Può andare avanti finché della foresta tropicale non restino che pochi, sparsi brandelli. Ogni anno, essa introduce nell’atmosfera circa 2 miliardi

di tonnellate di carbonio. Per ciò che riguarda questo elemento, quella che sta accadendo oggi nei Tropici è quasi due volte più importante della prima Esplosione Pionieristica. Quando Thoreau osservava la locomotiva della linea di Fitchburg correre presso il lago di Walden, « con la sua fila di vagoni che si allontanano, con movimento planetario », gli venivano in mente le Parche, le tre divinità gre-

co-romane che presiedevano al destino degli uomini, la prima filando il filo della vita, la seconda avvolgendolo all’aspo (determinando il corso della vita di ognuno). La terza sorella era Atropo, il cui nome vuol dire “che non si

volge, che non si trasforma”. Era Atropo a impugnare le forbici con le quali recideva il filo della vita. Thoreau sapeva che una nuova forza della natura era all’opera. E scrisse: « Abbiamo costruito un fato, un Atropo, che mai deflette dal suo cammino.

(‘Sia quello il nome della vostra locomotiva” .) ».

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5 Un Eureka lento ad arrivare I presagi non erano nulla per lui, incapace di percepire il messaggio della profezia finché questa non era ormai diventata realtà e non lo costringeva a rendersene

conto. JOSEPH CONRAD, Tifone

È sbalorditivo tornare indietro nel tempo rileggendo ciò che, al principio, la gente pensava dell’effetto serra. Nel suo fortunato libro di divulgazione scientifica Il divenire dei mondi, del 1906, il chimico svedese Arrhenius be-

nediceva il caldo. « Grazie all’influenza della crescente percentuale di acido carbonico (l’anidride carbonica) nell’atmosfera » scriveva « possiamo sperare di godere di lunghi periodi con climi migliori e più stabili, soprattutto per quanto riguarda le regioni più fredde della Terra... ». Nel 1938, in una comunicazione un tempo quasi ignorata, ma oggi citata con frequenza, l’ingegnere inglese George Callendar annunciava che la temperatura della Terra stava già salendo. Quasi nessuno, però, richiama la

conclusione alla quale Callendar giungeva: cioè che l’anidride carbonica che andavamo emettendo nell’atmosfera avrebbe non solo migliorato il clima globale, ma anche fatto aumentare i raccolti a beneficio degli agricoltori e della collettività. « In ogni caso » osservava Callendar « il ritorno dei mortiferi ghiacciai dovrebbe risultarne posposto a tempo indefinito. » Nel 1957, Revelle e Suess lanciavano il famoso annuncio che in parte ho già citato. « Così, gli uomini stanno compiendo un esperimento geofisico su vasta scala, di un tipo quale non avrebbe mai potuto effettuarsi in passato, né potrebbe essere ripetuto in avvenire » scrivevano i due studiosi. E aggiungevano: « Questo esperimento, se adeguatamente documentato, potrebbe consentirci una nuova, penetrante visione dei processi che determinano il tempo e il clima». Oggi queste parole vengono spesso ripetute con valore di monito. Uno scrittore le ha recentemente qualificate come “un malsano understatement”. Sapendo ciò che sappiamo oggi, è difficile per noi attribuire ad esse

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qualsiasi altro significato. Ma ciò che Revelle e Suess dichiararono è quanto meno “neutro”, e lo stesso Revelle ammise in seguito che quando lo scrisse non era per nulla preoccupato dell’effetto serra. Era invece mosso soprattutto da curiosità scientifica. Erano lieti, lui e Suess, che il grande esperi-

mento fosse in corso quando loro erano lì ad assistervi, cosa che giudicavano sarebbe stata di grande interesse. Quanto a Keeling, negli anni Sessanta, le persone che passavano nell’atrio dell’edifico che ospita la Scripps Institution of Oceanography erano solite cacciar dentro la testa passando davanti al suo studio, e lo vedevano sempre occupato a imballare sfere di vetro. « Perché lo fai? » era la domanda di rito. « Vuoi forse dire: ‘E questo che significa per l’uomo della strada?’ » replicava Keeling in tono irritato. Ossia, secondo lui la cosa non rivestiva il minimo interesse per il pubblico. Lo sapevamo da un pezzo, ma l’abbiamo capito dalla sera al mattino, per

così dire. Da Arrhenius in giù, la sera semplicemente non capiva ciò che aveva sotto gli occhi. Né vi fu un momento preciso in cui tutti esclamarono: “Eureka!”. Vi fu soltanto quella che uno studioso dell’effetto serra ha definito “l’evoluzione di una consapevolezza”. Negli anni Sessanta, per esempio, nuovi strumenti permisero agli scienziati di incominciare a verificare l’ipotesi di Arrhenius. Il primo elaboratore elettronico fu realizzato durante la seconda guerra mondiale. Agli inizi degli anni Sessanta, i cervelli elettronici erano diventati abbastanza sofisticati

e affidabili da poter aiutare i climatologi nell’analisi del meccanismo infinitamente complesso che determina il clima del globo. Arrhenius aveva fatto una stima del riscaldamento che ci si sarebbe potuti attendere a causa dell’effetto serra, latitudine per latitudine. Aveva pubblicato la sua previsione in un lavoro apparso nel Philosophical Magazine dell’aprile 1896. Era una previsione notevole, considerato anche che era la prima, e affrontava il problema nel modo più corretto. Arrhenius incominciava con una valutazione della concentrazione del vapor acqueo e dell’anidride carbonica nell’atmosfera.* Spiegava poi, passo dopo passo, il meccani-

* Basava queste stime sulle osservazioni di un astronomo americano, Samuel Langley, sul sorgere della luna. Langley aveva misurato la radiazione infrarossa della luna piena che si levava su Lone Pine nel Colorado. Usando le tavole di Langley, Arrhenius poté calcolare quanta radiazione infrarossa sia assorbita dalla superficie terrestre, e quindi quanto gas da effetto serra vi fosse nell’aria. (La “serra”, dunque, era già un soggetto interdisciplinare e internazionale.)

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smo mediante il quale questi due gas causano il riscaldamento dell’aria. Cercava perfino di tener conto di quello che oggi chiamiamo retroazione o feedback. Lo svedese diceva che, con il riscaldamento del pianeta, buona

parte dei ghiacci e delle nevi che coprono le zone polari probabilmente avrebbero incominciato a sciogliersi, causando l’affioramento della tundra

e dei mari, di colore scuro. Ciò avrebbe riscaldato la superficie terrestre, come se si tingesse di nero un tetto bianco. Più scuro fosse diventato il terreno, più si sarebbe riscaldata la zona di superficie terrestre interessata. E lì di conseguenza si sarebbe sciolta una quantità anche maggiore di neve, rendendo il terreno ancora più caldo... e così via. Tutte queste spiegazioni riempiono più di trenta pagine, stampate in carattere piuttosto piccolo, del Philosophical Magazine, e ognuno dei calcoli aveva dovuto essere eseguito manualmente, in assenza di elaboratori. Alla fine c’è la tabella delle predizioni di Arrhenius. Secondo lui, se la concen-

trazione di anidride carbonica nell’atmosfera si raddoppierà, la temperatura media del pianeta Terra subirà un aumento fra i 5 e i 6 °C. Negli anni Sessanta, gli studiosi del clima si misero a rielaborare la tabella di Arrhenius con l’aiuto dei computer. Una delle prime analisi di rilievo fu quella pubblicata nel 1967 da Syukuro Manabe e Richard Wetherald del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton, nel New Jersey. Poi, man mano che gli scienziati acquisivano maggiore familiarità con gli elaboratori, e poiché sempre più numerosi furono quelli che si interessavano all’effetto serra, questo lavoro finì col diventare una delle più attive superspecializzazioni della scienza. L'uso dei computer permise ai ricercatori di pensare e trattare i problemi con un grado di completezza e approfondimento impensabile per Arrhenius. Per far previsioni sull’effetto serra, oggi gli esperti costruiscono quello che equivale a un modello in scala ridotta ma funzionante della Terra in un elaboratore elettronico. Iniziano col tracciare una sorta di mappamondo muto, suddiviso da un reticolo simile a quello su cui si misurano latitudine e longitudine. Di norma, ogni quadratino formato dal reticolo equivale a un’area di varie centinaia di chilometri di lato. Ogni quadratino è anche la base ideale di un cubo che si eleva verso l’alto dalla superficie del pianeta; al primo cubo se ne sovrappone un altro, e a questo un altro ancora, fino a simulare una dozzina di gigantesche “scatole” di aria. Sulla superficie di questo globo coperto solo dal reticolo i preparatori dei modelli disegnano una carta del mondo sulla quale figurano i principali laghi, i maggiori fiumi, le grandi catene montuose. Poi comunicano all’elabo-

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ratore le leggi fisiche che regolano i moti delle masse d’aria: l’aria calda sale, quella fredda scende; a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria... e così via. (Quasi tutte le regole sono molto semplici; un matematico potrebbe scriverle sul retro di una busta.) Quindi i ricercatori programmano il computer in modo che, seguendo le istruzioni ricevute, calcoli il tempo entro ciascun quadratino, dal livello del suolo fino al punto più alto dell’atmosfera, tenendo sempre conto del modo in cui il tempo atmosferico di ogni quadratino potrà influire su quello dei quadrati contigui. I quattri esemplari più complessi di questi “modelli della circolazione globale” (G.C.M., secondo la sigla inglese) si trovano rispettivamente presso la direzione del Servizio Meteorologico Britannico a Gracknell, poco fuori Londra; al Centro Nazionale americano per le Ricerche Atmosferiche di Boulder, nel Colorado; all’Istituto Goddard di Studi Spaziali,

a New

York, e al Laboratorio Geofisico per lo Studio della Dinamica dei Fluidi che si trova a Princeton, nel New Jersey.

Quando “accendete” uno di questi modelli matematici, e simulate i moti del pianeta, da qualche parte entro i circuiti al silicio del supercomputer un sole luminoso incomincia a sorgere e a tramontare. I venti prendono a soffiare e a placarsi. Correnti a getto si agitano spostandosi verso ovest a una quota di 9000 metri. Se fate funzionare il modello per il tempo necessario, dall’estate passate all’autunno, l’arco del Sole si abbassa nel cielo, i ghiacci

incominciano a formare i primi strati sottili sul Mare Glaciale Artico, le prime bufere di neve prendono a soffiare sulla Penisola di Kamciatka e sulla provincia canadese dell’Ontario. Partendo da semplici regole fissate secondo il codice binario — 0 e 1 —, l’elaboratore sviluppa qualcosa di simile alla possibile evoluzione del tempo sul pianeta Terra. Gli addetti alle previsioni del tempo relative a vasti territori si servono di modelli del genere. I meteorologi procedono in questo modo: raccolgono masse di dati forniti da stazioni e satelliti meteorologici, e su quella base fanno girare il loro modello della Terra in modo da calcolare quale sarà il tempo ventiquattr’ore dopo. I supercomputer più rapidi del mondo possono eseguire anche un miliardo di operazioni al secondo, ma il tempo è un fenomeno così complicato che anche a questa sbalorditiva velocità la macchina impiega circa mezz'ora, in tempo reale, per “calcolare” il tempo del giorno dopo. Nel corso di quella mezz'ora, fronti freddi e fronti caldi si spostano attraverso la faccia del modello del globo — lo fanno a scatti, come in un film amatoriale dei primi tempi del cinema - fino a raggiungere le posizioni che potrebbero occupare l’indomani. Quello del clima è un altro problema, per certi versi più facile da trattare.

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Il clima è una media delle condizioni meteorologiche. Più precisamente, la media delle condizioni meteorologiche che presenta un determinato punto del pianeta durante una primavera, un’estate, un autunno e un inverno nor-

mali. Il tempo, nel senso di condizioni meteorologiche, può essere un nubifragio in una località della Pennsylvania mercoledì alle 12,08; un fattore climatico è invece il numero di millimetri di pioggia che cadono mediamente nella valle padana in un certo mese. Il percorso di un uragano tropicale riguarda la meteorologia; la traccia scavata attraverso una fetta di continente da un milione di uragani riguarda la climatologia, così come il sentiero scavato attraverso il prato di un college dal passaggio di generazioni di studenti. La vita di in invidivuo è imprevedibile, ma quella di un milione di individui è statisticamente del tutto prevedibile. È per questa ragione che i chimici possono prevedere il comportamento di gas formati da milioni di molecole individualmente imprevedibili; ed è per questa ragione che le compagnie di assicurazioni hanno i soldi per costruirsi sedi faraoniche nelle grandi città del mondo. Ai fini degli studi climatici, i costruttori di modelli semplificano la loro Terra “gemella” e la fanno ruotare per il tempo equivalente a decenni, secoli, anche millenni nella realtà, rilevando medie stagionali per ogni punto del modello. I risultati forniscono una buona approssimazione del clima del mondo reale. I modelli riproducono gli aspetti climatici generali di ciascun continente durante le quattro stagioni. Non sono ancora in grado di discernere particolari come province o contee; e in questo campo ogni cosa che sia sensibilmente più piccola di un continente va considerata un particolare. Predizione è parola d’origine latina dal significato evidente: “dire in anticipo”. Profezia viene invece dal greco, e originariamente significava « proclamare, interpetare il volere degli dèi o dell’oracolo ». I Giapponesi hanno parole analoghe, ura o uranai, che significa « cioè che sta dietro — ed è pertanto invisibile ». A volte (ma non sempre) i modelli fatti al computer possono aiutarci a predire, o anche a profetizzare, a vedere l’invisibile. Spesso i preparatori di modelli per i computer di Bracknell, Boulder, Princeton e New York hanno eseguito, sui loro mondi giocattolo, lo stesso esperimento che la razza umana sta ora eseguendo sul mondo reale. I ricercatori immettono 300 parti per milione di anidride carbonica in più nella loro atmosfera, quindi avviano il modello, lo fanno andare avanti e osservano che cosa succede. In ognuna delle loro Terre, dopo l’introduzione nell'atmosfera di ani-

dride carbonica, la temperatura superficiale dell’ipotetico pianeta incomincia a salire, dapprima lentamente, poi con sempre maggior rapidità.

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Naturalmente, come dice un costruttore di modelli, queste sono solo « sfere di cristallo appannate ». Il ritmo effettivo con cui nella realtà potranno aumentare le temperature è incerto. L’altezza che la colonnina di mercurio raggiungerà nei vari punti della Terra è sconosciuta. Si ritiene che la temperatura globale cui la Terra arriverà possa essere diversa del 50 per cento, in più o in meno, da quella indicata dai modelli.

Purtuttavia la temperatura media della superficie del pianeta è destinata ad aumentare dai 2 ai 6 °C, valori vicini a quelli che Arrhenius aveva pre-

detto nel 1896. Negli anni Sessanta, quando gli studiosi del clima realizzavano le loro prime simulazioni al computer, gli astronomi scoprirono che il cielo notturno offre due dimostrazioni visibili dell’effetto serra. La prima è Venere,

l’altra Marte. Questi due pianeti si sono formati grosso modo contemporaneamente al nostro, circa 4 miliardi e mezzo di anni fa. Gli elementi che li costituiscono sono pressappoco gli stessi della Terra. Orbitano attorno al Sole a distanze simili, non molto più lontani, come Marte, né molto più all’interno, come

Mercurio. Venere e la Terra hanno suppergiù le stesse dimensioni, Marte è un po’ più piccolo. Ma nonostante le forti somiglianze di famiglia, i tre mondi di cui parliamo hanno seguito strade diverse. Gli astronomi se ne accorsero negli anni Sessanta e Settanta grazie a una serie di osservazioni con microonde eseguite direttamente da terra e a quelle fatte da una serie di sonde spaziali inviate a esplorare i due pianeti. La superficie di Venere è calda quanto un nostro forno autopulente, attorno ai 450 °C, e questo giorno e notte, tutto l’anno, dall’equatore ai poli. Se mai vi è stata acqua, è evaporata tutta da tempo immemorabile. Marte, invece, per tutto l’anno è più freddo della nostra Antartide, dai poli all’equatore. Se vi è acqua, è chiusa sotto la superficie quale permafrost, ghiaccio permanente. Queste enormi differenze di temperatura non possono essere spiegate dalla diversa distanza dal Sole. È vero che Venere è più vicina (distanza media, 108 milioni di chilometri), seguita dalla Terra (149,6 milioni di chilometri) e da Marte (228 milioni di chilometri). La distanza, senza dubbio, ha

la sua influenza nel rendere il pianeta Venere più caldo, la Terra relativamente tiepida e Marte freddo, come avverrebbe a tre campeggiatori che sedessero rispettivamente a tre, cinque e sei metri da un grosso falò. Ma l’effetto della distanza sulla temperatura è calcolabile con precisione, e non è 67

certo abbastanza forte per fare di Venere una serra e di Marte una ghiacciaia. A volte questo è chiamato il problema di Capellidoro (“Goldilocks”, personaggio di una favoletta inglese): perché Venere è troppo calda, Marte troppo freddo, e la Terra ha una temperatura “giusta”? Il punto più significativo per rispondere a questa domanda sta nel vedere che cosa i tre diversi mondi hanno fatto del rispettivo carbonio. Tutti e tre ne hanno pressappoco la stessa quantità. Ma la maggior parte del carbonio della Terra è imprigionato in sedimenti e rocce. È immagazzinato, al sicuro sotto i nostri piedi, dove non può avere nessun effetto serra. Su Venere, in qualche modo che non conosciamo, quasi tutto il carbonio è salito alla superficie. È sfuggito verso l’alto. L'atmosfera di venere contiene 350.000 volte più carbonio di quella terrestre. Il che significa una tale quantità di carbonio da rendere il pianeta non adatto alla vita, anche solo per il suo peso. L’anidride carbonica preme sulla superficie del pianeta con una pressione che è cento volte superiore a quella esercitata da tutta l’atmosfera terrestre. Con quella pressione, l’aria è densa al punto di avere la consistenza di un brodo spesso, e ogni suo moto ha la violenza di un uragano. I tecnici sovietici hanno dovuto dare ai loro robot esploratori “Venera” la solidità di un sommergibile, perché scendere sulla superficie di Venere è come immergersi a 2400 metri di profondità in un mare terrestre. Venere è coperta da una coltre di nubi, e assai scarsa è la luce solare che

ne raggiunge la superficie. Questa è quindi perennemente avvolta da ombre così profonde che la temperatura dovrebbe essere al di sotto dello 0 °C. Invece, la massa di carbonio presente mantiene la temperatura superficiale non solo al di sopra del punto di congelamento dell’acqua, ma anche di quello di ebollizione: fa abbastanza caldo da fondere il piombo.* Dalla Terra, vista a occhio nudo, quella che era detta la Stella Vespertina è bella da vedere (perciò gli antichi la chiamarono Venere) e ha, se si vuole, un’aria fresca e accogliente; da vicino è invece un inferno.

Marte è Venere in negativo. La sua atmosfera è cento volte più rarefatta di quella della Terra, diecimila più di quella di Venere. Praticamente, tutto il suo carbonio è racchiuso in sedimenti sotterranei. Per la mancanza di un energico effetto serra, la superficie marziana è irridigita dal gelo. Probabilmente, un tempo Marte era dotato di maggior vitalità. La gelida superficie è solcata da quelli che hanno tutta l’aria di essere letti fluviali asciutti. Vi sono anche numerosi vulcani estinti. Quando erano ancora vivi

* L’effetto serra su Venere non solo impedisce l’evoluzione della vita, ma anche quella della litosfera. Cioè della crosta solida.

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e attivi, forse emettevano abbastanza anidride carbonica da dar luogo a un’atmosfera cento volte più densa di quella attuale, densa come quella terrestre. Perciò Marte potrebbe aver avuto il suo effetto serra e un clima temperato come è mediamente il nostro, con tanto di piogge e di acque fluenti (e forse anche qualche primitiva forma di vita). Il colore del pianeta è rossastro, si potrebbe dire focoso e bellicoso (don-

de il nome datogli dagli antichi), e invece è così freddo che il ghiaccio non può sciogliersi nemmeno d’estate, nemmeno all’equatore. L'inverno è così freddo che l’atmosfera marziana si congela sulla superficie del pianeta.* Si tratta di contrasti così marcati che gli studiosi ne ricavano un’allegoria, simile a quelle che solevano fare gli astronomi di un tempo. Venere e Marte, dicono, sono un monito per gli umani, una prova reale e palpabile su cui riflettere. Venere, con un riscaldamento globale quattrocento volte più forte di quello finora causato sul nostro pianeta dall’effetto serra: un forno. Marte, con un calore da effetto serra che è la metà del nostro. Una ghiacciaia. Se la Terra avesse una atmosfera con tanto carbonio quanto ve n’è su Venere, i nostri oceani si metterebbero a bollire e scomparirebbero.

Se invece

avessimo così poco carbonio atmosferico come Marte, tutti i nostri mari diventerebbero una solida massa di ghiaccio. È chiaro che per una saggia amministrazione del pianeta dobbiamo stare attenti a dove mettiamo il nostro carbonio. Bambini di molte generazioni, nei Paesi anglosassoni, hanno espresso un desiderio vedendo in cielo la prima stella, cioè nella maggior parte dei casi Venere. Gli uomini di oggi, si direbbe, hanno espresso il desiderio di rendere il nostro mondo un po’ simile a Venere. Le esplorazioni spaziali non si sono limitate ad avvalorare la teoria dell’effetto serra. Hanno anche dimostrato che nei casi estremi tale effetto può essere questione di vita o di morte. I climatologi William Kellogg e James Hansen e l’astronomo Carl Sagan sono stati fra i primi scienziati che hanno osservato a fondo l’inferno venusiano. Tutti e tre, in seguito a ciò, sono diventati fieramente critici verso quelli che accrescono l’effetto serra sul nostro pianeta. Insomma, lo studio di Venere li ha portati su posizioni giustamente intransigenti. Negli anni Ottanta un’altra prova dell’effetto serra fu scoperta nelle calotte glaciali, dopo una lunga ricerca avviata durante l’ Anno Geofisico Internazionale. Nel corso di quell’anno di grandi esplorazioni, un gruppo di tri* E forma il ghiaccio secco: anidride carbonica congelata.

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vellazione formato da glaciologi americani sondò fino a quasi 350 metri di profondità la calotta glaciale che copre la Groenlandia nord-occidentale. I ricercatori riuscirono a estrarre un lungo cilidro di ghiaccio che fu tagliato in tanti cilindretti, definiti tecnicamente “carote”.

Gli studiosi inviarono parte di quel ghiaccio ai laboratori per farlo analizzare. I geochimici dei laboratori capirono immediatamente che la calotta glaciale è disposta in strati geologici, più o meno come il fango sul fondo di un lago o il limo e le rocce sui fondali marini. Gli strati più giovani sono naturalmente quelli che si rinvengono vicino alla superficie. Gli altri sono progressivamente più vecchi man mano che si scende più in profondità. Molti degli strati formatisi anno per anno presentano caratteristiche diverse (pur essendo distinguibili, in genere, solo all’analisi chimica, e non a occhio nudo). Impiegando dei marker, ossia dei rivelatori chimici, in genere degli isotopi, è possibile contare gli anni risalendo addietro, come si fa con gli anelli di accrescimento degli alberi. Risultò che gli strati risalivano fino a molto, molto tempo fa. Vicino alla base della calotta glaciale, in Groenlandia o nell’ Antartide, a centinaia e a

volte a migliaia di metri di profondità, si trova ghiaccio che in origine era neve caduta mezzo milione di anni fa. In principio, quelli che avevano fatto i sondaggi si ripromettevano solo di apprendere qualcosa di più sul ghiaccio. Ma le sette sfere della Terra sono così strettamente collegate l’una all’altra che l’esame di una di esse può condurre a nuove conoscenze di tutte le altre. A un’attenta analisi, si accer-

tò che le calotte glaciali recano traccia di tutto il passato, dagli improvvisi fulgori e opacizzazioni della luce solare alle eruzioni vulcaniche della preistoria. Tracce di una grande eruzione vulcanica, ad esempio, si riscontrano nel ghiaccio intorno all’anno 1465 a.C. Potrebbe essere stata l’esplosione del vulcano di Santorino, o Tera, nell’Egeo, che a quel tempo, sembra,

spazzò via la civiltà minoica e diede inizio alla leggenda dell’ Atlantide. L’esame del ghiaccio ha anche mostrato in quale misura la presenza umana vada modificando l’atmosfera. Consideriamo, per esempio, la quantità di piombo presente nell’aria. Fino a non molto tempo fa v’erano esperti i quali sostenevano che la maggior parte di questo piombo è di origine naturale e proviene dai vulcani, dalle goccioline che schizzano nell’aria dagli spruzzi dell’acqua marina e dalla polvere sollevata dal terreno. Ma successivamente Claude F. Boutron, un esperto glaciologo di Grenoble, e Clair C. Patterson, del Dipartimento di geochimica del California Institute of Techo-

logy (Caltech), esaminarono per verificare questo particolare i risultati degli esami degli strati di ghiaccio formatisi negli ultimi 27.000 anni, e sco70

prirono che la quantità di piombo presente oggi in Antartide e in Groenlandia è duecento volte maggiore che nei tempi preistorici. “I nostri studi” scrivono i due ricercatori « dimostrano che oltre il 99 per cento del piombo che si trova oggi nella troposfera è un prodotto delle attività umane. » I ghiacci hanno pure messo in evidenza con quanta rapidità stia aumentando l’acidità delle precipitazioni atmosferiche. Un altro gruppo di ricercatori, guidato da Paul Mayewski dell’Università del New Hampshire e Willi Dansgaard di Copenaghen, ha analizzato una carota di ghiaccio prelevata nella Groenlandia meridionale e contenente ghiaccio formatosi nel periodo fra il 1869 e il 1984. È stato scoperto che le concentrazioni di solfati e nitrati si sono moltiplicate per tre dal 1900 a questa parte. La concentrazione dei nitrati si è raddoppiata dagli anni attorno al 1955 a oggi. Questi cambiamenti sono da imputare alle attività umane, così come lo è

il livello di radioattività riscontrato negli strati più recenti dei campioni. Questi strati recano evidenti tracce della ricaduta radioattiva seguita alle esplosioni nucleari nell'atmosfera avvenute negli anni Cinquanta. Ma la storia più interessante raccontataci dal ghiaccio si riferisce all’anidride carbonica. Il ghiaccio contiene una gran quantità di bollicine grandi quanto quelle dell’acqua di selz, e ogni bollicina racchiude un campione dell’atmosfera terrestre che vi è rimasto ermeticamente sigillato per decenni o secoli o millenni. (In realtà, circa il 10 per cento del volume dei ghiacciai è formato dall’aria che vi è racchiusa.) Gli antropologi hanno ossa, i geologi hanno rocce e fossili, gli archeologi hanno vasellame, papiri, o piramidi. Fin dagli anni Sessanta, gli scavatori di carote di ghiaccio si sono resi conto di avere scoperto un filone di altrettanta importanza per i climatologi. Avevano trovato l’aria fossile. Se avessero potuto aprire quelle piccole cavità e analizzare i gas che vi erano contenuti avrebbero potuto stabilire quale fosse l'atmosfera della Terra in tempi preistorici. Fra altro, avrebbero potuto rispondere a un altro fastidioso interrogativo. Grazie a Keeling, si sapeva che oggi l’anidride carbonica sta accumulandosi nell'atmosfera. Ma senza un campione di aria fossile, nessuno poteva dire con certezza quanta ve ne fosse prima della Rivoluzione Industriale. Nessuno sapeva, d’altronde, che altro vi fosse nell’atmosfera prima che Keeling avviasse la sua rete di monitoraggio globale. Questa incertezza offuscava l’intero problema. Per tutti gli anni Sessanta e Settanta, gruppi rivali di ricercatori guidati ri-

spettivamente da Hans Oeschger dell’Università di Berna, da Claude Lorius di Grenoble, e da altri, sondarono i mantelli glaciali della Groenlandia, dell'Antartide e quei pochi antichi depositi presenti sulle Alpi. I vari gruppi 71

pubblicarono decine di comunicazioni tecnico-scientifiche e misero insieme una abbondantissima raccolta di carote di ghiaccio, per una lunghezza totale di oltre 9,5 chilometri. La maggior parte di questo ghiaccio è attualmente immagazzinata nell’impianto di refrigerazione, alto dieci piani, della Buffalo Refrigerating Company, dell’omonima città nello stato di New York. (Gli studiosi hanno affittato lo spazio necessario al piano migliore dell’edificio, il primo, quello dove vengono conservate le aragoste.) Entro i primi anni Ottanta, il gruppo di Berna aveva trovato una tecnica valida per analizzare l’aria contenuta nelle bolle. Consisteva in questo: per prima cosa, i ricercatori tagliavano la carota di ghiaccio in tanti pezzetti della grandezza di un dado da gioco. In laboratorio, ogni cubetto di ghiaccio veniva preso con una pinza e calato in una camera a vuoto chiamata scherzosamente “lo schiaccianoci”; la camera veniva chiusa ermeticamente e ne

veniva estratta con una pompa tutta l’aria. Allo scatto di un interruttore, aghi d’acciaio calavano attraverso una griglia nella camera, trasformata in una sorta di trappola diabolica come in una scena del film / predatori dell’arca perduta. Il cubetto di ghiaccio veniva frantumato istantaneamente. L’aria contenuta ne sfuggiva tutta insieme e veniva aspirata entro un tubo. In questo un laser emetteva un raggio di luce infrarossa attaverso il campione, permettendo di misurare la quantità di anidride carbonica presente. L’operazione veniva ripetuta più volte, e i ricercatori annotavano la media risultante dalle varie misurazioni. In ogni cubetto, si trovò che solo un decimo del volume era occupato dall’aria. Di quest’aria, solo 3 millesimi circa erano costituiti di anidride carbonica. Per confrontare la quantità di anidride carbonica dell’aria “antica” con quella dell’aria contemporanea, gli studiosi devono misurare questa briciola di una briciola di un gas inodore, incolore e insapore con un’accura-

tezza che arrivi a poche parti per milione. « Insomma, è necessaria una certa sensibilità » dice un fisico del gruppo svizzero. Mentre si stava perfezionando questa elaborata tecnica di laboratorio, un altro gruppo di “cacciatori d’aria” americani ed elvetici prelevò una carota di ghiaccio alla Stazione di Ricerca di Monte Siple nell’ Antartide occidentale, dove gli strati di neve di parecchi secoli trascorsi sono singolarmente regolari e distinguibili. Analizzando l’aria contenuta nel ghiaccio mediante lo “schiaccianoci” e il laser, gli esperti furono in grado di delineare gli ultimi 250 anni nella storia del gas di cui ci occupiamo. Agli inizi del XVIII secolo, l’anidride carbonica era a un livello di circa 280 parti per milione. Prese ad aumentare verso la metà del Settecento, subito dopo che Watt ebbe costruito la sua prima macchina a vapore. Il livello

72

fu spinto in alto durante l’Ottocento soprattutto dal taglio e dalla combustione di tante foreste che accompagnarono la cosiddetta Esplosione Pionieristica. Nel 1958, era salito a circa 315 parti per milione. La storia dell’anidride carbonica fra il 1734 e il 1958 è schematizzata in questo diagramma:

In questa storia racchiusa nel ghiaccio, l’anno 1958 è come il chiodo d’o-

ro che veniva piantato in America per collegare gli ultimi tronchi di rotaia che completavano le grandi linee ferroviarie transcontinentali, costruite partendo dalle coste dell’Atlantico e del Pacifico. Infatti, il numero che gli analizzatori hanno calcolato per il ghiaccio del 1958 corrisponde esattamente a quello calcolato da Keeling per quello stesso anno. I due tratti di linea delle prove raccolte si saldano. Aggiungendo ai numeri dei ricercatori svizzeri e americani quelli di Keeling, la storia degli ultimi 250 anni è simile a questa rappresentazione grafica:

1958

Una carota di ghiaccio di gran lunga più antica fu prelevata da ricercatori e tecnici russi alla Stazione Vostok nell’Antartide orientale, il punto più VENE

freddo del pianeta. Negli anni Ottanta, il gruppo di Grenoble iniziò l’analisi del campione, che è lungo più di 1600 metri. Incomincia da oggi e risale attraverso tutto l’Olocene, il periodo caldo in cui viviamo, fino all’ultima glaciazione. Risale ancora, attraverso tutto il periodo caldo che la precedette,

fino alla penultima glaciazione, cioè a 160.000 anni fa. A metà del decennio, il gruppo francese pubblicò uno studio in-cui sono elencate le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera per tutto il periodo a cui si riferisce il campione. Si tratta probabilmente del più importante documento a riprova dell’effetto serra, assieme alla famosa curva di Keeling. Sarebbe stato molto utile ad Arrhenius poter vedere i risultati di questi calcoli. A lui, la prospettiva di un riscaldamento globale sembrava così remota, e benefica, che giudicava giusto scusarsi con i suoi lettori per averne parlato a lungo nelle pagine del Philosophical Magazine. « Non avrei affrontato la fatica di questi tediosissimi calcoli se non fosse stato collegato ad essi qualcosa di straordinario interesse» scriveva. E che cosa aveva tale straordinario interesse? Quello che eccitava la curiosità di Arrhenius, e del fisico inglese Tyndall,

e del geologo americano Thomas Chamberlin, era il sospetto che a causare l’ultima glaciazione poteva essere stato un calo del tasso di anidride carbonica nell’atmosfera verificatosi alcune decine di migliaia di anni fa. Il campione di ghiaccio estratto a Vostok prova che a ogni periodo glaciale corrisponde una brusca caduta del tasso di anidride carbonica, che risale

altrettanto bruscamente con l’inizio della fine del riodi caldi l’aria del pianeta contiene fra 260 e 280 ca per milione. In quelli freddi, la concentrazione parti per milione. È una corsa in otto volante che gurabile così:

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periodo glaciale. Nei peparti di anidride carbonidel gas scende a 190-200 scavalca i millenni, raffi-

Nessuno sa che cosa ha spinto in su e in giù l’anidride carbonica prima che entrasse in gioco la presenza umana. Causa ed effetto, al riguardo, restano avvolti nel mistero. Sembra che in certi casi sia stato il livello del gas a cambiare per primo, e in altri casi la prima a cambiare sia stata la temperatura del globo. È il ghiaccio che reagisce ai mutamenti che intervengono nel livello del gas, o viceversa? Comunque siano andate le cose, il campione di Vostok è una diretta conferma dell’ipotesi di Arrhenius. È chiaro che in passato certe modificazioni del livello di anidride carbonica si sono accompagnate ai periodi glaciali, che segnarono alcuni dei cambiamenti climatici più importanti e più rapidi mai sperimentati-dal nostro pianeta. Il ghiaccio di Vostok è stato analizzato anche ai fini di compilare una stima delle variazioni nel tempo delle temperature medie globali.* I loro aumenti e diminuzioni negli ultimi 160.000 anni si presentano così:

Verso la metà degli anni Ottanta, il fisico e glaciologo svizzero Hans Oeschger stese l’uno accanto all’altro questi due diagrammi sul tavolo del suo studiò a Berna. Li osservò attentamente, poi scosse la testa. Quasi tutti i

massimi e i minimi del diagramma delle temperature calcolate analizzando il campione di Vostok corrispondevano ai massimi e ai minimi calcolati per l’anidride carbonica. Somigliavano a due immagini dello stesso otto volante, o al profilo di una serie di creste alpine. « Troppo bello » disse Oeschger. Ma voleva dire solo che i valori erano troppo paralleli perché si trattasse di una semplice coincidenza. Sembrava dunque che l’anidride carbonica fosse una specie di interruttore generale per far scendere o salire la temperatura del pianeta. E noi, pensava Oeschger, abbiamo già spostato in una direzione la leva quanto l’ultima glaciazione l’aveva spostata nella direzione * Questo viene fatto indirettamente, analizzando gli isotopi dell’ossigeno presenti nel ghiaccio.

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opposta, col risultato di abbassare la temperatura del globo. A Princeton, nel New Jersey, il creatore di modelli computerizzati Syukuro Manabe studiò i dati rilevati nella calotta glaciale e decise di immetterli nel suo G.C.M. (Modello della Circolazione Globale). Ridusse il tasso di

anidride carbonica del suo modello a 200 parti per milione. La temperatura della sua Terra precipitò a livelli da epoca glaciale. Lo innalzò a 300 ppm. Il suo modello della Terra uscì dalla glaciazione. In linea di principio, Manabe sarebbe stato in grado di modificare il tasso di anidride carbonica nel modello facendolo aumentare o diminuire nello stesso modo di quanto è avvenuto sulla Terra reale negli scorsi 160.000 anni. Di volta in volta la temperatura del globo avrebbe seguito l’andamento dell’anidride carbonica, aumentando e calando come ha fatto attraverso tanti millenni. «Questo ha rinnovato in me la convinzione che già avevo » dice Oeschger. « Sa, mi sono occupato di questa faccenda per tanti anni, ormai, che personalmente ero già convinto che il riscaldamento globale è una realtà. Ma come scienziati si ha il dovere di rimanere scettici. Si deve sempre ripartire da zero... capisce quello che intendo dire? La lettura del lavoro di Manabe mi ha proprio fatto... » Per un momento, Oeschger rabbrividisce. *

*

*

Con l’accumularsi di tutte queste prove, gli studiosi di scienza della Terra cominciavano nella generalità a modificare la loro visione del problema. Diventavano sempre più consapevoli della turbolenza delle sette sfere, e delle loro stupefacenti interazioni. Incominciavano a rendersi conto di quanto le cose potrebbero volgere al peggio. Una svolta in questa graduale presa di coscienza fu certo impressa da un libro che una biologa americana incominciò a scrivere nella primavera del 1958... per una curiosa coincidenza, proprio nel periodo in cui Keeling iniziava a fare i suoi rilevamenti dell'anidride carbonica globale dalla stazione sul vulcano Mauna Loa. Rachel Carson — questo il nome della biologa — aveva lavorato per vari anni nello U.S. Fishery and Wildlife Service, e aveva anche scritto due libri di intonazione lirico-elegiaca che avevano riscosso un immenso successo: The Sea Around Us (“Il mare intorno a noi”) e The Edge of the Sea (“Il bordo del mare”). Per quello che sarebbe stato, purtroppo, il suo ultimo libro, aveva incominciato a raccogliere una grande quantità di materiale sulle sostanze insetticide. Era riluttante, quando si mise all’opera, ad abbandonare il tono lirico che le era congeniale per adottare un tono polemico. Ma si rese conto che l’evidenza non le lasciava alternative.

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A quell’epoca, i più pensavano che le generose irrorazioni con antiparassitari fossero un mezzo meraviglioso per combattere bruchi, zanzare, mo-

sche domestiche, zecche e acari. I chimici industriali che avevano inventato

il DDT

(diclorodifeniltricloroetano) e altri insetticidi e pesticidi ne erano tanto orgogliosi quanto Thomas Midgley lo era stato dei suoi CFC. | In Primavera silenziosa, apparso in America nel 1962, la Carson spiegava che spesso i bersagli contro i quali si adoperava il DDT diventano immuni alla sua azione, ossia resistenti, mentre gli uccelli, le api, i pesci, le peco-

re, le mucche e gli esseri umani si avvelenano quando il DDT, passando attraverso l’ecosistema, giunge dentro i loro organismi. L’autrice fornì un elenco dei milioni di tonnellate di pesticidi che venivano sparsi ogni anno, e raccontò alcuni degli orrori che nascevano da questo fatto. « Chi può credere che sia possibile porre un simile sbarramento di veleni sulla superficie della Terra senza renderla inadatta a ogni sorta di vita? » domandava. « Non dovrebbero chiamarsi ‘insetticidi’, ma ‘biocidi’. » Il titolo provvisorio del libro era Control of Nature, e pur concentrandosi sugli insetticidi la Carson affermava in generale che i tentativi operati dalla nostra specie per sottomettere la natura con la forza bruta sono spesso destinati a riflettersi contro di noi con danni altrettanto gravi di quelli causati dal DDT. Citò in proposito la ricaduta radioattiva derivante dalle esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, e l’inquinamento dei corsi d’acqua, dai ruscelli ai fiumi ai laghi, provocato dai detersivi, in un quadro complessivo di « inquinamento dell’aria, del suolo, dei fiumi e dei mari con materiali pericolosi e a volte perfino letali ». (Non faceva menzione dell’inquinante più diffuso di tutti: l’anidride carbonica, la quale era ancora lontana dalla notorietà che avrebbe acquistato in seguito.) Fu un duro colpo per molta gente sentirsi dire, nel 1962, che una tecnologia in auge può risultare dannosa, che sostanze chimiche misurate in parti per milione, per miliardo e perfino per trilione possono essere pericolose, che senza saperlo la nostra specie potrebbe far ammutolire per sempre i nostri boschi e le nostre macchine. Primavera silenziosa contribuì molto alla diffusione del movimento ambientalista negli anni Sessanta e Settanta. Prima della nascita dell’ambientalismo,

molti scienziati avevano

fatto

presto a dare per scontato che l’accumulo di anidride carbonica era un fenomeno benefico. Dopo tutto, questo gas è il sottoprodotto fondamentale del progresso materiale, nonché di quello demografico, ed essi erano portati a provare un certo orgoglio professionale per entrambi. Callendar, ad esempio, era un ingegnere; nell’ormai famoso lavoro che pubblicò nel 1938 si qualificava «esperto di tecnologia del vapore presso la British Electrical

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and Allied Industries Research Association ». Era al servizio della macchina industriale che Watt aveva contribuito a creare. Era quindi naturale che parlasse del carbonio liberato nell’aria come di un fortunato effetto collaterale di tale macchina. « Oggi riscalda le nostre case, domani riscalderà il mondo »: questa era la sua valutazione del fenomeno nel 1938. Poco dopo l’uscita del libro di Rachel Carson, gli scienziati incominciarono a manifestare il timore che il “sottoprodotto fondamentale” del progresso potesse avere effetti negativi: a considerare l’anidride carbonica un inquinante, e a parlarne con un po’ di quel senso di colpa che è connesso al termine “polluzione” nell’ Antico Testamento, o al termine “miasma” nella tragedia greca. Non fu soltanto un fuggevole capriccio, una moda degli intellettuali. Gli effetti del gigantesco sviluppo industriale seguito alla seconda guerra mondiale (chiaramente visibili nelle registrazioni fatte sul Mauna Loa e nelle calotte glaciali della Groenlandia e dell’ Antartide) incominciavano a farsi sentire in tutto il pianeta. In quei due decenni la gente si avviò ad apprendere come controllare la natura contemporaneamente su più fronti, non solo su quello del DDT o del fa/lout radioattivo, ma anche su quello dei rifiuti, dell’eutrofizzazione delle acque, del piombo nell’atmosfera, dell’inquinamento dei mari a causa del petrolio riversatovi accidentalmente dalle petroliere, dell’ozono, delle specie minacciate di estinzione, della sovrappopolazione, delle piogge acide, delle catastrofi nucleari evitate per pura fortuna, come avvenne per la centrale di Three Mile Island. Dieci anni dopo Primavera silenziosa, l’ecologo americano Barry Commoner pubblicò // cerchio da chiudere, la cui edizione italiana apparve lo stesso anno. Commoner enunciò come legge ecologica generale: « Ogni. cambiamento di un certo peso operato dall’uomo in un sistema naturale ha tutte le probabilità di risultare dannoso per il sistema ». « Supponete di aprire la cassa del vostro orologio, di chiudere gli occhi e di ficcare una punta di matita fra gli ingranaggi scoperti: il minimo che vi possa capitare è di danneggiare l’orologio. Non è detto però che sia necessariamente così. Esiste la remota possibilità che l’orologio fosse sregolato e che il colpo dato a caso con la matita fosse proprio quello che ci voleva per migliorarne il funzionamento. Certo, è un caso estremamente improbabile... Volendo inventare una legge dell’orologio, potremmo dire che ‘L’orologiaio è l’unico a sapere veramente il fatto suo”.

Nei tre decenni fra il ’60 e il ’90, alcuni studiosi di scienze della Terra incominciarono a guardare alle sette sfere come a un tutto unico, allo stesso modo in cui ecologisti come Commoner guardavano alla biosfera. Così fa-

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cendo, si resero conto che il comportamento dell’umanità nei confronti del carbonio equivaleva a ficcare la punta di una matita entro il più importante di tutti i cicli chimici esistenti in natura. Tuttavia, nonostante le prove che si venivano accumulando e nonostante il rafforzarsi dei movimenti ambientalisti, una bizzarria della Natura doveva ancora ritardare |’ “Eureka”. Nel 1938, allorché Callendar annunciò che

la temperatura globale era in aumento, i valori della temperatura del pianeta per il precedente mezzo secolo avevano avuto un andamento all’incirca come questo:

1938

Dopo la pubblicazione del lavoro di Callendar, però, la temperatura media del globo incominciò a dare segni di abbassamento, e seguitò a farlo per oltre un quarto di secolo, così:

1968

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Il fenomeno potrebbe aver avuto molte origini. La temperatura della Terra ha sempre subito sbalzi verso l’alto o il basso da un decennio all’altro,

per influsso di mille spiritelli maligni, si direbbe, a parte l’effetto serra. Può esservi stata in quel periodo una diminuzione della quantità di luce solare che ha raggiunto la superficie del globo. L’offuscamento della luce può essere stato provocato da cambiamenti avvenuti all’interno del Sole stesso, che è una stella in lieve misura variabile. Oppure il cambiamento può aver avuto origine da una forte presenza di polveri nell’atmosfera che, come un manto di nubi, può averci fatto sembrare meno intensa la luce solare. Il so-

vraccarico di polveri può esser dipeso da eruzioni vulcaniche, o dalle ciminiere, o dai tubi di scappamento dei veicoli, o dalla messa a coltura di nuove terre. Poiché in quegli anni gli scienziati non sorvegliavano la Terra così strettamente come fanno ora, queste spiegazioni sono tutte possibili, e potremmo non conoscere mai quella vera. Per il povero Callendar, tuttavia, fu come se una botola gli si fosse spalancata sotto i piedi. Seguitò come un tribuno a parlare tutta la vita della potenza dell’effetto serra, ma quasi nessuno si fermava ad ascoltare. « Finché il mondo andava raffreddandosi anno dopo anno » commentava tempo fa Revelle con una risatina sardonica « era molto difficile credere che vi fosse qualcosa di serio in quel famoso effetto serra. » Dopo che la rete di monitoraggio di Keeling ebbe rilevato l’aumento dell’anidride carbonica, nei primi anni Sessanta, la temperatura del globo si mise a scendere più rapidamente che mai. Verso il 1975, si parlava di un’imminente epoca glaciale. Questa supposizione comunque non incontrò mai vasti consensi nel mondo dei climatologi. Ciò non impedì che la CIA (la Central Intelligence Agency) degli Stati Uniti preparasse un preoccupato rapporto in proposito, in cui si predicevano grandi sconvolgimenti nella produzione alimentare mondiale. Comparvero anche “instant books”, libri confezionati in fretta e furia per l’occasione, con titoli come The Cooling (“Il Raffreddamento”) e The Weather Conspiracy: The Coming of the New Ice Age (“La congiura del clima: l’arrivo della nuova èra glaciale”). Il raffreddamento fece restare inattuale e fuori moda l’effetto serra. Si venivano ammassando prove su prove, ma nessuna di quelle che sarebbero contate di più. « Da un punto di vista politico » lamentò un osservatore « l’anidride carbonica è come una traccia di gesso su un muro bianco o, se preferite, come l’aggiunta di un po’ di oscurità alla notte. » Al principio degli anni Ottanta un gruppo di ricercatori dell’Università inglese della New Anglia esaminò tutti i dati storici relativi alle temperature che riuscì a procurarsi da ogni parte del mondo. Guidati da Thomas Wi-

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gley, direttore dell'Unità per le Ricerche sul Clima dell’università, raccolsero copia dei dati termometrici registrati in oltre un secolo da un centinaio di stazioni di rilevamento terrestri

o marine, che andavano dalla fine del

XIX secolo all’inizio dello scorso decennio. Si trattava di centinaia di milioni di numeri da confrontare e integrare, calcolando le medie.

All’analisi dei risultati, risultò che la temperatura media della Terra era più alta che nel 1938, e che il pianeta era più caldo adesso di quanto non lo fosse stato da cent’anni in qua. Fra gli anni Sessanta del secolo XIX e gli Ottanta del XX, la Terra si era riscaldata di circa 0,5 °C.

Indipendentemente dal gruppo inglese, lo stesso studio fu eseguito da un gruppo americano diretto da James Hansen (uno dei veterani degli studi su Venere) del Goddard Institute della NASA,

a New York. I ricercatori del

Goddard Institute, partendo praticamente da zero, raccolsero tutti i dati sulle temperature di tutto il mondo che poterono e li analizzarono, costatando un trend in ascesa più o meno nella stessa misura sia per l'emisfero boreale che per quello australe. Entrambi i gruppi scoprirono che il 1981 era stato l’anno più caldo nella storia del pianeta da almeno un secolo in poi, da quando, cioè, si poteva di-

sporre di registrazioni della temperatura attendibili. Il 1983 fu più caldo del 1981. Il 1987 (l’anno successivo alla pubblicazione del primo studio di Wigley) si rivelò ancora più caldo del 1983. Ciascuno di questi anni stabiliva un nuovo primato: tre primati battuti nel giro di sei anni... Il progresso era anche in via di accelerazione. Il tasso di aumento della temperatura negli anni Ottanta fu assai più rapido della media registrata in tutto il XX secolo. In quel decennio, infatti, l’aumento di temperatura era

stato pari a quello avvenuto fra il 1860 e il 1950. Nessuno aveva predetto un balzo del genere, e nessuno si aspettava che fosse qualcosa di diverso da un fenomeno passeggero. Se così non fosse stato, disse il climatologo J. Murray Mitchell, « la cosa ci condurrebbe alla serra in dieci o vent’anni, altro

che in un secolo! ». Lo disse a me, un afosissimo pomeriggio del settembre 1987, nella sua

casa fuori Washington. C’era la peggior ondata di calore mai vista quell’anno, che era il più caldo di cui si avesse notizia. Mitchell aveva trascorso buona parte della sua carriera quale consigliere per i problemi climatici (assai rispettato) in vari enti e ministeri, nella Organizzazione Meteorologica Mondiale e nell’Ente delle Nazioni Unite per 1’Ambiente, e talvolta era stato consultato anche dal Congresso e dal Senato degli Stati Uniti. Sulla sua casa si ergeva un’antenna alta più di venti metri nella quale erano incastonati molti strumenti meteorologici, alcuni progettati da lui stesso. Eravamo a

81

discorrere nel suo studio, e intanto le stampanti degli strumenti seguitavano a mandare il loro secco ticchettio da muri, scaffali, tavoli, “ratatà”, come

scariche di mitraglia, registrando la temperatura, la velocità e direzione di quel tanto d’aria che si muoveva sopra il tetto: quel genere di dati che servivano ad accumulare gli sterminati elenchi di numeri da infilare nel cervello degli elaboratori, nell’East Anglia e a Manhattan. Gli strumenti non smisero il loro chiacchiericcio per tutto il tempo della nostra conversazione. Mitchell era stato uno dei primi studiosi a occuparsi dell'andamento della temperatura globale. Era stato l’argomento della sua tesi al Massachusetts Institute of Technology verso la fine degli anni Quaranta. Già a quel tempo gli appariva chiaro che la tendenza generale della temperatura del pianeta nel XX secolo poteva essere verso valori più elevati che per il passato. Naturalmente, però, ben pochi erano interessati all’effetto serra, a quel tempo. Ponendosi in una prospettiva secolare, distaccata, un periodo di indifferen-

za sembra breve, ma per un giovane agli inizi della carriera il totale disinteresse per il suo lavoro durava anche troppo. E Mitchell si era dedicato ad altre cose. Quel pomeriggio, ricordo, lui accettava l’afa con la stessa calma un po” divertita con cui considerava le incerte prognosi sulle sorti del pianeta, nonché una prognosi che lo riguardava personalmente (era malato, ed era stato costretto ad abbandonare le sue normali attività prima del tempo). Tirò fuori i lavori di Wigley e di Hansen, inviatigli prima della pubblicazione, e stese sul tavolo i loro diagrammi, indicandomi, con il cannello della pipa; in qual modo la temperatura del pianeta era salita, poi discesa, poi di nuovo salita. Un aumento di circa mezzo grado centigrado era all’incirca l’aumento che i Modelli della Circolazione Globale avevano previsto per il 1986. Considerando tutti i gas da effetto serra che gli uomini avevano immesso nell’aria, si trattava di un aumento della temperatura lievemente inferiore a

quello calcolato dai modelli. Ma ciò rientrava nel normale campo di incertezza di questi calcoli. Mitchell mi spiegò in che modo i gruppi di Wigley e di Hansen avevano preparato il materiale su cui avevano lavorato. Mi illustrò le ambiguità dei dati, e anche perché, tutto sommato, riteneva che si potesse credere ai risul-

tati generali cui i ricercatori erano pervenuti. « Così, sembra proprio che stia accadendo sul serio » disse. « Avanti tutta! » In alcuni cervelli, i tasselli del puzzle incominciavano a incastrarsi: l’au-

mento delle temperature, l’accresciuta emissione di un numero sempre maggiore di gas da effetto serra, la storia raccontata dalle carote di ghiaccio, gli esempi di Marte e di Venere, le conferme fornite dai computer. I 82

climatologi si resero conto che l'andamento a lungo termine della temperatura sul Pianeta Terra sarebbe stato quasi sicuramente in ascesa e tutt'altro che piacevole. L’interesse degli studiosi per l’effetto serra salì d’un tratto alle stelle. Nel 1986, il Centro informazioni sull’anidride carbonica del Dipartimento sta-

tunitense per l'Energia ricevette ben duemiladuecento richieste di informazioni e precisazioni; oltre il 150 per cento in più rispetto all'anno prima. Le relazioni di Wigley e di Hansen fornirono materiale per molti articoli di giornale sull’effetto serra. Dopo il caldissimo 1987, Wigley dichiarò a un inviato del New York Times: « Se gli anni Novanta saranno caldi come lo sono stati gli Ottanta, sarà assai difficile negare l’effetto serra ». E soggiunse: « E già assai difficile da negare adesso ». « Da un punto di vista scientifico, che si presenti l’effetto serra è fuori discussione » mi ha detto Richard

Houghton,

del Centro

di Ricerche

di

Woods Hole. « La domanda semmai è: con quanta rapidità? » Gli scienziati si rendevano anche conto, in numero sempre maggiore, di quanto Revelle aveva pensato fin dal 1957: questo è un grande esperimento scientifico. Potenziando artificialmente l’effetto serra sul pianeta, la nostra

specie ha innescato una serie di modificazioni a cascata in tutte e sette le sfere. Gli specialisti dell’atmosfera, dell’idrosfera, della criosfera e della biosfera stanno scrutando .i loro orizzonti, intenti a scoprire eventuali modi

in cui l’effetto serra potrebbe già stare modificando le rispettive sfere d’indagine. Alcuni cercano segni precoci di alterazioni della stratosfera: infatti, l’aggiunta di gas da effetto serra all'atmosfera dovrebbe renderne lo strato superiore, cioè la stratosfera, molto più freddo.

È questo uno dei paradossi dell’effetto serra. Supponete di trovarvi a camminare in una tempesta di neve indossando una camicia leggera. I fiocchi di neve che vi cadrebbero sulle spalle si scioglierebbero. Ma supponete di aver indossato molta roba per coprirvi. Camminando, la vostra pelle diventerebbe sempre più calda, ma la lana del maglione più esterno che avete addosso diventerebbe così fredda che la neve che vi cade sopra, anziché sciogliersi, vi si accumulerebbe.

La Terra procede rotando su se stessa nel gelo dello spazio, e ha come unica protezione l’atmosfera. Aggiungere a questa fattori dell’effetto serra equivale a mettersi addosso più strati di maglie di lana. Quaggiù, incominceremmo a provare sempre più caldo, ma 25 o 30 chilometri più su la stratosfera, che sarebbe l’equivalente del maglione più esterno, diventerebbe così fredda che vi si formerebbe del ghiaccio. Verso la metà degli anni Ottanta, alcuni gruppi di scienziati raggrupparo83

no ed esaminarono migliaia di dati sulla temperatura della stratosfera, dati rilevati mediante satelliti, razzi, palloni sonda. Poi un altro gruppo, diretto da Mark Schoeberl del Centro per il Volo Spaziale di Greenbelt nel Maryland, riesaminò parte dei risultati. Il gruppo di Schoeberl stabilì che la temperatura dell’alta stratosfera è diminuita di 1,5-2 °C fra il 1979 e il 1985. Ciò non dimostrava che il raffreddamento della stratosfera fosse conseguenza dell’effetto serra. Poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Ma era in accordo con le previsioni. Nel 1986 si registrò un cambiamento anche nella criosfera. Grossi blocchi di ghiaccio presero a staccarsi dalla barriera glaciale antartica: cominciarono, secondo la pittoresca espressione usata nel gergo dei glaciologi, a “figliare”. Improvvisamente, tutto il Continente Bianco si mise a partorire creature mostruose. La Barriera di Larsen generò un iceberg di superficie non inferiore agli 8000 chilometri quadrati, oltre il doppio della superficie dello stato del Rhode Island e quasi quanto quella delle Marche: più ghiaccio di quanto se ne stacchi normalmente dall’ Antartide in un intero anno. Sempre nel 1986, dal margine settentrionale della Barriera di Fichner si staccarono vari iceberg, per una superficie complessiva di circa 11.500 chilometri quadrati. L’anno dopo, per la prima volta in almeno tre quarti di secolo, si verificò un “parto” di grandi dimensioni nella Barriera di Ross, da cui si staccò andando alla deriva un iceberg di enormi dimensioni. Si dovette ridisegnare la carta dell’ Antartide. Ormai l’interesse per l’effetto serra era diventato così vivace che, a ogni distacco di un grosso iceberg dalla costa antartica, i telefoni dei glaciologi impazzivano. In carattere con la materia di cui si occupano, di tutti i cultori di scienze della Terra i glaciologi sono di solito i più freddi e conservatori. « Se il riscaldamento per effetto serra è davvero arrivato, molto probabilmente non è il fenomeno cui stiamo assistendo adesso »: così disse Stanley Jacobs, dell’Osservatorio Geologico Lamont-Doherty di Palisades, nello stato di New York, a inviati di molti giornali di provincia, a animatori di talk shows radiofonici, nonché a specialisti di altri rami di scienze della

Terra. « Questo è un processo naturale che probabilmente avrebbe avuto luogo comunque... » era la risposta dei glaciologi. Altro squillo di telefono. « Non è affatto una conferma delle tendenze registrate negli ultimi anni... » Frattanto avvenivano mutamenti anche nella biosfera. Come la modificazione del respiro del mondo, scoperta da Keeling sul finire degli anni Settanta, anche questi erano fenomeni non evidenti e quindi non fecero notizia. Tuttavia erano inequivocabilmente collegati con l’aumento dell’anidride carbonica.

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Nel 1987, per esempio, un botanico dell’Università di Cambridge sottopose ad accurato esame le vecchie foglie pressate di alberi e altre piante conservate nell’erbario dell’università. F. Ian Woodward notò che le foglie più antiche — quelle raccolte nel 1750, proprio prima che cominciasse la Rivoluzione Industriale — sono anatomicamente diverse dalle foglie delle stesse specie oggi. Quelle antiche hanno un maggior numero di pori, cioè di stomi. Woodward esaminò le foglie di una mezza dozzina di piante che crescono in Inghilterra: un platano, un tiglio, due specie di querce e un arbusto di mirtilli. Le foglie di alcune di queste specie vegetali hanno più stomi di altre, ma in ogni caso le foglie delle piante esaminate presentavano sempre meno stomi dall’inizio della Rivoluzione Industriale in poi. Una foglia di quercia di oggi ha mediamente un 40 per cento di pori (stomi) in meno rispetto a una sua antenata dei tempi di re Giorgio II. Nella foglia, lo stoma è il frutto di un delicato compromesso. La foglia deve assorbire anidride carbonica, quindi deve avere dei forellini attraverso i quali possa entrare l’aria. Ma più aria vi circola dentro, più acqua la foglia perde per evaporazione. E così le cellule attorno a ogni stoma fanno sì che esso si chiuda o si apra nella misura necessaria, in una affascinante ottimizzazione dell’ingresso di luce solare, umidità, temperatura e anidride carbonica, seguendo strategie che i botanici si sono messi a studiare come se si

trattasse di una sofisticata teoria dei giochi. Woodward aveva scoperto una nuova mossa in questo gioco praticato dagli alberi attraverso le generazioni. Se l’aria contiene una maggiore quantità di anidride carbonica, alle foglie occorrono meno stomi per aspirarne quanto basta; e, avendo meno stomi, gli alberi diventano più efficienti nell’uti-

lizzazione dell’acqua e quindi più resistenti alla siccità. Il botanico inglese cercò di coltivare un po’ di queste piante in piccole serre. Osservò che quando arricchiva l’aria di anidride carbonica i pori delle foglie si chiudevano. Questi pori o stomi sono aperture piccolissime, addirittura microscopiche, ma è evidente che grazie a essi, in tutto il mondo,

le piante vanno adattandosi alle nuove condizioni atmosferiche. Se il futuro ci riserva siccità e tempi burrascosi, le piante moderne sono meglio preparate ad affrontarli delle loro progenitrici. Gli alberi che vediamo dalla finestra (se abbiamo questa fortuna) stanno scoprendo i cambiamenti dell’aria e vi si adattano con rapidità assai maggiore della nostra. In sé, questa è una buona notizia, specie per le piante; ma sfortunatamente le più recenti osservazioni di Woodward non sono tali da confortarci. I biologi distinguono due tipi di adattamento. Le mutazioni genetiche avven-

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gono per selezione naturale, cioè in base alla legge della sopravvivenza e propagazione del più adatto. L'adattamento plastico, invece, è frutto dell’adattamento dell’individuo alle circostanze. Il cambiamento avvenuto nelle piante è plastico. Le foglie di quercia si adattano man mano che spuntano, si aprono e vengono a contatto con l’atmosfera moderna. I geni contenuti nella ghianda, nella gemma e nella foglia restano identici a quelli di una volta. « Il che significa » spiega Woodward « che finora la pressione esterna non è stata abbastanza forte da provocare una selezione naturale. » « Ma siamo ai limiti di questo comportamento plastico » dice ancora. Le foglie, infatti, non potrebbero adattarsi oltre ai cambiamenti dell’atmosfera

senza una modificazione dei loro stessi geni. « E la cosa a questo punto solleva molti interrogativi interessanti. Vi sarà adesso una selezione per il cambiamento? Che cosa accadrà alla pianta se non riuscirà a fare il cambiamento indispensabile? » prosegue. « È molto più complicato capire che cosa sta per succedere che non quello che è già successo. » Verso la metà degli anni Ottanta, molti esperti erano ansiosi di persuadere il mondo di ciò che pensavano che potesse riservarci l’avvenire. E tuttavia non potevano permettersi di mostrare la loro ansia, perché se l’avessero fatto ci avrebbero rimesso in credibilità. Come esseri umani erano in una strana situazione. Erano così preoccupati dei cambiamenti che vedevano arrivare, e della difficoltà di far capire al mondo che stavano arrivando, che in un certo senso si trovavano a “fare il tifo” per i cambiamenti. Sarebbe difficile, in realtà, spiegare quello che provavano. Era un caldo pomeriggio estivo quando, all’Ecosystem Center del Marine Biological Laboratory di Woods Hole, Thomas Stone si precipitò nell’ufficio di Richard Houghton agitando un preprint inviato dalla U.S. Geological Survey. Il rapporto di questo ente annunciava che geofisici dell’U.S.G.S. avevano misurato le temperature dei fori di sondaggio dei pozzi petroliferi dell’ Alaska, accertando che la temperatura del permafrost (lo strato di terreno permanentemente ghiacciato) di quella regione era aumentata da 2 a 4 °C durante l’ultimo secolo, o forse negli ultimi decenni. Ciò induceva i geofisici a pensare che l’aria artica avesse subito un forte riscaldamento, fatto per cui è difficile

avere dati diretti. L’ Artide è una delle zone del mondo che dovrebbero registrare il maggior rialzo di temperatura, e la mancanza di ogni indizio in tal senso aveva fin allora ‘impensierito e perfino imbarazzato i sostenitori dell’effetto serra. I pozzi in questione si trovavano disseminati fra i laghi e i piccoli rilievi della pianura costiera dell’ Alaska, fra la Catena dei Brooks e il Mar Glacia-

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le Artico. Stone e Houghton conoscevano molto bene la zona. La maggior parte del personale del Centro era solita trascorrere parte dell’estate all’ombra della Catena dei Brooks, per studiare sul campo l’ecologia della tundra. Questa nasconde vaste riserve di carbonio poiché nel terreno si sono accumulati iresti vegetali di milioni di anni. Gli ecologi ritenevano che se il processo di riscaldamento globale avesse mai raggiunto 1’ Alaska, dalla tundra avrebbero potuto cominciare a liberarsi milioni di tonnellate di carbonio più del normale. Un ulteriore incubo, per quanto riguarda l’effetto serra: quel carbonio tornerà nell’atmosfera? Da due a quattro gradi centigradi rientrano nel campo di oscillazione dei valori d’aumento previsti. Stone arrivò dunque raggiante, sbandierando la comunicazione scientifica come se fosse un volantino di propaganda, 0 come se lui e Houghton avessero vinto una lotteria. « Siamo fuori dei guai, adesso! » annunciò. Stone lo guardò in faccia. « Dalla padella nella brace » si corresse Stone, rinsavito. *

*

*

Da un punto di vista cosmico, quello che sta accadendo è catastroficamente repentino. Geologicamente parlando, la contemporanea esalazione prodotta dall’attività umana somiglierà a un’unica eruzione, un forte picco in un ipotetico diagramma dell’aria. M. King Hubbert, specialista in geologia del petrolio, è stato il primo a rappresentare il periodo contemporaneo in questo modo, e il picco del suo diagramma è talvolta chiamato “lampo di Hubbert”:

Ma dal punto di vista degli scienziati come esseri umani, da quello dell’uomo della strada, che si trova sul versante in salita del picco di Hubbert,

tutto quanto ha a che fare con l’effetto serra sembra svolgersi al rallentatore. Questa potrebbe essere in definitiva la ragione per cui c’è voluto tanto

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tempo prima che l’umanità incominciasse a preoccuparsene. Anche coloro che vi credevano, pensavano che progredisse lentamente. L'umanità viveva all’ombra del picco di Hubbert con la stessa tranquillità con cui vive nella città di Hilo, sotto il vulcano Mauna Loa.

i

La gente non reagisce ai processi graduali. Reagisce agli eventi brutali. Occorre un’eruzione vulcanica o un terremoto, o la catastrofica emanazione

di gas letali da un lago nel Cameroon, o lo sfascio di una calotta polare per calamitare l’attenzione generale. Ho letto una volta di un insegnante che spiegava questo fenomeno per mezzo di una rana. Prendeva la rana e la gettava in una vaschetta di acqua calda. La bestia ne schizzava via istantaneamente. Allora la prendeva e la metteva in una vaschetta di acqua fredda e vi accendeva sotto un becco Bunsen. La rana seguitava a nuotare tranquilla nel recipiente fino a morire bollita. Per un buon secolo, l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera e l’aumento della temperatura globale sono stati troppo graduali per richiamare la nostra attenzione. La loro lentezza influì perfino sul modo in cui Keeling giunse alla sua scoperta, l’unico vero “Eureka” di questo secolo. La nostra idea del modo in cui dovrebbe avvenire una scoperta scientifica risale all’antica Siracusa, al famoso episodio di Archimede che, mentre stava a mollo nella vasca da bagno, scoprì uno dei principi fondamentali dell’idrostatica. Secondo la leggenda, Archimede balzò dalla vasca e si mise a correre nudo per la via gridando: “Eureka!”. Cioè: « Ho trovato! ». Nell’Inghilterra vittoriana, un incisore di cliché per banconote a nome George Smith dedicò anni allo studio delle tavolette cuneiformi conservate al British Museum, cercandovi una conferma della storia biblica di Noè e

dell’Arca. Un giorno gli diedero una tavoletta appena ripulita delle incrostazioni di terra. L’iscrizione in caratteri cuneiformi era un frammento di una leggenda babilonese sul Diluvio Universale. « Dopo aver deposto la tavoletta su una scrivania » scrisse un suo collega « Smith balzò in piedi e si mise a correre per la sala in uno stato di grande eccitazione e, fra lo stupore di tutti i presenti, incominciò a spogliarsi! ». Faceva il verso ad Archimede. Ho interrogato molte persone che furono vicine a Keeling nelle prime fasi del suo progetto di ricerca circa il momento dell’ “Eureka”. Ho parlato col glaciologo svizzero Oeschger a Berna. Oeschger lavorava al laboratorio della Scripps quando Keeling stava proprio incominciando l’organizzazione della raccolta di dati. « Ci frequentavamo molto, nel 1958 » mi ha detto.

« Suonavamo insieme, lui il piano, io il violino. Credo che si sia reso presto conto di essersi accinto a qualcosa di importante. » Benché in seguito siamo

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rimasti sempre in contatto, e Keeling abbia di recente passato un intero anno nel laboratorio di Oeschger, questi mi ha detto di non aver memoria di un preciso « momento Eureka ». John Chin è un tecnico dell’Osservatorio del Mauna Loa. Lui e altri colleghi avevano il compito di assicurare il funzionamento degli analizzatori di gas di Keeling. Sostituivano i rotoli di carta millimetrata e ogni settimana spedivano a Keeling i tracciati. A volte i tecnici si servivano di un normale righello per allineare i grafici l’uno accanto all’altro e vedere se i tracciati indicavano un aumento o una diminuzione dell’anidride carbonica. « Ero qui nel 1960, e già allora notammo l’aumento » dice Chin. « Forse Keeling sarà stato tutto eccitato. Ma noi non facemmo altro che andare avanti: ‘Lavorare di più’, era la parola d’ordine. Dovevamo eseguire più rilevamenti. » Nel suo studio all’ Università di California, a San Diego, domandai anche

a Revelle se ricordasse il momento dell’Eureka. « Non me ne ricordo. È una questione interessante » disse Revelle. « Ma in realtà non credo che vi sia stato un lampo, un’intuizione improvvisa, una folgorazione. Tutto nacque solo dall’accumulo di dati. È nella natura stessa di ogni processo di monitoraggio. Bisogna insistere abbastanza a lungo da andare oltre il livello di rumore di fondo. E il livello di rumore in questo caso era parecchio alto... Comunque non era un problema al quale fossero in molti a pensare... » Alla Scripps Institution of Oceanography, in uno studio che dà sullo stesso corridoio in cui costruì i suoi primi analizzatori di gas, domandai a Keeling se ricordava il momento in cui si era reso conto per la prima volta che la sua rete di monitoraggio globale dell’anidride carbonica aveva segnalato un aumento di questo gas. « Questo posso dirglielo » disse in tono promettente Keeling, mettendosi a rovistare le varie cartelle di documenti. Ci fu un lungo silenzio. « Non capisco perché non ci sia, ma non c’è... » Infine tirò fuori un foglio. « Tellus, giugno 1960 » annunciò, e lesse ad alta voce: « Là dove i dati si riferiscono a un periodo di oltre un anno, le medie del secondo

anno sono superiori a quelle del primo ». « Ma quando ci è arrivato? » gli domandai. « Com’era l’atmosfera nel suo laboratorio quando lei ha capito di aver fatto centro? » Keeling non rammentava alcun particolare momento di euforia, o di paura, 0 perfino di riflessione. « Non avevo tempo. Ero troppo preso nel compito di far marciare questo programma sperimentale. C’erano solo problemi logistici, di comunicazione da assicurare, riparazioni da eseguire... E stato uno sforzo enorme, mandare avanti il programma. Alla fine del ‘63, ero quasi deciso a far interrompere i rilevamenti. »

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Sono andato a trovare anche Saul Price, nel suo ufficio del U.S. National

Weather Service a Honolulu. A differenza di Chin, Price è un esperto nella ricerca meteorologica, e a differenza di Keeling e di Revelle, durante le prime fasi del monitoraggio ha trascorso molte notti sul vulcano. Sorvegliava gli analizzatori di gas mentre registravano quelli che dovevano essere alcuni dei primi punti su cui sarebbe stata costruita la curva di Keeling. « Quelli che studiano la Terra in genere non si mettono a gridare ‘Eureka!’ » mi ha detto Price. « Di norma, capita che uno scriva una comunicazione scientifi-

ca non appena ha il coraggio di farlo, e informa: ‘Guardate, le cose stanno così e così’. Solo allora si può concedersi un ‘Eureka!’, ma non troppo ad alta voce. Perché chi può dire se dopo due punti, o tre, o quattro su cui si va costruendo la curva, le cose non si metteranno ad andare nel senso opposto? Che cosa può essere definito un trend stabile? Si potrebbe parlare di due punti percentuali per due anni, almeno. Solo dopo un bel pezzo, magari dieci anni, si può essere sicuri che ci si trova di fronte a qualche cosa di vero,

di stabile e incontrovertibile. Nonostante l’estrema variabilità delle fonti e dei punti di assorbimento dell’anidride carbonica che ci sono in tutto il mondo, nell’atmosfera, nella biosfera e nell’idrosfera, il bilancio netto seguita a indicare un aumento costante anno dopo anno. Allora, finalmente,

uno si dice: “Santo cielo!”. » La strada per l'Osservatorio del Mauna Loa corre in principio fra due giganti, il Mauna Loa e il Mauna Kea, la Montagna Lunga e la Montagna Bianca, e poi, dopo una pietra miliare che segna il ventisettesimo miglio, volge a sud e sale sul Mauna Loa. Questi vulcani sono così giovani e il loro pendio è così lieve che i detenuti del Campo di Lavoro di Kulani che costruirono la strada non dovettero seguire un tracciato con molti tornanti. Secondo un aneddoto locale, andarono su coi loro bulldozer attraverso i detriti rocciosi dritto verso la cima del monte, e quando finirono i fondi stanziati per l’opera, si fermarono e lì costruirono l’osservatorio del Mauna Loa.

Data la modesta pendenza, non è quasi necessario cambiar marcia per arrivare a una quota superiore a quella di certe cime alpine. La pendenza della strada richiama quella del riscaldamento del globo: non ci si accorge neanche di salire fin quando non si è quasi arrivati. A un tratto ci si sente come se si fosse fuori delle Hawaii. Ci si trova a 3400 metri sul livello del mare. Il sole batte ma l’aria è fredda e sottile, il cielo è di un blu profondo, astronomico, e il panorama, più ampio di quello che si abbraccia dalla Jungfrau, è una sterminata sterile distesa di lava nera solidificata, simile a un gigantesco mucchio di carbone che si estende a perdita d’occhio. (In basso, molto,

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molto lontano si possono vedere la foresta pluviale attorno a Hilo e le palme della spiaggia di Kona.) Alcuni visitatori che salgono all’Osservatorio hanno bisogno di essere assistiti con la bombola dell’ossigeno. Molti provano nausea e stordimento. Ci colpisce, in momenti del genere, il pensiero di quanto sia sottile la fascia dell’atmosfera. Si può arrivare fin quasi a metà della sua altezza con un viaggetto di un’ora in jeep. Si può uscirne in pochi minuti a bordo di un razzo. Durante la sua prima missione spaziale, un astronauta della Germania ex orientale guardò fuori dell’oblò e, per la prima volta in vita sua, vide la curvatura dell’orizzonte del pianeta. « Era accentuata » scrisse in seguito Ulf Merbold « da un esiguo strato di luce azzurro cupo: la nostra atmosfera... Ovviamente non era affatto quell’oceano d’aria di cui aveva sentito parlare tante volte. Restai stupefatto e quasi atterrito dalla fragilità del suo aspetto. » La strada finisce davanti all’edificio principale dell’Osservatorio del Mauna Loa, che è una piccola scatola di blocchi di cemento fatto con ceneri

vulcaniche, con sopra un tetto in alluminio ondulato. Intorno, spuntano dal basalto bianche forme bulbose di plastica che fanno pensare a piante e animali marziani: strumenti per misurare l’ozono e osservare il Sole. Vi sono nefelometri, igrometri, termometri a massima e minima. Strumenti per misurare le particelle di polvere, il vapor acqueo, temperature estreme. Molti degli scienziati che fanno la guardia al pianeta attraverso questi robot vivono migliaia di chilometri lontano e qualche migliaio di metri più in basso. Gli scienziati e i tecnici che formano il personale dell’osservatorio seguono giorno per giorno il funzionamento dell’orto robotico. Durante la mia visita John Chin (che lavora sul vulcano da oltre un quarto di secolo) mi guidò attraverso il mare di neri detriti su passerelle fatte con rozze tavole di legno. Gli domandai se ora gli capita mai di essere preoccupato a causa dell’andamento della curva di Keeling. Mi rispose che dorme bene la notte. « Qualche volta la guardo e mi dico: ‘Be’..., che possiamo farci? ». Mi spiegò con entusiasmo lo scopo dei nuovi monitor sparsi per la stazione di osservazione e che erano ciascuno il meglio nel suo genere. Ogni anno alla lista dei sorvegliati si aggiunge qualche altro gas pericoloso: metano, CFC, biossido di zolfo, monossido di carbonio. A un esame dell’ultimo anno all’Università di York una volta è stato chiesto: « Elencate sei sostanze finora ignote che risulteranno dannose per l’ozonosfera ». Ebbene, quando queste sei sostanze saranno state scoperte, potete essere sicuri che si inventeranno sensori in grado di segnalarle e che Chin collaborerà a instal-

larli nel mare di lava del Mauna Loa. 91

Una bassa baracchetta di legno non verniciato accanto al piccolo edificio centrale contiene rivelatori di particelle che appartengono al chimico dell’atmosfera William Zoller. Vi sono pompe che succhiano avidamente l’aria, a un ritmo di 50 litri al minuto. Un anno dopo l’altro, Zoller può dirvi

quando in Cina ha inizio l’aratura. In Giappone la chiamano “polvere gialla”, Zoller la chiama “polvere del deserto di Gobi”. Fra i vari prodigi di sensibilità ambientale si trovano una tettoia e un serbatoio verde. Questo contiene una riserva di 4000 litri d’acqua a disposizione dei tecnici che fanno funzionare l’osservatorio. « Non la beviamo... Non sappiamo che cosa ci sia in fondo » mi disse Chin, senza ironia. « La usiamo solo per lavarci le mani. » Sopra tutto questo si erge la torre. È di gran lunga la struttura più alta sul Mauna Loa ed è stata eretta dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) americana: un’intelaiatura di tubi di alluminio simile a quelle su cui giocano i bambini ai giardini pubblici, con scalette di alluminio che salgono a zigzag verso il cielo. Proprio in cima alla torre, 40 metri sopra l’osservatorio, l’aria più pura del mondo viene aspirata attraverso un tubicino di alluminio e convogliata ai rivelatori dell’anidride carbonica che sono collocati in basso, nell’edificio. Tra questi rivelatori funziona ancora

la scatola nera che Keeling acquistò durante 1’ Anno Geofisico Internazionale e che non ha mai permesso di sostituire. « È un uomo molto cauto » disse Chin. « Molto pignolo nella ricerca. Con lui le cose devono essere fatte proprio come vuole, senza spostarsi di una virgola. Non si può cambiare niente, nemmeno una parte di un tubo di aspirazione, senza eseguire, tassativamente, controlli su controlli. »

Di recente vi erano state decine di chiamate telefoniche a proposito della nuova torre. Keeling voleva che Chin facesse scorrere un mucchio di aria in ogni nuovo tubo di aspirazione prima di collegarlo all’analizzatore di gas. « Non faccio altro che pompare aria, giorno e notte. Poi prendo il telefono e gli domando: ‘Ora posso collegare i tubi nuovi?” Credo che sia una di quelle persone che la gente definisce superpignole. Non c’è niente da fare: lo è di natura. » Keeling aveva appena dato a Chin il permesso di collegare un segmento di tubo d’alluminio dalla nuova torre ai rivelatori dell’anidride carbonica.

Ora voleva sapere esattamente quanto tempo era necessario perché un campione d’aria, passato attraverso le valvole, arrivasse all’edificio principale e perché la rilevazione fosse registrata sui rotoli di carta millimetrata dei computer. Chin aveva proposto di fare un esperimento. Il sole stava abbassandosi nel cielo quando incominciai a salire le scalette 92

della torre, ma mi colpiva ancora la nuca come una mazzata. (Secondo il radiometro rivelatore degli ultravioletti, questo tipo di radiazione è più energico sulla cima del vulcano che alla base: lo strato di atmosfera capace di filtrarla è molto ridotto, lassù.) Iniziai la scalata troppo in fretta e dopo appena tre metri ero già senza fiato. Sul vulcano vicino, il Mauna Kea, vi sono osservatori dove spesso salgono a lavorare gli astronomi. Per qualche notte: perché poi cadono svenuti sul pavimento del locale dov'è il telescopio. « Quassù io perdo il dieci per cento dei miei circuiti mentali » mi aveva detto un tecnico mentre salivamo in macchina all’osservatorio del Mauna Loa. « Resterà sorpreso. Non ricorderà molto della visita che sta per fare. E non sarà neanche capace di rileggere i suoi appunti. » Mi sedetti per un momento su un gradino e scribacchiai appunti finché non mi tornò il fiato. Quella pagina è una casuale imitazione di una poesia in versi liberi: “Arduo camminare...

Il respiro fuoriesce rumoroso... lo sento forte nelle orecchie... come fossi un tuffatore... un lungo lento affanno...”

La prima valvola ad aspirazione era a una decina di metri di altezza, montata fuori della bassa ringhiera. Per raggiungerla, dovetti mettermi a cavalcioni della ringhiera e sporgermi pericolosamente sulla bocca del vulcano. Soffiai dentro la valvola come si fa quando si prova un microfono. Poiché mediamente il fiato umano contiene qualche migliaio di parti per milione di anidride carbonica, un soffio inviato anche da una distanza di pochi centi-

metri dalla valvola avrebbe influito molto notevolmente sugli analizzatori giù nell’edificio principale. Mi arrampicai fino alla valvola posta a 18 metri e vi soffiai dentro con tutte le mie energie. Poi feci altrettanto a 24 metri. L’aria era così tersa e trasparente che dalla cima della torre l'osservatorio sottostante sembrava un giocattolino meccanico, un modellino di treno cui mancassero molti pezzi. La strada scendeva verso le pendici del vulcano senza che vi fosse, secondo me, alcuna diminuzione percettibile della lumi-

nosità. Un occhio d’aquila avrebbe potuto distinguere migliaia di pali della luce ai lati della strada del Mauna Loa, attraverso tutto il deserto di lava. Sull’altro fianco della valle, la parte superiore delle bianche cupole dell’osservatorio astronomico del Mauna Kea aveva assunto una sfumatura rosea simile a quella che prendono in certe ore le Dolomiti. Da una di quelle bianche specole un astronomo ha avvistato, non molto tempo fa, la galassia più

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lontana che ci sia nota nell’universo. « Ehi! » gridò John Chin. « Lo faccia ancora una volta! » «D'accordo. Quando abbasserò il braccio vorrà dire che l’ho fatto. »

« OK! » Chin era all’ombra della tettoia di alluminio, e osservava alternativamente me e il proprio cronometro. Soffiai dentro il tubo di aspirazione, chinandomi sulla ringhiera per metterci più energia. Poi abbassai il braccio sinistro. Chin si precipitò nell’edificio principale. Era strano trovarsi soli lassù. Tutt’intorno non c’era pressoché nient’altro che litosfera, litosfera appena nata, nerissima, fin dove arrivava lo sguardo. Sopra la testa avevo il familiare pennone blu dell’organizzazione, e all’orizzonte era rimasta meno della metà della sfera di fuoco. Uno dei paesaggi più astratti che avessi mai visto. Sembrava Marte. Dalla scena mancavano parecchie sfere e io mi trovavo a essere, in quel momento, l’unico rappresentante della mia specie e di tutta la biosfera. Come in una sorta di raffigurazione schematica della nostra situazione sul pianeta, le molecole di anidri-

de carbonica, cui non importava di provenire dalla litosfera piuttosto che dall’atmosfera o dalla biosfera, o dalla sfera umana,

seguitavano a fluire

lungo il tubo di alluminio, che io lo volessi o no. Gettai giù qualche impressione — « Faccio anch’io parte dell’esperimento » — che sono riuscito a decifrare ma che non riporto. Nell’edificio principale, Chin fece scattare il cronometro. Il mio respiro aveva impiegato un minuto e cinquanta secondi per percorrere 90 metri di una tubazione di alluminio nuova e far sussultare i pennini del vecchio strumento di Keeling. « Non male... Anzi, va bene! » mi gridò Chin da sotto. Poi lanciò un altro urlo. « Il dottor Keeling si arrabbierà! Il dottor Keeling dirà che è ora di smetterla di divertirsi... » Le future generazioni si domanderanno come abbiamo fatto a vivere per tanto tempo sotto un vulcano senza far nulla. La ragione è che non sapevamo che cosa significasse, quel vulcano. Gli scienziati hanno tardato a metterci in guardia, e noi abbiamo tardato a dar loro ascolto. Al tempo in cui salivo la scaletta di quella torre mi occupavo di scienze della Terra da vari anni. Da un anno stavo raccogliendo materiale per questo libro. Avevo trascorso una settimana nei laboratori di Keeling, e molte settimane in molti

altri. È strano confessarlo, ma il problema del cambiamento globale era rimasto un sentire dire, o una minaccia astratta, finché non salii sulla torre.

In quel momento ogni elemento si incastrò nell’altro e tutto mi divenne chiaro: che l’anidride carbonica sta accumulandosi

nell’atmosfera,

e che

ciascuno di noi ne porta la responsabilità. In quel momento mi si affacciò alla mente l’idea che l’effetto serra possa essere proprio una realtà.

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Qualche settimana dopo mi arrivò una busta da parte di Chin. Conteneva un foglio di tabulato. Era una registrazione fatta sul Mauna Loa, solo un pezzetto.

« Aloha! » scriveva Chin. « Ecco il suo respiro: circa 378 ppm di CO:. » Per me, era stata una grande esperienza. Per tanti altri, era soltanto l’estate del 1988.

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6 La prima estate del Terzo millennio Non esiste legge storica per cui un nuovo secolo debba iniziare dieci o vent'anni prima del tempo, ma... così si è verificato. TOM WOLFE, Orazione funebre in onore del XX secolo

Domenica 10 luglio 1988, alla stazione meteorologica nel cosiddetto “castello” del Central Park di New York, la massima della giornata fu di 37,5 °C. L’umidità relativa era del 93 per cento alla una del mattino. Quella giornata concludeva una delle settimane più calde a memoria d’uomo. I tassisti potevano materialmente sentire le ruote delle loro auto affondare nell’asfalto in mezzo alla Quinta Avenue. Innumerevoli condizionatori d’aria si erano guastati in tutta la città e Ira Parker, l’addetto alle vendite di questi elettrodomestici all’Uncle Steve Electronic Store, si sarebbe presto messo a ridere in faccia ai clienti. « Ho venduto gli apparecchi che tenevo per le dimostrazioni » diceva. « Ho venduto quelli che avevo in vetrina. Ho venduto perfino le fotografie dei condizionatori... » Nessun sollievo ad andare in spiaggia. Le rive di Long Island e del New Jersey erano insozzate da un’ondata di liquami e rifiuti solidi provenienti dalla rete fognaria della City. I bambini che giocavano sulla battigia trovavano sparsi qua e là rifiuti ospedalieri, guanti di gomma, siringhe infettate dal virus dell’ AIDS. Per la polizia e i criminologi il numero di giorni consecutivi con temperature massime superiore a 32 °C è un buon elemento per prevedere esplosioni di violenza e criminalità urbana. Quella settimana, le massime erano state 33 °C mercoledì, 33,5 giovendì, 36 venerdì, 31 sabato. E quel fine settimana, nelle cinque circoscrizioni della metropoli, oltre 35 persone furono uccise a revolverate, o a coltellate, o strangolate, o massacrate di percosse. Nel Sud degli Stati Uniti, il caldo stava bloccando la crescita del cotone. Nel Midwest, la siccità uccideva il grano, il mais, il sorgo, la soia, ed era

chiaro che quest'estate sarebbe stata la peggiore dopo l’anno del Catino di

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Polvere. Alcune cittadine dello Iowa soccombettero economicamente, quell’estate del 1988. Nel West e nel resto del Paese quasi due milioni e mezzo di ettari di vegetazione andarono in fiamme: i peggiori incendi boschivi mai registrati. A combatterli andarono 30.000 persone, ivi compresi gruppi di detenuti che furono fatti affluire in volo, sotto scorta, dalle carceri californiane.

La portata del 95 per cento dei grandi fiumi degli Stati Uniti diminuiva. Il livello del Mississippi si abbassò al punto che migliaia di chiatte finirono in secca, ed emersero vecchi relitti: battelli con la ruota a pale risalenti all’epoca d’oro della navigazione fluviale, e (in un tributario del cosiddetto “Gran fiume fangoso”) gli scheletri di tre navi che presero parte alla Guerra Civile, la Dot, la Charm e la Paul Jones, fatte affondare dai sudisti quan-

do si ritirarono da Vicksburg nel 1863. Morì il grano in Canada e nell’Unione Sovietica, morì il riso nella Re-

pubblica Popolare Cinese. In Cina (il 1988 era per i Cinesi l’anno del drago) andarono perdute oltre 10.000 vite umane e 500.000 case d’abitazione per colpa della siccità, di alluvioni, tifoni e grandinate mai viste. Shanghai in luglio era ancora peggio di New York: più di un milione di persone furono colte da malori a causa del caldo. Nella Penisola dello Yucatan, interi villaggi e spiagge furono spazzati in mare dall’uragano Gilbert, il peggiore del secolo fino ad allora. Si ebbero piogge torrenziali e improvvise devastanti alluvioni in India, Nigeria, Gambia, Mali, Burkina Faso e Sudan. Nel Bangladesh, le inondazioni sommer-

sero tre quarti dell’intero territorio. A settembre, il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite chiese che fossero donate 300.000 tonnellate di aiuti alimentari per far fronte a quella serie senza precedenti di emergenze ecologiche. La siccità fu particolarmente dura nel Nordamerica. La peggiore dagli anni Trenta. Ancora una volta, come ai giorni del Catino di Polvere, in stati come

Montana,

Nebraska,

North Dakota,

Kansas,

Texas gli agricoltori

stettero a guardare le grandi nubi nere all’orizzonte: la loro grassa, buona terra che volava via. Il Servizio per la Conservazione del Suolo del Ministero dell’Agricoltura statunitense calcolò che quasi 5 milioni di ettari di terreno agricolo erano stati danneggiati dall’erosione eolica: questo al 1° giugno 1988. Giovenche da concorso e vacche gravide dovettero essere svendute e mandate al macello perché c’era troppo poca erba per nutrirle. Nella prima settimana di luglio il Midwest era così caldo e arido che quando quattro gocce d’acqua caddero a Kansas City nel Missouri durante il nono inning di

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una importante e incerta partita di baseball, mentre i Kansas City Royals stavano rimontando lo svantaggio che li separava dai Chicago White Socks, i 23.000 spettatori non imprecarono contro la pioggia. Si alzarono ad applaudirla, invece.*

La siccità negli anni Trenta aveva provocato la penosa emigrazione dei contadini dell’Oklahoma, ridotta alla fame; verso la California, un’epopea

che avrebbe ispirato a John Steinbeck il romanzo Furore e forse in parte anche T.S. Eliot nel “Little Gidding”: “Polvere sospesa nell’aria segna il luogo ove una storia finì. Polvere, inspirata, era una casa...

il muro, il legno dentro, il topo. La morte della speranza e della disperazione: questo è la morte dell’aria.”

In luglio, il presidente Reagan, nel pieno del Grande Secco, fu fotografato in un campo di mais dell’Illinois. I fusti del granturco, che a quell’epoca dell’anno avrebbero dovuto essere più alti della sua testa, gli arrivavano sì e no alla vita. Presos Vicksburg, nel Mississippi, un contadino e i suoi figli si misero a rovistare i relitti delle navi dei confederati emerse dal fiume colpito da una impressionante magra, in cerca dell’oro che si favoleggiava vi fosse quando le unità si erano autoaffondate. Arrancando sotto i salici della riva del Grande Fiume Nero, ai margini della loro fattoria, estrassero dalla

fanghiglia intere cataste di rami spezzati. Trovarono infine qualche tubo metallico appartenuto a una sala macchine, e un flacone per medicine sul quale si leggeva ancora, miracolosamente, un’etichetta che diceva “ Antidoto contro febbre comune e malarica”. La gente era conscia di vivere una sciagura storica. Nella contea di Custer, nel Montana, un certo John L. Moore portò i due figli, ancora quasi

bambini, in cima a una collina e indicò loro tre incendi boschivi scoppiati nelle badlands a sud di Miles City e dai quali si levava un nube di fumo nero. « Ricordatevi di questo giorno » disse Moore ai ragazzi. « È una cosa che racconterete ai vostri figli. » Ma fu l’agosto il mese più crudele, nell’estate del 1988. Ecco un brano * Il caldo rese pericoloso anche il baseball, quell’estate. Uno studio degli psicologi dell’Università del Michigan ha dimostrato che quando la temperatura in uno stadio supera i 32 °C, è più frequente che i lanciatori, per difetto di mira, colpiscano alla testa i battitori avversari.

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dal bollettino mensile del National Weather Service di Minneapolis: « È continuato il caldo eccezionale. La massima di 33 °C del 3 ha portato a 37 que-

st’anno il numero di giorni con massime superiori ai 32 °C, superando il livello record del 1936... il più caldo periodo estivo mai registrato... nuove temperature record segnalate in agosto: 38,3 °C il 1°... 37,5 °Cil2... ancora 37,5 °C il 16. »

Durante le peggiori giornate di quell’agosto, le fabbriche di Detroit sospesero il lavoro alle catene di montaggio. L'Università di Harvard annullò i corsi estivi e chiuse, a causa del caldo, per la prima volta in 352 anni di vi-

ta. A New York City, che a metà agosto aveva già avuto 32 giorni con massime superiori ai 32 °C, vi furono 200 omicidi, con un aumento di ben il 75

per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, e anche questo fu un primato. Gli americani spesero mezzo miliardo di dollari in più per far funzione i condizionatori d’aria, refrigerati con freon.

La Chubb Corporation, quel mese, si trovò alle brusche con molti agricoltori per le “assicurazioni pioggia”, come erano chiamate le polizze contro i danni causati dalla siccità. La compagnia aveva respinto migliaia di nuove domande di contratto e di assegni con i premi spediti dai clienti, e offriva a migliaia di altri clienti 2500 dollari a testa purché recedessero dai

contratti già stipulati. i Reagan firmò un progetto di legge che prevedeva lo stanziamento di 3,9 miliardi di dollari per aiuti all’agricoltura, ed elogiò lo “spirito indomito” dei contadini. La Divisione Sementi nordamericane della Pioneer Hi-Bred International Inc., la più grossa società del mondo nella produzione di sementi, si affannò a creare in fretta e furia nuove piantagioni di mais — principalmente in Sudamerica — per recuperare il mais perduto e provvedersi in tempo di semi da piantare nella campagna dell’anno successivo. Alla Fiera dello Stato dell’Illinois, svoltasi a Springfield, il giudice della sezione giovanile del Dipartimento dell’ Agricoltura distribuì nastri azzurri in premio ai più bei pomodori, cavoli, carote e melanzane coltivate dai bambini. «In un’annata normale » disse a un giornalista, quando i bambini interessati non

erano lì ad ascoltare « queste stupidaggini non sarebbero state neanche prese in considerazione. » E ancora quell’agosto, a Yellowstone, le fiamme alimentate da un vento

che soffiava a 80 km/h arrivarono a soli 8 chilometri dal famoso geyser Old Faithful (il “Vecchio fedele”). Risparmiarono l’albergo Old Faithful Inn, ma distrussero qualche decina di altri edifici sparsi nel parco. Fatti i conti, si costatò che quell’anno nel Parco di Yellowstone erano rimasti danneggia-

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ti, quasi 4000 ettari di foresta, ossia metà del parco, una superficie almeno 45 volte superiore a quella mai colpita in precedenza dal fuoco. In un certo senso, quell’incendio nel più antico parco nazionale degli Stati Uniti era già iniziato un secolo prima, con l’Esplosione Pionieristica. Già intorno al 1900, l’indiscriminato abbattimento degli alberi per procurarsi legname da costruzione provocava in tutto il Nordamerica incendi senza precedenti. Uno di questi, nell’estate calda e secca del 1894, aveva costretto l’intera cittadinanza di Hinkley, nel Minnesota, a correre nel fiume per salvarsi la vita. (« ...il cielo diventò rosso » scrisse un testimone « e sembrava

che tutta la terra fosse stata immersa nel sangue. ») Perciò, quelli del Servizio Forestale hanno passato la maggior parte del XX secolo a tentare di prevenire gli incendi boschivi. Grazie al successo della loro opera, nelle foreste si è venuto a creare uno squilibrio. Non es-

sendovi più brevi, piccoli fuochi a ripulire il sottobosco, strati su strati di rami e foglie caduti si sono accumulati nei parchi nazionali a un ritmo di circa 1 tonnellata l’anno per ettaro. Finalmente, nei primi anni Settanta, il Servizio Forestale ha deciso che sarebbe stato meglio modificare la propria politica e lasciare che piccoli incendi controllati elmiminassero il mantello di foglie e humus, nel timore di qualche grosso incendio improvviso e indomabile. Come quello che si verificò, nel 1988.

Il vento sospinse l’enorme fumata da ovest verso est. A St. Louis gli addetti alle previsioni meteorologiche chiamarono il fenomeno “sole fumoso”. A Chicago, per questa ragione si ebbero memorabili tramonti. Guardando i notiziari televisivi, si sarebbe detto che l’intero continente stesse andando a fuoco. Presso Livengood, in Alaska, un altro incendio che di-

vampò su una superficie di oltre 129.000 chilometri quadrati si estese a poco più di 10 chilometri dal grande oleodotto transalaskano. Nel Montana le fiamme arrivarono a un miglio da un silo per missili prima di cambiare direzione. È stato spesso detto che, nel caso di un riscaldamento globale, vi sarebbero perdenti e vincenti. Vi furono alcuni vincenti infatti, nell’estate del 1988.

Fu una buona stagione per il tabacco, che è una pianta robusta. Fu una buona estate per la società Accu-Weather, che si occupa di previsioni meteorologiche. Fu una buona estate per i contributi finanziari offerti ai gruppi ambientalisti. Fu un’estate eccezionalmente prospera per i fabbricanti di condizionatori d’aria: vendettero 4 milioni di apparecchi, e non riuscivano a te-

ner dietro alla domanda. Fu un'estate molto attiva per Robert Haack, un entomologo che lavorava 100

per il Servizio Forestale statunitense nella stazione forestale sperimentale della regione del Centro-Sud, a East Lansing nel Michigan. Haack studia i suoni, acuti, che gli alberi emettono quando soffrono per la siccità. I vasi che normalmente assorbono l’acqua dal terreno incominciano a rompersi con uno schianto secco, e le piante gridano, letteralmente, per il bisogno di acqua. Haack pensa che questi suoni possano essere captati da certi coleotteri degli Scolitidi che infestano la corteccia degli alberi. Nell'estate dell’88, ebbe molti alberi pieni di insetti e torturati dalla siccità di cui registrare i lamenti che avevano attirato i predatori. Fu un'estate fruttuosa anche per gli insetti. Gli Scolitidi cui abbiamo accennato uccisero cedri, pini e abeti. I Buprestidi, altri coleotteri, uccisero

querce e betulle. I bruchi prosperavano tra le foglie secche. Tutti gli scavatori, a cominciare dai Buprestidi, scavarono milioni di quelle loro lunghe e caratteristiche gallerie che richiamano strani geroglifici incisi sotto la corteccia dei tronchi caduti, nei boschi. Insomma, dice Haack, «le foreste di gran parte del Paese venivano lentamente rosicchiate a morte ». Robert H. Mohlenbrock, un botanico della Southern Illinois University,

aveva letto di certi notevoli adattamenti di cui si era dimostrata capace la vegetazione erbacea della prateria durante il periodo del Catino di Polvere, negli anni Trenta. Non resta più molta prateria vergine nell’Illinois, ma nell’estate dell’88 Mohlenbrock andò in macchina fino alla Goose Lake Prairie, un tratto di prateria rimasto intatto, presso Joliet, per vedere come si

comportavano le piante locali. Scoprì che le foglie di certe erbe indigene si erano arrotolate su se stesse, con la pagina superiore alcune in alto, altre in basso. Gli stomi — i pori — erano tutti dalla parte interna, e così le foglie riducevano la perdita d’acqua anche del 95 per cento. L’erba della prateria se la cavò bene nell’estate dell’88. Ma non è che ce ne sia ancora molta. Fu una buona estate per i piccolissimi aracnidi chiamati “ragni rossi”, perché il caldo uccise la muffa che ne impedisce l’eccessiva proliferazione, cosicché poterono fare scorpacciate di semi di soia nelle coltivazioni dello Iowa. Quell’estate provocò il calo annuo più marcato che si sia mai avuto nelle scorte mondiali di cereali, a beneficio di quegli agricoltori che la siccità aveva risparmiato. Con i prezzi cerealicoli che erano andati alle stelle, il multimiliardario brasiliano Olacyr de Moràes, di San Paolo, il maggior coltivatore di soia del mondo, nel 1988 realizzò utili del 50 per cento superiori a quelli dell’anno prima. L’agricoltura argentina fu così produttiva e remunerativa, grazie all'aumento generalizzato dei prezzi, che il reddito derivante dalle esportazioni di cereali si raddoppiò. In una località dello Iowa nord-

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occidentale cadde abbastanza pioggia. E gli agricoltori locali guadagnarono un dollaro in più per ogni bushel (36,347 1) di granturco che portarono coi camion ai silos granari delle contee di Ida, Cherokee,

Buena Vista, Sac,

Carroll e Crawford. E fu una gran buona estate per l’umorismo amaro. Roger L. Welsch, uno studioso del folklore del Nebraska, andò a ripescare vecchie battute di spirito che erano state raccolte nel Catino di Polvere da un gruppo del Federal Writers Project negli anni Trenta. La rivista Natural History ne ristampò un certo numero, del tipo: « C’era una tale siccità nella contea di Sherman che

ho visto due alberi battersi per un cane », o: « Là dove abito mi è capitato di lasciarmi sfuggire la mia miglior catena per legare i tronchi dentro una crepa in mezzo all’aia dietro il fienile. Sono andato la mattina dopo a vedere se riuscivo a recuperarla e, perdiana, quella crepa era diventata così profonda che potei sentire lo sferragliare della catena che stava ancora cadendo », o:

«È piovuto da noi martedì. Sette centimetri: volevo dire una goccia ogni sette centimetri... ». Non fu soltanto l’anno più caldo di cui si abbia notizia per l’intero pianeta. Fu anche il primo anno in cui tutti incominciammo seriamente a domandarci se non stessimo provando l’effetto serra sulla nostra pelle. Se i modelli erano giusti, allora significava che stavamo passando un’estate di quelle previste come tipiche nel XXI secolo. Se i modelli erano giusti, ripeto, allora la gente, guardandosi indietro, un giorno avrebbe potuto definire quella del 1988 la prima estate del terzo millennio. Nel centro di Washington, il 23 giugno, la temperatura toccò i 38,5 °C. Un consesso di climatologi illustri, comprendente James Hansen, della NASA; Syukuro Manabe, del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton; Michael Oppenheimer, uno dei direttori scientifici del Fondo per la Difesa dell’ Ambiente, e George Woodwell, direttore del Centro di Ricerche di Woods Hole, era radunato, in una sala dotata di ottimo condiziona-

mento dell’aria, a un isolato dalla cupola del Campidoglio. La sala era pieno di giornalisti. Tre telecamere erano in azione. Il resoconto dei lavori è stato pubblicato dallo U.S. Government Printing Office. UDIENZA svoltasi davanti alla Commissione per l’energia e le Risorse Naturali. Senato degli Stati Uniti. Prima sessione sull’effetto serra e le modificazioni climatiche globali. 23 giugno 1988

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L’udienza Louisiana.

era presieduta dall’on.

J. Bennett Johnston,

senatore della

« PRESIDENTE: Dichiaro aperta la seduta. « Lo scorso novembre, tenemmo udienze preliminari circa il problema del riscaldamento del globo e dell’effetto serra. Sentimmo con un misto di incredulità e preoccupazione il dottor Manabe esprimere il suo parere scientifico che l’effetto serra avrebbe portato a un graduale inaridimento delle regioni sud-orientali e medio-occidentali del Paese... Oggi, le parole del dottor Manabe e di altri esperti ascoltati... stanno diventando non solo fonte di preoccupazione, ma di vero e proprio allarme. « Abbiamo solo questo pianeta a disposizione. Se con i nostri pasticci lo mandiamo in rovina, non abbiamo nessun altro posto dove andare. »

Il senatore Kent Conrad, del North Dakota, disse che aveva trascorso il

fine settimana nel proprio stato, dove «i pascoli sembravano un paesaggio lunare ». Il suo collega Dale Bumpers, dell’ Arkansas, rammentò all’udito-

rio che il primo a deporre sarebbe stato James Hansen, uno degli studiosi che di recente avevano dimostrato che la Terra si andava riscaldando ormai da un secolo. Disse poi ai giornalisti che quanto Hansen avrebbe dichiarato quel giorno « dovrebbe comparire con grossi titoli su tutti i giornali di domani ». Quando venne il suo turno, Hansen passò in rassegna le prove del secolare riscaldamento globale. E poi lo disse: « Queste prove, nel loro insieme, a mio avviso dimostrano che l’esistenza dell’effetto serra è stata definitivamente accertata, e che già ora esso sta cambiando il nostro clima. »

Finora, questo gli scienziati se l’erano detto in privato. Era la prima volta che uno di loro, un uomo responsabile e di gran valore, lo dichiarava ufficialmente e pubblicamente. In quell’ambiente, e con l'eccezionale ondata di caldo in corso, le sue parole furono come lo scoppio di una bomba. Il senatore Bumpers aveva ragione circa i titoli dei giornali. Sul New York Times comparve in prima pagina il titolo, a caratteri cubitali: IL RISCALDAMENTO GLOBALE È INCOMINCIATO, DICE UN ESPERTO AL SENATO. Sul Philadelphia Inquirer: UNO SCIENZIATO: L'EFFETTO SERRA È ALL’OPERA. Sul Providence Journal: È ARRIVATO L’EFFETTO SERRA. Milioni di persone sentivano parlare di questo fenomeno da quando la grande siccità dell’88 era incominciata. Era stato annunciato come una minaccia che si profilava in un prossimo futuro. « Ma ‘predestinato’, ‘futuro’, ‘incombente’, ‘predetto’, ‘atteso’, ‘proiettato’... sono aggettivi che fanno

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notizia su pubblicazioni come Nova, non sull’Evening News », come osser-

vò quell’anno lo scrittore Bill McKibben in un articolo (« Il mondo diventa più caldo? », apparso nella New York Review of Books). Dopo le dichiarazioni di Hansen, l’effetto serra fu spiegato e rispiegato in ogni altra edizione dei giornali e in ogni notiziario meteorologico. Smise di essere un timore più o meno remoto per diventare un problema attuale e drammatico. Il cambiamento globale era un fatto della nostra vita. C’è una bella differenza fra un clima torrido previsto per un mondo a venire e un clima torrido che proviamo direttamente, adesso. Non sorprende che l’uomo della strada — con le strade che ribollivano a 39 °C — incominciasse presto a parlare di « un fosco presagio », « un senso di catastrofe imminente ». E il pensiero che potevamo essere stati noi stessi la causa del clima torrido rendeva il caldo anche più opprimente. Perché se eravamo stati noi a provocarlo, quel caldo tremendo era una sorta di punizione, e si sa come abbiamo

sempre immaginato che debba essere l’Inferno. Negli Stati Uniti, l’ondata di calore veniva ad aggiungersi al peggiore smog saturo di ozono che si fosse mai registrato, alla peggiore sporcizia vista sulle spiagge a memoria recente, e anche a un preoccupante allarme lanciato dall’ente per la Protezione dell’ambiente sul pericolo di contaminazione da radon all’interno delle abitazioni. Quell’estate trasformò tutti in ambientalisti, almeno per il tempo che durò la canicola. Era anno di elezioni e per la prima volta nel decennio il problema ambientale divenne oggetto di un acceso dibattito politico. I candidati alla presidenza degli Stati Uniti tennero comizi sull’effetto serra. George Bush disse a Erie Metropark, nel Michigan, il 31 agosto: « Quelli che pensano di non essere in grado di fare nulla contro l’effetto serra, dimenticano l’‘effetto Casa Bianca”. Da presidente,

intendo combatterlo ». Bush si impegnò a indire una conferenza internazionale sull'ambiente alla Casa Bianca entro il primo anno del suo eventuale mandato. « Discuteremo del riscaldamento globale. Discuteremo delle piogge acide. Discuteremo i modi per salvare gli oceani e per impedire l’ulteriore distruzione delle foreste tropicali. E agiremo di conseguenza » disse. E soggiunse: « Il 1988, in un certo senso, è l’anno in cui la Terra ha reagito alle nostre offese ». Il settimanale Newsweek dedicò due copertine ai problemi dell’ambiente: una alle spiagge sporche e l’altra all’effetto serra. Time, anziché scegliere “l’Uomo dell’Anno”, alla fine dell’88 proclamò la Terra “Pianeta dell’ Anno”. Intanto, la paura dell’effetto serra aveva contribuito a rilanciare il movimento ambientalista negli Stati Uniti. L’ambientalismo del passato, che si era praticamente esaurito prima del 1980, non si occupava di effetto serra. 104

Il nuovo movimento ha avuto come punto di partenza proprio l’effetto serra (e se le previsioni di riscaldamento globale si dimostreranno esatte potrà svilupparsi ancora a lungo conducendo questa battaglia). Come disse il senatore del Montana Max Baucus durante i lavori della commissione di cui abbiamo descritto l’inizio poco fa: « Ho la sensazione che ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale. Qualcosa di analogo a un sollevamento di zolle tettoniche ». Sfortunatamente, questo metaforico sollevamento di zolle era in parte dovuto a un’erronea quanta diffusa idea del pubblico a proposito dell’effetto serra e del significato di quell’estate 1988. All’udienza della commissione senatoriale del 23 giugno, il rappresentante del Colorado Tim Wirth, autore di un importante disegno di legge contro l’effetto serra, voleva ottenere testimonianze quanto più possibile drammatiche. Nel rivolgere i suoi quesiti agli esperti convocati, mirava a provocare un’aperta dichiarazione che era l’effetto serra a far grondar sudore alla gente che in quel momento stava in giro per le strade. « SENATORE WIRTH: Io credo che la domanda che ognuno si fa oggi, con tutto il caldo e quello che sta succedendo nel Middle West e nel Southwest e così via è [se] l’attuale ondata di calore, con la siccità che l’accompagna, abbia rapporto con l’effetto serra. In secondo luogo, si vorrebbe sapere quanto lei sia sicuro della sua risposta. (RISATE FRA IL PUBBLICO.) »

Ora, Hansen non aveva dichiarato che la torrida estate del 1988 era una conseguenza dell’effetto serra. Aveva parlato di un aumento delle temperature avvenuto nel XX secolo, e soprattutto del loro rapidissimo incremento negli ultimi trent'anni. «DR. HANSEN: Be’, in realtà ho esplicitamente dichiarato che non è possibile imputare una determinata siccità all’effetto serra. È possibile dire - o almeno è quanto i nostri modelli matematici del clima sembrano indicarci - che l’effetto serra ha effetti sulle probabilità di avere una siccità. » « SENATORE WIRTH:

Allora, Lei direbbe che l’ondata di caldo e la siccità sono

collegati all’effetto serra. Non è così?. » «DR. HANSEN: Sì. Se si prende in considerazione un certo periodo di tempo, diciamo dieci anni, e il numero di periodi di siccità che si registra in quel periodo, sembra che questo numero possa esserre maggiore a causa dell’effetto serra. Ma la probabilità di avere una siccità in un particolare anno dipende dalla situazione meteorologica esistente all’inizio della stagione estiva, e questo è un fenomeno aleatorio sostanzialmente imprevedibile. Per cui non è possibile dire se l’anno venturo ci sarà 0

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no una siccità. Tutto quello che noi cerchiamo di dire è che una simile eventualità è in qualche misura più probabile rispetto a pochi decenni fa. »

Non andava bene. Il senatore non ammetteva che si dicesse « da una parte è così, dall’altra non lo è ». (A Washington nacque un detto: « Mi piacerebbe conoscere uno scienziato ‘da una parte”. ») « SENATORE WIRTH: Dottor Oppenheimer, vorrebbe provarci lei? O vorrebbe provarci un altro qualsiasi di voi scienziati? A me sembra che sia una domanda perfettamente logica, o no? Intendo dire: fuori di qui c’è il pubblico, il popolo cui dobbiamo dare una risposta. Sta diventando sempre più caldo... Dobbiamo questa siccità all’effetto serra? E a me sembra che dovrebbe essere possibile rispondere se sì o se

no. » «DR. OPPENHEIMER:

Penso che sia opportuno fare una specie di ricapitolazio-

ne, ribadendo che quanto hanno dichiarato Jim e Suki è che nessun episodio in sé,

nessuna siccità particolare, nessuna ondata di calore può essere ascritta esclusivamente all’effetto serra. Per cui a questa parte della domanda si può rispondere solo con un forse. »

Oppenheimer fece la sua ricapitolazione: cent'anni di progressivo riscaldamento, quattro record di temperatura planetaria battuti nel giro degli otto anni che erano appena trascorsi. «DR. OPPENHEIMER: ...Perciò, è ragionevole presumere che ci troviamo di fronte all’effetto serra. Che ci siamo dentro. Che il riscaldamento globale sia incominciato. Che il processo si sia avviato. Ma non credo che nessuno in possesso di tutte le sue facoltà mentali potrebbe affermare che vi sia un rapporto diretto con questo particolare evento climatico. » « SENATORE WIRTFH: Nessun altro di loro vuole esprimere un’opinione? Dottor Moomaw?... »

Naturalmente,

l’indomani mattina 50 milioni di persone si chinarono a

raccogliere i loro giornali davanti alla porta di casa. Erano le 7,30, il termometro segnava già 28 gradi e i titoli dicevano: IL RISCALDAMENTO

GLOBALE È INCOMINCIATO...

È ARRIVATO L’EFFETTO SERRA.

La gente, andando al lavoro — e adesso c’erano 30 °C — poteva solo pensare: « Dicono che è l’effetto serra ». In tal modo le udienze della commissione avevano suscitato lo.scalpore che i senatori si erano ripromessi di suscitare. Frattanto anche i colleghi degli scienziati ascoltati dalla commissione sparsi per tutti gli Stati Uniti raccolsero i loro giornali e, letti i titoli, decise-

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ro che a Hansen doveva aver dato di volta il cervello. Hansen, a proposito dell’aumento di temperatura avenuto negli ultimi trent'anni, aveva detto: «Le probabilità di un riscaldamento casuale di tale portata sono circa 1°1 per cento. Perciò possiamo affermare, con una sicurezza del 99 per cento, che il riscaldamento occorso in questo periodo di tempo rispecchia realmente una tendenza globale al riscaldamento ». Per qualche ragione, molti climatologi americani non capirono bene il senso di questa dichiarazione. Non capirono a che cosa Hansen si fosse riferito circa quelle 99 probabilità su cento di non sbagliare. Come tutti, pensarono che avesse dichiarato che l’effetto serra era stato la causa dell’andamento della temperatura negli ultimi cent'anni, o negli ultimi trenta, o della lunga e caldissima estate del 1988. Ora, il riscaldamento del pianeta può essere un evento puramente casuale — ancor oggi questa possibilità non può essere esclusa — e molti esperti del clima pensano che le probabilità che un cambiamento così importante sia casuale vadano considerate molto maggiori dell’1 per cento. Perciò, guardando soltanto alle statistiche delle temperature e non prendendo in considerazione nessun altro fattore, giudicano molto inferiori al 99 per cento le probabilità che il riscaldamento globale possa essere imputato all’effetto serra. Peraltro, molti di coloro che lavorano nello stesso campo di Hansen concordavano con lui sul fatto che probabilmente era incominciato un processo stabile di riscaldamento. E fra questi quasi tutti erano non meno convinti di Hansen che probabilmente il fenomeno avrebbe assunto un ritmo più rapido. Quasi tutti, poi, erano d’accordo che era passato anche troppo tempo senza che il mondo se ne rendesse conto. Quasi tutti lo dicevano... in privato. Può apparire strano che si irrigidissero su quel “99 per cento”. Ma gli studiosi pesano le probabilità allo stesso modo in cui Keeling pesa l'anidride carbonica. Fanno così, ed è per questo che il “99 per cento” di Hansen divenne immediatamente e scherzosamente proverbiale. Chi teneva una conferenza su qualsiasi argomento, dai fulmini venusiani ai brillamenti solari ai terremoti nel Sudamerica, era certo di poter strappare una risata ai colleghi, quell’estate, precisando: « Naturalmente non sono sicuro al 99 per cento ». E tuttavia Hansen fu contento di averlo detto. Dopo la testimonianza davanti alla commissione senatoriale dichiarò a un giornalista del New York Times: «È ora di smetterla di ciarlare a vuoto. Bisogna dire che vi sono prove più che sufficienti per affermare che l’effetto serra è arrivato ». Hansen, Stephen Schneider e altri ricorrono spesso alla metafora dei da-

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di. Fate ruzzolare un paio di dadi: i numeri bassi sono le estati fresche, i numeri alti quelle calde. Ai vecchi tempi, avremmo potuto avere uguali probabilità che uscisse un paio di uno, “gli occhiali”, cioè un’estate molto fresca, o due sei, il “pieno”, cioè un’estate molto calda. Ma immettere nell’atmosfera i gas dell’effetto serra è come truccare i dadi. Certe volte può ancora uscire un numero più basso, ma sicuramente aumentano le probabilità che esca il doppio sei, la lunga estate calda. Ogni anno, ora, noi trucchiamo un po” più di dadi, li “carichiamo” appesantendoli coi gas emessi sulle facce opposte ai numeri alti. Ogni essere umano vivente sul pianeta carica i dadi con oltre una tonnellata di carbonio all'anno. Negli Stati Uniti, facendo eccezione per i veri indigenti, è quasi impossibile non contribuire a questo fenomeno in modo massiccio. L’automobile americana media riversa ogni anno nell’aria l’equivalente del suo peso in anidride carbonica. Per cui si moltiplicano le possibilità di fare un doppio sei, e poi un altro doppio sei, così che la temperatura globale, nei prossimi decenni, tenderà probabilmente ad aumentare con rapidità. Supponiamo che fossimo noi a tentare di truccare i dadi. Non avendolo mai fatto, come potremmo verificare di essere riusciti nel nostro intento? Se

per prova gettassimo i dadi otto volte consecutive, e quattro volte uscisse il doppio sei, incominceremmo a pensare che i dadi sono stati “caricati” a dovere. Ma l’uscita di tutti quei doppi sei potrebbe essere stata una coincidenza. Uno statistico scrupoloso direbbe di gettare i dadi altre dieci o altre venti volte. Le cose stavano a questo modo, nel 1988. Nei precedenti cento lanci, i doppi sei erano usciti progressivamente con una certa maggiore frequenza, fino a far aumentare la temperatura media del pianeta di 0,5 °C. Era più o meno quanto ci si poteva aspettare da un graduale appesantimento di certe facce dei dadi. Durante gli anni Ottanta, quattro anni su otto erano stati i più caldi dall’inizio di regolari registrazioni delle temperature. Il che faceva pensare a dadi truccati. Però poteva ancora essersi trattato di coincidenza. « Per essere assolutamente,

scientificamente certi » come

disse Schneider

«occorre un maggior numero di anni caldi. » Il 1988 si rivelò il più caldo mai registrato anche rispetto al 1987 (un arrivo in fotofinish). Nessuno tuttavia poteva affermare che quell’estate torrida fosse dovuta all’effetto serra: non più di quanto si possa affermare con un solo lancio che i dadi sono truccati. Dopo i lavori della commissione il direttore di Nature, John Maddox, tornò a spiegare questo punto in un editoriale apparso sulla sua rivista. « Quello che il Congresso, come tutti noi, de-

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ve capire è che non sarà mai possibile rispondere affermativamente alla domanda: ‘E stato questo l’anno in cui ha cominciato, senza dubbio, a farsi sentire l’effetto serra?’. Il meglio che possiamo sperare è che sia possibile, retrospettivamente, prender nota che questo o quell’effetto climatico probabilmente è derivato da questa o quella influenza determinante ». SS

Prima che finisse l’anno, Kevin E. Trenberth,

direttore della Sezione

Analisi del Clima dell’NCRA, incominciò a far circolare estratti, anticipati rispetto alla pubblicazione, di un suo lavoro intitolato “Origini della siccità del 1988 nel Nordamerica”. Secondo l’analisi di Trenberth, la siccità rientrava nel quadro di un’oscillazione, una sorta di danza regolarmente eseguita da due danzatori, l’atmo-

sfera e l’idrosfera. Ogni cinque o sei anni, diceva Trenberth, il gioco dei venti e delle correnti marine spinge una grande massa di acqua insolitamente calda verso la costa pacifica dell’ America Meridionale. Questa massa di acqua calda è detto El Nino (“Il Bambino”) perché spesso si presenta davanti alla costa peruviana sotto Natale. Sembra che quest’acqua calda tocchi una specie di recettore di pressione nel sistema della circolazione globale __ forse perché va a situarsi proprio all'equatore, dove si incontrano i venti dell’emisfero boreale e di quello australe. In ogni caso, El Nifio è spesso così robusto da sconvolgere le condizioni climatiche in tutto il mondo, El Nifio ha anche una sorellina. Una massa, una chiazza di acqua anormalmente fredda si presenta a volte nello stesso punto dell’oceano. Nel 1988 la scoperta di questa nuova massa era ancora così recente che nessuno sapeva ancora bene come chiamarla: forse La Nifia (“La Bambina”). Anche La Ni-

fia può toccare quella specie di recettore di pressione, e rivoluzionare a modo suo la circolazione globale. Nel 1988, secondo Trenberth, accadde questo: la massa di aria fredda lungo le coste del Perù spostò il normale punto d’incontro dei venti dei due emisferi verso nord. I venti si scontrarono a sud-est delle Hawaii — dove di solito il tempo è sempre sereno — provocando una serie di grossi temporali, così grossi, in realtà, da sconvolgere gli alisei. Il che causò lo spostamento ancora più a nord della corrente a getto (una corrente velocissima, di direzione ovest-est, che si forma fra stratosfera e troposfera) dell’emisfero bo-

reale. Di norma questa corrente a getto è una sorta di provvido pastore che porta sul continente nordamericano le benefiche piogge primaverili ed estive.

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Ma, nel 1988, essa si spostò tanto a nord che una cellula calda di alta pressione avanzò da sud e venne a piantarsi proprio nel bel mezzo dell’ America settentrionale, bloccando per mesi l’arrivo delle piogge. Trenberth non trascurò di dire che quello scenario non escludeva l’esistenza dell’effetto serra. Come osservava nella sua comunicazione, l’effetto

serra « potrebbe turbare l’equilibrio in modo tale da facilitare l’instaurarsi di condizioni favorevoli a siccità e periodi di caldo afoso ». Lui, Trenberth,

aveva solo inteso ricostruire la lunga reazione a catena fra idrosfera e atmosfera che aveva causato quella particolare siccità. Durante tutta l’estate, però, la gente aveva creduto che gli scienziati le stessero dicendo: « È colpa dell’effetto serra ». Perciò, quando il lavoro di Trenberth apparve sulla rivista Science, i titoli dei giornali dell’intero Paese cambiarono radicalmente: L'EFFETTO SERRA NON È RESPONSABILE DELLA RECENTE SICCITÀ; GLI SCIENZIATI COLLEGANO LA SICCITÀ DEL 1988 A CICLI NORMALI NELLA FASCIA TROPICALE DEL PACIFICO; QUESTA VOLTA L’EFFETTO SERRA NON C’ENTRAVA: GLI ESPERTI DEL CLIMA SONO CONCORDI. Chiunque abbia capito la metafora dei dadi truccati può capire quanto questi titoli siano erronei. Per truccare un dado, per “caricarlo”, il baro mette un piccolo peso sotto la faccia opposta a quella che preferisce, che è generalmente quella col 6. Al momento del lancio, il dado cade sul tavolo in modo casuale, i suoi spi-

goli urtano e si ribaltano qua e là, mille forze entrano in gioco: non solo il peso messo nel dado, ma anche la forza e la traiettoria impresse nel lancio, le piccolissime irregolarità del piano del tavolo da gioco, il granellino di sabbia incontrato ruzzolando, perfino la minima corrente, il minimo spostamento d’aria nella sala. Supponete che gli addetti alla sorveglianza del gioco in un casinò di Las Vegas riprendessero il ruzzolio dei dadi lanciati dal baro con cinquanta telecamere, da cinquanta angoli visuali diversi e al “superrallentatore” grazie a un grandissimo numero di immagini al secondo, e che i dadi si fermassero sul doppio sei. Se gli addetti gli contestassero l’imbroglio, il baro potrebbe replicare che il peso nei dadi ha avuto poco a che fare con il doppio sei, e che ai fini di quel punteggio è stato invece determinante il granello di sabbia. Il baro avrebbe ragione. In ogni singolo lancio, il piccolo peso messo sotto la faccia del dado opposta al sei non è mai l’unica ragione, o anche solo la più importante, per cui esce il sei. Vi sono sempre altri fattori, più importanti del peso. Insomma, solo lanciando i dadi un gran numero di volte e costatando che il doppio sei si presenta più spesso di qualsiasi altra combi-

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nazione, si potrebbe avere la certezza che i dadi sono stati “caricati”. Dopo tutto, il pezzetto di piombo inserito nel dado non lo ha lanciato. Dipende dall’energia con cui il giocatore effettua il tiro l’uscita di un qualsiasi numero. Senza molti altri fattori — il palmo della mano, il lancio, il piano del tavolo — il dado non rotolerebbe. Se ne starebbe fermo sul tavolo, assolutamente inerte. Per cui il baro proclama la propria innocenza. Ma naturalmente è colpevole, si sa.

La stessa cosa avviene con il tempo atmosferico. L’effetto serra non fa rotolare la troposfera. Questa rotola e piroetta a causa del calore solare e delle temperature dei mari e dei continenti. I gas che noi stiamo immettendo nell’aria si limitano a “caricare” la troposfera, e secondo la teoria che ab-

biamo esposto rendono più probabile che si comporti in un modo piuttosto che nell’altro. Ammetto che sia stata una spiegazione un po” prolissa, la mia, dei titoli di giornali citati. Siamo portati, anche in fatto di previsioni meteorologiche, a vedere le cose in bianco o in nero. (Anche i dadi sono bianchi e neri, ma

hanno sei facce.) Finché era durato il soffocante caldo di quell’estate in America, nell'Unione Sovietica e in Cina, la domanda che tutti si facevano

era stata: “Che sia l’effetto serra?”. E tutti avevano creduto che la risposta fosse “sì”. Una volta arrivato l’autunno, e con esso presumibilmente anche la possibilità di ragionare a mente fredda, divenne altrettanto comune il

pensiero che la risposta fosse “no”. Era quello che suggerivano i nuovi titoli: “Dicono che non sia stato l’effetto serra”. Alla riunione autunnale del 1988 dell’ American Geophysical Union, svoltosi a San Francisco, si tenne una speciale seduta dedicata alla “Siccità dell’88”, com’era ormai chiamata normalmente. Fra coloro che presero la

parola vi era Jerome Namias, un meteorologo in pensione che per trent'anni aveva diretto la Divisione previsioni a lungo termine del National Weather Service statunitense. Per tutta la sua carriera, Namias aveva detto che potremmo prevedere il tempo su scala mondiale se dedicassimo più tempo e più denaro alla sorveglianza delle masse d’acqua calda o fredda del Pacifico. In quell’occasione, Namias affermò che la teoria di Trenberth, della reazione a catena innescata dalla chiazza d’acqua fredda poteva “spiegare in modo

soddisfacente”

quello che era successo,

“senza dover chiamare in

causa l’effetto serra”. Egli definì la siccità « un esempio classico delle interazioni fra mare e aria », e dell’effetto serra disse che era « un comodo capro espiatorio ». « L’effetto serra arriverà, non lo metto in dubbio, ma questa certezza non

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ci dice né dove né quando arriverà » dichiarò Namias. « Nego che sia presente adesso. » Gli umori dell’assemblea gli erano favorevoli. L’estate era finita, le teste si erano raffreddate, “al 99 per cento”. Gli esperti criticarono a turno le statistiche globali della temperatura e quelle relative al livello dei mari. (Nessuno si permette mai di mettere in dubbio l’esattezza delle statistiche dell’anidride carbonica curate da Keeling.) Era presente alla riunione anche William Kellogg, un climatologo da poco uscito dall’NCAR. Come Hansen, Kellogg era un veterano dello studio dell’effetto serra su Venere. Una volta aveva fatto da relatore a una conferenza internazionale sui mutamenti climatici indetta a Mosca dall’Organizzazione Mondiale di Meteorologia. Gli esperti sovietici affermavano che con ogni probabilità l’effetto serra era già in atto, e trovarono un po’ sconcertante la tendenza dei loro colleghi americani a negare l’evidenza. Questo accadeva nel 1982. Kellogg osservò i grafici computerizzati dei suoi colleghi con la rappresentazione delle masse d’acqua calda, d’acqua fredda, El Nifio, la Nina. Gli venne in mente la favola indù dei ciechi e dell’elefante. Lui sapeva che il riscaldamento globale inevitabilmente renderà ogni nuova ondata di calore peggiore della precedente, a prescindere dal fatto che la causa ne sia “Il Bambino” o “La Bambina” o altro. È proprio questo che rende pericoloso l’effetto serra. Esattamente la stessa cosa avviene per gli aumenti del livello marino causati da mareggiate. Se queste si verificano con la bassa marea, i danni sono limitati. Se vengono con l’alta marea i danni sono molto più gravi. Ma se il livello marino aumenta, anche la mareggiata che si verifica quando la marea è bassa può danneggiarci, e quella concomitante con l’alta marea può avere effetti disastrosi. Kellogg si alzò a parlare. Fece riferimento alla parabola indù. Disse che forse tutti stavano guardando differenti parti della stessa cosa. « La temperatura sta salendo, e questo non è un segreto » disse. « Quest'anno può essere indicativo del tipo di anno che avremo normalmente per effetto del riscaldamento globale. » Si levarono voci di protesta. Kellogg si difese. Nessuno intervenne in suo favore. Il giorno dopo, i giornali erano pieni di altri titoli: IL RISCALDAMENTO GLOBALE NON C'È ANCORA, DICONO GLI ESPERTI (San Jose Mercury News);

L'EFFETTO

SERRA

NON

HA

COLPA

DELLA

SICCITA (The Oregonian). E così la massa di acqua fredda nel Pacifico finì col disturbare solo per un attimo la corrente dell’opinione pubblica.

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Chiamai Kellogg dopo quella seduta. Non se l’era affatto presa. « Non capisco perché non possiamo dire che è stata una combinazione di cose a fare dell’estate quello che è stata » disse. « Succede sempre così, quando c’è di mezzo la meteorologia. » Ancora nel 1986, la maggior parte dei modelli della circolazione globale predicevano un aumento della temperatura di soli 2 0 3 °C, e non di 4 0 5.* La gente era incline a irritarsi per una simile previsione. « Ho fatto quella cifra in occasione di varie conferenze » mi disse un climatologo nel 1986. «Quando avevo finito di parlare, c’era sempre chi veniva da me a dirmi: ‘Tre gradi? Ma è la differenza che c’è già solitamente fra giugno e luglio, o da un giorno all’altro. Che differenza potrebbe mai fare?”. » Ma anche un cambiamento di 2 o 3 gradi non è piccolo, se si riferisce a tutto il pianeta e se dura decenni, o secoli. Tre gradi rappresentano un mutamento pari a quello che porterebbe a una glaciazione. Se durasse abbastanza a lungo, infatti, una diminuzione della temperatura di 3 °C darebbe inizio a una nuova epoca glaciale. : Nel cuore dell’ultima glaciazione, 20.000 anni fa, la temperatura media

del pianeta era inferiore a quella attuale solo di 5 °C. Ciò fu sufficiente per ricoprire il Canada orientale, la Nuova Inghilterra e gran parte del Midwest di una coltre di ghiaccio spessa oltre 1,5 chilometri. (Sull’isola di Manhattan, l’estate di 16.000 anni fa, lo strato di ghiaccio era alto 800 metri.) Nella parte occidentale del Nordamerica, Il ghiaccio copriva, oltre a tutto il Canada occidentale, parte degli attuali stati di Washington, Idaho, Montana. In Europa il gelido mantello avvolgeva la Scandinavia e la Scozia, la maggior parte dell’Inghilterra, del Galles e dell’Irlanda, Danimarca, Francia,

Germania, la fascia alpina e prealpina, gran parte della Polonia e dell’ Unione Sovietica. Nell’emisfero australe, vi era ghiaccio in Australia, Nuova

Zelanda e Argentina. Perfino nelle Hawaii, uno strato di ghiaccio copriva il Mauna Loa. « Fra tutto » scrive in Ice Ages il climatologo John Imbrie, dell’Università Brown, «i ghiacci occupavano circa 30 milioni di chilometri quadrati di terra che oggi ne sono liberi. » Il livello dei mari era di circa 100 metri inferiore a quello attuale. Tutto ciò per un abbassamento della temperatura di appena 5 °C. E quella fu un’epoca glaciale paticolarmente intensa.

* Le temperature sono salite da quando i “modellisti” hanno affinato il trattamento del vapor acqueo e delle nubi. Sono questi il tallone d’ Achille del climatologo. Finché non saranno stati valutati esattamente, le predizioni potranno ancora oscillare, in attesa della giusta calibratura.

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Oggi, i modelli elaborati al computer ci dicono che i bambini che nascono oggi potrebbero assistere a un cambiamento climatico della stessa imponenza di quello rappresentato da un’epoca glaciale. Ma il cambiamento andrebbe in senso opposto, e darebbe origine a un clima che è al di fuori dell’esperienza della nostra specie. L’Homo sapiens sapiens esiste da circa 50.000 anni. Un aumento di temperatura di 1,5 °C renderebbe la Terra più calda di quanto non lo sia stata negli ultimi 100.000 anni, da prima dell’inizio dell’ultimo periodo glaciale. Un aumento di 5 °C la renderebbe più calda di quanto non lo fosse milioni di anni fa, ben prima che incominciasse il Plei-

stocene. Syukuro Manabe, del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory, a Princeton, è una delle massime autorità mondiali sui modelli per lo studio dell’effetto serra. Dagli anni Sessanta egli sta verificando e perfezionando le sue previsioni. Per un raddoppio dell’anidride carbonica* Manabe ne elenca otto per le quali imodelli sembrano dare il maggiore affidamento. ** Primo, la temperatura della troposfera aumenterà, mentre diminuirà quella della stratosfera. Secondo, il riscaldamento alle alte latitudini sarà da due a tre volte mag-

giore di quello che si avrà alle basse latitudini (e ciò a causa del feedback già previsto da Arrhenius. I ghiacci marini si ritireranno. I poli diventeranno più scuri per l’assenza di ghiacci. Il terreno scuro assorbirà una maggior quantità di calore solare). Questo non significa che l’equatore se la caverà senza danni. La larga fascia dei climi tropicali diventerà di 2 °C più calda, se l’aumento medio globale sarà di 3 °C. Un cambiamento del genere avrebbe gravi conseguenze per l’India, ad esempio. Ma i Paesi situati alle medie latitudini, ivi comprese la maggior parte dell’Europa occidentale e della regione settentrionale degli Stati Uniti, saranno 5 °C più caldi di oggi. AI di sopra della latitudine di Stoccolma e di Anchorage, in Alaska, nell’emisfero boreale l'aumento della temperatura potrebbe arrivare a 10 °C. Terzo, sul Mar glaciale Artico, l’aumento della temperatura sarà massimo d’inverno e minimo d’estate. In altre parole, gli inverni saranno molto più miti, mentre le estati saranno solo di poco più calde. (L’Artide, sotto

* Il raddoppio dell’anidride carbonica (previsto a una data imprecisata nel XXI secolo) è solo un punto di riferimento. Un imponente riscaldamento avverrebbe ben prima del raddoppio. E nel sottosuolo c’è abbastanza carbone e petrolio per decuplicare e non solo raddoppiare l’anidride carbo-

nica. ** È curioso notare che le otto previsioni potrebbero essere più esatte per il 2070 che per il 2001. Le nostre sfere di cristallo non ci aiutano molto a predire il transitorio, cioè quanto potrà accadere nel periodo di transizione che stiamo attraversando.

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questo punto di vista, sembra essere un’eccezione, dice Manabe; in ogni altra parte della Terra, tutte le stagioni saranno più calde.) Quarto, il ciclo globale dell’acqua diventerà molto più attivo. Attualmente, a questo ciclo prendono parte 500.000 km? di acqua. Con il riscaldamento, ogni giorno saranno maggiori sia l’evaporazione, sia le precipitazioni: prudenzialmente, l'aumento è stimato nel 5 per cento, pari a 25.000 chilometri cubici in più. Questa massa di acqua non ricadrà uniformemente sulla superficie del pianeta. Alcune zone diventeranno più umide, mentre altre inaridiranno. Quinto, le bianche calotte di ghiacci marini ai due poli si ridurranno in superficie e in spessore. Gli ultimi modelli elaborati da Manabe indicano che il fenomeno avverrà in tempi sorprendentemente diversi, assai presto nel Nord del pianeta, e molto più tardi, solo cinque secoli dopo, nel Sud. Sesto, sulle terre in generale, lo scioglimento delle nevi avverrà più precocemente. Settimo, un’assai maggiore quantità di acqua rispetto a quella attuale — forse nella misura del 30 per cento — fluirà nell’ Artide da bacini fluviali siberiani e canadesi. Quali conseguenze pratiche potrà avere questo fenomeno nessuno lo sa, ma si tratta di un cambiamento importante.

Ottavo, poiché le nevi invernali si scioglieranno prima, e poiché le piogge primaverili verranno, e cesseranno, prima, in molte parti del mondo le estati saranno asciutte. All’interno dei continenti dell’emisfero boreale si avrà un maggior numero di periodi di siccità. Non che tutti gli anni debbano avere estati così calde come il 1988. Ma, assommandosi alle naturali fluttuazioni climatiche il riscaldamento derivante dall’effetto serra, le Grandi

Pianure degli Stati Uniti avranno più spesso di oggi estati altrettanto calde e siccitose quanto la “lunga estate calda” dell’88, o quelle degli anni Trenta, ai tempi del Catino di Polvere. Questo breve elenco può essere sufficiente a illustrare l’importanza di un aumento di temperatura anche di soli 3 °C. Manabe si spinge anche più in là nel precisare le conseguenze di questo mutamento. Il suo modello prevede terreni molto più secchi, d’estate, nella regione mediocontinentale del

Nordamerica, la fascia del mais e quella del grano. Lo stesso tipo di siccità estiva cronica è previsto per l'Europa occidentale. Certo, alcuni climi potrebbero migliorare, ai fini delle coltivazioni. « Il

Canada e la Siberia settentrionale avrebbero una stagione vegetativa più lunga », Roger Revelle ha fatto notare in una intervista apparsa su Omni. «Il clima della fascia del grano si sposterebbe a nord. »

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« Gli Stati Uniti potrebbero diventare un Paese importatore di grano, e l’URSS potrebbe diventare un Paese esportatore » ha dichiarato Walter Orr Roberts, ex direttore dell’NCAR. « Come minimo, sarebbe uno sconvolgimento economico e sociale di primaria importanza. » « Però » osservava Revelle « ci sarebbe un altro problema, perché i suoli, più a nord, sono molto più poveri di quelli sfruttati attualmente. La miglior terra del mondo si trova in Ucraina e nello Iowa: un suolo magnifico, spesso e grasso. Mentre il suolo del Canada è sottile e acido. » Un punto importante: poiché il riscaldamento toccherà il massimo proprio nelle regioni — alle alte latitudini - dove fu pure più forte il raffreddamento durante le epoche glaciali, sia la ghiacciaia che la serra, per così dire, si troveranno nelle zone polari. Il guaio è che la ghiacciaia ha lasciato questi posti in condizioni tali che non potranno prosperare gran che nella serra. I ghiacci infatti hanno raschiato via la terra che avrebbe potuto beneficiare delle nuove condizioni climatiche, e i venti delle ère glaciali l'hanno

portata via accumulandola in zone che potrebbero avere grande scarsezza di precipitazioni nei prossimi cent’anni. Gli andamenti meteorologici che Manabe deduce dal suo modello sono tali che d’estate la portata d’acqua dei fiumi degli Stati Uniti occidentali potrebbe ridursi del 50 o anche del 75 per cento. « Le nevi si scioglieranno così presto nel corso dell’anno » dice « che quando arriverà l’estate ci sarà ben poca acqua che scenderà dalle montagne. » Nel gran calore, questi corsi d’acqua saranno semiprosciugati prima di arrivare a versarsi in qualche fiume. (Anche prima degli anni Ottanta, eccezionalmente caldi, osservava Revelle, 1°85 per cento delle precipitazioni che cadono nel bacino superiore del Colorado evaporava, e solo il 15 per cento andava a ingrossare il fiume.) Praticamente tutti i fiumi della regione occidentale degli Stati Uniti sono già troppo sfruttati. Nonostante il prelievo di acqua dalle falde acquifere si lamentano croniche penurie idriche, e il livello della falda freatica si sta

abbassando con rapidità. Se il riscaldamento da effetto serra sposta a latitudini più alte anche una parte delle piogge che cadono sulle regioni occidentali degli USA, potrebbe rendersi necessaria una gigantesca opera di deviazione del corso dei fiumi al fine di riportare l’acqua alle terre coltivate dove prima cadevano le piogge e dove vi sono suoli e agricoltori pronti a riceverle. L’Ovest degli Stati Uniti è stato soprannominato il Deserto delle Cadillac. L'effetto serra potrebbe lasciarsi dietro un mucchio di Cadillac arrugginite. Revelle elencava altri fiumi importanti che avrebbero forti magre estive: lo Huang-he (Fiume Giallo) in Cina, 1'Amu Darja e il Syr Darja nell’Unio-

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ne Sovietica, lo Zambesi in Zimbabwe e Tanzania, il Sao Francisco in Brasile. Il Tigri e l’Eufrate in Mesopotamia, culla della civiltà occidentale, do-

ve un tempo lussureggiavano i leggendari giardini pensili di Babilonia, e dove è stato collocato il Paradiso Terrestre, sarebbero inariditi. Nello stesso

tempo, tanta acqua in più si verserebbe nel Mekong e nel Brahmaputra che questi fiumi causerebbero devastanti inondazioni in Thailandia, Laos, Cambogia, Vietnam, India e Bangladesh.

L’esperto in climatologia Stephen Schneider ritiene che l’effetto più diffuso del cambiamento della temperatura globale sarà quello di accrescere le probabilità di eventi eccezionali. Non di gelate, ovviamente, ma di ondate di calore, di grandi siccità. « Noi esseri umani, come sistemi biologici, non

avvertiamo i cambiamenti climatici che si verificano con lenta gradualità » mi spiegò nel 1986. « Ci accorgiamo sicuramente solo degli estremi. Quello che i mutamenti lenti devono soprattutto significare per noi è che accrescono le probabilità di mutamenti grandi e repentini. Solo in questo modo riu-

sciremo a accorgercene in tempo. « La gente dice: ‘Mio Dio, che cosa è successo!”. È quel semplice grado in più a fare di eventi eccezionali, secolari, o che si verificano ogni venticinque anni, degli eventi a scadenza quinquennale. » Lui e suoi colleghi dell’NCAR hanno studiato, per esempio, che cosa il riscaldamento potrebbe significare per la fascia del mais negli Stati Uniti. Luglio è il mese in cui nella pianta del granturco si forma quell’inflorescenza staminifera che è nota come pennacchio o barba. La buona salute della pianta in quella fase del suo sviluppo ha una rigida soglia superiore, che è 35 °C. Temperature superiori possono bruciarla. Le serie di giorni caldi sono particolarmente dannose: una serie di cinque giorni può essere sufficiente per coprire tutta la fase di formazione delle “barbe” e distruggere l’intero raccolto. Schneider e colleghi hanno studiato a fondo le complicazioni dovute al riscaldamento a Des Moines nello Iowa, a Fargo nel North Dakota e a Berne e Evansville nell’Indiana, accertando che un rialzo della temperatura media di appena 1,6 °C rende due volte, in alcuni casi sei volte più probabili le ondate di calore persistenti. Hansen, della NASA, ha calcolato le probabilità del verificarsi di ondate di calore a Washington, D.C. Attualmente, la capitale registra mediamente un giorno all’anno con temperatura superiore ai 37,7 °C (quindi, scelsi proprio il giorno adatto quando andai a trovare J. Murray Mitchell...). Se si raddoppierà il tasso di anidride carbonica, la città avrà dodici giorni l’anno con valori di temperatura superiori ai 37,7 °C. Novanta giorni l’anno saranno al di sopra dei 32 °C, a paragone dei trenta attuali. Quello che oggi

IHTA

chiamiamo ondata di calore sarà solo il punto oltre il quale incominceremo a parlare di ondata di calore. Quando si riscalda l’atmosfera, aumenta anche la temperatura superficiale dei mari. Questo aumento può portare a un aumento di intensità di quelle terribili burrasche che sono variamente chiamate uragani, tifoni, tornado,

cicloni tropicali. L'energia che anima queste burrasche deriva in gran parte dalla aumentata temperatura superficiale dei mari. Infatti, spesso si dissolvono improvvisamente ancor prima di raggiungere la “maturità” allorché i violentissimi venti vorticosi risucchiano da sotto la superficie marina acqua più fredda, che li uccide. Kerry A. Emanuel, del Center for Meteorology and Physical Oceanography del Massachusetts Institute of Technology, ha calcolato l'influenza dell'aumento della temperatura superficiale dell’acqua sugli uragani. Egli ritiene che i prossimi cent'anni saranno un periodo di grandi tempeste. Si avrà un riscaldamento generalizzato degli strati superficiali delle acque marine, con le maggiori conseguenze — stando alle valutazioni preliminari di Emanuel — in bacini parzialmente chiusi come il Golfo del Messico e il Golfo del Bengala. In questi bacini, gli uragani potrebbero crescere di violenza fino al 60 per cento, anche in seguito a un piccolo aumento delle temperature superficiali dei mari. L’estate del 1988 fu una stagione record per gli uragani. Uno di essi sollevò sciami di cavallette in Africa e le trasportò nel suo vortice fin oltre 1’ Atlantico, dove piovvero su Portorico, le Piccole Antille, il Suriname. Uragani, tornado, bufere di vento, grandinate, alluvioni, tormente, onda-

te di calore, siccità, gelate fuori stagione, freddi persistenti: sono tutti fenomeni che possono investire una parte di un Paese mentre il resto gode di condizioni climatiche normali, come sanno ad esempio quelli che seguono i bollettini meteorologici negli Stati Uniti o altrove. Nel 1983, per fare un esempio, i danni del maltempo costarono ai cittadini dello Utah, del Mississippi e dello Iowa cinquecento volte di più che a quelli del Rhode Island, del Connecticut, del Massachusetts e delle Hawaii. Non sono fenomeni nuovi;

li sperimentavano anche gli antichi, che furono scacciati dalle loro sedi da prolungate siccità. Fu per questo che gli Ebrei emigrarono in Egitto. Per effetto del riscaldamento, alcune parti di un Paese possono diventare casi cronici di condizioni avverse. I vari supercomputer dipingono il futuro con così ampie pennellate che non sono in grado di dirci quale Paese o regione sarà danneggiato dai mutamenti climatici, o avvantaggiato. Di certo si può dire che gli abitanti delle fasce rivierasche hanno particolari motivi di preoccupazione. Revelle stimava, ed era una stima prudenziale, che probabilmente vedremo un innalzamento del livello dei mari, nei prossimi cen118

- t'anni, di circa mezzo metro. Parte di quest’innalzamento sarà dovuta alla

più rapida fusione dei ghiacciai e al riversarsi delle loro acque nei mari, parte al fatto che, riscaldandosi, l’acqua dei mari aumenterà di volume.

L’aumento del livello marino è una conseguenza diretta dell’aumento della temperatura globale. Schneider: « Basta scaldare gli oceani, e deve accadere per forza, no? Se scaldate un tubo di vetro con dentro del mercurio, il

livello del mercurio sale: è quello che chiamiamo termometro. Se scaldate l’oceano, che è liquido, sale entro il suo tubo, che è formato dalle scarpate continentali: è quello che chiamiamo aumento del livello marino. Questo livello è oggi quasi dieci centimetri più alto di un secolo fa ». L'aumento del livello dei mari è anche un meccanismo attraverso il quale piccoli mutamenti globali possono ingigantirsi diventando grandi mutamenti locali. « Non lo capisco » disse una volta la regina Giuliana d’Olanda, assistendo alla dimostrazione del funzionamento di un elaboratore elettronico ad Amsterdam. « Non riesco nemmeno a capire la gente che lo capisce. » Ma qui abbiamo a che fare con una previsione che non richiede, per capirla,

grande familiarità coi computer. Là dove la linea di costa è formata da un’alta scogliera, un piccolo innalzamento del livello non fa molta differenza. Ma là dove la costa è bassa o quasi piatta come in Olanda o nel Bangladesh, un aumento del livello marino anche di 30 centimetri può causare una

irrimediabile catastrofe. Allora la differenza la fa, e come. Molti Paesi del mondo sono già nelle stesse condizioni dell’Olanda, aggrappata alle sue dighe. Coll’alzarsi del livello dei mari, sono minacciati da presso. Si calcola che un innalzamento marino di mezzo metro porterebbe via al Massachusetts molte migliaia di ettari di terra. Farebbe spendere all’Italia cifre enormi nel tentativo di salvare Venezia. Costerebbe all’Egitto una buona fetta del suo ricco Delta. Prendiamo il Bangladesh. Ha una popolazione che, secondo una stima risalente al 1986, supera i 103 milioni di abitanti, con l’eccezionale densità per chilometro quadrato di 714 persone. Con l’attuale tasso di accrescimento annuo della popolazione, non molto tempo dopo l’inizio del XXI secolo la sua densità supererà i 1400 abitanti per chilometro quadrato. Se il livello del mare dovesse aumentare di mezzo metro, milioni e milioni di persone dovrebbero esser fatte evacuare.

Inoltre un aumento di mezzo metro del livello marino potrebbe avere proprio lo stesso effetto che un aumento della temperatura di 2 °C avrebbe sulle ondate di calore. I disastri diventerebbero cronaca quotidiana. Oggi, quando forti venti soffiano con l’alta marea talvolta spingono le onde oltre le dighe e i frangiflutti, provocando quei disastri che si chiamano maree da tempesta. Un innalzamento di mezzo metro del livello marino aggraverebbe

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grandemente gli effetti delle maree da tempesta nei prossimi cent'anni. « La gente dice: che cos'è poi mezzo metro? È niente » commenta Schneider. « Ma quel mezzo metro accresce in modo drastico le probabilità di una trasgressione. Per cui l’ondata secolare, così come la marea secolare e l’alluvione secolare, diventerebbero venticinquennali; e la grande alluvione del ventennio diventerebbe la grande alluvione del decennio, e le compagnie di assicurazioni non assicurerebbero più nessuno. » Frattanto, la parte occidentale della calotta glaciale antartica è instabile, perché si protende sul mare con una gigantesca barriera, tenuta insieme da piccole isole che si trovano sotto i ghiacci e sotto il livello del mare. Cè chi l’ha paragonata a un ampio soffitto sorretto da pochi pilastri. Il mare, in fase di sollevamento, potrebbe farla a pezzi. Dalla barriera galleggiante emerge sopra la superficie un’enorme quantità di ghiaccio, che costituisce buona parte della superficie del continente. Se tutto quel ghiaccio finisse nel mare,

ne alzerebbe il livello di qualcosa come

6 metri, inondando

New

York e Londra e molte altre città costiere, e sommergendo di acqua salsa vastissime estensioni di terra coltivata in Olanda e nel Bangladesh, in Thailandia, Cambogia, Vietnam e Cina. I glaciologi, abituati alla lentezza con cui avvengono i cambiamenti nella criosfera, ritengono che il collasso della parte occidentale della calotta glaciale antartica non ci sarà prima che passi qualche secolo. Se hanno ragione, allora è verosimile che l’aumento del livello dei mari nei prossimi cent’anni sia graduale. Gli edifici cittadini hanno una vita media che va dai cinquant’anni al secolo, a seconda del grado di sviluppo economico. Il loro ritmo di degrado e sostituzione si accorderebbe quindi con quelli previsti nei livelli marini. Se dunque le previsioni dei glaciologi si riveleranno esatte, molte città costiere avranno il tempo per ritirarsi allo stesso modo in cui si sono estese da un decennio all’altro, a caso, senza essere colpite da subita-

nei disastri. Tuttavia il ghiaccio può anche comportarsi diversamente. Il lungo e lento riscaldamento avvenuto alla fine dell’ultima epoca glaciale portò a conseguenze soprendentemente rapide. Una delle prime fra esse fu che circa 15.000 anni fa il pack di Barents, una vasta piattaforma di ghiaccio che si estendeva a nord della Scandinavia, si sfaldò inabissandosi nel mare sotto-

stante. Era così grande, e il suo crollo contribuito a innescare quel più vasto all’èra glaciale e introdusse il periodo Nel 1988, un gruppo di ricercatori

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fu così improvviso che potrebbe aver collasso della criosfera che mise fine geologico in cui vivamo, l’Olocene. della Woods Hole Oceanographic In-

stitution indagò la scomparsa della piattaforma glaciale di Barents analizzando sedimenti prelevati sul fondo del Mar di Norvegia fra la Norvegia stessa e la Groenlandia. Il collasso della piattaforma di Barents sembra sia stato molto rapido, e nel contempo imponente, tanto che potrebbe aver causato un aumento del livello marino di circa 3 metri al secolo nell’arco di quasi cinque secoli. Se le predizioni dell’effetto serra sono esatte, allora alla lunga il livello globale dei mari aumenterà davvero. Uno dei primi studiosi che abbiano voluto guardare così avanti è stato Keeling, il quale immise il picco di Hubbert, relativo ai gas da effetto serra, nel suo modello di aria e calcolò quanto

tempo ci vorrebbe perché il picco stesso scomparisse. Se i gas si fossero innalzati nell’atmosera e ne fossero subito ridiscesi, allora, giudicando fra

qualche millennio, l’impronta dell’età moderna sull’aria del globo potrebbe essere raffigurata come in questo grafico:

Ma, nel modello di Keeling, l’assorbimento da parte del mare dell’anidride carbonica che abbiamo introdotto nell’aria è così lenta che il gas permane nell’atmosfera per almeno 10.000 anni:

Se le cose stanno così, allora stiamo vivendo l’inizio di un nuovo periodo

nella vita del pianeta, il periodo dell’effetto serra, di durata simile a quella 121

di un periodo glaciale. I clorofluorocarburi che abbiamo emesso nell'aria si decomporranno entro uno o due secoli, ma l’anidride carbonica seguiterà a dominare il clima della Terra per un tempo superiore a quello di qualsiasi impero o civiltà degli uomini; per un tempo nel futuro pari a quello che ci divide dall’età della Pietra. Nel pieno dell’ultimo periodo glaciale, 20.000 anni fa, sulla terraferma era depositato tanto ghiaccio che il ritirarsi delle acque causò l’emersione di una fascia costiera vasta quanto il continente africano. La quantità di ghiaccio rimasta sul nostro globo è relativamente modesta. Ma se il nuovo periodo, quello dell’effetto serra, dovesse durare 10.000 anni, alla fine potrebbe

far tornare tutto o gran parte di quel ghiaccio in mare. Potremmo allora ridisegnare la faccia del globo eliminando dalla terraferma un’area pari, diciamo, a quella dell’Europa. Après nous le déluge... Nessuno studioso di scienze della Terra nutre dubbi circa la realtà dell’effetto serra. Fin dai tempi di napoleone gli scienziati sanno che l’atmosfera esercita un effetto serra. Che è ineludibile, come qualsiasi legge fisica. Come dice Schneider, è credibile quanto la teoria della gravitazione universale. Non lo si può neanche discutere. E la maggior parte degli studiosi è convinta che aggiungere all’atmosfera altri gas da effetto serra avrà come effetto il suo riscaldamento. Anche su questo non si discute. Anzi, molti esperti del clima credono che questo riscaldamento del pianeta sia probabilmente già in atto. Trovano a ridire sull’uso che fece Hansen dei dati statistici, ma non ne mettono in dubbio le conclusioni. « È legittimo affermare che l’effetto serra è dimostrato » dice Schneider. « Sì, è stato dimostrato sulla scorta di un cumulo di prove. » « Anch'io ritengo molto probabile che l’effetto serra sia già all’opera » dice Manabe. « Dichiararlo è cosa perfettamente ragionevole. » Molti dicono che l’effetto serra sia ancora qualcosa di controverso, ma la

cruda verità è questa: che le sole domande cui non si può rispondere sono quelle cui nessuno può rispondere, in questo millennio che sta per finire. Che forza avrà l’effetto serra? Questa non può non essere materia controversa. Parliamo di un esperimento che non ha precedenti. Esiste un ampio ventaglio di possibilità... anche se l’estate del 1988 è stata un’ulteriore prova di che cosa significhi un aumento anche di pochi gradi. La differenza fra la temperatura mediadi quell’estate e quella di un’estate normale fu di 0,8 °C. Nel corso della vita di questa generazione, se la teoria è giusta, la temperatura di un’estate “normale” aumenterà da 2,75 a 5,5 °C. Valori come

questi fanno paura. Potrebbero indurci a dar di testa contro il muro. 122

E quando sarà abbastanza caldo perché tutti se ne accorgano? L’evoluzione del processo di riscaldamento è così graduale che Schneider, Manabe e altri vogliono, prima di pronunciarsi, osservare i risultati dei prossimi venti lanci dei dadi. Oggi come oggi, questa è l’opinione prevalente negli Stati Uniti. Però i climatologi sovietici erano certi dell’effetto serra già nel 1982. Tale diversità di opinioni può avere in parte motivazioni psicologiche. Nell’URSS potrebbe sembrare che la posta in gioco fosse meno importante, perché l’effetto serra vi si prospetta meno gravido di minacce. I sovietici possono sperare che ne derivi un grosso vantaggio per loro (si pensi soltanto alle modificazioni che un riscaldamento del clima provocherebbe in Siberia). E il loro Paese, pur contribuendo in gran misura all’effetto serra, non è

tuttavia quello che vi contribuisce maggiormente. Negli Stati Uniti, invece, il problema è più grave, perché gli Americani rischiano di perdere moltissimo nel caso di un riscaldamento del globo. E, fra le foreste date alle fiamme nel XIX secolo e le ciminiere e i tubi di scappamento del XX, da lungo tempo sono i più forti esportatori di anidride carbonica del nostro pianeta. Perciò, se uno scienziato americano consapevole

delle proprie responsabilità dichiarasse: « L’effetto serra c’è già », sarebbe come se gridasse ai suoi connazionali: “Fermate il treno!”. Verso la fine del prossimo secolo, solo gli storici di professione e gli studenti ricorderanno se la data di inizio dell’effetto serra sia stata fissata per convenzione nel 1988, nel 1998 o nel 2008. A quell’epoca, se i teorici avranno avuto ragione, il nuovo mondo sarà nato da un pezzo, con tutti i suoi problemi, e quello che conterà veramente per i responsabili dei vari Paesi sarà come adeguarsi alle nuove condizioni, cioè ai nuovi termini contrattuali imposti dal pianeta. A quel punto, i più si accontenteranno di fissare la data di inizio per arrotondamento; diranno: « Fin dal principio del secolo... Nel nuovo millennio... Negli ultimi cent'anni... ». Oggi come oggi, invece, stabilire la data di inizio ha somma importanza. Finché restano le incertezze, il mondo seguiterà a “caricare” i dadi, a pro-

prio danno, con oltre 5 miliardi di tonnellate di carbonio ogni anno. Per questa ragione, quelli che sanno qual è la posta in gioco, e quanto si sa del fenomeno, si infuriano vedendo l’interesse generale appuntarsi su quanto ancora non si sa. (« La giusta domanda da fare non è: ‘E incominciato nel 1988?’ » dice Richard Houghton del Centro di Ricerche di Woods Hole. «La vera domanda è: ‘Le è piaciuto 1’88?”. »)

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7 Le sette sfere Se l’Onnipotente avesse chiesto il mio parere prima di accingersi alla Creazione, Gli avrei raccomandato qualcosa di più semplice. ALFONSO X di CASTIGLIA

Sul pianeta Terra, ogni cosa, o quasi, è connessa con tutte le altre. Un moderno studioso che, imitando l’inglese Henry Gray, volesse scrivere una nuova Anatomia avente ad argomento la Terra anziché il corpo umano, dovrebbe segnalare rinvii da una pagina a tutte le altre per qualsiasi voce trattata. Se si esaminano le “bizzarrie” che possono verificarsi in un sistema come il nostro in cui tanti ingranaggi partecipano al funzionamento dell’insieme, le combinazioni sono così numerose da far girare la testa.

In passato, i modelli messi a punto dagli studiosi del clima si concentravano esclusivamente sull’atmosfera. Oggigiorno, molti scienziati guardano anche altrove. Con carta e penna, calcolatori tascabili e supercomputer, cercano di integrare nei loro calcoli tutte e sette le sfere. Incominciano col prendere in esame un singolo cambiamento in una sola parte del sistema: nella sfera del ghiaccio, o del mare, della vita, dell’aria, della roccia, delle attività umane. Quindi cercano di vedere come questo cambiamento

possa evolversi, propagarsi, cambiare forma, potenziarsi o annullarsi nelle altre sfere. Infine, cercano di valutare in che modo tutti icambiamenti, messi insie-

me, potranno agire sull’atmosfera del pianeta nei prossimi cent’anni. Questo approccio “passo passo” è del tutto inadeguato alla bisogna. Ma per il momento è l’unico di cui siamo capaci. Sta comunque apparendo evidente che stiamo scherzando troppo col nostro mondo, e correndo rischi più

gravi di quanto non.credessimo. Nel 1982, un comitato di climatologi così sintetizzò una sua relazione alla Accademia Nazionale delle Scienze statunitense: « La nostra serena valutazione del problema dell’anidride carbonica poggia essenzialmente sulle conseguenze ‘prevedibili’ di un cambiamento climatico... Potrebbero esservi delle sorprese ». 124

Oggi, molti esperti rivedrebbero questo giudizio. In un sistema formato da sette sfere, le sorprese sono, non possibili, ma immancabili. Si innesca-

no le più imprevedibili reazioni a catena. Se vogliamo chiamarle sorprese, è certo che saranno grosse.

Ghiaccio. Fino a tempi recenti, quando gli scienziati volevano ipotizzare il peggio di ciò che potrebbe schiantarsi a causa del riscaldamento generale, concentravano la loro attenzione sulla calotta polare dell’ Antartide. Come abbiamo già visto, gran parte del ghiaccio della fascia occidentale del continente si protende profondamente in mare, senza che vi sia in pratica alcun rilievo subacqueo a sorreggerla. L’intera piattaforma potrebbe un giorno : franare nell’acqua sottostante. L’Antartide, tuttavia, è assai fredda e remota, e il suo manto glaciale è così spesso che potrebbe anche non sciogliersi né precipitare in mare per un tempo lunghissimo. Ora come ora, l’aria spesso è troppo fredda e asciutta perché vi possa nevicare. Se la Terra si riscaldasse, il Polo Sud potrebbe limitarsi a ricevere molte più precipitazioni nevose che non attualmente. Nell’insieme, la calotta glaciale australe potrebbe estendersi. Anzi, al centro del Continente bianco potrebbe incominciare a cadere tanta neve che (se alcuni dei modelli matematici più recenti sono attendibili) il livello globale dei mari potrebbe perfino lievemente abbassarsi. Magari ci siamo preoccupati del polo sbagliato. Vista dallo spazio, la Terra appare bellamente simmetrica, con una vasta calotta bianca sopra entrambi i poli. Ma, mentre la calotta glaciale australe è un vero continente, quella boreale è soltanto un’enorme zattera che galleggia, semplicemente, sul Mar Glaciale Artico. La calotta glaciale artica esiste da alcuni milioni di anni, fin dall’inizio

del Pleistocene. L’area coperta dai ghiacci è grandissima. Durante l’inverno artico, che va da novembre a giugno, essi si espandono da un minimo estivo di 7-8 milioni a un massimo invernale di 15 milioni di chilometri quadrati, dieci volte la superficie dell’ Alaska. Il primo a rendersi conto che l’intera calotta glaciale artica potrebbe scomparire fu il climatologo sovietico Mikhail Budyko, che pubblicò le sue prime segnalazioni in proposito fin dal 1962. La prospettiva illustrata da Budyko impiegò un po’ di tempo prima di ricevere seria considerazione da parte degli scienziati occidentali, forse perché naturamente meno consapevoli dei Russi dell'importanza del Mar Glaciale Artico. I glaciologi che hanno osservato la straordinaria crescita della banchisa nella stagione invernale, volandovi sopra, o passandovi con le slitte, o an-

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che tuffandovisi sotto in muta da sub, sanno che in molti punti è sottile come un foglio di carta. Dapprima le scure acque artiche si ricoprono di una pellicola di ghiaccio detto “frazil”, formato da piccoli cristalli sospesi nell’acqua. Poi questi cristalli si consolidano in un sottile strato che galleggia alla superficie flettendosi con le onde come se fosse un velo di petrolio; questo strato è chiamato “nilas”. Quando il nilas arriva ad avere uno spessore di sette o otto centimetri viene detto “ghiaccio giovane”, e quando raggiunge i trenta prende il nome di “ghiaccio di un anno”. In certi punti, questo ghiaccio viene compresso in ammassi caotici che possono raggiungere anche 18 metri di altezza. Ma è ancora fragile. Vi sono sempre incrinature o fratture, in quanto i lastroni sono spinti dal basso dalle correnti marine. Vengono a crearsi lunghe spaccature, chiamate canaloni come quelle dei ghiacciai, che si aprono nella banchisa; la loro larghezza va da pochi decimetri fino a qualche chilometro. Si aprono anche buche misteriose, dette “polynyas”: grandi laghi che possono nascere per risalita di acque calde, o per le cause più strane. L'interazione fra mare e ghiacci dà spesso origine a particolari formazioni che viste dall’alto sembrano dita intrecciate, dite scure di acqua che si insinuano fra dita bianche di ghiaccio. Ghiaccio e neve sono ottimi riflettori della luce solare. Uno strato di neve fresca arriva a riflettere anche il 98 per cento dei raggi solari che lo colpiscono. E perfino il ghiaccio marcio e pieno di bolle d’aria dell’estate artica riflette quattro o cinque volte più luce solare della scura acqua marina circostante. I raggi del Sole, cadendo sul ghiaccio, rimbalzano e se ne tornano nello spazio, senza riscaldare la superficie terrestre. Così com’è, dunque, l’Artide è assai più fredda di quanto lo sarebbe senza la copertura di ghiaccio. La calotta, anzi, funge da “pozzo del calore” per tutto l’emisfero boreale. Semplicemente per il suo candore, il ghiaccio del Mar Glaciale Artico contribuisce a determinare le condizioni meteorologiche ovunque. Tutta la circolazione delle correnti aeree e delle correnti marine, quella circola-

zione che porta a tutti i Paesi dell’emisfero l’infinita e variegata alternanza delle condizioni meteorologiche può, da un punto di vista cosmico, essere definita come una fatica di Sisifo mirante a riscaldare il Polo Nord.* Il ghiaccio dell’Artide fa anche funzionare una specie di ruota idraulica * Il ghiacchio raffredda anche in altro modo il Polo Nord. Coprendo vasti tratti del Mar Glaciale Artico, impedisce alle acque il contatto con l’aria. L'acqua è più calda dell’aria (ma non certo tiepida). Se non vi fosse il ghiaccio, la riscalderebbe. In realtà, là dove si aprono fenditure nella banchi-

na (i “canaloni” larghi anche 15 chilometri), colonne di aria calda si alzano dalla superficie marina libera. Alcune di queste colonne di aria calda sono così potenti da levarsi fino alla stratosfera, come avviene per le correnti di convezione che si formano con le grandi eruzioni vulcaniche.

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nel mare sottostante. Il rinnovarsi del ghiaccio ad ogni inverno espelle dal ghiaccio stesso una grande quantità di sale. Questo sale si accumula nell’acqua che non gela, e che essendo appesantita cade sul fondo. È come se il sale caricasse le cassette di una gigantesca ruota idraulica che seguitano ad affondare. Questo fa sì che l’acqua del fondo salga verso la superficie, portandovi sostanze nutritive che servono ad alimentare gran parte della vita marina di tutto il mondo. La calotta glaciale artica è meno isolata di quella antartica e, essendo il suo ghiaccio pieno di crepe e buche, è anche molto meno fredda. La temperatura media dell’aria sopra il Polo Nord è superiore a quella sovrastante il Polo Sud di circa 12 °C (la differenza che c’è fra la temperatura media di New York e quella di Miami, e 1 °C di più della differenza media di gennaio fra Torino e Palermo). Un piccolo rialzo della temperatura media globale bloccherebbe la regolare espansione dei ghiacci artici invernali, e un rialzo appena maggiore darebbe il via al ritiro di quelli estivi. Nella reazione a catena prevista da Arrhenius, l’anidride carbonica riscalda l’aria; tale riscaldamento provoca la fusione dei ghiacci polari; questa fusione mette allo scoperto il colore scuro delle acque polari e della tundra; acque e tundra assorbono una maggior quantità di calore solare che non i ghiacci; il cambiamento di colore dei poli ne favorisce il riscaldamento. Questa serie di eventi richiede la partecipazione di Sole, aria, ghiaccio, terra, acqua, vita, attività umane: insomma, di tutte e sette le sfere.

Una simile reazione a catena può non aver luogo per molti millenni ancora nell’emisfero australe in quanto la calotta glaciale antartica è stabilissima. Ma nell’emisfero boreale essa potrebbe perfino distruggere la calotta glaciale nel corso di una generazione. Potremmo arrivare noi stessi a vedere una Terra quale non esisteva da milioni di anni: asimmetrica, con uno

spesso manto bianco all’estremità meridionale e nient’altro che acqua scura all’estremità opposta. Non sarebbe necessario molto tempo, al punto in cui ci troviamo. Secondo Hermann Flohn, dell’Università di Bonn, « potremmo

avere una Terra ghiacciata a un solo polo in capo a un breve periodo di transizione, probabilmente dell’ordine di appena qualche decennio ». I meteorologi ritengono piuttosto inverosimile la prospettiva di una Terra con una sola calotta glaciale. Essi sanno quanto la circolazione globale risenta di cambiamenti della copertura glaciale artica che, al confronto, appaiono microscopici. Fin dal XVIII secolo, per esempio, gli studiosi hanno osservato che, quando gli inverni sono più freddi del solito in Groenlandia, tendono a essere più miti nel Nordeuropa, e viceversa. Questa specie di altalena è stata ascritta dai moderni meteorologi a sottili influssi dei ghiacci

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groenlandesi. Piccoli cambiamenti di questi hanno la capacità di modificare il clima invernale di zone distanti dalla Groenlandia come le Isole Aleutine, dall’altra parte del globo. Che cosa succederebbe se il ghiaccio scomparisse? L'impatto sulla circolazione globale dell’aria e dell’acqua sarebbe immediato, imponente e del tutto imprevedibile. Anche l’emisfero australe, una volta che il pianeta diventasse “innaturalmente” asimmetrico, con una calotta glaciale meridionale in espansione (verticalmente e orizzontalmente), e pochi residui di quella settentrionale, in via di rapida sparizione, ne subirebbe gli effetti. Cosa anche più importante, potrebbe rallentare la velocità della ruota idraulica di cui abbiamo parlato, se non si verificasse più la formazione annuale di nuovo ghiaccio a farla funzionare. Gran parte della biosfera marina potrebbe essere ridotta alla fame dalla penuria di azoto e di fosforo. Naturalmente, se il Mar Glaciale Artico si aprisse, l'URSS diventerebbe,

per la prima volta nella storia della Russia, un Paese con una vera e lunga ‘ linea costiera oceanica, e forse si trasformerebbe in una grande potenza marittima. È questa una delle ragioni per cui Budyko ritiene che il suo Paese risulterà fra i vincitori dei maggiori premi nella lotteria del riscaldamento globale. Ecco un caso di forte feedback positivo: il riscaldamento planetario fonde i ghiacci dell’Artide, privando la Terra di un gigantesco riflettore dei raggi solari, e ciò provoca un ulteriore riscaldamento planetario. Mare. Un improvviso mutamento globale di questo genere comporterebbe tutta una serie di altre sorprese. Una delle più fastidiose potrebbe venirci dal fondo dei mari. In condizioni di forte freddo e di alta pressione, il gas metano gela e si solidifica. Attualmente, queste condizioni si incontrano in molte zone del pia-

neta: sotto lo spesso permafrost della tundra artica, per esempio, e sulla fredda, fangosa scarpata continentale dal Mar Glaciale Artico al Golfo del Messico. Queste piattaforme e scarpate continentali coprono un’area immensa, all’incirca il 5 per cento dell’intera superficie del globo. Si ritiene che vi sia altro metano imprigionato nei sedimenti sottostanti a due grandi masse di acque interne fredde, il Mar Nero e il Mar Caspio. Qui il gas fu scoperto accidentalmente negli anni Settanta da un gruppo di geologi che lavorava a bordo della nave oceanografica Challenger a perforazioni del fondo marino nell’ambito del “Deep Sea Drilling Project”. I geologi si servivano di aste da perforazione per raggiungere e portare in superficie lunghe carote di fanghi prelevati dai fondali. Avendo tratto a bordo dei cilindri contenenti le carote e avendoli disposti sul ponte, dai tubi incomincia-

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rono a prorompere minuti getti di fango, con la violenza di pallini sparati da una carabina ad aria compressa (per usare l’immagine più delicata che mi viene in mente). Le analisi chimiche rivelarono che il gas che sparava il fango dall’interno dei cilindri era quasi al cento per cento metano. Sul fondo marino, il metano ghiacciato è legato con l’acqua ghiacciata in un particolare composto chimico, in cui determinate molecole sono racchiuse entro un reticolo cristallino di altre molecole chiamato clatrato. Ogni molecola di metano, dunque, è prigioniera come un pesce rosso nella sua vaschetta di vetro, del reticolo formato da una mezza dozzina di molecole d’acqua. Quando i geologi issarono il fango alla superficie, il clatrato si fuse, il metano formò delle bolle che sfuggirono quasi esplosivamente dal fango. È qualcosa di simile a quello che accade ai subacquei se risalgono alla superficie con troppa rapidità. L’azoto si mette a ribollire nel circolo sanguigno, provocando nell’organismo del sub quella che si chiamava “malattia dei cassoni”, cioè un’embolia gassosa che, se non si mette subito l’infortunato in un’apposita camera di decompressione, può essere fatale. Il ribollire del metano nei cilindri con le carote prelevate sul fondo era ciò che provocò i violenti schizzi di fango sul ponte del Challenger. Il metano idrato, o clatrato, è ancora un oggetto misterioso per i geologi e nessuno può dire esattamente quanto ve ne sia. Le stime finora pubblicate oscillano fra i 1000 e i 500.000 gigaton (un gigaton equivale a un miliardo di tonnellate). Con una valutazione per difetto, si può pensare a 50.000 gigaton. Oggi come oggi, vi sono circa 5 gigaton di metano nell’atmosfera. Perciò, vi è metano “sepolto sotto ghiaccio” in quantità 10.000 volte superiore a quella che già si trova in tutta l'atmosfera. Poiché la temperatura delle acque dei fondali marini sulle piattaforme e scarpate continentali incomincia ad aumentare, un’enorme quantità di metano ingabbiato nei clatrati prenderà a sfuggire dai fanghi. Naturalmente, tale metano prima di raggiungere l’aria deve ancora risalire attraverso tutta l’acqua che lo ricopre. Roger Revelle, che dedicò molta attenzione all’argomento, calcolò che « poco meno dell’80 per cento del metano che sfugge dal clatrato si libera dal fango sotto forma di bolle che salgono rapidamente alla superficie del mare, prima di poter essere ossidate dall’acqua ». Basandosi sulla predizione media di un riscaldamento globale di 3 °C, Revelle calcolava che la quantità totale di metano che salirà dai fondali man mano che il pianeta si riscalderà supererà mezzo gigaton l’anno. Nel volgere di un secolo sarebbe emesso (sempre secondo la stima prudenziale di un riscaldamento del globo di 3 °C) tanto metano da raddoppiare, grosso modo, la quantità di questo gas già presente oggi nell’atmosfera.

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Se la bianca calotta che copre il Mar Glaciale Artico sparisse, allora le

acque dei fondali di quel mare potrebbero riscaldarsi con tanta rapidità da liberare altri dodici gigaton di metano. Questo sta già aumentando nell’atmosfera al ritmo impressionante di circa 1 gigaton ogni dieci anni. Come abbiamo visto, la stessa misura di questo aumento non è solo preoccupante (in quanto, a parità di molecole, l’effetto serra provocato dal metano è venticinque volte maggiore di quello dell’anidride carbonica), ma è anche inesplicabile, o almeno non è stato ancora spiegato. È possibile che lo strano feedback che abbiamo illustrato sia già in atto e che l'aumento della temperatura globale nei cento anni trascorsi abbia già liberato molti gigaton di metano dalle prigioni molecolari in cui era tenuto sul fondo marino. Allo stesso modo di una repentina sparizione della calotta glaciale artica, questo fenomeno di feedback dovuto al metano potrebbe rendere più rapido e grave di quanto fosse previsto il riscaldamento del pianeta. E inoltre i due effetti - del riscaldamento del Mar Glaciale Artico e dell’emergere delle bolle di metano — si potenzierebbero e si accelererebbero a vicenda. Fortunatamente, tutto questo metano sarà decomposto e ossidano nell’atmosfera nel giro di qualche secolo. Ma, sfortunatamente, si decomporrà formando acqua e... anidride carbonica. Sotto forma di anidride carbonica,

la grande esalazione emanante dai sedimenti fangosi sul fondo dei mari durerà molti millenni, e potrà contribuire a liberare altri miliardi di tonnellate di metano dal permafrost dell’ Artide e dalle gelide coste dell’ Antartide, quando la calotta glaciale australe, o prima o poi, incomincerà a ritirarsi. Il metano viene già emesso in quantità impensabili da tutti i bovini e gli ovini, specie le capre, del mondo, che se ne liberano da entrambi gli orifizi

del tubo digerente. Se anche il pianeta incomincia a comportarsi allo stesso modo, allora la stima prudenziale di un riscaldamento di 3 °C imputabile all’anidride carbonica va raddoppiata a causa del metano che fuoriesce da tutte le parti. Questo gas non aveva mai avuto tanta cosmicomica importanza dai tempi della Divina Commedia, dove alla fine del Canto XXI dell’ “Inferno” il capodiavolo Malacoda, dopo aver ordinato ai suoi accoliti di se-

guirlo, “...avea del cul fatto trombetta”. La vita. Il grado di controllo (o se non altro di influenza) della biosfera su questa calamità planetaria è eccezionale. Si pensi al respiro del mondo. Le piante verdi di tutti i continenti inalano tanto carbonio, per il processo di fotosintesi, che ogni anno ne estraggono dall’atmosfera circa 100 miliardi di tonnellate. Allo stesso tempo, gli animali e le piante di tutto il mondo esalano tanta anidride carbonica col processo della respirazione che rimettono in circolo nell’atmosfera circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio. Un re-

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spiro profondo. Poiché l’atmosfera nel suo complesso contiene solo circa 700 miliardi di tonnellate di carbonio, ciò significa che per lo sbalorditivo ritmo metabolico della vita tutta l’anidride carbonica esistente sul pianeta Terra deve essere passata dentro e fuori dell’atmosfera ogni sette anni (non è che la vita possa prendersi mai il settennale anno sabbatico). Come abbiamo visto in precedenza, il respiro della Terra sta già cambiando: ogni anno è più profondo dell’anno prima. Se la vita dovesse mettersi a inspirare un po” più di quello che espira, se il suo ritmo respiratorio si sbilanciasse in questa direzione anche di pochi punti percentuali, questo basterebbe per sottrarre all’atmosfera, ogni anno, miliardi di tonnellate di

carbonio.

Esso resterebbe imprigionato nel mondo dei fusti legnosi, dei

tronchi, dei funghi a ombrello, dell’humus dall’odore dolciastro, nessuno

dei quali determina effetto serra. D'altra parte, se la biosfera dovesse incominciare a espirare appena un po’ di più di quanto inspira, allora miliardi di tonnellate di carbonio si alzerebbero ogni anno dalle foreste e dal sottobosco verso il cielo. La vita contribuirebbe non poco, in tal caso, al surriscaldamento dell’atmosfera.

In altre parole: se aumenterà la fotosintesi ma la respirazione non si modificherà, la biosfera estrarrà carbonio dall’atmosfera. Se aumenterà invece

l’ampiezza del respiro del mondo e la fotosintesi non si modificherà, allora la biosfera immetterà carbonio nell’atmosfera. È facile vedere perché potrebbe aumentare la fotosintesi clorofilliana. L’anidride carbonica è un ottimo fertilizzante per le piante verdi. Coloro che si occupano per professione di serre usano raddoppiare o triplicare in esse la quantità di anidride carbonica, ben sapendo che questo gas accelera la crescita delle loro piantine, dai pomodori alle orchidee. Le piante ne sono ghiotte. Ma il gas in più che stiamo aggiungendo all’atmosfera sta anche fertilizzando lo spazio attorno a noi, nella Grande Serra? È difficilissimo dimostrarlo. Per fare un esperimento decisivo, un ecologo dovrebbe coltivare vari boschi di pini e di querce entro varie atmosfere artificiali, e misurare i risultati a distanza di cinquant'anni. La prova richiederebbe quindi molta pazienza e molto denaro. In mancanza di esperimenti, Keeling, Revelle e molti altri pensano che è facile supporre che l’aumento dell’anidride carbonica sia un elemento utile per lo sviluppo delle piante. Da questo punto di vista, l'aumento costituirebbe un beneficio del mutamento climatico globale

attualmente in corso. Quest’arricchimento del mondo vegetale amplierebbe la biosfera e contribuirebbe nel contempo a rallentare il ritmo di crescita del

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gas, secondo un tipo di feedback da salutare con gioia. George Woodwell, direttore del Centro di Ricerche di Woods Hole, è un’autorità mondiale nello studio del metabolismo delle foreste. E uno dei pochi ecologi che abbiano cercato di misurarlo effettivamente per vedere che cosa succede. Egli è d’accordo nel pensare che il gas costituisca un buon fertilizzante per le piante, ma pensa che coloro che si limitano a prendere in considerazione quell’effetto trascurino qualcosa. Negli anni Sessanta Woodwell, Richard Houghton e altri installarono un sofisticato sistema di

monitoraggio in un bosco a Brookhaven, nello stato di New York, per misurare la quantità di anidride carbonica che esso inalava ed esalava. Era una ricerca analoga a quella che Keeling aveva fatto “a mano” un decennio prima nel Parco Nazionale Yosemite riempiendo le sue cassette di ampolle di vetro. A Brookhaven invece il monitoraggio, eseguito in vari punti del bosco, era continuo e durava tutto l’anno. I ricercatori osservarono qualcosa che non prometteva niente di buono: più caldo era il clima __ sia estivo, sia invernale __ più elevate erano le

quantità di anidride carbonica esalate dal bosco. I fisiologi hanno un termine tecnico per definire il cambiamento del ritmo respiratorio derivante da un aumento della temperatura di 10 °C: Quo. Se una quercia ha un Quo di 2 significa che la temperatura è aumentata di 10 °C. Il che vuol dire, spiega Woodwell, che innalzando la temperatura di 1 °C si può far aumentare il ritmo respiratorio del bosco anche del 25%. Un riscaldamento di 4 °C può dunque raddoppiarlo. Valutando tutti questi dati sul bosco studiato, Woodwell si sentì inorridire al pensiero di quello che potevano significare. « La fotosintesi non subisce molto l’influenza della temperatura » dice. « È invece legata alla quantità di luce alla disponibilità di sostanze nutritive e di acqua. La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera figurerebbe molto in basso nell’elenco, al decimo posto o giù di lì. « La respirazione, al contrario, subisce l’influenza della temperatura, della temperatura e ancora della temperatura. » Secondo Woodwell, questo porta decisamente a ritenere che il riscaldamento globale favorisca la respirazione ai danni della fotosintesi. Potrebbe più che raddoppiare il ritmo della respirazione globale, incrementando solo in misura irrilevante la fotosintesi. Il respiro del mondo verrebbe sconvolto, e la biosfera scaricherebbe carbonio nell’atmosfera a profusione. La cosa potrebbe anche non accadere. È solo un filo nella fitta trama delle possibilità. Ma lo scenario prospettato da Woodwell è allarmante a causa degli enormi quantitativi di carbonio in gioco. Non si discute sul fatto che il

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respiro del mondo stia cambiando; e la quantità di carbonio attualmente trattenuto nelle foreste e nello strato di foglie morte che si accumula sotto gli alberi rappresenta circa 1500 gigaton. Tre volte la quantità di carbonio oggi presente in tutta l’atmosfera. E gran parte di questo carbonio è altamente mobile, come fa notare Woodwell: « La curva di Keeling dimostra che il metabolismo della foresta potrebbe modificare l’atmosfera in poche settimane ». A rendere ancora più allarmante lo scenario di Woodwell è proprio lo stesso effetto di feedback che minaccia di cancellare la calotta glaciale artica e di far evaporare miliardi di tonnellate di metano imprigionate nei fanghi dei fondali. È il tipo di feedback che Arrhenius descriveva nel 1896 (prima ancora che si coniasse il termine feedback, o retroazione). Il riscaldamento

globale provocherà il ritiro delle neve alle alte latitudini dell'emisfero boreale, esponendo ai raggi solari una superficie sempre maggiore di terreno, scuro, e di acque, scure anch’esse, col risultato che le temperature in questa regione del globo saliranno molto più e molto più rapidamente dalla media globale. La temperatura al polo resterà più fredda che all’equatore, ma non sarà molto più fredda __ la differenza dovuta alla latitudine si ridurrà sempre di più. Così, l’estremo Nord del pianeta è il “punto caldo” più paventato nelle previsioni dell’effetto serra. E dove il mondo respira più profondamente? Nel punto caldo. Lo si può vedere nella curva di Keeling. La famosa registrazione di Keeling è oggi una delle tante serie di rilevazioni dell’anidride carbonica che si raccolgono con strumenti collocati a tutte le latitudini. Ciascun rivelatore serve a elaborare la curva della respirazione della biosfera alla latitudine in cui si trova. I rivelatori di anidride carbonica dell’ Università dell’ Alaska, a Point Barrow,

segnalano a Keeling una straordinaria ampiezza di oscillazione: 20 parti per milione:

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I suoi rivelatori sul Mauna Loa, che si trova più che a metà strada fra 1° Alaska e l’equatore, registrano invece un’escursione di solo 5 o 6 parti per milione:

E gli strumenti che registrano i dati al Polo Sud gli segnalano un’ampiezza di oscillazione di solo 1 parte per milione, un respiro appena percettibile:

Ciò che se ne deducè è che il grosso della respirazione del pianeta si compie attraverso le immense distese di tundra e le foreste di sempreverdi che occupano gran parte del Canada e della Siberia, nonché attraverso le folte foreste di piante decidue del Nordamerica, dell’Europa settentrionale e del-

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la fascia asiatica temperata. Tutte queste piante sono predestinate a un maggiore rialzo di temperatura di qualsiasi altro scomparto della biosfera. Già negli ultimi cent’anni il globo terracqueo nel suo insieme si è riscaldato di circa 0,5 gradi centrigradi, e si pensa che la temperatura del “punto caldo” abbia avuto, in questo fenomeno globale, un rialzo di un buon grado centigrado.* Se Woodwell ha ragione a proposito del Quo della biosfera, il riscaldamento globale degli ultimi cent'anni ha già acelerato il ritmo respiratorio della tundra e delle foreste fino a portare l'ampiezza della respirazione dell’intera biosfera qualche punto percentuale al di sopra della norma. Se è così, la biosfera sta ora emettendo nell’atmosfera qualche gigaton di carbonio ogni anno — con ogni respiro del mondo. Secondo Woodwell, questo spiega il cambiamento che si osservava in questo gigantesco respiro. Il grande timore di Woodwell è che il riscaldamento si autopotenzi. Più rapidamente si scalderà il pianeta, peggio sarà per gli alberi, e più carbonio entrerà nell’atmosfera, più rapidamente il pianeta si scalderà. Woodwell pensa che oggi stiamo assistendo all’inizio del disfacimento di una larga parte della biosfera. « Quando la respirazione avrà superato la fotosintesi » scrive « le piante e gli altri organismi viventi cesseranno di accrescersi e alla fine moriranno. » Alla lunga, altri alberi nasceranno fra i tronchi caduti e

ne prenderanno il posto. Le conifere sempreverdi dell’estremo Nord moriranno, e alla fine le latifoglie decidue provenienti dal Sud raggiungeranno il nuovo clima del Nord e vi si insedieranno. Ma sul breve periodo, nell’arco

dei decenni, vaste estensioni del punto caldo si ridurranno a una landa desolata, in una « ondata di impoverimento biotico non meno radicale di tutti i

mutamenti un tempo causati dalla glaciazione ». Scrive Woodwell: « La repentina distruzione delle foreste provocata dall’inquinamento atmosferico, in corso nell’Europa settentrionale e centrale e * Anche il riscaldamento dei tropici potrebbe essere pericoloso, benché dalla curva di Keeling non risulti che lì vi sia un “respiro profondo”. La curva di Keeling evidenzia la risposta della biosfera all’alternarsi di estate e inverno. Ai tropici, la differenza fra queste due stagioni è così piccola che l’emissione di anidride carbonica da parte della foresta pluviale si mantiene suppergiù identica per tutto l’anno. Vale a dire che ogni giorno, da gennaio a dicembre, gli alberi assorbono una certa quantità di carbonio dall’aria e gliela restituiscono. Poiché le quantità di carbonio assorbito ed emesso sono in equilibrio, la foresta tropicale non muove gran che la curva di Keeling. Però, se il riscaldamento del pianeta dovesse modificare l’e-

quilibrio fra la fotosintesi e la respirazione nelle foreste tropicali, queste potrebbero incominciare a riversare ogni anno molti gigaton di carbonio nell'atmosfera (che si aggiungerebbero a quelli che emettono oggi quando noi le tagliamo, le squarciamo o le diamo alle fiamme).

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nella fascia montana orientale del Nordamerica, è solo un esempio della di-

struzione che sembra dobbiamo aspettarci in futuro ». L’aria. Si determineranno effetti di feedback anche nell’atmosfera. Le nuvole, ad esempio, potrebbero esercitare un effetto fra i più potenti. Coprendo mediamente in qualsiasi momento metà del'cielo, esse respingono la luce solare prima ancora che abbia il tempo di raggiungere la superficie del pianeta. In questo modo contribuiscono a raffreddarlo. D'altra parte, le nubi sono essenzialmente costituite da vapor acqueo, e il

vapor acqueo è uno dei gas che causano l’effetto serra. Perciò contribuiscono anche a riscaldare la Terra. Chiunque si trovi sotto una nube in un giorno assolato avrà costatato la relativa frescura causata dalla nube. E chiunque abbia dormito sotto la tenda in un notte nuvolosa ne avrà notato il relativo tepore rispetto a una notte serena. L’effetto serra può far aumentare la copertura nuvolosa del pianeta, poiché il riscaldamento globale farà salire la temperatura delle acque di superficie (ha già subito un brusco rialzo negli anni Ottanta, secondo le rilevazioni dei satelliti). Il riscaldamento provocherà l’evaporazione di una maggior quantità di acqua, arricchendo l’atmosfera di vapor acqueo e favorendo una maggiore formazione di nubi. In fin dei conti, queste nuove nubi tenderanno a raffreddare o a riscaldare

il pianeta? Nel primo caso, ci troveremmo di fronte all’azione di un termostato globale, che funzionerebbe più o meno così. L’aria si scalda. La superficie dei mari si scalda. Il tasso di evaporazione sale. Il cielo si copre di nuvole. La temperatura scende. Questo meccanismo ci fornirebbe almeno un valido strumento per contrastare le paurose possibilità che gli scienziati preconizzano per gli anni a venire. E se invece le nuove nubi riscaldassero il pianeta? Allora di troveremmo a dover affrontare un feedback di ben altro genere. L’aria si scalda. La superficie marina si scalda. Il tasso di evaporazione sale. Il cielo si copre di nubi. Aria e acqua si riscaldano ancora di più: un altro incubo. Le nuove nubi agirebbero allo stesso modo del feedback positivo costituito dalla fusione dei ghiacci polari, della rapida ascesa alla superficie e nell’aria di grandi quantità di metano, e dalle piante che muoiono. Particolari come quelli dell’altezza delle nuove nubi avranno un’importanza determinante per il loro effetto sull’atmosfera. Secondo le vedute scientifiche attuali, il loro carattere è esattamente l’opposto di quello che supporremmo osservandole. Le nubi altissime esercitano un deciso effetto serra. Nei prossimi dieci anni, se vedremo in cielo un maggior numero di 136

bianchi cirri sfrangiati a coda di cavallo, tanto simili, diremmo, ai disegni tracciati dai cristalli di ghiaccio sul vetro di una finestra, dovremo pensare che forse quelle nubi contribuiscono al surriscaldamento del pianeta. Le nuvole basse, invece, hanno un marcato effetto raffreddante. Se vedremo sopra le nostre teste molti più di quegli spessi strati che suggeriscono l’idea di morbidi piumoni, la cosa può significare che le nubi stanno contribuendo a raffreddare il nostro pianeta. I modelli dei supercomputer non sono ancora in grado di prevedere quale sarà il tipo di nubi prevalente. Visto che la Terra si è già riscaldata di circa 0,5 °C, è possibile che i nostri cieli abbiano già incominciato a cambiare, ma nessuno può essere certo neppure di questo, perché fino a poco tempo fa nessuno aveva studiato con sufficiente attenzione le nubi. Negli anni Ottanta, sono stati iniziati programmi di ricerca intensivi a mezzo di satelliti per il monitoraggio delle nubi. Attuando uno dei più ambiziosi di tali programmi, oggigiorno, tre satelliti, lanciati fra il 1984 e il 1986, vigilano simultaneamente i grandi banchi di nubi che vagano nell’atmosfera. Il programma si chiama ERBE, sigla di “Earth Radiation Budget Experiment”, un programma per fare un bilancio delle radiazioni che raggiungono la Terra o ne emanano. Insieme, i tre satelliti tengono sotto controllo prati-

camente tutta l'atmosfera da un polo all’altro. Misurano la quantità di radiazione solare che raggiunge ogni punto del globo, quanta ne viene respinta dal “tetto” dei banchi di nubi, quanta energia è riflessa dal terreno. Raffrontando le radiazioni in entrata e quelle in uscita, i ricercatori possono incominciare a studiare sistematicamente il ruolo che hanno le nubi nel bilancio energetico della Terra. Il primo rapporto su questo bilancio planetario è stato pubblicato nel gennaio del 1989. Esso si riferisce a un mese soltanto, all’aprile del 1985; ma i

responsabili del progetto, dopo aver sottoposto a un esame preliminare i dati raccolti in alcuni altri mesi, pensano che possa essere ritenuto sufficientemente rappresentativo. Durante quell’aprile, vi furono estese formazioni di cirri sulla fascia tropicale dell'Oceano Indiano e del Pacifico, nonché sopra

le foreste pluviali sudamericane e sulle rotte predilette dagli uragani dell’ Atlantico e del Pacifico. Tutte queste nubi si erano rivelate causa di un forte effetto serra. Nello stesso periodo, vi furono formazioni nuvolose basse e fredde nell’Atlantico, nel Pacifico settentrionale e in quella fascia alle medie latitudini dell’emisfero australe che si trova intorno ai 40° lat. S chiamata, a causa delle violente tempeste che spesso vi infuriano, “i Quaranta Ruggenti”.

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Queste nubi avevano esercitato una energica azione di raffreddamento. Facendo un bilancio globale, sembra che le nubi, in quel mese di aprile,

siano servite più ad abbassare che a far aumentare la temperatura del pianeta. Senza le nubi, la Terra sarebbe stata più calda; invece, esse la raffredda-

rono più di quanto non l’avrebbe riscaldata un raddoppio dell’anidride carbonica del mondo intero. In questo decennio, i satelliti dell’ERBE, e altri, potrebbero dirci di più circa il tipo di feedback che possiamo aspettarci dalle nuvole. Si potrebbe forse preannunciare la presenza di nuove nubi, e stabilire in anticipo se avranno effetti positivi o negativi per il pianeta. Recentemente, un gruppo di esperti ha sottoposto a prove una dozzina di diversi modelli climatici della Terra. Ciascun modello del pianeta fu elaborato al computer con e senza una copertura nuvolosa. Senza le nubi, le predizioni dei modelli a riguardo del riscaldamento globale collimavano quasi perfettamente. Ma con le nubi, le differenze fra i risultati dei calcoli fatti in base al comportamento dei modelli variavano di un fattore 3. Ramanathan, capo del gruppo che conduce l’esperimento ERBE, avverte che sarebbe un errore presumere che le nubi ci salveranno. Possono forse aiutarci. Se ci aiuteranno molto, potranno forse impedire la sparizione della calotta glaciale artica, la fusione e la fuga del metano dai fondali marini, il

disfacimento dell’atmosfera, tutte propettive spaventose legate al riscaldamento globale. Ma le nubi potrebbero anche non agire da termostato. Non sempre lo fanno, chiaramente. La spessa coltre di nubi che copre Venere e impedisce al 95 per cento della luce solare di raggiungerne la superficie non impedisce che l’effetto serra venusiano riscaldi quella stessa superficie fino a portarla al punto di fusione del piombo. «Il ruolo svolto dalla nuvolosità è forse l’incertezza, l’incognita maggiore dell’effetto serra » dice Richard Somerville della Scripps Institution. « È questa la principale ragione per cui non possiamo quantificare l’effetto serra che si verificherà durante la nostra generazione. » Il Sole. E intanto il Sole picchia. Quasi tutte le previsioni sul riscaldamento globale partono dall’assunto (per mancanza di maggiori informazioni) che nel XXI secolo la luce solare avrà la stessa luminosità che nel XX. I modelli elaborati al computer trattano il Sole come una costante. Ma coloro che studiano il Sole sono di altro avviso. Sette generazioni di pazienti astronomi hanno tenuto sotto osservazione il Sole, per scoprire se l’intensità della sua luce sia stabile o variabile. Da due secoli, ormai, gli

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specialisti che seguono dall’alto di remote cime montane la vita del Sole sono venuti accumulando tante osservazioni e tali prodigiosi elenchi di dati che a volte sono stati indotti a misurare anche la lunghezza che occupavano su un foglio: un tabulato, si dice, era largo 45 centimetri e lungo ben 60 metri. Dopo due secoli, è stato mandato nello spazio uno strumento eccezionalmente preciso per misurare l’intensità della luce solare. Lo ha lanciato la NASA il giorno di san Valentino del 1980, a bordo di un satellite chiamato Solar Max. Il Solar Max era in orbita circumterrestre a una quota di circa 650 chilometri, praticamente ai limiti estremi dell’atmosfera. Gli strumenti di cui era munito diedero agli astronomi, legati alla Terra, la prima visione veramente chiara del Sole. Il fotometro di Solar Max rivelò che la quantità di luce solare che raggiunge la Terra varia di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese e di anno in anno. Le variazioni fra un giorno e l’altro che lo strumento captò raggiungevano l’ampiezza anche dello 0,25 per cento. Si appurò inoltre l’esistenza di un andamento ben preciso. Negli anni fra 1’80 e 1’85 la luce solare si offuscò mediamente dello 0,019 per cento l’anno. Questo andamento fu confermato mediante altre misurazioni effettuate da razzi, palloni d’alta quota e dal satellite meteorologico Nimbus-7. È ben noto che anche un minimo cambiamento del Sole significa un grande cambiamento per la Terra. Se la luce solare diventasse più intensa anche solo del 2 per cento nei prossimi cent'anni, riscalderebbe l’atmosfera terrestre quasi quanto lo farebbe il raddoppio dell’anidride carbonica che contiene attualmente. Il 4 per cento di luce in più che raggiungesse il nostro pianeta equivarrebbe a quintuplicare l’anidride carbonica. L’8 per cento in più lo riscalderebbe come se accumulassimo nell’atmosfera una quantità di anidride carbonica trenta volte maggiore di quella che c’è. Come si è detto, il pur minimo cambiamento del sole si traduce in un grande cambiamento per noi. In certi modelli di clima, per determinati punti instabili del regime climatico, se il creatore del modello accresce il valore dell’insolazione solo dello 0,0002 per cento, il modello può balzare da

un’epoca glaciale alla totale assenza di ghiacci. Alcuni studiosi di scienze della Terra sospettano che il Sole abbia brillato con luminosità notevolmente superiore alla media almeno due volte durante la nostra èra geologica: circa 5000 e circa 1000 anni fa. Il primo dei due episodi è chiamato l’ Altitermico (il periodo di calore alto). L’Altitermico potrebbe aver avuto una forte influenza sulla nascita delle prime grandi civilità, da quella cinese a quella dei Sumeri, dalla minoica

a quella di Harappa nella valle dell’Indo.

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Il secondo episodio è chiamato l’Optimum Medievale. Nell’XI secolo della nostra èra, la temperatura media del globo era di 1-2 °C superiore all’attuale. Per un certo periodo si sa che prosperavano in Inghilterra ben trentotto vigneti e che le uve di York e dello Heresfordshire erano considerate non meno buone di qualsiasi uva, e vino, di Bordeaux e della Champa-

gne. È possibile che non si riesca mai a scoprire che cosa abbia determinato questi lunghi periodi caldi. Se è stato il Sole, e se i gas da effetto serra surriscalderanno il pianeta nei prossimi cent'anni, allora un altro aumento della luminosità solare sarebbe per noi disastroso. Questa possibilità può moltiplicare le nostre paure, poiché accelererebbe il verificarsi dei fenomeni che paventiamo. D'altra parte la luce del Sole potrebbe anche essersi offuscata una decina di volte negli ultimi 10.000 anni. Queste Piccole Ere Glaciali o Piccole Glaciazioni, come sono generalmente chiamate, durarono anch’esse all’incirca due secoli, come i periodi caldi. L’ultima volta, sembra che la luce solare si

sia attenuata molto rapidamente. Barbara Tuchman ha così descritto le conseguenze di questo fenomeno nel suo libro A Distant Mirror: Un clima rigido si instaurò a un tratto proprio all’inizio del XIV secolo, dando il via alle molte sofferenze che sarebbero venute.

Il Mar Baltico gelò due volte, nel

1303 e nel 1306-07: seguirono anni di freddi fuori stagione, piogge e tempeste, cui si accompagnò un aumento di livello del Mar Caspio. I contemporanei non potevano sapere che era l’inizio di quella che sarebbe stata chiamata la Piccola Glaciazione. Né potevano sapere che a causa dell’irrigidimento del clima le comunicazioni con la Groenlandia si sarebbero gradualmente diradate fino a cessare del tutto, che gli insediamenti dei Vichinghi nella grande isola erano condannati all’estinzione, che la coltura del grano sarebbe scomparsa dall’Islanda e si sarebbe drasticamente ridotta anche in Scandinavia.

Fu come se qualcuno avesse abbassato la luce del Sole con un reostato o con un regolatore elettronico, lasciandola così per secoli. I ghiacciai dell’emisfero boreale avanzarono a sud più di quanto non avessero fatto da 15.000 anni. Peter Bruegel dipinse le sue famose scene con paesaggi innevati, e Hans Brinker vinse i pattini d’argento sui canali olandesi coperti da uno spesso strato di ghiaccio. Secondo i rilevamenti del fotometro collocato a bordo del Solar Max, nel 1986 il Sole uscì dal suo appannamento durato sei anni e tornò a brillare con maggiore intensità. Forse è stata una sfortuna. Se la luce solare avesse seguitato a diminuire di intenstià con lo stesso, lento ritmo di quei sei anni per un secolo, la cosa sarebbe stata sufficiente per farci evitare in gran parte il

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riscaldamento globale che i modelli prevedono attualmente. E sarebbe stata altrettanto benefica per noi quanto molti nuovi banchi di strati o stratocumuli. Avrebbe cortocircuitato gli incubi che ci tormentano. Nessuno sa perché il Sole si offuschi o diventi più brillante, e nessuno sa quale direzione la sua luce prenderà nei prossimi cent’anni. A differenza di quasi tutte le sfere, questa è al di fuori di ogni nostra possibilità di intervento. Possiamo solo sperare in bene. « Se la produzione di energia del Sole dovesse diminuire o accrescersi in misura considerevole » annotava uno dei grandi studiosi dell’astro, Charles Abbot, « l’avvenire stesso della civiltà sarebbe distrutto. » Nei prossimi cent’anni, basterebbe un cambiamento an-

che più piccolo di qualsiasi altro verificatosi in passato per distruggere la civiltà, se lo stesso avvenisse nella direzione sbagliata. La litosfera. Ecco un’altra sfera sulla quale non ci è dato influire. V’è sempre della roccia fusa che si infiltra verso la superficie attraverso la crosta terrestre. Parte di questo magma che sale dalle profondità del globo troverà vie di sfogo in molti punti del pianeta nei prossimi cent'anni, come ha fatto nei cent’anni passati e come fa da sempre. Ogni bollettino pubblicato dallo Scientific Event Alert Network della Smithsonian Institution elenca nuovi fenomeni vulcanici: Lonquimay (Cile) Colima (Messico)

Kick’em-Jenny (Indie occ.) Kilaeua (Hawaii)

Un’eruzione da fessura produce emissione di materiale piroclastico e colata lavica. Segnalate bombe; piccole nubi di cenere; nuove fumarole. L’attività sismica fa pensare a una eruzione sottomarina. Colata lavica continua in mare, fughe di lava dal condotto principale.

E così via: i titoli da prima pagina della litosfera. Anche il luogo da cui ha tratto origine la stessa parola “vulcano”, cioè l’isola di Vulcano, nelle Eo-

lie, così chiamata dai Romani in onore del fabbro dell'Olimpo e dio del fuoco e dell’arte metallurgica, potrebbe essere teatro di un’eruzione; oggi tuttavia il vulcano dell’omonimo monte è quiescente. Attraverso i vulcani, perfino la litosfera è in grado di far salire o scendere

la temperatura del pianeta nei prossimi cent’anni. Siamo stretti in una sorta di sandwich fra due sfere che non possiamo dominare, la sfera del fuoco e quella della pietra, ciascuna delle quali può modificare il ritmo del riscaldamento globale.

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La più grande eruzione vulcanica da cinquecento (o forse da diecimila) anni a questa parte avvenne nel 1815, allorché il Monte Tambora, nell’isola indonesiana di Sumbawa, esplose. Il cielo d’aprile divenne nero come pece in un raggio di oltre 300 chilometri. Charles Lyell parlò di questo “cielo nero” nei suoi Principles of Geology: « L’oscurità causata in pieno giorno nell’isola di Giava era così profonda che niente di simile si era registrato nemmeno nella notte più oscura ».* Entro il mese di giugno, le temperature erano diminuite di vari gradi sotto la media al capo opposto del mondo. Nel Vermont, Hiram Harwood annotò nel suo diario che il mais « fu ucciso malamente, e a momenti non se ne vide

affatto ». Nel Connecticut, così scriveva Calvin Mansfield: « Grande gelata... dobbiamo imparare a essere umili ».

A Manhattan, molti uccelli canori

caddero a terra stecchiti per il troppo freddo. Perfino nel Sud degli Stati Uniti, in Virginia, l’illustre agricoltore-presidente Thomas Jefferson, nella sua tenuta di Monticello, perse tanto mais che fu costretto a chiedere al suo amministratore un prestito di 1000 dollari. Nel folklore yankee, quell’anno memorabile diventò “quell’Ottocento che si moriva di freddo” (decine e unità erano state dimenticate,

e comunque potevano essere trascurate).

L’oceanografo Henry Stommel e sua moglie Elizabeth riferiscono questi eventi nel loro libro Volcano Weather: The Story of 1816, The Year Without a Summer (“Tempo vulcanico: storia del 1816, l’anno senza estate”). Lo stesso anno, il gelo distrusse il raccolto delle patate in Irlanda. In Francia vi

furono tumulti di contadini a causa di pochi sacchi di grano; in Svizzera, granturco, pane e patate erano così scarsi che i mendicanti delle vie di Zurigo si ridussero a mangiare i gatti. Fu un disastro planetario. In ogni parte del mondo la gente passò attraverso sofferenze e miserie quasi identiche. Negli Stati Uniti oltre diecimila persone fuggirono verso sud e verso ovest dal Vermont e dal Maine, in un esodo paragonabile, per quei tempi, a quello avvenuto nell’Oklahoma a metà degli anni Trenta di questo secolo, quando l’erosione del suolo portò alla nascita del Catino di Polvere. Contemporaneamente in Cina, la parte della

* Quella del Tambora fu un’eruzione cento volte più potente di quella del Monte St. Helens, del 1980, e dieci volte più di quella del Krakatoa, del 1883. Fu più tremenda anche della famosissima eruzione di Thera (Santorini) nell’Egeo, avvenuta intorno al 1740 a.C., che probabilmente causò la

fine della civiltà minoica cretese e diede origine alla leggenda dell’ Atlantide. All’esplosione di Thera, avvertita in tutto il Mediterraneo orientale, potrebbe riferirsi il racconto biblico della nona piaga

d'Egitto. « A quel tempo scese un’oscurità sopra la terra d'Egitto, financo un’oscurità che si poteva toccare. » Un’espressione che fa venire in mente l’implacabile oscurità scesa dopo l'esplosione del Tambora.

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regione nord-orientale dove si trova la provincia dello Shanxi (e che è alla stessa latitudine del Vermont e del Maine), fu colpita da intense gelate e

dalla carestia. Anche qui, i contadini dovettero abbandonare i campi e fuggire a sud o a ovest. A raffreddare il pianeta non furono le nere ceneri vulcaniche di cui parlava Lyell. La cenere ricade troppo rapidamente a terra per poter modificare le condizioni atmosferiche. Oggi si pensa piuttosto che a provocare il fenomeno furono dei composti gassosi di zolfo, che essendo più leggeri della cenere possono essere trascinati nella corrente di convenzione generata da un’eruzione vulcanica fino a penetrare nella stratosfera, dove in parte for-

mano splendenti goccioline di acido solforico. Queste goccioline possono riflettere i raggi solari, respingendoli nello spazio, in tal misura che è come se l’intensità della radiazione solare si riducesse del 2 per cento. Il vulcano spalanca quindi una sorta di parasole fatto di acido sopra il pianeta. Visto da terra, sembra una sottile copertura di altissimi cirri. Le goccioline restano nella stratosfera da uno a due anni. I ricercatori del Centro di Ricerche sul Clima diretto da Wigley nell’East Anglia hanno elaborato una rassegna storica delle eruzioni vulcaniche, co-

statando che moltissime delle più violente di esse sono state seguite da un significativo raffreddamento dell’atmosfera. Una grande eruzione che avvenga in un punto qualsiasi della Terra può far scendere la temperatura media globale di oltre 0,5 °C per un anno intero. La Terra non sperimenta da decenni eruzioni di questo tipo. Pur tuttavia i minuscoli detriti vulcanici che sono sospesi nella stratosfera come tanti veli sbrindellati ancor oggi abbassano la temperatura del pianeta di circa 3. °C rispetto a quella che potrebbe essere. Se avessimo una serie di eruzioni esplosive come quella del Tambora nel terzo millennio (ben distribuite, diciamo una ogni dieci anni), la temperatura globale ne risulterebbe abbassata in misura assai maggiore. Certo, un offuscamento del Sole ci converrebbe di più. Il disastro del Tambora uccise 100.000 persone, e l’acido solforico che si forma a causa

delle eruzioni vulcaniche contribuisce a erodere lo strato di ozono presente nella stratosfera. Infine ricade al suolo sotto forma di piogge acide. Un secolo di Tambora non sembra una prospettiva allettante, tranne che per la frescura dell’aria. I vulcani potrebbero aver già combattuto una volta l’effetto serra, a nostro vantaggio, secondo quanto ritiene Reid Bryson, direttore dell’Istituto di Studi Ambientali dell’Università del Wisconsin, a Madison. Nel periodo 1945-75 il nostro pianeta, come abbiamo visto, attraversò una fase di raf-

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freddamento nonostante l’accumulo nell’atmosfera di gas che provocano l’effetto serra. In quello stesso periodo, nota Bryson, il numero di eruzioni vulcaniche verificatesi ogni anno fu doppio rispetto alla media, balzando da meno di venti a quasi quaranta. Bryson ha riesaminato la misurazioni della costante solare (la quantità di energia trasmessa dal Sole per unità di tempo, 1 minuto, a un’unità di superficie 1 cm°, esposta perpendicolarmente ai suoi raggi) fatte dal Mauna Loa e da altre cime. Egli crede che anche l’opacità dell’atmosfera si sia raddoppiata, durante quegli anni. I vulcani, dunque, combattevano il calore. Con ogni probabilità sia i vulcani, sia il Sole, nei prossimi cent’anni avranno un’influenza minore di quella che eserciterà l’anidride carbonica. « La gente cerca un qualcosa che venga da fuori a tirarci fuori dai guai » dice un analista dell’effetto serra « ma il peso dei dati ci fa pensare che i guai siano troppo grossi perché questo sia possibile. » Ciò nondimeno, c’è un grande incontro di lotta che si svolge sopra le nostre teste, e dobbiamo sperare che le forze dei contendenti si equivalgano. Se i prossimi cent’anni ci porteranno un buon numero di eruzioni vulcaniche, il pianeta potrebbe subire un riscaldamento inferiore al previsto. Ma se il XXI secolo vedrà meno eruzioni del XX, allora potrebbe accadere il contrario. Gli Stommel così concludono, in Volcano Weather: Da qui a un secolo la conservazione del nostro clima - e anzi della nostra vita — può dipendere dal precario equilibrio di due meccanismi scarsamente conosciuti, uno tendente a far aumentare la temperatura globale, l’altro a farla diminuire.

La mente. Einstein era solito esporre esaurientemente le implicazioni delle sue complesse teorie servendosi di immagini semplici: un osservatore in un ascensore che sta precipitando; un fratello gemello e un orologio ticchettante a bordo di una nave spaziale. Queste immagini costituivano i suoi famosi Gedanken Experimente, grosso modo “esperimenti mentali”. Assai più illuminanti, e meno pericolosi, del mettersi personalmente su un ascensore che

precipiti. Noi stiamo mettendo alla prova la teoria del cambiamento climatico per effetto serra con un esperimento che non è mentale, ma reale. Un esperimento che coinvolge tutto il pianeta. Fa di tutti noi, e dei nostri figli e nipoti, gli osservatori. Quanto tempo durerà prima di diventare così terrorizzante da sconvolgere popoli e governi? Quanto tempo prima che un numero critico di menti decida di porvi fine? Agli inizi degli anni Ottanta, Keeling tentò lui stesso un piccolo esperi-

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mento mentale, di questo tipo: supponiamo che il riscaldamento da effetto serra fosse iniziato cento anni fa, e cioè che noi avessimo incominciato a so-

vraccaricare l’aria di anidride carbonica un secolo prima di allora. Keeling tracciò un grafico nel quale la temperatura del pianeta andava su e giù in una curva a denti di sega del tutto analoga a quella registrata negli ultimi cent'anni, ma con un andamento gradualmente ascendente da un punto di

partenza più basso. Quanto tempo sarebbe passato prima che quell’andamento diventasse evidente a tutti, o quasi? In base a questo scenario, negli anni Cinquanta del secolo scorso saremmo stati già sul chi vive contro l’aumento della temperatura, e quando fossero giunti i risultati delle misurazioni relative al primo quinquennio avremmo detto: « Perdiana, sembra proprio che l’effetto serra sia una realtà, perché la temperatura non ha fatto altro che crescere in questi anni, e la cosa è allarmante ». « A quel punto » dice Keeling « una volta che si fosse placata la preoccupazione, avremmo assistito a uno spostamento delle temperature nella direzione opposta. E dopo essere andati avanti così per altri vent'anni, attorno al 1870-75 ognuno si sarebbe tranquillamente dimenticato dell’esistenza del problema. « Ma ecco che, in capo a altri dieci anni, la temperatura sarebbe risalita raggiungendo nuovi massimi, e poi altri massimi, e poi massimi più alti ancora. Nell’anno 1900 avremmo costatato una forte ondata di preoccupazione. « Ma anche nel 1900 sarebbero stati in molti a non credere nella esistenza di un effetto serra. Sarebbe subentrato un atteggiamento attendista. Anche perché nei dieci anni seguenti la temperatura non sarebbe discesa, ma non sarebbe neanche salita. Infine, eccoci colpiti dalla grande ondata calda degli anni Trenta. A quel punto, ci sarebbe stata una preoccupazione anche maggiore di quella che si era avuta negli anni Cinquanta del XIX secolo. « Ma anche così, mentre la gente sarebbe stata ancora a discutervi sopra, la temperatura avrebbe ripreso a scendere. La massa era stata in preda a forti timori, ed ecco che il livello medio del mercurio andava di nuovo giù. ‘Santo Cielo, non si può proprio dir niente!’, sarebbe stato il commento più diffuso. » Nel 1980, il numero delle persone preoccupate sarebbe stato sostanzialmente maggiore. Il numero sarebbe dipeso anche da alcuni particolari: se L’Avana fosse finita sott'acqua e Londra fosse stata minacciata di finirvi... «Ma» prosegue Keeling « direi che grosso modo questo sarebbe stato il punto in cui due terzi della Camera dei Rappresentanti si sarebbero riuniti

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in seduta congiunta con due terzi del Senato per votare una risoluzione in cui avrebbero concordemente ammesso l’esistenza dell’effetto serra. Sarebbe occorsa una massa di prove di questo genere per indurre due terzi del Congresso a mettersi d’accordo per riconoscerlo. E anche allora sarebbe potuto accadere che la Casa Bianca non fosse d’accordo. Ma si sarebbe stati vicini al consenso generale, no? «Il paradosso è che, prima di giungere effettivamene a metterci d’accordo, saremmo giunti al raddoppio! » Il livello dell’anidride carbonica nell’atmosfera sarebbe stato doppio rispetto a quello precedente alla Rivoluzione Industriale. « E naturalmente a quel punto non è più possibile arrestare il fenomeno. Il riscaldamento prosegue e nessuno può impedire che peggiori di anno in anno. » Questo è un esperimeno

mentale,

non una previsione.

Nella realtà, la

temperatura potrebbe salire più rapidamente o più lentamente. Ma a Keeling è servito per illustrare la natura del problema che ci attende nei prossimi cent’anni. « Se sarete scettici sul cambiamento del clima » mi disse vari anni fa « potrete tergiversare per un gran sacco di tempo prima di essere costretti a convincervi. Parlate al presidente di una società che produce sigarette della pericolosità del fumo di sigarette... Se ci sono solide ragioni economiche per non credere all’evidenza, non ci credete. Ecco perché due terzi del Congresso, oso predire, non si metteranno d’accordo per decidere di far qualcosa contro l’effetto serra prima che si arrivi praticamente al raddoppio dell’anidride carbonica, verso la metà del prossimo secolo. » È possibile che gli uomini abbiano riflessi più pronti e più buon senso di quanto non suggerisca l’esperimento mentale di Keeling. Forse ci vorrà meno tempo perché si passi all’azione. O forse ce ne vorrà di più. La prossima volta che la temperatura media globale si abbasserà, non si abbasserà anche il livello della nostra ansia?

Nessuno può calcolare tutti gli anelli di retroazione, i nodi del feedback. (Si considerino anche solo le correnti oceaniche. Aria più calda vorrà dire acque più calde e nuovi venti e nuove correnti. Queste nuove correnti potrebbero raffreddare il pianeta, oppure riscaldarlo. Potrebbero assorbire più anidride carbonica, o farla aumentare. Potrebbero far fiorire la vita nei mari, o soffocarla. E così via di seguito...) Gli scienziati stanno cercando di

calcolare in che modo potrebbero mettersi le cose. Nel 1983 Kellogg, delI’NCAR, prese in esame cinque nodi del feedback, ivi compresi i rischi di una scomparsa della calotta glaciale artica e di un’emersione del metano dal fondo marino. Kellogg è giunto alla conclusione che vi sarebbe probabil-

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mente una forte amplificazione dell’effetto serra. L'anidride carbonica potrebbe benissimo aumentare nell’atmosfera più rapidamente di quanto non si preveda oggi, e di conseguenza la temperatura globale potrebbe fare altrettanto. Nel 1989, Daniel A. Lashof, dell’Ente americano per la Protezione dell'Ambiente, ha pubblicato uno studio più esauriente. In esso ha cercato di

determinare l’andamento e gli effetti dei diversi andamenti possibili di cinque anelli di retroazione. E anch’egli è giunto alla conclusione che è più probabile che essi portino a un aumento della temperatura media del globo . che non a una sua diminuzione. Nei modelli che non tengono conto di questi anelli di feedback, si prevede che il pianeta subirà un riscaldamento di circa 3,5 °C nel prossimo secolo.

Ma se li mettiamo in conto, dice Lashof, allora l’aumento potrebbe essere doppio. In verità le incertezze sono tali che Lashof non si sente di escludere un riscaldamento globale anche di 8 o 10 °C. Eravamo al principio del 1986 quando Keeling faceva le sue pessimistiche previsioni circa la prontezza con cui l’umanità risponderà al pericolo. Dopo soltanto pochi mesi, da una stazione di monitoraggio situata nell’ Antardite si dava notizia di una nuova scoperta. Questo annuncio in breve tempo modificò l’atteggiamento e le prospettive dell’umanità quasi nella stessa misura in cui li aveva modificati a suo tempo l’annuncio fatto dalla stazione di monitoraggio dell’anidride carbonica atmosferica del Mauna Loa.

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3 Buchi nell’ozono “C'è un buco nel secchio,/cara Liza, cara Liza. C'è un buco nel secchio,/cara Liza, mio amor.” “E tu allora chiudilo,/caro Willy, caro Willy E tu allora chiudilo,/caro Willy, mio amor.” “Non posso, cara Liza...”

(Canzone popolare americana)

L’annuario Miner'’s Circular del 1939 fu pubblicato dal Dipartimento degli interni statunitense sotto il segretariato di Harold L. Ickes. Sulla prima pagina del libretto, erano elencate le sciagure minerarie accadute l’anno prima. Si erano registrate cinquanta fra esplosioni di gas e incendi, che avevano causato la morte di duecento minatori e il ferimento di altri cento. Si lamentava un “numero rilevante” di casi di morte per soffocazione, dovuta a eccesso di anidride carbonica o a carenza di ossigeno, o a entrambe le cause. In un incidente erano morti asfissiati due minatori; altri quattro che si erano avventurati nelle gallerie per salvarli avevano seguito la stessa sorte, perché il luogo dell’incidente era difficilmente accessibile e non vi

- erano maschere antigas. “È stato necessario far arrivare respiratori per via aerea al fine di recuperare le salme.” Gli autori della “Circolare del minatore” raccomandavano che ogni miniera organizzasse una propria “stazione di salvataggio”, fornendo un elenco dell’equipaggiamento necessario. L’elenco incominciava così: « 10 apparecchiature per l’autorespirazione, 1. bombola d’ossigeno di riserva per ogni apparecchiatura per l’autorespirazione ». Il resto comprendeva: un cavo di salvataggio lungo 300 metri, un generatore elettrico portatile, torce elettriche e lampade di sicurezza che, a diffe-

renza di quelle a petrolio, non potessero innescare un’esplosione di gas. Nell’elenco figurava poi qualcosa che sembra del tutto fuori posto in mezzo alla polvere di carbone e-alla febbrile attività dei soccorritori: “2 canarini e una gabbietta”. A quei tempi, e prima, i canarini salvarono forse un maggior numero di «vite delle maschere antigas. Certe fotografie che risalgono anche soltanto al

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1950 mostrano accigliati capi di squadre di salvataggio che reggono gabbiette con dentro dei canarini come se fossero lanterne destinate a indicar loro la strada. I minatori avevano infatti bisogno dei canarini, in quanto la maggior parte dei gas letali che si possono trovare nelle miniere — anidride carbonica, monossido di carbonio, metano, idrogeno — sono inodori. Poteva accadere loro

di perdere i sensi all’improvviso, a meno che uno non vedesse un compagno crollare al suolo a qualche distanza da lui nella galleria e avesse la prontezza di spirito di gridare: “Gas!”, lanciando così l’allarme. L’unico pericolo della miniera che potevano avvertire all’odore era l'acido solfidrico (da loro chiamato “umidità puzzolente”), che peraltro è anch’esso traditore: a bassissime concentrazioni puzza di uova marce, ma a concentrazioni elevate

non ha alcun odore. I minatori avevano provato a usare, per scoprire in tempo il pericolo, topi, galline, cagnolini, piccioni, passeri, porcellini d’India, conigli. Attraverso tentativi e (fatali) errori erano arrivati a scegliere il canarino: in presenza di monossido di carbonio e di “umidità puzzolente”, almeno, l’uccel-

lino di norma crollava nella sua gabbietta prima del minatore che la reggeva. Dopo la seconda guerra mondiale, sono stati inventati e introdotti nelle miniere rivelatori di gas più perfezionati. Ma ancor oggi, sulla copertina blu dell’ultima edizione del manuale per la sicurezza sul lavoro in miniera distribuito dal Dipartimento degli Interni americano, è impressa l’immagine di un piccolo canarino giallo. Fra i gas che si accumulano nell’atmosfera oggi vi sono quegli stessi che sono letali nelle miniere, quali l’anidride carbonica, il monossido di carbonio e il metano. Una delle ragioni dell'accumulo è proprio l’attività mineraria. « Stiamo facendo evaporare le nostre miniere di carbone », come diceva

Arrhenius nel 1896. Stiamo praticamente rivoltando come fosse un vecchio cappotto la crosta terrestre, e miliardi di tonnellate di carbonio che un tem-

po stavano innocue sotto i nostri piedi oggi, in parte grazie anche alla fatica irta di pericoli di molte generazioni di minatori, stanno sopra la nostra testa. Siamo in grado di controllare il pianeta come un giacimento carbonifero, mediante apparecchiature collocate a Point Barrow, sul Mauna Loa, al Polo Sud. Siamo in grado di rilevare ogni aumento dei gas al livello di parti per milione, per miliardo e perfino per trilione. Possiamo cercare di calcolare la sensibilità delle sette sfere ai cambiamenti che avvengono nell’aria. Ma non potremo mai sapere con precisione entro quanto tempo le sfere reagiranno a questo nuovo carico di gas fino al momento in cui la reazione

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avverrà: finché la Terra non abbia realizzato l’esperimento. Stiamo caricando l’atmosfera con lenti, graduali e costanti incrementi di peso ogni anno. Se il pianeta risponderà allo stesso modo, cioè con una reazione lenta e graduale crescente, l’umanità avrà il tempo di fronteggiarla. Almeno, questa era l’opinione prevalente nel mondo scientifico nella prima metà degli anni Ottanta. I cambiamenti « non saranno eventi clamorosi », prediceva Revelle. « Si tratterà di modificazioni ambientali lente e diffuse, che avverrano di anno in anno restando impercettibili alla maggioranza della gente... » Elmer Robinson, direttore dell’osservatorio del Mauna Loa, mi disse: « Il mutamento globale probabilmente sopraggiungerà con sufficiente lentezza perché si possano adottare misure. correttive. Qualunque cosa debba succedere, non succederà dalla sera al mattino ». Può anche darsi, però, che il sistema sia estremamente sensibile e che le sue reazioni avvengano dalla sera al mattino. In questo caso non avremmo modo di far marcia indietro, e forse nemmeno di andare avanti. Lo 0,5 per cento di anidride carbonica nell’aria di un pozzo di miniera

provoca l’affanno in pochi minuti. Il 10 per cento, a parità di tempo, provoca il collasso totale. Abbiamo bisogno di indicatori della sensibilità del sistema Terra. Un segnale d’allarme precoce si è presentato sopra le nostre teste, ed è la cosa più affine al canarino nelle miniere di carbone di cui possiamo disporre. La scoperta di questo segno nel cielo ricapitola la storia dell’effetto serra, ma con l’acceleratore. Anche qui abbiamo una prima profezia; il periodo del dubbio, durante il quale gli abitanti del pianeta hanno seguitato a vivere più o meno ignari sotto il vulcano; la crisi subitanea; il furioso dibattito scientifico. Ma questi eventi sono stati in così rapida successione che, a uno sguardo retrospettivo, sembrano conformarsi a quelle unità di tempo, di luogo e di azione prescritte da Aristotele per la tragedia greca; tutto, infatti, sembra essersi svolto in un solo giorno. La profezia. Nel 1971, il governo degli Stati Uniti diede il via a un’indagine, del costo di 21 milioni di dollari, chiamata Programma per la Valutazione dell’Impatto sul Clima (CIAP: Climatic Impact Assessment Program). Il Congresso stava discutendo se fosse opportuno approvare la costruzione di una flotta di aerei civili supersonici (SST: Supersonic Transports), Inglesi e Francesi stavano progettando la costruzione dell’SST Concorde, e i Sovietici quella di un altro SST, il Tupolev-114. Il Congresso incaricò gli scienziati del CIAP di studiare quali effetti l’entrata in servizio di una flotta aerea internazionale di questo tipo avrebbe po-

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tuto avere sull’atmosfera. Le preoccupazioni non si riferivano all’alta velocità dell’SST, ma alla sua quota di volo. Un normale reattore subsonico vola a un’altezza fra i 9000 e i 10.500 metri. Stando ai piani, il Concorde e il Tu-144 avrebbero volato a una quota di 16.000 metri; 1’SST proposto dalla Boeing a oltre 19.000 metri. Significava che sarebbero andati ben al di sopra della troposfera, pentrando profondamente nella stratosfera. * A quell’altezza, i residui di azoto combusto eiettati dagli ugelli di scarico dei reattori sotto forma di ossidi di azoto sarebbero rimasti sospesi per lungo tempo nella stratosfera, essendo questa troppo secca per eliminare gli agenti inquinanti mediante precipitazioni. È come un occhio privo di canale lacrimale, anzi, privo di lacrime. Gli scienziati del comitato del CIAP cal-

colarono che 500 supersonici civili in volo ogni giorno nella stratosfera avrebbero emesso nella stessa ossidi di azoto in quantità tali da ridurre del 10-20 per cento l’ozono che contiene. In un certo senso, era strana questa preoccupazione per l’ozono. L’ozono è un gas dall’intenso colore blu, dall’odore pungente, e velenoso. L’odore è quello caratteristico che si sente soprattutto nelle vicinanze delle centrali elettriche e durante e dopo i temporali. Il primo laboratorio in cui Keeling studiava l’anidride carbonica si trovava proprio di fronte a un altro laboratorio ove si conducevano esperimenti d’avanguardia sull’ozono (ai tempi in cui questo presentava un interesse puramente scientifico). Tutti quelli che lavoravano lì attorno avevano imparato a riconoscerne molto bene l’odore acre. Keeling ha ancora un particolare fiuto per quel gas. Pur essendo velenoso da respirare, al posto giusto, ossia nella stratosfera, l’ozono ha importanza vitale per la nostra salute. Esso blocca infatti le radiazioni solari ultraviolette che raggiungerebbero la superficie terrestre danneggiando le molecole del DNA negli uccelli, le api, le foglie verdi, e la pelle degli esseri umani. Forma una invisibile membrana che si interpone fra la Terra e lo spazio esterno. A circa 500 anni-luce da noi, nella costellazione di Orione, vi è una stella chiamata Betelgeuse, una supergigante rossa il cui diametro è circa 2000 volte maggiore di quello del Sole. Gli astronomi pensano che Betelgeuse stia avvicinandosi alla fine della sua esistenza e che potrebbe essere in procinto di esplodere... in epoca imprecisata fra poche migliaia o decine di migliaia di anni. Si è detto che se Betelgeuse esplo-

* La troposfera si gonfia all’equatore: cioè è più spessa sopra l’equatore che sopra i poli. All’equtore un aereo deve volare a oltre 16.000 metri di quota per uscire dalla troposfera ed entrare nella stratosfera. A latitudini medie, come quelle della rotta transatlantica del Concorde, basta volare a 11.000 metri; al Polo Nord, a poco più di 8000 metri.

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desse dando origine a una supernova, lancerebbe nella nostra regione dello spazio un tal diluvio di raggi X e ultravioletti da denudare la Terra dello strato superiore di ozono. Dopodiché le radiazioni ultraviolette del nostro

Sole friggerebbero la biosfera. Mentre ferveva il dibattito sugli aerei civili supersonici Sherwood Rowland e Mario Molina, che lavoravano all’Università della California, a Irvi-

ne, scoprirono che non avevamo bisogno di una flotta di SST per danneggiare lo strato dell’ozono, e che potevamo fare altrettanto usando gli spray con cui ci si deodora le ascelle, così come con tutti gli altri prodotti che contengono i clorofluorocarburi, i CFC che sono impiegati come refrigeranti per i frigoriferi e i condizionatori d’aria, e come agenti schiumogeni nei poliuretani. In effetti, i clorofluorocarburi

sono le materie plastiche dell’amosfera.

Sono inerti. Niente li danneggia e possono durare molto, molto a lungo. Rowland e Molina capirono che molecole così robuste possono diffondersi nell’atmosfera salendo fino alla stratosfera. Solo lì i raggi ultravioletti possono fare quello che al suolo nessuna forza riesce a fare, cioè a decomporli,

con liberazione del cloro che è uno dei componenti che i vari CFC hanno in comune. Anche il cloro è un gas tossico, asfissiante, allo stesso modo del monossi-

do di carbonio e dell’anidride carbonica. Fu usato per la prima volta come aggressivo chimico dai Tedeschi, sul fronte occidentale, nella prima batta-

glia della cresta di Vimy, nell’aprile del 1915. I soldati inglesi urinarono sulle fasce di panno che un tempo si portavano a mo’ di gambali e ci si fasciarono la faccia, ma caddero uno dopo l’altro, a centinaia. La notizia del-

l’impiego di gas tossici suscitò enorme indignazione in Gran Bretagna, e prima che finisse quell’estate gli Inglesi risposero sparando cilindri carichi di cloro contro i Tedeschi. Nella stratosfera, è il cloro ad attaccare l’ozono (l’ingrediente attivo, nella stratosfera, è il cloro atomico, Cl, mentre nell’aggressivo chimico era il cloro molecolare, Cl). Come abbiamo visto, le normali molecole dell’ossi-

geno che respiriamo sono costituite da due atomi di ossigeno uniti fra loro. Nell’alta atmosfera queste molecole di ossigeno, come tutto il resto, sono sottoposte al bombardamento dei raggi ultravioletti, i quali le spaccano, così che i due atomi se ne vanno in giro ciascuno per conto proprio. Se uno di questi atomi incontra un altro atomo di ossigeno isolato, gli si lega e ricostituisce una molecola. Ma se un atomo “sperso” di ossigeno incontra invece una molecola di ossigeno, forma con essa una specie di triangolo, una molecola di ossigeno triatomico, cioè di ozono.

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Se questo ménage à trois si scontra con un atomo di cloro, si scioglie. In principio, Rowland e Molina avevano supposto, considerata la relativa esiguità dei quantitativi di questo gas da noi immessi nella stratosfera, che il cloro rompesse solo un modesto numero di molecole di ozono. Ben presto, tuttavia, si resero conto che la catena di reazioni chimiche facente seguito alla scissione della molecola di ozono lascia libero l’atomo di cloro, che se ne va a rompere un’altra molecola di ozono, e poi un’altra e un’altra ancora. E quello che si chiama un “ciclo catalitico”, in cui il cloro agisce da catalizzatore della trasformazione e favorisce poi altre trasformazioni, a cate-

na. L’atomo di cloro non si ferma finché non si scontra con l’azoto. Agli inizi degli anni Settanta, il mondo immetteva clorofluorocarburi nell’aria al ritmo annuo di quasi un milione di tonnellate. Di quel passo, c’era da supporre che avremmo finito col mettere nella stratosfera circa mezzo milione di tonnellate di cloro. Insomma, stavamo clorando la stratosfera. I

primi calcoli di Rowland e Molina facevano prevedere che questo cloro si sarebbe “mangiato” fra il 7 e il 13 per cento dello strato dell’ozono. « Non vi fu un momento in cui gridai ‘Eureka’ », disse Rowland a un giornalista

che lo intervistò qualche anno dopo. « Ricordo solo che una sera tornai a casa e dissi a mia moglie: ‘Il lavoro sta andando molto bene, ma ha tutta l’aria di volerci annunciare la fine del mondo”. »

Sotto il vulcano. Rowland e Molina pubblicarono i risultati delle loro ricerche nel numero di giugno del 1974 della rivista Nature. A quell’epoca l’atteggiamento generale verso i problemi del pianeta era cambiato rispetto al secolo scorso, quando Arrhenius aveva pubblicato il suo primo lavoro sull’effetto serra. La gente aveva sperimentato, dopo Primavera silenziosa, la paura dei pesticidi. Aveva sentito parlare a lungo dei possibili effetti delle sostanze chimiche prodotte dall’uomo e della loro capacità di disturbare l’assetto naturale. La follia di questa nuova minaccia infiammò presto l’immaginazione popolare. Aveva tutta l’improbabilità della realtà. Era vero che lo psst di un deodorante spruzzatto sotto le ascelle nella propria stanza da bagno poteva danneggiare la stratosfera? Potevano, le sostanze chimiche, essere pericolose proprio perché erano inerti? Quale “strato” era minacciato? La storia del vivace dibattito è raccontata con dovizia di particolari in The Ozone War, di Lydia Dotto e Harold Schiff. Comunque, la Boeing rinunciò alla costruzione del suo aereo civile supersonico — per ragioni attinenti più all’economia che all’ecologia — ma i vari spray diventarono uno dei più discussi problemi ambientali della seconda metà del decennio. Negli anni Settanta, i rapporti e le previsioni sull’ozono davano l’impres-

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sione di un otto volante. Entro un secolo, lo strato dell’ozono sarebbe stato

annientato. Non annientato, ma ridotto del 13 per cento. O del 2 per cento. Lo strato dell’ozono sarebbe diventato più spesso. Nel 1976, 1’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense pubblicò un rapporto così sibillino che il New York Times intitolò il suo servizio in proposito in questo modo: LA SCIENZA CHIEDE NUOVE RIDUZIONI DEGLI AEROSOL PER DIFENDERE L’OZONO DELL’ATMOSFERA mentre il Washington Post uscì con questo titolo:

GRUPPO DI SCIENZIATI SI OPPONE ALLA MESSA AL BANDO DEGLI AEROSOL. Ma il peso delle prove scientifiche e quello dell’opinione pubblica aumentarono vistosamente e in fretta, tanto che nel 1978 due enti federali america-

ni, quello preposto alla difesa dell’ambiente e la Food and Drug Administration, che controlla i prodotti alimentari e farmaceutici, decretarono la fine dell’impiego di clorofluorocarburi nella bomboletta spray. Raccontano la Dotto e Schiff: « La ditta produttrice dell’ Arrid Extra Dry mise in commercio un nuovo prodotto che recava scritto ‘Sicuro per l’ozono’ proprio sulla bomboletta ». Anche il Canada e la Svezia vietarono l’impiego dei CFC nelle bombolette spray. E quasi per tutti lo strato dell’ozono cadde nel dimenticatoio. Al principio degli anni Ottanta, qualche volta la gente si ricordava ancora qualcosa della “paura dell’ozono”, ma nello spirito del pulcino di una favoletta, Chicken Little, che vedendo cadere una ghianda esclama: « Il cielo sta cadendo! ». Come eravamo stupidi, si diceva, anche noi credevamo che il

cielo stesse ‘cadendo. In una sua piccola monografia intitolata Are You Tough Enough?, Anne Gorsuch Burford, che diresse l’ente per la Protezione dell’ Ambiente (Environmental Protection Agency) per due di quegli anni, scriveva: « Ricordate quando, qualche anno fa, la notizia più sensazionale era che i fluorocarburi rappresentavano una possibile minaccia per lo strato dell’ozono? ». La messa al bando delle bombolette spray, naturalmente, non era bastata a bonificare l’aria. La-produzione mondiale di CFC in realtà non diminuì mai in misura consistente. Dopo il divieto, l’industri chimica americana si

limitò a dirottare i suoi CFC dalle bombolette spray ai refrigeranti, agli schiumogeni, ai detersivi. Altri Paesi seguitarono imperterriti a usare i 154

CFC come propellenti nelle bombolette spray, e anzi ne intensificarono la produzione. Questa calò un pochino sul finire degli anni Settanta, ma dieci anni dopo era già in risalita. Nel 1988 furono fabbricati poco meno di 500 milioni di tonnellate di CFC, quando ormai nell’atmosfera c’era già una quantità di cloro sei volte maggiore che all’inizio del secolo. Rowland seguitò a predire un disastro planetario. Un disastro graduale, secondo i suoi calcoli. La immissione costante di cloro provocherebbe una erosione costante dello strato dell’ozono, che non incomincerebbe ad assottigliarsi in maniera drammatica fino al 2050, più o meno. Negli anni Settanta e Ottanta i più consideravano questa una minaccia così lontana, e discutibile, quanto quella dell’effetto serra poteva sembrare ai tempi della regina Vittoria. I legali della Du Pont de Nemours, la società chimica che è la maggiore produttrice mondiale di clorofluorocarburi, sostennero davanti a una commissione senatoriale d’inchiesta che sarebbe stata una vera follia “uccidere” il prodotto della loro cliente sulla base di tali remote eventualità. Perché mai si sarebbe dovuto agire prima ancora che si manifestassero i più precoci segni di pericolo? Se e quando i livelli dell’ozono avessero incominciato a diminuire, argomentarono i legali, sarebbe stato sempre disponibile tutto il tempo che si voleva per riconsiderare il problema dei freon.* La vedetta solitaria. Frattanto, nel 1981, un gruppo di ricercatori della British Antarctic Survey, il programma inglese di studio dell’ Antartide, seguitavano le loro osservazioni in un remoto avamposto nella Baia di Halley. Il capo del gruppo, Joseph Farman, si occupava dell’ozono fin dai tempi dell’Anno Geofisico Internazionale, quando speciali strumenti, gli spettrometri, erano stati inviati nella stratosfera per misurare lo strato dell’ozono attorno a tutto il pianeta. (« A quei tempi l’ozono era solo un argomento scientifico » mi ha detto un veterano di quegli studi che vi si dedicò fin dagli inizi, all’osservatorio del Mauna Loa. « Come l’atomo ai tempi dei nostri trisavoli. ») Farman era stato incaricato fin dal 1958 di tenere sotto monitoraggio l’ozono. Nell’inverno del 1981, lo studioso notò una rilevante diminuzione dello strato dell’ozono sopra la Baia di Halley. Riesaminando i registri in cui erano annotate le rilevazioni, osservò che già da parecchi anni l’ozono subiva una diminuzione, sempre durante la primavera (australe). Il declino era ir-

* Naturalmente, non era vero. Una volta che questi composti chimici siano stati emessi nell’atmosfera, ci restano. Non c’è speranza di liberarsene prima che siano passati almeno cent'anni, durante

i quali seguiteranno a divorare l’ozono che ci fa da scudo contro i raggi ultravioletti.

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regolare, interrotto sopra l’osservatorio zioso gas sulla Baia sfera, che si sarebbe La primavera

da alcune risalite; ma normalmente ad ogni primavera c’era meno ozono di un anno prima. Lo strato del predi Halley era così sottile, rispetto al resto della stratodetto che si era aperto un buco nel cielo.

successiva alla scoperta,

ancora una volta si rilevò una

quantità di ozono inferiore, e l’anno seguente una ancora più bassa. Ogni anno lo strato riprendeva poi lo spessore normale, ma la diminuzione diventava ogni anno più marcata. Niente di simile era mai stato segnalato. Farman si domandò come mai nessun altro vedesse quello che vedeva lui. Forse lo strato dell’ozono stava scomparendo solo sopra la sua base antartica? Anche se così fosse stato, altri occhi avrebbero dovuto notarlo. A bordo

di un satellite meteorologico della NASA, il Nimbus-7, vi è uno spettrometro studiato apposta per la “mappatura totale dell’ozono”, noto con la sigla TOMS.

Osservando la stratosfera dall’alto, dallo spazio, questo strumento

può vedere lo strato dell’ozono assai meglio di quanto possano farlo gli osservatori umani al suolo. Il TOMS era in grado di fornire giornalmente i dati sull’ozono sovrastante tutto il globo. E tuttavia gli scienziati della NASA che ricevevano questi dati non riferivano di alcuna anomalia nello strato dell’ozono né sopra la Baia di Halley né altrove. L’uomo, si sa, è un animale sociale, al punto che quando qualcuno scopre qualcosa che nessuno ha trovato, o vede qualcosa che nessuno ha visto, non può non dubitare della propria scoperta. Era il più grande “scoop” ottenuto con il monitoraggio da venticinque anni a quella parte, ma Farman non voleva crederci. Quattro secoli fa, un giovane astronomo danese, Tyge Brahe (noto da noi anche col nome di Ticone), facendo una passeggiata serale alzò gli occhi al cielo e vi notò la presenza di una nuova stella, la supernova del 1572, un astro negli spasimi dell’agonia. A quei tempi la maggioranza aderiva ancora alla visione classica dell’universo, secondo la quale le sfere celesti erano immutabili. « Assai sorpreso, e come stupefatto, attonito, rimasi

immobile per un certo tempo, gli occhi fissi, intenti su di essa » scrisse Brahe. « ...Restai così perplesso per l’incredibilità della cosa che incominciai a dubitare dei miei stessi occhi. » Brahe domandò ai servitori che l’accompagnavano se vedessero la stella che indicava loro nel cielo. La vedevano... Ma poteva anche trattarsi di suggestione collettiva, pensò Brahe, e incomin-

ciò a domandare anchè ai contadini che incontrava sul sentiero se anche loro vedevano lassù quel nuovo punto luminoso. Dopo la scoperta fatta nella Baia di Halley, Farman seguitò un mese dopo l’altro a esaminare pubblicazioni scientifiche e comunicazioni di tutti i ri-

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cercatori del settore alla ricerca di una conferma altrui circa quel buco nel cielo. Nessuno l’aveva visto, nemmeno quelle stelle artificiali che sono i satelliti meteorologici. Il gruppo antartico britannico era in preda a una forte tensione. La solitudine della scoperta era pari alla solitudine del luogo in cui si trovava chi l’aveva fatta. Nella primavera del 1984, il buco era diventato così grande che si estendevano fino alla punta meridionale dell’ Argentina, dove fu rilevato anche da un’altra stazione di monitoraggio inglese. Finalmente Farman e i suoi scrissero una relazione e la inviarono alla rivista Nature. Quell’anno, l'Accademia Nazionale delle Scienze americana pubblicò il suo quarto rapporto sullo stato dell’ozono. Per ironia della sorte, gli esperti si dichiararono più ottimisti per il futuro di quanto non lo fossero mai stati i loro colleghi prima di loro. Avevano eseguito nuovi calcoli. Era probabile che lo strato dell’ozono fosse destinato a diminuire appena un poco, forse del 2-4 per cento in un secolo. Ed era addirittura possibile che la quantità totale di ozono nell’atmosfera aumentasse dell’1 per cento. Tale era l’ottimismo che fu cambiato perfino il titolo dato al rapporto. Nel 1982 era stato “Riduzione dell’ozono nella stratosfera”; nel 1984 fu “Mutamenti nell’ozo-

no atmosferico”, proprio perché si pensava che potesse aumentare. Il rapporto del comitato e la relazione di Farman si incrociarono, per così dire, come in una melodrammatica telenovela o in un brutto sogno, e fu il rapporto del comitato a monopolizzare i titoli dei giornali. (Fra qualche decennio, forse, anche i nostri dibattiti sull’effetto serra, con le nostre incom-

prensioni e ritardi, potranno sembrare degli incubi.) Dopo il rapporto dell'Accademia delle Scienze lo Science Digest pubblicò un articolo dal titolo “La crisi che non c’era”. « Nel novembre del 1985 » dice Rowland « io parlai del buco nell’ozono sull’ Antartide all’ Università del Maryland (fu la prima pubblica conferenza sull’argomento, credo). Il comunicato stampa dell’università fu mandato al Washington Post, al Baltimore Sun, eccetera, ma nessuno ci fece un articolo, a parte il giornale studentesco. » Occorse tanto tempo, in realtà, perché il significato presente e futuro del Buco nell’Ozono

apparisse pienamente al pubblico e agli stessi scienziati. La relazione di Farman destò così scarsa attenzione rispetto al rapporto dell’ Accademia perché il gruppo di studio britannico era poco noto al grosso pubblico e perché si supponeva che il problema dell’ozono fosse superato. Giunse tuttavia a conoscenza della NASA, i cui scienziati riesaminarono i dati trasmessi dal Nimbus-7 e si accorsero di una cosa: di essere caduti vittime del loro alto grado di automazione. Il satellite Nimbus-7 era stato lanciato nel 1978. I dati da esso raccolti erano stati trasmessi a terra, automati-

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camente, e analizzati altrettanto automaticamente da un elaboratore elettro-

nico. Per usare la terminologia spionistica, il satellite era stato l’agente, il computer il controllo. Il computer era stato programmato in modo da filtrare i dati sull’ozono scartando automaticamente tutti i numeri “cervellotici” che avessero potuto infiltrarsi fra quelli “buoni”. Come si fa a istruire un computer in modo da distinguere gli uni dagli altri? Semplice. Anche nel peggiore dei casi, quello ipotizzato nello scenario catastrofico di Rowland,

i livelli dell’ozono non

scendevano in maniera precipitosa, e si assumeva che i valori del gas nella stratosfera fossero più o meno uniformi per tutto il globo. Per cui, se il satellite trasmetteva a terra numeri troppo bassi, il calcolatore era programmato in modo da non tenerne conto. Mentre il gruppo di Farman si tormentava al Polo Sud, nello spazio occhi di robot avevano registrato l’espandersi dello stesso buco su quella zona. E un cervello elettronico, a terra, aveva seguitato a mettere in disparte, a

scartare le cifre relative.

OZONE HOLES

1979

1982

x

1980

1981

1983

1984

L'aumento del buco nell’ozono, dal 1979 al 1984

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La crisi. Nel 1985, infine, gli scienziati capirono che poteva trattarsi di un . caso di emergenza platenaria, tanto più allarmante in quanto a dispetto delle precoci messe in guardia, dei comitati ad alto livello e della sorveglianza mediante satellite aveva colto il mondo intero di sorpresa, si sarebbe detto

in un batter d’occhio. Molti chimici dell’atmosfera accantonarono ogni altra ricerca per dedicarsi al problema del Buco, e gli uffici governativi statunitensi sì mossero con rapidità senza precedenti per organizzare in fretta e furia una spedizione incaricata di studiare il Buco nell’Ozono durante il successivo inverno australe. La National Science Foundation accettò di allestire un aereo speciale per i ricercatori, e la Marina americana si assunse l’incarico di farlo arrivare fino alla base scientifica McMurdo, nell’ Antartide,

dove d’inverno non vi è certamente una grande affluenza di turisti. La prima spedizione NOZE (National Ozone Expedition) era composta da quattro gruppi di specialisti diretti da Susan Solomon, appartenente alla National Geographic and Atmospheric Administration. La Solomon è nata un anno prima dell’I.G.Y., l'Anno Geofisico Internazionale. Aveva scritto un

autorevole testo di chimica dell’atmosfera a un’età in cui molti giovani laureati sono ancora incerti sulla specialità che abbracceranno. A ventinove anni aveva vinto il prestigioso Premio McElwane della American Geophysical Union. Quando l’annuncio di Farman esplose non ne aveva ancora compiuto trenta. Di lì a pochi anni, quando avrebbe tenuto conferenze in tutto il mondo sul Buco nell’Ozono, i suoi ascoltatori avrebbero molte volte espresso

meraviglia per la sua giovinezza. Al che lei avrebbe risposto: « Ogni anno che passa, il problema dell’età per me diventa meno difficile ». « Questa cosa supera qualsiasi altra che abbiamo mai vista sulla Terra » mi disse nel suo studio alla National Oceanic and Atmospheric Administration a Boulder, nel Colorado, poco prima di partire per la Base McMurdo. « L’ozono è caduto al di sotto del livello minimo previsto nei nostri calcoli. » Se quello era appena l’inizio, se il guaio avesse assunto più vaste proporzioni, allora il Buco era il classico esempio di canarino nella miniera di car-

bone, paragone che alcuni scienziati già facevano. Per la Solomon si trattava di una questione ancora aperta. « Qualunque possibile teoria deve cercare di spiegare: perché le cose stanno così diversamente al Polo Sud? e perché soltanto lì? Se non rispondiamo a questo, non possiamo dire che siamo di fronte al canarino di cui parlano. » Mi ricordò che il Sole fabbrica l’ozono nella stratosfera causando la scissione delle molecole di ossigeno, e che non smette mai di brillare. Per cui se non esistessero forze che contrastano quella del Sole, da chissà quanto tempo l'atmosfera terrestre sarebbe stata trasformata tutta in ozono, il cielo

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sarebbe color blu cobalto, e ogni pianta e animale viventi sulla Terra sarebbero stati uccisi dal gas, che è tossico. Quindi devono esistere “mangiatori naturali” dell’ozono, allo stesso modo in cui ne esiste un creatore naturale. La distruzione dell’ozono è altrettanto essenziale quanto la sua produzione per la buona salute del pianeta. I chimici dell’atmosfera conoscono almeno tre mangiatori naturali dell’ozono. In primo luogo, l’ozono è attaccato e distrutto da altri gas che sono naturalmente presenti (in tracce) nella stratosfera: gli ossidi di azoto* e gli ossidi di idrogeno. In secondo luogo, l’ozono è attaccato dal cloro naturalmente presente in tracce. Il cloro evaporato dal mare può raggiungere la stratosfera, e occasionalmente anche altro cloro arriva fin lassù, a seguito di grandi eruzioni vulcaniche, sotto forma di acido clor-idrico. In terzo luogo, l’ozono è attaccato dagli atomi di ossigeno. Vi è un eterno dare e avere fra creatori e distruttori, così che la concen-

trazione di ozono nella stratosfera varia continuamente. Tuttavia, i dati raccolti dalla rete per il monitoraggio globale dell’ozono costituita durante l’Anno Geofisico Internazionale fanno ritenere che queste fluttuazioni continue siano di scarsa entità. Sembra che l’ozono resti grosso modo in uno stato di equilibrio, allo stesso modo in cui si mantengono in equilibrio creazione e distruzione della crosta terrestre (altrimenti il nostro pianeta si dilaterebbe o si restringerebbe). Quando si seppe per la prima volta del Buco nell’Ozono, molti studiosi lo giudicarono un fenomeno naturale. Anzi, alcuni dei ricercatori che fecero le

valigie per volare in Antartide a scrutare dentro il Buco nell’Ozono e combattere il cambiamento globale — come cavalieri alla caccia del drago o scienziati in un qualche fantascientifico film dell’orrore — temevano che potesse essere un fenomeno naturale, e non un mostro di una certa importanza; insomma, niente di interessante. « Questa è la cosa che ci fa più paura »

mi confessò un membro della spedizione prima della partenza. Le teorie preferite dipendevano in buon parte anche dalle diverse specializzazioni degli studiosi. Certi vulcanologi pensavano che fosse stato un vulcano a fare il buco nel cielo. Avevano un candidato adatto alla bisogna: il vulcano messicano El Chichén. L’eruzione del Chichén, nel 1982, aveva steso attorno a tutto il pianeta una larga fascia non solo di acido solforico, ma anche di acido cloridrico... come al solito, rilevato per la prima volta

* Erano questi i divoratori che avevano dato origine alla Guerra dell’Ozono: la flotta di aerei civili supersonici in progetto avrebbe emesso ossidi di azoto.

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quando aleggiava sul Mauna Loa. A un certo punto, alla latitudine del Chichòn la stratosfera giunse a contenere acido cloridrico in misura di quasi il 50 per cento superiore al normale. Se era stato El Chichén a causare il Buco nell’Ozono, questo si sarebbe richiuso in pochi anni, in quanto le goccioline di acido sarebbero ricadute dalla stratosfera. (Naturalmente, se gli uomini rialzassero il livello del cloro nell’atmosfera del 50 per cento — da qui a trent'anni — il buco si riaprirebbe, in permanenza.) Alcuni esperti dei moti atmosferici pensavano invece che erano stati i venti a scavare il buco nel cielo. Un mutamento nella consueta circolazione dei venti poteva aver portato aria povera di ozono dalla bassa atmosfera alla stratosfera, con conseguente diluizione dell’ozono in quest’ultima. Se era vero, il Buco nell’Ozono rappresentava una fluttuazione naturale e si sarebbe richiuso da solo. Il “pezzo mancante” di cielo al Polo Sud si sarebbe rivelato così poco degno di preoccupazione come gli squarci di azzurro che per puro caso traspaiono a volte fra dense masse di nuvole grigie. Gli osservatori del Sole addossavano la responsabilità del buco al creatore dell’ozono. Il Sole era stato iperattivo nel 1980 (anno in cui era stato lanciato il satellite Solar Max per studiare la forte attività solare prevista). Infatti, quell’anno vi era stato uno dei più elevati massimi di attività solare osservati da secoli. Gli scienziati teorizzavano che la grande intensificazione della luminosità dell’astro potesse aver modificato i processi chimici che si svolgono nell’alta atmosfera, creandovi un ecceso di ossidi di azoto — più o meno come avrebbe fatto l’ipotetica flotta di aerei civili supersonici. Questi composti forse stavano ancora ricadendo lentamente attraverso la stratosfera verso la Terra, e forse sarebbero stati necessari ancora alcuni anni prima

che si dissipassero. Sia che i colpevoli fossero stati il vulcano, i venti o la luce solare, il buco

non era niente di allarmante. Ma se il colpevole fosse stato invece il cloro dei clorofluorocarburi, come sospettavano Rowland, la Solom e altri, allora

ci sarebbe stato di che preoccuparsi, e come! La bassa atmosfera è carica di clorofluorocarburi in lenta ascensione verso la stratosfera. Anzi, quasi tutti i clorofluorocarburi che sono stati prodotti da quando li hanno inventati sono ancora in viaggio per la stratosfera. Il buco potrebbe seguitare a espandersi per altri cent'anni. Le teorie scientifiche in conflitto possono provocare aspri risentimenti, specie quando tutto il mondo è lì a guardare: uno dei primi indagatori della rarefazione dell’ozonosfera ha amaramente definito la Guerra dell’Ozono ‘“scienza in una vaschetta di pesci rossi”. Jerry Mahlman, direttore del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton, dichiarò a un giorna-

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lista che i sostenitori della colpevolezza del cloro soffrivano della « sindrome del pulcino, del ‘Chicken Little’ dell’apologo: l’ozono sta calando, e la sola cosa che potrebbe esserne la causa, secondo loro, è il cloro ». Mahl-

man può aver detto questa battuta scherzosamente, ma in privato alcuni degli studiosi i quali ritenevano che il Buco dipendesse da cause naturali dicevano che gli altri, quelli che lo imputavano a cause artificiali, erano un branco di ambientalisti allarmisti e in preda al panico. Rowland fu colpito dall’ironia della situazione. Prima di dare l’allarme contro i clorofluorocarburi (cosa che lo poneva fra gli ambientalisti allarmisti e in preda al panico), era stato al centro di un’altra vicenda che aveva fatto scalpore, a proposito dei livelli di mercurio riscontrati nei pescispada e nei tonni. Era andato in giro per i musei di storia naturale a prelevare campioni di carne di quelle specie che venivano conservati sotto spirito fin dagli inizi del secolo. Il tasso di mercurio era risultato pressoppoco uguale sia nei pesci freschi sia negli esemplari più antichi che si trovavano nei musei. Allora Rowland aveva scritto che il contenuto di mercurio dei mari era ai livelli normali. E questo ne aveva fatto, per i suoi detrattori, un interessato

paladino dell’industria in generale e di quella ittica in particolare. Politica a parte, tutte le teorie erano plausibili. La sola che poteva essere scartata prima della spedizione di emergenza era quella illustrata sulla copertina di un giornaletto distribuito nei supermercati, secondo cui il buco nell’ozono era provocato da un bombardamento con raggi laser scagliati da esseri extraterrestri. La spedizione guidata da Susan Solomon* sbarcò alla Base McMurdo con * Una curiosa coincidenza: la prima spedizione scientifica mai progettata negli Stati Uniti con la stessa destinazione, e anzi la prima spedizione scientifica americana in assoluto, si proponeva la ricerca di un buco al Polo Sud. Sembra che un eroe della guerra del 1812 (contro gli Inglesi), di nome John Cleves Symmes Jr., un novello Newton proveniente dall’Ohio, avesse convinto se stesso e molti altri che la Terra è cava, con buchi ai poli. Il 10 aprile 1818 Symmes inviò a tutti iparlamentari degli Stati Uniti e ai maggiori scienziati del mondo una lettera di questo tenore: « A tutto il mondo. Dichiaro che la terra è cava e abitabile al suo interno, contenendo un gran numero di solide sfere concentriche poste l’una

dentro l’altra, e che ha ai poli un’apertura di dodici o sedici gradi. Garantisco con la mia stessa vita questa verità e sono pronto a esplorare la cavità se il mondo mi aiuterà nell’impresa... Per verificare questa “teoria dei buchi ai poli”, il presidente John Quincy Adams autorizzò l’invio di una spedizione nei Mari del Sud. La “exploring expedition” (o Ex.Ex., come fu soprannominata dai giornali) non trovò il buco, ma toccò l’ Antartide. Non le andò però il merito della scoperta del continente perché il comandante della nave tracciò la linea costiera nel posto sbagliato. Oggi, la geografia della sette sfere è misteriosa come i buchi polari di Symmes. Ma quello vero è assai più grande.

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un carico utile di 6800 chili, formato fra altro da oscilloscopi, sensori, unità

di pilotaggio per nastri magnetici, bombole di azoto liquido: in maggioranza, strumenti prodotti dell’alta tecnologia che non erano mai stati messi alla prova in un inverno antartico, a temperature di oltre 50 °C sotto lo zero, accuratamente imballati con polistirolo espanso (per produrre il quale, manco a dirlo, ci si serve di fluorocarburi). I membri della spedizione erano stati avvertiti che, data la stagione inver-

nale, il pilota avrebbe potuto essere costretto a non spegnere i motori per non correre il pericolo di non poter più decollare. In caso di maltempo, si sarebbe solo fermato sulla pista seguitando a far girare le eliche, mentre i membri della spedizione sbarcavano in fretta e furia e l’equipaggio apriva il portellone posteriore. Poi il pilota sarebbe ripartito e l’accelerazione impressa all’aereo per il decollo avrebbe fatto cadere a terra il carico. Ma il tempo, quel giorno, fu favorevole. E adesso i ricercatori erano lì, a guardare dentro il Buco nell’Ozono. Se il primo “buco” fosse stato riscontrato in qualsiasi altra regione della Terra, anche nel più remoto punto dell’ Artide, la Solomon e i suoi colleghi avrebbero avuto più punti di riferimento ai quali far ricorso. Vi sono tanti scienziati nell’emisfero boreale che attraverso i decenni, anche su argomen-

ti così peregrini come la composizione della stratosfera artica in inverno è stata accumulata una enorme messe di dati. « Dell’ Antartide » mi ha detto Susan Solomon « non sappiamo proprio nulla, o quasi, a questo proposito. » D'inverno, l'Antartide è il luogo più isolato del pianeta. È isolata dagli esseri umani, e in un certo senso anche dal resto dell’atmosfera. L’aria, nel-

la stratosfera che sovrasta il continente, ruota e ruota in un gigantesco vortice, simile su scala infinitamente maggiore al gorgo che si crea in un lavandino dal cui scarico defluisca l’acqua. I venti alla periferia del vortice soffiano ad alta velocità, ma l’aria che ne è circondata è ferma, per tutto il lun-

go e scuro inverno polare. È rarissimo che aria esterna e luce solare penetrino in quello spazio a disturbare o ridurre gli effetti di qualsiasi serie di reazioni chimiche, anche le più strane, che possano esservisi iniziate. Ed è possibile anche — ma il punto è ancora oggetto di discussione — che ben poca aria contenuta lì dentro riesca a uscirne, come le ombre dei morti del mon-

do classico, che non potevano riattraversare il fiume Stige. Durante la lunga notte polare, la temperatura della stratosfera scende anche a -90 °C. E una sorta di calderone che ha le dimensioni di un continente: il più grande, il più freddo, il più oscuro e desolato serbatoio d’aria che vi sia sulla Terra.

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La Solomon aveva meditato su questi fatti prima della spedizione e aveva formulato un’ipotesi ibrida, di natura in parte chimica, in parte relativa alla

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temperatura. « Mi sono detta: l’Antartide è l’unico luogo al mondo così freddo che vi si possono formare nubi nella stratosfera. Capita che qualche volta si formino nubi stratosferiche anche nell’ Artide, ma il fenomeno è so-

prattutto antartico.* Dunque, forse è necessaria la presenza di superfici per catalizzare le reazioni. Le superfici dei cristalli di ghiaccio. » Le nubi stratosferiche avrebbero anche causato la trasformazione degli ossidi di azoto in acido nitrico. La Solomon intuiva che la formazione di questo acido può essere dannosa non solo perché fornisce le superfici occorrenti per catalizzare l'attacco del cloro all’ozono, ma anche perché elimina dalla circolazione una grande quantità di azoto, che è l’unico elemento che possa impedire al cloro di distruggere l’ozono della stratosfera. Le nubi polari a quell’altezza, in cui lo strato dell’ozono presenta il massimo spessore, possono provocare danni incalcolabili, pensava Susan Solomon. « Se si ha una combinazione simile in laboratorio, in una camera a nebbia, è dif-

ficilissimo impedire che queste reazioni avvengano. » Potevano essere le nubi stratosferiche il fattore che Rowland aveva tralasciato nei suoi calcoli, quel fattore che aveva fatto sì che una grossa porzione della stratosfera cambiasse non gradualmente, ma in un batter d’occhio.

Alla Base McMurdo i membri della NOZE mandavano i loro strumenti dentro il Buco a bordo di enormi palloni sonda, tre volte al giorno. (All’orizzonte, non lontana da loro, potevano vedere la baracca di Robert Falcon Scott, risalente ai tempi della prima spedizione con il Discovery.) Studiavano l’atmosfera anche da terra. Per la spettrometria nel visibile, fu necessa-

rio trivellare fori nel tetto delle baracche della base. C’è una speciale capacità di arrangiarsi, in Antartide. È l’ultima vera frontiera sul nostro pianeta. I tecnici aggregati alla spedizione trivellarono con entusiasmo il tetto in tre giorni. (« Ho spesso pensato » raccontò in seguito la Solomon alla gente durante le conferenze « che dovrei davvero chiedere, solo per divertimento, al personale del mio istituto di trivellare qualche foro nel tetto. E di controllare quanto tempo ci vorrebbe, capite. Con una temperatura di -50 °C sopra l’istituto... ») I ricercatori accertarono che al di sopra della base la stratosfera contene* Le nubi sono rare nella stratosfera a causa della grande secchezza dell’aria. Le nubi stratosferiche costituiscono uno dei più meravigliosi spettacoli della natura. Sono comuni soltanto nell’ Antartide, ma furono osservate anche in Inghilterra alla svolta del secolo. « Queste nubi » scrisse un 0s-

servatore « ...prima dell’alba o dopo il tramonto erano caratterizzate dai colori che prende la luce attraversando un prisma... Le parti più luminose avevano colori simili a quelli della madreperla... »

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va una quantità di cloro cento volte superiore al normale. Questo riscontro rendeva improbabile l’ipotesi dei venti, in quanto se fossero stati loro a con‘vogliare lì da altri punti aria povera di ozono, non vi avrebbero convogliato anche una così pazzesca concentrazione di cloro. Le osservazioni scalzavano anche l’ipotesi della colpevolezza del vulcano EI Chichén: la quantità di particelle vulcaniche fluttuanti nel Buco rivelarono scarse tracce della grande eruzione di tre anni prima. Gli effetti del Chich6n erano spariti da un pezzo. I chimici riscontrarono anche bassi livelli di ossidi di azoto. Anzi,

così bassi da costituire un record negativo. Il dato contrastava con la teoria solare, poiché in base a questa il Sole avrebbe dovuto distruggere l’ozono producendo una quantità straordinaria di ossidi di azoto. Ai responsabili della National Science Foundation, i dati che provenivano dall’ Antartide sembrarono tanto importanti da indurli a organizzare una conferenza stampa trasmessa via radio direttamente dalla Base McMurdo a Washington, D.C. In quell’occasione, la Solomon dichiarò: « Sospettiamo — che la causa della formazione del buco nell’ozono sia essenzialmente da ricercare in un processo chimico ». L’annuncio mandò in bestia quegli studiosi che ritenevano il Buco di origine naturale. Linwood B. Callis, il quale sosteneva la teoria solare, disse a un reporter di Science News: « La loro ipotesi secondo cui i cicli solari non avrebbero parte in questo fenomeno è sbagliata. E ammesso anche che non sia sbagliata, è certamente prematura ».

« La conferenza stampa è stata roba da circo » disse Mark Schoeberl, della NASA,

a un inviato della rivista Discover.

Personalmente,

vedeva di

buon occhio la teoria di un’origine dinamica del Buco: cioè quella dei venti. « Se si mandano al Polo Sud dei chimici » protestò « è naturale che respingano la teoria dinamica. » Quell’anno il Buco era più grande che mai. Ma la chimica della stratosfera era così fortemente perturbata che nessuno era in grado di dire che cosa avrebbe ancora potuto fare il Buco nell’Ozono. Quando si ripresentò, l’anno dopo, una seconda spedizione NOZE, questa volta più numerosa e a carattere internazionale, fu inviata d’urgenza a Punta Arenas, la città più meridiana del mondo, in Cile, presso l'estremo

sud della patagonia. Lo scrittore di viaggi Bruce Chatwin una volta immaginò che questa regione potesse essere il luogo più sicuro per sfuggire alle tensioni e alle tribolazioni della civiltà. Ma la civiltà ormai aveva raggiunto anche la Patagonia. Si sparse la voce, infatti, che i prezzi dei terreni e delle

costruzioni

a Punta Arenas avevano subito una flessione, in quanto era di165

minuito il numero di immigranti: alla gente non garbava di andare a vivere più vicino al Buco nell’Ozono. Gli scienziati della spedizione, decollando da Punta Arenas, andarono a esaminare il Buco con un vecchio DC-8 revisionato e convertito, un labora-

torio volante che li portava fino a 11.000 metri di quota. Piloti isolati volavano ancora più in alto e penetrando più profondamente nel Buco a bordo di un aereo spia U-2 adattato a impieghi scientifici. Insieme, i due apparecchi accumularono in sei settimane oltre 175.000 chilometri di volo. Ancora una volta furono rilevati incredibili quantitativi di monossido di cloro: circa cento volte più del normale. Alla quota delle nubi polari stratosferiche quasi tutto l’ozono era scomparso. I rilevamenti fatti dal satellite meteorologico Nimbus-7 (non più censurati dal computer) dimostrarono che il Buco nell’Ozono era ormai più vasto dello stesso continente antartico, e due volte più vasto della parte continentale

degli Stati Uniti. Come dichiarò Rowland, il fenomeno era diventato « una cosa che si sarebbe potuta comodamente vedere anche da Marte ». L’esperimento decisivo organizzato a Punta Arenas fu eseguito da un gruppo di ricerca guidato dallo specialista in chimica dell’atmosfera Jim Anderson, della Harvard University. Fu questo gruppo a costruire lo strumento con cui l’aereo spia andò a “fiutare” il monossido di cloro all’interno del Buco. Là dove l’ozono era più raro, il monossido di cloro era più fitto. Come disse un chimico: « A ogni sussulto dell’ozono corrisponde un analogo sussulto del monossido di cloro ». Il pulcino dell’apologo, Rowland, Solomon e gli altri avevano dunque ragione. Quell’anno, una volta che le fu domandato se il problema potesse aggravarsi, la Solomon rispose: « È forse un problema del quanto e del quando esattamente si aggraverà, ma sull’aggravamento non può esserci alcun dubbio ». Anche i venti, naturalmente,

avevano la loro parte nella faccenda, non

solo col mantenere salde le pareti del calderone ma anche rimestando l’intruglio malefico che vi si agitava dentro. Per un paio di giorni assai curiosi gli scienziati osservarono una brusca discesa, del 10 per cento, del livello dell’ozono su una superficie di 3 milioni di chilometri quadrati. Il fenomeno era stato troppo improvviso per poter essere attribuito a motivi attinenti alla chimica. È evidente che a volte i venti sollevano dai bassi strati aria povera di ozono, proprio come i “dinamicisti” avevano sostenuto in origine. E quando il vortice polare finalmente si placa e si annulla nel corso della primavera australe (durante quello che è chiamato, significativamente, 1’ “ulti-

mo bollore”), il calderone trabocca nella stratosfera e i venti trasportarono

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grandi quantità di aria povera di ozono per tutto l’emisfero australe. Quell’anno, quando il calderone traboccò, sopra la città australiana di Melbourne fu rilevato il massimo assottigliamento dello scudo di ozono che si fosse mai visto. Nell'inverno (boreale, il nostro) del 1987-88, la Solomon partecipò a una spedizione a Thule, in Groenlandia. Sopra il Polo Nord gli studiosi trovarono tassi di cloro dieci volte più alti della norma. Non era certo un sovraccarico di cloro paragonabile a quello che era stato scoperto in Antartide, ma non v'era dubbio che il problema dell’ozono stava estendendosi.* A quel punto, esso stava diventando il più studiato di tutti gli argomenti scientifici. Il Ministero dell’ Ambiente britannico provocò uno scandalo, nel 1987, quando pubblicò una relazione piuttosto ottimistica circa lo strato dell’ozono. Furono mosse severe critiche ai relatori, per essersi serviti di dati largamente superati. E pensare che si riferivano al 1985, solo due anni prima. Basandosi sulle informazioni più recenti, un comitato formato da cento

scienziati fece un’analisi retrospettiva e su scala globale del problema dell’ozono. Gli studiosi valutarono accuratamente le risultanze delle osservazioni eseguite da terra e dallo spazio: dall’apposita rete di monitoraggio, dai satelliti meteorologici, dalle spedizioni polari. Giunsero alla conclusione che il peggio era accaduto. La barriera di ozono che protegge la Terra aveva subito un’erosione del 2,5 per cento fra il 1978 e il 1985. Stavamo per-

dendo il nostro scudo non soltanto ai poli ma anche fra un polo e l’altro, sopra le nostre teste. Definiamo lo strato dell’ozono uno scudo, ma in realtà è sottile e delicato come un ombrellino da sole. Solo la milionesima parte dell’atmosfera è costituita da ozono. Se tutto l’ozono della atmosfera fosse sparso sul terreno,

avrebbe sì e no lo spessore di un canovaccio da cucina. Squarciare questo strato è come traforare il parasole: alcune delle molecole esposte a ricevere, in mancanza di ozono, le radiazioni ultraviolette emanate dal Sole sono le proteine della nostra stessa pelle. Due sono le gamme di radiazioni ultraviolette importanti per la nostra pelle, i raggi UVA e i raggi UVB. La massima parte dei raggi UVA non è

* Nel 1989, i tassi di ossido di cloro nell’Artide avevano ormai raggiunto quelli dell’ Antartide,

stando alle misurazioni effettuate da Jim Anderson, della Harvard University. E nel viaggio di ritorno, durante il quale furono sorvolati gli Stati Uniti, si rilevarono quantità di ossido di cloro da due a venti volte superiori alla norma.

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assorbita dall’atmosfera. Penetra fino.al suolo, e il nostro organismo ci è più meno abituato. Gli UVB, invece, sono bloccati soltanto dall’ozono. Secondo Ralph Cicerone, dell’NCAR, una diminuzione del 10 per cento dello

spessore dell’ozono che sta sopra le nostre teste può causare un aumento del 20 per cento della capacità di penetrazione degli ultravioletti in una particolare fascia ad alta intensità di lunghezza d’onda, e anche del 250 e del 500 per cento in altri punti della gamma dell’ultravioletto. Quando questa radiazione ad alta energia colpisce la pelle, dei fotoni — le più piccole particelle di luce e di energia — sono assorbiti dai legami chimici nel DNA e nei nastri gommosi di elastina che servono a mantenere la pelle morbida ed elastica. L’urto con i fotoni può rompere dei legami o anche provocare delle reticolazioni, ossia lo stabilimento di legami chimici che stanno alla base della trasmissione di messaggi “ingarbugliati”, che alla fine provocano lo sviluppo di tumori maligni. Mentre il tumore può non manifestarsi per anni e anni, il danno al DNA si produce molto rapidamente. Un gruppo di fisico-chimici è riuscito di recente a calcolare quanto tempo occorra a un legame chimico per spezzarsi. Se un composto di cianuro di iodio assorbe un fotone, il legame regge per una frazione di frazione di seconda prima di spezzarsi. La rapidità dell’intera reazione, dall’impatto alla rottura, è di 205 femtosecondi, cioè a dire 205 quadrimilionesimi di se-

condo. + Mentre la fotosintesi è il costruire mediante la luce, qui si tratta di fotolisi, una scissione dovuta alla luce. Costituisce una particolare minaccia per chi pratica l’alpinismo a quote dove vi è una minore quantità di aria in grado di arrestare la penetrazione dei raggi ultravioletti. Una volta passai una giornata sul ghiacciaio di Grindelwald (a un’ora e mezzo da Berna) con un giovane alpinista e inventore svizzero. Fra le sue invenzioni, c’era quella di un colorante spia per testare le corde di nylon usate nelle ascensioni su pareti ghiacciate. Queste corde sono spesso sottoposte a trazione per tutto il giorno sotto una forte luce solare ad alta quota, e ricevono una massiccia dose di raggi ultravioletti riflessi dal ghiaccio. I risultati di questo tipo di esposizione si rendono visibili sulla faccia di scalatori e sciatori attraverso scottature solari provocate appunto da tali riflessi. Ma una corda può seguitare a sembrare nuova. I danni provocati in essa dagli UV restano invisibili finché un giorno o l’altro, senza alcun preavviso, non si rompe.

Le radiazioni UVB sono bloccate dai vetri delle finestre, cosicché è im-

possibile abbronzarsi prendendo il sole Attraverso i vetri. D’inverno, e a volte anche d’estate, i bianchi che sono costretti a vivere al chiuso si procurano una tintarella artificiale esponendosi a lampade abbronzanti in istituti

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di bellezza, palestre, centri per la cura del corpo e simili. Queste lampade emettono per lo più raggi UVA, e si garantisce che sono assolutamente si| cure. Vari studi, tuttavia, portano a credere che perfino i raggi UVA possano causare tumori e indebolire il nostro sistema immunitario. Evidentemente, c’è molta gente disposta a correre questi rischi, visto che in molti Paesi le lampade abbronzanti portano già, per legge, etichette che avvertono del pericolo, come le diciture che si stampano sui pacchetti di sigarette. Gli UVB, senza dubbio, sono all’origine di vari tipi di tumori della pelle, compresi i basaliomi (carcinomi delle cellule basali) e gli epiteliomi cutanei spinocellulari, e sono sospettati di provocare anche melanomi maligni.-I carcinomi cutanei crescono lentamente e di rado portano a conseguenze letali: erano di questo tipo i nevi che Ronald Reagan si fece asportare chirurgicamente molte volte nel corso dei suoi due mandati presidenziali. I melanomi maligni invece, assai più rari, crescono rapidamente e spesso metastatizzano, cioè si estendono ad altri organi. Fino ad ora, il 40 per cento dei casi diagnosticati ha avuto esito infausto. (Questa percentuale va però abbassandosi, grazie alla maggiore attenzione nella diagnosi; la mortalità da melanomi maligni è attualmente del 20 per cento circa.) L’intensità della radiazione ultravioletta cresce andando dai poli all’equatore, e l'incidenza dei cancri della pelle cresce man mano che si scende a sud. Negli Stati Uniti, per esempio, si registra 1 caso all’anno ogni 1000 abitanti a Des Moines, nello stato dello Iowa, la cui latitudine media è gros-

so modo la stessa dell’alta Toscana. Vi sono invece 4 casi ogni mille abitanti all’anno a Dallas nel Texas, che è più o meno alla latitudine di Lampedu-

sa. La più alta incidenza di tumori della pelle nel mondo si riscontra nel Queensland, in Australia, dove una forte concentrazione di persone di pelle

chiara vive abbastanza vicino all’equatore. ‘ Il colore della pelle, che è la principale differenza visibile fra gli abitanti di questo pianeta, diviso e tormentato da tanti miti spesso aspramente in conflitto, riflette in modo del tutto schematico le differenze di radiazione ul-

travioletta a livello planetario. La pelle dei neri ne è protetta grazie ai pigmenti cutanei che la arrestano. I bianchi hanno la pelle che difetta di pigmenti scuri perché il loro organismo si è adattato alle condizioni prevalenti nelle regioni settentrionali, dove i livelli di raggi ultravioletti sono bassi. Se l’erosione dello strato dell’ozono provocherà nei prossimi cent'anni un aumento della radiazione UVB, saranno i bianchi a correre i rischi maggiori. L’incidenza del melanoma maligno è già in rapido aumento. Fra tutti i tumori, è quello che registra il più forte tasso di aumento. Negli Stati Uniti, il numero di nuovi casi registrati ogni anno è quasi raddoppiato fra il 1980 e il 169

1989. Secondo la Skin Cancer Foundation, un neonato degli anni Trenta aveva 1 probabilità su 1500 di essere colpito da melanoma maligno. Nel 1988, le probabilità erano salite a 1 su 135. Se l’andamento resta costante, entro il 2000 balzeranno a 1 su 90. “Il sole è buono per lo spirito e cattivo per la pelle” dice J.J. Leyden dell’ Università della Pennsylvania. L’aumento dei tumori della pelle non può dipendere dai buchi nell’ozono, dato che è iniziato prima dell’invenzione dei CFC e dato che da allora la quantità extra di raggi UV penetrata attraverso la stratosfera è bassa. Quando aumenterà, potrebbe essere un’altra faccenda. L’E.P.A. calcola che ogni punto percentuale di impoverimento dell’ozono causerà un aumento del 2-3 per cento della radiazione UVB e del 5 per cento dei tumori cutanei, compreso l’1 per cento di aumento dei melanomi maligni. A breve scadenza, l’assottigliamento dell’ozonosfera potrebbe far aumentare del 60 per cento l’incidenza dei tumori cutanei in generale negli USA.* Il guaio è che lo strato dell’ozono sarà eroso in misura tanto maggiore quanto maggiore è la distanza dall’equatore. I raggi UVB cadranno allo stesso modo ovunque, ma percentualmente in misura assai superiore con l’aumento della latitudine. Quindi le persone di pelle più chiara, cioè quelle che li sopportano meno, saranno quelle che ne riceveranno di più. Il poeta inglese W.H. Auden ha scritto che dopo i 40 anni siamo noi i responsabili della faccia che abbiamo. Se l’erosione dello strato dell’ozono porterà all’erosione della faccia dei bianchi, l’epigramma acquisterà una nuova dimensione. Cha Nel XXI secolo, la tintarella sarà fuori moda come lo era nel XIX. Già adesso i bianchi si proteggono sempre più, con creme adatte, dai raggi solari. Non è detto che non tornino ad adottare quell’antico ornamento che era il parasole nel tentativo di sostituire quell’altro, oggi sbrindellato, che l’atmosfera ci forniva gratis. L’eccesso di luce ultravioletta avrà un altro effetto collaterale tanto sgradevole quanto impensato. I raggi solari più duri, penetrando nella bassa atmosfera, colpiranno le molecole di ossigeno allo stesso modo che nella stratosfera e, allo stesso modo, le trasformeranno in ozono.

* Gli UVB possono anche causare la cateratta (opacamento del cristallino dell’occhio). Ogni anno si eseguono negli USA 500.000 operazioni di cateratta, forse nel 10 per cento dei casi dovuta a UVB. Come per i tumori della pelle, l'incidenza delle cateratte aumenta con l’abbassarsi della latitudine e con il tempo trascorso:all’aperto. I più esposti sono i contadini, gli edili, i pescatori. Uno studio di Hugh R. Taylor, della Scuola di Medicina della Johns Hopkins University, fa corrispondere a un aumento del 10 per cento degli UVB un aumento del 6 per cento delle cateratte. Il rischio è lo stesso per gli occhi di qualsiasi colore.

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Nel secolo XIX, la luce solare era considerata nociva per la salute, men-

tre l’ozono aveva fama di beneficio. I proprietari di alberghi in luoghi di villeggiatura e di stabilimenti termali invitavano regolarmente specialisti di prestigio a misurare il tasso di ozono della loro aria o delle acque. Famosi e frequentatissimi centri del turismo di lusso sbandieravano come elemento propagandistico la loro “ozonicità”.* Oggi sappiamo che l’ozono è buono per gli esseri umani nella stratosfera, mentre è tossico quaggiù nella traposfera. « L’ozono lascia il segno, rovinando le vernici stese su oggetti all'aperto, corrodendo i pneumatici delle automobili, facendo accartocciare le foglie degli alberi », dice Robert Dic-

kinson, dell’NCAR. È il principale componente dello smog. Questo gas è così dannoso per gli esseri viventi che spesso viene fatto filtrare attraverso i liquami per uccidere batteri e virus. Può causare dolori al petto, congestioni polmonari, bruciori agli occhi e nel naso, mal di gola. Nel 1979, l’ente americano per la Protezione dell’ Ambiente fissò un limite di sicurezza per l’ozono: la dose massima di esposizione in un’ora fu stabilita in un decimo di parte per milione (precisamente 0,12 ppm), dose da non superare più di una volta l’anno. Ora, più di metà delle grandi aree metropolitane degli Stati Uniti, compreso l’affollatissimo corridoio Boston-New York-Washington (noto agli Americani come “Bosnywash”) supera regolarmente i limiti legali. Circa 115 milioni di persone, cioè più di metà della popolazione degli Stati Uniti, respirano aria il cui contenuto di ozono è fuori legge in base agli standard dell’E.P.A. Oggi sembra che nemmeno quegli standard siano sicuri. Da studi recenti risulterebbe che concentrazioni di ozono inferiori a 0,1 ppm attaccano i polmoni e provocano affanno anche in persone in buona salute. Come riferiscono in uno studio pubblicato dal periodico American Review of Respiratory Disease, alcuni ricercatori hanno sottoposto a test un gruppo di bambini che giocavano all’aperto in un campeggio dell’YMCA (Young Men’s Christian Association) a Fairview Lake, nella parte nord-occidentale del

New Jersey. Durante le prove, i livelli di ozono non superarono mai gli standard fissati dalle autorità federali. Ma le capacità di resistenza dei bambini declinavano sensibilmente in concomitanza con aumenti del tasso di * La cittadina svizzera di Arosa è il luogo del nostro pianeta dove da più tempo si effettuano regolari misurazioni del tasso di ozono nell’aria. Come racconta Sherwood Rowland, le fortune di Arosa

come luogo di villeggiatura ebbero inizio negli anni Venti, quando si credeva che quasi ogni tipo di

radiazione giovasse alla salute. L'ente del turismo ci teneva a favorire lo sviluppo dell’industria alberghiera locale vantando l’abbondanza di raggi ultravioletti. A quei tempi, anche la radioattività delle acque termali era un argomento propagandistico.

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ozono relativamente piccoli, e a volte doveva trascorrere anche una settima-

na perché i loro polmoni tornassero in piena efficienza. Più pulita era l’aria durante i test, più forza dimostravano i bambini nel soffiare dentro i tubi degli strumenti di misura usati dai ricercatori. Esperimenti condotti in laboratorio sui ratti indicano che l’ozono provoca danni permanenti, con un prematuro indurimento e invecchiamento del tessuto polmonare. Insomma, l’ozono può avere, all’interno dell’organismo, effetti analoghi a quelli che i . raggi ultravioletti hanno all’esterno, spezzando legami chimici, creando associazioni biochimiche anormali e deprimendo il sistema immunitario. Limitare i livelli di ozono nell’aria è quasi altrettanto difficile che limitare i livelli dell’anidride carbonica, in quanto i precursori chimici di questo gas provengono dalle fonti più svariate: fumi emessi dai tubi di scappamento degli autoveicoli, o dalle stazioni di servizio, da fabbriche, negozi di verni-

ci, lavanderie a secco, deodoranti in bombolette spray, forni a gas. Da tutti questi sono emessi dei composti che i raggi ultravioletti trasformano in ozono. Anche l’inquinamento della stratosfera sta facendo peggiorare l’inquinamento al suolo, in quanto il cloro della stratosfera fa sì che penetri fino a noi una quantità maggiore di UV. Secondo uno studio commissionato dall’E.P.A., ogni ulteriore diminuzione dell’1 per cento dell’azoto stratosferico potrebbe causare un aumento del 2 per cento di quello nella bassa atmosfera.* Già oggi la troposfera contiene all’incirca il doppio dell’ozono.che conteneva un secolo fa. È forse in grado di contenerne dieci volte tanto, per cui anche questo problema è appena agli inizi. Nell’estate del 1988 si sono registrati livelli record di ozono in molte parti degli Stati Uniti. Nel giugno di quell’anno, le stazioni di monitoraggio della zona di Filadelfia hanno segnalato circa cinquanta casi di tassi di ozono pericolosi per la salute, tre volte di più rispetto al giugno precedente e sedici volte di più rispetto all’86. A Washington, il.massimo livello di ozono di quell’estate fu del 22 per cento superiore a un anno prima. A Chicago, l'aumento fu del 36 per cento. Perciò, stiamo perdendo ozono là dove ne abbiamo bisogno, e acquistandone dove può rivelarsi dannoso. Lo eliminiamo là dove previene i tumori e lo mettiamo dove li provoca. La gente è confusa da questa situazione alla

* I raggi ultravioletti possono anche provocare aumenti cospicui e improvvisi di altri composti indesiderabili, tra i quali ricordiamo il perossido di idrogeno, o acqua ossigenata, importante precursore delle piogge acide. Come sempre, i problemi di inquinamento sono connessi fra loro come lo sono le sette sfere.

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Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Perché siamo preoccupati di perdere ozono in un posto e di accumularne in un altro? Perché esistono un ozono buono e uno cattivo? Ripetiamo: l’ozono è come un ombrello. Su un marciapiede cittadino in un giorno di pioggia vi sono tanti ombrelli aperti da formare uno strato compatto e ininterrotto. Ma se qualcuno nella folla regge il proprio ombrello troppo basso, le punte delle stecche possono finire contro la testa dei vicini. Un ombrello serve a coprirci, ma può anche essere una seccatura, o perfino una minaccia, se una stecca va a infilarsi in un occhio a qualcuno. Quando si seppe per la prima volta del Buco nell’Ozono, Donald Hodel, allora segretario agli Interni degli Stati Uniti, giudicò opportuno raccomandare a tutti, al massimo, un programma di “tutela personale”. L’industria avrebbe potuto continuare a produrre clorofluorocarburi come prima, finché non fosse stato dimostrato un loro rapporto con il fenomeno. Frattanto, si raccomandava agli Americani di portare cappelli a larghe tese e di non stare al sole. « La carenza di ozono » disse « non può danneggiare chi non si espone al sole. » In risposta, il membro della Camera dei Rappresentanti Steven Scheuer,

democratico dello stato di New York, si presentò alla Camera con un cappello a pagoda, alla cinese, occhiali scuri, e con le fotografie di un gufo, un leone, una tigre, un gatto, un giraffa e un pesce rosso, tutti ritratti con occhiali da sole e cappelli di paglia. Ricordò ai parlamentari suoi colleghi che i cappelli non avrebbero protetto i cittadini dall’ozono respirato. E niente avrebbe potuto proteggere il resto della biosfera né dall’ozono né dalla radiazione dura. In realtà, i cambiamenti atmosferici e dell’irradiazione solare potrebbero,

nei prossimi decenni, rappresentare un maggior pericolo per gli animali e le piante che per gli esseri umani. Prove di laboratorio hanno dimostrato che la radiazione UVB può danneggiare le larve di pesci, granchi e gamberetti, i copepodi, il krill, lo zooplancton e il fitoplancton che sono alla base della catena alimentare marina. Sayed El-Sayed, un oceanografo che lavora alla A & M University, nel Texas, ha studiato il fitoplancton antartico, l’erba del mare, che prospera non solo in mare aperto ma anche nelle acque sotto i ghiacci. Fra gli organismi del fitoplancton vi sono le diatomee, microscopiche alghe che a volte si moltiplicano al punto da far sì che «la superficie dell’oceano, dal punto in cui si trovano le navi, assuma a perdita d’occhio un colore bruno pallido », come scrisse il chirurgo e botanico J.D. Hooker durante la spedizione antartica dell’Erebus e del Terror, durata dal 1839 al 1843. Gli organismi fitoplanctonici assorbono l’energia solare e i minerali

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sospesi nelle acque dell’oceano — tra cui fosfati, nitrati e silicati — e li trasformano facendoli diventare una fonte di cibo per altre creature marine. El-Sayed collocò questi organismi fitoplanctonici in grandi ‘“microcosmi” di plexiglas sulle rive dell’ Antartide, davanti alla Stazione Palmer,

esponendoli a diverse dosi di radiazioni ultraviolette. Accertò che il processo di fotosintesi era gravemente ostacolato nel fitoplancton che aveva subito una più forte esposizione agli UV. Un aumento del 10 per cento di questi uccideva quasi tutti gli esemplari: nel microcosmo interessato sopravvivevano solo alcune cellule, e i gusci delle diatomee rimaste apparivano scoloriti. Al contrario, la fotosintesi negli organismi non esposti in alcun modo agli UV aveva un ritmo che risultava da tre o quattro volte superiore al normale. Dice lo studioso: « Le cellule erano di un bel colore dorato lucente, e la loro massa complessiva era grandissima ». Dato che molti di questi organismi planctonici migrano su e giù nel loro elemento, è difficile calcolare quanta radiazione ultravioletta B ricevano nei mari antartici sottostanti al Buco nell’Ozono. In alcuni punti, l’acqua può fare da scudo, salvo che per qualche decina di centimetri in superficie, contro la penetrazione degli UV, ma in altri punti, secondo El-Sayed, i raggi possono penetrare fino a una profondità di 18-20 metri. L'accertamento degli effetti reali di un’accresciuta radiazione UV sul mondo della natura richiederà studi più approfonditi, ma il fatto che il plancton, che sta alla base della catena alimentare, appaia così sensibile ad essa non è un buon segno. Poiché il Buco nell’Ozono ci farà compagnia per almeno cent’anni, si potrebbe provocare una specie di terremoto evoluzionistico se migliaia di specie marine soccombessero alle radiazioni e altre più resistenti le sostituissero. La vita dei miliardi di organismi che formano il krill — minutissimi crostacei del tipo dei gamberetti, cugini di quelli che gli Harmony sigillano nelle loro EcoSfere = dipende dai vegetali del fitoplancton. E dal krill dipendono per la loro sussistenza le balene, i capodogli, i calamari, gli albatri, le foche, i pinguini imperatore e un’infinità di altre creature marine. ElSayed teme che il krill possa essere “una delle prime vittime” del Buco nell’Ozono. « Se capita qualcosa al krill » dice «l’intero ecosistema non può far altro che crollare. Potremo dire addio alle balene, alle foche, ai pinguini eccetera. » Non può esservi dubbio che l’eccesso di ozono nella bassa atmosfera stia bruciando la biosfera, anche se gli ecologi hanno sì e no incominciato a cal-

colare i danni. Secondò il “Programma per la valutazione della perdita dei raccolti su scala nazionale” varato dal Dipartimento americano dell’Agricoltura, ogni anno l’ozono sta portandosi via negli Stati Uniti raccolti agri-

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coli per un valore di circa 2 miliardi di dollari, calcolando i danni arrecati ai raccolti di granturco dolce (quello che si mangia giovane, sulla pannoc‘ chia), patate, peperoni, cotone, semi di soia, erba da pascolo ed erba medica. Alan F. Teramura, uno studioso di botanica dell’Università del Maryland, ha coltivato piantine di soia esponendole a radiazioni UV in quantità tale da simulare una diminuzione del 25 per cento dello strato dell’ozono. La diminuzione del raccolto è stata anch’essa del 25 per cento. Ricercatori della Scuola di silvicoltura dell’Università di Yale riferiscono che la crescita dei giovani pioppi e delle robinie è gravemente ostacolata da livelli di ozono atmosferico parecchio inferiori ai limiti fissati dal governo federale. Durante l’estate del 1988, l’ozono contenuto nell’aria calda, umida, estre-

mamente afosa ridusse di quasi un terzo i raccolti di grano in alcune coltivazioni sperimentali che si trovano presso Ithaca, nello stato di New York. Infine, va ricordato che l’ozono è un gas da effetto serra, e che quando discende nella troposfera, più densa della stratosfera, tale effetto viene potenziato. Già oggi, il mutamento che ha provocato nella temperatura del pianeta è pari a un sesto di quello causato dall’anidride carbonica. C’è tuttavia anche una conseguenza benefica derivante dall’aumento dell’ozono nella bassa atmosfera. Esso può farci da scudo contro un’ulteriore quantità di raggi UV che altrimenti raggiungerebbero la superficie terrestre. È come quell’anomalo ombrello tenuto troppo basso di cui abbiamo parlato, che può dar molto fastidio finendo in faccia alla gente, ma serve a tenerci all’asciutto. Fino a questo momento, non abbiamo ancora abbassato troppo lo scudo dell’ozono: solo di quel tanto che è bastato per farcelo entrare nei polmoni.

Come accade per l’effetto serra, i vari tipi di feedback possono peggiorare le cose. L’impressionante diminuzione dell’ozono non solo consente che si riversino nel Buco i raggi ultravioletti, ma vi provoca anche un abbassamento della temperatura. Già adesso l’aria sul Polo Sud in ottobre e novembre (durante la primavera antartica) è scesa di 10 °C rispetto agli anni Settanta. Meno ozono vi è nel Buco e più freddo esso diventa e, poiché col raffreddamento si forma un maggior numero di cristalli di ghiaccio, più freddo è il Buco, meno ozono vi si trova. La durata del buco si allunga in proporzione diretta al suo raffreddamento e approfondimento. Il riscaldamento finale, cioè la rottura delle pareti che provocano la formazione e il manteni-

mento del Buco, avviene nella primavera australe con settimane di ritardo in confronto al passato. Il che significa che ogni creatura vivente nella regione è esposta per un periodo più lungo a una maggiore dose di raggi UV. 75

Se le predizioni si riveleranno esatte, l’effetto serra nei prossimi cinquant'anni raffredderà tutta la stratosfera di altri 10 °C, facendovi formare più cristalli di ghiaccio. La cosa potrebbe far ingrandire i buchi nell’ozono ai due poli. Il Polo Nord ha già un carico di composti clorurati dovuto ai CFC. Robert Watson, che sovrintende a tutte le spedizioni per lo studio dei Buchi, dice che la chimica della stratosfera artica è in uno stato di “incredibile subbuglio”. La crisi dell’ozono rende molto più preoccupante l’aumento del carico di metano nell’atmosfera, perché quando il metano si scinde, uno dei prodotti della scissione è il vapor acqueo. Il metano potrebbe già aver fatto crescere la quantità di vapor acqueo presente nell’atmosfera di circa un terzo dagli anni Quaranta in qua (fornendo più acqua per più nubi a più alta quota) e secondo le stime di Rowland esso potrebbe raddoppiarsi a livello stratosferico

entro cinquant’anni.



Nei prossimi decenni, grazie a questi vari effetti che si incrociano e sovrappongono, potremmo tutti godere la vista, un tempo rara, delle madreperlacee nubi nottilucenti. Vedremmo incredibili spettacoli qualche ora prima dell’alba e qualche ora dopo il tramonto: il preannuncio e il bagliore residuo di ogni giorno del pianeta. E, nelle ore intercorrenti fra l’uno e l’altro, riceveremmo un abbondante bagno di raggi ultravioletti. Certo, non siamo stati noi a fabbricare il calderone: noi vi abbiamo sol-

tanto versato dentro un intruglio malefico. E anche se ribaltassimo troposfera e stratosfera, il Sole seguiterebbe a rimestare quell’intruglio. Quando la sua luce si offuscherà o si intensificherà nel corso generalmente regolare dei suoi cicli, le crisi di deplezione dell’ozono di volta in volta si aggraveranno, miglioreranno, torneranno ad aggravarsi: due passi avanti e uno indietro. Ogni massimo di attività solare, come quello eccezionale del 1990,

sembrerà rinsaldare lo strato dell’ozono. I vulcani seguiteranno a inviare nella stratosfera le loro particolari marche di aerosol. Anche i venti faranno la loro parte: un anno con forti venti stratosferici a volte interromperà il vortice polare, indebolendo le reazioni

chimiche al suo interno, riscaldando l’aria e risparmiando un po’ di ozono. (Fu quanto avvenne nel 1988. Il Buco nell’Ozono dell’ Antartide fu vasto e spesso come nel 1984, ma meno che nell’85, ’86 e ’87).

Quindi, la crisi dell’ozono non continuerà una marcia ascendente unifor-

me nei prossimi cent’atini. Le forze della natura a volte peggioreranno, altre volte miglioreranno la situazione. Diversi punti critici, diverse soglie che agiscono nel sistema le imporranno momenti di stallo e balzi in avanti. 176

Potrebbero entrare in gioco meccanismi di feedback sconosciuti, come quelli che fecero sballare le previsioni enunciate negli anni Settanta: perché chi avrebbe potuto immaginare che un calderone d’aria al Polo Sud potesse combinarsi con una neve di acido nitrico ad alta quota che si sarebbe combinata con un raffreddamento dell’atmosfera causato dall’effetto serra che a sua volta si sarebbe combinato con l’azione dei CFC? La crisi avrà, su una

curva di Keeling, una configurazione di questo tipo:

I clorofluorocarburi sono prodotti da un unico settore dell’industria chimica. Dovrebbe riuscire più facile fermarne la produzione che non impedire la combustione di carbone e petrolio, o l’abbattimento delle foreste tropicali. Dovrebbe trattarsi di un problema di soluzione assai più facile che non quello dell’effetto serra. Eppure ancora adesso, dopo la scoperta del Buco nell’Ozono,

e dopo urgenti trattative internazionali con relativi accordi,

queste sostanze continuano a essere fabbricate a tutto spiano. La lentezza del mondo, questo suo strascicare i piedi, è cosa che fa spesso disperare gli scienziati. Più ancora degli altri fa disperare Sherwood Rowland, l’uomo che lanciò il primo grido d’allarme nei lontani anni Settanta. «Infine » ha detto Rowland « a che serve far progredire la scienza fino al punto di poter prevedere il futuro, se poi tutto quello che siamo disposti a fare è di starcene lì cincischiando ad aspettare che le previsioni si avverino? »

der

9 Le isole di Lovejoy È possibile concepire un’isola che contenga un tempo futuro... qualcosa che non sia in rapporto di simultaneità con il resto del mondo... LOREN EISELEY, The Accidental Universe

“Troppo il mondo è con noi; presto, e tardi, prendendo e dando, esauriamo le nostre forze: poco vediamo in Natura che sia nostro...”

Tali i famosi versi con cui il poeta inglese William Wordsworth esprimeva il suo sconforto. “Il mondo” cui accennava era evidentemente la sfera umana, che già all’epoca della composizione, nel 1806, sembrava circondare, racchiudere, assorbire completamente i suoi abitatori. Per “Natura” intendeva tutto il resto del pianeta. | Dopo due secoli di prendere e dare, noi abbiamo un diverso lamento da esprimere. Poco vediamo in Natura che non sia nostro. Il mondo è, sì, trop-

po con noi, ma in maniere che vanno bene al di là del significato delle parole del poeta. Al Polo Nord, al centro dell’Oceano Pacifico, sopra la calotta glaciale antartica, l'atmosfera è sovraccarica di carbonio, zolfo, azoto, fo-

sforo, cloro: tutta roba che ci abbiamo messo noi. Oggi abbiamo buchi nel cielo, e la luce solare che li attraversa non è così benefica come lo era ai tempi di Wordsworth. Questa nuova luce, dura, è quella che noi abbiamo provocata. Perfino il tempo atmosferico minaccia di cambiare regime: se lo farà davvero, riguarderà noi — e sarà nostra responsabilità — il nuovo corso delle quattro stagioni. Anche la biosfera verde, parte del nostro prendere e dare, è praticamente nelle nostre mani. Gli ecologi calcolano che nei vari continenti le piante verdi producano, attraverso la fotosintesi, oltre 100 miliardi di tonnellate di materia organica ogni anno. Essi definiscono questa quantità “produzione primaria terrestre netta” e la usano per elaborare i loro calcoli globali. Se-

condo uno studio di Peter Vitousek e colleghi, che lavorano all’Università 178

di Stanford, gli esseri umani, attraverso il cibo che producono per se stessi o per alimentare le loro mucche, cavalli, pecore, capre, suini e altri animali da allevamento, nonché attraverso il taglio di alberi per riscaldarsi o ricavarne legname da costruzione, consumano circa 4 miliardi di questa produzione primaria netta ogni anno. Quattro miliardi su cento miliardi sono il 4 per cento. In sé, non sarebbero un balzello troppo esoso, questo che preleviamo, considerando che siamo la specie dominante del pianeta. Se tuttavia vi sommiamo la quantità di biomassa che bruciamo per dissodare il terreno, che gettiamo spulando i cereali o alla quale rinunciamo nei campi lasciati incolti, e così via, allora noi

“controlliamo” 30 miliardi di tonnellate della produzione primaria netta della biosfera terrestre, secondo quanto affermano Vitousek e i suoi colleghi. Arriviamo oltre il 30 per cento. Se poi includiamo la quantità di biomassa, di materia organica che sottraiamo al pianeta impadronendoci ogni anno di maggiori estensioni di terra per farne altri campi e pascoli, terreni da costruzione, aree per il parcheggio degli autoveicoli, nuove strade urbane ed extraurbane, allora la nostra quota di controllo della biosfera (sommando tutto il carbonio che sottraiamo e quello di cui impediamo alla natura la produzione) si avvicina ogni anno a 40 miliardi di tonnellate della produzione primaria netta. Il 40 per cento. Le proiezioni dei demografi prevedono che la popolazione si raddoppierà nel giro di un secolo, passando da circa 5 miliardi a 10 miliardi di persone nel 2100. Come fa osservare Paul Ehrlich: « Questo presuppone il convincimento di poter disporre di oltre 1°80 per cento del prodotto della biosfera ». Il poeta è atterrito da cifre di questo genere. L’affarista che eventualmente covasse dentro di noi potrebbe domandarsi se e come sarebbe possibile impossessarsi anche di quel residuo 20 per cento. Ma dovremmo tutti inorridire. La maggior parte dei cambiamenti che abbiamo apportato agli equilibri della natura sono avvenuti dopo il lamento del poeta, dopo il 1806. Dal nostro punto di vista può essere un tempo lunghissimo, da quello del pianeta è poco più di un istante. Quasi tutti icambiamenti, poi, sono stati cumulativi: che si siano prodotti prima nell’aria, o nel mare, o sulla terraferma, tutti hanno modificato le condizioni generali di vita sulla Terra. Simili cambiamenti improvvisi non influiscono solo sulla sensibilità più o meno romantica, ma perfino sull’ultima linea, sul fondo del barile costituito

dagli strati geologici formatisi sotto i nostri piedi. Questi strati di roccia sono pieni delle ultime impronte fossili di specie scomparse durante brevi periodi di stress della vita della Terra. Nella scienza del cambiamento, forse è

questa l’unica legge immutabile: che ogni cambiamento globale troppo rapi-

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do provoca l’estinzione di specie viventi. Alla fine dell’ultima epoca glaciale, ad esempio, quando le grandi coltri di ghiaccio si sgretolarono e si fusero, il livello dei mari salì di varie decine, a volte di centinaia di metri. Molti bracci di terra in tutto il mondo furono sommersi; le regioni più elevate alla periferia dei continenti restarono isolate, e milioni di piante e di animali si trovarono prigionieri di queste isole nate all’improvviso. Gli ecologi hanno dedicato molta attenzione al problema, al caso delle

Isole Britanniche, formatesi al largo delle coste europee; a quello del Borneo e di Giava di fronte all’Asia sud-orientale; della Tasmania al largo dell’Australia; di Trinidad davanti al continente sudamericano; Poo (oggi Bioko) davanti alle coste occidentali africane.

di Fernando

All’inizio, ogni nuova isola fu una specie di arca di Noè. La lista dei passeggeri era l’inventario più o meno completo della flora e della fauna del continente cui l’isola era appartenuta, secondo il comando di Dio al patriarca: « E di ogni cosa vivente, di tutto ciò che è carne, ne introdurrai nell’arca due di ciascuna specie, affinché restino vivi conte ».

In seguito, ogni isola incominciò a perdere passeggeri, non solo individui, ma intere specie. Salawati, rimasta isolata da Papua Nuova Guinea, perse l’uccello del paradiso rosso. Batanta, presso Salawati, perse l’uccello

del paradiso reale e quello dalle dodici penne, oltre che i canguri e i wallaby arboricoli. Nelle isole più piccole, quelle di superficie inferiore ai 50 chilometri quadrati, l'estinzione locale delle specie fu così rapida che nel breve volgere di 10.000 anni tutte le specie animali e vegetali rimaste isolate erano scomparse. Un improvviso mutamento nella criosfera e nell’idrosfera provocò dunque l’estinzione locale di molte specie nella biosfera. E si trattava di un mutamento che generalmente consideriamo positivo: la fine di un’epoca glaciale. Oggi, il numero di “isole” sul nostro pianeta sta crescendo assai più rapidamente che alla fine dell’ultima glaciazione. La causa non è un innalzamento del livello dei mari, che non è affatto preoccupante per ora, ma la marea crescente della popolazione umana. In tutto il globo, la biosfera tende sempre più ad essere e ad assumere l’aspetto di una scacchiera. Guardate dal finestrino di un aereo. C’è qualche eccezione, ma di norma più lunga è stata la durata dell’insediamento umano, più frammentato è il paesaggio. Negli Stati Uniti, la parcellizzazione a scacchiera è cominciata, naturalmen-

te, nell’Est e poi si è gradualmente estesa verso l’Ovest. Citiamo l’esempio del distretto di Cadiz, la “Contea verde” del Wiscon-

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sin. In origine, la Contea verde era veramente tale. Poi l’Esplosione Pionieristica l’ha raggiunta e, nel giro di poco più di un secolo, la civiltà ha creato un arcipelago di isolette verdi in un distretto di appena 15,5 km? di superficie. Gli ultimi pionieri americani sono ora all’opera nell’ultima terra vergine. La rotta aerea tra San Francisco e Seattle, nello stato di Washington, passa sopra la catena dei Monti Cascade, parte settentrionale della Sierra Nevada, una delle regioni più pittoresche e deserte dell’ America settentrionale. Anche su quelle vette seghettate, che sono file di giovani vulcani, e perfino a pochi chilometri dal cratere fumante del Saint Helens; si possono scorgere i primi segni di formazione della scacchiera globale. Valli e crinali sono punteggiati di case. Le foreste sono solcate e divise in due, in tre dalle strade. La biosfera è soggetta a un lavoro d’intaglio che ne ricava migliaia di frammenti, di chiazze scure a pelle di leopardo, dalle forme più svariate. Questi frammenti sono isole nel senso in cui lo sono Hyde Park o il Central Park o Villa Borghese, “isole verdi”. Sono pezzi di biosfera accerchiati dall’uomo. Nel prossimo secolo, col crescere della marea umana e col suo avvicinarsi al controllo dell’80 per cento della biosfera, quest’ultima è destinata a frammentarsi sempre di più. Anche se gli esseri umani tendono a concentrarsi in numero sempre maggiore nelle città, e anche se cerchiamo di ottenere raccolti per ettaro sempre più abbondanti, stiamo pur sempre riducendo la biosfera a una Via Lattea di isole. Già questo andamento, questo cambiamento globale, mette da solo le proiezioni demografiche in rotta di collisione con le previsioni degli ecologi. È una brutta faccenda, tale da far temere per le sorti dell’umanità. È questa una delle ragioni per cui, come scrive Ehrlich, « un mondo con dieci miliardi di abitanti è un’idea assurda a parere degli ecologi, che già oggi denunciano gli effetti deleteri delle attività umane ». Negli anni Sessanta due ecologi portati alla matematica, E.O. Wilson e Robert MacArthur, idearono delle formule per predire quante specie possono sopravvivere su una determinata isola, formule basate sulla grandezza dell’isola e sulla sua distanza dal continente. Questa teoria della “biogeografia insulare” ha rivoluzionato l’ecologia. È una teoria che si presta a una vasta generalizzazione, applicabile a qualsiasi isola, reale o metaforica. Le pareti delle barriere coralline sono isole sottomarine: lo sono per una cernia nera che può vivere soltanto lì e non in mare aperto, oltre la barriera. Le cime montane sono anch'esse isole, isole ad alta quota. I laghi sono isole ittiche. L’incavo nel vetrino portaoggetto del microscopio è, sotto la protezione del vetrino coprioggetto, un’isola per amebe, idre e parameci. La sfera

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cava di cristallo, 1’EcoSfera, è un’isola per i gamberetti (l’ultima e definitiva, senza entrate e senza uscite).

Le formule di Wilson e MacArthur valgono per tutte queste isole, perché gli stessi fenomeni si verificano ogni volta che un frammento di biosfera viene isolato, dal sollevarsi delle maree o da altre catastrofi naturali o artifi-

ciali.* È una pura questione di geografia. In terraferma, se la popolazione locale scompare, a causa di una siccità o di un incendio, può essere sostituita. O prima o poi, arriveranno popolazioni contigue, o immigranti venuti da lontano. Ma su un’isola non vi sono vicini, e sono pochi gli immigranti, per cui il tasso di estinzione supera quello delle sostituzioni. ** Quanto più piccola è l’isola e più grande la sua distanza dalla terraferma, tanto maggiore sarà lo squilibrio fra il tasso di estinzione e quello di sostituzione. Il risultato sarà una diminuzione del numero delle specie presenti: un “effetto isola”. Dopo Wilson e MacArthur, è apparso chiaro che nei prossimi cent’anni il destino di gran parte della biosfera dipenderà dall’effetto isola, così come il destino del clima del nostro pianeta dipenderà principalmente dall’effetto serra. Gli ecologi hanno cercato di suffragare le loro teorie sulla biogeografia insulare con studi sul campo. Allo scopo isole come l’Inghilterra e l’Irlanda o Batanta e Sulawati non erano il banco di prova ideale, essendo nate da una sommersione di ponti continentali avvenuta moltissimo tempo fa. Gli ecologi avevano bisogno di collaudare sperimentalmente le loro teorie: la cosa migliore era poter disporre di un grandissimo e nuovissimo arcipelago da poter studiare fin dal momento dell’isolamento dalla terraferma. Qualche giorno prima di Natale, nel 1976, Thomas Lovejoy era impegnato in un brainstorming (una di quelle sedute in cui tutti i partecipanti esprimono le loro idee e proposte, indipendentemente dalla fattibilità) su questo problema con alcuni colleghi. Per la tesi di dottorato, a suo tempo aveva inanellato 20.000 uccelli nel bacino del Rio delle Amazzoni. Ricordava benissimo l’immensa foresta pluviale di quella regione. L’Esplosione Pionieristica aveva appena raggiunto l’Amazzonia, ed egli aveva potuto vedere i nuovi terreni agricoli ricavati abbattendo le piante, le nuove fattorie affac+ * Anche un picco roccioso che emerga dalla calotta glaciale è una specie di isola: un nunatak. Un

rilievo verde in un nero mare di lava indurita è un’altra specie di isola, un kiputa. Come l’arca di Noè, tutte queste isole inizialmente sono gremite di individui che vi hanno trovato rifugio. ** Una volta al secolo, più o meno, un immigrante può giungere su un’isola remota, trasportato da un tronco alla deriva. Ma per cambiare qualcosa nel nuovo ambiente deve essere una immigrante, e gravida. :

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ciate sulle nuove strade, le rare chiazze di alberi lasciati in piedi fra i campi fangosi. Secondo la legge brasiliana, un proprietario terriero in Amazzonia non poteva spianare tutto. Metà della copertura forestale doveva essere conservata. Naturalmente, all’atto pratico la legge era bellamente aggirata. Ogni volta che un terreno veniva venduto, quella metà di superficie forestale conservata per legge poteva essere ancora dimezzata. Due proprietari avevano dunque la possibilità di scambiarsi e riscambiarsi pezzi di foresta pluviale, finché della foresta restava poco più che il ricordo. Comunque,

la regola del cinquanta per cento, com’era chiamata, aveva

portato alla nascita di un nuovo paesaggio, a scacchi, ovunque piantatori e coloni erano penetrati nel bacino amazzonico. Percorrendo in auto le nuove strade sterrate si poteva vedere un mare di campi scarsamente fecondi da cui emergevano qua e là, simili a isolette tropicali, grami residui di foresta. Lovejoy prese l’aereo e si recò in Brasile, a intavolare trattative. Possiede grandi capacità diplomatiche, e un’ottima conoscenza del portoghese. In ogni caso, il grande progetto che andava a illustrare aveva un pregio immediato agli occhi degli alti funzionari brasiliani. Era stato già deciso, in linea di principio, di istituire parchi e riserve naturali in Amazzonia, ma si rivelava difficile tracciarne i confini. Il rustico tappeto formato dalla foresta vergine c’era ancora, benché si stesse sfrangiando ai bordi. Non esistevano però caratteristiche morfologiche tali da definire confini naturali, come è il

caso negli Stati Uniti del Parco Nazionale Yosemite o del Gran Canyon. E poi, di quale superficie dovevano essere le riserve? Di quanta foresta pluviale, ad esempio, ha bisogno un giaguaro? L’Amazzonia fa parte di una fascia che corre attorno alla Terra all’equatore, dall'Africa al Sudamerica all’Asia sud-orientale. È la zona del pianeta con la più forte insolazione e dove vi è il massimo di precipitazioni e di evaporazione. Questa fascia occupa meno del 10 per cento delle terre emerse, ma ospita più del 50 per cento di tutte le specie animali e vegetali note. Se confrontato con la foresta pluviale, il resto della biosfera sembra povero. Nello stato della Pennsylvania, per fare un esempio, gli ornitologi dilettanti che praticano il birdwatching hanno compilato un catalogo comprendente 185 diverse specie di uccelli che vivono e si riproducono in questa 0 quella parte del territorio. Nello stato del Par, in Brasile, c’è una città che si chiama Belém. Sorge ai margini della foresta vergine, presso la foce del ‘Rio delle Amazzoni. Ebbene, solo nel territorio della municipalità sono sta-

te osservate oltre 425 specie di uccelli. Nel Nord della Nuova Inghilterra - Vermont, Neaw Hampshire, Maine -—

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un vacanziere amante del moto può traversare un’intera foresta contando solo una o due specie di piante sempreverdi. Nei dintorni di Belém, entro un tratto di foresta grande appena cinque ettari un botanico ha contato 295 specie arboree. Inginocchiandosi sul terreno della foresta, un altro botanico ha trovato foglie appartenenti a cinquanta differenti specie di alberi in uno spazio di un solo metro quadrato! Questi minuscoli campioni possono farci intuire quante siano le specie viventi che popolano 1’ Amazzonia, per un totale che nessuno conosce. Quel poco che si sa riguarda i margini estremi della foresta, come a Belém. I biologi ritengono che vi siano forme di vita ancora da scoprire in numero superiore a tutte le specie animali e vegetali catalogate dalla scienza. Finora, hanno fatto la cifra di un milione e mezzo. Coloro che studiano l’esotica popolazione della foresta pluviale, la profusione di coleotteri, falene, farfalle e altri insetti che vivono nella sua cupola a trenta e più metri di altezza, stimano che il vero totale possa superare i 30 milioni di specie. Wilson sostiene che ogni biologo dovrebbe recarsi nella foresta pluviale almeno una volta, se non altro in pellegrinaggio. E Lovejoy definisce le foreste pluviali « la massima espressione di vita nel pianeta ». Le foreste pluviali sono come l’anidride carbonica. Mettono a nostra disposizione una potente leva che preferiremmo non avere. Con l’anidride carbonica, possiamo modificare drasticamente la temperatura del globo immettendo nell’atmosfera quantità relativamente piccole di questo gas. Con la foresta pluviale, possiamo modificare drasticamente il numero di specie viventi sul pianeta privando della vegetazione estensioni di terreno relativamente piccole. Quello dell’arcipelago di Lovejoy è diventato il più grande esperimento ecologico mai progettato. L’arcipelago si trova appena a nord della città amazzonica di Manaus (« due ore e molte migliaia di buche di strada », dicono gli incaricati del progetto). Fino a poco tempo fa, questa era ancora foresta vergine, asilo di giaguari, puma; tapiri, arpie e aquile crestate (o spizaeti). Oggi, volandovi sopra a bordo di un piccolo aereo, si vedono migliaia di ettari in cui sono stati abbattuti e bruciati gli alberi per far posto a terreni da pascolo. Qua e là, in quella specie di marcite, vi sono macchie di foresta, alcune delle quali a forma di rettangolo o di quadrato. Sono queste le “isole di Lovejoy”, e risaltano con tanta evidenza che un naturalista in visita, vedendone alcune dall’aereo, commentò che sembravano « rozzi tap-

peti buttati su un pavimento sudicio ». Oggi le isole di questo arcipelago ecologico sono dieci e variano in superficie da un ettaro a cento ettari. Un 184

giorno diventeranno una trentina, una delle quali enorme: diecimila ettari. Il Projeto Lovejoy, com'è definito dai giornali popolari brasiliani, è ancora agli inizi. L’arcipelago dovrà essere tenuto sotto costante controllo per secoli, prima che si manifestino tutte le conseguenze dell’effetto isola. Fin da quando, tuttavia, le prime isole di Lovejoy furono ritagliate dalla foresta pluviale, nei primi anni Ottanta, si osservò tutta una serie di effetti. In primo luogo, le chiazze di foresta attirarono numerosissimi uccelli. Gli

ecologi che lavorano ai tropici contano gli uccelli tendendo prima dell’alba reti sottilissime, dette “reti nebbia”, attraverso le radure aperte nella fore-

sta. Nelle isole di nuova creazione, la quantità di uccelli catturati con queste reti dagli ecologi aumentò del cento per cento. Si potrebbe chiamarlo effetto profugo. Gli uccelli, rimasti senza casa, si concentrano nell’isola rimasta al centro della zona diboscata come su una biblica arca. Sei mesi più tardi, la popolazione dei profughi subisce una netta diminuzione. Cedono anche gli alberi alla periferia della macchia rimasta. Non sono abituati a tanta luce solare. Come si sa, i raggi solari sono più forti ai tropici, perché cadono perpendicolarmente. Ma nella foresta vergine ancora densa, dove non è sventrata, la cupola è formata da tanti strati che sono

molto scarsi i raggi che penetrano fino al suolo (« per la disperazione di quelli che vogliono usare pellicola a colori », dice Lovejoy). Alberi che crescevano nel cuore buio della foresta si vengono a trovare ai margini di essa. Un albero della famiglia Bombacaceae (parente dell’Ochroma lagopus, l’albero che dà il legno di balsa) si mise a fiorire sei mesi fuori stagione, con stupore dei botanici che non avevano mai visto prima una cosa simile. Ai loro occhi esperti quei boccioli richiamavano l’immagine della dolce, floreale follia di Ofelia nell’ Amleto. Anche le scimmie si trovarono a malpartito. Un gruppo di tamarini dalle mani dorate (del genere Saguinus) fuggì attraverso i nuovi campi che circondavano l’isola e scomparve per sempre. Le scimmie saki normalmente si spostano in branchi su un territorio di centinaia di ettari. Due di esse restarono prigioniere della piccola isola di foresta che era stata creata: mangiarono quasi tutti i frutti e i semi che trovarono sugli alberi della riserva. Poi scomparvero. Uno dei cambiamenti più bizzarri riguardò le formiche scacciatrici o guerriere (Eciton hamatum, della sottofamiglia Dorylinae). Le formiche guerriere vivono in grosse colonie e il loro ciclo vitale dura un mese. Durante una parte di questo mese ogni colonia, si potrebbe dire esercito, forma un bivacco ove stanno mezzo milione di individui o più. Ma per qualche tempo durante ogni ciclo la colonia sciama, a somiglianza delle api. Ogni giorno l’esercito avanza su un vasto fronte sul pavimento della foresta plu-

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viale, scorrendo sotto le foglie o salendo e scendendo gli alberi come un flusso di pece liquida. Gli insetti che vivono sul suolo della foresta solitamente se ne stanno quieti quieti, cercando di non dare nell’occhio. Quando però arrivano le formiche scacciatrici, abbandonano i nascondigli fuggendo a precipizio per salvarsi la vita. Saltano più alto che possono, o spiccano balzi per precedere l’esercito e cercare un rifugio qualisiasi. La marcia delle formiche è un grande spettacolo, accompagnata e proceduta com’è da migliaia di farfalle multicolori, cavallette esotiche e scarafaggi giganti che schizzano in aria. Del panico generale approfittano certi uccelli. Questi volano sopra le colonie di formiche scacciatrici in movimento, come aerei d’appoggio alla sterminata fanteria. Ogni tanto si tuffano in picchiata e ghermiscono le cavallette mentre balzano a mezz'aria, prima che le formiche riescano a raggiungerle. Una mezza dozzina di specie di uccelli in questa parte dell’amazzonia è specializzata nel seguire le formiche. Si procacciano il cibo in questo modo da tanto tempo che per loro è diventata una tattica obbligata. Vi saranno certo 30 milioni di specie di insetti, con chissà quanti miliardi di individui che si celano nella foresta pluviale, ma questi uccelli conoscono un solo modo per trovarli. Senza le formiche scacciatrici, a far loro da battitrici per stanare le prede, morirebbero di fame.

Una colonia di formiche scacciatrici si muove su una zona di foresta di circa 30 ettari. Per questa ragione, quelle colonie che vennero a trovarsi sulle nuove isole di 10 ettari di superficie ben presto si estinsero. Sparirono anche le “corporazioni” formate dai loro accompagnatori alati. In questo modo, era scomparsa una cospicua fetta della fauna della foresta pluviale. Forme di associazione ancora più strane incominciarono a sfaldarsi. Gli ecologi che sorvegliavano l’isola avevano previsto che vi sarebbero stati problemi per gli uccelli che seguivano le formiche scacciatrici. Avevano anche previsto che le isole si sarebbero rivelate troppo anguste per i pècari, simili a piccoli cinghiali. Ma non avrebbero mai immaginato che l’isola potesse danneggiare anche una creatura così piccola come la rana. Invece, quando se ne andarono i pècari, le fosse fangose ai margini della foresta in cui erano soliti voltolarsi incominciarono a prosciugarsi sotto il sole cocente. Le rane vivevano nelle piccole pozzanghere che si formavano nel brago dei pècari. Su di esse scese il silenzio. Sul lato controverso dell’isola, il numero degli alberi abbattuti e spezzati fu impressionante. Lovejoy attribuisce il fenomeno ai forti venti che soffiavano senza ostacoli attraverso le distese di terreno adibite a pascolo: un altro effetto della posizione marginale. Ogni albero caduto spalancava all’in-

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gresso della luce solare un altro piccolo pezzo di foresta vergine, il che significava che le erbe dei pascoli avevano modo di infiltrarsi nei varchi. Il margine esterno seguitava così ad arretrare. A dire il vero, la riserva di 10

ettari era tutta “margine”, Non vi era un nucleo in cui potesse rimanere in-

tatta e immutata, nemmeno al centro della riserva. Dice Lovejoy: « Il nume-

ro di alberi morti ancora in piedi passò bruscamente da nove nel 1981 a sessantacinque nel 1982 ». I volontari che avevano esplorato e fatto i rilievi della futura riserva stentavano a riconoscere la zona. Non si sentiva più il coro mattutino degli uccelli, né quello notturno delle rane. Le farfalle che avevano visto tante volte

volare a breve distanza dal terreno non si vedevano più. Al loro posto erano subentrate nuove e strane farfalle, in parte scese dal sommo della cupola, che svolazzavano sperse quasi a livello del suolo, forse perché il pavimento della foresta le confondeva, apparendo luminoso quanto le fronde più alte degli alberi, loro habitat naturale. L’aria era calda e secca, e ogni settimana il numero delle catture di uccelli con le reti tese attorno all’isola diminuiva. Insomma, dopo un solo anno di isolamento, la riserva già richiamava la

terrorizzante favola che apre la Primavera silenziosa di Rachel Carson. Le macchie d’alberi avevano perso la voce, e la vita ne era fuggita. Senza che fossero sparsi veleni, ma solo abbattendo gli alberi per avere un campo da coltivare. Lovejoy prevede perdite lente e progressive per tutte le sue isole, grandi e piccole. In quelle di cento o di mille ettari il fenomeno non sarà altrettanto rapido che in quelle di uno o di dieci. E occorreranno decenni prima che la più grande delle isole programmate nell’esperimento, quella da 10.000 ettari, mostri i primi segni di pericolo all’interno. Ma alla lunga ciò che è già accaduto nelle isole più piccole si ripeterà in quelle medie e infine anche nella più grande di tutte. Lovejoy parla di “decadimento dell’ecosistema”. Il decadimento radioattivo può essere predetto con grande precisione. Una certa quantità di atomi di uranio finisce col trasformarsi, in un tempo lunghissimo e del tutto calcolabile, in piombo. In linea generale, si può dire che il tempo di decadimento di un ecosistema sta rivelandosi anch’esso calcolabile con sufficiente preci-

sione. . Eventi come quelli che hanno determinato il fenomeno delle isole di Lovejoy si ripetono per una superficie di circa un ettaro ogni 2 secondi nel ‘complesso delle foreste pluviali del mondo, e nonostante un’infinità di va‘riazioni locali sul tema, dovunque la situazione seguirà la stessa evoluzione conflittuale. L'unica differenza, fondamentale, è che nelle isole di Lovejoy

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le perdite sono seguite, controllate e verificate, altrove no.

Fuori della fascia di foresta pluviale, dove l’Esplosione Pionieristica sta avvenendo da più tempo, le isole sono più antiche e in molti casi mostrano già adesso i segni del decadimento dell’ecosistema ormai agli ultimi stadi. I panda giganti, ad esempio, che un tempo erano sparsi attraverso quasi metà della Cina, sopravvivono oggi solo in alcune piccole riserve sulle montagne boscose della provincia del Sichuan, al margine orientale dell’altopiano tibetano. Nel 1987, qui sussistevano in libertà circa trentacinque gruppi di panda, per lo più formati da meno di venti individui. Quando le isole sono così piccole, l’effetto isola è fortissimo. In una fa-

miglia può nascere una generazione di soli maschi o di sole femmine, oppure può accadere che l’unico maschio da riproduzione finisca in una trappola preparata da un bracconiere per un piccolo cervo muschiato (Moschus moschiferus). Essendo ogni gruppo lontano dagli altri, è improbabile l’arrivo di uno scapolo vagabondo, e la scoperta dell’harem languente. Non c’è mai il forestiero che capiti da quelle parti... ed è la fine del gruppo. Come tanti altri animali selvatici, i panda non si riproducono facilmente in cattività. Nonostante gli sforzi che si fanno in tanti Paesi per salvarli, c'è da temere che siano condannati

all’estinzione

a causa

dell’effetto isola, dell’isola-

mento. I puma (o leoni di montagna, o coguari) un tempo erano comuni in tutta la fascia orientale degli Stati Uniti. Nel 1986, in Florida ne restavano poco più di una ventina, tutti in foreste a latifoglie che crescono in una zona paludosa dalle parti delle Everglades. È stata costruita una strada statale che è venuta a tagliare in due la zona paludosa, e su quella strada ha incominciato a morire ogni anno qualche puma, così che la popolazione di questa specie si è ridotta in Florida di un ulteriore 5 o 6 per cento. Poi le autorità hanno deciso di ampliare la strada aggiungendovi due corsie. Per sgravarsi la coscienza nei confronti dei puma, sono stati anche costruiti degli “attraversamenti per puma”, cioè trentasei sottopassi. In teoria, gli animali avrebbero imparato a servirsene per passare da una parte all’altra della loro isola vitale in via di restringimento. La spesa per i sottopassaggi, 10 milioni di dollari, non è servita a niente, e l’effetto isola ha sterminato i puma della Florida. Le antilocapre del bacino del Grande Spartiacque del Wyoming fuggono il gelido inverno migrando a sud attraverso la prateria: lo fanno fin dai tempi dell’ultima glaciazione. Ma gli allevatori stanno costruendo un sempre maggior numero di recinzioni di filo spinato, che tagliando quello che era lo spazio vitale di questi animali sbarrano loro la via di scampo verso sud. A

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Oracle Junction, in Arizona, c’è un piccolo caffè decorato in una caricatura dello stile Western: un sombrero rosso, una scansia con trofei di antiloca-

pre, un cranio di manzo con in fronte una silhouette nera raffigurante un cowboy su un cavallo che si impenna. Su una parete, i gerenti hanno appeso una impressionante raccolta di vari tipi di filo spinato, montato su tavolette, con il titolo, tutto in lettere maiuscole: IL FILO CHE RECINSE IL WEST.

Vi si leggono i nomi delle diverse marche: “Curtis ‘4 Point’, 1892”, “Glidden ‘Oval Twist, 1876”, “Bakers ‘Odd Barb’, 1883”, “Sunderland ‘Kink’, 1884”, “Watkins ‘Lazyplate’, 1876”, “Dodge and Washburn, 1882”, “Ellwood ‘Spread’, 1882”. E così via.

Questo assortimento di fili spinati ha contribuito a trasformare il West in una enorme scacchiera di recinti che, per l’antilocapra, sono quasi impenetrabili. In un solo inverno particolarmente duro, quello del 1983, oltre metà

della popolazione di antilocapre morì. Quell’inverno, il biologo Bill Alldredge seguiva gli spostamenti di uno di questi animali via radio, attraverso un collare munito di trasmittente che gli era stato applicato al collo. Alldredge l’aveva denominato Antelope E. « Un maschio di tutto rispetto come taglia, da cui abbiamo imparato molto » ha raccontato allo scrittore Steve Yates. Insieme con suo figlio, aveva seguito Antelope E mentre per due anni difendeva il proprio territorio contro gli intrusi, corteggiava le femmine del suo harem, le fecondava, le guidava come

un cane da pastore attraverso la prateria. Nel terzo, crudissimo inverno, gli Alldredge seguirono via radio i movimenti di Antelope E giù giù fino alla strada interstatale n. 80, lungo questa strada per oltre 150 chilometri, e indietro verso Rawlins, nello Wyoming meridionale. Poi Antelope E non diede più segni di spostamenti. Trovarono l’animale appeso per una delle zampe posteriori a una barriera di filo spinato. Dopo chissà quali paure, aveva cercato di saltarla, il che dimostra in quale stato di disperazione doveva essere, racconta Allderdge. « L’avevamo visto sfuggire con successo ad almeno venti incontri con i cacciatori in quei due anni... doveva finire appeso a testa in giù a uno stupido recinto in mezzo a una bufera di neve. » Quando ci proponiamo di salvare specie animali, come l’antilocapra, generalmente la via seguita è quella di creare altre isole, i parchi nazionali. Un studio condotto dall’ecologo William D. Newmark ha messo in evidenza che nell’Ovest degli Stati Uniti quattordici parchi nazionali sono troppo piccoli per poter salvare tutti imammiferi che un tempo vi abitavano. La ri‘serva più piccola presa in esame da Newmark, quella del Bryce Canyon, di 144 chilometri quadrati, ha già perso oltre due terzi delle specie di mammi-

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feri che ospitava. Il Parco Yosemite, con una superficie di 2083 km?, aveva già perduto un quarto delle sue specie già prima degli incendi divampati nell’estate del 1988. Parchi di questo genere dovrebbero, secondo le intenzioni, fungere da arche. Dovrebbero preservare la fauna selvatica del Paese, compresi gli orsi grizzly e le antilocapre, per il prossimo millennio, e oltre. Ormai però appare chiaro che ben poche arche create sulla Terra sono abbastanza grandi per ottenere questo scopo. Nel West nordamericano, solo il più vasto insieme di parchi contigui, una costellazione di riserve che Newmark

chiama

Kootenay-Banff-Jasper-Yoko, con una superficie complessiva di 20.736 km?, leggermente superiore a quella del New Jersey, servirà allo scopo. Secondo Newmark, non ne è ancora scomparsa alcuna specie di mammiferi. Se i grandi parchi dell’Ovest sono troppo piccoli, che dire di quelli dell’Est degli Stati Uniti, oppure dei parchi “tascabili” europei? Le specie che sono ospitate in essi potrebbero non durare un altro secolo, non parliamo di un altro millennio. « Credevamo di poter erigere un muro attorno al mondo naturale e assicurarne così la conservazione. Invece ci siamo sbagliati » ammette un ecologo. Saremmo portati a credere che almeno gli uccelli migratori fossero al riparo dall’effetto isola, in quanto molti di essi possono spostarsi in volo anche di 1500 chilometri in un giorno. Sfortunatamente, proprio questi uccelli sono particolarmente in pericolo, considerando che il loro avvenire dipenderà dalla salvaguardia di certe condizioni in una vasta parte della superficie terrestre. I migratori americani passano sei mesi l’anno al centro della vecchia Esplosione Pionieristica e gli altri sei là dove si sta svolgendo la nuova. Circa metà delle 700 specie di uccelli degli Stati Uniti svernano ai tropici; fra essi parecchi dei più noti uccelli canori, dai tordi ai pigliamosche, dai verdoni ai forapaglie alle tanagre dai vivaci colori. Se una superficie anche ridotta di terreno viene privata della sua copertura arborea in Messico, o in Costarica, o nelle isole caribiche, molte di queste specie svaniranno anche dall’ America settentrionale.

Sono già numerose le specie canore le cui popolazioni si vanno rarefacendo negli Stati Uniti. Gli ornitologi dicono che i boschi, oggi, sono notevolmente più silenziosi. Îl coro mattutino perde di forza e di melodia. Studiando una riserva naturale, il Greenbrook Sanctuary presso Alpine, nel New Jersey, si è scoperto che la popolazione di trenta specie di uccelli si è significativamente ridotta fra il 1957 e il 1983. I forapaglie dal cappuccio, l’indi190

gena Setophaga ruticilla e alcune altre specie canore sono pressoché scomparse. Questi uccelli hanno la sfortuna di essere minacciati sia dall’espandersi delle terre coltivate in Sudamerica, sia dall’espandersi dei sobborghi cittadi-

ni nel Nordamercia. Certi ornitologi sono dell’opinione che il danno sia prodotto più dalla seconda causa che dalla prima, poiché l’effetto isola è assai più avanzato nell'America del Nord di quanto non lo sia il diboscamento nell’ America del Sud. In tutti gli Stati Uniti, ad esempio, sono sempre più numerosi i piccoli centri come Cadiz, nel Wisconsin, ove i boschi circostanti sono sempre me-

no “foresta” compatta e sempre più vegetazione arborea “marginale”. Vi sono uccelli che amano i margini, la periferia del bosco. L’effetto iso-

la, ad esempio, è un vera manna per ghiandaie, corvi e cornacchie, tipici opportunisti che sono sempre avvantaggiati da qualsiasi sconvolgimento della biosfera, corrispettivi alati di ratti e topi. Questi predoni mangiano regolarmente le uova di verdoni, forapaglie, tordi, tanagre, rigogoli, colibrì e pigliamosche. Ogni nuovo varco che le autorità consentono di fare in una foresta è un invito per gli amanti dei margini, divoratori di uova e parassiti dei nidi, mentre allontana i migratori canterini, che amano il cuore del bosco. Questi perdono il loro habitat naturale anche solo se una strada taglia le loro foreste sia nel Nord che nel Sud,

sia in Canada e negli Stati Uniti che nel Messico o in Brasile.* Anche le grandi farfalle Monarca (Danaus plexippus), con una apertura alare che giunge fino a 10 centimetri, sono migratorie. In autunno, le farfalle Monarca delle coste orientali e occidentali del Nordamerica si involano verso sud. Quelle delle coste orientali, in numero che può toccare i 100 milioni di individui, arrivano fino alle pendici sud-occidentali di alcune mon-

tagne d’origine vulcanica nei pressi di Città di Messico. I vistosi lepidotteri dalle ali nere e arancione passano l’inverno riposando entro fitte macchie di abeti della varietà Oyamel. Da qui, in primavera, riprendono il volo in massa per il lungo viaggio di ritorno verso nord. Ogni migrazione è un miracolo, ma quella delle farfalle Monarca è uno dei più strabilianti. Fra il volo primaverile verso nord e quello autunnale

* Corvi, cornacchie e ghiandaie stanno avendo un’esplosione demografica negli Stati Uniti, men‘ tre verdoni, tordi, forapaglie e altre specie canore si avviano all’estinzione in molte parti del paese, ivi comprese le zone più fortemente diboscate dell’Illinois, nonché le pianure costiere e la fascia pedemontana (il Piedmont) del Maryland.

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verso sud nascono e muoiono fino a cinque generazioni. E tuttavia le Monarca trovano sempre la strada che le conduce a poche macchie di abeti montani, macchie che non hanno mai visto, che non sono state visitate da un

solo individuo della loro specie sin dai tempi dei loro quadrisavoli. I biologi non si spiegano come riescano a tanto, ma sanno per certo che anche un piccolo diboscamento nel posto sbagliato causerebbe la fine del miracolo. I contadini messicani tagliano spesso abeti di questa varietà per farne pali da costruzione o legna da ardere. Le isole montane delle farfalle Monarca vanno riducendosi di qualche poco ogni anno. L'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (che pubblica i Red Data Books, libriccini

contenenti elenchi delle specie minacciate di estinzione), ha creato un’apposita definizione per la migrazione delle farfalle Monarca: « Un fenomeno messo in pericolo ». Nel 1986, il governo del Messico fece delle piccole macchie di abeti fre-

quentate dalle Monarca una riserva ecologica. Ogni attività agricola e forestale è vietata fra queste macchie, e regolamentata in una fascia di 11.000 ettari che funge da zona cuscinetto. La popolazione delle Monarca delle regioni dell’ America nord-orientale è oggi più al sicuro di quanto non fosse fino a qualche anno fa, a patto che il governo sappia imporre il rispetto della legge. i Le Monarca del Nordamerica occidentale non hanno avuto altrettanta fortuna. Esse svernano in certi punti particolari sulle coste californiane, molti dei quali si trovano in prossimità di centri urbani in fase di forte espansione edilizia. Centinaia di migliaia di Monarca occidentali, giungendo ai luoghi dove svernavano le loro antenate, vi trovano soltanto dei condominii di recentissima costruzione. Per tutti questi migratori, stiamo — secondo l’espressione inglese — bruciando lo stoppino della candela ai due capi. Di qui a qualche decennio potrà nascere.un nuovo motivo di attrito fra gli Stati Uniti e molti Paesi tropicali. Si accenderanno dispute come quelle che divampano fra Stati Uniti e © Canada a proposito delle piogge acide. Chi sta uccidendo gli uccelli? e le farfalle? Di chi è la motosega che rende silenziosi i nostri boschi?

Qualche tempo dopo che Lovejoy aveva dato avvio al suo arcipelago artificiale, qualcosa lo spinse a recarsi a trovare Stephen Schneider, del Centro Nazionale per le Ricerche sull’ Atmosfera. A colazione a Boulder, nel Colo-

rado, l’ecologo parlò dell’effetto isola, e il climatologo parlò dell’effetto serra. Dopo un po”, Schneider domandò a Lovejoy: « Tom, la tua è una sempli192

ce visita amichevole? ». Da, No. Credo proprio di no » disse Lovejoy. « Ho qualcosa in mente, ma non so se è importante o no. Insomma, quale rapporto c’è tra noi? » Ovviamente alludeva al rapporto fra i due effetti di cui si occupavano. La domanda sorprese Schneider, perché come molti di noi è abituato a pensare all’effetto serra soltanto in termini di eventuali conseguenze su una sola specie, la nostra. I suoi modelli matematici immessi nel supercomputer sono programmati in modo da predire quale sarà l'impatto dei cambiamenti climatici sulle nostre città e sulle spiagge, sui campi di grano, di riso, di sorgo. Spesso egli definisce quello dell’anidride carbonica un problema « di giustizia ridistributiva ». L’effetto serra non significherà la fine dell’agricoltura, dice, ma piuttosto un suo trasferimento. Lo spostamento della fascia del mais di cento chilometri a nord può essere un disastro dal punto di vista dello Iowa, una fortuna da quello del Minnesota. Quando udì la domanda di Lovejoy, Schneider ne capì tutta l’importanza. Non gli era mai venuto in mente di chiedere al suo supercomputer di predire il destino di una qualsiasi delle isole di Lovejoy. « Fu per me una specie di Eureka » dice oggi. Cosa che noi seguitiamo a dimenticare (e che il pianeta seguita a rammentarci), nessun cambiamento globale procede isolato da altri. L’effetto serra, combinandosi con l’effetto isola, può pesare sulla biosfera in misura molto

superiore a quello di ciascuno dei due preso separatamente. L’anidride carbonica aggraverebbe il problema anche senza l’effetto serra che comporta. Quanto più si accumulerà nell’aria, tanto più cambierà le condizioni della lotta per sopravvivere in tutte le zone verdi del pianeta. Come abbiamo visto, l'anidride carbonica è per le piante una specie di fertilizzante. Accrescerne la quantità presente nell’aria darà un vantaggio, nella competizione, a quelle specie che possono servirsene per il processo della fotosintesi con maggiore efficienza. Molte di quelle specie sono piante opportuniste, peraltro: erbacce infestanti. Boyd Strain, dell’Università Duke, e altri botanici stanno coltivando di-

verse associazioni di piante alimentari e di erbacce in serre sperimentali, in un’atmosfera fortemente arricchita di carbonio: un’atmosfera in cui vi sono 600, 700, 800 parti per milione di anidride carbonica. Come delle isole di Lovejoy, di queste serre si potrebbe dire, secondo la frase di Loren Eiseley, che contengono il futuro. Sono qualcosa che « non è in rapporto di simultaneità con il resto del mondo ». Strain afferma che, a giudicare da quello che sta accadendo nelle sue serre, il terzo millennio sarà un ottimo periodo per

le malerbe. 193

Molti habitat sono determinati non soltanto dal clima ma anche dalle specie vegetali che vi si trovano, e il futuro di gran parte della fauna e della flora del mondo, intrappolata in isole che man mano si restringono, esige che determinate piante seguitino a esistere là dove si trovano. L'alimentazione del panda gigante, per esempio, è costituita quasi esclusivamente da bambù. Se l’anidride carbonica favorisse lo sviluppo di altre erbe a scapito dei bambù, i panda potrebbero morire di fame. L'effetto fertilizzante del gas turberà la vita di ogni frammento di bosco, di palude, di tundra sul nostro pianeta. Per milioni di piante e di animali che già si trovano in una situazione precaria, marginale, l'anidride carbonica che accumuliano nell’atmosfera può far pendere definitivamente l’ago della bilancia dalla parte sbagliata.* Perciò con l’anidride carbonica metteremmo in crisi l'atmosfera anche se non provocasse effetto serra. Se tuttavia questo gas surriscalderà il pianeta, lo shock sarà più violento. Il climatologo sovietico Budyko definisce temperatura e precipitazioni le due “variabili dominanti” per la vita sulla Terra. Insieme, tracciano i confini delle zone climatiche del globo. Un riscaldamento porterebbe a una modificazione dei confini, spostando le condizioni meteorologiche tropicali in quella che oggi è la fascia temperata e spingendo la fascia temperata verso i poli. Lo spostamento sarebbe proporzionale al riscaldamento; anche nella rapidità. Un cambiamento della temperatura di 1 °C equivale a uno sbalzo di latitudine di 100 chilometri, e alle alte latitudini

il nostro pianeta potrebbe riscaldarsi di 1 °C ogni decennio. Il biologo Robert L. Peters e l’ecologa Joan D.S. Darling hanno iniziato anni fa a pensare ai problemi che questi spostamenti potrebbero comportare per la biosfera. L’ultima volta che il Nordamerica ebbe una temperatura media di 3 °C superiore all’attuale fu durante una delle fasi interglaciali di una delle ultime glaciazioni. Il mondo era allora un giardino assai diverso, scrivono Peters e la Darling. « Maclure (che danno frutti non commestibili simili alle arance) e papaie crescevano vicino a Toronto, varie centinaia di chilometri più a nord di dove si può trovarle oggi; nel New Jersey nuotava-

* Uno dei primi studi su questo importante problema fu pubblicato nel 1989. Un gruppo di biologi del Museo di Zoologia Comparata dell’Università di Harvard ha voluto vedere che conseguenza avrebbe un raddoppio del tasso di anidride carbonica sui rapporti fra la piantaggine, una delle erbe

più diffuse del mondo, e la farfalla pavone (gen. Inachis io), che mangia molta piantaggine in California, parte del Messico e Stati Uniti sud-orientali. I ricercatori accertarono che i chimismo delle foglie di piantaggine è notevolmente modificato dall’aumento di anidride carbonica. Tali modificazioni danneggiano la farfalla in uno degli stadi larvali, ma uno stadio larvale successivo ne trae beneficio. Non si può dire chi avrà la meglio fra cent’anni, se la piantaggine o il suo predatore. Ma è chiaro che la vita nel terzo millennio sarà diversa perfino per le farfalle e le comuni erbacce.

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no i lamantini, in Pennsylvania pascolavano tapiri e pècari, e a Capo Cod vi era una foresta folta come quelle del moderno North Carolina. » Se ci stiamo avviando verso un clima del genere, animali e piante abituati a climi più freddi dovranno migrare, dovranno seguire lo spostamento delle zone climatiche, pena la morte (non esistono condizionatori d’aria nelle isole di Lovejoy). Avranno due principali linee di ritirata, o in altezza o in lati-

tudine. Salire di 500 metri sul fianco di un rilievo equivale a un trasferimento a nord di 250 chilometri. Vi sono, d’altronde, montagne in Sudamerica e altrove in cui la linea della vegetazione arborea si è spostata in alto anche di 1500 metri per resistere all’aumento della temperatura della Terra seguito all’ultima glaciazione. Pensiamo a quello che succede a una popolazione animale o vegetale sui fianchi di una montagna quando la temperatura media sale. Poiché la parte superiore è più piccola della base le specie viventi, man mano che si spostano a quote più alte, sono costrette entro spazi sempre più ridotti. E ben presto una popolazione resta isolata da quelle degli altri rilievi della zona, mentre prima si mescolava ad esse nelle valli. Insomma, viene a trovarsi su un’isola. E coll’ulteriore innalzarsi della temperatura l’isola diventa sempre più piccola. « Sali sulla vetta di una montagna. Ora, arrampicati ancora più in alto », raccomanda un’antica massima zen, intesa a spronare la mente verso un nuovo e superiore stato di conoscenza interiore. Oggi essa potrebbe servire a spronarci a immaginare la situazione della vita nel corso dei prossimi cent'anni. Se la temperatura media seguiterà a salire, migliaia di specie animali e vegetali saranno, in tutto il pianeta, costrette a convergere verso i rilievi, sempre più in alto. E se la temperatura salirà ancora, dove andranno? La fuga verso i poli presenterà anch’essa dei pericoli. Intanto, tutte le marce forzate sono pericolose. Prima delle epoche glaciali del Pleistocene, in Europa e in America crescevano liquidambar, tulipiferi, menispermacee, tsughe, cedri bianchi. I loro diversi destini nei due continenti sono istruttivi.

Nel Nordamerica queste specie sopravvissero alle epoche glaciali in parte perché i maggiori ostacoli agli spostamenti, gli Appalachi e le Montagne Rocciose, decorrono in direzione nord-sud. Non vi erano rilievi montuosi a bloccare la loro ritirata attraverso i paralleli. In Europa, invece, si estinsero tutte. Gli ostacoli maggiori, come le Alpi, i Pirenei e il Mediterraneo, decorrono in direzione est-ovest. Per milioni di

animali e di piante la via della ritirata, in Europa, potrebbe essere stata tagliata completamente. Come le antilocapre di oggi in fuga davanti ai rigori delle tempeste di neve, piante e animali si ammassarono davanti alle barrie199

re rappresentate dagli ostacoli naturali e morirono di freddo. Oggigiorno la massima parte delle riserve e parchi naturali è stretta nella morsa di città, strade e fattorie, come le tsughe europee furono bloccate dal-

le catene montuose. Sono isole create dall’uomo. Se la temperatura e il regime delle precipitazioni dovessero spostarsi di 100 chilometri, le specie che le abitano potrebbero non avere via di scampo. Ha detto un ecologo: « Pochi animali possono traversare Los Angeles nella loro marcia verso la Terra Promessa ». Anche là dove la via della ritirata è ancora libera e sgombra di ostacoli, il ritmo della marcia potrebbe ancora essere fatale. Tutto dipenderà dalla rapidità del processo di riscaldamento. Se questo sarà lento, quasi tutte le specie si salveranno. Se però le previsioni si riveleranno esatte, il riscaldamento globale nei prossimi cent'anni sarà da dieci a quaranta volte più rapido di quello che pose fine all’ultima glaciazione. La paleoecologa Margaret Davis, dell’Università del Minnesota, ha calcolato che cosa comporterà questo fenomeno per gli alberi del Nordamerica (e conseguentemente per la maggior parte della flora e della fauna spontanee).

Gli abeti rossi 12.000 anni fa, 6000 anni fa e oggi

Gli alberi viaggiano mediante la dispersione dei semi. È un mezzo di trasporto molto lento. La ghianda, secondo un detto, non cade mai lontano dalla quercia. I semi degli abeti di Engelmann, grazie alla loro leggerezza, sono dispersi dal vento: alcuni di essi possono cadere anche a 200 metri dalla pianta madre. Di questo passo, una foresta di abeti di Engelmann può migrare di 20 chilometri in un secolo. Ma poiché nel giro di un secolo si prevede che la zona climatica dell’abete si sposti almeno di 200 chilometri, la velocità degli abeti di Engelmann sarà di gran lunga insufficiente. Secondo la Davis, le aree di distribuzione della betulla gialla, dell’acero,

della tsuga e del faggio potrebbero spostarsi verso nord da 500 a 1000 chi196

c c

lometri. E questi alberi si muovono molto più lentamente dell’abete rosso. Macbeth credeva che il bosco di Birnam non potesse mai arrivare a Dunsinane. Nell’ultimo atto della tragedia un messaggero sopraggiunge correndo ad avvertirlo: Mentre faccio il mio turno di guardia sul colle, guardo verso Birnam, ed ecco, mi pare che il bosco incominci a muoversi.

Un esercito si era ammassato sotto il castello, e i soldati salivano il pen-

dio portandosi addosso, per mimetizzarsi, gli alberi del bosco di Birnam. Verso questa stessa situazione si sta avviando il mondo. Nel prossimo secolo, se vorremo preservare migliaia di specie delle zone temperate, dovremo provvedere noi stessi a trasferire intere foreste. Le prospettive che si presentano alle forme viventi in molte delle isole di Lovejoy nel XXI secolo sono desolanti. Il clima che le ha formate e che ne assicura la sopravvivenza se le lascerà alle spalle. (Si prevede che il clima attuale del Parco di Yellowstone, ad esempio, si sposterà a qualche parte ol-

tre il confine canadese.) Il clima che subentrerà si porterà dietro nuovi nemici. Il rialzo della temperatura potrà favorire invasioni di cavallette, afidi, falene, coleotteri divoratori della corteccia degli alberi... come nell’estate del 1988. E, come allora, causare siccità e incendi.

Gli unici vincitori certi saranno gli organismi nocivi o opportunisti: ratti, corvi, mosche, zanzare, malerbe. La loro diffusione è talmente cosmopolita

che resisteranno ovunque e comunque noi rimescoliamo il Tropico del Cancro e quello del Capricorno. («I parassiti sono bravi nel risolvere i problemi» osserva un biologo «e riproducendosi con grande rapidità riescono sempre vincitori nella lotta per la sopravvivenza. ») Le perdenti certe saranno invece quelle specie la cui distribuzione è già stata ridotta a una sola, piccola zona. Ad esempio, quando negli Stati Uniti la Legge per le Specie in Pericolo del 1973 fu riesaminata per la conferma a metà degli anni Ottanta, il Congresso procedette molto lentamente, in parte a causa di un dibattito scoppiato a proposito della tartaruga marina di Kemp (Lepidochelys kempi), che in massima parte depone le uova su un isolato tratto di spiaggia di una trentina di chilometri lungo la costa del Golfo del Messico. Oltre 10.000 tartarughe di Kemp finiscono ogni anno nelle reti dei pescatori di gamberetti, che un giorno o l’altro potrebbero involontariamente prendere gli ultimi | esemplari di tartaruga (è rimasto solo circa mezzo migliaio di femmine che depongono le uova, di questa specie d’età veneranda che si è evoluta all’e-

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poca dei dinosauri). I pescatori sarebbero tenuti a munire le reti di “appositi congegni per l’esclusione delle tartarughe” siglati TED (Turtle Excluder Devices). Ma ai pescatori non piacciono i TED, e un senatore dell’ Alabama sollevò la questione in parlamento. La discussione si trascinò per tre anni e sembrò che l’intera Legge per le Specie in Pericolo fosse essa stessa in pericolo. Poi arrivò la famosa estate del 1988. L’uragano del secolo, il “Gilbert”, sconvolse la spiaggia delle tartarughe. Un uragano fu lì lì per eliminare l’impasse legislativa eliminando le tartarughe. Se l’effetto serra si somma all’effetto isola;-allora fra quelle in fila per una prossima estinzione possono essere molte specie di uccelli migratori, una delle cui maggiori rotte, la Rotta del Pacifico, va dai Tropici al Circolo Polare Artico. Alcuni dei principali luoghi di tappa lungo la Rotta, come le terre umide di Stillwater, in condizioni ottimali danno ospitalità ogni anno a oltre 250.000 uccelli migranti. Una volta c’erano decine di migliaia di ettari di canne e giunchi nelle terre umide con acque stagnanti di Stillwater. Ma il fiume che alimenta la vasta plaga paludosa è stato sbarrato con dighe per derivare l’acqua a fini di irrigazione. Adesso la superficie di questo luogo di sosta è stata ridotta del 75 per cento. Durante la grande siccità del 1988, quanto resta degli acquitrini di Stillwater ha corso il rischio di evaporare completamente. Se Stillwater si inaridirà, gli uccelli migratori non troveranno facilmente un altro luogo in cui sostare, in quella zona. Lo stato del Nevada ha poche terre umide. La maggior parte dell’acqua dei pochi stagni e acquitrini che vi esistono è già stata prelevata mediante sifoni per l’approvvigionamento idrico delle città e l’irrigazione dei campi nella cosiddetta Fascia del Sole. Presso Stillwater, il Rifugio Naturale Nazionale del Lago Winnemucca si è

inaridito una cinquantina di anni fa, quello di Fallon era già quasi asciutto anche prima dell’estate dell’88. « È come con le pietre per il guado delle rapide » ha detto J.P. Myers, vicepresidente responsabile delle attività scientifiche e dei santuari naturali della Audubon Society. « A una a una, queste pietre vengono scalzate ed eliminate. Nello stato del Nevada, ormai sono quasi scomparse del tutto. » Per milioni di migratori, la perdita della zona di Stillwater può equivalere all’erezione di una barriera vasta quanto il Nevada lungo la loro antica via aerea, la Rotta del Pacifico. Frattanto, si prevede che la tundra artica subirà un riscaldamento di 10

°C. Gli uccelli che avessero ancora i punti di appoggio e raggiungessero l’estremo Nord potrebbero trovarlo così cambiato, entro la fine del prossimo secolo, dalla erosione termica e dalla trasformazione carsica da non po-

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tervi più nidificare. Essi potrebbero-anche adattarsi ad alcune brutte sorprese lungo il volo di trasferimento, ma non potrebbero sopravvivere a perdite di carattere globale e, dal loro punto di vista, pressoché istantanee. Per milioni di migratori alati il surriscaldamento da effetto serra potrebbe “bruciare lo stoppino della candela” non solo ai due capi, ma lungo l’intera candela contemporaneamente. Gli ecosistemi, sedi delle specie viventi, comprendono, oltre al clima di

una zona, le interazioni di tutte le specie che la popolano. Gli ecologi prevedono la dissoluzione di interi ecosistemi, una trasformazione generale della tundra, delle terre umide, delle foreste boreali e di quelle pluviali in tutto il

pianeta. E non solo l’effetto serra potrebbe affrettare nei prossimi cent'anni la marcia verso l’estinzione di tante specie ed ecosistemi, ma questa perdita potrebbe a sua volta contribuire, in una reazione a catena, alla modificazio-

ne del clima. Può sembrare pessimismo a oltranza, ma la cosa è già avvenuta. Come si è visto, le Esplosioni Pionieristiche del XIX e del XX secolo hanno causato l’emissione di grandi quantità di carbonio nell’atmosfera. Bruciare gli alberi ha riversato nell’atmosfera una quantità di carbonio più o meno pari a quella finora dovuta ai combustibili fossili. Oggi l’abbattimento delle foreste tropicali in tutto il mondo causa l'emissione nell'atmosfera di almeno un miliardo di tonnellate di carbonio ogni anno. E poi, una foresta pluviale trattiene 25 chili di carbonio per metro quadrato, ma un pascolo per bovini ne trattiene meno di 4, e un deserto o un parcheggio per auto meno di 1 per metro quadrato. La trasformazione della foresta in pascolo, o in una landa sterile o in uno spazio pavimentato, fa entrare nell’atmosfera quasi tutto il carbonio che viene assorbito dalla vegetazione arborea. La perdita di un ecosistema modifica l'atmosfera in mille altri modi, perché mille sono le interazioni fra l’aria e la vita. Fra atmosfera e biosfera non avvengono solo scambi di anidride carbonica, ma anche di vapor acqueo. CriQuattro secoli fa, Fernando Colombo scrisse una biografia del padre nell’iincontrato aveva scopritore lo stoforo. In essa accenna al tempo che sola di Giamaica nel 1494: ogni pomerigIl cielo, l’aria e il clima erano del tutto simili a quelli di altri luoghi; attribuiva il fatgio cadeva una pioggia scrosciante per circa un’ora. L'ammiraglio... la stessa cosa, come to alle grandi foreste di quella terra; sapeva per esperienza che

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aveva costatato, accadeva nelle Canarie,

a Madera eenelle Azzorre. Ma da quando le

foreste che un tempo ricoprivano quelle isole sono state tagliate, non vi si incontra più tanta foschia e tanta pioggia come un tempo.

In altre parole, Colombo sospettava che fossero le stesse foreste a provocare le piogge che le caratterizzavano. Una notevole intuizione, di cui oggi è stata dimostrata l’esattezza. Le foreste pluviali differiscono dalle altre foreste del mondo per il fatto di essere coperte da una cupola formata da più strati. Gli alberi sembrano ombrelli aperti sopra fusti di tre o quattro diverse altezze. Questi strati distribuiti su più piani “rompono” la caduta della pioggia molto più efficacemente di quanto non possa farlo uno solo. Grazie alla vasta superficie fogliare, essi spargono l’acqua in strati sottili che possono evaporare più rapidamente. Se vi versate sul palmo della mano qualche goccia di alcol e lo spargete sulla pelle per frizionarla, potete verificare con quanta più rapidità il liquido evapora se è sparso su una superficie più estesa. Inoltre le foreste pluviali hanno un intrico di sottili radici che decorrono a una profondità eccezionalmente scarsa. Sono così vicine alla superficie che è assai facile metterle a nudo smuovendo il terreno con qualche colpetto dato col tacco di uno stivale. Gran parte dell’acqua filtra attraverso i vari strati e raggiunge il suolo, dove è rapidamente assorbita dalle radici. Da esse risale verso l’alto ed evapora attraverso le foglie. Con le chiome sparse a più livelli e radici superficiali, gli alberi della foresta pluviale accolgono la pioggia, la trattengono, poi per così dire la stendono ad asciugare. L’evaporazione avviene come se vi fosse una sola, immensa foglia verde molte volte più vasta di tutto il bacino amazzonico. I risultati si possono vedere dall’alto. Gigantesche colonne di nuvole sembrano scaturire ribollendo dalle cime degli alberi e levarsi dritte verso il cielo. Queste colonne sorgono ovunque la coltre verde è più spessa, in un certo senso collegando la foresta al cielo. Sembra quasi che il verde baldacchino sorregga, con le bianche colonne, il cumulo di nubi sovrastante, ed è proprio così. Gli alberi sono i produttori di pioggia: « Un bel trucco » nota Lovejoy « un trucco che da secoli gli uomini vorrebbero riuscire a imitare ». Mediamente le foreste amazzoniche restituiscono al cielo circa la metà dell’acqua che ne ricevono. Presso Manaus, in quella parte della foresta da cui gli agricoltori stanno ritagliando le isole di Lovejoy, ben il 75 per cento della pioggia evapora, per raggiungere le nubi e ricadere. La cosa non dipende da una qualsiasi determinata specie che vive nella foresta pluviale. Perché il trucco riesca, occorre l’insieme dell’ecosistema. Là dove le piante sono state diradate, vi sono meno colonne e meno nuvo-

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le... come aveva osservato Colombo. L'isola di Marajén, alla foce del Rio delle Amazzoni, ha una fitta copertura forestale nella metà occidentale, co-

pertura che manca in quella orientale. Sembra che le nubi temporalesche prediligano la metà occidentale, dove piove regolarmente ogni giorno, mentre l’altra metà spesso si inaridisce. Tutti quelli che lavorano al Progetto di Lovejoy parlano dei venti caldi e secchi che soffiano attraverso le zone diboscate ed entro le nuove riserve. Non si sentono mai venti di questo tipo nel cuore di una vera, sana foresta pluviale. E quasi come se un grande organismo, assai più grande della foresta, fosse stato disturbato. Questa curiosa impressione lascia interdetto perfino Lovejoy, persona non a corto di spirito, né di parole. « L'insieme del... non saprei come chiamarlo... del funzionamento fisico dell’aria, della tem-

peratura e dell’umidità nella zona dove sono stati tagliati gli alberi è del tutto diverso da quello che si osserva dove la foresta è rimasta intatta. » Così ha detto a un aspirante visitatore delle sue isole. « Lo avvertirà anche lei. » Quindi, con una motosega funzionante al livello del suolo un contadino può abbattere un’intera successione di strati che arriva a una quota di varie migliaia di metri: prima gli strati verdi, poi quelli bianchi. Eliminati questi baldacchini sovrapposti, la terra nuda e i bassi cespugli sono esposti ai cocenti raggi solari, i più cocenti che piovano sulla superficie dell’intero pianeta. Quando scroscia la pioggia, non ci sono ombrelli di verde che ne attenuino la violenza. L’acqua martella il terreno, scava qualche temporanea pozzanghera e scorre via. Più il terreno è indurito dal sole e dal peso dei bulldozer e delle macchine agricole, più rapidamente l’acqua piovana se ne fugge via. Nell’Africa occidentale, dove grandi estensioni di terreno sono state diboscate per far posto alle coltivazioni, l’acqua piovana si disperde in misura trecento volte maggiore di quando gli alberi non erano ancora stati abbattuti. Quest’acqua defluisce in ruscelli, che si versano in fiumi che a lo-

ro volta scorrono fino al mare. Prima che quella pioggia evapori rientrando nel grande ciclo dell’acqua può essere arrivata a centinaia di chilometri da dove è caduta. I campi coltivati, a differenza delle foreste, non possiedono il magico potere di trattenere sopra di sé le nubi, né sono in grado di innaffiarsi da soli. Poiché una piantagione non restituisce al cielo l’acqua piovana che riceve, le nubi che vi si formano sopra sono più sottili, cosa che danneggia la foreste circostante. La diminuzione delle precipitazioni erode lentamente le foreste rimaste attorno alle zone diboscate. Il deflusso delle acque, poi, incide profondi solchi nel terreno e ne dilava lo strato superficiale. Lungo la strada fra Belém e Brasilia, vasti tratti di terreno sono stati così sfruttati per

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il pascolo e hanno subito una tale erosione da dar luogo a quello che viene chiamato un “paesaggio fantasma”. In questo e in altri modi il taglio delle foreste pluviali sta modificando le condizioni stesse che ne hanno reso possibile la formazione. Esso sta spazzando via le nubi che gli alberi tenevano ferme sopra e il suolo che tenevano fermo sotto di loro. I climatologi ritengono che il diboscamento possa far aumentare la temperatura di alcune zone tropicali da 3 a 5 °C, un surriscaldamento locale superiore a quello che dovrebbe avvenire ai tropici a causa dell’effetto serra. Ciò potrebbe privare il clima tropicale di quelle condizioni che hanno permesso la nascita delle foreste. Nei prossimi cent'anni grandi fette della fascia delle foreste pluviali tropicali, la regione più verde del globo, potrebbero diventare deserti fra i più spogli e infocati. Dunque, l’effetto isola si estende molto al di là dell’isola. Oltre a portare al fosco declino registrato dai censimenti sempre aggiornati dai gruppi di lavoro di Lovejoy, altera gli scambi dell’ecosistema con l’atmosfera e l’idrosfera, e attraverso questi due elementi sempre inquieti altera le condizioni generali. « Nessun uomo è un’isola » diceva il poeta John Donne, e ripeteva Ernest Hemingway. Non è un’isola neppure un’isola. Il nome scientifico dato da Lovejoy al suo arcipelago è « Progetto per il calcolo delle dimensioni critiche minime degli ecosistemi ». Servirà per calcolare non solo quanta vegetazione forestale, ma anche quante pioggia e quante nubi possiamo sopprimere senza far scomparire il coguaro e certe aquile. La scomparsa delle farfalle, di molti uccelli e delle scimmiette nere saki dalle isole sono una spia dell’alterato funzionamento invisibile dell’ecosistema nel suo insieme. Attaccati dall’effetto serra, dall’effetto isola e da altri effetti collaterali

dannosi del progresso umano, anche altri ecosistemi vanno perdendo specie animali e vegetali, e anche il ruolo che svolgono nella biosfera. Le barriere coralline, le foreste delle zone temperate, quelle nordiche e la tundra hanno

tutte funzioni antichissime che la scienza ha appena incominciato a intravedere. Ma gli scienziati potrebbero non avere a disposizione il tempo sufficiente per scoprire le funzioni della generalità degli ecosistemi. Dal primo all'ultimo, sono tutti specie minacciate: come la migrazione delle farfalle Monarca, sono tutti “fenomeni messi in pericolo”. Le associazioni ambientaliste di tutto il mondo si battono in difesa della foresta pluviale, così come hanno fatto per altre creature minacciate di estinzione, dalle balene al panda. Purtroppo, però, le foreste pluviali sono tanto poco sacre per le popolazioni della fascia tropicale quanto per la gente

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delle zone temperate lo sono il carbone e il petrolio. In Brasile, vive più gente in città come Belém che in tutta la foresta circostante. Il maggiore «centro brasiliano, San Paolo, ha una popolazione di 13 milioni di abitanti. A San Paolo la foresta sembra molto lontana. Perfino Manaus, costruita dai vecchi baroni della gomma nel cuore della Amazzonia con tanto di teatro d’opera (ma poi rovinata dalla concorrenza delle piantagioni di Hevea brasiliensis nate nell’ Asia tropicale, e dall’invenzione delle gomme sintetiche),

è oggi una città di un milione di abitanti. Quelli di Manaus chiamano la foresta pluviale 1° “inferno verde » e ringraziano il buon Dio per l’esistenza dei condizionatori d’aria. Il taglio della foresta pluviale è motivato dalla fame e dai debiti. I contadini hanno fame, e i governi sono gravati dal peso del debito estero. I Paesi del Sud-est asiatico hanno già svenduto — praticamente — gran parte delle loro foreste ai Giapponesi, i quali stanno trattando anche per l’acquisto dei diritti di sfruttamento forestale nel bacino delle Amazzoni. La perdita di ogni foresta non serve ad altro che a impoverire ancora di più i Paesi tropicali, ma la politica dei loro governi spesso la favorisce. In tutta 1’America Latina, i primi occupanti possono reclamare la proprietà di pezzetti di foresta pluviale abbattendone gli alberi, operazione che viene definita “apporto di migliorie”. Il Brasile ha motivi politici particolari per favorire il diboscamento. È posto al centro del continente sudamericano e confina con la maggior parte dei paesi che vi si trovano. Le autorità hanno avvertito il bisogno di affermare una presenza nazionale brasiliana nel bacino del Rio delle Amazzoni, ribadendovi i propri diritti, un po’ come altri Paesi hanno rivendicato la sovranità su parti dell’ Antartide. Da decenni i suoi cittadini godono di agevolazioni fiscali se si dedicano alla creazione di campi che sostituiscano la foresta. Nel 1982, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l’ Alimentazione e l’Agricoltura (F.A.0.) pubblicò uno studio sul diboscamento globale, in cui si legge che agli inizi del decennio ogni anno venivano distrutti circa 11 milioni di ettari di foresta tropicale. Allo stesso tempo, si piantavano alberi o si consentiva il rimboschimento spontaneo di circa 1 milione di ettari. Con un saldo negativo, quindi, di 10 milioni di ettari l’anno. Una superficie pari

alla metà di quella della California, due terzi di quella dell’Italia. Il rapporto della F.A.O. è, finora, il più ampio e documentato. Malauguratamente, si basa su dati che già quando apparve, nel 1982, erano superati. Foto scattate da satelliti sull’India, ad esempio, provano che il diboscamen-

to di quel Paese procede a un ritmo 9 volte superiore a quello riferito dalla F.A.O. Nell'anno di pubblicazione del rapporto, la sola India perdeva 1 mi-

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lione di ettari di foresta. Gli scienziati che studiano. davvicino la deforestazione globale pensano che attualmente si taglino nel mondo, ogni anno, 20 milioni di ettari di foresta, il doppio di quelli denunciati dalle Nazioni Unite. Cioè più o meno mezzo ettaro al secondo. Si tratta comunque di dati incerti, perché il problema si è imposto all’attenzione generale solo recentemente. I primi gridi di allarme furono lanciati solo negli anni Settanta, dal conservazionista specializzato nella natura tro-

picale Norman Myers, che riunì relazioni provenienti da varie fonti e si accorse che il fenomeno interessava tutto il pianeta. Molti studiosi sono convinti che dovremmo mantenere sul ritmo del diboscamento globale la stessa attenta vigilanza che dedichiamo ai consumi dei combustibili fossili e all’aumento del tasso di anidride carbonica nell’atmosfera. Comunque, siano dieci o cento gli ettari di foresta che scompaiono ogni minuto, dice Lovejoy, sta di fatto che le foreste pluviali se ne stanno andando molto rapidamente. « Quello che si può discutere è quando scompariranno del tutto. » Restano nel mondo due grandi zone di foresta pluviale. Una è il cuore del bacino del fiume Zaire (Congo), nello Zaire; l’altra è 1’Amazzonia. Questa, da sola, copre una superficie pari a quella degli Stati Uniti (a esclusione dell’ Alaska e delle Hawaii). Ma le immagini riprese dai satelliti Landsat della NASA e ritrasmesse a una stazione locale a Sao José dos Campos mostrano che in alcune zone il diboscamento procede con un andamento esponenziale. Se si continuerà col ritmo di oggi, le foreste amazzoniche saranno scomparse di qui a cinquant’anni. Ma anche rallentando il ritmo, quello che attualmente è ancora un gigantesco blocco smeraldino sarà probabilmente frantumato in una miriade di frammenti verdi.

Il ragno tesse la sua tela sericea nel giardino, e la biosfera intesse una rete di gas nell’atmosfera. Se il ragno perde un paio di zampette, gli ricrescono, e lui può riprendere a tessere la sua tela, anche se il disegno gli potrà riuscire un po’ modificato. Qualcosa di analogo sta capitando oggi nella nostra atmosfera e nell’idrosfera: i disegni che la vita sulla Terra traccia nell’aria, nell’acqua e nel terreno stanno già leggermente modificandosi con ogni anno che passa. Se il comune ragno portacroce viene disorientato con una sostanza chimica, o con alcuni dei vari mezzi escogitati dagli entomologi per i loro esperimenti, allora le spirali della ragnatela destinate alla cattura degli insetti possono essere profondamente sregolate. È quanto paventiamo per il prossimo . futuro del pianeta. Con la scomparsa improvvisa di tanti ecosistemi dalla biosfera, l’aria, l’acqua e il suolo subiranno gravi cambiamenti.

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Questa è la risposta che si deve dare alla domanda: « E con ciò? », fatta . mentre andiamo perdendo specie su specie. Che cosa sarà mai se anche va ‘perduto un uccello come l’aninga, o un elefante, o una balenottera azzurra? e se scompaiono le foreste tropicali? Quasi tutte le creature che vivono nella foresta pluviale ci sono ancora sconosciute, non hanno neppure un nome, e svaniranno senza lasciare traccia, allo stesso modo dei sogni che si fanno nel sonno più profondo. E poi, non si tratta per lo più di insetti? La risposta è che la scomparsa anche di una sola specie di ragni modifica la capacità della biosfera di tessere la tela della vita, in terra, nell’aria, nel-

l’acqua. Abbiamo costruito un fato, un Atropo che recide i fili della vita. Quanti fili possiamo tagliare prima di capitare su quello da cui dipende la nostra stessa vita? Non lo sappiamo, semplicemente. Sembra che pco prima che si evolvesse 1’Homo sapiens, scrive E.O. Wilson, vi sia stato un periodo in cui erano presenti sul pianeta più specie di quante ve ne fossero mai state dall’età dei dinosauri. « Chiunque si sia soffermato su questo pensiero » dice Wilson « non può non concordare con me sul fatto che ora siamo in caduta verticale. Tutti i guadagni che possiamo aver fatto in cento milioni di anni, attraverso il lento aumento del numero

delle specie, saranno annullati in pochissimo tempo. Anzi, in gran parte sono già stati annullati. Vi sono ampie prove che gli esseri umani, da poco arrivati, eliminarono tutti gli animali di grossa taglia dal Madagascar, dal Nordamerica, dal Sudamerica. Gli Stati Uniti avevano una fauna sostanzialmente

non diversa per varietà e spettacolarità dall’ Africa, fino a circa

10.000 anni fa. Ed è molto probabile che a sterminarne una buona parte siano stati i primi cacciatori amerindi, come è probabile che i Malgasci, in mille anni, abbiano eliminato buona parte della fauna isolana, ivi compresi

un lemure che aveva le dimensioni di un orso e il dodo, simile a uno struzzo, forse l’uccello più grande e pesante che sia mai esistito. Tutti scomparsi, forse nello spazio degli ultimi pochi secoli! » In breve, abbiamo già incominciato a demolire la natura. E la demolizione si accelera con l'abbattimento delle foreste tropicali. Viviamo alle soglie di uno sterminio di massa, di una morte di massa alla quale il nostro pianeta

non aveva più assistito dalla fine dell’epoca dei dinosauri, circa 65 milioni di anni fa.

Nei primi anni Cinquanta, l’esercito statunitense era solito lanciare razzi Jupiter-C da una base militare chiamata Cape Canaveral, sull’Isola Merritt, presso Titusville, in Florida. Il possente rombo di ogni lancio, all’alba, soffocava il cinguettio dei passeri bruni degli acquitrini salmastri che avevano

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lì il loro habitat. Come i contadini di una volta, gli individui di questa varietà di passeri vivevano e morivano nel breve raggio di un miglio o due da Titusville. Quando il rombo si spegneva, i loro richiami fra le foglie dentellate di un particolare erba palustre locale, il Gladium jamaicense, erano un modesto memento che la vita continuava, alla foce del fiume Banana.

Nel 1961, il presidente Kennedy scelse il poligono di Cape Canaveral come base di lancio permanente per la realizzazione dei programmi spaziali. La NASA acquistò altri 32.000 ettari di terreno sull’Isola Merritt e avviò la costruzione di piattaforme di lancio, gigantesche torri di servizio e razzi spaziali. Sette anni dopo, tre uomini decollarono da Cape Canaveral ed entrarono in orbita lunare. Tornarono con la famosa foto della Terra che si leva all’orizzonte lunare, una sfera azzurra vibrante di vita oltre lo sfondo de-

serto del nostro satellite. Quella fotografia fu propagandata da centinaia di gruppi di conservazionisti in tutto il mondo; il che sembra un controsenso, come ha osservato lo storico dei voli spaziali Walter A. McDougall nel suo libro The Heavens and the Earth: il movimento ecologista « si procurò un’icona proprio grazie alla tecnologia contro cui si batteva ». Quando Kennedy scelse Cape Canaveral, nell’acquitrino vivevano circa 6000 di quei passeri bruni, di una varietà chiamata Dusky per il colore scuro del piumaggio. Quando gli astronauti dell’ Apollo fotografarono il “sorgere della Terra” ne erano rimasti meno di 2000. Nel 1980, un’attenta ri-

cerca ne individuò soltanto sei, e tutti maschi. Nel 1986 ne restava uno solo, Orange Band (“Striscia gialla”). Viveva in

un gabbia senza particolari contrassegni a Discovery Island, lo zoo del Walt Disney World a Orlando, in Florida. L’uovo da cui era nato si era schiuso

all’incirca quando Cape Canaveral aveva incominciato a espandersi nei due sensi, orizzontale e verticale. Orange Band era un po’ sovrappeso, di un’oncia. Era cieco da un occhio, gottoso, alquanto incerto in fase di decol-

lo e di atterraggio. « È ancora con noi... Certo, non ringiovanisce » diceva il curatore dello zoo ai visitatori. Orange Band era diventato anch’esso un’icona, un’immagine emblematica, il simbolo della necessità per tutti gli Stati Uniti di rivitalizzare ed espandere il campo di applicazione della Legge per le Specie in Pericolo approvata nel 1973. I passeri erano giunti a questa situazione irrimediabile nonostante che fosse stata istituita per essi una riserva a cura e sotto la direzione del Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti. I funzionari di questo ente consentirono che gran parte dell’aquitrino fosse prosciugata nel quadro di un programma per l’eliminazione delle zanzare dalla zona di Cape Canaveral. Poi consentirono che fosse costruita un’autostrada fra Cape Canaveral e

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Disney World, autostrada che tagliò in due quanto restava dell’acquitrino. Infine consentirono alle imprese edili, in grande sviluppo data la destinazione della grande area interessata, a prosciugare i margini di quelle poche chiazze di acquitrino che non erano scomparse. Poi vi fu una serie di incendi. Potremmo mettere sotto accusa la NASA, il Fish and Wildlife Service, i

responsabili delle società immobiliari. Ma i passeri morirono a causa della stessa frammentazione degli habitat cui si assiste in tutto il pianeta. Di istante in istante sembrano problemi locali, accidentali... circostanze fortuite.

Ma a guardar bene è una pressione costante, globale, crescente, implacabile come l’espansione di una calotta glaciale o di una sostanza gassosa riscaldata. Vi è un tipo di tortura chiamato “morte per mille tagli”. Pezzetto dietro pezzetto, taglio dopo taglio, la nostra specie recide la vita di altre specie nel proprio interesse. « Chi guarda la caduta delle rondini? » si chiedeva un ecologista sulle colonne del New York Times mentre gli ultimi passeri scuri di Cape Canaveral stavano morendo. L'attenzione del mondo era concentrata su un’altra parte dell’Isola Merritt. Anche se la scomparsa degli uccellini fosse stata preannunciata con assoluta certezza, Kennedy avrebbe mantenuto la decisione di costruire quelle piattaforme di lancio, e il Paese l'avrebbe appoggiata. Gli ecologisti non avrebbero osato scegliere un luogo e un momento per loro così poco propizi per condurre una battaglia conservazionista. Orange Band morì nel mese di giugno del 1987. Parliamo della corsa allo spazio. Ma vi è una corsa allo spazio, o per lo spazio, qui, sulla nostra Terra. In questa corsa, gli uomini sono le superpotenze, e i concorrenti non hanno la minima probabilità di cavarsela. Ogni

specie del pianeta è legata, vincolata a un determinato pezzo di terra, e a questo pianeta. Noi non ci sentiamo legati ad alcun particolare pezzo della Terra, ci sentiamo destinati alle stelle. Sacrifichiamo senza esitare un acquitrino, una baia, un parco nazionale, un lago. Sacrifichiamo un passero. In definitiva, facciamo uno scambio di conti alla rovescia.

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10 L’oracolo di Gaia Ora, il mio sospetto è che l’universo non sia solamente più strano di quanto

immaginiamo, ma che sia più strano di quanto possiamo immaginare... Io sospetto che vi siano più cose in terra e in cielo di quanto si sogni, in qualsiasi filosofia.

J.B.S. HALDANE, Mondi possibili

L’idea che la Terra sia viva è molto antica. La maggior parte delle tribù e dei popoli di tempi remoti ne era convinta, tanto che questa concezione è generalmente riconosciuta come una fase universale del pensiero primitivo. Il nome dato da James Lovelock al nostro pianeta vivente, Gaia, è quello con cui i Greci indicavano la Madre Terra (e che attraverso il latino “Gea” è entrato a far parte del termine “geologia”). Ma forse questo modo di considerare il pianeta non è affatto primitivo, dato che antiche e moderne linee di pensiero sembrano talvolta convergere,

come i due capi di una linea l’idea di una Terra vivente è catore quando gli accade di pianeta, di tutti coloro che lo

tracciata a cerchio. Nella storia della scienza, comparsa molte volte. Spesso colpisce il ricerveder più in profondità, negli ingranaggi del hanno preceduto.

L’intuizione l’ebbe, nel XVII secolo, William Gilbert, medico di corte

della regina Elisabetta. Egli fu il primo scienziato nel senso proprio del termine a riconoscere che la Terra agisce come una gigantesca calamita; e l’ebbe un “matematico imperiale” del sacro romano imperatore Rodolfo II d’Asburgo, Giovanni Keplero, primo uomo a capire che la terra e gli altri pianeti ruotano attorno al Sole seguendo orbite ellittiche. Nel XVIII secolo, l’idea della Terra come organismo balenò allo scozzese James Hutton. Hutton iniziò la carriera come studente di fisiologia all’Università di Leida e preparò la sua tesi di laurea sulla circolazione del sangue. Non praticò mai la medicina, ma dopo una vita dedicata alla geologia giunse a considerare.il nostro pianeta allo stesso modo in cui Harvey considerava il corpo umano: una meravigliosa macchina, viva e pulsante. Nei suoi scritti paragonò la Terra a una sorta di superorganismo, al cui stu208

dio sarebbe stata appropriata una nuova disciplina, la fisiologia planetaria. Verso la metà del secolo XIX, l’idea balenò al capo del Deposito carte e strumenti della Marina degli Stati Uniti, il tenente di vascello Matthew Maury. Questo pioniere dello studio delle correnti marine considerava il nostro globo un essere vivente che ha per respiro il vento e per sangue il mare. Sul finire del XIX secolo, a Charkov, in Ucraina, lo studioso di matema-

tiche Vladimir Vernadsky era solito fare lunghe passeggiate campestri in compagnia di un cugino più vecchio di lui, Y.M. Korolenko, un ufficiale in pensione molto colto, molto indipendente nei giudizi e amante degli aforismi. Uno dei suoi preferiti era: « Il mondo è un organismo vivente ». Fu questa massima a plasmare la carriera di Vernadsky. Al principio di questo secolo egli inaugurò la difficile e bella scienza preconizzata da Hutton, lo studio del metabolismo, della fisiologia della Terra. Questi uomini

sono alcuni fra i fondatori della geofisica, astronomia,

geologia, oceanografia e biogeochimica moderne. Dunque Lovelock costruisce su fondamenta antiche e ben consolidate. Può aver torto o ragione, ma non si discosta dalle tradizioni delle scienze della Terra. In un certo senso, si potrebbe sostenere che la sua teoria di Gaia rispecchia la visione più ortodossa del pianeta Terra. Molti oggi si stanno rivolgendo a Gaia con quel tipo di interrogativo che le generazioni di un tempo avrebbero rivolto a Dio. Hutton, vissuto proprio agli albori della Rivoluzione Industriale, non avrebbe potuto prevedere il carattere assillante di questo nostro interrogativo (anche se nella cerchia delle sue amicizie più strette vi erano Black e Watt, cioè colui che scoprì l’anidride carbonica e colui che ne avviò il boom). Hutton percepiva il fatto che il pianeta Terra è perennemente logorato da fattori naturali, che le coste dei suoi mari vengono erose, che le sue montagne dilavate dalle piogge e macinate dagli altri agenti atmosferici se ne vanno man mano verso il mare. Meditò su questa lenta, perpetua consunzione del pianeta. Forse anche a causa della preparazione medica che aveva avuto in gioventù, era portato a domandarsi: Ma questo mondo deve essere dunque considerato semplicemente come una macchina destinata a durare quanto dureranno, mantenendo la loro composizione, forma

e qualità le parti di cui è composto? O non potrebbe invece essere considerato come un corpo organizzato, un corpo la cui costituzione permette che gli inevitabili guasti della macchina siano naturalmente riparati?...

Un organismo vivente è fragile, ma capace di ripararsi. Hutton giunse al-

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la conclusione che la Terra deve possedere tale capacità. I suoi studi geologici lo portarono a costatare che “una circolazione della materia di questo globo” ripara continuamente il pianeta, così che la Terra viene distrutta in un punto e insieme ricostruita in un altro, grazie a “un sistema di armonica economia nelle opere della natura”. Oggi, gli agenti distruttivi che temiamo di più non sono naturali, ma artificiali: e sappiamo che danneggiano il pianeta contemporaneamente ovunque. Questo rende impellente il nostro interrogativo. È un problema scientifico, ma è anche una preghiera. Se davvero esiste e opera attorno a noi una fisiologia planetaria, è essa in grado di aiutarci nei prossimi cent'anni? Potrebbe il corpo planetario mantenersi in salute nonostante tutto? La costituzione di Gaia è abbastanza robusta da far sì che “gli inevitabili guasti della macchina” siano “naturalmente riparati”? Gaia può o no salvarci? Lovelock intraprese la sua opera scientifica negli anni Quaranta, come medico ricercatore. Venne ammesso al British Medical Research Council, a Londra, e il suo primo lavoro fu uno studio del comune raffreddore. In seguito (« avendo scoperto ben poco sul raffreddore » racconta Lovelock « a parte che non si prende per il freddo ») studiò in qual modo si potessero mantenere vivi dei tessuti portandoli a bassissime temperature. Nel 1953, riuscì a surgelare e a riportare in vita un criceto dorato. Oggi si vergogna un po’ di quegli esperimenti sugli animali. Comunque, i risultati delle sue ricerche gli valsero l’elezione, in giovanissima età, a membro della Royal Society. i Lovelock notò che alcune cellule viventi resistono al congelamento meglio di altre. La differenza sembrava dipendere da certi lipidi, gli acidi grassi, presenti nella membrana cellulare. Per un caso fortunato, un collega che

aveva il laboratorio al piano sopra il suo aveva appena inventato il gascromatografo, che in origine fu il più potente strumento disponibile per la rivelazione e l’identificazione di quantità anche minime di acidi grassi. Con cura meticolosa, Lovelock riuscì a mettere insieme un campione di

sostanza grassa della membrana e lo portò al piano superiore ad Archer Martin: così si chiamava l’inventore del nuovo strumento. Il campione era più piccolo di una capocchia di spillo. Martin si mise a ridere. « Dio mio, è tutto qui quello che hai? » « Sì... » « Allora c’è ben poco da fare: farai meglio a inventarti da solo qualcosa che ti serva. » Lovelock lo prese in parola. Nel 1957 (mentre a La Jolla, in California,

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un fresco dottore di ricerca a nome Charles David Keeling smartellava mettendo insieme nuovi strumenti per la rilevazione dell’anidride carbonica), James Lovelock, Archer Martin e un gruppetto di altri ricercatori, a Londra, si radunarono attorno a un nuovo aggeggio creato dal primo per una serie di prove. Il campione da esaminare era un granello pressoché invisibile. Tutti gli sguardi erano fissi sull’oscilloscopio, sul cui schermo cominciarono ad apparire dei picchi, uno dietro l’altro. « Eravamo straordinariamente eccitati, specie io» racconta Lovelock. «Ma dopo qualche minuto ci rendemmo conto che i picchi registrati non corrispondevano a quelli che sarebbero dovuti apparire in presenza di un qualsiasi acido grasso che si conosca. » Occorse parecchio tempo prima che lo studioso riuscisse a spiegarsi il significato di quei picchi. Il rivelatore ignorava del tutto i campioni sottoposti al suo esame, ma individuava le tracce di impurità che si tovavano “fra” i lipidi e che erano giunte fino al campione attraverso l’aria del laboratorio. Rivelava queste impurità con una sensibilità di poche parti per trilione. L'apparecchio, il rivelatore a cattura elettronica, « ignorava la presenza di tutto o quasi, salvo quella di un solo gruppo di cose » dice Lovelock. « Ma il gruppo che rivelava era molto bizzarro e preoccupante. » L’elenco di queste “cose” comprendeva un gran numero di agenti cancerogeni. Vi erano poi il cloruro di vinile e il tricloroetilene, composti allora ritenuti così sicuri che venivano usati in chirurgia per le anestesie. Più tardi si scoprì che erano anch’essi cancerogeni. Si sarebbe detto che la macchina avesse capacità quasi magiche nel fiutare ogni sostanza pericolosa per la vita. « Adesso guardo con una certa dose di sospetto qualsiasi sostanza che la macchina riveli » dice Lovelock. Presto i rivelatori a cattura elettronica, entrati in produzione su vasta scala, erano venduti a istituti di ricerca in tutto il mondo. Già nel 1960 grazie ai nuovi strumenti erano state individuate tracce di DDT nel tessuto adiposo dei pinguini, in Antartide, e nel latte di donna un po’ dovunque. Queste scoperte contribuirono ad avvalorare la tesi sostenuta da Rachel Carson nel suo Primavera silenziosa, pubblicato nel 1962, e a far nascere il moderno am-

bientalismo. Dieci anni dopo, Lovelock portò il suo rivelatore a cattura elettronica in un viaggio in Antartide a bordo della nave inglese Shackleton, allo scopo di verificare se i clorofluorocarburi emessi nell’emisfero boreale fossero stati trasportati dai venti in quello australe. Sapeva che i CFC, a differenza dei pesticidi, sono praticamente inerti; non reagiscono con i tessuti viventi né con alcun’altra sostanza. Lovelock pensava che questa proprietà poteva far211

ne dei buoni traccianti, in grado di servire ai geochimici per misurare quanto tempo occorra, ad esempio, perché le masse d’aria dell'emisfero boreale traversino l’equatore. Insomma, i CFC potevano rivelarsi altrettanto utili a

fini di ricerca quanto le gocce di colorante rosso immesse nei vortici di un corso d’acqua. Nel 1973, Lovelock riferì su Nature di aver scoperto che nell’aria sovra-

stante l’Antartide la concentrazione di clorofluorocarburi aveva raggiunto le 40 parti per trilione. Bastavano pochi calcoli per rendersi conto di che cosa ciò significasse. In pratica, tutti iCFC mai prodotti da quando Midgley li aveva inventati negli anni Trenta erano ancora sospesi nell'atmosfera. Tanto erano inerti. Nella sua relazione, Lovelock fece di tutto perché non vi si potesse cogliere un altro segnale di allarme per l’ambiente. « La presenza di questi composti non comporta il minimo rischio concepibile » scriveva. Se Roger Revelle, affermava, aveva deciso di chiamare l’emissione di anidride car-

bonica nell’atmosfera « un imprevisto esperimento di geofisica », lui Lovelock, avrebbe chiamato l’emissione di clorofluorocarburi — perfettamente

innocui, a differenza dell’anidride carbonica — «un esperimento ideale su scala planetaria ». Poco tempo dopo, come si sa, i chimici specialisti dell’atmosfera Rowland e Molina capirono che, rimanendo sospesi nell’aria tanto tempo, i clorofluorocarburi alla fine sarebbero saliti fino alla stratosfera, dove avrebbero eroso lo strato dell’ozono. Rowland e Molina diedero l’allarme. Così,

nonostante le sue intenzioni, Lovelock fece scoppiare la guerra dell’ozono degli anni Settanta, non meno violenta di quanto lo era la guerra del DDT degli anni Sessanta.

Fino a questo punto, la vita di Lovelock è parallela a quella di Keeling. Anch’egli costruì un nuovo rivelatore, prese la mira giusta, e scoprì significativi cambiamenti globali fino ad allora ignoti. Insieme (senza volerlo) contribuirono a un poderoso lancio del movimento ambientalista, portandolo addirittura nella stratosfera. Mentre Lovelock e altri esploravano il pianeta col rivelatore a cattura elettronica, quelli che erano impegnati nel programma spaziale americano preparavano l’esplorazione di altri. Nel 1961, il talento inventivo di Lovelock era ormai ben noto, così che un direttore della NASA lo invitò a fornire la sua consulenza nella progettazione dei Surveyor, i primi esploratori automatici dello spazio. Per Lovelock, l’invito fu il coronamento di un sogno che coltivava fin dall’infanzia. E lo aiutò a distogliere definitivamente 212

la sua attenzione dalle membrane cellulari per portarlo in ben altre dimensioni, quelle delle atmosfere planetarie. Esaurite le missioni dei Surveyor, la NASA incominciò a preparare le missioni dei Viking, altre sonde spaziali grazie alle quali sperava di rispondere a un quesito d’età veneranda: « Esiste vita su Marte? ». Gli scienziati dell’ente spaziale che lavoravano al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena chiesero a Lovelock di incominciare a pensare esperimenti atti a rivelare la presenza della vita. Lovelock meditò a lungo sul problema sottopostogli dalla NASA. In che modo scoprire la vita su Marte? Ne discusse con Dian Hitchcock, ponendo interrogativi fondamentali, del tipo: « Che cos'è la vita? ». Alla fine, arrivò

in volo al Jet Propulsion Laboratory. « Ho la risposta che volevate » dichiarò agli scienziati. « Non c’è bisogno di una missione spaziale per scoprire se Marte è vivo 0 morto... È morto, definitivamente morto. E lo si può vedere benissimo anche da qui. » Il ragionamento di Lovelock era semplice. L’aria di Marte è formata in massima parte da anidride carbonica. Praticamente non contiene ossigeno libero. Un astronomo è in grado di determinare tutto questo da qualsiasi 0sservatorio terrestre moderno e ben attrezzato, come ad esempio quello del Mauna Loa. Le stesse condizioni esistono nell’atmosfera di Venere: quasi tutta anidride carbonica e quasi niente ossigeno. Questa miscela gassosa è proprio quella che si può presumere di trovare su un mondo morto. Sembra che su Marte e Venere i gas si siano rarefatti per molti milioni di anni, fino a raggiungere l’equilibrio chimico. Sono quasi completamente inerti. Dice Lovelock: « Se prendeste un volume di aria dall’uno o dall’altro di questi due pianeti, lo portaste all’incandescenza in presenza di rocce prelevate dalla superficie e poi lo lasciaste raffreddare lentamente, dopo l’esperimento non si riscontrerebbe alcun cambiamento nella sua composizione ». Sulla Terra, al contrario, l'atmosfera contiene il 21 per cento di ossigeno

e meno dell’1 per cento di anidride carbonica. A un chimico che esaminasse il nostro pianeta da un ipotetico osservatorio su Marte o su Venere, sembre-

rebbe strana la presenza di tutto quest’ossigeno, elemento fortemente reattivo, potenzialmente esplosivo. È un gas che agisce, che cambia le cose. In presenza di ossigeno, la legna può ardere. In presenza di ossigeno, il ferro può arrugginire, in quanto l’arrugginimento non è altro che una forma di graduale e lenta combustione. Grazie all’ossigeno, animali e piante possono respirare, in quanto anche la respirazione non è altro che una combustione

controllata e lentissima.

i

Per il chimico marziano, trovare tanto ossigeno nella atmosfera terrestre

213

sarebbe come per un fisico vedere un masso gigantesco in precario equilibrio sulla cima di una montagna: qualcosa di molto instabile. Le leggi fisiche prevedono che quel masso precipiti in fondo al pendio in qualsiasi momento. Le leggi della chimica sono altrettanto specifiche e positive su una predizione analoga quanto lo sono le leggi gravitazionali sull’orbita di un pianeta o sul destino di un masso pencolante in cima a una montagna. L’ossigeno della nostra atmosfera dovrebbe arrugginire le rocce, arrugginire gli scheletri d’acciaio dei grattacieli o dei ponti, essere consumato dagli incendi boschivi o inalato da gufi e formiche, alberi e felci fino a scomparire dall’aria. Cosa che sarebbe dovuta avvenire già molto tempo fa: l’atmosfera terrestre non dovrebbe contenere ossigeno (0 comunque dovrebbe contenerne molto meno dell’1 per cento). Come sappiamo, la Terra ha invece tutto l’ossigeno che ha grazie alle piante verdi. Esso ha seguitato ad accumularsi nell’atmosfera sin da quando le prime piante verdi si sono evolute sul pianeta qualche miliardo di anni fa. Il masso resta in cima alla montagna perché le piante seguitano a sospingervelo. Sisifo, nell’oltretomba classico, era condannato a spingere per l’eternità un masso sul fianco di una montagna. Ogni volta che l’aveva quasi spinto fino alla vetta, il masso ricadeva alla base della montagna, ed egli doveva ricominciare tutto da capo. Ebbene, anche quella delle piante è una fatica di Sisifo. Con la stessa rapidità con cui il masso rotola sul pendio, cioè con la stessa rapidità con cui diminuisce l’ossigeno, le piante ne immettono dell’altro nell’atmosfera. X Lovelock disse ai direttori dell’ente spaziale americano: « Non andate su Marte! ». Non c’è bisogno di andarci per sapere se c’è vita. Basta guardare se c’è ossigeno, o qualche altra forma di bizzarria chimica o di instabilità dell’atmosfera. Poiché non esistono queste condizioni, il pianeta rosso è sicuramente morto.

Inutile dire che il suggerimento di Lovelock non fu ricevuto con entusiasmo negli ambienti della NASA. Questa lanciò comunque le sue sonde Viking, con gran clamore pubblicitario e la dovuta dose di suspense. Ma sembra che Lovelock avesse proprio ragione. Probabilmente Marte è morto quanto la Luna. E oggi la grandissima maggioranza degli scienziati ritiene che la Terra sia l’unico pianeta vivente nel nostro sistema solare. Procediamo con questo ragionamento un passo più avanti. Se il nostro pianeta avesse un po” più ossigeno di quello che ha — diciamo un 5 o un 10 per cento di più — potrebbe essere un vero inferno su scala globale. Atmosfera e biosfera sarebbero così infiammabili che gli incendi boschivi, una 214

volta scoppiati, divamperebbero incontrollati fino a che tutta la biosfera andrebbe a fuoco, in una specie di Armageddo atmosferico. Se invece avesse meno ossigeno — diciamo un 5 o un 10 per cento di meno — gli esseri viventi avrebbero troppo poca energia per lavorare come fanno. Potrebbero ancora esistere sulla Terra i batteri, e forse creature microscopiche di struttura un po’ più complessa come amebe, euglene, parameci. Ma non potrebbe vivere un essere come l’uomo, magari intento a fissare un preparato attraverso un microscopio. La Terra sarebbe, sì, viva, ma non ci sarebbe nessuno a guardarsi intorno e a farsi domande. Dunque, la Terra non soltanto ha l’ossigeno: ha /a giusta quantità di ossigeno. Qualcosa mantiene questo elemento esattamente al livello necessario,

e lo fa da milioni di anni. Anche ora questo qualcosa lo mantiene saldamente e costantemente nella quantità che ci occorre. Seguendo questa linea di ragionamento, Lovelock giunse a formulare una delle più audaci e controverse teorie mai proposte da quando Alfred Wegener enunciò quella della deriva dei continenti. Il più grande essere vivente nel nostro sistema solare non è la balenottera azzurra, che arriva a una lun-

ghezza di oltre trenta metri, né la gigantesca sequoia, che svetta a oltre sessanta metri dal suolo. La più grande e la più antica cosa che viva nella nostra regione dello spazio è la stessa Terra. La Terra vive. I suoi tessuti sono formati da balene e sequoie, cervi e praterie. Ogni essere vivente, dalle tartarughe giganti alle formiche all’uomo, ne fa parte così come le cellule che costituiscono la nostra pelle, il cervello, il cuore fanno parte di noi. Tutto ciò che striscia e fiorisce, che si muove e cresce, dalla Groenlandia alla

Nuova Zelanda, dalla Novaja Zemlja alle Isole Palau, dalle tartarughe alle termiti, svolge una qualche funzione nella cooperativa globale. Non solo. Anche le nubi fanno parte di questo superorganismo, insieme con l’aria che respiriamo, la terra e le rocce su cui camminiamo, la stessa crosta del pianeta: siamo un solo, immenso essere vivente.

Un giorno Lovelock andò a fare una passeggiata con un suo vicino di casa nel villaggio inglese di Bowerchalke, nel Wiltshire. Il vicino era William Golding, il premio Nobel per la letteratura William Golding, autore de // signore delle mosche. Lovelock parlò al romanziere di quella sua rivoluzionaria concezione di una Terra vivente, e fu Golding a suggerirgli: « Devi proprio chiamarla Gaia ».

La scienza del nostro secolo ha mietuto tali successi che i non addetti ai lavori talvolta se la figurano come una specie di organizzazione monolitica, coordinata quanto una grande supernazionale, quanto la IBM o l’AT&T

2A)

(finché questa esisteva ancora). Si pensa che gli scienziati siano fatti con lo stampo, che siano simili nell’aspetto, che parlino tutti lo stesso gergo e agiscano nello stesso modo. In realtà, la scienza è una Torre di Babele. È passato il tempo in cui un genio solo, come Isaac Newton, spaziava e innovava leonardescamente in campi così disparati come la fisica e la teologia, l’ottica e l'alchimia, la matematica e tutti gli altri campi di inesauribile interesse che allora non si chiamavano scienza, ma semplicemente filosofia naturale. Oggi esistono pochissimi filosofi naturali. Non vi sono neppure molti “terrologi”. Sul. nostro pianeta si è pubblicato troppo perché possa rientrare negli orizzonti pur vasti di una sola mente. Vi sono studiosi della chimica degli oceani e studiosi della fisica degli oceani. Vi sono chimici della stratosfera e chimici della troposfera. Costoro non comunicano fra loro, o almeno comunicano tanto poco quanto il mare e l’aria che studiano, o i differenti strati dell’atmosfera. La specializzazione ci ha preso la mano. Vi sono più rami dell’albero del sapere che nell’albero della vita. Il petrologo studia le rocce e il pedologo studia il terreno. Il primo raccoglie le pietre e ne spazzola via la terra che vi aderisce, il secondo setaccia la terra e getta via le

pietre. Sul campo, si scontrano goffamente come Stan Laurel e Oliver Hardy nei loro film, per caso, rialzandosi dopo aver raccolto il campione che interessa a ciascuno. Se Gaia esiste, non è possibile studiarla a pezzi e bocconi, con il professor X che si domanda se il cielo è vivo, il professor Y che si domanda se le

montagne sono esseri viventi, il professor Z che si domanda se il professor X è un organismo vivente. Se Gaia esiste, significa che tutti gli elementi che compongono il pianeta sono connessi fra loro e funzionano insieme come gli organi del nostro corpo. « Le interconnessioni necessarie per questo tipo di studio saranno identificate da più persone comunicanti fra loro, o da una sola mente? » mi disse, pensando ad-alta voce, il chimico dell’atmosfera Ralph Cicerone, nel suo studio un po’ antiquato al Centro Nazionale americano per le Ricerche sull’Atmosfera, a Boulder nel Colorado. Cioè a dire, le interconnessioni sa-

ranno stabilite da due o tre persone appartenenti a diverse discipline che collaboreranno fra loro, o da un unico scienziato che troverà la forza intel-

lettuale necessaria per padroneggiare contemporaneamente più discipline? « A malincuore » disse Cicerone « sono giunto alla conclusione che le nostre speranze migliori si affidano al lavoro di menti isolate. » La mente di Lovelock è stata una delle prime a fare il tentativo. E, come Cicerone e altri concordano nel ritenere, essa — grazie a una multiforme

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carriera e a quella che può chiamarsi genialità — è una delle poche che abbiano qualche probabilità di riuscita. Se sapete orientarvi nella Torre di Babele, come sa farlo Lovelock, a ogni angolo scorgete una traccia di Gaia. Ad esempio, se la salinità del mare fosse molto più alta di quella attuale, la vita in quell’elemento sarebbe impossibile. L’Atlantico e il Pacifico sarebbero morti come il Mar Morto. In realtà,

i chimici specialisti in oceanografia non sanno ancora perché l'Atlantico e il Pacifico non siano mari morti. I corsi d’acqua versano in mare ogni anno milioni di tonnellate di sali, e tuttavia il mare non diventa più salato. Qualcosa che non conosciamo mantiene l’attività chimica del mare esattamente entro i limiti compatibili con la vita. Altro mistero planetario... Oppure si prenda il caso dell’anidride carbonica, gas essenziale quanto malfamato. Come si è detto, con un tasso di anidride carbonica sostanzialmente superiore all’attuale, la Terra sarebbe un inferno di calore, un’altra Venere. Con un tasso sostanzialmente inferiore, sarebbe congelata come

Marte. La concentrazione di questo gas è aumentata o diminuita di qualche poco in passato, mai al punto da trasformare la Terra in una fornace o in un congelatore. I mari non sono mai scomparsi per evaporazione, né sono diventati una massa compatta di ghiaccio nei 4 miliardi e mezzo di anni dalla creazione del pianeta. E tuttavia il Sole stesso, da quando è nato, ha accresciuto la sua intensità luminosa del 25 per cento. Tumultuosi periodi di grande attività vulcanica sono incominciati e sono finiti. Attraverso tutte queste vicissitudini, che cosa ha mantenuto il livello dell’anidride carbonica abbastanza uniforme da far restare la temperatura della superficie terrestre entro i limiti compatibili con la vita? Forse è stata la stessa vita. Allorché, nel 1979, Lovelock pubblicò il suo libriccino intitolato Gaia, si

sarebbe aspettato di essere acclamato dai biologi e attaccato dai teologi. Invece fu insultato dai biologi, e ricevette un invito a fare un sermone nella cattedrale di St.

John the Divine, a New York City.

I biologi evoluzionisti giudicarono Gaia qualcosa di ridicolmente antiscientifico. Secondo loro, una simile ipotesi presupponeva un progetto, un piano universale. Richiedeva che si pensasse che licheni, alberi, termiti e scimmie, in qualche modo misterioso, decidano di operare di concerto, per

il bene comune. Ma può il pot-pourri di specie del nostro pianeta veramente cooperare, come l’equipaggio omogeneo e affiatato di un bombardiere in qualche vecchio film della MGM, per mantenere la Terra in linea con l’obiettivo? Può anche un sola specie dirigere il proprio destino? Quasi tutti i biologi ritenevano che la vita non possa essere così intelligen-

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te. Era più semplice supporre che le termiti facciano qualcosa, gli alberi ne facciano un’altra: qualche volta ne risulta il bene di tutti, qualche volta no. E intanto il mondo va avanti, con passo zoppicante. Il biochimico

canadese

W.

Ford

Doolittle,

dell’Università

Dalhousie,

diede voce a una delle prime critiche di questo tipo all’ipotesi di Gaia. L’evoluzione, faceva osservare, procede senza previsioni e senza piani, guidata solo dalla selezione naturale. A ogni generazione gli individui più adatti a sopravvivere e a riprodursi nell'ambiente in cui si trovano sono in genere quelli che danno vita alla discendenza più numerosa. Gli appartenenti a questa discendenza variano leggermente l’uno dall’altro. Alcuni individui risulteranno più adatti di altri individui a vivere e a riprodursi, e trasmetteranno i propri geni a una discendenza più numerosa. E così di seguito. In tal modo, le variazioni genetiche utili tenderanno ad affermarsi, mentre quelle

dannose tenderanno a scomparire. Attraverso il tempo, questo processo di selezione naturale darwiniana, del tutto. cieco e meccanico, è sufficiente per determinare tutta l’intricata diversità della vita. Doolittle non vedeva in quale modo Gaia, che rappresenta-la collaborazione globale fra specie diverse, potesse essere frutto della selezione naturale, che è un processo di eterna competizione fra gli individui, e rivela la realtà della Natura quale la vedeva il poeta Tennyson: « ...rossa nel dente e nell’artiglio ». La concezione di Lovelock, scriveva Doolittle, gli faceva venire in mente il mondo fiabesco del Dottor Doolittle: Nel libro di Hugh Lofting 7! dottor Doolittle sulla Luna, John Doolittle si meravi-

glia costatando l’assenza di lotta darwiniana per l’esistenza tra la flora e la fauna lunari. Quest’assenza, si spiega poi, derivava dalla posizione dominante del ‘Consiglio, formato da membri del mondo sia vegetale sia animale, il cui scopo principale era regolare la vita sulla Luna in modo che non vi fosse più guerra’. Doolittle commenta col suo assistente: « Il nostro mondo, che si ritiene tanto progredito non ha, Stubbins, né la saggezza né la preveggenza che abbiamo potuto osservare qui. Lottare, lottare, lottare, sempre lottare! Così vanno le cose laggiù da noi... La ‘sopravvivenza del più adatto”!... È questa cosa che abbiamo veduto qui, questo Consiglio della Vita - dell’ ‘aggiustamento’ della vita - ciò che avrebbe potuto rimediare alla nostra situazione e dare la felicità a tutti ».

In breve, il dottor Doolittle affermava che Gaia non poteva essere frutto di selezione naturale, ma solo di un disegno consapevole. « Questa Gaia di Lovelock somiglia molto a un equivalente terrestre del Consiglio Lunare di Lofting » scriveva. « Ma il Consiglio era stato creato da Otho Bludge, il primo uomo lunare, profugo dalla Terra. Chi ha creato Gaia? »

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Lovelock fu ferito da questa critica, alla quale fecero seguito parole anco. ra più dure da parte del biologo evoluzionista inglese Richard Dawkins, che nei suoi libri (come // gene egoista e L’orologiaio cieco) tratta sempre dell’egoismo e della cecità della selezione naturale. Per qualche tempo Lovelock si domandò se la sua ipotesi potesse veramente essere ciò che quei biologi sembravano pensare. Forse Gaia rientrava nella stessa categoria delle tavolette Quija (dai cui segni alfabetici e altri simboli c’è chi crede possibile, con lo spostamento casuale di un’altra tavoletta, ricavare messaggi telepatici o sovrannaturali), delle sfere di cristallo, degli spiriti, o, al più, della fede in Dio?

No. Lovelock si rafforzò nella convinzione che la teoria di Gaia non contraddiceva le leggi della selezione naturale. Anzi, poteva esserne considerata una conseguenza. Pensava che la selezione naturale può agire non solo su scala biochimica e individuale, ma anche su scala biogeochimica. Cominciava a pensare che gli evoluzionisti non avessero esplorato abbastanza i meandri entro la Torre di Babele. Loro studiavano l’evoluzione della vita; e

intanto, un piano più su, i geochimici studiavano l’evoluzione della Terra. E tuttavia queste due evoluzioni hanno luogo contemporaneamente e sullo stesso pianeta. Sono legate l’una all’altra. Dopo aver penato a lungo, Lovelock trovò la replica da dare a Doolittle e a Dawkins. Consisteva in una spiegazione molto semplice del modo in cui la selezione naturale può condurre a Gaia. L'esempio da lui addotto consiste in un pianeta schematico e ipotetico, chiamato il Mondo delle margherite, Daisyworld. Il Mondo delle margherite è idealizzato quanto uno dei sei incantevoli pianeti fluttuanti visitati dal piccolo principe del libro di Antoine de SaintExupéry. È un pianeta dalla superficie liscia e di color grigio uniforme. Il suo clima è piacevole e consente la crescita delle piante dall’equatore ai poli. Per semplificare al massimo le cose, Lovelock riduce tutte le variabili che influiscono sulla vita a una sola: la temperatura. E inoltre riduce il brulicare delle varie forme di vita a una sola: le margherite. Sul pianeta immaginario vi sono soltanto margherite bianche e margherite nere. Si immagini a questo punto che l’intensità della luce solare incominci ad aumentare. Se nel Mondo delle margherite non esistesse vita, anche la tem-

peratura del pianeta aumenterebbe proporzionalmente all’aumentata forza dei raggi solari. Ma poiché nel Mondo delle margherite la vita c’è, le cose non vanno affatto a questo modo. La vita sull’ipotetico mondo reagisce all'aumento della temperatura, attraverso la selezione naturale. Ben presto la presenza delle margherite nere diminuisce, perché muoiono: il loro colore

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scuro assorbe una maggior quantità di radiazioni solari e fa sì che si riscaldino più rapidamente della superficie del pianeta, finché la loro temperatura diventa incompatibile con la vita. Le margherite bianche resistono di più, perché la loro tinta riflette una maggior quantità di radiazioni e mantiene più freschi sia i fiori, sia l’ambiente circostante.

Questi eventi locali influiscono sulla temperatura di tutto il pianeta. Un pianeta coperto di margherite bianche riflette più luce di un pianeta rivestito dinero. Nel gergo scientifico, le margherite bianche posseggono una maggiore “albedo”. Man mano che il Mondo delle margherite si copre di un manto sempre più fitto di margherite bianche, e quelle nere si diradano in proporzione, l’intero pianeta acquista una albedo maggiore, e perciò si mantiene fresco. Supponiamo invece che la luce del Sole incominci a offuscarsi. Allora diventano più scarse le margherite bianche, ma si moltiplicano le nere. Il pianeta assume un colore più scuro, e più-scuro diventa, più raggi solari assorbe, ciò che causa un riscaldamento della superficie.

Comunque varii l’intensità luminosa del Sole, il mondo immaginario di Lovelock è protetto dalla vita che vi alligna. Grazie ai suoi abitanti, il Mondo delle margherite si mantiene a una temperatura stabile assai più a lungo di quanto accadrebbe a un mondo privo di vita. È una questione di anelli di feedback negativi. Il caldo determina la moltiplicazione delle margherite bianche, che rinfrescano il pianeta; il freddo genera margherite nere, che lo riscaldano. Il Sole deve diventare proprio molto caldo o molto freddo perché il pianeta giunga al limite della capacità di autodifesa. Se però giunge a quel punto, tutte le margherite appassiscono, e il loro mondo muore. Il pianeta diventa un oggetto inanimato che subirà impotente le ulteriori variazioni delle radiazioni solari. In questo mondo, non si verifica nulla di più che la selezione naturale: a causa dei mutamenti ambientali, una specie prospera, mentre l’altra si impoverisce. E tuttavia la vita, sul “pianeta della semplicità”, si comporta come un termostato. Entro certi limiti, agisce mantenendo stabile la tempera-

tura. In un appartamento dotato di caldaia per riscaldamento con termostato, è il padrone di casa a stabilire la temperatura che desidera, fissando il punto di funzionamento richiesto. Il punto di funzionamento, negli Stati Uniti, è

generalmetne fissato a 21 °C; di solito in Europa è di 3 o 4 °C inferiore. Qual è il punto di funzionamento richiesto al termostato di un pianeta? Non esiste, in quanto non esiste un progetto, un disegno globale. Vi è solo la

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reazione elementare e del tutto inconsapevole di una miriade di organismi viventi a una miriade di mutamenti locali. « Il Mondo delle margherite non ha una meta prestabilita da raggiungere, per quanto riguarda la temperatura o altro » dice Lovelock. « Si acciambella come un gatto, cercando la posizione più comoda, e resiste agli eventuali tentativi di sloggiarlo. » Nel mondo reale non esiste una sola variabile, la temperatura: ci sono mille o diecimila variabili che si mantengono più o meno stabili; non solo la temperatura ma la chimica e la salinità dei mari e la composizione dell’atmosfera. Ciascuno di questi fattori deve in qualche modo essere omeostatico, cioè avere la capacità di restare stabile in condizioni ambientali variabili entro limiti alquanto ristretti, come dice Lovelock nel suo secondo libro sull’argomento, Le età di Gaia. « Quasi tutte le sostanze chimiche hanno una

determinata gamma di concentrazioni tollerate dalla vita o ad essa necessarie » egli scrive. « Per molti elementi come lo iodio, il selenio e il ferro, il

troppo è veleno, il troppo poco significa la morte di inedia. L’acqua pura, incontaminata, non è in grado di alimentare gran che; e lo stesso vale per la salamoia satura del Mar Morto. » La bellezza della teoria del Mondo delle margherite consiste nella sua generalità. Essa si applica a tutti i fattori come quelli menzionati, a qualsiasi fattore che vincoli la vita, dalla temperatura alla concentrazione di iodio nell’acqua marina. E si applica a qualsiasi pianeta sul quale possano essere nate forme di vita. Anche queste, certamente, crescendo modificano l’ambiente, e anch’esse potrebbero tendere a realizzare un ambiente stabile at-

traverso un processo di selezione naturale del tipo descritto. Lovelock e un collega, Andrew Watson, hanno sottoposto alla verifica di un computer molte varianti del Mondo delle margherite, ottenendo semplici grafici che presentano il principio centrale di Gaia: la selezione naturale. La crescita spontanea e l’evoluzione della vita in presenza di vari fattori finiscono sempre col raggiungere condizioni di stabilità, e col rimanervi. Il pianeta nel suo insieme evolve alcune delle proprietà che siamo soliti associare agli organismi viventi individuali: temperatura e chimismo interno tendono a restare in equilibrio, entro certi limiti, tranquilli come il gatto appisolato. Non molto tempo fa, tentando di scandagliare il mistero di Gaia, mi ricordai di un gioco al quale una volta giocavo con mio padre e mio fratello. Sembra incredibile, ma eravamo riusciti a farci un calcolatore usando delle

tazze e dei pezzi di cartone (nel nostro caso, uno di quelli che si mettono nelle confezioni delle camicie nuove), e in poco tempo quel giocattolo diventò così abile da superarci tutti e tre in fatto di strategia del gioco. Ricor-

DR

do ancora la nostra compaciuta sorpresa quando, seduti al tavolo di cucina, vedevamo quella sorta di computer fatto di tazze eseguire mosse sempre migliori finché, prima che finisse la serata, riusciva ogni volta a infliggerci cocenti sconfitte. (Serate di quel genere non sono per tutti. I lettori che si sentono venire i sudori freddi solo al pensiero di costruirsi un computer — anche se fatto con delle semplici tazze da tè - possono tranquillamente passare a pagina 224.) Il nostro calcolatore era stato inventato da un matematico della Cornell University, Henry David Block, il quale si interessava di quella che chia-

mava “biologia meccanica”. Si dedicava a progettare semplici aggeggi in grado di imitare alcune delle funzioni degli esseri viventi. Nel numero di marzo del 1965 della rivista American Scientist, lo studioso spiegò quanto è facile costruire un calcolare dotato di capacità di apprendimento. Block chiamò il suo computer G-1 (la G sta per “Golem”, il leggendario uomo e schiavo artificiale della tradizione ebraica medievale, un oggetto di creta al quale un mistico aveva infuso la vita mormorandogli il nome di Dio). G-1 consiste in un fila di tazze numerate dall’1 al 12. In ogni tazza sono messe tre carte (ritagliate dal cartone per camicie) recanti i numeri 1, 2 e

3. Tutto qui: questo è il Golem; costruirlo ci portò via pochi minuti. Trovavamo divertente disporre la fila di tazze dalla parte del tavolo opposta alla nostra, per avere il Golem di fronte, come se fosse un avversario umano. Block ha dimostrato che il suo “computer” può fare un migliaio di giochi “strategici”. Uno dei più vecchi e dei più semplici è una gara da caffè-che si chiama Nim, o in vari altri modi. La partita di Nim si inizia disponendo sul

tavolo un mucchietto di monetine o fiammiferi o stuzzicadenti, o di qualsiasi altra cosa che funga da fiche. Voi e l’avversario, a turno, dovete togliere delle fiches dal mucchietto. Avete la scelta fra il toglierne una, due o tre. Chi resta con l’ultima fiche da togliere dal tavolo, perde la partita. Si incomincia, dunque, con dodici fiches:

000 000 000 000 000 Supponiamo che sia l’avversario a fare la prima mossa, e che decida di togliere tre fiches. A questo punto, quindi, ne resteranno sul tavolo nove:

000 000 000 Diciamo che anche voi ne togliate tre. Resteranno in gioco sei fiches:

222

000 000 Il vostro avversario ne toglie due (questa è una mossa stupida):

0000 Voi ne togliete tre, così che ne resta sul tavolo solo una:

0 Il vostro avversario è costretto a togliere quell’ultima fiche, perdendo la partita (visto che secondo le regole perde chi toglie l’ultima fiche). Si può giocare a questo gioco con il Golem proprio come lo si giocherebbe con qualsiasi altro giocatore. Naturalmente, il Golem non può parlare, per cui dovrete comunicare con lui a segni, come potreste fare in un bar con uno straniero che non parla la vostra lingua. Il Golem non può nemmeno muoversi, perciò toccherà a voi superare anche questo handicap: ogni volta che sarà il suo turno, dovrete fargli il favore di contare il numero di fiches ancora in gioco. Diciamo che ve ne siano sul tavolo dodici. Dopo averle contate, allungate la mano andando alla tazza numero 12 del Golem. Da questa togliete, a caso, una delle carte (coperte) che vi si trovano per conoscere quale sarà la mossa del Golem. Se la carta che pescate porta il numero 2, vorrà dire che il calcolatore ha deciso di togliere due fiches (vero, voi fate il lavoro manuale, voi siete il braccio, ma il Golem è la mente). Quindi rimettete la carta nella tazza numero 12. E così di seguito, voi e il calcolatore vi alternate, giocando a turno. Il segreto dell’apprendimento è la capacità di trarre profitto dai propri errori. Qui sta il vero talento del Golem. E questo grazie al fatto che, ogni volta che il Golem perde una partita dell’incontro, voi prendete dalla tazza l’ultima carta che ha giocato — la mossa sbagliata, che gliel’ha fatta perdere — e la gettate in una scatola per gli scarti. Da principio, poiché gioca in base alla sorte, il Golem perde quasi ogni partita. Però, ogni volta che fa una mossa perdente, questa viene tolta, scartata. Il Golem non ripeterà più quell’errore, e quindi di mosse perdenti ne farà sempre meno, mentre farà un numero sempre più alto di mosse vincenti. È affascinante vederlo “imparare”. Non mi metterò a descrivere tutti i particolari tecnici di questa sfida fra il Golem e l’umanità, ma sta di fatto

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che dopo un certo tempo il primo si fa furbo. Seguita a fare proprio le mosse giuste, perché ha dimenticato quelle sbagliate. Ha dimenticato, insomma, come si fa a perdere. È possibile tracciare la curva di apprendimento del Golem su un pezzo di carta millimetrata registrandovi le vittorie e le sconfitte. In principio, abbiamo detto, il Golem non fa altro che perdere. Poi il numero delle sue vittorie sale sorprendentemente per decine e decine di partite, un passo avanti e uno indietro, su una curva di Keeling. Dopo varie centinaia di partite a Nim, i Golem gioca da maestro. Pur essendo fatto di pezzetti di cartone, dà tutta l’impressione di saper intuire e pianificare. Le tazze si mettono a lavorare come se possedessero un’intelligenza diabolica. Una bella mossa della tazza numero 10 determina una bella mossa della tazza 7, e consente alla tazza 4 di vincere la partita. È questa la caratteristica più notevole del calcolatore “a tazze”: la capacità di organizzare quella che sembra una congiura, un’intesa, un comitato, un lavoro d’équipe. Come dice Block: « Nel comportamento di queste macchine è interessante notare come una semplice ‘legge del cambiamento” locale porti a una politica globalmente ottimale ». La concezione di Lovelock di una Gaia, in cui la vita sulla Terra determina il clima, sembra meno incredibile una volta che ci si è costruito un Golem e lo si è visto giocare. È umiliante essere sconfitti da tazze da tè. Ma,

nel corso delle partite, non si può non vedere che il Golem impara attraverso lo stesso processo cieco della selezione naturale. Il principio fondamentale è quello enunciato da Darwin: la sopravvivenza del più adatto. Le carte che fanno le mosse vincenti sopravvivono, le altre si estinguono. Se la selezione naturale riesce a tanto per dei pezzetti di cartone, che cosa

potrà fare per una specie vivente? Immaginate ogni ecosistema terrestre come se fosse una tazza. Sul pianeta vi sono decine di ecosistemi: calotte glaciali, foreste, deserti, acquitrini,

pozze lasciate dalla marea che si ritira, barriere coralline. Ogni organismo vivente rappresenta una carta in una di quelle tazze. Gli individui che fanno le mosse vincenti in genere sopravvivono, quelli che fanno le mosse perdenti in genere muoiono giovani. Come mai le carte che si trovano dentro le tazze del Golem riescono sempre a elaborare una strategia globale? Perché le carte delle tazze numero 10 e numero 7 preparano mosse vincenti per la tazza 4? Non sono certo motivate da altruismo. Non può certo esservi un progetto, una collaborazione consapevole. È solo una questione di selezione naturale. La sopravvivenza

224

. di ciascuna carta è influenzata da tutte le altre carte di tutte le altre tazze. Cioè a dire, una perdita in una delle tazze, alla lunga, determina la soprav-

vivenza o l’estinzione delle carte che si trovano in tutte le altre. Il destino di una dipende da quello delle altre. Ciascuna influisce sulle possibilità di sopravvivenza delle altre. Lo stesso vale per le specie della biosfera. Gli ecologi stimano che mediamente ogni specie del pianeta è direttamente collegata ad altre quattro. Queste specie “contigue” si evolvono insieme, e nell’evolversi stabiliscono rapporti reciproci, compreso quello predatore-preda, ospite-parassita, e quell’affascinante relazione che si chiama simbiosi, in cui-ciascuna delle specie partecipanti è utile al sostenimento dell’altra. Non esisterebbero foreste pluviali senza le api, le farfalle e le vespe che ne impollinano i fiori, né quelle api, farfalle e vespe potrebbero sopravvivere senza le piante. Fin dai tempi di Darwin, i biologi evoluzionisti danno per scontato che tutti questi rapporti possono instaurarsi attraverso la “cieca” selezione naturale. Una specie media, dunque, è parte dell’ambiente di almeno altre quattro. Su scala più vasta (ma sempre all’interno di una sola tazza, o ecosistema) si trovano specie che sono direttamente connesse non con quattro, ma con migliaia di altre. Gli alberi della foresta pluviale forniscono supporto, ombra, suolo, nutrimento e (come si è visto) perfino ombra e pioggia allo sciame di specie che vivono sopra di essi, fra le loro fronde o ai loro piedi. Anche in questo caso non c’è un disegno deliberato. In base alla teoria evoluzionistica, per quanto miracoloso possa sembrare, tutto ciò nasce e si manifesta solo grazie alla cieca selezione naturale. Ogni specie è inoltre a diretto contatto con il proprio ambiente, l’atmosfera o l’idrosfera. In misura grande o modesta, ogni specie influenza quel mezzo. Ciascuna emette un po’ di anidride carbonica, ad esempio, e in tal modo prende parte al ciclo del carbonio e alla respirazione del mondo. Senza la ricca mistura di gas che sale dalla tazza numero

12, che è la foresta

pluviale, la vita non sarebbe più la stessa in nessun punto del pianeta. Senza le piante verdi, non vi sarebbe più ossigeno. Così, quale più, quale meno, anche nel mare e nell’aria, ogni specie del globo è connessa con tutte le altre e ciascuna influisce sulla sopravvivenza di tutte le altre. Quelle delle tazze numero 12 e 6 servono per preparare le mosse vincenti della tazza numero 3. Inversamente, un difetto nella tazza 12 preparerebbe una perdita nella tazza 3. | Puòessere fantasioso e sentimentale immaginare che tutte queste innumerevoli interconnessioni globali, tutte queste relazioni reciproche possano essersi evolute fino a formare una sorta di matassa, una stabile rete simbiotica

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che supera le nostre capacità di comprensione. Lovelock e i suoi seguaci (fra i quali la sua collega e collaboratrice Lynn Margulis, microbiologa dell’Università di Boston) non esitano ad ammettere di essere dei romantici so-

gnatori. Ma è innegabile che rapporti di reciproca utilità si stabiliscano per via evolutiva a livello locale, nell’ambito di ciascuna tazza. Se ne possono

citare mille esempi entro ogni ecosistema. Si pensi alla successione di piante erbacee sulle dune costiere che consente il successivo insediamento di alberi e di uccelli. Le piante non hanno progettato la duna. Non ne hanno bisogno al fine di farne un dono agli uccelli. Tutto ciò che fanno è semplicemente di crescere. I geni sono egoisti e l’orologiaio è cieco, ma il cammino dell’evoluzione conduce, uno straordinario numero di volte, a qualche ge-

nere di collaborazione, a livello locale. E perché non a livelli superiori? Perché escludere la stessa forma di cooperazione fra le diverse tazze? Secondo la concezione di Lovelock, noi non assistiamo a nulla di più (o di meno) misterioso e miracoloso dell’evoluzio-

ne per selezione naturale a tutti i livelli, dalla evoluzione parallela e reciprocamente necessaria della farfalla e del fiore a quella non meno interdipendente dell’atmosfera e della biosfera. Nella sua teoria, Gaia non contraddice

la tesi darwiniana della selezione naturale; è solo una nuova applicazione della stessa vecchia legge. A una conferenza sull’ipotesi di Gaia svoltasi a San Diego, durante uno dei molti dibattiti che vi si svolgevano, Lovelock

mi sussurrò all’orecchio: « È un fenomeno di selezione naturale... Stai attaccato a quest'idea ». Se è vero, siamo fortunati per il fatto che l’esistenza di Gaia non dipenda dalle sorti di un’unica specie, animale o vegetale. Avvengono sempre incidenti che eliminano qualche specie dalla gara (la media, attraverso le ere geologiche, è di circa una specie ogni anno). Ma esistono milioni di specie e Dio solo sa quanti individui che in ogni momento partecipano alla gara. E quindi a garantire la stabilità di Gaia e a consentirle di affrontare con successo ogni imprevisto. Sono questi i vantaggi della ridondanza. Dopo aver fabbricato il primo “calcolatore a tazze”, Block sperimentò vari metodi per favorire le sue capacità di apprendimento. Per avere un gioco più interessante, suggerì, non si scarti una mossa perdente. Si provi invece ad aggiungere copie della mossa vincente. È proprio il modo in cui Gaia impara, secondo Lovelock e Margulis. Le specie con le carte perdenti si estinguono, mentre.quelle che hanno le carte vincenti proliferano nelle rispettive tazze. In questo modo Gaia affina il proprio gioco. Block si dilettò anche con varianti del Nim nelle quali la strategia vincente è alla portata solo di chi sia esperto nella teoria dei giochi. Egli accertò

226

che le complessità del gioco non significavano proprio nulla per le tazze; il calcolatore apprendeva le strategie vincenti sempre con la stessa prontezza, per un fenomeno di selezione naturale. Block si convinse che con quantitativi sufficienti di tazze e di pazienza sarebbe stato possibile costruire un calcolatore in grado di vincere partite a filetto, a dama e perfino a scacchi. Possiamo immaginare Gaia come una simile macchina di tipo ignoto, formata da una miriade di tazze e dotata di una miriade di carte. Gaia gioca giochi troppo misteriosi e complicati perché si possa capirli. È stata messa alla prova, impara incessantemente da quasi quattro miliardi di anni. Quando voi e io abbiamo incominciato a osservarla, Gaia era già diventata sa-

piente come una divinità... o come un Golem. Se penso a tutte le catastrofi che potrebbero avvenire nelle sette sfere durante i prossimi cent’anni, incomincio a sentirmi come quel personaggio di Washington Irving, il maestro Ichabod Crane, il quale, avendo assorbito il concetto della rotondità del globo, era convinto che gli australiani cammi-

nassero a testa in giù. Era il tipo di insegnante dall’immaginazione troppo fertile il quale spiega ai suoi allievi che il Polo Nord e il Polo Sud potrebbero invertirsi da un momento all’altro, per cui i banchi schizzerebbero verso

il soffitto dell’aula e i cittadini del paese di Sleepy Hollow (“Valle tranquilla”) camminerebbero tutti coi piedi in aria. Se l’equilibrio della natura fosse veramente fragile fino a questo punto, la vita sulla Terra non sarebbe durata a lungo. Anzi, potrebbe non essere mai incominciata. E invece il pianeta Terra si è destato alla vita, e la biosfera ha ormai raggiunto l’età di quasi quattro miliardi di anni. La biosfera è più vecchia delle venti stelle più luminose del cielo notturno. « Gaia dura da miliardi di anni » dice Lovelock. « Ha un’età stellare. È quasi immortale. » Noi vediamo solo frammenti, pezzi delle sette sfere, qualcosa che potremmo visualizzare così:

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Non sappiamo ancora in che modo siano connessi fra loro. Potrebbero anche essere così saldamente concatenati come lo sono i cerchi della bandiera olimpica:

Nessuno conosce la vera forma delle sette sfere, né la disposizione, la geografia dei rapporti che la legano. Che si voglia o no definire la Terra come “viva”, è certo che lo studio del metabolismo globale è una delle grandi frontiere della scienza. Vari biochimici del XX secolo hanno indagato i sentieri che il carbonio percorre entro gli organismi viventi. Sono stati scoperti e descritti cicli di elevata complessità, come il ciclo di Krebs o del metabolismo degli acidi tricarbossilici, e i cicli della fotosintesi alla luce e nell’oscurità. I biochimici hanno identificato grandi catene di composti chimici che come ruote idrauliche girano all’interno delle nostre cellule regolando tutta la nostra energia. La ricostruzione di questa sorta di mulini molecolari ha procurato a più di uno studioso il premio Nobel. È possibile che a una scoperta della stessa, o di maggiore importanza, si giunga nei prossimi decenni grazie alla collaborazione di specialisti di varie discipline volta a mettere in luce il funzionamento delle sette sfere. In quale modo sono collegate? Abbiamo la sensazione, da quello che già riusciamo a vedere, che le concatenazioni siano complesse e di grande bellezza, ma ci restano ancora troppo poco visibili, come una vetrata istoriata che sia vista dall’esterno di una cat-

tedrale. La concezione “gaiana” è ottimistica o pessimistica? È ottimistica dal punto di vista di coloro che privilegiano l’armonia tra le sfere. Porta a credere che vi siano cicli e concatenazioni ancora da scoprire. È ottimistica anche dal punto di vista di Gaia. Porta a credere che la interdipendenza e la ‘collaborazione tra le sfere servirà alla conservazione della vita negli anni difficili che si profilano. Ma la concezione gaiana non offre motivi di ottimismo dal punto di vista di una singola specie che miri a salvare se stessa. Gaia ha la stessa indiffe-

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renza delle stelle al nostro destino. Alla lunga, la biosfera sopravvive sempre, ma non così le specie che la costituiscono, allo stesso modo in cui il no-

stro corpo sopravvive benché le sue cellule seguitino a morire e a rinnovarsi. In pratica tutte le specie che popolavano la Terra sono ora estinte. Talvolta, come si è detto, addirittura la metà delle specie viventi sono scomparse quasi di botto. I prossimi cent’anni potrebbero essere un nuovo periodo del genere. La storia della vita è costellatà di ere glaciali, inverni vulcanici, collisioni con meteoriti, estinzioni in massa. Al momento, è costellata di es-

seri umani. Per la nostra sopravvivenza, la concezione gaiana non ci reca maggior conforto di quella, opposta, dell’ecologo Paul Ehrlich. « La fortuna, la capacità di fare scoperte casuali e benefiche: ecco che cosa ha impedito che andassimo in malora » dice Ehrlich. « Forse siamo una rarità nel cosmo perché chissà quanti altri pianeti viventi sono morti... » In via sperimentale, Lovelock nel suo Mondo delle margherite ha provocato ogni specie di catastrofe. Ha sottoposto alle massime tensioni quel mondo immaginario accrescendo o diminuendo fino a limiti estremi la forza radiante del suo Sole computerizzato. Ha ucciso la massima parte delle sue margherite con una malattia,

o con una mandria di bovini famelici o con

una pioggia di meteoriti. Indipendentemente dalla natura della calamità si- mulata, la conseguenza è sempre la stessa. Il termostato del mondo incomincia a rompersi. La temperatura incomincia a sussultare, a balzare su e giù. i «Tutto questo ricorda le epoche glaciali » dice Lovelock. Rassomiglia molto al frastagliatissimo andamento della temperatura del pianeta negli ultimi tre milioni di anni, nei quali siamo bruscamente passati dal freddo al caldo e dal caldo al freddo oltre cinquanta volte, in rapida successione. Per Lovelock la somiglianza fra il Mondo delle margherite e la Terra è indicativa, e lo induce a temere che noi, esseri umani, possiamo aver scelto proprio il momento sbagliato per attuare il nostro esperimento globale. Quando facciamo scoppiare un’epidemia nel Mondo delle margherite in condizioni di eccessivo calore solare, la temperatura è colta dal ballo di san Vito, ma dopo pochi balzi in su e in giù tutto finisce. La curva della temperatura schizza fuori dai grafici. Tutte le margherite muoiono.

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Il

Il nuovo problema Tutto è cambiato, cambiato totalmente: nasce una terribile bellezza.

WILLIAM BUTLER YEATS, Pasqua 1916

Stiamo compiendo un esperimento altrettanto fatidico di quello che fu fatto mezzo secolo fa presso Alamogordo, nel Nuovo Messico.

Quell’esperimento era chiamato, in codice, “Trinity”. Il suo punto focale era una sfera d’acciaio scherzosamente soprannominata “Il Grassone”, collocata in cima a una torre d’acciaio in un punto chiamato Punto Zero, in una zona del deserto del Nuovo Messico detta fin dai tempi dei conquistadores spagnoli Jornada del Muerto, il Cammino, il Viaggio del Morto. Anche i fisici che avevano costruito la sfera non sapevano che cosa sarebbe successo. In una raccolta di scommesse fatta prima dell’esperimento, Robert Oppenheimer aveva puntato un dollaro su un’esplosione di forza equivalente a quella di 300 tonnellate di tritolo: una stima modesta, come si conveniva a chi aveva la direzione scientifica dell’impresa. George Kistiakowsky puntò sull’equivalente di 1400 tonnellate di TNT, Hans Bethe su 8000 tonnellate, I.I. Rabi su 18.000, Edward Teller su 45.000.

Enrico Fermi si offrì di accettare scommesse sulla probabilità che l’esplosione provocasse l’accensione dell’atmosfera: era una possibilità che non si poteva escludere del tutto. « In questo caso » aveva scritto qualche anno prima, enfaticamente, un fisico « tutto l’idrogeno della Terra potrebbe trasfor-

marsi in un unico istante, e la notizia del successo dell’esperimento sarebbe diffusa in tutto l’universo sotto forma di una nuova stella. » Vi era un solo modo per ridurre il margine di incertezza. Il 16 luglio 1945, in cima a una collinetta sulla Jornada del Muerto, Teller, Bethe e altri ascoltavano, trasmesso sulle onde corte, il conto alla rovescia a 32 chilo-

metri dal Punto Zero. Erano le 5 antimeridiane e faceva ancora buio pesto. Li avevano consigliati di sdraiarsi ventre a terra e di ficcare la testa nella

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sabbia. Ma Teller era deciso, come ebbe a dire poi, «a guardare la bestia negli occhi ». Nell’oscurità, si unse con una lozione antisolare, quindi passò

. il flacone agli altri. A 8 chilometri dal Punto Zero Fermi, Rabi e centinaia di altri scienziati,

tecnici e militari stavano bocconi, con i piedi rivolti in direzione della bomba. Alle 5h 29 min 35 s, la voce di un altoparlante incominciò a scandire gli ultimi dieci secondi. « C’era qualche striatura d’oro a levante » raccontò Rabi in un libro di Richard Rhodes intitolato L'invenzione della bomba atomica « e si incominciava appena a intravedere il proprio vicino. Quei dieci secondi furono certamente i più lunghi della mia vita. » A meno di 3 chilometri da Zero, in un bunker protetto da un terrapieno, Oppenheimer disse: « Dio mio, queste faccende pesano sul cuore! ». Faceva fatica a respirare e si era afferrato a un paletto per reggersi in piedi. Il lampo che illuminò la Jornada del Muerto fu quello prodotto dalla maggiore esplosione che vi fosse mai stata, di potenza equivalente a quella di 18.600 t di tritolo. L'esperimento era stato un successo. Hiroshima e Nagasaki seguirono nel giro di tre settimane. Gli scienziati che studiano i cambiamenti in corso nella atmosfera devono imporsi un’obiettività calma e distaccata. Non possono non lavorare come se fossero a una distanza cosmica, se poi è loro compito mettere l’umanità di fronte a fatti innegabili. Preferiscono artificiose, neutre espressioni come “mutamento globale”, “cambiamento globale” a quella che potrebbero usare di fronte a eventi di questa portata nella stessa storia geologica: “Catastrofe globale”. Sono anche consapevoli che da qualche parte nei loro calcoli potrebbe celarsi un errore (possibilità che esisteva anche nel caso di “Trinity”, anche all’ora X meno 1’’). Da decenni temono di lanciare un grido d’allarme troppo prematuro. Essi stessi non paragonerebbero mai la loro attesa a quella dei fisici della bomba atomica nel deserto del Nuovo Messico. Ciò nonostante, mentre si avvicina la fine di questo secolo travagliato, ci

troviamo in un’altra situazione da conto alla rovescia. Ancora una volta sono convenuti ad assistervi scienziati di tutto il mondo. Ancora una volta, i

calcoli sono stati molti e approfonditi. E ancora una volta non si è perfettamente d’accordo sui risultati: se presto il pianeta Terra diventerà o no più caldo di quanto non sia stato da migliaia, decine di migliaia, milioni o anche decine di milioni di anni. Questa volta non c’è un luogo da poter chiamare Punto Zero. Ogni continente è il Punto Zero; lo è la stessa Terra. Non esiste un momento in cui il

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circuito di innesco sia interrotto. Ha incominciato a stabilirsi molto tempo fa, anche se all’epoca non lo sapevamo. E non c’è un solo momento in cui potremo conoscere il tempo che richiederà la reazione né le dimensioni di questa. Potrebbe seguitare a prepararsi, per uno scoppio di proporzioni praticamente inimmaginabili, per i prossimi mille anni. | Accostare i due conti alla rovescia non deve apparire iperbolico. In realtà, non si può dire quale dei due uscirebbe sminuito dal paragone. John Maddox, direttore di Nature, ha scritto che « evitare un conflitto nucleare

mediante il controllo degli armamenti resterebbe solo una bella frase se si lasciassero fondere gli scarsi resti della calotte glaciali ». Secondo le valutazioni più imodeste in questa nuova scommessa, siamo destinati a mutamenti climatici per lo meno pari per importanza al più grande che si sia verificato dall’inizio stesso della civiltà. La Terra è sulla soglia di sconvolgimenti climatici e di estinzioni in massa quali non si sono avuti dal tempo dei dinosauri. Se non ci autodistruggeremo con la bomba A oppure con la bomba H, non è detto che non lo facciamo con la bomba C, la bomba del Cambiamento globale. In un mondo strettamente connesso in ogni sua parte qual è il nostro, una deflagrazione potrebbe provocarne un’altra. Già nel Medio Oriente, anzi, dall'Africa settentrionale al Golfo Persico e dal Nilo all’Eufrate, le

tensioni internazionali provocate dalle disponibilità di acqua che seguitano a diminuire e dal contemporaneo aumento della popolazione stanno raggiungendo quello che gli esperti chiamano il punto di infiammabilità.. Un cambiamento climatico in quella regione già tormentata da tante guerre potrebbe provocare reazioni tali da portare all’impiego di qualcuno dei 60.000 ordigni nucleari che il mondo è venuto accumulando dall’epoca di “Trinity”. Nessuno vuol dire che accadrà il peggio, ma solo che potrebbe accadere. Non è detto che debba, ma noi stiamo rafforzando l’innesco ogni anno con

cariche di carbonio che si misurano in gigaton. Il nome in codice “Trinity” (Trinità) si ispirava a una poesia di John Donne (“Colpisci il mio cuore, Dio trino...”’). Non disponiamo di un nome adatto per il nostro esperimento, in cui una delle sfere planetarie mette alla prova la stabilità di tutte e sette. Ho paragonato questo sommovimento geologico a un vulcano, e ad Atropo, la parca della mitologia classica che recideva il filo della vita degli uomini. Ma più si viene a conoscere delle dimensioni e della aleatorietà dell’esito di questo esperimento, più si è portati a pensare ad Alamogordo. In realtà, esso ha preso avvio a metà del Settecento, con Black, Watt e la Rivoluzione Industriale. Per alcuni degli specialisti di scienze della Terra, il

conto alla rovescia è incominciato nel marzo del 1958, quando Keeling ini-

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ziò le sue misurazioni dell’anidride carbonica dal vulcano Mauna Loa. Per la maggioranza della gente è incominciato esattamente a trent'anni da quella data, con i primi caldi del 1988. Quell’anno - come molto tempo prima con ben altro spirito, e in ben altre condizioni climatiche, aveva scritto Thoreau: « Mi ridestai allora di fronte a una domanda ch aveva ricevuto già risposta » — ci si è resi conto della situazione. Oggi sappiamo che le incertezze resteranno grandi e numerose. Ci sarebbe un solo metodo per eliminarle, quello dei fisici nel deserto del Nuovo Messico. I fisici ebbero la risposta che attendevano nel giro di pochi secondi, mentre la nostra richiederà millenni per completarsi. Come nella Jornada del Muerto, però, anche se quello che vedremo non ci piacerà non potremo far marcia indietro. A molti, questo metodo per dissipare le incertezze sembra oggi inaccettabile. Siamo di fronte al più terrificante conto alla rovescia da quando Oppenheimer restò col fiato sospeso ad Alamogordo. Dopo l’estate del 1988, il problema di gran lunga più importante è diventato: come trovare il modo di fermare l’esperimento in corso? Non: c’è qualcosa da temere? Non: quanto gravi saranno le conseguenze? La domanda è una sola: che cosa dobbiamo fare? Quell’estate il mondo ha incominciato a tentare di rispondervi. Già nel 1988, una settimana dopo la drammatica testimonianza resa da James Hansen a Washington, delegati di quasi cinquanta Paesi si riunirono in Canada,

a Toronto. Erano presenti famosi climatologi, insieme a esponenti politici fra cui Brian Mulroney, primo ministro del Canada, e Gro Harlem Brundtland, primo ministro della Norvegia, impegnati a discutere in quale modo si possa riportare sotto controllo la temperatura della Terra. Era la prima conferenza internazionale sui mutamenti dell’atmosfera. L’autunno successivo, a Ginevra, i delegati tornarono a incontrarsi e die-

dero vita a una Commissione Consultiva Internazionale sul Cambiamento Climatico. Alcune delle persone che ne facevano parte rappresentavano quei Paesi che contribuiscono di gran lunga più degli altri all’effetto serra: tra essi gli USA, l'URSS, la Cina e il Brasile. Altre provenivano da comunità quasi del tutto innocenti al riguardo e che hanno invece molto da perdere da un aggravamento della situazione, come Malta e le Maldive. Insieme,

quelle persone incominciarono ad abbozzare un piano d’azione globale. Dati gli enormi ostacoli politici che si frapporrebbero alla realizzazione di un piano del genere, alcuni dei Paesi nominati possono aver tentato di “insabbiare in commissione” il problema in attesa che l’attenzione del mondo si volgesse ad altri argomenti. L’unico risultato certo di discussioni del

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genere è l’emissione di anidride carbonica col fiato degli oratori. Pur tuttavia, grazie a quella fitta serie di incontri, le nazioni del mondo riconobbero almeno le proporzioni della minaccia. Come dicono i Cinesi, anche un viaggio di mille miglia deve cominciare con un solo passo. Il primo passo era stato fatto. E quel passo mise in moto le cose. Prima della fine dell’autunno del 1988, almeno quindici incontri internazionali ad alto livello sull’effetto ser-

ra erano stati programmati per l’anno successivo. Le trattative per il disarmo in quel periodo stavano facendo notevoli progressi; a un certo punto si giunse a pensare che le trattative per la limitazione delle emissioni di anidride carbonica potessero affiancarle o magari accaparrarsi il primo posto nella pista principale del circo viaggiante della diplomazia internazionale. (Nell’un caso e nell’altro, sarebbe stata in discussione la sopravvivenza del

pianeta.) Un veterano dell’ambientalismo, lo studioso Michael Oppenheimer, del Fondo per la Difesa Ambientale, ha scritto: « Non è esagerato dire

che quello dell’ambiente globale può diventare il problema dominante per i prossimi quarant’anni, allo stesso modo in cui la guerra fredda ha determinato la nostra visione del mondo nei quarant’anni trascorsi ». Le prospettive planetarie appaiono pressappoco come nel grafico che segue. Nei prossimi cent'anni, la febbre della Terra può salire secondo l’andamento di una di queste tre curve:

La curva più ripida mostra quello che potrà avvenire se gli uomini divorano le risorse naturali a un ritmo sempre più accelerato. Supponiamo di immettere nell’atmosfera l’anno prossimo una quantità di carbonio maggiore di quella che vi immettiamo quest'anno. Supponiamo di fare la stessa cosa anche l’anno dopo, e via di seguito, accrescendo continuamente il tonnel-

laggio dei gas a effetto serra emessi. E supponiamo che il clima del pianeta

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si riveli estremamente sensibile a questo aumento. In tal caso, secondo una delle stime oggi correnti, la temperatura globale potrebbe salire, nel prossimo secolo, di ben 16 °C. Per l'Inferno da questa parte, signori! Supponiamo invece che si emettano nell’atmosera le stesse quantità di carbonio di quest'anno l’anno prossimo e tutti gli anni che verranno per un secolo intero. È lo scenario raffigurato graficamente dalla curva media: si va avanti come al solito.* Supponiamo di procedere come adesso, e che il clima mostri una sensibilità modica. In questo caso la temperatura del pianeta può aumentare da 3 a 8 °C. Nessuno sa se la sfera umana sia in grado di sopravvivere a un aumento della temperatura globale di 3 °C, ma certo un aumento di 8 °C avrebbe agli stessi effetti di uno di 16 °C. Potrebbe es-

| sere un’altra strada per l’Inferno. La linea inferiore mostra che cosa può accadere se facciamo marcia indietro. Supponiamo che la nostra specie immetta annualmente nell’atmosfera una quantità sempre minore di carbonio, riducendola fino a 2,5 megaton,

cioè circa la metà di quella con cui la stiamo caricando attualmente. E supponiamo anche di essere molto fortunati, cioè che il clima globale si riveli

relativamente stabile e insensibile all’offesa che già gli recheremmo con 2,5 gigaton di carbonio. Ne deriverebbe pur sempre un aumento, nei prossimi cent’anni, compreso tra 1,5 e 4,5 °C.

Va da sé che un aumento anche di 3 °C è una prospettiva tutt’altro che allettante. Sarebbe pur sempre il triplo dell’innalzamento globale della temperatura che si è accompagnato alle ondate di calore e alle siccità degli anni Ottanta. Sarebbe quindi una fortuna soltanto relativa. La differenza tra l’ipotesi più favorevole e la più sfavorevole è di circa 15 °C. Per la nostra e per milioni di altre specie, significherebbe la differenza tra sopravvivere ed estinguersi. Per prendere il più sicuro di questi sentieri, il mondo deve tagliare la produzione di carbonio. Ogni anno dobbiamo riuscire a emettere meno carbonio dell’anno precedente. La sfera umana ha già fatto qualcosa di simile in tempi non certo lontani. Quando nel 1973 l’OPEC, il cartello dei maggiori Paesi petroliferi, provocò una crisi energetica internazionale incominciando col bloccare le forniture di greggio dei Paesi arabi, il petrolio incominciò a salire vertiginosamente di prezzo. In dieci anni passò da meno di 10 a quasi 40 dollari al barile. * Andare avanti come al solito presuppone che l’anidride carbonica aumenti al ritmo attuale. Ma vi

sono altri gas, come il metano e gli ossidi di azoto, le cui emissioni stanno aumentando rapidamente. Andare avanti come al solito significa che aumenteranno anche più rapidamente.

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Le conseguenze non furono subito evidenti, perché la forza d’inerzia del nostro mondo consumistico è grande. Alla fine tuttavia, il comportamento di un solo consorzio di produttori influì sul nostro con la insostenibilità di un evento geologico. Bruciammo meno petrolio in misura tale che incominciammo a ridurre la quantità totale di carbonio emessa ogni anno nell’atmosfera. Nel 1973, l’anno dell’embargo, e nel 1974 la quantità fu ancora superiore a quella dell’anno prima, ma negli anni-che seguirono cominciò a essere quasi costantemente inferiore. Può non sembrare gran che, ma il cartello petrolifero fece quello che una grande depressione economica e due guerre mondiali non erano riuscite a fare. Per quattro anni consecutivi, il mondo bruciò meno carbonio dell’an-

no precedente. Il caropetrolio costrinse la gente, in gran parte del mondo, a cercare il modo di produrre di più usando meno combustibile. Le industrie impararono a ricavare più calore, più luce, o una maggiore distanza percorsa, da ogni goccia di petrolio. E anche la popolazione trovò la strada del risparmio energetico nelle case. Diversamente dai tempi della Grande Crisi e delle due guerre mondiali, il periodo della penuria di petrolio non fu, tutto sommato, brutto. L'efficienza

e la produttività di molte imprese aumentò tanto che si registrò una continua espansione economica nonostante la diminuzione dei consumi energetici. L’economia degli Stati Uniti crebbe quasi del 40 per cento, producendo più beni e servizi con quantità sempre più ridotte di petrolio. Oggi, grazie alle misure e ai metodi per ottenere una maggiore efficienza energetica, gli Stati Uniti risparmiano circa 160 miliardi di dollari l’anno su una spesa annua di 430 miliardi di dollari per gli approvvigionamenti di combustibili. I Giapponesi hanno escogitato migliori tecniche per il risparmio energetico che non gli Stati Uniti o l'Europa occidentale, procurandosi così un’arma segreta nella battaglia per i mercati mondiali. Produrre in Giappone e in altri Paesi asiatici costa meno anche perché il consumo di petrolio o carbone o gas naturale per unità di prodotto è minore. Secondo un analista americano, questo fattore, da solo, « dà ai Giapponesi un margine di competitività di circa il 5 per cento su ogni prodotto che vendono ». Il prezzo del petrolio incominciò a ridiscendere nei primi anni Ottanta, e alla fine di questi ci eravamo rimessi a bruciare ogni anno una quantità di carbonio maggiore. (« Abbiamo recuperato », dice con ironia amara un esperto di effetto serra.) Ma quella serie di quattro anni di emissioni di carbonio in continuo calo è un segno molto incoraggiante. Se il mondo risponderà al riscaldamento globale come ha risposto all’OPEC, potremo evitare il peggio.

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Come fanno notare gli esperti, ulteriori iniziative per promuovere il risparmio e l’efficienza nei consumi di energia darebbero buoni frutti anche senza tener conto della minaccia climatica. Analisti economici del Worldwatch Institute affermano che gli Americani potrebbero ridurre i consumi energetici di un altro 50 per cento, e in ugual misura le emissioni di anidride carbonica, risparmiando altri 200 miliardi di dollari l’anno, il tutto senza

dover fare grossi sacrifici. Le autovetture americane, solo per fare un esempio, scaricano nell’atmo-

sfera miliardi di tonnellate (gigaton) di carbonio. E tuttavia negli Stati Uniti le tasse sulla benzina sono scandalosamente basse se confrontate a quelle esistenti in altri Paesi industriali. Mantenendo così modeste le tasse sui carburanti, le autorità americane incoraggiano gli sprechi e contribuiscono ad alimentare l’effetto serra. Il consumo standard di carburante per chilometro percorso, negli Stati Uniti, è un altro scandalo. Nel 1975, nel pieno della crisi petrolifera, il governo diede all’industria automobilistica dieci anni di tempo per migliorare il rendimento medio dei suoi motori portandolo da 14 a 27,5 miglia per gallone, cioè da 4,9 a 10,5 km/l. Quando i prezzi dei prodotti petroliferi negli anni Ottanta tornarono

ad abbassarsi,

il governo abbassò nuovamente

lo

standard chilometrico medio richiesto per litro di carburante. Gli esperti dell’Ente per la Protezione dell’ Ambiente nel settore dei trasporti sostengono che lo standard del rendimento chilometrico per litro di carburante potrebbe ragionevolmente essere portato a oltre 14 chilometri. Nel frattempo, ogni volta che giriamo la chiavetta di accensione della macchina spostiamo verso l'alto il punto di funzionamento richiesto al termostato planetario. Vi sono anche vaste possibilità di ridurre i consumi domestici. Durante la crisi energetica, il presidente Carter dichiarò «l’equivalente morale della guerra » allo spreco di energia. Nella strategia del conflitto rientravano notevoli sgravi fiscali per chi avesse provveduto a migliorare l'isolamento termico delle abitazioni. Il programma funzionò, e ne beneficiarono i proprietari di casa, l’atmosfera, il clima e il bilancio federale. Un recente rapporto

dell’E.P.A. raccomanda che il governo ripristini il programma, con l’obiettivo di ridurre della metà il fabbisogno di combustibile per il riscaldamento delle abitazioni rispetto a quello del 1980. Il frigorifero è l’elettrodomestico che mediamente consuma la maggiore quantità di energia elettrica nelle case degli Americani. Si potrebbe aumentarne di molto l’efficienza. I normali frigoriferi giapponesi sono disegnati meglio, al punto che consumano la metà rispetto a quelli americani. (Sono anche molto più piccoli, occorre dirlo. Il tipico frigorifero americano po-

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trebbe infatti addirittura bastare per le esigenze di un piccolo ristorante.) La sostituzione di tutte le vecchie lampade elettriche fluorescenti degli Stati Uniti con un nuovo tipo di lampada a luce più fredda, e più efficiente (già disponibile sul mercato) farebbe risparmiare al Paese un cospicuo giacimento di petrolio ogni vent’anni. E sostituire le lampadine è più semplice e più sicuro per l’ambiente che non pompare il petrolio dall’ Alaska. Vi sono nuove tecniche che sottraggono un’arma all’effetto serra. Ricercatori del National Lighting Laboratory di Berkeley, in California, rivestono una delle superfici delle finestre a doppi o tripli vetri con diossido di stagno. Il rivestimento lascia filtrare nei due sensi la luce visibile, mentre fa rimbalzare all’interno della stanza i raggi infrarossi. Se toccate i vetri, sono caldi come le pareti. La stessa lezione vale per tutto il mondo. Il Brasile, per esempio, sta progettando la costruzione di un centinaio di grandi dighe per centrali idroelettriche, allo scopo di fornire energia a metropoli in grande espansione, come San Paolo e Rio de Janeiro. Ben settanta delle nuove dighe sorgeranno, stando ai piani, nel bacino del Rio delle Amazzoni. Qui, essendo lentissimo, a causa del terreno piatto, il deflusso delle acqua, in passato sono stati

inondati vasti territori per produrre modeste quantità di energia elettrica. Il lago della diga di Balbina sommerse oltre 2300 chilometri quadrati di foresta pluviale per soddisfare all’incirca la metà del fabbisogno di elettricità della città di Manaus. Talvolta, nota

Jessica Tuchman Matthews del World Resources Institute,

che si occupa di tutte le risorse mondiali, «la povertà è causa di grandi sprechi di energia quanto lo è la grande ricchezza ». Se il Brasile investisse 4 miliardi di dollari nella produzione di frigoriferi, apparecchiature per l’illuminazione e motori a miglior rendimento, rispamierebbe abbastanza energia da poter fare a meno di costruire 21 grandi centrali idro- o termoelettriche. E risparmierebbe una cifra pari a 19 miliardi di dollari da qui al 2000. Il Brasile, però, prevede che nel giro di vent'anni la sua popolazione aumenterà di 60 milioni di persone, arrivando a superare quota 200 milioni. Questa prospettiva è assillante per i pianificatori economici del Paese, ed è a causa di ciò che vogliono le dighe. La pressione demografica rende il compito di ridurre i consumi energetici più complicato e più doloroso. I dilemmi di carattere morale, politico e religioso che ci si parano davanti ci fanno stringere il cuore. Ogni anno abbiamo sul pianeta ottanta milioni di persone in più; ogni decennio, un’altra India. La demografia è una delle scienze le cui previsioni sono più affidabili,

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e queste previsioni sono che le dimensioni della sfera umana si raddoppieranno nei prossimi cent’anni. Se si esclude una catastrofe globale (eventualità che esula dal campo di studio della demografia), il pianeta Terra da qui a un secolo porterà in orbita attorno al Sole dieci miliardi di esseri umani. Secondo gli studiosi, a quell’epoca almeno otto decimi di essi vivranno in Paesi che già stentano a sfamare la popolazione attuale. Saranno proprio i Paesi più poveri del mondo, più malnutriti, più afflitti dal problema degli alloggi, politicamente più instabili, quelli che vedranno raddoppiare la loro popolazione entro circa venticinque anni. In Asia: Bangladesh, Pakistan, Filippine e Vietnam. Nel Vicino e Medio Oriente: Egitto, Giordania e Siria. In America Latina: Nicaragua, Guatemala, Ecuador, Paraguay e, nell’area caribica, Haiti.

El Salvador,

Honduras,

In Africa, quasi metà della popolazione è al di sotto dei 15 anni. Con tanti Africani che stanno entrando proprio nell’età fertile la popolazione di tutto il continente — il più povero del mondo — aumenterà in misura superiore al 100 per cento entro il 2000. Ripetiamo, le previsioni dei demografi non tengono conto di eventuali guerre, carestie, pestilenze o del possibile caos globale. Data la accertata sensibilità delle varie sfere, sembra più opportuno parlare di dieci miliardi di uomini su questo pianeta al condizionale. Poiché molto tempo prima di raggiungere una popolazione di dieci miliardi, quasi tutti gli abitanti della Terra vivrebbero in condizioni “marginali”, precarie. Quando il pianeta sarà così densamente popolato, anche il pericolo costituito dai terremoti si aggraverà. Non che all’aumento della popolazione debba corrispondere un aumento del numero dei terremoti. La litosfera è ancora al di fuori del nostro controllo. Ma l’esplosione demografica avrà conseguenze sorprendenti per quel che riguarda il numero di persone esposte agli effetti dei terremoti. Roger Bilham, un geologo dell’Università del Colorado, fa rilevare che entro l’anno 2000 vi saranno cento città con popolazione superiore a 2 milioni di abitanti, e che per puro caso quasi metà di queste città è situata in zone in cui le zolle della crosta terrestre, coi loro spostamenti, possono provocare terremoti. « Sembra » avvertiva Bilham nel 1988 « che entro la fine del secolo 290 milioni di abitanti delle ‘supercittà’, 1’80 per cento dei quali in Paesi in via di sviluppo, vivranno in zone a rischio sismico più o meno elevato. » In realtà, tanta parte della popolazione è venuta raggruppandosi lungo le linee di faglia della crosta terrestre che il numero di coloro i quali correranno il pericolo di morire a causa di un terremoto si raddoppierà entro il 2035. (È un’oscura coincidenza il fatto che, nella sfera umana e nella lito-

sfera, tensione e frizioni si stiano concentrando negli stessi “focolai”’).

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Pericoli anche più gravi scaturiranno da mutamenti neli’atmosfera. Più saremo, più la modificheremo. È una verità che sta scritta nelle stesse calot-

te glaciali. Paragoniamo la crescita della popolazione mondiale, secondo i dati demografici, e la crescita del metano registrata dalle calotte glaciali. Le due curve salgono in parallelo da seicento anni, fin dagli albori del Rinascimento. La linea piena rappresenta l'andamento della popolazione, i punti quello del metano:

Perché questa esplosione contemporanea del numero degli esseri umani e di quelli delle molecole di metano presenti nell’aria? Perché gli esseri umani generano metano attraverso i disturbi che in vario modo provocano nella biosfera. Ogni nuova risaia in Cina, ogni albero abbattuto in Francia, ogni vacca e ogni capra in India, o la discarica di rifiuti in Messico, o una piccola fuga di gas da un metanodotto nel Texas, immette metano nell’atmosfera. Il metano è un prodotto del progresso quasi altrettanto universalmente diffuso quanto lo è l’anidride carbonica. Gli uomini sono causa dell’effetto metano, e il metano è una delle cause dell’effetto serra. Quindi gli uomini,

indirettamente, provocano l’effetto serra. Se il numero delle persone seguiterà a crescere, la stessa cosa faranno i gas da effetto serra, nonché la temperatura del pianeta. Per non parlare del dilavamento dei milioni di tonellate di suolo che finiranno in mare, dei milioni di ettari che diventeranno deserto, del gran numero di specie che andrà

perduto per sempre. Se non siamo capaci di regolare il nostro impatto sul pianeta adesso, come possiamo esserlo diventando molto più numerosi? Possiamo disinnescare la Bomba del Cambiamento quando la Bomba demografica sta esplodendo? ‘Possiamo ridurre la produzione di carbonio mentre raddoppiamo le dimensioni della sfera umana? Si pensi agli Stati Uniti, che hanno già assistito alla più impressionante

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esplosione demografica della storia, passando da una popolazione di 18 milioni di persone nel 1750 ai 250 milioni di oggi: un aumento del 3550 per cento. Nei prossimi cent'anni la popolazione degli Stati Uniti salirà fin quasi a 300 milioni di abitanti. E ai ritmi attuali, come si è detto, ogni americano immette nell’aria circa 5 tonnellate di carbonio all’anno. Vi sono alcuni economisti i quali ritengono che l’incremento demografico del Paese sia troppo lento. Ma 300 milioni di persone che consumino risorse con la rapidità degli Americani di oggi produrrebbero annualmente 1,5 miliardi di tonnellate di carbonio. Il che significa che fra cent'anni gli Stati Uniti, da soli,

immetterebbero nell’aria più della metà del quantitativo di gas da effetto serra del mondo intero. Qualcosa deve cedere; il pianeta non può permettersi un così gran numero di consumatori americani. Quest’argomento non è solo difficile da trattare; in molti Paesi è intocca-

bile per varie ragioni. Ma se non lo affronteremo non riusciremo a evitare l’esplosione che si profila ormai imminente. Non sono pochi quelli secondo i quali la pianificazione familiare è qualcosa di quanto meno innaturale. Ma allora sono innaturali anche i fattori che alimentano l’esplosione demografica, come faceva osservare già nel 1954, quando la popolazione mondiale era di 2 miliardi e 600 milioni di persone, Harrison Brown nel libro 7he Challenge of Man's Future. « Coloro che sostengono che non si deve ricorrere al controllo delle nascite perché è una cosa contro natura sarebbero molto più convincenti » scriveva Brown « se sostenessero che è simultaneamente necessaria l’eliminazione di tutti gli indumenti, degli antisettici, degli antibiotici, dei vaccini, e degli ospedali, insieme a quella di tutte le tecniche artificiali che mettono l’uomo in grado di trarre alimenti dal terreno. » O noi rallenteremo la crescita della popolazione attraverso la regolazione del nostro tasso di natalità, o vi provvederanno le altre sfere della Terra re-

golando il nostro tasso di mortalità. Pensate alle popolazioni del Bangladesh e delle Maldive. Entrambe fra trent'anni saranno il doppio di adesso. Allora, se il livello del mare crescerà come predicono alcuni modelli matematici, sia il Bangladesh sia le Maldive incominceranno a cedere terra al mare.

Prima della fine del prossimo secolo decine di milioni di persone potrebbero essere costrette a fuggire dal Bangladesh, e le duemila piccole isole delle Maldive potrebbero scomparire dalle carte geografiche. (Il presidente delle Maldive definisce l'arcipelago « una nazione in pericolo »). Come si sa, volere è potere. È sbalorditivo vedere che cosa si può riuscire a fare. Il Giappone ha dimezzato il proprio tasso annuo di accrescimento della popolazione nel giro di un lustro, più o meno, ossia nella prima metà degli anni Cinquanta. La Cina è riuscita nello stesso intento a un ventennio

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di distanza. I due Paesi sono molto diversi l’uno dall’altro e hanno seguito tattiche diverse; comunque, entrambi sono molto popolosi, ed entrambi si sono tolti d’impaccio. Se la sfera umana vuole ridurre la produzione di carbonio dovrà fare come Cina e Giappone, Paese per Paese, ciascuno con i metodi più appropriati. Nessuno può sapere se lo faremo, ma in verità non abbiamo alternative accettabili. Scrive Lester Brown, direttore del Worldwatch Institute: « È difficile immagine qualcosa di più duro... tranne le conseguenze che ce ne deriveranno se mancheremo di farlo ». C’è un’immagine anche troppo usata negli scritti divulgativi sull’effetto serra: vi si vede la statua della Libertà che sprofonda nelle acque marine, mentre regge la sua fiaccola sopra il pelo dell’acqua. Questo simbolo di un fenomeno che ci minaccia è l’esagerazione di un artista, certo. Il livello ma-

rino dovrebbe sollevarsi di oltre 90 metri per sommergere la fiaccola di “Miss Liberty”. Tuttavia illustra in modo più appropriato di quanto crediamo una minaccia reale. Basterebbe che il livello marino si alzasse di 30 centimetri per provocare una marea di profughi. Assai prima di lambire le caviglie della statua, le acque avrebbero spento il suo tradizionale benevenuto “alle genti povere e stanche di tutto il mondo”. Se i mari sommergono il Bangladesh e risalgono la valle del Nilo, dove andrà tutta la schiera di fuggiaschi che si sarà formata nel frattempo? Chi li accoglierà? Negli anni Ottanta il numero dei rifugiati è salito nel mondo da 5 a oltre 14 milioni. Si sono incominciate a chiudere le porte dei Paesi più fortunati, compresi gli Stati Uniti, dove i funzionari parlano di “stress da compassione”. Un mondo fisicamente più caldo non sarebbe necessariamente un mondo dotato di maggior calore umano. Immaginiamo che domani la nostra specie vinca alla lotteria. Immaginiamo di trovare qualche mirabolante soluzione tecnica che metta a nostra disposizione illimitate quantità di energia “pulita” e senza alcuna scoria dannosa. Anche in quel caso, dovremmo applicare i sistemi radicali di contenimento della popolazione almeno per un altro cinquantennio. La storia ci insegna che occorre circa mezzo secolo per passare da una fonte di energia a un’altra. È stato necessario un periodo di questo genere per passare dalla legna al carbone e poi dal carbone al petrolio, e altrettanto tempo ci vorrebbe, ad esempio, per fare uscire l’energia derivante dalla fusione nucleare dal chiuso dei laboratori e portarla al centro delle reti di produzione di energia di tutto il mondo. La storia non è stata benevola verso le nuove e “miracolose” tecnologie

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che promettevano energia pulita e senza rifiuti. L’automobile fu accolta agli inizi del XX secolo come la salvatrice delle città, perché avrebbe posto fine ‘ all’inquinamento dovuto alla polvere satura di frammenti delle deiezioni dei cavalli. L’energia nucleare, alla metà del secolo, fu salutata come quella che avrebbe messo fine a tutte le forme di inquinamento. La rigida artimetica dell’energia e della popolazione varrebbe per un mondo che si affidasse a qualsiasi nuova tecnologia, anche quelle che nella fantasia dei moderni “futuristi” godono del maggior favore e ispirano una fede utopistica: l’energia da fusione, l’energia solare, le microonde, i laser che da satelliti nello spazio riversano sulla Terra fasci di radiazioni energetiche. Non cambierebbe nulla: dieci miliardi di persone che vivessero sugli standard degli Statunitensi produrrebbero comunque troppi rifiuti, troppe sostanze inquinanti. Nulla avrà altrettanta efficacia per la salvezza del pianeta quanto il nostro autocontrollo. Esistono, tuttavia, fonti di energia che hanno un effetto serra minore di altre. L’energia solare, l’enegia eolica, le centrali idroelettriche e geotermoelettriche non producono anidride carbonica. Il metano immette meno carbonio nell’atmosfera che non il carbone e il petrolio. Dalle piante si può ricavare il metanolo o alcol metilico, utilizzabile in un motore diesel opportunamente modificato, che produce meno anidride carbonica e meno ozono del metano. Naturalmente, le fonti energetiche alternative generano anche problemi alternativi. Fra i sottoprodotti del metanolo vi è la formaldeide, che ad alte dosi serve per conservare i tessuti morti, e a basse dosi è cancerogena. Quindi il passaggio al metanolo come combustibile richiede un convertitore catalitico che catturi la formaldeide evitando che si scarichi nell’aria. Le centrali nucleari non producono anidride carbonica. In compenso producono altre scorie fra cui plutonio, stronzio, cesio, isotopi dell’uranio. La radioattività di queste scorie non scomparirà completamente per circa 10.000 anni: all’incirca il tempo per cui la nostra anidride carbonica resterà sospesa nell’atmosfera. Nessuno è stato ancora capace di immaginare come si possano eliminare le scorie radioattive, così come non si è ancora trovato modo di eliminare l’anidride carbonica. Non si può gettare il plutonio in un bidone dei rifiuti. Ne basta un milionesimo di grammo per provocare un tumore al polmone. Così le pericolose scorie si vanno accumulando in “vasche di raffreddamento” provvisorie accanto a ogni reattore nucleare degli Stati Uniti (e di altri Paesi), e questo fin da quando è incominciata l’èra nucleare. Le vasche di raffreddamento sono sovraccariche e molte di esse rischiano di diventare

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“calde”. L'industria nucleare è alle prese con il problema dello smaltimento dei rifiuti. L’unico posto che potrebbe essere geologicamente abbastanza robusto e politicamente abbastanza debole per servire da ricettacolo delle scorie radioattive di tutti gli Stati Uniti è il Monte Yucca, nello stato del Nevada (popolazione:

1 milione di persone, molte delle quali infuriate).* Lì sotto, le

scorie potrebbero essere raccolte e depositate in 180 chilometri di galleria, un labirinto di lunghezza appena inferiore a quella della rete metropolitana di New York. Dal punto di vista del Congresso, sarebbe la soluzione ideale,

anche perché il Monte Yucca sorge in mezzo a un ex poligono per la sperimentazione di armi nucleari, il Nevada Test Site, un pezzetto di Terra al

quale abbiamo già dato l’addio per sempre. Il governo americano è assillato dall’urgenza di reperire una “discarica” per le scorie dell’industria nucleare, e sembra certo che la scelta del Monte Yucca stia per ricevere il sigillo ufficiale da parte di Washington. Entro dieci anni il sigillo potrebbe essere apposto definitivamente, ogni dubbio represso con fermezza e il piano di immagazzinamento in corso di realizzazione. Eppure verso la fine degli anni Ottanta diciassette scienziati e tecnici dell’U.S. Geological Survey, l’ente per i rilevamenti geologici degli Stati Uniti, incaricati di compiere una valutazione del Monte Yucca come possibile “bidone dei rifiuti” per le scorie, firmarono una lettera di protesta formale e la inviarono al Dipartimento per l’Energia, denunciando il fatto.che le pressioni politiche minacciavano di rendere la loro relazione “scientificamente indifendibile”. Un idrologo alle dipendenze del governo disse a un giornalista del periodico Discover: « Non ho mai visto la Geological Survey in un tale pasticcio prima d’ora ». Questi sono i fatti che probabilmente verranno dimenticati nei prossimi dieci anni: il Monte Yucca è circondato da faglie, ivi inclusa quella del

Canyon Solitario. Dal 1857 in qua sono stati registrati otto terremoti di forte intensità entro un raggio di 400 chilometri dal Monte Yucca. Nessuno può garantire che questo non faccia la fine di un suo vicino situato ad appena 8 chilometri di distanza, il Busted Butte, che è esploso in epoca non nota, spaccandosi in due. La posizione, inoltre, è circondata da vulcani, alcuni dei quali geologica-

* Grant Sawyer, presidente della commissione per lo smaltimento delle scorie nucleari e già governatore del Nevada, ha affermato che produrre altre scorie nucleari « è come mandare un altro John Glenn in orbita senza sapere come riportarlo a terra ».

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mente giovani e forse non ancora spenti. Nel 1988, uno dei geologi governativi valutò in circa 5000 anni l’età di uno di essi, Lathrop Wells, che dista

meno di 20 chilometri dal Monte Yucca. Quello che è accaduto, dicono i geologi, può accadere ancora. Un giorno o l’altro, eruzioni o terremoti potrebbero far schizzare fuori il contenuto del bidone dei rifiuti. Se questi saranno ancora “caldi”, avremo così riversato 63.500 tonnellate di materiale radioattivo in grembo al futuro: un bel regalo da parte del passato! Nell’esperimento in corso nell’atmosfera, quello che non è mai accaduto può accadere. In teoria, ci si aspetterebbe che gli scienziati incaricati di valutare le possibilità di usare il Monte Yucca fossero in grado di prevedere l’evoluzione delle condizioni atmosferiche locali nei prossimi 10.000 anni. Oggi come oggi, il deserto riceve solo da 75 a 150 millimetri di pioggia all’anno il che è bene, perché se l’acqua filtrasse troppo in profondità, le scorie radioattive potrebbero filtrare con esse fino a raggiungere la falda acquifera, o quest’ultima potrebbe sollevarsi fino a raggiungere le scorie. Data l’assoluta imprevedibilità del tempo anche per i prossimi pochi secoli, nessuno scommetterebbe un dollaro su una previsine per 10.000 anni, neanche nello stato dove si trova Las Vegas. Niente di tutto quanto abbiamo detto è colpa dei geologi. Dati tutti gli elementi che entrano in gioco nella vita del pianeta, l’ingegnosità umana può non riuscire mai a creare un’EcoSfera ermeticamente sigillata con una durata garantita di 10.000 anni. La natura aborre il vuoto, e alla lunga la natura aborre le EcoSfere. Mentre avevano allo studio l’iniziativa del Monte Yucca, i funzionari del Dipartimento dell’Energia avevano progettato di accumulare le scorie nucleari liquide prodotte nei reattori ad uso militare in profonde grotte di salgemma presso Carlsbad, nel Nuovo Messico. I rapporti dei geologi governativi davano garanzie di sicurezza assoluta. Ma poco prima che il Dipartimento stesse per rendere operativo il progetto, i funzionari scoprirono con orrore che le pareti delle grotte trasudavano acqua in un fitto stillicidio, e che i fusti di rifiuti pericolosi sarebbero potuti finire entro pozze di un liquido salino e corrosivo. Un cartello appeso sopra una delle gallerie del Monte Yucca dice: NON RICONOSCIAMO ALCUN SOSTITUTO PER LA SICUREZZA. COMPLESSO GALLERIA G

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Sul cartello potrebbe anche esserci scritto: non riconosciamo alcun sostituto per il Monte Yucca. Finché seguiteremo ad aumentare di numero e a consumare energia in quantità sempre crescenti, saremo costretti a fare scommesse. Come linea guida del nostro comportamento, dovremmo respingere le scelte che ci impongono delle scommesse. Per l’energia che risparmiamo non dobbiamo pagare niente. Per quella che consumiamo, in combustibili fossili o nucleari, siamo chiamati a pagare un prezzo sostanzialmente incalcolabile.

Nel 1976, il fisico Freeman Dyson escogitò un modo per risolvere il problema dell’effetto serra. Stava trascorrendo l’estate all’Istituto di Analisi dell’Energia di Oak Ridge, nel Tennessee, dove era stato invitato per “pensare in grande”. Dyson, e numerosi altri scienziati con lui, si posero il problema: « Che cosa occorrerebbe per eliminare cinque miliardi di tonnellate di carbonio, sotto forma di anidride carbonica, ogni anno per il tempo necessario affinché la società potesse sottrarsi alla dipendenza dai combustibili fossili? ». Dopo aver molto ponderato, gli scienziati giunsero alla conclusione che il metodo più semplice sarebbe quello di piantare alberi. Nel processo di respirazione del pianeta, gli alberi assorbono carbonio dall’aria attraverso la fotosintesi clorofilliana. Piantate una quercia e sottrarrete carbonio all’atmosfera fissandolo nel terreno per un secolo.* Al termine di un’intera estate di calcoli, Dyson dichiarò: « Non sembra esistere

alcuna legge fisica o ecologica che ci impedirebbe, in capo a pochi-anni se necessario, di adottare misure atte a fermare o a invertire la marcia dell’anidride carbonica atmosferica ». Dieci anni dopo, il Dipartimento dell’Energia chiese a Gregg Marland (già collega di Dyson all’Istituto di Oak Ridge) di riesaminare l’idea. I calcoli di Marland sono, per così dire, a doppio taglio. Danno adito a qualche speranza, ma al contempo mettono in rilievo le dimensioni del problema dell’anidride carbonica. Dall’invenzione dell’agricoltura, circa 10.000 anni fa, a oggi gli uomini hanno abbattuto foreste per una superficie pari a quella dell’Australia, riducendo la copertura forestale del pianeta del 15-20 per cento. (« Tanti sono i boschi che abbiamo tagliato da quando i nostri antenati ci scorrazzavano dentro nudi », dice Marland.)

E questa è più o meno la superficie che dovremmo piantare ad alberi al fine di controbilanciare l’anidride carbonica che emettiamo ogni anno, attual-

* Qualcosa del genere può essere avvenuta quando le piante conquistarono la terraferma. La cosa può aver provocato un rapido calo dell’anidride carbonica, e le prime ère glaciali.

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mente, nell’atmosfera bruciando combustibili fossili. « Se si vuole assorbire tutto il CO:, bisogna fare così» dice Marland, con un graffiante tono di buon umore. « Risulta che in sostanza dovremmo ripiantare tutti gli alberi che sono stati mai abbattuti in tutto il mondo. » Per controbilanciare la quantità di anidride carbonica che un americano emette nell’atmosfera occorrerebbero, secondo i calcoli di Marland, 4500 nuovi alberi. « Questo per un solo cittadino degli Stati Uniti. E dovrebbe trattarsi di alberi a crescita rapida, come i platani. Non solo faggi nel vostro cortile. E bisognerebbe anche accudirli estirpando le erbe infestanti e sterminando i parassiti. Novemila alberi, se siete sposati. Diciottomila, per una famiglia composta da quattro persone. » « Poi, a tempo debito, bisognerebbe tagliare le piante e mettere la legna nel garage o in qualche deposito. » (Bruciando o marcendo, il legno restituirebbe immediatamente all’aria tutto il carbonio che teneva immagazzinato.) « O potreste sotterrarle » soggiunge Marland a titolo di suggerimento. « Io la chiamo la mia Soluzione alla Chicago: zavorratene la base col cemento e affondatele nelle acque della baia. » Dopo una giornata passata a fare calcoli di questo genere Marland torna a casa, in macchina come tutti, ed è molto colpito dal cambiamento che stia-

mo provocando nell’atmosfera. « Mi immetto nell’interstatale a Knocksville e vedo le miglia e miglia di auto guidate da noi idioti. Certo che ci stiamo dando dentro alla grande! » Naturalmente, fa notare Marland, si parla soltanto di contrastare l’effetto

delle emissioni prodotte dai cittadini degli Stati Uniti. Il quadro globale, almeno, è un po’ più incoraggiante. La media mondiale dovrebbe essere di 1000 alberi a testa. Ossia, se ciascun abitante del pianeta piantasse e cre-

scesse cento alberi a sviluppo rapido, tutti gli anni per i prossimi dieci anni, si arresterebbe l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera. Altri calcoli hanno dimostrato che anche iniziative sporadiche possono giovare. Gli alberi piantati nei viali e nei parchi cittadini, ad esempio, non solo assorbono carbonio dall’atmosfera, ma impediscono che ve ne sia im-

messo, perché grazie alla loro ombra, che mitiga la temperatura, i condizionatori d’aria sono accesi dopo e spenti prima. Quindi tutti gli alberi sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Un albero che cresce a Brooklyn può sottrarre all’atmosfera dieci volte più carbonio di un albero che cresce in Brasile. In un recente esperimento, gli abitanti di un piccolo sobborgo di Los Angeles hanno piantato attorno a tutte le loro case tre alberi. Inoltre ne hanno dipinto l’esterno di bianco o di colori pastello chiari, e il tetto allo stesso

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modo, come era consuetudine in molti paesi del bacino del Mediterraneo. ‘Ebbene, quella stessa estate nel sobborgo l’uso dei condizionatori si ridusse quasi del 50 per cento. Gli aceri della varietà più ombrosa piantati oggi lungo la via principale del quartiere possono offrire sempre più ombra nelle estati sempre più calde che avremo nei prossimi decenni. Se città e paesi non li piantano, è garantito che avranno un fabbisogno di energia elettrica sempre maggiore ad ogni estate, e che con ogni ondata di calore emetteranno sempre più carbonio nell’atmosfera. Negli Stati Uniti le reti di distribuzione dell’energia elettrica sfiorarono più volte il collasso nella famosa estate del 1988. Questo fatto, purtroppo, fu subito sfruttato per giustificare la costruzione di-altre centrali termoelettriche e nucleari, ivi compresa la nuova centrale nucleare di Limerick, nella Pennsylvania orien-

tale. « È una spirale » dice Michael Oppenheimer. « Nessuno sa se sfuggirà al nostro controllo. » Piantare alberi è un modo per mantenere la spirale sotto controllo. Prima di decidere che occorre una nuova centrale, le autorità competenti

della città e cittadine americane dovrebbero verificare se una massiccia piantagione di alberi e opportuni programmi per accrescere il rendimento energetico non potrebbero consentire il risparmio della stessa quantità di nuova energia che si intende produrre. Un’organizzazione volontaria di Los Angeles, quella proprio “dei Tre Alberi”, diretta da una attivissima coppia, Andy e Katie Lipkis, si propone di piantare vari milioni di alberi nella città nel giro di pochi anni. L’ Associazione Forestale Americana sta cercando di piantare cento milioni di alberi in grandi e piccoli centri urbani sparsi per tutto il Paese. Un'iniziativa del genere sarebbe utile in qualsiasi centro abitato dove faccia troppo caldo. Come raccomanda il Corano: « Anche alla vigilia della fine del mondo, pianta un albero ». Seguendo la stessa logica dovremmo lasciare in piedi gli alberi che ci sono già. Nei prossimi cent’anni potrebbero ripararci dalla tempesta. Rappresentano l’estrema strategia di contenimento. Sostengono la fauna e la flora spontanee che vivono sul terreno, compattano questo sotto la superficie, nei pendii si oppongono al dilavamento, nella foresta pluviale trattengono le nuvole. Ci procurano estati più fresche e, cosa importantissima, fissano carbonio che altrimenti finirebbe nell’atmosfera. : La superficie boschiva della Nuova Inghilterra è aumentata nel XX secolo di quasi il 40 per cento) con l’abbandono delle vecchie fattorie e la restituzione della terra alla natura. La superficie boschiva sta pure aumentando nelle regioni sud-orientali degli Stati Uniti e nell’URSS. Ma, in un bilancio

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globale, mentre entriamo nel terzo millennio, il taglio e gli incendi di boschi stanno immettendo nell’aria più carbonio che in qualsiasi altro periodo della storia umana a partire dal Neolitico. Il diboscamento è spesso un’azione sconsiderata anche dal punto di vista puramente commerciale, secondo quanto spiega l'economista Robert Repetto, dell’Istituto per lo studio delle Risorse Mondiali (World Resources Institute). Molti Paesi del Terzo Mondo vendono i diritti di sfruttamento del loro patrimonio forestale a prezzi irrisori onde procurarsi le risorse economiche necessarie per pagare gli interessi sui loro debiti. I quattro Paesi tropicali che oggi sono ai primi posti nel dar fuoco alle foreste o nello svenderle per l’abbattimento, immettendo in ogni caso altro carbonio nell’atmosfera, sono il Brasile, l’Indonesia,

la Colombia

e la Costa d’Avorio.

Andando

avanti di questo passo, fra non molto non avranno più foreste da vendere. La Nigeria un tempo era uno dei principali Paesi esportatori di legni duri tropicali. Ma nel 1985, secondo i dati del Worldwatch Institute, ricavò solo

6 milioni di dollari dalle esportazioni di essenze tropicali e ne spese 160 in importazioni delle stesse. I Nigeriani, quindi, hanno già sfruttato il loro patrimonio forestale finché il legname non è stato del tutto esaurito. Gli Stati Uniti posseggono poche foreste tropicali. Una splendida macchia di ohia nel cuore della foresta della Big Island di Hawaii è stata abbattuta qualche tempo fa da una società privata, la BioPower, per farne trucioli. La BioPower finì presto in bancarotta, lasciando molti debiti e un buco nella foresta. Uscendo dalla foresta pluviale ancora intatta nella nuova ampia radura cosparsa di ceppi è come penetrare in un antico deserto di lava. Si avverte fin nelle più intime fibre l’inesorabilità della forza geologica che è stata all’opera in quel deserto. La sfera umana, tuttavia, dovrebbe possedere maggiore lungimiranza della lava. Guardando quei ceppi non si prova altro che rabbia verso la nostra sfera. Il governo degli Stati Uniti mette per antica consuetudine all’asta i diritti di sfruttamento forestale in quelle zone in cui lo sfruttamento diretto è giudicato antieconomico. E spesso le autorità governative accettano offerte così basse che il denaro raccolto non è neppure sufficiente per pagare le spese delle aste. Repetto, del W.R.I., ha calcolato che semplicemente col salvare quegli alberi il governo risparmierebbe 100 milioni di dollari l’anno, senza considerare i vantaggi per il clima, la fauna e la flora spontanee, i campeggiatori, e gli stessi alberi.

Quale “attrezzo casalingo” per le riparazioni dell’ambiente planetario È difficile immaginare qualcosa che sia più sicura di un albero. La scienza,

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comunque, sogna anche altri mezzi più avveniristici, e quasi fantascientifici. Un fisico dell’Università di Princeton, Thomas H. Stix, propone un sistema per distruggere i clorofluorocarburi sospesi nell’aria prima che raggiungano la stratosfera. Mediante un dispiegamento di potentissimi laser a raggi infrarossi, puntati verso il cielo e manovrati alla maniera di fotoelettriche, si proietterebbero fasci di radiazioni che “farebbero secche” le molecole di CFC lungo la strada. L’ideatore chiama il suo metodo “trattamento atmosferico”. Altri scienziati pensano di tappare i buchi nello strato dell’ozono fabbricando ozono quaggiù e spedendolo nella stratosfera per mezzo di razzi, Jumbo o palloni aerostatici. Il decano dei climatologi sovietici, Mikhail Budyko, pensa che potremmo creare un gigantesco parasole sopra il pianeta per proteggerci. Basterebbe, secondo Budyko, accumulare anidride solforosa nella stratosfera. Il gas formerebbe goccioline di acido solforico. In pochi mesi, i venti stratosferici trascinerebbero nel loro moto vorticoso queste goccioline spargendole tutt'intorno al globo. Il pianeta resterebbe avvolto da una sorta di fodera bianca. In teoria, questa agirebbe come le sottili nubi di acido solforico che oscurarono e raffreddarono la superficie terrestre dopo l’eruzione del Tambora, nel 1815, che però contribuì a darci il disastroso Anno senza Estate. Potremmo rimediare a una serra come quella dell’agosto del 1988-con una ghiacciaia come quella dell’agosto del 1816. Sferrare un colpo verso il basso per bloccare quelli verso l’alto. Il geochimico Wallace Broecker, della Columbia University, fa menzione di questo progetto nel suo libro How to Build a Habitable Planet (“Come costruire un pianeta abitabile”). Broecker non ne raccomanderebbe l’adozione, ma ritiene che sia realizzabile. Sarebbero necessari 35 milioni di ton-

nellate di biossido di zolfo (anidride solforosa). Ai prezzi correnti, la produzione e la “irrorazione” nella stratosfera di un tale quantitativo di gas, a

mezzo di Boeing-747 (Jumbo) verrebbero a costare 15 miliardi di dollari. Naturalmente, l’acido seguiterebbe a precipitare dalla stratosfera con lo stesso ritmo con cui ve lo spargiamo. Sarebbe necessario ripetere l’operazione ogni anno. Tuttavia, poiché il bilancio per la difesa, solo per gli Stati Uniti, agli inizi degli anni Novanta era di circa 350 miliardi di dollari annui, Broecker sostiene che si potrebbero anche spendere 15 miliardi di dollari l’anno, da parte di tutte le nazioni del mondo messe insieme, per la “difesa climatica”. « La cosa importante » precisa « non è tanto se la strategia

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proposta sia più o meno saggia, quanto il fatto che un’azione voluta da noi per la modificazione globale del clima rientra nel campo delle nostre possibilità. » A mali estremi, estremi rimedi, e noi potremmo essere indotti a praticare

questo tipo di intervento chirurgico planetario prima di quanto pensiamo. In un suo libro che apparve nel 1985, anno non sospetto, Broecker osserva: « Fra un secolo, la tentazione di ricorrere a queste misure potrebbe essere

molto forte ». Appena tre anni più tardi, nell’agosto del 1988, Thomas H. Sticks (il fisico che vuole spazzare via dal cielo i clorofluorocarburi) fu in-

tervistato dal New York Times sui laser e su altri bisturi ecologici del tutto nuovi. «In parte, tutto questo lascia adito a molte perplessità » ammise. « Ma se avremo un altro paio di estati come quella di quest’anno, la gente si lascerà prendere dal panico e dall’ansia di agire subito, in un modo o nell’altro. »

Una sola estate torrida aveva avvicinato l'appuntamento con la tentazione di cui parlava Broecker di ben novantacinque anni. La cosa che fa paura, di questi vari progetti ad alta tecnologia, è quanto difettano di coscienza storica, del cosiddetto “senno del poi”. Or non è molto, John von Neumann (il padre dell’elaboratore elettronico)

e Edward

Teller (il padre della bomba all’idrogeno) parlavano con entusiasmo di ricorrere a esplosioni nucleari per dirottare i cicloni. Come disse Bacone: « Curare la malattia e uccidere il malato... ». Più o meno nello stesso periodo, Harrison Brown raccomandava di triplicare il tasso di anidride carboni-

ca nell’atmosfera come mezzo per accrescere il rendimento dei terreni agricoli. Ancora nel 1986, il Ministero inglese per 1’ Ambiente pubblicò un rapporto in cui si sosteneva che il governo non avrebbe dovuto aderire a un eventuale trattato mondiale per mettere al bando la produzione e l’uso dei clorofluorocarburi. Nel rapporto si affermava che: « 1) i CFC probabilmente non danneggeranno

lo strato dell’ozono;

2) anche se lo facessero, potremmo

sempre ovviare al danno aumentando le emissioni di metano ». Quasi immediatamente apparve chiaro che i clorofluorocarburi stavano già distruggendo lo strato dell’ozono, e che il metano collaborava alla distruzione. Il ministero aveva raccomandato, come medicina, un veleno.

Molti popoli hanno detti del tipo “Un rimedio peggiore del male”. I Tedeschi hanno un termine efficace che esprime lo stesso concetto, Schlimmbesserungen, miglioramenti (pretesi tali) che aggravano le cose, “miglioramenti peggiorativi”. Come l’energia nucleare, sono soluzioni a senso unico, buone da un punto di vista e dannose da tutti gli altri. Nella torrida esta-

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te del 1988, la rivista tedesca Der Spiegel domandò al chimico dell’atmosfera Paul Crutzen, direttore dell’Istituto Max Planck per la Chimica, se cono-

scesse qualcosa da poter aggiungere all’atmosfera per rallentare l'ascesa della febbre planetaria. « Questo tipo di domanda mi viene fatto sempre più spesso » disse Crutzen. « E mi fa paura. Se sapessimo abbastanza sull’atmosfera, mi dedicherei con piacere a queste teorie e agli esperimenti relativi. Ma sappiamo così poco... » Come fece rilevare Crutzen, quello del parasole di zolfo è un progetto particolarmente pericoloso. Accumulando zolfo nella stratosfera si potrebbe certo raffreddare la superficie della Terra. D’altra parte, però, le goccioline di acido solforico tenderebbero anche a raccogliere gli atomi di cloro presenti nella stratosfera e, come i cristalli di ghiaccio, aiuterebbero i cloro-

fluorocarburi a divorare le molecole di ozono. Più insudiceremo la stratosfera, più rapidamente scomparirà lo strato dell’ozono. Senza contare che tutto l’acido solforico ricadrebbe sulla superficie terrestre sotto forma di piogge acide. « Dovremmo invece » disse Crutzen « cercare il modo o i modi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, di metano e dei gas in tracce responsabili dell’effetto serra. » Se vi sarà un surriscaldamento rapido, il mondo incomincerà a dibattere

scelte come queste: da una parte misure radicali, atti chirurgici non sperimentati e non sperimentabili;

dall’altra, misure di medicina

preventiva.

Avrà maggior presa politica la medicina o la chirurgia? Forse quest’ultima. Spesso i rimedi a effetto immediato ci attirano più delle cure pazienti e meticolose. Per giunta, la promessa di una guarigione ottenuta mediante un intervento chirurgico implicitamente ci farebbe sentire autorizzati a proseguire per la strada che battiamo adesso. Stiamo cambiando il pianeta? Seguitiamo a fare esattamente come prima, e al momento opportuno rimedieremo alle conseguenze delle nostre azioni... cambiandolo un po’ di più. Una volta, trovandomi a pranzo con un gruppo di eminenti ecologici, rivolsi loro questa domanda: « Come mai la vostra disciplina ha per il mondo un’influenza tanto inferiore a quella dell’economia? ». E.O. Wilson mi diede, in poche parole, la risposta: « Perché l’ecologia è vista come un bloccasterzo sulle automobili ». Il che è vero. Mentre i laser e i lanci di zolfo non bloccherebbero nulla, e sarebbero anzi qualcosa di eccitante. Perciò, avanti a tutta forza.

In un certo senso, l’impulso è nobile. La tradizione ebraica parla di Tikkun Olam, la riparazione del mondo. « Se si guastava un vaso che egli stava modellando, come capita con la creta nelle mani del vasaio, egli tornava a

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fare di esso un altro vaso quale ai suoi occhi pareva giusto » canta il profeta Geremia. O, secondo i versi di Omar Khayyam: Amore! Se potessimo, tu ed io, cospirare con Lui

per comprendere tutto il triste Schema delle Cose, non lo faremmo a pezzi, per poi riplasmarlo in modo più vicino al Desiderio del Cuore?

Ma possiamo già vedere dove ci porterebbero il fare a pezzi e il riplasmare. Provocheremmo una catastrofe per evitarne un’altra. Il nobile impulso di Omar Khayyam ci farebbe finire nella situazione descritta da una vecchia cantilena inglese: “Lei ingoiò il cane/ per prendere il gatto./ Ingoiò il gatto/ per prendere l’uccellino./ Ingoiò l’uccellino/ per prendere la mosca./ Perché prese la mosca? Chissà./ Credo che morirà”. Se vogliamo sperare di sopravvivere a lungo, dobbiamo imparare a pensare noi stessi come forza geologica. Anzi, dobbiamo diventare la prima forza geologica che impara a pensare. Sotto il profilo geologico, il tempo non è denaro. Il tempo è tutto. Sulla scala dei tempi geologici, tutto ciò che può accadere, sicuramente accadrà. Non possiamo tollerare il moltiplicarsi di quelli che, nel gergo degli statistici, vengono definiti « eventi a bassa probabilità e ad alto grado di conseguenze ». Un recente evento del genere è stato l’incendio di tutti i pozzi petroliferi del Kuwait. Un altro esempio è stato, nel 1989, il catastrofico versamento in mare del petrolio della Exxon

Valdez, nel Prince William Sound in Alaska. È stato inquinato un tratto di costa più lungo di quelle di Long Island e Capo Cod messe insieme. Poco dopo il disastro, il presidente dell’ American Petroleum Institute, Charles J.

Di Bona, fece distribuire un comunicato stampa, « Domande e risposte sulla fuoriuscita di petrolio in Alaska », che terminava così: « D.: Può dirci appossimativamente quanti carichi di petroliere sono stati effettuati nel Porto di Valdez durante i dodici anni da quando è entrato in funzione? «R.: Secondo l’Alaska Oil and Gas Association, vi sono stati negli scorsi dodici

anni 8.858 carichi di petroliere, per un totale di 6,8 miliardi di barili di greggio usciti dal Porto di Valdez. Se desidera conoscere la frazione di questo greggio fuoriuscita in mare, si tratta di 240.000 barili su un totale di 6 miliardi e 800 milioni di barili tra-

sportati, pari quindi alla ventottomillesima parte del greggio imbarcato. La quantità di petrolio finora trasportata senza incidenti è enorme, ripeto: 6,8 miliardi di barili, di cui solo 240.000 sono stati versati in mare: uno su 28.000. »

Insomma, come Hendrik Hertzberg scrisse indignato sul New Republic:

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« Perché tutte quelle facce scure? Parliamo del petrolio che non ha distrutto nessun ambiente naturale preesistente, insostituibile, ricco di vita animale,

di stupefacente bellezza. Parliamo dei successi, non dei fallimenti ». Una forza geologica che è disposta a rischiare di perdere un così lungo tratto di costa ogni dodici anni non può durare a lungo. E quello non è stato, secondo il comune modo di pensare, un rischio eccezionale. Ne corriamo

continuamente di peggiori. Se quel petrolio non fosse finito in mare, ad esempio, gran parte del carbonio in esso contenuto sarebbe finita nell’atmosfera. Lì avrebbe aggiunto il suo peso a quello di un altro grossissimo “evento ad alto grado di conseguenze”, che minaccia di farci perdere tratti di costa molto più lunghi di quello sottrattoci dal greggio fuoriuscito in Alaska. Se ragionassimo in termini di tempo geologico — o anche solo pensando ai prossimi dodici anni —, ci renderemmo conto che più a lungo lo si corre, maggiore è la probabilità che un rischio con scarse probabilità di avverarsi si trasformi in un rischio con forti probabilità di avverarsi. Siamo una specie che gioca continuamente alla roulette russa. Ogni giorno rifacciamo i calcoli delle probabilità come se fosse l’ultimo che abbiamo da vivere. O prima o poi, di questo passo sarà l’ultimo davvero. Lo stesso giorno dell’incidente della Exxon Valdez, se avessimo pensato in termini di sfera planetaria, avremmo annullato ogni e qualsiasi piano di perforazioni alla ricerca di petrolio nel Rifugio Naturale Nazionale dell’ Artide. Il nostro comportamento fa pensare che non abbiamo ancora alcuna consapevolezza della nostra appartenenza a tale sfera. Seguitiamo ad andare avanti chiacchierando molto, ma senza riflettere molto più di una colata lavica, di un blocco di ghiaccio galleggiante, di un incendio o di un’alluvione. Tre giorni prima della colossale perdita di petrolio, per esempio, Frank Murkowski, senatore repubblicano eletto dall’ Alaska, scriveva in USA To-

day: « Gli allarmisti dicono che esplorando il Rifugio distruggeremo l’ambiente naturale dell’ Alaska. Vent'anni fa, costoro lanciavano lo stesso grido d’allarme quando si trattò di realizzare l’oleodotto dell’ Alaska, ed è stato dimostrato che avevano torto ». Quattro giorni dopo l’incidente (come fa rilevare Hertzberg), nella sala stampa della Casa Bianca fu domandato al presidente George Bush se avesse cambiato idea circa il Rifugio Naturale dell’ Artide. « No » rispose Bush. « Non vedo alcun nesso con l’incidente. » Oltre a imparare a pensare come sfera plenateria dobbiamo essere capaci di vigilare su tutte le nostre azioni. Data la vastità del pianeta e la mole di quello che facciamo, è un compito di grande impegno. Abbiamo bisogno di

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squadre di scienziati che tengano d’occhio senza sosta ogni cambiamento in corso in tutte e sette le sfere: terra, acqua, aria, fuoco, vita, ghiaccio e mente. Solo così potremo sperare di cogliere precocemente i segni delle reazioni a catena e di tutte le altre sorprese che possono presentarsi negli anni a venire. L'attuazione di un simile proposito comporterebbe la messa in pratica del più vasto programma di collaborazione scientifica internazionale mai intrapreso. Gli studiosi stanno lavorando in questa direzione. Nei maggiori centri di ricerca di vari Paesi, compresi USA e URSS, fin dai primi anni Ottanta, dietro porte socchiuse, si vengono elaborando piani. Un piccolo ufficio internazionale di coordinamento è stato aperto a Stoccolma. Negli Stati Uniti un Ufficio per gli studi interdisciplinari di scienze della Terra, presso I’NCAR, funge da stanza di compensazione e pubblica un notiziario trimestrale. Scienziati di grande fama di tutto il mondo e specializzati in ogni scienza della Terra si riuniscono ogni pochi mesi, senza clamore, in questa o quella località, si scambiano idee e poi se ne tornano ai rispettivi centri di ricerca. Molti enti scientifici statunitensi stanno lavorando in vista di questo programma globale. Ciascuno marcia sotto una diversa bandiera. La American Geophysical Union lo chiama “Iniziativa per il Pianeta Terra”, la U.S. National Science Foundation “Cambiamento globale” e “Coscienza globale”. La NASA lo chiama “Missione sul pianeta Terra”. Insomma, le varie discipline non hanno mai accentrato la loro attenzione sul nostro pianeta nella stessa misura di cui si sono dimostrate capaci in occasione delle grandi missioni spaziali verso la Luna o verso i mondi nostri vicini di casa, Marte e Venere. La nuova missione, se intrapresa e svolta con vero impegno, imporrebbe il sacrificio di cospicue risorse finanziarie oggi destinate ai programmi spaziali dagli Stati Uniti, dall’Unione Sovietica e dall’Europa comunitaria. La fonte ispiratrice di questo programma di ricerca globale è stato, naturalmente, 1’Anno Geofisico Internazionale (I.G.Y.) del 1957-58. L’I.G.Y. fu organizzato dal Consiglio Internazionale delle Unioni Scientifiche. Fu realizzato grazie a migliaia di scienziati di settanta Paesi diversi e i suoi risultati superarono ogni aspettativa. L’I.G.Y. ha inaugurato l’èra spaziale. E ha inaugurato l’èra della collaborazione scientifica internazionale, sia tra le varie discipline, sia fra le nazioni. Ha portato, direttamente o indirettamente, alla nuova e rivoluzionaria concezione della Terra come pianeta dominato dalla turbolenza. Grazie al lavoro incominciato nell’I.G.Y. oggi abbiamo, fra altro, la conferma della teoria della deriva dei continenti, sappiamo

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che le epoche glaciali vanno e vengono in rapporto con modificazioni dell’orbita terrestre, e che gli uomini stanno cambiando l’atmosfera della Terra più rapidamente di quanto non l’abbiano fatto i periodi glaciali. Il programma che va prendendo forma oggi supera di gran lunga quello dell’ Anno Geofisico Internazionale per importanza, vastità di obiettivi, durata. Richiederebbe l’impiego di molte migliaia di scienziati in più rispetto all’I.G.Y. Abbraccerebbe tutte le scienze della Terra. (Il Consiglio Internazionale delle Unioni Scientifiche, che ne cura il coordinamento, lo chiama

“Programma internazionale per lo studio della geosfera e della biosfera”.) Non durerebbe un anno, ma decenni. Chi può dire quali e quante scoperte consentirebbe? Revelle, che fu uno dei maggiori promotori delle due iniziative, raccomandava che l’obiettivo su cui concentrare le ricerche fossero i prossimi cent'anni. « È difficilissimo farlo... pressoché impossibile » diceva. « Ma credo che dovremo fare sforzi di immaginazione. Non solo per dire che cosa sicuramente accadrà, ma anche quello che potrebbe accadere. » « Perché cent’anni? » « La ragione per cui ho detto cent’anni non è perché siano molti, ma perché sono un periodo anche troppo breve » spiegava Revelle. « Dopo tutto, viviamo su questo pianeta da quanto tempo? Diciamo duecentomila anni? Cento anni al paragone sono un attimo. E tuttavia non siamo in grado di fare previsioni. « Inoltre, quello che succederà nei prossimi cent’anni potrà influire su un periodo di tempo molto più lungo. Ci troviamo a una specie di cerniera della storia. » È chiaro che parte del lavoro di osservazione dovrà essere effettuato dallo spazio. È difficile avere una visione della vita “a tutto tondo” mentre si cammina e si respira al centro di essa. Ma collocate cinque satelliti pressappoco attorno all’equatore a 35.000 chilometri di altezza. Fateli orbitare attorno alla Terra alla stessa velocità della Terra (cioè in un’orbita che è chia-

mata geostazionaria) così che appaiono immobili sopra la superficie del glo; bo. Con cinque satelliti soltanto è possibile tenere sotto osservazione tutta la

Terra salvo che per un’area trascurabile attorno ai due poli. Ponete un altro satellite in orbita longitudinale, che passi cioè sui due poli, per osservare le calotte glaciali. Questi sei robot ci darebbero una visione superna, olimpica di tutta la sfera terrestre. Oggi i satelliti artificiali che sorvegliano la superficie del pianeta ruotandogli intorno su varie orbite e a diverse altezze possono fotografare una superficie di 10.000 chilometri quadrati con macchine sensibilissime, capaci

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di rendere distinguibili particolari larghi qualche decina di centimetri. Possono “vedere” in una vasta gamma di lunghezze d’onda nel campo del visibile e dell’invisibile, e trasmettere via radio, in codice binario, quello che

vedono direttamente a calcolatori a terra. Nelle immagini trasmesse alla base dai satelliti in orbita a bassa quota, gli specialisti riescono a distinguere il riso dalla soia, il mais giovane da quello già più maturo, o il mais sano dal mais malato. Possono determinare il tasso di umidità di ogni singolo ettaro di terreno, stimare la superficie foliare totale della vegetazione presente in una determinata area, e il peso delle proteine delle foglie. Abbiamo bisogno dei satelliti con cui vigilare sul riscaldamento globale: per tenere sotto monitoraggio le modificazioni della copertura nuvolosa, della temperatura

superficiale dei mari, di quella della stratosfera,

del

ghiaccio dei mari polari, della costante solare, delle polveri sospese nell’aria, della temperatura al suolo. Anche il livello marino può essere controllato da strumenti automatici operanti nello spazio. Così, ci occorrono satelliti per tenere sott'occhio i buchi nell’ozono, seguendo l’evolversi della loro at-

tività chimica e della loro temperatura, nonché lo stato di salute del resto dello strato dell’ozono. Un comitato formato da esperti dell’effetto serra ha fatto osservare che, senza il monitoraggio dell’anidride carbonica iniziato da Keeling durante l’Anno Geofisico Internazionale, oggi gli scienziati non avrebbero troppa fiducia nella spiegazione che essi stessi danno dell’effetto serra. « Analogamente, senza dati più frequenti e attendibili sulle variazioni dell’attività so-

lare, sugli aerosol vulcanici e sui principali gas in tracce che partecipano all’effetto serra, vi sarebbe scarsa fiducia nel futuro per quanto riguarda la natura e il significato di ogni segnale climatico osservato... È importante non dimenticare il problema a lungo termine dell’anidride carbonica: quali variabili i nostri successori della prossima generazione o della successiva potranno rimproveraci di non aver tenuto sotto osservazione oggi? » Gli studi affidati ai satelliti devono essere integrati con altre ricerche al suolo, comprendendovi un lavoro assiduo e approfondito sulle molteplici varietà di habitat e di conformazioni del terreno esistenti nel mondo. Gli esperti dei satelliti chiamano il loro « un lavoro di rilevamento a distanza », mentre definiscono il lavoro al suolo « accertamento della verità sul terreno ». A questo proposito, i comitati formati per lo studio del riscaldamento globale talvolta fanno progetti che richiamano le visioni di Francesco Bacone agli albori della scienza sperimentale. Alcune delle prime proposte prevedono la costruzione di una rete di Osservatori della Biosfera, laboratori avveniristici dotati di attrezzature tanto sofisticate quanto quelle che gli

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astronomi hanno installato su vette alte e isolate, come il Monte Palomar e

il Mauna Loa, per osservare le galassie più remote. Questi nuovi laboratori dovrebbero sorgere non solo in cima alle montagne ma anche entro gole, nel profondo della giungla, in estuari, nella prateria, nella tundra con terreno permanentemente gelato, e nel cuore di isole tropicali. Gli strumenti di rilevazione di questi osservatori non sarebbero puntati verso le stelle ma sul mondo vivente che li circonda, e ogni osservatorio si leverebbe sopra la giungla o il deserto come la torre di osservazione sul Mauna Loa. I “sorveglianti della Terra” sognano anche la costruzione di modelli matematici delle sette sfere così avanzati da far apparire quelli attualmente elaborati dai supercomputer miseri giocattolini meccanici. I modelli da creare sarebbero in grado di raccogliere i dati tratti da una serie di libri di geofisiologia talmente ricca che, solo per numero di dati, potrebbe essere cento volte più grande della famosa Biblioteca del Congresso americana. La enorme banca dati comprenderebbe i risultati di tutte le registrazioni eseguite da tutti gli strumenti di misura per il monitoraggio del pianeta, dal primo termometro a mercurio in qua. Gli scienziati farebbero funzionare i loro modelli creati ai supercomputer e osserverebbero, simulata, l'evoluzione dei processi vitali: vedrebbero il

pianeta respirare, le calotte glaciali espandersi e contrarsi, la temperatura salire e scendere. Studiosi che parlano lingue diverse e il gergo specialistico di diversi rami della scienza potrebbero lavorare assieme e studiare assieme il cambiamento globale nei sicuri microcosmi delle loro Terre elettroniche, modelli che somiglierebbero in modo finora impossibile da raggiungere al pianeta che imitano, quasi come a un gemello identico. In realtà non è facile che tutti i rami delle scienze della Terra lavorino bene assieme, soprattutto quando i tempi sono duri. I bilanci per la ricerca sono sotto tiro negli Stati Uniti, in Inghilterra e in molti altri Paesi. In queste situazioni gli scienziati, lamenta uno specialista di fisica delle particelle, « mettono in cerchio i carri come facevano i pionieri del West quando venivano attaccati dagli indiani, e poi incominciano a sparare, ma non verso l’esterno: verso l’interno ». Ciascuno si mette a difendere la propria specialità a detrimento delle altre. Un membro di un comitato istituito dalla Accademia Nazionale delle Scienze americana per lo studio del cambiamento globale giunge talvolta ad affermare, sia pure scherzosamente, che il titolo in rosso sulla copertina di una delle prime relazioni del comitato fu stampato con vero sangue umano® Frank Press, studioso di scienze della Terra e presidente dell’ Accademia delle Scienze americana, esterna solo un cauto ottimismo circa le prospetti-

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ve dell'iniziativa per lo studio del cambiamento globale. « Un giorno o l’altro, in qualche modo, vedrà la luce » commenta. « Se la proposta fosse stata avanzata negli anni Sessanta, in un periodo in cui alla ricerca scientifica ve-

nivano destinati fondi di anno in anno più consistenti, l’idea di dare un seguito all’ Anno Geofisico Internazionale avrebbe suscitato l’entusiasmo e ottenuto l'appoggio di tutto il mondo. Oggi, invece, le proposte di progetti di ricerche internazionali sono viste con sospetto da molti governi e considerate espedienti per ricevere una fetta maggiore di stanziamenti in fase di contrazione. » Frattanto, però, si potrebbe far molto nonostante la politica della lesina attualmente in auge. La NASA e la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) hanno ammassato immagini della Terra in quantità tale da poter costituire delle fototeche. Gran parte di questo inventario giace, inutilizzato, nella memoria dei calcolatori. Per una miseria (a paragone dei bilanci di quasi tutti gli enti scientifici degli Stati Uniti) lo studio di queste biblioteche iconografiche potrebbe dirci con esattezza quanta foresta pluviale viene bruciata e distrutta ogni anno. Potrebbe anche dirci quanta ne è stata distrutta in passato nell’arco di vari decenni, Paese per Paese, e questo servirebbe agli scienziati per calcolare, fra altro, quanta anidride carbonica viene immessa nell’atmosfera quando se ne va in fumo un ettaro di foresta amazzonica. Oggi gli specialisti hanno a disposizione risorse sufficienti solo per studi saltuari, e sono essi a indicarci che nella biosfera si sta consumando un vero e propri olocausto. Da anni Compton Tucker, della NASA,

con George Woodwell e i suoi

colleghi’ del Centro di Ricerche di Woods Hole, si battono perché si possa fare un rilevamento globale delle condizioni del pianeta. Ma non hanno mai ricevuto fondi che bastassero per qualcosa di diverso da ricerche per campione, nonostante i manifesti interessi della NASA

e della NOAA

per il

cambiamento globale, e dell’Ente per la Protezione dell’ Ambiente per il surriscaldamento globale. Qualche tempo fa Tucker ha dichiarato a un giornalista che lo intervistava per conto di Science: « Guardiamo in faccia la realtà. Fra una decina d’anni, non varrà neanche la pena di farlo, il rileva-

mento ». Forse l’umanità preferisce non sapere. Sarebbe una grossa impresa in tutti i sensi, questa, di fronte a una minaccia che resta invisibile e impalpabile. E tuttavia qualche volta sappiamo muoverci con tempestività anche quando non si sa ancora il grado di rischio cui è esposto il mondo. Un precedente che può alimentare la speranza cal Protocollo di Montreal. Fu Richard Benedick a rappresentare gli Stati Uniti nei negoziati che hanno condotto al trattato per la messa al bando dei cloro-

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fluorocarburi. Vi fu mandato dal Dipartimento di Stato, con il rango di ambasciatore. Come tanti politici ambientalisti non è uno scienziato: un tempo occupava una cattedra di poesia metafisica all’ Università di Oxford. «Il Protocollo ha ormai acquisito un alone quasi di inevitabilità logica » dice Benedick « ma nei fatti, per giungere a quest’accordo sono state necessarie negoziazioni lunghe e spesso burrascose. I CFC sono quasi inscindibili, per così dire, dal nostro modo di vita. E il rischio che costituiscono era

del tutto teorico, a quell’epoca... non si era ancora scoperto un assottigliamento quantificabile dello strato dell'ozono. Ci trovavamo di fronte a un rischio invisibile che riguardava la minaccia costituita da un gas per un altro gas, a una quota da 25 a 40 chilometri sopra le nostre teste. Ma era una minaccia che ci riguardava, perché il fenomeno avrebbe potuto causare un aumento al suolo di radiazioni invisibili, aumento che non era stato misurato,

e perché queste radiazioni avrebbero potuto avere effetti dannosi per la salute, effetti che, anch’essi, non erano stati né dimostrati né quantificati. »

« ‘Troppo poco e troppo tardi’, strillano ora certi ambientalisti! Ma mentre si era già in una fase avanzata del nostro dibattito, c’era un ministro francese che osservava: ‘Credete davvero che possa venirci qualche danno da quel piccolo psst, pssst, psst...?°, imitando il rumore che fa lo spruzzo di una bomboletta spray e scrollando le spalle in modo molto francese, a manifestare la sua garbata incredulità. L'importanza del trattato » continua Benedick « stava nel fatto di contenere fra le sue clausole quelle necessarie per poter rendere più severo il regolamento della materia sulla base di un’evidenza scientifica ancora in fase di formazione. » I diplomatici, dunque, lavoravano in un clima di profonda incertezza. Vi era un consenso scientifico solido unicamente su pochi punti chiave: che i composti incriminati stavano accumulandosi nell’atmosfera, che potevano danneggiare lo strato dell’ozono, e che il danno — se si fosse verificato — sarebbe stato irreversibile. Benedick fondava le proprie argomentazioni su questi fatti. E sosteneva che, dato che tutti convenivano almeno su quei punti, sarebbe stato troppo rischioso procrastinare ogni decisione in attesa di rilevare il danno. Nel bel mezzo delle varie sessioni dei lavori, i diplomatici ricevettero i

primi rapporti sul Buco nell’Ozono al Polo Sud. Benedick ne sottovalutò l’importanza. Lo fece, racconta, perché non esistevano ancora prove che fosse stato provocato dal cloro. Poteva non avere alcuna relazione con i CFC. E, anche se fosse stato dimostrato che era opera dell’uomo, poteva anche trattarsi di una anomalia limitata all’ Antartide. Se avesse insistito sull’importanza del Buco nell’Ozono e poi se ne fosse

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dimostrata un’origine naturale, egli sapeva che il Protocollo di Montreal con ogni probabilità non sarebbe mai stato sottoscritto. « Fu per questa ragione che di proposito non introducemmo questo punto nei negoziati. » La validità dell’argomento, comunque, si impose ben presto. Poco tempo dopo la firma del Trattato, fu dimostrato al di là di ogni possibilità di dubbio che il Buco nell’Ozono è provocato dai clorofluorocarburi e che tutto lo strato dell’ozono, non soltanto quello sopra l’Antartide, sta assottigliandosi. Benedick ritiene che ormai anche il problema dell’effetto serra vada in qualche modo affrontato. Dobbiamo servirci, nelle trattative, del forte con-

senso esistente circa la realtà dell’effetto serra. E dobbiamo arrivare a un accordo internazionale prima che tutti convengano che è già stato rilevato e misurato. « L’argomento che ci ha spinto ad agire, a Montreal » dice Benedick « fu che gli effetti non erano facilmente reversibili, cioè che non sarebbe stato

possibile disfare ciò che eventualmente fosse stato fatto. »

Oggi, nel disordine dei vecchi studi e laboratori di Keeling, si ha una sensazione di tempo per così dire “condensato”: si intravedono generazioni dedicatesi allo studio dell’atmosfera, Keeling intento a guardare Callendar di sopra la spalla e questi che si volta a guardare Arrhenius di sopra la spalla. Keeling, d’altronde, è sicuro che fra cinquant’anni ci sarà qualcuno che si volterà a guardare lui, di sopra la spalla. (A quell’epoca la concentrazione di anidride carbonica potrebbe essere di 600 parti per milione.) Nella preoccupazione che Keeling ha per questo suo lontano successore è implicata la fiducia che davanti a noi stia un avvenire certamente lungo. E anche una forte consapevolezza della duratura importanza della sua ricerca. Potrebbe sembrare presunzione, se Keeling non attribuisse gli stessi meriti a Callendar e perfino a Reiset, il francese che oltre un secolo fa si fece

prendere dall’ossessione dell’anidride carbonica al punto di attrezzare un apposito carro con rudimentali strumenti scientifici allo scopo di misurarla, e con esso girava per le strade di Parigi e per i viottoli di campagna di Ecorchebouf. Se Keeling dovesse ritirarsi, probabilmente si farebbe fare una re-

plica del carro di Reiset per lo studio dell’anidride carbonica e andrebbe in giro con quella per le strade di Del Mar, nel sud della California. Intanto, comunque, suo figlio Ralph ha progettato e realizzato un nuovo apparecchio per la misurazione dell’ossigeno. Per quelli che leggono la documentazione contenuta nelle calotte polari, il tempo si condensa anche di più. Duemila pezzi di ghiaccio sono conservati nell’Istituto di fisica dell’Università di Berna. I campioni sono in tubi dispo-

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sti su scaffali che rivestono le pareti di stanze refrigerate, nei sotterranei dell’edificio. Sembrano tanti poster arrotolati nel magazzino di una grossa cartoleria, o papiri provenienti dalla perduta, celebre biblioteca di Alessandria. Non molto tempo fa, dietro mia richiesta, un fisico svizzero prelevò

da uno degli scaffali un cilindretto di ghiaccio. Lo sfilò dal suo tubo di cartone, aprì il sacchetto di plastica in cui era chiuso e ne tolse un quadratino di carta millimentrata. Vi si leggeva: Tubo 339 Dye 3181 Da 1806,39m

A 1806,90 m B in 36,9

Secondo il codice adottato dal laboratorio, quel ghiaccio era stato estratto da un punto profondo quasi 1807 metri della calotta glaciale groenlandese, presso la base del sistema di allarme precoce americano n. 3 (Distant Early Warning Station 3), nota in codice come “Dye”, i cui radar perlustrano il piatto orizzonte, pronti a captare la traccia di eventuali missili nemici. Reggendo in mano il foglietto, il fisico svizzero eseguì un rapido calcolo mentale, poi mi disse: « Questo ha... dodicimila anni, più o meno ».

Quindi tagliò dal cilindro un cubetto di ghiaccio e accompagnato da me lo portò dalle stanze refrigerate al proprio studio, dove lo mise in un becher con dell’acqua sul davanzale della finestra. Facemmo a turno a mettere l’orecchio sull’imboccatura del recipiente. A un certo punto si udì un piccolo rumore, una specie di sibilo. Un pezzetto di ghiaccio risalente all’ultima epoca glaciale stava fondendo e le pareti di tutte le bollicine d’aria che vi erano intrappolate si rompevano a decine. L’aria che sfuggiva da quel becher non era stata respirata per 12.000 anni. Allora, su questo pianeta vivevano cinque milioni di persone. Erano prossime al momento in cui avrebbero inventato l’agricoltura, e avrebbero in tal modo acceso una lunga miccia a lentissima combustione. Sul davanzale di una finestra che si affaccia ai binari della stazione centrale di Berna, in

vista della tangenziale di nord-ovest che porta all’Autobahn, il respiro di quei cinque milioni di esseri umani si unì a quello degli oltre cinque miliardi che respirano oggi. L’aria che sfuggiva da quel becher era quella che formava l’atmosfera del pianeta poco prima che avesse inizio uno dei più grandi esperimenti nella storia della vita. In essa la concentrazione di anidride carbonica era di circa 280 parti per milione.

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Per diecimila anni, mi disse il fisico, la concentrazione resta così (e col dito tracciò una linea immaginaria a una certa altezza), “e poi bum!: l’e-

splosione”. Quello chiamato in codice “Trinity” fu un esperimento condotto in segreto nel deserto. Questo è invece l’esperimento più pubblico che vi sia mai stato. E una esplosione al rallentatore provocata da tutti gli uomini, le donne e i bambini del pianeta, dal primo all’ultimo. Se immettessimo nell’aria 5 gigaton di carbonio tutti in un punto, tutti nello stesso momento, in un’unica eruzione, ci si presenterebbe uno spettacolo non meno imponente del grande globo di fuoco che si alzò dal deserto ad Alamogordo. Vi sarebbero enormi quantità di fumo e polvere, e questi sarebbero squarciati da fulmini. Si vedrebbe una colonna infocata che sembrerebbe estendersi nel cielo, e nel futuro, più in là di quanto possa arrivare qualsiasi sguardo. Nel bunker da dove si dirigeva l’operazione Trinity, a Oppenheimer venne in mente un versetto del Bhagavadgita: “Ora sono diventato la Morte, distruttrice dei mondi”. Kenneth Bainbridge, braccio destro di Oppenheimer, esclamò « Adesso siamo tutti dei figli di puttana ». Il guaio è che non reagiamo alle emergenze che si manifestano al rallentatore. Non reagiamo in misura adeguata all’invisibile. Ma sappiamo che cos'è un’esplosione. Cinque gigaton di carbonio sono l’opera di un anno per la sfera umana, o di cento Tambora per la litosfera. Sarebbe una strana esperienza veder esplodere nell’aria 5 gigaton di carbonio. La gente che ci incontrasse dopo lo capirebbe dalle nostre facce. Racconta un fisico che a Los Alamos vide gli scienziati e i tecnici che rientravano in autobus dopo aver preso parte all’esperimento: « Capii che avevano visto qualcosa di molto grave, qualcosa che aveva in qualche modo cambiato tutta la loro visione del futuro ». Molto tempo dopo che i venti avessero disperso la nube della “nostra” esplosione, essa seguiterebbe a gravare sulla nostra mente. Porteremmo per sempre dentro quello spettacolo, come i testimoni di Alamogordo. Capiremmo che il mondo non sarebbe mai più lo stesso.

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Note e fonti

Capitolo 1. IL PROBLEMA pag. 4 « Sottili gusci concentrici... » È una visione del mondo analoga a quella espressa nel dipinto “Adamo ed Eva scacciati dall’Eden”, del grande senese Giovanni di Paolo, opera datata attorno al 1445. Giovanni di Paolo dipinge l'Universo come una serie di sfere concentriche, l’una dentro l’altra. La sfera rocciosa della terra, color marrone, è posta al centro, circondata dalle sfe-

re dell’acqua, dell’aria e del fuoco. È una specie di bersaglio gigantesco, fluttuante in quello che oggi chiameremmo lo spazio cosmico. Nel quadro di Giovanni di Paolo si vede Dio che punta l’indice imperiosamente nello spazio, mentre un angelo scaccia il primo uomo e la prima donna dall’Eden.

Capitolo 3. LA CURVA DI KEELING

E

pag. 32 « Essi riassumevano... » Roger Revelle e Hans E. Suess, “Carbon Dioxide Exchange Between Atmosphere and Ocean and the Question of an Increase in Atmospheric CO? during the Past Decades”, Tellus 9 (1957), 18-27.

Revelle ci fornisce questa glossa: « Callendar sosteneva che probabilmente era in corso un aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Il problema vero era se la maggior parte di tale anidride sarebbe andata a finire negli oceani o no.

« Negli oceani la presenza dell’anidride carbonica è superiore di 60 volte a quella che si riscontra nell’atmosfera. I più pensavano che 59 sessantesimi delle emissioni di anidride carbonica provocate dalla civiltà industriale sarebbero finiti nelle acque marine, e solo 1 sessantesimo sarebbe

rimasto nell’atmosfera. Hans Suess ed io dedicammo la nostra attenzione al problema. Ciò che dimostrammo col nostro lavoro fu che, a causa della chimica dell’acqua marina, che provvede alla formazione di un meccanismo tampone, circa metà dell’anidride carbonica sarebbe invece ri-

masta nell’atmosfera, e solo l’altra metà sarebbe finita nelle acque oceaniche. È quello che viene definito Effetto Revelle. (Fu effettivamente un’idea mia. Hans in realtà non capiva bene questo processo di tamponamento.) » pag. 38 «Il respiro... » « Respiro può non essere proprio la parola giusta » annota Keeling « ma è la migliore di cui disponiamo. E una parola che deriva dall’artica radice indoeuropea che sta per ‘bollire’, ‘schiumare’. Quindi è già assai lontana dal suo senso originario. Spingerla un po”

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:

più in là non può essere un gran male. Il respiro dell’acqua, dei vegetali, dei pianeti: perché no? Teniamoci questo termine. Basta solo che chiariamo in ogni caso che cosa intendiamo con esso. » pag. 38 « La curva di Keeling... » In realtà quello raffigurato è solo un pezzetto della curva di Keeling, che ha inizio nel 1958 e si estenderà nel futuro per tutto il tempo per cui gli esseri umani si preoccuperanno dell’atmosfera che li circonda. Il mio diagramma è derivato da: Keeling, “The Influence of Mauna Loa Observatory on the Development of Atmospheric CO? Research”, in Mauna Loa Observatory, a 20th Anniversary Report, a cura di John Miller (V.S. Department of Commerce: NOAA Special Report, 1978), 50. Il diagramma esagera la tendenza per metterla in risalto. Tracciato su scala reale, il mutamento nella respirazione del mondo non sembra gran cosa. Ciò nondimeno è significativo. La biosfera inspira ed espira circa 100 miliardi di tonnellate di carbonio ogni anno. L'ampiezza di questi “atti respiratori” è cresciuta di circa i 20 per cento fra gli anni 1958 e 1982. Quindi si tratta di un grosso mutamento globale. R. Bacastow, C.D. Keeling er. al., “Seasonal amplitude increase in atmospheric CO? concentration at Mauna Loa, Hawaii, 1959-1982”, Journal of Geophysical Research 90 (1985), 10.529-

10.540. pag. 39 «Il suo ritmo respiratorio divenne sempre più frequente. » Se gli sperimentatori non gettavano al copepode, che si dimenava, un granello di sabbia, la frequenza respiratoria dell’animaletto aumentava di oltre il 50 per cento. E non rallentava finché esso non aveva agitato le setole fino allo spossamento. Vernberg, Coull et al., (1977), 165.

Capitolo 4. ATROPO pag. 43 « Cinque miliardi... » Cinque miliardi di tonnellate di carbonio puro. Naturalmente, quando tutto questo carbonio entra nell’atmosfera, ogni suo atomo si trasforma in una molecola di biossido di carbonio o anidride barbonica, CO2, combinandosi con due atomi di ossigeno.

Per trasporre le statistiche relative al carbonio in statistiche relative all’anidride carbonica, si deve moltiplicare per 3,664. Per esempio, ogni essere umano vivente sul pianeta immette nell’aria oltre 1 tonnellata di carbonio ogni anno. E ogni tonnellata di carbonio si trasforma in anidride carbonica gassosa per un peso di 3,664 tonnellate. Collettivamente, la popolazione umana, bruciando combustibili fossili, libera ogni anno nell’atmosfera oltre 5 miliardi di tonnellate di carbonio, che equivalgono a oltre 18 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. ;

pag. 58 « Carico utile... » Annota uno storico: « Gli emigranti erano essenzialmente un apprezzato carico alla rinfusa per riempire lo spazio inutilizzato nel viaggio di ritorno in America dalle navi adibite al trasporto di cotone grezzo o di legname ». Erano una voce del vasto traffico che fondeva America ed Europa in una sola economia atlantica. Thistlethwaite (1964), 84-85.

pag. 60 « Per una piccola quota... » Quando l’albero è giovane, in fase di accrescimento, gran parte del carbonio che sottrae all’aria viene utilizzata per “costruire” rami e radici. Questo carbonio non ritorna nell’aria finché l’albero non muore. Una volta che l’albero ha raggiunto il pieno sviluppo gran parte del carbonio che trae dall’atmosfera viene trasformato in foglie o in aghi sempreverdi. La maggior parte dell’elemento ritor-

na all’atmosfera quando foglie e aghi cadono. Anche allora, tuttavia, un po’ del carbonio non ritorna nell'atmosfera, restando sepolto nello strato di humus del pavimento della foresta.

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Capitolo 5. UN EUREKA LENTO AD ARRIVARE pag. 74 « Quello che eccitava... » Non sorprende che questi scienziati fossero dominati dal problema delle glaciazioni. La scoperta delle epoche glaciali era allora un fatto recentissimo. Louis Agassiz aveva annunciato la sua teoria dell’epoca glaciale nel 1837. Durante tutti i successivi decenni del XIX secolo, i geologi avevano portato alla-luce altre prove che lo straordinario evento ipotizzato era realmente accaduto: una notevole parte della superficie terrestre, a recente memoria geologica, era stata coperta da una coltre di ghiaccio spessa fino a un chilometro e mezzo. pag. 74 Il mio diagramma sull’aumento e la diminuzione dell’anidride carbonica negli ultimi 160.000 anni è basato su: Barnola, Raynaud et al., “Vostok ice core provides 160,000-year record”, 410.

pag. 75

Il diagramma sull’aumento e la diminuzione della temperatura sulla Terra negli ultimi

160.000 anni è basato su: Barnola, Raynaud et al., “Vostok ice core...”, 410.

pag. 82 « Campo di incertezza... » Qui non parliamo di previsione ma piuttosto di “postvisione”: di stabilire cioè la misura in cui la temperatura della Terra dovrebbe essere salita da un secolo a questa parte, tenendo conto dei gas da effetto serra che abbiamo emesso nell'atmosfera. Secondo i modelli più prudenziali elaborati al calcolatore, quelli che sono relativamente indifferenti alla concentrazione dei gas da effetto serra, il globo terracqueo dovrebbe essersi riscaldato solo lievemente. Secondo i modelli più “sensibili”, dovrebbe essersi riscaldato in misura più brusca e rilevante. In base a questo test, i modelli più prudenziali danno i migliori risultati, in quanto la Terra si è riscaldata di 0,5-1 °C nel corso degli ultimi cent'anni. Questa predizione a posteriori, però, può dirci poco circa quello che farà la Terra in avvenire. Supponiamo di preriscaldare un forno domestico portandolo a 230 °C e di mettervi un pezzo d’arrosto. È facile predire a quale temperatura, alla fine, arriverà: 230 °C. Ma con quale rapidità salirà la temperatura superficiale della carne durante i primi 5 minuti nel forno? Per rispondere a questo quesito occorrerebbe sapere molte cose su quel pezzo di carne. Si dovrebbe fare uno studio di quella che gli esperti chiamano “inerzia termica”. E anche così, sarebbe più facile predire ciò che avverrà nella prossima ora che non a distanza di cinque minuti. Ora, supponiamo di non avere preriscaldato il forno. Abbiamo invece girato la manopola molto, molto lentamente verso la tacca indicante i 230 °C, e qualcun altro ha aperto e richiuso alcune

volte lo sportello del forno mentre noi non lo sorvegliavamo. Predire la temperatura della carne a distanza di cinque minuti sarebbe un’impresa quasi disperata; mentre una previsione della temperatura di lì a un’ora sarebbe più o meno altrettanto attendibile che se il forno non fosse stato aperto. Nel caso del pianeta Terra, noi abbiamo immesso nell’atmosfera gas da effetto serra da 250 anni a questa parte a un ritmo dapprima lento, poi sempre più accelerato, specie negli ultimi tre decenni. È come se avessimo aperto il gas prima lentamente, poi sempre più in fretta per tutto questo periodo (e seguitiamo ad aumentarne la fuoriuscita oggi). Quanto tempo occorrerà al pianeta per mettersi al passo con l’apertura della manopola? Non lo sappiamo, ma sappiamo che lo stiamo cuocendo.

s

Sotto questo aspetto, quindi, i modelli elaborati coi calcolatori sono tanto più affidabili per la previsione della temperatura della Terra quanto più lontano è il tempo della previsione. Questa, se a lungo termine, è assai differente e assai più semplice della previsione (o “postvisione”, pre-

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dizione del passato) a breve termine. Può sembrare paradossale, ma per chi si occupa del tempo atmosferico è del tutto logico. Il teorico della meteorologia Edward Lorenz lo spiega in questo modo: è più facile fare una previsione esatta a lungo termine che non a breve termine della temperatura di una tazzina di caffè. « Potrebbe essere assai difficile prevedere la temperatura del caffè a distanza di un minuto » disse una volta a un gruppo di colleghi « ma non dovrebbe esserci alcuna difficoltà nel prevederla a distanza di un’ora. » Citazione riportata da James Gleick in: Chaos, Ed. Viking Penguin Inc., New York 1987. Trad. it. Caos, Rizzoli, Milano 1989. Insomma, le previsioni dei modelli climatici per il XIX secolo sono probabilmente più attendibili delle corrispondenti “predizioni a posteriori” per il XX secolo. Inoltre, i modelli possono dirci di più sui prossimi cent'anni che non sui prossimi dieci. pag. 87

Il mio diagramma è adattato da: M. King Hubbert, “Energy from Fossil Fuels”, Scien-

ce 109 (1949), 108.

pag. 95 Una sola espirazione di un essere umano provoca un breve picco nel tracciato dell’anidride carbonica all'Osservatorio del Mauna Loa. Questo è un esempio della lunghissima serie di tracciati eseguiti con i vecchi apparecchi di Keeling per l’analisi dei gas sul Mauna Loa dal 1958 in avanti. Il tracciato è stato fornito da John Chin del Mauna Loa Observatory.

Capitolo 6. LA PRIMA ESTATE DEL TERZO MILLENNIO

pag. 102 « Resoconto dei lavori... » Greenhouse Effect and Global Climate Change, udienza svoltasi di fronte al Comitato per l’Energia e le Risorse Naturali del Senato il 23 giugno 1988; resoconto pubblicato dallo U.S. Government Printing Office, Washington, D.C., 1988.

pag. 103 «E poilo disse... » La famosa dichiarazione di Hansen appare a pagina 40 dei verbali ufficiali. Ho corretto alcuni piccoli errori di trascrizione. pag. 119 «Quasi 10 centimetri più alto... » È ancora più problematico misurare un eventuale aumento globale del livello dei mari che non valutare un aumento globale della temperatura. Come spesso accade sul nostro pianeta, le tendenze che si manifestano in una sfera possono contra-

stare quelle delle altre. Durante l’ultima epoca glaciale, per esempio, nell’emisfero boreale si era accumulato tanto ghiaccio che nell’estremo Nord il suo peso fece abbassare la crosta terrestre. I geofisici dicono che il pianeta ha la forma geometrica di un geoide. L'epoca glaciale deformò il geoide, rendendo

il pianeta leggermente piriforme. Ora che tanta parte del ghiaccio è scomparsa, la crosta (lentissimamente) va riassumendo la

forma primitiva. L’Alaska e la Scandinavia, che sopportarono una così spessa coltre di ghiaccio migliaia di anni fa, attualmente si sollevano di circa 2 mm l’anno.

Dato che parte dei continenti sta abbassandosi e parte salendo, è come se gli studiosi cercassero di misurare il livello medio del mare stando su sette grandi scogli, ognuno dei quali si piegasse e oscillasse. Sarebbe difficile quanto stabilire la provenienza di un segnale acustico in mezzo a un frastuono. VIS Le stime più attendibili fin qui ottenute fanno credere che il livello dei mari stia attualmente salendo di circa 2,5 mm l’anno, con un possibile scostamento nei due sensi di 1 mm da tale valore.

« Ciò potrebbe costituire un segno del riscaldamento globale », è il parere degli studiosi. W.R. Peltier e A.M. Tushingham, “Global Sea Level Rise and the Greenhouse Effect: Might They Be Connected?” ,Science 244 (19 maggio 1989), 806-810.

267

Per un rapido esame di questi risultati, vedasi “Rising seas may herald global warming”, Science News 135 (10 giugno 1989) e “Identifying the Sea Level Signal: Surf's Up”, Eos (4 apr. 1989), 209. pag. 121 «Immise il picco di Hubbert... » C.D. Keeling e R.B. Bacastow, “Impact of Industrial Gases and Climate”, National Academy of Sciences, Washington D.C., 1977, 72-95. Il mio primo diagramma del picco di Hubbert mostra l'impatto dei combustibili fossili sull’atmosfera terrestre visto in un arco di 50.000 anni. Adattato da: Hubbert, “Energy”. Il secondo diagramma mostra in che modo è probabile che l’anidride carbonica emessa bruciando i combustibili fossili permanga nell’atmosfera. Adattato da: C.D. Keeling e R.B. Bacastow, “Impact of Industrial Gases on Climate”, in Energy and Climate, National Academy of Sciences, Washington D.C., 1977, 82.

pag. 123 « Valori come questi... » Nell’estate del 1988, la temperatura media è stata 23 °C. La temperatura media estiva per 100 anni, per l’insieme degli Stati Uniti continentali, è stata invece di 22,1 °C. Perciò l’estate del 1988 ha registrato un aumento, rispetto alla media, di solo 0,9 °C.

L’aumento è stato però sufficiente a fare dell’estate 1988 la terza in ordine di temperatura mai registrata (l’inizio delle rilevazioni regolari risale al 1895). L’estate più calda fu quella del 1936 (l'annata peggiore del “Catino di Polvere”). In quella stagione la temperatura media fu di 23,5 °C. Seconda per calore fu l’estate del 1934, altra annata che flagellò il “Catino di Polvere”. La temperatura media fu di 23,3 °C. L’estate più fredda di cui si abbia notizia fu quella del 1915, con una temperatura media di 20,8 °C. Perciò la differenza fra l’estate più calda e la più fredda di questo secolo è stata di 2,5 °C. Ciò che gli attuali modelli di evoluzione del clima fanno pensare è che la temperatura media di tutte e quattro le stagioni, nel continente americano, salirà, forse, di 5°C. Se sarà vero, nel giro di pochi

decenni l’estate tipica del Nuovo Continente sarà così calda da far sembrare l’estate del 1988 più fredda, al paragone, di quella del 1915. Queste statistiche della temperatura mi sono state fornite da Richard Heim, un meteorologo del National Climatic Data Center di Ashville nel North Carolina. Heim definisce il suo-lavoro un « porre le presenti anomalie climatiche degli Stati Uniti in una prospettiva storica » (comunicazione personale).

Capitolo 7. ‘ LE SETTE SFERE pag. 147 «Lashof. » Daniel A. Lashof, “The dynamic greenhouse. Feedback processes that may influence future concentrations of atmosphere trace gases and climatic change », Climatic

Change 14 (1989), 213-242.

Capitolo 8.

BUCHI NELL’OZONO

pag. 158. L'aumento del buco nell’ozono, dal 1979 al 1984. Adattato dai dati del satellite TOMS riferiti in: R.T. Watson, M.A. Geller et al., “Present State of Knowledge of the Upper Atmosphere: An Assessment Report”, NASA Reference Publication 1162 (maggio 1986). pag. 165 «Il luogo più sicuro del mondo... » « Studiammo attentamente gli atlanti » scrive Chatwin. « Studiammo la direzione dei venti prevalenti e il percorso probabile della ricaduta radioattiva. La guerra sarebbe scoppiata nell’emisfero boreale, perciò ci indirizzammo a quello au-

268

strale. Escludemmo le isole del Pacifico, perché le isole sono delle trappole. Escludemmo l'Australia e la Nuova Zelanda, e quindi decidemmo che il luogo più sicuro del mondo era tagonia. < ...Poi morì Stalin e noi cantammo inni di ringraziamento nella capella, ma io seguitai a mi in riserva la Patagonia. » Bruce Chatwin, “The Last Place on Earth”, in In Patagonia, Ed. Viking Penguin, New

anche la Pa-

tenerYork

1988. Trad. it. La Patagonia, Ed. Adelphi, Milano 1982.

Capitolo 9.

LE ISOLE DI LOVEJOY

pag. 178 «Per elaborare i loro calcoli globali... » Peter M. Vitousek, Paul R. Ehrlich et al., “Human Appropriation of the Products of Photosynthesis”, BioScience 36 (1986), 368-373. Un breve sommario e una difesa di questi calcoli è contenuta in: Jared M. Diamond, “Human use of world resources”, Nature 328 (6 agosto 1987), 479-480.

Nel descrivere questa ricerca ha adattato la presentazione di: Paul R. Ehrlich, “The Loss of Diversity”, in Biodiversity, Ed. National Academy Press, Washington, D.C., 1988, 23-24. pag. 187 « Un’infinità di variazioni locali... » L'effetto isola minaccia anche alcune tribù di Indios delle Amazzoni. Le terre degli Indios Yanomami, per esempio, in anni recenti sono state invase da decine di migliaia di cercatori d’oro. Ora il governo brasiliano ha ordinato lo smembramento delle terre degli Yanomami in diciannove piccole ‘isole’, secondo quanto riferiscono antropologi locali dell’ Università di Brasilia. Gli Indios, « essendo troppo violenti... devono essere separati per poter essere ‘civilizzati’, ha affermato non molto tempo fa il capo di Stato Maggiore delle forze armate generale Bayna Denis... » Bruce Albert e Alcida Rita Ramos, “Yanomani Indians and Anthropological Ethics”, lettera a Science 244 (12 maggio 1989), 632.

Dall’arrivo di Colombo in poi, grazie a questo genere di pressione, circa 1°80 per cento delle culture indigene dell’ America Settentrionale e Meridionale sono scomparse. Napoleon Chagnon, “Yanomamo Survival”, lettera a Science 244 (7 apr. 1989), 11.

pag. 196 I diagrammi illustrano il ritirarsi delle foreste nordamericane di abete rosso negli ultimi 12.000 anni, con la fine dell’ultima glaciazione e il riscaldamento del pianeta. Da: P.M. Anderson, C.W. Barnovski et al., “Climatic Changes of the Last 18,000 Years: Observations and Model Simulations”, Science 241 (26 agosto 1988), 1048.

pag. 203 « Foto scattate da satelliti sull’India... » « Le allarmanti immagini inviateci dall’ultimo satellite Landsat ci mostrano che il diboscamento dell’India sta procedendo a un ritmo assai più rapido di quanto si temeva. Il Dipartimento delle Foreste indiano riteneva che la copertura forestale fosse pari al 22 per cento dell’intera superficie terrestre del Paese, ma il Landsat ha rivelato che essa è di appena il 10 per cento. » Radhakrishna Rao, “Rising above forest decline”, Nature

323 (25 sett. 1986), 284-285. Sandra Postel e Lori Heise, “Reforesting the Earth”, in: Lester R. Brown et al., State of the World 1988, Ed. W.W. Norton, New York 1988, 85; trad. it. State ofthe World 1988, Rapporto sul nostro pianeta del Worldwatch Institute, Ed. ISEDI, Torino 1988.

Capitolo 10. pag. 209

L’ORACOLO DI GAIA

« Maury. Questo pioniere... » Vedasi il classico di Maury he Physical Geography of

269

the Sea; per es. quando sostiene che « conchiglie e altri organismi marini microscopici » (da lui chiamati ‘insetti marini’) « possono, a motivo delle funzioni che svolgono, essere considerati come compensatori in quello squisito sistema di meccanismi fisici per cui sono preservate le armonie della natura ». « Recenti scoperte » scrive Maury « ...ci mostrano gli insetti marini in una nuova luce, ancora più sorprendente di prima. Li vediamo ora non solo come strumenti di compensazione per regolare i moti dell’acqua nei suoi canali circolatori e per addolcire i climi, ma anche come freni e contrappesi grazie ai quali viene mantenuto l’equilibrio fra la sostanza solida e quella liquida della Terra. « Se fosse dimostrato che questi microscopici organismi vivono alla superficie delle acque e non sono sepolti sui fondali marini, allora potremmo considerarli i conservatori dell’oceano; poiché nelle funzioni cui adempiono essi collaborano a mantenerne inalterato lo status col secernere i sali che fiumi e piogge apportano al mare, e in tal modo mantengono pure le acque. » La concezione che Maury aveva del pianeta vivente era in parte scientifica, in parte religiosa (come fu il caso di molti antichi scienziati e filosofi, a cominciare dai Greci). Dice Maury: « E

del fatto che piogge saranno mandate alla giusta stagione, siamo assicurati da Lassù; e quando rammentiamo chi è Colui che ‘le manda’ si rafforza in noi la convinzione che Colui che manda la pioggia ha per messaggeri i venti; e che al fine di eseguire il Suo volere, la terra e il mare furono dove e quali sono sia per le posizioni sia per le proporzioni rispettive ». Matthew Fontaine Maury, The Physical Geography of the Sea and and Its Meteorology, John Leily, cur., Ed. Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1963; ristampa dell’VIII e ultima edizione edita da Harper and Brothers, New York 1861. pag. 229 Simulazione al calcolatore della tempetatura di un pianeta immaginario. La temperatura oscilla su e giù, fino sfuggire gradualmente al controllo. Per concessione di J.E. Lovelock. pag. 229 La temperatura del pianeta immaginario balza fuori del tracciato. Per gentile concessione di J.E. Lovelock.

Capitolo 11.

IL NUOVO PROBLEMA

pag. 234 « Secondo l’andamento di una di queste tre curve... » Il diagramma è basato sui risultati della conferenza internazionale che si tenne a Villach e a Bellagio nel 1987 sotto gli auspici dell’Istituto Beijer di Stoccolma. Jill Jaeger, “Developing Policies for Responding to Climatic Change”, World Climate Programme Impact Studies (apr. 1988), 4. pag. 239

«Ogni decennio, un’altra India... » Statistiche della popolazione desunte dal 7988

World Population Data Sheet, bollettino trimestrale del Population Reference Bureau, Inc., Wa-

shington, D.C. (aprile 1988). pag. 240 «Dagli albori del Rinascimento... » Diagramma basato su The Greenhouse Gases, UNEPS/GEMS Environmental Library N. i (Nairobi, Programma delle Nazioni Unite per l’am-

biente, 1987), 18. pag. 236

«Un comitato formato da esperti dell’effetto serra... » William C. Clark, Kerry H.

Cook et al., Review ’82, 30-31.

270

:

Ringraziamenti

fra la Nella preparazione di questo libro, ho parlato con un centinaio di scienziati, in particolare

ecologi e studiosi di primavera del 1986 e l’autunno del 1989. Quando li conobbi, molti di essi,

campi di stuscienze della Terra, stavano cercando di richiamare l’attenzione del mondo sui loro che spesso dio. Adesso sono travolti da una tale marea di interviste e convegni internazionali discipline. Li stentano a trovare il tempo per concentrarsi nell’approfondimento delle rispettive un elenco parziale. ringrazio per tutto il tempo che hanno voluto dedicarmi. Qui sotto, ne do solo io mi riferirò al luogo Alcuni di loro hanno nel frattempo cambiato incarico o sede di lavoro, ma dove le nostre strade si sono incrociate. A Coombe Mill: James Lovelock. Harmony, Michel HarAlla Engineering and Research Associates, Inc.: Loren Acker, Daniel mony. All'Università di California, a San Diego: il compianto Roger Revelle. : Peter Guenther, Charles Alla Scripps Institution of Oceanography (Università di California) Richard Somerville. D. Keeling, Justin Lancaster, Tim Lueker, David Moss,

Manabe, Raymond Pierrehumbert. AI Geophysical Fluid Dynamics Laboratory: Syukuro R. Cook, Richard Fairbanks, Joyce GaEdward oherty: Lamont-D geologico All’Osservatorio

vin, James Hays, Stanley Jacobs, Taro Takahashi. e del 1986: Nina Caraco, Bruce Al Laboratorio di Biologia Marina di Woods Hole, nell’estat Gross, Peter Frank, Peter Gascoyne, Judith Grassle, Paul

Crise, Kenneth Foreman, Brian Fry, , Marilyn Jordan, Richard Hosman, EdHarlan Halvorsson, John Hobbie, Richard A. Houghton ringraziamenti a Jane Fessenden e al persoSpeciali Valois. John Stone, Thomas Rastetter, ward

nale della ricca biblioteca del Laboratorio.

Tom De Foor, Judy Pereira, Elmer Robinson. All’Osservatorio del Mauna Loa: John Chin, ration (NASA): Miriam Baltuck, Dixon Butler, Administ Space Alla National Aeronautics and

Hansen, Georgia LeSane, Robert McElroy, Tim Eastman, Edward Flinn III, Inez Fung, James Stanley Wilson. Shelby Tilford, Compton J. Tucker, Robert Watson, Francis Bretherton, Julius Chang, Ralph AI Centro Nazionale per le Ricerche sull’Atmosfera: Micky Glantz, William W. Kellogg, Ed Firor, John Eddy, Jack n, Dickinso Robert , J. Cicerone re ringraziamento a Stephen H. Schparticola Un . Robinson M. Jennifer han, Martel, V. Ramanat neider. Adiministration (NOAA): Richard Gammon, J. Alla National Oceanographic and Atmospheric

271

Murray Mitchell, James Peterson, Chester Ropelewski, Susan Solomon, Pieter Tans.

All’Università di Princeton: Michael Keller, Jorge Sarmiento, J. R. Toggweiler. Alla Space and Biospheres Ventures: Tony Burgess, Kathleen A. Dyhr, Peter Warshall. All'Università dell’ Arizona, a Tucson: James Brown, Carl Hodges, Beth Suit. All'Università di Berna: Albrecht Neftel, Hans Oeschger, Heinrich Rufli, Jakob Schwander,

Andreas Sigg, Bernahard Stauffer. All'Università delle Hawaii, a Manoa: Sheila Conant, Clair E. Folsome, Grant Gerrish, Dieter Mueller-Dombois, John Schaffer. Alla Woods Hole Oceanographic Institution: Peter Brewer, Howard Caswell, Bill Dunkle, J. Frederick Grassle, Tony Michaels, Howard Saunders, Henry Stommel. AI Centro di Ricerche di Woods Hole: Foster I. Brown, George M. Woodwell.

Grazie anche a: John Cairns, Jr., Istituto Politecnico e Università di Stato della Virginia; Philip J. Davis, Università Brown; Elaine Davison, Dipartimento per la Conservazione e Uso del Terri-

torio, Western Australia; Philip Fearnside, INPA; George Field, Osservatorio Astrofisico della Smithsonian Institution; Wayne Gagne, Bishop Museum; Terry Gerlach, Laboratori Nazionali Sandia; Alex Goetz, Università del Colorado; Eville Gorham, Università del Minnesota, Minneapolis; Thomas Groome, Camera di Commercio di Washington, D.C.; Joseph A. Hanson, Takasho Hoshizaki, Laboratorio di Propulsione a Getto; Richard Heim, Centro Nazionale Dati Climatici. Altrettanto a James D. Jacobi, del Parco Nazionale delle Hawaii; Thomas Karl, del Centro Nazionale Dati Climatici; Ralph Keeling, del Centro Nazionale per le Ricerche sull’atmosfera; Lee F. Klinger, dell’Università del Colorado, a Boulder; Suor Leone Koehler; Gundolf Hans Kolmaier, dell’Università di Francoforte; Joe Labi; Chester C. Langway, Jr., dell’Università dello Stato di New York, Buffalo; Claude Lorius, del Laboratorio Francese di Glaciologia; Dan Lashof, dell’EPA; Jane Maienschein, dell’ Università di Stato dell’ Arizona.

E così pure grazie a Lynn Margulis, dell’Università di Boston; Gregg Marland, dell’Istituto per l’Analisi dell’Energia; Jessica Tuchman Matthews del World Resources Institute; Ian McHarg, dell’Università della Pennsylvania; Ray Milleman, dei Laboratori Nazionali di Oak Ridge; Norman Newell, del Museo Americano di Storia Naturale; Allen Ogard, del Laboratorio Nazionale di Los Alamos; Michael Oppenheimer, del Fondo per la Difesa dell’ Ambiente; Saul Price, del

Servizio Meteorologico Nazionale degli Stati Uniti, Regione del Pacifico. Ringraziamenti a Franz Reebele, dell’Institut fir Oekologie der Technischen Universitàt; J. F.

Richards, dell’Istituto per l’analisi dell'Energia; George Simmons, dell’Istituto Politecnico e Università di Stato della Virginia; Richard P. Tucker, dell’Università Clark; David Schindler,

dell’Istituto Idrologico di Winnipeg, Canada; Haraldur Sigurdsson, dell’Università del Rhode Island; Eric Sundquist, della U.S. Geological Survey. E a. Peter Vitousek, della Università di Stanford, California; Andrew Watson, dell’ Associazione di Biologia Marina; Richard Wilson, del Laboratorio di Propulsione a Getto; E.O. Wilson, dell’Università di Harvard, Boston; C.S. Wong, del Centro di chimica dell'Oceano e del Clima, di Sidney, British Columbia (Canada); F.

Ian Woodard, dell’Università di Cambridge. I seguenti esperti hanno letto in tutto o in parte il manoscritto: Robert Bierregaard, James Hansen, Daniel

e Michel Harmony, Richard Houghton, Charles D. Keeling, William Kellogg, Da-

niel A. Lashof, Thomas Lovejoy, James Lovelock, Syukuro Manabe, J. Murray Mitchell, Hans Oeschger, John Pfeiffer, Roger Revelle, F. Sherwood Roland, Stephen Schneider, Susan Solomon, Richard Sommerville, E. O. Wilson. Keeling, Revelle e Sommerville hanno anche letto le bozze. Li ringrazio per l’aiuto e per il tempo che ha richiesto questo compito. Inutile dire che ogni eventale errore rimasto nel libro è imputabile soltanto all’autore.

272

Una borsa di studio della NASA mi ha consentito di recarmi in Svizzera, Germania e Inghilterra, e di pagare per la collaborazione di alcuni ricercatori a tempo parziale. Un assegno di viaggio dell’Unione Geofisica Americana mi è stato utile per andare ad assistere alla Conferenza Chapman sull’ipotesi di Gaia, svoltasi a San Diego nel marzo del 1988. Ho trascorso un'estate presso il Laboratorio di Biologia Marina di Woods Hole con una borsa di studio attribuita dalla Carnegie Corporation di New York e offerta dalla Fondazione per la Microbiologia a specialisti nella divulgazione scientifica. Il programma di perfezionamento era diretto da James Shreeve, assistito da George Liles e Pamela Clapp. È un piacere per me ringraziarli ancora in questa sede. Fra i ricercatori che mi hanno aiutato, uno speciale riconoscimento vada a Jeremy Brecher; Lynn Forbes; Susan Gill; Janine Selendi e tutto il personale della Horizon Communications; Renee Skelton; e, ancora, Lewis Zipin.

La mia agente, Victoria Pryor, mi ha suggerito l’idea di questa iniziativa e mi ha assistito nel realizzarla, con grande buon senso e calore umano. Il direttore editoriale Peter Guzzardi ha caldeggiato la pubblicazione del libro, e la redattrice Ann Harris l’ha seguito dalla prima stesura a

quella definitiva. Paul Blanchard si è fatto in quattro per aiutarmi. James Shreeve ha passato ore al telefono con me, sottraendole alla stesura di un libro sul passato dell’umanità. John Pfeiffer mi ha esternato i suoi pensieri sul passato, il presente e il futuro dell’umanità, e il suo ottimismo è stato un ottimo antidoto contro i miei pensieri, assai meno rosei. I soci del Gruppo di Discussione di Peace Valley hanno passato molte sere ad ascoltare la lettura delle mie pagine in una delle prime stesure. L’ultima fu certo migliorata grazie alle loro osservazioni. Grazie a Carolyn del Centro per la Natura di Peace Valley per aver organizzato il gruppo di lettura e averci ospitati nel suo salotto. Quanto all’ospitalità, ringrazio pure Dennie e Laurie Grossman,

Charles e Louise Keeling,

Ralph Keeling, James e Helen Lovelock, Dieter Mueller-Dombois, Hans Oeschger, Naomi e John Pfeiffer, Albrecht Neftel, Heinrich Rufli.

I due rami della mia famiglia allargata mi hanno visto scomparire dentro questo libro. Sono grato per la loro comprensione. Grato a Nathan e Jerry per le loro critiche e a Ponnie, Helen e Eric per i consigli. Grato anche a Mark e Karen Young, Michael e Valerie Stehney, Catherine Poole, Robert Gulick, Maurie Butler e Dick Northway per aver sopportato un amico monotono. Aaron mi ha costretto a incominciare. Benjamin a finire. Deborah ha rubato tempo ai suoi libri per aiutarmi col mio. Non potrò mai ringraziarla abbastanza. Se n’è accollato via via un peso sempre maggiore. Verso la fine, di notte le capitava di so-

gnarsi l’anidride carbonica.

273

Finito di stampare nel maggio 1992 da Grafica 90 - Pioltello (MI) Printed in Italy

e dei grandi ghiacciai continentali permette addirittura di confrontare la composizione attuale dell’atmosfera con quella del passato, fino alle epoche preistoriche. Questo libro dimostra in modo inequivocabile che se non si cambia rotta subito,

modificando fin da ora una vasta gamma di attività umane, anche l’ Homo sapiens diventerà ben presto una specie a rischio. Nella tradizione di Primavera silenziosa, il famoso testo di Rachel Carson che

nel 1971 rivelò al grande pubblico la questione ambientale, Fra cent’anni è un libro informato e appassionato che costituisce sia una lettura essenziale per tutti coloro che hanno a cuore il destino della Terra sia una spinta ad agire prima che sia troppo tardi. Jonathan Weiner è un famoso giornalista

scientifico

americano,

autore

del

best-seller Il pianeta Terra.

Fra cent'anni è pubblicato

negli Stati Uniti da

Bantam Books; in Olanda da Uitgeverij LJ Veen;

in Brasile da Campus; in Portogallo da Gradiva; in Norvegia da Cappelens; in Spagna da Plaza & Janes; in Finlandia da Kiryahtyma; in Germania da

Bertelsmann;

in Corea

da

Gimm-Young;

in

Svezia da Natur och kultur; in Gran Bretagna da Rider Books.

Lire 32.500

La maggior parte di coloro che coltivano le scienze della Terra è convinta che, a causa dell’influenza della sfera della mente, le quattro sfere essenziali alla vita — l’idrosfera, l’atmosfera, la criosfera e la biosfera — siano attualmente sull’orlo di drastici mutamenti. Potremmo assistere noi stessi a questi mutamenti, o potrebbero farlo i nostri figli. Forse ne stiamo già vedendo l’inizio. Le peggiori tempeste che dovremo affrontare

nel prossimo secolo sono opera nostra, e occorrerà una buona dose di fortuna per affrontarle e superarle.

ISBN 88-200-1348-7

9 "788820"013486

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